MICHAEL CHABON IL SINDACATO DEI POLIZIOTTI YIDDISH (The Yiddish Policemen's Union 2007)
Michael Chabon
Il sindacato d...
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MICHAEL CHABON IL SINDACATO DEI POLIZIOTTI YIDDISH (The Yiddish Policemen's Union 2007)
Michael Chabon
Il sindacato dei poliziotti yiddish Traduzione di Matteo Colombo
Proprietà letteraria riservata © 2007 by Michael Chabon Titolo originale dell'opera: THE YIDDISH POLICEMEN'S UNION Prima edizione: agosto 2007
Il sindacato dei poliziotti yiddish
A Ayelet bashert
E andarono per mare su un setaccio. Edward Lear
SHOLEM ALEYKHEM! Sitka è lieta di dare il benvenuto a voi, alle vostre famiglie, alla vostra gente e alla vostra nazione, ma un benvenuto particolare va alle vostre domande! È infatti probabile che, come quasi tutti coloro che visitano il distretto federale di Sitka per la prima volta, fin da subito ne avrete moltissime. Trascorso un po' di tempo qui, tuttavia, vi renderete forse conto che una domanda in particolare risulta più impellente delle altre: «Perché in questo posto chiunque risponde a una domanda con un'altra domanda?». Interrogativo al quale un autentico sitkanik può soltanto rispondere: «Perché no?». Sempre che, naturalmente, non opti per un: «Buffa, come domanda...». Ma un'altra possibile risposta a questa eterna domanda è: «Per ogni domanda esistono così tante possibili risposte... chi può sceglierne una?». E questa la difficoltà cui va incontro chiunque tenti di rispondere alla domanda «Che genere di posto è il distretto di Sitka?». Dovremmo forse rispondere che Sitka è: •
la dimora di cinque milioni di persone che lavorano sodo e si dicono orgogliose ed eternamente grate di vivere sotto la protezione della bandiera a stelle e strisce?
•
il frutto dell'ingegno di Harold Ickes, ministro dell'Interno del presidente Franklin D. Roosevelt, che gettando una piccola «fava» di ispirazione riuscì a prendere quelli che intorno a lui tutti consideravano soltanto come due assai problematici «piccioni» (il dramma delle vittime del fascismo europeo, e le ricchezze ancora intatte dell'Alaska)?
•
un Luogo di Rifugio, il famoso «Riparo nella notte»; orgogliosa creazione americana per un popolo sofferente ma fortunato?
•
uno dei due soli distretti federali mai creati dal Congresso, lungo 240 chilometri e largo 40 nel punto più ampio?
•
una vibrante città d'arte, musica, letteratura, che può inoltre vantare una cucina da leccarsi i baffi?
•
oltre 350.000 ettari di natura incontaminata, con una fauna terrestre e marina tali da renderla una delle zone di caccia e pesca migliori del mondo?
•
un intrico di strette viuzze ricolme di locali festosi, ristoranti eleganti e sale da concerto prestigiose, ma che ospita anche rudi avamposti di pionieri, così sperduti da poter essere raggiunti soltanto dal cielo?
•
un luogo di fede e di dubbio, di tecnologia innovativa e antichi rituali, di alci e matzot, di yiddish e inglese (ma anche di tedesco, ungherese, polacco, russo...)?
•
una comunità, più grande e vivace e prospera che mai, felice di farsi una grassa risata del Nord alla faccia del fanatismo e della xenofobia?
Forse la risposta più pertinente alla domanda sarebbe che, per il sitkanik, questo posto è «Casa». Forse non sarà la Terra Promessa, ma di certo è la Terra delle Promesse. Ma quando, vi chiederete, verranno mantenute quelle promesse? Buffa, come domanda... Introduzione alla Guida per i visitatori dell'Expo '77 (Sitka: Expo-Hoyz, 1977)
Capitolo uno
Da nove mesi Landsman dorme all'Hotel Zamenhof, e fino a ieri nessuno degli altri clienti era ancora riuscito a farsi ammazzare. Ora qualcuno ha piantato una pallottola in testa all'occupante della 208, un ebreo di nome Emanuel Lasker. «Al telefono non rispondeva, non apriva la porta» dice Tenenboym, il portiere di notte dell'albergo, mentre tira giù dal letto Landsman. Landsman abita nella 505, con vista sull'insegna al neon dell'albergo sull'altro lato di Max Nordau Street. Si chiama Blackpool, la pozza nera, una parola che compare negli incubi di Landsman. «Ho dovuto forzare la porta.» Il guardiano notturno è un ex marine che con la sua dipendenza da eroina ha chiuso negli anni Sessanta, tornato a casa dal macello della guerra di Cuba. Per la popolazione di tossici dello Zamenhof nutre un interesse materno. Gii fa credito e si assicura che vengano lasciati in pace quando ne hanno bisogno. «Ha toccato niente nella stanza?» chiede Landsman. Tenenboym risponde: «Solo i soldi e i gioielli». Landsman si infila pantaloni e scarpe, e tira su le bretelle. Poi, sia lui sia Tenenboym si voltano a guardare il pomello della porta. C'è appesa una cravatta, rossa, con una spessa riga più scura e il nodo già fatto per risparmiare tempo. A Landsman mancano ancora otto ore prima del prossimo turno. Otto ore da topo, attaccato alla bottiglia, nella sua gabbietta di vetro imbottita di trucioli di legno. Landsman sospira e va a prendere la cravatta. Se la fa scivolare in testa e stringe il nodo sul colletto. Indossa la giacca, si tocca il taschino davanti in cerca di portafoglio e distintivo, tasta la sholem che porta in una fondina sotto l'ascella, una malandata Smith & Wesson modello 39. «Mi secca svegliarla, detective» dice Tenenboym. «Ma ho notato che lei non dorme mai davvero.» «Sì che dormo» dice Landsman. Afferra il bicchiere basso che frequenta ultimamente, souvenir della Fiera mondiale del
1977. «Solo che lo faccio in mutande e camicia.» Alza il bicchiere e brinda ai trent'anni trascorsi dalla Fiera mondiale di Sitka. Un vertice di civiltà ebraica nel Nord, dicono, e chi è lui per contestarlo? Meyer Landsman aveva quattordici anni, quell'estate, e cominciava appena a scoprire le meraviglie delle donne ebree, per le quali il 1977 doveva essere stato una sorta di picco storico. «Seduto in poltrona.» Svuota il bicchiere. «Con la sholem addosso.» Secondo i medici, gli psicologi e la sua ex moglie, Landsman beve per curarsi, per sintonizzare le valvole e i quarzi dei suoi stati d'animo con un rozzo martello fatto di slivovitz. Ma la verità è che Landsman possiede due soli stati d'animo: operativo e spento. Meyer Landsman è lo shammes più decorato del distretto di Sitka, l'uomo che ha risolto l'omicidio della bella Froma Lefkowitz, uccisa dal marito conciatore, e che ha catturato Podolsky, il killer dell'ospedale. È stata la sua testimonianza a spedire Hyman Tsharny in un carcere federale per il resto dei suoi giorni, prima e ultima volta che delle accuse contro uno di quei mafiosi dei Verbover sono approdate a qualcosa. Ha la memoria di un carcerato, le palle di un pompiere, e la vista di uno svaligiatore. Quando c'è da combattere il crimine, Landsman sfreccia per Sitka come se avesse un razzo impigliato nei pantaloni. È come se alle sue spalle suonasse una colonna sonora, con parecchie nacchere. Il problema sono le ore in cui non lavora, quando i pensieri volano fuori dalla finestra spalancata del suo cervello come pagine di verbale. A volte, per tenerle ferme, ci vuole un fermacarte bello pesante. «Mi secca darle altro lavoro» dice Tenenboym. All'epoca della Narcotici Landsman ha arrestato Tenenboym cinque volte. Ecco su cosa si basa ciò che tra loro passa per amicizia. È quasi abbastanza. «Non è lavoro, Tenenboym» dice Landsman. «Io lo faccio per amore.» «Idem» risponde l'altro. «Adoro fare il portiere di notte in un albergo schifoso.» Landsman posa una mano sulla spalla di Tenenboym, e insieme si avviano a dare un'occhiata al defunto, strizzandosi nell'unico ascensore dello Zamenhof, o ELEVATORO, come recita la targhetta d'ottone. Quando l'albergo fu costruito, circa cinquant'anni prima, tutti i cartelli, le etichette, gli avvisi e le comunicazioni furono impressi su targhe d'ottone in esperanto.
Molte sono scomparse da tempo, vittime di trascuratezza, atti vandalici e nuove norme antincendio. La serratura e lo stipite della 208 non presentano segni di effrazione. Landsman copre il pomello con il fazzoletto e spinge delicatamente la porta con la punta del mocassino. «La prima volta che ho visto questo tizio» dice Tenenboym seguendo Landsman dentro la stanza «ho avuto una strana sensazione. Conosce l'espressione "un uomo spezzato"?» Landsman ammette di averla già sentita. «Di solito viene usata per gente che non se la merita» dice Tenenboym. «La maggior parte degli uomini, per come la vedo io, non ha proprio un bel niente da spezzare. Ma questo Lasker... Era come uno di quei bastoncini che li pieghi in due e si illuminano. Ha presente? Restano accesi per qualche ora, e dentro senti come dei pezzetti di vetro. Bah, non mi dia ascolto. Era solo una sensazione strana.» «Ultimamente tutti hanno sensazioni strane» dice Landsman, annotando sul taccuino nero alcune osservazioni sullo stato della stanza, anche se per lui gli appunti sono superflui, perché è raro che dimentichi un dettaglio visivo. Landsman si è sentito dire, dalla stessa malassortita congrega di medici, psicologi e moglie, che l'alcol prima o poi distruggerà il suo dono di ricordare le cose, ma per il momento, con suo sommo dispiacere, la previsione si è rivelata falsa. Il suo sguardo sul passato è ancora intatto. «Abbiamo dovuto destinare una linea telefonica solo per gestire questo genere di chiamate.» «Sono tempi strani per essere un ebreo» concorda Tenenboym. «Questo è poco ma sicuro.» C'è una piccola pila di libri tascabili appoggiata sulla cassettiera laminata. Sul comodino Lasker teneva una scacchiera. L'impressione è che avesse una partita in corso, vicina a un finale ingarbugliato, con il re nero sotto scacco al centro e i bianchi in vantaggio di un paio di pezzi. È un set da poco, un quadrato di cartone piegato in mezzo a mo' di scacchiera e i pezzi cavi, con minuscole sporgenze di plastica nei punti in cui erano attaccati allo stampo. Accanto al televisore c'è una piantana a tre paralumi con una sola lampadina accesa. Tutte le altre lampadine della stanza, a parte il neon del bagno, sono state svitate o bruciate e non sostituite. Sul davanzale c'è una confezione di lassativi, una marca nota che non richiede ricetta medica. La finestra è aperta di
quei tre centimetri possibili, e ogni pochi secondi il vento teso che soffia dal Golfo dell'Alaska fa sbattere le persiane di metallo. Il vento porta con sé un aroma pungente di poltiglia di legno, l'odore di gasolio delle navi e quello del salmone ammazzato e inscatolato. Secondo Nokh Amol, una canzone che Landsman e qualsiasi altro ebreo dell'Alaska della sua generazione ha imparato alle elementari, l'odore del vento del Golfo riempie il naso degli ebrei di un senso di aspettativa, opportunità, di possibilità di ricominciare. Nokh Amol risale ai tempi degli Orsi polari (come erano soliti definirsi i rifugiati della prima ondata), i primi anni Quaranta, e vorrebbe esprimere gratitudine per l'ennesima, miracolosa liberazione: «Un'altra volta». Oggigiorno gli ebrei del distretto di Sitka sono più portati a cogliere la sfumatura ironica presente fin dall'inizio. «Ho conosciuto un sacco di ebrei scacchisti che si facevano di eroina» dice Tenenboym. «Anch'io» risponde Landsman, posando lo sguardo sul morto. E rendendosi conto che l'aveva già visto in giro per lo Zamenhof. Uno scricciolo d'uomo. Occhi vivi, naso corto e schiacciato. Un leggero arrossamento sulle guance e sulla gola che potrebbe essere acne rosacea. Non un duro, non un poco di buono, e nemmeno un'anima persa. Un ebreo forse non troppo diverso da Landsman, preferenze in fatto di droghe a parte. Unghie pulite. Sempre in cravatta e cappello. Una volta l'aveva visto leggere un libro con note a piè di pagina. E adesso è disteso prono sul letto a scomparsa, con la faccia rivolta verso la parete, e indosso nient'altro che un paio di anonime mutande bianche. Capelli rossicci, lentiggini rossicce, e sulle guance una dorata barbetta di tre giorni. Un'ombra di doppio mento che Landsman attribuisce a una vita precedente da bambino grasso. Occhi gonfi nelle orbite scure di sangue. Sulla nuca ha un forellino bruciacchiato, una goccia di sangue. Nessun segno di colluttazione. Niente a suggerire che Lasker se lo aspettasse, o anche solo che se ne sia accorto. Il cuscino, nota Landsman, sul letto non c'è. «A saperlo, gli avrei proposto una partita o due.» «Non sapevo che lei giocasse.» «Sono una schiappa» taglia corto Landsman. Accanto all'armadio, sulla moquette felpata del verde farmaceutico di una pasticca per la tosse, vede una minuscola piuma bianca. Apre brusco l'anta, e dentro, sul fondo dell'armadio, ecco il cuscino, colpito al cuore per attutire il boato dei gas esplosi nel proiettile.
«Verso la fine non so mai come muovermi.» «Per esperienza personale, detective» dice Tenenboym. «La fine comincia dall'inizio.» «A me, lo dice.» Landsman sveglia il suo collega, Berko Shemets. «Detective Shemets» dice Landsman al cellulare, uno Shoyfer AT in dotazione al dipartimento. «Sono il tuo socio.» «Ti avevo pregato di non farlo più, Meyer» risponde Berko. Va da sé che anche a lui mancano otto ore al prossimo turno. «Hai ragione ad arrabbiarti» dice Landsman. «Ma ho pensato che forse eri ancora sveglio.» «Ero sveglio.» A differenza di Landsman, Berko Shemets non ha devastato il suo matrimonio e la sua vita privata. Ogni sera si addormenta tra le braccia di una moglie eccellente, il cui amore è meritato, corrisposto e apprezzato dal marito, un uomo solido che non le dà mai motivo di soffrire o preoccuparsi. «Una maledizione sulla tua testa, Meyer» dice Berko. Poi, in americano, «Accidenti a te». «Probabile caso di omicidio nell'albergo dove sto» dice Landsman. «Cliente fisso. Un colpo solo, alla nuca. Silenziato con un cuscino. Lavoro pulitissimo.» «Un 'esecuzione.» «Solo per questo ti ho disturbato. Per la natura insolita dell'omicidio.» A Sitka, che ha una popolazione, nella lunga striscia frastagliata dell'area metropolitana, di tre milioni e duecentomila persone, c'è una media di settantacinque omicidi all'anno. Alcuni sono legati alle guerre fra bande: shtarker russi che se le suonano a ruota libera. Il resto degli omicidi di Sitka sono i cosiddetti «delitti passionali», formula sintetica che esprime il prodotto matematico di alcol più armi da fuoco. Le esecuzioni a sangue freddo sono tanto rare quanto difficili da scalzare dalla grande lavagna bianca su cui al commissariato si tiene il conto dei casi irrisolti. «Non sei in servizio, Meyer. Chiama il commissariato. Passalo a Tabatchnik e Karpas.» Tabatchnik e Karpas sono gli altri due detective in forza alla Squadra B, Sezione Omicidi della polizia distrettuale, commissariato di Sitka, e questo mese i turni di notte toccano a loro. Landsman deve ammettere che l'idea di lasciare che questo pic-
cione cachi sui loro cappelli invece che sul suo un pochino lo tenta. «Lo farei anche» dice a Berko. «Solo che io qui ci vivo.» «Lo conoscevi?» gli chiede il collega con tono un po' più morbido. «No» risponde Landsman. «Non lo conoscevo.» Distoglie lo sguardo dalla pallida distesa lentigginosa del morto, prono sul letto a scomparsa. Landsman a volte non può fare a meno di provare pena per loro, ma è meglio non prendere il vizio. «Senti» dice a Berko «tornatene a letto. Ne parliamo domattina. Scusa se ti ho disturbato. Buonanotte. E scusati anche con Ester-Malke da parte mia.» «Ti sento un po' giù, Meyer» dice Berko. «Va tutto bene?» Negli ultimi mesi Landsman ha fatto diverse telefonate al suo socio in discutibili orari notturni, straparlando e accalorandosi nel suo alcolico dialetto di dolore. È uscito dal suo matrimonio su cauzione due anni fa, poi, lo scorso aprile, la sorella minore si è schiantata con il suo Piper Super Cub sul fianco del monte Dunkelblum, in mezzo ai boschi. Ma adesso non è alla morte di Naomi che Landsman sta pensando, e nemmeno alla macchia del divorzio. È tramortito da un'immagine di se stesso seduto nell'atrio sudicio dell'Hotel Zamenhof, su un divano che una volta forse era bianco, a giocare a scacchi con Emanuel Lasker, o qualunque fosse il suo vero nome. Entrambi intenti a emanare sull'altro gli ultimi residui di un bagliore sempre più fievole, ascoltando il dolce tintinnio dei pezzetti di vetro al loro interno. Il fatto che Landsman detesti il gioco degli scacchi non rende la scena meno toccante. «Questo tizio giocava a scacchi, Berko. E io non lo sapevo. Tutto qui.» «Ti prego» dice Berko. «Ti supplico, Meyer, non metterti a piangere.» «Sto bene» dice Landsman. «Buonanotte.» Landsman chiama il commissariato per farsi assegnare l'indagine sul caso Lasker. Un omicidio rognoso in più non può fare particolari danni al suo curriculum di responsabile delle indagini. E comunque poco importa. Il primo gennaio la sovranità sul distretto federale di Sitka, una sghemba parentesi di coste rocciose che si snoda lungo i fianchi occidentali delle isole Baranof e Chichagof, verrà restituita allo stato dell'Alaska. La po-
lizia distrettuale, a cui Landsman per vent'anni ha dedicato pelle, testa e anima, verrà sciolta. È tutt'altro che scontato che Landsman, o Berko Shemets, o chiunque altro manterrà il suo posto di lavoro. Non c'è niente di chiaro riguardo all'imminente Restituzione, ed è per questo che sono tempi strani per essere un ebreo.
Capitolo due
Mentre aspetta che l'assonnato latke si presenti, Landsman va a bussare a tutte le camere. Quasi tutti i clienti dello Zamenhof stasera sono fuori, in senso fisico o mentale, e per quello che riesce a cavare tanto varrebbe bussare alle porte dell'Istituto Hirshkovits per i sordomuti. I residenti dell'Hotel sono persone nervose, mezzo rintronate, puzzolenti e strambe, ma stasera nessuno sembra più disturbato del solito. E a Landsman nessuno sembra tipo da premere una pistola di grosso calibro sulla nuca di un uomo per ucciderlo a sangue freddo. «Sto perdendo tempo, con questi bisonti» dice a Tenenboym. «E lei, Tenenboym, è proprio sicuro di non aver visto niente e nessuno di insolito?» «Spiacente, detective.» «È un bisonte anche lei, Tenenboym.» «Un'accusa che non discuto.» «La porta di servizio?» «La usavano gli spacciatori» dice Tenenboym. «Abbiamo dovuto metterci un allarme. Lo avrei sentito.» Landsman chiede a Tenenboym di telefonare al portiere di giorno e a quello dei fine settimana, che se ne stanno al calduccio nei loro letti. Loro confermano a Tenenboym che, per quel che ne sanno, nessuno ha telefonato cercando il morto, né ha chiesto di lui. Mai. Per tutta la durata della sua permanenza allo Zamenhof. Niente visite, niente amici, nemmeno il ragazzo che fa le consegne per il Pearl of Manila. E dunque, pensa Landsman, una differenza tra lui e Lasker c'è: Landsman ogni tanto qualche visita la riceve, da Romei, che gli porta un sacchetto di carta marrone pieno di lumpia. «Vado a controllare il tetto» dice Landsman. «Non lasci uscire nessuno, e mi chiami quando il latke si decide ad arrivare.» Landsman prende l'elevatoro fino all'ottavo piano, quindi sale di slancio la rampa di scalini in cemento con i bordi d'ac-
ciaio che porta al tetto dello Zamenhof. Percorre tutto il perimetro, guardando il tetto del Blackpool sull'altro lato di Max Nordau Street. Si affaccia ai cornicioni nord, est e sud, scrutando i bassi edifici circostanti, sei o sette piani più in giù. La notte di Sitka è una macchia arancione, fatta di nebbia e della luce dei lampioni a vapori di sodio. Ha la trasparenza offuscata delle cipolle cotte nel grasso di pollo. Le luci degli ebrei si estendono verso ovest dalle pendici del monte Edgecumb fino alle settantadue isole e passa dello stretto, oltre lo Shvartsn-Yam, Halibut Point, South Sitka e il Nachtasyl, oltre l'Harkavy e l'Untershtat, per poi essere risucchiate a est dai monti dell'isola Baranov. Sull'isola Oysshtelung, il faro sulla punta dello «Spillone» - unico reperto della Fiera mondiale - lampeggia il suo avvertimento a ebrei e aeroplani. Landsman sente l'odore di interiora di pesce proveniente dalle fabbriche, quello di grasso delle friggitrici del Pearl of Manila, gli scarichi dei taxi, un bouquet frastornante di cappelli nuovi di zecca che giunge dalla ditta di confezioni Grinspoon due isolati più in là. «Si sta bene, lassù» dice tornando da basso nell'atrio, che ha il fascino di un posacenere, con i divani ingialliti, le poltrone sfregiate, e i tavoli dove a volte siedono un paio di clienti che ammazzano un'oretta giocando a pinnacola. «Dovrei andarci più spesso.» «E la cantina?» chiede Tenenboym. «Vuole dare un'occhiata anche là sotto?» «La cantina» gli fa eco Landsman, con il cuore che fa un'improvvisa mossa del cavallo. «Forse conviene.» Landsman è un tipo tosto, a modo suo, propenso a correre rischi. Gli hanno dato del duro, del temerario, del momzer, ovvero bastardo, del figlio di puttana fuori di testa. Ha affrontato shtarker e psicopatici, si è fatto sparare, pestare, congelare, bruciare. Ha inseguito individui sospetti in mezzo alle pareti mobili di scontri a fuoco urbani, e nel folto della terra degli orsi. Precipizi, folle, serpenti, case in fiamme, cani addestrati a odiare l'odore dei poliziotti, Landsman si è scrollato di dosso tutto quanto, o è riuscito comunque ad agire. Ma quando si ritrova in spazi ristretti o privi di luce, qualcosa nel cuore animale di Meyer Landsman si contrae violentemente. Nessuno a parte la sua ex moglie lo sa, ma il detective Meyer Landsman ha paura del buio. «Vuole che l'accompagni?» chiede Tenenboym con apparen-
te nonchalance, ma con una vecchia pescivendola come lui non si può mai sapere. Landsman si finge indignato dalla proposta. La cantina esala un fiato di canfora, nafta e polvere fredda. Landsman tira un cordino che accende una lampadina nuda, trattiene il respiro, quindi scende. Giunto in fondo ai gradini, attraversa la stanza degli oggetti smarriti, con le pareti rivestite di pannelli di masonite, scaffali e nicchie che ospitano le migliaia di oggetti abbandonati o dimenticati nell'albergo. Scarpe spaiate, cappelli di pelliccia, una tromba, un dirigibile giocattolo con l'elica a manovella. Una collezione di cilindri in cera per grammofono con tutte le registrazioni esistenti dell'Orchestra Orfeon di Istanbul. Una scure da boscaiolo, due biciclette, un ponte dentale parziale dimenticato in un bicchiere dell'albergo. Parrucche, bastoni, un occhio di vetro, mani di plastica portagioielli abbandonate da un rappresentante di manichini. Libri di preghiere, scialli da preghiera in custodie di velluto con la cerniera, un idolo esotico con un corpo di bambino grasso e la testa di elefante. C'è una cassetta di legno per bibite piena di chiavi, un'altra con tutta la gamma possibile e immaginabile di strumenti per la cura di capelli e peli, dai ferri per arricciare ai piegaciglia. Fotografie incorniciate di famiglie in tempi migliori. Un criptico pezzo di gomma ritorta che potrebbe essere un giocattolo sessuale, o un congegno contraccettivo, oppure il segreto brevettato di una guaina contenitiva. Qualcuno si è perfino lasciato dietro una faina impagliata, flessuosa e con lo sguardo cattivo, un occhio di vetro che è una dura goccia di inchiostro. Landsman fruga nella cassetta di chiavi con una matita. Guarda dentro ogni cappello, tasta gli scaffali dietro i libri tascabili abbandonati. Sente il battito del suo cuore, e il fiato aldeidico che gli esce dalla bocca, e dopo qualche minuto in quel silenzio il suono del sangue che gli scorre nelle orecchie comincia a ricordargli la voce di qualcuno che parla. Dà un'occhiata dietro i serbatoi dell'acqua calda, assicurati uno all'altro da cinghie d'acciaio, come compagni di un'avventura nata male. Poi è la volta della lavanderia. Quando Landsman tira il cordino della luce, non succede nulla. Lì dentro è tutto dieci gradi più buio, e non c'è niente da vedere, se non pareti vuote, cavi tranciati, fori di scolo. Sono anni che lo Zamenhof ha soppres-
so il servizio di lavanderia. Landsman guarda dentro i fori di scolo, e lì il buio è oleoso, denso. Sente uno sfarfallio, come un verme nello stomaco. Flette le dita e fa scrocchiare le ossa del collo. Sul lato opposto della lavanderia, una porticina fatta di tre assi inchiodate insieme da una quarta messa di traverso chiude una bassa apertura. La porticina di legno ha come serratura un anello di corda, e un piolo a cui agganciarlo. Un cunicolo; Landsman quasi teme la parola stessa. Calcola quante possibilità ci sono che un certo tipo di assassino, non un professionista, non un vero e proprio dilettante, ma nemmeno un semplice pazzo, possa essersi nascosto in un cunicolo come quello. Può essere; ma è abbastanza difficile che il balordo sia riuscito ad agganciare la corda al piolo dall'interno. Questo ragionamento da solo basta quasi a convincere Landsman che non valga la pena di perlustrare il cunicolo. Poi però torna nella stanza degli oggetti smarriti, e scova una piccola torcia tascabile. Giusto per contraddirsi, perché contraddire se stesso, contraddire gli altri, contraddire il mondo intero è l'unico passatempo nonché l'unico patrimonio che Landsman e la sua gente possiedono. Accende la torcia e se la infila tra i denti. Tira su gli orli dei pantaloni e si inginocchia. Con una mano sfila dalla fondina la sua piccola grande S&W, e con l'altra afferra l'anello di corda. Apre di scatto la porticina del cunicolo. «Esci di lì» dice, con le labbra secche e la voce ruvida di un vecchio coglione impaurito. Infila nel cunicolo la parte superiore del corpo. L'aria è fredda e ha un odore amarognolo di escrementi di topo. Il fascio di luce della torcia cola dappertutto, rivelando alcune cose e oscurandone altrettante. Pareti di calcestruzzo, pavimento di terra battuta, un ributtante intrico di cavi e schiuma isolante per soffitto. Per terra, al centro verso il fondo, c'è un disco di compensato grezzo incastonato in una cornice metallica circolare a filo del terreno. Landsman trattiene il respiro, e attraversando a nuoto il panico raggiunge la buca, deciso a rimanere in apnea più che può. Il terriccio intorno alla cornice è intatto. Sul legno e sul metallo c'è uno strato di polvere uniforme, nessun segno, nessuna strisciata. Nessun motivo di pensare che qualcuno ci abbia messo le mani. Landsman infila le dita tra il compensato e la cornice, e facendo leva apre la rudimentale botola. La torcia illumina un tubo di alluminio scanalato avvitato
nella terra, con una fila di protuberanze d'acciaio disposte a mo' di scaletta. La cornice che si vedeva da fuori è il bordo del tubo stesso. Largo quanto basta ad accogliere uno psicopatico adulto. O un poliziotto ebreo con meno fobie di Landsman, che si aggrappa alla sholem come fosse una maniglia, lottando con un bisogno disperato di sparare alla cieca nella gola di quel buio. Lascia ricadere con un tonfo il disco di compensato nella cornice. Nemmeno morto scenderà lì dentro. Il buio lo insegue fino alla cima delle scale che portano all'atrio, tentando di afferrargli il colletto, tirandolo per la manica. «Niente» dice a Tenenboym, ricomponendosi. Cerca di imprimere alla parola un tono allegro. Potrebbe essere una previsione di ciò a cui approderà la sua indagine su Emanuel Lasker, ma anche il resoconto di ciò per cui Landsman è convinto che Lasker sia vissuto e infine morto, o una presa di coscienza di quello che rimarrà, dopo la Restituzione, della città in cui Landsman è nato. «Niente.» «Sa cosa dice sempre Kohn?» gli fa Tenenboym. «Dice che qui dentro c'è un fantasma.» Kohn è il portiere di giorno. «Un fantasma che ruba le cose, le sposta. A sentire Kohn, è il fantasma del professor Zamenhof.» «Se avessero dato il mio nome a una fogna come questa» dice Landsman «anch'io la infesterei.» «Non c'è da stupirsi di niente» osserva Tenenboym. «Specie di questi tempi.» Di questi tempi non c'è niente di cui stupirsi, è vero. A Povorotny un gatto si è accoppiato con un coniglio, generando adorabili mostriciattoli le cui foto hanno abbellito la prima pagina del «Sitka Tog». Lo scorso febbraio, cinquecento testimoni sparsi in lungo e in largo per il distretto hanno giurato di aver intravisto nel bagliore dell'aurora boreale, e per due notti di fila, i lineamenti di un volto umano, con tanto di barba e cernecchi ai lati del viso. Violente polemiche sono scoppiate in merito all'identità del saggio barbuto apparso nel cielo, sul fatto che stesse o meno sorridendo (o che semplicemente soffrisse di aerofagia), e sul significato del bizzarro fenomeno. E solo la settimana scorsa, in mezzo al panico e alle piume di una macelleria kasher in Zhitlovsky Avenue, una gallina si è rivolta allo shochet, che già brandiva il coltello rituale, per annunciargli, in aramaico, l'imminente avvento del Messia. Stando al «Tog», la gallina miracolosa ha snocciolato una quantità di profezie sor-
prendenti, trascurando tuttavia di citare la minestra di cui, una volta tornata silenziosa come Dio stesso, si è resa protagonista. Qualsiasi studio dei precedenti storici, anche molto superficiale, pensa Landsman, dimostrerebbe senza ombra di dubbio che i tempi strani per essere un ebreo sono quasi sempre stati anche tempi strani per essere una gallina.
Capitolo tre
Per strada, il vento gli spazza via la pioggia dai risvolti del cappotto. Landsman si ripara sulla soglia dell'albergo. Due uomini, uno con la custodia di un violoncello in spalla, l'altro con un violino o una viola stretta tra le braccia, avanzano lottando contro le intemperie verso l'ingresso del Pearl of Manila, sul lato opposto della strada. L'auditorium si trova a dieci isolati e a un mondo intero da questo angolo di Max Nordau Street, ma la voglia di maiale di un ebreo, specie se il maiale è fritto a puntino, è una forza più potente della notte, o della distanza, o del vento gelido che soffia dal Golfo dell'Alaska. E anche Landsman sta combattendo contro il desiderio di tornarsene nella stanza 505, dalla sua bottiglia di slivovitz e dal bicchiere souvenir della Fiera mondiale. Invece si accende un papiro. Dopo un decennio di astinenza, Landsman ha ripreso a fumare poco meno di tre anni fa. All'epoca la sua ex moglie era incinta. Era stata una gravidanza molto discussa e per molto tempo desiderata - la prima per lei eppure non programmata. Come per molte gravidanze troppo a lungo discusse, nel futuro padre erano nati sentimenti contrastanti. Dopo diciassette settimane e un giorno - il giorno in cui Landsman comprò il suo primo pacchetto di Broadway dopo dieci anni - ricevettero un brutto risultato. Alcune, anche se non tutte le cellule che componevano il feto, nome in codice Django, avevano un cromosoma in più nella ventesima coppia. Mosaicismo, lo chiamavano. Poteva causare gravi anomalie. Oppure non provocare alcun effetto. Nella letteratura esistente una persona piena di fede poteva trovare incoraggiamento, e una priva di fede svariate ragioni per demoralizzarsi. Il punto di vista di Landsman - ambivalente, demoralizzato e privo della benché minima fede in alcunché - ebbe la meglio. Un medico con una mezza dozzina di alghe laminaria ruppe il sigillo sulla vita di Django Landsman. Tre mesi dopo, Landsman e le sue
sigarette se ne andarono dalla casa sull'isola Tshernovits che lui e Bina avevano condiviso per quasi tutti i quindici anni del loro matrimonio. Non che non potesse convivere con il senso di colpa. Ma con quello e anche Bina, proprio no. Un vecchio, trascinandosi come un carretto scassato, si fa strada a zig-zag verso la porta dell'albergo. È basso, sotto il metro e cinquanta, e trasporta una grossa valigia. Landsman osserva il lungo cappotto bianco che il vecchio porta aperto su giacca e pantaloni bianchi, con tanto di panciotto, e il cappello bianco a tesa larga calcato sulle orecchie. Barba e cernecchi bianchi, radi e al tempo stesso folti. La valigia, un'antica chimera di broccato macchiato e pelle graffiata. L'intero lato destro del corpo dell'ometto pende di cinque gradi più in basso del sinistro, sotto il peso della valigia, che ha l'aria di contenere un'intera collezione di lingotti di piombo. L'uomo si ferma e alza un dito, come se avesse una domanda da porre a Landsman. Il vento giocherella con le sue basette e con la tesa del cappello, cavandogli dalla barba, dalle ascelle e dalla pelle un intenso odore di tabacco stantio, flanella umida e sudore di uomo che vive per strada. Landsman nota il colore dei suoi stivali fuori moda, un giallognolo avorio simile a quello della barba, con le punte sottili e una fila di bottoni sul lato. Landsman si ricorda che questo svitato lo aveva visto spessissimo, ai tempi in cui arrestava Tenenboym per furtarelli e possesso di droga. All'epoca l'ometto non sembrava più giovane di adesso, così come adesso non sembra più vecchio di allora. La gente lo chiamava Elia, perché aveva l'abitudine di spuntare nei posti più improbabili, con la sua pushke per l'elemosina e l'aria indefinibile di chi ha qualcosa di importante da dire. «Caro» dice il vecchio a Landsman. «È questo l'Hotel Zamenhof, vero?» All'orecchio di Landsman il suo yiddish suona un po' esotico, speziato com'è di olandese, o forse di basso tedesco. L'uomo è curvo e fragile, ma il suo viso, fatta eccezione per le zampe di gallina intorno agli occhi azzurri, è giovanile e liscio. Gli occhi stessi contengono ciascuno una minuscola fiammella di impazienza che lascia Landsman perplesso. È raro che la prospettiva di una notte allo Zamenhof dia adito a tanta aspettativa. «Esatto.» Landsman offre al Profeta Elia una Broadway. L'ometto ne prende due, e una se la infila nel reliquiario oscuro del
taschino della giacca. «Acqua calda e fredda. Shammesim professionisti in sede.» «Tu sei il direttore, tesoro?» Landsman non può fare a meno di sorridere. Si fa da parte, indicandogli la porta. «Il portiere è dentro» dice. Ma il vecchietto rimane fermo lì, a farsi piovere addosso, con la barba che ondeggia al vento come una bandiera bianca. Alza gli occhi verso la facciata anonima dello Zamenhof, grigia nella luce torbida dei lampioni. L'albergo, una torre alta e stretta di mattoni bianco sporco e feritoie, a tre o quattro isolati dal tratto più pacchiano di Monastir Street, ha tutto il fascino di un deumidificatore. L'insegna al neon si accende e si spegne, tormentando i sogni dei poveracci che stanno al Blackpool di fronte. «Zamenhof» dice il vecchio seguendo il ritmo intermittente delle lettere dell'insegna al neon. «Non Zamenhof. Zamenhof.» Arriva il latke, un novellino di nome Netsky, che trotterella tenendosi il piccolo cappello da poliziotto rotondo a tesa larga. «Detective» dice il latke, con il fiato corto, per poi lanciare al vecchietto uno sguardo a occhi socchiusi e un cenno di saluto. «'Sera, nonno. Ehm, mi scusi, detective, ho appena ricevuto la chiamata, sono stato trattenuto.» Netsky ha l'alito che sa di caffè, e un po' di zucchero sulla manica destra del cappotto blu. «Il morto dov'è?» «Nella due zero otto» dice Landsman, aprendogli la porta e poi voltandosi di nuovo verso il vecchio. «Entra anche lei, nonno?» «No» risponde l'ometto, con un vago accenno di emozione che Landsman non riesce a decifrare. Potrebbe essere rammarico, o sollievo, oppure la cupa soddisfazione di un uomo con il gusto della delusione. Il barlume intrappolato nei suoi occhi ha lasciato il posto a un velo di lacrime. «Ero solo curioso. La ringrazio, agente Landsman.» «Ora sono detective» dice Landsman, sbalordito che il vecchio si sia ricordato il suo nome. «Lei si ricorda di me, nonno?» «Io mi ricordo tutto, caro.» A quel punto l'ometto infila una mano in una tasca sul fianco del suo cappotto giallo candeggina, e tira fuori la sua pushke, un cofanetto nero di legno grosso quanto una scatola da schedario. Sul davanti della scatola è di-
pinto in ebraico: PER ERETZ ISRAEL. Intagliata nel coperchio c'è una stretta fessura per le monete, o per un biglietto da un dollaro ripiegato. «Un piccolo dono?» chiede Elia. La Terra Santa non è mai apparsa più remota o irraggiungibile di quanto appaia a un ebreo di Sitka. Sta dall'altra parte del pianeta, è un luogo disgraziato, governato da uomini uniti soltanto dalla determinazione a tenere fuori chiunque all'infuori di un pugno di ebrei insignificanti. Per mezzo secolo, dittatori arabi e musulmani faziosi, persiani ed egiziani, socialisti e nazionalisti e monarchici, panarabisti e panislamisti, tradizionalisti e Partito di Alì, tutti quanti hanno affondato i denti in Eretz Israel, dilaniandolo fino all'osso e alle cartilagini. Gerusalemme è una città di sangue e slogan pitturati sui muri, di teste tagliate e conficcate su pali telefonici. Gli ebrei osservanti sparsi per il mondo non hanno abbandonato la speranza di vivere un giorno nella terra di Sion. Ma gli ebrei sono già stati sbattuti fuori a calci tre volte: nel 548 a.C, nel 70 d.C. e, in modo violento e irrevocabile, nel 1948. Perfino per i più devoti è difficile non rassegnarsi all'idea che non si riuscirà mai a rimetterci piede. Landsman tira fuori il portafoglio e infila un biglietto da venti ripiegato nella pushke di Elia. «Buona fortuna» gli dice. L'ometto solleva la sua pesante valigia e si incammina con passo strascicato. Landsman tende un braccio e lo afferra per la manica, con una domanda che gli si formula nel cuore, una domanda da bambino sull'antico desiderio che il suo popolo ha di una dimora. Elia si volta con un'aria di consumata circospezione. Forse questo Landsman è un piantagrane. Landsman sente la domanda defluire come la nicotina nel suo flusso sanguigno. «Che cos'ha in quella valigia, nonno?» chiede al vecchio. «Sembra pesante.» «Un libro.» «Uno solo?» «Molto grosso.» «Una storia lunga?» «Lunghissima.» «E di cosa parla?» «Parla del Messia» risponde l'ometto. «E adesso, per favore, tolga questa mano.»
Landsman molla la presa. Il vecchio raddrizza la schiena e alza la testa. Le nubi nei suoi occhi si dissolvono, e appare arrabbiato, sprezzante, per nulla anziano. «Il Messia sta arrivando» dice. Non è propriamente una minaccia, eppure, come promessa di redenzione, manca di un certo calore. «Capita a fagiolo» dice Landsman, puntando un pollice verso l'atrio dell'albergo. «Stasera si è liberata una stanza.» Elia lo fissa con l'aria ferita, o forse solo disgustata. Apre la scatoletta nera e guarda all'interno. Tira fuori i venti dollari che Landsman gli ha dato e glieli restituisce. Quindi riprende la sua valigia, si sistema il cappello bianco floscio sulla testa e si allontana faticosamente nella pioggia. Landsman accartoccia il biglietto da venti e se lo lascia cadere nella tasca del cappotto. Schiaccia il papiro con la scarpa ed entra nell'albergo. «Chi era quel pazzo?» gli chiede Netsky. «Lo chiamano Elia. È innocuo» risponde Tenenboym, da dietro la rete metallica che chiude la finestrella della reception. «Una volta lo si vedeva in giro. Sempre a cantare le lodi del Messia.» Tenenboym si fa ticchettare uno stuzzicadenti d'oro contro i molari. «Stia a sentire, detective. Io non dovrei dirle nulla, ma tanto vale che lo sappia. Domani la direzione farà partire una lettera.» «Questa sono proprio curioso di sentirla» dice Landsman. «I proprietari hanno venduto a una società di Kansas City.» «Ci sbattono fuori.» «Può darsi» dice Tenenboym. «Ma magari no. Nessuno sa con esattezza cosa lo aspetta. Però non è escluso che dobbiate andarvene.» «Nella lettera ci sarà scritto questo?» Tenenboym si stringe nelle spalle. «La lettera è tutta scritta in avvocatese» dice. Landsman fa piazzare il latke Netsky all'ingresso. «Non dirgli tu quello che possono aver visto o sentito» gli ricorda. «E non trattarli male, anche se ti sembra che se lo meritino.» Menashe Shpringer, l'esperto della Scientifica che fa il turno di notte, entra trafelato nell'atrio dell'albergo in cappotto nero e cappello di pelliccia, accompagnato da un crepitio di pioggia. In una mano stringe un ombrello gocciolante. Con l'altra trasci-
na un carrellino di metallo lucido, cui sono assicurati con corde elastiche la sua valigetta di vinile nero contenente gli attrezzi e un contenitore di plastica con due buchi a mo' di maniglie. Shpringer è un idrante, con piccole gambe arcuate e braccia scimmiesche affisse al collo senza traccia apparente di spalle. Il viso è occupato quasi interamente dalle guance, e la fronte corrugata sembra uno di quegli alveari con la cima a cupola che nelle xilografie medievali rappresentavano l'operosità. Sul contenitore di plastica è impressa un'unica parola in lettere blu: REPERTI. «Lei lascia la città?» chiede Shpringer. Come formula di saluto non è insolita, di questi tempi. Negli ultimi due anni, un sacco di persone se ne sono andate, fuggendo dal distretto verso uno dei pochi posti disposti ad accoglierle, oppure stanche di sentire racconti di seconda mano sui pogrom e decise a organizzarsene uno personale. Landsman risponde che, per quel che ne sa, lui non va da nessuna parte. I posti che accolgono gli ebrei solitamente accettano solo chi ha un parente stretto che già ci vive. I parenti stretti di Landsman sono tutti morti, oppure devono affrontare la Restituzione come lui. «E allora le dico addio per sempre adesso» dice Shpringer. «Domani notte a quest'ora mi starò già crogiolando al caldo sole del Saskatchewan.» «A Saskatoon?» azzarda Landsman. «Oggi sono andati a trenta sotto zero» dice Shpringer. «Ed era la massima.» «Cerchi di vedere il lato buono» dice Landsman. «Almeno non vive in questa fogna.» «Lo Zamenhof.» Shpringer recupera il fascicolo Landsman dalla memoria, e ne esamina i contenuti con aria di disapprovazione. «Già, è vero. Casa dolce casa, eh?» «Si addice al mio attuale stile di vita.» Shpringer tira fuori un sorrisetto sottile, da cui è pressoché scomparsa ogni traccia di pietà. «Da che parte, per il morto?» chiede.
Capitolo quattro
Come prima cosa, Shpringer riavvita tutte le lampadine che Lasker ha svitato. Poi, abbassatosi gli occhiali protettivi, si mette al lavoro. Fa a Lasker manicure e pedicure, gli perlustra la bocca in cerca di un dito mozzato o di un doblone di bronzo. Preleva le impronte con polvere e pennellino. Scatta trecentodiciassette polaroid. Fotografa il cadavere, la stanza, il cuscino perforato, le impronte che ha messo in evidenza. Fotografa la scacchiera. «Una anche per me» dice Landsman. Shpringer scatta una seconda foto della scacchiera e della partita che l'assassino ha costretto Lasker ad abbandonare, poi la porge a Landsman inarcando un sopracciglio. «Un indizio importante» dice Landsman. A poco a poco, Shpringer smantella la difesa Nimzo-croata del morto, o quel che era, chiudendo ermeticamente ogni singolo pezzo in un sacchettino separato. «Come ha fatto a sporcarsi così?» chiede a Landsman senza guardarlo. Landsman si accorge della polvere marrone chiaro che gli si è depositata sulla punta delle scarpe, sui polsini e sulle ginocchia dei pantaloni. «Ho dato un'occhiata in cantina. Laggiù c'è un grosso, come chiamarlo... condotto di servizio?» Sente il sangue affluirgli nelle guance. «Ho dovuto controllarlo.» «Un tunnel di Varsavia» dice Shpringer. «Questa parte dell'Untershtat ne è piena.» «Non mi dica che crede a quelle storie.» «Quand'è arrivata la seconda ondata, dopo la guerra. Quelli che erano stati nel ghetto di Varsavia, di Bialystok. Gli ex partigiani. Alcuni non dovevano fidarsi molto degli americani. E allora hanno scavato dei tunnel. Casomai avessero dovuto combattere di nuovo. È per questo che si chiama Untershtat.»
«Sono solo voci, Shpringer. Leggende metropolitane. Quello è un condotto di servizio.» Shpringer grugnisce. Chiude in una busta l'asciugamano per la doccia, quello per le mani, e una saponetta consumata. Conta i peli pubici rossicci rimasti appiccicati all'asse del gabinetto, quindi li infila tutti quanti in un sacchettino. «A proposito di voci» dice. «Ha saputo qualcosa da Felsenfeld?» «Come sarebbe, se ho saputo qualcosa?» Felsenfeld è l'ispettore Felsenfeld, comandante della squadra. «L'ho visto oggi pomeriggio» dice Landsman. «Ma non ho saputo proprio niente. Quell'uomo sono dieci anni che non spiccica più di tre parole di fila. Che domanda è? Quali voci?» «Nulla, una domanda così.» Shpringer sta passando le dita infilate nei guanti di lattice sulla pelle lentigginosa del braccio sinistro di Lasker. Ci sono punture di aghi, e segni sbiaditi nei punti in cui il defunto si legava il laccio. «Oggi Felsenfeld si è tenuto per tutto il giorno la mano sulla pancia» dice Landsman, pensandoci meglio. «Mi pare di averlo sentito dire "acidità".» Poi: «Che cosa vede?». Shpringer aggrotta la fronte fissando la carne sopra il gomito di Lasker, dove i segni del laccio si affastellano. «A quanto pare usava una cintura» dice Shpringer. «Solo che la sua cintura è troppo larga per aver lasciato questi segni.» La cintura di Lasker è già stata riposta, insieme con due paia di pantaloni grigi e due blazer blu, in una busta di carta marrone. «L'attrezzatura è nel cassetto, dentro un astuccio nero» dice Landsman. «Non ho perlustrato più di tanto.» Shpringer apre il cassetto del comodino e tira fuori la trousse nera. Apre la cerniera, quindi emette uno strano suono di gola. Il coperchio della trousse si solleva verso Landsman, che lì per lì non riesce a vedere che cosa ha catturato l'attenzione di Shpringer. «Lei cosa sa di questo Lasker?» gli chiede Shpringer. «Posso azzardare che di tanto in tanto giocava a scacchi» risponde Landsman. Uno dei tre libri presenti nella stanza è una copia spiegazzata e con il dorso rotto di Trecento partite di scacchi di Siegbert Tarrasch. C'è una tasca di carta gialla incollata all'interno della copertina, con dentro una scheda da cui si
evince che il libro è stato preso in prestito per l'ultima volta dalla sede centrale della biblioteca civica di Sitka nel luglio del 1986. Landsman non riesce a non pensare che nel luglio del 1986 ha fatto l'amore per la prima volta con la sua futura ex moglie. Bina all'epoca aveva vent'anni, Landsman ventitré, ed erano nel pieno dell'estate settentrionale. Luglio 1986 è la data impressa sulla scheda riposta nella tasca delle illusioni di Landsman. Gli altri due libri sono gialli yiddish scadenti. «A parte questo non so un cazzo.» Come Shpringer aveva dedotto dai segni sul braccio di Lasker, il laccio utilizzato dal morto era una cinghia di cuoio, nera, larga suppergiù un centimetro e mezzo. Shpringer la sfila dall'astuccio, stringendola tra due dita come se l'affare potesse morderlo. A metà della cinghia è fissata una scatolina di cuoio, destinata a contenere un bigliettino di carta su cui uno scriba, con piuma e inchiostro, ha vergato quattro passaggi della Torah. Ogni mattina l'ebreo devoto si lega uno di questi cosi al braccio sinistro, un altro sulla fronte, e prega per riuscire a capire che razza di Dio possa obbligare una persona a fare una cosa del genere ogni benedetto giorno della sua vita. Ma nella scatolina sulla cinghia da preghiera di Emanuel Lasker non c'è niente. Lui la usava soltanto per gonfiarsi le vene del braccio. «Questa è nuova» dice Shpringer. «I tefillin usati come laccio emostatico.» «Ora che ci penso» dice Landsman «ce l'aveva, quell'aria. Come se una volta fosse stato un cappello nero. A quelli gli viene una specie di... non so. Come se gli mancasse qualcosa.» Landsman si infila un guanto, e afferrando il mento di Lasker gli gira prima da una parte e poi dall'altra la faccia, una maschera tumefatta di vasi sanguigni. «Se portava la barba, è stato un bel po' di tempo fa» dice a Shpringer. «Il colore della pelle è uniforme.» Lascia andare la faccia di Lasker e si allontana dal corpo. Non sarebbe esatto dire che ha appena classificato Lasker come un ex cappello nero. Ma con quel mento da bambino grasso, e quell'aria rovinata, Landsman immagina che Lasker un tempo sia stato qualcosa di diverso da un tossico senza calzini in un albergo di quarta categoria. Sospira. «Cosa non darei» dice «per spaparanzarmi al sole su una spiaggia di Saskatoon.» Si sentono rumori, in corridoio, clangore di metallo e cinghie
di cuoio, e un attimo dopo due addetti dell'obitorio entrano nella stanza con una barella pieghevole. Shpringer gli chiede di prendere il contenitore per i reperti e i sacchettini che ha riempito, dopodiché se ne va a passi pesanti, seguito dal cigolio di una delle ruote del suo carrellino. «Bella merda» comunica Landsman ai ragazzi dell'obitorio, riferendosi al caso, e non alla vittima. Il giudizio non sembra sorprenderli, né suonare nuovo alle loro orecchie. Landsman sale nella sua stanza per ricongiungersi alla bottiglia di slivovitz e al bicchiere della Fiera mondiale che si sono guadagnati il suo affetto. Si siede sulla sedia accanto alla scrivania di cartone pressato, con una camicia sporca a mo' di cuscino. Tira fuori dalla tasca la polaroid e osserva la partita che Lasker ha abbandonato a metà, cercando di stabilire se la mossa toccasse al bianco o al nero, e quale, in entrambi i casi, sarebbe stata la mossa immediatamente successiva. Ma ci sono troppi pezzi, ed è troppo difficile tenere a mente le varie mosse, e Landsman non dispone di una scacchiera su cui ricostruire il tutto. Di lì a qualche minuto si sente scivolare verso il sonno. E invece no, non si addormenterà, sapendo che ciò che l'aspetta di certo sono i soliti sogni alla Escher, scacchiere annebbiate, torri gigantesche che proiettano ombre falliche. Si toglie i vestiti, si siede nella doccia, e rimane lì mezz'ora con gli occhi sbarrati, estraendo i ricordi - della sorellina a bordo del suo Piper Super Cub, o di Bina nell'estate del 1986 - dai loro sacchettini di plastica. Li studia come se fossero trascrizioni, in un libro polveroso rubato alla biblioteca, di vecchi scacchi matti e mosse geniali. Dopo aver dedicato mezz'ora a una così utile attività, si alza, indossa camicia e cravatta pulite, e va al commissariato centrale di Sitka a fare rapporto.
Capitolo cinque
Landsman ha imparato a odiare il gioco degli scacchi per mano di suo padre e dello zio Hertz. I due cognati erano stati amici da ragazzi a Lodz, e insieme avevano fatto parte del Club scacchistico giovanile Makkabi. Landsman ricorda di come parlavano del giorno, nell'estate del 1939, in cui il grande Tartakower andò a fare una dimostrazione per i ragazzi del Makkabi. Savielly Tartakower era un cittadino polacco, un campione internazionale, nonché un personaggio notevole, famoso per aver pronunciato la frase: «Gli errori sono già tutti sulla scacchiera, e aspettano solo di essere commessi». Era venuto da Parigi per realizzare un servizio su un torneo per una rivista di scacchi francese, e per fare visita al direttore del Club scacchistico giovanile Makkabi, un ex compagno dei tempi del fronte russo, nell'esercito di Francesco Giuseppe. Su invito del direttore, Tartakower propose una partita contro il miglior giocatore del club, Isidor Landsman. Si sedettero al tavolo insieme, il robusto veterano di guerra con gli abiti di sartoria e l'ironia ruvida, e il quindicenne balbuziente, con un occhio strabico, già un po' stempiato, e con dei baffi che spesso venivano scambiati per una ditata di fuliggine. Tartakower muoveva i neri. Il padre di Landsman scelse un'apertura inglese, gli uscì pasticciata, poi riuscì a recuperare. Ma dopo quell'errore iniziale non riuscì più a tornare in attacco. Due ore e trentaquattro mosse dopo, Tartakower, con cordiale disdegno, propose al padre di Landsman una patta. Il padre di Landsman doveva pisciare, gli fischiavano le orecchie, avrebbe solo rimandato l'inevitabile. Eppure declinò. A quel punto la sua partita era basata esclusivamente sulle sensazioni e sulla disperazione. Reagì, fece una contromossa, armato soltanto della sua natura ostinata e di uno sfrenato senso della scacchiera. Dopo settanta mosse e quattro ore e dieci minuti di gioco, Tartakower, non più tanto cordiale, ripeté l'offerta fatta in prece-
denza. Il padre di Landsman, tormentato dal fischio alle orecchie, sul punto di farsela nei pantaloni, accettò. Negli anni successivi il padre di Landsman ammise talvolta che la sua mente, bizzarro organo, non si era mai ripresa del tutto dal calvario di quella partita. Anche se, naturalmente, calvari ben peggiori erano di là da venire. «Non è stato per niente piacevole» pare che disse Tartakower al padre di Landsman alzandosi dalla sedia. Il giovane Hertz Shemets, con il suo infallibile occhio per le debolezze, intravide un tremore nella mano di Tartakower, stretta intorno a un bicchiere di Tokay recuperato in fretta e furia. Poi Tartakower puntò il dito contro il cranio di Isidor Landsman. «Ma di sicuro è meglio che essere costretti a vivere lì dentro.» Meno di due anni dopo, Hertz Shemets, insieme con la madre e la sorella minore Freydl, arrivò sull'isola Baranof, in Alaska, con la prima ondata di coloni galiziani. Giunse a bordo della famigerata Diamond, una nave da trasporto truppe della Prima guerra mondiale che il ministro Ickes aveva fatto riesumare dalla naftalina e ribattezzare come ambiguo memoriale, o così vuole la leggenda, al defunto Anthony Dimond, il delegato non votante per il territorio dell'Alaska alla Camera dei Rappresentanti. Fino al fatale intervento, all'angolo di una strada di Washington, di un tassista inetto e ubriaco di nome Denny Lanning - da allora e per sempre eroe degli ebrei di Sitka - il delegato Dimond era stato sul punto di far naufragare in commissione l'Alaskan Settlement Act. Magro, pallido, confuso, Hertz Shemets scese dalla Diamond, buio e puzzolente di zuppa e pozzanghere rugginose, e incontrò l'aroma pulito e freddo dei pini di Sitka. Lui, la sua famiglia e la sua gente furono numerati, vaccinati, spidocchiati, etichettati come uccelli migratori secondo le condizioni dell'Alaskan Settlement Act del 1940. In un portafoglio di cartone aveva un cosiddetto «passaporto Ickes», ovvero uno speciale visto d'emergenza stampato su una speciale carta sottilissima con uno speciale inchiostro che sbavava dappertutto. Non aveva letteralmente altro posto in cui andare. Era scritto a grandi lettere sul davanti del passaporto Ickes. Non gli era permesso andare a Seattle, né a San Francisco, ma nemmeno a Juneau o Ketchikan. Tutte le normali quote d'ingresso sull'immigrazione ebraica negli Stati Uniti rimanevano in vigore. Malgrado la tempestiva morte di Dimond, per imporre l'Act al
corpo politico americano erano occorsi un po' di muscoli e un po' di vaselina, e nell'accordo erano entrate anche varie restrizioni sulla libertà di movimento degli ebrei. Subito dopo gli ebrei provenienti dalla Germania e dall'Austria, la famiglia Shemets e gli altri galiziani furono parcheggiati a Camp Slattery, una palude a quindici chilometri dalla dura e mezza decrepita città di Sitka, capitale dell'antica colonia russa in Alaska. Chiusi in baracche con il tetto di lamiera piene di spifferi si sottoposero a sei mesi di acclimatamento intensivo a opera di un team scelto formato da quindici miliardi di zanzare alle dipendenze del ministero dell'Interno statunitense. Hertz fu arruolato in una squadra di operai cantonieri, per poi essere assegnato al gruppo che costruì l'aeroporto di Sitka. Perse due molari dopo che fu colpito da una pala mentre rimuoveva terra e sassi in un cassone pneumatico affondato nella fanghiglia del porto di Sitka. Negli anni successivi, ogni volta che passavi in macchina con lui sul ponte Tshernovits, Hertz si massaggiava la mascella, e il suo sguardo severo nel volto affilato assumeva un'aria malinconica. Freydl fu mandata a scuola in un fienile gelido, il cui tetto risuonava sotto la pioggia incessante. Alla madre furono insegnati i rudimenti dell'agricoltura, come usare aratro, fertilizzante e tubi di irrigazione. Per la signora Shemets, i dépliant e i manifesti che cantavano le lodi della breve stagione agricola dell'Alaska erano un'allegoria della scarsa durata della sua permanenza. Doveva considerare la colonia di Sitka una sorta di cantina o di vivaio nel quale, come bulbi floreali, lei e i suoi figli avrebbero potuto passare l'inverno, fino a quando il terreno del loro paese natio non si fosse scongelato abbastanza da permettere a tutti loro di essere ritrapiantati laggiù. Nessuno immaginava che il suolo europeo presto sarebbe stato seminato tanto in profondità a sale e cenere. Nonostante tutto il birignao campestre, le modeste fattorie e le cooperative agricole proposte dalla Società per la colonizzazione di Sitka non videro mai la luce. Il Giappone attaccò Pearl Harbor. L'attenzione del ministero dell'Interno scivolò verso questioni strategiche più impellenti, come le riserve minerarie e di petrolio. Concluso il semestre all'Ickes College, la famiglia Shemets, come la maggior parte dei loro compagni profughi, fu abbandonata a se stessa. Proprio come aveva previsto il delegato Dimond, finirono nella città di Sitka, grezza e in rapida espansione. Hertz andò a studiare giustizia criminale al Sitka
Technical Institute, inaugurato di recente, e appena diplomato, nel 1948, fu assunto come assistente dal primo grande studio legale statunitense che aprì una filiale in città. Sua sorella Freydl, la madre di Meyer Landsman, fu una delle prime girlscout della colonia. 1948: tempi strani per essere un ebreo. Nel mese di agosto la difesa di Gerusalemme capitolò, e gli ebrei della Repubblica di Israele, nata da appena tre mesi, in netta minoranza numerica, furono sbaragliati, massacrati e buttati a mare. Mentre Hertz cominciava a lavorare per lo studio Foehn Harmattan & Buran, la commissione parlamentare per gli Affari territoriali e insulari intraprese una revisione di stato giuridico a lungo rimandata e richiesta dal Sitka Settlement Act. Come il resto del Congresso, e come la maggior parte degli americani, i membri della commissione parlamentare furono condotti a migliori consigli dalle tetre rivelazioni sul massacro di due milioni di ebrei in Europa, dalla barbarie che aveva accompagnato la disfatta del sionismo, dal dramma dei rifugiati di Palestina ed Europa. Al tempo stesso possedevano uno spirito pratico. La popolazione della colonia di Sitka aveva già raggiunto i due milioni. Violando apertamente l'Act, gli ebrei si erano sparsi in lungo e in largo per la costa occidentale dell'isola Baranof, fino a Kruzof e fino alla parte ovest dell'isola Chichagof. L'economia fioriva. E gli ebrei americani facevano lobbying duro. Alla fine il Congresso assegnò alla colonia di Sitka lo status ad interim di distretto federale, escludendo però categoricamente la possibilità di costituirsi come Stato a sé stante. I LEGISLATORI PROMETTONO: NESSUNA «ALASKA PROMESSA» titolò il «Pioneer» di Anchorage. Grande rilievo veniva sempre dato all'espressione ad interim. Di lì a sessant'anni lo status sarebbe stato revocato, e una volta ancora gli ebrei di Sitka sarebbero stati abbandonati al loro destino. Un tiepido pomeriggio di settembre, poco dopo il Giorno del Distretto, mentre passeggiava in Seward Street per allungare la pausa pranzo, Hertz Shemets si imbatté nel suo vecchio amico di Lodz, Isidor Landsman. Il padre di Landsman era appena arrivato a Sitka, da solo, a bordo della Williwaw, fresco di un giro tra la morte e i campi di concentramento dell'Europa. Aveva venticinque anni, era calvo e gli mancavano quasi tutti i denti. Era alto un metro e ottanta e pesava cinquantasei chili. Aveva un odore strano, diceva cose assurde ed era sopravvissuto a tut-
ta la sua famiglia. Era del tutto insensibile alla sguaiata energia di frontiera della città di Sitka, con le squadre di giovani lavoratrici ebree dai foulard azzurri a cantare spiritual neri con testi in yiddish che parafrasavano Lincoln e Marx. L'intenso tanfo di carne di pesce, alberi abbattuti e terra smossa, il brontolio delle draghe e delle escavatrici a vapore che svuotavano le montagne e riempivano lo stretto di Sitka, niente sembrava sfiorarlo. Camminava a testa bassa, le spalle un po' ingobbite, come se si stesse semplicemente scavando un passaggio attraverso quel mondo nel suo inesplicabile cammino da una strana dimensione a quella successiva. Niente riusciva a penetrare o illuminare il cunicolo oscuro del suo transito. Ma quando Isidor Landsman si rese conto che quell'uomo sorridente, con i capelli leccati, le scarpe come un paio di automobili Kaiser, che odorava del cheeseburger con cipolle alla griglia appena consumato da Woolworth's, era il suo vecchio amico Hertz Shemetz del club scacchistico giovanile Makkabi, alzò gli occhi. La perenne curva delle spalle scomparve. Aprì la bocca e la richiuse, ammutolito di sdegno, gioia e stupore. Poi scoppiò a piangere. Hertz portò il padre di Landsman da Woolworth's, gli offrì il pranzo (un sandwich alle uova, il suo primo milkshake, un cetriolo sottaceto decente) dopodiché lo portò in Lincoln Street, al nuovo Hotel Einstein, nel cui caffè i grandi esiliati della scacchistica ebraica ogni giorno si incontravano per demolirsi a vicenda senza ritegno né pietà. Il padre di Landsman, intontito a quel punto dai grassi, dagli zuccheri e dai perduranti effetti del tifo, riuscì a svuotare la sala. Affrontò tutti quelli che gli si presentarono, e li spedì fuori dall'Einstein così pesantemente bastonati che un paio di loro non lo perdonarono mai più. Anche in quell'occasione esibì lo stile di gioco dolente e tormentato che aveva contribuito a rovinargli le partite da ragazzino. «Tuo padre giocava a scacchi» disse una volta Hertz Shemets a Landsman «come se avesse il mal di denti, le emorroidi e la pancia gonfia di gas.» Sospirava, gemeva. A tratti cominciava a tirarsi freneticamente le rade chiazze di capelli castani che gli rimanevano, oppure se li spostava avanti e indietro con le dita come un pasticciere che sparge farina su un ripiano di marmo. Ogni singolo errore dell'avversario gli provocava un distinto crampo al ventre, mentre le sue mosse, per quanto ardite, per quanto sorprendenti e originali e forti, lo investivano come una sequenza di notizie terribili, tanto che osservandole
si copriva la bocca e alzava gli occhi al cielo. Lo stile dello zio Hertz era tutt'altro. Lui giocava tranquillo, con un'aria noncurante, tenendo il corpo leggermente inclinato rispetto alla scacchiera, come se da un momento all'altro dovessero servirgli un pasto, o fosse in attesa di una bella ragazza che gli si sedesse in grembo. Ma i suoi occhi vedevano tutto, proprio come quel giorno al Club Makkabi avevano visto il tremito rivelatore della mano di Tartakower. Affrontava i rovesci di fortuna senza allarmarsi, e le buone opportunità con aria vagamente divertita. Fumando una Broadway dopo l'altra, guardò il suo vecchio amico che, contorcendosi e bofonchiando, sbaragliava la congrega di geni dell'Einstein. Poi, quando la sala fu ridotta a una distesa desolata, Hertz fece la mossa necessaria. Invitò Isidor Landsman a casa sua. Nell'estate del 1948 la famiglia Shemets viveva in un appartamento di due stanze, in un palazzo nuovo di zecca, su un'isola nuova di zecca. Il palazzo ospitava una ventina di famiglie, tutti Orsi polari. La madre dormiva in camera da letto, a Freydl era toccato il divano, e Hertz si faceva il letto sul pavimento. Ormai erano diventati ebrei d'Alaska in piena regola, ovvero utopisti, ovvero gente che vedeva difetti ovunque guardasse. Una famiglia litigiosa e provvista di lingue affilate, specialmente Freydl Shemets, che a quattordici anni aveva già superato il metro e settanta e pesava sessantatré chili. Le bastò lanciare un'occhiata al padre di Landsman, in piedi titubante sulla porta dell'appartamento, per etichettarlo, e a ragione, come un individuo incurabile e inaccessibile, proprio come quella terra desolata che lei aveva finito per considerare casa sua. Fu amore a prima vista. Anni dopo, Meyer Landsman fece sempre una certa fatica a farsi spiegare dal padre che cosa avesse visto, ammesso che avesse visto qualcosa, in Freydl Shemets. Non era una brutta ragazza: occhi da egizia, pelle olivastra. Con i suoi pantaloni corti, gli scarponcini da montagna e le maniche della camicia di flanella arrotolate, trasudava tutto lo spirito del vecchio movimento Makkabi: mens sana in corpore sano. Provava profonda compassione per Isidor Landsman, che aveva perso la famiglia e patito le sofferenze dei campi. Ma era figlia di Orsi polari, e come molti figli di Orsi polari affrontava il senso di colpa per essere sfuggita alla sporcizia, alla fame, ai fossati e alle fabbriche di morte offrendo ai sopravvissuti un flusso costante
di consigli, informazioni e critiche camuffate da esortazioni morali. Come se il soffocante, opprimente sudario nero della Distruzione potesse essere rimosso anche da un unico osservatore esterno determinato. Quella prima notte il padre di Landsman dormì, insieme a Hertz, sul pavimento di casa Shemets. L'indomani, Freydl lo portò a comprarsi dei vestiti, pagandoli di tasca sua con i soldi ricevuti in dono per il bat mitzvah. Lo aiutò ad affittare una stanza da una donna rimasta da poco vedova che viveva nello stesso palazzo. Gli massaggiò il cuoio capelluto con una cipolla, convinta che così facendo i capelli si sarebbero rigenerati. Gli diede da mangiare fegato di vitello per ravvivare il sangue stanco. Per i quattro anni successivi lo spronò e lo assillò e lo tiranneggiò, finché Isidor Landsman non arrivò a sedere dritto, a guardare negli occhi la gente quando parlava, a imparare l'americano e a mettersi una dentiera. Lo sposò il giorno dopo aver compiuto diciott'anni, dopodiché trovò lavoro al «Sitka Tog», dove a poco a poco fece carriera dalla pagina femminile fino al posto di caporedattore. Lavorò tra le sessanta e le settantacinque ore alla settimana cinque giorni su sette fino alla morte, per cancro, quando Meyer Landsman era al college. Nel frattempo, Hertz Shemets fece talmente colpo sugli avvocati americani del Foehn Harmattan & Buran che questi organizzarono una sottoscrizione e mossero i fili necessari per mandarlo a studiare giurisprudenza a Seattle. In seguito divenne il primo ebreo a essere assunto dal distaccamento di Sitka dell'FBI, il suo primo direttore distrettuale, e infine, fattosi notare da Hoover in persona, il primo a dirigere il programma di controspionaggio della regione. Il padre di Meyer Landsman giocava a scacchi. Ogni mattina, con la pioggia, con la neve e con la nebbia, si faceva a piedi i due chilometri fino al caffè dell'Hotel Einstein, si sedeva a un tavolino con il ripiano d'alluminio in fondo alla sala, rivolto verso la porta, e tirava fuori una piccola scacchiera con i pezzi in acero e ciliegio regalatagli dal cognato. Ogni sera si sedeva al suo tavolino sul retro della piccola casa di Adler Street in cui crebbe Meyer Landsman, a Halibut Point, per studiarsi le otto o nove partite per corrispondenza che aveva costantemente in corso. Scriveva annotazioni per la «Rivista degli scacchi». Rivedeva una biografia di Tartakower che non terminò né abbandonò mai del tutto. Riscuoteva una pensione dal
governo tedesco. E, con l'aiuto del cognato, insegnava a suo figlio a odiare il gioco che lui amava. «Non ti conviene» sentenziava puntualmente dopo che il figlio aveva spostato, con dita esangui, un cavallo o un pedone per andare incontro alla sua sorte, che agli occhi del piccolo Landsman giungeva sempre come una sorpresa, indipendentemente da quanto studiasse, si esercitasse o giocasse. «Fidati di me.» «Mi fido.» «No che non ti fidi.» Ma nel servire la sua personale, piccola infelicità, Meyer Landsman poteva anche essere ostinato. Soddisfatto, bruciante di vergogna, rimaneva a guardare il dispiegarsi del triste destino che era stato incapace di prevedere. E suo padre lo distruggeva, lo scuoiava, lo vivisezionava, osservando per tutto il tempo il figlio da dietro la veranda imbarcata del suo viso. Dopo alcuni anni di questo passatempo, Meyer Landsman si sedette alla macchina per scrivere della madre per redigere una lettera in cui confessava al padre il suo disprezzo per il gioco degli scacchi, e lo implorava di non costringerlo a giocarci mai più. Per una settimana portò la lettera con sé nella cartella, sopportando altre tre sanguinose sconfitte, quindi gliela spedì dall'ufficio postale dell'Untershtat. Due giorni dopo, Isidor Landsman si uccise, nella stanza 21 dell'Hotel Einstein, con un'overdose di Nembutal. A quel punto Landsman cominciò ad avere qualche problema. Prese a bagnare il letto, ingrassò, smise di parlare. Sua madre lo mandò in terapia da un dottore straordinariamente gentile e inetto di nome Melamed. Fu solo ventitré anni dopo la morte del padre che Landsman ritrovò la lettera fatale, in una scatola che conteneva anche una bella copia della biografia incompiuta di Tartakower. A quanto pare il padre non l'aveva mai aperta, men che meno letta. Quando il postino l'aveva consegnata era già morto.
Capitolo sei
Landsman sta inciampando nel ricordo di quei vecchi scacchisti ebrei, ingobbiti in un angolino del caffè dell'Hotel Einstein, mentre in macchina va a prendere Berko nello ShvartsnYam. Il suo orologio dice che sono le sei e un quarto del mattino. Il cielo, il viale deserto e il macigno di paura che ha nella pancia dicono che è notte fonda. All'alba, in questo posto così vicino al Circolo polare artico, mancano ancora almeno due ore. Landsman è al volante di una Chevrolet Chevelle SuperSport del 1971, comprata dieci anni prima in un accesso di ottimismo nostalgico, e guidata fino al punto in cui tutte le sue magagne segrete sono diventate indistinguibili da quelle di Landsman stesso. Nel modello del '71, la Chevelle passò da due lampadine per fanale a una sola. Attualmente, una di queste due lampadine è bruciata. Landsman avanza sul lungomare brancolando come un ciclope. Davanti a lui si ergono i palazzoni dello Shvartsn-Yam, sul loro sputo di terra artificiale in mezzo allo stretto di Sitka, avvinghiati l'uno all'altro nel buio come prigionieri radunati dal potente getto di un idrante. Sono stati gli shtarker russi a edificare lo Shvartsn-Yam, intorno alla metà degli anni Ottanta, nei primi inebrianti tempi del gioco d'azzardo legalizzato, su un interramento che sembra fatto per attirare i terremoti. Multiproprietà, case di villeggiatura e appartamenti da scapoli, con il Casinò Grand Yalta e i suoi movimentati tavoli al centro dell'azione. Ma il gioco d'azzardo legale ormai è storia, bandito dalla Legge sui Valori tradizionali, e l'edificio del casinò ospita un KosherMart, un Walgreens e un outlet Big Macher. Gli shtarker sono tornati a finanziare le lotterie illegali, le scommesse clandestine e il gioco delle tre carte. I festaioli e i villeggianti hanno lasciato spazio a una popolazione di malavitosi arricchiti, immigrati russi, con una spruzzatina di ebrei ultraortodossi e un gruppetto di bohémien
semiprofessionisti amanti dell'atmosfera di festosità decaduta che ancora aleggia nel quartiere come un festone natalizio dimenticato sul ramo di un albero spoglio. La famiglia Taytsh-Shemets vive nel Dnyeper, al ventiquattresimo piano. Il Dnyeper è rotondo come una pila di teglie da torta. Molti di quelli che ci abitano, disdegnando la bella vista sul cono collassato del monte Edgecumbe, sullo Spillone illuminato o sulle luci dell'Untershtat, hanno chiuso i loro balconi arrotondati con controfinestre e persiane, per guadagnare una stanza in più. Lo hanno fatto anche i Taytsh-Shemets, quand'è arrivato il bambino: il primo. Adesso entrambi i figli dei Taytsh-Shemets dormono lì fuori, stivati sul balcone come un paio di sci dismessi. Landsman parcheggia la SuperSport nello spazio dietro i cassonetti della spazzatura che col tempo ha finito per considerare suo, anche se qualcosa gli dice che un uomo non dovrebbe arrivare a provare sentimenti di affetto nei confronti di un parcheggio. Il semplice fatto di avere un posto in cui lasciare la macchina ventiquattro piani più in basso di un invito a colazione permanente non dovrebbe mai essere scambiato, dal cuore di un uomo, per un ritorno a casa. È in anticipo di qualche minuto sulle sei e mezza, e anche se è praticamente certo che in casa Taytsh-Shemets siano tutti svegli decide di prendere le scale. La tromba delle scale del Dnyeper puzza d'aria di mare, cavoli e cemento freddo. Arrivato in cima si accende un papiro per premiarsi dello sforzo, e si piazza sullo zerbino dei Taytsh-Shemets a far compagnia alla mezuzah. Si è quasi tossito via un polmone, e l'altro lo sta per seguire, quando Ester-Malke Taytsh viene ad aprirgli la porta. In mano stringe un test di gravidanza casalingo, con una gocciolina, sull'estremità operativa, di quella che deve essere urina. Quando si accorge che Landsman se n'è accorto, lo fa sparire disinvoltamente in una tasca dell'accappatoio. «Lo sai che abbiamo un campanello, sì?» gli dice, da dietro una tendina di capelli arruffati marroncino mattone troppo sottili per la pettinatura che sfoggia di solito. Puntualmente le si riversano sul viso, specie quando fa la spiritosa. «Comunque anche la tosse funziona.» Si allontana lasciando la porta aperta, e Landsman impalato sullo spesso zerbino di fibra di noce di cocco con la scritta FUORI DAI PIEDI. Entrando, Landsman sfiora con due dita la me-
zuzah, dopodiché se le bacia con gesto meccanico. È il gesto che fai se sei un vero credente, come Berko, oppure uno stronzetto ironico, come Landsman. Lascia cappello e cappotto accanto alla porta, su un appendiabiti fabbricato con un corno d'alce. Segue il sedere scarno di Ester-Malke, fasciato nell'accappatoio di cotone bianco, giù per il corridoio e quindi in cucina. La cucina è stretta, disposta a mo' di cambusa di nave, con fornello, lavello e frigorifero lungo una parete e gli stipetti sull'altra. In fondo c'è un banco da colazione, con due sgabelli, che dà sulla sala da pranzo-salotto. Da una piastra per waffle appoggiata su un mobile salgono riccioli di vapore, in sbuffi simili a quelli di una locomotiva da cartone animato. La caffettiera col filtro scaracchia e sputa come un poliziotto ebreo decrepito dopo dieci rampe di scale. Landsman si avvicina furtivo al suo sgabello preferito e ci si piazza accanto. Dal taschino della giacca di tweed estrae una scacchiera tascabile e la scarta. L'ha comprata dal droghiere aperto ventiquattr'ore su ventiquattro di Korczak Platz. «Il ciccione è ancora in pigiama?» chiede. «Si sta vestendo.» «E il ciccione junior?» «Gli sta scegliendo la cravatta.» «E l'altro, comesichiama?» Di fatto, il nome di quest'ultimo, per gentile concessione della recente moda di riciclare i cognomi e usarli come nomi, è Feingold Taytsh-Shemets. Loro lo chiamano Goldy. Quattro anni fa Landsman ha avuto l'onore di tenere ferme le gambette di Goldy mentre un vetusto ebreo armato di coltello se la prendeva col suo prepuzio. «Sua Maestà.» Ester-Malke risponde con un cenno della testa verso la sala da pranzo-salotto. «Ancora malato?» dice Landsman. «Oggi va un po' meglio.» Landsman gira intorno al banco da colazione, supera il tavolo da pranzo con il ripiano di vetro e raggiunge il grande divano componibile bianco per verificare che cosa sta facendo la televisione al suo figlioccio. «Guarda chi c'è» dice. Goldy ha indosso il suo pigiamino con gli orsi polari, il massimo dell'eleganza retroattiva per un bambino ebreo dell'Alaska. Orsi polari, fiocchi di neve, igloo, tutto l'immaginario nordico così onnipresente quando Landsman era bambino, è torna-
to di moda. Solo che questa volta sembra avere un significato ironico. I fiocchi di neve in questo posto gli ebrei li hanno trovati, certo, anche se grazie ai gas e all'effetto serra ora ce ne sono parecchi di meno rispetto a una volta. Ma niente orsi polari. Niente igloo. Niente renne. Più che altro solo un sacco di indiani incarogniti, nebbia e pioggia, oltre a una sensazione di aver sbagliato tutto vecchia di mezzo secolo e così intensa, così profondamente radicata nell'organismo degli ebrei che emerge ovunque, perfino sui pigiami dei loro figli. «Pronto per andare al lavoro, Goldele?» dice Landsman. Appoggia il dorso della mano sulla fronte del bambino. È perfettamente fresca. Goldy ha lo zucchetto con il cagnolino Shnapish messa di traverso, e Landsman gliela raddrizza, sistemando la molletta che la tiene ferma. «Pronto a combattere il crimine?» «Sì, zio.» Landsman fa il gesto di stringergli la mano, e senza nemmeno guardarlo Goldy fa scivolare la zampetta asciutta nel palmo della sua. Un rettangolino di luce azzurra fluttua sul film lacrimale degli occhi marrone scuro del bambino. Landsman ha già guardato questo programma con il suo figlioccio, sul canale educational. Come il novanta per cento dei programmi televisivi che guardano, anche quello viene dal Sud, e lo trasmettono doppiato in yiddish. Racconta le avventure di due bambini con nomi ebraici che dall'aspetto si direbbero mezzi indiani, e i cui genitori non si vedono mai. Possiedono una squama di drago trasparente dotata di poteri magici, che permette loro di farsi trasportare in una terra di draghi in tinte pastello, ciascuno distinguibile in base al colore e alla sua personale forma di idiozia. A poco a poco i bambini cominciano a trascorrere sempre più tempo con la loro squama di drago magica, finché un bel giorno finiscono definitivamente nella terra dell'idiozia arcobaleno e non tornano mai più, e i loro corpi vengono ritrovati dal portiere di notte del loro squallido alberghetto, entrambi con una pallottola piantata nella nuca. Forse, pensa Landsman, nella traduzione si perde qualcosa. «Vuoi ancora fare lo sbirro, da grande?» chiede Landsman. «Come papà e zio Meyer?» «Sì» risponde Goldy senza trasporto. «Altroché.» «Così mi piaci.» Si stringono di nuovo la mano. Questa conversazione è l'equivalente del bacio che Landsman ha dato alla mezuzah, il ge-
nere di abitudine che inizia per scherzo e finisce per diventare un appiglio a cui aggrapparsi. «Ti stai dando agli scacchi?» chiede Ester-Malke tornando in cucina. «Dio me ne scampi» risponde Landsman. Si piazza sullo sgabello e comincia a trafficare con i minuscoli pedoni e cavalli e re del set da viaggio, disponendoli in modo da riprodurre la partita lasciata a metà dal cosiddetto Emanuel Lasker. Fa una certa fatica a distinguere un pezzo dall'altro, ma ogni volta che ne prende uno e se lo avvicina alla faccia per guardarlo meglio, lo fa cadere. «Piantala di guardarmi in quel modo» dice a Ester-Malke, tirando a indovinare. «Non mi piace.» «Caspita, Meyer» ribatte lei guardandogli le mani. «Stai tremando.» «Stanotte non ho chiuso occhio.» «Certo.» La cosa interessante di Ester-Malke Taytsh è che prima di rimettersi a studiare, diventare assistente sociale e sposare Berko, ha avuto una breve ma prestigiosa carriera di sbandata a South Sitka. Ha un paio di reati da poco sulla fedina, un tatuaggio rinnegato sulla pancia e una protesi dentale, ricordo dell'ultimo uomo che l'ha maltrattata. Landsman la conosce da prima ancora di conoscere Berko, avendola arrestata per atti vandalici quando faceva ancora le superiori. Ester-Malke sa come trattare uno sconfitto, per intuito e abitudine, e senza l'atteggiamento di rimprovero che adotta quando ripensa alla sua giovinezza sciupata. Va al frigorifero e prende una bottiglia di Bruner Adler, la stappa e la porge a Landsman. Lui se la rigira contro le tempie provate dalla notte insonne, quindi manda giù un lungo sorso. «Allora» dice poi, sentendosi subito meglio. «Hai un ritardo?» Ester-Malke fa una smorfia colpevole e un po' teatrale, sta per recuperare il test di gravidanza, ma poi lascia la mano affondata nella tasca, stringendo il bastoncino senza tirarlo fuori. Landsman sa, perché un paio di volte hanno affrontato l'argomento, che Ester-Malke teme lui possa invidiare a lei e a Berko il loro trionfale programma di procreazione, e i due bei figli che hanno. E in effetti Landsman li invidia, a volte con risentimento. Di solito, però, quando Ester-Malke tira fuori il discorso si sforza di negarlo.
«Cazzo!» esclama, quando un alfiere gli cade per terra e rotola sotto il mobile. «Era un nero o un bianco?» «Nero. Un alfiere. Merda, e adesso chi lo recupera da lì?» Ester-Malke si avvicina alle mensole con i barattoli delle spezie, si stringe la cintura dell'accappatoio e valuta le opzioni. «Ecco» dice. Prende un barattolino di decorazioni di cioccolato a forma di bastoncino, svita il coperchio, se ne fa cadere una sul palmo e la porge a Landsman. «Usa questa.» Landsman si inginocchia per terra accanto al mobile. Recupera l'alfiere perduto e riesce a rimetterlo nel suo buchetto in h6. Ester-Malke ripone il barattolo sulla mensola, quindi affonda di nuovo la mano destra nei misteri della tasca dell'accappatoio. Landsman mangia il pezzetto di cioccolato. «Berko lo sa?» chiede. Ester-Malke scuote la testa, nascosta dai capelli. «Tanto è un falso allarme» dice. «Ufficialmente falso?» Ester-Malke fa spallucce. «Il test non lo guardi?» «Ho paura.» «Paura di che?» dice Berko spuntando sulla porta della cucina con il piccolo Pinchas Taytsh-Shemets - Pinky, inevitabilmente - adagiato nell'incavo del braccio destro. Un mese fa hanno fatto una festa per il bambino, con una torta e una candela. Perciò, riflette Landsman, il terzo Taytsh-Shemets, ammesso che esista, arriverà qualcosa come ventuno o ventidue mesi dopo il secondo. E sette mesi dopo la Restituzione. A sette mesi dall'avvento del mondo ignoto che li aspetta. Un altro piccolo prigioniero della storia e del destino, un altro potenziale Messia - perché di Messia, sostengono gli esperti, ne nasce uno ogni generazione - a gonfiare le vele della folle caravella di sogni del profeta Eliyahu. Ester-Malke sfila la mano dalla tasca, senza il test di gravidanza, quindi lancia a Landsman un segnale nel codice di South Sitka, inarcando un sopracciglio. «Paura di sapere che cosa ho mangiato ieri sera» interviene Landsman. Poi, per creare un diversivo, tira fuori dall'altra tasca della giacca la copia di Lasker di Trecento partite di scacchi e la posa sul banco accanto alla scacchiera. «Questa c'entra col tuo tossico morto?» chiede Berko adocchiando la scacchiera.
«Emanuel Lasker» dice Landsman. «Ma è solo il nome con cui si era registrato. Non abbiamo trovato nessun documento di identità. Non sappiamo chi fosse, per il momento.» «Emanuel Lasker. Ho come la sensazione di conoscere questo nome.» Berko si infila di traverso nella cucina in pantaloni e maniche di camicia. I pantaloni sono di lana merinos grigio erica con le pinces, la camicia è bianca a righine bianche. Al collo, chiusa da un bel nodo, porta una cravatta blu scuro con una fantasia di macchioline arancioni. Cravatta molto lunga, pantaloni comodi e sorretti da bretelle messe a dura prova dalla curva ampia della pancia. Sotto la camicia indossa lo scialle rituale con le frange, e ha uno yarmulke azzurro impeccabile posato sul cespuglio nero lucido dietro la testa, ma sul mento la barba non gli cresce. Sui menti dei maschi del ramo materno della sua famiglia non esiste traccia di barba, e questo probabilmente fin dai tempi in cui secondo gli indiani il Corvo ha creato ogni cosa (a parte il sole, quello l'ha rubato). Berko è un ebreo praticante, ma a modo suo, e per ragioni tutte sue. Berko Shemets è un minotauro, e il mondo degli ebrei il suo labirinto. Berko Shemets andò a vivere con i Landsman, in Adler Street, nel tardo pomeriggio di un giorno di tarda primavera del 1981, un gigantesco ragazzino dinoccolato, noto, nella Casa dei Mostri marini del ramo del Corvo della tribù dei Lunghi Capelli, come Johnny Orso «l'ebreo». Quel pomeriggio, nei suoi stivali mukluk, misurava un metro e settantacinque per tredici anni d'età, tre centimetri scarsi in meno di Landsman a diciott'anni. Fino a quel momento nessuno aveva mai parlato di quel ragazzino a Landsman o a sua sorella. E adesso avrebbe dormito nella camera da letto che un tempo era servita al padre di Meyer e Naomi come bottiglia di Klein per le giravolte notturne della sua insonnia. «E tu chi cavolo sei?» gli chiese Meyer Landsman, mentre il ragazzino sgattaiolava via in salotto, torcendosi in mano un cappello con la visiera, incassando tutto con quel suo sguardo scuro che consumava ogni cosa. Hertz e Freydl erano davanti a casa che si gridavano addosso. Evidentemente lo zio di Landsman aveva trascurato di far sapere alla sorella che suo figlio sarebbe andato a vivere a casa loro. «Mi chiamo Johnny Orso» disse Berko. «Faccio parte del Gruppo Shemets.»
Hertz Shemets ancora oggi è un rinomato esperto di arte e artigianato tlingit. In passato questo hobby o passatempo lo ha portato a spingersi più lontano e più addentro alle IndianerLands di qualsiasi altro ebreo della sua generazione. E quindi sì, i suoi studi sulla cultura nativo-americana, i suoi viaggi nelle terre degli indiani, erano effettivamente una copertura per il lavoro di intelligence che svolgeva negli anni Sessanta. Ma non solo una copertura. Hertz Shemets era attratto dallo stile di vita indiano. Imparò ad arpionare una foca con un gancio d'acciaio, nell'occhio, e a uccidere e sezionare un orso, e ad apprezzare l'aroma del grasso di pesce-candela quanto quello dello shmaltz, il grasso d'oca che si usa in cucina. E diede un figlio alla signorina Laurie Jo Orso di Hoonah. Quando quest'ultima rimase uccisa nel corso della cosiddetta «rivolta della sinagoga», suo figlio, per metà ebreo, oggetto di tormento e disprezzo nel ramo del Corvo, andò a chiedere aiuto al padre, che conosceva appena. Fu una Zwischenzug, una mossa inaspettata nel bel mezzo del regolare svolgimento della partita. Lo zio Hertz ne rimase spiazzato. «Che cosa vuoi fare, mandarlo via?» gridò alla madre di Meyer Landsman. «Laggiù gli stanno rendendo la vita un inferno. Sua madre è morta. Uccisa dagli ebrei.» Erano stati undici i nativi dell'Alaska uccisi durante la sollevazione seguita all'attacco incendiario di un luogo di preghiera che un gruppo di ebrei aveva costruito in territorio conteso. Esistono tasche, in queste piccole isole, dove la mappa tracciata da Harold Ickes si sfalda e cede, tratti di confine che si sfilacciano in sequenze di punti. Perlopiù sono zone troppo remote o montagnose per viverci, ghiacciate o sommerse per tutto l'anno. Ma alcune di queste aree di intersezione, terreni di prima qualità, pianeggianti e dal clima più mite, si sono rivelate nel corso degli anni irresistibili per gli ebrei, che qui sono milioni. Gli ebrei vogliono spazi vivibili. Negli anni Settanta alcuni di loro, principalmente membri di piccole sette ortodosse, hanno cominciato a prenderseli. La costruzione della casa di preghiera a St. Cyril, a opera dell'ala scissionista di un'ala scissionista di una setta della penisola di Lisianski, per molti nativi è stata lo schiaffo finale. Fu accolta con manifestazioni di protesta, cortei, proclami di avvocati, e da un cupo tuonare del Congresso contro l'ennesimo affronto alla pace e all'uguaglianza da parte di quegli esosi degli
ebrei del Nord. Due giorni prima della consacrazione, qualcuno - nessuno rivendicò mai, né fu accusato - lanciò una doppia molotov dentro una finestra, bruciando l'edificio fino alle fondamenta di calcestruzzo. I fedeli e i loro sostenitori sciamarono nella cittadina di St. Cyril, sfasciando le gabbie per i granchi, fracassando le finestre della sede della Confraternita dei nativi dell'Alaska, e appiccando uno spettacolare incendio a un capannone pieno di fuochi d'artificio. Il conducente di un camion carico di ebrei arrabbiati perse il controllo del volante e andò a schiantarsi contro il negozio di alimentari dove Laurie Jo lavorava come responsabile degli acquisti, uccidendola sul colpo. La «rivolta della sinagoga» resta il momento più basso nella triste e ignominiosa storia delle relazioni tra tlingit ed ebrei. «È colpa mia? È un mio problema?» ribatté urlando la madre di Meyer Landsman. «Mi ci manca solo di prendere un indiano a vivere in casa mia!» I bambini stettero ad ascoltarli per un po'. Johnny Orso, in piedi sulla porta, batteva la punta degli stivali contro la sua cartella. «Meno male che non parli yiddish» disse Meyer Landsman a quel ragazzino più piccolo di lui. «Non ho bisogno di capire, testa di cazzo» rispose Johnny l'ebreo. «È tutta la vita che sento questo genere di insulti, posso immaginarli.» Una volta risolta la questione - che era già stata risolta prima ancora che la madre di Landsman attaccasse a gridare - Hertz entrò in casa a congedarsi. Suo figlio lo superava di cinque centimetri. Quando Hertz lo strinse in un breve, rigido abbraccio, fu come vedere la poltroncina laterale abbracciare il divano. Poi se ne andò. «Mi dispiace, John» disse. Afferrò il figlio per le orecchie e lo strinse forte. Gli scrutò il viso come un telegramma. «Voglio che tu lo sappia. Non voglio che un giorno, guardandomi, tu possa pensare che non mi sia dispiaciuto.» «Io voglio vivere con te» rispose il ragazzino con tono inespressivo. «Me l'hai già detto.» Le parole erano dure, il fare cinico, eppure di colpo - Meyer Landsman ne rimase scioccato - gli occhi dello zio Hertz luccicarono di lacrime. «Io sono un figlio di puttana, John, lo sanno tutti. Con me staresti peggio che a vivere per strada.» Perlustrò con lo sguardo il salotto della sorella,
le fodere di plastica sui mobili, gli oggetti d'arte come filo spinato, la menorah astratta. «Dio solo sa cosa ti faranno diventare, qui.» «Un ebreo» disse Johnny Orso, e fu impossibile stabilire se lo intendesse come un vanto o un presagio di rovina. «Come te.» «La vedo dura» disse Hertz. «Anche se mi piacerebbe. Ciao, John.» Diede una carezza sulla testa alla piccola Naomi. Un attimo prima di uscire si fermò a stringere la mano a Meyer Landsman. «Aiuta tuo cugino, Meyerle, ne avrà bisogno.» «A me sembra che se la cavi benissimo da solo.» «Sì, vero?» ribatté lo zio Hertz. «Almeno in questo mi somiglia.» E adesso Ber Shemets, come col tempo ha preso a farsi chiamare, vive come un ebreo, porta lo zucchetto rituale e lo scialle sotto i vestiti come un ebreo. Ragiona da ebreo, prega da ebreo, fa da padre ai suoi figli e ama sua moglie e rende servizio alla comunità come un ebreo. Snocciola le sue teorie parlando con le mani, osserva i precetti kasher e sfoggia sul pene un taglio di sbieco (aveva provveduto personalmente suo padre prima di abbandonare il piccolo Orso). Ma fisicamente è tlingit al cento per cento. Occhi tartari, capelli neri e folti, viso largo fatto per esprimere gioia ma educato all'arte del dolore. Gli Orsi sono gente grande e grossa: Berko è alto due metri senza scarpe, e pesa centodieci chili. Ha la testa grande, i piedi grandi, la pancia e le mani grandi. Tutto in lui è grande, meno il bambino che ha in braccio, e che sorride timido a Landsman con la sua zazzera di capelli neri crespi che se ne stanno dritti come limatura di ferro magnetizzata. Bello come il sole, sarebbe il primo a riconoscere Landsman, non fosse che a distanza di un anno la vista di Pinky riesce ancora a provocargli una fitta dietro lo sterno. Pinky è nato a due anni esatti dalla data prevista per la nascita di Django, il 22 settembre. «Emanuel Lasker era uno scacchista di fama» comunica a Berko, che prende una tazza di caffè da Ester-Malke e fissa accigliato il vapore che ne sale. «Un ebreo tedesco. A cavallo degli anni Venti.» Landsman ha trascorso l'ora tra le cinque e le sei del mattino davanti al suo computer nella sala operativa deserta del commissariato, cercando di rimediare qualche infor-
mazione. «Un matematico. Ha perso con Capablanca, come tutti quelli della sua epoca. Il libro era nella stanza. Insieme a una scacchiera, con i pezzi disposti in questo modo.» Berko ha le palpebre pesanti, espressive, dall'aria un po' pesta, e quando le cala su quei suoi occhi sporgenti il risultato è come il fascio di luce di una torcia che filtra da una fessura, uno sguardo così freddo e scettico da spingere uomini innocenti a dubitare dei propri alibi. «E tu senti» dice, lanciando un'eloquente occhiata alla bottiglia di birra che Landsman stringe in mano, «che la disposizione dei pezzi sulla scacchiera... cosa?» La fessura si fa più stretta, il fascio di luce più intenso. «Contiene in codice il nome dell'assassino?» «Sì, nell'alfabeto di Atlantide» dice Landsman. «Ah, ah.» «L'ebreo giocava a scacchi. E usava i tefillin a mo' di laccio emostatico. E qualcuno l'ha fatto fuori in modo molto meticoloso e discreto. Non so. Forse la storia degli scacchi non c'entra. Non riesco a cavarne niente. Ho sfogliato tutto il libro, ma non sono riuscito a capire che tipo di partita stesse giocando. Ammesso che ne stesse giocando una. Tutti quei diagrammi, non so... a guardarli mi viene il mal di testa. Mi viene il mal di testa anche solo a guardare la scacchiera, maledizione.» La voce di Landsman suona in tutto e per tutto cupa e disperata come si sente lui, il che non era affatto nelle sue intenzioni. Berko lancia un'occhiata al di sopra della testa di Pinky verso la moglie, per capire se è davvero il caso di preoccuparsi per Landsman. «Senti un po', Meyer. Se posi quella birra» dice Berko, cercando invano di non suonare come un poliziotto, «ti faccio prendere in braccio questo bambino. Che ne dici? Guardalo. Guarda che belle cosciotte che ha. Non puoi non dargli una strizzatina. Metti giù quella birra, okay? E prendi un po' in braccio questo bel bambino.» «È bello, sì» dice Landsman. Fa fuori altre due dita di birra. Poi posa la bottiglia, e senza aggiungere altro prende il bambino, lo annusa, e come sempre gli fa male al cuore. Pinky odora di yogurt e sapone da bucato. Un'ombra del dopobarba di suo padre. Landsman se lo porta sulla soglia della cucina cercando di non inspirare, e intanto guarda Ester-Malke che stacca un foglio di waffle dalla piastra. La piastra è una Westinghouse vec-
chio modello, con i manici in bachelite a forma di foglia. Può sparare fuori quattro waffle croccanti alla volta. «Li hai fatti col latticello?» chiede Berko, che nel frattempo ha preso a studiare la scacchiera passandosi un dito sul grosso labbro superiore. «Conosci un'altra ricetta?» «Ma latticello vero oppure latte con aceto?» «Abbiamo già fatto la prova due volte, Berko.» Ester-Malke porge a Landsman un piatto di waffel in cambio del figlio più piccolo, e anche se non gli va di mangiare Landsman è felice dello scambio. «Tu la differenza non la senti, ricordi?» «Be', se è per questo non sa nemmeno giocare a scacchi» interviene Landsman. «Ma guarda come finge bene.» «Fottiti, Meyer» dice Berko. «Okay, ora seriamente: qual è il pezzo importante?» Quando Berko andò a vivere con Landsman e sua madre la mania famigliare per gli scacchi si era esaurita, oppure aveva reindirizzato le sue energie. Isidor Landsman era morto da sei anni, e Hertz Shemets aveva trasferito il suo talento per le finte e per l'attacco su una scacchiera molto più grande. Ciò voleva dire che non c'era nessun altro che potesse insegnare il gioco a Berko se non Landsman, compito che Landsman trascurava meticolosamente. «Burro?» chiede Ester-Malke. Versa un po' di pastella fresca nelle cellette della piastra, intanto che Pinky, appoggiato contro il suo fianco, le offre consigli non richiesti. «Niente burro.» «Sciroppo?» «Niente sciroppo.» «Tu in realtà non hai voglia di waffle, vero Landsman?» dice Berko. Smette di fingere di studiare la scacchiera e passa al volume di Siegbert Tarrasch, come se fosse in grado di raccapezzarcisi. «Sinceramente no» dice Landsman. «Ma so che dovrei.» Ester-Malke abbassa il coperchio della piastra sul reticolo di pastella. «Sono incinta» dice con tono lieve. «Cosa?» dice Berko, alzando la testa dal libro delle sorprese organizzate. «Cazzo!» Lo dice in americano, la lingua che Berko predilige quando deve imprecare o aggredire. Comincia a lavorarsi il chewing gum immaginario che puntualmente sem-
bra spuntargli in bocca ogni volta che sta per esplodere. «Fantastico, Es. Davvero fantastico, sai? Sì, perché tanto in casa era rimasto ancora un cazzo di cassetto della scrivania senza un bambino dentro!» Poi solleva Trecento partite di scacchi sopra la testa e si prepara, in modo plateale, a lanciarlo al di là del banco nella sala da pranzo-salotto. È lo Shemets in lui che viene fuori. Anche la madre di Landsman era un'esperta nello scagliare oggetti in preda alla rabbia, e le istrioniche scenate dello zio Hertz, solitamente imperturbabile, sono rare ma leggendarie. «È una prova per le indagini» gli ricorda Landsman, e Berko alza il libro un altro po', e Landsman dice: «È una prova, cazzo!» e Berko lo lancia. Il libro si dibatte nell'aria, in un frullare di pagine, quindi colpisce qualcosa che tintinna, probabilmente il barattolo portaspezie d'argento sul ripiano di vetro del tavolo da pranzo. Il bambino spinge in fuori il labbro inferiore, poi lo spinge un altro po', quindi esita, spostando lo sguardo dalla madre al padre e di nuovo alla madre. Infine scoppia in singhiozzi desolati. Berko lo fulmina con un'occhiata, come se si sentisse tradito. Gira intorno al banco per andare a recuperare il reperto bistrattato. «Che cosa ha fatto Tateh?» dice Ester-Malke al bambino, baciandogli una guancia e guardando in cagnesco il grande buco dai bordi anneriti che Berko si è lasciato dietro nell'aria. «Quel cattivone del detective supermacho ha lanciato uno stupido libro vecchio, eh?» «Buono, il waffle» dice Landsman posando il piatto intatto. Poi, parlando più forte: «Berko, io... ehm, mi sa che ti aspetto giù in macchina». Sfiora al volo la guancia di Ester-Malke con le labbra. «Di' a comesichiama che zio Meyerle lo saluta.» Landsman esce sul pianerottolo, dove il vento fischia nella tromba degli ascensori. Il vicino, Fried, esce di casa nel suo lungo cappotto nero, con i capelli bianchi pettinati all'indietro che gli si arricciano all'altezza del colletto. Fried è un cantante lirico, e i Taytsh-Shemets hanno l'impressione che lui li guardi dall'alto in basso. Ma solo perché una volta Fried gli ha detto che è migliore di loro. I sitkanik sono soliti avere questo tipo di opinione sul loro prossimo, specie se è un nativo americano o vive nel Sud. Fried e Landsman prendono l'ascensore insieme. Fried chiede a Landsman se ultimamente ha trovato qualche cadavere, e Landsman chiede a Fried se ultimamente ha fatto
rivoltare qualche compositore morto nella tomba, dopodiché non dicono più nulla. Landsman torna dove ha posteggiato e sale in macchina. Mette in moto e resta seduto nel calore che dal motore soffia nell'abitacolo. Con l'odore di Pinky sul colletto e il fantasma fresco e asciutto della mano di Goldy nella sua, gioca in porta contro una squadra di inutili rimpianti che sferra un attacco a tutto campo contro la sua capacità di arrivare a fine giornata senza provare assolutamente nulla. Scende dalla macchina e si fuma un papiro sotto la pioggia. Rivolge lo sguardo a nord, oltre la marina, verso lo spuntone di alluminio ricurvo sulla sua isoletta spazzata dal vento. Per l'ennesima volta prova un'intensa nostalgia per la Fiera, per quell'eroica opera di ingegneria ebraica che è lo Spillone (ufficialmente la Torre della Promessa di rifugio, ma nessuno la chiama così), e per la scollatura della signora in uniforme che strappava il biglietto sull'ascensore con cui si saliva al ristorante in cima allo Spillone. Monta in macchina. Di lì a qualche minuto Berko esce dal palazzo, e marziale come una grancassa raggiunge la SuperSport. In mano ha il libro e la scacchiera tascabile, e se li appoggia sulla coscia sinistra. «Scusa per prima» dice. «Sono proprio un coglione, eh?» «Non ti preoccupare.» «Troveremo una casa più grande e stop.» «Appunto.» «Da qualche parte.» «È quella la fregatura.» «La benedizione, vorrai dire.» «Puoi dirlo. Mazel tov, Berko.» Le congratulazioni di Landsman sono così ironiche da essere sincere, e così sincere da suonare false, e lui e il suo collega rimangono seduti lì per un po', senza andare da nessuna parte, ad ascoltarne l'eco che si rapprende nell'aria. «Ester-Malke dice che è così stanca che non ricorda nemmeno di aver fatto sesso con me» dice Berko, con un sospiro profondo. «Forse tu non c'entri.» «Un miracolo, quindi. Come la gallina parlante da quel macellaio.» «Esatto.» «Un segno e un presagio.» «Anche questa è un'interpretazione.»
«A proposito di segni» dice Berko. Apre la copia di Trecento partite di scacchi sottratta tanto tempo fa dalla biblioteca civica di Sitka, e sfila la scheda di prestito dalla tasca. Landsman vede che dietro la scheda c'è una fotografia, un'istantanea a colori otto per tredici, lucida e col bordino bianco. Raffigura un cartello, un rettangolo di plastica nero su cui sono stampate cinque lettere bianche in caratteri latini, con sotto una freccia bianca che punta a sinistra. Il cartello è appeso con due pezzi di catena sottile a un riquadro bianco sporco di materiale isolante del soffitto. «TORTE» legge Landsman. «A quanto pare è caduta fuori durante il mio energico esame del reperto» dice Berko. «Ho pensato che dovesse essere infilata nella tasca della scheda, altrimenti il tuo occhio clinico di shammes l'avrebbe notata. Lo riconosci?» «Sì» risponde Landsman. «Lo conosco.» All'aeroporto che serve la rude cittadina settentrionale di Yakovy - il terminal da cui, se sei un ebreo in cerca di modeste avventure, parti per i modesti boschi del distretto - sperduto in fondo all'edificio principale c'è un negozietto che vende torte, e soltanto torte, all'americana. È poco più di una finestrella, che si affaccia su una cucina equipaggiata con cinque forni luccicanti. Accanto alla finestrella c'è una lavagnetta bianca, e tutti i giorni i proprietari - un'ostile coppia del Klondike con una figlia misteriosa - scrivono la lista del giorno: more, mele e rabarbaro, pesche, crema pasticciera e banane. Le loro torte sono buone, perfino famose a modo loro. Chiunque sia passato per l'aeroporto di Yakovy le conosce, e si vocifera che certi vengano in aereo da Juneau o da Fairbanks espressamente per mangiarle. La sorella di Landsman amava in particolar modo quella alla crema e cocco. «Allora» dice Berko. «Che ne pensi?» «Ne ero certo» risponde Landsman. «La prima cosa che ho pensato entrando nella stanza e vedendo Lasker steso lì è stata: Landsman, vedrai che dietro questo caso c'è una sporca faccenda di torte.» «Quindi per te non significa niente.» «Non c'è niente che non significhi niente» ribatte Landsman, sentendosi di colpo intasato, con la gola gonfia, gli occhi che bruciano di lacrime. Forse è il debito di sonno, o il troppo tempo trascorso in compagnia del bicchiere. O forse è l'immagine
improvvisa di Naomi, appoggiata a una parete accanto a quell'anonimo e inspiegabile negozietto di torte, che divora una fetta di torta al cocco da un piattino di carta con una forchetta di plastica, gli occhi chiusi, le labbra arricciate e striate di bianco, intenta a gustarsi estaticamente un boccone di panna, sfoglia e crema pasticciera, con foga profonda e animalesca. «Cazzo, Berko. Quanto vorrei una di quelle torte adesso.» «Stavo pensando la stessa cosa» dice Berko.
Capitolo sette
Da ventisette anni il commissariato centrale di Sitka ha temporaneamente sede in undici prefabbricati situati in un terreno vuoto dietro il vecchio orfanotrofio russo. Corre voce che i suddetti prefabbricati inizialmente ospitassero un college specializzato in studi biblici a Slidell, in Louisiana. Sono privi di finestre, hanno soffitti bassi e un'aria fragile, angusta. Stipati nel modulo della Omicidi, il visitatore trova una reception, un ufficio per ciascuno dei due detective capi, un piccolo gabinetto con doccia e lavandino, una sala operativa (quattro cubicoli, quattro sedie, quattro telefoni, una lavagna e una fila di scomparti per la posta), uno stanzino per gli interrogatori e una saletta per le pause. Quest'ultima è dotata di una caffettiera e di un piccolo frigorifero. Da molto tempo ospita anche una fiorente colonia di spore, che in un passato remoto si sono evolute spontaneamente acquisendo la forma e l'aspetto di un divanetto a due posti. Ma quando Landsman e Berko parcheggiano la macchina nello spiazzo di ghiaia davanti al modulo della Omicidi, due custodi filippini stanno trascinando fuori di peso il fungo mostruoso. «Ora riesce anche a muoversi» dice Berko. Da anni varie persone minacciano di sbarazzarsi del divanetto, ma per Landsman è ugualmente uno shock vederlo finalmente in partenza. Al punto che impiega un paio di secondi prima di registrare la presenza della donna in piedi accanto ai gradini dell'ingresso. Regge un ombrello e indossa un parka arancione acceso con un cappuccio bordato di pelliccia sintetica di un verde eclatante. Ha il braccio destro sollevato, l'indice puntato verso i bidoni della spazzatura, come un dipinto dell'angelo Michele che caccia Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre. Una ciocca a cavatappi di capelli rossi le è sfuggita dal cappuccio bordato di pelliccia verde e ciondola davanti al viso. È un suo problema cronico. Quando si china a esaminare una macchia
sospetta sul pavimento del luogo di un delitto, o quando osserva una foto alla lente di ingrandimento, immancabilmente deve soffiare via quella ciocca di capelli, con uno sbuffo stizzito, dal campo visivo. Ora, mentre Landsman spegne il motore, ha preso a guardare in cagnesco la SuperSport. Abbassa la mano additatrice. Da quella distanza, Landsman ha l'impressione che alla signora non farebbero male tre o quattro tazze di caffè forte, e che stamane qualcuno l'abbia già fatta incazzare una volta, o forse due. Landsman è stato sposato con lei per dodici anni, e per cinque ha lavorato nella stessa Sezione Omicidi. È sensibile ai suoi piccoli sbalzi d'umore. «Dimmi che non ne sapevi nulla» dice a Berko spegnendo il motore. «Non ne so nulla ancora adesso» risponde Berko. «Spero solo che chiudendo gli occhi e riaprendoli scoprirò che non è vero.» Landsman ci prova. «Macché» dice con rammarico, dopodiché scende dalla macchina. «Dacci un minuto.» «Prego, tutto il tempo che volete.» Per attraversare lo spiazzo di ghiaia Landsman ci mette dieci secondi. Per i primi tre Bina sembra felice di vederlo e nei successivi due assume un'aria ansiosa e adorabile. Gli ultimi cinque secondi li impiega mettendo a punto l'espressione di chi è pronta ad attaccar briga con Landsman, se è questo che vuole. «Cosa cazzo...?» dice Landsman, che detesta deluderla. «Due mesi di ex moglie» risponde Bina. «Dopo, chi lo sa.» Concluso il divorzio, Bina si è spostata al Sud per un anno, iscrivendosi a una specie di corso di formazione dirigenziale per detective femmine. Tornando, ha accettato il prestigioso incarico di detective capo presso la Sezione Omicidi di Yakovy. Lì ha mietuto successi e soddisfazioni indagando sulle morti per ipotermia di pescatori di salmone disoccupati tra i canali fognari dell'isola Chichagof, la Venezia del Northwest. Landsman non la vede dal funerale di sua sorella, e dallo sguardo compassionevole che Bina lancia al vecchio telaio scassato della sua macchina si rende conto di aver ulteriormente disceso la china. «Non sei contento di vedermi, Meyer?» gli chiede lei. «Non dici niente del mio parka?»
«È davvero molto arancione» risponde Landsman. «Da queste parti è importante essere visibili» ribatte lei. «Nei boschi. Altrimenti pensano che sei un orso e ti sparano.» «Il colore ti dona» dice Landsman quasi senza accorgersene. «Si intona agli occhi.» Bina accetta il complimento come se fosse una lattina di bibita che sospetta sia stata agitata. «Quindi sei sorpreso» dice a Landsman. «Lo sono.» «Non hai sentito di Felsenfeld?» «È Felsenfeld. Cosa vuoi che abbia sentito?» Ricorda che Shpringer gli ha fatto la stessa domanda la sera prima, e l'intuizione lo colpisce con un'intensità degna dell'uomo che ha catturato Podolsky, il killer dell'ospedale. «Felsenfeld se n'è andato.» «Ha restituito il distintivo due sere fa. Ieri sera è partito per Melbourne, in Australia. Ci vive la sorella della moglie.» «E io adesso dovrei lavorare per te?» Sa che non può essere stata un'idea di Bina, ma per lei il passaggio, anche se è solo per due mesi, indubbiamente costituisce una promozione. Eppure non riesce a credere che Bina possa aver permesso una cosa del genere, che sia in grado di sopportarla. «Non è possibile.» «Oggigiorno tutto è possibile» dice Bina. «L'ho letto sul giornale.» Poi tutt'a un tratto le pieghe sul viso di Bina si distendono, e Landsman capisce quanto sforzo le costa ancora adesso stargli vicino, e quanto si sente sollevata quando Berko Shemets si avvicina. «Ora sì che ci siamo proprio tutti!» esclama Bina. Voltandosi, Landsman si trova il collega alle spalle. Berko possiede una notevole capacità di muoversi di soppiatto, che lui naturalmente riconduce ai propri antenati indiani. Landsman la attribuisce invece a un intenso esercizio di tensione superficiale, al modo in cui gli enormi piedi di Berko, simili a racchette da neve, deformano il suolo. «Ma guarda un po'» dice Berko con fare cordiale. Dalla prima volta che Landsman ha portato Bina a casa, lei e Berko hanno sempre condiviso «una certa opinione in merito a», «un punto di vista su», «una bella risata alle spalle di Landsman», il simpatico brontolone che nell'ultima vignetta di una striscia a
fumetti appare con in faccia il giglio nero di un sigaro esploso, il cui mozzicone gli si affloscia in bocca. Bina gli tende la mano, e se la stringono. «Bentornata, detective Landsman» la saluta Berko un po' impacciato. «Ispettore» lo corregge Bina. «E il mio cognome è di nuovo Gelbfish.» Berko rimescola cauto la mano di informazioni che Bina gli ha appena servito. «Chiedo scusa» dice. «Piaciuta, Yakovy?» «Abbastanza.» «Posto divertente?» «Non saprei proprio.» «Conosciuto qualcuno?» Bina scuote la testa, arrossisce un po', poi un po' di più, al pensiero di essere arrossita. «Lavoravo e basta» dice. «Mi conosci.» La rosea massa inzuppata del vecchio divanetto scompare dietro l'angolo del prefabbricato, e Landsman vive un altro istante di profonda intuizione. «Stanno arrivando le pompe funebri» dice. Intende la taskforce di transizione inviata dal ministero dell'Interno statunitense, la testa di ponte della Restituzione, gli uomini che verranno a vigilare le operazioni e a preparare il cadavere per la sepoltura nel cimitero della storia. È un anno o giù di lì che mormorano il loro Kaddish burocratico su ogni settore burocratico del distretto, facendo inventari e dispensando consigli. Gettando le fondamenta, immagina Landsman, perché, quando tutto infine andrà a quel paese e scoppieranno i casini, la colpa possa essere credibilmente scaricata sugli ebrei. «Un certo Spade» dice Bina. «Arriverà lunedì in giornata. Al più tardi martedì.» «Felsenfeld» dice Landsman disgustato. Tipico di lui andarsene alla chetichella tre giorni prima che uno shomer delle pompe funebri venga a bussare alla porta. «Possa avere un anno nero.» Altri due custodi escono rumorosamente dal prefabbricato, trasportando la raccolta pornografica della divisione e una sagoma a grandezza naturale del presidente degli Stati Uniti, con la fossetta nel mento, l'abbronzatura da golfista, l'aria spocchiosa indossata con la disinvoltura di un quarterback. I detective
amano far indossare al presidente di cartone mutandine di pizzo, e bersagliarlo di pezzetti di carta igienica fradicia. «È ora di prendere le misure per la bara del commissariato» dice Berko, guardandolo allontanarsi. «Tu non hai la più pallida idea» dice Bina, e di colpo Landsman capisce, dal filo scuro che le corre nella voce, che sta cercando di trattenere, e con parecchio sforzo, una corposa quantità di pessime notizie. Poi Bina dice: «Venite dentro, ragazzi», e il suo tono è quello di qualunque altro superiore a cui Landsman abbia mai dovuto obbedire. Un attimo fa l'idea di dover lavorare agli ordini della sua ex moglie anche solo per due mesi non sembrava immaginabile, ma vedere il modo in cui Bina indica il prefabbricato con un cenno della testa e ordina loro di entrare gli dà motivo di sperare che i sentimenti che prova per lei - non che ne provi ancora, naturalmente - possano dissolversi nel grigio universale della disciplina. In linea con la tradizione classica del fuggiasco, l'ufficio è esattamente come Felsenfeld l'ha lasciato: fotografie, piante in vaso mezze morte, bottiglie d'acqua gassata sullo schedario, accanto a un flacone formato famiglia di gomme da masticare contro l'acidità di stomaco. «Sedetevi» dice Bina, girando intorno alla scrivania d'acciaio gommato e mettendosi a sedere con quieta determinazione. Butta indietro il parka arancione, scoprendo pantaloni di lana marroncino polvere e una camicia oxford bianca, una tenuta molto più conforme al concetto che secondo Landsman Bina ha dell'abbigliamento. Cerca invano di non osservare il modo in cui i suoi seni pesanti, di cui ancora adesso Landsman riesce a proiettare ogni singolo neo e lentiggine sul planetario della sua fantasia come se fossero costellazioni, premono contro l'apertura e i taschini della camicia. Lui e Berko appendono i cappotti ai ganci dietro la porta, e tengono i cappelli in mano. Prendono ciascuno una delle sedie rimaste. Nelle fotografie, la moglie e i figli di Felsenfeld hanno la stessa aria insignificante dell'ultima volta che Landsman li ha guardati. Il salmone e l'halibut appaiono ancora stupiti di ritrovarsi morti e appesi alla canna da pesca di Felsenfeld. «Okay, ragazzi. Vediamo di capirci» dice Bina. È una donna che sa correre rischi e prendere il toro per le corna. «Tutti quanti ci rendiamo conto che la situazione è strana. Sarebbe già abbastanza strana se fossimo semplicemente in squadra insie-
me. Ma il fatto che uno di voi due una volta fosse mio marito, e l'altro... be', mio cugino... che cazzo.» Le ultime due parole le pronuncia in un americano impeccabile, così come le cinque successive. «Non so se mi spiego.» Fa una pausa, e sembra aspettarsi una risposta. Landsman si gira a guardare Berko. «Il cugino eri tu, vero?» Bina sorride per fargli capire che non lo trova spiritoso. Allunga un braccio dietro la schiena e recupera da sopra lo schedario un paio di cartellette azzurre, ciascuna spessa quasi due centimetri, entrambe etichettate con una strisciolina di plastica rosso sciroppo per la tosse. Vedendole, il cuore di Landsman ha un tuffo, proprio come quando ha la sfortuna di incrociare il suo sguardo in uno specchio. «Vedete queste?» «Sì, ispettore Gelbfish» dice Berko, con un tono insolitamente fasullo. «Le vedo.» «E sapete cosa sono?» «Io so solo che non possono essere i nostri casi ancora aperti» dice Landsman. «Tutti impilati sulla tua scrivania.» «Una cosa buona di Yakovy?» dice Bina. I due si preparano al resoconto di viaggio del loro capo. Che dice: «La pioggia. Cinquecento millimetri all'anno. Lava via la voglia di ridere dagli spiritosoni. Perfino da quelli ebrei». «È un sacco di pioggia» dice Berko. «Adesso ascoltatemi. E molto attentamente, per favore, perché adesso parlerò difficile. Tra due mesi uno sceriffo americano entrerà in quest'ufficio dimenticato da Dio, con il suo completino preso in saldo e la parlata da catechista, e mi chiederà di consegnargli le chiavi dell'archivio di questo baraccone che risponde al nome di Squadra B, e che a partire da stamattina ho l'onore di presiedere.» Sono nati per parlare, i Gelbfish. Sono ottimi formulatori di discorsi e ragionamenti, e sono autentici maghi della persuasione. Il padre di Bina per un soffio non riuscì a convincere Landsman a non sposarla. La sera prima del matrimonio. «E credetemi, lo dico sinceramente. Come entrambi sapete, è tutta la vita che mi faccio il culo nella speranza, un giorno, di avere la fortuna di finire su questa poltroncina, dietro questa scrivania, a cercare di mantenere viva la grande tradizione del commissariato centrale di Sitka, ovvero quella di riuscire a beccare un assassino ogni tanto e sbatterlo in galera. E adesso
eccomi qui. Fino al primo gennaio.» «La pensiamo esattamente come te» dice Berko, stavolta suonando un po' più sincero. «Sul fatto del baraccone e via dicendo.» Landsman dice che anche lui sottoscrive. «Mi fa piacere» risponde Bina. «E so benissimo quanto siete dispiaciuti per... queste.» Appoggia la lunga mano lentigginosa sulla pila di pratiche. Fossero ordinate come si deve sarebbero undici cartellette, la più vecchia risalente a più di due anni fa. Ci sono altre tre coppie di detective nella Sezione Omicidi, nessuna delle quali può vantare una pila di casi irrisolti così ricca e spessa. «Su Feytel ci siamo quasi» dice Berko. «Stiamo solo aspettando il procuratore distrettuale. Lo stesso per Pinsky. E per la faccenda di Zilberblat, la madre di Zilberblat...» Bina alza una mano, interrompendolo. Landsman non apre bocca. Si vergogna troppo per parlare. Per quel che lo riguarda, quella montagna di pratiche è un monumento al suo recente declino. Il fatto che non sia trenta centimetri più spessa è solo una prova della tenacia che il cugino Berko ha finora dimostrato nel sostenerlo. «Stop» dice Bina. «Non dire altro. E sta' molto attento, perché adesso sfodero la mia capacità di riconoscere le stronzate al volo.» Allunga di nuovo un braccio dietro la schiena e prende un foglio dalla cassettina per la corrispondenza, poi un'altra cartelletta azzurra, molto più sottile, che Landsman riconosce all'istante, essendo stato lui a crearla dal nulla intorno alle quattro e mezza del mattino. Bina si infila una mano nel taschino sul davanti della giacca e tira fuori un paio di mezzi occhiali che Landsman non ha mai visto. Sta invecchiando, e anche lui sta invecchiando, come da copione, eppure stranamente, intanto che il tempo li consuma, loro due non sono marito e moglie. «I saggi ebrei che sovrintendono al nostro destino di ufficiali di polizia del distretto di Sitka hanno elaborato un piano strategico» esordisce Bina. Esamina il foglio di carta con aria concitata, perfino sgomenta. «Tale piano prende le mosse dall'encomiabile principio secondo cui, quando l'autorità su Sitka verrà restituita allo sceriffo americano di cui sopra, sarebbe bello per tutti non dico aver smaltito appieno gli arretrati, ma quantomeno non lasciare casi irrisolti.»
«Non diciamo cazzate, Bina» sbotta Berko, in americano, precipitandosi a capofitto dove l'ispettore Gelbfish vuole andare a parare. A Landsman occorre un altro minuto per capire. «Niente casi irrisolti» ripete con flemma da idiota. «A questo piano strategico» dice Bina «è stato dato l'accattivante nome di "risoluzione effettiva". In sostanza ciò significa che dovrete dedicare alla risoluzione dei vostri casi irrisolti tutto il tempo che vi resta da trascorrere come detective della Omicidi di questo distretto. Diciamo grosso modo nove settimane. Di casi insoluti ne avete undici. Potete dividerveli come vi pare. Comunque vogliate organizzarvi, per me va bene.» «Morale?» chiede Berko. «Stai dicendo che...» «Sai benissimo cosa sto dicendo, detective» taglia corto Bina. Ora nella sua voce non c'è traccia d'emozione, e il volto è inespressivo. «Rifilateli a chi volete. Se fanno storie, imponetevi. Su tutti gli altri...» Una breve pausa nella voce. «Appiccicate una bella strisciolina nera e sbatteteli nell'armadietto nove.» L'armadietto nove è dove finiscono i casi archiviati. Spostare un caso nell'armadietto nove serve a risparmiare spazio, ma a parte questo è come dargli fuoco e portare le ceneri a farsi un giro all'aperto con vento di burrasca. «Ovvero seppelliteli» dice Berko, aggiungendo all'ultimo un punto interrogativo in coda alla frase. «Fate uno sforzo in buona fede, entro i limiti di questo nuovo piano strategico dal nome tanto musicale, dopodiché, se non ne cavate nulla, passate alla malafede.» Bina fissa il fermacarte arrotondato sulla scrivania di Felsenfeld. Dentro c'è un modellino, una specie di versione fumettistica in plastica da due soldi dello skyline di Sitka. Un guazzabuglio di palazzoni ammassati intorno allo Spillone, quel dito solitario puntato al cielo con fare accusatorio. «E piazzateci sopra una bella strisciolina nera.» «Hai detto undici» dice Landsman. «Ah, allora stavi ascoltando.» «Ma dopo ieri sera, ispettore, con tutto il dovuto rispetto, e per quanto la cosa mi metta in difficoltà, be'... sono dodici. Non undici. Dodici casi aperti per Shemets e Landsman.» Bina prende la cartellina azzurra sottile che Landsman ha partorito di notte. «Questo?» La apre ed esamina, o finge di esaminare, il rapporto che Landsman ha messo a punto sul presunto omicidio
dell'uomo che si faceva chiamare Emanuel Lasker, ucciso con un colpo di arma da fuoco sparato a bruciapelo. «Sì. Allora. Adesso vi faccio vedere come si fa.» Apre il primo cassetto della scrivania di Felsenfeld, che per i prossimi due mesi almeno sarà suo. Fruga all'interno, facendo una smorfia come se nel cassetto ci fosse una collezione di tappi per le orecchie in gommapiuma usati, cosa che peraltro, l'ultima volta che Landsman ha dato un'occhiata lì dentro, corrispondeva al vero. Tira fuori una strisciolina di plastica per contrassegnare le cartellette. È nera. Stacca la striscia rossa che al mattino Landsman ha appiccicato alla pratica Lasker e al suo posto piazza quella nera, respirando dal naso come chi medica una brutta ferita o ripulisce qualcosa di schifoso dalla moquette. Nei dieci secondi che impiega a fare lo scambio invecchia di dieci anni, o almeno così sembra a Landsman. Infine allontana da sé il caso appena archiviato, stringendolo con la punta di due dita. «Risoluzione effettiva» dice.
Capitolo otto
Lo Sbirro, come suggerisce il nome, è il bar delle forze dell'ordine, gestito da un paio di ex sbirri, invaso dal fumo delle lamentele e dei pettegolezzi dei piedipiatti. Non chiude mai, e non rimane mai sprovvisto di poliziotti fuori servizio appoggiati al suo grande bancone di quercia. Il posto perfetto se uno ha voglia di dar voce alla propria indignazione per l'ultimissimo capolavoro di stronzate elargito dai piani alti del dipartimento. Ecco perché Landsman e Berko se ne tengono accuratamente alla larga. Superano il Mabuhay Donuts senza entrare, anche se le frittelle cinesi alla filippina che preparano lì esercitano l'attrattiva di un lucido e zuccheroso biglietto per un'esistenza migliore. Evitano anche il Feter Shnayer e il Karlinksy's e l'lnside Passage e il Nyu-Yorker Grill. Tanto a quest'ora del mattino sono quasi tutti chiusi, e quelli aperti di solito servono soltanto poliziotti, pompieri e paramedici. Si stringono nelle spalle per scacciare il freddo e accelerano il passo, l'uomo grande e grosso e quello piccolino, urtandosi vicendevolmente. Il fiato esce dai loro corpi in nuvole che si attorcigliano, per poi lasciarsi assorbire dalla nebbia che invade l'Untershtat. Lunghi striscioni di nebbia si contorcono per le strade, diluendo la luce di fanali e neon, cancellando il porto, lasciando una scia di oleose goccioline argentate sui baveri dei cappotti e sopra i cappelli. «Al Nyu-Yorker non ci va nessuno» dice Berko. «Lì dovremmo stare tranquilli.» «Ci ho visto Tabatchnik, una volta.» «Meyer, sono sicuro che Tabatchnik non ti ruberebbe mai il progetto di quell'arma segreta.» Quanto vorrebbe Landsman avere in mano il progetto di un qualche laser mortale, di un raggio che controlla le menti, qualcosa in grado di dare un bello scossone ai corridoi del potere. Di instillare negli americani un po' di sano timore di Dio. Di ri-
mandare, anche solo di un anno, di un decennio, di un secolo, l'eterna marea dell'esilio ebraico. I due colleghi sono sul punto di sfidare la tristezza del Front Page, col suo latte grumoso e quel caffè che sembra abbia appena smontato da un turno come clistere al bario presso l'ospedale centrale di Sitka, quando Landsman intravede il sedere in pantaloni kaki del vecchio Dennis Brennan adagiarsi su uno sgabello traballante davanti al bancone. I giornalisti hanno disertato il Front Page anni fa, quando il «Blat» è fallito e il «Tog» ha spostato gli uffici in un palazzo nuovo vicino all'aeroporto. All'epoca, però, Brennan aveva già lasciato Sitka in cerca di fortuna e gloria. Sarà in città di passaggio. Nessuno deve averlo avvisato che il Front Page ormai è del tutto fuori moda. «Troppo tardi» dice Berko. «Quel bastardo ci ha visti.» Per un attimo Landsman non è sicuro che il bastardo li abbia visti davvero. Brennan ha la schiena rivolta alla porta, e sta esaminando la pagina finanziaria dell'importante quotidiano americano nella cui redazione di Sitka lavorava prima del grande abbandono. Landsman afferra il cappotto di Berko e fa per trascinare il collega in strada. Gli è appena venuto in mente il posto perfetto dove parlare, magari mangiando un boccone, al riparo da orecchie indiscrete. «Detective Shemets. Un attimo!» «Troppo tardi» ammette Landsman. Si volta e Brennan è lì, con quella sua testa enorme, senza cappello e senza cappotto, la cravatta buttata su una spalla, una monetina incastonata nel mocassino sinistro e quello destro al verde. Due toppe sui gomiti della giacca di tweed, il cui colore è praticamente quello di una macchia di sugo d'arrosto. Le guance avrebbero bisogno di una bella rasatura, e la pelata di una passata di cera fresca. Forse il grande salto di Dennis Brennan non è andato poi così bene. «Ma guarda che testone ha quello sheygets, deve avere un'atmosfera, un'orbita e dei satelliti tutti suoi» dice Landsman. «Si vedono le calotte polari.» «Effettivamente è bella grossa.» «Ogni volta che la vedo provo pena per il collo.» «Forse dovrei metterci le mani intorno io. Così lo aiuto a reggerla.» Brennan solleva le dita bianche come larve, e sbatte le palpe-
bre su due occhi che hanno l'azzurro incolore del latte scremato. Sfodera un consumato sorrisetto contrito, ma Landsman nota che resta a un metro buono di distanza da Berko. «Non vi è necessità alcuna, glielo posso garantire, detective Shemets, di rinnovare le avventate minacce del tempo che fu» dice il giornalista nel suo yiddish agile e insensato. «Poiché ancor oggi perdurano, sempreverdi e madide della linfa della loro violenza originale.» Brennan al college ha studiato tedesco, e l'yiddish lo ha imparato da un qualche vecchio tedesco pomposo dell'Istituto. Lo parla, ha fatto notare qualcuno una volta, «come una ricetta per le salsicce con le note a piè di pagina». Forte bevitore, inadatto per temperamento ai lunghi crepuscoli e alla pioggia. Emana una falsa impressione di calma e ottusità, piuttosto comune tra detective e giornalisti. Ma è comunque un idiota. Nessuno si è stupito del successo che Dennis Brennan ha ottenuto a Sitka quanto lo stesso Brennan. «Che nei suoi confronti io nutra timore è un dato oggettivo, detective. Così come lo è che poc'anzi io abbia finto di non vederla oltrepassare questo buco desolato, il cui unico pregio, oltre al fatto che la direzione ha dimenticato, durante la mia lunga trasferta, l'entità del mio credito, è la totale assenza di giornalisti. Ero tuttavia certo che, con la fortuna che mi contraddistingue, una simile strategia fosse in seguito destinata a rivoltarmisi contro, azzannandomi al culo.» «Nessuno ha tanta fame, Brennan» dice Landsman. «Credimi, non corri rischi.» Brennan appare ferito. È di animo delicato, questo macrocefalo non ebreo, avvezzo agli sgarbi e resistente alle punzecchiature e all'ironia. Il suo parlare circonvoluto rende tutto ciò che dice simile a uno scherzo, il che non fa che aggravare il suo bisogno di essere preso sul serio. «Dennis J. Brennan» dice Berko. «Ti hanno rispedito a Sitka?» «Per i miei peccati, detective Shemets, per i miei peccati.» Ovvio. Essere relegati alla redazione di Sitka di qualsiasi quotidiano nazionale o rete televisiva che si prenda la briga di mantenerne una è un proverbiale castigo per l'incompetenza o il fallimento. Se Brennan è stato rispedito qui deve aver fatto una cazzata bella grossa. «Pensavo che quello fosse il motivo per cui ti avevano cac-
ciato, Brennan» dice Berko, e adesso è lui quello che non sta scherzando. I suoi occhi si fanno inespressivi, e ricomincia a masticare il suo immaginario chewing gum, o di grasso di foca, o forse è il malloppetto cartilagineo del cuore di Brennan. «I tuoi peccati.» «Il motivo per cui ho abbandonato una tazza di pessimo caffè, detective, venendo peraltro meno all'appuntamento con un informatore che in ogni caso difettava di qualsiasi cosa possa somigliare a un'informazione, e per cui sono venuto qui, correndo il rischio della sua rabbia...» «Brennan, fammi il favore di parlare in americano» dice Berko. «Cosa cazzo vuoi?» «Voglio una storia» dice Brennan. «Cos'altro? E so che da lei non lo otterrò mai, se prima non chiarisco qualche malinteso. Dunque. Per la cronaca.» Si lancia quindi nuovamente al timone della sua versione alla Olandese volante della lingua madre. «Lungi da me l'intento di disfare o ritrattare alcunché. Infliggete sofferenze su questa mia testa sovradimensionata, vi prego, ma che si sappia che tutto ciò che ho scritto lo sostengo, fino all'ultima parola, ancora oggi. Era tutto vero, e verificato, e provvisto di fonti. Malgrado ciò, non esito a dirvi che quella spiacevole vicenda mi ha lasciato in bocca un retrogusto amaro...» «Quello del tuo culo?» suggerisce brioso Landsman. «Forse sei tu che ti sei azzannato da solo.» Brennan prosegue a vele spiegate con la foga di un ossesso. Landsman ha la sensazione che questa tirata se la sia preparata da tempo. Che forse da Berko vuole qualcosa di più di un articolo. «Di certo ha giovato alla mia carriera, per così dire. Per qualche anno mi ha portato via dalla campagna, se mi passate l'espressione, a Los Angeles, Salt Lake City, Kansas City.» A mano a mano che Brennan snocciola le stazioni del suo declino, la sua voce si fa più bassa e tenue. «Spokane. Ma so che per lei e per la sua famiglia è stato doloroso, detective. Perciò, se lei me lo consente, vorrei porgerle le mie scuse per le sofferenze che le ho arrecato.» Subito dopo le elezioni che fecero ottenere all'attuale amministrazione il suo primo mandato, Dennis J. Brennan scrisse per il suo giornale una serie di articoli presentando, con puntuale e accanita dovizia di dettagli, la sordida storia di corruzione, ille-
citi e pastette di cui si era reso protagonista Hertz Shemets nel corso dei suoi quarant'anni trascorsi all'FBI. Il programma di controspionaggio fu smantellato, le sue attività spostate su altri dipartimenti, e lo zio Hertz fu relegato alla pensione e al disonore. Landsman, uno che non si lasciava sconvolgere da nulla, dopo la pubblicazione del primo articolo per un paio di giorni fece fatica a uscire dal letto. Sapeva come e meglio di chiunque altro che suo zio aveva enormi difetti, sia come uomo sia come pubblico ufficiale. Ma chiunque volesse cercare i motivi che spingono un bambino a diventare sbirro li troverà risalendo a non più di un ramo o due dell'albero genealogico. Con tutte le sue magagne, per Landsman lo zio Hertz era un eroe. Sveglio, duro, ostinato, paziente, metodico, sicuro del suo operato. Se il fare sbrigativo, il pessimo carattere, l'eccessiva riservatezza forse, di fatto, non facevano di lui un eroe, di sicuro ne facevano uno sbirro. «Te lo dirò molto gentilmente, Dennis» attacca Berko. «Perché in fondo sei un brav'uomo. Uno che lavora sodo, un discreto giornalista, nonché l'unica persona al mondo che riesce a far sembrare il mio collega un elegantone: vaffanculo.» Brennan annuisce. «Immaginavo una risposta del genere» replica, mesto e in americano. «Mio padre è diventato un cazzo di eremita» prosegue Berko. «Un fungo. Vive sotto un ceppo di legno, con le forbicine e altri insetti schifosi. Qualsiasi mostruosità abbia combinato, ha fatto solo quello che pensava fosse giusto per gli ebrei, e sai qual è la cosa più allucinante di tutta la faccenda? Che aveva ragione, perché adesso, senza di lui, guarda in che cazzo di casino di merda siamo finiti.» «Dio, Shemets, è terribile sentirla dire queste cose. Ed è terribile pensare che una mia inchiesta abbia a che fare con tutto ciò... che abbia in qualche modo portato... alle difficoltà in cui voi ebrei ora versate... oh, 'fanculo. Non mi stia a sentire.» «D'accordo» dice Landsman. Afferra di nuovo la manica di Berko. «Andiamocene.» «Sì, ma, ehm... Dove state andando? Che cosa succede?» «A combattere il crimine, nient'altro» risponde Landsman. «Proprio come l'ultima volta che sei stato qui.» Ora che si è sgravato del suo peso, però, il mastino che è in Brennan riesce a fiutare qualcosa in Berko e Landsman. Forse
l'aveva già fiutato a un isolato di distanza, forse è riuscito a vederlo attraverso il vetro, uno strappo nel passo fluido di Berko, un chilo di troppo a incurvare le spalle di Landsman. Forse tutta la manfrina delle scuse era solo la premessa alla domanda che sfodera ora, nella sua lingua madre, nuda e cruda: «Chi è morto?». «Una persona in difficoltà» gli spiega Berko. «Roba che non fa notizia.»
Capitolo nove
Lasciano Brennan in piedi davanti al Front Page, con la cravatta che gli schiaffeggia la fronte come un palmo pieno di rimorsi, arrivano fino all'angolo di Seward e proseguono in Peretz Street, quindi svoltano subito dopo il Palatz Theater, al riparo del colle Baranof, fermandosi davanti a una porta nera in una facciata di marmo nero con una grande finestra panoramica dipinta di nero. «Stai scherzando» dice Berko. «In quindici anni al Vorsht non ho mai visto un altro shammes.» «Sono le nove e mezza di venerdì mattina, Meyer. Qui dentro non c'è nessuno a parte i topi.» «Non è vero» ribatte Landsman. Fa strada a Berko fino alla porta laterale e ci batte le nocche, due colpi. «Ho sempre pensato che questo sarebbe il posto ideale per progettare i miei misfatti, se mai mi trovassi a doverne progettare.» La pesante porta d'acciaio si apre con un cigolio, rivelando la signora Kalushiner, vestita come per andare in sinagoga o a lavorare in banca, in tailleur grigio e scarpe nere col tacco, con i capelli raccolti in bigodini di spugna rosa. In mano ha una tazza di carta piena di un liquido che sembra caffè, o forse succo di prugne secche. La signora Kalushiner mastica tabacco. La tazza è la sua compagna fedele, se non l'unica. «Ah, sei tu» dice, con una faccia come se avesse appena assaggiato del cerume rimastole su un polpastrello. Poi, con la sua solita finezza, sputa nella tazza. Con gesto dettato da saggia abitudine, lancia una lunga occhiata su e giù per il vicolo, per capire che genere di problemi si portano dietro quei due. Dà una rapida e brusca squadrata a quel gigante indiano con lo yarmulke che occupa l'ingresso del suo posto di lavoro. In passato le persone che Landsman ha portato qui a quest'ora del mattino erano tutti shtinkers, spie, gente piena di tic e con la
faccia da topo, come Benny «Shpilkes» Plotner e Zigmund Landau, lo Jascha Heifetz degli informatori. Nessuno ha mai avuto una faccia meno da shtinker di Berko Shemets. E, con tutto il dovuto rispetto per lo scialle e lo zucchetto, è davvero impossibile che sia un faccendiere, o anche solo un malavitoso di quarta categoria, non con quel grugno da indiano. Non essendo riuscita, pur dopo attenta valutazione, a catalogare Berko nella sua tassonomia delinquenziale, la signora Kalushiner sputa nella tazza. Poi sposta di nuovo lo sguardo su Landsman, e sospira. Se si attenesse a un certo calcolo, è in debito con Landsman di diciassette favori; secondo un altro, dovrebbe mollargli un pugno nello stomaco. Si fa da parte e li lascia entrare. Il locale è vuoto come un autobus di linea fuori servizio, e puzza il doppio. Qualcuno è da poco passato con una secchiata di candeggina, per aggiungere qualche nota acuta al basso continuo di sudore e pisciatoi che permea il Vorsht. Un naso sofisticato può anche distinguere, al di sopra o al di sotto di tutto questo, l'odore di fodera di cappotto di tante banconote spiegazzate. «Sedetevi lì» dice la signora Kalushiner, senza indicare il punto dove vuole che si siedano. I tavoli rotondi che circondano fitti il palco sfoggiano sedie capovolte simili a corna d'alce. Landsman ne tira giù due, e lui e Berko si mettono a sedere, lontano dal palco, accanto all'ingresso principale chiuso da pesanti chiavistelli. La signora Kalushiner scompare nel retro, e la tenda di perline sbatacchia dietro di lei con un rumore di denti gettati in un secchio. «Che bambola» dice Berko. «Un amore» concorda Landsman. «Qui ci viene solo al mattino. Così non è costretta a vedere la clientela.» Il Vorsht è il posto dove vanno a bere i musicisti di Sitka quando chiudono i teatri e gli altri club. Passata da un pezzo la mezzanotte vengono tutti qui, con la neve sui cappelli, i polsini fradici di pioggia, e si accalcano sul piccolo palcoscenico per massacrarsi l'un l'altro a colpi di clarinetto e violino. Come sempre, quando gli angeli si radunano, trascinano al loro seguito una schiera di diavoli: gangster, ladri e donne sventurate. «Dei musicisti non gliene frega niente.» «Ma se suo marito era... Ah. Ho capito.» Nathan Kalushiner è stato, fino alla morte, il proprietario del Vorsht, nonché il re del clarinetto soprano in do. Era un gioca-
tore d'azzardo, un tossico, e un pessimo uomo sotto molti punti di vista, ma era anche in grado di suonare come posseduto da un dibbuk, e Landsman, che ama la musica, era solito vigilare su quel piccolo shkotz fuori di testa, tirandolo fuori dai pasticci in cui la sua scarsa capacità di giudizio e il suo animo tormentato lo cacciavano. Poi un bel giorno Kalushiner è scomparso, insieme alla moglie di un noto shtarke russo, lasciando alla gentile signora soltanto il Vorsht e il buon cuore dei suoi creditori. Alcune parti di Nathan Kalushiner, ma non il suo clarinetto soprano in do, sono in seguito affiorate sotto i dock di Yakovy. «E quello è il cane del defunto?» chiede Berko indicando il palco. Nel punto in cui ogni sera Kalushiner si sedeva e dava fiato al clarinetto c'è un bastardino mezzo terrier a pelo riccio, bianco con chiazze marroni e una macchia nera intorno a un occhio. Se ne sta seduto lì, con le orecchie dritte, come ascoltando l'eco di una voce, o una musica che sente soltanto lui. È legato con un pezzo di catena a un anello d'acciaio conficcato nel muro. «Quello è Hershel» dice Landsman. Trova che ci sia un che di doloroso nell'atteggiamento paziente della bestia, nella sua aria di quieta sopportazione canina. Distoglie lo sguardo. «Sono cinque anni che se ne sta lì.» «Commovente.» «Direi. Il cane in sé, sinceramente, mi mette i brividi.» Riappare la signora Kalushiner, con una ciotola di metallo piena di pomodorini e cetrioli sottaceto, un cestino di pane e una ciotola di panna acida. Tiene tutto in equilibrio sul braccio sinistro. La mano destra, naturalmente, stringe la sputacchiera di carta. «Che bei sottaceti» accenna Berko. Poi, vedendo che il complimento non porta a nulla, tenta un: «Carino, il cane». La cosa davvero commovente, pensa Landsman, è lo sforzo costante che Berko Shemets fa per attaccare bottone con la gente. Più l'interlocutore si chiude a riccio, più lui si accanisce. Era così anche da ragazzino. Sempre con quell'ansia di coinvolgere il prossimo, specie se si trattava di Meyer, il suo cugino sottovuoto. «Un cane è un cane» taglia corto la signora Kalushiner. Sbatte sul tavolo i sottaceti e la panna acida, molla giù il cestino di pane ai semi di papavero e si ritira di nuovo nel retro
con uno sbatacchiare di perline. «Ho bisogno di chiederti un favore» dice Landsman, lo sguardo fisso sul cane, che nel frattempo si è adagiato sul palco piegando le ginocchia artritiche, e se ne sta lì col muso appoggiato sulle zampe. «E spero di tutto cuore che tu mi dica di no.» «Questo favore ha qualcosa a che fare con la "risoluzione effettiva"?» «Stai facendo dell'ironia sul concetto?» «Non serve» dice Berko. «È un concetto che si prende in giro da solo.» Piglia un pomodorino sottaceto dalla ciotola, lo intinge nella panna acida, quindi se lo spinge delicatamente in bocca con l'indice. Il sapore asprigno di polpa e aceto che ne deriva gli fa arricciare il viso di piacere. «È una bella donna, Bina.» «Per me lo era.» «Un po' mascolina.» «Sì, l'hai sempre detto.» «Bina, Bina.» Berko scuote la testa con un'aria sconsolata, che però al tempo stesso riesce a sembrare affettuosa. «Nella sua vita precedente doveva essere una banderuola segnavento.» «Ti sbagli» dice Landsman. «Hai ragione ma ti sbagli.» «Ma come? Adesso secondo te Bina non sarebbe un'arrivista?» «Non sto dicendo questo.» «Lo è, Meyer, e lo è sempre stata. È una delle cose che più mi piacciono di lei, fin dall'inizio. Bina ha il pelo sullo stomaco. È tosta. Una politica nata. È considerata una persona leale, e in entrambe le direzioni, verso l'alto e verso il basso. Non è una cosa che riesce a tutti. È fatta per essere ispettore. In qualunque corpo di polizia, in qualsiasi paese del mondo.» «Era la prima del suo corso» dice Landsman. «All'accademia.» «Tu però hai avuto un punteggio più alto all'esame di ammissione.» «Be'... sì» dice Landsman. «Te lo avevo già raccontato?» «Perfino uno sceriffo americano è abbastanza sveglio da accorgersi di Bina Gelbfish» dice Berko. «Se sta cercando di assicurarsi un posto nelle forze dell'ordine di Sitka dopo la Restituzione, be', non me la sento di biasimarla.» «Ti capisco» dice Landsman. «Solo che io non me la bevo.
Non è per questo che ha accettato l'incarico. O comunque non solo per questo.» «E allora perché?» Landsman si stringe nelle spalle. «Non lo so» ammette. «Forse è rimasta a corto di cose sensate da fare.» «Spero proprio di no. Altrimenti il prossimo passo sarà rimettersi con te.» «Dio ce ne scampi.» «Un film dell'orrore.» Landsman finge di sputare tre volte alle sue spalle. Poi, mentre è lì che si chiede se per caso quel gesto scaramantico nasce dall'abitudine di masticare tabacco, la signora Kalushiner torna al tavolo, trascinandosi dietro tutto il peso della sua vita. «Ho delle uova sode» dice minacciosa. «Dei bagel e un po' di coscia in gelatina.» «Per me solo da bere, signora K.» dice Landsman. «Tu, Berko?» «Acqua frizzante» risponde Berko. «Con una scorzetta di lime, per favore.» «Lei mangia» dice a Berko la signora Kalushiner. Non è una domanda. «Perché no?» dice Berko. «Ma sì, mi porti un paio di uova sode.» La signora Kalushiner si volta verso Landsman, e lui sente gli occhi di Berko sui suoi, che lo sfidano e si aspettano di sentirlo ordinare uno slivovitz. Percepisce la stanchezza di Berko, l'insofferenza e l'irritazione che prova per lui e per i suoi problemi. Sarebbe ora di darsi una raddrizzata, vero? Di trovare qualcosa per cui valga la pena vivere, e voltare pagina. «Una Coca-Cola» dice Landsman. «Per favore.» È possibile che questa sia la prima volta che Landsman o chiunque altro riesce a dire qualcosa in grado di sorprendere la vedova di Nathan Kalushiner. La donna inarca un sopracciglio grigio acciaio, quindi gira i tacchi e si allontana. Berko prende un cetriolo sottaceto, scrolla via i granelli di pepe e i chiodi di garofano che ricoprono la buccia verde ruvida. Se lo fa scrocchiare fra i denti, e aggrotta la fronte contento. «Per fare dei sottaceti decenti ci vuole una donna inacidita» dice. Poi, quasi sovrappensiero, scherzando: «Sicuro che non ti va un'altra birra?».
Landsman la vorrebbe eccome, un'altra birra. Riesce quasi a sentirne il sapore caramellato e amarognolo in fondo alla lingua. Quella che gli ha offerto Ester-Malke non se ne è ancora andata dal corpo, ma qualcosa gli dice che ha già fatto le valigie ed è in partenza. La proposta o richiesta che ha deciso di fare al suo collega di colpo gli sembra l'idea più stupida che abbia mai avuto, e di sicuro non una cosa per cui valga la pena vivere. Ma per il momento è quel che c'è. «Vaffanculo» dice alzandosi dal tavolo. «Devo pisciare.» Nel bagno degli uomini, Landsman trova il corpo di un chitarrista. Da un tavolino in fondo al Vorsht ha ammirato spesso questo tizio e il suo stile. È stato uno dei primi a importare le tecniche e le pose dei chitarristi rock americani e inglesi tra i bulgari e i freylekh della musica da ballo ebraica. Ha più o meno la stessa età e lo stesso background di Landsman, è cresciuto a Halibut Point, e nei momenti di vanagloria Landsman si è talvolta paragonato, o piuttosto ha paragonato il suo operato di detective allo stile intuitivo e vivace di quest'uomo, che ora sembra morto o svenuto nel cesso, con la mano da plettro abbandonata nella tazza. Indossa giacca, panciotto e pantaloni neri, con un cravattino rosso. Qualcuno gli ha sfilato dalle celeberrime dita tutti gli anelli, lasciando solchi sinistri. Sulle piastrelle del pavimento c'è un portafoglio aperto che sembra vuoto. Il musicista russa, una volta sola. Landsman decide di impiegare lo stile intuitivo e vivace di cui sopra per cercargli il battito cardiaco in corrispondenza della carotide. C'è, ed è regolare. L'aria intorno al musicista è così intrisa di miasmi d'alcol che quasi brucia. Il portafoglio è effettivamente stato svuotato dei soldi e dei documenti di identità. Landsman tasta il musicista qua e là, trovandogli una bottiglietta di vodka canadese nella tasca sinistra della giacca di pelle. Gli hanno preso i soldi, ma non l'alcol. Landsman non ha voglia di bere vodka. Sente anzi uno scatto improvviso dentro di sé, all'idea di versarsi quella schifezza nello stomaco, una sorta di muscolo morale che si contrae. Per un attimo riesce a sbirciare tra le ragnatele che invadono la cantina della sua anima. Non può fare a meno di notare che un simile moto di disgusto per quella che in fin dei conti è soltanto una popolare marca di vodka canadese sembra avere qualcosa a che fare con la sua ex moglie, con il fatto che sia di nuovo a Sitka, e così forte, così attraente, così Bina. Ve-
derla tutti i giorni sarà un tormento, come se Dio avesse torturato Mosé lasciandogli intravedere uno scorcio di Terra Promessa dall'alto del monte Pisgah ogni singolo giorno della sua vita. Landsman svita il tappo della bottiglietta di vodka, e manda giù un lungo sorso ininterrotto. Brucia come un misto di solvente e liscivia. Nella bottiglietta rimangono svariate dita di vodka, ma Landsman è già pieno dalla testa ai piedi di un ardente senso di colpa. Tutte le analogie che un tempo era solito tracciare tra lui e il chitarrista gli si rivoltano contro. Dopo un breve ma acceso dibattito interiore decide di non gettare la bottiglietta nella spazzatura, dove non servirebbe a nessuno. La trasferisce nella comoda tasca posteriore del suo declino. Tira fuori di peso il musicista dal gabinetto e gli asciuga per bene la mano destra. Infine, si fa la pisciata per cui era venuto. Il suono dell'urina di Landsman contro la porcellana riscuote il musicista, che apre gli occhi. «Sto bene» dice a Landsman dal pavimento. «Certo, tesoro» risponde lui. «Per favore, non chiamate mia moglie.» «Per carità» lo rassicura Landsman, ma il chitarrista ha già di nuovo perso i sensi. Landsman lo trascina in corridoio e lo abbandona sul pavimento, con un elenco telefonico sotto la testa a mo' di cuscino. Poi torna al tavolo, da Berko Shemets, e beve un garbato sorsetto dal bicchiere di bollicine e sciroppo. «Mmm» dice. «La Coca.» «Allora» attacca Berko. «Qual è questo favore che devi chiedermi?» «Sì» dice Landsman. La sicurezza in se stesso e nelle proprie intenzioni che sente rinascere in questo momento, il senso di benessere, sono chiaramente l'illusione prodotta dal sorso di vodka scadente. Cerca di razionalizzare il tutto convincendosi che dal punto di vista di Dio, per esempio, la sicurezza in se stessi che provano gli esseri umani è sempre e comunque un'illusione, e le intenzioni una barzelletta. «È un grosso favore.» Berko sa dove vuole andare a parare Landsman. Ma Landsman non è ancora del tutto pronto a farlo. «Tu e Ester-Malke» prosegue Landsman «avete fatto domanda di residenza.» «Era questa la grande domanda?» «No, questa è solo la premessa.»
«Sì, abbiamo fatto domanda per ottenere la Green Card. Tutti quanti nel distretto hanno richiesto una carta di residenza, tranne quelli che vogliono andare in Canada o in Argentina o non so dove. Cristo, Meyer, tu no?» «So che l'idea ce l'avevo» risponde Landsman. «Forse l'ho fatta. Non me lo ricordo.» La rivelazione è troppo scioccante perché Berko riesca ad assimilarla, e comunque non è per questo che Landsman l'ha portato qui. «L'ho fatta, okay?» dice a Berko. «Ora mi ricordo. Ma certo. Ho compilato il mio bel modulo I-999 e tutto il resto.» Berko annuisce come se credesse alla bugia. «E così» riprende Landsman «voialtri intendete fermarvi. Volete restare a Sitka.» «Ammesso che ci concedano i documenti.» «C'è qualche motivo per cui non dovrebbero?» «I numeri, molto semplicemente. Dicono che saranno meno del quaranta per cento.» Berko scuote la testa, che è praticamente il gesto nazionale quando si finisce a parlare di dove andranno gli altri ebrei di Sitka, o di che cosa faranno, dopo la Restituzione. Di fatto, nessuna garanzia è stata data - quel quaranta per cento è solo una diceria tra le tante - e alcuni estremisti invasati sostengono che il numero di ebrei a cui sarà permesso di risiedere legalmente nel ricostituito stato dell'Alaska una volta avvenuta la Restituzione sarà in realtà più vicino al dieci, o forse addirittura al cinque per cento. Sono le stesse persone che vanno in giro invocando la resistenza armata, la secessione, una dichiarazione di indipendenza e via dicendo. Ma Landsman sta prestando pochissima attenzione alle polemiche e alle voci, ovvero a quella che nel suo circoscritto universo è la questione più importante. «E il vecchio?» chiede Landsman. «Non ha più alcuna voce in capitolo?» Per quarant'anni - come ha rivelato l'inchiesta di Brennan Hertz Shemets si servì della sua carica di direttore regionale del programma di sicurezza nazionale dell'FBI per portare avanti il suo personale affare con gli americani. All'inizio, negli anni Cinquanta, l'FBI lo arruolò per combattere i comunisti e la sinistra yiddish, che seppur indisciplinata era forte, battagliera, risentita, sospettosa verso gli Stati Uniti e, almeno nel caso dei sionisti, non particolarmente grata per il fatto di trovarsi qui.
Compito di Hertz Shemets era monitorare e infiltrare la popolazione rossa locale. Riuscì a fare piazza pulita. Diede i socialisti in pasto ai comunisti, gli stalinisti ai trotzkisti, i sionisti ebrei ai sionisti yiddish, dopodiché a fine pasto pulì la bocca a tutti quelli rimasti in piedi e li fece sbranare a vicenda. Verso la fine degli anni Sessanta fu sguinzagliato contro il movimento radicale che stava nascendo in seno ai tlingit, e col tempo riuscì a strappare zanne e artigli anche a quello. Ma tutte queste attività erano solo una facciata, come ha dimostrato Brennan, che copriva il vero obbiettivo di Hertz: ottenere per Sitka lo status di distretto federale permanente. O addirittura, nei suoi sogni più sfrenati, la dignità di stato. «Basta con le peregrinazioni», Meyer Landsman ricorda di aver sentito lo zio dire cose del genere al padre, che all'epoca conservava ancora nell'animo un pizzico di sionismo romantico. «Basta farsi espellere, migrare e sognare che l'anno prossimo saremo nella terra dei cammelli. È ora di prendere ciò che possiamo prendere e restare dove siamo.» E così venne fuori che ogni anno lo zio Hertz stornava fino al cinquanta per cento del suo budget operativo per corrompere le stesse persone che l'avevano approvato. Comprò senatori, adescò preziosi membri del Congresso, e soprattutto corteggiò ricchi ebrei americani la cui influenza riteneva cruciale per la riuscita del suo piano. Per ben tre volte altrettante proposte di status permanente furono avanzate e naufragarono, due volte in commissione e una, dopo violenta e serrata battaglia, in parlamento. Un anno dopo la battaglia in parlamento, l'attuale presidente degli Stati Uniti si candidò e venne eletto con una piattaforma che sbandierava la messa in atto della lungamente invocata Restituzione, promettendo di «Restituire l'Alaska, incontaminata e pulita, alla gente dell'Alaska». E Dennis Brennan costrinse Hertz a nascondersi sotto un ceppo di legno. «Il vecchio?» ripete Berko. «Laggiù nella sua microriserva indiana? Con la sua capra? E il congelatore stracolmo di carne d'alce? Come no, lui nei corridoi del potere è un'eminenza grigia, cazzo. Comunque sia, sembra che le cose si stiano mettendo bene.» «Ah, sì?» «Ester-Malke e io abbiamo già ricevuto un permesso di lavoro per tre anni.» «Be', buon segno.»
«Così dicono.» «E chiaramente non fareste mai nulla che possa mettere a repentaglio la vostra situazione.» «No.» «Tipo disobbedire a degli ordini. Far incazzare qualcuno. Venir meno ai vostri espressi doveri.» «Mai e poi mai.» «Questione risolta, allora.» Landsman si infila una mano nella tasca della giacca e tira fuori la piccola scacchiera. «Ti ho mai raccontato del biglietto che ha lasciato mio padre prima di uccidersi?» «Mi avevano detto che era una poesia.» «Un componimento galante, diciamo» precisa Landsman. «Sei righe di versi in yiddish destinate a una donna senza nome.» «Oh-oh.» «No, no, niente di spinto. Era, come dire, un'espressione di rammarico per la sua inadeguatezza. Di dispiacere per il suo fallimento. Un'ammissione di devozione e rispetto. Una toccante dichiarazione di gratitudine per il conforto che aveva ricevuto da lei, e soprattutto per quel poco di spensieratezza che la sua compagnia gli aveva procurato nel lungo e amaro corso degli anni.» «L'hai imparata a memoria.» «Sì. Ma poi ho notato una cosa che mi ha infastidito. E ho fatto di tutto per dimenticarla.» «Che cosa hai notato?» Per il momento Landsman ignora la domanda, perché la signora Kalushiner arriva con le uova, sei in tutto, sgusciate e sistemate su un piattino con sei cavità rotonde, ciascuna grande quanto l'estremità più larga di un uovo. Sale. Pepe. Un barattolo di senape. «Forse, se gli slegassero il guinzaglio» dice Berko indicando Hershel con il pollice «uscirebbe a mangiarsi un panino, o qualcosa del genere.» «A lui il guinzaglio piace» dice la signora Kalushiner. «Senza non dorme.» Si allontana di nuovo. «Mi dà troppo fastidio» dice Berko guardando Hershel. «Sì, ti capisco.» Berko sala un uovo e gli dà un morso. I suoi denti incidono
merlature nel bianco. «Questa poesia, dicevi» riprende. «I versi.» «Ovviamente» riprende Landsman «tutti quanti hanno pensato che la destinataria dei versi di papà fosse mia madre. Lei per prima.» «La descrizione corrisponde.» «Hanno stabilito che era lei e stop. Ecco perché non ho mai raccontato a nessuno ciò che avevo dedotto, nel mio primo caso ufficiale da shammes in erba.» «Ovvero?» «Ovvero che prendendo la prima lettera di ciascuno dei sei versi che compongono la poesia viene fuori un nome: Caissa.» «Caissa? Che razza di nome è?» «Credo sia latino» dice Landsman. «Caissa è la dea protettrice degli scacchisti.» Apre il coperchio della scacchiera tascabile che ha comprato dal droghiere di Korczak Platz. I pezzi in gioco sono ancora nelle posizioni in cui Landsman li ha disposti a casa TaytshShemets stamattina, ovvero come li ha lasciati l'uomo che si faceva chiamare Emanuel Lasker. O il suo assassino, o la pallida Caissa, dea degli scacchisti, venuta a dire addio al suo ennesimo seguace sfortunato. I neri ridotti a tre pedoni, due cavalli, un alfiere e una torre. I bianchi che conservano tutti i pezzi principali e quelli secondari, più un paio di pedoni, uno dei quali a una mossa dalla promozione. Il tutto ha un aspetto strano, disordinato, come se la partita che ha portato a questa situazione fosse stata caotica. «Fosse stata qualsiasi altra cosa, Berko» dice Landsman scusandosi con un gesto delle mani. «Un mazzo di carte. Delle parole crociate. Una cartella del bingo...» «Sì, ho capito» dice Berko. «E invece no, doveva per forza essere una stramaledetta partita di scacchi lasciata a metà.» Berko gira la scacchiera e la osserva per qualche istante, poi alza gli occhi verso Landsman. Ora viene il momento in cui me lo chiedi, dice con quei suoi grandi occhi scuri. «E dunque, come ti dicevo, devo chiederti un favore.» «No» dice Berko. «No che non devi.» «L'hai sentita, la signora. C'eri anche tu quando ha appiccicato quella strisciolina nera. Che fosse un caso tosto lo si era capito fin dall'inizio. Bina ha soltanto reso la cosa ufficiale.»
«Non ci credi nemmeno tu.» «Ti prego, Berko, non iniziare proprio adesso a mostrare rispetto per le mie capacità di giudizio» dice Landsman. «Non dopo tutta la fatica che ho fatto per minarle.» Berko ha continuato per tutto il tempo a fissare il cane con intensità crescente, e adesso si alza di scatto e va verso il palco. Sale piano i tre gradini di legno e si piazza immobile a guardare Hershel. Poi gli tende una mano per farsela annusare. Con una certa fatica, il cane si tira su a sedere e sbobina col naso i dati impressi sul dorso della mano di Berko, i bambini e i waffle e l'abitacolo di una SuperSport del 1971. Berko gli si accovaccia pesantemente accanto, e sgancia il moschettone del guinzaglio dal collare. Prende la testa del cane tra le sue mani enormi e fissa i suoi occhi strani. «Smettila» gli dice. «Tanto lui non torna.» Il cane osserva Berko come se quell'informazione lo interessasse davvero. Poi si alza sulle zampe posteriori e ciondola verso i gradini, li scende con cautela. Ticchettando con le unghie sul pavimento di cemento raggiunge il tavolo a cui siede Landsman, quindi alza lo sguardo verso di lui come a cercare una conferma. «È la dura verità, Hershel» dice Landsman al cane. «Hanno confrontato le impronte dentali.» Il cane sembra rifletterci su; poi, lasciando Landsman di stucco, si dirige verso la porta d'ingresso. Berko guarda Landsman con aria di rimprovero: che cosa ti dicevo? Lancia un'occhiata verso la tenda di perline, quindi va a sfilare il chiavistello, gira la chiave e apre la porta. Il cane trotterella fuori all'istante, come se avesse affari impellenti che lo attendono altrove. Berko torna al tavolo, con l'aria di chi ha appena liberato un'anima dall'eterna ruota del karma. «L'hai sentita, la signora. Abbiamo nove settimane» dice. «Prendere o lasciare. Possiamo permetterci di sprecare un giorno o due fingendoci indaffarati e nel frattempo indaghiamo su questo tossico che è morto nel tuo albergo.» «State per avere un bambino» dice Landsman. «Sarete in cinque.» «Ho capito, e allora?» «E allora sono cinque Taytsh-Shemets a cui rischiamo di sputtanare la vita, se davvero, come dicono in tanti, c'è qualcu-
no che va a caccia di buone ragioni per negare delle carte di residenza, e una buona ragione può essere un richiamo ufficiale per aver agito in aperto contrasto con gli ordini di un ufficiale superiore, oltre a essersene allegramente infischiati di un piano strategico del dipartimento, per quanto assurdo e vigliacco.» Berko sbatte le palpebre, si infila in bocca un altro pomodorino sottaceto e resta lì a masticare, poi sospira. «Io non ho mai avuto fratelli o sorelle» dice. «Solo cugini. Erano quasi tutti indiani, e di me non ne volevano sapere. Due erano ebrei. Di questi due ebrei, una, sia benedetto il suo nome, è morta. Mi resti soltanto tu.» «Te ne sono grato, Berko» dice Landsman. «Sappilo.» «Piantala con 'ste cazzate» dice Berko, in americano. «Stiamo andando all'Hotel Einstein, giusto?» «Sì» risponde Landsman. «Pensavo che dovremmo partire da lì.» Prima ancora che abbiano il tempo di alzarsi o di andare a pagare la signora Kalushiner, sentono grattare alla porta. Poi un lungo guaito sommesso. È un suono umano e sconsolato, che a Landsman fa rizzare i peli sulla nuca. Va alla porta e fa entrare il cane. Hershel monta di nuovo sul palco, torna nel punto in cui ha consumato la vernice delle assi di legno, si siede e drizza le orecchie, come per cogliere il richiamo di una sirena ormai scomparsa, aspettando paziente che vadano a legarlo di nuovo.
Capitolo dieci
L'estremità nord di Peretz Street è tutta lastricata di cemento, pilastri d'acciaio e finestre bordate d'alluminio coi doppi vetri contro il freddo. Gli edifici di questa parte dell'Untershtat furono costruiti all'inizio degli anni Cinquanta, macchine da riparo assemblate in fretta e furia da sopravvissuti, dotate di una loro nobile bruttezza. Ora resta solo la bruttezza della decadenza e dell'abbandono. Vetrine di negozi vuote, finestre ricoperte di cartone. Al civico 1911, dove il padre di Landsman partecipava agli incontri della Edelshtat Society prima che questa lasciasse il posto a un outlet di prodotti cosmetici, un canguro di peluche campeggia nella vetrina con un ghigno sardonico e regge un'insegna di cartone: AUSTRALIA O MORTE. Al 1906, l'Hotel Einstein sembra, come qualche buontempone osservò quando venne aperto al pubblico, una gabbia per topi in una vasca per pesci. È un posto molto amato dagli aspiranti suicidi di Sitka. È anche, per tradizione e atto istitutivo, la sede del Club scacchistico Einstein. Un membro del Club scacchistico Einstein di nome Melekh Gaystik nel 1980 vinse il campionato mondiale a San Pietroburgo, battendo l'olandese Jan Timman. Con il ricordo della Fiera ancora fresco nella memoria, i sitkanik lessero il trionfo di Gaystik come un'ulteriore conferma del loro merito e della loro identità di popolo. Gaystik era soggetto ad attacchi di rabbia, crisi depressive e stati confusionali, ma nel generale clima di festeggiamento tutti quanti chiusero un occhio su questi difettucci. Un effetto della vittoria di Gaystik fu che la direzione dell'Einstein concesse l'utilizzo della sala da ballo dell'albergo, a titolo gratuito, al Club scacchistico. I pranzi matrimoniali in albergo erano passati di moda, e da anni la direzione stava tentando di far sloggiare gli scacchisti dilettanti, con i loro borbottii e il fumo di sigarette, dal caffè dell'albergo. Gaystik fornì
loro la scusa che gli serviva. Sigillarono l'ingresso principale della sala da ballo, in modo che fosse possibile entrare soltanto dalla porta sul retro, affacciata su un vicoletto. Rimossero il raffinato parquet in frassino per sostituirlo con una allucinogena scacchiera di linoleum nelle tonalità nero fuliggine, bile e verde chirurgico. Il lampadario modernista fu rimpiazzato da schiere di tubi al neon imbullonati all'alto soffitto di cemento. Due mesi dopo, il giovane campione del mondo entrò nel vecchio caffè in cui il padre di Landsman aveva furoreggiato, si sedette in un séparé verso il fondo della sala, tirò fuori una Colt calibro .38 Detective Special e si sparò in bocca. In tasca aveva un bigliettino. C'era scritto solo «Preferivo prima». «Emanuel Lasker» dice il russo ai due detective alzando gli occhi dalla scacchiera, accanto al banco della reception, sotto un vecchio orologio luminoso che pubblicizza un quotidiano ormai defunto, il «Blat». È un uomo scheletrico, con la pelle sottile, rosea e squamata. Porta la barba nera a punta, e ha due occhi ravvicinati color acqua di mare fredda. «Emanuel Lasker.» Le spalle del russo si incurvano, china la testa e la sua cassa toracica si gonfia e si sgonfia. Somiglia a una risata, ma non esce suono. «Mi piacerebbe che viene qui.» Il suo yiddish, come quello di gran parte degli immigrati russi, è sperimentale e secco. A Landsman ricorda qualcuno, ma non saprebbe dire chi. «Così io faccio a lui grande culo così.» «Lei ha mai visto le sue partite?» vuole sapere l'avversario del russo. È giovane, con le guance come due budini, un paio di occhiali senza montatura e una sfumatura verdognola nell'incarnato che ricorda il bianco dei biglietti da un dollaro. Le lenti dei suoi occhiali si ghiacciano quando le punta verso Landsman. «Ha mai visto le sue partite, detective?» «Vediamo di capirci» dice Landsman. «Non è di quel Lasker che stiamo parlando.» «Quest'uomo usava soltanto quel nome, come pseudonimo» spiega Berko. «Altrimenti staremmo cercando un signore morto da sessant'anni.» «Le partite di Lasker, guardandole oggi» prosegue il giovane. «C'è troppa complessità. Rende tutto troppo difficile.» «Solo sembra complessità a te, Velvel,» interviene il russo «per il motivo che tu molto semplice.» Gli shammesim hanno interrotto la partita nelle fitte fasi intermedie, con il russo, che muove i bianchi, in vantaggio di un
alfiere, un cavallo e tre pedoni. Entrambi hanno perso la regina. Sono ancora assorbiti dalla loro partita, come due montagne che sembrano fondersi nel riverbero accecante di neve e nubi. Il loro istinto naturale è quello di trattare i detective con l'astratto disprezzo che riservano a tutti gli osservatori esterni. Landsman si chiede se lui e Berko debbano aspettare che finiscano e quindi riprovare. Ma ci sono altre partite in corso, altri giocatori da sentire. Nella vecchia sala da ballo, le gambe raschiano sul linoleum come unghie su una lavagna. Gli scacchisti ticchettano come il tamburo che ruotava nella calibro .38 di Melekh Gaystik. Gli uomini - di donne non ce ne sono - giocano sottoponendo gli avversari a una costante opera di intimidazione, fatta di autodenigrazioni, risate raggelanti, fischi, schiarite di gola. «E già che ci siamo» dice Berko «quest'uomo, che si faceva chiamare Emanuel Lasker ma che non era il famoso campione del mondo nato in Prussia nel 1868, è morto, e noi stiamo indagando sulla sua morte. In qualità di detective della Omicidi, a cui vi abbiamo già accennato, ma a quanto pare senza destare particolare impressione.» «Un tizio coi capelli biondi» dice il russo. «E le lentiggini» aggiunge Velvel. «Vedete?» commenta il russo risentito. «Noi attenti.» Afferra una delle sue torri con il gesto di chi rimuove un capello caduto su un colletto. Insieme, le sue dita e la torre intraprendono il loro viaggetto lungo la fila, e vanno a dare la brutta notizia all'ultimo alfiere nero con un tocco leggero. Velvel si mette a parlare in russo, con accento yiddish, augurandosi il riallacciamento di cordiali rapporti tra la madre dell'avversario e uno stallone ben dotato. «Sono orfano» risponde il russo. Si adagia contro lo schienale della sedia, come aspettandosi che il suo avversario abbia bisogno di un po' di tempo per riprendersi dalla perdita dell'alfiere. Incrocia le braccia sul petto infilandosi le mani sotto le ascelle. È il gesto di chi vorrebbe tanto fumarsi un papiro in una sala dove questo vizio è stato bandito. Landsman si domanda che fine avrebbe fatto suo padre se mai il Club scacchistico Einstein avesse vietato il fumo quand'era ancora vivo. Riusciva a fumarsi un pacchetto intero di Broadway nell'arco di una sola partita. «Biondo» dice il russo, la disponibilità fatta persona. «Len-
tiggini. Cos'altro, prego?» Landsman scorre mentalmente i pochi dettagli di cui dispone, cercando di decidere quale giocarsi. «Era uno che il gioco lo studiava. Si intendeva di storia degli scacchi. Nella sua stanza abbiamo trovato il libro di Siegbert Tarrasch. E inoltre non sarà un caso che si è scelto proprio questo nome come pseudonimo, no?» «Davvero in gamba» dice il russo, senza preoccuparsi di suonare sincero. «Due shammesim di prima classe.» Il commento non riesce a ferire Landsman, ma piuttosto lo spinge di una frecciatina più vicino al ricordarsi di questo russo pelle e ossa con la pelle squamata. «Può darsi che un tempo» prosegue Landsman, più lentamente, frugando nella memoria, fissando il russo, «il morto fosse un ebreo molto devoto. Un cappello nero.» Il russo si sfila le mani da sotto le ascelle. Si sporge un po' più avanti sulla sedia. Il ghiaccio dei suoi occhi baltici sembra sciogliersi all'improvviso. «Lui usava eroina?» Il russo ha un tono di voce a malapena classificabile come domanda, e quando Landsman tarda di un secondo a negare l'accusa aggiunge: «Frank». Pronuncia il nome all'americana, con una lunga vocale affilata e una r priva d'ombre. «Oh, no...» «Frank» concorda Velvel. «Io...» Il russo si affloscia sulla sedia, ginocchia divaricate, mani che ciondolano lungo i fianchi. «Detective, posso dire a voi una cosa?» chiede. «Davvero io qualche volta odia questo mondo infame.» «Ci parli di Frank» dice Berko. «Le stava simpatico?» Il russo alza le spalle, gli occhi di nuovo ghiacciati. «A me nessuno sta simpatico» dice lui. «Ma quando Frank viene qui, almeno io non ha voglia di scappare. Lui fa ridere. Non bell'uomo. Ma con bella voce. Voce seria. Voce di uomo che ascolta musica seria alla radio. Alle tre del mattino lui parla di Sostakovi$c. Ma dice cose con voce seria, fa ridere. Tutto che lui dice, sempre un po' è critica. Tu taglia capelli, tu pantaloni brutti, Velvel che sempre si arrabbia quando gente parla di sua moglie.» «È vero» dice Velvel. «Mi arrabbio.» «Lui sempre prende in giro, però gente non si incazza, non so perché.»
«Era... sentivi che con se stesso era ancora più duro» dice Velvel. «Quando tu gioca con lui, anche se lui sempre vince, tu sembra che contro di lui gioca meglio, non come con stronzi che stanno qui» dice il russo. «Frank mai è stronzo.» «Meyer» dice Berko a bassa voce. Accenna con le sopracciglia al tavolo accanto. Qualcuno li sta ascoltando. Landsman si volta. Due uomini si stanno affrontando in una partita iniziata da poco. Uno dei due indossa la tenuta moderna, giacca e pantaloni, e la barba lunga degli ebrei Lubavitcher. La barba è fitta e nera, come tratteggiata da una matita morbida. Una mano ben ferma gli ha fissato sull'intrico nero dei capelli uno zucchetto di velluto nero bordato di seta nera. Il suo cappotto e il fedora blu sono appesi a un gancio fissato nella parete a specchio dietro di lui. La fodera interna del cappotto e l'etichetta del cappello si riflettono nello specchio. La stanchezza gli tinge di scuro la pelle sotto gli occhi; occhi espressivi, bovini e tristi. Il suo avversario è un Bobover in abito lungo, brache al ginocchio, calzamaglia bianca e pantofole. La sua pelle è pallida come una pagina di annotazione. Ha il cappello posato sul grembo, simile a una torta nera su un piatto nero. Lo zucchetto gli aderisce ai capelli tagliati corti come una tasca cucita. A un occhio meno disincantato di quello di un poliziotto i due potrebbero sembrare immersi nel chiarore diffuso del loro gioco come qualunque altra coppia di scacchisti dilettanti dell'Einstein. Landsman però sarebbe pronto a scommettere cento dollari che nessuno dei due ha la minima idea di chi debba muovere ora. Hanno ascoltato ogni singola parola pronunciata al tavolo accanto; stanno ancora ascoltando. Berko si avvicina all'altro tavolo che c'è accanto al russo e a Velvel. È libero. Prende una sedia di legno con il sedile di fibra intrecciata lacero e va a piazzarla tra il tavolo dei cappelli neri e quello dove il russo è in vantaggio di due pezzi su Velvel. Si siede con il suo fare solenne da uomo corpulento, allarga le gambe, si butta il cappotto alle spalle come se si accingesse a mangiarsi i due cappelli neri in un sol boccone. Si toglie il cappello, sollevandolo per la cupola con il palmo aperto della mano. I suoi capelli da indiano sono folti e lucidi, e vanno screziandosi d'argento. Così brizzolati gli danno un'aria più saggia e gentile, un effetto di cui Berko, pur essendo relativamente saggio e piuttosto gentile, non esita ad abusare. La sedia di le-
gno dà segni di inquietudine per l'estensione e la consistenza delle sue chiappe. «Salve!» dice Berko ai cappelli neri. Si sfrega le mani, poi le appoggia sulle cosce. Gli manca solo un tovagliolo da infilarsi nel colletto, una forchetta e un coltello. «Come va?» Con il talento e la determinazione degli attori peggiori, i cappelli neri alzano la testa sorpresi. «Noi non vogliamo guai» dice il Lubavitcher. «È la mia frase preferita in yiddish» dice Berko sincero. «E adesso perché non vi unite alla conversazione? Parlateci un po' di Frank.» «Non lo conoscevamo» dice il Lubavitcher. «Frank chi?» Il Bobover non apre bocca. «Amico Bobover» dice Landsman cordialmente. «Lei come si chiama?» «Mi chiamo Saltiel Lapidus» risponde il Bobover. Ha occhi da ragazzina, timidi. Piega le dita in grembo, sul cappello. «E non so niente di niente.» «Lei con questo Frank ci giocava? Lo conosceva?» Saltiel Lapidus si affretta a scuotere la testa. «No.» «Sì» dice il Lubavitcher. «Sapevamo chi era.» Lapidus fulmina l'amico con un'occhiata, e il Lubavitcher distoglie lo sguardo. Landsman mangia la foglia. Gli ebrei osservanti possono giocare a scacchi, addirittura, caso unico tra tanti giochi, durante lo Shabbat. Ma il Club scacchistico Einstein è un'istituzione decisamente secolare, e il Lubavitcher ha trascinato il Bobover in questo tempio profano di venerdì mattina, a poche ore dall'inizio dello Shabbat, quando entrambi avrebbero cose migliori da fare. Gli ha detto che non ci sarebbe stato problema, che male potevano fare? E adesso invece... Landsman è incuriosito, perfino un po' commosso. Un'amicizia che riesca a varcare i confini delle sette non è un fenomeno comune, nella sua esperienza. In passato Landsman si è reso conto che, a parte gli omosessuali, solo gli scacchisti hanno trovato un modo efficace di colmare, con intensità ma senza rovinosa violenza, il baratro che divide qualsiasi accoppiata di maschi. «L'ho visto qui» dichiara il Lubavitcher tenendo gli occhi fissi sull'amico, come per dimostrargli che non hanno nulla da temere. «Questo Frank. Avrò giocato con lui una o due volte. A mio avviso era un giocatore estremamente talentuoso.»
«Confronto a te, Fishkin,» dice il russo «anche una scimmia è Raul Capablanca.» «Lei» dice Landsman al russo con voce inespressiva, seguendo un barlume d'intuizione. «Lei sapeva che era eroinomane. Come mai?» «Detective Landsman» dice il russo quasi in tono di rimprovero. «Lei non riconosce me?» Sembrava un'intuizione. Invece era solo un ricordo che si era smarrito. «Vassilij Shitnovitzer» dice Landsman. Non è passato tanto tempo - dieci anni o giù di lì - da quando aveva arrestato un giovane russo con quel nome per una vicenda legata allo spaccio di eroina. Immigrato recente, ex detenuto sfuggito al caos derivante dal crollo della Terza Repubblica russa. Uomo dall'yiddish zoppicante, quello spacciatore di eroina, con due occhi pallidi troppo vicini. «E mi ha riconosciuto subito.» «Lei è bell'uomo. Difficile dimenticare» dice Shitnovitzer. «E anche elegante.» «Shitnovitzer ha passato un bel po' di tempo a Butyrka» dice Landsman a Berko, riferendosi al famigerato carcere di Mosca. «Un bel tipo. Laggiù vendeva la roba nella cucina della mensa.» «Ha venduto eroina a questo Frank?» chiede Berko a Shitnovitzer. «Io andato in pensione» risponde Vassilij Shitnovitzer scuotendo la testa. «Sessantaquattro mesi a Ellensburg, Washington. Peggio che Butyrka. Mai più io tocca quella roba, detective, e anche se tocca io lascia stare Frank, davvero. Io pazzo, sì, ma non scemo.» Landsman sente il contraccolpo e la sgommata dei freni che si bloccano. Hanno trovato qualcosa. «Perché no?» dice Berko, gentile e saggio. «Perché per vendere eroina a Frank uno dev'essere non solo un delinquente ma anche un pazzo, signor Shitnovitzer?» Si sente un colpetto secco, leggermente sordo, come di denti finti che sbattono. Velvel rovescia il suo re. «Mi arrendo» dice. Si toglie gli occhiali, se li infila in tasca e si alza. Si era scordato un appuntamento. Fa tardi al lavoro. Sua madre lo sta chiamando sulla frequenza a ultrasuoni riservata dal governo alle madri ebree per avvertire la propria prole che il pranzo è pronto.
«Si sieda» dice Berko senza voltarsi. Il ragazzo si siede. Shitnovitzer ha un crampo alle viscere, o almeno così sembra a Landsman. «Sfortuna» dice infine. «Sfortuna» ripete Landsman, senza curarsi di lasciar affiorare il suo scetticismo e una certa delusione. «Come cappotto. Lui porta sfortuna in testa come cappello. Tanta sfortuna che nessuno vuole toccarlo o respirare stesso aria.» «Io l'ho visto giocare cinque partite contemporaneamente» interviene Velvel. «Per cento dollari. Le ha vinte tutte. Poi l'ho visto vomitare nel vicolo qui dietro.» «Detective, per favore» dice Saltiel Lapidus con voce dolente. «Noi non c'entriamo. Non sappiamo niente di quest'uomo. Eroina... Vomitare nei vicoli... Vi prego, siamo già abbastanza a disagio.» «In imbarazzo» suggerisce il Lubavitcher. «Spiacente» conclude Lapidus. «Non abbiamo niente da dire. Possiamo andare, per favore?» «Ma certo» dice Berko. «Andate pure. Prima però scrivetemi i vostri nomi e dove possiamo contattarvi.» Tira fuori il suo cosiddetto block-notes, una spessa mazzetta di fogli di carta tenuti insieme da una graffetta extra large. In qualsiasi momento può capitare di trovarvi dentro biglietti da visita, tavole delle maree, liste di cose da fare, elenchi cronologici di sovrani inglesi, teorie scarabocchiate alle tre del mattino, biglietti da cinque dollari, ricette appuntate frettolosamente, tovagliolini di carta con sopra disegnata la mappa di una viuzza di South Sitka in cui è stata uccisa una prostituta. Berko scorre il suo block-notes fino a trovare un pezzetto di cartoncino pulito, che porge a Fishkin il Lubavitcher. Gli offre anche il suo mozzicone di matita, ma no, grazie, Fishkin ha la sua penna. Gli scrive nome, indirizzo e numero di Shoyfer, dopodiché passa il cartoncino a Lapidus, che fa lo stesso. «Solo una cosa» dice Fishkin. «Non telefonate. Non chiamateci a casa. Vi prego. Noi non abbiamo niente da dichiarare. Di quell'uomo non possiamo dirvi nulla.» Tutti gli sbirri del distretto imparano a rispettare il silenzio dei cappelli neri. È un rifiuto a rispondere che può propagarsi, addensarsi e diventare così profondo da riempire come una nebbia le strade di un intero quartiere. I cappelli neri hanno ot-
timi avvocati, agganci politici e quotidiani agguerriti, e sono in grado di risucchiare un povero ispettore, o addirittura un commissario, in un polverone di cappelli neri che non si posa finché il testimone o il sospettato di turno non viene rilasciato, o le accuse contro di lui non vengono ritirate. Landsman dovrebbe avere dalla sua tutto il peso del dipartimento, o quantomeno l'approvazione della sua capa, per poter invitare Lapidus e Fishkin nella saletta interrogatori della Omicidi. Accenna un'occhiata a Berko, e Berko accenna un «no» con la testa. «Andate pure» dice Landsman. Lapidus si alza in piedi come un uomo che è stato sconfitto dal suo intestino. Indossa cappotto e galosce con un'ostentata aria di dignità ferita. Si posiziona il cappello sulla testa con aggiustamenti millimetrici, come richiudendo con delicatezza il coperchio di ferro di una botola. Con sguardo dolente osserva Fishkin raccogliere i pezzi non ancora mossi in una scatola di legno chiusa da una cerniera. Fianco a fianco, i cappelli neri si allontanano fra i tavoli, oltrepassando gli altri giocatori, che alzano la testa al loro passaggio. Un attimo prima di raggiungere la porta, la gamba sinistra di Saltiel Lapidus si allenta all'altezza della chiave di accordatura. L'uomo barcolla, inciampa e allunga un braccio per mantenersi in equilibrio appoggiandosi alla spalla dell'amico. Il pavimento sotto i suoi piedi è sgombro e liscio. Per quel che riesce a vedere Landsman, non può essere inciampato in nulla. «Mai visto un Bobover più triste» osserva. «Ancora un po' e si metteva a piangere.» «Vuoi insistere ancora?» «Solo un pochino.» «Tanto da quelli più di tanto non si ottiene» dice Berko. Partono rapidi passando tra gli altri scacchisti: un violinista scalcagnato del Sitka Odeon; un callista, le cui foto sono affisse alle fermate degli autobus. Berko si fionda fuori dalla porta al seguito di Lapidus e Fishkin. Landsman sta per seguirlo, quando una fitta di malinconia gli strattona la memoria: l'odore di una marca di dopobarba che nessuno usa più, il ritornello scintillante di una canzone che ebbe discreto successo un agosto di venticinque anni or sono. Landsman si volta verso il tavolo più vicino alla porta. Un vecchio siede richiuso come un pugno sulla sua scacchiera, davanti a una sedia vuota. I pezzi sono di-
sposti nelle case di partenza, e all'uomo sono toccati i bianchi, o forse se li è scelti. Ora aspetta che arrivi il suo avversario. Un cranio lucido, bordato da ciocche di capelli grigiastri come lanugine. La parte inferiore del viso nascosta dalla testa stessa inclinata. Landsman riesce a vedere soltanto gli incavi delle tempie, una spolverata di forfora, l'attaccatura ossuta del naso, i solchi sulla fronte simili al reticolo inciso dai rebbi di una forchetta nell'impasto crudo di una torta. E la curva furibonda delle spalle, come avvinte al problema della scacchiera, intente a pianificare una campagna trionfale. Erano spalle larghe, un tempo, le spalle di un eroe, o di un uomo abituato a spostare pianoforti. «Signor Litvak» dice Landsman. Litvak sceglie il suo cavallo di re come un pittore sceglie un pennello. La sua mano è ancora agile e asciutta. Disegna un movimento ad arco verso il centro della scacchiera; ha sempre prediletto uno stile di gioco ipermoderno. Vedendo quell'apertura Reti e le mani di Litvak, Landsman è assalito, quasi travolto dall'antico terrore degli scacchi, dal tedio, dall'irritazione, dalla vergogna di quei giorni passati a spezzare il cuore di suo padre sulle scacchiere del caffè dell'Hotel Einstein. «Alter Litvak» dice con voce un po' più forte. Litvak alza la testa, perplesso e miope. Un tempo era un uomo incline alle risse, dal torace ampio, un cacciatore, un pescatore, un soldato. Quando allungava la mano su un pezzo della scacchiera vedevi balenare il fulmine inciso sul suo anello degli Army Rangers, il corpo d'assalto di cui aveva fatto parte. Ora appare avvizzito, consumato, il re delle favole ridotto dalla maledizione della vita eterna a un grillo che si aggira tra le ceneri del focolare. Solo il naso adunco rimane a testimoniare l'imponenza passata del suo viso. Osservando le macerie di quell'uomo, Landsman si ritrova a pensare che, se anche suo padre non si fosse tolto la vita, con tutta probabilità sarebbe comunque già morto. Litvak fa con la mano un gesto spazientito, o forse è una richiesta. Dal taschino sul petto si sfila un taccuino con la copertina nera marmorizzata e una grossa penna stilografica. La sua barba è curata come sempre. Giacca pied-de-poule, mocassini da barca con le nappe, un fazzoletto che sporge dal taschino, una sciarpa tra i baveri della giacca. Non ha perso la sua aria sportiva. Tra le pieghe del collo, Landsman nota una cicatrice
lucida, una sorta di virgola biancastra sfumata di rosa. Mentre scrive sul taccuino con la sua grossa Waterman, Litvak respira dal grande naso carnoso in piccoli sbuffi pazienti. Il raschiare del pennino è l'unica voce che gli rimane. Porge il taccuino a Landsman. La calligrafia è uniforme e chiara. Ci conosciamo? Litvak aguzza la vista e piega leggermente la testa da un lato, squadrando Landsman, decifrando il suo abito stazzonato, il cappello con la cupola incavata e la falda girata all'insù, il muso simile a quello del cane Hershel, sentendo di conoscerlo ma senza riconoscerlo. Prende di nuovo il taccuino e aggiunge una parola alla domanda. Ci conosciamo, detective? «Meyer Landsman» risponde Landsman, consegnando al vecchio un biglietto da visita. «Lei conosceva mio padre. Ogni tanto venivo qui con lui. Ai tempi in cui il club aveva sede nel caffè.» Gli occhi bordati di rosso si spalancano. Mentre Litvak studia Landsman con intensità crescente, in cerca di qualcosa che corrobori quell'affermazione tanto improbabile, in lui lo stupore si mescola al terrore. Gira una pagina del taccuino nero, quindi pronuncia le conclusioni cui è giunto. Impossibile, Meyerle Landsman non può essere così vecchio. «Temo di sì, invece» dice Landsman. Che ci fai qui, pessimo scacchista? «Ero solo un bambino» dice Landsman, cogliendo con orrore nella propria voce una vena di autocommiserazione. Che posto tremendo, che gente disperata, che gioco crudele e senza senso. «Signor Litvak, per caso lei conosce un uomo, mi dicono che a volte veniva a giocare qui, un tizio che potrebbe chiamarsi Frank?» Sì, lo conosco ha fatto qualcosa di male? «Lo conosce bene?» Non quanto vorrei. «Sa dove vive, signor Litvak? Ultimamente l'ha visto?» Tanti mesi fa. Per favore dimmi che non sei un detective della Omicidi. «Anche in questo caso» risponde Landsman «temo proprio di sì.» Il vecchio sbatte le palpebre. Se sia scioccato o rattristato per la deduzione che ha appena fatto, il viso o il linguaggio del suo
corpo non lo lasciano intravedere. Ma d'altronde un uomo che non controlla le proprie emozioni non arriverebbe lontano, con un'apertura Reti. Forse c'è un accenno di tremore nella successiva parola che scrive sul taccuino. Overdose? «Arma da fuoco» dice Landsman. La porta del club si apre con un cigolio, e dal vicolo entrano un paio di scacchisti con l'aria grigia e infreddolita. Uno spaventapasseri macilento poco più che adolescente, con una barbetta bionda curata e vestiti di una taglia che non è la sua, e un ometto paffuto, scuro e con la barba riccia, con vestiti troppo grandi. Entrambi portano un taglio a spazzola pieno di buchi, come se se lo fossero inflitto da soli, e indossano due identici yarmulkes fatti all'uncinetto. Esitano un istante sulla porta, imbarazzati, guardando il signor Litvak come se si aspettassero un rimprovero. Il vecchio allora parla, inspirando le parole, e la sua voce è il fantasma del verso di un dinosauro. Un suono orribile, una disfunzione della trachea. Un attimo dopo che la sua eco si è spenta, Landsman si rende conto che ha detto: «I miei pronipoti». Litvak fa cenno ai ragazzi di entrare, e passa il biglietto da visita di Landsman a quello più paffuto. «Piacere di conoscerla, detective» dice il ragazzo, con un'ombra di accento, forse australiano. Prende posto sulla sedia vuota, dà un'occhiata alla scacchiera, quindi disimpegna saggiamente il suo re. «Scusa, zio Alter. È lui che è arrivato in ritardo come sempre.» Il ragazzo magrolino indugia sulla soglia, con la mano appoggiata contro la porta aperta. «Landsman!» grida Berko dal vicolo, dove sta trattenendo Fishkin e Lapidus accanto al cassonetto della spazzatura. Landsman ha l'impressione che Lapidus stia frignando come un bambino. «Ma cosa...?» «D'accordo» dice Landsman. «Devo andare, signor Litvak.» Stringe per un istante le ossa, il corno e il cuoio della mano del vecchio. «Se avessi bisogno di parlarle dove posso trovarla?» Litvak scrive un indirizzo e strappa il foglio dal taccuino. «In Madagascar?» dice Landsman, leggendo il nome di una qualche inimmaginabile via di Tananarive. «Questa è nuova.» Alla vista di quell'indirizzo lontano, al pensiero di quella casa
in Rue Jean Bart, Landsman sente la sua determinazione a indagare sul morto della 208 declinare bruscamente. Che differenza può fare se riescono o meno a catturare l'assassino? Tra un anno gli ebrei saranno africani, e questa vecchia sala da ballo si riempirà di Gentili danzanti, e ogni caso mai aperto o chiuso da un poliziotto di Sitka sarà stato archiviato nell'armadietto nove. «Quando partite?» «La settimana prossima» risponde il pronipote paffuto, con tono di voce un po' scettico. Il vecchio emette un altro orrido gracidio da rettile, che nessuno capisce. Allora scrive qualcosa, poi spinge il taccuino sul tavolo verso il pronipote. «Gli uomini fanno progetti» legge il ragazzino. «E Dio se la ride.»
Capitolo undici
A volte, quando si fanno beccare dalla polizia, i cappelli neri più giovani diventano arroganti, e si arrabbiano, e invocano i loro diritti di cittadini americani. Altre volte crollano e si mettono a piangere. Gli uomini tendono a piangere, ha imparato Landsman, quando da tanto tempo sentono di vivere nel giusto, e al sicuro, e tutt'a un tratto si rendono conto che fin dall'inizio, proprio sotto i loro piedi, si apre l'abisso. E il compito del poliziotto in parte è proprio quello, sfilare il bel tappeto che ricopre il profondo buco frastagliato nel pavimento. Landsman si domanda se è questo ciò che è successo con Saltici Lapidus. Sulle sue guance scorrono le lacrime. Dalla narice destra gli ciondola un filo di muco luccicante. «Il signor Lapidus è un po' triste» dice Berko. «Ma non vuole dirci perché.» Landsman si cerca nella tasca del cappotto un pacchetto di Kleenex, e miracolosamente trova un fazzoletto pulito. Lapidus esita, poi lo accetta e si soffia il naso con trasporto. «Glielo giuro, detective, io quell'uomo non lo conoscevo» pigola. «Non so dove viveva, né chi era. Non so niente. Giuro sulla mia vita. Abbiamo giocato a scacchi qualche volta. Vinceva sempre.» «Perciò ora sta piangendo per l'umanità in generale» dice Landsman, cercando di tenere fuori dal suo tono di voce il sarcasmo. «Esattamente» dice Lapidus, che poi appallottola il fazzoletto nel pugno e getta il fiore accartocciato nella canalina di scolo. «Volete arrestarci?» chiede Fishkin. «Perché in tal caso voglio chiamare un avvocato. Altrimenti dovete lasciarci andare.» «Un avvocato cappello nero» dice Berko, ed è una sorta di lamento o di supplica indirizzata a Landsman. «Povero me.» «E allora andate» dice Landsman.
Berko fa loro un cenno col capo. I due uomini si dileguano calpestando rumorosamente la fanghiglia lercia del vicolo. «Be', sono piuttosto seccato» dice Berko. «Ammetto che questa faccenda sta cominciando a irritarmi.» Landsman annuisce, grattandosi i peli della barba in un modo che vorrebbe suggerire profondo raziocinio, ma il suo cuore e i suoi pensieri sono impigliati nel ricordo delle partite di scacchi perse da bambino contro uomini che erano già decrepiti trent'anni fa. «Hai visto il vecchio lì dentro?» dice. «Accanto alla porta. Alter Litvak. Sono anni che bazzica l'Einstein. Una volta giocava con mio padre. E anche con il tuo.» «L'ho sentito nominare.» Berko si volta a guardare la porta antincendio d'acciaio che chiude l'ingresso d'onore del Club Einstein. «Eroe di guerra. Cuba.» «Ha perso la voce, deve scrivere tutto. Gli ho chiesto dove potevo trovarlo se avessi avuto bisogno di parlargli, e mi ha scritto che se ne va in Madagascar.» «Questa è nuova.» «Gli ho detto la stessa cosa.» «Conosceva il nostro Frank?» «Non bene, dice.» «Il nostro Frank non lo conosceva nessuno» dice Berko. «Ma sono tutti tristissimi perché è morto.» Si abbottona il cappotto sulla pancia, alza il colletto, si calca il cappello sulla testa. «Perfino tu.» «Vaffanculo» dice Landsman. «Per me quel tizio non era nessuno.» «Che fosse russo? Si spiegherebbe la passione per gli scacchi. E l'atteggiamento del tuo amico Vassilij. Forse dietro l'esecuzione c'è Lebed, o Moskowitz. Shtarker russi, un regolamento di conti tra bande, ma in questo caso cosa vuoi che gliene freghi a un Bobover?» Landsman si tira i peli del mento un altro po', dopodiché prende una decisione. Alza gli occhi verso la sottile striscia di cielo grigio sfolgorante che si estende al di sopra del vicoletto dietro l'Hotel Einstein. «Chissà a che ora tramonta, stasera.» «Perché? Vuoi andare a rimestare nell'Harkavy, Meyer? Non credo che Bina sarebbe contenta di sapere che stiamo mettendo in agitazione i cappelli neri.» «No, eh?» Landsman sorride. Recupera da una tasca il bi-
gliettino del parcheggio. «Allora è meglio che dall'Harkavy ci teniamo alla larga.» «Oh-oh... hai quel sorriso.» «È un sorriso che non ti piace?» «Più che altro ho notato che di solito segue una domanda a cui hai deciso di rispondere da solo.» «E allora ne faccio una a te. Che genere di uomo, Berko, dimmelo tu, che genere di uomo è in grado di far cacare sotto un ex galeotto russo sociopatico e di ridurre alle lacrime i cappelli neri più bigotti di Sitka?» «Tu vuoi che ti dica "un Verbover", lo so» risponde Berko. Dopo che Berko si è diplomato all'accademia, il suo primo incarico è stato nell'Harkavy, ovvero la zona in cui si insediarono i primi Verbover, insieme con molti dei loro compari cappelli neri, dopo l'arrivo, nel 1948, del nono Verbover Rebbe, suocero del modello attualmente in carica, accompagnato dai tristi rimasugli del suo seguito. Il classico incarico da ghetto, a tentare di aiutare e proteggere gente che disprezza e guarda dall'alto in basso tanto te quanto l'autorità che rappresenti. Terminò quando il giovane latke mezzo indiano si beccò una pallottola nella spalla, a cinque centimetri dal cuore, nel Massacro nel giorno di Shavuot al ristorante di Goldblatt. «Lo so che vuoi sentirti rispondere questo» dice Berko. Ecco come una volta Berko ha descritto a Landsman la sacra combriccola dei chassidici dell'isola Verbov: partirono dall'Ucraina, cappelli neri come tanti altri, disprezzando il ciarpame e il clamore del mondo secolare, chiusi nel loro ghetto immaginario fatto di rituali e fede. Poi tutta la setta bruciò tra le fiamme della Distruzione, riducendosi a un denso e compatto nucleo di una materia più nera di qualsiasi cappello. Ciò che rimase del nono Verbover Rebbe riemerse da quelle fiamme portandosi dietro undici discepoli, e di tutta la sua famiglia solo la sesta di otto figlie. Si levò in cielo come un pezzetto di carta bruciata e venne a posarsi in questa striscia di terra, tra i monti Baranof e la fine del mondo. E qui trovò il modo di ripristinare l'antico distacco dei cappelli neri, portandone la logica alle logiche conseguenze, come il genio del male di un romanzo scadente. Costruì un impero criminale che traeva profitto dal Tohu-Bohu, l'insensato caos primigenio che regna al di là delle mura teoretiche, servendosi di esseri così imperfetti, corrotti e privi di speranza di redenzione che perfino gli stessi Verbover
riuscivano a considerarli umani solo in virtù di una sorta di cortesia cosmica. «È un pensiero che ho avuto anch'io, naturalmente» confessa Berko. «Ma l'ho subito scacciato.» Si batte in faccia le grosse mani e le lascia lì per qualche istante, poi le trascina lentamente verso il basso, stiracchiandosi le guance fin sotto il mento come lembi di carne sulla mandibola di un bulldog. «Povero me, Meyer, davvero vuoi andare all'isola Verbov?» «No, cazzo» dice Landsman, in americano. «Sinceramente, Berko, se proprio devo scegliermi un'isola, allora preferisco il Madagascar.» Rimangono lì, nel vicolo dietro all'Hotel Einstein, scorrendo mentalmente i numerosi contro e i pochissimi pro che possono derivare dall'andare a rompere le palle ai malavitosi più potenti che esistano a nord del cinquantacinquesimo parallelo. Tentano di produrre spiegazioni alternative per l'assurdo comportamento che hanno osservato negli scacchisti dell'Einstein. «Ci conviene andare da Itzik Zimbalist» dice infine Berko. «Rivolgersi a chiunque altro, laggiù, sarebbe utile come discutere con un cane. E oggi mi sono già fatto spezzare una volta il cuore da un cane.»
Capitolo dodici
Il reticolato delle strade, qui nell'isola, è ancora quello di Sitka, regolare e numerato, ma per il resto, cari miei, è un altro mondo: come essere catapultati, teletrasportati, precipitati oltre il tunnel spazio-temporale che porta dritto dritto al pianeta degli ebrei. È venerdì pomeriggio, sull'isola Verbov, e la Chevelie SuperSport di Landsman cavalca l'onda di cappelli neri che affolla la Avenue 225. I cappelli in questione sono di feltro, con alte cupole incavate e falde larghe chilometri, di quelli prediletti dai sorveglianti delle piantagioni nelle telenovele. Le donne sfoggiano foulard e parrucche lucide fabbricate con i capelli di sfortunate ebree marocchine e mesopotamiche. I cappotti e i vestiti lunghi che indossano sono gli stracci migliori reperibili a Parigi e New York, le loro scarpe il fior fiore del cuoio italiano. I ragazzi veleggiano per i marciapiedi sui rollerblade in scie di sciarpe e treccine, lasciando intravedere a tratti le fodere interne arancioni dei parka sbottonati. Ragazze intralciate da lunghe gonne passeggiano insieme in un intreccio di braccia, sgangherate catene di fanciulle Verbover, veementi e settarie come scuole filosofiche. Il cielo si è fatto d'acciaio, il vento è calato, e nell'aria crepita un'alchimia di bambini e neve imminente. «Guarda che roba» dice Landsman. «È un'invasione.» «Non c'è un negozio vuoto.» «Mai visti tanti di questi bastardi tutti insieme.» Landsman si ferma a un semaforo rosso all'incrocio con la 28a Street. Davanti a un negozio che fa angolo, accanto a una sala studio, ciondolano studenti della Torah, ciarlatani delle sacre scritture, perdigiorno di natura imprecisata e malviventi generici. Quando avvistano l'auto di Landsman, con il suo puzzo di spocchia da poliziotto in borghese e quella provocatoria doppia S sulla griglia del radiatore, smettono di strepitarsi addosso e assumono un'aria di bessarabico sospetto. Landsman è sul loro fazzoletto di terra. Si fa la barba e non trema dinanzi a
Dio. Non è un ebreo Verbover, pertanto non è un vero ebreo. E se non è un ebreo, allora non è niente. «Guarda come ci fissano quegli stronzi» dice Landsman. «Mi dà fastidio.» «Meyer...» La verità è che a Landsman gli ebrei col cappello nero provocano rabbia, ed è sempre stato così. In questo istante si rende conto che è una rabbia piacevole, ricca di strati di invidia, condiscendenza, risentimento e pietà. Mette in folle e apre di scatto la portiera. «Meyer... No!» Landsman gira intorno alla portiera aperta della SuperSport. Si sente addosso lo sguardo delle donne, Percepisce nel fiato degli uomini che ha intorno l'odore, come di denti cariati, della paura improvvisa. Sente le risate delle galline che ancora non hanno incontrato il loro destino, il ronzio dei compressori d'aria che tengono in vita le carpe nelle vasche. È incandescente come un ago arroventato per uccidere una zecca. «Allora» dice agli uomini radunati all'angolo della via. «Chi di voi ha voglia di farsi un giro sulla mia bella sbirromobile?» Si fa avanti un tizio, un parallelepipedo d'uomo con la pelle chiara, basso e largo, con la fronte piena di bitorzoli e una barba gialla biforcuta. «Le consiglio di risalire in macchina, agente» dice a bassa voce, ragionevole. «E di andare dove stava andando.» Landsman sogghigna. «Ah, tu me lo consigli?» Nel frattempo si avvicinano anche gli altri uomini che stavano all'angolo, riempiendo lo spazio intorno allo scimmione con la barba biforcuta. Saranno una ventina, più di quanti era parso a Landsman inizialmente. La sua incandescenza si affievolisce un po', sfarfalla come una lampadina che sta per bruciarsi. «Glielo dico in un altro modo» prosegue lo scimmione biondo, portandosi le dita di una mano su un rigonfiamento all'altezza dei fianchi. «Salga in macchina.» Landsman si porta la mano al mento, tastandosi la ricrescita della barba. Follia, pensa. Quando si insegue una pista ipotetica in un caso inesistente può capitare di perdere le staffe senza motivo. In men che non si dica puoi provocare un incidente in una succursale di cappelli neri provvisti di influenze politiche e soldi, oltre che di una riserva di armi manciuriane e russe di
provenienza militare recentemente giudicate dall'intelligence della polizia, in un rapporto segreto, sufficiente a soddisfare il fabbisogno di un'insurrezione guerrigliera e colpi di stato in una piccola repubblica centroamericana. Follia, l'affidabile follia di Landsman. «Perché non mi ci fai salire tu?» dice. È a quel punto che Berko apre la portiera, sfoggiando la sua ancestrale stazza da Orso. Ha un profilo regale, che non sfigurerebbe su una moneta o intagliato nel fianco di una montagna. E nella mano destra impugna la mazza più inquietante che qualsiasi ebreo o gentile possa vedere in vita sua. È una replica di quella che si racconta brandisse il grande capo Katlian durante la guerra tra russi e tlingit del 1804, persa dai russi. Berko se l'è fabbricata allo scopo di intimidire gli ebrei quando aveva tredici anni ed era nuovo al loro labirinto, e finora non è mai venuta meno al suo scopo, motivo per cui Berko la tiene sul sedile posteriore della macchina di Landsman. La testa è un blocco di ferro meteoritico da quindici chili, dissotterrato da Hertz Shemets in un vecchio insediamento russo nei pressi di Yakovy. Il manico è stato intagliato con un coltello da caccia Sears in una mazza da baseball. Un intrico di corvi neri e mostri marini rossi che ghignano con denti enormi lo ricopre per tutta la lunghezza. Per pigmentarli Berko ha fatto fuori quattordici pennarelli Flair. Da un laccio di cuoio fissato in cima al manico penzolano due piume di corvo. Un dettaglio forse impreciso dal punto di vista storico, ma che esercita un effetto sbalorditivo sulle menti yiddish, dichiarando a chiare lettere: indiano. La voce serpeggia tra bancarelle e negozi. È raro che gli ebrei di Sitka vedano o parlino con un indiano, eccetto nei tribunali federali, o negli insediamenti ebraici lungo il confine. A questi Verbover occorre uno sforzo di immaginazione davvero minimo per visualizzare Berko e la sua mazza intenti a spappolare scatole craniche pallide a destra e a manca. Poi intravedono il suo yarmulke, e per un attimo anche la sottile frangia bianca dello scialle rituale che gli spunta all'altezza della vita, ed è quasi palpabile il modo in cui la foga xenofobica evapora dalla folla, lasciandosi dietro soltanto un'ombra di vertigine razzista. Ecco cosa succede nel distretto di Sitka quando Berko Shemets tira fuori la sua mazza e ridiventa indiano. Cinquant'anni di scotennamenti cinematografici, e di sibili di frecce, e di diligenze in fiamme lasciano un segno sulla
mente delle persone. A fare il resto ci pensano le pure e semplici incongruenze. «Berko Shemets» dice l'uomo con la barba biforcuta, sbattendo le palpebre, intanto che sulle spalle e sul cappello cominciano a cadergli grandi e lente piume di neve. «Qual buon vento?» «Dovid Sussman» dice Berko abbassando la mazza. «Lo sapevo che eri tu.» I suoi occhi da minotauro, pieni di vecchie sofferenze e rimproveri, si posano sul cugino. Non è stata di Berko l'idea di venire all'isola Verbov. Non è stata di Berko l'idea di continuare a indagare sul caso Lasker dopo che si sono sentiti dire di lasciar perdere. Non è stata di Berko l'idea di rifugiarsi con disonore in uno squallido alberghetto dell'Untershtat dove misteriosi tossici si fanno ammazzare dalla dea degli scacchi. «Felice Shabbat, Sussman» dice Berko, buttando la mazza sul sedile della macchina di Landsman. Quando atterra sul pavimento dell'abitacolo, le molle del sedile risuonano come campane. «Felice Shabbat a lei, detective» dice Sussman. Gli altri ebrei ripetono l'augurio, un po' incerti. Poi si voltano e ricominciano a chiacchierare della tale mensa kasher o del tal altro modo per cancellare un numero di targa. Risalendo in macchina, Berko sbatte la portiera e dice: «Detesto dover fare queste cose». Ripartono giù per la Avenue 225, e tutte le teste si girano a guardare l'ebreo indiano a bordo della Chevrolet azzurra. «E meno male che dovevamo fare solo qualche domandina discreta» dice Berko risentito. «Un giorno o l'altro questa mazza te la spacco in testa, Meyer, quant'è vero Iddio.» «Forse dovresti farlo davvero» dice Landsman. «Sarebbe una buona terapia.» Avanzano lentamente lungo la 225 in direzione ovest, verso il laboratorio di Itzik Zimbalist. Cortili e vicoli ciechi, villette monofamigliari neo-ucraine e condomini, strutture in legno dal tetto spiovente tinteggiate in colori cupi e costruite a filo dei confini di proprietà. Le case si accalcano e si spintonano come cappelli neri in sinagoga. «Non c'è un cartello 'Vendesi" a pagarlo» osserva Landsman. «I fili per il bucato sono stracarichi. Tutte le altre sette sono lì che impacchettano le Torah e riempiono le cappelliere. L'Har-
kavy è già quasi una città fantasma. Ma i Verbover no. O si sono scordati della Restituzione, oppure sanno qualcosa che noi non sappiamo.» «Sono Verbover» dice Berko. «Tu su quale delle due ipotesi punteresti?» «Quindi secondo te il Rebbe è riuscito a compiere il miracolo. Green Card per tutti.» Landsman riflette su quell'ipotesi. Sa per certo che un'organizzazione criminale come la cricca Verbover non può prosperare senza i puntuali servigi di intermediari e lobbisti segreti, e senza regolari iniezioni di olio lubrificante e linguaggio corporale negli ingranaggi del governo. I Verbover, con la loro talmudica capacità di comprendere i sistemi, le loro tasche profonde e quel volto impenetrabile che offrono al mondo esterno sono riusciti a spezzare o manipolare molti meccanismi di controllo. Ma addirittura fregare l'intero Servizio di immigrazione e naturalizzazione, come un distributore di bibite con una monetina attaccata a un filo? «Nessuno ha tanto potere» dice Landsman. «Nemmeno il Verbover Rebbe.» Berko china la testa e scrolla rapido le spalle, come se non volesse aggiungere altro, per non scatenare forze terribili, flagelli, pestilenze e tornadi divini. «Per te che non credi ai miracoli» dice.
Capitolo tredici
Itzik Zimbalist, l'esperto di confini, il vecchio trombone erudito, si fa trovare pronto quando la notizia di quegli indiani a bordo di un macchinone azzurro «made in Michigan» raggiunge la sua porta. Il laboratorio di Zimbalist è un edificio di pietra con il tetto di zinco e grandi serrande scorrevoli, sul lato più ampio di una piazzetta acciottolata che comincia stretta da un lato e si allarga verso l'esterno come il naso di un ebreo da cartone animato. Lì sboccano cinque o sei viottoli tortuosi, che seguono percorsi originariamente tracciati da caproni e uri ucraini estinti da tempo, costeggiando facciate di case che sono copie fedeli di originali ucraini perduti. Uno shtetl disneyano, vivido e pulito come un certificato di nascita contraffatto di fresco. Una scaltra accozzaglia di case marroncino fango e giallo senape, legno e intonaco, con tetti ricoperti di paglia. Di fronte al laboratorio di Zimbalist, sul lato stretto della piazza, si trova la casa di Heskel Shpilman, decimo nella linea dinastica che ebbe inizio con il primo Rebbe di Verbov, anch'egli noto autore di miracoli. Tre lindi cubi di stucco immacolato, con tetti mansardati di ardesia blu e finestre alte e strette chiuse da imposte. Una copia della dimora originale, a Verbov, in cui viveva il nonno della moglie dell'attuale rabbino, l'ottavo Verbover Rebbe, identica in ogni dettaglio, inclusa la vasca da bagno rivestita di nickel nel bagno al primo piano. Ancora prima di dedicarsi al riciclaggio di denaro sporco, al contrabbando e alla corruzione, i Verbover Rebbe si distinguevano dalla concorrenza per lo splendore dei loro panciotti, l'argenteria francese sulle tavole imbandite per lo Shabbat, i morbidi stivali di pelle italiana che portavano ai piedi. L'esperto di confini è piccolo, fragile, con le spalle curve, dicono che ha settantacinque anni ma ne dimostra dieci in più. Radi capelli grigio cenere troppo lunghi, occhi scuri e infossati, e una pelle pallida sfumata di giallo come un cuore di sedano.
Indossa un cardigan con la cerniera e un paio di vecchi sandali di plastica blu scuro su calzini bianchi, con un buco per l'alluce sinistro e la relativa cipolla. Pantaloni in tessuto a spina di pesce macchiati di tuorlo d'uovo, acido, catrame, colla epossidica, ceralacca, vernice verde, sangue di mammuth. La faccia dell'esperto è ossuta, tutta naso e mento, fatta per osservare, indagare, individuare brecce, varchi e lacune. La barba piena e terrea ondeggia al vento come lanugine d'uccello impigliata su un recinto di filo spinato. Se anche Landsman dovesse brancolare nel buio per cent'anni, questa sarebbe l'ultima faccia a cui chiederebbe aiuto o informazioni, ma Berko sa più cose sulla vita dei cappelli neri di quante Landsman ne saprà mai. In piedi accanto a Zimbalist, davanti all'arco in pietra del laboratorio, uno studente senza barba regge un ombrello per riparare dalla neve la testa del vecchio. La torta nera del cappello del ragazzo è già ricoperta da un mezzo centimetro di glassa bianca. Zimbalist gli riserva l'attenzione che si riserverebbe a una pianta in vaso. «Sei sempre più grasso» dice a Berko a mo' di saluto, mentre lui gli si avvicina, con un passo deciso che conserva traccia del peso della sua mazza di guerra. «Largo come un divano.» «Professor Zimbalist» dice Berko, facendo oscillare l'invisibile maglio. «Lei invece sembra uscito dal sacchetto di un aspirapolvere troppo pieno.» «Sono otto anni che non vieni a scocciarmi.» «Ho voluto darle un po' di tregua.» «Gentile. Peccato che tutti gli altri, in questa dannata buccia di patata di distretto, continuino a darmi il tormento dal mattino alla sera.» Si volta verso lo studente con l'ombrello: «Tè, bicchieri e marmellata». Il ragazzo mormora un'allusione in aramaico all'obbedienza cieca citata nel Trattato sulla gerarchia di cani, gatti e topi, apre la porta all'esperto di confini, e insieme entrano. È un'unica grande stanza piena di echi, teoricamente suddivisa in un garage, un laboratorio e un ufficio occupato da file di mobiletti d'acciaio, diplomi in cornice, e dai dorsi neri di tutti i volumi dell'infinita, smisurata Legge. Le grandi serrande scorrevoli servono a far entrare e uscire i furgoni. Tre furgoni, a giudicare dalla tripletta di macchie d'olio sul pavimento di cemento liscio. Landsman è pagato - e vive - per notare ciò che alla maggior
parte delle persone sfugge, ma ha l'impressione di non aver mai prestato sufficiente attenzione, fino a quando non è entrato per la prima volta nel laboratorio dell'esperto di confini, alle corde. Corde, spaghi, funi, filamenti, nastri, fili, sagole, gomene, e cavi; di polipropilene, canapa, gomma, rame gommato, kevlar, acciaio, seta, lino, velluto intrecciato. L'esperto di confini conosce ampie porzioni del Talmud a memoria. Topografia, geografia, geodesia, geometria, trigonometria, per lui sono un riflesso istintivo, come prendere la mira con la canna di una pistola. Ma in realtà l'esperto di confini vive e muore per la qualità delle sue corde. La maggior parte - si possono misurare in chilometri, o in versht, o in palmi, come si addice a un vero esperto di confini - sono avvolte ordinatamente su rocchetti appesi alle pareti, o impilate con cura, in base alle dimensioni, su cilindri metallici. Molte però sono semplicemente ammucchiate alla rinfusa qua e là, in viluppi e grovigli. Come rovi, capelli impigliati in una spazzola, enormi e magici nodi spinosi di corde e cavi, che rotolano per il laboratorio come matasse d'erba mobile. «Lui è il detective Landsman, professore, il mio collega» dice Berko. «Se ha bisogno di qualcuno che le dia il tormento, glielo consiglio.» «Rompipalle come te?» «Non può immaginare quanto.» Landsman e il professore si stringono la mano. «Io questo lo conosco» dice l'esperto di confini, avvicinandosi a guardare meglio Landsman. Fissandolo con gli occhi socchiusi, come se fosse una delle sue diecimila mappe. «È stato lui a catturare quello psicopatico, Podolsky. E a mandare in galera Hyman Tsharny.» Landsman si irrigidisce, e scrolla via la guaina protettiva dal suo scudo antiesplosione, pronto a sentirsene dire di tutti i colori. Hyman Tsharny, riciclatore di denaro sporco e proprietario di una catena di videoteche, aveva pagato due shlosser filippini - sicari a pagamento - perché gli dessero una mano a consolidare un affare complicato. Ma l'informatore migliore di cui Landsman dispone è Benito Taganes, il re delle frittelle cinesi alla filippina. Furono proprio le dritte di Benito a condurre Landsman alla tavola calda vicino all'aeroporto dove gli sventurati shlosser erano in attesa di un aereo, e fu la loro testimonianza a condannare Tsharny, a dispetto di tutti gli sforzi fatti dal giub-
botto antiproiettile di avvocati che i soldi dei Verbover erano riusciti ad assemblare. Hyman Tsharny è a tutt'oggi l'unico Verbover mai processato e condannato nel distretto. «Ma guardalo.» La parte inferiore della faccia di Zimbalist si dischiude. I suoi denti sono come canne di un organo fatto d'ossa. La sua risata ha il suono di una manciata di forchette e chiodi arrugginiti gettati a terra. «Lui pensa che di questa gente me ne freghi qualcosa, possano i loro lombi avvizzire come le loro anime.» L'esperto smette di ridere. «Cos'è, pensavi che fossi uno di loro?» Suona come la domanda più pericolosa che Landsman si sia mai sentito rivolgere. «No, professore» risponde. Landsman nutriva anche qualche dubbio sul fatto che Zimbalist fosse davvero un professore, ma lì nell'ufficio, sopra la testa dello studente senza barba che si accapiglia con il bollitore elettrico, ci sono le credenziali e i certificati incorniciati della Yeshiva di Varsavia (1939) della Libera università degli studi polacca (1950) e del politecnico Bronfman (1955). E poi tutti quegli attestati, le haskamos e gli affidavit, ciascuno nella sua sobria cornice nera, rilasciati, sembrerebbe, da ogni singolo rabbino del distretto, dal più scalcagnato al più potente, da Yakovy a Sitka. Landsman dà un'altra plateale squadrata a Zimbalist, ma è evidente già solo dall'ampio zucchetto che gli copre l'eczema sulla nuca, con quell'elaborato ricamo di filo color argento, che l'esperto di confini non è un Verbover. «Non farei mai un errore del genere.» «Ah, no? E sposare una di loro, come ho fatto io? Un errore come quello lo faresti?» «In fatto di matrimoni, gli errori preferisco lasciarli fare agli altri» controbatte Landsman. «Per esempio alla mia ex moglie.» Zimbalist fa loro cenno di seguirlo, oltre il grande tavolo in rovere per le mappe, verso due sedie rotte con lo schienale a pioli sistemate accanto a un enorme scrittoio con serranda avvolgibile. Il ragazzo non riesce a farsi da parte in tempo, e l'esperto di confini lo prende per un orecchio. «Ma che stai facendo?» Gli afferra una mano. «Guarda che unghie! Feh!» Lascia andare la mano come se fosse un pezzo di pesce avariato. «Via, vattene, accendi la radio. Cerca di scoprire dove sono finiti quei deficienti, e come mai ci stanno mettendo tanto.»
Poi Zimbalist versa dell'acqua in una teiera, e ci butta dentro un pugno di foglioline di tè sfuso che somigliano in modo sospetto a frammenti di corda. «Un eruv, dovevano ispezionare. Uno! Do lavoro a dodici uomini, e non uno che sia in grado di trovarsi le dita dei piedi in fondo ai calzini.» Landsman si è impegnato parecchio per evitare di dover afferrare concetti come quello dell'eruv, ma quello che sa è che è un sotterfugio tipico del rituale ebraico, un raggiro compiuto ai danni di Dio, quel bastardo che si crede di poter controllare ogni cosa. Ha a che vedere con il fatto di fingere che i pali del telefono siano stipiti di porte, e i fili architravi. Puoi recintare uno spazio con pali e corde e stabilire che quello è un eruv. Poi, quando arriva lo Shabbat, fai finta che questo eruv che hai delimitato - nel caso di Zimbalist e della sua cricca corrisponde più o meno all'intero distretto - sia casa tua. Così puoi aggirare il divieto di trasportare oggetti in luoghi pubblici durante lo Shabbat, e andartene alla sinagoga con un paio di Alka-Seltzer in tasca senza commettere peccato. Con la giusta quantità di corda, un numero sufficiente di pali e un utilizzo creativo di pareti, recinzioni, scogliere e fiumi, puoi recintare praticamente qualsiasi posto e dire che è un eruv. Ma ci vuole qualcuno che questi confini li tracci, che sorvegli il territorio, che si occupi della manutenzione di corde e pali e preservi l'integrità di queste pareti e porte immaginarie contro le intemperie, gli atti vandalici, gli orsi e la compagnia telefoni ca. È qui che entra in gioco l'esperto di confini. Lui detiene il monopolio sul mercato delle corde e dei pali. I primi ad assumerlo sono stati i Verbover, e con il sostegno delle loro maniere forti, uno dopo l'altro i Satmar, i Bobov, i Lubavitch, i Ger e tutte le altre sette di cappelli neri hanno finito per affidarsi ai suoi servizi e alla sua competenza. Quando sorge una controversia sul fatto che questo o quel pezzo di marciapiede o lungolago rientri o meno in un eruv, è Zimbalist, che pure non è un rabbino, la persona a cui tutti i rabbini si rimettono. Dalle sue mappe, e dai suoi uomini, e dalle sue matasse di spago da imballaggio in propilene, dipende lo stato delle anime di ogni ebreo osservante del distretto. Per certi versi è l'uomo più potente della città. Ecco perché può starsene seduto dietro il suo grande tavolo di rovere a settantadue caselle, nel cuore stesso dell'isola Verbov, a bersi un bicchiere di tè con l'uomo che ha
incastrato Hyman Tsharny. «Ma che le piglia?» dice a Berko, adagiandosi con un cigolio gommoso su un cuscino gonfiabile a forma di ciambella. Prende un pacchetto di Broadway dal portasigarette sul tavolo. «Perché se ne va in giro a terrorizzare tutti con quella sua mazza?» «Il mio collega è rimasto deluso dall'accoglienza che abbiamo ricevuto» risponde Berko. «Mancava di un certo calore da Shabbat» dice Landsman, accendendosi un papiro a sua volta. «Almeno secondo me.» Zimbalist fa scivolare sul tavolo un posacenere di rame triangolare. Su un fianco c'è scritto «Tabaccheria Krasny's», che è dove Isidor Landsman andava a comprare la sua copia mensile della «Rivista degli scacchi». La Tabaccheria Krasny's, con la sua biblioteca circolante, il suo humidor enciclopedico, e il suo annuale concorso di poesia, è stata schiacciata da una catena di negozi americana anni fa, e alla vista di quel posacenere famigliare la fisarmonica del cuore di Landsman soffia una lunga nota nostalgica. «Due anni della mia vita, ho regalato a questa gente» dice Berko. «Uno come minimo si aspetta che qualcuno si ricordi di lui. Sono così facile da dimenticare?» «Si lasci dire una cosa, detective.» Con un altro cigolio di gomma Zimbalist è di nuovo in piedi, e versa il tè in tre bicchieri sporchi. «Per come si riproduce la gente da queste parti, quelli che ha visto oggi per strada non sono gli stessi che conosceva otto anni fa. Sono i loro nipoti. Qui ormai le donne nascono già incinte.» Porge a entrambi un bicchiere fumante, troppo caldo per tenerlo in mano. Landsman si brucia i polpastrelli. Il tè odora d'erba, rosa canina, con una possibile sfumatura di corda. «Continuano a sfornare nuovi ebrei» dice Berko, mescolando nel bicchiere una cucchiaiata di marmellata. «E nessuno che sforni posti in cui metterli.» «Proprio così» dice Zimbalist mentre il suo culo ossuto atterra sulla ciambella. Fa una smorfia. «Sono tempi strani per essere un ebreo.» «Non da queste parti, si direbbe» lo corregge Landsman. «La vita sull'isola Verbov è rigorosamente la stessa di sempre. Una BMW rubata in ogni garage e una gallina parlante in ogni pentola.»
«Questa è gente che non si preoccupa finché non glielo dice il Rebbe» ribatte Zimbalist. «Forse non hanno motivo di preoccuparsi» dice Berko. «Forse il Rebbe ha già risolto il problema.» «Non saprei proprio.» «Non ci credo nemmeno per un secondo.» «E allora non ci creda.» Una delle serrande del garage comincia a riavvolgersi sugli ingranaggi, ed entra un furgone bianco, con una maschera di neve bianco acceso sul parabrezza. Quattro uomini in tuta gialla scendono dal furgone, con i nasi rossi, le barbe raccolte in retine nere. Cominciano a soffiarsi il naso e a battere i piedi per terra, e Zimbalist deve andare da loro a strillargli addosso. A quanto pare c'è stato un problema vicino al laghetto artificiale del parco Sholem-Aleykhem, qualche idiota del comune ha tirato su una parete per la pallamuro proprio in mezzo a una porta immaginaria tra due pali della luce. Si avvicinano tutti quanti al tavolo delle mappe in mezzo all'ufficio. Nel frattempo Zimbalist tira fuori la mappa giusta e la srotola, alla vista di Landsman e Berko uno dopo l'altro i membri della squadra annuiscono e inarcano i muscoli della fronte. Poi si limitano a ignorarli. Un paio di shammesim sono una brezzolina fantasma che li sfiora appena. «Dicono che l'esperto abbia una mappa delle corde per ogni città in cui girino almeno dieci uomini ebrei» dice Berko a Landsman. «Gerico inclusa.» «È una voce che ho messo in giro io» dice Zimbalist senza staccare gli occhi dalla mappa. Individua il posto in questione, e uno dei ragazzi gli disegna la parete per la pallamuro con un mozzicone di matita. Zimbalist escogita rapido una soluzione di fortuna che reggerà fino a domani al tramonto, un nuovo saliente nel grande muro immaginario dell'eruv. Quindi rispedisce i suoi ragazzi all'Harkavy, a piazzare una specie di tubo di plastica tra due pali del telefono vicini, affinché i Satmar che vivono lungo il lato est del parco Sholem-Aleykhem possano portare a spasso i loro cani senza mettere a repentaglio le loro anime. «Chiedo scusa» dice poi, tornando a sedersi al tavolo. Fa una smorfia infastidita. «Stare seduto per me non è più un piacere. Allora, che cosa posso fare per voi? Dubito fortemente che siate venuti qui a farmi domande sul reshut harabim.»
«Stiamo indagando su un omicidio, professor Zimbalist» dice Landsman. «E abbiamo motivo di credere che il morto fosse un Verbover, o che abbia avuto legami con i Verbover, almeno in passato.» «Legami» gli fa eco l'esperto, lasciando intravedere ai due detective uno scorcio di quelle sue stalattiti come canne d'organo, «Effettivamente è il mio campo.» «Stava in un albergo di Max Nordau Street, sotto il nome di Emanuel Lasker.» «Lasker? Come lo scacchista?» Nella pergamena della fronte gialla di Zimbalist appare un solco, e un ciuffo di lanugine e acciaio nel profondo delle sue cavità oculari: sorpresa, sconcerto, una scintilla nella memoria. «Una volta mi interessavo agli scacchi» spiega. «Tanto tempo fa.» «Anch'io» dice Landsman. «E anche il nostro morto, proprio fino all'ultimo. Accanto al corpo c'era una scacchiera con una partita in corso. Leggeva Siegbert Tarrasch. Ed era noto agli habitué del Club scacchistico Einstein. Lì lo conoscevano come Frank.» «Frank» ripete l'esperto di confini, imprimendo al nome una nasalità yankee. «Frank, Frank, Frank. Era il nome? Tra gli ebrei è diffuso come cognome, ma come nome no. Avete la certezza che fosse ebreo, questo Frank?» Berko e Landsman si scambiano una rapida occhiata. Di certezze non ne hanno. I filatteri che hanno trovato nel cassetto della stanza potevano essere una falsa prova, un ricordo dimenticato da chi aveva occupato la stanza 208 prima di lui. All'Einstein nessuno ha detto di aver mai visto il tossico morto in sinagoga, a dondolarsi nella morsa della preghiera in piedi. «Abbiamo motivo di credere» ripete Berko con calma «che un tempo possa essere stato un ebreo Verbover.» «E quale sarebbe questo motivo?» «Diciamo che abbiamo trovato un paio di pali telefonici adatti» dice Landsman «e li abbiamo uniti con una corda.» Si infila una mano in tasca e tira fuori una busta. Appoggia una delle polaroid post-mortem scattate da Shpringer sul tavolo davanti a Zimbalist. Zimbalist la prende con il braccio teso, e la osserva quanto basta per farsi l'idea che si tratti della foto di un cadavere. Inspira profondamente e arriccia le labbra, apprestandosi a snocciolare un parere professorale sulla prova in questione. La foto di un morto effettivamente costituisce uno stacco
nella routine della vita di un esperto di confini. Poi la guarda di nuovo, e un istante prima che riacquisti il totale controllo dei suoi lineamenti, Landsman vede Zimbalist ricevere un fulmineo pugno nello stomaco. Il fiato gli abbandona i polmoni, e il sangue gli si prosciuga dal viso. Il bagliore della sua intelligenza da esperto si spegne. Per un attimo, Landsman intravede la polaroid di un esperto di confini morto. Poi nel viso del vecchio la luce si riaccende. Berko e Landsman attendono un po', poi un altro po', e Landsman capisce che l'esperto di confini sta facendo i salti mortali per mantenere il controllo di sé, per restare aggrappato alla possibilità che le sue prossime parole siano: Detective, io quest'uomo non l'ho mai visto in vita mia, e riescano a suonare credibili, inesorabili, vere. «Chi era, professor Zimbalist?» chiede infine Berko. Zimbalist appoggia la fotografia sul tavolo e la fissa ancora, incurante di ciò che nel frattempo possano fare i suoi occhi o le sue labbra. «Oh, quel ragazzo» dice. «Quel caro, caro ragazzo.» Prende un fazzoletto dalla tasca del suo cardigan con la cerniera e si asciuga le lacrime dalle guance, poi emette un latrato. È un suono orribile. Landsman prende il bicchiere di tè dell'esperto e lo versa nel suo. Recupera dalla tasca del cappotto la bottiglietta di vodka che ha confiscato al mattino nel bagno degli uomini del Vorsht, ne versa due dita e quindi porge il bicchiere al vecchio. Zimbalist accetta la vodka senza dire una parola, e la manda giù tutta d'un fiato. Poi si rimette il fazzoletto in tasca e restitui sce la fotografia a Landsman. «Ho insegnato io a giocare a scacchi a quest'uomo» dice. «Quand'era bambino, cioè. Prima che diventasse adulto. Scusate, sto straparlando.» Fa per prendere una Broadway, ma se le è già fumate tutte. Ci mette un po' a rendersene conto. Rimane seduto lì, rovistando nella stagnola con un dito ricurvo, come cercando la sorpresa in un sacchetto di patatine. Landsman gli offre una sigaretta. «Grazie, Landsman. Grazie.» Poi però Zimbalist non aggiunge altro, se ne sta lì a guardare il papiro che si consuma. Dalle orbite cavernose dei suoi occhi scruta Berko, quindi lancia a Landsman un'occhiata furtiva da giocatore di poker. Sta cominciando a riprendersi dallo shock. Cerca di mappare la situazione, i confini che non può valicare, le porte che non deve oltrepassare per non mettere in pericolo
la sua anima. Il granchio peloso e chiazzato della sua mano fa guizzare una zampa verso il telefono sul tavolo. Tra un minuto la verità e l'oscurità della vita verranno di nuovo affidate alla custodia degli avvocati. La serranda del garage cigola e sferraglia, e con un mugolio di gratitudine Zimbalist accenna ad alzarsi di nuovo, ma questa volta Berko è più veloce. La sua mano pesante cala sulla spalla del vecchio. «Si sieda, professore» dice. «La prego. Si prenda il tempo che le serve, se necessario, ma mi faccia il favore di posare il culo su quella ciambella.» Lascia la mano lì dov'è, dando a Zimbalist una delicata strizzatina, quindi accenna col capo in direzione del garage. «Meyer.» Landsman attraversa il laboratorio diretto al garage, e intanto tira fuori il distintivo. Si piazza dritto sulla traiettoria del furgone, come se il distintivo fosse uno scudo in grado di fermare un Chevy da due tonnellate. Il conducente inchioda, e lo strepito dei freni riecheggia contro le mura di pietra fredde del garage. Il conducente abbassa il finestrino. Indossa la divisa zimbalista completa: retina per barba, tuta gialla, cipiglio pronunciato. «Che succede, detective?» vuole sapere. «Vai a farti un giro» risponde Landsman. «Stiamo parlando.» Allunga un braccio verso il pannello che segnala i movimenti dei furgoni e acciuffa per il colletto del lungo cappotto il ragazzo senza barba che gli sta passando accanto di soppiatto. Quindi lo trascina come un cagnolino sul lato del passeggero del furgone, apre la portiera e con delicatezza lo carica sul sedile. «E portati via questo qua.» «Capo?» sbraita il conducente all'esperto di confini. Un attimo dopo Zimbalist annuisce, e con una mano gli fa cenno di andarsene. «Sì, ma dove vado?» chiede il conducente a Landsman. «Non saprei» risponde lui. Chiude la portiera del furgone e gli fa segno di smammare. «Vammi a comprare un bel regalo.» Picchia il pugno sul cofano del furgone, e quello indietreggia nella bufera di linee bianche intrecciate come corde dell'esperto di confini contro le facciate finto-tradizionali delle case e un cielo grigio accecante. Landsman abbassa la serranda del garage e chiude il saliscendi. «Allora, perché non ci racconta tutto dall'inizio?» dice a Zimbalist accomodandosi di nuovo sulla sedia con lo schienale
a pioli. Accavalla le gambe e accende un altro papiro per entrambi. «Di tempo ne abbiamo.» «Forza, professore» dice Berko. «Lei conosceva il morto fin da bambino, giusto? In questo momento avrà un sacco di ricordi che le ronzano in testa. Per quanto stia soffrendo, di sicuro parlare la farà sentire meglio.» «Non è quello» dice l'esperto di confini. «Non... non è quello.» Prende il papiro acceso da Landsman, e questa volta prima di pronunciarsi lo fuma quasi interamente. È un uomo colto, e prima di parlare desidera fare ordine tra i pensieri. «Si chiama Menachem» dice infine. «Mendel. Ha, o meglio, aveva trentott'anni, uno più di lei, detective Shemets, ma era nato lo stesso giorno, il 15 agosto. Giusto? Eh? Lo sapevo. Vede? È questo il vero archivio delle mappe.» Si batte un dito sul cranio spelacchiato. «Qui dentro ci sono le mappe di Gerico, detective Shemets. Di Gerico e di Tiro.» I colpetti sull'archivio delle mappe eccedono in intensità, e Zimbalist si fa cadere dalla testa lo yarmulke. Poi, afferrandola al volo, si riempie la maglia di cenere. «Mendele aveva un quoziente d'intelligenza di 170» prosegue. «A otto o nove anni era in grado di leggere l'ebraico, l'aramaico, il giudeo-spagnolo, il latino e il greco. I testi più difficili, i grovigli di logica e ragionamento più spinosi. Già allora giocava a scacchi meglio di quanto io avrei mai potuto sperare di giocare. Aveva una capacità straordinaria di ricordare le partite trascritte, gli bastava leggerle una volta per riuscire a riprodurle sulla sua scacchiera mentale, mossa dopo mossa, senza il minimo errore. Da grande, quando ormai non lo lasciavano più giocare tanto, ripeteva le partite più famose nella sua testa. Due, tre, anche quattro partite alla volta.» «È quello che dicevano di Melekh Gaystik» osserva Landsman. «Anche lui per gli scacchi aveva una memoria così.» «Melekh Gaystik» dice Zimbalist. «Gaystik era un mostro. Il modo in cui giocava Gaystik non era umano. La sua mente era come un insetto, sapeva solo divorare. Era maleducato. Sporco. Cattivo. Mendele non era affatto come lui. Costruiva giocattoli per le sue sorelle, bambole di feltro e mollette, casette ricavate da scatole di cereali. Aveva sempre le dita sporche di colla, e in tasca una molletta con una faccina attaccata. Io gli davo lo spago per fare i capelli. Aveva otto sorelle, che gli stavano sempre appiccicate. E perfino un'anatra addomesticata, che lo seguiva
dappertutto come un cane.» Le labbra sottili e marroni di Zimbalist si inarcano ai bordi. «Che ci crediate o meno, una volta io organizzai una partita tra Mendel e Melekh Gaystik. Non fu difficile, Gaystik era sempre senza un soldo e pieno di debiti, e per soldi avrebbe giocato anche contro un orso ubriaco. All'epoca il bambino aveva dodici anni, Gaystik ventisei. Fu l'anno prima che vincesse il mondiale a San Pietroburgo. Giocarono tre partite nel retro del mio laboratorio, che all'epoca, se lei ricorda, detective, si trovava in Ringelblum Avenue. A Gaystik offrii cinquemila dollari per giocare contro Mendele. Il bambino vinse la prima e la terza. Alla seconda gli toccarono i neri, e costrinse Gaystik a una patta. Ebbene sì. Gaystik fu più che felice di mantenere il segreto su quelle partite.» «Perché?» vuole sapere Landsman. «Perché le partite dovevano rimanere segrete?» «Perché questo bambino» dice l'esperto di confini «è quello che è morto in una stanza d'albergo di Max Nordau Street. Non un bell'albergo, immagino.» «Una topaia» precisa Landsman. «Faceva uso di eroina?» Landsman annuisce, e dopo un paio di secondi di tensione annuisce anche Zimbalist. «Ma sì, naturalmente. Allora, il motivo per cui fui costretto a organizzare le partite segretamente era che a questo bambino avevano proibito di giocare a scacchi con gli esterni. In un modo o nell'altro, non ho mai saputo come, il padre di Mendele venne a sapere della partita contro Gaystik. Era una questione che mi toccava da vicino. Nonostante quell'uomo fosse imparentato con mia moglie, per poco non persi la sua haskama, che all'epoca era la base dei miei affari. Sul consenso di suo padre ho costruito tutta la mia attività.» «Il padre. Vorrà mica dire... che era Heskel Shpilman?» dice Berko. «L'uomo in questa foto è il figlio del Verbover Rebbe.» Landsman si rende conto solo ora del silenzio che regna sull'isola Verbov, sotto la neve, dentro un granaio di pietra, con il buio che si avvicina, mentre la settimana profana e il mondo che l'ha profanata si apprestano a immergersi nella fiamma di due identiche candele. «Esatto» dice infine Zimbalist. «Mendel Shpilman. Unico figlio maschio. Aveva un fratello gemello, che però nacque morto. In seguito la cosa fu interpretata come un segno.»
«Un segno di cosa?» chiede Landsman. «Che lui sarebbe diventato un prodigio? Un tossico di casa in un alberghetto squallido dell'Untershtat?» «No» dice Zimbalist. «Questo non se lo sarebbe immaginato nessuno.» «Dicevano... si raccontava che...» inizia Berko. Poi i suoi lineamenti si increspano, come se sapesse che ciò che sta per dire è destinato a irritare Landsman, o a fornirgli un motivo per deriderlo. Riapre i piccoli occhi scuri, lascia che passi. Non ce la fa a dirlo. «Mendel Shpilman. Dio santo, ho sentito certe storie...» «Un sacco di storie» dice Zimbalist. «Nient'altro che storie, finché lui non compì vent'anni.» «Che genere di storie?» chiede Landsman irritato. «Che storie? Volete parlare, accidenti a voi?»
Capitolo quattordici
E così Zimbalist gli racconta una delle storie che girano su Mendel. C'era una donna, comincia, che stava morendo di cancro all'ospedale centrale di Sitka. «Una sua conoscente», la definisce. Era il 1973. Questa donna era rimasta vedova due volte: il primo marito, un giocatore d'azzardo ucciso da degli shtarker in Germania prima della guerra; il secondo, una scimmietta ammaestrata al soldo di Zimbalist, che morì toccando un cavo elettrico scoperto. Fu sostenendo con soldi e favori la vedova del suo dipendente morto che Zimbalist la conobbe. Non è da escludere che si siano innamorati. Entrambi avevano da un pezzo superato l'età delle sciocche passioni adolescenziali, e così erano appassionati senza essere sciocchi. Lei era una donna bruna e snella ed era già abituata a controllare i suoi appetiti. Nascosero la loro relazione a tutti, specialmente alla signora Zimbalist. Per andare a trovare la sua amica in ospedale, quando si ammalò, Zimbalist dovette ricorrere a sotterfugi, muoversi di nascosto e corrompere gli inservienti. Dormiva nella corsia, su un asciugamano steso a terra, raggomitolato tra il letto di lei e la parete. Nella penombra, quando la sua amante lo chiamava dalle lontananze della morfina, lui le versava acqua tra le labbra screpolate, e le rinfrescava la fronte con un panno umido. L'orologio dell'ospedale ronzava, si faceva impaziente, mentre la lancetta dei minuti continuava a triturare pezzetti di notte. Al mattino Zimbalist sgattaiolava di nuovo nel suo laboratorio in Ringelblum Avenue - alla moglie raccontava di aver dormito lì perché russava troppo e non voleva svegliarla - e aspettava l'arrivo del bambino. Quasi ogni mattina, dopo la preghiera e lo studio, Mendel Shpilman veniva a giocare a scacchi. Il gioco degli scacchi gli era permesso, sebbene il rabbinato Verbover e la comunità dei
credenti in generale lo ritenessero uno spreco di tempo. Più Mendel cresceva - più le sue gesta di studioso si facevano sbalorditive, e la fama per quell'acume che travalicava la sua età diveniva luminosa - più tale spreco appariva doloroso. Non erano soltanto la memoria di Mendel, la sua agilità di ragionamento, la capacità di comprendere i precedenti, la storia, la legge. No, fin da bambino Mendel Shpilman sembrava intuire il caotico flusso umano che alimenta la Legge e al tempo stesso rende necessario il suo elaborato sistema di scarichi e chiuse. Paura, dubbio, lussuria, disonestà, giuramenti infranti, assassinii e amore, incertezza sulle intenzioni di Dio e degli uomini, il piccolo Mendel vedeva tutto ciò non soltanto nell'astrattezza dell'aramaico, ma anche quando quelle stesse passioni si manifestavano nello studio di suo padre, avvolte nella stoffa scura e nella corposa lingua madre della vita di tutti i giorni. Se mai nella mente di quel bambino sorsero conflitti, dubbi in merito all'importanza della Legge che stava imparando nel tribunale dei Verbover, ai piedi di un manipolo di ladri e imbroglioni a tutto tondo, non trapelarono mai. Non quand'era un ragazzo che credeva, e nemmeno quando venne il giorno in cui voltò le spalle a tutto quanto. Aveva il genere di mente capace di sostenere e soppesare proposte tra loro contraddittorie senza perdere l'equilibrio. Era l'orgoglio che gli Shpilman provavano per la sua eccellenza di figlio e studioso a permettere loro di tollerare il lato del carattere di Mendel che aveva come unico amore il gioco. Mendel inventava in continuazione elaborati giochi e scherzi, metteva in scena spettacolini che avevano come protagonisti le sorelle, gli zii, l'anatra. C'era chi pensava che il più grande miracolo mai compiuto da Mendel fosse stato convincere il suo temibile padre, anno dopo anno, a interpretare la parte della regina Vashti nel Purimshpiel. Vedere quel cupo imperatore, quella montagna di dignità, quel marcantonio che incuteva soggezione sui tacchi alti! In parrucca bionda! Con rossetto e fard, braccialetti e paillette! Era, con tutta probabilità, il più orripilante esempio di travestitismo maschile che la comunità ebraica avesse mai prodotto. La gente lo adorava. E adorava Mendel, che ogni anno lo rendeva possibile. Ma altro non era che l'ennesima dimostrazione dell'amore che Heskel Shpilman nutriva per il figlio. Ed era in virtù della stessa affettuosa indulgenza che ogni giorno gli per-
metteva di sprecare un'ora giocando a scacchi, a condizione che l'avversario fosse scelto tra i seguaci di Verbov. Tra loro, Mendel scelse l'esperto di confini, l'estraneo solitario. Fu un piccolo segno di ribellione o testardaggine che alcuni, successivamente, avrebbero avuto modo di rivisitare. Nell'orbita Verbov, tuttavia, soltanto a Zimbalist fu concessa la vana speranza di provare a batterlo. «La signora come sta?» chiese Mendel a Zimbalist un mattino, quando l'amica di Zimbalist agonizzava all'ospedale centrale di Sitka già da due mesi, e stava per arrendersi. Per Zimbalist la domanda fu uno shock, nulla di paragonabile a quello subito dal secondo marito della vedova, naturalmente, ma sufficiente a far perdere al suo cuore un paio di colpi. Ricorda ogni singola partita che lui e Mendel Shpilman hanno disputato l'uno contro l'altro, dice, tranne quella; di quella partita riesce a richiamare alla mente una mossa soltanto. La moglie di Zimbalist era una Shpilman, cugina del bambino. La sussistenza economica, l'onore, forse addirittura la vita stessa di Zimbalist dipendevano dal fatto che il segreto sul suo adulterio rimanesse tale. E lui era assolutamente certo che, fino a quel momento, così fosse stato. L'esperto di confini percepiva ogni sussurro e diceria attraverso i suoi cavi e le sue corde, come un ragno avverte nelle zampe il dibattersi di una mosca. Impossibile che la notizia fosse arrivata a Mendel Shpilman senza che prima Zimbalist lo venisse a sapere. «Come sta chi?» disse. Il ragazzo lo guardò. Mendel non era un bel bambino. Aveva la pelle del viso perennemente arrossata, gli occhi troppo ravvicinati, un secondo mento e un accenno di terzo, ma senza traccia visibile del primo. I suoi occhi, però, seppur troppo piccoli e troppo vicini all'attaccatura del naso, erano profondi e screziati, come le macchie sulle ali di una farfalla, d'azzurro, verde, oro. Di compassione, scherno, perdono. Nessun giudizio. Nessun rimprovero. «Non ha importanza» rispose gentilmente Mendel. Poi spostò il suo alfiere di regina, riportandolo nella posizione iniziale. Quella mossa non aveva alcuno scopo che Zimbalist, dopo attenta riflessione, riuscisse a cogliere. Per un attimo ebbe l'impressione che contenesse o sottintendesse scuole di scacchistica fantasmagoriche. Ma subito dopo gli apparve per quello che, con tutta probabilità, era: una sorta di rettifica, offerta nella
speranza che, a differenza della domanda che l'aveva preceduta, non sorprendesse né allarmasse l'amico. Zimbalist passò tutta l'ora successiva ad arrovellarsi per capire quella piccola mossa, e a cercare la forza per impedirsi di confidare, a un bambino di dieci anni il cui universo era limitato alla sala studi, alla sinagoga e alla porta della cucina di sua madre, la sofferenza e la cupa estasi dell'amore che nutriva per la vedova morente, e il modo in cui ogni goccia d'acqua fresca fatta gocciolare tra le sue labbra screpolate riuscisse a placare anche una sua sete segreta. Terminarono l'ora di gioco senza scambiare nemmeno una parola. Ma quando per il bambino venne il momento di andare, si voltò sulla porta del laboratorio di Ringelblum Avenue e strinse la manica della camicia di Zimbalist. Esitò, quasi riluttante, o imbarazzato. O forse ciò che provava era paura. Poi il suo viso assunse un'espressione tesa e contratta, in cui Zimbalist riconobbe la voce interiorizzata del rabbino che ricordava al figlio il suo dovere di servire la comunità. «Quando la vedrà, stasera,» disse Mendel «le porti la mia benedizione. Me la saluti.» «D'accordo» disse, o ricorda di aver detto Zimbalist. «Le dica da parte mia che andrà tutto bene.» Con quel viso da scimmiotto, la bocca triste, quegli occhi che sembravano dire che, per quanto Mendel lo conoscesse e gli volesse bene, era pur sempre possibile che lo stesse prendendo in giro. «Sì, d'accordo» disse Zimbalist, quindi proruppe in singhiozzi convulsi. Il bambino si prese dalla tasca un fazzoletto pulito e glielo porse. Strinse paziente la mano dell'esperto di confini nella sua. Aveva le dita morbide, un po' appiccicose. Sull'interno del polso, la sorella minore Reyzl gli aveva scarabocchiato la sua firma in inchiostro rosso. Quando Zimbalist si ricompose, Mendel lasciò andare la sua mano e si infilò il fazzoletto umido nella tasca dei pantaloni. «Ci vediamo domani» disse. Quella notte, quando Zimbalist entrò di soppiatto nella corsia, un attimo prima di stendere l'asciugamano sul pavimento versò la benedizione del bambino nell'orecchio della sua amante priva di conoscenza. Lo fece senza speranze, e con pochissima fede. Nel buio delle cinque del mattino, l'amica lo svegliò e gli disse di andare a casa a fare colazione con la moglie. Fu la prima cosa coerente che disse dopo settimane.
«Le ha portato la mia benedizione?» chiese Mendel a Zimbalist l'indomani mattina, quando si sedettero a giocare. «Sì.» «Dov'è?» «All'ospedale centrale.» «Con altre persone? In una corsia?» Zimbalist annuì. «E ha portato la mia benedizione anche a queste altre persone?» Zimbalist non ci aveva pensato. «A loro non ho detto niente» rispose. «È gente che non conosco.» «La benedizione è sufficiente per tutti» gli spiegò Mendel. «Gliela porti. Stasera glielo dica.» Ma quella sera, quando Zimbalist andò all'ospedale, la sua amica era stata trasferita in un'altra corsia, dove nessuno era in pericolo di vita, e per una ragione o per l'altra lui si scordò la richiesta del bambino. Due settimane dopo, i dottori dimisero la donna scuotendo la testa increduli. Altre due settimane dopo, una lastra rivelò che nel suo corpo non c'era più traccia di cancro. Nel frattempo lei e Zimbalist avevano interrotto la loro relazione, di comune accordo, e lui aveva ripreso ogni notte a dormire nel letto coniugale. Gli incontri giornalieri con Mendel nel retro del laboratorio proseguirono, per un po', ma Zimbalist si rese conto che non gli procuravano più alcun piacere. L'apparente miracolo di quel cancro curato aveva alterato per sempre i suoi rapporti con Mendel Shpilman. Zimbalist non riusciva a liberarsi dal senso di vertigine che lo assaliva ogni volta che Mendel lo guardava con quei suoi occhietti troppo vicini, screziati di compassione e d'oro. La fede che l'esperto di confini aveva fino a quel momento nutrito nella sua mancanza di fede era stata scossa da una semplice domanda, «La signora come sta?», da una decina di parole di benedizione, da una semplice mossa d'alfiere che sembrava appartenere a una scienza scacchistica superiore a quella da lui conosciuta. Fu per ripagare quel miracolo che Zimbalist organizzò la partita segreta tra Mendel e Melikh Gaystik, re del caffè dell'Hotel Einstein e futuro campione del mondo. Tre partite giocate nel retro di un laboratorio di Ringelblum Avenue, di cui due vinte dal bambino. Quando fu scoperto questo inganno -
ma non l'altro: della relazione clandestina nessuno seppe mai nulla - gli incontri tra Zimbalist e Mendel Shpilman furono interrotti. Da allora, lui e Mendel non condivisero mai più un'altra ora alla scacchiera. «Ecco cosa succede a elargire benedizioni» dice Zimbalist, l'esperto di confini. «Ma Mendel Shpilman ci ha messo molto tempo a capirlo.»
Capitolo quindici
«Tu l'hai già conosciuto quel farabutto» dice Landsman a Berko in tono seminterrogativo, mentre si trascinano al seguito dell'esperto di confini, attraverso la neve dello Shabbat e fino alla porta del Rebbe. Per il viaggio attraverso la piazzetta, Zimbalist si è lavato la faccia e le ascelle in un lavandino nel retro del laboratorio. Ha bagnato un pettine e si è sistemato tutti i suoi diciassette capelli in un'acconciatura ondulata sul cranio. Poi ha indossato una giacca di velluto a coste marrone, un piumino senza maniche arancione, galosce nere, e su tutto un cappotto di pelle d'orso con cintura, che si trascina dietro una scia di naftalina come una sciarpa lunga sei metri. Da un corno d'alce fissato accanto alla porta l'esperto ha preso una specie di pallone da football o di divano in miniatura fatto di pelliccia di ghiottone, e se l'è piazzato in testa. Adesso cammina dondolando davanti ai detective, circondato dal suo odore di naftalina, e sembra un piccolo orso costretto da padroni crudeli a compiere umilianti acrobazie. Manca meno di un'ora al buio, e i fiocchi di neve continuano a cadere come frammenti di luce diurna. Il cielo di Sitka è placcato d'argento opaco, e va ossidandosi rapidamente. «Sì, l'ho conosciuto» dice Berko. «Mi hanno portato da lui subito dopo che ho cominciato ha lavorare nel Quinto Distretto. Hanno allestito una specie di cerimonia nel suo ufficio, sopra la sala studio di S. Ansky Street. Lui mi ha appuntato qualcosa sul cappello, una fogliolina d'oro. Dopodiché ha cominciato a mandarmi un bel cesto di frutta per Purim. Me lo faceva consegnare a casa, anche se io non avevo mai dato a nessuno il mio indirizzo. Ogni anno, pere e arance, finché non ci siamo trasferiti nello Shvartsn-Yam.» «Mi hanno detto che è piuttosto robusto.» «È grazioso. Vedrai.» «Quella roba che ci ha raccontato l'esperto su Mendel. I pro-
digi e i miracoli. Berko, ma tu ci credi?» «Lo sai che per me il punto non è credere o meno, Meyer. Non lo è mai stato.» «Sì, ma tu - sono curioso - tu davvero pensi di stare aspettando il Messia?» Berko fa spallucce, disinteressato alla domanda, tenendo gli occhi fissi sulle galosce nere nella neve. «È il Messia» dice. «Cos'altro puoi fare, se non aspettare?» «E poi quando arriva cosa succede? La pace nel mondo?» «Pace, prosperità. Da mangiare per tutti. Niente malattie né solitudine. Nessuno che vende nulla. Che ne so.» «E la Palestina? Quando arriva il Messia tutti gli ebrei si spostano lì? Nella Terra Promessa? Coi cappelli di pelliccia e tutto quanto?» «Ho sentito che il Messia ha siglato un accordo con i castori» dice Berko. «Niente più pellicce.» Sotto il chiarore del grande lampione a gas, fissato con un braccio di ferro sulla facciata della casa del Rebbe, un gruppetto frastagliato di uomini sta ammazzando le ultime ore della settimana. Parassiti, devoti del rabbino, un paio di scemi del villaggio. Più il solito drappello improvvisato di aspiranti guardie svizzere che complicano il lavoro dei due bikl di guardia ai lati della porta. Tutti stanno dicendo a tutti di andare a casa a benedire la luce con le loro famiglie, di lasciare che il Rebbe consumi la sua cena dello Shabbat in santa pace. Nessuno se ne va, nessuno si ferma. Si scambiano autentiche bugie su miracoli e portenti avvenuti ultimamente, sui modi per fregare il servizio immigrazione canadese, e quaranta nuove versioni della storia dell'indiano con la mazza, che a quanto pare ha recitato l'Alenu facendo una patsch-tanz indiana. Quando sentono lo scricchiolio delle galosce di Zimbalist che si avvicinano sulla piazzetta smettono di fare i loro rumori, uno dopo l'altro, come una calliope che a poco a poco resta a corto di vapore. Sono cinquant'anni che Zimbalist vive in mezzo a loro, eppure, per uno strano intrico di volontà e necessità, rimane un estraneo. È un mago, uno stregone, le sue dita controllano i fili che cingono il distretto, e nei suoi palmi a ogni Shabbat si raccoglie l'acqua salmastra delle loro anime. Appollaiati in cima ai pali dell'esperto di confini, i suoi uomini riescono a vedere in ogni finestra, ad ascoltare ogni telefonata. O almeno così hanno sentito dire questi uomini.
«Devo entrare, di grazia» dice l'esperto dirigendosi verso i gradini dell'ingresso, delimitati da belle ringhiere di svolazzi in ferro battuto. «Fammi passare, amico Belsky.» Gli uomini si fanno da parte come se Zimbalist stesse correndo verso un secchio d'acqua con in mano un oggetto in fiamme. Poi, prima che riescano a richiudere il varco aperto per lui, avvistano Landsman e Berko. Sfoderano allora un silenzio così pesante che Landsman se lo sente premere sulle tempie. Riesce a udire il brusio della neve, e lo sfrigolio che ogni fiocco produce posandosi sul lampione a gas. Gli uomini sfoggiano un repertorio di sguardi arcigni e sguardi innocenti e sguardi così vuoti che rischiano di risucchiare tutta l'aria dai polmoni di Landsman. Qualcuno dice: «E la mazza dov'è?». I detective Landsman e Shemets augurano loro un felice Shabbat. Poi si concentrano sui bikl ai lati della porta, un paio di ragazzi tarchiati, con i capelli rossi, gli occhi sporgenti, i nasi rincagnati e folte barbe lanose del color oro arrugginito di un brodo di carne. Due Rudashevsky rossi, bikl provenienti da una lunga stirpe di bikl, allevati per la semplicità, l'ottusità, la forza e il passo felpato. «Professor Zimbalist» dice il Rudashevsky a sinistra della porta. «Felice Shabbat.» «Anche a te, amico Rudashevsky. Mi dispiace disturbare il vostro turno di guardia in questo tranquillo pomeriggio.» L'esperto di confini si calca in testa il divanetto di pelliccia. È partito bene, ma adesso, quando fa per aprire il cassettino del suo viso, non c'è traccia di monetine. Landsman allunga una mano verso la tasca dei cappotto. Zimbalist rimane lì impalato, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, forse sta pensando che è tutta colpa sua, che sono stati gli scacchi a distogliere quel ragazzo dalla gloria del cammino verso Dio, e adesso lui deve entrare lì dentro e comunicare al padre il triste finale della storia. Landsman si avvicina alla spalla di Zimbalist, con le dita posate intorno al collo freddo e liscio della bottiglietta di vodka canadese che ha in tasca. Sfiora con la bottiglia l'artiglio ossuto di Zimbalist, finché il vecchio trombone non capisce e la stringe. «Yossele, sono il detective Shemets» dice Berko, prendendo in mano la situazione, riparandosi con una mano gli occhi socchiusi nel chiarore diffuso del lampione a gas. Il manipolo di uomini alle loro spalle comincia a mormorare, intuendo il rapi-
do dispiegarsi di qualcosa di brutto e straordinario. Il vento agita i fiocchi di neve appesi ai suoi cento ganci. «Come va?» «Detective» dice il Rudashevsky a destra, forse il fratello di Yossele, forse il cugino. Forse entrambe le cose. «Ci avevano detto che era nel quartiere.» «Lui è il detective Landsman, il mio collega. Puoi per cortesia dire al Rebbe Shpilman che vorremmo rubargli qualche minuto del suo tempo? Credimi, non lo disturberemmo a quest'ora se non fosse davvero importante.» I cappelli neri, perfino i Verbover, non sono soliti sfidare il diritto o l'autorità che hanno i poliziotti a sbrigare le loro faccende nell'Harkavy o sull'isola Verbov. Non collaborano, ma di solito nemmeno interferiscono. Per entrare nella casa del più potente tra i rabbini in esilio, tuttavia, e proprio quando sta per iniziare il momento più sacro della settimana, be', per quello occorre una buona ragione. Per esempio dovergli dire che il suo unico figlio maschio è morto. «Qualche minuto del tempo del rabbino?» dice un Rudashevsky. «Se anche lei avesse un milione di dollari, senza offesa, e con tutto il rispetto, detective Shemets,» dice l'altro, più largo di spalle e con le nocche più pelose di Yossele, appoggiandosi una mano sul cuore, «non varrebbe altrettanto.» Landsman si volta verso Berko. «Giri con tutti quei soldi?» Berko gli rifila una gomitata nel fianco. Landsman non ha mai pattugliato un quartiere di cappelli neri, quand'era un novellino, non ha mai dovuto solcare alla cieca un torbido fondale di sguardi inespressivi e silenzi capaci di stritolare un sottomarino. Landsman non sa mostrare il rispetto necessario. «Andiamo, Yossele. Shmerl, dolcezza» insiste Berko con tono confidenziale. «Mi aspettano a cena. Fateci entrare.» Yossele si accarezza la barba color brodo sul mento. Poi l'altro fa per parlare, con voce sommessa e monocorde. Il bikl indossa, nascosto da uno dei suoi boccoluti cernecchi color rame, un auricolare con microfono incorporato. «Devo chiedervi cortesemente» dice il bikl un attimo dopo, con la forza dell'ordine superiore che gli fluisce sul viso, ammorbidendo i lineamenti e indurendo la parlata, «che genere di questione abbia portato a casa del Rebbe due esimi rappresentanti della legge a quest'ora di un venerdì pomeriggio.» «Imbecilli!» sbotta Zimbalist, forte di una sorsata di vodka,
partendo spedito su per i gradini come un orso da circo sul monociclo. Afferra i baveri del cappotto di Yossele Rudashevsky e con quelli danza, da sinistra a destra, pieno di rabbia e dolore. «Sono venuti per Mendele!» Gli uomini intorno all'ingresso di casa Shpilman nel mentre hanno continuato a borbottare e commentare e criticare lo spettacolo, ma adesso tacciono tutti di colpo. La vita entra ed esce con un sibilo dai polmoni degli uomini raccolti in cerchio, facendogli tremare il muco nel naso. Il calore del lampione fa evaporare la neve. L'aria sembra andare in frantumi con un tintinnio, come un mondo intero di minuscole finestre. E Landsman sente qualcosa che gli fa venire voglia di appoggiarsi una mano alla base della nuca. Landsman è un esperto di entropia, nonché uno scettico sia di mestiere sia per inclinazione naturale. Per Landsman il Paradiso è kitsch, Dio una parola, e l'anima, nel migliore dei casi, la carica della batteria. Ma nell'intervallo di tre secondi che segue il momento in cui Zimbalist grida il nome del figlio perduto del Rebbe, Landsman ha la sensazione che tra quegli uomini di colpo serpeggi rapido qualcosa. Qualcosa che plana su di loro, sfiorandoli con la sua ala. Forse è solo la consapevolezza, che rimbalza da uno all'altro, del perché questi due detective della Omicidi siano venuti qui a quest'ora. O forse è l'antico potere evocativo di un nome in cui un tempo avevano riposto le loro più profonde speranze. O forse è solo che Landsman avrebbe bisogno di farsi una bella dormita in un albergo senza morti. Yossele guarda Shmerl, con l'impasto della fronte che si deforma, tenendo fermo Zimbalist con la dolcezza scervellata di un bruto. Pronuncia qualche altra sillaba nel cuore della casa del Verbover Rebbe. Guarda a est, poi a ovest. Si confronta con il cecchino sul tetto; c'è sempre un cecchino sul tetto, con un mandolino semiautomatico. Poi apre la porta. Yossele lascia entrare Zimbalist, che poggia i piedi a terra con un tintinnio di fibbie di galosce, e gli dà un buffetto su una guancia. «Prego, detective» dice. Appena entri c'è un corridoio rivestito in legno, con una porta in fondo, e sulla sinistra una scala di legno che porta al secondo piano. Le scale e le alzate dei gradini, i pannelli alle pareti, perfino le assi del pavimento, sono tutte ricavate da grosse tavole di un qualche tipo di pino, nodoso e color burro. Sulla parete accanto alla scale c'è una lunga panca bassa, anche quel-
la di pino nodoso, coperta da un cuscino di velluto viola, lucido nei punti più consumati, con sei incavi rotondi frutto di anni di chiappe Verbover. «I signori detective sono gentilmente pregati di attendere qui» dice Shmerl. Lui e Yossele ritornano alle loro postazioni, lasciando Landsman e Berko sotto lo sguardo fisso ma indifferente di un terzo bestione Rudashevsky, che se ne sta appoggiato contro la balaustra in fondo alle scale. «Si accomodi, professore» dice il Rudashevsky all'interno. «Grazie» risponde lui. «Ma preferisco non sedermi.» «Si sente bene, professore?» chiede Berko posando una mano sul braccio dell'esperto. «Un campo da pallamuro» dice Zimbalist, come se stesse rispondendo alla domanda. «Ma chi è che gioca ancora a pallamuro?» Qualcosa nella tasca della giacca di Zimbalist attira l'attenzione di Berko. Landsman appare di colpo incuriosito da una mensola di legno appesa alla parete accanto alla porta, su cui sono impilate parecchie copie di due dépliant lucidi e colorati. Uno si intitola Chi è il Verbover Rebbe? e spiega che in quel momento si trovano nell'ingresso formale o cerimoniale della casa, mentre la famiglia va e viene e sbriga le sue faccende nell'altra ala, proprio come a casa del presidente degli Stati Uniti. L'altro dépliant a disposizione del pubblico si chiama Cinque grandi verità e cinque grandi bugie sul chassidismo Verbover. «Ho già visto il film» dice Berko, leggendo da dietro le spalle di Landsman. La scala cigola. Il Rudashevsky bofonchia, come se annunciasse un cambiamento nel menu: «Rabbino Baronshteyn». Landsman conosce Baronshteyn solo di fama. Anche lui un enfant prodige, con una laurea in giurisprudenza oltre alla smikhah, ha sposato una delle otto figlie del Rebbe. Non si fa mai fotografare, e non esce mai dall'isola Verbov, a meno che non si voglia credere alle storie che lo vorrebbero raggiungere di nascosto qualche squallido motel di South Sitka nel cuore della notte per punire personalmente qualcuno che ha fatto la cresta sulle lotterie illegali, o un sicario che ha fallito la missione. «Detective Shemets, dectective Landsman. Sono Aryeh Baronshteyn, il gabay del Rebbe.» Landsman è sorpreso di quant'è giovane, a occhio e croce sui
trent'anni. Alto, fronte stretta, occhi neri e duri come pietre lasciate su una tomba. Nasconde la bocca femminea sotto la virile lanugine di una barba salomonica, munita di puntuali striature grigie a suggerire maturità. I cernecchi ai lati del viso sono morbidi e curati. Ha l'aria di uno che mortifica il corpo, ma gli abiti tradiscono l'antico amore dei Verbover per lo sfoggio. I polpacci, nella calzamaglia bianca sorretta da fasce di seta, sono grossi e muscolosi. I piedi lunghi sono racchiusi da pantofole di morbido velluto nero. La veste sembra di recente fattura e confezionata su misura dagli aghi della sartoria Moses & Figli di Asch Street. Solo il semplice zucchetto lavorato a maglia ha un aspetto modesto. Sotto, i capelli tagliati a spazzola luccicano come la testa di una smerigliatrice. Il viso non mostra segni di diffidenza, ma Landsman riesce a vedere con chiarezza i punti in cui la diffidenza è stata cancellata con cura. «Rabbino Baronshteyn» mormora Berko togliendosi il cappello. Landsman fa lo stesso. Baronshteyn tiene le mani infilate nelle tasche della veste, che è di raso, con baveri di velluto e risvolti sulle tasche. Si sta sforzando di mostrarsi a suo agio, ma certi uomini non sono proprio capaci di stare fermi con le mani in tasca e al tempo stesso avere un'aria naturale. «Che cosa vi porta qui?» dice. Accenna a guardare l'orologio da polso, facendolo emergere dal polsino della camicia di cotone giusto il tempo perché loro riescano a leggere il nome Patek Philippe sul quadrante. «È molto tardi.» «Dobbiamo parlare con il Rebbe Shpilman» risponde Landsman. «Se il suo tempo è così prezioso, allora non vogliamo certo sprecarlo parlando con lei.» «Non è certo il mio tempo che temo sprechiate, detective Landsman. E posso dirle fin d'ora che, se tenta di adottare in questa casa l'atteggiamento irrispettoso e i comportamenti inqualificabili per cui è tristemente noto, non le sarà permesso restare. È chiaro?» «Mi sa che lei mi confonde con l'altro detective Meyer Landsman» dice Landsman. «Io sono quello che fa semplicemente il suo lavoro.» «Dunque siete venuti qui nell'ambito di un'indagine su un omicidio? Posso chiedervi in che modo la cosa riguardi il rabbino?» «Abbiamo davvero bisogno di parlare col Rebbe» dice Ber-
ko. «Se lui ci dirà che desidera la sua presenza, lei sarà più che benvenuto. Ma con tutto il rispetto, rabbino, non siamo venuti qui per rispondere alle sue domande. Tantomeno per far perdere tempo a chicchessia.» «Oltre a essere il consigliere del Rebbe, detective, io sono il suo avvocato. Lei lo sa.» «Ne siamo consapevoli.» «Il mio studio si trova sul lato opposto della piazza» dice Baronshteyn, avvicinandosi alla porta d'ingresso e aprendola come un usciere cortese. Oltre la soglia, la neve cade fitta, luccicando nella luce del lampione come un infinito jackpot di monetine. «Sono certo che potrò rispondere a tutte le vostre domande.» «Baronshteyn, ragazzino. Lasciali lavorare.» Zimbalist è in piedi, col cappello che gli è scivolato su un orecchio, avvolto nella giacca troppo larga e frusta, e nel suo miasma di naftalina e dolore. «Professor Zimbalist...» Il tono di Baronshteyn è di avvertimento, ma il suo sguardo si intenerisce posandosi sui ruderi dell'esperto di confini. È probabile che non l'abbia mai visto mostrare qualcosa di simile a un'emozione. È evidente che lo spettacolo gli interessa. «Si contenga.» «Volevi tanto prendere il suo posto. Be', ora ci sei riuscito. Come ci si sente?» Zimbalist avanza di un passo verso il gabay. In questo momento, nello spazio che li separa, devono intrecciarsi trappole di fili e cavi di ogni tipo. Ma per una volta l'esperto di confini sembra aver smarrito la mappa delle sue corde. «Ancora adesso è più vivo lui di quanto tu sarai mai, brutto pesce lesso, statua di cera che non sei altro.» Si avventa oltre Berko e Landsman, allungando le mani verso l'appiglio del collo del gabay. Baronshteyn non fa una piega. Berko afferra Zimbalist per la cintura del cappotto d'orso, e lo tira indietro. «Chi è?» dice Baronshteyn. «Di chi state parlando?» Guarda Landsman. «Detective, è successo qualcosa a Mendel Shpilman?» Più tardi Landsman riesaminerà la performance con Berko, ma la prima impressione è che Baronshteyn sembri sorpreso da quella possibilità. «Professore,» dice Berko «le siamo grati per l'aiuto. Grazie.» Tira su la cerniera del maglione di Zimbalist e gli abbottona la
giacca. Sovrappone i due lati del cappotto di pelle d'orso e gli annoda stretta la cintura intorno alla vita. «Adesso, per favore, torni a casa. Yossele, Shmerl, qualcuno accompagni il professore a casa, prima che la moglie si preoccupi e chiami la polizia.» Yossele lo prende per il braccio, e insieme si incamminano giù per i gradini. Berko chiude la porta per tenere fuori il freddo. «Ci porti dal rabbino, consigliere» dice. «Immediatamente.»
Capitolo sedici
Il rabbino Heskel Shpilman è una montagna deformata, un gigantesco dessert venuto male, una casa da cartone animato con le finestre chiuse e il rubinetto del lavello lasciato aperto. Pare assemblato da un bambino, da una banda di bambini, orfani ciechi che non hanno mai visto un uomo in vita loro. Lo hanno fatto di pasta per il pane, attaccandogli le braccia al blocco del corpo, ci hanno schiaffato sopra la testa. Con la distesa di seta e velluto nero costituita dalla sottile veste e dai pantaloni del rabbino, un miliardario potrebbe ricoprire interamente la sua Rolls-Royce. Occorrerebbe la potenza d'intelletto dei diciotto più grandi saggi della storia per dipanare la matassa degli argomenti favorevoli e contrari all'ipotesi di classificare il mastodontico sedere del rabbino come una creatura degli abissi, una struttura di fabbricazione umana, o un inevitabile atto di Dio. Che stia in piedi o seduto, ciò che uno vede di lui non cambia. «Proporrei di saltare i convenevoli» dice il Rebbe. La sua voce ha un timbro acuto, buffo, è la voce dello studioso dalle forme proporzionate che un tempo probabilmente è stato. Landsman ha sentito dire che si tratta di un disturbo ghiandolare. Ha sentito dire che il Verbover Rebbe, malgrado la sua stazza, osserva la dieta di un martire, brodo e radici e una crosta di pane al giorno. Landsman però preferisce immaginarlo dilatato dal gas della violenza e della corruzione. Con la pancia piena di ossa, scarpe e cuori umani, semidigeriti nell'acido della sua Legge. «Sedetevi e ditemi ciò che siete venuti a dirmi.» «Naturalmente, Rebbe» dice Berko. Si accomodano ciascuno su una sedia davanti alla scrivania del rabbino. L'ufficio è puro impero austroungarico. Behemoth di mogano, ebano e acero occhiellato affollano le pareti, decorate come quelle di una cattedrale. Nell'angolo accanto alla por-
ta troneggia il famoso Orologio Verbover, un reduce della vecchia casa in Ucraina. Saccheggiato dopo il crollo della Russia e spedito in Germania, sopravvisse alla bomba atomica lanciata su Berlino nel 1946, e a tutti i disordini delle epoche che seguirono. Le lancette scorrono in senso antiorario, così come la numerazione, che utilizza dodici lettere dell'alfabeto ebraico. Il suo recupero segnò un punto di svolta nelle sorti della corte Verbover, dando inizio all'ascesa di Heskel Shpilman. Baronshteyn prende posizione dietro il rabbino e alla sua destra, davanti a un leggio da cui può tenere un occhio sulla strada, un altro sul volume di turno da sfogliare in cerca di precedenti e giustificazioni, e un altro ancora, quest'ultimo un occhio interiore privo di palpebre, sull'uomo che costituisce il perno della sua esistenza. Landsman si schiarisce la gola. È il detective responsabile delle indagini, e questo compito tocca a lui. Lancia un'altra fugace occhiata all'Orologio Verbover. Avanzano sette minuti di questa penosa settimana. «Prima che cominciate, detective,» dice Aryeh Baronshteyn «permettetemi di dire che sono qui in veste di avvocato del Rebbe Shpilman. Rabbe, se ha qualsiasi dubbio sull'opportunità di rispondere o meno a una domanda rivoltale dai detective, la prego di evitare di farlo, e di consentirmi di chiedere loro di chiarirla o riformularla.» «Guardi che questo non è un interrogatorio, rabbino Baronshteyn» dice Berko. «Qui sei il benvenuto, Aryeh. Più che benvenuto» dice il rabbino. «Anzi, insisto che tu sia presente. Ma come mio gabay e mio genero. Non come avvocato. Ora non ho bisogno di un avvocato.» «Se mi consente, caro Rebbe, questi signori sono detective della Omicidi. Lei è il Verbover Rebbe. Se non ha bisogno di un avvocato lei, allora non ne ha bisogno nessuno. E mi creda, tutti hanno bisogno di un avvocato.» Estrae un taccuino dall'interno del leggio, dove senza dubbio conserva le fiale di curaro e le collane di orecchie umane mozzate. Svita il tappo di una penna stilografica. «Quantomeno prenderò appunti.» Il Verbover Rebbe contempla Landsman da dentro la fortezza delle sue carni. Ha occhi chiari, tra il verde e l'oro. Non somigliano affatto ai ciottoli abbandonati sul grugno tombale di Baronshteyn. Sono occhi paterni, che soffrono e perdonano e si
divertono. Sanno perfettamente che cosa Landsman ha perso, cosa ha dissipato e si è lasciato sfuggire a causa del dubbio, della mancanza di fede e del suo tentativo di essere un duro. Comprendono il furioso vacillare che altera la traiettoria delle sue buone intenzioni. Afferrano la storia d'amore che Landsman intesse con la violenza, la sua selvaggia propensione a gettare il proprio corpo in strada per distruggere ed essere distrutto. Fino a quest'istante Landsman non ha mai capito contro cosa lui e ogni altro sbirro del distretto, ogni shtarke russo e furfante da due soldi, e l'FBI, e il fisco, e il dipartimento AlcolTabacco-Armi da fuoco stessero combattendo. Non ha mai capito come le altre sette potessero tollerare e perfino sottomettersi a criminali devoti che impestano le schiere dei cappelli neri. Due occhi del genere possono guidare uomini. Possono spingerli sul ciglio di qualsiasi abisso. «Mi dica perché siete venuti qui, detective Landsman.» Dalla porta aperta dell'ufficio accanto arriva lo squillo ovattato di un telefono. Non ci sono telefoni sulla scrivania del rabbino, e nella stanza non se ne vedono. Il Rebbe produce una sorta di segnale con mezzo sopracciglio e un muscolo oculare secondario. Baronshteyn posa la penna. Gli squilli si gonfiano e diminuiscono, mentre Baronshteyn introduce la missiva nera del suo corpo nella fessura della porta dell'ufficio. Un attimo dopo Landsman lo sente rispondere. La parole sono poco chiare, il tono brusco, forse addirittura aggressivo. Il Rebbe si accorge che Landsman sta cercando di origliare, e sottopone i muscoli del suo sopracciglio a uno sforzo ancor più intenso. «Dunque» dice Landsman. «Le cose stanno così. Si dà il caso, Rebbe Shpilman, che io viva allo Zamenhof. È un albergo, non dei migliori, in Max Nordau Street. Ieri notte il portiere è venuto a bussare alla mia stanza, e mi ha chiesto di accompagnarlo al piano di sotto per andare a dare un'occhiata a un altro cliente dell'albergo. Era preoccupato per lui. Temeva potesse essersi fatto un'overdose. E così era entrato nella camera. E in effetti l'uomo in questione era morto. Si era registrato sotto falso nome. Non aveva documenti di identità. Ma nella stanza c'erano un po' di cose qua e là che suggerivano alcune piste. Oggi io e il mio collega ci siamo messi a seguire una di queste piste, e ci ha portato qui. Da lei. Riteniamo, direi anzi che siamo quasi certi, che il morto fosse suo figlio.»
Baronshteyn scivola furtivo nella stanza proprio mentre Landsman comunica la notizia. La lente del suo viso sembra sia stata ripulita con un panno morbido da ogni impronta o sbavatura d'emozione. «Quasi certi» ripete il Rebbe, un po' inespressivo. Nulla si muove sul suo viso, se non la luce negli occhi. «Capisco. Quasi certi. Indizi qua e là.» «Abbiamo una fotografia» dice Landsman. Per l'ennesima volta estrae come un triste prestigiatore la foto che Shpringer ha scattato al morto della 208. Fa per porgerla al Rebbe, ma un moto di rispetto, un repentino sussulto di compassione, gli blocca la mano. «Forse è meglio» dice Baronshteyn «che sia io a...» «No» dice il Rebbe. Shpilman prende la fotografia da Landsman e con entrambe le mani se la porta vicinissimo al viso, nella giurisdizione del bulbo oculare destro. È semplice miopia, ma il suo gesto ha un che di vampiresco, come se cercasse di risucchiare dalla fotografia un fluido vitale, attraverso la bocca a ventosa del suo occhio. La squadra dall'alto in basso, e da un lato all'altro. La sua espressione non muta mai. Poi posa la foto sul disordine della scrivania e fa schioccare la lingua, una volta sola. Baronshteyn si fa avanti per guardarla, ma il Rebbe lo allontana con un cenno e dice: «È lui». Landsman osserva Baronshteyn, attivando i suoi strumenti a pieno regime, alla massima apertura, regolandoli per catturare una qualche irradiazione di rammarico o di soddisfazione che potrebbe sfuggire ai buchi neri sul fondo degli occhi del gabay. Ed eccola: una breve scia arcuata di particelle luminose li accende. Ma ciò che Landsman rileva, in quell'istante, con sua sorpresa, è delusione. Per un istante Aryeh Baronshteyn ha la faccia di un uomo che ha appena messo giù un asso di picche, contemplando l'inutile ventaglio di quadri che ha in mano. Espira rapido, è quasi un sospiro, dopodiché torna lentamente al suo leggio. «Gli hanno sparato» dice il Rebbe. «Un colpo solo.» «Sparato da chi, di grazia?» «Be', questo non lo sappiamo.» «Qualche testimone?» «Per il momento no.»
«Movente?» Landsman dice no, poi si volta a cercare la conferma di Berko, e Berko scuote la testa cupo. «Gli hanno sparato.» Il Rebbe scuote la testa a sua volta, quasi meravigliato: Ma tu guarda! Poi, senza cambiare minimamente tono di voce o atteggiamento, dice: «Lei sta bene, detective Shemets?». «Non mi posso lamentare, rabbino Shpilman.» «Sua moglie e i bambini? Tutti bene?» «Potrebbero stare peggio.» «Due figli, se non vado errato, uno molto piccolo.» «Esatto, come sempre.» Le guance imponenti hanno un tremito di assenso o di soddisfazione. Il Rebbe mormora una benedizione convenzionale all'indirizzo dei figli di Berko. Poi il suo sguardo scorre lateralmente, e quando infine si posa su Landsman, questi avverte un moto di panico. Il Rebbe sa tutto. Sa del mosaicismo cromosomico, e del figlio che Landsman ha sacrificato per preservare le sue tanto sudate convinzioni sulla tendenza della vita a far andare tutto storto. Adesso il Rebbe gli offrirà una benedizione anche per Django. E invece non dice niente, e gli ingranaggi dell'Orologio Verbover continuano a girare. Berko guarda il suo orologio da polso; è ora di tornare a casa, dalle candele e dal vino. Dai suoi figli benedetti che potrebbero stare peggio. Da Ester-Malke, con la pagnotta del prossimo figlio nascosta da qualche parte nella pancia. Lui e Landsman non hanno una deroga che gli permetta di trovarsi lì dopo il tramonto, a indagare su un caso che ufficialmente non esiste più. Non ci sono vite in pericolo. Non c'è niente che si possa fare per salvare nessuno di loro, né gli uomini presenti nella stanza, né il poveraccio che li ha portati qui. «Rebbe Shpilman?» «Sì, detective Landsman?» «Si sente bene?» «A lei sembra che mi senta "bene", detective Landsman?» «Ho avuto soltanto da pochi minuti l'onore di fare la sua conoscenza» risponde Landsman cauto, più per rispetto verso la sensibilità di Berko che verso il Rebbe o il ruolo che ricopre. «Ma in tutta sincerità, mi sembra che si senta bene.» «E questo le pare in qualche modo sospetto? Le sembra un'ammissione di colpa, forse?»
«Rebbe, la prego, non scherzi» dice Baronshteyn. «A questo proposito» dice Landsman al Rebbe, ignorando il portavoce «non mi permetterei mai di fare congetture.» «Mio figlio per me è morto molti anni fa, detective. Molti. Mi sono stracciato le vesti e ho recitato il Kaddish e ho acceso una candela per la sua perdita tanto tempo fa.» Le parole in sé sono cariche di rabbia e risentimento, ma il tono di voce è così privo di emozione da togliere il fiato. «Quello che avete trovato nell'Hotel Zamenhof - era lo Zamenhof, giusto? - quello che avete trovato lì, ammesso che sia lui, era solo un guscio vuoto. Il frutto era stato estratto e lasciato marcire da tempo.» «Un guscio vuoto» dice Landsman. «Capisco.» Sa quanto può essere duro avere un figlio eroinomane. Ha già visto questo genere di freddezza. Ma in questi uomini che si strappano i baveri e osservano la shivah per i figli ancora vivi c'è qualcosa che lo irrita profondamente. Gli sembra una presa in giro tanto nei confronti dei vivi quanto dei morti. «Dunque, stando a quanto ho sentito raccontare,» prosegue «pur non potendo dire di comprenderlo, suo figlio, da bambino, avrebbe manifestato... come dire... segni, o... del fatto che potesse essere... Non sono sicuro di aver capito bene. Lo Tzaddík Ha-Dor, si dice così? Che, date le adeguate condizioni, ammesso che gli ebrei della sua generazione lo meritassero, in futuro avrebbe potuto rivelarsi. Come, ehm... il Messia.» «Ma è ridicolo, no, detective Landsman?» dice il Rebbe. «La sola idea la fa sorridere.» «Per nulla» ribatte Landsman. «Ma se suo figlio era il Messia, allora mi sa che siamo tutti nei guai. Perché in questo preciso istante è steso in una cella frigorifera nel seminterrato dell'ospedale centrale di Sitka.» «Meyer» interviene Berko. «Con tutto il rispetto» aggiunge Landsman. Il Rebbe dapprima non risponde. Poi, quando infine parla, lo fa con palese circospezione. «Ba'al Shem Tov, sia benedetto il suo ricordo, ci ha insegnato che in ogni generazione nasce un uomo con il potenziale per diventare il Messia» dice. «Il cosiddetto Tzaddik Ha-Dor. Ma Mendel... Mendele, Mendele...» I suoi occhi si chiudono. Forse sta ricordando. Forse sta ricacciando indietro le lacrime. Li riapre. Sono asciutti, e ricorda.
«Da bambino Mendel manifestò una natura straordinaria. Non parlo di miracoli. I miracoli per lo Tzaddik sono un fardello, e non la riprova che lui sia tale. I miracoli non provano nulla, se non agli occhi di coloro la cui fede si compra a buon mercato. Mendele aveva qualcosa dentro. Un fuoco. Viviamo in un luogo freddo e buio, detective. Un luogo grigio e umido. Mendele emanava luce e calore. Veniva voglia di stargli vicino. Per scaldarsi le mani, sciogliere il ghiaccio sulla propria barba. Scacciare l'oscurità per un minuto o due. Ma anche quando ci si allontanava da Mendele, quella sensazione di calore rimaneva, e dava la sensazione che al mondo vi fosse ancora un po' di luce, anche solo quella di una candela. In quel momento uno si rendeva conto che il fuoco era anche dentro di lui, e che c'era sempre stato. Era quello il miracolo. Soltanto quello.» Si accarezza la barba, la tira, come se cercasse di richiamare alla mente qualcosa che potrebbe essergli sfuggito. «Nient'altro.» «Quand'è che l'ha visto per l'ultima volta?» chiede Berko. «Ventitré anni fa» risponde il Rebbe senza esitazione. «Il 20 Elul. Da allora nessuno in questa casa ha più parlato con lui, né lo ha visto.» «Nemmeno la madre?» La domanda è uno shock per tutti, perfino per Landsman, che l'ha formulata. «Sta forse supponendo, detective Landsman, che mia moglie si permetterebbe di sovvertire la mia autorità in materia, o su qualunque altra questione?» «Io faccio supposizioni di ogni tipo, rabbino Shpilman» dice Landsman. «Ma non voglio insinuare nulla.» «Avete fatto qualche ipotesi» dice Baronshteyn «su chi possa aver ucciso Mendel?» «A dire il vero...» attacca Landsman. «A dire il vero» interviene il Verbover Rebbe, interrompendolo. Preleva un foglio di carta dal caos della scrivania: trattati, promulgazioni e interdizioni, documenti riservati, nastri di carta per calcolatrici, rapporti sui pedinamenti di uomini sotto controllo. Per un paio di secondi, mentre cerca di collocare il documento a una distanza leggibile, sembra che stia suonando un trombone. La carne del braccio destro sbatacchia nell'otre della manica. «I due detective della Omicidi qui presenti in teoria non dovrebbero indagare su questo caso. O sbaglio?» Posa il foglio, e Landsman non può fare a meno di chiedersi
come possa aver creduto di vedere negli occhi del rabbino qualcos'altro oltre a diecimila miglia di mare ghiacciato. È scioccato, si sente scagliato fuori bordo in quell'acqua gelida. Per rimanere a galla si aggrappa alla zavorra del suo cinismo. L'ordine di archiviare il caso Lasker è arrivato direttamente dall'isola Verbov? Shpilman sapeva fin dall'inizio che il figlio era morto, assassinato nella stanza 208 dell'Hotel Zamenhof? È stato lui a commissionare l'omicidio? Gli affari e le direttive della Sezione Omicidi del commissariato centrale di Sitka vengono regolarmente sottoposti al suo esame? Sarebbero domande interessanti, se solo Landsman trovasse il coraggio di aprire bocca e formularle. «Che cosa aveva fatto?» chiede infine. «Esattamente, perché per lei era già morto? Che cosa sapeva? E già che ci siamo, che cosa sa lei, Rebbe? Rabbino Baronshteyn? So che avete i vostri contatti. Non ho idea di che accordi siate riusciti a mettere in piedi. Ma basta dare un'occhiata a questa vostra bella isoletta per rendersi conto, e mi scusi l'espressione, che si tratta di roba pesante.» «Meyer» dice Berko, con una voce che sa di avvertimento. «Non torni mai più qui, Landsman» dice il Rebbe. «Non infastidisca nessuno di questa famiglia, o di quest'isola. Stia alla larga da Zimbalist. E stia alla larga da me. Se vengo a sapere che ha chiesto a uno dei miei anche solo di farle accendere una sigaretta, mi occuperò di lei e del suo distintivo. Sono stato chiaro?» «Con tutto il dovuto rispetto...» comincia Landsman. «Nel suo caso indubbiamente una formula vuota, detective.» «Poco male» ribatte Landsman, che comincia a riprendersi. «Se avessi un dollaro per ogni volta che uno shtarke con problemi di ghiandole ha cercato di impaurirmi perché abbandonassi un caso, rabbino Shpilman, con tutto il dovuto rispetto non dovrei starmene seduto qui ad ascoltare le minacce di un uomo incapace perfino di versare una lacrima per il figlio alla cui morte prematura ha senza dubbio contribuito. E poco importa se ventitré anni fa o ieri sera.» «La prego di non confondermi con un delinquentello qualunque di Hirshbeyn Avenue» dice il Rebbe. «Io non la sto minacciando.» «Ah, no? Mi sta benedicendo, allora?» «La sto guardando, detective Landsman. E mi rendo conto
che anche a lei, come a quella povera anima di mio figlio, il Santo Nome non deve aver concesso il più ammirevole dei padri.» «Rav Heskel!» strilla Baronshteyn. Ma il Rebbe ignora il suo gabay e prosegue, prima che Landsman abbia il tempo di chiedergli cosa diavolo crede di sapere sul povero vecchio Isidor. «Mi rendo conto che un tempo, proprio come Mendel, anche lei deve essere stato qualcosa di più di ciò che è oggi. Forse un bravo shammes. Dubito tuttavia che sia mai stato particolarmente saggio.» «Al contrario» dice Landsman. «E dunque la prego di credermi quando dico che le conviene adoperare il tempo che le resta in altro modo.» All'interno dell'Orologio Verbover, un antico sistema di martelletti e campanelli intona una melodia, più antica ancora, che accoglie in ogni casa e luogo di culto ebraico la settimana appena conclusa come se fosse una sposa. «Tempo scaduto» dice Baronshteyn. «Signori...» I detective si alzano, e tutti quanti si augurano vicendevolmente un felice Shabbat. Poi i detective, indossati i cappelli, si incamminano verso la porta. «Qualcuno dovrà venire a identificare il corpo» dice Berko. «O se preferisce possiamo lasciarglielo sul marciapiede» aggiunge Landsman. «Manderemo qualcuno domani» risponde il Rebbe. Si gira sulla poltroncina, dando loro la schiena. China il capo, quindi allunga le mani per prendere due bastoni appesi a un gancio sulla parete alle sue spalle. I bastoni hanno i manici d'argento con intarsi d'oro. Il Rebbe li pianta nella moquette, poi, con il respiro pesante di un macchinario vetusto si issa in piedi. «Dopo lo Shabbat.» Baronshteyn li accompagna giù per le scale, dal Rudashevsky accanto alla porta. Sopra di loro, le assi del pavimento nello studio del Rebbe emettono un cigolio straziante. Sentono i colpi secchi e lo sciabordio, come di acqua piovana in un barile, dei passi del rabbino. La famiglia sarà già radunata nell'altra ala della casa, in attesa che lui giunga a portare la sua benedizione. Baronshteyn apre la porta della casa in stile finto-tradizionale. Shmerl e Yossele entrano nel corridoio, con i cappelli e le
spalle coperti di neve, e un po' di neve anche nei loro gelidi occhi grigi. I due fratelli o cugini o fratelli e cugini al tempo stesso formano un triangolo con la loro versione di stanza all'interno, un robusto pugno a tre dita di marca Rudashevsky che si richiude intorno a Landsman e Berko. Baronshteyn piazza il viso stretto vicinissimo a quello di Landsman, che si copre le narici per respingere un odore di semi di pomodoro, tabacco, panna acida. «Questa è una piccola isola» dice Baronshteyn. «Eppure ci sono mille e più posti in cui uno sbirro, perfino uno shammes decorato, può perdersi e non tornare mai più. Perciò mi raccomando, detective, siate prudenti. E felice Shabbat anche a voi.»
Capitolo diciassette
Guardate Landsman, un lembo della camicia fuori dai pantaloni, il cappello coperto di neve e inclinato a sinistra, il cappotto appeso a un pollice sopra la spalla. Stringe il tesserino azzurro cielo del self-service come se fosse la maniglia che gli consente di rimanere in piedi. Le guance hanno bisogno di una sbarbata. La schiena gli fa un male cane. Per ragioni che gli sfuggono - o forse per nessuna ragione e basta - non tocca una goccia d'alcol dalle nove e mezza del mattino. Nella desolazione di piastrelle e acciaio cromato della Polar-Shtern Kafeteria alle nove di un venerdì sera, nel bel mezzo di una bufera di neve, è l'uomo più solo di tutto il distretto di Sitka. Sente qualcosa di oscuro e irresistibile spostarsi dentro di lui, cento tonnellate di fango nero sul fianco di una collina che si tirano su la gonna preparandosi a franare. Il pensiero del cibo, fosse anche un lingotto dorato di quel noodle pudding che è il fiore all'occhiello della Polar-Shtern Kafeteria, gli dà il voltastomaco. Ma è tutto il giorno che non mangia. In realtà Landsman sa di non essere, nemmeno lontanamente, l'uomo più solo del distretto di Sitka. Anzi, si disprezza per il semplice fatto di averlo potuto pensare. La presenza dell'autocommiserazione nei suoi pensieri è la riprova che sta girando intorno al buco in fondo al barile, vorticosamente, sempre più giù. Per contrastare questa forza di Coriolis, Landsman ricorre a tre tecniche. Una è il lavoro, ma ormai il suo lavoro è ufficialmente diventato una barzelletta. Un'altra è l'alcol, che di fatto rende la caduta più veloce e più profonda e la fa durare di più, ma che lo aiuta a fregarsene. La terza è mangiare un boccone. E così porta il tesserino azzurro e il vassoio alla grossa signora lituana che sta dietro il bancone di vetro, con i capelli raccolti in una retina, i guanti di polietilene e un mestolo di metallo, e glieli porge. «I blintses al formaggio» dice, anche se non ha voglia di
blintses al formaggio, né sa se il menu di stasera li prevede. «Come va, signora Nemintziner?» La signora Nemintiziner posa delicatamente tre blintses compatti su un piatto bianco con una riga azzurra lungo il bordo. Per adornare i pasti serali delle anime solitarie di Sitka ha preparato decine di fette di mela selvatica sottaceto adagiate su foglie di lattuga. Decora la cena di Landsman con uno di questi bouquet. Poi gli buca il tesserino e gli rifila il piatto. «E come deve andare?» risponde. Landsman riconosce che rispondere a questa domanda va al di là delle sue possibilità. Porta il vassoio di blintses ripieni di formaggio davanti ai recipienti del caffè e ne spilla una tazza. Consegna il tesserino e i soldi alla cassiera, dopodiché attraversa la terra desolata della zona tavoli, passando accanto a due rivali per il titolo di uomo più solo di Sitka. Si dirige verso il suo tavolo preferito, davanti alla vetrina, da dove può tenere d'occhio la strada. Sul tavolo accanto qualcuno ha lasciato a metà un piatto di manzo sotto sale e patate lesse, più un bicchiere mezzo vuoto di quella che sembra una bibita gassata alla ciliegia. Il piatto abbandonato, il tovagliolo appallottolato e coperto di macchie, riempiono Landsman di una leggera nausea da apprensione. Ma questo è il suo tavolo, ed è un fatto assodato che gli sbirri preferiscano poter tenere un occhio sulla strada. Landsman si siede, si infila il tovagliolo nel colletto, taglia a metà un blintse al formaggio e ne prende in bocca un pezzo. Mastica. Deglutisce. Da bravo. Uno dei suoi rivali alla Polar-Shtem, questa sera, è un pesce piccolo del giro scommesse. Si chiama Penguin Simkowitz, e qualche anno fa ha gestito male un bel gruzzolo appartenente a una certa persona. Gli shtarker l'hanno picchiato così forte da procurargli danni al cervello e alla parola. L'altro, che si sta dedicando a un piatto di aringhe alla panna, Landsman non lo conosce. Ma ha l'orbita sinistra coperta da un cerotto adesivo color carne. Ai suoi occhiali manca la lente sinistra. I capelli sono ridotti a tre ciuffi grigiastri e lanuginosi sul davanti. Si è tagliato una guancia rasandosi. Quando comincia a piangere in silenzio sul suo piatto di aringhe, Landsman lascia perdere. Poi vede Buchbinder, l'archeologo della follia. Un dentista che, grazie al suo talento con le pinze e con la tecnica della cera persa, ha finito per intraprendere, come spesso capita ai dentisti, un hobby ossessivo legato a oggetti in miniatura, tipo
fabbricare gioielli o pavimenti in parquet per case di bambole. Poi però, come capita talvolta ai dentisti, Buchbinder si è lasciato un po' prendere la mano, facendosi travolgere dalla più profonda e antica follia ebraica. Ha cominciato a costruire riproduzioni delle posate e degli abiti degli antichi kohanim, i sacerdoti di Yahweh. Inizialmente in scala, ma poi a grandezza naturale. Secchi per raccogliere il sangue, forchettoni da carne, palette per la cenere, tutto richiesto dal Levitico per i sacri barbecue di Gerusalemme. Ha allestito una specie di museo, forse c'è ancora, nella zona fatiscente di Ibn-Ezra Street. Un ex negozio, nello stesso palazzo in cui Buchbinder cavava i denti alla malavita. In vetrina il Tempio di Salomone, in cartone, sepolto da una tempesta di polvere, ornato di cherubini e mosche stecchite. I tossici del quartiere hanno fatto un sacco di danni a quel posto. Ricevevi una telefonata alle tre di notte, quando eri di pattuglia nell'Untershtat, e arrivando trovavi Buchbinder in lacrime tra le vetrinette rotte, con uno stronzo a galleggiare in un incensiere di rame degli antichi sacerdoti. Vedendo Landsman, Buchbinder socchiude gli occhi, sospettoso o miope. Sta tornando dal bagno al suo piatto di manzo sotto sale e alla sua bibita alla ciliegia, riabbottonandosi la patta con l'aria assente di chi si trova a constatare qualcosa di sorprendente ma inutile. Buchbinder è un uomo grande e grosso, un tedesco, fasciato da un cardigan con taglio alla raglan e da una fusciacca fatta a maglia. Tra l'arco della pancia e la fusciacca annodata ci sono tracce di conflitti passati, ma sembra anche che alla fine sia stata raggiunta una tregua. Pantaloni di tweed, ai piedi un paio di scarponcini sportivi. I capelli e la barba sono di un biondo scuro, con spruzzate di grigio e argento. Un fermaglio d'argento gli tiene ferma in testa uno yarmulke ornato da sottili ricami. Lancia un sorrisino in direzione di Landsman, come se stesse lasciando cadere una monetina nella tazza di uno storpio, pesca dalla tasca della giacca un libro stampato fitto e riprende a mangiare. Mentre legge e mastica si dondola avanti e indietro, canticchiando un motivetto a bocca chiusa. Adora il manzo sotto sale. Adora la sua follia. Adora essere il dottor Rudolf Buchbinder, medico dentista. «Il suo museo c'è ancora, dottore?» chiede Landsman. Buchbinder alza gli occhi perplesso, cercando di collocare nella memoria quel fastidioso estraneo che mangia blintses. «Sono Landsman. Commissariato centrale di Sitka. Forse si
ricorda di me, una volta...» «Ah, sì» dice lui con un sorriso teso. «Come sta? Siamo un istituto, non un museo, ma comunque non importa.» «Mi scusi.» «Poco male» dice lui, nel suo yiddish disinvolto ma irrigidito dalla vena di accento tedesco a cui lui e i suoi compari yeke, dopo sessant'anni, restano ostinatamente aggrappati. «È un errore molto comune.» Impossibile che sia così comune, pensa Landsman, ma poi dice: «È ancora lì in Ibn-Ezra Street?». «No» risponde il dottor Buchbinder. Si pulisce con il tovagliolo uno sbaffo di senape marroncina dalle labbra. «Nossignore. Quello è stato chiuso. In via ufficiale e definitiva.» Il suo tono è ampolloso, addirittura celebrativo, il che a Landsman pare bizzarro, considerato il contenuto della sua dichiarazione. «Quello era un brutto quartiere» suggerisce. «Oh, erano animali» osserva Buchbinder con lo stesso tono allegro. «Non so dirle quante volte mi hanno spezzato il cuore.» Si infila in bocca un'ultima forchettata di manzo, sottoponendola a un adeguato lavorio dentale. «Ma nella nuova sede dubito che mi daranno noie.» «E dove sarebbe?» Buchbinder sorride, si tampona la barba col tovagliolo, quindi spinge indietro la sedia appoggiandosi al tavolo. Inarca un sopracciglio, tenendo per sé la sorpresa un istante ancora. «E dove» dice infine «se non a Gerusalemme?» «Caspita» dice Landsman, mantenendo l'espressione più imperturbabile di cui è capace. Non ha mai esaminato le regole di ammissione degli ebrei a Gerusalemme, ma è quasi certo che non essere un fanatico religioso con tendenze ossessive sia in cima alla lista. «A Gerusalemme, eh? Lontano.» «Direi proprio di sì.» «Con armi e bagagli?» «Tutto quanto.» «Conosce qualcuno, laggiù?» Ci sono ancora degli ebrei che vivono a Gerusalemme, come ci sono sempre stati. Non molti. Sono lì da molto prima che arrivassero i sionisti, con i loro bagagliai carichi di dizionari di ebraico, manuali di tecniche agricole, e un sacco di grane per tutti quanti.
«A dire il vero no» risponde Buchbinder. «A parte, be'...» si interrompe un istante e abbassa la voce «... il Messia.» «Be', è già qualcosa» dice Landsman. «Pare che lui laggiù abbia un sacco di agganci.» Buchbinder annuisce, intoccabile nel santuario di zollette di zucchero dei suoi sogni. «Armi e bagagli» dice. Ripone il libro nella tasca, e infila se stesso e il maglione in un vecchio eskimo azzurro. «Buonanotte, Landsman.» «Buonanotte, dottor Buchbinder. Metta una buona parola per me con il Messia.» «Oh» risponde lui «ma non ce n'è bisogno.» «Non ce n'è bisogno o è inutile?» Improvvisamente i suoi occhi allegri si fanno d'acciaio come il disco di uno specchietto da dentista. Scrutano Landsman con l'acume di venticinque anni passati a cercare instancabilmente fragilità e marciume. Per un brevissimo istante, Landsman dubita che quest'uomo sia davvero pazzo. «Questo dipende da lei» dice Buchbinder. «No?»
Capitolo diciotto
Uscendo dalla Polar-Shtern Kafeteria, Buchbinder si ferma a tenere la porta aperta per un parka arancione sgargiante sospinto da una raffica obliqua di neve. Bina si trascina dietro la sua vecchia borsa squadrata in vacchetta, buttata su una spalla, da cui spunta un fascicolo di documenti sottolineati in giallo, graffettati, spillati e contrassegnati da striscioline di nastro colorato. Tira giù il cappuccio del parka. Si è raccolta i capelli, fermandoli con mollette e abbandonandoli al loro destino dietro la testa. Sono di un colore malinconico, che Landsman ricorda di aver osservato soltanto in un altro posto, ovvero nei solchi profondi della prima zucca che ha visto in vita sua, un bestione tra l'arancio e il rosso scuro. Bina avanza con la sua borsa verso la signora al bancone. Non appena oltrepasserà il tornello per raggiungere la pila di vassoi del self-service, Landsman entrerà direttamente nel suo campo visivo. Di punto in bianco Landsman prende la decisione matura di fingere di non averla vista. Guarda fuori dalla vetrina, in Khalastraye Street. Stabilisce che la quantità di neve caduta è pari a quindici centimetri circa. Ci sono tre distinti gruppi di impronte che si intersecano ripetutamente, con i bordi che vanno sbiadendo a mano a mano che su ogni impronta cade altra neve. Sul lato opposto della strada, piccoli manifesti appiccicati alle assi di legno che chiudono le vetrine della Tabaccheria Krasny's pubblicizzano l'esibizione, ieri sera al Vorsht, del chitarrista che si è fatto fregare anelli e soldi nel cesso. Dal palo telefonico all'angolo, un sacco di cavi si dipartono in tutte le direzioni, tracciando i muri e le porte di questo grande ghetto ebraico immaginario. I processi involontari della mente da shammes di Landsman registrano la scena. Ma a un livello cosciente i suoi pensieri sono focalizzati sul momento in cui Bina lo vedrà seduto lì, da solo, a masticare un blintse, e pronuncerà il suo nome.
Il momento in questione ci mette un bel po' ad arrivare. Landsman azzarda una seconda occhiata. Bina ha già il suo pasto sul vassoio e sta aspettando il resto, con la schiena rivolta verso Landsman. L'ha già visto. Non può non averlo visto. È a questo punto che il grande crepaccio si sfalda, il fianco della collina cede, e la muraglia di fango nero comincia a smottare. Landsman e Bina sono stati sposati per dodici anni, e prima ancora fidanzati per cinque. Entrambi sono stati l'uno per l'altra il primo amore, il primo tradimento, il primo rifugio, il primo compagno di stanza, il primo pubblico, la prima persona a cui rivolgersi quando qualcosa - perfino il loro stesso matrimonio andava storto. Per metà delle loro vite hanno intrecciato le loro storie, i loro corpi, le loro fobie, le teorie, le ricette, i libri, i dischi. Hanno avuto litigate spettacolari, naso contro naso, con mani e saliva in volo, lanciando oggetti, prendendoli a calci, rompendoli, rotolandosi per terra e tirandosi i capelli. L'indomani lui aveva le mezzelune rosse delle unghie di Bina incise nelle guance e sul petto, e lei indossava i segni viola delle sue dita come bracciali. Per qualcosa come sette anni di vita insieme hanno scopato quasi ogni giorno. Con rabbia, affetto, da malati, da sani, al freddo, al caldo, mezzi addormentati. Lo hanno fatto su letti, divani e cuscini di ogni tipo. Su futon e asciugamani e vecchie tende per doccia, in cassoni di pick-up, dietro cassonetti della spazzatura, in cima a un serbatoio idrico, dietro una fila di cappotti nel guardaroba di una tavola calda della Hands of Esau, la confraternita internazionale dei poliziotti ebrei. Hanno scopato perfino - una volta sola - sul fungo gigantesco della saletta per le pause al commissariato. Quando Bina arrivò dalla Narcotici, lavorarono insieme alla Omicidi nello stesso turno per quattro anni buoni. Landsman lavorava in coppia con Zelly Boybriker, poi con Berko, mentre Bina stava con il povero vecchio Morris Handler. Un giorno, però, lo stesso angioletto furbacchione che li aveva fatti incontrare organizzò una convergenza di permessi e malattie di Morris Handler che portò Landsman e Bina a lavorare insieme, per la prima e unica volta, sul caso Grinshteyn. Insieme affrontarono quel calvario di fallimenti, fallendo ogni giorno per ore, fallendo a letto la sera, fallendo per le strade di Sitka. La bambina assassinata, Ariela, e i Grinshteyn, una madre e un padre distrutti, abbrutiti e devastati e in guerra l'uno contro l'altra, e contro il vuoto a cui erano rimasti aggrappati: lui e Bina aveva-
no condiviso anche quello. E poi venne Django, che prese forma e slancio dal fallimento del caso Grinshteyn, da quella voragine a forma di bambina cicciottella. Bina e Landsman erano fardreyen, attorcigliati, una coppia di cromosomi intrecciati con una misteriosa anomalia. E adesso? Adesso fanno entrambi finta di non vedersi, e si voltano dall'altra parte. Landsman si volta dall'altra parte. Le impronte nella neve sono diventate leggere come quelle di un angelo. Dall'altra parte della strada un ometto curvo cammina controvento, trascinando una pesante valigia oltre le vetrine sbarrate della Tabaccheria Krasny's. L'ampia tesa bianca del suo cappello sbatte come le ali di un uccello. Landsman osserva l'avanzata del Profeta Elia nella bufera di neve, e intanto pianifica la propria morte. È una quarta strategia che ha sviluppato per risollevarsi il morale mentre scivola giù per lo scarico. Anche se naturalmente deve stare attento a non abusarne. Landsman, figlio e pronipote di suicidi da parte di padre, ha visto esseri umani uccidersi in tutti i modi possibili, dal maldestro all'efficace. Sa come bisogna e non bisogna fare. Gettarsi da ponti e finestre d'albergo: pittoresco ma dai dubbi risultati. Buttarsi giù per le scale: del tutto inaffidabile, frutto di decisione impulsiva, troppo simile a una morte accidentale. Tagliarsi le vene, con o senza la variante popolare ma non indispensabile della vasca da bagno: più difficile di quanto sembri, e con un tocco melodrammatico un po' da ragazzina. Sventramento rituale con spada da samurai: difficile, richiede la presenza di un'altra persona, e agli occhi di un ebreo risulta un po' troppo manierato. Landsman non ha mai visto nessuno che si fosse suicidato in quel modo, però uno sbirro di sua conoscenza sì. Il nonno di Landsman si è buttato sotto un tram a Lodz, dando prova di un grado di determinazione che Landsman gli ha sempre ammirato. Suo padre ha usato trenta capsule di Nembutal, annaffiate con un bicchiere di vodka al cumino, un metodo assai raccomandabile. Aggiungeteci un sacchetto di plastica in testa, capiente e senza buchi, e otterrete un lavoro pulito, silenzioso e affidabile. Ma quando immagina di togliersi la vita, Landsman ama farlo con una pistola, come il campione del mondo Melekh Gaystik. La sua scalcagnata Smith & Wesson modello 39 è una sholem più che adeguata allo scopo. Se sai dove puntare la canna (appena sotto l'angolo del mento) e che inclinazione dare al
colpo (un angolo di 20 gradi rispetto alla verticale, verso il centro del cervello) è rapido e sicuro. Sporca un po', ma Landsman, chissà perché, non si fa scrupoli a lasciarsi dietro un po' di casino. «Da quando ti piacciono i blintses?» Il suono della sua voce lo fa trasalire. Sbatte il ginocchio contro la gamba del tavolo, e il caffè si riversa sul piattino di vetro, imbrattandolo come lo schizzo di un foro di proiettile in uscita. «Salve, comandante» dice, in americano. Cerca un tovagliolino, ma dal distributore vicino ai vassoi ne ha preso solo uno. Il caffè sta colando ovunque. Afferra i primi pezzi di carta che trova nelle tasche della giacca e tampona il lago che va allargandosi. «C'è qualcuno seduto qui?» Con una mano Bina tiene in equilibrio il vassoio, mentre con l'altra ricaccia indietro la borsa gonfia. Sul viso ha un'espressione particolare che lui conosce molto bene. Sopracciglia inarcate, un minuscolo assaggio di sorriso. È l'espressione che indossa prima di infilarsi nella sala da ballo di un albergo per socializzare con un gruppo di poliziotti maschi, o quando deve entrare in un alimentari dell'Harkavy con indosso una gonna che non le copre le ginocchia. È una faccia che dice Non cerco guai. Voglio solo un pacchetto di chewing gum. Posa la borsa e si siede prima che Landsman possa rispondere. «Prego» le dice lui allora, spostando il suo piatto per farle spazio. Bina gli porge qualche altro tovagliolino, e Landsman ripulisce il caffè. Poi butta i malloppetti di carta fradicia su un tavolo accanto. «Non so perché li ho ordinati. Hai ragione, blintses al formaggio, feh.» Bina appoggia sul tavolo un tovagliolo con dentro coltello, forchetta e cucchiaio. Prende due piatti dal vassoio e li dispone uno accanto all'altro: un po' di insalata di tonno, una delle foglie di lattuga della signora Nemintiziner, e un quadrato dorato di noodle pudding luccicante. Infila una mano nella borsa sformata e tira fuori una scatoletta di plastica con il coperchio a cerniera. Contiene un portapillole rotondo suddiviso in scomparti, da cui Bina si fa cadere in mano una pillola di vitamine, una di olio di pesce e una compressa dell'enzima che permette al suo stomaco di digerire il latte. Dentro la scatoletta di plastica ci sono anche bustine di sale, pepe, rafano, salviettine umi-
dificate, una minuscola bottiglietta di tabasco, pastiglie di cloro per purificare l'acqua da bere, gomme da masticare contro l'acidità di stomaco e Dio solo sa cos'altro. Se vai a un concerto, Bina ha i binocoli da teatro. Se devi sederti sull'erba, tira fuori un asciugamano. Trappole per formiche, un cavatappi, candele e fiammiferi, una museruola per cani, un coltellino svizzero, una bomboletta di freon, una lente d'ingrandimento, da quella borsa sempre strapiena prima o poi Landsman ha visto uscire di tutto. Basta guardare ebrei come Bina Gelbfish, pensa, per spiegare l'ampio assortimento e la tenacia della razza. Ebrei che si portano dietro tutta la casa dentro una borsa di vacchetta, sul dorso di un cammello, nella bolla d'aria al centro dei loro cervelli. Ebrei che atterrano sempre in piedi, che appena sfiorano terra stanno già correndo, che superano le vicissitudini e si adattano a tutto ciò che gli tocca, dall'Egitto a Babilonia, dalla gubernia di Minsk al distretto di Sitka. Metodici, organizzati, ostinati, ingegnosi, preparati. Ha ragione Berko: Bina farebbe strada in ogni commissariato del mondo. Un banale riassetto dei confini, un cambio di governo, nulla di tutto ciò può spiazzare un'ebrea con una buona scorta di salviettine umidificate nella borsa. «Insalata di tonno» osserva Landsman, pensando che lui ha smesso di mangiare tonno quando Bina ha scoperto di essere incinta di Django. «Sì, cerco di ingerire più mercurio che posso» risponde lei, leggendogli il pensiero e il ricordo affiorato sul viso. Manda giù la compressa di enzima. «Adesso il mercurio è diventato la mia passione.» Landsman indica con un pollice la signora Nemintiziner, che se ne sta in piedi dietro il bancone, pronta con il suo cucchiaio. «Dovresti provare il termometro al forno, allora.» «L'avrei ordinato,» ribatte lei «ma purtroppo avevano solo quello rettale.» «L'hai visto, Penguin?» «Penguin Simkowitz? Dove?» Si guarda intorno, ruotando sulla vita, e Landsman ne approfitta per sbirciarle dentro la camicetta. Vede la pelle lentigginosa del seno sinistro, il bordino di pizzo della coppa del reggiseno, un accenno scuro di capezzolo contro la coppa. Lo inonda il desiderio di infilarle le mani sotto la camicetta, richiuderle sui seni, arrampicarsi in quell'in-
cavo morbido e addormentarsi lì. Quando Bina torna a voltarsi verso di lui, lo becca nel pieno dei suoi sogni di décolleté. Landsman sente le guance avvampare. «Ehm.» «Com'è andata la giornata?» le chiede, come se fosse la domanda più naturale possibile. «Facciamo un patto» dice lei, e il suo tono di voce si raffredda un po'. Si chiude anche l'ultimo bottone della camicetta. «Adesso io e te e ce ne stiamo qui tranquilli a cenare insieme senza dire una sola stramaledetta parola su com'è andata la mia giornata. Che ne dici, Meyer?» «Dico che va bene» risponde lui. «Ottimo.» Bina prende una cucchiaiata di insalata di tonno. Landsman intravede il luccichio del suo premolare bordato d'oro, e ripensa al giorno in cui è tornata a casa dopo esserselo fatto, e intontita dal protossido di azoto gli ha chiesto di infilarle la lingua in bocca per sentire che effetto faceva. Dopo il primo boccone di insalata di tonno, Bina si fa seria. Se ne infila in bocca altre dieci o undici cucchiaiate, masticando e deglutendo con trasporto. Il fiato le esce dalle narici in piccoli sbuffi accaniti. Tiene gli occhi fissi sull'amplesso tra il suo piatto e il cucchiaio. Una ragazza con un sano appetito: fu questa la prima dichiarazione attestata della madre di Landsman a proposito di Bina Gelbfish, vent'anni fa. Come la maggior parte dei complimenti di sua madre, anche quello poteva all'occorrenza essere trasformato in un insulto. Ma Landsman si fida di una donna solo se mangia come un uomo. Quando non resta altro che uno sbaffo di maionese sulla foglia di lattuga, Bina si pulisce la bocca con il tovagliolino ed emette un profondo sospiro di sazietà. «Di cosa parliamo, allora? Nemmeno della tua, di giornata.» «Decisamente no.» «Che cosa ci rimane?» «Nel mio caso» dice Landsman «ben poco.» «Certe cose non cambiano mai.» Bina spinge via il piatto vuoto e chiama il noodle pudding ad affrontare il suo destino. La sola vista di lei che guarda il piatto rapita procura a Landsman più gioia di quanta ne abbia provata da anni. «A me piace ancora parlare della mia macchina» le dice. «Sai che non amo le poesie d'amore.» «Non parliamo della Restituzione, per favore.»
«D'accordo. E io non voglio sentir parlare della gallina parlante, o del kreplach a forma di testa di Maimonide, o di nient'altro di miracoloso.» Landsman si chiede cosa penserebbe Bina della storia che Zimbalist gli ha raccontato oggi sull'uomo che adesso se ne sta disteso in una cella frigorifera nel seminterrato dell'ospedale centrale. «Facciamo così: niente che riguardi gli ebrei» le dice. «Andata, Meyer. Degli ebrei ne ho fin sopra i capelli.» «E nemmeno dell'Alaska.» «Dio santo, no.» «Niente politica. Niente Russia, né Manciuria, né Germania, né arabi.» «Anche degli arabi ne ho fin sopra i capelli.» «Che ne dici se parliamo del noodle pudding?» chiede Landsman. «D'accordo» risponde lei. «Ma per favore, Meyer, mangia qualcosa. A guardarti mi si stringe il cuore. Dio, sei così magro. To', mangia un po' di questo. Non so cosa ci mettono, qualcuno mi ha detto un po' di zenzero. Fidati, su a Yakovy un pudding decente te lo sogni.» Gli taglia un pezzetto di noodle pudding e fa per infilarglielo direttamente in bocca con la forchetta. Alla vista del pudding che si avvicina, una sorta di mano fredda afferra le viscere di Landsman, che sposta la faccia. La forchetta si ferma a metà traiettoria. Bina lascia cadere il pezzo di noodles e crema pasticcera, impreziosito da chicchi d'uva sultanina, sul piatto di Landsman, accanto ai blintses pressoché intatti. «Comunque dovresti assaggiarlo» gli dice. Ne mangia un paio di bocconi, dopodiché posa la forchetta. «Dubito che su un noodle pudding si possa dire molto di più.» Landsman beve un sorso di caffè, e Bina manda giù le ultime pillole con un bicchiere d'acqua. «Be'» dice. «Be'» fa Landsman. Se la lascia andare via non potrà mai appoggiarsi a dormire nell'incavo dei suoi seni. Non riuscirà mai più a dormire senza l'aiuto di una manciata di Nembutal o della sua scalcagnata M39. Bina allontana la sedia dal tavolo e si infila il parka. Ripone la scatoletta di plastica nella borsa di pelle, quindi se la carica
sulla spalla con un gemito. «Buonanotte, Meyer.» «Dove stai?» «Dai miei» risponde Bina, con il tono di voce con cui si potrebbe pronunciare la condanna a morte di un pianeta. «Oddio...» «Lascia stare. Solo finché non trovo un posto. Peggio dello Zamenhof comunque non può essere.» Si tira su la cerniera del parka e rimane lì in piedi per alcuni lunghi secondi, sottoponendolo al suo scrutinio da shammes. Il suo sguardo non è esaustivo come quello di Landsman - talvolta le sfuggono le piccole cose - ma quelle che vede riesce a ricollegarle rapidamente alle cose che sa sugli uomini e sulle donne, sulle vittime e sugli assassini. Riesce a plasmarle con disinvoltura in trame che stanno in piedi e hanno un senso. Lei non risolve i casi, ne racconta la storia. «Guardati, Landsman, sembri una casa che sta crollando.» «Lo so» risponde lui, sentendo una stretta al petto. «Mi avevano detto che eri messo male, ma pensavo volessero solo tirarmi su di morale.» Landsman scoppia a ridere, e si strofina la guancia con la manica della giacca. «E questo cos'è?» chiede Bina. Con l'unghia del pollice e quella dell'indice estrae dalla massa di tovagliolini che Landsman ha gettato sul tavolo accanto un pezzo di carta appallottolato e macchiato di caffè. Landsman allunga la mano per strapparglielo, ma Bina è troppo veloce per lui, lo è sempre stata. Apre il pezzo di carta e lo appiattisce. «Cinque grandi verità e cinque grandi bugie sul chassidismo» dice. Le sue sopracciglia sembrano volersi sfiorare sopra l'attaccatura del naso. «Mi stai diventando un cappello nero?» Landsman non risponde abbastanza in fretta, e Bina capisce quello che deve capire dal suo viso, dal suo silenzio e da ciò che sa di lui, ovvero praticamente tutto. «Che cosa stai combinando, Meyer?» dice, e di colpo appare stanca e prosciugata proprio come si sente. «No, guarda. Non importa. Sono troppo stanca, cazzo.» Accartoccia il dépliant dei Verbover e glielo tira in testa. «Ma avevamo detto che non ne avremmo parlato...» dice Landsman. «Sì, be', abbiamo detto un sacco di cose» dice lei. «Io e te.»
Fa per girarsi, cercando di afferrare meglio la bretella della borsa in cui vive. «Domattina ti voglio nel mio ufficio.» «Mmm. D'accordo. Solo che» dice Landsman «esco da un turno di dodici giorni.» L'affermazione, seppur veritiera, non sortisce alcun effetto visibile su Bina. Forse non ha sentito, o forse è Landsman che non parla una lingua indoeuropea. «Ci vediamo domani» aggiunge. «Sempre che non mi spari un colpo stanotte.» «Ho detto niente poesie d'amore» dice Bina. Raccoglie un viluppo di capelli color zucca scura e li infila tra i denti di un fermaglio dietro l'orecchio destro. «Che ti spari o meno, ti voglio nel mio ufficio alle nove.» Landsman la guarda attraversare la sala fino alla porta della Polar-Shtern Kafeteria. Scommette un dollaro con se stesso che non si volterà a guardarlo prima di rimettersi il cappuccio e uscire nella neve. Ma è un uomo generoso, e la scommessa è troppo facile, perciò non si prende la briga di riscuoterla.
Capitolo diciannove
Quando, alle sei del mattino dopo, il telefono lo sveglia Landsman è seduto in poltrona, con indosso solo le mutande bianche e la mano dolcemente stretta intorno all'impugnatura della M-39. Tenenboym sta per smontare. «Me l'ha chiesto lei» dice, poi riattacca. Landsman non ricorda di aver chiesto la sveglia. Non ricorda di aver dato fondo alla bottiglia di slivovitz che vede vuota sulla superficie graffiata del tavolo in quercia rivestita di poliuretano, accanto alla poltrona. Non ricorda di aver mangiato il noodle pudding di cui rimane un terzo in un angolino di un contenitore di plastica col coperchio, accanto alla bottiglia di slivovitz. Dalla dislocazione dei frammenti di vetro colorato sul pavimento riesce a ricostruire di aver lanciato il bicchiere della Fiera mondiale di Sitka del 1977 contro il termosifone. Forse si sentiva frustrato perché non riusciva a fare progressi con la scacchiera tascabile che ora giace capovolta sotto il letto, i minuscoli pezzi sparpagliati liberamente per la stanza. Non ha però ricordi del lancio in sé, né del vetro che va in frantumi. Forse stava brindando a qualcosa o a qualcuno, con il termosifone a mo' di caminetto. Non se lo ricorda. Ma niente nello squallido scenario della stanza 505 si può dire che lo sorprenda, men che meno la sholem carica che stringe in mano. Verifica che la sicura sia al suo posto, quindi ripone la pistola nella fondina abbandonata sullo schienale della poltrona. Si alza, va verso il muro e abbassa il letto a scomparsa. Tira giù le coperte e ci si infila. Le lenzuola sono pulite, profumano di stiratrice a vapore e della polvere che si annida nel vano a muro del letto. Landsman comincia vagamente a ricordare di aver concepito un progetto romantico, intorno alla mezzanotte, ovvero di arrivare al lavoro presto, vedere che cosa fossero riusciti a cavare i medici legali e gli esperti balistici sul caso Shpil-
man, magari fare pure un saltino alle isole, nei quartieri russi, per cercare di torchiare un po' Vassifij Shitnovitzer, lo scacchista ex detenuto. Fare ciò che poteva, un tentativo estremo, prima che alle nove Bina gli cavasse i denti con un paio di pinze. Sorride mesto, ora, al pensiero del giovane e caparbio mascalzone che è stato ieri a mezzanotte. Alle sei la sveglia. Solleva le coperte sulla testa e chiude gli occhi. In modo del tutto involontario, lo schema di pedoni e pezzi gli si dispone sulla scacchiera mentale, con il re nero sotto assedio ma non sotto scacco al centro della tavola, il pedone bianco in fila b sul punto di trasformarsi in qualcosa di meglio, una regina, un alfiere. Non ha più bisogno della scacchiera tascabile; Landsman si rende conto con orrore che ormai ha memorizzato il diagramma. Cerca di scacciare la partita dalla sua mente, di cancellarla, di spazzare via i pezzi e riempire di nero tutte le caselle bianche. Una scacchiera interamente nera, non contaminata da pezzi o giocatori, da aperture o finali di partita, da tempi o tattiche o vantaggi materiali, nera come i monti Baranof. È ancora lì, disteso, con le caselle bianche cancellate, in mutande e calzini, quando bussano alla porta. Si tira su con il viso rivolto verso la parete, il cuore che martella nelle tempie come un tamburo, stringendo a sé le lenzuola come un bambino che spera di far spaventare qualcuno. Era sdraiato bocconi, probabilmente da un pezzo. Ora ricorda di aver sentito, dal fondo di una tomba di fango nero, in una caverna buia situata un chilometro sotto la superficie della terra, le vibrazioni distanti del suo Shoyfer, e poco dopo il tenue cinguettio del telefono sul tavolo di quercia. Ma era sepolto così profondamente sotto il fango che, se anche i telefoni fossero stati soltanto nei suoi sogni, non avrebbe avuto la forza né la predisposizione d'animo per rispondere. Il cuscino è zuppo di un disgustoso miscuglio di sudore alcolico, panico e saliva. Landsman guarda l'orologio. Sono le dieci e venti. «Meyer?» Landsman si lascia cadere di nuovo sul letto, ingarbugliato nelle lenzuola e con i piedi sul cuscino. «Me ne vado, Bina» dice. «Mi dimetto.» Lei non risponde subito. Landsman spera abbia accettato le sue dimissioni, che comunque a questo punto sono superflue, e sia tornata al prefabbricato della Omicidi, alle pompe funebri e alla sua transizione da poliziotta ebrea a funzionaria del grande
stato dell'Alaska. Una volta assicuratosi che lei se ne sia andata, Landsman prenderà accordi con la donna che un giorno alla settimana gli cambia lenzuola e asciugamani perché entri nella stanza e lo uccida. Per seppellirlo, poi, non dovrà fare altro che risistemare il letto a scomparsa nel vano dentro la parete. La sua claustrofobia e la paura del buio non saranno più un problema. Un attimo dopo sente i denti di una chiave dentro la serratura, e la porta della 505 si spalanca di colpo. Bina entra furtiva come se fosse la stanza di un malato, reparto cardiologia, aspettandosi uno shock, un monito di mortalità, tetre verità sul corpo. «Ma porca di quella troia» dice con quel suo accento di roccia impenetrabile. Si fa strada tra i pezzi sparpagliati dell'abito grigio di Landsman e un asciugamano da doccia, andando a piazzarsi in fondo al letto. I suoi occhi registrano la carta da parati rosa decorata a ghirlande con fiocchi granata, la moquette verde a pelo lungo arricchita da bruciature e macchie di natura imprecisata, i vetri rotti, la bottiglia vuota, il rivestimento scrostato dei mobili in compensato. Guardandola con la testa appoggiata sul letto, nel punto solitamente destinato ai piedi, Landsman si gode la sua espressione inorridita, soprattutto perché se non lo facesse sarebbe costretto a provare vergogna. «Come si dice "montagna di merda" in esperanto?» chiede Bina. Si avvicina al tavolo e guarda i rimasugli umidi di noodle pudding abbandonati nel contenitore unto. «Perlomeno hai mangiato qualcosa.» Gira la poltrona rivolgendola verso il letto, poi posa la borsa per terra. Esamina il sedile della poltrona. Dalla sua espressione Landsman capisce che sta valutando l'ipotesi di trattare il sedile con un qualche prodotto caustico o antibatterico nascosto nella sua borsa magica. Alla fine decide di adagiarsi sulla poltrona, poco per volta. Indossa un tailleur pantalone grigio, di una specie di stoffa lucida con una vaga iridescenza nera. Sotto la giacca porta un top di seta tra il verde e il grigio. Il viso è pu lito, eccezion fatta per due strisce di rossetto color mattone sulle labbra. A quest'ora la sua battaglia mattutina per domare l'intrico dei capelli con forcine e mollette non ha ancora incassato sconfitte. Se stanotte ha dormito bene, nel lettino angusto della
sua vecchia stanza, al primo piano di una villetta bifamigliare sulla Japonski Island, mentre al piano di sotto il signor Oysher si aggira sbatacchiando rumorosamente la gamba artificiale, i solchi e le ombre che ha sul viso non lo danno a vedere. Le sopracciglia sembrano di nuovo volersi sfiorare. Le labbra truccate si sono ridotte a una cucitura color mattone spessa non più di due millimetri. «Come procede la mattinata, ispettore?» «Io non amo aspettare, Meyer» risponde lei. «E soprattutto non amo aspettare te.» «Forse non mi hai sentito» dice Landsman. «Me ne vado.» «È strano, ma il fatto che tu continui a ripetere questa tua frasetta idiota contribuisce davvero poco a migliorare il mio umore.» «Eddai, Bina, io non posso lavorare per te. È da pazzi. È esattamente il genere di follia che mi aspetto dal dipartimento in questo periodo. Se siamo messi così male, se siamo ridotti così, allora basta. Sono stufo marcio di questa atmosfera da ultimo atto. Perciò me ne vado. Tanto a che ti servo? A sbattere striscioline nere su tutti i nostri casi. Aperti, chiusi. Ma chi se ne frega? È solo un mucchio di gente morta.» «Mi sono riguardata la pila di fascicoli» dice lei. Landsman nota che dopo tanti anni Bina conserva ancora l'elettrizzante capacità di ignorare lui e le sue crisi di disfattismo. «Non ho trovato niente che si potesse ricollegare ai Verbover.» Infila una mano nella borsa e tira fuori un pacchetto di Broadway, lo scuote facendone uscire una e se la appoggia tra le labbra. Le successive undici parole vengono pronunciate con un'indifferenza tale che insospettisce Landsman all'istante. «Tranne forse il tossico che hai trovato al piano di sotto.» «Su quello hai messo una strisciolina nera» risponde Landsman con perfetta disonestà da poliziotto. «Hai ricominciato a fumare, Bina?» «Tabacco, mercurio...» Scosta un ricciolo e si accende il papiro, soffia fuori il fumo. «Roba da ultimo atto.» «Offrimene una.» Bina gli passa le Broadway, e Landsman si mette a sedere, avvolgendosi in una prudente toga di lenzuola. Lei lo osserva in tutto il suo splendore, e intanto si accende un secondo papiro. Nota i peli grigi che ha intorno ai capezzoli, la ciccia che gli è spuntata intorno alla vita, le ginocchia ossute.
«Quando tu dormi in mutande e calzini» dice «è sempre un brutto segno.» «Dev'essere un po' di depressione» dice Landsman. «Mi è venuta la notte scorsa.» «La notte scorsa?» «L'anno scorso?» Bina si guarda intorno in cerca di qualcosa da usare come posacenere. «Tu e Berko ieri siete andati all'isola Verbov?» gli chiede. «A indagare su questo Lasker?» Mentirle non ha davvero senso. Ma Landsman disobbedisce agli ordini da troppo tempo per cominciare a dire la verità proprio adesso. «Ti hanno chiamato?» chiede. «Chiamato? Dall'isola Verbov? Di sabato mattina? Chi vuoi che mi chiami di sabato mattina?» Gli occhi di Bina si fanno furbi, stretti ai lati. «E anche se fosse, per dirmi cosa?» «Scusa» dice Landsman. «Con permesso. Non ce la faccio più a tenerla.» Si alza, in mutande, avvolto in un lenzuolo. Aggira il letto a scomparsa e si dirige nel bagno minuscolo, con il lavandino e lo specchio d'acciaio e il rubinetto della doccia. Non c'è tenda, solo uno scarico in mezzo al pavimento. Chiude la porta e piscia a lungo, con genuino piacere. Appoggia il papiro acceso sul serbatoio del gabinetto e si dà una sbrigativa ripulita alla faccia con guanto di spugna e sapone. C'è una vestaglia di lana, bianca a righe rosse, verdi, gialle e nere disposte secondo un motivo indiano, appesa a un gancio sulla porta del bagno. Ci si infila. Si rimette in bocca il papiro e si osserva nel rettangolo d'acciaio levigato e coperto di graffi montato sopra il lavandino. Ciò che vede non offre alcun tipo di sorpresa, né suggerisce profondità ignote. Tira lo sciacquone e torna nella stanza. «Bina» dice. «Io quell'uomo non lo conoscevo. Mi ci sono imbattuto per caso. Avrei anche avuto la possibilità di conoscerlo, credo, ma l'ho rifiutata. Se io e quell'uomo ci fossimo conosciuti forse saremmo diventati amici. Forse no. Si faceva di eroina, e probabilmente gli bastava. Di solito ai tossici basta. Ma che lo conoscessi o meno, o che potessimo invecchiare insieme seduti su un divano giù nell'atrio tenendoci per mano oppure no, non fa nessuna differenza. Qualcuno è venuto in questo albergo, il mio albergo, e gli ha sparato in testa mentre era
perso nel mondo dei sogni. E questo mi secca. Lascia stare il rifiuto che posso aver maturato nel corso degli anni per il concetto di omicidio. Dimenticati il bene e il male, la legge e l'ordine, le procedure di polizia, i programmi del dipartimento, la Restituzione, gli ebrei e gli indiani. Questa topaia è casa mia. Per i prossimi due mesi, o quanti ne rimangono alla fine, io vivrò qui. Tutti questi poveracci che pagano per un letto incassato nel muro e un pezzo di ferro appeso sul lavandino del bagno, ora, nel bene e nel male, sono la mia gente. In tutta onestà non posso dire che mi piacciano granché. Cioè, alcuni sono a posto, ma perlopiù è gentaglia. Questo però non vuol dire che permetta a chiunque di entrare qui dentro e piantargli una pallottola in testa.» Nel frattempo Bina ha preparato due tazze di caffè solubile. Ne porge una a Landsman. «Zucchero e niente latte» dice. «Giusto?» «Bina...» «Fa' come credi, Meyer. La strisciolina nera resta lì dov'è. Se ti fai beccare, se ti metti nei casini, se i Rudashevsky ti spezzano le ginocchia, io non ne so nulla.» Si avvicina alla sua borsa ed estrae un raccoglitore a fisarmonica pieno di fascicoli. Lo appoggia sul tavolo. «La perizia scientifica è parziale. Shpringer l'ha lasciata un po' a metà. Sangue e capelli. Impronte. Non molto. I risultati dell'esame balistico devono ancora arrivare.» «Grazie, Bina. Senti, quest'uomo... Non si chiamava Lasker. Lui...» Bina gli appoggia una mano sulla bocca. Non lo sfiorava da due anni. Sarebbe forse eccessivo dire che al tocco di quei polpastrelli sulle labbra Landsman sente l'oscurità diradarsi. Non si dirada ma ha un fremito, e un po' di luce filtra dalle crepe. «Io non ne so nulla» dice Bina. Toglie la mano. Beve un sorso di caffè solubile e storce la bocca. «Feh.» Posa la tazza, prende la borsa e va verso la porta. Si ferma, si volta a guardare Landsman, che è in piedi immobile nella vestaglia che lei gli ha regalato per il suo trentacinquesimo compleanno. «Devo dire che hai fegato, Landsman» dice. «Non ci posso credere che tu e Berko siete andati laggiù.» «Dovevamo dirgli che suo figlio era morto.» «Suo figlio?»
«Mendel Shpilman. Unico figlio maschio del Rebbe.» Bina apre la bocca, poi la richiude. Più che sorpresa, intenta ad affondare i suoi denti da terrier nell'informazione che ha appena ricevuto, masticandone la carne sanguinolenta. Le piace il modo in cui si sfalda sotto la stretta della sua mascella, e Landsman se ne accorge. Poi però negli occhi di Bina affiora una stanchezza nota. Non perderà mai il suo appetito da detective per le storie degli altri, pensa Landsman, il gusto di immergercisi, risalendo mentalmente dall'esplosione di violenza finale all'errore originario. Ma a volte uno shammes si stanca anche di quella fame. «E il Rebbe cos'ha detto?» chiede Bina, lasciando andare la maniglia della porta con un'espressione di rammarico sincero. «Mi è parso un po' risentito.» «Sembrava sorpreso?» «Non particolarmente, anche se non so bene che significato dare alla sua reazione. A quanto ho capito era da un pezzo che il figlio aveva preso una brutta strada. Vuoi sapere se secondo me Shpilman sarebbe stato capace di far uccidere il figlio? In teoria sì. E Baronshteyn anche più di lui.» La borsa di Bina atterra sul pavimento come un corpo. In piedi sulla porta, fa ruotare piano le spalle indolenzite. Landsman potrebbe offrirsi di farle un massaggio, ma saggiamente evita. «A questo punto immagino che una telefonata devo aspettarmela» dice. «Da Baronshteyn. Non appena in cielo sarà spuntata la terza stella.» «Be', fossi in te io non gli darei troppo ascolto, quando cercherà di dirti che è davvero addolorato per l'uscita di scena di Mendel Shpilman. Sono tutti tanto contenti quando il figliol prodigo ritorna, tranne chi nel frattempo ha dormito nel suo letto.» Landsman beve un sorso di caffè, tremendamente amaro e dolce. «Il figliol prodigo.» «Era una specie di fenomeno. Con gli scacchi, la Torah, le lingue. Oggi mi hanno raccontato che una volta ha perfino guarito una donna dal cancro. Non che io ci creda, ma sai com'è. Dicono che potesse essere lo Tzaddik Ha-Dor, hai presente?» «Più o meno. Ma mi piace molto il significato dell'espressione» risponde Bina. Suo padre, Guryeh Gelbfish, è un uomo
erudito nel senso tradizionale del termine, ed è riuscito a trasmettere una certa quantità di sapere alla sua unica figlia. «L'uomo giusto di questa generazione.» «La storia dice più o meno così: questi tizi, gli Tzaddikim, vengono a timbrare il cartellino, uno ogni generazione, da circa duemila anni, okay? Nel mentre stanno lì e aspettano. Aspettano che arrivi il momento giusto, o che il mondo sia nelle condizione giuste, oppure, come dicono altri, che il momento sia pessimo, e che il mondo sia messo peggio ancora. Alcuni li conosciamo. Ma perlopiù tengono un profilo basso. Immagino che il concetto di base sia che chiunque possa essere lo Tzaddik.» «Disprezzato e reietto dagli uomini» dice, o piuttosto recita Bina. «Uomo dei dolori, che ben conosce il patire.» «Appunto» dice Landsman. «Chiunque. Un barbone. Uno studioso. Un tossico. Perfino uno shammes.» «Immagino di sì» dice Bina, e intanto ripercorre nella mente la strada da ragazzo prodigio Verbover a tossico assassinato in un albergo squallido di Max Nordau Street. I passaggi di quell'esistenza si concatenano in un modo che sembra rattristarla. «Ben contenta di non essere io, comunque.» «Non vuoi più salvare il mondo, Bina?» «Perché, una volta volevo salvarlo?» «Secondo me sì.» Bina ci pensa un po' su, passandosi un dito accanto al naso, cercando di ricordare. «Mi sa che ne sono uscita» dice infine, ma Landsman non se la beve. Bina non ha mai smesso di voler salvare il mondo. Ha solo lasciato che il mondo che voleva salvare si rimpicciolisse sempre di più, fino a poter essere racchiuso sotto il cappello di una poliziotta disillusa. «Per me ora sono tutte galline parlanti.» Dovrebbe probabilmente uscire di scena su quella battuta, e invece si ferma altri quindici secondi, appoggiata contro la porta, a guardare Landsman che giocherella con i bordi lisi della cintura della vestaglia. «Che cosa dirai a Baronshteyn quando ti chiamerà?» le chiede Landsman. «Che hai fatto completamente di testa tua, e che ti convocherò a rapporto. Può anche darsi che ti debba togliere il distintivo, Meyer. Farò del mio meglio perché non accada, ma adesso che
arriva questo shomer delle pompe funebri, Spade, gli venisse un colpo, non ho grandi spazi di manovra. E nemmeno tu.» «Okay, adesso lo so» dice Landsman. «Uomo avvisato.» «Cosa pensi di fare?» «Adesso? Adesso voglio fare un tentativo con la madre. Shpilman dice che nessuno aveva più avuto notizie di Mendel o contatti con lui. Ma per qualche strana ragione non sono così propenso a credergli.» «Batsheva Shpilman. Sarà un tentativo duro» dice Bina. «Specie per un uomo.» «Vero» dice Landsman con aria fin troppo meditabonda. «No» ribatte Bina. «No, Meyer. Scordatelo. Te la sbrighi da solo.» «Lei sarà al funerale, Bina. Non devi fare altro che...» «Io non devo fare altro» dice Bina «che evitare di intralciare gli shomrim, pararmi il culo e arrivare alla fine dei prossimi due mesi senza far scoppiare casini.» «Il culo sarei più che contento di parartelo io» dice Landsman, ma solo in nome dei vecchi tempi. «Vestiti» dice Bina. «E rimetti un po' a posto 'sto casino. Lo dico per te. Guarda che cesso questa stanza. Non ci posso credere che vivi così. Dio santo, Meyer, ma non ti vergogni?» Un tempo Bina Gelbfish ha creduto in Meyer Landsman. O meglio: ha creduto, fin dal momento in cui l'ha conosciuto, che nel loro incontro ci fosse un significato, e dietro il loro matrimonio un intento palpabile. Erano fardreyen, certo, ma mentre Landsman in quel loro essere attorcigliati vedeva per l'appunto soltanto un groviglio, un intrico di linee del tutto casuale, Bina ci vedeva la mano del Creatore di Nodi. E Landsman ha ripagato questa fiducia con la sua fede nel Nulla Assoluto. «Solo quando ti guardo in faccia» dice Landsman.
Capitolo venti
Landsman scrocca cinque o sei papiros dal portiere dei fine settimana, Krankheit, quindi trascorre un'oretta accendendosene tre, aspettando che i risultati delle analisi sul morto della 208 forniscano il loro triste resoconto di proteine e tracce di grasso e polvere. Come ha accennato Bina, non dicono nulla di nuovo. L'assassino doveva essere un professionista, uno shlosse esperto che del suo passaggio non ha lasciato traccia. Le impronte digitali del morto combaciano con quelle presenti in archivio sotto il nome Menachem-Mendel Shpilman, arrestato sette volte per faccende di droga nel corso degli ultimi dieci anni, e con una varietà di pseudonimi, tra cui Wilhelm Steinitz, Aron Nimzovitch e Richard Réti. Questo, e nient'altro, è quanto si sa per certo. Landsman valuta l'ipotesi di farsi portare una birra in camera, ma alla fine opta per una doccia calda. L'alcol l'ha tradito, il pensiero del cibo gli rivolta lo stomaco, e poi diciamocelo: se davvero avesse mai voluto uccidersi, a questo punto l'avrebbe fatto da un pezzo. Perciò d'accordo, il suo lavoro è diventato una barzelletta; però è pur sempre il suo lavoro. Ed è questo il vero contenuto del raccoglitore a fisarmonica che gli ha portato Bina, il messaggio che voleva inviargli al di là del baratro che li divide, fatto di programmi del dipartimento, matrimonio finito e carriere che procedono in direzioni opposte: «Vai avanti». Landsman libera il suo ultimo abito pulito dalla busta di plastica, si rade il mento, lustra il cappello con una spazzola per capelli. Oggi non è di servizio, ma essere di servizio non significa niente; oggi non significa niente, niente significa niente al di là dell'abito pulito, di ancora tre Broadway da fumare, del tremito del doposbornia che sente appena dietro gli occhi, del fruscio della spazzola sul feltro marroncino whisky del cappello. E sì, d'accordo, forse anche di una traccia, in questa stanza d'albergo, dell'odore di Bina, l'aroma acre del colletto della sua
camicia, il suo sapone alla verbena, l'odore di maggiorana delle sue ascelle. Mentre scende in ascensore ha la sensazione di spostarsi da sotto l'ombra in avvicinamento di un pianoforte che precipita, con un vago clangore jazzato nelle orecchie. Il nodo della cravatta in reps verde e oro gli preme sulla laringe come uno scrupolo che schiaccia la coscienza di un colpevole, ricordandogli che è vivo. Il suo cappello è lucido come il manto di una foca. In Max Nordau Street gli spazzaneve non sono passati; le squadre di operai comunali di Sitka, decimate, si concentrano sulle arterie principali e sulla tangenziale. Landsman lascia la SuperSport in garage, dopo aver recuperato dal baule le galosce di gomma. Poi si fa strada a piccoli passi nella neve alta una spanna verso il Mabuhay Donuts di Monastir Street. Le frittelle cinesi alla filippina, o shtekelech, sono il grande contributo fornito dal distretto di Sitka ai buongustai di tutto il mondo. Così come vengono attualmente prodotte, nelle Filippine non si trovano. Nessun gourmand cinese le riconoscerebbe come prodotto delle friggitrici del suo paese natale. La shtekele, così come Yahweh della Sumeria, dio delle tempeste, non è stata inventata dagli ebrei, ma se non fosse per gli ebrei e per i loro desideri il mondo non disporrebbe né di Dio né delle shtekelech. Un sigaro di pastella fritta, non troppo dolce né troppo salato, infarinato nello zucchero, dalla crosta croccante e l'impasto morbido e al suo interno fitto di celle d'aria, lo intingi nella tazza di tè col latte, chiudi gli occhi, e per dieci secondi abbondanti intravedi la possibilità di un mondo migliore. L'eminenza grigia delle frittelle cinesi alla filippina è Benito Taganes, proprietario e re delle vasche sfrigolanti del Mabuhay. Il Mabuhay, scuro, angusto, invisibile dalla strada, rimane aperto tutta la notte. Raccoglie i profughi dei bar e dei caffè alle ore piccole, ospita cattivi e colpevoli davanti al suo bancone di formica scheggiata, e riecheggia dei pettegolezzi di criminali, poliziotti, shtarker e idioti, puttane e nottambuli. Con il sottofondo dell'olio che crepita nelle friggitrici, le ventole che ronzano e lo stereo che spara i deprimenti kundiman di quando Benito era un ragazzino a Manila, la clientela si libera dei suoi segreti. Nell'aria aleggia una nebbiolina dorata d'olio kasher che stordisce i sensi. Chi volete che riesca a origliare qualcosa, con le orecchie piene di Kasher Fry e Diomedes Naturan? Benito Taganes però ci riesce, origlia e ricorda. Benito sarebbe in
grado di ricostruire l'albero genealogico di Alexei Lebed, il grande capo della mafia russa, solo che ad affollarlo non trovereste nonni e nipoti, ma prestanome, morti violente e conti correnti stranieri. Potrebbe cantarvi un kundiman di mogli che restano fedeli ai mariti in carcere e di mariti che ci finiscono perché denunciati dalle mogli. Sa chi tiene in garage la testa di Furry Markov, e anche il nome di quell'ispettore della Narcotici al soldo di Anatolij Moskowits, la Bestia Selvaggia. Solo che nessuno sa che lui sa, a parte Meyer Landsman. «Una frittella, Taganes» dice Landsman entrano a grandi passi dal vicolo, scalciando via dalle galosce la crosta di neve. Il sabato pomeriggio di Sitka giace morto come un Messia mancato in un sudario di neve. Sul marciapiede non c'era nessuno, per strada nemmeno una macchina. Ma qui, dentro il Mabuhay Donuts, tre o quattro fra perdigiorno, anime solitarie e ubriaconi in transito da una sbronza all'altra se ne stanno appoggiati contro lo scintillante bancone di resina, a succhiare tè da una shtekele calcolando le coordinate dei loro prossimi grossi errori. «Solo una?» dice Benito. È un uomo tarchiato, robusto, con la pelle del colore del tè al latte che serve, le guance butterate come un paio di lune scure. Ha i capelli neri, anche se ha superato i settanta. Da giovane è stato campione dei pesi mosca a Luzon, e con le sue dita spesse e quei due salami tatuati che ha per avambracci spesso viene scambiato per un cliente difficile, cosa che gli torna utile per gli affari. Lo tradiscono i grandi occhi color caramello, che quindi tiene bassi, coperti dalle palpebre. Landsman però li ha fissati, quegli occhi. Per gestirsi un informatore bisogna aver visto il cuore spezzato che si nasconde anche nei visi più spenti. «Io dico che tu meglio mangia due o tre, detective.» Benito fa scostare con un colpetto di gomito il nipote o il cugino che ha piazzato alla friggitrice, e come un incantatore di serpenti fa calare nell'olio un filo di pastella cruda. Nel giro di qualche minuto Landsman stringe in mano un pacchettino di carta pieno zeppo di paradiso. «Ho quell'informazione che volevi sulla figlia della sorella di Olivia» dice Landsman, masticando un boccone tiepido e zuccherino. Benito versa a Landsman una tazza di tè, dopodiché con un cenno della testa indica il vicolo. Si infila la giacca a vento e
insieme escono. Benito prende un mazzo di chiavi che porta appeso alla cintura e apre una porta di ferro a due porte di distanza da quella del Mabuhay Donuts. È lì che Benito tiene la sua amante Olivia, in tre stanzette ordinate, con un ritratto di Marlene Dietrich a opera di Andy Warhol e un odore pungente di vitamine e gardenie mezze marce. Olivia non c'è. La signora ultimamente fa avanti e indietro dall'ospedale, morendo a puntate, ciascuna delle quali si conclude con la scritta «continua...». Benito fa accomodare Landsman su una poltrona di pelle rossa bordata di bianco. Naturalmente Landsman non ha alcuna informazione per lui su alcuna delle figlie delle sorelle di Olivia. E Olivia tecnicamente non è nemmeno una signora, ma Landsman è l'unico a conoscere anche questo dettaglio della vita di Benito Taganes, re delle frittelle. Anni fa uno stupratore recidivo di nome Kohn prese con la forza la signorina Olivia Lagdameo, scoprendo il suo segreto. La seconda grande sorpresa che il destino riservò a Kohn quella sera fu l'apparizione fortuita dell'agente Landsman. Il trattamento che Landsman riservò alla faccia di Kohn costrinse il bastardo a biascicare per il resto della sua vita. Scaturisce dunque da un misto di gratitudine e vergogna, e non dai soldi, il flusso di informazioni che da Benito si riversa sull'uomo che salvò Olivia. «Hai mai sentito nulla sul figlio di Heskel Shpilman?» chiede Landsman, posando le frittelle e la tazza di tè. «Un certo Mendel?» Benito si alza, con le mani dietro la schiena, come un alunno delle elementari in procinto di recitare una poesia. «Negli anni» dice. «Una o due cose. Lui tossico, vero?» Landsman si limita a inarcare di mezzo centimetro un sopracciglio folto. Non si risponde alle domande di un informatore, specie se sono domande retoriche. «Mendel Shpilman» si decide a dire infine Benito. «Visto qui qualche volta. Tipo strano. Parla un poco tagalog. Canta qualche canzone filippina. Cosa succede, lui mica morto?» Landsman continua a non rispondere, però Benny Taganes gli sta simpatico, e si sente sempre un po' maleducato. Per riempire il silenzio prende la shtekele e dà un morso. Si è raffreddata parecchio, però è ancora tiepida, e ha un leggero sapore di vaniglia, e la crosta scricchiola fra i denti come un velo di caramello sulla superficie di un vasetto di crema pasticcera. Mentre la frittella entra nella bocca di Landsman, Benito osser-
va la scena con il distacco indagatore di un direttore d'orchestra che fa un provino a un flautista. «È buona, Benny.» «Tu no offende me, detective, prego.» «Scusa, Benny.» «Io sa che buona.» «La migliore.» «Niente al mondo si avvicina.» È una verità talmente scontata che a Landsman vengono le lacrime agli occhi, e per dissimulare mangia un'altra frittella. «Qualcuno cercava lui» dice Benito nel suo yiddish veloce ma grezzo. «Due o tre mesi fa. Due persone.» «Tu le hai viste?» Benito si stringe nelle spalle. Le sue tattiche e le sue attività, i cugini e i nipoti e la rete di sub-informatori di cui si serve rimangono un mistero anche per Landsman. «Qualcuno visto loro» dice. «Magari io.» «Erano cappelli neri?» Benito riflette per un lungo istante, e Landsman si rende conto che la domanda l'ha turbato in un modo pressoché scientifico, quasi piacevole. Benito scuote la testa lento ma deciso. «No cappelli neri» dice. «Però barba.» «Barba? Nel senso che avevano l'aria dei religiosi?» «Piccoli yarmulkes. Barba curata. Giovani.» «Russi? Con l'accento?» «Se io sentito parlare di questi giovani, allora chi detto me no parlato di accenti. Se io visto con questi occhi, allora scusa ma io no ricorda. Ehi, detective, che succede? Tu no scrive?» Quando hanno iniziato a collaborare, Landsman si premurava sempre di fingere di prendere le informazioni di Benito estremamente sul serio. Anche adesso tira fuori il block-notes e scribacchia un paio di righe, giusto per far felice il re delle frittelle. Non sa bene che farsene, però, di questi due o tre giovani dall'aspetto ordinato, religiosi ma non cappelli neri. «E cosa hanno chiesto, esattamente, se si può sapere?» dice. «Dov'era. Informazioni.» «Le hanno avute?» «No da Mabuhay Donuts. No da famiglia Taganes.» Lo Shoyfer di Benito squilla, lui lo apre e se lo appoggia all'orecchio. Dalle rughe che ha intorno alla bocca scompare ogni traccia di durezza. La faccia fa il paio con gli occhi, ora è dol-
ce, piena di sentimento. Cinguetta tenero in tagalog. Landsman coglie il suono sussurrato del suo cognome. «Come sta Olivia?» chiede poi, quando Benito richiude il telefono e il suo viso torna a riempirsi di una colata di cemento freddo. «Lei no può mangiare più» dice. «Basta shtekelech.» «Che peccato.» Hanno finito. Landsman si alza, infila in tasca il block-notes e ingoia l'ultimo boccone. Si sente più in forze e più felice di quanto si sia sentito da settimane, o forse da mesi. Nella morte di Mendel Shpilman c'è qualcosa, una storia da afferrare, che gli sta scrollando di dosso la polvere e le ragnatele. Se non è questo, allora sono le frittelle. Mentre si avvicinano alla porta, Benito posa una mano sul braccio di Landsman. «Perché tu no chiede altro, detective?» «Cosa vuoi che ti chieda, Benny?» Landsman aggrotta la fronte, che poi si rischiara un po' dubbiosa formulando una domanda. «Non è che magari oggi ti è arrivata qualche voce? Dall'isola Verbov?» È difficile, sebbene non impossibile, immaginare che la notizia del disappunto dei Verbover in merito alla visita che Landsman ha fatto al Rebbe sia già arrivata alle orecchie di Benito. «Da isola Verbov? No, altra cosa. Tu ancora sta indagando su Zilberblat?» Viktor Zilberblat è uno degli undici casi aperti che ora Landsman e Berko dovrebbero risolvere in modo effettivo. Zilberblat è stato ucciso a coltellate lo scorso marzo davanti alla taverna Hofbrau nel Nachtasyl, il vecchio quartiere tedesco, a pochi isolati da qui. Il coltello era piccolo e spuntato, e non aveva l'aria di un omicidio premeditato. «Qualcuno ha visto fratello» dice Benito Taganes. «Rafi. In giro.» Nessuno ha pianto particolarmente la morte di Viktor, men che meno suo fratello Rafael. Viktor l'aveva picchiato, ingannato, umiliato, e infine se l'era data a gambe coi suoi soldi e la sua donna. Dopo la sua morte Rafael ha lasciato Sitka per una destinazione ignota. Le prove che collegano Rafael al coltello sono tutt'altro che risolutive. Due testimonianze semiaffidabili lo collocano a sessanta chilometri dal Nachtasyl due ore prima e due ore dopo il probabile orario dell'uccisione del fratello. Ma Rafi Zilberblat ha una lunga e monotona fedina penale, e
servirebbe più che bene allo scopo, riflette Landsman, considerato il ridotto standard in materia di prove tacitamente imposto dal nuovo piano strategico del dipartimento. «In giro dove?» chiede a Benito. L'informazione ha il sapore di una sorsata di caffè nero bollente. Landsman ha la sensazione di attorcigliarsi lento intorno alla libertà di Rafael Zilberblat come un serpente da cinquanta chili. «In grande magazzino Big Macher, ora chiuso, a Granite Creek. Qualcuno visto lui che entra ed esce lì, portando cose. Bombola di propano. Forse lui vive in magazzino vuoto.» «Grazie, Benny» dice. «Andrò a dare un'occhiata.» Landsman fa per uscire dall'appartamento. Benito Taganes lo prende per la manica. Liscia il bavero del cappotto di Landsman con mano paterna. Gli spazzola via le briciole di zucchero alla cannella. «Tua moglie» dice. «Tornata qui?» «In tutto il suo splendore.» «Bella signora. Tu dice lei che Benny saluta.» «Le dico di passare a trovarti.» «No, tu no dice niente, detective.» Benito sorride. «Ora lei tuo capo.» «È sempre stata il mio capo, Benny» conclude Landsman. «Solo che adesso la cosa è ufficiale.» Il sorriso scompare, e Landsman distoglie lo sguardo dallo spettacolo degli occhi tristi di Benito Taganes. La moglie di Benito è ridotta a uno scricciolo ombroso e privo di voce, ma ai tempi d'oro la signorina Olivia aveva un grinta da regina di mezzo mondo. «Meglio per te» dice Benito. «Tu bisogno.»
Capitolo ventuno
Landsman si attacca un caricatore extra alla cintura, sale in macchina e si dirige verso la zona nord, dopo Halibut Point, dove la città spara i suoi ultimi colpi e l'acqua si infila nella terra come il braccio di un poliziotto. Accanto alla Ickes Highway i ruderi di un centro commerciale segnano la fine del sogno di una Sitka ebraica. Il tentativo di stipare tutti gli ebrei del mondo in ogni spazio vuoto da qui a Yakovy è venuto meno proprio in questo parcheggio. Non è arrivato alcuno status di distretto federale permanente, né un flusso di carne ebraica fresca dagli angoli dolorosi e dai vicoli oscuri della diaspora. I progetti di nuovi quartieri residenziali rimangono linee su fogli di carta azzurrina, chiusi in un cassetto di metallo chissà dove. L'outlet Big Macher di Granite Creek è fallito un paio d'anni fa. Gli ingressi sono chiusi da catene, e lungo i fianchi senza finestre dell'edificio, dove un tempo campeggiava in caratteri yiddish e romani il nome del magazzino, rimane soltanto una serie di buchi, punti su tessere di domino, una dichiarazione di sconfitta in braille. Landsman lascia l'auto sull'aiuola spartitraffico e attraversa a piedi il gigantesco spazio vuoto e immobile del parcheggio, diretto verso l'ingresso principale. Qui non è caduta tanta neve come nelle strade del centro. Il cielo è alto e grigio pallido, con striature da tigre di un grigio più scuro. Landsman respira dalle narici mentre cammina verso le porte di vetro, con le maniglie bloccate come braccia da un pezzo di catena gommata blu ciondolante. Landsman è convinto che adesso busserà su quelle porte tenendo bene in vista il distintivo, con la grinta che vibra come un campo di forza, e che quell'ometto asciutto e furtivo di Rafi Zilberblat si farà avanti mansueto sbattendo le palpebre davanti al chiarore accecante della neve. Il primo proiettile annerisce l'aria accanto all'orecchio destro di Landsman come un grosso moscone ronzante. Lui non capi-
sce nemmeno che è un proiettile, finché non sente, o ricorda di aver sentito, uno scoppio sordo, quindi un fragore di vetri infranti. A quel punto si è già buttato sulla neve di pancia, appiattendosi a terra, dove il proiettile successivo gli raggiunge la nuca, incendiandola come un rivolo di benzina sfiorato da un fiammifero. Landsman estrae la sholem, ma ha come una ragnatela in faccia, o nella testa, e lo coglie un senso di rimpianto paralizzante. Il suo piano, che in realtà non era un piano, adesso è fallito. Non ne ha uno d'emergenza. Nessuno sa dove si trova, a parte Benito Taganes, col suo sguardo di miele e il suo silenzio pressoché universale. Landsman morirà in un parcheggio desolato ai margini del mondo. Chiude gli occhi. Li riapre, e la ragnatela è più fitta e brilla di una sorta di rugiada. Passi nella neve, più di una persona, Landsman alza la pistola e prende la mira tra i fili luccicanti di ciò che si è inceppato nel suo cervello. Spara. Si sente un grido di dolore, una donna, uno sbuffo di fiato, dopodiché la signora in questione augura a Landsman un cancro ai testicoli. La neve gli riempie le orecchie, si scioglie nel colletto del cappotto e giù per il collo. Qualcuno gli afferra la pistola e cerca di farlo rialzare. Ha l'alito che sa di popcorn. Mentre il corpo di Landsman viene issato, le bende che gli coprono lo sguardo si assottigliano. Vede il grugno baffuto di Rafi Zilberblat, e davanti alle porte del Big Macher una finta bionda cicciotta stesa sulla schiena, con la vita che dalla pancia defluisce nella neve rossa fumante. E un paio di pistole, una in mano a Zilberblat e puntata contro la testa di Landsman. Lo scintillio dell'automatica spazza via la ragnatela di rimpianti e autorecriminazioni che Landsman ha in testa. Nell'aria c'è odore di popcorn, viene da dentro il magazzino abbandonato e gli altera la percezione dell'odore del sangue, ne cancella la dolcezza. Landsman si piega in avanti e lascia andare la Smith & Wesson. Zilberblat stava strattonando la pistola così forte che quando Landsman molla la presa ruzzola all'indietro nella neve. Landsman gli si getta addosso come può. Agisce e basta, ora, senza pensieri. Gli strappa di mano la sholem, la rigira, e preme il grilletto di tutte le pistole del mondo. Dalla sommità della testa di Zilberblat spunta un corno di sangue. Ora le ragnatele Landsman ce le ha nelle orecchie. Sente solo il fiato in fondo alla gola e il sangue che pulsa.
Per un attimo una strana quiete si apre in lui come un ombrello, mentre monta a cavalcioni dell'uomo che ha appena ucciso, con le ginocchia che bruciano nella neve. Conserva la lucidità mentale sufficiente a rendersi conto che questa sua tranquillità non è per forza un buon segno. Poi, intorno alla consapevolezza del casino che ha combinato, cominciano a raccogliersi i dubbi, come passanti curiosi che si accalcano intorno al corpo di un suicida precipitato da un palazzo. Landsman si tira su a fatica. Vede il macello che ha sul cappotto, i pezzi di cervello, un dente. Due esseri umani morti nella neve. L'odore di popcorn, un fetore come di piedi ma burroso, lo travolge. Mentre è lì nella neve che cerca di alzarsi in piedi, dal magazzino Big Macher esce un'altra persona. Un ragazzo, con la faccia da topo e la falcata lunga. Landsman è ancora abbastanza presente a se stesso da riuscire a stabilire che si tratta di uno Zilberblat. Questo Zilberblat ha le braccia alzate, e in faccia un'espressione stravolta. Le mani sono vuote, ma quando vede Landsman che carponi sanguina stordito abbandona il suo progetto di resa. Raccoglie l'automatica caduta a terra accanto ai resti del fratello. Landsman si alza incerto sulle gambe, e la scia infuocata che ha dietro la nuca si riaccende. Sente il terreno cedergli sotto i piedi, poi c'è soltanto un buio travolgente. Una volta morto, si risveglia con la faccia nella neve. Sulla guancia la neve non la sente. Il fischio incontrollabile che avvertiva nelle orecchie è svanito. Con fatica si mette a sedere. Il sangue che gli è uscito da dietro la testa ha disseminato la neve di rododendri. L'uomo e la donna a cui ha sparato non si sono mossi, ma non c'è traccia del giovane Zilberblat che l'ha ucciso con un colpo di pistola o forse no. Con un'improvvisa chiarezza di pensiero e il crescente sospetto di essersi in realtà scordato di morire, Landsman si tasta. Orologio, portafoglio, chiavi della macchina, cellulare, pistola e distintivo non ci sono più. Cerca con lo sguardo l'auto posteggiata in lontananza, lungo la strada d'accesso. Rendendosi conto che anche la SuperSport è scomparsa capisce di essere ancora vivo, perché solo la vita può offrire un paesaggio così desolante. «Un altro cazzo di Zilberblat» dice. «E sono tutti uguali.» Ha freddo. Per un attimo pensa di entrare nel Big Macher, ma la puzza di popcorn glielo impedisce. Sposta lo sguardo dalle porte spalancate verso l'alta collina e le montagne in lon-
tananza, nere d'alberi. Torna a sedersi nella neve. Poco dopo si distende. Si sta bene, comodi, e c'è un odore come di polvere fredda, e allora chiude gli occhi e si addormenta, rannicchiato nel suo piccolo vano buio dentro la parete dell'Hotel Zamenhof, e per una volta nella vita la claustrofobia non lo turba, nemmeno un po'.
Capitolo ventidue
Landsman ha in braccio un bambino piccolo. Il bambino piange, per motivi non gravi. I suoi gemiti procurano a Landsman una stretta al cuore piacevole. Prova sollievo rendendosi conto di avere un bambino piccolo e cicciottello che odora di waffle e sapone. Gli strizza i piedini paffuti, sente tra le braccia il suo peso, al tempo stesso irrisorio ed enorme. Si volta verso Bina per darle la buona notizia: è stato tutto un errore. Eccolo lì il loro bambino. Ma non c'è nessuna Bina a cui dirlo, soltanto il ricordo nelle narici dei suoi capelli bagnati di pioggia. È a quel punto che Landsman si sveglia, e capisce che il bambino che piange è Pinky Shemets, gli stanno cambiando il pannolino, o forse sta dando voce alla sua protesta per qualcosa di imprecisato. Landsman apre gli occhi, e il mondo si intromette sotto forma di un arazzo batik, e lui di colpo si sente svuotato dalla perdita di suo figlio, come fosse la prima volta. Landsman è sul letto di Berko ed Ester-Malke, disteso su un fianco, con il viso rivolto verso la parete ricoperta di giardini balinesi e uccelli selvatici tinti nella tela di lino. Qualcuno l'ha spogliato, lasciandolo in mutande. Si mette a sedere. Gli prude la pelle sulla nuca, e di colpo un cavo di dolore si tende. Landsman si tasta la ferita. Le dita trovano una fasciatura, un rettangolo ruvido di garza e cerotti. Tutt'intorno un'insolita chiazza di cuoio capelluto depilato. I ricordi si accatastano uno sull'altro frusciando come fotografie della scena di un delitto appena scattate dal dottor Shpringer con la sua macchina fotografica della morte. Un gioviale infermiere del pronto soccorso, i raggi X, un'iniezione di morfina, un pezzo di cotone intinto nel Betadine che gli si staglia davanti agli occhi. Prima di questo, la luce di un lampione che disegna righe sul soffitto di vinile bianco di un'ambulanza. E prima ancora. Prima della corsa in ambulanza. Fanghiglia violacea. Vapore che sale dal contenuto di viscere umane riversatosi all'esterno. Il ronzio di un calabro-
ne nelle orecchie. Un fiotto rosso che esplode dalla fronte di Rafi Zilberblat. Un codice cifrato di fori su una distesa di intonaco ' vuota. Landsman indietreggia così bruscamente dal ricordo di ciò che è accaduto nel parcheggio del Big Macher da inciampare in una fitta di dolore per il piccolo Django Landsman perso in sogno. «Povero me» dice. Si asciuga gli occhi. Darebbe una ghiandola, un organo secondario, per un papiro. La porta della camera da letto si apre, ed entra Berko, portando con sé un pacchetto di Broadway quasi pieno. «Ti ho mai detto che ti amo?» dice Landsman, sapendo perfettamente di non averlo mai fatto. «No, grazie a Dio mai» risponde Berko. «Queste me le ha date la vicina, la moglie di Fried. Le ho detto che era un sequestro di polizia.» «Te ne sono follemente grato.» «Prendo nota dell'avverbio.» Poi Berko prende nota anche del fatto che Landsman ha pianto; un sopracciglio gli schizza verso l'alto, rimane lì sospeso un istante, quindi si posa lento come una tovaglia su un tavolo. «Il bambino non sta bene?» chiede Landsman. «Sono i denti.» Berko prende un appendiabiti dal gancio sulla porta della stanza. Sono i vestiti di Landsman, puliti e spazzolati. Tasta la tasca della giacca di Landsman e tira fuori una bustina di fiammiferi. Poi si avvicina al letto e rimane lì in piedi, porgendogli papiros e fiammiferi. «In tutta sincerità» dice Landsman «non posso dire di sapere che cosa ci faccio qui.» «È stata un'idea di Ester-Malke, sapendo che rapporto hai con gli ospedali. Hanno detto che non era il caso di trattenerti.» «Siediti.» Nella stanza non ci sono sedie. Landsman si fa più in là, e Berko si siede sul bordo del letto, seminando il panico tra le molle del materasso. «Davvero non è un problema se fumo qui?» «Si che lo è, mettiti accanto alla finestra.» Landsman striscia giù dal letto. Alzando la tendina di bambù che copre la finestra rimane sorpreso nel vedere che fuori piove a dirotto. La finestra è aperta di cinque centimetri, e dalla fessura filtra l'odore della pioggia, il che spiega il profumo dei ca-
pelli di Bina nel sogno. Landsman guarda in basso, verso il parcheggio del palazzo, e si accorge che la neve si è sciolta completamente. Anche la luce è tutta sbagliata. «Che ore sono?» «Le quattro e trenta... due» dice Berko senza guardare l'orologio. «Che giorno è?» «Domenica.» Landsman spalanca la finestra e appoggia la natica sinistra sul davanzale. La pioggia gli bagna la testa indolenzita. Si accende il papiro e fa un lungo tiro, cercando di stabilire se l'informazione che ha appena ricevuto lo turba o meno. «Era da un sacco che non lo facevo» dice. «Dormire un giorno intero.» «Probabilmente ne avevi bisogno» osserva Berko, inespressivo. Un'occhiata di sbieco in direzione di Landsman. «E comunque i pantaloni te li ha tolti Ester-Malke. Giusto perché tu lo sappia.» Landsman fa cadere la cenere fuori dalla finestra. «Mi sono preso una pallottola.» «Di striscio. All'ospedale hanno detto che è più una. specie di bruciatura. Non hanno dovuto cucirti.» «Erano in tre. Rafael Zilberblat, un ragazzino che secondo me era suo fratello, e una femmina. È stato il fratello a prendersi la macchina e il portafoglio. Il distintivo e la sholem. Poi mi ha mollato lì.» «La stessa ricostruzione che abbiamo fatto noi.» «Avrei voluto chiamare i soccorsi, ma quel topo di fogna si è preso anche il mio Shoyfer.» Sentendo Landsman accennare al telefono Berko sorride. «Be'?» gli fa Landsman. «Il ragazzino è lì che scappa. Sulla Ickes, in direzione nord, verso Yakovy, Fairbanks, Irkutsk.» «E...?» «Il tuo telefono squilla. E lui risponde.» «Sei tu?» «Bina.» «E vai.» «Nel giro di due minuti il piccolo Zilberblat le dice dove si trova, che aspetto ha, come si chiamava il cane che aveva a undici anni. Cinque minuti dopo un paio di latkes lo recuperano
nei pressi di Krestov. La tua macchina è a posto. Nel portafoglio ci sono ancora i soldi.» Landsman finge di interessarsi al modo in cui il fuoco trasforma il tabacco essiccato in fiocchi di cenere. «E il distintivo e la pistola?» chiede. «Eh...» «Eh?» «Il distintivo e la pistola in questo momento sono in mano al tuo superiore.» «Che intende restituirmeli?» Berko si sporge a lisciare l'incavo che Landsman ha lasciato sulla superficie del letto. «Stavo facendo il mio dovere» dice Landsman, con un tono che risulta lagnoso perfino alle sue stesse orecchie. «Mi era arrivata una soffiata su Rafi Zilberblat.» Scrolla le spalle e si passa le dita sulla fasciatura dietro la testa. «Volevo solo farci due chiacchiere.» «Prima dovevi chiamare me.» «Non volevo disturbarti di sabato.» Non è una scusa valida, e gli esce ancor più zoppicante di quanto sperasse. «Be', sono un cretino» ammette infine. «Oltre che un pessimo poliziotto.» «Regola numero uno.» «Lo so. È che avevo voglia di fare qualcosa, subito. Non pensavo che andasse a finire così.» «A ogni modo» taglia corto Berko. «Il ragazzino. Il fratello. Si chiama Micky Zilberblat. Ha confessato per conto del defunto. Dice che è vero, che è stato Rafi a uccidere Viktor. Con metà di un paio di forbici.» «Ma pensa.» «Fermo restando tutto il resto, direi che Bina può essere soddisfatta di te, almeno per questo. Di sicuro il caso l'hai risolto in modo effettivo.» «Metà di un paio di forbici.» «Ingegnoso, vero?» «Direi quasi frugale.» «E quella ragazza che hai trattato così male... anche lì sei stato tu?» «Sì.» «Be', complimenti, Meyer.» Non c'è ironia nella sua voce, né
sul suo viso. «Hai fatto fuori Yachevede Flederman.» «No.» «Giornata produttiva.» «L'infermiera?» «Hai fatto felici i nostri colleghi della Squadra B.» «Quella che ha ucciso quel vecchio, come si chiamava, Herman Pozner?» «Era l'unico caso che gli era rimasto aperto dall'anno scorso. La credevano in Messico.» «Cazzo» dice Landsman, in americano. «A quanto ho capito, Tabatchnik e Karpas hanno già messo una buona parola per te con Bina.» Landsman spegne il papiro contro il muro esterno dell'edificio, poi lancia il mozzicone nella pioggia. Tabatchnik e Karpas stanno davvero facendo il culo a Landsman e Shemets, che non riescono a stargli dietro nemmeno alla lontana. «Anche quando ho fortuna» dice Landsman «è sempre una sfortuna.» Sospira. «Dall'isola Verbov si è sentito qualcosa?» «Non un pigolio.» «Nemmeno sui giornali?» «Non sul "Licht", e nemmeno sul "Rut".» Sono i principali quotidiani dei cappelli neri. «Di voci non me ne sono arrivate. Nessuno ne parla. Niente. Silenzio totale.» Landsman si alza e va verso il telefono sul comodino accanto al letto. Compone un numero che ha imparato a memoria anni addietro, fa una domanda, riceve una risposta, mette giù. «I Verbover sono andati a riprendersi il corpo di Mendel Shpilman stanotte.» Il telefono che Landsman ha ancora in mano si attiva, cinguettando come un uccellino robot. Lo passa a Berko. «A me sembra stia bene» dice lui un istante dopo. «Sì, anch'io credo che abbia bisogno di un po' di riposo. D'accordo.» Abbassa la cornetta e rimane a fissarla, coprendo il microfono con il polpastrello del pollice. «La tua ex moglie.» «A quanto pare stai bene» dice Bina quando Landsman prende il ricevitore. «Così mi dicono» risponde lui. «Prenditi un po' di tempo» suggerisce Bina. «Datti un po' di tregua, Meyer.» Ci mette qualche secondo a cogliere il senso di quella frase, tanto il tono di Bina è gentile e imperturbabile.
«Non puoi...» dice. «Bina, ti prego, dimmi che non è vero.» «Due morti, Meyer. Uccisi con la tua pistola. Nessun testimone se non un ragazzino che non ha visto cos'è successo. È automatico. Sospensione con stipendio, in attesa del parere della commissione.» «Mi hanno aperto il fuoco contro, Bina. Avevo una soffiata affidabile, mi sono avvicinato con la pistola nella fondina, tranquillo come un agnellino. E quelli hanno cominciato a sparare.» «Avrai modo di raccontare la tua versione, Meyer. Nel frattempo il tuo distintivo e la pistola li tengo io, in questa bella borsetta rosa di Hello Kitty in cui Micky Zilberblat se li portava in giro. Tu intanto cerca di rimetterti in sesto, d'accordo?» «Potrebbero volerci settimane, Bina» dice Landsman. «Quando tornerò in servizio il commissariato di Sitka forse non esisterà nemmeno più. Non ci sono gli estremi per una sospensione, e tu lo sai. Date le circostanze potresti tranquillamente tenermi in servizio mentre l'indagine procede, e non trasgrediresti il regolamento che di tanto così.» «Ci sono casi e casi» dice Bina. «Non fare la misteriosa, Bina» dice Landsman. Poi, in americano: «Cosa cazzo succede?». Per due lunghi secondi Bina non risponde. «Ho ricevuto una telefonata dall'ispettore capo Vayngartner. Ieri sera» dice «poco dopo il tramonto.» «Capisco.» «Mi ha comunicato che anche lui aveva appena ricevuto una chiamata. Sul telefono di casa. E immagino che lo stimato signore all'altro capo del filo fosse un tantino irritato per certi comportamenti che a quanto pare il detective Meyer Landsman avrebbe avuto nel quartiere del signore di cui sopra un venerdì pomeriggio. Disturbando la quiete pubblica. Mancando pesantemente di rispetto alla gente del posto. Agendo senza alcuna autorità e senza il consenso dei superiori.» «E Vayngartner ha risposto?» «Ti ha definito un buon detective, ma con qualche problemuccio.» E questa frase, caro Landsman, è il tuo epitaffio. «E tu a Vayngartner cos'hai detto?» chiede. «Quando con quella telefonata ti ha rovinato il sabato sera.» «Il sabato sera. Il mio sabato sera, Meyer, è come un burrito
da scaldare nel microonde. Difficile rovinare qualcosa di così schifoso in partenza. Si dà il caso che all'ispettore capo Vayngartner io abbia detto che ti avevano appena sparato.» «E lui che ha detto?» «Che alla luce dei fatti appena avvenuti forse avrebbe dovuto rimettere in discussione il suo inveterato ateismo. E che dovevo fare il possibile per assicurami che tu stessi bene, e che per un po' di tempo ti dedicassi al riposo. Ed è quello che sto facendo. Sei sospeso, con stipendio pieno, fino a nuovo avviso.» «Bina... Bina, ti prego. Lo sai come sono fatto.» «Altroché.» «Io se non lavoro... non puoi...» «Devo, Meyer.» La temperatura della sua voce precipita così velocemente che nella linea si sente il tintinnio dei ghiaccioli. «Sai bene quanta voce in capitolo abbia in situazioni come questa.» «Ovvero? Quando dei delinquenti muovono i loro contatti per ostacolare l'indagine su un omicidio? È questa la situazione di cui parli?» «Io rispondo all'ispettore capo» spiega Bina, come se stesse parlando a un asino. Sa perfettamente che nulla irrita Landsman quanto l'essere trattato da stupido. «E tu rispondi a me.» «Quanto vorrei che non avessi fatto quella chiamata sul mio cellulare, Bina» dice Landsman dopo una pausa. «Era meglio se mi lasciavi morire.» «Non fare il melodrammatico, Meyer» dice Bina. «E comunque non c'è di che.» «E adesso io cosa dovrei fare, a parte esserti grato per avermi tagliato le palle?» «Vedi tu, detective. Potresti magari cominciare a pensare al futuro, tanto per cambiare.» «Al futuro» dice Landsman. «Tipo cosa? Le automobili volanti? Gli alberghi sulla luna?» «Intendo il tuo futuro, Meyer.» «Vuoi venire sulla luna con me, Bina? Ho sentito che lì gli ebrei li prendono ancora.» «Ciao, Meyer.» Bina mette giù. Landsman schiaccia il pulsante di fine comunicazione, e per un minuto rimane lì impalato, con Berko che lo guarda dal letto. Sente un ultimo moto di rabbia ed entusiasmo attraversarlo come un ciuffo di polvere soffiato fuori da
una pipa. Poi di colpo è vuoto. Va a sedersi sul letto. Si infila sotto le coperte e si gira verso la scena balinese appesa al muro. Chiude gli occhi. «Ehm, Meyer?» gli fa Berko. Ma Landsman non risponde. «Pensi di rimanere nel mio letto ancora a lungo?» Landsman non vede perché rispondere alla domanda. Un minuto dopo Berko si alza in piedi facendo leva sul materasso. Landsman sente che sta studiando la situazione, valuta l'abisso d'acqua nera che separa i due colleghi, in cerca della soluzione giusta. «Per quel che può valere» dice infine Berko «Bina è anche venuta a trovarti al pronto soccorso.» Landsman si rende conto che non conserva alcun ricordo di quella visita. È svanita, come la leggera pressione del piede di un neonato contro il palmo della sua mano. «Eri bello strafatto, sai?» dice Berko. «Dicevi un sacco di stronzate.» «Mi sono messo in ridicolo con lei?» riesce a chiedere Landsman con un vocino sottile. «Sì» risponde Berko. «Temo proprio di sì.» Detto questo esce dalla sua camera da letto, lasciando Landsman a chiedersi, ammesso che abbia le forze per farlo, quanto si può cadere più in basso di così. Landsman sente il collega e sua moglie parlare di lui nei toni sommessi riservati ai matti, alle teste di cazzo e agli ospiti indesiderati. Per tutto il resto del pomeriggio, e poi a cena. In mezzo al trambusto del bagnetto e del borotalco sul sederino e di una favola della buona notte che impone a Berko Shemets di ragliare come un asino. Se ne sta disteso sul fianco con una linea infuocata sulla nuca, percependo a fasi alterne l'odore di pioggia che entra dalla finestra, i sussurri e gli schiamazzi della famiglia nell'altra stanza. Ogni ora che passa gli riversa mezzo quintale di sabbia in un piccolo foro che ha nell'anima. Prima non riesce più ad alzare la testa dal materasso. Poi gli sembra di non poter più aprire gli occhi. Ciò che arriva dopo che gli occhi si sono chiusi non è mai sonno vero, e i pensieri che lo tormentano, per quanto atroci, non sono mai veri sogni. In un momento imprecisato nel cuore della notte, Goldy entra nella stanza. Il suo passo, pesante e strascicato, è quello di un cucciolo di mostro. Non solo si infila nel letto, ma rivolta le coperte come una frusta da cucina immersa nella pastella cru-
da. Sembra che stia fuggendo, in preda al panico, ma quando Landsman gli parla, chiedendogli cos'ha, il bambino non risponde. Ha gli occhi chiusi, e il cuore gli batte lento e regolare. Chiunque lo stesse inseguendo, nel letto dei suoi genitori ha trovato rifugio. Dorme profondamente. Il suo odore è quello di uno spicchio di mela tagliato che comincia a ossidarsi. Pianta le dita dei piedi nelle reni di Landsman con precisione e senza pietà. Digrigna i denti, con un rumore di forbici spuntate su un foglio di stagnola. Trascorsa così un'ora, intorno alle quattro e mezza il bambino più piccolo attacca a strillare dal suo balcone. Landsman sente Ester-Malke che cerca di consolarlo. Di solito lei a questo punto se lo porterebbe nel lettone, ma stasera non è possibile, e ci vuole un bel po' prima che riesca a calmarlo. Quando EsterMalke entra nella stanza portandolo in braccio, il bambino sta tirando su col naso e tace, si è quasi addormentato. Ester-Malke deposita Pinky tra suo fratello e Landsman, dopodiché se ne va. Riuniti nel lettone dei genitori, i piccoli Shemets mettono su un concerto di sbuffi e borbottii e rumori sommessi di valvole interne che farebbe impallidire il grande organo a canne del Tempio Emanu-El. Si producono inoltre in tutta una serie di manovre, una sorta di kung-fu da sonnambuli che spinge Landsman al bordo estremo del letto. Lo urtano, lo infilzano con le dita dei piedi, gemono e borbottano, masticando la fibra dei loro sogni. Intorno all'alba, nel pannolino del più piccolo succede qualcosa di orrendo. È la notte peggiore che Landsman abbia mai trascorso su un materasso, e questo la dice lunga. La caffettiera comincia a espettorare intorno alle sette. Qualche migliaio di molecole di vapore di caffè penetrano nella camera da letto e vanno a solleticare i peli del naso di Landsman. Sente uno strascichio di ciabatte sulla moquette in corridoio. Combatte a lungo e con tenacia l'impulso di registrare la presenza di Ester-Malke, in piedi sulla porta di quella che è la sua camera da letto, pentita di conoscere lui e di ogni slancio di compassione che ha mai avuto nei suoi confronti. A Landsman non gliene frega niente. Perché mai dovrebbe fregargliene qualcosa? Alla fine però si rende conto che è proprio nel suo sforzo di fregarsene di tutto che paradossalmente si annidano i semi della sconfitta: e dunque okay, gliene frega qualcosa. Apre un occhio. Ester-Malke è appoggiata contro lo stipite della porta, con le braccia conserte, osserva lo scenario di distruzione che
un tempo era il suo letto. L'emozione che coglie una madre alla vista dei suoi figli addormentati, qualunque nome abbia, nell'espressione che ha sul viso fa a gara con l'orrore e lo sgomento per lo spettacolo che Landsman offre di sé in mutande. «Ho bisogno che mi liberi il letto» sussurra lei. «Presto, e definitivamente.» «Va bene» risponde Landsman. Facendo l'inventario delle sue ferite, dei dolori, della direzione prevalente del suo umore, si tira su a sedere. Nonostante l'agonia della notte che si è appena conclusa si sente stranamente riposato. Più presente, in un certo senso, nei suoi arti e nella pelle e nei sensi. E, forse, anche più reale. Non divideva il letto con un altro essere umano da più di due anni. Si domanda se per caso non avrebbe fatto meglio a non astenersi da questa attività. Recupera gli abiti appesi alla porta e se li mette. Segue Ester-Malke in corridoio con in mano cintura e calzini. «Anche se va detto che il divano ha i suoi vantaggi» prosegue lei. «Per esempio non ci sono neonati né bambini di quattro anni.» «I tuoi figli hanno un serio problema di unghie» dice Landsman. «Ah, e poi dev'esserci qualcosa, credo una lontra marina morta, che si sta decomponendo nel pannolino del più piccolo.» In cucina Ester-Malke versa una tazza di caffè per ciascuno, poi va alla porta e raccoglie la copia fresca del «Tog» dallo zerbino con su scritto FUORI DAI PIEDI. Landsman si siede sul suo sgabello al banco da colazione e fissa le tenebre del salotto, dove il corpo imponente del suo collega si erge dal pavimento come un'isola. Il divano è un campo di battaglia di coperte. Landsman sta per dire a Ester-Malke: «Io non mi merito degli amici come voi», quando lei torna in cucina leggendo il giornale e dice: «Ci credo che avevi bisogno di dormire». Urta lo stipite della porta. In prima pagina dev'esserci qualcosa di bello, o di terribile, o di incredibile. Landsman cerca gli occhiali da lettura nel taschino della giacca. Il ponte si è spezzato, sono due lenti separate. Un autentico paio di occhiali: due monocoli con relativa astina. Ester Malke prende il nastro adesivo, giallo come un segnale di pericolo, dal cassetto sotto il telefono. Accomoda gli occhiali alla bell'e meglio e li restituisce a Landsman. Il grumo di nastro è grosso come una nocciola. Attira l'attenzione perfino di Land-
sman che lo indossa, facendogli incrociare gli occhi. «Scommetto che mi stanno benissimo» dice, prendendo il giornale. Sul «Tog» di stamane le notizie di spicco sono due. Una è il resoconto di uno scontro a fuoco, costato due morti, nel parcheggio deserto di un outlet Big Macher abbandonato. Protagonisti un solitario detective della Omicidi, Meyer Landsman, quarantadue anni, e due sospetti da tempo ricercati dalla polizia di Sitka per il loro coinvolgimento in due omicidi apparentemente non collegati. L'altra notizia ha come titolo: TROVATO MORTO EX «BAMBINO TZADDIK» Il testo che segue imbastisce una trama di miracoli, fughe e pure e semplici bugie in merito alla vita e alla morte di Menachem-Mendel Shpilman, avvenuta nella notte di giovedì all'Hotel Zamenhof di Max Nordau Street. Secondo l'ufficio del medico legale - visto che il medico legale vero e proprio si è trasferito in Canada - dai primi accertamenti sulle cause del decesso emerge una cosa che nel mondo delle fiabe è nota con l'espressione «problemi di droga». Scrive il giornalista del «Tog»: Pur essendo semisconosciuto all'opinione pubblica nella comunità chiusa dei fedeli Shpilman fu considerato, nei suoi primi anni di vita, un bambino prodigio, una sorta di miracolo vivente, nonché un vero e proprio maestro spirituale, poiché si riteneva che potesse essere il Redentore a lungo annunciato. Spesso, durante la sua infanzia, presso la vecchia casa degli Shpilman in S. Ansky Street, nell'Harkavy, si affollavano visitatori e bisognosi che, spinti dalla fede e dalla curiosità, arrivavano fin da Buenos Aires e da Beirut per poter incontrare il talentuoso bambino, nato il fatidico nono giorno del mese di Av. Furono in molti a sperare, e addirittura a fare in modo di essere presenti, nelle varie occasioni in cui si vociferò che il bambino avesse deciso di «palesare il suo regno». Shpilman però non palesò mai nulla. Ventitré anni fa, nel giorno fissato per le sue nozze con una delle figlie del Shtrakenzer Rebbe, scomparve, e durante il lungo declino che intraprese in seguito il ricordo delle attese riposte in lui si è quasi completamente dimenticato.
Il breve accenno all'ufficio del medico legale è l'unico passaggio che somiglia vagamente a una spiegazione del perché sia morto. Viene detto che la direzione dell'albergo e il commissariato centrale di Sitka non hanno voluto commentare. Alla fine dell'articolo Landsman scopre che non si terrà alcun funerale presso la sinagoga, ma una semplice funzione al vecchio cimitero Montefiore, celebrata dal padre del defunto. «Berko dice che il padre l'aveva rinnegato» commenta EsterMalke, leggendo da dietro le spalle di Landsman. «Che non voleva avere niente a che fare con lui. Avrà cambiato idea.» Leggendo l'articolo Landsman prova una fitta di invidia nei confronti di Mendel Shpilman, stemperata dalla pietà. Lui si è dibattuto per tanti anni sotto il peso delle aspettative paterne, ma non ha idea di come ci si possa sentire a soddisfarle o superarle. Isidor Landsman, ne è sicuro, sarebbe stato felicissimo di avere un figlio dotato come Mendel. Landsman non può fare a meno di pensare che, se fosse stato in grado di giocare a scacchi come Mendel Shpilman, forse suo padre avrebbe sentito di avere una ragione per cui vivere, un piccolo Messia che lo salvasse. Landsman ripensa a quella lettera spedita al padre nella speranza di guadagnarsi la libertà dal peso di quella vita e di quelle aspettative. Riflette sugli anni che ha trascorso convinto di aver causato a Isidor Landsman un dolore letale. Quanto si sentiva in colpa Mendel Shpilman? Aveva creduto a ciò che si diceva di lui, al suo dono e alla sua incontenibile vocazione? Nel tentativo di liberarsi da quel peso Mendel ha sentito di dover voltare la schiena non solo a suo padre, ma a tutti gli ebrei del mondo? «Io non credo che il Rebbe Shpilman sia uno che cambia idea» dice Landsman. «A meno che qualcuno non gliela faccia cambiare per forza.» «E questo qualcuno chi sarebbe?» «Tiro a indovinare? Per me potrebbe essere stata la madre.» «Meglio così. Stai pur certo che una madre non permette a nessuno di buttare via il figlio come se fosse una bottiglia vuota.» «Una madre» ripete Landsman. Osserva la fotografia sul «Tog» di Mendel Shpilman a quindici anni, con la barba rada, i cernecchi ai lati del viso, che con la massima disinvoltura presiede una riunione di giovani talmudisti agguerriti e accigliati.
«TZADDIK HA-DOR» IN TEMPI MIGLIORI dice la didascalia. «A cosa stai pensando, Meyer?» chiede Ester-Malke, con una nota di dubbio nella voce. «Al futuro» risponde Landsman. LO
Capitolo ventitré
Una folla di cappelli neri avanza lenta, come un treno merci carico di dolore, dai cancelli del cimitero - «casa della vita», la chiamano loro - su per il fianco della collina, verso una fossa scavata nel fango. Una cassa di pino scivolosa si solleva e ridiscende su un flutto di uomini in lacrime. Ci sono Satmar che tengono ombrelli sulle teste dei Verbover. Gerer e Shtrakenzer e Viznitzer che procedono tenendosi sottobraccio con una spavalderia da studentesse a spasso. Rivalità, rancori, conflitti tra sette, scomuniche incrociate, per un giorno tutto quanto è stato messo da parte perché tutti possano piangere con il dovuto trasporto un uomo che fino a venerdì scorso avevano dimenticato. Nemmeno un uomo: un guscio d'uomo, assottigliatosi fino a diventare trasparente intorno al vuoto spinto di una tossicodipendenza lunga vent'anni. Ogni generazione perde il Messia che non è riuscita a meritarsi. Adesso i devoti del distretto di Sitka hanno individuato l'ubicazione della loro immeritevolezza collettiva, e si sono radunati sotto la pioggia a seppellirla. Intorno alla tomba, macchie nere di abeti ondeggiano come chassidici a lutto. Al di là delle mura del cimitero, cappelli e ombrelli neri riparano dalla pioggia migliaia dei più immeritevoli tra gli immeritevoli. Gerarchie stratificate di obblighi e crediti hanno determinato chi ha il permesso di oltrepassare i cancelli della casa della vita e chi deve stare fuori a guardare e commentare, con la pioggia che gli inzuppa la calzamaglia. Queste gerarchie hanno inoltre attratto l'attenzione di vari detective che si occupano di rapine, contrabbando e truffe. Landsman riconosce Skolsky, Burwitz, Feld, e Globus, quest'ultimo con quel suo lembo di camicia perennemente penzoloni, appollaiato sul tettuccio di una Ford Victoria grigia. Non capita tutti i giorni un'uscita pubblica della famiglia Verbover al gran completo, e che tutti si radunino in cerchio sul fianco di una collina, disposti a seconda delle relazioni che li legano come caselle sul
diagramma tracciato da un pubblico ministero. Sul tetto di un Wal-Mart quattrocento metri più in là, tre americani in giacca a vento blu puntano i teleobbiettivi e il pistillo tremante di un microfono a condensatore. Un robusto cordone di latkes e unità motociclistiche è stato introdotto nella folla per impedire antiestetici disordini. C'è anche la stampa; cameraman e giornalisti di Channel 1, dei quotidiani locali, troupe della affiliata NBC di Juneau e di un canale di notizie via cavo. C'è Dennis Brennan, che non ha avuto il buonsenso o forse il quantitativo di feltro sufficiente a riparare dalla pioggia quel suo testone sovradimensionato. Ci sono poi i mezzi credenti e i mezzi osservanti, gli ortodossi moderni, i semplici creduloni, gli scettici e i curiosi, oltre a una cospicua delegazione del Club scacchistico Einstein. Landsman vede tutti quanti dall'osservatorio privilegiato della sua impotenza e del suo esilio, finalmente ricongiunto con la sua SuperSport in cima a una collinetta brulla sul lato opposto di Mizmor Boulevard rispetto alla casa della vita. Ha parcheggiato in una strada senza sbocco tracciata da qualche immobiliarista, che l'ha asfaltata e quindi le ha appioppato il nome di Tikvah Street, la parola che in ebraico indica la speranza, e che alle orecchie degli yiddish, in questo cupo pomeriggio alla fine del tempo, contiene almeno diciassette sfumature ironiche diverse. Le tanto auspicate case non sono mai state costruite. Una serie di picchetti di legno cui sono legate bandierine arancioni e filo di nylon delimita una piccola Sion nel fango intorno alla strada senza sbocco, uno spettrale eruv del fallimento. Landsman si è mosso da solo, è completamente sobrio, stringe un binocolo nelle mani sudaticce. Il bisogno che ha di bere è come un dente mancante. Non riesce a non pensarci, eppure tormentarsi con la lingua la gengiva vuota è quasi piacevole. O forse quel dolore, come di qualcosa che non c'è più, è solo il buco lasciato dal distintivo che Bina gli ha tolto. Landsman aspetta in macchina che il funerale finisca, osservandolo da dietro le pregiate lenti Zeiss e consumando la batteria dell'auto con un documentario su radio CBC che parla del cantante blues Robert Johnson, la cui voce suona spezzata e sottile come un ebreo che recita il Kaddish sotto la pioggia. Landsman ha con sé un pacchetto di Broadway, e le brucia in fretta, cercando di scacciare dall'abitacolo della SuperSport una persistente traccia dell'odore di Micky Zilberblat. Più che altro
una puzza, come di una pentola piena d'acqua in cui un paio di giorni fa qualcuno ha cotto gli spaghetti. Berko ha cercato di convincerlo che quel residuo del breve passaggio di Zilberblat nella sua vita era solo frutto della sua immaginazione. Ma Landsman è felice di avere una scusa per neutralizzarlo con le sigarette, cosa che non cancella il bisogno impellente di bere, ma allenta un pochino la sua morsa. Berko ha anche cercato di convincere Landsman ad aspettare un po', un giorno o due, prima di rimettersi sulla faccenda di Mendel Shpilman, morto per problemi di droga. Mentre scendevano insieme sull'ascensore di casa sua lo ha sfidato a guardarlo dritto negli occhi e dirgli che i suoi progetti per quell'umido lunedì pomeriggio non consistevano nel recarsi, spogliato del distintivo e della pistola, a martellare di domande impertinenti la regina dei gangster a lutto, mentre questa prendeva congedo dalla casa della vita e dai resti del suo unico figlio maschio. «Non ti ci puoi avvicinare» ha insistito Berko seguendo Landsman fuori dall'ascensore e nell'atrio, fino alla porta del Dnyeper. Aveva indosso il suo mastodontico pigiama, le braccia cariche di vestiti, le scarpe appese a due dita, la cintura intorno al collo. Dal taschino sul petto del pigiama color senape a righine bianche spuntavano due fette di pane tostato, come un fazzoletto decorativo. «E anche se puoi, non puoi comunque.» Stava operando una chiara distinzione tra le cose che si possono fare se si hanno le palle e quelle che i rompipalle non ti permetterebbero mai di fare. «Quelli non ti degnano di uno sguardo» ha detto Berko. «Ti rivoltano come un calzino. Ti trascinano in tribunale.» Landsman non ha potuto confutare i suoi argomenti. Batsheva Shpilman raramente mette piede fuori dai confini del suo mondo piccolo e profondo. Ma quando lo fa, novantanove su cento è circondata da una fitta selva di armi e avvocati. «Non hai il distintivo, né il via libera dei superiori, né un mandato, non c'è un'indagine, con quelle macchie d'uovo sul vestito sembri mezzo matto, se vai a rompere le palle alla signora rischi che ti sparino, e che chi preme il grilletto la passi praticamente liscia.» Berko ha seguito Landsman fuori dal palazzo, saltellando in scarpe e calzini, fino alla fermata dell'autobus all'angolo. «Berko, mi stai dicendo di non farlo» gli ha chiesto Land-
sman «o solo di non farlo senza di te? Credi che permetterei a te e a Ester-Malke di sputtanarvi la vostra possibilità di uscire indenni dalla Restituzione? Sei pazzo. Nel corso degli anni ti ho reso parecchi cattivi servizi, e ho combinato un sacco di guai, ma spero proprio di non essere tanto stronzo da fare una cosa del genere. Se invece mi stai dicendo che secondo te non dovrei farlo e basta, be'...» Landsman ha smesso di camminare, colpito dalla notevole saggezza di quell'ipotesi. «Io non lo so cos'è che sto dicendo, Landsman. Dico solo: che cazzo.» Berko ogni tanto, più quand'era bambino che adesso, sfodera un luccichio di sincerità nel bianco degli occhi. Landsman ha dovuto guardare altrove, girando il viso verso il vento che soffiava dallo stretto. «Dico solo: almeno non prendere l'autobus, okay? Ti porto io fino al deposito auto.» Si è sentito un rombo lontano, uno stridore di freni ad aria. In fondo al lungomare è apparso Il 61B diretto all'Harkavy, sollevando una cortina di pioggia lucente. «Almeno questo» ha detto Berko. Poi ha sollevato per il colletto la giacca che stringeva in braccio, porgendola a Landsman come per fargliela indossare. «Nella tasca, Meyer. Prendila.» E adesso Landsman soppesa la sholem che ha in mano, una graziosa Beretta calibro .22 piccola piccola, con l'impugnatura in plastica, e mentre si avvelena di nicotina cerca di decifrare i lamenti di questo nero del Delta, il signor Johnson. Dopo un tempo che non si prende la briga di notare o misurare, diciamo un'ora, il lungo treno scuro, scaricata la merce, riparte giù per la collina, diretto verso i cancelli. Alla sua testa avanza faticosamente, con lo sguardo alto, sotto un cappello a tesa larga grondante pioggia, la stazza da locomotiva del decimo Verbover Rebbe. Alle sue spalle la fila delle figlie, sette o dodici, con tanto di mariti e progenie, ed è a quel punto che Landsman si drizza sul sedile, e ruotando la messa a fuoco inquadra nelle lenti Zeiss l'immagine nitida di Batsheva Shpilman. Si aspettava una sorta di diabolica via di mezzo tra Lady Macbeth e la first lady americana: una Marilyn Monroe Kennedy in cappellino rosa, con due spirali ipnotiche al posto degli occhi. Ma nel momento in cui Batsheva Shpilman appare chiaramente, un attimo prima di sparire dietro il fitto delle persone che si riversano oltre i cancelli del cimitero, Landsman nota un corpo piccolo, ossuto, e un passo stentato da donna anziana. Il viso è na-
scosto da un velo nero. Gli abiti sono anonimi, nient'altro che veicoli carichi di nero. Mentre gli Shpilman si avvicinano ai cancelli, la fila di sbirri in divisa si stringe in un nodo compatto, facendo indietreggiare la folla. Landsman si infila la pistola in tasca, spegne la radio e scende dall'auto. La pioggia si è diradata in un reticolo di gocce sottili. Si incammina giù per la discesa, verso Mizmor Boulevard. Da un'ora a questa parte la folla è aumentata, accalcandosi intorno ai cancelli del cimitero. Ondeggia, si sposta, talvolta all'improvviso, sospinta dal moto browniano del lutto collettivo. I latkes in divisa faticano ad aprire un varco tra la famiglia e le imponenti 4x4 del corteo funebre. Landsman scivola e inciampa, sradicando erbacce, raccogliendo grumi di fango sulle scarpe. Mentre arranca giù per la collinetta scivolosa le ferite cominciano a dargli noia. Si domanda se per caso ai dottori non sia sfuggita una costola rotta. Di colpo perde il punto d'appoggio e scivola, scavando nel fango con i talloni solchi lunghi tre metri, e cade di culo. È troppo superstizioso per non prenderlo come un brutto segno, ma quando uno è pessimista tutti i segni sono brutti. La verità è che non ha alcun tipo di piano, nemmeno quello goffo e rudimentale immaginato da Berko. Landsman fa lo sbirro da diciott'anni, è detective da tredici, lavora nella Omicidi da undici, è uno in gamba, un principe tra i poliziotti. Non gli era mai successo di non essere nessuno, un pazzo qualunque con una pistola e una domanda. Non sa come si procede in questi casi, se non con la certezza assoluta, premuta sul cuore come un pegno d'amore, che in fin dei conti nulla ha importanza. Mizmor Boulevard è un parcheggio, gente a lutto e spettatori in una foschia di scarichi di diesel. Landsman si fa strada tra paraurti e parafanghi, quindi si immerge nella massa di persone che affollano il viale. Bambini e ragazzi in cerca di una visuale migliore si sono arrampicati tra i rami di una fila di sventurati larici che nell'aiuola spartitraffico non sono mai riusciti ad attecchire davvero. Le persone che Landsman ha intorno si spostano al suo passaggio, e quando non lo fanno è lui a dargli l'imbeccata con le ossa della spalla. Odora di lutto, questa gente, di biancheria intima lunga, fumo di tabacco su cappotti umidi, fango. Pregano come se stessero per svenire, svengono come se lo imponesse il cerimo-
niale. Donne in lacrime si aggrappano le une alle altre consumandosi la gola. Non stanno piangendo Mendel Shpilman, non è possibile. È qualcos'altro che sentono di aver perso, l'ombra di un'ombra, la speranza di una speranza. Qualcuno sta per sottrargli questa mezza isola che hanno imparato ad amare come se fosse casa loro. Sono come pesci rossi in un sacchetto di plastica, un attimo prima di essere gettati di nuovo nel grande lago nero della diaspora. Ma è una questione troppo grande per pensarci. E allora piangono la perdita del colpo di fortuna che non è mai arrivato, di una possibilità che non è mai stata tale, di un re che non intendeva regnare comunque, anche senza che gli piantassero un proiettile rivestito nella scatola cranica. Landsman li spinge con la spalla e mormora: «Permesso». Cerca di raggiungere l'unica limousine, un bestione di fuori serie 4x4 da sei metri. Il viaggio dalla cima della collinetta, giù per la discesa, attraverso il viale, tra gli ombrelli e le barbe e gli ululati in ebraico fino al fianco della grossa limousine è caratterizzato, nella mente di Landsman che lo sta vivendo, da un andamento a sobbalzi, come di cinepresa impugnata a mano. Il filmato amatoriale di un tentato omicidio in divenire. Landsman però non è venuto per sparare a nessuno. Vuole solo parlare con lei, avere la sua attenzione, guardarla negli occhi. Vuole solo farle una domanda. Quale domanda, be', non lo sa. Alla fine qualcuno lo batte sul tempo. O meglio, una decina di persone. I giornalisti sono riusciti a scavarsi un passaggio tra i cappelli neri proprio come lui, a colpi di scapole e gomiti. Quando il donnino minuto con il velo nero esce dai cancelli al braccio del genero, si scatenano con le domande per cui sono venuti. Le estraggono come pietre dalle tasche, e gliele tirano addosso tutte in una volta. La lapidano di domande. Lei non li degna di uno sguardo. Non volta mai la testa, il velo non si muove né si alza. Baronshteyn guida la madre del defunto verso la grossa limo. L'autista scende dal sedile del passeggero. È un filippino, con un corpo da fantino e una cicatrice sul mento che sembra un secondo sorriso. Si fionda ad aprire la portiera per la sua datrice di lavoro. Landsman è ancora a una cinquantina di metri di distanza. Non avrà il tempo di rivolgerle una domanda, né di fare alcunché. Un ruggito, un brontolio di gola ferino, basso e solo in parte umano, un tuono di avvertimento o un cupo monito: uno dei cappelli neri accanto alle macchine ha trovato offensiva la do-
manda di un giornalista. O forse le ha trovate offensive tutte quante, in linea con l'atteggiamento con cui sono state rivolte. Landsman vede il cappello nero arrabbiato, è grosso, biondo, senza cravatta, con i lembi della camicia fuori dai pantaloni, e in lui riconosce Dovid Sussman, il tizio da cui l'ha salvato Berko Shemets sull'isola Verbov. Un omaccione con i muscoli della mandibola sporgenti, e un ulteriore rigonfiamento sotto il braccio sinistro. Sussman getta un braccio intorno al collo di quel poveraccio di Dennis Brennan, lo stringe in una morsa soffocante. Rimproverandolo con i denti digrignati a un millimetro dal suo orecchio, Sussman lo trascina indietro, fuori dalla traiettoria della famiglia che sta uscendo dai cancelli. È a quel punto che interviene uno dei latkes: dopotutto è lì per quello. Ma essendo spaventato - è un ragazzino, si vede che ha paura - forse ci va giù un po' troppo disinvolto quando getta il manganello contro le ossa della testa di Dovid Sussman. Si sente un brutto colpo, e di colpo Sussman diventa liquido, riversandosi a terra, ai piedi del latke. Per un attimo la folla, il pomeriggio, il mondo intero degli ebrei trattiene il fiato e si dimentica di respirare. Da quel punto in poi è pura follia, un tumulto ebraico, al tempo stesso violento e verbale, carico di accuse sproporzionate e maledizioni implacabili. Vengono invocate malattie epidermiche, dannazioni eterne ed emorragie. Grida, ondate di cappelli neri, bastoni e pugni, strilli e pianti, barbe che svolazzano come vessilli di crociati, bestemmie, odore di fanghiglia calpestata, di sangue e pantaloni stirati. Ci sono un paio di uomini che portano uno striscione attaccato a due bastoni, con sopra un addio al loro principe perduto Menachem: qualcuno gli strappa uno dei due bastoni, e qualcun altro l'altro. Lo striscione si stacca dai sostegni e viene risucchiato tra gli ingranaggi della folla. I bastoni vengono prontamente adoperati sulle mascelle e sui crani dei poliziotti. La parola ADDIO dipinta con cura sullo striscione viene stracciata e ricoperta di sputi. Vola nell'aria, sulle teste della gente a lutto e dei poliziotti, dei criminali e dei devoti, dei vivi e dei morti. Landsman perde di vista il Rebbe, però vede un gruppetto di Rudashevsky caricare la madre, Batsheva, su uno dei sedili posteriori della 4x4. L'autista afferra la portiera sul lato del passeggero e balza sul suo sedile come un ginnasta. I Rudashevsky battono i pugni sul fianco della macchina gridando: «Vai! Vai!
Vai!». E Landsman, che si sta ancora frugando le tasche in cerca della monetina luccicante di una domanda giusta, osserva la scena, e mentre osserva nota una serie di piccoli dettagli. L'autista filippino è nervoso. Non allaccia la cintura di sicurezza. Non dà una bella e sonora strombazzata di clacson per far spostare il bestiame. E il piccolo perno della sicura nella portiera non viene abbassato. L'autista non fa altro che ingranare la marcia della lunga 4x4, comincia ad avanzare, un po' troppo veloce, considerata la folla che ha intorno. Landsman si fa da parte mentre la 4x4 procede verso di lui. Una fila di persone si stacca dal resto della calca nera e parte al seguito della 4x4 di Batsheva Shpilman. Una scia di dolore. Per un attimo la gente si aggrappa all'auto e si frappone tra i Rudashevsky e la limousine, impedendo loro di vedere il veicolo e chiunque sia tanto stupido da cercare di salirci. Landsman comincia ad annuire, seguendo il ritmo della follia della calca e della sua. Aspetta il momento, e intanto muove le dita. Quando la macchina gli passa accanto apre la portiera posteriore. Di colpo la potenza del motore si traduce in un senso di panico che gli assale le gambe. È una sorta di dimostrazione delle leggi fisiche che regolano la sua stupidità, il moto incontrastabile della sua scarsa fortuna. Mentre la macchina lo trascina per quattro o cinque metri trova il tempo di chiedersi se è così che è morta sua sorella, in un repentino manifestarsi di forza di gravità e massa. I tendini dei suoi polsi si contraggono. Poi riesce a infilare un ginocchio nell'abitacolo della limousine, e ruzzola all'interno.
Capitolo ventiquattro
Una caverna buia, rischiarata da diodi azzurrini. Fresca, asciutta, pervasa dall'aroma di un qualche deodorante al limone. Landsman sente dentro di sé una traccia di quello stesso odore, una nota asprigna di speranza ed energie sconfinate. Potrebbe essere la più grossa stupidaggine che abbia fatto in vita sua, ma bisognava farla, e la sensazione di averla fatta, in questo istante, è la risposta all'unica domanda che sa come formulare. «C'è del ginger ale» dice la regina dell'isola Verbov. È ripiegata su di sé come un tappetino, rannicchiata in un angolino semibuio dell'abitacolo. Il vestito è anonimo, ma di stoffa pregiata, e la fodera dell'impermeabile tradisce un logo alla moda. «Lo beva pure, a me non piace.» L'attenzione di Landsman però è fissa sul sedile che guarda verso il retro, vicino all'autista, e a quella che è la più probabile fonte di problemi. Seduto lì c'è un metro e ottanta e qualcosa come novanta chili di donna, con indosso un tailleur pantalone di zigrino e una camicia senza colletto bianca. Gli occhi di questo essere fuori dal comune sono grigi e freddi. A Landsman ricordano il dorso di due cucchiai opachi. La donna porta un auricolare bianco avvolto intorno all'orecchio sinistro, e i capelli rossicci tagliati corti come un uomo. «Non sapevo che i Rudashevsky li facessero anche in versione signora» dice Landsman, accovacciato sui talloni nell'ampio spazio tra le due file di sedili che si fronteggiano. «Lei è Shprintzl» dice la padrona di casa dall'angolo dell'abitacolo. Poi Batsheva Shpilman si solleva il velo. Il corpo è fragile, forse addirittura emaciato, ma non può essere per via dell'età, perché il viso dai lineamenti delicati, seppure un po' scavato, è liscio, bello da guardare. Ha gli occhi distanziati, di un azzurro tra lo struggente e il fatale. La bocca è struccata, ma carnosa e rossa. Le narici in fondo al lungo naso dritto si inar-
cano come due ali. Ha un viso così forte e bello e un corpo così deperito che guardarla suscita inquietudine. La testa poggia come un parassita alieno sul collo con le vene in evidenza, depredandole il corpo. «La prego di notare che non l'ha ancora uccisa.» «Grazie, Shprintzl» dice Landsman. «Non c'è di che» risponde Shprintzl Rudashevsky in americano, con una voce che è come una cipolla che rotola sul fondo di un secchio. Batsheva Shpilman indica l'estremità opposta del suo sedile. La mano è chiusa in un guanto di velluto nero, abbottonato sul polso da tre perline nere. Landsman accetta il consiglio e si alza dal pavimento. Il sedile è comodissimo. Si sente sulle punte dei polpastrelli la condensa fredda di un immaginario bicchiere da cocktail. «E non si è neppure messa in contatto con i suoi fratelli o cugini a bordo delle altre macchine, sebbene, come lei può vedere, sia direttamente collegata con loro.» «Famiglia affiatata, i Rudashevsky» dice Landsman, ma capisce ciò che lei vuole fargli capire: «Voleva parlarmi». «Io?» risponde lei, e per un attimo le sue labbra meditano di sollevarsi a un angolo, ma poi decidono di non farlo. «È lei che si è introdotto nella mia macchina.» «Ah, perché questa è una macchina? Chiedo scusa, pensavo fosse l'autobus 61.» Il faccione di Shprintzl Rudashevsky assume un'inespressività filosofica, quasi mistica. Sembra che se la stia facendo addosso e che le piaccia la sensazione di calore. «Chiedono di lei, cara» dice alla donna più anziana con dolcezza da infermiera. «Vogliono sapere se sta bene.» «Digli che sto bene, Shprintzeleh. Che stiamo tornando a casa.» Rivolge gli occhi miti su Landsman. «La porteremo al suo albergo. Voglio vederlo.» Sono di un colore che Landsman non ha mai visto, i suoi occhi, dell'azzurro di una piuma d'uccello, o di una vetrata. «Per lei va bene, detective Landsman?» Landsman risponde che va bene. Mentre Shprintzl Rudashevsky sussurra in un microfono nascosto, la sua datrice di lavoro abbassa il pannello divisorio e fornisce all'autista le indicazioni per raggiungere l'angolo tra Max Nordau e Berlevi. «Sembra assetato, detective» dice poi, sollevando di nuovo il divisorio. «È sicuro di non volere un ginger ale? Shprintzeleh,
prepara un bicchiere di ginger ale per il signore.» «La ringrazio, signora, ma non ho sete.» Gli occhi di Batsheva Shpilman si spalancano, poi si socchiudono, quindi si spalancano ancora. Lo sta esaminando, lo confronta con ciò che sa o ha sentito dire di lui. Il suo sguardo è rapido e spietato. Probabilmente sarebbe un ottimo detective. «Non di ginger ale» ribatte. Svoltano in Lincoln Street e procedono lungo la costa, oltre l'isola Oysshtellung e la promessa non mantenuta dello Spillone, diretti verso l'Untershtat. Nel giro di nove minuti arriveranno all'Hotel Zamenhof. Quegli occhi sprofondano Landsman in una boccetta di etere. Lo inchiodano come spilli a un pannello di sughero. «E va bene, perché no?» dice Landsman. Shprintzl Rudashevsky gli offre una bottiglietta di ginger ale freddo. Landsman se la appoggia alle tempie, poi ne beve un sorso, mandandolo giù a forza con la sensazione che possieda virtù medicinali. «Non siedo così vicino a un uomo che non conosco da quarantacinque anni, detective» dice Batsheva Shpilman. «E non va affatto bene. Dovrei vergognarmi.» «Specie considerando le compagnie maschili che si sceglie» dice Landsman. «Le spiace?» Abbassa il moire nero, e il suo volto scompare dalla conversazione. «Così mi sento più a mio agio.» «Prego.» «Dunque.» Il velo si gonfia di fiato. «D'accordo, è vero, volevo parlarle.» «Anch'io.» «Come mai? Crede che sia stata io a uccidere mio figlio?» «No, signora, non lo credo. Ma speravo potesse sapere chi è stato.» «Allora è vero!» dichiara lei, con un fremito sommesso che le percorre la voce, come se avesse colto Landsman in fallo. «È stato ucciso.» «Ehm, be'... sì, signora. È stato ucciso. Ma non... Suo marito che cosa le ha detto?» «Che cosa mi ha detto mio marito...» risponde lei, facendola sembrare una frase retorica, come il titolo di un modesto trattatello. «Lei è sposato, detective?» «Lo sono stato.»
«Il matrimonio non ha funzionato?» «È un modo gentile per dirlo.» Landsman riflette per un istante. «Mi sa che è anche l'unico.» «Il mio matrimonio è perfettamente riuscito» dice lei, senza traccia di presunzione o orgoglio. «Capisce cosa intendo?» «No, signora» risponde Landsman. «Non sono sicuro di capire.» «In ogni matrimonio ci sono cose...» attacca lei. Scuote la testa, una volta sola, e il velo freme. «Oggi è venuto a casa mia uno dei miei nipoti, prima del funerale. Ha nove anni. Gli ho acceso la televisione, nella stanza da cucito, non bisognerebbe ma pazienza, si annoiava. Mi sono seduta lì con lui dieci minuti, a guardare la televisione. Davano un cartone animato, quello con il lupo che dà la caccia a una specie di gallo azzurro.» Landsman dice di conoscerlo. «Allora saprà anche» prosegue lei «che il lupo riesce a correre sospeso nell'aria. Sa volare, ma solo finché è convinto di avere i piedi per terra. Non appena abbassa lo sguardo e capisce dove si trova, che cosa sta succedendo, allora precipita e si schianta.» «Sì, è una scena che ho visto.» «Un matrimonio riuscito è la stessa cosa» dice la moglie del rabbino. «Ho passato gli ultimi cinquant'anni a correre sospeso nel vuoto. Senza mai abbassare lo sguardo. Fatta eccezione per i comandamenti di Dio, io con mio marito non parlo mai, detective. E viceversa.» «I miei genitori avevano raggiunto lo stesso compromesso» dice Landsman. Chissà se lui e Bina sarebbero durati più a lungo tentando questo approccio tradizionale. «Solo che loro non erano altrettanto zelanti nell'osservanza dei comandamenti.» «La notizia della morte di Mendel mi è stata data da mio genero, Aryeh. E quell'uomo di solito mi dice soltanto bugie.» Landsman sente un rumore, come di qualcuno che salta ripetutamente su una valigia di pelle, poi scopre che è la risata di Shprintzl Rudashevsky. «Vada avanti» dice la signora Shpilman. «La prego. Mi racconti il resto.» «Il resto. Dunque. Gli hanno sparato. Ma in un modo, signora, che... Sarò franco: è stata un'esecuzione.» Nel pronunciare quella parola Landsman è felice della presenza del velo. «Chi sia stato non lo sappiamo. Abbiamo scoperto che alcune perso-
ne, due o tre uomini, stavano cercando Mendel, chiedevano di lui in giro. Potrebbero non essere state esattamente delle brave persone. Questo è successo qualche mese fa. Sappiamo che quand'è morto stava facendo uso di eroina. Perciò alla fine non ha sentito nulla. Nessun dolore, intendo dire.» «Intende dire nulla» lo corregge lei. Due macchie, più nere della seta, si allargano dietro il velo. «Vada avanti.» «Mi dispiace, signora. Per suo figlio. Avrei dovuto dirglielo subito.» «È stato un sollievo che non l'abbia fatto.» «Siamo convinti che chiunque sia stato fosse più di un dilettante. Ma sa, signora Shpilman, le confesso che da venerdì mattina con l'indagine sulla morte di suo figlio non stiamo andando da nessuna parte.» «Continua a parlare al plurale» dice lei. «Ovviamente intende la polizia di Sitka.» A questo punto Landsman vorrebbe vederglieli, gli occhi. Perché ha la netta sensazione che quella donna stia giocando con lui. Che sappia perfettamente che non ha il diritto di essere lì, né avere le spalle coperte dall'autorità. «Non esattamente» risponde. «La Sezione Omicidi.» «No.» «Lei e il suo collega.» «Nemmeno.» «E allora, detective, forse sono io che non capisco» dice lei. «Chi è che non sta andando da nessuna parte con le indagini sulla morte di mio figlio?» «In questo preciso momento? Io, ehm, diciamo che è una specie di indagine teorica.» «Capisco.» «Condotta da un'entità indipendente.» «Mio genero» dice la signora Shpilman «sostiene che lei sia stato sospeso perché è venuto all'isola. A casa mia. E ha insultato mio marito. Lo ha accusato di non essere stato un buon padre per Mendel. Aryeh mi ha detto, detective, che le hanno perfino tolto il distintivo.» Landsman si passa il cilindro fresco del bicchiere di ginger ale sulla fronte. «Sì, insomma... Questa entità a cui mi riferisco» risponde Landsman. «Ecco, forse non abbonda in distintivi.»
«Ma in teorie sì.» «Esattamente.» «Per esempio?» «Per esempio... D'accordo, eccone una: lei di tanto in tanto comunicava con Mendel, o forse addirittura regolarmente. Lo sentiva. Sapeva dov'era. Lui ogni tanto la chiamava. Le mandava delle cartoline. Forse qualche volta lo vedeva anche, di nascosto. Questo passaggio a casa che lei e la nostra amica Rudashevsky avete gentilmente deciso di darmi, per esempio, in questo senso mi fa venire qualche idea.» «Io non vedevo mio figlio, il mio Mendel, da più di vent'anni» dice lei. «E adesso non lo rivedrò mai più.» «Ma perché, signora Shpilman? Cos'è successo? Perché è fuggito dai Verbover? Che cos'ha fatto? C'è stata una rottura? Una lite?» Per un minuto buono lei non risponde, come se stesse combattendo con la radicata abitudine di non rivelare a nessuno, men che meno a un poliziotto laico, niente a proposito di Mendel. O forse ciò che sta combattendo è la crescente sensazione di piacere che proverà, suo malgrado, nel ricordare il figlio ad alta voce. «Gliel'avevo scelta così bene» dice infine.
Capitolo venticinque
Un migliaio di invitati, alcuni perfino da Miami Beach e Buenos Aires. Sette cucine mobili per il catering e un intero camion Volvo stipato di cibi prelibati e vini millesimati. Cumuli di doni, tributi e omaggi che potrebbero gareggiare in altezza con i monti Baranof. Tre giorni di digiuno e preghiera. Un gruppo di musicisti di arie tradizionali klezmer che da soli basterebbero a formare mezza orchestra sinfonica. Ogni singolo Rudashevsky, perfino il bisnonno, mezzo ubriaco e intento a sparare in aria con un antico revolver Nagant. Per tutta la settimana che ha preceduto il gran giorno, una fila di persone in corridoio, fuori dal portone, oltre l'angolo e lungo due isolati di Ringelblum Avenue, che sperano di ricevere una benedizione dal re futuro sposo. Per tutto il giorno e tutta la notte un rumore per casa come di folla in cerca di rivoluzione. Un'ora prima del matrimonio erano ancora lì, in attesa, cappelli e ombrelli lucidi di pioggia in mezzo alla strada. Difficile che lui riuscisse, così tardi, a vederli o a sentire le loro implorazioni e le loro storie strappacuore. Ma mai dire mai. Mendel era sempre stato incline alle mosse imprevedibili. Lei era alla finestra, scrutava i questuanti da dietro le tende, quando la ragazza venne a dirle che Mendel se n'era andato, e che due donne volevano vederla. La camera da letto della signora Shpilman si affacciava sul giardinetto laterale, ma lei riusciva a vedere tra le case vicine fino all'angolo: cappelli e ombrelli, luccicanti. Ebrei che si accalcavano spalla a spalla, mossi dal desiderio di scorgere Mendel anche solo per un istante. Giorno da nozze, giorno da funerale. «Se n'è andato» ripeté lei senza voltarsi dalla finestra. Provava quel misto di frivolezza e appagamento che appartiene solo ai sogni. Non aveva senso formulare quella domanda, eppure fu l'unica cosa che riuscì a dire: «E dov'è andato?». «Non lo sa nessuno, signora. Nessuno lo vede da ieri sera.»
«Da ieri sera.» «Da stamattina.» La sera prima lei aveva organizzato il forshpiel per la figlia del Shtrakenzer Rebbe. Una scelta eccellente. Una futura moglie piena di talenti naturali e doti acquisite, bellissima, con una vena passionale che alle sorelle di Mendel mancava, ma che in suo figlio destava ammirazione, e questo lei lo sapeva. Naturalmente la giovane Shtrakenzer, seppure perfetta, non era adeguata; la signora Shpilman sapeva anche questo. Molto prima che la domestica venisse a dirle che Mendel non si trovava più, che era scomparso nel corso della notte, la signora Shpilman aveva capito che nessun grado di perfezione, bellezza o ardore femminile avrebbe mai soddisfatto suo figlio. Ma un qualche divario doveva pur esserci, giusto? Tra la scelta prefigurata dal Santissimo, che sia benedetto, e la realtà di ciò che sarebbe avvenuto sotto la chuppah. Tra i comandamenti e l'osservanza, tra il cielo e la terra, tra marito e moglie, tra Sion e gli ebrei. Loro quel divario lo chiamavano «mondo». Solo con l'avvento del Messia tale breccia sarebbe stata ricucita, e ogni separazione, ogni distinzione, ogni distanza sarebbe venuta meno. Fino ad allora, grazie al Santo Nome, solo qualche scintilla, molto luminosa, avrebbe potuto guizzare al di là del baratro, come da un palo elettrico all'altro. E per quell'istante di luce bisognava rendere grazie. Era in questi termini, almeno, che la signora Shpilman aveva deciso di esporre la questione a Mendel, qualora fosse venuto a chiederle un parere sul suo fidanzamento con la figlia del Shtrakenzer Rebbe. «Suo marito molto arrabbiato» disse la ragazza, Betty, filippina come tutte le altre domestiche. «Che cos'ha detto?» «Lui no detto niente, signora. Per questo io so che arrabbiato. Lui mandato tante persone a cercare dappertutto. Chiamato sindaco.» La signora Shpilman si voltò dalla finestra, mentre la frase «sono stati costretti ad annullare le nozze» le si metastatizzava nell'addome. Betty stava raccogliendo brandelli di fazzolettini di carta dal tappeto turco. «Che donne?» disse la signora Shpilman. «Chi sono? Sono Verbover?» «Una, forse. Altra no. Solo dicono che sperano parlare con
lei.» «Dove sono?» «Giù, in suo ufficio. Una vestita tutta nera, con velo in faccia. Come se marito appena morto.» La signora Shpilman non ricorda più, ormai, quando cominciarono ad arrivare i primi disperati e i primi casi terminali che cercavano Mendel. Forse all'inizio si presentavano di nascosto, alla porta sul retro, incoraggiati dai racconti di questa o quella domestica. Ce n'era una il cui utero era divenuto sterile in seguito a un'operazione malfatta quand'era bambina a Cebu. Mendel prese una di quelle bambole che fabbricava per le sorelle con una molletta e del feltro, le attaccò una benedizione scritta a pastello tra le gambe di legno e la infilò in tasca alla ragazza. Dieci mesi dopo Remedios mise al mondo un figlio. C'era Dov-Ber Gursky, il loro autista, segretamente in debito di diecimila dollari con uno spezzadita russo. Mendel gli diede un biglietto da cinque dollari, non richiesto, dicendogli che sperava potesse essergli d'aiuto. Due giorni dopo un avvocato di St. Louis scrisse a Gursky per comunicargli che aveva ereditato mezzo milione da uno zio mai conosciuto. Giunti all'epoca del bar mitzvah di Mendel, i malati e i moribondi, i genitori dei bambini indemoniati, cominciavano a essere una vera seccatura. Arrivavano a qualsiasi ora del giorno e della notte. Gemevano e imploravano. Lei aveva preso provvedimenti per proteggere Mendel, stabilito orari e condizioni. Ma il bambino aveva un dono. E i doni andavano donati all'infinito. «Ora non posso vederle» disse la signora Shpilman, sedendosi sullo stretto letto, con il copriletto bianco di ciniglia e i cuscini che aveva ricamato prima della nascita di Mendel. «Queste donne che dici.» Talvolta, quando non riuscivano ad arrivare a Mendel, le donne andavano da lei, dalla rebbetzin, che le benediceva come poteva, con quel poco di mezzi che poteva destinare allo scopo. «Devo finire di vestirmi. La cerimonia comincia fra un'ora, Betty. Un'ora! Lo troveranno.» Da anni aspettava il momento in cui l'avrebbe tradita, fin da quando si era resa conto per la prima volta che lui era come era. Una parola così spaventosa, per una madre, con le implicazioni che suggerivano debolezza, vulnerabilità ai predatori, niente che potesse proteggere l'uccellino se non le sue piume. E il volo. Naturalmente il volo. Era una cosa che aveva capito di Mendel molto tempo prima che lui stesso la capisse. Ne aveva
sentito l'odore nella morbidezza del suo collo di neonato. Gliel'aveva letta come un testo nascosto nelle ginocchia sfuggenti sotto i pantaloncini corti. Un che di femminile nel modo in cui abbassava lo sguardo quando gli altri lo lodavano. E in seguito, quand'era stato più grandicello, non aveva potuto fare a meno di notare, benché lui cercasse di dissimularlo, il suo rossore, il modo in cui ammutoliva, quasi a voler smorzare il fuoco che sentiva dentro, ogni volta che un Rudashevsky o qualcuno dei suoi cugini maschi entrava nella stanza. Per tutta la durata della ricerca della sposa, del fidanzamento, dei preparativi per il matrimonio, la signora Shpilman aveva osservato Mendel in cerca del minimo segno di apprensione o riluttanza. Ma lui era rimasto fedele al suo dovere e ai progetti della madre. Talvolta sarcastico, certo, perfino irriverente, la prendeva in giro per la tenacia con cui credeva che il Santo Nome, che sia benedetto, trascorresse il Suo tempo come un'anziana casalinga, a fare il gioco delle coppie tre le anime di chi ancora doveva nascere. Una volta Mendel aveva afferrato uno scampolo di tulle bianco che le sorelle avevano scordato in salotto e se l'era messo in testa, per poi prodursi, con una voce che imitava in modo straordinario quello della sua promessa sposa, in un inventario dei difetti fisici di Mendel Shpilman. Tutti quanti avevano riso, ma il cuore di sua madre era stato colto da un guizzo di terrore. Fatta eccezione per quel momento, sembrava essere rimasto il Mendel di sempre, generoso nella sua dedizione ai seicentotredici comandamenti, allo studio della Torah e del Talmud, ai suoi genitori, ai devoti per i quali era una stella. Era fuori di dubbio che l'avrebbero ritrovato. Si infilò i collant, indossò il vestito, si sistemò la sottoveste. Mise la parrucca che si era fatta fare appositamente per il matrimonio, pagandola tremila dollari. Era un'opera d'arte, biondo cenere con accenni di rosso e oro, acconciata in treccine come i suoi capelli da giovane. Solo dopo aver indossato quella lucida retina carica di soldi sul cranio rasato fu colta dal panico. Su un tavolo di pino c'era un telefono nero senza pulsanti. Sollevando il ricevitore, un identico telefono sarebbe squillato nell'ufficio di suo marito. Nei dieci anni che aveva trascorso in quella casa l'aveva usato solo tre volte, una in preda ai dolori e due in preda alla rabbia. Dietro il telefono appesa alla parete c'era una foto in cornice di suo nonno, l'ottavo Rebbe, sua nonna e sua madre all'età di cinque o sei anni, in posa sotto un sali-
ce di cartone in riva a un torrente dipinto. Abiti neri, la nube indistinta della barba del nonno, su tutto la radiosa cenere del tempo che si posa sui morti nelle vecchie foto. Dal gruppo mancava il fratello di sua madre, il cui nome costituiva una maledizione così potente da non dover essere mai pronunciato. Della sua apostasia, pur nota, lei non aveva mai saputo nulla. Solo che era cominciata con un libro nascosto, scoperto in un cassetto, che aveva per titolo L'isola misteriosa, ed era culminata quando lo zio era stato visto in una via di Varsavia, senza barba e con indosso un cappello di paglia più scandaloso di qualsiasi romanzo francese. Appoggiò la mano sul ricevitore. Panico negli organi interni, panico nei denti. «Anche se potessi non risponderei» disse il marito da dietro le sue spalle. «Se proprio devi violare lo Shabbat, almeno scegliti un peccato migliore.» Sebbene all'epoca la sua sagoma non fosse ancora così lunare come sarebbe divenuta negli anni a venire, la vista del marito nella stanza la stupì come l'apparizione di una seconda luna in cielo. Lui si guardò intorno, tra le poltroncine coperte di merletti, le mantovane verdi, la distesa di satin bianco del letto, le boccette e i vasetti. Lo vide sforzarsi per atteggiare le labbra a un sorrisetto ironico. Ma l'espressione che ne derivò fu una via di mezzo tra la bramosia e la repulsione. A lei ricordò il sorriso con cui una volta il marito aveva ricevuto una visita ufficiale da una qualche lontana corte dell'Etiopia o dello Yemen, un rabbino dagli occhi allungati, vestito di uno sgargiante caftano. Quell'assurdo rabbino dalla pelle nera con la sua Torah strampalata. Le donne. Entrambi capricci divini, circonvoluzioni del pensiero di Dio, che era quasi un'eresia immaginare o cercare di comprendere. Più lui rimaneva lì immobile, meno divertito e più sperduto appariva. La signora Shpilman fu infine mossa a pietà. Quello non era il suo posto. Il fatto che si fosse spinto così lontano, in missione diplomatica nella terra dei cuscini infiocchettati e dell'acqua di rose, esprimeva l'estensione della macchia di stortura che andava allargandosi su quel giorno. «Accomodati» disse lei. «Ti prego.» Riconoscente, lento, suo marito mise a repentaglio una poltrona. «Lo troveranno» disse in tono sommesso e minaccioso.
A lei non piacque l'aspetto che aveva. Pur sapendo che per altri versi poteva risultare un uomo grossolano, di solito aveva un'aria impeccabile. Ora però aveva la calzamaglia tutta storta, la camicia abbottonata male. Le guance erano macchiate di stanchezza, e i cernecchi giacevano scomposti come se se li fosse tormentati. «Chiedo scusa, caro» disse lei. Aprì la porta dello spogliatoio e vi entrò. Disprezzava i colori scuri prediletti dalle donne Verbover della sua generazione. Nello stanzino in cui si rifugiò erano appesi abiti indaco, viola intenso, eliotropio. C'era una piccola poltroncina con il bordo a frange, e ci si sedette. Allungando la punta di un piede fasciato nei collant socchiuse la porta, lasciando soltanto una fessura di pochi centimetri. «Spero non ti dispiaccia. Così è meglio.» «Lo troveranno» ripeté il marito, questa volta con fare più pragmatico, cercando di rassicurare lei e non se stesso. «Sarà meglio» disse la signora Shpilman. «Così potrò ucciderlo.» «Calmati.» «Lo dico con la massima calma. È ubriaco? Hanno bevuto?» «Stava digiunando. Era in forma. Avresti dovuto vedere che lezione sul Parashat Chayei Sarah ha tenuto ieri sera. Da brividi. Avrebbe potuto resuscitare il cuore di un morto. Ma alla fine aveva il viso inondato di lacrime. Ha detto che aveva bisogno di una boccata d'aria. Da quel momento nessuno l'ha più visto.» «Io lo ammazzo» disse lei. Dalla camera da letto non giunse risposta, solo il sibilo del fiato, costante, implacabile. Lei si pentì di quella minaccia. Sulle sue labbra era pura retorica, ma nella mente di lui, quella biblioteca racchiusa in un ricettacolo d'osso, assumeva una pericolosa sfumatura pratica. «Per caso tu sai dove si trova?» disse il marito dopo una pausa, e lei avvertì il pericolo anche nel suo tono leggero. «Come potrei?» «Con te ci parla. Ti viene a trovare. Qui.» «Mai.» «So che lo fa.» «E come potresti saperlo, a meno che tu non abbia trasformato le domestiche in spie?» Il silenzio del marito fu per lei una conferma della corruzione di quella casa. Provò uno straordinario moto di determina-
zione a non uscire mai più da quello stanzino. «Non ero venuto qui per litigare o rimproverarti. Speravo anzi di poter prendere a prestito un po' della tua abituale calma e prudenza. Ora che sono qui, però, mi sento in dovere, contro il mio buonsenso di rabbino e di uomo, ma con il pieno sostegno della mia esperienza di padre, di rimproverarti.» «E per cosa?» «Per la sua aberrazione. Per la sua vena perversa. Per la stortura della sua anima. È colpa tua. Un figlio così è frutto dell'albero di sua madre.» «Vai alla finestra» gli disse lei. «Guarda al di là delle tende. Osserva quei poveri questuanti e sciocchi e sventurati, venuti qui in cerca di una benedizione che tu, francamente, pur con tutto il tuo potere e la tua erudizione, mai e poi mai saresti in grado di concedergli. Non che questa incapacità ti abbia mai impedito, in passato, di offrirla ugualmente.» «Io so benedire in altri modi.» «Guardali!» «Guardali tu. Esci da lì e va' a guardare.» «Io li ho visti» disse lei a denti stretti. «E hanno tutti una stortura nell'anima.» «Però la nascondono. Per modestia e umiltà e timore di Dio la coprono. Dio ci impone di presentarci al suo cospetto con il capo coperto. E non a testa nuda.» La signora Shpilman sentì l'attrito e il cigolio della gamba della poltrona su cui sedeva il marito, il fruscio dei suoi piedi nelle pantofole. Udì l'articolazione guasta della sua anca sinistra schioccare. Lui grugnì di dolore. «A Mendel non chiedo altro» proseguì il marito. «Ciò che un uomo può pensare, o provare, non interessa e non importa né a me né a Dio. Il vento non si cura che una bandiera sia rossa o blu.» «O rosa.» Ci fu un altro silenzio. Quest'ultimo meno carico, come se il rabbino si apprestasse a concludere, o si fosse ricordato di come sarebbe stato, in passato, trovare divertente quella sua piccola battuta. «Lo troverò» disse. «Lo farò sedere e gli dirò ciò che so. Gli spiegherò che fintanto che obbedisce a Dio e ai suoi comandamenti e si comporta rettamente, in questa casa un posto per lui ci sarà sempre. Che non sarò certo io a voltargli la schiena per
primo. Che la scelta di abbandonarci spetta a lui.» «Può un uomo essere uno Tzaddik Ha-Dor e vivere nascosto a se stesso e a chi lo circonda?» «Uno Tzaddik Ha-Dor è sempre nascosto. Fa parte della sua natura di Tzaddik. Forse dovrei spiegargli anche questo. Dirgli che questi... sentimenti... che sta vivendo e contro cui lotta sono, in un certo senso, prova della sua idoneità a regnare.» «Forse lui non sta fuggendo dal matrimonio con questa ragazza» disse. «Forse non è questo a spaventarlo. Ciò che non riesce a sopportare.» La frase che non aveva mai pronunciato davanti al marito prese posto come suo solito sulla punta della lingua. Erano quarant'anni che la signora Shpilman lavorava mentalmente alla sua composizione, rifinendola, omettendone alcuni elementi, come stanze di un poema scritto da un detenuto cui è negato l'uso di carta e penna. «Forse è un altro il conflitto interiore con cui non riesce a convivere.» «Non ha scelta» disse suo marito. «Nemmeno se ha perso la fede. Nemmeno se rimanendo qui rischia l'ipocrisia e la falsità. A un uomo con i suoi talenti, con i suoi doni, non si può permettere di muoversi e lavorare e mettere a repentaglio il suo destino là fuori, in quel mondo così sporco. Sarebbe un pericolo per tutti. In particolare per se stesso.» «Non era questo il conflitto interiore a cui mi riferivo. Intendevo quello... che riguarda tutti i Verbover.» Silenzio, a quel punto, minaccioso, né pesante né leggero, il vasto silenzio di un dirigibile prima della scintilla di elettricità statica. «Che io sappia» disse lui «nessun altro ha a che fare con lui.» La signora Shpilman lasciò cadere la frase nel vuoto. Ormai correva nel vuoto da troppo tempo per riuscire ad abbassare lo sguardo a lungo. «Perciò va tenuto qui» disse. «Con o senza il suo consenso.» «Credimi, mia cara. E ti prego di non fraintendermi. L'alternativa sarebbe infinitamente peggiore.» Per un attimo lei rimase frastornata, poi si precipitò fuori dallo spogliatoio, per vedere che cosa c'era negli occhi del marito mentre minacciava la vita del suo stesso figlio (o almeno questo era ciò che aveva dedotto lei) colpevole del peccato di essere ciò che Dio aveva voluto fare di lui. Ma il rabbino, silenzioso come un dirigibile, se n'era già andato. Al suo posto trovò
soltanto Betty, venuta a rinnovare la richiesta delle visitatrici. Betty era una valida domestica, ma aveva il vizio, tipico dei filippini, di godere intensamente degli scandali. Faticò a dissimulare il piacere per la notizia che portava. «Una donna, signora, dice che porta messaggio di Mendel» disse Betty. «Dice che lui scusa perché no tornato a casa. Che oggi no matrimonio!» «Tornerà» disse la signora Shpilman, trattenendosi dall'impulso di prenderla a schiaffi. «Mendel non...» Si interruppe prima di riuscire a pronunciare le parole: Mendel non se ne andrebbe mai senza salutare. La donna che portava il messaggio di suo figlio non era una Verbover. Era un'ebrea moderna, vestita in modo sobrio in segno di rispetto per il quartiere, con una lunga gonna a motivi geometrici e un'elegante mantellina scura. Avrà avuto dieci o quindici anni più della signora Shpilman. Una donna dagli occhi e dai capelli scuri, che un tempo doveva essere stata bellissima. Si alzò di scatto dalla poltrona accanto alla finestra, quando la signora Shpilman entrò nell'ufficio, e disse di chiamarsi Brukh. La sua amica era una donnetta cicciottella, molto devota, forse una Satmar, con un lungo abito nero, calze nere e un cappello a tesa larga calcato su uno shaydl scadente. Le calze le cascavano, e la fascia di finte gemme del suo cappello, poverina, si stava scollando. Il velo era rimasto pizzicato asimmetricamente sotto il cappello in alto a sinistra, in un modo che alla signora Shpilman parve penoso. Guardando quella creatura derelitta per un attimo dimenticò la tremenda notizia che le due donne avevano portato in casa sua. Una benedizione le sgorgò da dentro con una forza tanto impellente che riuscì a malapena a contenerla. Avrebbe voluto stringere quella donna trasandata tra le braccia, e darle un bacio il cui effetto durasse, cauterizzandone la tristezza. Chissà se era così che ci si sentiva a essere Mendel, costantemente. «Che assurdità è questa?» disse. «Si sieda.» «Mi dispiace tanto, signora Shpilman» rispose la signora Brukh, prendendo nuovamente posto sul bordo del sedile, come per farle capire che non si sarebbe trattenuta a lungo. «Lei ha visto Mendel?» «Sì.» «E dove si trova?» «Da un amico. Ma non ci rimarrà molto.»
«Perché intende tornare, ovviamente.» «No. No, signora Shpilman. Mi dispiace. Ma lei potrà mettersi in contatto con Mendel attraverso questa persona. Ogni volta che vorrà. Ovunque lui decida di andare.» «Quale persona? Chi è questo amico?» «Se glielo dico deve promettermi di tenere l'informazione per sé. Altrimenti Mendel dice...» Lanciò un'occhiata alla sua amica, come a cercare un sostegno morale per riuscire a pronunciare le successive sette parole: «... che non si farà mai più sentire». «Ma mia cara, sono io a non volerlo mai più sentire» disse lei. «Dunque non c'è ragione di dirmi dove si trova, o sbaglio?» «Immagino di no.» «Il fatto è che se lei non mi dice dove si trova, e non scherzo, la affiderò ai Rudashevsky, e ci penseranno loro a tirarle fuori quest'informazione, nei modi che essi prediligono.» «Ma andiamo, io non ho paura di lei» disse la signora Brukh, con un sorprendente accenno di sorriso nella voce. «No? E come mai?» «Perché Mendel mi ha detto che non devo averne.» E la signora Shpilman la percepì, quella rassicurazione, ne colse l'eco nella voce e nei modi della signora Brukh. Un'aria canzonatoria, una traccia dell'atteggiamento scherzoso che Mendel imprimeva a ogni suo scambio con la madre, e perfino con il padre tanto temuto. La signora Shpilman l'aveva sempre considerata frutto di un piccolo diavolo che viveva in lui, mentre ora si rendeva conto che forse non era altro che uno strumento di sopravvivenza, di protezione. Le piume dell'uccellino. «Proprio lui viene a dirle di non avere paura. Dopo essere sfuggito al suo dovere e alla sua famiglia in questo modo. Perché adesso non adopera un po' della sua magia su se stesso, mi dica questo? Perché non vince la sua vergognosa vigliaccheria e torna qui, risparmiando sofferenze e imbarazzi indicibili alla sua famiglia, nonché a quella splendida ragazza innocente?» «Se potesse, lo farebbe» disse la signora Brukh, e la vedova al suo fianco, che fino a quel momento aveva taciuto, sospirò. «Di questo sono convinta, signora Shpilman.» «E perché mai non può? Me lo dica.» «Lei lo sa.» «Io non so proprio nulla.» E invece lo sapeva. E a quanto pare lo sapevano anche quelle
due strane donne che erano venute a vederla piangere. La signora Shpilman si accasciò su una sedia Luigi XIV verniciata di bianco, con un cuscino ricamato, senza curarsi delle sgualciture che quel crollo improvviso produsse nella seta del suo vestito. Si coprì il viso con le mani e pianse. Per la vergogna, e per l'affronto. Per il modo in cui erano sfumati mesi e anni di progetti e speranze e discussioni, di infinite ambasciate avanti e indietro tra la corte Verbov e quella Shtrakenz. Ma soprattutto, deve ammettere, pianse per se stessa. Perché aveva deciso, con la sua abituale risolutezza, che non avrebbe mai più rivisto il suo unico, adorato, corrotto figlio maschio. Che donna egoista! Solo anni dopo si sarebbe ricordata di spendere un istante di rammarico per quel mondo che ora Mendel non avrebbe mai più salvato. Piangeva da un minuto o due, quando la vedova sciatta si alzò dall'altra poltrona e le si avvicinò. «Ti prego» disse, con voce grave, appoggiando una mano paffuta sul braccio della signora Shpilman, una mano le cui nocche erano coperte di finissimi peli biondi. Difficile credere che appena vent'anni prima la signora Shpilman riuscisse a infilarsela in bocca tutta intera. «Ora ti metti a fare i giochetti» disse lei, una volta rientrata in possesso della razionalità. Dopo lo shock iniziale, che le aveva fermato il cuore, provò uno strano senso di sollievo. Se Mendel era profondo nove strati, allora otto di quegli strati erano fatti di pura bontà. Una bontà assai superiore a quella che lei e suo marito, persone dure che erano sopravvissute e avevano prosperato in un mondo duro, potessero aver generato dalla propria carne senza una qualche intercessione divina. Ma lo strato più profondo, il nono strato di Mendel Shpilman, era ed era sempre stato un diavolo, una creatura empia che amava far morire sua madre di crepacuore. «Ti metti a fare i giochetti!» «No.» Mendel sollevò il velo e le lasciò vedere il dolore, il dubbio. Lei vide il timore che lui sapeva di aver commesso un grave sbaglio, e riconobbe come propria la determinazione con cui aveva deciso di commetterlo. «No, marna» disse Mendel. «Sono venuto a salutarti.» Poi, decifrando l'espressione sul suo viso, con un sorriso incerto aggiunse: «E non sono diventato un travestito». «Ah, no?»
«No!» «Be', a me lo sembri.» «Ha parlato l'esperta.» «Voglio che tu esca da questa casa.» E invece voleva solo che rimanesse, nascosto nella sua ala della casa, con indosso quegli stracci, il suo bimbo, il suo principino, il suo diavoletto. «Va bene.» «Non voglio mai più rivederti. Non voglio telefonarti, e non voglio che mi telefoni. Non voglio sapere dove sei.» Non avrebbe dovuto fare altro che chiamare il marito, e sarebbe rimasto. In un modo o nell'altro, comunque non più inconcepibile della realtà di fatto su cui poggiava la vita agiata della madre, l'avrebbero costretto a rimanere. «D'accordo, marna» disse lui. «Non chiamarmi così.» «D'accordo, signora Shpilman» disse Mendel, e in bocca a lui la frase suonò affettuosa, famigliare. Lei ricominciò a piangere. «Ma giusto perché tu lo sappia. Sto da un amico.» C'era un amante? Possibile che fosse riuscito a crearsi una vita tanto segreta? «Un "amico"?» disse lei. «Un vecchio amico. Mi sta solo dando una mano. E anche la signora Brukh mi sta dando una mano.» «Mendel mi ha salvato la vita» disse la signora Brukh. «Tanto tempo fa.» «Sai che roba» ribatté la signora Shpilman. «Le ha salvato la vita, per lui è stato proprio un affare.» «Signora Shpilman» disse Mendel. Le prese le mani e se le strinse forte nei palmi tiepidi. La sua pelle era due gradi più calda di quella di chiunque altro. Quando gli misuravano la febbre il termometro segnava sempre più di trentotto. «Toglimi le mani di dosso» riuscì a dire lei. «Subito.» Lui le baciò la testa, e il bacio la segnò, anche sotto quello strato di capelli estranei. Poi Mendel le lasciò andare le mani, si abbassò il velo, e lentamente uscì dall'ufficio, con le calze che cascavano, e la signora Brukh che si affrettava a seguirlo. La signora Shpilman rimase seduta sulla sedia Luigi XIV a lungo, per ore, anni. La invase una sensazione di freddo, un gelido disgusto per la Creazione, per Dio e per le sue spregevoli opere. L'orrore che provò parve dapprima gravare sul figlio, e sul peccato a cui si rifiutava di rinunciare, ma poi si trasformò
in orrore di se stessa. Pensò ai delitti e alle offese che erano stati compiuti affinché lei prosperasse, e al fatto che tutto quel male non fosse altro che una goccia d'acqua in un grande mare nero. Un luogo orribile, quel mare, quel golfo che separava l'Intento dall'Azione, e che la gente chiamava «mondo». Mendel non era volato via perché si rifiutava di arrendersi, ma perché si era arreso. Lo Tzaddik Ha-Dor aveva rassegnato le dimissioni. Non poteva essere ciò che quel mondo, e gli ebrei che lo popolavano, sotto la pioggia, con le loro sofferenze e i loro ombrelli, volevano che fosse, ciò che sua madre e suo padre volevano che fosse. Ma neppure ciò che lui stesso voleva essere. Sperò - seduta su quella sedia pregò - che un giorno, quantomeno, Mendel riuscisse a trovare un modo per essere ciò che era. Non appena quella preghiera si involò dal suo cuore, suo figlio le mancò. Lo desiderò con tutta se stessa. Si rimproverò aspramente per averlo scacciato senza prima chiedergli dove stava, dove sarebbe andato, come avrebbe fatto a rivederlo, o anche solo a sentire la sua voce ogni tanto. Poi aprì le mani, che lui aveva stretto tra le sue per l'ultima volta, e scoprì, arricciato nel palmo destro, un minuscolo pezzo di spago.
Capitolo ventisei
«Sì» dice lei «lo sentivo. Ogni tanto. Non voglio sembrarle cinica, detective, ma di solito succedeva quand'era nei guai, oppure quando aveva bisogno di soldi. Due circostanze che, nel caso di Mendel, benedetto sia il suo nome, tendevano a coincidere.» «L'ultima volta quand'è stata?» «All'inizio dell'anno. La primavera scorsa. Sì, ricordo che era il giorno prima di Erev Pesach.» «Perciò in aprile. Più o meno intorno al...» La Rudashevsky femmina tira fuori un costoso Shoyfer Mazik e comincia ad armeggiare coi tasti, risalendo alla data esatta della vigilia della Pasqua ebraica. Landsman si rende conto, un po' stupito, che è stato anche l'ultimo giorno vissuto per intero da sua sorella. «Da dove l'ha chiamata?» «Forse da un ospedale. Non lo so. In sottofondo ho sentito l'annuncio di un altoparlante. Mendel mi ha detto che intendeva sparire. Che doveva sparire, almeno per un po', e che non avrebbe potuto chiamarmi. Mi ha chiesto di spedirgli dei soldi in una casella postale di Povorotny che usava ogni tanto.» «Le è parso spaventato?» Il velo trema come un sipario, mentre sotto si verificano movimenti segreti. La signora Shpilman annuisce lentamente. «Le ha detto perché aveva bisogno di sparire? Qualcuno lo stava cercando?» «Non mi pare. No. Solo che aveva bisogno di soldi, e che sarebbe sparito.» «E basta.» «Per quanto mi risul... no. Anzi, sì. Io gli ho chiesto se stava mangiando. A volte... si dimenticano di mangiare.» «Lo so.» «E lui mi ha detto: "Non preoccuparti, ho appena mangiato
una fetta intera di torta di ciliegie".» «Torta» dice Landsman. «Di ciliegie.» «Le fa venire in mente qualcosa?» «Non si può mai dire» risponde Landsman, sentendo però la cassa toracica che vibra sotto i colpi martellanti del cuore. «Signora Shpilman, ha detto di aver sentito un altoparlante. Secondo lei potrebbe averla chiamata da un aeroporto?» «Ora che mi ci fa pensare, sì.» Lauto rallenta, quindi si ferma. Landsman si sporge a guardare al di là dei vetri fumé. Sono davanti all'Hotel Zamenhof. La signora Shpilman abbassa il finestrino premendo un pulsante, e una folata di pomeriggio grigio soffia nell'abitacolo. Solleva il velo e scruta la facciata dell'albergo. La fissa a lungo. Un paio di individui dall'aria poco raccomandabile, alcolisti, a uno dei quali Landsman una volta ha impedito di pisciare sui pantaloni dell'altro, escono barcollando dall'atrio dell'albergo, reggendosi uno all'altro, una capanna umana issata contro la pioggia. Inscenano un piccolo sketch con un foglio di giornale sospinto dal vento, dopodiché spariscono sbandando nella notte, come due falene malconce. La regina dell'isola Verbov abbassa il velo e alza il finestrino. Landsman sente le sue domande cariche di biasimo bruciare da dietro il tessuto nero. Come può vivere in una simile fogna? Perché non è riuscito a proteggere mio figlio? «Chi le ha detto che vivo qui?» gli viene in mente di chiederle tutt'a un tratto. «Suo genero?» «No, detective, non è stato lui. L'ho saputo dall'altro detective Landsman. Quello con cui lei è stato sposato.» «Le ha parlato di me?» «Ha telefonato oggi. Una volta, tanti anni fa, abbiamo avuto qualche problema con un individuo che faceva del male alle donne. Un uomo molto cattivo, malato. Nell'Harkavy, in S. Ansky Street. Le donne a cui aveva fatto del male con la polizia non ci volevano parlare. All'epoca la sua ex moglie mi fu di grande aiuto, e sono ancora in debito con lei. È una brava donna. Una buona poliziotta.» «Non c'è dubbio.» «Mi ha detto che, qualora lei avesse deciso di venire a cercarmi, non sarebbe stata una cattiva idea concederle un po' di fiducia.» «Gentile da parte sua» dice Landsman, assolutamente since-
ro. «Nei suoi confronti si è espressa in termini decisamente migliori di quanto mi sarei aspettata.» «L'ha detto anche lei, signora. È una brava donna.» «Eppure lei l'ha lasciata.» «Ma non perché non era una brava donna.» «Perché lei era un uomo cattivo?» «Credo di esserlo stato» risponde Landsman. «Anche se Bina era troppo educata per dirlo.» «Sono passati tanti anni» dice la signora Shpilman. «Ma per quel che ricordo della sua ex moglie, l'educazione non è mai stata il suo forte.» La signora Shpilman preme il bottone che sblocca la portiera. Landsman la apre e scende dalla limousine. «A ogni modo, sono felice di non aver mai visto prima quest'orribile albergo, altrimenti non le avrei mai permesso di avvicinarsi.» «Non è un granché» risponde Landsman, con la pioggia che gli tamburella sulla tesa del cappello. «Ma è casa mia.» «No che non lo è» dice Batsheva Shpilman. «Ma immagino che pensarlo le semplifichi la vita.»
Capitolo ventisette
«Il Sindacato dei poliziotti yiddish» dice l'uomo delle torte. Guarda Landsman da dietro il bancone d'acciaio del suo negozietto, incrociando le braccia per fargli capire che conosce benissimo i trucchetti degli ebrei. Socchiude gli occhi come se cercasse di individuare una imprecisione sul quadrante di un Rolex contraffatto. L'americano di Landsman basta da solo a insospettirlo. «Esatto» risponde Landsman. Quanto vorrebbe che non mancasse un angolo alla sua tessera della Hands of Esau. In un angolo c'è un piccolo distintivo a sei punte. Il testo è stampato in yiddish. Non ha nessun valore o autorità, nemmeno per Landsman, che è membro da ben vent'anni. «Siamo in tutto il mondo.» «Non mi sorprende affatto» dice l'uomo delle torte con ostentata asprezza. «Ma io, caro amico, vendo solo torte.» «Vuole una fetta o cosa?» dice la moglie dell'uomo delle torte. Come suo marito è larga e pallida. I capelli sono del colore incolore di un foglio di carta stagnola sotto una luce fioca. La figlia è nel retro, persa tra frutti di bosco e pastasfoglia. Tra i piloti forestali, i cacciatori, le squadre della protezione civile e gli altri frequentatori abituali dell'aeroporto di Yakovy, intravedere la figlia dell'uomo delle torte è considerato un colpo di fortuna. Landsman non la vede da anni. «Se non vuole una fetta di torta non vedo perché debba sprecare il suo tempo qui. Dietro di lei c'è gente che deve prendere l'aereo.» Sfila la tessera dalle mani del marito e la restituisce a Landsman, che non la biasima per la sua scortesia. L'aeroporto di Yakovy è uno snodo chiave nelle rotte settentrionali di shyster, ciarlatani, esperti di truffe e immobiliaristi di quarta categoria. Cacciatori di frodo, contrabbandieri, russi bizzosi. Corrieri della droga, delinquenti indiani, yankee pericolosi. Sotto quale giurisdizione ricada Yakovy non è mai stato stabilito con chia-
rezza. Ebrei, indiani, gente del Klondike, tutti quanti hanno avanzato pretese. Le torte che prepara questa donna possiedono una statura morale superiore a quella di metà della sua clientela. La donna delle torte non ha ragione di fidarsi di Landsman, né di trattarlo con particolare riguardo, con quella tessera di nessun valore e quella chiazza di capelli rasati sulla nuca. Eppure la sua scortesia procura a Landsman un'acuta fitta di rimpianto per il suo distintivo perduto. Se ce l'avesse ora potrebbe dire: La gente in coda dietro di me può anche andare affanculo, signora mia, e lei può farsi un bel clistere di lamponi. Invece fa finta di tenere in grande considerazione le non poche persone in fila dietro di lui. Pescatori, appassionati di kayak, piccoli imprenditori, qualche uomo d'affari. Tutti quanti emettono qualche rumore o inarcano leggermente un sopracciglio per far capire che hanno voglia di torta, e che Landsman e le sue credenziali spiegazzate stanno facendo perder loro la pazienza. «Prendo una fetta di quella di mele» dice Landsman. «Di cui ho un ottimo ricordo.» «È la mia preferita» dice la moglie, ammorbidendosi un po'. Spedisce il marito al banco in fondo con un cenno della testa. La torta di mele è lì, su un piedistallo luccicante, appena sfornata, ancora intera. «Caffè?» «Sì, grazie.» «Sulla torta ci vuole il gelato?» «No, grazie.» Landsman fa scivolare la fotografia di Mendel Shpilman sul bancone. «E lei? L'ha mai visto?» La donna dà un'occhiata alla foto tenendo le mani infilate sotto le ascelle. Landsman ha l'impressione che lo riconosca subito. Poi però lei si gira a prendere il piatto di carta con sopra una fetta di torta di mele che il marito le sta passando. Lo appoggia su un piccolo vassoio, insieme con il caffè in un bicchierino di polistirolo e una forchetta di plastica avvolta in un tovagliolo di carta. «Due e cinquanta» gli dice. «Si sieda pure accanto all'orso.» L'orso è stato ucciso negli anni Sessanta. I cacciatori si direbbero intellettuali, a vederli, con i cappelli da sci e i giacconi di lana. Trasudano la strana virilità occhialuta di quell'epoca d'oro della storia del distretto di Sitka. Appesa al muro sotto la foto dei cinque uomini fatali c'è una didascalia battuta a macchina in yiddish e americano. Dice che l'animale,,abbattuto nei
pressi di Lisianski Island, era un orso bruno di tre metri e sette per quattrocento chili. Nella teca di vetro accanto alla quale Landsman va a sedersi con la sua fetta di torta di mele e il bicchierino di caffè è conservato soltanto lo scheletro. Landsman si è seduto lì tante volte in passato, a contemplare quel tremendo xilofono d'avorio masticando torta. Di recente c'è stato con sua sorella, più o meno un anno prima che morisse. Lui stava lavorando al caso Gorsetmacher, lei aveva appena scaricato un gruppo di pescatori che tornavano dai boschi. Landsman pensa a Naomi. È un lusso che si concede, come questa fetta di torta. Pericoloso e gradito come un bicchiere di liquore. Si inventa un dialogo con Naomi, le parole con cui lei lo prenderebbe in giro se fosse qui. Per la sanguinosa zuffa nella neve con quegli idioti degli Zilberblat. Per aver bevuto ginger ale con una vecchia bigotta sul sedile di una 4x4 ipertrofica. Per aver creduto di avere la meglio sul suo problema con l'alcol e conservare ugualmente lo slancio necessario a trovare l'assassino di Mendel Shpilman. Per essersi fatto togliere il distintivo. Perché non è abbastanza indignato per la Restituzione, perché non ha un'opinione al riguardo. Naomi diceva di odiare gli ebrei per la loro remissività di fronte al destino, per la fiducia che nutrivano in Dio e nei Gentili. Ma è anche vero che Naomi aveva un'opinione su tutto. Le sue opinioni le accudiva e le manteneva in efficienza, lucidandole e preservandole. Avrebbe perfino criticato, pensa Landsman, la sua scelta di prendere la torta senza gelato. «Il Sindacato dei poliziotti yiddish» dice la figlia dell'uomo delle torte sedendosi sulla panca accanto a Landsman. Si è tolta il grembiule e lavata le mani. Ha le braccia lentigginose impolverate di farina sopra i gomiti. Un po' di farina sulle sopracciglia bionde. Porta i capelli legati dietro la testa con un elastico nero. È una donna d'aspetto sorprendentemente anonimo, con occhi azzurri acquosi, suppergiù dell'età di Landsman. Emana un odore di burro, tabacco, con una nota pungente di impasto per dolci che Landsman trova insolitamente erotica. Si accende una sigaretta al mentolo e gli soffia addosso una nuvola di fumo. «Questa non l'avevo mai sentita.» Si infila la sigaretta fra le labbra e allunga la mano per prendere la tessera. Finge di riuscire a leggere le scritte con disinvoltura. «Guardi che l'yiddish lo so leggere anch'io» dice poi. «Che
cazzo, non è mica azteco.» «Sono un poliziotto per davvero» dice Landsman. «Solo che oggi indago per conto mio. Per questo motivo non uso il distintivo.» «Mi faccia vedere la foto.» Landsman le passa la foto di Mendel Shpilman. Lei annuisce, e per un attimo nella sua corazza di stanchezza si apre una crepa. «Lo conosceva, signorina?» La donna gli restituisce la foto. Scuote la testa, gli fa cenno di metterla via. «Che gli è successo?» chiede a Landsman. «È stato assassinato» risponde lui. «Con un colpo di pistola alla nuca.» «Pesante» dice lei. «Cristo...» Landsman tira fuori dalla tasca del cappotto un pacchetto di fazzoletti nuovo, e glielo porge. Lei si soffia il naso, poi appallottola il fazzoletto nel pugno chiuso. «Come l'ha conosciuto?» le chiede Landsman. «Gli ho dato un passaggio» risponde lei. «Una volta sola. Nient'altro.» «Un passaggio per dove?» «Per un motel, sulla Route 3. Mi stava simpatico. Faceva ridere. Era gentile, un tipo alla mano. Un po' incasinato. Mi ha detto che aveva un... diciamo... un problemino. Di droga. Ma che stava cercando di smettere. Sembrava... aveva un certo modo di fare...» «Rassicurante?» «Uhm. No. Solo che era, ehm, non so come dire. Sentivi che c'era. Per circa un'ora ho pensato di essermi innamorata di lui.» «E non era così?» «Non ho avuto modo di scoprirlo.» «Avete fatto sesso?» «Ma allora è un poliziotto per davvero» dice lei. «Un detective, giusto?» «Esatto.» «No, non abbiamo fatto sesso. Io avrei voluto. Mi sono autoinvitata nella sua stanza, lì al motel. Gliel'ho, come dire, praticamente servita su un piatto d'argento. Ora, non è che voglio parlar male di lui. Gliel'ho detto, era carinissimo e tutto quanto, però messo davvero male. I denti, ad esempio. Comunque sia, mi sa che lui se n'è accorto.»
«Accorto di cosa?» «Che io... ho qualche problema. Con gli uomini. Non è che ne vedo molti, diciamo. Oh, non mi fraintenda, non ci sto provando.» «No, signora.» «Ho fatto terapia, ho fatto i dodici passi. Ho provato gli evangelici. L'unica cosa che ha funzionato davvero è stata preparare torte.» «Ecco perché sono così buone.» «Ah!» «E lui non ha raccolto l'invito.» «Non ha voluto. Ma è stato gentilissimo. Mi ha riabbottonato la camicetta. Mi sono sentita come una bambina. Poi mi ha dato una cosa, dicendo che potevo conservarla.» «Che cosa le ha dato?» Lei abbassa lo sguardo, e il sangue le tinge il viso di un rosso così intenso che Landsman quasi ne sente il rumore. Le parole successive le escono rauche e sussurrate. «La sua benedizione» dice. Poi, con voce più chiara: «Ha detto che mi dava la sua benedizione». «Per la cronaca: sono quasi certo che fosse gay» dice Landsman. «Lo so» dice lei. «Me l'ha detto. Non ha usato proprio quella parola. Non credo ne abbia usata una, o se l'ha fatto non me lo ricordo. Mi sa che ha detto qualcosa tipo che "ormai ci aveva rinunciato". Che l'eroina era più semplice e affidabile. L'eroina e gli scacchi.» «Gli scacchi. Giocava a scacchi.» «Così mi ha detto. Be', almeno ho avuto la benedizione, giusto?» A vederla sembra che abbia bisogno di sentirsi rispondere sì. «Sì» dice Landsman. «Era simpatico, quel tipo. Ma la cosa pazzesca è che, non so... Poi ha funzionato.» «Cos'è che ha funzionato?» «La benedizione. Cioè, io adesso ho un fidanzato. Un fidanzato vero. Stiamo proprio insieme, è una cosa stranissima.» «Sono contento per voi» dice Landsman, provando una strana punta di invidia per lei, per tutte le persone che hanno avuto la fortuna di ricevere una benedizione da Mendel Shpilman. Ripensa alle volte che dev'essere passato accanto a Mendel, a tut-
te le occasioni che si è perso. «Quindi, quando lei gli ha dato quel passaggio al motel, praticamente l'ha, come dire, rimorchiato. Pensava... sperava...» «Di farmelo? No.» Schiaccia la sigaretta con la punta dello stivale in pelle di pecora. «Era un favore. Per un'amica. Accompagnarlo lì in macchina, intendo. Lei lo conosceva, lo chiamava Frank. L'ha portato qui in aereo, da non so dove. Faceva la pilota. Mi ha chiesto di dargli uno strappo, di trovargli un posto dove stare. Un posto tranquillo. E insomma, io le ho detto di sì.» «Naomi» dice Landsman. «Si chiamava così la sua amica?» «Sì, perché? La conosceva?» «So quanto le piacevano le torte» dice Landsman. «E questo Frank era un suo cliente?» «Immagino di sì. Non so, non gliel'ho chiesto. Però sono arrivati qui insieme, in aereo. L'avrà assunta lui. Secondo me con quel suo bel tesserino può scoprirlo da solo.» Landsman sente un torpore invadergli gli arti, un torpore gradito, un senso di predestinazione indistinguibile dal senso di pace, come il morso di un serpente predatore che preferisce inghiottire le sue vittime vive, e con calma. La figlia dell'uomo delle torte china la testa verso la fetta di torta di mele che giace intatta sul piattino di carta, occupando lo spazio di panca vuoto tra lei e Landsman. «Se non la mangia però mi offende» dice.
Capitolo ventotto
In tutte le foto scattate durante il lungo periodo della loro infanzia, Landsman appare sempre con il braccio appoggiato sulle spalle della sorella. Nelle più vecchie la testa di lei gli arriva appena sopra la pancia. Nell'ultima di queste foto, sul labbro superiore di Landsman si intravede un'ombra di peluria, e la differenza di statura si è ridotta a tre o quattro centimetri. La prima volta che la vedevi, quella posa ti sembrava carina: un fratello maggiore che proteggeva la sorella più piccola. Sette o otto foto dopo, il gesto protettivo assumeva un'aria minacciosa. Dopo la decima cominciavi a preoccuparti per quei due bambini. Stretti stretti, con il fratello a riparare la sorellina, un bel sorriso verso l'obbiettivo, come due bambini meritevoli nello spazio di un quotidiano riservato alle adozioni. «Orfani in seguito a disgrazia» disse Naomi una sera, sfogliando le pagine di un vecchio album. Le pagine erano di cartoncino incerato, coperte da un foglio di poliuretano grinzoso che serviva a tenere ferme le foto. Quello strato di plastica dava l'impressione che la famiglia ritratta nell'album fosse un oggetto conservato, infilato in una busta come la prova di un delitto. «Due adorabili bambini in cerca di una famiglia.» «Solo che Freydl ancora non era morta» disse Landsman, consapevole di servirle una battuta facile. La madre era morta, dopo una breve e aspra lotta contro il cancro, sopravvivendo giusto il tempo perché Naomi le spezzasse il cuore abbandonando il college. «Adesso, me lo dici» rispose Naomi. Ultimamente, quando si riguarda in queste fotografie, Landsman ha l'impressione che il suo gesto sia un tentativo di trattenere la sorella, di impedirle di volare via e schiantarsi contro una montagna. Naomi fin da bambina è stata una dura, molto più di quanto
Landsman abbia mai avuto bisogno di essere. Aveva due anni in meno di lui, troppo pochi perché tutto ciò che il fratello faceva o diceva non costituisse un limite da superare o una teoria da contestare. Da bambina era stata un maschiaccio, e crescendo era diventata una donna mascolina. Quando qualche cretino ubriaco le chiedeva se era lesbica, lei rispondeva: «In tutto tranne nei gusti sessuali». Fu anzi proprio uno dei suoi primi fidanzati a instillarle la passione per il volo. Landsman non le chiese mai il motivo di quell'attrazione, perché si fosse impegnata così tanto e così a lungo per ottenere il brevetto commerciale e fare irruzione nel mondo omofobico e maschilista dei piloti forestali. La sua baldanzosa sorellina non era incline a scervellarsi su questioni inutili. Ma per come l'ha capita Landsman le ali di un aeroplano sono costantemente in lotta con l'aria che le avvolge: la intaccano e la eludono e la alterano, la piegano e la neutralizzano. La combattono, come un salmone combatte contro la corrente del fiume in cui è destinato a morire. E come un salmone - quel sionista acquatico, sospinto dal sogno infinito della sua fatidica dimora - anche Naomi era incline a consumare tutte le sue forze e le sue energie nella lotta. Non che questo sforzo affiorasse mai nei suoi modi schietti, nell'andatura spavalda, nel sorriso. Come Errol Flynn, aveva la capacità di apparire imperturbabile soltanto quando scherzava, e di sogghignare come chi ha vinto la lotteria ogni volta che le cose si mettevano davvero male. Un paio di baffi finti disegnati a matita, e la si sarebbe tranquillamente potuta immaginare appesa all'albero maestro di un vascello, sciabola alla mano. Non era complicata, la sua sorellina, e in questo rappresentava un caso unico tra le donne che conosceva Landsman. «Era matta come un cavallo» dice il responsabile del traffico aereo presso la stazione del servizio informazioni di volo dell'aeroporto di Yakovy. Si chiama Larry Spiro, un ebreo magro e curvo di Short Hills, New Jersey. Un «messicano», per usare il termine con cui gli ebrei di Sitka definiscono i cugini meridionali; i messicani chiamano invece gli ebrei di Sitka «iceberg», o «gli Eletti surgelati». Spiro ha occhiali spessi che gli correggono l'astigmatismo, e occhi che guizzano scettici. I capelli grigi e sottili gli stanno dritti in testa come raggi di sdegno nella striscia a fumetti di un quotidiano. Indossa una camicia oxford bianca con le iniziali ricamate sul taschino, e una cravatta rossa
a righe dorate. Lentamente, pregustandosi il bicchierino di whisky che ha davanti, si tira su le maniche della camicia. I denti hanno il colore del colletto della camicia. «Cristo.» Come quasi tutti i messicani che lavorano nel distretto, anche Spiro resta ferocemente aggrappato all'americano. Per un ebreo della East Coast il distretto di Sitka rappresenta l'esilio degli esilii, l'Hatzeplatz, il fazzoletto di terra sperduto nel nulla. Parlare americano, per un ebreo come Spiro, significa mantenere i piedi nel mondo reale, ripromettendosi di tornarci al più presto. Sorride. «Mai vista una donna cercarsi tanti guai.» Sono seduti ai tavolini dell'Erme's Skagway Bar and Gritte, nel basso parallelepipedo di alluminio che un tempo è stato l'edificio del terminal, ai tempi in cui questo aereoporto era poco più che una pista d'atterraggio sul limitare dei boschi. Occupano un séparé in disparte, e aspettano le loro bistecche. Molti ritengono che l'Ernie's Skagway sia l'unico posto tra Anchorage e Vancouver in grado di servire bistecche decenti. Ernie se le fa arrivare in aereo dal Canada ogni giorno, sanguinolente e stipate nel ghiaccio. L'arredamento è minimalista come quello di un bar qualunque: vinile, laminati e acciaio. I piatti sono di plastica, i tovaglioli ruvidi come la carta sul lettino di un medico. Ordini al bancone, dopodiché ti danno una specie di bandierina con un numero e ti vai a sedere. Le cameriere sono note per l'età avanzata, l'umore pessimo e la somiglianza fisica con la cabina di guida di un tir. Questo posto deve la sua atmosfera soltanto alla licenza per servire superalcolici e alla clientela: piloti, cacciatori e pescatori, più il solito miscuglio yakoviano di shtarker e trafficoni. Quand'è stagione, di venerdì sera qui puoi comprare e vendere di tutto, dalla carne d'alce alla ketamina, e sentire alcune delle più colossali panzane mai formulate in una lingua conosciuta. Alle sei di un venerdì pomeriggio ci sono perlopiù impiegati dell'aeroporto, e qualche pilota solitario al bancone. Tipi taciturni, gente che lavora sodo, uomini con cravatte fatte a maglia, più un pilota forestale americano che parla l'yiddish abbastanza speditamente e sostiene di aver volato una volta per trecento miglia senza rendersi conto di essere a testa in giù. Il bancone stesso è mastodontico e un po' fuori luogo, in quercia, finto vittoriano, recuperato dal fallimento della filiale di Sitka di una catena di bisteccherie americane.
«Già» dice Landsman. «Fino all'ultimo.» Spiro aggrotta la fronte. Era lui il controllore di volo in servizio a Yakovy quando l'aereo di Naomi si schiantò sul monte Dunkelblum. Spiro non avrebbe potuto impedirlo in alcun modo, ma per lui è comunque un argomento doloroso. Apre la cerniera della sua valigetta di plastica e tira fuori una spessa cartelletta azzurra. Contiene uno spesso fascicolo chiuso da una spessa graffetta, più vari fogli sparsi. «Mi sono riguardato la relazione» dice cupo. «Il tempo era decente. L'aereo aveva fatto un po' di ritardo nelle operazioni di rifornimento. L'ultima comunicazione che ha trasmesso, di routine.» «Uhm» fa Landsman. «Stava cercando qualche elemento nuovo?» Il suo tono non è esattamente compassionevole, ma pronto a prendere quella piega, se necessario. «Non lo so, Spiro. Cerco qualcosa.» Landsman prende la cartelletta e sfoglia rapidamente lo spesso fascicolo, una copia della relazione conclusiva della Federai Aviation Administration, poi lo appoggia da una parte e prende uno dei fogli sciolti che stanno sotto. «Quello è il piano di volo che mi ha chiesto. Quello della mattina prima dell'incidente.» Landsman esamina il modulo, in cui si dichiara l'intenzione della pilota Naomi Landsman di volare col suo Piper Super Cub da Perii Strait, Alaska, a Yakovy, distretto di Sitka, con a bordo un passeggero. Si direbbe stampato al computer, con gli spazi vuoti compilati in Times Roman corpo 12. «L'ha trasmesso per telefono, giusto?» Landsman controlla l'orario impresso sul foglio. «Alle cinque e mezza del mattino.» «Con il sistema automatico, sì. Come fanno quasi tutti.» «Perii Strait» dice Landsman. «Dove sarebbe? Dalle parti di Tenakee, giusto?» «Un po' più a sud.» «Perciò di lì a qui stiamo parlando di un volo di quanto? Due ore?» «Più o meno.» «Doveva essere in vena di ottimismo» dice Landsman. «Come orario di arrivo ha previsto le sei e un quarto. Tre quarti d'ora dopo aver trasmesso il piano di volo.» Spiro ha il genere di mente che per le anomalie prova attra-
zione e repulsione in egual misura. Prende la cartelletta da Landsman e la gira. Sfoglia la documentazione che ha raccolto e fotocopiato dopo aver accettato di farsi offrire una bistecca. «Ma lei è davvero arrivata alle sei e un quarto» dice. «È segnato qui, nel tabulato elettronico. Sei e diciassette.» «Dunque, mi faccia capire. I casi sono due: o si è fatta le due ore di volo da Perii Strait a Yakovy in meno di tre quarti d'ora» dice Landsman «oppure... oppure ha modificato il piano di volo per venire a Yakovy mentre era già in viaggio per un'altra destinazione.» Arrivano le bistecche; la cameriera porta via la bandierina con il numero e lascia sul tavolo due spesse fette di carne canadese. Hanno un buon odore e un ottimo aspetto. Spiro le ignora. Si è dimenticato di bere il suo cicchetto. Passa al setaccio la pila di fogli. «Okay, questo è del giorno prima. È andata da Sitka a Perii Strait con tre passeggeri, decollando alle quattro e chiudendo il piano di volo alle sei e mezza. Perciò quando sono arrivati era già buio. Lei ha deciso di passare la notte lì. Poi, il mattino dopo...» Si interrompe. «Ah.» «Cosa?» «Qui c'è... mi sa che era questo il piano di volo originale. E a quanto pare il mattino dopo voleva tornare a Sitka. Almeno inizialmente. Non qui a Yakovy.» «Con quanti passeggeri?» «Nessuno.» «Poi però, quand'è già in volo, in teoria da sola e diretta a Sitka, ma di fatto con a bordo un passeggero misterioso, di colpo cambia destinazione e fa rotta su Yakovy.» «Così si direbbe.» «Perii Strait» dice Landsman. «Che cosa c'è a Perii Strait?» «Lo stesso che dappertutto. Alci, orsi, cervi, pesci. Roba da ammazzare.» «Io non credo» dice Landsman. «Non credo fosse per una battuta di pesca.» Spiro corruga la fronte, poi si alza e va al bancone. Si avvicina al pilota americano e si mettono a parlare. Il pilota sembra diffidente, e forse lo è di natura. Però fa sì con la testa, e quando Spiro si incammina per tornare da Landsman lo segue. «Rocky Kitka» dice. «Detective Landsman.» Spiro si siede e comincia a darsi da fare con la bistecca.
Kitka indossa pantaloni di pelle nera, e una giacca uguale sulla pelle nuda, che è coperta dai polsi alla gola e dalla gola alla cintola di tatuaggi indiani. Balene con denti enormi, castori e sul bicipite sinistro un serpente, o forse un'anguilla, con occhi furbi. «Lei è un pilota?» gli chiede Landsman. «No, un poliziotto.» Ride con toccante sincerità della propria dimostrazione di spirito. «A Perii Strait c'è mai stato?» gli chiede Landsman. Kitka scuote la testa, e istantaneamente Landsman pensa che sta mentendo. «Ne sa qualcosa?» «Solo com'è visto dall'alto, detective.» «Kitka» dice Landsman. «E un cognome indiano.» «Mio padre è tlingit. Mia madre è mista, scozzese, irlandese, tedesca e svedese. Più o meno tutto tranne che ebrea.» «Ci sono molti indiani a Perii Strait?» «Solo quelli.» Kitka lo dice con disinvolta autorevolezza, poi si ricorda che di Perii Strait ha detto di non sapere niente, e i suoi occhi fuggono da quelli di Landsman, per poi accendersi quando si posano sulla bistecca. Sembra parecchio affamato. «Niente bianchi?» «Forse un paio, nascosti in qualche caletta.» «Ed ebrei?» chiede Landsman. Lo sguardo di Kitka si fa duro, difensivo. «Gliel'ho detto. Io so che esiste perché ci passo sopra con l'aereo.» «Sto conducendo una piccola indagine» dice Landsman. «E a quanto pare laggiù c'è qualcosa che a un ebreo di Sitka può interessare.» «Guardi che Perii Strait è in Alaska» dice lui. «Da quelle parti un poliziotto ebreo, con tutto il rispetto, detective, può anche passare tutto il giorno a fare domande, tanto non gli risponde nessuno.» Landsman fa spazio sul sedile del divanetto. «Si accomodi, caro» dice, in yiddish. «La smetta di fissarla. Gliela lascio. Non l'ho nemmeno toccata.» «Non la mangia?» «Non so perché ma non ho appetito.» «È lombata di vitello, vero? A me fa impazzire la lombata di
vitello.» Kitka si siede e Landsman spinge il piatto verso di lui. Beve il suo caffè e osserva i due uomini accanirsi sulla cena. Una volta terminato, Kitka sembra molto più contento, meno diffidente, meno timoroso di farsi fregare. «Cazzo che buona» dice. Beve un lungo sorso d'acqua ghiacciata da un boccale di plastica rossa. Guarda Spiro, poi altrove, poi di nuovo Landsman, poi di nuovo altrove. Fissa l'acqua nel bicchiere. «Il cibo si paga» dice amaro. Poi: «Hanno una specie di clinica. O almeno così ho sentito dire. Per gli ebrei religiosi che hanno problemi di droga o roba del genere. A quanto pare anche i vostri amici con la barba lunga ogni tanto si fanno, bevono e scazzano con la legge». «Comprensibile che si scelgano un posto fuori mano» dice Spiro. «Forse per evitare la vergogna.» «Non saprei» dice Landsman. «Non è facile per degli ebrei ottenere la licenza per aprire un'attività fuori dal confine. Nemmeno un'attività benefica come quella.» «Ripeto» dice Kitka. «Sono solo voci che ho sentito. Probabilmente stronzate.» «Che strano» dice Spiro, che nel frattempo è tornato a immergersi nel mondo del fascicolo e lo sta sfogliando avanti e indietro. «Cos'è che è strano?» gli fa Landsman. «Be', ho cercato dappertutto, ma sa cosa non trovo? Il piano di volo per... quello dell'incidente. Da Yakovy a Sitka.» Tira fuori lo Shoyfer, preme due tasti e attende. «Però so che l'ha inviato. Ricordo di averlo visto. Bella? Sono Spiro. Hai da fare? A-ah. Okay, senti, puoi controllarmi una cosa? Dovresti recuperare dal computer un piano di volo.» Fornisce al controllore di volo in servizio il nome di Naomi, la data e l'orario del suo ultimo volo. «Puoi farlo? Sì.» «Lei mia sorella la conosceva, non è vero signor Kitka?» chiede Landsman. «Altroché» risponde lui. «Una volta mi ha pestato.» «Benvenuto nel club» dice Landsman. «Non è possibile» dice Spiro. La voce è tesa. «Puoi ricontrollare, per favore?» Ora tacciono tutti. Guardano Spiro che ascolta Bella all'altro capo del filo.
«Bella, ci dev'essere un errore» dice infine. «Vengo lì io.» Spiro mette giù, e dalla faccia si direbbe che la sua pregiata bistecca gli stia tornando su. «Be'?» chiede Landsman. «Spiro, che succede?» «Il piano di volo non si trova.» Si alza e raccoglie i fogli sparsi del fascicolo di Naomi. «Ma non può essere, perché nella relazione sull'incidente c'è il numero di protocollo.» Si interrompe. «O forse no.» Ricomincia a sfogliare le pagine dello spesso fascicolo di fogli stampati fitti che contiene i risultati delle indagini della Federai Aviation Administration sull'incontro fatale tra Naomi e il versante nord-ovest del monte Dunkelblum. «Qualcuno ha toccato il fascicolo» dice infine, dapprima riluttante, le labbra ridotte a un trattino. Poi, a mano a mano che quella deduzione gli si dilata nella mente, la bocca si distende un po'. La apre. «Qualcuno con degli agganci.» «Agganci» ripete Landsman. «Il genere di agganci che servono, ad esempio, per ottenere il permesso di costruire un centro di riabilitazione per ebrei in una zona di competenza dell'Ufficio per gli affari indiani?» «Agganci troppo in alto per me» dice Spiro. Chiude di scatto la cartelletta, se la infila sotto il braccio. «Non posso più trattenermi con lei, Landsman. Mi spiace. Grazie per la cena.» Appena Spiro se ne va, Landsman tira fuori il cellulare e compone un numero con il prefisso dell'Alaska. Alla donna che gli risponde dice: «Wilfred Dick, per cortesia». «Oh, Cristo» esclama Kitka. «Stia all'occhio.» Ma Landsman riesce a farsi passare solo un sergente di servizio. «Il detective capo è fuori ufficio» dice il sergente. «Per cosa lo cercava, detective Landsman?» «Lei per caso ha mai sentito parlare di una specie di centro di riabilitazione a Perii Strait?» dice Landsman. «Dove i medici hanno la barba lunga?» «La Beth Tikkun?» risponde il sergente, come se fosse il nome di una ragazza americana. «Sì, la conosco.» Il fatto che la conosca, sembra suggerire il tono del sergente, non gli ha procurato grandi gioie, e difficilmente lo farà in futuro. «Mi piacerebbe farci un salto» dice Landsman. «Magari domani. Secondo lei si può fare?»
Il sergente non sembra riuscire a trovare una risposta adeguata a quella domanda apparentemente semplice. «Domani» dice infine. «Sì, pensavo di andarci in aereo. Per dare un'occhiata alla zona.» «Uhm.» «Che c'è, sergente? Questa Beth Tikkun è un posto rispettabile?» «Per rispondere a una domanda del genere bisogna avere delle opinioni, detective» risponde il sergente. «E quelle, il detective capo Dick, a noi non le concede. Gli dirò che ha chiamato.» «Lei un aereo ce l'ha, Rocky?» dice Landsman, chiudendo la telefonata con il dito medio. «L'ho perso» risponde Kitka. «A poker. Per quello sono finito a lavorare per un ebreo.» «Senza offesa.» «Già» dice Kitka. «Senza offesa.» «Mettiamo che io voglia fare una visitina a questo tempio della salute che c'è a Perii Strait.» «Domani devo caricare della gente» dice Kitka. «A Freshwater Bay. Magari posso deviare un po' verso destra. Ma di sicuro non mi fermo ad aspettarla col tassametro che gira.» Sorride rivelando denti da castoro. «E le costerà molto più di una bistecca.»
Capitolo ventinove
Un distintivo d'erba, una spilla verde appuntata al bavero di una montagna, su un ampio mantello nero di abeti. Al centro della radura, sei edifici ricoperti di scandole marroni e disposti a raggiera intorno a una fontana circolare, uniti da vialetti e separati da trapunte d'erba e ghiaia. Su un lato un campo da gioco, con le linee bianche per il calcio, circondato da una pista ovale. Sembra un collegio, un'accademia per giovani ricchi capricciosi persa in mezzo ai boschi. Sulla pista corrono cinque o sei uomini in pantaloncini e felpe. Altri sono seduti o stesi a pancia in giù in mezzo al campo, fanno stretching prima dell'al lenamento, gambe e braccia, angoli disegnati sul terreno. Un alfabeto di uomini disseminato su una pagina verde. Quando un'ala dell'aereo piega verso il campo, i cappucci delle felpe seguono la fusoliera come bocche di cannoni antiaerei. Dal cielo è difficile stabilirlo con esattezza, ma Landsman ha l'impressione che quegli uomini si muovano e stiano fermi e distendano le gambe lunghe e pallide come giovani in ottima salute. Dai recessi del bosco spunta un'altra persona, con indosso una tuta scura. Segue la traiettoria ad arco del Cessna, con il braccio destro piegato all'altezza del gomito e la mano appoggiata alla testa, trasmettendo la comunicazione: «Abbiamo compagnia». Oltre il bosco, Landsman per un attimo intravede una macchia verde in lontananza, un tetto, una serie di corpi bianchi che potrebbero essere cumuli di neve. Kitka impone una virata muscolare all'aereo, che vibra, sferraglia e geme, dopodiché precipitano dal cielo, dapprima a picco, poi piano piano. Infine toccano l'acqua, con un ultimo colpo secco. Forse a gemere era Landsman. «Non pensavo che in vita mia avrei mai detto una cosa del genere» annuncia Kitka mentre il motore Lycoming entra in folle, con un frastuono da cancellare i pensieri. «Ma forse seicento dollari sono pochi.»
A nemmeno mezz'ora dal decollo, Landsman ha deciso di movimentare il viaggio con una saggia seduta di vomito. L'aereo è stato invaso da un fetore di carne d'alce marcia da vent'anni, e Landsman dal rimorso per aver infranto la promessa, fatta dopo la morte di Naomi, di non viaggiare mai più su velivoli così piccoli. Ciò nonostante, l'episodio di mal d'aria rimane un record, considerato quanto poco Landsman ha mangiato da parecchi giorni a questa parte. «Mi scusi, Rocky» dice, cercando di recuperare la voce da sotto i tacchi. «Mi sa che non ero ancora pronto a risalire su un aereo.» Prima di questo, l'ultimo volo Landsman l'ha fatto sul Super Cub della sorella, senza conseguenze. Ma quello era un buon aeroplano, Naomi una pilota capace, c'erano ottime condizioni atmosferiche e Landsman era ubriaco. Stavolta si è arrischiato ad affrontare il cielo in un doloroso stato di sobrietà, e con tre caraffe di pessimo caffè da motel in giro per il sistema nervoso. Si è affidato alla misericordia congiunta di un implacabile vento che soffiava dallo Yukon e di un pessimo pilota, di quelli che i rischi rendono spericolati e la propria insicurezza spavaldi. Dentro i rivestimenti in tela del vecchio e stanco 206 che la direzione della Turkel Regional Airways ha pensato bene di affidare a Rocky Kitka, Landsman è stato ampiamente sballottato. L'aereo rombava e vibrava e sobbalzava. Tutte le viti e i bulloni dello scheletro di Landsman si sono allentati, la testa si è girata di trecentosessanta gradi, le braccia si sono staccate, e i bulbi oculari sono rotolati sotto la stufetta dell'abitacolo. In un punto imprecisato sopra i monti Moore, la promessa di Landsman ha cominciato a risalirgli dallo stomaco. Kitka spalanca lo sportello e balza con il cavo d'attracco sul pontile per gli idrovolanti. Landsman barcolla fuori dalla cabina e si getta sulle assi di cedro grigiastro. Rimane lì impalato, sbattendo le palpebre, ondeggiando, inspirando grosse boccate di aria locale con il suo aroma abrasivo di aghi di pino e alghe marine. Raddrizza la cravatta e si risistema il cappello in testa. Perii Strait è un caos di barche, una pompa di carburante, una fila di case consumate dalle intemperie nei colori di un motore mangiato dalla ruggine. Le case fanno capannello sulle loro palafitte come signore dalle gambe secche. Un tratto consunto di passerella in legno fa capolino tra le case, per poi scendere verso gli scivoli per le barche e lì terminare. Il tutto
sembra tenuto insieme da un garbuglio di gomene, intrichi di lenze, pezzi di reti da circuizione con i galleggianti incrostati. L'intero villaggio potrebbe essere fatto di legname abbandonato sulle rive dalle onde e fil di ferro, rimasugli di un paesino lontano ormai sepolto dalle acque. Il pontile non sembra essere fisicamente unito alla passerella, né al villaggio di Perii Strait. È robusto, ben costruito, sembra nuovo, in cemento bianco e assi tinte di grigio. Vanta l'abilità ingegneristica e i bisogni logistici di gente coi soldi. L'estremità che termina sulla spiaggia è chiusa da un cancello di ferro, oltre il quale comincia una tortuosa scala di metallo cucita sul fianco della collina, che finisce in una radura in alto. Accanto alla scala c'è una rotaia che sale perpendicolarmente, con una piattaforma provvista di corrimano per portare su ciò che non può passare per le scale. Su una piccola insegna metallica inchiodata al parapetto del pontile c'è scritto CASA DI CURA BETH TIKKUN, in yiddish e americano, e subito sotto, solo in americano, PROPRIETÀ PRIVATA. Landsman fissa i caratteri yiddish. Gli sembrano fuori luogo e famigliari in questo angolo remoto dell'isola Baranof, un'adunata di piccoli poliziotti yiddish furtivi in abiti neri e fedora. Kitka riempie il suo Stetson da un rubinetto montato su un paletto del pontile, e comincia a gettare dentro l'aereo cappellate su cappellate d'acqua non potabile. Landsman è mortificato per aver reso necessario quel lavoro, ma Kitka e il vomito sembrano conoscenti di vecchia data, e lui non perde mai il sorriso. Con il bordo plastificato di una guida all'avvistamento delle balene e dei pesci dell'Alaska usato a mo' di tergivetri, Kitka spazza fuori dallo sportello della cabina un misto di vomito e acqua di mare. Sciacqua la guida, la scrolla. Poi rimane fermo sull'apertura della cabina, tenendosi al tettuccio con una mano, e guarda Landsman. Il mare schiaffeggia i galleggianti del Cessna e i pilastri del pontile. Il vento che soffia dal fiume Stikine fischia nelle orecchie di Landsman. Gli agita la tesa del cappello. Dal villaggio si alza una voce di donna, rauca, che sbraita contro il figlio o il marito. Seguono i latrati di un cane che sembra farle il verso. «Secondo me sanno del suo arrivo» dice Kitka. «I signori lassù.» Il suo sorriso si fa impacciato, riducendosi quasi a una smorfia. «E diciamo che un po' gliel'abbiamo annunciato.» «Questa settimana di visita a sorpresa ne ho già fatta una, e
non è andata molto bene» ribatte Landsman. Sfila di tasca la Beretta, sgancia il caricatore, controlla le cartucce. «Dubito che questi si facciano sorprendere.» «Sa chi sono?» chiede Kitka, gli occhi fissi sulla sholem. «No» dice Landsman. «Io no. E lei?» «Sul serio, fratello» dice Kitka. «Se lo sapessi glielo direi. Anche se mi ha vomitato sull'aereo.» «Chiunque siano» dice Landsman reinserendo il caricatore «ritengo che potrebbero aver ucciso mia sorella.» Kitka rimugina sull'affermazione come in cerca di punti deboli o scappatoie. «Io devo essere a Freshwater per le dieci» dice con finto rammarico. «Tranquillo» dice Landsman. «Mi rendo conto.» «Altrimenti, fratello, giuro che le darei una mano.» «Ho detto che non c'è problema. Che le prende? Non è un problema suo.» «Sì, lo so, però... Naomi. Lei era una tipa incredibile.» «A me, lo dice.» «Anche se io non le sono mai stato molto simpatico.» «Era una che andava a momenti» dice Landsman, facendo scivolare la pistola nella tasca della giacca. «In certi casi.» «Be', io allora...» dice Kitka, scalciando via un po' d'acqua dall'aereo con la punta di uno stivale Roper. «Oh, mi raccomando. Stia attento.» «Non credo di esserne capace» ammette Landsman. «Allora è una cosa che avevate in comune» dice Kitka. «Lei e sua sorella. Landsman risale il pontile e prova la maniglia del cancello di ferro giusto per sport. Poi lancia la borsa al di là del cancello e comincia ad arrampicarsi sull'inferriata. Mentre la scavalca, il piede gli rimane impigliato tra le sbarre. Gli cade una scarpa. Perde l'equilibrio e precipita dall'altra parte, atterrando con un sonoro tonfo. Cadendo si morde la lingua, e sente in bocca un piccolo fiotto salato di sangue. Si ripulisce i vestiti, poi si gira verso il pontile per avere la conferma che Kitka ha visto tutto. Gli fa un cenno con la mano come a dire che sta bene. Kitka ricambia il gesto dopo un istante. Chiude lo sportello dell'aereo. Il motore riparte. L'elica scompare in un vortice scuro. Landsman comincia la lunga scarpinata su per le scale. Se possibile è in una forma fisica peggiore adesso di quando ve-
nerdì mattina ha cercato di avere la meglio sulle scale del palazzo in cui vivono gli Shemets. Ha passato la notte in bianco sul blocco duro e bitorzoluto di un materasso di motel. Due giorni fa gli hanno sparato e lo hanno riempito di botte in mezzo alla neve. Sente male. Ha il fiato corto. Ha un dolore di origine imprecisata in una costola e un altro nel ginocchio sinistro. Deve fare una tappa, a metà scala, per fumare una sigaretta di incoraggiamento. Si volta a guardare il Cessna che con un rombo sommesso si allontana ballonzolando tra le nuvole basse, abbandonando Landsman a quello che, di colpo, gli sembra un destino di solitudine. Si regge al corrimano, che si affaccia sulla spiaggia deserta e sul villaggio. Giù, sulla passerella tortuosa, alcune persone sono emerse dalle loro case per guardarlo salire. Landsman le saluta con la mano, e loro ricambiano gentili. Poi schiaccia il mozzicone del papiro e riprende la sua faticosa e metodica ascesa. A fargli compagnia è lo sciabordio delle acque nella baia, il gracchiare lontano dei corvi. Poi anche quei suoni sfumano. Sente solo il suo respiro, il clangore delle suole sui gradini di metallo, il cigolio della cinghia della borsa. In cima, su un'asta imbiancata a calce sventolano due bandiere. Una è quella degli Stati Uniti d'America. L'altra è modesta, bianca, con una Stella di Davide azzurro chiaro. L'asta si erge da un cerchio di pietre, anche queste imbiancate a calce, e circondate da una striscia di cemento. Alla base dell'asta c'è una piccola targa di metallo con la scritta PENNONE ISSATO GRAZIE AL GENEROSO CONTRIBUTO DI BARRY E RHONDA GREENBAUM, BEVERLY HILLS, CALIFORNIA. Un viottolo porta dalla striscia di cemento circolare all'edificio più grande tra quelli che Landsman ha visto dall'alto. Gli altri sono poco più che scatoloni ricoperti di scandole di cedro, ma questo ha qualche pretesa di stile. Il tetto è spiovente e rivestito d'acciaio nervato dipinto di verde scuro. Alle finestre ci sono colonnine e lunette a ventaglio. Una profonda veranda cinge l'edificio su tre lati, poggiando su tronchi d'abete che conservano la corteccia. Al centro della veranda, un'ampia scalinata sale dal viottolo di cemento. Sull'ultimo gradino in alto ci sono due uomini, che guardano Landsman avvicinarsi. Tutti e due con la barba, ma senza cernecchi. Niente calzamaglie, niente cappelli neri. Quello a sinistra è giovane, si direbbe sulla trentina. È alto, quasi un gigante, con una fronte che sembra un bunker di cemento e il mento
sporgente. Una barba indisciplinata, piena di nodi neri, con una voluta di pelle nuda su ciascuna guancia. Le grosse mani sono abbandonate lungo i fianchi e pulsano come due cefalopodi. Indossa un abito nero, abbondante, e una cravatta scura. Landsman decifra gli scatti di desiderio nelle sue dita e cerca sul panciotto la sagoma di una pistola. A mano a mano che si avvicina, gli occhi dell'uomo si raffreddano, diventando di un buio opaco. L'altro ha più o meno la stessa età, statura e corporatura di Landsman, di una magrezza che sfiora la gracilità, ma con le spalle larghe. Rispetto a Landsman ha un po' più di pancetta, e si appoggia a un bastone formato da una curva di un legno scuro e lucido. La sua barba è carbone striato di cenere, ben curata, quasi elegante. Indossa un completo di tweed, con tanto di panciotto, e fuma la pipa meditabondo. Sembra soddisfatto, se non addirittura felice di vedere Landsman che si avvicina, curioso, un medico che non vede l'ora di individuare qualche lieve anomalia o un'imperfezione nell'aspetto abituale. Ai piedi porta mocassini con lacci di cuoio. Landsman si ferma e si risistema sulla spalla la borsa a tracolla. Sente il rumore di un picchio, come di dadi agitati in un bicchiere. Per un attimo quello e il fruscio degli aghi di pino sono gli unici suoni. Potrebbero essere i soli tre uomini presenti in tutta l'Alaska sudorientale. Landsman però sente lo sguardo di altri occhi, da dietro tende leggermente scostate, mirini di armi, periscopi e spioncini. Sente l'interruzione che ha colto la vita di questo posto, la ginnastica mattutina, le tazze di caffè da sciacquare. Gli arriva un odore di uova abbrustolite nel burro, pane tostato. «Non so come dirglielo» esordisce lo spilungone con la barba disordinata. La voce sembra rimbalzargli troppo a lungo nel petto prima di emergere. Le parole escono dense, versate da un mestolo lento. «Ma il suo passaggio se n'è appena andato senza di lei.» «Perché, devo andare da qualche parte?» chiede Landsman. «Lei qui non può fermarsi, amico mio» dice l'uomo con l'abito di tweed. Non appena pronuncia le parole «amico mio» dai suoi modi sembra defluire ogni traccia di amichevolezza. «Ma io ho prenotato» dice Landsman, fissando le mani inquiete dell'uomo più alto. «Sono più giovane di quello che sembro.»
Quel suono come di ossa in un secchio, da qualche parte nel bosco. «D'accordo, non sono esattamente un ragazzino e non ho prenotato, però ho un serio problema di abuso di sostanze» dice Landsman. «Questo conterà pure qualcosa, no?» «Signore...» dice l'uomo vestito di tweed, scendendo qualche gradino. Landsman sente l'odore del trinciato amaro che sta fumando. «Senta» dice Landsman. «Mi hanno detto che qui siete bravissimi, okay? E io ho provato di tutto. So che è una pazzia, ma io sono davvero alla frutta, e non ho nessun altro posto dove andare.» L'uomo in tweed si volta verso lo spilungone fermo in cima ai gradini. A vederli sembra che non abbiano idea di chi sia Landsman, o di come comportarsi con lui. Tutto il divertimento dei giorni scorsi, in particolare la tortura del volo da Yakovy, sembrano avergli limato via un po' di aura da sbirro. Landsman spera e teme di passare solo per un povero sfigato che si trascina dietro la sfortuna in una borsa a tracolla. «Ho bisogno d'aiuto» dice, e con sua immane sorpresa gli si riempiono gli occhi di lacrime. «Sono messo davvero male.» Gli si spezza la voce. «Non ho problemi ad ammetterlo.» «Come si chiama?» dice lo spilungone, lentamente. I suoi occhi sono caldi ma non amichevoli. Compatiscono Landsman senza provare per lui particolare interesse. «Felnboyger» tenta Landsman, ripescando il cognome dal verbale di un vecchio arresto. «Lev Felnboyger.» «Qualcun altro sa che lei è qui, signor Felnboyger?» «Solo mia moglie. E il pilota, ovviamente.» I due uomini si scambiano un'occhiata, e Landsman capisce che si conoscono abbastanza da riuscire a litigare furiosamente senza dire una parola o muovere altro che gli occhi. «Sono il dottor Roboy» dice lo spilungone, finalmente. Fa ciondolare una mano verso Landsman come un carico appeso al cavo di una gru. Landsman vorrebbe scansarsi, e invece ne stringe la massa fredda e asciutta. «Prego, signor Felnboyger, si accomodi.» Landsman li segue sulle assi di abete levigato della veranda. In alto, tra le travi, intravede un nido di vespe, e per un attimo lo scruta in cerca di segni di vita, ma a quanto pare anche quello è deserto come tutte le altre strutture che poggiano sulla col-
lina. Entrano in un atrio vuoto, arredato, con gusto da studio di podologo, di morbidi parallelepipedi di gommapiuma beige. Una triste moquette a pelo corto, grigio cartone di uova. Alle pareti sono appese trite scene tipiche di vita sitkanik, barche per la pesca al salmone, studenti della Yeshiva, gente nei caffè di Monastir Street, un allegro klezmer che ricorda un Nathan Kalushiner stilizzato. Di nuovo Landsman ha l'inquietante sensazione che tutto sia stato sistemato e appeso questa mattina stessa. Nei posacenere non c'è un briciolo di cenere. L'espositore dei volantini informativi è carico di copie di Tossicodipendenza? No, grazie! e Diventa padrone della tua vita. Un termostato fissato alla parete sospira come se anche lui soffrisse il tedio. La stanza odora di moquette nuova e pipa spenta. Su una porta che dà su un corridoio moquettato una targa adesiva dice L'ARREDAMENTO DELL'ATRIO È STATO GENTILMENTE FORNITO DA BONNIE E RONALD LEDERER, BOCA RATON, FLORIDA. «Si sieda» dice il dottor Roboy, con quella sua voce che è un denso sciroppo nero. «Fligler?» L'uomo in tweed torna verso le porte a vetri, apre il battente sinistro e controlla che i saliscendi in alto e in basso siano chiusi. Poi chiude l'anta, gira la chiave, la sfila e se la mette in tasca. Tornando, passa accanto a Landsman e lo sfiora con una spallina di tweed imbottita. «Fligler» dice Landsman, afferrandogli delicatamente il braccio. «Anche lei è un medico?» Fligler si scrolla la sua mano di dosso. Tira fuori una bustina di fiammiferi dalla tasca. «Ma certo» risponde lui senza sincerità né convinzione. Con le dita della mano destra stacca un fiammifero dalla bustina, lo accende e lo avvicina al fornello della pipa con un unico fluido movimento continuo. Mentre la mano destra intrattiene Landsman con quel piccolo numero di bravura, la sinistra affonda nella sua tasca e ne riemerge con la calibro .22. «Eccolo qui, il suo problema» dice, sollevando la pistola in bella vista. «E adesso guardi cosa fa il dottore.» Landsman osserva ubbidiente Fligler che solleva la pistola scrutandola con occhio clinico. Ma un attimo dopo una porta sbatte, da qualche parte nella sua testa, e subito dopo Landsman viene distratto - per mezzo secondo - dal ronzio di mille api che gli entra dentro dalla veranda dell'orecchio sinistro.
Capitolo trenta
Landsman si risveglia steso sulla schiena, e in alto vede una fila di enormi recipienti di ferro, pentoloni e paioli grandi abbastanza da farci bollire una capra intera. Sono appesi ordinatamente a grossi ganci fissati a uno scaffale un metro sopra la sua testa. Nelle narici di Landsman, un nostalgico odore di cucina da campeggio, gas di fornelli e detersivo per piatti, cipolla abbrustolita, acqua dura, una vaga puzza di attrezzatura da pesca. Metallo come il brivido di un brutto presentimento contro la testa. È sdraiato su un lungo ripiano d'acciaio inossidabile, con i polsi ammanettati dietro la schiena che premono sull'osso sacro. Scalzo, sbavante, pronto a essere spiumato e farcito in ogni cavità con limoni e magari anche qualche ramoscello di salvia. «Di voci strane su di voi ne ho sentite» dice. «Ma che foste anche cannibali mai.» «Io non la mangerei, Landsman» dichiara Baronshteyn «nemmeno se fossi l'uomo più affamato dell'Alaska e mi venisse servito con una forchetta d'argento.» È seduto su un alto sgabello alla sinistra di Landsman, con le braccia conserte sotto le sottane della sua folta barba nera. «È che proprio non amo i sottaceti.» Baronshteyn ha dismesso l'uniforme per un paio di jeans nuovi e una camicia di flanella, infilata nei pantaloni e abbottonata fin quasi al colletto. Un cinturone di pelle con fibbia grossa e un paio di stivali neri. Camicia troppo abbondante, pantaloni rigidi come una lastra di ferro. Non fosse per lo zucchetto, Baronshteyn sembrerebbe un bimbo magrolino in costume da boscaiolo per una recita scolastica, con tanto di barba finta e via dicendo. Ha i tacchi degli stivali agganciati al piolo dello sgabello, e i risvolti dei pantaloni tradiscono qualche centimetro di polpaccio esile e pallido come una calzamaglia. «Chi è quest'uomo?» domanda il gigante emaciato, Roboy. Landsman allunga il collo e vede il dottore, ammesso che dot-
tore sia, appollaiato su uno sgabello d'acciaio ai suoi piedi. Due borse sotto gli occhi come sbaffi di grafite. Alle sue spalle c'è l'infermiere Fligler, bastone al braccio, che guarda morire un papiro sotto la custodia della sua mano destra, con la sinistra minacciosamente infilata nella tasca della giacca di tweed. «Come fa a conoscerlo?» Una panoplia di coltelli, mannaie e altri utensili è disposta lungo un listello magnetico sulla parete della cucina, a portata di mano per l'operoso cuoco o shlosse di turno. «Uno shammes, si chiama Landsman.» «Questo sarebbe un poliziotto?» dice Roboy. Sembra abbia appena addentato una caramella col ripieno acido. «Il distintivo non ce l'ha. Fligler, aveva un distintivo?» «Non ho trovato distintivi, né altri segni d'appartenenza alle forze dell'ordine» risponde Fligler. «Questo perché il distintivo gliel'ho fatto togliere io» dice Baronshteyn. «Non è così, detective?» «Qui le domande le faccio io» ribatte Landsman, dimenandosi per trovare una posizione più comoda sui polsi ammanettati. «Se non le dispiace.» «Che abbia o meno il distintivo poco importa» decreta Fligler. «Da queste parti il distintivo di un ebreo vale quanto una merda secca.» «Non amo questo genere di linguaggio, amico Fligler» dice Baronshteyn. «Come credo di averle già detto.» «Me l'ha detto, ma non mi stanco mai di sentirglielo ripetere» risponde Fligler. Baronshteyn lo guarda. Nella sua scatola cranica, ghiandole segrete secernono il loro veleno. «Il nostro amico Fligler era dell'idea di spararle e abbandonare il corpo nei boschi» dice affabile, tenendo gli occhi fissi sull'uomo con la pistola in tasca. «In un qualche punto lontano lontano» dice Fligler. «Per vedere quale specie di animale sarebbe venuta a mangiarsi la sua carcassa.» «È questo il suo approccio terapeutico, dottore?» dice Landsman, cercando di alzare la testa e guardare Roboy negli occhi. «Ci credo che Mendel Shpilman si è fermato così poco, la primavera scorsa.» Per un attimo i tre uomini assaporano la sostanza della frase di Landsman, valutandone il gusto e il contenuto vitaminico.
Baronshteyn lascia trapelare nel suo sguardo venefico un po' di rimprovero. Ce l'hai avuto in mano, dice l'occhiata che lancia al dottor Roboy. E te lo sei lasciato scappare. Baronshteyn si china su Landsman sporgendosi dallo sgabello, dopodiché parla gentilmente, con la sua caratteristica delica tezza minacciosa. Il suo alito è acre e stantio. Croste di formaggio, pane raffermo, fondi di caffè. «Che cosa ci fa, amico Landsman» dice «in questo posto così sperduto che non è certo il suo?» Baronshteyn sembra sinceramente perplesso. Desidera essere informato. Potrebbe essere, pensa Landsman, l'unico desiderio che quest'uomo si sia mai concesso di nutrire. «Potrei farle la stessa domanda, Baronshteyn» risponde Landsman, pensando che forse Baronshteyn con questo posto non c'entra niente, è solo un visitatore come lui. Forse sta seguendo la stessa pista, vuole ricostruire la traiettoria recente di Mendel Shpilman, cercare di individuare il punto in cui il figlio del Rebbe ha incrociato l'ombra che l'ha ucciso. «Che cos'è questo posto? Un collegio per Verbover indisciplinati? Chi sono questi personaggi? E comunque ha saltato un passante della cintura.» Baronshteyn si porta le dita della mano alla vita, dopodiché si risistema sullo sgabello e fa una smorfia che ricorda un sorriso. «Chi sa che lei si trova qui, Landsman?» dice. «A parte il pilota?» Landsman ha una fitta di terrore per Rocky Kitka, che vola a testa in giù attraverso la vita per centinaia di miglia senza rendersene conto. Landsman non sa granché di questi ebrei di Perii Strait, ma gli sembra piuttosto evidente che con un pilota che sorvola i boschi possano andarci giù molto pesante. «Quale pilota?» dice. «Temo si debba presupporre il peggio» dice il dottor Roboy. «È evidente che questa struttura è stata compromessa.» «Lei sta passando troppo tempo con questa gente» dice Baronshteyn. «Comincia a parlare come loro.» Si slaccia la cintura e la infila nel passante che ha saltato, senza staccare gli occhi da Landsman. «Ma forse ha ragione, Roboy.» Stringe forte la cintura, con chiaro intento autopunitivo. «Anche se io sarei pronto a scommettere che Landsman non l'ha detto a nessuno. Nemmeno a quel suo grasso collega indiano. Landsman ha agi-
to di testa sua, e lo sa. Non ha il sostegno dei colleghi. Non ha giurisdizione, non ha autorità, non ha nemmeno un distintivo. Non avrebbe detto a nessuno di voler andare nelle IndianerLands, per paura che cercassero di dissuaderlo. O peggio ancora, che glielo proibissero. Che gli dicessero che la sua capacità di giudizio è offuscata dal desiderio di vendicare la morte di sua sorella.» Roboy torce le sopracciglia al di sopra del naso come un paio di mani irrequiete. «Sua sorella?» dice. «E chi è sua sorella?» «Dico bene, Landsman?» «Vorrei tanto poterla rassicurare, Baronshteyn. Ma ho scritto un resoconto completo di tutto ciò che so di lei e di questa attività.» «Dice sul serio?» «La finta clinica per giovani tossicodipendenti.» «Capisco» dice Baronshteyn simulando un'aria grave. «La finta clinica per giovani tossicodipendenti. Faccenda davvero scioccante.» «Una copertura per le attività che porta avanti con Roboy e Fligler e i loro amici potenti.» Il cuore di Landsman batte frenetico al seguito delle congetture del tutto casuali che sta formulando. Nel tentativo di capire per quale motivo degli ebrei possano aver bisogno o voglia di costruire un complesso così grande quaggiù, e come siano riusciti a convincere i nativi a lasciarglielo costruire. Che si siano comprati un pezzo di Indianer-Lands per costruirci un nuovo MacShtetl? Oppure questo doveva essere un punto di transito per un contrabbando di persone, una sorta di ponte aereo per traghettare i Verbover fuori dall'Alaska senza bisogno di visti o passaporti? «Il fatto che avete ucciso Mendel Shpilman e mia sorella per impedirgli di rivelare ciò state facendo qui. Per poi usare i vostri contatti governativi tramite i qui presenti Roboy e Fligler per insabbiare l'incidente.» «E lei tutto questo l'ha scritto, giusto?» «Sì, dopodiché l'ho spedito al mio avvocato, che lo renderà pubblico qualora io dovessi, ad esempio, sparire all'improvviso dalla faccia della terra.» «Al suo avvocato.» «Esatto.» «E chi sarebbe questo avvocato?»
«Sender Slonim.» «Sender Slonim. Capisco» dice Baronshteyn, annuendo come se le affermazioni di Landsman l'avessero completamente convinto. «Ottimo ebreo, ma avvocato scadente.» Si fa scivolare giù dallo sgabello, e il tonfo dei suoi stivali pone fine all'interrogatorio del detenuto. «Sono soddisfatto. Amico Fligler.» Si sente uno snik, poi il fruscio di una suola sul linoleoum, e un attimo dopo Landsman vede un'ombra incombergli sull'occhio destro. Lo spazio tra la punta d'acciaio e la sua cornea si può misurare nel guizzo di un ciglio. Landsman sposta la testa di scatto, ma Fligler, all'altra estremità del coltello, lo afferra per un orecchio e tira. Landsman si raggomitola e cerca di rotolare giù dal ripiano. Fligler lo colpisce sulla ferita bendata con l'impugnatura del bastone, e dietro gli occhi di Landsman esplode una stella dai bordi frastagliati. Mentre Landsman è impegnato a risuonare come una campana di dolore, Fligler lo rivolta sulla pancia. Monta su di lui, e tirandogli indietro la testa gli appoggia il coltello sulla gola. «Non avrò il distintivo» dice Landsman con difficoltà. Si rivolge al dottor Roboy, che a naso gli pare il meno risoluto dei presenti. «Ma sono sempre uno sbirro. Se mi ammazzate la vostra piccola attività qui passerà un bel po' di guai.» «Credo di no» dice Fligler. «Con tutta probabilità no» concorda Baronshteyn. «Tra due mesi nessuno di voi sarà più un poliziotto.» Il sottile filo di carbonio e atomi di ferro che costituisce il tratto chiave della lama del coltello brucia un po' di più contro la trachea di Landsman. «Fligler» dice Roboy asciugandosi la bocca con una mano gigante. «Ti prego, Fligler» dice Landsman. «Tagliami la gola. Te ne sarò grato. Coraggio, fichetta.» Da dietro la porta della cucina si sente un ribollire concitato di voci maschili. Un paio di piedi struscia sul pavimento, titubante, sul punto di bussare. Non succede niente. «Che succede?» sbotta risentito Roboy. «Devo dirle una cosa, dottore» annuncia una voce, giovane, americana, in americano. «Non fate nulla» dice Roboy. «Aspettatemi.» Un attimo prima che la porta si richiuda alle spalle di Roboy,
Landsman sente una voce che attacca a parlare, una scarica di sillabe spigolose che la sua mente registra come semplici suoni gutturali. Fligler assesta in maniera più efficace il suo peso sulle reni di Landsman. Segue un piccolo imbarazzo da sconosciuti in ascensore. Baronshteyn consulta il suo pregiato orologio da polso svizzero. «Quante ne ho azzeccate?» chiede Landsman. «Giusto per sapere.» «Ah!» esclama Fligler. «Non mi faccia ridere.» «Roboy è un qualificato psicoterapeuta della riabilitazione» dice Baronshteyn con un'aria di paziente sopportazione, nonché un tono straordinariamente simile a quello di Bina quando si rivolge a uno dei cinque miliardi di individui, Landsman incluso, che fondamentalmente considera degli idioti. «Hanno davvero cercato di aiutare il figlio del Rebbe. Mendel è venuto qui in modo del tutto volontario. Quando poi ha deciso di andarsene, non sono riusciti a impedirglielo in alcun modo.» «E scommetto che la notizia le ha spezzato il cuore» dice Landsman. «Con questo cosa vorrebbe dire?» «Immagino che per lei un Mendel Shpilman disintossicato non costituisse minimamente una minaccia, vero? Per il suo status di erede diretto.» «Oy» dice Baronshteyn. «Le cose che non sa.» La porta si apre e Roboy rientra, aggrottando le sopracciglia. Un attimo prima che la porta della cucina si richiuda, Landsman intravede due giovani con la barba, vestiti in abiti scuri troppo stretti. Ragazzi grandi e grossi, uno con la lumaca nera di un auricolare raggomitolata nell'orecchio. Sul lato esterno della porta c'è una piccola targa: CUCINA ATTREZZATA GRAZIE AL GENEROSO CONTRIBUTO DI LANCE PEARLSTEIN E SIGNORA, PIKESVILLE, MARYLAND. «Otto minuti» dice Roboy. «Dieci al massimo.» «Sta arrivando qualcuno?» chiede Landsman. «Chi? Heskel Shpilman? O forse il rabbino non sa che lei è qui, Baronshteyn? È venuto a stringere un accordo con questa gente? Vogliono fare le scarpe ai Verbover? Che cosa volevano da Mendel? Pensavate di usarlo per forzare la mano al Rebbe?» «Secondo me dovrebbe andarsela a rileggere, quella sua lettera» osserva Baronshteyn. «Oppure farsi dire da Sender Slo-
nim cosa c'è scritto.» Da dietro la porta Landsman sente movimenti di persone, piedi di poltrone che stridono su un pavimento di legno. In lontananza il ronzio e i click di un motore elettrico, un golf cart che si allontana. «Non possiamo farlo adesso» dice Roboy avvicinandosi a Landsman, sovrastandolo. La barba folta gli copre il viso interamente, dagli zigomi in giù, salendo fin nelle narici, avviticchiandosi in ciuffi sottili sotto i lobi delle orecchie. «L'ultima cosa che vuole è scoprire che ci sono casini. D'accordo, detective.» La sua voce lenta si fa sciropposa, di colpo più calda. È pervasa da un'affettuosità di circostanza, e Landsman si irrigidisce, in attesa della cosa brutta che senz'altro preannuncia, e che alla fine si rivela essere soltanto una puntura nel braccio, rapida ed esperta. Nei torbidi istanti che precedono la perdita di coscienza, la lingua gutturale in cui Landsman ha sentito parlare Roboy gli risuona nelle orecchie come una registrazione, e Landsman vive un salto cognitivo impossibile, come l'improvvisa certezza che si ha in sogno di aver inventato una grande teoria, o scritto una poesia meravigliosa, che al mattino si rivelerà incomprensibile. Parlano, quelle persone dietro la porta, di rose e di olibano. Si stagliano in un vento del deserto, sotto palme da datteri, e c'è anche Landsman, in vesti ampie che riparano dal sole biblico; parlano ebraico, e sono tutti amici e fratelli l'uno con l'altro, e le montagne saltano come arieti, e le colline come agnelli.
Capitolo trentuno
Landsman si sveglia da un sogno in cui l'orecchio destro gli veniva maciullato dalle pale dell'elica di un Cessna 206. Si rigi ra sotto una coperta umidiccia, elettrica ma non collegata alla corrente, in una stanza non molto più grande della branda su cui è disteso. Si sfiora con circospezione un lato della testa. Nel punto in cui Fligler l'ha colpito la prima volta la carne è gonfia e umida. Anche la spalla sinistra gli fa un male cane. In una stretta finestrella davanti alla branda, veneziane di listelli metallici lasciano trapelare il grigio insoddisfatto di un pomeriggio dell'Alaska sudorientale. Non è luce quella che filtra dentro, quanto piuttosto un residuo di luce, un giorno pervaso da un vago ricordo del sole. Landsman tenta di mettersi a sedere e scopre che il motivo per cui la spalla gli fa così male è che qualcuno è stato tanto gentile da ammanettargli il polso sinistro a una delle gambe d'acciaio della branda. Con il braccio buttato sopra la testa, rigirandosi e dimenandosi nel sonno, Landsman si è praticato sulla spalla una sorta di chiropratica brutale. La stessa anima gentile che l'ha incatenato è stata così premurosa da togliergli i pantaloni, la camicia e la giacca, riducendolo, per l'ennesima volta, a un uomo in mutande. Si mette a sedere. Poi piano piano scende dal materasso, in modo da potersi mettere accovacciato, con il braccio sinistro in una posizione più naturale, il polso ammanettato appoggiato sul pavimento. Il pavimento è di linoleum giallo, ha il colore di un filtro di sigaretta usato, ed è freddo come lo stetoscopio di un medico legale. Ospita un'ampia collezione di ciuffi di polvere di forme e dimensioni varie, oltre alla scia curva di una mosca spiaccicata. Le pareti sono di cemento, coperto da una spessa mano lucida di azzurro dentifricio. Su quella accanto alla testa di Landsman una mano famigliare gli ha lasciato un breve messaggio nella linea di malta tra due blocchi di cemento: LA
CELLA
DI
DETENZIONE
È
STATA
REALIZZATA
GRAZIE
AL
GENEROSO
CONTRIBUTO DI NEAL E RISA NUDELMAN, SHORT HILLS, NEW JERSEY.
Gli verrebbe da ridere, ma la vista del buffo alfabeto di sua sorella in questo posto gli fa drizzare i capelli sulla nuca. Branda a parte, l'unico altro elemento d'arredo presente, nell'angolo accanto alla porta, è un cestino di metallo. Uno di quelli da bambini, azzurro e giallo, con il cagnolino Shnapish che saltella in un campo di margherite. Landsman lo fissa a lungo, pensando a nulla, pensando ai rifiuti dei bambini, e ai cani dei cartoni animati. Al misterioso disagio che gli ha sempre provocato Pluto, un cane che per padrone ha un topo, e che tutti i giorni deve fare i conti con l'orrore mutazionale di Pippo. Una nube di gas invisibile gli avviluppa i pensieri, gas di scarico di un autobus parcheggiato col motore acceso in mezzo al cervello. Landsman rimane accovacciato accanto alla branda per un altro minuto o giù di lì, tentando di raccogliere i pezzi di sé come un mendicante che cerca monete' su un marciapiede. Poi trascina la branda davanti alla porta e ci si siede. In un modo che è al tempo stesso metodico e forsennato comincia a prendere a calci la porta con i talloni nudi. È una porta di acciaio cavo, e quando la prendi a calci produce un fragore di tuono che per un attimo è piacevole, ma poi ti viene a noia. Landsman tenta quindi una serie di ripetute grida a squarciagola: «Aiutatemi, mi sono tagliato, sanguino!». Strilla finché la gola non gli fa male, e scalcia finché i piedi non gli pulsano di dolore. Alla fine si stanca di dare calci e strillare. Gli scappa da pisciare. Di brutto. Guarda il cestino della spazzatura, poi la porta. Saranno le tracce della sostanza che ha in corpo, o l'odio che prova per questa minuscola stanza in cui la sorella ha trascorso la sua ultima notte di vita, e per gli uomini che l'hanno rinchiuso lì dentro, ammanettato e nudo. Sarà che forse tutte quelle urla rabbiose hanno generato una rabbia autentica. Ma l'idea di essere costretto a pisciare in un cestino del cagnolino Shnapish gli fa proprio girare le palle. Trascina il letto sotto la finestra, e scosta rumorosamente le veneziane. La finestra è di vetro smerigliato. Increspature di un mondo verde e grigio, montate in una spessa cornice d'acciaio. Una volta - forse fino a non molto tempo fa - c'era una maniglia, ma questi ospiti tanto premurosi l'hanno tolta. E adesso per aprire la finestra c'è un modo solo. Landsman va a prendere
il cestino, trascinandosi dietro la branda come una metafora. Solleva il cestino, prende la mira, quindi lo scaglia contro il vetro smerigliato dell'alta finestra. Quello rimbalza, e gli si schianta in piena fronte. Un attimo dopo Landsman sente per la seconda volta nello stesso giorno il sapore del sangue, che dalla guancia gli cola su un angolo della bocca. «Shnapish, sei un bastardo» dice. Spinge la branda contro la parete più lunga, quindi, adoperandosi con la mano libera, fa scivolare il materasso per terra. Lo appoggia in verticale contro la parete opposta. Afferra l'intelaiatura della branda da entrambi i lati, e facendo leva sulle ginocchia la solleva da terra. Per un attimo rimane fermo, tenendo la traballante struttura in verticale, parallela al corpo. Vacilla sotto il suo peso improvviso, che non è molto, ma richiede ugualmente tutte le sue forze. Fa un passo indietro, abbassa la testa, quindi scaglia la branda contro la finestra, sfondandola. Il suo campo visivo si riempie di un misto abbagliante di erba verde e nebbia. Alberi, corvi, schegge di vetro penzolanti, le acque dello stretto, grigie come la canna di una pistola, un idrovolante bianchissimo con le rifiniture rosse. Poi la branda sfugge alla sua presa, e balza nel mattino al di là delle zanne di vetro spalancate. Da bambino, a scuola, Landsman prendeva ottimi voti in fisica. Meccaniche newtoniane, corpi a riposo e in movimento, azioni e reazioni, gravità e massa. Per lui la fisica aveva più senso di qualsiasi altra cosa abbiano mai provato a insegnargli. Un'idea come quella del momento di una forza, per esempio, la tendenza di un corpo a conservare il movimento. E dunque Landsman non dovrebbe sorprendersi più di tanto quando l'intelaiatura della branda non si accontenta di fracassare la finestra. Sente uno strattone secco sulle ossa della spalla, che gli fa schioccare le articolazioni, e di nuovo è colto dall'emozione senza nome che ha provato salendo in corsa sulla limousine della signora Shpilman: l'improvvisa consapevolezza, come un satori al contrario, di aver commesso un errore grave, se non addirittura fatale. Ma ecco la fortuna di Landsman: atterra su un cumulo di neve. È un mucchietto nascosto, duro da morire, rincantucciato all'ombra del lato nord del dormitorio. L'unica neve visibile in tutto il complesso, e Landsman ci cade sopra. I denti sbattono tra loro, risuonando ciascuno di una nota distinta, mentre l'im-
patto del sedere sul suolo sbriga le sue faccende newtoniane con il resto dello scheletro. Landsman alza la testa dalla neve. L'aria fredda gli investe il collo. Per la prima volta da quando ha spiccato il volo registra il fatto che sta congelando. Si alza, con la mandibola che ancora riecheggia l'urto. Sulla schiena ha striature di neve come segni di sferzate di fil di ferro. Barcolla e si sbilancia a sinistra trattenuto della branda, che lo aiuta a sedersi di nuovo nella neve. Ci affonda, la testa dolente si immerge nel cumulo di neve fredda e pulita. Landsman chiude gli occhi. Si rilassa. In quel momento sente un leggero fruscio di suole giungere da dietro l'angolo dell'edificio, due gomme che cancellano il segno del loro stesso passaggio. Un passo imperfetto, sobbalzante e strascicato come quello di uno zoppo. Landsman afferra l'intelaiatura della branda, la solleva e indietreggia contro la parete rivestita in legno dell'edificio. Appena vede uno scarponcino, il risvolto in tweed dei pantaloni di Fligler, spinge la branda in avanti con tutte le sue forze. Mentre Fligler svolta l'angolo, il bordo d'acciaio della branda lo colpisce in pieno volto. Una rossa mano di sangue gli allarga le dita sulle guance e sulla fronte. Il suo bastone vola in aria, quindi atterra sul marciapiede con una nota di marimba. La branda, quasi che senza il suo migliore amico si sentisse a disagio, trascina Landsman con sé, addosso a Fligler, in un ammasso unico. Le narici di Landsman si riempiono dell'odore del sangue di Fligler. Landsman si rialza, agguantando con la mano libera la sholem dalle dita allentate di Fligler. Solleva l'automatica, e per un attimo pensa di sparare all'uomo disteso a terra con una sorta di nera determinazione. Poi lancia un'occhiata verso l'edificio principale, centocinquanta metri più in là. Dietro le porte a vetri sul lato visibile si muovono varie sagome scure. La porta si spalanca, e poi subito si riempie dei musi a bocca aperta di alcuni giovani grandi e grossi. Landsman gli invidia la giovanile capacità di meravigliarsi, ma gli punta ugualmente la pistola contro. Quelli si abbassano e balzano indietro, e nel varco che si apre tra i corpi appare un uomo magro con i capelli biondi. Il nuovo arrivo, appena depositato dal suo idrovolante bianchissimo. I capelli sono davvero incredibili, come un raggio di sole accecante riflette su una lamina d'acciaio. Maglione di lana con disegni di renne, pantaloni di velluto larghi. Per un attimo l'uomo con il maglione di
lana guarda Landsman accigliato, confuso. Poi qualcuno lo trascina indietro, proprio mentre Landsman cerca di prendere la mira. La manetta gli affonda nel polso, abbastanza affilata da scorticargli la carne. Landsman sposta la mira, si punta la pistola contro il braccio sinistro. Fa partire un unico colpo preciso, e la manetta salta, libera, un braccialetto al polso. Landsman adagia l'intelaiatura della branda a terra con una vaga aria di rammarico, come se fosse il corpo senza vita di un domestico goffo ma fedele che ha servito i Landsman decorosamente. Poi si lancia di corsa verso il bosco, verso un varco tra gli alberi. Saranno almeno venti i giovani sani e forti che lo inseguono, lanciando grida, imprecazioni, ordini. Per il primo minuto Landsman si aspetta di vedere il fulmine ramificato di un proiettile nel cervello, e di cadere sotto il lento dispiegarsi del suo tuono. Ma non succede niente; devono aver ricevuto ordine di non sparare. L'ultima cosa che vuole è scoprire che ci sono casini. Landsman si ritrova a correre su una stradina sterrata, dal tracciato chiaro e ben curato, delimitato da paletti di metallo con catarifrangenti rossi. Gli torna in mente la macchia verde che ha intravisto dall'alto, al di là del bosco, punteggiata di cumuli di neve. Immagina che la stradina porti lì. E comunque da qualche parte deve portare. Corre in mezzo al bosco. Il terriccio della strada è coperto da uno spesso strato di aghi di conifere caduti che attutisce i tonfi dei piedi nudi. Gli sembra quasi di percepire il calore che abbandona il suo corpo, in onde tremolanti che sfilano dietro di lui come una scia. In bocca ha un retrogusto che è un ricordo dell'odore del sangue di Fligler. Le maglie della catena spezzata ciondolano dalla manetta tintinnando. Da qualche parte un picchio si frulla il cervello battendo contro il tronco di un albero. Anche il cervello di Landsman sta lavorando troppo, tentando di capire chi sono e cosa fanno queste persone. Il tipo zoppo con l'aria da studioso di cui ora stringe in mano la TEC-9. Il dottore con la fronte di cemento. Quella specie di dormitorio deserto. La clinica che clinica non è. I ragazzi ben piantati che si allenano nella proprietà. L'uomo con i capelli chiarissimi e il maglione a renne che non vuole casini. Nel frattempo un altro segmento del suo cervello è occupato a misurare la temperatura dell'aria - diciamo 2 o 3 °C - e in
base a quella calcolare, oppure ricordarsi una tabella che forse ha visto una volta in cui il dato era segnato, il tempo che impiega un poliziotto ebreo in mutande a morire assiderato. Ma le cellule che governano quel grande organo martoriato dalle botte e dalle droghe gli dicono solo di correre e di continuare a correre. Il bosco finisce all'improvviso, e Landsman si ritrova davanti a una rimessa, pannelli di acciaio grigio sagomato, niente finestre, un tetto di plastica ondulata. Appoggiate contro un fianco dell'edificio, vagamente scrotali, ci sono due bombole di propano. Qui il vento è più forte, e Landsman lo sente investirgli la carne come un getto d'acqua bollente. Corre sul lato opposto della rimessa. Si ferma sul bordo di uno spiazzo vuoto coperto di paglia. In lontananza, una fascia d'erba verde si dissolve nella nebbia in movimento. Dalla rimessa parte un sentierino di ghiaia che si allontana lungo il campo di paglia vuoto. Cinquanta metri più in là il sentierino si biforca. Un ramo svolta a est, verso la fascia d'erba verde. L'altro prosegue dritto e scompare nel folto di alberi scuri. Landsman si volta verso la rimessa. Su questo lato c'è una grande porta scorrevole. Landsman la apre rumorosamente. Attrezzature da refrigerazione smontate, indecifrabili pezzi di macchinari, una parete coperta da un arabesco di metri e metri di tubo di gomma nero. E, a destra della porta, uno di quei piccoli veicoli elettrici a tre ruote denominato Zumzum (dopo i cellulari della Shoyfar, il secondo prodotto più esportato dal distretto). Questo in particolare è dotato di una specie di pianale, ricoperto da uno strato di gomma nera sporca di fango. Landsman monta al volante. Per quanto abbia già freddo al sedere, per quanto sia freddo il vento che soffia dallo Yukon, il sedile di vinile dello Zumzum è ancora più freddo. Landsman preme con il pollice il pulsante dell'accensione. Schiaccia il pedale e, con un tunk e un ronzio di cambio differenziale, parte. Raggiunge la biforcazione del sentierino, e per un attimo esita tra il bosco e quella tranquilla fascia d'erba verde che scompare nella nebbia come una promessa di pace. Poi pigia sul pedale a tavoletta. Un attimo prima di immergersi nella boscaglia si volta indietro, e vede gli ebrei di Perii Strait che lo inseguono. Una grossa Ford Caudillo nera che svoltando l'angolo della rimessa schizza ghiaia. Landsman non capisce da dove sia saltata fuori, o anche
solo come abbia fatto ad arrivare fin lì; dall'aereo non ha visto traccia di automobili. È a cinquecento metri di distanza dallo Zumzum di Landsman, e guadagna terreno rapidamente. Nel bosco la ghiaia lascia il posto a un sentiero irregolare di terra battuta, che si snoda tra alcuni splendidi abeti di Sitka, alti e misteriosi. Avanzando, Landsman intravede fra gli alberi un'alta recinzione metallica, in cima alla quale fanno capolino simpatiche spirali di filo spinato. Nelle sue maglie d'acciaio sono infilate stecche di plastica verde. Qua e là nella tessitura verde della recinzione appaiono varchi, al di là dei quali Landsman intravede un'altra rimessa di metallo, una radura, pali, travi, cavi che si intrecciano. Un'enorme struttura tenuta insieme da una ragnatela di reti portacarichi, spirali svolte di filo spinato, corde che penzolano libere. Potrebbe essere una struttura sportiva, una specie di campo da gioco terapeutico per i pazienti in cura. Certo, e quelli sulla Ford Caudillo lo stanno inseguendo per restituirgli i pantaloni. Ora l'auto nera è a meno di duecento metri da lui. Il passeggero davanti abbassa il finestrino e si arrampica fuori, sedendosi sul tettuccio e aggrappandosi con una mano al portabagagli. Con l'altra, osserva Landsman, si prepara a fare fuoco con una pistola. È un giovane biondo con la barba, in abito nero, capelli cortissimi, cravatta sobria come quella di Roboy. Ci mette un po' a prendere la mira, perché la posizione dello Zumzum cambia in continuazione. Poi intorno alla sua mano sboccia un lampo, e il retro dello Zumzum esplode con un fracasso e una pioggia di schegge di fibra di vetro. Landsman caccia un urlo, e preme sull'acceleratore ancor di più. Alla faccia di quelli che non vogliono casini. Procede sobbalzando per inerzia altri due o tre metri, quindi si ferma. Il giovane appeso al finestrino della Caudillo solleva l'arma e si prende qualche secondo per valutare gli effetti del primo sparo. Il foro frastagliato nel corpo in fibra di vetro dello Zumzum probabilmente lo delude un po'. Però può essere contento del fatto che il suo bersaglio mobile ora è diventato immobile. Il prossimo colpo sarà molto più facile. Il ragazzo abbassa di nuovo l'arma, con una lentezza paziente che è quasi ostentata, quasi crudele. In quella precauzione e nell'atteggiamento parsimonioso nei confronti dei proiettili Landsman percepisce il marchio di fabbrica di un addestramento rigoroso, e di una tensione da atleta verso l'eternità.
La resa si dispiega sul cuore di Landsman come l'ombra di una bandiera. Impossibile battere in velocità la Caudillo, non con uno Zumzum che quand'è in buona al massimo fa i venticinque all'ora. Una coperta calda, magari una bella tazza di tè; a questo punto gli sembrano una ricompensa adeguata per il fallimento. La Caudillo sfreccia rapida verso di lui, poi di colpo inchioda, sollevando una nube di aghi caduti. Tre delle sue portiere si spalancano e tre uomini scendono, giovani marcantoni in abiti della taglia sbagliata e scarpe nero meteorite, che puntano le pistole automatiche contro Landsman. In mano loro le pistole sembrano vibrare, come se contenessero esseri vivi o giroscopi. I ragazzi che le impugnano riescono a malapena a contenerne il movimento. Ragazzi duri, con le cravatte che svolazzano, le barbe ben sforbiciate lungo la mandibola, zucchetti come piattini da caffè all'uncinetto. La portiera posteriore sul lato dell'auto rivolto verso Landsman rimane chiusa ma, dietro, lui intravede la sagoma di un quarto uomo. I ragazzi duri si avvicinano a Landsman, con i loro abiti tutti uguali, i tagli di capelli rigorosi. Landsman si alza e si volta verso di loro con le mani alzate. «Vi hanno clonati, vero?» dice, mentre i tre duri lo circondano. «Alla fine del film si scopre sempre che erano cloni.» «Silenzio» dice il ragazzo più vicino a lui, in americano, e Landsman sta per ubbidire, quando sente un rumore, come di un oggetto al tempo stesso fibroso e morbido che lentamente viene strappato in due. Nel tempo che impiega a leggere negli occhi dei ragazzi che anche loro l'hanno sentito, il suono si fa più nitido, trasformandosi in una serie di colpi secchi e continui, un foglio di carta impigliato nelle pale di un ventilatore. Il suono diventa più forte e più stratificato. I colpi di tosse di un vecchio. Una chiave inglese pesante che cade sul cemento. La flatulenza di un palloncino scoppiato che sfreccia per il salotto e fa cadere una lampada. Tra gli alberi appare una lucina, che guizza e si avvita come un bombo, e Landsman di colpo capisce cos'è. «Dick» dice, semplicemente e non senza sorpresa, e un profondo brivido lo scuote fino alle ossa. La luce è una vecchia lampadina a sei volt, non più potente di una grossa torcia, pallida e tremolante nell'oscurità del bosco di abeti. Il motore che spinge la luce verso il gruppetto di persone è un V-twin assemblato su ordinazione. Si sentono le molle della forcella anterio-
re che registrano ogni dislivello nel sentiero. «'Fanculo a lui» bofonchia uno dei ragazzi. «E alla sua cazzo di moto giocattolo.» Landsman ha sentito tante storie sull'ispettore Willie Dick e sulla sua motocicletta. Alcuni dicono che fu fabbricata appositamente per un milionario di Bombay che da adulto era più basso della media, altri che inizialmente fu offerta come regalo per il tredicesimo compleanno del principe del Galles, e altri ancora che un tempo è appartenuta al nano funambolo di un circo del Texas o dell'Alabama o di qualche altro posto esotico. A una prima occhiata è una normale Royal Enfield Crusader del 1961, grigio piombo alla luce del sole, con le incredibili rifiniture cromate restaurate con cura. Bisogna avvicinarcisi, o vederla accanto a una moto di dimensioni normali, per rendersi conto che è fabbricata in scala due terzi. Willie Dick, pur essendo un adulto di trentasette anni, è alto un metro e quaranta. Dick romba accanto allo Zumzum, si ferma in un cigolio di freni, spegne l'anziano motore inglese. «Ma che cazzo...?» dice, sfilandosi i guanti, che sono neri, di pelle, tipo quelli di un Max von Sydow nei panni di Erwin Rommel. La sua voce è sempre sorprendentemente calda e profonda, considerata la corporatura da ragazzino. Il suo sguardo compie un lento giro di ricognizione sul fiore all'occhiello delle forze dell'ordine ebraiche. «Detective Meyer Landsman!» Si volta verso i ragazzi duri, e ne esamina la durezza. «Signori.» «Ispettore Dick» risponde quello che ha detto a Landsman di fare silenzio. Ha un'aria da galera, affilata e furtiva, come uno spazzolino limato fino a diventare coltello. «Che cosa la porta nella nostra zona di bosco?» «Con tutto il dovuto rispetto, signor Gold - è Gold, vero? Sì questa è la mia stronzissima zona di bosco.» Dick si scosta dal gruppo raccolto intorno a Landsman. Lancia un'occhiata verso l'ombra che sta osservando la scena da dietro la portiera chiusa della Caudillo. Landsman non ne è sicuro, ma chiunque sia non sembra abbastanza grosso per essere Roboy, né l'uomo biondissimo col maglione a renne. Una piccola ombra curva, guardinga e vigile. «Ero qui prima che arrivaste voi, e ci sarò ancora un bel po' dopo che ve ne sarete andati.» Il detective capo Wilfred Dick è un tlingit purosangue, discendente di quel capo Dick che inflisse l'ultima perdita attestata nella storia dei rapporti tra russi e tlingit, sparando e ucci-
dendo un sommergibilista russo abbandonato a se stesso e mezzo morto di fame che aveva beccato a depredare le sue gabbie per granchi a Stag Bay nel 1948. Willie Dick è sposato e ha nove figli, tutti avuti dalla sua prima e unica moglie, che Landsman non ha mai visto. Ovviamente corre voce che sia una gigantessa. Nel 1993 o nel 1994 Dick riuscì a terminare la Iditarod Dogsled Race, una famosa corsa di slitte trainate da cani, arrivando nono tra le quarantasette persone che raggiunsero il traguardo. Si è laureato in criminologia alla Gonzaga University di Spokane, Washington. Il primo atto da lui compiuto come maschio adulto della sua tribù è stato viaggiare, a bordo di una vecchia baleniera Boston, dal villaggio Dick sulle rive della Stag Bay al quartier generale della polizia tribale di Angoon, al fine di convincere il sovrintendente a chiudere un occhio, espressamente per lui, sulla statura minima richiesta per gli ufficiali di polizia tribale. Gli aneddoti su come ci riuscì sono calunniosi, salaci, poco credibili, oppure un misto di tutte e tre le cose. Willie Dick possiede tutti i difetti degli uomini molto bassi e molto intelligenti: è vanitoso, arrogante, ipercompetitivo, e ha una memoria da elefante per gli insulti e gli affronti. Ma è anche onesto, caparbio e impavido, e deve a Landsman un favore. Anche per i favori Dick ha una memoria da elefante. «Sto cercando di capire cosa cazzo sta succedendo, e tutte le ipotesi che mi vengono in mente sono una più assurda dell'altra» dice. «Questo signore è ricoverato qui» dice Gold. «Ma ha provato ad andarsene un po' in anticipo.» «E per questo volevate sparargli» dice Dick. «Bella terapia di merda! Cazzo, gente, cos'è, Freud puro?» Si volta verso Landsman e lo scruta dalla testa ai piedi. Il volto di Dick è scuro e perfino bello, a suo modo, con occhi accesi che si muovono sotto una fronte saggia, il mento con la fossetta, un naso dritto e regolare. L'ultima volta che Landsman l'ha visto, Dick ha continuato per tutto il tempo a mettersi e togliersi un paio di occhiali da lettura che teneva nel taschino della camicia. Ora si è arreso alla senescenza, adottando un paio di occhiali italiani color nero e acciaio spazzolato, di quelli che certi chitarristi rock inglesi ormai anzianotti sfoggiano nelle interviste impegnate. Indossa un paio di jeans neri, stivali neri da cow-boy e una camicia scozzese rossa e nera con il colletto aperto. Sulle spalle porta, come sempre, una specie di cor-
ta mantella, fissata da un laccio di cuoio grezzo intrecciato, e ricavata dalla pelle di un orso che ha cacciato e ucciso lui stesso. È un personaggio un po' affettato, Willie Dick - fuma sigarette di tabacco nero - ma come detective della Omicidi è valido. «Cristo di Dio, Landsman. Sembri un feto di porco in salamoia che ho visto una volta in un barattolo.» Scioglie il laccio di cuoio con le dita di una mano, dopodiché si scrolla la mantella dalle spalle. La lancia a Landsman. Per un attimo sul suo corpo è fredda come acciaio, poi meravigliosamente calda. Dick mantiene quel suo mezzo ghigno beffardo, ma per il bene di Landsman - perché solo Landsman se ne rende conto - cancella dal suo sguardo ogni traccia residua di ironia. «Ho parlato con la tua ex moglie» dice quasi in un sussurro, con il tono di voce che usa per minacciare la gente che interroga e intimidire i testimoni. «Dopo che ho ricevuto il tuo messaggio. Una cazzo di talpa africana senza occhi avrebbe più diritto di te di stare qui, Landsman.» Alza la voce, rendendola quasi teatrale. «Detective Landsman, che fine ho detto che facevo fare a quel tuo culo da ebreo se ti beccavo di nuovo a scorrazzare nudo nella zona indiana?» «N-non me lo ricordo» dice Landsman, colto da un violento tremito di gratitudine e assideramento. «Hai d-detto un sacco di cose.» Dick si avvicina alla Caudillo, e bussa sulla portiera chiusa come se volesse entrare. La portiera si apre, e al di là di quella Dick conversa in toni sommessi con chiunque sia seduto lì dentro, al calduccio. Poco dopo torna indietro e dice a Gold: «Il suo capo le vuole parlare». Gold aggira la portiera aperta e va a parlare con il suo capo. Quando torna ha una faccia che sembra gli abbiano sfilato le adenoidi dalle orecchie, e che la colpa sia tutta di Landsman. Annuisce, una volta sola, guardando Dick. «Detective Landsman» dice Dick. «Non sai quanto mi rompe il cazzo, ma sei in arresto.»
Capitolo trentadue
Al pronto soccorso dell'ospedale indiano di St. Cyril, il dottore indiano dà un'occhiata a Landsman e stabilisce che può tranquillamente essere sbattuto in cella. Si chiama Rau, ed è di Madras, e ha già sentito tutte le battute che c'erano da sentire. Ha una bellezza alla Sal Mineo, grandi occhi color ossidiana e la bocca come una rosellina di zucchero su una torta. Principio di assideramento ma nient'altro di serio, sebbene, a un'ora e quarantasette minuti dal momento in cui l'hanno salvato, Landsman non riesca ancora a scacciare i tremiti che dalle faglie sotterranee gli scuotono il corpo. Ha freddo fin nelle cavità delle ossa. «Dov'è il cagnolone con la fiaschetta di brandy appesa al collo?» dice Landsman quando il dottore gli dice che può togliersi la coperta e indossare la divisa da detenuto accuratamente piegata accanto al lavandino. «Quando arriva?» «Le piace il brandy?» dice il dottor Rau, come se leggesse da un frasario, e non avesse il minimo interesse né per quella domanda né per qualsiasi risposta che Landsman possa dare. Landsman lo cataloga istantaneamente come un classico tono da interrogatorio, così freddo che brucia. Lo sguardo del dottor Rau resta ostinatamente fisso su un angolo vuoto della stanza. «Sente di averne bisogno?» «Chi ha parlato di bisogno?» dice Landsman, armeggiando con i bottoni della patta di un paio di pantaloni lisi. Casacca da lavoro di cotone, scarpette di tela senza lacci. Vogliono vestirlo come un ubriacone, o un barbone da spiaggia, o qualche altro sfigato che si presenta all'ospedale nudo, senza un tetto e senza mezzi di sostentamento. Le scarpe sono troppo grandi, ma per il resto tutto gli calza a pennello. «Nessun desiderio impellente?» C'è un briciolo di cenere nella A del cartellino con il nome del dottore. Lui lo toglie con un'unghia. «In questo momento non sente il bisogno di bere
dell'alcol?» «Forse ne ho solo voglia» dice Landsman. «Questa ipotesi non la considera?» «Forse» dice il dottore. «O forse ha solo una passione per i cani grossi e bavosi.» «Okay, dottore, basta così» dice Landsman. «Niente giochetti.» «D'accordo.» Il dottor Rau gira il viso paffuto verso Landsman, e le iridi dei suoi occhi sembrano di ghisa. «In base ai miei accertamenti, detective Landsman, direi che lei è in crisi di astinenza da alcol. Oltre a un principio di assideramento presenta disidratazione, tremore, palpitazioni, e ha le pupille dilatate. Carenza di zuccheri nel sangue, il che mi dice che probabilmente non mangia da un pezzo. La perdita dell'appetito è un altro sintomo dell'astinenza. Ha la pressione alta, e a quanto ho capito ultimamente i suoi comportamenti sono stati alquanto instabili. Se non violenti.» Landsman si tira i lembi arricciati del colletto della casacca da lavoro, cercando di lisciarli. Ma quelli, come veneziane da due soldi, continuano a riavvolgersi. «Dottore» dice «anch'io ho la vista a raggi X, e rispetto la sua perspicacia. Ma la prego, mi dica una cosa: se l'India stesse per essere cancellata, e di qui a due mesi lei e tutte le persone a cui vuole bene veniste gettati tra le fauci del lupo, senza un posto dove andare, e nessuno a cui freghi un cazzo, e se mezzo mondo avesse passato qualche migliaio di anni a cercare di far fuori tutti gli indiani, non pensa che anche lei comincerebbe a bere?» «Forse. O forse mi metterei a blaterare cose senza senso al primo medico che incontro.» «Il cane con la fiaschetta non fa lo spiritoso con chi è quasi morto congelato» dice Landsman malinconico. «Detective Landsman.» «Dica, dottore.» «Sono undici minuti che la visito, e in questo lasso di tempo lei ha già fatto tre monologhi. O per meglio dire, sproloqui.» «Già» dice Landsman, e ora sì che il sangue finalmente ricomincia a scorrergli: nelle guance. «A volte mi capita.» «Ama fare monologhi?» «Ogni tanto.» «Crisi di logorrea.»
«È un'espressione che ho già sentito.» Per la prima volta Landsman si accorge che il dottor Rau sta masticando qualcosa di nascosto, con i denti in fondo. Dalle labbra rosa glassa esce un lieve aroma di anice. Il dottore prende un appunto sulla sua cartella clinica. «Attualmente è in cura da uno psichiatra, o assume farmaci contro la depressione?» «Depressione? Le sembro depresso?» «È una parola come un'altra» dice il dottore. «Sto cercando eventuali sintomi. Da ciò che mi ha raccontato l'ispettore Dick e dalla mia anamnesi mi sembra quantomeno possibile che lei soffra di un qualche disturbo dell'umore.» «Non è il primo a dirlo» osserva Landsman. «Mi spiace deluderla.» «Prende farmaci?» «Ci mancherebbe.» «Ci mancherebbe?» «No. Non voglio.» «Non vuole.» «Ho... come dire... Paura di perdere la lucidità.» «E per questo beve» dice il dottore, e adesso le sue parole a Landsman sembrano screziate da un sardonico aroma di liquirizia. «Ho sentito dire che l'alcol fa meraviglie per la lucidità.» Si alza, va ad aprire la porta, e uno sbirro indiano entra per portare via Landsman. «Per esperienza posso dirle, se me lo consente, detective Landsman» dice il dottore apprestandosi anche lui a chiudere il suo piccolo monologo «che chi si preoccupa di perdere la lucidità spesso non si accorge di aver già perduto molto più di quella, e da tanto tempo.» «Così parla lo swami» dice lo sbirro indiano. «Lo porti in cella» dice il dottore, gettando la cartella di Landsman nel vassoio fissato al muro. Lo sbirro indiano ha una testa come una pigna di sequoia, e la peggior acconciatura che Landsman abbia mai visto, una specie di ibrido contronatura tra una pompadour e un taglio da marine. Accompagna Landsman attraverso una serie di corridoi anonimi, su per una rampa di scale di ferro, in uno stanzino nella parte più interna della prigione di St. Cyril. La porta è normale, d'acciaio, senza sbarre. Dentro è discretamente pulito e discretamente illuminato. Sul lettino ci sono un materasso, un cuscino e una coperta, ripiegata impeccabilmente. Il gabinetto
ha l'asse. Imbullonato al muro c'è uno specchio di metallo. «È la suite per i VIP» dice lo sbirro indiano. «Dovrebbe vedere dove vivo» dice Landsman. «È quasi altrettanto bello.» «Niente di personale» dice lo sbirro. «È il detective capo che mi ha detto di dirglielo.» «Lui dov'è?» «A cercare di sistemare la faccenda. Se quelli decidono di sporgere querela gli arriva addosso una valanga di merda in nove gusti diversi.» Un ghigno privo di ironia gli deforma il viso. «L'ha conciato piuttosto male, quel vecchio zoppo.» «Chi sono quelle persone, sergente?» chiede Landsman. «Cosa cazzo fanno lassù?» «È una casa di cura» dice il sergente, con la stessa bruciante assenza di emozioni con cui il dottor Rau ha formulato le domande sull'alcolismo di Landsman. «Per i giovani ebrei vittime di flagelli come il crimine e la droga. O almeno questo è quello che ho sentito. Si faccia un pisolino, detective.» Quando lo sbirro se ne va Landsman si mette a letto, tirandosi la coperta fin sopra la testa, e prima di poterselo impedire, prima ancora che abbia il tempo di sentire qualcosa e rendersi conto che la sta sentendo, un singhiozzo si svita da una qualche nicchia in profondità e va a riempirgli la trachea. Le lacrime che gli bruciano gli occhi sono come il tremore alcolico. Non servono a nulla, e non riesce a dominarle. Si stringe il cuscino sulla faccia, e si rende conto per la prima volta della solitudine in cui Naomi l'ha lasciato. Nel tentativo di calmarsi ripensa a Mendel Shpilman, sul letto della stanza 208. Immagina di distendersi anche lui sul lettino di quella cella con la tappezzeria alle pareti, a ripassare mentalmente le mosse della seconda partita di Alekhine contro Capablanca a Buenos Aires, nel 1927, mentre la roba gli trasformava il sangue in un fiume di zucchero in piena, e il cervello in una lingua con cui leccarlo. In passato gli hanno fatto provare l'abito dello Tzaddik Ha-Dor, e lui ha stabilito che era una camicia di forza. D'accordo. Poi un sacco di anni buttati via. Vendendo partite di scacchi in cambio di soldi per la droga. Vivendo in alberghi squallidi. Nascondendosi dai destini incompatibili scelti per lui dai suoi geni e dal suo Dio. Poi un bel giorno qualcuno lo ritrova, gli dà una ripulita e se lo porta a Perii Strait. Dove c'è un dottore. Un complesso costruito grazie al
generoso contributo dei Barry e dei Marvin e delle Susie dell'America ebraica, dove possono disintossicarlo, rimetterlo in piedi. Ma perché? Perché lui a loro serve. Perché vogliono rimetterlo in condizione di poter essere usato. E lui ci vuole andare, con questa gente. Accetta. Naomi non avrebbe mai trasportato in aereo Shpilman e la sua scorta, se avesse subodorato una qualche forma di coercizione. Perciò dev'esserci un qualche vantaggio - soldi, la promessa di farlo guarire e restituirlo alla gloria, la rinconciliazione con la famiglia, una ricompensa finale in droga - che Shpilman intravede. Poi però, quando arriva a Perii Strait per rifarsi una vita, qualcosa gli fa cambiare idea. Qualcosa che viene a sapere, o di cui si rende conto, o che vede con i propri occhi. O forse si fa solo prendere dalla paura. E chiede aiuto alla donna che per un numero imprecisato di persone, di solito tra le più disastrate, è stata l'unica amica al mondo. E Naomi torna a prenderlo, modificando il piano di volo a metà strada, e gli trova un passaggio per un motel a poco prezzo dalla figlia dell'uomo delle torte. Per punire la tracotanza di Naomi, questi ebrei misteriosi fanno in modo che il suo aereo si schianti. Poi partono a caccia di Mendel Shpilman, che è tornato a nascondersi. Dalle sue vite possibili. Steso sul suo letto allo Zamenhof, a pancia in giù, troppo stravolto, ora, per pensare ad Alekhine e Capablanca e al gambetto di regina rifiutato. Troppo stravolto per sentire che bussano alla porta. «Mica devi bussare, Berko» dice Landsman. «Questa è una prigione.» Si sente un tintinnio di chiavi, poi lo sbirro indiano apre la porta. Dietro di lui c'è Berko Shemets. Si è vestito come se dovesse partire per un safari in mezzo ai boschi. Jeans, camicia di flanella, scarponcini da montagna di cuoio con le stringhe, un giubbetto grigiomarrone da pescatore dotato di settantadue tra tasche, sottotasche e sotto-sottotasche. A una prima occhiata si direbbe un tipico, anche se piuttosto corpulento, contrabbandiere dell'Alaska. Lo stemmino a forma di giocatore di polo che orna la camicia si vede appena. Il solito discreto zucchetto di Berko ha lasciato spazio a un cappello ricamato più grosso, cilindrico, una specie di fez in miniatura. Berko tende a calcare la mano sul lato ebraico, quand'è costretto a tornare nelle Indianer-Lands. Da quella distanza Landsman non può averne la certezza, ma probabilmente il suo collega si è anche messo i gemelli con la stella di Davide.
«Mi dispiace» gli dice Landsman. «So che lo dico sempre, ma stavolta, credimi, non potrei essere più sincero.» «Questo lo vedremo» risponde Berko. «Muoviti, ci vuole vedere.» «Chi?» «L'imperatore di Francia.» Landsman si alza dal letto, va al lavandino, si butta in faccia un po' d'acqua. «Posso andare?» chiede allo sbirro indiano mentre esce dalla porta della cella. «Questo vuol dire che esco?» «Lei è libero» risponde lo sbirro. «Non creda» dice Landsman.
Capitolo trentatré
Dal suo ufficio d'angolo al pianterreno della caserma di St. Cyril, il detective capo Dick può godersi una bella vista sul parcheggio. Sei cassonetti corazzati e sigillati come vergini d'acciaio contro gli orsi. Al di là dei cassonetti, un prato subalpino. Poi, coperto da uno strato di neve, il muro da ghetto che tiene gli ebrei a bada. Dick è spaparanzato contro lo schienale della sua poltroncina da scrivania in scala due terzi, con le braccia incrociate, il mento appoggiato sul petto, e guarda fuori dalle finestre a battenti. Non le montagne, né il prato, grigioverde nella luce tarda, impennacchiato di nebbia, e nemmeno i cassonetti blindati. Il suo sguardo non si spinge più in là del parcheggio, più in là della sua Royal Enfield Crusader del 1961. Landsman riconosce l'espressione sul volto di Dick. È la stessa che accompagna la sensazione che lui prova quando guarda la sua Chevelle SuperSport, o il viso di Bina Gelbfish. La faccia di un uomo che si sente nato nel mondo sbagliato. Ci dev'essere un errore: quello non è il suo posto. Ogni tanto sente il cuore impigliarsi, come un aquilone in un filo del telefono, in qualcosa che sembra promettergli un posto nel mondo da chiamare casa, o un modo per raggiungerlo. Un'automobile americana fabbricata durante la sua ormai lontanissima infanzia, per esempio, o una motocicletta un tempo appartenuta al futuro re d'Inghilterra, o il viso di una donna che più di lui merita di essere amata. «Spero tu sia vestito» dice Dick senza distogliere lo sguardo dalla finestra. Il barlume di malinconia nei suoi occhi si è spento. Sul suo viso non succede più nulla. «Perché dopo quello che ho visto lassù nel bosco, Landsman, Cristo di Dio... Per poco non devo bruciare la mia cazzo di pelle d'orso.» Finge di rabbrividire. «Il popolo tlingit non mi paga abbastanza da poter compensare la vista di te in mutande.» «Il popolo tlingit» dice Berko Shemets, pronunciando la fra-
se come se fosse il nome di una truffa famosa, o l'annuncio del preteso ritrovamento di Atlantide. Poi impone la sua mole al mobilio dell'ufficio di Dick. «Perché, è ancora il popolo tlingit a pagarti lo stipendio? Un attimo fa Meyer mi diceva che forse non è più così.» Adesso Dick si volta, lento e indolente, sollevando un angolo di labbro superiore a scoprire un po' di incisivi e canini. «Johnny l'ebreo» dice. «Ma chi si vede. Col cappellino della squadra e tutto quanto. Tu invece ultimamente mi sembra che non hai avuto problemi a recitare le tue preghiere sulle frittelle azzime.» «Vaffanculo, Dick, brutto nano antisemita.» «Vaffanculo tu, Johnny, con le tue insinuazioni di merda sulla mia integrità di poliziotto.» Nel suo tlingit ricco ma arrugginito, Berko esprime il desiderio di vedere un giorno Dick giacere morto e senza scarpe nella neve. «Vai a cacare nell'oceano» risponde Dick in perfetto yiddish. Si avvicinano l'uno all'altro, e l'uomo grande stringe quello piccolo in un abbraccio. Si danno pacche sulla schiena, cercando i focolai tubercolotici di un'amicizia in lenta agonia, facendo risuonare come tamburi i recessi di un'ostilità antica. Nell'infelice anno che precedette la sua fuga verso il fronte ebraico della sua natura, prima che sua madre fosse travolta da una cannonata di ebrei in rivolta, il giovane Johnny Orso scoprì il basket e Wilfred Dick, che all'epoca, col suo metro e ventisette di statura, giocava nell'azzeccatissimo ruolo di piccola guardia. Si odiarono a prima vista, di quel grande odio romantico che nei maschi tredicenni risulta indistinguibile dall'amore, o è quanto di più simile possano provare. «Johnny Orso, cazzo!» dice Dick. «Brutto bestione ebreo!» Berko si stringe nelle spalle, massaggiandosi il collo con l'aria impacciata di un tredicenne che ha appena visto un esserino basso e cattivo schizzargli accanto diretto al canestro. «Ciao, Willie D.» gli fa. «Siediti, ciccione del cazzo» dice Dick. «Anche tu, Landsman, con quelle schifose lentiggini che hai sulle chiappe.» Berko sorride, e si siedono tutti, Dick dietro la sua scrivania, i poliziotti ebrei dall'altra parte. Le due sedie per gli ospiti sono di dimensioni standard, così come le mensole e tutti gli altri mobili dell'ufficio, tranne la scrivania e la poltrona di Dick.
L'effetto è da casa degli specchi: fa venire la nausea. O forse è solo un altro sintomo dell'astinenza da alcol. Dick tira fuori le sue sigarette di tabacco nero e spinge un posacenere sulla scrivania verso Landsman. Si adagia contro lo schienale della poltrona e appoggia gli stivali sulla scrivania. Ha le maniche della camicia Woolrich arrotolate, gli avambracci nodosi e scuri. Qualche pelo grigio riccio fa capolino dal colletto aperto, e piegati nel taschino ci sono i suoi occhiali chic. «Non sai quante altre persone preferirei avere davanti in questo preciso istante» dice. «Milioni, letteralmente.» «E allora chiudi gli occhi, stronzo» suggerisce Berko. Dick ubbidisce. Le sue palpebre sono lucide e scure, quasi livide. «Landsman» dice, come gustandosi la cecità, «la stanza com'era?» «Per i miei gusti le lenzuola profumavano un po' troppo di lavanda» risponde Landsman. «Ma a parte questo non posso lamentarmi.» Dick apre gli occhi. «Ho avuto la fortuna, da quando lavoro nelle forze dell'ordine di questa riserva, di avere a che fare con gli ebrei relativamente poche volte» esordisce. «Ah, e prima che vi facciate venire un attacco di nervi per via del mio presunto antisemitismo, consentitemi di dichiarare fin d'ora che non me ne frega un beneamato cazzo se quello che dico può offendere voi e la vostra astinenza dal maiale, e che anzi, fondamentalmente spero di riuscirci. Questo ciccione sa benissimo, o comunque dovrebbe, che io odio tutti quanti nella stessa misura e senza sconti, indipendentemente dal credo religioso o dal DNA.» «Inteso» dice Berko. «Per noi è reciproco» aggiunge Landsman. «Quello che voglio dire è che per me "ebreo" non significa un cazzo, se non qualcosa come mille strati di bugie placcate di politica e lucidate fino a farle splendere. Di conseguenza credo - per la precisione - a un cazzo virgola due per cento di ciò che mi ha raccontato questo sedicente dottor Roboy (le cui credenziali, tra parentesi, sono risultate legittime, anche se con un po' di fanghiglia sul fondo) a proposito della tua allegra corsetta in mutande per i boschi, Landsman, con un cowboy ebreo che dietro di te giocava al tiro al bersaglio dal finestrino dell'auto.» Landsman apre la bocca per cominciare a spiegare, ma Dick
alza una delle sue mani da ragazzina, con unghie lucide e curate. «Fammi finire. Quanto a questi signori, Johnny, non sono loro a pagarmi lo stipendio, stronzo che non sei altro. Ma si dà il caso che, per vie che a me non è dato di comprendere, e su cui francamente non ho un cazzo di voglia di fare ipotesi, questi signori abbiano degli amici, amici tlingit, e loro sì che mi pagano lo stipendio, o per meglio dire siedono nel consiglio che lo fa. E se questi anziani saggi della tribù mi fanno capire che non gli dispiacerebbe se arrestassi il tuo compare e lo sbattessi dentro per violazione di proprietà privata ed effrazione, per non parlare dell'indagine non autorizzata che stava portando avanti, allora io lo devo fare. Quei furbacchioni di Perii Strait, e so che sapete quanto mi duole dirlo, sono, nel bene e nel male, i miei fottutissimi furbacchioni. E la loro struttura, fintanto che la occupano, rientra a pieno titolo nelle competenze e sotto la protezione delle forze dell'ordine tribali. Anche se, dopo che mi sono preso la briga di venire a salvare il tuo culo lentigginoso, ti ho trascinato qui e ti ho dato un letto a nostre spese, potessi morire se quei coglioni non sembrano aver perso ogni interesse per te.» «A proposito di crisi di logorrea» dice Landsman a Berko. Poi, a Dick: «Qui c'è un dottore... secondo me dovresti farti vedere». «Ma per quanto abbia voglia di rispedirti dalla tua ex moglie perché ti appenda per il culo a un gancio» prosegue Dick implacabile «e per quanto mi sforzi di mordermi la lingua, proprio non ce la faccio a lasciarti andare senza prima farti una domanda, anche sapendo in anticipo che siete tutti e due ebrei, a modo vostro, e che qualsiasi risposta mi darete non farà che aumentare gli strati di cazzate che già adesso mi stanno accecando con il loro ebraico splendore.» Aspettano la domanda, e la domanda arriva, e i modi di Dick si fanno più duri. Ogni traccia di verbosità e ironia scompare. «Stiamo parlando di un omicidio?» chiede. «Sì» dice Landsman, nello stesso istante in cui Berko dice: «Ufficialmente no». «Due» insiste Landsman. «Due, Berko. Io metto nel conto anche Naomi.» «Naomi?» dice Berko. «Meyer, che cazzo dici?» Landsman racconta tutto, dall'inizio, senza omettere nessun
dettaglio rilevante, da quando hanno bussato alla porta della sua stanza allo Zamenhof al colloquio con la signora Shpilman, dalla figlia dell'uomo delle torte che l'ha portato ai piani di volo fino alla presenza a Perii Strait di Aryeh Baronshteyn. «Ebraico?» dice Berko. «Messicani che parlano ebraico?» «Così mi è sembrato» dice Landsman. «Ma non ebraico da sinagoga.» Landsman sa riconoscere l'ebraico quando lo sente. L'ebraico che conosce lui, però, è quello tradizionale, quello che i suoi antenati si sono portati dietro durante i millenni dell'esilio europeo, unto e salato come un trancio di pesce affumicato perché si conservi, con una carne fortemente insaporita dall'yiddish. Quel genere di ebraico non si usa mai per le conversazioni umane. Serve solo per parlare con Dio. Se quello che Landsman ha sentito a Perii Strait era ebraico, allora non si trattava dell'antica lingua di aringa salata, ma di un qualche dialetto spigoloso, una lingua di alcali e rocce. A Landsman ha ricordato l'ebraico importato qui dai sionisti dopo il 1948. Quei duri ebrei del deserto vi si sono aggrappati con accanimento durante l'esilio, ma alla fine, come già era successo agli ebrei tedeschi venuti prima di loro, sono stati travolti dal brulicante tumulto dell'yiddish, e da un doloroso identificarsi di quella loro lingua con i fallimenti e i disastri recenti. Per quel che ne sa Landsman, quel tipo di ebraico può dirsi estinto, se non tra pochi irriducibili che annualmente si incontrano in sale desolate. «Io ho sentito soltanto una o due parole. Parlavano veloce, e non riuscivo a seguirli. Immagino lo facessero di proposito.» Gli racconta del risveglio nella stanza dove Naomi ha scritto su un muro il suo epitaffio, dei dormitori e del campo sportivo e dei gruppi di giovani sfaccendati ma armati. A mano a mano che racconta, Dick appare sempre più interessato, suo malgrado. Gli fa domande, ficca il naso nella vicenda con un istintivo, ostinato amore per i casini. «Tua sorella la conoscevo» dice infine, quando Landsman arriva al salvataggio nei boschi di Perii Strait. «Mi è dispiaciuto quand'è morta. E questo culattone dei miracoli che dici sembra proprio il classico coglione alla deriva per cui lei avrebbe rischiato la pelle.» «Ma cos'è che volevano da Mendel Shpilman, questi ebrei con il loro ospite che non vuole casini?» chiede Berko. «È questo che mi sfugge. Che cosa fanno, lassù?» A Landsman sembrano domande inevitabili, logiche, doman-
de chiave, eppure su Dick sembrano sortire l'effetto di raffreddare il suo ardore per il caso. «Voi non avete niente» dice, la bocca un trattino esangue. «E lasciatelo dire, Landsman, lo stesso non vale per questi tizi di Perii Strait. Loro hanno dietro così tanto potere, signori miei, che, credetemi, potrebbero cavarvi fuori un diamante da uno stronzo fossilizzato.» «Tu di loro cosa sai, Willie?» chiede Berko. «Un cazzo.» «Il tizio sulla Caudillo» dice Landsman. «Quello con cui sei andato a parlare. Anche lui era americano?» «No, un ebreo raggrinzito come un chicco d'uvetta. Non mi ha detto come si chiamava. E io non sono tenuto a chiederglielo. Visto e considerato che la posizione ufficiale della polizia tribale su quel posto, come mi pare di aver già accennato, è: non sappiamo un cazzo.» «Eddai, Wilfred» dice Berko. «Stiamo parlando di Naomi.» «Me ne rendo conto. Ma conosco abbastanza bene il qui presente Landsman, anzi, che cazzo, conosco abbastanza bene i detective della Omicidi in generale, da sapere che, sorella o non sorella, il punto qui non è scoprire la verità. Non è dire le cose come stanno. Perché signori, voi sapete bene come me che le cose stanno come noi decidiamo di farle stare, e che per quanto ci sforziamo di rimettere tutto quanto in bell'ordine, alla fine per i morti non fa nessuna differenza. Il punto, Landsman, è che tu a quegli stronzi vuoi fargliela pagare. Ma questo non succederà. Non riuscirai mai a fregarli. Mai e poi mai.» «Willie, amico mio» dice Berko. «Parliamoci chiaro. Se non vuoi farlo per lui, se non vuoi farlo perché sua sorella Naomi era una ragazza con le contropalle...» Con il silenzio che segue Berko implora un terzo motivo per il quale Dick dovrebbe decidere di raccontargli quel che sa. «Stai dicendo» dice lui «che dovrei farlo per te?» «Proprio così.» «Per quello che siamo stati l'uno per l'altro nella primavera delle nostre vite.» «Ecco, io non mi spingerei tanto in là.» «Cazzo, davvero commovente» taglia corto Dick. Si sporge in avanti e schiaccia il pulsante dell'interfono. «Minty, tira fuori dall'immondizia la mia pelle d'orso e portamela qui, così ci vomito sopra.» Lascia andare il pulsante prima che Minty possa
rispondere. «Io per te non faccio proprio un cazzo, detective Berko Shemets. Ma visto che tua sorella mi stava simpatica, Landsman, vi infilerò nella testa lo stesso casino che quegli scoiattoli hanno infilato nella mia, così vediamo se voi ci capite qualcosa.» La porta si apre e una ragazza robusta, alta una volta e mezzo il suo capo, entra portando la mantella di pelle d'orso come se ci fosse impressa l'immagine del corpo di Gesù Cristo risorto. Dick balza in piedi, afferra la mantella, e con una smorfia, come se temesse di contaminarsi, se la annoda intorno al collo con il laccio. «Trova una giacca e un cappello per questo qua» dice poi, indicando Landsman con un pollice. «Che magari odori di budella di salmone o moscatello. Toglila a Marvin Klag, è svenuto nella A-7.»
Capitolo trentaquattro
Nell'estate del 1897, gli alpinisti del gruppo guidato da Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, subito dopo aver scalato il monte Saint Elias infiammarono i frequentatori di bar e gli operatori del telegrafo della cittadina di Yakutat. Di ritorno dai versanti della seconda vetta più alta dell'Alaska, raccontarono di aver visto una città nel cielo. Strade, case, torri, alberi, persone in movimento, comignoli fumanti, una grande civilizzazione in mezzo alle nuvole. Uno di loro, un certo Thornton, fece girare una fotografia; la città un po' sfocata immortalata sulla sua lastra fu in seguito identificata come Bristol, Inghilterra, che si trova a qualcosa come 2500 miglia transpolari di distanza. Dieci anni dopo l'esploratore Peary dilapidò una fortuna nel tentativo di raggiungere Crocker Land, una terra di cime elevate che lui e i suoi uomini avevano intravisto, sospesa nel cielo, durante un precedente viaggio a nord. Una fata morgana, fu definita. Uno specchio creato dalle condizioni climatiche e dalla luce e dall'immaginazione di uomini nutriti a storie di paradisi. Meyer Landsman vede mucche, mucche da latte bianche pezzate di rosso, che vagano come angeli in un grande aldilà d'erba verde. Perché Dick potesse sbalordirli con questa dubbia visione, i tre poliziotti sono tornati in macchina a Perii Strait. Pigiati per due ore nella cabina del pick-up di Dick, hanno fumato e si sono insultati, sobbalzando lungo la Tribal Route 2. Chilometri e chilometri di boscaglia fittissima. Buche grosse come vasche da bagno. Pioggia che si abbatteva sul parabrezza in secchiate vandaliche. Poi di nuovo nel villaggio indiano, una fila di tetti di metallo sulla riva di una baia, case ammucchiate come le ultime dieci scatolette di fagioli sullo scaffale di un alimentari prima che arrivi l'uragano. Cani e bambini e canestri da basket, un vecchio rimorchio avviluppato da erbacce e ciuffi spinosi di
uva ursina, una chimera di camion e fogliame. Superato il capannone di una chiesa pentecostale, l'asfalto della strada tribale ha lasciato il posto a sabbia e ghiaia. Di lì a dieci chilometri si è trasformato in un semplice solco nella melma. Dick ha imprecato e lottato col cambio, mentre il suo grosso GMC cavalcava flutti di fango e sassi. Il freno e l'acceleratore sono stati adattati alla sua statura, e lui li comandava come Horowitz tra i frangenti di una tempesta di Liszt. Ogni volta che beccavano una cunetta, un qualche pezzo cruciale di Landsman veniva travolto da una slavina di Shemets. Finito il fango sono scesi dal pick-up, e a piedi si sono incamminati in un fitto bosco di abeti canadesi. Si scivolava, il sentiero era poco più che un suggerimento offerto da pezzi di nastro giallo della polizia attaccato agli alberi. E adesso il sentiero li ha portati, dopo dieci minuti passati a sciaguattare in fanghiglia e pozzanghere, in mezzo a una fitta nebbia che a tratti si trasforma in pioggia, davanti a un recinto elettrificato. Pali di cemento piantati profondamente, fil di ferro teso e uniforme. Un recinto ben fatto, austero. Un gesto brutale per degli ebrei in territorio indiano, che non ha precedenti né autorizzazione, per quel che ne sa Landsman. Al di là del recinto elettrificato splende la fata morgana. Erba. Pascoli folti e lucidi. Un centinaio di bei capi di bestiame, con il manto pezzato, i musi delicati. «Mucche» dice Landsman, e la parola suona come un muggito dubbioso. «Da latte, si direbbe» dice Berko. «Sono Ayrshires» dice Dick. «L'ultima volta che sono stato qui ho scattato qualche foto. Me le sono fatte identificare da un professore di agraria di Davis, in California. "Razza scozzese."» Dick lo dice con un tono nasale, facendo il verso al professore californiano. «"Nota per la robustezza e la capacità di sopravvivere alle alte latitudini."» «Mucche» ripete Landsman. Non riesce a scacciare quell'inquietante sensazione di collocazione sbagliata, di miraggio, di vedere qualcosa che non c'è. Qualcosa che però conosce, riconosce, un mezzo ricordo di storie di paradisi ascoltate in passato. È dai tempi dell'Ickes College, quando l'Ente per lo sviluppo dell'Alaska dispensava trattori e semenze e sacchi di fertilizzante alle frotte di rifugiati che sbarcavano dalle navi, che gli ebrei del distretto accarezzano e quindi abbandonano i loro so-
gni di fattorie ebraiche. «Mucche in Alaska.» La generazione degli Orsi polari ha subito due delusioni cocenti. La prima, nonché la più stupida, fu provocata dalla totale assenza, qui nel favoleggiato Nord, di iceberg, orsi polari, trichechi, pinguini, tundra, grandi quantità di neve e, soprattutto, eschimesi. A Sitka migliaia di attività portano ancora nomi amari e fantasiosi quali Alimentari il Tricheco, o Eskimo Parrucche e Toupet, o Taverna da Nanook. La seconda delusione fu celebrata in popolari canzoni dell'epoca come, ad esempio, Una gabbia di verde. Due milioni di ebrei, scesi dalle navi, non trovarono sconfinate praterie popolate da bisonti. Niente indiani a cavallo. Solo un crinale di montagne allagate dalla pioggia, e cinquantamila tlingit sparsi in villaggi che già possedevano la maggior parte delle terre pianeggianti e servibili. Niente spazi per espandersi, per crescere, per fare qualcosa che non fosse accalcarsi gomito a gomito come a Vilna e a Lodz. I sogni di fattorie di un milione di ebrei senza terra, alimentati dai film, dalla narrativa di consumo e dai dépliant informativi forniti dal ministero dell'Interno statunitense, sfumarono praticamente all'arrivo. Ogni qualche anno questa o quella Società Utopistica acquistava un pezzo di verde che a qualche sognatore ricordava un pascolo. Trovavano un gruppetto di aspiranti coloni, importavano bestiame, redigevano un manifesto. Poi però il clima, i mercati e la venatura di fatalità che screziava le vite degli ebrei si mettevano all'opera e davano il meglio di sé. Il sogno agricolo cominciava a languire, e infine naufragava. Adesso Landsman ha la sensazione di guardare quel vecchio sogno, splendido e verdeggiante. Un miraggio dell'antico ottimismo, della speranza verso il futuro a cui l'hanno educato. Era quel futuro, gli sembra ora, la vera fata morgana. «Ce n'è una un po' strana» dice Berko, guardando con il binocolo che Dick si è portato, e nella sua voce Landsman sente lo strappo, il pesce che si dibatte all'altro capo della lenza. «Da' qua» dice Landsman, prendendo il binocolo e piazzandoselo davanti agli occhi. Si sforza, ma per lui sono soltanto mucche. «Strana in che senso? Di carattere?» «Laggiù. Accanto a quelle due girate dall'altra parte.» Berko guida le lenti con mano brusca, posizionandole su una mucca il cui manto pezzato è di un rosso forse un po' più carico
di quello delle sorelle, di un bianco più luminoso. Una testa più robusta, meno femminile. Le labbra sradicano l'erba come dita avide. «Sì, è un po' diversa» conviene Landsman. «E allora?» «Non so» dice Berko, suonando un po' meno che sincero. «Willie, tu sai per certo che queste mucche appartengono ai nostri ebrei misteriosi?» «Li abbiamo visti con i nostri occhi, i piccoli bovari di Davide» dice Dick. «Quelli del campo d'addestramento, o della scuola, o quel che è. Le stavano radunando per portarle da quella parte, verso il campus. Con l'aiuto di una specie di cane scozzese prepotente. Io e i miei ragazzi li abbiamo seguiti per un bel po'.» «E loro non vi hanno visti?» «Stava facendo buio. E comunque che cazzo ti credi? Certo che non ci hanno visti, siamo indiani, Cristo di Dio. Più o meno a un chilometro da qui c'è una specie di allevamento modernissimo. Con un paio di silos. Una struttura medio-piccola, e ti assicuro che sono tutti ebrei.» «E che cosa fanno?» chiede Landsman. «È un centro di riabilitazione, un caseificio, oppure una specie di campo di addestramento paramilitare che finge di essere entrambe le cose?» «Evidentemente ai vostri paramilitari piace il latte appena munto» dice Dick. Rimangono a guardare le mucche per un po'. Landsman lotta con l'impulso di toccare il recinto elettrificato. C'è in lui un diavolo stupido che vuole sentire la scarica della corrente. C'è in lui una corrente che vuole sentire il diavolo nel filo. Qualcosa lo infastidisce, lo assilla, in questa visione, in questa Crocker Land popolata da mucche. Per quanto sia reale, è anche impossibile. Non dovrebbe esserci; nessuno dovrebbe essere riuscito a mettere su una proprietà del genere. Landsman ha conosciuto o avuto a che fare con molti degli ebrei migliori e peggiori della sua generazione, i ricchi, i sognatori folli, i cosiddetti visionari, i politici che modellano la legge come vasellame su un tornio. Landsman pensa ai signori della guerra dei quartieri russi, con le loro riserve d'armi e diamanti e uova di storione. Scorre la sua lista mentale di re del contrabbando e magnati del mercato grigio e guru di culti minori. Uomini influenti con contatti e fondi illimitati. Nessuno di loro potrebbe aver messo su una cosa del genere, nemmeno Heskel Shpilman o Anatolij
Moskowits la Bestia Selvaggia. Chi vive nel distretto, per quanto potente, è legato al guinzaglio del 1948. Il suo regno è racchiuso in un guscio di noce. Il suo cielo è una volta dipinta, il suo orizzonte un recinto elettrificato. Possiede la capacità di volare e la libertà di un palloncino annodato a un filo. Berko, nel frattempo, ha cominciato a tormentarsi il nodo della cravatta, in un modo che Landsman ha imparato ad associare con l'imminente manifestarsi di una teoria. «Che c'è, Berko?» dice. «Quella mucca non è bianca con le macchie rosse» dice Berko con tono irrevocabile. «È rossa con le macchie bianche.» Si fa scivolare il cappello sul retro della testa e arriccia le labbra. Si allontana di parecchi passi dal recinto, camminando all'indietro, tira su gli orli dei pantaloni. Parte verso il recinto, dapprima lento. Poi, suscitando in Landsman orrore, shock e una vaga euforia, Berko salta. La sua mole si stacca da terra. Spinge avanti una gamba e piega l'altra indietro. Il risvolto dei pantaloni si solleva, rivelando calzini verdi e polpacci pallidi. Poi atterra, con uno sbuffo di fiato, dall'altra parte del recinto. Per un attimo barcolla sotto la violenza dell'impatto, quindi riparte, addentrandosi nel mondo delle mucche. «Cazzo» dice Landsman. «In teoria ora dovrei arrestarlo» dice Dick. Le mucche reagiscono all'intrusione con lamentele e proteste, ma senza particolare emozione. Berko tira dritto verso quella che non lo convince, a grandi passi. Lei si ritrae, si abbassa. Berko allunga un braccio, col palmo rivolto in fuori. Le parla in yiddish, americano, tlingit, bovino antico e moderno. Le gira intorno lentamente, scrutandola in lungo e in largo. Landsman capisce cosa voleva dire Berko: quella mucca non è come le altre, né nella forma, né nel colore. La mucca si rassegna all'ispezione. Lui le appoggia una mano sotto il muso, e la mucca aspetta, con gli zoccoli piantati larghi, le zampe a x, la testa piegata da un lato come in ascolto. Berko si china e le guarda sotto. Le passa le dita sulle costole, sul collo, sulla nuca, poi di nuovo di lato, fino al rilievo dei fianchi, issati come tende. Lì la mano si ferma, in mezzo a una chiazza di manto bianco. Berko si porta le dita della mano destra alla bocca, bagna i polpastrelli, quindi li sfrega con movimento circolare sulla chiazza bianca della mucca. Allontana quindi le dita, le osserva, sorride, si acciglia. Torna indietro a
passi lenti e si ferma al recinto, davanti a Landsman. Alza la mano destra come in una parodia solenne del saluto di un indiano da negozio di sigari, e Landsman vede che le dita sono coperte di scaglie bianche. «Macchie finte» dice. Berko indietreggia e riparte all'attacco del recinto. Landsman e Dick si fanno da parte, e di nuovo lui è in aria, vola, infine il terreno risuona dell'impatto con il suo corpo. «Sbruffone» dice Landsman. «Lo è sempre stato» dice Dick. «Allora» attacca Landsman «fammi capire: la mucca va in giro travestita?» «Esattamente.» «Qualcuno ha dipinto delle macchie bianche su una mucca rossa.» «Così pare.» «E questo per te ha un significato.» «In un certo senso» dice Berko. «In un certo contesto. Ritengo che quella mucca potrebbe essere una giovenca rossa.» «Ma piantala» dice Landsman. «Una giovenca rossa.» «Roba di voi ebrei, immagino» dice Dick. «Quando il Tempio di Gerusalemme sarà stato ricostruito» dice Berko «e verrà il momento di purificarlo con il sacrificio per il peccato, la Bibbia dice che servirà un certo tipo di mucca. Una giovenca rossa, senza nemmeno un pelo bianco. Pura. E a quanto pare le giovenche completamente rosse scarseggiano. Mi sembra anzi di ricordare che dall'inizio della storia ne sono esistite soltanto nove. Trovarne una non sarebbe affatto male. Un po' come trovare un pentafoglio.» «Quando il Tempio sarà stato ricostruito» dice Landsman, pensando a Buchbinder il dentista e al suo folle museo. «Ovvero dopo l'avvento del Messia?» «Alcuni pensano» dice Berko lentamente, cominciando a capire ciò che anche Landsman sta cominciando a capire, «che il Messia attenderà nell'ombra fino a che il Tempio non sarà stato ricostruito. Finché non verrà ripristinato il culto, con tanto di sacrifici di sangue, sacerdoti e compagnia bella.» «Perciò se uno, mettiamo, trovasse una giovenca rossa. E avesse le attrezzature necessarie più tutto l'armamentario del culto e via dicendo e quindi, ehm, ricostruisse il Tempio... in pratica potrebbe costringere il Messia a manifestarsi?»
«Dio sa che non sono un uomo religioso» salta su Dick. «Ma mi sento in dovere di ricordarvi che il Messia si è già manifestato una volta, e voi bastardi l'avete fatto fuori.» In lontananza sentono una voce umana, amplificata da un altoparlante. Parla in quello strano ebraico del deserto. Sentendolo, Landsman ha un tuffo al cuore, e fa un passo verso il pickup. «Andiamocene» dice. «Io con questa gente ci ho passato un po' di tempo, e il mio parere è che non sono affatto gentili.» Una volta al sicuro sul pick-up, Dick accende il motore ma lo tiene in folle, con il freno a mano tirato. Rimangono lì, a riempire di fumo l'abitacolo. Landsman scrocca a Dick una delle sue sigarette di tabacco nero, ed è costretto ad ammettere che è un ottimo esempio della maestria del fabbricante. «Okay, Willie, adesso ti dico una cosa» esordisce dopo aver consumato la Nat Sherman fino a metà. «E vorrei che tu provassi a smentirmi.» «Farò del mio meglio.» «Venendo qui, mentre parlavamo, tu hai accennato a un certo odore che questo posto emanerebbe.» «È vero.» «Odore di soldi, l'hai definito.» «Questi bovari di soldi ne hanno, poco ma sicuro.» «Ma a me qualcosa non torna, ed è così fin da quando ho sentito parlare di questo posto per la prima volta. Ormai penso di aver visto più o meno tutto. Dal cartello sul pontile degli idrovolanti alle mucche. E quel qualcosa mi torna ancora meno.» «In altre parole?» «In altre parole, scusami tanto, ma non importa quanti soldi distribuiscano in giro. Capisco che un membro del vostro consiglio tribale possa accettare una bustarella da qualche ebreo di tanto in tanto. Gli affari sono affari, i soldi non fanno schifo a nessuno, e via dicendo. E poi va' a sapere, ho sentito gente sostenere che il flusso di fondi neri che scorre avanti e indietro per il confine sia quanto di più simile alla pace possa mai esistere tra ebrei e indiani.» «Che pensiero edificante.» «E mi sembra evidente che, qualsiasi cosa stiano facendo questi ebrei, di sicuro non vogliono condividerla con gli altri ebrei. E il distretto è una specie di casetta con troppi inquilini e
poche stanze. Tutti sanno tutto di tutti. A Sitka nessuno ha segreti, è solo uno shtetl più grosso della media. Se hai un segreto, allora tanto vale provare a nasconderlo da queste parti.» «Ma...» «Ma al di là dell'odore, al di là degli affari, al di là dei segreti, scusami tanto ma non esiste al mondo che i tlingit permettano a un manipolo di ebrei di venire qui, nel cuore delle Indianer-Lands, a costruire tutta questa roba. Indipendentemente dalla quantità di moneta ebraica che viene distribuita.» «Intendi dire che nemmeno noi indiani siamo così vigliacchi e senza dignità da fornire un appoggio simile ai nostri peggiori nemici.» «E se invece ti dicessi che noi ebrei siamo i più orribili trafficoni che esistano, che governiamo il mondo dal nostro quartier generale segreto sul lato oscuro della luna, ma che anche noi abbiamo i nostri limiti? Questa versione ti piace di più?» «Di sicuro non te la contesto.» «Gli indiani non permetterebbero mai una cosa simile, a meno che non si aspettino una grossa ricompensa. Ma grossa davvero. Grossa quanto il distretto, per esempio.» «Per esempio» dice Dick, con un po' di tensione nella voce. «Finora avevo pensato che lo zampino americano in tutta questa faccenda si riducesse ai canali che sono stai usati per manipolare la relazione sull'incidente di Naomi. Ma una ricompensa come quella di cui parlo nessun ebreo potrebbe mai garantirla.» «Mister Maglione con renne» dice Berko. «È lui che predispone tutto affinché, una volta sgomberati gli ebrei, il distretto passi sotto la sovranità dei nativi. Per questo gli indiani aiutano i Verbover e i loro amici ad allestire questa piccola fattoria segreta.» «Ma la Renna che cosa ci ricava?» dice Landsman. «Che cosa ci guadagnano gli Stati Uniti?» «Hai appena raggiunto un luogo molto oscuro, fratello Landsman» dice Dick, ingranando la marcia. «In cui temo dovrai entrare senza Wilfred Dick.» «Spiacente, cugino» dice Landsman a Berko appoggiandogli una mano sulla spalla. «Mi sa tanto che dobbiamo andare sul sito del Massacro.» «Porca troia» dice Berko, in americano.
Capitolo trentacinque
Settanta chilometri a sud del confine urbano di Sitka c'è una casa costruita con assi recuperate e scandole grigie che si erge su una ventina di pali in mezzo a una palude. Un posto sperduto e senza nome, popolato da orsi e incline a flatulenze di metano, cimitero di barche a remi, lenze, furgoni e, in un angolino remoto, di una dozzina di cacciatori di pellicce russi e dei loro cani-soldato aleut. Su un lato della palude, tra i boschi, c'è una magnifica longhouse tlingit che i rovi e un'erba nota come mazza del diavolo stanno smantellando. Sull'altro una spiaggia di sassi, disseminata di migliaia di pietre nere su cui un antico popolo ha inciso forme di animali e stelle. Fu su questa spiaggia che, nel 1854, quei dodici promyshlennikis e aleut guidati da Evgenij Simonov conobbero una fine sanguinosa per mano di un capo tlingit di nome Kohklux. Più di un secolo dopo, la pro-pro-nipote del capo, signora Pullman, divenne la seconda moglie indiana di uno scacchista alto un metro e sessantotto e dedito allo spionaggio di nome Hertz Shemets. Negli scacchi, così come nel suo lavoro politico occulto, zio Hertz era noto per il senso del tempo, per un eccesso di prudenza e per l'irritante esaustività con cui si preparava. Si documentava sugli avversari, conduceva su di loro uno studio accuratissimo. Cercava segni di debolezza, complessi irrisolti, tic. Per venticinque anni portò avanti una campagna segreta contro la gente che stava al di là del confine, cercando di indebolirne la stretta sulle Indianer-Lands, e durante questo tempo divenne un riconosciuto esperto della loro cultura e della loro storia. Imparò ad assaporare la lingua tlingit, con le sue vocali di zucchero e le consonanti gommose. Intraprese un profondo lavoro di ricerca sulla fragranza e la consistenza delle donne tlingit. Quando sposò la signora Pullman (nessuno chiamò mai sua moglie, pace all'anima sua, signora Shemets) cominciò a sviluppare un interesse per la vittoria del trisavolo della consorte
su Simonov. Trascorse ore nella biblioteca del Bronfman, chino su mappe dell'era zarista. Trascriveva interviste fatte da missionari metodisti a vecchie megere tlingit novantanovenni che erano bimbe di sei anni quando le mazze della guerra si abbatterono su tutti quei robusti crani russi. Scoprì che, nello studio realizzato nel 1949 dall'USGS, l'agenzia statunitense per il territorio, quella che aveva tracciato i veri confini del distretto di Sitka, il sito del Massacro era stato inspiegabilmente indicato come territorio tlingit. Pur trovandosi a ovest dei monti Baranof, legalmente il sito del Massacro appartiene ai nativi, un verde distintivo di indianità appuntato sul lato ebraico dell'isola Baranof. Quando Hertz scoprì l'errore, convinse la matrigna di Berko a comprare quel terreno - come in seguito documentato da Dennis Brennan - con i soldi dei fondi neri sottratti al programma di controspionaggio. Ci costruì questa casa dalle zampe da ragno. E quando la signora Pullman morì, Hertz Shemets ereditò il sito del Massacro Simonov, dichiarandolo la riserva indiana più pidocchiosa del mondo, e dichiarando se stesso l'indiano più pidocchioso. «Quello stronzo» dice Berko con meno rancore di quanto Landsman si sarebbe aspettato, contemplando la sgangherata dimora del padre da dietro il parabrezza della SuperSport. «Da quant'è che non lo vedi?» Berko si volta verso il suo collega, alzando gli occhi al cielo come se stesse sfogliando un fascicolo interiore su di lui per scoprire se ha precedenti di domande dalla risposta più scontata di quella. «Dimmi una cosa, Meyer. Se tu fossi nei miei panni quand'è che l'avresti visto per l'ultima volta?» Landsman parcheggia la SuperSport dietro la Buick Roadmaster di Hertz, un bestione azzurro striato di fango con interni in finto legno e sul paraurti un adesivo che reclamizza, in yiddish e americano, il SITO DEL MASSACRO SIMONOV, RINOMATO IN TUTTO IL MONDO, CON UN'AUTENTICA LONGHOUSE TLINGIT. Nonostante la piccola attività turistica sia defunta da un pezzo, l'adesivo è ancora nitido e liscio. Nella longhouse ne restano ancora una decina di scatoloni pieni. «Dammi un indizio» dice Landsman. «Battute sul prepuzio.» «Ah, okay.» «Ogni singola battuta sul prepuzio mai concepita.»
«Non sapevo che ce ne fossero così tante» dice Landsman. «Si potrebbe tenere un vero e proprio corso di studi.» «Dai» dice Berko scendendo dall'auto. «Togliamoci questo dente.» Landsman intravede in lontananza la mole dell'Autentica longhouse, tra cespugli di rovi e mazza del diavolo secca, un relitto in colori sgargianti. In realtà la longhouse di autentico non ha nulla. Fu Hertz Shemets a costruirla, con l'aiuto di due cognati indiani, di suo nipote Meyer e del giovane figlio Berko, un'estate, dopo che il ragazzo era andato a vivere in Adler Street. Lo fece per divertimento, senza pensare all'attrazione turistica in cui cercò senza successo di trasformarla dopo la sua cacciata. Quell'estate Berko aveva quindici anni, e Landsman venti. Il cuginetto cesellò ogni superficie della sua personalità per adattarla alla curvatura di quella di Landsman. Per due mesi interi si dedicò a imparare a usare una motosega Skilsaw, proprio come Landsman, con un papiro all'angolo della bocca e il fumo che gli irritava gli occhi. Landsman all'epoca stava già preparando l'esame di ammissione alla scuola di polizia, e quell'estate Berko espresse lo stesso desiderio, ma se Landsman avesse detto che voleva diventare un moscone, Berko di certo avrebbe trovato il modo di imparare ad amare il letame. Come molti poliziotti, Landsman solca le tragedie con la stabilità di un doppio scafo, e con un giroscopio a proteggerlo da cavalloni e tempeste. Sono le secche che deve temere, le crepe sottili come capelli, il momento torcente. Il ricordo di quell'estate, per esempio, o il pensiero che da allora ha ampiamente esaurito la pazienza di un ragazzino che un tempo avrebbe atteso mille anni, pur di passare un'ora con lui a buttare giù lattine da una staccionata con un fucile ad aria compressa. La vista della longhouse infrange una piccola sfaccettatura del cuore di Landsman che finora era rimasta intatta. Tutte le cose che hanno fatto, durante il piccolo minuto trascorso insieme in quest'angolo della cartina, si sono dissolte in spire di rovi e oblio. «Berko» dice, mentre i loro passi fanno scricchiolare il fango mezzo congelato della riserva indiana più pidocchiosa del mondo. Afferra il cugino per il gomito. «Scusa per tutti i casini che ho combinato.» «Non devi scusarti, Meyer» dice Berko. «Non è colpa tua.» «Adesso sto bene. Sono tornato» dice Landsman, e quelle parole gli suonano vere, per il momento. «Non so cosa sia sta-
to. Forse l'assideramento. O essermi infilato in questa faccenda di Shpilman. Okay, va bene, forse anche il fatto che non sto bevendo. Ma sono di nuovo io.» «U-uh.» «Tu non hai quest'impressione?» «Sì, Meyer.» Sembra che stia dando ragione a un bambino, o a un matto. Forse non gli sta nemmeno dando ragione. «Mi sembri a posto.» «Sostegno totale, eh?» «Adesso non mi va di parlarne, ti spiace? Voglio solo entrare lì dentro, chiedere a mio padre quel che dobbiamo chiedergli e poi tornarmene a casa da Ester-Malke e dai bambini. Va bene?» «Certo, Berko. Ci mancherebbe.» «Grazie.» Si incamminano su uno spiazzo di fango rappreso, coperto qua e là da ghiaia, tra pozzanghere gelate rivestite da un sottile timpano di ghiaccio. Alcuni scalini da cartone animato, scheggiati, sbilenchi, salgono fino a una porta di cedro ingrigita dalle intemperie. La porta si regge di sbieco, isolata alla bell'e meglio con spesse strisce di gomma. «Quando dici che "non è colpa mia"...» riattacca Landsman. «Eddai! Mi scappa da pisciare.» «Il sottinteso è che per te sono pazzo. Un malato di mente. Uno incapace di rispondere delle proprie azioni.» «Io adesso busso, Meyer.» E bussa, due volte, così forte da mettere a repentaglio i cardini. «Inadatto a portare un distintivo» dice Landsman, anche se vorrebbe con tutto se stesso lasciar cadere il discorso. «In altre parole.» «Quella telefonata l'ha fatta la tua ex moglie, non io.» «Ma tu non sei in disaccordo.» «Cosa vuoi che ne sappia di malattia mentale?» dice Berko. «Non sono certo io quello che si è fatto arrestare perché correva nudo in mezzo a un bosco, a tre ore da casa, dopo aver sfondato il cranio a un uomo con una branda di ferro.» Hertz Shemets viene ad aprire la porta, con le guance sbarbate così di fresco da lasciar intravedere due goccioline di sangue. Indossa giacca e pantaloni di flanella grigi su una camicia bianca, con una cravatta rosso papavero. Odora di vitamina B, appretto per stirare, pesce affumicato. È più minuto che mai,
sussulta come una marionetta appesa a un bastone. «Ragazzo mio» dice a Landsman, spaccandogli alcune dita della mano. «Ti vedo in forma, zio Hertz» dice Landsman. Guardandolo meglio si accorge che l'abito ha i gomiti e le ginocchia lisi. La cravatta porta i segni di un vecchio pasto a base di minestra, ed è annodata non sotto il colletto di una camicia, bensì di una casacca di pigiama bianca, infilata frettolosamente nei pantaloni. Ma Landsman non è nella posizione di poter criticare. Ha indosso il suo completo d'emergenza, ripescato da una fessura in fondo al bagagliaio e quindi srotolato, un abito nero in misto lana e viscosa con bottoni d'oro che vorrebbero somigliare a monete romane. L'ha preso in prestito per un funerale last-minute, cui si era scordato di dover andare, da un giocatore d'azzardo sfortunato di nome Gluksman. L'abito riesce nell'impresa di sembrare al tempo stesso funereo e vistoso, presenta pieghe feroci, e odora di bagagliaio di Detroit. «Grazie per avermi avvisato» dice lo zio Hertz, lasciando andare i rottami della mano di Landsman. «Lui voleva farti una sorpresa» dice Landsman, accennando con la testa a Berko. «Ma so che tu in questi casi ci terresti a uscire ad ammazzare qualcosa di fresco.» Lo zio Hertz unisce i palmi delle mani e si inchina. Da buon eremita, prende i suoi doveri verso gli ospiti molto sul serio. Se la battuta di caccia è scadente, allora tira fuori dal congelatore qualcosa di pietrificato, e lo mette a cuocere con qualche carota, qualche cipolla, e una manciata di quelle spezie che coltiva personalmente, e che fa essiccare appese in un capanno dietro casa. Fa in modo che ci sia ghiaccio per il whisky, e birra fredda per lo stufato. Ma soprattutto si fa la barba e mette la cravatta. Il vecchio dice a Landsman di entrare in casa, e Landsman obbedisce, lasciando Hertz faccia a faccia con il figlio. Landsman osserva la scena, in quanto parte interessata al pari di qualsiasi altro uomo ebreo esistito dall'istante in cui Abramo convinse Isacco a sdraiarsi in cima a quella montagna e a denudarsi il torace fremente rivolto al cielo. Il vecchio allunga un braccio e afferra la manica della camicia da boscaiolo di Berko. Torce il tessuto tra le dita. Berko si sottopone al suo esame con un'espressione sul viso che è di dolore autentico. Deve sentirsi morire, Landsman lo sa, trovandosi davanti al padre con indos-
so qualcosa che non sia il suo più pregiato completo italiano. «La motosega dove l'hai lasciata?» dice infine Hertz. «Non lo so» risponde Berko. «Forse vicino ai tuoi pantaloni del pigiama.» Berko si liscia la manica dove il padre l'ha spiegazzata. Poi lo supera ed entra in casa. «Stronzo» dice sottovoce, o quasi. Non appena sono entrati tutti, chiede permesso e va in bagno. «Slivovitz» dice il vecchio Shemets avvicinandosi alle bottiglie, un fitto skyline che sembra una replica in miniatura dello Shvartsn-Yam su vassoio smaltato nero. «Giusto?» «Acqua frizzante» dice Landsman. Vedendo suo zio inarcare un sopracciglio, si stringe nelle spalle. «Ho un nuovo medico. Un indiano. Vuole che smetta di bere.» «E da quando ti sei messo a dar retta ai dottori o agli indiani?» «Da mai» ammette Landsman. «Per i Landsman prescriversi le medicine da soli è una tradizione.» «Anche essere ebrei» dice Landsman. «E guarda dove ci ha portati.» «Sono tempi strani per essere un ebreo» concorda Hertz. Si volta e porge a Landsman un alto bicchiere decorato con uno yarmulke di limone. Poi si versa una generosa dose di slivovitz e lo solleva verso Landsman con un'espressione di spiritosa crudeltà che Landsman conosce bene, e in cui da tempo ha smesso di ravvisare alcunché di spiritoso. «Ai tempi strani» dice Hertz Shemets. Se lo versa in gola, e quando torna a guardare Landsman sprizza l'orgoglio di chi ha appena tirato fuori una battuta che ha fatto ridere tutta la sala. Landsman sa quanto dev'essere dura per Hertz guardare la barca su cui per tanti anni ha remato con tutte le sue forze e la sua abilità scivolare inesorabilmente verso le cascate della Restituzione. Si versa un secondo bicchiere veloce, e stavolta lo manda giù senza traccia di piacere. Ora tocca a Landsman inarcare un sopracciglio. «Tu hai il tuo medico» dice zio Hertz. «Io ho il mio.» La casa di zio Hertz è composta da un'unica grande stanza, con un soppalco che corre lungo tre lati. È una stanza che ti spinge a riflettere sull'anatomia e sulla vulnerabilità degli esseri viventi; le rifiniture e i mobili sono tutti in corno, osso, tendini,
pelle e pelliccia. Sul soppalco si sale da una ripida scaletta sul lato opposto all'ingresso, accanto al cucinino. In un angolo c'è il letto di Hertz, accuratamente rifatto. Accanto al letto, su un basso tavolino rotondo, c'è una scacchiera. I pezzi sono di palissandro e acero. A un cavallo bianco, in acero, manca l'orecchio sinistro. Sulla capocchia di un pedone nero, in palissandro, c'è un segnetto biondo. La scacchiera ha un'aria trascurata, caotica; su un lato, in mezzo ai pezzi c'è un inalatore Vicks, possibile minaccia per il re bianco in e1. «Vedo che hai adottato la difesa Mentholyptus» dice Landsman, girando la scacchiera per guardare meglio. «Partita per corrispondenza?» Hertz si è piazzato vicinissimo a Landsman, e gli esala addosso il suo alito di grappa alla prugna, con una sfumatura di aringa così unta e pungente che quasi si sentono le minuscole spine. Lo urta per sbaglio, e Landsman rovescia la scacchiera, che cade a terra con un ticchettio di ossa su un piatto. «Tu invece con questa mossa sei sempre stato un mago» dice Hertz. «Il gambetto Landsman.» «Cazzo, zio, scusa.» Landsman si accovaccia e comincia a tastare intorno al letto per recuperare i pezzi. «Non ti preoccupare!» dice il vecchio. «Non c'è problema. Tanto mica era una partita, stavo solo ammazzando il tempo. Ormai per corrispondenza non gioco più. A me piace il sacrificio. Mi piace stupire, usare combinazioni belle e un po' folli. È un po' difficile farlo con una cartolina. La scacchiera la riconosci?» Hertz aiuta Landsman a rimettere i pezzi nella scatola, anch'essa in acero, foderata di velluto verde. L'inalatore se lo infila in tasca. «No» risponde Landsman. Fu Landsman, eseguendo la difesa Meyer durante una crisi di nervi tanti anni fa, a immolare quell'orecchio al cavallo bianco. «Ma per chi mi prendi? È quella che gli hai regalato tu.» Impilati sul comodino accanto al letto di Hertz Shemets ci sono cinque libri. Un Chandler tradotto in yiddish. Una biografia in francese su Marcel Duchamp. Una tirata in formato tascabile contro i moventi occulti della Terza Repubblica russa che l'anno scorso negli Stati Uniti ha riscosso un discreto successo. Una guida Petersen ai mammiferi marini. E un impreci-
sato testo intitolato Kampf, in versione originale tedesca, a opera di Emanuel Lasker. Si sente lo sciacquone, poi il rumore di Berko che si lava le mani. «Di colpo vi siete tutti messi a leggere Lasker» dice Landsman. Prende il libro, pesante, nero, con il titolo in rilievo a caratteri gotici dorati, e prova una certa sorpresa nello scoprire che con gli scacchi non ha nulla a che vedere. Nessun diagramma, niente statuette di regine e cavalli, solo pagine e pagine di spigolosa prosa in tedesco. «Era anche un filosofo?» «La considerava la sua vera vocazione. Pur essendo un genio degli scacchi e della matematica superiore. Mi duole dirlo, ma forse come filosofo non era altrettanto geniale. Perché, chi altro sta leggendo Emanuel Lasker? Ormai Lasker non lo legge più nessuno.» «Da una settimana a questa parte è ancora più vero» dice Berko asciugandosi le mani con un asciugamano. Poi, in maniera istintiva, gravita verso la tavola imbandita. Il grande tavolo di legno è apparecchiato per tre. I piatti sono di latta rivestita di smalto, i bicchieri di plastica, e i coltelli hanno manici in osso e lame spaventose, di quelle che potresti usare per cavare dall'addome di un orso il fegato ancora palpitante. C'è una caraffa di tè freddo e una brocchetta di caffè, anche questa smaltata. Il pasto che Hertz Shemets ha preparato è sontuoso, caldo, e fortemente sbilanciato verso l'alce. «Stufato d'alce» dice. «La carne l'ho tritata in autunno, la tengo sottovuoto nel congelatore. Ovviamente l'alce l'ho ammazzato io. Un bestione da mezza tonnellata. Nello stufato ci ho messo fagioli rossi, più una lattina di fagioli neri che mi era rimasta. Ma avevo paura che non bastasse, e così ho scongelato qualcos'altro. C'è una quiche lorraine - ovvero uova - con pomodoro e pancetta. Pancetta d'alce, affumicata dal sottoscritto.» «Anche le uova sono d'alce» dice Berko, imitando il tono pomposo del padre. Il vecchio indica un recipiente bianco stracolmo di polpettine di dimensioni uniformi, immerse in un sugo tra il rossiccio e il marrone. «Polpette svedesi» dice. «D'alce. E c'è anche un po' d'alce arrosto, se qualcuno vuole farsi un panino. Va da sé che anche il pane è fatto in casa. Così come la maionese. Quella in barattolo non riesco a mandarla giù.» Si siedono a mangiare con il vecchio solitario. Anni fa la sua
sala da pranzo era un luogo animato, l'unica tavola in queste terre divise a cui indiani ed ebrei sedessero regolarmente insieme a mangiare bene e senza rancore. Bevendo vino della California, su cui Hertz si dilungava ampiamente. Tipi taciturni, ossi duri, qua e là qualche agente speciale o lobbista di Washington mescolato a gente che scolpiva totem, scacchisti vagabondi e pescatori indiani. Il vecchio Hertz sopportava paziente gli sfottò della signora Pullman. Era il classico tagliagole che si sceglieva per moglie una che davanti agli amici gli avrebbe fatto abbassare la cresta. Facendolo, in definitiva, sembrare ancor più forte. «Ho fatto un paio di telefonate» dice lo zio Hertz, dopo vari minuti di concentrazione scacchistica sul suo piatto. «Dopo che hai chiamato per dirmi che venivate.» «Ma dai» dice Berko. «Un paio di telefonate.» «Proprio così.» Hertz ha un modo tutto suo di sorridere, o di produrre un effetto simile a un sorriso: solleva l'angolo destro del labbro superiore, soltanto quello, e solo per mezzo secondo, lasciando intravedere un incisivo giallo. Sembra abbia abboccato a una lenza invisibile, che ora qualcuno sta strattonando con forza. «A quanto ho capito ultimamente hai rotto un po' le scatole, Meyerle. Sortite poco professionali. Comportamenti imprevedibili. Ti sei fatto togliere la pistola e il distintivo.» Qualsiasi altra cosa possa aver fatto, per quarant'anni zio Hertz è stato innanzitutto un membro delle forze dell'ordine in piena regola, con tanto di distintivo federale nel portafoglio. Sebbene lui cerchi di attenuarlo, il tono di rimprovero è inequivocabile. Si volta verso il figlio. «Tu invece non so cosa ti sia messo in testa» gli dice. «Mancano otto settimane al grande buco nero. Hai due figli e, mazel tov e kaynahora, un terzo in arrivo.» Berko non si disturba nemmeno a chiedergli come ha fatto a sapere che Ester-Malke è incinta. Non farebbe che alimentare la sua vanità. Si limita ad annuire, e spazzola qualche altra polpetta d'alce. Sono buone, queste polpette, belle umide, e con una vaga nota di rosmarino e di affumicato. «Hai ragione» dice Berko. «È pura follia. E non verrò certo a dirti che di questo bisonte che senza distintivo e senza pistola se ne va in giro a rompere le scatole alla gente e finisce mezzo assiderato mi importa più di mia moglie o dei miei figli, perché non è cosi. E nemmeno che ha senso correre rischi quando c'è
di mezzo il loro futuro, perché non ne ha.» Contemplando il recipiente di polpette, il suo corpo emette un suono stanco, in yiddish, a metà tra un rutto e un lamento. «Ma se parliamo di buchi neri, che dire, non sono circostanze che mi va di affrontare senza Meyer tra i piedi.» «Vedi quant'è leale?» dice lo zio Hertz a Landsman. «Anch'io mi sentivo così nei confronti di tuo padre, sia benedetto il suo nome, però quel vigliacco mi ha mollato qui da solo.» Il tono vorrebbe essere lieve, ma la colata di silenzio che segue sembra scurirlo a posteriori. Masticano il cibo, e intanto la vita sembra lunga e greve. Hertz si alza e va a versarsi un altro goccetto. Rimane in piedi accanto alla finestra, a guardare il cielo che sembra un mosaico assemblato con le schegge di mille specchi infranti, ciascuna di una sfumatura di grigio diversa. D'inverno, il cielo dell'Alaska sudorientale è un Talmud di grigio, un commento infinito su una Torah di nuvole, pioggia e luce moribonda. Lo zio Hertz è da sempre l'uomo più competente e sicuro di sé che Landsman abbia mai conosciuto, asciutto come un origami d'aeroplano, un ago di carta veloce, piegato con cura, resistente alle turbolenze. Preciso, metodico, spassionato. In lui ci sono sempre state tracce d'ombra, di irrazionalità e violenza, ma contenute dal muro delle sue misteriose avventure indiane, nascoste al di là del confine, da lui stesso accuratamente coperte scalciando indietro come un animale che cancella le sue orme. Ora però in Landsman affiora un ricordo, dai giorni che seguirono la morte di suo padre, dello zio Hertz accartocciato come un fazzoletto di carta in un angolo della cucina di Adler Street, con i lembi della camicia fuori dai pantaloni, i capelli in disordine, la camicia abbottonata sbagliando le asole, i rimasugli di una bottiglia di slivovitz sul tavolo di cucina a segnare come un barometro l'atmosfera sempre più pesante del suo dolore. «Siamo alle prese con un rompicapo, zio Hertz» dice Landsman. «Per questo siamo venuti qui.» «Oltre alla maionese» dice Berko. «Un rompicapo.» Il vecchio volta le spalle alla finestra, lo sguardo di nuovo duro e diffidente. «Io detesto i rompicapi.» «Nessuno ti ha chiesto di risolverlo» dice Berko. «Non usare quel tono con me, John Orso» scatta il vecchio. «Non mi piace.» «Tono?» dice Berko, con una voce che contiene, come la
partitura di una colonna sonora, cinque o sei toni diversi, un ensemble cameristico di insolenza, risentimento, sarcasmo, provocazione, innocenza e sorpresa. «Tono?» Landsman lancia un'occhiata a Berko, con l'intento di ricordargli non tanto la sua età e la sua posizione, ma quanto sia da sfigati battibeccare con i propri genitori. È un'espressione facciale vecchia e consumata, che risale all'epoca dei primi conflittuali anni di Berko in casa Landsman. Non passa mai più di qualche minuto, ogni volta che questi due si incontrano, prima che entrambi regrediscano allo stato naturale, come marinai dispersi in un naufragio. Le famiglie sono questo. Ma anche la tempesta in alto mare, la nave e la spiaggia sconosciuta. E i cappelli e i distillatoi per il whisky che ricavi da bambù e noci di cocco. E il fuoco che accendi per tenere lontane le bestie feroci. «C'è una cosa a cui stiamo cercando di trovare una spiegazione» ricomincia Landsman. «Una certa situazione. E alcuni aspetti di questa situazione ci hanno fatto pensare a te.» Lo zio Hertz si versa un altro po' di slivovitz, lo porta in tavola, quindi si siede. «Comincia dall'inizio» dice. «L'inizio è un tossico trovato morto nel mio albergo.» «A-ah.» «Lo sapevi.» «L'ho sentito alla radio» dice Hertz. «Forse ho anche letto qualcosa sul giornale.» Incolpa sempre i giornali per le cose che sa. «Il figlio di Heskel Shpilman. Quello su cui da bambino avevano tante aspettative.» «È stato assassinato» dice Landsman. «Contrariamente a quanto puoi aver letto. E quand'è morto si stava nascondendo. Ha passato buona parte della vita a nascondersi, da questo o quest'altro, ma quand'è morto credo che stesse cercando di evitare certe persone da cui era fuggito. Sono riuscito a ricostruire i suoi movimenti fino all'aeroporto di Yakovy, lo scorso aprile. È stato lì il giorno prima che Naomi morisse.» «C'è di mezzo Naomi?» «E queste persone che stavano cercando Shpilman. E che riteniamo l'abbiano ucciso. Lo scorso aprile hanno pagato Naomi perché lo portasse in una tenuta di loro proprietà, una specie di casa di cura per ragazzi problematici. A Perii Strait. Lui però, una volta lì, si è fatto prendere dal panico. Ha deciso di andar-
sene. Ha chiesto aiuto a Naomi, e lei è andata a prenderlo di nascosto e l'ha riportato indietro. A Yakovy. Il giorno dopo è morta.» «Perii Strait?» dice il vecchio. «Perciò sono nativi? Mi stai dicendo che a far fuori Mendel Shpilman sono stati degli indiani?» «No» dice Berko. «I proprietari di questo centro di riabilitazione. Qualcosa come quattrocento ettari, subito sopra il villaggio, a nord. Costruito a quanto pare con i soldi di ebrei americani. Quelli che lo gestiscono sono yiddish. E a quanto abbiamo capito è solo una copertura per le loro vere attività.» «Vale a dire? Coltivano marijuana? Questo sì che sarebbe un colpo di genio. Una piantagione di marijuana camuffata da riformatorio.» «Be', tanto per cominciare hanno una mandria di mucche da latte Ayreshire» dice Berko. «Un centinaio di capi.» «Tanto per cominciare.» «Secondo, pare che abbiano messo su una specie di campo d'addestramento paramilitare. Il loro capo potrebbe essere un vecchio, ebreo. Wilfred Dick l'ha visto, c'era anche lui. Ma era una faccia che non conosceva. Chiunque sia, sembra avere legami con i Verbover, o quantomeno con Aryeh Baronshteyn. Ma non sappiamo che tipo di legami, né perché.» «C'era anche un americano» interviene Landsman. «È venuto in aereo per incontrare Baronshteyn e questi ebrei misteriosi. Sembravano tutti un po' tesi, per via di quest'americano. Temevano che non fosse contento di loro, o di come stavano gestendo tutta la faccenda.» Hertz si alza da tavola e si avvicina alla credenza che separa i suoi pasti dal sonno. Da un humidor tira fuori un sigaro, e comincia a rigirarselo fra i palmi delle mani. Lo rigira a lungo, avanti e indietro, finché non sembra svanire completamente dai suoi pensieri. «Io li detesto, i rompicapi» dice infine. «Lo sappiamo» risponde Berko. «Lo sapete.» Zio Hertz si passa il sigaro sotto il naso, inspirando a fondo, con gli occhi chiusi, godendosi non soltanto l'odore - ha l'impressione Landsman - ma anche la freschezza della foglia liscia sulla pelle delle narici. «La mia prima domanda, e forse anche l'unica» dice zio Her-
tz «è questa.» Landsman e Berko aspettano la domanda, mentre lui taglia la punta del sigaro, se lo appoggia tra le labbra sottili, le muove su e giù. «Di che colore erano le mucche?» chiede.
Capitolo trentasei
«Ce n'era una rossa» dice Berko, lentamente, a malincuore, come se gli fosse sfuggito il momento in cui la monetina è scomparsa, anche se lui aveva gli occhi fissi sulle mani del mago. «Tutta rossa?» dice Hertz. «Dalle corna alla coda?» «Era camuffata» dice Berko. «Le avevano spruzzato un qualche pigmento bianco. Non vedo perché uno dovrebbe fare una cosa del genere, a meno che la mucca non abbia qualcosa che va nascosto. Per esempio il fatto che è, come dire...» Fa una smorfia. «Senza macchia.» «Oh, sant'Iddio» dice il vecchio. «Chi sono queste persone, zio Hertz? Tu lo sai, vero?» «Chi sono?» dice Hertz Shemets. «Sono ebrei. Ebrei che si muovono nell'ombra. So che è una tautologia.» Non riesce a decidersi ad accendere il sigaro. Lo posa, lo prende, lo posa di nuovo. Landsman ha la sensazione che stia soppesando un segreto nascosto nel cuore compatto della sua foglia scura e venata. Una linea d'azione, uno scambio di pezzi delicato. «D'accordo» dice infine. «Ho detto una bugia: di domanda ce n'è un'altra. Meyer, tu forse ti ricordi di un certo signore, quand'eri bambino, che veniva al Club scacchistico Einstein. Con te scherzava sempre, avevi un debole per lui. Un certo Litvak.» «Alter Litvak, l'ho visto l'altro giorno» dice Landsman. «All'Hotel Einstein.» «Davvero?» «Ha perso la parola.» «Sì, ha avuto un incidente, il volante gli ha sfondato la trachea. Sua moglie è morta. È successo in Roosevelt Boulevard, dove avevano piantato tutti quei pruni della Virginia. Sono andati a sbattere contro l'unico che non era ancora morto. L'unico
pruno della Virginia in tutto il distretto di Sitka.» «Mi ricordo quando hanno piantato quegli alberi» dice Landsman. «Per la Fiera mondiale.» «Vediamo di non fare i nostalgici» dice il vecchio. «Ne ho fin sopra i capelli degli ebrei nostalgici, a cominciare da me stesso. Di indiani nostalgici non ne vedi mai.» «Perché quando sanno che arrivi tu li nascondono» dice Berko. «I nostalgici e le donne. Dacci un taglio e raccontaci di Litvak.» «Ha lavorato per me» dice Hertz. «Per tanti, tanti anni.» Il suo tono si fa inespressivo, e con sorpresa Landsman si rende conto che lo zio è arrabbiato. Come tutti gli Shemets, anche Hertz ha ricevuto in dono un temperamento irritabile, ma nuoceva al suo lavoro, e così a un certo punto ha dovuto sbarazzarsene. «Alter Litvak era un agente federale?» dice Landsman. «No. Non lo era. Che io sappia, ufficialmente non ha più preso uno stipendio statale da quando trentacinque anni fa si congedò con onore dall'esercito degli Stati Uniti.» «E perché sei tanto arrabbiato con lui?» dice Berko, fissando il padre da dietro le fessure degli occhi. Hertz è sorpreso dalla domanda, cerca di non darlo a vedere. «Io non mi arrabbio mai» dice. «Tranne che con te.» Sorride. «E così bazzica ancora l'Einstein. Non lo sapevo. Ha sempre preferito le carte agli scacchi. Se la cava meglio nei giochi in cui bisogna bluffare. Ingannare. Nascondere.» A Landsman tornano in mente i due ragazzi dall'aria schiva che Litvak gli ha presentato come suoi nipoti. Uno di loro era nel bosco di Perii Strait, se ne rende conto ora, al volante di quella Ford Caudillo con l'ombra sul sedile posteriore. L'ombra di un uomo che non voleva farsi vedere in faccia da Landsman. «Era lui» dice a Berko. «A Perii Strait. L'uomo misterioso sulla macchina.» «Che cosa faceva per te Litvak?» dice Berko. «Durante tutti quegli anni?» Hertz esita, guardando prima Berko, poi Landsman, poi di nuovo il figlio. «Varie cose. Tutte rigorosamente sottobanco. Aveva un sacco di capacità utili. Credo che Litvak sia l'uomo con più talenti che ho mai conosciuto. Capisce i sistemi e i meccanismi di controllo. È paziente e metodico. Una volta era anche incredi-
bilmente forte. Ottimo pilota, meccanico esperto. Un senso dell'orientamento eccezionale. Bravissimo come insegnante. Come addestratore. Merda.» Abbassa un po' sorpreso lo sguardo sui due monconi di sigaro spezzato che stringe nelle mani. Li lascia cadere sui resti di sugo nel suo piatto, quindi stende un tovagliolo su quell'indizio di emozione. «È stato lui a tradirmi» dice. «Con quel giornalista. Ha raccolto prove su di me per anni, dopodiché ha passato tutto a Brennan.» «E perché l'avrebbe fatto?» dice Berko. «Era un tuo uomo,» «Questa è una domanda a cui non so rispondere.» Scuote la testa, perché lui detesta i rompicapi, e con questo dovrà fare i conti per tutta la vita. «Per soldi, anche se a quanto so non gli sono mai interessati. Di sicuro non per questioni morali. Litvak non ha una morale. Non crede in niente. Non è fedele a nessuno se non a chi lavora sotto di lui. Quando a Washington c'è stato il cambio della guardia, ha capito da che parte tirava il vento. Si è reso conto che ero finito, prima ancora che me ne rendessi conto io. Deve aver deciso che i tempi erano maturi. Forse si era stancato di lavorare per me, voleva prendere il mio posto. Gli americani avevano comunque bisogno di un uomo a Sitka, anche dopo avermi silurato e aver chiuso le loro attività ufficiali. Con il loro budget non potevano trovare di meglio che Alter Litvak. Forse lui era stufo di perdere con me a scacchi. Forse ha intravisto la possibilità di battermi, e l'ha presa al volo. Ma non è mai stato un mio uomo. A lui dello status permanente non glien'è mai fregato nulla. Così come non gliene frega nulla, ne sono certo, della causa per cui sta lavorando adesso.» «La giovenca rossa» dice Berko scuotendo la testa. «Chiedo scusa» dice Landsman «ma aiutami a capire. Okay, trovi questa giovenca rossa, senza il minimo difetto. E in un modo o nell'altro riesci a portarla a Gerusalemme.» «Poi l'ammazzi» dice Berko. «Bruci la carcassa, con le ceneri fai un impasto, e ne spalmi un pochino sui tuoi sacerdoti. Altrimenti non possono entrare nel santuario, nel Tempio, perché sono impuri.» Guarda il padre a cercare conferma. «Dico bene?» «Più o meno.» «Okay, ma ecco cos'è che non capisco. Non c'è, come si
chiama...» dice Landsman. «Quella moschea. Sulla collina dove una volta c'era il Tempio?» «Non è una semplice moschea, Meyerle» dice Hertz. «Si chiama Qubbat As-Sakhrak. La Cupola della Roccia. Il terzo più importante luogo sacro dell'Islam. Fatto costruire nel Settimo secolo da Abd al-Malik, nel punto esatto in cui sorgevano i due templi degli ebrei. Dove Abramo andò per sacrificare Isacco, dove Giacobbe vide la scala che portava in cielo. L'ombelico del mondo. Sì. Se uno volesse ricostruire il Tempio e restituire gli antichi rituali, per accelerare la venuta del Messia, allora dovrebbe per forza occuparsi della Cupola della Roccia. È proprio lì in mezzo.» «Bombe» dice Berko con eccessiva nonchalance. «Esplosivi. Alter Litvak si intende anche di questa roba?» «Di demolizioni» dice il vecchio. Allunga la mano verso il bicchiere di slivovitz, ma è vuoto. «Sì, è un esperto.» Landsman spinge indietro la sedia e si alza. Va a prendere il cappello appeso alla porta. «Dobbiamo tornare» dice. «Dobbiamo parlare con qualcuno. Dobbiamo dirlo a Bina.» Apre il cellulare, ma così lontano da Sitka non c'è campo. Prova con il telefono appeso alla parete, ma il numero di Bina lo rimanda alla casella vocale. «Dovete trovare Alter Litvak» le lascia detto Landsman. «Trovatelo, fermatelo e non lasciatelo partire.» Quando si volta di nuovo verso il tavolo, padre e figlio sono ancora seduti, e Berko sta rivolgendo a Hertz Shemets una qualche domanda cruciale, ma senza dire nulla. Berko ha le mani appoggiate sul grembo, come un bravo bambino, ma non è un bravo bambino, e se tiene le dita intrecciate è solo per impedire loro di fare dei guai, o del male. Dopo un silenzio che a Landsman sembra lunghissimo, zio Hertz abbassa lo sguardo. «La sinagoga di St. Cyril» dice Berko. «La rivolta.» «La rivolta di St. Cyril» concorda Hertz Shemets. «Cazzo.» «Berko...» «Cazzo! Gli indiani hanno sempre detto che a incendiarla erano stati gli ebrei.» «Devi tenere presente la pressione a cui eravamo sottoposti» dice Hertz. «All'epoca.» «Oh, ma io ce l'ho presente» dice Berko. «Credimi. L'atto ri-
solutivo. Il confine sottile.» «Quegli ebrei, quei fanatici, la gente che si stava spostando nelle zone contese. Stavano mettendo in pericolo lo status dell'intero distretto. Confermando i peggiori timori degli americani su ciò che avremmo fatto se ci avessero concesso lo status permanente.» «A-ah» dice Berko. «D'accordo. Ma la mamma? Anche lei era un pericolo per il distretto?» Zio Hertz allora parla, o meglio, il fiato emerge dai suoi polmoni e attraversa il cancello dei denti in un modo che ricorda la parola umana. Abbassa gli occhi sul grembo, quindi emette di nuovo lo stesso suono, e Landsman si rende conto che sta dicendo «scusami». Una lingua che nessuno gli ha mai insegnato. «Sai, io in fondo credo di averlo sempre saputo» dice Berko alzandosi da tavola. Recupera cappello e giubbotto dall'appendiabiti. «Perché tu non mi sei mai piaciuto. Nemmeno per un secondo, brutto bastardo. Andiamocene.» Landsman segue il collega fuori casa. Mentre varca la soglia è costretto a farsi da parte, perché Berko sta rientrando. Berko butta cappello e giubbotto da una parte. Poi si colpisce in testa, due volte, con entrambe le mani. Poi stritola una sfera invisibile, grande più o meno quanto il cranio del padre, tra le dita delle mani allargate. «È tutta la vita che ci provo» dice infine. «Cazzo, guardami!» Si strappa lo zucchetto dalla testa e se lo piazza davanti agli occhi, contemplandolo con improvviso disgusto, come fosse il suo stesso cuoio capelluto sanguinante. Poi lo tira addosso al padre. Lo zucchetto colpisce Hertz Shemets sul naso, e va a cadere sul tovagliolo, sul sigaro spezzato, sul sugo d'alce. «Guarda!» Si afferra la camicia e la strappa, in una pioggia di bottoni. Mostra il semplice tessuto bianco dello scialle rituale, come se fosse il giubbotto antiproiettile più fragile del mondo, il suo kevlar bianco sacro, solcato da una striscia azzurra come una creatura marina. «Io questo coso lo odio.» Solleva lo scialle sulla testa, alza le spalle e se lo sfila di scatto, rimanendo in maglietta bianca di cotone. «Ogni fottuto giorno della mia vita mi alzo e me lo metto addosso, e faccio finta di essere quello che non sono. Che non sarò mai. E lo faccio per te.» «Io non ti ho mai chiesto di praticare questa religione» dice il vecchio, senza alzare gli occhi. «Non mi pare di averti mai
fatto alcun tipo di...» «Non c'entra niente la religione» dice Berko. «C'entra il fatto che sei mio padre, cazzo.» È attraverso la madre, naturalmente, che si trasmette l'appartenenza al popolo ebraico. Ma Berko questo lo sa. Lo sa dal giorno che si è trasferito a Sitka. Lo vede ogni volta che si guarda allo specchio. «Non ha senso» prosegue il vecchio, quasi bonfonchiando, tra sé e sé. «Una religione da schiavi. Legarsi della roba addosso. Come dei sadomasochisti. Io quello non me lo sono mai messo in vita mia.» «No?» Landsman è colto alla sprovvista dalla rapidità e dall'imponenza dello spostamento di Berko Shemets dalla porta di casa al tavolo da pranzo. Prima che possa rendersi conto di cosa sta accadendo, Berko sbatte lo scialle rituale in testa al padre. Gli blocca la testa nell'incavo di un braccio, e con l'altro gli fa girare intorno le frange annodate, più volte, avvolgendogli i contorni del viso in sottilissimi strati di lana. Sembra che stia impacchettando una statua per la spedizione. Il vecchio scalcia, graffia l'aria con le unghie. «Non te lo sei mai messo, eh?» dice Berko. «Non te lo sei mai messo! E allora prova il mio! Provalo, brutto stronzo!» «Basta!» Landsman si precipita a salvare l'uomo la cui passione sfrenata per le strategie di finta e attacco ha provocato, magari in modo imprevisto, ma non per questo meno diretto, la morte di Laurie Jo Bear. «Dai, Berko. Basta.» Afferra Berko per il gomito e lo tira via, e quando riesce a infilarsi in mezzo a loro comincia a spintonare l'uomo grande e grosso verso la porta. «Va bene.» Berko alza le mani, e si lascia spingere da Landsman un altro mezzo metro più in là. «Va bene, ho finito. Piantala, Meyer.» Landsman si calma, smette di spingerlo. Berko si sistema la maglietta nei pantaloni e fa per abbottonarsi la camicia, ma i bottoni sono volati tutti via. Rinuncia, si liscia i capelli neri foltissimi con il palmo di una mano, si china a raccogliere da terra il cappello e il giubbotto, ed esce. La sera entra in riccioli di nebbia nella casa coi trampoli sospesa sull'acqua. Landsman si volta verso il vecchio, immobile sulla sedia con la testa avvolta nello scialle, come un ostaggio che non può ve-
dere il volto dei suoi rapitori. «Hai bisogno d'aiuto, zio Hertz?» chiede Landsman. «Sto bene» risponde lui, con la voce lontana, smorzata dal tessuto. «Grazie.» «Pensi di rimanere lì così?» Il vecchio non risponde. Landsman si mette il cappello ed esce. Stanno salendo in macchina quando sentono lo sparo, un tuono che traccia nel buio la mappa delle montagne, illuminandole di echi riflessi, quindi si spegne. «Cazzo» dice Berko. È dentro casa prima ancora che Landsman sia arrivato ai gradirli. Quando Landsman entra correndo, Berko è accovacciato accanto al padre, che ha assunto una strana posizione sul pavimento accanto al letto, da ostacolista in corsa, con una gamba sollevata contro il petto e l'altra stesa dietro. Nella mano destra stringe con poca forza un revolver nero a canna corta; nella sinistra, lo scialle rituale. Berko gli fa allungare le gambe, lo gira sulla schiena, e gli cerca il battito sul collo. Sulla tempia di suo padre c'è una macchia rossa e lucida, appena sopra la coda dell'occhio. Capelli strinati impiastricciati di sangue. Si direbbe uno sparo scadente. «Merda!» dice Berko. «Ma che cazzo hai fatto, papà?» «Ma che cazzo ha fatto?» gli fa eco Landsman. «Papà!» urla Berko, dopodiché abbassa la voce in un rantolo viscerale, e mormora qualcosa, una o due parole, nella lingua che ha abbandonato. Tamponano l'emorragia e gli fasciano la ferita. Landsman si guarda intorno in cerca del proiettile, e trova il forellino che si è aperto nella parete di compensato. «Questa dove l'ha presa?» dice Landsman raccogliendo la pistola. È un'arma semplice, con i bordi consumati, vecchia. «Una calibro .38 Detective Special?» «Che ne so. Ha un sacco di pistole. Gli piacciono, le pistole. È forse l'unica cosa che avevamo in comune.» «Secondo me è quella con cui si è sparato Melekh Gaystik al Caffè dell'Hotel Einstein.» «Non mi stupirebbe affatto» dice Berko. Si carica sulle spalle il fagotto del padre, e insieme lo portano alla macchina, dove lo adagiano sul sedile posteriore su alcuni asciugamani. Landsman accende la sirena mobile, che in cinque anni avrà usato sì e no due volte. Poi ripartono su per la montagna.
A Nayeshtat c'è un pronto soccorso, ma un sacco di gente c'è morta, e allora decidono di portarlo direttamente all'ospedale centrale di Sitka. Per strada, Berko chiama la moglie. Le spiega, in maniera un po' sconnessa, che suo padre e un uomo di nome Alter Litvak sono indirettamente responsabili della morte di sua madre, durante il più violento scontro tra indiani ed ebrei mai verificatosi nei sessant'anni di storia del distretto, e che suo padre si è sparato in testa. Le dice che adesso lo porteranno al pronto soccorso dell'ospedale centrale di Sitka e che lo molleranno lì, perché lui, Berko, è un poliziotto, porca puttana, e ha del lavoro da fare, e perché suo padre può anche morire, per quel che lo riguarda. Ester-Malke sembra accettare il programma così com'è stato formulato, e Berko mette giù. Per circa dieci, quindici minuti scompaiono in una zona dove i cellulari non prendono, e quando ne escono, senza mai aver aperto bocca, sono quasi a Sitka, e lo Shoyfer attacca a squillare. «No» dice Berko. Poi, più rabbioso: «No». Ascolta il ragionamento della moglie per meno di un minuto. Landsman non ha idea di cosa Ester-Malke gli dica, se gli faccia una lezione di etica professionale, o di normale decenza, o di clemenza, o di dovere di un figlio verso il padre, che viene prima e va al di là di tutto il resto. Alla fine Berko scuote solo la testa. Si gira verso il sedile posteriore a guardare il vecchio ebreo lì disteso. «D'accordo.» Chiude il telefono. «Io mi fermo all'ospedale» dice, con voce sconfitta. «Chiamami quando trovi quel pezzo di merda di Litvak.»
Capitolo trentasette
«Avrei bisogno di parlare con Katherine Sweeney» dice Bina al telefono. Sweeney, viceprocuratore distrettuale degli Stati Uniti, è una donna onesta e competente, ed è probabile che ascolti ciò che Bina ha da dirle. Landsman allunga di scatto un braccio, butta la mano sulla scrivania, e con la punta di un dito chiude la comunicazione. Bina lo guarda con un grande, lento battito d'ali di ciglia. È riuscito a spiazzarla. Succede raramente. «Dietro questa storia ci sono loro» dice Landsman con il dito sul pulsante. «Kathy Sweeney» dice Bina, senza staccare la cornetta dall'orecchio. «Be', no. Lei non credo.» «L'ufficio del procuratore distrettuale degli Stati Uniti?» «Forse. No, probabilmente no.» «E allora arriviamo al ministero della Giustizia.» «Sì. Che ne so. Mi spiace, Bina, non ho idea di quanto in alto arrivi questa cosa.» Ora l'effetto sorpresa è svanito: Bina lo fissa senza sbattere le palpebre. «Okay, Meyer. Adesso mi stai a sentire tu. Innanzitutto togli questo dito peloso dal mio telefono.» Landsman ritira le falangi incriminate prima che i raggi laser degli occhi di Bina gliele trancino di netto all'altezza della nocca. «Non toccare il mio telefono, Meyer.» «Non lo farò mai più.» «Se la storia che mi hai raccontato è vera» prosegue Bina con il tono di una maestra che si rivolge a una classe di bambini di cinque anni imbecilli «allora io devo informare Kathy Sweeney. E probabilmente anche il ministero degli Esteri. Forse addirittura quello della Difesa.»
«Ma...» «Perché non so se te l'hanno detto, Meyer, ma la Terra Santa non rientra in questo distretto.» «Certo, Bina, lo so. Ma ascoltami. Qualcuno di potente, ma molto potente, si è introdotto nel database dell'ente per l'aviazione americano, e ha fatto sparire quel file. Lo stesso qualcuno ha promesso al consiglio dei tlingit di restituirgli il distretto, se per un po' lasciavano che Litvak portasse avanti il suo programma a Perii Strait.» «Questo te l'ha detto Dick?» «Me l'ha fatto chiaramente capire. E, con tutto il rispetto per i signori Lederer di Boca Raton, sono convinto che questo stesso qualcuno stia anche staccando gli assegni che finanziano il livello clandestino dell'attività. Il campo di addestramento. Le armi e tutto il resto. L'allevamento di bestiame. La mano è la stessa.» «Il governo degli Stati Uniti.» «È quello che sto dicendo.» «Perché per loro l'idea che un branco di yiddish fuori di testa vada in giro per la Palestina a far saltare i luoghi di culto degli arabi, inseguendo il Messia e facendo scoppiare la Terza guerra mondiale, in realtà è un'ottima idea.» «Sì, Bina. Sono pazzi. E lo sai anche tu. Forse nella Terza guerra mondiale ci sperano. Forse vogliono indire una nuova Crociata. Forse pensano che facendo così Gesù ritornerà. O forse tutto questo non c'entra niente, ed è solo una faccenda di petrolio. Per, come dire, assicurarsi la loro benedetta riserva una volta per tutte. Non lo so.» «Complotti governativi, Meyer.» «So che sembra assurdo.» «Galline parlanti, Meyer.» «Mi dispiace.» «Avevi promesso.» «Lo so.» Poi Bina riprende in mano il telefono, e compone il numero dell'ufficio del procuratore distrettuale. «Bina, ti prego, metti giù.» «Ti ho seguito un sacco di volte nei tuoi angolini scuri, Meyer Landsman» dice. «Ma questa volta no.» Landsman sa che probabilmente non può biasimarla. Quando riesce a farsi passare la Sweeney, Bina le riferisce i
passaggi essenziali della storia di Landsman: i Verbover e un gruppo di ebrei messianici si sono alleati e progettano un attentato contro un importante luogo di culto musulmano in Palestina. Sorvola sugli elementi soprannaturali e sulle pure e semplici congetture. Sorvola sulla morte di Naomi Landsman e di Mendel Shpilman. Riesce a far suonare il tutto talmente inverosimile da renderlo credibile. «Adesso magari vedo se riesco a rintracciare questo Litvak» dice alla Sweeney. «D'accordo, Kathy. Grazie. Sì, lo so. Speriamo.» Mette giù. Prende la sfera souvenir che tiene sulla scrivania, con dentro lo skyline di Sitka in miniatura, e la scuote, e guarda la neve cadere. Dall'ufficio ha tolto tutto il resto, i soprammobili, le fotografie. Solo la sfera con la neve e i suoi attestati incorniciati alla parete. Anche così, il posto resta bello come un autobus visto da sotto. Bina c'è seduta in mezzo, con indosso l'ennesimo triste tailleur pantalone grigio, i capelli raccolti sulla testa e fissati con forcine, elastici e altri utili oggetti recuperati dal cassetto della scrivania. «Non ti ha riso in faccia» dice Landsman. «Vero?» «Non è il tipo» dice Bina. «E comunque no. Vuole altre informazioni. Non significa nulla, ma la sensazione che ho avuto io è che non fosse la prima volta che sentiva parlare di Alter Litvak. Ha detto che non le dispiacerebbe farci due chiacchiere, se lo troviamo.» «Buchbinder» dice Landsman. «Il dottor Rudolf Buchbinder. Te lo ricordi? Quello che l'altra sera è uscito dalla Polar-Shtern mentre tu entravi.» «Il dentista, quello di Ibn-Ezra Street?» «Mi ha detto che sta per trasferirsi a Gerusalemme» dice Landsman. «Pensavo che straparlasse come sempre.» «L'Istituto qualcosa» ricorda Bina. «Inizia per M.» «Miryam.» «Moriah.» Bina si mette al computer e trova il numero dell'Istituto Moriah nella directory dei nominativi non presenti sull'elenco telefonico. L'indirizzo è 822 Max Nordau Street, settimo piano. «Ottocentoventidue» dice Landsman. «Ah.» «Non è vicino a dove stai tu?» Bina compone il numero che ha trovato.
«Davanti» dice Landsman con un po' d'imbarazzo. «L'Hotel Blackpool.» «Macchina» dice. Interrompe la chiamata con la punta di un dito e compone un altro numero di quattro cifre. «Sono Gelbfish.» Manda degli agenti, alcuni in borghese, a piantonare gli ingressi dell'Hotel Blackpool. Poi posa la cornetta sul telefono, e rimane a fissarlo. «Okay» dice Landsman. «Andiamo.» Ma Bina non si muove. Rimane lì seduta, lo sguardo fisso sul telefono. «Sai, Meyer, è stato bello non doversi più sorbire tutte le tue stronzate. Non dover vivere immersi nella Landsmania ventiquattr'ore su ventiquattro.» «Per questo ti invidio» dice Landsman. «Hertz, Berko, tua madre, tuo padre. Tutti voi.» Poi aggiunge, in americano: «Branco di psicopatici del cazzo». «Lo so.» «Naomi era l'unica persona sana di mente della famiglia.» «Lei pensava lo stesso di te» rivela Landsman. «Solo che diceva "al mondo".» Due colpi in rapida sequenza sulla porta. Landsman si alza, pensando che sia Berko. «Salve» dice l'uomo sulla porta, in americano. «Non credo che ci conosciamo.» «Lei chi è?» gli chiede Landsman. «Io vostra pompa funebre» risponde l'uomo, in un yiddish pessimo ma energico. «Il signor Spade è qui per gestire la transizione» dice Bina. «Mi pare di averle detto che sarebbe arrivato, detective Landsman.» «Credo di sì.» «Detective Landsman» dice Spade, ripiegando misericordiosamente sull'americano. «Il famigerato detective Landsman.» Non è il panzone con l'aria da golfista che Landsman si era immaginato. Troppo giovane, faccia anonima, petto e spalle larghe. Indossa un abito di lana pettinata grigio abbottonato su una camicia bianca, con una cravatta blu disseminata di puntini da assenza di segnale televisivo. Il collo è una massa unica di follicolite e peli sfuggiti al rasoio. La sporgenza del pomo d'Adamo suggerisce serietà e sincerità incommensurabili. Sul ba-
vero porta una spilla a forma di pesce stilizzato. «Che ne dice se io, lei e il suo comandante ci sediamo a fare due chiacchiere?» «Okay» dice Landsman. «Ma io preferisco stare in piedi.» «Come preferisce, detective. Allora che ne dice se magari ci spostiamo dalla porta?» Landsman si fa da parte, invitando Spade ad accomodarsi con un cerimonioso gesto del braccio. Spade chiude la porta. «Detective Landsman, ho motivo di credere» dice Spade «che lei stia conducendo un'indagine non autorizzata, nonché, essendo lei attualmente sospeso...» «Con stipendio» dice Landsman. «... illegale su un caso che è stato ufficialmente dichiarato archiviato. Inoltre si avvale dell'aiuto del detective Berko Shemets, a sua volta non autorizzato. E magari mi sbaglio, ma non mi sorprenderebbe affatto se anche lei avesse contribuito, ispettore Gelbfísh.» «In realtà non ha fatto altro che rompere le palle» dice Landsman. «Sinceramente. Altro che contribuire.» «Ho appena chiamato l'ufficio del procuratore distrettuale statunitense» dice Bina. «Ah, sì?» «Forse il caso lo prenderanno in mano loro.» «Ma davvero.» «È fuori dalla mia giurisdizione. Esiste - potrebbe esistere una minaccia. Contro un obbiettivo estero. Da parte di residenti del distretto.» «O-oh!» Spade sembra al tempo stesso scandalizzato e compiaciuto. «Una minaccia? Roba da matti!» Un liquido freddo e denso riempie lo sguardo di Bina, qualcosa a metà tra il mercurio e il fango. «Sto cercando di rintracciare un certo Alter Litvak» dice, trascinando una grande stanchezza ai bordi della voce. «Potrebbe avere a che fare con la minaccia in questione. In ogni caso mi interessa sapere che cosa sa sull'omicidio di Mendel Shpilman.» «A-ah» dice Spade affabile, forse giusto un tantino distratto, come chi finge di interessarsi ai dettagli insignificanti della tua vita privata mentre con la mente naviga su una sua Internet interiore. «Sì, signora, ma vede, il fatto è che io, in qualità di... com'è che dite voi? La persona... delle pompe funebri... che ri-
mane a vigilare sul cadavere... quando il morto è ebreo...» «Si chiama shomer» dice Bina. «Ecco. In qualità di attuale shomer di questo posto, io devo dirle di no. Lei ora lascerà stare tutta questa faccenda, e anche il signor Litvak.» Bina aspetta a lungo prima di dire qualsiasi cosa. La stanchezza della voce sembra ora fluirle nelle spalle, nella mandibola, nei tratti del viso. «È invischiato anche lei, Spade?» dice. «Io personalmente? No, signora. La task-force di transizione? Nemmeno. La commissione per la Restituzione? Figuriamoci. La verità è che io, di tutto questo casino, non so granché. E quel poco che so non sono autorizzato a rivelarlo. Io mi occupo di gestione delle risorse, ispettore. Nient'altro. E se sono venuto qui è per dirle, con tutto il dovuto rispetto, che su questa faccenda di risorse ne sono già state sprecate abbastanza.» «Sono le mie risorse, signor Spade» dice Bina. «E per i prossimi due mesi posso ancora parlare con tutti i testimoni che voglio. Nonché arrestare chi mi pare.» «Non se l'ufficio del procuratore distrettuale le chiede di farsi da parte.» Squilla il telefono. «Sarà il procuratore» dice Landsman. Bina alza la cornetta. «Ciao, Kathy» dice. Rimane ad ascoltarla per un minuto, annuendo, senza aprire bocca. Poi dice: «Capisco», e mette giù. La sua voce è calma e priva d'emozione. Sul volto ha un sorriso teso, e china la testa, con umiltà, come chi è stato sconfitto pesantemente. Landsman si rende conto che non lo sta guardando di proposito, perché se lo guardasse forse qualche lacrima spunterebbe. E sa benissimo fin dove deve spingersi l'indignazione di Bina Gelbfish prima che si presenti il rischio delle lacrime. «E io che avevo preparato tutto così bene» dice. «E questo posto, credimi» interviene Landsman «prima che arrivassi tu era un macello.» «Ero quasi pronta a passarglielo in consegna» dice a Spade. «Tutto sistemato per benino. Senza briciole. Senza fili che spuntano.» Ci ha lavorato con così tanta cura, ha accumulato punti, ha baciato i culi che andavano baciati. Fatto i lavori che nessuno
voleva fare. Ha impacchettato il commissariato centrale di Sitka e ci si è piazzata sopra come un fiocco decorativo. «Mi ero perfino sbarazzata di quell'orrido divanetto» dice. «Cosa diavolo sta succedendo, Spade?» «Sinceramente non lo so, signora. E se anche se lo sapessi, negherei.» «Su questo fronte le hanno ordinato di evitare casini.» «Proprio così, signora.» «Mentre l'altro fronte è la Palestina.» «Io della Palestina so poco» dice Spade. «Sono texano, vengo da Lubbock. Però mia moglie è di Nacogdoches, e in effetti a sessanta chilometri da lì c'è un paesino che si chiama Palestine.» Bina per un attimo rimane senza espressione, poi la rabbia le arrossa le guance. «Non provi a fare battute» dice. «Non si permetta.» «No, signora» risponde Spade, e adesso è lui ad arrossire un po'. «Io prendo il mio lavoro molto sul serio, signore. E anche a lei, mi creda, conviene prendere la sottoscritta fottutamente sul serio.» «Sì, signora.» Bina si alza da dietro la scrivania e prende il parka arancione dall'appendiabiti. «Io adesso vado a prendere Alter Litvak. E lo porto qui. E lo interrogo. E magari lo arresto pure. Vuole fermarmi? Ci provi.» Mentre passa accanto a Spade, che è rimasto spiazzato, lo sfiora con il parka. «Ma se prova a fermarmi, su questo fronte i casini non riuscirà a evitarli. Glielo prometto.» Esce e sparisce, per un attimo. Poi fa di nuovo capolino sulla porta, infilandosi la giacca arancione accecante. «Ehi» dice a Landsman. «Un po' di rinforzi non mi fanno schifo.» Landsman si infila il cappello e parte al suo seguito. Uscendo guarda Spade. «Sia lodato il Signore» gli dice.
Capitolo trentotto
L'Istituto Moriah occupa da solo il settimo e ultimo piano dell'Hotel Blackpool. Sulle pareti del corridoio c'è una mano di pittura fresca, e per terra una moquette color malva pulitissima. In fondo al corridoio, accanto alla porta della 707, su una non vistosa targa d'ottone c'è scritto, in caratteri neri piccoli, il nome dell'Istituto, in americano e in yiddish, e al di sotto di quello, in caratteri latini: CENTRO SOL E DOROTHY ZIEGLER. Bina preme il campanello. Alza gli occhi verso l'obbiettivo della telecamera di sicurezza che li guarda dall'alto. «I patti te li ricordi» dice Bina a Landsman. Non è una domanda. «Devo stare zitto.» «Questa è solo una minima parte dell'accordo.» «È come se non ci fossi. Non esisto.» Bina suona di nuovo, poi, proprio mentre alza le nocche delle dita per bussare, Buchbinder apre la porta. Stavolta indossa un maglione diverso, una sorta di enorme giacca di lana, color fiordaliso a macchioline verde chiaro, su un paio di pantaloni kaki larghi e una felpa della Bronfman University. Ha la faccia e le mani macchiate di inchiostro o grasso. «Ispettore Gelbfish» dice Bina mostrandogli il distintivo. «Commissariato centrale di Sitka. Sto cercando Alter Litvak. Ho motivo di credere che possa trovarsi qui.» Un dentista non è uomo d'astuzia, solitamente. Il viso di Buchbinder si decifra facilmente e non nasconde nulla: li stava aspettando. «È molto tardi» tenta. «A meno che...» «Alter Litvak, dottor Buchbinder. È qui?» Landsman vede Buchbinder lottare con le meccaniche e le traiettorie, con il repentino cambio di vento di una possibile bugia. «No. No, non c'è.»
«Lei sa dove si trova?» «No, ispettore. No.» «Ah. Okay. Non è che per caso sta mentendo, dottor Buchbinder?» C'è un breve, denso silenzio. Poi Buchbinder gli chiude la porta in faccia. Bina bussa, e il suo pugno è la testa e il becco instancabile di un picchio. Un attimo dopo Buchbinder riapre la porta, infilandosi lo Shoyfer nella tasca del giaccone. Annuisce, con le guance, le mandibole e il luccichio negli occhi predisposti in modo tale da sortire un'impressione di affabilità. Qualcuno gli ha colato una piccola tramoggia di ferro fuso nella spina dorsale. «Prego, accomodatevi» dice. «Il signor Litvak vi riceverà. È di sopra.» «Non siamo all'ultimo piano?» chiede Bina. «C'è un attico.» «Le topaie non hanno attici» dice Landsman. Bina lo fulmina con uno sguardo. Landsman dev'essere invisibile, inaudibile, un fantasma. Buchbinder abbassa la voce. «Una volta serviva al tecnico manutentore, a quanto ho capito. Ma poi l'hanno risistemato. Da questa parte, prego. In fondo c'è una scala.» Le pareti interne sono state abbattute. E Buchbinder li accompagna attraverso la sala espositiva del Centro Ziegler. È uno spazio fresco, con luci soffuse, imbiancato da poco, niente a che vedere con la sudicia ex cartoleria di Ibn-Ezra Street. La luce emerge da un reticolo di cubi di vetro o di lucite, posizionati su piedistalli ricoperti di moquette. Ciascun cubo contiene un oggetto in esposizione, una paletta d'argento, una ciotola di rame, un incomprensibile indumento che potrebbe essere indossato dall'ambasciatore zorvoldiano in un'opera lirica spaziale. In mostra ci sono oltre un centinaio di oggetti, molti in oro e gemme. Ciascuno reclamizza i nomi degli ebrei americani che con il loro gentile contributo ne hanno reso possibile la fabbricazione. «Ne ha fatta, di strada» dice Landsman. «Sì, è meraviglioso» risponde Buchbinder. «Un miracolo.» In fondo alla sala ci sono una decina di grossi scatoloni da trasloco, che traboccano di trucioli di pino. Dal materiale per imballaggio spunta un grazioso manico d'argento cesellato d'oro. Al centro della sala, su un tavolo basso e ampio, il modelli-
no in scala di una brulla collina corrugata di rocce assorbe la luce di una decina di spot alogeni. La sommità della collina, dove Isacco attese che il padre gli cavasse dal corpo il muscolo della vita, è piatta come un centrino steso su un tavolo. Sui fianchi, case di pietra, vicoletti di pietra, minuscoli olivi e cipressi irti di fogliame. Minuscoli ebrei avvolti in minuscoli scialli da preghiera contemplano il vuoto in cima alla collina, come a illustrare o incarnare il principio, pensa Landsman, secondo cui ogni ebreo ha un Messia personale che non arriva mai. «Non vedo il Tempio» dice Bina, quasi involontariamente. Buchbinder emette uno strano grugnito, animalesco e soddisfatto. Poi, con la punta di un mocassino, preme un pulsante sul pavimento. Segue un click ovattato, quindi il ronzio di una piccola ventola. Infine, in scala analoga, il Tempio eretto da Salomone, distrutto dai babilonesi, ricostruito, restaurato dallo stesso re di Giudea che condannò a morte Cristo, distrutto dai romani, il Tempio che gli omayyadi fecero sigillare e su cui costruirono, riprende il posto che gli spetta di diritto nell'ombelico del mondo. La tecnologia che genera quest'immagine imprime al modello un fulgore miracoloso. Luccica come una fata morgana. Nel progetto, il Terzo Tempio è un sobrio esempio di potente architettura in pietra, cubi e pilastri e ampie piazze. Qua e là, un mostro offre un tocco di barbarie. Questo è il documento che Dio ha lasciato in mano agli ebrei, pensa Landsman, la promessa su cui da allora gli stiamo dando il tormento. La torre che attende il re nel finale di partita del mondo. «Ora faccia partire il trenino» dice Landsman. In fondo alla sala c'è una scala stretta, aperta su un lato, e dall'altro a filo della parete. In cima c'è una porta nera di acciaio smaltato. Buchbinder bussa delicatamente. Il ragazzo che viene ad aprire la porta è uno dei nipoti che Landsman aveva visto all'Hotel Einstein, il giovane americano paffuto con le spalle larghe e la pelle sulla nuca rosea. «Credo che il signor Litvak mi stia aspettando» dice Bina affabile. «Sono l'ispettore Gelbfish.» «Dovete aspettare cinque minuti» dice il giovane, in un yiddish dignitoso. Non può essere più che ventenne. Ha l'occhio sinistro leggermente strabico, e sulle guance più acne che barba. «Il signor Litvak ha molto da fare.» «E lei chi sarebbe?»
«Può chiamarmi Micky.» Bina gli si piazza sotto il naso e gli punta decisa il mento verso la gola. «Micky, so che questo ai tuoi occhi mi rende una persona cattiva, ma a me davvero non importa quant'è occupato il signor Litvak. Ho bisogno di parlargli per tutto il tempo che mi occorre. Adesso portami da lui, tesoro, altrimenti sarai tu a non aver niente da fare, e per un bel po'.» Micky lancia un'occhiata a Landsman, come a dire «Che rompipalle». Landsman finge di non capire. «Vogliate scusarmi» dice Buchbinder con un inchino «ma ho parecchie faccende da sbrigare.» «È in partenza, dottore?» chiede Landsman. «Gliel'ho già detto» risponde il dentista. «Forse le cose dovrebbe scriversele.» L'attico dell'Hotel Blackpool non è niente di che. Una suite di due stanze. Nella prima ci sono un divano-letto, un angolo bar con un piccolo frigorifero, una poltrona con braccioli, e sette giovanotti vestiti di nero con i capelli tagliati malissimo. Il divano-letto è chiuso, ma si sente dall'odore che nella stanza ci dormono dei ragazzi, forse addirittura sette. Dalla fessura tra i cuscini del sedile spunta un angolino di lenzuolo, come un lembo di camicia impigliato in una cerniera. I ragazzi stanno guardando un televisore enorme, sintonizzato su un canale satellitare di sole notizie. Sullo schermo, il primo ministro della Manciuria stringe la mano a cinque astronauti manciuriani. Lo scatolone che conteneva il televisore è appoggiato per terra accanto a ciò che conteneva. Sul tavolino davanti al divano ci sono bottigliette di integratori salini e pacchetti di semi di girasole, circondati da mucchietti di bucce. Landsman individua tre pistole, tutte automatiche, due infilate nella cintola dei pantaloni, una in un calzino. Il calcio di una quarta, forse, sotto una coscia. Nessuno è contento di vedere i detective. I ragazzi hanno anzi un'aria cupa, tesa. Vorrebbero essere da qualsiasi altra parte. «Mostrateci il mandato.» È Gold a parlare, il messicano di Perii Strait con l'aria affilata di un coltellino da galera. Si alza dal divano e va verso di loro. Riconoscendo Landsman, un sopracciglio gli rimane impigliato in cima alla fronte. «Signora, lui non ha il diritto di stare qui. Lo faccia uscire.» «Calma» dice Bina. «Tu come ti chiami?»
«Lui è Gold» dice Landsman. «Ah, d'accordo. Allora, Gold, ti spiego. Voi siete uno, due, tre... sette. Noi siamo in due.» «E io nemmeno ci sono» dice Landsman. «Sono frutto della tua immaginazione.» «Sono venuta qui per parlare con Alter Litvak, tesoro, e per questo non mi serve un pezzo di carta. In ogni caso, anche se volessi arrestarlo, il mandato potrei tranquillamente ottenerlo dopo.» Gli regala il suo sorriso da vincitrice, un tantino provato dall'uso. «Giuro.» Gold esita. Fa per consultarsi con i sei compagni, per capire che cosa secondo loro dovrebbe fare, ma poi un qualche aspetto di quella procedura, o forse la vita in generale, di colpo gli appare inutile. Si avvicina alla porta della camera da letto e bussa. Da dietro la porta si sente il rantolo agonizzante di un ensemble di cornamuse perforate. La stanza è ordinata e spartana come la casa di Hertz Shemets, con tanto di scacchiera. Niente televisore. Niente radio. Solo una sedia e una libreria, e in fondo una brandina pieghevole. Una veneziana d'acciaio lunga fino a terra sbatacchia al vento che spira dal golfo. Litvak è seduto sulla brandina, con le ginocchia unite, un libro aperto sul grembo. Sorseggia un qualche beverone nutritivo da una cannuccia verde flessibile. Quando Bina e Landsman entrano, Litvak appoggia la lattina sulla libreria, accanto al taccuino con la copertina marmorizzata. Appoggia un nastrino sulla pagina, quindi chiude il libro. Landsman vede che si tratta di una vecchia edizione di Tarrasch, forse Trecento partite di scacchi. Poi Litvak alza la testa. I suoi occhi sono due monete opache. Il viso, nient'altro che cavità e spigoli, un commento in cuoio giallo sulla struttura del teschio. Attende, come se quei due fossero venuti a mostrargli un gioco di prestigio con le carte, e sul viso ha un'espressione complessa, da nonno pronto a rimanere deluso e al tempo stesso mostrarsi divertito. «Mi chiamo Bina Gelbfish. Meyer Landsman lo conosce.» «Conosco anche te», dicono gli occhi del vecchio. «Rebbe Litvak non può parlare» dice Gold. «Ha la laringe danneggiata.» «Capisco» dice Bina. Contempla la devastazione che il tempo, le ferite e le leggi fisiche hanno inflitto sull'uomo con cui, diciassette, forse diciott'anni fa, ballò la rumba al matrimonio
di Shefra Sheynfeld, cugina di Landsman. Mette da parte i modi spavaldi da shammes, pur senza abbandonarli. Non li abbandona mai. Diciamo che li ripone nella fondina, ma senza la sicura, e con una mano sospesa a mezz'aria, le dita flesse, all'altezza dei fianchi. «Signor Litvak, il detective Landsman mi ha raccontato alcune cose abbastanza incredibili sul suo conto.» Litvak prende il taccuino, su cui poggia di traverso il sigaro nero e lucido della sua Waterman. Con le dita di una mano lo apre, se lo appoggia su un ginocchio, osservando Bina come osservava la scacchiera al Club Einstein, cercando l'apertura, visualizzando venti possibilità, eliminandone diciannove. Svita il tappo della penna. Il taccuino è aperto sull'ultimissima pagina. Ci scrive. A lei le storie incredibili non interessano. «È vero, signor Litvak. Non mi interessano. Ormai sono tanti anni che faccio il detective, e le volte in cui una storia incredibile si è rivelata utile, o vera, le conto sulle dita di una mano.» Bella sfortuna amare le spiegazioni semplici in un mondo pieno di ebrei. «Concordo.» Un destino difficile essere ebrei e poliziotti, allora. «A me piace» risponde Bina con semplicità, con trasporto. «Quando non lo sarò più ne sentirò la mancanza.» ' Litvak si stringe nelle spalle, come a dire che gli piacerebbe tanto capirla, se solo potesse. I suoi occhi duri bordati di rosso acceso si spostano sulla porta, e inarcando un sopracciglio Litvak rivolge una domanda a Gold. Gold scuote la testa. Poi torna a guardare la televisione. «Mi rendo conto che non sia facile» dice Bina. «Ma devo chiederle di dirci cosa sa di Mendel Shpilman, Rebbe Litvak.» «E di Naomi Landsman» aggiunge Landsman. Se pensa che abbia ucciso Mendel è fuori strada quanto lui. «Io non penso proprio niente» dice Bina. Beata lei. «È un dono che ho.» Litvak guarda l'orologio ed emette un suono accidentato che Landsman interpreta come un sospiro paziente. Schiocca le dita, e quando Gold arriva agita il taccuino pieno. Gold torna di là, e poco dopo si ripresenta con un taccuino nuovo. Attraversa la stanza e lo porge a Litvak, insieme con uno sguardo che si offre di liberarlo o sbarazzarsi di quegli ospiti importuni in una
quantità di modi interessanti. Litvak lo scaccia, rispedendolo verso la porta con un cenno della mano. Poi si fa scivolare un po' più in là sulla brandina e con una mano batte qualche colpetto sullo spazio libero accanto a lui. Bina si abbassa la cerniera del parka e va a sedersi. Landsman sposta la sedia di legno vicino a loro. Litvak apre il taccuino sulla prima pagina. Tutti i Messia falliscono, scrive, nell'istante in cui tentano di salvare se stessi.
Capitolo trentanove
Avevano un loro pilota, uno bravo, un veterano di Cuba di nome Frum, che gestiva la navetta aerea da e verso Sitka. Frum aveva combattuto agli ordini di Litvak a Matanzas, e nella sanguinosa débâcle di Santiago. Era al tempo stesso fedele e senza un briciolo di fede, una combinazione di tratti caratteriali fortemente apprezzata da Litvak, che con l'inaffidabilità a volte volontaria dei credenti era costretto a combattere in continuazione. Il pilota Frum credeva soltanto a ciò che vedeva sul pannello dei comandi. Era sobrio, meticoloso, competente, silenzioso, cattivo. Quando depositava un nuovo carico di reclute a Perii Strait, i ragazzi scendevano dal suo aereo con un'idea piuttosto chiara del tipo di soldati che volevano diventare. Mandate Frum, scrisse Litvak quando dal signor Cashdollar, che si occupava di valutare i singoli casi, ricevettero la notizia di una nascita miracolosa in Oregon. Frum partì di martedì. Mercoledì - come pensare, direbbero i credenti, a una semplice coincidenza? - Mendel Shpilman si presentò nella sala delle meraviglie di Buchbinder, al settimo piano dell'Hotel Blackpool, dicendo di essere rimasto a corto di benedizioni, e di voler spendere l'ultima su se stesso. In quel momento il pilota Frum si trovava a milleseicento chilometri di distanza, in un ranch nei pressi di Corvallis, dove Fligler e Cashdollar, arrivati in volo da Washington, stavano faticando a scendere a patti con l'allevatore che aveva messo al mondo il magico animale rosso. C'erano naturalmente altri piloti che avrebbero potuto recuperare Shpilman e portarlo a Perii Strait, ma erano dei miscredenti, o dei credenti giovani. Di un miscredente non ci si poteva fidare mai, e Litvak temeva che agli occhi di un credente troppo giovane Shpilman potesse risultare una delusione, dando così modo alle malelingue di scatenarsi. Shpilman era molto fragile, a sentire il dottor Buchbinder. Era agitato e scostante, oppure sonnolento e apatico, e pesava cinquantacinque chili
appena. Decisamente distante dall'immagine di uno Tzaddik. Così senza preavviso, c'era solo un altro pilota che Litvak poteva prendere in considerazione: miscredente, ma prudente e affidabile, e con un antico legame con Litvak su cui quest'ultimo poteva azzardarsi a riporre qualche speranza. Dapprima cercò di scacciarne il nome dai pensieri, ma quello continuava a ritornare. E Litvak temeva che, se avessero indugiato troppo, avrebbero perso Shpilman di nuovo; già due volte era venuto meno alla promessa di andarsi a curare da Roboy a Perii Strait. E così Litvak fece rintracciare questo pilota miscredente ma affidabile, e gli offrì il lavoro. Accettò, per mille dollari in più di quanto Litvak avesse previsto di spendere. «Una donna» disse il dottore, spostando la sua torre di re, mossa che a parere di Litvak non lo avvantaggiava affatto. Il dottor Roboy, agli occhi scrupolosi di Litvak, aveva un vizio piuttosto comune fra i credenti: era tutto strategia e niente tattica. Incline a muovere in modo fine a se stesso, troppo concentrato sull'obbiettivo finale per fermarsi a riflettere su tutto ciò che stava nel mezzo. «Qui. In questo posto.» Erano seduti nell'ufficio al secondo piano dell'edificio principale, con vista sullo stretto, sullo scalcagnato villaggio indiano, con le sue reti da pesca e quella passerella assurda, e poco più in là il braccio teso sull'acqua del pontile per idrovolanti nuovo di zecca. Era l'ufficio di Roboy. In un angolo c'era una scrivania destinata a Moish Fligler, quando c'era e si riusciva a tenerlo dietro una scrivania. Alter Litvak preferiva fare a meno del lusso di una scrivania, di un ufficio, di una casa. Dormiva in stanze per gli ospiti, garage, divani altrui. La sua scrivania era un tavolo in cucina, i suoi uffici il campo d'addestramento, il Club scacchistico Einstein, la stanzetta in fondo all'Istituto Moriah. Qui ci sono uomini meno virili di lei, scrisse Litvak sul suo taccuino, avrei dovuto assumerla già da tempo. Mangiò l'ultimo alfiere di Roboy, aprendo una breccia improvvisa in mezzo ai bianchi. Capì di potergli dare scacco matto, in due modi diversi, nel giro di quattro mosse. La prospettiva della vittoria lo tediava. Si chiese se il gioco degli scacchi gli fosse mai interessato davvero. Prese la penna e scrisse un insulto, sebbene da quasi cinque anni si fosse rivelato impossibile ottenere da Roboy una reazione adeguata. Se come quella donna ne avessimo un centinaio, a quest'ora
la starei stracciando su una terrazza davanti al Monte degli Ulivi. «Umf» fece il dottor Roboy, sfiorando un pedone, guardando il volto di Litvak mentre Litvak guardava il cielo. Il dottor Roboy sedeva con la schiena rivolta alla finestra, una parentesi scura a racchiudere la scacchiera, con il viso lungo e la mascella sporgente allentati nello sforzo di prefigurarsi la desolazione del suo futuro scacchistico imminente. Dietro di lui, il cielo dell'ovest era tutto marmellata e fumo. Le montagne sgualcite, pieghe di un verde che sembrava nero, e di un viola che sembrava nero, e luminose fenditure azzurrine di neve bianchissima. A sud-ovest stava sorgendo una luna piena precoce, grigia e dai bordi nitidi, come una foto in bianco e nero e ad alta risoluzione di se stessa appiccicata al cielo. «Ogni volta che guarda fuori dalla finestra» disse Roboy «io penso che siano arrivati. La smetta, per favore. Mi sta innervosendo.» Rovesciò il suo re, spinse indietro la sedia e dispiegò il suo corpo da mantide una giuntura dopo l'altra. «Non riesco a giocare, mi spiace. Ha vinto. Sono troppo teso.» Si alzò e prese a camminare avanti e indietro per l'ufficio. Non capisco di che si preoccupa, a lei tocca la parte facile. «Ah, sì?» Lui deve salvare Israele, lei deve soltanto salvare lui. Roboy si fermò sui suoi passi e si voltò verso Litvak, che posò la penna e prese a riporre i pezzi nel loro cofanetto d'acero. «Ci sono trecento ragazzi pronti a morire per lui» disse Roboy stizzito. «Per quest'uomo trentamila Verbover rischieranno le loro vite e i loro patrimoni. Rinunciando alle loro case, mettendo a repentaglio le famiglie. Se altri li seguiranno, allora staremo parlando di milioni di persone. Mi fa piacere che lei riesca a scherzarci sopra. Che non la renda nervoso guardare il cielo fuori da quella finestra sapendo che infine sta arrivando.» Litvak smise di riporre i pezzi e guardò di nuovo fuori. Cormorani, gabbiani, una decina di varianti fantasiose, per cui l'yiddish non aveva un nome, sul tema dell'anatra. Facilissimo scambiare uno di quegli uccelli, con le ali spiegate contro il tramonto, per un Piper Super Cub a bassa quota in avvicinamento da sud-est. Guardare quel cielo rendeva nervoso anche Litvak. Ma il loro non era, per definizione, un lavoro che attraeva uomini con il talento per l'attesa.
Spero davvero che sia lo Tz-H-D, lo spero tanto. «Non è vero» disse Roboy. «Mente. Lei lo fa solo per il brivido. Per gioco.» Dopo l'incidente che gli aveva portato via la moglie e la voce, era stato il dottor Rudolf Buchbinder, il dentista pazzo di Ibn-Ezra Street, a ricostruire la mandibola di Litvak, ripristinandone la struttura con acrilico e titanio. E quando in seguito Litvak si era ritrovato a dipendere dagli antidolorifici, era stato il dentista a mandarlo, perché si disintossicasse, dal suo vecchio amico dottor Max Roboy. Anni dopo, quando Cashdollar aveva chiesto l'aiuto del suo uomo a Sitka per compiere la missione ispirata da Dio al presidente dell'America, Litvak aveva subito pensato a Buchbinder e Roboy. C'era voluto molto più tempo, oltre a ogni singolo grammo di faccia tosta di cui Litvak disponeva, per riuscire a tirare dentro Heskel Shpilman. Infinite trattative e pilpul tramite Baronshteyn. Fortissime resistenze al ministero della Giustizia da parte di carrieristi che in Shpilman e Litvak vedevano - giustamente - un boss mafioso e un tirapiedi. Infine, dopo mesi di falsi allarmi e cancellazioni, un incontro con il grand'uomo in persona alle Terme di Ringelblum Avenue. Un martedì mattina, con i fiocchi che cadevano torcendosi in lente spirali, dieci centimetri di neve fresca per terra. Troppo fresca, troppo presto per gli spazzaneve. All'angolo tra Ringelblum Avenue e Glatshteyn Street un venditore di caldarroste, con l'ombrello rosso impolverato di neve, il sibilo e il baluginare del piccolo forno, i solchi paralleli del carretto a incorniciare la poltiglia delle sue impronte nella neve. Un silenzio che sentivi il rumore dei meccanismi a orologeria nella centralina che controllava i semafori, e la vibrazione del cercapersone contro il fianco dell'uomo armato sulla porta. Due uomini armati, in verità, di quei grandi orsi rossicci che vigilano sul corpo del Verbover Rebbe. Mentre i bikl Rudashevsky accompagnavano Litvak oltre la porta, su per i gradini rivestiti di vinile della scala di cemento, giù per il corridoio simile a un cunicolo di miniera che portava all'ingresso delle Terme, i loro volti come due pugni sembravano racchiudere una piccola luce. Di malignità, di compassione, il luccichio negli occhi di un giullare, di un aguzzino, di un sacerdote che si accinge a rivelare il dio cannibale. Quanto al decrepito cassiere russo nel suo gabbiotto d'acciaio, e al tarchiato
inserviente nel suo bunker di asciugamani bianchi ripiegati, loro gli occhi potevano tranquillamente non averli, per quel che Litvak aveva avuto modo di vedere. Tenevano la testa china, accecati dalla paura e dalla discrezione. Erano altrove, a bere un caffè alla Polar-Shtern, ancora a letto accanto alla moglie. Le Terme non erano nemmeno aperti al pubblico, a quell'ora. Non c'era nessuno, lì, proprio nessuno, e l'inserviente che da dietro il bancone aveva fatto scivolare verso Litvak un paio di asciugamani logori era un fantasma che serviva il sudario a un morto. Litvak si era spogliato e aveva appeso i vestiti a due ganci di metallo. Sentiva l'odore dei bagni come un flusso di marea, cloro e ascelle e un vapore salino acre che, ripensandoci, poteva anche essere la ditta che produceva sottaceti al primo piano. Non l'avrebbero certo indebolito, se quello era l'intento, costringendolo a togliersi i vestiti. Le sue cicatrici erano numerose, in certi casi orribili, e facevano il loro effetto. Aveva sentito un fischio sommesso provenire da uno dei due Rudashevsky che piantonavano lo spogliatoio. Il corpo di Litvak era una pergamena vergata dal dolore e dalla violenza, di cui loro potevano al massimo sperare di produrre un'esegesi molto povera. Litvak aveva sfilato il taccuino dalla tasca della giacca appesa al gancio. Lo spettacolo vi piace? I Rudashevsky non erano riusciti a concordare una risposta adeguata; uno aveva annuito, l'altro scosso il capo. Poi si erano scambiati le reazioni, senza che nessuno dei due giungesse a una conclusione soddisfacente. Infine si erano arresi, e l'avevano spedito oltre le porte di vetro appannate del bagno turco, al cospetto del corpo su cui vigilavano loro. Quel corpo, in tutto il suo orrore e il suo splendore, nudo come un gigantesco bulbo oculare iniettato di sangue e privo d'orbita. Litvak l'aveva visto una volta soltanto, anni prima, sormontato da un fedora, fasciato stretto come un rotolo di tabacco Pinar del Rio in un rigido pastrano nero che gli sfiorava le punte degli stivali eleganti, anch'essi neri. Ora si ergeva ponderoso dal vapore, una distesa di pietra calcarea coperta da un nero lichene di peli. Litvak si era sentito come un aeroplano immerso nella nebbia, sospinto dalle correnti ascensionali verso la sorpresa di una montagna. Il ventre gravido di tre gemelli d'elefante, i seni pieni e cadenti, ciascuno ornato dalla lentic-
chia rosa di un capezzolo. Le cosce come enormi tranci di halvah screziato impastati a mano. In mezzo, perso tra le ombre, un tozzo ombelico di carne grigiomarrone. Litvak aveva adagiato l'intelaiatura scarsamente isolata del suo corpo sul reticolo di piastrelle bollenti davanti al rabbino. La prima volta che aveva incrociato Shpilman per strada, gli occhi del Verbover giacevano nell'ombra di meridiana proiettata dalla tesa del suo cappello. Ora indugiavano su Litvak e sul suo corpo martoriato. Erano occhi gentili, aveva pensato Litvak, o forse ammaestrati dal proprietario agli usi della gentilezza. Avevano letto le cicatrici di Litvak, la bocca violacea arricciata sulla spalla destra, gli sfregi di velluto rosso sul bacino, il buco nella coscia sinistra, abbastanza profondo da contenere tre centilitri di gin. Avevano offerto compassione, rispetto, perfino gratitudine. La guerra a Cuba era tristemente famosa per la sua inutilità, per la brutalità e lo spreco. I veterani, al ritorno, erano stati evitati. Nessuno aveva offerto loro perdono, comprensione, una possibilità di riconciliazione. Heskel Shpilman stava offrendo a Litvak e alle sue ferite di guerra tutte e tre le cose. «La natura del suo handicap» aveva detto il Rebbe «mi è stata illustrata, così come la sostanza della sua offerta.» La voce femminea, schermata dal vapore e dalle piastrelle di porcellana, non sembrava emergere dal timpano della cassa toracica. «Vedo che ha con sé taccuino e penna, nonostante la mia espressa richiesta di non portare nulla.» Litvak aveva sollevato gli oggetti incriminati, imperlati di vapore, sentendo l'incurvarsi, il deformarsi delle pagine del taccuino. «Non le serviranno.» Con le mani appollaiate come uccelli sulla roccia del ventre, il rabbino aveva chiuso gli occhi, privando Litvak della loro compassione, vera o simulata, e lasciandolo a cuocere nel vapore per un minuto o due. Litvak aveva sempre odiato gli shvitz. Ma quello stabilimento nel vecchio Harkavy, secolare e squallido, era l'unico posto in cui il Verbover Rebbe poteva condurre gli affari privati lontano dalla sua corte, dal suo gabay, dal suo mondo. «Non intendo rivolgerle altre domande, né richiederle ulteriori informazioni.» Litvak aveva annuito, apprestandosi ad alzarsi. La mente gli diceva che Shpilman non si sarebbe mai scomodato a organizzare quel colloquio nudo e unilaterale, se avesse inteso rifiutare la sua proposta. Ma nelle viscere sentiva che la missione era
fallita, che Shpilman l'aveva convocato in Ringelblum Avenue per comunicargli il rifiuto in tutta l'elefantina autorità della sua presenza. «Voglio che sappia, signor Litvak, che ho riflettuto profondamente sulla proposta. Ho tentato di ricostruirne la logica da ogni angolazione. «Cominciamo dai nostri amici del Sud. Se fosse vero che vogliono soltanto una determinata cosa, un effetto o una risorsa tangibile... Il petrolio, per esempio. O se fossero mossi da un interesse più squisitamente strategico, nei riguardi della Russia o della Persia. In entrambi i casi, è evidente che non avrebbero bisogno di noi. Per quanto la Terra Santa possa risultare difficile da conquistare, la nostra presenza fisica, la nostra disponibilità a combattere, le nostre braccia, difficilmente farebbero una qualche differenza per il loro progetto bellico. Ho studiato approfonditamente le loro dichiarazioni di sostegno alla causa ebraica in Palestina, nonché la loro teologia, e, per quanto mi è stato possibile, basandomi sui resoconti del rabbino Baronshteyn, ho cercato di farmi un'opinione, sui Gentili e sui loro scopi. E non posso che concludere che, quando dicono di voler vedere Gerusalemme restituita alla sovranità ebraica, sono sinceri. I loro ragionamenti, le cosiddette profezie e gli apocrifi sulla cui supposta autorità tale desiderio si basa, possono anche sembrarmi risibili. Abominevoli, addirittura. Compatisco i Gentili per la loro infantile fiducia nell'imminente ritorno di chi in verità non è mai partito, men che meno arrivato. Ma sono pressoché certo che anche i Gentili, a loro volta, ci compatiscano per il nostro Messia tardivo. Come terreno comune su cui costruire un'alleanza non è da disprezzare. «Quanto al suo ruolo in questa faccenda, è piuttosto semplice, o sbaglio? Lei è un soldato a noleggio. Ama la sfida e la responsabilità del comando. Io la capisco. Mi creda. Lei ama combattere, ama uccidere, a patto che a morire non siano i suoi uomini. Mi azzarderei inoltre a dire che, dopo tanti anni al servizio di Shemets, e ora per conto suo, ha acquisito una lunga esperienza nel fare, almeno all'apparenza, gli interessi degli americani. «Per i Verbover il rischio è grande. L'intera comunità potrebbe soccombere, in questa avventura. Spazzata via in pochi giorni, qualora i vostri soldati fossero poco preparati o semplicemente, come appare non del tutto improbabile, in netta inferio-
rità numerica. Ma restando qui, be', anche in questo caso saremmo spacciati. Sparpagliati ai quattro venti. I nostri amici del Sud al riguardo sono stati chiari. Questo è il loro "bastone", per così dire. La Restituzione come un fuoco appiccato ai pantaloni, giusto? E una Gerusalemme risanata come provvidenziale secchio d'acqua fredda. Alcuni dei nostri uomini più giovani sostengono che dovremmo impuntarci e rimanere, sfidandoli a cacciarci. Ma sarebbe follia. «Per contro, se noi diamo il nostro consenso, e se il vostro piano ha successo, allora avremo recuperato un tesoro di valore così inestimabile - mi riferisco a Sion, naturalmente - che il solo pensiero riapre nel mio animo una finestra da troppo tempo sbarrata. La luce è tale da dovermi riparare gli occhi.» Si era portato il dorso della mano sinistra davanti agli occhi, con la sottile fede nuziale avviluppata dalle dita come una scure persa nella carne di un albero. Litvak aveva sentito il cuore battergli in gola, un pollice che pizzicava ripetutamente la corda più bassa di un'arpa. Una vertigine. Una sensazione di gonfiore ai piedi e alle braccia. Doveva essere il calore. Aveva inspirato rapido alcune timide boccate d'aria densa e rovente. «Una tale visione mi abbaglia» aveva proseguito il Rebbe. «E forse anch'io, a mio modo, ne sono accecato come gli evangelici. Tant'è prezioso questo tesoro. Tanto incommensurabilmente dolce.» No. Non erano, o non solo, il calore e l'acredine dello shvitz ad accelerare il polso di Litvak e a dargli le vertigini. In quel momento aveva avuto la certezza che le sue viscere avessero ragione: Shpilman stava per rifiutare la sua proposta. Ma a mano a mano che quell'eventualità si avvicinava, una nuova possibilità aveva preso a frastornarlo, fluendogli dentro. Era il fremito del colpo di genio, una mossa abbagliante. «Eppure non è sufficiente» stava dicendo il Rebbe. «Io desidero l'avvento del Messia come nessun'altra cosa al mondo.» Si era alzato in piedi, e il ventre gli si era riversato sui fianchi e sull'inguine come latte bruciato che deborda da una pentola. «Però ho paura. Ho paura di fallire. Temo l'enorme potenziale di perdite tra la mia gente, e la distruzione di tutto ciò per cui lavoriamo da sessant'anni a questa parte. Di Verbover, alla fine della guerra, ne erano rimasti undici, Litvak. Undici. Promisi al padre di mia moglie, in punto di morte, che mai più avrei permesso una tale distruzione.
«E infine, in tutta onestà, Litvak, temo che possa rivelarsi un viaggio a vuoto. Esistono molti e persuasivi insegnamenti che diffidano dal tentare di affrettare l'avvento del Messia. Geremia lo condanna. Così come i Giuramenti di Salomone. Ovvio che anch'io desideri vedere la mia gente in una nuova dimora, con le sicurezze economiche fornite dagli Stati Uniti, le offerte di assistenza e di accesso ai nuovi mercati inimmaginabilmente vasti che un eventuale buon esito della vostra operazione aprirebbe. E l'avvento del Messia lo desidero come desidero, dopo tanto calore, immergermi nell'acqua fredda e scura del mikvah qui accanto. Eppure, che Dio mi perdoni, io ho paura. Così tanta paura, Litvak, che neppure il sapore del Messia sulle labbra è sufficiente. Lo dica pure ai suoi amici di Washington. Dica loro che il Verbover Rebbe aveva paura.» Il Rebbe era parso quasi affascinato dall'idea della sua stessa paura, così nuova, come un adolescente che pensa alla morte, o una puttana che accarezza l'idea di un amore puro. «Che c'è?» Litvak aveva alzato l'indice della mano destra. C'era una cosa, una cosa ancora, che poteva offrire al Rebbe. Un'ulteriore clausola da inserire nel contratto. Non aveva idea di come avrebbe fatto a rispettarla, o anche solo se la possibilità di rispettarla esistesse. Ma mentre il Rebbe si preparava a voltare la sua mastodontica schiena a Gerusalemme e alla complessa enormità dell'accordo che Litvak aveva intessuto per mesi, se l'era sentita sgorgare da dentro come una sorta di grido corredato da doppi punti esclamativi. Aprendo il taccuino in fretta e furia, aveva scarabocchiato due parole sul primo foglio pulito, ma la fretta e il panico gli avevano fatto calcare troppo la mano, e la penna aveva lacerato la carta umida. «Che cosa c'è?» aveva ripetuto Shpilman. «Ha qualcos'altro da offrirmi?» Litvak aveva annuito, una volta, due. «Qualcosa di più grande di Sion? Del Messia? Di una dimora ed enormi ricchezze?» Alzandosi, Litvak aveva fatto pochi passi sul pavimento di piastrelle, fermandosi accanto al Rebbe. Uomini nudi che portavano su di sé la storia dei loro corpi in rovina. Ciascuno a suo modo deprivato, solo. Litvak aveva sollevato un braccio e, con la forza e l'ispirazione di quella solitudine, e con la punta di un dito, aveva tracciato due parole nel vapore condensatosi su un riquadro di porcellana bianca.
Il Rebbe le aveva lette, quindi aveva alzato lo sguardo, e le parole erano tornate a imperlarsi di gocce, per poi sparire. «Mio figlio» aveva detto. È molto più di un gioco, scrisse Litvak a Roboy, nell'ufficio di Perii Strait, mentre aspettavano l'arrivo di quel figlio difficile e irredento. Preferirei lottare per una ricompensa, per quanto incerta, piuttosto che attendere di vedere quali avanzi mi verranno gettati. «Sembrano le parole di una persona che crede in qualcosa» disse Roboy. «Forse per lei c'è ancora speranza.» In cambio di ciò che lui gli avrebbe fornito, ovvero uomini, un Messia, e quantità di denaro al di là dei loro sogni più sfrenati, l'unica cosa che Litvak aveva chiesto ai suoi soci, clienti, capi e collaboratori in quell'impresa, era di non aspettarsi mai che credesse nelle sciocchezze in cui credevano loro. Laddove in una giovenca rossa appena nata loro vedevano il frutto della volontà divina, lui vedeva il prodotto di un milione di dollari dei contribuenti segretamente spesi per pagare un seme di toro e la fecondazione in vitro. Nel rogo che avrebbe infine bruciato quella giovane vacca rossa loro vedevano la purificazione di Israele e il compimento di una promessa antica millenni; Litvak ci vedeva, al massimo, la mossa necessaria di un gioco antico: la sopravvivenza degli ebrei. Be', io non mi spingerei a tanto. Si sentì bussare alla porta, e Micky Vayner fece capolino nella stanza. «Sono venuto a ricordarle, signore...» disse nel suo buon ebraico da americano. Litvak fissò senza espressione quel volto rosa, con le palpebre screpolate e un doppio mento di grasso infantile. «... che mancano cinque minuti al tramonto. Mi aveva chiesto di ricordarglielo.» Litvak si avvicinò alla finestra. Ora il cielo era striato di rosa, di verde, e del grigio luminoso della pelle di un salmone. Di sicuro in cielo vide una stella, o un pianeta. Ringraziò Micky Vayner con un cenno del capo. Poi abbassò il coperchio del cofanetto che conteneva i pezzi della scacchiera e chiuse il gan cio. «Che succede al tramonto?» chiese Roboy. Si voltò verso Micky Vayner. «Che giorno è?» Micky Vayner si strinse nelle spalle. Per quel che ne sapeva
era, secondo il calendario lunare, un giorno qualunque del mese di Nisan. Sebbene lui e i suoi giovani compagni fossero stati educati a credere nell'inevitabile futura ricostituzione del regno biblico di Giudea e nel destino di Gerusalemme come eterna capitale degli ebrei, non era, nella sua osservanza, più rigoroso o pignolo degli altri. I giovani ebrei americani di Perii Strait osservavano le festività principali, e perlopiù si attenevano alle leggi alimentari. Portavano lo zucchetto e lo scialle, ma si radevano come militari. Evitavano di lavorare e di allenarsi durante lo Shabbat, ma non senza eccezioni. Dopo quarant'anni da guerriero laico, Litvak questo poteva digerirlo. Anche dopo l'incidente, rimasto senza la sua Sora, con il vento che fischiava nel buco che la morte della moglie aveva lasciato nella sua vita, con una sete di spiegazioni e una fame di significato come un bicchiere vuoto e un piatto desolato, Alter-Litvak non avrebbe mai potuto sentirsi a casa tra uomini sinceramente religiosi. Non si sarebbe mai sentito a suo agio, per esempio, tra i cappelli neri. Anzi, non li poteva soffrire, e all'indomani dell'incontro nelle terme aveva ridotto al minimo indispensabile i suoi contatti con i Verbover, mentre questi segretamente si preparavano a essere trasportati, in massa, in Palestina. Nessun giorno in particolare, scrisse lui, dopodiché si infilò il taccuino in tasca e uscì. Mi avverta quando arrivano. Nella sua stanza, Litvak si tolse la protesi dentale e la lasciò cadere in un bicchiere con un tintinnio di dadi. Slacciatosi gli stivali, si sedette pesantemente su una brandina pieghevole. Dormiva in quella stanza ogni volta che veniva a Perii Strait nel progetto era indicata come un ripostiglio - in fondo al corridoio su cui si affacciava anche l'ufficio di Roboy. Appendeva i vestiti a un gancio sulla porta, e teneva il bagaglio sotto la brandina. Si adagiò contro la fredda parete di cemento intonacato e guardò il muro, oltre la mensola d'acciaio su cui poggiava il bicchiere con i denti. Non c'erano finestre, e allora Litvak immaginò la prima stella della sera. Un'anatra in volo. La luna fotografata. Il cielo che lentamente si tingeva di un grigio fucile. E un aeroplano a bassa quota, in avvicinamento da sud-est, con a bordo l'uomo che era, nel piano di Litvak, prigioniero e dinamite, torre e botola di fuga, bersaglio e freccia. Si alzò, lentamente, con un grugnito di dolore. C'erano viti nei suoi fianchi, e gli facevano male. Le ginocchia produceva-
no rumori sordi ed echi come i pedali di un vecchio piano. C'era un costante rumorio di fili nell'articolazione della mandibola. Si passò la lingua sugli spazi vuoti che aveva in bocca, lisci come stucco. Al dolore e alle ferite era abituato, ma da dopo l'incidente quel corpo non sembrava più appartenergli. Era un oggetto assemblato con parti prese in prestito, a colpi di seghetto e chiodi. Una voliera fabbricata con legno di recupero e montata su un paletto, e al suo interno l'anima sbatteva le ali come un pipistrello desideroso di fuga. Era nato, come tutti gli ebrei, nel mondo sbagliato, nel paese sbagliato, nel momento sbagliato, e adesso si ritrovava anche a vivere nel corpo sbagliato. A conti fatti era forse proprio quel senso d'errore, quel pugno affondato nel ventre ebraico, a legare Litvak alla causa degli uomini che avevano fatto di lui il loro generale. Si avvicinò alla mensola d'acciaio inchiodata al muro, sotto la sua ipotetica finestra. Accanto al bicchiere che conteneva la prova del genio di Buchbinder c'era un altro bicchiere. Conteneva alcuni grammi di paraffina solidificata intorno a un pezzo di spago bianco. Litvak aveva comprato quella candela in una drogheria, meno di un anno dopo che la moglie era morta, con l'intento di accenderla nell'anniversario della sua morte. Ormai di quegli anniversari ne erano passati tanti, e la pittoresca tradizione di Litvak aveva subito un'evoluzione. Ogni anno tirava fuori la candela da yahrzeit, la guardava, e meditava di accenderla. Immaginava il timido tremolio di una fiammella. Progettava di stendersi al buio, con la luce della candela commemorativa che danzava su di lui, spargendo un alef-beys di ombre sul soffitto della minuscola stanza. Immaginava il bicchiere vuoto al termine delle ventiquattr'ore, lo stoppino consumato, la paraffina bruciata, la linguetta di metallo affogata nei resti cerosi sul fondo. E poi... ma a quel punto l'immaginazione lo tradiva. Litvak cercò nelle tasche dei pantaloni l'accendino, giusto per concedersi l'opzione, la possibilità di scoprire, qualora avesse trovato le forze per farlo, che effetto potesse avere accendere il ricordo di sua moglie. L'accendino era uno Zippo d'acciaio, con lo stemma dei Rangers inciso a tratti neri su un fianco, e sull'altro una profonda ammaccatura, nel punto in cui aveva deviato un qualche pezzo della macchina, o della strada, o del pruno della Virginia, impedendogli di perforare il cuore di Litvak. Per il bene della sua gola, Litvak aveva smesso di fumare. L'accendino era soltanto un'abitudine, un simbolo di so-
pravvivenza, un amuleto ironico che non abbandonava mai il suo comodino o i pantaloni. Ora però non era né in un posto né nell'altro. Litvak si tastò dappertutto, con l'impacciata metodicità di un vecchio. Ripercorse a ritroso la sua giornata, fino al mattino, quando come ogni mattino si era fatto scivolare lo Zippo nella tasca dei pantaloni. Oppure no? Di colpo non ricordava più di averlo preso, quel mattino, né di averlo appoggiato sulla mensola d'acciaio la sera prima, andando a dormire. Forse erano giorni che se lo dimenticava. Forse era a Sitka, in quello stanzino all'Hotel Blackpool. Poteva essere ovunque. Litvak si chinò ed estrasse il suo bagaglio da sotto la brandina, lo rovistò, con il cuore che batteva all'impazzata. L'accendino non c'era. E nemmeno i fiammiferi. Solo una candela in un bicchiere di vetro, e un uomo che non sapeva accenderla nemmeno quando disponeva di una fiamma. Sentendo qualcuno avvicinarsi, si voltò verso la porta. Bussarono piano. Litvak si infilò la candela da yahrzeit nella tasca della giacca. «Rebbe Litvak» disse Micky Vayner. «Sono arrivati.» Litvak si rimise i denti e sistemò la camicia nei pantaloni. Voglio che tutti si ritirino nelle camerate, nessuno lo deve vedere per il momento. «Non è ancora pronto» disse Micky Vayner, un po' titubante, cercando una rassicurazione. Lui non conosceva, non aveva mai visto Mendel Shpilman. Aveva solo sentito raccontare di un bambino dei miracoli, tanto tempo prima, e forse percepito la zaffata acre, come di cibo andato a male, che talvolta impregnava l'aria quando qualcuno pronunciava il suo nome. Non sta bene ma lo cureremo. Non era richiesto dalla loro dottrina, né necessario al successo del piano di Litvak, che Micky Vayner o qualsiasi altro ebreo di Peril Strait credesse che Mendel Shpilman fosse lo Tzaddik Ha-Dor. Un Messia che arriva davvero non serve a nessuno. Una speranza avverata è già una mezza delusione. «Sappiamo che è soltanto un uomo» disse Micky Vayner ubbidiente. «Lo sappiamo tutti, signor Litvak. Un uomo e nient'altro, e quello che stiamo facendo è più grande di qualsiasi uomo.» Non è di lui che mi preoccupo, scrisse Litvak. Tutti nelle camerate. Sul pontile per gli idrovolanti, osservando Naomi Landsman che aiutava Mendel Shpilman a scendere dalla cabina del suo
Piper Super Cub, Litvak pensò che, se non avesse saputo ciò che sapeva, li avrebbe scambiati per amanti di lunga data. C'era una brusca famigliarità nel modo in cui lei gli stringeva il braccio, gli ripescava il colletto della camicia da sotto i baveri della giacca di gessato spiegazzata, gli toglieva un pezzetto di cellofan dai capelli. Naomi gli scrutò il viso mentre Shpilman adocchiava Roboy e Litvak, soltanto il viso, con la tenerezza di un ingegnere in cerca di crepe, di segni di cedimento nei materiali. Pareva inconcepibile che si conoscessero, a quanto sapeva Litvak, da poco meno di tre ore. Tre ore. Così poco era occorso a quella donna per saldare il suo destino a quello di Mendel. «Benvenuto» disse il dottor Roboy, in piedi accanto a una sedia a rotelle, con la cravatta che svolazzava al vento. Gold e Turteltoyb, un ragazzo di Sitka, balzarono giù dall'aereo sul pontile; Turteltoyb così pesantemente da farlo risuonare come la cornetta di un telefono sbattuta sulle forcelle. L'acqua schiaffeggiava i pilastri. Nell'aria un odore di reti marce e pozzanghere salmastre sul fondo di vecchie barche. Era quasi buio, ormai, e alla luce delle fotoelettriche montate sui pali tutti quanti apparivano verdastri, tranne Shpilman, che sembrava bianco come una piuma e altrettanto leggero. «Sei davvero il benvenuto.» «Non c'era bisogno di mandare un aereo» disse Shpilman. Aveva una voce impostata, da attore, con una dizione studiata, eccellente, e una sommessa, morbida pulsazione sotterranea di ucraino dolente. «Io so volare.» «Sì, be'...» «Vista a raggi X. Invulnerabilità. Pacchetto completo. La sedia a rotelle per chi è? Per me?» Allargò le braccia, posizionò i piedi uno accanto all'altro e si diede una rapida occhiata, con l'aria di chi è pronto a mostrarsi scioccato di ciò che vede. Completo in gessato tutt'altro che su misura, niente cappello, cravatta annodata alla bell'e meglio, un lembo di camicia fuori dai pantaloni, un che di adolescente nella ribellione dei riccioli rossicci. Impossibile ravvisare in quel corpo sottile e fragile, in quel volto insonnolito, alcuna traccia della mostruosità paterna. O forse sì, un pochino, intorno agli occhi. Shpilman si voltò verso la pilota, fingendosi sorpreso, addirittura ferito dal sottinteso che fosse così malridotto da avere bisogno di una sedia a rotelle. Ma fingeva, per coprire la sorpresa e il dolore autentico di quel sottinteso, e Litvak se ne
accorse. «Lei mi ha detto che ero in forma, signorina Landsman» disse Shpilman, punzecchiandola, cercando il suo aiuto, implorandola. «Stai da Dio, bimbo» rispose la Landsman. Portava jeans infilati in alti stivali neri, una camicia bianca da uomo, un vecchio giubbotto del poligono di tiro della polizia di Sitka con la scritta LANDSMAN sul taschino. «Una favola.» «Ah, lei mente, bugiarda.» «Per me hai l'aria di uno che vale tremilacinquecento dollari, Shpilman» ribatté la Landsman, non in modo scortese. «Direi che può bastare, no?» «La sedia a rotelle non mi serve, dottore» disse Shpilman senza tono di rimprovero. «Ma grazie per il pensiero.» «Ti senti pronto, Mendel?» gli chiese il dottor Roboy con il suo tono gentile e sentenzioso. «Ah, devo sentirmi pronto?» rispose Mendel. «Perché allora forse è meglio rimandare di qualche settimana.» Le parole emersero dalla gola di Litvak come una specie di mulinello di sabbia verbale, un intrico di ghiaia e vento, del tutto spontaneo. Un suono orribile, come un pezzo di gomma in fiamme gettato in un secchio di ghiaccio. «Non c'è bisogno che tu ti senta pronto» disse Litvak. «Basta che tu sia qui.» Rimasero tutti scioccati, inorriditi, perfino Gold, che avrebbe tranquillamente letto un albo di fumetti alla luce di un uomo in fiamme. Shpilman si voltò lentamente, con un accenno di sorriso rincantucciato in un angolo della bocca come un bimbo in braccio. «Lei dev'essere Alter Litvak» disse, tendendogli la mano, aggrottando la fronte, fingendosi duro e virile in un modo che si faceva beffe tanto della durezza e della virilità quanto della sua relativa carenza di entrambe le cose. «Che stretta, oy, è come una roccia.» La stretta di Shpilman, invece, era morbida, tiepida, non perfettamente asciutta, quella di un eterno scolaro. Qualcosa in Litvak vi si opponeva, rifiutava quel tepore e quella morbidezza. Lui stesso era inorridito per l'eco da pterosauro della sua voce, per il fatto stesso di aver parlato. Inorridito nel rendersi conto che c'era qualcosa, in Mendel Shpilman, nel suo viso paffuto e in quel brutto abito, nel suo sorriso da bambino prodigio
e nel coraggioso tentativo di dissimulare la paura, che aveva spinto Litvak, per la prima volta dopo anni, a parlare. Litvak sapeva che il carisma era una qualità reale, per quanto indefinibile, un fuoco chimico che certi uomini, solo in parte fortunati, emanano. Come qualsiasi fuoco o talento anch'esso è amorale, disgiunto dalla bontà o dalla cattiveria, dal potere o dall'utilità o dalla forza. Percepì, stringendo la mano caldissima di Shpilman, la solidità delle sue tattiche. Se Roboy fosse riuscito a rimetterlo in sesto, allora Shpilman avrebbe potuto ispirare e guidare non soltanto qualche centinaio di credenti armati o trentamila cappelli neri dagli affari loschi in cerca di un pezzo di terra, ma un'intera nazione smarrita e nomade. Il piano di Litvak avrebbe funzionato perché in Mendel Shpilman c'era qualcosa che poteva instillare in un uomo con la laringe devastata il desiderio di parlare. Era contro questo qualcosa in Shpilman che qualcos'altro, in Litvak, si ritraeva disgustato. Ebbe voglia di stritolare la mano da scolaretto che stringeva, di spezzarne le ossa. «Ehilà» disse la Landsman a Litvak. «Quanto tempo.» Litvak annuì, e le strinse la mano. Diviso, come sempre era stato, tra l'impulso di ammirare una persona che praticava con competenza un mestiere difficile e il sospetto che quella donna fosse lesbica, una categoria umana che non riusciva a comprendere quasi per principio. «Be', io vado» disse Naomi Landsman. Era ancora attaccata a Shpilman, e quando il vento si alzò gli si fece più vicina e gli appoggiò un braccio sulle spalle, attirandolo a sé in un energico abbraccio. Lanciò un'occhiata ai volti verdastri degli uomini che attendevano di vedersi consegnare il carico. «Tutto a posto, allora?» Litvak scrisse qualcosa sul taccuino e lo passò a Roboy. «È tardi» disse Roboy. «Ed è già buio. Ci permetta di ospitarla per la notte.» Per un lungo istante lei sembrò sul punto di declinare l'offerta. Poi annuì. «Buona idea» disse. Una volta ai piedi della lunga scala tortuosa, Shpilman si fermò a considerare i dettagli della salita, e sembrò come assalito da un dubbio. Una scossa premonitrice, la repentina consapevolezza di tutto ciò che a partire da quel momento si sarebbero aspettati da lui. Con una certa teatralità si abbandonò sulla se-
dia a rotelle di Roboy. «Il mantello l'ho lasciato a casa.» Giunto in cima rimase seduto sulla sedia, facendosi spingere dalla Landsman fin dentro l'edificio principale. La fatica del viaggio, o del passo che infine aveva deciso di compiere, o del livello di eroina che gli precipitava nel sangue, cominciava a trapelare. Ma quando infine raggiunsero la stanza al pianterreno che era stata preparata per lui - un letto, una scrivania, una sedia e una pregiata scacchiera inglese - parve riprendersi. Infilò una mano nella tasca della giacca grigia stazzonata e tirò fuori una scatoletta di cartone nera e giallo acceso. «A quanto ho capito è il caso di dire mazel tov, giusto?» disse, distribuendo cinque o sei splendidi sigari Cohiba. Il loro odore, perfino da spenti e a un metro dalle sue narici, fu sufficiente a sussurrare a Litvak la promessa di una più che meritata tregua, di lenzuola pulite, acqua calda, donne scure, la quiete dopo brutali battaglie. «Mi dicono che è femmina.» Per un attimo nessuno capì di cosa stesse parlando, poi risero tutti, nervosamente, tranne Litvak e Turteltoyb, le cui guance si fecero rosse come un piatto di borscht. Turteltoyb sapeva, come tutti gli altri, che a Shpilman non bisognava comunicare alcun dettaglio del piano, compresa la nascita della giovenca, finché non lo avesse deciso Litvak. Con un colpo, Litvak fece cadere il sigaro dalla mano morbida di Shpilman. Incenerì Turteltoyb con uno sguardo, quasi incapace di vederlo, al di là del liquame rosso sangue della sua rabbia. La certezza che aveva avvertito, giù al pontile, che Shpilman avrebbe servito i loro scopi, di colpo si ribaltò. Un uomo come Shpilman, un talento come quello di Shpilman, non poteva servire nessuno, ma solo essere servito, in primo luogo da colui che lo possedeva. Comprensibile che quel poveraccio avesse cercato di sfuggirlo per così tanto tempo. Fuori. Lessero il messaggio, e a uno a uno uscirono dalla stanza, per ultima la Landsman, che si premurò di chiedere dove l'avrebbero messa a dormire, e quindi di dare appuntamento a Mendel, con un certo fare d'intesa, all'indomani mattina. Per un istante Litvak ebbe la sensazione che la Landsman stesse architettando un incontro notturno, ma il sospetto che fosse lesbica la cancellò senza lasciargli il tempo di soffermarsi a riflettervi. Non lo sfiorò l'idea che la donna, con la sua propensione per
l'avventura, stesse già gettando le fondamenta della temeraria fuga che al momento Mendel non aveva ancora deciso di compiere. La Landsman strofinò un fiammifero, quindi tirò dal sigaro per accenderlo. Infine, col suo passo dinoccolato, se ne andò. «Non se la prenda con il ragazzo, signor Litvak» disse Shpilman quando rimasero soli. «È che la gente a me le cose le dice. Ma mi sa che anche lei se n'è accorto. La prego, si fumi un sigaro. Avanti. È ottimo.» Shpilman raccolse il sigaro che Litvak gli aveva fatto cadere, e vedendo che questi non lo accettava né lo rifiutava, lo sollevò davanti alla sua bocca e glielo infilò delicatamente fra le labbra. Rimase appeso lì, emanando i suoi aromi di carne, sughero e mesquito, un odore di fica che risvegliava antichi desideri. Si sentì un click, un attrito. Poi, con un certo stupore, Litvak si chinò in avanti, piazzando la punta del sigaro sulla fiamma del suo stesso accendino Zippo. Provò lo shock momentaneo di un miracolo. Quindi sorrise, e ringraziò con un cenno del capo, avvertendo una sorta di vertiginoso sollievo per la tardiva comparsa di una spiegazione logica: doveva aver lasciato l'accendino a Sitka, Gold o Turteltoyb l'avevano trovato e se l'erano portato dietro durante il volo per Perii Strait. Shpilman gliel'aveva chiesto in prestito sull'aereo, per poi intascarselo, con istinto da tossico, subito dopo essersi acceso un papiro. Doveva essere andata proprio così. Il sigaro si accese, con un crepitio, e la punta avvampò. Quando Litvak alzò gli occhi dalla brace ardente, Shpilman lo stava fissando con quei suoi strani occhi, un mosaico di pagliuzze verdi e oro. Ottimo, ripeté Litvak tra sé e sé. Un sigaro davvero ottimo. «Lo faccia» disse Shpilman, spingendo lo Zippo nel palmo della mano di Litvak. «Avanti, signor Litvak. Accenda la candela. Non è necessario dire preghiere. Non bisogna fare né sentire nulla. La si accende e basta. Coraggio.» E mentre la logica defluiva dal mondo per non farvi mai più ritorno, o almeno non del tutto, Shpilman infilò una mano nella tasca della giacca di Litvak, e tirò fuori il bicchiere, la candela e lo stoppino. Questa volta Litvak non riuscì a trovare una spiegazione. Prese la candela che Shpilman gli stava porgendo, e la appoggiò su un tavolo. Azionò la pietra focaia sfregandovi il pollice. Sentì sulla spalla l'intenso calore della mano di Shpil-
man. Il suo cuore a pugno cominciò ad allentare la stretta, come forse avrebbe fatto il giorno in cui infine avesse messo piede nella dimora cui era destinato. Fu una sensazione terrificante. Aprì la bocca. «No» disse, con una voce venata, sorprendentemente, da una nota di umanità. Richiuse di scatto l'accendino e scacciò la mano di Shpilman, con una violenza tale che Shpilman perse l'equilibrio e inciampò, sbattendo la testa sulla mensola di metallo. La forza del colpo fece sussultare la candela, che cadde a terra, frantumandosi. Il vetro si ruppe in tre grandi pezzi. Il cilindro di cera in due. «Non voglio» gracchiò Litvak. «Non sono pronto.» Ma quando abbassò lo sguardo su Shpilman, steso a terra, intontito, con un taglio sanguinante sulla tempia destra, capì che era già troppo tardi.
Capitolo quaranta
Nell'istante in cui Litvak posa la penna, fuori si sente un tumulto: una mezza bestemmia, vetri rotti, uno sbuffo di fiato che abbandona i polmoni. Poi nella stanza entra disinvolto Berko Shemets. Infilata sotto un braccio ha la testa del piccolo Gold, come un bel pezzo d'arrosto, con il resto del corpo che si trascina dietro. I talloni del ragazzo incidono profondi solchi nella moquette. Berko sbatte la porta. In mano ha la sholem, che come l'ago di una bussola cerca il nord magnetico di Alter Litvak. I jeans e la camicia da caccia di Berko sono una mappa tracciata con il sangue di Hertz. Berko si è spinto indietro il cappello, così che il viso è tutto fronte e bianco degli occhi. Dall'incavo del suo braccio, la testa di Gold lancia occhiate di fuoco. «Che tu possa cacare sangue e pus» intona Gold. «Ti venisse la scabbia come a Giobbe.» La pistola di Berko compie un volteggio e va a dare un'occhiata al cervello del ragazzo nel fragile contenitore del cranio. A quel punto Gold smette di agitarsi, e la pistola riprende la sua ricognizione monoculare sul torace di Alter Litvak. «Berko» dice Landsman. «Sei impazzito?» Berko scaglia il suo sguardo su Landsman come un enorme fardello. Apre le labbra, le richiude, inspira. Sembra avere qualcosa di importante da esprimere, un nome, un incantesimo, un'equazione in grado di piegare il tempo o disfare la trama del mondo. O forse sta solo tentando di non disfarsi lui stesso. «Quest'uomo» dice, poi, più piano, con voce un po' rauca «mia madre.» Di Laurie Joe Orso Landsman ha forse visto una foto, una volta. Riesce a recuperare un vago ricordo di ciocche nere in piega, occhiali rosa, un sorriso furbo. Ma per lui quella donna è meno di un fantasma. Berko una volta gli raccontava storie sulle Indianer-Lands. Basket, battute di caccia alla foca, ubriaconi e zii, storie su Willie Dick, la storia dell'orecchio umano appog-
giato su un tavolo. Ma di storie sulla madre Landsman non ne ricorda. Probabilmente sa da sempre che Berko un prezzo deve averlo pagato, per rivoluzionarsi come ha fatto, un qualche eroico capolavoro di oblio. Landsman non si è mai preso la briga di concepirla come una perdita. La sua immaginazione ha fallito. Per uno shammes, un peccato peggiore di presentarsi in un posto pericoloso senza appoggio. O forse si è trattato dello stesso peccato, ma in una forma diversa. «Indubbiamente» dice Landsman, facendo un passo verso il collega. «Una brutta persona. Una pallottola se la meriterebbe.» «Hai due figli piccoli, Berko» dice Bina col tono di voce meno espressivo che possiede. «Hai Ester-Malke. Un futuro da non buttare nel cesso.» «Non è vero» dice Gold, o almeno ci prova. Berko stringe la presa, e Gold soffoca, cerca di girarsi, di appoggiare i piedi. Litvak scrive qualcosa sul retro del taccuino, senza staccare gli occhi da Berko. «Che c'è?» dice Berko. «Cosa dice?» Qui per gli ebrei non c'è futuro. «Sì, vabbe'» dice Landsman. «Abbiamo capito.» Strappa la penna e il taccuino dalle mani di Litvak. Recupera l'ultima pagina e scrive, in americano, NON FARE IL CRETINO! TI STAI COMPORTANDO COME ME! Strappa il foglio, quindi butta taccuino e penna addosso a Litvak. Alza il foglio davanti alla faccia di Berko, di modo che lo legga. Come argomento è convincente. Berko lascia andare Gold, proprio mentre il suo viso si sta facendo livido. Gold cade a terra, ansima in cerca d'aria. La pistola nella mano di Berko ha un sussulto. «Lui ha ucciso tua sorella, Meyer.» «Non so se è stato lui» dice Landsman. Si volta verso Litvak. «È stato lei?» Litvak scuote la testa, e si mette a scrivere qualcosa sul taccuino, ma prima che possa finire dall'altra stanza esplode un urlo di giubilo. L'esultanza sincera ma goffa di un gruppo di ragazzi che hanno appena visto qualcosa di fantastico alla televisione. Qualcuno ha segnato un gol. A una giocatrice di beach volley si è sfilato il pezzo sopra del costume. Un attimo dopo Landsman sente l'eco dell'esultanza, il suono che entra dalla finestra aperta dell'attico, come sull'onda di un vento che viene da lontano, dall'Harkavy, dal Nachtasyl. Litvak sorride, con
semplicità, e posa taccuino e penna con un indecifrabile fare conclusivo, come se non avesse altro da aggiungere. Come se tutta la sua confessione fosse destinata a culminare in questo momento, e solo questo momento l'avesse resa possibile. Gold striscia carponi verso la porta, la apre, quindi si rialza e scompare nell'altra stanza. Bina va verso Berko tendendogli la mano, e un attimo dopo Berko le appoggia la pistola sul palmo. Nell'altra stanza dell'attico, i giovani credenti si abbracciano e saltellano nei loro abiti. Gli yarmulkes cadono dalle loro teste. I volti luccicano di lacrime. Sullo schermo del grosso televisore, Landsman vede per la prima volta un'immagine che da lì a breve finirà sulla prima pagina di tutti i quotidiani del mondo. Nella città di Sitka, mani devote la ritaglieranno e se la appiccicheranno sulla porta di casa e alle finestre. La incorniceranno e l'appenderanno dietro i banconi dei loro negozi. Qualche furbacchione, inevitabilmente, la ingrandirà fino a farne un poster, un metro per sessanta. La sommità della collina, gremita di vicoli e case. La vasta spianata lastricata. La mandibola frastagliata da cui spunta il dente bruciato. Il maestoso pennacchio di fumo nero. E in basso la legenda, a caratteri blu, FINALMENTE! Questi poster verranno venduti in cartoleria a un prezzo tra i dieci dollari e i dodici e novantacinque. «Oddio. Cos'è? Cos'hanno fatto?» Tante cose scioccano Landsman, in quell'immagine sullo schermo televisivo, ma la più scioccante di tutte è il semplice fatto che degli ebrei di Sitka abbiano agito su un oggetto situato a tredicimila chilometri da lì. La cosa sembra violare una qualche legge fondamentale della fisica emotiva che Landsman conosce. Lo spazio-tempo di Sitka è un fenomeno curvo; chiunque, allungando il più possibile un braccio in qualsiasi direzione, finisce immancabilmente per toccarsi la schiena. «E Mendel?» dice. «Evidentemente erano già troppo in là per fermarsi» dice Bina. «Sono andati avanti senza di lui.» È un pensiero perverso, ma per qualche strano motivo Landsman si sente triste per Mendel. Tutto e tutti, da questo momento in poi, andranno avanti senza di lui. Per un paio di minuti Bina rimane a guardare i ragazzi in festa, con le braccia conserte, il viso privo di espressione, tranne agli angoli degli occhi.
A Landsman quello sguardo ricorda una festa di fidanzamento a cui andarono insieme, anni fa, di un'amica di Bina. Stava per sposare un messicano, e la festa, ironicamente, aveva come tema il Cinco de Mayo, il giorno della vittoria dei messicani contro i francesi nel 1862. Avevano appeso un pinguino di cartapesta a un albero in giardino. I bambini, bendati e armati di bastone, dovevano colpire il pinguino fino a romperlo. Lo colpirono selvaggiamente, e alla fine venne giù una pioggia di caramelle. Nient'altro che un sacco di caramelle mou, alla menta, al latte, di quelle che ogni prozia del pianeta puntualmente recupera da una piega polverosa della borsetta. Ma mentre piovevano dal cielo i bambini ci si avventarono con gioia animalesca. E Bina rimase a guardarli, con le braccia conserte, e una piccola piega agli angoli degli occhi. Restituisce a Berko la sua sholem, e sfila la sua dalla fondina. «Silenzio» dice Bina. Poi, in americano: «Silenzio, cazzo!». Alcuni dei ragazzi hanno tirato fuori gli Shoyfer e stanno cercando di telefonare, ma a Sitka chiunque in questo momento starà cercando di telefonare. Si mostrano a vicenda i messaggi d'errore che ricevono sul display dei telefoni. La rete è sovraccarica. Bina va verso il televisore, e con un calcio stacca il filo. La spina vola fuori dal muro. La televisione emette un sospiro. Quando si spegne, una sorta di combustibile scuro sembra defluire dai serbatoi dei ragazzi. «Siete in arresto» dice Bina con gentilezza, ora che si è guadagnata la loro attenzione. «Mettetevi contro il muro con le mani alzate. Meyer, procedi.» Landsman comincia a tastarli, uno a uno, chinandosi come un sarto che misura la distanza tra il cavallo e la caviglia. Dai sette in fila lungo la parete recupera otto pistole e due costosi coltelli da caccia. A mano a mano che finisce con uno, lo fa sedere. Alla terza perquisizione recupera la Beretta che Berko gli ha prestato prima che partisse per Yakovy. La solleva perché il collega la possa vedere. «Piccola ma carina». Quando Landsman termina, i giovani credenti si mettono a sedere, quattro sul divano, due su un paio di poltrone e uno su una sedia recuperata da una nicchia. Tutt'a un tratto, seduti così, sembrano giovani e smarriti. Loro sono i pesci piccoli. Quelli dimenticati alla base. Si voltano, tutti insieme, con i visi
paonazzi, verso la porta della stanza di Litvak, in cerca di consiglio. La porta della stanza è chiusa. Bina la apre, quindi la spalanca con la punta di un piede. Rimane immobile, guardando dentro, per cinque secondi buoni. «Meyer. Berko.» La veneziana sbatacchia al vento. La porta del bagno è aperta, il bagno buio. Alter Litvak non c'è più. Guardano nell'armadio. Guardano nella doccia. Bina si avvicina alla veneziana sbatacchiante e con uno strattone la riavvolge. C'è una porta scorrevole a vetri aperta, abbastanza ampia da far passare un intruso, o un fuggitivo. Escono sul tetto e si guardano intorno. Cercano dietro il modulo del condizionatore, e tutt'intorno al serbatoio idrico, e sotto un telo plastificato che nasconde una catasta di sedie pieghevoli. Sbirciano oltre il cornicione. Sulla superficie del parcheggio non c'è il ritratto a olio di Litvak spiaccicato. Rientrano nell'attico del Blackpool. Sulla brandina ci sono il suo taccuino e la sua penna, e uno Zippo di metallo ammaccato. Landsman prende il taccuino e legge le ultime parole scritte da Litvak prima di abbandonarlo. Non sono stato io a ucciderla, era un brav'uomo. «Sono venuti a prenderlo» dice Bina. «Quei bastardi. Quei suoi bastardi amici americani degli Army Rangers.» Bina chiama gli uomini che piantonano gli ingressi dell'albergo. Nessuno di loro ha visto qualcuno uscire, né qualcosa di strano, tipo uno squadrone di guerrieri col viso imbrattato di carbone appesi alle funi di un elicottero Blackhawk. «Bastardi» ripete Bina, stavolta in americano, e con più trasporto. «Schifosi yankee figli di puttana bigotti.» «Ehi, signora, moderiamo il linguaggio!» «Sì, infatti, vediamo di darci una calmata.» Alcuni americani in giacca e cravatta, parecchi, troppi e tutti insieme perché Landsman riesca a contarli con precisione, diciamo sei, sono schierati spalla a spalla davanti alla porta che dà sull'altra stanza. Sono grossi, ben nutriti, gente che ama il proprio lavoro. Uno sfoggia un elegante spolverino verde oliva, e un sorrisetto contrito sotto i capelli bianco-oro. Landsman quasi non lo riconosce, senza il maglione con le renne. «Okay, gente» dice l'uomo che dev'essere Cashdollar. «Cerchiamo di calmarci tutti quanti.» «FBI?» dice Berko. «Fuochino» ribatte Cashdollar.
Capitolo quarantuno
Landsman trascorre le successive ventiquattro ore nel ronzio di una stanza bianco gesso con una moquette bianco latte, al settimo piano dell'edificio federale Harold Ickes di Seward Street. Sei uomini con variopinti cognomi da marinai cacciati in un film di sottomarini, a coppie di due, si alternano nello stanzino in turni da quattro ore. Uno è nero, uno latinoamericano, e gli altri sono fluidi giganti rosa con tagli di capelli che si collocano esattamente nell'intervallo compreso tra l'acconciatura da astronauta e quella del capo scout pedofilo. Masticatori di chewing gum, ragazzoni troppo cresciuti, di buone maniere e con sorrisi da catechismo. In tutti loro a tratti Landsman fiuta il cuore diesel del poliziotto, ma la carenatura del loro fascino da Gentili del Sud lo confonde. Nonostante la cortina di fumo di arroganza che Landsman solleva, riescono a farlo sentire una carretta scassata, un vecchio macinino a due tempi da buttare. Nessuno lo minaccia, né cerca di intimidirlo. Tutti gli si rivolgono anteponendo al cognome il grado, e premurandosi di pronunciare il primo nel modo a lui più gradito. Quando Landsman si fa scortese, impertinente o evasivo, gli americani reagiscono con la pazienza e la compostezza di un maestro elementare. Quando però Landsman si azzarda a formulare una domanda, un silenzioso estintore piove su di loro come quattromila litri d'acqua gettati da un aeroplano. Gli americani non vogliono dirgli dove si trovano o come stanno il detective Shemets e l'ispettore Gelbfish. Non hanno nulla da dire neppure sul numero di sparizione di Alter Litvak, e a quanto sembra non hanno mai sentito parlare né di Mendel Shpilman né di Naomi Landsman. Vogliono sapere che cosa Landsman sa, o crede di sapere, sul coinvolgimento degli Stati Uniti nell'attentato al Qubbat As-Sakhrak, e sui mandanti, sugli esecutori materiali, sui collaboratori e sulle vittime di tale attentato. E non voglio-
no che lui sappia quello che loro sanno, ammesso che sappiano qualcosa, su qualcuna delle suddette cose. Sono così ben addestrati a svolgere il loro compito che ci vuole più di un turno e mezzo prima che Landsman si renda conto che gli americani gli stanno ripetendo in continuazione la stessa ventina di domande, ribaltandole e riformulandole e affrontandole da angolazioni insolite. Le loro domande sono come le mosse fondamentali dei sei pezzi della scacchiera, si ricombinano all'infinito fino a raggiungere l'intero numero dei neuroni che ci sono nel cervello. A intervalli regolari, Landsman si vede offrire del caffè tremendo e una serie di biscottini alla marmellata d'albicocca e ciliegia sempre più duri. A un certo punto gli mostrano una sala pause e lo invitano ad accomodarsi su un divano. Il caffè e i biscotti si danno il cambio nella sala bianco gesso del cervello di Landsman, mentre lui chiude gli occhi e finge di appisolarsi. Poi è ora di tornare nel rumore bianco incessante delle pareti, del tavolo con il ripiano di metallo, del cigolio del vinile sotto il culo. «Detective Landsman.» Apre gli occhi e vede un miscuglio sfocato di nero e marrone. Ha lo zigomo addormentato per via della pressione del tavolo. Solleva la testa, staccandosi da un laghetto di saliva. Un filamento vischioso collega il suo labbro al tavolo, poi si spezza. «Ohibò» dice Cashdollar. Tira fuori un pacchettino di Kleenex dalla tasca destra del maglione e lo fa scivolare sul tavolo verso Landsman, accanto a una scatola di biscotti aperta. Cashdollar ha indosso un maglione nuovo, un cardigan giallo scuro con dei riquadri di scamosciato color caffè, bottoni di pelle, toppe di scamosciato sui gomiti. Siede composto su una sedia di metallo, con la cravatta annodata, le guance lisce, gli occhi azzurri addolciti da seducenti rughe da pilota di jet. I capelli sono dello stesso identico color oro della stagnola di un pacchetto di Broadway. Sorride senza entusiasmo né crudeltà. Landsman si asciuga la faccia e pulisce la bava che ha perso sul tavolo durante il suo sonnellino. «Ha fame? Vuole bere qualcosa?» Landsman chiede un bicchier d'acqua. Cashdollar infila una mano nella tasca sinistra del cardigan e tira fuori una bottigliet-
ta d'acqua minerale. La appoggia in orizzontale e la fa rotolare sul tavolo verso Landsman. Non è giovane, ma c'è una sorta di serietà infantile nel modo in cui prende la mira e lancia la bottiglietta e la guida a destinazione con il linguaggio del corpo. Landsman svita il tappo e beve un piccolo sorso. L'acqua minerale proprio non gli piace. «Un tempo lavoravo per un signore» dice Cashdollar. «Ovvero il signore che faceva questo lavoro prima di me. Quando parlava amava far scivolare nella conversazione sempre lo stesso intercalare. È un'abitudine abbastanza diffusa tra la gente che fa il mio lavoro. Sa, veniamo dall'esercito, dal mondo degli affari. Ai nostri tormentoni ci affezioniamo. Shibboleth. È una parola ebraica, sa? Giudici, capitolo 12. Sicuro che non ha fame? Posso farle portare un sacchetto di patatine. Dei noodles. Abbiamo un microonde.» «No, grazie» dice Landsman. «Shibboleth, diceva.» «Quest'uomo, il mio predecessore, ripeteva sempre: "Noi raccontiamo una storia, Cashdollar. È questo che facciamo".» La voce che adotta per citare il suo ex superiore è più grossa e meno amichevole del suo timbro compito, tenorile e un po' nasale. Più pomposo. «"Raccontagli una storia, Cashdollar. Quei poveri fessi non vogliono altro. " Solo che lui non usava la parola "fessi".» «"La gente che fa il suo lavoro"» dice Landsman. «Ovvero? Finanziare attacchi terroristici contro luoghi di culto islamici? Far ripartire le crociate? Uccidere donne innocenti che non hanno mai fatto altro che pilotare i loro aerei e ogni tanto cercare di aiutare qualcuno a tirarsi fuori da un casino? Sparare in testa a tossici indifesi? Mi scusi ma non ricordo esattamente cos'è che fate, voi con i vostri shibboleth.» «Tanto per cominciare, detective, nessuno di noi ha avuto niente a che fare con la morte di Menashe Shpilman.» Pronuncia il nome ebraico di Shpilman Menàsci. «Mi ha lasciato sconvolto e confuso come chiunque altro. Io non l'avevo mai incontrato, ma so che era una persona eccezionale, con doti straordinarie, e che la sua perdita è un danno per tutti. Una sigaretta la vuole?» Porge a Landsman un pacchetto di Winston ancora sigillato. «Avanti. So che le piace fumare. Tenga.» Tira fuori un pacchetto di fiammiferi e glieli passa sul tavolo con le Winston. «Quanto a sua sorella, guardi... Per lei mi dispiace davvero
tanto, detective Landsman. No, dico sul serio. Per quel che può valere, suppongo ben poco, le faccio le mie più sentite scuse. È stata una pessima decisione presa da chi mi ha preceduto in questo lavoro, la persona di cui le parlavo poc'anzi. E per questo errore ha pagato. Non con la vita, ovviamente.» Cashdollar scopre i suoi grossi denti squadrati. «Anche se lei probabilmente avrebbe preferito. Però ha pagato. Ha commesso un errore e ne ha commessi molti altri, detective. Innanzitutto, mi dispiace ma no» scuote piano la testa «non siamo noi a raccontare la storia.» «No?» «No. È la storia, detective Landsman, a raccontare noi. Ed è così fin dall'inizio. Noi siamo parte della storia. Lei. Io.» La scatoletta dei fiammiferi proviene da un posto a Washington chiamato Hogate's Sea Food, all'incrocio tra la 9 a e Maine Avenue sud-ovest. Lo stesso ristorante, se Landsman ricorda bene, davanti al quale il delegato Anthony Dimond, principale oppositore dell'Alaskan Settlement Act, fu investito da un tassista ubriaco mentre si chinava a recuperare un dolcetto che gli era rotolato in mezzo alla strada. Landsman accende un fiammifero. «E Gesù?» dice, incrociando gli occhi dietro la fiamma. «Anche Gesù.» «A me Gesù non sta antipatico.» «Mi fa piacere. Nemmeno a me. E Gesù non amava uccidere, fare del male, distruggere. Questo lo so. Il Qubbat As-Sakhrak era uno splendido edificio antico, l'Islam è una religione da rispettare e, a parte il fatto che su certe questioni fondamentali sbaglia completamente, ritengo che in sé e per sé non abbia nulla di male. Vorrei tanto che ci fosse un modo per compiere questo lavoro senza ricorrere a certe azioni. Ma a volte non c'è. E Gesù questo lo sapeva. "Ma chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e fosse gettato in fondo al mare." Dico bene? Insomma, sono parole di Gesù. Sapeva essere duro se le circostanze lo richiedevano.» «Aveva i controcoglioni» butta lì Landsman. «Sì, li aveva. E dunque, detective Landsman, lei potrà anche non crederci, ma la fine dei tempi è davvero vicina. Personalmente, non vedo l'ora che arrivi. Ma perché ciò accada, Gerusalemme e la Terra Santa devono essere restituite agli ebrei.
Così dicono le scritture. Ed è triste, ma purtroppo non c'è modo di farlo senza un minimo spargimento di sangue. Senza un minimo di distruzione. È tutto scritto, sa? Io però sto facendo il possibile, a differenza di chi mi ha preceduto, perché questo minimo rimanga un minimo assoluto. Per Gesù, per la mia anima, e per le anime di tutti noi. Perché tutto proceda liscio. Per tenere in piedi questa operazione finché le cose laggiù non si saranno sistemate. Finché non avremo sbrigato alcune faccende in loco.» «Ma non volete che si sappia che dietro ci siete voi. Lei e la gente che fa il suo lavoro.» «Be', sì, ma questo è un po' il nostro modus operandi, non so se mi spiego.» «E volete che il sottoscritto tenga la bocca chiusa.» «So che le stiamo chiedendo molto.» «Finché non avrete sbrigato le faccende di cui sopra. Ovvero far sparire un po' di arabi e far arrivare un po' di Verbover. Giusto il tempo di cambiare il nome di qualche via.» «Finché non avremo messo in moto la proverbiale massa critica. E placato un po' il polverone che gli ultimi sviluppi hanno sollevato. Per poi darci da fare. E portare a compimento ciò che è scritto.» Landsman beve un sorso d'acqua minerale. È tiepida, e gli sembra che sappia di tasca di cardigan. «Io rivoglio la mia pistola e il mio distintivo» dice. «Ecco cosa voglio.» «Amo i poliziotti» dice Cashdollar senza particolare trasporto. «Sul serio.» Si copre la bocca con una mano e inspira dalle narici con fare contemplativo. La mano è fresca di manicure, ma l'unghia del pollice è rosicchiata. «Tra non molto questo posto si riempirà di indiani, amico mio. Detto fra me e lei, anche con la sua pistola e il suo distintivo non riuscirà a tenerli a bada per molto. E dubito che la polizia tribale intenda assumere molti ebrei.» «Può darsi. Berko però lo vorranno.» «Di sicuro nessuno che non abbia i documenti.» «Ah, giusto» dice Landsman. «Ecco l'altra cosa che voglio.» «Stiamo parlando di un sacco di documenti, detective Landsman.» «A lei serve un sacco di silenzio.» «In effetti...» commenta Cashdollar.
Cashdollar osserva Landsman per un paio di lunghi istanti, e Landsman capisce, da una certa aria vigile nei suoi occhi, uno sguardo proiettato in avanti, che nascosta su di lui da qualche parte c'è una pistola, e che il dito freme per recuperarla. Esistono modi più diretti per chiudere la bocca a Landsman che non comprarlo con una pistola e qualche scartoffia. Cashdollar si alza dalla sedia e la ripone accuratamente sotto il tavolo. Fa per infilarsi il pollice fra i denti, ma poi ci ripensa. «Le dispiacerebbe ridarmi i Kleenex?» Landsman gli lancia il pacchetto, ma sbaglia la traiettoria, e Cashdollar non riesce a prenderlo. Il pacchetto di Kleenex cade nella scatola di biscotti raffermi, atterrando su una lucida chiazza di marmellata rossa. La rabbia apre uno squarcio nello sguardo placido di Cashdollar, oltre il quale si intravedono le ombre in esilio di mostri e avversioni. L'ultima cosa che vuole, ricorda Landsman, è scoprire che ci sono casini. Cashdollar pesca un Kleenex con la punta di due dita e lo usa per ripulire il pacchetto, quindi mette i rimanenti al sicuro nella sua tasca destra. Infila l'ultimo bottone in basso del cardigan nella sua asola, e nel breve istante in cui il bordo di lana si solleva al di sopra del fianco, Landsman avvista il rigonfiamento di una sholem. «Il suo collega» dice Cashdollar a Landsman «ha molto da perdere. Moltissimo. Lo stesso vale per la sua ex moglie. Ed entrambi se ne rendono conto fin troppo bene. Forse è ora che anche lei giunga alle stesse conclusioni su di sé, detective Landsman.» Landsman fa il conto delle cose che gli restano da perdere: il cappello che ha in testa. Una scacchiera tascabile e la polaroid di un Messia morto. Una mappa dei confini di una Sitka laica, enciclopedica, fatta di luoghi di delitti, localacci e rovi, stampa ta sul groviglio del suo cervello. Una nebbia invernale che ammanta il cuore, pomeriggi estivi che si protraggono all'infinito come discussioni tra ebrei. Fantasmi della Russia imperiale tracciati nella cupola a cipolla della cattedrale di St. Michael, e di Varsavia nel dondolio e nel braccio frenetico di un violinista da bar. Canali, barche da pesca, isole, cani randagi, stabilimenti alimentari, ristoranti kasher. L'insegna al neon del cinema Baranof che si riflette sull'asfalto bagnato, colori che si spandono come acquarelli quando esci dalla replica di Cuore di tenebra di Orson Welles, che hai appena visto per la terza volta, con la
ragazza dei tuoi sogni sottobraccio. «'Fanculo ciò che è scritto» dice Landsman. «Sa che le dico?» Tutt'a un tratto non ne può più di delinquenti e profeti, di pistole e sacrifici, e dell'infinito potere criminale di Dio. È stanco di sentir parlare di Terra Promessa e di spargimenti di sangue inevitabili per la sua redenzione. «Me ne frego di ciò che è scritto. Me ne frego di ciò che è stato promesso a un cretino coi sandali diventato famoso perché era pronto a tagliare la gola del figlio in nome di una stupida idea. Me ne frego delle giovenche rosse e dei patriarchi e delle cavallette. Un mucchietto di vecchie ossa sepolto nella sabbia. Casa mia è questo cappello. È la borsa che la mia ex moglie si porta sempre dietro.» Si sistema sulla sedia. Si accende un'altra sigaretta. «'Fanculo lei» conclude Landsman. «E 'fanculo anche Gesù. Non aveva le palle.» «Mi raccomando, Landsman, acqua in bocca» dice Cashdollar piano, facendo il gesto di sigillarsi le labbra.
Capitolo quarantadue
Quando Landsman esce dall'edificio Ickes e si piazza il cappello sulla testa svuotata, scopre che il mondo è finito in un banco di nebbia. La sera è roba fredda e appiccicosa che gli si condensa in goccioline sulle maniche del cappotto. Korczak Platz è una ciotola di nebbiolina chiara, qua e là macchiata da zampate di lampade al sodio. Quasi cieco e col freddo nelle ossa, Landsman si trascina giù per Monastir Street, fino a Berlevi Street, e di lì verso Max Nordau Street, con la schiena indolenzita e il mal di testa e un dolore acuto e pulsante alla dignità. Lo spazio fino a poco fa occupato dalla sua mente sibila come la nebbia che gli entra nelle orecchie, ronza come un lampadario di tubi al neon. Landsman ha l'impressione di soffrire di un tinnito all'anima. Quando entra nell'atrio dello Zamenhof, Tenenboym gli consegna due lettere. Una viene dalla commissione disciplinare, e lo informa che l'udienza per le indagini sul suo ruolo nelle morti di Zilberblat e Flederman è fissata per l'indomani mattina alle nove. L'altra lettera è una comunicazione da parte dei nuovi proprietari dell'albergo. Una certa signora Robin Navin del Gruppo alberghiero Joyce/Generali scrive a Landsman per informarlo dei nuovi, eccitanti cambiamenti che attendono nei prossimi mesi lo Zamenhof, il cui nome, a partire dal 1° gennaio, diventerà Luxington Parc Sitka. Parte dell'eccitazione deriva dal fatto che il contratto di affitto mensile di Landsman è stato rescisso, e che la rescissione diventerà effettiva il 1° dicembre. Tutte le caselle dietro il banco della reception contengono lunghe buste bianche, ciascuna infilata con la stessa fatale inclinazione dall'angolo in basso a destra a quello in alto a sinistra. Tranne la casella 208. Lì non c'è niente. «Ha sentito che cosa è successo?» gli chiede Tenenboym quando Landsman torna dal suo viaggio epistolare nel radioso futuro da Gentile che toccherà all'Hotel Zamenhof.
«L'ho visto in televisione» risponde Landsman, anche se il ricordo sembra ormai di seconda mano, annebbiato, un costrutto impiantato nella mente dalle domande assillanti di chi l'ha interrogato. «All'inizio dicevano che era stato un errore» dice Tenenboym con lo stuzzicadenti d'oro che ballonzola a un angolo della bocca. «Degli arabi che stavano costruendo bombe in un tunnel sotto il Monte del Tempio. Poi è venuto fuori che l'hanno fatto di proposito. Quelli che combattono con quegli altri.» «Sunniti e sciiti?» «Forse. Qualcuno ha fatto casino con un lanciarazzi.» «Siriani ed egiziani?» «Boh. Il presidente è apparso in televisione dicendo che forse dovranno entrare nel paese. Che è una Città Santa per tutti.» «Hanno fatto in fretta» commenta tra sé Landsman. L'unica altra corrispondenza è una cartolina che reclamizza forti sconti su un abbonamento a vita in un palestra che Landsman ha frequentato per qualche mese dopo il divorzio. All'epoca qualcuno gli disse che gli avrebbe risollevato il morale. Ottimo suggerimento. Landsman non ricorda se si sia dimostrato corretto o meno. La cartolina raffigura a sinistra un ebreo grasso, e a destra uno magro. Quello a sinistra ha l'aria stanca, insonne, sclerotica, trasandata, con due guance che sembrano cucchiaiate di panna acida, e due occhietti furbi e cattivi. L'ebreo a destra è snello, abbronzato e con la barba curata, rilassato, sicuro di sé. Somiglia un sacco, deve ammettere Landsman, a uno dei ragazzi di Litvak. L'ebreo del futuro, pensa. La cartolina sostiene, poco plausibilmente, che l'ebreo a sinistra e quello a destra siano la stessa persona. «Li ha visti, in giro per strada?» dice Tenenboym facendo ticchettare lo stuzzicadenti d'oro contro un premolare. «Alla televisione?» Landsman scuote la testa. «Si saranno messi a ballare.» «Come matti! Gente che sveniva, che piangeva. Un orgasmo di massa.» «La prego, Tenenboym, sono a stomaco vuoto.» «Tutti a benedire gli arabi che si fanno la guerra da soli. A benedire l'anima di Maometto.» «Un po' crudele, no?» «Uno dei cappelli neri ha detto in televisione che adesso si trasferisce nella Terra di Israele, vuole un posto in prima fila
per quando arriva il Messia.» Sfila lo stuzzicadenti e scruta la punta in cerca di un tesoro, poi se lo rimette in bocca deluso. «Fosse per me, io questi pazzi li caricherei tutti quanti su un bell'aereo e li spedirei laggiù, possano avere un anno nero.» «Ah, lei farebbe così, Tenenboym?» «Se serve l'aereo lo piloto io.» Landsman infila la lettera del Gruppo Joyce/Generali nella busta e la fa scivolare sul banco verso Tenenboym. «Faccia il favore, Tenenboym, me la butti.» «Be', detective, ha trenta giorni» dice Tenenboym. «Qualcosa troverà.» «Può scommetterci» dice Landsman. «Qualcosa troveremo tutti quanti.» «Sempre che qualcosa non trovi prima noi, dico bene?» «E lei, Tenenboym? La tengono al suo posto?» «Il mio status è ancora all'esame.» «Be', almeno ha una speranza.» «Di speranze si muore.» «Anche questo è vero.» Landsman prende l'elevatoro e sale al quinto piano. Percorre il corridoio con il cappotto appeso a un dito piegato a uncino sulla spalla, allentandosi la cravatta con l'altra mano. La porta della sua stanza canticchia il suo testo elementare: cinque zero cinque. Non significa niente. Luci nella nebbia. Tre cifre arabe. Inventate in India, per la precisione, proprio come gli scacchi, ma disseminate per il mondo dagli arabi. Dai sunniti, dagli sciiti. Dai siriani e dagli egiziani. Landsman si domanda quanto ci metteranno le varie fazioni che si contendono la Palestina a capire che nessuna è responsabile dell'attentato. Un giorno o due, forse una settimana. Abbastanza perché si instauri una confusione irreversibile, perché Litvak piazzi i suoi ragazzi, perché Cashdollar mandi i rinforzi dal cielo. Dall'oggi al domani Tenenboym potrebbe diventare il portiere di notte del Luxington Parc di Gerusalemme. Landsman si mette a letto e tira fuori la scacchiera tascabile. La sua attenzione si sposta da un riquadro all'altro, inseguendo l'assassino di Mendel Shpilman e Naomi Landsman. Con una certa sorpresa e non poco sollievo, Landsman scopre di sapere già chi è l'assassino. È il fisico tedesco, nonché premio Nobel e mediocre scacchista, Albert Einstein. Einstein, con la sua nuvola di capelli e i maglioni larghi e gli occhi come tunnel che si
perdono nell'oscurità del tempo stesso. Landsman insegue Albert Einstein sul ghiaccio bianco latte, bianco gesso, saltando di riquadro chiaro in riquadro scuro su scacchiere relativistiche di colpa ed espiazione, in lungo e in largo per l'immaginaria terra di pinguini ed eschimesi che gli ebrei non sono riusciti a ereditare. Il sogno esegue una mossa del cavallo, e col suo solito fervore la sorellina Naomi attacca a spiegare a Landsman la famosa dimostrazione compiuta da Einstein dell'Eterno ritorno degli ebrei, e il fatto che questo si possa misurare soltanto nei termini dell'Eterno esilio degli ebrei, dimostrazione cui il genio approdò osservando l'oscillazione dell'ala di un aeroplano e il lento sbocciare di un fiore nero di fumo dal versante di una montagna di ghiaccio. Il sogno di Landsman partorisce altri lenti iceberg di sogni, e il ghiaccio ronza di fluorescenza. A un certo punto il ronzio che tormenta Landsman e la sua gente dall'alba dei tempi, e che alcuni nella loro stoltezza hanno scambiato per la voce di Dio, rimane impigliato nelle finestre della stanza 505, come un raggio di sole nel cuore di un iceberg. Landsman apre gli occhi. Tra i listelli delle veneziane la luce del giorno si dibatte come una mosca in trappola. Naomi è morta di nuovo, e quel povero sciocco di Einstein è assolto da ogni accusa. Landsman non sa nulla. Sente una fitta all'addome, che dapprima scambia per dolore, per poi stabilire, subito dopo, che invece è fame. Una voglia acuta, per l'esattezza, di involtini di cavolo. Controlla l'ora sullo Shoyfer, ma la batteria si è scaricata. Il portiere di giorno riferisce, quando Landsman chiama la reception, che sono le nove e nove di giovedì mattina. Involtini di cavolo! Ogni mercoledì sera al Vorsht è la serata rumena, e l'indomani la signora Kalushiner ha sempre qualche avanzo. Quella vecchia strega serve i migliori sarmali di tutta Sitka. Leggeri e corposi al tempo stesso, più piccanti che agrodolci, con un tocco di panna acida fresca e qualche ramoscello di aneto appena colto. Landsman si fa la barba, e indossa lo stesso abito sfinito che ha appeso al pomello della porta. È pronto a consumare l'equivalente del suo peso in sarmali. Ma quando arriva al pianterreno guarda l'orologio sopra le caselle della posta, e si rende conto che è già in ritardo per l'udienza davanti alla commissione disciplinare di tredici minuti. Quando arriva raspando come un cane sulle piastrelle lisce del corridoio del modulo amministrativo, quindi nella stanza
102, i minuti di ritardo sono ventidue. Non trova nient'altro che un lungo tavolo impiallacciato con cinque sedie, una per ciascun membro della commissione, e il suo superiore, seduta sul bordo del tavolo, con le gambe penzoloni incrociate all'altezza della caviglia, le scarpe appuntite col tacco basso che mirano dritte al cuore di Landsman. Le cinque sedie di pelle con lo schienale alto sono vuote. Bina non è furibonda. Di più. Ha il tailleur marrone stazzonato e abbottonato storto. I capelli si direbbero legati con una cannuccia di plastica. I collant sono spariti da un pezzo, le gambe sono nude e punteggiate di pallide lentiggini. Landsman si ricorda con strano piacere di quando Bina stracciava un paio di calze smagliate, facendole in mille pezzi in una nuvola di rabbia, per poi gettarle nella spazzatura. «Smettila di guardarmi le gambe» dice. «Piantala, Meyer. Guardami in faccia.» Landsman ubbidisce, fissando dritto i due forellini del suo sguardo a canna doppia. «Non mi sono svegliato» dice. «Scusa. Mi hanno tenuto lì per ventiquattro ore, e quando poi...» «A me per trentuno» taglia corto lei. «Esco ora.» «Quindi 'fanculo a me e ai miei piagnistei.» «Tanto per cominciare.» «A te com'è andata?» «Sono stati così carini» dice Bina amaramente. «Sono crollata. Gli ho raccontato tutto.» «Idem.» «Allora» dice lei, indicando la stanza intorno con i palmi delle mani girati verso l'alto, come se avesse appena fatto sparire qualcosa. Il suo tono scherzoso non è un buon segno. «Indovina un po'?» «Sono morto» azzarda Landsman. «La commissione mi ha coperto di calce e seppellito.» «A dire il vero» risponde Bina «stamattina ho ricevuto una chiamata sul cellulare, proprio in questa stanza, alle otto e cinquantanove. Dopo aver fatto una figura di merda con quelli là, urlando come una pazza perché mi lasciassero uscire dall'edificio federale, ed essermi precipitata qui per essere seduta al tuo fianco, puntuale e pronta a schierarmi in difesa del mio detective.» «Uhm.»
«La tua udienza è stata cancellata.» Bina infila un braccio nella sua borsa, fruga un po', e tira fuori una pistola. La aggiunge alla batteria composta dal suo sguardo a fucile e dalla punta delle scarpe. È una M-39 scalcagnata. Dalla canna penzola un cartellino giallo appeso a un filo. Bina la lancia a Landsman. Lui riesce a prenderla al volo, ma gli sfugge di mano il portadistintivo che viene subito dopo. Poi è il turno di una bustina con dentro il caricatore. Da un'altra rapida perlustrazione della borsa affiorano un modulo dall'aria minacciosa e i suoi scagnozzi in triplice copia. «Dopo che ti sarai scervellato su questo DPD 2255, detective Landsman, sarai reintegrato, con stipendio pieno e indennità, nelle fila della polizia distrettuale, divisione centrale di Sitka.» «Ricomincio a lavorare.» «Per quanto? Altre cinque settimane? Buon divertimento.» Landsman soppesa la sholem come un eroe shakespeariano che contempla un teschio. «Avrei dovuto chiedergli un milione di dollari» dice. «Scommetto che li avrebbe tirati fuori.» «Gli venisse un colpo» dice Bina. «A lui e a tutti gli altri. Io l'ho sempre saputo che c'erano. Giù a Washington e quassù, sopra le nostre teste. A manovrare i fili. Decidere le strategie. Certo che lo sapevo. Lo sapevamo tutti. Ce lo insegnano da sempre, no? La nostra presenza è semplicemente tollerata. Siamo ospiti. Ma per un sacco di tempo ci hanno ignorato, abbandonandoci a noi stessi. È stato facile cascarci. Pensavi di avere un po' di autonomia, nel tuo piccolo, niente di che. Io ho finito per credere che stavo lavorando per tutti. Non so se mi spiego. Che servivo la gente. Difendevo la legge. E invece lavoravo per Cashdollar.» «Secondo te dovevano congedarmi, vero?» «No, Meyer.» «Io lo so che a volte esagero. Che seguo troppo l'istinto. Che sono una mina vagante.» «Meyer, secondo te io sono arrabbiata perché ti hanno restituito il distintivo e la pistola?» «Non tanto per quello. Ma per l'udienza cancellata. So quanto ti piace che le cose vengano fatte secondo le regole.» «È vero, mi piace che le cose vengano fatte secondo le regole» dice lei, con voce tesa. «Io nelle regole ci credo.» «Lo so.» «Se io e te avessimo seguito un po' di più le regole...» prose-
gue lei, e qualcosa di pericoloso sembra gonfiarsi in mezzo a loro. «Che tu e il tuo istinto possiate avere un anno nero.» A Landsman viene voglia di raccontargliela, allora. La storia da cui negli ultimi tre anni si è sentito raccontare. Dopo che Django le era stato strappato dal corpo, Landsman fermò il dottore nel corridoio fuori dalla sala operatoria. Bina gli aveva ordinato di chiedere a quel bravo dottore se c'era un qualche utilizzo, pratico o scientifico, a cui quelle ossa e quegli organi non del tutto formati potevano essere destinati. «Mia moglie voleva sapere...» cominciò Landsman, poi esitò. «Se c'erano malformazioni visibili?» disse il dottore. «No. Nulla. Il bambino sembrava normale.» Anche lui si accorse, troppo tardi, dell'espressione inorridita sul volto di Landsman. «Naturalmente questo non vuol dire che fosse tutto a posto.» «Naturalmente» fece eco Landsman. Quel dottore non l'ha mai più rivisto. Il destino ultimo di quel corpicino, del bambino che Landsman ha sacrificato al Dio del suo istinto nero, è qualcosa su cui Landsman non ha mai avuto la forza né il coraggio di indagare. «Cazzo, Meyer, io ho chiesto la stessa cosa» gli dice Bina prima che possa confessare. «In cambio del mio silenzio.» «Di poter continuare a fare la poliziotta?» «No. Che potessi continuare tu.» «Grazie» dice Landsman. «Grazie infinite, Bina. Te ne sono grato.» Lei si affonda il viso nelle mani e si massaggia le tempie. «Anch'io ti sono grata, Meyer» dice lei. «Grazie per avermi ricordato in che schifo di mondo viviamo.» «Figurati» dice lui. «È bello poter dare una mano.» «Quel pezzo di merda di Cashdollar... Hai notato che i capelli mica gli si muovono? Sembrano saldati in testa.» «Mi ha detto che lui con Naomi non c'entra» dice Landsman. Fa una pausa, si mordicchia un labbro. «Che è stato quello che l'ha preceduto.» Mentre lo dice cerca di tenere la testa alta, ma un attimo dopo è lì che si fissa la punta delle scarpe. Bina allunga un braccio, indugia, poi gli stringe una spalla. Gli lascia la mano addosso per un totale di due secondi, abbastanza perché in Landsman un paio di cuciture saltino. «Ha anche negato ogni responsabilità nella morte di Shpil-
man. Mi sono scordato di chiedergli di Litvak, però.» Landsman alza gli occhi, e Bina toglie la mano. «A te per caso ha detto dove l'hanno portato? Sta andando a Gerusalemme?» «Ha cercato di fare il misterioso, ma secondo me non ne ha idea. A un certo punto l'ho sentito per caso parlare al cellulare. Diceva che stavano facendo venire una squadra della Scientifica da Seattle per fare dei rilevamenti nella stanza del Blackpool. Forse voleva che sentissi. Ma devo dire che sembravano tutti un po' perplessi riguardo al nostro amico Alter Litvak. Meyer, secondo me non lo sanno nemmeno loro dov'è finito. Forse è scappato coi soldi. A quest'ora potrebbe essere in viaggio per il Madagascar.» «Forse» dice Landsman. Poi, più lentamente: «Forse». «Dio ci salvi, sento un'intuizione in arrivo.» «Bina, hai detto che mi sei grata.» «Per modo di dire. Ironicamente.» «Senti, ho bisogno di una mano. Voglio dare un'altra occhiata alla stanza di Litvak.» «Meyer, non possiamo entrare al Blackpool. L'edificio è sotto sequestro, e i federali vi stanno compiendo una qualche indagine segreta.» «Io non voglio entrare dentro il Blackpool. Ma sotto.» «Sotto?» «Ho sentito dire che potrebbero esserci dei tunnel.» «Dei tunnel.» «Tunnel di Varsavia, pare che li chiamino.» «E hai bisogno che ti tenga per mano» dice lei. «In quel brutto tunnel tutto buio.» «Solo in senso metaforico» dice Landsman.
Capitolo quarantatré
In cima alle scale Bina tira fuori dalla sua borsa di vacchetta un portachiavi a torcia, e lo porge a Landsman. Pubblicizza, o forse è un allegoria dei servizi offerti da un'impresa di pompe funebri di Yakovy. Poi Bina sposta alcuni fascicoli, una mazzetta di documenti giudiziari, una spazzola di legno per capelli, un boomerang mummificato in un sacchettino di plastica a chiusura ermetica che forse un tempo era una banana, una copia di «People», e tira fuori una specie di bardatura nera floscia, che fa pensare a un oggetto per giochini sadomaso, corredata da una specie di barattolino rotondo. Ci affonda dentro la testa e avvolge i capelli nella ragnatela nera. Quando si raddrizza e si volta, una lente argentata si illumina e si spegne, scorrendo sul viso di Landsman. Landsman sente il buio imminente, ha l'impressione che la parola «tunnel» gli si stia intrufolando nella cassa toracica attraverso le costole. Scendono le scale, attraversano la stanza degli oggetti smarriti. Passano sotto lo sguardo cattivo della faina impagliata. L'anello di corda appeso alla porta è sganciato. Landsman cerca di ricordare se lo scorso giovedì notte l'ha rimesso al suo posto, prima di battere ingloriosamente la ritirata. Rimane lì impalato, a torturarsi la memoria, poi si arrende. «Entro prima io» dice Bina. Si inginocchia ed entra nel cunicolo. Landsman esita. Il polso a mille, la lingua riarsa. Le sue funzioni fisiologiche involontarie sono impigliate nella vecchia e noiosa questione della sua fobia, ma il set di quarzi che ogni ebreo riceve alla nascita, sintonizzato per ricevere le trasmissioni del Messia, risuona alla vista del culo di Bina, quel lungo arco infossato che è come la lettera di un alfabeto magico, una runa in grado di sollevare la lastra di pietra sotto cui ha sepolto il desiderio che ha di lei. Landsman è trafitto dalla consapevolezza che, per quanto potente sia l'incantesimo che ancora esercita su di lui, mai più
avrà il permesso di - oh, meraviglia delle meraviglie - mordicchiarlo. Poi anche quello sparisce nel buio, insieme al resto del corpo di Bina, e Landsman rimane incagliato. Borbotta tra sé e sé, ragiona con se stesso, si sfida a seguirla, poi Bina dice: «Entra», e lui ubbidisce. Bina appoggia la punta delle dita sul bordo curvo del disco di compensato, lo solleva e lo porge a Landsman, con il viso acceso dal fascio di luce della torcia portachiavi che lui stringe in mano e da un'aria ironicamente solenne che Landsman non le vedeva da anni. Quand'erano ragazzi lui di notte entrava nella sua stanza, arrampicandosi dalla finestra, per dormire con lei, e questa era l'espressione dipinta sul volto di Bina quando andava ad aprirgli. «C'è una scala!» esclama lei. «Meyer, ma non sei sceso? La sera che sei venuto qui?» «Ehm, no, ero un po'... non sapevo bene...» «Sì, okay» dice lei gentilmente. «Lo so.» Scende un piolo d'acciaio alla volta, e di nuovo Landsman la segue. Sente lo sbuffo di fiato quando infine Bina salta giù, le sue scarpe che raschiano sul metallo. Poi precipita nel buio. Lei lo afferra al volo, e riesce quasi a tenerlo in piedi. La lampada che Bina ha sulla fronte getta luce qua e là, delineando un bozzetto frettoloso del tunnel. È un altro condotto di alluminio, che corre perpendicolare a quello da cui sono scesi. Quando Landsman si raddrizza, il cappello sfiora la superficie curva. Alle loro spalle termina in un sipario di terra nera umida, e davanti a loro prosegue dritto, sotto Max Nordau Street, verso il Blackpool. L'aria è fredda e planetaria, con un vago odore di ferro. Qualcuno ha posato un pavimento di compensato, e a mano a mano che avanzano le loro luci inquadrano orme infangate di passi. Quando più o meno ritengono di essere circa a metà di Max Nordau Street, incrociano un altro condotto che corre da est a ovest, collegando il tunnel in cui si trovano alla rete costruita dagli ebrei della seconda ondata contro l'eventualità di una futura distruzione. Tunnel che portano ad altri tunnel, magazzini, bunker. Landsman pensa alle schiere di uomini e donne giunti qui con suo padre, quelli che le sofferenze e l'orrore non avevano spezzato, ma piuttosto reso determinati. Gli ex partigiani, gli oppositori, i combattenti comunisti, i guastatori della sinistra
sionista - la marmaglia, per usare una definizione dei quotidiani del Sud - tutti quelli che dopo la guerra arrivarono a Sitka con l'anima vulcanizzata, e combatterono contro Orsi polari come Hertz Shemets la loro breve, sfortunata battaglia per il controllo del distretto. Sapevano, quegli uomini coraggiosi e devastati - era una certezza come il sapore della lingua che avevano in bocca - che i loro salvatori un giorno li avrebbero traditi. Entrarono in questo paese selvaggio che non aveva mai visto un ebreo, e da subito cominciarono a prepararsi per il giorno in cui li avrebbero rastrellati e costretti a fare i bagagli, a opporre resistenza. Poi, a uno a uno, queste donne e questi uomini induriti, arrabbiati, erano stati cooptati, scelti, messi all'ingrasso, aizzati l'uno contro l'altro, oppure neutralizzati dallo zio Hertz e dalle sue infinite operazioni. «Non tutti» dice Bina. La sua voce, come quella di Landsman, carambola sulle pareti di alluminio del tunnel. «Alcuni si sono semplicemente trovati bene. Hanno cominciato a dimenticare, almeno un po'. Si sono sentiti a casa.» «Probabilmente è sempre andata così» dice Landsman. «In Egitto. In Spagna. In Polonia.» «Si sono indeboliti. Indebolirsi è umano. Avevano le loro vite. Vieni.» Seguono le tavole di compensato fino a raggiungere un altro condotto che si apre sopra di loro, anche questo provvisto di pioli. «Stavolta vai prima tu» dice Bina. «Così il culo te lo guardo io.» Landsman si issa sul primo piolo, quindi sale fino in cima. Un debole spiraglio di luce filtra da una crepa o da un foro nel coperchio che chiude la sommità del condotto. Landsman spinge lo sportello, e quello è bloccato, uno spesso strato di compensato che non si sposta né si piega. Prova a smuoverlo con una spallata. «Che succede?» dice Bina da sotto i suoi piedi, facendogli ballare la luce della lampada sugli occhi. «Non si sposta» dice Landsman. «Dev'esserci qualcosa sopra. Oppure...» Cerca con la mano il foro, e sfiora qualcosa di freddo e rigido. Si ritrae, poi le dita tornano a ricostruire l'impressione di un'asticella di ferro, un cavo, teso allo stremo. Accende la torcia. Un cavo rivestito in gomma, annodato, che sbuca dal foro
per le dita al centro del coperchio, teso e assicurato al primo piolo della scaletta sottostante. «Che c'è, Meyer? Che hanno fatto?» «Se lo sono richiuso alle spalle e l'hanno legato perché nessuno potesse seguirli» dice Landsman. «Con un bel pezzo di corda.»
Capitolo quarantaquattro
Un vento ladro venuto dall'entroterra ha trasformato il cielo, saccheggiando il tesoro di nebbia e pioggia di Sitka e lasciandosi dietro soltanto ragnatele, e un'unica monetina scintillante in un forziere d'azzurro perfetto. Alle dodici e tre minuti il sole ha già timbrato il cartellino. Tramontando, tinge i ciottoli e gli stucchi della piazza di una vibrazione luminosa color violino che solo un cuore di pietra non troverebbe struggente. Landsman, una maledizione sulla sua testa, sarà anche uno shammes, ma non è certo di pietra. Mentre viaggiano sulla Avenue 225 diretti all'isola Verbov, lui e Bina colgono a ogni angolo l'odore forte degli tsimmes che ribollono in tutte le cucine della città. Se possibile, l'odore si fa più intenso e più carico di gioia e panico su quest'isola che da qualsiasi altra parte. Cartelli e striscioni annunciano l'imminente proclamazione del regno di Davide, ed esortano i fedeli a prepararsi per il ritorno a Eretz Israel. Molti cartelli sembrano spontanei, tracciati in grondanti spruzzi di bombolette spray su lenzuola e pezzi di carta per alimenti. Nelle viuzze laterali, gruppi di donne e di traslocatori si strillano addosso, cercando di abbassare o gonfiare il prezzo di valigie, sapone da bucato concentrato, creme solari, batterie, barrette proteiche, matasse di lana leggera adatta a climi tropicali. In fondo ai vicoli, immagina Landsman, nelle cantine e sulle soglie, un mercato più silenzioso arde come fuoco sotto la cenere: medicinali, oro, armi automatiche. Oltrepassano capannelli di geni di quartiere che si scambiano commenti su quali famiglie riceveranno quali appalti, una volta raggiunta la Terra Santa, su quale piccolo boss gestirà le lotterie clandestine, il contrabbando di sigarette, il mercato nero delle armi. Per la prima volta da quando Gaystik conquistò il titolo, dai tempi della Fiera mondiale, forse per la prima volta da sessant'anni a questa parte, o almeno questa è la sensazione di Landsman, nel distretto di Sitka sta succeden-
do qualcosa. Di che cosa in definitiva si tratterà, neppure il più erudito dei Rebbe da marciapiede ha la più pallida idea. Ma quando raggiungono il cuore dell'isola, quella replica fedele del cuore perduto della vecchia Verbov, non c'è traccia della fine dell'esilio, dei prezzi gonfiati, di una rivoluzione messianica. In fondo alla piazzetta, sul lato più ampio, la casa del Verbover Rebbe si erge solida ed eterna come in un sogno. Il fumo sale dai comignoli elaborati con la fretta di una spedizione urgente, per poi cadere sotto l'agguato del vento. I Rudashevsky del mattino indugiano cupi nelle loro postazioni, e sul cornicione della casa, come un nero gallo segnavento dai lembi di cappotto svolazzanti, è appollaiato il cecchino con la sua semiautomatica. Tutt'intorno alla piazzetta, le donne descrivono i loro abituali circuiti mattutini, spingendo passeggini, trascinandosi dietro una scia di bambine e bambini troppo piccoli per la scuola. Qua e là si fermano a intessere e disfare le matasse di fiato il cui groviglio le unisce. Pezzi di giornale, foglie e polvere si sollevano roteando come dreydl sotto le arcate delle case. Due uomini in lunghi cappotti avanzano chini nel vento, diretti alla casa del Rebbe, con i cernecchi che ondeggiano. Per la prima volta Landsman ha l'impressione che la cantilenata lamentela, quasi un credo religioso, o quantomeno una filosofia, dell'ebreo di Sitka - Di noi, bloccati qui tra Hoonah e Hotzeplotz, non frega niente a nessuno - sia sempre stata, in questi sessant'anni, una benedizione, e non il tormento che tutti quanti, in questo angolo sperduto tra la geografia e la storia, hanno creduto che fosse. «Chi altro vorrebbe vivere in questa gabbia per polli?» dice Bina, pensando ad alta voce com'è sua abitudine, chiudendosi la cerniera del parka fin sopra il mento. Sbatte la portiera dell'auto di Landsman e scambia le solite occhiatacce di rito con un gruppetto di donne dall'altra parte della strada su cui si affaccia il laboratorio dell'esperto di confini. «Questo posto è come un occhio di vetro, una gamba di legno. Non lo vogliono nemmeno al monte dei pegni.» Davanti al cupo edificio di pietra, il solito studente tormenta uno straccio con un manico di scopa. Lo straccio è impregnato di un solvente dall'odore psicotropo, e il ragazzo è stato esiliato su tre irriducibili isolette di olio per motori grondate sul cemento. Colpisce e accarezza lo straccio con l'estremità del bastone. Quando si accorge della presenza di Bina, lo fa con un appa-
gante miscuglio di orrore e riverenza. Se Bina fosse un Messia in parka arancione venuto a salvarlo, l'espressione sul suo viso sarebbe più o meno la stessa. Lo sguardo del ragazzo rimane inchiodato su di lei. Poi, con brutale diligenza, è costretto a rimuoverlo, come chi stacca la lingua da una fontanella ghiacciata. «Il professor Zimbalist?» chiede Landsman. «C'è» risponde lo studente, accennando con la testa alla porta del laboratorio. «Ma è molto occupato.» «Tanto quanto te?» Lo studente infligge allo straccio un altro affondo svogliato. «Io gli ero di impiccio.» Cita il suo capo con ostentata autocommiserazione, quindi punta uno zigomo verso Bina, senza che il gesto coinvolga nessun altro tratto del viso. «Lei non può entrare» dice deciso. «Non è gradita.» «Lo vedi questo, tesoro?» Bina ha tirato fuori il distintivo. «Io sono come un regalo in soldi. Sempre gradito.» Lo studente indietreggia di un passo, e fa sparire il bastone dietro la schiena come se fosse la prova di un reato. «Volete arrestare il professor Itzik?» dice. «Ehi» dice Landsman facendo un passo verso di lui. «Perché dovremmo?» Se c'è una cosa che uno studente della Yeshiva sa fare, è aggirare una domanda. «E io come potrei saperlo?» dice. «Se fossi un avvocato coi soldi, me lo dica lei, starei qui a strofinare uno straccio per terra?» Dentro il laboratorio, Itzik Zimbalist e i suoi uomini sono radunati intorno al grosso tavolo per le mappe. Una decina di uomini ben piantati in tuta gialla, con le barbe raccolte nelle retine sotto il mento. La presenza di una donna nel laboratorio svolazza fra loro come una falena molesta. Zimbalist è l'ultimo a distogliere gli occhi dal problema dispiegato sul tavolo. Quando vede chi è che è venuto a rivolgere all'esperto di confini l'ennesima domanda spinosa, annuisce, con un borbottio, un accenno di stizza, come se Landsman e Bina fossero arrivati in ritardo all'appuntamento. «Buongiorno, signori» dice Bina con una voce che, in questo grande magazzino di uomini, risulta insolitamente flautata e poco convincente. «Sono l'ispettore Gelbfish.» «Buongiorno» risponde l'esperto di confini.
Il suo volto affilato e scarno è indecifrabile come una lama o un teschio. Arrotola la mappa o la tabella con mani esperte, la lega con un cordino e si volta per rinfoderarla nello scomparto, dove scompare tra migliaia di simili. I suoi movimenti sono quelli di un vecchio per cui la fretta è un vizio dimenticato. Cammina a scatti, ma i movimenti delle mani sono curati e precisi. «Il pranzo è finito» dice ai suoi uomini, anche se in giro non c'è traccia di cibo. Gli uomini dei confini esitano, formando un eruv irregolare intorno all'esperto, pronti a ripararlo da quel problema secolare che è piombato in mezzo a loro con tanto di distintivo. «Conviene che rimangano» dice Landsman. «Forse dovremo parlare anche con loro.» «Andate ad aspettare sui furgoni» dice Zimbalist. «Qui siete d'impiccio.» Gli uomini attraversano il magazzino diretti al garage. Uno di loro si volta, accarezzandosi il rotolo di barba con fare dubbioso. «Visto che il pranzo è finito, professor Itzik» dice. «Le va bene se ceniamo adesso?» «Fate anche colazione» risponde Zimbalist. «Stanotte non si dorme.» «Molto lavoro?» chiede Bina. «Vuole scherzare? Ci vorranno anni per imballare tutta questa roba. Mi servirà un autotreno.» Si avvicina al bollitore elettrico e prepara tre bicchieri. «Allora, Landsman, ho sentito che per un po' non potrà più usare il suo distintivo» dice l'esperto. «Lei sente un sacco di cose» dice Landsman. «Sento quello che sento.» «E ha mai sentito parlare di gente che ha scavato tunnel sotto tutto l'Untershtat, casomai gli americani ci si fossero rivoltati contro e avessero intrapreso una qualche aktion?» «Come storia non mi è nuova» dice Zimbalist. «Ora che mi ci fa pensare.» «E non è che per caso lei di questi tunnel possiede una mappa? In cui si vede dove arrivano, cosa mettono in comunicazione eccetera eccetera?» Il vecchio è ancora girato di schiena, sta aprendo le bustine di tè.
«Se non ce l'avessi» dice «che razza di esperto di confini sarei?» «Perciò se lei per una ragione qualsiasi volesse, che so, far entrare e uscire qualcuno dalle cantine dell'Hotel Blackpool di Max Nordau Street, senza farsi vedere, potrebbe farlo?» «E perché mai dovrei?» dice Zimbalist. «Io in quella topaia non ci porterei nemmeno il chihuahua di mia suocera.» Stacca la spina del bollitore prima che l'acqua bolla, e ci butta dentro le bustine, una, due, tre. Sistema i bicchieri su un vassoio con un barattolo di marmellata e tre cucchiaini, dopodiché vanno a sedersi alla sua scrivania nell'angolo. Le bustine rilasciano il colore nell'acqua tiepida senza troppa convinzione. Landsman offre papiros e li accende. Dai furgoni proviene un rumore di uomini che urlano, o ridono, Landsman non riesce a stabilirlo. Bina si aggira per il laboratorio, ammirando la massa e la varietà di corde, aggirando con cautela una matassa di filo elettrico annodato, grigio gomma con un moncherino di rame rosso sangue. «Ha mai commesso un errore?» chiede Bina all'esperto di confini. «Dicendo a qualcuno che poteva trasportare oggetti dove non poteva trasportarli? Tracciando un confine dove non ce n'era bisogno?» «Non mi permetto di fare errori» dice Zimbalist. «Trasportare oggetti durante lo Shabbat è una violazione grave. Se la gente comincia a pensare che delle mie mappe non ci si può fidare, è finita.» «Ancora non abbiamo identificato le impronte balistiche della pistola che ha ucciso Mendel Shpilman» dice Bina con cautela. «Tu però la ferita l'hai vista, Meyer.» «Sì.» «Ti è parso che fosse stata prodotta, che so, da una Glock, o da una TEC-9, o comunque da un'automatica?» «A mio modesto parere» risponde Landsman «no.» «Inoltre, hai passato un sacco di bei momenti con gli uomini di Litvak e le loro armi.» «E quanto mi sono divertito!» «Tra i loro giocattoli ne hai visto qualcuno che non fosse automatico?» «No» dice Landsman. «No, ispettore, nessuno.» «E questo cosa dimostra?» dice Zimbalist, adagiando il sede-
re delicato sulla ciambella gonfiabile che copre il sedile della sua sedia. «Ma soprattutto, perché mai la cosa dovrebbe riguardarmi?» «Al di là del suo interesse personale affinché in questa vicenda venga fatta giustizia, naturalmente» dice Bina. «Al di là di quello» concorda Zimbalist. «Meyer, tu pensi che sia stato Alter Litvak a uccidere Shpilman, o a ordinare il suo assassinio?» Landsman guarda l'esperto di confini dritto in faccia, poi dice: «No. Non l'avrebbe mai fatto. Non solo Mendel gli serviva, ma aveva perfino cominciato a credere in lui». Zimbalist sbatte le palpebre e si passa un dito sul naso affilato, riflettendo su quanto appena appreso come se fosse venuto a conoscenza della presenza di un nuovo ruscello che lo costringerà a ridisegnare una delle sue mappe. «Figuriamoci» conclude. «Chiunque altro. Chiunque. Ma non lui.» Landsman non si mette nemmeno a discutere. Zimbalist allunga una mano verso il bicchiere di tè. Una vena di ruggine si contorce nell'acqua come la striscia colorata dentro una biglia di vetro. «Che cosa farebbe se scoprisse che una delle linee delle sue mappe, che lei ha sempre detto a tutti essere una linea» dice Bina «in realtà si rivelasse, che so, una piega nella carta? O un capello. O un tratto di matita. Qualcosa del genere. Lo direbbe a qualcuno? Andrebbe dal Rebbe? Ammetterebbe di aver fatto un errore?» «Non succederebbe mai.» «Ma se succedesse. Riuscirebbe a convivere con il senso di colpa?» «Se lei scoprisse di aver mandato in galera per molti anni un uomo innocente, ispettore Gelbfish, magari per tutta la vita, riuscirebbe a convivere con il senso di colpa?» «Succede in continuazione» dice Bina. «Eppure eccomi qui.» «Ebbene» dice l'esperto. «Allora conosce la mia opinione al riguardo. Per inciso, ho usato il termine "innocente" in modo abbastanza improprio.» «Anch'io» dice Bina. «Indubbiamente.» «In tutta la mia vita ho conosciuto soltanto un uomo meritevole di quest'aggettivo.» «Io nemmeno quello» dice Bina.
«Idem» aggiunge Landsman, provando nostalgia per Mendel Shpilman come se fossero stati, per tanti anni, migliori amici. «Purtroppo.» «Sa cosa dice la gente?» riprende Zimbalist. «I geni con i quali convivo?» «Dicono che Mendel ritornerà.» «Dicono che sta succedendo tutto com'era scritto. Che quando arriveranno a Gerusalemme, Mendel sarà lì ad aspettarli. Pronto a regnare su Israele.» Sulle guance scavate dell'esperto di confini cominciano a scorrere le lacrime. Un attimo dopo Bina tira fuori dalla sua borsa un fazzoletto, pulito e stirato. Zimbalist lo prende e per un attimo rimane a fissarlo. Poi intona un sonoro tekiah con quello shofar che ha per naso. «Sarei felice di rivederlo» dice. «Lo ammetto.» Bina si carica sulla spalla la borsa, che subito riprende il suo eterno compito di sbilanciarla. «Prenda le sue cose, signor Zimbalist.» Il vecchio sembra stupito. Sporge in fuori le labbra come per accendere un sigaro invisibile. Afferra un laccio di cuoio abbandonato sulla scrivania, ci fa un nodo, infine lo posa. Poi lo riprende e scioglie il nodo. «Le mie cose» dice infine. «Vuol dire che mi arrestate?» «No» dice Bina. «Ma vorrei che venisse al commissariato per chiacchierare ancora un po'. Se vuole può chiamare il suo avvocato.» «Il mio avvocato» ripete Zimbalist. «Io sono convinta che sia stato lei a far uscire Alter Litvak dalla sua stanza d'albergo. Sono convinta che ne abbia fatto qualcosa, che l'abbia nascosto, forse ucciso. Mi piacerebbe scoprirlo.» «Lei non ha alcuna prova» dice Zimbalist. «Sta tirando a indovinare.» «Una prova ce l'ha» dice Landsman. «Lunga circa un metro» aggiunge Bina. «Un metro di corda basta per impiccare un uomo, signor Zimbalist?» L'esperto di confini scuote la testa, mezzo irritato e mezzo divertito, riacquistando la sua compostezza e i suoi modi. «State solo sprecando tempo, il vostro e il mio» dice. «Ho un sacco di lavoro da fare. E lei, stando alla sua stessa ammissione, alla sua teoria, ancora non ha scoperto chi ha ucciso Men-
dele. E allora, con tutto il dovuto rispetto, perché non si preoccupa di scoprirlo e mi lascia in pace? Torni qui quando avrà trovato il presunto assassino, e io le dirò che cosa so di Litvak. Il che, per il momento, corrisponde a un bel niente.» «Guardi che non funziona così» dice Landsman. «Andata» dice Bina. «Andata!» dice Zimbalist. Landsman guarda Bina. «Andata?» «Noi prendiamo l'assassino di Mendel Shpilman» dice Bina. «Lei ci fornisce informazioni sulla scomparsa di Litvak. Informazioni utili. E se Litvak è ancora vivo, me lo consegna.» «Affare fatto» dice l'esperto di confini. Sfodera l'artiglio destro, tutto chiazze e nocche, e Bina glielo stringe. Landsman, un po' frastornato, si alza e stringe la mano all'esperto di confini. Poi segue Bina fuori dal laboratorio, nel giorno che va spegnendosi, e il suo shock aumenta rendendosi conto che Bina sta piangendo. Le sue, a differenza di quelle di Zimbalist, sono lacrime di furia. «Non ci posso credere che l'ho fatto» dice, prendendo a sua volta un fazzolettino dal suo deposito senza fondo. «È la tipica cosa che faresti tu.» «Un sacco di gente che conosco sta avendo lo stesso problema» dice Landsman. «Di punto in bianco cominciano a comportarsi come me.» «Noi siamo poliziotti. Gente che difende la legge.» «Che fa le cose secondo le regole» dice Landsman. «Aggiungerei.» «Fottiti.» «Vuoi tornare dentro e arrestarlo subito?» dice Landsman. «Possiamo farlo. Abbiamo il cavo trovato nel tunnel. Abbiamo la facoltà di trattenerlo e possiamo cominciare da lì.» Bina scuote la testa. Lo studente è ancora lì che li fissa dalla sua piccola mappa di macchie, tirandosi su i pantaloni neri di saia, e senza lasciarsi sfuggire nulla. Landsman decide che è meglio portarla via. Cingendola con un braccio per la prima volta dopo tre anni la guida verso la SuperSport, poi fa il giro della macchina e sale al volante. «"La legge"» dice Bina. «Ormai non so nemmeno più di che legge sto parlando. Me la invento di volta in volta.» Rimangono seduti in silenzio mentre Landsman lotta con l'eterno problema di tutti i detective: quello di essere costretti a ri-
badire l'ovvio. «Devo dire che questa nuova Bina confusa e fuori di testa mi piace» dice. «Ma ho il dovere di ricordarti che sul caso Shpilman di prove vere e proprie non ne abbiamo. Niente testimoni. Niente sospettati.» «Be', allora tu e il tuo collega è meglio che alziate il culo e lo troviate, un sospettato» dice Bina. «Dico bene?» «Sissignora.» «Andiamo.» Landsman accende il motore, ingrana la marcia. «Aspetta un attimo» dice Bina. «E quello cos'è?» In fondo alla piazzetta, da dietro il lato est della casa del Rebbe, sbuca un'enorme 4x4. Scendono due Rudashevsky. Uno gira intorno alla macchina e va ad aprire il bagagliaio. L'altro attende in fondo ai gradini dell'ingresso laterale, con le mani strette tra loro dietro la schiena. Un attimo dopo dalla casa escono altri due Rudashevsky, trasportando svariati metri cubi di quelle che a una prima occhiata sembrano valigie e borse francesi dipinte a mano. Rapidi, e con scarso rispetto per le leggi della geometria dei solidi, i quattro Rudashevsky riescono a far entrare tutto nel retro della 4x4. Una volta compiuta questa prodezza, un grosso pezzo di casa si stacca e gli cade fra le braccia, indossando un magnifico cappotto di alpaca marroncino chiaro. Il Verbover Rebbe non alza la testa, né si guarda indietro, non degna di uno sguardo il mondo che ha ricostruito e che ora sta abbandonando. Lascia che i Rudashevsky eseguano il loro origami quantico, piegando lui e i suoi bastoni in modo tale da farli entrare sul sedile posteriore della 4x4. Il Rebbe si limita a ricongiungersi ai suoi bagagli e parte. Cinquantacinque secondi dopo spunta una seconda 4x4, e due donne in abiti lunghi, con il capo coperto, vengono fatte accomodare dietro con la loro città di bagagli e una quantità di bambini. La processione di donne, bambini e 4x4 prosegue per altri undici minuti. «Spero che abbiano un aereo davvero grosso» dice Landsman. «Lei non l'ho vista» dice Bina. «Tu?» «Non mi pare. E nemmeno la piccola Shprintzl.» Mezzo secondo dopo squilla lo Shoyfer di Bina. «Gelbfish. Sì. Ce lo stavamo appunto chiedendo. Certo. Ca-
pisco.» Richiude il telefono. «Spostiamoci sul retro della casa» dice. «Ti ha visto.» Landsman guida la SuperSport in uno stretto vicolo, quindi in un cortile dietro la casa del Rebbe. A parte la macchina, in questo posto non c'è nulla che sarebbe risultato fuori posto cent'anni fa. Lastre di pietra, pareti di stucco, vetri piombati, un lungo portico col soffitto in legno. «Esce lei?» Bina non risponde, e un attimo dopo in un'ala bassa della grande casa si apre una porta di legno azzurra. L'ala è situata di sbieco rispetto al resto dell'edificio, e il tetto spiove con pittore sca precisione. Batsheva Shpilman è ancora vestita più o meno da funerale, con la testa e il viso avvolti in un lungo e sottile velo. Non attraversa lo spazio di circa due metri e mezzo che la separa dall'auto. Rimane immobile sul gradino della porta, con la fida mole di Shprintzl Rudashevsky che incombe nell'ombra alle sue spalle. Bina abbassa il finestrino. «Lei non parte?» le chiede. «L'avete preso?» A Bina non piace fare giochetti, o dire stupidaggini. Scuote la testa. «Allora non parto.» «Potrebbe volerci un po' di tempo. Forse più di quello che abbiamo a disposizione.» «Mi auguro vivamente di no» dice la madre di Mendel Shpilman. «Quello Zimbalist sta mandando qui i suoi idioti in pigiama giallo per numerare ogni singola pietra della casa, affinché possa essere smontata e quindi ricostruita a Gerusalemme. Se tra due settimane dovessi essere ancora qui, dormirò nel garage di Shprintzl.» «Sarebbe un onore» dice da dietro la moglie del Rebbe quello che suona o come un serissimo asino parlante o come Shprintzl Rudashevsky. «Lo prenderemo» dice Bina. «Il detective Landsman me l'ha appena giurato.» «So quanto valgono le sue promesse» dice la signora Shpilman. «E anche lei lo sa.» «Ehi!» dice Landsman, ma Batsheva Shpilman è già scomparsa nel piccolo edificio obliquo da cui era emersa. «D'accordo» dice Bina battendo le mani. «Diamoci una mos-
sa. Ora che si fa?» Landsman tamburella le dita sul volante, rimuginando sulle sue promesse e sul loro valore. Bina non l'ha mai tradita. Ma non c'è dubbio che a far naufragare il matrimonio sia stata la mancanza di fede di Landsman. Non di fede in Dio, né in Bina o nel suo carattere, ma nell'assunto fondamentale per cui tutto ciò che è accaduto dal momento in cui si sono conosciuti, nel bene e nel male, era destinato ad accadere. Quella stupida fede da coyote che ti permette di volare, se solo continui a illuderti di esserne capace. «È tutto il giorno che ho voglia di involtini di cavolo» dice Landsman.
Capitolo quarantacinque
Dall'estate del 1986 alla primavera del 1988, quando - sfidando il volere dei genitori di Bina - andarono a vivere insieme, Landsman continuò a entrare e uscire di nascosto da casa Gelbfish per fare l'amore con lei. Ogni notte, a meno che avessero litigato, e a volte anche nel pieno di una lite, Landsman si arrampicava su per la grondaia, e dalla finestra ruzzolava nella stanza di Bina per condividere con lei il suo piccolo letto. Poco prima dell'alba, Bina lo rispediva fuori. Stanotte ci ha messo molto più tempo e molta più fatica di quanto sarebbe disposto ad ammettere. Proprio mentre era a metà scalata, subito sopra la finestra della sala da pranzo del signor Oysher, il suo mocassino è scivolato, e Landsman è rimasto appeso e terrorizzato sul vuoto nero del giardino di casa Gelbfish. Le stelle in cielo, l'Orsa, il Serpente, hanno preso il posto del rododendro e della sukkah dei vicini. Cercando di riguadagnare l'appoggio, Landsman si è strappato i pantaloni sulla staffa d'alluminio, sua antica nemesi nella lotta per la conquista della grondaia. I preliminari dell'amore sono cominciati con Bina che appallottolava un fazzolettino di carta per tamponargli il sangue che fuoriusciva dalla ferita sul polpaccio. Il suo polpaccio coperto di macchie e lentiggini, con quel suo strano germogliare di peli neri da mezz'età. Rimangono lì, distesi su un fianco, due persone non più giovani incollate come le pagine di un album. La scapola di Bina gli preme contro il petto. Le rotule di Landsman sono adagiate contro la pelle morbida e umida dietro le sue ginocchia. Lui ha le labbra così vicine al suo orecchio da poterci soffiare delicatamente sopra come su una tazza di tè. E una parte di Landsman, quella che per tanto tempo è stata il simbolo e la dimora della sua solitudine, ha trovato riparo nel suo ispettore, con cui una volta è stato sposato per dodici anni. Anche se è vero che il suo posto in lei si è fatto precario. Uno starnuto basterebbe a
farlo volare via. «Mai» dice Bina. «In due anni.» «Mai.» «Nemmeno una volta.» «Nemmeno.» «Non ti sentivi solo?» «Abbastanza.» «E triste?» «Da morire. Ma mai abbastanza solo o abbastanza triste da illudermi che facendo sesso con una a caso sarei stato meglio.» «Anzi, il sesso occasionale fa stare peggio» dice lei. «Parli per esperienza.» «Mi sono scopata un paio di tizi a Yakovy. Se è questo che vuoi sapere.» «Ti sembrerà strano» dice Landsman ripensandoci. «Ma non credo di volerlo sapere.» «Diciamo due o tre.» «Non mi serve un rapporto completo.» «Tu, invece?» dice lei. «Solo seghe?» «Con una metodicità che ti sorprenderebbe, in un uomo così indisciplinato.» «E adesso?» dice lei. «Adesso? Adesso sarebbe da pazzi» risponde Landsman. «Per non parlare di quanto è scomodo 'sto letto. In più mi sa che la gamba sanguina ancora.» «Intendevo dire» prosegue Bina «se adesso ti senti solo.» «Ma scherzi? In questa scatola di sardine?» Affonda il naso nella folta carezza morbida dei capelli di Bina, e inspira profondamente. Uva sultanina, aceto, un vago aroma salino di sudore sul collo. «Di cosa so?» «Di rosso» dice lui. «Non è vero.» «Di Romania.» «No, tu sai di rumeno» dice lei. «Di rumeno con le gambe pelose.» «Sono invecchiato un sacco.» «Anch'io.» «Non riesco nemmeno a fare le scale. Perdo i capelli.» «Il mio sedere sembra una carta topografica.» Landsman verifica l'informazione con le dita. Crinali e av-
vallamenti, qua e là un brufolo in altorilievo. Le infila le mani sotto e intorno alla vita, e sale a soppesare i seni. Lì per lì non riesce a recuperare il ricordo delle loro dimensioni e della loro posizione per fare un confronto, e ha un attimo di panico. Poi stabilisce che sono gli stessi di sempre, grandi esattamente quanto il suo palmo con le dita aperte, formati da un misterioso composto di gravità ed elasticità. «Io su quella grondaia non ci torno» le dice. «Ti avverto.» «Ti avevo detto che potevi usare le scale. La grondaia è stata un'idea tua.» «Certo, un'idea mia» dice lui. «Sono sempre io ad avere certe idee.» «Se non lo so io...» Rimangono distesi lì a lungo, senza dire nient'altro. Landsman sente la pelle che ha accanto riempirsi lentamente di un vino scuro. Di lì a qualche minuto Bina comincia a russare. In due anni il suo modo di russare non è cambiato, non c'è dubbio. È una sorta di vibrazione a due ance, l'incessante ronzio da calabrone di un canto mongolo. Ha la lenta maestosità del respiro di una balena. Landsman comincia a veleggiare sulla superficie del letto, e sul sussurro del respiro di Bina. Tra le sue braccia, nel profumo di lei sulle lenzuola, un odore forte ma buono, come di guanti di pelle nuovi, si sente al sicuro, per la prima volta da secoli. Sonnolento e appagato. Ecco qua Landsman, pensa. Ecco l'odore di guanti pregiati e la mano sulla pancia che hai barattato con una vita di silenzio. Si tira su, sveglio, odiandosi, sentendosi un vigliacco, più indegno che mai della pelle morbida, da bambina, della donna che ha tra le braccia. È vero, capisce infine, 'fanculo, non solo ha fatto la scelta giusta, ma l'unica possibile. Capisce che coprire le malefatte oscure di chi sta ai piani alti è una necessità di cui gli sbirri hanno imparato a fare virtù da quando esiste il lavoro di poliziotto. Capisce che se provasse a raccontare a qualcuno, magari a Dennis Brennan, ciò che sa, quelli dei piani alti troverebbero comunque la maniera di zittirlo, e stavolta a modo loro. E allora perché il cuore gli vibra come la ciotola di metallo di un galeotto contro le sbarre della cassa toracica? Perché il letto fragrante di Bina tutt'a un tratto sembra un calzino bagnato, un paio di mutande che si infilano dove non dovrebbero, un vestito di lana in un pomeriggio rovente? Fai un accordo, prendi ciò che puoi, volti pagina. Te ne fai una ragione. Okay, una
manciata di uomini in un paese assolato sono stati spinti con l'inganno a uccidersi vicendevolmente affinché il loro paese assolato potesse essere occupato e recintato alle loro spalle. Okay, il destino del distretto di Sitka ormai è sancito. Okay, l'assassino di Mendel Shpilman, chiunque sia, è in giro a piede libero. Okay, e allora? Landsman si alza dal letto. Il suo scontento si raccoglie come un fulmine globulare intorno alla scacchiera che ha nella tasca della giacca. La apre, contempla i quarantotto riquadri vuoti e pensa: in quella stanza mi è sfuggito qualcosa. No, non gli è sfuggito niente. Ma se anche gli fosse sfuggito, ormai è andata. Solo che a lui nella stanza non è sfuggito niente. Eppure qualcosa dev'essergli sfuggito. I suoi pensieri sono l'ago di un tatuatore che traccia un asso di picche. Sono un tornado che si accanisce tornando sulla stessa roulotte spiaccicata. Si assottigliano e si scuriscono fino a disegnare un minuscolo cerchio nero, il foro sulla nuca di Mendel Shpilman. Ricostruisce mentalmente la scena, così come l'ha vista quella notte, quando Tenenboym è venuto a bussare alla sua porta. La pallida distesa lentigginosa della schiena. Le mutande bianche. La maschera rotta degli occhi, la mano destra giù dal letto, a sfiorare il pavimento con le dita. La scacchiera sul comodino. Landsman appoggia la scacchiera sul comodino di Bina, nel pallido fascio di luce dell'abat-jour, un coso di porcellana gialla con una grande margherita gialla sul paralume verde. I bianchi rivolti verso il muro. I neri - Shpilman, Landsman - rivolti verso la stanza. Forse è il contesto, al tempo stesso famigliare ed estraneo, il telaio verniciato del letto, la cassettiera nel cui primo cassetto Bina una volta teneva il diaframma. O forse è una traccia residua di endorfina nel sangue. Ma quando Landsman guarda la scacchiera, guardare una scacchiera, per la prima volta in vita sua, lo fa sentire bene. Anzi, è un piacere. Stare lì, muovere mentalmente i pezzi, sembra rallentare, o almeno spostare l'ago che versa inchiostro sul punto nero che ha nel cervello. Si concentra sulla promozione in b8. E se quel pedone si trasformasse in un alfiere, in una torre, in una regina, in un re? Landsman cerca con la mano una sedia per prendere il posto del bianco alla scacchiera, per sedersi a giocare con la mente una partita amichevole contro Shpilman. C'è una sedia davanti
alla scrivania, verniciata in tinta con il letto verde margherita, nell'angolo della stanza di Bina. Si trova esattamente dove si troverebbe la scrivania, rispetto al letto, nella stanza che Shpilman occupava allo Zamenhof. Landsman si adagia sulla sedia verde, tenendo gli occhi fissi sulla scacchiera. Un cavallo, decide. A questo punto il nero deve muovere il pedone in d7. Ma dove? Si sistema sulla sedia per terminare la partita, non perché nutra la vana speranza che lo possa condurre all'assassino, ma perché ha davvero bisogno, tutt'a un tratto, di giocarla fino in fondo. Poi, come se il sedile fosse in grado di rilasciare una scossa elettrica, Landsman balza in piedi. Con una mano solleva di scatto la sedia verde per aria. Quattro minuscoli solchi nella moquette bianca, leggeri ma visibili. Ha sempre dato per scontato che Shpilman, come tutti i portieri dell'albergo hanno dichiarato, non ricevesse mai visite, che quella partita abbandonata a metà fosse una specie di solitario scacchistico, giocato a memoria, ripescandolo dal Trecento partite di scacchi, forse contro se stesso. Ma se invece Shpilman una visita l'avesse ricevuta, forse questo visitatore avrebbe preso una sedia per sedersi davanti all'avversario, la sua vittima, al di là della scacchiera di cartone. E la sedia di questo scacchista fantasma avrebbe lasciato dei segni nella moquette. Ormai di sicuro saranno spariti, o ci avranno passato sopra l'aspirapolvere. Ma forse si vedono ancora in una delle fotografie di Shpringer, inscatolata in un qualche archivio nei laboratori della Scientifica. Landsman si infila i pantaloni, abbottona la camicia, si fa il nodo alla cravatta. Prende il cappotto appeso alla porta e, con le scarpe in mano, va a coprire Bina. Mentre si china a spegnere l'abat-jour, dalla tasca del cappotto gli cade un rettangolo di carta. È la cartolina che ha ricevuto dalla palestra dove andava una volta, con quell'offerta di abbonamento a vita valida per i prossimi due mesi. Osserva il lato lucido della cartolina, con il suo ebreo magico. Prima, dopo. Grasso, magro. Cominci così, finisci così. Saggio, felice. Caos, ordine. Esilio, patria. Prima, un diagramma in un libro, con dei minuziosi segni di spunta in corrispondenza dei riquadri neri, e intorno annotazioni fitte come su una pagina del Talmud; dopo, una vecchia scacchiera malconcia, con un inalatore Vicks in b8. Landsman la sente, a quel punto. Una mano posata sulla sua, due gradi più calda del normale. Una scintilla improvvisa,
come il dispiegarsi di uno striscione nei pensieri. Prima e dopo. Il tocco di Mendel Shpilman, umido, elettrico, che impartisce a Landsman una sorta di benedizione. Poi più nulla, se non l'aria fredda nella cameretta d'infanzia di Bina Gelbfish. La fica in fiore della O'Keefe appesa alla parete. Lo Shnapish di peluche accasciato su una mensola accanto all'orologio e alle sigarette di Bina. E Bina, sveglia, appoggiata su un gomito, che lo guarda un po' come quel giorno guardò i bambini accanirsi sulla povera pentolaccia a forma di pinguino. «Lo fai ancora» dice. «Quando pensi canticchi a bocca chiusa. Come Oscar Peterson, ma senza il piano.» «Cazzo» impreca Landsman. «Che c'è, Meyer?» «Bina!» È Guryeh Gelbfish, quella vecchia marmotta fischiettante, dal fondo del corridoio. Per un attimo Landsman è assalito da un antico terrore. «Chi c'è lì con te?» «Nessuno, papà, va' a dormire!» Poi Bina ripete, in un sussurro: «Meyer, che c'è?». Landsman va a sedersi sul bordo del letto. Prima, dopo. L'esaltazione della comprensione; poi lo sconfinato rammarico che ne consegue. «So che tipo di pistola ha ucciso Mendel Shpilman» afferma. «Bene» dice Bina. «Non era una partita di scacchi» prosegue Landsman, dopo un istante. «Quella sulla scacchiera nella stanza di Shpilman. Era un problema. Adesso mi sembra ovvio, avrei dovuto arrivarci subito, la disposizione dei pezzi era strana. Quella sera qualcuno è andato a trovare Shpilman, e Shpilman gli ha sottoposto un problema. Molto complicato.» Muove i pezzi della scacchiera tascabile, con presa decisa, mano ferma. «Il bianco ha deciso di promuovere il pedone, vedi? E vuole trasformarlo in un cavallo. Si chiama sottopromozione, perché di solito uno preferisce procurarsi una regina. Con il cavallo qui può dare matto in tre modi diversi, pensa. Ma sbaglia, perché così facendo permette al nero - in quel caso Mendel - di andare avanti con la partita. Se sei il bianco devi ignorare la scelta più ovvia, e fare una piccola mossa con l'alfiere, qui in c2. All'inizio non te ne accorgi nemmeno. Ma dopo che l'hai fatta, ogni mossa che il nero può fare lo porta direttamente allo scacco matto. Non può muovere senza suicidarsi. Per lui non ci sono mosse vantaggiose possibili.»
«Niente mosse vantaggiose possibili» dice Bina. «Si chiama Zugzwang» aggiunge Landsman. «"Obbligato a muovere." Vuol dire che al nero converrebbe passare.» «Però non si può passare, giusto? Devi per forza fare qualcosa, no?» «Esatto» afferma Landsman. «Anche se sai che non farà altro che portarti allo scacco matto.» Landsman si accorge che anche per Bina il tutto comincia ad assumere un significato, non in quanto indizio o prova o problema scacchistico, ma come parte della storia di un delitto. Un delitto commesso contro un uomo rimasto senza mosse vantaggiose possibili. «Come hai fatto?» gli domanda, incapace di dissimulare completamente un leggero stupore per questo suo sfoggio di agilità mentale. «Come sei arrivato alla soluzione?» «A dire il vero l'ho vista» risponde Landsman. «Ma lì per lì non me ne sono reso conto. È stata una foto del "dopo" - sbagliata, in realtà - rispetto al "prima" della stanza di Shpilman. Una scacchiera in cui il bianco aveva tre cavalli. Solo che le scacchiere non le fanno con tre cavalli bianchi. E così a volte devi sostituire il pezzo che ti manca con qualcos'altro.» «Tipo una moneta? O un proiettile?» «Qualsiasi piccolo oggetto che uno può avere in tasca» dice Landsman. «Per esempio un inalatore Vicks.»
Capitolo quarantasei
«Il motivo per cui non hai fatto progressi negli scacchi, Meyerle, è che non detesti abbastanza perdere.» Hertz Shemets, dimesso con una ferita brutta ma non profonda, e con addosso il tipico odore di brodo di cipolle e sapone alla gaulteria dell'ospedale centrale di Sitka, è steso sul divano del salotto di suo figlio, con gli stinchi sottili che spuntano dal pigiama come due spaghetti ancora da cuocere. Ester-Malke si è accaparrata un biglietto per la grossa poltrona coi braccioli di Berko, mentre Bina e Landsman siedono nei posti economici, uno sgabello pieghevole e il poggiapiedi della poltrona coi braccioli. Ester-Malke ha l'aria assonnata e confusa, indossa la vestaglia, e con la mano sinistra giocherella con qualcosa che tiene in tasca, e che Landsman immagina essere il test di gravidanza della settimana precedente. Bina ha la camicia fuori dai pantaloni, e i capelli arruffati, con una sorta di effetto cespuglio, da siepe ornamentale. Il volto di Landsman nello specchio appeso al muro è un impasto di ombre e screpolature. Solo Berko Shemets riesce a sembrare elegante a quest'ora assurda del mattino, e siede appollaiato sul tavolino davanti al divano, fasciato in un pigiama grigio rinoceronte, con tanto di piega impeccabile e risvolti ai polsi, le iniziali ricamate sul taschino con un sottile filo grigio topo. Capelli pettinati, le guance eternamente incontaminate da peli o lamette. «Anzi, io preferisco perdere» dice Landsman. «Sinceramente. Appena comincio a vincere mi insospettisco.» «Io lo detesto. Più di tutto odiavo perdere con tuo padre.» La voce dello zio Hertz è un gracidio risentito, la voce della sua prozia che si leva dall'oltretomba o dall'oltre Vistola. È assetato, stanco, mesto e dolorante, avendo rifiutato qualsiasi farmaco più forte dell'aspirina. Dentro, la testa deve risuonargli come il cofano di una macchina sbattuto. «Ma perdere con Alter Litvak. Quello mi dava quasi altrettanto fastidio.»
Le palpebre dello zio Hertz hanno un fremito, poi si richiudono sugli occhi. Bina batte le mani, due volte, e gli occhi si riaprono di scatto. «Parla, Hertz» dice Bina. «Prima che ti venga sonno o che entri in coma o che so io. Tu Shpilman lo conoscevi.» «Sì» dice Hertz. Le sue palpebre livide hanno la lucentezza del quarzo viola, o dell'ala di una farfalla. «Lo conoscevo.» «E dove l'hai conosciuto? All'Einstein?» Hertz fa per annuire, poi piega la testa da un lato, cambiando idea. «L'ho conosciuto quand'era bambino. Ma non l'ho riconosciuto quando poi l'ho rivisto. Era fin troppo cambiato. Da bambino era cicciottello. Da adulto no. Era magro. Un drogato. Ha cominciato a bazzicare l'Einstein, vendendo partite di scacchi per comprarsi la droga. Io lo vedevo lì. Frank. Non era il solito scacchista dilettante. Ogni tanto, non so, mi capitava di perdere cinque, dieci dollari con lui.» «E a te non dava fastidio» dice Ester-Malke, e malgrado di Shpilman non sappia assolutamente nulla sembra aver anticipato o indovinato la sua risposta. «No» risponde suo suocero. «Stranamente no.» «Ti stava simpatico.» «A me nessuno sta simpatico, Ester-Malke.» Hertz si lecca le labbra, con aria sofferente, spingendo fuori la lingua. Berko si alza e prende dal tavolino un bicchiere. Lo avvicina alle labbra del padre, e il ghiaccio dentro il bicchiere tintinna. Berko lo aiuta a berne metà senza versarlo. Hertz non lo ringrazia. Rimane disteso in silenzio a lungo. Si sente il rumore dell'acqua che lo attraversa. «Giovedì scorso» dice Bina. Schiocca le dita. «Forza. Sei andato nella sua stanza. Allo Zamenhof.» «Sono andato nella sua stanza. Mi aveva invitato lui. Chiedendomi di portare la pistola di Melekh Gaystik. Voleva vederla. Non so come facesse a sapere che ce l'avevo io, non gliel'ho mai detto. A quanto pare di me sapeva un sacco di cose che non gli avevo mai detto. E mi ha raccontato tutto. Che Litvak gli stava facendo pressioni perché ricominciasse a fare lo Tzaddik, coinvolgendo i cappelli neri. Che per un po' si era nascosto, ma poi si era stancato di nascondersi. Aveva passato tutta la vita a nascondersi. E così aveva lasciato che Litvak lo trovasse di nuovo, per poi pentirsene subito. Non sapeva cosa fare. Non
voleva continuare a drogarsi. Non voleva smettere. Non voleva essere ciò che non era, non sapeva come fare per essere ciò che era. E così mi ha chiesto di aiutarlo.» «Di aiutarlo come?» dice Bina. Hertz arriccia le labbra, si stringe nelle spalle, e il suo sguardo scivola verso un angolo buio della stanza. Ha quasi ottant'anni, e prima d'ora in vita sua non ha mai confessato nulla. «Mi ha fatto vedere quel suo stramaledetto problema, il matto in due mosse» dice Hertz. «Diceva che l'aveva preso da un russo. Che se lo risolvevo, allora avrei capito come si sentiva.» «Zugzwang» dice Bina. «Sarebbe?» chiede Ester-Malke. «Quando non hai alcuna mossa vantaggiosa a tua disposizione» spiega Bina «ma devi muovere lo stesso.» «Ah» dice Ester-Malke alzando gli occhi al cielo. «Roba di scacchi.» «Sono giorni che ci impazzisco» dice Hertz. «E ancora non sono riuscito a trovare un matto in meno di tre mosse.» «Alfiere in c2» dice Landsman. «Punto esclamativo.» A Hertz occorre quello che a Landsman sembra un tempo lunghissimo, con gli occhi chiusi, per arrivarci, ma alla fine il vecchio annuisce. «Zugzwang» dice. «Perché, papà? Perché mai avrebbe dovuto pensare che tu l'avresti fatto?» dice Berko. «A malapena vi conoscevate.» «Lui mi conosceva. Mi conosceva molto bene, non so come. Sapeva quanto odiavo perdere. Che non potevo permettere a Litvak di portare avanti questa idiozia. Non potevo. Tutto ciò per cui ho lavorato una vita.» In bocca sente un sapore amaro, fa una smorfia. «E adesso guarda cos'è successo. L'hanno fatto davvero.» «Sei entrato dal tunnel?» dice Meyer. «Nell'albergo, dico.» «Ma che tunnel? Sono entrato dalla porta principale. Non so se te ne sei accorto, Meyerle, ma dove vivi tu non è esattamente un edificio di massima sicurezza.» Due o tre lunghi minuti si srotolano dal loro rocchetto. Fuori, sul balcone chiuso, Goldy e Pinky brontolano e imprecano e battono i pugni sui letti come gnomi nelle loro fucine sotterranee. «L'ho aiutato a bucarsi» dice infine Hertz. «Ho aspettato che facesse effetto. Molto, molto effetto. Poi ho tirato fuori la pisto-
la di Gaystik. L'ho avvolta nel cuscino. La calibro .38 Detective Special di Gaystik. L'ho girato sulla pancia. Dietro la testa. Veloce. Non ha sentito dolore.» Si lecca le labbra di nuovo, e Berko è lì con un altro sorso fresco. «Peccato che su te stesso non hai fatto altrettanto» dice Berko. «Pensavo di fare la cosa giusta, di fermare Litvak.» Il vecchio ha un tono lamentoso, infantile. «E invece quei bastardi sono andati avanti, e hanno deciso di provarci senza di lui.» Ester-Malke toglie il coperchio a un barattolo di vetro di arachidi sul tavolino accanto al divano, e se ne ficca in bocca una manciata. «Non crediate che tutto questo non mi turbi e non mi lasci inorridita» dice, alzandosi in piedi. «Ma sono una donna molto stanca, e al terzo mese, e adesso me ne vado a letto.» «Io resto qui con lui, amore» dice Berko. Poi aggiunge: «Casomai stia facendo finta e cerchi di rubarci il televisore mentre dormiamo». «Tranquillo» dice Bina. «Tanto è già in arresto.» Landsman è in piedi accanto al divano e guarda il torace del vecchio che si alza e si abbassa. La faccia di Hertz ha le cavità e le sfaccettature di una punta di freccia scrostata. «È un uomo cattivo» dice Landsman. «E lo è sempre stato.» «Sì, però in compenso è diventato un padre anche peggiore.» Berko fissa Hertz a lungo, con tenerezza e disprezzo. Con quella fasciatura in testa sembra una specie di swami demente. «Tu cosa pensi di fare?» «Niente. In che senso "cosa penso di fare"?» «Che ne so, ti è venuta quella specie di tic che hai tu. Sembri uno che sta pensando di fare qualcosa.» «E cosa?» «Te lo sto chiedendo.» «Io non penso di fare proprio niente» dice Landsman. «Che potrei fare?» Ester-Malke accompagna Bina e Landsman in fondo al corridoio, davanti alla porta di casa. Landsman si rimette il cappello. «Be'...» dice Ester-Malke. «Be'...» dicono Bina e Landsman. «Noto che ve ne state andando insieme.»
«Vuoi che ce ne andiamo separati?» dice Landsman. «Io posso prendere le scale, e Bina l'ascensore.» «Landsman, fatti dire una cosa» dice Ester-Malke. «L'hai vista tutta questa gente in rivolta alla televisione? In Siria, a Baghdad, in Egitto. A Londra. Bruciano le macchine. Incendiano le ambasciate. Hai visto cos'è successo su a Yakovy? Si sono messi a ballare, quegli stronzi malati di mente, erano così contenti di tutta questa follia che il pavimento è crollato, tutto quanto, nell'appartamento di sotto. C'erano due bambine piccole che dormivano nei loro letti, sono morte sotto le macerie. È questo che ci aspetta, ora. Auto che bruciano e pazzi omicidi che ballano. Io non ho idea di dove nascerà questo bambino. Mio suocero è un assassino e un suicida, ed è di là che dorme nel mio salotto. E poi questa strana vibrazione fra voi due. Te lo dico, Landsman, se tu e Bina state pensando di rimettervi insieme, scusami tanto, ma mi ci manca solo questo.» Landsman ci pensa un po' su. Al momento le cose più strabilianti sembrano probabili. Che gli ebrei prendano e se ne vadano nella Terra Promessa, a ingozzarsi di grappoli d'uva gigante con la barba che svolazza al vento del deserto. Che il Tempio venga ricostruito, velocemente e nella nostra epoca. Che le guerre finiscano, e tutti vivano nel benessere, nell'abbondanza e nella virtù, e che il genere umano assista quotidianamente allo spettacolo di leoni e agnelli che convivono in pace. Ogni uomo sarà un rabbino, ogni donna un testo sacro, e i vestiti li faranno tutti con due paia di pantaloni. Il seme di Meyer forse già in questo momento sta vagando nell'oscurità, verso la redenzione, pronto a colpire la membrana che separa gli uomini che l'hanno generato da quelli i cui errori, dolori, speranze e avversità hanno contribuito a produrre Bina Gelbfish. «Mi sa che è meglio se prendo le scale» dice. «Ecco, Meyer, bravo» dice Bina. Poi però, quando infine raggiunge il pianterreno, lei è lì in fondo alle scale che lo aspetta. «Come mai ci hai messo tanto?» gli dice. «Mi sono dovuto fermare un paio di volte.» «Devi smettere di fumare. Di nuovo.» «È vero. Smetto.» Tira fuori il pacchetto di Broadway, ne restano quindici, e lo lancia nel cestino dell'atrio come una mone ta che porta un desiderio in una fontana. Si sente un po' intontito, un po' tragico. È pronto per il gran gesto, per l'errore melo-
drammatico. Folle, per meglio dire. «Ma non è per questo che ci ho messo tanto.» «Sei ferito davvero. Dimmi che non sei ferito davvero, e che non sei qui che te ne vai in giro a fare il duro e il macho quando in realtà dovresti essere in un cazzo di ospedale.» Fa per stringergli la trachea con entrambe le mani, pronta come sempre a strangolarlo per fargli capire quanto ci tiene a lui. «Sei ferito davvero, imbecille?» «Solo nell'anima, dolcezza» dice Meyer. Anche se sa che forse il proiettile di Rafi Zilberblat gli ha scalfito qualcosa di più che la testa. «È che mi sono dovuto fermare un paio di volte. A pensare. O a non pensare, non lo so. Ogni volta che mi permetto, come dire, di respirare anche solo per dieci secondi quest'aria invasa dall'idea che gliela stiamo facendo passare liscia, non so, mi sento come soffocare, un pochino.» Landsman si adagia su un divanetto i cui cuscini color livido emanano un forte odore di Sitka: muffa, sigarette, una complessa salsedine che è per metà mare in tempesta e per metà sudore sulla fodera di un fedora di lana. L'atrio del Dnyeper è tutto velluto rosso sangue e incrostazioni dorate, ingrandimenti di cartoline dipinte a mano di località balneari d'epoca zarista. Signore con cagnolini da salotto sul lungomare inondati di sole. Grand hotel che non hanno mai ospitato un ebreo. «È come un sasso nello stomaco, questo accordo che abbiamo fatto» dice Landsman. «Sta lì e non va giù.» Bina alza gli occhi al cielo, con le mani sui fianchi, guarda la porta. Poi si avvicina, molla giù la borsa e sprofonda sul divanetto accanto a lui. Quante volte, si chiede Landsman, potrà arrivare ad averne abbastanza di lui, e al tempo stesso volerne ancora? «Io quasi non ci credo che tu hai accettato» gli dice. «Lo so.» «In teoria fra i due quella dei compromessi sono io.» «Puoi dirlo.» «La leccaculo.» «Infatti ci muoio.» «Se non posso nemmeno contare sulla certezza che tu mandi affanculo i pezzi grossi, Meyer, cosa ti tengo a fare?» Lui cerca di spiegarle, allora, le riflessioni che l'hanno spinto a fare quel patto, seppure a modo suo. Le cita alcune delle piccole cose di Sitka - gli stabilimenti alimentari, i violinisti, l'in-
segna del cinema Baranof - il cui pensiero l'ha intenerito mentre scendeva a patti con Cashdollar. «Tu e il tuo stramaledetto Cuore di tenebra» dice Bina. «Io quel film non lo voglio mai più rivedere in tutta la mia vita.» Contrae la bocca in un trattino teso. «Hai lasciato fuori una cosa, stronzo. Dalla tua bella lista. Mi sa che mancava un pezzo.» «Bina.» «Sulla tua lista per me non c'è spazio, Meyer? No, perché spero tu sappia che invece nella mia cazzo di lista sei al primo posto.» «Ma com'è possibile?» dice Landsman. «Io proprio non lo capisco.» «E perché no?» «Be', perché io... Io ti ho delusa, Bina. Ti ho abbandonato. Ti ho abbandonato nel peggiore dei modi.» «Ovvero?» «Per... per quello che ti ho costretta a fare. Insomma, a... a Django. Io non so come tu possa ancora guardarmi in faccia, Bina.» «Costretta? Perché tu... tu pensi di avermi costretta a uccidere nostro figlio?» «No, Bina, io...» «Lascia che ti dica una cosa, Meyer.» Gli prende la mano, gli affonda le dita nella pelle. «Il giorno, se mai verrà, in cui tu avrai un simile controllo sui miei comportamenti, sarà perché qualcuno ti avrà chiesto: "Secondo lei avrebbe voluto la bara in pino o solo il lenzuolo bianco?".» Gli lascia andare la mano, poi la riprende, e accarezza le mezzelune rosso acceso che gli ha inciso nella carne. «Oddio, la mano. Scusami, Meyer. Scusa.» Anche Landsman, ovviamente, vorrebbe scusarsi. L'ha già fatto, varie volte, da solo con lei e in presenza di altri, verbalmente e per iscritto, in frasi misurate e formali e in spasmi incontrollati: Scusami, scusami, scusami. Si è scusato per la sua pazzia, per i suoi comportamenti assurdi, per le crisi depressive e le sbronze, per i girotondi infiniti di esaltazione e disperazione. Si è scusato per averla abbandonata, e per averla implorata di riprenderlo con sé, e per aver sfondato la porta della casa in cui avevano vissuto insieme quando lei si è rifiutata di farlo. Si è umiliato, si è stracciato le vesti ed è strisciato ai suoi piedi. Il
più delle volte Bina, da donna buona e premurosa qual è, gli ha offerto le parole che lui voleva sentirsi dire. Lui implorava pioggia, e lei gli dava docce fredde. Ma ciò di cui davvero Landsman avrebbe bisogno è di un diluvio che lavi via la sua malvagità dalla faccia della terra. Oppure della benedizione di un uomo che non potrà mai più benedire nessuno. «Tranquilla» risponde Landsman. Bina si alza, va verso il cestino che c'è nell'atrio e ripesca il pacchetto di Broadway di Landsman. Poi dalla tasca del cappotto tira fuori uno Zippo ammaccato, con lo stemma del 75° reggimento dei Rangers, e accende una sigaretta a testa. «Abbiamo fatto quello che all'epoca ci sembrava giusto, Meyer. Sapevamo una serie di cose. Conoscevamo i nostri limiti. E ci siamo detti che stavamo facendo una scelta. Ma in realtà non avevamo scelta. Avevamo... che cosa?, tre dati in croce, e una mappa dei nostri confini. Delle cose che non potevamo trasportare. Dei fili che non avevamo il coraggio di oltrepassare.» Tira fuori lo Shoyfer dalla borsa e lo porge a Landsman. «E anche adesso, se vuoi il mio parere - e secondo me lo vuoi - anche adesso in realtà non hai scelta.» Vedendo che Landsman resta immobile, Bina apre il telefono, compone un numero e glielo mette in mano. Glielo piazza vicino all'orecchio. «Dennis Brennan» dice il caporedattore nonché unico occupante della redazione di quell'importante quotidiano americano. «Brennan. Sono Meyer Landsman.» Landsman esita ancora. Copre il microfono del telefono con un pollice. «Digli di portare qui quel suo testone enorme, che gli arrestiamo tuo zio per omicidio davanti agli occhi» dice Bina. «Digli che ha venti minuti.» Landsman cerca di soppesare i destini di Berko, di suo zio Hertz, di Bina, degli ebrei, degli arabi, di tutto questo pianeta disgraziato e senza dimora, contro la promessa che ha fatto alla signora Shpilman, e a se stesso, anche dopo che al destino e alle promesse aveva smesso di credere. «Nessuno mi obbligava ad aspettarti in fondo a quelle cazzo di scale» dice Bina. «E tu lo sai. Potevo tranquillamente prendere la porta e andare.» «Già, perché non l'hai fatto?» «Perché ti conosco, Meyer. Ho visto cos'è che ti passava per
la testa mentre stavi lì seduto ad ascoltare Hertz. Ho visto che avevi bisogno di dire qualcosa.» Gli spinge il telefono verso le labbra, e gliele sfiora con le sue. «Perciò sbrigati e diglielo. Sono stufa di aspettare.» Per giorni Landsman ha pensato di aver perso la sua chance con Mendel Shpilman, di essersi bruciato, nel suo esilio all'Hotel Zamenhof, e senza neppure rendersene conto, la sua unica possibilità di redenzione. Ma il Messia di Sitka non esiste. Landsman non ha una casa, non ha un futuro, non ha un destino all'infuori di Bina. La terra promessa a loro due aveva come unici confini le frange del baldacchino nuziale sotto cui si sono sposati, gli angoli spiegazzati della tessera di una confraternita internazionale i cui membri portano tutto ciò che possiedono in una borsa, tutto il loro mondo sulla punta della lingua. «Brennan» dice Landsman. «Ho una storia per te.»
Ringraziamenti
Ringrazio per il loro aiuto le seguenti persone, opere, siti Internet, istituzioni e aziende: La MacDowell Colony di Peterborough, New Hampshire. Davia Nelson; Susie Tompkins Buell; Margaret Grade e lo staff del Manka's Inverness Lodge, Inverness, California; Philip Pavel e lo staff del Chateau Marmont, Los Angeles, California; Bonnie Pietila e i suoi concittadini di Springfield. Paul Hamburger, bibliotecario della Judaica Collections, University of California; Ari Y. Kelman; Todd Hasak-Lowy; la Alaska State Library di Juneau, Alaska; Dee Longebaugh, Observatory Books, Juneau, Alaska; Jake Bassett dell'Oakland Polke Department. Mary Evans; Sally Willcox, Matthew Snyder e David Colden; Devin Mclntyre; Kristina Larsen, Lisa Eglinton e Carmen Dario; Elizabeth Gaffney, Kenneth Turan, Jonathan Lethem, Christopher Potter. Jonathan Burnham; Michael McKenzie; Scott Rudin; Leonard Waldman, Robert Chabon e Sharon Chabon; Sophie, Zeke, Ida-Rose, e Abraham Chabon, e la loro madre. The Messiah Texts, Raphael Patai; Modem English-Yiddish Yiddish-English Dictionary, Uriel Weinreich; Our Gang, Jenna Joselit; The Meaning of Yiddish, Benjamin Harshav; Blessings, Curses, Hopes and Fears: Psycho-Ostensive Expressions in Yiddish, Benjamin Matisoff; English-Yiddish Dictionary, Alexander Harkavy; American Klezmer, Mark Slobin; Against Culture: Development, Politics, and Religion in ìndian Alaska, Kirk Dombrowski; Will the Time Ever Come?, A Tlingit Source Book. A cura di Andrew Hope III e Thomas F. Thornton; The Chess Artist, J. C. Hallman; The Pleasures of Chess, Assiac (Heinrich Fraenkel); Treasury of Chess Tore, a cura di Fred Reinfeld. Mendele (shakti.trincoll.edu/-mendele/index.utf-8.htm);
Chessville (www.chessville.com); Eruvin in Modem Metropolitan Areas di Yosef Gavriel Bechhofer (www.aishdas.org/baistefila/eruvpl.htm); Yiddish Dictionary Online (www.yiddishdictionaryonline.com). Courtney Hodell, editor e salvatrice di questo romanzo. La confraternita Hands of Esaù è stata fondata e appare per gentile concessione del Grand Chairman e Presidente a vita Jerome Charyn; lo Zugzwang di Mendel Shpilman è stato ideato da Vladimir Nabokov, e appare nel suo Poems and Prohlems.
TRAMA
Benvenuti nel Distretto federale di Sitka, in Alaska, dove il governo degli Stati Uniti ha accolto i sopravvissuti dell'Olocausto e di un'altra catastrofe: il crollo, nel 1948, del neonato Israele sotto l'attacco dei paesi arabi. A Sitka si parla yiddish e inglese (ma anche tedesco, ungherese, polacco, russo...), rabbini ultraortodossi governano veri e propri imperi criminali osservando scrupolosamente lo Shabbat, e lo humour nero è una specie di antigelo indispensabile per affrontare le difficoltà dell'esistenza (perché "sono tempi strani per essere un ebreo"). A fare i conti con le macerie della propria vita è l'agente Meyer Landsman, che nel frattempo deve anche risolvere un caso di omicidio: è stato ucciso un campione di scacchi eroinomane, e forse dietro la sua morte c'è un'oscura cospirazione, o il nuovo esodo che incombe sugli ebrei di Sitka, o l'attesa del Messia. Sembra un noir anni Quaranta. È il nuovo, geniale romanzo di uno straordinario scrittore sull'identità, la patria, la fede, la speranza dell'amore.