Wilbur Smith
IL SETTIMO PAPIRO The Seventh Scroll 1995
Ancora una volta, dedico questo romanzo a mia moglie Danielle. ...
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Wilbur Smith
IL SETTIMO PAPIRO The Seventh Scroll 1995
Ancora una volta, dedico questo romanzo a mia moglie Danielle. Insieme abbiamo vissuto molti anni felici e pieni d'amore, eppure io sento che, in realtà, siamo solo all'inizio e che molti altri anni di gioia ci attendono. L'imbrunire avanzava dal deserto e ombrava di violaceo le dune. Attutiva tutti i suoni come un fitto manto di velluto, e la sera era tranquilla e silenziosa. Dal punto in cui si trovavano, sulla cresta della duna, potevano scorgere l'oasi e il complesso di piccoli villaggi che la circondavano. Le costruzioni erano bianche, con i tetti piatti, e le palme da dattero svettavano sugli edifici, a eccezione della moschea islamica e della chiesa copta. I due bastioni della fede si fronteggiavano sulle sponde opposte del lago. L'acqua si andava oscurando. Uno stormo di anatre scese obliquamente e, tra spruzzi bianchi, si posò accanto ai canneti. L'uomo e la donna erano una coppia non molto ben assortita. Lui era alto, un po' curvo, e i capelli argentei riflettevano gli ultimi raggi del sole. Lei era giovane, poco più che trentenne, snella e flessuosa, con i capelli folti e ricci trattenuti sulla nuca da una striscia di pelle. «È ora di scendere. Alia ci starà aspettando.» L'uomo sorrise affettuosamente alla seconda moglie. Quando la prima era morta, aveva avuto la sensazione che con lei se ne fosse andata la luce del sole. Non aveva previsto quell'ultimo periodo di felicità nella sua vita. Adesso aveva lei e il suo lavoro: era un uomo felice e appagato. All'improvviso la donna si scostò e tolse la striscia di pelle che le tratteneva i capelli folti e scuri, li scosse e rise. Era un suono gradevole. Poi si lanciò correndo giù per il pendio, con le gonne lunghe che ondeggiavano intorno alle gambe brune e tornite. Riuscì a mantenere l'equilibrio solo per metà della discesa ripida, poi la forza di gravità la fece ruzzolare. Dall'alto della cresta, l'uomo sorrise con indulgenza. A volte sua moglie era ancora una bambina; altre volte invece era una donna, seria e dignitosa; Wilbur Smith
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lui non sapeva bene quale preferisse, ma l'amava comunque. La donna si fermò ai piedi della duna e si sollevò a sedere; poi, scrollandosi la sabbia dai capelli, si abbandonò a una risata. «Tocca a te», gli gridò. L'uomo la segui con più calma: data l'età, si muoveva con cautela, un po' rigidamente. Non perse l'equilibrio e, quando arrivò in fondo al pendio, aiutò la moglie ad alzarsi. Non la baciò, sebbene fosse tentato. Non rientrava nelle consuetudini arabe dimostrare affetto in pubblico, sia pure per una moglie amatissima. Lei si rassettò le vesti e si legò di nuovo di capelli prima di dirigersi verso il villaggio. Costeggiarono i canneti dell'oasi, superando i ponticelli traballanti che scavalcavano i canali per l'irrigazione. I contadini che tornavano dai campi, quando lo incontravano, lo salutavano con rispetto. «Salam aleikum, daotari! La pace sia con te, dottore.» Onoravano tutti i sapienti, ma soprattutto lui per la bontà che da anni dimostrava nei loro confronti. Molti avevano addirittura lavorato per suo padre. Non aveva importanza che fossero in maggioranza musulmani, mentre lui era cristiano. Quando arrivarono alla villa, la vecchia governante Alia li accolse con una serie di borbottii e di smorfie. «Siete in ritardo. Siete sempre in ritardo. Perché non avete orari regolari come le persone per bene? Abbiamo una posizione da mantenere.» «Vecchia madre, hai sempre ragione», scherzò l'uomo. «Che cosa faremmo se non ci fossi tu!» La governante se ne andò, continuando a fare smorfie per nascondere l'affetto e la preoccupazione. Mangiarono insieme sulla terrazza, un pasto molto semplice: olive, pane azimo, formaggio caprino e datteri. Quando terminarono era buio, ma le stelle della sera brillavano come candele. «Royan, mio fiore.» L'uomo sfiorò la mano della moglie. «È ora di metterci al lavoro.» Si alzò da tavola e si avviò verso lo studio che comunicava con la terrazza. Royan Al Simma andò direttamente alla grande cassaforte d'acciaio che stava contro la parete di fondo e formò la combinazione. La cassaforte era fuori posto in quella stanza, fra i libri antichi, i papiri, le statue, i manufatti e i corredi funerari che l'uomo collezionava da una vita. Quando il pesante sportello d'acciaio si aprì, Royan indietreggiò per un momento. Avvertiva sempre una certa soggezione nel posare gli occhi su quella reliquia del passato, persino dopo un breve intervallo di poche ore. Wilbur Smith
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«Il settimo papiro», mormorò, e si fece forza per toccarlo. Era vecchio di oltre tremila anni, scritto da un genio che era polvere da più di tre millenni, ma che lei aveva imparato a conoscere e rispettare come rispettava e conosceva suo marito. Le parole erano eterne e le parlavano dall'Oltretomba, dai Campi Elisi, dalla presenza della grande trinità Osiride, Iside e Horus - in cui aveva creduto devotamente, come Royan credeva in un'altra Trinità più recente. Portò il rotolo di papiro al lungo tavolo dove il marito Duraid era già al lavoro. Lui alzò lo sguardo quando la moglie glielo posò accanto, e per un momento Royan gli vide negli occhi la stessa eccitazione che l'aveva colpita. Lui voleva sempre il papiro sul tavolo, anche quando non era necessario: infatti avrebbe potuto lavorare con le fotografie e i microfilm. Era come se sentisse il bisogno della presenza invisibile dell'antico autore mentre studiava i testi. Poi scacciò quella sensazione e tornò a essere lo scienziato freddo e obiettivo. «La tua vista è migliore della mia, mio fiore», disse. «Che cosa ti sembra questo carattere?» Royan si chinò sulla sua spalla e studiò il geroglifico che lui le indicava sulla fotografia del rotolo. Rifletté per un momento, prese la lente dalla mano di Duraid e tornò a esaminarlo. «Mi sembra che Taita abbia aggiunto un altro crittogramma di sua invenzione, per esasperarci.» Parlava dell'antico autore come se fosse un caro, e talvolta irritante, amico che si divertiva a giocar loro strani scherzi. «Allora dovremo venirne a capo», dichiarò soddisfatto Duraid. Quel gioco gli piaceva. Era il lavoro della sua vita. Continuarono nella frescura della notte, le ore in cui lavoravano meglio. A volte parlavano arabo, altre volte inglese. Per loro le due lingue erano quasi la stessa cosa. Usavano meno spesso il francese, la loro terza lingua comune. Avevano studiato in università inglesi e americane, così lontane dal loro Egitto. Royan amava l'espressione «il nostro Egitto», che Taita usava spesso nei papiri. Provava una strana affinità per l'antico egizio. Dopotutto era una sua discendente diretta: era cristiana copta, e non apparteneva alla razza araba che aveva conquistato l'Egitto meno di quattordici secoli prima. Gli arabi erano nuovi venuti nel suo Egitto, mentre la sua stirpe risaliva al tempo dei faraoni e delle grandi piramidi. Alle dieci Royan preparò il caffè; lo riscaldò sulla stufa a carbonella che Wilbur Smith
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Alia aveva lasciata accesa prima di tornare al villaggio dalla sua famiglia. Lo bevvero, dolce e carico, nelle tazze sottili piene per metà di fondi. E intanto parlarono come vecchi amici. Per Royan, infatti, il loro era un rapporto fra vecchi amici. Aveva conosciuto Duraid quando era tornata dall'Inghilterra con un dottorato in archeologia e aveva ottenuto un posto presso il Dipartimento Antichità Egizie, di cui lui era il direttore. Era la sua assistente quando Duraid aveva aperto la tomba nella Valle dei Nobili, la tomba della regina Lostris della dinastia ramesside, che risaliva al 1780 circa avanti Cristo. E aveva condiviso la sua delusione quando avevano constatato che la tomba era stata saccheggiata in tempi antichi e depredata di tutti i tesori. Erano rimasti soltanto gli affreschi meravigliosi che coprivano le pareti e i soffitti. Royan stava lavorando sulla parete dietro il plinto dove in origine si trovava il sarcofago, e fotografava gli affreschi, quando una sezione d'intonaco era caduta, rivelando la nicchia con i dieci vasi di alabastro sigillati. Ognuno conteneva un rotolo di papiro; e tutti erano stati scritti e nascosti lì da Taita, lo schiavo della regina. Da quel momento le loro vite, quella di Duraid e la sua, avevano ruotato intorno a quei rotoli di papiro. Sebbene ci fossero alcuni danni e qualche segno di deterioramento, nel complesso erano rimasti straordinariamente intatti dopo tre millenni e mezzo. Contenevano la storia affascinante di una nazione attaccata da un nemico più forte, armato di cavalli e di carri ancora sconosciuti agli egizi di quel tempo. Schiacciate dalle orde degli hyksos, le popolazioni nel Nilo erano state costrette a fuggire. Guidate dalla loro regina, la Lostris della tomba, avevano seguito verso sud il grande fiume fin quasi alla sorgente, tra le montagne impervie degli altipiani etiopi. Là, fra quelle montagne, Lostris aveva sepolto il corpo mummificato del marito, il faraone Marnose, ucciso in battaglia contro gli hyksos. Molto tempo dopo, la regina Lostris aveva guidato il suo popolo verso nord, fino all'Egitto. Armati di carri e cavalli, divenuti guerrieri irriducibili nei desolati territori africani, gli egizi avevano ridisceso le cataratte del grande fiume per sfidare gli invasori e alla fine avevano trionfato, strappando loro la corona doppia dell'Alto e Basso Egitto. Era una vicenda che avvinceva Royan, e continuava ad avvincerla mentre decifravano ogni geroglifico che il vecchio schiavo aveva tracciato Wilbur Smith
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sul papiro. Avevano impiegato molti anni, lavorando di notte nella villa dell'oasi dopo aver terminato il normale orario al museo del Cairo; ma finalmente erano riusciti a decifrare i dieci rotoli, eccettuato il settimo. Il settimo papiro era l'enigma che l'autore aveva avvolto con strati di stenografia esoterica e di allusioni così oscure da risultare incomprensibili dopo tanto tempo. Alcuni dei simboli utilizzati non comparivano in nessuno delle migliaia di testi che i due avevano studiato nel corso della loro attività. Per entrambi era ormai evidente che Taita voleva che i rotoli non venissero letti e compresi da occhi diversi da quelli della regina amatissima. Era l'ultimo dono che le aveva fatto perché lo portasse con sé nell'Oltretomba. C'era stato bisogno di tutta l'abilità, l'immaginazione e l'ingegnosità di cui disponevano: ma finalmente il traguardo sembrava prossimo. La traduzione presentava ancora lacune, e il significato di molti passi era tutt'altro che sicuro; eppure avevano riordinato le «ossa» del manoscritto in modo da poter scorgere il contorno dell'essere che rappresentava. Duraid bevve un sorso di caffè e scosse la testa come aveva fatto tante altre volte. «La responsabilità mi fa paura», disse. «Che cosa ne faremo delle conoscenze che abbiamo acquisito? Se dovessero cadere in mani sbagliate...» Bevve un altro sorso e sospirò prima di riprendere a parlare. «Anche se lo porteremo alle persone giuste, chi crederà a questo materiale vecchio di tremilacinquecento anni?» «Perché dobbiamo portarlo a qualcun altro?» chiese Royan con una sfumatura di esasperazione nella voce. «Perché non facciamo da soli quel che c'è da fare?» In momenti come quello le differenze tra loro spiccavano più nette. Duraid aveva la prudenza dell'età, lei l'impetuosità della giovinezza. «Tu non capisci», borbottò lui. Era una frase che irritava profondamente Royan, che vi leggeva l'atteggiamento arabo di superiorità maschile nei confronti delle donne. Royan aveva conosciuto l'altro mondo, dove le donne avevano il diritto di essere trattate da eguali. Era una creatura presa tra due universi, quello arabo e quello occidentale. Sua madre era un'inglese di buona famiglia: aveva lavorato presso l'ambasciata britannica al Cairo durante il periodo inquieto successivo alla seconda guerra mondiale, sposando poi un giovane ufficiale dello stato maggiore del colonnello Nasser. Era un'unione inverosimile, conclusasi quando Royan era ancora un'adolescente. Wilbur Smith
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La madre aveva insistito per tornare in Inghilterra, a York, per la nascita di Royan: voleva che la figlia avesse la cittadinanza britannica. Dopo che i genitori si erano separati, sua madre aveva fatto in modo che la figlia studiasse in Inghilterra; Royan però aveva sempre trascorso le vacanze al Cairo con il padre, il quale aveva fatto una magnifica carriera culminata con la nomina a ministro nel governo Mubarak. E, per l'affetto che gli portava, Royan aveva finito per considerarsi più egiziana che inglese. Era stato suo padre a combinare il matrimonio con Duraid Al Simma: l'ultima cosa che aveva fatto per lei prima di morire. A quel tempo, Royan sapeva delle precarie condizioni di salute del padre, e non se l'era sentita di contrariarlo. L'educazione moderna le aveva fatto desiderare di opporsi all'anacronistica tradizione copta dei matrimoni combinati, ma la famiglia e la Chiesa erano contro di lei. E così aveva acconsentito. Il matrimonio con Duraid non era stato insopportabile come lei aveva temuto. Anzi sarebbe stato soddisfacente, se Royan non avesse mai conosciuto l'amore romantico: ma c'era stata la relazione con David, quando studiava all'università. David l'aveva prima trascinata in un vorticoso delirio sensuale, e poi se n'era andato, lasciandola in preda alla disperazione. L'aveva abbandonata per sposare una bionda ragazza tipicamente inglese, approvata dai suoi genitori. Royan provava rispetto e simpatia per Duraid, ma a volte, la notte, ardeva dal desiderio del contatto con un corpo maschile solido e giovane come il suo. Duraid stava ancora parlando, e lei non l'aveva ascoltato. Royan si riscosse e gli dedicò tutta la sua attenzione. «Ho parlato di nuovo al ministro, ma penso che non mi abbia creduto. Penso che Nahoot l'abbia convinto che sono un po' matto.» Duraid sorrise mestamente. Nahoot Guddabi era il suo vice, ambizioso e ben ammanigliato. «Comunque il ministro dice che non ci sono fondi disponibili e che dovrò cercare un finanziamento indipendente. Ho passato di nuovo in rassegna l'elenco dei possibili sponsor, e l'ho ristretto a quattro nomi. C'è il Getty Museum, ovviamente, ma non mi piace avere a che fare con una grande istituzione impersonale. Preferisco dover rispondere a un uomo solo: così è più facile prendere decisioni.» Per Royan quel discorso non era affatto una novità, eppure la sua espressione era intenta e partecipe. «Poi c'è Herr von Schiller. È ricco e ha interesse per l'argomento, ma non lo conosco abbastanza bene per fidarmi completamente di lui.» Wilbur Smith
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S'interruppe. Royan aveva ascoltato abbastanza spesso quelle riflessioni per essere in grado di prevederle. «E l'americano? È un collezionista famoso», disse, anticipando il marito. «Peter Walsh è un tipo difficile. La smania di accumulare lo rende poco scrupoloso. Mi fa un po' paura.» «Allora, chi resta?» chiese Royan. Duraid non disse nulla: entrambi conoscevano la risposta. Rivolse nuovamente l'attenzione al materiale sparso sul tavolo da lavoro. «Ha un'aria così innocente. Un vecchio rotolo di papiro, fotografie e quaderni, una stampata di computer. È difficile credere che potrebbero essere pericolosi, se finissero nelle mani sbagliate.» Sospirò di nuovo. «Si potrebbe quasi sostenere che sono armi letali.» Rise. «Mi lascio trasportare dalla fantasia, forse perché è così tardi. Vogliamo tornare al lavoro? Potremo preoccuparci del resto quando avremo risolto tutti gli enigmi creati da quel vecchio briccone di Taita, e avremo completato la traduzione.» Prese la prima fotografia dal mucchio che gli stava davanti: un estratto della sezione centrale del rotolo. «E una vera disgrazia che il papiro risulti guasto proprio qui.» Prese gli occhiali da lettura e li inforcò prima di leggere ad alta voce. Vi sono molti gradini da ascendere sulla scala della dimora di Hapi. Con grandi sforzi e fra terribili traversie raggiungemmo il secondo gradino e non procedemmo oltre, perché qui il principe ricevette una rivelazione divina. In sogno suo padre, il Faraone defunto, gli apparve e comandò: «Ho viaggiato molto e sono stanco. E qui che voglio riposare per tutta l'eternità». Duraid si tolse gli occhiali e guardò Royan. «Il secondo gradino. Per una volta, ecco una descrizione molto precisa. Qui Taita non è tortuoso come al solito.» «Torniamo alle foto del satellite», propose Royan, prendendo il foglio lucido. Duraid girò intorno al tavolo e si fermò alle sue spalle. «Mi sembra logico: l'elemento naturale che costituiva un ostacolo in una gola doveva essere una serie di rapide o una cascata. Se fosse la seconda cascata, sarebbe qui...» Royan puntò l'indice sulla foto del satellite nel punto dove il fiume serpentino si snodava fra i massicci scuri dei monti. Wilbur Smith
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D'un tratto alzò la testa. «Ascolta!» disse in tono allarmato. «Che c'è?» Anche Duraid alzò gli occhi. «Il cane.» «Maledetto bastardo. La notte continua ad abbaiare. Ho deciso di sbarazzarmene.» In quel momento le luci si spensero. Marito e moglie rimasero paralizzati per lo stupore. Il ritmo sommesso del vecchissimo generatore diesel nella baracca in fondo al palmeto era cessato. Quel suono faceva parte della notte nell'oasi al punto che lo notavano soltanto quando non c'era. I loro occhi si abituarono alla luce fioca delle stelle che penetrava dalla porta della terrazza. Duraid attraversò la stanza e prese la lampada a petrolio dallo scaffale dove la teneva per quell'eventualità. L'accese e guardò la moglie con un'aria di comica rassegnazione. «Dovrò scendere a...» «Duraid», l'interruppe lei. «Il cane!» L'uomo rimase in ascolto per un momento, poi si limitò ad alzare un sopracciglio, perplesso. Il cane taceva. «Sono sicuro che non è il caso di allarmarsi», la rassicurò. Si diresse verso la porta e, istintivamente, la moglie gli gridò: «Sii prudente!» Lui scrollò le spalle, noncurante, e uscì sulla terrazza. Per un istante Royan pensò che fosse l'ombra della vite sul traliccio che si muoveva nella brezza notturna del deserto: ma era una notte calma. Poi si accorse che una figura umana camminava sulle pietre a passo rapido e senza far rumore, e si portava alle spalle di Duraid mentre questi girava intorno alla vasca dei pesci al centro della terrazza. «Duraid!» gridò Royan, facendolo voltare di scatto. «Chi sei?» disse Duraid, mentre sollevava la lampada. «Che cosa vuoi?» L'intruso si avvicinò in silenzio. Era avvolto dal tradizionale dishdasha che arrivava alle caviglie, e la ghutrah bianca gli copriva la testa. Nella luce della lampada, Duraid vide che s'era tirato un lembo del copricapo sulla faccia, per mascherarsi. Lo sconosciuto le voltava le spalle e quindi Royan non scorse il coltello che stringeva nella destra, tuttavia non poté aver dubbi sul movimento fulmineo verso l'alto che mirava allo stomaco di Duraid. Con un gemito, Duraid si piegò; allora l'aggressore liberò la lama e lo colpì ancora. Ma questa volta Duraid lasciò cadere la lampada e gli afferrò il braccio. Wilbur Smith
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La fiamma della lampada era fioca. I due uomini lottavano nel buio, eppure Royan vedeva la chiazza scura che si allargava sulla camicia bianca del marito. «Scappa!» le gridò lui. «Vai! Cerca aiuto! Non riesco a bloccarlo...» Il Duraid che Royan conosceva era un erudito mite e gentile: l'assalitore era molto più forte, non c'erano dubbi. «Va', ti prego! Salvati, mio fiore...» La voce s'indeboliva, anche se Duraid teneva ancora serrato il braccio dell'aggressore. Fino a quel momento lo shock e l'indecisione avevano paralizzato Royan; d'un tratto però la donna parve spezzare l'incantesimo che la immobilizzava e si slanciò verso la porta. Spronata dal terrore e dalla necessità di chiedere aiuto per Duraid, attraversò la terrazza con la sveltezza di un gatto, mentre il marito continuava a lottare con l'intruso. Scavalcò il muretto di pietra, corse fra le palme, e per poco non finì fra le braccia del secondo uomo. Le dita protese di quest'ultimo le sfiorarono il viso: sulle prime, Royan riuscì a divincolarsi, poi però l'uomo trovò il cotone sottile della camicetta e vi si aggrappò. Royan lanciò un grido quando scorse un lungo lampo argenteo alla luce delle stelle: un coltello. Quella vista la spronò a raddoppiare gli sforzi. Il cotone si strappò, e fu libera, ma non abbastanza pronta da sfuggire alla lama. Sentì la trafittura al braccio, e sferrò un calcio con tutta la forza del panico e della sua giovanile energia. Avvertì poi l'urto del piede, e l'impatto le intorpidì il ginocchio e la caviglia. L'aggressore gridò e cadde. Fuggì attraverso il palmeto. All'inizio corse senza una meta o una direzione, corse semplicemente per arrivare lontano il più possibile. Poi, a poco a poco, riuscì a dominare il panico. Si guardò alle spalle, ma nessuno la seguiva. Quando raggiunse la riva del lago rallentò per risparmiare energia e si accorse del rivolo caldo di sangue che le scorreva sul braccio e sgocciolava dalle punte delle dita. Si fermò, appoggiandosi con la schiena al tronco ruvido di una palma; strappò una striscia di cotone dalla camicetta lacerata e si fasciò il braccio. Tremava tanto per lo shock e lo sforzo che anche la mano indenne si muoveva incerta. Annodò con i denti e la mano sinistra la rozza benda, e l'emorragia rallentò. Non sapeva da che parte dirigersi; poi scorse la luce fioca della lampada alla finestra della casupola di Alia, al di là del più vicino canale d'irrigazione. Si allontanò dalla palma e si avviò da quella parte. Dopo Wilbur Smith
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meno di cento passi, sentì una voce chiamare dal palmeto. Parlava arabo: «Yusuf, la donna è venuta verso di te?» Subito una torcia elettrica si accese nell'oscurità, più avanti, e un'altra voce rispose: «No, non l'ho vista». Ancora pochi secondi e Royan gli sarebbe finita addosso. Si accovacciò e si guardò intorno disperatamente. C'era un'altra torcia elettrica che stava attraversando il palmeto, seguendo il suo stesso percorso. Probabilmente era l'uomo che aveva colpito con il calcio, ma dal movimento del fascio luminoso si capiva che si era ripreso e camminava senza difficoltà. Era bloccata da due lati. Si voltò verso la riva del lago. Là c'era la strada, e forse avrebbe trovato un veicolo. Perse l'equilibrio sul terreno accidentato e cadde graffiandosi le ginocchia, tuttavia si rialzò prontamente e proseguì. Quando inciampò per la seconda volta, la mano sinistra toccò un masso levigato grosso come un'arancia. Royan lo afferrò, decisa a usarlo a mo' di arma. Sebbene il braccio avesse ricominciato a dolere, la preoccupazione per Duraid la spronava. Sapeva che era ferito gravemente perché aveva visto la forza e la direzione dell'affondo del coltello. Doveva trovare aiuto. Dietro di lei i due uomini con le torce battevano il palmeto, e Royan non riusciva a conservare il vantaggio. Guadagnavano terreno, e lei sentiva che si chiamavano l'uno con l'altro. Finalmente raggiunse la strada. Con un lieve gemito di sollievo uscì dal fosso e salì sulla superficie di ghiaia chiara. Si accorse che le gambe tremavano tanto che stentavano a reggerla, ma si avviò in direzione del villaggio. Non era ancora arrivata alla prima curva quando vide due fari che venivano lentamente verso di lei, lampeggiando tra le palme. Si mise a correre in mezzo alla strada. «Aiuto!» urlò in arabo. «Vi prego, aiutatemi!» La macchina superò la curva e, prima che i fari l'abbagliassero, Royan vide che si trattava di una piccola Fiat scura. La donna si fermò al centro della carreggiata, agitando le braccia nella luce dei fari come se fosse su un palcoscenico. La Fiat le si fermò davanti. Royan corse alla portiera dalla parte del guidatore e premette la maniglia. «Per favore, mi aiuti...» La portiera si aprì dall'interno con tanta violenza da farle perdere l'equilibrio. Il guidatore balzò a terra, afferrò Royan per il braccio ferito e Wilbur Smith
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spalancò la portiera posteriore. «Yusuf! Bacheet!» gridò in direzione del palmeto. «L'ho presa!» Royan sentì le grida di risposta e vide le torce puntare verso di loro. Il guidatore allora le spinse la testa verso il basso, cercando di farla salire in macchina. Fu in quel momento che Royan si ricordò del sasso. Si girò leggermente, si puntellò, poi avventò il pugno contro la testa dell'uomo e lo colpì alla tempia. Senza neppure un lamento, l'uomo stramazzò sulla ghiaia e rimase immobile. Royan lasciò cadere la pietra e corse via, lungo la strada, ma si accorse di essere troppo visibile: infatti si stava muovendo nella luce dei fari. I due uomini nel palmeto gridarono ancora e balzarono sulla strada dietro di lei, quasi a spalla a spalla. Girò la testa per un attimo e vide che stavano guadagnando terreno rapidamente. Si rese conto che l'unica possibilità stava nel lasciare la strada per avventurarsi nel buio. Si voltò, scese la banchina, e si trovò immersa fino alla vita nelle acque del lago. Nell'oscurità e nella confusione aveva finito per disorientarsi. Non aveva capito di aver raggiunto il tratto in cui la strada fiancheggiava la banchina al margine dell'acqua. Risalire sulla strada era ormai impossibile. Però Royan sapeva che davanti a lei c'erano ciuffi folti di papiri e di canne che potevano offrirle un riparo. Avanzò sino a che il fondo non le mancò sotto i piedi e fu costretta a nuotare. Nuotò a rana, goffamente, intralciata dalle gonne lunghe e dal braccio ferito. Tuttavia i suoi movimenti lenti e furtivi non agitavano la superficie e, prima che gli uomini raggiungessero il punto dove aveva disceso la banchina, arrivò a un canneto. Si portò nel punto in cui le canne erano più fitte e si lasciò affondare. Prima che l'acqua le coprisse le narici sentì sotto i piedi il fango molle. Rimase immobile. Solo la parte superiore della testa sporgeva dalla superficie, e la faccia era rivolta nella direzione opposta alla riva. Sapeva che i suoi capelli scuri non avrebbero riflesso la luce di una torcia elettrica. Sebbene l'acqua le coprisse le orecchie, udì le voci eccitate degli uomini sulla strada. Avevano puntato le torce verso l'acqua, nel canneto, per cercarla. Per un momento un fascio di luce le sfiorò la testa, e Royan respirò profondamente per immergersi, ma il raggio si allontanò quasi subito. Non l'avevano individuata. Il fatto che non l'avessero vista neppure nella luce diretta della torcia le Wilbur Smith
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diede il coraggio di alzare leggermente la testa in modo che un orecchio fosse scoperto e le permettesse di captare le voci. Parlavano arabo, e Royan riconobbe la voce di quello che si chiamava Bacheet. Sembrava che fosse il capo, perché dava gli ordini. «Tuffati, Yusuf, e tira fuori quella puttana.» Lei sentì Yusuf che scivolava giù per la banchina. Poi uno scroscio quando finì nell'acqua. «Più avanti», ordinò Bacheet. «In quel canneto laggiù, dove punto la torcia.» «E troppo profondo. Sai che non sono capace di nuotare. Finirò sott'acqua.» «Là! Proprio davanti a te, in mezzo alle canne. Vedo la testa!» lo incoraggiò Bacheet, e Royan temette che l'avessero scoperta. Affondò il più possibile sotto la superficie. Yusuf sguazzava pesantemente, avvicinandosi al nascondiglio di Royan. D'un tratto però esplose un tremendo baccano. «Dio mi protegga!» gridò l'uomo, atterrito, mentre uno stormo di anatre decollava fragorosamente dall'acqua e si avventava nel cielo buio. Yusuf tornò verso la riva. A nulla valsero le minacce e le insistenze di Bacheet: l'uomo si rifiutò di continuare la caccia. «La donna è meno importante del papiro», protestò mentre risaliva sulla strada. «Senza quello non vedremo un soldo. Sappiamo dove trovare la donna, più tardi.» Royan girò leggermente la testa e vide le torce spostarsi lungo la strada, in direzione dei fari dell'auto. Sentì sbattere le portiere, poi il motore rombò e la macchina si diresse verso la villa. Era troppo sconvolta e impaurita per abbandonare il nascondiglio. Temeva che uno di quegli uomini fosse rimasto sulla strada ad aspettarla. Restò in punta di piedi, con l'acqua che le lambiva le labbra, e continuò a tremare più per lo shock che per il freddo, decisa ad attendere il levar del sole prima di muoversi. Solo più tardi, quando vide il chiarore del fuoco illuminare il cielo e le fiamme guizzare fra i tronchi delle palme, dimenticò la prudenza e si trascinò a riva. S'inginocchiò nel fango, rabbrividendo e ansimando per la debolezza dovuta al sangue perduto e alla reazione alla paura, e scrutò le fiamme attraverso il velo dei capelli bagnati e dell'acqua che le scorreva negli Wilbur Smith
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occhi. «La villa!» mormorò. «Duraid! Oh, Dio, ti prego! No! No!» Si alzò con uno sforzo immane e si avviò barcollando verso la sua casa che bruciava. Bacheet spense i fari e il motore dell'auto prima di arrivare alla svolta che portava al viale della villa e lasciò che la macchina scendesse in silenzio e si fermasse sotto la terrazza. I tre scesero dalla Fiat e salirono i gradini di pietra. Duraid giaceva ancora dove l'aveva lasciato Bacheet, vicino alla vasca dei pesci. Gli passarono accanto senza degnarlo di un'occhiata ed entrarono nello studio buio. Bacheet mise sul tavolo il borsone di nylon e l'aprì. «Abbiamo già sprecato troppo tempo. Adesso dobbiamo sbrigarci.» «La colpa è di Yusuf», protestò il guidatore della Fiat. «Ha lasciato scappare la donna.» «Tu potevi bloccarla sulla strada», ringhiò Yusuf. «E non hai saputo fare di meglio.» «Basta!» ordinò Bacheet. «Se volete essere pagati, non fate altri sbagli.» Puntò il raggio della torcia sul papiro che era rimasto sul tavolo. «Eccolo qui.» Ne era certo perché gli avevano mostrato una fotografia in modo che non vi fossero errori. «Vogliono tutto, le mappe e le foto. E anche i libri e le carte, tutto quel che c'è sul tavolo e che loro usavano per lavorare. Non dimenticate niente.» Caricarono tutto nel borsone e Bacheet chiuse la lampo. «Adesso il daotari. Portatelo qui.» Gli altri due uscirono sulla terrazza e si chinarono sul corpo, lo afferrarono per le caviglie e lo trascinarono nello studio. La schiena di Duraid batté sui gradini di pietra della soglia e il sangue lasciò una lunga scia rossa sulle piastrelle. «Prendete la lampada!» ordinò Bacheet. Yusuf tornò sulla terrazza e raccattò la lampada a petrolio che Duraid aveva lasciato cadere. La fiamma s'era spenta. Bacheet accostò la lampada all'orecchio e la scosse. «Piena», disse in tono soddisfatto, e svitò il tappo. «Bene», ordinò agli altri due. «Portate in macchina la borsa.» Mentre si affrettavano a uscire, Bacheet spruzzò di petrolio la camicia e i pantaloni di Duraid, poi andò agli scaffali e versò il resto del combustibile Wilbur Smith
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sui libri e sui manoscritti. Lasciò cadere la lampada vuota e si frugò nel dishdasha per prendere una scatola di fiammiferi, ne accese uno e lo accostò alla chiazza di petrolio sulla libreria. Il fuoco si appiccò immediatamente, e le fiamme salirono, arricciando le pagine dei manoscritti. Allora Bacheet si voltò, tornò verso Duraid, accese un altro fiammifero e lo lasciò cadere sulla camicia intrisa di sangue e di petrolio. Un manto di fiamme azzurre avvolse il petto di Duraid, cambiò colore quando cominciò a intaccare la stoffa di cotone e la carne, per diventare infine arancio mentre un fumo scuro s'innalzava lentamente. Bacheet corse alla porta, attraversò la terrazza e scese i gradini. Quando salì sul sedile posteriore della Fiat, il guidatore aumentò al massimo i giri del motore e sfrecciò via lungo il viale. Il dolore fece rinvenire Duraid. Doveva essere molto intenso per richiamarlo dal luogo tenebroso al limitare della vita in cui era sprofondato. Gemette. La prima cosa che sentì quando riprese i sensi fu l'odore della sua carne che bruciava. Poi la sofferenza lo investì. Un tremito violento lo scosse. Aprì gli occhi e si guardò. La camicia si carbonizzava e fumava, e il dolore era il più intenso che avesse provato in vita sua. Si rese conto vagamente che la stanza era avvolta dalle fiamme. Il fumo e le ondate di calore lo investivano, e riusciva appena a distinguere i contorni della porta. Il dolore era così terribile che Duraid si augurava che finisse. Avrebbe voluto morire per non doverlo più sopportare. Poi pensò a Royan, tentò di pronunciare il suo nome con le labbra ustionate e annerite, ma non ci riuscì. Fu il pensiero della moglie a dargli la forza di muoversi. Rotolò su se stesso e il calore gli assalì la schiena, rimasta al riparo fino a quel momento. L'uomo gemette e, con grande fatica, strisciò un po' più vicino all'uscita. Ogni movimento gli costava uno sforzo terribile e provocava nuove sofferenze lancinanti, ma, quando Duraid si rotolò ancora una volta sul dorso, si rese conto che una corrente di aria pura veniva risucchiata attraverso il vano della porta e alimentava le fiamme. L'aria dolce del deserto gli diede la forza sufficiente per rotolarsi giù dai gradini e finire sulle pietre fresche della terrazza. Wilbur Smith
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Gli abiti e il corpo erano ancora in fiamme. L'uomo si batté debolmente le mani sul petto per cercare di spegnerle, ma anche le mani erano annerite e deformate. Allora ricordò la vasca dei pesci. Il pensiero d'immergere il suo corpo torturato in quell'acqua fredda lo spronò a compiere un ultimo sforzo. Strisciò sulle pietre come un serpente dalla spina dorsale fracassata. Il fumo pungente che saliva dalla sua carne carbonizzata lo soffocava strappandogli dolorosi accessi di tosse. Eppure Duraid proseguì, ostinato. Lasciò sulla pietra brandelli di pelle ustionata mentre si rotolava e piombava nella vasca. Vi fu un sibilo di vapore e una piccola nube gli oscurò la vista, tanto che per un momento credette di essere diventato cieco. Il tormento dell'acqua fredda sulla carne bruciata fu così intenso da farlo ripiombare nell'incoscienza. Quando riprese i sensi, alzò la mano sgocciolante e scorse una figura che saliva barcollando la scala in fondo alla terrazza. Proveniva dal giardino. Per un momento pensò che fosse un fantasma creato dalla sofferenza, ma quando la luce dell'incendio la investì in pieno riconobbe Royan. I capelli bagnati le cadevano in disordine sul viso, grondavano d'acqua del lago ed erano chiazzati di fango e di alghe verdi. Il braccio destro era avvolto in stracci che lasciavano filtrare il sangue, tanto diluito dall'acqua sporca al punto da apparire rosa. Non lo vide. Si fermò al centro della terrazza e fissò inorridita la stanza che bruciava. Duraid era ancora lì dentro? Si mosse, ma il calore era come una muraglia solida che le impediva di avanzare. In quel momento il tetto crollò, innalzando verso il cielo notturno una colonna rombante di scintille e di fiamme. Royan indietreggiò, riparandosi il viso con un braccio. Duraid tentò di chiamarla, ma neppure un suono uscì dalla gola riarsa dal fumo. La donna si voltò e prese a ridiscendere la scala. Duraid comprese che stava per andare in cerca di aiuto: fece uno sforzo supremo e un crocidio gli sfuggì dalle labbra ustionate. Royan si girò di scatto, lo fissò e urlò. La testa di Duraid non aveva più nulla di umano. I capelli erano completamente bruciati, e la pelle ciondolava a brandelli dalle guance e dal mento: attraverso la maschera annerita e incrostata si scorgevano alcune chiazze di carne rossastra. La donna indietreggiò come se avesse di fronte un mostro orrendo. «Royan», gracchiò Duraid. La voce era a stento riconoscibile. L'uomo sollevò una mano verso la moglie in un gesto supplichevole e lei, senza Wilbur Smith
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indugiare, corse alla vasca e la strinse. «In nome della Vergine, che ti hanno fatto?» singhiozzò. Quando poi cercò di tirarlo fuori dall'acqua, la pelle della mano di Duraid le rimase fra le dita come un orribile guanto chirurgico, lasciando nuda la carne viva. Royan si lasciò cadere in ginocchio e si tese sopra la vasca per prenderlo fra le braccia. Sapeva di non avere la forza di sollevarlo senza causargli altre lesioni orrende. La sola cosa che poteva fare era tenerlo abbracciato e cercare di confortarlo. Era consapevole che suo marito stava per morire: nessuno poteva sopravvivere in simili condizioni. «Presto verranno ad aiutarci», gli sussurrò in arabo. «Qualcuno vedrà le fiamme. Fatti coraggio, marito mio, presto verrà qualcuno.» Duraid si torceva convulsamente fra le sue braccia, torturato dalle lesioni mortali e straziato dallo sforzo di parlare. «Il papiro?» La voce era appena intelligibile. Royan guardò il rogo che avviluppava la loro casa e scosse la testa. «È sparito», disse. «Bruciato o rubato.» «Non arrenderti», mormorò Duraid. «Tutto il nostro lavoro...» «È sparito», ripeté Royan. «Nessuno ci crederà se non avremo...» «No.» La voce era fievole ma decisa. «Fallo per me. È il mio ultimo...» «Non parlare così», lo supplicò lei. «Guarirai.» «Prometti!» disse Duraid. «Promettilo!» «Non abbiamo un finanziatore. Sono sola. Da sola non posso farcela.» «Harper», sussurrò l'uomo. Royan si accostò ancora di più, fino a sfiorare con l'orecchio le labbra devastate dal fuoco. «Harper», ripeté lui. «Un uomo forte... duro... intelligente...» La donna comprese. Harper... Ma certo: era il quarto nome nell'elenco dei finanziatori che Duraid aveva compilato. Sebbene fosse l'ultimo, Royan sapeva che, per suo marito, l'ordine delle precedenze era rovesciato. Nicholas Quenton-Harper era in realtà la sua prima scelta. Aveva parlato spesso di quell'uomo con rispetto e calore, a volte addirittura con reverenza. «Ma che cosa devo dirgli? Non mi conosce. Come farò a convincerlo? Il settimo papiro è sparito...» «Fidati di lui», bisbigliò Duraid. «È un brav'uomo. Fidati di lui.» C'era un'invocazione disperata nella sua voce. «Promettilo!» Allora Royan si ricordò del quaderno nell'appartamento alla periferia del Cairo e del materiale su Taita nei dischetti del suo computer. Non tutto era scomparso. «Sì, prometto. Te lo prometto, marito mio.» Wilbur Smith
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Anche se il viso mutilato non poteva più rivelare un'espressione umana, nella voce c'era un'eco di soddisfazione quando mormorò: «Mio fiore...» Poi reclinò la testa in avanti e le morì fra le braccia. I contadini del villaggio trovarono Royan ancora inginocchiata accanto alla vasca. Lo stringeva, gli parlava sottovoce. Ormai le fiamme si stavano placando e la luce fioca dell'alba era più forte del loro chiarore. Tutti i dirigenti del museo e del Dipartimento Antichità Egizie parteciparono al servizio funebre nella chiesa dell'oasi. Anche il ministro della Cultura e del Turismo, Atalan Abou Sin, il superiore di Duraid, era arrivato dal Cairo a bordo della sua Mercedes nera. Atalan Abou Sin rimase in piedi dietro a Royan e, sebbene fosse musulmano, si unì agli altri nel mormorare le risposte delle preghiere. Nahoot Guddabi era accanto allo zio: sua madre era la sorella minore del ministro, e una volta Duraid aveva commentato con sarcasmo che questo compensava abbondantemente la mancanza di qualifiche e di esperienza del nipote nel campo dell'archeologia, nonché la sua inettitudine come amministratore. Era una giornata calda. Fuori c'erano più di trenta gradi, e persino nell'interno della chiesa copta l'atmosfera era opprimente. Tra le nuvole d'incenso e il salmodiare monotono del prete nerovestito che intonava le parole antiche del rito, Royan si sentiva soffocare. I punti al braccio destro stringevano e bruciavano, e ogni volta che guardava la bara nera davanti all'altare dorato la visione spaventosa della testa calva e ustionata di Duraid le appariva davanti agli occhi; allora vacillava, aggrappandosi al banco per non cadere. Poi la cerimonia finì, e Royan trovò un po' di sollievo all'aria aperta. Ma i suoi doveri non erano terminati. Era la vedova e doveva prendere posto dietro il feretro mentre la processione si avviava verso il cimitero fra le palme, dove i nonni e i genitori di Duraid lo attendevano nel mausoleo di famiglia. Prima di tornare al Cairo, Atalan Abou Sin si premurò di rivolgerle qualche parola di condoglianze. «È davvero terribile, Royan. Ho parlato personalmente al ministro degli Interni. Troveranno i mostri responsabili di questo delitto, mi creda. Si prenda pure un lungo periodo di riposo prima di tornare al museo», disse. «Tornerò in ufficio lunedì», rispose Royan. Il ministro prese un taccuino Wilbur Smith
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dalla tasca interna dell'abito scuro, lo consultò e fece un'annotazione prima di guardarla di nuovo. «Allora venga a trovarmi nel pomeriggio al ministero. Alle quattro», concluse. Poi raggiunse la Mercedes, mentre Nahoot Guddabi si avvicinava per salutare Royan. Sebbene avesse la carnagione giallastra e borse color caffè sotto gli occhi, era un uomo elegante, alto, con i capelli folti e ondulati e i denti candidi. Indossava un abito impeccabile ed era circondato da un sentore di colonia di lusso. Aveva un'espressione solenne e triste. «Era un brav'uomo, e avevo la massima stima per lui», mormorò a Royan, che annuì senza rispondere a quella menzogna sfacciata. C'era stata pochissima simpatia fra Duraid e il suo vice: Duraid non aveva mai permesso a Nahoot di lavorare sui rotoli di Taita, e soprattutto non gli aveva mai dato accesso al settimo papiro, e questo aveva acceso fra loro un accanito antagonismo. «Spero che chiederà la promozione a direttore, Royan», le disse. «Ha tutte le carte in regola per diventarlo.» «Grazie, Nahoot, è molto gentile. Finora non ho avuto la possibilità di pensare al futuro. Ma non presenterà domanda anche lei?» «Naturalmente.» Nahoot annuì. «Tuttavia ciò non significa che nessun altro debba farlo. Forse mi soffierà l'incarico.» Sorrise con aria compiaciuta e sicura. Royan era una donna in un mondo arabo, e lui era il nipote del ministro. Sapeva di essere favorito. «Amici in competizione?» le chiese. Royan sorrise mestamente. «Amici, almeno. In futuro, avrò bisogno di tutti quelli che potrò trovare.» «Sa di averne molti. Nel dipartimento tutti le sono affezionati.» Questo, almeno, era vero. Nahoot continuò con disinvoltura: «Posso offrirle un passaggio fino al Cairo? Sono sicuro che mio zio non obietterà». «La ringrazio; ma ho la mia macchina, e stanotte devo fermarmi nell'oasi per sbrigare certi affari lasciati in sospeso da Duraid.» In realtà, Royan contava di tornare quella sera stessa all'appartamento di Giza; tuttavia, per ragioni di cui non era molto sicura lei stessa, voleva che Nahoot rimanesse all'oscuro delle sue intenzioni. «Allora ci vediamo lunedì al museo.» Royan lasciò l'oasi appena riuscì a sottrarsi ai parenti, agli amici di famiglia e ai contadini, molti dei quali avevano a lungo lavorato per la Wilbur Smith
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famiglia di Duraid. Si sentiva stordita e isolata: le condoglianze e le parole di consolazione le sembravano del tutto prive di significato. Nonostante l'ora tarda, la strada che attraversava il deserto era trafficata: file e file di veicoli viaggiavano in entrambe le direzioni. Royan sfilò il braccio ferito dalla benda che lo sosteneva perché non la impacciasse mentre guidava e procedette ad andatura sostenuta. Erano le cinque del pomeriggio passate quando scorse la linea verde sullo sfondo scabro del deserto: l'inizio della stretta fascia di terra irrigata e coltivata lungo il Nilo, la grande arteria dell'Egitto. Come sempre il traffico diventò più intenso nei pressi della capitale: era ormai quasi buio quando arrivò a Giza, nell'appartamento affacciato sul fiume e sui grandi monumenti di pietra, che spiccavano in tutta la loro maestosità contro il cielo serotino. Quei monumenti rappresentavano per Royan il cuore e la storia della sua terra. Lasciò la vecchia Renault verde di Duraid nel garage sotterraneo del palazzo e salì con l'ascensore all'ultimo piano. Entrò nell'appartamento e rimase immobile sulla soglia. Qualcuno aveva messo a soqquadro il salotto; persino i tappeti erano stati spostati, e i quadri giacevano a terra. Stordita, avanzò fra i mobili sfasciati e i ninnoli rotti. Mentre procedeva nel corridoio, guardò nella camera da letto e vide che anche lì la situazione non era diversa. I suoi capi di vestiario e quelli di Duraid erano sparpagliati sul pavimento e le ante degli armadi erano socchiuse; una era stata divelta dai cardini. Il letto era rovesciato e le lenzuola e i cuscini erano stati gettati tutto intorno. Sentì l'odore che proveniva dalle boccette di profumo e dai barattoli di cosmetici frantumati nel bagno, ma non ebbe il coraggio di entrare. Sapeva già che cosa avrebbe trovato. Proseguì nel corridoio fino alla grande stanza che serviva da studio e da laboratorio. Nel caos, la prima cosa che notò, con una fitta di rammarico, fu lo scempio compiuto dai vandali ai danni dell'antica scacchiera che Duraid le aveva regalato in occasione delle nozze. La scacchiera di caselle di giaietto e di avorio era spaccata a metà e i pezzi erano stati scagliati in giro con violenza tanto rabbiosa quanto inutile. Si chinò e raccolse la regina bianca. La testa era spezzata. Tenne la regina nella mano sana e, muovendosi come una sonnambula, raggiunse la sua scrivania accanto alla finestra. Il computer era fracassato. Avevano sfondato il monitor e fatto a pezzi la tastiera: probabilmente Wilbur Smith
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avevano usato un'accetta. Le bastò un'occhiata per capire che nel disco fisso non era rimasta alcuna informazione. Era irreparabile. Guardò il cassetto dove teneva i dischetti. Come tutti gli altri, era stato tolto e buttato sul pavimento. E tutti erano vuoti, naturalmente: oltre ai floppy erano spariti i quaderni e le fotografie. Gli ultimi legami con il settimo papiro erano scomparsi. Dopo tre anni di lavoro, era sparita persino la prova della sua esistenza. Royan si accasciò sul pavimento. Si sentiva sconfitta ed esausta. Il braccio ricominciava a farle male, era sola e vulnerabile come non era mai stata in vita sua. Non aveva mai pensato che avrebbe sentito così disperatamente la mancanza di Duraid. Le spalle cominciarono a tremarle, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Cercò di dominarle, ma le bruciavano le palpebre. Le lasciò scorrere. Rimase seduta in mezzo alle macerie della sua vita e pianse fino a quando non si sentì completamente svuotata. Poi si raggomitolò sulla moquette e sprofondò in un sonno di spossatezza e di disperazione. Il lunedì mattina era riuscita a ristabilire un minimo d'ordine nella sua vita. I poliziotti erano venuti nell'appartamento a raccogliere la denuncia, e lei aveva rimediato a gran parte del disordine. Aveva persino incollato la testa alla regina bianca. Quando uscì dall'appartamento e salì sulla Renault verde il braccio le faceva meno male. Si sentì più ottimista, sicura di ciò che doveva fare. Arrivò al museo; per prima cosa andò nell'ufficio di Duraid e s'irritò nel vedere che Nahoot era già lì e stava impartendo ordini a due guardie della sicurezza per portar via gli effetti personali del morto. «Poteva essere così gentile da lasciar fare a me», esordì Royan in tono freddo. Nahoot le rivolse il suo sorriso più accattivante. «Mi scusi... Volevo rendermi utile...» Fumava una grossa sigaretta turca, e Royan detestava quell'odore pesante, muschiato. Andò alla scrivania di Duraid e aprì il cassetto in alto a destra. «Qui c'era l'agenda di mio marito, e adesso non c'è più. L'ha vista?» «No, nel cassetto non c'era niente.» Nahoot guardò i due agenti per avere conferma e quelli scossero la testa. Non aveva molta importanza, pensò Royan: l'agenda non conteneva alcunché d'interessante. Duraid aveva sempre contato su di lei perché registrasse e immagazzinasse i dati di rilievo, e quasi tutti erano nel suo computer. Wilbur Smith
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«Grazie, Nahoot», disse. «Farò quel che resta da fare. Non voglio trattenerla.» «Se ha bisogno d'aiuto, Royan, me lo faccia sapere.» Nahoot accennò un inchino e uscì. La donna non impiegò molto tempo per ultimare il lavoro nell'ufficio di Duraid. Chiese alle guardie di portare le scatole nel suo ufficio e di accatastarle contro il muro. Lavorò anche durante l'ora di pranzo per sistemare tutto; quando ebbe finito, le restava un'ora prima dell'appuntamento con Atalan Abou Sin. Se doveva mantenere la promessa fatta a Duraid, sarebbe rimasta assente per diverso tempo, e quindi voleva congedarsi dai suoi tesori prediletti. Quindi si diresse verso quella zona dell'enorme costruzione che era accessibile al pubblico. Martedì era una giornata di gran folla, e le sale del museo erano piene di gruppi di turisti che seguivano le guide come le pecore seguono il pastore. S'intruppavano intorno ai reperti più famosi e ascoltavano le guide che recitavano in tutte le lingue le spiegazioni imparate a memoria. Royan passò in mezzo a quel mare di braccia e di volti bruciati dal sole. Uomini e donne sfoggiavano gli stili, i colori e le sgraziate Reebook caratteristici dei turisti di tutto il mondo. Le sale del piano che ospitava i tesori di Tutankhamon erano così affollate che Royan vi trascorse pochissimo tempo. Riuscì a raggiungere la vetrina che conteneva la maschera aurea del faraone adolescente e, come sempre, lo splendore e la carica romantica di quell'oggetto le fecero battere più forte il cuore. Eppure, mentre gli stava davanti, stretta fra due turiste grasse e sudate, per l'ennesima volta si chiese: se un re debole e insignificante è stato sepolto con una maschera così straordinaria sul volto mummificato, con quale fasto devono essere stati deposti nei loro templi funerari i grandi ramessidi? Ramesse II, il più grande di tutti, aveva regnato sessant'anni, accumulando tesori funerari provenienti da tutti gli immensi territori conquistati. Royan andò a rendere omaggio al vecchio re. Dopo trenta secoli Ramesse II dormiva con un'espressione rapita e serena sul viso scarno. La pelle aveva una lieve lucentezza marmorea, le ciocche rade dei capelli erano bionde, tinte con l'henné, e le mani, colorate con la stessa sostanza, erano lunghe, sottili ed eleganti. Tuttavia era coperto solo da uno straccio Wilbur Smith
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di lino. I saccheggiatori di tombe avevano tolto le bende della mummia per impadronirsi degli amuleti e degli scarabei, e il corpo era seminudo. Quando era stato scoperto, nel 1881, nella cachette delle mummie reali nella grotta di Deir el-Bahari, soltanto un pezzo di papiro fissato al petto proclamava la sua identità. Royan pensava che in tutto questo ci fosse una morale: però, mentre stava di fronte a quei miseri resti, si chiese ancora una volta, come aveva fatto tanto spesso Duraid, se lo scriba Taita aveva detto la verità e se quindi, fra le montagne remote dell'Africa selvaggia, un altro grande faraone dormiva indisturbato, circondato dai suoi tesori intatti. Il pensiero le dava brividi di eccitazione e le faceva accapponare la pelle. «Ti ho fatto una promessa, marito mio», mormorò in arabo. «Lo farò per te, perché sei stato tu ad aprire la strada.» Diede un'occhiata all'orologio mentre scendeva la scalinata principale. Le restavano quindici minuti prima dell'appuntamento con il ministro, e sapeva esattamente come avrebbe passato quel tempo. Ciò che intendeva rivedere si trovava in una delle sale laterali meno frequentate. Di rado le guide conducevano lì i turisti, se non per raggiungere più rapidamente la statua di Amenofi. Royan si fermò davanti alla vetrina che andava dal pavimento al soffitto: era piena di piccoli oggetti, utensili e armi e amuleti e vasi e strumenti: i più recenti risalivano alla xx dinastia del Regno Nuovo, e cioè al 1100 avanti Cristo, mentre i più vecchi appartenevano al periodo nebuloso del Regno Antico, intorno al 3000 prima di Cristo. La catalogazione del materiale era approssimativa, e molti dei reperti non erano mai stati descritti. In fondo, sul ripiano più basso, c'erano in mostra gioielli, anelli e sigilli. Accanto a ogni sigillo stava la rispettiva impressione in cera. Royan s'inginocchiò per esaminare uno dei manufatti. Il piccolo sigillo blu di lapislazzuli, al centro, era inciso splendidamente. Il lapislazzuli era per gli antichi una pietra rara e preziosa perché non si trovava nell'impero egizio. L'impronta nella cera raffigurava un falco con un'ala spezzata, e la legenda era chiara: TAITA - SCRIBA DELLA GRANDE REGINA. Sapeva che era lo stesso uomo perché aveva usato il falco ferito come autografo nei rotoli, e Royan si chiedeva chi aveva trovato quel piccolo oggetto e dove fosse stato rinvenuto. Magari qualche contadino l'aveva rubato nella tomba perduta del vecchio schiavo e scriba: ma lei non Wilbur Smith
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l'avrebbe mai accertato. «Mi stai prendendo in giro, Taita? È una frode complicata? In questo momento ridi di me nella tua tomba, dovunque essa sia?» Royan si chinò fino a toccare il vetro con la fronte. «Mi sei amico, Taita, oppure sei il mio avversario implacabile?» Si rialzò e si sistemò la gonna. «Vedremo. Starò al tuo gioco, e vedremo chi dei due sarà più astuto», promise. Il ministro la fece aspettare pochi minuti. Poi il segretario l'accompagnò nello studio. Atalan Abou Sin portava un abito di lucida seta scura ed era seduto alla scrivania, sebbene Royan sapesse che preferiva una veste più comoda e un cuscino posato sui tappeti. Il ministro notò la sua occhiata e sorrise con l'aria di scusarsi. «Ho un incontro con certi americani, questo pomeriggio...» Royan gli era affezionata. Era sempre stato gentile con lei e le aveva fatto ottenere il posto nel museo. Molti uomini nella sua posizione avrebbero opposto un rifiuto alla richiesta di Duraid di avere come assistente una donna, la moglie, per di più. S'informò della sua salute e Royan indicò il braccio fasciato. «Mi toglieranno i punti fra dieci giorni.» Per un po' conversarono educatamente. Solo gli occidentali erano tanto maldestri da venire subito «al sodo». Comunque, per non mettere in imbarazzo il ministro, Royan approfittò della prima occasione per spiegargli le sue intenzioni. «Ho bisogno di restare sola per un po', di riprendermi dalla perdita di mio marito e di decidere che cosa fare, ora che sono vedova. Le sarei grata se prendesse in considerazione la mia richiesta di sei mesi di congedo non retribuito. Voglio andare da mia madre, in Inghilterra.» Atalan si dimostrò premuroso. «La prego, non ci lasci per troppo tempo. Il suo lavoro è stato prezioso. Abbiamo bisogno di lei perché ci aiuti a continuare l'opera di Duraid.» Tuttavia non riuscì a nascondere del tutto il sollievo. Royan sapeva che si era aspettato di vederla presentare la domanda per ottenere la direzione. Di certo il ministro ne aveva discusso con il nipote, però era troppo gentile per trovare soddisfazione nel dirle che l'incarico non le sarebbe stato assegnato. La realtà dell'Egitto stava cambiando, molte donne occupavano posizioni diverse da quelle tradizionali, ma in misura limitata e comunque piuttosto lentamente. Sia Atalan sia Royan sapevano che la direzione doveva essere affidata a Nahoot Guddabi. Wilbur Smith
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Il ministro l'accompagnò alla porta dell'ufficio e le strinse la mano. Quando entrò nell'ascensore, Royan provò un senso di liberazione. Aveva lasciato la Renault al sole nel parcheggio del ministero. Aprì la portiera: all'interno il calore era così intenso che avrebbe potuto cuocervi il pane. Aprì tutti i finestrini e smosse la portiera per scacciare l'aria surriscaldata, ma il sedile le scottò le cosce quando si mise al volante. Appena uscì dal cancello fu inghiottita dal traffico del Cairo. Si accodò a un autobus sovraccarico che eruttava di continuo nubi di fumo bluastro contro la Renault. Il problema del traffico sembrava non avere soluzione. Lo spazio per parcheggiare era così scarso che i veicoli erano fermi sul bordo della strada in triplice o quadruplice fila, e riducevano a un rigagnolo il flusso al centro. Quando l'autobus che la precedeva frenò, costringendola a fermarsi, Royan sorrise al ricordo di un vecchio aneddoto: si diceva che certi automobilisti, dopo aver parcheggiato accanto al marciapiede, erano stati costretti ad abbandonare le loro macchine perché impossibilitati a districarle dal caos. Forse c'era un pizzico di verità nella storiella, perché qualcuna delle auto che vedeva non si era palesemente mossa da settimane. I parabrezza erano coperti di polvere e molte gomme erano sgonfie. Diede un'occhiata allo specchietto retrovisore. C'era un taxi bloccato a pochi centimetri dal suo paraurti posteriore e, dietro a quello, il traffico era fermo. Solo i motociclisti avevano libertà di movimento. Mentre Royan continuava a guardare nello specchietto, ne vide uno che serpeggiava nell'ingorgo con una spericolatezza da suicida. Era in sella a una Honda 200 rossa piuttosto malconcia, e così coperta di polvere che il colore si riconosceva a stento. Sul sellino posteriore c'era un passeggero e sia lui sia il guidatore avevano metà della faccia nascosta dai lembi dei copricapi bianchi per ripararsi dalla polvere e dai gas di scarico. La Honda passò sulla destra, infilandosi nello stretto varco fra il taxi e le macchine parcheggiate. Il taxista fece un gesto osceno con pollice e indice e invocò Allah a testimone del fatto che il motociclista era pazzo e scemo. La Honda rallentò leggermente quando arrivò a fianco della Renault verde. Il passeggero si sporse, gettò qualcosa attraverso il finestrino aperto e lo lasciò cadere sul sedile accanto a quello di Royan. Poi l'uomo alla guida della moto accelerò così bruscamente che la Honda s'impennò, svoltò e s'infilò in un vicolo, evitando per un soffio d'investire una vecchia. Quando il passeggero si voltò a guardarla, il vento scostò il lembo di Wilbur Smith
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stoffa bianca: allora Royan riconobbe l'uomo che aveva visto per l'ultima volta nella luce dei fari della Fiat, sulla strada che fiancheggiava l'oasi. «Yusuf !» Mentre la Honda spariva, Royan abbassò lo sguardo sull'oggetto che aveva lasciato cadere sul sedile. Aveva la forma di un uovo e la superficie metallica segmentata era dipinta di un verde militare. Aveva visto tanto spesso oggetti come quelli nei vecchi film di guerra alla televisione che la riconobbe immediatamente: era una bomba a mano, e nello stesso istante si accorse che la sicura a spillo era stata tolta e che sarebbe esplosa tra pochi secondi. Senza riflettere, afferrò la maniglia della portiera e spinse con tutto il suo peso. La portiera si spalancò, Royan si lanciò sulla strada, il piede le scivolò sull'acceleratore e la Renault fece un balzo in avanti, andando a sbattere contro la parte posteriore dell'autobus. E mentre Royan finiva lunga distesa sulla strada, sotto le ruote del taxi, la bomba esplose. Dalla portiera aperta uscirono una vampata, una colonna di fumo e una pioggia di frammenti. Il finestrino posteriore andò in pezzi e la tempestò di schegge di vetro, mentre il rombo della detonazione le trafiggeva dolorosamente i timpani. Al fortissimo rumore fece seguito un silenzio rotto solo dal tintinnio dei frammenti di vetro che cadevano. Poi venne un tumulto di urla e di lamenti. Royan si sollevò a sedere e si strinse al petto il braccio ferito: c'era caduta sopra con tutto il suo peso e i punti di sutura le facevano un gran male. La Renault era semidistrutta, ma la borsa a tracolla era stata scagliata fuori della portiera, finendo sulla strada. La donna si rialzò barcollando e si mosse a fatica per raccoglierla. Tutto intorno dilagava la confusione. Qualche passeggero dell'autobus era stato ferito e un frammento aveva colpito una bambina che stava camminando sul marciapiede. La madre urlava e asciugava con la sciarpa il viso insanguinato della figlioletta che si dibatteva e gemeva disperata. Nessuno badava a Royan, però lei sapeva che la polizia sarebbe arrivata entro pochi minuti: era sempre in stato di allerta per reagire prontamente agli attentati dei fondamentalisti. Sapeva che se l'avessero trovata sul posto l'avrebbero bloccata per giorni e giorni per interrogarla. Si mise la borsa in spalla e si avviò con tutta la rapidità consentita dalla gamba ammaccata verso il vicolo dov'era sparita la Honda. In fondo alla strada c'era un bagno pubblico. Si chiuse in un gabinetto, si Wilbur Smith
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appoggiò alla porta e cercò di riprendersi dallo shock. Doveva far ordine nei propri pensieri. Sopraffatta dall'orrore e dalla desolazione dell'uccisione di Duraid, non aveva pensato ai rischi che lei stessa correva. E la consapevolezza del pericolo in cui si trovava era giunta nel modo più feroce. Le vennero in mente le parole che uno dei sicari aveva pronunciato nell'oscurità in riva al lago: «Sappiamo dove trovare la donna, più tardi». L'attentato era fallito per poco, e certamente ce ne sarebbe stato un altro. «Non posso tornare all'appartamento», pensò, «e neppure alla villa, che ormai è distrutta... Senza contare che mi cercherebbero subito laggiù...» Ignorando il fetore che la circondava, Royan restò chiusa nel gabinetto per più di un'ora, valutando i suoi prossimi movimenti. Quando ne uscì, si diresse verso i lavabo malconci. Si pulì la faccia sotto il rubinetto, si pettinò, rinfrescò il trucco, e si rassettò l'abito meglio che poteva. Percorse a piedi qualche isolato; tornò indietro e si guardò alle spalle per essere certa di non essere seguita prima di fermare un taxi. Si fece lasciare nella via dietro la sua banca e fece l'ultimo tratto a piedi. Mancavano pochi minuti alla chiusura quando la fecero entrare nell'ufficio del vice cassiere. Ritirò tutto il denaro che c'era sul suo conto e che ammontava a meno di cinquemila lire egiziane. Non era una gran somma, ma Royan aveva un deposito anche presso la Lloyds Bank di York, nonché la Mastercard. «Avrebbe dovuto preavvertirci, per ritirare qualcosa dal deposito», disse in tono severo il funzionario. Royan si scusò e recitò la parte della bambina smarrita in modo così convincente che quello si rabbonì e le consegnò il pacchetto con il passaporto britannico e i documenti bancari della Lloyds. Duraid aveva molti parenti e amici che sarebbero stati lieti di ospitarla; tuttavia lei preferiva restare nell'ombra, lontana dai luoghi che frequentava abitualmente. Scelse uno degli alberghi a due stelle per turisti lontano dal fiume, dove sperava di passare inosservata in mezzo alle comitive di stranieri. In quel genere di alberghi il ricambio dei clienti era continuo; quasi tutti si fermavano per poche notti prima di proseguire per Luxor e Assuan e visitare i monumenti. Non appena rimase sola nella camera singola telefonò all'ufficio prenotazioni della British Airways. C'era un volo per Heathrow l'indomani mattina alle dieci. Prenotò un biglietto di sola andata in classe economica e Wilbur Smith
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diede il numero della sua Mastercard. Ormai erano le sei passate, ma la differenza oraria fra l'Egitto e la Gran Bretagna significava che avrebbe trovato ancora gli uffici aperti. Controllò il numero nella rubrica: l'università di Leeds, dove aveva completato gli studi. Ebbe risposta al terzo squillo. «Facoltà di Archeologia, ufficio del professor Dixon», disse una voce austera da maestrina inglese. «E lei, signorina Higgins?» «Sì. Con chi parlo?» «Sono Royan. Royan Al Simma... Royan Said.» «Royan! Non la sentivamo da un secolo! Come sta?» Chiacchierarono per un po', ma Royan pensava a quanto sarebbe costata la telefonata. «C'è il professore?» chiese a un certo punto. Il professor Percival Dixon aveva più di settant'anni e avrebbe dovuto andare in pensione da tempo. «Royan, è proprio lei? La mia allieva preferita!» Royan sorrise. Anche alla sua età, Dixon era rimasto un libertino. Tutte le studentesse carine erano le sue preferite. «È una telefonata internazionale, professore. Voglio sapere se la sua offerta è ancora valida.» «Santo cielo, pensavo che avesse detto che non era possibile. Come?» «La situazione è cambiata. Le racconterò tutto quando ci vedremo... se ci vedremo.» «Certo, saremmo felici se venisse a parlare con noi. Quando può partire?» «Sarò in Inghilterra domani.» «Santo cielo, è un po' un'improvvisata. Non so se possiamo organizzare tanto in fretta...» «Sarò ospite di mia madre, che vive nei pressi di York. Mi passi di nuovo la signorina Higgins: le darò il numero del telefono.» Dixon era uno degli uomini più geniali che conosceva, però era capacissimo di scrivere in modo sbagliato un numero telefonico. «La chiamerò fra qualche giorno.» Riattaccò e si sdraiò sul letto. Era esausta e il braccio le faceva male, ma cercò di stendere i suoi piani in modo da includere tutte le eventualità. Due mesi prima il professor Dixon l'aveva invitata a tenere una conferenza sulla scoperta e sullo scavo della tomba della regina Lostris e sul ritrovamento dei papiri. Erano stati quel libro, ovviamente, e soprattutto la nota conclusiva a interessarlo. La pubblicazione aveva Wilbur Smith
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destato grande curiosità. Avevano ricevuto richieste d'informazioni da egittologi professionisti e dilettanti di tutto il mondo, addirittura da Tokyo e Nairobi, e tutti mettevano in discussione l'autenticità del romanzo e la sua base storica. A quel tempo Royan si era opposta all'idea che un autore di narrativa avesse accesso alle trascrizioni, soprattutto perché non erano ancora completate. Pensava che l'operazione avrebbe ridotto un serio argomento di studio e di ricerca al livello di un divertimento popolare, più o meno come aveva fatto Spielberg con la paleontologia in Jurassic Park. Ma, alla fine, si era trovata sola. Persino Duraid si era schierato contro di lei. C'entrava il denaro, ovviamente. Il dipartimento era sempre a corto dei fondi necessari per svolgere le sue attività meno spettacolari. Quando si trattava di un progetto imponente, come quello di spostare i templi di Abu Simbel al di sopra del lago formato dalla diga di Assuan, le nazioni della terra erano pronte a versare decine di milioni di dollari. Le spese operative quotidiane del dipartimento non ottenevano lo stesso appoggio. In ultima analisi, la loro parte di diritti d'autore sul Dio del fiume perché quello era il romanzo - si era dimostrata sufficiente per finanziare quasi un anno di ricerche e di esplorazioni, ma non per questo la posizione di Royan era mutata. L'autore si era concesso troppe libertà con i fatti esposti nei rotoli, e aveva attribuito ai personaggi storici caratteristiche non suffragate da prove. In particolare, pensava Royan, aveva ritratto Taita, l'antico scriba, come un poseur vanaglorioso, e lei se n'era risentita. Certo, se l'autore si era proposto di rendere gli eventi leggibili e gradevoli per un vasto pubblico, in tutta onestà bisognava ammettere che il risultato era ottimo. Tuttavia la preparazione scientifica di Royan si ribellava alla «banalizzazione» di una cosa assolutamente unica e così meravigliosa. Sospirò e scacciò quel pensiero. Il danno era fatto; continuare a rivangarlo serviva soltanto a irritarla. Si dedicò ai problemi più pressanti. Se accettava la proposta da Dixon, allora aveva bisogno delle diapositive che erano tuttora nel suo ufficio al museo. E, mentre stava ancora cercando il sistema migliore per entrarne in possesso senza andare a prenderle personalmente, lo sfinimento la vinse. Si addormentò sul letto, completamente vestita. Alla fine la soluzione del problema risultò semplicissima. Telefonò Wilbur Smith
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all'amministrazione e chiese che la scatola con le diapositive le venisse recapitata all'aeroporto per mezzo di un segretario. E così avvenne. Tuttavia, nel consegnarle la scatola al banco del checkin della British Airways, l'incaricato del museo non poté esimersi dall'informarla di ciò che era accaduto. «Quando abbiamo aperto, questa mattina, quelli della polizia sono venuti al museo», le disse. «Volevano parlare con lei, dottoressa.» Evidentemente avevano accertato a chi era intestata la Renault distrutta. Royan ringraziò il cielo perché aveva il suo passaporto britannico: se avesse cercato di lasciare il Paese con quello egiziano l'avrebbero fermata. Probabilmente la polizia aveva dato disposizione a tutti gli uffici immigrazione. Passò il controllo passaporti senza difficoltà e poi, quando arrivò nella zona partenze, andò all'edicola e studiò i giornali. Tutti i quotidiani locali pubblicavano la notizia dell'attentato contro la sua macchina, e quasi tutti avevano ripreso anche l'assassinio di Duraid, istituendo un legame fra i due avvenimenti. Un giornale alludeva a un coinvolgimento dei fondamentalisti. El Arab portava in prima pagina una grande foto di Royan e Duraid, fatta il mese prima in occasione di un ricevimento organizzato per un gruppo di tour operator francesi. Royan provò una stretta al cuore nel vedere la foto del marito, bello e distinto, con lei che gli teneva il braccio sorridendo. Acquistò tutti i giornali, e li portò a bordo dell'aereo. Durante il volo, passò il tempo scrivendo sul taccuino tutto ciò che Duraid le aveva detto a proposito dell'uomo che ora doveva trovare. Duraid le aveva spiegato che il bisnonno di Nicholas aveva avuto il titolo di baronetto per la sua carriera di ufficiale nel servizio coloniale britannico. Da tre generazioni la famiglia aveva mantenuto stretti legami con l'Africa e soprattutto con le colonie britanniche del nord, l'Egitto, il Sudan, l'Uganda e il Kenya. Secondo Duraid, anche sir Nicholas aveva prestato servizio in Africa e negli Stati del Golfo con l'esercito del suo Paese. Parlava correntemente l'arabo e lo swahili ed era un rispettabile archeologo nonché zoologo dilettante. Come suo padre, suo nonno e il suo bisnonno, aveva fatto numerose spedizioni nel Nord-africa per raccogliere esemplari ed esplorare le regioni più remote. Aveva scritto diversi articoli per varie pubblicazioni scientifiche e aveva persino tenuto alcune conferenze alla Royal Geographical Society. Quando il fratello maggiore era morto senza lasciare figli, sir Nicholas Wilbur Smith
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aveva ereditato il titolo e la tenuta di famiglia a Quenton Park. Aveva rassegnato le dimissioni dall'esercito per dirigere la proprietà, ma soprattutto per occuparsi del museo creato nel 1885 dal bisnonno, il primo baronetto. Il museo ospitava una delle maggiori collezioni private di fauna africana, e altrettanto famosa era la collezione di manufatti dell'Egitto e del Medio Oriente. Dai racconti di Duraid, tuttavia, Royan aveva dedotto che nel carattere di sir Nicholas doveva esserci una vena avventurosa al limite della legalità. Evidentemente non aveva paura di correre grossi rischi pur di arricchire la collezione di Quenton Park. Duraid lo aveva conosciuto diversi anni prima, quando sir Nicholas l'aveva reclutato come agente speciale per una spedizione illecita che aveva lo scopo di «liberare» un certo numero di bronzi punici dalla Libia di Gheddafi. Sir Nicholas ne aveva venduti alcuni per rifarsi delle spese della spedizione, ma i più belli li aveva conservati per la sua collezione privata. In tempi più recenti, c'era stata un'altra spedizione che aveva comportato un attraversamento illegale del confine iracheno per portar via un paio di bassorilievi di pietra sotto il naso di Saddam Hussein. Duraid aveva confidato a Royan che sir Nicholas ne aveva venduto uno per una somma enorme, cinque milioni di dollari, e aveva usato quel denaro per la gestione del museo; ma il secondo bassorilievo, il più bello, era ancora in suo possesso. Le due spedizioni erano avvenute anni prima che Royan conoscesse Duraid e, ascoltando il racconto del marito, lei era rimasta assai impressionata dalla disponibilità di Duraid nei confronti dell'inglese. Sir Nicholas possedeva di certo una notevole capacità di persuasione, giacché, se Duraid e lui fossero stati colti sul fatto, senza dubbio sarebbero entrambi stati giustiziati sommariamente. Come aveva spiegato Duraid, in quelle due occasioni soltanto l'abilità di Nicholas e la rete dei suoi amici e ammiratori sparsi nel Medio Oriente e nel Nord-africa avevano determinato il buon esito delle imprese. «È un po' un diavolo», aveva detto Duraid, scuotendo la testa e tradendo una palese nostalgia per quei momenti così eccitanti. «Ma è utile averlo al fianco quando le cose si mettono al brutto. Abbiamo passato momenti esaltanti, ma, quando ci ripenso, rabbrividisco al pensiero dei rischi che abbiamo corso.» Wilbur Smith
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Royan si era chiesta spesso quali pericoli un collezionista appassionato fosse disposto ad affrontare per esaudire i propri desideri. Sembrava che non ci fosse proporzione tra rischio e ricompensa... Poi sorrise del proprio atteggiamento virtuoso. L'avventura in cui si proponeva di coinvolgere sir Nicholas non era esattamente priva di rischi, e gli avvocati ne avrebbero discusso all'infinito la legalità. Sorrideva ancora quando si addormentò, sopraffatta dalle tensioni degli ultimi giorni. L'hostess la svegliò per raccomandarle di allacciare la cintura: stavano per atterrare all'aeroporto di Heathrow. Dall'aeroporto, Royan telefonò alla madre. «Ciao, mamma, sono io.» «Sì, lo so. Dove sei, tesoro?» Sua madre sembrava imperturbabile come sempre. «A Heathrow. Vengo a stare da te per un po'. Ti va bene?» «Figurati.» Sua madre ridacchiò. «Cambierò le lenzuola al tuo letto. Con che treno arrivi?» «Ho dato un'occhiata all'orario. Ce n'è uno che parte da King's Cross: dovrei essere a York questa sera alle sette.» «Verrò a prenderti alla stazione. Che cos'è successo? Hai litigato con Duraid? È abbastanza vecchio per essere tuo padre. L'avevo detto che non sarebbe durata.» Royan rimase per un attimo in silenzio. Non era il momento giusto per dare spiegazioni. «Ti dirò tutto quando ci vedremo stasera.» Nel buio freddo della sera novembrina, Georgina Lumley aspettava Royan sul marciapiede della stazione. Seduto ai piedi della donna, infagottata nella vecchia giacca Barbour verde, stava Magic, il suo cocker spaniel. I due formavano una coppia inseparabile anche quando non vincevano coppe per le gare di riporto. Agli occhi di Royan rappresentavano un quadretto sereno e piacevole della parte inglese del suo parentado. Georgina le baciò sbrigativamente la guancia. «Non mi sono mai piaciute le smancerie sentimentali», diceva spesso in tono soddisfatto. Prese una delle borse della figlia e la precedette verso il parcheggio e il vecchio Land Rover infangato. Magic fiutò la mano di Royan e scodinzolò. Poi, con fare dignitoso e condiscendente, le permise di accarezzargli la testa; a ogni modo, proprio Wilbur Smith
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come la padrona, non era molto sentimentale. Per un po' viaggiarono in silenzio. Poi Georgina accese una sigaretta e chiese: «Allora, che è successo a Duraid?» Per un momento Royan non riuscì a rispondere: poi la diga cedette e confidò tutto alla madre. C'erano venti minuti di macchina fra la città di York e il piccolo villaggio di Brandsbury, e Royan parlò ininterrottamente. Sua madre si limitava a qualche mormorio d'incoraggiamento e di consolazione; e quando Royan pianse nel raccontare la morte e i funerali di Duraid, Georgina le accarezzò la mano. Era tutto finito quando arrivarono al cottage. Royan s'era sfogata a piangere ed era di nuovo padrona di sé. Mangiarono la cena che Georgina aveva preparato e lasciato nel forno. Royan non riusciva a ricordare quando era stata l'ultima volta che aveva assaggiato il pasticcio di carne e rognone. «E adesso che intendi fare?» chiese Georgina, versando nel suo bicchiere la birra rimasta nella bottiglia. «Per essere sincera, non lo so.» E mentre lo diceva, Royan si chiese malinconicamente perché tante persone usavano quella frase particolare per introdurre una bugia. «Al museo mi hanno dato sei mesi di congedo e il professor Dixon mi ha organizzato una conferenza all'università. Ed è tutto, per il momento.» «Bene», approvò Georgina e si alzò. «Ho messo una borsa d'acqua calda nel tuo letto, e la camera è a tua disposizione per tutto il tempo che vorrai.» Dette da lei, quelle parole corrispondevano a una dichiarazione appassionata di affetto materno. Nei giorni seguenti, Royan riordinò le diapositive e gli appunti per le conferenze. Ogni pomeriggio accompagnava Georgina e Magic a fare lunghe passeggiate in campagna. «Conosci Quenton Park?» chiese alla madre durante una di quelle escursioni. «Abbastanza bene», rispose Georgina con entusiasmo. «Io e Magic ci andiamo quattro o cinque volte a stagione. La selvaggina è di prim'ordine, ci sono i fagiani e le beccacce più belli dello Yorkshire. C'è un percorso che si chiama "The High Larches' ed è famoso: gli uccelli volano così alti da mettere in difficoltà i più abili tiratori d'Inghilterra.» «Conosci il proprietario, sir Nicholas Quenton-Harper?» s'informò Royan. Wilbur Smith
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«Lo vedo qualche volta a caccia. Non lo conosco. Ma è un ottimo tiratore», spiegò Georgina. «Conoscevo il padre prima di sposare papà.» Sorrise in un modo allusivo che sorprese Royan. «Un buon ballerino. Abbiamo ballato qualche giga insieme, e non soltanto sulla pista.» «Mamma, sei scandalosa!» Royan rise. «Oh, lo ero», ammise tranquillamente sua madre. «Ma ormai non mi capitano più molte occasioni.» «Quando andrete di nuovo a Quenton Park, tu e Magic?» «Fra due settimane.» «Vorrei venire con te.» «Certo. Il guardacaccia è sempre in cerca di battitori. Venti sterline e il pranzo più una bottiglia di birra a giornata.» Georgina s'interruppe e squadrò la figlia con aria interrogativa. «Che significa questa storia?» «Ho saputo che nella tenuta c'è un museo privato con una collezione di antichità egizie famose in tutto il mondo. Vorrei dare un'occhiata.» «Non è più aperta al pubblico. Si può visitare solo su invito. Sir Nicholas è un tipo strano, misterioso...» «Non potresti procurarmi un invito?» chiese Royan. Ma Georgina scosse la testa. «Perché non lo chiedi al professor Dixon? Va spesso a caccia a Quenton Park, ed è grande amico di sir Nicholas.» Passarono dieci giorni prima che il professor Dixon fosse pronto. Royan si fece prestare il Land Rover della madre e andò a Leeds. Il professore l'abbracciò calorosamente e la condusse nel suo ufficio per offrirle il tè. Royan provava un senso di nostalgia nel ritrovarsi in quella stanza piena di libri, carte e manufatti antichi. Parlò a Dixon dell'assassinio di Duraid e il professore ne fu sconvolto al punto da indurla a cambiare repentinamente argomento. Si concentrarono sulle diapositive che Royan aveva preparato per la conferenza. Dixon rimase affascinato da ciò che lei gli mostrava. Fu solo poco prima di congedarsi che Royan ebbe l'occasione di affrontare l'argomento del museo di Quenton Park. Dixon non si dimostrò affatto reticente. «Mi sorprende che non l'abbia visitato quando studiava qui. E una collezione sensazionale, incominciata dalla famiglia più di un secolo fa. Ecco, andrò a caccia nella tenuta giovedì prossimo, e parlerò con Nicholas, Wilbur Smith
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anche se quel poveretto al momento non è nelle condizioni migliori. L'anno scorso ha vissuto una spaventosa tragedia personale. Ha perduto la moglie e due figliolette in un incidente d'auto sulla MI.» Scosse la testa. «Molto doloroso. C'era Nicholas, al volante. Penso che si ritenga responsabile.» Dixon accompagnò Royan al Land Rover. «Dunque, ci vediamo il ventitré», disse nel salutarla. «Immagino che saranno presenti almeno cento persone, e chiamerò anche un cronista dello Yorkshire Post. Hanno sentito parlare delle sue conferenze e vogliono intervistarla. Ottima propaganda per la facoltà. Lei accetterà, vero? Se potesse venire con un paio d'ore d'anticipo per l'intervista...» «Probabilmente ci vedremo prima del ventitré», lo interruppe Royan. «Mia madre e il suo cane andranno a caccia a Quenton Park giovedì prossimo, e lei mi ha fatta ingaggiare come battitore per quella giornata.» «Allora terrò gli occhi aperti», promise Dixon, e la salutò con la mano mentre lei partiva in una nube di fumo. Il vento soffiava gelido dal nord. Le nubi turbinavano una sull'altra, pesanti, bluastre e grigie, così basse che sfioravano le creste della collina: precedevano la bufera. Sotto la vecchia giacca Barbour che Georgina le aveva prestato, Royan indossava tre maglioni, eppure continuava a rabbrividire. Era troppo abituata al caldo della valle del Nilo: e due paia di calzettoni da pescatore non bastavano a evitare che il freddo le intorpidisse i piedi. Per quel percorso, l'ultimo della giornata, il capo guardacaccia aveva spostato Georgina dalla solita posizione dietro la linea dei fucili, dove lei e Magic dovevano prendere gli uccelli feriti, alla linea dei battitori. Avevano tenuto per ultimo il meglio, e stavano battendo «The High Larches». Il guardacaccia aveva bisogno della collaborazione di tutti coloro che poteva inserire nella linea per stanare i fagiani dell'ampio tratto di terreno in cima alle colline e spingerli a lanciarsi in volo sopra la valle dove i tiratori attendevano nelle loro postazioni. A Royan quel comportamento pareva assai illogico: che senso aveva allevare e nutrire i fagiani fin da piccoli e poi, quando erano adulti, compiere tanti sforzi per far sì che fosse difficile colpirli? Georgina però le aveva spiegato che più gli uccelli passavano in alto e più i cacciatori erano soddisfatti e disposti a pagare per il privilegio di ucciderli. «Non puoi immaginare quanto sono disposti a spendere per una giornata Wilbur Smith
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di caccia», aveva detto alla figlia. «Oggi, per esempio, nelle casse della tenuta entreranno quasi quattordicimila sterline. La caccia costituisce una parte importante del reddito. A parte il divertimento di lavorare con i cani e i battitori, è una cosa che rende bene a molti abitanti della zona.» Al punto in cui era arrivata, Royan non era sicura che fosse granché piacevole svolgere mansioni di battitore. Camminare in mezzo ai rovi fitti era difficile; era scivolata più di una volta e aveva i gomiti e le ginocchia infangati. Il fosso che le stava davanti era pieno per metà d'acqua, e sulla superficie c'era uno strato sottile di ghiaccio. Si avvicinò con fare impacciato, usando il bastone per tenersi in equilibrio. Era stanca perché avevano già fatto cinque percorsi altrettanto faticosi. Guardò la madre e si meravigliò nel vedere che aveva l'aria di gradire quella tortura. Camminava felice, dando ordini a Magic con un fischietto e facendogli segnali con le mani. Sorrise a Royan. «E' l'ultima tappa, tesoro. Ormai è quasi finito.» Royan si sentiva umiliata all'idea che il suo disagio apparisse così evidente, e si servì del bastone per scavalcare il fosso fangoso. Ma sbagliò a calcolarne la larghezza e finì nell'acqua gelida che le arrivava alle ginocchia e che entrò fin dentro i suoi stivali alla Wellington. Georgina rise e le tese l'estremità del suo bastone per aiutarla a uscire dal fango. Royan non poteva fermarsi a vuotare gli stivali - avrebbe fatto perdere tempo alla linea -, quindi proseguì. «Fermi sulla sinistra!» L'ordine del capo guardacaccia fu trasmesso attraverso il walkie-talkie, e la linea si arrestò, obbediente. L'abilità del guardacaccia consisteva nel far alzare in volo gli uccelli dal fitto sottobosco non in uno stormo ammassato bensì in un flusso costante che doveva passare sopra i cacciatori appostati e lasciar loro la possibilità, dopo che avevano sparato con una doppietta, di prendere la seconda dall'addetto alla ricarica e di tenersi pronti in attesa che un altro uccello apparisse nel cielo. L'entità delle mance incassate dal guardacaccia e la sua reputazione dipendevano dal modo in cui «mostrava» gli uccelli ai cacciatori appostati. Durante quella breve pausa, Royan poté riprendere fiato e guardarsi intorno. Attraverso un varco nel boschetto di larici che dava il nome al percorso, poteva vedere la valle. Ai piedi delle colline c'era un grande prato: la distesa dell'erba verde era interrotta da tratti di neve grigiastra, rimasta lì dalla settimana precedente. Wilbur Smith
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In fondo al prato, il guardacaccia aveva piantato una fila di paletti numerati. All'inizio della caccia i partecipanti avevano tirato a sorte per decidere il numero dei paletti da cui avrebbe sparato ognuno di loro. Adesso ognuno stava accanto al proprio paletto, con l'addetto alla ricarica che teneva pronto il secondo fucile per consegnarglielo non appena il primo fosse rimasto scarico. Tutti guardavano con attenzione l'altura da cui sarebbero venuti i fagiani. «Qual è sir Nicholas?» chiese Royan alla madre, e Georgina indicò l'estremità più vicina della fila dei cacciatori. «Quello alto», rispose; nello stesso momento la voce del guardacaccia ordinò attraverso la radio: «Piano, verso sinistra, ricominciate». I battitori martellarono il suolo con i bastoni. Nessuno gridava o lanciava richiami in quell'operazione delicata. «Avanzate lentamente. Fermatevi appena gli uccelli prendono il volo.» Passo per passo la linea avanzò. Tra i rovi e le felci davanti a lei, Royan sentì il movimento furtivo di numerosi fagiani che avanzavano, riluttanti a involarsi fino a che non venivano costretti a farlo. Sul percorso dei battitori c'era un altro fosso, invaso da una macchia quasi impenetrabile di rovi. Alcuni dei cani più grossi, come i labrador, esitavano ad avventurarsi nella barriera spinosa. Georgina fischiò e Magic rizzò le orecchie. Era bagnato fradicio e il suo mantello era un intriso di fango, lappe e spine. La lingua rosata gli pendeva dall'angolo della bocca, la coda ondeggiava. In quel momento era il cane più felice di tutta l'Inghilterra: faceva il lavoro per il quale era stato allevato. «Su, Magic», ordinò Georgina. «Vai là dentro e stanali.» Magic si tuffò nel tratto più folto e spinoso e sparì. Per un minuto, si sentì sbuffare e cercare nel fosso: poi vi furono uno starnazzare violento e un frullo d'ali. Due fagiani parvero esplodere dai cespugli. La prima era la femmina, una creatura di misero aspetto e della grandezza di una gallina; ma il maschio che la seguiva da vicino era magnifico. La testa aveva una calotta di verde iridescente, mentre le guance e i barbigli erano scarlatti. La coda, a fasce cannella e nere, era lunga quasi quanto il corpo, e il resto del piumaggio formava una tavolozza di colori smaglianti. Mentre s'innalzava in volo, luccicava contro il cielo grigio come una gemma inestimabile lanciata dalla mano di un imperatore. Royan soffocò un'esclamazione di fronte a tanta bellezza. Wilbur Smith
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«Guarda come vanno!» La voce di Georgina era carica di eccitazione. «Che coppia di crackerjack! La coppia più bella che si sia vista oggi. Scommetto che nessuno dei cacciatori le toccherà una sola piuma.» I due fagiani volarono in alto, sempre più in alto, la femmina seguita dal maschio, fino a che all'improvviso una potente folata non li prese entrambi, lanciandoli lontano, sopra la valle. I battitori si godettero quel momento: avevano faticato molto per arrivarci. Mentre il vento disperdeva le loro voci, incitarono gli uccelli a proseguire: amavano vedere un fagiano che, con il suo volo alto e veloce, riusciva a frustrare le aspettative dei cacciatori. «Avanti!» esclamarono. «Via!» Questa volta la linea si arrestò spontaneamente: tutti seguivano il volo della coppia che procedeva nel vento. Nel fondovalle i cacciatori avevano alzato la testa, e i loro visi non erano che pallide macchioline sullo sfondo verde. Con trepidazione quasi palpabile, guardarono i fagiani raggiungere la velocità massima: a un certo punto non poterono più battere le ali e le bloccarono in un profilo proteso all'indietro mentre cominciavano a scendere nella valle. Era il tiro più difficile che potesse capitare: una coppia di fagiani che volavano alti con un vento di bufera in coda e poi scendevano, passando sopra la linea dei cacciatori in modo da essere quasi fuori portata per una doppietta calibro dodici. Per gli uomini schierati sul prato si trattava di calcolare velocità e direzione nelle tre dimensioni dello spazio. Il tiratore più abile poteva sperare di colpirne uno: ma chi avrebbe osato pensare di centrarli entrambi? «Scommetto una sterlina!» gridò Georgina. «Una sterlina che ce la faranno tutti e due a passare.» Ma nessuno dei battitori accettò la scommessa. Il vento spingeva dolcemente i fagiani di lato. Erano partiti diretti verso il centro della linea, ma adesso stavano andando alla deriva verso l'estremità più lontana. Royan vide i cacciatori che si preparavano quando sembrò che i fagiani si dirigessero verso di loro, per poi rilassarsi nel momento in cui una folata spinse in avanti i volatili. Il sollievo degli uomini schierati era evidente: uno dopo l'altro si sentivano esentati dalla sfida di provare quel tiro impossibile sotto gli sguardi attenti dei compagni di caccia. Alla fine, sulla linea di volo dei fagiani, rimase solo l'uomo alto Wilbur Smith
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all'estremità della fila. «Il fagiano è suo, signore», esclamò in tono irridente uno degli altri cacciatori e Royan si accorse di trattenere istintivamente il respiro. Nicholas Quenton-Harper sembrava ignaro dell'avvicinarsi dei fagiani. Era completamente rilassato, un po' curvo, con la doppietta sotto il braccio destro e le canne puntate verso terra. Nel momento in cui la femmina raggiunse un punto del cielo a sessanta gradi da lui, Nicholas Quenton-Harper si mosse per la prima volta. Con eleganza noncurante alzò la doppietta in un ampio arco. Nell'attimo in cui il calcio gli toccò la guancia e la spalla, sparò. Ma il fucile non smise di muoversi: continuò infatti a descrivere il resto dell'arco. La distanza fece sì che il suono dello sparo tardasse a giungere fino a Royan. Vide le canne che sobbalzavano nel rinculo, e uno sbuffo di fumo azzurrognolo. Poi Nicholas abbassò l'arma, la femmina di fagiano rovesciò la testa all'indietro e chiuse le ali. Non vi fu il solito turbine di piume: era stata colpita alla testa e uccisa sul colpo. E mentre cominciava a precipitare verso terra, Royan sentì il rombo dello sparo. Toccava ora al maschio. Questa volta, quando imbracciò il fucile con lo stesso gesto disinvolto, Nicholas inarcò la schiena per puntarlo in alto, e la sua figura si piegò dalla vita in su come un arco teso. Ancora una volta, all'apice del movimento, la doppietta gli sussultò fra le mani. «Mancato!» pensò Royan con un misto di soddisfazione e di disappunto, mentre il fagiano proseguiva il volo, apparentemente illeso. Era combattuta fra il desiderio che quella creatura mirabile si salvasse e la speranza che l'uomo riuscisse nell'intento. A poco a poco il profilo del fagiano cambiò: il volatile piegò le ali all'indietro e roteò in volo. Royan non poteva sapere che la pallottola gli aveva trapassato il cuore: pochi secondi più tardi morì in aria e le ali bloccate persero la rigidità. Mentre il fagiano precipitava verso terra, un coro spontaneo di acclamazioni risuonò lungo la linea dei battitori, fioco ma entusiastico nel vento gelido del nord. Persino gli altri cacciatori proruppero in grida di elogi: «Bel tiro, signore!» Royan non si associò agli evviva, tuttavia per un momento dimenticò la stanchezza e il freddo. Poteva apprezzare solo in modo vago l'abilità dei due tiri, però era impressionata e quasi intimidita. Era la prima volta che vedeva quell'uomo, eppure le sembrava che corrispondesse alle speranze di Duraid. Wilbur Smith
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Era quasi buio quando l'ultimo percorso terminò. Un vecchio camion militare scese rombando la pista della foresta, lungo la quale attendevano i battitori stanchi e i loro cani, poi rallentò, e tutti si arrampicarono a bordo. Georgina aiutò Royan a salire, poi la seguì insieme a Magic. Sedettero su una delle lunghe panche di legno e Georgina, dopo aver acceso una sigaretta, partecipò alle chiacchiere dei sottoguardacaccia e dei battitori. Royan rimase seduta in silenzio. Era soddisfatta di aver resistito sino alla fine di una giornata così faticosa. Era stanca ma rilassata, e stranamente contenta. Per una giornata intera non aveva pensato al furto dei papiro, all'uccisione di Duraid e al nemico invisibile e sconosciuto che la minacciava di morte. Il camion scese la collina e rallentò quando arrivò in fondo. Si fermò per lasciar passare un Range Rover verde. Quando i due veicoli si affiancarono per un momento, Royan girò la testa, guardò oltre il finestrino aperto del lussuoso fuoristrada e incontrò gli occhi di Nicholas Quenton-Harper, seduto alla guida del mezzo. Era la prima volta che si trovava abbastanza vicina da vederne i lineamenti, e si stupì che fosse così giovane. Si era aspettata un uomo dell'età di Duraid; invece non aveva più di quarant'anni. C'erano solo pochi fili argentei alle tempie dei capelli folti e spettinati. Il volto era abbronzato e segnato dalle intemperie, tipico di un uomo abituato a vivere all'aperto. Gli occhi brillavano, verdi e penetranti sotto le sopracciglia, la bocca era larga ed espressiva. In quel momento sorrideva di una battuta che il conducente del camion gli aveva gridato con il pesante accento dello Yorkshire, ma nei suoi occhi c'era un senso di tristezza e di tragedia. La donna rammentò ciò che le aveva detto il professor Dixon: QuentonHarper aveva perduto da poco la moglie e due figlie. Royan provava pena per lui. «Non sono la sola a soffrire», pensò. Quenton-Harper la guardò dritto negli occhi, e lei lo vide cambiare espressione. Era una donna attraente, e capiva quando un uomo se ne rendeva conto. Aveva fatto colpo, ma non se ne rallegrava. Il dolore per la morte di Duraid era ancora troppo acuto e straziante. Distolse lo sguardo e il Range Rover passò oltre. La conferenza all'università andò benissimo. Royan era una buona parlatrice e ovviamente conosceva bene l'argomento. Affascinò gli ascoltatori con la descrizione dell'apertura della tomba della regina Lostris Wilbur Smith
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e della successiva scoperta dei papiri. Gran parte degli intervenuti aveva letto il libro e, quando si giunse alle domande, furono in molti a voler appurare la veridicità della storia raccontata. Royan dovette rispondere con prudenza, evitando di parlare dell'autore in modo troppo severo. Più tardi il professor Dixon invitò a cena Royan e Georgina. Era felice del successo ottenuto dalla sua ex allieva e ordinò una preziosa bottiglia di chiaretto per festeggiare. Rimase un po' sconcertato quando lei ne rifiutò un bicchiere. «Oh, povero me, avevo dimenticato che è musulmana», disse per scusarsi. «Sono copta», lo corresse Royan. «E non si tratta di un precetto religioso: il sapore non mi piace.» «Non si preoccupi», intervenne Georgina. «Io non ho la stessa tendenza al masochismo di mia figlia. Deve averlo preso dalla famiglia del padre. Le darò una mano a finire quest'ottimo vino.» Sotto l'effetto benigno del chiaretto, il professore diventò espansivo e parlò degli scavi archeologici cui aveva partecipato nel corso di vari decenni. Solo quando arrivarono al caffè si rivolse a Royan. «Santo cielo, quasi dimenticavo di dirglielo. Mi sono accordato perché lei possa andare a visitare il museo di Quenton Park in qualunque pomeriggio di questa settimana. Basterà che il giorno prima telefoni alla signora Street; l'aspetterà. È l'assistente di sir Nicholas.» Royan ricordava il percorso per raggiungere Quenton Park da quando Georgina l'aveva portata là per partecipare alla caccia, ma adesso era sola a bordo del Land Rover. Il cancello principale era di ferro battuto, massiccio e lavorato. Un po' più avanti la strada si divideva, e una serie di cartelli indicava la direzione delle varie destinazioni: QUENTON HALL - PRIVATO, UFFICIO AMMINISTRATIVO e MUSEO. La strada che portava al museo s'incurvava attraverso il parco, dove branchi di cervi pascolavano sotto le querce spoglie. Attraverso la nebbiolina, Royan aveva infine scorto la grande casa. Secondo la guida che il professore le aveva prestato, era stata progettata nel 1693 da sir Christopher Wren, e il grande maestro dell'architettura dei giardini, Capability Brown, aveva creato i giardini sessant'anni più tardi. Il risultato era la perfezione. Il museo sorgeva in un boschetto di faggi, poco meno d'un chilometro oltre la casa. Era una costruzione ampia, evidentemente ingrandita più Wilbur Smith
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volte nel corso degli anni. La signora Street l'attendeva all'entrata laterale. Si presentò mentre la faceva entrare. «Mi chiamo Street.» Era una donna di mezza età con i capelli grigi, molto sicura di sé. «Ho assistito alla sua conferenza, lunedì sera. Affascinante. Le darò una guida ma, come vedrà, i reperti sono ben catalogati e descritti. E un lavoro che mi tiene impegnata da circa vent'anni. Oggi non ci sono altri visitatori, e avrà il museo tutto per lei: lo giri a suo piacere. Me ne andrò stasera alle cinque, quindi avrà tutto il pomeriggio. Se posso esserle utile, il mio ufficio è in fondo a questo corridoio. Non esiti a rivolgersi a me.» Fin dal momento in cui entrò nel settore zoologico africano, Royan provò un senso di stupore e di meraviglia. La sala dei primati ospitava una collezione completa di tutte le specie di scimmie del continente, dal grande gorilla maschio con la schiena argentata al delicato colobo con il lungo manto fluente di pelliccia bianca e nera; sebbene alcuni degli esemplali avessero più d'un secolo, erano conservati e presentati in modo magnifico, inquadrati in diorami dipinti dei rispettivi habitat naturali. Era evidente che il museo doveva avere alle dipendenze un piccolo esercito di artisti e d'imbalsamatori espertissimi. Royan poteva intuire quanto tutto ciò doveva costare, e concluse ironicamente che i cinque milioni di dollari ricavati dalla vendita del bassorilievo rubato erano stati spesi bene. Entrò nella sala delle antilopi e si guardò intorno, rapita dallo spettacolo degli splendidi esemplari lì radunati. Si fermò davanti al diorama d'un gruppo familiare della grande antilope nera della varietà angolana ormai quasi estinta, l'Hippotragus niger variarli. Mentre ammirava il maschio dal manto nerissimo e dal petto bianco con le lunghe corna a scimitarra, si rammaricò che fosse morto per mano di un esponente della famiglia Quenton-Harper. Poi si corresse. Senza la passione del cacciatore collezionista che l'aveva ucciso, forse le generazioni future non avrebbero mai potuto ammirare quell'essere così maestoso. Passò nella sala adiacente, riservata all'elefante africano, e si soffermò al centro, di fronte a una coppia di zanne d'avorio così enormi da sembrare impossibile che fossero appartenute a un animale vivente. Sembravano piuttosto le colonne marmoree di un tempio ellenico dedicato ad Artemide, la dea della caccia. Si chinò a leggere la scheda stampata.
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ZANNE DI ELEFANTE AFRICANO, LOXODONTA AFRICANA. ABBATTUTO NELL'ENCLAVE DI LADO NEL 1899 DA SIR JONATHAN QUENTON-HARPER. PESO ZANNA SINISTRA: 130 KG; PESO ZANNA DESTRA: 135 KG; LUNGHEZZA ZANNA MAGGIORE: 3,45 M; CIRCONFERENZA ZANNA MAGGIORE: 80 CM. SI TRATTA DELLA PIÙ GRANDE COPPIA DI ZANNE MAI PRESA DA UN EUROPEO. Erano alte il doppio di lei, e avevano una circonferenza che superava quella del suo girovita di oltre venti centimetri. Stava ancora riflettendo sulle dimensioni e sulla forza dell'essere cui erano appartenute quelle zanne, quando entrò nella sala egizia. Si fermò di colpo nel vedere la statua al centro della sala: era una figura in lucido granito rosso, alta cinque metri e raffigurava Ramesse II. Il dioimperatore incedeva sulle gambe muscolose, indossando solo i sandali e un gonnellino. Nella mano sinistra portava quel che restava di un arco da guerra: la parte superiore e quella inferiore dell'arma erano spezzate. Ma era l'unico danno che la statua aveva subito in tanti secoli. Il resto era perfetto: il plinto recava addirittura i segni dello scalpello. Nel pugno destro il faraone stringeva un sigillo con il suo cartiglio reale. Sulla testa maestosa spiccava la corona doppia dell'Alto e del Basso Egitto. L'espressione del volto era serena ed enigmatica. Royan riconobbe immediatamente la statua, perché la gemella si trovava nella sala grande del museo del Cairo; le passava davanti ogni giorno per arrivare al suo ufficio. La collera l'assalì. Era uno dei tesori più grandi del suo Egitto, ed era stata rubata da un luogo sacro del suo Paese. Il suo sosto non era lì, bensì sulle rive del grande Nilo. Tremante per 'emozione, Royan si avvicinò per esaminare meglio la statua e leggere l'iscrizione geroglifica alla base. Al centro del cartiglio reale spiccava il monito arrogante: «Io sono il divino Ramesse, signore di diecimila carri. Temetemi, nemici dell'Egitto». Royan non aveva letto a voce alta la traduzione: fu una voce profonda a farlo, una voce che parlò alle sue spalle e la fece trasalire. Non aveva sentito arrivare nessuno. Si girò di scatto e se lo trovò lì, così vicino da poterlo toccare. Teneva le mani affondate nelle tasche di un cardigan blu piuttosto sformato, con un buco in un gomito, e portava un paio di jeans stinti e Wilbur Smith
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pantofole di velluto, lise anche se ornate d'un monogramma. Era quel genere di aristocratica sciatteria coltivato da molti giovani inglesi: preoccuparsi in maniera eccessiva del proprio aspetto veniva considerato volgare. «Mi scusi, non volevo spaventarla.» L'uomo sorrise pigramente. Aveva i denti candidi ma un po' storti. La sua espressione cambiò di colpo quando la riconobbe. «Oh, è lei.» Royan avrebbe dovuto sentirsi lusingata: eppure, negli occhi dell'uomo, c'era un lampo che la offendeva. «Nick Quenton-Harper. E lei dev'essere l'ex allieva di Percival Dixon. Mi sembra di averla vista alla caccia, giovedì scorso. Non faceva da battitrice?» Aveva modi franchi e amichevoli, e Royan si placò un poco. «Sì. Sono Royan Al Simma. Credo che lei conoscesse mio marito Duraid Al Simma.» «Duraid! Certo, lo conosco. Un tipo eccezionale. Abbiamo passato insieme molto tempo nel deserto. Uno dei migliori. Come sta?» «È morto.» Royan non avrebbe voluto mostrarsi così arida, ma quelle furono le sole parole che riuscì a trovare. «Mi rincresce moltissimo. Non lo sapevo. Quando è successo, e come?» «Di recente, tre settimane fa. È stato assassinato.» «Oh, mio Dio.» Royan vide l'espressione di solidarietà nei suoi occhi e ricordò che anche lui aveva sofferto molto. «Gli avevo telefonato al Cairo non più di quattro mesi fa... Hanno scoperto il colpevole?» Lei scosse la testa e distolse lo sguardo nel tentativo di nascondere le lacrime. «Lei ha una collezione veramente straordinaria.» Nicholas accettò di buon grado quel cambio di argomento. «Grazie soprattutto a mio nonno. Era un collaboratore di Evelyn Baring. Baring il presuntuoso, come lo chiamavano i suoi numerosi nemici. Agiva per conto della Gran Bretagna durante...» Royan l'interruppe. «Sì, ho sentito parlare di Evelyn Baring, primo conte di Cromer, console generale britannico dell'Egitto dal 1883 al 1907. Grazie ai pieni poteri che gli erano stati accordati, fu in pratica il dittatore incontrastato del mio Paese per l'intero periodo. E aveva numerosi nemici, come ha detto lei.» Socchiuse leggermente gli occhi. «Dixon mi ha detto che era una dei suoi allievi migliori. Ma non mi aveva avvertito dei suoi sentimenti nazionalisti. È evidente che non aveva bisogno che le traducessi Wilbur Smith
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l'iscrizione di Ramesse.» «Mio padre faceva parte dello stato maggiore di Gamal Abdel Nasser», mormorò lei. Nasser aveva contribuito in maniera decisiva a spodestare il re Faruk nonché a spezzare il potere britannico in Egitto. Più tardi, in qualità di presidente, aveva nazionalizzato il Canale di Suez nonostante lo sdegno degli inglesi. «Ah!» Nicholas Quenton-Harper sorrise. «Siamo sui lati opposti della barricata. Ma la situazione è diversa, ora. Non siamo nemici, vero?» «Oh, no», esclamò lei. «Duraid la stimava moltissimo.» «E anch'io lo stimavo.» Cambiò di nuovo argomento. «Siamo molto orgogliosi della nostra collezione di ushabti reali. Ci sono esemplari provenienti da gran parte delle tombe dei re, a partire dall'Antico Regno fino all'ultimo Tolomeo. Mi permetta di mostrargliele.» Royan lo seguì fino all'enorme vetrina che occupava un'intera parete della sala. C'erano ripiani e ripiani affollati di statuine che anticamente erano state collocate nelle tombe per fungere da servitori e schiavi dei sovrani che si trovavano nel mondo delle ombre. Con una chiave, Nicholas aprì le ante e tese una mano per prendere il più interessante degli oggetti. «Questo è l'ushabti di Maya, che servì sotto tre faraoni, Tutankhamon, Ay e Harmais. Proviene dalla tomba di Ay, che morì nel 1343 circa avanti Cristo.» Le porse la statuina e Royan lesse i geroglifici vecchi di tremila anni come se fossero i titoli del giornale di quel mattino. «Io sono Maya, tesoriere dei due regni. Risponderò per il divino Faraone Ay. Possa egli vivere per sempre!» Parlò in arabo per mettere alla prova Nicholas, il quale rispose nella stessa lingua: «A quanto pare, Percival Dixon mi ha detto la verità. Lei doveva essere un'allieva eccezionale». Assorti in quell'argomento di comune interesse, continuarono a parlare alternativamente in arabo e in inglese, mentre l'antagonismo si andava smorzando. Fecero il giro della sala, indugiando davanti a ogni vetrina per esaminare minuziosamente gli oggetti che vi erano contenuti. Era come se fossero stati trasportati a ritroso nel passato per interi millenni. Le ore e i giorni sembravano avere perso qualsiasi importanza... perciò rimasero sorpresi quando la signora Street venne a interromperli. «Io vado, sir Nicholas. Pensa lei a chiudere e ad attivare l'antifurto? Le guardie della sicurezza sono già in servizio.» Wilbur Smith
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«Ma... che ora è?» esclamò Nicholas, lanciando con un'occhiata al Rolex Submariner d'acciaio che aveva al polso. «Le cinque e quaranta! Il tempo è volato.» Sospirò enfaticamente. «Vada pure, signora Street. Ci scusi se l'abbiamo trattenuta.» «Non dimentichi d'inserire l'allarme», gli raccomandò lei. Poi si rivolse a Royan. «A volte è così distratto quando pensa alle sue passioni.» Il suo affetto per sir Nicholas era chiaramente quello d'una zia indulgente. «Mi ha dato abbastanza ordini per oggi. Sparisca!» disse Nicholas con un sorriso. Poi si rivolse di nuovo a Royan. «Non posso lasciarla andar via senza mostrarle qualcosa che aveva coinvolto anche Duraid. Può restare ancora per qualche minuto?» Royan annuì e lui fece il gesto di prenderle il braccio, ma subito lasciò ricadere la mano. Nel mondo arabo è un insulto toccare una donna, anche in modo casuale e inoffensivo. Royan si accorse del gesto di cortesia, e lo apprezzò. Nicholas la precedette oltre una porta su cui c'era scritto: PRIVATO RISERVATO AL PERSONALE, e imboccò un lungo corridoio in fondo al quale c'era il suo ufficio. «Il sancta sanctorum», scherzò, mentre si scostava per farla passare. «Scusi il caos. Uno di questi anni dovrò decidermi a mettere ordine. Mia moglie aveva l'abitudine di...» S'interruppe e lanciò uno sguardo alla foto incorniciata d'argento che stava sulla scrivania. Nicholas e una bella donna bruna erano seduti su un plaid sotto i rami di una quercia. Con loro c'erano due bambine, e tutte e due somigliavano molto alla madre. La più piccola era sulle ginocchia di Nicholas, la maggiore stava in piedi dietro di loro e teneva per le brighe un pony. Royan guardò Nicholas per un attimo e riconobbe l'angoscia devastante nei suoi occhi. Per non farlo sentire in imbarazzo, si mise a osservare il resto della stanza che evidentemente fungeva da studio e da laboratorio. Era spaziosa e confortevole: si capiva bene che apparteneva a un uomo, e riusciva a illustrare adeguatamente le contraddizioni del proprietario, avventuriero e studioso al contempo. In mezzo ai libri e ai pezzi da museo spiccavano diversi mulinelli e una canna Hardy per la pesca del salmone. Da una fila di ganci fìssati alla parete pendevano una giacca Barbour, una custodia di tela per fucile e una cartucciera di cuoio con le iniziali N. Q.-H. Royan riconobbe alcuni dei quadri incorniciati alle pareti. Erano acquerelli originali dell'Ottocento, opera del viaggiatore scozzese David Roberts, e altri di Vivant de Denon, che aveva accompagnato in Egitto Wilbur Smith
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l'armée de l'orient di Napoleone. Erano vedute affascinanti dei monumenti, eseguite prima degli scavi e dei restauri realizzati in tempi moderni. Nicholas si accostò al camino, gettò un pezzo di legno sulle braci agonizzanti e lo smosse fino a che non si accese. Quindi fece cenno a Royan di portarsi vicino alle grandi tende che coprivano metà di una parete. Con un gesto di prestigiatore, tirò il cordone infiocchettato che apriva le tende ed esclamò soddisfatto: «E di questo che ne pensa?» Royan studiò il magnifico bassorilievo. I particolari erano bellissimi, la realizzazione splendida; ma lei non lasciò trasparire l'ammirazione. Si espresse in tono neutro. «Hammurapi, sesto re della dinastia amorrea, intorno al 1780 avanti Cristo.» Finse di studiare i lineamenti finemente cesellati dell'antico re, prima di continuare. «Sì, probabilmente proviene dal sito del suo palazzo a sud-ovest della ziqqurat di Assur. Doveva essere una coppia di fregi, e valgono all'inarca cinque milioni di dollari ciascuno. Secondo me, sono stati rubati al santimonioso padrone della Mesopotamia moderna, Saddam Hussein, da due bricconi privi di scrupoli. Ho sentito dire che l'altro bassorilievo si trova attualmente nella collezione di un certo Peter Walsh, nel Texas.» Nicholas la fissò, sbalordito, poi scoppiò in una risata. «Accidenti! Avevo fatto giurare a Duraid di mantenere il silenzio, ma lui deve averle parlato della nostra avventuretta.» Era la prima volta che Royan lo sentiva ridere. La risata gli saliva alle labbra con naturalezza, e aveva un suono gradevole e cordiale, privo di affettazione. «Ha ragione per quanto riguarda l'attuale proprietario del secondo fregio», le spiegò. «Ma il prezzo è stato sei milioni, non cinque.» «Duraid mi aveva parlato anche della vostra visita nel massiccio del Tibesti, nel Ciad e nella Libia meridionale», disse Royan, e Nicholas scosse la testa con ironica contrizione. «A quanto pare non ho segreti per lei», commentò. Poi si diresse verso un grande armadio, un magnifico esempio di marqueterie francese, probabilmente del Seicento. Aprì le ante e disse: «Ed ecco quello che Duraid e io portammo via dalla Libia senza il consenso del colonnello Muhammar el-Gheddafi». Prese uno dei bronzetti e glielo porse. Raffigurava una madre che allattava un bambino ed era ricoperto dalla patina verde dell'antichità. Wilbur Smith
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«Annibale, figlio di Amilcare Barca; 203 circa avanti Cristo», disse. «Furono trovati da un gruppo di tuareg in uno dei suoi accampamenti sul fiume Bagradas, l'odierno Medjerda, nel Nord-africa. Annibale doveva averli nascosti prima di essere sconfitto dal generale romano Scipione. C'erano più di duecento bronzetti, e io ne ho ancora cinquanta dei più belli.» «E gli altri li ha venduti?» chiese Royan mentre ammirava la statuetta. Poi continuò in tono di disapprovazione: «Come ha potuto separarsi da oggetti così belli?» Nicholas sospirò, a disagio. «Purtroppo ho dovuto farlo. È triste, ma la spedizione per recuperarli mi è costata un patrimonio. Per coprire le spese sono stato costretto a vendere parte del bottino.» Andò alla scrivania, prese dall'ultimo cassetto una bottiglia di whisky Laphroaig e la posò accanto a due bicchieri. «Posso offrirlo anche a lei?» chiese, ma Royan scosse la testa. «Non le do torto. Persino gli scozzesi ammettono che dovrebbe essere bevuto solo quando c'è una temperatura sottozero, su una collina e mentre soffia la bufera, dopo aver inseguito e abbattuto un cervo di dieci anni. Posso offrirle qualcosa di più indicato per una signora?» «Ha una Coca-Cola?» chiese lei. «Sì, però fa male, anche peggio del Laphroaig. Con quel contenuto di zucchero è davvero un veleno.» Royan prese il bicchiere che le porgeva e lo alzò in un brindisi. «Alla vita!» disse. Poi continuò, a voce più bassa: «Ha ragione. Duraid mi aveva parlato delle statuette...» Rimise il piccolo bronzo punico nell'armadio e tornò verso di lui. «Ed è stato Duraid che mi ha chiesto di parlarle. Pochi istanti prima di morire, mi ha raccomandato di farlo.» «Ah! Quindi non si tratta di una coincidenza. Ho la sensazione di essere la pedina ignara di una partita oscura e nefanda.» Nicholas indicò la sedia davanti alla scrivania. «Sieda», la invitò. «E mi dica tutto.» Si appollaiò sull'angolo della scrivania, con il bicchiere di whisky in una mano e una gamba che dondolava pigramente come la coda di un leopardo in riposo. Sebbene sorridesse, le scrutava il viso con i penetranti occhi verdi, e lei pensò che le sarebbe stato difficile mentirgli. Trasse un respiro profondo. «Ha sentito parlare dell'antica regina egizia Lostris del Secondo periodo intermedio, al tempo delle invasioni degli hyksos...?» Wilbur Smith
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Nicholas rise con un certo sarcasmo e balzò in piedi. «Oh, allora parliamo del Dio del fiume, no?» Andò allo scaffale e prese una copia del romanzo. Sebbene fosse stato molto sfogliato conservava ancora la sovraccoperta sulla quale c'era una veduta sognante e quasi surreale, in sfumature pastello, verde e rosa violaceo, delle piramidi viste dal Nilo. Lo posò sulla scrivania davanti a lei. «L'ha letto?» chiese Royan. «Sì.» Nicholas annuì. «Ho letto quasi tutte le opere di Wilbur Smith. Mi diverte. È venuto un paio di volte a caccia qui a Quenton Park.» «Evidentemente le piacciono le storie in cui il sesso e la violenza la fanno da padrone.» Royan fece una smorfia. «Che ne pensa in particolare di questo libro?» «Devo ammettere che mi ha imbrogliato. Mentre lo leggevo, mi auguravo che si basasse su fatti provati. Perciò avevo telefonato a Duraid.» Nicholas riprese il volume e l'aprì a una delle ultime pagine. «La nota dell'autore era convincente, ma quella che non sono mai riuscito a dimenticare è l'ultima frase...» Lesse ad alta voce: «... e mi rimane l'emozione di pensare che ancora oggi tra le montagne abissine presso la sorgente del Nilo vi sia, intatta, la tomba di un faraone egizio». Nicholas buttò il libro sulla scrivania con un gesto quasi rabbioso. «Mio Dio! Non immagina quanto ho desiderato che fosse vero, e come mi sono augurato di avere la possibilità di scoprire la tomba di Marnose. Dovevo parlare con Duraid. Quando mi assicurò che erano tutte frottole mi sentii defraudato. Le mie attese erano diventate così vive che provai una cocente delusione.» «Non sono frottole», lo contraddisse Royan. Poi si affrettò a correggersi: «Be', almeno non tutto». «Capisco. Allora Duraid mi ha mentito?» «No», ribatté lei, accalorandosi. «Non mentiva: ritardava il momento della verità. Non era ancora pronto a riferirle l'intera storia. Sarebbe stato incapace di rispondere a tutte le domande che lei gli avrebbe rivolto. Intendeva cercarla al momento opportuno. Il suo nome era in cima all'elenco dei potenziali finanziatori.» «Duraid non conosceva le risposte, ma immagino che le conosca lei.» Nicholas sorrideva con aria scettica. «Sono caduto in trappola una volta e non intendo farlo ancora.» «I rotoli esistono. Nove sono ancora nelle camere blindate del museo del Wilbur Smith
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Cairo. Sono stata io a scoprirli nella tomba della regina Lostris.» Royan aprì la borsa a tracolla, vi frugò e prese un mucchietto di foto a colori, formato 15 x 10. Ne scelse una e la porse. «E un'istantanea della parete di fondo della tomba. S'intravedono i vasi di alabastro nella nicchia. Fu scattata prima che li portassimo via.» «È una bella foto, ma potrebbe essere stata fatta dovunque.» Lei ignorò il commento e gli porse un'altra fotografia. «I dieci papiri nel laboratorio di Duraid al museo. Riconosce i due uomini in piedi dietro il banco?» Nicholas annuì. «Duraid e Wilbur Smith.» L'espressione scettica aveva lasciato il posto al dubbio e alla perplessità. «Che diavolo sta cercando di dirmi?» «Sto cercando di dirle che, a parte le numerose licenze poetiche dell'autore, tutto ciò che è scritto nel romanzo ha almeno un fondamento di verità. Comunque il papiro che più ci riguarda è il settimo, quello rubato dagli uomini che hanno ucciso mio marito.» Nicholas si alzò. Si avvicinò al camino, aggiunse un altro pezzo di legna e lo batté rabbiosamente con l'attizzatoio, come se volesse sfogare l'emozione. Parlò senza voltarsi. «Che significato aveva quel particolare papiro rispetto agli altri nove?» «Era quello che conteneva la descrizione della sepoltura del faraone Marnose e, pensiamo, le indicazioni che potrebbero permetterci di trovare la tomba.» «Lo pensa o ne è sicura?» Lui si voltò di scatto, stringendo l'attizzatoio come un'arma. In quello stato d'animo incuteva paura. La bocca era atteggiata in una linea rigida e gli occhi brillavano. «Molti brani del settimo papiro sono scritti in una specie di codice, una serie di versi enigmatici. Duraid e io li stavamo decifrando quando...» S'interruppe e trasse un respiro profondo. «Quando è stato assassinato.» «Ma avrà senza dubbio un copia di un reperto tanto prezioso!» Nicholas la fissò così cupamente da intimidirla. Lei scosse la testa. «Tutti i microfilm e gli appunti sono stati rubati con il rotolo originale. Poi gli assassini di Duraid sono andati nel nostro appartamento al Cairo e hanno distrutto il computer che avevo usato per trascrivere i risultati di tutte le nostre ricerche.» Nicholas buttò l'attizzatoio nel secchio del carbone e tornò alla scrivania. «Quindi non ha l'ombra di una prova. Non ha modo di dimostrare che Wilbur Smith
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quanto ha detto è vero.» «No», ammise lei. «Tranne quel che ho qui dentro.» Si batté l'indice sulla fronte. «E ho un'ottima memoria.» Nicholas si accigliò, passandosi le dita fra i capelli folti e ricci. «Allora perché si è rivolta a me?» «Sono venuta per darle una possibilità di arrivare alla tomba del faraone Marnose», rispose Royan con molta semplicità. «Le interessa?» Di colpo, lui cambiò atteggiamento. Sorrise, come avrebbe potuto sorridere un monello. «In questo momento non c'è altro che desidero di più.» «Allora dovremo concludere un accordo di lavoro», disse lei, con fare deciso. «Anzitutto le dirò che cosa voglio: poi lei farà altrettanto.» Fu un negoziato impegnativo. Era l'una del mattino quando Royan riconobbe di essere esausta. «Non riesco più a pensare in modo lucido. Possiamo ricominciare domattina?» Non avevano ancora raggiunto un accordo. «E già domani mattina», le fece notare lui. «Però ha ragione. Non ci avevo pensato. Può dormire qui. Abbiamo ventisette camere da letto, dopotutto.» «No, grazie.» Royan si alzò. «Andrò a casa.» «Le strade saranno ghiacciate», l'avvertì Nicholas; poi notò la sua espressione irriducibile e alzò le mani in segno di resa. «Sta bene, non insisto. Domani a che ora? Ho un appuntamento alle dieci con i miei legali, però verso mezzogiorno dovrei essere libero. Perché noi due non facciamo un pranzo di lavoro qui? Nel pomeriggio avrei dovuto andare a caccia a Ganton, ma annullerò l'impegno. Così sarò a sua disposizione per tutto il pomeriggio e la sera.» L'incontro fra Nicholas e i suoi legali si svolse l'indomani mattina nella biblioteca di Quenton Hall. Non fu né facile né piacevole, ma lui non si aspettava che lo fosse. Quello era stato l'anno in cui il suo mondo aveva cominciato a crollare. Strinse i denti al ricordo: l'anno si era aperto con quel momento fatale di stanchezza e di disattenzione a mezzanotte su quell'autostrada ghiacciata, e con i fari accecanti del camion che piombava verso di loro. Non si era ancora ripreso dalla sciagura quando aveva subito un nuovo colpo: il rapporto finanziario dei Lloyd's, la famosa compagnia Wilbur Smith
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d'assicurazioni della quale Nicholas era un name, ossia un socio non sottoscrittore, come d'altronde lo erano stati suo padre e suo nonno. I Lloyd's names, membri dei cosiddetti syndicates, cioè dei gruppi operativi, s'impegnano a finanziare l'attività assicurativa della società, dividendo fra loro le quote di rischio; così, per mezzo secolo, la famiglia di Nicholas aveva goduto di un reddito regolare e sostanzioso proprio grazie ai profitti ottenuti dal gruppo operativo di cui faceva parte. Naturalmente Nicholas sapeva che, in caso si verificassero perdite, la sua parte di responsabilità finanziaria nel syndicate sarebbe stata assai rilevante. La cosa tuttavia non lo aveva mai preoccupato più di tanto perché non c'erano mai state perdite da coprire in cinquant'anni... cioè fino a quell'anno. Con il terremoto in California e le richieste di risarcimento danni accolte a carico di aziende chimiche multinazionali, le perdite del syndicate erano ammontate a più di ventisei milioni di sterline. Nicholas doveva sborsare due milioni e mezzo, e, se una parte di denaro era già stata versata, restava comunque ancora una somma consistente da racimolare nel giro di otto mesi al massimo. Senza contare le sgradite sorprese che l'anno nuovo avrebbe potuto portare «Insomma, a conti fatti, dobbiamo mettere insieme ancora due milioni e mezzo», disse uno dei legali. «Non dovrebbe essere difficile, dato che Quenton Hall è piena di oggetti di valore. E poi c'è il museo. Quanto possiamo ragionevolmente aspettarci di ricavare dalla vendita di qualche pezzo?» Nicholas rabbrividì al pensiero di vendere la statua di Ramesse, i bronzetti e il bassorilievo di Hammurapi. Si rendeva conto che, disfandosene, avrebbe onorato i suoi debiti, ma dubitava di poter vivere senza quegli oggetti. Era disposto a tutto o quasi, pur di non separarsene. I due avvocati chinarono la testa sugli elenchi. «Ah ! Sì, eccoli. Un paio di Purdey in ottime condizioni, stimati quarantamila sterline.» «Ho anche un po' di calzini e mutande usati», dichiarò Nicholas. «Perché non elencate anche quelli?» Gli avvocati ignorarono la frecciata. «Poi c'è la casa di Londra.» Il più anziano continuò, imperturbabile: era abituato alle sofferenze altrui. «Quella di Knightsbridge. Valore, un milione e mezzo.» «Non certo in questo momento finanziario», lo contraddisse Nicholas. «È più realistico parlare di un milione.» L'avvocato prese un appunto sul bordo del documento. «Naturalmente Wilbur Smith
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vogliamo evitare, se appena è possibile, di mettere in vendita l'intera tenuta», mormorò. Fu un incontro difficile, che si concluse senza una decisione precisa e lasciò Nicholas stizzito e frustrato. Congedò gli avvocati e salì nell'appartamento di famiglia per fare la doccia e cambiare la camicia. Poi, come per un ripensamento e senza una ragione precisa, si fece la barba e si frizionò il viso con l'after shave. Attraversò il parco e lasciò il Land Rover nel parcheggio del museo. La neve s'era trasformata in nevischio e gli copriva la testa di gocciole gelide. Royan l'aspettava nell'ufficio della signora Street. Sembrava che andassero molto d'accordo. Nicholas si fermò davanti alla porta per ascoltare la sua risata. Lo faceva sentire un po' meglio. Il cuoco aveva mandato un pranzo caldo dalla Hall. Sembrava convinto che un pasto sostanzioso servisse a tenere a bada il brutto tempo. C'erano una zuppiera di minestrone all'italiana e una Lancashire hotpot con mezza bottiglia di Bordeaux rosso per lui e una caraffa di spremuta d'arance per lei. Mangiarono davanti al fuoco, mentre la pioggia batteva sui vetri. Nicholas chiese all'ospite di fornirgli i particolari dell'uccisione di Duraid. Lei non omise nulla; parlò anche delle sue ferite e rimboccò la manica per mostrargli la medicazione che copriva la cicatrice della coltellata. Lui ascoltò attentamente quando lei gli raccontò del secondo tentativo di ucciderla per le vie del Cairo. «Ha qualche sospetto?» chiese poi. «C'è qualcuno che potrebbe essere il mandante?» Ma Royan scosse la testa. «Non c'era stato nessun avvertimento», disse. Finirono di pranzare in silenzio, assorti nei loro pensieri. Mentre prendevano il caffè, Nicholas suggerì: «Bene. E il nostro accordo?» Continuarono a discutere per circa un'ora. «È difficile riconoscerle una parte del bottino, se prima non saprò quale sarà il suo contributo», protestò Nicholas mentre versava altro caffè. «Dopotutto dovrò finanziare e condurre la spedizione.» «E dovrà credere che il mio contributo sarà importante, altrimenti non ci sarà bottino, come lo chiama lei. Comunque può star certo che non le dirò niente di più fino a che non avremo concluso un accordo, e l'avremo confermato con una stretta di mano.» «Sono condizioni piuttosto dure», fece lui, e Royan gli rivolse un sorriso malizioso. Wilbur Smith
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«Se non le piacciono, nell'elenco dei possibili finanziatori ci sono altri tre nomi.» «Sta bene», tagliò corto Nicholas con una finta aria da martire. «Accetto la proposta. Ma come faremo a calcolare due parti eguali?» «Io sceglierò il primo esemplare di ogni manufatto archeologico che riusciremo a recuperare, lei il secondo, e così via.» «E se fossi io a scegliere per primo?» chiese Nicholas, inarcando un sopracciglio. «Tiriamo a sorte», propose Royan, e lui prese dalla tasca una sterlina. «Che cosa vuole?» Lanciò la moneta e, mentre era in aria, Royan esclamò: «Testa!» «Accidenti!» borbottò lui mentre recuperava la moneta e la rimetteva in tasca. «E così, la prima scelta del bottino spetta a lei. Ammesso che il bottino ci sia.» Tese la mano attraverso il tavolo. «Potrà farne ciò che vuole. Potrà addirittura donarla al museo del Cairo, se è ancora affetta da questa mania stravagante. D'accordo?» chiese, e le tese la mano. «D'accordo!» confermò Royan. E soggiunse: «Socio». «Adesso mettiamoci al lavoro. Basta con i segreti fra noi. Mi riveli tutti i particolari che ha tenuto nascosti.» «Porti qui il libro.» Lei indicò la copia del Dio del fiume e, mentre Nicholas andava a prenderlo, scostò i piatti sporchi. «La prima cosa che dobbiamo considerare sono le parti del libro che Duraid aveva rivisto.» Royan andò alle ultime pagine del romanzo. «Ecco. È qui che Duraid ha incominciato l'operazione per fuorviare i lettori.» «Ottimo modo di esprimersi.» Nicholas sorrise. «Ma cerchiamo di restare sul semplice. Mi ha già fuorviato abbastanza.» Royan non sorrise. «Conosce come procede il romanzo fino a questo punto. La regina Lostris e il suo popolo vengono cacciati dall'Egitto per opera degli hyksos e dei loro carri. Viaggiano verso sud, lungo il fiume, sino alla confluenza del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro. In altre parole, fino all'odierna Khartum. Tutto questo segue piuttosto fedelmente i papiri.» «Lo ricordo. Proceda.» «Nelle stive delle navi fluviali trasportano il corpo mummificato del marito della regina Lostris, il faraone Marnose. Dodici anni prima, mentre era moribondo a causa di una freccia degli hyksos che gli aveva trafitto un Wilbur Smith
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polmone, Lostris gli aveva promesso di trovare un luogo sicuro dove seppellirlo con tutti i suoi tesori. Quando arrivano a Khartum, la regina decide che è venuto finalmente il momento di mantenere l'impegno. Manda il figlio, il quattordicenne principe Memnone, con uno squadrone di carri in cerca del sito adatto. Memnone è accompagnato dal suo mentore, il narratore della storia, l'instancabile Taita.» «Bene. Ricordo questa parte. Memnone e Taita consultano gli schiavi shilluk che hanno catturato e, seguendo i loro consigli, scelgono di procedere lungo il ramo sinistro del fiume, quello che oggi è conosciuto come Nilo Azzurro.» Royan annuì e continuò a raccontare: «Si diressero verso oriente e si trovarono di fronte a un'imponente catena montuosa, così alta che la descrissero come un 'bastione azzurro'. Fino a questo punto, il romanzo è una trascrizione abbastanza fedele dei papiri ma, a questo punto...» Royan piegò l'angolo della pagina per segnarla -, «incomincia l'intervento di Duraid. Voglio dire in questa descrizione delle colline...» Nicholas intervenne senza lasciarle il tempo di continuare. «Ricordo che, quando l'ho letto la prima volta, ho pensato che in realtà non descrive esattamente la zona dove il Nilo Azzurro esce dagli altipiani etiopi. Non ci sono colline. C'è solo la ripida scarpata occidentale del massiccio. Il fiume ne esce come un serpente dalla tana. Chi ha lasciato quella descrizione non conosceva il corso del Nilo Azzurro.» «E lei conosce la zona?» chiese Royan. Nicholas rise e annuì. «Quand'ero più giovane, e ancora più stupido di adesso, mi venne l'idea grandiosa di scendere con un'imbarcazione la gola dell'Abay dal lago Tana fino alla diga di er-Roseires, nel Sudan. Abay è il nome etiope del Nilo Azzurro.» «Perché voleva farlo?» «Perché non era mai stato fatto. Il console britannico, maggiore Cheesman, ci aveva provato nel 1932 e per poco non era annegato. Pensavo che avrei potuto realizzare un documentario, scrivere un libro sul viaggio e guadagnare una fortuna con i diritti d'autore. Convinsi mio padre a finanziare la spedizione. Era il genere d'impresa pazzesca che solleticava la sua fantasia. Voleva addirittura parteciparvi. Studiai il corso del fiume Abay, non solo sulle carte geografiche. Comprai un vecchio Cessna 180 e sorvolai la gola: ottocento chilometri dal lago Tana alla diga. Come ho detto, avevo vent'anni ed ero matto.» Wilbur Smith
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«E come andò a finire?» Royan era affascinata. Duraid non gliene aveva mai parlato, ma era il tipo di avventura che poteva aspettarsi da uno come Nicholas. «Reclutai otto miei amici dell'Accademia militare di Sandhurst, e dedicammo al tentativo le vacanze natalizie. Fu un fiasco. Resistemmo appena due giorni in quelle acque furiose. La gola è l'angolo più infernale della terra, per quanto ne so. È profonda il doppio del Grand Canyon del Colorado e altrettanto accidentata. Sfasciò i nostri kayak prima ancora che avessimo percorso trenta chilometri degli ottocento dell'intero percorso. Dovemmo abbandonare l'equipaggiamento e arrampicarci sulle pareti della gola per tornare alla civiltà.» Per un momento assunse un'aria seria. «Perdemmo due membri della spedizione. Bobby Palmer annegò e Tim Marshall cadde dalle rupi. Non riuscimmo neppure a recuperare i loro corpi. Sono ancora laggiù, da qualche parte. Dovetti dare la notizia ai genitori...» Nicholas s'interruppe al ricordo di quei momenti angosciosi. «Qualcuno è mai riuscito a navigare nella gola del Nilo Azzurro?» chiese Royan per distrarlo. «Sì. Vi tornai dopo qualche anno. Questa volta non ero il capo, ma soltanto un membro della spedizione ufficiale delle forze armate britanniche. Ci vollero l'esercito, la marina e l'aviazione per battere il fiume.» Lei lo guardava con ammirazione. Nicholas aveva veramente navigato sull'Abay. Era come se fosse stata guidata fino a lui da un destino misterioso. Duraid aveva avuto ragione. Probabilmente non c'era uomo al mondo più qualificato per portare a termine un compito come quello che si erano prefissi. «Quindi conosce la gola meglio di chiunque altro. Cercherò di fornirle un'indicazione generale di quello che Taita scrisse effettivamente nel settimo papiro. Purtroppo è la parte del manoscritto che ha subito qualche guasto, e Duraid e io siamo stati costretti a estrapolare la descrizione da varie parti del testo. Dovrà dirmi se corrisponde al territorio così come lo conosce.» «Proceda», l'invitò Nicholas. «Taita descrive la scarpata più o meno come ha fatto lei: una parete a perpendicolo da cui emerge il fiume. Gli egizi furono costretti ad abbandonare i carri che non potevano affrontare il terreno ripido e Wilbur Smith
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accidentato del canyon; dovettero procedere a piedi, conducendo per le redini i cavalli da soma. Ben presto la gola diventò così ripida e pericolosa che alcuni animali caddero dalle piste aperte dalle capre selvatiche e precipitarono nel fiume sottostante. Ma questo non scoraggiò gli uomini, che proseguirono agli ordini di Memnone.» «Sì, è un tratto particolarmente pericoloso, lo ricordo bene.» «Poi Taita racconta che incontrarono una serie di ostacoli, e li descrive come 'gradini'. Duraid e io non sapevamo con certezza che cosa fossero. Ma pensavamo che fossero cascate.» «Nella gola dell'Abay non mancano né gli uni né le altre», commentò Nicholas. «Questa è la parte importante della sua testimonianza. Taita ci dice che, dopo aver viaggiato per venti giorni, risalendo la gola, arrivarono al 'secondo gradino'. Qui il principe ricevette un messaggio del padre defunto, sotto forma di un sogno nel quale Marnose sceglieva il sito per la propria tomba. Taita ci dice che non proseguirono. Se riuscissimo ad accertare che cosa lo fermò, questo c'indicherebbe con precisione fin dove erano penetrati nella gola.» «Prima di continuare, abbiamo bisogno di mappe e di fotografie delle montagne prese dai satelliti. Dovrò anche consultare i miei appunti e il diario della spedizione», decise Nicholas. «Dato che cerco di tenere aggiornati gli archivi del museo, penso di avere anche fotografie e carte geografiche recenti. Chiederò alla signora Street di cercarle.» Poi si alzò, sbadigliando. «Questa sera prenderò i miei diari e li rileggerò. Anche mio bisnonno andò a caccia in Etiopia nel secolo scorso. So che attraversò il Nilo Azzurro presso Debre Markos nel 1890, mi pare. Cercherò anche i suoi appunti: sono conservati negli archivi. Può darsi che abbia scritto qualcosa di utile.» Accompagnò Royan al vecchio Land Rover verde e, mentre lei accendeva il motore, le disse attraverso il finestrino aperto: «Sono sempre convinto che dovrebbe fermarsi alla Hall. Dev'esserci un'ora e mezzo di macchina per arrivare a Brandsbury, e fra andata e ritorno sono tre ore al giorno. Avremo parecchio da lavorare prima di poter partire per l'Africa». «Che ne direbbe la gente?» chiese lei mentre inseriva la marcia. «Me ne sono sempre infischiato», le gridò dietro Nicholas. «A che ora ci vedremo domani?» «Devo andare dal dottore a York, per farmi togliere i punti al braccio. Wilbur Smith
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Non arriverò prima delle undici.» Royan si affacciò dal finestrino per gridare la risposta. Il vento le agitava intorno al viso i capelli scuri. Nicholas aveva sempre preferito le brune: Rosalind aveva quella misteriosa aria orientale... Si sentiva colpevole per il paragone, ma era difficile liberarsi del ricordo di Royan. Era la prima donna che aveva destato il suo interesse dopo la morte di Rosalind. Il sangue misto lo attraeva. Era abbastanza esotica per solleticare la sua passione per l'Oriente, ma abbastanza inglese per parlare la sua lingua e capire il suo sense of humour. Era colta e conosceva le cose che più lo interessavano; inoltre ne ammirava lo spirito. Di solito le orientali erano abituate fin dalla nascita a essere docili e discrete. Ma Royan era diversa. Georgina aveva telefonato al suo medico di York e aveva preso appuntamento per far togliere i punti dal braccio di Royan. Partirono dal cottage di Brandsbury dopo colazione. Georgina era al volante, e Magic stava seduto in mezzo a loro. Quando svoltarono nella strada del villaggio, Royan notò un grosso camion MAN fermo vicino alla posta, ma poi non ci pensò più. Giunte in aperta campagna, incontrarono una serie di banchi di nebbia, in certi tratti così fitta da ridurre la visibilità a meno di trenta metri. Ma Georgina non era disposta a fare concessioni al tempo, e lanciò il Land Rover sferragliante alla massima velocità che, comunque, come pensò con sollievo Royan, non superava i novanta all'ora. Si voltò per controllare la strada dietro di loro e vide che il camion MAN le stava seguendo. Soltanto la cabina, simile alla torretta di un sottomarino, emergeva dal basso mare di nebbia che lo circondava. Mentre lo guardava, un banco più fitto lo inghiottì, e Royan si girò di nuovo per ascoltare la madre. «Questo governo è un branco di nullità incompetenti.» Georgina socchiuse le palpebre nel fumo della sigaretta che le penzolava dalle labbra. Guidava con una mano sola e con l'altra accarezzava il manto serico di Magic. «Non m'interessa se i ministri si sbattono fra di loro, ma quando cominciano a fare brutti scherzi alla mia pensione, mi arrabbio sul serio.» La pensione del Foreign Service era l'unica fonte di reddito di Georgina, e non era molto. Wilbur Smith
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«Non vorrai un governo laburista, mamma, di' la verità», scherzò Royan. Sua madre era sempre stata ultraconservatrice. Georgina esitò, poi evitò di scegliere. «Io dico solo che ci vorrebbe di nuovo Maggie.» Royan si girò in silenzio sul sedile e guardò di nuovo attraverso il lunotto posteriore. Il camion era ancora dietro di loro: torreggiava nella nebbia e nella scia di fumo azzurrognolo che Georgina si lasciava alle spalle come un aereo a reazione. Fino a quel momento era rimasto a distanza, ma all'improvviso accelerò. «Credo che voglia superarti», disse Royan a Georgina. Il cofano massiccio del camion era a qualche metro dal loro paraurti posteriore. Il radiatore sfoggiava il logo cromato MAN ed era più alto dell'abitacolo del Land Rover, quindi Royan non poteva scorgere la faccia del guidatore. «Vogliono tutti sorpassarmi», protestò Georgina. «È la storia della mia vita.» E rimase ostinatamente al centro della strada. Royan si voltò di nuovo e vide che il camion si avvicinava ancora di più. Il guidatore cambiò marcia e fece rombare minacciosamente il motore gigantesco. «E meglio che tu gli dia strada. Credo che faccia sul serio.» «Che aspetti», borbottò Georgina, stringendo fra le labbra il mozzicone di sigaretta. «La pazienza è una virtù. E qui non posso farlo passare. Poco oltre c'è un ponte di pietra molto stretto. Conosco la strada come il bagno di casa mia.» In quel momento, il camionista suonò il clacson: essendo così vicino, il rumore fu assordante. Magic balzò sul sedile posteriore e abbaiò indignato. «Stupido mascalzone», imprecò Georgina. «Che cosa crede di fare? Annota il numero di targa. Lo denuncerò alla polizia di York.» «La targa è coperta dal fango. Non riesco a leggerla, ma sembra straniera. Tedesca, direi.» Come se il camionista avesse sentito la protesta, rallentò leggermente fino a che tra i due veicoli ci fu una distanza di venti metri. Royan s'era girata sul sedile per osservarlo. «Così va meglio», disse soddisfatta Georgina. «È ora che quell'unno impari le buone maniere.» Poi sbirciò nella nebbia davanti a sé. «Ecco il ponte...» Per la prima volta Royan riuscì a vedere l'interno della cabina del Wilbur Smith
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camion. Il guidatore portava un passamontagna di lana blu che gli lasciava scoperti soltanto gli occhi e il naso e gli dava un'aria sinistra, malefica. «Attenta!» gridò Royan. «Ci viene addosso!» Il rombo del motore del grosso camion divenne un muggito che le avvolse come il fragore di un mare in tempesta. Per un momento, Royan vide soltanto l'acciaio lucido. Poi il muso del camion le investì da tergo. L'impatto violento ributtò Royan contro la spalliera del sedile. Si rialzò e vide che il camion aveva sollevato il Land Rover come una volpe solleva un uccello tra le fauci, e lo trasportava sulle barre d'acciaio che proteggevano il radiatore cromato. Georgina lottò con il volante, cercando di mantenere il controllo, ma fu inutile. «Non riesco a tenerlo. Il ponte! Cerca di saltar giù...» Royan premette il pulsante della cintura di sicurezza e afferrò la maniglia della portiera. I muretti di pietra del ponte sembravano correre verso di loro a una velocità terrificante. Mentre il Land Rover slittava attraverso la strada, la portiera si spalancò nella stretta di Royan. In quel momento, però, il fuoristrada venne scagliato contro le colonne in muratura che stavano all'ingresso del ponte. Le due donne urlarono all'unisono mentre il veicolo si accartocciava. L'urto le gettò in avanti. Il parabrezza andò in frantumi; il Land Rover, rimbalzando via dalle colonne, si rovesciò, scivolò giù per la banchina e prese a rotolare. Royan fu catapultata attraverso la portiera aperta e volò via. Il pendio dell'argine attutì la caduta, lasciando però la donna senza fiato. Rimbalzò e ruzzolò, e infine cadde nelle acque gelide del fiumicello. Un attimo prima di finire sott'acqua con la testa, guardò il cielo e il ponte, e scorse per l'ultima volta il camion prima che si allontanasse rombando. Trainava due enormi rimorchi, più alti del guardrail del ponte. Entrambi i rimorchi erano coperti da un pesante telone di nylon verde trattenuto da funi. Royan ebbe appena una fuggevole visione di un grande marchio rosso con il nome dell'azienda dipinto sul fianco del rimorchio più vicino. Ma prima che potesse imprimersi il nome nella mente, affondò e il freddo e la forza della caduta le svuotarono l'aria dai polmoni. Risalì alla superficie del fiume e si accorse che era stata trascinata più a valle. Intralciata dagli indumenti fradici, raggiunse la riva e s'issò, aggrappandosi al ramo di un albero. S'inginocchiò nel fango, tossì e risputò l'acqua che aveva inghiottito e Wilbur Smith
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cercò di scoprire se l'urto le aveva causato qualche lesione. Poi dimenticò se stessa quando sentì i lamenti terribili della madre uscire dal rottame rovesciato del Land Rover. Si rimise in piedi affannosamente e avanzò sull'erba bagnata e coperta di brina verso il fuoristrada capovolto ai piedi dell'argine. La carrozzeria era accartocciata e sfondata, e il lucido metallo argenteo luccicava dove la vernice verde scura si era scrostata. Il motore era bloccato, ma le ruote anteriori giravano ancora nell'aria quando Royan raggiunse il fuoristrada. «Mamma! Dove sei?» gridò, e i singulti terribili non si placarono. Si appoggiò al veicolo per sostenersi e proseguì in direzione del suono. Aveva paura di ciò che avrebbe potuto trovare. Georgina era seduta sulla terra bagnata e stava appoggiata con la schiena alla fiancata del fuoristrada. Teneva le gambe allungate: quella sinistra era storta, e la punta del piede era conficcata nel fango in un angolo innaturale. Evidentemente la gamba era fratturata al ginocchio o poco più sotto. Ma non era quella la causa della disperazione di Georgina. Teneva Magic sulle ginocchia e stava china su di lui, prostrata da un'irrefrenabile sofferenza che erompeva in un lamento incessante. Il petto del cocker spaniel era rimasto schiacciato fra il metallo e la terra. La lingua gli pendeva dall'angolo della bocca, che pareva atteggiata in un ultimo sorriso, ma il sangue sgocciolava dalla punta rosea e Georgina cercava di asciugarlo con la sciarpa. Royan si sedette accanto alla madre e le cinse le spalle con un braccio. Non l'aveva mai vista piangere. La strinse a sé e cercò inutilmente di placare il suo dolore. Rimase lì per qualche tempo, poi la vista della gamba fratturata di Georgina e la paura che il guidatore del camion potesse tornare a finire l'opera la spinsero ad agire. Risalì la banchina e si piazzò in mezzo alla strada per fermare la prima macchina di passaggio. Quando si rese conto che Royan era in ritardo di due ore, Nicholas si preoccupò e telefonò alla stazione di polizia di York. Per fortuna aveva notato il numero di targa del Land Rover, un numero facile da ricordare, perché era formato dalle stesse iniziali di sua madre e da un tredici malaugurante. Dovette attendere mentre l'agente controllava il computer, ma finalmente ebbe la risposta. «Purtroppo, signore, quel Land Rover ha avuto Wilbur Smith
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un incidente questa mattina.» «Che cos'è successo a chi lo guidava?» chiese bruscamente Nicholas. «La guidatrice e la passeggera sono state portate allo York Minster Hospital.» «Come stanno?» «Mi dispiace, signore, ma questo non lo so.» Nicholas impiegò quaranta minuti per arrivare all'ospedale e quasi lo stesso tempo per rintracciare Royan. Era nel reparto chirurgia donne, seduta accanto al letto della madre che non si era ancora ripresa dagli effetti dell'anestesia. Royan alzò la testa quando si fermò accanto a lei. «Come va? Che diavolo è successo?» «Mia madre ha una gamba fratturata. Il chirurgo ha dovuto metterle un chiodo nel femore.» «E lei come sta?» «Qualche livido e qualche graffio. Niente di grave.» «Com'è successo?» «Un camion... ci ha buttate fuori strada.» «Non l'ha fatto apposta, vero?» Nicholas rabbrividì al ricordo di un altro camion su un'altra strada, durante un'altra notte. «Io credo di sì. Il guidatore portava un passamontagna. Ci è piombato addosso da tergo. Sembrava proprio deciso a provocare un incidente.» «L'ha detto alla polizia?» Lei annuì. «Pare che il camion fosse stato rubato questa mattina, molto prima dell'incidente. Il guidatore è stato fermato in uno dei cafés Little Chef. È tedesco e non parla inglese.» «È la terza volta che tentano di ucciderla», commentò rabbiosamente Nicholas. «Da questo momento ci penserò io.» Andò nella sala d'attesa dell'ospedale e telefonò. Il capo della polizia della contea era un suo amico, come lo era l'amministratore dell'ospedale. Quando Nicholas tornò, Georgina aveva ripreso i sensi. Era ancora stordita nel momento in cui la trasferirono nella stanza privata che lui aveva prenotato. Il chirurgo ortopedico arrivò dopo pochi minuti. «Ciao, Nick, che ci fai qui?» chiese, e Royan si meravigliò nel vedere quanta gente conosceva Quenton-Harper. Il chirurgo si rivolse a Georgina. «Come si sente? Avevamo una bella frattura composta. L'osso era ridotto in coriandoli. Siamo riusciti a mettere Wilbur Smith
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tutto a posto, ma dovrà restare qui almeno una decina di giorni.» «Bene», disse Nicholas a Royan mentre lasciavano Georgina che dormiva. «Che cos'altro ci vuole per convincerla? La mia governante le ha preparato una stanza alla Hall. Non intendo lasciarla più andare in giro da sola. La prossima volta che cercheranno di farla fuori potrebbero essere più fortunati.» Lei era ancora troppo scossa e sconvolta per discutere. Salì docilmente sul Range Rover e lasciò che Nicholas la portasse prima a farsi togliere i punti e poi a Quenton Park. Quando arrivarono, lui insistette perché salisse nella sua camera. «Il cuoco le farà portare la cena. E prenda il sonnifero che le ha dato il medico. Se dà la chiave del cottage di sua madre alla signora Street, domani manderò qualcuno a Brandsbury per ritirare la sua roba. Per il momento, la governante le ha preparato una camicia da notte, una vestaglia e uno spazzolino da denti nella sua camera. E non voglio vederla né sentirla fino a domattina.» Era piacevole sapere che Nicholas aveva assunto il controllo della sua vita. Per la prima volta dopo la terribile notte all'oasi, Royan si sentiva sicura e protetta. Ma fece un ultimo gesto d'indipendenza e di sfida: buttò nel gabinetto la compressa di Mogadon. La camicia da notte stesa sul cuscino era lunga, di seta pura, con splendidi pizzi di Cambrai ai polsi e allo scollo. Royan non ne aveva mai indossata una così lussuosa e sensuale: di certo era appartenuta alla moglie di Nicholas, e quel pensiero suscitò in lei sensazioni confuse. Si sdraiò sul letto matrimoniale e si addormentò quasi subito, indifferente sia al pensiero di essere sola su quell'enorme materasso sia alla sensazione di trovarsi in un ambiente del tutto sconosciuto. L'indomani mattina una giovane cameriera venne a svegliarla e le portò il Times e una teiera piena di Earl Grey; pochi minuti dopo tornò con il suo borsone. «Sir Nicholas la prega di fare colazione con lui in sala da pranzo alle otto e mezzo.» Mentre faceva la doccia, Royan si guardò nel grande specchio che copriva una parete del bagno. A parte la cicatrice della coltellata sul braccio, aveva un livido scuro sulla coscia, un altro sul fianco sinistro e sulla natica, conseguenza dell'incidente. Era spellata in molti punti; infilò Wilbur Smith
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cautamente un paio di pantaloni e, zoppicando un po', scese la scalinata principale per raggiungere la sala da pranzo. «Prego, si serva.» Nel momento in cui era arrivata sulla soglia, Nicholas aveva alzato gli occhi dal giornale e le aveva indicato i piatti allineati sulla credenza. Mentre si serviva di qualche cucchiaiata di uova strapazzate, Royan sollevò lo sguardo e riconobbe il quadro appeso alla parete davanti a lei: era un Constable. «Ha dormito bene?» Nicholas non attese la risposta e continuò. «Ha telefonato la polizia. Hanno trovato il MAN abbandonato in una piazzola vicino a Harrogate. Lo stanno esaminando, ma non sperano di scoprire granché. Abbiamo a che fare con qualcuno che sa il fatto suo, almeno così sembra.» «Devo telefonare all'ospedale», disse Royan. «Ho già chiamato io. Sua madre ha passato una notte tranquilla. Ho avvertito che andrà a trovarla questa sera.» «Questa sera?» Lei si voltò. «Perché così tardi?» «Ho intenzione di metterla al lavoro. Voglio rifarmi di quel che mi costerà.» Si alzò quando Royan si avvicinò al tavolo e le scostò la sedia per farla accomodare. Quella cortesia la mise un po' a disagio, ma non fece commenti. «Il primo attacco contro lei e Duraid nella villa dell'oasi... Non abbiamo elementi utili da sfruttare, a parte il fatto che gli assassini sapevano esattamente che cosa volevano e dove l'avrebbero trovato.» Royan era sconcertata dal brusco cambio d'argomento. «Poi c'è il secondo attentato, quello al Cairo. La bomba a mano. Chi sapeva che quel pomeriggio sarebbe andata al ministero, a parte il ministro?» Lei rifletté. «Non ne sono sicura. Mi pare di averlo detto al segretario di Duraid, forse a uno degli assistenti.» Nicholas aggrottò la fronte e scosse il capo. «Quindi metà del personale del museo era al corrente dell'appuntamento.» «Più o meno. Sì. Mi dispiace.» Lui rifletté un momento. «Sta bene. Chi sapeva che sarebbe partita dal Cairo? E che sarebbe stata ospite di sua madre?» «Uno degli impiegati dell'amministrazione mi ha portato le diapositive all'aeroporto.» «Gli ha detto con quale volo sarebbe partita?» Wilbur Smith
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«Assolutamente no.» «Non ha parlato con altri, del suo viaggio?» «No. Cioè...» Royan esitò. «Sì?» «Ho spiegato al ministro, durante il nostro colloquio, che desideravo venire in Inghilterra e per questo gli ho chiesto un periodo di congedo non retribuito. Ma non può essere stato lui!» L'espressione di Royan era carica di orrore. Nicholas alzò le spalle. «Succedono tante cose strane. Naturalmente il ministro sapeva tutto del lavoro che lei e Duraid stavate facendo sul settimo papiro.» «Non conosceva i particolari, ma... Sì, sapeva a grandi linee che cosa intendevamo fare.» «Passiamo a un'altra domanda. Tè o caffè?» Le versò il caffè nella tazza, poi continuò: «Mi ha detto che Duraid aveva fatto un elenco dei possibili finanziatori di una spedizione. Potrebbe essere una lista di indiziati?» «Il Getty Museum», rispose lei, e Nicholas sorrise. «Possiamo cancellarlo dall'elenco. Quelli non vanno in giro a lanciare bombe a mano per le vie del Cairo. Chi altro c'era?» «Gotthold Ernst von Schiller.» «Amburgo. Industria pesante. Raffinerie di metalli e di leghe. Produzione di minerali.» Nicholas annuì. «E il terzo nome?» «Peter Walsh... il texano», disse lei. «Già», ammise Nicholas. «Vive a Fort Worth. Ha una catena di fast food e un'organizzazione di vendite per corrispondenza.» Quando si trattava di acquistare antichità importanti o di finanziare esplorazioni archeologiche, c'erano pochissimi collezionisti abbastanza ricchi per competere con le grandi istituzioni. Nicholas li conosceva tutti: era un gruppo di un paio di dozzine di uomini in accanita concorrenza fra loro. In varie occasioni si era battuto con ognuno di loro nelle sale d'asta di Sotheby's e Christie's, per non parlare di altri ambienti meno salubri in cui si vendevano le antichità «fresche», dove per «fresco» s'intende «appena estratto dal suolo». «Quelli sono due banditi. Sarebbero capaci di divorare i loro figli. Che cosa farebbero se la vedessero come un ostacolo sulla via per arrivare alla tomba di Marnose? Forse uno di loro si era messo in contatto con Duraid dopo la pubblicazione del romanzo, come ho fatto io...» Wilbur Smith
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«Non so. Può darsi.» «Non credo che si siano lasciati sfuggire l'occasione. Dobbiamo dare per certo che tutti e due sappiano che Duraid era sulle tracce di qualcosa. Metteremo i loro nomi nell'elenco delle persone sospette.» Nicholas guardò il piatto di Royan. «Basta così? Un altro po' di uova? No. Bene, andiamo al museo e vediamo che cosa ci ha trovato la signora Street.» Quando entrarono nello studio, Royan fu colpita nel vedere come Nicholas si era organizzato in così poco tempo. Doveva aver lavorato tutta la notte, trasformando la stanza in una specie di comando militare. Al centro c'era un grande cavalletto con un tabellone sul quale era appuntata una serie di foto scattate dai satelliti. Royan si avvicinò per osservarle, poi diede un'occhiata al resto del materiale. Oltre a una carta su larga scala che mostrava la stessa area dell'Etiopia sud-occidentale, c'erano elenchi di nomi e indirizzi, liste di equipaggiamenti e provviste che evidentemente Nicholas aveva usato nelle precedenti spedizioni africane, fogli di calcoli delle distanze e qualcosa che sembrava un preventivo. E c'era una scheda con la dicitura ETIOPIA INFORMAZIONI GENERALI. Non lesse tutta la scheda: erano cinque fogli protocollo a interlinea uno. Comunque rimase impressionata dalla meticolosità della preparazione. Decise di studiare tutto il materiale alla prima occasione; per il momento si accomodò su una delle due sedie che Nicholas aveva messo accanto a un tavolo, di fronte alla lavagna. Lui prese dal tavolo una canna con la punta d'argento e la brandì. «Silenzio in aula», disse, e batté sulla lavagna. «Anzitutto deve convincermi che riusciremo a ritrovare le tracce di Taita, una pista che si è raffreddata da moltissimi secoli. Consideriamo per prima cosa le caratteristiche geografiche della gola dell'Abay.» Nicholas indicò il corso del fiume sulle foto scattate dal satellite. «In questo tratto si è scavato il letto attraverso i plateaux alluvionali di basalto. In certi punti le pareti sono perpendicolari, alte dai centoventi ai centocinquanta metri su entrambe le sponde. Il fiume non è riuscito a erodere gli strati intrusivi di scisti ignei più duri, ed essi formano una serie di gradini giganteschi. Credo che abbia ragione lei: i 'gradini' di cui parla Taita devono essere cascate, in realtà.» Tornò al tavolo e, nei mucchi di carte che lo coprivano, pescò una foto. «Questa l'ho fatta nella gola durante la spedizione delle forze armate, nel Wilbur Smith
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1976. Le darà un'idea dell'aspetto di alcune delle cascate.» Le passò la foto in bianco e nero: c'erano pareti altissime sui due lati e una cascata che sembrava precipitare dal cielo e faceva apparire minuscoli gli uomini seminudi e le imbarcazioni in primo piano. «Non immaginavo che fosse così!» Royan era sbalordita. «E non rende giustizia alla splendida desolazione della gola», precisò lui. «Dal punto di vista di un fotografo, non esiste un posto in cui ci si possa piazzare per ritrarla interamente. Ma almeno può rendersi conto che la cascata dovette bloccare la schiera degli egizi che risalivano il fiume a piedi o con i cavalli da soma. Di solito ci sono piste lungo le cataratte, aperte dagli elefanti e da altri animali selvatici nel corso dei secoli. Però non c'è modo di superare cascate come questa, o di girare intorno ai dirupi.» Royan annuì e Nicholas continuò: «Persino scendendo il fiume dovemmo calare con le corde le imbarcazioni e l'equipaggiamento a ogni serie di cascate. Non fu semplice». «Ammettiamo che fosse una cascata a impedire loro di proseguire. La seconda cascata, per chi arriva da ovest», disse lei. Nicholas riprese la canna e sulle foto del satellite seguì il corso del fiume dal cuneo scuro della diga di er-Roseires nel Sudan orientale. «La scarpata sale sul lato etiope del confine, dove incomincia la gola vera e propria. Là non ci sono strade o centri abitati, ma solo due ponti, molto più a monte. Per ottocento chilometri non c'è niente, se non le acque ribollenti del Nilo e nere rocce basaltiche.» Fece una pausa perché Royan s'imprimesse nella memoria le sue parole. «È uno degli ultimi luoghi veramente selvaggi della terra, e ha la fama di essere abitato da animali feroci e da uomini più feroci ancora. Ho indicato le cascate principali che appaiono nelle viscere della gola, qui sulla foto del satellite.» Le mostrò: ognuna era segnata chiaramente da un cerchio tracciato con un pennarello rosso. «Questa è la seconda cascata, circa duecento chilometri più a monte del confine sudanese. Dobbiamo considerare comunque un certo numero di fattori, non ultimo la possibilità che il fiume abbia cambiato corso nei tremila anni e più trascorsi da quando lo visitò il nostro amico Taita.» «Ma non può essere sfuggito da una gola profonda milleduecento metri!» protestò Royan. «Credo che sia sufficiente per tener prigioniero persino il Nilo.» Wilbur Smith
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«Sì, ma di sicuro il letto esistente si è modificato. Nella stagione della piena, il volume e la forza delle acque sono qualcosa d'indescrivibile. Il fiume sale di venti metri e scorre alla velocità di dieci nodi o più.» «E lei lo ha navigato?» chiese Royan in tono un po' dubbioso. «Non nella stagione della piena: niente e nessuno potrebbe sopravvivere in quel periodo.» Fissarono entrambi la foto in silenzio, pensando a come dovesse essere terribile quel tratto di fiume nel periodo della sua furia. Poi Royan chiese: «E la seconda cascata?» «È qui, dove uno degli affluenti si getta nell'Abay. È il Dandera, che scorre a trecentocinquanta metri di altitudine ai piedi del monte Sancai nella catena del Choke, qui, centosessanta chilometri a nord della gola.» «Ricorda il punto in cui si getta nell'Abay? Lo ricorda dal tempo della sua esplorazione?» «Sono passati troppi anni, ed eravamo nella gola da oltre un mese, quindi tutto sembrava confondersi in un unico incubo. La prontezza di riflessi era affievolita dal panorama monotono dei dirupi e della giungla fitta che copriva le pareti, i nostri sensi erano storditi dal caldo, dagli insetti, dal rombo dell'acqua e dalla fatica di remare... eppure ricordo la confluenza del Dandera e dell'Abay per due ragioni.» «Sì?» Royan si tese verso di lui, ma Nicholas scosse la testa. «Perdemmo un uomo, in quel punto. L'unico, nella seconda spedizione. La corda si spezzò e lui precipitò per trenta metri. Si sfracellò su uno spuntone di roccia.» «Mi dispiace. E qual è l'altra ragione per cui ricorda quel posto?» «C'è un monastero copto, costruito nella parete rocciosa, centoventi metri al di sopra della superficie del fiume.» «Nelle profondità della gola?» chiese lei, incredula. «Perché hanno costruito un monastero proprio lì?» «L'Etiopia è uno dei più antichi Paesi cristiani della terra: fra chiese e monasteri, conta più di novemila luoghi di culto, e molti si trovano in zone altrettanto remote e quasi inaccessibili fra le montagne. In quello del fiume Dandera, a quanto pare, è sepolto san Frumenzio, che, nel III secolo, introdusse il cristianesimo in Etiopia. Secondo la leggenda, naufragò sulle rive del mar Rosso e fu condotto ad Aksum, dove convertì il re Ezanà.» «Lei ha visitato il monastero?» «No, che diavolo!» Nicholas rise. «Eravamo troppo occupati a Wilbur Smith
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sopravvivere, troppo impazienti di uscire dall'inferno della gola per avere il tempo di fare i turisti. Scademmo le cascate e proseguimmo verso valle. Del monastero ricordo soltanto gli scavi nella parete del dirupo, in alto sopra il fiume, e le figure lontane dei monaci biancovestiti che si affacciavano ai parapetti delle caverne per guardarci passare. Alcuni di noi si sbracciarono per salutarli, e rimasero male quando non ebbero risposta.» «E come faremo a raggiungere quel punto, senza una spedizione in piena regola?» chiese lei, fissando sconsolata il tabellone. «Si sta già scoraggiando?» Nicholas sorrise maliziosamente. «Aspetti d'incontrare le zanzare che vivono da quelle parti. Sono così grosse che possono sollevarla di peso e portarla nella loro tana per divorarla in pace.» «Non scherzi... Come faremo a scendere?» «I monaci vengono riforniti di viveri dagli abitanti dei villaggi dell'altopiano. A quanto pare c'è una pista aperta dalle capre che scende lo strapiombo. Ci dissero che occorrono tre giorni per scendere il sentiero e arrivare in fondo alla gola.» «Saprebbe trovare la strada?» «No, ma ho qualche idea in proposito. Ne parleremo più tardi. Prima dobbiamo decidere che cosa ci aspettiamo di trovare laggiù, dopo tremila anni...» Nicholas la fissò, intento. «Ora tocca a lei. Mi convinca.» Le porse la canna dalla punta d'argento, si lasciò cadere sulla sedia e incrociò le braccia. «Per prima cosa dobbiamo tornare al libro.» Royan posò la canna e prese la copia del Dio del fiume. «Ricorda il personaggio di Tanus?» «Certo. Era il comandante delle armate della regina Lostris e portava il titolo di Grande Leone d'Egitto. Guidò l'esodo quando gli egizi furono cacciati dagli hyksos.» «Era anche l'amante segreto della regina e, se dobbiamo credere a Taita, il padre del principe Memnone.» «Tanus fu ucciso durante una spedizione punitiva contro un re etiope, Arkoun, in alta montagna. Il corpo fu mummificato e Taita lo portò alla regina.» «Esattamente.» Royan annuì. «E questo mi porta a un altro indizio scoperto da Duraid e da me.» «Nel settimo papiro?» Nicholas disincrociò le braccia e si protese. «No, non nei rotoli: nelle iscrizioni della tomba della regina Lostris.» Wilbur Smith
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Royan frugò nella borsa e mostrò un'altra foto. «È l'ingrandimento di una sezione degli affreschi della camera sepolcrale, il tratto di parete che più tardi cadde e andò perduto quando furono scoperti i vasi di alabastro. Duraid e io giudicammo significativo il fatto che Taita avesse messo l'iscrizione al posto d'onore, sopra il nascondiglio dei rotoli.» Nicholas prese dal tavolo una lente d'ingrandimento per studiare la foto. Royan continuò: «Ricorderà che Taita amava gli enigmi e i giochi di parole e si vantava di essere il più grande dei giocatori di bao...» Nicholas alzò gli occhi dalla lente. «Lo ricordo. E ritengo fondata la teoria che il bao fosse l'antenato degli scacchi. Ho almeno una dozzina di scacchiere nella collezione del museo: alcune provengono dall'Egitto, altre da località più a sud.» «Sono d'accordo con lei. I due giochi hanno in comune molte regole, ma il bao è più rudimentale. Si gioca con pietruzze colorate di rango diverso. Bene, credo che Taita non seppe resistere alla tentazione di sfoggiare la sua abilità di enigmista e la sua ingegnosità. Credo inoltre che fosse così pieno di sé da lasciare indicazioni circa l'ubicazione della tomba del faraone, sia nei rotoli sia negli affreschi che sostiene di aver dipinto con le sue mani nella tomba dell'amata regina.» «Pensa che questo sia un indizio?» Nicholas batté la lente sulla fotografia. «La legga», disse lei. «È in geroglifici classici, non troppo difficili in confronto ai suoi codici misteriosi.» «Il padre del principe, che non è il padre, il donatore dell'azzurro che lo uccise», tradusse lentamente Nicholas, «vigila eternamente, tenendosi per mano con Hapi, sul testamento di pietra e sulla via che conduce al padre del principe, che non è il padre, il donatore del sangue e delle ceneri.» Nicholas scosse la testa. «No, non ha senso», protestò. «Devo aver fatto un errore di traduzione.» «Non si disperi. Sta cominciando a fare conoscenza con Taita, campione dei giocatori di bao ed enigmista scaltro quant'altri mai. Duraid e io ci siamo scervellati per settimane...» gli assicurò Royan. «Per capirci qualcosa, torniamo al libro. Tanus non era ufficialmente il padre del principe. Tanus, però, in quanto amante della regina, ne era il padre biologico. Sul letto di morte, Tanus consegnò a Memnone la spada azzurra che gli aveva inflitto la ferita mortale nel corso del duello con il re etiope. Un duello descritto nel libro...» Wilbur Smith
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«Già, ricordo. Quando ho letto per la prima volta quel brano, ho pensato che la spada azzurra fosse probabilmente una delle più antiche armi di ferro. A quell'epoca doveva essere quasi un prodigio d'arte degli armaioli. Un dono degno di un principe... Dunque il padre del principe, che non è il padre è Tanus?» Nicholas sospirò, rassegnato. «Per il momento accetto la sua interpretazione.» «Grazie per la fiducia che ha in me», disse Royan in tono sarcastico. «Ma continuiamo con l'enigma di Taita. Il faraone Marnose era il padre di Memnone soltanto di nome; non era il padre biologico. Di nuovo il padre che non era il padre. Marnose lasciò al figlio la corona doppia, rossa e bianca, dell'Alto e Basso Egitto... il sangue e le ceneri.» «Questo posso accettarlo più facilmente. E il resto dell'iscrizione?» Nicholas era chiaramente affascinato. «L'espressione tenendosi per mano è ambigua nell'antica lingua egizia. Potrebbe significare anche 'molto vicino' oppure 'in vista di' qualcosa.» «Continui. Finalmente ha destato la mia attenzione», la incoraggiò lui. «Hapi è il dio o la dea ermafrodita del fiume, secondo il genere che adotta in ogni particolare momento. In tutti i papiri, Taita usa Hapi come nome alternativo del fiume.» «Quindi, se mettiamo insieme il settimo papiro e l'iscrizione della tomba della regina, che interpretazione ne ricava?» «Molto semplicemente questa: Tanus è sepolto in vista del fiume o molto vicino, alla seconda cascata. C'è un monumento di pietra, o un'iscrizione, sulla tomba o nella tomba, che indica la strada per raggiungere quella del faraone.» Nicholas esalò un respiro fra i denti. «Saltare da una conclusione all'altra mi sfinisce. Che altri indizi mi ha scovato?» «È tutto», disse lei, e Nicholas la fissò incredulo. «È tutto? Non c'è altro?» chiese, e Royan scosse la testa. «Supponiamo che finora abbia avuto ragione», riprese lui dopo una breve pausa. «Supponiamo che il fiume abbia conservato la configurazione di tanti secoli fa. Supponiamo che Taita ci stia indirizzando verso la seconda cascata, al fiume Dandera. Che cosa dobbiamo cercare, quando arriveremo là? Se c'era un'iscrizione scolpita nella pietra, sarà ancora intatta, oppure sarà stata erosa dalle intemperie e dall'azione del fiume?» «Howard Carter aveva indizi altrettanto vaghi per arrivare alla tomba di Tutankhamon», fece osservare Royan. «Un frammento di papiro di dubbia Wilbur Smith
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autenticità.» «Howard Carter doveva cercare solo nell'area della Valle dei Re, e nonostante questo ci mise dieci anni», ribatté Nicholas. «Qui stiamo parlando dell'Etiopia, un Paese grande il doppio della Francia. Quanto tempo crede che impiegheremo?» Lei si alzò bruscamente. «Mi scusi, ma devo andare a trovare mia madre all'ospedale. È chiaro che qui sto perdendo tempo.» «Non è ancora l'orario di visita.» «Mia madre è in una stanza privata.» Royan si avviò verso la porta. «L'accompagno io con la macchina», propose Nicholas. «Non si disturbi. Farò chiamare un taxi», replicò lei in tono gelido. «Un taxi ci metterà un'ora.» Royan si rabbonì quanto bastava per permettergli di accompagnarla con il Range Rover. Viaggiarono in silenzio per un quarto d'ora, poi lui parlò. «Non sono bravo a scusarmi. Non ho molta pratica. Comunque mi dispiace. Sono stato troppo brusco. Non volevo. Mi sono lasciato trascinare dall'eccitazione del momento.» Lei non rispose. Dopo un po' Nicholas continuò: «Dovrà decidersi a parlare con me, a meno che voglia corrispondere esclusivamente per iscritto, e sarà piuttosto difficile nella gola dell'Abay». «Avevo l'impressione che non le interessasse più andarci.» Royan guardava fisso davanti a sé. «Sono un bruto», ammise Nicholas, e Royan gli lanciò un'occhiata. Lo vide sorridere in modo irresistibile, e rise. «Immagino che dovrò rassegnarmi all'idea. Lei è un bruto.» «Siamo ancora soci?» «Per il momento è l'unico bruto su cui posso contare, quindi dovrò accontentarmi.» Nicholas la fece scendere all'entrata principale dell'ospedale. «Passerò a prenderla alle tre», disse, e proseguì verso il centro di York. Fin dai tempi dell'università, Nicholas aveva un appartamentino in una delle viuzze dietro la cattedrale. La costruzione era registrata a nome di una società nelle isole Cayman, e il telefono con il numero riservato non passava attraverso un centralino interno. Era impossibile scoprire che il proprietario era lui. Prima di conoscere Rosalind, l'appartamento aveva avuto una parte importante nella sua vita di relazione, ma ormai Nicholas lo usava solo per trattarvi affari riservati e clandestini. Era lì che aveva Wilbur Smith
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pianificato e organizzato le spedizioni in Libia e in Iraq. Da mesi non usava l'appartamento, che era freddo, odoroso di muffa, poco invitante. Accese il fuoco a gas nel camino e riempì il bricco. Poi, quando ebbe davanti una teiera fumante, chiamò una banca di Jersey e subito dopo una delle Cayman. «Un topo saggio ha una tana con più di un'uscita.» Era una massima di famiglia, tramandata di generazione in generazione. Doveva esserci sempre qualcosa da parte, per ogni eventualità. Aveva bisogno di fondi per la spedizione, e gli avvocati avevano già bloccato quasi tutto. Diede le parole d'ordine e i numeri di conto ai direttori delle due banche e chiese di provvedere a certi trasferimenti. Lo sorprendeva sempre vedere con quanta facilità si potevano combinare le cose, quando si aveva il denaro. Consultò l'orologio. In Florida era ancora mattina presto, ma Alison rispose al secondo squillo. Alison, una biondina efficiente e piena di vitalità, dirigeva la Global Safari, una società che organizzava spedizioni di caccia e pesca nelle località più remote del mondo. «Ciao, Nick. Non ti fai vivo da più di un anno. Pensavamo che non ci amassi più.» «Sono rimasto per un po' fuori del giro», ammise lui. In quale modo si può comunicare agli altri che tua moglie e le tue due figlie sono morte? «Etiopia?» Alison non sembrava sconcertata dalla richiesta. «Quando vorresti partire?» «Andrebbe bene la settimana prossima?» «Vuoi scherzare? Là lavoriamo con un solo cacciatore, Nassous Roussos, ed è prenotato per due anni.» «Non c'è nessun altro?» insistette lui. «Devo andare e tornare prima delle grandi piogge.» «Che trofei t'interessano? Nyala di montagna?» «Ho intenzione di raccogliere esemplari per il museo lungo il fiume Abay», tagliò corto Nicholas. Alison esitò, poi disse con riluttanza: «Sia chiaro che non siamo noi a raccomandarlo. C'è solo un cacciatore che può accompagnarti con un preavviso così breve, ma non so neppure se ha un campo sul Nilo Azzurro. E' russo, e abbiamo notizie contraddittorie sul suo conto. Certuni dicono che era del KGB e faceva parte dei gorilla di Menghistu». Menghistu era lo «Stalin nero» che aveva deposto e probabilmente Wilbur Smith
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assassinato l'anziano imperatore Hayla Sellase, e in quattordici anni di dispotico dominio aveva messo in ginocchio l'Etiopia. Quando il suo protettore, l'impero sovietico, si era dissolto, Menghistu era stato spodestato e aveva ottenuto asilo politico all'estero. «Sono così disperato che potrei addirittura andare a letto con il diavolo», borbottò Nicholas. «Comunque ti prometto che non mi lamenterò con te.» «D'accordo, allora, niente proteste.» Alison gli diede un nome e un numero di telefono di Addis Abeba. «Ti amo, Alison», disse Nicholas. «Vorrei che fosse vero», rispose lei, e riattaccò. Nicholas sapeva bene che telefonare ad Addis Abeba non sarebbe stato semplice. Alla fine, però, ottenne la comunicazione. Gli rispose una donna dal dolce accento etiope, che passò all'inglese quando lui le chiese di Boris Brusilov. «Al momento è fuori per un safari», rispose la donna. «Io sono woizero Tessay, sua moglie.» In Etiopia, la moglie non assume il cognome del marito. Nicholas ricordava quella lingua quanto bastava per sapere che il nome significava «signora Sole», un nome molto grazioso. «Però, se si tratta di un safari, posso aiutarla io», disse la signora Sole. Nicholas andò ad attendere Royan davanti all'entrata dell'ospedale. «Come sta sua madre?» «La gamba va bene. Ma è ancora disperata per Magic, il suo cane.» «Dovrà procurarle un cucciolo. Uno dei miei guardacaccia alleva magnifici cocker spaniel. Ci penserò io.» Nicholas s'interruppe, poi chiese gentilmente: «Come farà a lasciare sua madre? Voglio dire, se andremo in Africa...» «Le ho già parlato. C'è una donna della sua parrocchia che starà con lei fino a che non sarà di nuovo in grado di cavarsela da sé.» Royan si girò sul sedile per squadrarlo. «Ha combinato qualcosa, dall'ultima volta che ci siamo visti», disse in tono d'accusa. «Glielo leggo in faccia.» Nicholas fece lo scongiuro anti malocchio usato dagli arabi. «Allah mi salvi dalle streghe!» «Oh, andiamo!» Lui riusciva a farla ridere con tanta facilità che Royan non capiva se fosse un bene o un male. «Mi dica quale asso nasconde nella manica.» «Aspetti che torniamo al museo.» Nicholas non si lasciò smuovere, e lei Wilbur Smith
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fu costretta a frenare l'impazienza. Non appena entrarono, lui la condusse attraverso la sala egizia, l'accompagnò in quella dei mammiferi africani e la fece fermare davanti a un diorama con le antilopi impagliate. C'erano alcune delle varietà più piccole e di media taglia: impala, gazzelle di Grant e di Thomson, gerenuk e altre. «Madoqua harperii», disse indicando un animaletto minuscolo in un angolo del diorama. «Il dik-dik di Harper, conosciuto anche come dik-dik striato.» Era una bestiola apparentemente priva d'interesse, non molto più grande di una grossa lepre. Il manto bruno era striato di marrone scuro sulle spalle e sul dorso, e il naso era allungato in una proboscide pensile. «Non è molto bello.» Royan espresse con prudenza la sua opinione: non voleva offendere Nicholas, che sembrava straordinariamente orgoglioso di quell'esemplare. «Che cos'ha di speciale?» «Speciale?» ribatté lui in tono meravigliato. «Questa donna vuol sapere che cos'ha di speciale?» Alzò gli occhi al cielo e Royan rise di nuovo. «È l'unico esemplare conosciuto. È uno degli animali più rari della terra, così raro che con ogni probabilità è ormai estinto. Così raro che molti zoologi lo considerano un falso e ritengono che non sia mai esistito. Pensano che la buonanima del mio bisnonno, dal quale prende il nome, lo ■ avesse, per così dire, 'inventato'. Un esperto insinuò addirittura che lui avesse preso la pelle di una mangusta striata, montandola poi sulla sagoma di un comune dik-dik. Riesce a immaginare un'accusa più ingiusta?» «C'è da inorridire al solo pensiero», rise lei. «Proprio così. Ed ecco perché andremo in Africa a dare la caccia a un altro esemplare di Madoqua harperii: per vendicare l'onore della famiglia.» «Non capisco.» «Venga con me e capirà.» Nicholas la ricondusse nello studio e prese dalla scrivania un volume rilegato in cuoio rosso. La copertina era sbiadita e macchiata dall'acqua e dal sole tropicale, gli angoli e il dorso erano sfrangiati e ammaccati. «È il diario di caccia del vecchio sir Jonathan», spiegò nell'aprirlo. Fra le pagine erano pressati fiori selvatici e foglie che dovevano essere lì da quasi un secolo. Il testo era illustrato da disegni tracciati con un inchiostro giallastro e che mostravano uomini, animali e paesaggi. Wilbur Smith
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«'2 febbraio 1902'», lesse Nicholas. «'Accampati sul fiume Abay. Seguito per tutto il giorno le tracce di due grossi maschi d'elefante. Non li abbiamo raggiunti. Caldo intenso. Miei uomini esausti. Abbandonata la caccia, fatto ritorno al campo. Durante la marcia, avvistata una piccola antilope che pascolava sulla riva. L'ho abbattuta con un colpo del Rigby piccolo. Osservata da vicino è risultata appartenere al genere Madoqua rhyncho-tragus, ma era una specie che non avevo mai visto, più grande del dik-dik comune e con il manto striato. Credo che sia sconosciuta alla scienza.'» Alzò gli occhi dal diario. «Il bisnonno Jonathan ci ha offerto il pretesto ideale per andare nella gola dell'Abay.» Chiuse il volume e proseguì: «Come mi ha fatto notare, per preparare una spedizione nostra ci vorrebbero mesi, e costerebbe un patrimonio. E dovremmo ottenere l'approvazione e l'autorizzazione del governo etiope. In Africa spesso occorrono addirittura anni». «Non credo che il governo etiope sarebbe disposto a collaborare se sospettasse le nostre vere intenzioni», ammise Royan. «D'altra parte, esiste un certo numero di società regolari che organizzano safari di caccia in tutto il Paese. Hanno tutti i permessi, i contatti a livello governativo, i veicoli, l'equipaggiamento e l'appoggio logistico necessari per andare e venire anche nelle zone più remote. Le autorità sono abituate ai cacciatori stranieri che partecipano alle spedizioni organizzate da queste società, mentre due ferengi che vanno in giro soli a curiosare si vedrebbero piombare addosso i militari e tutto il resto come un branco di bufali inferociti.» «Quindi viaggeremo come due cacciatori di dik-dik?» «Ho già fatto le prenotazioni con un organizzatore di safari di Addis Abeba. Il mio piano è questo: dividere il nostro progetto in tre fasi distinte e separate. La prima sarà la ricognizione. Se troveremo la pista buona, torneremo con uomini ed equipaggiamento nostri, e sarà la seconda fase. La terza fase, naturalmente, consisterà nel portare il bottino fuori dell'Etiopia, e in base alle esperienze del passato le assicuro che non sarà la parte più facile dell'operazione.» «E come farà...» attaccò Royan, ma lui alzò le mani per interromperla. «Non me lo chieda perché per il momento non ho neppure la più vaga idea di quel che potremmo fare. Una fase alla volta.» «Quando partiamo?» Wilbur Smith
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«Prima che glielo dica, mi permetta di farle ancora una domanda. La sua interpretazione dell'enigma di Taita... era contenuta negli appunti che sono stati rubati nell'oasi?» «Sì. Era tutto negli appunti o nei microfilm. Mi dispiace.» «Quindi i cattivi sanno tutto quello che ha spiegato a me?» «Sì, purtroppo.» «Allora, alla domanda: 'Quando partiamo?', io rispondo: 'Tout de suite'. Al più presto possibile. Dobbiamo entrare nella gola dell'Abay prima che la concorrenza ci preceda. Ormai hanno nelle mani le sue conclusioni e le sue ipotesi da quasi un mese. Per quel che ne sappiamo, possono essere già in viaggio.» «Quando partiamo?» ripeté lei, impaziente. «Ho prenotato due posti sul volo della British Airways per Nairobi di sabato prossimo, cioè fra due giorni. A Nairobi prenderemo il volo dell'Air Kenya che ci porterà ad Addis Abeba lunedì verso mezzogiorno. Abbiamo appena il tempo sufficiente per equipaggiarla. Questa sera andremo a Londra e alloggeremo in casa mia. È a posto con le vaccinazioni contro la febbre gialla e l'epatite?» «Sì, ma non ho equipaggiamento e ho pochissimi capi di vestiario. Ho lasciato il Cairo piuttosto in fretta.» «Provvederemo a Londra. Il guaio è che in Etiopia fa abbastanza freddo per evirare una scimmia di bronzo sugli altipiani, e nella gola fa tanto caldo che sembra d'essere in una sauna.» Nicholas andò al tabellone e cominciò a spuntare gli oggetti nell'elenco. «Dobbiamo incominciare subito il trattamento profilattico contro la malaria. Andremo in un'area dove prospera il Plasmodium falciparum resistente alla clorochina, quindi le farò prendere il Mefloquine... Poi, che altro c'è? Be', è chiaro che tutti i suoi documenti sono in ordine, altrimenti non sarebbe qui. Avremo bisogno dei visti d'ingresso per l'Etiopia; ma ho un conoscente che può provvedere in ventiquattr'ore.» Appena ebbe terminato la Usta, mandò Royan a riempire il borsone con i pochi effetti personali che aveva portato dal Cairo. Quando furono pronti a lasciare Quenton Hall, fuori era buio; Nicholas comunque si fermò allo York Minster Hospital perché Royan potesse salutare la madre. L'attese per un'oretta nel pub Red Lion dall'altra parte della strada, e quando la donna risalì a bordo del Range Rover sentì un vago odore di Theakstons Bitter Ale. Era un piacevole aroma di lievito, e Wilbur Smith
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lei si sentiva così a suo agio che, dopo essersi sistemata sul sedile, si addormentò. La casa di Nicholas a Londra era a Knightsbridge e, sebbene si trovasse in una delle zone più di moda, era molto meno grandiosa di Quenton Hall. Royan in un certo senso la preferiva, anche se si trattava di abitarci solo per un paio di giorni. Vedeva poco Nicholas, occupato con gli impegni dell'ultimo momento, incluse parecchie visite agli uffici governativi di Whitehall. Tornò con pacchi di lettere di presentazione per alti funzionari, ambasciate britanniche e alti commissari di tutta l'Africa orientale. «Basta chiederlo a qualunque inglese», pensava lei con un sorriso. «Non esistono più privilegi delle classi superiori e la rete delle vecchie amicizie non domina più il Paese.» Nicholas le aveva consegnato una sorta di lista della spesa, così lei se ne andò in giro a fare acquisti. Persino mentre camminava per le vie della capitale più sicura del mondo, Royan si sorprendeva a guardarsi alle spalle: entrava e usciva dalle toelette per signore e dalle stazioni della metropolitana per accertarsi che nessuno la seguisse. «Ti comporti come una bambina atterrita che va in giro senza papà», si rimproverò. La sera provava comunque un incredibile senso di sollievo quando sentiva la chiave girare nella serratura, e doveva fare uno sforzo per trattenersi dal corrergli incontro per la scala. Il sabato mattina, quando un taxi li lasciò davanti al settore partenze dell'Heathrow Terminal 4, Nicholas lanciò uno sguardo di approvazione ai loro bagagli. Lei aveva ancora un unico borsone di tela non più grande del suo, e portava un'altra borsa a tracolla. Il fucile da caccia era nella logora custodia di cuoio con il monogramma. Cento cartucce erano riposte in un caricatore separato, e in più lui aveva una cartella di pelle che sembrava una reliquia vittoriana. «Viaggiare con poco bagaglio è una delle virtù più grandi. Il Signore ci salvi dalle donne con una montagna di valigie», disse. Rifiutò l'aiuto di un facchino, buttò tutto su un carrello e lo spinse personalmente. Royan fu costretta ad allungare il passo per stargli dietro, mentre attraversava l'affollata sala partenze. Miracolosamente, la calca si aprì Wilbur Smith
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davanti a lui. Nicholas abbassò su un occhio la tesa del panama e sorrise maliziosamente alla ragazza al banco del check-in, che diventò di colpo premurosissima. La scena si ripeté quando furono a bordo. Le due hostess ridacchiavano ogni volta che lui parlava, gli offrivano champagne e lo circondavano di attenzioni con evidente irritazione degli altri passeggeri, inclusa Royan. Decise d'ignorare Nicholas e le hostess, e si mise tranquilla per godersi il lusso del sedile reclinabile di prima classe e del videoschermo in miniatura. Cercò di concentrarsi sull'immagine di Richard Gere, ma il suo pensiero tornava sempre ad altre immagini, quelle di canyon selvaggi e di antiche steli. Solo quando Nicholas le urtò leggermente il gomito, si voltò a guardarlo con una certa alterigia. Lui aveva piazzato una piccola scacchiera da viaggio sul bracciolo: inarcò un sopracciglio e chinò la testa in segno d'invito. Quando atterrarono all'aeroporto Jomo Kenyatta di Nairobi erano ancora impegnati nella battaglia. Erano in parità con due vittorie ciascuno, ma lei aveva un vantaggio di un alfiere e due pedoni nella partita decisiva. Royan era molto soddisfatta di sé. Lui aveva prenotato due bungalow nel giardino del Norfolk Hotel, uno per ciascuno. Royan si era buttata sul letto da cinque minuti quando la chiamò con il telefono interno. «Stasera andremo a cena con l'alto commissario britannico. È un vecchio amico. Si vesta in modo informale. Può essere pronta per le otto?» A quanto pareva, non era necessario adattarsi a condizioni di vita troppo scomode quando si viaggiava per il mondo in compagnia di quell'uomo. La trasferta da Nairobi ad Addis Abeba era relativamente breve, e il paesaggio sottostante si dispiegava in sequenze così affascinanti che Royan non staccò mai gli occhi dal finestrino dell'aereo dell'Air Kenya. La sommità candida del monte Kenya era eccezionalmente libera dalle nubi, e la neve che ammantava i picchi gemelli scintillava nel sole. I deserti bruni della regione della frontiera settentrionale erano punteggiati solo dalle colline verdi che circondavano l'oasi di Marsabit e lontano, sulla sinistra, dalle acque luccicanti del lago Rodolfo. Finalmente il deserto lasciò il posto agli altipiani centrali dell'antica terra d'Etiopia. «In Africa, soltanto gli egizi avevano una civiltà ancora più antica», commentò Nicholas mentre osservava lo spettacolo insieme a Royan. Wilbur Smith
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«Erano una razza già evoluta quando noi, popoli dei climi settentrionali, vestivamo ancora di pelli non conciate e vivevamo nelle caverne. Erano cristiani quando gli europei erano ancora pagani e veneravano gli antichi dei, Pan e Diana...» «Erano civilizzati quando Taita passò di qui, quasi quattromila anni fa», riconobbe Royan. «Nei suoi papiri lì descrive come se fossero quasi suoi pari da un punto di vista culturale, il che è un atteggiamento piuttosto insolito, dato che disprezzava come inferiori tutte le altre nazioni del mondo a lui contemporaneo.» Vista dall'alto, Addis Abeba era simile a tante altre città africane, un miscuglio di vecchio e nuovo, di stili architettonici tradizionali ed esotici. C'erano tetti di paglia accanto alle lamiere e alle piastrelle, e i muri rotondi dei vecchi tucul costruiti con argilla e canne contrastavano con le forme rettangolari e le linee geometriche delle costruzioni in mattoni a molti piani; i caseggiati e le ville dei ricchi, gli uffici governativi e la grandiosa sede imbandierata dell'OUA, l'Organizzazione dell'unità africana. Le caratteristiche distintive della campagna circostante erano le piantagioni di eucalipti, gli onnipresenti blue gums che fornivano legna da ardere, l'unico combustibile a disposizione di tanti abitanti di quella terra povera e dilaniata dalla guerra, sconvolta nel corso dei secoli da eserciti di saccheggiatori e, in tempi più recenti, da varie dottrine politiche d'importazione. Dopo Nairobi, a quell'altitudine l'aria era fresca e dolce. Royan e Nicholas lasciarono l'aereo e si avviarono attraverso la pista per raggiungere il terminal. Non appena entrarono, ancora prima che si fossero avvicinati ai funzionari dell'immigrazione, qualcuno chiamò. «Sir Nicholas!» Si voltarono entrambi e videro una donna alta e giovane che veniva loro incontro con la grazia di una danzatrice. Il bel volto scuro era rischiarato da un sorriso di benvenuto. Portava le lunghe gonne tradizionali che mettevano in risalto l'armoniosità dei suoi movimenti. «Benvenuti nella mia Etiopia. Sono woizero Tessay.» Guardò Royan, incuriosita. «E lei deve essere woizero Royan.» Tese la mano e Nicholas notò che le due donne si trovavano simpatiche a prima vista. «Se volete darmi i passaporti, sbrigherò le formalità mentre riposate nella lounge dei VIP. C'è un signore dell'ambasciata britannica che la sta aspettando per salutarla, sir Nicholas. Non so come sia stato informato del suo arrivo.» Wilbur Smith
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Nella lounge dei VIP c'era una sola persona. Portava un abito tropicale di buon taglio e la cravatta a strisce diagonali arancioni, gialle e blu degli ex allievi di Sandhurst. Si alzò e andò subito incontro a Nicholas. «Nicky, come va? È un piacere rivederti. Devono essere passati dodici anni, no?» «Salve, Geoffrey. Non immaginavo che ti avessero spedito qui.» «Sono l'addetto militare. L'ambasciatore mi ha mandato a riceverti appena ha saputo che eravamo a Sandhurst insieme.» Geoffrey guardò Royan con palese interesse, e Nicholas si rassegnò a presentarli. «Geoffrey Tennant. Si guardi da lui. È il peggior libertino a nord dell'equatore. Nessuna ragazza è al sicuro a meno di un chilometro da lui.» «Ehi, calma», protestò Geoffrey, anche se sembrava lusingato dalla descrizione di Nicholas. «Non creda a una sola parola di quel che racconta costui, dottoressa Al Simma. È un famigerato prevaricatore.» Geoffrey prese in disparte Nicholas e gli fece un rapido riepilogo della situazione nel Paese, soprattutto nelle zone lontane dalla capitale. «L'ambasciatore è un po' preoccupato. Non gli sorride l'idea che voi due andiate in giro da soli. Nel Gojam circola un rispettabile numero di delinquenti allo stato brado. Gli ho risposto che sai badare a te stesso.» Woizero Tessay tornò quasi subito. «Ho sdoganato i vostri bagagli, inclusi il fucile e le munizioni. Ecco il vostro permesso temporaneo. Tenetelo sempre con voi finché restate in Etiopia. Ecco i passaporti, con i visti d'entrata. Tutto in regola. Il vostro aereo per il lago Tana parte fra un'ora, quindi abbiamo tempo per il check-in.» «Se mai avrà bisogno di un lavoro, si rivolga a me», la complimentò Nicholas. Geoffrey Tennant li accompagnò fino all'uscita delle partenze e strinse loro la mano. «Se posso fare qualcosa, sono a disposizione. 'Servire per comandare', Nicky.» «Servire per comandare?» chiese Royan mentre raggiungevano l'aereo. «È il motto dell'accademia di Sandhurst», spiegò lui. «È molto bello, Nicky», mormorò lei. «Ho sempre pensato che Nicholas sia più dignitoso e appropriato.» «Sì, ma Nicky ha un suono così dolce...» Nell'aria rarefatta, il bimotore Otter che li portava a destinazione rollava e beccheggiava nelle correnti che salivano dalle montagne sottostanti. Sebbene fossero cinquemila metri sopra il livello del mare, il terreno era Wilbur Smith
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abbastanza vicino per vedere i villaggi e i tratti coltivati che li circondavano. Sfruttata da secoli in modo irrazionale e soggetta al pascolo incontrollato delle mandrie domestiche, la terra aveva perso vigore, e le rocce, simili a ossa, spuntavano attraverso il sottile strato rosso di humus. L'altopiano che stavano sorvolando era però dilaniato da un abisso mostruoso, come se la terra avesse ricevuto nelle viscere un poderoso colpo di spada. «Il fiume Abay!» Tessay si sporse sul sedile per battere la mano sulla spalla di Royan. L'orlo della gola era tagliato nettamente, e i pendii discendevano a un angolo superiore ai trenta gradi. Le pianure spoglie del pianoro lasciavano il posto alle pareti fittamente alberate della gola. Erano visibili le sagome a candelabro delle euforbie giganti che s'innalzavano sopra la giungla. In certi punti, le pareti erano crollate in pendii di rocce frantumate, in altri si ergevano in alture e guglie che l'erosione aveva scolpito mostruosamente in figure di umanoidi torreggianti e di altre fantastiche creature di pietra. La gola scendeva e scendeva; l'aereo la sorvolò fino a che poterono scorgere, millecinquecento metri più in basso, il serpente scintillante che si snodava nelle profondità. La forma a imbuto delle pareti superiori costituiva un secondo orlo dove raggiungevano i dirupi perpendicolari della subgola, centocinquanta metri sopra il Nilo. Laggiù, fra gli strapiombi terribili, il fiume scavava nell'arenaria rossa lanche scure e lunghi tratti serpentini. In certi punti la gola era ampia almeno sessanta chilometri, in altri si restringeva a meno di dieci, ma l'impressione complessiva che se ne ricavava era sia d'infinita grandiosità sia di immane desolazione. In quel luogo, l'uomo non aveva lasciato segni. «Fra poco sarete laggiù», disse Tessay in un tono intimidito che era quasi un sussurro. Tacquero entrambi. Le parole erano superflue di fronte a quella natura selvaggia. Quasi con sollievo videro la parete settentrionale venire loro incontro. I monti della catena del Choke si ergevano contro l'azzurro cielo africano, più alti della quota cui volava il piccolo, fragile aereo. Il bimotore virò e scese, e Tessay indicò al di là della punta dell'ala destra. «Il lago Tana», spiegò. Era uno specchio d'acqua grande e bellissimo, lungo più di ottanta chilometri e costellato d'isole che ospitavano ciascuna un monastero o una chiesa antica. Quando si abbassarono per atterrare Wilbur Smith
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videro i preti biancovestiti che si spostavano da un'isola all'altra a bordo delle piccole imbarcazioni tradizionali di papiro. L'Otter si portò sulla pista di terra battuta in riva al lago e sollevò una lunga nube di polvere. Si girò e fermò i motori accanto all'edificio malconcio del terminal che aveva il tetto di paglia. Il sole era così fulgido che Nicholas prese un paio di occhiali dal taschino della giacca color kaki e l'inforcò non appena mise piede sulla scaletta. Vide i muri biancastri del terminal crivellati dai segni dei proiettili e degli shrapnel. Sull'erba, al bordo della pista, c'era la carcassa bruciata di un carro armato russo T35. Il cannone della torretta puntava verso est, e l'erba era cresciuta fra i cingoli arrugginiti. Gli altri passeggeri si accalcavano impazienti dietro di lui, e dalle loro voci traspariva l'ansia d'incontrare i parenti e gli amici che li aspettavano sotto gli eucalipti intorno alla costruzione. C'era un solo veicolo, un Land Cruiser Toyota color sabbia. Sulla portiera, dalla parte del guidatore, campeggiava uno stemma rotondo con la testa di un nyala di montagna dalle lunghe corna a cavatappi, e sotto un nastro con la scritta WILD CHASE SAFARIS. Al volante c'era un bianco. Quando Nicholas scese la scaletta dietro le due donne, l'uomo uscì dal fuoristrada e andò loro incontro. Indossava un abito da caccia kaki molto sbiadito. Era alto e magro e camminava con passo scattante. «Dev'essere sulla quarantina», si disse Nicholas, calcolando l'età dai peli brizzolati che spiccavano nella corta barba. «Un tipo duro», pensò poi. I capelli rossastri erano tagliati molto corti, gli occhi erano di un celeste gelido. Una cicatrice bianca gli attraversava la guancia e saliva a distorcere il naso. Tessay gli presentò Royan, e l'uomo accennò un secco inchino mentre le stringeva la mano. «Enchanté», disse lui in un francese davvero non perfetto. Quindi guardò Nicholas. «Questo è mio marito, alto Boris», lo presentò Tessay. «Boris, questo è alto Nicholas.» «Parlo malissimo l'inglese», spiegò Boris. «Me la cavo meglio con il francese.» «C'è poco da scegliere», pensò Nicholas, ma sorrise con disinvoltura e disse: «Allora parleremo in francese. Bonjour, monsieur Brusilov. Lieto di fare la sua conoscenza». E tese la mano. La stretta di Boris era forte, anche troppo. Trasformava il saluto in una Wilbur Smith
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competizione, ma Nicholas se l'aspettava. Conosceva quel tipo d'uomo; e gli strinse la mano in modo che Boris non potesse schiacciargli le dita. Continuò a trattenerlo senza permettere che lo sforzo alterasse il suo sorriso pigro. Boris fu il primo a ritirare la mano, e negli occhi chiari apparve una sfumatura di rispetto. «Dunque siete venuto per un dik-dik?» chiese con aria quasi sprezzante. «Quasi tutti i miei clienti vengono in cerca di elefanti, o almeno di nyala di montagna.» «Un po' troppo grossi per il mio carattere», sorrise Nicholas. «I dik-dik andranno benissimo.» «È mai stato nella gola?» chiese Boris. L'accento russo sopraffaceva le parole francesi e le rendeva difficili da comprendere. «Sir Nicholas era uno dei capi della spedizione del 1976», intervenne soavemente Royan, e Nicholas trovò divertente quell'intromissione: la donna aveva notato subito l'antagonismo fra i due uomini, ed era venuta in suo soccorso. Boris sbuffò e si rivolse alla moglie. «Hai portato tutte le provviste che avevo ordinato?» chiese. «Sì, Boris», rispose lei. «Sono a bordo dell'aereo.» Nicholas pensò che woizero Tessay aveva paura del marito... e probabilmente a ragione. «Allora carichiamole. Ci attende un lungo viaggio», disse Boris. I due uomini presero posto sui sedili anteriori del Toyota, e le donne dietro, con molti sacchi di provviste. Nicholas sorrise tra sé; era il tipico atteggiamento africano: prima gli uomini, e che le donne si arrangino. «Non volete fare il percorso turistico, vero?» chiese Boris in tono quasi minaccioso. «Il percorso turistico?» «Lo sbocco del lago e la centrale elettrica», spiegò Boris. «Il ponte portoghese sulla gola è in un punto dove nasce il Nilo Azzurro.» Ma, prima che potessero rispondere, li avvertì: «Allora non arriveremo al campo prima di notte inoltrata». «Grazie per il suggerimento», rispose educatamente Nicholas. «Però ho già visto tutto quanto.» «Bene», disse Boris in tono di approvazione. «Andiamo.» La strada puntava verso ovest, al di sotto delle alte montagne. Quello era il Gojam, la terra dei montanari, una zona piuttosto popolosa. Incontrarono molti uomini lungo la strada: procedevano con i greggi di capre e di pecore Wilbur Smith
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e portavano sulle spalle i lunghi bastoni. Uomini e donne indossavano gli shammas, i tipici scialli di lana, ampi calzoni bianchi e sandali. Avevano volti belli e orgogliosi, e i capelli acconciati in aureole folte. Gli occhi erano fieri come quelli delle aquile. Alcune delle donne più giovani che incontravano nei villaggi erano autentiche bellezze. Quasi tutti gli uomini erano armati: portavano due spade nei foderi intarsiati d'argento, e fucili d'assalto AK47. «Così si sentono grandi uomini», ridacchiò Boris. «Molto coraggiosi, molto macho.» Le capanne del villaggio erano tucul rotondi, circondati da piantagioni di eucalipti e di agave. I nuvoloni violacei ribollivano sopra le vette della catena del Choke e l'investivano con brevi acquazzoni. Come monete argentee, le grosse gocce battevano contro il parabrezza del fuoristrada e trasformavano la strada in un torrente di fango. Le condizioni della strada erano spaventose. In certi punti si trasformava in un canalone roccioso che neppure le quattro ruote motrici del Toyota potevano affrontare, e Boris era costretto a deviare attraverso i pendii. Spesso erano costretti a procedere a passo d'uomo, sbatacchiati sui sedili quando le ruote sobbalzavano sul terreno accidentato. «Quei maledetti negri non pensano neppure a riparare le strade», borbottò Boris. «A loro piace vivere come animali.» Nessuno degli altri rispose, ma Nicholas guardò le donne nello specchietto retrovisore. I loro volti erano impenetrabili, e nascondevano l'irritazione che forse provavano per quel commento. Via via che proseguivano, la strada, già pessima, peggiorò ulteriormente. A un certo punto, Nicholas notò che la superficie molle e fangosa era stata alterata dalle ruote e dai cingoli di un traffico intenso. «Traffico militare?» chiese, alzando la voce per farsi sentire nel fragore della pioggia. «In parte», borbottò Boris. «Lungo la gola ci sono molti sciftà, banditi e ribelli. Ma in maggioranza il traffico è legato alla prospezione mineraria. Una grossa compagnia ha ottenuto concessioni nel Gojam e si prepara a cominciare le trivellazioni.» «Non abbiamo incontrato veicoli civili», osservò Royan. «Neppure autobus pubblici.» «Siamo appena usciti da una fase terribile della nostra storia così lunga e travagliata», spiegò Tessay. «La nostra economia si basa sull'agricoltura. Wilbur Smith
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Una volta eravamo il granaio dell'Africa; ma quando Menghistu s'impadronì del potere, ci spinse nell'abisso della miseria. Affamare il popolo era per lui un'arma politica, e noi ne soffriamo ancora moltissimo. Sono pochi quelli che possono concedersi il lusso di un veicolo a motore: in maggioranza si chiedono come faranno a sfamare i figli.» «Tessay è laureata in economia all'università di Addis Abeba», rise Boris. «È molto intelligente e sa tutto. Potete chiederle quello che volete: storia, religione, economia...» A quel commento ironico, Tessay si chiuse di nuovo nel silenzio. A metà del pomeriggio, la pioggia finalmente smise di cadere e un sole timido s'affacciò fra le nubi. Boris fermò il Toyota in un tratto deserto di campagna. «Sosta», annunciò. «Breve fermata per fare pipì.» Le due donne scesero e si allontanarono fra le rocce. Quando tornarono, si erano cambiate: tutte e due indossavano gli shammas e i pantaloni abbondanti in uso nel Paese. «Tessay mi ha regalato un costume tradizionale del Tigrai», annunciò Royan, e girò su se stessa per mostrarlo a Nicholas. «È bellissimo», disse lui. «Inoltre con i pantaloni starà molto più comoda.» Il sole si stava abbassando nel cielo quando imboccarono una strada che discendeva in una valle rocciosa, percorsa da un fiume le cui rive scoscese erano vistosamente erose. Al di sopra del fiume era annidata un'altra chiesa bianca con la croce copta di legno sul tetto di paglia. Era circondata dal villaggio formato da tucul. «Debra Mariam», annunciò soddisfatto Boris. «La collina della Vergine Maria. Il fiume è il Dandera. Ho mandato avanti i miei uomini con il camion grande. Prepareranno il campo e ci aspetteranno. Stanotte dormiremo qui e domani seguiremo il fiume verso valle fino all'inizio della gola.» I collaboratori di Boris avevano montato le tende in un boschetto di eucalipti poco oltre il villaggio. «La seconda tenda è la vostra», disse Boris indicandola. «Andrà benissimo per Royan», rispose Nicholas. «Ma ne occorre un'altra per me.» «Dik-dik e tende separate.» Boris lo squadrò con gli occhi celesti. «Diavolo di un uomo. È sensazionale.» Gridò ai suoi di montare la tenda di Nicholas accanto all'altra: i teli Wilbur Smith
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laterali quasi si toccavano. «Forse troverà il coraggio durante la notte», disse a Nicholas con un sorriso malizioso. «Non voglio che debba fare troppa strada.» La doccia era formata da un bidone appeso ai rami bassi di un eucalipto e circondata da uno schermo di tela. Royan l'usò per prima e tornò allegra e rinfrescata, con un asciugamano umido avvolto intorno alla testa. «Tocca a lei, Nicky», disse a Nicholas mentre passava accanto alla sua tenda. «L'acqua è piacevolmente calda.» Era ormai buio quando Nicholas ebbe finito di fare la doccia e di cambiarsi, ed entrò nella tenda-sala da pranzo, dove gli altri erano seduti intorno al fuoco sulle sedie pieghevoli. Le due donne stavano un po' in disparte e parlavano a voce bassa. Boris teneva i piedi sul tavolo e aveva in mano un bicchiere. Indicò la bottiglia di vodka quando Nicholas entrò nel cerchio della luce del fuoco. «Si serva pure. Il ghiaccio è nel secchiello.» «Preferisco una birra», rispose Nicholas. «Il viaggio mi ha fatto venir sete.» Boris alzò le spalle e gridò al capo dei servitori di prendere una bottiglia dal frigorifero portatile. «Lasci che le dica una cosa, un piccolo segreto», disse poi a Nicholas, mentre si versava un'altra vodka. «Ormai il dik-dik striato non esiste più, anche ammettendo che un tempo esistesse. Sta sprecando tempo e denaro.» «Benissimo», dichiarò tranquillo Nicholas. «Tanto, il tempo e il denaro che spreco sono miei.» «Anche se qualcuno ha visto un dik-dik striato secoli fa, questo non vuol dire che adesso lei ne troverà un altro. Potremmo andare nelle piantagioni di tè in cerca di elefanti. È là che ho visto tre maschi appena dieci giorni fa. E tutti avevano zanne che dovevano pesare almeno quarantacinque chili.» Mentre discutevano, il livello della vodka scendeva come quello del Nilo al termine della piena. Quando Tessay annunciò che la cena era pronta, Boris prese la bottiglia e si diresse al tavolo barcollando un po'. Durante il pasto, partecipò alla conversazione solo per protestare con Tessay. «L'agnello è crudo. Perché non stai attenta che il cuoco lo arrostisca come si deve? Maledetti scimmioni, bisogna sorvegliare tutto quello che fanno.» «Il suo agnello è poco cotto, alto Nicholas?» chiese Tessay senza Wilbur Smith
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guardare il marito. «Posso dire al cuoco di rimetterlo sul fuoco.» «No, va benissimo così», le assicurò Nicholas. «A me l'agnello piace al sangue.» Prima che la cena terminasse, la bottiglia di vodka era vuota, e Boris aveva la faccia gonfia e arrossata. Si alzò senza pronunciare una parola e sparì nell'oscurità in direzione della tenda, barcollando e saltellando un po' per riprendere l'equilibrio. «Scusatelo», disse Tessay. «Fa così soltanto la sera. Di giorno è normale. E la vodka è una tradizione russa.» Sorrise, ma i suoi occhi avevano un'espressione triste. «È una bella notte, ed è troppo presto per andare a dormire. Vi piacerebbe fare una passeggiata fino alla chiesa? È antica e famosa. Dirò a un servitore di portare una lanterna, così potrete ammirare gli affreschi.» Il servitore li precedette, illuminando la strada. Un vecchio prete li accolse sotto il portico della costruzione circolare. Era magro e aveva la carnagione così scura che nel buio si scorgevano solo i denti. Portava una magnifica croce copta d'argento massiccio, tempestata di corniole e di altre pietre semi preziose. Royan e Tessay s'inginocchiarono per chiedere la sua benedizione e il prete, mormorando una preghiera in amharico, si chinò e toccò le loro guance con la croce. Quindi li condusse nell'interno. Le pareti del portico erano coperte da magnifici affreschi, ottenuti utilizzando solo i colori primari. Le macchie blu violetto, verdi e rosse brillavano come gemme alla luce della lanterna. Lo stile ricordava quello bizantino. I santi avevano enormi occhi a mandorla e grandi aureole dorate. Sull'altare, fra gli arredi di bronzo e di similoro, la Vergine allattava Gesù Bambino, mentre i tre Magi e numerosi angeli stavano inginocchiati in atto di adorazione. Nicholas prese la polaroid dalla tasca della giacca e regolò il flash, poi fece il giro del portico e fotografò gli affreschi, mentre Tessay e Royan s'inginocchiarono davanti all'altare. Quando ebbe terminato di fare le fotografie, Nicholas sedette in uno dei banchi di legno e attese in silenzio, osservando i visi assorti delle due donne che la luce delle candele accendeva di riflessi dorati. La bellezza del momento lo commuoveva. «Vorrei avere una fede come quella», pensò. «Deve essere un vero conforto nei momenti difficili. Sarebbe bello riuscire a pregare così per Wilbur Smith
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Rosalind e per le bambine...» Non resistette più. Uscì, andò a sedere sotto il portico e si mise a contemplare il cielo notturno. A quelle altitudini, nell'aria rarefatta e non inquinata, le stelle erano così fitte e brillanti che era difficile distinguere le singole costellazioni. Dopo un po' la sua tristezza si placò. Era bello essere di nuovo in Africa. Quando finalmente le due donne uscirono, Nicholas consegnò al prete una banconota da cento birr e una foto che lo ritraeva e che il vecchio mostrò di apprezzare più del denaro. Poi i tre ridiscesero la collina, paghi del quieto silenzio che li circondava. «Nicky!» Royan lo scosse per svegliarlo, e quando lui si sollevò a sedere e accese la torcia elettrica si accorse che lei si era buttata addosso lo scialle di lana sopra il pigiama a righe prima di entrare nella tenda. «Che c'è?» le chiese. Ma prima che Royan potesse rispondergli, sentì una voce rauca e rabbiosa che gridava insulti nella notte, poi l'urto inequivocabile di un pugno. «La sta picchiando», disse Royan, indignata. «Deve farlo smettere.» Dopo il colpo si levò un grido di dolore, quindi una serie di singhiozzi angosciati. Nicholas esitò. Solo uno sciocco s'intromette fra marito e moglie, e di solito i due fanno causa comune e si schierano contro di lui. «Deve fare qualcosa, Nicky. La prego!» Controvoglia, Nicholas si alzò. Dormiva con i boxer addosso e non si preoccupò di cercare le scarpe. Royan, scalza anche lei, lo seguì in fondo al boschetto dove c'era la tenda di Boris. All'interno, la luce di una lanterna ingigantiva le ombre sulla tela. Nicholas vide che Boris aveva afferrato la moglie per i capelli e la trascinava per terra urlando in russo. «Boris!» Dovette gridare il nome per tre volte per attirare la sua attenzione. Videro il movimento delle ombre sulla tela quando l'uomo lasciò Tessay e spalancò l'entrata della tenda. Indossava solo un paio di mutande. Il torace era snello e muscoloso, il petto solido, coperto di pelo color rame. In terra, dietro di lui, Tessay era distesa bocconi e singhiozzava, coprendosi la faccia con le mani. Era nuda, e il suo corpo era agile e flessuoso come quello di una pantera. «Che diavolo succede?» chiese Nicholas. Cominciava a infuriarsi nel vedere la sofferenza e l'umiliazione di quella donna graziosa e gentile. Wilbur Smith
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«Voglio dare a questa puttana negra una lezione di buone maniere», ribatté Boris, con la faccia ancora gonfia e arrossata dall'alcool e dalla rabbia. «Non è affar suo, inglese, a meno che non voglia pagare per divertirsi un po' con lei.» Rise, una risata sguaiata. «Come va, woizero Tessay?» Nicholas fissò negli occhi Boris, per risparmiare alla donna l'ulteriore umiliazione di essere guardata, nuda, da un altro uomo. Tessay si sollevò a sedere e piegò le ginocchia contro il petto, poi le cinse con le braccia per nascondersi. «Tutto a posto, alto Nicholas. Se ne vada, per favore, prima che succeda un guaio serio.» Il sangue le colava da una narice alla bocca e le colorava di rosa i denti. «Ha sentito mia moglie, bastardo d'un inglese? Se ne vada! Pensi agli affari suoi, prima che dia anche a lei una lezioncina di buone maniere.» Boris si avvicinò barcollando e premette la mano aperta contro il petto di Nicholas, il quale si mosse con la prontezza e l'eleganza di un matador che evita la prima carica furiosa del toro. Si spostò a lato e sfruttò lo slancio di Boris per lasciarlo proseguire nella direzione in cui era avviato. Il russo perse completamente l'equilibrio, avanzò traballando nello spiazzo davanti alla tenda, andò a sbattere contro una delle sedie pieghevoli e finì a terra. «Royan, accompagni Tessay nella sua tenda!» ordinò Nicholas a voce bassa. Royan corse a prendere un lenzuolo da una branda, lo drappeggiò sulle spalle di Tessay e l'aiutò ad alzarsi. «No, per favore», singhiozzò la donna. «Non sapete come diventa quando si riduce in questo stato. Farà del male a qualcuno.» Sebbene Tessay continuasse a piangere e a protestare, Royan la condusse con risolutezza fuori della tenda. Nel frattempo però Boris s'era rialzato. Con un muggito di rabbia, afferrò la sedia pieghevole; quindi con uno strattone divelse una gamba e la brandì. «Ha voglia di giocare, inglese? E va bene, giochiamo!» Si diresse verso Nicholas, mulinando nell'aria la gamba della sedia come se fosse un bastone ninja. Poi, con un sibilo, il legno si avventò verso la testa di Nicholas; e quando questi lo schivò, Boris invertì la direzione per colpire l'avversario al petto, sotto il braccio alzato. Se l'avesse centrato, gli avrebbe di certo rotto qualche costola, ma anche questa volta Nicholas lo evitò. Girarono l'uno intorno all'altro, studiandosi; poi Boris caricò di nuovo. Wilbur Smith
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Fortunatamente la vodka gli aveva annebbiato i riflessi, altrimenti il russo sarebbe stato pressoché imbattibile; avvantaggiato quindi dalla scarsa lucidità di Boris, Nicholas riuscì a schivare la gamba della sedia. Poi si raddrizzò, concentrando nel pugno tutte le sue forze, e centrò il russo allo stomaco, appena al di sotto dello sterno. Boris esalò il fiato in un potente rutto. La gamba della sedia gli sfuggì dal pugno. Si piegò in due e si accasciò, si strinse le mani sullo stomaco e, ansando, rimase immobile nella polvere. Nicholas si chinò su di lui. «Non ci si comporta così, vecchio mio», gli sibilò in inglese. «Non si picchiano le signore. Che non succeda mai più.» Quindi si raddrizzò e, rivolto a Royan, disse: «Porti Tessay nella sua tenda e non la lasci andare». Si scostò con le dita i capelli dalla fronte. «E adesso, se non ha obiezioni, possiamo dormire un po'?» Durante la notte, la pioggia riprese a cadere. Le gocce tambureggiavano sulla tela e i lampi rischiaravano l'interno delle tende, facendo divampare una luce strana, quasi irreale. Ma quando Nicholas andò alla tenda-sala da pranzo, l'indomani mattina, le nubi erano sparite e il sole splendeva allegramente. L'aria dolce della montagna odorava di terra bagnata e di funghi. Boris accolse Nicholas con bonaria cordialità. «Buongiorno, inglese. Ci siamo divertiti, questa notte. Mi viene ancora da ridere quando ci penso. Che storielle piacevoli. Uno di questi giorni dovremo bere ancora un po' di vodka e raccontarci altre storielle.» Poi gridò: «Ehi, signora Sole, porta qualcosa da mangiare al tuo nuovo innamorato. Ha fame, dopo lo spasso di stanotte». Tessay era chiusa e taciturna mentre sovrintendeva i servitori che portavano la colazione. Un occhio era gonfio, semichiuso, un labbro tagliato. Non guardò Nicholas neppure una volta. «Noi andremo avanti», spiegò giovialmente Boris mentre bevevano il caffè. «I servitori sbaraccheranno il campo e ci seguiranno con il camion grande. Con un po' di fortuna, stanotte potremo accamparci sul ciglio della gola, e domani cominceremo la discesa.» Mentre salivano sul Toyota, Tessay riuscì a parlare sottovoce a Nicholas per un momento, senza il rischio che Boris la sentisse: «Grazie, alto Nicholas. Ma è stato imprudente. Lei non conosce Boris. Stia molto attento. Lui non dimentica e non perdona». Wilbur Smith
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Dal villaggio di Debra Mariam presero una strada secondaria che seguiva il Dandera verso sud; quella che avevano percorso il giorno prima dal lago Tana era indicata sulla carta topografica come «strada principale», eppure era dissestata e a tratti quasi intransitabile. La pista su cui si trovavano adesso era segnata come «strada secondaria non percorribile in tutte le condizioni meteorologiche». Per complicare le cose, sembrava che gran parte del traffico pesante che aveva dissestato l'arteria principale fosse passato anche di lì. Arrivarono in un punto dove un veicolo enorme era rimasto impantanato nel terreno fradicio di pioggia, e gli sforzi per liberarlo avevano lasciato tratti di terra profondamente solcata nonché uno scavo simile al cratere prodotto da una bomba. Sembrava una vecchia fotografia di una delle battaglie delle Fiandre. Per due volte anche il Toyota rimase bloccato nel fango. Ogni volta il camion grande li raggiungeva, e tutti i servitori scendevano per spingere e tirare il fuoristrada. Anche Nicholas si tolse la camicia per lavorare nel fango con gli altri. «Se avesse ascoltato il mio consiglio», borbottò Boris, «non saremmo qui. Non c'è selvaggina dove volete andare, e non ci sono neppure strade degne di questo nome.» Nel primo pomeriggio si fermarono in riva al fiume per mangiare. Nicholas scese alla lanca più vicina per ripulirsi del fango e del sudiciume accumulati negli sforzi per liberare il Toyota. Royan lo seguì giù per il pendio e sedette su una roccia mentre lui si toglieva la camicia e s'inginocchiava per lavarsi con la fredda acqua di montagna. Il fiume era d'un giallo fangoso, gonfio d'acqua piovana. «Non penso che Boris abbia bevuto la storiella del dik-dik striato», lo avvertì lei. «Tessay mi ha detto che ha molti sospetti sulle nostre intenzioni.» Rimase a guardarlo con interesse mentre Nicholas si sciacquava il petto e le braccia. Dove il sole non l'aveva toccata, la pelle era bianca e senza difetti, e il vello del petto era folto e scuro: un corpo piacevole da guardare, pensò. «È il tipo che frugherebbe volentieri nei nostri bagagli se ne avesse la possibilità», ammise Nicholas. «Non ha portato con sé qualcosa che potrebbe dargli un'indicazione? Niente carte o appunti?» «Solo la foto del satellite. Gli appunti sono tutti nella mia stenografia personale. Non ci capirà niente.» «Stia molto attenta quando parla con Tessay.» Wilbur Smith
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«È una cara ragazza, non certo un tipo subdolo», ribatté Royan in difesa della nuova amica. «Sarà vero, ma è sposata con il caro Boris, e gli è sottomessa. Non mi fido di nessuno dei due.» Nicholas si asciugò con la camicia, l'indossò e l'abbottonò. «Andiamo a mangiare.» Tornarono indietro e trovarono Boris che stappava una bottiglia di vino bianco sudafricano. Ne riempì un bicchiere per Nicholas. Raffreddato nel fiume, era energico e aveva un aroma fruttato. Tessay offrì pollo arrosto freddo e pane injera, il pane azimo etiope. Le fatiche di quella mattina persero significato quando Royan si sdraiò sull'erba accanto a Nicholas, e insieme contemplarono un avvoltoio che volava alto nel cielo azzurro. Il rapace li vide e volteggiò incuriosito, girando la testa per osservarli. Gli occhi erano circondati da una maschera nera come quella dei briganti, e le caratteristiche penne caudali a cuneo giocavano con il vento come le dita di un pianista giocano con i tasti d'avorio. Quando venne il momento di ripartire, Nicholas le diede la mano per aiutarla ad alzarsi. Fu uno dei loro rari contatti fisici, e Royan gli tenne le dita per un secondo o due più di quanto sarebbe stato necessario. Le condizioni della pista non migliorarono quando si avvicinarono al ciglio della gola, e l'avanzata continuò per ore fra sobbalzi e scossoni. La strada scavalcò un'altura e poi cominciò a scendere in tornanti il pendio opposto. A metà della discesa, dopo aver superato una stretta curva fiancheggiata da un'alta banchina, trovarono un enorme camion diesel fermo di traverso che bloccava quasi completamente la carreggiata. Sebbene avessero seguito le tracce del convoglio fin dal giorno prima, era il primo veicolo che incontravano e Boris fu colto di sorpresa. Lanciò una bestemmia in russo e frenò così bruscamente che per poco i passeggeri non furono catapultati dai sedili. Il fuoristrada però non poteva fermarsi su quel pendio ripido e scivoloso, e Boris fu costretto a cambiare marcia: innestò la prima e sterzò verso lo stretto varco fra il camion e la banchina. Royan, che era sul sedile posteriore, guardò dal finestrino e vide l'alta fiancata del camion diesel. C'erano il nome e il logo della ditta dipinti in scarlatto sullo sfondo verde. Un forte senso di déjà-vu la sopraffece mentre guardava quell'immagine. Aveva visto di recente lo stesso marchio, ma la memoria la tradiva. Non riusciva a ricordare il tempo e il luogo; sapeva soltanto che quel ricordo indistinto rivestiva un'importanza vitale. Wilbur Smith
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Il fianco del Toyota strusciò contro il metallo del camion. Poi passarono oltre. Boris si sporse dal finestrino e agitò minacciosamente il pugno. Il camionista era uno del posto: con ogni probabilità era stato reclutato ad Addis Abeba dal proprietario del veicolo. Sogghignò delle smanie di Boris e si sporse a sua volta per tendere il pugno, aggiungendo come tocco pittoresco l'indice alzato. «Mangiamerda!» ruggì inviperito Boris senza fermarsi. «È inutile parlare con questa gente. Non capiscono un tubo. Scimmioni!» Per il resto del massacrante tragitto Royan rimase in silenzio, scossa e turbata dalla convinzione di aver già visto l'emblema del cavallo alato rosso, con il nome dell'azienda scritto in un gagliardetto: «PEGASUS EXPLORATION». Si stavano ormai avvicinando alla conclusione della tappa, quando passarono davanti a un cartello sul bordo della pista. I pali che lo sostenevano erano piazzati in una base di cemento, e il disegno era di qualità così elevata che doveva essere opera di un professionista. Nella parte superiore del cartello, una freccia indicava una strada nuova, spianata dai bulldozer, che si dirigeva verso destra. Sotto c'era una scritta: PEGASUS EXPLORATION CAMPO BASE - UN CHILOMETRO STRADA PRIVATA VIETATO IL TRANSITO AI VEICOLI NON AUTORIZZATI Il cavallo scarlatto era impennato al centro del cartello con le ali spiegate per prendere il volo. Royan soffocò un'esclamazione quando il ricordo indistinto riaffiorò con chiarezza. Ora sapeva dove aveva visto il rosso cavallo volante. In un attimo si sentì trasportata nelle acque gelide di un fiume inglese, lanciata lontana dal Land Rover mentre il colossale camion passava rombando sul ponte sopra di lei. Per una frazione di secondo, rivide il cavallo rosso che scalpitava sulla fiancata. «È lo stesso!» Stava per gridare, ma si dominò. Il terrore di quel momento ritornò con violenza. Si accorse di ansimare, e il cuore le batteva come dopo una lunga corsa. «Non può essere una coincidenza», si disse in silenzio. «E non mi sbaglio. È la stessa società: Pegasus Exploration.» Wilbur Smith
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Rimase assorta e chiusa in se stessa per gli ultimi chilometri della tappa, finché la pista non finì all'improvviso sul ciglio della scarpata e Boris si fermò sul bordo erboso e spense il motore. «Non possiamo andare oltre con i veicoli. Stanotte ci accampiamo qui. Il camion grande ci segue a poca distanza. Monteranno il campo appena ci raggiungeranno. Domani scenderemo a piedi nella gola.» Mentre smontavano, Royan tirò Nicholas per il braccio. «Le devo parlare», mormorò, e lo seguì quando lui si avviò lungo la riva. Nicholas trovò un punto dove sedettero a fianco a fianco con le gambe che penzolavano nel vuoto. Accanto a loro il fiume giallo e gonfio sembrava presagire ciò che lo attendeva. Le fredde acque di montagna scorrevano più veloci, turbinavano intorno alle rocce, e si raccoglievano per lanciarsi nel vuoto. Il dirupo era una parete di roccia alta poco meno di trecento metri, così scoscesa che, nella luce della sera, l'abisso sottostante era un luogo buio e misterioso. Il fondo era nascosto dall'ombra e dagli spruzzi delle cascate. Mentre guardava, Royan si sentì assalire dalla vertigine; si scostò dal bordo e si appoggiò istintivamente alla spalla di Nicholas. Solo nell'istante in cui si toccarono, si rese conto di ciò che stava facendo, e si scostò intimidita. Le acque fangose del Dandera balzavano dall'orlo dell'abisso e si trasformavano miracolosamente in eterei veli di brina. Turbinavano come le gonne di una sposa che danza, e gli arcobaleni luminosi vi brillavano come un ricamo di perline. Le colonne di spruzzi candidi si attorcevano e si mutavano in forme bellissime ed effimere, fino a quando non investivano le cengie di lucida roccia nera ed esplodevano verso l'esterno in altre nubi bianche che mascheravano con la loro opalescenza le profondità oscure dell'abisso. Royan dovette compiere uno sforzo di volontà per distogliere il pensiero da quello spettacolo impressionante e riportarlo alla realtà del presente. «Nicky, ricorda quel che le ho detto del camion che ha spinto dal ponte il Land Rover?» «Certo.» La scrutò con un'espressione perplessa. «La vedo sconvolta. Che c'è, Royan?» «Il camion aveva un marchio sulle fiancate dei rimorchi.» «Sì, me l'ha detto. Verde e rosso. Mi ha detto di non aver avuto la possibilità di leggere la scritta.» Wilbur Smith
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«Era lo stesso marchio del camion che abbiamo incontrato nel pomeriggio. Ho visto il simbolo più o meno dallo stesso angolo visivo dell'altra volta, e ho ricordato. Il Pegaso rosso. Il cavallo alato.» Nicholas continuò a fissarla per qualche istante. «È sicura?» «Assolutamente!» Lei annuì con forza. L'uomo girò lo sguardo sul magnifico panorama della gola. C'era una distanza di sessantacinque chilometri dalla riva opposta, ma nell'aria lavata dalia pioggia sembrava così vicina da dare l'impressione che fosse possibile toccarla. «Una coincidenza?» chiese dopo un po'. «La pensa così? Allora è una coincidenza molto strana. Pegaso nello Yorkshire e nel Gojam? È disposto ad accettarlo?» «Non ha senso. Il camion che ha investito il Land Rover di sua madre era stato rubato...» «Ma era stato rubato davvero?» chiese Royan. «Siamo sicuri?» «Si spieghi meglio.» «Se avesse deciso di assassinare qualcuno, conterebbe sulla possibilità di rubare un camion nel parcheggio di una tavola calda?» Nicholas scosse la testa. «Continui.» «Immagini di aver dato disposizioni affinché un suo camion venga lasciato apposta in un determinato luogo, e di fare in modo che il suo autista denunci il preteso furto solo dopo che lei si sia assicurato un buon margine di vantaggio sulla polizia.» «È possibile», ammise lui con scarso entusiasmo. «Chi ha fatto assassinare Duraid e ha tentato di uccidermi in altre due occasioni dispone evidentemente di risorse considerevoli. Può organizzare le cose in Egitto e in Inghilterra. Inoltre è in possesso del settimo papiro. Ha i nostri appunti e le nostre traduzioni che gli indicano questo posto sul fiume Abay. Supponiamo che abbia il controllo di una società come la Pegasus: allora non è affatto strano che possa essere qui in Etiopia, come ci siamo noi in questo momento.» Per un po', Nicholas rimase in silenzio. Raccolse una pietra e la scagliò nel vuoto. La guardarono precipitare e rimpicciolire fino a quando non sparì nei veli di spruzzi. All'improvviso si alzò e tese la mano per aiutarla. «Venga.» «Dove andiamo?» «Al campo base della Pegasus. Andiamo a fare due chiacchiere con il Wilbur Smith
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capo cantiere.» Boris protestò rabbiosamente quando Nicholas si mise al volante del Toyota e accese il motore. «Dove diavolo crede di andare?» «Ad ammirare il panorama.» Nicholas inserì la marcia. «Torniamo fra un'ora.» «Ehi, inglese, il mio furgone!» Boris li rincorse, ma Nicholas accelerò. «Mi metta in conto il noleggio», gridò, e sorrise allegramente nello specchietto. Arrivarono al cartello che annunciava la svolta, e seguirono la pista oltre il dosso. Il campo della Pegasus si trovava dall'altra parte. Nicholas si fermò sulla cresta dell'altura e lo studiò in silenzio. Un'area di oltre quattro ettari era stata diboscata e spianata. Era circondata dal filo spinato e l'unico cancello era chiuso. Tre grossi camion diesel verdi e rossi erano parcheggiati in fila all'interno della recinzione. C'erano altri veicoli più piccoli e una torre mobile per trivellazioni. Il resto dello spiazzo era pieno di materiale per la prospezione e di scorte. C'erano mucchi di aste per trivella e cassette d'acciaio, casse di legno con pezzi di ricambio, e parecchi bidoni di gasolio, nafta e fango artificiale per perforazioni. I grandi bidoni e le scorte erano ammucchiati con un senso dell'ordine sorprendente in quel paesaggio roccioso. Appena al di là del cancello, si scorgeva una dozzina di costruzioni di lamiera ondulata, nonché una strada tracciata con precisione militare. «Un complesso ben organizzato», commentò Nicholas. «Andiamo a vedere chi lo dirige.» Al cancello c'erano due guardie armate che indossavano le uniformi mimetiche dell'esercito etiope. Si mostrarono sorpresi nel veder arrivare il Land Cruiser sconosciuto e, quando Nicholas suonò il clacson, uno di loro si fece avanti con l'AK47 imbracciato. «Voglio parlare con il direttore», disse Nicholas in arabo, con un tono abbastanza altezzoso e autoritario da mettere a disagio la sentinella. Il soldato borbottò qualcosa, poi tornò indietro e consultò il collega. Prese la ricetrasmittente e parlò con fare concitato. Dopo cinque minuti, la porta della baracca più vicina si aprì e ne uscì un bianco. Indossava una tuta kaki e un berretto. Gli occhi erano nascosti dagli occhiali a specchio. La faccia era coriacea e abbronzata, la figura bassa e tozza, e le maniche rimboccate mettevano in mostra le braccia robuste e pelose. Disse poche parole alle guardie, uscì e raggiunse il Toyota. Wilbur Smith
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«Sì? Che c'è?» chiese con l'accento texano, senza togliersi dalle labbra il mozzicone spento del sigaro. «Mi chiamo Quenton-Harper.» Nicholas smontò e tese la mano. «Nicholas Quenton-Harper. Piacere.» L'americano esitò, poi prese la mano come se temesse di prendere la scossa. «Helm», disse. «Jake Helm di Abilene, Texas. Sono il capo cantiere.» La mano era quella di un artigiano, con il palmo calloso, tessuti cicatriziali sulle nocche, e mezzelune di grasso nero sotto le unghie. «Scusi il disturbo, ma ho qualche problema con il mio furgone. Ho pensato che forse qui c'è un meccanico che può dargli un'occhiata.» Nicholas sorrise, ma l'uomo non l'incoraggiò. «Non rientra nella politica dell'azienda», rispose scuotendo la testa. «Ma sono disposto a pagare per...» «Ha sentito, amico? Ho detto di no.» Jake si tolse il sigaro dalla bocca e l'esaminò attentamente. «La sua azienda, la Pegasus. Può dirmi dov'è la sede centrale? Chi è il direttore?» «Ho molto da fare e lei mi fa perdere tempo.» Helm rimise il sigaro fra i denti e fece per voltarsi. «Andrò a caccia nella zona per le prossime settimane. Mi dispiacerebbe ferire qualcuno dei suoi dipendenti con una pallottola vagante. Può dirmi dove lavorerete?» «Io dirigo una prospezione, e non do informazioni sui miei movimenti. Sparisca!» Si girò, tornò al cancello e diede ordini alle guardie prima di rientrare nell'ufficio. «C'è un'antenna parabolica per le comunicazioni via satellite, sul tetto», osservò Nicholas. «Mi chiedo con chi sta parlando in questo momento il nostro amico Jake.» «Qualcuno del Texas?» chiese Royan. «Non è detto. È probabile che la Pegasus sia una multinazionale. Se Jake è texano, non significa che debba esserlo anche il suo capo. Non è stata una conversazione molto istruttiva, purtroppo.» Nicholas riaccese il motore e invertì la marcia. «Ma il cattivo di questa storia è qualcuno della Pegasus, allora riconoscerà il mio nome. Li abbiamo informati del nostro arrivo. Vedremo che cosa abbiamo stanato dai cespugli.» Wilbur Smith
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Quando tornarono alle cascate del Dandera, videro che il camion di Boris era arrivato. Le tende erano state piantate e il cuoco aveva preparato il tè. Boris fu meno cordiale del cuoco, e mantenne un silenzio imbronciato mentre Nicholas cercava di placarlo elogiando il Toyota. Solo dopo la prima vodka della serata si rabbonì quanto bastava per parlare di nuovo. «I muli dovevano essere qui ad aspettarci, ma per questa gente il tempo non conta. Non possiamo cominciare la discesa nella gola prima che arrivino.» «Bene, mentre aspettiamo avrò la possibilità di controllare il mio fucile», commentò Nicholas in tono rassegnato. «In Africa non conviene aver fretta. Ci si logora i nervi.» La mattina seguente non s'era ancora vista neppure l'ombra dei muli. Dopo aver fatto colazione, Nicholas prese la custodia del fucile. Mentre estraeva l'arma dalla fodera di panno verde, Boris gliela prese dalle mani per esaminarla. «È vecchio?» «Fu fabbricato nel 1926,» spiegò Nicholas. «Mio nonno diede precise istruzioni per la sua realizzazione.» «A quei tempi ci sapevano fare. Non come le porcherie prodotte in serie che sfornano oggi.» Boris sporse le labbra con aria critica. «E un MauserOberndorf. Bellissimo. Ma la canna è stata cambiata, no?» «Quella originale s'era rovinata. È stato necessario sostituirla con una Shilen. Può tranciare le ali a una zanzara a cento passi di distanza.» «Calibro 7 x57, vero?» chiese Boris. «275 Rigby, per la precisione», lo corresse Nicholas. Il russo sbuffò. «La cartuccia è la stessa, ma voi inglesi dovete chiamarla in un modo diverso.» E sogghignò. «Spara una pallottola da 150 grani alla velocità di 850 metri al secondo. È un ottimo fucile, uno dei migliori.» «Non immagina neppure quanto sia importante per me la sua approvazione», mormorò Nicholas in inglese, e Boris ridacchiò e gli rese l'arma. «È una spiritosaggine inglese. Mi piacciono, le spiritosaggini inglesi.» Quando Nicholas lasciò il campo portando il piccolo fucile nella custodia, Royan lo seguì sino al fiume e lo aiutò a riempire di sabbia bianca due sacchetti di tela. Lui li posò su una roccia in modo che Wilbur Smith
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formassero un supporto solido, e tuttavia non rigido, per il fucile. Scelse il fianco scoperto della collina come fondo scuro, si fermò a poco meno di duecento metri e piazzò un cartone su cui aveva fissato con l'adesivo un bersaglio del tipo Bisley. Tornò da Royan e si mise dietro la roccia dove stava l'arma. Royan non era preparata al fragore del primo sparo di quel fucile elegante e quasi femminile. Trasalì e si sentì fischiare le orecchie. «Che cosa orribile», esclamò. «Come fa ad avere il coraggio di uccidere qualche povero animale con un cannone come quello?» «È un fucile», ribatté Nicholas, mentre osservava con il binocolo l'esito del colpo. «Si sentirebbe meglio se usassi un fucile poco potente o se uccidessi gli animali a bastonate?» La pallottola aveva colpito sette centimetri più a destra e cinque centimetri più in basso del centro. Mentre regolava il mirino telescopico, cercò di spiegare: «Un cacciatore dotato di princìpi morali fa il possibile per uccidere gli animali nel modo più rapido e pulito. E questo significa avvicinarsi al massimo, usare un'arma di potenza adeguata e prendere bene la mira». Il secondo colpo arrivò esattamente due centimetri e mezzo al di sopra del centro. Nicholas voleva che sparasse sette centimetri e mezzo più in alto, a quella distanza. Regolò di nuovo il mirino. «Comunque, non capisco perché voglia uccidere le creature del buon Dio», protestò Royan. «Questo non riuscirò mai a spiegarglielo.» Prese la mira con cura e sparò. Nonostante il modesto ingrandimento della lente, vide che la pallottola aveva colpito esattamente sette centimetri e mezzo sopra il centro del bersaglio. «Ha qualcosa a che fare con l'impulso atavico che pochi uomini, per quanto si ritengano civili, possono negare completamente.» Sparò una seconda volta. «C'è chi lo sfoga nei consigli d'amministrazione, sui campi da golf o da tennis, su un fiume pieno di salmoni, nelle profondità degli oceani oppure a caccia.» Sparò un terzo colpo per confermare i primi due, e continuò. «In quanto alle creature di Dio, Dio le ha date a noi. Lei è una credente... Sa che cosa c'è scritto negli Atti degli apostoli?» «Mi dispiace, non lo so.» Royan scosse la testa. «Me lo dica lei.» «'... ogni sorta di quadrupedi, di rettili della terra e di volatili del cielo'», Wilbur Smith
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citò Nicholas. «'E risuonò una voce che gli diceva: "Orsù, Pietro, uccidi e mangia!"'» «Avrebbe dovuto fare l'avvocato», gemette lei in tono di finta disperazione. «O il prete.» Nicholas andò a prendere il bersaglio. Gli ultimi tre colpi avevano disegnato una minuscola rosetta simmetrica sette centimetri e mezzo sopra il centro, e i fori si toccavano. Batté la mano sul calcio del piccolo fucile. «Ecco il mio tesoro, Lucrezia Borgia.» Era il nome che aveva dato all'arma, a causa sia della sua bellezza sia della capacità di uccidere che essa dimostrava. Lo rimise nella custodia di cuoio. Tornarono indietro insieme. Arrivati in vista del campo, Nicholas si fermò. «Ci sono visite», disse, e alzò il binocolo. «Ah, ah! Abbiamo stanato qualcosa dal sottobosco. C'è un camion della Pegasus e, se non sbaglio, uno dei visitatori è quel simpaticone di Abilene. Andiamo a vedere che succede.» Quando si avvicinarono, si accorsero che c'era più di una dozzina di soldati armati intorno al camion rosso e verde, e che Jake Helm e un ufficiale etiope erano seduti sotto la tenda-sala da pranzo, e parlavano con Boris. Non appena Nicholas entrò, Boris lo presentò all'etiope occhialuto. «Questo è il colonnello Tuma Nogo, responsabile militare del Gojam.» «Piacere di conoscerla», disse Nicholas, ma il colonnello non lo ricambiò. «Voglio vedere il suo passaporto e il porto d'armi», ordinò in tono arrogante, mentre Jake Helm masticava soddisfatto il mozzicone puzzolente del sigaro spento. «Sì, certo», rispose Nicholas, e andò nella sua tenda a prendere la borsa. Tornò, l'aprì sul tavolo e sorrise all'ufficiale. «Sono sicuro che vorrà vedere anche la lettera di presentazione del ministro degli Esteri britannico, e quella dell'ambasciatore britannico ad Addis Abeba. Poi ce n'è un'altra, dell'ambasciatore d'Etiopia alla Corte di san Giacomo, e questo firmati è del vostro ministro della Difesa, generale Siye Abraha.» Il colonnello fissò costernato quella montagnola di carte intestate ufficiali e di sigilli scarlatti. Dietro le lenti della montatura d'oro i suoi occhi avevano un'espressione confusa e vagamente impaurita. «Signore!» Balzò in piedi e salutò militarmente. «Non sapevo che fosse Wilbur Smith
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amico del generale Abraha. Nessuno mi aveva informato. La prego di scusare il disturbo.» Salutò di nuovo. L'imbarazzo lo rendeva maldestro. «Sono venuto solo per comunicarle che la Pegasus sta svolgendo operazioni di trivellazione e a volte usa esplosivi. Può esserci qualche pericolo, perciò stia attento. E ci sono anche molti banditi e fuorilegge, gli sciftà, attivi nella zona.» Il colonnello Nogo era agitato. S'interruppe e trasse un respiro profondo per rinfrancarsi. «Vede, ho avuto l'ordine di fornire una scorta ai dipendenti della Pegasus. Se lei incontrasse qualche problema o se avesse bisogno di assistenza per qualsiasi ragione, non deve far altro che rivolgersi a me.» «È molto gentile, colonnello.» «Non la trattengo, signore.» Nogo salutò una terza volta e indietreggiò verso il camion della Pegasus, conducendo con sé il texano. Jake Helm non aveva pronunciato una sola parola da quando erano arrivati. Se ne andò senza salutare. Il colonnello Nogo rivolse a Nicholas un quarto saluto militare dal finestrino mentre il camion ripartiva. «Bene», disse Nicholas a Royan, ricambiando il saluto con un cenno noncurante. «Credo che abbiamo segnato un punto. Adesso, almeno, sappiamo che il signor Pegasus ha qualche motivo per non volerci fra i piedi. Credo che possiamo aspettarci presto una nuova mossa.» Tornarono da Boris, che era rimasto sotto la tenda, e Nicholas gli disse: «Ci mancano soltanto i muli». «Ho mandato tre uomini al villaggio per cercarli. Dovevano essere qui già ieri.» I muli arrivarono il giorno dopo, sul presto. Erano sei, grossi e solidi, e ognuno era accompagnato da un uomo che indossava i tipici pantaloni e lo scialle. A metà mattina, gli animali erano carichi, pronti per incominciare la discesa nella gola. Boris si fermò all'inizio del sentiero e guardò la valle. Per una volta sembrava intimidito dall'immensità dello strapiombo e dallo splendore grandioso del panorama. «Entrerete in un'altra terra e in un altro tempo», disse con un'aria pensosa che non gli era abituale. «Dicono che il sentiero abbia duemila anni... Il vecchio prete nero della chiesa di Debra Mariam vi racconterà che la Madonna passò di qui quando fuggì da Israele dopo la Wilbur Smith
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crocifissione.» Poi scosse la testa. «Questa gente è disposta a credere qualunque cosa», soggiunse, e si avviò sul sentiero. La pista fiancheggiava la parete rocciosa, e scendeva in modo tale che, a ogni passo, s'incontrava un gradino di roccia così alto da stirare i tendini e i muscoli dell'inguine e delle ginocchia e scuotere la spina dorsale. Erano costretti a servirsi delle mani per affrontare i tratti più accidentati e ripidi. Pareva impossibile che i muli carichi riuscissero a seguirli: eppure balzavano da ogni gradino di pietra, atterravano pesantemente sulle zampe anteriori e poi si raccoglievano per compiere un altro salto. La pista era così stretta che le some ingombranti da un lato strusciavano contro la parete di roccia e dall'altro sporgevano sull'abisso. Quando il sentiero cambiava direzione, i muli non riuscivano a svoltare in un unico tentativo; erano costretti a indietreggiare e ad affrontare la pista sudando per il terrore e roteando gli occhi. I conducenti li incitavano con grida furiose e frustate. In certi punti, il sentiero entrava nella massa della montagna, incuneandosi in sporgenze e guglie di roccia che il tempo e l'erosione avevano distaccato dalla parete. Erano varchi così stretti che i conducenti erano obbligati a scaricare i muli e a trasportare le some, per ricaricarle dall'altra parte. «Guardi!» esclamò sbalordita Royan, e tese il braccio per indicare qualcosa nel vuoto. Un avvoltoio nero salì dal profondo volteggiando sulle grandi ali, passò accanto a loro, e girò la minacciosa testa glabra e rosea per guardarli con gli impenetrabili occhi neri prima di allontanarsi. «Sfrutta le correnti d'aria calda che salgono dalla valle», spiegò Nicholas. Indicò una sporgenza lungo la parete. «Là c'è un nido.» Era un mucchio di fuscelli accatastati su un cornicione inaccessibile. Gli escrementi degli uccelli che l'avevano abitato per secoli avevano tracciato sulla roccia sottostante striature bianche, e anche a quella distanza giungevano le zaffate d'interiora putride e di carne marcia. Per tutta la giornata proseguirono sul sentiero scosceso, scendendo lungo la muraglia terribile. Era pomeriggio inoltrato ed erano appena a metà della discesa, quando il sentiero ripiegò ancora una volta su se stesso e sentirono il rombo. Il suono diventò più forte, per trasformarsi poi in un ruggito tonante allorché, superato l'angolo di un'altra sporgenza, giunsero in vista delle cascate. Il vento creato dalla corsa dell'acqua li investì, costringendoli a cercare Wilbur Smith
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un appiglio. Gli spruzzi volavano intorno a loro, ma la guida etiope continuò a precederli fino a quando non ebbero l'impressione di essere sul punto di venire trascinati nel fondo-valle, ancora lontano decine di metri. Poi, miracolosamente, le acque si aprirono. Si ritrovarono, dietro l'imponente velo traslucido, in un recesso profondo della roccia bagnata e tappezzata di muschio, scolpita dalla forza delle acque nel corso dei millenni. L'unica luce filtrava attraverso la cascata, ed era verde e misteriosa come quella di una grotta sottomarina. «Stanotte dormiremo qui», annunciò Boris, divertito del loro stupore. Indicò i fasci di legna da ardere ammucchiati in fondo alla caverna, e la parete annerita dal fumo sopra il focolare di pietra. «I mulattieri che portano viveri e rifornimenti ai preti del monastero si servono di questo posto da secoli.» Quando si addentrarono nella caverna, il rombo della cascata si smorzò in un borbottio lontano. Il pavimento di roccia era asciutto. I servitori accesero il fuoco e la grotta diventò un alloggio caldo, confortevole e quasi romantico. Nicholas individuò il posto più comodo e stese il sacco a pelo in un angolo in fondo; con naturalezza, Royan srotolò il suo lì accanto. Erano tutti e due stanchissimi per la lunga discesa; dopo cena si sdraiarono e rimasero a guardare la luce del fuoco che guizzava sulla volta. «Pensi un po'», mormorò Royan. «Domani seguiremo le orme del vecchio Taita.» «E addirittura della Vergine Maria.» Nicholas sorrise. «E un mostro di cinismo.» Lei sospirò. «E scommetto che probabilmente russa.» «Lo scoprirà a sue spese», disse Nicholas, ma Royan si addormentò per prima. Il suo respiro era gentile e regolare, e lui lo sentiva vagamente, nonostante il suono dell'acqua. Da molto tempo non aveva avuto una bella donna sdraiata al suo fianco. Quando fu sicuro che dormisse profondamente, tese la mano e le sfiorò la guancia. «Dolci sogni, piccola», mormorò con tenerezza. «Oggi ti sei stancata molto.» Era così che molto spesso aveva fatto addormentare la figlia più piccola. Dato che i mulattieri si erano alzati molto prima dell'alba, poterono rimettersi in marcia non appena ci fu luce a sufficienza. Wilbur Smith
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Quando il primo sole investì la parte superiore della parete di roccia, erano ancora abbastanza in alto per avere una visione panoramica del fondovalle. Nicholas prese in disparte Royan e lasciò che il resto della carovana li precedesse. Trovò un posto per sedere e srotolò la foto presa dal satellite. Si orientarono individuando le vette e le caratteristiche topografiche della zona, e incominciarono a capire qualcosa del paesaggio che si estendeva sotto di loro. «Da qui non possiamo vedere l'Abay», osservò Nicholas. «È in fondo alla subgola. Probabilmente riusciremo a scorgerlo solo quando gli saremo quasi sopra.» «Se abbiamo identificato con esattezza la nostra posizione attuale, il fiume deve formare due anse intorno a quell'altura laggiù...» «Sì, e la confluenza tra il Dandera e l'Abay è sotto quei dirupi.» Nicholas usò il pollice come scala rudimentale. «A venticinque chilometri da qui.» «Si direbbe che il Dandera abbia cambiato corso molte volte durante i secoli. Vedo almeno due canaloni che sembrano antichi letti di fiume...» Royan li indicò. «Li vede? Ora sono ricoperti dalla vegetazione.» Scosse la testa, avvilita. «Oh, Nicholas, è un'area così grande e confusa... Come potremo trovare l'unico ingresso di una tomba nascosta lì in mezzo?» «Una tomba? Quale tomba?» chiese incuriosito Boris, che aveva risalito il sentiero per cercarli. Non l'avevano sentito avvicinarsi, e adesso era in piedi accanto a loro. «Di quale tomba state parlando?» «La tomba di san Frumenzio, è ovvio», rispose Nicholas senza scomporsi. «Il monastero non è dedicato al santo?» chiese Royan con la stessa disinvoltura mentre arrotolava la fotografia. «Da.» Boris annuì. Sembrava deluso, come se si fosse aspettato qualcosa di più interessante. «Sì, san Frumenzio. Ma non vi permetteranno di visitare la tomba, non vi lasceranno entrare nella parte più interna del monastero. Possono andarci soltanto i preti.» Si tolse il berretto e si grattò i corti capelli ispidi, che emisero un suono raspante come se fossero di filo metallico sotto le sue unghie. «Questa settimana c'è la cerimonia di Timkat, la benedizione del tabot. Ci sarà parecchio movimento. Lo troverete interessante ma non potrete entrare nel sancta sanctorum e neppure vedere la tomba. Non ho mai incontrato un Wilbur Smith
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bianco che l'abbia vista.» Alzò gli occhi verso il sole. «Dobbiamo proseguire. Sembra vicino, ma ci vorranno altri due giorni per arrivare all'Abay. Laggiù il terreno è molto brutto. Sarà una marcia lunga anche per un famoso cacciatore di dik-dik.» Rise soddisfatto della battuta e s'incamminò sul sentiero. Via via che si avvicinavano alla base della parete di roccia, l'inclinazione della pista diminuì. I gradini erano meno alti e più distanziati. Procedere diventò quindi più facile; ma l'aria era cambiata. Non era più quella tonificante della montagna, bensì l'aria languida e snervante dell'equatore, e aveva l'odore e il sapore della giungla. «Che caldo», disse Royan, e si liberò dello scialle di lana. «Saranno almeno dieci gradi in più», confermò Nicholas e si sfilò il vecchio maglione militare, spettinandosi i capelli. «E possiamo star certi che farà più caldo ancora prima che raggiungiamo l'Abay. Dobbiamo scendere per altri mille metri.» Il sentiero seguì il Dandera per un tratto. A volte si trovavano decine e decine di metri al di sopra dell'acqua, e poco dopo sguazzavano in un guado, immersi fino alla vita, e dovevano aggrapparsi ai panieri dei muli per non essere trascinati via dalla corrente. Poi la gola del Dandera diventò troppo profonda e scoscesa per continuare a seguirla. Gli strapiombi scendevano nelle lanche scure. Lasciarono il fiume e la pista si attorse come un serpente moribondo fra le colline erose e le alture di pietra rossa. Un paio di chilometri più avanti ritrovarono il fiume che scorreva in mezzo alla fitta foresta. Le liane pendevano sulla superficie e il muschio arboreo sfiorava le loro teste, incolto come la barba del vecchio prete di Debra Mariam. I cercopitechi grigioverdi strillavano dalle cime degli alberi e sgranavano gli occhi, indignati da quell'invasione del loro territorio segreto. A un certo punto, un grosso animale si mosse rumorosamente nel sottobosco, e Nicholas lanciò un'occhiata a Boris. Il russo scosse la testa e rise: «No, inglese, non è un dik-dik. È solo un kudu». Sul pendio sopra di loro, il kudu si fermò a guardarli. Era un grosso maschio dalle corna a cavatappi, un esemplare magnifico con la giogaia ornata dal pelo folto e le orecchie ritte a forma di tromba. Li guardava con occhi sorpresi. Boris zufolò e cambiò atteggiamento. Wilbur Smith
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«Quelle corna sono lunghe almeno un metro e mezzo. Farebbero una bella figura nel Rowland Ward.» Alludeva al registro della selvaggina che rappresentava la bibbia dei cacciatori di trofei. «Non vuole prenderlo, inglese?» Corse al mulo più vicino, tolse il Rigby dalla custodia e tornò per offrirlo a Nicholas. «Lo lasci andare.» Nicholas scosse la testa. «A me interessano solo i dik-dik.» Con uno scatto della coda bianca a piumino, il kudu sparì oltre il dosso, e Boris sputò nel fiume con aria disgustata. «Perché ha cercato di convincerla a ucciderlo?» chiese Royan mentre proseguivano. «Una foto di un paio di corna da primato come quelle avrebbe avuto il posto d'onore sul suo opuscolo pubblicitario. Sarebbero arrivati altri clienti.» Continuarono a seguire la pista tortuosa e, nel tardo pomeriggio, si accamparono in una radura sopra il fiume, dove era evidente che altre carovane avevano sostato spesso prima di loro. Di certo, il percorso era suddiviso in tappe stabilite da molto tempo. Ogni viaggiatore impiegava tre giorni per arrivare dall'alto delle cascate al monastero, e tutti si accampavano negli stessi posti. «Mi dispiace, qui non c'è la doccia», disse Boris ai clienti. «Se volete lavarvi c'è una lanca dopo la prima ansa, verso monte.» Royan guardò Nicholas con aria implorante. «Sono così accaldata. Per favore, può mettersi di guardia, in modo che possa sentirmi se la chiamo?» E così Nicholas si sdraiò sulla riva muscosa appena a valle dell'ansa: non poteva vedere Royan, ma era abbastanza vicino per sentirla sguazzare e lanciare gridolini nell'abbraccio freddo dell'acqua. A un certo momento girò la testa e si accorse che la corrente doveva aver sospinto la donna verso valle, perché scorse attraverso gli alberi la schiena nuda e la curva di una natica candida e luccicante. Distolse gli occhi con un senso di rimorso, ma rimase sbalordito dall'intensità dell'eccitazione che gli aveva causato quella visione fuggevole di pelle morbida chiazzata dalla luce del sole che filtrava tra gli alberi. Quando Royan gli venne incontro lungo la riva, canticchiando e asciugandosi i capelli, gli gridò: «Tocca a lei. Vuole che adesso sia io a montare la guardia?» «No, ormai sono abbastanza cresciuto.» Nicholas scosse la testa, ma Wilbur Smith
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quando lei gli passò accanto notò la luce maliziosa nei suoi occhi, e si chiese se si rendeva conto di essersi spinta tanto avanti verso valle, e se sapeva che cosa aveva visto lui. Era un pensiero che lo solleticava. Si avviò da solo verso la lanca e, mentre si spogliava, si guardò e si sentì in colpa nel vedere quanto Royan l'aveva eccitato. Dopo la morte di Rosalind, nessun'altra donna gli aveva fatto lo stesso effetto. «Un bel bagno freddo non ti farà male, ragazzo mio.» Buttò i jeans su un cespuglio e si tuffò. Mentre sedevano intorno al fuoco dopo il pasto serale, Nicholas alzò la testa all'improvviso. «Soffro di allucinazioni?» chiese. «No», rise Tessay. «E davvero un canto. I preti del monastero vengono ad accoglierci.» Poi videro le torce che salivano in fila e palpitavano fra gli alberi. I mulattieri e i servitori si affollarono e presero a cantare e a battere ritmicamente le mani per salutare la delegazione del monastero. Le profonde voci maschili s'innalzarono, poi si abbassarono fino a un bisbiglio, quindi salirono di nuovo, bellissime e ossessionanti: era il suono dell'Africa nella notte, e faceva scorrere brividi lungo la spina dorsale di Nicholas. Poi scorsero le vesti candide dei preti che fluttuavano come falene nella luce delle torce. I servitori caddero in ginocchio quando il primo dei religiosi entrò nel campo. Erano giovani accoliti, scalzi e a capo scoperto, seguiti dai monaci che indossavano tonache lunghe e alti turbanti. Poi si scostarono per formare una guardia d'onore per la falange dei diaconi e dei preti dai paramenti vistosamente ricamati. Ognuno di loro portava una pesante croce copta montata su un alto bastone e lavorata in argento. A loro volta, diaconi e preti si scostarono salmodiando per far passare il palanchino sorretto da quattro giovani accoliti che lo deposero al centro del campo. Le tende di seta cremisi e gialle scintillavano nella luce delle lanterne e delle torce. «Dobbiamo andare a rendere omaggio all'abate», bisbigliò Boris a Nicholas. «Si chiama Jali Hora.» Quando si accostarono al palanchino, le tende si aprirono teatralmente e un'alta figura scese a terra. Tessay e Royan s'inginocchiarono in segno di rispetto e giunsero le mani. Boris e Nicholas rimasero in piedi, e quest'ultimo osservò l'abate con Wilbur Smith
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interesse. Jali Hora era di una magrezza scheletrica. Le gambe sembravano stecche di tabacco conciato: erano nere come il catrame, storte, con i tendini disseccati e i muscoli scarni. La veste verde era ricamata con fili d'oro che scintillavano nella luce del fuoco. Portava un copricapo alto e piatto, ornato da un motivo di croci e di stelle. Il volto era nero come la fuliggine, la pelle raggrinzita e scavata dall'età. Dietro le labbra contratte si scorgevano pochi denti storti e ingialliti. La barba era di un sorprendente bianco argenteo, ed erompeva come la spuma di una tempesta sulle vecchie ossa del mento. Un occhio era di un azzurro opaco, accecato dall'oftalmia tropicale, ma l'altro brillava come quello d'un leopardo in caccia. Cominciò a parlare con voce alta e tremula. «Una benedizione», spiegò Boris a Nicholas. Entrambi chinarono la testa rispettosamente. I preti salmodiavano le risposte ogni volta che il vecchio faceva una pausa. Quando ebbe terminato la benedizione, Jali Hora tracciò il •segno della croce in quattro direzioni, girandosi lentamente verso ognuno dei punti cardinali, mentre due chierici agitavano vigorosamente gli incensieri e inondavano la notte di nuvole dal profumo intenso. Le due donne andarono a inginocchiarsi davanti all'abate, il quale le toccò leggermente sulle guance con la croce d'argento, cantilenando una benedizione in falsetto. «Dicono che abbia più di cent'anni», sussurrò Boris a Nicholas. I debteras biancovestiti portarono uno sgabello d'ebano africano, scolpito in modo così splendido che Nicholas lo osservò con una certa avidità. Probabilmente risaliva a qualche secolo prima e avrebbe certo arricchito in maniera considerevole la collezione del museo. I due debteras presero Jali Hora per i gomiti e lo fecero sedere sullo sgabello. Poi tutti gli altri sedettero a terra intorno a lui, e si voltarono a guardarlo con attenzione. Tessay prese posto ai suoi piedi e, quando suo marito parlò, tradusse in amharico le frasi. «È un grande piacere e un onore rivederla, santo padre.» Il vecchio annuì, e Boris continuò: «Ho portato un nobile inglese di sangue reale a visitare il monastero di san Frumenzio». «Calma, vecchio mio!» protestò Nicholas, ma l'intera congregazione l'osservava con attenzione e interesse. «E adesso che devo fare?» chiese sottovoce a Boris. Wilbur Smith
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«Perché pensa che quello sia venuto fin qui?» Boris sogghignò malignamente. «Vuole un dono. Denaro.» «Talleri di Maria Teresa?» Royan notò che per una volta Nicholas era disorientato. Non si aspettava quella scena, e Boris se la spassava nel vederlo a disagio. «Le usanze sono cambiate dal tempo del suo bisnonno. Jali Hora accetta i bigliettoni verdi americani.» «Quanto?» «Lei è un nobile di sangue reale, e andrà a caccia nella valle dell'abate. Come minimo, cinquecento dollari.» Nicholas rabbrividì e andò a prendere la borsa da uno dei panieri. Tornò, s'inchinò all'abate e mise il mazzetto di banconote nella mano protesa. L'abate sorrise mettendo in mostra i mozziconi ingialliti dei denti, e disse qualcosa. Tessay tradusse: «Ha detto: 'Benvenuto al monastero di san Frumenzio e alla stagione di Timkat'. Le augura buona caccia sulle rive del fiume Abay». Di colpo, i religiosi cambiarono atteggiamento, cominciando a ridere e a sorridere, mentre l'abate guardava Boris come se attendesse qualcosa. «Il santo abate dice che il viaggio gli ha fatto venir sete», spiegò Tessay. «Quel vecchio diavolo ama il brandy», sibilò Boris, e chiamò il capo dei servitori. Una bottiglia di brandy fu piazzata cerimoniosamente sul tavolo pieghevole davanti all'abate, di fronte alla vodka di Boris. Si scambiarono un brindisi e l'abate tracannò una sorsata che gli inondò di lacrime l'occhio sano. Con voce rauca, rivolse una domanda a Royan. «Le ha chiesto, woizero Royan: 'Da dove viene, figliola, dato che segue la vera via di Cristo salvatore?'» «Sono egiziana e seguo l'antica religione», rispose Royan. L'abate e tutti i preti annuirono e sorrisero con aria di approvazione. «Siamo tutti fratelli e sorelle in Cristo, egiziani ed etiopi», disse l'abate. «La stessa parola 'copto' deriva dal termine greco per 'egiziano'. Per oltre milleseicento anni l'abuna, il vescovo d'Etiopia, fu sempre nominato dai patriarca del Cairo. Solo l'imperatore Hayla Sellase cambiò la consuetudine nel 1959, ma noi continuiamo a seguire la vera strada che conduce a Cristo. Sii la benvenuta, figlia mia.» Il debtera versò altro brandy, e il vecchio lo bevve tutto d'un fiato. Persino Boris sembrava molto colpito. «Ma dove lo mette, quella vecchia Wilbur Smith
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tartaruga pelle e ossa?» chiese a voce alta. Tessay non tradusse, abbassò gli occhi e il suo viso di madonna lasciò trasparire l'angoscia che provava per l'insulto al vecchio religioso. Jali Hora si rivolse a Nicholas. «Vuole sapere quali animali è venuto a cacciare nella sua valle», spiegò Tessay. Nicholas si fece coraggio e rispose. Vi fu un lungo momento d'incredulità. Poi l'abate sghignazzò allegramente e i preti gli fecero eco con le loro risate. «Un dik-dik. E venuto per cacciare un dik-dik. Ma un animale così piccolo dà poca carne.» Nicholas lasciò che superassero il primo trauma, poi mostrò una foto dell'esemplare impagliato del Madoqua harperii custodito nel museo. Lo mise sul tavolo davanti a Jali Hora. «Questo non è un dik-dik comune. È un dik-dik sacro», annunciò in tono solenne e facendo cenno a Tessay di tradurre. «Permettetemi di raccontarvi la leggenda.» Tutti tacquero alla prospettiva di una storia interessante e ricca d'implicazioni religiose. Persino l'abate, che si stava portando il bicchiere alle labbra, lo posò sul tavolo e girò lo sguardo dell'unico occhio sano dalla foto alla faccia di Nicholas. «Quando Giovanni Battista stava per morire di fame nel deserto», attaccò, e alcuni preti si segnarono nel sentire il nome del santo, «era rimasto trenta giorni e trenta notti senza cibo...» Nicholas tirò in lungo la storia, indugiando sulla fame patita dal Battista con un'abbondanza di particolari molto apprezzata dagli ascoltatori, i quali gradivano che i loro sant'uomini soffrissero in nome della virtù. «Alla fine, il Signore ebbe pietà del suo servitore e mise una piccola antilope tra le acacie, in modo che restasse impigliata per le corna, e così parlò al santo: 'Ho preparato un pasto per te, perché tu non muoia. Prendi la carne e mangia'. E dove il Battista toccò la bestiola, i segni delle dita le s'impressero sul dorso, per tutte le generazioni future.» Gli ascoltatori tacquero, impressionati. Nicholas porse la foto all'abate. «Vede le impronte delle dita del santo?» Il vecchio studiò con attenzione la fotografia, l'accostò all'occhio sano e alla fine sentenziò: «È vero. I segni delle dita del santo sono ben visibili». La passò ai diaconi che, incoraggiati dal riconoscimento dell'abate, espressero meraviglia per l'immagine dell'animale insignificante con il manto di pelame striato. Wilbur Smith
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«Qualcuno dei vostri uomini ha visto questo dik-dik?» chiese Nicholas. Uno dopo l'altro, i diaconi scossero la testa. La foto passò agli accoliti accosciati per terra. All'improvviso uno di loro balzò in piedi saltellando, agitò la foto e balbettò: «Io ho visto questa creatura sacra! L'ho vista con i miei occhi!» Era un giovane poco più che adolescente. Gli altri proruppero in risate incredule; uno tolse la foto dalla mano del ragazzo e la sventolò al di fuori della sua portata. «Il ragazzo ha la testa vuota, e spesso è posseduto dal demonio e dalle convulsioni», spiegò Jali Hora in tono di rammarico. «Non fate caso al povero Tamre!» Con gli occhi stralunati, Tamre corse lungo la fila degli accoliti e cercò disperatamente di riprendere la foto, ma quelli se la passavano di continuo e gli impedivano di afferrarla, lo deridevano e lo burlavano per le sue smanie. Nicholas si alzò per intervenire. Disapprovava quel comportamento nei confronti d'un ragazzo deficiente. Ma in quell'attimo qualcosa scattò nella mente di Tamre, che cadde a terra come se fosse stato colpito da una mazzata. Inarcò la schiena e cominciò a sussultare irrefrenabilmente, roteò gli occhi e la bava gli spuntò sulle labbra contratte in un rictus ghignante. Prima che Nicholas potesse avvicinarsi, quattro compagni lo sollevarono di peso e lo portarono via. Le loro risate si persero nella notte. Gli altri si comportarono come se non fosse successo niente di anormale, e Jali Hora chiese con un cenno al suo debtera di riempirgli ancora il bicchiere. Era tardi quando finalmente Jali Hora si congedò e salì sul palanchino con l'aiuto dei diaconi. Portò con sé la bottiglia con il brandy avanzato, stringendola con una mano scheletrita, mentre con l'altra impartiva benedizioni. «Gli ha fatto una buona impressione, milord inglese», commentò Boris. «Ha apprezzato la storia di Giovanni Battista, ma ha apprezzato ancora di più i dollari.» Quando ripartirono, l'indomani mattina, il sentiero seguì il fiume per un tratto; ma, dopo un chilometro e mezzo, le acque scorsero più veloci attraverso lo stretto varco fra gli alti dirupi rossi e precipitarono in un'altra cascata. Nicholas abbandonò la pista e scese fino al ciglio delle cascate. Wilbur Smith
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Cinquanta metri più sotto c'era una profonda fenditura nella roccia, larga quanto bastava perché il fiume turbolento potesse passare oltre. La distanza era così modesta che avrebbe potuto superarla con il lancio di una pietra. In quell'abisso non c'erano sentieri né appigli; tornò indietro e raggiunse il resto della carovana che si allontanava dal fiume, addentrandosi in un'altra valle fittamente alberata. «Probabilmente era il corso del Dandera, prima che ne aprisse uno nuovo attraverso la strettoia», disse Royan, indicando il terreno erto sui lati della pista, e i macigni erosi dall'acqua che lo costellavano. «Penso che abbia ragione», ammise Nicholas. «Quei dirupi sembrano intrusioni di calcare nel basalto e nell'arenaria. L'intera zona è stata squarciata dall'erosione e dai continui mutamenti del fiume. Può star certa che gli strapiombi di calcare sono crivellati da grotte e sorgenti.» Adesso la pista scendeva rapidamente verso il Nilo Azzurro, e perdeva circa cinquecento metri d'altitudine in pochi chilometri. I fianchi della valle erano coperti di vegetazione e in molti punti piccole sorgenti sgorgavano dal calcare e scorrevano nel vecchio letto del fiume. Il caldo cresceva di continuo. Ben presto anche la camicia kaki di Royan si macchiò di sudore fra le scapole. A un certo punto, scorsero un rivoletto d'acqua limpida che sgusciava da un'area di boscaglia sul fianco della collina, si gettava nel ruscello e lo trasformava in un piccolo fiume. Poi superarono un angolo della valle e si accorsero di aver raggiunto, insieme al fiumicello, il ramo principale del Dandera. Si voltarono a guardare la gola e scorsero il punto dove il fiume era uscito dall'abisso, grazie a una stretta arcata nella parete. La roccia che circondava la breccia era d'uno strano colore rosato, liscia e lucida, ripiegata su se stessa, e sembrava la mucosa all'interno di due labbra umane. La roccia aveva un colore e una consistenza così insoliti da colpire sia Royan sia Nicholas. Si soffermarono per studiarla mentre i muli proseguivano e lo scalpiccio degli zoccoli e le voci degli uomini echeggiavano e riverberavano in quel luogo fuori del mondo. «Sembra un mascherone mostruoso che erutti l'acqua dalla bocca», mormorò Royan mentre guardava la spaccatura e le strane formazioni rocciose. «Immagino che gli antichi egizi guidati da Taita e del principe Memnone fossero molto scossi quando lo videro. Dovettero attribuire chissà quali connessioni mistiche a questo fenomeno naturale.» Wilbur Smith
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Nicholas rimase in silenzio a guardarla in viso. Gli occhi erano scuri, l'espressione solenne. In quel momento gli rammentava un ritratto che faceva parte della sua collezione a Quenton Park: il frammento di un affresco proveniente dalla Valle dei Re che raffigurava una principessa ramesside. «Perché ti sorprendi?» si chiese. «Nelle sue vene scorre lo stesso sangue.» Royan si girò verso di lui. «Mi dia una speranza, Nicky. Mi dica che non l'ho sognato. Mi dica che troveremo ciò che stiamo cercando, che vendicheremo la morte di Duraid e che porteremo a termine la sua opera.» Il viso sembrava splendere sotto il lieve velo di sudore. Nicholas fu assalito dall'impulso quasi irresistibile di prenderla fra le braccia e di baciarle le labbra socchiuse. Invece si voltò e ricominciò a scendere il sentiero. Non osava guardarla prima di aver ritrovato l'autocontrollo. Dopo un po' sentì il suo passo leggero che lo seguiva. Procedettero in silenzio. Era così assorto che il panorama apertosi d'un tratto davanti a lui lo colse di sorpresa. Si trovavano su un cornicione che dominava la subgola del Nilo. Sotto di loro, c'era un immenso calderone di rocce rosse, profondo centocinquanta metri. Il ramo principale del fiume leggendario era un torrente verde che precipitava nell'abisso buio: infatti era così profondo che la luce del sole non vi penetrava. Accanto a loro, le acque meno abbondanti del Dandera compivano lo stesso salto, e cadevano candide come una piuma di egretta che si attorceva nel vento della gola. Laggiù le acque si mescolavano e ribollivano in vortici di spuma, giravano su se stesse come una grande ruota, pesanti e viscose, fino a quando non trovavano la gola d'uscita e vi si avventavano con violenza irrefrenabile. «E lei ha affrontato tutto questo con una barca?» chiese Royan con voce carica di ammirazione. «A quel tempo eravamo giovani e sciocchi», rispose Nicholas con un sorriso triste, ombrato dai ricordi. Rimasero a lungo in silenzio; poi Royan mormorò: «Capisco perché fermò Taita e il principe mentre risalivano il fiume». Si guardò intorno e indicò la gola verso est. «Di certo non avrebbero mai potuto risalire la Wilbur Smith
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subgola. Dovettero seguire la linea in cima ai dirupi, proprio dove siamo in questo momento.» Il pensiero conferì alla sua voce una sfumatura di eccitazione. «A meno che non siano saliti lungo l'altra sponda del fiume», suggerì Nicholas, e lei si oscurò. «Non ci avevo pensato. È possibile, ovviamente. Come potremmo attraversarlo, se non trovassimo tracce da questa parte?» «È un problema che prenderemo in considerazione soltanto se ci saremo costretti. Abbiamo già abbastanza guai così, senza andare in cerca di altri.» Tacquero di nuovo e rifletterono sull'enormità e l'incertezza del compito che si erano assunti. Poi Royan si scosse. «Dov'è il monastero? Non lo vedo.» «Nel dirupo, sotto i nostri piedi.» «Ci accamperemo là?» «Ne dubito. Raggiungiamo Boris e sentiamo che intende fare.» Seguendo la pista, ritrovarono la carovana dei muli a una biforcazione. Un ramo si distaccava dal fiume e scendeva in una conca boscosa, l'altro continuava a seguire l'orlo della roccia. Boris li aspettava. Indicò il sentiero che si allontanava dal fiume. «C'è un posto adatto per accamparci, lassù tra gli alberi. Ci sono stato l'ultima volta che sono venuto a caccia.» C'erano numerosi fichi selvatici che ombreggiavano la radura, e anche una sorgente di acqua purissima. Per ridurre il carico al minimo, Boris non aveva portato le tende nella gola. Non appena i suoi uomini ebbero scaricato i muli, li mise al lavoro per costruire tre piccole capanne e per scavare una latrina, molto lontano dalia fonte. Mentre si svolgevano i lavori, Nicholas chiamò Royan e Tessay con un cenno, e tutti e tre si avviarono per esplorare il monastero. Arrivata al bivio, Tessay li guidò sul sentiero che fiancheggiava il precipizio. Poco dopo giunsero a un'ampia scala di roccia che scendeva nel dirupo. Un gruppo di monaci biancovestiti stava salendo, e Tessay si fermò a parlare con loro. Quando proseguirono, spiegò: «Oggi è Katera, la vigilia della festività di Timkat. Sono molto emozionati; è uno degli avvenimenti principali dell'anno religioso». «E che cosa celebra?» chiese Royan. «Non fa parte del calendario ecclesiastico egiziano.» «È l'Epifania etiope, e celebra il battesimo di Cristo», spiegò Tessay. Wilbur Smith
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«Durante la cerimonia, il tabot verrà portato al fiume per essere riconsacrato e rivitalizzato, e gli accoliti riceveranno il battesimo, come Gesù lo ricevette dalla mano di Giovanni Battista.» Scesero la scala. I gradini erano scavati dal passaggio d'innumerevoli piedi scalzi nel corso dei secoli. Il grande calderone del Nilo ribolliva e sibilava, lanciando spruzzi decine e decine di metri più in basso. All'improvviso sbucarono su un'ampia terrazza scavata nella pietra viva; una sporgenza di roccia rossa che formava un tetto per il chiostro, sostenuto dagli archi creati dagli antichi costruttori. La parete interna della lunga terrazza coperta era crivellata dagli ingressi delle catacombe. Nel corso dei secoli era stata scavata per formare i corridoi, le celle, i vestiboli e le chiese e i sacelli della comunità monastica che l'aveva abitata per più di mille anni. Sulla terrazza si scorgevano vari gruppetti di monaci. Alcuni ascoltavano uno dei diaconi che leggeva a voce alta una copia miniata delle Scritture. «Molti sono analfabeti», sospirò Tessay. «È necessario leggere e spiegare la Bibbia persino ai monaci, perché tanti non sono in grado di leggerla da sé.» «Proprio come avveniva nell'ambito della Chiesa bizantina», commentò Nicholas. «Ancora oggi, questa è la Chiesa della Croce e del Libro, di riti complicati e sontuosi in un mondo prevalentemente illetterato.» Mentre si aggiravano nel chiostro, incontrarono altri gruppi di monaci che, sotto la direzione di un maestro, salmodiavano salmi e inni in amharico. Dall'interno delle celle e delle grotte giungevano le voci che si levavano nella preghiera, e l'aria era satura dell'odore della presenza umana che si protraeva da secoli. Era l'odore del fumo di legna e dell'incenso, del cibo stantio e degli escrementi, del sudore e della pietà, della sofferenza e della malattia. Fra i gruppi di monaci c'erano i pellegrini, giunti lì per pregare il santo o per chiedergli di guarirli dalle malattie e dai tormenti. C'erano bambini ciechi che piangevano tra le braccia delle madri, lebbrosi con la carne che cadeva dalle ossa, uomini colpiti dalla malattia del sonno o da qualche altra terribile infermità tropicale. I gemiti e i lamenti si mescolavano ai canti dei monaci, e al fragore lontano del Nilo che precipitava nel calderone. Arrivarono finalmente all'entrata della cattedrale di san Frumenzio. Era un'apertura rotonda come la bocca di un pesce, ma i bordi erano ornati da Wilbur Smith
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una fitta bordura di stelle, croci e teste di santi. I ritratti, eseguiti in ocra e in toni terrosi, erano primitivi, tuttavia la loro infantile semplicità li rendeva ancor più affascinanti. Gli occhi dei santi erano grandissimi e delineati con il carboncino, le loro espressioni serene e benevole. Un diacono dalla lurida veste di velluto verde sorvegliava l'ingresso, ma, quando Tessay gli parlò, sorrise e accennò loro di entrare. L'architrave era così bassa che Nicholas dovette chinarsi per passare; poi si raddrizzò e si guardò intorno sbalordito. La volta della caverna era alta al punto che si perdeva nell'oscurità. Le pareti di roccia erano coperte da affreschi; una schiera celestiale di angeli e arcangeli sembrava palpitare nella luce delle candele e delle lucerne. Erano nascosti parzialmente dai lunghi arazzi appesi alle pareti, anneriti dalla fuliggine dell'incenso e con i bordi laceri e sfrangiati. Uno di quegli arazzi raffigurava san Michele che incedeva su un cavallo bianco, un altro ritraeva la Vergine, inginocchiata ai piedi della croce, mentre sopra di lei il corpo pallido di Cristo sanguinava dalla ferita aperta nel costato. Quella era la navata esterna della chiesa. Nella parete di fronte l'accesso alla navata mediana era protetto da due solidi battenti di legno che però in quel momento erano aperti. Avanzarono sul pavimento di pietra passando fra i postulanti e pellegrini laceri e inginocchiati che si abbandonavano al dolore o all'estasi religiosa. Nella luce fioca delle lampade e nel fumo azzurrino dell'incenso sembravano anime che languivano per l'eternità nel buio del purgatorio. Arrivarono ai tre gradini di pietra che conducevano alla porta interna; ma due diaconi li bloccarono, e uno di loro si rivolse a Tessay in tono severo. «Non vogliono lasciarci entrare neppure nel qiddist, la navata mediana», spiegò Tessay in tono di rammarico. «Più oltre c'è il magdas, il sacrario.» Scrutarono al di là delle guardie e, nell'oscurità del qiddist, scorsero vagamente la porta del sancta sanctorum. «Solo i preti possono entrare nel magdas, perché contiene il tabot e dà accesso alla tomba del santo.» Delusi e frustrati, uscirono dalla caverna e tornarono sulla terrazza. Cenarono sotto un cielo pieno di stelle. L'aria era ancora calda e soffocante, e imperversavano nugoli di zanzare che i repellenti di cui tutti s'erano cosparsi bastavano a malapena a tenere lontane. Wilbur Smith
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«E così, inglese, l'ho portato dove lei voleva. Adesso come farà a prendere l'animale che è venuto a cercare?» Ancora una volta la vodka aveva reso bellicoso Boris. «Alle prime luci voglio che mandi in giro i suoi cacciatori per battere il territorio più a valle», disse Nicholas. «Di solito i dik-dik sono attivi di prima mattina e poi di nuovo nel tardo pomeriggio.» «Vuole insegnare a suo nonno come si spella un gatto?» Boris pasticciò la metafora e si versò un'altra vodka. «Dica loro di cercare le tracce.» Nicholas insistette di proposito. «Immagino che le tracce della varietà striata siano molto simili a quelle del dik-dik comune. Se trovano qualche indizio, devono sedersi in silenzio sul bordo della macchia di cespugli più fitti e attendere gli eventuali movimenti degli animali. I dik-dik non si allontanano mai dal loro territorio.» «Da! Da! Glielo dirò. Ma lei che cosa farà? Passerà la giornata al campo con le signore, inglese?» Boris sorrise subdolo. «Un pizzico di fortuna, e presto non ci sarà più bisogno di capanne separate.» Sghignazzò. Tessay, a disagio, si alzò con il pretesto di dover andare in cucina per controllare il cuoco. Nicholas ignorò la spiritosaggine volgare. «Royan e io esploreremo la boscaglia lungo le rive del Dandera. Mi è sembrato un habitat molto adatto ai dik-dik. Dica ai suoi di stare alla larga dal fiume: non voglio che disturbino la selvaggina.» L'indomani lasciarono il campo alle prime luci dell'alba. Nicholas portava il Rigby e uno zaino leggero. Condusse Royan lungo la sponda del Dandera. Procedevano lentamente e si fermavano a intervalli di una dozzina di passi per osservare e ascoltare. Le macchie e i boschetti erano pieni dei suoni e dei movimenti degli uccelli e dei piccoli mammiferi. «Gli etiopi non hanno una vera tradizione come cacciatori, e immagino che i monaci non disturbino mai la fauna della gola.» Nicholas indicò le tracce di una piccola antilope nella terra umida della riva. «Un tragelafo di Menelik», spiegò. «Esiste solo in questa parte del mondo. È un trofeo molto ambito.» «Spera veramente di trovare il dik-dik del suo bisnonno?» chiese lei. «Sembrava così deciso quando ne ha parlato con Boris.» «No, naturalmente.» Nicholas sorrise. «Credo che il vecchio l'avesse Wilbur Smith
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fabbricato. Sarebbe stato più giusto chiamarlo 'chimera di Harper'. Probabilmente si servi davvero della pelle di una mangusta striata. Noi Harper non ci atteniamo sempre alla verità.» Si soffermarono a guardare una nettarina che svolazzava intorno a un ciuffo di fiori gialli di un rampicante. Il piumaggio del minuscolo uccello splendeva come una tiara di smeraldi. «Comunque ci fornisce un ottimo pretesto per andare in giro nella boscaglia.» Nicholas si voltò per assicurarsi che fossero abbastanza lontani dal campo, poi indicò a Royan di sedere su un tronco caduto. «Dunque, facciamoci un'idea chiara di quel che stiamo cercando. Mi dica.» «Stiamo cercando le rovine di un tempio funerario o della necropoli in cui vivevano gli operai mentre scavavano la tomba del faraone Marnose.» «Qualunque tipo di costruzione in pietra o mattoni», annuì lui. «Ma soprattutto una specie di colonna o di monumento.» «Sì, il testamento di pietra di Taita», confermò Royan. «Dovrebbe essere coperto di geroglifici scolpiti. Probabilmente è usurato dalle intemperie, o è crollato, oppure è avvolto dalla vegetazione... Non lo so. Stiamo pescando alla cieca...» «Bene, perché stiamo ancora qui a poltrire? Mettiamoci al lavoro.» A metà della mattinata, Nicholas trovò le tracce di un dik-dik lungo la riva del fiume. Si piazzarono contro uno dei grandi alberi e attesero pazienti nell'ombra della foresta sino a che non furono ricompensati dalla visione fuggevole di una di quelle piccole creature. Passò vicino a loro, agitando la proboscide. Si muoveva con eleganza sugli zoccoletti fragili, strappava ogni tanto una foglia da un ramo basso e la masticava con impegno. Ma il manto era di un grigio uniforme, privo di striature. Quando lo vide sparire nel sottobosco, Nicholas si alzò. «È la varietà comune», mormorò. «Proseguiamo.» Poco dopo mezzogiorno, raggiunsero il punto dove il fiume usciva fra le rocce color carne della breccia, e le esplorarono finché non furono bloccati dai dirupi. La roccia scendeva a perpendicolo nell'acqua, e sul ciglio non c'erano appigli che permettessero di spingersi oltre. Tornarono allora verso valle e raggiunsero l'altra riva passando su un ponte sospeso di liane e di corde ispide di lino che doveva essere stato costruito dai monaci. Ancora una volta cercarono di raggiungere la breccia. Nicholas tentò addirittura di passare a guado intorno alla prima sporgenza di roccia rosea Wilbur Smith
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che sbarrava il cammino, ma la corrente era troppo forte e minacciava di trascinarlo via. Dovette rinunciare. «Se non ce la facciamo noi, è molto improbabile che ci fossero riusciti Taita e i suoi operai.» Tornarono fino al ponte sospeso e trovarono un angolo ombroso vicino all'acqua per consumare il pranzo che Tessay aveva fatto preparare. Il caldo meridiano era così intenso da stordire. Royan bagnò nel fiume il fazzoletto da collo e se lo passò sulla faccia mentre si sdraiava accanto a Nicholas. Steso sul dorso, Nicholas studiava con il binocolo ogni centimetro di roccia rosata, alla ricerca di un crepaccio o di un'apertura nella superficie. Poi, sempre osservando la parete, disse: «Leggendo il Dio del fiume mi è sembrato di capire che Taita abbia chiesto aiuto per scambiare il corpo di Tanus, il Grande Leone d'Egitto, con quello del faraone». Abbassò il binocolo e guardò Royan. «Mi è parso un comportamento davvero oltraggioso, in rapporto all'epoca e alle credenze del periodo. È una traduzione fedele dei papiri? Taita scambiò veramente le due mummie?» Royan rise e si girò verso di lui. «Il suo amico Wilbur ha una fantasia surriscaldata. La base per l'intero passo è una sola riga dei papiri: 'Per me era un re più di quanto lo fosse mai stato il Faraone'.» Tornò a girarsi sul dorso. «E un buon esempio delle mie obiezioni al romanzo, che mescola realtà e fantasia in un viluppo inestricabile. Per quanto ne so, Tanus riposa nella sua tomba, e il faraone nella sua.» «Peccato!» sospirò Nicholas. «Mi piaceva, quel tocco romantico...» Poi diede un'occhiata all'orologio e si alzò. «Venga, voglio fare una ricognizione lungo l'altro lato della valle. Ho adocchiato un terreno interessante durante la marcia di ieri.» Era già pomeriggio inoltrato quando tornarono al campo, e Tessay uscì in fretta dalla cucina per accoglierli. «Vi stavo aspettando. Abbiamo ricevuto un invito da parte dell'abate Jali Hora per partecipare a un banchetto che si terrà nel monastero in occasione di Katera, la vigilia di Timkat. I servitori vi hanno preparato la doccia, e l'acqua è calda. Avete giusto il tempo per cambiarvi prima che scendiamo al monastero.» L'abate inviò un gruppo di giovani accoliti a scortarli nella sala dei banchetti. I giovani arrivarono nel breve crepuscolo africano. Portavano le Wilbur Smith
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torce per rischiarare il cammino. Royan riconobbe uno di loro: era Tamre, il ragazzo epilettico. Quando gli rivolse un sorriso cordiale, lui si avvicinò timidamente e le offrì un mazzo di fiori selvatici che aveva colto in riva al fiume. Lei era impreparata a quel gesto di cortesia, e senza riflettere lo ringraziò in arabo. «Shukran.» «Taffadali», rispose immediatamente il ragazzo, usando il genere esatto per la risposta e un accento che rivelava la sua ottima conoscenza della lingua. «Come mai parli così bene l'arabo?» gli chiese Royan incuriosita. Il ragazzo chinò la testa, imbarazzato, e mormorò: «Mia madre è di Massaua, sul mar Rosso. L'arabo è la lingua della mia infanzia». Quando si avviarono verso il monastero, Tamre seguì Royan come un cagnolino. Scesero la scala e arrivarono alla terrazza illuminata dalle torce. Lo stretto chiostro era affollato; mentre procedevano fra la calca, con gli accoliti che aprivano loro il passaggio, innumerevoli facce nere gridavano saluti in amharico e molte mani si tendevano per toccarli. Si chinarono per passare sotto la bassa architrave dell'ingresso della cattedrale. La navata era rischiarata da lucerne a olio e da torce, e gli affreschi con gli angeli e i santi sembravano danzare nella luce incerta. Il pavimento di pietra era coperto da uno strato di canne appena tagliate che alleviava, con il suo dolce profumo, l'aria pesante e fumosa. A quanto pareva, l'intera comunità dei religiosi era seduta su quel tappeto spugnoso. Tutti accolsero l'entrata del gruppetto di ferengi con grida di benvenuto e benedizioni. Accanto a ogni figura assisa c'era una fiasca di tej, l'idromele tipico della zona; bastava guardare le facce soddisfatte e sudate per capire che la bevanda aveva già cominciato a fare effetto. I visitatori furono condotti nel posto lasciato libero per loro, proprio davanti ai battenti lignei del qiddist, la navata mediana. Gli accoliti li invitarono a sedere; subito dopo, altri monaci arrivarono dalla terrazza portando fiasche di tej e le posarono davanti a ognuno di loro. Tessay si sporse per bisbigliare: «È meglio lasciare che sia io ad assaggiare per prima il tej. La gradazione alcolica, il colore e il sapore variano da un posto all'altro: spesso è imbevibile». Prese la sua fiasca e, dopo averne preso un sorso, sorrise. «E molto buono. Se non eccedete, andrà tutto benissimo.» Wilbur Smith
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I monaci seduti intorno a loro li esortavano a bere, e Nicholas alzò la fiasca. Tutti applaudirono e risero quando assaggiò la bevanda. Era leggera e gradevole, con un forte bouquet di miele selvatico. «Niente male!» commentò, ma Tessay lo avvertì: «Più tardi offriranno sicuramente il katikala. Bisogna stare attenti: lo ricavano dal grano fermentato ed è così potente da spaccare la testa». Adesso i monaci concentravano su Royan le loro premure. Erano molto colpiti dal fatto che fosse una cristiana copta, una vera credente; e la sua bellezza non passava inosservata in quella compagnia di religiosi votati al celibato. Nicholas si chinò a sussurrarle: «Dovrà simulare per farli contenti. Si porti la fiasca alle labbra e finga di bere, altrimenti non le daranno pace». Quando Royan alzò la fiasca, i monaci gridarono soddisfatti e brindarono. Lei riabbassò la fiasca e bisbigliò a Nicholas: «È delizioso. Sa di miele». «È venuta meno al voto di astinenza», la rimproverò lui ridendo. «Solo una goccia», ammise lei. «E comunque, non ho mai pronunciato voti.» Gli accoliti s'inginocchiarono a turno davanti agli ospiti, offrendo loro bacinelle d'acqua calda per lavarsi la mano destra prima del banchetto. All'improvviso si sentirono una musica e un rullo di tamburi; dalla porta aperta del qiddist arrivarono i coristi. Si schierarono lungo le pareti laterali della navata, mentre l'intera congregazione cercava di scrutare l'interno della camera mediana. Finalmente in cima ai gradini apparve Jali Hora, il vecchio abate. Indossava una tonaca lunga di raso cremisi e una stola ricamata di filo d'oro. In testa portava una corona massiccia: sebbene brillasse come oro, Nicholas sapeva che era ottone dorato, e le pietre multicolori che la ornavano erano sicuramente di pasta di vetro. Jali Hora alzò il bastone pastorale sovrastato dalla croce d'argento. Scese un grande silenzio. «Ora reciterà il rendimento di grazie», spiegò Tessay, e chinò la testa. La preghiera di Jali Hora fu lunga e fervida; la voce in falsetto si alternava con le risposte devote dei monaci. Quando terminò, due debteras splendidamente abbigliati lo aiutarono a scendere i gradini e lo fecero sedere sul jimmera, lo sgabello scolpito posto al centro del cerchio di diaconi anziani e di preti. Wilbur Smith
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L'atmosfera religiosa lasciò il posto a un'allegria conviviale quando una processione di accoliti arrivò dalla terrazza. Ognuno portava sulla testa un cesto piatto grande quanto una ruota di carro. Ne posarono uno al centro di ogni cerchio d'invitati. Poi, a un segnale di Jali Hora, con un movimento all'unisono tolsero i coperchi ai cesti di canna. I monaci proruppero in esclamazioni gioiose perché ogni cesto conteneva un basso bacile d'ottone pieno di pane azimo, l'injera. Due accoliti arrivarono dalla terrazza: reggevano a stento un paiolo fumante pieno di litri e litri di wat, uno spezzatino di montone grasso insaporito da spezie. Allora inclinarono il pentolone su ciascuna delle ciotole d'injera per versare il wat bruno-rossiccio, con la superficie che luccicava di grasso caldo. I presenti si buttarono voracemente sul cibo. Spezzavano l'injera e l'intingevano nel wat, l'usavano per raccogliere pezzi di carne e se lo buttavano nelle bocche che restavano aperte mentre masticavano. Trangugiavano poi il boccone con lunghe sorsate di tej, prima di attingere altro wat con il pane azimo. Ben presto tutti si ritrovarono con un braccio unto fino al gomito e il mento impiastricciato di sugo mentre masticavano e bevevano, ridendo fragorosamente. Gli accoliti addetti al servizio posarono accanto a ogni ospite grosse forme di un altro tipo l'injera, compatte e friabili, diverse dalla varietà che avevano mangiato fino a quel momento, più gommosa e formata da sottili sfoglie grigiastre. Nicholas e Royan cercarono di dimostrare il loro gradimento per il cibo senza tuttavia ingozzarsi come tutti gli altri. Nonostante il suo aspetto, il wat era davvero saporito e l'injera secco e giallino si rivelò indispensabile per eliminare un po' di grasso. I bacili di ottone si vuotarono in poco tempo, e rimase solo l'intruglio avanzato di pane e grasso. A questo punto, gli accoliti ritornarono, barcollando un po' sotto il peso di altri paioli, traboccanti di wat di pollo al curry. Lo servirono nei bacili sopra gli avanzi del montone, e i monaci ripresero a mangiare di buon appetito. Mentre s'ingozzavano di pollo, le fiasche di tej furono riempite di nuovo e i monaci diventarono ancora più chiassosi. «Non ce la faccio più a resistere», mormorò Royan a Nicholas. «Chiuda gli occhi e pensi all'Inghilterra», la consigliò lui. «E la star della Wilbur Smith
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serata, non la lasceranno scappare.» Quando il pollo finì, gli accoliti tornarono con altri paioli; questi erano pieni fino all'orlo di piccante wat di manzo, che venne versato sugli avanzi del montone e del pollo. Il monaco che stava nel cerchio di fronte a Royan vuotò la fiasca e, quando un accolito si avvicinò per riempirla, gli accennò di stargli lontano e gridò: «Katikala!» Il grido fu ripetuto da altri monaci. «Katikala! Katikala!» Gli accoliti si affrettarono a uscire e tornarono con dozzine di bottiglie di un liquido trasparente come il gin e con ciotole d'ottone grandi come tazze. «Attenti a berlo», raccomandò Tessay. Nicholas e Royan riuscirono a versare di nascosto il contenuto delle loro ciotole sulle canne; ma i monaci tracannavano avidamente. «Boris sta bevendo la sua parte», commentò Nicholas rivolgendosi a Royan. Il russo aveva la faccia scarlatta e sudata: sogghignava come un idiota mentre continuava a bere. Animati dal katikala, i monaci cominciarono a giocare. Uno di loro avvolgeva un po' di wat di bue in una sfoglia d'injera; poi, reggendolo con la mano destra, si girava verso il compagno seduto accanto a lui. La vittima apriva al massimo la bocca e il premuroso monaco glielo cacciava in gola. Naturalmente, il boccone era così grosso che per trangugiarlo il malcapitato correva il rischio di soffocare. A quanto pareva, le regole del gioco stabilivano che il monaco non doveva usare le mani per mettere in bocca l'involtino d'injera e wat, non doveva lasciar colare il grasso sulla tonaca e neppure sputacchiarlo su chi gli stava vicino. Le contorsioni, gli ansiti e i boccheggiamenti della vittima suscitavano l'ilarità più incontrollata. Quando, alla fine, riusciva a trangugiare un boccone, per ricompensa gli veniva accostata alle labbra una ciotola di katikala, che doveva tracannare prontamente. Jali Hora, ormai riscaldato da tej e katikala, si alzò barcollando. Teneva alto nella destra un involtino d'injera grondante. Quando incominciò ad attraversare la navata, con la corona storta sulla testa, in un primo momento non capirono le sue intenzioni. Tutti lo guardavano incuriositi. All'improvviso Royan s'irrigidì e sussurrò inorridita a Nicholas: «No! Per favore, no. Mi salvi, Nicky. Non può permetterlo». «E il prezzo che deve pagare per il ruolo di protagonista», ribatté lui. Jali Hora stava continuando ad avanzare a passi incerti verso di lei. Il sugo Wilbur Smith
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dell'involtino gli scorreva sull'avambraccio e sgocciolava dal gomito. L'orchestrina schierata lungo la parete laterale attaccò una musica vivace. Quando l'abate si fermò davanti a Royan, oscillando come un'antica carrozza molleggiata, il ritmo aumentò e i tamburi suonarono freneticamente. L'abate presentò il suo dono. Allora, con un'ultima occhiata * di disperazione a Nicholas, Royan affrontò l'inevitabile. Chiuse gli occhi e spalancò la bocca. Fra le grida d'incoraggiamento e le esortazioni degli strumenti musicali, si sforzò di masticare. Diventò rossa in viso e i suoi occhi si riempirono di lacrime. A un certo momento, Nicholas pensò che stesse per dichiararsi sconfitta e per sputare il boccone sulle canne. Ma a poco a poco, un morso alla volta, lo inghiottì. Poi, esausta, tirò un respiro di sollievo. Il pubblico si entusiasmò: tutti applaudivano e gridavano. L'abate si lasciò cadere in ginocchio davanti a lei e, rischiando di perdere la corona, l'abbracciò. Poi, senza lasciarla, le sedette accanto. «Sembra che abbia fatto un'altra conquista», commentò Nicholas in tono asciutto. «Credo che le salterà sulle ginocchia da un momento all'altro, se non si affretta a scappare.» Royan reagì con prontezza: si tese, afferrò una bottiglia di katikala e una ciotola che riempì fino all'orlo. «Bevi, amico!» esclamò, accostandogli la ciotola alle labbra. Jali Hora accettò la sfida, ma dovette lasciarla per poter bere dalla sua mano. All'improvviso, Royan trasalì con tanta violenza da rovesciare il liquore rimasto nella ciotola sulla veste del vecchio. Impaludi, e prese a tremare come se fosse in preda alla febbre alta. Fissava la corona che era scivolata sugli occhi dell'abate. «Che c'è?» chiese Nicholas a voce bassa ma incalzante, mentre la sosteneva per un braccio. Nessuno dei presenti aveva notato il turbamento di Royan, ma lui coglieva ormai al volo i suoi stati d'animo. Lei continuò a fissare la corona. Lasciò cadere la ciotola e strinse il polso di Nicholas, che rimase sorpreso dalla sua forza. La stretta era dolorosa, e Royan gli aveva piantato le unghie nella carne al punto di lacerare la pelle. «Guardi la corona! La gemma! La gemma azzurra!» ansimò. E Nicholas la vide fra le sgargianti schegge di vetro e gli ornamenti di granati e cristalli di rocca semipreziosi. Aveva la grandezza di un dollaro Wilbur Smith
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d'argento ed era un sigillo di ceramica azzurra, perfettamente rotondo e lucidissimo. Al centro era inciso un carro da guerra egizio, sovrastato dal disegno inconfondibile del falco con l'ala spezzata. Intorno alla circonferenza c'era una legenda in geroglifici. Nicholas impiegò pochi attimi per leggerlo. IO COMANDO DIECIMILA CARRI IO SONO TAITA, COMANDANTE DELLA CAVALLERIA REALE Royan desiderava disperatamente fuggire dall'atmosfera opprimente della caverna. L'involtino di wat che l'abate l'aveva costretta a inghiottire s'era mescolato ai pochi sorsi di tej che aveva bevuto. La nausea era aggravata dall'odore delle ciotole semipiene di grasso freddo e dai vapori acri del katikala. Alcuni monaci, ubriachi, avevano cominciato a vomitare, e il lezzo si aggiungeva al profumo soffocante dell'incenso. Ma Royan era al centro dell'attenzione dei monaci: l'abate le sedeva accanto e le accarezzava il braccio nudo, mentre recitava in amharico ingarbugliati brani sacri che Tessay aveva ormai rinunciato a tradurre. Guardò speranzosa Nicholas, ma quello taceva e sembrava ignorare ciò che lo circondava. Sapeva che stava pensando al sigillo di ceramica della corona dell'abate, perché continuava a guardarlo con aria assorta. Avrebbe voluto restare sola con lui per parlare di quella scoperta straordinaria; l'eccitazione controbilanciava le sofferenze dello stomaco sovraccarico. Sentiva di avere le guance in fiamme e, ogni volta che alzava gli occhi verso la corona del vecchio, il suo cuore palpitava. Royan doveva compiere uno sforzo per trattenersi dal tendere la mano, afferrare il sigillo azzurro e strapparlo dall'incastonatura per osservarlo meglio. Sapeva che sarebbe stata un'imprudenza attirare l'attenzione sul piccolo oggetto di ceramica; tuttavia, quando si guardò intorno, vide che Boris non era completamente assorto dalla sua ciotola di katikala. Ma fu proprio Boris a offrirle il pretesto che stava cercando. Il russo cercò di alzarsi, ma le gambe lo tradirono: si piegò in avanti, finì con la faccia nel bacile d'injera pieno di grasso e cominciò a russare rumorosamente. Allora Tessay si rivolse a Nicholas con aria supplichevole. «Alto Nicholas, che devo fare?» Nicholas osservò lo sgradevole spettacolo del cacciatore steso bocconi. Wilbur Smith
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Nei capelli rossicci c'erano briciole di pane e ritagli di spezzatino di bue. «Penso che per stasera il principe azzurro abbia bevuto abbastanza», mormorò. Si alzò, andò a chinarsi su Boris e l'afferrò per il polso: lo sollevò prima a sedere, poi in piedi, e se lo caricò sulla spalla come un vigile del fuoco che porta in salvo qualcuno. «Buonanotte a tutti!» augurò ai monaci, che in maggioranza non erano in grado di rispondere, e portò via Boris con la testa e i piedi che ciondolavano. Le due donne dovettero allungare il passo per stargli dietro. Nicholas percorse la terrazza e salì la scala di pietra senza mai fermarsi. «Non mi ero accorta che alto Nicholas fosse così forte», ansimò Tessay. I gradini erano ripidi e l'andatura sostenuta. «Neppure io», ammise Royan con uno strano senso d'orgoglio, e sorrise fra sé mentre si avvicinavano al campo. «Non essere sciocca», si disse. «Non è il tuo uomo e non hai motivo di vantarti.» Nicholas scaricò Boris sulla branda nella capanna dal tetto di paglia e indietreggiò. Ansimava, e il sudore gli scorreva sulle guance. «È un ottimo modo per procurarsi un attacco di cuore», commentò. Boris gemette, si girò, e vomitò sul cuscino e sulle lenzuola. «E con questa scenetta amabile, auguro a tutti buonanotte e dolci sogni», disse Nicholas a Tessay, e uscì nella calda notte africana. Aspirò con sollievo il profumo della foresta e del fiume, poi si voltò quando Royan gli strinse il braccio. «Ha visto...?» esclamò lei, emozionata, ma Nicholas si portò l'indice alle labbra per farla tacere, lanciò un'occhiata di avvertimento in direzione della capanna di Boris. I due si avviarono verso la capanna di Royan. «Ha visto?» ripeté lei non appena fu entrata. Non riusciva più a trattenersi. «Ha potuto leggerlo?» «'Io comando diecimila carri'», recitò Nicholas. «'Io sono Taita, comandante della cavalleria reale'», concluse lei. «È passato di qui. Oh, Nicky, Taita è passato di qui! È la prova che stavamo cercando. Adesso sappiamo che non stiamo sprecando tempo.» Si sedette sulla branda e si strinse le spalle con le mani. «Crede che l'abate ci permetterà di esaminare il sigillo?» Nicholas scosse la testa. «Penso di no. La corona è uno dei tesori del Wilbur Smith
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monastero. Probabilmente non lo farebbe neppure per lei, che pure è la sua beniamina. E comunque non sarebbe prudente mostrare un eccessivo interesse. È chiaro che Jali Hora non ha la più lontana idea del significato del sigillo. E, a parte questo, è meglio non mettere sull'avviso Boris.» «Probabilmente ha ragione.» Royan si spostò sul letto per lasciargli spazio. «Sieda.» Quando lui si fu accomodato, gli chiese: «Da dove crede che provenga il sigillo? Chi l'avrà trovato? Dove e quando?» «Calma, calma, mia cara. Sono quattro domande e non so rispondere a nessuna di esse.» «Provi a immaginare! Faccia qualche ipotesi. Butti là un paio d'idee.» «Sta bene», disse lui. «Il sigillo è stato fatto a Hong Kong: là c'è una fabbrichetta che li sforna a migliaia. Jali Hora l'ha comprato per dieci rupie in un negozio di souvenir per turisti a Luxor quando è andato in vacanza in Egitto il mese scorso.» Royan gli diede un pugno sul braccio con una certa energia. «Non scherzi», ordinò. «Vediamo se riesce a fare di meglio», propose Nicholas mentre si massaggiava il braccio. «D'accordo, ecco qui. Taita lasciò cadere casualmente il sigillo nella gola, mentre lavorava alla costruzione della tomba del faraone Mamose. Quasi tremila anni dopo un vecchio monaco, uno dei primi a vivere nel monastero, lo trovò. Naturalmente non sapeva leggere i geroglifici. Lo portò all'abate, e quello dichiarò che era una reliquia di san Frumenzio, e lo fece incastonare nella corona.» «E vissero tutti felici e contenti», concluse Nicholas. «Niente male, davvero.» «Riesce a trovare qualche lacuna?» chiese Royan. L'uomo scosse la testa. «Allora è d'accordo? Questo prova che Taita passò di qui, e che le nostre teorie sono fondate.» «Forse non è il caso di parlare di prove. Diciamo che indica quella direzione.» Lei si girò sul letto per guardarlo in faccia. «Oh, Nicky, sono così emozionata. Lo giuro, stanotte non riuscirò a chiudere occhio. Non vedo l'ora che arrivi domani per poter uscire a continuare le ricerche.» Le brillavano gli occhi e le guance erano sfumate di rosa; le labbra socchiuse lasciavano scorgere la punta della lingua. Wilbur Smith
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Questa volta Nicholas non seppe trattenersi. Si tese verso di lei, lentamente, lasciandole tutto il tempo di tirarsi indietro se voleva evitarlo. Royan non si mosse, ma nella sua espressione radiosa passò un lampo di angoscia. Lo guardò negli occhi, come se cercasse di essere rassicurata. Quando le loro labbra furono a un paio di centimetri di distanza, Nicholas si fermò, e fu lei a compiere l'ultimo movimento. Le due bocche si unirono. All'inizio fu un bacio tenero, un mescolarsi lieve di respiri; poi divenne più ardente. Per un lungo attimo si divorarono con passione. La bocca di Royan era morbida e dolce come un frutto maturo. All'improvviso lei gemette e con un enorme sforzo di volontà si staccò e si svincolò. Si fissarono, scossi e confusi. «No», mormorò Royan. «Ti prego, Nicky. Non ancora. Non sono pronta.» Lui le prese una mano e le baciò le punte delle dita, assaporando il profumo e il sapore della pelle. «A domattina.» La lasciò andare e si alzò. «Molto presto. Preparati», disse, e uscì dalla capanna. La mattina dopo, mentre Nicholas si vestiva, la sentì muoversi nell'altra capanna, e quando fischiettò sommessamente davanti alla porta lei uscì, vestita e impaziente di cominciare. «Boris non si è ancora svegliato», disse Tessay, portando la colazione. «Be', non mi sorprende», commentò Nicholas senza alzare lo sguardo dal piatto. Lui e Royan erano ancora un po' impacciati nel ritrovarsi insieme: il ricordo di come si erano separati la sera precedente era vivo in entrambi. Il loro umore, comunque, cambiò ben presto, lasciando il posto all'eccitazione dell'attesa, quando Nicholas si caricò in spalla il fucile e lo zaino e si avviò con Royan nella valle. Erano in cammino da un'ora quando lui si guardò alle spalle e aggrottò la fronte. «Qualcuno ci segue.» Prese Royan per il polso e la guidò dietro una lastra di arenaria. Si addossò alla roccia e le indicò di fare altrettanto. Poi, all'improvviso, spiccò un balzo per afferrare la figura scarna, avvolta in uno shamma biancosporco, che li seguiva furtivamente. L'uomo cadde in ginocchio con un grido e cominciò a balbettare per il terrore. Wilbur Smith
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Nicholas lo rimise in piedi di peso. «Tamre! Perché ci segui? Chi ti ha mandato?» chiese in arabo. Il ragazzo girò gli occhi verso Royan. «No, effendi, ti prego, non farmi male. Non avevo cattive intenzioni.» «Lascialo andare, Nicky, o gli causerai un altro attacco», intervenne Royan. Tamre corse a rifugiarsi dietro di lei, le prese la mano e sbirciò Nicholas come se temesse per la propria vita. «Calmati, Tamre», lo rassicurò Nicholas. «Non ti farò niente se non mi dirai bugie. Altrimenti ti picchierò fino a quando non ti resterà un solo brandello di pelle sulla schiena. Chi ti ha ordinato di seguirci?» «Non mi ha mandato nessuno», gemette il ragazzo. «Sono venuto a mostrarvi dove ho visto l'animale sacro con i segni delle dita del Battista sul mantello.» Nicholas lo fissò per un momento e si mise a ridere. «Mi venga un accidente se il ragazzo non è davvero convinto di aver visto il dik-dik del mio bisnonno.» Poi, con una smorfia feroce, aggiunse: «Ricorda che cosa ti succederà se stai mentendo». «No, è tutto vero, effendi», singhiozzò Tamre, e Royan intervenne. «Non spaventarlo. È innocuo. Lascialo in pace.» «E va bene, Tamre. Ti darò una possibilità. Guidaci dove hai visto l'animale sacro.» Tamre non lasciò la mano di Royan. Procedette al suo fianco; dopo cento passi aveva dimenticato il terrore e le sorrideva timidamente. Per un'ora li guidò lontano dal Dandera, sul terreno elevato che dominava la valle, fino a una zona di arbusti fitti e di creste di arenaria corrosa dalle intemperie. I rami spinosi degli arbusti erano intrecciati, e crescevano così vicini a terra che sembrava impossibile passare. Ma Tamre li condusse a un sentiero, largo appena quanto bastava per evitare che le spine uncinate dalle punte rosse li graffiassero. Tamre si fermò di colpo e trattenne Royan, poi indicò in basso. «Il fiume!» annunciò in tono solenne. Nicholas li raggiunse e zufolò per la sorpresa. Il ragazzo li aveva condotti verso ovest in un ampio cerchio, e li aveva riportati al Dandera in un tratto dove scorreva ancora nel letto del profondo burrone. Erano sul ciglio del precipizio. Nicholas notò subito che, sebbene la sommità fosse ampia meno d'una trentina di metri, si allargava più in basso. Dalla superficie dell'acqua le pareti di roccia che emergevano Wilbur Smith
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assumevano la forma di una fiasca di tej per tornare poi a restringersi vicino al punto in cui si trovavano loro. «È là che ho visto l'animale sacro.» Tamre indicò l'altro lato dell'abisso, dove l'acqua di una sorgente usciva serpeggiando dagli arbusti spinosi. Drappeggi di muschio, nutriti dalla fonte, pendevano dall'orlo della parete concava, e l'acqua vi sgocciolava e cadeva nel fiume, una sessantina di metri più sotto. «Se l'hai visto là, perché ci hai condotti su questa riva del fiume?» chiese Nicholas. Tamre sembrava sul punto di scoppiare in pianto. «Perché da questa parte è più facile. Dall'altra non vi sono sentieri fra i cespugli, e le spine avrebbero ferito woizero Royan.» «Non fare il prepotente», raccomandò Royan a Nicholas, e passò un braccio intorno alle spalle del ragazzo. Nicholas scrollò la testa. «A quanto pare voi due vi siete alleati ai miei danni. Be', visto che siamo qui, tanto vale sederci per un po' e vedere se compare il dik-dik.» Scelse un punto all'ombra di uno degli alberi stenti che si sporgevano nell'abisso e usò il cappello per rimuovere dal suolo le spine cadute fino a che non ci fu spazio sufficiente per sedere. Quindi si appoggiò con la schiena al tronco e posò il Rigby sulle ginocchia. Era passato mezzogiorno, e il caldo era soffocante. Tese la borraccia dell'acqua a Royan e, mentre lei beveva, lanciò un'occhiata a Tamre e suggerì in inglese: «Potrebbe essere l'occasione buona per scoprire che cosa sa questo ragazzo del sigillo di Taita. È cotto di te. È pronto a dirti tutto ciò che vuoi sapere. Interrogalo». Royan incominciò a parlare con gentilezza al ragazzo; ogni tanto gli accarezzava la testa come se fosse un cagnolino. Gli parlò del banchetto della sera precedente, della bellezza della chiesa sotterranea, dell'antichità degli affreschi e degli arazzi e alla fine accennò alla corona dell'abate. «Sì, sì, è la pietra del santo», dichiarò prontamente il ragazzo. «La pietra azzurra di san Frumenzio.» «Da dove viene?» chiese lei. «Lo sai?» Tamre sembrava imbarazzato. «Non lo so. È molto antica, forse è antica quanto Cristo. Così dicono i preti.» «Non sai quando fu trovata?» Lui scosse la testa; poi, ansioso di compiacerla, suggerì: «Magari è caduta dal cielo». Wilbur Smith
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«Già, magari.» Royan lanciò un'occhiata a Nicholas, che alzò gli occhi e abbassò la tesa del cappello per coprirsi la faccia. «Forse san Frumenzio la donò al primo abate quando stava per morire», disse Tamre. «O forse era nella sua bara quando lo seppellirono.» «È tutto possibile, Tamre», ammise Royan. «Hai mai visto la tomba di san Frumenzio?» Il ragazzo si guardò intorno con aria colpevole. «Solo i preti ordinati possono entrare nel magdas», bisbigliò abbassando la testa. «Tu l'hai vista, Tamre», lo accusò Royan in tono gentile senza smettere di accarezzargli la testa. Era sorpresa dal senso di colpa del ragazzo. «A me puoi dirlo. Non lo racconterò ai preti.» «Una volta sola», ammise lui. «Gli altri ragazzi mi hanno mandato a toccare la pietra del tabot. Altrimenti mi avrebbero picchiato. Sono stati i nuovi accoliti a costringermi.» Cominciò a balbettare per l'orrore, al ricordo di quell'iniziazione. «Ero solo e avevo tanta paura. Era mezzanotte passata, quando i preti dormivano. C'era buio. Lo spettro di Frumenzio si aggira nel magdas. Mi hanno detto che, se ero indegno, il santo mi avrebbe folgorato.» Nicholas si rialzò il cappello dalla faccia e si raddrizzò lentamente. «Parola mia, questo ragazzo dice la verità. È stato davvero nel magdas.» Poi si rivolse a Royan. «Continua a interrogarlo. Può darsi che ci dia qualche indicazione utile. Chiedigli della tomba di san Frumenzio.» «Hai visto davvero la tomba del santo?» chiese lei, e il ragazzo annuì energicamente. «Sei entrato nella tomba?» Questa volta Tamre scosse la testa. «No, ci sono le sbarre all'ingresso, e solo l'abate può entrare nella tomba, il giorno della festa del santo.» «Hai guardato attraverso le sbarre?» «Sì, ma era molto buio. Ho visto la bara. E di legno dipinto. C'è la faccia di san Frumenzio.» «Era un nero?» «No, un bianco con la barba rossa. Il dipinto è molto antico, i colori sono sbiaditi, il legno è marcio e sgretolato.» «La bara è posata sul pavimento della tomba?» Tamre si concentrò per ricordare, poi scosse la testa. «No, è su un ripiano di pietra, nella parete.» «Ricordi qualche altra cosa della tomba?» Royan cercava di pungolargli Wilbur Smith
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la memoria, ma Tamre scosse la testa. «Era molto buio e l'apertura fra le sbarre è piccola», disse in tono di scusa. «Non ha importanza. La tomba è nella parete in fondo al magdas?» «Sì, è dietro l'altare e la pietra del tabot.» «E anche l'altare è di pietra?» «No, è di legno. Cedro. Ci sono le candele e una grande croce, e le corone dell'abate e il calice e il pastorale.» «È dipinto?» «No, ma è intagliato. Ci sono molte figure, ma sono diverse da quelle all'interno della tomba.» «Che cos'hanno di diverso? Dimmelo, Tamre.» «Non lo so. Le facce sono strane, i vestiti differenti. Ci sono i cavalli.» Il ragazzo sembrava perplesso. «Sono diversi, insomma.» Per un po' Royan cercò di ottenere una descrizione più chiara, ma Tamre era sempre più confuso e si contraddiceva. Perciò cambiò argomento. «Parlami del tabot», propose, però Nicholas intervenne. «No, spiegami tu che cos'è il tabot. Corrisponde al tabernacolo degli ebrei?» Royan si voltò verso di lui. «Sì, almeno per la chiesa egiziana. Di solito è custodito in una cassa ingemmata e avvolto in un drappo d'oro ricamato. L'unica differenza è che nel tabernacolo ebraico sono incisi i dieci comandamenti, mentre nella nostra religione porta le parole di consacrazione della chiesa che lo custodisce. È il cuore della chiesa.» «Che cos'è la pietra del tabot?» Nicholas aggrottò la fronte, concentrandosi. «Non lo so», ammise lei. «La nostra chiesa non ha una pietra del tabot.» «Chiedilo al ragazzo!» «Tamre, parlami della pietra del tabot.» «È alta così, quadrata, e larga così.» Tamre indicò un'altezza poco superiore alle sue spalle, e una larghezza corrispondente a quella delle sue mani allargate. «E il tabot sta sopra la pietra?» provò a indovinare Royan. Tamre annuì. «Perché ti hanno mandato a toccare la pietra e non il tabot?» chiese Nicholas, ma Royan scosse la testa per farlo tacere. «Lascia parlare me. Sei troppo duro con lui.» Si rivolse di nuovo al Wilbur Smith
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ragazzo. «Perché proprio la pietra anziché l'arca del tabot che sta sopra?» Tamre alzò le spalle, rassegnato. «Non lo so. Mi hanno detto così, ecco.» «Com'è la pietra? E dipinta?» «Non lo so.» Il ragazzo sembrava disperato all'idea di non poterle dare risposte soddisfacenti. Desiderava ardentemente fornirle le indicazioni che la interessavano. << Non lo so. La pietra è coperta di drappi.» Nicholas e Royan si scambiarono un'occhiata sorpresa, poi lei si rivolse di nuovo al ragazzo. «È coperta?» Si chinò verso di lui. «La pietra è coperta?» «Dicono che viene scoperta dall'abate solo per la festa di san Frumenzio.» Ancora una volta Nicholas e Royan si scambiarono un'occhiata, poi lui sorrise pensieroso. «Mi piacerebbe dare un'occhiata alla tomba del santo e alla pietra del tabot... senza i drappi che la coprono.» «Dovresti aspettare la festa del santo», disse lei. «E farti ordinare perché solo i preti...» S'interruppe e tornò a fissarlo. «Non starai pensando a... No, vero?» «Chi, io?» Nicholas sorrise maliziosamente. «Non mi passa neppure per la testa.» «Se ti sorprendessero nel magdas, ti farebbero a pezzettini.» «La soluzione potrebbe essere non farmi sorprendere.» «Se andrai, verrò con te. Come ci organizziamo?» «Al tempo, mia cara ragazza. L'idea mi è venuta in mente appena dieci secondi fa. Persino nelle mie giornate migliori ho bisogno di almeno dieci minuti per escogitare un piano d'azione.» Guardarono in silenzio al di là dell'abisso, poi Royan bisbigliò: «La pietra coperta... il testamento di pietra di Taita?» «Non dirlo forte», l'implorò Nicholas e fece uno scongiuro. «Non pensarlo neppure. Il diavolo è in ascolto.» Tacquero, riflettendo. Poi Royan parlò. «Nicky, e se...» S'interruppe. «No, non funzionerebbe», e si chiuse di nuovo nel silenzio. Tamre li interruppe con un gridolino eccitato. «Eccolo! Eccolo! Guardate!» Trasalirono tutti e due. «Che cos'è?» chiese Nicholas voltandosi verso di lui. Wilbur Smith
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Il ragazzo gli afferrò il braccio. Tremava per l'emozione. «Eccolo là! Ve l'avevo detto!» Con l'altra mano indicò un punto oltre il fiume. «Là, vicino a quei cespugli. Non lo vede?» «Che cos'è? Che cosa vedi?» «Il dik-dik di Giovanni Battista. L'animale con i segni del santo.» Royan seguì la direzione del braccio teso e scorse un movimento bruniccio ai margini della macchia, sull'altra sponda. «Non saprei. È troppo lontano...» Nicholas frugò nello zaino e prese il binocolo, l'accostò agli occhi, lo regolò, e cominciò a ridacchiare. «Alleluia! Finalmente la reputazione del mio bisnonno è salva.» Passò il binocolo a Royan, che individuò il piccolo erbivoro. Era lontano quasi trecento metri, ma attraverso le lenti poteva scorgerlo chiaramente. Era grande una volta e mezzo il dik-dik comune che avevano visto il giorno precedente, e, anziché grigio, il pelame era rosso-bruno. Ma la caratteristica più notevole era costituita dalle nitide strisce color cioccolato sulle spalle e sul dorso: cinque segni spaziati a intervalli regolari che sembravano davvero le impronte delle dita d'una mano. «Madoqua harperii!» bisbigliò Nicholas. «Scusa, mio caro bisnonno, se ho dubitato di te.» Il dik-dik era per metà all'ombra, e arricciava il naso per fiutare l'aria. Teneva la testa alta in un atteggiamento vigile e sospettoso. La brezza soffiava di traverso fra gli esseri umani e l'animale, ma ogni tanto un refolo gli portava l'odore che lo aveva messo in allarme. Royan sentì lo scatto del fucile quando Nicholas inserì una cartuccia. Si affrettò ad abbassare il binocolo. «Non vorrai sparargli!» esclamò. «A questa distanza, no. Sono trecento metri e il bersaglio è piccolo. Aspetterò che si avvicini.» «Come puoi avere il coraggio di fare una cosa simile?» «E come posso rinunciare? Sono venuto qui per questo... fra le altre cose.» «Ma è così bello!» «Quindi, secondo te, potrei ammazzarlo se fosse brutto?» Royan non disse niente. Alzò di nuovo il binocolo. La direzione del vento doveva essere cambiata, perché il dik-dik abbassò la testa per mordicchiare un ciuffo d'erba bruna, la sollevò di nuovo e scese la radura con movimenti eleganti, soffermandosi ogni tanto per mangiare. Wilbur Smith
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«Torna indietro!» Royan si augurò che si mettesse al sicuro, ma l'erbivoro continuò ad avvicinarsi al ciglio dell'abisso. Nicholas si stese bocconi dietro le radici dell'albero, e appallottolò il cappello per farne una specie di cuscinetto e appoggiarvi il fucile. «Duecento metri», mormorò. «È una distanza utile.» Tenne il fucile sulla radice e scrutò attraverso il mirino telescopico. Poi alzò la testa, in attesa che l'animale gli arrivasse a tiro. All'improvviso il dik-dik alzò di nuovo la testa e rimase immobile, fremendo per la tensione. «C'è qualcosa che lo disturba. Accidenti, dev'essere cambiato di nuovo il vento», ringhiò Nicholas. In quel momento, il piccolo animale fuggì. Sfrecciò attraverso la radura e sparì fra gli arbusti spinosi. «Vai, Dicky Dik-Dik, vai!» l'incitò soddisfatta Royan. Nicholas si sollevò a sedere e sbuffò, irritato. «Non capisco che cosa l'ha spaventato.» Poi cambiò espressione e inclinò la testa. Nell'aria c'era un rumore estraneo che cresceva di secondo in secondo. Erano uno sferragliare intenso e un sibilo acuto. «Un elicottero! Diavolo!» Nicholas riconobbe immediatamente il rumore. Prese il binocolo dalle mani di Royan e lo puntò verso il cielo, scrutando l'azzurro senza nubi al di sopra della cima dentellata del pendio. «Eccolo là», disse rabbiosamente. «Un Bell Jet Ranger», soggiunse riconoscendo il profilo. «Sembra che venga da questa parte. E meglio non attirare l'attenzione. Mettiamoci al riparo.» Condusse Royan e il ragazzo sotto gli ampi rami dell'acacia spinosa. «State immobili», ordinò. «Qui sotto non potranno vederci.» Seguì con il binocolo il movimento dell'elicottero. «Probabilmente appartiene alle forze aeree etiopi», mormorò. «Sarà una pattuglia antisciftà. Boris e il colonnello Nogo ci hanno avvertiti che ci sono molti ribelli e banditi nella gola...» Poi s'interruppe. «No, un momento. Non è militare. Fusoliera verde e rossa, con l'emblema del cavallo rosso. Sono i tuoi vecchi amici della Pegasus Exploration.» Il suono dei rotori aumentò; a occhio nudo, adesso Royan riusciva a scorgere il cavallo alato sulla fusoliera dell'elicottero che volava basso di fronte a loro, a ottocento metri di distanza, e si dirigeva verso il Nilo. Nessuno dei due badava a Tamre che stava rannicchiato dietro Royan e cercava di nascondersi dietro di lei. Batteva i denti per il terrore e roteava gli occhi. Wilbur Smith
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«A quanto pare il nostro amico Jack Helm ha trovato un mezzo di trasporto di lusso. Se la Pegasus è coinvolta nell'assassinio di Duraid e negli altri attentati contro di te, possiamo prevedere che d'ora in poi ci starà alle costole. Sono in grado di tenerci d'occhio quando e come vogliono.» Nicholas continuava a osservare l'elicottero con il binocolo. «Quando il tuo nemico è in aria, ti senti davvero indifeso.» Con un movimento istintivo, Royan gli si avvicinò e guardò in alto. L'apparecchio verde e scarlatto sparì oltre l'aggetto della subgola e discese verso il monastero. «A meno che non sia una gita di piacere, è probabile che stia cercando il nostro campo», rifletté Nicholas. «Il capo gli ha ordinato di sorvegliarci.» «Non faticherà a trovarlo. Boris non ha cercato di nascondere le capanne», disse preoccupata Royan. «Andiamo via.» E si alzò. «Ottima idea.» Nicholas stava per seguirla, ma d'un tratto le prese la mano e la bloccò. «Ferma. Stanno tornando indietro.» Il suono del motore ridiventava più forte. Poi, attraverso l'intrico di foghe e di rami spinosi, intravidero l'elicottero. «Ora segue il fiume. Sta cercando qualcosa.» «Noi?» chiese nervosamente Royan. «Può darsi, se hanno ricevuto l'ordine dal capo», ammise Nicholas. L'apparecchio era molto vicino e il sibilo del motore era assordante. In quel momento i nervi di Tamre cedettero. Proruppe in un gemito di terrore. «È il diavolo, ed è venuto a prendermi. Salvami, Gesù Cristo, salvami!» Nicholas tese una mano per trattenerlo, ma non fu abbastanza pronto. Il ragazzo si liberò e balzò in piedi. Spinto dalla paura dell'inferno, si precipitò lungo il sentiero e si avventò nella macchia spinosa. Lo shamma gli volteggiava intorno alle gambe scarne, e la lucida faccia nera era rivolta all'indietro per guardare l'elicottero. Il pilota lo avvistò subito, e il muso dell'apparecchio si abbassò. Venne verso di loro, e rallentò solo nell'avvicinarsi al ciglio dello squarcio. Nicholas e Royan scorsero le teste dei due occupanti dietro il parabrezza. L'apparecchio rimase sospeso sul fiume e girò su se stesso, mentre Royan e Nicholas stavano rannicchiati fra gli arbusti per non farsi scorgere. «È l'americano del campo», mormorò Royan che aveva riconosciuto Jake Helm nonostante la cuffia radio e gli occhiali a specchio. Helm e il Wilbur Smith
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pilota negro allungavano il collo per scrutare le rive del fiume. «Non ci hanno visti...» Nel momento stesso in cui Nicholas pronunciava queste parole, Jake Helm fi individuò. Non cambiò espressione, ma batté sulla spalla del pilota e fece un cenno. Il pilota scese ancora, fino a che l'elicottero non rimase fibrato quasi al loro livello. Li separavano una trentina di metri, non più. Nicholas non cercò di nascondersi. Si appoggiò al tronco dell'acacia, inclinò il panama su un occhio e agitò una mano in segno di saluto. Il capo cantiere non rispose. Lo guardò freddamente, poi accese un fiammifero e lo accostò all'estremità del sigaro semiconsumato che stringeva fra i denti. Gettò via il fiammifero spento, lanciò uno sbuffo di fumo in direzione di Nicholas e, senza cambiare espressione, disse qualcosa al pilota. Subito l'elicottero salì verticalmente e virò a nord, dirigendosi verso la scarpata e il campo base. «Missione compiuta. Ha trovato quel che cercava.» Royan si sollevò a sedere. «Noi!» «E deve aver avvistato il campo. Sa dove trovarci», ammise Nicholas. Royan rabbrividì. «Mi sento male solo al pensiero. Sembra un rospo.» «Oh, andiamo», la rimproverò Nicholas. «Perché ce l'hai con i rospi?» Si alzò. «Non credo che per oggi rivedremo il dik-dik del bisnonno. L'elicottero l'ha spaventato. Ritenterò domani.» «Andiamo a cercare Tamre. Probabilmente ha avuto un altro attacco epilettico, poverino.» Royan si sbagliava. Trovarono il ragazzo accanto al sentiero. Tremava e piangeva, però non aveva avuto attacchi. Si calmò in fretta quando la vide, e li seguì verso il campo. Tuttavia, quando si avvicinarono al boschetto, si allontanò da loro e si diresse verso il monastero. Più tardi, prima che calasse l'oscurità, Nicholas condusse Royan al monastero di san Frumenzio. «Credo che negli ambienti della malavita questo genere di cose si chiami 'ispezione'», commentò mentre si chinavano per entrare nella cattedrale e si univano alla folla dei fedeli nella navata esterna. «Secondo quel che ha detto Tamre, gli accoliti aspettano che siano di servizio i preti che hanno l'abitudine di addormentarsi», disse Royan a voce bassa mentre si soffermavano per guardare al di là della porta della Wilbur Smith
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navata mediana. «E noi non disponiamo di queste informazioni riservate», commentò Nicholas. I preti andavano e venivano attraverso la porta. «Sembra che non ci siano procedure speciali», notò Nicholas. «Né parole d'ordine né rituali per poter passare.» «Però salutano i guardiani chiamandoli per nome. È una comunità poco numerosa, e devono conoscersi tutti molto bene.» «A quanto pare, non è possibile che mi travesta da monaco e riesca a entrare», ammise Nicholas. «Chissà che cosa fanno a quelli che s'intrufolano abusivamente nelle zone sacre...» «Li buttano dalla terrazza ai coccodrilli del Nilo», suggerì maliziosamente Royan. «Comunque, non entrerai senza di me.» Non era il momento di discutere. Nicholas cercò di scorgere quanto più era possibile attraverso la porta aperta del qiddist. La navata mediana sembrava molto più piccola di quella esterna. Riuscì a distinguere gli affreschi che coprivano le parti visibili delle pareti interne. In quella di fronte c'era un'altra porta. Secondo la descrizione di Tamre, doveva essere l'entrata del magdas. L'apertura era bloccata da una grata pesante di sbarre lignee, e le giunture erano rinforzate da manicotti di ferro battuto a mano. Ai lati della porta, dalla volta al pavimento, pendevano arazzi ricamati che raffiguravano scene della vita di san Frumenzio. In uno, il santo predicava ai fedeli inginocchiati, con la Bibbia nella sinistra e la mano destra levata nell'atto di benedire. Nell'altro arazzo battezzava un imperatore che portava un'alta corona d'oro simile a quella di Jali Hora. La testa del santo era circondata da un'aureola; il suo volto era bianco, mentre quello dell'imperatore era nero. «E politicamente corretto?» si chiese Nicholas con un sorriso. «Che c'è di tanto divertente?» chiese Royan. «Hai trovato un modo per entrare?» «No. Pensavo alla cena. Andiamo.» A cena, Boris sembrava aver smaltito i postumi della baldoria della sera precedente. Durante il giorno, aveva preso la doppietta e aveva sparato a un certo numero di piccioni. Tessay li aveva marinati e arrostiti sulla brace. «Mi dica, inglese, com'è andata oggi la caccia? È stato aggredito dal terribile dik-dik striato? Eh? Eh?» Boris scoppiò in una risata fragorosa. Wilbur Smith
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«I suoi cercatori di tracce hanno concluso qualcosa?» chiese tranquillamente Nicholas. «Da! Da! Hanno trovato kudu, tragelafi e bufali, e hanno trovato anche dik-dik. Ma non striati, purtroppo.» Royan aprì la bocca per dire qualcosa, però Nicholas scosse la testa per metterla in guardia. Lei tacque, abbassò gli occhi sul piatto, e tagliò un pezzetto di carne dal petto del piccione. «Domani non avremo bisogno di compagnia», spiegò Nicholas in arabo. «Se lui sapesse, insisterebbe per venire con noi.» «Sua madre non le ha insegnato le buone maniere, inglese? È da maleducati parlare in una lingua che gli altri non capiscono. Beva una vodka.» «Beva lei anche la mia parte», rispose Nicholas. «Capisco sempre quando qualcuno ha più classe di me.» Durante il resto della cena, Tessay rispose a monosillabi quando Royan cercò di coinvolgerla nella conversazione. Aveva un'aria tragica, sconfitta. Non guardava mai il marito, neppure quando diventava più rumoroso e insopportabile. Al termine del pasto, la lasciarono accanto al fuoco in compagnia di Boris, che aveva sul tavolo una bottiglia di vodka appena aperta. «A vedere come beve, si direbbe che potrei essere chiamato a compiere un'altra missione di salvataggio notturno», commentò Nicholas mentre si avviavano alle loro capanne. «Tessay è rimasta tutto il giorno con lui al campo. Ci sono stati altri guai fra di loro. Mi ha detto che appena torneranno ad Addis Abeba lo lascerà. Non riesce più a sopportarlo.» «L'unica cosa che mi sorprende è come abbia fatto a mettersi con una bestia come Boris. È una donna incantevole, poteva scegliere di meglio.» «Certe donne sono attratte dalle bestie.» Royan alzò le spalle. «Probabilmente è il fascino del pericolo. Comunque, Tessay mi ha chiesto se domani può venire con noi. Non se la sente di restare un altro giorno al campo, sola con Boris. Credo che abbia veramente paura di lui, adesso. Dice che non l'aveva mai visto bere tanto.» «Dille che può venire», rispose rassegnato Nicholas. «Più la compagnia è numerosa, e più ci si diverte. Forse riusciremo a far morire di paura il dik-dik con la nostra presenza. E così non sprecherò munizioni.» Era ancora buio quando i tre lasciarono il campo l'indomani mattina. Wilbur Smith
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Non c'era traccia di Boris; quando Nicholas chiese di lui, Tessay disse semplicemente: «Ieri sera, dopo che siete andati a dormire, ha finito la bottiglia. Non uscirà dalla capanna prima di mezzogiorno. Non sentirà la mia mancanza». Nicholas guidò le due donne sulle colline di arenaria e ripercorse il sentiero lungo il quale Tamre li aveva condotti il giorno prima. Mentre camminavano, Nicholas sentiva le due donne che parlavano dietro di lui. Royan stava spiegando a Tessay come aveva avvistato il dik-dik striato, e che cosa contavano di fare. Il sole era già alto quando raggiunsero il punto sotto l'acacia spinosa sul ciglio dell'abisso. Si sedettero, in attesa. «Come recupererai la carcassa, se riuscirai a uccidere quella povera bestiola?» chiese Royan. «Mi sono organizzato prima di lasciare il campo», spiegò Nicholas. «Ho parlato con il capo dei cercatori di tracce. Se sentirà sparare, porterà le corde e mi aiuterà a passare sull'altra sponda.» «Io non me la sentirei», mormorò Tessay, guardando il precipizio sottostante. «Nell'esercito insegnano anche qualcosa di utile, oltre alle fesserie», rispose Nicholas. Si appoggiò con la schiena contro il tronco e si mise il fucile sulle ginocchia. Le donne si sdraiarono vicine a lui e cominciarono a parlare fra loro a voce bassa. Era improbabile che il suono della loro conversazione giungesse al di là del fiume, concluse Nicholas, e non cercò di farle tacere. Nicholas pensava che se il dik-dik fosse comparso, sarebbe arrivato presto; ma sbagliava. A mezzogiorno non s'era ancora visto. La valle pareva bollire nel sole meridiano. La parete della scarpata era velata da una foschia azzurrina: sembrava formata da vetro blu scheggiato, e il miraggio danzava sui dossi rocciosi e tremolava sopra le cime delle macchie spinose come l'acqua di un lago argenteo. Le donne avevano smesso di parlare; se ne stavano immobili, un po' assonnate per via del caldo. Il mondo intero taceva. Solo una tortora rompeva il silenzio con il suo richiamo lamentoso. Nicholas si sentiva le palpebre plumbee. Ogni tanto la sua testa ciondolava in avanti: allora lui si scuoteva, per poi farsi sopraffare di nuovo dal caldo poco dopo. Stava ormai per addormentarsi quando sentì un suono molto vicino, fra gli alberi dietro di lui. Wilbur Smith
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Era un rumore lievissimo, ma lui lo conosceva bene. Quel rumore lo riportò di colpo alla lucidità, con il cuore che batteva forte e il sapore della paura che sorgeva dal fondo della gola. Era il rumore metallico della sicura di un AK47 che veniva spostata nella posizione di sparo. Con un movimento fluido alzò il fucile e rotolò due volte su se stesso, girandosi in modo da riparare le due donne. Nello stesso istante si portò il Rigby alla spalla, puntandolo contro i cespugli dai quali era arrivato il suono. «Giù!» sibilò alle due donne. «Giù la testa!» Aveva l'indice sul grilletto. Sebbene la sua arma non fosse di certo paragonabile a un Kalashnikov, Nicholas era pronto a rispondere al fuoco. Individuò subito il bersaglio e puntò. C'era un uomo acquattato a una ventina di passi, e mirava alla faccia di Nicholas. Aveva la pelle scura, indossava una tuta mimetica lisa e strappata e un berretto della stessa stoffa. La bandoliera reggeva un coltellaccio, bombe a mano, una borraccia e il resto dell'equipaggiamento tipico dei guerriglieri. «Uno sciftà!» pensò Nicholas. «Un vero professionista. Meglio non correre rischi.» Al contempo però sapeva che, se l'uomo avesse avuto intenzione di ucciderlo, l'avrebbe già fatto. Puntò il Rigby due centimetri al di sopra della canna dell'AK47, mirando all'occhio destro dello sciftà. Quello prese atto della situazione socchiudendo le palpebre e diede un ordine in arabo. «Salin, tieni sotto mira le donne, e spara se l'uomo si muove.» Nicholas sentì un movimento su un lato e guardò in quella direzione, continuando a osservare lo sciftà con la coda dell'occhio. Un altro guerrigliero uscì dal sottobosco. Era vestito nello stesso modo, ma portava un RPD, un fucile mitragliatore leggero di fabbricazione sovietica, con la canna segata per renderlo più maneggevole nella boscaglia, e aveva intorno al collo un nastro di munizioni. Avanzò guardingo, puntando l'RPD sulle due donne. Nicholas sapeva che, se avesse premuto il grilletto, le avrebbe fatte a pezzi. Nella boscaglia intorno a loro vi furono altri rumori smorzati. I due non erano soli, pensò Nicholas. Era una squadra numerosa. Sarebbe riuscito a sparare un colpo con il Rigby, ma per le donne sarebbe stata la fine, e poi sarebbe toccato a lui. Wilbur Smith
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Abbassò lentamente verso terra la canna del fucile, lo posò e alzò le mani. «Alzate le mani anche voi», disse alle donne. «E fate quel che vi dicono.» Il capo dei guerriglieri prese atto della resa. Si raddrizzò in tutta la sua statura e parlò ai suoi in arabo. «Prendete il fucile e lo zaino.» «Siamo sudditi inglesi», disse Nicholas a voce alta. Il guerrigliero sembrava sorpreso nel sentirlo parlare arabo. «E siamo turisti. Non siamo militari, né al servizio del governo.» «Stai zitto! Silenzio!» ordinò lo sciftà, mentre gli altri guerriglieri uscivano allo scoperto. Nicholas ne contò cinque, anche se probabilmente ce n'erano altri nascosti. Circondarono i prigionieri con movimenti professionali: non bloccavano mai il campo di fuoco dei compagni e non lasciavano possibilità di fuga. Li perquisirono in fretta per accertare se erano armati, quindi li spinsero sul sentiero. «Dove ci portate?» chiese Nicholas. «Niente domande!» Il calcio di un AK47 lo colpì tra le scapole e per poco non lo fece cadere. «Calma, amico», mormorò Nicholas in inglese. «Non era il caso.» Furono costretti a continuare la marcia nel caldo del pomeriggio. Nicholas teneva d'occhio la posizione del sole e la parete rocciosa oltre il fiume. Erano diretti verso ovest e seguivano il corso del Nilo verso il confine sudanese. Ormai era pomeriggio inoltrato, e Nicholas calcolava che avessero percorso sedici chilometri quando arrivarono a una rientranza della valle principale. Le pendici erano ammantate di boschi e i tre prigionieri furono condotti in un tratto di quella foresta. Si trovarono all'interno del campo dei guerriglieri prima di accorgersene. Era mimetizzato abilmente e consisteva di pochi ripari e di un cerchio di postazioni. Le sentinelle erano ben piazzate e in ognuna delle buche c'era un uomo con una mitragliatrice leggera. Li condussero a uno dei ripari al centro del campo, all'interno del quale c'erano tre uomini, accosciati intorno a una mappa aperta su un tavolo pieghevole. Non c'era dubbio che fossero ufficiali e si capiva subito quale dei tre era il comandante. Il capo della pattuglia che aveva catturato i tre gli si avvicinò e lo saluto con deferenza, poi gli parlò in fretta indicando i prigionieri. Wilbur Smith
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Il comandante si alzò e uscì sotto il sole. Era di media statura, ma il suo fare autoritario lo faceva apparire più alto. Le spalle erano larghe, il corpo squadrato e solido, con un accenno di pancia. La barba corta e ricciuta rivelava solo qualche filo grigio, e i lineamenti erano belli e raffinati; la carnagione aveva toni d'ambra e di rame. Gli occhi scuri avevano un'espressione intelligente, e lo sguardo era attento e irrequieto. «I miei uomini dicono che parli arabo», disse a Nicholas. «Lo parlo meglio di te, Mek Nimmur», rispose Nicholas. «E così, adesso comandi un branco di banditi e sequestratori. Ti ho sempre detto che non andrai in paradiso, vecchio reprobo.» Mek Nimmur lo fissò sbalordito, poi cominciò a sorridere. «Nicholas! Non ti avevo riconosciuto. Sei invecchiato! Hai una quantità di capelli grigi!» Spalancò le braccia e lo strinse a sé. «Nicholas! Nicholas!» ripeté, e lo baciò sulle guance. Poi lo scostò e guardò le due donne che assistevano, sorprese, alla scena. «Mi ha salvato la vita», spiegò. «Mi farai arrossire, Mek.» Mek lo baciò di nuovo. «Mi ha salvato la vita due volte.» «Una sola», lo contraddisse Nicholas. «La seconda volta è stato un errore. Avrei dovuto lasciare che ti sparassero.» Mek rise allegramente. «Quanto tempo è passato, Nicholas?» «Preferisco non pensarci.» «Almeno quindici anni», disse Mek. «Sei ancora nell'esercito britannico? Che grado hai? Ormai dovresti essere generale.» Nicholas scosse la testa. «È un pezzo che sono tornato fra i civili.» Senza allontanarsi da Nicholas, Mek Nimmur guardò le donne con interesse. «Nicholas mi ha insegnato quasi tutto quello che so della vita militare», spiegò. Il suo sguardo passò da Royan a Tessay, e si fissò sul bel volto scuro dell'etiope. «Ma io ti conosco», esclamò. «Ti ho vista ad Addis Abeba, anni fa. Allora eri una ragazzina. Tuo padre era alto Zemen, un brav'uomo, un personaggio importante... assassinato dal tiranno Menghistu.» «Anch'io ti conosco, alto Mek. Mio padre ti stimava molto. Molti di noi pensano che dovresti essere il presidente della nostra Etiopia, al posto dell'altro.» Tessay accennò un grazioso inchino e abbassò la testa in un timido gesto di rispetto. Wilbur Smith
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«Sono lusingato.» Mek le prese la mano e la fece rialzare. Poi si rivolse a Nicholas. «Chiedo scusa per questa accoglienza piuttosto rude... Alcuni dei miei uomini sono un po' esaltati. Ho saputo che c'erano ferengi che facevano domande, al monastero... Ma adesso basta. Siete fra amici. Benvenuti.» Mek Nimmur li condusse al suo rifugio. Uno degli uomini tolse dal fuoco una pentola annerita e versò nelle tazze il denso caffè nero. Mek e Nicholas si abbandonarono ai ricordi dei tempi anteriori alla guerra delle Falkland, quando avevano combattuto a fianco a fianco, Nicholas come consigliere militare in incognito, e Mek come oppositore della tirannia di Menghistu. «Ma ormai la guerra è finita, Mek», gli fece notare Nicholas. «La battaglia è vinta. Perché sei ancora alla macchia con i tuoi uomini? Perché non sei ad Addis Abeba a ingrassare e arricchire, come tutti gli altri?» «Nel governo provvisorio di Addis Abeba ci sono parecchi miei nemici, uomini simili a Menghistu. Quando ci saremo sbarazzati di loro, allora potrò uscire da questa boscaglia.» I due uomini intavolarono un'animata discussione sulla politica africana; Royan conosceva pochi dei personaggi nominati e non riusciva a seguire le sfumature e le sottigliezze dei pregiudizi religiosi e tribali e dell'intolleranza che perduravano da mille anni. Comunque era impressionata dal fatto che Nicholas conoscesse bene la situazione, e che un uomo come Mek Nimmur chiedesse la sua opinione e ascoltasse i suoi consigli. Alla fine Nicholas gli chiese: «E così, adesso hai portato la guerra oltre i confini dell'Etiopia? Operi anche nel Sudan, no?» «La guerra nel Sudan imperversa da vent'anni», confermò Mek. «I cristiani del sud si battono contro le persecuzioni dei musulmani del nord...» «Lo so, Mek. Ma quella non è l'Etiopia. Non è una guerra che ti riguarda.» «Sono cristiani perseguitati. Io sono un soldato e un cristiano. Dunque è una guerra che mi riguarda...» Tessay aveva ascoltato con interesse le parole di Mek e annuiva con un'espressione solenne e adorante negli occhi. «Alto Mek si batte per Cristo e per i diritti della gente comune», disse a Nicholas in tono reverente. «Sì, e gli piace combattere.» Nicholas rise e batté il pugno sulla spalla Wilbur Smith
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del guerrigliero. Era un gesto familiare che poteva offendere, eppure Mek l'accettò e rise. «E tu, Nicholas, che sei venuto a fare qui, se non sei più un militare? Un tempo piaceva combattere anche a te.» «Mi sono redento. Basta con le battaglie. Sono venuto nella gola dell'Abay a caccia di dik-dik.» «Dik-dik?» Mek Nimmur lo fissò, incredulo, poi scoppiò in una risata. «Non ci credo. Non è da te cacciare i dik-dik. Hai in mente qualcosa.» «È la verità.» «E una balla, Nicholas. Non me la dai a bere. Ti conosco troppo bene: hai in mente qualcosa. Me lo dirai quando avrai bisogno del mio aiuto.» «E tu me lo darai?» «Certo. Mi hai salvato la vita due volte.» «Una sola», lo corresse Nicholas. «Anche una sola è sufficiente», disse Mek Nimmur. Mentre stavano parlando, il sole scendeva nel cielo. «Stanotte sarete miei ospiti», annunciò Mek Nimmur. «Domattina vi riaccompagnerò al vostro campo presso il monastero di san Frumenzio. Tanto, è anche la mia destinazione. Andiamo al monastero per la festività di Timkat. L'abate, Jali Hora, è un amico e un alleato.» «E probabilmente il monastero è la vostra base segreta. Ti servi dei monaci per avere rifornimenti e informazioni. È così?» «Mi conosci bene, Nicholas.» Mek Nimmur scosse la testa. «Mi hai insegnato gran parte di quello che so, quindi perché non dovresti aver indovinato la mia strategia? Il monastero è una base ideale. È abbastanza vicino al confine...» S'interruppe sorridendo. «Ma non ho bisogno di spiegarlo proprio a te.» Mek ordinò ai suoi uomini di costruire un riparo per Nicholas e Royan e di raccogliere erba per formare un giaciglio. Era una notte afosa, e non avrebbero sentito la mancanza delle coperte. Nicholas inoltre aveva portato nello zaino un tubetto di repellente, per tener lontane le zanzare. Si sdraiarono con le teste vicine per poter parlare a voce bassa. Quando si girò, Nicholas vide le sagome scure di Mek Nimmur e di Tessay ancora seduti accanto al fuoco. «Le donne etiopi sono diverse dalle arabe e da quasi tutte le africane.» Anche Royan stava osservando la scena. «Una ragazza araba non oserebbe Wilbur Smith
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mai restare sola con un uomo, soprattutto se fosse sposata.» «Comunque sia, formano una bella coppia», commentò Nicholas. «Auguro loro buona fortuna. Tessay non ne ha avuta molta in questi ultimi tempi, e merita di averne un po'.» Girò la testa e guardò Royan. «E tu che cosa sei? Un'araba decorosa e sottomessa, oppure un'occidentale energica e indipendente?» «È un po' presto ed è troppo tardi per domande così intime», ribatté lei, voltandogli le spalle. «Oh, come siamo cerimoniosi questa sera. Buonanotte, woizero Royan.» «Buonanotte, alto Nicholas», rispose lei, e tenne il viso girato dall'altra parte perché non la vedesse sorridere. La colonna dei soldati partì prima dell'alba. Marciavano in ordine di battaglia, con gli esploratori che li precedevano e fiancheggiatori che sorvegliavano i lati del sentiero. «L'esercito viene molto raramente nella gola, ma quando succede siamo sempre pronti a riceverlo», spiegò Mek Nimmur. «Cerchiamo di offrirgli una calda accoglienza.» Tessay guardava Mek Nimmur mentre parlava; quella mattina non aveva staccato quasi mai gli occhi da lui. Si avvicinò all'orecchio di Royan. «È davvero un grand'uomo», mormorò, «un uomo che potrebbe unire la nostra terra, forse per la prima volta dopo mille anni. Mi sento così umile in sua presenza, ma mi sembra anche di essere tornata una ragazzina piena di gioia e di speranza.» La marcia verso il monastero richiese l'intera mattina. Quando arrivarono in vista del Dandera, Mek Nimmur condusse i suoi uomini lontano dal sentiero, in mezzo agli alberi fitti, e mandò avanti un solo esploratore. Dopo un'ora di attesa, un gruppo di accoliti giunse dal monastero. Ognuno di loro teneva in equilibrio sulla testa un grosso fagotto. Salutarono Mek con reverenza e consegnarono i fagotti ai suoi uomini prima di ridiscendere il sentiero nella gola dell'Abay. I fagotti contenevano shammas da sacerdoti, copricapi e sandali. I guerriglieri si tolsero le tute mimetiche e indossarono gli altri indumenti, tutti lisi e sporchi in modo che il travestimento fosse perfetto. Sotto gli scialli portavano soltanto le armi personali; le altre armi e l'equipaggiamento erano nascosti in. una delle grotte nei dirupi di calcare, Wilbur Smith
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sorvegliati da un piccolo distaccamento di guardie. Travestiti da monaci percorsero gli ultimi chilometri per arrivare al monastero dove furono ricevuti festosamente. Nicholas e le due donne lasciarono Mek, e salirono il ripido sentiero attraverso il bosco di fichi selvatici. Boris li aspettava, rabbioso e frustrato, e si aggirava per il campo. «Dove diavolo sei stata, donna?» chiese ringhiando a Tessay. «A fare la puttana per tutta la notte, eh?» «Ieri sera ci siamo persi.» Nicholas gli raccontò la versione concordata con Mek Nimmur per motivi di sicurezza: Boris non era un uomo di cui ci si poteva fidare. «Poi ci ha trovati un gruppo di monaci che venivano dal monastero, questa mattina. Sono stati loro a guidarci fin qui.» «Sentitelo, il grande cacciatore», sbuffò Boris. «Non aveva bisogno che le facessi da guida, eh? E così si è perso, eh, inglese? Adesso capisco perché vuol sparare solo ai dik-dik.» Sghignazzò rabbiosamente e fissò Tessay con gli occhi gelidi. «Con te parlerò più tardi, donna. Adesso pensa a farci da mangiare.» Nonostante il caldo, Nicholas e Royan avevano appetito. Tessay riuscì a servire in fretta un gustoso pasto freddo all'ombra dei fichi. Nicholas rifiutò il vino offerto da Boris. «Voglio tornare a caccia nel pomeriggio. Ho perso quasi un giorno intero.» «Vuole che stavolta la tenga per mano, inglese? Per essere sicuro di non perdersi di nuovo?» «Grazie, vecchio mio, ma spero di cavarmela senza il suo aiuto.» Mentre stavano mangiando, Nicholas diede una leggera gomitata a Royan e disse: «È arrivato il tuo ammiratore». Indicò con la testa la figura allampanata e sgraziata di Tamre che si era avvicinato in silenzio e si era seduto accanto alla capanna-cucina. Quando Royan lo guardò, le rivolse un sorriso di adorazione, piegò la testa e si agitò, intimidito e quasi in estasi. «Non verrò con te questo pomeriggio», mormorò Royan a Nicholas quando fu certa che Boris non ascoltava. «Temo che ci saranno guai fra lui e Tessay. Voglio starle vicina. Porta con te Tamre.» «Che piacevole alternativa! Ho sognato per tutta la vita questo momento.» Tuttavia, dopo aver preso il fucile e lo zaino, Nicholas accennò al ragazzo di seguirlo. Tamre si guardò intorno ansiosamente, ma Royan Wilbur Smith
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era andata nella sua capanna e così, trascinando i piedi, il ragazzo seguì Nicholas su per la valle. «Portami dall'altra parte del fiume. Mostrami come si fa ad arrivare sull'altra sponda, dove vive l'animale sacro.» A quella prospettiva, Tamre si rianimò e si mise a trotterellare mentre conduceva Nicholas oltre il ponte sospeso sopra le rocce rosate. Seguì il sentiero per un'ora fino a quando esso non terminò, sboccando in un terreno accidentato fra le colline scavate dall'erosione. Imperterrito, Tamre si avventurò fra gli arbusti spinosi, e per altre ore procedettero fra creste rocciose e valli soffocate dalla vegetazione. «Ho capito perché non hai voluto condurre Royan da queste parti», borbottò Nicholas. Aveva le braccia nude graffiate dalle spine, e i pantaloni erano strappati in una mezza dozzina di punti. Intanto però s'imprimeva il percorso nella memoria; sapeva che sarebbe riuscito a tornare indietro senza difficoltà. Finalmente giunsero in cima a un'altra cresta. Tamre si fermò e indicò il versante opposto. Sotto di loro, Nicholas scorse la spaccatura dell'abisso e la piccola radura scoperta dove usciva la sorgente dei dik-dik. Riuscì a riconoscere persino l'acacia spinosa sulla riva opposta del Dandera, l'albero dove stavano seduti quando erano stati sorpresi dagli uomini di Mek. Riposò per qualche minuto e bevve un paio di sorsi prima di passare la borraccia a Tamre. «È un monaco, santo cielo», si disse. «Questo piccolo diavolo non avrà l'AIDS, no?» Comunque, pulì con cura la bocca della borraccia quando Tamre gliela rese. Prima di cominciare la discesa, controllò di nuovo il Rigby; soffiò via la polvere dalla lente del mirino telescopico e lo puntò verso una roccia grossa quanto un dik-dik ai piedi del declivio, regolando il telescopio sull'ingrandimento minimo. Adesso era pronto a sparare in fretta a breve distanza nella vegetazione fitta. Soddisfatto, caricò il fucile, mise la sicura e si alzò. «Stai dietro di me», disse al ragazzo. «E fai quel che faccio io.» Scese il pendio, soffermandosi a intervalli di pochi passi per osservare gli arbusti spinosi più avanti e sui lati. Quando arrivò alla fonte, vide che la terra era umida e soffice. Molti mammiferi e uccelli erano stati lì a bere. Riconobbe le orme di kudu e tragelafi, ma in mezzo alle altre c'erano anche le minuscole impronte a forma di cuore della sua preda. Wilbur Smith
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Proseguì con cautela e, al limitare degli arbusti, trovò un letamaio, una specie di palo di confine che il dik-dik aveva usato per delimitare il suo territorio: un mucchio di escrementi sferici, grossi come pallettoni, lasciati dalla piccola antilope ogni volta che era tornata a defecare nello stesso posto. Ormai Nicholas era completamente assorto nella caccia. Gli insuccessi precedenti erano serviti soltanto a stuzzicare il suo interesse: era concentrato come se stesse seguendo un leone antropofago. Avanzava un passo per volta e controllava il terreno prima di posare il piede su un fuscello secco o su un mucchietto di foglie fruscianti. I suoi occhi si muovevano più veloci delle gambe e coglievano ogni movimento e ogni tocco di colore nella barriera spinosa. Fu il guizzo d'un orecchio a tradire il dik-dik. Era per metà nell'ombra, e il manto rossastro si confondeva con lo sfondo dei rami secchi. Stava immobile come se fosse scolpito nel mogano. Solo quel piccolo movimento lo rivelò. Era così vicino che Nicholas poté vedere il riflesso della luce su un occhio che sembrava d'onice levigato, poi il naso allungato e fremente. Il dik-dik era consapevole del pericolo, ma non capiva da quale direzione venisse. Lentamente, Nicholas si portò il Rigby alla spalla. Attraverso la lente scorse i peli del ciuffo fra le orecchie ritte e le piccole corna nere e aguzze. Puntò il collimatore sulla congiunzione fra il collo e la testa, per limitare al minimo i danni al mantello e rendere più facile il lavoro d'imbalsamazione. «E l'animale sacro! Sia lode a Dio e a san Giovanni Battista!» gridò Tamre accanto a lui, e si lasciò cadere in ginocchio con le mani giunte davanti agli occhi. Il dik-dik si dissolse come uno sbuffo di fumo bruno e uscì dal campo del mirino lasciandosi dietro un fruscio di fronde. Nicholas abbassò lentamente il fucile e guardò il ragazzo che era ancora inginocchiato e farfugliava lodi e preghiere. «Bel lavoro. Credo che woizero Royan ti abbia messo sul suo libro paga», disse in inglese. Sollevò di peso il ragazzo e gli parlò in arabo. «Resta qui. Non ti muovere. Non parlare. Respira adagio adagio fino a quando non tornerò a prenderti. Se ti azzardi a dire una sola preghiera prima del mio ritorno, ti manderò a raggiungere san Pietro in paradiso. Hai capito?» Wilbur Smith
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Proseguì da solo, ma ormai la piccola antilope era in allarme. La vide altre due volte: guizzi fuggevoli d'un movimento bruno-rossiccio quasi completamente nascosto dagli arbusti. Nicholas si fermò, imprecando contro il ragazzo, e ascoltò il ticchettio degli zoccoletti sulla terra arida mentre il dik-dik si addentrava nella macchia. Alla fine fu costretto a desistere. Era ormai buio quando tornò al campo con Tamre. Non appena entrò nel cerchio della luce del fuoco, Royan gli andò incontro. «Che cos'è successo?» chiese. «Hai visto di nuovo il dik-dik?» «Non chiederlo a me, ma al tuo complice», ribatté Nicholas. «Lo ha spaventato, e probabilmente starà ancora scappando.» «Tamre, sei un bravo giovane e sono molto fiera di te», esclamò lei, e il ragazzo, felice dell'approvazione, si mise a ridere. Poi, saltellando, si avviò al monastero. Royan era così soddisfatta dell'esito della caccia che versò un whisky e lo portò a Nicholas, che si era lasciato cadere seduto accanto al fuoco. Nicholas l'assaggiò e rabbrividì. «Non bisogna mai permettere a un astemio di versare un liquore. Con una mano pesante come la tua, dovresti fare il fabbro ferraio o praticare lo sport scozzese del lancio del tronco.» Nonostante la protesta, però, bevve un altro sorso. Lei gli sedette accanto. Dopo un po', Nicholas si accorse che era agitata. «Che c'è? Perché sei così nervosa?» Royan lanciò uno sguardo ammonitore a Boris, seduto dall'altra parte del fuoco. Poi si accostò e parlò in arabo a voce bassa. «Questo pomeriggio Tessay e io siamo scese al monastero per incontrare Mek Nimmur. Tessay mi aveva chiesto di andare con lei nell'eventualità che Boris... Be', sai che cosa voglio dire.» «Ne ho una vaga idea. Hai fatto la dama di compagnia.» Nicholas bevve un altro sorso di whisky, soffocò un'esclamazione, e chiese con voce rauca: «Continua». «A un certo momento, prima che li lasciassi soli, abbiamo parlato della festività di Timkat. Il quinto giorno l'abate porta il tabot all'Abay. Mek ha detto che un sentiero scende per il dirupo, fino all'acqua.» «Sì, lo sappiamo.» «Adesso viene la parte interessante, quella che non conoscevi. Tutti partecipano alla processione. Tutti. L'abate, i preti, gli accoliti, i veri credenti, persino Mek e tutti i suoi uomini scenderanno al fiume e Wilbur Smith
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passeranno lì la notte. Per un giorno e una notte il monastero rimane deserto. Totalmente disabitato.» Nicholas la fissò al di sopra del bicchiere, quindi sorrise. «Sì, questo è molto interessante», ammise. «Non dimenticare che verrò con te», disse Royan in tono severo. «Non azzardarti a pensare di lasciarmi.» Quella sera, dopo cena, Nicholas tornò nella capanna di Royan. Era l'unico posto del campo in cui potevano stare in pace, senza correre il rischio che qualcuno origliasse. Questa volta, però, lui non commise l'errore di sedere sul letto e scelse lo sgabello. «Prima di cominciare a fare i piani, permettimi una domanda. Hai pensato alle possibili conseguenze?» «Vuoi dire a quello che succederebbe se i monaci ci sorprendessero?» chiese Royan. «Come minimo possiamo aspettarci che ci caccino dalla valle. L'abate ha un potere enorme. E, nel peggiore dei casi, potrebbero aggredirci», rispose Nicholas. «È uno dei luoghi più sacri della loro religione, non dimenticarlo. È molto pericoloso. Potrebbero arrivare al punto di piantarci un coltello nelle costole o di avvelenarci il cibo.» «E ci inimicheremmo Tessay, che è molto religiosa», soggiunse Royan. «Cosa ancora più importante, faremmo infuriare anche Mek Nimmur.» Nicholas sembrava preoccupato da quel pensiero. «Non so come reagirebbe, ma non credo che la nostra amicizia potrebbe sopravvivere.» Per un po' tacquero, riflettendo sul prezzo che forse avrebbero dovuto pagare. Nicholas spezzò il silenzio. «Hai considerato la tua posizione? Dopotutto, sarà la tua Chiesa a essere profanata. Sei una cristiana convinta. Puoi giustificare un'azione del genere di fronte alla tua coscienza?» «Ci ho pensato», ammise lei. «E non sono entusiasta, ma in realtà quella non è la mia Chiesa: è un'altra ramificazione della religione copta.» «Stiamo spaccando il capello in quattro, no?» «La Chiesa egiziana non nega a nessuno l'accesso ai luoghi più santi. Non mi sento vincolata dalla proibizione dell'abate. Ritengo, come cristiana, di avere il diritto di entrare in ogni parte della cattedrale.» Nicholas zufolò. «E una volta sei stata tu a dirmi che avrei dovuto fare l'avvocato.» Wilbur Smith
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«Ti prego, Nicky, non scherzare. So soltanto che devo entrare a qualunque costo. Anche se offenderò Tessay e Mek e tutto il clero, devo farlo.» «Potresti lasciar fare a me», propose lui. «Dopotutto sono un vecchio miscredente. Non rovinerei le mie speranze di salvezza, dato che non ne ho.» «No.» Royan scosse la testa con decisione. «Se c'è un'iscrizione o qualcosa di simile, devo vederla. Tu leggi bene i geroglifici, ma non come me, e non conosci la scrittura ieratica. L'esperta sono io; tu sei soltanto un ottimo dilettante. Hai bisogno di me, e ti accompagnerò.» «Va bene, allora siamo d'accordo», disse Nicholas. «Cominciamo a fare i piani. Prepariamo un elenco del materiale che potrebbe servirci: torcia elettrica, coltello, polaroid, rallini di scorta...» «Carta da ricalco e matite tenere per le eventuali iscrizioni», disse Royan. «Diavolo!» Nicholas schioccò le dita. «Non ho pensato a portarle.» «Adesso capisci che volevo dire? Sei un dilettante. Io le ho portate.» Continuarono a parlare fino a tardi. Poi Nicholas diede un'occhiata all'orologio e si alzò. «E mezzanotte passata. Da un momento all'altro mi trasformerò in una zucca. Buon riposo.» «Ci sono ancora due giorni di festeggiamenti prima che il tabot venga portato al fiume. Non potremo muoverci prima di allora. Che cosa conti di fare?» «Domani tornerò a dare la caccia a quel piccolo Bambi maledetto. Mi ha già preso in giro due volte.» «Vengo con te», disse Royan, e quella semplice affermazione gli ispirò una gioia immensa. «Purché lasci a casa Tamre», raccomandò mentre si curvava per varcare la porta. La piccola antilope uscì dall'ombra densa della macchia spinosa e la luce del sole mattutino brillò sul manto serico. Poi continuò a procedere attraverso la radura. Il respiro di Nicholas divenne più affrettato mentre la seguiva con il mirino telescopico. Pensò che era ridicolo agitarsi tanto per cacciare una bestiola così umile; ma i fiaschi precedenti avevano rinfocolato le sue Wilbur Smith
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attese. E poi, c'era la tipica passione del collezionista. Da quando aveva perduto Rosalind e le figlie, aveva riversato tutte le sue energie nell'arricchimento delle collezioni di Quenton Park. Per lui, procurarsi quell'esemplare era diventata una questione d'estrema importanza. Teneva l'indice posato leggermente sul lato del grilletto. Avrebbe sparato solo quando il dik-dik fosse stato immobile. Persino quel passo lento avrebbe reso incerto il colpo. Doveva piazzare la pallottola con precisione per uccidere in fretta e rovinare dunque la pelle il meno possibile. Perciò aveva caricato il Rigby con pallottole a camicia metallica che all'impatto non si espandevano, non causavano un largo foro d'entrata e non aprivano uno squarcio d'uscita. Producevano un foro del diametro di una matita, e che l'impagliatore del museo avrebbe potuto riparare in modo che non si vedesse. I suoi nervi si contrassero quando si rese conto che il dik-dik non si sarebbe fermato allo scoperto: si era avviato verso i cespugli fitti dall'altra parte della radura. Poteva essere la sua ultima occasione. Resistette alla tentazione di sparare al bersaglio in movimento, e dovette compiere uno sforzo di volontà per staccare di nuovo l'indice dal grilletto. L'antilope raggiunse la muraglia degli arbusti spinosi; un momento prima di sparire, si bloccò e infilò la testa in uno dei più bassi. Rimase così, presentando il fianco a Nicholas, e prese a mangiucchiare i ciuffi verdechiari delle foglie novelle. La testa era nascosta, e Nicholas dovette rinunciare all'intenzione di mettere a segno il colpo ideale. La spalla però era esposta: l'uomo scorgeva la sagoma nitida della scapola sotto il lucido manto rosso-bruno. Il dik-dik era leggermente angolato rispetto a lui, nella posizione adatta per un colpo al cuore, in basso dietro la spalla. Con calma, Nicholas puntò il fucile e premette il grilletto. Lo sparo crepitò nell'aria calda e pesante, e la minuscola antilope spiccò un balzo verso l'alto. Quando toccò terra era già in fuga. Più simile a un fioretto che a una sciabola, la pallottola non aveva colpito con violenza sufficiente per stendere il dik-dik, che si precipitò via a testa bassa, nella tipica reazione frenetica a un colpo al cuore. Era già morto, eppure continuava a correre solo grazie all'ultimo ossigeno che gli restava nel sangue. «Oh, no, non di là!» gridò Nicholas, e balzò in piedi. Il minuscolo erbivoro correva verso il ciglio del precipizio. Schizzò ciecamente nel Wilbur Smith
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vuoto, roteò su se stesso e scomparve alla vista, piombando nell'abisso del Dandera. «Che iella maledetta.» Nicholas corse fuori del cespuglio che li aveva nascosti e raggiunse il ciglio dell'abisso. Royan lo seguì. Si fermarono a guardare nel vuoto vertiginoso. «Eccolo!» indicò lei, e Nicholas annuì. «Sì, lo vedo.» La carcassa era direttamente sotto di loro: era finita su un'isoletta di roccia al centro del fiume. «Che intendi fare?» chiese Royan. «Dovrò scendere a prenderlo.» Nicholas si raddrizzò, scostandosi dal ciglio del dirupo. «Per fortuna è ancora presto. Abbiamo tutto il tempo prima che venga buio. Dovrò tornare al campo a pendere la corda e a cercare qualcuno che mi aiuti.» Era pomeriggio quando ritornarono, accompagnati da Boris, dai suoi due cercatori di tracce e da due scuoiatori. Portavano quattro rotoli di corda di nylon. Nicholas si sporse nel vuoto e sospirò di sollievo. «Bene, la carcassa c'è ancora. Temevo che il fiume l'avesse portata via.» Diresse il lavoro dei cercatori di tracce che srotolarono la corda e la posarono nella radura. «Ci vorranno due rotoli per scendere fin laggiù.» Annodò le code, meticolosamente, poi misurò la profondità del precipizio, calandole fino a che l'estremità non toccò la superficie dell'acqua; poi le ritirò e le misurò allargando le braccia. «Cinquantacinque metri. Non ce la farò a risalire da solo», disse a Boris. «Lei e i suoi dovrete tirarmi su.» Ancorò un capo della corda al tronco di una delle acacie spinose, e la controllò di nuovo scrupolosamente, ordinando ai cercatori di tracce e agli scuoiatori di tirare con tutte le loro forze. «Dovrebbe andar bene», disse. Si spogliò in parte, rimase con la camicia e i calzoncini kaki e si sfilò gli stivali. Sul ciglio del precipizio s'inclinò all'indietro con la corda drappeggiata intorno alla spalla e fatta passare fra le gambe nel classico stile abseil. «Arrivo», gridò, e balzò all'indietro nell'abisso. Controllò la caduta facendo scorrere la corda intorno alla spalla e frenandola con l'avvolgimento intorno alla coscia. Oscillava come un pendolo e si scostava dalla parete rocciosa scalciando con entrambi i piedi. Scese rapidamente fino a quando non immerse i piedi nell'acqua e la corrente lo Wilbur Smith
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fece roteare su se stesso. Era a pochi metri dallo spuntone di roccia su cui stava il dik-dik morto, ed era costretto a lasciarsi cadere nel fiume. Tenne fra i denti il capo della corda, percorse furiosamente a nuoto l'ultimo breve tratto, frustando la corrente che cercava di trascinarlo verso valle. Quindi s'issò sull'isoletta e si concesse qualche istante per riprendere fiato prima di ammirare la bella creatura che aveva ucciso. Fu assalito dal solito rimorso malinconico quando accarezzò la pelle lucida ed esaminò la testa perfetta e la proboscide straordinaria. Ma non c'era tempo né per i rimpianti né per gli esami di coscienza. Legò il dik-dik unendo le quattro zampe, poi indietreggiò e alzò gli occhi. Vide la faccia di Boris che lo guardava. «Tiratelo su!» gridò, e strattonò tre volte la corda per dare il segnale concordato. I cercatori di tracce erano nascosti alla sua vista, ma la corda si tese e il dik-dik si sollevò dall'isola e s'innalzò a scossoni lungo la parete dell'abisso. Nicholas lo seguì ansiosamente con lo sguardo. Per un momento sembrò che la corda s'impigliasse quando la carcassa era a due terzi della distanza dalla cima: poi si disincagliò e continuò la risalita. Finalmente il dik-dik sparì alla sua vista. Vi fu una lunga attesa; quindi il capo della corda ricadde. Boris aveva avuto il buon senso di appesantirlo con una pietra rotonda, grossa quanto la testa di un uomo, e adesso si sporgeva dall'orlo per seguire la discesa e dare ordini ai suoi uomini perché la regolassero. L'estremità zavorrata toccò l'acqua appena al di fuori della portata di Nicholas. Lassù in alto, Boris fece dondolare la corda fino a quando l'uomo non riuscì ad afferrarla. Con un nodo di bolina formò un cerchio all'estremità e se lo passò sotto le ascelle. Poi alzò il viso verso Boris. «Forza!» gridò, e tirò tre volte la corda. Poco dopo si sentì sollevare. Cominciò ad ascendere in una serie di strattoni a spirale. Mentre saliva, la parete dell'abisso s'inarcò verso di lui, fino a quando Nicholas non poté allontanarsi con i piedi nudi dalla roccia e smettere di roteare su se stesso. Era a quindici metri dal ciglio del precipizio quando si fermò di colpo e rimase a oscillare contro la parete. «Che succede?» gridò a Boris. «La maledetta corda si è impigliata», rispose il russo. «Vede dove è bloccata?» Nicholas guardò in alto e si accorse che si era infilata in una fenditura Wilbur Smith
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verticale della roccia, forse la stessa che aveva fermato la salita del dikdik. Il suo peso, però, era quasi cinque volte superiore a quello dell'antilope, e dunque incastrava più profondamente la corda nella spaccatura. Era sospeso in aria, e sotto di lui c'era un salto di quaranta metri. «Cerchi di dondolare per liberarsi!» gridò Boris. Obbediente, Nicholas si allontanò scalciando dalla parete e si girò per tentare di disincagliare la corda. Insistette fino a quando il sudore non gli grondò negli occhi. L'attrito gli aveva spellato l'ascella. «È inutile», gridò a Boris. «Provi a smuoverla con la forza.» Ci fu un attimo di silenzio; poi Nicholas vide che la corda sopra la fenditura si tendeva come una sbarra di ferro: cinque uomini robusti la stavano infatti tirando con tutta la loro energia. Sentiva i cercatori di tracce che cantilenavano un coro da lavoro, mentre cercavano di sbloccare la corda unendo tutto il loro peso. Ma la sua estremità non si mosse. Era incastrata. Comprese che non sarebbero riusciti a liberarla, e guardò in basso. La superficie dell'acqua sembrava molto più lontana d'una quarantina di metri. «La velocità limite del corpo umano è di duecentoquaranta chilometri orari», rammentò. E in quel caso l'acqua sarebbe risultata compatta come cemento. «Non è possibile che io precipiti a quella velocità quando la investirò, vero?» si chiese cercando di tranquillizzarsi. Alzò di nuovo gli occhi. Sul ciglio dell'abisso, gli uomini continuavano a tirare. In quel momento uno dei capi della corda di nylon si tranciò contro il bordo tagliente della fenditura e cominciò a srotolarsi come un lungo verme verdognolo. «Non tirate più!» urlò Nicholas. «Basta!» Ma Boris non si vedeva. Stava aiutando i cercatori di tracce e aggiungeva il suo peso alla manovra. Il secondo capo della corda si spezzò. Adesso Nicholas era sostenuto da un unico capo. «Cederà da un momento all'altro», pensò. «Boris, imbecille! Smetta di tirare!» Il suo grido non arrivò al russo. Con uno schiocco simile a quello d'un tappo di champagne che salta, si recise anche il terzo e ultimo capo della corda. Nicholas precipitò con il pezzo di corda che gli fluttuava sopra la testa. Alzò le braccia per stabilizzare il volo e raddrizzò le gambe per cadere in acqua con i piedi in avanti. Wilbur Smith
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Pensò all'isoletta sotto di lui. Avrebbe mancato le zanne di roccia rossa, oppure le avrebbe urtate e si sarebbe fracassato tutte le ossa della parte inferiore del corpo? Non osava guardare in basso: rischiava di destabilizzarsi e di roteare su se stesso. Se fosse caduto di piatto sull'acqua si sarebbe sfracellato le costole o la spina dorsale. Aveva la sensazione che la velocità della caduta gli spingesse a forza le viscere in gola. Tirò un ultimo respiro quando investì con i piedi la superficie. La violenza del colpo fu tale da stordirlo; si trasmise lungo la colonna vertebrale fino alla nuca e le mascelle sbatterono una contro l'altra. Chiazze luminose gli confusero la vista. Il fiume lo inghiottì. Calò a fondo; eppure, quando toccò il fondo roccioso, si muoveva ancora così velocemente che risentì dell'urto fino alle anche, sentì le ginocchia piegarsi e pensò di avere le gambe fratturate. L'impatto gli svuotò l'aria dai polmoni. Solo quando risalì scalciando, disperatamente ansioso di respirare di nuovo, si rese conto con un guizzo di sollievo che le gambe erano ancora illese. Emerse ansimando e tossendo, e capì che aveva mancato l'isoletta soltanto per un paio di metri. Ma ormai la corrente lo aveva trascinato lontano. Nuotò per tenersi a galla, scrollò l'acqua dagli occhi e si guardò intorno. Le pareti dell'abisso gli scorrevano accanto; calcolò che la sua velocità doveva essere di dieci nodi, abbastanza elevata per spezzargli le ossa se avesse urtato una roccia. In quel momento, un'altra isoletta quasi lo sfiorò. Si girò sul dorso e tese i piedi in avanti, pronto a reagire se la corrente l'avesse gettato contro un altro spuntone. «Ormai ti tocca fare tutta la corsa», si disse rabbiosamente. «C'è una sola via d'uscita: arrivare sino in fondo.» Cercò di calcolare la distanza che lo separava dal punto in cui il fiume sboccava dall'abisso attraversando l'arcata di pietra rosea e che lui doveva ancora coprire a nuoto. «Dai cinque ai sette chilometri come minimo, e poi il fiume precipita per circa trecento metri. Davanti a me ci saranno rapide e cascate», concluse. «Le prospettive non sono buone. Direi che sono tre a uno contro la possibilità di farcela senza lasciare brandelli di pelle e di carne sulle rocce.» Guardò in alto. Le pareti s'inclinavano da ogni lato, e in certi punti quasi Wilbur Smith
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si congiungevano sopra di lui. Si scorgeva solo una striscia sottile di cielo azzurro, e la gola era buia. Nel corso dei millenni il fiume aveva scavato la roccia per passare. «Fortuna che è la stagione arida. Chissà com'è durante la stagione della piena.» Alzò di nuovo gli occhi e vide il segno dell'acqua alta, lasciato sulla roccia cinque o sei metri sopra la sua testa. Rabbrividì al pensiero, riabbassò lo sguardo e si concentrò sul tratto di fiume che si estendeva davanti a lui. Aveva ripreso fiato, e controllò per vedere se aveva subito lesioni; a parte qualche botta e probabilmente un ginocchio lussato, era illeso. Tutti gli arti rispondevano agli ordini; quando nuotò per qualche bracciata su di un lato per evitare un altro sperone di roccia, anche il ginocchio dolorante funzionò abbastanza bene per toglierlo dai guai. A poco a poco si accorse che nel canyon echeggiava un suono nuovo. Era un rombo sordo che diventava via via più forte. Le pareti dell'abisso convergevano, il passaggio fra le rocce si restringeva e l'acqua pareva accelerare ulteriormente. Il rumore dell'acqua si trasformò in un tuono che riverberava nel canyon. • Nicholas si girò e nuotò con tutte le sue forze tagliando la corrente fino a quando non raggiunse la parete più vicina. Cercò di trovare un appiglio, un posto per ancorarsi, ma la roccia era levigata dall'acqua e gli scivolò sotto le dita. Il fiume gli mugghiava nelle orecchie. Vide la superficie che si appiattiva intorno a lui come una lastra di vetro. Come un cavallo che inclina le orecchie all'indietro prima di spiccare un salto, il fiume aveva intuito ciò che gli stava davanti. Nicholas si spinse lontano dalla roccia per trovare un po' di spazio di manovra e puntò di nuovo i piedi verso valle. All'improvviso l'aria si aprì sotto di lui. Si sentì scagliare nel vuoto. Circondato da un'esplosione di candidi spruzzi, Nicholas venne sbatacchiato come una foglia. Gli sembrò che la caduta durasse un'eternità. Lo stomaco gli premette contro le costole; poi l'uomo ricadde con tutto il suo peso e fu spinto sotto la superficie. Lottò per risalire e affiorò all'improvviso, con il respiro che gli sibilava nella gola. Guardando attraverso i rivoli d'acqua che gli cadevano sugli occhi, capì di essere finito nella conca d'acqua turbinante ai piedi delle cascate. L'acqua roteava su se stessa come se stesse danzando un maestoso minuetto. Wilbur Smith
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Nicholas si voltò, e scorse l'altissima cortina bianca della cascata da cui era precipitato; poi si voltò di nuovo e individuò la stretta uscita che il fiume attraversava per proseguire la sua folle corsa verso valle. Comunque, per il momento, in quel tratto di riflusso sotto le cascate, era al sicuro. La corrente lo spingeva contro un lato del bacino. Tese un braccio e trovò un appiglio in un ciuffo di felci che spuntavano da una fessura nella parete. Finalmente aveva la possibilità di riposarsi e di valutare la situazione. Tuttavia non gli ci volle molto a capire che l'unico modo per uscire dall'abisso era seguire il corso del fiume e affrontare ciò che lo attendeva più a valle. Poteva aspettarsi d'incontrare diverse rapide, se non addirittura una serie di cascate simili a quella che precipitava rombando accanto a lui. Se almeno avesse potuto inerpicarsi su per la parete... Guardò in alto, ma si sentì mancare il coraggio quando esaminò la sporgenza che s'inarcava come la volta di una cattedrale. Stava ancora scrutando in alto quando qualcosa colpì la sua attenzione, qualcosa di troppo regolare e ordinato per essere naturale. C'era una doppia fila di segni scuri che saliva verticalmente la muraglia di roccia fino all'orlo, una sessantina di metri più in su. Lasciò la presa e nuotò lentamente verso il punto dove i segni arrivavano all'acqua. Quando li raggiunse, si accorse che si trattava di minuscole nicchie di dieci centimetri per dieci, intagliate nella roccia. Le due file erano distanti il doppio dell'apertura delle sue braccia, e la nicchia in una fila era allineata esattamente sullo stesso piano orizzontale di quella corrispondente nella seconda fila. Inserì la mano nell'apertura più vicina e si accorse che era abbastanza profonda perché potesse infilarvi il braccio fino al gomito. L'apertura era sotto il livello massimo dell'acqua, e perciò era levigata; tuttavia, quando portò lo sguardo su quelle più in alto, vide che avevano conservato più chiaramente la forma. I margini erano netti e squadrati. «Ma quanti secoli hanno, per essere così consumate?» si chiese meravigliato. «E come hanno fatto a scendere fin qui per scavarle?» Si aggrappò alla nicchia più vicina e studiò la parete di roccia. «Perché mai qualcuno si è preso tanto disturbo?» s'interrogò Nicholas. Non riusciva a trovare una ragione, uno scopo. «Chi ha fatto questo lavoro? Che intendeva fare quaggiù?» Era un mistero sconcertante. Wilbur Smith
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All'improvviso, qualcos'altro attirò il suo sguardo. Era un'intaccatura circolare nella roccia, posta esattamente tra le due file di nicchie e al di sopra del segno dell'acqua alta. Vista dal basso era perfettamente rotonda: un'altra forma tutt'altro che naturale. Si spostò ancora a nuoto, cercando di raggiungere una posizione che gli permettesse di osservarla meglio. Sembrava una incisione nella roccia, una lapide che ricordava i segni sui macigni neri che fiancheggiano il Nilo a valle della prima cataratta di Assuan, collocati nell'antichità per misurare il livello delle piene del fiume. La luce era troppo fioca e l'angolo troppo acuto per dargli la certezza che fosse artificiale e per riconoscere le scritte che potevano essere incluse nel fregio. Nicholas cercò un sistema per arrampicarsi e avvicinarsi. Provò a servirsi delle nicchie. Con grande fatica, usandole come appigli per le mani e i piedi, riuscì a sollevarsi dall'acqua, ma le distanze fra l'una e l'altra erano troppo grandi. Ricadde con uno tonfo e inghiottì altra acqua. «Prendila calma, amico», si disse. «Devi uscire a nuoto da qui. Non ha senso che ti sfinisca. Dovrai tornare un altro giorno per vedere meglio che cosa c'è lassù.» Solo in quel momento si accorse di essere vicino alla spossatezza totale. L'acqua che scendeva dai monti della catena del Choke conservava tutto il gelo dei nevai da cui scendeva. Nicholas rabbrividiva e batteva i denti. «Sto rischiando l'ipotermia. Devo uscire da qui, finché ne ho ancora la forza.» Si spinse lontano dalla parete rocciosa e nuotò verso la stretta apertura attraverso cui il Dandera riprendeva la sua corsa per raggiungere il Nilo. La corrente afferrò l'uomo e lo trascinò in avanti. Nicholas smise di nuotare e si abbandonò. «L'ottovolante del diavolo!» si disse. «Va su e giù e nessuno sa quando e dove si fermerà.» La prima serie di rapide lo sbatacchiò a destra e a manca. Sembrava che non terminasse mai, ma infine si decise a catapultarlo nell'acqua più tranquilla. Approfittando di quella tregua, Nicholas galleggiò sul dorso e guardò in alto. C'era pochissima luce sopra di lui: le pareti rocciose quasi si toccavano. L'aria era umida, buia e puzzava di pipistrelli. Ebbe poco tempo per guardarsi intorno: ancora una volta il fiume cominciò a rombare davanti a lui. Si preparò all'assalto delle acque Wilbur Smith
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turbolente, e precipitò lungo un ripido pendio. Dopo un po' perse la cognizione della distanza che aveva percorso e del numero delle cataratte cui era sopravvissuto. Era una battaglia continua contro il freddo e la sofferenza dei polmoni pieni d'acqua, dei muscoli indolenziti e dei tendini affaticati. Il fiume continuava ad aggredirlo. D'un tratto la luce cambiò. Dopo l'oscurità di quella galleria rocciosa, fu come se gli puntassero contro un riflettore. Nicholas sentì che la violenza del fiume si placava. Socchiuse gli occhi nel chiarore del sole, si voltò e vide che era passato sotto l'arcata di pietra rosea: finalmente era arrivato nella zona del fiume che aveva esplorato in compagnia di Royan. Davanti a lui era apparso il ponte sospeso di corde. E gli era rimasta la forza sufficiente per dirigersi fiaccamente a nuoto verso la spiaggetta di sabbia bianca. Una delle corde ispide e malconce pendeva verso la superficie dell'acqua. Nicholas riuscì ad afferrarla mentre le passava accanto, e si slanciò verso la spiaggia. Tentò di strisciare sulla riva, ma stramazzò con la faccia nella sabbia e vomitò l'acqua che aveva inghiottito. Era magnifico, poter restare sdraiato e riposare. La parte inferiore del suo corpo era ancora immersa nell'acqua, ma lui non aveva né la forza né la volontà di trascinarsi completamente all'asciutto. «Sono vivo», pensò meravigliato, e piombò in uno stato intermedio fra il sonno e l'incoscienza. Non seppe mai per quanto tempo fosse rimasto così. Ma quando sentì una mano che gli scuoteva la spalla e una voce che lo chiamava, s'irritò all'idea che qualcuno disturbasse il suo riposo. «Effendi, svegliati! Ti cercano. La bella woizero ti sta cercando.» Con uno sforzo immane, Nicholas si scosse e si sollevò a sedere. Tamre era inginocchiato accanto a lui: gli sorrideva, scuotendo la testa. «Per favore, effendi, vieni con me. La woizero ti sta cercando sulla riva del fiume, dall'altra parte. Piange e ti chiama», disse Tamre. Era l'unica persona conosciuta da Nicholas che riuscisse ad apparire nel contempo preoccupato e sorridente. Nicholas si guardò intorno e vide che doveva essere pomeriggio inoltrato perché il sole era grande e rosso sull'orlo della scarpata. Rimase seduto sulla sabbia e fece un inventario delle lesioni. Aveva tutti i muscoli doloranti, e le braccia e le gambe erano graffiate e piene di lividi. Wilbur Smith
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Ma non c'erano ossa rotte, a quanto pareva e, sebbene avesse un bernoccolo su un lato della testa, dove aveva battuto contro una roccia, la sua mente era lucida. «Aiutami ad alzarmi», ordinò a Tamre. Il ragazzo gli passò la spalla sotto l'ascella, dove la corda l'aveva spellato, e lo mise in piedi. Salirono barcollando la banchina, raggiunsero il sentiero e avanzarono lentamente sul ponte sospeso. Avevano appena raggiunto l'altra riva, quando Nicholas senti un grido di gioia. «Nicky! Oh, mio Dio! Sei salvo!» Royan gli corse incontro lungo il sentiero e lo abbracciò. «Ero disperata. Pensavo che...» S'interruppe e lo scostò per guardarlo. «Come ti senti? Avevo paura di trovare il tuo cadavere...» «Mi conosci...» Nicholas sorrise e si sforzò di non zoppicare. «Sono alto tre metri e a prova di proiettile. Non ti sarà facile liberarti di me. L'ho fatto apposta per guadagnarmi un tuo abbraccio.» Royan si affrettò a lasciarlo. «Non t'illudere. Sono premurosa con tutti i cuccioli malridotti e gli altri animali stupidi...» Ma il suo sorriso smentiva le parole. «Comunque, è bello rivederti tutto d'un pezzo, Nicky.» «Dov'è Boris?» chiese lui. «Ti sta cercando più a valle con i suoi uomini. Credo che ci terrebbe molto a trovare il tuo cadavere.» «Che ne ha fatto del mio dik-dik?» «Non devi stare molto male se te ne preoccupi. Gli scuoiatori l'hanno portato al campo.» «Maledizione, devo dirigere personalmente la scuoiatura e la preparazione del trofeo. Lo rovineranno!» Passò il braccio intorno alla spalla di Tamre. «Su, ragazzo mio. Vediamo se riesco ad andare al trotto!» Nicholas sapeva che con quel caldo la carcassa della piccola antilope si sarebbe decomposta in fretta e che il pelo sarebbe caduto se non fosse stato trattato immediatamente. Era dunque necessario scuoiare subito il dik-dik, trascurato già troppo a lungo, e la preparazione di una pelle da impagliare era una procedura che richiedeva esperienza e meticolosità. Era quasi buio quando arrivarono al campo. Nicholas gridò in arabo per chiamare gli scuoiatori. «Ya, Kif ! Ya, Salin!» Quando i due uscirono dalle capanne, chiese Wilbur Smith
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ansiosamente: «Avete cominciato?» «Non ancora, effendi. Prima abbiamo cenato.» «Per una volta, la golosità è una virtù. Non toccate la carcassa prima che vi raggiunga. E, mentre mi aspettate, portate una lampada a gas.» Si avviò verso la sua capanna con tutta la velocità consentitagli dai dolori. Si spogliò, cosparse di mercurocromo tutti i graffi e le abrasioni, infilò indumenti puliti e asciutti, frugò nella borsa fino a quando non trovò il rotolo di tela che conteneva i suoi coltelli, e tornò alla capanna degli scuoiatori. Aveva appena completato le incisioni iniziali nella pelle all'interno delle zampe e del ventre del dik-dik nella luce bianchissima della lampada a butano, quando Boris aprì la porta della capanna. «Ha fatto una bella nuotata, inglese?» «Molto corroborante, grazie.» Nicholas sorrise. «Immagino che non vorrà rimangiarsi quel che ha detto del mio dik-dik striato, vero?» chiese in tono distaccato. «Mi pare di ricordare che lei ha espresso pesanti dubbi sulla sua esistenza.» «Non è molto più di un ratto. Un vero cacciatore non perderebbe tempo con bestie del genere», rispose altezzosamente Boris. «E adesso che ha preso il suo grosso topo, possiamo tornare ad Addis Abeba?» «Ho pagato tre settimane, e questo è il mio safari. Andremo quando lo dirò io», ribatté Nicholas. Boris borbottò e poi uscì dalla capanna. Nicholas lavorò in fretta. I suoi coltelli erano stati fabbricati apposta per rendere agevole il compito. A intervalli regolari li affilava su una piccola asta di ceramica, fino a quando non poteva radersi i peli dell'avambraccio con un tocco leggerissimo. Le zampe dovevano essere scuoiate lasciando attaccati i piccoli zoccoli. Nicholas non aveva ancora completato quella parte del lavoro, quando un uomo, che indossava lo shamma e il copricapo dei preti, entrò nella capanna. Fino a che non parlò, Nicholas non riconobbe Mek Nimmur. «Ho saputo che ti sei messo ancora nei guai. Sono venuto per assicurarmi che sei ancora vivo. Al monastero correva voce che fossi annegato, anche se sapevo che non era possibile. Non sei il tipo che muore facilmente.» «Spero che tu abbia ragione, Mek», rise Nicholas. Lo sciftà si accosciò di fronte a lui. «Dammi uno dei tuoi coltelli. Finirò gli zoccoli. Con il mio aiuto farai più in fretta.» Wilbur Smith
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Senza una parola, Nicholas gli passò un coltello. Sapeva che Mek sapeva spellare gli zoccoli, perché gliel'aveva insegnato anni prima. Lavorando in due, potevano procedere più velocemente, riducendo così il rischio che la pelle si deteriorasse. Nicholas si concentrò sulla testa. Era la parte più delicata del procedimento. La pelle andava tolta come un guanto, e le palpebre, le labbra e le narici dovevano essere lavorate dall'interno. La parte più difficile stava poi nello staccare le orecchie lasciandole tutte d'un pezzo. Lavorarono per un po' in silenzio, poi Mek chiese: «Conosci bene il tuo russo, Boris Brusilov?» «L'ho conosciuto quando sono sceso dall'aereo. Me l'ha consigliato un'amica.» «Non ti ha fatto un favore.» Mek alzò la testa con aria cupa. «Sono venuto per metterti in guardia, Nicholas.» «Ti ascolto.» «Nell'85 fui catturato dai gorilla di Menghistu. Mi chiusero nel campo di concentramento Karl Marx, presso Addis Abeba. Brusilov era uno di quelli che si occupavano degli interrogatori. A quel tempo era nel KGB. Il suo sistema preferito era infilare il tubo di un compressore nell'ano dell'uomo o della donna che stava interrogando e aprire la valvola. Li gonfiava come palloni fino a quando non scoppiavano gli intestini.» S'interruppe per spostarsi e cominciò a lavorare su un altro zoccolo dell'antilope. «Riuscii a evadere prima che toccasse a me. Quando Menghistu fuggì, lui abbandonò l'attività e diventò cacciatore. Non so come abbia fatto a convincere woizero Tessay a sposarlo, ma lo conosco abbastanza per immaginare che la poverina non avesse molte possibilità di scelta.» «Capisco. Avevo già qualche sospetto su di lui», ammise Nicholas. Rimasero di nuovo in silenzio per un poco. Poi Mek sussurrò: «Sono venuto a dirti che forse dovrò ucciderlo». Nessuno dei due parlò fino a che Mek non ebbe finito di staccare i quattro zoccoli. Poi lo sciftà si alzò. «Di questi tempi la vita è incerta, Nicholas. Volevo comunicarti che, se sarò costretto ad andarmene in fretta e senza neppure salutarti, ad Addis Abeba c'è qualcuno che mi passerà un tuo messaggio, caso mai avessi bisogno di me. È il colonnello Maryam Kidane del ministero della Difesa. È un amico. Il mio nome in codice è Rondine. Lui capirà di chi stai parlando.» Si abbracciarono. «Dio ti accompagni!» disse Mek, e uscì dalla capanna Wilbur Smith
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senza far rumore. La notte inghiottì la figura biancovestita, e Nicholas rimase a lungo sulla soglia. Quindi rientrò per terminare il lavoro. Era ormai tardi quando finì di strofinare scrupolosamente la pelle con un miscuglio di salgemma e di Kabra dip per conciarla e proteggerla dai danni causati da insetti e batteri. Poi la stese sul pavimento della capanna con il lato bagnato rivolto verso l'alto, e aggiunse altro salgemma sulle parti ancora coperte di sangue. Le pareti della capanna erano rinforzate con rete metallica per impedire l'ingresso alle iene. Uno di quegli esseri immondi sarebbe stato capace di trangugiare la pelle in pochi secondi. Si assicurò che la porta fosse ben chiusa prima di portare la lanterna alla capanna-sala da pranzo. Tutti gli altri avevano mangiato ed erano andati a dormire da ore, ma Tessay gli aveva lasciato la cena affidandola al cuoco etiope. Nicholas non si accorse di essere tanto affamato fino a che non sentì l'odore del cibo. L'indomani mattina, Nicholas era così indolenzito che scese zoppicando come un vecchio alla capanna della concia. Per prima cosa controllò la pelle e aggiunse altro sale. Poi ordinò a Kif e a Selin di seppellire il cranio del dik-dik in un formicaio, in modo che gli insetti rimuovessero la carne e svuotassero la cavità cerebrale: era un metodo più pratico della bollitura della testa. Quando si fu accertato che il trofeo era in buone condizioni, scese alla capanna-sala da pranzo. Boris lo accolse con fare gioviale. «E così, inglese, adesso partiamo per Addis Abeba, da? Qui non abbiamo più niente da fare.» «E invece resteremo per fotografare la cerimonia di Timkat al monastero», rispose Nicholas. «E dopo, può darsi che mi vada di cacciare un tragelafo di Menelik. Chissà. Gliel'ho già detto: le dirò io quando saremo pronti per partire.» Boris aveva l'aria seccata e delusa. «E matto, inglese. Perché vuole restare con questo caldo? Per vedere gli stupidi riti superstiziosi di questa gente?» «Oggi andrò a pescare, e domani assisteremo a Timkat.» «Non ha neppure la canna da pesca...» protestò Boris, ma Nicholas aprì un rotolo di tela non più grande di una borsetta per signora e gli mostrò la canna Hardy Smuggler, smontata in quattro parti. Poi guardò Royan che gli sedeva di fronte. «Vuoi venire ad aiutarmi?» Wilbur Smith
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chiese. Risalirono la riva fino al ponte sospeso, e Nicholas preparò la canna e legò un'esca. «Mosca artificiale con ali bianche e corpo color pavone.» La mostrò a Royan. «I pesci di tutto il mondo l'adorano, dalla Patagonia all'Alaska. Adesso vedremo se è apprezzata anche in Etiopia.» Royan rimase a guardare dall'alto della banchina mentre Nicholas lanciava la lenza, la faceva roteare in aria per portare la mosca leggerissima al centro della corrente e farla posare sulla superficie in modo che galleggiasse. Al secondo lancio vi fu un movimento sotto la mosca e la punta della canna s'inarcò, il mulinello sibilò e Nicholas proruppe in un grido. «Ti ho preso, bellezza!» Royan assisteva indulgente. Quando era così vivace ed entusiasta, Nicholas le sembrava un bambino. Sorrise nel notare che le lesioni erano guarite come per miracolo: l'uomo non zoppicava più e correva avanti e indietro sul bordo dell'acqua. Dopo dieci minuti tirò in secco il pesce, lucido come un lingotto d'oro appena fuso e lungo come il suo braccio. «Un pesce giallo», annunciò trionfante. «Squisito. Lo mangeremo domattina a colazione.» Risalì la banchina e si lasciò cadere sull'erba accanto a Royan. «La pesca era un pretesto per allontanarmi da Boris. Ti ho condotta qui per dirti che cosa ho scoperto ieri.» Indicò oltre l'arco di pietra rosea a monte del ponte sospeso. Royan gli si affiancò e osservò con la massima attenzione. «Ovviamente non so se ha a che fare con la nostra ricerca, ma qualcuno ha lavorato lassù.» Nicholas descrisse le nicchie scavate nella parete del canyon. «Vanno dall'orlo del precipizio fino all'acqua. Quelle al di sotto del segno dell'acqua alta sono state erose dalle piene. Non sono riuscito a raggiungere quelle più in alto, però, a quanto ho visto, erano protette dal vento e dalla pioggia grazie alla forma della parete, che costituisce una specie di tettoia. Sembrano in ottime condizioni, in contrasto con quelle più basse.» «Che ne dobbiamo dedurre?» chiese lei. «Che sono antichissime. Il basalto è una pietra molto dura, e l'acqua deve aver impiegato molto, molto tempo per eroderlo in quel modo.» «Quale scopo credi avessero quei fori?» Wilbur Smith
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«Non ne sono sicuro», ammise Nicholas. «Potevano servire come ancoraggi per una specie d'impalcatura?» chiese Royan. Lui la guardò, impressionato. «Giusto. È possibile.» «Quali altre idee ti suggeriscono?» «Disegni rituali. Un motivo religioso.» Nicholas sorrise nel vedere la sua espressione dubbiosa. «D'accordo, non è molto convincente.» «Bene, consideriamo l'eventualità che fosse un'impalcatura. Perché qualcuno l'avrebbe eretta in un posto simile?» Royan tornò a sdraiarsi sull'erba, prese una pagliuzza e cominciò a mordicchiarla pensosamente. Lui alzò le spalle. «Per ancorare una scala o un'incastellatura a cavalletto, così da raggiungere la base del precipizio?» «Per quale altra ragione?» «Non me ne viene in mente nessuna.» Dopo un po' Royan scosse la testa. «Neppure a me.» Gettò via lo stelo. «Se la ragione è questa, dovevano tenere molto alla realizzazione del progetto. A sentire la tua descrizione, doveva essere una struttura robusta, costruita per sostenere parecchi uomini o materiale pesante.» «Gli indiani del Nord-america costruivano piattaforme assai simili; le utilizzavano per la pesca sopra le cascate, in modo da catturare i salmoni con le reti.» «C'è mai stato un grande passaggio di pesci in queste acque?» chiese lei, e Nicholas scrollò di nuovo le spalle. «È una domanda cui nessuno può rispondere. Forse molto tempo fa... E chi lo sa?» «Non hai visto nient'altro?» «Sulla parete, allineato con precisione matematica in mezzo alle due file di nicchie, c'era qualcosa che sembrava un bassorilievo.» Royan si sollevò a sedere di scatto e lo fissò. «Lo hai visto bene? Era una scritta o un disegno? In che stile era?» «Non sono stato così fortunato. Era troppo in alto, e laggiù la luce è scarsa. Non sono neppure certo che non fosse un'irregolarità della roccia.» La delusione di Royan era evidente. Tuttavia, dopo un breve silenzio, chiese: «C'era altro?» «Sì.» Lui sorrise maliziosamente. «Una quantità enorme d'acqua che si muoveva in fretta.» «Che facciamo con questo presunto bassorilievo?» chiese Royan. Wilbur Smith
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«L'idea non mi piace per niente, ma dovrò tornare sul posto a dare un'altra occhiata.» «Quando?» «Domani è Timkat, la nostra unica occasione per entrare nel magdas della cattedrale. Poi faremo un piano per esplorare la gola.» «Il tempo stringe, Nicky. E proprio quando la situazione si stava facendo così interessante...» «Puoi dirlo forte», mormorò lui. Royan sentì il suo respiro sulle labbra: i loro volti erano vicini come quelli di due cospiratori o di due amanti. Si rese conto del duplice significato delle sue parole. Balzò in piedi e si ripulì i pantaloni dalla polvere e dai fili di paglia. «Hai un solo pesce per sfamare le moltitudini. O hai una grande opinione di te stesso e credi di poterlo moltiplicare, oppure è meglio che riprenda a pescare.» Nei giorni precedenti, gruppi di pellegrini e di devoti erano passati accanto al campo, diretti al monastero. A volte arrivavano a centinaia; spesso erano guidati da uno dei capitribù del Gojam in groppa a un mulo bianco con la gualdrappa di velluto e di seta, e accompagnato da un servitore che reggeva un ombrello ricamato e infìocchettato. Ognuno era seguito da guardie del corpo ben armate. Nel pomeriggio dell'ultimo giorno di Timkat, c'erano almeno mille fedeli raccolti nel chiostro della terrazza affacciata sul Nilo. Attendevano che il tabot venisse portato fuori dal magdas per compiere il pellegrinaggio annuale sino al fiume. Nel tardo pomeriggio, i quattro ferengi del campo raggiunsero la congregazione sulla terrazza. La calca era soffocante. Molti devoti avevano preso posto fin dal mattino ed erano rimasti immobili per ore sotto il sole. La mancanza d'impianti igienici pubblici e l'impossibilità di spostarsi avevano poi costretto tutti, bambini e cani, uomini e donne, a fare i loro bisogni lì dove si trovavano, e il lezzo era pressoché insopportabile. I due debteras incaricati dall'abate di scortare i ferengi cercarono di aprire loro un varco tra la folla. Tuttavia non erano ancora arrivati ai piedi della scala quando anche le guide si persero nella ressa. Nicholas e Royan rimasero separati dall'altra coppia. «Stammi vicina», raccomandò Nicholas, e continuò a stringerle il braccio mentre si apriva un passaggio a spallate. Naturalmente aveva fatto Wilbur Smith
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apposta a seminare Boris e Tessay nella calca, e le cose erano andate proprio come aveva previsto. Nicholas riuscì infine a raggiungere una colonna di pietra della terrazza e vi si appoggiò. Da quel punto vedeva bene l'ingresso della cattedrale. Royan invece non era abbastanza alta per vedere al di sopra delle teste degli uomini che le stavano davanti; perciò Nicholas la issò sulla balaustra della scala e la sistemò contro la colonna. Royan gli si aggrappò alla spalla per sostenersi: dietro di lei c'era lo strapiombo. I fedeli salmodiavano con voci monotone, mentre una dozzina di orchestre suonavano tamburi e sistri: ognuna circondava il proprio protettore, un capotribù dalla splendida veste, riparato da un ombrello sgargiante. L'atmosfera d'attesa e d'eccitazione era intensa quasi quanto il caldo e il fetore. Il canto crebbe di volume, la folla cominciò a ondeggiare come un unico essere, un'ameba grottesca palpitante di vita. All'improvviso, dall'interno della cattedrale, giunse il rintocco delle campane di bronzo, e subito cento corni e trombe risposero. Sulla scala risuonò un crepitio di colpi di fucile quando le guardie del corpo dei capitribù spararono in aria. Alcune erano armate con armi automatiche, e il fracasso degli AK47 si mescolava al tuono dei vecchissimi fucili ad avancarica. Nuvole di fumo azzurro si allargarono sopra i fedeli, mentre le pallottole rimbalzavano contro la roccia e si perdevano sibilando nella gola. Le donne strillavano e ululavano in un coro tanto bizzarro quanto agghiacciante. Le facce degli uomini erano accese dal fervore religioso. Si buttavano in ginocchio e alzavano le braccia in segno di adorazione, cantavano e invocavano la benedizione divina. Le donne, con le guance scure striate da lacrime d'estasi religiosa, sollevavano i figlioletti, scuotendoli. Poi, dal portale della chiesa sotterranea, uscì la processione di preti e monaci. Per primi venivano i debteras dalle lunghe tonache bianche, quindi gli accoliti che dovevano essere battezzati sulla riva del fiume. Royan riconobbe Tamre, più alto di tutta la testa dei ragazzi che lo circondavano. Lo salutò agitando una mano; Tamre la vide e sorrise timidamente prima di seguire i debteras sul sentiero che portava al Nilo. Stava calando la notte. Le profondità del calderone erano nascoste dalle ombre; in alto, il cielo era un baldacchino violaceo tempestato dalle prime Wilbur Smith
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stelle. All'inizio del sentiero c'era un braciere di bronzo acceso. Quando ognuno dei preti gli passava accanto, v'immergeva la torcia ancora spenta e, quando essa cominciava a fiammeggiare, la levava in alto. Come un fiume di lava, la processione cominciò a snodarsi lungo la parete di roccia. I preti salmodiavano, i tamburi rullavano e il suono riverberava contro le rupi al di là del fiume. Dopo i candidati al battesimo venivano i preti che reggevano le croci processionali d'argento e di bronzo, gli stendardi di seta ricamata che raffiguravano i santi nelle sofferenze del martirio e nell'estasi dell'adorazione. Madidi di sudore, i preti agitavano le campanelle, soffiavano negli strumenti e cantavano. Dopo di loro, portato da due preti dalle vesti sontuose e dai copricapi ingemmati, veniva il tabot. L'arca del tabernacolo era coperta da un drappo cremisi che scendeva fino al suolo: era troppo sacra per essere violata dallo sguardo dei profani. I fedeli si gettarono a terra in un nuovo parossismo di adorazione. Anche i capi si prosternarono sul pavimento lurido, e alcuni di loro cominciarono a piangere, commossi. La processione era chiusa da Jali Hora, che non portava la corona con la gemma azzurra ma un'altra, ancora più splendida: era la corona dell'Epifania, una massa di metallo lucente e di finte pietre preziose che sembrava troppo pesante per il suo esile collo di vecchio. Due debteras lo sostenevano per i gomiti e guidavano i suoi passi incerti. Mentre la processione si snodava, i fedeli più vicini alla scala si alzavano, accendevano le torce nel braciere e seguivano l'abate. Ben presto, tutti si mossero per unirsi alla fiumana; e quando la terrazza cominciò a vuotarsi, Nicholas fece smontare Royan dalla balaustrata. «Dobbiamo entrare in chiesa finché c'è in giro abbastanza gente per coprire i nostri movimenti», sussurrò. Quindi la prese per mano e avanzò tra la folla, stringendo con la mano libera la tracolla della borsa della macchina fotografica. Nicholas lasciò che la ressa lo sospingesse in avanti ma, nel contempo, si spostava in modo da tagliare diagonalmente la fiumana di persone, puntando verso l'entrata della chiesa. Scorse Boris e Tessay più avanti, nella calca: i due però non l'avevano visto, e Nicholas si acquattò per un attimo così da essere sicuro che non lo individuassero. Quando giunsero all'ingresso della navata esterna, attirò gentilmente Wilbur Smith
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Royan oltre il basso architrave, nell'interno buio e deserto. Con un'occhiata, si assicurò che fossero soli e che le guardie non fossero più appostate ai lati della porta interna, quindi avanzò a passo svelto lungo la parete laterale, verso il punto dove uno degli arazzi anneriti dalla fuliggine pendeva dal soffitto al pavimento. Sollevò le pieghe del pesante tessuto di lana e attirò Royan al riparo, poi lasciò ricadere l'arazzo in modo che li nascondesse entrambi. Fecero appena in tempo. Si erano addossati alla parete quando sentirono un suono di passi che provenivano dal qiddist. Nicholas sbirciò dall'angolo dell'arazzo e vide quattro preti biancovestiti che attraversavano la navata esterna, uscivano e chiudevano i battenti. Risuonò un tonfo quando calarono la trave che li bloccava. Poi un silenzio profondo pervase la caverna. «Questo non l'avevo previsto», mormorò Nicholas. «Siamo chiusi dentro per tutta la notte.» «Almeno nessuno ci disturberà», rispose Royan. «Possiamo metterci subito al lavoro.» Uscirono furtivamente dal nascondiglio e raggiunsero l'ingresso del qiddist. Nicholas si fermò e posò la mano sul braccio di Royan. «Da qui in avanti saremo in territorio proibito. È meglio che mi lasci andare avanti a esplorare.» Lei scosse la testa con fermezza. «Non lasciarmi qui. Vengo con te.» Nicholas si rese conto che non era il caso di discutere. «Sta bene, vieni pure», annuì. Quindi la condusse su per i gradini ed entrò nella navata mediana. Era più piccola e bassa di quella che avevano lasciato. Gli arazzi erano più ricchi e in miglior stato di conservazione. Il pavimento era nudo, a parte una struttura piramidale di legno che sosteneva file e file di lampade con gli stoppini immersi in pozze d'olio sciolto. La luce che emanavano era fioca, e lasciava nell'ombra il soffitto e i recessi della camera. Mentre si dirigevano verso la porta chiusa del magdas, Nicholas prese dalla borsa della macchina fotografica due torce elettriche e ne consegnò una a Royan. «Le pile sono nuove», disse. «Ma non sprecarle.» Si fermarono davanti alla porta del magdas. Nicholas l'esaminò in fretta. Su ogni pannello c'erano intagli che raffiguravano san Frumenzio, con la testa circondata da un'aureola e la mano destra alzata nell'atto di benedire. «Serratura primitiva», mormorò. «Dev'essere vecchia di secoli. Ci si Wilbur Smith
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potrebbe infilare un palo.» Mise la mano nella borsa e prese un coltello dell'esercito svizzero. «È un utensile ingegnoso. Si può fare di tutto, con questo, persino togliere i sassolini dallo zoccolo di un cavallo o forzare una cintura di castità.» S'inginocchiò davanti alla massiccia serratura di ferro e aprì una delle numerose lame. Royan lo guardò lavorare e trasalì quando la serratura si aprì con un oiccolo scatto. «E l'eredità d'una giovinezza traviata?» chiese. «Il furto con scasso rientra nelle tue specializzazioni?» «È meglio che tu non lo sappia.» Nicholas si alzò e appoggiò la spalla contro un'anta. La porta si aprì con uno stridore di cardini non lubrificati: la scostò quanto bastava per lasciarli passare, e si affrettò a richiuderla dietro di loro. Indugiarono a fianco a fianco sulla soglia del magdas e si guardarono intorno in silenzio. Era molto più piccolo di quanto si aspettassero. Nicholas avrebbe potuto attraversarlo con una dozzina di passi. La volta era così bassa che, se si fosse sollevato in punta di piedi, avrebbe potuto toccarla con le dita. Dal pavimento in su le pareti erano occupate da ripiani dove stavano i doni e le offerte dei fedeli, icone della Trinità e della Vergine eseguite in stile bizantino e racchiuse in cornici d'argento assai elaborate. C'erano file di statuine di santi e imperatori, medaglioni e ghirlande di metallo lucido, vasi e ciotole e cofanetti gemmati, candelieri a molte braccia in cui ardevano i ceri votivi che emettevano una luce incerta e tremula. Era una collezione straordinaria di cianfrusaglie e di tesori, di oggetti di valore e di paccottiglia vistosa, offerti in omaggio dagli imperatori e dai capitribù etiopi nel corso dei secoli. Al centro sorgeva l'altare di cedro, con i pannelli scolpiti e ornati da scene visionarie della creazione, della tentazione, della cacciata dal paradiso terrestre e del giudizio universale. La tovaglia dell'altare era di seta cruda lavorata all'uncinetto, mentre la croce e il calice erano d'argento massiccio. La corona dell'abate brillava nella luce delle candele, e aveva al centro il sigillo di ceramica azzurra. Royan andò a inginocchiarsi davanti all'altare e chinò la testa in preghiera. Nicholas attese rispettosamente sulla soglia fino a quando lei non si rialzò; allora andò a raggiungerla. Wilbur Smith
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«La pietra del tabot!» Nicholas indicò dietro l'altare. Si avvicinarono. In fondo al magdas c'era un oggetto coperto da un drappo pesante di damasco incrostato di ricami in filo d'oro e d'argento. Dai contorni, si capiva che aveva proporzioni eleganti e gradevoli. Era alto come un uomo, ma sottile e sovrastato da una specie di capitello. Gli girarono intorno e studiarono con vivo interesse quella forma; tuttavia esitavano a toccarlo o a scoprirlo, nel timore che le loro attese andassero deluse e le speranze s'infrangessero come le acque turbolente che si gettavano nel calderone del Nilo. Nicholas spezzò la tensione che li attanagliava. Voltò le spalle alla pietra del tabot e guardò la porta a sbarre in fondo al sacrario. «La tomba di san Frumenzio», esclamò, e si accostò alla grata. Royan gli andò accanto. Scrutarono attraverso le aperture quadrate nel legno annerito dall'età. L'interno era immerso nel buio. Allora Nicholas infilò la torcia in uno dei varchi e premette l'interruttore. La tomba s'illuminò in un arcobaleno di colori così fulgidi che i loro occhi impiegarono qualche istante per adattarsi. Poi Royan si lasciò sfuggire un'esclamazione di stupore. «Oh, santo cielo!» Cominciò a tremare come se fosse in preda alla febbre e impallidì di colpo. Posata su un ripiano di pietra scavato nella parete interna della cella c'era la bara e, su di essa, si scorgeva l'immagine dell'uomo che vi era sepolto. Sebbene il dipinto fosse assai rovinato, era ancora possibile individuare le forme di un pallido viso e seguire il contorno di una barba rossiccia. Ma non era quello l'unico motivo dello stupore di Royan. La donna fissava in realtà le pareti sui tre lati del ripiano. Lì, in una girandola di colori, si susseguiva una serie ininterrotta di complessi dipinti, che avevano resistito come per un miracolo al trascorrere dei millenni. In un silenzio sbalordito, Nicholas girò il raggio della torcia, e Royan gli si aggrappò al braccio come se temesse di cadere. Affondò le unghie, ma lui non badò alla trafittura. C'erano scene di grandi battaglie, di navi impegnate a combattere sulle eterne acque azzurre del fiume. C'erano scene di caccia, d'inseguimenti di cavalli e di grandi elefanti con le lunghe zanne di avorio lucido. C'erano scene di scontri con reggimenti di uomini con pennacchi e armature, scatenati e assetati di sangue. C'erano squadroni di carri che si caricavano, seminascosti dalla polvere della loro corsa folle. Wilbur Smith
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Ogni affresco era dominato da un'alta figura eroica, sempre in primo piano. In una scena tendeva l'arco, in un'altra brandiva una spada di bronzo. I nemici tremavano davanti a lui, e l'invincibile guerriero li calpestava, oppure ammassava le loro teste mozze come mazzi di fiori. Nicholas fece scorrere il fascio luminoso sulla splendida opera d'arte e lo puntò sul pannello centrale che copriva l'intero muro principale, al di sopra del ripiano su cui stava la bara marcia. Lì c'era la stessa figura, questa volta su un carro. Con una mano stringeva l'arco, con l'altra un fascio di giavellotti. Non portava l'elmo e i capelli fluivano dietro di lui nel movimento, stretti in una grossa treccia d'oro simile alla coda di un leone. I lineamenti erano aristocratici e fieri, lo sguardo franco e indomabile. Sotto di lui c'era una scritta in geroglifici egizi classici. A voce bassa, Royan la tradusse: GRANDE LEONE D'EGITTO, MIGLIORE DEI CENTOMILA, INSIGNITO DELL'ORO DEL VALORE, UNICO COMPAGNO DEL FARAONE, GUERRIERO DI TUTTI GLI DEI, POSSA TU VIVERE IN ETERNO ! La mano di Royan tremava sul braccio di Nicholas, e la voce era soffocata dall'emozione. Singhiozzò e poi si scosse. «Conosco questo artista», disse. «Ho passato cinque anni a studiare le sue opere. Lo riconoscerei dovunque.» Respirò profondamente. «Sono certa che, poco meno di quattromila anni fa, lo schiavo Taita decorò queste pareti e progettò la tomba.» Indicò il nome del defunto, scolpito nella pietra sopra il ripiano. «Non è la tomba di un santo cristiano. Secoli fa, qualche vecchio prete dovette scoprirla per caso e, nella sua ignoranza, se ne appropriò in nome della propria religione.» Un altro respiro tremulo. «Guarda! Ecco il sigillo di Tanus, nobile Harrab, comandante di tutte le armate d'Egitto, amante della regina Lostris e padre naturale del principe Memnone, che divenne il faraone Tamose.» Rimasero a lungo in silenzio, perduti nello stupore della scoperta. Fu Nicholas a parlare per primo. «Allora è tutto vero. I segreti del settimo papiro sono qui a nostra Wilbur Smith
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disposizione, se riusciremo a trovarne la chiave.» «Sì», mormorò Royan. «La chiave. Il testamento di pietra di Taita.» Si girò verso la pietra del tabot, e vi s'avvicinò quasi con timore. «Non ho il coraggio di guardare, Nicky. Sono atterrita all'idea che non sia quel che speriamo. Fallo tu!» Nicholas si avvicinò alla colonna e con un gesto da prestigiatore tolse il drappo di damasco che la copriva. Fissarono entrambi il pilastro di granito rosa screziato. Era alto più di un metro e ottanta e alla base misurava almeno trenta centimetri per trenta. Poi si affusolava, sino a ridursi alla metà, sotto il capitello piatto alla sommità. Il granito era levigato e scolpito. Royan si avvicinò e toccò la fredda pietra, passò lentamente le dita sui geroglifici come se stesse leggendo i caratteri Braille. «È la lettera che ci ha lasciato Taita», bisbigliò nello scorgere il simbolo del falco con l'ala spezzata nella massa dello scritto, e ne seguì i contorni con l'indice che tremava leggermente. «È stata incisa poco meno di quattro millenni fa, e ha atteso secoli e secoli che la leggessimo e la comprendessimo. Vedi come l'ha firmata?» Girò intorno al pilastro di granito, studiò le quattro facce, sorridendo e annuendo, aggrottando la fronte e scuotendo la testa, e poi sorridendo di nuovo come se fosse una lettera d'amore. «Leggila», la pregò Nicholas. «Per me è troppo complicata. Capisco i simboli, però non riesco a seguirne il significato. Spiegamela.» «È tipica di Taita.» Lei rise, vinta dall'eccitazione che aveva finalmente preso il posto dello stupore. «Come al solito è oscuro e capriccioso.» Era come se parlasse di un vecchio amico, tanto caro quanto esasperante. «È in versi, probabilmente in un suo codice esoterico.» Scelse una linea di geroglifici e la seguì con l'indice traducendo a voce alta. «L'avvoltoio s'innalza sulle ali possenti per salutare il sole. Lo sciacallo ulula e gira sulla propria coda. Il fiume scorre verso la terra. State in guardia, violatori dei luoghi sacri, perché l'ira di tutti gli dei discenderà su di voi!» «È un gergo incomprensibile. Non ha senso», protestò Nicholas. «Oh, sì, che ha senso. Taita non parla mai a vanvera; bisogna seguire il modo in cui funziona la sua mente obliqua e subdola.» Royan si voltò verso di lui. «Non essere così avvilito, Nicky. Non puoi pretendere di leggere Taita come se fosse un articolo di fondo del Times. Ci ha proposto un enigma che potrebbe richiedere settimane e mesi di lavoro per essere Wilbur Smith
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risolto.» «Be', una cosa è certa. Non possiamo restare nel magdas per settimane e mesi mentre lo risolviamo. Diamoci da fare.» «Prima le fotografie.» Royan assunse un atteggiamento pratico e sbrigativo. «Poi faremo le copie delle incisioni sulla pietra.» Nicholas posò la borsa, s'inginocchiò e l'aprì. «Anzitutto scatterò due rullini a colori, e dopo userò la polaroid. Così avremo qualcosa su cui lavorare fino a quando non potremo far sviluppare le foto in un laboratorio specializzato.» Royan si tenne in disparte mentre Nicholas, in ginocchio, girava intorno al pilastro, mantenendo l'angolazione esatta per non alterare la prospettiva. Scattò una serie di foto di ognuna delle quattro facce, utilizzando velocità ed esposizioni diverse. «Non consumare tutta la pellicola», gli raccomandò lei. «Abbiamo bisogno anche d'immagini delle pareti della tomba.» Obbediente, Nicholas si avvicinò alla grata e studiò la serratura. «Questa è un po' più complicata. Se tentassi di entrare, potrei danneggiare qualcosa. Non credo che valga la pena di rischiare d'essere scoperti.» «D'accordo», ammise lei. «Lavora attraverso le aperture della grata.» Nicholas scattò le foto meglio che poteva, tendendo la macchina fotografica al di là dei varchi, allungando al massimo le braccia, e calcolando approssimativamente la messa a fuoco. «È tutto», annunciò alla fine. «Passiamo alla polaroid.» Cambiò macchina fotografica e ripeté l'intero procedimento; questa volta però Royan accostò un piccolo metro a nastro alla colonna per fornire la scala esatta. Via via che Nicholas sviluppava un'istantanea, la passava a lei per controllarla. A volte, quando il flash produceva una sovraesposizione o rendeva confuso il soggetto, Royan chiedeva di rifare la foto. Dopo quasi due ore di lavoro, si ritrovarono con una serie completa d'istantanee. Allora Nicholas mise via le macchine fotografiche e prese il rotolo di carta da ricalco. Lo stesero su una faccia del pilastro e lo fissarono con nastro adesivo. Nicholas incominciò dall'alto, Royan dal basso. Armati di pastelli neri, ricalcarono le forme esatte delle incisioni sul foglio. «Quando si ha a che fare con Taita e non si dispone dell'originale, devi avere una copia esatta», spiegò Royan. «È una cosa importantissima e io Wilbur Smith
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l'ho imparata studiando lui e le sue opere. A volte il particolare in apparenza più insignificante può cambiare completamente il senso e il significato dello scritto. Taita riveste ogni cosa con strati e strati di mistero. Hai letto nel Dio del fiume che si considerava il sommo maestro degli enigmi e dei giochi di parole, e il massimo esponente del gioco del bao mai vissuto. Be', in quanto a questo, il romanzo dice la verità. Dovunque sia ora, sa che il gioco è iniziato e si diverte a ogni nostra mossa. Mi sembra di vederlo ridacchiare e fregarsi allegramente le mani.» «Sei un po' troppo fantasiosa, cara mia», commentò Nicholas, rimettendosi a lavorare. «Ma capisco che intendi dire.» Il compito di trasferire i contorni dei disegni sul foglio bianco era meticoloso e monotono. I due passarono ore intere in ginocchio o accosciati, lavorando sul pilastro di granito. Alla fine, Nicholas indietreggiò e si massaggiò la schiena indolenzita. «Ecco fatto. Tutto finito.» Anche Royan si raddrizzò. «Che ora è?» chiese, e lui controllò l'orologio. «Le quattro del mattino. Sarà meglio rimettere tutto in ordine, per non lasciar tracce della nostra visita.» «Un'ultima cosa», disse Royan. Strappò un angolo da uno dei fogli e lo portò all'altare dove stava la corona dell'abate. Poi fissò con il nastro adesivo la carta da ricalco sul sigillo di ceramica azzurra, e ricalcò il motivo del falco con un'ala spezzata. «Lo terrò come portafortuna», spiegò, mentre aiutava Nicholas a piegare i fogli e a rimetterli nella borsa. Quindi raccolsero i ritagli del nastro adesivo e gli incarti vuoti della polaroid che erano sparsi sulle pietre. Prima di ricoprire le tele di granito con il drappo di damasco, Royan accarezzò i geroglifici come se volesse far loro un ultimo saluto. Poi rivolse a Nicholas un cenno d'assenso e lui stese il drappo sulla colonna, prestando attenzione a sistemare le pieghe in modo che ricadessero come le avevano trovate. Dalla soglia della porta a borchie di bronzo guardarono per l'ultima volta il magdas. Quindi Nicholas socchiuse il battente. «Andiamo!» Royan passò e lui la seguì nel qiddist. Gli bastarono pochi attimi per far scattare di nuovo la serratura. «E adesso, come facciamo a uscire dall'ingresso principale?» chiese lei. «Non credo che sarà necessario. È ovvio che i preti hanno un'altra via d'accesso al qiddist. Solo raramente passano per la porta principale.» Wilbur Smith
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Nicholas si fermò al centro della navata e si guardò intorno. «Dev'essere da questa parte, se conduce direttamente ai loro alloggi...» S'interruppe con un borbottio soddisfatto. «Ah-ah! Vedi? Il loro passaggio ha consumato il pavimento nel corso dei secoli.» Indicò un'area levigata e logora vicino alla parete laterale. «E guarda i segni lasciati sull'arazzo dalle dita sporche.» Si avvicinò a passo svelto all'arazzo e lo scostò, rivelando una stretta arcata. «L'immaginavo!» esclamò. «Seguimi.» Si trovarono in un corridoio buio, scavato nella roccia viva. Nicholas puntò il fascio luminoso della torcia verso l'estremità, ma mascherò la lampadina in modo che desse solo la luce sufficiente. «Da questa parte.» Il corridoio svoltò ad angolo retto: più avanti scorsero una luce fioca. Nicholas spense la torcia elettrica e proseguì. C'era odore di cibo rancido e di esseri umani. Passarono davanti all'entrata di una cella, e Nicholas guardò all'interno. Era spoglia e deserta. Una croce di legno era appesa alla parete, e sotto c'era un letto a cavalletto. L'arredamento era tutto lì. Lungo il cammino scorsero una dozzina di altre celle quasi identiche. Alla svolta successiva del corridoio, Nicholas si bloccò. Sentì uno spiffero sulla guancia e il sapore dell'aria notturna sulla lingua. «Di qua», mormorò. Continuarono in fretta. D'un tratto però Royan afferrò una spalla di Nicholas e lo costrinse a fermarsi. «Che c'è?» chiese lui, ma la donna si limitò a stringergli più forte la spalla per indurlo a tacere. Fu allora che Nicholas sentì il suono di voci umane che echeggiavano stranamente nel labirinto dei corridoi. Poi venne un grido strano, il grido di un'anima sofferente che gemeva e singhiozzava. Avanzarono adagio, cercando di fuggire prima di essere scoperti, ma il suono divenne più forte. «È proprio davanti a noi», bisbigliò Nicholas. «Dovremo cercare di passare oltre.» Videro la luce gialla di una lampada che usciva da una delle celle. Risuonò un altro straziante grido femminile, che echeggiò nel corridoio e l'indusse a fermarsi. «Ma è una voce di donna... Che succede?» sussurrò Royan. Nicholas scosse la testa per raccomandarle di tacere e la condusse avanti. Wilbur Smith
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Erano costretti a passare davanti alla porta aperta della cella illuminata. Nicholas si avvicinò tenendosi rasente alla parete opposta e Royan lo seguì, aggrappandosi al suo braccio. Mentre guardavano nella cella, la donna gridò di nuovo, ma questa volta la sua voce si mescolò a quella di un uomo. Era un duetto senza parole eppure straziato dalla sofferenza ferina di una passione troppo ardente per sfogarsi in silenzio. Sul letto giaceva una coppia nuda. La donna stringeva i fianchi dell'uomo fra le ginocchia, gli cingeva con le braccia la schiena guizzante di muscoli e lucida di sudore. L'uomo affondava selvaggiamente in lei, e le sue natiche si sollevavano e si abbassavano con la forza di un grande ariete nero. La donna roteò la testa mentre un altro grido incoerente sgorgava dalla sua gola. L'uomo parve avvertire una sollecitazione insopportabile, perché s'impennò come un cobra, con la pelvi ancora congiunta a quella di lei e il dorso teso all'indietro come un arco da guerra. Fu assalito da uno spasmo dopo l'altro. I tendini delle gambe erano protesi come se stessero per spezzarsi e i muscoli della schiena sussultavano come creature vive. La donna aprì gli occhi e guardò verso Nicholas e Royan proprio mentre i due erano inchiodati sulla soglia: ma era accecata dalla forza della passione. I suoi occhi erano vuoti, mentre gridava invocazioni all'uomo che le stava addosso. Nicholas condusse via Royan. Proseguirono furtivamente lungo il corridoio e uscirono sulla terrazza deserta. Si fermarono ai piedi della scala. Respirarono l'aria pura e dolce della notte, profumata dalle acque del Nilo. «Tessay è sua», mormorò Royan. «Almeno per questa notte», ammise Nicholas. «No», lo smentì lei. «Hai visto il suo volto, Nicky. Ora appartiene a Mek Nimmur.» L'alba colorava le creste dentellate della scarpata con i colori del Porto e delle rose quando arrivarono al campo e si separarono sulla soglia della capanna di Royan. «Sono sfinita», disse lei. «È stata un'emozione troppo forte. Non mi rivedrai prima di mezzogiorno.» «Ottima idea. Dormi quanto vuoi. Dovrai essere smagliante e Wilbur Smith
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lucidissima quando cominceremo a esaminare il materiale che abbiamo raccolto questa notte.» Mancava però ancora molto a mezzogiorno, quando Nicholas fu svegliato dalle grida di Boris che si era precipitato nella capanna. «Inglese, si svegli! Voglio parlarle. Le ho detto di svegliarsi!» Nicholas si girò e tese un braccio fuori della zanzariera per cercare a tentoni l'orologio. «Accidenti a lei, Brusilov! Che diavolo vuole?» «Mia moglie! Ha visto mia moglie?» «Che c'entro io?» «È sparita! Non l'ho più vista da ieri sera.» «Non è una gran sorpresa, dato il modo in cui la tratta. Adesso se ne vada e mi lasci dormire.» «La puttana è scappata con quel bastardo negro, Mek Nimmur. So tutto. Non cerchi di proteggerla, inglese. So che cosa succede qui intorno. Sta cercando di proteggerla, lo ammetta.» «Se ne vada, Boris, e non cerchi di coinvolgermi nella sua sordida vita privata.» «L'ho visto parlare con quello sciftà nella capanna della scuoiatura, ieri sera. Non cerchi di negarlo, inglese. C'è dentro anche lei, c'è dentro fino al collo.» Nicholas scostò di scatto la zanzariera e balzò dal letto. «Moderi il linguaggio quando parla con me, imbecille.» Boris arretrò verso la porta. «So che mia moglie è scappata con quell'uomo. Li ho cercati sul fiume tutta la notte. Sono spariti, e con lui quasi tutti i suoi banditi.» «Sono contento per Tessay. Finalmente ha dimostrato un po' di buon gusto in fatto di uomini.» «Crede che permetterò a quella puttana di cavarsela così a buon mercato? Si sbaglia! L'inseguirò e li ammazzerò tutti e due. So dove sono diretti. Mi crede scemo? So tutto di Mek Nimmur. Ero il capo del servizio segreto...» Boris s'interruppe, rendendosi conto di ciò che aveva detto. «Gli sparerò nello stomaco e costringerò quella puttana di Tessay a guardarlo morire.» «Se va in cerca di Mek Nimmur, sono pronto a scommettere che non tornerà vivo.» «Non mi conosce, inglese. Mi ha battuto una notte perché avevo bevuto un'intera bottiglia di vodka, e crede che sia facile togliermi di mezzo, da? Wilbur Smith
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Be', lo scoprirà Mek Nimmur se è tanto facile...» Boris si precipitò fuori della capanna, e Nicholas, dopo aver infilato la camicia sugli shorts, lo seguì. Il russo era andato nella sua capanna. Aveva messo l'indispensabile in uno zaino, e adesso stava caricando il fucile da caccia 30/06. «Li lasci perdere, Boris», consigliò Nicholas in tono conciliante. «Mek è un duro se mai ce n'è stato uno, e ha con lui un gruppo di cinquanta guerriglieri. Lei è abbastanza vecchio per capire che non può tenere una donna con la forza. La lasci andare!» «Non voglio tenerla. Voglio ucciderla. Il safari è finito, inglese.» Boris buttò un paio di chiavi ai piedi di Nicholas. «Sono del Land Cruiser. Può tornare ad Addis Abeba. Le lascerò quattro dei miei uomini migliori a farle da scorta. Terrò il camion grande. Quando arriva ad Addis Abeba, lasci le chiavi ad Aly, il mio cercatore di tracce. Saprò dove trovarlo. Le spedirò la somma che le devo per l'annullamento del contratto. Non si preoccupi: io sono ligio a certi princìpi.» «E come posso dubitarne?» Nicholas sorrise. «Addio, vecchio mio. Le auguro buona fortuna. Ne avrà davvero bisogno, se si metterà contro Mek Nimmur.» Boris aveva parecchie ore di svantaggio sulla preda; così, non appena ebbe lasciato il campo, si avviò con un passo svelto lungo il sentiero fino alla pista principale che conduceva a ovest, verso il confine sudanese. Correva come un esploratore, con un passo agile che gli permetteva di divorare il terreno. «È ancora in buona forma nonostante la vodka», mormorò Nicholas mentre lo guardava allontanarsi. «Però vorrei sapere per quanto riuscirà a reggere quell'andatura.» Tornò al suo alloggio con l'intenzione di rimettersi a dormire, ma, quando passò davanti alla capanna di Royan, lei si affacciò. «Che cos'erano quelle urla? Un'altra divergenza di opinioni fra te e Boris?» «Tessay se l'è filata, Boris ha intuito che è scappata con Mek, e adesso gli dà la caccia.» «Oh, Nicky! Non possiamo avvertirli?» «E impossibile, ma se Mek non è rimbecillito prevederà che Boris lo insegua. Anzi, adesso che ci penso, con ogni probabilità è proprio quello che spera per pareggiare il conto. No, Mek non ha bisogno del nostro aiuto. Torna a dormire.» Wilbur Smith
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«Ormai è impossibile. Sono troppo agitata. Ho guardato le polaroid che abbiamo scattato stanotte. Taita ci ha consegnato una coppa traboccante. Vieni a dare un'occhiata.» «Non mi lasci dormire un'altra ora?» chiese lui, in tono fintamente supplichevole. «Tra un attimo... o forse subito», rise Royan. Aveva messo le polaroid e i ricalchi sul tavolo da campo. Gli fece cenno di sederle accanto. «Mentre tu russavi come un trombone, io ho fatto qualche progresso.» Posò sul tavolo quattro polaroid, l'una accanto all'altra, e vi mise sopra la lente d'ingrandimento. Era un modello professionale, con le gambe pieghevoli, e rivelava ogni particolare delle fotografie. «Taita ha chiamato ogni faccia della stele con i nomi di una delle stagioni dell'anno: primavera, estate, autunno e inverno. Che cosa voleva indicare, secondo te?» «Una sorta di numero di pagina?» «È esattamente quello che ho pensato anch'io», ammise Royan. «Gli egizi consideravano la primavera come l'inizio dei rinnovarsi della vita. Taita ci spiega in quale ordine dobbiamo leggere le facce del monumento. Questa è la 'primavera'.» E scelse una foto. «Incomincia con quattro citazioni simili a quelle del Libro dei morti.» E lesse le prime righe della sezione iniziale. «Io sono la prima brezza che soffia dolcemente sull'oceano buio dell'eternità. Io sono il primo sorgere del sole, il primo barlume di luce, una piuma bianca che vola nel vento dell'alba. Io sono RA. IO sono il principio di tutte le cose. Io vivrò per sempre. Io non perirò mai.» Alzò gli occhi, continuando a puntare la lente. «A quanto posso capire, non sono molto diverse dall'originale. L'istinto mi suggerisce di metterle da parte per il momento. Possiamo sempre ritornarvi più tardi.» «Affidiamoci al tuo istinto», approvò Nicholas. «Leggi la sezione che segue.» Royan accostò la lente all'istantanea. «Non ti guarderò mentre la leggo. Taita sa essere volgare quanto Rabelais, quando ci si mette. Comunque, ecco qui. La figlia della dea si strugge per la madre. Ruggisce come una leonessa mentre le corre incontro. Balza dalla montagna, e candide sono le sue zanne. È la meretrice di tutto il mondo. La sua vagina piscia grandi torrenti. La sua vagina ha ingoiato un esercito di uomini. Il suo sesso ha Wilbur Smith
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divorato i muratori e gli scalpellini. La sua vagina è una piovra che ha inghiottito un dio.» «Ehilà!» rise Nicholas. «Piuttosto piccante, non ti pare?» Si tese per guardare il viso di Royan, che ancora non sollevava gli occhi. «Ragazza mia, hai rose sulle belle guance, non certo un rossore.» «Come poeta non sei un granché», ribatté lei in tono freddo, continuando a non guardarlo. «Quando avrai finito di fare il furbo a mie spese, dimmi che cosa pensi di ciò che ho appena letto.» «A parte l'ovvio, non ne ho la minima idea.» «Voglio mostrarti una cosa.» Lei si alzò e ripose nello zaino le fotografie e i rotoli di carta. «Metti gli stivali. Ti porto a fare una passeggiata.» Un'ora dopo arrivarono al centro del ponte sospeso che ondeggiava sulle acque turbinose del Dandera. «Hapi è la dea del Nilo. Questo fiume, quindi, non è la figlia che balza dalle montagne ruggendo come una leonessa e con le zanne biancheggianti di spuma?» chiese Royan. Guardarono in silenzio l'arcata di pietra rosea dalla quale si riversava il fiume, e Nicholas sogghignò maliziosamente. «Credo di aver capito. È stata la prima cosa che ho pensato quando ho visto la breccia. Se non ricordo male, tu l'hai definita 'un mascherone mostruoso che erutta acqua dalla bocca', ma io l'ho interpretata in un modo diverso.» «Evidentemente hai delle amichette eccezionali», ribatté lei, poi si coprì la bocca con la mano. «Oh, non volevo. Sto parlando in modo disgustoso, come Taita. E come te.» «Gli operai inghiottiti lassù.» La voce di Nicholas si animò. «I muratori e gli scalpellini!» «Il faraone Marnose era un dio. La dea del fiume ha inghiottito un dio con la sua... la sua arcata di pietra.» Anche Royan era emozionata. «Devo ammettere che non avrei notato l'associazione se tu non avessi esplorato la parete, trovando poi quelle piccole nicchie...» Gli strinse il braccio. «Nicky, dobbiamo tornare là. Dobbiamo vedere meglio il bassorilievo che hai trovato sulla parete...» «Sarà necessario qualche preparativo», disse lui in tono dubbioso. «Dovrò annodare le corde e fabbricare un sistema di pulegge, nonché insegnare ad Aly e agli altri che cosa dovranno fare per evitare che si ripeta il mio ultimo inconveniente. Non saremo pronti per tentare prima di Wilbur Smith
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domattina, come minimo.» «Tu procedi pure. Io avrò abbastanza da fare con la traduzione della stele.» Royan s'interruppe e alzò gli occhi al cielo. «Ascolta!» mormorò. Nicholas inclinò la testa. Nonostante il rombo del fiume, sentì nell'aria il suono dei rotori. «Accidenti!» esclamò. «Pensavo che quelli della Pegasus non ci cercassero più. Vieni!» L'afferrò per il braccio, la condusse via e balzò sulla spiaggetta. Lei lo seguì. Si nascosero al riparo del ponte sospeso. Rimasero seduti in silenzio sulla sabbia bianca e ascoltarono mentre l'elicottero Bell Jet Ranger si avvicinava rapidamente, e poi tornava verso le colline, oltre i dirupi rosati. Questa volta però era chiaro che il pilota non li aveva visti: infatti virò e prese a volare lungo l'abisso, avanti e indietro. All'improvviso il suono del motore cambiò. «Sembra che abbia intenzione di atterrare fra le colline», commentò Nicholas, uscendo dal riparo. «Mi sentirei più tranquillo se non andasse tanto in giro a curiosare.» «Non credo che dobbiamo preoccuparci», disse Royan. «Anche se sono complici degli assassini di Duraid, siamo ancora in vantaggio. E evidente che non hanno scoperto quanto il monastero sia importante... per non parlare della stele.» «Mi auguro che tu abbia ragione. Torniamo al campo. Non dobbiamo permettere che ci vedano ancora una volta nelle vicinanze della breccia. Sarebbe una coincidenza davvero sospetta se ci trovassero qui ogni volta che passano da queste parti.» Mentre Royan andava nella sua capanna a studiare le fotografie e i ricalchi, Nicholas si mise al lavoro con i cercatori di tracce e gli scuoiatori. Annodò l'estremità della corda di nylon a un'altra, formando così un'unica fune di centocinquanta metri di lunghezza. Poi prese la porta di tela della capanna-cucina, la tagliò e realizzò una specie di sedile. Infine legò le estremità della corda in un'imbracatura che annodò ai quattro angoli della tela. Non aveva un argano, quindi mise insieme una rudimentale impalcatura di pali che avrebbe potuto protendere oltre l'orlo del precipizio per fare in modo che la corda restasse lontana dalla roccia. L'avrebbe fatta passare nel solco che aveva praticato all'estremità della trave centrale con un ferro rovente e lubrificato con il lardo. Wilbur Smith
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A metà del pomeriggio ultimò i preparativi. Lasciò Royan al campo e guidò i suoi uomini, carichi di rotoli di corde e di pali, lungo il sentiero fino al punto in cui si era calato nel precipizio per recuperare la carcassa del dik-dik. Quindi proseguirono verso valle, seguendo il ciglio dell'abisso. Era una marcia poco piacevole perché gli arbusti spinosi erano fitti, e in numerosi punti gli uomini furono costretti a servirsi dei machete per aprirsi un passaggio. Lo guidava il rombo della cascata; diventò più forte via via che procedevano, fino a quando la roccia non parve vibrare sotto i loro piedi. Alla fine, Nicholas si sporse, guardò in basso e scorse gli spruzzi sul fondo. «Il punto è questo», borbottò soddisfatto, e spiegò ad Aly, in arabo, che cosa voleva. Per determinare la posizione esatta in cui collocare l'incastellatura, Nicholas si assestò sul sedile di tela e si fece calare per sei metri, fino a dove la parete non cominciava a sporgere. Aveva scelto quel punto perché li era possibile fare in modo che la corda di nylon non si logorasse contro la roccia, ma soprattutto perché da quella posizione si riusciva a vedere anche al di là dell'aggetto. Sospeso sopra le cascate e la conca rocciosa nel fiume, Nicholas scorse la doppia fila di nicchie. Ma il bassorilievo era ancora nascosto dalla configurazione della parete. Diede il segnale ad Aly e si fece tirare su. «Dobbiamo piazzare l'incastellatura un po' più a valle», disse, e diede istruzioni agli uomini che cominciarono a tranciare i fitti arbusti. Dopo qualche tempo, Nicholas s'inginocchiò per esaminare la roccia che, fino a quel momento, era stata coperta dai rovi. Allora esclamò: «Che mi venga un accidente! Qui ci sono altre perforazioni!» Diversamente da quelle più in basso, protette dall'aggetto, queste erano state bersagliate dalle intemperie che le avevano profondamente erose. Sul ciglio roccioso non rimanevano dunque che tracce vaghe, eppure era indiscutibile che quelle tracce rappresentavano i punti di ancoraggio superiori dell'antica impalcatura. Piazzarono l'incastellatura nell'area spianata, e tesero il lungo palo sull'abisso, quindi lo fissarono e lo assicurarono con un sistema rudimentale di corde e di pali più leggeri. Quando ebbero terminato, Nicholas strisciò fino all'estremità per Wilbur Smith
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collaudare la struttura e far passare la corda attraverso il solco che aveva scavato. La struttura sembrava solida, ma lui provò comunque un senso di sollievo quando tornò sul terreno. Si rialzò e guardò oltre le cime dei cespugli nella direzione in cui il sole calante rosseggiava all'orizzonte. «Per oggi basta», decise. «Al resto penseremo domani.» Faceva ancora buio quando Nicholas e Royan si alzarono. Bevvero un caffè accanto al fuoco; a poca distanza, Aly e i suoi uomini erano accosciati intorno a un altro falò: parlavano sottovoce, tossivano e fumavano le prime sigarette della giornata. Sembrava che l'impresa avesse colpito la loro fantasia. Non immaginavano quale fosse la ragione della seconda discesa nell'abisso, ma l'entusiasmo dei due ferengi era contagioso. Appena fu abbastanza chiaro per vedere il sentiero, si misero in marcia. Gli uomini chiacchieravano allegramente in amharico mentre procedevano fra gli arbusti spinosi. Giunsero sul ciglio del precipizio proprio mentre il sole spuntava sopra la scarpata orientale della valle. Il giorno prima, Nicholas aveva impartito le istruzioni agli uomini, e Royan e lui erano rimasti alzati metà della notte per discutere i particolari del piano. Ognuno di loro sapeva che cosa doveva fare, e quindi impiegarono poco tempo a prepararsi per la discesa. Nicholas si spogliò e rimase in shorts e scarpe da tennis. Ma questa volta aveva portato una vecchia maglia da rugby per non soffrire il freddo. Mentre la indossava, indicò a Royan la piattaforma che era stata scavata nella roccia. Lei l'esaminò con attenzione, «È difficile esserne sicuri, però credo che tu abbia ragione: con ogni probabilità è opera dell'uomo.» «Quando scenderai non avrai più dubbi. La parete sotto la sporgenza è pochissimo usurata dalle intemperie, e le nicchie si sono conservate in modo quasi perfetto, almeno quelle che sono sopra il livello dell'acqua alta», le disse mentre prendeva posto sul sedile sospeso. Dall'estremità dell'incastellatura fece un segnale ad Aly, e gli uomini lo calarono nella gola. La corda scorse senza difficoltà nel solco lubrificato. Capì subito di aver fatto bene i calcoli. Stava scendendo in linea con la doppia fila delle nicchie. Arrivò all'altezza del disco enigmatico sulla faccia del dirupo; ma era a una quindicina di metri da lui, e i licheni Wilbur Smith
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avevano striato e scolorito la roccia, nascondendo i particolari. Nicholas non era ancora certo che non fosse un fenomeno naturale. Lo superò e continuò la discesa, mentre Aly e gli altri calavano la corda. Raggiunse la superficie del fiume, si liberò del sedile e si tuffò. L'acqua era fredda. Restò a galla, ansimando, fino a quando il suo corpo non si fu abituato, poi tirò tre volte la corda per fare il segnale ad Aly. Mentre il sedile di tela risaliva, raggiunse a nuoto la parete e si aggrappò a una delle nicchie di pietra. Aveva dimenticato quanto fosse buio, cupo e freddo il fondo del precipizio. Dopo qualche tempo, inclinò la testa all'indietro e vide Royan apparire oltre la sporgenza. Dondolava sul sedile di tela e girava lentamente su se stessa all'estremità della corda di nylon: guardò in basso e agitò allegramente una mano. «Trenta e lode a quella ragazza», pensò lui con un sorriso. «Il fegato non le manca.» Avrebbe voluto gridarle un incoraggiamento, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Il rombo delle cascate soffocava ogni altro suono. Dovette accontentarsi di ricambiare il saluto. A metà della discesa, la vide tirare convulsamente la corda per le segnalazioni. Aly era stato preavvertito, e subito ordinò ai compagni di fermarsi. Poi Royan si sporse all'indietro, tenendosi aggrappata solo con la mano sinistra, mentre con la destra prendeva il binocolo di Nicholas che portava appeso al collo. Si trovava senza dubbio a un'angolazione scomoda per la sua osservazione. Nicholas si accorse che stentava a individuare il segno rotondo sulla parete e a tenerlo nel campo delle lenti perché il sedile ondeggiava e nel contempo roteava lentamente su se stesso. Royan continuò a darsi da fare affannosamente per un tempo che a Nicholas sembrò interminabile, ma che in realtà non fu più lungo di qualche minuto. Poi, d'un tratto, Royan lasciò ricadere il binocolo sul petto, rovesciò all'indietro la testa e proruppe in un grido che, nonostante il ruggito dell'acqua, raggiunse Nicholas trenta metri più in basso. La vide agitare allegramente le gambe e la mano libera, fuori di sé per l'eccitazione. Quando Aly ricominciò a calarla, stava ancora gridando e guardava Nicholas con un'espressione che sembrava rischiarare il buio della gola. «Non ti sento!» gridò lui, ma le cascate frustravano i loro tentativi di comunicare. Wilbur Smith
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Royan si contorceva sul sedile, urlava e gesticolava. Lasciò con l'altra mano l'imbracatura e si sporse ancora di più per non perderlo di vista mentre girava lentamente. Era ancora a cinque metri dall'acqua quando rischiò di perdere l'equilibrio e di precipitare all'indietro. «Attenta!» gridò lui. «Il binocolo è uno Zeiss e mi è costato duemila sterline al duty free di Zurigo.» Questa volta la sua voce dovette raggiungerla, perché Royan gli mostrò la lingua come una ragazzina, e si mosse con maggiore circospezione. Nel momento in cui stava per toccare l'acqua con i piedi, diede il segnale d'interrompere la discesa e rimase sospesa a quindici metri da lui. «Che cos'hai scoperto?» le gridò Nicholas. «Avevi ragione tu! Sei straordinario!» «È artificiale? È un'iscrizione? Sei riuscita a leggerla?» «Sì, sì e sì a tutte e tre le domande.» Royan sorrise trionfante, e non aggiunse altro. «Non farmi arrabbiare. Dimmi tutto.» «Ancora una volta, l'ego di Taita ha avuto la meglio. Non ha saputo resistere alla tentazione di firmare la sua opera.» Lei rise. «Ci ha lasciato l'autografo. Il falco. Il falco con l'ala spezzata!» «Meraviglioso! Assolutamente meraviglioso!» esclamò Nicholas. «È la prova che Taita è stato qui, Nicky. Se ha scolpito quel cartiglio, deve averlo fatto stando su un'impalcatura. Avevamo indovinato. La nicchia alla quale sei aggrappato fa parte della scala che portava in fondo alla gola.» «Sì, Royan, ma perché?» gridò lui. «Perché Taita è venuto quaggiù? Non c'è niente che indichi un lavoro di scavo o di costruzione.» Si guardarono intorno. A parte le file delle nicchie, le pareti erano intatte, levigate e imperscrutabili fino al punto in cui sprofondavano nell'acqua scura. «Sotto le cascate?» gridò Royan. «C'è un'apertura nella roccia? Puoi arrivarci?» Nicholas si spinse lontano dalla parete e si avviò a nuoto verso la cascata scrosciante. Era arrivato a metà quando la corrente lo afferrò, e lo costrinse a impegnarsi con tutte le sue forze per poter avanzare. Mulinando le braccia e scalciando riuscì a raggiungere uno sperone di roccia resa viscida dalle alghe all'estremità più vicina della cascata. L'acqua gli si avventò sopra la testa, ma lui continuo a procedere lungo il Wilbur Smith
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gradino di roccia verso il cuore della cascata. Quando arrivò a metà del percorso, la corrente lo sopraffece, lo strappò via e lo scagliò di nuovo nel bacino sottostante, facendolo roteare su se stesso. Riaffiorò al centro della conca; fu costretto a nuotare con tutte le sue forze per liberarsi dalla stretta della corrente e raggiungere di nuovo l'acqua calma ai piedi della parete. Si aggrappò alla nicchia, ansando come un mantice. «Niente?» gridò lei, e Nicholas scosse la testa. Non riuscì a rispondere fino a che non ebbe ripreso fiato. «Nossignora, niente. Dietro le cascate c'è una muraglia di roccia compatta.» Ansimò di nuovo e chiese in tono sarcastico: «Ha qualche altra idea geniale, madame?» Lei tacque, e Nicholas fu lieto di quella pausa. Poi Royan chiamò di nuovo. «Fin dove scendono le nicchie?» «Come puoi vedere, fino a quella cui sto aggrappato.» «E sotto la superficie?» «Non dire sciocchezze.» Nicholas era infreddolito e irritato. «Come diavolo possono essere sotto il livello dell'acqua?» «Prova a controllare!» ribatté lei nello stesso tono. Nicholas scosse la testa in segno di commiserazione e respirò profondamente. Continuò a tenersi stretto alla nicchia e si allungò al massimo. Immerse la testa sotto la superficie scura mentre cercava tentoni con la punta dei piedi. All'improvviso riemerse, sbuffando e con un'espressione sbalordita. «Per Giove!» gridò. «Avevi ragione! Lì sotto c'è un'altra nicchia!» «Mi dispiace rinfacciartelo, ma te l'avevo detto, no?» Anche a quella distanza, Nicholas vedeva bene la sua espressione soddisfatta. «Che cosa sei? Una specie di strega?» Poi l'interruppe e alzò gli occhi al cielo, disperato. «Oh, no! So già che cosa mi chiederai adesso.» «Fin dove arrivano le nicchie?» gridò lei con voce flautata. «Sei disposto a tuffarti per me, caro Nicky?» «Ecco, lo sapevo! Dovrò parlare con il mio rappresentante sindacale. Mi tratti come uno schiavo. Da questo momento faccio sciopero.» «Ti prego, Nicky.» Nicholas cominciò a iper ventilare per caricare di ossigeno il sangue e aumentare al massimo la durata dell'immersione. Alla fine esalò completamente il contenuto dei polmoni, svuotandoli fino a che il torace non s'indolenzì per lo sforzo, poi aspirò di nuovo e riempì i polmoni di aria pura. Quindi si tuffò come un'anatra. Si lanciò a capofitto con le gambe Wilbur Smith
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fuori dell'acqua, e lasciò che il loro peso lo spingesse verso il fondo. Scivolò lungo la parete sommersa e cercò brancolando la nicchia sotto la superficie. La trovò e se ne servì per accelerare la discesa e spingersi ancora più in basso. Trovò la seconda nicchia e continuò a scendere. Erano distanti poco meno di due metri. Le usò come misura per calcolare con una certa precisione i suoi movimenti. Proseguì la discesa e trovò un'altra nicchia, quindi un'altra ancora. Quattro file di nicchie, quasi otto metri sotto la superficie. Le orecchie gli ronzavano e schioccavano, mentre la pressione gli espelleva l'acqua dalle trombe di Eustachio. Continuò fino a quando non trovò la quinta fila di nicchie. Ormai l'aria nei polmoni era compressa a metà del volume normale, e la sua galleggiabilità si riduceva: la discesa diventava più facile e rapida. Nicholas aveva gli occhi spalancati, ma sotto di lui l'acqua era scura e torbida. Riusciva a scorgere solo la superficie della parete. Vide apparire la sesta nicchia. Si aggrappò ed esitò. «Sono già a dodici metri e non c'è traccia del fondo», pensò. Un tempo, quando partecipava alla pesca subacquea con la squadra dell'esercito, riusciva a immergersi in apnea fino a venti metri e a restare a quella profondità per un minuto intero. Ma a quell'epoca era più giovane e in perfetta forma fisica. «Ancora una nicchia», promise a se stesso. «Poi risalirò.» Il petto incominciava a bruciargli per il bisogno d'ossigeno, ma Nicholas sfrecciò ugualmente verso il basso. Intravide la settima nicchia che appariva davanti a lui nel buio. «Arrivano sino al fondo», pensò meravigliato. «E come diavolo aveva fatto Taita? A quel tempo, non avevano certo l'equipaggiamento per le immersioni...» Si afferrò alla nicchia ed esitò per un momento, chiedendosi se doveva rischiare. Sapeva di essere quasi al suo limite fisico; provava un bisogno smanioso d'aria e il petto cominciava a essere scosso da convulsioni. «Ancora una, per il gusto di farlo.» Cominciava a sentirsi stordito, sopraffatto da una strana euforia. Riconobbe i segnali di pericolo e, nella semioscurità, vide che la sua pelle era raggrinzita sotto la pressione dell'acqua. C'erano due atmosfere che gli gravavano addosso e gli premevano sul petto. Il cervello aveva sete d'ossigeno; ma Nicholas si Wilbur Smith
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sentiva audace e invulnerabile. «Ancora una, se ho fortuna», pensò, ridacchiando come un ubriaco, e continuò. «Numero otto, il medico è qui sotto.» Sentì l'ottava nicchia sotto le dita. Ormai i suoi pensieri erano incoerenti. «Numero otto, adesso sono cotto.» Si girò per risalire e toccò il fondo con i piedi. «Sedici metri», calcolò nonostante la confusione. «Mi sono deciso troppo tardi. Devo risalire. Devo respirare.» Si puntellò per spingersi verso l'alto quando qualcosa gli afferrò le gambe e lo trascinò con forza contro la parete di roccia. «La piovra!» si disse, ricordando il verso della stele di Taita. «La sua vagina è una piovra che ha inghiottito un dio.» Tentò di scalciare, ma aveva le gambe legate come se le avessero avvinghiate i tentacoli di un mostro marino, un abbraccio insidioso e freddo che lo teneva prigioniero. «La piovra di Taita! Diavolo, la intendeva alla lettera. E mi ha catturato.» Era inchiodato alla parete, schiacciato e indifeso. Il terrore s'impadronì di lui, gli scorse nel sangue e scacciò le allucinazioni dal cervello privato dell'ossigeno. E fu allora che Nicholas comprese che cos'era accaduto. «Non è una piovra. È la pressione dell'acqua.» Aveva già vissuto un'esperienza simile. Durante un'esercitazione militare, mentre s'immergeva vicino alla presa delle turbine dei generatori di Loch Arran, un suo compagno di cordata era finito nel tremendo risucchio, trascinato contro la griglia e poi schiacciato con una tale violenza che le costole spezzate avevano perforato il petto ed erano fuoriuscite come pugnali dalla tuta nera di neoprene. Nicholas era sfuggito per pochissimo allo stesso destino. Il fatto di trovarsi a poco più d'un metro sul fianco del compagno gli aveva permesso di sfuggire alla furia dell'acqua aspirata dalle turbine. Tuttavia s'era fratturato una gamba e c'era voluta tutta la forza di altri due sommozzatori per strapparlo alla corrente. Adesso aveva esaurito l'aria e non c'erano compagni che lo aiutassero mentre veniva risucchiato in una stretta apertura nella roccia, l'imboccatura di un tunnel sommerso, un pozzo subacqueo che penetrava nella parete. La parte superiore del corpo era libera dall'influenza letale della corrente, ma le gambe vi venivano attirate in modo inesorabile. Si accorse che i contorni dell'apertura erano delineati nettamente: erano diritti e Wilbur Smith
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squadrati come un architrave realizzato da un muratore. Nicholas stava per essere trascinato oltre quella soglia. Allargò le braccia e resistette con tutte le sue forze, ma le dita contratte scivolarono sulla superficie levigata e viscida. «Ci siamo», pensò. «È l'unica botta che non puoi evitare.» Si agganciò con le dita e sentì le unghie spezzarsi contro la roccia. Poi si afferrò all'ultima nicchia, sopra quel buco nero che lo stava risucchiando. Finalmente aveva un punto d'ancoraggio. Si aggrappò, lottò, lottò con tutte le forze che gli rimanevano e con tutto il suo coraggio ma le une e l'altro stavano ormai per abbandonarlo. Si sforzò fino a quando non sentì schioccare i muscoli delle braccia, e i tendini del collo non spiccarono come corde d'acciaio. Ebbe la sensazione che qualcosa gli scoppiasse nella testa... ma perlomeno non perse terreno. «Ancora una volta», pensò. «Ancora un tentativo.» Sapeva che non sarebbe stato in grado di fare di più. Aveva consumato tutto l'ossigeno, il coraggio e la forza di volontà. La mente turbinava, macchie scure gli annebbiavano la vista. Attinse alle ultime riserve, e tirò fino a che il buio nella sua mente esplose in turbini di colori, stelle cadenti e girandole che lo abbagliavano, ma non desistette. Sentì le gambe che uscivano. La stretta dell'acqua s'indebolì. Tirò ancora una volta con una forza che non sapeva di possedere. E all'improvviso fu libero e sfrecciò verso la superficie. Ma era troppo tardi. La tenebra gli invadeva la mente, e nelle orecchie echeggiava un rombo simile a quello della cascata. Stava per annegare. Era completamente esausto. Non sapeva dove fosse, non sapeva quale distanza doveva superare per tornare a galla: sapeva soltanto che non ce l'avrebbe fatta. Era spacciato. Quando riemerse, non si accorse di averlo fatto; non aveva neppure la forza di sollevare la faccia dall'acqua per respirare. Rimase a galleggiare come una carcassa gonfia d'acqua, a faccia in giù, ormai perso nell'oblio della morte. Poi sentì le dita di Royan che gli afferravano i capelli, e l'aria fredda sul viso quando lei gli sollevò la testa. «Nicky!» gli urlò. «Respira, Nicky, respira!» Nicholas aprì la bocca, eruttò un getto d'acqua e saliva e aria, poi ansimò. Wilbur Smith
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«Sei ancora vivo. Oh, Dio sia ringraziato. Sei rimasto sott'acqua tanto tempo. Credevo che fossi annegato.» Mentre tossiva e riprendeva i sensi, lui si rese vagamente conto che Royan doveva essersi lasciata cadere dal sedile per correre in suo aiuto. «Sei stato in immersione così a lungo. Non riuscivo a crederlo.» Royan gli sosteneva la testa e con la mano libera stava aggrappata alla nicchia. «Ti riprenderai. Ti reggerò io. Stai tranquillo per un po'. Ti riprenderai.» Era sorprendente che la sua voce lo incoraggiasse tanto. L'aria aveva un sapore dolce e gradevole, e le forze ritornavano a poco a poco. «Dobbiamo riportarti su», disse lei. «Ancora qualche minuto, poi ti aiuterò a infilarti nel sedile.» Nuotò con lui fino al sedile penzolante e diede segnali agli uomini che stavano in cima al precipizio fino a che quelli non lo calarono in acqua, poi lo tenne aperto in modo che Nicholas potesse infilarsi con le gambe. «Tutto a posto, Nicky?» gli chiese ansiosamente. «Resta aggrappato sino alla fine della risalita.» Gli fece posare le mani sulle corde laterali dell'imbracatura. «Tieniti stretto.» «Non posso lasciarti quaggiù», balbettò lui, stordito. «Me la caverò», garantì Royan. «Basta che tu dica ad Aly di calare subito il sedile.» A metà della salita, Nicholas guardò in basso e vide la testa di Royan che ondeggiava sull'acqua scura. Sembrava così piccola e così sola. Il volto pallido aveva un'espressione indifesa. «Che fegato.» La sua voce era così debole e rauca che non la riconobbe. «Hai fegato, davvero.» Ma era già troppo in alto perché le sue parole arrivassero fino a lei. Quando ebbero ripescato anche Royan, Nicholas ordinò ad Aly di smontare l'incastellatura e di nascondere i pezzi in mezzo ai rovi. Dall'elicottero sarebbero stati ben visibili, e lui non voleva destare la curiosità di Jack Helm. Non essendo in condizione di dare una mano agli uomini, Nicholas si sdraiò all'ombra di un albero, mentre Royan lo assisteva. Solo in quei momento l'uomo comprese fino a che punto la sua avventura l'aveva fiaccato. Aveva un mal di testa accecante, causato dalla carenza d'ossigeno; il petto gli doleva e gli dava fitte acute ogni volta che respirava. E di certo si era procurato uno strappo o una distorsione. Wilbur Smith
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Tuttavia la cosa che lo colpiva di più era la pazienza di Royan. La donna non gli chiedeva che cosa avesse scoperto sul fondo del fiume e sembrava molto più interessata alle sue condizioni di salute che ai progressi dell'esplorazione. Quando lo aiutò a rimettersi in piedi per avviarsi verso il campo, Nicholas si mosse come un vecchio zoppicante e irrigidito. Tutti i muscoli e i tendini gli dolevano. Sapeva che sarebbe passato un po' di tempo prima che l'acido lattico accumulato nei tessuti venisse riassorbito. Non appena arrivarono, Royan lo accompagnò alla sua capanna, e lo fece sdraiare sotto la zanzariera. Nicholas ormai si sentiva molto meglio, ma si guardò bene dal dirlo. Era troppo piacevole avere una donna che si occupava premurosamente di lui. Royan gli portò due compresse di aspirina e una tazza di tè fumante molto zuccherato. Nicholas si divertì a recitare la parte del malato e si spinse fino a chiedere, con un filo di voce, una seconda tazza. Lei gli sedette accanto e lo guardò mentre beveva. «Va meglio?» gli chiese quando ebbe finito. «Scommetto due contro uno che sopravvivrò», disse lui, facendola sorridere. «Vedo che stai meglio. Hai ritrovato la solita sfacciataggine. Mi avevi fatto prendere uno spavento...» «Qualunque cosa, pur di attirare la tua attenzione.» «Be', visto che abbiamo deciso che resterai in vita, raccontami tutto. Come hai fatto a cacciarti nei guai, là sotto?» «In realtà t'interessa sapere che cosa ho trovato. È così?» «Sì, anche questo», ammise lei, e Nicholas riferì quello che aveva scoperto e descrisse come era stato afferrato dal flusso dell'inghiottitoio sommerso. Royan lo ascoltò senza interromperlo e poi rimase in silenzio per un po', aggrottando la fronte. Infine alzò la testa. «Vuoi dire che Taita era riuscito a scavare le nicchie nella pietra sino al fondo, sedici metri sotto la superficie?» Lui annuì e Royan tacque di nuovo. Poi disse: «E come può averlo fatto? Hai qualche idea?» «Può darsi che il livello dell'acqua fosse più basso, allora. In fondo parliamo di più di tremila anni fa... Forse ci fu un anno di siccità, il fiume si prosciugò e gli permise di arrivare fin li. Come me la cavo?» «Non male», ammise lei. «Ma allora, perché prendersi la briga di Wilbur Smith
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costruire un'impalcatura? Perché non usare come accesso il letto del fiume? Senza dubbio il posto che attirava Taita era il fiume. Se fosse stato in secca, sarebbe stato simile a mille altri punti in questa gola. No, ho l'impressione che la sua inaccessibilità fosse la ragione principale, se non addirittura l'unica, che lo spinse a eseguire il lavoro proprio lì.» «Sospetto che tu abbia ragione.» «Quindi, se il fiume scorreva, anche al livello minimo come adesso, come fece Taita a scolpire le nicchie sotto la superficie, e che senso avrebbe avuto costruire un'impalcatura sott'acqua?» «Questo non lo so», borbottò lui. «Be', lasciamo stare per il momento. Passiamo alla tua descrizione dell'inghiottitoio che per poco non ti ha risucchiato. Hai calcolato approssimativamente le dimensioni dell'apertura?» Nicholas scosse la testa. «Là sotto il buio è quasi totale. La visibilità è inferiore a un metro.» «L'entrata era in mezzo alle due file di nicchie?» «No, non direttamente», rispose lui, assorto. «Era un po' a lato. Ho toccato il fondo con i piedi e stavo per darmi una spinta per risalire quando il risucchio mi ha afferrato.» «Dunque deve essere quasi sul fondo, un po' più a valle dell'impalcatura. Hai detto che l'entrata sembrava avere una cimasa squadrata?» «Non ne sono sicuro. Vedevo ben poco, te l'ho detto. Comunque, ho avuto questa impressione.» «Potrebbe essere un'altra struttura artificiale. Forse una specie di pozzo aperto nella parete...» «Può darsi», ammise riluttante Nicholas. «D'altra parte, può essere una faglia naturale fra gli strati, dove penetra l'acqua del fiume.» Royan si alzò e lui chiese: «Dove vai?» «Non starò via molto. Vado nella mia capanna a prendere gli appunti e il materiale ricavato dalla stele. Torno subito.» Quando tornò, sedette per terra accanto al letto, con le gambe ripiegate in una posa molto femminile. Sparse le carte intorno a sé, e Nicholas sollevò il bordo della zanzariera per seguire meglio ciò che lei stava facendo. «Ieri, mentre eri occupato a costruire l'incastellatura, sono riuscita a decifrare quasi tutto il resto della faccia della stele dedicata alla primavera.» Spostò il quaderno in modo che lui potesse vedere le pagine. Wilbur Smith
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«Sono i miei appunti preliminari. Vedrai che ho inserito numerosi punti interrogativi. Qui e anche qui, per esempio: non sono certa della traduzione, specie nei punti in cui Taita ha usato un simbolo nuovo. Dovrò dedicar loro più tempo e attenzione.» «Ti seguo», disse Nicholas, e lei continuò. «I passi che ho evidenziato in verde sono citazioni tratte dalla versionetipo dei Libro dei morti. Guarda. L'universo è disegnato in cerchi, il disco del dio-sole Ra. La vita dell'uomo è un cerchio che incomincia nel grembo materno e termina nella tomba. Il cerchio della ruota del carro adombra la morte del serpente che schiaccia sotto il suo orlo.» «Sì, riconosco la citazione», disse lui. «Invece le parti del testo che ho evidenziato in giallo sono creazioni di Taita, o almeno non sono tratte dal Libro dei morti o da altre fonti di mia conoscenza. Qui, in particolare, c'è un passo che vorrei sottoporre alla tua attenzione.» Seguì il passo indicandolo con il dito mentre lo leggeva a voce alta. «La figlia della Dea ha concepito. E stata ingravidata da colui che non ha seme. Ha generato la propria sorella gemella. Il feto giace eternamente rannicchiato nel suo grembo. La gemella non nascerà mai, non vedrà mai la luce di Ra. Vivrà per sempre. Vivrà per sempre nella tenebra. Nel grembo della sorella lo sposo la richiede in matrimonio per l'eternità. La gemella non nata diviene la sposa del Dio che era un uomo. I loro destini sono intrecciati. Vivranno in eterno. Non periranno.» Alzò gli occhi dal quaderno. «La prima volta che l'ho letto, mi sono convinta che la figlia della dea fosse il Dandera, come avevamo già convenuto. Ero anche sicura che il dio che un tempo era un uomo doveva essere il faraone. Marnose fu deificato dopo essere asceso al trono dell'Egitto. Prima dunque era un uomo.» «L'uomo privo di seme è evidentemente lo stesso Taita. Allude spesso al fatto di essere eunuco», rifletté Nicholas. «Ma adesso, se hai qualche idea nuova sulla gemella misteriosa, sentiamola.» «La gemella del fiume dovrebbe essere con ogni probabilità un suo ramo o una sua biforcazione, no?» «Ah, capisco dove vuoi arrivare. Secondo te l'inghiottitoio è la gemella. Laggiù nella gola non vedrà mai la luce di Ra. Taita, l'uomo privo di seme, ne rivendica la paternità; quindi ci dice che l'architetto è lui.» «Esattamente, e ha sposato la gemella del fiume al faraone Marnose per Wilbur Smith
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l'eternità. Ho sommato tutto questo e sono pervenuta alla conclusione che non troveremo l'ubicazione della tomba di Marnose se non esploreremo l'inghiottitoio dove tu hai rischiato di annegare.» «E come pensi di farlo?» chiese Nicholas. Lei scrollò le spalle. «Non sono un ingegnere, Nicky. Questo compito lo lascio a te. Io so soltanto che Taita trovò il modo di riuscirci. Non solo giunse là sotto, ma ci lavorò anche. Se la nostra interpretazione della stele è esatta, dovette effettuare intensi lavori di scavo sul fondo del fiume. E se ci riuscì lui, non c'è motivo perché non possa fare lo stesso anche tu.» «Ah!» Nicholas esitò. «Taita era un genio. Lo dice e lo ripete. Io non sono altro che un vecchio secchione.» «Ho puntato tutto su di te, Nicky. Non mi deluderai, vero?» Non era necessario essere esperti della vita nella boscaglia per seguire quella traccia. La selvaggina non aveva preso molte precauzioni. Stava percorrendo la pista principale che scendeva la gola dell'Abay e puntava direttamente verso ovest e il confine sudanese. Mek Nimmur stava tornando alla roccaforte. Boris calcolava che avesse con sé fra i quindici e i venti uomini: era difficile esserne certo, perché le orme sul sentiero si sovrapponevano e di certo Mek aveva esploratori che lo precedevano e avanzavano sui lati. E dovevano esserci anche alcuni uomini di retroguardia. Procedevano ad andatura sostenuta, ma un gruppo così numeroso non poteva distanziare un inseguitore. Boris stava guadagnando terreno, ne era certo. Calcolava di essere partito con un ritardo di quattro ore, ma, a giudicare dalle tracce più recenti, ormai lo stacco s'era ridotto a meno di due. Senza interrompere il trotto, si chinò per raccogliere qualcosa e l'esaminò continuando a correre. Era un ramoscello, la punta tenera di una pianta kusagga-sagga, che cresceva accanto al sentiero. Uno degli uomini che inseguiva l'aveva urtato passando e l'aveva staccato dal ramo. Boris poté servirsene per valutare con notevole precisione il suo ritardo. Nonostante il caldo della gola, il germoglio non aveva ancora incominciato ad avvizzire. Quindi era ancora più vicino di quanto avesse stimato. Rallentò un po' e pensò alla mossa successiva. Conosceva piuttosto bene quella parte della valle. L'anno precedente vi era andato a caccia con un americano che voleva prendere come trofeo uno stambecco Walia. Wilbur Smith
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Avevano passato quasi un mese battendo gli stessi canaloni e gli stessi burroni boscosi prima di abbattere un vecchio maschio enorme, tutto nero per l'età e con un paio di corna ritorte che figuravano al decimo posto in ordine di grandezza nel Rowland Ward, il libro dei primati. Il russo sapeva che, cinque chilometri più avanti, il Nilo incominciava a piegare di nuovo verso sud e tornava su se stesso. La pista principale seguiva il fiume perché una serie di dirupi insuperabili bloccava l'accesso al terreno elevato al centro dell'ansa. Ma era possibile tagliare attraverso l'angolo: Boris l'aveva fatto mentre seguiva lo stambecco ferito. Il cacciatore americano non l'aveva ucciso al primo colpo. La pallottola aveva colpito il maschio troppo indietro, aveva mancato la cavità toracica e aveva trapassato gli intestini. L'animale si era rifugiato sul terreno più alto, seguendo uno dei suoi percorsi segreti fra le vette. Boris e l'americano l'avevano seguito oltre la montagna. Il russo ricordava bene quanto fosse infido e pericoloso quel percorso; eppure, quando l'avevano disceso sull'altro versante della montagna, s'erano risparmiati almeno una quindicina di chilometri. Se avesse ritrovato l'imboccatura di quella pista, avrebbe potuto precedere Mek Nimmur e tendergli un'imboscata. Per Boris sarebbe stato un vantaggio enorme. Il capo dei guerriglieri infatti non si aspettava né l'inseguimento né l'agguato. Se ne sarebbe andato per la sua strada, ritenendo assai improbabile che qualcuno potesse superare la retroguardia senza far scattare l'allarme. D'altra parte, nel caso in cui Boris fosse riuscito a precederli, avrebbe avuto in pugno la situazione e sarebbe stato in grado di scegliere il luogo dove agire. Quando il sentiero e il ramo principale del Nilo cominciarono a deviare verso sud, Boris continuò a scrutare il terreno sul lato più lontano dal fiume, alla ricerca di un punto di riferimento. Lo trovò dopo meno d'un chilometro. C'era una breccia nei dirupi scuri, una rientranza fittamente alberata che tagliava la parete di basalto. Si fermò e si asciugò il sudore sulla faccia e sul collo. «Troppa vodka», borbottò. «Ti stai rammollendo.» La camicia era fradicia al punto che gli pareva di essere caduto nel fiume. Si passò il fucile sull'altra spalla e guardò con il binocolo, scrutando le pareti del canalone boscoso. Sembravano scoscese e impervie, ma poi scorse la sagoma contorta di un alberello che cresceva in una spaccatura: somigliava a un bonsai giapponese, con il tronco deforme e i rami torturati. Wilbur Smith
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Quando l'americano aveva sparato, lo stambecco si trovava sul cornicione al di sopra dell'albero. Boris rivedeva ancora il modo in cui aveva inarcato il dorso nel momento in cui la pallottola l'aveva colpito. L'animale aveva quindi fatto un giro su se stesso e poi si era lanciato su per il dirupo. Il russo puntò il binocolo verso l'alto e riconobbe l'inclinazione della stretta cengia che saliva diagonalmente la parete. Quello era il posto che cercava. «Da, konecno!» esclamò soddisfatto. Pensava di nuovo nella sua madrelingua. Era un sollievo dopo gli ultimi giorni, durante i quali era stato costretto a esprimersi faticosamente in francese e in inglese. Prima di affrontare la salita, lasciò la pista e scese al fiume lungo il declivio costellato di massi. S'inginocchiò, immerse le mani, si spruzzò l'acqua sulla testa e si lavò via il sudore dalla faccia e dal collo. Vuotò e riempì la borraccia, quindi bevve fino a gonfiarsi la pancia. Vuotò ancora la borraccia, poi la riempì: sapeva che sulla montagna non c'era acqua. Tuffò nel fiume il cappello e lo rimise sulla testa, fradicio e grondante. Tornò alla pista, e la seguì per altri cento passi, muovendosi lentamente e studiando il terreno. A un certo punto incontrò un macigno che quasi bloccava il cammino. Gli uomini che lo precedevano erano stati costretti a scavalcarlo e a transitare su un tratto di polvere fine come talco che si trovava dall'altra parte. Avevano lasciato orme chiarissime. Quasi tutti portavano stivali da paracadutista di tipo israeliano, con le suole a zig-zag. Boris dovette inginocchiarsi per esaminare minuziosamente le orme, ma infine riuscì a distinguere quella di un piede più piccolo e delicato, d'un passo più leggero, inconfondibilmente femminile. Era cancellato in parte da altre impronte maschili più grandi, però i contorni erano nitidi. L'orma era quella di una scarpa da tennis Bata con la suola di gomma liscia. L'avrebbe riconosciuta fra mille altre. Era un sollievo scoprire che Tessay era ancora con il gruppo, che lei e l'amante non se n'erano andati per un altro sentiero. Mek Nimmur era furbo. Già una volta gli era sfuggito. Ma questa volta, pensò Boris scrollando la testa con veemenza, sarebbe finita diversamente. Concentrò l'attenzione sull'impronta femminile. Guardarla gli dava una fitta al cuore. La collera lo riassalì. Non pensava ai suoi sentimenti per la donna: l'amore e il desiderio non entravano nei calcoli di Boris. Tessay era una sua proprietà e gli era stata rubata. Tessay l'aveva rifiutato e umiliato, e perciò doveva morire. Wilbur Smith
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Un fremito gli scorse nel sangue a quel pensiero. Uccidere era sempre stato il suo mestiere e la sua vocazione; eppure, per quanto avesse esercitato spesso quell'«arte», l'emozione non si placava mai, il piacere non si offuscava. Forse era l'unico vero piacere che gli era rimasto, puro e incontaminato, e neppure la vodka poteva affievolirlo, come aveva invece affievolito il piacere dell'accoppiamento. Uccidere Tessay gli avrebbe dato una gioia più grande di quanto gliene avesse dato possederla. Negli ultimi anni, Boris aveva dato la caccia soltanto agli animali, ma non aveva dimenticato che cosa significava cacciare e uccidere un essere umano, soprattutto una donna. Voleva Mek Nimmur, ma soprattutto voleva Tessay. Ai tempi del presidente Menghistu, quando era a capo del controspionaggio, i suoi uomini conoscevano i suoi gusti e gli riservavano le donne più carine. Adesso aveva un unico rammarico: avrebbe dovuto agire in fretta. Non avrebbe potuto gustare lentamente il suo piacere. E sì che c'erano state donne per le quali c'erano volute ore, e a volte giorni interi... «Puttana», mormorò, e sferrò un calcio alla polvere per cancellare il contorno dell'orma, come se quel gesto potesse annientare la stessa Tessay. «Lurida puttana negra.» Riprese a correre con energia rinnovata, lasciò la pista e salì verso l'albero deforme e l'inizio del sentiero aperto dagli stambecchi. Lo trovò esattamente dove si aspettava e lo seguì. Diventava via via più ripido, e spesso Boris doveva usare entrambe le mani per issarsi su un gradiente o per passare attraverso una strettoia. La prima volta che si era trovato su quella montagna aveva seguito le tracce di sangue dello stambecco ferito, ma adesso non aveva più nulla che lo guidasse. Per due volte si allontanò dal sentiero e si ritrovò bloccato sul ciglio del dirupo: allora era costretto ad arretrare cautamente e a tornare sui suoi passi fino a quando non incontrava di nuovo la svolta giusta. Si rendeva conto che stava perdendo tempo: Mek Nimmur avrebbe potuto passare prima che lui avesse la possibilità d'intercettarlo. A un certo punto, mise in fuga un piccolo branco di capre selvatiche che stavano sdraiate su una cengia; gli animali spaventati si allontanarono a balzi sulle rocce, più simili a uccelli che a mammiferi vincolati dalle leggi della gravità. Erano guidate da un maschio enorme, con la barba fluente e le lunghe corna a spirale. E fu proprio quest'ultimo che, fuggendo, indicò a Wilbur Smith
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Boris un percorso diretto per raggiungere la cima. Il russo si spellò le dita per trascinarsi nell'ultimo tratto, ma finalmente raggiunse la cresta. Ebbe l'accortezza di strisciare subito oltre, senza neppure alzare il capo. Una forma umana profilata contro il cielo azzurro e limpido sarebbe stata visibile per chilometri e chilometri. Si mosse dietro la cresta fino a quando non trovò un gruppo di sansevierie che gli offrirono un riparo, e approfittò delle foglie lanceolate per mimetizzarsi. Poi alzò la testa per scrutare con il binocolo la valle, trecento metri più sotto. Visto da quell'altezza, il Nilo era un grosso serpente scintillante. La superficie era turbata da rapide e rocce. Il terreno elevato su entrambe le rive formava onde pietrificate di basalto, tumultuose e confuse come quelle di un mare in tempesta durante un tifone tropicale; tutto tremolava e pareva danzare nel calore. Il sole poi martellava con tale violenza su quel mondo di rocce rosse da prostrare, almeno in apparenza, ogni forma di vita. Sebbene l'aria tremolasse nelle lenti del binocolo, Boris individuò la pista lungo il fiume e la seguì nella valle fino al punto in cui la curva la nascondeva. Era deserta: non c'era traccia di presenze umane. Boris intuì che le sue prede erano passate oltre. Non poteva sapere fin dove si fossero spinte, ma capiva che doveva affrettarsi se voleva incrociarle sull'altro versante della montagna. Per la prima volta da quando aveva lasciato il fiume bevve qualche sorso dalla borraccia. Si era accorto che il caldo e la fatica l'avevano disidratato. In quelle condizioni, un uomo senz'acqua poteva morire in poche ore. Non era sorprendente che nella gola esistessero pochi abitati umani. L'acqua lo ristorò. Boris lasciò la cresta e si avviò per attraversare la sella della montagna. Era ampia circa un chilometro e mezzo: all'improvviso il russo sbucò dall'altra parte, alla sommità dei dirupi. Sarebbe bastato un altro passo incauto per farlo precipitare nel vuoto per oltre trecento metri. Riprese a muoversi lungo la cresta fino a quando non trovò un punto riparato dal quale osservare il terreno sottostante. Il fiume era sempre un'ampia distesa confusa di rapide candide che correvano verso di lui. La pista seguiva la riva più vicina, escluso il tratto in cui era costretta ad addentrarsi nell'interno dalle guglie di pietra che si ergevano dalle acque del Nilo. Boris non vedeva movimenti nella grande desolazione della gola, Wilbur Smith
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eccettuato il tumultuare delle acque e la danza incessante del miraggio. Sapeva che non era possibile che Mek Nimmur lo avesse preceduto; di certo quindi doveva ancora aggirare l'ansa del fiume. Bevve ancora e riposò per quasi mezz'ora. Adesso si sentiva forte e pieno d'energia. Si chiese se gli conveniva scendere immediatamente e preparare l'imboscata sulla pista, ma alla fine decise di restare in alto fino a quando non fossero comparse le due prede. Nell'attesa, controllò con cura il fucile per accertarsi che il mirino telescopico non fosse stato spostato da un urto; quindi vuotò il magazzino ed esaminò le cinque pallottole. Un bossolo era ammaccato e scolorito. Lo scartò e lo sostituì con un altro preso dalla cartucciera. Caricò e mise la sicura. Posò l'arma per togliersi i calzettoni fradici di sudore, li sostituì con un paio pulito e riannodò i lacci. Solo un novellino avrebbe rischiato di farsi venire le vesciche ai piedi in quelle condizioni; nel giro di poche ore si sarebbero infettate e avrebbero incominciato a suppurare. Bevve ancora, poi si alzò e si appese alla spalla il 30/06. Adesso si sentiva pronto a ricevere qualunque cosa la dea della caccia avesse mandato sulla sua strada. Si avviò lungo la cresta per intercettare il gruppo di guerriglieri. Scrutò la valle da tutti i punti sopraelevati lungo i dossi, ma non scorse mai traccia delle prede. Il pomeriggio passava in fretta. Boris cominciava a temere che Mek Nimmur fosse riuscito in qualche modo a precederlo: magari aveva attraversato il fiume a un guado segreto e si era avviato lungo un'altra pista attraverso una valle nascosta... In quel momento, nell'aria silenziosa, risuonò un grido querulo. Il russo alzò gli occhi. Due falchi volavano in cerchio sopra una macchia di cespugli spinosi sulla riva del fiume. Il falco dal becco giallo è uno degli spazzini più diffusi in Africa. Vive in stretta associazione simbiotica con l'uomo: si nutre di rifiuti e di avanzi, volteggia sopra i villaggi e gli accampamenti per buttarsi su qualche boccone, oppure attende con pazienza che l'uomo si acquatti fra i cespugli; poi si tuffa in picchiata non appena quello ha finito e si comporta come un ripulitore di fogne. Boris studiò con il binocolo i due uccelli che volavano pigramente, continuando a girare in cerchio su quel tratto di cespugli. Avevano un modo caratteristico di timonare con le lunghe code biforcute: le giravano Wilbur Smith
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da una parte all'altra, mentre parevano scherzare con la brezza. Quando i falchi voltavano la testa per scrutare qualcosa in mezzo alla vegetazione, i loro becchi gialli spiccavano contro il cielo. Il russo sorrise freddamente. «Nimmur si è accampato presto», si disse. «Forse il caldo e l'andatura sono troppo faticosi per la sua nuova donna, oppure si è fermato per divertirsi un po' con lei.» Proseguì lungo la cresta fino a che non riuscì a guardare direttamente nella macchia. La studiò a lungo, ma non scorse tracce di presenze umane. Dopo quasi due ore, cominciò a dubitare della sua deduzione. L'unica cosa che continuava a calamitare il suo interesse era la coppia di falchi che si erano posati sulla cima di un albero. Sicuramente stavano spiando gli uomini nascosti dagli arbusti. Guardò ansioso il sole che scendeva verso l'orizzonte e non irradiava più un caldo tanto furioso. Poi tornò a scrutare la valle. Direttamente sotto la macchia c'era una rientranza nel fiume che formava una lanca, quasi una piccola laguna. Quando il Nilo era in piena doveva essere inondata, ma adesso c'era una stretta fascia di spiaggia sassosa, sulla quale abbondavano i macigni, caduti dall'alto dei dirupi. Alcuni si erano arrestati sulla riva, altri erano rotolati nei fiume che li aveva sommersi per metà. Il più grande aveva le dimensioni di una casetta: era una grande massa rotonda di roccia scura. Mentre osservava la scena, un uomo uscì improvvisamente dai cespugli. Il cuore di Boris batté più forte quando lo vide salire su uno dei macigni più piccoli e poi saltare sulla ghiaia. L'uomo s'inginocchiò vicino all'acqua, riempì un secchio di tela, risalì e sparì di nuovo fra i cespugli. «Ah! Il caldo è troppo anche per loro. Devono bere, e si sono traditi. Se non ci fossero stati i falchi, non avrei capito che erano lì.» Boris ridacchiò, riluttante ad ammettere la stima che provava nei confronti del capo dei guerriglieri. «Nimmur è davvero prudente. Non è strano che sia sopravvissuto così a lungo. Tiene la situazione sotto controllo, ma ha bisogno d'acqua.» Continuò a scrutare con il binocolo e cercò di prevedere le mosse dell'avversario. «Ha perso parecchio tempo per ripararsi dal caldo. Si rimetterà in marcia appena sarà più fresco, e procederà di notte.» Guardò di nuovo il sole. «Fra tre ore sarà buio. Dovrò agire prima. Dopo l'imbrunire sarà difficile colpire i bersagli.» Indietreggiò dalla cresta prima di alzarsi e tornò sui suoi passi fino a Wilbur Smith
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quando un dosso non lo mise al riparo dagli occhi delle sentinelle di Mek Nimmur. Poi cominciò a scendere. Lì non c'erano sentieri aperti dalle capre, tuttavia, dopo un paio di false partenze, scoprì un tratto inclinato di strati geologici che gli offrirono un modo abbastanza facile per discendere. Quando arrivò sul fondo della gola, studiò con attenzione la posizione degli strati per poterli ritrovare in caso d'emergenza. Era un'ottima via di fuga, e Boris era consapevole che poteva averne bisogno. Aveva impiegato più di un'ora per scendere: il tempo volava. Raggiunse la pista che si snodava parallela al fiume, e s'incamminò verso il campo di Nimmur. Adesso aveva fretta, ma non dimenticava di prendere le necessarie precauzioni. Camminava sul ciglio della pista e posava i piedi solo sul suolo sassoso per evitare di lasciare segni del suo passaggio. Eppure, nonostante tutto, per poco non finì addosso a coloro che seguiva. Non aveva ancora percorso i primi duecento metri quando sentì il fischio sommesso e mesto di uno storno dalle ali chiare. Sulle prime, Boris non ci fece caso, ma poi nella sua mente risuonò un campanello d'allarme. Quel richiamo era venuto al momento sbagliato. Lo storno lo lanciava solo all'alba, quando lasciava il nido sui dirupi, e adesso era pomeriggio inoltrato. Boris intuì che doveva essere il segnale di uno degli esploratori che scendeva la pista e veniva verso di lui. Si stavano muovendo, e aveva rischiato di finire tra le loro braccia. Reagì fulmineamente. Lasciò la pista e tornò indietro correndo fino a quando non raggiunse l'inizio del percorso che aveva seguito per scendere. Risalì abbastanza in alto per poter sorvegliare la pista. Ma si rendeva conto di aver perso gran parte del vantaggio accumulato con l'attraversamento della montagna. Non era la posizione ideale per un'imboscata, e la sua via di fuga era esposta al fuoco nemico. Aveva bisogno di molta fortuna per arrivare fino alla cresta, ma l'idea di rinunciare alla vendetta non lo sfiorava neppure. Non appena i suoi bersagli fossero stati inquadrati nel mirino, avrebbe sparato, e l'avrebbe fatto dal punto in cui si trovava. Boris fu comunque costretto a riconoscere che Mek Nimmur l'aveva colto di sorpresa. Non aveva previsto che l'etiope si sarebbe mosso prima del tramonto; il russo aveva invece creduto di potersi piazzare in posizione sopra il campo, mettere a segno due colpi precisi e poi darsi alla fuga. Secondo i suoi calcoli, inoltre, dopo l'uccisione di Mek Nimmur, era improbabile che i suoi uomini si precipitassero a inseguirlo. Boris contava infatti di correre via, di fermarsi in ogni punto difendibile per sparare Wilbur Smith
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qualche colpo, abbattendo così un paio di guerriglieri, e continuare poi a seguirli con circospezione fino a che non avessero preferito lasciarlo andare. Adesso, però, tutto era cambiato. Avrebbe dovuto sfruttare la prima occasione che gli si fosse presentata, e quasi sicuramente avrebbe dovuto centrare un bersaglio in movimento; inoltre, subito dopo aver sparato, sarebbe rimasto allo scoperto sul pendio. Il suo unico vantaggio era il fucile da caccia, un'arma splendidamente precisa, mentre gli uomini di Nimmur avevano tutti gli AK47, fucili che sparano rapidamente, ma che, a una certa distanza, sono assai imprecisi. «Soprattutto nelle mani di quegli sciftà», pensò Boris. Con un addestramento adeguato, i combattenti africani potevano diventare tra i migliori soldati del mondo, perché possedevano tutte le qualità necessarie... tranne una. Erano pessimi tiratori. Boris si sdraiò sul cornicione. Sotto di lui, la roccia era così calda che l'uomo avvertì una sgradevole sensazione di bruciore persino attraverso gli indumenti. Si tolse lo zaino dalla schiena, lo posò davanti a sé e vi appoggiò il fucile. Guardò attraverso il telescopio, poi si assestò in una posizione più comoda. Quindi mirò a una piccola pietra sul bordo del sentiero e spostò la canna per assicurarsi di avere un arco di fuoco ben libero. Convinto che quella fosse la posizione migliore che poteva trovare nel poco tempo che gli restava, mise da parte il fucile. Raccolse una manciata di terriccio e se lo sfregò sulla faccia: il sudore lo trasformò in fanghiglia che ricoprì di un velo scuro la carnagione chiara e lucida, così da evitare che un esploratore la notasse da lontano. Infine controllò l'angolo del sole e si assicurò che non si riflettesse sulla lente del telescopio o sulle parti metalliche del fucile. Tese il braccio e spostò un ramo dell'arbusto più vicino in modo che gettasse un'ombra sull'arma. Finalmente si piazzò dietro il fucile, si appoggiò il calcio alla spalla e regolò il respiro in un ritmo lento e profondo per frenare il battito del cuore e rinsaldare le mani. Non dovette attendere a lungo. Sentì di nuovo il richiamo dello storno, questa volta molto più vicino. Subito risuonò la risposta dall'altro lato della pista, più vicino alla riva del fiume. «I fiancheggiatori avranno difficoltà a mantenere le posizioni su questo terreno.» Boris sogghignò sinistramente. «Continueranno a ritrovarsi insieme e poi a sgranarsi.» In quel momento, un uomo comparve alla curva della pista, a cinquecento metri da lui. Wilbur Smith
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Boris lo inquadrò nel mirino. Era un tipico guerrigliero africano, uno sciftà che indossava un miscuglio lacero e stinto d'indumenti mimetici e borghesi, ed era carico di zaino e borraccia, munizioni e bombe a mano. Portava un AK47. Si fermò non appena ebbe superato la curva e si acquattò al coperto dietro un macigno sul bordo della pista. Per più di un minuto scrutò il terreno, girando lentamente la testa da una parte all'altra. A un certo momento, sembrò che fissasse Boris, e questi trattenne il respiro, rimanendo immobile come le rocce. Alla fine lo sciftà si rialzò e fece un segnale con la mano a quelli che erano rimasti dietro di lui. Poi avanzò sulla pista al trotto. Aveva percorso una cinquantina di metri quando apparve il resto del gruppo, che si sgranò con la stessa precisione delle perle di una collana. Non sarebbe stato possibile prendere d'infilata quella linea, neppure con un RPD da una posizione studiata appositamente per quello scopo. «Bene», approvò Boris. «Sono truppe scelte. Deve averli selezionati con cura.» Li osservò attraverso la lente, esaminando la faccia di ogni uomo via via che compariva. Cercava Mek Nimmur. Erano sette, sparsi sulla pista, ma il capo non si vedeva ancora. L'uomo che procedeva in testa arrivò all'altezza della posizione di Boris, e la superò. Due fiancheggiatori passarono direttamente sotto di lui, muovendosi fra i cespugli a non più d'una dozzina di passi di distanza. Boris restò immobile come un masso e lasciò che proseguissero. Gli altri sfilarono oltre la sua posizione, distanziati: si muovevano in fretta. Per qualche minuto, dopo il passaggio dell'ultimo guerrigliero, la gola sembrò deserta, priva di presenze umane. Poi vi fu un altro movimento furtivo. «La retroguardia», borbottò Boris. «Mek ha messo la donna nella retroguardia. Il suo giocattolo nuovo. Ci tiene molto.» Tolse la sicura del fucile con un gesto cauto, in modo che l'arma non emettesse un suono metallico nell'aria surriscaldata. «Adesso vengano pure», mormorò. «Farò fuori Mek per primo. Niente di fantasioso, niente colpi di testa: una pallottola in pieno petto. Quando lo vedrà cadere, la donna resterà immobile. Non ha i riflessi del soldato, e mi darà il tempo di sparare con comodo una seconda volta. A questa distanza è impossibile sbagliare. Un colpo fra le belle tettine nere.» L'immagine del sangue e della morte violenta in contrasto con la bellezza di Tessay lo caricò sessualmente. «Potrei avere la possibilità di uccidere anche uno Wilbur Smith
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degli altri. Ma non ci conto. Sanno il fatto loro. Molto probabilmente si butteranno al coperto prima ancora che io abbia il tempo di uccidere la donna.» Studiò le facce degli uomini della retroguardia che apparivano distanziati, uno dopo l'altro. Ogni volta provava una fitta di disappunto. Alla fine tre gli passarono davanti al trotto. Ma non c'era traccia di Mek e della donna. La retroguardia sparì in fondo alla pista e i rumori si spensero nel silenzio. Boris rimase solo. Il cuore gli batteva forte e il sapore acre della delusione gli saliva alla gola. «Dove sono?» si chiese rabbiosamente. «Dove diavolo è Mek?» La risposta più ovvia gli si presentò subito alla mente. Avevano preso una pista diversa. Mek si era servito di quella pattuglia come di un'esca per attirarlo lontano. Rimase immobile per cinque minuti, nell'eventualità che arrivassero altri uomini. La sua mente era in tumulto. L'ultima volta che aveva avuto la certezza della posizione di Tessay era stato quando aveva visto la sua orma nel terreno, al di là dell'ansa del fiume. Erano trascorse diverse ore, e se lei e Mek lo avevano seminato, ormai potevano essere chissà dove. Era possibile che Mek si fosse assicurato un vantaggio di un giorno intero, forse più. Boris rischiava d'impiegare tutto quel tempo soltanto per ritrovare le tracce. La collera lo assalì a ondate. Serrò gli occhi nel tentativo di dominarla. Doveva conservare la razionalità, doveva pensare con chiarezza, anziché affrontare la situazione con la furia cieca di un bufalo ferito. Sapeva che era uno dei suoi punti deboli: doveva dominarsi. Riaprì gli occhi. La sua collera era diventata gelida e funzionale. Sapeva che cosa doveva fare, e in quale ordine. Anzitutto bisognava controllare a ritroso la pista, e scoprire il punto in cui Mek si era separato dal distaccamento più numeroso degli sciftà. Scese dal cornicione, passò fra i cespugli e raggiunse la pista. Si mosse rapidamente verso monte, verso il tratto di macchia spinosa dove i guerriglieri s'erano fermati nelle ore più calde. Notò subito che i falchi non erano più posati sull'albero. Se n'erano andati. Boris tuttavia non era del tutto convinto che la macchia fosse deserta; incominciò quindi a girarle intorno cautamente. In primo luogo batté la pista al di là della macchia, il tratto da cui gli sciftà erano arrivati. Le tracce erano vecchie di diverse ore, Wilbur Smith
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ma non era difficile interpretarle. Si fermò all'improvviso e sentì rizzarsi i capelli quando vide il segno nella polvere. Era caduto nella trappola di Mek. Davanti a lui c'era l'impronta riconoscibile di una scarpa da tennis Bata. Mek e la donna si erano addentrati nella macchia e non ne erano usciti. Erano ancora là. Boris fu assalito dalla sensazione che Mek lo spiasse in quel preciso momento e gli puntasse addosso l'AK47. E, finché restava così allo scoperto, chino sull'impronta, era completamente vulnerabile. Boris si lanciò lontano dalla pista e atterrò come un gatto in mezzo all'erba, con il fucile pronto a sparare. Ci vollero diversi minuti perché il suo cuore riprendesse a battere normalmente; poi si rialzò, furtivo, e cominciò a girare con estrema prudenza intorno alla macchia. I suoi nervi erano tesi come corde di violino, gli occhi chiari saettavano da una parte all'altra. Teneva l'indice sul grilletto e continuava a spostare lentamente la canna, come un cobra pronto a colpire in qualunque direzione. Scese verso la riva del fiume, dove il fragore delle rapide avrebbe mascherato il rumore dei suoi movimenti. Era quasi arrivato al riparo del macigno grande come una casetta che aveva notato dalla cresta della montagna, quando s'immobilizzò di nuovo. Aveva sentito un suono più forte del rombo del Nilo. Un suono così incongruo in quel luogo e in quel momento che Boris quasi dubitò delle proprie orecchie. Era una risata femminile, dolce e limpida come il tintinnare di un lampadario di cristallo che oscilla nel vento. Il suono era sotto di lui, sulla riva del fiume e al di là del masso. Boris avanzò lentamente, deciso a usare il macigno come copertura e come posizione per spiare la riva. Ma, prima che avesse la possibilità di raggiungerlo, sentì il tonfo di un oggetto pesante che piombava nel fiume e uno strilletto femminile, scherzoso e provocante. Boris raggiunse il masso e proseguì con cautela verso l'angolo da cui avrebbe potuto sorvegliare la spiaggia sassosa. Sbirciò e sbarrò gli occhi, incredulo. Gli sembrava uno spettacolo irreale: non poteva attribuire una simile stupidità a Mek Nimmur, un vero duro, un guerriero esperto sopravvissuto a vent'anni di guerra sanguinosa nella boscaglia... Eppure eccolo lì: si comportava come un adolescente innamorato. Mek Nimmur aveva mandato via i suoi uomini per restare solo a spassarsela con la nuova amante. Sembrava un'occasione troppo fortuita e Wilbur Smith
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provvidenziale per essere vera, e Boris volle essere certo che non si trattasse di una trappola. Batté ogni spanna della riva in entrambe le direzioni per snidare eventuali tiratori appostati, e alla fine sorrise freddamente. «E logico che siano soli. Mek non permetterebbe mai ai suoi uomini di vedere nuda Tessay.» Il sorriso si allargò quando Boris si rese conto del suo colpo di fortuna. «Dev'essere ammattito. Non immaginava che l'avrei seguito? Credeva di avere un vantaggio sufficiente per potersi fermare a divertirsi? C'è qualcosa al mondo di più stupido e miope di un arnese diritto?» Boris sogghignava beato. I due si erano spogliati e avevano lasciato gli indumenti ammucchiati sulla ghiaia grigia, all'ombra del grande masso, e adesso sguazzavano nell'acqua relativamente calma del fiume al margine della corrente. Erano nudi. Mek Nimmur aveva spalle ampie, schiena muscolosa e natiche compatte. Accanto a lui, Tessay appariva snella come un giunco, con la vita sottile e i fianchi stretti, la pelle del colore del miele selvatico. Erano completamente presi l'uno nell'altra, e non avevano occhi e orecchie per nient'altro al mondo. «Lui deve aver lasciato qualcuno dei suoi uomini a sorvegliare la pista», rifletté Boris, attribuendo a Mek almeno un po' di buon senso. «Non si aspettava che l'avrei preceduto, quindi si crede al sicuro. Ma guarda che idiota...» pensò ghignando, mentre Mek inseguiva la ragazza e lei si lasciava raggiungere. Caddero abbracciati nell'acqua bassa, riemersero baciandosi, risero con l'acqua che grondava dai volti. Erano la quintessenza della bellezza maschile e femminile, l'immagine di un Adamo e di un'Eva africani sorpresi per un momento nel loro piccolo paradiso spensierato. Boris staccò lo sguardo da loro e lo girò verso il punto in cui i due avevano abbandonato i loro indumenti. L'AK47 di Mek stava sopra la giubba mimetica, a pochi passi dal punto in cui si trovava Boris. Mek era concentrato completamente sulla donna, del tutto cieco a ciò che lo circondava. Boris attraversò la striscia di ghiaia in pochi passi. Raccolse 1'AK47, tolse il caricatore curvo e se lo mise in tasca; poi fece uscire la pallottola dalla camera di scoppio, facendola volare sulla spiaggia, e posò sulla giubba l'arma scarica. Quindi tornò al riparo del macigno. Mek e Tessay non si accorsero di nulla. Wilbur Smith
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Rimase all'ombra del masso a guardarli giocare nel fiume. Finalmente Tessay si liberò dall'abbraccio e uscì dall'acqua. Risalì la spiaggia correndo, con i seni bagnati che ondeggiavano a ogni passo, e si voltò a guardare Mek con un'espressione invitante. Lui la seguì. L'acqua gli scorreva sul vello fitto del petto, e i genitali erano potenti. La raggiunse prima che Tessay potesse riprendere i vestiti, e lei lottò scherzosamente fino a che non le cercò la bocca con la bocca, poi si abbandonò completamente. Mentre Mek la baciava, le passava le mani sulla schiena e sui glutei lucidi. Tessay si strinse a lui, spostò i piedi e allargò le cosce per invitarlo a esplorare i segreti del suo corpo. Gemette di desiderio quando lui le posò la mano sul sesso. Nell'animo di Boris, il furore si mescolò al perverso piacere di vedere la propria moglie posseduta da un altro. Un miscuglio infernale di emozioni eruppe dentro di lui. Sentì l'inguine irrigidirsi quasi dolorosamente per l'eccitazione, ma nel contempo la rabbia lo squassava come un ramo nella bufera. Gli amanti si lasciarono cadere in ginocchio, ancora abbracciati. Tessay si gettò riversa e si tirò addosso l'uomo. Boris gridò: «Per Dio, Mek Nimmur, non saprai mai quanto sei ridicolo con il sedere all'aria». Mek reagì con la prontezza di un leopardo. Con un movimento fulmineo si girò e tese la mano verso l'AK47. Sebbene Boris fosse pronto e lo tenesse sotto la mira del 30/06 puntato alla nuca, Mek fu così svelto che raccolse l'AK47 e lo puntò al ventre di Boris prima che il russo avesse il tempo di muoversi. Premette il grilletto nello stesso istante in cui alzò la canna. Il percussore ricadde con un clic sulla camera vuota e i due uomini si fissarono con le armi spianate. Tessay si era raggomitolata dove l'aveva lasciata Mek. I suoi occhi scuri erano colmi di sofferenza e di orrore mentre fissava il marito e si rendeva conto che Mek stava per morire. Boris rise, una risata sommessa, gutturale. «Dove vuoi che ti colpisca, Mek? Vuoi che ti faccia saltare la punta di quel lurido arnese nero che è ancora dritto in aria?» Mek Nimmur distolse lo sguardo da lui e lo diresse verso la montagna. Allora Boris comprese che la sua intuizione era esatta. Lo sciftà aveva piazzato lassù qualcuno dei suoi uomini, tenendoli però fuori di vista della spiaggia mentre il loro comandante se la spassava. «Non preoccuparti per loro. Sarete morti tutti e due molto prima che i Wilbur Smith
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vostri scimmioni possano venire a salvarvi.» Boris ridacchiò di nuovo. «Mi diverto moltissimo. Noi due avevamo già un appuntamento, però tu l'hai mancato. Non importa, sarà ancora più piacevole...» Sapeva che non era prudente indugiare con un uomo come quello. Mek aveva commesso un errore, tuttavia era molto improbabile che ne facesse un altro. Doveva fargli saltare subito le cervella; così avrebbe avuto a disposizione qualche altro minuto per occuparsi di Tessay. Ma la tentazione di godersi quei momenti era troppo forte. «Ho una bella notizia per te, Mek. Vivrai ancora qualche secondo. Prima ammazzerò quella puttana, e tu starai a guardare. Spero che ti divertirai quanto me.» Uscì dal riparo del masso, e si avvicinò lentamente a Tessay che stava rannicchiata sulla ghiaia. Era voltata quasi dall'altra parte, e cercava di coprirsi i seni e il pube con le mani troppo piccole e delicate. Mentre si avvicinava, Boris continuava a sorvegliare Mek. Era convinto che Mek fosse il vero pericolo, e non gli staccava gli occhi di dosso. Ma si sbagliava. Aveva sottovalutato Tessay. Mentre gli voltava le spalle, fingendo di provare vergogna, la donna aveva raccattato un sasso levigato dall'acqua e adesso lo stringeva nel pugno. All'improvviso si tese e concentrò tutte le sue forze sullo slancio da imprimere alla pietra. Boris notò il movimento con la coda dell'occhio e alzò il braccio per proteggersi la testa. Il sasso volò con forza sorprendente, e non arrivò al bersaglio, però colpì la punta del gomito di Boris. Le maniche erano rimboccate, e niente attutì l'impatto. Il braccio si piegò, la pelle si tese sull'osso della giuntura e la testa dell'ulna s'incrinò come un vetro. Boris ululò di dolore e aprì involontariamente la mano. L'indice si sfilò dal grilletto prima che il russo avesse la forza di sparare al ventre di Mek. Mek rotolò su se stesso, balzò in piedi e, prima che Boris potesse stringere il fucile nell'altra mano, sparì dietro il masso gigantesco. Con la mano sinistra, Boris avventò il calcio dell'AK47 contro la testa di Tessay, la fece cadere riversa sulla spiaggia e le puntò la canna alla gola, tenendola inchiodata a terra. «Ora l'ammazzo, bastardo negro», urlò rabbiosamente. «Se vuoi la tua puttana, vieni a prenderla!» Il dolore dell'osso fratturato rendeva roca e animalesca la sua voce. Dietro il macigno, la voce di Mek Nimmur risuonò alta e chiara. Gridò una parola in amharico che echeggiò lungo i dirupi. Poi parlò in inglese. «I Wilbur Smith
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miei uomini saranno qui fra un momento. Lascia la donna, e ti risparmierò. Ma se le farai male, ti ridurrò in uno stato tale che m'implorerai di farti morire.» Boris si chinò su Tessay e la sollevò stringendole la gola con il braccio illeso. Teneva il fucile con la stessa mano e lo puntava al di sopra della sua spalla. L'altra mano aveva recuperato la mobilità quanto bastava per tenere l'impugnatura e azionare il grilletto. «Sarà morta molto prima che arrivino i tuoi uomini!» gridò Boris, cominciando a trascinare Tessay lontano dal macigno. «Vieni a prenderla, Mek. Se la vuoi, è qui.» Le strinse più forte la gola, soffocandola fino a quando lei non boccheggiò e non si dibatté, graffiandogli il braccio e lasciando lunghi segni rossi sulla pelle abbronzata. «La senti? Le sto schiacciando il collo. Ascolta. Sta soffocando.» Boris rafforzò la stretta. Tessay prese a gemere e a rantolare. Il russo teneva d'occhio l'angolo del macigno dov'era sparito Mek, e intanto continuava a indietreggiare per avere più spazio. La sua mente turbinava. Sapeva che non avrebbe potuto fuggire. Aveva un braccio menomato, e i nemici erano troppo numerosi. Teneva in pugno la donna, ma voleva anche l'uomo. Era il massimo che poteva sperare. Tutti e due. Doveva averli tutti e due. Sentì un grido, una voce sconosciuta che giungeva dal pendio. Gli uomini di Mek stavano arrivando. Ormai era disperato. Mek non si sarebbe lasciato attirare nella trappola. Non l'aveva sentito parlare o muoversi da quasi due minuti. Poteva essere chissà dove. «Troppo tardi», pensò. «Non riuscirò a farlo fuori. Solo la donna. Ma devo farlo subito.» La gettò in ginocchio e si chinò su lei, spostando la presa alla gola. «Addio, Tessay», le gracchiò all'orecchio. Contrasse i muscoli del braccio e sentì le vertebre del collo inarcarsi fin quasi a spezzarsi. Ora doveva solo aumentare un poco la pressione. «Per te è finita», bisbigliò, e incominciò la pressione finale. Conosceva per esperienza il suono delle vertebre che si spezzavano, e si preparò ad ascoltarlo, a sentire lo schiocco simile alla rottura di un ramo verde, e il peso inerte del cadavere fra le sue braccia. Qualcosa gli urtò la schiena con una forza che sembrò scardinare la spina dorsale e schiacciare le costole. La violenza e la direzione del colpo Wilbur Smith
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erano inaspettate. Non gli sembrava possibile che Mek Nimmur si fosse spostato tanto, e tanto in fretta. Doveva aver lasciato il riparo del masso e fatto il giro in mezzo ai cespugli. E adesso gli era piombato alle spalle. L'attacco fu così rabbioso che il braccio stretto intorno al collo di Tessay si allentò: la donna trasse un respiro ansante e si svincolò. Boris cercò di voltarsi e sferrare un colpo con il fucile, ma Mek gli piombò di nuovo addosso. Lo aveva aggredito alla schiena, l'aveva costretto a lasciar libera la donna. Adesso gli bloccò il movimento e afferrò il fucile, cercando di strapparglielo dalle mani. L'indice di Boris era ancora sul grilletto. Il colpo partì mentre la canna era puntata verso la faccia di Mek. La detonazione lo stordì per un istante. Abbassò il fucile e indietreggiò barcollando, assordato. Boris arretrò, lottò con l'arma, cercò di ricaricarla; ma il braccio destro era menomato, i suoi movimenti goffi e lenti. Mek gli si lanciò contro a testa bassa; lo urtò con tutto il suo peso e il fucile volò via. Avvinghiati petto contro petto, i due girarono su se stessi in un valzer macabro; ognuno cercava di atterrare l'altro, di assicurarsi un vantaggio. Alla fine incespicarono, piombando a ritroso nel fiume. Quando riemersero era ancora avvinghiati: continuavano a rotolare uno sull'altro, in un'agghiacciante parodia della scena d'amore che Boris aveva visto pochi minuti prima. Lottarono nell'acqua poco profonda, scambiandosi pugni e calci. E ogni volta che ricadevano in acqua, la pendenza della riva li spingeva più lontano. Alla fine si ritrovarono immersi fino alla vita. La corrente centrale del Nilo li afferrò e li trascinò verso valle ancora avvinghiati. Le teste affioravano nel tumulto dell'acqua, le braccia mulinavano fra gli spruzzi candidi. Continuavano a scambiarsi grida e maledizioni, animati da una rabbia primordiale. Tessay sentì arrivare di corsa gli uomini che Mek aveva chiamato. Afferrò lo shamma, lo infilò e corse loro incontro. Quando il primo uscì sulla striscia di ghiaia con l'AK47 imbracciato, gli gridò in amharico: «Là! Mek è in acqua. Si sta battendo con il russo. Aiutatelo!» Poi corse con i guerriglieri lungo la riva. Quando arrivarono all'altezza dei due al centro del fiume, uno degli uomini si fermò e puntò l'AK47, ma Tessay lo raggiunse urlando e deviò la canna. «Sei pazzo?» gridò furiosa. «Colpirai Mek.» Poi la donna balzò su uno dei massi della riva e si schermò gli occhi per ripararli dal riflesso abbagliante del sole basso sul fiume. Allora vide che Wilbur Smith
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Boris era riuscito a portarsi dietro a Mek, gli stringeva la gola e gli spingeva la testa sott'acqua: l'etiope si dibatteva come un salmone preso all'amo. Poi entrambi vennero travolti in direzione di una rapida. Cercando di ignorare il senso di nausea che le saliva dalla bocca dello stomaco, Tessay saltò giù dal macigno e riprese a correre lungo la riva verso il punto dal quale avrebbe assistito, del tutto impotente, alla continuazione del mortale duello. Boris continuava a tenere immersa la testa di Mek mentre venivano trasportati insieme verso l'inizio della rapida ribollente. Le zanne di roccia nera a lato dei due uomini parevano scorrere ad altissima velocità. Mek era molto forte, e Boris doveva dar fondo a tutte le sue energie per bloccarlo, ma sapeva che non avrebbe potuto continuare per molto. All'improvviso, Mek s'impennò, riemerse con la testa e aspirò una boccata d'aria prima che Boris riuscisse a spingerlo di nuovo sott'acqua: ma sembrava che quell'unico respiro gli avesse restituito intatto il suo vigore. Disperato, Boris guardò la fine della rapida mentre la corrente li trascinava. Scorse una grande lastra nera dove le acque si riversavano in un'onda continua alta almeno un metro e deviò in quella direzione, scalciando e trascinando il corpo di Mek con le ultime forze che gli restavano. Volarono giù per il pendio verso la lastra che li attendeva come un mostro in agguato. Boris lottò con Mek e lo sospinse davanti a sé, nell'intento di mandarlo a urtare per primo contro la roccia, in modo che attutisse l'impatto. All'ultimo istante, Mek sollevò la testa dall'acqua e, mentre si riempiva d'aria i polmoni, scorse la roccia. Allora si rese conto del pericolo. Con uno sforzo violento si tuffò di nuovo, girando su se stesso. Il movimento fu così inatteso ed energico che Boris non fu in grado di opporsi. Mantenne istintivamente la presa al collo dell'avversario e fu trasportato in avanti, riverso, fino a che le posizioni non s'invertirono: Mek aveva messo Boris fra sé e la roccia. Quando andarono a sbattere, fu il russo a subire la violenza dell'urto. La spalla destra scricchiolò come una noce nelle ganasce d'uno schiaccianoci d'acciaio: la sofferenza atroce strappò a Boris un urlo disperato. I polmoni gli si riempirono d'acqua. Lasciò la presa e fu scagliato lontano da Mek. Quando riaffiorò, galleggiava come un insetto annegato, con il braccio destro fratturato in due punti, i polmoni che Wilbur Smith
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ansavano, e il braccio indenne che si agitava debolmente. Mek tornò a galla a pochi metri di distanza e si guardò intorno mentre si sforzava di respirare. Scorse quasi subito la testa di Boris e lo raggiunse in poche bracciate. Il russo era così stordito che non si accorse delle sue intenzioni fino a che Mek non gli afferrò il colletto della camicia e non lo attorcigliò come una garrotta, mentre con l'altra mano stringeva sott'acqua l'ampia cintura di cuoio e la usava come un timone per dirigere l'uomo verso il primo gruppo di rocce che faceva tumultuare l'acqua davanti a loro. Nonostante i polmoni pieni d'acqua, Boris non smetteva di gridargli contro. «Bastardo! Sporco negro! Lurido...» Ma la voce si udiva appena nel fragore delle acque contro lo sperone che si parava davanti a loro. Mek lo spinse con la testa in avanti contro la roccia, e sentì l'impatto ripercuotersi attraverso il cranio di Boris e trasmettersi ai muscoli del proprio avambraccio. Boris si afflosciò immediatamente, lasciò penzolare la testa e i suoi arti diventarono molli e abbandonati come alghe nella risacca. Mentre piombavano in un altro tratto di acqua libera, Mek sollevò la faccia dell'avversario. Per un momento inorridì nel vedere la lesione che gli aveva inflitto. La fronte di Boris era implosa. La pelle non era lacerata, ma c'era un'infossatura tanto profonda che Mek avrebbe potuto infilarvi il pollice. Gli occhi sporgevano dalle orbite come quelli di una bambola fracassata. Mek girò nell'acqua la carcassa inerte e guardò la testa fracassata dalla distanza di pochi centimetri; toccò il punto depresso del cranio con la punta delle dita e sentì le schegge d'osso cedere sotto l'epidermide. Poi spinse ancora una volta la testa sott'acqua e la tenne così, cercando nel contempo di spostarsi nella corrente in direzione della riva. Boris non opponeva resistenza, eppure Mek continuò a tenerlo con la testa sommersa per il resto della lunga nuotata. «Come si uccide un mostro?» pensò rabbiosamente. «Dovrei seppellirlo a un crocicchio con un paletto piantato nel cuore.» Invece lo annegò una cinquantina di volte, fino a che, alla prima ansa del fiume, non furono gettati a riva. I suoi uomini lo stavano aspettando. Lo sostennero quando le sue gambe si piegarono e lo aiutarono a risalire sulla spiaggia. Tuttavia, nel momento in cui si apprestarono a trascinare all'asciutto il cadavere di Boris, Mek li Wilbur Smith
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fermò con un ordine brusco. «Lasciatelo ai coccodrilli. Dopo ciò che ha fatto al nostro Paese e alla nostra gente, non merita di meglio.» Nonostante la rabbia e l'odio, però, non voleva che Tessay vedesse la testa sfigurata. Non era riuscita a reggere l'andatura degli uomini, ma adesso si stava avvicinando. Uno dei guerriglieri respinse nella corrente il corpo di Boris, imbracciò l'AK47 e sparò a raffica. Le pallottole agitarono la superficie intorno alla testa del morto, alcune gli penetrarono nella schiena, perforarono la camicia fradicia e strapparono brandelli di carne. Gli altri, dalla riva, risero e spararono a loro volta, vuotando i caricatori contro il corpo esanime. Mek non cercò di trattenerli. Alcuni dei loro parenti stretti avevano fatto una fine orribile per mano del russo. Il cadavere roteò su se stesso in una nube rosea di sangue e, per un momento, gli occhi chiari fissarono il cielo. Poi sprofondò. Mek si rialzò lentamente e andò incontro a Tessay. La prese fra le braccia, la strinse al petto e mormorò: «È tutto a posto. Non potrà più farti male. È finita. Ora sei la mia donna... per sempre!» Da quando Tessay e Boris avevano lasciato il campo non c'era più motivo di rispettare le misure di sicurezza. Nicholas e Royan non erano più obbligati a incontrarsi furtivamente nella capanna di lei per discutere della tomba. Nicholas trasferì il comando delle operazioni nella capanna che serviva come sala da pranzo, e fece costruire un altro ampio tavolo per poter esaminare le fotografie del satellite, le carte topografiche e il resto del materiale che avevano accumulato. Il cuoco continuava a mandare caffè dalla cucina mentre loro studiavano le carte, discutevano le scoperte fatte nella lanca di Taita ed esponevano tutte le teorie che venivano loro in mente, anche le più stravaganti. «Dobbiamo tornare con un equipaggiamento adatto... Altrimenti non avremo mai la certezza se il pozzo fu realizzato da Taita o se si tratta di un inghiottitoio naturale...» rifletté Nicholas. «Di che genere di equipaggiamento stai parlando?» chiese Royan. «Attrezzatura subacquea, ma senza autorespiratori a ossigeno ARO. Anche se quelli della marina sono più leggeri e compatti, non si possono usare oltre una profondità di dieci metri, che equivale a due atmosfere; poi l'ossigeno puro diventa letale. Hai mai usato un respiratore?» Wilbur Smith
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Lei annuì. «Quando ero in viaggio di nozze con Duraid in una località turistica del mar Rosso ho preso qualche lezione e ho fatto tre o quattro immersioni in acque aperte, ma devo precisare che non sono un'esperta.» «Prometto che non ti manderò là sotto.» Nicholas sorrise. «Ma credo di poter affermare con certezza che abbiamo trovato prove sufficienti nella tomba di Tanus e nella lanca di Taita per passare alla prossima fase dell'operazione.» Royan annuì di nuovo. «Dovremo tornare con un'attrezzatura più completa e con qualche collaboratore esperto. Ma la prossima volta non potrai spacciarti per turista. Che giustificazione avresti per tornare senza far suonare campanelli d'allarme nelle teste dei burocrati etiopi?» «Stai parlando a un tipaccio che ha fatto visita senza invito a due simpaticoni come Muhammar el-Gheddafi e Saddam Hussein. In confronto, l'Etiopia dovrebbe essere una specie di gita scolastica...» «Quando cominciano le grandi piogge sulle montagne?» chiese all'improvviso lei. «Già!» L'espressione di Nicholas si fece seria. «Ecco la domanda decisiva. Basta guardare il segno dell'acqua alta sulle pareti della lanca di Taita per farci un'idea di come deve essere quando il fiume è in piena.» Sfogliò le pagine dell'agenda tascabile. «Per fortuna ci resta ancora un po' di tempo, anche se non è molto. Dovremo muoverci con abilità. Bisogna tornare in patria, prima che io possa cominciare a fare i piani per la seconda fase.» «Allora è necessario preparare subito i bagagli.» «Sicuro. Ma è un peccato non approfittare di ogni momento, dopo tutta la strada che abbiamo fatto, non sei d'accordo? Credo che possiamo concederci ancora qualche giorno per valutare certe idee che mi sono venute sulla lanca di Taita e sull'inghiottitoio, cercando di pervenire a qualche conclusione su quello che ci servirà al nostro ritorno.» «Il capo sei tu.» «Parola mia, è piacevole sentir parlare così una signora.» Lei sorrise con aria soave. «Goditi questo momento», suggerì. «Forse non si ripeterà più.» Ridiventò seria. «Quali sarebbero le tue idee?» «Quello che sale deve scendere, quello che entra deve uscire», rispose enigmaticamente Nicholas. «L'acqua che entra nell'inghiottitoio con una pressione del genere deve finire da qualche parte. Se non si riversa in un sistema idrico sotterraneo e raggiunge così il corso del Nilo, allora deve Wilbur Smith
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arrivare in superficie, e noi potremo trovarla.» «Continua», lo invitò Royan. «Una cosa è certa. Nessuno può entrare nella galleria dell'inghiottitoio partendo dalla lanca. La pressione è letale. Ma se troviamo lo sbocco, forse potremo esplorarlo dalla direzione opposta.» «È una possibilità interessante.» Royan si chinò sulla fotografia del satellite. Nicholas aveva identificato il monastero e l'aveva circondato con un cerchio. Aveva poi indicato il corso approssimativo nel fiume attraverso l'abisso, anche se la gola era troppo stretta e troppo coperta dalla vegetazione per apparire in un'immagine su piccola scala, nonostante la potente lente d'ingrandimento. «Questo è il punto in cui il fiume si addentra nell'abisso.» Royan lo indicò. «E c'è la valle laterale dove devia la pista, giusto?» «Giusto.» Lui annuì. «Dove vuoi arrivare?» «Durante la marcia di avvicinamento, abbiamo osservato che forse un tempo questa valle poteva essere il corso originale del Dandera e che, a quanto pareva, il fiume si era scavato un nuovo letto attraverso l'abisso.» «E esatto», riconobbe Nicholas. «Ti seguo.» «In questo punto il terreno scende a precipizio verso il Nilo, non è così? Bene, ricordi che abbiamo passato un altro corso d'acqua, più piccolo ma pur sempre notevole, mentre scendevamo nella valle dal fondo asciutto? Sembrava che sgorgasse da qualche parte sul lato orientale della valle.» «Ah, adesso ho capito. Vuoi dire che potrebbe essere il riflusso dell'inghiottitoio. Sei furba come il diavolo.» «Mi limito a sfruttare il tuo genio.» Royan abbassò gli occhi con fare modesto. Stava scherzando, ma le ciglia erano lunghe, folte e ricurve; gli occhi poi avevano il colore del miele bruciato ed erano costellati di minuscole pagliuzze dorate. Osservandoli a quella distanza ridotta, Nicholas si sentì turbato. Si alzò. «Perché non andiamo a dare un'occhiata?» Andò a prendere la borsa della macchina fotografica e lo zaino leggero; quando tornò, trovò Royan pronta per mettersi in cammino. Ma non era sola. «Vedo che porti con te il damigello di compagnia», commentò lui, rassegnato. «A meno che tu non te la senta di cacciarlo via...» Royan sorrise a Tamre che le stava a fianco e dondolava la testa per la gioia di essere in Wilbur Smith
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presenza del suo idolo. «E va bene.» Nicholas si arrese senza combattere. «Può venire con noi.» Tamre li precedette saltellando sul sentiero, con lo shamma sporco che gli sventolava intorno alle gambe magre. Canticchiava il coro di un salmo in amharico e, a intervalli di pochi minuti, si voltava per vedere se Royan continuava a seguirlo. Era faticoso salire nella valle, e il caldo meridiano era massacrante. Anche se la temperatura non dava fastidio a Tamre, gli altri due erano sudati quando arrivarono nel punto in cui il corso d'acqua sboccava nella valle. Si rifugiarono all'ombra di un gruppo di acacie e, mentre riposavano, Nicholas scrutò con il binocolo il fianco della valle. «Come sta il binocolo dopo il bagno che gli ho fatto fare?» chiese Royan. «E impermeabile», borbottò lui. «Il signor Zeiss merita il massimo dei voti.» «Che cosa vedi lassù?» «Non molto. La vegetazione è troppo fitta. Sarà una faticaccia salire. Mi dispiace.» Lasciarono il riparo ombroso e proseguirono su per il fianco della valle sotto la luce bruciante del sole. Il corso d'acqua scendeva in una serie di cascate, ognuna con un laghetto ai piedi. Gli arbusti coronavano le rive, verdi e lussureggianti, e le radici riuscivano a protendersi fino all'acqua. Nugoli di farfalle gialle e nere danzavano sopra il laghetto, e una motacilla nera e bianca pattugliava le rocce ammantate di muschio lungo il bordo, agitando avanti e indietro la coda lunga come l'ago di un metronomo. A metà del pendio si fermarono a riposare in riva a un laghetto e Nicholas usò il cappello per schiacciare una cavalletta gialla e marrone. La gettò in acqua e, mentre quella scalciava fiaccamente verso lo sbocco, una lunga ombra scura sali dal fondo. Vi fu un guizzo, il lampo accecante di un ventre argenteo e squamoso, e la cavalletta sparì. «Sarà stato almeno quattro chili», si lamentò Nicholas. «Perché non ho portato la canna?» Tamre era accovacciato sulla riva accanto a lui. All'improvviso alzò la mano e la tese. Quasi subito una farfalla gli si posò sull'indice, agitando lentamente le ali vellutate. Nicholas e Royan lo guardarono sbalorditi: sembrava che l'insetto fosse accorso al suo richiamo. Con una risatina, Wilbur Smith
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Tamre lo porse a Royan e, quando lei tese la mano, glielo trasferì delicatamente sul palmo. «Grazie, Tamre. E un dono meraviglioso. Ora però dobbiamo renderle la libertà.» Sporse le labbra e soffiò adagio per far volare via la farfalla. La guardarono librarsi sopra il laghetto. Tamre batté le mani e rise, felice. «È strano», mormorò Nicholas. «Sembra che quel ragazzo abbia un rapporto privilegiato con gli animali selvatici. Ho l'impressione che l'abate Jali Hora non cerchi di tenerlo a freno e lo lasci fare. Un trattamento speciale per un'anima folle... o forse per un'anima che sente una musica diversa e danza a quella melodia. Devo ammettere che mi sto affezionando al ragazzo.» Si rimisero in marcia e, dopo essere saliti per una quindicina di metri, arrivarono alla sorgente. C'era una rupe bassa di arenaria rossa, e l'acqua sgorgava da una grotta ai suoi piedi. L'imboccatura era mascherata dalle felci: Nicholas s'inginocchiò per scostarle e guardare all'interno dell'apertura. «Che cosa vedi?» chiese Royan. «Non molto. È buio, ma sembra che continui per un bel tratto.» «Sei troppo grosso per passare. È meglio che lasci fare a me.» «E il posto ideale per i cobra acquatici», commentò lui. «Hanno un mucchio di rane da mangiare, lì dentro. Sei proprio sicura di voler andare?» «Non ho detto che muoio dalla voglia...» Royan sedette sulla riva, si slacciò le scarpe e rimboccò le gonne nelle mutandine come fanno le bambine in riva al mare. Aveva le gambe lunghe e snelle, e a Nicholas piaceva guardarle. «Nonna, ma che occhi grandi hai...» commentò lei, ma non sembrava dispiaciuta da tanta attenzione. Poi si calò nel corso d'acqua, che le arrivava a metà coscia; avanzò controcorrente con una certa difficoltà. Fu costretta a chinarsi per passare sotto la volta sporgente della grotta. La sua voce giunse a Nicholas mentre lei continuava a procedere. «La volta si abbassa.» «Sii prudente, cara ragazza. Non correre rischi.» «Vorrei che tu non mi chiamassi 'cara ragazza'.» La voce dall'imboccatura della grotta aveva un suono strano. «Be', sei una ragazza e sei cara. Vorresti che ti chiamassi 'giovane signora'?» Wilbur Smith
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«No, neppure questo. Il mio nome è Royan», fu la risposta. Poi, dopo un breve silenzio, la donna annunciò: «Non posso andare oltre. A questo punto si restringe in una specie di pozzo». «Un pozzo?» ripeté Nicholas. «Be', almeno un'apertura quasi rettangolare.» «Pensi che sia artificiale?» «È impossibile capirlo. L'acqua esce come dal rubinetto di un bagno. Un getto compatto.» «Non ci sono tracce di scavi, segni lasciati da utensili sulla roccia?» «Niente. È levigata dall'acqua e coperta da muschio e alghe.» «Un uomo ce la farebbe a entrare nell'apertura... Voglio dire, se non ci fosse la pressione dell'acqua?» «Sì, se fosse un pigmeo o un nano.» «Oppure un bambino?» suggerì Nicholas. «Oppure un bambino», ammise lei, «Ma chi manderebbe un bambino là dentro?» «Gli antichi si servivano spesso di bambini schiavi. Potrebbe averlo fatto anche Taita.» «Non parlarne neppure. Stai rovinando l'ottima opinione che ho di lui», disse Royan mentre usciva a ritroso dall'imboccatura della grotta. Aveva frammenti di felci e muschio nei capelli ed era fradicia fino alla vita. Nicholas le tese la mano e la issò sulla riva. Mentre lei strizzava l'acqua dalla gonna, i contorni delle mutandine e le curve dei glutei erano ben visibili attraverso la stoffa bagnata. Nicholas s'impose di non indugiare nella contemplazione dello spettacolo. «Quindi dobbiamo concludere che il pozzo è una spaccatura naturale nel calcare, e non un tunnel artificiale.» «Non correre. Ho detto solo che non ne ero sicura. Può darsi che tu abbia ragione e che per scavarlo venissero utilizzati schiavi bambini. Dopotutto era proprio quello che facevano nelle miniere di carbone durante la Rivoluzione industriale.» «Non potremmo esplorare il tunnel partendo da questa «Impossibile», reagì Royan con veemenza. «L'acqua fuoriesce con una pressione fortissima. Ho cercato d'infilare il braccio nel pozzo, ma non ci sono riuscita.» «E un vero peccato. Speravo in una prova più solida, o almeno in un altro indizio.» Nicholas sedette sulla riva accanto a lei e frugò nello zaino. Wilbur Smith
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Royan lo guardò con aria interrogativa quando lo vide estrarre un piccolo strumento nero anodizzato e sollevarne il coperchio. «È un barometro aneroide», disse lui. «Ogni esploratore dovrebbe averne uno.» Lo studiò per un momento, poi annotò la lettura. «Spiegati.» «Voglio sapere se la sorgente è al di sotto del livello dell'accesso all'inghiottitoio nella lanca di Taita. Se non lo è, possiamo cancellarla dall'elenco delle possibilità.» Si alzò. «Se sei pronta, possiamo proseguire.» «Dove andiamo?» «Alla lanca di Taita, naturalmente. Ho bisogno di effettuare una lettura anche là per accertare la differenza di altitudine fra i due punti.» Quando Tamre capì dove erano diretti, mostrò ai suoi compagni una scorciatoia. Impiegarono quindi meno di due ore dalla fonte alla sommità della parete rocciosa sopra la lanca di Taita. Mentre riposavano, Royan osservò: «A quanto pare, Tamre passa gran parte delle giornate a vagabondare nei boschi. Conosce tutti i sentieri e le piste della selvaggina. È un'ottima guida». «Se non altro è meglio di Boris», riconobbe Nicholas mentre prendeva lo strumento per effettuare un'altra lettura. «Mi sembri molto soddisfatto», disse Royan, lanciandogli un'occhiata. «E ne ho tutte le ragioni. Se calcoliamo sessanta metri come altezza del dirupo sotto di noi, più altri sedici come profondità della lanca, l'entrata dell'inghiottitoio è comunque almeno trenta metri più in alto dello sbocco della sorgente attraverso la grotta delle felci, dall'altra parte della montagna.» «E questo che significa?» «Significa che ci sono molte probabilità che si tratti dello stesso corso d'acqua. L'entrata è qui, nella lanca di Taita, e sfocia dalla tua grotta.» «Ma come è possibile che Taita abbia realizzato un'impresa del genere?» chiese lei. «Come ha fatto ad arrivare al fondo della lanca? Tu sei un genio dell'ingegneria: spiegami come faresti.» Nicholas alzò le spalle, ma lei insistette. «Insomma, deve esistere un metodo standard per fare cose del genere, per lavorare sott'acqua. Come si costruiscono i piloni di un ponte, o le fondamenta di una diga, oppure... oppure, come fece Taita a scavare il pozzo sotto il livello del Nilo per Wilbur Smith
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misurare il flusso dell'acqua. Ricordi la descrizione che nel Dio del fiume dà del suo idrografo?» «La tecnica consueta prevede la costruzione di una diga...» Nicholas s'interruppe e la fissò. «Accidenti, sei formidabile. Una diga! Ecco che cosa ha fatto quel bastardo di Taita! Ha costruito una diga attraverso il fiume.» «Sarebbe stato possibile?» «Comincio a credere che niente per Taita fosse impossibile. Aveva a disposizione manodopera illimitata e, se poteva costruire un idrografo sul Nilo, ad Assuan, conosceva molto bene i principi dell'idrodinamica. Dopotutto, la vita degli antichi egizi dipendeva in tutto e per tutto dalle inondazioni stagionali del fiume, e dallo sfruttamento delle piene. Se ripenso a ciò che abbiamo scoperto sul conto del vecchio volpone, mi sembra certamente possibile.» «Come potremmo provarlo?» «Scoprendo i ruderi della sua diga. Fu un lavoro non da poco bloccare il corso del Dandera, questo è certo. È abbastanza probabile che ne sia rimasto qualcosa.» «Dove avrebbe costruito la diga?» chiese Royan, animandosi. «O meglio, per esprimerci in modo diverso, tu dove l'avresti costruita, se avessi dovuto farlo?» «C'è un unico posto naturale», rispose prontamente Nicholas. «Nel punto in cui la pista lascia il fiume e devia nella valle, e il fiume precipita nell'abisso.» Voltarono la testa all'unisono e guardarono verso monte. «Che aspettiamo?» chiese lei, balzando in piedi. «Andiamo a vedere!» La loro emozione contagiò anche Tamre, che li precedette saltellando lungo la pista che passava fra la vegetazione spinosa e risaliva la valle fino al punto in cui si ricongiungeva al fiume. Il sole era meno caldo quando arrivarono ancora una volta sopra le cascate, là dove il Dandera precipitava nell'imboccatura dell'abisso e incominciava l'ultima tappa della corsa per buttarsi nel Nilo. «Se Taita avesse costruito una diga proprio là», disse Nicholas, tendendo il braccio per indicare l'inizio della gola, «avrebbe potuto deviare il fiume nella valle laterale.» «Mi sembra possibile.» Royan rise e anche Tamre ridacchiò. Non capiva una sola parola, ma si divertiva immensamente. «Avrei bisogno di un livello a cannocchiale per fare una fotografia della Wilbur Smith
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zona. Può essere ingannevole, ma a occhio nudo mi sembra possibile, come dici qui.» Nicholas si schermò gli occhi e guardò le alture ai lati della cascata: formavano due portali irregolari di calcare, e il fiume scorreva in mezzo a loro ruggendo e poi si gettava nel vuoto. «Mi piacerebbe salire lassù per avere un'idea più chiara della posizione del terreno. Te la senti?» «Prova a fermarmi», ribatté lei in tono di sfida e si avviò per prima. La salita era faticosa, e in certi punti il calcare era pericolosamente friabile. Tuttavia, quando uscirono alla sommità del portale orientale, furono ricompensati da una splendida panoramica del terreno sottostante. Direttamente a nord la scarpata si ergeva come una muraglia, con i bastioni merlati e dentellati. Più in alto e più lontano s'intravedevano altre montagne, i picchi della catena del Choke, azzurra come il piumaggio di un airone contro il celeste lontano del cielo. Tutto intorno c'era la desolazione della gola, un'immensa confusione di dossi, creste e guglie di roccia dalle mille sfumature diverse, alcune cineree e bianche, altre nere come la pelle di un bufalo, oppure rosse come il sangue del suo cuore. La vegetazione rivierasca aveva lo stesso color verde vivido di un mamba fra i rami di un albero, mentre, più lontano dall'acqua, diventava grigia e strinata; lungo le cime dei kopjes accidentati spiccavano le sagome spoglie di alberi colpiti dalla siccità, con i rami contorni e neri protesi verso l'alto. «È l'immagine della devastazione», mormorò Royan guardandosi intorno. «Un luogo indomito e indomabile. Non mi sorprende che Taita lo abbia scelto. Sembra fatto per respingere gli intrusi.» Rimasero in silenzio per un po', sopraffatti dalla grandiosità selvaggia della scena. Tuttavia, non appena si ripresero dalle fatiche della salita, l'entusiasmo ritornò. «Ora si vede chiaramente.» Nicholas indicò la valle sotto di loro. «C'è uno spartiacque alla biforcazione. Si scorge la posizione naturale del terreno. Là, da quel lato della gola a quel punto sotto di noi, c'è il punto più stretto. È una strozzatura dove s'infila il fiume, il posto ideale per costruire una diga.» Si voltò e indicò sulla sinistra. «Deviare il fiume nella valle non deve aver portato via troppo tempo. Poi, una volta terminati i lavori eseguiti da Taita nell'abisso, la diga fu abbattuta e il fiume ritornò nel solito letto.» Wilbur Smith
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Tamre li guardava, ansioso. Non capiva neppure una parola, però imitava come uno specchio le espressioni di Royan. Se lei annuiva, anche lui abbassava la testa; se lei aggrottava la fronte, lui s'incupiva; ma quando Royan sorrideva, allora anche Tamre ridacchiava felice. «Il fiume è grande.» Royan scosse la testa, e Tamre la imitò con aria saggia. «Che metodo potrebbe avere usato? Una diga di terra battuta? No, sicuramente.» «Gli egizi si servivano di canali e dighe di terra per i loro sistemi d'irrigazione», mormorò pensieroso Nicholas. «D'altra parte, quando avevano la roccia a portata di mano, la usavano ampiamente. Erano muratori esperti. Hai visto le cave di Assuan...» «Qui nella gola lo strato di terra è molto basso», osservò Royan. «Ma la roccia abbonda. Sembra un museo geologico: ci sono tutte le varietà che si possono desiderare.» «Appunto. Anziché un terrapieno, è probabile che Taita abbia usato roccia e mattoni. È un tipo di diga che gli egizi adottarono già molto tempo prima di lui. Se è così, è possibile che sia rimasta qualche traccia.» «Bene, lavoriamo su questa ipotesi. Taita costruì una diga di lastre di pietra, e più tardi la fece abbattere. Dove potremmo trovarne i resti?» «Bisognerebbe incominciare a cercare sul posto», rispose Nicholas. «Alla strozzatura della gola. Dovremmo partire di là e procedere verso valle.» Scesero di nuovo il pendio. Tamre sceglieva per Royan il percorso più facile, e si soffermava per chiamarla a cenni quando la vedeva esitare o indugiare per riprendere fiato. Arrivarono alla strozzatura della valle, e sostarono sulla riva rocciosa per guardarsi intorno. «Quanto sarà stato alto il muro?» chiese Royan. «Non molto. Anche in questo caso, non sarò in grado di darti una risposta precisa se non dopo aver calcolato i livelli.» Nicholas salì per un breve tratto sul fianco della parete, si accosciò e girò la testa avanti e indietro. Guardò prima l'intera lunghezza della valle, e poi nella direzione del ciglio della cascata che precipitava nell'imboccatura dell'abisso. Cambiò posizione tre volte, salendo di qualche passo. Il pendio divenne sempre più ripido, e alla fine Nicholas si ritrovò in una posizione precaria. Ma sembrava soddisfatto. Gridò: «Direi più o meno qui, dove sono adesso. Doveva essere l'altezza della diga. Cinque metri, direi». Wilbur Smith
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Royan era ancora sulla riva. Si voltò a guardare l'altra sponda, e stimò la distanza che la separava dalla parete di calcare che la sovrastava. «Centoventi metri di lunghezza», gli gridò di rimando. «Sì, più o meno», confermò lui. «Un lavoro imponente, ma non impossibile.» «Taita non era tipo da lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà.» Royan si fece portavoce con le mani per farsi sentire. «Dato che sei lassù, guarda se riesci a scorgere qualche segno. Taita certamente ancorò la diga alla parete...» Nicholas si spostò, mantenendosi allo stesso livello, fino a che non fu direttamente sopra le cascate e non poté proseguire. Allora si lasciò scivolare per raggiungere Royan e Tamre. «Niente?» chiese lei. Nicholas scosse la testa. «No, ma non si può pretendere che sia rimasto qualcosa dopo più di tremila anni. I dirupi sono stati esposti al vento e alle intemperie per secoli e secoli. Credo che la cosa migliore sia cercare qualche blocco che faceva parte della diga e che potrebbe essere stato trascinato via quando Taita la demolì per inondare di nuovo l'abisso.» Scesero lungo la valle, e Royan trovò una roccia che sembrava di tipo diverso da quelle circostanti. Chiamò Nicholas. La roccia aveva la grandezza di un tronco per baite. Sebbene fosse per metà coperta dalla vegetazione, la parte superiore aveva uno spigolo nettamente riconoscibile. «Guarda.» Lei vi batté sopra la mano. «Che ne pensi?» Nicholas scese a raggiungerla e passò le mani sulla superficie scoperta della lastra. «E possibile. Ma per esserne certi dovremmo trovare i segni dello scalpello, là dove gli antichi incominciarono a spezzarla. Lo sai: incidevano fori nella pietra, poi inserivano cunei fino a che non si spaccava.» Esaminarono attentamente la superficie scoperta, e anche se Royan trovò un'intaccatura e sentenziò che era un vecchissimo segno di scalpello, Nicholas ritenne che le probabilità in favore della tesi non superassero il quaranta per cento. «Il tempo passa», disse mentre la conduceva via. «E abbiamo parecchia strada da fare.» Cercarono nel fondovalle per un altro mezzo chilometro, poi Nicholas desistette. «È improbabile che una piena, per quanto potente, abbia Wilbur Smith
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trascinato i blocchi tanto lontano. Torniamo indietro a vedere se qualcosa fu sospinto oltre le cascate, nell'imboccatura dell'abisso.» Tornarono alla riva del Dandera e scesero fino alle cascate. Nicholas si sporse a guardare. «Qui è meno profondo che più avanti», calcolò. «Direi che sono meno di trenta metri.» «Credi di farcela a scendere laggiù?» chiese Royan in tono dubbioso. Gli spruzzi gli volavano in faccia e dovevano gridare per farsi sentire nel rombo delle acque. «Non c'è niente da fare senza una corda e diversi uomini robusti che mi tirino su.» Nicholas si fermò sul ciglio dello strapiombo e puntò il binocolo sulla conca: là sotto c'era un vero caos di rocce: piccoli massi rotondi alternati ad alcuni molto più grandi. Con un po' d'immaginazione, qualcuno poteva essere definito un parallelepipedo. Ma le superfici erano state levigate dall'acqua corrente, ed erano lucide e bagnate. Tutte le rocce erano parzialmente sommerse oppure oscurate dagli spruzzi. «Non credo che possiamo concludere qualcosa da questa distanza e, per essere sincero, non mi sorride l'idea di scendere laggiù, almeno questa sera.» Royan gli sedette accanto e si cinse le ginocchia con le braccia. Sembrava demoralizzata. «Dunque non possiamo essere sicuri di niente. Taita costruì la diga sul fiume oppure no?» Con molta naturalezza lui le passò un braccio intorno alle spalle per consolarla. Dopo un momento, Royan si rilassò e gli si appoggiò contro. Guardarono in silenzio l'abisso per qualche minuto. Poi lei si scostò e si alzò. «Dobbiamo avviarci per tornare al campo. Quanto ci vorrà?» «Almeno tre ore.» Anche Nicholas si alzò. «Hai ragione. Sarà buio prima che arriviamo, e stanotte non c'è luna.» «È strano come ci si sente stanchi dopo una delusione», disse lei e si stiracchiò. «Vorrei sdraiarmi e dormire qui, su uno dei blocchi di pietra di Taita.» S'interruppe per guardarlo. «Nicky, dove li ha presi?» «Dove ha preso che cosa?» chiese lui con aria perplessa. «Non capisci? Stiamo affrontando il problema dalla parte sbagliata. Abbiamo cercato di capire dove sono finiti i blocchi. Prima tu hai nominato le cave di Assuan... Invece di scervellarci per scoprire dove siano finiti i blocchi per la diga, non dovremmo chiederci anzitutto dove Wilbur Smith
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Taita li abbia trovati?» «La cava!» esclamò Nicholas. «Accidenti, hai ragione. L'inizio, non la fine. Dovremmo cercare la cava e non i resti della diga.» «Da dove cominciamo?» «Speravo che me lo dicessi tu.» Nicholas rise e subito Tamre lo imitò. Tutti e due guardarono il ragazzo. «Penso che dovremmo incominciare da Tamre, la nostra fedele guida.» Royan gli prese la mano. «Ascoltami, Tamre, ascolta con attenzione.» Lui chinò la testa, obbediente, e la fissò, cercando di concentrarsi. «Cerchiamo un posto da dove vengono le pietre squadrate.» Il ragazzo sembrava sconcertato, e lei ritentò. «Tanto tempo fa, c'erano uomini che staccavano le pietre dai monti. Qui nei dintorni hanno lasciato una grande buca. Forse ci sono ancora blocchi di pietra squadrata.» All'improvviso il viso del ragazzo s'illuminò di un sorriso beato. «La pietra di Gesù!» esclamò. Senza lasciarle la mano, balzò in piedi. «Ti mostrerò la mia pietra di Gesù.» E si trascinò dietro Royan mentre scendeva la valle a passo svelto. «Aspetta, Tamre!» gridò lei. «Non correre.» Ma fu inutile. Tamre non rallentò e, trottando, intonò un inno in amharico. Nicholas li seguì ad andatura più moderata, e li raggiunse dopo cinquecento metri. Tamre era in ginocchio e premeva la fronte contro la parete rocciosa. Teneva gli occhi chiusi e pregava. Aveva trascinato con sé Royan. «Che diavolo state facendo?» chiese Nicholas, avvicinandosi. «Preghiamo», rispose dignitosamente lei. «Istruzioni di Tamre. Dobbiamo pregare, prima di andare alla pietra di Gesù.» Gli volto le spalle, chiuse gli occhi e giunse le mani, poi cominciò a pregare a voce bassa. Nicholas sedette su un masso a poca distanza. «Male non ne farà», pensò per consolarsi, mentre si rassegnava ad aspettare. Poi Tamre si alzò di scatto ed eseguì una specie di danza turbinosa, agitando le braccia e girando su se stesso fino a sollevare un vortice di polvere. Poi si fermò e cantilenò: «E fatta. Possiamo raggiungere la pietra di Gesù». Afferrò di nuovo la mano di Royan e la condusse verso la parete di roccia. Nicholas li vide sparire tutti e due e si alzò, un po' allarmato. «Royan !» gridò. «Dove sei? Che cosa succede?» «Da questa parte, Nicky! Da questa parte!» Wilbur Smith
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Nicholas arrivò alla parete e si lasciò sfuggire un'esclamazione di stupore. «Parola mia, non l'avremmo trovato neppure se avessimo cercato per un anno.» La parete si ripiegava su se stessa, formando un andito nascosto. Nicholas varcò l'apertura, alzò gli occhi verso i fianchi a strapiombo e, dopo una trentina di passi, uscì in un anfiteatro scoperto che aveva un diametro di almeno cento metri. Le pareti erano di roccia massiccia, e al primo colpo d'occhio riconobbe lo schisto di mica identico a quello del blocco che Royan aveva trovato nel fondovalle. Era evidente che la conca era stata scavata nella roccia viva. I gradoni salivano fino alla sommità. I recessi da cui erano stati ricavati i blocchi erano ancora visibili e gli alti ripiani avevano profili angolati. Arbusti e cespugli avevano messo radici nelle crepe, ma la cava non era soffocata dalla vegetazione. Nicholas vide che era addirittura rimasta una quantità di blocchi di granito sparsi sul fondo della cava. La scoperta lasciò Nicholas senza parole. Rimase accanto all'entrata e girò lentamente la testa per cercare di osservare tutto. Tamre aveva condotto Royan al centro della cava dove c'era una grande lastra isolata. Era evidente che gli antichi erano stati sul punto di rimuoverla e di trasportarla nella valle, perché era rifinita in un parallelepipedo perfetto. «La pietra di Gesù!» cantilenò Tamre, e s'inginocchiò davanti alla lastra, trascinando con sé Royan. «È stato Gesù a guidarmi. La prima volta che sono venuto qui l'ho visto ritto sulla pietra. Aveva la barba lunga e bianca, e gli occhi miti e tristi.» Si segnò e cominciò a recitare un salmo, dondolandosi ritmicamente. Nicholas si avvicinò in silenzio. Era evidente che Tamre era venuto regolarmente a visitare quel luogo sacro. La pietra di Gesù era il suo altare privato: c'erano ancora le piccole, patetiche offerte che il ragazzo vi aveva, deposto. C'erano vecchie fiasche di tej e vasi d'argilla quasi tutti incrinati o rotti, che contenevano mazzi di fiori selvatici avvizziti da tempo. Poi c'erano altri tesori che Tamre aveva raccolto e posato sull'altare: gusci di tartaruga e aculei d'istrice, una croce di legno intagliata a mano e decorata con pezzetti di stoffa colorata, collanine di conterie portafortuna e statuette di mammiferi e uccelli modellati nell'argilla azzurra del fiume. Mentre guardava i due che pregavano inginocchiati davanti all'altare Wilbur Smith
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primitivo, Nicholas si sentì commosso dalla testimonianza della fede del ragazzo e dalla fiducia infantile che l'aveva indotto a condurli fin lì. Dopo un po', Royan si alzò e lo raggiunse. Insieme, cominciarono a fare il giro della cava. Parlavano poco e sottovoce, come se fossero in una cattedrale o in un luogo sacro. Lei gli toccò il braccio e indicò. Numerosi blocchi squadrati erano ancora in posizione nelle pareti. Non erano stati staccati completamente dalla roccia madre, come feti attaccati a un cordone ombelicale che gli antichi scalpellini non avevano reciso. Era un'illustrazione perfetta dei metodi di estrazione usati dagli antichi, con il lavoro in corso in tutte le diverse fasi: la tracciatura dei blocchi da parte del capo cantiere, la perforazione e l'inserimento delle file di cunei, fino al prodotto ultimato, staccato dalla parete e pronto per essere trasportato sul sito della diga. Il sole era tramontato. Era quasi buio quando tornarono all'entrata della cava. Sedettero su uno dei blocchi finiti, e Tamre si accoccolò ai loro piedi come un cucciolo e alzò gli occhi verso il viso di Royan. «Se avesse la coda, la dimenerebbe», commentò Nicholas con un sorriso. «Non possiamo tradire la sua fiducia e profanare questo posto. Ne ha fatto il suo tempio. Non credo che ci abbia mai portato anima viva. Mi prometti che lo rispetteremo sempre, qualunque cosa succeda?» «E il minimo che posso fare», dichiarò lui. Poi si rivolse a Tamre. «Hai fatto una cosa molto bella portandoci alla pietra di Gesù. Sono molto contento di te. Anche la signora è molto contenta.» «Ora dovremmo tornare al campo», propose Royan, alzando lo sguardo verso il cielo colorato di violaceo e d'indaco negli ultimi raggi del tramonto. «Non credo che sarebbe prudente», obiettò Nicholas. «Sarà una notte senza luna. Uno di noi potrebbe rompersi una gamba nell'oscurità ed è meglio evitarlo, da queste parti. Ci vorrebbe una settimana per far arrivare un medico.» «Hai intenzione di dormire qui?» chiese Royan. «Perché no? Ero nei boy scout e sono capace di accendere il fuoco in un batter d'occhio. Ho anche un pacco di razioni d'emergenza per cena, e tu hai il damigello di compagnia. Il tuo onore è salvo. Perché no?» «Già, perché no?» Lei rise. «Domattina presto potremo ispezionare la Wilbur Smith
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cava più attentamente.» Nicholas si alzò per cominciare a raccogliere legna da ardere, ma poi si fermò e guardò il cielo. Anche Royan sentì il sibilo ronzante nell'aria. «Di nuovo l'elicottero della Pegasus», sbottò lui. «Chissà che diavolo stanno facendo a quest'ora...» Scrutarono entrambi nell'oscurità e videro le luci di navigazione dell'apparecchio passare almeno trecento metri sopra di loro. Mentre puntava verso sud, in direzione del monastero l'elicottero continuava a lanciare una serie di lampi rossi, verdi e bianchi. Nicholas accese un fuocherello nell'angolo della cava più vicino all'entrata, poi divise in tre parti le razioni. Le trangugiarono, innaffiando le tavolette dolci e appiccicose con l'acqua della borraccia. Il fuoco gettava riflessi spettrali sulla parete della cava e ingigantiva le ombre. Quando una ghiandaia notturna lanciò il suo richiamo da una nicchia, quel suono strano e pieno di mistero fece rabbrividire Royan e la indusse ad avvicinarsi un poco di più a Nicholas. «Mi domando se Taita, nell'Aldilà, si rende conto dei nostri progressi. Ho l'impressione che sia un po' preoccupato. Abbiamo risolto la prima parte del suo enigma, e scommetto che non se l'aspettava», rifletté Nicholas. «La prossima mossa sarà scendere sul fondo della sua lanca. Quel vecchio diavolo ci resterà male», sorrise Royan. «Che cosa pensi di trovare?» «Esito a dirlo. Potrei attirare la sfortuna su di noi.» «Non sono superstizioso. Almeno non molto. Vuoi che sia io a dirlo?» propose Nicholas, e lei rise e annuì. «Speriamo di trovare l'entrata della tomba del faraone Marnose. Niente più allusioni, indovinelli e caccia alle farfalle. La vera tomba.» Royan incrociò le dita. «Dalle tue labbra all'orecchio di Dio!» esclamò. Poi ridivenne seria. «Che cosa pensi delle nostre possibilità? Di trovare intatta la tomba, voglio dire.» Lui alzò le spalle. «A questo risponderò quando saremo arrivati sul fondo della lanca.» «E come faremo? Hai già escluso di usare i respiratori.» «Non lo so... Forse riusciremo a entrare con gli scafandri. No, non lo so davvero», ammise lui. Royan rimase in silenzio e rifletté sull'apparente Wilbur Smith
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impossibilità di portare a termine il compito che li attendeva. «Coraggio!» Nicholas le passò un braccio intorno alle spalle e lei non cercò di liberarsi. «Pensa a questo, per consolarti. Se Taita ha reso l'impresa tanto difficile per noi, l'ha resa difficile anche per chiunque altro. Se la tomba è davvero laggiù, sono convinto che nessun altro saccheggiatore può averci preceduti.» «Se l'entrata è sul fondo della lanca, allora le descrizioni che ne fa nei papiri sono volutamente fuorviami. Le informazioni pervenute fino a noi sono state ingarbugliate prima da Taita, poi da Duraid e infine da Wilbur Smith. Ci troviamo di fronte al compito di trovare la strada in un labirinto d'inganni.» Tacquero per un po', quindi Royan sorrise nella luce del fuoco. «Oh, Nicky, è una sfida esaltante... Ma esiste un modo per arrivarci? È possibile entrare là dentro?» «Lo scopriremo.» «Quando?» «A suo tempo. Non ci ho ancora pensato bene. Ma sono certo che richiederà una pianificazione meticolosa e un duro lavoro.» «Allora non ti tiri indietro?» Royan voleva un impegno preciso. Sapeva che da sola non ce l'avrebbe mai fatta. «La prospettiva non ti spaventa?» Nicholas ridacchiò. «Ammetto di non aver previsto che Taita ci costringesse a una caccia tanto complicata. Immaginavo che avremmo sfondato un muro e avremmo trovato tutto quanto a nostra disposizione, come successe a Howard Carter quando entrò nella tomba di Tutankhamon. Per rispondere alla tua domanda... Sì, mi spaventa la prospettiva ma, diavolo, ormai niente può fermarmi. Sento l'odore della gloria e vedo il brillio dell'oro.» Mentre parlavano, Tamre si raggomitolò al di là del fuoco e si tirò lo shamma sulla testa. Il suo riposo doveva essere interrotto da sogni e fantasie, perché gorgogliava, squittiva e ridacchiava senza aprire gli occhi. «Chissà che cosa gli passa per la testa, e quali visioni ha», mormorò Royan. «Dice di aver visto Gesù nella cava, e sono sicura che ne è convinto.» Le loro voci si smorzarono mentre il fuoco si consumava. Poco prima di addormentarsi contro la spalla di Nicholas, Royan mormorò: «Se la tomba del faraone Marnose si trova sotto il livello del fiume, l'acqua ne avrà danneggiato il contenuto». Wilbur Smith
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«Non posso credere che Taita avrebbe costruito una diga e impiegato quindici anni di lavoro, come afferma nei papiri, solo per allagare la tomba e rovinare la mummia del re e i suoi tesori», bisbigliò Nicholas mentre i capelli di Royan gli solleticavano la guancia. «No, in questo caso il faraone non sarebbe risorto nell'altro mondo, e tutto il lavoro di Taita sarebbe stato inutile. No, credo che il nostro amico abbia tenuto conto di tutto.» Royan si accostò ancora di più e sospirò, soddisfatta. Poco più tardi lui mormorò: «Buonanotte, Royan». Ma lei non rispose: il suo respiro era profondo e regolare. Con un sorriso, Nicholas le baciò delicatamente la fronte. Nicholas non sapeva con certezza che cosa l'avesse svegliato. Impiegò qualche istante per orientarsi, e ricordò che era ancora nella cava. Non c'era la luna, eppure le stelle parevano vicine, grandi come grappoli d'uva matura. In quella luce, vide che Royan era scivolata e giaceva per terra accanto a lui. Si alzò con cautela per non disturbarla e si allontanò dal fuoco spento per svuotarsi la vescica. La notte era silenziosa. Nessun uccello notturno lanciava i suoi richiami, e non si sentivano i movimenti di altri animali. Le rocce circostanti irradiavano ancora il calore del giorno precedente. All'improvviso il suono che l'aveva svegliato si ripeté. Era un sussurro fioco e distante che echeggiava lungo i dirupi: impossibile capire da quale direzione provenisse. Ma era ben riconoscibile. Nicholas l'aveva sentito molto spesso: era il suono lontano di un'arma automatica, quasi sicuramente un AK47 che non sparava a raffica, bensì a brevi serie di tre colpi, un'arte che richiedeva esperienza e pratica. Chi sparava era un professionista. Girò il polso per vedere il quadrante fluorescente dell'orologio nella luce delle stelle. Erano passate da poco le tre del mattino. Rimase a lungo in ascolto, ma gli spari non si ripeterono. Allora tornò da Royan e le si sdraiò accanto. Riuscì a dormire solo a intermittenza, e continuò a svegliarsi trasalendo e a restare in ascolto per sentire se qualcuno sparava ancora. Royan si svegliò quando le prime luci color limone e arancio rischiararono il cielo a oriente; mentre mangiavano le razioni d'emergenza avanzate dalla sera prima, Nicholas le parlò della sparatoria che lo aveva svegliato durante la notte. Wilbur Smith
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«Pensi che fosse Boris?» chiese lei, «Può aver raggiunto Mek e Tessay?» «Ne dubito. Boris se n'è andato ormai da diversi giorni, e dovrebbe essere impossibile sentirlo, anche se sparasse con armi pesanti.» «E allora, chi credi che fosse?» «Non ne ho idea. Ma non mi piace. Dovremo tornare al campo subito dopo aver dato un'altra occhiata alla cava. Poi non potremo far altro, in questa fase, quindi sarà meglio che torniamo a casa dalla mamma.» Appena la luce fu abbastanza forte, Nicholas usò un intero rullino per fotografare la cava. Per dare un'idea della scala, Royan posò accanto alla parete dove erano ancora fissati i blocchi. Il ruolo di modella la divertiva, e cominciò a scherzare. Sali sulla lastra più grande, e sporse le labbra in un broncio, con una mano dietro la testa e l'altra che sollevava la gonna un paio di centimetri sopra il ginocchio, nello stile di Marilyn Monroe. Quando finalmente si misero in marcia verso il monastero erano entrambi euforici; il successo li aveva resi loquaci, discutevano animatamente, si scambiavano idee e facevano piani per sfruttare quelle scoperte prodigiose. Quando raggiunsero i dirupi rosati all'estremità inferiore dell'abisso era mattina inoltrata. Videro un gruppetto di monaci che salivano la pista e, anche da lontano, non fu difficile intuire che durante la loro assenza doveva esser accaduto qualcosa di spaventoso. Gli ululati angosciosi dei monaci fecero scorrere brividi lungo la spina dorsale di Royan. Era il suono di lutto comune a tutta l'Africa, un annuncio di morte e di disastri. Quando si avvicinarono, videro che i monaci raccoglievano dalla pista manciate di polvere e se ne cospargevano la testa senza smettere di gemere e lamentarsi. «Che cos'è successo, Tamre?» chiese Royan al ragazzo. «Vai a sentire!» Tamre corse incontro ai confratelli che si fermarono sul sentiero e cominciarono a discutere con voci acute, piangendo e gesticolando. Poi il giovane tornò indietro di corsa. «I vostri, al campo. È successo qualcosa di terribile. Uomini malvagi sono venuti di notte e molti servitori sono morti», gridò. Nicholas afferrò la mano di Royan. «Vieni!» le ordinò. «Andiamo a vedere che cos'è successo.» Corsero per l'ultimo chilometro e mezzo, arrivarono al campo e Wilbur Smith
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trovarono un altro gruppo di monaci raccolti davanti alla cucina. Nicholas li spinse da parte, si fermò a guardare con una stretta allo stomaco. Il sudore della corsa gli si agghiacciò sul viso. Sotto una coltre ronzante di mosche giacevano i cadaveri insanguinati del cuoco e di altri tre servitori. Avevano le mani legate dietro la schiena. Li avevano costretti a inginocchiarsi e li avevano uccisi con un colpo alla nuca. «Non guardare!» raccomandò Nicholas a Royan quando lei si avvicinò. «Non è uno spettacolo piacevole.» Ma lei lo ignorò e si fermò al suo fianco. «Oh, santo cielo. Li hanno massacrati come bestie da macello», mormorò, sconvolta. «Questo spiega gli spari che ho sentito questa notte», rifletté cupamente Nicholas. Si avvicinò per identificare i cadaveri. «Aly e Kif non sono qui. Dove sono?» Alzò la voce e si girò, per chiamare in arabo: «Aly! Dove sei?» Il cercatore di tracce si fece avanti. «Sono qui, effendi.» La voce tremava, la faccia era stravolta. Aveva la camicia macchiata di sangue. «Com'è successo?» Nicholas gli afferrò il braccio e lo sostenne. «Uomini armati di fucile. Sciftà. Hanno sparato nelle capanne dove dormivamo. Non ci hanno dato un preavviso. Sono arrivati e hanno cominciato a sparare.» «Quanti? Chi erano?» chiese Nicholas. «Non so quanti erano. Era buio e dormivo. Sono scappato quando hanno cominciato a sparare. Erano sciftà, banditi, assassini, iene e sciacalli. Non c'era una ragione per fare quello che hanno fatto. Questi uomini erano i miei fratelli, i miei amici.» Aly cominciò a singhiozzare, e le lacrime gli rigarono il viso. Royan voltò le spalle alla scena, turbata e inorridita. Andò verso la sua capanna e si fermò sulla soglia. La capanna era stata messa sottosopra: le borse giacevano sul pavimento, vuote, le lenzuola erano state tolte, e il materasso era buttato in un angolo. Come una sonnambula in preda a un incubo, andò a raccogliere la cartelletta di tela dove teneva le sue carte. La rovesciò, la scosse. Era vuota. Le fotografie del satellite e le mappe, i ricalchi della stele, le polaroid che Nicholas aveva scattato nella tomba di Tanus, tutto era sparito. Wilbur Smith
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Raddrizzò il letto, sedette e cercò di riordinare i suoi pensieri. Era scossa e confusa, ossessionata dall'immagine dei cadaveri insanguinati e straziati dai proiettili. Era difficile concentrarsi e pensare chiaramente. Nicholas piombò nella capanna e si guardò intorno. «Hanno fatto lo stesso anche da me. Hanno perquisito tutto. Il mio fucile è sparito, e tutte le mie carte. Grazie a Dio, avevo messo i passaporti e i travellers' cheque nello zaino...» S'interruppe quando vide la cartella vuota sul pavimento. «Hanno preso i...?» «Sì!» Lei anticipò la domanda. «Hanno portato via tutto il nostro materiale di ricerca, anche le polaroid... Proprio com'è successo a Duraid e a me. Grazie a Dio, avevi portato con te i rullini non ancora sviluppati... Non siamo al sicuro neppure qui, in questa parte remota della boscaglia.» Nella voce di Royan c'era una sfumatura isterica. Si alzò di scatto e corse verso di lui. «Oh, Nicky, che cosa sarebbe successo se stanotte fossimo stati al campo?» Lo abbracciò, si aggrappò a lui. «Adesso saremmo là fuori ai sole, coperti di sangue e di mosche.» «Coraggio, mia cara. Non saltiamo alle conclusioni. Potrebbe essere stata un'aggressione dei banditi.» «Allora perché hanno rubato le nostre carte? Che valore attribuirebbe uno sciftà a ricalchi e fotografie? Dov'era diretto l'elicottero della Pegasus che abbiamo visto ieri? Cercavano, Nicky, Nicky, lo sento. Volevano ucciderci come hanno ucciso Duraid. Potrebbero tornare in qualunque momento, e noi siamo disarmati e indifesi.» «D'accordo: ammetto che qui siamo vulnerabili. Sarebbe più prudente andarsene in fretta. Non avrebbe senso restare, comunque. Non possiamo far altro per il momento.» La strinse, poi la scosse dolcemente. «Su, forza! Recupereremo quel che possiamo, e torneremo subito al Land Cruiser.» «E i morti?» Royan indietreggiò, dominò le lacrime con uno sforzo. «Quanti dei nostri sono sopravvissuti?» «Aly, Salin e Kif si sono salvati. Sono fuggiti dalle capanne non appena è cominciata la sparatoria. Ho detto loro di prepararsi per partire immediatamente. Ho parlato con uno dei preti. Provvederanno a seppellire i morti e faranno denuncia alle autorità al più presto possibile. Ma anche loro sono convinti che l'attacco fosse diretto contro di noi, che siamo ancora in pericolo e che dobbiamo partire subito.» Dopo meno di un'ora erano pronti. Nicholas aveva deciso di affidare alla Wilbur Smith
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custodia di Jali Hora l'attrezzatura da campeggio e gli effetti personali di Boris, quindi i muli portavano carichi leggeri. Contava di uscire dalla gola con una marcia forzata. L'abate aveva fornito una scorta di monaci che li avrebbero accompagnati fino alla sommità della scarpata. «Solo un senza Dio avrebbe il coraggio di attaccarvi mentre siete sotto la protezione della croce», spiegò. Nicholas trovò la pelle e la testa del dik-dik striato nella capanna della scuoiatura. Ne fece un fagotto e lo legò sul dorso d'uno dei muli, e infine diede l'ordine di partenza della carovana. Tamre si era infiltrato nel gruppo di monaci che li scortavano, e continuava a tenersi vicino a Royan mentre si avviavano per il sentiero, seguiti dai lamenti e dagli addii della comunità religiosa. Il caldo era brutale. Non c'era neppure un filo d'aria che portasse un po' di sollievo e le pareti di pietra della valle risucchiavano il calore del sole terribile e lo risputavano addosso alla carovana, impegnata ad affrontare i ripidi gradienti. Il sudore si asciugava non appena usciva dai pori e lasciava chiazze di bianchi cristalli di sale sulla pelle e sugli indumenti. Spronati dalla paura, i mulattieri avevano preso un'andatura massacrante. Trottavano dietro le bestie, pungolando i loro testicoli con bastoni aguzzi per farle muovere. Verso la metà del pomeriggio avevano percorso a ritroso il tragitto della mattina, e avevano quindi raggiunto la località dove forse Taita aveva fatto erigere la diga. Nicholas e Royan si concessero qualche minuto per immergere la testa nel fiume e liberarsi dal sale e dal sudore. Poi si soffermarono al di sopra delle cascate e si congedarono dall'abisso che custodiva le loro speranze e i loro sogni. «Quando torneremo?» chiese lei. «Non possiamo permetterci di rimanere lontani troppo a lungo», rispose Nicholas. «Presto cominceranno le grandi piogge... Senza contare che le iene hanno fiutato l'odore, e si avvicinano. D'ora in poi ogni giorno sarà prezioso, ogni ora perduta potrà essere decisiva.» Royan abbassò lo sguardo sull'abisso e mormorò: «Non hai ancora vinto, Taita. La partita è sempre in corso». Si voltarono e seguirono i muli sulla pista che portava al termine della scarpata. Quella sera non si fermarono nel luogo tradizionale in riva al fiume; Wilbur Smith
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proseguirono invece per diversi chilometri, fino a quando l'oscurità non li costrinse a fermarsi. Nessuno cercò di preparare un campo. Mangiarono pane injera inzuppato nella pentola di wat fornita premurosamente dai monaci. Poi Nicholas e Royan stesero i sacchi a pelo sul terreno sassoso, usarono come cuscini le some dei muli e piombarono in un sonno esausto. L'indomani mattina, mentre i muli venivano caricati nell'oscurità che precedeva l'alba, bevvero una ciotola dell'amaro caffè etiope e si rimisero in viaggio. Quando il sole nascente illuminò le pareti ripide della scarpata, in apparenza così vicine da poterle toccare, Nicholas si rivolse a Royan che gli camminava a fianco. «Con questa andatura dovremmo arrivare ai piedi della scarpata nel pomeriggio. Forse stanotte potremo dormire nella caverna dietro la cascata.» «Quindi ci risparmieremmo un paio di giorni di marcia, ed entro domani raggiungeremmo i camion.» «E possibile», rispose Nicholas. «Non vedo l'ora di uscire di qui.» «Mi dà la sensazione di una trappola», commentò Royan mentre guardava il terreno accidentato e roccioso che saliva su entrambi i lati e li bloccava sul fondovalle del Dandera. «Ho riflettuto molto, Nicky.» «Sentiamo le tue conclusioni.» «Niente conclusioni: solo pensieri inquietanti. Supponiamo che qualcuno della Pegasus sia ora in possesso dei ricalchi e delle foto... Qualcuno in grado di comprenderne l'importanza, intendo. Ebbene, quale sarà la loro reazione se capiranno fino a che punto è progredita la nostra ricerca?» «Non sono pensieri molto allegri», ammise Nicholas. «D'altra parte, non possiamo far molto se prima non torniamo alla civiltà. Dobbiamo solo tenere gli occhi aperti e non perdere la testa. Diavolo, non ho più neppure il Rigby. Siamo bersagli indifesi.» Aly, i mulattieri e i monaci sembravano avere le stesse idee e non rallentavano mai l'andatura: soltanto a mezzogiorno si fermarono per preparare il caffè e abbeverare i muli. Mentre gli uomini accendevano i fuochi, Nicholas prese il binocolo e salì sul pendio. Non aveva percorso molta strada quando si guardò alle spalle e vide Royan che lo seguiva. Si fermò ad aspettarla. «Avresti dovuto approfittarne per riposare», le disse in tono severo. «C'è Wilbur Smith
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il rischio di un colpo di calore...» «Non mi fido a lasciarti andare in giro da solo. Voglio sapere che cosa intendi fare.» «Una ricognizione. Dovremmo mandare avanti qualche esploratore, invece di precipitarci alla cieca sulla pista. Se ricordo esattamente la marcia di andata, davanti a noi ci sono alcuni dei tratti peggiori. Dio sa che cosa rischiamo d'incontrare.» Continuarono a salire. Ma era impossibile arrivare alla cresta, perché una parete impervia sbarrava loro la strada. Nicholas scelse il punto migliore sotto la barriera e scrutò i due pendii della valle che stavano davanti a loro. La sua memoria non l'aveva tradito. Si stavano avvicinando ai piedi della scarpata e il terreno diventava sempre più accidentato e difficile, come l'onda che, in pieno oceano, percepisce la vicinanza della terra e s'impenna allarmata prima di precipitarsi scompostamente sulla riva. La pista seguiva il fiume da vicino. I dirupi incombevano sulla stretta fascia di terreno che formava la banchina; il vento e le intemperie li avevano modellati in sagome strane e minacciose: parevano i bastioni del castello della strega in un cartone animato di Walt Disney. A un certo punto, un contrafforte di arenaria rossa si protendeva, costringendo il fiume ad aggirarlo; la pista allora si restringeva al punto che per un mulo carico era difficile affrontarla senza precipitare nel fiume. Nicholas studiò il fondovalle. Non scorse nulla che sembrasse sospetto o fuori posto. Poi alzò la testa per scrutare con il binocolo la cresta dei dirupi. In quel momento, dalla valle sottostante, giunse la voce di Aly che echeggiò lungo il pendio. «Presto, effendi! I muli sono pronti per ripartire.» Nicholas gli fece un cenno con il braccio, ma alzò di nuovo il binocolo per osservare di nuovo il tratto più avanti. Un barbaglio luminoso colpì il suo sguardo, un lampo effimero come il segnale di un eliografo. Concentrò l'attenzione sul punto in cui l'aveva notato. «Che c'è? Che cos'hai visto?» chiese Royan. «Non sono sicuro. Niente, forse», rispose lui, senza abbassare il binocolo. Poteva essere il riflesso di una superficie metallica, oppure della lente di un altro binocolo, o la canna del fucile d'un cecchino. D'altra parte, un frammento di mica o una scheggia di cristallo di rocca poteva riflettere Wilbur Smith
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nello stesso modo la luce del sole. E poi alcune piante avevano le foglie lucide... Nicholas studiò con attenzione il punto per qualche altro minuto, poi sentì di nuovo la voce di Aly. «Presto, effendi! I mulattieri non vogliono aspettare!» Nicholas si alzò. «Non era niente. Andiamo.» Prese il braccio di Royan per aiutarla a scendere. In quel momento sentì l'acciottolio delle pietre sul pendio più in alto. La fermò e le strinse il braccio per farla tacere. Attesero, scrutando il crinale. D'un tratto, sopra la cresta, apparve un paio di lunghe corna ricurve e subito dopo la testa di un vecchio kudu maschio, con le orecchie a tromba protese in avanti e la frangia della giogaia che oscillava nella leggera brezza calda. Si fermò sul ciglio del dirupo poco sopra di loro. Ma non li aveva visti. Il kudu girò la testa nella direzione da cui era arrivato. Il sole gli colpiva un occhio, e il portamento del capo e la tensione dei muscoli indicavano chiaramente che qualcosa l'aveva disturbato. Per un lungo istante rimase così, immobile. Poi, ancora ignaro della loro presenza, sbuffò e schizzò via correndo. Sparì alla loro vista oltre il crinale, e il suono della sua corsa si perse in lontananza. «Qualcosa l'ha terrorizzato.» «Che cosa?» «Poteva essere qualunque cosa, forse un leopardo», rispose Nicholas. Esitò, guardando giù per il pendio. La carovana si era già rimessa in marcia e seguiva la pista lungo la riva del fiume. «Che dobbiamo fare?» chiese Royan. «Una ricognizione più avanti... se ne avessimo il tempo, ma non l'abbiamo.» La carovana si allontanava in fretta. Se non fossero scesi immediatamente, sarebbero rimasti indietro, soli e disarmati. Nicholas non aveva elementi su cui basarsi, ma doveva prendere una decisione immediata. «Vieni!» Strinse di nuovo la mano di Royan. Si lasciarono scivolare giù per il pendio. Quando raggiunsero la pista, cominciarono a correre per ricongiungersi con la carovana. Una volta rientrati nella colonna, Nicholas ricominciò a scrutare il crinale sopra di loro con maggiore attenzione. I dirupi incombevano e nascondevano metà del cielo. Sulla sinistra, il fiume cancellava ogni suono con il borbottare rumoroso della corrente. Wilbur Smith
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L'uomo non era veramente allarmato. Si vantava di saper percepire i guai in anticipo grazie a un sesto senso che gli aveva salvato la vita più di una volta. Lo considerava il suo sistema di preallarme, ma ora non gli trasmetteva nessun messaggio. C'erano diverse spiegazioni possibili per il riflesso che aveva scorto sulla cresta e per il comportamento del kudu. Era comunque un po' nervoso, e concentrava l'attenzione sul terreno sopra di loro. Vide un puntolino che cadeva volteggiando dalla cresta, una foglia morta portata dalla brezza calda e incostante. Era troppo piccola e insignificante per costituire un pericolo: tuttavia egli, per qualche motivo, ne seguì con gli occhi il movimento. La foglia bruna scese roteando e finalmente gli toccò la guancia. Nicholas alzò d'istinto la mano, l'afferrò e la stropicciò fra le dita, immaginando che si sarebbe sgretolata. Invece era morbida ed elastica, quasi untuosa. Aprì la mano e la studiò. Non era una foglia: questo lo capì subito. Era un brandello di carta bruna, oleata e traslucida. D'un tratto nella sua mente echeggiò un furioso campanello d'allarme. Non era soltanto l'incongruenza di un pezzo di carta apparso d'improvviso in quel luogo remoto. Nicholas aveva riconosciuto la qualità e la consistenza di quella carta particolare. L'accostò al naso, la fiutò. L'intenso odore nitroso gli pizzicò la gola. «Gelignite!» esclamò. L'odore era inconfondibile. La gelignite era usata raramente per scopi militari nell'epoca del semtex e degli esplosivi plastici; ma veniva ancora adoperata nell'industria mineraria. Di solito la massa gelatinosa di nitroglicerina viene mischiata con pasta di legno e nitrato di sodio e poi avvolta in quella caratteristica carta oleata marrone. Prima che il detonatore venisse inserito, c'era l'abitudine di strappare un angolo dell'incarto per mettere allo scoperto l'esplosivo. In passato, Nicholas l'aveva usato molto spesso e non aveva dimenticato l'odore. I suoi pensieri turbinavano. Se qualcuno li stava aspettando e aveva minato il dirupo con la gelignite, il riflesso che aveva scorto poco prima forse proveniva dai fili di rame tesi fra le masse di esplosivo infilate nella roccia, oppure da qualche altro strumento. Se era così, poteva darsi che in quel momento l'attentatore fosse nascosto lassù, pronto a premere il detonatore. E forse il kudu era fuggito quando s'era accorto della presenza dell'essere umano. «Aly!» urlò Nicholas verso la carovana. «Fermali! Falli tornare Wilbur Smith
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indietro!» Cominciò a correre verso la testa della colonna, ma intuiva che era già troppo tardi. Se sulla cresta c'era qualcuno, allora stava spiando ogni sua mossa. Nicholas non poteva sperare di raggiungere la testa della carovana e di far tornare indietro i muli sullo stretto sentiero, per portarli al sicuro prima che... Si fermò di colpo e si voltò a guardare Royan. Doveva pensare soprattutto a lei. Tornò correndo nella sua direzione e le afferrò il braccio. «Vieni! Dobbiamo allontanarci dalla pista.» «Che succede, Nicky? Che stai facendo?» Lei opponeva resistenza, cercava di svincolarsi. «Te lo spiego dopo», scattò bruscamente Nicholas. «Fidati di me.» La trascinò per un paio di passi, poi lei si arrese e si mise a correre nella direzione da cui erano venuti. Avevano percorso meno di cinquanta metri quando la parete di roccia esplose. L'immane spostamento d'aria li investì con violenza e li fece barcollare, echeggiò fragorosamente nelle loro teste e minacciò di far implodere le membrane delicate dei timpani. Poi la forza della deflagrazione li assalì: non era un unico scoppio, bensì una lunga detonazione rombante come il tuono che scroscia dall'alto. Storditi, urtarono l'una contro l'altro e persero l'orientamento. Nicholas afferrò Royan per sostenerla e si voltò a guardare. Vide una serie di esplosioni che eruttavano dalla cresta. Fontane altissime di terriccio, di polvere e di ghiaia piroettavano una dopo l'altra, simili a una fila di ballerine infernali impegnate a danzare secondo una precisa coreografia. Nonostante il terrore del momento, Nicholas era abbastanza lucido per rendersi conto che la gelignite era stata piazzata con grande abilità. Quella era l'opera di un vero maestro dinamitardo, pensò. Poi scorse le colonne dei detriti che ricadevano su se stesse, lasciando nuvole di polvere dorata contro lo sfondo azzurro del cielo; per un momento ancora sembrò che la distruzione fosse compiuta, Poi i contorni del dirupo presero a cambiare. La muraglia di roccia parve inclinarsi verso l'esterno, con un movimento dapprima assai lento. Nicholas vide aprirsi grandi crepe simili a bocche ghignanti. Frane di roccia si staccarono, quasi al rallentatore, poi scivolarono su se stesse come le gonne seriche di una gigantessa che esegue un inchino. La roccia gemette, si spaccò, rombò, e l'intera parete Wilbur Smith
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cominciò a precipitare nel fiume sottostante. Nicholas era ipnotizzato da quello spettacolo spaventoso. Aveva la sensazione che la violenza dell'esplosione gli avesse reso inutilizzabile il cervello. Dovette compiere uno sforzo immane per pensare e per agire. Vide che il centro dell'esplosione era più avanti, lungo la pista, vicino alla testa della colonna. Tamre era là, a fianco di Aly, mentre lui e Royan erano in coda. L'attentatore sulla cresta aveva ovviamente atteso che arrivassero al centro della trappola, ma era stato costretto a premere il detonatore quando li aveva visti tornare indietro correndo: aveva compreso che s'erano accorti dell'agguato e che stavano per mettersi in salvo. Tuttavia non erano al sicuro. Rischiavano di essere colpiti dalla forza periferica della frana che si stava sviluppando sopra di loro. Continuando a tenere stretta Royan, Nicholas guardò la parete che crollava e provò disperatamente a valutare le loro possibilità di salvezza. Impietrito, rimase a fissare l'immensa marea di rocce che investiva la pista più avanti, avvolgendo uomini e muli. La colossale frana li trascinò nel fiume, che, come un orribile mostro, prima li inghiottì e poi li sfracellò con le zanne acuminate di roccia rossa. Nonostante il rombo immane, Nicholas sentiva le urla disperate degli uomini e i nitriti terrorizzati degli animali che venivano travolti. L'ondata di distruzione si allargò verso il punto della pista in cui si trovavano. Se fossero stati direttamente al di sotto dell'esplosione avrebbero avuto pochissime speranze di scamparla. Però, via via che discendeva, la forza devastante della massa rocciosa si dissipava. D'altra parte, Nicholas si rese conto che non sarebbero riusciti a correre così velocemente da evitare la frana: quando si fosse abbattuta su di loro, sarebbe stata comunque devastante. Non aveva tempo per spiegare a Royan ciò che dovevano fare. Gli restano pochissimi secondi per agire. La sollevò fra le braccia e si lanciò dalla banchina in direzione del fiume. Perse quasi immediatamente l'equilibrio. Caddero insieme, rotolarono su se stessi, ma una decina di metri più sotto c'era uno sperone di roccia grande come una casa. Ne urtarono la parte superiore e si fermarono. Semi stordito, Nicholas rimise in piedi Royan e la guidò al riparo dello sperone. C'era un anfratto: strisciarono all'interno e si acquattarono contro la roccia, trattenendo il respiro, mentre il primo frammento del dirupo scendeva rimbalzando verso di loro come una gigantesca palla di gomma e Wilbur Smith
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accelerava sotto la spinta della forza di gravità. Nel momento in cui urtò il loro rifugio, la violenza dell'impatto fu tale che la roccia vibrò e risuonò come la campana di una cattedrale. Il frammento volò alto sopra le loro teste, roteò su se stesso e piombò nel fiume, sollevando una massa d'acqua che andò a infrangersi sulle due rive, simile ai marosi di un oceano in tempesta. Eppure quelle erano soltanto le avvisaglie del malstrom che si scatenò poco dopo. Sembrava che metà della montagna cadesse loro addosso. Quando un consistente frammento cozzava contro il riparo, schegge acuminate si staccavano dai bordi e riempivano l'aria di una finissima polvere bianca e del lezzo sulfureo della selce. L'immensa cascata volava poi sopra di loro o si ammucchiava davanti alla spaccatura, e sassolini e pezzetti minuscoli grandinavano tutto intorno. Nicholas si stese addosso a Royan per proteggerla con il proprio corpo. Una pietra gli colpì di striscio il cranio e gli fece rintronare le orecchie. Digrignò i denti e lottò contro l'impulso di alzare la testa per guardare. Sentì un liquido caldo e viscoso serpeggiare tra i capelli corti dietro l'orecchio destro e scendergli sul collo. Solo quando gli arrivò all'angolo della bocca e sentì il sapore salato e metallico comprese che era un filo di sangue. La polvere finissima li copriva e irritava la loro gola, li faceva tossire, s'insinuava negli occhi e li costringeva a tenere chiuse le palpebre. Un masso grande come un carro balzò nell'aria e ricadde accanto a loro. L'impatto fece sobbalzare il terreno con tanta violenza che Royan, stesa con Nicholas addosso, avvertì una pressione così forte al ventre e al diaframma che l'aria fuoriuscì dai polmoni. Per un attimo, la donna temette di avere le costole in frantumi. A poco a poco il diluvio di terra e di pietre cominciò a placarsi. Gli urti tremendi dei grandi macigni diventarono più rari. La polvere che impregnava l'aria ricadde al suolo. I ruggiti si smorzarono, fino a che non rimasero soltanto i rumori dei frammenti di roccia che rotolavano e del fiume gorgogliante. Finalmente Nicholas si azzardò ad alzare la testa e batté le palpebre per liberarle dalla polvere. Royan si mosse, e lui si spostò per permetterle di sollevarsi a sedere. Si guardarono. Le loro facce sembravano maschere del teatro kabuki e i capelli erano incipriati come le parrucche degli aristocratici francesi del Settecento. Wilbur Smith
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«Sanguini», mormorò Royan con voce arrochita dalla polvere e dal terrore. Nicholas si portò la mano al viso, e la ritrasse incrostata di polvere e sangue. «È solo una scalfittura», disse. «Come va?» «Temo di avere una storta a un ginocchio», rispose Royan. «Ho sentito qualcosa cedere quando siamo caduti. Non credo che sia grave. Non fa molto male.» «Allora abbiamo avuto una fortuna sfacciata», commentò Nicholas. «Era quasi impossibile sopravvivere.» Lei cercò di alzarsi, ma Nicholas la trattenne posandole una mano sulla spalla. «Aspetta ancora un po'. L'intero pendio sopra di noi è dissestato e instabile. Le pietre continueranno a cadere per qualche tempo.» Si tolse il bandana annodato alla gola e glielo porse. «E a parte questo, non vorrei...» Cambiò idea e non finì la frase. Mentre Royan si puliva la faccia, chiese con voce tremante: «Stavi per dire 'a parte questo...'» «A parte questo non possiamo far capire ai delinquenti appostati lassù che siamo sopravvissuti alla festicciola. Altrimenti scenderanno per finire l'opera e tagliarci la gola. È meglio far credere che siamo morti, proprio come era nelle loro intenzioni.» Lei lo fissò. «Pensi che siano ancora lassù a spiarci?» «Ci puoi giurare», rispose rabbiosamente Nicholas. «Devono essere convinti di avercela fatta a toglierci di mezzo. È meglio che non alziamo la testa. Gli rovineremmo la soddisfazione.» «Come hai capito che cosa stava per succedere?» chiese lei. «Se non mi avessi trascinata via...» La sua voce si spense. In poche parole, Nicholas spiegò di essersi insospettito quando aveva trovato l'incarto della gelignite. «È la cosa più semplice del mondo scegliere la parte più stretta e minare il dirupo...» S'interruppe. Fiochi ma inconfondibili, giunsero il suono di un motore e il ronzio dei rotori al momento del decollo. «Presto!» ordinò. «Resta il più possibile vicina alla sporgenza.» La spinse contro il masso che li aveva protetti. «Giù!» Lei obbedì senza discutere, e Nicholas si stese al suo fianco, ammucchiando su entrambi i frammenti di roccia. «Non ti muovere assolutamente», sibilò. Sentirono il rumore dell'elicottero che si avvicinava e volava in cerchio sopra di loro. Si spostava avanti e indietro lungo la valle, tenendosi a pochi Wilbur Smith
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metri dalla superficie del fiume. A un certo momento, passò sopra il cornicione dov'erano nascosti, e lo investì con la violenza dell'aria spostata dai rotori. «Cercano i superstiti», mormorò Nicholas. «Non muoverti. Non ci hanno ancora visti.» «Se ci stavano osservando prima dell'esplosione, sarebbero venuti dove ci troviamo», bisbigliò lei. «Invece sembrano confusi.» «Può darsi che la polvere della frana ci abbia nascosto alla loro vista. Se è così, allora non sanno dove siamo.» Il suono dell'elicottero si allontanò lungo il fiume, e Nicholas disse: «Proverò a sbirciare. Voglio essere sicuro che tutto ciò sia opera della Pegasus, anche se, a dire il vero, in questa zona non possono esserci molti elicotteri. Tieni giù la testa!» Nicholas si sollevò lentamente. Gli bastò un'occhiata per avere conferma della sua ipotesi. Meno di un chilometro verso monte il Bell Jet Ranger della Pegasus stava librato sopra il fiume e si allontanava lentamente. Da quell'angolazione, però, era impossibile vedere l'interno dell'abitacolo. L'apparecchio si alzò verticalmente e virò verso nord. Allora Nicholas fu in grado d'individuare i passeggeri. Jake Helm era seduto davanti, accanto al pilota, e dietro di lui c'era il colonnello Nogo: tutti e due scrutavano la valle. Dopo pochi secondi, l'elicottero scomparve oltre il crinale, volando in direzione della scarpata. Il rombo dei motori si smorzò. Strisciando, Nicholas uscì dall'anfratto e rimise in piedi Royan. «Non ci sono più dubbi. Adesso sappiamo con chi abbiamo a che fare. A bordo c'erano Helm e Nogo. Quasi sicuramente è stato Helm a piazzare la gelignite, e Nogo comandava gli uomini che hanno aggredito il nostro campo. Si sono divisi il compito in base alle rispettive specializzazioni. E questo avvalora le nostre ipotesi. Il proprietario della Pegasus è il mandante, e Helm e Nogo non sono altro che gli esecutori.» «Ma Nogo è un ufficiale dell'esercito etiope», protestò Royan. «Benvenuta in Africa», commentò Nicholas in tono cupo. «Qui tutto è in vendita, compresi i funzionari governativi e gli ufficiali.» Fece una smorfia e la polvere che gli impiastricciava la faccia piovve come cipria finissima. «Adesso comunque la cosa importante è uscire dalla gola e tornare alla civiltà.» Si voltò a guardare il pendio. La pista era stata cancellata dalla frana. «Non possiamo passare di là», rifletté, e prese la mano di Royan. Quando però lei fece un passo, fu costretta a soffocare un grido. Wilbur Smith
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«Il ginocchio!» esclamò, portandosi una mano alla gamba destra. «Passerà», si affrettò ad aggiungere, sorridendo coraggiosamente. Presero a scendere verso il fiume. Nicholas avanzava con fare cauto, nel timore che i loro movimenti causassero un'altra frana; Royan, dal canto suo, zoppicava in maniera vistosa e quindi procedeva con grande circospezione. Giunti all'acqua, vi si immersero fino alla vita, la raccolsero a manciate e bevvero avidamente. La polvere aveva riempito le bocche e intasato le gole. Si ripulirono la faccia e liberarono gli occhi e le narici. Quindi Royan lavò la ferita al cuoio capelluto di Nicholas e rimosse polvere e sangue. «Non è grave», annunciò. «Non c'è bisogno di punti.» «Ho un tubetto di Betadine nello zaino.» Nicholas lo prese e lei gli spalmò la ferita con l'unguento giallo-bruno, poi lo fasciò con il bandana. «Così può andare», concluse, battendogli la mano sulla spalla. «Grazie al cielo, avevo lo zaino», commentò Nicholas mentre lo richiudeva. «Almeno abbiamo con noi lo stretto indispensabile. Ora dobbiamo vedere se ci sono altri superstiti.» «Tamre!» esclamò Royan. Avanzarono a guado lungo la riva. Il fiume era intasato di terriccio e di frammenti di pietra. Nei tratti più profondi, l'acqua arrivava alle ascelle, e Nicholas reggeva lo zaino a braccio teso sopra la testa. Le pietre instabili erano infide, e cedevano sotto di loro quando i due provavano a uscire dall'acqua per cercare gli altri componenti della carovana. Trovarono i cadaveri di due monaci, schiacciati e semisepolti. Non tentarono neppure di liberarli. Uno dei muli giaceva a terra con una zampa all'aria. Il resto del corpo era coperto completamente da frammenti di roccia. La soma si era spaccata e il contenuto era sparso intorno. La pelle arrotolata e i trofei del dik-dik erano finiti nel fango. Nicholas li recuperò e li legò allo zaino. «Un peso in più», commentò Royan. «Un chilo al massimo, ma ne vale la pena», ribatté lui. Proseguirono verso il punto sotto la pista dove avevano visto per l'ultima volta Tamre e Aly. Cercarono per quasi un'ora, ma non trovarono nessuno dei due. Il pendio sovrastante era devastato: la terra era sconvolta, i macigni frantumati, i cespugli e gli alberi sradicati e sfracellati. Royan salì per quanto glielo permetteva il ginocchio dolorante, quindi si fece portavoce con le mani e gridò: «Tamre!» «Tamre! Tamre! Tamre!» Gli echi s'impadronirono della sua voce e la Wilbur Smith
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scagliarono da una parte all'altra della valle. «Credo che sia morto. Quel poveretto è rimasto sepolto», mormorò Nicholas. «Lo stiamo cercando da un'ora. Se vogliamo andarcene, non possiamo permetterci di perdere altro tempo. Saremo costretti ad abbandonarlo.» Lei non gli badò. Continuò a procedere lungo la frana, mentre i frammenti le rotolavano sotto i piedi. Era evidente che il ginocchio la faceva soffrire. «Tamre! Tamre, rispondi! Dove sei?» chiamò in arabo. «Basta, Royan, o il tuo ginocchio peggiorerà. E stai mettendo in pericolo tutti e due. Smetti!» In quell'istante sentirono un gemito sommesso che proveniva dall'alto. Royan s'inerpicò in quella direzione, scivolando e slittando. Alla fine gettò un grido d'orrore. Nicholas lasciò cadere lo zaino e la rincorse. Quando la raggiunse, s'inginocchiò accanto a lei. Tamre era inchiodato sotto la frana. Il viso, spellato per metà, era riconoscibile a stento. Royan sollevò la testa del ragazzo, se l'appoggiò sulle ginocchia e, con un lembo della gonna infradiciata, gli pulì le narici perché respirasse meglio. Il sangue gli colava da un angolo della bocca, e sgorgò in un fiotto quando Tamre gemette di nuovo. Royan provò a tamponargli la ferita, ma non ci riuscì. La metà inferiore del corpo di Tamre era sepolta. Nicholas cercò di rimuovere le pietre, ma quasi subito si rese conto che era impossibile: addosso al ragazzo gravava un pezzo di roccia grande quanto un tavolo da biliardo. Doveva pesare almeno qualche tonnellata, e senza dubbio gli aveva stritolato la spina dorsale e il bacino. Un uomo solo non sarebbe mai riuscito a rimuovere quel peso. Senza contare che, se anche fosse stato possibile, il movimento avrebbe aggravato le terribili lesioni subite dal ragazzo. «Fai qualcosa, Nicky», mormorò Royan. «Dobbiamo fare qualcosa per aiutarlo.» Nicholas la guardò e scosse la testa. Gli occhi di Royan si riempirono di lacrime che traboccarono e caddero come gocce di pioggia sul viso di Tamre, scolorendo il sangue. «Non possiamo restare qui a vederlo morire, senza fare nulla», protestò lei. Al suono della sua voce, Tamre aprì gli occhi e la guardò. Wilbur Smith
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Sorrise tra il sangue, un sorriso che gli illuminò la faccia bruna e devastata. «Ummee...» mormorò. «Sei mia madre. Sei così buona. Ti amo, madre mia.» La voce si spezzò, una contrazione gli irrigidì il corpo. La faccia si contorse per la sofferenza. Tamre proruppe in un grido soffocato e si accasciò. Le spalle persero la rigidità e la testa ricadde da un lato. Royan restò immobile a lungo. Gli sosteneva la testa e piangeva in silenzio, amaramente. Alla fine, Nicholas le sfiorò la mano e disse: «È morto, Royan». Lei annuì. «Lo so. Ha resistito tanto solo per potermi dire addio.» Nicholas la lasciò piangere ancora un po', ma alla fine insistette: «Dobbiamo andare, cara». «Hai ragione. Però è terribile abbandonarlo così. Non aveva nessuno al mondo. Era così solo. Mi ha chiamata madre. Credo che mi volesse veramente bene.» «Lo so», disse Nicholas. Le scostò con delicatezza dalle ginocchia la testa del ragazzo e aiutò la donna a rialzarsi. «Scendi e aspettami. Lo coprirò meglio che posso.» Nicholas incrociò le mani di Tamre sul petto e gli piegò le dita intorno al crocifisso d'argento che portava al collo. Poi ammucchiò le pietre su di lui e gli coprì la testa in modo che corvi e avvoltoi non potessero dilaniarlo. Quindi si lasciò scivolare verso l'acqua, dove Royan lo aspettava, e si assestò lo zaino su una spalla. «Dobbiamo proseguire», mormorò, e lei si asciugò le lacrime con il dorso della mano e annuì. «Sono pronta.» Risalirono a guado verso monte, lottando contro la corrente. La frana aveva bloccato per metà il letto del fiume e l'acqua passava nella strettoia. Quando finalmente raggiunsero il tratto della riva a monte della frana, uscirono dal fiume e salirono l'argine ripido fino a che non arrivarono nel punto in cui la pista era intatta. Sostarono un momento per riprendersi e si voltarono a guardare. A valle della frana il fiume aveva assunto la tinta rosso-bruna del fango. Ammesso che i preti, nel monastero, non avessero sentito le esplosioni, il cambiamento di colore dell'acqua li avrebbe sicuramente insospettiti. Dopo una breve ricerca, avrebbero trovato i morti e li avrebbero portati via per seppellirli. La prospettiva consolò un po' Royan, mentre si avviava con Wilbur Smith
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Nicholas lungo il sentiero. Dovevano affrontare altri due giorni di marcia faticosa. Royan zoppicava vistosamente, eppure, ogni volta che Nicholas cercava di aiutarla, rifiutava. «Non è niente. Il ginocchio è un po' irrigidito, ecco tutto.» Non gli permetteva di esaminarlo e procedeva con fare determinato. Per il resto della giornata marciarono quasi sempre in silenzio. Nicholas rispettava il suo dolore e le era grato per il riserbo. La capacità di tacere senza ispirare un senso di rifiuto a quanti le stavano intorno era una delle qualità che ammirava di più in lei. Quel pomeriggio, sul tardi, parlarono brevemente quando si fermarono a riposare sul bordo della pista. «L'unica consolazione è che la Pegasus ci crederà sepolti sotto la frana e non ci cercherà più. Possiamo proseguire senza perdere tempo con le ricognizioni», disse Nicholas. Quella notte si accamparono sotto la scarpata, poco prima che la pista incominciasse a salire la parete verticale. Nicholas condusse Royan in un canalone boscoso, accese un fuocherello e lo schermò in modo che dalla pista fosse impossibile scorgerlo. Solo allora Royan si arrese e gli permise di esaminarle il ginocchio; era livido e gonfio, e scottava. «Non dovresti camminare», le disse. «Che altro posso fare?» ribatté lei. Nicholas non sapeva che cosa rispondere. Bagnò il bandana con l'acqua della borraccia e le fasciò la gamba più strettamente che poteva, attento a non interrompere il flusso sanguigno. Poi prese dallo zaino una boccetta di Brufen e le diede due compresse. «Va già un po' meglio», disse Royan mentre riabbassava l'orlo della gonna. Si spartirono le ultime razioni d'emergenza, seduti accanto al fuoco. Parlavano a voce bassa, ancora sconvolti dall'accaduto. «Che cosa succederà quando arriveremo in alto?» chiese lei. «I camion saranno ancora dove li avevamo lasciati? Gli uomini che Boris aveva messo di guardia saranno al loro posto? Che accadrà se incontreremo di nuovo quelli della Pegasus?» «Non sono in grado di rispondere. Dovremo affrontare i problemi via via che si presenteranno.» «Non vedo l'ora di arrivare ad Addis Abeba per denunciare il massacro alla polizia etiope. Voglio che Helm e la sua banda paghino per ciò che hanno fatto.» Wilbur Smith
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Nicholas rimase in silenzio per qualche istante prima di rispondere. «Non credo che sia molto prudente», disse alla fine. «Che significa? Abbiamo assistito alla strage. Non possiamo permettere che restino impuniti.» «Ricorda che dobbiamo tornare in Etiopia. Se piantiamo una grana del genere adesso, troveremo la valle brulicante di militari e poliziotti. E questo potrebbe mettere fine a ogni ulteriore tentativo di risolvere l'enigma di Taita e di scoprire la tomba di Marnose.» «Non ci avevo pensato», disse lei pensosamente. «Ma c'è stato un massacro e Tamre...» «Lo so, lo so. Però ci sono sistemi più sicuri per vendicarci della Pegasus di quanto non lo sia consegnare i responsabili alla giustizia etiope. Rifletti un momento: Nogo collabora con loro. L'abbiamo visto a bordo dell'elicottero. Se la Pegasus ha sul libro paga un colonnello, chi altri potrebbe esserci? La polizia? Il capo dell'esercito? Qualche ministro? In questo momento non lo sappiamo.» «Hai ragione», ammise Royan. «D'ora in poi dobbiamo pensare come gli africani. Ispiriamoci ai papiri di Taita: bisogna diventare subdoli e astuti come lui. Non precipitiamoci a gridare accuse. Se riusciremo a svignarcela dal Paese lasciando tutti nella convinzione che siamo rimasti sepolti dalla frana... be', tanto di guadagnato. Il nostro ritorno nella gola sarà più facile. Purtroppo non credo che passeremo inosservati. Ma da questo momento dobbiamo farci furbi.» Lei fissò a lungo le fiamme che guizzavano, poi sospirò e chiese: «Hai detto che c'è un modo migliore per vendicarsi della Pegasus. Che cos'hai in mente?» «Soffiar loro da sotto il naso il tesoro di Marnose.» Royan rise per la prima volta in quella lunga giornata terribile. «Sì, è vero. Lo desiderano al punto da essere pronti a uccidere per averlo. Dobbiamo sperare che sottrarglielo li faccia soffrire quanto hanno fatto soffrire noi.» Erano così stanchi che quando si svegliarono, l'indomani mattina, c'era già un po' di luce. Royan cercò di alzarsi, ma si lasciò ricadere con un gemito. Nicholas si avvicinò immediatamente e lei non protestò quando le sollevò la gonna e si appoggiò sulle ginocchia la gamba nuda. Wilbur Smith
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Sciolse il bandana e aggrottò la fronte. Il ginocchio era il doppio del normale, e il livido aveva un brutto color prugna. Bagnò di nuovo il fazzoletto e l'avvolse; poi diede a Royan le ultime due compresse di Brufen e l'aiutò ad alzarsi. «Come va?» chiese ansiosamente. Lei mosse qualche passo zoppicando e sorrise. «Andrà tutto a posto quando avrò camminato un po', ne sono sicura.» Nicholas alzò lo sguardo verso la scarpata. Vista così, di scorcio, non dava un'idea precisa di quanto fosse alta; Nicholas però ricordava bene ogni passo faticoso dell'erta. Avevano impiegato un giorno intero a scendere. «Sì, certo.» Sorrise per incoraggiare Royan e le prese il braccio. «Appoggiati a me. Sarà come una passeggiata nel parco.» Salirono per tutta la mattina. La pista sembrava diventare più scoscesa a ogni passo. Lei non si lamentava, ma era terrea e sudava per il dolore. A mezzogiorno non avevano ancora raggiunto la cascata, e Nicholas la costrinse a fare una sosta. Non avevano niente da mangiare, però Royan bevve avidamente dalla borraccia. Lui non cercò di razionarle l'acqua, tuttavia si accontentò di un solo sorso. Poi Royan cercò di rialzarsi per proseguire, ma soffocò un grido e vacillò. Se lui non l'avesse sorretta, sarebbe caduta. «Accidenti! Accidenti! Accidenti!» imprecò rabbiosamente lei. «Il ginocchio si è irrigidito.» «Non preoccuparti», ribatté lui, e tolse dallo zaino quasi tutto ciò che conteneva, eccettuato l'indispensabile. Tenne comunque la pelle del dikdik: l'arrotolò e l'infilò nello zaino che si fissò intorno alla vita. Sorrise allegramente. «Ehi, sei così piccola e leggera, saltami sulla schiena.» «Non ce la farai a portarmi fin lassù.» Lei alzò gli occhi verso la pista ripida come una scala a pioli, e inorridì. «È l'unico treno che parte da questa stazione», scherzò Nicholas, e lei si decise. «Non sarebbe meglio se abbandonassi la pelle del dik-dik?» chiese. «Neppure per idea!» esclamò lui, e incominciò a salire. Avanzò adagio, a fatica. Dopo un po' non ebbe più fiato per parlare, e proseguì chiuso in un tenace silenzio. Il sudore gli intrideva la camicia; ma Royan non provava fastidio nel sentire il calore umido e l'odore mascolino. Anzi, le davano una sensazione rassicurante. Wilbur Smith
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Ogni mezz'ora, Nicholas si fermava e la posava a terra, poi si sdraiava in silenzio a occhi chiusi, finché non riprendeva a respirare normalmente. Quindi riapriva le palpebre e sorrideva, dicendole: «Ehi-oh, asinello!» Infine si rialzava, e si curvava perché Royan potesse risalirgli sulla schiena. Con il trascorrere delle ore, le sue battute scherzose divennero sempre più forzate. Nel tardo pomeriggio ridusse l'andatura a un trotto stanco; a volte era costretto a fermarsi per riprendere fiato prima di proseguire. Lei cercava di aiutarlo: nei tratti più difficoltosi scendeva e proseguiva a piedi, appoggiandosi con una mano alla sua spalla. Ma si rendeva conto che Nicholas stava consumando le ultime riserve di energia. A un certo punto, dopo aver superato barcollando una curva della pista, scorsero davanti a loro la cascata, simile a un sipario di trina bianca. Nessuno dei due riusciva a credere di avercela fatta. Nicholas entrò nella caverna nascosta e posò Royan al suolo, poi si lasciò cadere a terra e restò immobile come un morto. Era già buio quando si riprese quanto bastava per aprire gli occhi e sollevarsi a sedere. Intanto Royan aveva preso un po' di legna da ardere dalla scorta dei monaci ed era riuscita ad accendere un fuocherello. «Brava», disse lui. «Se t'interessa un posto di governante...» «Non indurmi in tentazione.» Royan si avvicinò zoppicando e gli esaminò il taglio al cuoio capelluto. «Si è già formata la crosta», disse. D'impulso, strinse al seno la testa di Nicholas e gli scostò dalla fronte i capelli incrostati di polvere e di sudore. «Oh, Nicky, come potrò ripagarti per quel che hai fatto per me oggi?» Una risposta impertinente gli salì alle labbra, ma ebbe il buon senso di tacere. Non era in condizioni di fare avances, perciò rimase immobile a godersi quel contatto, senza tuttavia correre il rischio di spaventarla con un movimento azzardato. Alla fine lei lo lasciò e sedette. «Mi rincresce molto, sir Nicholas, ma la governante non può offrirle salmone affumicato e champagne per cena. Gradisce un bicchiere d'acqua di montagna, pura e rinfrescante?» «Credo che possiamo fare di meglio.» Lui prese la torcia elettrica dallo zaino, l'accese e scelse una pietra rotonda grossa come un pugno. La strinse nella destra e puntò il fascio luminoso verso la volta della grotta. Immediatamente si udì un fruscio d'ali, seguito dal tubare allarmato dei piccioni delle rocce posati sui cornicioni. Nicholas si piazzò sotto di loro e Wilbur Smith
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li abbagliò con la torcia elettrica. Al primo lancio ne fece cadere, due mentre gli altri fuggivano nella notte con un concitato frullo d'ali. Nicholas balzò sui due uccelli caduti e, con uno scatto del polso, torse loro il collo. «Ti andrebbe un bel pezzo di piccione arrosto?» chiese. Royan era distesa, appoggiata su un gomito, e lui le sedette di fronte a gambe incrociate. Spennarono alacremente la carcassa di uno dei piccioni. Anche quando si trattava di spennare un volatile, lei non faceva la schizzinosa come avrebbero fatto altre donne nelle stesse circostanze, constatò lui. E questo, al pari del comportamento stoico tenuto durante la marcia, la innalzava nella considerazione di Nicholas. Aveva dimostrato molte volte che il coraggio non le mancava, e i suoi sentimenti per lei si rafforzavano di continuo. Royan era impegnatissima a strappare le piume dal petto del piccione. «Ormai non ci sono dubbi. Tutto il materiale rubato durante l'attacco al campo è nelle mani della Pegasus.» «Stavo pensando la stessa cosa.» Nicholas annuì. «E abbiamo visto le antenne del loro campo base a monte delle cascate: comunicano via satellite. Possiamo scommettere che Jake Helm ha già faxato tutto al suo capo, chiunque sia.» «Quindi ha tutti i particolari della stele della tomba di Tanus. Sappiamo già che ha il settimo papiro. Se non è un egittologo esperto, deve avere al suo servizio qualcuno che lo è. Non sei d'accordo?» «Io credo che sia in grado di leggere i geroglifici. Dev'essere un collezionista fanatico. Conosco il tipo. Per loro è un'ossessione.» «Anch'io conosco il tipo.» Royan sorrise. «Ce n'è uno seduto davanti a me in questo momento.» «Touché!» Nicholas rise e alzò le mani in atto di resa. «Ma sono stato contagiato in forma leggera, in confronto a certuni che potrei nominare. Gli altri due che figuravano nell'elenco di Duraid, per esempio.» «Peter Walsh e Gotthold von Schiller», ricordò lei. «Sono due collezionisti omicidi», confermò Nicholas. «Sono sicuro che nessuno di loro esiterebbe a uccidere per impadronirsi del tesoro del faraone Marnose.» «Ma, a quanto so, sono miliardari... miliardari in dollari.» «Il denaro non c'entra. Non capisci? Se mettessero le mani sul tesoro, non si sognerebbero di venderne un solo oggetto. Chiuderebbero tutto in Wilbur Smith
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una camera blindata e non permetterebbero ad anima viva di vederlo. Se lo godrebbero in privato... È una bizzarra passione masturbatrice.» «Che strano modo di descriverla», protestò Royan. «Ma ti assicuro che è esatto. È una passione sessuale, un'ossessione come quella di un serial killer.» «Amo tutto ciò che è egizio, ma non riesco a immaginare una bramosia così intensa.» «Non abbiamo a che fare con uomini comuni, tienilo ben presente. Le ricchezze che possiedono consentono loro di soddisfare qualunque appetito. E tutti gli appetiti umani naturali finiscono per venir loro a noia. Possono avere tutto ciò che vogliono, qualunque uomo e qualunque donna. Possono sperimentare qualunque cosa, qualunque perversione lecita o illecita. Alla fine devono trovare qualcosa che nessun altro può avere, l'unica cosa che può dar loro un'emozione.» «Quindi il capo della Pegasus è pazzo?» chiese lei a voce bassa. «Molto peggio», la corresse Nicholas. «Abbiamo a che fare con un maniaco enormemente ricco e potente che non si fermerà di fronte a nulla.» Dopo aver fatto colazione con ciò che era rimasto dei piccioni arrosto, si concessero il lusso di un bagno sotto la cascata. Per discrezione lo fecero a turno: così, mentre Royan andava in fondo alla grotta a spogliarsi, Nicholas distoglieva lo sguardo, e viceversa. L'acqua era gelida, e li assalì con la violenza del getto di una pompa antincendio. Royan saltellò sulla gamba sana, gemendo sotto il torrente, e ne uscì con la pelle d'oca, bluastra per il freddo. Comunque il bagno servì a ristorarla e, nonostante gli indumenti luridi e puzzolenti di sudore, le diede il coraggio di affrontare l'ultimo tremendo tratto di salita. Prima di lasciare la caverna, ognuno esaminò le lesioni dell'altro. Il cuoio capelluto di Nicholas sarebbe guarito perfettamente, ma il ginocchio di Royan non era migliorato. I lividi stavano diventando dello stesso colore del fegato marcio, e il gonfiore non s'era ridotto. Nicholas non poté far altro che fasciarlo di nuovo con il bandana. Finalmente si rassegnò ad abbandonare lo zaino e la pelle arrotolata del dik-dik. Sapeva di essere al limite delle forze, e si rendeva conto che, per quanto fossero oggetti leggeri, potevano impedirgli di arrivare alla cima. Tenne soltanto i tre rullini di pellicola ancora da sviluppare nelle Wilbur Smith
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rispettive custodie di plastica. Erano l'unica documentazione che restava dei geroglifici sulla stele nella tomba di Tanus. Non voleva rischiare di perderli, così li chiuse nel taschino della camicia kaki. Nascose lo zaino e la pelle in una fenditura della roccia in fondo alla caverna: la sua intenzione era ovviamente quella di recuperarli, prima o poi. Uscirono e affrontarono l'ultimo tratto della pista. Sulle prime, Royan camminò da sola, appoggiandosi alla spalla di Nicholas. Dopo meno di un'ora, però, non ce la fece più e sedette su una roccia al margine della pista. «Sono una scocciatura tremenda, vero?» «A bordo, signora. C'è sempre posto per lei.» Nicholas se la caricò sulla schiena, con la gamba dolorante rigidamente protesa, e avanzò, ancor più adagio del giorno prima. Era costretto a fermarsi per riposare a intervalli sempre più brevi. Nei tratti più agevoli, lei smontava e si muoveva saltellando su una gamba sola e tenendogli una mano sulla spalla per sostenersi. Poi crollava, e Nicholas doveva rimetterla in piedi e issarla di nuovo sul dorso. La marcia diventò un incubo. Entrambi persero la nozione del tempo. Le ore si confondevano in un tormento implacabile. A un certo punto, si stesero vicini sulla pista, sopraffatti dalla sete, dallo sfinimento e dal dolore. Avevano vuotato la borraccia un'ora prima, e in quel tratto non c'era niente da bere. Per dissetarsi, avrebbero dovuto arrivare in cima e incontrare di nuovo il Dandera. «Vai avanti e lasciami qui», mormorò Royan, e lui si sollevò a sedere, sbigottito. «Non fare la scema. Mi servi come zavorra.» «Non dobbiamo essere molto lontani dalla cima», insistette lei. «Potrai tornare con uno degli uomini di Boris che ti aiuterà a portarmi.» «Se ci saranno ancora e se quelli della Pegasus non ti troveranno prima.» Nicholas si alzò barcollando. «Non ci pensare più. Verrai con me fino all'arrivo.» E la rimise in piedi. Le chiese di contare ad alta voce i passi: ogni cento si fermava a riposare. Poi ne affrontava altri cento, mentre Royan contava a voce bassa e gli stava aggrappata al collo con le braccia. L'intero universo sembrava restringersi al terreno e ai suoi piedi. Adesso non vedevano più la parete rocciosa da un lato né lo strapiombo dall'altro. Wilbur Smith
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Quando un movimento di Nicholas la scuoteva e una fitta di dolore le trapassava il ginocchio, lei chiudeva gli occhi e cercava di evitare che la voce la tradisse mentre continuava a contare. Nicholas riposava appoggiandosi alla roccia, nel timore che, se si fosse sdraiato, le gambe non avrebbero più avuto la forza di risollevarlo. Non osava calare a terra Royan: lo sforzo d'issarla di nuovo sarebbe stato insostenibile. Non era più in grado di compierlo. «È quasi buio», gli mormorò lei all'orecchio. «Devi fermarti qui per passare la notte. Per oggi basta. Così ti ammazzerai, Nicky.» «Ancora cento passi», mormorò lui. «No, Nicky. Mettimi giù.» Invece di rispondere, lui si staccò dalla roccia con una spallata e riprese a camminare. «Conta!» ordinò. «Cinquantuno, cinquantadue...» Royan obbedì. All'improvviso il gradiente cambiò di colpo e per poco non fece cadere Nicholas. La pista era diventata orizzontale. Come un ubriaco, lui alzò il piede per compiere un altro passo su un terreno che non c'era. Vacillò, ma riprese l'equilibrio. Era sull'orlo del precipizio e stava guardando nell'oscurità, incapace di credere a ciò che vedeva. C'erano luci nel buio. Nicholas pensò di essere in preda a un'allucinazione. Poi sentì alcune voci maschili e scrollò la testa per ritornare alla realtà. «Oh, mio Dio, ce l'hai fatta. Siamo arrivati in cima, Nicky. Ecco là i camion. Ce l'hai fatta, Nicky!» gridò Royan. Lui tentò di parlare, ma la gola gli si contrasse. Barcollando, si avviò verso le luci. Lei gridò: «Aiutateci, lassù. Per favore, aiutateci...» Lo disse prima in inglese, poi in arabo. «Aiutateci...» Si sentirono grida di stupore e passi affrettati. Nicholas si accasciò lentamente sull'erba dell'altopiano e lasciò che Royan gli scivolasse dalla schiena. Alcune sagome scure si radunarono intorno a loro parlando in amharico. Mani premurose li sollevarono e li portarono verso le luci. Poi una torcia elettrica puntò sulla faccia di Nicholas e una voce molto inglese disse: «Salve, Nicky. Che piacevole sorpresa. Ero venuto da Addis Abeba per cercare il tuo cadavere. Avevo sentito dire che eri morto, ma la notizia era un po' prematura, a quanto pare». Wilbur Smith
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«Salve, Geoffrey. Sei stato molto gentile a disturbarti.» «Oserei dire che hai bisogno di una tazza di tè. Mi sembri un po' malconcio», commentò Geoffrey Tennant. «Non mi ero mai accorto che avessi la barba striata di rosso e grigio. Una stoppia firmata. Alta moda. Ti sta benissimo.» Nicholas si rendeva conto dell'aspetto che doveva avere: lacero, con la barba lunga, sporco e stravolto dalla stanchezza. «Ricordi la dottoressa Al Simma? Ha un ginocchio fuori uso. Ti spiacerebbe occuparti di lei?» Poi le gambe gli mancarono e Geoffrey Tennant lo sostenne prima che cadesse. «Forza, vecchio mio.» Lo condusse a una sedia pieghevole e lo fece sedere. Portarono un'altra sedia per Royan. «Letta chai hapa!» Geoffrey impartì l'ordine tipico di tutti gli inglesi in Africa e, pochi minuti dopo, mise nelle mani dei nuovi arrivati due tazze fumanti di tè molto dolce. Nicholas alzò la tazza in un brindisi. «Alla nostra. Non c'è nessuno come noi!» Bevvero avidamente, scottandosi la lingua; la teina e lo zucchero affluirono nel loro sangue come una scarica elettrica. «Adesso so che ce la farò a sopravvivere», sospirò Nicholas. «Non vorrei sembrare un ficcanaso, Nicky, ma vorresti spiegarmi che diavolo sta succedendo da queste parti?» chiese Geoffrey. «Perché non me lo dici tu?» ribatté Nicholas. Aveva bisogno di tempo per valutare la situazione. Che cosa sapeva esattamente l'amico, e chi gli aveva detto ciò che sapeva? Geoffrey lo accontentò prontamente. «Anzitutto siamo venuti a conoscenza del fatto che quel cacciatore bianco amico tuo, Brusilov, era stato ripescato nel fiume presso il confine sudanese. Era crivellato da fori di pallottole. I coccodrilli e i pescigatto gli avevano spolpato la faccia, e la polizia di frontiera lo ha identificato grazie ai documenti che aveva nella cintura portasoldi.» Nicholas lanciò un'occhiata a Royan per metterla in guardia. «L'ultima volta che l'abbiamo visto stava partendo per una ricognizione», disse poi. «È assai probabile che si sia imbattuto nello stesso gruppo di sciftà che ha assalito il nostro campo, quattro notti fa.» «Sì, abbiamo saputo anche questo. Il colonnello Nogo, qui, ha trasmesso via radio un rapporto ad Addis Abeba.» I due superstiti non avevano riconosciuto Nogo in mezzo alla folla. Wilbur Smith
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Quando avanzò nella luce delle lanterne, Royan s'irrigidì e il suo viso si animò di una tale espressione di ribrezzo che Nicholas le toccò una mano di nascosto per impedirle di scattare. Dopo un momento, lei si rilassò e si ricompose. «È un vero sollievo vederla, sir Quenton-Harper. Ci ha causato molte preoccupazioni per qualche giorno», disse Nogo. «Mi dispiace moltissimo», rispose garbatamente Nicholas. «La prego, non si offenda. Ma la Pegasus Exploration Company ci aveva comunicato che lei e la dottoressa Al Simma eravate stati vittime di un'esplosione accidentale. Ero presente quando il signor Helm della Pegasus vi ha avvertito che ci sarebbero state esplosioni nella gola.» «Ma lei...» insorse indignata Royan, e Nicholas le strinse più forte la mano per interromperla. «Probabilmente è stata un'imprudenza da parte nostra, come dice lei. Tuttavia la dottoressa Al Simma è rimasta ferita, e tutti e due siamo ancora scossi. La cosa più grave, comunque, è che parecchie altre persone, servitori del campo e monaci, sono state uccise nell'attacco degli sciftà e nell'incidente. Non appena torneremo ad Addis Abeba presenterò un esposto particolareggiato alle autorità.» «Spero non penserà che ci sia qualche responsabilità da parte nostra...» disse Nogo, ma Nicholas l'interruppe. «No, naturalmente. Non è stata colpa sua. Ci aveva avvertiti della presenza degli sciftà nella gola. Non era presente, quindi che cosa avrebbe potuto fare per impedire quanto è accaduto? Direi che ha fatto il suo dovere nel modo più esemplare.» Nogo sembrava sollevato. «È molto gentile da parte sua, sir QuentonHarper.» Nicholas lo studiò ancora per un momento: sembrava molto amabile e premuroso, ansioso di rendersi utile. Per un attimo fu sul punto di credere di essersi ingannato e di aver visto qualcun altro a bordo del Bell Jet Ranger che si aggirava come un avvoltoio sul luogo della frana per cercare i loro cadaveri. Si sforzò di ostentare i suoi modi più cordiali. «Le sarei molto grato, colonnello, se potesse farmi un favore.» «Certo», dichiarò Nogo. «Non ha che da chiederlo.» «Ho lasciato uno zaino e uno dei miei trofei di caccia nella caverna sotto la cascata del Dandera. Nello zaino ci sono i nostri passaporti e i travellers' cheque. Sarei lieto se potesse mandare uno dei suoi uomini a prenderlo.» Wilbur Smith
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Mentre spiegava a Nogo dove si trovava la sua roba, provò una soddisfazione maligna all'idea di inviare uno dei suoi mancati assassini a sbrigare quel compito banale. Poi si girò verso Geoffrey in modo che Nogo non potesse vedere il lampo vendicativo nei suoi occhi. «Come sei arrivato qui, Geoffrey?» «Con un aereo leggero fino a Debra Mariam, dove c'è una pista d'atterraggio. Il colonnello Nogo ci aspettava e ci ha portati con una jeep militare per il resto del percorso. Il pilota e l'aereo ci stanno attendendo a Debra Mariam.» Geoffrey s'interruppe e si rivolse al personale del campo in pessimo amharico, prima di parlare di nuovo a Nicholas. «Ho dato ordine di preparare un bagno caldo per te e per la dottoressa Al Simma. Poi un buon pasto e una dormita dovrebbero fare miracoli. Domani potremo tornare ad Addis Abeba. Arriveremo domani sera al più tardi.» Batté la mano sulla spalla di Royan, mascherando l'interesse sensuale con un sorriso da zio affettuoso. «Devo ammetterlo, sono contento di non dover scendere nella gola dell'Abay per cercare voi due. Ho sentito dire che è un percorso schifoso.» «Le dispiace, dottoressa Al Simma, se siedo davanti? Lo so, sono maleducato, ma purtroppo soffro il mal d'aria. Ah, ah!» disse Geoffrey a Royan, mentre aspettavano che tre bambini scacciassero le capre dalla pista d'atterraggio di Debra Mariam. Intanto Nicholas sistemava la pelle arrotolata del dik-dik sotto il sedile posteriore. Uno dei sergenti di Nogo era sceso dalla scarpata durante la notte e, nel corso della colazione, gli aveva consegnato lo zaino e la pelle. Nogo salutò militarmente mentre l'aereo si avviava in mezzo a una nube di polvere, e Nicholas sorrise attraverso il finestrino laterale, mormorando: «Vai all'inferno, Nogo, vai all'inferno...» Quando il piccolo Cessna 260 decollò dalla pista erbosa, l'orizzonte sopra la gola dell'Abay sembrava un campo di funghi cosmici, un insieme di nembi enormi che salivano fino alla stratosfera. L'aria era turbolenta come un mare in tempesta e li sbatacchiava senza pietà sui sedili posteriori. Geoffrey, che stava davanti, non aveva l'aria di passarsela meglio. Taceva e non s'interessava alla loro conversazione. La sera precedente non avevano avuto la possibilità di comunicare perché Nogo e Geoffrey erano sempre nelle vicinanze. Wilbur Smith
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Ma adesso che il rombo del motore copriva le loro voci, e che Geoffrey era alle prese con i suoi malesseri, Nicholas e Royan parlottavano fittamente, tenendo le teste accostate: dovevano mettere a punto la loro versione dei fatti. Geoffrey aveva fatto capire che l'ambasciatore britannico ad Addis Abeba non era entusiasta dei fastidi che gli avevano causato. Era arrivata una quantità di fax da Whitehall, a partire dal momento in cui erano stati dati per dispersi. E il commissario della polizia etiope non vedeva l'ora d'interrogarli. Dovevano fare in modo di non implicare Mek Nimmur nell'uccisione di Boris Brusilov, e nello stesso tempo non dovevano mettere in allarme la Pegasus. Si rendevano conto che, se avessero lasciato intendere che sapevano chi erano gli altri giocatori nella partita di Taita, la Pegasus avrebbe reagito con prontezza letale. Ma soprattutto non dovevano alienarsi le autorità etiopi; dovevano invece evitare di dar loro un motivo per annullare i visti e dichiararli persone indesiderate. Decisero di fingersi ignari di tutto e di recitare la parte degli ingenui coinvolti in una situazione che non avevano causato e che non riuscivano a comprendere. Prima di atterrare ad Addis Abeba, avevano preparato la loro versione e l'avevano imparata a memoria. Quando il Cessna si fermò davanti al terminal e il pilota spense il motore, Geoffrey si rianimò, anche se il suo colorito non era dei più sani, e aiutò Royan a scendere la scaletta. «Naturalmente alloggerete alla Residenza», annunciò. «Gli alberghi della città fanno orrore, e l'ambasciatore ha uno chef quasi passabile e una discreta cantina. Troverò qualcosa da mettervi addosso. Mia moglie ha più o meno la sua taglia, dottoressa Al Simma, e a Nicky andrà bene la mia roba. Grazie a Dio, ho anche uno smoking di ricambio. L'ambasciatore tiene molto alla forma.» La Residenza dell'ambasciatore britannico era stata costruita durante il regno del vecchio imperatore Hayla Sellase, prima dell'occupazione italiana. Sorgeva alla periferia della città, ed era un esempio della migliore architettura coloniale, con tetti di paglia e ampie verande. I prati erano curati da un esercito di giardinieri indigeni ed erano grandi e verdeggianti. La poinsettia era di un cremisi fulgido. La Residenza era sopravvissuta alla rivoluzione e alla successiva guerra di liberazione. Wilbur Smith
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Non appena entrarono, Geoffrey li affidò a un maggiordomo etiope dal lungo shamma bianco e immacolato che li accompagnò a due camere da letto adiacenti al secondo piano. Nicholas sentì l'acqua del bagno che scorreva nella suite di Royan, mentre stava immerso nella vasca centellinando un whisky and soda e girando i rubinetti con l'alluce. Poi gli giunsero i mormorii del dottore che curava il ginocchio di Royan. Lo smoking di Geoffrey era un po' largo in vita e aveva maniche e pantaloni troppo corti, e le scarpe andavano strette. Inoltre, Nicholas aveva bisogno di una scorciatina ai capelli: se ne accorse guardandosi allo specchio. «Per il momento non posso rimediare», concluse rassegnato e andò a bussare alla porta accanto. «Accidenti!» esclamò quando Royan gli aprì. Sylvia Tennant le aveva prestato un abito da cocktail verde che faceva spiccare meravigliosamente la carnagione olivastra. Si era lavata i capelli e li teneva sciolti sulle spalle. Nicholas sentì il suo cuore battere come quello di un adolescente al primo appuntamento e rise. «Sei favolosa», disse. E lo pensava davvero. «Grazie,. sir», rispose lei. «Anche tu sei affascinante. Non mi offri il braccio?» «Speravo di portarti io. Questione di assuefazione.» «Quei giorni sono passati», rise lei e si appoggiò al bastone d'ebano che le aveva procurato il maggiordomo. Mentre si avviavano lungo il corridoio, chiese sottovoce: «Come si chiama il nostro ospite?» «E l'ambasciatore di sua maestà britannica, sir Oliver Bradford KCMG.» «Significa: 'Cavaliere Comandante di san Michele e san Giorgio', giusto?» chiese lei. «In realtà, come titolo, sarebbe più adatto: PFCD... e cioè: 'Per Favore, Chiamatemi Dio'.» «Sei impossibile!» rise lei, poi ridivenne seria. «Sei riuscito a spedire il fax alla signora Street?» «Ce l'ho fatta al primo tentativo e mi ha risposto. Manda i suoi saluti e ha promesso di farmi avere qualche informazione sulla Pegasus a velocità supersonica.» Era una serata mite e sir Oliver, un uomo dal volto rubizzo circondato da una massa di capelli bianchi, li attendeva sulla veranda. Geoffrey si Wilbur Smith
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affrettò a fare le presentazioni; aveva già riferito a Nicholas e a Royan quale fosse l'atteggiamento dell'ambasciatore nei confronti dei turisti piantagrane, ma il cipiglio ostile si attenuò non appena sir Oliver posò gli occhi su Royan. C'era una dozzina d'invitati, a parte Geoffrey e Sylvia Tennant. L'ambasciatore prese il braccio di Royan e la presentò a tutti. Nicholas li seguiva, ormai rassegnato all'idea che Royan facesse quell'effetto alla maggior parte degli uomini che incontrava. «Posso presentarvi il generale Obeid, commissario di polizia?» disse sir Oliver. Il capo della polizia etiope era alto e aveva la carnagione molto scura, un modo di fare suadente e indossava un'elegante divisa blu. Si chinò sulla mano di Royan. «Mi pare che abbiamo un appuntamento per domattina. Sarà un grande piacere.» Royan lanciò a sir Oliver un'occhiata interrogativa. Nessuno le aveva detto niente. «Il generale Obeid vuol sapere da lei e da sir Nicholas qualcosa di più su ciò che è successo nella gola dell'Abay», spiegò l'ambasciatore. «Mi sono preso la libertà di far prendere un appuntamento dal mio segretario.» «È solo un incontro di routine, posso assicurarlo, dottoressa Al Simma e sir Nicholas. Vi porterò via pochissimo tempo.» «Faremo tutto il possibile per collaborare», rispose educatamente Nicholas. «A che ora dobbiamo venire?» «Mi pare che l'appuntamento sia per le undici, se siete d'accordo.» «Sì, va benissimo», disse Nicholas. «Il mio autista verrà a prendervi alle dieci e mezzo e vi porterà al comando centrale della polizia», promise sir Oliver. A tavola, il posto assegnato a Royan era fra l'ambasciatore e il generale. Lei si comportava con grazia e gentilezza, e i due uomini le prestavano mille attenzioni. Nicholas si rendeva conto che avrebbe dovuto abituarsi a dividere con altri la sua compagnia: l'aveva avuta tutta per sé per troppo tempo. Per quanto lo riguardava, era bloccato con lady Bradford all'estremità opposta della tavola. Lady Bradford era la seconda moglie dell'ambasciatore: aveva trent'anni meno di lui, un pesante accento della parte meno chic di Londra e modi da popolana. Aveva anche una criniera di capelli tinti di biondo e un seno inverosimile che debordava dalla Wilbur Smith
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scollatura. Sposare quella donna era stato il colpo di testa di un vecchio, concluse Nicholas. Lady Bradford si era preoccupata di diventare un'esperta in fatto di genealogia dell'aristocrazia inglese; in altre parole, era una tremenda snob. Lo sottopose a un interrogatorio serrato sui suoi antenati e insistette per risalire parecchie generazioni. Alla fine si rivolse al marito: «Sir Nicholas è il proprietario di Quenton Park. Lo sapevi, caro?» Poi, di nuovo a Nicholas: «Mio marito è un ottimo tiratore». Sir Oliver sembrava impressionato dall'intelligenza della moglie. «Quenton Park? L'altro giorno ho letto un articolo sullo Shooting Times. Lei ha un percorso che si chiama 'The High Beeches', esatto?» «The High Larches», lo corresse Nicholas. «Ho letto che vi si trova la migliore selvaggina da penna della Gran Bretagna», esclamò sir Oliver con aria di attesa entusiasta. «Questo non lo so», ribatté modestamente Nicholas. «Ma ne siamo piuttosto orgogliosi. Deve venirci, la prima volta che tornerà in patria. Sarà mio ospite, naturalmente.» Da quell'istante l'atteggiamento di sir Oliver nei confronti di Nicholas cambiò in modo radicale. Diventò affabile e premuroso, e mandò il maggiordomo a prendere una bottiglia di Chàteau Lafitte del 1954. «Hai fatto una buona impressione», mormorò ironicamente Geoffrey. «L'ambasciatore sacrifica una bottiglia del '54 solo per pochi eletti.» Era mezzanotte passata quando Nicholas riuscì finalmente a sfuggire dalla padrona di casa e a sottrarre Royan a sir Oliver e al generale Obeid. La condusse via, la sostenne mentre lei claudicava graziosamente ed evitò con cura lo sguardo incuriosito di Geoffrey Tennant. Arrivarono al primo pianerottolo della scala. «Be', sei stata la star della serata», commentò. «E lady Bradford ti faceva le fusa come una gatta», contrattaccò Royan, e Nicholas si rallegrò nell'avvertire quel tono quasi geloso. Dunque non era il solo... Alla porta della stanza di Royan, lei risolse ogni problema porgendogli la guancia, e lui la baciò castamente. «Ah, il seno di lady Bradford», sussurrò Royan. «Non farti venire gli incubi.» E chiuse la porta. Nicholas si sentiva piuttosto nervoso mentre si avviava verso la sua camera. Tuttavia, non appena fu entrato, scorse una lettera sul pavimento. Wilbur Smith
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Doveva averla portata uno dei servitori durante la cena. Aprì in fretta la busta, lesse rapidamente i fogli e cambiò espressione. Poi lasciò la stanza e andò a bussare alla porta di Royan. Dopo un momento, lei la socchiuse e lo sbirciò con aria confusa, ma Nicholas si affrettò a placare i suoi sospetti. «È la risposta al mio fax.» Le mostrò i fogli. «Sei presentabile?» «Un attimo.» Royan chiuse la porta e pochi secondi più tardi la riaprì. «Entra.» Indicò la bottiglia su uno stipo. «Vuoi bere qualcosa?» «Credo di averne bisogno. Ora sappiamo a chi appartiene la Pegasus.» «Dimmi!» ordinò lei, ma Nicholas si versò con calma uno scotch e si voltò a sorridere. «Una soda per te?» «Accidenti, Nicholas Quenton-Harper.» Royan batté il piede. «Non ti permetto di tormentarmi così. Chi è?» «Quando ti ho conosciuta, eri una brava ragazza araba che riconosceva la superiorità del genere maschile. E adesso... dovresti sentirti. Credo di averti viziata.» «Ti avverto: stai scherzando con il fuoco.» Lei cercò di reprimere un sorriso. «Ti prego, Nicky, dimmelo.» «Siedi», replicò lui e sedette sulla poltrona di fronte a lei, aprì il fax e la guardò prima di cominciare a leggere. «La signora Street ha lavorato in fretta. Le avevo chiesto di telefonare al mio agente di cambio, nella City. Qui siamo in anticipo di tre ore rispetto al meridiano di Greenwich, quindi lo ha trovato prima che lasciasse l'ufficio. Comunque, mi ha fornito tutte le informazioni che avevo chiesto.» «Basta, Nicky. Altrimenti mi strapperò il corpetto, mi metterò a urlare e provocherò uno scandalo! Parla!» Nicholas sfogliò il fax e lesse: «'La Pegasus Exploration è registrata presso la Borsa di Sydney, in Australia, con un capitale di venti milioni...'» «Non m'interessano tutti i particolari», insistette lei. «Voglio il nome.» «'Il sessantacinque per cento delle azioni della Pegasus è proprietà della Walhalla Mining Company'», continuò lui, imperturbabile. «'E il resto appartiene all'Anaconda Metals, con sede in Austria.'» Royan gli lanciò un'occhiata implorante e si tese sulla sedia. «'Walhalla e Anaconda sono sussidiarie di esclusiva proprietà dell'HMI, Hamburg Manufactoring Industries. Tutte le azioni dell'HMI appartengono alla fondazione della famiglia von Schiller, che ha come amministratori Wilbur Smith
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Gotthold Ernst von Schiller e sua moglie Inge.'» «Von Schiller», ripeté lei a voce bassa, senza staccargli gli occhi di dosso. «Era nell'elenco dei possibili finanziatori di Duraid. Deve aver letto il libro di Wilbur Smith. So che è stato tradotto in tedesco. Con ogni probabilità si era messo in contatto con Duraid, come hai fatto tu. Ma non si è lasciato scoraggiare facilmente come te dai suoi dinieghi.» «Anch'io la penso così.» Nicholas annuì. «Deve essere stato facile fiutare l'aria intorno al museo del Cairo e scoprire che tu e Duraid stavate lavorando a qualcosa di grosso. Il resto lo sappiamo fin troppo bene.» «Ma come ha fatto a trasferire la Pegasus in Etiopia così in fretta?» «Von Schiller deve aver avuto un colpo di fortuna. La fortuna del diavolo. Geoffrey mi ha detto che, cinque anni fa, la Pegasus aveva ottenuto una concessione dal presidente Menghistu, poco prima che questi venisse spodestato. La concessione riguardava ricerche di eventuali giacimenti di rame. Von Schiller era già sul posto prima ancora di sentir parlare dei papiri. Non ha dovuto far altro che trasferire il campo dal nord, dove stavano lavorando, e spostarlo sulla scarpata della gola dell'Abay, per essere pronto ad approfittare dei nuovi sviluppi. Probabilmente scopriremo che Jake Helm è uno dei suoi scagnozzi, il suo specialista di trucchi sporchi, che lui manda qua e là per il mondo, dove e quando gli serve. E evidente che ha in tasca Nogo. E noi gli siamo finiti in bocca.» Royan aveva un'aria pensierosa. «Sì, è tutto logico. Non appena Helm ha segnalato al padrone il nostro arrivo, von Schiller deve aver ordinato di organizzare l'attacco degli sciftà contro il nostro campo. Oh, santo cielo, quanto lo odio! Non l'ho mai visto, ma lo odio più di quanto immaginassi di poter odiare qualcuno.» «Be', almeno adesso sappiamo con chi abbiamo a che fare.» «Non è esatto», osservò lei. «Von Schiller doveva avere un suo uomo al Cairo. Qualcuno che era al corrente di tutto.» «Come si chiama il tuo ministro?» chiese Nicholas. «No», replicò prontamente Royan. «Non può essere Atalan Abou Sin. Lo conosco da sempre. È un uomo onesto.» «Ti sorprenderebbe sapere che effetto può avere una tangente di centomila dollari anche sull'uomo più onesto», commentò con calma Nicholas. A colazione erano soli. Sir Oliver era andato in ufficio un'ora prima, e Wilbur Smith
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lady Bradford non si era ancora alzata per salutare la mattina fresca e serena dell'altopiano. «Stanotte quasi non ho dormito. Pensavo ad Atalan. Oh, Nicky, non tollero neppure il sospetto che sia coinvolto nell'assassinio di Duraid.» «Mi dispiace di averti fatto passare una notte insonne, ma dobbiamo tenere conto di tutte le possibilità», disse Nicholas. Poi cambiò argomento. «Abbiamo sprecato anche troppo tempo. E intanto la Pegasus ha campo libero. Voglio tornare in patria e cominciare i preparativi per la spedizione.» «Vuoi che faccia le prenotazioni?» Royan si alzò. «Vado subito in cerca di un telefono.» «Prima finisci la colazione.» «Ho mangiato abbastanza.» Lei si avviò verso la porta, e Nicholas la chiamò. «Non mi sorprende che tu sia così magra. Dicono che morire di anoressia sia una gran brutta fine.» Nicholas si servì un'altra fetta di toast con marmellata di arance amare. Royan tornò dopo un quarto d'ora. «Domani pomeriggio alle tre e mezzo, volo della Kenya Airways per Nairobi. E domani sera c'è una coincidenza con la British Airways per Heathrow.» «Bene.» Lui si asciugò la bocca con il tovagliolo e si alzò. «La macchina ci aspetta per portarci al comando di polizia e all'incontro con il tuo nuovo ammiratore, il generale Obeid. Andiamo.» C'era un sergente di polizia che li aspettava per farli entrare nel comando da un ingresso privato. Si presentò come ispettore Galla e li trattò con la massima deferenza mentre li scortava all'ufficio del commissario. Il generale Obeid si alzò e andò loro incontro. Era gentile e affabile, soprattutto con Royan. Li accompagnò nel salotto e riempì tre tazzine dell'inevitabile caffè nero e amaro. Dopo i convenevoli, affrontò la questione che gli interessava. «Come ho promesso, non vi tratterrò più del necessario. L'ispettore Galla registrerà le vostre dichiarazioni. Per prima cosa vorrei parlare della scomparsa e della morte del maggiore Brusilov. Saprete, immagino, che era stato ufficiale del KGB.» Il colloquio durò molto più a lungo del previsto. Il generale Obeid era meticoloso, ma sempre gentile. Alla fine fece battere a macchina le loro dichiarazioni e, quando le ebbero lette e firmate, li accompagnò Wilbur Smith
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all'ingresso dove li aspettava l'automobile. Nicholas comprese che quello era un segno di particolare favore. «Se c'è qualcosa che posso fare per lei, di qualunque cosa abbia bisogno, non esiti a rivolgersi a me, dottoressa Al Simma. Deve assolutamente tornare ancora in Etiopia per farci visita.» «Nonostante le disavventure, ho apprezzato molto il suo splendido Paese», rispose soavemente Royan. «Forse ci rivedrà prima di quanto pensi.» «Che uomo gentile», commentò mentre prendevano posto a bordo della Rolls-Royce di sir Oliver. «Mi è simpatico.» «Sembra che sia un sentimento reciproco», disse Nicholas. Le parole di Royan a Obeid si rivelarono profetiche. C'erano due buste identiche indirizzate a lei e a Nicholas accanto ai loro coperti l'indomani mattina, quando scesero per la colazione. Nicholas aprì la sua e ordinò il caffè al cameriere dal lungo shamma. Mentre leggeva, cambiò espressione. «Ehilà!» esclamò. «Abbiamo fatto colpo sui ragazzi in blu ancor più di quanto immaginassimo.» E lesse a voce alta: «'Ha l'ordine di presentarsi al comando di polizia prima di mezzogiorno'». Zufolò sommessamente. «Un linguaggio brusco. Niente 'per favore' e niente 'grazie'.» «Il mio è identico.» Royan diede un'occhiata alla comunicazione sulla carta intestata della polizia. «Che diavolo significa?» «Lo scopriremo presto», le assicurò Nicholas. «Ma il tono è minaccioso. Direi che la storia d'amore è finita.» Quella mattina, quando arrivarono al comando di polizia, non c'era nessuno a riceverli. La sentinella all'ingresso privato li mandò nell'anticamera dove intavolarono una discussione lunga e confusa con l'agente di turno che aveva una conoscenza molto rudimentale dell'inglese. Dalle sue precedenti esperienze in Africa, Nicholas sapeva che non era il caso di perdere la calma o di lasciar trasparire l'irritazione. Poi l'agente di turno parlò a lungo al telefono con qualcuno, e infine indicò con aria di superiorità una panca di legno. «Voi aspettate. Uomo viene presto.» Per quaranta minuti divisero la panca con un pittoresco assortimento di postulanti e delinquenti. Un paio di uomini, probabilmente vittime di un'aggressione, sanguinavano abbondantemente, mentre altri erano Wilbur Smith
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ammanettati. «Pare che la nostra stella sia tramontata», commentò Nicholas portandosi un fazzoletto al naso. Qualcuno dei suoi vicini non aveva avuto a che fare con l'acqua e il sapone da molto tempo. «Non ci trattano più come VIP.» Dopo quaranta minuti, l'ispettore Galla, che il giorno prima s'era comportato con tanta deferenza, si affacciò alla barriera divisoria e fece loro un cenno imperioso. Ignorò la mano tesa di Nicholas e li condusse in un ufficio. Non li invitò a sedere, e si rivolse a Nicholas con freddezza. «Lei è responsabile della perdita di un'arma da fuoco che era in suo possesso.» «Appunto. Come ho spiegato nella mia dichiarazione di ieri...» L'ispettore Galla lo interruppe. «La perdita di un'arma da fuoco dovuta a negligenza è un reato molto grave», disse in tono severo. «Non c'è stata negligenza da parte mia», ribatté Nicholas. «Ha lasciato incustodita l'arma. Non ha pensato di chiuderla in cassaforte. Questa è negligenza.» «Con tutto il rispetto, nella valle dell'Abay c'è una notevole scarsità di casseforti.» «Negligenza», ripeté Galla. «Negligenza criminale. Come possiamo sapere che l'arma non sia finita nelle mani di elementi ostili al governo?» «Vuol dire che uno sconosciuto potrebbe rovesciare il governo con un 275 Rigby?» chiese Nicholas con un sorriso. L'ispettore Galla ignorò la frecciata ed estrasse due documenti dal cassetto della scrivania. «Ho il dovere di consegnare questi ordini di espulsione a lei e alla dottoressa Al Simma. Avete ventiquattr'ore per lasciare l'Etiopia, dopodiché vi sarà proibito rientrarvi.» «La dottoressa Al Simma non ha perduto nessuna arma», fece notare con calma Nicholas. «Anzi, per quanto ne so non è mai stata negligente in tutta la sua vita.» Anche quel commento venne ignorato. «Firmate qui per riconoscere che avete ricevuto e compreso gli ordini.» «Voglio parlare con il generale Obeid», disse Nicholas. «Il generale Obeid è partito stamattina per un giro d'ispezione nei distretti settentrionali. Non rientrerà ad Addis Abeba che fra qualche settimana.» «E nel frattempo noi saremo tornati da un pezzo in Inghilterra?» Wilbur Smith
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«Esattamente.» L'ispettore Galla sorrise per la prima volta, ma in modo gelido. «Firmate qui e qui.» «Che cos'è successo?» chiese Royan, mentre l'autista le apriva la portiera della Rolls-Royce. «È stato tutto così improvviso e inaspettato. Prima tutti ci adoravano, e un attimo dopo ci hanno buttati giù a calci dalle scale.» «Vuoi sapere come la penso?» disse Nicholas, e continuò senza attendere la risposta. «Nogo non è l'unico sul libro paga della Pegasus. Durante la notte, Obeid si è messo in contatto con von Schiller e ha ricevuto ordini precisi.» «Ti rendi conto di quel che significa, Nicky? Significa che non potremo tornare in Etiopia. La tomba di Marnose è diventata irraggiungibile.» Royan lo guardò con i grandi occhi scuri colmi d'angoscia. «Quando Duraid e io visitammo l'Iraq e la Libia, nessuno dei due aveva lettere d'invito di Saddam e di Gheddafi, se non ricordo male...» disse Nicholas. «Mi sembri felice all'idea di violare la legge», commentò lei in tono d'accusa. «Dopotutto si tratta solo della legge etiope», osservò Nicholas con fare virtuoso. «Non va presa troppo sul serio.» «Però ti butteranno in una prigione etiope. E questo devi prenderlo sul serio.» «Vale anche per te.» Nicholas sogghignò. «Se ci prenderanno...» «Potete star certi che l'ambasciatore ha già presentato una protesta ufficiale», disse Geoffrey mentre li accompagnava all'aeroporto. «La faccenda lo ha sconvolto, ve lo assicuro. Ordini di espulsione e quant'altro... Non si è mai sentita una cosa simile.» «Non prendertela, vecchio mio», lo consolò Nicholas. «Nessuno di noi due ha intenzione di tornare. Quindi non è successo niente di grave.» «Già, ma è una questione di principio. Un importante suddito britannico trattato come un criminale comune. Non hanno davvero rispetto.» Geoffrey sospirò. «A volte vorrei essere nato un secolo fa. Non avremmo tollerato un comportamento del genere... L'avrebbero pagata cara.» «Proprio così, Geoffrey. Ma non mi pare il caso di agitarti.» Geoffrey continuava a girar loro intorno come una gatta che sorveglia i suoi micini. Arrivarono al banco del check-in della Kenya Airways; Wilbur Smith
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avevano solo i bagagli a mano, due borsoni di nylon comprati quella mattina al mercato. Nicholas aveva arrotolato la pelle del dik-dik e l'aveva avvolta in uno shamma ricamato, appena acquistato anche quello. Geoffrey Tennant tenne loro compagnia fino a quando non fu chiamato il volo e si sbracciò per salutarli dopo che furono passati oltre la barriera, in una manifestazione d'affetto rivolta più a Royan che a Nicholas. I loro posti erano dietro l'ala, e Royan stava accanto al finestrino. L'aereo accese i motori e cominciò a rullare lentamente, Nicholas stava discutendo con una hostess che avrebbe voluto convincerlo a riporre la borsa di nylon viola con la preziosa pelle in uno degli armadietti pensili, mentre Royan guardava Addis Abeba per l'ultima volta. All'improvviso s'irrigidì. Non staccò gli occhi dal finestrino, ma afferrò il braccio di Nicholas. «Guarda!» sibilò con tanto veleno che lui si sporse per vedere che cosa l'aveva colpita. «Pegasus!» esclamò lei, e indicò l'executive jet Falcon che era appena atterrato e stava parcheggiando all'estremità del terminal. Il piccolo aereo era dipinto di verde, e sulla coda il cavallo alato scarlatto era impennato sulle zampe posteriori nella posa stilizzata ormai familiare. Mentre guardavano dal finestrino, il portello del Falcon verde si abbassò, e il gruppo in attesa sulla pista si fece avanti per accogliere i passeggeri. Il primo era un ometto che indossava un abito leggero color crema e un panama bianco. Nonostante la statura modesta, irradiava un'aria sicura e autoritaria, l'aria del potere. Era pallido come se arrivasse da un inverno nordico: in quello scenario, pareva quasi un alieno. La mascella era volitiva, il naso prominente, lo sguardo acuto sotto le sopracciglia folte e scure. Nicholas lo riconobbe immediatamente. L'aveva visto molte volte alle aste di Sotheby's e di Christie's. Non era facile dimenticare un tipo come von Schiller. «Von Schiller!» esclamò, mentre il tedesco guardava gli uomini che attendevano sulla pista. «Sembra un galletto», mormorò Royan. «O un cobra che sta per scattare.» Von Schiller sollevò il panama e scese la scaletta del Falcon con passo scattante. Nicholas mormorò: «Non si direbbe che ha quasi settant'anni». Wilbur Smith
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«Si muove come un uomo di quaranta», riconobbe Royan. «Di certo si tinge i capelli e le sopracciglia. Vedi come sono scure?» «Accidenti!» esclamò Nicholas, stupito. «Guarda chi è venuto a riceverlo!» Il sole si rifletteva sulle decorazioni e sulle mostrine di un'alta figura dall'uniforme blu che si staccò dal gruppo e si toccò la visiera del berretto in un saluto rispettoso, prima di prendere la mano di von Schiller per stringerla cordialmente. «Il tuo ex ammiratore, il generale Obeid. Non mi sorprende che ieri non abbia potuto riceverci. Era troppo occupato.» «Guarda, Nicky!» gridò Royan. Non osservava più i due che, ai piedi della scaletta, parlavano in modo animato. Aveva concentrato l'attenzione sulla scaletta del Falcon, dove era apparso un altro uomo. Era più giovane e a capo scoperto: Nicholas notò la carnagione olivastra e i folti capelli scuri e ondulati. «Non l'ho mai visto in vita mia. Chi è?» chiese Nicholas. «Nahoot Guddabi. Era l'assistente di Duraid al museo, e adesso ha preso il suo posto.» Mentre Nahoot scendeva, l'aereo della Kenya Airways incominciò la corsa sul tarmac; poi virò sulla pista di rullaggio e impedì loro di vedere il gruppo accanto al Falcon. Entrambi si abbandonarono sui sedili e si guardarono per un lungo momento. Nicholas fu il primo a parlare. «Un vero sabba di stregoni... Siamo stati fortunati a vedere la scena. Ormai non ci sono più segreti. Sappiamo chi sono i nostri avversari.» «Von Schiller è il burattinaio», ammise Royan, senza fiato per la rabbia e l'orrore. «Ma Nahoot Guddabi è il suo cane da caccia: deve essere stato lui ad assoldare i killer al Cairo e a mandarli contro di noi. Oh, Dio, Nicky, avresti dovuto sentirlo al funerale di Duraid. Continuava a ripetere quanto lo aveva ammirato e rispettato. Lurido ipocrita assassino.» Rimasero in silenzio fino a che l'aereo non decollò e raggiunse la quota di crociera, poi Royan disse a voce bassa: «Naturalmente, avevi ragione a proposito di Obeid. Anche lui è sul libro paga di von Schiller», «Be', è possibile che, come rappresentante del governo etiope, sia venuto a ricevere il titolare di una grossa concessione, un uomo che sta per scoprire favolosi giacimenti di rame e che quindi porterà ingenti ricchezze al Paese...» Wilbur Smith
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Royan scosse la testa. «Se fosse tanto semplice, sarebbe venuto un ministro, non il capo della polizia. No. Obeid puzza di tradimento, proprio come Nahoot» Vedere gli assassini del marito aveva riaperto le ferite della sua angoscia. Un'emozione amara la bruciava, simile al fuoco che consuma dall'interno il tronco di un albero cavo. Nicholas sapeva di non poter spegnere quella fiamma; tuttavia sperava di riuscire ad allontanare un po' Royan dai suoi pensieri di morte e di vendetta. Le parlò con calma, cercando di indirizzare la sua mente verso la sfida del gioco di Taita e l'enigma della tomba perduta. Giunti a Nairobi, salirono sull'aereo che li avrebbe riportati in Inghilterra. Prima che atterrassero a Heathrow, l'indomani mattina, avevano abbozzato un piano d'azione per tornare nella gola del Nilo ed esplorare la lanca di Taita. Al momento dell'arrivo, Royan sembrava tornata serena e calma come al solito. Nicholas però sapeva che, sotto la superficie, la sofferenza continuava a bruciare. Atterrarono a Heathrow così presto che passarono dai cancelli dell'immigrazione senza fare coda. Non avevano valigie e quindi non dovettero sottoporsi alla solita roulette alla consegna bagagli. Tenendo sotto un braccio la borsa di nylon che conteneva la pelle del dik-dik e sorreggendo Royan con l'altro braccio, Nicholas passò dalla dogana con l'aria innocente d'un cherubino della Cappella Sistina. «Sei troppo sfacciato», gli mormorò lei quando si allontanarono. «Se sei capace di mentire in modo così convincente alla dogana, come posso fidarmi di te?» La fortuna continuò ad aiutarli. Non c'erano code al parcheggio dei taxi, e così, poco più di un'ora dopo l'atterraggio, scesero davanti alla casa di Nicholas a Knightsbridge. Erano appena le otto e mezzo di lunedì mattina. Mentre Royan faceva la doccia, Nicholas prese un ombrello e andò a fare spese. Poi si divisero il compito di preparare la colazione. Royan si occupò dei toast, mentre Nicholas cuoceva le omelette alle erbe. «Avremo bisogno di esperti quando torneremo nella gola dell'Abay», rifletté Royan mentre lasciava fondere il burro sul toast caldo. «Ho già in mente l'uomo adatto. Ho lavorato con lui altre volte. Era nel genio. E uno specialista di immersioni e costruzioni subacquee. Si è Wilbur Smith
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ritirato e vive in un piccolo cottage nel Devon. Sospetto che sia un po' a corto di quattrini e che si annoi a morte. Prevedo che si butterà su qualunque occasione per risolvere entrambi i problemi.» Non appena ebbero terminato di far colazione, Nicholas disse: «Io laverò i piatti. Tu porta a sviluppare i rullini della stele. Vai da Boots, di fronte a Harrods: non ci metteranno più di un'ora». «Mi sembra un'equa distribuzione del lavoro», commentò lei con aria di sopportazione. «Tu hai la lavastoviglie, e fuori diluvia.» «E va bene», rise Nicholas. «Per addolcire la pillola, ti presterò il mio impermeabile. Mentre aspetti che sviluppino le foto, puoi andare a far spese per rimpiazzare la roba perduta sotto la frana. Io devo fare qualche telefonata importante.» Non appena lei fu uscita, Nicholas prese un notes, si sedette alla scrivania e sollevò il telefono. La prima chiamata fu per Quenton Hall. La signora Street si sforzò di non lasciar capire quanto fosse felice del suo ritorno. «Sulla sua scrivania c'è un mucchio alto mezzo metro di posta, quasi tutte fatture non pagate.» «Ma come siamo allegri.» «Gli avvocati non mi danno un attimo di pace e il signor Markham dei Lloyd's ha telefonato tutti i giorni.» «Sia buona, non dica a nessuno che sono tornato.» Nicholas sapeva che cosa volevano da lui, la stessa cosa che voleva sempre chi telefonava con insistenza: denaro. Nel suo caso, però, non si trattava semplicemente di cinquecento ghinee per il conto del sarto, bensì di due milioni e mezzo di sterline. «Probabilmente è meglio che io stia a York, anziché alla Hall», disse alla signora Street. «Non riusciranno a rintracciarmi nell'appartamento.» Accantonò il pensiero dei debiti, e si concentrò sui compiti immediati. «Ha a portata di mano un notes e una matita? Bene, ecco che cosa deve fare.» Impiegò dieci minuti per dettare l'elenco, poi la signora Street rilesse il testo. «Bene. Proceda, per favore. Torneremo questa sera. La dottoressa Al Simma si fermerà qui a tempo indeterminato. Dica alla governante di prepararle la seconda camera da letto nell'appartamento.» Poi chiamò il Devon e, mentre l'apparecchio squillava, immaginò l'ex cottage della guardia costiera in cima al dirupo affacciato sul grigio, Wilbur Smith
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tempestoso mare invernale. Probabilmente Daniel Webb era nella sua officina dietro la casa, a pasticciare con la Jaguar del 1935, la grande passione della sua vita, oppure a preparare le mosche per la pesca al salmone. La pesca era l'altra sua passione, e li aveva fatti diventare amici. «Pronto?» La voce di Daniel era diffidente e sospettosa. A Nicholas sembrava di vederlo, con la testa calva e lentigginosa come un uovo di piviere, mentre stringeva il ricevitore nel pugno peloso. «Sapper, ho un lavoro per te. Ci stai?» «Dove andiamo, maggiore?» Anche se erano passati tre anni, Webb riconobbe immediatamente la voce di Nicholas. «Verso climi assolati e sinuose danzatrici. La stessa paga dell'ultima volta.» «Ci sto. Dove c'incontriamo?» «Nell'appartamento. Lo ricorderai dall'ultima volta. Domani. Porta il tuo regolo calcolatore.» Danny non aveva fiducia nei computer tascabili. «La Jag è ancora in buone condizioni. Partirò presto e arriverò per l'ora di pranzo.» Nicholas riattaccò; poi fece altre due telefonate, una alla banca di Jersey, l'altra a quella delle isole Cayman. I fondi dei due conti d'emergenza erano scarsi. Il preventivo per la spedizione, messo a punto con Royan durante il volo, ammontava a duecentotrentamila sterline. E sapeva che, come tutti i preventivi, era ottimistico. «Devi sempre aggiungere un cinquanta per cento», si disse. «Quindi la dispensa resterà vuota quando avremo finito. Speriamo che tu non ci stia prendendo in giro, Taita.» Diede le parole d'ordine ai rispettivi cassieri e chiese di provvedere al trasferimento sui suoi conti, con l'intenzione di ritirare immediatamente le somme. C'erano altre due telefonate da fare, prima di partire per York. Da quelle dipendeva il destino dei loro piani, e in entrambi i casi i suoi contatti erano piuttosto vaghi, se non addirittura inconsistenti. Il primo numero era occupato. Fu soltanto dopo numerosi tentativi che Nicholas riuscì a prendere la comunicazione. Gli rispose una voce dal rassicurante accento del West Country. «Buon pomeriggio. Qui l'ambasciata britannica. Desidera?» Nicholas diede un'occhiata all'orologio. La differenza era di tre ore, quindi ad Addis Abeba era pomeriggio. Wilbur Smith
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«Sono sir Nicholas Quenton-Harper, e chiamo dal Regno Unito. Posso parlare con il signor Geoffrey Tennant, il vostro addetto militare, per favore?» Geoffrey rispose quasi subito. «Mio caro ragazzo, allora ce l'hai fatta a tornare a casa. Fortunato te.» «Ho pensato di rassicurarti. Sapevo che ci avresti perso il sonno.» «Come sta l'incantevole dottoressa Al Simma?» «Ti manda un saluto affettuoso.» «Vorrei poterti credere.» Geoffrey sospirò con fare drammatico. «Ho bisogno di un grosso favore, Geoff. Conosci un certo colonnello Maryam Kidane del ministero della Difesa?» «Un uomo di prim'ordine», dichiarò Geoffrey. «Lo conosco bene. Ho giocato a tennis con lui anche sabato scorso. Ha un rovescio diabolico.» «Per favore, chiedigli di mettersi in contatto con me al più presto.» Nicholas diede il numero dell'appartamento di York. «Digli che si tratta di una rara varietà di rondine etiope per la collezione del museo.» «Ne stai combinando un'altra delle tue, Nicky? Non ti è bastato farti buttar fuori dell'Etiopia? Adesso ti metti a trafficare in uccelli rari? Probabilmente è una specie a rischio d'estinzione.» «Mi farai questo favore, Geoff?» «Ma certo. Servire per comandare, vecchio mio. Ci casco sempre.» «Ho un debito con te.» «Uno solo? Vorrai dire una mezza dozzina.» Nicholas ebbe meno successo con la seconda telefonata. Le informazioni internazionali gli diedero un numero di Malta. Al primo tentativo trovò la linea libera. «Rispondi, Jannie!» mormorò. Ma al sesto squillo s'inserì la segreteria telefonica. «Qui è la sede centrale dell'Africair Services. Al momento non c'è nessuno che possa rispondere alla sua chiamata. Lasci il nome e il numero e un breve messaggio dopo il segnale acustico. La richiameremo appena possibile. Grazie.» L'accento sudafricano di Jannie Badenhorst era inconfondibile. «Jannie, sono Nicholas Quenton-Harper. Il tuo vecchio Hercules scassato è ancora in grado di volare? Il lavoro dovrebbe essere uno scherzo, e il compenso è buono. Sono nel Regno Unito. Tu sai il numero dell'appartamento. Non c'è fretta. Andrà benissimo ieri o l'altro ieri.» Wilbur Smith
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Nicholas aveva riattaccato da appena un minuto, quando Royan suonò il campanello. Scese ad aprirle. «Il tuo tempismo è ammirevole», le disse mentre lei entrava con la punta del naso arrossata dal freddo, scrollando le gocce di pioggia dall'impermeabile che le aveva prestato. «Hai fatto sviluppare i rullini?» Royan estrasse dalla giacca il pacchetto giallo e lo sventolò trionfalmente. «Sei un asso della fotografia», gli disse. «Sono venute perfettamente. Posso leggere a occhio nudo tutti i caratteri della stele. Ora possiamo partecipare di nuovo al gioco di Taita.» Misero le foto lucide sul piano della scrivania e le contemplarono. «Hai fatto fare i duplicati? Una serie per te e una per me? Benissimo», approvò Nicholas. «Metterò i negativi nella cassetta di sicurezza in banca. Non possiamo correre il rischio di perderli per la seconda volta.» Con la grossa lente d'ingrandimento, Royan studiò ogni copia, e scelse le foto più nitide di ognuno dei quattro lati della stele. «Ecco le nostre copie da lavoro. Non credo che sentiremo la mancanza dei ricalchi. Queste basteranno.» Lesse a voce alta un breve brano dai geroglifici. «Il cobra si snoda e solleva la testa ingemmata. Le stelle del mattino brillano nei suoi occhi. Per tre volte la sua lingua nera e viscida bacia l'aria.» Royan era animatissima. «Chissà che cosa vuole dirci Taita con questo verso. Oh, Nicky, è così emozionante risolvere di nuovo i suoi misteri!» «Lascia stare, per ora», ordinò severamente lui. «Ti conosco. Se cominci, resteremo qui tutta la notte. Andiamo a caricare il Range Rover. Il viaggio fino a York è lungo, e l'autostrada è ghiacciata. Il clima è un po' diverso da quello della gola dell'Abay.» Royan si raddrizzò e raccolse le foto in un mucchietto ordinato. «Hai ragione. A volte mi lascio trasportare.» Si alzò. «Prima di andare, posso telefonare a casa?» «Intendi dire al Cairo?» «Scusami. Sì, al Cairo. La famiglia di Duraid...» «Non devi dare spiegazioni. Il telefono è lì, accomodati. Ti aspetto giù in cucina. Una tazza di tè farà bene a tutti e due prima della partenza per York.» Royan scese in cucina mezz'ora dopo, con aria colpevole. «Purtroppo Wilbur Smith
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devo darti un'altra seccatura. Ho una confessione da farti.» «Sentiamo.» «Devo tornare a casa... al Cairo», spiegò lei. «Solo per pochi giorni», si affrettò a precisare. «Ho parlato con il fratello di Duraid: ci sono certi affari che devo sistemare.» «Non mi piace che tu torni là sola.» Nicholas scosse la testa. «Dopo le tue ultime esperienze...» «Se la nostra teoria è esatta, e se il pericolo era costituito da Nahoot Guddabi, adesso lui è in Etiopia, e io dovrei essere al sicuro.» «Comunque non mi piace. Sei la chiave del gioco di Taita.» «Mille grazie, gentile signore», disse lei in tono fintamente indignato. «È l'unica ragione per cui non vuoi che mi ammazzino?» «Se qualcuno mi mettesse con le spalle al muro, potrei riconoscere che mi sono abituato ad averti intorno.» «Tornerò prima che tu ti accorga della mia mancanza. E poi avrai tanto da fare mentre sarò via.» «Temo di non riuscire a fermarti», borbottò Nicholas. «Quando hai intenzione di partire?» «C'è un volo questa sera alle otto.» «E un po' improvviso. Siamo appena arrivati.» Lui tentò ancora di protestare, poi capitolò. «Ti accompagnerò all'aeroporto.» «No, Nicky. Per te Heathrow è fuori strada. Posso prendere il treno.» «Insisto.» Il lunedì sera il traffico era relativamente scarso e, una volta usciti dalla zona più popolata, viaggiarono ad andatura sostenuta. Nicholas riferì le telefonate che aveva fatto quando era rimasto solo. «Spero di rimettermi presto in contatto con Mek Nimmur tramite Maryam Kidane. Mek è il perno dell'intero piano. Senza di lui non potremo fare neppure la prima mossa sulla scacchiera del bao.» La lasciò all'ingresso della zona partenze dell'aeroporto di Heathrow. «Telefonami domattina dal Cairo per farmi sapere che stai bene... e quando tornerai. Sarò nel mio appartamento.» Lei gli porse la guancia da baciare, poi scivolò sul sedile e sbatté la portiera. Mentre ripartiva, Nicholas guardò la figura snella nello specchietto retrovisore e si sentì invadere dalla malinconia e da un senso di vuoto. All'improvviso, però, fu colto da una nuova sensazione d'inquietudine. Wilbur Smith
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Nella sua mente prese a suonare un campanello d'allarme. Sarebbe successo qualcosa di brutto quando Royan fosse arrivata in Egitto. Un'altra belva pericolosa era fuggita dalla gabbia e si aggirava nel buio, pronta ad attaccare: ma era ancora troppo presto perché lui potesse distinguerne il colore e la forma. «Ti prego, fa' che non le accada niente.» Parlava a voce alta, ma non sapeva a chi rivolgeva quella supplica. Pensò di tornare indietro e di costringerla a rimanere con lui. Però non aveva il diritto di farlo e sapeva che Royan non gli avrebbe obbedito. Non poteva imporle la sua volontà, se non ricorrendo alla forza fisica... No, doveva lasciarla andare. «Ma non mi piace per niente», ripeté. La sua segretaria privata e gli uomini che lavoravano per lui sapevano bene che cosa si aspettava da loro. Tutto era come aveva richiesto. Gotthold von Schiller girò uno sguardo di approvazione all'interno della baracca. Helm aveva fatto un buon lavoro nell'arco di tempo stabilito per preparare la base in vista del suo arrivo. L'alloggio privato occupava una metà della lunga costruzione smontabile. Era spartano, ma lindo e pulitissimo, addirittura asettico. Gli abiti erano appesi nell'armadio, i cosmetici e le medicine allineati nel pensile del bagno. La cucina era perfettamente attrezzata e fornita di provviste. Il cuoco cinese aveva viaggiato con lui a bordo del Falcon e aveva portato quanto era necessario per preparare i pasti richiesti dal padrone. Von Schiller era vegetariano, astemio e non fumava. Vent'anni prima aveva avuto una predilezione per i piatti robusti della Foresta Nera, i vini del Reno e i tabacchi scuri di Cuba. A quei tempi era obeso, con tanto di doppio mento. Adesso, nonostante l'età, era magro, in forma, vivace come un levriere da corsa. Nell'autunno della vita, i suoi piaceri appartenevano alla mente e alle emozioni più che ai sensi fisici. Attribuiva agli oggetti inanimati un valore maggiore che alle creature viventi, esseri umani o animali che fossero. Un pezzo di pietra scolpito da artisti morti da millenni riusciva a eccitarlo più del corpo caldo e morbido della donna più bella. Amava l'ordine e il dominio. Il potere sugli uomini e sugli avvenimenti lo nutriva più del cibo. Il potere e il possesso di oggetti unici e bellissimi erano le sue passioni, ora che il suo corpo si andava esaurendo e gli appetiti animaleschi perdevano Wilbur Smith
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d'interesse. Nel corso degli anni, era diventato consapevole della propria mortalità. Come un faraone egizio sentiva di avvicinarsi alla fine del viaggio e paventava la tenebra che lo attendeva. Come avevano fatto gli antichi re del Nilo, desiderava l'unica cosa che non poteva ottenere, l'immortalità. Forse per questo lo affascinavano tanto i corredi funerari di quei sovrani. Forse sperava in una immortalità vicaria strappata agli antichi, in una forza vitale sopravvissuta ai millenni e capace di dotarlo misteriosamente del potere di sfuggire all'inevitabile. Sorrise senza allegria e accantonò quelle riflessioni fantasiose. Le aveva fatte spesso in passato e non aveva mai trovato una risposta. Di una cosa era certo: la ricerca che aveva intrapreso era l'avventura più importante cui destinare il tempo che gli restava da vivere. L'impero che aveva costruito si estendeva su tutti i continenti. Come Ramesse II, il più grande dei re guerrieri, aveva conquistato il mondo a lui conosciuto. Adesso era pronto a rischiare tutto, anche la vita che gli rimaneva, in quell'avventura finale. Ogni oggetto dell'immensa, inestimabile collezione di tesori antichi che aveva radunato era stato scoperto da altri. Quella era la sua grande occasione, l'ultima occasione di compiere una scoperta personalmente, spezzare i sigilli sulla porta della tomba di un faraone ed essere il primo, dopo quasi quattromila anni, a vederne il contenuto. Forse era la sua vera speranza d'immortalità, e non c'era un prezzo in oro e in vite umane che non fosse disposto a pagare per ottenerla. Già diversi uomini erano morti per la sua passione, e non gli interessava che vi fossero altre vittime. Nessun prezzo era troppo alto. Si guardò nel grande specchio appeso alla parete di fronte al letto e si allisciò i capelli folti, scuri e ruvidi. Erano tinti, naturalmente, ma quella era una delle poche vanità che gli restavano. Attraversò il pavimento di legno del suo alloggio e aprì la porta della sala conferenze che gli sarebbe servita come quartier generale. I presenti seduti intorno al tavolo si alzarono immediatamente con espressioni servili e ossequiose. Von Schiller si diresse all'estremità del lungo tavolo e salì sul cubo di legno coperto da un tappeto che era stato sistemato dalla segretaria privata. Il cubo era alto una ventina di centimetri e lo seguiva dovunque. Da lassù, von Schiller squadrò gli uomini e la donna che lo stavano aspettando. Li scrutò senza fretta, lasciandoli in piedi Wilbur Smith
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ancora un po'. Sul cubo, era più alto di loro. Guardò anzitutto Helm. Il texano lavorava per lui da più di un decennio. Era del tutto affidabile, forte fisicamente e mentalmente. Eseguiva gli ordini senza discussioni e senza scrupoli. Von Schiller aveva finito per contare su di lui. Poteva mandarlo in qualunque parte del mondo, dallo Zaire ai Queensland, dal circolo polare artico alle foreste equatoriali: Helm svolgeva il suo compito senza chiasso e con poche conseguenze spiacevoli. Era spietato ma discreto e, come un buon cane da caccia, conosceva il padrone. Da Helm, von Schiller girò lo sguardo sulla donna. Utte Kemper era la sua segretaria privata. Dirigeva e organizzava i particolari della sua vita, dai pasti al cubo di legno, dalle medicine agli impegni sociali. Nessuno veniva mai ricevuto da von Schiller se prima lei non prendeva accordi. Era anche la sua esperta di comunicazioni. La massa di apparecchi elettronici che occupavano una parete della baracca costituivano la sua riserva di caccia. Utte era capace di destreggiarsi nell'etere con l'istinto infallibile d'un piccione viaggiatore. Dall'arte arcaica dell'alfabeto Morse al random switching, non c'era nessuno in grado di eguagliarne l'abilità, almeno per quanto risultava a von Schiller. Aveva l'età ideale per una donna, quarant'anni, era snella e bionda, con gli occhi verdi obliqui e gli zigomi alti: somigliava alla Dietrich giovane. La moglie di von Schiller, Inge, era invalida da vent'anni, e Utte Kemper aveva colmato il vuoto che aveva lasciato: tuttavia era per lui qualcosa di più di una segretaria o di una moglie. Quando von Schiller aveva conosciuto Utte, lei aveva un incarico importante nella sezione tecnica della rete nazionale tedesca delle telecomunicazioni, e nel tempo libero faceva la porno attrice, non per denaro bensì per divertimento. Le copie dei video che aveva realizzato a quel tempo erano fra gli oggetti più preziosi di von Schiller, dopo la collezione di antichità egizie. Come Helm, anche lei non aveva scrupoli. Non c'era niente che non fosse disposta a fargli o a lasciarlo fare per soddisfare le sue fantasie più bizzarre. Mentre lui guardava i video, Utte ripeteva dal vivo alcune delle sue performances: era ormai l'unica donna che riusciva a portarlo all'orgasmo. Anche questo, tuttavia, accadeva sempre più raramente con il trascorrere dei mesi, e ogni volta lo sfogo sessuale era meno intenso. In quel momento, Utte aveva davanti a sé un registratore. Tenere una documentazione accurata e completa di ogni riunione e di ogni Wilbur Smith
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conversazione rientrava nelle sue molteplici incombenze. Von Schiller staccò lo sguardo dai due fidi dipendenti e lo indirizzò verso gli altri due uomini in piedi accanto al tavolo. Aveva incontrato per la prima volta il colonnello Nogo quella mattina, quando era sceso dall'elicottero Bell Jet Ranger che li aveva portati da Addis Abeba al campo base in cima alla scarpata della gola del Nilo. Sapeva pochissimo di lui, a parte il fatto che Helm, dopo averlo scelto, si era detto abbastanza soddisfatto del suo comportamento. Von Schiller non era altrettanto impressionato: c'erano già stati alcuni errori. Nogo s'era lasciato sfuggire Quenton-Harper e l'egiziana. Dopo aver operato in Africa per tutta una vita, von Schiller nutriva una scarsa fiducia nei confronti dei neri e preferiva lavorare con gli europei. Tuttavia si rendeva conto che, in quel frangente, i servizi di Nogo erano indispensabili. Dopotutto era il responsabile militare del Gojam. Senza dubbio, quando non fosse stato più utile, Helm si sarebbe occupato di lui. E von Schiller non avrebbe dovuto preoccuparsi dei particolari. Infine osservò l'ultimo dei presenti. Anche quello era un elemento indispensabile, almeno per ora. Era stato Nahoot Guddabi a segnalare all'attenzione di von Schiller l'esistenza del settimo papiro. A quanto gli risultava, un autore inglese aveva scritto una versione romanzata dei rotoli, ma von Schiller non leggeva mai opere di narrativa, in tedesco o in un'altra delle quattro lingue che parlava correntemente. Se Nahoot non gli avesse segnalato i papiri di Taita, forse avrebbe perso la grande occasione della sua vita. Nahoot si era rivolto a lui non appena Duraid Al Simma aveva completato la traduzione dei rotoli e rivelato l'esistenza di un faraone, ignorato dai documenti, e della sua tomba. Da quel giorno erano rimasti in continuo contatto; poi, quando Al Simma e la moglie avevano incominciato a spingersi troppo avanti con le ricerche, von Schiller aveva incaricato Nahoot di liberarsi di loro e di portargli il settimo papiro. Adesso il settimo papiro era la stella più fulgida della sua collezione ed era custodito al sicuro con gli altri tesori antichi nei sotterranei di acciaio e cemento dello Schloss montano che era il suo rifugio privato, il suo Nido dell'Aquila. Nonostante questo, era stato un errore scegliere Nahoot per il compito delicato di sbarazzarlo di Al Simma e della moglie. Avrebbe dovuto assoldare un professionista... Nahoot però aveva sostenuto che ci avrebbe Wilbur Smith
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pensato lui, ed era stato ben pagato per il lavoro che aveva gestito con tanta inettitudine. Anche lui sarebbe stato sacrificabile a tempo debito, ma per il momento von Schiller ne aveva ancora bisogno. Non c'era dubbio: la conoscenza dell'egittologia e dei geroglifici di Nahoot era assai maggiore di quella di von Schiller. Dopotutto Nahoot aveva passato gran parte della vita a studiarli, mentre von Schiller, seppur animato da un grande entusiasmo, era poco più di un dilettante. Nahoot sapeva leggere i papiri e il materiale che avevano acquisito come se fossero lettere di un amico, mentre von Schiller era costretto a scervellarsi su ogni simbolo, doveva consultare spesso i testi e anche così non riusciva ad afferrare le sfumature. Senza la collaborazione di Nahoot non poteva sperare di risolvere gli enigmi che gli si paravano davanti nella ricerca della tomba di Marnose. «Prego, Frau Kemper, si sieda. Anche voi, signori. Incominciamo.» Von Schiller rimase in piedi sul suo cubo a capotavola. Gli piaceva la sensazione di essere più alto. La sua statura gli aveva sempre causato umiliazioni fin dai tempi della scuola, quando i compagni l'avevano soprannominato «Pippa». «Frau Kemper registrerà tutto ciò che verrà detto questo pomeriggio. Inoltre consegnerà a ognuno di voi una cartella di documenti che poi ritirerà al termine della riunione. Voglio che sia chiaro: il materiale non uscirà mai da questa stanza. Ha carattere estremamente confidenziale, appartiene a me solo. Considererò gravissima ogni violazione di queste istruzioni.» Mentre Utte distribuiva le cartelle, von Schiller guardò uno dopo l'altro gli uomini che le ricevevano; la sua espressione non lasciava dubbi sul genere di punizione prevista per il mancato rispetto degli ordini. Aprì il dossier che gli stava davanti e appoggiò i pugni sul piano del tavolo. «Nelle cartelle ognuno di voi troverà copie delle foto polaroid prelevate nel campo di Quenton-Harper. Guardatele, per favore.» Ognuno degli uomini aprì la sua cartelletta. «Dopo il nostro arrivo, il dottor Nahoot ha avuto occasione di studiarle, ed è dell'opinione che siano autentiche, e che la stele fotografata sia un manufatto di antica origine egizia, attribuibile quasi sicuramente al Secondo periodo intermedio, cioè tra il 1715 e il 1555 circa avanti Cristo. Desidera aggiungere qualche altra cosa, dottore?» Wilbur Smith
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«Grazie, Herr von Schiller.» Nahoot sfoggiò un sorriso untuoso, ma nei suoi occhi scuri passò un lampo di nervosismo. Il vecchio tedesco, così freddo e distaccato, lo atterriva. Non aveva lasciato trasparire la minima emozione quando gli aveva ordinato di organizzare l'omicidio di Duraid Al Simma e della moglie. Nahoot sapeva che sarebbe rimasto altrettanto impassibile se avesse ordinato di uccidere lui. Si rendeva conto del rischio che stava correndo. «Vorrei fare una precisazione. Ho detto che la stele fotografata sembra autentica. Naturalmente non potrò esprimere un'opinione definitiva se prima non avrò esaminato con i miei occhi la pietra in questione.» «Prendo nota di quanto ha precisato.» Von Schiller annuì. «E siamo qui riuniti per trovare il modo di procurarci la stele in modo che lei possa esaminarla e formulare un giudizio inconfutabile.» Prese la copia che Utte aveva ricavato dall'originale proprio quella mattina, nella camera oscura allestita nella baracca vicina. La fotografia non era l'ultima delle sue specialità, e aveva fatto un ottimo lavoro. Le copie delle polaroid che Helm gli aveva trasmesso ad Amburgo erano confuse, ma erano state sufficienti per farlo accorrere da un continente all'altro. Adesso aveva in mano la riproduzione nitida e a colori, e l'eccitazione minacciava di soffocarlo. Mentre gli altri tacevano, accarezzò affettuosamente la foto come se fosse l'oggetto che riproduceva. Se la stele era autentica, e von Schiller sentiva istintivamente che lo era, da sola valeva il costo enorme in tempo, denaro e vite umane che aveva già pagato. Era un tesoro meraviglioso, degno dell'originale del settimo papiro che già faceva parte della sua collezione. Lo stato di conservazione della stele, dopo quasi quattromila anni, pareva straordinario. La desiderava come aveva desiderato ben poche cose nella sua lunga vita. Doveva compiere uno sforzo per accantonare quel desiderio soggiogante e dedicarsi invece al compito che lo attendeva. «Tuttavia, se la stele è autentica, dottore, può dirci dove si trova, e dove dovremmo orientare le ricerche?» «Io penso che non dobbiamo considerare la stele come una cosa isolata, Herr von Schiller. Dovremmo analizzare le altre polaroid che il colonnello Nogo è riuscito a recuperare, e che Frau Kemper ha copiato in modo tanto ingegnoso.» Nahoot posò una copia e ne prese un'altra dalla cartella. «Questa, per esempio.» Gli altri frugarono nelle rispettive cartelle e scelsero la stessa fotografia. Wilbur Smith
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«Se studiate lo sfondo di questa, vedrete che, nelle ombre dietro la stele, c'è la parete di una grotta o di una caverna.» Nahoot guardò von Schiller che annuì per incoraggiarlo. «Inoltre si scorge una specie di porta a sbarre.» Posò la copia e ne prese un'altra. «Ecco, guardate. È la foto di un altro soggetto: mi pare una decorazione affrescata su un muro intonacato o sulla roccia di una caverna, forse di una tomba. Sembra che sia stata fatta attraverso la grata della porta che ho indicato nella prima foto della stele. L'affresco è quasi sicuramente d'origine egizia. Anzi, ricorda moltissimo gli affreschi che ornavano la tomba della regina Lostris nell'Alto Egitto, dove sono stati scoperti i papiri di Taita.» «Sì, sì. Continui!» lo invitò von Schiller. «Bene. Se consideriamo la porta a sbarre come fattore collegante, abbiamo ogni motivo di credere che la stele e gli affreschi si trovino nella stessa caverna o nella stessa tomba.» «Se è così, che indicazioni abbiamo circa il luogo dove Quenton-Harper ha scattato le polaroid?» Von Schiller girò lo sguardo accigliato sugli altri che cercarono di evitare i penetranti occhi azzurri. «Colonnello Nogo», disse alla fine von Schiller, «questo è il suo Paese e lo conosce bene. Che ne pensa?» Il colonnello scosse la testa. «Quest'uomo... questo egiziano...» disse come se fosse un insulto, «si sbaglia. Non si tratta di una tomba egizia.» «Perché?» ribatté irritato Nahoot. «Che ne sa lei di egittologia? Io ho passato venticinque anni...» «Aspetti.» Von Schiller lo zittì perentoriamente. «Lo lasci finire.» Guardò Nogo. «Continui, colonnello.» «Ammetto di non sapere niente di tombe egizie, ma le foto sono state fatte in una chiesa cristiana.» «Come mai è così sicuro?» chiese rabbiosamente Nahoot, esasperato nel sentir mettere in discussione la sua autorità. «Mi lasci spiegare. Quindici anni fa fui ordinato prete. Più tardi, deluso dal cristianesimo e da tutte le altre religioni, lasciai la Chiesa e mi arruolai. Lo sto dicendo per convincerla che so quel che dico.» Sorrise a Nahoot con maligna alterigia prima di continuare. «Guardi di nuovo la prima foto e vedrà sulla parete in fondo, vicino all'angolo della porta a sbarre, il contorno di una mano e l'immagine stilizzata di un pesce. Sono simboli della Chiesa copta. Li può vedere in tutte le chiese e le cattedrali di questo Paese.» Wilbur Smith
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Tutti scrutarono le fotografie, ma nessuno si azzardò a esprimere un'opinione prima che l'avesse fatto von Schiller. «Ha ragione», disse questi a voce bassa. «Ci sono la mano e il pesce...» «Ma le assicuro che i geroglifici sulla stele e sugli affreschi, nonché la bara di legno, sono tutti egizi», si difese Nahoot. «Ci scommetterei la vita.» Nogo scosse la testa e cominciò a ribattere: «So quello che dico...» Von Schiller alzò la mano per farli tacere entrambi, mentre rifletteva sul problema. Alla fine prese una decisione. «Colonnello Nogo, mi mostri la foto del satellite con il sito del campo di Quenton-Harper, dove si è procurato queste polaroid.» Nogo si alzò, girò intorno al tavolo e si fermò accanto a von Schiller. Poi si chinò sulla foto del satellite e puntò l'indice sul luogo vicino alla confluenza tra il Dandera e il Nilo. Era la foto che un tempo era stata in possesso di Nicholas Quenton-Harper e che Nogo aveva portato via durante l'attacco al campo. C'erano numerosi segni tracciati con evidenziatori colorati: con ogni probabilità li aveva fatti l'inglese. «Era qui, signore. Come vede, Quenton-Harper ha segnato il punto con un cerchio verde.» «Ora mi mostri dove si trova la chiesa copta più vicina.» «È qui, Herr von Schiller. Quenton-Harper l'ha segnata in verde. Si trova a poco più di un chilometro e mezzo dal campo. È il monastero di san Frumenzio.» «Ecco la soluzione.» Von Schiller aveva ancora la fronte aggrottata. «Simboli copti ed egizi. Il monastero.» Gli altri lo guardavano senza avere il coraggio di contestare la sua conclusione. «Voglio che il monastero sia perquisito», disse a voce bassa. «Desidero che siano esaminati ogni stanza e ogni centimetro di ogni parete.» Si rivolse a Nogo. «Può farci entrare i suoi uomini?» «Naturalmente, Herr von Schiller. Ho già nel monastero un uomo fidato. Uno dei monaci è al mio servizio. E nel Gojam è tuttora in vigore la legge marziale. Io sono il comandante militare; posso cercare ribelli, dissidenti e banditi dovunque ritengo che si nascondano.» «E i suoi uomini saranno disposti a entrare in una chiesa per fare il loro dovere?» chiese Helm. «Lei, personalmente, ha qualche scrupolo religioso? Potrebbe essere necessario... Come dire?... profanare il luogo Wilbur Smith
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sacro.» «Ho già spiegato che ho abbandonato la religione per altri ideali più terreni. Sarebbe un piacere distruggere simboli superstiziosi e pericolosi come quelli che si trovano senza dubbio nel monastero. In quanto ai miei uomini, sceglierò solo musulmani o animisti ostili al cristianesimo. Li guiderò personalmente. Posso assicurarle che non ci saranno difficoltà.» «Come lo spiegherà ai suoi superiori di Addis Abeba? Non voglio essere associato in alcun modo con quel che farà nel monastero», lo ammonì von Schiller. «Il comando supremo di Addis Abeba mi ha ordinato di prendere tutte le possibili misure contro i ribelli dissidenti attivi nella gola dell'Abay, quindi potrò giustificare la perquisizione.» «Voglio la stele e la bara. Le voglio a qualunque costo. Ha capito, colonnello?» «Ho capito perfettamente, Herr von Schiller.» «Sa già che sono generoso con chi mi serve bene. Mi porti quegli oggetti in buone condizioni e sarà ben ricompensato. Può rivolgersi al signor Helm che le darà tutta l'assistenza possibile, e le metterà a disposizione l'equipaggiamento e il personale della Pegasus.» «Se potremo usare l'elicottero, risparmieremo molto tempo. Porterò i miei uomini laggiù domani e, se la pietra è nel monastero, potrò consegnargliela prima di sera.» «Benissimo. Porterà con sé il dottor Guddabi che dovrà frugare la tomba per cercare altri oggetti importanti e tradurre le iscrizioni che troverà nel monastero. Gli dia un'uniforme militare: dovrà sembrare uno dei suoi soldati. Non voglio trovarmi più tardi di fronte a qualche recriminazione.» «Partiremo appena sarà abbastanza chiaro per decollare, domani mattina. Comincerò subito a dare disposizioni.» Tuma Nogo salutò militarmente von Schiller e uscì dalla baracca. Anche se non era mai entrato nel qiddist e nel magdas, il colonnello Nogo aveva visitato spesso il monastero di san Frumenzio e quindi si rendeva conto dell'enormità del compito che lo attendeva, e della probabile reazione dei monaci e dei fedeli al suo ingresso forzato. Inoltre, conosceva altre cattedrali scavate nella roccia in varie parti del Paese: era stato ordinato nella famosa cattedrale di Lalibela, e sapeva che erano veri e propri labirinti sotterranei. Wilbur Smith
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Avrebbe avuto bisogno di almeno venti uomini per occupare il monastero, per perquisirlo e per contrastare le rappresaglie sdegnate dell'abate e dei monaci. Scelse personalmente i suoi uomini migliori; nessuno di loro era tipo da farsi intimidire da un religioso. Due ore prima dell'alba li schierò nel complesso della Pegasus alla luce dei riflettori e impartì istruzioni precise. Poi comandò a ognuno di uscire dai ranghi e di ripetere i suoi ordini, in modo che non ci fossero malintesi. Infine ispezionò meticolosamente le armi e l'equipaggiamento. Tuma Nogo sapeva di essere responsabile della fuga dell'inglese e della donna, e fiutava il pericolo nell'atteggiamento che von Schiller aveva tenuto nei suoi confronti. Non si faceva illusioni su ciò che gli sarebbe capitato se avesse fallito ancora. Conosceva Gotthold von Schiller da poco tempo, eppure lo temeva come non aveva temuto neppure Dio o il diavolo al tempo in cui era sacerdote. Si rendeva conto che quell'incursione sarebbe stata un'opportunità per rientrare nelle grazie del piccolo, temibile tedesco. Il Bell Jet Ranger attendeva con il pilota ai comandi, i motori accesi e le pale che giravano pigramente, ma non poteva trasportare tutti quegli uomini in assetto di guerra. Sarebbero stati necessari quattro viaggi per condurli al punto di raduno nella gola. Nogo partì con il primo volo e condusse con sé Nahoot Guddabi. L'elicottero li portò a cinque chilometri dal monastero, in una radura sulle rive del Dandera, lo stesso luogo che avevano usato come base per l'assalto al campo di Quenton-Harper. La radura era abbastanza lontana dal monastero perché il rumore del Bell Jet Ranger mettesse in allarme i monaci. Comunque, anche se lo avessero sentito, di certo si erano ormai abituati agli andirivieni dell'apparecchio e non l'avrebbero considerato un pericolo. Attesero nell'oscurità. Nogo aveva ordinato di restare in silenzio e di non fumare, mentre il Bell Jet Ranger trasportava gli altri tre carichi di soldati. Era ancora buio quando arrivò l'ultimo volo e Nogo poté condurre il contingente giù per il sentiero in riva al fiume. Erano tutti combattenti ben addestrati e in ottima forma fisica. Si muovevano svelti e decisi nella notte. Soltanto Nahoot, abituato a vivere in una grande città, dopo meno di un chilometro cominciò ad ansimare e a chiedere se poteva fare una sosta. Nell'ascoltare le suppliche patetiche di Nahoot, spronato dagli uomini che marciavano dietro di lui, Nogo non Wilbur Smith
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riuscì a trattenere un sorriso di soddisfazione. Il colonnello aveva calcolato che il loro arrivo al monastero avrebbe coinciso con l'ora del mattutino e delle laudi, allo spuntar del giorno. Guidò al trotto il contingente giù per la scala. Tutti imbracciavano le armi; l'equipaggiamento era scrupolosamente insonorizzato in modo che non sferragliasse e non scricchiolasse, e gli stivali con le suole di gomma erano pressoché inudibili sulle lastre di pietra. Gli uomini attraversarono il chiostro deserto e raggiunsero l'entrata della cattedrale sotterranea. Dall'interno giungeva il salmodiare monotono del rito, punteggiato a intervalli dalla voce più acuta dell'abate. Il colonnello Nogo si fermò davanti alla porta, e i suoi uomini si schierarono in doppia fila dietro di lui. Non c'era bisogno di dare ordini; ogni fase del raid era già stata messa a punto. Si girò a guardarli per un momento, poi fece un cenno al tenente. La zona esterna della chiesa era vuota. I monaci erano radunati in quella centrale, il qiddist. Nogo avanzò in fretta, seguito dal contingente. Salì di corsa i gradini che conducevano ai battenti di legno del qiddist. Erano aperti. Quando entrò, i suoi uomini si disposero su due file dietro di lui e presero posizione lungo le pareti laterali, con i fucili d'assalto spianati e le baionette inastate, puntati contro i monaci inginocchiati. L'azione si svolse in silenzio e rapidamente, tanto che passarono un paio di minuti prima che i monaci si accorgessero della presenza degli estranei. Il canto e il rullo di tamburi cessarono, le facce scure si volsero allarmate verso gli uomini armati. Solo Jali Hora, il vecchio abate, era ignaro di quanto stava succedendo. Totalmente assorto in preghiera, rimase inginocchiato davanti alla porta del magdas. La sua voce tremula era il grido solitario di un'anima perduta. Nel silenzio, il colonnello Nogo avanzò al centro della navata scostando a calci i monaci. Quando arrivò alle spalle di Jali Hora lo afferrò per la spalla scarna e, con uno strattone, lo fece cadere sul pavimento. La corona volò via dalla testa del vecchio e rotolò tintinnando sulle lastre di pietra. Nogo lo lasciò disteso, si voltò verso i monaci avvolti negli shammas bianchi e parlò imperiosamente in amharico. «Sono venuto a perquisire la chiesa e il resto del monastero perché si sospetta che ci siano rifugiati ribelli dissidenti e altri banditi.» S'interruppe per squadrare minacciosamente i religiosi spaventati. «Devo avvertirvi: ogni tentativo d'impedire ai miei uomini di compiere il Wilbur Smith
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loro dovere sarà considerato un atto di banditismo e di provocazione e giustificherà il ricorso alla forza.» Jali Hora si trascinò sulle ginocchia, si aggrappò a un arazzo ricamato e si rialzò in piedi lentamente. Poi, senza lasciare l'arazzo della Vergine con il Bambino, cercò di ricomporsi. «Questi sono luoghi sacri!» gridò con voce sorprendentemente chiara ed energica. «Noi siamo consacrati al servizio e al culto di Dio onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo.» «Silenzio!» tuonò Nogo; aprì la fondina che portava al fianco e posò minacciosamente la mano sul calcio della pistola Tokarev. Jali Hora non obbedì. «Siamo religiosi in un luogo di Dio. Qui non ci sono sciftà. Fra noi non c'è nessuno che abbia violato la legge. In nome dell'Altissimo Dio, v'intimo di andarvene, di lasciarci alle nostre preghiere e alle nostre devozioni, e di non profanare...» Nogo estrasse la pistola e con lo stesso movimento avventò la canna d'acciaio contro il volto dell'abate in un rabbioso colpo di rovescio. La bocca di Jali Hora si squarciò come la buccia di una melagrana matura. Il sangue sgorgò dalle labbra lacerate e scorse sui paramenti di velluto. Un gemito di orrore si levò dalle file dei monaci rannicchiati. Aggrappandosi all'arazzo, Jali Hora riuscì faticosamente a rimanere in piedi. Aprì la bocca straziata per parlare ancora, ma l'unico suono che ne uscì fu un crocidio acuto come quello d'un corvo morente, mentre il sangue continuava a cadere a gocce. Nogo rise e gli sferrò un calcio. Jali Hora stramazzò come un mucchio di biancheria sporca e rimase disteso sul pavimento ad ansimare nel sangue e nella saliva. «Dov'è adesso il tuo dio, vecchio babbuino? Puoi belare quanto vuoi, tanto non ti risponderà», disse Nogo. Fece cenno al tenente di attraversare la chiesa. Lasciò sei uomini a sorvegliare i monaci, quattro a ogni porta e uno a ogni parete laterale. Gli altri lo seguirono all'entrata nel magdas. La porta era chiusa a chiave. Nogo scosse spazientito il vecchio catenaccio. «Apri immediatamente, vecchio corvo!» gridò a Jali Hora che era ancora a terra e gemeva e singhiozzava. «E rimbecillito», disse il tenente, scuotendo la testa. «Non ragiona più, colonnello. Non capisce l'ordine.» «Allora sfondatela», comandò Nogo. «No, non perdiamo altro tempo. Wilbur Smith
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Faccia saltare la serratura. Il legno è marcio.» Il tenente si accostò alla grande porta, indicò agli uomini di tenersi lontani, poi puntò l'AK47 e sparò a raffica. Polvere, schegge di legno e di pietra volarono nell'aria come una nube e frantumi gialli caddero sul pavimento. Il frastuono dello sparo e il sibilo delle pallottole che rimbalzavano erano assordanti fra le pareti del qiddist. I monaci gemevano e ululavano, coprendosi gli occhi e le orecchie. Il tenente si scostò dalla porta fracassata. La serratura di ferro battuto penzolava: il legno della porta era stato quasi sfondato. «Abbattetela!» ordinò Nogo. Cinque uomini accorsero e presero a spallate la porta traballante. Ci fu uno scricchiolio violento, e i monaci cominciarono a urlare. Alcuni si erano coperti la testa con i lembi degli shammas per non dover assistere al sacrilegio, altri si graffiavano la faccia lasciando lunghe ferite sanguinanti. «Forza!» tuonò ancora Nogo e gli uomini si precipitarono di nuovo contro la porta, più e più volte, fino a che, con uno schianto, essa non cedette, lasciando intravedere il recesso del magdas, illuminato solo da poche lampade a olio. Gli uomini di Nogo si fermarono. Sembrava che persino quei non cristiani fossero consapevoli del sacrilegio che stavano compiendo. Tutti erano immobili, compreso Tuma Nogo, il miscredente dichiarato. «Nahoot!» il colonnello girò la testa verso l'egiziano. «Adesso tocca a lei. Herr von Schiller le ha ordinato di trovare quello che gli interessa. Venga qui.» Quando Nahoot si avvicinò, Nogo l'afferrò per il braccio e lo spinse oltre la soglia. «Entri, seguace del profeta. La trinità degli dei cristiani non può farle niente.» Seguì Nahoot nel magdas e girò intorno a sé il raggio della torcia elettrica. Il fascio luminoso danzò sui ripiani con le offerte votive, brillò sul vetro, sulle pietre preziose, sull'ottone, sull'argento e sull'oro. Il raggio si arrestò sull'altare di legno di cedro e investì la corona dell'Epifania e i calici, la patera della comunione e l'alta croce copta d'argento. «Dietro l'altare!» esclamò Nahoot. «La porta con le sbarre! è qui che sono state fatte le polaroid.» Si scostò dal gruppo fermo sulla soglia e attraversò correndo la camera. Poi si aggrappò alle sbarre e sbirciò al di là come un detenuto condannato all'ergastolo. Wilbur Smith
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«Ecco la tomba! Portate la torcia!» La sua voce era un urlo acuto e frenetico. Nogo si affrettò a raggiungerlo, sfiorando il damasco che copriva la pietra del tabot, e puntò la torcia attraverso le sbarre. «Nel nome di Dio, misericordioso e compassionevole! Per l'alito eterno del suo profeta!» La voce di Nahoot si smorzò in un sussurro. «Sono gli affreschi dell'antico scriba, l'opera dello schiavo Taita.» Come aveva già fatto Royan, riconosceva lo stile dell'autore. L'arte di Taita era inconfondibile, e il suo talento era sopravvissuto ai secoli. «Aprite il cancello!» Nahoot, spazientito, ritrovò la voce. «Uomini, qua!» ordinò Nogo. Si affollarono intorno all'antica struttura. Prima cercarono di strapparla con la forza dalle pareti, ma quasi subito risultò evidente che ogni tentativo era inutile. Nogo li fermò. «Perquisisca gli alloggi dei monaci», ordinò al tenente. «Trovi gli attrezzi necessari.» L'ufficiale corse via, portando con sé quasi tutti gli uomini. Nogo si scostò dalla porta e studiò l'interno del magdas. «La stele!» sibilò. «Herr von Schiller vuole soprattutto la stele!» Girò intorno a sé il raggio della torcia. «Da quale angolo è stata scattata la polaroid...?» S'interruppe e puntò la luce sulla pietra del tabot che, coperta dal drappo di damasco, sosteneva il tabernacolo avvolto nel velluto. «Sì!» esclamò Nahoot alle sue spalle. «Eccola!» Tuma Nogo si avvicinò alla stele. Afferrò il bordo dorato del drappo del tabernacolo e lo tirò via. Il tabernacolo era un semplice cofanetto in legno d'ulivo, lucido per la patina generata dalle mani dei sacerdoti che lo avevano toccato nel corso dei secoli. «Superstizioni primitive», borbottò sprezzante Nogo. Lo prese con entrambe le mani e lo scagliò contro la parete della caverna. Il legno si spaccò, il coperchio si aprì. Un mucchio di tavolette d'argilla si sparse sul pavimento, ma Nogo e Nahoot non vi badarono. «La scopra», disse Nahoot. «Scopra la pietra.» Nogo tirò l'angolo del drappo di damasco, che tuttavia s'impigliò nello spigolo della colonna. Tirò di nuovo con tutte le sue forze e la stoffa vecchia e marcia si lacerò con un suono sommesso. Il testamento in pietra di Taita, la stele scolpita, apparve nella luce della torcia. Persino Nogo era impressionato dalla rivelazione. Indietreggiò, Wilbur Smith
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stringendo nella mano il drappo strappato. «È la pietra della fotografia», mormorò. «Quella che Herr von Schiller ci ha ordinato di trovare. Siamo ricchi!» Quelle parole dettate dall'avidità spezzarono l'incantesimo. Nahoot accorse, si gettò in ginocchio davanti alla stele e la cinse con le braccia come un innamorato che ritrova l'amata dopo molto tempo. Singhiozzava. Nogo rimase sorpreso nel vedere le lacrime che gli scorrevano sulle guance. Il colonnello pensava unicamente all'ammontare della ricompensa; non gli sembrava logico spasimare tanto per un oggetto inanimato, soprattutto per un pilastro di comunissima pietra. Erano ancora immobili, Nahoot inginocchiato davanti alla stele come un adoratore e Nogo ritto e silenzioso dietro di lui, quando il tenente tornò correndo. Aveva trovato una zappa arrugginita con il manico di legno grezzo. La sua comparsa scosse i due dalla trance. Nogo ordinò: «Sfondi la porta!» Sebbene la porta fosse antica e il legno fragile, ci vollero gli sforzi di diversi uomini impegnati a turno per strappare i perni dalla roccia. Infine, tuttavia, la porta traballò e, mentre i soldati si scostavano con un balzo, crollò sul pavimento con uno schianto, sollevando una nube di polvere rossa che offuscò la luce delle lampade e della torcia elettrica. Nahoot fu il primo a entrare nella tomba. Si avventò nella polvere turbinante e si buttò in ginocchio accanto all'antica bara di legno sgretolato. «Porti la torcia!» gridò. Nogo lo raggiunse e puntò sulla bara il fascio luminoso. Vi era raffigurato un uomo e il disegno, tridimensionale, era stato tracciato non solo sui lati, ma anche sul coperchio. Evidentemente l'artista era lo stesso che aveva eseguito gli affreschi. Il ritratto sul coperchio della bara era in condizioni eccellenti: rappresentava un uomo nel fiore degli anni, dal viso forte e orgoglioso, calmo e imperturbabile, con il volto di un contadino o di un guerriero. Era un bell'uomo dai folti capelli biondi, ritratto abilmente da qualcuno che l'aveva conosciuto bene e gli era affezionato. Sembrava che l'artista avesse catturato il suo carattere ed esaltato le sue virtù più salienti. Nahoot alzò lo sguardo dal ritratto all'iscrizione sulla parete della tomba. La lesse a voce alta; poi, con gli occhi che tornavano a riempirsi di Wilbur Smith
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lacrime, guardò di nuovo la bara e lesse il cartiglio dipinto sotto il ritratto del generale. «Tanus, nobile Harrab.» Aveva la voce soffocata dall'emozione. Deglutì rumorosamente e si schiarì la gola. «Corrisponde esattamente alla descrizione del settimo papiro. Abbiamo la stele e la bara. Sono tesori inestimabili. Herr von Schiller sarà felice.» «Vorrei poterle credere», rispose dubbioso Nogo. «Herr von Schiller è un uomo pericoloso.» «Finora se l'è cavata benissimo», gli assicurò Nahoot. «Non deve far altro che portar via la stele e la bara dal monastero in modo che l'elicottero possa consegnarle al campo della Pegasus. Se lo farà, diventerà molto ricco, più di quanto abbia mai creduto possibile.» Per Nogo fu un incitamento sufficiente. Spronò i suoi uomini che lavoravano intorno alla base del pilastro e scavavano fra nubi di polvere, smuovevano le lastre di pietra del pavimento e finalmente scoprivano le fondamenta della stele, poi la sollevavano dalla posizione in cui era rimasta per oltre tremila anni. Solo quando l'ebbero liberata si resero conto del suo peso. Per quanto fosse slanciata, era circa mezza tonnellata. Nahoot tornò nel qiddist e, ignorando i monaci accovacciati, strappò dalle pareti una dozzina di arazzi di lana e ordinò ai soldati di portarli nel magdas. Avvolse la stele e la bara nelle falde dei tessuti di lana: erano resistenti come la canapa e dunque consentivano agli uomini che dovevano trasportare i due oggetti di sorreggerli con sicurezza. Dieci dei militari più robusti riuscirono a sollevare la stele, mentre ne bastarono tre per portare la bara di legno e il corpo rinsecchito che conteneva. Restavano così sette uomini armati per il ruolo di scorta. Il corteo varcò la soglia del magdas ed entrò nel qiddist. Non appena i monaci capirono che cosa stavano portando via, cominciarono a gemere e a implorare. «Silenzio!» ruggì Nogo. «Silenzio! Fate tacere questi imbecilli!» Le guardie avanzarono fra i monaci, aprendo un passaggio per i tesori rubati e sferrando colpi con gli stivali e il calcio dei fucili. Gridarono ai religiosi di spostarsi per far passare i portatori barcollanti. Il vocio divenne più intenso. I monaci s'incoraggiavano a vicenda con ululati di protesta e s'incitavano l'un l'altro, accendendosi di sacra indignazione. Alcuni balzarono in piedi, sfidando l'ordine di restare seduti. Wilbur Smith
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Si avvicinarono ai soldati armati, si aggrapparono alle loro uniformi, salmodiarono e si agitarono in una manifestazione di ostilità crescente. In mezzo al subbuglio, riapparve all'improvviso la figura spettrale di Jali Hora. La barba e le vesti erano sporche di sangue, gli occhi stralunati. Dalle labbra lacerate uscì un urlo interminabile. Le file dei monaci si aprirono per farlo passare. L'abate si precipitò verso il colonnello Nogo come uno spaventapasseri animato, con i paramenti che gli ondeggiavano intorno alle gambe esili. «Indietro, vecchio pazzo!» intimò Nogo mentre alzava la canna del fucile d'assalto per tenerlo lontano. Jali Hora non si lasciò intimidire. Non rallentò neppure. Si precipitò sulla punta della baionetta. L'acciaio acuminato penetrò nelle vesti sgargianti, affondò nella carne come un arpione nel corpo d'un pesce che si dibatte. La punta della baionetta fuoriuscì dalla schiena e lacerò il manto di velluto, macchiandolo di sangue. Trafitto dall'acciaio, Jali Hora si contorse, mentre un grido terribile gli usciva dalle labbra insanguinate. Nogo cercò di liberare la baionetta, ma la suzione delle viscere dell'abate la teneva bloccata. Allora Nogo strattonò più forte, e Jali Hora fu sbatacchiato qua e là come una marionetta, con le braccia che si agitavano e le gambe che scalciavano grottescamente. C'era un solo modo per liberare la lama. Nogo spostò il selettore dell'AK47 sulla tacca del colpo singolo e sparò. La detonazione fu smorzata dal corpo dell'abate, ma bastò a stroncare per un momento il vociare dei monaci. La pallottola penetrò nel canale d'entrata della lama, muovendosi a una velocità tre volte superiore a quella del suono, e creò un'onda d'urto violentissima che trasformò in gelatina gli intestini del vecchio e rese pressoché liquida la carne. La suzione che aveva trattenuto la baionetta cessò, e lo sparo scagliò il corpo di Jali Hora lontano dalla punta della lama, facendolo piombare tra le braccia dei monaci che s'erano affollati dietro di lui. Il silenzio innaturale si protrasse ancora per un momento, ma poi fu infranto da un coro d'orrore e di rabbia ancora più forte. Sembrava che i monaci fossero animati da un'unica mente, da un unico istinto. Come uno stormo di uccelli bianchi, si avventarono sugli uomini armati per vendicare l'uccisione dell'abate. Non pensavano al prezzo che avrebbero dovuto pagare: attaccarono a mani nude cercando di strappare gli occhi ai soldati e afferrando le canne dei fucili. Alcuni strinsero con le dita le lame delle Wilbur Smith
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baionette, e l'acciaio affilato tranciò carne e tendini. Per qualche istante parve che i soldati stessero per essere sopraffatti. Poi quelli che trasportavano la stele e la bara le lasciarono cadere a terra e imbracciarono le armi. I monaci li assediavano troppo da vicino perché potessero mulinare i fucili; per farsi largo erano quindi costretti a sferrare colpi con le baionette, cosa d'altronde piuttosto agevole dato che l'AK47 ha la canna corta. Le prime raffiche, dirette contro i monaci all'altezza del ventre, aprirono un varco. Ogni pallottola arrivava a segno, trapassava il corpo di un uomo quasi senza rallentare e andava a uccidere anche il monaco che gli stava dietro. Tutti i soldati sparavano tenendo le armi all'altezza dei fianchi e falciavano le file dei monaci con l'efficienza di giardinieri che innaffiano un'aiuola di violette. Quando avevano vuotato un caricatore da trenta colpi, lo estraevano e lo sostituivano con un altro. Nahoot stava acquattato dietro la stele caduta e la usava come scudo. Il crepitare degli spari lo assordava e lo stordiva. Si guardava intorno e non riusciva a credere alla carneficina cui assisteva. A distanza ravvicinata, una pallottola 7.62 è terribile e può tranciare un braccio o una gamba con la stessa efficienza d'un colpo di scure. Se arriva all'addome, può sventrare un uomo come un pesce. Uno dei monaci era stato colpito alla fronte: Nahoot fissò il cranio, che eruttava una nube di sangue e di tessuto cerebrale, poi volse lo sguardo al soldato che aveva sparato: stava ridendo. Parevano tutti contagiati da una sorta di macabra follia: spietati come un branco di cani selvaggi che hanno raggiunto la preda, i soldati continuavano a sparare, a ricaricare, a sparare di nuovo. I monaci delle prime file si voltarono per fuggire e, così facendo, si scontrarono con quelli che li seguivano. Ululando per la sofferenza e il terrore, si agitavano, urtandosi a vicenda, fino a che la gragnuola di pallottole non li investiva, uccidendo e storpiando, per farli poi stramazzare su morti e moribondi. Il pavimento era coperto di morti e feriti. Nel tentativo di sottrarsi alle pallottole, i monaci intasavano l'uscita. I soldati, al centro del qiddist, puntarono i fucili contro di loro. Le pallottole li centrarono, squassandoli come alberi di una foresta assaliti dalla bufera. Si sentivano poche urla, ormai: le voci che Wilbur Smith
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dominavano la scena erano quelle dei fucili. Trascorse qualche minuto prima che le armi smettessero di sparare. Poi, nel silenzio, gli unici suoni che si levarono furono i lamenti e il pianto dei feriti. La navata era piena di fumo azzurrognolo e del puzzo della polvere bruciata. I soldati non ridevano più. Si guardavano intorno e si rendevano conto dell'enormità del massacro. Sul pavimento non c'erano che corpi avvolti negli shammas macchiati di scarlatto; sulle pietre, inondate dal sangue fresco, i bossoli vuoti luccicavano come gemme. «Cessate il fuoco!» ordinò Nogo. «Spall'arm! Sollevate il carico! Avanti, marsc!» La sua voce li scosse. Si appesero i fucili alle spalle e si chinarono per sollevare i pesanti carichi avvolti negli arazzi. Poi avanzarono barcollando, mentre le suole di gomma degli stivali quasi affondavano nel sangue. Così, inciampando nei cadaveri e calpestando corpi scossi da convulsioni, i soldati attraversarono la navata. Il puzzo degli spari e del sangue e la vista delle viscere squarciate si confondevano in un insieme nauseante. Quando arrivarono alla porta e scesero gli scalini, sul volto di quei veterani rotti a tutte le battaglie Nahoot scorse il sollievo di essersi lasciati alle spalle il carnaio. Per lui quel massacro era andato al di là di ogni limite. Neppure nei suoi incubi peggiori aveva visto scene come quelle. Si accostò a una parete, si aggrappò a un arazzo e, scosso dalla nausea, vomitò una boccata di bile. Quando si guardò di nuovo intorno, era solo. C'era soltanto un monaco ferito che, con la spina dorsale trapassata dalle pallottole e le gambe paralizzate che lasciavano una scia viscosa di sangue, si trascinava sul pavimento verso di lui. Con un urlo, Nahoot indietreggiò, girò su se stesso e fuggì dalla chiesa. Attraversò il chiostro affacciato sulla gola del Nilo e seguì i soldati che trasportavano i carichi su per la scala. Stravolto dall'orrore, non sentì avvicinarsi l'elicottero fino a che non si fermò direttamente sopra di lui, sostenuto dallo scintillante disco d'argento delle pale. Gotthold von Schiller stava davanti alla porta della baracca, mentre Utte Kemper attendeva un passo più indietro. Il pilota s'era messo in contatto via radio durante il volo del Bell Jet Ranger, e perciò tutto era pronto per ricevere il carico prezioso. L'apparecchio sollevò una nube di polvere chiara e scese al suolo. Il carico coperto dagli arazzi non entrava nella cabina, e quindi era stato Wilbur Smith
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necessario legarlo di traverso ai pattini. Nell'istante in cui i pattini baciarono il suolo e il pilota bloccò il motore, Jake Helm si fece avanti: sotto la sua direzione, una squadra d'una dozzina di uomini si apprestò a rimuovere le cinghie di nylon e a sollevare il carico. La squadra di operai in tuta portò la stele nella baracca, mentre Helm impartiva ordini secchi. Al centro della sala conferenze era stato liberato uno spazio, accostando alla parete il lungo tavolo. Con estrema cura la stele venne posata a terra e, pochi minuti più tardi, fu la volta della bara di Tanus, Grande Leone d'Egitto. Helm congedò bruscamente la squadra, poi chiuse la porta. Nella sala rimasero in quattro. Nahoot e Helm si accosciarono accanto alla stele, pronti a rimuovere gli arazzi di lana. Von Schiller era in piedi accanto alla parte superiore, con Utte al fianco. «Dobbiamo incominciare?» chiese Helm. Guardava la faccia di von Schiller come un cane fedele guarda il padrone. «Adagio», avvertì von Schiller con voce soffocata. «Non danneggiate niente.» Sudava, ed era pallidissimo. Utte gli si avvicinò con fare protettivo, ma lui non la degnò di uno sguardo. Fissava il tesoro che stava ai suoi piedi. Helm aprì il coltello a serramanico e tagliò le corde infiocchettate. Il respiro di von Schiller diventò più affannoso. Gli strideva nella gola come il rantolo di un uomo in preda a un enfisema. «Sì», bisbigliò con voce rauca. «Si fa così.» Utte Kemper lo fissava: von Schiller era sempre in quelle condizioni quando faceva un'aggiunta importante alla sua collezione di antichità. Sembrava sull'orlo di un colpo apoplettico o di un attacco cardiaco, ma Utte Kemper sapeva che aveva un cuore robusto come quello di un bue. Helm si avvicinò all'estremità superiore del pilastro e praticò un taglio nel tessuto, infilò la punta della lama nell'apertura e la fece scorrere lentamente verso la base, come il cursore di una chiusura lampo. La lama era affilata come un rasoio e l'arazzo cadde, rivelando la stele incisa. Il sudore sgorgava dalla fronte di von Schiller come una fitta rugiada e, dal mento, gli colava fin sulla sahariana. Si lasciò sfuggire un gemito quando vide i geroglifici. Utte lo osservava con eccitazione crescente. Sapeva che cosa aspettarsi da lui quando era in preda a un simile Wilbur Smith
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parossismo d'emozione. «Vede, Herr von Schiller?» Nahoot s'inginocchiò accanto all'obelisco e indicò i contorni di un falco con l'ala spezzata. «È la firma dello schiavo Taita.» «È autentica?» La voce di von Schiller era quella di un uomo sofferente. «Autentica. Lo garantisco con la mia vita.» «Forse sarà proprio così», lo avvertì von Schiller. I suoi occhi avevano lo stesso splendore di due zaffiri pallidi. «La stele fu scolpita quasi quattromila anni fa», ripeté con forza Nahoot. «E il sigillo dello scriba.» Poi tradusse senza difficoltà i gruppi di simboli. Sembrava quasi in preda a un'estasi religiosa. «Anubi dalla testa di sciacallo, dio dei cimiteri, tiene fra le zampe il sangue e le viscere, le ossa e i polmoni e il cuore che sono le mie parti separate. Egli le muove come pedine sulla scacchiera del bao. Le mie membra gli servono come pedine, la mia testa è il Grande Toro della scacchiera lunga...» «Basta così!» ordinò von Schiller. «Avremo tempo più tardi per continuare. Ora andate. Lasciatemi solo. Non tornate se non vi farò chiamare.» Nahoot lo fissò, sbalordito, e si rialzò. Non si era aspettato di venire allontanato nel momento del trionfo. Helm lo chiamò con un cenno. Si avviarono insieme verso la porta della baracca. «Helm», esclamò von Schiller. «Faccia in modo che nessuno mi disturbi.» «Certo, Herr von Schiller.» Helm lanciò un'occhiata interrogativa a Utte Kemper. «No», disse von Schiller. «Lei resta.» I due uomini uscirono e Helm chiuse con cura la porta. Utte andò a girare la chiave, poi si voltò verso von Schiller con le mani dietro la schiena. I seni erano sodi e sporgenti, e i capezzoli spiccavano attraverso la camicetta di cotone sottile. «Il costume?» chiese. «Vuoi il costume?» Anche la sua voce era tesa. Apprezzava quel gioco quasi quanto lui. «Sì, il costume», bisbigliò von Schiller, e lei attraversò la sala e sparì oltre la porta che conduceva nell'alloggio privato. Non appena rimase solo, von Schiller cominciò a spogliarsi. Quando Wilbur Smith
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rimase nudo, buttò gli indumenti in un angolo e si girò verso la porta dalla quale sarebbe rientrata Utte. Lei apparve sulla soglia e von Schiller si lasciò sfuggire un grido soffocato nel vedere la trasformazione. Indossava la tipica parrucca egizia a treccioline sovrastata dall'ureo, il cerchio d'oro con il cobra eretto sopra la fronte. La corona era autentica e antichissima, e von Schiller l'aveva pagata cinque milioni di marchi. «Io sono la reincarnazione della regina Lostris», mormorò lei. «La mia anima è immortale, la mia carne è incorruttibile.» Calzava sandali dorati e sfoggiava bracciali, anelli e orecchini provenienti dalla tomba di una principessa, tutte autentiche reliquie reali. «Sì.» La voce di von Schiller era soffocata, la faccia pallida come quella di un morto. «Niente può distruggermi. Io vivrò in eterno», disse lei. La gonna era di diafana seta gialla, sostenuta da una cintura d'oro e pietre preziose. «In eterno», ripeté von Schiller. Utte era nuda dalla cintola in su. I seni erano torniti, candidi come il latte. Lei li sollevò con le mani. «Sono giovani e vellutati da più di tremila anni. Te li offro.» Sfilò i sandali dorati dai piedi snelli e agili. Aprì la gonna gialla scoprendo la parte inferiore del corpo. Tutti i suoi movimenti erano lenti e calcolati. Era un'abile attrice. «Questa è la promessa della vita eterna.» Si posò la mano destra sul folto pelo pubico color miele. «Te la offro.» Von Schiller gemette e batté le palpebre per liberare gli occhi dai rivoli di sudore, mentre la guardava avidamente. Lei fece ondeggiare le anche come un cobra che si erge. Allargò i piedi e aprì le cosce. Scostò con le dita le labbra della vulva. «Questa è la porta dell'eternità. Io te la apro.» Von Schiller gemette più forte. Il rituale non falliva mai, per quanto fosse ripetuto spesso. Si mosse verso di lei come in trance. Era magro e rinsecchito come una mummia millenaria, i peli del petto erano una lanugine argentea, la pelle del ventre rientrante era grinzosa, ma il pelo pubico era scuro e folto come i capelli. Il pene era enorme, sproporzionato rispetto alla vecchia figura scarna da cui pendeva. Mentre Utte si muoveva lentamente per avvicinarsi, s'ingrossò e si sollevò, e il prepuzio avvizzito si accartocciò, rivelando la massiccia testa violacea. «Sulla stele», ansimò Wilbur Smith
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von Schiller. «Presto! Sulla stele.» Utte si voltò e si appoggiò alla stele. Girò la testa per guardarlo mentre lui le veniva alle spalle. Le natiche di Utte Kemper erano rotonde e bianche come due uova di struzzo. Quella notte Helm e i suoi uomini lavorarono fino a tardi nell'officina della Pegasus per fabbricare le casse che dovevano contenere la stele e la bara. All'alba dell'indomani furono caricate su un camion pesante, imbottite di gommapiuma e fissate ad appositi supporti. Nahoot salì sulla parte posteriore del camion che compì in poco più di trenta ore il lungo, faticoso viaggio fino ad Addis Abeba. Il Falcon della Pegasus era già in attesa sulla pista dell'aeroporto, quando il camion impolverato varcò i cancelli e gli si fermò a fianco. Von Schiller e Utte Kemper avevano fatto il viaggio a bordo dell'elicottero della società. Con loro c'era il generale Obeid, che era venuto per augurare buon viaggio. Mentre le casse venivano caricate sul jet, Obeid parlò con il doganiere; questi timbrò i documenti che autorizzavano l'esportazione di due casse di «campioni geologici» e subito si ritirò. «Siamo pronti per accendere i motori, Herr von Schiller», annunciò il capo pilota della Pegasus. Von Schiller strinse la mano di Obeid e salì la scaletta. Utte e Nahoot Guddabi lo seguirono. I cerchi sotto gli occhi dell'egiziano erano più vistosi del solito. Il viaggio lo aveva sfinito, ma non voleva perdere di vista le due casse di legno. Il Falcon salì nel cielo azzurro sopra le montagne e puntò verso il nord. Pochi attimi prima che il pilota spegnesse il pannello ALLACCIARE LE CINTURE, Utte Kemper si affacciò nella cabina e disse: «Herr von Schiller vuole conoscere l'orario previsto per l'arrivo». «Penso che atterreremo a Francoforte alle ventuno. Informi Herr von Schiller che mi sono già messo in contatto radio con la sede centrale perché facciano trovare all'aeroporto i veicoli richiesti.» Il Falcon atterrò con qualche minuto di anticipo e rullò verso l'hangar privato. I funzionari della dogana e dell'immigrazione che li attendevano erano vecchie conoscenze, sempre a disposizione quando il Falcon portava un carico speciale. Dopo aver sbrigato le formalità bevevano una schnapps con Gotthold von Schiller nel piccolo, attrezzato bar di bordo, e Wilbur Smith
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intascavano con discrezione le buste che stavano sul banco accanto ai bicchieri di cristallo. La corsa fra le montagne richiese gran parte della notte. L'autista di von Schiller seguiva il camion della Pegasus sulla strada gelida e tortuosa, senza perderlo mai di vista. Varcarono l'ingresso dello Schloss alle cinque del mattino. Nel parco dei cervi la neve era alta mezzo metro. Il castello, con i suoi bastioni di pietra e le strette feritoie, sembrava uscito dalla fantasia di Bram Stoker. Nonostante l'ora, il maggiordomo e il personale erano alzati per accogliere il padrone. C'erano ad attenderlo anche Herr Reeper, il custode della collezione di von Schiller e i suoi assistenti più fidati, pronti a trasportare le due casse nel sotterraneo. Le sistemarono con reverenza sul carrello elevatore a forche e scesero con l'apposito montacarichi. Mentre aprivano le casse, von Schiller andò nella sua suite, nella torre nord. Fece il bagno e consumò una colazione leggera preparata dal cuoco cinese. Quando ebbe terminato, andò nella stanza della moglie. Era ancora più fragile e smunta dell'ultima volta che l'aveva vista: i capelli erano completamente bianchi, il volto cereo e contratto. Dopo aver allontanato l'infermiera, von Schiller si avvicinò alla moglie e la baciò con tenerezza sulla fronte. Il cancro la consumava lentamente, ma era la madre dei suoi due figli e, a modo suo, lui l'amava ancora. Passò un'ora con lei, poi tornò nella sua camera e dormì per quattro ore. Per quanto fosse stanco, alla sua età non aveva bisogno di un sonno più lungo. Lavorò fino a metà del pomeriggio con Utte e altre due segretarie. Poi il custode lo chiamò con il telefono interno: nel sotterraneo tutto era pronto. Von Schiller e Utte scesero insieme. Quando la porta dell'ascensore si aprì trovarono ad attenderli Herr Reeper e Nahoot. Un'occhiata alle loro facce gli bastò per capire che erano fuori di sé per l'eccitazione e smaniavano di dargli notizie. «Le radiografie sono terminate?» chiese, mentre i due lo seguivano nel corridoio che conduceva al sotterraneo blindato. «I tecnici hanno completato il lavoro», rispose Reeper. «Hanno ottenuto ottimi risultati. Le lastre sono meravigliose. Ja, wunderbar!» Von Schiller aveva finanziato l'ambulatorio locale e ogni sua richiesta veniva considerata un ordine. Il direttore aveva mandato l'apparecchio a raggi X più moderno, due tecnici per radiografare la mummia del nobile Wilbur Smith
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Harrab, nonché una radiologa che aveva il compito d'interpretare le lastre. Reeper inserì il tesserino di plastica nella serratura della porta d'acciaio che si aprì con un sommesso sbuffo pneumatico. Tutti si fecero da parte per lasciare che von Schiller entrasse per primo. L'uomo si soffermò sulla soglia e si guardò intorno. Il piacere non si logorava mai. Al contrario, sembrava diventare più intenso ogni volta che entrava in quel luogo. Le pareti erano protette da due metri di acciaio e di cemento, e sorvegliate da tutte le attrezzature elettroniche più all'avanguardia. Eppure, guardando la sala principale, arredata con eleganza e illuminata da luci soffuse, non si notava nulla di particolare. L'allestimento della sala era stato affidato a uno dei maggiori arredatori europei. Il colore dominante era il blu. Ogni pezzo della collezione era racchiuso in una vetrina, e tutte le vetrine erano abilmente sistemate in modo da mettere in risalto ciò che contenevano. Dovunque si scorgeva il bagliore smorzato dell'oro e delle gemme posati su cuscini di velluto blu. I faretti ingegnosamente nascosti esaltavano la lucentezza dell'alabastro e della pietra, dell'avorio e dell'ossidiana. E poi c'erano statue meravigliose, un vero pantheon delle antiche divinità: Thoth e Anubi, Hapi e Seth, e la triade Osiride, Iside e Horus. Quei loro occhi imperscrutabili che avevano assistito alla processione dei secoli parevano ora fissare austeramente von Schiller. Sul piedistallo provvisorio al centro della stanza, al posto d'onore, stava l'ultima aggiunta a quel tesoro straordinario: il testamento in pietra di Taita. L'uomo si fermò ad accarezzare la stele levigata prima di dirigersi verso la seconda sala. Lì la bara di Tanus, nobile Harrab, era posata su una coppia di Cavalletti. Una donna in camice bianco stava osservando il display luminoso al quale erano fissate le radiografie. Von Schiller andò a scrutare le immagini confuse. Entro il contorno della bara di legno, la forma umana con le braccia incrociate sul petto era nitida. Gli ricordava l'effigie scolpita sul sarcofago di un antico cavaliere in una cattedrale del Medioevo. «Che cosa può dirmi di questo corpo?» chiese alla radiologa, senza guardarla. «Maschio», rispose lei. «Oltre i cinquant'anni, meno di sessantacinque al momento della morte. Statura bassa.» I presenti rabbrividirono e Wilbur Smith
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guardarono von Schiller, che sembrava non aver notato la gaffe. «Mancano cinque denti, un incisivo superiore, un canino e tre molari. Denti del giudizio atrofici. Carie diffusa in quasi tutti gli altri denti. Segni evidenti di schistosomiasi cronica. Probabile poliomielite in età infantile che ha rattrappito la gamba sinistra...» Continuò a elencare le risultanze per cinque minuti, poi concluse: «La probabile causa della morte è una ferita di punta all'emitorace destro, inferta con una lancia o una freccia. Tenendo conto dell'angolo di entrata della punta, dovrebbe aver trapassato il polmone destro». «Niente altro?» chiese von Schiller nel silenzio che seguì. La radiologa esitò un momento, poi proseguì. «Herr von Schiller, lei sa che ho esaminato diverse mummie su sua richiesta. In questo caso, le incisioni attraverso cui furono estratti i visceri sembrano eseguite con maggiore abilità di quella riscontrata su altri cadaveri. Si direbbe che l'operatore fosse un medico.» «Grazie.» Von Schiller si rivolse a Nahoot. «Ha qualche commento da fare, a questo punto?» «Posso dire soltanto che le descrizioni non corrispondono a quelle fornite nel settimo papiro riguardo a Tanus, nobile Harrab, al momento della sua morte.» «In che senso?» «Tanus era alto e molto più giovane. Basta guardare il ritratto sul coperchio della bara.» «Vada avanti», disse von Schiller. Nahoot si avvicinò alle lastre e indicò diversi oggetti scuri che ornavano la mummia: tutti erano massicci e dai contorni molto nitidi. «Gioielli», spiegò. «Amuleti. Bracciali. Pettorale. Varie collane. Anelli e orecchini. Ma la cosa più significativa...» Nahoot additò il cerchio scuro intorno alla fronte del cadavere. «La corona con l'ureo. I contorni del serpente sacro sono inconfondibili sotto le bende.» «E ciò che significa?» Von Schiller era perplesso. «Non era il corpo di un comune mortale, e neppure di un nobile. Gli ornamenti sono troppi, e soprattutto c'è l'ureo, che veniva portato soltanto dai re. Credo che ci troviamo di fronte a una mummia reale.» «Impossibile», scattò von Schiller. «Guardi l'iscrizione sulla bara. E quelle dipinte sulle pareti della tomba. Senza dubbio è la mummia di un generale egizio.» Wilbur Smith
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«Con tutto il rispetto, Herr von Schiller, esiste una spiegazione. Dalle mie analisi dei papiri, si deduce che lo schiavo Taita avrebbe scambiato le due mummie, quella del faraone Marnose e quella del suo amico Tanus.» «E per quale ragione l'avrebbe fatto?» Von Schiller lo guardò, incredulo. «Non per una ragione terrena, bensì spirituale e sovrannaturale. Taita voleva che Tanus possedesse nell'Aldilà tutto il tesoro del faraone. Fu il suo ultimo dono a un amico.» «Lo crede davvero?» «Non lo escluderei. E c'è un altro fatto che tende a suffragare questa teoria. Dalle radiografie risulta evidente che la bara è troppo grande per la mummia che contiene. Mi pare ovvio che fu costruita per accogliere le spoglie di un uomo più imponente. Sì, Herr von Schiller, ritengo molto probabile che questa sia una mummia reale». Von Schiller era diventato cinereo e il sudore gli imperlava la fronte. Con voce tremante chiese: «Una mummia reale?» «Può darsi.» Von Schiller si avvicinò lentamente alla bara sul cavalletto e fissò il ritratto del morto. «L'ureo d'oro di Marnose. I gioielli personali di un faraone.» La mano gli tremava quando la posò sul coperchio della bara. «Se è così, questa scoperta trascende anche le nostre speranze più grandi.» Respirò profondamente. «Aprite la bara e togliete le bende alla mummia del faraone Marnose.» lavoro difficile e complicato. Nahoot l'aveva fatto molte volte, anche se non gli era mai capitato di effettuarlo per i resti terreni di un personaggio illustre come un faraone egizio. Anzitutto fu necessario ritrovare il punto esatto della giuntura del coperchio. A quel punto, Nahoot poté incominciare a intaccare l'antica vernice e le colle che lo tenevano fissato. Era necessario usare la massima cura per causare il minor danno possibile. La bara era di per sé un tesoro inestimabile. Il lavoro richiese quasi due giorni. Quando il coperchio fu libero e pronto per essere asportato, Nahoot inviò un messaggio a von Schiller, che si trovava nella biblioteca al piano di sopra, impegnato in una riunione con i figli e gli altri consiglieri d'amministrazione dell'azienda. Si era fermamente opposto all'idea di recarsi in città per quell'incontro; non voleva allontanarsi dai suoi nuovi Wilbur Smith
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tesori. Von Schiller sospese immediatamente la riunione e la rimandò al lunedì successivo. Poi, senza troppe cerimonie, congedò i consiglieri e i figli e si affrettò a scendere nel sotterraneo. Nahoot e Reeper avevano montato sopra la bara un'impalcatura leggera dalla quale pendevano due argani. Non appena von Schiller entrò, Reeper mandò via gli assistenti. Soltanto loro tre avrebbero presenziato all'apertura della bara. Reeper portò il cubo di legno ricoperto dal tappeto e lo mise in modo che von Schiller potesse vedere all'interno della bara mentre loro lavoravano. Il vecchio vi salì e fece cenno di procedere. I denti dei due argani scattarono uno alla volta; Reeper e Nahoot aumentavano la pressione. Si sentì uno scricchiolio che fece trasalire von Schiller. «Sono le ultime croste di colla che trattengono il coperchio», lo tranquillizzò Nahoot. «Procedete!» ordinò von Schiller, e i due sollevarono il coperchio per un'altra quindicina di centimetri, fino a quando non rimase sospeso sopra la mummia. L'impalcatura era montata su ruote che giravano agevolmente sul pavimento piastrellato e dunque fu facile spingere via l'intera struttura con il coperchio ancora appeso. Von Schiller scrutò nella bara aperta e sul suo viso apparve un'espressione sbalordita. Si era aspettato di vedere una forma umana avvolta nelle bende, serenamente composta nella posa tradizionale. Invece l'interno della bara era imbottito alla rinfusa con bende di lino che nascondevano del tutto il corpo. «Ma che cosa...?» esclamò infuriato, e tese la mano per ghermire una manciata di bende ingiallite. Ma Nahoot lo trattenne. «No, non le tocchi!» gridò. Poi aggiunse: «Mi perdoni, Herr von Schiller, ma è un particolare affascinante. Conferma la mia teoria dello scambio di cadaveri. Penso che dovremmo studiarla prima d'incominciare a togliere le bende. Con il suo permesso, naturalmente». Von Schiller esitò. Era ansioso di scoprire che cosa si nascondeva sotto quei vecchi stracci, ma sapeva che era necessario agire con prudenza. Una mossa avventata poteva causare danni irreparabili. Si raddrizzò e scese dal cubo. Prese un fazzoletto dal taschino della giacca doppiopetto blu e si asciugò la faccia sudata. Gli tremava la voce. «Ma è dunque possibile? Potrebbe davvero trattarsi di Marnose?» Mise Wilbur Smith
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il fazzoletto nella tasca dei pantaloni. Scoprì, con una certa sorpresa, di avere una vigorosa erezione. Con la mano in tasca assestò il pene contro il ventre. «Togliete le bende.» «Con il suo permesso, Herr von Schiller, prima dovremmo fare le fotografie», suggerì educatamente Reeper. «Certo», convenne subito von Schiller. «Siamo scienziati, archeologi, non comuni saccheggiatori di tombe. Fate le fotografie necessarie.» Lavorarono lentamente. Per von Schiller, quell'indugio era tormentoso. Nel sotterraneo non si aveva la sensazione del passare del tempo e quando, a un certo punto, diede un'occhiata all'orologio d'oro, si stupì nel vedere che erano passate le nove di sera. Sciolse la cravatta e la buttò sul banco dove aveva già posato la giacca. A poco a poco una sagoma umana emerse dalla massa compatta delle antiche bende; solo dopo mezzanotte, però, Nahoot rimosse l'ultimo strato di tessuto dal torace della mummia, e i tre batterono le palpebre nello scorgere l'oro appena visibile attraverso le numerose bende che le mani esperte degli imbalsamatori avevano avvolto intorno al cadavere. «In origine, naturalmente, dovevano esserci diverse altre bare. Sono scomparse, come sono scomparse le maschere: devono essere ancora nel sarcofago del faraone, e coprono il corpo di Tanus nella tomba reale ancora da scoprire. Qui abbiamo soltanto la mummia dei sovrano.» Tolse con il lungo forcipe lo strato superiore delle bende e, dall'alto del suo cubo, von Schiller borbottò e strusciò i piedi. «Il pettorale della casa reale di Marnose», mormorò Nahoot in tono reverente. Il grande gioiello brillava sotto la lampada ad arco e copriva il petto della mummia. Era fatto di lapislazzuli, corniole e oro e il motivo centrale era un avvoltoio che volava ad ali spiegate, reggendo i cartigli d'oro del re. L'esecuzione era meravigliosa, lo stile splendido. «Non ci sono più dubbi», sussurrò von Schiller. «I cartigli provano l'identità del corpo.» Liberarono le mani del re, incrociate sul grande pettorale. Le dita erano lunghe, delicate, e cariche di anelli magnifici. Nelle mani contratte stavano il flagello e lo scettro. Quando li vide, Nahoot esultò. «I simboli della sovranità. Tutto prova che questo è Marnose, re dell'Alto e Basso Egitto.» Si mosse per scoprire la testa della mummia, ma von Schiller lo fermò. «La lasci per ultima», ordinò. «Non sono ancora pronto a guardare il volto Wilbur Smith
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del faraone.» Nahoot e Reeper si concentrarono sulla parte inferiore del corpo del re. Via via che asportavano i lini, scoprivano le decine di amuleti che gli imbalsamatori avevano messo sotto le bende per proteggere il morto. Erano d'oro, tempestati di gemme, e di ceramica dai colori smaglianti e dalle forme meravigliose: tutti gli uccelli dell'aria, le creature della terra e i pesci del Nilo. Li fotografarono in situ uno per uno prima di estrarli e di riporli negli scomparti numerati dei vassoi messi in fila sul banco da lavoro. I piedi del faraone erano piccoli e delicati come le mani, e ogni dito era carico di anelli preziosi. Infine rimase coperto soltanto il volto del sovrano. Reeper e Nahoot guardarono von Schiller con aria interrogativa. «È molto tardi», disse il primo. «Se vuole riposare...» «Continuate!» fu l'ordine brusco. I due si spostarono ai lati della testa della mummia, mentre von Schiller restava sul cubo in mezzo a loro. Il viso del re venne esposto gradualmente alla luce per la prima volta dopo più di tremila anni. I capelli erano radi e sottili, ancora colorati dalla rossa tintura all'henné che aveva usato da vivo. La pelle conciata dalle resine aromatiche era dura come ambra lucida. Il naso era sottile e adunco, le labbra contratte in un sorriso quasi sognante che mostrava il vuoto negli incisivi. La resina rivestiva le palpebre che sembravano bagnate di lacrime e gli occhi erano semichiusi. Pareva che la vita vi brillasse ancora; solo quando si accostò, von Schiller si accorse che la luce era il riflesso dei dischetti di porcellana che gli imbalsamatori avevano collocato nelle orbite vuote. Sulla fronte, il faraone portava la corona con l'ureo sacro. Ogni particolare della testa del cobra era ancora perfetto: il metallo tenero non era consunto né graffiato. Si scorgevano le zanne acuminate e curve, la lingua biforcuta arricciolata e gli occhi di lucido vetro azzurro. Sulla banda d'oro era inciso il cartiglio di Marnose. «Voglio la corona.» La voce di von Schiller era soffocata dall'emozione. «Toglietela. Voglio stringerla fra le mani.» «Forse non riusciremo a toglierla senza danneggiare la testa della mummia», protestò Nahoot. «Non discuta. Faccia quello che ho detto.» «Subito, Herr von Schiller.» Nahoot capitolò. «Ma ci vorrà tempo per Wilbur Smith
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liberarla. Se adesso vuole andare a riposare, la informeremo quando l'avremo rimossa.» Il cerchio d'oro era incollato alla pelle intrisa di resina della fronte del faraone. Per toglierla, dovettero sollevare il corpo dalla bara e posarlo sulla barella di acciaio inossidabile pronta a riceverla. Poi fu necessario ammorbidire la resina e asportarla con appositi solventi. Il processo, come aveva detto Nahoot, richiese molto tempo, ma alla fine venne completato. Posarono la corona d'oro su un cuscino di velluto blu, come se fosse pronta per un'incoronazione. Abbassarono tutte le altre luci nella sala principale del sotterraneo e puntarono un unico faretto sul gioiello. Poi salirono ad avvertire von Schiller. Von Schiller non permise ai due archeologi di accompagnarlo quando tornò nel sotterraneo. Solo Utte Kemper era con lui quando aprì la pesante porta blindata. La prima cosa che colpì il suo sguardo fu la corona risplendente nel nido di velluto. Von Schiller prese ad ansimare. Afferrò la mano di Utte e la strinse fino a quando le nocchie non scricchiolarono e la donna si lasciò sfuggire un gemito. Ma il dolore la eccitava. L'uomo allora la spogliò, le mise sulla testa la corona e la fece sdraiare nella bara aperta. «Io sono la promessa della vita», sussurrò Utte. «Il mio volto è il volto lucente dell'immortalità.» Von Schiller non la toccò. Stava nudo accanto alla bara con il pene rigido che sporgeva, fremente, simile a una creatura dotata di vita propria. Utte si passò lentamente le mani sul corpo, e quando raggiunse il monte di Venere, intonò solennemente: «Possa tu vivere in eterno!» L'efficacia prodigiosa della corona di Marnose trovò una prova inconfutabile. Niente aveva mai prodotto lo stesso effetto su Gotthold von Schiller. Alle parole di Utte, la testa violacea del pene eruttò spontaneamente, e fili argentei di sperma sgocciolarono sul morbido ventre bianco. Nella bara scoperchiata, Utte Kemper inarcò la schiena e si contorse in un orgasmo divorante. Royan aveva l'impressione di essere stata lontana dall'Egitto per anni, anziché per qualche settimana. Si rendeva conto che le vie affollate della Wilbur Smith
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città, i profumi meravigliosi delle spezie e del cibo, l'intenso aroma dei bazaar e le voci lamentose dei muezzin che chiamavano i fedeli alla preghiera dai minareti delle moschee le erano mancati oltre ogni dire. Era ancora buio quando, la mattina successiva al suo arrivo, Royan lasciò l'appartamento di Giza. Il ginocchio era ancora gonfio e dolorante, e quindi si avviò lungo la riva del Nilo appoggiandosi al bastone. Guardò l'aurora che tracciava sul fiume un sentiero d'oro e di rame e sembrava incendiare le vele triangolari delle feluche. Lì il Nilo era diverso da quello che aveva incontrato in Etiopia: non era l'Abay, ma il Nilo vero. Era ampio e lento e l'odore di fango che esalava le pareva familiare e gradevole. Quello era il suo fiume, quella era la sua terra. La decisione di portare a termine ciò che era venuta a fare si rafforzò. I dubbi si placarono, la sua coscienza si acquietò. Mentre si allontanava dal fiume, si sentiva forte e sicura di sé e della rotta che doveva seguire. Fece visita alla famiglia di Duraid, e si scusò per la partenza improvvisa e la lunga assenza inspiegata. Sulle prime, suo cognato fu freddo, ma poi la moglie scoppiò a piangere e abbracciò Royan, i bambini le salirono sulle ginocchia perché era sempre stata la loro ammah preferita, e anche lui si commosse al punto da offrirsi di accompagnarla all'oasi. E quando lei spiegò che voleva visitare il cimitero da sola, le prestò la sua Citroen. Giunta davanti alla tomba di Duraid, Royan avvertì l'odore del deserto e la brezza calda che le agitava i capelli. Duraid aveva amato il deserto: e in avvenire gli sarebbe stato sempre vicino. La lapide era semplice e tradizionale: recava solo il nome e le date della nascita e della morte sotto il simbolo della croce. Royan s'inginocchiò, rimise in ordine la tomba, e sostituì i mazzi di fiori avvizziti con quelli che aveva portato dal Cairo. Poi rimase seduta a lungo in silenzio. Rievocò i tanti momenti sereni che avevano trascorso insieme. Ricordò la bontà e la comprensione di Duraid, la sicurezza e il calore del suo amore per lei. Il rimpianto di non averlo mai ricambiato nella stessa misura era forte, eppure Royan era certa che lui aveva capito e perdonato. E adesso si augurava che Duraid comprendesse anche il motivo per cui era tornata. Era venuta a congedarsi, a dirgli addio. Lo aveva pianto e, anche se l'avrebbe ricordato sempre, anche se Duraid sarebbe sempre stato parte di lei, adesso lei doveva andare avanti per la sua strada. Duraid Wilbur Smith
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doveva lasciarla libera. Quando Royan uscì dal cimitero, non si voltò indietro. Si avviò sulla lunga strada che costeggiava il lato meridionale del lago, in modo da evitare anche una fuggevole visione della villa bruciata: il ricordo dell'orribile notte dell'incendio era ancora troppo vivo in lei. Per fortuna, durante la sua assenza, il fratello di Duraid aveva venduto il terreno su cui sorgeva la casa. Tornò in città quando ormai era buio, e la famiglia fu sollevata nel rivederla: suo cognato fece ben tre giri intorno alla Citroen per scoprire se la carrozzeria era danneggiata. Poi, con un sospiro di sollievo, l'uomo invitò Royan a entrare in casa e a gustare la lauta cena che la moglie aveva preparato. Atalan Abou Sin, il ministro che Royan era venuta a cercare, non era al Cairo: si trovava a Parigi in visita ufficiale. Doveva attendere tre giorni prima di poterlo vedere, e siccome sapeva che Nahoot Guddabi non era più al Cairo, si sentiva al sicuro. Decise quindi di passare gran parte del tempo al museo. Là aveva molti amici che furono Reti di vederla e d'informarla di quanto era accaduto durante la sua assenza. Il resto del tempo lo passò nella sala di lettura a esaminare i microfilm dei papiri di Taita, in cerca di qualche indizio che poteva esserle sfuggito in precedenza. Nel secondo rotolo c'era un passo che lesse attentamente, prendendo molti appunti. Ora che la prospettiva di trovare intatta la tomba del faraone Marnose era diventata concreta e credibile, Royan nutriva un evidente interesse per l'eventuale contenuto. Il passo del papiro che aveva attirato la sua attenzione era il racconto di una visita fatta dal sovrano ai laboratori e alle officine della necropoli dove il suo corredo funerario veniva fabbricato e montato proprio tra le mura del grande tempio che il sovrano aveva fatto costruire per la propria imbalsamazione. Secondo ciò che aveva scritto Taita, avevano visitato i vari laboratori, le officine, il magazzino che ospitava un'imponente quantità di armi e armature per il campo di battaglia e per la caccia, e quello dei mobili, ricco di suppellettili preziose e raffinatissime. Erano così giunti nella sala degli scultori. Taita aveva descritto la lavorazione delle statue degli dei e delle immagini a grandezza naturale del re, ritratto in tutte le attività della vita, spiegando inoltre che erano destinate a Wilbur Smith
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fiancheggiare la lunga strada dalla necropoli alla tomba nella Valle dei Re. Lì gli scultori stavano già lavorando al massiccio sarcofago di granito che avrebbe ospitato nei secoli la mummia di Marnose. Tuttavia, secondo il successivo racconto di Taita, la storia aveva avuto ragione di Marnose, sottraendogli questa parte del tesoro: tutte le ingombranti statue di pietra erano state infatti abbandonate nella Valle dei Re quando gli egizi, per sottrarsi agli hyksos che avevano invaso la loro patria, erano fuggiti al sud lungo il Nilo, verso la terra da loro chiamata Cush. Royan si concentrò sulla descrizione che lo scriba aveva fatto del lavoro degli orafi. La descrizione della maschera funeraria del faraone la colpì. «Credo sinceramente», scriveva Taita, «che in tutti i mille anni della nostra civiltà non fosse mai stato realizzato un simile capolavoro dell'arte orafa. Era il culmine, e un giorno le generazioni future si sarebbero meravigliate di tanto splendore.» Royan distolse lo sguardo dal microfilm e si chiese se le parole dell'antico scriba non fossero profetiche. Era destinata a essere tra coloro che si sarebbero meravigliati dello splendore della maschera funeraria d'oro? Sarebbe stata la prima a farlo dopo quasi quattromila anni, avrebbe toccato quel prodigio, prendendolo tra le mani e facendone ciò che le dettava la coscienza? Nell'animo di Royan la compassione per gli uomini di quei tempi lontani si mescolò con la consapevolezza delle loro sofferenze. Dopotutto era la sua gente. Lei era un'egiziana copta, quindi discendeva da loro. E forse era proprio stato quel senso d'appartenenza il motivo principale per cui, fin da bambina, aveva deciso di dedicare la sua vita allo studio dell'antico popolo. Eppure i suoi pensieri adesso si muovevano anche in altre direzioni... soprattutto verso Nicholas Quenton-Harper. Da quando aveva visitato il piccolo cimitero dell'oasi e si era accomiatata dal ricordo di Duraid, il pensiero di Nicholas era diventato più incalzante. Era ancora incerta su tante cose, e doveva compiere molte scelte difficili. Non era possibile realizzare tutti i suoi progetti e i suoi desideri senza sacrificarne altri egualmente importanti. Quando venne finalmente l'ora di presentarsi all'appuntamento con Atalan Abou Sin, Royan faticò a decidersi. Come se fosse in trance, attraversò zoppicando i bazaar, appoggiandosi al bastone per dare sollievo al ginocchio dolorante. Non sentiva i mercanti che gridavano per proporle Wilbur Smith
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qualche acquisto: dalla sua carnagione chiara e dall'abbigliamento inglese presumevano che fosse una turista. Esitò così a lungo prima di compiere il passo irrevocabile che arrivò all'appuntamento con quasi un'ora di ritardo. Per fortuna quello era l'Egitto, e Atalan era un arabo per il quale il tempo non possedeva lo stesso significato che invece aveva per la metà occidentale del carattere di Royan. Come al solito, Atalan fu gentile e premuroso. Quel giorno, nell'intimità del suo ufficio, indossava un dishdasha bianco e un copricapo di tela. Le strinse calorosamente la mano. Se l'incontro si fosse svolto a Londra, forse le avrebbe baciato la guancia, ma in Oriente un uomo non baciava mai una donna, eccettuata la moglie, e soltanto in casa. La condusse nel salotto privato. Il segretario servì il denso caffè nelle minuscole tazzine, e poi indugiò per salvaguardare il decoro dell'incontro. Dopo l'inevitabile scambio di complimenti e di convenevoli, Royan cominciò ad avvicinarsi al motivo principale della sua visita. «Ho trascorso al museo gran parte degli ultimi quattro giorni, a lavorare nella sala di lettura. Ho incontrato molti miei colleghi... e mi ha sorpreso sapere che Nahoot ha ritirato la domanda per il posto di direttore.» Atalan sospirò. «A volte mio nipote è così ostinato. Il posto era già suo, ma all'ultimo momento è venuto a dirmi che gliene avevano offerto uno in Germania. Ho cercato di dissuaderlo. Gli ho spiegato che non si sarebbe trovato bene nel clima del nord, dato che è cresciuto nella valle del Nilo. Gli ho detto che nella vita ci sono cose, come la patria e la famiglia, che il denaro non può compensare. Ma...» Atalan allargò le mani in un gesto eloquente. «Dunque, chi ha scelto come nuovo direttore?» chiese Royan con un'ingenuità che non ingannò il ministro. «Non abbiamo ancora fatto una nomina definitiva. Non mi viene in mente nessuno, ora che Nahoot se n'è andato. Forse saremo costretti a compiere una ricerca a livello internazionale. A me, comunque, dispiacerebbe che l'incarico andasse a uno straniero, per quanto qualificato.» «Eccellenza, posso parlarle in privato?» chiese Royan, e lanciò uno sguardo significativo al segretario che indugiava accanto alla porta. Atalan esitò solo per un momento. «Certo.» Indicò al segretario di uscire e, quando l'uomo ebbe chiuso la porta, si chinò verso Royan e abbassò leggermente la voce. «Di che vuole Wilbur Smith
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parlarmi, cara signora?» Royan se ne andò un'ora dopo e il ministro l'accompagnò all'ascensore. Quando le strinse la mano, la sua voce era bassa e gentile. «Arrivederci a presto. Inshallah.» Quando il volo dell'Egyptair atterrò a Heathrow e Royan si diresse verso la coda di persone in attesa di un taxi, si rese conto che la differenza di temperatura, rispetto al Cairo, era di almeno quindici gradi. Il treno arrivò a York nel freddo umido del tardo pomeriggio. Dalla stazione telefonò al numero che le aveva dato Nicholas. «Sciocca!» la rimproverò lui. «Perché non mi hai fatto sapere che stavi arrivando? Sarei venuto all'aeroporto.» Quando lo vide scendere dal Range Rover e andarle incontro a grandi passi, Royan si stupì di essere così felice di rivederlo. Nicholas era a testa scoperta ed evidentemente non si era fatto tagliare i capelli dall'ultima volta che si erano visti: erano spettinati dal vento, e i fili argentei spiccavano sopra le orecchie. «Come va il ginocchio?» le chiese. «C'è ancora bisogno di portarti in braccio?» «Ormai va bene, ed è quasi ora di buttar via il bastone.» Royan provava l'impulso di gettargli le braccia al collo, ma all'ultimo momento si trattenne e si limitò a porgergli una guancia rosea e fredda da baciare. Nicholas esalava un piacevole sentore di cuoio, di dopobarba e di virilità. Salirono in macchina e lui indugiò un momento prima di accendere il motore; le scrutò il viso nella luce del lampione che entrava dal finestrino laterale. «Mi sembra molto soddisfatta, signora mia. Soddisfatta come un gatto che ha acchiappato un topolino.» «Sono contenta di rivedere i vecchi amici.» Royan sorrise. «Ma devo ammettere che il Cairo ha sempre un effetto corroborante su di me.» «Non ho niente da offrirti per cena. Ho pensato che potremmo fermarci in un pub. Ti va un pasticcio di carne e rognone?» «Voglio vedere mia madre. Mi sento in colpa. Non so neppure come va la sua gamba.» «Sono andato a trovarla l'altro ieri. Sta piuttosto bene ed è entusiasta del cucciolo. Ci crederesti che lo ha chiamato Taita?» «Sei stato molto gentile ad andarla a trovare.» Wilbur Smith
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«Mi è simpatica. Una donna all'antica, nel senso buono dell'espressione. Di donne così energiche se n'è perso lo stampo. Propongo di mangiare qualcosa. Poi prenderò una bottiglia di Laphroaig e andremo a farle visita.» Era mezzanotte passata quando lasciarono il cottage di Georgina. La madre di Royan aveva fatto giustizia del whisky portato da Nicholas e più tardi li aveva salutati dalla porta della cucina, stringendo al seno il cucciolotto e vacillando leggermente sulla gamba ingessata. «Hai una pessima influenza su mia madre», protestò Royan. «Che cosa?» ribatté lui. «Certe sue battute hanno fatto diventare lo Stilton ancora più blu.» «Avresti dovuto lasciare che mi fermassi da lei.» «Ha Taita che le tiene compagnia. E poi, ho bisogno di averti vicina. C'è tanto da fare. Non vedo l'ora di mostrarti che cosa ho combinato da quando sei corsa in Egitto.» La governante di Quenton Park aveva preparato una camera da letto nell'appartamento di York. Mentre Nicholas le portava le valigie su per la scala, si sentì un russare profondo dietro la porta della camera da letto al secondo ballatoio, e Royan guardò Nicholas con aria interrogativa. «È Sapper Webb», spiegò Nicholas. «L'ultimo arrivato della squadra, il nostro geniere. Domani lo conoscerai, e credo che ti sarà simpatico. E un pescatore.» «E questo che cosa c'entra?» «Tutti i migliori sono pescatori.» «Esclusi i presenti.» Lei rise. «Alloggi alla Hall?» «No, per il momento le giro al largo.» Nicholas scosse la testa. «Non voglio far sapere che sono tornato in Inghilterra. Ci sono certi signori dei Lloyd's che al momento preferisco evitare. Dormo nella camera da letto piccola, all'ultimo piano. Chiamami se hai bisogno di me.» Quando rimase sola, Royan osservò la cameretta tutta chintz, il bagno da casa delle bambole e il letto a due piazze che occupava quasi tutto lo spazio. Ricordò che Nicholas le aveva raccomandato di chiamarla se aveva bisogno di lei, e alzò gli occhi verso il soffitto nei momento in cui lo sentì lasciar cadere una scarpa. «Non indurmi in tentazione», mormorò. L'odore di Nicholas le era rimasto nelle narici, e ricordava il contatto del corpo agile e solido, madido Wilbur Smith
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di sudore, mentre la portava fuori della gola dell'Abay. Frenesia e desiderio erano due parole cui non aveva pensato per molti anni, ma adesso incominciavano a incombere sulla sua esistenza. «Adesso basta, ragazza mia», si rimproverò, e andò a prepararsi un bagno. L'indomani mattina, Nicholas scese le scale e bussò alla porta. «Vieni, Royan. La vita è qui. La vita c'incalza.» Fuori era ancora buio pesto e Royan gemette sottovoce e chiese: «Che ora è?» Ma lui se n'era già andato. Lo sentì fischiettare The Big Rock Candy Mountains. Diede un'occhiata all'orologio e gemette di nuovo. «Dopo il trattamento che lui e mia madre hanno inflitto ieri sera al Laphroaig, quello lì fischietta alle sei e mezzo di mattina. Non ci posso credere. È un vero mostro.» Venti minuti più tardi lo trovò in cucina con un. maglione blu da pescatore, un paio di jeans e un grembiule da macellaio. «Affetta i toast per tré, sii gentile.» Le indicò la pagnotta scura accanto al tostapane elettrico. «L'omelette sarà pronta fra cinque minuti.» Royan guardò l'altro uomo presente nella cucina. Era di mezza età, con le spalle ampie e le maniche rimboccate sui bicipiti muscolosi. Era calvo come un palla da cannone. «Salve», gli disse. «Sono Royan Al Simma.» «Chiedo scusa.» Nicholas gesticolò con la paletta per le frittate. «Questo è Danny, Daniel Webb, che gli amici chiamano Sapper.» Stringendo nella mano una tazza, Danny si alzò. «È un piacere conoscerla, signorina Al Simma. Posso versarle un po' di caffè?» Royan notò il cuoio capelluto lentigginoso e gli occhi celesti. «Dottoressa Al Simma», rettificò Nicholas. «Chiamami Royan», intervenne lei. «E, sì, gradirei una tazza di caffè.» Durante la colazione nessuno parlò dell'Etiopia e del gioco di Taita. Royan mangiò l'omelette e ascoltò con rispetto una dissertazione appassionata di Sapper sul modo migliore per prendere il pesce vela con una canna da lancio, mentre Nicholas controbatteva senza pietà e metteva in discussione tutte le sue affermazioni. Evidentemente erano in ottimi rapporti, pensò Royan, e si rassegnò all'idea di doversi abituare al gergo della pesca. Terminata la colazione, Nicholas si alzò e prese la caffettiera. «Portate le Wilbur Smith
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tazze e seguitemi.» Condusse Royan verso il salotto. «Ho una sorpresa per te. I miei, al museo, hanno lavorato ventiquattr'ore su ventiquattro per prepararlo.» Spalancò la porta e imitò uno squillo di tromba. «Taratatà!» Sul tavolo centrale c'era il dik-dik striato, coronato dalle corna appuntite e rivestito della pelle che Nicholas aveva contrabbandato dall'Africa. Era così naturale che per un momento Royan si aspettò che balzasse giù dal tavolo. «Oh, Nicky, è un lavoro splendido!» esclamò, girando intorno al dik-dik. «L'artista ha saputo renderlo nel modo esatto.» Il modello le riportò alla mente il caldo e l'odore degli arbusti della gola. Provò una fitta di nostalgia e di tristezza per quell'animale bello e delicato. Gli occhi di vetro erano vivaci, l'estremità della proboscide pareva lucida e umida come se stesse per sollevarsi e fiutare l'aria. «Mi sembra splendido. Sono contento che tu sia d'accordo con me», commentò lui, accarezzando la pelle morbida. Royan comprese che non era davvero il caso di rovinare quella gioia così infantile, e tenne per sé la sua opinione sulla caccia. «Non appena avremo risolto il rompicapo di Taita», annunciò Nicholas, «ho intenzione di scrivere una relazione per il Naturai History Museum, lo stesso che diede del bugiardo al mio bisnonno. Riscatterò l'onore della famiglia.» Con una risata, coprì l'animale impagliato con un telo, lo sollevò dal tavolo e andò a posarlo in un angolo della stanza. «Questa era la mia prima sorpresa per te. Ma adesso arriva quella più importante.» Indicò un divano contro il muro. «Siedi. Non voglio vederti svenire.» Royan sorrise e andò a sedersi all'estremità del divano, ripiegando le gambe sotto di sé. Sapper Webb si accomodò sul lato opposto. Evidentemente la vicinanza lo metteva a disagio. «Parliamo di come faremo a entrare nell'abisso del Dandera», propose Nicholas. «Sapper e io non abbiamo parlato d'altro durante la tua assenza.» «Scommetto che avete parlato anche di pesca.» Di fronte al suo sorriso, Nicholas assunse un'aria colpevole. «Ecco, entrambi gli argomenti riguardano l'acqua...» Poi ridiventò serio. «Ricordi quando abbiamo discusso la possibilità di esplorare il fondo della lanca di Taita con l'attrezzatura da sub e io ho spiegato le difficoltà?» «Lo ricordo. Hai detto che la pressione nell'apertura subacquea era Wilbur Smith
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troppo grande, e che avremmo dovuto trovare un altro modo di entrare.» «Esatto.» Nicholas sorrise con fare misterioso. «Ecco, il qui presente Sapper ha già meritato il compenso esorbitante che gli ho promesso... e sottolineo promesso perché non l'ho ancora pagato. Ha trovato un metodo alternativo.» Anche lei ridiventò seria, appoggiò i piedi sul pavimento e si chinò in avanti, attentissima, con i gomiti sulle ginocchia e il mento appoggiato alle mani. «Deve essere stato il troppo cervello a fargli cadere i capelli. Voglio dire, è un'idea geniale. L'avevamo sotto il naso, ma noi due non ci abbiamo pensato.» «Piantala, Nicky», disse lei in tono minaccioso. «Stai ricominciando.» «Ti fornirò una traccia.» Nicholas ignorò l'avvertimento e continuò: «A volte i vecchi metodi sono i migliori. Ecco l'indizio». «Se sei così intelligente, perché non sei famoso?» ribatté lei. Poi s'interruppe, mentre la soluzione le si affacciava alla mente. «I vecchi metodi? Vuoi dire quelli che usò Taita per raggiungere il fondo della lanca senza l'equipaggiamento da sommozzatore?» «Accidenti! Credo che l'abbia capita!» esclamò Nicholas, sorridendo. «Una diga!» Royan batté le mani. «Intendi costruire una diga sul fiume nello stesso punto dove Taita costruì la sua più di tremila anni fa.» «C'è arrivata!» rise Nicholas. «È sveglia, la ragazza. Mostrale i disegni, Sapper.» Sapper Webb non cercò neppure di nascondere il suo orgoglio mentre si avvicinava al tabellone appoggiato alla parete. Royan l'aveva notato, ma non gli aveva prestato attenzione; Sapper lo scoprì e mostrò con orgoglio le illustrazioni fissate con le puntine. La donna riconobbe subito gli ingrandimenti della fotografia che Nicholas aveva scattato sul luogo presunto della diga di Taita sul fiume Dandera, e altre che aveva fatto nell'antica cava dove li aveva condotti Tamre. Adesso erano coperte di calcoli e linee tracciati con un evidenziatore. «Il maggiore mi ha passato le stime delle dimensioni del letto del fiume in questo punto, e ha calcolato anche l'altezza che la diga dovrà raggiungere per deviare le acque nel corso precedente. Ho calcolato un margine d'errore; comunque, anche se l'errore fosse intorno al trenta per cento, credo che il progetto sia comunque realizzabile con l'attrezzatura Wilbur Smith
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molto limitata che avremo a disposizione.» «Se ci riuscirono gli antichi egizi, per te sarà uno scherzo, Sapper.» «Sei molto gentile, maggiore, ma io non parlerei di scherzo.» Si voltò verso i disegni fissati accanto alle foto e Royan vide che erano progetti basati sulle fotografie e sulle stime di Nicholas. «Ci sono molti metodi di costruzione, ma oggi quasi tutti presuppongono la disponibilità del cemento armato e di grosse macchine per il movimento terra. So che non potremo contare su mezzi simili.» «Ricorda Taita», lo esortò Nicholas. «Lui ce la fece senza i bulldozer.» «Però gli egizi avevano probabilmente a disposizione un numero illimitato di schiavi.» «Gli schiavi posso prometterteli, o almeno il loro equivalente moderno. In numero illimitato? Ecco, forse no.» «Più manodopera mi fornirai, e prima potrò deviare il corso del fiume. Siamo intesi che sarà necessario farlo prima dell'inizio della stagione delle piogge.» «Abbiamo due mesi al massimo.» Nicholas abbandonò l'atteggiamento impertinente. «Per quanto riguarda la manodopera, conto di ottenere l'aiuto della comunità dei monaci di san Frumenzio. Sto ancora cercando una valida ragione teologica che possa convincerli a partecipare alla costruzione della diga. Non credo che berranno la frottola che abbiamo scoperto il sito del Santo Sepolcro in Etiopia anziché a Gerusalemme.» «Procurami la manodopera e io costruirò la diga», borbottò Sapper. «Come ho già detto, i vecchi metodi sono i migliori. Quasi sicuramente gli antichi dovettero usare un sistema di argini di contenimento e di gabbioni per gettare le fondamenta della diga originale.» «Scusami», l'interruppe Royan. «Che cosa sono i gabbioni? Io non sono laureata in ingegneria.» «Sono io che devo scusarmi», disse Sapper con goffa cavalleria. «Ti mostro i miei disegni.» Si girò verso il tabellone. «Probabilmente Taita fece intrecciare enormi ceste di bambù, le collocò nel fiume e le riempì di rocce e sassi. Noi li chiamiamo gabbioni.» Indicò i progetti. «Poi si servì di tronchi tagliati rozzamente per costruire sbarramenti circolari fra un gabbione e l'altro: e questi si chiamano argini di contenimento. Dovette far riempire anche quelli di pietre e di terra.» «Ho afferrato l'idea.» Royan sembrava dubbiosa. «Comunque, non è necessario che capisca tutti i particolari.» Wilbur Smith
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«Giusto!» dichiarò Sapper. «Anche se il maggiore mi assicura che troveremo sul posto tutto il legname che ci occorre, conto di usare reti metalliche per la costruzione dei gabbioni, e di farli riempire di sassi e pietrisco.» «Reti metalliche?» chiese Royan. «Dove speri di trovarle nella valle dell'Abay?» Sapper fece per rispondere, ma Nicholas lo prevenne. «Ci arriverò fra un momento. Lasciagli concludere la lezione. Non rovinargli il divertimento. Sapper, parla a Royan delle pietre della cava. Le farà piacere.» «Anche se ho progettato la diga come struttura temporanea, dobbiamo avere la certezza che sia in grado di contenere il fiume abbastanza a lungo perché la nostra squadra penetri senza pericolo nella galleria sotterranea nella lanca più a valle...» «Quella che chiamiamo la lanca di Taita», precisò Nicholas, e Sapper annui, «Dobbiamo essere sicuri che la diga non ceda mentre qualcuno è là dentro. Potete immaginare quali sarebbero le conseguenze, se succedesse una cosa simile.» Rimase in silenzio per un momento, mentre gli altri due riflettevano su quella eventualità. Royan rabbrividì e si strinse le mani sulle spalle. «Non sarebbe piacevole», ammise Nicholas. «Quindi hai intenzione di. usare i blocchi di pietra?» «Infatti. Ho studiato le fotografie della cava, e ho individuato più di centocinquanta blocchi di granito completi o quasi. Ho calcolato che, se li usiamo con i gabbioni di rete metallica e gli argini di contenimento in legno, dovremmo ottenere fondamenta solide per la diga vera e propria.» «I blocchi devono pesare diverse tonnellate ciascuno», osservò Royan. «Come farete a trasportarli?» Poi, quando Sapper aprì la bocca per spiegare, lei cambiò idea. «No! Non dirmelo! Se sostieni che è possibile, ti credo sulla parola.» «E possibile», le assicurò Sapper. «È quel che fece Taita», disse Nicholas. «E noi faremo tutto nello stesso modo. Dovresti essere contenta. Dopotutto, è un tuo parente.» «Sai una cosa? Hai ragione. Stranamente, mi fa piacere.» Royan sorrise. «Credo che sia di buon augurio. Ma quando succederà tutto questo?» «Sta già succedendo», rispose Nicholas. «Sapper e io abbiamo ordinato il materiale e l'attrezzatura che porteremo con noi. Persino la rete metallica Wilbur Smith
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per i gabbioni è stata pre-tagliata su misura da una piccola ditta dei dintorni. Grazie alla recessione, i loro macchinari erano in pratica inoperosi.» «Sono andato ogni giorno in officina a sovrintendere il lavoro», intervenne Sapper. «Metà del materiale è già partito. Il resto lo seguirà prima del fine settimana.» «Sapper andrà questo pomeriggio a dirigere le operazioni e a far caricare tutto. Tu e io dovremo sbrigare qualche problema dell'ultimo momento, e alla fine della settimana lo seguiremo. Ricorda che non mi aspettavo che tornassi tanto presto dal Cairo», disse Nicholas. «Se l'avessi saputo, avrei fatto in modo che potessimo partire tutti insieme per la Valletta.» «La Valletta?» Royan lo fissò, sconcertata. «Intendi la capitale di Malta? Ma non dovremmo andare in Etiopia?» «Jannie Badenhorst ha la base a Malta.» «Jannie chi?» «Badenhorst. Dell'Africair.» «Proprio non ti seguo.» «L'Africair è una compagnia di trasporti aerei che possiede un vecchio Hercules, già della RAF e adesso pilotato da Jannie e da suo figlio Fred. Usano Malta come base principale: è un piccolo Paese stabile e pragmatico, senza gli intrighi politici e la corruzione africana, ma è anche la porta per molte destinazioni nel Medio Oriente e nella metà settentrionale del continente nero, dove Jannie e Fred svolgono gran parte del lavoro. La loro attività principale consiste nel contrabbandare alcolici nei Paesi islamici dove sono proibiti. Fanno gli Al Capone del Mediterraneo. Il contrabbando è un grosso affare in quella parte del mondo, ma Jannie accetta anche altri lavori. Duraid e io arrivammo in Libia da Malta con Jannie, per la nostra piccola scorreria nel massiccio del Tibesti. Jannie ci porterà nella gola dell'Abay.» «Nicholas, non voglio fare la guastafeste, ma noi due siamo persone indesiderate in Etiopia. Hai dimenticato questo piccolo particolare? Come conti di tornarci?» «Passando dalla porta posteriore.» Nicholas sorrise maliziosamente. «E il custode è il mio vecchio amico Mek Nimmur.» «Ti sei messo in contatto con lui?» «Con Tessay. Sembra che adesso sia il suo ufficiale di collegamento. Immagino che per Mek sia molto utile averla dalla sua parte: lei ha una Wilbur Smith
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quantità di amicizie preziose e può andare e venire da Khartum, Addis Abeba e il Cairo, tutti posti in cui l'apparizione di Mek sarebbe perlomeno strana, per non dire pericolosa... pericolosa per lui, intendo.» «Bene, bene!» Royan sembrava molto colpita. «Vedo che ti sei dato da fare.» «Non tutti possono permettersi una vacanza al Cairo quando gli viene il capriccio», ribatté lui. «Ancora una domanda.» Royan ignorò la frecciata, sebbene si rendesse conto che la sua assenza doveva averlo irritato. «Mek sa del gioco di Taita?» «Non conosce i particolari.» Nicholas scosse la testa. «Ma qualche sospetto lo ha, e comunque so di poter contare su di lui.» Esitò un momento e proseguì. «Tessay è stata molto reticente quando le ho parlato al telefono, ma pare che ci sia stato un attacco contro il monastero di san Frumenzio. Jali Hora e trenta o quaranta monaci sono stati massacrati e quasi tutte le sacre reliquie della chiesa sono state rubate.» «Oh, mio Dio, no!» esclamò Royan, sconvolta. «Chi può aver fatto una cosa simile?» «Lo stesso individuo che ha assassinato Duraid e ha compiuto tre tentativi per eliminarti.» «La Pegasus...» «Già: von Schiller», confermò Nicholas. «Allora siamo direttamente responsabili della carneficina», mormorò lei. «Li abbiamo guidati al monastero. Le polaroid che hanno portato via durante l'assalto al nostro campo erano immagini della stele e della tomba di Tanus. Non c'era bisogno che von Schiller fosse un chiaroveggente per capire dove le avevamo fatte. Adesso abbiamo le mani sporche di altro sangue.» «Diavolo, Royan, non vorrai assumerti la responsabilità della pazzia di von Schiller! Non permetterò che ti tormenti per questo.» Il tono di Nicholas era brusco e adirato. «Siamo stati noi a cominciare.» «Non è vero, ma sono sicuro che è stato von Schiller a saccheggiare il magdas di san Frumenzio e che la stele e la bara a quest'ora fanno parte della sua collezione privata.» «Oh, Nicky, mi sento colpevole. Non mi ero resa conto del pericolo che rappresentavamo per quei buoni, semplici cristiani.» Wilbur Smith
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«Vorresti lasciar perdere tutto?» chiese brutalmente Nicholas, e lei ci pensò per qualche istante. Poi scosse la testa. «No, non voglio. Forse, tornando là, potremo addirittura risarcire i monaci per le perdite subite, grazie a quel che troveremo sul fondo della lanca di Taita», osservò. «Lo spero», disse Nicholas con fervore. «Lo spero proprio.» Il gigantesco quadrimotore turboelica Hercules C-MKL era dipinto di un marrone anonimo e polveroso, e le lettere d'identificazione sulla fusoliera erano sbiadite e poco leggibili: non c'erano scritte che dichiarassero la sua appartenenza all'Africair. L'aspetto esausto e trascurato dell'apparecchio rivelava comunque che aveva quasi quarant'anni e aveva volato per oltre mezzo milione di ore prima di finire nelle mani di Jannie Badenhorst. «Riesce ancora a stare su?» chiese Royan. L'Hercules se ne stava tutto solo in un angolo dell'aeroporto della Valletta, e il ventre cascante faceva pensare a una vecchia, stanca passeggiatrice costretta a rinunciare alla sua attività da una gravidanza inattesa e indesiderata. «Jannie lo tiene malconcio di proposito», le assicurò Nicholas. «Nei posti dove va è meglio evitare di attirare sguardi invidiosi.» «Scommetto che ci riesce.» «Jannie e suo figlio Fred sono ingegneri aeronautici di prim'ordine, e riescono a mantenere in perfetta efficienza i motori di Big Dolly.» «Big Dolly?» «In onore di Dolly Patton. Jannie è un suo fan.» Il taxi scaricò loro e i pochi bagagli davanti alla porta laterale dell'hangar. Nicholas pagò la corsa, mentre Royan affondava le mani nelle tasche del giubbotto e rabbrividiva nel vento freddo del Mediterraneo. «Ecco là Jannie.» Nicholas indicò la figura voluminosa, infagottata in una tuta marrone bisunta, che scendeva la rampa di carico dell'Hercules. Jannie li vide e saltò a terra. «Diavolo! Cominciavo a pensare che mi avessi dato una buca», disse mentre si avvicinava. Aveva l'aspetto di un giocatore di rugby, e lo era stato effettivamente in gioventù. Zoppicava un po' a causa di un vecchio incidente sul campo di gioco. «Siamo partiti in ritardo da Heathrow, e c'era uno sciopero dei controllori di volo francesi. Le gioie dei viaggi internazionali», spiegò Nicholas. Poi gli presentò Royan. «Venite a far conoscenza con la mia nuova segretaria», l'invitò Jannie. Wilbur Smith
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«Forse vi offrirà una tazza di caffè.» Entrarono da una porticina e si trovarono all'interno dell'immenso hangar. Accanto all'entrata c'era un minuscolo ufficio al di sopra del quale campeggiavano la scritta AFRICAIR e il logo della compagnia, una scure da combattimento con le ali, Mara, la nuova segretaria di Jannie, era una maltese poco più giovane di lui, ma quel che le mancava in fatto di gioventù e bellezza lo compensava con la circonferenza del seno. «A Jannie piacciono mature e abbondanti ai piani superiori», mormorò Nicholas a Royan. Mara offrì il caffè e Jannie esaminò il piano di volo con Nicholas. «C'è una piccola complicazione», disse in tono di scusa. «Come puoi immaginare, dovremo fare qualche giravolta. In questo momento, Muhammar el-Gheddafi non prova un vero e proprio slancio di affetto per me, dunque preferisco non sorvolare il suo territorio. Passeremo dall'Egitto, ma senza atterrare...» Indicò la rotta sulle mappe aperte sopra la scrivania. «... E abbiamo anche qualche problema con il Sudan. C'è una guerricciola civile.» Strizzò l'occhio a Nicholas. «Comunque, il governo del nord non dispone dei radar più moderni del mondo. Hanno una quantità di vecchi residuati russi. Il Paese è enorme, quindi Fred e io non abbiamo incontrato troppe difficoltà per scoprire i loro punti ciechi. Ci terremo alla larga dalle postazioni militari.» «Quanto durerà il volo?» chiese Nicholas. Jannie fece una smorfia. «Big Dolly non è una velocista, e ti ho appena spiegato che non possiamo prendere scorciatoie.» «Quanto?» insistette Nicholas. «Fred e io abbiamo installato alcune cuccette e una cucina. Durante il volo avrete tutte le comodità di casa.» Jannie rialzò il berretto e si grattò la testa prima di ammettere: «Quindici ore». «Big Dolly ha un'autonomia del genere?» chiese Nicholas. «Ha i serbatoi supplementari. Settantamila chili di carburante. Anche con il carico, possiamo andare e tornare senza fare rifornimento...» Jannie fu interrotto dal rumore delle porte dell'hangar che si aprivano. Entrò un grosso camion. «Sono Fred e Sapper», annunciò. Jannie finì di bere il caffè e abbracciò Mara. Lei ridacchiò mentre il suo seno tremolava come un nevaio nell'imminenza di una valanga. Il camion si fermò all'estremità più lontana dell'hangar, dove era accatastata una quantità di provviste e di attrezzature pronte per essere Wilbur Smith
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caricate. Fred scese e Jannie lo presentò a Royan. Era una versione più giovane del padre, e cominciava già a ingrassare. Aveva un volto franco e aperto, certo più consono a un allevatore di pecore del Karroo che a un pilota commerciale. «È l'ultimo carico.» Anche Sapper scese e strinse la mano di Nicholas. «Siamo pronti.» «Voglio decollare prima delle quattro di domattina. Così domani sera arriveremo a destinazione all'orario migliore», dichiarò Jannie. «Dobbiamo darci da fare se vogliamo dormire un po' prima della partenza.» Indicò i pallet che attendevano di essere caricati. «Volevo chiamare qualche ragazzo del posto per farci dare una mano, ma Sapper si è opposto.» «Giusto», approvò Nicholas. «Meno persone sono al corrente della faccenda e meglio è. Mettiamoci al lavoro.» Il carico era già sistemato nei pallet d'acciaio, assicurato con robuste corde di nylon e coperto da reti. C'erano trentasei pallet, e gli zaini di tela contenenti i paracadute erano parte integrante di ogni carico. Quell'enorme quantità di materiale avrebbe richiesto due voli per essere trasportata sino in Africa. Royan descriveva ad alta voce il contenuto di ogni pallet, leggendolo su un foglio dattiloscritto, mentre Nicholas controllava il carico effettivo. Nicholas e Sapper avevano organizzato tutto in modo che il materiale da usare subito fosse a bordo del primo volo. Solo quando fu certo che i pallet erano completi, Sapper fece un segnale a Fred, che azionava il carrello elevatore a forche. Fred inserì i bracci nelle fenditure del pallet, lo sollevò, lo trasportò fuori dall'hangar e sulla rampa di carico dell'Hercules. Nella stiva dell'enorme quadrimotore, Jannie e Sapper aiutarono Fred a sistemare ogni pallet sui rulli e quindi a fissarlo saldamente. L'ultima parte del carico che salì a bordo fu il piccolo trattore con pala caricatrice anteriore. Sapper l'aveva trovato in un magazzino di materiale di seconda mano a York e, dopo averlo collaudato scrupolosamente, aveva asserito che era un affarone. Lo guidò su per la rampa e lo assicurò con grande cautela sui rulli. Il trattore costituiva circa un terzo del peso totale della prima spedizione, ma Sapper lo considerava indispensabile per completare i terrapieni per la diga entro i tempi richiesti da Nicholas. Aveva calcolato che sarebbe stato necessario un grappolo di cinque paracadute da carico per portarlo al suolo Wilbur Smith
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senza danni. Naturalmente il carburante sarebbe stato un problema, e la maggior parte del secondo carico sarebbe stata costituita dagli speciali serbatoi di nylon per gasolio in grado di resistere all'impatto del lancio. Mezzanotte era già passata quando finirono di sistemare il primo carico a bordo. Gli altri pallet erano ancora allineati contro la parete dell'hangar, in attesa del secondo volo di Big Dolly. Quando ebbero caricato tutto, poterono dedicarsi al banchetto di specialità isolane che Mara aveva preparato nell'angusto ufficio dell'Africair. «Sì, è anche una brava cuoca», assicurò Jannie e strinse affettuosamente Mara mentre lei gli appoggiava il seno sulla spalla e si sporgeva per riempirgli il piatto di calamari. «Felici atterraggi!» brindò Nicholas alzando il bicchiere di Chianti. «Devono passare almeno otto ore fra una bottiglia di vino e il decollo», si scusò Jannie, che beveva una Coca-Cola. Quindi, senza neppure svestirsi, si sdraiarono sulle cuccette imbullonate alla paratia dietro la cabina di comando, cercando di dormire un po'. Royan però ebbe l'impressione che fossero trascorsi solo pochi minuti quando fu svegliata dalle voci smorzate dei due piloti che completavano i controlli prima di decollare e dal ronzio degli starter degli enormi motori a turboelica. Mentre Jannie comunicava via radio con la torre di controllo e Fred portava l'aereo sul punto d'attesa, i tre passeggeri lasciarono le cuccette e allacciarono le cinture dei sedili pieghevoli incardinati lungo la fiancata della cabina di pilotaggio. Big Dolly salì nel cielo notturno; le luci dell'isola rimpicciolirono e scomparvero dietro di loro. Poi rimasero soltanto il mare buio e lo scintillio delle stelle. Royan girò la testa e sorrise a Nicholas nel chiarore fioco della cabina. «Bene, Taita, siamo scesi in campo per l'ultimo set.» «A ogni buon conto, c'è un aspetto positivo del fatto di essere costretti a muoverci di nascosto. Quelli della Pegasus impiegheranno qualche tempo per scoprire che siamo tornati nella gola dell'Abay», commentò Nicholas con aria soddisfatta. «Speriamo che sia così.» Royan alzò la mano destra e incrociò le dita. «Avremo già di che preoccuparci di quello che ci riserva Taita, senza Wilbur Smith
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bisogno che la Pegasus se la prenda di nuovo con noi proprio adesso.» «Stanno tornando in Etiopia», disse von Schiller con certezza adamantina. «Come può essere così sicuro, Herr von Schiller?» chiese Nahoot. Von Schiller lo guardò cupamente. L'egiziano lo irritava, e cominciava a rimpiangere di averlo assunto. Aveva fatto scarsi progressi nella decifrazione delle iscrizioni sulla stele rubata nel monastero. La traduzione, in se stessa, non aveva presentato ostacoli insuperabili: Von Schiller era addirittura convinto che, se avesse avuto a disposizione il tempo necessario per servirsi della sua ricchissima biblioteca di testi da consultazione, avrebbe potuto farla lui stesso, senza l'aiuto di Nahoot. L'iscrizione consisteva per la maggior parte in versetti apparentemente senza senso e distici privi di un fondato legame con il contesto: una faccia della stele era coperta quasi completamente da colonne di lettere e di cifre che non avevano alcun rapporto con quanto stava scritto sulle altre tre facce. Nahoot non voleva ammetterlo, tuttavia era evidente che il significato recondito delle iscrizioni gli sfuggiva, e la pazienza di von Schiller era quasi allo stremo. Era stanco di ascoltare le giustificazioni dell'egiziano e le sue promesse mai mantenute. Tutto in lui ormai lo infastidiva, dal tono di voce untuoso fino agli occhi mesti e cerchiati di scuro. Ma soprattutto detestava l'abitudine esasperante di Nahoot di contestare sempre le sue affermazioni. «Il generale Obeid mi ha informato del loro volo quando sono partiti da Addis Abeba. È stato molto semplice mandare uomini del mio servizio di sicurezza all'aeroporto, nel momento in cui sono arrivati in Inghilterra. Harper e la donna non sono tipi che passano inosservati, anche in mezzo a una folla. E i miei hanno seguito la donna fino al Cairo...» «Mi scusi, Herr von Schiller, ma perché non l'ha fatta sistemare se era al corrente dei suoi movimenti?» «Dummkopf!» sbottò von Schiller. «Perché a quanto pare, è probabile che mi conduca alla tomba che sto cercando.» «Ma, signore, io ho...» protestò Nahoot. «Non ha fatto altro che inventare scuse per i suoi insuccessi. Grazie a lei, la stele rimane un enigma», l'interruppe sprezzante il tedesco. «È molto difficile...» «Certo, è difficile. Per questo la pago così bene. Se fosse facile l'avrei Wilbur Smith
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fatto io stesso. Se contiene davvero le istruzioni per ritrovare la tomba di Marnose, lo scriba Taita fece in modo che fosse difficile interpretarla.» «Se avessi un po' più di tempo... Credo di essere sul punto di scoprire la chiave...» «Non ha più tempo. Non ha sentito quello che ho detto? Harper sta per tornare nella gola dell'Abay. Sono partiti stanotte da Malta con un aereo noleggiato carico di materiale. I miei uomini non hanno potuto accertare la natura di questo materiale, a parte il fatto che includeva un trattore con pala caricatrice anteriore. Per me, questo può significare una cosa sola: hanno localizzato la tomba e stanno tornando per iniziare gli scavi.» «Potrà sbarazzarsi di loro non appena arriveranno al monastero», osservò soddisfatto Nahoot. «Il colonnello Nogo provvederà a...» «Perché devo continuare a ripetermi?» La voce di von Schiller diventò stridula. Batté la mano sul piano del tavolo. «Adesso sono loro a costituire la nostra maggiore speranza di trovare la tomba di Marnose. L'ultima cosa che voglio è che scompaiano o vengano eliminati.» Squadrò minacciosamente Nahoot. «La rimando subito in Etiopia. Forse là potrà essermi utile. Qui non lo è certamente.» Nahoot era seccato, ma sapeva che non era il caso di ostinarsi a discutere. Restò seduto, mentre von Schiller proseguiva. «Affiderò a Reeper l'incarico di decifrare la stele. Male non farà. In quanto a lei, andrà al campo base e si metterà agli ordini di Helm. Li consideri come se venissero direttamente da me. Ha capito?» «Sì, Herr von Schiller», borbottò controvoglia Nahoot. «Non interferisca assolutamente con Harper e la donna. Non dovranno neppure sapere che lei si trova nel campo base. La squadra per le ricerche geologiche della Pegasus svolgerà i suoi compiti normali.» Il tedesco s'interruppe e ghignò. «E una vera fortuna che Helm abbia scoperto tracce promettenti della presenza di grossi giacimenti di galena, il minerale da cui, come lei sa, si ricava il piombo. Continuerà l'attività di esplorazione e, se i giacimenti manterranno le promesse, renderanno assai redditizia l'intera operazione.» «Quali saranno esattamente i miei compiti?» chiese Nahoot. «Aspetterà. Voglio che sia sul posto, pronto ad approfittare degli eventuali progressi di Harper. Tuttavia dovrà lasciargli libertà di movimento. Non lo metterà sull'avviso con l'elicottero o avvicinandosi al suo campo. Basta con gli assalti notturni. Ogni mossa che lei farà dovrà Wilbur Smith
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essere preventivamente autorizzata da me. Non lo dimentichi: preventivamente.» «Se dovrò rispettare queste restrizioni, come potrò sapere se Harper e la donna hanno fatto progressi?» «Nel monastero c'è una spia fidata del colonnello: c'informerà di ogni movimento dell'inglese.» «Ma... e io? Quale sarà il mio incarico?» «Valuterà le informazioni raccolte da Nogo. Conosce i metodi dell'archeologia, quindi sarà in grado di giudicare che cosa cerca di ottenere Harper, e d'intuire se ha successo.» «Capisco», mormorò Nahoot. «Se fosse possibile, sarei tornato io stesso nella gola dell'Abay, ma non lo è. Forse ci vorrà tempo, addirittura mesi, prima che Harper faccia progressi di rilievo. Sa bene come procedono queste cose.» «Howard Carter lavorò per dieci anni prima di trovare la tomba di Tutankhamon», osservò maliziosamente Nahoot. «Mi auguro che non ci vorrà tanto tempo», ribatté von Schiller in tono freddo. «Altrimenti, mi sembra molto improbabile che lei continui a partecipare alla ricerca. In quanto a me, ho una serie di trattative importanti qui in Germania, e l'assemblea generale annua della società. Non posso mancare.» «Allora non tornerà in Etiopia?» Nahoot si rianimò alla prospettiva di sottrarsi all'influenza maligna di von Schiller. «Verrò non appena ci sarà qualcosa per me. Sarà lei a decidere quando la mia presenza sarà necessaria.» «E la stele? Dovrei...» «Continuerà a occuparsi della traduzione», lo interruppe von Schiller prevenendo ogni obiezione. «Porterà con sé in Etiopia una serie completa di fotografie e ci lavorerà. Mi aspetto che almeno una volta la settimana mi faccia rapporto via satellite sui suoi progressi.» «Quando vuole che parta?» «Immediatamente. Anche oggi, se è possibile. Parli con Fràulein Kemper: darà disposizioni per il viaggio.» Per la prima volta durante quel colloquio, Nahoot aveva l'aria soddisfatta. Big Dolly continuava ad avanzare rombando verso sud-est, e c'era ben Wilbur Smith
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poco che alleviasse la monotonia del viaggio. Stava spuntando il giorno quando incontrarono la costa africana: una spiaggia deserta e remota, scelta da Jannie appunto per questa ragione. Una volta giunti sopra la terraferma, ci fu poco d'interessante da vedere, esattamente come sopra il mare. Il deserto si estendeva in tutte le direzioni, vuoto, bruno e squallido. A intervalli irregolari sentivano Jannie che, dalla cabina di pilotaggio, parlava con un controllore di volo; ma, siccome potevano ascoltare solo metà della conversazione, non avevano idea dell'identità e della nazionalità dell'interlocutore. Di tanto in tanto Jannie, che con loro si esprimeva in un inglese pesantemente accentato, si metteva a comunicare in arabo, rivelando una notevole padronanza della lingua. Sulle prime, Royan ne fu meravigliata, ma poi attribuì quella disinvoltura al fatto che Jannie fosse un afrikaner, e quindi naturalmente incline a utilizzare i suoni gutturali. Riusciva addirittura a imitare in modo convincente gli accenti e i dialetti della Libia e dell'Egitto, ottenendo via libera sopra il deserto grazie alle menzogne. Durante le prime ore di volo, Sapper meditò sui suoi disegni della diga; poi, dato che gli mancavano le misure esatte e che quindi non poteva procedere, si raggomitolò su una cuccetta e cominciò a leggere un tascabile. Lo sfortunato autore tuttavia non riuscì a catturare a lungo la sua attenzione. Il volume aperto gli ricadde sul viso e, ogni volta che russava, le pagine svolazzavano. Nicholas e Royan sedettero sulla cuccetta di lei e giocarono a scacchi per un po'; quindi, vinti dall'appetito, andarono nella cambusa improvvisata. Royan si assunse il compito di affettare il pane e preparare il caffè, mentre Nicholas dimostrava le sue doti artistiche creando una variopinta serie di sandwich. Divisero il pranzo con Jannie e Fred nella cabina di pilotaggio. «Stiamo ancora sorvolando il territorio egiziano?» chiese Royan. Jannie, con la bocca piena, tese la mano per indicare al di là della punta dell'ala sinistra di Big Dolly. «A cinquanta miglia nautiche c'è l'uadi Halfìa. Fu là che morì mio padre, nel 1943. Era con la Sesta divisione sudafricana. Lo chiamavano l'uadi dell'inferno.» Addentò di nuovo il sandwich. «Non ho mai conosciuto mio padre. Una volta Fred e io siamo atterrati là, per cercare la sua tomba.» Scrollò le spalle. «È molto vasto, e ci sono moltissime tombe. Poche hanno Wilbur Smith
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un nome.» Per un po' tutti tacquero, masticando i sandwich, assorti nei loro pensieri. Anche il padre di Nicholas aveva combattuto nel deserto contro Rommel, ma era stato molto più fortunato del padre di Jannie. Nicholas lanciò un'occhiata a Royan, che guardava la sua patria attraverso il finestrino. La sua espressione intensa e appassionata lo sorprese. Era sempre stato quasi naturale per lui considerarla un'inglese a tutti gli effetti, al pari della madre: in momenti come quelli, però, si rendeva conto delle innumerevoli sfaccettature della sua personalità. Lei sembrava ignara della sua attenzione. Era completamente assorta dal paesaggio. Nicholas si chiese che cosa stava pensando, quali idee oscure e misteriose ardevano dentro di lei. Gli venne in mente che, al momento del loro ritorno dall'Etiopia, Royan aveva approfittato della prima occasione per precipitarsi al Cairo, e ancora una volta questo fatto lo turbò. C'era forse qualche legame affettivo che lui non conosceva? Si ripeteva che erano rimasti vicini solo per poche settimane e, nonostante la forte attrazione che quella donna esercitava su di lui, in realtà la conosceva assai poco. In quel momento, Royan trasalì e si girò. Il suo viso era vicinissimo a quello di Nicholas. Per qualche secondo rimasero immobili, guardandosi negli occhi. E nello sguardo di Royan lui individuò la presenza di un senso di colpa, confuso con emozioni tanto vaghe quanto intense. Ma non trovò nulla che potesse fugare i suoi cupi presentimenti. Royan si voltò nuovamente verso Jannie. «Quando attraverseremo il Nilo?» «Dall'altra parte del confine. Il governo sudanese concentra la massima attenzione sui ribelli dell'estremo sud. Qui al nord ci sono interi tratti del fiume completamente deserti. Fra poco ci abbasseremo per sfuggire al radar delle stazioni intorno a Khartum. Passeremo di nascosto attraverso uno dei varchi.» Jannie prese la mappa aeronautica che teneva sulle ginocchia e la sollevò in modo che Royan potesse vederla. Indicò la rotta con il dito tozzo: era tracciata con pastello a cera blu. «Big Dolly l'ha percorsa tanto spesso che sarebbe capace di rifarla anche se non ci fossi io a guidarla. Vero, vecchia mia?» E batté affettuosamente la mano sul quadro degli strumenti. Finito il pranzo, Nicholas e Royan ripresero a giocare a scacchi. Due ore più tardi, Jannie li chiamò con l'altoparlante. «Bene, gente, non fatevi Wilbur Smith
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prendere dal panico. Adesso perderemo quota. Venite qui ad assistere allo spettacolo.» Legati ai sedili pieghevoli in fondo alla cabina di pilotaggio, poterono ammirare Fred impegnato in una superba esibizione di volo a bassa quota. La discesa fu così rapida da dare a Royan l'impressione che stessero per precipitare e che il suo stomaco fosse rimasto da qualche parte lassù tra le nuvole. Fred riportò Big Dolly in assetto orizzontale pochi metri al di sopra del fondo del deserto: più che volare, sembrava di trovarsi a bordo di un pullman velocissimo. Fred faceva rialzare delicatamente l'aereo sopra ogni ondulazione del terreno bruciato dal sole, sfiorava le creste di roccia nera e ruotava sulla punta di un'ala per virare intorno alle rade colline sferzate dal vento. «Attraverseremo il Nilo fra sette minuti e mezzo.» Jannie premette il cronometro fissato ai comandi. «E, a meno che io non abbia sbagliato di brutto, quando attraverseremo dovremmo sorvolare un'isola a forma di squalo.» Nel preciso momento in cui la lancetta del cronometro arrivò a segno, l'ampia distesa luccicante del fiume balenò sotto di loro, e Royan scorse per un attimo un'isola verde, con poche capanne dal tetto di paglia a un'estremità e una dozzina di canoe monossile tirate in secco sulla stretta spiaggia. «Bene, il vecchio non ha ancora perso il suo tocco magico», commentò Fred. «Può fare ancora qualche migliaio di miglia, prima che lo diamo indietro per cambiare modello.» «Piantala di chiamarmi vecchio, somaro. Conosco qualche trucco che non ha ancora usato.» «Chiedilo a Mara.» Fred sorrise con malizia affettuosa al padre, mentre virava a sud-ovest, con la punta dell'ala così vicina al suolo da mettere in fuga un branco di cammelli che pascolavano fra i cespugli spinosi. Gli animali corsero via attraverso la pianura, sollevando turbini di polvere bianca come lo strascico di una sposa. «Ancora tre ore di volo all'arrivo.» Jannie alzò gli occhi dalla mappa. «In perfetto orario! Dovremmo atterrare quaranta minuti prima del tramonto. Non potrebbe andar meglio.» «Sarà bene che vada a cambiarmi.» Royan tornò nella cabina principale, tirò fuori la borsa che stava sotto la cuccetta e sparì nel vano servizi. Wilbur Smith
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Quando, dopo venti minuti, uscì, indossava una gonna pantalone kaki e un top di cotone. «Questi stivali sono fatti per camminare», commentò, battendo i piedi. «Stai benissimo.» Nicholas la contemplò dalla cuccetta. «Ma come va il ginocchio?» «Mi reggerà», rispose lei in tono difensivo. «Vuoi dire che non avrò il piacere di portarti di nuovo sulle spalle?» A poco a poco le montagne dell'Etiopia apparvero all'orizzonte occidentale. Royan non se ne accorse fino a che Nicholas non le additò il vago contorno azzurrino contro l'azzurro più vivace del cielo africano. «Siamo quasi arrivati.» Lui diede un'occhiata all'orologio. «Saliamo in cabina di pilotaggio.» Guardarono attraverso il parabrezza, ma non videro nessun punto di riferimento; c'era solo la sterminata savana bruna, costellata dai punti scuri delle acacie spinose. «Mancano dieci minuti», annunciò Jannie. «Qualcuno vede qualcosa?» Non ebbe risposta. Tutti guardavano avanti. «Cinque minuti.» «Là!» Nicholas indicò. «Ecco il corso del Nilo Azzurro.» Una distesa più fitta di acacie spinose tracciava una linea scura. «Ed ecco la ciminiera dello zuccherificio abbandonato sulla riva del fiume. Mek Nimmur ha detto che la pista di atterraggio è a circa cinque chilometri di distanza.» «Ecco, se c'è, sulla carta non figura», borbottò Jannie. «Un minuto prima di arrivare sulle coordinate.» Il minuto trascorse lentamente sul quadrante del cronometro. «Niente ancora...» Fred s'interruppe quando un razzo rosso salì dal suolo direttamente di fronte a loro e passò davanti al muso di Big Dolly. A bordo, tutti sorrisero, sollevati. «Perfetto.» Nicholas batté la mano sulla spalla di Jannie. «Neppure io avrei saputo fare di meglio.» Fred risalì di diverse decine di metri ed eseguì una virata a centottanta gradi. Adesso c'erano due fuochi che ardevano sulla pianura. Uno esalava fumo nero, l'altro lanciava una colonna bianca nel cielo serotino. Solo quando furono a un chilometro di distanza, riuscirono a scorgere i contorni della pista di atterraggio invasa dall'erba e rimasta a lungo in disuso. Il campo di Roseires era stato costruito vent'anni prima da una compagnia che aveva cercato di coltivare la canna da zucchero irrigando le Wilbur Smith
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piantagioni con l'acqua del Nilo Azzurro. Ma l'Africa aveva vinto ancora una volta; la compagnia era finita nell'oblio e aveva lasciato come epitaffio una minuscola ferita nella pianura. Mek Nimmur aveva scelto quel posto abbandonato e fuori mano come zona di atterraggio. «Non vedo traccia di un comitato per l'accoglienza», borbottò Jannie. «Che cosa vuoi che faccia?» «Continua l'avvicinamento», rispose Nicholas. «Dovrebbero lanciare un altro razzo... eccolo!» Il globo di fuoco saettò da un gruppo di acacie spinose in fondo alla pista. Per la prima volta poterono scorgere le figure degli uomini nel paesaggio desolato. Erano rimasti nascosti fino all'ultimo momento. «Quello è Mek! Bene, puoi atterrare.» Quando Big Dolly finì il rullaggio all'estremità della pista dissestata, davanti a loro spuntò un uomo in tuta mimetica; con un paio di palette indicò di portarsi nello spazio fra due delle acacie più grandi. Jannie spense il motore e si voltò sorridendo. «Bene, ragazze e ragazzi, sembra che sia andata anche questa volta!» Anche dall'alto della cabina di pilotaggio di Big Dolly, era impossibile non riconoscere la figura imponente di Mek Nimmur quando questi uscì dal riparo degli alberi. Solo allora si accorsero che le acacie erano avvolte da reti mimetiche: per questo non avevano potuto scorgere dall'alto il minimo segno di presenze umane. Non appena la rampa di carico fu abbassata, Mek Nimmur salì a bordo con passo deciso. «Nicholas!» Si abbracciarono. Mek lo baciò rumorosamente sulle guance, poi lo scostò per guardarlo in faccia, felice di rivederlo. «Avevo ragione! Hai ricominciato con i tuoi scherzi. Non si trattava solo di una caccia al dik-dik, vero?» «Come posso mentire a un vecchio amico?» ridacchiò Nicholas, scrollando le spalle. «Lo hai sempre fatto con disinvoltura», scherzò Mek. «Comunque sono contento di potermi divertire un po' insieme a te. In questi ultimi tempi la vita è stata una vera noia.» «Ci scommetto!» Nicholas gli batté affettuosamente la mano sulla schiena. Una figura snella e aggraziata seguì Mek sulla rampa. Nicholas stentò a Wilbur Smith
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riconoscere Tessay, che indossava un'uniforme verde oliva, fino a quando non la sentì parlare. Portava stivaletti di tela da paracadutista e un berretto che la faceva sembrare un ragazzo. «Nicholas! Royan! Bentornati!» esclamò. Le due donne si abbracciarono con entusiasmo. «Ehi, voi!» protestò Jannie. «Non siamo a Woodstock, e io devo tornare a Malta. Voglio decollare non appena sarà buio.» Mek assunse prontamente il comando delle operazioni di scarico. I suoi uomini salirono a bordo e spostarono i pallet montati sui rulli, mentre Sapper avviava l'amatissimo trattore e lo usava per portare il carico giù per la rampa e accatastarlo poi nel boschetto di acacie, sotto le reti mimetiche. Con un aiuto così efficiente, il lavoro procedette in fretta e il vano di carico di Big Dolly rimase ben presto vuoto. Il sole ormai scendeva all'orizzonte e il breve crepuscolo africano stava cancellando i colori dal paesaggio. Nella cabina di pilotaggio, Jannie e Nicholas presero gli ultimi accordi, mentre Fred completava i controlli per la partenza. «Ci rivediamo fra quattro giorni», concluse Jannie. «Lascialo ripartire, Nicholas», gridò Mek da terra. «Dobbiamo superare il confine prima dell'alba di domani.» Guardarono Big Dolly rullare fino all'estremità della pista di Roseires e girarsi. Il ritmo del motore divenne più rapido quando l'Hercules si avventò in una nuvola di polvere e s'innalzò sopra le loro teste. Jannie fece ondeggiare le ali in segno di saluto e, con le luci di navigazione spente, il grosso quadrimotore si dileguò come un pipistrello nel cielo scuro. «Vieni qui», disse Nicholas a Royan, interrompendo la conversazione animata fra le due giovani donne. Poi la condusse a sedere sotto un'acacia. «Non voglio che il ginocchio ti faccia altri brutti scherzi.» Le sollevò la gonna pantalone bendò il ginocchio con una fascia elastica, cercando di nascondere il piacere che gli dava quel compito. Era lieto di vedere che il livido era quasi scomparso e il gonfiore non c'era più. Lo tastò con delicatezza. La pelle era vellutata, la carne soda e calda. Alzò lo sguardo e, dall'espressione di Royan, comprese che anche lei gradiva quell'intimità. Quando incontrò il suo sguardo, Royan arrossì leggermente e si affrettò a riabbassare la gonna. Poi si alzò. «Tessay e io abbiamo tante cose da dirci», spiegò, e andò a raggiungerla. Wilbur Smith
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«Lascerò un plotone in assetto da combattimento per proteggere il materiale», spiegò Mek a Nicholas, mentre Tessay conduceva via Royan. «Viaggeremo in un gruppo poco numeroso fino al confine. Non prevedo scontri. Al momento, in questo settore c'è pochissima attività nemica. I combattimenti sono al sud, ma qui stiamo tranquilli. Perciò ho scelto questo posto per l'atterraggio.» «Siamo molto lontani dal confine etiope?» chiese Nicholas. «Cinque ore di marcia», rispose Mek. «Lo passeremo dopo il tramonto della luna. Il resto dei miei uomini ci aspetta all'imboccatura della gola dell'Abay. Dovremo incontrarli domani prima dell'alba.» «E di là al monastero?» «Altri due giorni di marcia. Arriveremo giusto in tempo per ricevere il lancio del tuo amico ciccione.» Mek impartì gli ultimi ordini al comandante del plotone che sarebbe rimasto a Roseires per proteggere il materiale. Poi radunò i sei uomini che avrebbero fatto loro da scorta oltre il confine. Divise i carichi fra loro. L'oggetto più importante era la radio, un modello militare moderno e molto leggero che Nicholas poteva portare senza difficoltà. «Le vostre borse sono scomode. Dovrete trasferirne il contenuto», disse Mek a Nicholas e Royan, i quali obbedirono, svuotando le borse e mettendo tutto nei due zaini di tela che l'etiope aveva preparato. Due dei suoi uomini si caricarono gli zaini sulla schiena e sparirono nel buio. «Non vorrete portare quello!» Mek fissò sgomento le massicce gambe del teodolite che Sapper aveva tolto da uno dei pallet. Sapper non parlava arabo, e Nicholas dovette fare da interprete. «Sapper dice che è uno strumento molto delicato. Non poteva permettere che venisse lanciato dall'aereo. Dice che, se sarà danneggiato, lui non potrà svolgere il lavoro per cui l'ho assunto.» «E chi lo trasporterà?» chiese Mek. «I miei uomini si ammutinerebbero se dicessi loro di farlo.» «Riferisci al rompiscatole che lo porterò io.» Sapper si erse dignitosamente in tutta la sua statura. «Non permetterei mai che uno dei suoi buoni a nulla lo toccasse con un dito.» Sollevò il teodolite, se lo issò sulla spalla e s'incamminò, impettito. Mek diede cinque minuti di vantaggio all'avanguardia, poi annuì. «Ora possiamo andare.» Mezz'ora dopo il decollo di Big Dolly, lasciarono la pista di Roseires e si Wilbur Smith
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avviarono sulla pianura buia e silenziosa, diretti verso est. Mek procedeva ad andatura sostenuta. Sembrava che Nicholas e lui avessero la vista di due felini, pensò Royan mentre li seguiva. Riuscivano a vedere nell'oscurità e soltanto i loro sussurri di avvertimento le evitavano di cadere in una buca o d'inciampare in un mucchio di sassi. Quando però incespicava, c'era sempre Nicholas lì vicino a sostenerla con fermezza. Marciavano in silenzio assoluto. Ogni ora si fermavano a riposare per cinque minuti: allora Nicholas e Mek sedevano vicini e, dalle poche parole che riusciva ad afferrare, Royan capiva che Nicholas stava spiegando le vere ragioni del loro ritorno nella gola dell'Abay. Sentiva Nicholas ripetere spesso i nomi di Marnose e di Taita, e la voce profonda di Mek che lo interrogava. Poi si alzavano e riprendevano a procedere nella notte. Dopo un po', Royan perse il senso della distanza che avevano percorso: solo i periodi di riposo le indicavano il passaggio del tempo. La stanchezza s'insinuava a poco a poco in lei, fino a che non divenne uno sforzo sollevare i piedi per compiere ogni passo. Nonostante quello che aveva detto, il ginocchio aveva ricominciato a far male. Ogni tanto sentiva Nicholas che le toccava il braccio e la guidava nei tratti più accidentati; altre volte si fermavano all'improvviso nell'udire un avvertimento che li raggiungeva dall'avanguardia. Allora restavano in silenzio e attendevano nell'oscurità con i nervi tesi, fino a quando un altro bisbiglio non li induceva a riprendere la marcia. A un certo momento, Royan sentì l'effluvio freddo e fangoso del fiume nell'aria asciutta e tiepida della notte, e comprese che dovevano essere molto vicini al Nilo. Nel silenzio, percepì la tensione nervosa degli uomini che la precedevano, e intuì che stavano all'erta dal modo in cui si muovevano e tenevano le armi. «Stiamo attraversando il confine», le sussurrò Nicholas. La tensione era contagiosa. Royan dimenticò la stanchezza e sentì il sangue che le martellava nelle orecchie. Non sostarono per riposare: continuarono invece per un'altra ora. A un certo punto, però, Royan si accorse che l'umore degli uomini stava gradualmente cambiando. Qualcuno rideva sommessamente, e il loro passo era più leggero mentre proseguivano verso la luminescenza nel cielo orientale. La falce di luna si affacciò all'improvviso sopra i profili scuri delle lontane catene montuose. Wilbur Smith
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«Via libera. Siamo passati», disse Nicholas in tono di voce normale. «Bentornata in Etiopia. Come va?» «Tutto a posto.» «Sono stanco anch'io.» Nicholas le sorrise nel chiaro di luna. «Fra poco ci accamperemo e potremo riposare. Non manca molto.» Naturalmente mentiva. La marcia continuò. Royan era così stanca che stava per scoppiare a piangere. Poi sentì di nuovo la voce del fiume, il fruscio del Nilo nell'alba. Più avanti, Mek parlava con gli uomini che erano rimasti in attesa del loro arrivo. Nicholas condusse Royan lontano dal sentiero, la fece sedere, s'inginocchiò davanti a lei e le slacciò gli stivali. «Ti sei comportata bene. Sono fiero di te», le disse mentre le sfilava i calzettoni e controllava se aveva qualche vescica ai piedi. Poi tolse la benda al ginocchio. Era un po' gonfio, e lui lo massaggiò con esperta delicatezza. Royan sospirò. «Non smettere. È piacevole.» «Ti do un Brufen per l'infiammazione.» Nicholas prese le compresse dallo zaino, poi stese per terra il giubbotto imbottito per farla sdraiare. «Mi dispiace, i sacchi a pelo sono nel secondo carico. Dovremo arrangiarci fino al lancio di Jannie.» Le porse la borraccia e, mentre lei inghiottiva la compressa, aprì un pacchetto di razioni. «Non è esattamente un pranzo per buongustai», disse fiutando il contenuto. «Nell'esercito le chiamano 'cibo per ratti'.» Royan si addormentò con la bocca ancora semipiena di polpettone insapore e di formaggio che sembrava plastica. Quando Nicholas la svegliò, offrendole una tazza di tè caldo e dolce, vide che era già pomeriggio inoltrato. Lui le sedette accanto e bevve dalla propria tazza, soffiando via il vapore tra un sorso e l'altro. «Ti farà piacere sapere che Mek ha promesso di aiutarci.» «Che cosa gli hai detto?» «Quanto bastava per stuzzicare il suo interesse.» Nicholas sorrise. «È la teoria delle rivelazioni graduali. Non bisogna mai dire tutto in una volta, bensì parlarne a poco a poco. Per ora, lui sa che cosa cerchiamo, e anche che costruiremo una diga attraverso il fiume.» «E gli uomini che dovrebbero aiutarci a costruirla?» lo incalzò lei. «I monaci di san Frumenzio faranno tutto ciò che lui dirà loro. È un grande eroe.» Wilbur Smith
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«Che gli hai promesso in cambio?» «Non ci siamo ancora arrivati. Gli ho detto che non so che cosa troveremo, e lui ha riso e ha risposto che si sarebbe fidato di me.» «È uno sciocco, vero?» «Non è così che definirei Mek Nimmur... Credo che, quando verrà il momento, ci farà sapere qual è il prezzo della sua collaborazione», mormorò Nicholas. Poi alzò gli occhi e disse: «Stavamo appunto parlando di te, Mek». Mek si avvicinò e si accosciò a fianco di Nicholas. «E che stavate dicendo?» «Royan dice che sei una carogna perché l'hai costretta a una marcia forzata per tutta la notte.» «Nicholas ti vizia. Ho visto che è pieno di premure.» Mek ridacchiò. «Io penso che le donne bisogna trattarle male, perché a loro piace.» Poi ridivenne serio. «Scusami, Royan, ma il confine è sempre un posto pericoloso. Ti accorgerai che non sono un mostro quando saremo sul mio territorio.» «Ti siamo molto grati per tutto ciò che fai per noi», mormorò Royan. Mek chinò la testa solennemente. «Nicholas è un vecchio amico, e mi auguro che tu sia una nuova amica.» «Sono molto triste. Stanotte Tessay mi ha detto che cos'è successo al monastero.» Mek fece una smorfia e si tirò la corta barba; si strappò addirittura un ciuffetto di peli in uno scatto di collera. «Nogo e i suoi assassini... È un esempio di ciò che stiamo combattendo. Siamo sfuggiti alla tirannia di Menghistu, ma siamo precipitati in un altro orrore.» «Che cos'è successo esattamente, Mek?» Con poche frasi, Mek Nimmur descrisse il massacro e il saccheggio dei tesori di san Frumenzio. «Non ci sono dubbi: è stato Nogo. Tutti i monaci che si sono salvati lo conoscono bene.» Era troppo furioso per trattenersi. Si alzò di scatto. «Il monastero è molto importante per tutta la gente del Gojam. Io sono stato battezzato là, e proprio da Jali Hora. L'uccisione dell'abate e la profanazione della chiesa sono oltraggi spaventosi.» Si calcò il berretto sulla testa. «Ora dobbiamo ripartire. La strada che ci aspetta è ripida e disagevole.» Ormai avevano superato il confine e quindi potevano muoversi durante Wilbur Smith
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il giorno. La marcia li portò nel profondo della gola. Non c'erano colline: era come entrare in un immenso castello. Le pareti del grande massiccio centrale s'innalzavano per almeno milleduecento metri sui due lati, e il fiume serpeggiava in quel baratro, agitato in tutta la sua lunghezza dalle rapide. A mezzogiorno, Mek interruppe la marcia: si fermarono a riposare in un boschetto in riva al fiume. Sotto di loro c'era una spiaggia riparata da grandi massi che dovevano essere caduti dalle alture. I quattro mangiarono un po' in disparte dagli altri. Sapper era ancora irritato per la discussione che aveva avuto con Mek a causa del teodolite, e stava sulle sue. Piazzò il pesante strumento bene in vista e gli sedette accanto con ostentazione. Mek e Tessay sembravano stranamente chiusi e taciturni, fino a quando, improvvisamente, Tessay non prese la mano del compagno. «Voglio dirglielo», annunciò. Mek girò per un momento lo sguardo verso il fiume prima di annuire. «Perché no?» ribatté, scrollando le spalle. «Voglio che lo sappiano», insistette Tessay. «Conoscevano Boris. Capiranno.» «Vuoi che glielo dica io?» chiese Mek. «Sì, è meglio che lo faccia tu.» Mek rimase per un po' in silenzio, cercando le parole; poi, senza guardarli, cominciò a parlare a voce bassa. «Fin dal primo momento che ho visto questa donna, ho capito che era stato Dio a mandarla sulla mia strada...» Tessay gli si fece più vicina. «Lei e io ci siamo scambiati la promessa la notte di Timkat, e abbiamo chiesto perdono a Dio. Poi l'ho portata via: ormai era la mia donna.» Tessay gli appoggiò la testa sulla spalla muscolosa. «Il russo ci ha seguiti. Ci ha trovati qui, in questo posto. Ha cercato di ucciderci.» Tessay guardava la spiaggia dove lei e Mek avevano rischiato di morire, e rabbrividiva al ricordo. «Ci siamo battuti», continuò Mek. «E, quando è morto, abbiamo abbandonato il cadavere alla corrente del fiume.» «Sapevamo che era morto», disse Royan. «Ce l'hanno detto quelli dell'ambasciata: la polizia ha trovato il corpo più a valle, vicino al confine. Ma non sapevano come fosse successo.» Per un po' tacquero, poi Nicholas ruppe il silenzio. «Vorrei aver assistito alla scena. Deve essere stata una vera battaglia», commentò scuotendo la Wilbur Smith
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testa. «Il russo sapeva il fatto suo. Sono contento di non dovermi più battere con lui», ammise Mek, e si alzò. «Possiamo raggiungere il monastero prima dell'imbrunire, se partiamo subito.» Mai Metemma, il nuovo abate di san Frumenzio, li accolse sulla terrazza affacciata sul fiume. Era di poco più giovane di Jali Flora, alto e dignitoso con i capelli argentei, e aveva messo la corona azzurra in onore di un visitatore illustre come Mek Nimmur. Dopo che ebbero fatto il bagno e riposato un'ora nelle celle preparate per loro, i monaci vennero a prenderli per condurli al banchetto di benvenuto. Quando le fiasche di tej vennero riempite per la terza volta e l'abate e i monaci apparivano di ottimo umore, Mek bisbigliò all'orecchio del vecchio religioso: «Ricorda la storia di san Frumenzio, l'uomo che Dio mandò sulla nostra riva dopo la tempesta in mare, perché portasse a noi la vera fede?» Gli occhi dell'abate si riempirono di lacrime. «Il corpo del santo fu sepolto nel nostro magdas. I barbari ci hanno rubato la sacra reliquia. Ora siamo figli senza padre. La ragione stessa per cui furono costruiti la chiesa e il monastero è stata portata via», disse in tono lamentoso. «I pellegrini non verranno più da ogni angolo dell'Etiopia per pregare nel suo santuario. La Chiesa ci dimenticherà. Siamo rovinati. Il monastero perirà, e i nostri monaci saranno dispersi come foglie al vento.» «Ma quando san Frumenzio venne in Etiopia non era solo. Un altro cristiano arrivò con lui dalla Chiesa di Bisanzio», gli rammentò Mek. «Sant'Edesio.» L'abate prese la fiasca di tej per placare la sofferenza. «Sant'Edesio», ripeté Mek. «Mori prima di san Frumenzio, ma non era meno santo del fratello.» «Anche sant'Edesio era un grande santo, degno di tutto il nostro amore e della nostra venerazione.» L'abate tracannò una lunga sorsata dalla fiasca. «Le vie del Signore sono misteriose. Non è forse così?» Mek scosse la testa, come se fosse abbagliato dalla complessità dell'universo. «Le Sue vie sono imperscrutabili, e noi non possiamo discuterle né comprenderle.» «Tuttavia Egli è misericordioso, e ricompensa chi è devoto.» «Sì, Dio è misericordia.» Le lacrime traboccarono sulle guance dell'abate. «Il monastero ha subito una perdita terribile. La sacra reliquia di san Wilbur Smith
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Frumenzio è stata rubata e, purtroppo, non verrà recuperata mai più. Ma... e se Dio ne mandasse un'altra? Se vi mandasse il corpo di sant'Edesio?» Tra le lacrime, l'abate lo guardò, e nei suoi occhi si accese un lampo d'interesse. «Sarebbe davvero un grande miracolo.» Mek Nimmur circondò le spalle del vecchio con un braccio e prese a sussurrargli qualcosa all'orecchio. Mai Metemma smise di piangere e ascoltò con attenzione. «Ti ho trovato gli operai», riferì Mek a Nicholas la mattina seguente, mentre incominciavano la marcia nella valle. «Mai Metemma mi ha promesso di fornirci cento uomini entro due giorni e altri cinquecento entro la settimana prossima. Distribuisce indulgenze a tutti coloro che si offrono volontari per costruire la diga: collaborando alla grande impresa del recupero delle sacre reliquie di sant'Edesio, si risparmieranno le fiamme del purgatorio.» Le due donne si fermarono di colpo a guardarlo. «Che cos'hai promesso a quel povero vecchio?» chiese Tessay. «Un corpo per rimpiazzare quello che Nogo ha portato via dalla chiesa. Se scopriremo la tomba, la mummia di Marnose spetterà al monastero.» «Questa è una carognata!» scattò Royan. «Lo hai truffato perché ci aiuti.» «Non è una truffa.» Gli occhi scuri di Mek lampeggiarono. «La reliquia che è stata sottratta ai monaci non era il corpo di san Frumenzio, eppure per secoli e secoli è stata indispensabile per tenere unita la comunità religiosa, dato che attirava i cristiani da ogni parte dell'Etiopia. Adesso che non c'è più, l'esistenza stessa del monastero è minacciata. I monaci non hanno più motivi per continuare la loro missione.» «E tu li hai tentati con una falsa promessa.» Royan era ancora indignata. «Il corpo di Marnose è autentico come quello che hanno perduto. Che cosa conta se è la mummia di un antico egizio anziché di un cristiano, purché serva come punto focale per la fede e permetta al monastero di sopravvivere per altri cinquecento anni?» «A me sembra che abbia senso», commentò Nicholas. «Da quando sei diventato esperto di teologia cristiana? Tu non sei altro che un ateo», protestò Royan, e Nicholas alzò le mani come per proteggersi da un'aggressione. «Hai ragione. Che cosa ne so, io? Discutine con Mek. Io vado a Wilbur Smith
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discettare con Sapper Webb sulla teoria della costruzione della diga.» Risali la colonna e si affiancò al suo ingegnere. Ogni tanto sentiva le voci accalorate alle sue spalle e sorrideva maliziosamente. Conosceva Mek, ma cominciava anche a capire Royan. Sarebbe stato interessante vedere chi l'avrebbe avuta vinta. Arrivarono all'entrata dell'abisso a metà del pomeriggio. Mentre Mek cercava un sito per accamparsi, Nicholas condusse Sapper alla strozzatura del fiume, appena a monte del punto in cui si gettava nella cascata. Dopo aver montato il teodolite, Sapper incominciò i rilevamenti. Con gesti perentori, fece spostare avanti e indietro Nicholas, che aveva in mano una stadia graduata e faceva una gran fatica a tenerla dritta per via del terreno instabile. «Bene così!» urlò Sapper dopo il ventesimo controllo. «Adesso passa sull'altra riva del fiume.» «D'accordo!» gridò di rimando Nicholas. «Vuoi che l'attraversi a nuoto o a volo?» Risalì il fiume per cinque chilometri e giunse al guado dove la pista attraversava il Dandera; poi tornò indietro fra la vegetazione intricata fino al punto opposto a quello in cui Sapper se ne stava sdraiato all'ombra a fumare una sigaretta. «Non ammazzarti di fatica, mi raccomando!» gli gridò Nicholas attraverso il fiume. Era quasi buio quando Sapper finì i rilevamenti, e Nicholas doveva ancora affrontare la lunga marcia di ritorno passando dal guado. Percorse l'ultimo chilometro e mezzo nell'oscurità quasi totale, guidato solo dai bagliori dei fuochi del bivacco. Stanchissimo, entrò nel campo e buttò a terra la stadia. «Spero che ne sia valsa la pena», borbottò a Sapper, che non alzò gli occhi dal regolo calcolatore. Stava lavorando sui progetti nella luce intensa di una piccola lampada a butano. «Complimenti, maggiore! Le tue stime non erano molto lontane dalla realtà», disse infine Sapper. «Il fiume è largo settanta metri nel punto critico a monte delle cascate, dove voglio collocare la struttura.» «Io voglio sapere semplicemente se riuscirai a costruire la diga.» Con un gran sorriso, Sapper si appoggiò l'indice contro il naso. «Tu fammi avere il mio trattore, e io costruirò la diga attraverso il Nilo.» Wilbur Smith
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Quando ebbero finito di mangiare la loro razione di «cibo per ratti», Royan fissò Nicholas, seduto dall'altra parte del fuoco. I loro occhi s'incontrarono e lei chinò la testa in segno d'invito, poi si alzò e si allontanò, voltandosi per assicurarsi che la seguisse. Si avviarono insieme verso il sito della diga, facendosi luce con una torcia. Giunti lì, sedettero su un masso affacciato sull'acqua. Lui spense la torcia. Per un po' rimasero in silenzio mentre i loro occhi si adattavano alla luce delle stelle. Poi Royan bisbigliò: «Certe volte ho pensato che non saremmo mai tornati. Mi sembrava che tutto fosse un sogno... anche e soprattutto la lanca di Taita...» «Senza l'aiuto dei monaci, per noi potrebbe essere davvero un sogno...» ribatté Nicholas, in tono vagamente interrogativo. «Avete vinto tu e Mek.» Royan ridacchiò. «Naturalmente dobbiamo accettare il loro aiuto. Le argomentazioni di Mek sono molto convincenti.» «Quindi sei d'accordo sul fatto che, per ricompensarli, dovremo consegnare loro la mummia di Marnose?» «Ammetto che hanno il diritto di prendersi la mummia che scopriremo, ammesso che ne troviamo una», precisò lei. «Per quanto ne sappiamo, la vera mummia di Marnose potrebbe essere quella rubata da Nogo.» Con molta naturalezza, Nicholas le passò un braccio intorno alle spalle, e per un momento lei si rilassò. «Oh, Nicky! Ho tanta paura e sono così emozionata. Ho paura che tutte le nostre speranze siano vane, e sono emozionata perché potremmo aver trovato la chiave del gioco di Taita.» Girò la testa e Nicholas sentì sulle labbra il suo alito. La baciò con tenerezza, poi si scostò, scrutandola alla luce delle stelle. Royan non si mosse per allontanarsi; si tese verso di lui e lo baciò a sua volta. In un primo momento, fu un casto bacio a labbra chiuse. Poi Nicholas le insinuò la mano destra fra i capelli, aprì la bocca e lei si lasciò sfuggire un mormorio di dissenso. Lentamente, voluttuosamente, lui le schiuse le labbra e le proteste di Royan si spensero quando le sondò la bocca con la lingua. Adesso lei emetteva un suono sommesso e soddisfatto, simile al miagolio di un gattino. Lo' cinse con le braccia, gli passò sulla schiena le dita agili e forti, schiuse la bocca al suo bacio e gli intrecciò la lingua Wilbur Smith
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intorno alla lingua. Nicholas fece scivolare la mano libera tra loro, le sbottonò la camicia fino alla cintura, e lei s'inclinò un po' all'indietro per facilitargli il compito. Con uno shock delizioso, Nicholas scoprì che i seni erano nudi sotto la stoffa sottile, e ne cinse uno con la mano. Era piccolo e sodo. Pizzicò delicatamente il capezzolo e lo sentì irrigidirsi sotto le sue dita come una fragolina matura. Allora interruppe il bacio e abbassò la testa, accostandola al seno. Royan gemette sommessamente, lo guidò con la mano e, quando Nicholas le passò la lingua sul capezzolo, soffocò un'esclamazione e gli affondò leggermente le unghie nella schiena, come un gatto che risponde a una carezza. Per qualche istante fremette nel suo abbraccio, poi lo scostò. Nicholas pensò che volesse respingerlo; invece gli offrì l'altro capezzolo e represse un nuovo gemito quando lui incominciò a suggerlo. Seguendo il ritmo dell'eccitazione di Nicholas, i movimenti di Royan diventarono più languidi. Lui non riuscì più a trattenersi; le insinuò la mano sotto la gonna pantalone e gliela posò sul monte morbido del sesso. Con un movimento agile e svelto, Royan si liberò e balzò in piedi, assestò la gonna e abbottonò la camicia con dita tremanti. «Scusami, Nicky. Vorrei, oh, Dio, non puoi capire quanto lo vorrei. Ma...» Scosse la testa, ansimando. «Non ancora. Ti prego, perdonami. Sono prigioniera fra due mondi. Una metà del mio essere lo desidera ardentemente, l'altra metà non mi permette...» Anche Nicholas si alzò. La baciò castamente. «Non c'è fretta. Vale la pena di attendere una cosa bella», le disse, sfiorandole la bocca con la bocca. «Vieni. Torniamo al campo.» L'indomani, prima dello spuntar del giorno, il primo gruppo di monaci promesso da Mai Metemma salì nella valle. Il loro salmodiare svegliò tutti. Uscirono insonnoliti dai ripari per accogliere la lunga colonna di religiosi. «Santo cielo», sbadigliò Nicholas. «Sembra che abbiamo dato l'avvio a una nuova crociata. Devono aver lasciato il monastero nel cuore della notte per arrivare a quest'ora.» E andò in cerca di Tessay. «Ti nomino interprete ufficiale», le disse. «Sapper non conosce né l'arabo né l'amharico. Restagli vicina.» Non appena si fece giorno, Mek e Nicholas lasciarono il campo per Wilbur Smith
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cercare un'area adatta al lancio. Prima di mezzogiorno si dichiararono d'accordo: c'era un'unica possibilità. Avrebbero dovuto servirsi della valle. In confronto alle creste rocciose che li circondavano, il fondovalle era pianeggiante e relativamente libero da ostacoli. Era indispensabile che il lancio avvenisse il più vicino possibile al sito della diga, perché il trasporto del materiale avrebbe reso il lavoro molto più lungo e faticoso. «Il tempo è il fattore principale», disse Nicholas a Mek mentre si trovavano nell'area prescelta, l'indomani mattina. «Ormai ogni giorno è importante, da adesso all'inizio delle piogge.» Mek guardò il cielo. «Prega Dio che quest'anno le piogge comincino tardi.» Contrassegnarono l'area di lancio a un chilometro e mezzo dal fiume, nel tratto in cui la valle era più ampia e l'avvicinamento era reso agevole da un varco fra le colline. Jannie avrebbe avuto bisogno di volare diritto e in assetto orizzontale per otto chilometri, con gli alettoni e la rampa di carico abbassati. «Non c'è molto spazio», commentò Mek mentre scrutavano i pendii accidentati e le vette minacciose che li circondavano. «Il tuo amico sa volare?» «Sa volare? È metà uomo e metà pennuto», gli assicurò Nicholas. Proseguirono per un tratto nella valle, in modo da controllare la posizione dei razzi e dei segnali. I contrassegni erano croci di pezzi di quarzo bianco disposte al centro del fondovalle, e dall'alto sarebbero stati ben visibili. Sapper era in alto, all'imboccatura della valle. Potevano vederlo contro lo sfondo del cielo, mentre si aggirava per piazzare i fumogeni che indicavano la prossimità della zona di lancio. Quando Nicholas si voltò nella direzione opposta, vide le due giovani donne sedute vicine su una roccia nell'estremità più lontana della valle. Sapper le aveva già aiutate a piazzare anche i loro razzi, indispensabili per mostrare il limite della zona e per segnalare a Jannie il punto in cui doveva riprendere quota per allontanarsi. Nicholas tornò a osservare gli uomini di Mek: stavano finendo di collocare i contrassegni di quarzo bianco. Quando ebbero terminato, Mek diede l'ordine di sgombrare l'area. Poi, reggendo la radio, andarono a raggiungere Sapper sull'altura. Dopo aver disposto l'antenna, Nicholas accese la radio e agì sul Wilbur Smith
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regolatore di amplificazione. Quindi tamburellò sul microfono. «Big Dolly. Su, Big Dolly», chiamò, ma gli rispose soltanto un ronzio. «Deve essere in ritardo», borbottò poi, cercando di non far trasparire la sua inquietudine. «Jannie questa volta arriverà direttamente da Malta fin qui. Dopo il primo lancio, si dirigerà alla base di Roseires e prenderà a bordo il carico che abbiamo lasciato là. Con un po' di fortuna, tutto il materiale sarà scaricato per domani, in mattinata.» «Sempre ammesso che il ciccione arrivi», gli fece notare Mek. «Jannie è un professionista», ribatté Nicholas. «Arriverà di sicuro.» Si avvicinò il microfono alle labbra. «Big Dolly, mi senti? Passo.» Ripeté la chiamata ogni dieci minuti, ma le sue parole si perdevano echeggiando nel vuoto. E ogni volta che Big Dolly non rispondeva, Nicholas vedeva con gli occhi della mente stormi di MIG sudanesi e Big Dolly avvolto in una torre di fiamme. «Vieni, Big Dolly», supplicò Nicholas, e finalmente un filo di voce stridula arrivò nella cuffia. «Faraone, qui Big Dolly. Arrivo previsto fra quarantacinque minuti. Resta in attesa.» La comunicazione di Jannie era laconica: un veterano del contrabbando come lui non avrebbe mai offerto a un ascoltatore ostile la possibilità d'individuare la sua posizione. «Big Dolly, ricevuto. Quarantacinque. Faraone rimane in attesa.» Nicholas sorrise soddisfatto a Mek. «Ci siamo, a quanto pare.» Mek fu il primo a sentirlo. Il suo udito era affinato dalla guerriglia. In quella terra, se volevi continuare a vivere, dovevi essere in grado d'individuare la presenza di un aereo molto prima che questo arrivasse. Nicholas era fuori allenamento: solo cinque minuti più tardi captò il rumore caratteristico del quadrimotore che echeggiava fra le pareti della gola. Era impossibile capire da quale direzione venisse, ma tutti si schermarono gli occhi e guardarono verso ovest. «Eccolo.» Nicholas scorse il puntolino nero così basso che quasi si confondeva con lo sfondo della parete della scarpata. Fece un cenno a Sapper. Sapper corse ai suoi fumogeni e si diede da fare per qualche istante. Quando tornò indietro, fiorirono in nuvole di denso fumo giallo-calendula che si spostava lentamente nella brezza leggera. Il fumo avrebbe indicato a Jannie la forza e la direzione del vento, oltre all'ubicazione della zona di lancio. Nicholas guardò con il binocolo l'estremità opposta della stretta valle, e Wilbur Smith
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vide che Royan e Tessay erano occupate a far partire i razzi. All'improvviso si alzò un fumo cremisi e le due giovani donne tornarono correndo alla posizione di partenza e si fermarono poi a scrutare il cielo. Nicholas parlò nel microfono. «Big Dolly, il fumo sta salendo. Lo vedi?» «Affermativo. Ti vedo. E puoi essere veramente grato per quanto stai per ricevere.» L'inconfondibile accento sudafricano di Jannie rendeva ancor più divertente quella inattesa parodia della preghiera del rendimento di grazie. La sagoma del quadrimotore ingrandì sotto i loro occhi e, a un certo punto, le ali parvero riempire metà del cielo. Poi il profilo si modificò quando i grandi alettoni si abbassarono e la rampa di carico si aprì. L'Hercules rallentò il volo in modo così evidente da sembrare appeso al sole africano per mezzo di un filo invisibile. Virò lentamente quando Jannie lo allineò con i fumogeni, si abbassò e poi continuò ad abbassarsi, puntando direttamente verso il luogo in cui lo stavano aspettando. Con un ruggito selvaggio che spinse tutti e tre a chinarsi, passò molto basso sopra di loro, come se volesse spazzarli via dalla cresta. Nicholas intravide Jannie che lo guardava dalla cabina di pilotaggio, con un gran sorriso sulle labbra e una mano sollevata in segno di saluto. Poi l'aereo si allontanò. Nicholas si raddrizzò e guardò Big Dolly che avanzava maestosamente sopra il centro della valle. Il primo pallet cadde, precipitò verso terra fino a che all'ultimo momento i paracadute non si aprirono come un bouquet da sposa fatto di margherite bianche. La caduta del pesante container si arrestò di colpo: oscillò nell'aria e, dopo qualche secondo, piovve sul fondovalle in una nube di polvere gialla e con un tonfo che si fece sentire fino in cima alla cresta. Poi caddero altri due carichi: rimasero appesi per brevi attimi ai paracadute prima di toccare il suolo. I motori di Big Dolly rombarono al massimo, il muso puntò verso l'alto mentre risaliva passando sopra le nubi di fumo cremisi, e usciva dalla trappola mortale della valle. L'apparecchio descrisse un'altra ampia virata e si mise in linea per il secondo passaggio. Ancora una volta lanciò i pallet mentre sorvolava i contrassegni di quarzo e risaliva oltre la parete di fondo alla valle, sfiorando gli spuntoni Wilbur Smith
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di roccia che minacciavano di afferrarlo. Jannie ripeté per sei volte quella manovra pericolosa. Ogni volta lanciò tre pesanti container. Alla fine i carichi erano sparsi lungo il fondovalle, avvolti dalla seta bianca dei paracadute. Mentre Jannie risaliva per l'ultimo passaggio, la sua voce echeggiò nella cuffia di Nicholas. «Non andartene, Faraone. Torno subito.» Big Dolly rialzò la rampa di carico come una vecchia signora che si assesta i mutandoni, e puntò verso ovest. Nicholas e Mek scesero correndo nella valle dove i monaci si erano già radunati intorno ai pallet, ridendo e chiacchierando. I due presero subito il comando: li divisero in squadre e impartirono precise istruzioni su come portar via il contenuto. Nicholas e Sapper avevano deciso che i pallet venissero lanciati seguendo l'ordine in cui sarebbe stato utilizzato il materiale che contenevano. Nel primo c'erano viveri in scatola e liofilizzati, i loro effetti personali, l'equipaggiamento da campo e alcune cose che avrebbero reso più agevole la vita di tutti i giorni, quali le zanzariere e una cassa di whisky di malto. Per Nicholas fu un sollievo vedere che il prezioso container non perdeva liquido: neppure una bottiglia si era rotta nel lancio. Sapper si occupò del materiale da costruzione e dell'attrezzatura pesante, e diede gli ordini per mezzo di Tessay. Il materiale fu trasportato verso l'antichissima cava dove sarebbe stato conservato fino al momento del suo utilizzo. L'oscurità scese quando oltre metà dei pallet non erano stati ancora aperti. Mek li lasciò dov'erano caduti, affidandoli a una guardia armata. Poi tutti tornarono stancamente al campo. Quella notte, con lo stomaco confortato da un pasto decente e da un bicchierino di whisky, con la zanzariera sopra la testa e un soffice materasso di gommapiuma sotto di lui, Nicholas si assopì con il sorriso sulle labbra. Tutto era incominciato nel modo migliore. Lo svegliò il salmodiare dei monaci che cantavano il mattutino. «Qui non avremo bisogno di una sveglia.» Con un gemito, scese al fiume per lavarsi e radersi. Quando il sole stese il suo manto dorato sui contrafforti della scarpata, Nicholas e Mek erano già al loro posto sulle alture e scrutavano il cielo a occidente. Wilbur Smith
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Secondo il piano concordato, Jannie avrebbe trascorso la notte a Roseires; gli uomini di Mek lo avrebbero aiutato a caricare il materiale che avevano nascosto dopo il primo volo da Malta. Era una delle fasi più delicate dell'operazione. Mek aveva assicurato che, al momento, la presenza dei militari nell'area era scarsa, eppure sarebbe stata sufficiente una pattuglia governativa sudanese per scoprire Big Dolly mentre era a terra e quindi per mandare all'aria tutti i loro sforzi. Nicholas provò un tuffo al cuore quando sentì il rombo delle turboeliche che riverberava fra i dirupi. Big Dolly si allineò per il primo passaggio lungo la valle e, mentre sorvolava le croci di quarzo, l'enorme trattore a pala caricatrice anteriore cadde dal vano di carico. Istintivamente, Nicholas trattenne il respiro. Lo guardò precipitare e poi rallentare con un sussulto, trattenuto dai paracadute. Ondeggiò all'impazzata nel cielo come uno yo-yo trattenuto dalle corde di nylon. A quello spettacolo, i monaci proruppero in grida di sbalordimento e di eccitazione. Sollevando una nube di polvere, il trattore toccò terra. Sapper, a fianco di Nicholas, gemette e si coprì gli occhi per non vedere il turbine che s'innalzava nell'aria. «Merda!» mormorò con voce cavernosa. «È una constatazione o un semplice bisogno?» disse Nicholas, ma in realtà non era per nulla divertito. Quando fu lanciato anche l'ultimo pallet e l'Hercules si allontanò risalendo nel cielo, Nicholas chiamò Jannie per radio. «Mille grazie, Big Dolly. Buon ritorno a casa.» «Inshallah! Se Dio vorrà!» rispose Jannie. «Ti chiamerò quando avrò bisogno di un passaggio.» «Aspetterò.» Big Dolly continuò ad allontanarsi rombando. «In bocca al lupo.» «Bene.» Nicholas batté la mano sulla schiena di Sapper. «Andiamo a vedere in che condizioni è il tuo trattore.» La macchina gialla era rovesciata sul fianco e perdeva olio, come perde sangue un dinosauro colpito al cuore. «Tu puoi pure andartene», disse Sapper a Nicholas. «Ma ho bisogno che una dozzina di uomini rimanga qui a darmi una mano...» Poi, mestamente, si avviò verso il trattore. Pareva un vedovo inconsolabile che si appresta a Wilbur Smith
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piangere sulla tomba dell'amata. Sapper non tornò al campo per cenare. Tessay gli mandò una ciotola di wat e un po' d'injera perché mangiasse mentre lavorava. Nicholas pensò di andare ad offrire il suo aiuto, ma poi decise che non era il caso. Sapeva per esperienza che, in certi momenti, Sapper voleva essere lasciato in pace. Era ancora buio quando il campo venne improvvisamente illuminato dallo sfolgorio dei fari e le colline riverberarono del rombo d'un motore diesel. Coperto di grasso e polvere fino alla testa calva, con gli occhi cerchiati e l'espressione trionfante, Sapper guidò nel campo il trattore giallo e, dall'alto del sedile di guida, tuonò: «Bene, bricconi e ninfe, lasciate perdere tutto e venite. Andiamo a costruire la diga!» Impiegarono altri due giorni per raccogliere tutti i pallet sparpagliati nella valle e portare il materiale nell'antica cava, dove lo ammonticchiarono secondo il piano che Nicholas e Sapper avevano stilato in Inghilterra. Era indispensabile sapere dove si trovava ogni oggetto e avervi accesso immediato quando esso si rendeva necessario. Sapper, intanto, era al lavoro nel sito della diga per gettare le fondamenta. Piantava pali di legno numerati sulla riva del fiume e prendeva le misure definitive con un lungo metro d'acciaio flessibile. Durante il lavoro preliminare, Nicholas osservò il comportamento dei monaci e imparò a conoscerli a uno a uno. Individuò i più adatti a dirigere le operazioni, i più intelligenti e volenterosi. E identificò anche quelli che parlavano l'arabo o un po' d'inglese. Il più promettente si chiamava Hansith Sherif, e Nicholas lo scelse come interprete e assistente personale. Una volta che si furono sistemati nel campo ed ebbero stabilito buoni rapporti con i monaci, Mek Nimmur prese in disparte Nicholas, in modo che le due donne non potessero sentirli. «Da questo momento, mi assumo il compito di salvaguardare il cantiere. Dovremo tenerci pronti, sia per prevenire un attacco come quello contro il vostro campo sia per impedire che si ripeta il massacro dei monaci di San Frumenzio. Nogo e i suoi assassini sono ancora qui intorno. Non ci metterà molto per scoprire che sei tornato nella gola. E, quando verrà, sarò pronto a riceverlo.» «Te la cavi meglio con un AK47 che con un piccone», ammise Nicholas. «Ma lascia qui Tessay. Ho bisogno di lei.» Wilbur Smith
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«Anch'io.» Mek sorrise e scosse malinconicamente la testa. «Solo adesso comincio a rendermene conto. Abbi cura di lei. Tornerò a trovarla tutte le notti.» Mek condusse i suoi uomini nella boscaglia e li piazzò in posizioni difensive lungo la pista e intorno al campo. Quando Nicholas alzava gli occhi dal lavoro, gli capitava spesso di scorgere una delle sentinelle di Mek sulle alture. Era rassicurante sapere che erano lassù. Come aveva promesso, Mek veniva al campo quasi tutte le sere e, durante la notte, Nicholas sentiva provenire, dalla capanna che divideva con Tessay, la sua risata profonda che si mescolava a quella argentina di lei. Allora Nicholas rimaneva sveglio a pensare a Royan che dormiva nella capanna così vicina e nel contempo tanto lontana. Il quinto giorno arrivò il secondo gruppo di trecento operai reclutati da Mai Metemma. Nicholas era sbalordito. Raramente le cose funzionavano così bene in Africa, una terra dove non succedeva mai niente in anticipo sulla tabella di marcia. Si chiese che cosa aveva detto esattamente Mek all'abate, ma concluse che in realtà preferiva non saperlo, perché adesso poteva avviare il lavoro di costruzione vero e proprio. Il contingente non era formato da monaci - il monastero di san Frumenzio aveva già mandato tutti quelli disponibili -, bensì da abitanti dei villaggi situati sugli altipiani della scarpata. Mai Metemma li aveva convinti con le promesse d'indulgenze religiose e le minacce dell'inferno. Nicholas e Sapper li divisero in squadre di trenta uomini, e le misero al comando dei monaci scelti come capi squadra. Li raggrupparono secondo l'aspetto fisico, in modo che gli individui più robusti formassero le truppe d'assalto del progetto; a quelli solidi, ma meno imponenti, vennero quindi assegnati compiti in cui non era indispensabile la forza bruta. Nicholas inventò un nome per ogni squadra: i «Bufali», i «Leoni», le «Scuri». Dovette fare uno sforzo d'immaginazione, ma desiderava ispirare in loro un senso d'orgoglio e anche sviluppare un sano spirito di competizione. Li passò in rassegna alla cava. Ogni gruppo era guidato dal rispettivo monaco caposquadra di fresca nomina. Usò uno degli antichi blocchi di pietra come podio e, con l'aiuto di Tessay che gli faceva da interprete, tenne un'arringa ardente, quindi annunciò che sarebbero stati pagati in Wilbur Smith
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talleri d'argento di Maria Teresa, e fissò le paghe al triplo delle tariffe normali. Gli uomini, che fino a quel momento avevano ascoltato Nicholas con aria rassegnata, si rianimarono come d'incanto. Nessuno aveva mai parlato loro di una paga, e molti stavano già pensando a come disertare per tornarsene a casa. La spiegazione di quel cambiamento era semplice: Nicholas non prometteva soltanto un compenso, ma addirittura talleri d'argento. In Etiopia, durante gli ultimi duecento anni, i talleri di Maria Teresa erano stati considerati come le uniche monete degne di questo nome. Appunto per questo venivano tuttora coniati con la data originale del 1780 e il ritratto dell'imperatrice austriaca con tanto di doppio mento e la scollatura che metteva in mostra il seno abbondante. Ognuno di quei talleri valeva più di un sacco di birr di carta emessi dal regime di Addis Abeba. Per pagare gli operai, Nicholas aveva incluso una cassa di talleri nel primo carico lanciato da Jannie. Tutti sorrisero beati: i denti candidi luccicavano nelle facce d'ebano. Qualcuno incominciò a cantare, a battere i piedi, a ballare e ad acclamare Nicholas, mentre altri già si mettevano in coda per ritirare gli attrezzi. Armati di zappa e badili, risalirono la valle per raggiungere il sito della diga fra canti e passi di danza. «Più che Nicholas dovresti chiamarti Babbo Natale», rise Tessay. «Non ti dimenticheranno mai.» «Magari ti proclameranno santo e ti dedicheranno un monastero», suggerì soavemente Royan. «Ma non sanno ancora quanto dovranno faticare per guadagnarsi quei talleri.» Da quel giorno, il lavoro incominciò alle prime luci e cessò quando si faceva troppo buio per continuare. Gli uomini tornavano ogni sera alla base nella luce delle torce, ed erano troppo stanchi per cantare. Nicholas, però, aveva stretto un accordo con i capi dei villaggi dell'altopiano perché fornissero ogni giorno un animale da macellare. Ogni mattina, le donne scendevano la pista conducendo l'animale e tenendo in bilico sulla testa enormi recipienti di tej. Nei giorni che seguirono, non ci furono diserzioni nel piccolo esercito di operai.
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Dall'alto del sedile di guida del trattore, Sapper sollevò il primo gabbione di rete metallica con i bracci idraulici. Il gabbione conteneva una notevole quantità di massi e pesava diverse tonnellate. Il lavoro nel cantiere si fermò, e gli uomini si affollarono sulle rive del Dandera per assistere alla scena. Un mormorio di stupore si levò dalle loro file quando Sapper guidò il trattore giallo giù per la banchina ripida e, tenendo ben sollevato il gabbione, avanzò nell'acqua. La corrente, quasi irritata dall'invasione, turbinò rabbiosamente intorno alle alte ruote posteriori, ma Sapper continuò ad avanzare. Gli uomini incominciarono a cantilenare e a battere le mani mentre l'acqua saliva al ventre della macchina e nuvole di vapore scaturivano sibilando dall'acciaio rovente. Sapper frenò e calò nell'acqua il pesante gabbione. Poi tornò sulla riva. Gli uomini applaudirono freneticamente, anche se il primo gabbione fu sommerso all'istante e solo un vortice sulla superficie del fiume rimase a segnare la sua posizione. Un altro gabbione già pieno era pronto e il trattore lo raggiunse, abbassò i bracci d'acciaio e lo sollevò con la delicatezza di una madre che stringe a sé il figlioletto. Nicholas gridò ai capi-squadra di far tornare al lavoro i loro uomini, e le lunghe file di operai risalirono la valle. Erano seminudi: indossavano soltanto perizomi bianchi e sudavano nel caldo della gola, tanto che la loro pelle luccicava come antracite appena estratta dalla miniera. Ognuno di loro portava sulla testa un cesto di pietrisco, e andava a scaricarlo nella bocca del gabbione: poi, con il cesto vuoto, ridiscendeva alla cava. Via via che ogni gabbione veniva riempito, un'altra squadra sistemava il coperchio e lo chiudeva con robusti fili metallici. «Un premio di venti talleri alla squadra che oggi riempirà il maggior numero di cesti!» gridò Nicholas. Gli uomini urlarono di gioia e raddoppiarono l'impegno: tuttavia non riuscirono a star dietro al ritmo del trattore di Sapper, che continuava a posare i piloni di pietrisco lavorando nell'acqua bassa vicino a riva, in modo che i gabbioni fossero sistemati uno contro l'altro. All'inizio, i progressi risultarono poco evidenti. Tuttavia, quando sotto la superficie fu eretta una barriera solida, il fiume incominciò a reagire rabbiosamente. La voce delle acque cambiò: il fruscio sommesso si trasformò in un rombo sordo. Wilbur Smith
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Poco più tardi, la sommità della muraglia di gabbioni emerse dalla superficie e il fiume si ridusse alla metà dell'ampiezza precedente. Adesso era furibondo; si riversava nel varco in un solido torrente verde e, dato che era costretto a indietreggiare, saliva in modo quasi impercettibile sulle rive. Il fiume aggrediva le fondamenta della diga, le artigliava per scoprirne i punti deboli, e i lavori rallentavano via via che le acque crescevano di livello. Nelle foreste lungo le sponde del Dandera, i taglialegna erano all'opera. Ogni volta che uno dei grandi alberi cadeva, gemendo come un essere vivente, Nicholas rabbrividiva all'idea di poter stroncare con tanta disinvoltura la vita di piante che avevano impiegato secoli per raggiungere le dimensioni attuali. «La vuoi, questa stramaledetta diga? Allora devi abbattere gli alberi», fu la dura replica di Sapper alle rimostranze di Nicholas. Questi gli voltò le spalle senza rispondere. Erano tutti stanchi: il lavoro quasi non conosceva soste, e il nervosismo serpeggiava. C'erano già state alcune risse furibonde fra gli operai, e Nicholas aveva dovuto schivare i colpi di zappa per intervenire e separare i contendenti. A poco a poco il letto del fiume si restrinse, mentre la palizzata avanzava. E venne il momento di passare a lavorare sulla riva opposta. Ci vollero gli sforzi combinati di tutti gli operai per costruire una strada nuova lungo la riva, fino al guado, e almeno un centinaio di uomini per trainare il trattore sulla sponda opposta. Comunque, grazie alle funi robuste e al vigore degli operai, e nonostante la ribollente spuma sollevata dalle ruote posteriori del mezzo, l'impresa venne portata a termine. Poi fu necessario costruire un'altra strada per arrivare al sito della diga. I taglialegna abbatterono i tronchi che ostruivano il cammino e gli operai spostarono con le leve i massi per far passare il trattore. Quindi, una volta che l'ebbero riportato sul sito della diga, poterono cominciare l'operazione di posa dei gabbioni. Lentamente, le due muraglie si avvicinarono l'una all'altra; ma, mentre il varco si restringeva, seppure di pochi metri al giorno, l'acqua saliva e rumoreggiava, rendendo più difficile il lavoro. Nel frattempo, duecento metri più a monte, i Falchi e gli Scorpioni erano al lavoro per costruire una zattera con i tronchi degli alberi abbattuti nella foresta. Li legarono fra loro in modo da formare una grata e vi stesero sopra pesanti fogli di PVC per renderla impermeabile; quindi aggiunsero Wilbur Smith
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una seconda grata in modo da formare una sorta di sandwich gigantesco, tenuto insieme da robusto filo metallico. Sapper ordinò poi di zavorrare una estremità della grata con piccoli massi, in modo che la zattera fosse più pesante da una parte e galleggiasse nell'acqua quasi in verticale, con un'estremità che toccava il fondo del fiume e l'altra che sporgeva sopra la superficie. Le dimensioni della zattera ultimata erano proporzionali alla breccia fra i due contrafforti della diga. Mentre proseguivano i lavori sulla zattera e sulla muraglia, Sapper costruì una serie di gabbioni, li riempì e li ammucchiò sulle due rive, più a valle dello sbarramento. Le tre squadre di operai più forzuti, gli Elefanti, i Bufali e i Rinoceronti, erano in attività all'imboccatura della valle: scavavano un canale profondo dove sarebbe stato deviato il fiume. «Il tuo architetto geniale, Taita, non aveva pensato a questo particolare», annunciò soddisfatto Sapper a Royan mentre stavano sull'orlo della trincea. «Non dobbiamo far altro che innalzare il livello del fiume di un altro metro e ottanta prima che cominci a rifluire nel canale e nella valle. Senza un simile accorgimento, per deviare il fiume saremmo costretti a far salire l'acqua di circa sei metri.» «Forse il livello dell'acqua era diverso, tremila anni fa.» Royan provava uno strano senso di lealtà verso l'antico egizio ed era pronta a difenderlo. «O forse scavò un canale anche lui, ma le tracce sono state cancellate.» «Non è probabile», borbottò Sapper. «Quel disgraziato non ci pensò neppure», insistette con aria fiera e soddisfatta. «Alla faccia del signor Taita!» Royan sorrise fra sé. Era strano che persino Sapper, un uomo così pragmatico, considerasse quell'impresa una sorta di sfida all'antico egizio, una sfida che annullava l'abisso dei millenni. Anche lui era stato irretito dal gioco di Taita. Né le minacce né le promesse di ricompense celesti potevano indurre i monaci a lavorare la domenica. Il sabato sera smontavano un'ora prima, in modo da avere la possibilità di raggiungere il monastero in tempo per la comunione dell'indomani. Per quanto Nicholas si dimostrasse palesemente contrariato nei confronti di quella diserzione, in segreto era felice quanto gli altri alla prospettiva di poter riposare. Erano tutti sfiniti, e non sarebbero stati svegliati all'alba dal Wilbur Smith
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canto del mattutino. Il sabato sera tutti giuravano che l'indomani avrebbero dormito fino a tardi, ma Nicholas si svegliò alla stessa ora impossibile. Non se la sentì di restare sdraiato sul letto da campo, e quando tornò, dopo essersi lavato in riva al fiume, si accorse che anche Royan s'era alzata. «Caffè?» Lei prese il bricco dal fuoco e versò il liquido fumante nella tazza. «Stanotte ho dormito malissimo», gli disse poi. «Ho fatto i sogni più assurdi. Ero nella tomba di Marnose, perduta in un labirinto di corridoi. Cercavo la camera sepolcrale; aprivo le porte, ma c'era sempre gente, ovunque guardassi. In una camera Duraid stava lavorando. Ha alzato la testa e mi ha detto: 'Ricorda il protocollo dei Quattro Tori. Incomincia dall'inizio...' La sua immagine era così reale che ho avuto l'impulso di toccarlo; ma la porta si è chiusa, e ho capito che non l'avrei più rivisto.» Le lacrime che le riempivano gli occhi brillavano nella luce del fuoco. Nicholas cercò di distrarla dal ricordo doloroso. «Chi c'era nelle altre camere?» «In quella vicina c'era Nahoot Guddabi. Ha riso in modo sprezzante e ha detto: 'Lo sciacallo insegue il sole'. Poi la sua testa si è trasformata in quella di Anubi, il dio-sciacallo dei cimiteri. Guaiva e latrava, e io mi sono spaventata e sono fuggita.» Royan bevve un po' di caffè. «Era tutto privo di senso... Nella camera accanto c'era von Schiller. Si è sollevato in aria, ha agitato le ali e ha detto: 'L'avvoltoio s'innalza e la pietra cade'. Lo odiavo tanto che avrei voluto aggredirlo, ma è scomparso.» «E ti sei svegliata?» chiese Nicholas. «No.., C'era un'altra camera,» «C'era qualcuno?» Lei abbassò gli occhi e rispose con un filo di voce: «Tu». «Io? E che ho detto?» Nicholas sorrise. «Non hai detto niente.» Lei arrossì all'improvviso, lasciandolo sbalordito. «Che cosa ho fatto?» domandò continuando a sorridere. «Niente. Cioè, non posso dirtelo.» Il sogno le riaffiorò nella mente, vivido e realistico in ogni particolare del corpo nudo di Nicholas, fino all'odore e al contatto. S'impose di non pensarci più. Si sentiva vulnerabile come nel sogno. «Parlamene», insistette lui. «No!» Royan si alzò di scatto, confusa, ancora rossa in viso, e cercò di Wilbur Smith
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scacciare il ricordo. Era stata la prima volta in tutta la sua vita che aveva sognato un uomo in quel modo, la prima volta che aveva avuto un orgasmo nel sonno. Quella mattina, quando si era svegliata, si era accorta che i pantaloni del pigiama erano umidi. «Abbiamo una giornata intera davanti a noi senza niente da fare», disse precipitosamente, esprimendo il primo pensiero che le passò nella mente. «Al contrario.» Anche Nicholas si alzò. «Dobbiamo ancora organizzarci nel modo migliore per andarcene da qui. Quando verrà il momento, con ogni probabilità avremo una certa fretta.» «Ti dispiace se vengo con te?» chiese Royan. Due squadre, i Bufali e gli Elefanti, tutti presenti eccettuati i rispettivi capi, li attendevano nella cava. Erano sessanta degli uomini più forti a disposizione. Nicholas estrasse da un pallet i canotti gonfiabili Avon. Erano tutti sgonfi e piegati ordinatamente, con i remi legati alle fiancate. I gommoni erano stati progettati appositamente per viaggiare su acque turbolente, e ognuno era in grado di trasportare sedici uomini e una tonnellata di carico. Nicholas ordinò di fissare i grossi pacchi alle pertiche che avevano tagliato appositamente. Cinque uomini a ogni estremità di una pertica, con il gommone ripiegato appeso al centro, non faticavano a trasportarlo. Si avviarono ad andatura sostenuta lungo la pista e, quando un gruppo si stancava, un altro era pronto a sostituirlo. Effettuavano il cambio senza neppure fermarsi: i nuovi portatori infilavano le spalle sotto la pertica e procedevano, mentre i loro compagni, esausti, cedevano loro il posto. Nicholas portava la radio nella custodia impermeabile antiurto in fibra di vetro: non era disposto ad affidare quello strumento prezioso a un portatore. Trottava insieme a Royan dietro la colonna, e si univa al ritornello del canto che gli uomini intonavano scendendo verso il monastero. Mai Metemma li attendeva sulla terrazza davanti alla chiesa di san Frumenzio. Li condusse giù per la scala ricavata nella roccia a sessanta metri dal livello del fiume. C'era uno stretto cornicione roccioso contro cui si avventavano le acque del Nilo, e gli spruzzi delle cascate li avvolgevano come una pioggerella incessante. Dopo il caldo e il sole abbagliante, quel luogo nel profondo della gola era freddo, umido e buio. I dirupi neri grondavano d'acqua, e il Wilbur Smith
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cornicione era bagnato e scivoloso. Royan rabbrividì mentre guardava il fiume che scorreva, formava grandi vortici nella conca rocciosa e usciva nella stretta imboccatura della gola per il lungo viaggio verso l'Egitto e il nord. «Se avessi saputo che, secondo te, questa dovrà essere la strada che ci riporterà a casa...» Royan lanciò al fiume uno sguardo dubbioso. «Se preferisci andare a piedi, per me va bene», rispose Nicholas. «Con un po' di fortuna, porteremo qualche bagaglio in più. Il fiume è la via di fuga più logica.» «Sì, è giusto, ma non mi sembra molto invitante», commentò lei. Spezzò un rametto da una pianta contorta che si era abbarbicata al cornicione e lo buttò nel fiume. Fu trascinato via, al di là dell'onda fissa dove un ostacolo sommerso costringeva le acque a gonfiarsi. «Qual è la velocità della corrente?» chiese a voce bassa mentre il rametto spezzato veniva risucchiato sul fondo. «Oh, non molto più di otto o nove nodi», disse Nicholas con noncuranza. «Ma è una cosa da niente. Il fiume è ancora molto basso. Aspetta che cominci a piovere sulle montagne, e allora vedrai quant'acqua passerà da qui. Sarà divertente. Molti pagano somme cospicue per avere la possibilità di scendere un fiume come questo. Vedrai, ti piacerà.» «Tante grazie», replicò Royan in tono asciutto. «Non vedo l'ora.» Quindici metri sopra il cornicione, fuori della portata del livello massimo delle piene, c'era una piccola caverna, il sacrario dell'Epifania. Molto tempo prima, i monaci avevano tagliato nella parete di roccia il passaggio, che terminava in una camera spaziosa, rischiarata dalle candele, dove stava una statua a grandezza naturale della Vergine, vestita di velluto sbiadito e con il Bambin Gesù fra le braccia. Mai Metemma li aveva autorizzati a riporre i gommoni nel sacrario. Li ammucchiarono contro una parete laterale; quando i portatori si allontanarono, Nicholas mostrò a Royan come si azionavano le maniglie per l'apertura rapida dei pacchi e le bombole di anidride carbonica che avrebbero gonfiato i gommoni in pochi minuti. Poi avvolse la custodia della radio e il piccolo zaino d'emergenza in un foglio di plastica e li ripose in uno dei pacchi, dove avrebbe potuto recuperarli in caso di necessità. «Hai intenzione di accompagnarmi nella gita, vero?» chiese ansiosamente Royan. «Non vorrai mandarmi da sola...» «È meglio che tu sappia come funziona tutta questa roba», spiegò Wilbur Smith
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Nicholas. «Se, al momento di andarcene, la situazione diventasse critica, potrei avere bisogno del tuo aiuto per varare i gommoni.» Quando risalirono la scala e tornarono nel caldo e nella luce del sole, Royan cambiò d'umore. «Non è ancora mezzogiorno, e abbiamo a nostra disposizione il resto della giornata. Torniamo alla lanca di Taita», propose. Lui alzò le spalle con indulgenza. I Bufali e gli Elefanti li accompagnarono sino alla biforcazione della pista, poi proseguirono per tornare alla diga, gridando parole di saluto. Nicholas e Royan rimasero soli. Nel breve tempo trascorso dall'ultima visita, il sentiero era stato invaso della vegetazione e Nicholas fu costretto a usare il machete per aprire un passaggio. Dovettero anche chinarsi per evitare i rami spinosi più bassi. A metà del pomeriggio superarono la cresta e si trovarono ancora una volta sul dirupo che sovrastava la lanca di Taita. «A quanto pare, siamo stati gli ultimi a venire qui», disse Nicholas in tono di sollievo. «Non c'è traccia di altri visitatori.» «Ti aspettavi di trovarne?» «Non si sa mai. Von Schiller è un personaggio temibile, e ha al suo servizio certi tipi... adorabili. Quello che m'impensierisce è Helm. Avevo la spiacevole sensazione che sarebbe venuto a curiosare da queste parti. Voglio controllare.» Fece il giro dell'area, alla ricerca di eventuali tracce d'intrusi, poi tornò da Royan che era seduta sul ciglio dell'abisso e si sedette accanto a lei. «Niente», annunciò. «È ancora tutto per noi.» «Quando Sapper avrà deviato il fiume più a monte, questo sarà il nostro teatro delle operazioni, vero?» chiese Royan. «Sì, ma prima che Sapper chiuda la diga, voglio costruire un campo qui e trasferire dalla cava tutto il materiale che ci occorre per averlo a portata di mano quando cominceremo a esplorare la lanca.» «E come scenderemo? Lungo il letto del fiume, quando sarà asciutto?» «Sì, credo che potremmo usarlo come una specie di strada per scendere dalla diga o per risalire dalla parte del monastero, passando attraverso le rocce rosate.» «Ma non è così che conti di entrare, vero?» chiese Royan. «Anche se non ci sarà più l'acqua, il letto del fiume rappresenterà una lunga deviazione, da cinque a sette chilometri, partendo dalle due estremità Wilbur Smith
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dell'abisso, e oltretutto sarà un percorso molto scomodo.» Nicholas sorrise malinconicamente. «Stai parlando con un esperto. Ho sceso il fiume nel modo più difficile e non ci terrei a rifarlo. Ci sono almeno cinque rapide e ammassi di rocce dove sono stato sballottato.» «E allora qual è la tua idea?» chiese Royan. «Non è mia», la contraddisse Nicholas. «Per la precisione, è un'idea di Taita.» Lei sbirciò nel baratro. «Vuoi costruire un'impalcatura contro la parete come aveva fatto lui?» «Se andava bene per Taita, andrà bene anche per me», osservò Nicholas. «Quella vecchia volpe aveva probabilmente valutato la possibilità di usare il letto del fiume come strada di accesso, ma poi vi rinunciò.» «Quando comincerai a costruire l'impalcatura?» «Una squadra sta già tagliando canne di bambù più in alto, nella gola. Domani cominceremo a portarle qui e ad accatastarle. Non possiamo sprecare neppure un giorno. Quando la diga sarà terminata, dovremo entrare nella lanca asciutta al più presto possibile.» Come per sottolineare le sue parole, in lontananza risuonò il brontolio del tuono. Girarono la testa per guardare la scarpata. Centocinquanta chilometri più a sud, sbiaditi come una vecchia fotografia color seppia sovrapposta sul netto contorno azzurrino della scarpata, s'innalzavano torreggiami e tumultuosi i cumulinembi. Nessuno dei due commentò lo spettacolo. Ma si rendevano conto della minaccia costituita da quelle nubi temporalesche. Nicholas diede un'occhiata all'orologio e si alzò. «È ora di tornare, se vogliamo arrivare al campo prima che faccia buio.» Le tese la mano e l'aiutò ad alzarsi. Lei si spolverò la gonna e si fermò sul ciglio del canyon. «Sveglia, Taita. Siamo sulle tue tracce», gridò verso le ombre. «Non sfidarlo.» Nicholas le prese il braccio e la tirò indietro. «Quel briccone ci ha già causato abbastanza guai.» I taglialegna avevano lasciato le radici di parecchi grandi alberi sulle rive del Dandera, a monte della diga. Sapper se ne servì come ancoraggi per i cavi pesanti che tendeva attraverso il fiume; e aveva montato anche una serie di pulegge. Il cavo principale era fissato al gancio da traino del trattore. Gli altri cavi Wilbur Smith
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erano stati distesi, uno per riva, e i Bufali e gli Elefanti erano pronti a maneggiarli. Una squadra era al comando di Nicholas, l'altra di Mek Nimmur. Mek era sceso dalla collina per dare una mano in quella fase cruciale della costruzione. La grata di massicci tronchi d'albero stava sul bordo del fiume, già immersa in acqua per metà. Zavorrata con i massi, era una struttura ingombrante e poco maneggevole; ci sarebbero voluti tutti i loro sforzi per farla arrivare in posizione. Sapper socchiuse le palpebre e studiò la scena, poi guardò verso valle in direzione della diga parzialmente completata. I due sbarramenti di gabbioni si estendevano dalle due rive, ma il varco al centro del fiume era di almeno sei metri, e vi passava tutto il volume dell'acqua. «Dobbiamo evitare che quel maledetto tappo ci sfugga e vada a sbattere contro la barriera», spiegò a Mek e a Nicholas. «Altrimenti perderemo buona parte di quel che abbiamo realizzato finora. Voglio guidarlo piano piano, e fare in modo che si adatti perfettamente al varco. Qualche domanda? È l'ultima occasione per farne. Conoscete i segnali.» Sapper aspirò una boccata dalla sigaretta, buttò il mozzicone nel fiume poi annunciò con aria lugubre: «Bene, signori. L'ultimo che entra in acqua è un vigliacco.» In confronto ai loro uomini, Nicholas e Mek erano troppo vestiti. Indossavano entrambi calzoncini kaki, mentre gli altri erano nudi. Ricevuto l'ordine, avanzarono nel fiume sino a che l'acqua non arrivò alla vita, e si piazzarono lungo i cavi. Prima di seguirli, Nicholas si guardò intorno un'ultima volta. Quella mattina a colazione Royan gli aveva chiesto in prestito il binocolo. Ora capiva il perché. Royan e Tessay erano sulla sommità del pendio che sovrastava la gola. Nicholas vide Royan passare il binocolo a Tessay. Non intendevano perdere neppure un momento di quell'operazione decisiva. Nicholas distolse gli occhi dalla cresta e li girò sugli uomini nudi. Fece una smorfia. «Accidenti», mormorò. «Qui ci sono diversi esemplari da gran premio. Mi auguro che Royan non voglia fare confronti.» Sapper salì a bordo del trattore giallo. Con un rombo e uno sbuffo di fumo, il motore diesel si accese. Poi l'uomo alzò un pugno sopra la testa, e Nicholas passò l'ordine alla sua squadra. «Tirate!» I capi-squadra lo ripeterono in amharico, e gli uomini s'inclinarono all'indietro per tirare i cavi. Sapper innestò la marcia più bassa e fece Wilbur Smith
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avanzare il trattore. I cavi si tesero, le ruote cigolarono e la grata di tronchi scivolò pesantemente dalla riva all'acqua. La parte zavorrata affondò subito e urtò contro il fondo, mentre l'estremità più leggera si sollevò. Lentamente allora la rimorchiarono al centro del fiume sino a sospenderla in verticale nell'acqua. La corrente tuttavia afferrò la zattera e cominciò a trascinarla verso la barriera dei gabbioni, facendola accelerare in pochi istanti. Il trattore muggì, eruttando nubi di fumo nero, quando Sapper innestò la marcia indietro; gli operai nudi tiravano e cantavano. Alcuni erano già stati trascinati nell'acqua fino al collo e si aggrappavano con tutto il loro vigore alle corde. La grata si assestò di traverso alla corrente e la sua velocità diminuì. Sembrava ormai diretta verso il varco ancora aperto nella barriera, quando invece si mise a slittare verso una riva. Sapper alzò il braccio destro e lo agitò. La squadra di Mek, sulla sponda opposta, allentò la tensione, e quella di Nicholas l'aumentò. Ancora una volta la grata si allineò con il varco. «Su, su, tappate il buco!» muggì Sapper, intuendo che la corrente era diventata così forte da risultare pressoché irresistibile. E infatti la violenza delle acque stava travolgendo le sue squadre: alcuni uomini vennero sommersi completamente, e furono quindi costretti a mollare i cavi e ad allontanarsi a nuoto. Quelli che toccavano ancora il fondo con i piedi, tuttavia, riuscirono a rallentare la corsa della grata quanto bastava per evitare che, sfuggendo al controllo, andasse a sbattere contro la diga. Alla fine si piazzò trasversalmente al varco, come un tappo gigantesco sul fondo di una vasca colossale, e la corrente si arrestò di colpo. Mentre gli uomini risalivano a riva, lucidi d'acqua nel riverbero del sole, Sapper staccò il cavo dal gancio del rimorchio e avanzò rombando lungo la riva con il trattore lanciato alla massima velocità. Quando il veicolo gli transitò accanto, Nicholas si afferrò a una maniglia e balzò sul predellino dietro il sedile di Sapper. «Adesso bisogna rinforzare lo sbarramento, prima che la grata ceda», gridò Sapper. Aggrappato al trattore, Nicholas non ebbe che pochi attimi per valutare la situazione. La diga resisteva, ma a stento. Numerosi zampilli sgorgavano fra la grata e i gabbioni. La pressione dell'acqua contro i fogli Wilbur Smith
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di PVC era enorme, e li costringeva a subire tutta la forza violenta del fiume. La grata s'incurvava e si piegava come la saracinesca di un castello sotto i colpi di un ariete. Sapper sollevò uno dei gabbioni pronti, allineati sulla riva, e scese nel letto del fiume a valle della diga. Il flusso si era ridotto a un rigagnolo che arrivava all'altezza del ginocchio, ma gli zampilli sprizzavano da tutte le incrinature nella barriera. I gabbioni non erano impermeabili e quindi l'acqua riusciva a passare fra le pietre ammassate. Mentre il trattore avanzava traballando sul fondo accidentato, al riparo della diga, Nicholas e Sapper venivano innaffiati dai getti d'acqua che piovevano loro addosso. Era come lavorare sotto una doccia fredda. Sapper si avvicinò alla grata, posò il pesante gabbione, poi innestò la marcia indietro e risalì sulla riva per caricarne un altro, poi un altro ancora, in file digradanti, fino a erigere un muraglione di contenimento dietro la grata. Alla fine il rivestimento risultò solido quanto le due parti laterali. Nicholas balzò dal trattore e lasciò Sapper a ultimare il lavoro. Corse verso monte, verso il canale che le squadre avevano scavato all'inizio della valle. Quasi tutti gli operai si erano radunati sui lati dell'imboccatura, e Nicholas vide Royan e Tessay in prima fila. Si fece largo tra la folla e, quando raggiunse Royan, lei gli afferrò la mano. «Funziona, Nicky! La diga regge!» Mentre guardava la scena, vide il livello delle acque prigioniere salire lungo la barriera formata dalla grata e dai gabbioni. Gli uomini chiacchieravano, ridevano e lanciavano grida d'incitamento. Il fiume giunse a lambire l'entrata del canale. Cinquanta operai presero gli utensili e balzarono sul fondo del canale. Si levarono nubi di polvere mentre spalavano via la terra per guidare il primo rivolo d'acqua. Quelli che stavano più in alto sulle rive acclamavano e cantavano per incoraggiarli. Un serpente sottile d'acqua del fiume si riversò nel canale. Gli uomini armati di zappe e badili lo precedettero correndo, gli spianarono la strada: ogni volta che incontrava un ostacolo, si affrettavano a eliminarlo. Finalmente il rigagnolo sentì il gradiente inclinarsi, mentre la valle gli si schiudeva davanti. Divenne un ruscelletto, poi un torrente. Con forze nuove scavò il canale e irruppe con tutta la violenza del fiume. Gli uomini al termine dello scavo gridarono spaventati dalla subitaneità e dalla ferocia dell'acqua e si arrampicarono sui pendii; ma alcuni non Wilbur Smith
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furono abbastanza veloci e furono trascinati via. Accorsi alle loro invocazioni d'aiuto, i compagni rimasti sulla riva lanciarono loro le corde e li trainarono al sicuro, fradici e infangati. Ormai il fiume ruggiva nel canale e si avventava nella valle, riscoprendo il corso che aveva abbandonato da migliaia d'anni. Per circa un'ora rimasero ad assistere alla scena. Il fiume esercitava su di loro il fascino particolare che le acque turbolente hanno sempre avuto sugli umani. Poi furono costretti ad arretrare passo passo mentre il fiume divorava la riva. Nicholas si scosse e tornò da Sapper che stava ancora rinforzando la barriera. Ormai aveva eretto un rivestimento inclinato a valle della diga, con quattro file di gabbioni sul fondo, che si restringeva gradualmente verso la cima. Per il momento la diga era sicura, la grata vulnerabile era puntellata dai pesanti contenitori di rete metallica pieni di pietre. La deviazione nella valle aveva alleggerito di molto la pressione. «Credi che reggerà?» chiese Royan, guardano la struttura con aria sospettosa. «Speriamo che regga fino all'inizio delle piogge.» Nicholas la condusse via. «È inutile star qui a perdere altro tempo. Dobbiamo scendere a valle e cominciare a lavorare nella lanca di Taita.» Seguirono il corso del nuovo fiume lungo tutta la valle. A volte, nei tratti dove l'acqua aveva sommerso la vecchia pista, erano costretti a compiere deviazioni salendo sul pendio. Arrivarono alla confluenza del corso d'acqua che nasceva dalla «sorgente della farfalla», così battezzata in ricordo della loro prima esplorazione in compagnia di Tamre. Si fermarono sulla riva e si guardarono in silenzio. Il corso d'acqua s'era prosciugato all'improvviso. Svoltarono e risalirono il letto in secca del fiumicello, e alla fine uscirono sul cornicione dove un tempo sgorgava la sorgente. La grotta era ancora circondata da felci lussureggianti, ma era come l'occhiaia di un teschio, scura e vuota. «La fonte si è inaridita!» mormorò Royan. «E stata la diga a prosciugarla. Ecco la prova che la sorgente della farfalla era alimentata dalla lanca di Taita. Abbiamo deviato il fiume e l'abbiamo uccisa.» Gli Wilbur Smith
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occhi le brillavano per l'eccitazione. «Vieni. Non perdiamo altro tempo. Andiamo alla lanca di Taita.» Nicholas fu il primo a scendere nella lanca. Questa volta, per calarsi nel precipizio, utilizzò un balzo manovrato da un argano. Mentre dondolava, scendendo oltre la sporgenza, il balzo batté contro la roccia e il pollice destro di Nicholas rimase imprigionato per un momento fra il sedile di legno e la parete. Si lasciò sfuggire un grido di dolore; quando liberò la mano, si accorse che la nocca era spellata e che il sangue gli sgocciolava sulle gambe. Era una ferita dolorosa ma non grave, e la succhiò per pulirla. Perdeva ancora qualche stilla di sangue, però non aveva certo il tempo per medicarla. Superò l'aggetto e sotto di lui si spalancò l'abisso, cupo e orrido come l'inferno. Il suo sguardo fu irresistibilmente attratto dal rilievo sulla parete tra le file verticali di nicchie. Adesso sapeva che cosa cercare e non gli fu difficile scorgere il contorno del falco con l'ala spezzata: quella vista lo incoraggiò e lo rallegrò. Dopo la prima fuga dalla gola, oltre un mese prima, era stato ossessionato dall'idea di aver immaginato tutto. Temeva che il cartiglio di Taita fosse uno scherzo della fantasia, un'allucinazione, e che al ritorno avrebbero trovato la muraglia di pietra perfettamente liscia. E invece era lì... un segnale e una promessa. Guardò il fondo della gola e notò subito che la cascata a monte della lanca s'era ridotta a un rigagnolo. L'acqua che scendeva ancora dallo scivolo di pietra nera e lucida era quella che filtrava dalle crepe della diga, nonché dai banchi di sabbia e dalle gore più a monte. Il livello della grande lanca s'era abbassato in misura sensazionale. Poteva scorgere il segno del massimo delle piene sul dirupo. Una quindicina di metri del precipizio, prima sommersi, adesso erano allo scoperto, e altre otto coppie di nicchie erano diventate visibili. Lui era stato costretto a immergersi per raggiungerle, ma adesso erano all'asciutto. La lanca, però, non si era vuotata del tutto: infatti era una depressione al di sotto del livello cui era ridotto il fiume e la forza di gravità non poteva prosciugarla. C'era ancora una pozza di acqua nera imprigionata al centro, circondata da uno stretto cornicione. Nicholas atterrò e lasciò il balzo. Il fatto di trovarsi sulla roccia solida, proprio nel luogo in cui aveva lottato per sopravvivere e per poco non era annegato, gli parve strano e un po' inquietante. Alzò lo sguardo verso i raggi di sole che penetravano a fatica nell'abisso. Wilbur Smith
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«Il fondo del pozzo di una miniera deve essere assai simile a questo posto», pensò. Rabbrividì avvertendo l'aria umida sulle braccia nude. Una strana sensazione gli attanagliava la bocca dello stomaco. Tirò la corda per far risalire il balzo, quindi avanzò sulla stretta, sdrucciolevole striscia di roccia verso il dirupo dove le file di nicchie scure spiccavano nitide sulla pietra più chiara. Adesso poteva distinguere la forma dell'apertura nella parete di roccia che aveva cercato di aspirarlo nella gola buia e fangosa. Era sommersa quasi completamente in un angolo dove la lanca rifluiva contro lo strapiombo. Si vedeva solo l'arco superiore di un'entrata irregolare ai piedi delle file delle nicchie: il resto era ancora allagato. Il cornicione diventava più stretto a mano a mano che Nicholas procedeva, costringendolo quindi ad avanzare con la schiena aderente alla roccia e a muoversi di sbieco con i piedi in acqua. A un certo punto, si accorse che non poteva proseguire senza immergersi, cosa che Nicholas scartò all'istante, dato che non era in grado di calcolare la profondità di quelle acque torbide e poco invitanti. Si accosciò sul cornicione e si sporse fin quasi a perdere l'equilibrio. Si sostenne appoggiando una mano alla parete e tese l'altra verso l'apertura parzialmente allagata. Il bordo era levigato come lo ricordava: ancora una volta gli parve che fosse troppo squadrato e regolare per non essere opera dell'uomo. Si rimboccò una manica, vide che il pollice sanguinava ancora ma non vi badò; affondò invece il braccio al di sotto della superficie e mosse le dita a tentoni, cercando di seguire i contorni dell'apertura. Sembrava formata da blocchi di pietra lavorati rozzamente, rifletté. Poi continuò a frugare fino a quando l'acqua gli arrivò a metà del bicipite. D'un tratto, qualcosa guizzò nelle acque scure davanti a lui. Con una reazione istintiva, Nicholas ritirò il braccio, ma l'essere seguì il movimento fino alla superficie, cercando di addentarlo con le lunghe zanne acuminate. Fu allora che intravide una testa minacciosa e maligna come quella di un barracuda, e si rese conto che l'animale era stato probabilmente attratto dall'odore del sangue che usciva dal pollice ferito. Balzò in piedi e barcollò sul cornicione stringendosi il braccio ferito. Una sola delle zanne frontali l'aveva toccato, eppure gli aveva squarciato la pelle come un rasoio, una lunga ferita poco profonda sul dorso della mano destra. Altro sangue sgocciolava nella lanca ai suoi piedi. Wilbur Smith
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Improvvisamente le acque scure parvero prendere vita, ribollirono e turbinarono, agitate dalla frenesia di molte sagome frementi. Nicholas si appoggiò con la schiena alla parete e le guardò con ribrezzo e orrore. Riusciva a distinguere vagamente le forme sinuose e nastriformi, nere e lucide. Alcune avevano lo spessore del suo polpaccio. Uno sporse la testa e sbatté le fauci. Aveva gli occhi enormi e scintillanti, il muso allungato, le fauci irte di zanne che sporgevano dalle labbra sottili. Il corpo era lungo poco meno di due metri, e guizzava come una frusta mentre si ergeva sul cornicione per tentare di azzannare le gambe nude di Nicholas. Con un grido di ripugnanza, lui balzò indietro, barcollò e trovò un punto più sicuro. Si strinse la mano sanguinante e tornò a guardare. La testa maligna era scomparsa ma la superficie della lanca era ancora agitata dalle forme serpentine. «Anguille!» pensò. «Anguille tropicali giganti.» Logicamente il sangue le aveva eccitate. La caduta del livello dell'acqua le aveva imprigionate nella lanca. Erano così numerose che con ogni probabilità avevano già divorato tutto il pesce che aveva costituito la loro fonte di nutrimento, e adesso erano affamate. Tutte le pozze rimaste nell'abisso dovevano essere infestate da quegli animali temibili. Era una fortuna che, durante la precedente immersione nella lanca, non avesse perso sangue. Slacciò il fazzoletto di cotone che gli cingeva il collo e l'avvolse intorno alla mano ferita. Le anguille costituivano una minaccia letale per ogni tentativo di esplorare l'apertura nella rupe; ma lui stava già esaminando i possibili sistemi per liberarsene. A poco a poco l'agitazione frenetica delle anguille si placò e la superficie ridivenne calma. Nicholas alzò gli occhi e vide che il balzo scendeva. Le gambe snelle e ben fatte di Royan dondolavano sotto il sedile di legno. «Che hai trovato?» gli chiese lei. «C'è una galleria...» S'interruppe di colpo nel vedere le macchie di sangue sui suoi indumenti e il fazzoletto che gli fasciava la mano. «Oh, mio Dio!» esclamò. «Che ti è successo? Sei ferito. È grave?» Posò i piedi sul cornicione, scivolò dal balzo e gli prese la mano sanguinante. «Che ti è successo?» «È meno grave di quanto sembri», la rassicurò Nicholas. «Sanguino, ma le ferite non sono profonde.» «Che ti è successo?» insistette lei. Wilbur Smith
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Per tutta risposta, lui strappò un lembo della benda. «Stai a vedere!» disse. Appallottolò il pezzo di tela e lo gettò in acqua. Royan urlò inorridita quando vide l'acqua ribollire per la presenza delle lunghe sagome guizzanti. Un'anguilla addirittura emerse per metà sul cornicione prima di ricadere, segnando la pietra nera con una lunga traccia di viscidume argenteo. «Taita ha lasciato i suoi cani da guardia per tenerci lontani», commentò Nicholas. «Dovremo sistemare questi angioletti prima di poter esplorare l'entrata sotto la superficie,» L'impalcatura di bambù costruita da Sapper e Nicholas contro il dirupo era ancorata alle nicchie scavate nella roccia tanti secoli prima. Con ogni probabilità, Taita aveva legato la struttura con corde di corteccia, ma Sapper aveva adoperato filo metallico robusto, e il tutto era abbastanza solido per sostenere il peso di parecchi uomini. I Bufali avevano formato una catena, e si passavano il materiale e l'equipaggiamento di mano in mano. Il primo oggetto che arrivò sul fondo fu il generatore portatile Honda EM500. Sapper lo collegò ai riflettori che aveva fissato ai piedi della parete. Il piccolo motore a benzina funzionava senza fare troppo chiasso, ma l'energia che produceva era impressionante. I riflettori scacciavano le ombre negli angoli più lontani e rischiaravano come un palcoscenico la profonda conca rocciosa. Subito l'atmosfera cambiò. Tutti si animarono e acquistarono sicurezza. Gli uomini sull'impalcatura ridevano e chiacchieravano, mentre Royan scendeva per raggiungere Sapper e Nicholas sul bordo della conca. «Adesso sappiamo che le luci funzionano, e possiamo anche spegnerle», ordinò Nicholas. «Ma senza i riflettori è così buio», protestò Royan. «Risparmiamo il combustibile», spiegò Nicholas. «Non ci sono distributori dietro l'angolo. Abbiamo una scorta di duecento litri appena e anche se il piccolo Honda è molto economico, dobbiamo essere prudenti. Non sappiamo per quanto tempo ne avremo bisogno nella galleria.» Royan scrollò le spalle, rassegnata, e quando Sapper spense il generatore, ritornarono il buio e le ombre. Lei guardò la pozza scura e fece una smorfia. «Che cosa conti di fare con quelle bestiacce orribili?» chiese, lanciando Wilbur Smith
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un'occhiata alla mano fasciata di Nicholas. «Sapper e io abbiamo preparato un piano. In un primo tempo, si era pensato di vuotare completamente la pozza con una catena di secchi. Ma l'acqua che continua ad arrivare dal letto del fiume renderebbe l'operazione troppo difficoltosa.» «Saremmo fortunati se riuscissimo a tenere testa all'afflusso, anche lavorando con i secchi ventiquattr'ore su ventiquattro», borbottò Sapper. «Se il maggiore avesse pensato di portare una pompa aspirante...» «Non posso pensare a tutto, Sapper. Costruiremo una piccola vasca di chiusa intorno all'apertura subacquea, e la svuoteremo.» Royan si fece da parte e assistette ai preparativi. Mezza dozzina di gabbioni vuoti fu calata dall'impalcatura e piazzata sui bordi della conca, dove fu colmata parzialmente con massi raccolti sul letto del fiume. L'impossibilità di ricorrere al trattore e quindi la necessità di contare soltanto sulle forze umane imposero un limite al riempimento dei gabbioni, che altrimenti rischiavano di diventare troppo pesanti per essere trasportati. I fogli di PVC giallo avanzati erano abbastanza numerosi per avvolgere ogni gabbione e renderlo stagno. «E le anguille?» Royan era stata profondamente impressionata da quegli esseri repellenti, e si teneva lontana dal bordo della pozza. «Non puoi certo mandare lì dentro qualcuno dei tuoi uomini...» «Aspetta e vedrai», rispose Nicholas con un sorriso. «Ho una sorpresina per i tuoi pesci preferiti.» Quando furono ultimati i preparativi per la costruzione della vasca di chiusa, Nicholas fece sgombrare il letto del fiume, rimandando sull'impalcatura Royan, Sapper e tutti gli uomini. Rimase dunque solo sull'orlo della pozza, con il sacco di bombe a mano che s'era fatto consegnare da Mek Nimmur. Afferrò una granata per mano ed esitò. «Attendi sette secondi», ricordò a se stesso. «Le mosche di Quenton-Harper, più efficienti di quelle artificiali!» Tolse la sicura alle due bombe e le lanciò al centro della pozza. Poi si girò rapidamente, corse nell'angolo più lontano del letto del fiume, s'inginocchiò con la faccia contro la parete e si tappò le orecchie con le mani. Chiuse gli occhi e si preparò. Il fondo roccioso sussultò sotto di lui, e le due onde d'urto delle esplosioni lo investirono in rapida successione, con Wilbur Smith
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una forza rabbiosa che gli schiacciò il torace e gli arrestò il respiro. Nel profondo dell'abisso, le detonazioni erano tremende; ma aveva le orecchie tappate, e l'acqua profonda della pozza assorbì gran parte dell'esplosione. Due zampilli d'acqua salirono nell'aria e spruzzarono il dirupo sopra la sua testa, poi gli si rovesciarono addosso con uno scroscio, infradiciandolo. Gli echi si spensero e Nicholas si rialzò. Il suo udito non era stato menomato e, a parte la doccia d'acqua fredda, non aveva subito danni. Tornò sul bordo della pozza. L'acqua era tutta un fremito. Dozzine di grosse anguille guizzavano e si contorcevano in superficie in un balenare di ventri bianchi. Molte erano morte, altre soltanto stordite. Sapeva che erano attaccate tenacemente alla vita e sospettava che presto si sarebbero riprese; tuttavia, almeno per il momento, non erano un pericolo. Alzò la testa e gridò: «Tutto a posto, Sapper. Puoi farli scendere!» Gli uomini scesero dall'impalcatura, sbalorditi dalla carneficina che le granate avevano causato. Si allinearono sulla riva e cominciarono a estrarre i pesci morti. «Le mangiate?» chiese Nicholas a uno dei monaci. «Sono buone!» Il monaco si passò la mano sullo stomaco. Dopo qualche tempo, Sapper gridò: «Basta così!» e rimandò gli uomini al lavoro. «Piazziamo i gabbioni prima che le anguille rinvengano e comincino a divorarvi», borbottò poi. Con una pertica di bambù, Nicholas sondò la profondità dell'acqua che copriva l'entrata del pozzo, e scoprì che era più alta di un uomo. Furono costretti a farvi rotolare i gabbioni e a finire di riempirli una volta messi in posizione. Era un lavoro difficile e faticoso e ci vollero quasi due giorni per completarlo, ma alla fine riuscirono a costruire una pescaia a forma di mezzaluna intorno all'ingresso sommerso per isolarlo dallo specchio d'acqua più vasto della pozza. Quando il livello della vasca di chiusa diminuì, Nicholas e Royan rimasero a guardare trepidanti l'apertura che si andava rivelando nel dirupo. Non ci volle molto tempo per scoprire che era quasi rettangolare, larga circa tre metri e alta due. I lati e il soffitto erano erosi dal passaggio turbinoso dell'acqua, però, a mano a mano che il livello scendeva, scorsero i resti dei blocchi di pietra che un tempo, con ogni probabilità, avevano ostruito l'apertura. Quattro file di massi si trovavano ancora dove li avevano collocate gli antichi costruttori, ma gli altri erano stati strappati Wilbur Smith
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via dalle piene di migliaia di anni e spinti all'interno della galleria, e adesso la bloccavano parzialmente. Nicholas scese all'interno della vasca di chiusa. Non s'era ancora svuotata, ma non riusciva a dominare l'impazienza. L'acqua gli arrivava alle ginocchia mentre si avvicinava all'apertura e con le mani nude tentava di spostare parte delle rovine che l'intasavano. «È indiscutibilmente una specie di pozzo», gridò. Royan non seppe trattenersi. Anche lei si calò all'interno della vasca e, sguazzando, lo raggiunse. «Il pozzo è bloccato», commentò, delusa. «Credi che Taita l'abbia fatto apposta?» «Può darsi», rispose Nicholas. «È difficile capirlo. Gran parte dei detriti è stata risucchiata all'interno dal flusso delle acque del fiume; ma è possibile che Taita avesse chiuso la galleria dopo esserne uscito.» «Sarà un lavoraccio sgombrare il passaggio quanto basta per vedere dove conduce.» La voce di Royan aveva perduto il tono eccitato. «È quel che temo», ammise Nicholas. «Dovremo rimuovere con le mani questi detriti, e non ci sarà il tempo per le sottigliezze di uno scavo archeologico con tutti i crismi. Dovremo accontentarci di buttarli fuori.» Uscì dalla vasca di chiusa e si girò per aiutare Royan a risalire. «Be', almeno abbiamo i riflettori. Potremo far lavorare gli uomini in turni di giorno e di notte... fino a che non riusciremo a entrare.» «Hanno costruito una diga attraverso il Dandera», annunciò Nahoot Guddabi, e Gotthold von Schiller lo fissò sbalordito. «Una diga sul fiume? È sicuro?» «Sì, Herr von Schiller. Abbiamo ricevuto un rapporto dalla nostra spia nel campo di Harper. Ha più di trecento uomini che lavorano nella gola. E non è tutto. Si è fatto lanciare una quantità enorme di materiale e di provviste. Sembra un'operazione militare. I nostri riferiscono che ha persino una macchina per il movimento terra, una specie di trattore portato apposta.» Von Schiller fissò Jake Helm che gli sedeva di fronte, e quello annuì. «Sì, Herr von Schiller. È vero. Harper deve aver speso una somma enorme. Soltanto il volo charter sarà costato cinquantamila dollari.» Von Schiller provò i primi fremiti di passione autentica da quando il messaggio urgente pervenuto via satellite lo aveva fatto accorrere da Wilbur Smith
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Francoforte. Era atterrato ad Addis Abeba, dove il Bell Jet Ranger lo attendeva per portarlo al campo base della Pegasus sulla scarpata, sopra la gola dell'Abay. Se era vero, e non aveva motivo di dubitare della parola di Helm, Harper era sulle tracce di qualcosa molto importante. Guardò dalla finestra della baracca verso il Dandera che scorreva nella valle sotto il campo base. Era un fiume molto largo. Costruire una diga per bloccarne l'acqua doveva essere un'impresa difficile e costosa in quella situazione così primitiva. Non la si poteva intraprendere senza la prospettiva di un risultato concreto. Provava un'ammirazione riluttante per l'iniziativa dell'inglese. «Mi mostri dove ha costruito la diga!» ordinò. Helm girò intorno al tavolo e si fermò accanto a lui. Von Schiller era in piedi sul cubo e i loro occhi erano allo stesso livello. Helm si piegò verso la foto del satellite e indicò la posizione della diga. La studiarono per qualche istante, poi von Schiller chiese: «Che ne pensa, Helm?» Helm scosse la testa e la incassò fra le spalle taurine. «Posso soltanto tirare a indovinare.» «Sentiamo», disse von Schiller, ma Helm esitò ancora. «Avanti!» «O vuole riversare l'acqua in un'altra area più a valle e usarla per mettere allo scoperto un tesoro di pepite o di manufatti preziosi, forse per rimuovere la terra in eccesso dal sito della tomba...» «È molto improbabile», l'interruppe von Schiller. «Sarebbe un metodo di scavo costoso e inefficiente...» «Sono d'accordo, è assurdo», commentò ossequiosamente Nahoot, ma nessuno gli badò. «Qual è l'altra supposizione?» chiese von Schiller a Helm, aggrottando la fronte. «L'unica altra ragione possibile per costruire una diga sul fiume, secondo me, sarebbe raggiungere quel che è coperto dall'acqua. Qualcosa che si trova nel letto del Dandera.» «Questo è più sensato», mormorò von Schiller, e osservò di nuovo la fotografia. «Che cosa c'è, a valle della diga?» «Il fiume entra in un canalone profondo e stretto. Qui!» Helm indicò. «Subito a valle della diga. Il canyon prosegue per una dozzina di chilometri, fino a questo punto, a monte del monastero. L'ho sorvolato in Wilbur Smith
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elicottero, e sembra intransitabile. Eppure...» Helm s'interruppe. «Sì? Continui!» «Durante un volo sull'area, abbiamo trovato Harper e la donna sul terreno sovrastante il canalone. Erano qui.» Helm toccò la fotografia, e von Schiller si tese per osservarla. «Che cosa stavano facendo?» chiese senza alzare gli occhi. «Niente. Erano seduti in cima al dirupo che sovrasta il burrone.» «Si erano accorti della vostra presenza?» «Certo. Eravamo in elicottero, come ho detto. Ci hanno sentiti. Ci guardavano, e Harper ha addirittura salutato con la mano.» «Quindi avevano interrotto qualsiasi attività nel momento in cui si sono accorti che vi stavate avvicinando?» Von Schiller rimase in silenzio così a lungo che gli altri cominciarono a sentirsi a disagio e a scambiarsi occhiate. Quando riprese a parlare, lo fece in tono così brusco che Nahoot trasalì. «Evidentemente Harper ha motivo di credere che la tomba si trovi nella gola a valle della diga. Quando e come si metterà in contatto con la sua spia nel campo di Harper?» «Harper riceve parte delle vettovaglie dai villaggi della scarpata. Le donne portano le bestie da macello per nutrire i suoi uomini, e anche gli orci di tej. Il nostro uomo trasmette i suoi rapporti per mezzo delle donne.» «Sta bene!» Von Schiller gli fece cenno di tacere. «Non m'interessa la storia della sua vita. Voglio solo sapere se Harper è al lavoro nel canalone a valle della diga. Entro quanto tempo potrà scoprirlo?» «Entro dopodomani al più tardi», promise Helm. Von Schiller si rivolse al colonnello Nogo, che era seduto in fondo alla sala conferenze. Fino a quel momento non aveva aperto bocca; si era limitato a osservare e ad ascoltare gli altri. «Quanti uomini ha nell'area?» chiese il tedesco. «Tre compagnie, più di trecento uomini. Tutti ben addestrati. Molti hanno preso parte a numerosi combattimenti.» «Dove sono? Me lo mostri sulla mappa.» Il colonnello si avvicinò. «Una compagnia è qui, un'altra è alloggiata nel villaggio di Debra Mariani, e la terza è ai piedi della scarpata, pronta ad avanzare e ad attaccare il campo di Harper.» «Credo che potrebbe attaccare subito e annientarli tutti prima che scoprano la tomba...» intervenne di nuovo Nahoot. Wilbur Smith
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«Stia zitto», ordinò von Schiller senza neppure guardarlo. «Chiederò la sua opinione quando riterrò di averne bisogno.» Esaminò la mappa ancora per qualche istante, poi chiese a Nogo: «Di quanti uomini dispone quel guerrigliero... come si chiama... che si è alleato con Harper?» «Mek Nimmur non è un guerrigliero. È un bandito, un famigerato sciftà», lo corresse Nogo. «Quello che per qualcuno è un combattente per la libertà, per un altro è un bandito», commentò von Schiller in tono secco. «Quanti uomini ha ai suoi ordini?» «Non molti. Meno di cento, forse una cinquantina. Stanno tutti proteggendo il campo di Harper e la diga.» Von Schiller annuì e si pizzicò il lobo dell'orecchio. «Come hanno fatto Harper e i suoi amici a tornare in Etiopia?» chiese. «So che è partito da Malta, ma non è possibile che l'aereo sia atterrato nella gola.» Scese dal cubo, andò alla finestra della baracca e osservò i dirupi, le colline accidentate e i tavolieri azzurrati dalla distanza. «Come hanno potuto entrare in Etiopia senza essere scoperti dalle autorità? Si è lanciato con il paracadute, come ha fatto lanciare provviste e attrezzature?» «No», rispose Nogo. «Il mio informatore ha detto che è arrivato con Mek Nimmur qualche giorno prima del lancio del materiale.» «E allora, da dove è arrivato?» mormorò von Schiller. «Qual è la pista di atterraggio più vicina, dove possa scendere un aereo pesante?» «Se è arrivato in compagnia di Mek Nimmur, quasi sicuramente sono venuti dal Sudan. Mek Nimmur ha la base là. Ci sono molte piste di atterraggio abbandonate presso il confine. E una conseguenza della guerra.» Nogo scrollò le spalle. «Gli eserciti sono sempre in movimento e quella guerra dura da vent'anni.» «Sono venuti dal Sudan?» Von Schiller indicò il confine sulla mappa. «Quindi devono aver marciato lungo il fiume.» «Ne sono quasi sicuro», dichiarò Nogo. «E allora è altrettanto certo che Harper conta di fuggire per la stessa strada. Voglio che trasferisca la compagnia che ha attualmente a Debra Mariam, e piazzi gli uomini... qui e qui. Sulle due rive del fiume, a valle del monastero. Devono essere in posizione per impedire che Harper raggiunga il confine sudanese, se dovesse tentare di scappare da quella Wilbur Smith
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parte.» «Sì. Bene. Ho capito. E un'ottima tattica.» Nogo sogghignò, soddisfatto. Gli occhi gli brillavano dietro le lenti. «Voglio anche che gli altri suoi uomini vengano spostati ai piedi della scarpata. Gli dica di evitare ogni contatto con Mek Nimmur, ma di piazzarsi in una posizione tale da poter avanzare rapidamente, impadronirsi dell'area della diga, e bloccare l'abisso a valle della diga non appena le darò l'ordine.» «Quando?» chiese Nogo. «Continueremo a sorvegliarlo attentamente. Se scoprirà qualcosa, comincerà a portar fuori i reperti, e molti saranno troppo grandi per poterli nascondere. Il suo informatore lo saprà. E allora entreremo in azione.» «Dovrebbe entrare in azione subito, Herr von Schiller», suggerì Nahoot. «Prima che abbia la possibilità di aprire la tomba.» «Non dica idiozie», ringhiò von Schiller. «Se attaccheremo troppo presto, forse non scopriremo mai ciò che evidentemente Harper sa dell'ubicazione della tomba.» «Potremmo costringerlo...» «Se c'è una cosa che ho imparato in vita mia è che non si può costringere un uomo come Harper. C'è un certo tipo d'inglese... Ricordo l'ultima guerra...» S'interruppe e aggrottò la fronte. «No. Sono molto diversi. Non dobbiamo essere precipitosi. Quando Harper scoprirà qualcosa nel burrone sarà il momento di balzargli alla gola.» Un sorrisetto freddo gli spuntò sulle labbra. «Giochiamo d'attesa. Per il momento, giochiamo d'attesa.» I detriti che intasavano il pozzo non erano compatti al punto di bloccare completamente il flusso dell'acqua: se così fosse stato, Nicholas non sarebbe stato risucchiato dalla corrente durante la prima immersione. C'erano ancora varchi in cui i massi più grandi erano incuneati o dove un tronco d'albero s'era incastrato di traverso nella galleria. L'acqua aveva trovato i punti deboli in quei tratti e li aveva mantenuti aperti. Tuttavia i detriti avevano impiegato secoli per ammassarsi e rimuoverli era un compito massacrante. L'operazione era ostacolata anche dalla mancanza di spazio all'interno del pozzo. Solo tre o quattro uomini della squadra dei Bufali riuscivano a muoversi nello spazio limitato. Gli altri venivano impiegati per passare all'esterno ciò che veniva estratto di volta in volta, Wilbur Smith
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Nicholas cambiava i turni ogni ora. Avevano più manodopera del necessario, e cambiare spesso gli uomini serviva a fare in modo che fossero sempre riposati, nonché ansiosi di guadagnare il premio in talleri d'argento che Nicholas aveva promesso. Ogni volta che cambiava il turno, Nicholas spariva nell'imboccatura della galleria e, armato del metro di Sapper, misurava l'avanzata. «Trentasei metri! Bravi Bufali», disse a Hansith Sherif, il monaco caposquadra, e poi guardò il rivolo d'acqua che scorreva ai suoi piedi. Il fondo della galleria era inclinato verso il basso con un'angolazione costante. Si voltò a scrutare in direzione della pozza; nella luce dei riflettori era ben visibile la forma diritta e rettangolare delle pareti. Era evidente che erano state progettate da un ingegnere. Concentrò di nuovo l'attenzione sul fondo della galleria e guardò scorrere l'acqua, cercando di giudicare a quale profondità si trovavano rispetto al livello originale del fiume. «Dai venticinque ai trenta metri», calcolò. «Non mi sorprende che la pressione all'imboccatura abbia rischiato di schiacciarmi...» S'interruppe quando notò nella fanghiglia un frammento dalla forma insolita. Si chinò a raccoglierlo, poi l'accostò a uno dei riflettori e l'esaminò attentamente. Lo strofinò fra pollice e indice e cominciò a sorridere. Tornò indietro. «Royan!» gridò, brandendo con aria trionfale la sua scoperta. «Che ne pensi?» Royan era seduta sull'argine di contenimento. Si tese per afferrare l'oggetto. «Oh, mio Dio! Dove l'hai trovato, Nicky?» «Era nel fango... da poco meno di quattromila anni, nel punto dove lo lasciò cadere uno degli operai di Taita, forse mentre portava di nascosto un po' di vino.» Royan accostò il coccio alla lampada. «Hai ragione, Nicky!» esclamò. «Faceva parte di un recipiente per vino... guarda il collo e l'orlo a campana. Ma se ci fosse qualche dubbio, e non c'è, il nero lasciato dalla cottura lo colloca nel periodo che c'interessa. Non è molto più tardo del 1800 avanti Cristo.» Continuò a tenere stretto il coccio, balzò nella fanghiglia e gettò le braccia al collo di Nicholas. «Un'altra prova, Nicky. Siamo sulle tracce di Taita. Non puoi fare in modo che sgombrino la galleria più in fretta? Ormai siamo alle costole del Wilbur Smith
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vecchio briccone.» A metà del turno seguente, dall'imboccatura della galleria uscirono grida eccitate, e Nicholas si affrettò ad accorrere. «Che cos'è successo, Hansith?» chiese in arabo al monaco caposquadra. «Perché gridate così?» «Abbiamo aperto una breccia, effendi», rispose Hansith Sherif con un grande sorriso che faceva risplendere i denti candidi nel viso scuro e infangato. Nicholas lo scostò e passò in mezzo agli operai. Avevano rimosso un grande macigno rotondo, e messo allo scoperto un'apertura. Nicholas puntò il raggio della torcia elettrica attraverso il varco, ma non scorse granché, eccettuato uno spazio nero e vuoto. Indietreggiò e batté la mano sulla spalla del monaco. «Bravo, Hansith. Un premio in talleri per ogni uomo della squadra! Ma li faccia lavorare! Bisogna portar via tutta questa robaccia.» Tradurre in pratica l'ordine fu assai più difficile che pronunciarlo. Ci furono altri due cambiamenti di turno prima che il pozzo venisse sgombrato completamente dai frammenti di roccia e dal pietrisco. Solo allora Nicholas e Royan poterono raggiungere la soglia della caverna. «Che è successo? Che cosa l'ha causato?» chiese Royan in tono perplesso, mentre Nicholas girava nel vuoto il raggio della torcia. «Ho idea che ci sia stata una frana. Probabilmente causata da una frattura negli strati di roccia, qui e qui.» E indicò le crepe nella volta della caverna. «Credi che sia stato il flusso dell'acqua?» «Sì, direi di sì.» Nicholas puntò la torcia verso il basso. «Ha ceduto anche il pavimento.» La roccia era crollata davanti a loro, lasciando una buca profonda. Tre metri al di sotto del punto in cui si trovavano, il cratere era pieno d'acqua, e formava una grande pozza circolare con le pareti verticali. Il soffitto era crollato: adesso c'era una cupola irregolare, e l'estremità opposta della pozza, a una trentina di metri di distanza, era nascosta dalle ombre. Sembrava che non ci fosse un modo per aggirare l'ostacolo senza entrare in acqua. Nicholas gridò a Hansith di portare una delle lunghe pertiche di bambù che avevano usato per l'impalcatura. La pertica era lunga nove metri, e dovettero manovrare per portarla in fondo alla galleria. Nicholas la usò per sondare la pozza, immergendola il più possibile nell'acqua torbida. Wilbur Smith
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«Non tocco il fondo.» Scosse la testa. «Sai che cosa penso?» disse, riconsegnando la pertica a Hansith. «Dimmi», l'invitò Royan. «Penso che questa sia la spaccatura naturale che porta l'acqua dall'altra parte delle colline e la fa riaffiorare in superficie alla sorgente della farfalla. Il fiume si è aperto la strada da solo.» «Allora perché non si è prosciugata?» Royan guardò la grande pozza con aria dubbiosa. «Forse c'è una curva a U nella galleria, e l'acqua è ancora intrappolata... in una specie di serbatoio.» Puntò il raggio della torcia sulla pozza e Royan gettò un'esclamazione di orrore e di disgusto quando un'anguilla gigante sfrecciò in superficie, attratta dalla luce. «Luride bestiacce!» Indietreggiò d'istinto. «Probabilmente infestano tutto il fiume.» La lunga sagoma scura fece il giro della pozza e tornò a scomparire nell'acqua profonda. «Se hai ragione tu, e se un tratto del passaggio di Taita è crollato, la galleria deve continuare sul lato opposto...» Royan tese il braccio per indicare, e Nicholas alzò il raggio della torcia e lo puntò nella stessa direzione. «Guarda, Nicky! Ecco là!» Di fronte a loro c'era un'apertura rettangolare. «Come facciamo ad arrivarci?» chiese lei, sconsolata. «La risposta è: non sarà facile. Maledizione!» imprecò Nicholas. «Ci farà perdere altri due giorni, e non possiamo permettercelo. Dovremo costruire un ponte.» «Che tipo di ponte?» «Fai venire Sapper. Questo è il suo campo.» Sapper si fermò sul bordo dell'inghiottitoio e fissò l'altra sponda. «Pontoni», borbottò. «Quanti gommoni hai nascosto...?» «Scordatelo, Sapper.» Nicholas scosse la testa. «Non metterai le tue sporche zampacce sui miei gommoni.» «Come preferisci.» Sapper allargò le braccia, rassegnato. «Sarebbe il sistema più facile e svelto. Si ancora un gommone al centro e si costruisce una passerella per appoggiarla su quello. Ho bisogno di qualcosa che galleggi...» Wilbur Smith
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«Baobab.» Nicholas schioccò le dita. «Dovrebbe andare bene. Quand'è secco, il legno di baobab è leggero come la balsa e galleggia quanto uno dei miei canotti.» «C'è una quantità di baobab che crescono lungo le colline», riconobbe Sapper. «In questa valle, un albero su due è un maledetto baobab.» A trecento metri dalla sommità del dirupo c'era un grosso esemplare di Adansonia digitata. La corteccia liscia ricordava la pelle d'un dinosauro. La circonferenza era enorme; venti uomini a braccia tese non ce l'avrebbero fatta a cingerlo. I rami superiori erano spogli e contorti: sembrava un albero morto da cento anni. Solo i baccelli dalla buccia vellutata dimostravano che era ancora vivo: pendevano numerosi dai rami e si aprivano per lasciar cadere i semi neri rivestiti di bianco cremor di tartaro. «Gli zulu dicono che il Nkulu Kulu, il Grande Spirito, piantò capovolto il baobab con le radici all'aria per punirlo», spiegò Nicholas a Royan mentre osservavano l'ampiezza immane dei rami. «E perché l'avrebbe fatto?» chiese lei. «Com'è possibile che il povero baobab avesse meritato un trattamento del genere?» «Si era vantato di essere l'albero più alto e grosso della foresta, e il Grande Spirito decise di dargli una lezione di umiltà.» Uno dei rami giganteschi s'era spezzato sotto il proprio peso e giaceva sul terreno sassoso. Il legno era bianco, fibroso, leggero come sughero. Agli ordini di Nicholas, i taglialegna lo divisero in sezioni maneggevoli. Quando le ebbero portate nel pozzo fino all'inghiottitoio, Sapper legò insieme i pezzi del ramo e li spinse nell'acqua per formare un ponte galleggiante. Lo ancorò alla roccia e infine vi sistemò una passerella di canne di bambù. Il pontone di baobab stava alto sull'acqua e, per quanto ondeggiasse, poteva sostenere senza difficoltà il peso di una dozzina di uomini. Nicholas fu il primo ad attraversare l'inghiottitoio. Appoggiò una rudimentale scala a pioli contro l'alta riva verticale e si arrampicò fino alla bocca della galleria. Royan lo seguì. Si soffermarono all'entrata della continuazione del pozzo: non appena Nicholas vi puntò la torcia, si accorse che quel tratto era diverso. Non era stato eroso con violenza dal passaggio delle acque del fiume: il flusso principale doveva quindi defluire nell'inghiottitoio. Le dimensioni erano le stesse, tre metri per due, ma la forma Wilbur Smith
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rettangolare era più precisa e, sebbene le pareti e il soffitto fossero rozzi come quelli di una miniera, si vedevano chiaramente i segni lasciati dagli utensili. Il fondo era pavimentato da lastre di pietra lavorate in modo approssimativo. Anche quella parte della galleria era stata sommersa, dato che si trovava sotto il livello normale del fiume prima che venisse deviato dalla diga. La pavimentazione era bagnata e coperta da un viscidume che non aveva avuto tempo di asciugarsi. Il soffitto e le pareti grondavano rivoli d'acqua; l'aria era umida e fredda e aveva odore di fango e di putredine. Attesero che Sapper sistemasse i cavi attraverso la passerella e accendesse le lampade. Videro così che, più avanti, il pozzo incominciava a salire con un angolo di circa venti gradi. «Ora puoi renderti conto di che cosa ha combinato quel vecchio diavolo di Taita. Ci ha portati molto al di sotto del livello dell'acqua per inondare la galleria in modo che nessuno potesse attraversarla a nuoto. E adesso il pozzo risale», fece notare Nicholas a Royan mentre si avviavano lentamente; poi prese a contare ogni passo. «Cento e otto, e nove, e dieci...» All'improvviso arrivarono al livello della secca più recente. Era segnato chiaramente da una linea netta sulle pareti della galleria. Anche la pavimentazione era asciutta, priva della patina sdrucciolevole di viscidume. Cinquanta passi più avanti superarono il segno della piena, che era altrettanto visibile sul pavimento e sulle pareti. Al di là di quel punto la galleria non era mai stata sommersa e le pareti erano nelle stesse condizioni in cui gli operai egizi le avevano lasciate tanti secoli prima. I segni degli scalpelli di bronzo erano nitidi come se fossero stati fatti da pochi giorni. Tre metri oltre il punto più avanzato raggiunto dalle acque, arrivarono a una specie di pianerottolo di pietra, dove il fondo si spianava. Poi la galleria si piegò bruscamente su se stessa. «Fermiamoci un minuto a considerare quest'opera d'ingegneria.» Nicholas prese il braccio di Royan e indicò la galleria alle loro spalle. «Taita ha collocato questa specie di pianerottolo esattamente al di sopra del segno della massima piena del fiume. Come ha potuto farlo con tanta esattezza? Non aveva una livella da geometra, bensì solo rudimentali strumenti di misurazione. Eppure è riuscito a eseguire un calcolo estremamente preciso. Un autentico capolavoro.» «Be', nei papiri continua a ripetere che è un genio. Penso che adesso Wilbur Smith
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dobbiamo credergli.» Royan cercò di svincolarsi. «Andiamo avanti. Devo vedere che cosa c'è dietro l'angolo», insistette. Avanzando a fianco a fianco seguirono l'angolo di centottanta gradi. Trascinandosi dietro il cavo metallico, Nicholas alzò la lampada. Royan gettò un'esclamazione e gli afferrò la mano libera. Entrambi rimasero impietriti per lo sbalordimento. Taita aveva progettato la svolta nella rampa per creare un effetto teatrale. La sezione inferiore del pozzo che avevano percorso era costruita in modo rudimentale, le pareti erano irregolari e prive d'intonaco, il soffitto pieno di crepe. L'egizio aveva calcolato i livelli con tanta precisione da sapere che quella zona sarebbe stata allagata ed erosa dall'acqua, perciò non si era preoccupato di abbellirla. Ma adesso davanti a loro c'era un'ampia scalinata. L'angolo era tale che dal punto dove si trovavano, cioè sul pianerottolo, la sommità restava nascosta alla vista. Ogni gradino si estendeva per tutta l'ampiezza della galleria ed era alto una spanna. Le pedate erano ricavate da lastre di gneiss screziato, lucidate e accostate le une alle altre con tanta perfezione che le giunture erano visibili a stento. Il soffitto era tre volte più alto che nel tratto inferiore, e perfettamente proporzionato. Le pareti e il soffitto incurvato erano rivestiti da blocchi di granito azzurro fissati l'uno all'altro con precisione e simmetria meravigliosi. Era un capolavoro architettonico, solenne e portentoso. In quel vestibolo dell'ignoto aleggiavano una promessa e una minaccia. La semplicità e la mancanza di ornamenti lo rendevano ancora più impressionante. Royan tirò leggermente la mano di Nicholas. Salirono sul primo gradino, ricoperto da uno strato di polvere soffice e bianca come talco, che si sollevava in piccoli vortici intorno alle loro ginocchia e tornava a posarsi non appena passavano oltre, smorzando il chiarore crudo della lampada elettrica che Nicholas reggeva alta con la sinistra. Via via che salivano, la sommità della scala si rivelava davanti a loro. Royan affondò le unghie nel palmo della mano di Nicholas quando vide ciò che si trovava più avanti. La scala terminava con un altro pianerottolo, e di fronte a loro c'era il vano rettangolare di una porta murata. Non avevano parole per commentare l'importanza di quel momento. Rimasero in silenzio per un tempo che a loro sembrò eterno, tenendosi per mano con una stretta Wilbur Smith
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ardente e possessiva. Finalmente Nicholas staccò gli occhi dal vano e guardò Royan. Vide i propri sentimenti rispecchiarsi nel viso di lei. Gli occhi le brillavano come se fossero accesi da una passione bruciante. Con nessun altro Nicholas avrebbe voluto dividere quell'attimo. Irrazionalmente pregò che durasse per sempre. Royan girò la testa e incontrò lo sguardo di lui. Entrambi erano consapevoli dell'assoluta unicità di ciò che stavano vivendo e del fatto che non avrebbero mai più provato una simile emozione. Lei gli serrò la mano e poi tornò a fissare la porta. Era stata intonacata con argilla bianca, e la superficie aveva assunto con il tempo una sfumatura eburnea. Non c'erano crepe o difetti sulla superficie liscia, simile alla carnagione perfetta di un'incantevole vergine. I loro sguardi, con un lampo d'impazienza, si appuntarono sui due sigilli al centro. Quello più in alto aveva la forma del cartiglio reale, un nodo quasi rettangolare sormontato dallo scarabeo, simbolo del grande cerchio dell'eternità. Le labbra di Royan si mossero mentre leggeva i geroglifici, ma senza pronunciare alcun suono. L'ONNIPOTENTE. IL DIVINO SOVRANO DELL'ALTO E BASSO EGITTO. FAMILIARE DEL DIO HORUS, AMATO DA OSIRIDE E ISIDE. MAMOSE, POSSA EGLI VIVERE PER SEMPRE. Sotto il magnifico sigillo reale c'era un fregio più piccolo e semplice: un falco con un'ala spezzata ripiegata sul petto, e la legenda: IO, LO SCHIAVO TAITA, HO OBBEDITO AL TUO COMANDO, DIVINO FARAONE. E, sotto il falco menomato, una colonna di geroglifici esprimeva un severo ammonimento:
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STRANIERO! GLI DEI TI OSSERVANO. SE DISTURBERAI L'ETERNO RIPOSO DEL RE, LO FARAI A TUO RISCHIO E PERICOLO. Spezzare i sigilli dell'ingresso murato era un atto supremo e, sebbene si avvicinasse l'inizio delle piogge, nessuno dei due se la sentiva d'intraprenderlo con leggerezza. Dovevano fare il possibile per documentare tutto ciò che scoprivano e per causare danni minimi. Trascorsero uno dei giorni preziosi che restavano preparandosi a penetrare nella tomba. Naturalmente la preoccupazione fondamentale di Nicholas era la sicurezza dell'area. Chiese a Mek di piazzare una guardia armata sulla passerella attraverso l'inghiottitoio; al di là di quel punto l'accesso fu limitato. A parte Nicholas, Royan, Sapper, Mek e Tessay, solo quattro dei monaci scelti da Nicholas erano autorizzati ad attraversare il ponte. Hansith Sherif aveva dato più volte buona prova di sé durante le operazioni di sgombero della galleria inferiore. Era robusto, volenteroso e intelligente, ed era diventato il principale aiutante di Nicholas. Fu Hansith a portare il treppiede e l'attrezzatura mentre Nicholas fotografava la galleria e la porta murata. Nicholas scattò tre rullini per realizzare una documentazione completa dei sigilli intatti e di ciò che stava intorno alla porta. Solo quando ebbe terminato di fare le fotografie, Nicholas autorizzò Hansith e gli altri tre monaci a portare gli attrezzi necessari. Sapper trasferì il generatore Honda vicino all'inghiottitoio, in modo da ridurre la caduta del voltaggio sulla distanza che la corrente doveva superare lungo il cavo. Quindi piazzò i riflettori sul pianerottolo più alto della scala, e li puntò sulla porta murata e intonacata. Quando si radunarono davanti alla porta, tutti avevano un'espressione grave e preoccupata. Sebbene fosse una tomba plurimillenaria, stavano per compiere un atto di profanazione. Royan aveva tradotto il monito in geroglifici a Sapper, Mek e Tessay, e nessuno di loro era disposto a prenderlo alla leggera. Nicholas tracciò l'apertura quadrata che intendeva praticare nell'intonaco. Era abbastanza grande per permettere un accesso facile, ma includeva il cartiglio reale e il sigillo di Taita. Aveva intenzione di rimuoverli per conservarli intatti. Con gli occhi dell'immaginazione, già li Wilbur Smith
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vedeva esposti bene in vista nel museo di Quenton Park. Incominciò dall'angolo in alto a destra. Prima usò come sonda un punteruolo lungo e sottilissimo, e lo premette e lo rigirò attraverso l'argilla secca per cercare di scoprire che cosa c'era sotto. Non impiegò molto ad accertare che l'intonaco era stato spalmato su strati di canne finemente intrecciate. «Così sarà molto più facile», disse a Royan. «La stuoia contribuirà a tenere insieme l'intonaco e a evitare che s'incrini e si spacchi.» Continuò ad affondare il punteruolo, fino a che la resistenza non cessò all'improvviso e la lama penetrò in tutta la lunghezza. «Quindici centimetri.» Misurò lo spessore della porta dalle dimensioni del punteruolo. «Taita non lesinava mai, vero? Ha fatto davvero un bel lavoro.» Nicholas continuò a servirsi del punteruolo per perforare gli angoli dell'apertura quadrata che intendeva tagliare. Poi indietreggiò e indicò a Hansith di portare il pesante succhiello da venti centimetri per allargarli. Era il tipo di trapano che i pescatori usano per tagliare il ghiaccio dei laghi durante l'inverno. Non appena il succhiello sfondò la superficie, Nicholas scostò con impazienza Hansith e scrutò nel foro. All'interno il buio era totale; ma subito Nicholas venne investito da una zaffata d'aria asciutta, da un sentore di morte e di nobiltà. Era un'aria antichissima, l'odore di un lontano passato. «Che cosa vedi?» chiese Royan. «La lampada! Passatemi la lampada!» ordinò lui. Sapper gliela consegnò e lui l'accostò all'apertura. «Dimmi!» Al suo fianco, Royan fremeva per l'impazienza. «Adesso che cosa vedi?» «Colori», bisbigliò lui. «I colori più meravigliosi e indescrivibili...» Arretrò, le cinse la vita con le braccia e la sollevò perché potesse guardare. «Bellissimo!» esclamò Royan. «E bellissimo!» Sapper montò la pesante ventola elettrica che avrebbe fatto circolare l'aria nel pozzo mentre Nicholas preparava la motosega portatile. Quando fu pronto, consegnò a Royan un paio di occhialoni e una maschera anti polvere e l'aiutò a indossarli, poi l'aiutò anche a mettersi i tappi nelle orecchie. Wilbur Smith
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Prima di avviare la sega, fece arretrare gli altri fino alla passerella sull'inghiottitoio. Nello spazio limitato, i fumi della motosega e la polvere, oltre al fragore del motore, sarebbero stati insopportabili. Ma soprattutto Nicholas voleva condividere quel momento così importante unicamente con Royan. Quando rimasero soli, fece funzionare la ventola alla massima velocità, quindi mise la maschera, gli occhialoni e i tappi nelle orecchie. Poi tirò la cordicella di avviamento del motore della sega, che si accese in una nuvola di fumo azzurrognolo. Nicholas si puntellò e premette la lama nel foro praticato con il succhiello. Tagliò lo spesso strato d'intonaco e il canniccio come se affondasse un coltello nella glassa di una torta nuziale, e fece scorrere meticolosamente la lama lungo la linea che aveva tracciato. Una nube di polvere d'intonaco bianco riempì l'aria. Pochi secondi più tardi, riuscirono a vedere solo a una distanza non molto superiore al metro. Nicholas continuò tenacemente a tagliare sul lato destro, poi lungo il fondo, e risalì sul lato sinistro. Finalmente praticò l'ultimo taglio alla sommità e, quando l'apertura squadrata cominciò a vacillare sotto il proprio peso, spense il motore della sega e la posò. Royan scattò per aiutarlo. Insieme, tra i vortici di polvere e di fumo, sostennero il quadrato d'intonaco per impedire che cadesse sul pavimento e s'infrangesse in mille pezzi. Lo staccarono con delicatezza dall'apertura e l'appoggiarono alla parete con i sigilli ancora intatti. Il passaggio che avevano aperto era un quadrato scuro. Nicholas regolò il riflettore verso l'interno, ma la polvere era ancora troppo densa perché fosse possibile vedere qualcosa. Allora oltrepassò l'apertura. Tutto era oscurato dalla nube di polvere e neppure la luce della lampada poteva penetrarla. Non tentò di esplorare più avanti. Si voltò per aiutare Royan a varcare l'apertura. Le riconosceva il diritto di essere partecipe di ogni momento della scoperta. Si fermarono in silenzio, in attesa che la ventola liberasse l'aria. A poco a poco la polvere cominciò a dissiparsi, e la prima cosa che notarono fu il pavimento sotto i loro piedi. Non era formato da lunghe lastre di pietra, bensì da mattonelle di splendente agata gialla, connesse tra loro con tanta abilità che le giunture Wilbur Smith
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risultavano invisibili. Sembrava un'unica distesa di magnifico vetro opaco, velato soltanto da uno strato di polvere finissima. Dove i loro piedi avevano smosso quella polvere, l'agata brillava e rifletteva la luce della lampada. Finalmente la polvere si diradò e uno sfolgorio miracoloso di colori e di forme cominciò gradualmente ad affiorare dall'oscurità. Royan si tolse la mascherina e la lasciò cadere sul pavimento d'agata. Nicholas la imitò, e aspirò una boccata d'aria stagnante. Nessuna corrente l'aveva disturbata per millenni: aveva un odore antico, carico del sentore muffito di bende di lino e del corpo imbalsamato. La polvere svanì. Davanti a loro si apriva un lungo corridoio diritto, la cui estremità era nascosta nella tenebra. Allora Nicholas tornò all'apertura nella porta murata e si sporse per portare all'interno il riflettore montato sul treppiede. Poi lo sistemò in modo da illuminare l'intera lunghezza del corridoio. Avanzarono, e gli antichi dei si affollarono intorno a loro. Li scrutavano dalle pareti e dal soffitto con gli enormi occhi ostili. Procedettero lentamente. I loro passi sulle piastrelle di agata erano attutiti dal sottile tappeto di polvere, e le particelle ancora in sospensione nell'aria riflettevano la luce e li avvolgevano in una rete luminosa che aveva un'eterea qualità onirica. Le iscrizioni coprivano quasi tutto lo spazio delle pareti e del soffitto. C'erano lunghi passi tratti dagli scritti mistici, il Libro dei respiri, il Libro delle Porte e il Libro della saggezza. Altre serie di geroglifici narravano invece la storia terrena del faraone Marnose ed esaltavano le virtù che l'avevano reso caro agli dei. Più avanti incontrarono il primo degli otto sacelli scavati nelle pareti della lunga galleria funebre. Era il sacrario di Osiride, una camera circolare, con la parete ornata da testi che lodavano il dio dell'Oltretomba; nella nicchia si scorgeva una piccola statua con l'alta corona piumata, e gli occhi di onice e cristallo di rocca li fissavano così implacabilmente che Royan rabbrividì. Nicholas tese la mano e toccò il piede della statua. Pronunciò una sola parola: «Oro!» Poi entrambi alzarono gli occhi sull'imponente affresco che copriva una parete e metà del soffitto: un'altra rappresentazione, questa volta gigantesca, di Osiride, con il viso verde e la barba finta, le braccia incrociate sul petto e le mani che stringevano il flagello e lo scettro Wilbur Smith
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uncinato. Sulla fronte era posata l'alta corona con il cobra eretto. Lo guardarono con un senso di reverenza. Mentre la luce della lampada ondeggiava e la nube di polvere fremeva, sembrava che il dio prendesse vita e si muovesse davanti ai loro occhi. Non si fermarono, perché la galleria proseguiva diritta come il volo d'una freccia verso il bersaglio. Il secondo sacello era consacrato alla dea. La figura aurea di Iside, con gli occhi d'avorio e di lapislazzuli, era assisa nella nicchia sul trono che costituiva il suo simbolo, e allattava il piccolo Horus. L'immagine della dea si ripeteva nella serie di affreschi che circondavano la nicchia: in quelle rappresentazioni, Iside, con occhi neri come la notte sottolineati dal kohl, portava sulla testa il disco solare e le corna della vacca sacra. I geroglifici che ricoprivano le pareti erano così vivaci che risplendevano come uno sciame di lucciole nel chiarore della lampada. La sola Iside possedeva infatti cento volti differenti, e numerosi nomi, ognuno dei quali era una parola del potere, perché la divinità e il suo influsso benevolo avevano continuato a vivere anche quando molti degli antichi dei erano scomparsi a causa della mancanza di devoti che ripetessero e tenessero vivi i nomi mistici. Nell'antica Bisanzio, e più tardi nell'Egitto cristiano, gli attributi e le virtù della dea erano stati assegnati alla Vergine Maria. L'immagine di Iside che allattava Horus neonato si era perpetuata nelle icone della Madonna con il Bambino. Perciò Royan reagiva alla dea in tutte le sue entità, e il sangue che le scorreva nelle vene riconosceva Iside e Maria, e l'eresia e la verità si mescolavano inestricabilmente nel suo cuore, facendole provare nel contempo un senso di colpa e un'esaltazione religiosa. Nel terzo sacello si trovava una statua aurea di Horus ieracocefalo. Nella destra teneva l'arco da guerra e nella sinistra l'ankh, la croce ansata, perché era dispensatore di vita e di morte. Gli occhi erano corniole rosse. Anche in questo caso, l'immagine di Horus ritornava negli affreschi circostanti che rendevano omaggio alle varie manifestazioni della divinità: Horus infante attaccato al seno di Iside; Horus come Arpocrate, fiero, agile e bello, che si toccava la bocca con l'indice nel gesto rituale, avanzava a passo deciso e indossava il corto gonnellino rigido e un paio di sandali; poi c'era Horus dalla testa di falco, prima con corpo di leone, quindi con quello di giovane guerriero, con la corona doppia dell'Alto e del Basso Egitto. Wilbur Smith
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Sotto di lui c'era l'iscrizione: GRANDE DIO E SIGNORE DEL CIELO DALLA FORZA MANIFESTA, POTENTE FRA TUTTI GLI DEI, VINCITORE DEI NEMICI DEL SUO DIVINO PADRE OSIRIDE. Nel quarto sacello c'era Seth, il nemico per eccellenza, il dio della violenza e della discordia: il corpo era d'oro, ma la testa era quella di una iena nera. Nel quinto sacello troneggiava il dio dei morti e dei cimiteri, Anubi dalla testa di sciacallo. Aveva la prerogativa di officiare l'imbalsamazione e il compito di esaminare l'ago della grande bilancia durante la pesatura del cuore del defunto. Se i piatti erano in perfetto equilibrio, il morto veniva riconosciuto degno; se invece s'inclinavano verso di lui, Anubi gettava il cuore al coccodrillo che lo divorava. Il sesto sacrario era dedicato al dio della scrittura, Thoth dalla testa d'ibis sacro, che teneva in mano lo stilo. Nel settimo la vacca sacra, Hathor, stava saldamente sulle quattro zampe, con il pelame pezzato di bianco e nero. Il viso era umano e benevolo, ma le orecchie erano enormi, bovine. L'ottavo sacello era il più grande e splendido, perché apparteneva ad Amon-Ra, il padre del creato: era il sole, un enorme disco d'oro da cui scendevano raggi obliqui. Nicholas si fermò e si voltò a guardare la lunga galleria. Le otto statue sacre rappresentavano un tesoro tale da eguagliare le grandi scoperte di Carter e di lord Carnavon nella tomba di Tutankhamon. Si rendeva conto che soffermarsi a considerarne il valore economico era una volgarità... Tuttavia sapeva bene che una sola di quelle straordinarie opere d'arte sarebbe stata sufficiente per coprire molte volte i suoi debiti. Scacciò quel pensiero e si voltò di nuovo verso la camera in fondo alla galleria. «La camera sepolcrale», mormorò Royan. «La tomba.» Mentre si avviavano in quella direzione, le ombre si allontanarono da loro, come se il fantasma del faraone defunto si affrettasse a ritornare al luogo del suo ultimo riposo. Ora potevano vedere l'interno della tomba. Le pareti sfolgoravano di Wilbur Smith
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affreschi ancora più magnifici. Sebbene ne avessero già visti molti, i loro occhi e i loro sensi non si stancavano di tanta profusione di forme e di colori. Una figura allungata si ergeva sulla parete di fondo e s'incurvava sul soffitto: era il corpo agile e sinuoso della dea Nut che partoriva il sole. I raggi dorati uscivano dal grembo dischiuso, e discendevano sul sarcofago per donare una nuova vita al re. Il sarcofago reale era al centro della camera. Era enorme, ricavato da un blocco massiccio di granito. Nicholas si chiese quanti schiavi dovevano aver faticato per trasportarlo lungo i passaggi sotterranei. Immaginava i corpi lucidi di sudore nella luce delle torce e lo scricchiolio stridente dei rulli di legno sotto il peso immane. Abbassò lo sguardo sul sarcofago e provò una stretta al cuore nell'accorgersi che era vuoto. Il coperchio di granito era stato rimosso e scagliato via con tanta violenza che si era spaccato nel senso della larghezza, e ora giaceva in due pezzi sul pavimento. Avanzarono lentamente. Nelle loro bocche, il sapore amaro del disappunto si mescolava alla polvere. Finalmente riuscirono a vedere l'interno del sarcofago. Conteneva soltanto i frammenti dei quattro vasi canopici di alabastro destinati a contenere le viscere, il fegato e gli altri organi interni del re. I coperchi spezzati erano ornati dalle teste di divinità e di creature favolose dell'Oltretomba. «Vuoto!» mormorò Royan. «La mummia del faraone è scomparsa.» Durante i giorni che seguirono, mentre fotografavano gli affreschi e imballavano le statue delle otto divinità prelevate dalla galleria, Royan e Nicholas discussero a lungo la sparizione della mummia reale. «I sigilli all'entrata della tomba erano intatti», rifletté Royan. «Probabilmente c'è una spiegazione», rispose Nicholas. «E possibile che lo stesso Taita abbia portato via il tesoro e il corpo. Quante volte, nel settimo papiro, lamenta lo spreco di quei tesori? E ripete spesso quale miglior uso se ne poteva fare... cioè proteggere e aiutare la nazione e il suo popolo.» «No, non ha senso», obiettò Royan. «Darsi tanto da fare per deviare il fiume e scavare sotto la lanca, costruire una tomba tanto complessa, per poi rimuovere e distruggere la mummia del re? Taita aveva una mentalità Wilbur Smith
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logica, e a modo suo venerava gli dei dell'Egitto. È evidente in tutti i suoi scritti. Non avrebbe mai sfidato le tradizioni religiose in cui credeva. C'è qualcosa in questa tomba che non quadra, secondo me. La sparizione del corpo, così misteriosa, e persino i dipinti e le iscrizioni murali.» «Sono d'accordo con te sul cadavere, ma che cosa trovi d'illogico nelle decorazioni?» volle sapere Nicholas. «Ecco, tanto per cominciare, gli affreschi.» Lei indicò l'immagine di Iside. «Sono belli, e sono opera di un artista che sapeva il fatto suo: ma sono troppo stilizzati nella forma e nel colore. Le figure sono rigide, legnose: non si muovono, non danzano. Sono prive di quella scintilla geniale che appare evidente nella tomba della regina Lostris, dove i papiri originali erano nascosti nei recipienti di alabastro.» Nicholas osservò gli affreschi con aria pensierosa. «Capisco che vuoi dire. Persino i dipinti nella tomba di Tanus al monastero sono, come dire, di classe superiore.» «Appunto!» esclamò Royan con fervore. «Perché quelli sono stati eseguiti da Taita, e questi no. Sono stati realizzati da uno dei suoi aiutanti.» «E che cosa c'è che non va nelle iscrizioni?» «Hai mai sentito parlare di un'altra tomba che non abbia il testo del Libro dei morti scritto sulle pareti, e che non raffiguri il viaggio del defunto oltre le Sette Porte per raggiungere il territorio dei beati?» Nicholas la fissò stupito. Non aveva mai preso in considerazione quei particolari. Senza rispondere, ripercorse la lunga galleria. Il pretesto era quello di dirigere l'imballaggio delle statue sacre, ma in realtà voleva prendere tempo per riflettere sulle parole di Royan. Prima di lasciare l'Inghilterra si era assicurato che l'equipaggiamento più fragile e vulnerabile da trasportare fino alla gola con l'aereo fosse sistemato in robuste casse metalliche per munizioni. Le casse avevano chiusure ermetiche di gomma e solidi fermagli a leva e il loro contenuto originale era stato protetto da rivestimenti interni di polistirolo. Quando avrebbero lasciato l'Etiopia, il materiale sarebbe stato abbandonato; le casse tuttavia erano state conservate, nella speranza - ormai diventata realtà - di usarle per trasportare i tesori della tomba. Sei delle statue sacre stavano perfettamente nelle casse; quelle di Hathor e del satanico Seth erano invece troppo grandi. Nicholas però aveva scoperto che erano formate da parti separate. Le teste erano staccabili, e le Wilbur Smith
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zampe di Hathor erano fissate al corpo bovino da perni di legno ormai ridotti quasi in polvere. Divise nelle loro componenti, anche le due statue più ingombranti potevano essere riposte nelle casse metalliche. Nicholas guardò Hansith che sistemava la testa d'ebano e resina nera di Seth in uno dei contenitori; dopo un po' tornò da Royan che stava lavorando sulle iscrizioni dipinte sul muro sopra il sarcofago vuoto. «Sono d'accordo. Hai ragione per quanto riguarda la mancanza d'iscrizioni tratte dal Libro dei morti. Sembra proprio una stranezza. Ma che cosa possiamo fare, se non accettarlo come un mistero che forse non risolveremo mai?» «Nicky, qui c'è qualcosa di più. Non è tutto, lo sento in ogni fibra del mio essere. Qualcosa ci sfugge.» «Io non sono altro che un maschio. Come potrei permettermi di contestare l'esattezza dell'intuito femminile?» «Piantala con le tue arie di superiorità», scattò lei. «Quanto tempo ho per lavorare sulle iscrizioni della stele?» «Una settimana, al massimo due. Devo fissare un rendez-vous con Jannie. Dovremo trovarci sulla pista d'atterraggio di Roseires quando verrà a prenderci. È un appuntamento che non possiamo saltare.» «Mio Dio, credevo che ti fossi accordato da un pezzo. Come farai a contattare Jannie?» «È molto semplice», sorrise Nicholas. «C'è un telefono pubblico nell'ufficio postale di Debra Mariani. Tessay può muoversi liberamente in tutto il Gojam. Risalirà fino alla scarpata con una scorta di monaci, e chiamerà Geoffrey Tennant all'ambasciata britannica di Addis Abeba. Sono già d'accordo con Geoffrey: il messaggio per Jannie lo trasmetterà lui.» «Tessay ti farà questo favore?» Lui annuì. «Ha promesso che partirà domani per Debra Mariani. Jannie deve avere un buon preavviso per prepararsi al volo. Dovremo rispettare tempi precisi per arrivare contemporaneamente sulla pista di Roseires. Sarebbe un vero guaio se un gruppo dovesse aspettare l'altro.» «L'alba del primo aprile», comunicò Nicholas a Tessay. «Di' a Jannie che saremo all'appuntamento il giorno del pesce d'aprile. È facile da ricordare.» Seguirono con lo sguardo Tessay che si avviava lungo il sentiero con la scorta di monaci. Royan chiese a Mek Nimmur: «Non ti preoccupa che se Wilbur Smith
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ne vada in giro da sola?» «È molto efficiente, e nel Gojam tutti la conoscono e le sono affezionati. È al sicuro per quanto lo si può essere in una terra pericolosa.» Mek guardava la figura snella avvolta nello shamma e nei pantaloni bianchi che rimpiccioliva in lontananza. «Vorrei tanto andare con lei, ma...» E alzò le spalle. All'improvviso Royan esclamò: «Ho dimenticato di chiederle una cosa!» Lasciò Nicholas e Mek e corse giù per il sentiero, chiamandola. La sua voce giunse fino a Nicholas. «Tessay! Aspetta! Torna indietro!» Tessay si voltò e attese che Royan la raggiungesse. Mentre le due donne parlavano, Nicholas si disinteressò di loro e si voltò a studiare il profilo lontano della scarpata. Con una stretta al cuore, notò che i nuvoloni sopra le cime dei monti erano più densi e cupi di quanto non fossero due giorni prima. La stagione delle piogge stava per cominciare. Si chiese se aveva fatto bene i suoi calcoli: ce l'avrebbero fatta prima che la diga venisse minacciata e che le acque, salendo, li scacciassero dalla gola? Si voltò giusto in tempo per vedere che Royan stava passando qualcosa a Tessay, la quale annuì e lo mise nella tasca dei pantaloni. Poi le due donne si abbracciarono e Tessay riprese la marcia. Royan si fermò in mezzo al sentiero fino a quando una curva nella valle non le nascose l'amica. Allora tornò a passo lento da Nicholas. «Che è successo?» chiese lui e Royan sorrise con aria misteriosa. «Segreti di donne. Ci sono certe cose che i maschi brutali non devono sapere.» Ma quando Nicholas inarcò un sopracciglio, Royan cedette. «Tessay chiederà a Geoffrey Tennant di mandare un messaggio a mia madre, per farle sapere che va tutto bene. Non voglio che stia in pensiero per me.» Mentre ridiscendevano l'impalcatura verso il punto in cui era stato organizzato il campo, e cioè sul cornicione di roccia accanto alla lanca di Taita, Nicholas si chiese che senso avesse la smania improvvisa di Royan di far sapere alla madre dove si trovava... E poi il fatto che la donna avesse già scritto il numero telefonico di Georgina per consegnarlo all'amica gli pareva assai strano. «Chissà che cosa starà combinando», si disse. «Cercherò di saperlo da Tessay quando tornerà.» Wilbur Smith
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Royan avrebbe preferito accamparsi nella tomba, per stare vicina alle iscrizioni che stava studiando; Nicholas però aveva insistito perché dormissero all'aria aperta, e il cornicione era il punto più vicino al posto dove lavoravano. «L'aria muffita della tomba è probabilmente malsana», le disse. «La cosiddetta 'malattia delle caverne' è un vero pericolo negli antichi luoghi chiusi. Dicono che abbia ucciso alcuni dei collaboratori di Carter che lavoravano all'interno della tomba di Tutankhamon.» «Le spore di funghi che la causano si riproducono nello sterco dei pipistrelli», ribatté Royan. «E non ci sono pipistrelli nella tomba di Marnose. Taita l'aveva isolata troppo bene.» «Ti prego, accontentami», insistette Nicholas. «Non puoi vivere là dentro per giorni e giorni. Voglio che tu esca dalla tomba almeno per qualche ora.» Lei alzò le spalle. «Solo per farti un favore», rispose. Tuttavia, quando arrivarono ai piedi dell'impalcatura, lanciò soltanto un'occhiata superficiale al nuovo alloggio e poi si avviò con passo deciso all'argine di contenimento e all'ingresso della galleria. Avevano trasformato il pianerottolo in cima alla scala, davanti alla porta murata della tomba, nel loro laboratorio. Royan dispose i disegni, le fotografie e i testi di consultazione sul rozzo tavolo di legno che Hansith aveva costruito con assi tagliate a mano. Sapper aveva piazzato un riflettore sopra la scrivania rudimentale, perché lei avesse luce per lavorare. Contro una parete del pianerottolo erano ammonticchiate le casse per munizioni che contenevano le otto statue sacre. Nicholas aveva insistito per riporre tutte le loro scoperte in un luogo in cui poteva farle proteggere in modo adeguato. E gli uomini di Mek continuavano a montare la guardia ventiquattr'ore su ventiquattro al ponticello che attraversava l'inghiottitoio. Mentre Nicholas finiva di fotografare le pareti della lunga galleria e la camera sepolcrale vuota, Royan, seduta alla scrivania, lavorava per ore sulle sue carte e trascriveva appunti e calcoli sui quaderni. Ogni tanto si alzava di scatto, si precipitava oltre il varco nella porta murata e si avviava nella galleria per studiare qualche particolare degli affreschi. Allora Nicholas si rialzava dal treppiede della macchina fotografica e la guardava con aria affettuosa e indulgente. Royan era così assorta che sembrava ignorare lui e tutti gli altri. Nicholas non l'aveva mai Wilbur Smith
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vista così, ed era impressionato dalla sua capacità di concentrazione. Quando Royan ebbe lavorato per quindici ore senza sosta, Nicholas uscì sul pianerottolo per recuperarla e, nonostante le sue proteste, la ricondusse lungo la galleria fino alla lanca, dove li attendeva un pasto caldo. Dopo che ebbero mangiato, l'accompagnò alla sua capanna e insistette perché si sdraiasse sul materasso gonfiabile. «Adesso devi dormire», le ordinò. Più tardi si svegliò nel sentirla uscire furtivamente dalla capanna accanto alla sua e avviarsi verso l'ingresso della tomba. Diede un'occhiata all'orologio e borbottò, incredulo, quando si accorse che avevano dormito appena tre ore e mezzo. Si fece la barba in fretta e trangugiò una fetta d'injera e una tazza di tè prima di seguirla all'interno della tomba. La trovò nella galleria lunga, davanti alla nicchia vuota del sacello dove avevano scoperto la statuetta di Osiride. Era così assorta che non lo sentì avvicinarsi, e sussultò quando le toccò il braccio. «Mi hai fatto paura», disse in tono di rimprovero. «Che cosa stavi fissando?» chiese Nicholas. «Che hai scoperto?» «Niente», negò subito lei. Poi, dopo un momento, aggiunse: «Non so. È soltanto un'idea». «Sentiamo ! Che stai pensando?» «È più semplice mostrartelo.» Royan lo ricondusse al tavolo sul pianerottolo, e riordinò con cura i quaderni prima di riprendere a parlare. «Negli ultimi giorni ho riesaminato il testo della stele di Tanus e ho escluso tutte le citazioni tratte dai classici scritti mistici: il Libro dei respiri, il Libro delle Porte, il Libro di Thoth... Ecco qui.» Mostrò una dozzina di pagine coperte dalla sua grafia ordinata. «E tutto materiale antico, non composizioni originali di Taita. Per il momento l'ho scartato. Questo, invece», continuò mostrando un altro quaderno, «è materiale nuovo che non ricordo di avere mai letto negli antichi testi classici. Molto, se non tutto, deve essere opera di Taita. Se ci ha lasciato altri indizi, credo che siano qui, in queste sezioni.» Nicholas sorrise maliziosamente: «Come la meravigliosa citazione che descrive le rosee parti intime della dea. Ti riferisci a questo?» «Era prevedibile che non l'avessi dimenticata.» Royan arrossì leggermente e non alzò gli occhi dal quaderno. «Guarda questo passo che si trova all'inizio della terza faccia della stele, la faccia indicata da Taita Wilbur Smith
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come 'autunno'. È stato il primo che ha attirato la mia attenzione.» Nicholas lesse i geroglifici: «Il Grande Dio Osiride compie la mossa di apertura in omaggio al protocollo dei Quattro Tori. Alla prima porta rende piena testimonianza della legge immutabile della scacchiera». Alzò gli occhi verso di lei. «Sì, lo ricordo... Taita si riferisce al bao, il gioco che amava con tanta passione.» «Appunto.» Royan sembrava un po' imbarazzata. «Ricorderai anche che ti ho parlato di un mio sogno in cui ho rivisto Duraid in una delle camere della tomba.» «Lo ricordo.» Nicholas ridacchiò nel vederla a disagio. «Ha detto qualcosa a proposito del protocollo dei Quattro Tori. Ormai siamo nel campo dell'oniromanzia, no?» Royan sembrava irritata da quella leggerezza. «Voglio dire semplicemente che il mio subconscio ha assimilato la citazione e ha suggerito una risposta, mettendola sulle labbra di Duraid nel sogno. Non riesci a star serio neppure per un momento?» «Scusami. Ripeti che cosa ti ha detto Duraid.» «Nel sogno mi ha detto: 'Ricorda il protocollo dei Quattro Tori. Incomincia dall'inizio...» «Non sono un esperto del gioco del bao. Che intendeva dire?» «Le regole e le sottigliezze del gioco sono andate perdute nell'antichità. Però, come sai, abbiamo trovato scacchiere per il bao nei corredi funerari di varie tombe dall'XI alla XVII dinastia, e possiamo dedurre che era una forma primitiva degli scacchi.» Royan cominciò a disegnare sulle pagine bianche del quaderno. «La scacchiera di legno era come quella attuale, otto file di coppe per otto. Così.» La tracciò con rapidi tocchi di biro. «I pezzi erano pietre colorate che si muovevano secondo regole fisse. Non mi addentrerò nei particolari, ma il protocollo dei Quattro Tori era un gambetto d'apertura preferito dai grandi maestri del calibro di Taita. Consisteva nel sacrificare certi pezzi per ammassare quelli più potenti nella prima coppa, dove potevano dominare le file centrali della scacchiera.» «Non capisco bene dove stiamo andando a parare, ma continua pure. Ti ascolto.» Nicholas si sforzò di non sembrare troppo frastornato. «La prima coppa della scacchiera», disse Royan indicandola sul disegno, come se stesse spiegando qualcosa a un bambino un po' tonto. «L'inizio. Duraid ha detto d'incominciare dall'inizio. E Taita ha scritto che il grande Wilbur Smith
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dio Osiride compie la mossa d'apertura.» «Continuo a non seguirti.» Nicholas scosse la testa. «Vieni con me.» Lei prese i quaderni, passò dal varco della porta murata e si fermò accanto a Nicholas davanti al sacello di Osiride. «La mossa d'apertura. L'inizio.» Si voltò verso il fondo della galleria. «Questo è il primo sacrario. Quanti sono in totale?» «Tre per la triade osirica, poi Seth, Thoth, Anubi, Hathor e Ra. Otto in tutto.» «Alleluia!» rise Royan. «Vedo che sei capace di contare! Quante caselle ci sono nelle file della scacchiera del bao?» «Otto per otto...» Nicholas s'interruppe e la fissò. «Tu credi...?» Lei non rispose, ma aprì il quaderno. «Tutti i numeri e i simboli estranei non compongono parole coerenti, non sono in alcun modo in relazione fra loro... Ma nessun numero dell'elenco è superiore a otto.» «Credevo di aver capito, ma mi sono perso di nuovo.» «Se qualcuno leggesse le annotazioni di una partita a scacchi fra quattromila anni, che cosa capirebbe?» chiese Royan. «Per lui non sarebbero altro che elenchi di numeri e simboli sconosciuti. Sei proprio uno stupidone, non è vero?» «Ah, Signore Iddio!» Lui s'illuminò. «Accidenti, sei proprio in gamba! Taita gioca con noi una partita a scacchi.» «E questa è la prima porta, dove incomincia.» Royan indicò il sacello. «Qui il grande dio Osiride fa la mossa di 'apertura'; in altre parole è qui che dobbiamo cominciare, all'inizio della sacra scacchiera del bao. E qui che dobbiamo contrastare la sua mossa d'apertura.» Per un po' si guardarono intorno, studiando le pareti curve del sacello e l'alto soffitto. Poi Nicholas spezzò il silenzio. «A rischio di essere considerato un vero idiota, posso fare una domanda? Come diavolo facciamo a giocare una partita quando non conosciamo neppure le regole?» Il colonnello Nogo irradiava sicurezza e soddisfazione quando entrò nella sala conferenze in risposta alla convocazione di von Schiller. Nahoot Guddabi lo seguì, deciso a non farsi escludere. Anche lui cercava di apparire sicuro e importante; in realtà intuiva che la sua posizione era piuttosto insicura e che avrebbe dovuto giustificarsi di fronte al padrone. Wilbur Smith
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Von Schiller stava dettando una lettera a Utte Kemper ma, non appena i due entrarono, si alzò e salì sul cubo di legno. «Aveva promesso che entro ieri mi avrebbe fatto avere un rapporto», disse in tono brusco a Nogo, ignorando Nahoot. «Non ha saputo niente dal suo informatore?» «Mi scuso per averla fatta aspettare, Herr von Schiller.» Nogo si smontò subito di fronte all'attacco e diventò inquieto. Il tedesco gli faceva paura. «Le donne sono tornate dal campo di Harper con un giorno di ritardo. La gente di campagna è inaffidabile. Per loro il tempo non ha molta importanza.» «Sì, sì», ribatté spazientito von Schiller. «Conosco i difetti dei suoi fratelli, e potrei aggiungere che neppure lei ne è immune, Nogo. Ma adesso mi riferisca le notizie.» «Harper ha terminato i lavori alla diga sette giorni fa, e subito dopo ha trasferito il campo in una località diversa, sulle colline sopra l'abisso. Ha costruito una specie di scala di bambù per scendere fino al letto del fiume. L'informatore mi ha detto che stanno sgombrando una buca sul fondo della lanca vuota...» «Una buca? Che genere di buca?» Von Schiller era impallidito. Un velo di sudore gli copriva la fronte. «Si sente bene, Herr von Schiller?» Nogo si allarmò. Il tedesco sembrava sul punto di svenire. «Benissimo», gridò von Schiller. «Com'era la buca? Me la descriva.» «La donna che ha portato il messaggio è una contadina ignorante.» Sempre più a disagio, Nogo fremeva di fronte alle domande di von Schiller. «Ha detto solo che, quando l'acqua del fiume è calata, sul fondo c'era una buca piena di pietre e detriti, e che hanno dovuto sgombrarla.» «Una galleria...» Nahoot non riuscì più a trattenersi. «Deve essere l'entrata della galleria che conduce alla tomba.» «Silenzio!» intimò furiosamente von Schiller. «Non ha nessun fatto che suffraghi questa supposizione. Lasci che Nogo finisca.» Si rivolse di nuovo al colonnello. «Avanti. Sentiamo il resto.» «La donna ha detto che in fondo alla buca c'è una caverna, come un santuario rupestre, con dipinti alle pareti...» «Dipinti? Quali?» «Secondo la donna raffigurano i santi.» Nogo fece un gesto di deprecazione. «E molto ignorante e stupida...» Wilbur Smith
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«Santi cristiani?» chiese von Schiller, ma Nahoot intervenne, «Non è possibile, Herr von Schiller. Le assicuro che Harper ha scoperto la tomba di Marnose. Deve affrettarsi ad agire.» «Questo è l'ultimo avvertimento, miserabile ometto!» ringhiò il tedesco. «Stia zitto!» Si girò verso Nogo. «C'era altro nella caverna? Mi riferisca tutto ciò che ha detto la donna.» «Dipinti e statue dei santi.» Nogo allargò le braccia. «Mi rincresce, Herr von Schiller, ma ha detto così. So che non ha senso, ma...» «Giudicherò io se ha senso o no», disse von Schiller. «E dove sono finite le statue dei santi?» «Harper le ha chiuse nelle casse.» «Le ha portate via dal sacrario?» «Non lo so, Herr von Schiller. La donna non l'ha detto.» Von Schiller scese dal cubo e cominciò a camminare avanti e indietro mormorando fra sé. «Herr von Schiller...» incominciò Nahoot, ma il tedesco gli fece cenno di tacere. Si fermò davanti a Nogo e lo squadrò. «Hanno trovato una mummia, un corpo?» chiese. «Non lo so. La donna non ha detto neppure questo.» «Dov'è questa donna?» Von Schiller era così agitato che afferrò Nogo per la giacca e si alzò in punta di piedi per fissarlo negli occhi. «Dov'è? L'ha lasciata andare?» Minuscole gocce di saliva volarono in faccia a Nogo che batté le palpebre e cercò di schivarle. Von Schiller però continuava a stringerlo in una morsa. «No, signore, è ancora qui. Non volevo condurla da lei...» «Idiota! Tutto ciò che mi ha detto è di seconda mano. La porti qui immediatamente. Voglio interrogarla.» Von Schiller lo spinse indietro. «Vada a prenderla.» Nogo tornò pochi minuti dopo. Teneva la donna per un braccio. Era giovane e, nonostante i tatuaggi blu sulle guance e sul mento, era anche graziosa. Indossava le lunghe vesti nere e il copricapo delle donne sposate, e teneva in braccio un bambino. Non appena il colonnello le lasciò il braccio, si lasciò cadere sul pavimento, piagnucolando per il terrore. Il piccino si mise a frignare: aveva le narici otturate da croste bianche di muco. La donna si aprì la camicia con mano tremante, scoprì un seno gonfio di latte e mise il Wilbur Smith
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capezzolo nella bocca del bimbo. Madre e figlio fissarono von Schiller con occhi impauriti. «Le chieda se nel sacrario c'era una bara o il corpo del santo», ordinò il tedesco, guardando la donna con disgusto. Nogo la interrogò per un minuto, poi scosse la testa. «Non sa niente. È molto stupida, non capisce bene.» «Le chieda delle statue dei santi. Che ne ha fatto Harper? Dove si trovano, adesso? Le ha portate via?» Dopo un altro dialogo con la donna, Nogo scosse la testa. «No. Dice che le statue sono ancora nel sacrario. Il bianco le ha chiuse nelle casse e i soldati le sorvegliano.» «I soldati? Quali soldati?» «Soldati di Mek Nimmur, il capo degli sciftà. È ancora con Harper.» «Quante sono le casse?» Spazientito, von Schiller si avvicinò alla donna e la urtò con la punta dello stivale. «Quante sono?» Con un gemito di terrore, la donna indietreggiò e von Schiller si scostò con aria schifata. «Gott im Himmel!» Prese un fazzoletto dalla tasca e se lo passò sulle labbra e sul naso. «Puzza come un animale. Le chieda quante sono le casse.» «Non molte», tradusse Nogo. «Forse cinque, non più di dieci. Non è sicura.» «Le dimensioni? Quanto sono grandi?» Quando Nogo le girò la domanda, la donna indicò la lunghezza del proprio braccio, e la faccia di von Schiller tradì la delusione. «Pochi pezzi insignificanti», commentò. Voltò le spalle alla donna e andò a guardare dalla finestra rivolta a sud, affacciata sul ciglio della scarpata e sulla gola. «Se quanto dice è vero, Harper non ha ancora scoperto il tesoro di Marnose. Dovrebbe esserci ben altro.» Nogo aveva ripreso a parlare concitatamente alla donna. Poi girò la testa verso von Schiller. «Dice che una persona del gruppo di Harper ha lasciato il campo nella gola per andare a Debra Mariam.» Von Schiller si voltò di scatto. «Una persona del gruppo? Chi?» «Una donna etiope, la concubina di Mek Nimmur, una certa woizero Tessay. Ho sentito parlare di lei. Era sposata con il cacciatore russo, prima di diventare la puttana dello sciftà.» Von Schiller attraversò precipitosamente la stanza e afferrò la donna per Wilbur Smith
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la camicetta, facendola rialzare con tanta violenza che il piccino le sfuggì e cadde urlando sul pavimento. «Le chieda dov'è l'etiope», ordinò a Nogo. Ma la madre si svincolò e si rannicchiò, cercando di sollevare e tranquillizzare il figlioletto. Nogo l'abbrancò e la schiaffeggiò per costringerla a dar retta a lui. Lei si strinse al petto il bambino e balbettò una risposta. «Non lo sa», ammise Nogo. «Però crede che sia ancora a Debra Mariam.» «Butti fuori quella lurida sgualdrina.» Von Schiller indicò la donna e il bambino, e il colonnello li trascinò oltre la porta. «Che altro sa della donna di Mek Nimmur?» chiese il tedesco in tono più calmo. «Appartiene a una famiglia nobile di Addis Abeba, imparentata con il ras Tafari Makonnen, cioè il vecchio imperatore Hayla Sellase.» «Se è la donna di Mek Nimmur ed è venuta direttamente dal campo di Harper, sarà in grado di rispondere alle domande.» «È vero, Herr von Schiller. Ma può darsi che non intenda farlo.» «La voglio», tagliò corto von Schiller. «La porti qui. Helm parlerà con lei. Sono sicuro che riuscirà a farla ragionare.» «È una persona importante. La sua famiglia ha una grande influenza.» Nogo rifletté per un momento. «D'altra parte, convive con un pericoloso bandito. Una ragione di più per catturarla. Manderò un distaccamento dei miei uomini, agli ordini di uno dei miei ufficiali più fidati, ad arrestarla immediatamente.» Poi esitò un momento. «Se verrà interrogata con durezza, forse sarà meglio che non possa tornare dai suoi amici di Addis Abeba. Potrebbero causare fastidi a tutti. Persino a lei, Herr von Schiller.» «Che cosa suggerisce?» chiese il tedesco. «Quando avrà risposto alle domande, dovrà avvenire un incidente.» «Faccia quanto è necessario», ordinò von Schiller. «Lascio a lei i particolari, ma si assicuri che, se sarà inevitabile liberarsi della donna, tutto proceda nel modo dovuto. Ne ho abbastanza, di pasticci.» E lanciò un'occhiata a Nahoot Guddabi, che abbassò lo sguardo e arrossì di rabbia. Avevano trascorso quasi due giorni interi nel sacrario di Osiride nella galleria lunga. Nessun adoratore antico aveva mai studiato con maggiore attenzione un testo o esaminato con tanto scrupolo gli affreschi colorati raffiguranti il grande dio. Wilbur Smith
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Recitavano a turno i brani tratti dalla stele di Tanus, che Royan aveva annotato nei quaderni, e li ripetevano fino a imparare a memoria ogni citazione. Mentre uno leggeva a voce alta, l'altro osservava le pareti alla ricerca di un collegamento. «Il mio amore è una fiasca d'acqua fresca nel deserto. Il mio amore è una bandiera che si spiega nella brezza. Il mio amore è il primo grido del neonato...» Nicholas leggeva e Royan lo guardava e sorrideva, accosciata davanti al sacello. «A volte Taita è molto carino, no?» disse lei. «È così romantico...» «Su, concentrati. Non è una lezione di poesia. Stiamo lavorando sul serio.» «Barbaro!» mormorò Royan, ma si voltò di nuovo verso le iscrizioni murali. «Riprova un po' questo», ordinò Nicholas, e lesse: «Egli giace nella valle dei mille congiungimenti, dell'infante con la madre, dell'uomo con la donna, dell'amico con l'amico, del maestro con l'allievo, del sesso con il sesso». «E la terza volta che scegli quel passo, questa mattina. Che cosa c'è che ti attira tanto?» Royan non lo guardò, ma arrossì fino alla nuca. «Scusami, pensavo che l'avresti trovato romantico come l'altro», mormorò Nicholas. «Allora proviamo con questo. Io ho sofferto e amato. Ho resistito al vento e alla tempesta. La freccia mi ha trapassato la carne ma non mi ha ferito. Ho evitato la falsa via che si estende diritta davanti a me, e ho scelto la scala nascosta che porta alla residenza degli dei.» Royan si dondolò all'indietro sui talloni e guardò la lunga galleria. «Forse c'è qualcosa... La falsa via che si estende diritta davanti a me. ha scala nascosta...» «Adesso stiamo esagerando. Diamo la caccia ai moscerini come trote affamate.» Royan si alzò e si scostò dalla fronte le ciocche di capelli sudati. «Oh, Nicky, sono così avvilita. Non sappiamo neppure da dove cominciare.» «Coraggio, ragazza mia», disse Nicholas, ostentando un ottimismo che non provava. «Cominciamo dall'inizio come ci ha raccomandato il nostro amico Taita. Lasciami ritentare con questo.» Si posò la mano sul cuore come un attore vittoriano e recitò: «L'avvoltoio s'innalza sulle ali possenti per incontrare il sole...» Royan rise sommessamente nel vederlo fare il buffone, poi distolse lo Wilbur Smith
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sguardo da lui e lo girò alle sue spalle. All'improvviso sgranò gli occhi. «L'avvoltoio!» esclamò indicando la parete. Nicholas si voltò di scatto e guardò ciò che Royan gli indicava. C'era l'avvoltoio, un'immagine magnifica del rapace, con gli occhi minacciosi, il rostro giallo e adunco, le ali spalancate. Ogni penna era delineata in colori vividi. Era alto quanto Nicholas, ma le ali aperte coprivano metà della parete. Lo fissarono, poi Royan alzò lo sguardo verso il soffitto. Gli toccò il braccio per invitarlo a fare altrettanto. «Il sole!» sussurrò. Il disco dorato di Ra era dipinto nella parte più alta del tetto e sembrava rischiarare le ombre. I raggi si estendevano in tutte le direzioni, però uno di essi seguiva la curva della parete e discendeva ad avvolgere l'immagine dell'avvoltoio con la sua luminosità. «L'avvoltoio s'innalza sulle ali possenti per incontrare il sole», ripeté Royan. «Taita lo intende nel senso letterale?» Nicholas si avvicinò all'affresco e lo esaminò minuziosamente. Passò le mani sulle ali, sul ventre, fino agli artigli adunchi. Sotto il colore, la parete era perfettamente levigata. Non c'erano sporgenze o irregolarità. «La testa, Nicky. Guarda la testa!» Con un balzo, Royan cercò di raggiungerla, ma non ci riuscì. Si voltò, e nella sua voce vibrò una nota disperata. «Puoi farlo tu. Sei molto più alto.» Solo in quel momento lui vide la leggera ombra su un lato della testa del rapace, là dove la toccava la luce del riflettore. Riuscì a toccarla: si accorse così che l'intera testa era in rilievo e spiccava un po' al di sopra dei livello della parete. Quindi passò le dita sul rostro e si rese conto che era in rilievo anche quello. «Senti una giuntura nell'intonaco?» chiese Royan. Lui scosse la testa. «No. È liscio. Sembra che faccia parte della parete.» «L'avvoltoio s'innalza sulle ali possenti per incontrare il sole», insistette Royan. «Non senti nessun movimento? Prova a spingere la testa verso l'alto, verso la raffigurazione del sole.» Lui appoggiò la mano sotto la sporgenza della testa e spinse dal basso in alto. «Niente!» borbottò. «È qui da tanti secoli.» Royan saltellava da un piede all'altro, inquieta. «Accidenti, Nicky, se c'è una parte mobile sarà bloccata. Più forte! Spingi più forte!» Nicholas si spostò per piazzarsi esattamente al di sotto, appoggiò Wilbur Smith
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entrambe le mani sotto la testa, e usò tutte le sue energie. I tendini del collo si gonfiarono, il sangue gli inondò il viso e lo arrossò. «Più forte!» implorò Royan, ma alla fine lui lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e si scostò. «No», disse con voce resa rauca dallo sforzo. «È massiccio. Non si muove.» «Sollevami. Lasciami guardare.» «Con il più grande piacere. Ogni scusa è buona per mettere le mani su di te.» Lui le andò alle spalle, le cinse la vita con le braccia e la sollevò per permetterle di toccare la testa del rapace. Royan esplorò in fretta con le punte delle dita e si lasciò sfuggire un gridolino di trionfo. «Nicky, hai smosso qualcosa. Il colore è segnato da una crepa intorno alla testa. Lo sento. Sollevami un po' di più.» Borbottando per lo sforzo, Nicholas la sollevò per un'altra trentina di centimetri dal pavimento. «Sì, senza il minimo dubbio !» esclamò lei. «Si è mosso qualcosa. E c'è anche una fessura sottilissima nella parete sopra la testa. Dai un'occhiata!» Nicholas andò a prendere una delle casse vuote dal pianerottolo e la posò sotto l'immagine dell'avvoltoio. Quando vi salì, si trovò al livello degli occhi del rapace. Cambiò espressione. Si frugò in tasca e tirò fuori il coltello a serramanico, aprì la lama e sondò cautamente intorno alla testa. Minuscole scaglie di colore e d'intonaco caddero sul pavimento. «Sembra che la testa sia una parte separata», ammise. «Guarda più in alto. Lungo il raggio di sole. Riesci a vedere un'incrinatura verticale?» «Hai ragione, sai?» ammise Nicholas. «Ma se cerco di allargare la crepa rovinerò l'affresco. Vuoi che lo faccia?» Lei esitò solo un momento. «La tomba si allagherà di nuovo quando le acque del fiume risaliranno. Lo perderemo comunque. Vale la pena di correre il rischio. Dai, Nicky!» Lui premette la punta della lama nell'incrinatura e la girò delicatamente. Uno strato di gesso dipinto grande quanto la sua mano si staccò, cadde sul pavimento e si sbriciolò sulle piastrelle d'agata. Scrutò nella cavità che s'era formata nella parete. «Sembra che ci sia una specie di solco o di fenditura», spiegò. «Ora la Wilbur Smith
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ripulirò in tutta la lunghezza.» Lavorò con cura sulla cavità che aveva scoperto, facendo piovere altri frammenti di gesso. Royan starnutì per la polvere, ma non volle saperne di allontanarsi. I pezzetti d'intonaco le costellavano i capelli come coriandoli. «Sì», commentò alla fine Nicholas. «Qui c'è un solco verticale.» «Stacca l'intonaco dall'incrinatura intorno alla testa dell'avvoltoio», ordinò lei. Nicholas si ripulì la lama sui calzoni e aggredì di nuovo la parete. «E libera», annunciò poi. «A quanto pare la testa può salire lungo il solco. E comunque voglio provare. Stai indietro, e lasciami lo spazio per lavorare.» Puntellò entrambe le mani sotto la testa dell'avvoltoio e spinse verso l'alto. Royan serrò le mani a pugno e strinse le labbra come se, così facendo, moltiplicasse lo sforzo di Nicholas. Ci fu un suono sommesso e graffiarne, e la testa cominciò a muoversi sussultando lungo il solco messo allo scoperto. Quando arrivò in cima alla fenditura, Nicholas saltò dalla cassa. Fissarono la testa dell'avvoltoio e aspettarono: adesso era distaccata dal corpo e sfigurata dai danni all'intonaco. Dopo una lunga attesa, Royan mormorò, depressa: «Niente. Non è cambiato niente». «Il resto della citazione tratta dalla stele», le rammentò Nicholas. «Non parlava soltanto dell'avvoltoio e del sole.» «Hai ragione.» Lei girò ansiosamente lo sguardo sul resto della parete. «Lo sciacallo ulula e gira sulla coda.» Indicò con la mano tremante la figura piccola e quasi insignificante di Anubi, il dio dalla testa di sciacallo, protettore dei cimiteri, dipinta di fronte all'avvoltoio sfigurato. Era ritto ai piedi dell'enorme raffigurazione di Osiride, ed era poco più grande dell'alluce ingemmato del dio sposo di Iside e padre di Horus. Royan corse alla parete. Nel momento in cui toccò Anubi, si accorse che anche la sua immagine era in rilievo. Allora si gettò con tutte le sue forze contro la figura minuscola, e cercò di farla ruotare, prima in una direzione e poi nell'altra. «Lo sciacallo ulula e gira sulla coda!» ansimò, mentre continuava a insistere. «Deve girare!» «Lascia fare a me.» Nicholas la scostò con gentilezza, e s'inginocchiò Wilbur Smith
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davanti all'immagine della divinità dalla testa nera. Anche questa volta usò la lama del coltello a serramanico per incidere il gesso e staccare lo spesso strato di colore. «Sembra scolpito in un legno duro e poi ricoperto di gesso», disse, tastando la figura con la punta del coltello. Quando finalmente l'ebbe liberata, cercò di farla ruotare in senso orario, sbuffando per lo sforzo. «No!» esclamò alla fine, desistendo. «Nell'antico Egitto non esistevano quadranti per orologi», gli rammentò Royan. «L'altro senso. Giralo nell'altro senso!» Quando Nicholas cercò di girare Anubi in senso antiorario, dietro il pannello risuonò un altro stridio, e la figura minuscola ruotò lentamente nelle sue mani, fino a che la testa nera puntò verso le piastrelle. Si scostarono entrambi dalla parete eppure, dopo un'altra lunga attesa, persino Nicholas si mostrò scoraggiato. «Non so che cosa mi aspettassi... comunque non succede niente», borbottò. «C'è ancora l'ultima parte del brano», bisbigliò Royan. «Il fiume scorre verso la terra. State in guardia, profanatori dei luoghi sacri, perché la collera di tutti gli Dei discende su di voi.» «Il fiume?» chiese Nicholas. «Come direbbe Sapper, non vedo nessun maledetto fiume.» Royan non sorrise dell'imitazione. Scrutò le scritte e le immagini che coprivano tutte le pareti intorno a loro. E poi lo vide. «Hapi!» La sua voce era resa stridula dall'eccitazione. «Il dio del Nilo! Il fiume!» Sulla parete, all'altezza della testa di Osiride, il dio del fiume li guardava. Era un ermafrodita con seni di donna e genitali maschili che sporgevano sotto il ventre cascante. Hapi aveva la testa d'ippopotamo, e la bocca socchiusa mostrava le grandi zanne ricurve. Nicholas montò su una catasta di casse per munizioni e riuscì a toccare l'immagine di Hapi allungando le braccia. Proruppe in un'esclamazione di esultanza. «Anche questo è in rilievo!» «Il fiume scorre verso la terra», ripeté Royan. «Deve muoversi verso il basso. Tenta, Nicky.» «Lasciami il tempo di ripulire i bordi...» ribatté lui. Usò la punta del coltello per scalpellare i contorni della figura, e trovò un'altra fessura Wilbur Smith
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verticale che scendeva verso il pavimento. «Sono pronto.» Ripiegò la lama del coltello e lo rimise in tasca. «Trattieni il respiro e prega per me», raccomandò. Appoggiò le mani sull'immagine del dio e cominciò a spingere verso il basso, esercitando una pressione crescente, fino a restare praticamente appeso. Non si mosse nulla. «Non funziona», protestò. «Aspetta!» ordinò lei. «Salgo anch'io.» Si arrampicò sulle cassette e gli passò le braccia intorno al collo. «Stringi forte», disse. «Anche il minimo aiuto può servire, credo», ammise Nicholas. Royan sollevò i piedi e gli restò aggrappata alle spalle con tutto il suo peso. «Si muove!» gridò Nicholas. All'improvviso la figura di Hapi cedette sotto le sue mani, e con uno stridore netto discese sino in fondo al solco. Nicholas mollò la presa sulla sagoma levigata quando si bloccò alla fine della corsa. Il mucchio di casse si rovesciò, facendo ricadere sul pavimento Nicholas e Royan. Finirono sulle piastrelle d'agata in un intrico di gambe e di braccia. Nicholas si alzò e aiutò Royan a risollevarsi. «Che è successo?» chiese lei, ansimando, e girò lo sguardo sulla figura danneggiata di Hapi, poi sulle pareti della galleria. «Niente», rispose lui. «Non si è mosso niente.» «Forse c'è un altro...» Royan s'interruppe nel sentire un suono sopra di loro. Levarono lo sguardo, sbalorditi e invasi da un senso di trepidazione. Al di sopra del soffitto intonacato c'era un movimento poderoso. «Che cos'è?» mormorò lei. «Ci deve essere qualcosa, lassù. Sembra un essere vivente.» Era un gigante che si muoveva, si destava dopo un sonno di millenni, si stirava e si girava. «E...?» Royan non finì la domanda. Aveva nella mente l'immagine del grande dio Osiride che si svegliava in una camera nascosta nella roccia, schiudeva i minacciosi occhi obliqui e si sollevava su un gomito per scoprire chi aveva disturbato il suo sonno eterno. Poi venne un altro suono, un rombo e uno scricchiolio come se il braccio di una bilancia possente girasse adagio, quasi che il suo equilibrio venisse alterato. Dapprima sommesso e poi più forte, il movimento divenne simile a quello che annuncia una valanga. Quindi fu la volta di un tuono, assordante come un colpo di cannone. Wilbur Smith
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Nel soffitto apparve una crepa che serpeggiò per l'intera lunghezza della galleria. La polvere uscì dal varco irregolare, e il tetto incominciò ad abbassarsi verso di loro. Erano entrambi paralizzati da un orrore superstizioso, incapaci di distogliere lo sguardo dal crollo lento e inesorabile del soffitto. Poi un frammento d'intonaco colpì il volto di Nicholas, lacerò la pelle della guancia e lo fece arretrare barcollando contro la parete. Lo shock e il dolore lo scossero. «L'ammonimento», balbettò. «L'ammonimento di Taita. La collera degli dei.» Si lanciò a fianco di Royan e le afferrò la mano. «Scappa!» gridò. «Taita ha preparato un trabocchetto.» Tornarono indietro correndo nella galleria, verso l'apertura nella porta murata. Frammenti di pietra e d'intonaco presero a grandinare intorno a loro; la polvere invase il passaggio e quasi li accecò. Il rombo sordo diventò un ruggito, mentre il soffitto crollava progressivamente. Non osarono guardarsi alle spalle; la frana pareva lanciata al loro inseguimento e minacciava di raggiungerli e di sopraffarli prima che potessero arrivare all'entrata. Un pezzo di pietra acuminata grande quanto la sua testa colpì di striscio la spalla di Royan. Le gambe le mancarono; sarebbe caduta se Nicholas non l'avesse circondata con un braccio per sostenerla, trascinandola lungo la galleria. La polvere oscurava il passaggio davanti a loro e l'apertura quadrata che offriva l'unica speranza di salvezza sembrava allontanarsi in una nebbia soffocante. «Non fermarti!» le gridò Nicholas. «Siamo quasi arrivati!» In quel momento un grosso pezzo d'intonaco precipitò sul treppiede del riflettore. La galleria piombò nell'oscurità. Completamente accecato, Nicholas provò l'impulso di fermarsi e di cercare di orientarsi. Ma ormai, tutto intorno a lui, i frammenti del soffitto cadevano più pesanti e più rapidi. Aveva l'impressione che da un secondo all'altro il tetto sarebbe precipitato su di loro, schiacciandoli senza pietà. Continuò a correre senza rallentare e senza lasciare Royan. Andò a urtare contro il muro di fondo, e l'impatto lo lasciò senza fiato. Attraverso la nube di polvere turbinante, però, riuscì a scorgere l'apertura rettangolare nella parete davanti a lui, rischiarata dalle lampade del pianerottolo Wilbur Smith
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all'inizio della scala. Allora afferrò Royan intorno alla vita, la sollevò di peso, poi la lanciò oltre il varco e la sentì gridare quando cadde pesantemente al di là del muro. Un altro frammento lo colpì all'occipite e lo fece stramazzare in ginocchio. Stava per perdere conoscenza, ma si trascinò brancolando fino al bordo irregolare dell'apertura; si afferrò e riuscì a sollevarsi nell'istante in cui l'intero soffitto precipitava nella galleria. Lì, sul pianerottolo più alto della scala, le lampade erano ancora accese. Royan era in ginocchio accanto a lui. «Tutto bene?» gli chiese ansando. Un filo di sangue, scendendo da una ferita all'attaccatura dei capelli, le serpeggiava sulla guancia e tracciava un rivoletto scuro e lucido nella polvere bianca che le incrostava il viso. Nicholas non rispose, ma si rimise in piedi e l'aiutò a rialzarsi. «Non possiamo restare qui», sibilò mentre un soffio di polvere bianca volava attraverso l'apertura, li investiva, fi soffocava e affievoliva la luce dei riflettori. «No, è pericoloso.» Nicholas la scostò dall'apertura. «Potrebbe crollare tutto...» La voce era rauca, la gola quasi chiusa dalla polvere. La trascinò fino alla scala. Scesero insieme, barcollando e scivolando sulla patina di viscidume. Nella nuvola di polvere, davanti a loro, giganteggiava la figura tozza di Sapper. «Che diavolo sta succedendo?» muggì sollevato quando li vide. «Dammi una mano», gridò di rimando Nicholas. Sapper sollevò Royan fra le braccia. Insieme, corsero nella galleria. Si fermarono per respirare soltanto quando raggiunsero il ponte galleggiante sull'inghiottitoio. Il sistema telefonico del Gojam era nel caos come gli altri servizi pubblici del Paese. L'ufficio postale del villaggio di Debra Mariani era una piccola costruzione sulla strada polverosa dietro la chiesa; i muri erano di mattoni crudi, privi d'intonaco, e il tetto di lamiera brillava come uno specchio nel sole dell'alta montagna. L'apparecchio pubblico avrebbe dovuto essere nella cabina davanti all'ingresso, ma era sparito da tempo, rubato o distrutto, o più probabilmente rimosso dai militari per impedire che venisse utilizzato dai Wilbur Smith
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dissidenti e dai ribelli. Tessay l'aveva previsto. Lanciò solo un'occhiata nella cabina prima di entrare nel piccolo ufficio, pieno di una folla di contadini e di paesani che facevano la fila per parlare con l'anziano direttore, l'unica persona dietro il banco. Alcuni clienti avevano steso a terra gli scialli e si erano seduti per attendere. Chiacchieravano e fumavano, mentre intorno a loro i figli saltellavano e giocavano. Quasi tutti riconobbero Tessay non appena entrò, e persino coloro che stavano facendo la fila da ore la salutarono con rispetto e si scostarono per lasciarla passare. Nonostante i due decenni di socialismo reale «all'africana», gli istinti feudali della popolazione contadina erano ancora forti. Tessay era una nobildonna e aveva diritto alla precedenza. «Grazie, amici miei.» Lei sorrise e scosse la testa. «Siete molto gentili, ma aspetterò il mio turno.» I presenti rimasero imbarazzati dal suo rifiuto e, quando il vecchio direttore si sporse dal banco e insistette come gli altri, una delle donne più anziane prese il braccio di Tessay e la spinse avanti. «Che Gesù e tutti i santi la benedicano, woizero Tessay.» Il direttore batté le mani in un rispettoso saluto. «Bentornata a Debra Mariam. Che cosa desidera, signora?» Tutti i presenti si affollarono intorno a Tessay per non lasciarsi sfuggire neanche il minimo particolare. «Vorrei fare una telefonata ad Addis Abeba», disse Tessay, e subito si levarono mormorii di commento. Era una cosa importante, eccezionale. «L'accompagno al centralino», disse solennemente il direttore, e per l'occasione si mise il berretto blu. Girò intorno al banco, gridò agli altri clienti di spostarsi e li spinse da parte; poi accompagnò Tessay nella stanza sul retro, dove il centralino occupava un cubicolo non più grande d'un gabinetto. La donna, il direttore dell'ufficio postale e tutti i curiosi che trovarono posto si accalcarono nello stanzino. Il centralinista era addirittura commosso dall'onore accordatogli dalla bella nobildonna, e gridò nel microfono come un ufficiale che dà gli ordini per l'alzabandiera. «Fra poco», disse quindi a Tessay con un gran sorriso. «Fra poco potrà parlare con l'ambasciata britannica.» Wilbur Smith
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Tessay conosceva bene il significato di quel «fra poco»; andò sulla veranda dell'ufficio postale e fece portare dall'osteria del villaggio qualcosa da mangiare e fiasche di tej. Offrì quindi un allegro pic-nic ai monaci della scorta e a metà della popolazione di Debra Mariam mentre aspettava che la sua chiamata arrivasse alla capitale attraverso una mezza dozzina di antiquati centralini di villaggio. Grazie al tej, l'umore del suo seguito era ottimo quando, un'ora dopo, il direttore si precipitò ad annunciarle con orgoglio che il collegamento era stato stabilito e che il suo interlocutore attendeva in linea. Tessay, i monaci e cinquanta abitanti del villaggio seguirono il direttore nel centralino. Quelli che non trovarono posto, si affollarono nell'ufficio postale. «Qui Geoffrey Tennant.» L'accento aristocratico dell'inglese era reso più metallico dalla distanza e dalle scariche elettrostatiche. «Signor Tennant, sono woizero Tessay.» «Aspettavo la sua chiamata.» Geoffrey cambiò tono quando si rese conto che chi parlava con lui era una bella ragazza. «Come sta, mia cara?» Tessay gli passò il messaggio di Nicholas. «Faccia sapere a Nicky che può. considerarlo già fatto», rispose Geoffrey Tennant, e riattaccò. «E adesso», annunciò Tessay rivolgendosi al direttore, «voglio fare un'altra telefonata. All'ambasciata egiziana, sempre ad Addis Abeba.» I presenti mormorarono entusiasti nello scoprire che il divertimento non era ancora finito. Tutti tornarono sulla veranda per bere altro tej e continuare le conversazioni. Ci volle ancora più tempo per ottenere il secondo collegamento. Erano le cinque passate quando finalmente Tessay fu messa in contatto con l'addetto culturale egiziano. Se non l'avesse incontrato già una volta in uno degli innumerevoli ricevimenti del mondo diplomatico di Addis Abeba e non avesse fatto colpo su di lui, con ogni probabilità adesso non avrebbe accettato la sua telefonata. «È stato un caso che mi abbia trovato a quest'ora», le disse. «Di solito chiudiamo alle quattro e mezzo, ma è in corso una riunione dell'Organizzazione dell'unità africana, e quindi siamo rimasti a lavorare. Che cosa posso fare per lei, woizero Tessay?» Non appena lei gli disse il nome e la carica del personaggio del Cairo cui era indirizzato il messaggio di Royan, il suo atteggiamento di superiorità Wilbur Smith
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condiscendente cambiò in modo drastico. Diventò premuroso. Trascrisse meticolosamente le frasi di Royan e la pregò di ripetere i nomi delle persone e dei luoghi. Alla fine rilesse gli appunti per avere conferma. Al termine della lunga conversazione, abbassò la voce e, in tono confidenziale, le disse: «Mi ha rattristato molto sapere del suo recente lutto, signora Sole. Stimavo molto il colonnello Brusilov. Forse quando tornerà ad Addis Abeba mi farà l'onore di cenare con me». «E molto gentile», rispose Tessay in tono suadente. «Sarò lieta di rivedere la sua incantevole moglie.» E riattaccò mentre il diplomatico, confuso, mormorava espressioni di assenso e di diniego. Ormai il sole stava già tramontando dietro i castelli di nubi, e nell'aria c'era odore di pioggia. Era troppo tardi per rimettersi in cammino quella sera e ridiscendere la scarpata. Tessay fu dunque lieta di accettare l'invito che il capo del villaggio le aveva fatto pervenire per mezzo di una delle sue figlie adolescenti e si apprestò a trascorrere la notte a Debra Mariam. La casa del capo era la più bella del villaggio: non era un tucul rotondo, bensì un edificio quadrato di mattoni con il tetto di lamiera. La moglie e le figlie avevano preparato un banchetto in onore di Tessay, e tutti i notabili del villaggio, inclusi i preti della chiesa copta, erano stati invitati. Solo a mezzanotte passata Tessay poté rifugiarsi nella camera da letto padronale che il capo e la moglie le avevano ceduto. Un attimo prima di addormentarsi, sentì le pesanti gocce di pioggia battere sul tetto di lamiera ondulata. Era un suono consolante; ma poi Tessay pensò alla diga sul fiume e si augurò che l'acquazzone fosse soltanto un preannuncio delle grandi piogge. Quando, molto più tardi, si svegliò, non pioveva più. Al di là della finestra priva di tende la notte senza luna era silenziosa. Si sentiva soltanto l'ululato di un cane in fondo al villaggio. Si chiese che cosa l'avesse svegliata, e fu assalita dalla premonizione di un disastro imminente. Aveva sviluppato quel sesto senso ai tempi di Menghistu, quando ogni rumore notturno poteva annunciare l'arrivo della polizia segreta. La sensazione era così forte che non riuscì a riaddormentarsi. Si alzò senza far rumore e cominciò a vestirsi al buio. Aveva deciso di chiamare i monaci e di ripartire. Si sarebbe sentita al sicuro solo quando fosse stata di nuovo a fianco di Mek Nimmur. Aveva appena infilato i pantaloni e stava cercando i sandali sotto il letto, Wilbur Smith
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quando sentì in lontananza il motore di un camion. Andò alla finestra e ascoltò. La pioggia aveva rinfrescato l'aria e Tessay sentiva il freddo sulle braccia nude e sul petto. Il camion sembrava avvicinarsi al villaggio da sud, lungo la pista che fiancheggiava la riva del fiume. Viaggiava in fretta. Il senso di disagio di Tessay si accentuò. Gli abitanti del villaggio avevano parlato con i monaci, e ormai tutti sapevano che era la donna di Mek Nimmur. Mek era ricercato, e all'improvviso lei si sentiva molto vulnerabile e molto sola. Infilò in fretta lo shamma di lana e calzò i sandali. Uscì dalla stanza e sentì il capo del villaggio che russava nella camera dove si era trasferito con la moglie per cederle il posto. Tessay svoltò nel breve corridoio che portava in cucina. Il fuoco era quasi spento, tuttavia le permetteva di scorgere le figure dei monaci addormentati sul pavimento d'argilla, con gli shammas tirati sulla testa. Così coperti sembravano una fila di cadaveri sui tavoli di un obitorio. La donna s'inginocchiò accanto al più vicino e lo scosse, ma evidentemente quello aveva bevuto troppo tej a cena e non si svegliò. Il camion era molto più vicino. Il disagio si trasformò in panico. Tessay si rendeva conto che in caso d'emergenza i monaci sarebbero stati di scarso aiuto. Si rialzò e, a tentoni, si avviò verso la porta della cucina. Il camion era arrivato davanti alla casa. I fari balenarono sulle finestre e, per un momento, la luce penetrò nel corridoio. Quando l'autista decelerò, il rombo del motore si trasformò in un borbottio. Tessay sentì lo stridore dei pneumatici sulla ghiaia davanti all'ingresso. Subito dopo echeggiarono grida e passi frettolosi, e un gruppo di uomini balzò a terra. Immobile nella piccola cucina, Tessay inclinò la testa per ascoltare. All'improvviso qualcuno bussò con forza alla porta principale e gridò: «Aprite! Siamo dei Servizi segreti! Aprite la porta! Nessuno lasci la casa!» Tessay corse verso l'uscita posteriore, ma nel buio inciampò in un tavolo basso, carico dei piatti sporchi della cena. Cadde, e le ciotole e le fiasche di tej s'infransero rumorosamente sul pavimento. Nello stesso momento, gli uomini che si erano presentati alla porta principale la presero a spallate e la scardinarono. Fecero irruzione, urlando e spaccando i mobili. Alla luce delle torce perquisirono le stanze nella parte anteriore della casa. Con un confuso vociare allarmato, il capo del villaggio e i familiari si Wilbur Smith
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svegliarono. Poi risuonarono i colpi inferti con i manganelli e i calci dei fucili, seguiti da grida di paura e di dolore. Tessay raggiunse la porta posteriore e cercò di aprirla. Il chiasso degli intrusi che avevano invaso la casa rendeva più goffi i suoi movimenti. Tentò di aprire la serratura. Sentiva altri uomini che, all'esterno, attraversavano correndo il cortile per circondare l'abitazione. Finalmente aprì la porta. Era buio e non conosceva quell'area. Non sapeva in quale direzione poteva fuggire, però sentiva il fiume, abbastanza vicino. «Se riesco a raggiungere la banchina...» pensò, e si mosse per attraversare il cortile. In quel momento la luce di una torcia elettrica la colpì e una voce urlò: «Eccola!» Cercavano lei, senza dubbio. Fuggì come una lepre impaurita, e gli uomini l'inseguirono, latrando come un branco di segugi. Raggiunse la riva del fiume e deviò a destra, verso valle. Un colpo di pistola echeggiò dietro di lei. Tessay si chinò mentre una pallottola le passava con un sibilo accanto alla testa. «Non sparate, babbuini!» ruggì imperiosamente una voce. «La vogliamo viva per interrogarla!» Nella luce della torcia lo shamma bianco era visibile come le ah di una falena che volteggia intorno alla fiamma di una candela. «Fermatela!» gridò l'ufficiale. «Non fatela scappare!» Ma Tessay era svelta e agile come una gazzella e volava sul terreno accidentato, mentre i soldati la inseguivano con passo pesante. La donna comprese che li stava distanziando, e si sentì rinfrancata. Il rumore degli inseguitori si smorzò dietro di lei. Era arrivata al limite della portata del fascio luminoso della torcia quando andò a urtare contro la recinzione di filo spinato arrugginito. Tre fili si avvolsero intorno alle ginocchia, ai fianchi e al diaframma. Quello più in alto la lasciò senza fiato: gli aculei di ferro le strapparono gli indumenti e le penetrarono nella carne imprigionandola come un pesce nella rete. Lottò per liberarsi, ma fu inutile. Qualcuno l'abbrancò e la trascinò lontano dal filo spinato. Tessay singhiozzò per la disperazione e il dolore. Uno dei soldati allora le afferrò il polso e le torse il braccio dietro le scapole, ridendo sadicamente nel sentirla gridare. L'ufficiale si avvicinò ansimando. Era grasso e, nonostante la notte fredda, il sudore gli copriva le guance, brillando nella luce della torcia. Wilbur Smith
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«Non farle male, imbecille», ansimò. «Non è una criminale. È un'aristocratica. Portala al camion, ma trattala con rispetto.» Due uomini la presero per le braccia e la condussero al camion, sostenendola in modo che i suoi piedi toccassero appena il terreno accidentato. La spinsero nella cabina, accanto al guidatore in uniforme. L'ufficiale grasso s'issò accanto a lei, e Tessay si trovò incuneata fra lui e l'autista. I soldati risalirono a bordo, e il guidatore innestò la marcia. Tessay singhiozzava sommessamente. L'ufficiale le lanciò un'occhiata. Nella luce riflessa dei fari, lei vide che aveva un'espressione gentile e premurosa, in contrasto con le sue azioni. «Dove mi portate?» gli chiese a voce bassa, reprimendo i singulti. «Che cosa ho fatto?» «Ho avuto l'ordine di portarla dal colonnello Nogo, il responsabile militare, che vuole interrogarla sulle attività degli sciftà nel Gojam», rispose l'uomo mentre il camion avanzava sobbalzando sulla pista. Per un po' rimasero in silenzio; quindi l'ufficiale disse a bassa voce in inglese: «L'autista park solo l'amharico. Volevo dirle che conoscevo suo padre, alto Zemen. Era un brav'uomo. Mi dispiace per quel che sta succedendo, ma io sono soltanto un tenente e devo eseguire gli ordini». «Mi rendo conto che la colpa non è sua.» «Mi chiamo Hammed. Se potrò, l'aiuterò in memoria di alto Zemen.» «Grazie, tenente Hammed. Ho bisogno di amici.» Mentre attendevano che la polvere della frana si posasse e che i frammenti di roccia sbilanciati cadessero o si stabilizzassero, Nicholas medicò le lesioni di Royan. Il taglio alla tempia era poco più di un graffio, e non aveva bisogno di punti: lo disinfettò e lo coprì con un cerotto. La spalla colpita invece presentava un grosso livido, e Nicholas la massaggiò con un unguento all'arnica. Quindi curò le proprie ferite in modo più sbrigativo, e un'ora dopo il crollo fu pronto per risalire la galleria. Ordinò a Royan e a Sapper di restare sul ponticello, e tornò al pianerottolo in cima alla scala, armato di una pertica di bambù e di una lampada a mano collegata al generatore Honda. Avanzò con prudenza, sondando il soffitto della galleria in cerca di eventuali punti deboli. Quando arrivò al pianerottolo vide che la frana Wilbur Smith
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aveva abbattuto quanto restava della porta murata che in origine aveva sigillato l'ingresso alla tomba. Le casse di munizioni, otto delle quali contenevano le statue, erano rovesciate e sparse in giro, e alcune erano sepolte parzialmente. Le recuperò e le aprì per controllare il contenuto. Con immenso sollievo scoprì che i robusti contenitori di metallo avevano resistito e che le preziose statue non avevano subito danni. Le portò una alla volta fino al ponticello e le passò a Sapper. Quando tornò al pianerottolo davanti alla tomba, Royan insistette per accompagnarlo. Nicholas provò a dissuaderla, ricordandole che le frane potevano ricominciare, ma fu tutto inutile. Davanti alla galleria distrutta, Royan si fermò, sgomenta. «Che disastro», mormorò. «Tutte quelle meravigliose opere d'arte! Non posso credere che Taita volesse una cosa simile.» «No», riconobbe malinconicamente Nicholas. «Aveva l'intenzione di spedirci sulla strada oltre le Sette Porte, nei felici territori di caccia. E per poco non c'è riuscito.» «Ci vorrà parecchio lavoro per ripulire tutto», disse Royan. «Che diavolo stai dicendo?» Nicholas si girò verso di lei, allarmato. «Abbiamo salvato le statue, ed è il massimo che potevamo sperare. Credo che sia arrivato il momento di andarcene. «Andarcene? Sei impazzito?» scattò Royan. «Hai perso la ragione?» «Le statue, almeno, ci ripagheranno le spese», spiegò lui. «E potrebbe restare qualcosa per noi, da dividere secondo i nostri accordi.» «Non penserai di rinunciare proprio adesso, quando siamo tanto vicino alla meta...» La voce di Royan era agitata. «La galleria è stata distrutta...» attaccò lui in toni più ragionevoli, ma lei batté un piede e lo zittì. «La tomba c'è ancora. Accidenti, Nicky! Taita non si sarebbe dato tanto da fare se non fosse così. Ormai siamo troppo vicini, ed ecco perché ha sparato un colpo di avvertimento. Non capisci? Adesso è davvero preoccupato. Non possiamo rinunciare al bottino che è quasi in vista.» «Royan, cerca di ragionare...» «No! No! Cerca di ragionare tu!» Royan rifiutò di ascoltarlo. «Devi cominciare subito a sgombrare la galleria. So che adesso l'entrata è aperta. Non dobbiamo far altro che rimuovere la frana. Sono sicura che troveremo il vero ingresso della tomba dietro i frammenti che Taita ci ha fatto cadere Wilbur Smith
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sulla testa.» «Ho l'impressione che quella botta ti abbia svitato il cervello.» Nicholas alzò le mani, rassegnato. «Ma è inutile discutere con una matta. Sgombreremo la galleria quanto basta per dimostrarti che là dentro non c'è altro da scoprire.» Quando dissero a Sapper che cosa volevano, questi scrutò con aria dubbiosa l'ingresso bloccato della galleria. «11 problema sarà la maledetta polvere», commentò. «Non appena toccheremo quei frammenti si solleverà e la nostra ventola non basterà a disperderla.» «Giusto», riconobbe Nicholas. «Dovremo bagnarla. Due file di uomini lungo il corridoio fino alla pozza: una catena che passa all'interno i secchi d'acqua, e l'altra che passa verso l'esterno il materiale della frana.» «Sarà un lavoraccio», concluse Sapper, mordicchiandosi con aria lugubre il labbro inferiore. «Ti sei impegnato a fare il duro», gli rammentò Nicholas. «Non è il momento di piagnucolare.» I monaci, ancora convinti di essere lì a lavorare per il Signore, accettarono il nuovo compito, e cantarono mentre si passavano i frammenti d'intonaco e di roccia in una direzione e i vasi d'argilla riempiti con l'acqua attinta nell'inghiottitoio nell'altra. Nicholas lavorava sulla frana con un gruppo di Bufali guidati da Hansith. Era un'attività ingrata e pericolosa, perché ogni frammento doveva essere innaffiato con l'acqua prima che fosse possibile estrarlo e farlo passare lungo la catena. Sulla scala cominciò a scorrere acqua fangosa e i gradini diventarono sdrucciolevoli. Le rocce cadute erano instabili, e c'era il pericolo di un crollo secondario. La presenza di tanti uomini che lavoravano negli spazi ristretti della galleria e del corridoio metteva a dura prova la piccola ventola che doveva far circolare l'aria. L'atmosfera era calda e opprimente. Gli uomini indossavano solo i perizomi ed erano lucidi di sudore. I detriti che venivano fatti passare di mano in mano finivano nell'inghiottitoio, ma neppure quella cospicua quantità di materiale cambiava il livello dell'acqua nera, e sprofondava senza lasciar tracce. Era un ambiente così affollato, umido e claustrofobico che, al primo cambio di turno, Nicholas dovette correre all'aperto almeno per qualche minuto. Persino l'abisso buio e tetro della lanca di Taita rappresentava per lui un sollievo. Wilbur Smith
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Fu quando scavalcò la diga di contenimento intorno alla vasca di chiusa che si accorse della presenza di Mek Nimmur. «Nicholas!» La bella faccia scura dell'amico aveva un'espressione grave. «Tessay non è ancora tornata da Debra Mariani? Doveva arrivare ieri.» «Non l'ho vista, Mek. Pensavo che fosse con te.» Mek scosse la testa. «Volevo essere sicuro che non fosse tornata prima di mandare una pattuglia a cercarla.» «Scusami, Mek. Non prevedevo che ci fossero pericoli quando le ho chiesto di raggiungere il villaggio.» Nicholas provò una fitta di rimorso. «Non le avrei permesso io di andare, se avessi pensato che avrebbe potuto correre qualche rischio», lo tranquillizzò Mek. «Ho mandato alcuni uomini a cercarla.» Ma l'assenza di Tessay era un altro motivo di preoccupazione per Nicholas, e continuò ad assillarlo durante i giorni che seguirono. Senza contare che lo sgombero della galleria funebre procedeva con lentezza esasperante. Royan passava quasi tutto il tempo nel cantiere, esattamente come Nicholas. Tutti e due erano sporchi di fango e terriccio quanto i Bufali che lavoravano al loro fianco. Royan si disperava per ogni frammento di affresco. Prima che li portassero via per buttarli nell'inghiottitoio, cercava di recuperare quelli che conservavano ancora importanti porzioni dipinte. C'era un pezzo irregolare d'intonaco sul quale la bella testa di Iside era ancora intatta, un altro che conservava la figura intera di Thoth, il dio della scrittura. Ma quasi tutti erano stati distrutti irreparabilmente, e finivano nella pozza d'acqua nera. Nella lunga galleria non esisteva il senso del tempo ed era impossibile distinguere il giorno dalla notte. Era sempre una sorpresa lasciare la tomba e scoprire che le stelle brillavano nella stretta fascia di cielo sopra la lanca di Taita, oppure trovare il fulgido sole africano che ardeva nell'azzurro senza nubi. Mangiavano e dormivano solo quando i loro organismi lo esigevano, non secondo il passare delle ore. Stavano rientrando nella tomba dopo aver dormito qualche ora nei ripari accanto alla lanca quando, nell'attraversare il ponticello sull'inghiottitoio, udirono un grido fortissimo proveniente dal pozzo. D'un tratto, un confuso vociare e un tumulto di domande e risposte riverberò tra le pareti della galleria. Wilbur Smith
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«Hansith ha trovato qualcosa!» esclamò Royan. «Accidenti, Nicky, lo sapevo che avremmo dovuto restare...» Si mise a correre, e Nicholas la seguì. Arrivarono al pianerottolo davanti alla galleria e lo trovarono affollato di operai seminudi e gesticolanti. Nicholas si fece largo, seguito da Royan. Videro che Hansith aveva sgombrato la galleria fino al punto in cui prima stava il sacello di Osiride. Il soffitto era sfondato e, in mezzo ai frammenti, sulle piastrelle d'agata rovinate, c'erano i resti del meccanismo che Taita aveva collocato nel tetto e che avevano fatto crollare quando l'avevano messo in azione. Il pezzo principale era un'enorme ruota di pietra, molto simile a una macina da mulino ma del peso di parecchie tonnellate. Nicholas si fermò per esaminarla. «Nel Dio del fiume si dice spesso che Taita era ossessionato dalla ruota», disse a Royan. «Ruote di carri, ruote ad acqua... e questa doveva essere la ruota-bilancere della trappola. Quando abbiamo mosso le leve, abbiamo tolto i cunei che tenevano ferma questa mostruosità. Quando ha cominciato a rotolare, ha rovesciato tutte le pietre ammonticchiate sopra il soffitto...» Alzò lo sguardo verso il tetto sfondato. «Adesso no, Nicky!» Royan fremeva per l'impazienza. «Rimanda la tua conferenza a più tardi. Non è stata la trappola mortale di Taita a mettere in agitazione Hansith. Ha trovato qualcos'altro. Vieni!» Continuarono a farsi largo fra gli operai fino a quando non videro l'alta figura di Hansith. «Che c'è?» gridò Nicholas al di sopra delle teste degli altri. «Che cos'ha trovato, Hansith?» «Qui, effendi!» gridò il monaco. «Venga, presto!» Lo raggiunsero in fondo alla galleria ostruita. «Là!» indicò orgogliosamente Hansith. «Là c'è qualcosa!» Nicholas si inginocchiò nei pressi delle rovine del sacello. Piccoli frammenti d'intonaco dipinto aderivano ancora al muro di roccia. Hansith rimosse una lastra e indicò lo spazio rimasto vuoto. Nicholas guardò e sentì il suo cuore battere più forte. Su quel lato della galleria c'era un'apertura. Gli bastò un'occhiata per accorgersi che era l'imboccatura di un altro corridoio, fino a pochi giorni prima nascosto dietro la figura affrescata del grande dio. Mentre fissava, sbalordito, quell'apertura, sentì la mano di Royan sul Wilbur Smith
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braccio e l'alito caldo sulla guancia. «Eccola, Nicky. È l'entrata della vera tomba di Marnose. La galleria era un bluff, un serpente di mare ideato da Taita. La tomba autentica è questa.» «Hansith!» chiamò Nicholas con voce arrochita dall'emozione. «Ordini ai suoi uomini di sgombrare il passaggio.» Mentre gli operai rimuovevano le pietre, Nicholas e Royan li seguivano da vicino. E così poterono vedere la forma della porta rivelarsi a poco a poco. Era un rettangolo scuro, delle stesse dimensioni del corridoio che saliva dall'inghiottitoio, tre metri per due. L'architrave e gli stipiti erano di pietra magnificamente lavorata; quando Nicholas vi puntò contro la lampada, vide che al di là del vano c'era una rampa di scale. Spostarono i cavi e i riflettori, e li disposero all'entrata. Ma, non appena Nicholas mise piede sul primo gradino, si trovò Royan al fianco. «Vengo con te», annunciò lei con fermezza. «È probabile che ci sia qualche trabocchetto», l'avvertì Nicholas. «Taita ti aspetta dietro la prima svolta.» «Smettila, tanto non ci casco. Vengo con te.» Salirono lentamente la scala ripida, soffermandosi a ogni gradino per osservare le pareti. Dopo venti scalini arrivarono a un altro pianerottolo sul quale si aprivano due porte laterali; la scala però continuava a salire. «Da che parte?» chiese Nicholas. «Sempre avanti», lo esortò lei. «I passaggi laterali potremo esplorarli più tardi.» Proseguirono cautamente la salita. Dopo altri venti gradini arrivarono a un pianerottolo identico, con una porta per lato e la scala davanti a loro. «Avanti ancora», ordinò Royan, senza attendere che Nicholas lo chiedesse. Altri venti gradini e un altro pianerottolo con le solite aperture laterali. «Non ha senso», protestò Nicholas, ma lei lo sospinse in avanti. «Dobbiamo continuare a salire», dichiarò, e Nicholas smise di obiettare; superarono un altro pianerottolo, un altro ancora. Ognuno era l'immagine speculare di quelli che avevano superato. «Finalmente!» esclamò Nicholas quando arrivarono in cima alla scala: lì c'erano due porte laterali, ma di fronte a loro stava una parete cieca. «Non si va oltre.» «Quanti pianerottoli ci sono in tutto?» chiese Royan. Wilbur Smith
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«Otto.» «Otto. Non è un numero familiare?» Nicholas si voltò a guardarla nella luce della lampada. «Vuoi dire...» «Gli otto sacelli nella galleria lunga, gli otto pianerottoli e le otto coppe nella scacchiera del bao.» Rimasero in silenzio, indecisi, e si guardarono intorno. «Bene», sbottò lui alla fine. «Visto che sei tanto intelligente, spiega da che parte dobbiamo andare.» «Proviamo la porta a destra.» Seguirono il corridoio di destra per un breve tratto, fino a che non si trovarono di fronte a una parete e a due passaggi laterali identici. «Svoltiamo di nuovo a destra», consigliò Royan. ma quando arrivarono a un altro bivio a T, Nicholas si fermò e si voltò a guardarla. «Sai che cos'è questo, vero?» chiese. «È un altro dei trucchi di Taita. Un labirinto. Ci ha condotti in un labirinto. Se non fosse per il cavo, ci saremmo già persi.» Royan guardò con aria pensierosa il corridoio che avevano percorso, quindi i due inesplorati a destra e a sinistra. «Quando lo costruì, Taita non poteva prevedere l'avvento dell'elettricità; supponeva che gli eventuali profanatori di tombe fossero equipaggiati come lui. Pensa un po', trovarsi intrappolati qui dentro senza un cavo da poter seguire per tornare al punto di partenza», mormorò Nicholas. «Immagina di avere solo una lampada a olio. Che cosa succederebbe quando l'olio finisse e ti ritrovassi persa nel buio più assoluto?» Royan rabbrividì e gli si aggrappò al braccio, «È spaventoso!» «Taita incomincia a giocare duro», commentò Nicholas. «E pensare che quel vecchio briccone mi stava diventando simpatico...» Lei rabbrividì di nuovo. «Torniamo indietro», bisbigliò. «Non avremmo dovuto precipitarci qui dentro. Dobbiamo tornare indietro e riflettere. Siamo impreparati, e ho idea che intorno a noi aleggi un pericolo... Intendo un pericolo vero, come nella galleria lunga.» Mentre s'incamminavano per tornare, raccogliendo via via il cavo elettrico, la tentazione di correre diventò più forte a ogni passo. Royan teneva stretto il braccio di Nicholas. Entrambi avevano la sensazione che una presenza intelligente e malefica li seguisse nell'oscurità e li spiasse, attendendo il momento di agire.
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Il camion militare che trasportava Tessay riattraversò il villaggio di Debra Mariani, svoltò e s'immise sulla pista che seguiva verso valle il Dandera in direzione della scarpata della gola dell'Abay. «Non è la strada per il comando», disse Tessay al tenente Hammed, che si agitò irrequieto sul sedile. «Il colonnello Nogo non è al comando. Ho l'ordine di portarla in un altro posto.» «Ce n'è uno solo in questa direzione», disse lei. «La base della società di prospezione... la Pegasus.» «Il colonnello la usa come base avanzata nella campagna contro gli sciftà della valle», spiegò il tenente. «È là che devo condurla.» Non parlarono più durante il lungo percorso accidentato. Era quasi mezzogiorno quando arrivarono al ciglio della scarpata; al bivio presero la pista che conduceva al campo della Pegasus. Le guardie in tenuta mimetica salutarono quando riconobbero Hammed. Il camion varcò il cancello e si fermò davanti a una delle baracche. «Aspetti qui, prego.» Hammed entrò, e uscì dopo pochi minuti. «Mi segua, signora Sole.» Sembrava imbarazzato. Evitò di guardarla negli occhi quando l'aiutò a scendere. La scortò alla porta e si fece da parte per lasciarla passare. Tessay si guardò intorno e comprese che quello era il centro amministrativo della compagnia. Un tavolo per le conferenze occupava quasi tutta la lunghezza, e contro le pareti laterali c'erano diversi schedari e due scrivanie. L'arredamento spartano era completato da una mappa della zona e da alcuni grafici di carattere tecnico. Al tavolo erano seduti due uomini che Tessay riconobbe immediatamente. Il colonnello Nogo alzò la testa. I suoi occhi erano freddi dietro le lenti dalla montatura metallica. Come sempre indossava un'uniforme impeccabile, ma era a testa scoperta. Il berretto marrone era sul tavolo. Jake Helm stava appoggiato alla spalliera della sedia e teneva le braccia conserte. A prima vista, i capelli cortissimi lo facevano sembrare un ragazzo: solo quando lo guardò meglio, Tessay si accorse che aveva la pelle grinzosa e zampe di gallina agli angoli degli occhi. Portava una camicia aperta e un paio di jeans molto scoloriti. La fibbia della cintura era indiana e aveva la forma d'una testa di mustang. Le maniche della camicia di cotone erano rimboccate e lasciavano scoperti i bicipiti. Mordicchiava il Wilbur Smith
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mozzicone spento di un cigarillo olandese, e l'odore forte del tabacco era fastidioso. «Bene, tenente.» Nogo congedò Hammed in amharico. «Aspetti fuori. La chiamerò quando avrò bisogno di lei.» Non appena Hammed fu uscito, Tessay chiese: «Perché mi ha fatta arrestare, colonnello Nogo?» Nessuno dei due uomini rispose. La guardarono, impassibili. «Esigo di conoscere la ragione di questo trattamento», insistette lei. «E in combutta con una banda di terroristi pericolosi», disse Nogo a voce bassa. «Le sue azioni l'hanno fatta diventare una di loro... una sciftà.» «Non è vero.» «È entrata abusivamente in una concessione mineraria nella valle dell'Abay», intervenne Helm. «E lei e i suoi complici avete avviato scavi minerari nella zona che appartiene a questa compagnia.» «Non sono scavi minerari», protestò Tessay. «Noi abbiamo informazioni ben diverse. Abbiamo la prova che avete costruito una diga attraverso il Dandera...» «Io non c'entro.» «Allora non nega che esiste una diga...» «Io non c'entro», ripeté lei. «Non faccio parte di nessun gruppo terrorista e non ho preso parte a operazioni minerarie.» I due tacquero di nuovo. Nogo annotò qualcosa su un taccuino che aveva davanti. Helm si alzò e si avvicinò alla finestra dietro la spalla destra di Tessay. Il silenzio continuò fino a che lei non lo sopportò più, sebbene sapesse che faceva parte della guerra dei nervi. «Ho viaggiato quasi tutta la notte su un camion militare», disse. «Sono stanca e ho bisogno di andare al gabinetto.» «Se è tanto urgente può farla anche lì. Io e il signor Helm non ci offenderemo.» Nogo ridacchiò in modo sorprendentemente femminile, senza alzare gli occhi dal taccuino. Tessay girò la testa verso la porta, ma Helm andò a chiuderla a chiave. Poi mise la chiave in tasca. Lei sapeva che non doveva mostrarsi debole di fronte a quei due: per quanto fosse stanca e spaventata e si sentisse scoppiare la vescica, simulò un'aria sicura, scostò una sedia dal tavolo e sedette. Nogo la guardò e aggrottò la fronte. Non si era aspettato quella reazione. «Lei conosce il bandito sciftà Mek Nimmur», disse in tono d'accusa. Wilbur Smith
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«No», rispose freddamente Tessay. «Io conosco il patriota e leader democratico Mek Nimmur. Non è uno sciftà.» «Lei è la sua concubina, la sua puttana. Questo lo ammetterà.» Tessay distolse lo sguardo con espressione sdegnata e Nogo alzò la voce. «Dov'è Mek Nimmur? Quanti uomini ci sono con lui?» La compostezza di Tessay cominciava a esasperarlo. Lei ignorò la domanda e Nogo fece una smorfia disgustata. «Se non collabora con noi dovrò servirmi di metodi più energici per costringerla a rispondere», l'avvertì. Tessay si girò a guardare dalla finestra. Nel lungo silenzio che seguì, Jake Helm attraversò la stanza e aprì la porta alle spalle di Nogo. Uscì e la richiuse. Le pareti della baracca erano sottili e Tessay sentì il brusio delle voci nella stanza accanto. La cadenza e l'inflessione non erano né inglesi né amhariche. Parlavano in un'altra lingua. Immaginò che Helm ricevesse istruzioni da un superiore che non voleva correre il rischio di essere riconosciuto da lei in seguito. Dopo qualche minuto, Helm rientrò e chiuse la porta senza girare la chiave. Poi fece un cenno a Nogo, che subito si alzò. Tutti e due si avvicinarono. «Credo sia meglio per tutti farla finita in fretta», disse Helm a voce bassa. «Poi lei potrà andare in bagno e io a fare colazione.» Tessay alzò il mento e lo fissò con aria di sfida, senza rispondere. «Il colonnello Nogo ha cercato d'essere ragionevole. È vincolato dalla sua posizione ufficiale. Per fortuna io non ho questi limiti. Le farò le stesse domande, ma questa volta risponderà.» Si tolse dalla bocca il cigarillo spento e lo esaminò. Lo buttò in un angolo, e prese dalla tasca un portasigari. Ne scelse uno e tenne accostato il fiammifero sino a quando non si accese. Poi, in una nube di fumo pungente, spense il fiammifero e chiese: «Dov'è Mek Nimmur?» Lei alzò le spalle e volse lo sguardo alla finestra della baracca. All'improvviso, Helm le sferrò uno schiaffo. Fu un colpo rabbioso, così forte da farle girare la testa. Poi, prima che Tessay potesse riprendersi, le tirò un pugno alla mascella, ributtandole la testa all'indietro nella direzione opposta e facendola cadere dalla sedia. Nogo si chinò, le afferrò le braccia, gliele torse dietro la schiena. La risollevò a sedere e rimase in piedi dietro di lei, tenendola con tanta forza Wilbur Smith
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che Tessay sentì la pelle illividirsi sotto quella stretta. «Non ho tempo da perdere», sibilò Helm. Si tolse dalle labbra il cigarillo e ne esaminò la punta ardente. «Ricominciamo. Dov'è Mek Nimmur?» Tessay aveva l'impressione che il timpano destro si fosse spaccato per la violenza dei colpi. Le orecchie le ronzavano. I denti erano affondati per metà nella carne all'interno della guancia e la bocca si andava riempiendo di sangue. «Dov'è Mek Nimmur?» ripeté Helm, chinandosi su di lei. «Che cosa fanno i suoi amici alla diga sul Dandera?» Tessay raccolse in bocca il sangue e la saliva e gli sputò in faccia. Helm indietreggiò di scatto e si asciugò gli occhi con il palmo della mano. «La tenga ferma!» disse a Nogo. Le afferrò la camicetta e la strappò fino alla cintura. Nogo ridacchiò e si sporse per guardarle i seni. Ridacchiò ancora quando Helm ne cinse uno con la mano e strizzò il capezzolo fra pollice e indice. Aveva il colore violaceo d'una mora matura. Continuò a tenerla così, stringendo con le unghie fino a che la pelle si lacerò e una goccia di sangue gli scorse sul pollice. Con l'altra mano si tolse dalle labbra il cigarillo acceso e soffiò sulla brace. «Dov'è Mek Nimmur?» chiese, avvicinandole il cigarillo al seno. «Che fanno sul Dandera?» Tessay spalancò gli occhi, inorridita, mentre Helm accostava il cigarillo. Cercò di evitarlo, ma Nogo continuò a tenerla ferma. Gettò un urlo terribile e prolungato quando la brace le toccò la punta del capezzolo e la pelle delicata si coprì di vesciche. «'Inverno'», annunciò Royan, mentre sistemava l'ingrandimento del quarto lato della stele della tomba di Tanus sotto la luce viva del riflettore. «È il lato che contiene le notazioni di Taita, quelle che secondo me si riferiscono alla scacchiera del bao. Non le capisco tutte... Con un processo d'eliminazione però ho accertato che il primo simbolo denota uno dei quattro lati, o 'castelli', come li chiama Taita.» Mostrò le pagine del quaderno che conteneva i suoi calcoli. «Vedi? Il babbuino seduto è il castello del nord, l'ape è il sud, l'uccello è l'ovest e lo scorpione l'est.» Indicò gli stessi simboli sulla fotografia della stele. «La seconda e la terza figura sono numeri. Credo che designino la fila e la coppa. Con questi dati, possiamo seguire i movimenti delle sue Wilbur Smith
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immaginarie pietre rosse. Il rosso è il colore più importante del gioco.» «E i versetti fra una serie di notazioni e l'altra?» chiese Nicholas. «Questo, per esempio: Il vento del nord e la tempesta....?» «Non sono sicura. Conoscendo Taita, sono incline a pensare che siano cortine fumogene. Non è il tipo che pensa a renderci la vita più facile. Forse hanno un significato, ma possiamo sperare di comprenderli solo seguendo le mosse dei nostri pezzi.» Nicholas studiò per qualche istante le figure, poi sorrise malinconicamente. «Pensa quanto era remota la possibilità che qualcuno riuscisse a decifrare gli indizi lasciati da lui. La prima condizione è che il ricercatore abbia accesso a entrambe le cronache, il settimo papiro e la stele di Tanus, prima di avere la possibilità di comprendere la chiave per trovare la tomba.» Royan rise, un suono gutturale e soddisfatto. «Sì, doveva essere convinto di non correre rischi. Bene, mastro Taita, vedremo quanto sei furbo.» Poi ridivenne seria e sbrigativa, e alzò gli occhi verso la scala di pietra che conduceva al labirinto di Taita. «Ora dobbiamo vedere se i miei calcoli e le mie teorie corrispondono alle sue soluzioni architettoniche. Dobbiamo incominciare da qui.» «All'inizio», suggerì Nicholas, «il dio compie la prima mossa: così ci ha detto Taita. Se incominciamo dal sacello di Osiride, ai piedi della scala, forse questo ci darà l'allineamento dell'immaginaria scacchiera del bao.» «Ho avuto la stessa idea», convenne Royan. «Poniamo che questo sia il castello nord di Taita. Allora possiamo proseguire secondo il protocollo dei Quattro Tori.» Ricostruire il modo di pensare dell'antico scriba, sondando il labirinto di passaggi e corridoi che egli aveva costruito quasi quattromila anni prima, era un lavoro lento e impegnativo. Questa volta si mossero nel labirinto con maggiore circospezione. Nicholas s'era riempito le tasche con pezzetti di argilla bianca, e li usava a mo' di gessetti per scrivere sulle pareti di pietra a ogni ramificazione dei corridoi. Trasponeva le notazioni dalla faccia «inverno» della stele e collocava segnali che permettevano loro non solo di destreggiarsi nel labirinto, ma anche di porlo in relazione con il modello che Royan disegnava via via sul quaderno. La prima ipotesi, e cioè che il sacello di Osiride corrispondesse al castello nord, sembrava esatta. Allora, per qualche tempo, s'illusero che Wilbur Smith
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con quella chiave sarebbe stato semplice seguire fino alla conclusione le mosse della partita. Ma le loro speranze s'infransero quando si resero conto che Taita non pensava secondo le due dimensioni della scacchiera tradizionale e ne aveva aggiunto una terza. La scala che saliva dal sacrario di Osiride non era l'unico collegamento fra gli otto pianerottoli. Ogni corridoio che se ne allontanava scendeva o saliva. Così, mentre seguivano le giravolte di uno dei passaggi, non notarono il fatto che stavano cambiando livello fino a quando non si ritrovarono sì sulla scala centrale... ma su un pianerottolo più in alto di quello da cui erano partiti. Si fermarono e si scambiarono un'occhiata incredula. Royan fu la prima a parlare. «Non mi ero neppure accorta che stavamo salendo», mormorò. «E tutto molto più difficile di quanto avessi immaginato.» «Deve essere costruito come uno dei modelli nucleari di certi complessi composti del carbonio», riconobbe Nicholas. «Ci sono collegamenti con tutti gli otto piani. Be', per essere sincero, è una cosa terrificante.» «Finalmente ho un'idea di ciò che significano i simboli estranei», mormorò Royan. «Indicano i livelli. Dovremo riconsiderare l'intero svolgimento del gioco.» «Già. Qui si tratta di un bao tridimensionale, giocato secondo regole enigmatiche. Quante possibilità abbiamo contro un maestro del calibro di Taita?» Nicholas scosse la testa. «Ci sarebbe bisogno di un computer. Taita non aveva torto quando vantava le proprie virtù. Quel vecchio briccone era un vero genio della matematica.» Nicholas puntò il fascio luminoso nel corridoio da cui erano arrivati. «Anche quando lo sai, non puoi vedere la pendenza del pavimento. Ha progettato tutto senza neppure un regolo calcolatore o una livella. Il labirinto è un esempio straordinario d'ingegneria.» «Potrai fondare il club degli ammiratori di Taita più tardi», ribatté lei. «Per ora, ricominciamo a macinare numeri.» «Sposterò le luci e le scrivanie sul pianerottolo centrale della scala», annunciò Nicholas. «Credo che dovremmo partire dal centro della scacchiera. Forse ci aiuterà a visualizzarla. Per il momento, Taita mi ha disorientato nel modo più completo.» Nella stanza l'unico suono era il singhiozzare sommesso della donna Wilbur Smith
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raggomitolata sul pavimento in una pozza di sangue e di urina. Seduto al tavolo per le conferenze, Tuma Nogo accese una sigaretta con mani tremanti. Sembrava nauseato. Era un militare e aveva vissuto l'epoca del terrore instaurata da Menghistu. Era un duro, abituato alla violenza e alla crudeltà, eppure la scena cui aveva assistito lo aveva sconvolto. Ora capiva perché von Schiller contava su Helm. Quell'uomo non aveva niente di umano. Jake Helm si stava lavando le mani nella bacinella. Le asciugò con cura, poi cercò di pulire le macchie sui suoi indumenti. Infine tornò verso Tessay e si piantò a gambe larghe di fronte a lei. «Non credo che possa dirci altro», dichiarò con calma. «Penso che non ci abbia nascosto niente.» Nogo guardò la donna e vide le bruciature livide sparse sul petto e sulle guance. Tessay aveva gli occhi chiusi e le ciglia bruciate. Aveva resistito a lungo: solo quando Helm le aveva toccato le palpebre con la brace era crollata e aveva balbettato le risposte. Nogo era nauseato, ma provava sollievo perché non era stato necessario tenerle aperte le palpebre come aveva ordinato Helm e stare a guardare mentre il texano spegneva il cigarillo negli occhi colmi di lacrime. «La sorvegli», ordinò Helm mentre si riabbassava le maniche. «E una dura. Non corra rischi.» Poi gli passò accanto e andò alla porta in fondo alla baracca. La lasciò aperta. Nogo poté sentire le voci, ma parlavano in tedesco e non capì che cosa dicevano. Ora comunque sapeva perché von Schiller aveva preferito non essere presente all'interrogatorio. Conosceva i metodi di Helm. Il texano tornò e fece un cenno a Nogo. «Bene. Abbiamo finito. Sa che cosa deve fare.» Nogo si alzò, nervosamente, e posò la mano sulla fondina della pistola. «Qui?» chiese. «Adesso?» «Non faccia l'idiota», scattò Helm. «La porti via. Lontano. Poi mandi qui qualcuno a pulire.» Girò sui tacchi e tornò nell'altra stanza. Nogo si scosse e andò alla porta della baracca. Passò lontano da Tessay per non sporcarsi gli stivali da paracadutista. «Tenente Hammed!» chiamò. Hammed e Nogo rimisero in piedi Tessay. Nessuno dei due parlò mentre le rimettevano addosso gli indumenti strappati e insanguinati. Hammed distolse gli occhi dalle ustioni e dalle lesioni che le deturpavano la pelle Wilbur Smith
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ambrata. Le drappeggiò lo shamma sulle spalle e la condusse verso la porta. Quando lei barcollò, la sorresse con una mano sotto il gomito. La condusse al camion. Tessay si muoveva piano, come una vecchia. Sedette al posto del passeggero, coprendosi con le mani il viso gonfio e bruciacchiato. Nogo chiamò Hammed con un cenno del capo e lo prese in disparte. Gli parlò sottovoce; il tenente ascoltò gli ordini e sul suo viso apparve un'espressione di sconcerto e di orrore. A un certo punto cominciò addirittura a protestare, ma Nogo lo interruppe rabbiosamente. Allora Hammed si morse le labbra e tacque. «Ricordi!» ripeté Nogo. «Molto lontano dai villaggi. Si assicuri che non ci siano testimoni e torni immediatamente a fare rapporto.» Hammed raddrizzò le spalle e salutò militarmente prima di tornare al camion. Salì accanto a Tessay e diede un ordine brusco all'autista. Uscirono dal campo e seguirono la pista in direzione di Debra Mariani. Confusa e sofferente, Tessay aveva perduto il senso del tempo. Semi svenuta, sobbalzava sul sedile quando il camion percorreva un tratto particolarmente dissestato, e la testa le ondeggiava avanti e indietro. Il viso era così gonfio che doveva fare uno sforzo per aprire le palpebre; quando poi lo faceva, aveva l'impressione che la vista la tradisse e che stesse per diventare cieca. D'un tratto si rese conto che il sole era tramontato ed era scesa l'oscurità. Doveva aver passato tutto il giorno nella baracca. Provava un vago sollievo al pensiero che le ustioni alle palpebre non avevano causato altri danni. Almeno era ancora in grado di vedere. Sbirciò dai finestrino e notò, nella luce dei fari, che la strada le era sconosciuta. «Dove mi porta?» mormorò. «Non stiamo ritornando al villaggio.» Il tenente Hammed, seduto accanto a lei, non rispose. Tessay ripiombò nello stordimento della sofferenza. Si riprese con un sussulto quando il camion frenò e l'autista spense il motore. Qualcuno la trascinò di peso a terra, nella luce dei fari. Poi le legò i polsi dietro la schiena con una striscia di cuoio. «Mi fate male», gemette. «Mi tagliate i polsi.» Era allo stremo delle forze e del coraggio. Si sentiva sconfitta, senza più energie. Uno dei soldati la strattonò per le mani legate e la spinse lontano dalla strada. Altri due la seguirono. Ognuno di loro portava attrezzi per scavare. La luce della luna era abbastanza viva per rivelare un boschetto di eucalipti a un centinaio di metri dalla pista. La condussero là. Wilbur Smith
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La spinsero a terra ai piedi di un albero e il soldato che le aveva legato i polsi le rimase accanto. Con una mano le puntava contro il fucile, con l'altra fumava una sigaretta. Gli altri posarono le armi e cominciarono a scavare. Sembrava che si disinteressassero di Tessay; parlavano del campionato panafricano di calcio che si svolgeva a Lusaka e della possibilità che la nazionale etiope arrivasse in finale. Solo dopo un po', nella mente confusa di Tessay si affacciò il sospetto che stessero scavando una tomba per lei. La bocca ferita s'inaridì. Si guardò intorno, disperata, per cercare il tenente Hammed, ma questi era rimasto sul camion. «Per favore...» mormorò al suo guardiano, tuttavia, prima che potesse aggiungere altro, l'uomo le sferrò un calcio nel ventre. «Zitta!» disse, usando il termine spregiativo che si applicava agli animali o a una persona d'infimo ordine. Raggomitolata a terra, Tessay si rese conto che era inutile insistere. La debolezza e la rassegnazione la sopraffecero. Cominciò a piangere in silenzio nell'oscurità. Quando alzò di nuovo gli occhi gonfi, nel chiaro di luna vide che la fossa era ormai molto profonda, tanto che i due uomini ancora occupati a scavare erano invisibili. Le badilate di terra volavano dal bordo e piovevano sul mucchio sempre più alto. La guardia la lasciò per un momento e andò a vedere. Poi borbottò: «Bene, è abbastanza profonda. Chiamate il tenente». I due soldati uscirono dalla fossa, raccolsero gli attrezzi e le armi e sparirono nel boschetto in direzione del camion, lasciando soli Tessay e l'uomo che la sorvegliava. Tessay tremava di freddo e di terrore. La guardia stava acquattata sul bordo della fossa e continuava a fumare. Pensò che, se fosse riuscita ad alzarsi, avrebbe potuto farlo cadere nella fossa con un calcio e fuggire tra gli alberi. Tuttavia, quando cercò di mettersi a sedere, capì di avere mani e piedi intorpiditi. Provò a muoversi, ma in quel momento sentì il tenente Hammed che arrivava dalla direzione del camion, e si riabbandonò, disperata. Hammed aveva una torcia elettrica. Puntò il fascio luminoso nella fossa. «Bene», disse a voce alta. «È abbastanza profonda.» Spense la torcia e si rivolse all'uomo che sorvegliava Tessay. «Nessun testimone», disse. «Vai ad aspettare vicino al camion. Quando sentirai gli Wilbur Smith
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spari, torna con gli altri per aiutarmi a riempire la buca». La guardia si appese il fucile alla spalla e sparì fra gli alberi. Hammed attese che si fosse allontanato, poi si accostò a Tessay e la rimise in piedi. La spinse verso l'orlo della fossa e Tessay sentì che stava cercando di toglierle gli indumenti. Cercò di reagire, ma aveva ancora le mani legate dietro la schiena. «Mi serve lo shamma.» Hammed le tolse lo scialle di lana bianca, lo portò accanto alla tomba e balzò giù. Lei lo sentì muoversi sul fondo. Poi un sussurro: «Devono vedere qualcosa. Un corpo...» Risalì accanto a lei, sbuffando per la fatica. Tessay sentì il freddo di una lama contro i polsi mentre il tenente tagliava la striscia di cuoio. Si ritrovò con le mani libere e soffocò un'esclamazione di dolore quando il sangue riprese a circolare nelle mani intorpidite. «Che cosa fa?» mormorò confusa. Guardò nella fossa e vide lo shamma disposto in modo da sembrare un corpo umano. «Che cosa...» «Non parli», le ordinò sottovoce Hammed, posandole una mano sulla spalla. Quindi la ricondusse tra gli alberi e bisbigliò: «Si sdrai». La spinse al suolo, con la faccia in giù, e incominciò a coprirla con foglie morte e rami caduti. «Resti qui! Non cerchi di fuggire. Non si muova e non parli prima che ce ne siamo andati.» Puntò per un momento la torcia sul mucchio di rami per assicurarsi che la donna fosse nascosta, poi la lasciò e tornò alla fossa. Giunto lì, aprì la fondina della pistola. Due spari echeggiarono nella notte, così forti e inaspettati che Tessay sobbalzò. Il cuore prese a batterle all'impazzata. Poi sentì il grido di Hammed. «Venite qui! Facciamola finita.» Gli uomini tornarono nel boschetto e Tessay udì il rumore dei badili e il tonfo delle zolle che cadevano nella fossa. «Non riesco a vedere quello che faccio, tenanti», protestò una voce. «Dov'è la sua torcia elettrica?» «Non hai bisogno della luce per riempire una fossa», ringhiò Hammed. «Continuate a lavorare. E calpestate bene la terra. Non voglio che qualcuno s'insospettisca.» Tessay restò immobile, cercando di dominare il tremito convulso che la scuoteva. Finalmente il suono delle badilate cessò, e si levò di nuovo la voce di Hammed. Wilbur Smith
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«Basta così. Assicuratevi di non aver dimenticato niente. Tornate sul camion!» I passi e le voci si spensero in lontananza. Poi il motore del camion si accese. I fari brillarono fra gli alberi quando il veicolo fece marcia indietro e poi ripartì nella direzione da cui era arrivato. Per molto tempo, dopo che il rombo cessò, lei rimase sotto il mucchio di rami morti. Tremava per il freddo e piangeva in silenzio per lo sfinimento, la sofferenza e il sollievo. Poi scostò lentamente i rami, si trascinò fino al tronco dell'albero più vicino, si aggrappò per alzarsi e restò così, barcollando nell'oscurità. In quel momento il rimorso l'assalì. «Ho tradito Mek», pensò. «Ho detto tutto ai suoi nemici. Devo metterlo in guardia. Devo tornare da lui e avvertirlo.» Si allontanò dal tronco dell'albero e, a tentoni, si avviò nell'oscurità verso la pista. C'era un solo modo per accertare se avevano risolto l'enigma dei codici di Taita: fare le mosse che lo scriba aveva elencato. Nicholas e Royan si spostarono allora cautamente nei corridoi del labirinto, misurarono le mosse e le tracciarono con il gesso sulle pareti. Sulla faccia «inverno» della stele c'erano diciotto mosse. Usarono la prima interpretazione dei simboli data da Royan e riuscirono ad avanzare per dodici mosse, cioè fino a quando non si trovarono in un vicolo cieco del labirinto, di fronte a una parete. «Dannazione!» Nicholas tirò un calcio alla parete e poi le lanciò contro il pezzo di gesso bianco. «Vorrei poter mettere le mani su quel vecchio diavolo. La castrazione sarebbe l'ultima delle sue preoccupazioni.» «Mi dispiace.» Royan si scostò i capelli dagli occhi. «Credevo di aver capito. Devono essere i numeri della seconda colonna. Dovremo invertirli.» «Saremo costretti a ricominciare», gemette Nicholas. «Dal principio», confermò Royan. «Come faremo ad accorgercene, quando avremo finalmente capito?» «Ce ne accorgeremo se seguiamo gli indizi e arriviamo a una delle combinazioni vincenti, un equivalente dello scacco matto esattamente alla diciottesima mossa. Dopo quella, non ci saranno altre mosse logiche, e potremo presumere di aver fatto i calcoli nel modo giusto.» Wilbur Smith
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«E che cosa troveremo, se mai raggiungeremo quella posizione?» «Te lo dirò allora.» Royan sorrise soavemente. «Coraggio, Nicky. Abbiamo appena incominciato.» Royan invertì i valori dei secondi e dei terzi numeri delle notazioni di Taita, interpretando uno come il valore della coppa e l'altro come il valore della fila. Questa volta completarono appena cinque mosse prima di restare bloccati. «Forse le nostre ipotesi sul fatto che il terzo simbolo possa rappresentare il cambiamento di livello sono inesatte», suggerì Nicholas. «Ricominciamo e assegniamogli il secondo valore.» «Nicky, ti rendi conto del numero delle combinazioni possibili con tre variabili?» Royan incominciava a nutrire qualche dubbio. «Taita dà per scontata una conoscenza diretta e approfondita del gioco, mentre noi ne abbiamo solo un'idea molto schematica. È come se un gran maestro cercasse di spiegare a un novellino le complicazioni della difesa indiana di re.» «E per giunta in russo !» commentò Nicholas. «Con questo ritmo non concluderemo qualcosa molto in fretta. Deve esserci un altro modo per affrontare il problema. Esaminiamo ancora gli epigrammi che Taita ha inserito fra le notazioni.» «D'accordo. Io leggo, e tu ascolti.» Royan si chinò sugli appunti. «Il guaio è che una variazione sottile della traduzione potrebbe cambiare il senso. Taita amava i giochi di parole, e un gioco di parole può incentrarsi anche su una sola parola. Quindi basta sbagliare l'interpretazione di quella parola per non capirci più niente.» «Proviamo comunque», l'incoraggiò Nicholas. «Ricorda che neppure Taita aveva mai giocato a bao in tre dimensioni. Se avesse lasciato un indizio, lo avrebbe messo all'inizio della stele. Concentrati sulla prima coppia di notazioni e sugli epigrammi che le separano.» «D'accordo, proviamo», disse Royan. «La prima notazione è l'ape seguita dai numeri cinque e sette e dal sistro.» Nicholas sorrise. «Bene. L'ho sentito ripetere tante volte che non lo dimenticherò mai. E poi che cosa viene?» «La prima citazione.» Royan passò l'indice sui geroglifici. «Ciò cui si può dare un nome può essere conosciuto. Ciò che non ha nome può solo essere sentito. Io navigo con la marea dietro di me e il vento in faccia. Oh, mia amata, il tuo sapore è dolce sulle mie labbra.» Wilbur Smith
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«È tutto?» chiese lui. «Sì. Poi c'è la notazione successiva. Lo scorpione, i numeri due e tre e di nuovo il sistro.» «Piano, piano! Andiamo con ordine. Che cosa possiamo dedurre dalla navigazione e dall'amata?» Continuarono a lottare con il testo della stele fino a quando, con gli occhi che bruciavano, non si accorsero di aver perduto il senso del giorno e della notte. Furono richiamati alla realtà dalla voce di Sapper che echeggiava nella scala. Nicholas si alzò e si stiracchiò prima di guardare l'orologio. «Le otto. Ma non so se del mattino o della sera.» Trasalì quando Sapper salì la scala, e vide che la testa calva era lucida e la camicia era fradicia. «Che ti è successo?» chiese Nicholas. «Sei caduto nell'inghiottitoio?» Sapper si passò sulla faccia il palmo della mano. «Non ve l'ha detto nessuno? Fuori piove a dirotto.» Lo fissarono inorriditi. «Così presto?» mormorò Royan. «Dovrebbe cominciare a piovere solo fra qualche settimana.» Sapper alzò le spalle. «Qualcuno ha dimenticato di dirlo ai meteorologi.» «In che condizioni è il fiume?» chiese Nicholas. «Il livello ha incominciato a salire?» «Sono appunto venuto a dirvelo. Vado alla diga e porto con me i Bufali. Voglio tener d'occhio lo sbarramento. Non appena sarà minacciato manderò un messaggero ad avvertirvi. E quando lo farò, non state a discutere. Andate via in fretta. Vorrà dire che mi aspetto il cedimento della diga da un minuto all'altro.» «Non portare con te Hansith», ordinò Nicholas. «Mi serve qui.» Quando Sapper se ne fu andato, portando con sé quasi tutti gli operai, Royan e Nicholas si guardarono in faccia. «Il tempo stringe, e Taita continua a prenderci in giro», disse Nicholas. «Devo avvertirti di una cosa. Quando il fiume comincerà a salire...» Lei l'interruppe. «Il fiume!» esclamò. «Non è il mare! avevo sbagliato la traduzione. L'ho letto come 'marea'. Pensavo che Taita alludesse al mare, ma in realtà deve significare 'corrente'. Gli egizi non facevano distinzioni fra le due parole.» Wilbur Smith
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Si precipitarono di nuovo alla scrivania e ai quaderni. «... la corrente dietro di me e il vento in faccia», lesse Nicholas, cambiando la citazione. «Sul Nilo», disse soddisfatta Royan, «il vento prevalente soffia sempre dal nord, la corrente viene sempre dal sud. Taita guardava a nord. Il castello del nord.» «Avevamo presunto che il simbolo del nord fosse il babbuino», le ricordò Nicholas. «No! Avevo torto.» Il viso di Royan era illuminato dall'ispirazione. «Oh, mia amata, il tuo sapore è dolce sulle mie labbra. Il miele! L'ape! Avevo invertito i simboli del nord e del sud.» «E l'est e l'ovest? Che cosa possiamo trovare?» Nicholas esaminò i testi con entusiasmo rinnovato. «I miei peccati sono rossi come corniole. Mi legano come catene di bronzo. Mi trafiggono il cuore con il fuoco e io volgo gli occhi verso la stella della sera.» «Non capisco...» «'Trafiggere' è la traduzione sbagliata.» Nicholas quasi balbettava. «Dovrebbe essere 'pungere'. Lo scorpione guarda verso la stella della sera, e la stella della sera è sempre a ovest. Lo scorpione è il castello dell'ovest, non dell'est.» «Avevamo rovesciato la scacchiera.» Royan si alzò di scatto. «Proviamo a giocare così.» «Non abbiamo ancora determinato i livelli», obiettò Nicholas. «Il sistro è il livello superiore? O sono le tre spade?» «Adesso che siamo arrivati alla svolta decisiva, è l'unica variabile. O abbiamo ragione o abbiamo torto. Prima considereremo il sistro come livello superiore; se questo non funziona, potremo giocare nell'altro modo.» Adesso l'impresa era più facile. Per Nicholas e Royan il labirinto cominciava a essere un luogo familiare. C'erano i grandi segni tracciati con il gesso bianco da Nicholas a ogni angolo, a ogni biforcazione e a ogni congiunzione a T dei corridoi. Si mossero rapidamente lungo le complesse giravolte, sempre più emozionati via via che seguivano le notazioni e continuavano a trovare via libera, «La diciottesima mossa.» A Royan tremava la voce. «Fai gli scongiuri. Se ci porta in una delle file aperte che minacciano il castello del sud nemico, sarà la mossa dello scacco matto.» Sospirò e lesse. «L'uccello. I Wilbur Smith
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numeri tre e cinque, con il simbolo delle tre spade per indicare il livello inferiore.» Procedettero e superarono le cinque biforcazioni al livello più basso del labirinto, leggendo la posizione in base ai segni di gesso sulle pareti di pietra. «Ecco, ci siamo!» esclamò Nicholas. Si fermarono e si guardarono intorno. «Questo posto non ha niente di particolare.» Il tono di Royan era deluso. «Ci siamo passati già cinquanta volte...» «È esattamente ciò che voleva Taita, no? Diavolo, non avrebbe certo messo un cartello con la scritta: LA X INDICA IL PUNTO IN CUI SCAVARE. Ti sembra?» «Allora che cosa facciamo?» Royan lo guardò. Era incerta, smarrita. «Leggi l'ultimo epigramma della stele.» Lei consultò il quaderno che aveva in mano. «Dalla sacra terra nera del mio Egitto il raccolto è abbondante. Io sferzo i fianchi del mio asino, e il vomere di legno dell'aratro dissoda nuovo terreno. Io pianto il seme e vendemmio l'uva e raccolgo le spighe di grano. A suo tempo bevo il vino e mangio il pane. Io seguo il ritmo delle stagioni e coltivo la terra.» Alzò gli occhi verso Nicholas. «Il ritmo delle stagioni? Allude alle quattro facce della stele? La terra?» Abbassò lo sguardo sulle lastre di pietra ai suoi piedi. «La promessa della ricompensa viene dalla terra? Forse sotto i nostri piedi?» chiese. Nicholas batté sulle lastre, ma il suono era sordo, solido. «C'è solo un modo per scoprirlo.» Alzò la voce che echeggiò in modo strano nel labirinto. «Hansith! Venga qui!» Sotto la pioggia, dall'alto del sedile del trattore giallo, Sapper maledisse cordialmente la squadra dei Bufali, sicuro che nessuno di loro capiva una sola parola dei suoi insulti. La pioggia li investiva a scrosci intermittenti. Non era ancora l'acquazzone incessante della vera stagione umida, ma il fiume saliva, imbronciato, si colorava di grigi azzurro sporco per il fango e i sedimenti che trascinava con sé. Tuttavia Sapper era consapevole che quella non era la vera piena. Il tuono aveva ruggito minaccioso lungo le vette montane come un branco di leoni in caccia, ma era stato solo il preludio dell'immane aggressione dei cieli. Wilbur Smith
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Sebbene il fiume lambisse il corso più alto dei gabbioni e rombasse deviando nella valle laterale, la diga di Sapper lo teneva ancora a bada. I suoi Bufali ammassavano altre ceste di pietrisco usando l'ultima rete metallica rimasta nel deposito della cava. Non appena un gabbione veniva riempito e chiuso, Sapper lo caricava sulla pala del trattore e lo portava giù per l'argine del Dandera. Rinforzò tutti i punti deboli della diga, e prese a innalzare un altro corso. Si rendeva conto dell'effetto devastante che il fiume avrebbe esercitato non appena avesse cominciato a tracimare oltre la sommità dello sbarramento: quando fosse accaduto, niente avrebbe potuto resistere alla sua forza. Avrebbe trascinato via un gabbione pieno di roccia come se fosse il ramo morto di un baobab. Sarebbe stata sufficiente una breccia nella diga per farla crollare. Sapper non si faceva illusione sulla rapidità con cui il fiume avrebbe compiuto la sua opera fatale, quindi sapeva di non poter attendere la prima breccia prima di far avvertire Nicholas e Royan. Il fiume poteva battere in velocità qualunque messaggero: quando la diga avesse cominciato a cedere sarebbe stato già troppo tardi. Era una questione di tempestività. Socchiuse gli occhi per proteggerli da un'altra sferzata di pioggia. L'istinto gli suggeriva di far uscire subito Nicholas e Royan dall'abisso. Alla sommità della diga erano rimasti scoperti non più di trenta centimetri. Ma Sapper sapeva anche che Nicholas si sarebbe infuriato se gli avesse comunicato prematuramente di evacuare il cantiere. Era consapevole dei rischi estremi che l'amico aveva affrontato nonché delle spese enormi che aveva sostenuto per arrivare fino a quel punto. Prima di lasciare l'Inghilterra, Nicholas gli aveva accennato alla difficile situazione economica in cui si trovava. Per quanto Sapper non capisse le complicazioni e le responsabilità derivanti dal fatto di essere un name dei Lloyd's, aveva letto quello che la stampa britannica aveva pubblicato sull'argomento. Perciò non poteva ignorare che all'esito negativo di quell'impresa avrebbe corrisposto il fallimento di Nicholas... e Nicholas era suo amico. Lo scroscio di pioggia passò, e il sole caldo e luminoso spuntò fra i bassi banchi di nubi. Il flusso del fiume sembrava immutato, ma almeno il livello dell'acqua non saliva più. «Aspetterò un'altra ora», borbottò. Innestò la marcia del trattore e scese Wilbur Smith
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lungo la riva per collocare un altro gabbione. Nicholas lavorava con gli uomini di Hansith che avevano cominciato a rimuovere le lastre dal pavimento del livello inferiore del labirinto. La commessure fra le lastre erano così perfette che, anche usando i piedi di porco, faticavano a staccarle. Per risparmiare tempo, Nicholas decise di avventurarsi in una ricerca distruttiva. Affidò a quattro degli uomini più forti della squadra altrettanti magli fabbricati per l'occasione con grossi pezzi di pietra ferrosa fissati a manici di legno. Provava rimorso per il danno che causava, ma così il lavoro procedeva molto più in fretta. L'euforia e l'entusiasmo degli uomini si stavano spegnendo. Avevano lavorato troppo a lungo entro i confini opprimenti del labirinto, e tutti sapevano che il livello del fiume stava salendo all'inizio della gola e che una minaccia mortale incombeva dietro quelle acque. Erano cupi e imbronciati, e ridevano e parlavano pochissimo: ma Nicholas era preoccupato soprattutto perché, all'inizio del turno, Hansith gli aveva segnalato le prime diserzioni. Sedici dei suoi uomini infatti non si erano presentati al lavoro. Durante la notte avevano arrotolato le coperte e, dopo aver preso tutti gli oggetti utili o di valore che avevano trovato nel campo, si erano dileguati nell'oscurità. Nicholas sapeva che era mutile mandare qualcuno a cercarli. Avevano troppo vantaggio e ormai dovevano essere arrivati a metà della scarpata. Quella era l'Africa e Nicholas era certo che ormai la piaga della diserzione si sarebbe diffusa molto in fretta. Si sforzò di scherzare e d'incoraggiarli, nascondendo i suoi veri sentimenti. Lavorava e sudava con loro e cercava di fare in modo che restassero. Tuttavia intuiva che, se non avessero scoperto sotto quelle lastre qualcosa che tenesse vivo il loro interesse, avrebbe rischiato di svegliarsi l'indomani e di accorgersi che persino i monaci e il fedele Hansith lo avevano abbandonato. Avevano incominciato a sollevare le lastre nell'angolo del labirinto, procedendo poi in entrambe le direzioni lungo i bracci del corridoio. Provò una stretta al cuore quando spaccarono con i magli un'altra lastra e sotto trovarono soltanto lo strato di roccia, senza che nulla indicasse la presenza di un'apertura. «Non sembra molto promettente», mormorò a Royan mentre si concedeva una breve pausa per bere un sorso d'acqua dalla borraccia. Wilbur Smith
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Anche lei aveva un'aria depressa. «Forse ho sbagliato a interpretare i simboli per i livelli», disse, versandogli l'acqua nelle mani giunte perché potesse ripulirsi la faccia dal sudore e dalla polvere.. «Sarebbe uno scherzo tipico di Taita, elaborare combinazioni che possano dare entrambe una soluzione logica.» Esitò, prima di chiedere un parere. «Credo che dovrei mettermi a lavorare sull'altra combinazione...» La domanda fu interrotta dal grido di Hansith. «In nome della Beata Vergine, effendi, venga qui subito!» Si voltarono nello stesso istante, e Royan lasciò cadere la fiasca che s'infranse ai suoi piedi. Non si era neppure accorta che le aveva bagnato le gambe. Corse da Hansith, che si preparava a sferrare un altro colpo di maglio. «Che c'è...?» S'interruppe quando vide sotto la lastra di pietra che Hansith aveva messo allo scoperto un altro strato di pietre lavorate. Erano disposte ordinatamente sul pavimento del corridoio, da una parete all'altra, incuneate nella roccia circostante, e con le giunture sottilissime. I lati erano lisci e spogli, senza incisioni e senza scritte. «Che cos'è, Nicky?» chiese Royan. «Un altro strato di pavimentazione... o forse nasconde un'apertura», rispose Nicholas. «Non lo sapremo se prima non solleviamo una delle lastre.» Erano troppo spesse e pesanti perché fosse possibile intaccarle con i magli primitivi, anche se Hansith faceva del suo meglio. Alla fine furono costretti a scavare intorno alla prima e a far leva per sollevarla. Ci vollero cinque uomini per estrarla dalle fondamenta. «Sotto c'è un'apertura.» Royan s'inginocchiò per scrutare nello spazio vuoto. «Una specie di pozzo!» Una volta rimossa la prima lastra, fu più facile attaccare le altre che bloccavano il varco rettangolare. Quando le ebbero rimosse tutte, Nicholas puntò il fascio luminoso della lampada nel pozzo buio che si estendeva da una parete del corridoio all'altra, ed era abbastanza alto per permettergli di stare diritto sui gradini che scendevano a un angolo di quarantacinque gradi. «Un'altra scala», esclamò esultante. «Deve essere questa, senza dubbio. Ormai persino Taita dovrebbe aver esaurito tutte le false piste.» Gli operai si erano affollati alle loro spalle. Il malumore era svanito di fronte alla scoperta e alla certezza di altre gratifiche in talleri d'argento. Wilbur Smith
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«Scendiamo?» chiese Royan. «Lo so, dovremmo essere prudenti e accertare che non ci siano trappole. Ma ormai non ci resta molto tempo, Nicky.» «Hai ragione come al solito. E venuto il momento di procedere senza pensare ad altro.» «Al diavolo la prudenza!» rise lei, e gli prese la mano. «Scendiamo insieme.» Scesero a fianco a fianco, un gradino per volta, reggendo la lampada all'altezza della testa mentre le ombre svanivano davanti a loro. «Sul fondo c'è una camera», esclamò Royan. «Sembra un magazzino. Che cosa sono gli oggetti accatastati lungo le pareti? Devono essere centinaia. Bare? Sarcofagi?» Le sagome scure erano quasi umane e stavano schierate intorno alle pareti della camera quadrata. «No, credo che siano cesti di grano, da un lato.» Royan li riconobbe. «E quelli dall'altra parte sembrano anfore da vino. Probabilmente sono offerte per il defunto.» «Se è un magazzino funerario», disse Nicholas con voce soffocata dall'emozione, «ci stiamo avvicinando alla tomba.» «Sì! Guarda! C'è un'altra porta in fondo al magazzino. Illuminala!» Il fascio luminoso investì l'apertura quadrata di fronte a loro. Sembrava quasi chiamarli. Scesero in fretta gli ultimi gradini e si trovarono nel magazzino con le ceste di canne e le anfore. Tuttavia, quando raggiunsero il pavimento, incontrarono una barriera invisibile che li fece fermare di colpo e li costrinse ad arretrare barcollando. «Dio!» Nicholas si portò la mano alla gola e parlò con voce soffocata. «Torna indietro. Devi tornare indietro!» Royan stava cadendo in ginocchio. Anche lei ansimava e stentava a respirare. «Nicky!» Tentò di urlare, ma il respiro era rimasto imprigionato nei polmoni. Era come se un cappio d'acciaio le stringesse il torace e scacciasse l'aria. «Nicky! Aiutami!» Soffocava come un pesce tirato in secca. Le forze le abbandonavano le membra, la vista si oscurava. Non aveva l'energia per restare in piedi. Nicholas si chinò su di lei e cercò di sollevarla, ma era anche lui troppo indebolito. Si sentiva mancare le gambe e non riusciva più a reggersi. Wilbur Smith
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«Quattro minuti», pensò disperatamente. «Ci restano quattro minuti prima della morte cerebrale. Abbiamo bisogno d'aria!» Passò le braccia sotto le ascelle di Royan e le intrecciò le mani sul torace. Cercò nuovamente di sollevarla, però non ne aveva più la forza. Prese ad arretrare verso la scala che avevano disceso così in fretta, ma ogni passo richiedeva uno sforzo enorme. Royan era già priva di sensi, e giaceva inerte nel cerchio delle sue braccia. Le gambe strusciavano sul pavimento di pietra mentre Nicholas la tirava indietro. Lui urtò contro l'ultimo gradino e per poco non cadde. Recuperò l'equilibrio con uno sforzo e trascinò Royan sulla scala con i piedi che scivolavano e urtavano sulla pietra. Avrebbe voluto gridare a Hansith di aiutarlo, ma gli mancava l'aria. «Se la lasci cadere ora, morirà», si disse, e con uno sforzo immane salì altri cinque gradini. I suoi polmoni cercavano affannosamente l'aria preziosa e non la trovavano. Le energie l'abbandonavano a goccia a goccia, la vista si offuscava. «Fammi respirare», implorò. «Dio, ti prego, fammi respirare.» Miracolosamente, come in una risposta alla sua preghiera, sentì l'ossigeno scendergli nella gola ansimante e riempirgli i polmoni. Subito ritrovò le forze; strinse più forte Royan e la sollevò di peso. Reggendola fra le braccia, salì barcollando gli ultimi gradini e si lasciò cadere fuori dell'imboccatura del pozzo, ai piedi di Hansith. «Che c'è, effendi? Che cos'è successo a lei e alla signora?» Nicholas non aveva il fiato per rispondere. Adagiò Royan sul pavimento per farle la respirazione a bocca a bocca e le schiaffeggiò le guance. «Su!» la implorò. «Parla! Dimmi qualcosa!» Lei non reagì e Nicholas s'inginocchiò, le appoggiò la bocca sulla bocca e le soffiò l'aria in gola fino a quando non vide, con la coda dell'occhio, che il petto si sollevava. Indugiò e contò fino a tre. «Ti prego, tesoro. Ti prego, respira!» Il viso di Royan era incolore, sembrava morta. Si curvò su di lei, le riempì di nuovo i polmoni con il suo respiro, e la sentì muoversi. «Così, tesoro!» le disse. «Respira! Respira! Fallo per me!» Quando le insufflò un altro respiro, Royan lo respinse, si sollevò a sedere, stordita, girò lo sguardo sulle facce degli operai che l'attorniavano ansiosamente, e scorse il volto pallido di Nicholas fra i volti neri degli Wilbur Smith
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altri. «Nicky! Che è successo?» «Non so. Ma qualunque cosa fosse, per poco non ci ha uccisi. Come ti senti?» «Mi è sembrato che una mano invisibile mi stringesse la gola e mi strangolasse. Non potevo più respirare. Poi sono svenuta.» «Deve esserci un gas che riempie i livelli più bassi del passaggio. Sei rimasta priva di sensi per meno di due minuti», la rassicurò Nicholas. «Per uccidere il cervello sono necessari quattro minuti di privazione d'ossigeno.» «Ho un mal di testa terribile.» Lei si premette le dita sulle tempie. «Ho sentito una voce che mi chiamava... Tu mi chiamavi 'tesoro'.» Abbassò gli occhi. «È stato un lapsus.» Nicholas l'aiutò ad alzarsi e, per un momento, Royan si abbandonò contro di lui, premendogli contro il petto i seni morbidi e caldi. «Ti ringrazio ancora, Nicky. Sono già in debito con te. Non riuscirò mai a ripagarti.» «Sono sicuro che troveremo un sistema.» All'improvviso, Royan si accorse che tutti gli uomini la guardavano, e si scostò. «Che tipo di gas? E come mai è presente quaggiù? Credi che sia un altro dei trucchi di Taita?» «Probabilmente è un gas della decomposizione», commentò Nicholas. «E se è rimasto intrappolato nella parte più bassa del passaggio, deve essere più pesante dell'aria. Con ogni probabilità è anidride carbonica, anche se potrebbe essere metano. Mi pare che il metano sia più pesante dell'aria, no?» «Taita lo ha fatto di proposito?» Le guance di Royan riprendevano colore. Si andava rianimando in fretta. «Non lo so. Ma i cesti e le anfore sono sospetti. Potrò darti una risposta quando avrò avuto la possibilità di esaminarne il contenuto.» Nicholas le toccò affettuosamente la guancia. «Come ti senti? Come va il mal di testa?» «Sto meglio. E adesso che facciamo?» «Dobbiamo sgombrare la camera dal gas», disse lui. «Al più presto possibile.» Prese una candela dallo zaino per controllare il livello del gas nel pozzo. Wilbur Smith
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Ridiscese i gradini con la candela accesa nella destra, tenendola bassa mentre scendeva un gradino alla volta. La fiammella ardeva vivacemente, e danzava nel movimento dell'aria. Ma poi, al sesto gradino dal fondo della scala, divenne gialla e si spense. Nicholas tracciò un segno sulla parete con il gesso a quel livello e si voltò verso Royan. «Bene, se non altro non è metano. Sono ancora vivo. Dev'essere anidride carbonica.» «Un responso inequivocabile.» Lei rise. «Se esplode, allora è metano.» «Hansith, porti la ventola», gridò Nicholas al monaco. Trattenne il respiro come se nuotasse sott'acqua, portò la ventola ai gradini più bassi e la posò sul pavimento. Regolò la velocità al massimo e risalì in fretta, respirando a pieni polmoni non appena ebbe superato il segno sulla parete. «Quanto ci vorrà per sgombrare il gas?» chiese Royan consultando l'orologio. «Controllerò con la candela ogni quarto d'ora.» Trascorse un'ora prima che il gas si fosse disperso a sufficienza per permettergli di raggiungere di nuovo il pavimento della camera e di respirare. Ordinò a Hansith di portar giù un fascio di legna da ardere e di preparare un fuoco al centro del pavimento di pietra, per riscaldare l'aria e farla circolare più rapidamente. Nicholas e Royan, intanto, esaminarono uno dei cesti allineati contro la parete. «Il vecchio ruffiano era un volpone!» mormorò Nicholas con un tono per metà esasperato e per metà d'ammirazione. «Sembra un miscuglio di letame, erba e foglie morte. Come un mucchio di concime.» Attraversarono la camera, girarono sul fianco una delle anfore di coccio e studiarono la polvere che ne usciva. Nicholas ne raccolse una manciata e la strofinò fra le dita, poi la fiutò cautamente. «È calce», borbottò. «Anche se si è asciugata da secoli e ha perso l'odore, probabilmente Taita l'aveva intrisa di acido. Forse aceto. Ma anche l'urina sarebbe servita allo scopo. L'acido ha disgregato la calce, formando l'anidride carbonica.» «Dunque era un'altra trappola», commentò Royan. «Taita doveva conoscere i processi della decomposizione. Sapeva quali gas sarebbero stati prodotti da questi miscugli. Oltre a tutti gli altri meriti di cui si vanta, doveva possedere anche un'ottima conoscenza della Wilbur Smith
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chimica.» «E doveva sapere che, senza spifferi e movimenti d'aria, i gas pesanti sarebbero rimasti in fondo alla camera a tempo indeterminato», aggiunse Royan. «Scommetto che questo passaggio è stato ideato come una specie di trappola a forma di U. Immagino che poi salga di nuovo...» Indicò il misterioso vano nella parete di fronte. «Anzi, vedo i primi gradini.» «Scopriremo presto se hai ragione», disse Nicholas. «Perché adesso li saliremo.» Sapper aveva fatto ammucchiare cumuli di pietre sul bordo dell'acqua per controllare il livello del fiume, e li teneva d'occhio con la stessa preoccupazione con cui un agente di cambio osserva l'indice telematico. Erano trascorse sei ore dalla fine dell'ultimo acquazzone. Le nubi sopra la valle erano svanite nella luce calda del sole, sebbene fossero ancora fitte sopra l'orizzonte settentrionale. I grandi nembi scuri s'innalzavano minacciosi fino al cielo e formavano catene che, al confronto, facevano impallidire le montagne. Sugli altipiani, le grandi piogge potevano incominciare da un momento all'altro. E quando ciò fosse accaduto, si chiedeva Sapper, quanto tempo le acque avrebbero impiegato per raggiungerli nella gola dell'Abay? Smontò dal trattore e scese sulla riva per esaminare gli indicatori. Il livello del fiume s'era abbassato d'una trentina di centimetri durante l'ultima ora, ma Sapper frenò l'ottimismo. Dopotutto al fiume erano bastati quindici minuti per salire della stessa misura. Comunque non c'erano dubbi sull'evolversi della situazione. Sarebbero venute le piogge e avrebbero portato la piena. La diga avrebbe ceduto. Sapper guardò verso valle e scosse la testa, rassegnato. Aveva fatto tutto il possibile per procrastinare quel momento. Aveva alzato di oltre un metro la diga, e aveva ordinato di erigere un altro terrapieno dietro lo sbarramento per rinforzarlo. Ora non restava che aspettare. Risalì la banchina e si appoggiò stancamente al trattore giallo. Guardò la squadra dei Bufali, sparsi lungo la riva come i feriti su un campo di battaglia. Avevano faticato due giorni per fermare le acque e adesso erano esausti. Sapeva di non poter chiedere loro un altro sforzo. La prossima volta che il fiume avesse sferrato il suo attacco, li avrebbe sopraffatti. Poi vide che alcuni di loro si scuotevano, si sollevavano a sedere e Wilbur Smith
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giravano la testa verso monte. Sentì le loro voci, fievoli nel vento. Qualcosa aveva destato il loro interesse. Risalì sul trattore e si schermò gli occhi. Dalla direzione della scarpata stava giungendo Mek Nimmur. Sapper ne scorse la figura inconfondibile, robusta e poderosa nella tuta mimetica. L'uomo era scortato da due dei suoi comandanti di compagnia e camminava a passo deciso. Chiamò Sapper da lontano. «La diga regge? Fra poco comincerà a piovere sulle montagne, e non ce la farete a resistere ancora a lungo.» Aveva parlato in arabo e, sebbene l'inglese non comprendesse quella lingua, i gesti di Mek verso il cielo e il fiume non lasciavano dubbi sul tenore della domanda. Sapper balzò dal trattore e gli andò incontro. Si strinsero cordialmente la mano. Ognuno dei due aveva riconosciuto nell'altro l'energia e la professionalità che ammiravano. Mek afferrò il braccio di uno degli uomini della scorta e questi, che parlava inglese, incominciò subito a tradurre. «Non mi preoccupo solo per le piogge», disse Mek a voce bassa all'interprete. «Ho saputo che truppe governative si stanno portando in posizione per attaccarci. Secondo le mie informazioni, c'è un intero battaglione in marcia da Debra Mariam, e un altro contingente, a valle del monastero di san Frumenzio, che risale l'Abay.» «Un movimento a tenaglia, eh?» commentò Sapper. Mek ascoltò la traduzione e poi annui con aria grave. «Mi trovo in condizioni d'inferiorità numerica e, quando attaccheranno, non so per quanto tempo riuscirò a trattenerli. I miei sono guerriglieri; non siamo abituati a combattere battaglie campali. Il nostro ruolo è quello della pulce: pungere e fuggire. Sono venuto per avvertirti che devi tenerti pronto a ritirarti da un momento all'altro.» «Non preoccuparti per me», borbottò Sapper. «Sono uno scattista, specializzato nei cento metri. Dovresti pensare a Nicholas e Royan, invece. Sono bloccati in quella tana di conigli.» «Sto appunto per andare da loro, ma volevo accordarmi per un ripiegamento. Se dovessimo restare isolati durante uno scontro, tieni presente che Nicholas ha nascosto i gommoni nel monastero, ed è là che ci raduneremo.» «D'accordo, Mek.» Sapper s'interruppe. I tre si girarono di scatto verso la pista: c'era una nuova animazione fra gli uomini. «Che succede?» Wilbur Smith
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«È una delle mie pattuglie.» Mek socchiuse gli occhi. «Deve esserci qualche sviluppo...» L'interprete guardò Mek e non cominciò neppure a tradurre, scorgendo sul viso dell'uomo un brusco cambiamento di espressione. Si era reso conto che i soldati di pattuglia stavano trasportando qualcuno su una barella improvvisata... «Chi...»? mormorò. Poi riconobbe la figura snella e minuta e si mise a correre. Tessay io vide e si sollevò a sedere con uno sforzo. Gli uomini che la portavano posarono a terra la barella. Mek s'inginocchiò e la cinse con le braccia. Rimasero in silenzio per un attimo interminabile. Poi Mek le sollevò delicatamente il viso ed esaminò i lineamenti gonfi e sfregiati. Qualche ustione s'era infettata e gli occhi sembravano due fessure fra le palpebre. «Chi ti ha ridotta così?» le chiese. Tessay mormorò con le labbra annerite e incrostate di sangue. «Mi hanno costretta a...» «No! Non sforzarti di parlare», gridò Mek nel vedere il labbro inferiore che si screpolava e lasciava spicciare una goccia di sangue rossa come un rubino. «Devo dirtelo», insistette lei con un mormorio stentato. «Mi hanno costretta a dire tutto. Il numero dei tuoi uomini. Quel che state facendo tu e Nicholas. Tutto. Mi dispiace, Mek. Ti ho tradito.» «Chi è stato? Chi ti ha fatto questo?» «Nogo e l'americano, Helm», disse Tessay. Mek le sussurrò di stare tranquilla e continuò a tenerla fra le braccia. Ma nel suo guardo passò un lampo d'odio e di vendetta. Finalmente la camera inferiore della galleria venne liberata dal gas. Il fuoco acceso da Hansith ardeva al centro del pavimento, l'aria calda portava via i vapori nocivi e li disperdeva nei livelli superiori del labirinto, dove si mescolavano all'aria ricca di ossigeno, perdendo la loro tossicità. Royan si era ripresa completamente dagli effetti del gas, ma non si muoveva più con la sicurezza di prima. Lasciò che Nicholas la precedesse per i gradini che salivano al di là del vano. «È una perfetta trappola a gas», commentò Nicholas mentre avanzavano. «Senza dubbio Taita sapeva che cosa stava facendo quando costruì questa Wilbur Smith
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sezione della galleria.» «Immaginava che gli eventuali saccheggiatori di tombe sarebbero stati uccisi dalle sue trappole infernali o si sarebbero persi nel labirinto, oppure avrebbero desistito e sarebbero tornati indietro...» disse Royan. «Cerchi di convincermi che questa sia l'ultima linea difensiva di Taita, e che lui non ci riserva altri trucchi?» chiese Nicholas mentre saliva un altro gradino. «No. In effetti cerco di convincere me stessa, ma non ci riesco. Non mi fido più di lui; anzi, mi aspetto il peggio. Temo che il soffitto mi crolli addosso da un momento all'altro o che il pavimento si spalanchi e ci faccia precipitare in una fornace ardente o in qualcosa di inimmaginabile.» Per raggiungere la camera avevano sceso quaranta gradini, e la scala che adesso stavano salendo ne era l'immagine speculare. Aveva la stessa angolazione, e ogni gradino aveva la stessa profondità e la stessa larghezza. Quando le loro teste si ersero al di sopra del quarantesimo gradino, Nicholas puntò il raggio della lampada nella spaziosa galleria piana che si apriva davanti a loro. Rimasero abbagliati da un tumulto di colori vivaci e splendidi come un campo di fiori spuntati nel deserto dopo la pioggia. I dipinti coprivano le pareti e il soffitto, sbalorditivi per l'abbondanza, meravigliosi per l'esecuzione. «Taita!» esclamò Royan con voce tremula. «Li ha dipinti lui! Non esiste un altro artista che gli somigli. Non posso sbagliarmi. Riconoscerei ovunque la sua opera.» Si fermarono sul gradino più alto e si guardarono intorno. Al confronto, gli affreschi della galleria lunga sembravano pallidi e stentati, niente più di una modesta imitazione. Quella, invece, era l'opera di un grande maestro, di un genio la cui arte riusciva a incantare nel presente come tanti secoli prima. Avanzarono lentamente, quasi senza accorgersene. La galleria era fiancheggiata su entrambi i lati da piccole camere simili ai chioschi di un bazar orientale. L'entrata di ognuna era segnata da alte colonne che arrivavano al soffitto e ogni colonna era la statua di un dio. Tutti insieme sostenevano la volta. Quando arrivarono all'altezza delle due prime camere, Nicholas si fermò e strinse il braccio di Royan. «Le camere del tesoro del faraone», mormorò. Wilbur Smith
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E infatti erano stipate dal pavimento al soffitto di oggetti bellissimi. «Il magazzino dei mobili.» Anche la voce di Royan aveva un tono reverente. Riconosceva le forme di sedie e di sgabelli, di letti e di divani. Entrò nella camera più vicina e toccò un trono. I braccioli erano serpenti intrecciati di bronzo e lapislazzuli. Le gambe, a forma di zampe di leone, avevano artigli d'oro. Il sedile e lo schienale erano ornati da scene di caccia, e ali d'oro sovrastavano la spalliera. Dietro il trono erano accatastati gli altri mobili. Riconobbero un divano traforato, con i lati racchiusi da uno squisito merletto di ebano e avorio. Ma c'erano anche dozzine di altri oggetti; molti erano smontati e quindi era impossibile immaginare che cosa fossero. Brillavano di metalli preziosi e di gemme colorate. La confusione e la varietà erano tali da rendere impossibile catturare tutto quello splendore con un'unica occhiata. Entrambe le alcove erano strapiene di quelle collezioni meravigliose. Royan scosse la testa, sbalordita, e Nicholas la condusse avanti. Le pareti che separavano le alcove erano decorate da pannelli che illustravano il Libro dei morti e il viaggio del faraone oltre le Sette Porte, i pericoli e i giudizi, i demoni e i mostri che stavano in agguato lungo la via. «Ecco gli affreschi che mancavano nella tomba finta della galleria lunga», osservò Royan. «Ma guarda il viso del re: si capisce subito che questo è un ritratto dal vero. Un ritratto regale, perfetto.» L'affresco davanti a loro raffigurava Osiride che conduceva per mano il faraone e lo proteggeva dai mostri che si affollavano in attesa della possibilità di divorarlo. Mostrava il volto del re come doveva essere stato in realtà: un uomo mite e gentile, piuttosto debole. «Già, capisco», riconobbe Nicholas. «Queste figure non sono pupazzi rigidi che avanzano sempre con il piede destro. Sono veri uomini e vere donne, L'artista li ha raffigurati secondo le regole prospettiche e dopo un attento studio anatomico.» Arrivarono alla seconda coppie di alcove, e si fermarono a guardare. «Armi», mormorò Nicholas. «Guarda quel carro!» I pannelli e la predella erano rivestiti di abbaglianti foghe d'oro. I finimenti e le tirelle sembravano attendere i cavalli che dovevano trainarlo in battaglia, e le faretre fissate ai pannelli laterali dietro le ruote erano piene di frecce e giavellotti. Sui pannelli spiccavano i cartigli di Marnose. Ammucchiati accanto allo splendido veicolo c'erano archi da guerra con l'impugnatura ornata da fili di elettro, di bronzo e d'oro. C'erano decine di Wilbur Smith
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pugnali con i manici d'avorio e spade con le lame di bronzo lucente. C'erano file e file di lance e di picche, scudi di bronzo decorati da scene di guerra e dal nome di Marnose. C'erano elmi e corazze confezionati con pelli di coccodrillo, e le uniformi e le insegne dei più famosi reggimenti egizi rivestivano le statue lignee a grandezza naturale del sovrano, schierate lungo le pareti. Proseguirono fra altri affreschi che mostravano la vita e la morte del re. Lo videro giocare con le fighe e tenere in braccio il figlioletto. Lo videro pescare, cacciare con l'arco o con i falchi, tenere consiglio con i ministri e con gli alti funzionari, intrattenersi con le mogli e le concubine e banchettare con i sacerdoti del tempio. «È una cronaca completa della vita nell'antichità», mormorò Royan in tono reverente. «Non c'è mai stata una scoperta paragonabile a questa.» Ognuna delle persone raffigurate nei dipinti era stata ritratta con straordinario realismo; ogni viso e ogni espressione erano diversi, catturati dall'occhio acuto dell'artista, dalla sua sensibilità e dalla sua maestria. «E quello dev'essere Taita», annunciò Royan, indicando l'autoritratto dell'eunuco in uno dei pannelli centrali. «Chissà se si è preso qualche licenza poetica o se era davvero d'aspetto così bello e nobile?» Si soffermarono ad ammirare il viso di Taita, il loro avversario. Gli occhi erano intelligenti e indagatori e un sorrisetto enigmatico gli aleggiava sulle labbra. Il dipinto era stato ricoperto da uno strato di vernice trasparente ed era conservato alla perfezione, come se fosse stato eseguito il giorno prima. Le labbra parevano umide, gli occhi brillavano di vita. «Ha la carnagione chiara e gli occhi azzurri!» esclamò Royan. «Anche se quasi sicuramente i capelli sono rossi perché tinti con l'henné.» «E strano pensare che, sebbene sia vissuto tanto tempo fa, sia quasi riuscito a ucciderci», mormorò Nicholas. «In quale terra era nato? Nei papiri non lo dice. In Grecia, in Italia o magari in Libia? Non lo sapremo mai, perché probabilmente nemmeno lui conosceva le proprie origini.» «Eccolo in quest'altro pannello.» Nicholas indicò la galleria, dove il viso inconfondibile dell'eunuco appariva tra la folla inginocchiata davanti al trono sul quale sedevano il faraone e la regina. «Sembra che ci tenesse ad apparire nelle sue creazioni, un po' come Hitchcock.» Passarono davanti alle alcove dove erano ammassati piatti e calici e ciotole di alabastro e bronzo intarsiati d'argento e d'oro, specchi di bronzo Wilbur Smith
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levigato e rotoli di lini e di tessuti di lana ormai marciti da molto tempo. Sulle pareti che dividevano le due alcove dalla coppia successiva era raffigurata la battaglia contro gli hyksos, durante la quale il faraone era stato ferito a morte. Nel pannello successivo Taita stava chino su di lui con gli strumenti chirurgici nelle mani ed estraeva la punta della freccia dalla ferita. Poi arrivarono alle alcove in cui erano accatastate centinaia di casse di scrigni di legno di cedro. Erano ornati dai cartigli reali di Mamose e da scene raffiguranti il re che si profilava gli occhi con il kohl, si dipingeva la faccia con bianco d'antimonio e belletto scarlatto, veniva raso dai barbieri e vestito dai valletti. «Qualcuno dei cofanetti deve contenere i cosmetici reali», mormorò Royan. «Mentre nelle casse ci saranno gli indumenti per tutte le occasioni della vita nell'Oltretomba. Non vedo l'ora di poterli esaminare.» La serie successiva di pannelli mostrava le nozze del re con la giovane vergine, la padrona di Taita. Il viso della regina Lostris era rappresentato con affettuosa minuzia. L'artista si beava della sua bellezza, la esagerava, accarezzava con il pennello i seni nudi, indugiava su tutte le sue virtù fino a realizzare l'ideale della perfezione femminile. «Taita l'amava molto», mormorò Royan, e c'era un tono d'invidia nella sua voce. «Lo si vede in ogni linea che ha tracciato.» Nicholas sorrise e le passò un braccio intorno alle spalle. C'erano altre centinaia di cofani e scrigni di legno ammucchiati nelle alcove seguenti. Sui coperchi erano dipinte miniature del re bardato con tutti i gioielli, le dita delle mani e dei piedi carichi di anelli, il petto coperto da pettorali, le braccia cinte da monili. In un ritratto portava la corona doppia dell'Alto e Basso Egitto, bianca e rossa con l'avvoltoio e il cobra sulla fronte. In un altro ritratto portava la corona azzurra da guerra, e in un terzo il nemes, con le falde d'oro e lapislazzuli che gli coprivano le orecchie. «Se ogni scrigno racchiude i tesori raffigurati sul coperchio...» Nicholas s'interruppe, incapace di continuare. La possibilità di scoprire simili ricchezze lo sconcertava, e la sua immaginazione vacillava. «Ricordi quello che Taita scrisse nei papiri? Non credo che un simile tesoro fosse mai stato accumulato in un unico luogo», disse Royan. «A quanto pare è ancora tutto qui, ogni gemma e ogni granello d'oro. Il tesoro di Marnose è intatto.» Wilbur Smith
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Dopo il deposito dei tesori c'era un'altra alcova con i ripiani su cui stavano gli ushabti, le statuine di ceramica verde invetriata o di legno di cedro. Erano un intero esercito di figure minuscole, uomini e donne di ogni mestiere e d'ogni professione. C'erano sacerdoti e scribi, giuristi e medici, giardinieri e contadini, fornai e birrai, ancelle e danzatrici, sarte e lavandaie, soldati e barbieri e semplici manovali. Ognuno portava gli attrezzi della sua attività. Dovevano accompagnare il re nella sua vita ultraterrena e lavorare per lui, presentandosi al suo posto qualora fosse stato chiamato a rendere servigi agli altri dei. Arrivarono finalmente al termine di quella straordinaria galleria e si trovarono il passo sbarrato da una serie di alti schermi che un tempo dovevano essere di finissima tela bianca. Erano marciti, caduti a pezzi come vecchie ragnatele, tuttavia le stelle e le rosette d'oro che avevano decorato i tendaggi pendevano ancora, simili a pesci imprigionati nella rezza d'un pescatore. Attraverso il velo etereo di trame seriche e di stelle d'oro si scorgevano i contorni di un'altra porta. «Dev'essere l'ingresso della tomba vera e propria», bisbigliò Royan. «Ormai fra noi e il re c'è solo un fragile drappo.» Esitarono sulla soglia, assaliti da una strana riluttanza a compiere l'ultimo passo. Mek Nimmur era un veterano: aveva visto e curato gran parte delle ferite che un uomo può ricevere sul campo di battaglia. Il suo gruppo però non aveva un medico, neppure un infermiere. Aveva curato personalmente quasi tutti i suoi feriti, e teneva sempre a portata di mano una cassetta per il pronto soccorso. Ordinò agli uomini di portare Tessay in una delle capanne vicino alla cava e, al riparo nell'erba alta, la spogliò degli indumenti e si mise all'opera. Pulì le ustioni e le abrasioni con un disinfettante e coprì le più gravi con bende pulite. Poi la girò bocconi e prese una siringa usa-e-getta, già caricata con un antibiotico ad ampio spettro. Tessay trasalì alla puntura, e Mek disse: «Non sono un bravo medico». «Non vorrei che fosse un altro a curarmi. Oh, Mek, temevo che non ti avrei più rivisto. Era questo che mi faceva paura, più dell'idea di morire.» Mek l'aiutò a indossare i capi di ricambio che aveva nello zaino, una Wilbur Smith
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maglietta e una tuta mimetica troppo grandi per lei. Le rimboccò le maniche delicatamente: le sue erano le mani di un innamorato, non di un soldato. «Devo essere così brutta», mormorò lei muovendo a fatica le labbra gonfie e incrostate di sangue. «Sei bellissima», la contraddisse Mek. «Per me lo sarai sempre.» Poi le sfiorò con cautela la guancia. In quel momento sentirono sparare. Il suono veniva da lontano, e i venti lo portavano dal nord. Mek si alzò immediatamente. «Hanno incominciato. Nogo ci sta attaccando.» «È colpa mia. Gli ho detto...» «No», l'interruppe lui con fermezza. «Non è colpa tua. Hai fatto ciò che dovevi. Altrimenti ti avrebbe fatto di peggio. E ci avrebbe attaccato anche se non gli avessi detto niente.» Prese il cinturone e lo agganciò. Da lontano giunse il fragore delle esplosioni dei mortai. «Devo andare», annunciò. «Lo so. Non preoccuparti per me.» «Mi preoccupo sempre per te. Gli uomini ti porteranno al monastero. E il punto d'incontro. Aspettami là. Non posso sperare di trattenere Nogo per molto tempo. Dispone di troppe forze. Ti raggiungerò presto.» «Ti amo», mormorò lei. «Ti aspetterò per sempre.» «Sei la mia donna», disse Mek con voce profonda, poi varcò la soglia della capanna e sparì. Quando Nicholas toccò l'intelaiatura dello schermo, alcuni frammenti del velo si staccarono e caddero sulle piastrelle del pavimento. Le rosette d'oro imprigionate nelle pieghe tintinnarono. Ora nel tendaggio c'era un'apertura abbastanza ampia per passare. Si trovarono di fronte al portale interno. Da un lato era guardato da una statua massiccia di Osiride con le mani incrociate sul petto che stringevano il flagello e lo scettro ricurvo. Di fronte stava la sua sposa Iside con la corona lunare e le corna. Gli occhi vuoti sembravano fissare l'eternità, e l'espressione era serena. Passarono in mezzo alle statue alte quasi quattro metri, e finalmente si trovarono nella vera tomba di Marnose. Il soffitto era a volta, e la qualità degli affreschi che coprivano le pareti Wilbur Smith
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era diversa, più formale e classica. I colori erano scuri, i motivi maggiormente intricati. La camera funeraria era più piccola di quanto avessero previsto: c'era appena lo spazio per accogliere l'enorme sarcofago di granito del faraone. Il sarcofago arrivava all'altezza del petto. I pannelli laterali erano bassorilievi che raffiguravano scene con il faraone e altri dei. Il coperchio aveva la forma della figura umana supina, e bastò una prima occhiata per capire che era ancora nella posizione originale e che i sigilli di creta apposti dai sacerdoti di Osiride non erano stati manomessi. La tomba non era mai stata violata. La mummia vi aveva riposato indisturbata nel corso dei millenni. Ma non era questo che li sorprese. Nella tomba, per il resto classicamente corretta, c'erano due oggetti estranei. Sul coperchio del sarcofago era posato un magnifico arco da guerra, lungo quanto era alto Nicholas e con l'intera impugnatura rivestita da splendente filo d'elettro. Ai piedi del sarcofago, poi, c'era un ushabti. Un'occhiata confermò a Nicholas e Royan la qualità superiore della lavorazione, ed entrambi riconobbero subito i lineamenti. Pochi minuti prima avevano visto lo stesso viso dipinto sulle parete della galleria. Le parole di Taita che avevano letto per la prima volta nei papiri sembravano riverberare all'interno della tomba e aleggiare come lucciole sopra il sarcofago: «Quando mi accostai per l'ultima volta al sarcofago reale, mandai via tutti gli operai. Volevo essere l'ultimo a lasciare la tomba; poi l'ingresso sarebbe stato sigillato. «Quando rimasi solo aprii il fardello ed estrassi l'arco Lanata. Tanus gli aveva dato lo stesso nome della mia padrona, quando l'avevo fabbricato apposta per lui. Era l'ultimo dono da parte di noi due: lo posai sul coperchio del sarcofago. «Nell'involto c'era un altro oggetto. Era un ushabti ligneo che avevo intagliato con le mie mani. Lo posai ai piedi della bara. Quando l'avevo scolpito, avevo montato tre specchi di rame per studiare da ogni angolo i miei lineamenti e riprodurli fedelmente. La statuetta era un Taita in miniatura. Sulla base avevo inciso queste parole...» Royan s'inginocchiò ai piedi del sarcofago e prese l'ushabti. Poi lo girò e studiò i geroglifici intagliati nella base. Nicholas s'inginocchiò al suo fianco. «Leggi», disse. Lei obbedì. «Il mio nome è Taita. Sono medico e poeta, architetto e Wilbur Smith
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filosofo. Sono tuo amico. Risponderò per te.» «Dunque è tutto vero», mormorò Nicholas. Royan rimise l'ushabti esattamente come l'aveva trovato. Rimase in ginocchio e girò la testa verso di lui. «Non ho mai vissuto nulla di paragonabile a questo», sussurrò. «Vorrei che non finisse mai.» «Non finirà mai, tesoro», rispose Nicholas. «Noi due abbiamo appena incominciato.» Mek Nimmur li guardava avvicinarsi sul pendio più basso della collina. Soltanto l'occhio allenato di un guerrigliero poteva scorgerli mentre si muovevano fra i rovi e i cespugli fitti. Provò una fitta di sgomento. Erano truppe d'assalto, perfezionatesi nei lunghi anni di guerra. Una volta aveva combattuto con loro contro la tirannia di Menghistu e probabilmente ne aveva addestrati molti. Adesso stavano avanzando contro di lui. Era il ciclo della guerra e della violenza, tipico di quel continente dilaniato, dove le lotte interminabili erano alimentate dagli antichissimi odi razziali, dall'avidità e dalla corruzione dei nuovi politici e dalle loro ideologie vecchie e superate. Ma quello non era il momento adatto per fare speculazioni, pensò amaramente, e si concentrò sulla tattica del campo di battaglia che si estendeva sotto di lui. Sì, quegli uomini erano efficienti. Lo vedeva dal modo in cui avanzavano: parevano fantasmi. Per ognuno che riusciva a distinguere, sapeva che ce n'era almeno una dozzina rimasta invisibile. «Una compagnia», pensò. Lanciò un'occhiata al suo piccolo contingente. C'erano quattordici uomini fra le rocce; potevano sperare di colpire duramente il nemico finché avevano ancora il vantaggio della sorpresa, e di ritirarsi prima che Nogo piazzasse i mortai sulla cima della collina. Alzò gli occhi al cielo. Il colonnello avrebbe fatto intervenire mezzi aerei? si chiese. I Tupolev di stanza alla base aerea di Addis Abeba avrebbero impiegato trentacinque minuti per giungere lì. Gli sembrava già di sentire l'odore dolciastro del napalm nel vento umido, e di vedere la nube ondeggiante di fiamme che si avvicinava. Quella era l'unica cosa che i suoi temevano veramente... Ma no, decise, questa volta non ci sarebbero stati attacchi aerei. Nogo e il suo padrone, il tedesco von Schiller, volevano impadronirsi del contenuto della tomba scoperta nella gola da Nicholas QuentonWilbur Smith
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Harper. Non intendevano certo spartirlo con i politici di Addis Abeba. Era sconsigliabile attirare l'attenzione del governo su di loro e sulla loro campagna privata nella gola dell'Abay. Scrutò di nuovo il pendio. Il nemico si muoveva abilmente, girava intorno al fianco della collina per incrociare la pista lungo il Dandera. Fra poco avrebbero mandato una pattuglia per proteggersi i fianchi prima di proseguire. Sì, erano là. Otto uomini, no, dieci che si staccavano dal contingente, e salivano cautamente il pendio sotto di lui. «Lascerò che si avvicinino», decise. «Mi piacerebbe farli fuori tutti, ma sarebbe chiedere troppo. Mi accontenterei di quattro o cinque, e sarebbe bello lasciare qualcuno a strillare fra i cespugli.» Mek sogghignò crudelmente. «Non c'è niente di meglio d'un uomo che urla a causa di una ferita al ventre per far sbollire l'entusiasmo dei compagni e indurli a tenere giù la testa.» Guardò il pendio cosparso di massi e vide che la sua mitragliatrice leggera RPD era piazzata nel posto ideale per prendere d'infilata gli uomini che salivano il pendio. Salim, il suo mitragliere, sapeva usare alla perfezione quell'arma. Forse, dopotutto, poteva sperare di eliminare più di cinque nemici. «Vedremo», si disse. «Ma devo calcolare bene il momento.» Vide che c'era un varco nella cresta di roccia poco più in basso di lui. «Non vorranno esporsi attraversando un dosso scoperto», rifletté. «Tenderanno a raggrupparsi e a passare dalla strettoia. Quello sarà il momento buono.» Si voltò verso l'RPD. Salim lo guardava in attesa di un segnale, ma Mek tornò a scrutare il pendio. «Sì», pensò, «il nemico si sta radunando. Quello grosso sulla sinistra ha già lasciato la posizione. E i due all'interno stanno tagliando in direzione della breccia.» Le uniformi mimetiche si confondevano alla perfezione con i cespugli. Le canne delle armi erano avvolte in stracci e pezzi di reti mimetiche per non riflettere il sole. Erano quasi invisibili e solo i movimenti e i toni della pelle rivelavano la loro presenza. Ormai erano così vicini che, ogni tanto, Mek vedeva il riflesso degli occhi, ma non riusciva ancora a distinguere il loro mitragliere. Doveva mettere a tacere l'arma con la prima raffica. «Ah, sì, eccolo là. Wilbur Smith
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Sul fianco sinistro. Per poco non mi era sfuggito.» L'uomo era basso, tozzo, con le spalle pesanti e le lunghe braccia scimmiesche, e portava con disinvoltura la mitragliatrice sul fianco: una RPD calibro 7.62 di fabbricazione sovietica. Il lampo dell'ottone delle cartucce nella bandoliera lo aveva rivelato. Mek si stese a terra e strisciò intorno alla base della roccia che lo riparava. Regolò il selettore dell'AKM sul modo automatico e alzò il calcio contro la guancia. L'AKM era la sua arma personale. Un armaiolo di Addis Abeba l'aveva modificato per migliorare la precisione del fucile d'assalto, notoriamente impreciso. Non era un fucile da cecchino, certo, ma grazie alle modifiche poteva sperare di piazzare tutti i colpi entro un cerchio di dieci centimetri da cento metri di distanza. L'uomo armato di RPD si trovava adesso cinquanta metri più in basso. Mek guardò sulla destra per assicurarsi che gli altri tre avanzassero nel varco dove Salim avrebbe potuto falciarli con un'unica raffica. Poi puntò il mirino al centro del ventre del mitragliere nemico usando come bersaglio la fibbia della cintura. Sparò tre colpi. L'AKM sobbalzò rabbiosamente e le tre detonazioni lo assordarono. Ma vide le pallottole arrivare a segno. Una nella parte bassa del ventre, la seconda nel diaframma, la terza alla base della gola. Il mitragliere roteò su se stesso, agitando le braccia e sussultando, quindi piombò riverso, invisibile in mezzo alla vegetazione. Intorno a Mek, i suoi uomini cominciarono a sparare. Si chiese quanti ne avesse centrato Salim con la prima raffica, ma non vedeva più nulla. Erano tutti al coperto. Una leggera foschia di fumo inazzurrò l'aria quando i nemici ricambiarono il fuoco. I cespugli tremarono e vibrarono per il rinculo e gli spari. Poi, nel fragore dei colpi e nel sibilo delle pallottole che rimbalzavano contro le rocce, qualcuno cominciò a urlare. «Mi hanno beccato! In nome di Allah, aiutatemi!» Le grida echeggiavano stranamente sul fianco della collina, e il fuoco nemico rallentò percettibilmente. Mek inserì nell'AKM un altro caricatore e, con un sorriso crudele, mormorò: «Canta, uccellino, canta!» Ci vollero gli sforzi combinati di Nicholas, di Hansith e di altri otto uomini per sollevare il coperchio del sarcofago di pietra. Vacillando sotto Wilbur Smith
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il peso, lo appoggiarono alla parete della tomba e Nicholas e Royan salirono sul plinto per guardare all'interno. Nel ricettacolo di pietra c'era un'enorme bara lignea. Anche il suo coperchio aveva la forma del faraone giacente, con le mani incrociate sul petto che stringevano il flagello e lo scettro uncinato. La bara era dorata e incrostata di pietre semi preziose, e l'espressione del volto del re era serena. Estrassero la bara dal sarcofago. Pesava meno del coperchio di pietra. Con grande attenzione Nicholas aprì i sigilli dorati e lo strato di resina indurita che trattenevano il coperchio del feretro. All'interno ne trovarono un altro e, quando lo aprirono, misero allo scoperto un'altra bara. Era come una serie di bambole matrioska; un feretro stava dentro l'altro. Ed erano sempre più piccoli. In totale le bare erano sette, sempre più ornate e ricche. La settima era poco più grande di un uomo ed era tutta d'oro. Il metallo levigato rifletteva la luce delle lampade come mille specchi e lanciava dardi brillanti in ogni recesso della tomba. Quando finalmente aprirono la bara interna d'oro, videro che era piena di fiori. Erano disseccati e sbiaditi, d'un color seppia. Il profumo era svanito da molto tempo e dal feretro usciva solo un sentore muschiato. I petali erano sottili come fogli di carta e si sgretolavano al primo contatto. Sotto i fiori scoloriti, c'era uno strato di lino finissimo; un tempo doveva essere stato bianco, ma adesso era bruno, di certo a causa dei lunghissimi anni trascorsi e della linfa dei fiori. Fra le pieghe morbide videro di nuovo il luccichio dell'oro. Nicholas e Royan, ai due lati della bara, sollevarono il drappo che, con un lieve scricchiolio, si lacerò come carta velina sotto le loro dita. In quel momento, fra esclamazioni di meraviglia, apparve la maschera funebre del faraone. Era poco più grande della testa di un uomo, eppure perfetta in ogni particolare. I lineamenti del sovrano erano stati conservati per l'eternità da quell'opera d'arte straordinaria. In silenzio, stupiti, guardarono negli occhi il faraone e il faraone li guardò con un'espressione triste, quasi d'accusa. Passò diverso tempo prima che trovassero il coraggio e l'audacia di rimuoverla dalla testa della mummia. Ma, quando lo fecero, trovarono altre prove che la salma del re era stata sostituita nell'antichità da quella del generale Tanus. Wilbur Smith
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La mummia che avevano sotto gli occhi era evidentemente troppo grande per la bara che la conteneva. Sebbene parte delle bende fosse stata rimossa, stava a stento nell'interno del feretro. «Una mummia reale avrebbe centinaia di talismani e amuleti», mormorò Royan. «Questa è la salma di un nobile, non di un re.» Nicholas sollevò delicatamente lo strato interno delle bende che fasciavano la testa del morto e scoprì una pesante treccia di capelli. «I ritratti di Marnose sulle pareti della galleria mostrano che si tingeva i capelli con l'henné», mormorò Nicholas. «E invece... guarda.» La treccia aveva il colore dell'erba nell'inverno della savana africana: oro e argento. «Non ci sono più dubbi. È il corpo di Tanus, amico di Taita e amante della regina.» «Sì», ammise Royan. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Il vero padre del figlio della regina Lostris, colui che divenne faraone con il nome di Tamose e fu il fondatore di una grande dinastia. Questo è l'uomo il cui sangue scorre nella storia dell'antico Egitto.» «In un certo senso fu grande quanto un faraone», osservò Nicholas. Royan fu la prima a scuotersi. «Il fiume!» esclamò con voce tagliente. «Non possiamo lasciare che tutto questo vada di nuovo perduto quando il fiume salirà.» «Ma non possiamo neppure sperare di salvare tutto. C'è troppa roba. Un tesoro immenso. Non ci resta molto tempo, e dobbiamo scegliere gli oggetti più belli e importanti e chiuderli nelle casse. Dio solo sa se avremo il tempo per fare almeno questo.» Lavorarono affannosamente. Non potevano neppure pensare di salvare le statue e gli affreschi, i mobili e le armi, gli utensili per il banchetto e gli indumenti. Il grande carro dorato doveva restare dov'era da oltre tremila anni. Tolsero dalla testa di Tanus la maschera funebre, ma lasciarono la mummia nella bara d'oro più interna. Poi Nicholas mandò a chiamare Mai Metemma. Il vecchio abate si presentò con venti monaci per ricevere la reliquia dell'antico santo che gli era stata promessa come ricompensa. Fra canti solenni e reverenti, portarono via la bara di Tanus per collocarla nel magdas del monastero. «Così, almeno, il vecchio eroe sarà trattato con rispetto», mormorò Wilbur Smith
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Royan. Poi si guardò intorno. «Non possiamo lasciare tutto così, con le bare sparse in giro e i coperchi abbandonati. Sembra che siano passati di qui i saccheggiatori di tombe.» «È esattamente ciò che siamo», obiettò Nicholas con un sorriso. «No, siamo archeologi», ribatté lei accalorandosi. «E dobbiamo comportarci di conseguenza.» Rimisero a posto le sei bare rimaste, una dentro l'altra, e le ricollocarono nel grande sarcofago. Poi sistemarono il massiccio coperchio di pietra. Solo allora Royan permise che cominciassero a scegliere e a imballare i tesori che avrebbero portato via. La maschera funebre era senza dubbio l'oggetto più prezioso presente nella tomba. La misero in una delle casse, accanto all'ushabti ligneo di Taita, poi la protessero con strati di gommapiuma. Royan scrisse con un pastello a cera sul coperchio: MASCHERA E USHABTI DI TAITA. La selezione finale fu inevitabilmente sbrigativa. Non potevano aprire tutti i cofani di legno di cedro ammucchiati nelle alcove. Gli scrigni dipinti e dorati erano di per se stessi oggetti inestimabili da trattare con rispetto. Si lasciarono guidare dalle immagini che figuravano sui coperchi. Fu una scelta sensata, perché scoprirono ben presto che esisteva un'assoluta corrispondenza tra le illustrazioni sui coperchi e il contenuto degli scrigni. Nel cofano che mostrava il faraone con la corona azzurra, per esempio, trovarono la corona poggiata su cuscini di pelle dorata, modellati per proteggerla. Nonostante il poco tempo che restava, si sentivano quasi sopraffatti dalla magnificenza degli oggetti che scoprivano nelle casse di legno di cedro. Non trovarono soltanto la corona azzurra, ma anche quella bianca e rossa dei due regni uniti, e lo splendido nemes. Tutti e tre erano in uno stato di conservazione miracoloso, quasi che il sovrano li avesse usati solo pochi giorni prima. C'era una tale massa di gioielli che furono costretti ad abbandonarne la maggior parte, senza neppure aprire gli scrigni che li contenevano. Fin dall'inizio avevano deciso che gli oggetti da portar via dovevano essere abbastanza piccoli per stare nelle casse per munizioni. Se erano troppo grandi, indipendentemente dal valore e dall'importanza storica, dovevano restare nella tomba. Per fortuna molti degli scrigni di cedro contenenti i gioielli reali entravano alla perfezione nelle casse metalliche: così era possibile salvare Wilbur Smith
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non soltanto l'intero contenuto, ma anche i cofani. Tuttavia fu necessario imballare i pezzi più grandi, come le corone e l'enorme pettorale d'oro. Le casse piene venivano poi trasferite sul pianerottolo davanti alla porta murata, pronte per essere portate via; incluse le casse contenenti le otto statuette degli dei provenienti dalla galleria lunga, ne avevano riempite e catalogate quarantotto, quando sentirono la voce inconfondibile di Sapper salire dalla scala. «Maggiore, dove diavolo sei? Non potete più restare qui. Fuori! Fuori di qui! Il fiume è in piena e la diga sta per crollare da un momento all'altro.» Sapper salì i gradini a balzi, ma si fermò di colpo quando vide per la prima volta gli splendori della galleria funebre del faraone Marnose. Impiegò qualche minuto per riprendersi dallo shock. Ma poi sbottò: «Non scherzo, maggiore! È questione di minuti, non di ore. La stramaledetta diga sta per andare. E Mek combatte sulle colline all'imboccatura dell'abisso. Si sentono gli spari persino ai piedi del precipizio della lanca di Taita. Tu e Royan dovete filarvela in fretta. Parlo sul serio!» «Va bene, Sapper. Andiamo. Torna nella camera in fondo alla scala. Hai visto le cassette per munizioni?» Sapper annuì, e Nicholas proseguì: «Ordina agli uomini di portarle al monastero. Voglio che sia tu a dirigere questa parte dell'operazione. Noi ti seguiremo con gli altri». «Non perdere tempo, maggiore. La tua vita vale più di questo mucchio di vecchie cianfrusaglie. Muoviti.» «Procedi, Sapper. Ma non farti sentire da Royan quando dici che sono vecchie cianfrusaglie, o sarà peggio per te.» Sapper alzò le spalle. «Non dire che non ti avevo avvertito.» Si voltò per ridiscendere la scala. «Sai dove sono i gommoni», gli gridò Nicholas. «Se arrivi prima di me, gonfiali e fai caricare le casse. Vi raggiungeremo.» Non appena Sapper se ne andò, Nicholas riattraversò correndo la galleria per raggiungere Royan che era ancora al lavoro. «Basta così!» le gridò. «Non abbiamo più tempo. Andiamo.» «Nicky, non possiamo lasciare questa...» «Fuori!» Lui le afferrò il braccio. «Dobbiamo andar via immediatamente o resteremo in eterno nella tomba di Tanus.» «Non posso neppure...» «No. Sei matta! Andiamo via! La diga crollerà da un momento all'altro.» Wilbur Smith
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Royan si staccò da lui, afferrò manciate di gioielli dallo scrigno aperto ai suoi piedi e cominciò a infilarli nelle tasche. «Non posso lasciarli qui...» Lui le cinse la vita con le braccia e se la caricò su una spalla. «Mi hai sentito?» chiese in tono rabbioso, e prese a correre. «Nicky! Mettimi giù!» Royan sferrò una serie di calci indignati, ma Nicholas la portò di peso nella camera ai piedi della scala. Hansith e i suoi uomini stavano trasportando le ultime cassette piene su per la scala dall'altra parte. Le tenevano in bilico sulla testa e salivano a passo svelto. Nicholas posò Royan. «E adesso, prometti di comportarti bene? Non stiamo giocando. Stiamo rischiando la pelle. Se resteremo intrappolati qui, sarà la fine.» «Lo so.» Lei assunse un'espressione contrita. «Non sopportavo l'idea di abbandonare il resto.» «Ora basta. Andiamo.» Nicholas le prese la mano e si avviò. Dopo qualche gradino, lei si svincolò e cominciò a correre per precederlo. Nonostante i carichi, i portatori si muovevano in fretta. Ripercorrevano in colonna il labirinto, facendosi guidare a ogni angolo dai segni tracciati con il gesso, e scesero la scala centrale fino alla galleria lunga senza sbagliare neppure una svolta. Sapper aspettava Nicholas e Royan accanto alle macerie della porta murata e borbottò sollevato quando li vide fra i portatori. «Ti avevo detto di precederci per preparare i gommoni!» gli gridò Nicholas. «Temevo che avresti fatto una stupidaggine», ribatté Sapper. «Volevo avere la certezza che non saresti rimasto ancora là dentro.» «Mi commuovi, Sapper.» Nicholas gli diede un leggero pugno sulla spalla. Poi scesero correndo il passaggio e attraversarono il ponte sull'inghiottitoio. «Dov'è Mek?» chiese ansimando Nicholas a Sapper che trottava davanti a lui. «Hai visto Tessay?» «Tessay è tornata. Ha passato momenti terribili. Era ridotta male. Sembra che l'abbiano picchiata.» «Che le è successo?» chiese preoccupato Nicholas. «E adesso dov'è?» «Temo che sia caduta nelle mani dei gorilla di von Schiller e che loro l'abbiano torturata. Gli uomini di Mek la stanno portando al monastero. Ci Wilbur Smith
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aspetterà ai gommoni.» «Dio sia ringraziato», mormorò Nicholas. Poi, a voce più alta: «E Mek?» «Sta cercando di fermare l'attacco di Nogo. Ho sentito colpi di fucile e di mortaio e scoppi di bombe a mano per tutta la mattina. Anche lui ripiegherà sul monastero e andrà ad aspettarci.» Corsero per gli ultimi metri del passaggio nella fanghiglia e nell'acqua che arrivava alle caviglie, scavalcarono il muro di contenimento della vasca di chiusa e raggiunsero il cornicione roccioso che circondava la lanca di Taita. Nicholas alzò gli occhi verso i portatori di Hansith che si stavano arrampicando sull'impalcatura di bambù. Ognuno di loro rimorchiava una cassetta per munizioni. In quel momento, sentì un suono lontano che riconobbe immediatamente. Inclinò la testa per ascoltare e disse in tono rabbioso a Royan: «Sparano! Mek sta combattendo, ma ormai sono maledettamente vicini». «Il mio zaino!» Royan si mosse per correre verso la capanna ai piedi del dirupo. «Devo prendere la mia roba.» «Non hai bisogno né dei cosmetici né del pigiama... e il tuo passaporto è nelle mie mani.» Nicholas l'afferrò per un braccio e la spinse verso la scala. «L'unica cosa di cui hai bisogno è mettere molto spazio fra te e il colonnello Nogo. Vieni, Royan!» Si arrampicarono sull'impalcatura di bambù. Una volta arrivati in cima, Royan scoprì con stupore che, sebbene la terra fosse bagnata dopo i recenti acquazzoni, il sole era ancora alto e caldo. Aveva perso il senso del tempo nei corridoi freddi e bui della tomba. Levò il viso verso la luce del sole per un momento, mentre Nicholas contava i portatori per assicurarsi che fossero usciti tutti dall'abisso. Sapper si avviò alla testa della colonna lungo la pista che attraversava la foresta di acacie spinose, e la fila dei portatori si sgranò dietro di lui. Prima di accodarsi, Nicholas e Royan attesero fino a quando non furono tutti sul sentiero. Gli spari erano spaventosamente vicini. Sembrava che si combattesse sul ciglio dell'abisso dietro di loro, a meno di un chilometro. Il crepitare delle armi automatiche metteva le ali ai piedi ai portatori, che correvano nella foresta per raggiungere la pista principale e dirigersi al monastero prima di restare tagliati fuori dall'avanzata di Nogo. Wilbur Smith
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Prima di arrivare alla biforcazione, incontrarono un gruppo di uomini che trasportavano una barella, avviati anche loro verso il monastero. Nicholas pensò che si trattasse di un guerrigliero ferito. Tuttavia, quando arrivò accanto a loro, riconobbe il volto gonfio e ustionato di Tessay. «Tessay!» esclamò chinandosi su di lei. «Chi ti ha ridotta così?» Lei alzò i grandi occhi scuri con l'espressione di una bimba sofferente, e rispose con poche parole spezzate. «Helm!» proruppe Nicholas. «Vorrei averlo fra le mani, quel bastardo.» In quel momento, Royan li raggiunse e si lasciò sfuggire un gemito d'orrore nel vedere la faccia di Tessay. Poi si affrettò a prendersi cura di lei. Nicholas si rivolse a uno dei barellieri che aveva riconosciuto. «Mezra, che sta succedendo?» «Nogo è arrivato con un contingente dalla riva est della gola. Ci hanno superati sul fianco, e adesso stiamo ripiegando. Non siamo esperti in questo genere di scontri.» «Lo so», rispose Nicholas. «I guerriglieri devono continuare a muoversi. Dov'è Mek Nimmur?» «Si sta ritirando lungo la sponda orientale dell'abisso.» In quel momento sentirono un altro crepitio di spari dietro di loro. «È lui!» spiegò Mezra. «Nogo lo sta incalzando.» «Che ordini ti ha dato?» «Portare la signora Sole ai gommoni e aspettarlo là.» «Bene!» disse Nicholas. «Veniamo con voi.» Il Bell Jet Ranger volava a bassa quota seguendo i contorni del terreno e non si portava mai sulle creste più alte. Helm sapeva che gli sciftà di Mek Nimmur avevano i lanciarazzi RPG che, nelle mani di esperti, erano armi mortali contro un apparecchio lento e non blindato. Per difendersi, dovevano usare il terreno come copertura e seguire a bassa quota le valli in modo da non offrire un facile bersaglio. Anche se i nuvoloni si abbassavano verso la gola dell'Abay, continuavano a volare rimanendone al di sotto. I colpi improvvisi tuttavia scuotevano pericolosamente l'elicottero e gli spruzzi di pioggia battevano contro il parabrezza. Il pilota stava teso in avanti per quanto glielo permetteva l'imbracatura di sicurezza e si concentrava nell'impresa pericolosa. Wilbur Smith
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Helm stava sul sedile al suo fianco. Von Schiller e Nahoot Guddabi erano sul sedile posteriore e sbirciavano nervosamente dai finestrini laterali i pendii boscosi della valle che sembravano sfrecciare via, così vicini da poterli toccare. A intervalli di pochi minuti, la radio crepitava, e si sentivano le voci degli uomini di Nogo che chiedevano l'appoggio dei mortai o segnalavano gli obiettivi raggiunti. Il pilota traduceva quei dialoghi incomprensibili. A un certo punto, si girò verso von Schiller. «C'è uno scontro a fuoco in corso in cima al precipizio, ma gli sciftà sono in fuga. Nogo manovra nel modo migliore. Hanno appena costretto un grosso contingente ad abbandonare il fianco della collina, là a est.» Indicò il finestrino di sinistra. «E martellano con i mortai gli sciftà in fuga.» «Hanno raggiunto il punto dell'abisso dove stava lavorando QuentonHarper?» «Questo non è chiaro. C'è una certa confusione.» Il pilota tornò ad ascoltare le comunicazioni in arabo. «Credo che fosse lo stesso Nogo a parlare, un attimo fa.» «Lo chiami!» ordinò von Schiller a Helm, sporgendosi sopra la spalliera del sedile. «Gli chieda se hanno già occupato il sito della tomba.» Helm staccò il microfono dal gancio sotto il quadro degli strumenti. «Petalo di Rosa, qui è Bismark. Mi sente?» Vi fu un silenzio interrotto da scariche, poi la voce di Nogo che parlava in inglese: «Parli, Bismark». «Avete occupato l'obiettivo primario? Passo.» «Affermativo, Bismark. Abbiamo occupato tutto e travolto ogni resistenza. Sto mandando gli uomini giù per la scala a sgombrare il cantiere.» Helm si girò verso von Schiller. «Nogo ha già mandato un gruppo di uomini nell'abisso. Possiamo atterrare.» «Gli dica che non lasci entrare nessuno prima del mio arrivo», ordinò bruscamente von Schiller. Aveva un'espressione trionfale. «Devo essere il primo. Glielo spieghi.» Mentre Helm trasmetteva gli ordini a Nogo, von Schiller batté sulla spalla del pilota. «Quanto manca all'obiettivo?» «Circa cinque minuti, signore.» «Voli in cerchio sul sito quando arriveremo. Non atterri prima che Nogo Wilbur Smith
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abbia la situazione sotto controllo.» L'elicottero rallentò e rimase librato a mezz'aria, mentre il pilota indicava il terreno. «Che c'è?» chiese von Schiller. «Che cosa vede?» «La diga», rispose Helm. «La diga di Quenton-Harper. Ha fatto un bel lavoro.» L'acqua prigioniera brillava grigia e plumbea sotto le nubi, contaminata dal limo trascinato dalla corrente. Quella che si riversava nel canale laterale si lanciava spumeggiando nella lunga valle. «È deserta!» commentò Helm. «Tutti gli uomini di Harper se ne sono andati.» «Che cos'è l'oggetto giallo sulla riva?» chiese von Schiller. «La macchina per il movimento terra. Ricorda? Il mio informatore ce ne aveva parlato.» «Non perdiamo altro tempo!» ordinò il tedesco. «Qui non c'è più niente da vedere. Avanti!» Helm batté sulla spalla del pilota e gli indicò di proseguire verso valle. Sapper aspettava che lo raggiungessero alla biforcazione, dove il fiume deviato si avventava nella valle inondando un lungo tratto della pista originale. I portatori si sgranarono in fila indiana, portando le cassette per munizioni in equilibrio sulla testa e procedettero sul terreno un po' più elevato per evitare di cadere in acqua. La barella di Tessay era quasi in coda alla colonna e Royan e Nicholas le stavano ai fianchi, pronti a sostenerla nei tratti più accidentati e irregolari. «Dov'è Hansith?» gridò Nicholas a Sapper, e si schermò gli occhi per guardare gli uomini che lo precedevano, cercando di scorgere la figura caratteristica del monaco. «Credevo che fosse con te», rispose Sapper. «Non l'ho più visto da quando abbiamo lasciato l'abisso.» Nicholas si fermò e si voltò a guardare il sentiero che attraversava la foresta di acacie spinose. «Accidenti a lui», borbottò. «Non possiamo tornare indietro a cercarlo. Dovrà arrangiarsi da solo per arrivare al monastero.» In quel momento, sentirono il ronzio familiare dei rotori nell'aria umida sotto le masse minacciose delle nubi. «L'elicottero della Pegasus. A quanto pare, von Schiller sta andando alla Wilbur Smith
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lanca di Taita. Deve aver sempre saputo dove lavoravamo», disse amaramente Nicholas. «Non ha perso tempo. Si sta buttando come un avvoltoio sulla carcassa di un animale appena morto.» Anche Royan aveva alzato gli occhi e cercava di scorgere la sagoma dell'apparecchio contro le nubi scure. Aveva il viso arrossato dalla corsa e ciocche di capelli madidi di sudore le pendevano sulle guance. «Se quei porci entreranno nella tomba sarà un'atroce profanazione di un luogo sacro!» commentò con uno scatto di collera. Nicholas tese la mano al di sopra della barella, le afferrò il braccio e la guardò con aria severa e decisa. «Hai ragione. Vai al monastero con Tessay. Vi raggiungerò più tardi.» E, senza lasciarle il tempo di protestare o di fare domande, si avvicinò a Sapper. «Ti affido le donne. Abbi cura di loro.» «Dove vai, Nicky?» Royan gli era corsa dietro e aveva sentito l'ordine dato a Sapper. «Che cos'hai intenzione di fare?» «Un lavoretto. Non ci metterò molto.» «Non vorrai tornare là?» esclamò lei, inorridita. «Ti farai ammazzare o peggio. Hai visto che cos'ha fatto Helm a Tessay...» «Non preoccuparti, tesoro.» Nicholas rise e la baciò sulle labbra, poi la scostò gentilmente, lasciandola rossa e confusa per via di quella manifestazione di affetto di fronte a tanti uomini. «Occupati di Tessay. Ci vediamo ai gommoni.» Prima che Royan riprendesse a protestare, Nicholas cominciò a risalire lungo la valle a passi spediti. «Nicky!» gridò disperata Royan, ma lui finse di non sentirla e continuò a camminare in direzione della diga. Il Bell Jet Ranger seguì il corso tortuoso del fiume a valle della diga. In certi momenti potevano vedere sotto di loro la stretta strozzatura fra i dirupi altissimi e le profondità semi buie dell'abisso quasi in secca, dove qua e là luccicavano pozze immobili. «Eccoli!» Helm indicò davanti a loro. Un gruppetto di uomini stava sul ciglio dell'abisso. «Si assicuri che non siano sciftà.» C'era una nota di paura nella voce di von Schiller. «No!» lo tranquillizzò Helm. «Ho riconosciuto Nogo. E quello alto accanto a lui, con lo shamma bianco, è il monaco Hansith Sherif, il nostro informatore.» Poi gridò al pilota: «Può atterrare. Là! Nogo fa segno di Wilbur Smith
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scendere». Nel momento in cui i pattini dell'elicottero toccarono il suolo Nogo e Hansith accorsero e aiutarono von Schiller a smontare dalla cabina. Quindi lo condussero lontano dalle pale che roteavano. «I miei uomini hanno occupato l'area», annunciò Nogo. «Abbiamo messo in fuga gli sciftà nella valle verso il fiume. E questo è Hansith Sherif, che ha lavorato nella tomba con Harper. Conosce ogni spanna delle gallerie.» «Parla inglese?» Von Schiller guardò il monaco con aria ansiosa. «Un poco», rispose quello. «Bene! Bene!» Von Schiller era raggiante. «Mi mostri la strada. La seguirò. Guddabi, è ora che si decida a lavorare in cambio di quel che la pago.» Hansith li condusse all'impalcatura e von Schiller guardò nervosamente in basso. La struttura di bambù sembrava fragile, l'altezza era terrificante. Il tedesco stava per protestare quando Nahoot Guddabi bisbigliò dietro di lui: «Non pretenderà che scendiamo laggiù, vero?» Von Schiller ritrovò di colpo il coraggio e si girò verso Nahoot. «È l'unica via d'accesso alla tomba. Segua quell'uomo. Io le verrò dietro.» Vedendo che Nahoot esitava ancora, Helm lo spinse avanti. «Si muova. Sta perdendo tempo.» Con riluttanza, Nahoot prese a scendere l'impalcatura dietro al monaco, e von Schiller lo seguì. La struttura tremava e ondeggiava sotto il loro peso e il vuoto sottostante sembrava risucchiarli. Alla fine però raggiunsero il cornicione accanto alla lanca di Taita e si soffermarono per guardarsi intorno, sbalorditi. «Dov'è la galleria?» chiese von Schiller non appena ebbe ripreso fiato. Hansith gli accennò di seguirlo fino alla piccola diga di contenimento. Von Schiller si rivolse a Helm e Nogo. «Restate qui di guardia. Io entrerò nella tomba con Guddabi e il monaco. Vi manderò a chiamare quando avrò bisogno di voi.» «Preferirei accompagnarla per proteggerla, Herr von Schiller...» obiettò Helm. Ma il vecchio aggrottò la fronte. «Faccia come dico.» Poi, con l'aiuto di Hansith, scese dalla diga di contenimento ed entrò nell'imboccatura del passaggio. Nahoot Guddabi lo seguì. «La lampada? Da dove viene l'energia?» chiese von Schiller. Wilbur Smith
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«C'è una macchina», spiegò Hansith. In quel momento sentirono, più avanti, il borbottio del generatore. Procedettero in silenzio nella galleria d'ingresso fino a quando non arrivarono al ponticello sulle acque buie dell'inghiottitoio. «È una costruzione molto rudimentale», mormorò Nahoot. Il disagio aveva lasciato finalmente il posto all'interesse professionale. «Non ricorda nessuna delle tombe egizie che ho ispezionato. Forse ci hanno ingannati. Deve trattarsi dell'opera d'indigeni etiopi.» «Il suo giudizio è prematuro», lo ammonì von Schiller. «Aspetti fino a quando non avremo visto ciò che ha da mostrarci quest'uomo.» Mentre attraversavano il ponte galleggiante di legno di baobab, Von Schiller si appoggiò con una mano alla spalla di Hansith e si sentì sollevato quando arrivò a riva dall'altra parte. Si avviarono nel tratto in salita del corridoio e superarono il segno della massima piena. Non appena scorsero le pareti ornate, Nahoot commentò: «Ah! All'inizio ero deluso. Credevo che fossimo stati imbrogliati, ma ora vedo l'influenza egizia». Arrivarono al pianerottolo davanti alla galleria in rovina dove stava il generatore Honda. Von Schiller e Nahoot sudavano per lo sforzo e tremavano per l'eccitazione. «Mi sembra sempre più promettente. Può essere una tomba reale», esclamò trionfante Nahoot, e von Schiller indicò i sigilli di gesso ammucchiati contro la parete laterale dove li avevano abbandonati Nicholas e Royan. Nahoot si lasciò cadere in ginocchio e li esaminò con impazienza, poi esclamò con voce vibrante: «I cartigli di Marnose e il sigillo dello scriba Taita». Alzò gli occhi verso il tedesco. «Ormai non ci sono dubbi. L'ho condotta alla tomba, come avevo promesso.» Per un momento, von Schiller lo fissò, ammutolito di fronte a tanta sfacciataggine, poi sbuffò disgustato e si chinò a sbirciare nella galleria lunga. «E stata distrutta!» esclamò in tono d'orrore. «La tomba è stata annientata!» «No, no», gli assicurò Hansith. «Venga. C'è un altro corridoio.» Mentre avanzavano fra le macerie, Hansith spiegò in un inglese approssimativo come era crollato il soffitto della galleria lunga e come aveva scoperto la vera entrata sotto le rovine. Nahoot si fermava a intervalli di pochi passi per esaminare i frammenti Wilbur Smith
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d'intonaco dipinto sopravvissuti al crollo del soffitto. «Dovevano essere magnifici. Opere d'arte classiche di prim'ordine...» «C'è altro. Tanto di più», promise Hansith, e von Schiller ringhiò a Nahoot: «Lasci perdere quei frammenti danneggiati. Non ci resta molto tempo. Dobbiamo proseguire sino alla camera funeraria». Hansith li precedette sulla scala nascosta fino al labirinto del bao e alle giravolte del livello più basso. «Come hanno fatto Harper e la donna a trovare la strada?» disse meravigliato von Schiller. «Un'altra scala nascosta!» Nahoot era sbalordito, e balbettava per l'eccitazione mentre scendevano nella trappola a gas, dove le file di anfore erano rimaste indisturbate per millenni, per salire poi l'ultimo tratto di scala fino all'inizio della galleria. Entrambi erano storditi dallo splendore degli affreschi e dalla maestà delle statue che vegliavano sulla tomba. Si fermarono a fianco a fianco, incapaci di muoversi, paralizzati dalla meraviglia. Si guardavano intorno. «Le camere sono piene di tesori.» Hansith indicò. «Ci sono cose che non avete mai neppure sognato. Harper ha potuto portar via molto poco, qualche cassetta. Ha lasciato mucchi di roba e di cofani.» «Ecco il sarcofago. Dov'è finito il corpo?» chiese von Schiller. «Harper ha regalato il corpo e la bara d'oro all'abate Mai Metemma. Li hanno portati al monastero.» «Nogo andrà presto a prenderli. Non è il caso di preoccuparsi, Herr von Schiller», gli assicurò Nahoot. Come se l'incantesimo che si era impadronito di loro fosse stato infranto da quella promessa, si avviarono, dapprima lentamente. Poi cominciarono a correre. Von Schiller si precipitò nell'alcova più vicina, traballando un po', e rise come un bambino la mattina di Natale mentre contemplava i tesori accatastati. «Incredibile!» Prese da un mucchio uno dei forzieri di legno di cedro e strappò il coperchio con dita tremanti. Quando vide il contenuto rimase ammutolito. S'inginocchiò e cominciò a piangere sommessamente, vinto da un'emozione troppo forte per esprimerla a parole. Nicholas contava sul fatto che gli uomini di Nogo avrebbero camminato Wilbur Smith
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sulle creste più alte, costeggiando il precipizio del Dandera, per arrivare alla lanca di Taita, e che quindi lui si sarebbe potuto muovere senza difficoltà lungo il corso del fiume deviato fino al sito della diga. Come unica precauzione, si soffermava a intervalli di pochi minuti per ascoltare e scrutare davanti a sé. Sapeva che gli restava poco tempo. Non poteva pretendere che gli altri lo aspettassero ai gommoni e corressero gravi pericoli per un suo capriccio. Per due volte sentì in lontananza spari di armi automatiche che venivano dalla direzione dell'abisso, nei pressi della lanca. Comunque gli andò bene e raggiunse il sito della diga senza incontrare le forze di Nogo. Decise di non approfittare troppo della fortuna. Prima di avvicinarsi apertamente alla diga, salì sul fianco della collina e osservò l'area. La breve sosta gli consentì anche di riprendere fiato dopo la lunga corsa e di accertarsi che Nogo non avesse lasciato qualche uomo a sorvegliare lo sbarramento, per quanto la cosa gli sembrasse improbabile. Vide che il trattore giallo era ancora fermo sulla riva, dove l'aveva abbandonato Sapper. Non si scorgeva traccia di sentinelle dell'esercito etiope. Con un mormorio di sollievo, si asciugò il sudore dagli occhi con la manica della camicia. L'acqua lambiva la sommità dello sbarramento e tracimava attraverso le fenditure e le crepe tra i gabbioni. Dal punto in cui si trovava Nicholas, tuttavia, sembrava che la diga reggesse. Il fiume avrebbe dovuto salire di un'altra trentina di centimetri per travolgerla. «Bravo, Sapper», mormorò con un sorriso. «Hai fatto un ottimo lavoro.» Studiò il livello del fiume e le condizioni delle acque bloccate dallo sbarramento. Il flusso che scendeva dai monti era molto più forte dell'ultima volta in cui l'aveva visto. Stava per traboccare da una riva all'altra; alcuni degli alberi e dei cespugli erano già sommersi in parte, e s'inchinavano e ondeggiavano nella corrente. L'acqua era di un grigio cupo, e scorreva veloce e ostile, vorticando contro la diga prima di riversarsi nel canale laterale con slancio rabbioso. Ringhiava come una belva liberata dalla gabbia e ribolliva in spruzzi di spuma bianca mentre precipitava bruscamente verso la valle. Quando guardò verso la scarpata della gola, Nicholas vide che era nascosta da banchi di nubi minacciose che oscuravano l'orizzonte settentrionale. In quel momento una raffica di vento lo investì: era fredda e Wilbur Smith
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umida. Non attese più. Si avviò in fretta giù per il pendio verso la diga, scivolando e slittando. Prima che arrivasse in fondo, il vento portò la pioggia pungente che gli sferzò il viso e gli incollò la camicia al corpo. Raggiunse il trattore e s'issò sul sedile. Ebbe un momento di panico al pensiero che Sapper potesse aver tolto la chiave dal nascondiglio sotto il sedile. La cercò a tentoni per qualche secondo e, quando la sentì sotto le dita, trasse un respiro di sollievo. «Sapper, per un momento hai rischiato la pelle. Ti avrei tirato il collo con le mie mani», borbottò. Inserì la chiave, la girò nella posizione del preriscaldamento e attese che la spia del cruscotto passasse dal rosso al verde. «Su, avanti!» mormorò impaziente. Quei pochi secondi di attesa gli sembravano un'eternità. Poi la spia verde si accese e lui poté girare la chiave. Il motore cominciò subito a borbottare e Nicholas commentò: «Meriti il massimo dei voti, Sapper. Tutto perdonato». Lasciò al veicolo il tempo di scaldarsi e socchiuse gli occhi per ripararli dalla pioggia mentre scrutava le colline circostanti, nel timore che il rombo del trattore attirasse i gorilla di Nogo. Ma sulle alture spazzate dal vento non si scorgevano segni di vita. Innestò la marcia più bassa e fece girare il trattore per scendere l'argine. Sotto lo sbarramento della diga, l'acqua che riusciva a filtrare non arrivava al mozzo delle ruote. Il veicolo sobbalzava, avanzando nell'acqua costellata di massi. Nicholas lo fermò al centro del letto del fiume e scrutò la diga sul lato verso valle, in cerca del tratto più debole. Poi si portò al centro dello sbarramento, nel punto in cui Sapper aveva rinforzato la zattera di tronchi con file di gabbioni. «Mi dispiace per il tuo lavoro», mormorò, mentre manovrava la pala d'acciaio portandola all'altezza e all'angolazione giusta prima di attaccare lo sbarramento. Smosse dalla fila il gabbione che aveva prescelto, e spinse e premette fino a che non poté inserire la pala sotto il margine inferiore e liberarlo. Indietreggiò, lasciando cadere il pesante contenitore di rete metallica oltre la cascata, quindi tornò indietro e ripeté l'attacco. Era un lavoro che richiedeva tempo. La pressione dell'acqua aveva bloccato i gabbioni contro lo sbarramento, tanto che gli ci vollero quasi dieci minuti per estrarre il secondo contenitore. Wilbur Smith
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Mentre lo faceva cadere nella cascata, guardò per la prima volta l'indicatore del carburante e provò una stretta al cuore. Segnava VUOTO. Sapper doveva aver dimenticato di rifare il pieno, o aveva esaurito il gasolio oppure aveva previsto di non usare più il veicolo quando l'aveva abbandonato. In quel preciso momento, il motore tossicchiò con un suono asfittico. Nicholas sterzò, cambiando l'angolo dell'inclinazione in modo che il gasolio rimasto nel serbatoio potesse affluire meglio. Il motore riprese a funzionare regolarmente. Nicholas cambiò marcia e tornò alla diga. «Non c'è più tempo per le sottigliezze», si disse, deciso. «D'ora in poi dovrò usare la forza bruta.» Nel rimuovere i due gabbioni aveva messo allo scoperto un angolo della zattera di tronchi, la parte più vulnerabile dello sbarramento. Azionò i comandi idraulici, sollevò la pala al massimo, quindi la riabbassò cautamente, centimetro per centimetro, fino ad agganciarla all'angolo del tronco più grosso. Bloccò i comandi idraulici, innestò la marcia indietro e diede il massimo della potenza. Il motore ruggì ed eruttò una nube di denso fumo azzurro. La zattera non cedette. Il tronco era incastrato saldamente e la diga era tenuta insieme dall'incastro dei gabbioni e dalla pressione immane dell'acqua. Nicholas continuò disperatamente ad alimentare il motore al massimo, e le ruote girarono e scivolarono sui massi, sollevando nell'aria alti getti di spuma e di ghiaia. «Su, avanti!» implorò. «Avanti! Puoi farcela.» Il motore perse altri colpi per la carenza di carburante. Tossì e per poco non si arrestò. «Ti prego», supplicò Nicholas a voce alta. «Fai un altro tentativo.» Come se avesse sentito le sue parole, il motore si riaccese, borbottò irregolarmente per qualche istante e all'improvviso ricominciò a funzionare. «Così va bene, angelo!» esclamò Nicholas, e il trattore sobbalzò, martellando lo sbarramento. Con il fragore di una cannonata, il tronco si spezzò e l'estremità superiore volò via, lasciando un varco lungo e profondo nel quale il fiume si avventò trionfalmente in una colonna di acqua grigiastra densa e compatta. Wilbur Smith
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«Ecco che va!» gridò Nicholas, e saltò dal sedile. Sapeva che non gli restava il tempo sufficiente per guidare il trattore fuori dal letto del fiume. Si sarebbe spostato più in fretta a piedi. La corrente gli artigliò gli arti inferiori e quasi lo fece cadere. Gli pareva di rivivere uno degli incubi della sua infanzia, quando i mostri lo inseguivano e le gambe, nonostante i suoi sforzi, si muovevano al rallentatore. Si guardò alle spalle. Proprio in quel momento la sezione centrale della diga esplose in una violenta eruzione di acque furiose. Continuò a lottare ancora per qualche passo, cercando di dirigersi verso la riva prima che la corrente lo travolgesse. Poi non poté più far nulla. Il fiume lo trascinava via, oltre la cascata, giù, giù nelle fauci fameliche dell'abisso. «Questo è lo scettro del faraone e questo è il flagello cerimoniale», gridò von Schiller con voce affievolita dall'emozione mentre li toglieva dallo scrigno di legno di cedro. «E questi sono la barba finta e il pettorale da cerimonia.» Nahoot s'inginocchiò al suo fianco, ai piedi della grande statua di Osiride. Nella meraviglia del momento, avevano dimenticato ogni malanimo. «È la più grande scoperta archeologica di tutti i tempi», sussurrò il tedesco con voce tremante. Si tolse il fazzoletto dalla tasca e asciugò il sudore che gli colava sulle guance. «Ci sarà da lavorare per anni», disse Nahoot. «Questa collezione incredibile dovrà essere catalogata e valutata. E sarà conosciuta per sempre come il tesoro di von Schiller. Il suo nome non sarà mai dimenticato. È come il sogno egizio dell'immortalità. Lei vivrà in eterno.» Un'espressione rapita apparve sulla faccia di von Schiller. Fino a quel momento non aveva preso in considerazione la possibilità di dividere il tesoro con altri, esclusa Utte Kemper. Ma le parole di Nahoot avevano ridestato il suo vecchio sogno impossibile dell'eternità. Forse avrebbe potuto dare disposizioni perché diventasse accessibile al pubblico... ma solo dopo la sua morte, naturalmente. Poi scacciò la tentazione. Non avrebbe svilito il tesoro, mettendolo a disposizione della marmaglia. Era stato radunato per il funerale di un faraone e von Schiller si considerava l'equivalente di un faraone dei tempi moderni. Wilbur Smith
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«No», disse bruscamente a Nahoot. «E mio, tutto mio. Quando morirò, se ne andrà con me. Ho già dato disposizioni nel testamento. I miei figli sanno che cosa fare. Tutto questo finirà nella mia tomba. La mia tomba regale.» Nahoot lo fissò, allibito. Fino a quel momento non s'era reso conto che il vecchio era pazzo, che l'ossessione l'aveva fatto precipitare nella follia. Sapeva che ormai era inutile discutere: più tardi avrebbe trovato un modo per salvare quel tesoro meraviglioso dall'oblio di un'altra tomba. Per il momento, chinò la testa in atto di simulata acquiescenza. «Ha ragione, Herr von Schiller. E l'unica soluzione adeguata. E lei merita una sepoltura del genere. Ora, però, dobbiamo preoccuparci di portare tutto al sicuro. Helm ci ha detto che il fiume costituisce un pericolo e che la diga può cedere da un momento all'altro. Dobbiamo chiamare lui e Nogo. Gli uomini del colonnello porteranno via tutto. Trasporteremo con l'elicottero il tesoro fino al campo della Pegasus, e là lo imballerò per trasferirlo in Germania.» «Sì, sì.» Von Schiller si alzò in piedi, atterrito all'idea che il fiume in piena lo privasse del suo tesoro prodigioso. «Mandi il monaco, quell'Hansith... lo mandi a chiamare Helm. Deve venire subito.» Anche Nahoot si alzò. «Hansith!» gridò. «Dov'è?» Il monaco era rimasto in attesa all'entrata della camera funeraria, inginocchiato in preghiera davanti al sarcofago vuoto che aveva contenuto il corpo del santo. Adesso era combattuto tra la fede e l'avidità. Quando si sentì chiamare, s'inchinò profondamente, si rialzò e andò a raggiungere i due bianchi. «Deve tornare alla lanca dove abbiamo lasciato gli altri...» Nahoot cominciò a trasmettere gli ordini, ma all'improvviso un'espressione d'angoscia passò sulla faccia scura di Hansith, che alzò la mano per imporre silenzio. «Che c'è?» chiese rabbiosamente Nahoot. «Che ha sentito?» Hansith scosse la testa. «Tacete e ascoltate! Non sentite niente?» «Niente...» disse Nahoot, poi s'interruppe e il terrore gli riempì gli occhi. Era un suono smorzato, gentile come il sospiro di uno zefiro estivo, monotono e sommesso. «Che c'è?» chiese von Schiller. Il suo udito era menomato da anni e gli era impossibile sentire quel flebile rumore. «Acqua!» sussurrò Nahoot. «Acqua corrente!» Wilbur Smith
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«Il fiume!» gridò Hansith. «Il fiume è in piena!» Si voltò di scatto e ripercorse la galleria funeraria a passi lunghi e agili. «Resteremo imprigionati qui!» urlò Nahoot, e si affrettò a rincorrerlo. «Mi aspetti!» tuonò von Schiller, ma rimase distanziato quasi subito. Hansith li precedeva entrambi di parecchio; cominciò a salire due per volta i gradini dopo la trappola a gas. «Hansith! Torni indietro! È un ordine!» gridò disperatamente Nahoot, ma riuscì soltanto a scorgere la veste bianca del monaco che spariva alla prima svolta del labirinto. «Guddabi, dov'è?» La voce di von Schiller tremava ed echeggiava nei passaggi di pietra, ma Nahoot non rispose. Continuò a correre nella direzione in cui era andato il monaco, e girò alla prima svolta senza neppure guardare i segni tracciati con il gesso sulla parete. Aveva l'impressione di sentire, più avanti, i passi precipitosi di Hansith; ma, quando superò il terzo angolo, si rese conto d'essersi perduto. Si fermò con il cuore che batteva all'impazzata e il sapore amaro del fiele che gli saliva alla gola. «Hansith! Dov'è andato?» urlò. In quel momento gli giunse la voce di von Schiller, che risuonava lungo i corridoi. «Guddabi! Guddabi! Non mi lasci qui!» «Silenzio!» ribatté Nahoot. «Stia zitto, vecchio stupido!» Ansimante, con il sangue che gli rombava nelle orecchie, tentava di sentire i passi del monaco. Ma c'era soltanto la voce del fiume, un sussurro gentile che sembrava irradiarsi dalle pareti circostanti. «No! Non mi lasci qui!» urlò, e riprese a correre senza una direzione precisa, in preda al panico. Hansith svoltava infallibilmente a ogni angolo e il terrore gli metteva le ali ai piedi. All'inizio della scala centrale, prese una storta. Cadde, ruzzolò nel pozzo inclinato, urtando e sbattendo contro la pietra, rotolando sempre più velocemente sino a che non arrivò in fondo e rimase disteso sulle piastrelle d'agata della galleria lunga. Si rialzò, dolorante e sconvolto dalla caduta e cercò di riprendere la corsa. Ma la gamba non lo sostenne. Cadde. La caviglia era slogata e non poteva reggere il suo peso; tuttavia il monaco si rialzò e avanzò zoppicando nella galleria, appoggiandosi con una mano alla parete Wilbur Smith
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sfondata. Quando arrivò alla porta e la varcò, finì nel pianerottolo accanto al generatore Honda. Dal passaggio saliva il suono dell'acqua, che adesso era molto più forte, un ringhio sordo e vibrante che quasi soffocava il ronzio discreto del gruppo elettrogeno. «Cristo benedetto, santissima Vergine, salvatemi!» implorò, e avanzò barcollando nel corridoio. Cadde altre due volte prima di raggiungere il livello più basso. S'inginocchiò, scrutò davanti a sé e, nella luce delle lampade elettriche appese al soffitto, scorse l'inghiottitoio. In un primo momento non lo riconobbe. Era completamente cambiato. Il livello non era più al di sotto del pavimento lastricato. L'inghiottitoio traboccava in un grande vortice, e l'acqua che vi si riversava veniva risucchiata dal canale nascosto quasi con la stessa rapidità con cui entrava dall'imboccatura della galleria. Il ponticello era semi sommerso; ondeggiava e s'inclinava, lottando con i cavi che lo trattenevano, con la foga di un cavallo non ancora domato. Dalla lanca di Taita l'acqua rombante affluiva nell'altro tratto del tunnel, al di là dell'inghiottitoio. Il tunnel si andava allagando rapidamente, l'acqua era già a metà delle pareti, ma Hansith sapeva che quella era l'unica via per uscire dalla tomba. La corrente diventava più forte a ogni istante di attesa. «Devo passare da lì», disse, rimettendosi in piedi con uno sforzo. Raggiunse il primo galleggiante del ponte, ma sobbalzava con tanta violenza che Hansith non tentò neppure di restare in piedi. Si lasciò cadere carponi e si mosse strisciando. Riuscì a trascinarsi da un pontone all'altro. «Dio e san Michele, aiuto! Non fatemi morire così!» pregò. Raggiunse l'altra riva dell'inghiottitoio e cercò di aggrapparsi alle pareti ruvide della galleria. Trovò una presa e s'issò nell'imboccatura, ma la violenza dell'acqua che si riversava nel pozzo investì la parte inferiore nel suo corpo. Rimase appeso per un momento, inchiodato dalle acque furiose, nell'impossibilità di muovere un passo. Sapeva che, se avesse perso l'appiglio, sarebbe stato trascinato nell'inghiottitoio e risucchiato nelle terribili profondità nere. Le lampade elettriche fissate al soffitto davanti a lui brillavano ancora; riusciva a vedere fin quasi alla lanca di Taita, dove l'impalcatura di bambù gli avrebbe permesso di risalire l'abisso. La distanza non superava i sessanta metri. Chiamò a raccolta tutte le forze, avanzò contro le acque Wilbur Smith
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furiose, passando da un appiglio precario all'altro. Le unghie si spezzavano, la pelle si staccava dai polpastrelli ogni volta che si aggrappava alla roccia irregolare, ma lui continuava a procedere. Finalmente scorse davanti a sé la luce del giorno che filtrava dalla lanca di Taita. Ancora una dozzina di metri e sarebbe uscito dalla trappola mortale del pozzo. Ma poi sentì un suono diverso, un rombo più brutale quando tutta l'acqua, non più trattenuta dalla diga, piombò dalla cascata, penetrò nell'entrata della galleria in un'onda massiccia, invase il passaggio sino al soffitto, strappò via i cavi delle lampade e lo fece precipitare nell'oscurità. L'acqua lo investì con forza immane come una frana di pietre, e Hansith non fu in grado di opporsi. Lo strappò dall'appiglio, lo scagliò indietro, lo fece rotolare per tutta la lunghezza del pozzo che aveva percorso con tanta fatica e lo gettò nell'inghiottitoio. Le acque impazzite lo sbatacchiarono nel buio. Hansith era così confuso che non sapeva più distinguere l'alto dal basso. Ma non cambiava nulla, perché non poteva nuotare contro la corrente. Poi la suzione dell'inghiottitoio lo afferrò, lo aspirò verso le profondità. La pressione cominciò a schiacciarlo. Un timpano si spaccò e, quando aprì la bocca per urlare di dolore, l'acqua gli penetrò nella gola e gli allagò i polmoni. L'ultima cosa che sentì fu il secco crac delle ossa della spalla destra che si fracassarono nel momento in cui venne scagliato contro la parete dell'inghiottitoio alla stessa velocità dell'acqua. Non poteva urlare con i polmoni pieni d'acqua, ma quasi subito la sofferenza svanì nell'oblio. Il cadavere fu trasportato rapidamente nel pozzo sotterraneo, lacerato e smembrato dagli spuntoni di roccia. Non era più riconoscibile come un essere umano quando fu vomitato dalla sorgente della farfalla, sull'altro versante della montagna. I brandelli del suo corpo furono trasportati lungo il Dandera e raggiunsero le acque più maestose e placide del Nilo Azzurro. Le acque che eruttavano dallo squarcio nella diga afferrarono il trattore giallo e, come se fosse un giocattolo, lo spinsero oltre la cascata, fino all'abisso. Nicholas lo vide volare nell'aria sotto di lui. E, mentre cadeva, si rese conto che, se fosse rimasto sul veicolo, sarebbe morto schiacciato. La macchina colossale piombò sulla superficie della lanca in una fontana di spruzzi candidi e scomparve. Wilbur Smith
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Nicholas la seguì. A fatica riusciva a tenere la testa in alto e i piedi in avanti mentre scendeva la cascata. L'acqua che lo trasportava attutì la caduta: quindi, anziché sfracellarsi contro i macigni del fondo, sobbalzò e rotolò nel torrente impetuoso. Tornò in superficie una cinquantina di metri più a valle, scrollò la testa per scostarsi dagli occhi i capelli bagnati e si guardò intorno. Il trattore era stato inghiottito dalla pozza ai piedi della cascata, ma davanti a lui, al centro del fiume, c'era un'isoletta di roccia. La raggiunse in una dozzina di bracciate e si aggrappò a uno spuntone. Poi alzò gli occhi verso le pareti verticali dell'abisso e ricordò l'ultima volta che era rimasto intrappolato. L'euforia che aveva provato nello sfondare la diga e nell'allagare l'accesso alla tomba del faraone lo abbandonò. Sapeva che non sarebbe riuscito ad arrampicarsi sui dirupi levigati dall'acqua che non offrivano appigli e sporgevano verso l'esterno sopra la sua testa. Valutò le possibilità di risalire il fiume sino ai piedi delle cascate. Gli parve di scorgere una specie di cammino naturale, un crepaccio, sul lato orientale della cascata, che poteva permettergli di arrivare in cima. Ma sarebbe stata una scalata difficile e pericolosa. Il volume dell'acqua che scendeva dalle cascate era minore di quanto si fosse aspettato, considerando la massa d'acqua trattenuta dalla diga. Nicholas comprese che la maggior parte dello sbarramento di gabbioni doveva essere ancora al suo posto e che quel torrente era formato solo dall'acqua che passava dallo stretto varco centrale. Gli altri gabbioni erano probabilmente bloccati dal loro stesso peso. Sapeva, comunque, che non potevano resistere ancora a lungo e che il fiume li avrebbe spostati, facendo irruzione con tutte le sue forze. Di conseguenza abbandonò l'idea di ritornare a nuoto ai piedi delle cascate. «Devo allontanarmi», pensò disperatamente. Immaginò con terrore di essere investito dalla tremenda onda di piena che poteva arrivare da un momento all'altro. «Se riuscissi a trovare un cornicione per portarmi più in alto...» Ma sapeva che era una speranza vana. Già una volta aveva percorso a nuoto l'intera lunghezza del canyon senza trovare la possibilità di afferrarsi alle pareti lisce. «Devo precedere l'onda di piena», pensò. «È l'unica occasione che mi rimane.» Si sfilò gli stivali e si preparò a scattare. Stava per allontanarsi dal rifugio temporaneo, quando sentì un rombo. Il resto della diga aveva Wilbur Smith
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ceduto. Al rombo seguì lo schianto dei tronchi che si spezzavano e lo stridore dei gabbioni scagliati all'intorno come bidoni della spazzatura vuoti. All'improvviso una terrificante muraglia d'acqua grigia eruppe dalla sommità delle cascate, trascinando con sé una montagna di detriti e di frammenti. «Oh, santo cielo! Troppo tardi! Sta arrivando!» Si spinse lontano dalla roccia, si girò verso valle e cominciò a nuotare con tutte le sue forze, scalciando e mulinando le braccia come un disperato. Sentì il ruggito dell'ondata che avanzava e girò la testa per guardare. L'onda di piena si avvicinava rapidamente e riempiva l'abisso da una sponda all'altra. Era alta cinque metri e aveva una cresta arricciolata. Nicholas ebbe una visione fuggevole di un momento della sua gioventù, mentre si apprestava a fare il surf sulla famigerata onda di Cape St. Vincent, e la vedeva ingobbirsi dietro di lui in un'immensa montagna d'acqua. «Cavalcala», si disse, calcolando il momento più adatto. «Va', come se fosse uno scivolo.» Mulinò le braccia, cercando di acquistare velocità per salire sull'onda; poi sentì che essa lo afferrava, sollevandolo con tanta violenza da rivoltargli lo stomaco. E si ritrovò sulla cresta. Inarcò la schiena e tese le braccia all'indietro nella tipica posizione dei surfisti, con la testa leggermente abbassata e la metà anteriore del corpo spinta fuori dall'acqua mentre timonava con le gambe. Dopo i primi secondi spaventosi si accorse di aver mantenuto un certo controllo sui suoi movimenti. Il panico si smorzò e Nicholas si sentì pervadere da un senso di folle euforia. «Venti nodi!» Stimò la sua velocità dallo scorrere vertiginoso delle pareti del canyon. Si allontanò dal dirupo, slittò per prendere posizione al centro dell'onda, e si lasciò trasportare dall'acqua e dalla sensazione esaltante della velocità e del pericolo. Il livello del fiume nell'abisso era salito tanto da coprire le rocce acuminate e pericolose; spianava le cascate e le rapide, e invece di precipitare Nicholas slittava con un movimento veloce e manteneva la posizione con qualche bracciata energica e qualche scatto delle gambe. «Diavolo! E uno spasso.» Rise. «Scommetto che c'è gente che Wilbur Smith
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pagherebbe per divertirsi così.» Dopo circa un chilometro e mezzo l'onda incominciò a perdere forma e potenza e si dilatò nel canyon. Ancora un poco e non avrebbe più avuto la forza per sostenerlo nella posizione del surf. Nicholas si guardò intorno. Vicino a lui, alla stessa velocità in mezzo ai rottami e di detriti della diga galleggiava uno dei tronchi d'albero che avevano fatto parte della zattera usata da Sapper per chiudere la breccia nello sbarramento. Si diresse verso il tronco. Era lungo poco meno di dieci metri ed emergeva in minima parte, mostrando il dorso come una balena. I rami erano stati tagliati sbrigativamente dai boscaioli e gli spuntoni che restavano offrivano solidi appigli cui aggrapparsi. Si arrampicò sul tronco e si stese bocconi, con la faccia verso la valle e le gambe che pendevano ancora nell'acqua. Riprese fiato e sentì che le forze ritornavano. Anche se si era appiattita e aveva perso la forma d'onda, la piena continuava ad avventarsi nell'abisso a una velocità immane. «È ancora poco meno di dieci nodi», calcolò Nicholas. «Quando sboccherà nella lanca di Taita, ci sarà da compiangere von Schiller e tutti i suoi gorilla che sono nella tomba. Resteranno là dentro per i prossimi quattromila anni.» Rovesciò la testa all'indietro e rise trionfalmente. «Ha funzionato! Che mi venga un colpo se non ha funzionato come volevo.» Smise di ridere quando sentì il tronco deviare trasversalmente in direzione di una parete del canyon. «Oh, oh! Altri guai.» Si rotolò su un lato del tronco e scalciò con forza, facendolo girare pesantemente. Era un movimento torpido, non sufficiente per evitare l'urto con la parete di roccia; tuttavia, anziché un cozzo frontale fu solo una collisione di striscio che lo respinse al centro della corrente. Stava acquisendo sicurezza ed esperienza di momento in momento. «Potrò continuare così fino al monastero!» pensò, soddisfatto. «E a questa velocità potrei addirittura raggiungere i gommoni prima di Sapper e Royan.» Guardò davanti a sé e riconobbe il tratto dell'abisso che stava navigando. «È l'ansa a monte della lanca di Taita. Arriverò fra un minuto o due. Immagino che ormai l'impalcatura sia stata trascinata via.» Si sollevò sul tronco per quanto era possibile senza perdere l'equilibrio e scrutò più avanti, battendo le palpebre per far cadere l'acqua dagli occhi. Wilbur Smith
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Vide le cascate a monte della lanca di Taita che sembravano correre verso di lui e si preparò al salto. La lunga rapida di acqua velocissima si aprì davanti a lui. Un attimo prima di cadere intravide il sottostante bacino di roccia. E si accorse che le sue previsioni erano state avventate. L'impalcatura di bambù non era stata divelta completamente, anche se era molto danneggiata. La sezione inferiore era sparita, quella superiore pendeva storta dallo strapiombo, e sfiorava appena la superficie dell'acqua. Ondeggiava e oscillava al contatto con la corrente... e Nicholas si accorse che c'erano almeno due uomini prigionieri della fragile struttura. Stavano aggrappati disperatamente ai gradini di bambù e tentavano di arrampicarsi per raggiungere il ciglio del precipizio. In quella frazione di secondo, Nicholas vide che l'uomo più vicino alla sommità era Tuma Nogo. Riconobbe il lampo degli occhiali dalla montatura metallica sotto il berretto marrone, poi il colonnello arrivò alla cima dell'impalcatura e sparì. Nicholas ebbe appena il tempo di vedere la scena prima che il tronco piombasse nella rapida e accelerasse, discendendola a un angolo obliquo. L'estremità anteriore si abbassò quando cadde sulla superficie, e per poco l'albero non si piantò come l'asta di un saltatore. Nicholas tuttavia non lasciò la presa e lo sentì raddrizzarsi gradualmente. Per qualche istante, il tronco rimase bloccato nel vortice ai piedi della cascata; poi la corrente lo riafferrò. Acquistò velocità e sfrecciò per l'intera lunghezza della lanca di Taita come una corazzata di legno. Nicholas ebbe un secondo di tregua che gli permise di girare lo sguardo nel bacino. Vide subito che la galleria d'accesso era sommersa e, a giudicare dal livello raggiunto dall'acqua, doveva trovarsi già una quindicina di metri sotto la superficie. Provò un fremito di trionfo. La tomba era di nuovo protetta dalle avidi mani di altri profanatori. Poi alzò gli occhi verso i resti malconci dell'impalcatura di bambù, strappati per metà dalle antiche nicchie, e vide l'altro uomo ancora aggrappato. Si trovava a circa cinque metri al di sopra del livello dell'acqua, e sembrava un gatto bloccato sui rami più alti di un albero investito dal vento. In quel momento, Nicholas si accorse che il tronco stava deviando nella stretta del fiume e puntava verso l'impalcatura oscillante. Stava per tentare di allontanarsi quando l'uomo girò la testa e lo guardò. Wilbur Smith
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Era un bianco. La faccia era una chiazza pallida nell'oscurità del canyon. Nicholas lo riconobbe con una fitta d'odio. «Helm!» esclamò. «Jake Helm!» Rivide Tamre, il ragazzo epilettico, schiacciato sotto la frana, e il viso ustionato e livido di Tessay. Lo sdegno e l'odio lo assalirono: invece di guidare il tronco lontano dalla rupe, invertì la spinta e si avvicinò. Per pochissimo non mancò il bersaglio. All'ultimo momento però la parte anteriore del tronco girò bruscamente, cozzò contro l'estremità pendente della scala e l'agganciò. Lo slancio del tronco era irrefrenabile. I pali di bambù si spezzarono come fascine secche, e l'intera struttura traballante si staccò dalla parete e precipitò. Helm si dondolò, mollò la presa e si lasciò cadere a piedi uniti nell'acqua, vicino al tronco. Scese sotto la superficie. Nicholas ne approfittò per sedere a cavalcioni e afferrare un pezzo di bambù che s'era staccato dalla scala e galleggiava a portata di mano. Il tronco era bloccato in un mulinello del fiume in piena. Cominciò a roteare adagio fuori della corrente principale. Nicholas si reggeva ancora saldamente. Brandì il pezzo di bambù come se fosse una mazza di baseball, quindi lo alzò sopra la spalla e attese che Helm riemergesse. Dopo un secondo, la testa di Helm affiorò. Gli occhi erano chiusi. Lanciò uno sbuffo d'acqua e d'aria e cercò di respirare. Nicholas mirò alla testa con il bambù e sferrò un colpo con tutte le sue forze. In quell'istante, Helm riaprì gli occhi e lo vide. Con la sveltezza di un serpente d'acqua, si abbassò e il bambù riuscì a malapena a sfiorare la testa bionda. Nicholas fu sbilanciato dalla violenza del colpo a vuoto; prima che potesse riprendersi, Helm aveva tratto un respiro rapido e s'era reimmerso. Nicholas si tenne pronto a colpire per la seconda volta e scrutò l'acqua torbida, imprecando contro se stesso per aver mancato il bersaglio quando aveva ancora il vantaggio della sorpresa. Non si faceva illusioni su ciò che doveva aspettarsi, ora che Helm stava in guardia. I secondi passarono senza che il texano ricomparisse, e Nicholas si guardò ansiosamente alle spalle, cercando di prevedere dove sarebbe riaffiorato. Per un minuto interminabile non accadde nulla: Nicholas riabbassò nervosamente la canna e cambiò la presa per essere pronto a Wilbur Smith
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tirare un affondo in qualunque direzione con la punta acuminata. All'improvviso si sentì afferrare la caviglia sinistra in una morsa e, prima che potesse aggrapparsi per resistere, fu sbalzato dal tronco e cadde riverso nel fiume. Mentre sprofondava nell'acqua, sentì le dita di Helm che gli artigliavano la faccia. Afferrò un dito e lo tirò all'indietro: lo sentì cedere quando lo forzò verso il polso. La sofferenza della slogatura scatenò Helm, e un braccio muscoloso si avvinghiò intorno al collo di Nicholas come il tentacolo di una piovra. Risalirono per un momento alla superficie per respirare. Poi Helm spinse all'indietro la testa di Nicholas e l'acqua gli entrò nella bocca aperta. La stretta intorno al collo aumentò, causando una forte tensione alle vertebre. Era una presa omicida. Se Helm avesse avuto un appiglio solido avrebbe potuto usare tutte le sue energie e avrebbe spezzato la spina dorsale di Nicholas, ma questi continuava a piegarsi nella stessa direzione della spinta e, cedendo, impediva all'avversario di utilizzare al massimo le forze. Mentre si rovesciava, scorse davanti agli occhi la faccia di Helm, ingrandita e alterata dall'acqua grigia... una faccia mostruosa e malefica. Nel momento in cui Helm gli rotolò addosso, Nicholas gli strinse le mani intorno alla vita per tenerlo ben saldo, alzò di scatto il ginocchio sinistro verso l'inguine dell'altro, e sentì l'osso della rotula entrare in contatto con i genitali. Helm si contorse e allentò la presa intorno al collo di Nicholas. Nicholas ne approfittò per abbassare una mano; afferrò i testicoli doloranti di Helm e li strizzò furiosamente. Vide il volto a pochi centimetri dal suo contrarsi in un rictus di dolore; poi Helm si scostò e gli lasciò libera la gola per afferrargli il polso con entrambe le mani. Riaffiorarono nello stesso istante vicino al tronco, e Nicholas si accorse che la corrente li aveva avvinghiati di nuovo e li stava trascinando oltre l'imboccatura della lanca di Taita per spingerli al centro del fiume. Nicholas lasciò i testicoli di Helm e con l'altra mano gli sferrò un pugno alla faccia; ma erano troppo vicini e il colpo non era abbastanza potente. Prese di striscio il petto di Helm, e cercò di passargli il braccio intorno al collo. Helm abbassò la testa fra le spalle e sfuggì alla presa; poi all'improvviso scattò come una vipera e gli affondò i denti nel mento. Colto di sorpresa e sopraffatto dal dolore, Nicholas gridò e mirò agli occhi, cercando di piantargli le unghie attraverso le palpebre. Ma Helm le Wilbur Smith
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strinse di più e accentuò il morso fino a che il sangue di Nicholas gli scorse agli angoli della bocca. Il tronco galleggiava ancora molto vicino, a pochi centimetri dall'occipite di Helm. Nicholas lo afferrò per le orecchie e lo rigirò nell'acqua. Poteva vedere al di sopra della testa dell'avversario mentre questi era nell'impossibilità di farlo. Uno spuntone di legno sporgeva dal tronco dove una scure aveva tranciato un ramo. Era un taglio ad angolo che aveva lasciato una specie di piolo aguzzo. Fra le lacrime di sofferenza, Nicholas allineò lo spuntone con la nuca di Helm. Sentiva i denti del texano che stavano per congiungersi attraverso la carne. Avevano lacerato il labbro inferiore e il sangue incominciava a riempirgli la bocca. Helm non gli dava tregua, gli strattonava violentemente la testa da un lato all'altro. Ancora qualche istante e gli avrebbe staccato di netto un brano di carne sanguinolenta. Con tutta la forza del dolore e della disperazione, Nicholas si scagliò avanti, sfruttando il peso del proprio corpo e la stretta ferrea alle orecchie di Helm per spingerlo contro lo spuntone di legno acuminato. La punta centrò la giuntura fra la prima vertebra della spina dorsale e la base del cranio, affondò come un chiodo e tranciò parzialmente la spina dorsale. Colpito da uno spasmo, Helm spalancò le mascelle. Nicholas si allontanò, con un pezzo di carne che gli pendeva dal mento e il sangue che sgorgava dalla ferita profonda e irregolare. Helm era infilzato sul moncone di ramo come una carcassa su un gancio di macelleria. Gli arti sussultavano, i muscoli della faccia si contraevano convulsamente, le palpebre vibravano come quelle di un epilettico, gli occhi roteavano: ormai si scorgeva solo il bianco che luccicava nella semioscurità dell'abisso. Nicholas s'issò sul tronco accanto al cadavere e rimase ad ansimare, mentre il sangue gli colava sul petto. Il tronco roteò adagio per la disposizione sbilanciata del peso, e Helm cominciò a scivolare dallo spuntone. La pelle si lacerò con un suono di seta strappata, le vertebre stridettero contro il legno. Poi il cadavere, finalmente immobile, piombò bocconi nell'acqua e cominciò ad affondare. Nicholas non era disposto a lasciarlo andare. «Voglio essere sicuro, ragazzo mio», sibilò muovendo a stento la bocca ferita. Sputò una boccata di sangue e di saliva, afferrò il colletto del texano e lo tenne a faccia in giù nell'acqua, sotto il tronco. Wilbur Smith
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La velocità aumentò nell'ultimo tratto del canyon, ma Nicholas continuò a stringere il cadavere, deciso ad annegare l'ultima scintilla di vita nella carcassa, fino a che la corrente gliela strappò e la fece affondare in un tumulto d'acqua grigia. «Porterò i tuoi saluti a Tessay», gridò Nicholas mentre lo guardava sparire. Poi s'impegnò per bilanciare il tronco e non cadere nella corrente. Finalmente fu risputato attraverso la breccia nelle rocce rosate nell'ultimo tratto del Dandera. Quando passò sotto il ponte sospeso di corde, scivolò dal tronco e si diresse a nuoto verso la riva occidentale. Ricordava anche troppo bene il terribile salto che portava il Dandera nel Nilo, meno d'un chilometro più a valle. Sedette sulla riva e strappò una striscia di tela dalla camicia e si fasciò alla meglio il mento ferito. Il sangue intrise il cotone sottile e bagnato, ma Nicholas strinse più forte il nodo dietro la testa per stagnarlo. Si alzò barcollando e avanzò tra i cespugli che fiancheggiavano il fiume finché non raggiunse la pista che conduceva al monastero. Si fermò una volta sola, quando sentì il rumore dell'elicottero che decollava dalla cima del precipizio sopra l'abisso, molto più indietro. Si voltò a guardare. «A quanto pare, Tuma Nogo ce l'ha fatta ad andarsene. Peccato. Chissà che fine hanno fatto von Schiller e l'egiziano», mormorò toccandosi il mento ferito. «Nessuno di loro, almeno, potrà entrare nella tomba, a meno che non sbarrino di nuovo il fiume...» All'improvviso lo colpì un pensiero. «Mio Dio... E se von Schiller fosse stato già dentro quando le acque del fiume sono salite?» Rise, poi scosse la testa. «Sarebbe sperare troppo. La giustizia non è mai così perfetta.» Scosse di nuovo la testa, ma il movimento rinnovò il dolore della ferita. Si strinse con una mano il mento fasciato e proseguì lungo la pista. Infine raggiunse la strada lastricata che conduceva al monastero e cominciò a correre. Nel girare intorno a un angolo del labirinto, Nahoot Guddabi andò a urtare contro von Schiller, e stranamente la presenza del vecchio, sebbene non fosse di alcuna utilità in quella situazione, servì a tenere a bada il panico che minacciava di travolgerlo. Senza Hansith, il labirinto era diventato un luogo bizzarro e solitario. Una presenza umana era una benedizione. Per un momento, i due rimasero aggrappati uno all'altro come Wilbur Smith
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bambini perduti nella foresta. Von Schiller portava ancora una piccola parte del tesoro che stavano esaminando quando Hansith era fuggito. Teneva in una mano lo scettro d'oro uncinato e nell'altra il flagello cerimoniale. «Dov'è il monaco?» urlò a Guddabi. «Perché siete scappati e mi avete lasciato solo? Dobbiamo trovare la strada per uscire dalle gallerie. Idiota, non si rende conto del pericolo...» «Come può pretendere che conosca la strada...» ribatté furioso Nahoot, poi s'interruppe quando notò le scritte tracciate con il gesso sulla parete dietro alla spalla di von Schiller. Per la prima volta comprese che cosa significavano. «Ecco!» esclamò sollevato. «Harper o la donna ce l'hanno indicata. Venga!» Si avviò nel corridoio seguendo le scritte. Tuttavia, quando arrivarono alla scala centrale, era passata quasi un'ora dal momento in cui Hansith li aveva abbandonati. E mentre scendevano precipitosamente i gradini che portavano alla galleria lunga, la voce del fiume diventò un sibilo insistente come il respiro di un drago addormentato. Nahoot cominciò a correre e von Schiller lo seguì barcollando sulle gambe indebolite dalla vecchiaia e dalla paura. «Aspetti!» gridò, ma Nahoot ignorò la supplica e varcò l'apertura della porta murata. Sul pianerottolo il generatore Honda funzionava ancora, ma Nahoot non lo guardò neppure. Si slanciò nel pozzo inclinato sotto la luce delle lampade appese al soffitto. Superò l'angolo continuando a correre, ma si fermò di colpo quando si accorse che il passaggio era allagato fino al livello del segno antichissimo del massimo della piena che si scorgeva sulle pareti. Non c'erano più tracce dell'inghiottitoio e del ponte galleggiante: erano coperti da una quindicina di metri d'acqua. Il Dandera, che aveva custodito la tomba per secoli e secoli, aveva ripreso possesso di quel luogo. Scuro e implacabile, chiudeva l'entrata della tomba come aveva fatto per oltre tre millenni. «Allah!» mormorò Nahoot. «Allah abbia pietà di noi.» Von Schiller arrivò all'angolo e si fermò accanto a Nahoot. Inorriditi, guardarono il pozzo inondato. Von Schiller si accasciò contro la parete. «Siamo in trappola», mormorò. A quelle parole Nahoot piagnucolò sommessamente e si lasciò cadere in ginocchio. Cominciò a pregare con voce nasale, cantilenante, e quel suono fece infuriare il tedesco. Wilbur Smith
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«La smetta, tanto non serve a niente!» E colpì con il flagello dorato la schiena curva di Nahoot che gridò per il dolore e si scostò. «Dobbiamo trovare un modo per uscire da qui.» La voce di von Schiller diventò più ferma. Era abituato a comandare, e prese in pugno la situazione. «Può esserci un'altra strada», decise. «La cercheremo. Se c'è un'apertura in comunicazione con l'esterno, dovremmo sentire un soffio d'aria.» Il tono divenne più sicuro. «Sì! Ecco che cosa faremo. Spenga la ventola, e cercheremo di scoprire se c'è un movimento d'aria.» Nahoot reagì al comando e tornò indietro per spegnere la ventola elettrica. «Ha l'accendino, no?» disse von Schiller. «Useremo quelli.» Indicò i fogli e le fotografie che Royan aveva lasciato sul tavolo a cavalletto, «Il fumo c'indicherà la presenza di correnti d'aria.» Per due ore si spostarono a tutti i livelli della tomba, reggendo le torce improvvisate e osservando i movimenti del fumo. Ma non scoprirono neppure una corrente lievissima nella galleria e, alla fine, tornarono al pozzo inondato e scrutarono disperati l'acqua nera e immobile che l'ostruiva. «E l'unica via d'uscita», mormorò von Schiller. «Chissà se il monaco è scappato da quella parte.» Nahoot si accasciò ai piedi della parete. «Non ci sono altre possibilità.» Per un po' rimasero in silenzio. Era difficile valutare il trascorrere del tempo. Ora che il fiume aveva trovato il suo livello, l'acqua nel pozzo non si muoveva più; il rumore fievole e lontano della corrente che piombava nell'inghiottitoio sembrava sottolineare il silenzio. I due potevano sentire il loro respiro. Finalmente Nahoot parlò. «Il carburante del generatore. Deve essere quasi alla fine. Non ho visto nessuna scorta...» Tutti e due rifletterono su ciò che sarebbe successo quando il piccolo serbatoio sarebbe rimasto in secca. Pensarono all'oscurità che si avvicinava. All'improvviso von Schiller urlò: «Deve uscire dal pozzo per cercare aiuto. Glielo ordino». Nahoot lo fissò, incredulo. «Ci sono più di cento metri di galleria per arrivare all'esterno, e il fiume è in piena.» Wilbur Smith
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Von Schiller si alzò di scatto e si avvicinò con aria minacciosa. «Il monaco è scappato da lì. È l'unica via d'uscita. Deve attraversare la galleria a nuoto e raggiungere Helm e Nogo. Helm saprà che cosa fare. Mi tirerà fuori di qui.» «Lei è pazzo!» Nahoot indietreggiò. «Glielo ordino!» gridò von Schiller. «Vecchio pazzo!» Nahoot tentò di alzarsi, ma il tedesco avventò il pesante flagello d'oro in un colpo inatteso che centrò Nahoot alla faccia e lo fece cadere riverso, gli lacerò le labbra e spezzò due incisivi. «È pazzo!» gemette. «Non può...» Ma von Schiller continuò a colpirlo, sferzandogli la faccia e le spalle. Le pesanti code d'oro del flagello tagliavano il cotone sottile della camicia. «L'ammazzo!» urlò il tedesco mentre continuava a infierire. «L'ammazzo se non mi obbedisce.» «Basta!» gemette Nahoot. «No, basta, per favore. Farò quello che vuole, ma la smetta.» Si allontanò strisciando sul pavimento del pozzo fino a quando l'acqua non gli arrivò alla cintura. «Mi dia il tempo per prepararmi», implorò. «Vada!» lo minacciò von Schiller brandendo il flagello. «Con ogni probabilità troverà l'aria intrappolata nella galleria. Ce la farà a passare. Vada!» Nahoot raccolse l'acqua con le mani e se la buttò sulla faccia per lavare il sangue che scorreva da un taglio profondo alla guancia. «Devo togliermi i vestiti e le scarpe.» Cercava di guadagnare tempo, ma von Schiller non gli permetteva di uscire dall'acqua. «Può farlo anche lì», ordinò agitando il flagello. Nell'altra mano stringeva il pesante scettro uncinato, e Nahoot sapeva che un colpo di quell'arma avrebbe potuto spaccargli il cranio. Rimase in acqua, immerso fino al ginocchio e saltellò su un piede per togliere una scarpa dopo l'altra. Poi, controvoglia, si spogliò e rimase in mutande. Aveva le spalle segnate dai colpi del flagello e rivoli di sangue gli scorrevano sulla schiena. Sapeva di dover placare il vecchio pazzo. Si sarebbe immerso e avrebbe nuotato per un breve tratto nella galleria, poi si sarebbe aggrappato alla parete fino a quando non avrebbe potuto respirare... e infine sarebbe uscito a nuoto. Wilbur Smith
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«Vada!» gridò von Schiller. «Sta perdendo tempo. Non creda che le lascerò fare quello che vuole.» Nahoot avanzò a guado nel pozzo fino a quando l'acqua gli coprì il petto. Si soffermò per qualche minuto e respirò profondamente. Poi s'immerse. Von Schiller stava in attesa, ma non riuscì a vedere nulla sotto lo strato nero e minaccioso dell'acqua. Nella luce delle lampade, il sangue di Nahoot macchiava la superficie. Trascorse un minuto, e all'improvviso vi fu un turbinio. Un braccio umano emerse, con la mano protesa come in un gesto di supplica e infine sprofondò di nuovo. Von Schiller si sporse per vedere. «Guddabi!» chiamò con voce rabbiosa. «A che gioco sta giocando?» Vi fu un altro turbinio sott'acqua, e qualcosa balenò come uno specchio. «Guddabi!» gridò von Schiller in tono irritato. Come se obbedisse al richiamo, la testa di Nahoot affiorò. La pelle era cerea, esangue, e la bocca era spalancata in uno spaventoso urlo muto. Intorno a lui l'acqua ribolliva come se un banco di grossi pesci si stesse disputando il cibo. Mentre von Schiller continuava a guardare senza capire, una marea scura sali intorno alla testa di Nahoot e macchiò di rosa la superficie. Per un momento, il tedesco non si rese conto che era il sangue dell'egiziano. Poi scorse le sagome lunghe e sinuose che sfrecciavano e si contorcevano sotto la superficie, circondando la testa di Nahoot, che alzò di nuovo la mano e la tese verso von Schiller. Il braccio era parzialmente divorato, segnato da profonde ferite a mezzaluna nei punti in cui la carne era stata strappata a morsi. Von Schiller urlò inorridito e indietreggiò. Gli occhi di Nahoot avevano un'espressione d'accusa. Fissava il tedesco, e dalla gola gli usciva un crocidio folle che non aveva nulla di umano. Sotto lo sguardo di von Schiller, una delle anguille giganti spinse la testa sopra la superficie. I denti brillarono come frammenti di vetro nelle fauci spalancate e affondarono nella gola di Nahoot, che, tuttavia, non cercò di scacciare l'animale. Era stordito. Continuava a fissare von Schiller, mentre l'anguilla, attorta in una sfera lucida di spire viscide, gli pendeva dalla gola. Lentamente la testa di Nahoot riaffondò. Per lunghi minuti l'acqua fu agitata dai movimenti in profondità e dalle apparizioni improvvise dei Wilbur Smith
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pesci serpentini. Poi a poco a poco la superficie si placò, ridivenne immobile come una lastra di vetro nero. Von Schiller si voltò e fuggì, risalì il pozzo inclinato, superò il pianerottolo, dove il generatore continuava a borbottare, corse disperatamente cercando di allontanarsi il più possibile dall'acqua. Non sapeva dove stava andando. Seguiva tutti i passaggi che si aprivano davanti a lui. Ai piedi della scala centrale urtò l'angolo della parete, cadde stordito sulle piastrelle d'agata e rimase disteso a balbettare mentre sulla fronte gli spuntava un bernoccolo violaceo. Dopo un po', si rimise in piedi e salì vacillando i gradini. Era confuso e disorientato. La sua mente cominciava a cedere al delirio dell'orrore e della paura. Cadde ancora e si trascinò carponi nella galleria fino a un altro angolo del labirinto. Lì riuscì a risollevarsi e a proseguire. D'un tratto, in modo per lui del tutto inatteso, la scala ripida che conduceva nella trappola a gas di Taita si aprì sotto i suoi piedi. Cadde e urtò le gambe e il petto. Si rialzò ancora, attraversò vacillando il magazzino passando fra le file di anfore, salì l'altra scala ed entrò nella galleria affrescata che conduceva alla tomba del faraone Marnose. Ne aveva percorso circa la metà, stralunato e stordito, quando le luci si affievolirono per un momento e divennero gialle. Poi si ravvivarono quando il generatore aspirò l'ultimo carburante rimasto dal fondo del serbatoio. Von Schiller si fermò al centro della galleria e alzò disperatamente gli occhi verso le luci. Sapeva che cosa sarebbe successo. Per qualche altro minuto le lampade continuarono a brillare, poi si affievolirono di nuovo. La tenebra lo avvolse come le pesanti pieghe di velluto di un drappo funebre. Era così intensa e assoluta che sembrava avere un peso, una consistenza fisica, addirittura un sapore. Il buio parve insinuarsi nel suo corpo e lo afferrò alla gola. Von Schiller riprese a correre, ma nell'oscurità aveva perduto il senso dell'orientamento. Andò a sbattere contro la pietra e cadde di nuovo. Sentì il sangue che gli scorreva sul viso. Non riusciva a respirare. Piagnucolò e gemette, poi, steso sul fianco, si raggomitolò in posizione fetale. Si chiese quanto tempo avrebbe impiegato per morire, e rabbrividì al pensiero che l'agonia poteva durare giorni, forse addirittura qualche settimana. Si mosse leggermente, rannicchiandosi più vicino all'oggetto di pietra Wilbur Smith
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che aveva urtato. Nel buio non poteva capire che era il grande sarcofago di Marnose. Così, nella tenebra della tomba, circondato dai tesori funebri del sovrano egizio, von Schiller rimase in attesa. In attesa di una morte tanto lenta quanto ineluttabile. Il monastero di san Frumenzio era deserto. I monaci, avendo sentito il fragore della battaglia e gli spari che echeggiavano nella gola, avevano radunato i loro tesori ed erano fuggiti. Nicholas attraversò correndo il chiostro e si soffermò per prendere fiato in cima alla scala che conduceva al livello del Nilo e al sacrario dell'Epifania dove aveva nascosto i gommoni. Scrutò ansimando il bacino sottostante, dove la luce solare arrivava raramente, ma le nubi degli spruzzi argentei che si alzavano dalle cascate gemelle glielo nascondevano. Non aveva modo di sapere se Sapper e Royan erano là ad aspettarlo o se avevano incontrato difficoltà lungo la pista. Si assestò la benda lacera e insanguinata intorno al mento, e guardò in basso. Sentì la voce nella nebbiolina argentea, la voce che lo chiamava. Poi Royan salì correndo i gradini scivolosi per andargli incontro. «Nicholas! Oh, Dio sia ringraziato! Temevo che non...» Stava per gettarsi fra le sue braccia, ma poi notò il volto fasciato e sanguinante. Si bloccò, sgomenta. «Vergine santa!» mormorò. «Che ti è successo, Nicky?» «Una zuffa con Jake Helm. È solo un graffio, ma in questo momento non saprei baciarti come si deve», disse lui, sforzandosi di sorridere. «Dovrai aspettare un po'.» Le cinse le spalle con il braccio e la fece voltare verso la scala. «Dove sono gli altri?» chiese mentre scendevano. «Sono tutti qui. Sapper e Mek stanno gonfiando e caricando i gommoni.» «E Tessay?» «È qui, al sicuro.» Scesero l'ultima rampa e arrivarono al molo sotto il sacrario dell'Epifania. Il Nilo era salito di tre metri dall'ultima volta che Nicholas era stato lì: adesso era gonfio e rapido, fangoso e veloce. Riusciva a stento a scorgere i dirupi sull'altra sponda attraverso le nubi di spruzzi. Wilbur Smith
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Dei cinque gommoni Avon accostati al molo, quattro erano già pronti. Mek e Sapper stavano caricando le cassette per munizioni e le fissavano sotto le reti di nylon verde. Sapper alzò la testa, vide Nicholas e sul suo viso apparve un'espressione di comico sbalordimento. «Che cosa diavolo hai combinato?» chiese. «Un giorno te lo racconterò», promise Nicholas, e si voltò per abbracciare Mek. «Grazie, vecchio mio», disse. «I tuoi uomini si sono battuti bene, e mi hai aspettato.» Guardò la fila dei guerriglieri feriti stesi ai piedi del dirupo. «Avete subito molte perdite?» «Tre morti e questi sei feriti. Avrebbe potuto andare molto peggio se gli uomini di Nogo avessero insistito.» «Comunque sono sempre troppi», commentò Nicholas. «È troppo anche uno solo», ammise Mek in tono burbero. «Gli altri dove sono?» «In fuga verso il confine. Ho tenuto con me solo quelli necessari per manovrare i gommoni.» Mek gli tolse la benda sporca dal mento. Royan soffocò un grido nel vedere la ferita, ma Mek sogghignò. «Sembra che ti abbia morso uno squalo.» «Appunto», confermò Nicholas. «Ci vorrà almeno una dozzina di punti», rifletté Mek. Poi chiamò uno dei suoi uomini perché gli portasse lo zaino. «Mi dispiace, ma non ho anestetico», lo avvertì, mentre lo faceva sedere sull'arcaccia di uno dei gommoni. Quindi gli versò il disinfettante sulla ferita. Nicholas si lasciò sfuggire un gemito di dolore. «Brucia, eh?» chiese soddisfatto Mek. «Ma aspetta che cominci a ricucirti.» «Tanta bontà sarà scritta sul libro d'oro accanto al tuo nome», ribatté Nicholas. Con un sorriso maligno, Mek aprì un pacchetto di materiale per suture e, mentre accostava i lembi della ferita e tirava il filo, parlava a voce bassa in modo che soltanto Nicholas potesse sentirlo. «Nogo ha almeno una compagnia che sorveglia il fiume più a valle. I miei esploratori dicono che li ha piazzati in modo da tenere sotto controllo le piste sulle due sponde.» «Però non sa che abbiamo i gommoni per discendere il fiume, vero?» chiese Nicholas stringendo i denti. «E poco probabile che lo sappia; tuttavia sa molto sui nostri movimenti. Forse aveva un informatore fra i tuoi operai.» Mek indugiò prima di Wilbur Smith
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affondare di nuovo l'ago. «E ha ancora l'elicottero. Ci vedrà sul fiume non appena le nubi si apriranno.» «Il fiume è la nostra unica via d'uscita. Speriamo che il cielo resti coperto.» Quando Mek ebbe annodato l'ultimo punto, applicò un cerotto al mento di Nicholas. Sapper, intanto, aveva finito di gonfiare e caricare l'ultimo gommone. Quattro guerriglieri portarono la barella di Tessay, e Mek la aiutò a salire e a sistemarsi, poi si accertò che avesse a portata di mano una cinghia di sicurezza. La lasciò per andare dai feriti e aiutò questi a imbarcarsi. Quattro erano in grado di camminare, ma due dovettero essere trasportati. Infine tornò da Nicholas. «Vedo che hai trovato la tua radio», disse lanciando un'occhiata alla custodia di fibra di vetro che portava appesa alle spalle. «Senza questa saremmo nei guai.» Nicholas batté affettuosamente la mano sulla custodia. «Prenderò il comando di quel gommone. Con Tessay.» «Bene. E Royan verrà con me su quello di testa.» «E meglio che lasci andare avanti me», disse Mek. «Sei un esperto di navigazione fluviale?» chiese Nicholas. «Io sono l'unico che abbia già disceso il Nilo.» «Sì, vent'anni fa», obiettò Mek. «Ho fatto notevoli progressi da allora. Non discutere. Tu verrai per secondo, e Sapper sarà sul terzo gommone. C'è qualcuno dei tuoi che conosca abbastanza il fiume per poter comandare gli altri due?» «Tutti i miei uomini conoscono il fiume», rispose Mek, e cominciò a gridare ordini. I guerriglieri obbedirono, correndo agli Avon loro assegnati. Nicholas aiutò Royan a salire sul loro gommone, poi diede una mano ai suoi uomini per scostarlo dalla riva rocciosa. Non appena lo scafo galleggiò libero, si arrampicarono a bordo e impugnarono i remi. Nicholas si accorse subito che Mek non aveva esagerato: quegli uomini erano veri esperti. Remavano con forza e scioltezza e il canotto leggero sfrecciò nella corrente. Gli Avon erano stati progettati per trasportare sedici uomini e non erano molto carichi. Le cassette per munizioni erano grosse ma pesavano relativamente poco, e non c'erano più di dodici uomini per imbarcazione. I Wilbur Smith
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gommoni galleggiavano bene ed era facile manovrarli. «Più avanti troveremo il maltempo», confidò Nicholas a Royan. «Fino al confine sudanese.» Era in piedi accanto al timone, a poppa, e da lì poteva vedere bene ciò che gli stava davanti. Royan, rannicchiata ai suoi piedi, stringeva una cinghia di sicurezza e cercava di non intralciare i rematori. Tagliarono trasversalmente la corrente che investiva il grande bacino di pietra sotto le cascate e Nicholas puntò verso la stretta imboccatura dalla quale il fiume deviava verso ovest. Alzò lo sguardo al cielo e vide, al di là degli spruzzi, che i nuvoloni temporaleschi erano bassi e violacei: sembravano gravare sulle sommità dei dirupi. «La fortuna comincia a schierarsi dalla nostra parte», disse a Royan. «In queste condizioni meteorologiche non ci troveranno neppure con l'elicottero.» Guardò il Rolex che aveva il vetro imperlato dagli spruzzi. «Manca un paio d'ore all'imbrunire. Dovremmo riuscire a lasciarci qualche chilometro di fiume alle spalle prima di essere costretti a fermarci per la notte.» Si voltò a guardare a poppa e vide il resto della flottiglia che lo seguiva. Gli Avon erano d'un giallo fluorescente e spiccavano ben visibili anche nella nebbia e nella semioscurità della gola. Alzò il pugno per segnalare di avanzare. Mek, sul natante che lo seguiva, ripeté il suo gesto e gli rivolse un gran sorriso. Il fiume li afferrò. Varcarono l'ingresso nelle viscere strette e tortuose del Nilo. Gli uomini smisero di remare e si lasciarono portare dalla corrente. Non potevano far altro che aiutare Nicholas a pilotare il gommone nei momenti più disperati, e quindi stavano pronti, acquattati lungo le fiancate. L'acqua alta della gola aveva coperto molte rocce, tuttavia la loro presenza sotto la superficie era contrassegnata dalle onde fisse o dalla spuma candida delle strozzature. La piena era salita lungo le due rive e batteva contro i dirupi della subgola. Se un Avon si fosse capovolto o se un membro dell'equipaggio fosse stato scagliato fuori bordo non ci sarebbe stato lo spazio necessario per fermarsi a raccogliere i superstiti. Nicholas stava in piedi e guardava davanti a sé. Era costretto a scegliere in anticipo la rotta e, quando l'aveva scelta, non poteva cambiare idea. Tutto dipendeva dalla sua capacità d'interpretare e giudicare gli umori del Wilbur Smith
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Nilo. Sapeva di essere un po' fuori allenamento, e un nodo di paura gli strinse lo stomaco quando spostò la barra del timone per puntare verso il primo tratto di acqua verde. Discesero la rapida mentre Nicholas manteneva la posizione della prua con tocchi delicati del timone, e arrivarono in fondo seguiti dalle altre imbarcazioni. «È facile come bere un bicchier d'acqua», commentò ridendo Royan. «Non dirlo!» l'implorò Nicholas. «Qualche demonio potrebbe sentirti...» Puntò la prua verso un'altra serie di rapide che sembrava correre loro incontro a una velocità terrificante. Nicholas passò nel varco fra due affioramenti di roccia, e li osservò sfrecciare via. Solo quando furono a metà della rapida scorse davanti a sé l'alta onda fissa da cui balzava il fiume. Girò la barra e cercò di deviare, ma il Nilo li teneva saldamente nella sua stretta. Come un cacciatore che supera uno steccato, saettarono sopra l'onda fissa e poi, con un sussulto sconvolgente, precipitarono più a valle. L'Avon si piegò in due, con la prua che quasi toccava la poppa mentre tentava di passare attraverso lo squarcio nella superficie del fiume. Gli uomini dell'equipaggio caddero uno addosso all'altro e Nicholas sarebbe stato catapultato fuori bordo se non fosse stato legato e non avesse tenuto ben salda la barra. Royan si buttò lunga distesa sul fondo e si aggrappò alla cinghia di sicurezza con tutte le sue forze. L'Avon schizzò in alto, riassunse la forma originale, quindi restò librato per un attimo e quasi si capovolse prima di ricadere sull'acqua in posizione normale. Un uomo dell'equipaggio fu scagliato via, e restò a galleggiare di fianco a loro, trascinato alla stessa velocità del gommone, tanto che i compagni poterono issarlo di nuovo a bordo. Il carico delle cassette per munizioni s'era spostato, ma le reti avevano impedito danni maggiori. «Perché l'hai fatto?» gridò Royan a Nicholas. «Proprio quando cominciavo a fidarmi di te.» «Era soltanto una prova», rispose lui. «Volevo vedere se sei davvero una dura.» «Lo ammetto, sono una donnicciola», gli assicurò lei. «Non c'è bisogno che lo rifai.» Nicholas si voltò e vide l'imbarcazione di Mek piombare come loro attraverso il varco; il terzo gommone invece ebbe un preavviso sufficiente per aggirare il tratto più infido della rapida. Wilbur Smith
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Guardò di nuovo davanti a sé. Si concentrò sulle acque tumultuose del fiume. Il suo universo era racchiuso fra gli alti dirupi della subgola mentre lottava per far passare l'Avon. Non sapeva se fossero gli spruzzi o le gocce di pioggia a battergli sulle guance e sul mento ferito e a volargli orizzontalmente negli occhi fin quasi ad accecarlo. In certi momenti era un miscuglio degli uni e delle altre. Un'ora più tardi, Nicholas sbagliò di nuovo nel giudicare le rapide: vi entrarono di traverso e rischiarono di capovolgersi. Due dei suoi uomini finirono in acqua. Manovrando abilmente e sporgendosi dalla fiancata riuscirono a ripescarne uno, ma l'altro urtò contro una roccia prima che potessero raggiungerlo. Affondò e non tornò più a galla. Nessuno commentò l'accaduto. Tutti erano troppo impegnati a restare vivi. A un certo momento, nel fragore degli spruzzi del fiume, si alzò la voce di Royan. «Nicky! Un elicottero! Lo senti?» Nicholas alzò lo sguardo verso il cupo ventre grigio delle nubi che sfioravano le cime dei dirupi e distinse vagamente il sibilo e il rombo dei rotori. «Sopra le nubi!» gridò, cercando di asciugarsi gli occhi con il dorso della mano. «Non potranno vederci.» L'inizio della notte africana, accelerato dai nuvoloni bassi, portò loro un nuovo pericolo, del tutto inatteso. Nel breve volgere di pochi secondi passarono da un tratto poco accidentato al vuoto assoluto, come se le acque si fossero spalancate davanti a loro. La caduta parve durare in eterno, anche se in realtà non fu superiore ai nove metri. Poi piombarono sul fondo e si ritrovarono a galleggiare in un groviglio di uomini e imbarcazioni nel bacino a valle della cascata. Lì il fiume arrestava per un momento la sua corsa e roteava su se stesso, raccogliendo le forze per una nuova, folle carica. Un solo Avon si era capovolto e galleggiava a pancia in su. Neppure il suo scafo estremamente stabile aveva potuto superare la cascata senza rovesciarsi. Gli uomini delle altre imbarcazioni si avvicinarono remando per ripescare i superstiti, i remi e l'equipaggiamento che galleggiava. Furono necessari gli sforzi di tutti per raddrizzare il gommone. Era quasi completamente buio quando lo rimisero in sesto. «Contate le casse!» ordinò Nicholas. «Quante ne abbiamo perdute?» Quasi non riuscì a credere di aver avuto tanta fortuna quando Sapper Wilbur Smith
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rispose: «Undici ancora a bordo. Tutte presenti e illese». Tuttavia, se il carico reggeva bene, non altrettanto si poteva dire degli uomini e delle donne: tutti erano esausti, bagnati fradici e tremavano per il freddo. Tentare di proseguire nell'oscurità sarebbe stato un suicidio. Nicholas guardò Mek, che era a bordo del gommone più vicino, e scosse la testa. «C'è un tratto di acqua calma all'angolo del precipizio.» Mek indicò la parte terminale del bacino. «Forse troveremo da ormeggiare per stanotte.» Scorsero un albero piccolo ma robusto che spuntava da una fenditura verticale nella roccia: lo usarono come bitta e vi assicurarono una cima, quindi legarono i gommoni l'uno all'altro e si prepararono a passare la notte in quel luogo. Non c'era possibilità di mangiare o bere qualcosa di caldo, quindi dovettero accontentarsi di razioni in scatola infilzate sulle punte delle baionette e di qualche boccone d'injera molliccio. Mek lasciò la sua imbarcazione per andare ad acquattarsi accanto a Nicholas. Gli passò un braccio intorno alle spalle e gli parlò all'orecchio. «Ho fatto l'appello. Abbiamo perso un altro uomo alle cascate. Ormai non lo troveremo più.» «Non me la sono cavata molto bene», ammise Nicholas. «Forse domani dovresti essere tu a fare da guida.» «Non è stata colpa tua.» Mek gli batté la mano sulla schiena. «Nessuno avrebbe potuto fare di meglio. E stata l'ultima cascata...» S'interruppe. Insieme, ascoltarono il rombo dell'acqua. «Fin dove siamo arrivati?» chiese Nicholas. «E abbiamo ancora molta strada da fare?» «È quasi impossibile dirlo, ma secondo me ci troviamo a metà del percorso verso il confine. Dovremmo raggiungerlo domani pomeriggio.» Per un po' rimasero in silenzio, poi Mek chiese: «Che giorno è oggi? Ho perso il conto». «Anch'io.» Nicholas inclinò l'orologio per leggere il quadrante luminoso. «Mio Dio, è già il trenta!» «L'aereo deve venire a prelevarvi a Roseires dopodomani.» «Il primo d'aprile», confermò Nicholas. «Ce la faremo?» «Puoi rispondere tu.» Mek sorrise, ma senza allegria. «Quali possibilità ci sono che il tuo pilota si presenti in ritardo?» «Jannie è un professionista. Non ritarda mai», disse Nicholas. Tacque per un momento, poi chiese: «Quando saremo a Roseires, che cosa vuoi Wilbur Smith
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fare della tua parte del bottino?» Tirò un calcio a una cassetta per munizioni. «Vuoi portarla con te?» «Quando sarai partito con il tuo amico ciccione, dovremo scappare in fretta per allontanarci da Nogo. Non voglio trasportare bagagli in più. Porta via la mia parte e vendila per me. Ho bisogno di quella somma per continuare a combattere.» «Ti fidi di me?» «Sei mio amico o no?» «È più facile imbrogliare gli amici, perché non se l'aspettano», disse Nicholas. Gli batté un pugno sulla spalla e rise. «Vai a dormire. Domani dovremo faticare parecchio.» Mek si alzò, facendo ondeggiare leggermente l'Avon. «Dormi bene, amico mio», disse, e passò sul gommone a fianco, dove lo attendeva Tessay. Nicholas si appoggiò con la schiena al morbido bordo pneumatico dell'Avon e prese fra le braccia Royan, che gli si appoggiò al petto. Era ancora bagnata fradicia e il suo corpo era percorso da brividi. Dopo un po' smise di tremare e mormorò: «Sei un'ottima borsa dell'acqua calda». «E una buona ragione per tenermi con te definitivamente», disse Nicholas mentre le accarezzava i capelli umidi. Lei non rispose, ma si fece più vicina. Dopo un po' il suo respiro rallentò, e piombò nel sonno dello sfinimento. Per quanto fosse infreddolito e dolente, con i palmi ricoperti di vesciche causate dalla barra del timone, Nicholas non riuscì a addormentarsi con la stessa facilità. Ora che la prospettiva di arrivare alla pista di atterraggio di Roseires sembrava più vicina, era assillato da problemi che non riguardavano la navigazione sul fiume e la possibilità di doversi aprire la strada in mezzo agli uomini di Nogo. Quelli erano nemici che poteva riconoscere e combattere... ma c'era qualcos'altro che presto avrebbe dovuto affrontare, qualcosa di meno definibile e più sconvolgente. Royan si mosse fra le sue braccia e mormorò una frase che lui non riuscì ad afferrare. Sognava e parlava nel sonno. La strinse dolcemente fra le braccia e Royan si placò. Stava per assopirsi anche lui quando la sentì parlare di nuovo, questa volta in modo chiaro: «Scusami, Nicky. Non odiarmi, ma non posso permettere che tu...» Le parole si confusero e Nicholas non ne comprese il senso. Ormai era di nuovo sveglio. Le parole di Royan aggravavano i suoi Wilbur Smith
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dubbi e i suoi presentimenti. Per il resto della notte dormì a intermittenza, e il suo riposo fu turbato da sogni non meno inquietanti di quelli che sicuramente stava facendo Royan. Nell'oscurità che precede l'alba, la scosse gentilmente. Lei gemette e si svegliò controvoglia. Inghiottirono qualche boccone delle razioni fredde avanzate dalla sera precedente. Poi, quando l'aurora illuminò la gola quanto bastava perché potessero vedere la superficie del fiume e gli ostacoli che li attendevano, tolsero gli ormeggi e i gommoni gialli si sgranarono sulla corrente. Ricominciò la battaglia contro il fiume. La coltre di nubi era ancora bassa e compatta, e gli acquazzoni li investivano a intervalli. Proseguirono per tutta la mattina, e l'umore del fiume cominciò a migliorare a poco a poco. La corrente non era più tanto rapida e insidiosa, e le rive erano meno alte e accidentate. Le nubi formavano ancora una distesa ininterrotta quando, a metà pomeriggio, raggiunsero un tratto dove il fiume, infilandosi tra alture e promontori, formava un'altra serie di rapide. Forse Nicholas era diventato più esperto perché le superò senza inconvenienti. Gli sembrava, anzi, che ogni tratto di acqua bianca fosse progressivamente meno tumultuoso di quello che l'aveva preceduto. «Credo che ormai il peggio sia passato», disse a Royan, che stava seduta ai suoi piedi. «Il gradiente del fiume è più dolce, e penso che si stia appiattendo ora che ci avviciniamo alle pianure del Sudan.» «Manca molto a Roseires?» chiese lei. «Non lo so. Ma il confine non dovrebbe essere lontano.» Nicholas e Mek mantenevano i gommoni molto vicini e allineati in modo che fosse possibile passare a voce gli ordini e tenerli tutti al loro comando. Nicholas virò verso l'acqua più profonda all'esterno di un'ampia ansa e, nel superarla, vide che le rive del fiume, più avanti, sembravano aperte, senza rapide né rocce. Sorrise a Royan. «Che ne diresti di venire a pranzo al grill del Dorchester, domenica prossima? Fanno il miglior roast beef di tutta Londra.» Si sbagliava, oppure aveva visto davvero un'ombra nello sguardo di Royan, prima che lei gli rispondesse, con un sorriso: «Mi pare un'ottima Wilbur Smith
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idea»? «Poi andremo a casa, ci raggomitoleremo davanti al televisore e guarderemo l'incontro della giornata, o magari faremo un incontro tutto nostro.» «Sei uno sfacciato», rise Royan. «Ma mi sembra una proposta gradevole.» Nicholas stava per chinarsi su di lei e baciarla per il piacere di vederla arrossire di nuovo, quando scorse una danza di minuscole fontane bianche che sprizzavano dalla superficie del fiume e sembravano avvicinarsi rapidamente. Dopo un istante, sentì il crepitio di armi automatiche, il suono caratteristico di un RPD russo. Si buttò addosso a Royan per proteggerla con il suo corpo, e sentì Mek che urlava dal secondo gommone: «Rispondete al fuoco! Costringeteli a tener giù la testa!» I guerriglieri lasciarono i remi, presero le armi e cominciarono a sparare verso la curva interna della riva da cui veniva l'attacco. I nemici erano invisibili, nascosti com'erano fra le rocce e gli arbusti. Tuttavia gli uomini di Mek sapevano bene che in un'imboscata del genere era indispensabile un massiccio fuoco di copertura, per costringere gli aggressori a starsene acquattati e per privarli di un obiettivo preciso cui mirare. Una pallottola perforò l'involucro di nylon dell'Avon, passò vicino alla testa di Royan e andò a piantarsi in una delle cassette metalliche per munizioni. I fianchi dell'imbarcazione non offrivano alcuna protezione contro gli spari che continuavano a martellarli. Nicholas si spostò, mettendosi fra Royan e la riva dalla quale stavano sparando. Un uomo dell'equipaggio fu colpito alla testa. La pallottola gli tranciò la parte superiore del cranio come il guscio di un uovo à la coque e lo scagliò in acqua. Royan urlò, più per l'orrore che per la paura. Nicholas afferrò il fucile d'assalto che il morto aveva lasciato cadere e vuotò il caricatore contro la riva, a brevi raffiche di tre colpi, falciando gli arbusti che nascondevano gli assalitori. L'Avon continuava a scendere, portato dalla corrente, e girava su se stesso, non più guidato dal timone. Impiegò meno di un minuto per passare oltre il punto dell'imboscata e aggirare un'altra ansa. Nicholas lasciò cadere il fucile scarico e gridò a Mek: «Tutto bene?» Wilbur Smith
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«Qui abbiamo un ferito, ma non è grave.» Anche le altre imbarcazioni riferirono le perdite subite: un morto e tre feriti. Nessuno dei feriti però era in condizioni preoccupanti e, sebbene tre dei gommoni fossero stati colpiti, gli scafi erano a compartimenti stagni e quindi erano rimasti regolarmente a galla. Mek affiancò il suo Avon a quello di Nicholas e chiamò. «Cominciavo a credere che fossimo sfuggiti a Nogo.» «Questa volta ce la siamo cavata con poco», rispose Nicholas. «Probabilmente li abbiamo colti di sorpresa. Non si aspettavano che passassimo sul fiume.» «Be', ormai non sarà più una sorpresa. Puoi scommettere che staranno già comunicando via radio. Nogo sa dove siamo e dove stiamo andando.» Alzò gli occhi verso le nubi. «Possiamo solo augurarci che il cielo rimanga coperto.» «Manca molto al confine con il Sudan?» «Non ne sono sicuro, ma non penso che ci vorranno più di due ore per arrivarci.» «La frontiera è sorvegliata?» «No, non c'è niente. Soltanto boscaglia deserta su entrambe le rive.» «Speriamo che resti deserta», mormorò Nicholas. Meno di mezz'ora dopo lo scontro a fuoco, sentirono di nuovo l'elicottero. Volava sopra le nubi. Passò sopra di loro senza mostrarsi e proseguì verso valle. Dopo altri venti minuti lo sentirono di nuovo. Tornava nella direzione opposta. Quindi puntò di nuovo verso valle, sempre al di sopra della coltre nuvolosa. «A che gioco sta giocando Nogo?» gridò Mek a Nicholas. «Si direbbe che sorvegli il fiume, ma non può scendere sotto le nubi.» «Secondo me trasporta gli uomini verso valle per tagliarci fuori. Adesso sa che usiamo i gommoni e che possiamo andare in un'unica direzione. Non è il tipo che rispetta i confini internazionali. Forse ha capito che stiamo andando a Roseires, la pista d'atterraggio più vicina lungo il Nilo. Magari sarà ad aspettarci quando sbarcheremo.» Mek accostò l'Avon, lanciò una cima e legò le due imbarcazioni per poter parlare in tono normale. «Non mi piace per niente, Nicholas. Finiremo di nuovo in mezzo a loro. Che cosa suggerisci?» Wilbur Smith
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Nicholas rifletté. «Non riconosci questa parte del fiume? Non sai esattamente dove siamo?» Il guerrigliero scosse la testa. «Quando attraversiamo il confine mi tengo sempre lontano dal fiume... Però, quando ci avvicineremo, riconoscerò il vecchio zuccherificio di Roseires. È circa cinque chilometri più a monte della pista.» «È abbandonato?» chiese Nicholas. «Sì. È stato abbandonato all'inizio della guerra, vent'anni fa.» «Con questo cielo coperto sarà buio fra un'ora», disse Nicholas. «Il fiume scorre più lentamente ed è meno pericoloso. Possiamo arrischiarci a proseguire anche di notte. Forse Nogo non se l'aspetta, e riusciremo a sfuggirgli.» «Non sai fare di meglio?» rise Mek. «Che razza di piano! È un po' come chiudere gli occhi e sperare che vada tutto per il meglio.» «Be', se qualcuno sapesse dirmi dove diavolo siamo e a che ora arriverà domani Jannie, potrei tirar fuori qualcosa di più convincente», ribatté sorridendo Nicholas. «Ma, fino ad allora, mi affiderò all'istinto.» Ansiosi e tesi, ripresero a remare nel crepuscolo prematuro sotto la densa coltre di nubi e di pioggia. Nell'oscurità che scendeva, gli uomini tenevano le armi puntate verso le rive del fiume, pronte a rispondere a un eventuale attacco. «Dovremmo aver superato il confine un'ora fa», gridò Mek a Nicholas. «Il vecchio zuccherificio non sarà molto lontano.» «Come farai a vederlo al buio?» «Sulla riva c'è quello che resta di un vecchio molo di pietra. Era lì che caricavano lo zucchero sui battelli diretti a Khartum.» La notte scese all'improvviso, e Nicholas provò un senso di sollievo quando le rive del fiume sparirono nell'oscurità e il buio nascose i gommoni agli occhi ostili. Legarono insieme le imbarcazioni perché non venissero separate e lasciarono che il fiume le trasportasse. Si tenevano così vicini alla sponda destra che più volte si arenarono, costringendo così alcuni uomini a scendere a terra e a spingere gli Avon in acque più alte. I piloni di pietra del molo di Roseires apparvero all'improvviso e l'Avon di Nicholas vi andò a sbattere contro prima che potesse evitarli. L'equipaggio, comunque, stava pronto. Tutti balzarono nell'acqua che arrivava al petto e trascinarono a riva il gommone. Mek raggiunse subito Wilbur Smith
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terra e, presi con sé venti uomini, si allontanò nei campi abbandonati di canna da zucchero per controllare l'area e prevenire un attacco a sorpresa delle forze di Nogo. Quando il resto della flottiglia arrivò a riva ci furono più confusione e più chiasso di quanto Nicholas ritenesse consigliabile. Cominciarono a trasferire a terra i feriti e a scaricare le cassette per munizioni. Nicholas s'issò Royan sulla schiena, la portò a riva, poi tornò indietro a prendere Tessay, che aveva ritrovato in parte le forze. Il riposo forzato durante la navigazione le aveva dato la possibilità di riprendersi. Si alzò in piedi da sola e si aggrappò alle spalle di Nicholas che la portò a riva. Quando arrivò all'asciutto, lui la lasciò scivolare con i piedi sul suolo e chiese: «Come ti senti?» «Bene. Grazie davvero.» Nicholas la sostenne ancora per un momento mentre Tessay recuperava l'equilibrio e le disse a voce bassa: «Non ho più avuto una possibilità di parlarti. Il messaggio che Royan ti ha chiesto di telefonare da Debra Mariam... Sei riuscita a trasmetterlo?» «Sì, certo», rispose candidamente Tessay. «Ho detto a Royan che ho comunicato il suo messaggio a Moussad dell'ambasciata egiziana. Non te ne ha parlato?» Nicholas rabbrividì come per un colpo basso, ma sorrise e continuò a usare un tono disinvolto. «Deve averlo dimenticato. Comunque non era importante. Grazie, Tessay.» In quel momento, Mek apparve all'improvviso e sibilò: «C'è più chiasso che al mercato dei cammelli. Nogo ci sentirà a dieci chilometri di distanza». Prese il comando e cominciò a organizzare le operazioni. Quando finirono di scaricare le cassette, trascinarono le imbarcazioni nel campo di canna da zucchero, svitarono le valvole per sgonfiarle, poi le coprirono con bracciate di canne. Continuarono a lavorare al buio e distribuirono le cassette agli uomini di Mek. Sapper ne strinse due sotto le braccia. Nicholas si appese la radio a una spalla e lo zaino all'altra, e bilanciò sulla testa la cassetta che conteneva la maschera funeraria del faraone e l'ushabti di Taita. Mek mandò avanti gli esploratori a controllare il percorso fino alla pista d'atterraggio; voleva assicurarsi che non ci fossero imboscate. Poi si mise alla testa della colonna. Si sgranarono in fila indiana lungo la pista invasa dall'erba. Non avevano ancora percorso un chilometro e mezzo quando le nubi si aprirono. Una falce di luna e le stelle irradiarono luce sufficiente Wilbur Smith
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per distinguere la ciminiera dello zuccherificio in rovina sullo sfondo del cielo notturno. Nonostante la luce delle stelle, l'avanzata era lenta, interrotta da lunghe pause perché i barellieri che trasportavano i feriti faticavano a reggere l'andatura. Quando raggiunsero la pista erano le tre del mattino e la luna era tramontata. Ammonticchiarono le casse per munizioni nel boschetto di acacie dove, durante il viaggio d'andata, avevano nascosto i pallet con l'equipaggiamento per costruire la diga e il trattore giallo. Sebbene fossero tutti esausti, Mek piazzò le sentinelle intorno al campo. Le due donne curarono i feriti alla luce di un fuocherello schermato, usando quel che restava dei medicinali di Mek. Nicholas provò un immenso sollievo quando aprì la custodia di fibra di vetro e si accorse che, nonostante i tuffi nel Nilo, la guarnizione di gomma che sigillava il coperchio aveva mantenuto la radio all'asciutto. Dopo aver acceso l'apparecchio, lo sintonizzò sulla frequenza a onde corte e captò una trasmissione commerciale di radio Nairobi. Stava cantando Yvonne Chaka Chaka. La voce e lo stile gli piacevano, ma spense la radio per non consumare la batteria e si appoggiò contro il tronco di un'acacia per cercare di riposare un po' prima dello spuntar del giorno. Tuttavia non riuscì a dormire: la collera e la sensazione di essere stato tradito erano troppo forti. Tuma Nogo guardò il sole che spuntava fiammeggiando dalla superficie del Nilo davanti a loro. Volavano a pochi metri dall'acqua per sfuggire al radar dei militari sudanesi. Sapeva che c'era una stazione radio a Khartum in grado d'intercettarli anche a quella distanza. I rapporti con i sudanesi erano pessimi, e il colonnello sapeva che avrebbero reagito con rabbiosa prontezza se avessero scoperto che aveva violato il loro spazio aereo. Nogo era confuso e preoccupato. Dopo lo scacco subito nella gola del Dandera, tutto era andato storto. Aveva perduto i suoi alleati. Aveva puntato su Helm e su von Schiller e solo adesso capiva di aver perso. Era completamente abbandonato a se stesso e aveva già commesso parecchi errori. Nonostante tutto, però, era deciso a inseguire i fuggitivi e a raggiungerli, anche se fosse stato costretto ad addentrarsi di parecchio nel territorio Wilbur Smith
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sudanese. Durante le ultime settimane, ascoltando i colloqui tra von Schiller e l'egiziano, era venuto a sapere che Harper e Mek Nimmur si erano impossessati di un tesoro di valore immenso. La sua immaginazione riusciva a stento ad afferrarne l'enormità... Aveva sentito cifre dell'ordine di decine di milioni di dollari. Anche un solo milione era una somma così astronomica che la sua mente stentava ad assimilarla; tuttavia aveva una vaga idea di ciò che poteva significare in termini concreti, e delle cose, delle donne e del lusso che poteva assicurare. La scomparsa dalla scena di von Schiller e di Jake Helm gli aveva lasciato via libera. Il tesoro poteva diventare esclusivamente suo. Non c'era più nessuno a ostacolarlo... a parte gli sciftà in fuga comandati da Mek Nimmur e dall'inglese. Nogo aveva dalla sua parte forze enormemente superiori. E aveva l'elicottero. Se fosse riuscito a bloccare i fuggiaschi, era certo di riuscire a toglierli di mezzo. Non dovevano esserci superstiti in grado di portare la notizia ad Addis Abeba. Quando Mek, l'inglese, e tutti i suoi seguaci fossero morti, sarebbe stato uno scherzo portare il bottino fuori dal Paese per mezzo dell'elicottero. C'erano un uomo a Nairobi e un altro a Khartum con cui era in contatto: avevano comprato da lui avorio e hashish di contrabbando. Loro avrebbero saputo vendere il bottino al prezzo più alto, anche se erano individui davvero subdoli. Nogo aveva già deciso che non lo avrebbe affidato per intero a uno di loro, ma avrebbe diviso il rischio, in modo che, anche se uno lo avesse tradito o truffato... La mente di Nogo sfrecciò in un'altra direzione. Assaporò l'idea delle grandi ricchezze e di tutto ciò che gli avrebbero assicurato: abiti di lusso e macchine sportive, terre, bestiame... e donne. Donne bianche e nere, tutte le donne che voleva, una donna nuova per ogni notte della sua vita... Si scosse bruscamente da quelle allettanti fantasticherie. Prima doveva scoprire dove erano spariti i fuggiaschi. Si irritò pensando al fatto che Harper e Mek Nimmur avessero nascosto i gommoni nei pressi del monastero, e maledisse Hansith per non averglielo riferito. Lui ed Helm avevano previsto che tentassero di fuggire a piedi e tutti i piani per cercare di bloccarli prima del confine sudanese si erano basati su quella convinzione. Era stato Helm a suggerirgli di preparare un deposito di carburante di riserva presso il confine, dove immaginava che sarebbe passato Mek Nimmur, perché così avrebbe potuto rifornire l'elicottero. Senza la scorta Wilbur Smith
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sarebbe stato obbligato già da un pezzo a rinunciare all'inseguimento. Nogo aveva quindi piazzato i suoi uomini a sorvegliare le piste che conducevano verso ovest lungo il fiume, e non aveva neppure pensato di tener d'occhio il Nilo. Per puro caso una delle pattuglie s'era trovata nella posizione giusta per avvistare la flottiglia di gommoni gialli che scendeva la corrente. Però non avevano avuto un preavviso adeguato per organizzare un'imboscata efficace, e avevano potuto sparare contro le imbarcazioni solo per pochi minuti. Non avevano danneggiato i gommoni in modo tale da impedir loro di proseguire. Il comandante della compagnia gli aveva comunicato via radio i particolari dello scontro con Mek Nimmur, e subito Nogo aveva cominciato a trasferire uomini al confine sudanese per fermare la flottiglia. Purtroppo il Bell Jet Ranger non poteva trasportare più di sei uomini armati per volta, e così si era sprecato molto tempo. Prima che scendesse l'oscurità, era riuscito a piazzare in posizione appena sessanta militari. Durante la notte aveva temuto che la flottiglia gli sfuggisse, e allo spuntar del giorno avevano ripreso i voli. Per fortuna la coltre nuvolosa si era un po' aperta e adesso potevano volare a bassa quota lungo il fiume in cerca della flottiglia di Mek Nimmur. Erano tornati indietro lungo il Nilo sul lato etiope del confine, fino al punto in cui avevano sparato contro Mek Nimmur. Delle imbarcazioni, però, neppure l'ombra. Nogo allora aveva ordinato al pilota di attraversare la frontiera e di sorvegliare il Nilo in territorio sudanese. Il colonnello era riuscito a convincere il pilota a penetrare nello spazio aereo del Sudan, ma poi quello si era ribellato e, sebbene lo avesse minacciato con la Tokarev, aveva fatto compiere al Bell Jet Ranger una virata di centottanta gradi e aveva cominciato a risalire lungo il fiume. Ormai Nogo capiva di essere stato battuto, e rimuginava cupo sul sedile dell'elicottero a fianco del pilota, cercando d'intuire dove fossero finite le sue prede. Scorse la ciminiera dello zuccherificio abbandonato di Roseires che svettava nel cielo mattutino e aggrottò la fronte. L'avevano superata poco prima, mentre discendevano il Nilo. «Punta verso la riva nord», ordinò al pilota. Quello esitò e gli lanciò un'occhiataccia prima di obbedire. Sorvolarono le costruzioni, a quota più bassa della ciminiera. Lo zuccherificio era scoperchiato e le finestre erano rettangoli precari nei muri Wilbur Smith
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sfondati. Le caldaie e i macchinari erano stati portati via vent'anni prima, e Nogo non vedeva altro che un guscio vuoto. Il pilota fermò l'elicottero a mezz'aria, in volo stazionario, mentre Nogo osservava. «Non c'è posto per nascondersi», pensò il colonnello con rabbia. «Niente! Li abbiamo persi. Risali di nuovo il fiume.» Il pilota alzò il muso del Bell Jet Ranger e virò. Nogo stava guardando i campi di canna da zucchero abbandonati che fiancheggiavano il Nilo quando un bagliore giallo colpì la sua attenzione. «Aspetta!» gridò nel microfono. «Là c'è qualcosa. Torna indietro!» L'elicottero rimase librato sopra il campo e Nogo indicò. «Scendi! Scendi!» Non appena i pattini toccarono il suolo, i sei soldati si lanciarono dalla cabina e corsero a piazzarsi in posizioni difensive. Nogo scese dal portello anteriore e si addentrò fra le canne. Gli bastò un'occhiata. I gommoni gialli erano stati sgonfiati, piegati e coperti in fretta. Tutto intorno il terreno era stato smosso dal passaggio di piedi calzati di stivali. Le tracce conducevano verso l'interno, e gli uomini che le avevano lasciate dovevano essere molto carichi perché le orme erano profonde. Nogo tornò all'elicottero e si tese all'interno della cabina. «C'è una pista d'atterraggio nei dintorni», gridò al pilota, ma quello scosse la testa. «La carta non la indica.» «Ma lo zuccherificio doveva averla.» «Se c'era, è caduta in disuso da anni.» «La troveremo», dichiarò Nogo. «Le tracce di Mek Nimmur ci guideranno.» Subito si oscurò. «Ma dovrò portare altri uomini. A giudicare dalle orme, Mek Nimmur deve avere con sé almeno cinquanta dei suoi sciftà.» Lasciò i suoi allo zuccherificio, poi ripartì per il confine con l'intenzione di prelevare i primi rinforzi. «Big Dolly! Rispondi, Big Dolly. Qui è Faraone. Mi senti?» Nicholas fece la chiamata un'ora prima del levar del sole. «Se conosco bene il modo di ragionare di Jannie, e credo di conoscerlo, compirà il volo di avvicinamento nell'oscurità e arriverà qui appena ci sarà luce sufficiente per vedere la pista e atterrare.» Wilbur Smith
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«Ammesso che il ciccione arrivi», commentò Mek Nimmur. «Arriverà», disse Nicholas. «Jannie non mi ha mai deluso.» Premette il pulsante del microfono e chiamò ancora. «Big Dolly! Rispondi, Big Dolly.» Ci fu un sommesso crepitio di scariche, e Nicholas regolò scrupolosamente l'apparecchio. Tornò a chiamare a intervalli di quindici minuti. In quel momento si trovavano sotto le acacie, nell'oscurità. All'improvviso Royan si alzò ed esclamò, emozionata: «Eccolo! Sento i motori di Big Dolly. Ascoltate!» Nicholas e Mek corsero all'aperto e guardarono il cielo verso nord. «Non è l'Hercules», disse Nicholas. «È un altro apparecchio.» Si voltò verso il sud e il fiume. «E comunque, arriva dalla direzione sbagliata.» «È vero», riconobbe Mek. «E un monomotore, e non è un aereo ad ala fissa. Si sentono i rotori.» «L'elicottero della Pegasus!» sibilò rabbiosamente Nicholas. «Ci hanno trovati.» In quel mentre, il suono delle pale svanì e Nicholas tirò un sospiro di sollievo. «Ci hanno mancati. Non possono aver visto gli Avon.» Tornarono al riparo delle acacie, e Nicholas chiamò di nuovo per radio. Ma Jannie non rispose. Venti minuti più tardi, sentirono il Bell Jet Ranger che tornava e lo seguirono ansiosamente. «Si è allontanato di nuovo», annunciò Nicholas dopo un po'. Ma, dopo altri venti minuti, l'elicottero si fece risentire. «Nogo sta preparando qualcosa», disse Mek, irrequieto. «Che cosa?» Nicholas si sentiva contagiato dal suo malumore. Quando Mek si preoccupava, di solito c'era una valida ragione. «Non so», rispose Mek. «Forse Nogo ha avvistato gli Avon e sta trasferendo altri uomini prima di attaccarci.» Uscì di nuovo allo scoperto, ascoltò, quindi tornò da Nicholas che stava chino sulla radio. «Continua a chiamare», raccomandò. «Io vado ad assicurarmi che i miei siano pronti a tenere a bada Nogo quando arriverà.» L'elicottero continuò ad andare avanti e indietro lungo il Nilo a brevi intervalli durante le tre ore successive, ma la mancanza di ulteriori sviluppi sembrava rassicurante, e Nicholas alzava appena la testa dalla radio ogni volta che sentivano in lontananza il rumore delle pale. All'improvviso la radio crepitò e Nicholas trasalì. Wilbur Smith
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«Faraone! Qui Big Dolly. Mi senti?» La voce di Nicholas tradiva il sollievo. «Qui Faraone. Dimmi qualche parolina dolce, Big Dolly.» «Atterraggio previsto alla vostra posizione fra un'ora e trenta minuti.» L'accento di Jannie era inconfondibile. «Saremo felici di darti il benvenuto!» gli assicurò Nicholas. Riagganciò il microfono e sorrise alle due donne. «Jannie sta arrivando e...» S'interruppe e il sorriso lasciò il posto a un'espressione sgomenta. Dalla direzione del fiume giunse il crepitare del fuoco rapido degli AK47, seguito pochi secondi più tardi dall'esplosione di una bomba a mano. «Oh, maledizione!» gemette. «Sapevo che era troppo bello per durare. È arrivato Nogo.» Riprese il microfono e parlò con voce priva di emozione. «Big Dolly! Qui sono arrivati i cattivi. Avrai un'accoglienza fin troppo calorosa.» «Tieni ben stretta la corona, Faraone!» rispose la voce di Jannie. «Sto arrivando.» Per mezz'ora il combattimento lungo il fiume s'intensificò; il crepitio degli spari divenne quasi continuo e si avvicinò all'estremità opposta della pista d'atterraggio. Era chiaro che gli uomini di Mek, sparpagliati lungo il lato della pista più vicino al fiume, stavano ripiegando sotto la pressione dei soldati di Nogo. Ogni venti minuti l'elicottero ritornava e scaricava altri militari per attaccare le già scarse difese di Mek. Nicholas e Sapper erano gli unici uomini in buone condizioni rimasti nel boschetto di acacie: tutti gli altri erano andati a difendere il perimetro. Toccò quindi a loro due portare le cassette per munizioni nel punto in cui sarebbe stato più facile caricarle in fretta quando l'Hercules fosse atterrato. Nicholas divideva il carico secondo le scritte su ogni cassetta. Quella che conteneva la maschera funebre e l'ushabti di Taita sarebbe stata la prima a essere portata a bordo, seguita dalle tre corone: la corona azzurra da guerra, il nemes e la corona doppia dell'Alto e Basso Egitto. Il valore delle tre cassette superava con ogni probabilità quello del resto del tesoro. Poi Nicholas si avvicinò ai feriti e parlò con ognuno. Li ringraziò per l'aiuto e per i sacrifici, quindi si offrì di portarli con l'Hercules in una località dove sarebbero stati curati. E aggiunse che, se avessero accettato l'offerta, avrebbe fatto in modo che, non appena fossero guariti, potessero Wilbur Smith
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tornare in Etiopia. Sette guerriglieri, che non avevano ferite gravi e che erano in grado di muoversi, rifiutarono di abbandonare Mek Nimmur. Era un commovente esempio di lealtà, una dimostrazione della grande stima in cui tenevano il loro capo. Gli altri, sia pure con riluttanza, accettarono di essere trasferiti, ma soltanto dopo che Tessay li ebbe rassicurati di persona. Poi Nicholas e Sapper li portarono ai margini del boschetto, nel punto in cui Jannie avrebbe fatto atterrare Big Dolly. Quando ebbero finito, Nicholas si rivolse a Tessay: «E tu? Dovresti venire con noi. Sei ancora abbastanza malridotta». Tessay rise. «Finché riuscirò a reggermi in piedi, non lascerò Mek Nimmur.» «Non capisco che cosa tu ci veda in quel vecchio briccone.» Nicholas rise con lei. «Gli ho parlato. Vuole che porti via anche la sua parte del bottino. Al momento non può addossarsi altri bagagli.» «Sì, lo so. Mek e io ne abbiamo discusso. Ha bisogno del denaro per continuare a combattere.» Tessay s'interruppe e si chinò istintivamente all'immane rombo di un'esplosione. Un'alta colonna di polvere s'innalzò vicino al margine del boschetto. Le schegge sibilarono sopra le loro teste, e subito vennero investiti da una pioggia di ramoscelli e di foghe, «Vergine santa! Che cos'è stato?» esclamò Tessay. «Un mortaio da sessanta millimetri», disse Nicholas. Non si era mosso e non aveva cercato di mettersi al riparo. «Più fumo che arrosto. Nogo deve averlo portato qui con l'ultimo volo.» «Quando arriverà l'Hercules?» «Chiamerò Jannie e glielo chiederò.» Nicholas tornò alla radio e Tessay bisbigliò a Royan: «Voi inglesi siete sempre così imperturbabili?» «Non domandarlo a me. Sono quasi completamente egiziana, e ho una paura tremenda.» Royan sorrise e cinse con un braccio le spalle di Tessay. «Sentirò molto la tua mancanza, signora Sole.» «Forse ci rivedremo in tempi più sereni.» Tessay si girò per darle un bacio, e Royan l'abbracciò. «Lo spero. Lo spero con tutto il cuore.» Nicholas parlò nel microfono. «Big Dolly, qui Faraone. Qual è la tua posizione, adesso?» Wilbur Smith
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«Faraone, mancano venti minuti all'atterraggio e ce la mettiamo tutta. State preparando il pop-corn oppure quello che sento in sottofondo è un mortaio?» «Con il tuo spirito avresti dovuto fare il comico», rispose Nicholas. «I cattivi controllano l'estremità meridionale della pista. Avvicinati da nord. Il vento soffia da ovest a circa cinque nodi, e comunque atterri lo avrai di traverso.» «Roger, Faraone. Quanti passeggeri e quanto carico?» «I passeggeri sono sei feriti più tre. Il carico è di cinquantadue cassette, circa un quarto di tonnellata.» «Non valeva la pena di fare tanta strada per così poco, Faraone.» «Big Dolly, ti avverto. C'è un altro apparecchio nel circuito. Un elicottero Bell Jet Ranger verde e rosso. È ostile ma disarmato.» «Roger, Faraone. Ti richiamerò in finale.» Nicholas raggiunse le due donne che erano in attesa accanto ai feriti. «Ormai non ci vorrà molto», annunciò allegramente, alzando la voce per farsi sentire nonostante il fragore del mortaio e delle armi. «Abbiamo giusto il tempo per una tazza di tè», annunciò. Buttò qualche rametto sulle braci del fuoco e frugò nello zainetto per prendere il tè rimasto, mentre Sapper metteva sulle fiamme il bricco annerito dal fumo. Avevano un'unica tazza. «Prima le signore», disse Nicholas, e la passò a Royan, che bevve un sorso e si scottò le labbra. «Bene!» sospirò, poi inclinò la testa. «Questa volta è proprio Big Dolly.» Nicholas ascoltò e annuì. «Credo che tu abbia ragione.» Si alzò e tornò alla radio. «Big Dolly. Ti sentiamo.» «Cinque minuti all'atterraggio, Faraone.» Dal punto in cui si trovava, Nicholas poteva vedere l'intera pista. Gli uomini di Mek si ritiravano, scomparivano come fumo fra i cespugli spinosi e sparavano in direzione del fiume. Nogo li stava incalzando. «Fai presto, Jannie», mormorò. Poi cambiò espressione mentre si rivolgeva alle due donne. «Avete tutto il tempo per finire il tè. Non sprecatelo.» Il rombo dei motori di Big Dolly era più forte degli spari. All'improvviso l'Hercules apparve, così basso che sembrava sfiorare le chiome delle acacie. Era enorme: l'apertura alare andava da un lato della stretta pista Wilbur Smith
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all'altro. Jannie lo fece posare, sollevando una lunga nube ondeggiante di polvere bruna. Big Dolly passò come una freccia davanti al boschetto di acacie, e Jannie salutò con la mano dalla cabina di pilotaggio. Nel momento in cui ebbe ridotta a sufficienza la velocità, premette i freni e spostò lentamente la barra del timone. L'Hercules girò su se stesso e tornò indietro rombando, mentre la rampa di carico cominciava ad abbassarsi. Fred era in attesa nel vano aperto. Scese correndo per aiutare Sapper e Nicholas a trasportare le barelle dei feriti. Bastarono pochi minuti per portarli su per la rampa. Poi cominciarono a caricare le cassette per munizioni. Anche Royan diede una mano, e salì a bordo vacillando un po' con una delle cassette più leggere strette contro il petto. Una bomba di mortaio esplose a circa duecento metri da loro. Dopo mezzo minuto, un'altra cadde a meno di cento. «Stanno aggiustando il tiro», borbottò Nicholas. Prese due cassette sotto le braccia e salì correndo la rampa. «Ormai ci hanno nel mirino», gridò Fred. «Dobbiamo andarcene. Lasciate il resto del carico. Andiamo! Via!» Sotto i rami dell'acacia erano rimaste soltanto quattro cassette. Nicholas e Sapper ignorarono l'ordine e ridiscesero precipitosamente. Afferrarono due cassette per ciascuno e tornarono indietro. La rampa cominciava a sollevarsi e i motori di Big Dolly ruggivano. Lanciarono le cassette all'interno della rampa e si aggrapparono alla parte terminale per issarsi a bordo. Nicholas arrivò per primo e tese le braccia per aiutare Sapper. Quando si voltò a guardare, Tessay era una figuretta solitaria sotto l'acacia. «Abbraccia e ringrazia Mek per me!» le gridò. «Sai come contattarci!» La voce di Royan si perse nel rombo dei motori, e la polvere avvolse Tessay, la costrinse a coprirsi il viso e a girarsi. Poi la rampa si chiuse con un sibilo e la nascose alla loro vista. Nicholas passò un braccio intorno alle spalle di Royan, la spinse attraverso l'ampio vano di carico e la fece sedere su uno dei sedili pieghevoli all'entrata della cabina di pilotaggio. «Allaccia la cintura!» le ordinò, e salì la scaletta. «Credevo che avessi deciso di restare», lo accolse Jannie senza alzare gli occhi dai comandi. «Tieniti forte. Si va!» Wilbur Smith
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Nicholas si aggrappò alla spalliera del sedile del pilota mentre Jannie e Fred spingevano avanti le manette del gas per dare al quadrimotore la massima potenza. Big Dolly accelerò, saettando lungo la pista. Nicholas guardò al di sopra della spalla di Jannie e vide le sagome indistinte degli uomini in tuta mimetica fra i cespugli spinosi in fondo alla pista. Qualcuno sparava contro l'aereo. «Con quei fucili a tappo non faranno gran male... Big Dolly è una vecchiaccia dalla pelle dura», borbottò Jannie. Quindi fece alzare l'aereo. Sorvolarono i nemici e Jannie puntò il muso verso l'alto. «Benvenuti a bordo, amici, grazie per aver scelto l'Africair. Prossimo scalo, Malta», annunciò poi con voce strascicata. Quindi cambiò tono di colpo. «Oh! Da dove arriva quel piccolo rompiscatole?» Davanti a loro il Bell Jet Ranger s'innalzò dai folti cespugli sulla riva del Nilo. L'angolo di salita era tale per cui il pilota non poteva vedere l'Hercules che si avvicinava. E infatti l'elicottero non deviò minimamente. «Appena cinquecento piedi e centodieci nodi», gridò Fred al padre. «Troppo basso per virare.» La collisione sembrava ormai inevitabile. Il Bell Jet Ranger era così vicino che Nicholas vide chiaramente Tuma Nogo sul sedile anteriore. Le lenti nere riflettevano la luce del sole e la faccia era paralizzata in un rictus di terrore. L'uomo si era reso improvvisamente conto della presenza del grosso Hercules e del pericolo che stava correndo. La sua bocca si spalancò in un urlo silenzioso. Messo in allarme dal grido del colonnello, il pilota dell'elicottero si lanciò in una picchiata vertiginosa, cercando di evitare il muso di Big Dolly. Sembrava una manovra impossibile, eppure l'uomo riuscì a far virare l'apparecchio, più leggero e manovrabile, fin quasi al punto di girarlo sul dorso. Il Bell Jet Ranger passò sotto il ventre dell'Hercules. I passeggeri di Big Dolly sentirono appena lo sfiorarsi delle due fusoliere e Jannie non ebbe difficoltà a proseguire il volo. L'elicottero invece fu scagliato con il muso in basso e, nonostante gli sforzi disperati del pilota per tenerlo sotto controllo, puntò verso il terreno. Poi, a sessanta metri dal suolo, la turbolenza prodotta dai motori turboelica T56-A-15 dell'Hercules, che avevano una potenza di 4900 cavalli ciascuno, investì l'elicottero con la violenza di una valanga. Come una foglia morta in una bufera d'autunno, il Bell Jet Ranger, roteando su se stesso, fu trascinato via. Quando urtò il suolo, i suoi motori urlavano ancora alla massima potenza. Wilbur Smith
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All'impatto la fusoliera si accartocciò come un foglio di alluminio da cucina e Nogo morì prima ancora che i serbatoi esplodessero e una sfera di fuoco avvolgesse l'apparecchio. Non appena Jannie raggiunse una quota che gli permetteva di manovrare in tutta sicurezza, puntò il muso dell'Hercules verso nord e si voltò a guardare la pista di atterraggio di Roseires. Dall'elicottero incendiato si alzava una colonna di fumo nero, densa come catrame. La brezza occidentale avrebbe impiegato molto tempo a disperderla. «Avevi detto che erano i cattivi, no?» commentò Jannie. «Dunque, meglio loro che noi.» Jannie mise Big Dolly sulla rotta verso nord. Mentre sorvolavano a bassa quota le pianure desertiche del Sudan, Nicholas tornò nell'ampio vano di carico. «Vediamo di mettere comodi i feriti», propose. Sapper e Royan si sganciarono le cinture di sicurezza e lo seguirono. Nella fretta di andarsene da Roseires, infatti, le barelle erano state sistemate alla bell'e meglio e gli uomini erano in posizioni piuttosto scomode. Dopo un po', Nicholas li lasciò e si diresse verso la piccola ma fornitissima cambusa dietro la cabina di pilotaggio. Aprì parecchie scatolette di zuppa e affettò le pagnotte fresche che aveva trovato nel frigo. Mentre l'acqua per il tè bolliva, riprese il piccolo zaino d'emergenza e tirò fuori il sacchetto di nylon che conteneva i medicinali. Posò cinque compresse bianche nel palmo della mano, le ridusse in polvere e le aggiunse alle due tazze di tè. Royan aveva abbastanza sangue inglese nelle vene per non saper rifiutare un tè caldo. Quando ebbero finito di servire ai feriti zuppa e crostini imburrati, Royan accettò la bevanda calda. Mentre lei e Sapper bevevano, Nicholas tornò nella cabina di pilotaggio e si appoggiò alla spalliera del sedile di Jannie. «Quanto manca al confine egiziano?» chiese. «Quattro ore e venti minuti», rispose Jannie. «Non possiamo evitare di volare nello spazio aereo dell'Egitto?» disse Nicholas. Jannie si girò sul sedile e gli lanciò un'occhiata sbalordita. «Be', potremmo fare una deviazione verso ovest e sorvolare la terra di Gheddafi Il volo durerebbe sette ore di più, con ogni probabilità resteremmo a secco di carburante e saremmo costretti a un atterraggio Wilbur Smith
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d'emergenza in mezzo al Sahara.» Jannie inarcò le sopracciglia. «Dimmi un po', ragazzo mio, come mai ti è venuta in mente una domanda tanto stupida?» «Così. Era un'idea.» «Lasciala perdere», borbottò Jannie. «Non voglio più sentirla.» Nicholas gli batté la mano sulla spalla. «Sì, non pensarci più.» Quando tornò nel vano di carico, vide che Sapper e Royan erano seduti su due delle cuccette pieghevoli fissate alla paratia. La tazza vuota di Royan era ai suoi piedi. Nicholas le sedette accanto, e Royan gli toccò la fasciatura macchiata di sangue che gli copriva il mento. «È meglio che gli dia un'occhiata.» Con movimenti delicati ed esperti pulì i punti usando una garza intrisa d'alcool, e poi applicò un altro cerotto. Quelle cure amorevoli suscitarono in Nicholas un acuto senso di colpa. Fu Sapper, comunque, il primo a mostrare gli effetti del sonnifero sciolto nel tè. Si sdraiò, chiuse gli occhi e cominciò a russare sommessamente. Dopo qualche minuto, Royan si appoggiò insonnolita alla spalla di Nicholas. Quando la vide addormentata, l'adagiò e le sollevò i piedi sulla cuccetta, poi l'avvolse in un plaid. Royan non si mosse, e Nicholas dubitò per un momento dell'efficacia delle compresse. Poi le sfiorò la fronte con un bacio. «Come potrei odiarti?» mormorò. «Qualunque cosa tu abbia fatto?» Andò nell'angusto vano servizi e si chiuse dentro. Aveva tutto il tempo. Sapper e Royan non si sarebbero svegliati per diverse ore, e Jannie e Fred stavano tranquilli e soddisfatti nella cabina di pilotaggio in compagnia delle cassette di Dolly Parton. Quando ebbe finito, Nicholas diede un'occhiata all'orologio. Aveva impiegato quasi due ore. Abbassò l'asse del gabinetto e si lavò scrupolosamente le mani. Poi si guardò intorno ancora una volta e aprì la porta, Sapper e Royan continuavano a dormire sulle cuccette. Andò nella cabina di pilotaggio. Fred si abbassò la cuffia sul collo e sorrise, «L'acqua del Nilo è velenosa. Sei rimasto chiuso nel gabinetto per due ore. Mi sorprende che tu sia ancora tutto intero.» Nicholas ignorò la punzecchiatura e si sporse sopra lo schienale del sedile di Jannie. «Dove siamo?» Wilbur Smith
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Jannie puntò l'indice sulla carta che teneva in equilibrio sulla pancia. «Siamo quasi al sicuro», annunciò soddisfatto. «Arriveremo al confine egiziano fra un'ora e dodici minuti.» Nicholas rimase in piedi dietro il sedile fino a che Jannie non sollevò il microfono. «È ora di cominciare», borbottò. «Pronto, Abu Simbel», disse con l'accento degli emirati del Golfo. «Qui Zulu Whiskey Uniform Five Zero Zero.» Il controllore di volo egiziano rimase a lungo in silenzio. Jannie brontolò: «Probabilmente è in lieta compagnia nella torre. Devo lasciargli il tempo di tirarsi su i pantaloni». Il controllo di Abu Simbel rispose alla quinta chiamata, e Jannie attaccò la collaudata routine in arabo. Dopo cinque minuti, Abu Simbel lo autorizzò a proseguire verso nord, e gli disse di richiamare quando fosse arrivato all'altezza di Assuan. Il volo continuò senza inconvenienti per un'altra ora, ma i nervi di Nicholas diventavano più tesi di minuto in minuto. All'improvviso davanti a loro balenò un lampo argenteo. Un caccia salì dal basso e passò davanti al muso dell'Hercules. Jannie proruppe in un grido di sorpresa e d'indignazione, mentre altri due aerei militari salivano sfrecciando, così vicini che la turbolenza provocata dai jet si fece sentire a bordo dell'Hercules. Tutti riconobbero i modelli. Erano MIG-21 «Fishbed» con le insegne delle forze aeree egiziane e i missili aria-aria agganciati sotto le ali. «Aerei non identificati!» gridò Jannie nel microfono. «Siete su una rotta di collisione. Fatevi riconoscere!» Guardarono fuori dagli oblò di perspex che coprivano in parte il tetto della cabina di pilotaggio. Sopra di loro vedevano i tre MIG-21 che volavano in formazione contro lo sfondo azzurro del cielo africano. «zwu 500. Qui è Red Leader delle forze aeree popolari egiziane. Obbedite ai miei ordini.» Jannie si voltò a guardare Nicholas con aria desolata. «Qualcosa è andato storto. Perché diavolo ci stanno dietro?» «È meglio fare quello che dice, papà», suggerì avvilito Fred. «Altrimenti ci farà a pezzetti.» Jannie alzò le spalle e rispose al microfono in tono luttuoso, «Red Leader, qui zwu 500. Coopereremo. Prego comunicare le vostre intenzioni.» Wilbur Smith
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«La vostra nuova rotta è 053. Eseguite immediatamente!» Jannie fece virare Big Dolly verso est e diede un'occhiata alla carta. «Assuan», mormorò, avvilito. «Ci portano ad Assuan... Accidenti, dovrei anche avvertire la torre di controllo che abbiamo feriti a bordo.» Nicholas tornò alla cuccetta di Royan e la svegliò. Ancora stordita dal sonnifero, si mosse barcollando verso il vano servizi. Tuttavia quando, dieci minuti dopo, ne uscì, era pettinata e aveva l'aria di essersi ripresa dagli effetti dei barbiturici assunti con il tè. Il Nilo era di nuovo davanti a loro, e la città di Assuan sorgeva sulle due rive, annidata a valle della prima cataratta e dell'acqua imprigionata dalla grande diga. L'isola di Phile nuotava come un pesce verde al centro della corrente. Quando la voce del controllore militare dell'aeroporto di Assuan comunicò gli ordini a Jannie, Big Dolly obbedì con dignità imperturbabile e si allineò per la discesa sulla pista. I MIG-21 che li avevano scortati dal deserto non si vedevano più, ma la loro presenza ad alta quota era rivelata dalle laconiche comunicazioni radio mentre consegnavano al controllo a terra l'Hercules prigioniero. Big Dolly sorvolò la recinzione perimetrale e toccò terra, e la voce del controllore ordinò: «Svoltate nella prima pista di rullaggio a destra». Jannie obbedì. Mentre lasciava la pista principale scorse un piccolo veicolo con il cartello FOLLOW ME sul tettuccio. L'indicazione era scritta anche in arabo. Il veicolo li guidò a una fila di hangar di cemento mimetizzato. Un gruppo di uomini in tuta kaki indicò con le palette di dirigersi verso un'area di parcheggio. Non appena Jannie frenò e fece fermare Big Dolly, quattro semicingolati blindati uscirono e circondarono l'enorme aereo, puntandogli contro le armi delle torrette. Jannie continuò a obbedire alle istruzioni trasmesse via radio. Spense i motori e abbassò la rampa di carico posteriore. Durante tutte quelle operazioni, nella cabina di pilotaggio nessuno aveva aperto bocca. Stavano raggruppati e, con aria desolata, guardavano dai finestrini. All'improvviso una Cadillac bianca con una scorta di motociclisti armati e seguita da un'ambulanza militare e da un camion da tre tonnellate varcò la cancellata del perimetro e andò a fermarsi ai piedi della rampa di carico Wilbur Smith
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dell'Hercules. L'autista balzò a terra, aprì la portiera della Cadillac e il passeggero scese nel sole del pomeriggio inoltrato. Era un personaggio di riguardo, dignitoso e composto. Indossava un abito leggero e scarpe bianche, un panama e un paio di occhiali scuri. Salì la rampa seguito da due segretari e si fermò davanti ai cinque che lo attendevano. Si tolse gli occhiali e li ripose nel taschino. Riconobbe Royan, sorrise e si tolse il cappello. «Dottoressa Al Simma... Royan! Ce l'ha fatta. Congratulazioni!» Le prese la mano e la strinse calorosamente, poi guardò Nicholas. «Lei deve essere sir Nicholas Quenton-Harper. Tenevo moltissimo a conoscerla. Non vuole presentarci, Royan?» Royan abbassò gli occhi di fronte allo sguardo accusatore di Nicholas e disse: «Posso presentarti sua eccellenza Atalan Abou Sin, ministro egiziano della Cultura e del Turismo?» «Certo», rispose freddamente Nicholas. «È un piacere inaspettato, signor ministro.» «Desidero esprimere i ringraziamenti del presidente e del popolo egiziano per aver restituito al nostro paese queste preziose reliquie della nostra storia antica e gloriosa», disse il ministro con un gesto che includeva la catasta delle cassette per munizioni. «Prego, non c'è di che», mormorò Nicholas, senza staccare gli occhi da Royan che continuava a distogliere il viso. «Al contrario, le siamo profondamente grati per ciò che ha fatto, sir Nicholas.» Il sorriso di Abou Sin era garbato. «Ci rendiamo conto delle spese gravose che ha sostenuto e non vogliamo che ci rimetta di tasca sua per questo suo gesto straordinariamente generoso. La dottoressa Al Simma mi ha detto che la spedizione per recuperare i tesori e restituirceli le è costato un quarto di milione di sterline.» Prese dalla tasca interna della giacca una busta e la porse. «Questo è un assegno circolare della Banca centrale d'Egitto. È pagabile in qualunque località del mondo, e ammonta a duecentocinquantamila sterline.» «È molto generoso, eccellenza.» La voce di Nicholas era carica d'ironia, mentre infilava la busta in tasca. «Immagino che sia stata la dottoressa Al Simma a suggerirlo.» «Naturalmente», rispose Abou Sin con aria raggiante. «Royan la tiene Wilbur Smith
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nella massima considerazione.» «Ma davvero?» mormorò Nicholas che continuava a guardarla impassibile. «Questo altro piccolo pegno della nostra gratitudine, invece, è stato suggerito dal nostro presidente...» Il ministro schioccò le dita e uno dei segretari si avvicinò con un astuccio di pelle e lo aprì prima di presentarlo ad Abou Sin. Sul fondo di velluto rosso era annidata una decorazione magnifica, una stella incrostata di perline e di un pavé di minuscoli brillanti. Al centro della stella spiccava un leone d'oro rampante. Abou Sin prese la stella dall'astuccio e si accostò a Nicholas. «L'Ordine di Grande Leone d'Egitto di Prima Classe», annunciò e gli passò sopra la testa il nastro di seta scarlatta. La stella brillò sulla camicia lurida di Nicholas, macchiata di sudore, polvere e fango del Nilo. Poi il ministro si scostò e fece un cenno a un colonnello che stava sull'attenti ai piedi della rampa. Subito un gruppo di uomini in uniforme salì ordinatamente a bordo. Era evidente che i soldati sapevano già che cosa dovevano fare. Anzitutto sollevarono le barelle con gli etiopi feriti. «Sono lieto che il suo pilota abbia preavvertito via radio che c'erano feriti a bordo. Stia certo che riceveranno le migliori cure», promise Atalan Abou Sin, mentre le barelle venivano caricate sull'ambulanza. Poi i soldati tornarono, e presero a scaricare le cassette per munizioni che vennero poi messe sul camion. In meno di dieci minuti il vano di carico di Big Dolly rimase vuoto. Sulla parte posteriore del camion fu legato un telone; una scorta di motociclisti armati circondò il veicolo, e il piccolo convoglio ripartì a sirene spiegate. «Bene, sir Nicholas.» Abou Sin tese cortesemente la mano e Nicholas la strinse con aria rassegnata. «Mi dispiace di averla portata fuori strada. Deve essere ansioso di proseguire il viaggio e quindi non la tratterrò oltre. C'è altro che posso fare per lei prima che riparta? Ha carburante a sufficienza?» Nicholas lanciò un'occhiata a Jannie che alzò le spalle. «Ne abbiamo in abbondanza. Grazie comunque.» Abou Sin si rivolse di nuovo a Nicholas. «Contiamo di costruire un padiglione speciale nel museo di Luxor per ospitare gli oggetti appartenuti al faraone Marnose e da lei riportati in Egitto. A suo tempo riceverà un Wilbur Smith
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invito personale del presidente per assistere come ospite d'onore all'inaugurazione del museo. La dottoressa Al Simma, che come sicuramente saprà è stata nominata direttore del Dipartimento Antichità Egizie, sarà la responsabile del museo. Sono sicuro che sarà felice di mostrarle la sistemazione dei reperti quando lei tornerà.» Poi accennò un inchino a Sapper e ai due piloti. «Dio vi accompagni», disse, e scese la rampa. Royan si mosse per seguirlo, ma Nicholas la chiamò a voce bassa. «Royan!» Lei si fermò, girò lentamente la testa e incontrò i suoi occhi per la prima volta da quando erano atterrati. «Questo non lo meritavo», sussurrò lui. E poi, con una fitta di emozione, si accorse che Royan piangeva sommessamente. Le tremavano le labbra e le lacrime le scorrevano sulle guance. «Perdonami, Nicky», singhiozzò. «Ma dovevi saperlo che non sono una ladra. Il tesoro appartiene all'Egitto, non a noi.» «Quindi tutto quello che io credevo ci fosse fra noi due era una menzogna?» insistette lui senza pietà. «No! Io...» Royan s'interruppe e scese correndo la rampa. L'autista teneva aperta la portiera della Cadillac. Lei salì accanto ad Abou Sin senza voltarsi, e la macchina bianca si avviò in direzione del cancello. «Andiamo via in fretta prima che gli egiziani cambino idea», borbottò Jannie. «Giusto», commentò rabbiosamente Nicholas. Non appena decollarono, la torre di controllo di Assuan li autorizzò a proseguire il volo verso nord fino alla costa del Mediterraneo. Jannie, Fred, Sapper e Nicholas rimasero insieme nella cabina di pilotaggio e guardarono il lungo serpente verde del Nilo che strisciava lungo la punta dell'ala destra. Parlarono pochissimo. A un certo punto, Jannie chiese a voce bassa: «Così posso dire addio al mio compenso, vero?» «Per la verità non ero venuto per i soldi», disse Sapper. «Comunque sarebbe stato simpatico essere pagato. Il bimbo ha bisogno di scarpe.» «Qualcuno vuole una tazza di tè?» chiese Nicholas come se non avesse sentito. «Sarebbe piacevole», annuì Jannie. «Lo sarebbero di più i sessanta bigliettoni che mi devi, ma sarebbe piacevole comunque.» Wilbur Smith
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Sorvolarono il campo di battaglia di El Alamein, e scorsero i monumenti gemelli ai caduti alleati e tedeschi. Poi sotto di loro si estese l'azzurro del mare. Nicholas attese fino a quando la costa egiziana non sparì dietro di loro, poi trasse un sospiro. «Uomini di poca fede», disse in tono d'accusa. «Quando mai vi ho delusi? Sarete tutti pagati.» Gli altri tre lo fissarono a lungo e Jannie espresse i dubbi di tutti. «E come?» «Dammi una mano, Sapper», disse Nicholas, e scese la scaletta. Jannie non seppe vincere la curiosità, passò i comandi a Fred e seguì i due nel vano servizi. Sapper e Jannie si fermarono sulla soglia a guardare. Nicholas prese un utensile dalla tasca e sollevò il coperchio del gabinetto chimico. Jannie sogghignò quando Nicholas cominciò ad allentare le viti che tenevano fermo il pannello. Big Dolly era un aereo per il contrabbando, e quelle piccole modifiche indicavano che padre e figlio s'erano dati da fare per adattarlo al suo ruolo. C'erano numerosi nascondigli nelle gondole dei motori e in altre parti della fusoliera. Quando erano tornati dalla Libia, i bronzetti di Annibale avevano viaggiato nello scomparto segreto dietro quel pannello. Il fatto che si trovasse dietro il gabinetto rendeva molto improbabile che a un musulmano venisse voglia di frugare in un posto tanto immondo. «Ecco che cosa hai fatto chiuso qui dentro per tanto tempo», rise Jannie mentre Nicholas armeggiava con il pannello. Ma il suo sorriso si spense quando l'inglese, frugando nell'interno del vano, ne estrasse un oggetto straordinario. «Mio Dio! Che cos'è?» «La corona azzurra da guerra dell'antico Egitto», spiegò Nicholas, e la passò a Sapper. «Mettila sulla cuccetta, ma trattala con delicatezza.» Frugò di nuovo nello scomparto. «E questo è il nemes», annunciò, consegnandolo a Jannie. «Questa, invece, è la corona rossa e bianca dell'Alto e Basso Egitto. E questa è la maschera funeraria del faraone Marnose. Infine, ecco l'ushabti dello scriba Taita», concluse con evidente soddisfazione. Posarono gli oggetti sulla cuccetta e rimasero a contemplarli con reverenza. «Ti ho aiutato a contrabbandare fregi di pietra e bronzetti», mormorò Wilbur Smith
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Jannie. «Però non avevo mai visto niente del genere.» «Ma...» Sapper scosse la testa. «Le cassette per munizioni che gli egiziani hanno scaricato ad Assuan... Che cosa c'era dentro?» «Cinquanta bottiglie di liquido chimico per il gabinetto», spiegò Nicholas. «Più mezza dozzina di bombole d'ossigeno, tanto per far peso.» «Li hai scambiati!» Sapper sorrise felice. «Ma come diavolo sapevi che Royan ci avrebbe fregati?» «Aveva ragione quando ha detto che dovevo sapere che non è una ladra. L'avventura non aveva la sua approvazione. E...» Nicholas cercò la parola adatta. «È troppo onesta, ben diversa dai presenti.» «Grazie per il complimento», disse Jannie in tono asciutto. «Ma deve sicuramente averti dato un motivo per farti insospettire.» «Sì, certo.» Nicholas si voltò verso di lui. «Ho incominciato a nutrire qualche dubbio al momento del nostro ritorno dall'Etiopia. Lei è corsa subito al Cairo, e io capito che aveva in mente qualcosa. Ma ne ho avuto la certezza solo quando ho saputo che, tramite Tessay, aveva fatto pervenire un messaggio all'ambasciata egiziana ad Addis Abeba. Era chiaro che li aveva avvertiti del nostro ritorno.» «Che carogna», sghignazzò Jannie. «Misura le parole!» ribatté seccamente Nicholas. «È una giovane donna onesta e sincera, animata da spirito patriottico, generosa e...» «Bene, bene.» Jannie strizzò l'occhio a Sapper. «Scusa, mi sono sbagliato.» Solo due delle antiche corone egizie erano in mostra sul tavolo di noce. Nicholas le aveva messe sulle teste di due busti marmorei romani, presi a prestito da un antiquario con il quale trattava spesso affari lì a Zurigo. Aveva abbassato le tapparelle alle finestre del decimo piano e aveva sistemato l'illuminazione in modo che le corone spiccassero nel modo migliore. La sala conferenze che aveva affittato per l'occasione si trovava nel palazzo della Bank Leu in Banhofstrasse. Mentre attendeva l'arrivo dell'ospite, riconsiderò i preparativi e li giudicò ineccepibili. Andò davanti al grande specchio appeso a una parete e strinse un po' il nodo della vecchia cravatta dell'Accademia militare di Sandhurst. I punti al mento erano stati tolti. Mek Nimmur aveva fatto un ottimo lavoro e la cicatrice era ben rimarginata. L'abito era stato confezionato dal suo sarto di Wilbur Smith
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Savile Row, ed era un gessato molto sobrio. Lo aveva indossato abbastanza spesso perché cominciasse a sformarsi un po'. L'unico capo d'abbigliamento lucido era il paio di scarpe, confezionato a mano da Lobb di St. James's Street. L'interfono ronzò e Nicholas alzò il ricevitore. «C'è un certo signor Walsh che vuole vederla, sir Nicholas», disse la receptionist dall'atrio della banca. «Lo faccia salire, grazie.» Nicholas aprì la porta al primo trillo e Walsh lo fissò con aria torva. «Spero che non voglia farmi perdere tempo, Harper. Sono venuto apposta in aereo da Fort Worth.» Erano trascorse appena trenta ore da quando Nicholas aveva telefonato al ranch nel Texas. Walsh doveva essere saltato quasi immediatamente a bordo del suo jet executive per arrivare così presto. «Non mi chiamo Harper, ma Quenton-Harper», disse Nicholas. «E va bene. Quenton-Harper.» «Sir», gli rammentò Nicholas. «La pianti», ribatté rabbiosamente Walsh. «Che cos'ha da offrirmi?» «Anch'io sono lieto di rivederla, signor Walsh.» Nicholas si scostò. «Prego, si accomodi.» Walsh entrò a passo di carica. Era alto, con le spalle rotonde, le guance cascanti e grinzose e il naso adunco. Con le mani strette dietro la schiena, somigliava a un avvoltoio sul palo di uno steccato. Secondo quanto aveva pubblicato la rivista Forbes il suo patrimonio ammontava a un miliardo e settecento milioni di dollari. Due uomini entrarono dopo di lui. Nicholas li riconobbe. Il mondo dell'antiquariato era piccolo e... incestuoso. Uno era professore di storia antica alla Dallas University, e Walsh aveva sborsato un congruo finanziamento per istituire la sua cattedra. L'altro era uno degli antiquari più esperti e rispettati degli Stati Uniti. Walsh si fermò così bruscamente che gli altri due lo urtarono alle spalle, ma il miliardario non se ne accorse. «Figlio d'un cane!» mormorò mentre i suoi occhi si accendevano d'una luce quasi fanatica. «Sono falsi?» «Falsi come i bronzetti di Annibale e il bassorilievo di Hammurapi che ha acquistato da me», rispose Nicholas. Walsh si avvicinò alle due corone come un arcivescovo che si accosta al Wilbur Smith
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tabernacolo. «Devono essere freschi», mormorò. «Altrimenti avrei saputo qualcosa.» «Freschi e appena estratti dalla terra», confermò Nicholas. «Lei è il primo che li vede.» «Marnose!» Walsh lesse il cartiglio sull'ureo del nemes. «Allora le voci che circolavano erano vere. Ha aperto una tomba nuova.» «Se si può chiamare nuova una tomba vecchia di quasi quattromila anni.» Walsh e i consulenti si riunirono intorno al tavolo, pallidi e ammutoliti. «Ci lasci soli, Harper», disse Walsh. «La chiamerò quando sarò pronto per parlare di nuovo con lei.» «Sir Nicholas Quenton-Harper», lo corresse Nicholas. Sapeva di avere in mano le carte vincenti. «Per favore, ci lasci soli, sir Nicholas Quenton-Harper», lo implorò Walsh. Un'ora dopo, Nicholas rientrò nella sala. I tre visitatori erano seduti intorno al tavolo come se non sopportassero l'idea di staccarsi dalle grandi corone. Walsh fece un cenno ai consulenti che si alzarono e, con riluttanza, uscirono. Appena la porta si chiuse, Walsh chiese bruscamente: «Quanto?» «Quindici milioni di dollari americani.» «Cioè sette milioni e mezzo ciascuna.» «No, quindici milioni ciascuna. Trenta milioni per tutte e due.» Walsh vacillò. «È pazzo?» «Qualcuno la pensa così.» Nicholas sorrise. «Dividiamo la differenza», propose Walsh. «Ventidue milioni e mezzo.» Nicholas scrollò la testa con energia. «La cifra non è negoziabile.» «Sia ragionevole, Harper!» «La ragionevolezza non è mai stata uno dei miei vizi, mi dispiace.» Walsh si alzò. «Dispiace anche a me. Forse la prossima volta, Harper.» Strinse le mani dietro la schiena e si avviò alla porta. Quando l'aprì, Nicholas lo richiamò. «Signor Walsh!» Walsh si voltò, ansioso. «Sì?» «La prossima volta potrà chiamarmi Nicholas e io la chiamerò Peter, da vecchi amici.» Wilbur Smith
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«È tutto ciò che ha da dire?» «Certo. Che altro?» Nicholas assunse un'espressione perplessa. «Accidenti a lei!» Walsh tornò al tavolo e si lasciò cadere sulla sedia. «Accidenti a lei!» ripeté. Poi sospirò, sporse le labbra e chiese: «Okay, come vuole il pagamento?» «Due assegni circolari irrevocabili, ognuno per quindici milioni.» Walsh prese l'interfono. «Per favore dica a monsieur Montfleuri, il capo cassiere, di salire da me», ordinò malinconicamente. Nicholas era seduto alla scrivania nel suo studio di Quenton Hall e fissava i pannelli che rivestivano la parete di fronte. Anche se provenivano da una delle abbazie cattoliche smantellate per ordine di Enrico VIII nel 1536 ed erano state acquistati da suo nonno quasi un secolo prima, li aveva fatti installare solo da poco. Nicholas allungò la mano sotto il piano della scrivania e premette il pulsante segreto del telecomando. Una sezione dei pannelli rientrò senza far rumore e rivelò il vetro infrangibile della nicchia ricavata nel muro. I faretti del soffitto si accesero automaticamente e i fasci di luce investirono il contenuto della vetrina. I faretti erano stati collocati in modo che non ci fossero riflessi tali da disturbare l'occhio e che la corona doppia e l'aurea maschera funeraria di Marnose rifulgessero in tutto il loro splendore. Si versò del whisky in un bicchiere di cristallo e, mentre lo beveva a piccoli sorsi, assaporò il piacere del possesso. Ma dopo un po' si rese conto che gli mancava qualcosa. Prese dalla scrivania l'ushabti di Taita e gli parlò come se si rivolgesse direttamente all'antico scriba. «Tu conoscevi il vero significato della solitudine, vero?» chiese a voce bassa. «Sapevi che cosa vuol dire amare qualcuno che si può avere.» Posò la statuina e prese il telefono. Compose un numero internazionale. L'apparecchio squillò tre volte prima che un uomo rispondesse in arabo. «Ufficio del Direttore delle Antichità Egizie. Desidera?» «Posso parlare con la dottoressa Al Simma?» chiese Nicholas nella stessa lingua. «Rimanga in linea, prego. Gliela passo.» «Qui dottoressa Al Simma.» La voce fece scorrere un brivido elettrico lungo la spina dorsale di Nicholas. «Royan...» mormorò, e intuì lo shock di Royan nel lungo silenzio che Wilbur Smith
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seguì. «Tu!» bisbigliò lei. «Non credevo che ti saresti rifatto vivo.» «Ho telefonato solo per congratularmi per la nomina.» «Mi hai imbrogliata», disse Royan. «Hai scambiato il contenuto di tre cassette.» «Come disse un saggio, è più facile ingannare gli amici perché non se l'aspettano. E tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro.» «Hai venduto il tuo bottino, naturalmente. Ho sentito dire che Peter Walsh ha pagato venti milioni di dollari.» «Trenta», precisò Nicholas. «Ma solo per la corona azzurra e il nemes. Mentre ti parlo, la corona doppia e la maschera funeraria sono qui davanti a me.» «Quindi adesso puoi coprire le perdite dei Lloyd's. Devi essere contento.» «Non ci crederai, ma il mio syndicate dei Lloyd's ha ottenuto risultati tali da superare ampiamente le previsioni. Quindi non ero esattamente ridotto al verde.» «Buon per te, come direbbe mia madre.» «Una metà del denaro è già andata a Mek Nimmur e a Tessay.» «Quella, almeno, è una buona causa.» La voce di Royan vibrava di ostilità. «Mi hai chiamata solo per dirmi questo?» «No. C'è un'altra cosa che forse ti divertirà. Il tuo scrittore preferito, Wilbur Smith, ha accettato di scrivere la storia della scoperta della tomba. Intitolerà il libro Il settimo papiro. Dovrebbe uscire all'inizio del prossimo anno. Ti manderò una copia con l'autografo.» «Spero che questa volta esponga i fatti nel modo esatto», commentò lei in tono asciutto. Rimasero in silenzio per un po'. Fu Royan che riprese a parlare. «Ho una montagna di lavoro davanti a me. Se hai qualcos'altro da aggiungere...» «Per la verità, sì.» «Sì?» «Vorrei sposarti.» La sentì soffocare un'esclamazione. Poi, dopo una lunga pausa, Royan chiese a voce bassa: «Perché vorresti una cosa tanto inverosimile?» «Perché ho capito quanto ti amo.» Un altro silenzio, poi un filo di voce: «Va bene». «Che significa 'va bene'?» Wilbur Smith
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«Significa che va bene. Ti sposerò.» «Perché dovresti accettare una cosa tanto inverosimile?» chiese Nicholas. «Perché ho capito, nonostante tutto, quanto ti amo anch'io.» «C'è un volo dell'Egyptair che parte da Heathrow alle cinque e mezzo del pomeriggio. Se corro come un matto, ce la farò a prenderlo. Ma arriverò al Cairo piuttosto tardi.» «Ti aspetterò all'aeroporto, a qualunque ora.» «Arrivo!» Nicholas riattaccò e corse alla porta, ma poi tornò indietro e prese dalla scrivania l'ushabti di Taita. «Vieni, vecchio briccone», disse con una risata trionfante. «Adesso tornerai a casa come regalo di nozze.» EPILOGO Passeggiavano lungo il fiume nella sera color malva. Sotto di loro il Nilo scorreva, eternamente verde, lento e imperscrutabile, custode dei segreti dei secoli. Lungo la riva del fiume, sotto le rovine del tempio di Ramesse a Luxor dove un tempo era attraccata la grande imbarcazione del faraone Marnose, con Taita e la sua incantevole padrona a bordo, si soffermarono per un po', appoggiandosi al parapetto del muro di contenimento. Il loro sguardo corse sulle colline dell'altra sponda, velate nella luce calante. Il tempo aveva cancellato l'imponente edificio funerario e la grande via soprelevata di Marnose, e altri re avevano costruito i loro monumenti sopra le fondamenta. Nessuno aveva mai scoperto la tomba in cui era stato sepolto... eppure doveva essere vicina all'ingresso murato nella roccia da cui Duraid Al Simma era entrato nella tomba di Lostris e aveva scoperto i papiri di Taita nei vasi di alabastro. Nessuno dei quattro parlava: il silenzio tra di loro era quello che può esserci solo con i veri amici. Guardarono passare un battello da crociera che risaliva il fiume; i turisti ammassati sui ponti sembravano ancora sbalorditi dopo dieci giorni di viaggio su quelle acque enigmatiche e facevano cenni verso i grandiosi portali e le mura scolpite dei tempio di Ramesse. Le voci eccitate avevano un suono smorzato e irreale nella sera del deserto. Royan prese un braccio di Tessay e le due donne proseguirono insieme. Wilbur Smith
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Erano uno spettacolo delizioso, così snelle e giovani, con la pelle color miele, la risata gaia e dolce, le teste brune un po' spettinate dal soffio caldo del vento del Sahara. Nicholas e Mek le seguirono, osservando ognuno affettuosamente la propria donna mentre riprendevano a parlare. «E così adesso sei uno dei pezzi grossi di Addis Abeba. Il duro guerrigliero è diventato un politico. Quasi non riesco a crederlo, Mek.» «C'è un tempo per combattere e c'è un tempo per la pace.» Mek assunse un'espressione seria, ma Nicholas non rinunciò a punzecchiarlo. «Mi rendo conto che, in qualità di politico, hai il dovere di snocciolare le più banali frasi fatte», esclamò, battendogli scherzosamente un pugno sul braccio. «Ma come hai potuto, Mek? Da sporco scifta a ministro della Difesa in un unico balzo.» «Il denaro ricavato dalla vendita della corona azzurra ha avuto la sua parte di merito. Mi ha assicurato un certo potere. Comunque sapevano che non avrebbero mai potuto tenere elezioni democratiche senza candidarmi. E alla fine smaniavano per avermi a bordo.» «L'unica obiezione, per me, è che hai messo nelle loro mani un tesoro conquistato a carissimo prezzo», protestò Nicholas. «Diavolo, Mek, quindici milioni di dollari non si trovano per la strada.» «Non li ho messi nelle loro mani», lo corresse Mek. «Sono finiti nelle casse dello Stato, e potrò controllare come verranno spesi.» «Comunque quindici milioni sono una bella somma», sospirò Nicholas. «Per quanto mi sforzi, non mi sento di approvare la tua prodigalità. Ma devo ammettere, invece, che approvo la tua scelta della candidata alla vicepresidenza in vista delle prossime elezioni, quando cercherai di diventare il nuovo presidente.» I due uomini fissarono le spalle e la massa di riccioli neri di Tessay che li precedeva, muovendo con passi agili le belle gambe scure sotto la gonna bianca. «Forse non mi entusiasma l'idea che tu sia ministro della Difesa, però scommetto che lei è un delizioso ministro della Cultura e del Turismo del governo ad interim.» «E sarà un vicepresidente ancor più sensazionale quando vinceremo, il prossimo agosto», predisse Mek. In quel momento, Royan girò la testa per guardarli. «Attraversiamo la strada», gridò. Nicholas, totalmente assorbito dal Wilbur Smith
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dialogo con Mek, non s'era accorto che erano arrivati di fronte al nuovo padiglione del museo di Luxor. Le due donne li attesero, si separarono e ognuna prese sottobraccio il proprio marito. Mentre attraversavano l'ampio viale passando tra i gharries trainati dai cavalli, Nicholas si chinò a sfiorare con le labbra la guancia della moglie. «Sei incantevole, lady Royan», sussurrò. «Mi fai arrossire, sir Nicky», rise lei. «Sai che non mi sono ancora abituata a sentirmi chiamare così.» Raggiunsero il marciapiede opposto e si soffermarono all'ingresso del padiglione. Il tetto spiovente era sostenuto da grandi colonne, copie in miniatura di quelle della sala ipostila del tempio di Karnak. I muri erano formati da massicci blocchi di arenaria gialla. Le linee della costruzione erano semplici e pure, e l'effetto era stupefacente. Royan li precedette verso la porta. Il museo non era ancora aperto al pubblico. Il presidente sarebbe arrivato in aereo quel lunedì per l'inaugurazione ufficiale, e Mek e Tessay avrebbero rappresentato il governo etiope in occasione della cerimonia. Le guardie salutarono rispettosamente Royan e si affrettarono ad aprire i massicci battenti rivestiti in bronzo. L'interno era fresco e silenzioso; l'impianto dell'aria condizionata era stato regolato in modo che la temperatura fosse costante e adeguata alla conservazione degli antichi reperti. Le vetrine erano inserite nei muri di arenaria e l'illuminazione era stata accuratamente studiata per far risaltare al meglio i favolosi tesori di Marnose. I reperti erano disposti in ordine ascendente di bellezza e d'importanza archeologica, e scintillavano nei nidi di raso blu, il colore del faraone Marnose. In un silenzio reverente li passarono in rassegna. Quando, di tanto in tanto, rivolgevano una domanda a Royan, le loro voci erano sommesse. La meraviglia e il rispetto li dominavano. Si fermarono all'ultima camera, che ospitava gli oggetti più straordinari e preziosi della collezione. «E pensare che è solo una minima parte dei tesori rimasti nella tomba, sigillati dalle acque del Dandera», mormorò Tessay. «È così emozionante che non vedo l'ora di proseguire l'avventura.» Wilbur Smith
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«Avevo dimenticato di dirvelo!» esclamò Mek. Il sorriso trionfante dimostrava che non l'aveva affatto dimenticato, ma aveva atteso il momento più adatto per dare la notizia. «Lo Smithsonian ha confermato lo stanziamento per ricostruire la diga sul Dandera e riaprire la tomba. Sarà una joint venture fra l'istituto e i governi dei nostri due Paesi, l'Egitto e l'Etiopia.» «È magnifico!» esclamò Royan. «La tomba diventerà uno dei siti archeologici più famosi del mondo, e una fonte cospicua di reddito per l'Etiopia, grazie al turismo.» «Calma, calma», l'interruppe Mek. «Hanno posto una condizione.» Royan lo guardò, un po' delusa. «Quale condizione?» «Vogliono che sia tu a dirigere il progetto.» Royan batté le mani, felice, poi assunse un'espressione di compunta serietà. «Comunque ho anch'io una condizione da porre prima di accettare», disse. «E cioè?» chiese Mek. «Voglio essere libera di nominare il mio assistente per gli scavi.» Mek proruppe in una risata. «Sappiamo tutti chi sarà!» Batté la mano sulla spalla di Nicholas. «Ma stai attenta che qualche oggetto non gli resti appiccicato alle dita!» Royan passò un braccio intorno alla vita di Nicholas. «Ormai si è rimesso sulla retta via, e ve ne darò la prova.» Senza staccarsi dal marito, precedette gli altri nell'ultima sala. Mek e Tessay si fermarono sulla soglia, in silenzio, e osservarono la vetrina blindata che stava al centro. Nella luce fulgida dei faretti, scorsero la corona bianca e rossa dell'Alto e Basso Egitto posta accanto alla splendente maschera funeraria del faraone Marnose. Mek si riscosse e si avvicinò lentamente alla vetrina. Poi si chinò a leggere la piccola targa di bronzo. PRESTITO PERMANENTE DI SIR NICHOLAS E LADY ROYAN QUENTON-HARPER Si voltò, incredulo, verso Nicholas. «E proprio tu mi hai preso in giro perché ho consegnato la somma ricavata dalla vendita della corona azzurra!» esclamò in tono d'accusa. «Che cosa ti ha spinto a rinunciare alla Wilbur Smith
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tua parte di bottino, Nicholas?» «Non è stato facile», ammise Nicholas con un sospiro. «Ma mi sono trovato di fronte al garbato ultimatum di una persona che in questo momento non è troppo lontana da noi.» «Non compiangerlo troppo, Mek», rise Royan. «Ha ancora una grossa fetta della grossa somma pagata da Peter Walsh nascosta in un conto svizzero... il prezzo del nemes. Non sono riuscita a convincerlo a consegnare tutto.» «Basta con queste rivelazioni pubbliche dei miei affari privati», disse con fermezza Nicholas. «Il sole è tramontato da un pezzo ed è l'ora del whisky. Credo di aver visto una bottiglia di Laphroaig dietro il banco del bar dell'hotel. Andiamo a vedere se ho sbagliato.» Prese il braccio di Royan e s'incamminò, mentre gli altri due ridacchiavano del suo imbarazzo.
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