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E.R. EDDISON IL SERPENTE OUROBOROS (The Worm Ouroboros, 1926) RINGRAZIAMENTI L'Associazione Genitori della Breck School di Minneapolis ha contribuito a coprire le spese dei miei tre viaggi in Inghilterra e, senza il suo contributo, non sarei stato in grado di scavare così in profondità, e così a lungo, nelle annotazioni, nelle lettere, nei libri e nei manoscritti di E.R. Eddison. I responsabili della Duke Humphrey Library della Bodleian Library di Oxford mi hanno salutato con sorrisi ed inchini tutti i giorni mentre mi aiutavano ad orizzontarmi nella loro collezione di scritti di Eddison. Mrs. Anne Hamerton e lo staff della Taylor Institution Library di Oxford non solo mi hanno fornito i libri di Eddison lasciati in legato al Trinity College - non ancora catalogati - ma mi hanno anche concesso un posto confortevole per consultarli. Anche la Biblioteca Pubblica di Marlborough mi ha consentito di consultare il suo lascito di libri di Eddison. Mrs. A. Heap e lo staff della Local History Library della Central Library di Leeds hanno allegramente sollevato le pesanti scatole contenenti i manoscritti di Eddison, ed hanno approntato, con spirito di sacrificio, una lista per facilitare le mie ricerche. Ringrazio di cuore tutto il personale di questi Enti. Esprimo la mia gratitudine anche alla Bodleian Library dell'Università di Oxford ed alle Biblioteche della città di Leeds per avermi dato il permesso di citare del materiale inedito presente nelle loro collezioni. Ringrazio la Cambridge University Press per avermi dato il permesso di citare dei brani dalla traduzione di Egil's Saga di Eddison. Ringrazio la University of Chicago Press per avermi dato il permesso di citare la traduzione dell'Iliade di Omero di Richmond Lattimore. E ringrazio la Oxford University Press per avermi dato il permesso di usare la prima e la seconda edizione del The Oxford English Dictionary per scrivere molte delle mie note esplicative. In special modo, ringrazio Jeanne Cavelos della Dell per il suo costante entusiasmo per questo progetto e per essere stato chiamato a farne parte. E, soprattutto, ringrazio la figlia di E.R. Eddison, Mrs. Jean Gudrun Rucker Latham, e sua nipote, Mrs. Anne Al-Shahi, per l'incoraggiamento e l'amicizia che mi hanno dato per sette anni, dai quali scaturisce questa nuova edizione.
P.E. Thomas PREMESSA Il Serpente Ouroboros, che si mangia la coda... Lessi per la prima volta queste parole più di vent'anni fa. Mi parvero magiche, un'invocazione a qualcosa celato molto in profondità dentro di me... qualcosa di oscuro e pericoloso, eppure disperatamente vivo. Esse mi affascinano, mi esaltano, mi ossessionano ancora oggi; ed io le comunico a voi col piacere ansioso di un bambino che desidera condividere un segreto speciale. Nelle vostre mani avete il miglior romanzo di Fantasy che sia mai stato scritto in lingua inglese. Eric Rucker Eddison (1822-1945) era un impiegato del Ministero del Commercio inglese, già studioso di tradizioni islandesi, appassionato di Omero e Saffo, ed amante della montagna. Sebbene, a quanto si dice, fosse un vero e proprio gentiluomo inglese con tanto di bombetta, Eddison era un sognatore instancabile che, per circa trent'anni, nelle rare ore libere, trascrisse i suoi sogni sulla carta. Nel 1922, poco prima del suo quarantesimo compleanno, fu pubblicata una piccola edizione per collezionisti di The Worm Ouroboros; edizioni a più larga diffusione seguirono presto sia in Inghilterra che in America, e nacque così una vera e propria leggenda. Il libro era un meraviglioso gioiello fosco e vermiglio, spettacolare e fantasioso al tempo stesso, labirintico nell'intreccio, bizzarro nella sua violenza. Era anche il primo romanzo di Eddison. Dopo aver scritto un romanzo avventuroso ambientato all'epoca dei Vichinghi, Styrbiorn the Strong (1926), ed una traduzione di Egil's Saga (1930), Eddison dedicò la parte restante della sua vita al Fantastico in una serie di romanzi ambientati, per la maggior parte, a Zimiamvia, il favoloso paradiso di The Worm Ouroboros. I libri di Zimiamvia furono, stando alle parole di Eddison, «scritti a ritroso» (1), e quindi pubblicati secondo un ordine cronologico inverso degli eventi: Mistress of Mistresses (1935), A Fish Dinner in Memison (1941), e The Mezentian Gate (1958). L'ultimo libro era incompiuto quando Eddison morì, ma le sue annotazioni erano talmente minuziose che suo fratello, Colin Eddison, ed il suo amico George R. Hamilton, furono in grado di approntare il libro per la pubblicazione. Anche se i libri oggi sono conosciuti
come una trilogia, Eddison li scrisse come episodi autonomi; possono essere letti ed apprezzati singolarmente ο in qualsiasi sequenza. Ognuno è un'avventura metafisica, un intricato rompicapo, tipo scatola cinese, le cui evoluzioni e svolte rivelano prospettive di delizie e di terrore. Le quattro grandi fantasie di Eddison hanno come filo conduttore un enigmatico personaggio, Edward Lessingham - Signorotto di campagna, soldato, statista, artista, scrittore ed amatore, fra gli altri talenti - e le sue avventure alla Munchausen nello spazio e nel tempo. Anche se scompare dopo le prime pagine di The Worm Ouroboros, Lessingham è il personaggio centrale dei libri che seguono. «Dio sa,» egli ci dice, «quanto ho vegliato e sognato, al punto che non so bene cos'è il sogno e cos'è la realtà.» (2) Uno dei piaceri nella lettura di Eddison è che neppure noi abbiamo certezze. Forse Lessingham è un uomo del nostro mondo; forse è un Dio; forse è soltanto un sogno... ο un sogno dentro un sogno. E forse - ma solo forse - è tutte queste cose ed altro ancora. Eddison era eccezionale nel suo approccio al Fantastico; nella sua lettura non ci sono imperativi logici, non ci sono concessioni a causa ed effetto, ma solo le eleganti verità del richiamo più alto dei Miti. I personaggi attraversano distanze ed ere temporali in un batter d'occhio; mondi prendono forma, generano la vita, si evolvono nel corso di milioni di anni, e sono distrutti: tutto questo nello spazio di un pranzo a base di pesce. Questi sono sogni resi realtà da un sognatore straordinario. «C'era un uomo di nome Lessingham che abitava in una casetta a Wasdale...» Così The Worm Ouroboros presenta Lessingham e sua moglie, Mary, primo sprazzo di quell'atmosfera da romance che permeerà la serie di Zimiamvia. Lessingham si ritira, solo, nella misteriosa Camera del Loto, un luogo di contemplazione e tranquillità oppiacea... per dormire, per sognare forse. «È il momento», dice un uccellino nero, ed un cocchio splendente, trainato da un ippogrifo, arriva per portare Lessingham su Mercurio. La sua destinazione non è il primo pianeta dal sole, ma l'incubo medievale di un norvegese della nostra Terra, «tutto grigio ed esangue, i colori caldi finiti in cenere,» tranne uno: il rosso cremisi del sangue. È un mondo cupo, popolato di Demoni e Streghe, Diavoletti e Fate, Goblin e Ghoul... tutti umani, e tutti in guerra. Scontri con le spade, Stregoneria ed intrighi machiavellici sono all'ordine del giorno; vendette e faide, tradimenti e massacri, sono comuni come l'alba. Gli eroi di questo maestoso romance sono i Demoni, governati e guidati da tre fratelli - i Signori Juss, Spitfire e Goldry Bluszco - e dal loro cugino
Brandoch Daha. Valorosi in guerra, raffinati nel parlare e nei gesti, sono eroi nel senso classico del termine, superuomini violenti, intensamente vivi, con la bellezza feroce ed il destino di angeli caduti; se c'è una sola cosa certa, è che coloro che li amano moriranno. I Signori dei Demoni sono Semidei che lottano per una sorta di selvaggia nobiltà, rispettando sempre un codice sentimentale e romantico che antepone la parola all'azione, e la morte al disonore. Le prove che devono superare sono molte, e tutte tinte di sangue. Contro i Signori dei Demoni sono schierate le Streghe di Carce, alleate di un'oscurità «che nessuna luce intensa del mattino avrebbe potuto illuminare». Il loro Re è lo scaltro Stregone Gorice XII, un Negromante «astuto ed ingannatore». Abile nelle lettere, è sempre nascosto nella sua cittadella, che è «simile ad un antico drago assopito, rannicchiato, sinistro e mostruoso». Al suo fianco sono i suoi Signori della Guerra: l'audace Corund, il rozzo Corsus, l'insolente Corinius, e la «sentina d'iniguità», il Goblin rinnegato Gro, filosofo, orditore di trame, e traditore per natura. Non è possibile trovare un'accozzaglia peggiore e più ignobile di manigoldi; eppure, la passione che Eddison nutre per loro è evidente ed intensa. La guerra fra i Demoni e le Streghe è assolutamente epica; le battaglie di questa moderna Iliade infuriano per terra, mare e cielo, e ci trasportano dalle profondità degli oceani alle più alte vette celesti. Fra i suoi episodi più belli ci sono la «sfida per Demonland,» che mette di fronte Goldry Bluszco ed il Re delle Streghe, e riduce in cenere un intero mondo; l'assedio nella nebbia di Eshgrar Ogo; la tormentata ascesa del Kosthra Pivrarcha e la lotta con la manticora; la sanguinosa battaglia a Krothering Side; il volo dell'ippogrifo fino al picco aguzzo del Zora Rach; ed infine il suono delle trombe fatali nella cupa cittadella di Carce. La prosa di Eddison è arcaica e spesso difficile, un ritorno intenzionalmente ricercato al Dramma Elisabettiano ed alla prosa tipica del regno di Giacomo I. I suoi personaggi perciò sono eloquenti ma logorroici; non parlano di uccidere un uomo, ma di averlo «mandato dall'ombra nella Casa delle Tenebre». Nei suoi momenti migliori Eddison si eleva fino ad un'intensa bellezza poetica; ascoltate, per esempio, l'ammaliante premonizione del Goblin Gro: «... nell'ora del mio sonno più profondo, un incubo è venuto accanto al mio letto e mi ha fissato con uno sguardo così terribile che i capelli mi si sono rizzati in testa e sono stato afferrato da un terrore senza nome. Ho avuto la sensazione che il sogno scuotesse al di sopra del mio letto il tetto, e che questo si spalancasse all'aria della mezzanotte che era
percorsa da solchi di fuoco, mentre una stella barbuta vagava nel buio che non dava riparo. Ed io ho osservato il tetto ed i muri schizzati di sangue. E il sogno ha strillato come un allocco di palude, gridando: «Witchland non è più tua, Ο Re!». In altri momenti il lettore è virtualmente sommerso dalle parole. Eddison aveva un debole per i palazzi e le armerie; egli li descrive con tale elaborata grandiosità da riempire pagine su pagine coi particolari delle loro decorazioni. Il lettore non deve rimanere scoraggiato dalla intensità di questi passaggi; come un vino d'annata, un assaggio della prosa di Eddison ha un costo elevato, e richiede al lettore pazienza e perseveranza, ma vale tutto il suo prezzo. Questi sono libri da assaporare, meglio se letti durante le lunghe ore della notte, quando il vento batte alle finestre e le ombre cominciano a muoversi: non sono libri effimeri, ma imperituri. The Worm Ouroboros è stato inevitabilmente accostato alla successiva trilogia del Signore degli Anelli di Tolkien; a parte le loro ambizioni narrative e la portata epica, i due libri hanno poco in comune. (Eddison, come Tolkien, negò di aver scritto qualcosa che andasse al di là della semplice fantasia: «Non è né un'allegoria né una favola ma una storia da leggere di per se stessa». Se proprio si vogliono fare dei paragoni, allora suggerirei delle influenze assai evidenti - Omero e le Saghe Islandesi - nonché il più controverso fra i drammaturghi del regno di Giacomo I, John Webster, le cui cruente storie di violenza e caos (che i personaggi di Eddison citano ampiamente) lo videro accusato di tentativo di sovvertire la società e la religione. L'ombra di Eddison può essere scorta, di volta in volta, non solo nella moderna narrativa di Heroic Fantasy, ma anche negli scritti dei suoi epigoni più autentici, quei sognatori del Fantastico orrorifico come Stephen King (le cui opere epiche, L'Ombra dello Scorpione e La Torre Nera, possono essere lette come dei peana ad Eddison) e Clive Barker (che in Apocalypse chiama Iad Ouroboros le sue Forze del Caos). Eddison avrebbe considerato questa linea di successione, come anche la popolarità ciclica dei suoi libri, l'ordine più naturale degli eventi: il cerchio, che non ha fine - come il Serpente Ouroboros, che si mangia la coda - il simbolo dell'eternità, dove «la fine è sempre l'inizio, e l'inizio la fine». Comunque, ora avete nelle vostre mani un vero capolavoro. Douglas E. Winte Alexandria, Virginia
Settembre 1990 (1) E.R. Eddison, The Mezentian Gate (New York; Ballantine, 1969), pag. XI. (2) E.R. Eddison, Mistress of Mistresses (New York, Ballantina, 1967), pag. 356. INTRODUZIONE Quando in Inghilterra cominciò il 1922, sembrava un anno poco propizio per quel tipo di letteratura che parlava di altri mondi. Il grande romanziere William Morris era morto da venticinque anni, ed i romanzi di Fantascienza di H.G. Wells e le fiabe di Andrew Lang appartenevano alla generazione precedente. C.S. Lewis stava scrivendo narrativa mitica in versi, ma le fantastiche isole fluttuanti di Perelandra si trovavano, ancora non sognate, nella sua immaginazione futura. J.R.R. Tolkien stava inventando mitologie e scrivendo prosa poetica concernente la sua storia dei Vaiar e degli Elfi, ma sarebbero trascorsi altri dieci anni prima che egli leggesse Lo Hobbit a C.S. Lewis e quindici prima che la sua immaginazione forgiasse gli Anelli del Potere. Mervyn Peake aveva appena undici anni. H. Rider Haggard scriveva ancora, ma il suo astro si stava offuscando, e la morte lo attendeva da lì a tre anni nel futuro. Solo gli irlandesi Lord Dunsany e James Stephens, e l'americano James Branch Cabell, tenevano desta l'attenzione popolare inglese con quel genere di letteratura romantica che, nelle ultime due generazioni, era stata ambiguamente etichettata come Letteratura Fantastica. Nel 1922 il campo della letteratura era dominato dagli scrittori moderni. Il salotto di Gertrude Stein era in pieno rigoglio a Parigi e, di tanto in tanto, Ernest Hemingway ed Ezra Pound vi si recavano per fare conversazione. James Joyce trovò a Parigi una tipografia per il suo Ulisse già pubblicato a puntate. D.H. Lawrence stava viaggiando in Australia e scrivendo Kangaroo. Virginia Woolf aveva terminato la sua Camera di Jacob. E T.S. Eliot aveva intagliato e collocato una vera e propria pietra miliare, quando compose The Waste Land. Quasi tutte le generazioni hanno degli scrittori che guardano indietro, che non si uniscono ai loro contemporanei nella ricerca di nuove forme letterarie, ma piuttosto traggono ispirazione dagli scrittori del passato. E.R. Eddison è uno di questi. La sua opera letteraria, sebbene per certi versi
moderna come quella di Eliot e Pound, appartiene al Diciannovesimo Secolo, all'estetica dei pre-Raffaelliti, di Swinburne, William Morris, Andrew Lang, e Walter Pater. Eddison scrisse il suo primo e più lungo romanzo quando aveva circa quarant'anni. È un libro che comprende quattro decadi di vita, di letture, studi, e fantasie. È una storia stranamente arcaica e romantica di avventure eroiche sul pianeta Mercurio. Ha poco in comune con la letteratura modernista che dominò quella decade, ma un giovane ed audace editore di nome Jonathan Cape si accorse della genialità presente in esso, e lo pubblicò nel 1922. Quel romanzo era The Worm Ouroboros. 1. Il Serpente Ouroboros: «Tutto è uno» Ouroboros (ougoBogoo) è il nome dato ad un antico simbolo greco di un drago ο serpente rappresentato mentre si divora la coda. Nessuno conosce l'età esatta del simbolo, ma la sua prima apparizione è segnalata sui trattati di alchimia composti ad Alessandria durante il Terzo e Quarto Secolo d.C. (1) Scienza obsoleta, l'Alchimia si basava su teorie quasi opposte ai principi della chimica moderna. I chimici hanno dimostrato che la materia esiste sotto forma di più di cento elementi. Gli alchimisti invece teorizzavano che la materia aveva un'unica forma perfetta consistente in quattro componenti uniti secondo proporzioni perfette: Fuoco, Aria, Terra e Acqua. In particolare, gli alchimisti alessandrini studiarono dei metodi per alterare le proporzioni dei quattro componenti all'interno delle sostanze; essi si proponevano di trasformare sostanze non proporzionate in sostanze proporzionate ο in una sostanza aurea. (2) Gli antichi alchimisti spesso scrissero utilizzando allegorie e simbolismi per descrivere i procedimenti tecnici. Nei loro trattati, il simbolo dell'ouroboros di solito si ritrova con la scritta «Tutto è Uno», (3) e serve a simboleggiare diverse teorie importanti che gli alchimisti tentarono di provare: la fondamentale unità della materia, la potenziale perfettibilità della materia imperfetta, la configurazione circolare della nascita, crescita, decadimento, morte e rinascita della materia, ed il ritorno circolare di una sostanza impura alla sua sorgente pura attraverso i processi alchemici. (4) «Riesco solo a ricordare quelle cose che per me erano le più preziose»
Sarebbe difficile trovare un simbolo più adatto dell'Ouroboros per il modo di operare dell'immaginazione di E.R. Eddison. Mentre creava, l'immaginazione di Eddison lavorava su ricordi, influssi ed esperienze che penetravano - consciamente od inconsciamente - nella sua attività di pensiero. Ricordi di storie concepite nella sua infanzia, di colline e prati sui quali aveva passeggiato nella Terra dei Laghi e sulle Alpi Pennine, di musica sinfonica ascoltata nelle sale di concerti di Londra e di capolavori d'arte ammirati nelle gallerie di Londra, e, cosa più importante, di libri e libri apprezzati e studiati per trent'anni: in qualunque momento, l'immaginazione creativa di Eddison poteva attingere dai ricordi di moltissime cose. Così, l'Ouroboros può simboleggiare il continuo ritorno dei vecchi pensieri nelle nuove cose immaginate da Eddison. Questa configurazione di pensiero ha la forma circolare dell'Ouroboros in quanto si diparte dal presente, si muove nel passato, e ritorna col ricordo al presente. Come un drago che si morde la coda, il cerchio non ha interruzioni: il pensiero attuale di Eddison collega i ricordi distinti che entrano nella sua immaginazione e, come un drago che si autodistrugge eppure resta vivo, il processo circolare del ricordare e dell'immaginare fa risorgere e rivitalizza il tempo defunto ed assimilato del pensiero e dell'esperienza passata. Il processo alchemico stesso fornisce una metafora per il metodo creativo di Eddison. I ricordi delle letture e delle altre esperienze presenti nel pensiero cosciente di Eddison erano, come «metalli vili,» legati assieme e resi malleabili dall'immaginazione di Eddison per adattarsi alla sua prosa. Dal momento che combinava svariate influenze letterarie secondo vie nuove ed inesplorate, egli essenzialmente riproporzionava queste influenze e ne traeva materia nuova. E, quando l'immaginazione alchemica di Eddison lavorava alla perfezione, essa produceva non semplicemente materia pura, ma oro. Alcuni degli sforzi più grandi di Eddison come scrittore, sono da individuare nel suo metodo creativo alchemico di combinare i materiali letterari più disparati. Se si conoscono le fonti di Eddison, l'occhio della mente vedrà delle ombre e l'orecchio della mente sentirà degli echi di questi influssi mentre si legge, ma si sarà indotti a sorridere quando ci si renderà conto di percepire solo una parte di un tutto che, nella sua interezza, non è imitazione ma creazione. Per esempio, uno dei personaggi di Eddison può avere la disposizione e le attitudini di Achille, può parlare come Macbeth, può scrivere come William Caxton, può indossare abiti come quelli di Enrico di Navarra, e può
avere delle armi simili a quelle di Lancillotto, eppure non sarà una combinazione di questi personaggi ma un nuovo personaggio. Proprio perché The Worm Ouroboros fa uso di un così svariato numero di fonti, esso respinge le etichette di genere. Il romanzo è in parte epica, in parte romanzo cavalleresco, in parte storia avventurosa, in parte mito, in parte fiaba, e in parte Fantasy. Il miglior modo di esprimere la natura di questo eclettico romanzo è quello di paragonarlo alle principali fonti letterarie che lo hanno ispirato. Gran parte di questo libro, naturalmente, trae origine unicamente dall'immaginazione di Eddison, e crebbe e si sviluppò nel corso di trent'anni. Ma una buona parte deriva da altre fonti, come Eddison confermò a Keith Henderson, suo cognato e primo illustratore dei suoi libri: «The Worm... è influenzato in ogni suo punto, consciamente ο inconsciamente, da tutti gli scrittori che ho amato.» (5) Naturalmente, non possono essere discusse qui tutte le influenze di quattro decadi così, mentre ho documentato molte delle influenze minori nelle note alla fine del volume, mi concentrerò, oltre che sulle fantasie proprie di Eddison, sulle influenze più forti: le Saghe Islandesi, l'Iliade di Omero, ed il Dramma Elisabettiano. 2. Le origini della storia: «Il bambino è padre dell'uomo» «O, sii un altro nome!» «Che meraviglioso talento hai nell'inventare i nomi,» scrisse H. Rider Haggard a Eddison quando questi gli mandò una copia di Ouroboros. (7) Haggard scrisse questo elogio quando aveva appena cominciato a leggere il libro, e forse parlò così perché lo conosceva solo in parte; in caso contrario, forse è il solo ammiratore di Eddison che abbia amato i nomi di Eddison. Il guaio principale con la maggior parte dei nomi di Eddison è che c'impediscono di credere nel Mercurio che lui ha immaginato: quando leggiamo un romanzo in cui l'autore crea un nuovo mondo diverso dal nostro, noi entriamo con l'immaginazione in quel mondo e, mentre leggiamo, crediamo in quegli eventi, in quei personaggi, in quei luoghi ed in quei nomi perché sono coerenti ed appropriati al mondo creato. Se l'autore inserisce qualcosa di contraddittorio con gli altri aspetti di questo mondo, noi reagiamo con l'incredulità. (8) Sfortunatamente, la reazione di molti lettori di fronte ai nomi di Eddison per le razze che abitano Mercurio è stata di
un'annoiata incredulità: Demoni, Streghe, Diavoli, Fate, Goblin e Ghoul. A causa della loro relazione col mondo che ci è familiare, nessun lettore di Ouroboros li manda facilmente giù quando vengono usati da Eddison per denominare le razze magnifiche, valorose e potenti del suo mondo inventato: il termine Strega - per un lettore moderno - ha connotazioni femminili associate ad Halloween ed al Macbeth; e, i termini Diavoli, Fate, e Goblin designano le creature minuscole, fatate, briose e soprannaturali, delle fiabe e del Sogno di una Notte di Mezza Estate. Ironicamente, alcuni dei nomi privi di senso ma lirici, come «Gaslark» ο «Tivarandardale,» suonano graziosi e si guadagnano una facile accettazione da parte della maggior parte dei lettori. Risulta chiaro che Eddison non avesse alcun sistema etimologico per creare i nomi, e che egli abbia inventato molti di essi nel senso più capriccioso della parola, perché chi potrebbe riuscire a cogliere una connessione etimologica fra nomi come Fax Fay Faz, La Fireez, Gro, Red Foliot, e Spitfire? Come era prevedibile, il filologo J.R.R. Tolkien, la cui genesi dei nomi elfici forma il cuore della sua mitologia ne Il Silmarillion ed è basata su precise forme linguistiche, non gradiva i nomi di Eddison: «Pensai che la sua nomenclatura fosse approssimativa e spesso inadatta. A dispetto di tutto ciò, credo che egli sia il più grande e convincente scrittore di 'mondi inventati' che io abbia mai letto.» (9) Perché lo fece? Perché Eddison usò, in alcuni punti, nomi stranamente suggestivi e, in altri, nomi sciocchi e assurdi le cui associazioni semantiche danneggiano la sua creazione? La vera risposta è che molti dei personaggi, degli episodi, e dei luoghi di Ouroboros, erano nati nell'infanzia di Eddison, ed anche se egli scrisse il romanzo quando aveva circa quarant'anni, conservò i nomi che aveva inventato da bambino. Questo è quello che fece, ma i motivi per cui lo fece eludono una facile analisi. Forse voleva preservare ο restare fedele ai ricordi della sua immaginazione infantile. Forse non riuscì a dissociare i nomi infantili dai personaggi nella sua mente di adulto. Le motivazioni di Eddison hanno radici troppo profonde per poter essere esaminate in questa sede, e pervenire ad una facile conclusione sarebbe impertinente. In ogni caso, posso affermare con una certa sicurezza che questi nomi, per quanto fastidio possano arrecare a voi ed a me, dovevano avere un tale valore nell'immaginazione di Eddison da spingerlo ad usarli trent'anni dopo. «Già allora stavi scrivendo The Worm»
Arthur Ransome, l'uomo che prima raggiunse la fama per essere stato testimone e cronista della rivoluzione russa sul Daily News (Londra) e poi raggiunse di nuovo la fama quando scrisse la serie di libri per bambini «Swallows and Amazons», fu amico fedelissimo di Eddison fin dall'infanzia. Ransome era con Eddison quando questi inventò per la prima volta molti dei nomi e dei personaggi, e forse contribuì anche alla loro creazione. Egli scrisse a Eddison nel 1922 e disse che la lettura di Ouroboros aveva suscitato «dall'inizio alla fine strani ricordi di vecchi quaderni di esercizi e di progetti di commedie messi a punto sui larghi davanzali delle finestre di St. Helens... Già allora stavi scrivendo The Worm.» (10) Ransome riprese queste considerazioni nella sua autobiografia: Il linguaggio, i nomi dei luoghi ed i nomi degli eroi erano per me un'eco di quei giorni antichi quando Ric ed io inventavamo commedie in un teatrino-giocattolo con attori di cartone che avevano nomi come quelli e parlavano con la stessa retorica. Gorice, Lord Goldry Bluszco, Corinius, Brandoch Daha, sembravano dei vecchi amici quando li incontrai circa quarant'anni dopo. (11) Il giovane «Ric» e Arthur avevano gli stessi insegnanti, e trascorrevano molte giornate a studiare ed a giocare assieme a St. Helens, la casa del padre di Eddison ad Octavius, nel villaggio di Adel, che adesso è un sobborgo di Leeds. Le ore che trascorsero a creare commedie per le marionette con eloquente retorica, forse prepararono Eddison ad apprezzare il Dramma Elisabettiano. In ogni caso, esiste una relazione fra le rappresentazioni teatrali create da Ric ed Arthur ed i disegni nel «quaderno di esercizi.» «Una storia triste è adatta alla stagione invernale. Ne ho una che parla di Spiriti e Folletti.» Soltanto uno dei «quaderni di esercizi» è stato conservato, sotto il titolo di The Book of Drawings (Il Libro dei Disegni) nella collezione delle carte di Eddison della Bodleian Library. The Book οf Drawings, con l'anno «1892» scritto ben chiaro a matita sulla parte interna della copertina, contiene cinquantanove disegni a matita, e molti di essi recano, per la gioia di colui che li osserva, una didascalia che descrive la scena ed identifica le figure. Queste didascalie contengono i seguenti nomi, che sarebbero poi en-
trati nell'Ouroboros: Juss, Spitfire, Goldry Bluszco, Bradoch, Daha, Vizz, Voll, Zigg, Gaslark, La Fireez, Gro, Corund, Gorice, Gallandus, Corsus, Fax Fay Faz, Demone, Strega, Diavoletto, Fata, Demonland, Impiantì, Goblinland. Quattro dei cinquantanove disegni rappresentano scene che seguono così da vicino la trama del romanzo, da provare, incontrovertibilmente, che Eddison cominciò a creare la storia all'età di circa dieci anni. Il primo, intitolato «Corsus uccide Gallandus», rappresenta l'evento centrale del Capitolo XVIII, e mostra Corsus, con un pugnale in una mano ed una lanterna nell'altra, che si avvicina furtivamente al dormiente Gallandus, come fa Macbeth quando raggiunge di soppiatto Duncan. Il secondo disegno è intitolato «Lord Goldry Bluszco che solleva Gorice I di Witchland nella lotta per Demonland» e rappresenta il momento cruciale del Capitolo II, quando Goldry solleva con violenza sopra la testa il Re. È anche degno di nota il fatto che questo disegno mostra il primo di diversi Gorice e così indica la dinastia di Re che governarono Witchland: ci sono disegni di Gorice I, II, VI, e quattro raffigurazioni (incluse due diverse morti) di Gorice IV. La terza raffigurazione, intitolata «Lord Juss & Lord Brandoch Daha imprigionati da Gorice IV, & tormentati da un lauto pranzo posto al di là della loro portata,» mostra Juss e Brandoch Daha nell'esatta posizione in cui, trent'anni dopo, Eddison li descrive nel Capitolo VII. L'ultimo disegno, una figura meravigliosamente dettagliata intitolata «Lord Brandoch Daha che sfida Lord Corund,» rappresenta una scena del Capitolo XI. Anche se Eddison può non avere avuto in mente l'idea di scrivere un romanzo nel 1892, e anche se questi quattro disegni possono non essere stati, allora, i più importanti per lui, la loro indubbia connessione col romanzo giustifica la loro messa in evidenza. Anche i disegni che non rappresentano scene del romanzo hanno molti paralleli con l'aspetto dei personaggi. Le varie posizioni dinamiche e spesso violente rimandano alle scene di battaglia del libro. Inoltre, i lineamenti delle figure assomigliano a quelli degli eroi del narrato. Eddison disegnò i volti di profilo, e tutti hanno dai grandi occhi, sopracciglie folte, un naso grosso ο a becco, capelli ondulati ed arruffati, e baffi ο barba, ο entrambi. In particolare, tutte le teste hanno anche delle corna abbinate a piume ornamentale come quelle degli eroici Demoni del romanzo. E le figure bellicose e con le armi in pugno nei disegni sfoggiano gli stessi splendidi abiti che drappeggiano gli aristocratici del romanzo: calzamaglie, gorgiere, giu-
stacuori, tuniche e cappe. Molti titoli sono significativi di per se stessi perché mostrano l'abilità verbale del giovane Eddison, e la sua retorica eloquente menzionata da Ransome. Alcuni delle migliori didascalie illustrano disegni di Lord Goldry «Bluszco»: Uno squadrone di cavalieri apparve e, improvvisamente, Goldry balzò dalle loro file, seguito dai suoi soldati irruppe sul patibolo trafiggendo il corpo del boia e, abbattendo uno dei soldati che stavano là vicino, salvò Lord Gro da una morte terribile. Goldry fece un allungo, con le piume che si afflosciavano, ed il volto coperto di polvere e sangue. Colpì il Campione degli Elfi Boxer in pieno viso, cosicché il sangue zampillò, ed il Campione degli Elfi Boxer cadde ferito e sanguinante al suolo. Ma, prima che la spada potesse discendere, Goldry scese correndo dalla collina come un turbine con la spada snudata. La spada si spezzò contro un pioppo, ma egli si avventò e, con un pugno, fece crollare al suolo, esanime, l'Elfo Rosso. Grammaticalmente, queste frasi sono degne di nota per le proposizioni principali e le dipendenti. Non solo esse dimostrano l'abilità del giovane Eddison nel costruire una prosa complicata, ma anche la sua predilezione per le frasi complicate. Stilisticamente, mostrano l'attitudine di Eddison per un linguaggio vivido e vigoroso, perché ogni frase parla di un'azione rapida e violenta integrata da immagini dettagliate. Verbalmente, queste frasi mostrano un bambino che ha già cominciato a leggere con assiduità, perché il vocabolario usato è letterario e sofisticato. Guardare The Book of Drawings è come guardare una serie di diapositive dell'immaginazione infantile di Eddison. Si vedono figure disegnate diverse volte, e si colgono molti eventi differenti. Ogni disegno, come un'istantanea, fissa un momento all'interno di un episodio più lungo, e il numero delle diverse scene suggerisce che, sebbene Eddison avesse un nucleo fisso di personaggi, egli creò molte storie che li coinvolgevano. Considerati come una serie, i cinquantanove disegni costituiscono il tracciato di una vigorosa capacità narrativa che si sviluppò rapidamente e proficuamente nel giovane Ric. Le rappresentazioni teatrali infantili e le storie create in abbondanza rimasero nell'immaginazione di Eddison per più di trent'anni, e alcune di esse trovarono sbocco nell'Ouroboros.
3. Le Saghe Islandesi: «la disputa feroce fra dannazione e carattere appassionato» «La mia prima folle passione per le Saghe» Non molto dopo aver inventato le rappresentazioni teatrali per marionette con Arthur Ransome, ed aver riempito le pagine di The Book of Drawings, Eddison scoprì le due opere letterarie che lo avrebbero maggiormente influenzato: i Poemi di Omero e le Saghe islandesi. Eddison cominciò probabilmente a leggere Omero all'età di undici anni, perché gli fu regalata una copia della traduzione di Lang e Butcher dell'Odissea nel 1893 e, all'incirca nello stesso periodo, cominciò a leggere The Saga Library di William Morris ed Eirik Magnusson. È fuor di dubbio che Eddison amò Omero, ma quello che ebbe maggiormente nel cuore furono le Saghe Islandesi. Quando Eddison stava per iniziare la sua seconda opera di narrativa, il romanzo storico Styrbion the Strong (Londra, Jonathan Cape, 1926), spiegò ad uno dei suoi dattilografi che il suo nuovo romanzo sarebbe stato ispirato a «la grande letteratura classica delle Saghe del Nord, che ho studiato per questi vent'anni, e che amo più di qualsiasi altra.» (12) Eddison scrisse per il volume una lettera introduttiva al fratello, Colin, e disse che intendeva dedicargli il libro perché «Tu, che eri più piccolo di me, sopportasti così eroicamente molti anni fa la mia prima folle passione per le Saghe.» (13) La sua folle passione per le Saghe, alimentata all'inizio da The Saga Library, spinse Eddison a studiare - da autodidatta - l'Islandese Antico durante gli anni trascorsi come studente a Eton e ad Oxford. Il suo studio continuo produsse i primi frutti in Styrbion the Strong e la sua completa mietitura nella sua traduzione di Egil's Saga, pubblicata nel 1930 dalla Cambridge University Press. Eddison decise di fare la traduzione nel 1926, e fissò in questo modo il momento della decisione: «Mentre passeggiavo durante una tempesta su High Peak, a Sidmouth, il 3 gennaio del 1926, all'epoca in cui avevo appena terminato di scrivere Styrbiorn the Strong, pensai all'improvviso che il mio lavoro successivo sarebbe stato la traduzione di una grande Saga, e che sarebbe stata Egil. Ciò avrebbe pagato in parte il mio debito nei confronti delle Saghe, alle quali devo più di quello che potrò mai riconoscere loro.» (14)
«Racconterò una storia semplice ed accattivante» L'influenza è qualcosa di più dell'ammirazione. Cosa deve effettivamente Eddison alle Saghe? In che cosa consiste il suo debito verso di esse? Eddison risponde a queste difficili domande nella sua introduzione a Egil's Saga, in cui definisce una Saga in relazione alle sue principali caratteristiche ed ai pregi. La definizione sottolinea ciò che egli apprezza in questo tipo di letteratura, e così, illuminando le Saghe, egli riflette una luce indiretta sull'influenza della Saga in Ouroburos. Eddison comincia con una semplice definizione formale: «Una Saga può essere approssimativamente definita come narrativa in prosa che tratta in maniera drammatica i documenti storici.» (15) Nell'introduzione al suo quarto romanzo, A Fish Dinner in Memison, Eddison dice della sua narrativa: «La mia forma letteraria è narrativa drammatica in prosa.» Mettendo da parte l'ambientazione storica delle Saghe, queste definizioni della forma e dello stile, sono parallele come linee rette. Eppure, al di là di queste generalizzazioni, lo stile di Eddison non è parallelo allo stile delle Saghe perché la sua fedeltà eclettica ad altre fonti predilette spesso fa divergere il suo stile dalle convenzioni della prosa delle Saghe. Come in molti aspetti di Ouroboros, nello stile Eddison è come un alchimista: egli mescola gli schemi della prosa delle Saghe con quelli di altre influenze letterarie per creare una prosa che contiene, in proporzione, diversi stili. Eddison descrive così la Saga: «La migliore prosa islandese è ponderata, semplice e laconica, ed usa il linguaggio rude e piccante degli uomini di quella terra: la parlata diretta e schietta del contadino, non sofisticata, ma classica e nobile, perché è la parlata di un popolo nato con un istinto naturale per il linguaggio e per la narrazione drammatica.» L'unica occasione in cui parla un contadino in Ouroboros si trova nel Capitolo XXVI. Ecco una delle frasi che dice alla figlia: «Thou'rt a disobedient lass, and but for thee, come sword, come fire, not a Straw care I; knowsing it shall be but a passing storm, now that my lord is home again». Tranne disobedient e passing, tutte le altre parole hanno la loro origine nella lingua della Germania del Nord, e la maggior parte sono semplici, brevi: una sorta di «linguaggio rude e piccante.» Per fare un confronto, ecco le parole rivolte da Lord Gro a Lady Mevrian: «Certes it is an ill thing that thou, who has not been nourished in mendicity or poverty but in superfluity of honour and largesse, shouldst be
made fugitive in thine own dominions, to lodge with foxes and beasts of the wild mountain». Qui, la sintesi e le derivazioni dal Francese e dal Latino sono certamente estranei alle Saghe. Il contadino di Holt mantiene l'attenzione del lettore solo per tre pagine; i Signori, le Dame, i Principi, le Regine, ed i Re, dominano quattrocento pagine. Eppure gli aristocratici non parlano sempre col fiorito linguaggio elisabettiano. Zeldornius, per esempio, pronuncia delle frasi che avrebbero potuto pronunciare gli eroi islandesi come Gunnar in Njal's Saga: «Il mondo ritorna a me, e con esso il ricordo che gli abitanti di Demonland erano sinceri sia con gli amici che coi nemici, ed hanno sempre ritenuto vergognoso ingannare e mentire». La conversazione in Ouroboros trova la sua fonte più evidente nel Dramma Elisabettiano, ma nelle voci risuona anche la cadenza lenta della parlata semplice delle Saghe, e la combinazione è qualcosa di non completamente inglese nelle sue sfumature. Nel ritmo dell'azione narrata, di nuovo non è possibile trovare un'influenza dominante delle Saghe nella prosa di Eddison. La sua definizione di Saga rende chiaro questo in Ouroboros quando egli paragona la narrazione concitata delle Saghe e di Omero ad un'altra fra quelle che lo hanno ispirato, la traduzione delle Mille e una Notte di Sir Richard Burton: ... pur essendo agile, l'azione in Omero ha delle pause continue per l'inserimento di orpelli poetici, similitudini, ο descrizioni. L'azione delle Saghe non ha mai pause salvo che per l'inserimento di informazioni genealogiche. [In Burton]... l'azione rallenta per dare la comoda opportunità di contemplare tutte le forme di bellezza voluttuosa... Dalle bellezze della natura gli Scandinavi non attingevano molto; della bellezza fisica degli uomini e delle donne tenevano maggiore conto, ma si accontentavano di sottolinearla alla loro maniera stringata ed obiettiva - ad esempio «un uomo di aspetto bellissimo» - andando raramente nei dettagli e non consentendole mai di interrompere il ritmo della storia. Sotto questo aspetto, Eddison conserva il suo eclettismo invece di seguire soltanto le Saghe. Egli sa raccontare in modo rapido, senza pause per inserire «orpelli poetici,» come fa nella maggior parte delle scene di battaglia, oppure, ad esempio, quando Juss combatte contro la manticora: «Gli si era avvinghiato così strettamente che quella non poteva raggiungerlo con le sue zanne mortali, ma gli artigli della bestia lacerarono la carne del suo ginocchio sinistro giù fino all'astragalo».
Più di frequente, tuttavia, la narrativa di Eddison «contempla tutte le forme di bellezza voluttuosa.» Egli può «rallentare» l'azione per rimarcare «le bellezze della natura» come quando la compagnia dei Demoni cavalca con un ambio tranquillo verso Krothering: «A sinistra un lago coperto di gigli dormiva placido sotto imponenti olmi, con un cigno nero in prossimità dell'argine ed i suoi quattro piccoli in fila, assopiti, con le testoline infilate sotto le ali, al punto che sembravano batuffoli di schiume fluttuanti sull'acqua». Come gli Scandinavi, Eddison «tenne maggiore conto della bellezza degli uomini e delle donne» ma, invece di sottolineare questa bellezza con «stringata obiettività,» di solito la descrive con dettagli prolissi ed intricati, e le permette di interrompere del tutto «il ritmo della storia.» Per di più, spesso blocca la narrazione degli avvenimenti in corso per scrivere lunghi paragrafi che parlano di stanze, di abiti, di mobili e di armi. Nella maggior parte del libro Eddison non solo abbandona la forma concisa e misurata delle Saghe, ma spesso supera gli «orpelli poetici» delle sue influenze letterarie: le lunghe similitudini di Omero di solito ritardano l'azione per meno di cinque versi, ma le lunghe descrizioni di Eddison possono ritardare l'azione per pagine e pagine. In generale, nelle espressioni e locuzioni, ancora una volta non traspare un chiaro dominio delle Saghe nella prosa di Ouroboros, come Eddison mostra quando paragona le Saghe alle Leggende Gallesi ed Irlandesi: ...le antiche narrazioni eroiche celtiche sono - nel loro svolgersi - agli antipodi di quelle islandesi: il linguaggio e la forma delle prime sono retorici e iperbolici, quelli delle altre concisi e stringati. Così, parole e frasi celtiche, con quella maestosa scenografia, sono materia da essere riversata in una piena di eloquente emozione; nelle Saghe, al contrario, le espressioni diventano più tese e controllate quando la situazione si fa più critica. Spesso, Eddison segue pedissequamente la forma della Saga nei momenti di intensa emozione. Quando Juss, fermo su una sporgenza montana, vede l'orribile manticora che si precipita giù dalla parete su di lui ed i suoi amici, Eddison impiega un paragrafo per descrivere l'espressione del suo viso, ma le sole parole pronunciate da Juss sono: «C'è poco spazio per le spade». Ma più spesso, in simili frangenti, il linguaggio di Eddison tende all'iperbole e «si riversa in una piena di eloquente emozione.» Appeso per i polsi alla parete dell'antica sala dei banchetti a Carce, tor-
mentato dalla fame, dalle sofferenze, e dalle ferite della battaglia, Brandoch Daha può ancora permettersi di salutare il suo salvatore con una raffica di allitterazioni: «La Fireez!... methought ye were yonder false fitchews fostered in filth eand fen, the spawn of Witchland, returned to fleer and flout at us». Prezmyra, spietatamente spinta ad una fiera disperazione e decisa a suicidarsi dopo la morte del marito, riesce a rifiutare con forbita eloquenza l'offerta di pace dei Demoni prima di bere la coppa di veleno: «Il gelo che avvizzisce, quando fa appassire e seccare i fiori del giardino, dirà alla rosa: Sopportami; ed essa presterà ascolto ad una simile lupesca proposta?». E Juss, sull'orlo delle lacrime quando Goldry è stato catturato dalla Magia di Witchland, può ancora gridare con voce salda: «Cos'è davvero mio in questo mondo, se in un attimo mi è stato strappato il mio amato fratello, il mio braccio, il baluardo principale del mio regno?». Il raffronto di Eddison fra le Saghe, le storie celtiche, e la sua decisione di abbandonare la forma concisa e controllata della Saga, non vuol dire che egli imiti le narrazioni celtiche. La sua esuberanza retorica non deriva dai racconti celtici del Mabinogion, ο dalle Leggende Irlandesi del tipo di quelle dell'Eroe Cuchulain, ο anche dalla Morte D'Arthur di Sir Thomas Malory; piuttosto, scaturisce dallo stesso ceppo retorico di Tamburlaine the Great, Richard II, Henry V, e The Duchess of Malfi. Il linguaggio del Dramma Elisabettiano domina a tal punto la prosa di Eddison che è arduo discernere le Saghe in quelle frasi. L'influenza della Saga sta più in profondità e può essere vista più facilmente nel tono della voce del narratore che nelle espressioni e nel vocabolario dei personaggi. Eddison chiarisce questo aspetto di Ouroboros quando paragona le Saghe ai Romani: Il romanzo, attraverso le sue proteiformi variazioni da Proust alla Detective Story, è quasi sempre analitico: forse sarebbe più giusto dire che quasi sempre impiega dei processi analitici. Ma la Saga non è mai analitica. Il romanzo è spesso introspettivo: la Saga mai. Quando Eddison dice che la Saga non è introspettiva e che non impiega processi analitici, vuol dire che nelle Saghe la voce del narratore non giudica la mentalità dei personaggi e le loro motivazioni, e non offre un commento critico delle azioni. I narratori di Saghe sono sempre onniscienti, ma si astengono da un'analisi psicologica dei personaggi: la voce del
narratore mostra i personaggi al lettore; essa non dice al lettore cosa sta facendo e pensando un personaggio. Per esempio, il narratore di Njal's Saga, dedica molti capitoli alla famiglia di Njal, ma non guarda con occhio particolare Njal ed i suoi figli quando Flosi ed i suoi uomini vanno a bruciare la casa di Njal: si limita a descrivere ciò che accade. Il narratore delle Saghe è un cronista, non un commentatore. La visione che il lettore - ο la lettrice - ha dei personaggi, dipende unicamente dalla di lui - ο di lei - valutazione delle loro parole e delle loro azioni. Ouroboros ha un narratore di questo genere. Voi ed io, come Ebenezer Scrooge nelle mani degli Spettri del Natale, accompagniamo ovunque il narratore, dalle valli assolate e fiorite di Demonland ai deserti di Impland, alle stanze più segrete della Fortezza Nera di Carce. Ma il narratore rimane distaccato e nell'ombra come lo Spettro del Natale che Deve Ancora Venire: si limita a mostrare ed a descrivere l'azione; non giudica, non analizza, non commenta. Il narratore mostra più spesso i Demoni, ma non li preferisce alle Streghe, e per lui Corund è nobile quanto Juss, e la sua imparzialità si manifesta più chiaramente quando Lessingham, l'osservatore terrestre condotto su Mercurio, respinge i commenti della sua guida virgiliana, il rondicchio. Per i primi due capitoli del libro, il rondicchio si comporta come un secondo narratore che risponde alle domande di Lessingham ed esprime dei commenti critici e autorevoli sui personaggi. Nel corso di questi capitoli, il narratore principale parla con voce non turbata dalle violazioni giurisdizionali del rondicchio: «Osserva, stupisci, e addolorati,» disse il rondicchio, «perché l'occhio innocente del giorno è ancora costretto a posarsi sui figli della notte eterna, Corund di Witchland ed i suoi maledetti rampolli». Lessingham pensò: «È un politicante estremamente focoso il mio rondicchio: maledice Diavoli e Angeli, e non ci sono vie di mezzo per lui. Ma io non ballerò alle sue canzoni, e aspetterò che queste cose si chiariscano» Voi, io e Lessingham, prestiamo ascolto al rondicchio, ma Lessingham decide che preferisce riflettere da sé sulle cose: osserverà, ascolterà, e quindi giudicherà il valore di quelli che occupano un posto nella storia, senza l'aiuto di un altro che abbia maggiori informazioni. Quando Lessingham prende la sua decisione di respingere una guida che dia giudizi, de-
cide anche per noi, e da quel momento in poi siamo costretti ad osservare, ad ascoltare, ed a giudicare in prima persona. Nelle Saghe la voce reticente del narratore onnisciente pone i personaggi in primo piano nell'immaginazione del lettore. Voi ed io non ci accorgiamo del narratore; notiamo i personaggi che manifestano la loro personalità attraverso le parole e le azioni. Nelle Saghe, dice Eddison, «l'interesse è concentrato sugli individui, sulla loro indole, sulle loro azioni, e sui loro destini», ed aggiunge: «e la vitalità stessa e la consistenza della trama poggiano sulle personalità dei suoi attori». La parte più cospicua del debito di Eddison nei confronti delle Saghe sta nei loro personaggi imponenti. Non la prosa, ma la gente. Gli uomini e le donne delle Saghe deliziarono Eddison e si guadagnarono la sua ammirazione imperitura. Per lui le attitudini di vita che questi uomini e donne esprimono, mostrano «quello che di più bello e nobile c'è nello spirito umano». «Il fior fiore della razza norvegese» Eddison non è solo in questa sua opinione, perché le figure storiche celebrate dalle Saghe meritano ammirazione. I Vichinghi norvegesi seppero dell'Islanda in Irlanda, perché i preti irlandesi erano stati là intorno al 790. In cerca di nuove terre, questi navigatori norvegesi giunsero prima nelle Isole Faroer e quindi in Islanda all'incirca nel 860, e colonizzarono l'isola durante le due generazioni successive. A parte le solite motivazioni delle spedizioni vichinghe, quali l'ambizione, l'irrequietezza, la cupidigia, la sovrappopolazione e la penuria di terra, l'impulso principale alla colonizzazione fu l'inesorabile conquista della Norvegia da parte di Re Harald Fairhair. Molti Capi norvegesi fuggirono dal paese perché non avevano uomini sufficienti per opporre resistenza alle armate di Harald, e non potevano tollerare di sottomettersi a lui. Eddison nutriva rispetto per questi uomini: «Gli uomini che s'insediarono in Islanda erano davvero il fior fiore della razza nordica; erano quelli il cui fiero spirito d'indipendenza e libertà non sopportava il nuovo 'asservimento' in Norvegia, e che decisero di perdere la terra ed i loro beni, e di esiliarsi in un paese sconosciuto, piuttosto che sottomettersi al giogo di Re Harald». (16) Il Professor Gwyn Jones corrobora questa tesi: «...la qualità dei coloni era sufficientemente elevata, e fra di essi c'era una notevole percentuale di Nobili di nascita, insofferenti ai vincoli, vigorosi ed indi-
pendenti, eredi, sostenitori, e continuatori di una cultura forte e peculiare». (17). Gli stessi poeti delle Saghe avevano questa opinione, e fu questa ispirazione, combinata col desiderio di preservare la storia islandese, che li spinse quattro secoli dopo a comporre un'epica in prosa - romanzata ma basata su fatti storici - sulle Famiglie fondatrici dell'Islanda. Uno scriba, che trascrisse la Thidrek's Saga nel Tredicesimo Secolo, espresse questa opinione sul valore delle Saghe: «Le Saghe su questi eroici personaggi sono importanti, poiché ci mostrano nobili gesta ed imprese eroiche, laddove i veri e propri misfatti sono le manifestazioni di indolenza». (18) In primo piano nella mente dello scriba c'è l'azione umana nelle Saghe. Un valore speciale vive nel comportamento umano, in queste «nobili gesta ed imprese eroiche»; esso rivive nelle saghe e si imprime nella maggior parte dei loro lettori. Gwyn Jones scrive: «... la concezione islandese dell'indole e dell'azione era eroica. Gli uomini e le donne delle Saghe avevano una visione relativamente semplice del destino umano. Essi avevano - e non è dir troppo - una valutazione estetica del comportamento. C'era un modo giusto di agire: le conseguenze potevano essere terribili, odiose; ma il comportamento era più importante delle sue conseguenze». Jones riecheggia un punto di vista espresso diversi anni prima da E.V. Gordon: «In nessun altra letteratura c'è un tale senso della bellezza nel comportamento umano; infatti, gli autori di prosa islandesi, ad eccezione dello Snorri, non sembrano essersi preoccupati della bellezza se non in relazione al comportamento ed all'indole. Gli eroi e le eroine stessi avevano una visione estetica del comportamento; essa era la loro guida principale...» (20) Eddison cita le parole di Gordon nell'introduzione alla sua traduzione di Egil's Saga, che ha come personaggio principale un uomo le cui azioni soddisfano perfettamente l'estetica del comportamento: le parole e gli atti di Egil, giusti ο sbagliati, ammirevoli ο detestabili, impressionano ed affascinano il lettore, e di conseguenza hanno una sorta di bellezza. In Ouroboros, Corinius affascina allo stesso modo. L'importanza - per la narrativa di Eddison - dell'enfasi drammatica delle
Saghe, sui personaggi e sulla bellezza del comportamento umano, non può essere sopravvalutata. «Tutto ciò che ho fatto è stato scrivere la migliore storia che potevo, su personaggi coi quali sono stato in piacevole compagnia,» scrisse Eddison ad un ammiratore del suo romanzo. (21) Come le Saghe, Ouroboros trova la sua forza nei personaggi e nelle loro azioni. La domanda a cui rispondere adesso è chiara: quale genere di personaggi Eddison trovava così piacevole? 4. L'Eroe Islandese, Greco, Mercuriano: «Come un Colosso, cavalca attraverso un piccolo mondo» «Persone con le quali alla mia immaginazione piace giocare» «Eroici», «nobili», «vigorosi», «indipendenti», uomini con «un fiero spirito d'indipendenza e libertà» e con «una concezione eroica dell'indole e dell'azione»: questi sono i termini che Eddison e altri hanno usato per descrivere i veri colonizzatori norvegesi dell'Islanda le cui controparti, storiche e letterarie in egual misura, vivono nelle pagine delle Saghe. Tutte queste qualità possono essere attribuite senza esitazione ai Demoni, alle Streghe, ai Goblin, ed alle Fate di Eddison. Ma i personaggi di Eddison non sono mere imitazioni dei personaggi delle Saghe. Gran parte della loro natura deriva anche da Omero. Nella sua introduzione a Egil's Saga, Eddison dice: «La Saga è come Omero, in quanto è eroica in materia ed in spirito». (22) Per tutta la vita egli associò la Saga all'Epica così, quando scrisse la sua personale epica immaginaria, attinse naturalmente dalle due fonti. Alla stregua della prosa, i personaggi di Ouroboros sono simili ad una combinazione alchemica di materia eclettica. In che modo le due fonti hanno influenzato la creazione dei personaggi? Dove si è fermata l'influenza della Saga, e dove è cominciata l'influenza di Omero? In una lettera al cognato, Keith Enderson, Eddison offre degli indizi riguardo alla natura dell'influenza omerica sui suoi personaggi quando dice che il suo stile è «adatto in particolare a trattare scenari e persone maestosi e straordinari, persone con le quali alla mia immaginazione piace giocare». In questa stessa lettera Eddison parla della sua ambizione per il suo romanzo storico, Styrbion the Strong: «Molto diverso da Ouroboros, per portata, taglio ed argomento, eppure simile per il fatto di essere una grande storia, di persone e scenari straordinari». (23) La frase ripetuta, «per-
sone e scenari straordinari», non indica direttamente l'ispirazione omerica, ma mostra che Eddison voleva che i suoi personaggi fossero grandi e magnifici, ed è una frase descrittiva che, per i personaggi delle Saghe, suonerebbe eccessiva ed iperbolica. Gli uomini e le donne delle Saghe impressionano per la loro eroica nobiltà, e alcuni degli Eroi si comportano e parlano come Achille, Agamennone, ed Ettore, ma nessuno di essi è un individuo «straordinario» la cui grandezza eguagli quella degli Eroi omerici. «La saga è come Omero in quanto è eroica in materia e in spirito» Una differenza «in grandezza» fra le Saghe ed i poemi epici di Omero sta nella diversità della partecipazione divina agli eventi umani. Sebbene nelle Saghe si verifichino eventi soprannaturali, gli Dei non parlano né si mostrano mai, mentre nell'Iliade camminano nella pianura di Troia. Zeus, Era, Atena, Afrodite, Apollo, Ares e Poseidone, nutrivano un forte interesse per la guerra, e partecipavano tutti - alcuni più di altri - alle gesta dei guerrieri. Questa attenzione divina conferisce ai pensieri ed alle azioni degli uomini un'importanza cosmica assente nelle Saghe. Le decisioni di Achille illustrano al meglio tutto questo. Dopo aver subito un affronto ingiusto da parte di Agamennone, gettando a terra lo scettro e risoluto a non partecipare ai combattimenti, l'irato Achille chiede alla sua divina madre, Teti, di persuadere Zeus a concedere la vittoria ai Troiani e ad infliggere la sofferenza agli Achei finché Agamennone non si pentirà della sua condotta offensiva nei confronti del più grande dei guerrieri Achei. Sebbene seccato della richiesta, Zeus si lascia convincere. Così, la rabbiosa decisione di Achille muove cielo e terra, come dicono i primi versi del poema, ed ha effetti devastanti per una moltitudine di soldati. Ira ed ecatombi si verificano abbastanza spesso nelle Saghe, e questi eventi possono sconvolgere una famiglia ο un'intera regione, ma non provocano un clamore che riecheggia attraverso Asgard. Sotto questo aspetto l'Ouroboros di Eddison si trova in qualche punto fra le Saghe e l'Iliade. Le potenti popolazioni mercuriane adorano gli Dei greci, eppure, come nelle Saghe, gli Dei non appaiono. Nessuno dubita della loro esistenza ο del mondo soprannaturale. Gli Dei comunicano coi mortali attraverso portenti, presagi e sogni e, attraverso la Magia, i mortali possono parlare con gli spiriti. Perdipiù, gli uomini e le donne di Mercurio con-
dividono l'attitudine al fatalismo con le donne e gli uomini delle Saghe e dell'Iliade: gli Dei decretano gli eventi e la durata delle vite umane. Poiché gli Dei determinano i destini, questi uomini e donne si considerano orgogliosamente non uguali, ma compagni degli Dei, mentre si muovono verso la sorte a loro destinata; essi non si mettono, per umiltà ο colpa, al servizio degli Dei. Al di là di queste generalizzazioni, la teologia si sviluppa con delicatezza in Ouroboros, perché la storia contiene degli ingredienti generali: i Diavoli adorano falsi Dei; i Silfi esistono; a volte i destini degli uomini sono governati dal Fato, dagli Dei, ο dalle stelle; la reincarnazione si verifica, ma solo per i Re di Witchland; i Mercuriani a volte invocano le Furie ο Satana; Inferno e Paradiso sono menzionati; Odino appare a Spitfire; e la terra si apre per Helteranius quando egli desidera porre fine alla sua vita. Una differenza ancora maggiore «in grandezza» sta nella diversità del potere politico degli individui. Gli Eroi omerici sono dei rappresentanti dell'aristocrazia che governano Province e guidano eserciti. Le loro azioni possono apportare dolore ο felicità ai tanti che sono da loro governati. Gli Eroi delle Saghe sono aristocratici in spirito e temperamento, ma non hanno un potere politico tangibile e, anche se spesso si considerano pari a Re ο a Principi, sono dei pionieri e colonizzatori senza Province popolose ο eserciti privati. Le loro azioni non hanno conseguenze per un gran numero di persone. Gli «straordinari» Eroi di Eddison abbracciano la «grandezza» di Omero, perché governano immense Province e, quando si presenta la necessità, possono mettere assieme interi eserciti. Durante un Consiglio di Guerra, Re Gorice XII si alza e squadra Corund e Corinius: «I suoi Capitani, valorosi uomini di guerra da lui elevati al rango di sovrani di due parti del mondo». Inoltre, gli Eroi di Eddison hanno ambizioni più che imperiali perché, quando Juss e Re Gorice XII s'incontrano, il narratore dice che «Si fronteggiarono quei due uomini, la cui ambizione ed orgoglio aveva reso il mondo troppo piccolo per entrambi e perché ci fosse pace fra loro» E le loro azioni cambiano il mondo. Quando Juss e Brandoch Daha gli sfuggono di mano a Eshgrar Ogo, Corund dice a Gro: «Credi che riuscirebbero a sopravvivere senza sollevare un clamore che si sentirebbe da qui a Carce?» Una differenza «in grandezza» è puramente materiale. Gli Eroi delle Saghe si stabilirono nelle pianure deserte e primeve dell'Islanda. Essi costruirono delle strutture funzionali utilizzando legno, pietre e zolle d'erba: era-
no Templi, case circondate da prati, fattorie, stalle e latterie. Sebbene amanti del fasto, edificare sontuosi palazzi non era, né nel loro interesse né nelle loro possibilità. Gli Eroi delle Saghe non hanno le splendide dimore, le armerie, le navi, le tenute, la ricchezza, e le armature decorate possedute dai Re omerici. Per fasto, ricchezza, e potere, Eddison preferisce di certo la scala omerica di grandezza a quella delle Saghe, ma la «straordinarietà» materiale in Ouroboros si lascia dietro anche Omero. Non c'è bisogno di addentrarsi molto nel romanzo per constatare che la magnificenza di Galing supera di gran lunga la ricchezza di Priamo e lo splendore del suo palazzo di Troia. (24) Eddison inizia la lunga descrizione della sala delle udienze con una valutazione del suo splendore: «Sicuramente nessun sovrano della terra, né Creso, né il Grande Re, né Minosse, né tutti i Faraoni, né la Regina Semiramide, né tutti i Re di Babilonia e Ninive hanno mai avuto una Stanza del Trono da paragonare per magnificenza alla Sala delle Udienze dei Signori di Demonland». Perdipiù, gli abiti degli aristocratici di Eddison superano i vestiti di seta e le armature bronzee dei Re di Omero. Come uno di molti esempi, gli abiti del banchetto ufficiale di Corinius illustrano la ricchezza di Witchland: «Il suo ampio torace era coperto da un giustacuore di pelle di daino non conciata rivestito di scaglie d'argento, ed indossava un collare d'oro tempestato di smaragditi [smeraldi] e un lungo mantello di broccato azzurro-cielo foderato di tessuto argenteo». Anche le armature indossate in battaglia sono elaborate e decorate, come questa di Lord Zigg: «La sua armatura, dal mento ai piedi, scintillava d'argento, e gioielli risplendevano sulla gorgiera [collarino di metallo placcato], sul balteo [fascia di cuoio che sostiene la spada sulla spalla] e sull'elsa della sua spada lunga e dritta». L'armatura incrostata di gemme degli Eroi di Eddison rivaleggia anche con l'armatura splendente che Efesto fabbrica ad Achille quando lui, alla fine dell'Iliade, torna per combattere. «Noi pochi, noi felicemente pochi, noi banda di fratelli» Che questo romanzo sia ispirato all'Iliade come alle Saghe, è un fatto che traspare ancora più nettamente quando si confrontano le loro strutture sociali a quelle di Mercurio. La consanguineità, il matrimonio, e la fedeltà all'amicizia, sono i principali legami sociali per la Grecia eroica e l'Islanda
coloniale, ed esistono sul Mercurio di Eddison, ma non universalmente. La «Cronologia» di Eddison dice che, prima che la storia inizi, «le pacifiche nazioni» di Demonland, Witchland e Goblinland, formavano un'alleanza per condurre una «Guerra Santa» contro i Ghoul. Il Capitolo V dice che Goldry Bluszco è fidanzato con la cugina di Re Gaslark di Goblinland, e che questo matrimonio cementerà le già ottime relazioni fra Demonland e Goblinland. Il legame di sangue appare ancora più chiaramente nella solidarietà fra Juss ed i suoi fratelli, Goldry Bluszco e Spitfire. A parte questi chiari esempi, apporre delle etichette strutturali è difficile, perché Eddison non spiega con chiarezza le caratteristiche delle diverse società. Sebbene i personaggi principali siano certamente aristocratici, il nostro autore non parla mai di differenze di classe ο di distinzioni fra i Principi e gli altri Nobili. Lui non stabilisce la natura di nessuno dei governi delle varie terre ο stati, per cui non si sa se le terre hanno una monarchia agnatizia, di primogenitura, ο elettiva. Witchland ha una tirannia dinastica basata sul diritto incontestabile della reincarnazione: quando un Re Gorice muore, il suo spirito assume un'altra forma. Nel primo capitolo, Re Gorice XI, «il cui potere e la cui fama sono al di sopra del mondo», manda un ambasciatore a Demonland perché consegni questo messaggio: «Nessun cerimoniale di omaggio ο di fedeltà mi è stato destinato dagli abitanti della mia Provincia di Demonland». Al che, Spitfire batte una mano sulla spada e ringhia «Provincia? I Demoni non sono forse un popolo libero?». Questo scambio di battute si avvicina alquanto ad una discussione politica, così come ogni altra conversazione nel libro. Anche se Goldry Bluszco si batte con Gorice XI a causa di questo problema, Eddison non fornisce alcuna giustificazione delle pretese di Witchland. Deducendo a intuito dal contesto, sembra che Witchland, attraverso conquiste e annessioni forzate, abbia ottenuto l'egemonia su diversi territori, e che sia determinata a sottomettere Demonland all'inizio della storia. Witchland domina il suo «impero» col terrore e la forza bruta di una grande flotta e di potenti armate. La società di Demonland è più opaca di quella di Witchland. Demonland non ha un Re. Ha dei Signori che governano, ma non esiste fra di loro una struttura gerarchica formale. Demonland non ha un Parlamento ο una regolare Assemblea. A parte il fidanzamento di Goldry Bluszco, nessun matrimonio si verifica ο viene proposto nel corso della storia, e solo Lord Zigg, fra i sette principali dei Signori Demoni, è sposato. Nessuno degli Aristocratici è più vecchio dei Signori governanti, e non viene fatta alcuna preci-
sazione sui genitori di chicchessia. (25). Così, senza un patto collettivo con un monarca, senza vincoli parlamentari, senza legami maritali fra famiglie e patrimoni, e senza legami di parentela patriarcali ο matriarcali, ci si domanda che cosa tiene uniti Demonland e questi Nobili scapoli. Nel vincolo filiale che esiste fra i tre Signori più potenti, Juss è oggetto di una sorta di deferenza fraterna, ma non è chiarito se la sua autorità risieda nel fatto di essere il più anziano. È il secondo fratello, Goldry Bluszco, che propone l'incontro di lotta con Re Gorice XI, e Juss e gli altri Signori Demoni accettano poiché «questo piano parve buono a tutti». Comunque, quando Juss propone il piano per la prima spedizione a Impland, Spitfire dice: «Tu sei il nostro fratello più anziano, ed io ti seguirò e ti obbedirò in tutto ciò che vorrai ed ordinerai». Gli altri signori Demoni rispettano Juss per la sua saggezza e seguono i suoi consigli, ma lui non sembra avere alcuna autorità per dare ordini a questi guerrieri aristocratici. Brandoch Daha, Volle, Vizz, e Zigg, sono alleati di Juss e dei suoi fratelli solo per amicizia. Nel Consiglio di Guerra finale, tutti i Signori Demoni, tranne Brandoch Daha, ritengono di dover salvare Goldry Bluszo prima di attaccare Carce, e Brandoch Daha si alza e dice mentre esce dalla stanza: «Juss, amico del mio cuore, mi pare che siate tutti d'accordo fra voi, ma non con me. Mi congedo da voi». E Juss, guardandolo mentre se ne va, dice: «La sua coscienza lo riporterà da me quando sarà il momento: nessun altro potere riuscirebbe ad opporsi alla sua buona volontà. Neppure il cielo potrebbe piegare con la forza il suo gran cuore». Quando Brandoch Daha ritorna dice: «Stupisce poco che tu sia un uomo fortunato nelle tue imprese, Juss, dal momento che hai l'abilità di trascinare i tuoi amici ad assecondarti». L'amicizia è il vincolo sociale fondamentale, ma è un vincolo indissolubile. L'aristocrazia anarchica ed estremamente individualistica di Demonland somiglia all'alleanza dei Re nell'Iliade. Omero non chiarisce le relazioni fra i molti Re e Principi che assieme attaccano Troia ma, a parte Menelao, che vuole riprendersi Elena, la maggior parte dei Re si sono uniti all'alleanza perché speravano di ottenere ricchezze durante la conquista, ed attribuivano grande valore all'amicizia dei potenti Atridi. Omero dice che Agamennone è il Comandante in Capo dell'alleanza. Basandosi sull'attestazione che si ricava dal «catalogo» del Libro II, si può arguire che Agamennone era il Re più potente della penisola del Peloponneso. (26) Comunque, Agamennone - come Juss - non aveva la massima autorità
sugli altri Re; se l'avesse avuta, il ritiro di Achille nel Libro I sarebbe stato un atto di diserzione e un'offesa da punire. Achille e gli altri Re hanno scelto di partecipare alla guerra, e si sostengono l'un l'altro con un'alleanza amichevole e non per obbligo. I Signori amici di Demonland somigliano anche agli Islandesi del Decimo Secolo i quali, con una cooperazione unica nel suo genere nel mondo di quell'epoca, formavano un gruppo unito che era individualisticamente aristocratico come l'alleanza achea di Omero e l'alleanza dei Demoni di Eddison, e ancora più organizzato di entrambe. I primi colonizzatori dell'Islanda rivendicavano semplicemente delle vaste distese di terra, spesso a grande distanza l'una dall'altra. Mentre il tempo passava, le famiglie crescevano ed arrivavano altri colonizzatori, i proprietari terrieri originari suddividevano le loro terre in tenute da destinare ai figli ed agli amici. Essi costruivano anche e conservavano dei luoghi per l'adorazione, di solito, di Thor ο di Frey sulle loro terre, e così, alla fine, questi proprietari terrieri più ricchi ottenevano per sé lo status ed il titolo di godi («devoto»), una sorta di Sacerdote secolare. Nel giro di sessant'anni dopo l'arrivo dei primi colonizzatori - intorno al 860 - gli uomini più ricchi, il godar d'Islanda, fondarono l'istituzione dell'althing, un'Assemblea Generale annuale che si teneva in un luogo specifico chiamato il thingvellir (Piana dell'Assemblea). L'althing era un'alleanza di trentasei godi eguali, ed essi formavano un Parlamento con potere legislativo e giudiziario. "L'althing non era un'istituzione per il rafforzamento esecutivo delle leggi: il mantenimento della legge e dell'ordine restavano sui fondamentali vincoli sociali di consanguineità, matrimonio, ed amicizia. Tuttavia, faide familiari e vendette private sono eventi comuni nelle Saghe. (27) Fortunatamente, queste violente dispute domestiche non rovinano la pace interna di Demonland. «Quando il boato della guerra rimbomba nelle nostre orecchie, Allora imitate i movimenti della trigre» La non-esistenza di una generazione anziana in Demonland è forse l'aspetto più strano di questa società specialmente perché il Signore Demone più anziano, Volle, ha solo quarant'anni quando la storia inizia, e ci si aspetterebbe che qualcuno dei venerabili Signori più vecchi, come il vecchio Nestore e Re Priamo nell'Iliade ο Kveldulf in Egil's Saga, fosse ancora vivo.
Il silenzio di Eddison circa le famiglie dei suoi Demoni mi impedisce di formulare qualsiasi ipotesi sulla Signoria di Demonland, se sia cioè legata alla primogenitura ο agnatizia. Di conseguenza, mi chiedo come facessero questi uomini con le corna e diventare Signori e come conservassero le loro cariche. Il romanzo suggerisce che il valore in guerra costituisce il fondamento del potere aristocratico. Il primo capitolo dice che Juss conosce l'arte della Magia, «eppure non usa questa Arte; perché essa indebolisce la vita ed il vigore, e non è ritenuto onorevole per un Demone servirsi di questa Arte, ma piuttosto egli deve affidarsi alla propria forza e possanza». Diversamente da Juss, Gorice XII non considera la Magia una pratica disonorevole; egli vi dedica molte energie e ne ha fiducia. Eppure, Gorice delega la sua autorità imperiale sulla base del valore in guerra: egli premia i suoi Generali vittoriosi - Corund e Corinius - con dei feudi, quando essi danno prova della loro abilità di guerrieri portando a termine delle conquiste che allargano l'Impero di Witchland. Per gli antichi Greci l'aristocrazia era una condizione in cui governavano i cittadini migliori. Demonland e Witchland sono aristocrazie militari: sono i migliori comandanti a governare. Nel porre una tale enfasi sulle virtù militari, Eddison si allontana dalla situazione islandese e dà forma a delle società più bellicose di quelle dell'Iliade. Gli Eroi delle Saghe erano principalmente agricoltori ο produttori di latte. Alcuni di questi uomini conducevano una doppia vita come Vichinghi durante l'estate e contadini durante il resto dell'anno. Ma, nelle Saghe, combattere non è quasi mai l'aspetto principale della vita di un uomo: la forza e l'identità degli uomini delle Saghe, e la rivendicazione di una sovranità locale, traspaiono attraverso i loro possedimenti terrieri. I Re di Omero, senza dubbio dei grandi guerrieri, mantenevano il loro potere sulle Province greche perché un'accettata consuetudine agnatizia aveva prodotto dinastie di governanti in ogni parte del Peloponneso, ed ogni connessione del Re con la dinastia era una giustificazione per il possesso del regno. La guerra su Mercurio è tutto, specialmente per i Demoni. Il combattimento distingue e identifica i Signori. Quando il piccolo rondicchio presenta i Signori dei Demoni a Lessingham, distingue ogni Signore in relazione alle sue abilità marziali, alle imprese, ο agli attributi. Voile è un grande «Capitano di mare» e «uno che ha servito la causa di Demonland, e del mondo intero, nell'ultima guerra contro i Ghoul». Zigg è «il famosis-
simo domatore di cavalli» e «inoltre un uomo possente quando guida i suoi cavalieri contro il nemico». Spitfire è «impetuoso in guerra». Goldry Bluszco porta la spada «con la quale uccise il mostro marino». Brandoch Daha «per anni è stato considerato il terzo miglior uomo d'arme di Mercurio, assieme a Goldry Bluszco e a Gorice X di Witchland... E nove estati fa uccise in un duello Gorice... ma ora nessuno può superare Lord Brandoch Daha nell'arte del combattimento, salvo forse il solo Goldry». Combattere è il fondamento dell'amicizia, ed è importantissimo per tenere assieme la società dei Signori Demoni. L'amore profondo fra i tre fratelli e gli altri Signori si basa sull'ammirazione reciproca per l'abilità in guerra. Il valore militare, anche quando viene constatato in un nemico, suscita l'ammirazione, e questo è appropriato e necessario in una società di Eroi, perché i Demoni e le Streghe non lotterebbero fra loro se non si rispettassero: un guerriero non può conseguire la gloria se sconfigge un nemico che disprezza. Nella battaglia davanti a Carce, Juss osserva il comportamento audace di Corund e dice: «Questo è il più grande fatto d'armi che io abbia mai visto nei giorni della mia vita, e nutro tale ammirazione e meraviglia nel mio cuore per Corund, che quasi vorrei concedergli la pace». Tutto l'amore e la lealtà fra gli amici, e tutto l'onesto odio fra i nemici, sono radicati nel valor militare. «Priamo chiamò a voce alta Elena 'Vieni qui, bambina mia, e siediti accanto a me... dimmi il nome di quest'uomo così terribile!» Le società degli Eroi delle Saghe e dell'Iliade hanno - paragonate agli altri sistemi sociali - dei parametri relativamente stretti per le forme accettabili di lavoro maschile. Per gli aristocratici sono possibili solo poche occupazioni. Nell'Iliade, tutti gli Achei e i Troiani più eminenti sono guerrieri e Principi che governano. Nelle Saghe, gli uomini più illustri sono ricchi fattori e proprietari terrieri, sacerdoti, giuristi e Vichinghi; molti esercitano più di una di queste occupazioni. In tutte e due i tipi di società, gli uomini più eminenti fanno cose simili, conservano attitudini e valori simili, e pensano allo stesso modo. Entrambe le società, inoltre, hanno parametri stretti per un accettabile comportamento morale. Le persone sostengono con rigore i loro standard morali, e la
conservazione della posizione di un uomo nella società dipende dalla sua capacitò di comportarsi secondo abitudini che ben si confrontino con gli ideali di comportamento. Queste generalizzazioni si applicano anche alle società di Ouroboros. Eppure, le società di Eddison, spinte da un sistema morale basato principalmente sulle virtù militari, sono più semplici e più rigorose delle loro fonti. Per far parte di un gruppo di Eroi, una Strega ο un Demone devono essere come il gruppo, e devono comportarsi secondo le consuetudini marziali accettate. In una simile uniformità, come fa l'autore a definire le differenze fra gli uomini? Come può fare in modo che gli individui abbiano delle personalità specifiche, staccate dal gruppo? Il metodo di base, usato in svariati modi, è la caratterizzazione attraverso l'azione. Gli Eroi nelle Saghe, nell'Iliade e in Ouroboros, sono uomini d'azione. Le loro azioni servono a definirli come individui. Anche se devono agire all'interno di una serie di standard eroici rigorosi e spesso sottintesi, agendo differentemente all'interno di questi standard, essi si distinguono l'uno dall'altro. Di certo, delle azioni particolari fanno risaltare un uomo rispetto al gruppo. L'uccisione da parte di Bolli del suo miglior amico, Kjartan, alla fine di Laxdaela Saga, il ferimento di Ares da parte di Diomede nel Libro V dell'Iliade, e la vittoria di Goldry Bluszco su Gorice XI nel Capitolo II di Ouroboros: queste azioni uniche distinguono quelli che le hanno eseguite dai loro compagni, poiché nessun altro compie un'azione del genere. Ma, questo metodo non è ristretto agli autori delle Saghe, a Omero, e ad Eddison; esso è usato comunemente dai drammaturghi, dai romanzieri, e dai poeti in prosa. Tuttavia, un secondo metodo - più particolare - è condiviso da Omero e dal suo discepolo, Eddison. Rendere diversi i personaggi è un compito più difficile per Omero ed Eddison che per gli Scrittori di Saghe, perché l'Iliade e Ouroboros si basano su una contrapposizione epica fra Troiani ed Achei, tra Demoni e Streghe. Dove gli scrittori di Saghe trattano di contese fra individui che, nella loro disputa, si distinguono all'interno della uniforme società islandese, Omero ed Eddison trattano di gruppi ben distinti. Sia Omero che il suo discepolo, di frequente usano l'azione per creare personalità individuali, mostrando le diverse reazioni dei singoli personaggi nell'identica situazione. Alla fine del Libro XV dell'Iliade, Ettore - al culmine della sua avanzata - quando porta il combattimento in prossimità della fila di navi achee tirate
a riva, afferra la poppa di uno dei vascelli, e chiede una torcia per incendiare la nave (XV: 910). Questo evento, uno dei più significativi del poema, fornisce a Omero l'opportunità di sviluppare i personaggi individualmente, perché tre Eroi achei reagiscono a questa cosa, ma ognuno lo fa in modo diverso, pur all'interno dello standard tipico degli Eroi. Il gigantesco Aiace Telamonio rifiuta di restare con gli altri soldati Achei e, anche prima che Ettore, trionfante, abbia portato a termine la sua azione, Aiace «qui piantato/osserva il nemico, e sempre oprando/l'asta...» (XV: 926-928). Solo fra gli Achei, Aiace si mette in una posizione di testa come un'avanguardia costituita da un uomo solo, e tiene a bada i Troiani con una lancia lunga più di venticinque piedi. Mantiene la sua posizione anche se si sente sempre più stanco: «né la calca premente né de' colpi/la tempesta il potea mover di loco» (XVI: 150-151). Aiace manifesta quel coraggio feroce e risoluto che caratterizza tutti i suoi scontri e che fa di lui, dopo Achille, il più valoroso guerriero Acheo. Un altro guerriero, Patroclo, reagisce in un modo che sembra in qualche modo strano alla nostra moderna definizione di comportamento eroico: infatti piange «un caldo rio versando/di lagrime, siccome onda di cupo/fonte...» (XVI: 3-5) ma, quando implora Achille di tornare a combattere, diventa chiaro che le sue lacrime non sono un segno della sua codardia ma della sua frustrazione per il rifiuto testardo dell'amico di combattere e per la pietà nei confronti degli uomini che vacillano sotto l'assalto di Ettore. Il terzo guerriero, Achille, manifesta sia il risentimento testardo che deriva dalla sua disputa con Agamennone, che la sua indole premurosa e sensibile quando risponde a Patroclo. Egli dice che le parole di Patroclo gli hanno procurato una «acerba doglia», e che «l'ira/viver non debbe eterna» (XVI: 83-84). Il proposito di Achille, messo di fronte alle sofferenze dei guerrieri che egli ama, lo sconvolge profondamente e, dopo aver riflettuto, decide di soddisfare il suo onore continuando ad estraniarsi dalla lotta e di alleviare la sua rabbia concedendo in prestito la sua splendida armatura a Patroclo. In questo significativo momento tre reazioni differenti contribuiscono a creare tre personalità differenti. (28) Un esempio dell'uso che fa Eddison di questo metodo, sono le reazioni dei Signori Demoni all'«arrivo dei verme dell'abisso» di Re Gorice ed al suo rapimento di Goldry Bluszco nel Capitolo V. Re Gaslark li trova sulla loro nave, in pezzi e carbonizzata, inebetiti e piangenti per il dolore. Gaslark propone loro di salpare immediatamente e di attaccare Carce di sor-
presa, perché ritiene che Goldry sia stato portato là. Juss non è d'accordo col piano di Gaslark per un attacco di sorpresa: «Witchland non sarà sopraffatta così, ma solo dopo lunghi giorni di fatica, e dopo aver approntato piani, costruito navi e raccolto un contingente di uomini». Juss, inoltre, ritiene una «fantasia azzardata» il fatto che Goldry sia stato condotto a Carce e, sebbene non lo dica a Gaslark, ritiene che i Goblin di Gaslark non possano confrontarsi con la forza delle Streghe. Gaslark insiste ancora, ma «nonostante tutti i suoi incitamenti Gaslark non riuscì a smuoverlo di un pollice». Nel corso di questa crisi le azioni di Juss mostrano la circospezione e la saggezza che identificano un grande comandante. Spitfire, comunque, non riesce a comprendere quella che gli sembra una vile compiacenza in Juss, e balza in piedi imprecando: «Con Goldry se n'è andata via da Demonland tutta la virilità, e noi siamo rimasti solo delle donnicciole oggetto di scherno e di disprezzo». Spitfire, caratterizzato in precedenza dall'espressione «impetuoso in guerra», agisce con quell'avventatezza appassionata che spesso gli impedisce di scorgere la saggezza. Nel frattempo, Brandoch Daha, il Signore Demone gelido e raffinato, «vagava avanti e indietro sulla passerella, come una pantera in gabbia quando l'ora del pasto è passata da un pezzo». Poi Brandoch Daha parla a Gaslark di un «turbamento crudele» e di una «tempesta nella sua mente», e gli chiede di battersi con lui: «L'unica cura è combattere... Devo combattere, altrimenti questa furia mi ucciderà». In risposta alla cattura di Goldry Bluszco, ognuno dei personaggi prova delle forti emozioni, ma le loro emozioni sono diverse, ed essi le esprimono con un comportamento diverso. I Demoni «cornuti» agiscono all'interno degli ideali di comportamento della loro società di Eroi, ma si comportano in maniera diversa. L'azione che serve a distinguere i personaggi, ha maggiore potenza ed importanza del suo uso narrativo da parte degli scrittori. Per gli Eroi della storia essa ha una necessità irrevocabile. L'inattività non è contemplata per loro. Devono agire non soltanto per essere Eroi, ma anche per avere qualcosa che possono considerare appartenente a loro: per avere una reputazione. «Devo portare a termine un'impresa più memorabile...», dice Re Gaslark. «Vorrei fare qualcosa che sconvolga e meravigli il mondo... prima di scivolare nell'oblio». Una grande spinta al successo grava sulle spalle di questi Eroi. Come nell'Iliade conseguire la gloria è la cosa più desiderata, e ottenere l'infamia
è la cosa più temuta. Queste emozioni inseparabilmente accoppiate producono una motivazione che spinge al successo. L'infamia che consegue al fallimento produce sentimenti suicidi e indegnità. Trepidando per il dolore e la rabbia dopo essere stato battuto da Corinius, Spitfire grida a Volle: «Non si è forse vantato di essere Re di Demonland? Eppure non sono riuscito a conficcargli la spada nei visceri. E tu credi che io possa vivere con questa infamia?... Meglio morto che in fuga da Corinius come un cucciolo bastonato». Per Spitfire la morte immediata è più desiderabile di una vita vissuta nella vergogna che comporta il costante ricordo del fallimento. Eppure, come nell'Iliade, una sconfitta non significa necessariamente disonore. Sconfitto e catturato dai Demoni, l'eroe di Witchland Laxus fissa orgogliosamente i suoi catturatori e dice: «Può essere doloroso, ma non è una vergogna per noi essere stati sconfitti dopo un combattimento così strenuo». Ma c'è bisogno di «un combattimento così strenuo» per evitare l'infamia. «Oh, ho perso la mia reputazione!», grida Michael Cassio con parole disperate che troverebbero orecchie propense ad ascoltarlo fra gli uomini sconfitti su Mercurio. «Ho perso la parte immortale di me stesso, e ciò che resta è bestiale». (29) Le imprese coronate dal successo portano gloria, e su questa gloria si poggia la reputazione, che non solo da' un senso alla vita del guerriero, ma ne è la vera anima. «Il Serpente che si mangia la coda» La gloria nella vittoria e il disonore nella sconfitta sono come le due facce di una stessa moneta. Se gli Dei prendono questa moneta e la fanno prillare all'aria, essa volterà alternativamente una faccia verso il sole ed una verso l'ombra, ripetutamente, ma alla fine cadrà al suolo e resterà ferma. Al termine di tutte le guerre c'è la battaglia finale. La sconfitta finale e la vittoria finale, la gloria finale e la vergogna finale, e la fine della reputazione militare: queste cose accadono dopo l'ultima battaglia. Quando finiscono i combattimenti - nelle Saghe e nei poemi di Omero - gli uomini tornano a casa e riprendono le occupazioni domestiche ο gli incarichi civili. Non è così su Mercurio. Laggiù, la fine dei combattimenti comporta una fine dell'identità. Se la guerra è finita, nelle parole di Juss, «noi, che eravamo signori del mondo, dobbiamo tornare ad essere pecorai e cacciatori, se non vogliamo saltimbanchi e vagheggini».
Non è la vittoria quello che amano questi Signori: è la battaglia. Se la guerra diventasse obsoleta, i modelli di vita e gli insegnamenti di tutte le azioni che possono essere considerate davvero degne sarebbero superati, le basi della civiltà crollerebbero, ed i Signori stessi perderebbero la loro fama ed il potere, quasi fino al punto di diventare oggetto di disprezzo. La guerra giustifica ed alimenta tutte le qualità desiderabili della civiltà di Mercurio. La guerra su Mercurio, allora, non può finire. Eddison impedisce la fine della guerra apportatrice di vita e il triste decadimento della civiltà di Mercurio, con una struttura della trama impeccabilmente bilanciata, basata sull'Ouroboros. Eddison distribuisce gli eventi più importanti simmetricamente, cosicché essi accadono due volte e sembrano tornare al punto di partenza. La storia finisce dove comincia e comincia dove finisce. La struttura «ouroboros» fa del Mercurio di Eddison un mondo eterno in cui gli ideali eroici non svaniscono mai. Lord Juss esprime meglio questa visione di un'utopia guerresca quando esprime il desiderio di una contesa interminabile con Re Gorice: «Lasciami sognare ancora un po'», dice Juss, «Per tenere in vita d'ora in poi me e lui, il suo ed il mio, e per sempre, senza età e senza fine, la contesa che deve decidere se lui ο noi dobbiamo essere i padroni del mondo». L'ultima pagina di Eddison ci invita a tornare alla prima e a ricominciare la storia da capo. Ed è sempre così quando si leggono i grandi libri: abbiamo solo bisogno di riprendere i nostri testi favoriti dagli scaffali, ed i personaggi e le storie - che dimorano nel limbo oscuro dell'inchiostro e della carta fra le copertine chiuse - torneranno di nuovo in vita nella nostra immaginazione. Ma l'Ouroboros include più della semplice lettura. Il drago eterno che si mangia la coda, simboleggia la forma dell'amore e della bellezza nelle nostre menti. Una volta che sperimentiamo la bellezza nelle sue molte forme, dobbiamo solo tenerla a mente e tornarci, ed essa rinascerà per noi, che la ameremo di nuovo, scoprendo in essa nuove cose da amare: una mattina in una galleria, una sera al concerto, un pomeriggio a teatro, un'escursione al lago, una passeggiata fra gli alberi che preferiamo, un sorso del nostro vino prediletto, un'occhiata sorridente al volto che più amiamo. Paul Edmund Thomas Minneapolis
Ottobre 1990 E.R. EDDISON IL SERPENTE OUROBOROS A W. G.E. e ai miei amici K.H. e G.C.K.M. dedico questo libro Non è né un'allegoria né una favola, ma una Storia da leggere per il proprio piacere. Ho cercato dei nomi propri che avessero una facile pronuncia. La e di Carce è lunga, come in Phryne, la ο in Krothering è breve e l'accento si trova su quella sillaba; Corund è accentato sulla prima sillaba, Prezmyra sulla seconda, Brandoch Daha sulla prima e sulla quarta, Gorice sull'ultima sillaba, e fa rima con thrice; Corinius fa rima con Flaminius, Galing con sailing, La Fireez con desire ease; ch è sempre gutturale, come in loch; E.R.E INDUZIONE (1) C'era un uomo chiamato Lessingham (2) che abitava in una casetta a Wasdale, eretta in un antico giardino grigio dove fiorivano dei tassi che i Vichinghi avevano visto a Copeland quando erano ancora pianticelle. Gigli, rose e consolide sbocciavano ai margini, e begonie con fiori grandi come piattini, rossi, bianchi, rosa, e color limone, nelle aiuole davanti al porticato. Rose rampicanti, caprifogli, clematidi, ed azalee di un rosso scarlatto, s'inerpicavano sui muri. Intorno al giardino c'erano dei fitti boschi con un varco che si apriva
verso nord-est sul lago desolato e gli ampi pascoli al di là di esso: il Gable sollevava la sua testa circondata di dirupi contro il cielo alle spalle del profilo netto e continuo degli Screes. (3) Lunghe ombre gelide avanzavano lentamente sul campo da tennis in erba. L'aria era dorata. I colombi mormoravano fra gli alberi; due fanciulli giocavano sul paletto più vicino della rete; una piccola cutrettola saltellava lungo il viottolo. Una porta finestra era aperta sul giardino, rivelando una sala da pranzo in penombra rivestita di antichi pannelli di quercia, col suo tavolo stile Giacomo I rallegrato da fiori, argenti, cristalli e piatti di ceramica Wedgwood colmi di frutta: prugne, pesche, e acini verdi di uva moscata. Lessingham era disteso su una sedia a sdraio ed osservava attraverso il fumo azzurrino di un sigaro acceso dopo il pranzo la luce calda sulle rose Gioire de Dijon sbocciate a grappoli intorno alle finestre della camera da letto sopra la sua testa. Prese la mano di lei nella sua. Questa era la loro Casa. «Vogliamo terminare quel capitolo di Njal?», (4) chiese lei. Prese il pesante volume dalla copertina di un verde sbiadito, e lesse: «'Uscì nella notte del giorno del Signore, quando mancavano nove settimane all'inverno; sentì uno schianto così forte che il cielo e la terra tremarono. Poi guardò ad ovest, e credette di vedere una sorta di anello ardente e, dentro l'anello, un uomo su un cavallo grigio. L'uomo lo superò di gran carriera, galoppando. Aveva in mano una fiaccola fiammeggiante, e gli passò così vicino che poté vederlo con chiarezza. Era nero come la pece, e cantava questa canzone con voce possente: Sono in groppa ad un veloce destriero, Il suo fianco è chiazzato di brina, La criniera grondante di pioggia. Imponente Cavallo da guerra, Le fiamme divampano ai lati, ed Il fiele guizza nel mezzo. Va così con gli auspici di Flosi Mentre questa fiaccola vola; Va così con gli auspici di Flosi Mentre questa fiaccola vola. «'Allora credette di vederlo scagliare la fiaccola ad est, verso gli alti pascoli davanti a lui, e una tale vampa di fuoco si sollevò andando incon-
tro ad essa, che egli non riuscì a vedere i pascoli per il bagliore. Sembrava come se quell'uomo si fosse allontanato fra le fiamme e fosse svanito laggiù. «'Dopo che fu andato a letto, rimase privo di coscienza per parecchio tempo ma, alla fine, ritornò in sé. Ricordava tutto ciò che era accaduto, e lo raccontò al padre, che gli consigliò di raccontarlo a Hjallti, figlio di Skeggi. Allora egli andò a dirlo a Hjallti, ma questi osservò che egli aveva visto «il Cavallo del Lupo, e che esso viene sempre prima di notizie straordinarie'». Rimasero silenziosi per un po', poi Lessingham disse improvvisamente: «Ti spiace se dormiamo nell'ala est stanotte?» «Dove, nella Stanza del Loto?» «Sì.» «Mi sento troppo stanca stanotte, caro,» rispose lei. «Ti spiace, allora, se vado da solo? Tornerò a colazione. Preferirei avere mia moglie con me, comunque, ci torneremo al calar della prossima luna. La mia piccola non ha paura, non è vero?» «No!», disse lei, ridendo. Ma i suoi occhi erano un po' più grandi. Le sue dita giocavano con la catena dell'orologio di lui. «Preferirei,» gli disse poco dopo, «che tu salissi a prendermi più tardi. Tutto questo è ancora così strano! La Casa, e tutto il resto; ma mi piace molto. E, dopotutto, passa molto tempo - trascorrono anche diversi anni, a volte - nella Stanza del Loto, anche se finisce tutto al mattino. Preferirei che andassimo assieme. Se accadesse qualcosa be', moriremmo entrambi, e questo non avrebbe molta importanza, no?» «Entrambi cosa?», disse Lessingham. «Ho paura che il tuo linguaggio non sia del tutto appropriato.» «Be', mi hai insegnato tu!», disse lei, e risero. Rimasero seduti finché le ombre scivolarono sul campo da tennis e sugli alberi, e le rocce più alte sul fianco della montagna al di là di essi s'illuminarono di rosso nei raggi della sera. Lui mormorò: «Se vuoi, possiamo passeggiare un po' su per il pascolo; Mercurio è visibile stanotte. Potremmo gettarvi uno sguardo subito dopo il tramonto.» Poco dopo, sul fianco della collina, sotto i pipistrelli rapaci, (5) osservavano il vago pianeta che si mostrò infine basso ad ovest fra il tramonto ed il buio. Lui disse: «È come se Mercurio avesse un dito puntato su di me, stanotte, Mary. I miei tentativi di addormentarmi fallirebbero tutti, questa notte,
tranne che nella Stanza del Loto.» Il braccio di lei strinse il suo. «Mercurio?», disse. «È un altro mondo: è troppo lontano.» Ma lui rise e ribatté: «Nulla è troppo lontano!» Tornarono indietro mentre le ombre diventavano più fitte. Mentre erano nel buio del cancello ad arco che conduceva dal pascolo al giardino, le note chiare ed attenuate di una spinetta risuonarono dalla casa. La donna alzò un dito. «Ascolta!», disse. «Tua figlia sta suonando Les Barricades.» Si misero ad ascoltare. «Adora suonare,» sussurrò lui. «Sono lieto che le abbiamo insegnato a suonare.» Un attimo dopo sussurrò ancora: «Les Barricades Mysterieuses. (6) Cosa ispirò a Couperin questo nome incantato? E solo tu ed io sappiamo cosa realmente vuol dire. Les Barricades Mysterieuses...» Quella notte, Lessingham giacque solo nella Stanza del Loto. La finestra si apriva verso est sui boschi addormentati e sulle nude pendici dormienti di Illgill Head. Scivolò in un sonno dolce e profondo; perché quella era la Casa del Pomeriggio, (7) e la Casa della Pace. Nelle ore profonde e morte della notte, mentre la luna calante scrutava i fianchi della montagna, egli si svegliò bruscamente. I raggi argentei splendevano attraverso la finestra aperta su una forma appollaiata ai piedi del letto: era un uccellino nero, con la testa rotonda, il becco corto, lunghe ali appuntite, e gli occhi come due stelle scintillanti. Parlò e disse: «È il momento!» Allora Lessingham si alzò e si avvolse in un ampio mantello che stava su una sedia accanto al letto. Rispose: «Sono pronto, mio piccolo rondicchio.» (8) Perché quella era la Casa dei Desideri del Cuore. Di certo gli occhi del rondicchio riempivano tutta la stanza col chiarore delle stelle. Era una vecchia camera con fiori di loto intagliati sui pannelli e sul letto, sulle sedie e sulle travi del tetto; e, in quell'atmosfera di prodigio, i fiori scolpiti oscillavano come ninfee in un fiume lento. Lui andò alla finestra, ed il piccolo rondicchio gli si posò su una spalla. Un cocchio coi colori dell'alone che si stende intorno alla luna attendeva fuori dalla finestra, sospeso nell'aria, attaccato ad uno strano destriero. Sembrava un cavallo, (9) ma aveva le ali di un'aquila, e le sue zampe anteriori erano pennute e fornite di artigli invece che di zoccoli. L'uomo salì sul carro, e quel piccolo rondicchio si sistemò sul suo ginocchio. Con un frullio d'ali il selvaggio corsiero guizzò verso il cielo. La notte
intorno a loro era come un tumulto di bolle intorno alle orecchie di un uomo che stesse nuotando in una polla profonda sotto una parete di roccia lievemente ripida bagnata da una cascata montana. Il tempo fu divorato dalla velocità, ed il mondo si allontanò; ci fu solo il tempo per due respiri profondi prima che lo strano corsiero distendesse le ali color arcobaleno e scendesse nella notte su una grande isola che sonnecchiava su un mare addormentato, con tante piccole isole intorno ad essa: era un insieme di montagne rocciose e pascoli collinosi ed acque, tutti illuminati dal chiaro di luna. Si fermarono davanti ad un cancello sormontato da leoni d'oro. Allora Lessingham scese dal cocchio, ed il piccolo rondicchio nero svolazzò intorno alla sua testa, mostrandogli un viale di tassi che si dipartiva dal cancello. Come in un sogno, lui lo seguì. I. IL CASTELLO DI LORD JUSS Delle rarità presenti nella sala delle udienze, belle e incantevoli da vedere, e delle qualità e condizioni dei Signori di Demonland: e della delegazione inviata loro da Re Gorice XI, e della risposta data ad essa. Le stelle di levante stavano impallidendo in attesa dell'alba mentre Lessingham seguiva la sua guida lungo il viale erboso fra le file in ombra dei tassi irlandesi, che si ergevano come soldati misteriosi in attesa nelle tenebre. L'erba era umida di rugiada notturna, ed i grandi gigli bianchi che dormivano all'ombra dei tassi, riempivano l'aria di quel giardino della loro fragranza. Lessingham non avvertiva il suolo sotto i suoi piedi e, quando tese la mano per toccare un albero, essa passò attraverso il ramo e le foglie come se fossero degli incorporei raggi di luna. Il piccolo rondicchio, scendendo ad appollaiarsi sulla sua spalla, gii rise in un orecchio. «Figlio della terra,» disse, «credi che siamo nei Mondo dei Sogni?» Lui non rispose, e l'uccello aggiunse: «Questo non è un sogno. Tu, primo fra i figli degli uomini, sei giunto su Mercurio, dove tu ed io viaggeremo per un'intera stagione, così potrò mostrarti le terre e gli oceani, le foreste, le pianure, le montagne, le città, e gli antichi palazzi di questo mondo,
Mercurio, e le gesta di quelli che vi abitano. Ma non potrai toccare niente, né far sì che la gente si accorga di te, neanche se griderai a squarciagola. Perché tu ed io qui siamo impalpabili e invisibili, come se fossimo due sogni in movimento.» (1) Erano intanto giunti su una scalinata di marmo che conduceva dal viale di tassi alla terrazza di fronte al grande cancello del castello. «Non è necessario per te e me aprire le porte,» spiegò il rondicchio, mentre passavano sotto le tenebre dell'antico portale su cui erano scolpiti degli strani emblemi e, attraverso le spesse assi della porta sprangata saldamente fissate con chiodi d'argento, entravano nel cortile interno. «Ora rechiamoci nella Sala delle Udienze. Ci fermeremo là per un po'. Il mattino sta illuminando gli strati d'aria più alti, e ben presto la gente comincerà ad andare su e giù per il castello, perché non si indugia nel letto quando a Demonland comincia il giorno. Perché devi sapere, ο uomo della terra, che questa regione si chiama Demonland, e questo è il castello di Lord Juss. Oggi è il giorno del suo compleanno, quando i Demoni fanno gran festa nel castello per onorare Juss ed i suoi fratelli, Spitfire e Goldry Bluszco; e loro, e prima di loro i loro padri, regnano da tempo immemorabile su Demonland, ed hanno potere su tutti i Demoni.» L'uccello così parlò, ed i primi bassi raggi del sole sfrecciarono come lance attraverso le finestre orientali, mentre la freschezza del mattino alitava e luccicava in quella Sala delle Udienze, scacciando le ombre azzurre e cupe della notte rintanatesi negli angoli, nei recessi e fra le travi del tetto a volta. Sicuramente nessun sovrano della terra, né Creso, (2) né il Grande Re, né Minosse (3) nel suo Palazzo Reale a Creta, né tutti i Faraoni, né la Regina Semiramide, (4) né tutti i Re di Babilonia e Ninive hanno mai avuto una Stanza del Trono da paragonare per magnificenza alla Sala delle Udienze dei Signori di Demonland. (5) I muri e le colonne erano di marmo bianco come la neve, nelle cui venature erano inserite delle piccole gemme: rubini, coralli, granati, e topazi rosa. Sette colonne su entrambi i lati sostenevano la volta del tetto in ombra; le travi erano d'oro, cesellato in maniera singolare, ed il tetto era di madreperla. Una navata si sviluppava dietro ogni fila di colonne, e sette affreschi sul lato occidentale fronteggiavano sette larghe finestre ad est. In fondo alla sala, su una pedana, c'erano tre alti scranni, i cui braccioli erano costituiti da due ippogrifi (6) d'oro con le ali distese, e le cui gambe erano costituite dalle zampe degli ippogrifi; ma il corpo di ogni scranno era un unico gioiello di dimensioni mostruose: quello di destra era un opa-
le nero, scintillante di fuochi azzurro acciaio, e quello accanto era un opale di fuoco, simile ad un carbone ardente, mentre il terzo era un alessandrite, purpureo come vino di notte ma di un profondo verde marino di giorno. Altre dieci colonne si levavano in semicerchio dietro gli alti scranni, sostenendo al di sopra di essi e della pedana una piccola volta d'oro. Le panche disposte da un lato all'altro della sala erano di cedro, intarsiato di corallo e avorio, e così i tavoli davanti alle panche. Il pavimento della camera era a mosaico, di marmo e tormalina verde, e su ogni riquadro di tormalina era scolpita l'immagine di un pesce: un delfino, un'anguilla di mare, un pesce-gatto, un salmone, un tonno, un calamaro, ed altre meraviglie degli abissi. Arazzi pendevano dietro gli alti scranni, con disegni di fiori, frittillarie, bocche di leone, bocche di drago, e simili; e, sul plinto sotto le finestre, c'erano sculture di uccelli, animali, e cose striscianti. Ma la più grande meraviglia di quella camera, una cosa davvero mirabile, erano i capitelli di ciascuna delle ventiquattro colonne, che erano stati ricavati da altrettante pietre preziose, scolpite dalla mano di uno scultore di tanto tempo prima nella forma vivente di vari mostri: qui c'era un arpia (8) con la bocca urlante, scolpita così mirabilmente in una giada color ocra, che suscitava stupore il non sentire delle urla provenire da essa; più in là, in un topazio giallo vino, vi era un drago di fuoco in volo; là, un basilisco ricavato da un singolo rubino; è là, in uno zaffiro stellare color chiaro di luna, era stato scolpito un ciclope (11), cosicché i raggi della stella si sprigionavano tremolanti dal suo occhio. Salamandre, sirene, chimere, (12) selvaggi uomini dei boschi, leviatani, (13) tutti erano ricavati da gemme purissime, tre volte più grandi di un uomo corpulento, quali zaffiri dal colore scuro vellutato, crisoliti (14), berilli, (15) ametiste, (16) e zirconi gialli simili ad oro traslucido. Per dare luce alla Sala delle Udienze c'erano sette carbonchi (17) grossi come zucche, appesi lungo tutta la sua estensione, e nove lunarie poste su piedistalli d'argento fra le colonne sulla pedana. Questi gioielli, che assorbivano durante il giorno la luce del sole, la restituivano nelle ore di oscurità in uno splendore di luce rosa ed in un tenue fulgore simile a quello dei raggi lunari. E c'era un'altra meraviglia ancora: la parte inferiore della piccola volta al di sopra degli scranni era tempestata di lapislazzuli (18) e, in quella falsa volta celeste, splendevano i Dodici Segni dello Zodiaco, ogni stella dei quali era un diamante che scintillava di luce propria. Adesso gli abitanti cominciavano ad aggirarsi per il castello, e una ven-
tina di servi entrarono nella Sala delle Udienze con scope e spazzole, pezze di stoffa e di pelle, per spazzare, pulire, e lucidare gli ori ed i gioielli della camera. Flessuosi e dal passo vivace, erano di aspetto vigoroso e biondi di capelli. Avevano delle corna sulla testa. Quando ebbero portato a termine le loro incombenze, se ne andarono, e la sala cominciò a riempirsi di ospiti. Era una gioia vedere un simile ondeggiare di velluti, pellicce, ricami bizzarri e tessuti, (19) mussole, (20) trine, gorgiere, splendide catene e monili (21) d'oro: lo scintillio dei gioielli, le piume fluttuanti che i Demoni portavano nei capelli, nascondevano in parte le corna che crescevano sulle loro teste. Alcuni erano seduti sulle panche ο chini sui tavoli lucidati, altri camminavano avanti e indietro sul pavimento luccicante. Qua e là c'erano delle donne fra loro, donne bellissime si sarebbe detto: quella era sicuramente Elena (22) dalle braccia candide; quell'altra, Atalanta (23) dell'Arcadia; e quella Frine (24) che era stata la modella di Prassitele per la statua di Afrodite; quella poi Taide, per compiacere la quale Alessandro Magno aveva bruciato Persepoli come una candela; ed infine quell'altra era colei che era stata rapita dal Dio Oscuro dai campi fioriti di Enna, per essere l'eterna Regina dei Morti. (25) Poi ci fu un movimento accanto al magnifico vano d'ingresso, e Lessingham vide un Demone di corporatura poderosa e dai portamento nobile, riccamente abbigliato. Il suo volto era rosso ed un po' lentigginoso, la fronte ampia, gli occhi calmi e azzurri come il mare. La sua barba, folta e fulva, era divisa in due e spazzolata all'indietro e verso l'alto su entrambi i lati. «Dimmi, mio piccolo rondicchio,» disse Lessingham, «quello è forse Lord Juss?» «Non è Lord Juss,» rispose il rondicchio, «ma ha il suo rango. Il Signore che tu vedi è Volle, la cui dimora si trova sotto Kartadza, vicino al Mare Salato. È un grande Capitano di mare, ed ha servito la causa di Demonland - e del mondo intero - nell'ultima guerra contro i Ghoul. «Ma volta di nuovo lo sguardo verso la porta, dove, in mezzo ad un gruppetto di amici, c'è un uomo alto e curvo, con un corsaletto d'argento ed un mantello di antico broccato del colore dell'oro ossidato; ha qualcosa di Volle nei lineamenti, ma è bruno, e con irti mustacchi neri.» «Lo vedo,» disse Lessingham. «È lui Lord Juss!» «No,» disse il rondicchio. «È solo Vizz, fratello di Volle. È il più ricco di tutti i Demoni, tranne che per i tre fratelli e Lord Brandoch Daha.»
«E chi è quello?», domandò Lessingham, indicando uno dal passo svelto e leggero e lo sguardo arguto, che in quel momento si accostava a Volle e lo impegnava in una conversazione a quattr'occhi. Aveva un volto attraente, anche se il suo naso era lungo ed affilato: sembrava incisivo, schietto, e pieno di vita e di gioia di vivere. «Stai guardando,» rispose l'uccello, «Lord Zigg, famosissimo domatore di cavalli. E benvoluto da tutti i Demoni, perché ha uno spirito allegro e, nello stesso tempo, è un uomo possente quando guida i suoi cavalieri contro il nemico.» Volle sollevò la barba e scoppiò in una grande risata per qualche battuta che Zigg gli doveva aver sussurrato nell'orecchio. Lessingham si sporse in avanti nella sala per vedere se per caso riusciva a captare ciò che veniva detto. Il mormorio dei conciliaboli copriva le parole ma, sporgendosi in avanti, Lessingham vide che gli arazzi alle spalle delle pedana venivano scostati per un momento, ed un uomo dal portamento principesco oltrepassò gli alti scranni e poi procedette nella sala. Il suo passo era felpato, come quello di un'agile belva da preda da poco svegliata dal sonno, e rispose con grazia indolente ai molti amici che avevano salutato il suo ingresso. Quel Signore era altissimo, e snello di corporatura come una ragazza. La sua tunica era di seta colorata come la rosa selvatica, e ricamata d'oro con figure di fiori e saette. Dei gioielli luccicavano sulla sua mano sinistra, sui braccialetti d'oro che portava alle braccia, e sul nastro che si intravedeva fra i riccioli dorati dei suoi capelli accoppiato alle piume di un uccello-tiranno del Paradiso. Le corna erano tinte di color zafferano, ed intarsiate con una filigrana d'oro. I coturni avevano lacci pure d'oro, e dalla sua cintura pendeva una spada dalla lama stretta ed acuminata e con l'elsa tempestata di berilli e diamanti neri. La sua corporatura era stranamente leggera e delicata, e somigliava, sia pure dando la sensazione di un vigore sopito sotto di essa, al fragile picco di una montagna di neve visto da lontano nei raggi bassi e rossastri del mattino. Il suo volto era bello a vedersi, ed aveva il colorito pallido di una ragazza, mentre la sua espressione era di gentile malinconia unita ad un certo disdegno; ma un fiero scintillio si risvegliava a intervalli nei suoi occhi, e le rughe di una ferrea determinazione indugiavano intorno alla bocca sotto i baffi arricciati. «Finalmente!», mormorò Lessingham. «Finalmente, ecco Lord Juss!» «Non ti si può fare gran colpa,» disse il rondicchio, «per questo equivoco, poiché difficilmente i tuoi occhi possono essersi deliziati davanti a un
aspetto più nobile di questo. Eppure non si tratta di Juss, ma di Lord Brandoch Daha, al quale tutta Demonland ad ovest di Shalgreth e di Stropardon deve obbedienza: come le ricche vigne di Krothering, i vasti pascoli di Failze, e tutte le Isole Occidentali con i loro dirupi impervi. Non credere, dal momento che ostenta sete e gioielli come una regina e si muove con la leggerezza e la delicatezza di un'argentea betulla sulla montagna, che la sua mano sia leggera ο il suo coraggio esiti in battaglia. Per anni è stato considerato il terzo miglior guerriero di Mercurio assieme a Goldry Bluszco ed a Gorice X di Witchland. E, nove estati fa, egli uccise in un duello Gorice, quando le Streghe saccheggiarono Goblinland e Brandoch Daha guidò cinquecentottanta Demoni in aiuto di Gaslark, il Re di quel paese. Ora nessuno può superare Lord Brandoch Daha nell'arte del combattimento, salvo forse il solo Goldry. «Ma ecco,» continuò, mentre una musica dolce e frenetica si diffondeva lentamente nelle orecchie, gli ospiti si voltavano verso il baldacchino, e gli arazzi si separavano, «finalmente, i Tre Signori di Demonland! Suona dolcemente, musica; sorridete, Parche, in questo giorno festoso! Giorni felici e tranquilli splendono per questo mondo e per Demonland! Volgi il tuo sguardo dapprima su colui che cammina maestoso in mezzo, la cui tunica di velluto verde oliva è decorata di emblemi dal significato misterioso con fili d'oro e grani di crisolite. Osserva come i coturni, stretti ai suoi polpacci robusti, scintillano d'oro e ambra. Osserva il mantello scuro striato d'oro e foderato di seta rosso sangue: è un mantello fatato, fabbricato dalle Silfidi (26) in tempi dimenticati, che portava fortuna a chi lo indossava, a patto che fosse di cuore sincero e non una persona ignobile. Osserva colui che lo indossa, la sua espressione dolce e triste, il fuoco violetto nei suoi occhi, il calore malinconico del suo sorriso, come i boschi d'autunno nell'ultima luce del sole. È Lord Juss, Signore di questo castello di antica memoria, e nessuno è più venerato di lui in tutta Demonland. Conosce in una certa misura l'Arte Magica, eppure non usa quell'Arte; perché essa indebolisce la vita ed il vigore, e non è ritenuto onorevole per un Demone servirsi di questa Arte, dato che deve invece affidarsi alla propria forza e possanza. «Ora volgi lo sguardo su colui che si è appoggiato al braccio sinistro di Juss: è più basso ma forse anche più corpulento di lui, vestito di seta nera che luccica d'oro mentre si muove, e coronato di piume d'aquila nera fra le corna ed i capelli biondi. Il suo volto è selvaggio ed affilato come quello di un'aquila di mare, e dalle sue sopracciglia setolose gli occhi dardeggiano occhiate penetranti come lance guizzanti. Una debole fiamma, pallida co-
me un fuoco fatuo, (27) si sprigiona continua dalle sue narici dilatate. Quello è Lord Spitfire, imbattibile in guerra. «Infine osserva, a destra di Juss, quel Signore che ha la corporatura possente come Ercole ma che cammina con la leggerezza di una giovenca. I muscoli ed i nervi dei suoi arti poderosi guizzano, quando si muove, sotto una pelle più bianca dell'avorio; il suo mantello di tessuto dorato è appesantito dai gioielli, la sua tunica di zendale (28) ha dei grandi cuori lavorati con rubini e fili di seta rossi. Sulle sue spalle oscilla e sbatacchia uno spadone a due mani, il cui pomo è un enorme rubino stellare intagliato come un cuore, perché il cuore è il suo Segno e simbolo. È una spada forgiata dagli Elfi, con la quale uccise un mostro marino, come puoi vedere in un affresco sul muro. L'espressione del suo volto è nobile, come quella del fratello Juss, ma i suoi capelli sono più scuri, il colorito più rossastro e la mascella più pronunciata. Guardalo bene, perché i tuoi occhi non vedranno mai più un Campione più grande di Lord Goldry Bluszco, Comandante dell'esercito di Demonland.» Quando finirono i saluti di rito e le melodie dei liuti e dei flauti sospirarono e si persero nella volta in ombra del tetto, i coppieri riempirono di vino antico delle grosse gemme a foggia di calici, e i Demoni bevvero lunghi sorsi in onore del giorno natale di Lord Juss. Dopodiché, in gruppetti di due ο tre, si apprestarono ad avviarsi per i giardini del parco, alcuni per godere dei bei parchi e dei laghetti, altri per cacciare fra le colline coperte di boschi, altri per divertirsi a giocare con gli anelli ο alla pallacorda, ο a cavalcare sulla pista, ο ad eseguire esercizi marziali; così avrebbero trascorso l'intero giorno come si addice ad una giornata di festa, divertendosi e combattendo per gioco, per poi vegliare nella Sala delle Udienze fino a notte tarda, mangiando e bevendo in allegria. Ma, mentre stavano per avviarsi, all'esterno una tromba suonò tre squilli stridenti. «Che seccatura è questa, adesso?», brontolò Spitfire. «La tromba suona solo per i viaggiatori che arrivano da qualche paese straniero. Sento nelle ossa che a Galing sta arrivando qualche furfante: uno che porta con sé la cattiva sorte e un'ombra da gettare sul sole di questo nostro giorno di festa.» «Non parlare di cattivi presagi,» replicò Juss. «Chiunque egli sia, sbrigheremo tutto in fretta, e così potremo tornare ai nostri svaghi. Qualcuno vada al cancello e lo porti qui!» Un servitore uscì di corsa e tornò dicendo: «Signore, è un ambasciatore
proveniente da Witchland col suo seguito. La loro nave ha calato l'ancora al promontorio di Lookinghaven questa notte. Hanno dormito a bordo, ed i vostri soldati li hanno scortati a Galing allo spuntar del giorno. Chiede udienza con insistenza.» «Da Witchland, eh?», disse Juss. «Un certo fumo viene sempre prima del fuoco.» «Inviteremo il nostro amico,» disse Spitfire, «ad attendere la nostra disponibilità, no? Una compassione del genere avvelenerebbe la nostra allegria.» Goldry scoppiò a ridere e disse: «Chi li ha mandati da noi? Credete sia stato Laxus? Per far di nuovo pace con noi dopo il ruolo abbietto recitato a nostro danno a Kartadza, quando rinnegò la parola che ci aveva dato?» Juss disse al servitore: «Tu hai visto l'Ambasciatore. Chi è?» «Signore,» rispose quello, «la sua faccia mi è risultata estranea. È basso di statura e, col permesso di Vostra Altezza, è l'individuo meno somigliante ad un grande Signore di Witchland che io abbia mai visto. E, nonostante il mantello ricco e sontuoso che indossa, sembra un gioiello falso in un prezioso astuccio.» «Be',» disse Juss, «un sorso di aceto non si addolcisce nell'attesa. Facciamo entrare l'Ambasciatore!» Lord Juss sedette sullo scranno centrale della pedana, con Goldry alla sua destra sullo scranno di opale nero, e Spitfire a sinistra, sul trono di alessandrite. Sulla pedana sedettero anche gli altri Signori di Demonland, e gli ospiti di rango inferiore affollarono le panche ed i tavoli lucidati mentre le enormi porte si spalancavano sui cardini d'argento, e l'Ambasciatore avanzava in pompa magna sul pavimento scintillante di marmo e tormalina verde. «Accidenti, che tipo scimmiesco è costui!», disse Lord Goldry nell'orecchio del fratello. «Le sue mani pelose gli arrivano fino alle ginocchia, ed ha l'andatura strascicata di un somaro impastoiato.» «Non mi piace la brutta faccia dell'Ambasciatore,» disse Lord Zigg. «Il naso è schiacciato sulla sua faccia come se fosse un pugno di argilla. E vedo che le narici percorrono un bel tratto dentro la sua testa. Che io sia dannato, se il labbro superiore non lo rivela come una fonte non comune di volgare eloquenza. Se il suo dito fosse un po' più grosso, potrebbe infilarselo nel colletto per mantenere caldo il mento in una notte d'inverno.» «Non mi piace l'odore dell'Ambasciatore,» disse Lord Brandoch Daha. E chiamò degli incensieri e degli innaffiatori di lavanda ed acqua di rose per
purificare la sala, poi fece aprire le finestre di cristallo in modo che le brezze del cielo potessero entrare e diffondere la loro fragranza. L'Ambasciatore attraversò il pavimento scintillante e si fermò davanti ai Signori di Demonland che sedevano sugli alti scranni fra gli ippogrifi d'oro. Era abbigliato con una lunga cappa scarlatta e su di essa, ricamati con fili d'oro, c'erano un ermellino, dei granchi, degli onischi, e dei millepiedi. La sua testa era coperta da un cappello di velluto nero sovrastato da una penna di pavone fissata con un fermaglio d'argento. Sorretto dai suoi paggi e attendenti, ed appoggiato ad un bastone d'oro, riferì il suo messaggio con accento aspro: «Juss, Goldry, e Spitfire, e voialtri Demoni, vengo davanti a voi come Ambasciatore di Gorice XI, il più glorioso Re di Witchland, Signore e Granduca di Buteny ed Estremerine, Governatore di Shulan, Thramne, Mingos e Permio, e Reggente delle Marche Esamociane, Granduca di Trace, Signore di Ojedia, Maltraeny, e di Baltary e Toribia, nonché Signore di molti altri territori, gloriosissimo e grandissimo, il cui potere e la cui fama sono al di sopra del mondo, ed il cui nome vivrà per tutte le generazioni. Per prima cosa vi chiedo di rispettare il mio sacro ufficio di Inviato del Re, rispetto che viene accordato da tutti i popoli e regnanti, tranne quelli completamente barbari, agli Ambasciatori ed ai Messi.» «Parla e non temere,» rispose Juss. «Hai la mia parola. Ed essa non è mai venuta a meno, né per le Streghe né per gli altri barbari.» L'Ambasciatore sporse le labbra in una 'Ό', ed assunse un'espressione minacciosa; poi sogghignò, mettendo in mostra i suoi denti aguzzi ed irregolari, e continuò: «Questo ha detto Re Gorice, grande e glorioso, e mi ha incaricato di riferire a voi, senza aggiungere né togliere una soia parola: 'Mi sovviene che nessun cerimoniale di omaggio ο di fedeltà mi è stato destinato dagli abitanti della mia Provincia di Demonland...'» Mentre il fruscio delle foglie secche scivolava sul cortile lastricato quando il vento le investì, ci fu un subbuglio fra gli ospiti. Lord Spitfire non riuscì a contenere la sua ira ma, balzando in piedi e battendo la mano sull'elsa della spada, come se volesse colpire l'Ambasciatore: «Provincia?», gridò. «I Demoni non sono un popolo libero? E dovremmo sopportare che Witchland dia l'incarico a questo schiavo di sbatterci insulti sui denti, e questo proprio nel nostro castello?» Un mormorio si diffuse nella sala, ed alcuni si alzarono dalla panche. L'Ambasciatore ritrasse la testa fra le spalle come una testuggine, sbarran-
do i denti e ammiccando coi suoi occhietti. Ma Lord Brandoch Daha, appoggiando leggermente la mano sul braccio di Spitfire, disse: «L'Ambasciatore non ha ancora terminato il messaggio, cugino, e tu lo hai spaventato. Sii paziente e non rovinare lo spettacolo. Non ci mancheranno le parole per rispondere a Re Gorice: no, né le spade, se sarà necessario. Ma non si dirà mai di noi Demoni che è bastato un semplice messaggio impertinente per distoglierci dalia nostra antica cortesia verso gli Ambasciatori e gli Araldi.» Così disse Lord Brandoch Daha, con tono indolente e semischerzoso, come chi, oziosamente, rilancia la palla della conversazione; ma con chiarezza, affinché tutti potessero sentire. Subito il mormorio scemò, e Spitfire prese a dire: «Starò buono. Riferisci liberamente il tuo messaggio, e non pensare che riterremo responsabile te per ciò che dirai, ma solo colui che ti manda.» «Del quale io sono soltanto un umile portavoce,» disse l'Ambasciatore, riprendendo in qualche modo coraggio; «e che, con tutto il rispetto, non difetta né della volontà né del potere per vendicarsi di un oltraggi perpetrati ai danni dei suoi servitori. Questo ha detto il Re: «Per cui ordino e impongo a voi, Juss, Spitfire e Goldry Bluszco, di venire subito da me a Witchland, nella mia Fortezza di Carce, e di baciare con deferenza il mio alluce, per testimoniare davanti al mondo che io sono il vostro Signore e Re, e legittimo Sovrano di tutta Demonland.» Lord Juss, con gravità e senza un gesto, ascoltò l'Ambasciatore, seduto sull'alto scranno con entrambe le braccia di traverso sul collo arcuato dell'ippogrifo. Goldry, con un sorriso sprezzante, giocava con l'elsa del suo spadone. Spitfire sedeva teso e fremente, con delle scintille che crepitavano davanti alle sue narici. «Hai riferito tutto?», disse Juss. «Tutto,» rispose l'Ambasciatore. «Avrai la tua risposta,» disse Juss. «Ora mangia e bevi qualcosa, mentre noi teniamo consiglio»; e fece segno al coppiere di versare del vino per l'Ambasciatore. Ma questi si scusò, dicendo che non aveva sete, e che c'era una provvista di cibo e vino a bordo della sua nave, che sarebbe stata sufficiente per i suoi bisogni e per quelli del suo seguito. Allora Lord Spitfire sorrise. «Non mi meraviglio se la progenie di Witchland teme che ci sia del veleno nella coppa. A quelli che compiono tale infamia contro i loro nemici, come testimonia Recedor di Goblinland che fu ucciso da Corsus con una bevanda avvelenata, tremano sempre le gi-
nocchia per paura che essi stessi possano subire il medesimo trattamento;» e, afferrata la coppa, la scolò fino in fondo, poi la scaraventò sul pavimento di marmo ai piedi dell'Ambasciatore, dove si frantumò in mille pezzi. Quindi i Signori di Demonland si alzarono e si ritirarono dietro gli arazzi a fiori in un'altra camera, per decidere la risposta da dare al messaggio inviato loro da Re Gorice di Witchland. Quando furono soli, Spitfire parlò e disse: «Dobbiamo tollerare che il Re riversi vergogna e scherno su di noi? Non avrebbe potuto mandare almeno un figlio di Corund ο di Corsus come Ambasciatore per consegnarci la sua sfida, invece del più ripugnante dei suoi domestici, uno gnomo farfugliante buono solo a farli parlare a vanvera ed a scommettere sulle loro bevute quando sono storditi per il troppo bere?» Lord Juss fece un sorriso un po' sdegnoso. «Witchland,» disse, «ha scelto con saggezza e preveggenza il momento per agire contro di noi, sapendo che trentatré delle nostre navi sono affondante nello Stretto di Kardatza nella battaglia coi Ghoul, (30) e che ce ne restano solo quattordici. Ora che i Ghoul sono stati tutti uccisi ed eliminati da questo mondo, grazie alla spada ed al volere della soia Demonland che ha posto fine alla grande calamità ed al pericolo che incombevano su tutto il mondo, ora questi amicia-parole ritengono che sia giunto il momento più propizio per aggredirci. Non hanno forse le Streghe una potente flotta di navi, dal momento che questa fuggì all'inizio della battaglia contro i Ghoul, lasciando noi a sopportarne l'intero peso? E adesso sono pronti ad un nuovo tradimento, dal momento che vogliono aggredirci proditoriamente ed all'improvviso, in questa condizione di svantaggio. Perché il Re ha ben dedotto che non possiamo trasportare alcun esercito a Witchland né fare nulla contro di lui, se non passare molti mesi nel costruire navi. E non v'è dubbio che egli abbia pronte le navi da guerra a Tenemos per salpare diretto qui se riceverà quella risposta che si aspetta da noi.» «Restiamocene pure tranquilli, allora,» disse Goldry, «ad affilare le spade; e lasciamo pure che egli spedisca qui, con le navi, il suo esercito attraverso il Mare Salato. Nessuna Strega arriverà a Demonland senza lasciare qui il suo sangue e le ossa per fertilizzare i nostri campi di granturco ed i vigneti.» «Piuttosto,» disse Spitfire, «gettiamo in una cella questo furfante, e prendiamo il largo oggi stesso con le quattordici navi che ci sono rimaste. Possiamo sorprendere Witchland assaltando la Fortezza di Carce, saccheggiarla, e consegnare la sua carcassa ai corvi: non sarà ancora del tutto
sveglio per la rapidità della nostra risposta. Questo è il mio consiglio.» «No,» disse Juss, «non lo troveremmo addormentato. Stai pur sicuro che le sue navi sono pronte e vigili nei mari di Witchland, pronte a qualsiasi assalto. Sarebbe una follia mettere il collo nel cappio; e non sarebbe glorioso per Demonland attendere il suo arrivo. Questo, dunque, è il mio consiglio: sfiderò Gorice a duello, e gli farò l'offerta di affidare alla sorte la decisione di questa contesa.» «Un buon consiglio, se potesse essere seguito,» disse Goldry. «Ma lui non oserebbe mai accettare una singolar tenzone con te ο con uno qualsiasi di noi con un'arma in pugno. Tuttavia la cosa può essere fatta. Non è forse Gorice un fortissimo lottatore, e non ha nel suo palazzo a Carce i teschi e le ossa dei novantanove grandi Campioni che ha sconfitto ed ucciso in quella disciplina? È tronfio oltremisura per la sua presunzione, e la gente dice che è un'angoscia per lui che da lungo tempo non si sia trovato nessuno disposto a sfidarlo nella lotta, dato che desidera ardentemente il centesimo avversario. Farà un incontro di lotta con me!» Questo piano parve buono a tutti. Così, quando ne ebbero discusso un po' ed ebbero concluso cosa fare, col cuore lieto i Signori di Demonland tornarono nella Sala delle Udienze. E qui Lord Juss parlò e disse: «Demoni, avete udito le parole che il Re di Witchland con arrogante orgoglio e sfrontatezza ci ha rivolto per bocca di questo Ambasciatore. Ora sarà mio fratello, Lord Goldry Bluszco, a dare la risposta; e noi ti incarichiamo, Ambasciatore, di riferirla per filo e per segno, senza aggiungere né togliere alcuna parola.» E Lord Goldry disse: «Noi, i Signori di Demonland, ti disprezziamo in tutto e per tutto, Gorice XI, quale il più grande dei vili, perché tu vilmente fuggisti e ci abbandonasti, noi che eravamo tuoi fedeli alleati, nella battaglia navale contro i Ghoul. Le nostre spade, che in quella battaglia posero fine ad una calamità e ad un pericolo così grandi per tutto il mondo, non sono né piegate né spezzate. Esse saranno conficcate nei visceri tuoi e dei tuoi favoriti, Corsus cioè, e Corund, ed i loro figli, e Corinius, ed in quelli di tutti gli altri malfattori che trovano ricetto nelle acque di Witchland, prima che un piccolo garofano nato sulle scogliere di Demonland possa farti una riverenza. Ma, affinché tu possa - se vuoi - avere in qualche modo la misura della nostra potenza, io, Goldry Bluszco, ti faccio questa offerta: affrontiamoci, tu ed io, l'uno contro l'altro, in tre incontri di lotta alla corte del Foliot Rosso, che in questa contesa non è schierato né dalla nostra parte né dalla tua. E ci impegneremo a rispettare questo solenne giuramento:
se io sconfiggo te, i Demoni lasceranno voi di Witchland in pace, e le Streghe giureranno di rinunciare per sempre alle loro impudenti pretese su Demonland. Ma se tu, Gorice, vinci, allora avrai la gloria di quella vittoria, e con essa la piena libertà di imporci le tue pretese con la spada.» Così parlò Lord Goldry Bluszco, fiero e splendido sotto la falsa volta celeste, guardando con terribile cipiglio l'Ambasciatore di Witchland, cosicché questi restò sconcertato e le sue ginocchia batterono l'una contro l'altra. Poi Goldry chiamò il suo scriba e gli fece scrivere il messaggio per il Re Gorice a caratteri cubitali su un rotolo di pergamena, e i Signori di Demonland lo sigillarono coi loro Sigilli, e lo consegnarono all'Ambasciatore. L'Ambasciatore lo prese e si affrettò ad andarsene; ma, quando fu giunto davanti al maestoso ingresso della Sala delle Udienze, in prossimità della porta, fra i suoi attendenti e lontano dai Signori di Demonland, raccolto un po' di coraggio, si voltò e disse: «Sconsideratamente e con tua sicura rovina, Goldry Bluszco, hai spinto il Re nostro Signore a lottare con te. Per quanto tu abbia delle membra così possenti, egli ne ha già atterrati tanti che ne avevano di simili alle tue. E lui non lotta per divertimento, per cui stai sicuro che ti annienterà, e conserverà le tue ossa assieme a quelle dei novantanove Campioni che ha sconfitto in precedenza in questa disciplina.» Subito dopo, poiché Goldry e gli altri Signori gli avevano rivolto delle terribili occhiate, e gli ospiti in prossimità della porta si erano messi a gridare e ad insultare le Streghe, l'Ambasciatore si avviò frettolosamente e, scesi in fretta i gradini scintillanti, attraversò il cortile come uno che corra lungo un sentiero in una notte buia e ventosa, non osando voltare la testa per paura che i suoi occhi incontrino qualcosa di spaventoso pronto a ghermirlo. Dovendo correre, fu costretto a sollevare sulle ginocchia le pieghe del suo mantello di velluto riccamente ricamato di granchi ed esseri striscianti; e un enorme schiamazzo e grandi risate salirono dalla folla di persone là fuori, quando videro la sua coda lunga e floscia esposta alla loro poco amichevole attenzione. Allora tutti si misero ad urlare all'unisono: «Anche se la sua bocca è ripugnante, ha una bellissima coda! Avete visto quella coda? Hurrà per Gorice che ci ha mandato una scimmia come Ambasciatore!» E con sberleffi ed urla ingiuriose, la folla si mise alle calcagna dell'Ambasciatore e del suo seguito per tutto il tragitto dal Castello di Galing fino alle banchine. Al punto che fu un vero sollievo per lui tornare a bordo della sua nave e ordinare di mettere mano ai remi per portarla lontano da Loo-
kinghaven. Così, quando ebbero aggirato il promontorio di Lookinghaven e furono lontani dalla costa, le Streghe issarono le vele e navigarono spinte da una brezza favorevole verso est, sopra gli abissi marini, alla volta di Witchland. II. SFIDA PER DEMONLAND Sui presagi che angustiarono Lord Gro riguardo all'incontro fra il Re di Witchland e Lord Goldry Bluszco; e su come essi si incontrarono, e sull'esito del combattimento. «Come ho potuto addormentarmi?», gridò Lessingham. «Dov'è il castello dei Demoni, e come abbiamo fatto a lasciare la grande Sala delle Udienze dove essi ricevettero l'Ambasciatore?» Si trovava su un altopiano ondulato che digradava verso il mare, privo di alberi tutt'intorno fin dove lo sguardo poteva arrivare; su tre lati scintillava il mare, baciato dal sole ed increspato dal vivace vento salso che spirava dalle colline, trascinando con sé innumerevoli nubi attraverso le insondabili altitudini dell'aria. Il piccolo rondicchio nero gli rispose: «Il mio ippogrifo galoppa sia nel tempo che nello spazio. Giorni e settimane sono trascorsi, in quello che ti è sembrato un battito di ciglia, e adesso ti trovi sulle Isole Foliot, una terra felice sotto il mite governo di un Principe pacifico, nel giorno stabilito da Re Gorice per battersi con Lord Goldry Bluszco. L'incontro di lotta fra due Campioni di questo livello dovrebbe essere terribile, e incerto il suo destino. E il mio cuore teme per Goldry Bluszco, per quanto egli sia massiccio e possente e non sia mai stato battuto in combattimento; perché non c'è mai stato finora un lottatore come questo Gorice, che è forte, spietato ed instancabile, abile in tutte le arti di attacco e difesa, e scaltro nello stesso tempo, e crudele ed infido come un serpente.» Nel punto dove si trovavano, la collina era tagliata da un circo glaciale (1) che scendeva fino al mare e, al di sopra di questo, incombeva il Palazzo del Foliot Rosso, basso e irregolare nella struttura, con molte torrette e bastioni, costruiti con le pietre asportate dalla parete del circo glaciale, cosicché da lontano era difficile discernere qual fosse il palazzo e quale la roccia viva. Alle spalle del palazzo si stendeva un prato, piatto ed uniforme, coperto dall'ispido tappeto erboso delle colline. Ad entrambe le estremità dei prato erano stati eretti dei padiglioni: a nord quelli di Witchland, ed a
sud quelli dei Demoni. In mezzo al prato c'era uno spazio delimitato da rametti di salice, di sei passi per lato: era il terreno destinato all'incontro di lotta. (2) Solo gli uccelli e la brezza marina si aggiravano là in quel momento, salvo coloro che camminavano armati davanti ai padiglioni delle Streghe, in un gruppetto di sei, bardati come per un combattimento con cotte di maglia di bronzo lucente, gambali (3), scudi pure di bronzo, ed elmi che riflettevano il sole. Cinque erano praticamente dei ragazzi, molto magri, il più anziano dei quali non aveva ancora la barba, tutti con sopracciglia nere e mascelle prominenti; il sesto, grosso come un bue, li sovrastava quasi di mezza testa. Gli anni gli avevano chiazzato di grigio la barba che si allungava sul suo enorme torace fino alla cintura rinforzata da borchie di ferro, ma il vigore della gioventù era ancora nel suo sguardo e nella sua voce, nel suo passo energico, e nel pugno che maneggiava con leggerezza il suo pesante giavellotto. «Osserva, stupisci, ed addolorati!», disse il rondicchio. «Perché l'occhio innocente del giorno è ancora costretto a posarsi sui figli della notte eterna: ecco Corund di Witchland, ed i suoi maledetti rampolli.» Lessingham pensò: «È un politicante estremamente focoso il mio rondicchio: maledice Diavoli ed Angeli, e non ci sono vie di mezzo per lui. Ma io non ballerò alle sue canzoni, ed aspetterò che queste cose si chiariscano.» (4) Quelli andarono avanti e indietro come leoni in gabbia davanti ai padiglioni delle Streghe, finché Corund non si fermò e, appoggiandosi al suo giavellotto, disse ad uno dei suoi figli: «Vai dentro a cercare Gro, perché devo parlare con lui.» Il Figlio di Corund andò, e tornò di lì a poco con Lord Gro, (5) che arrivò con passo furtivo. La sua figura era avvenente e bella da vedere. Il suo naso era curvo come una falce e gli occhi erano grandi e belli come quelli di un bue, e parimenti impenetrabili. La sua corporatura era snella, quasi scarna. Il suo volto era pallido, e pallide e delicate le mani, mentre la sua lunga barba nera era folta, ricciuta (6) e lucida come il pelo di un cane da caccia nero. Corund chiese: «Cosa sta facendo il Re?» Gro rispose: «Si sta facendo massaggiare; e, per passare il tempo, gioca a dadi con Corinius. La fortuna non è col Re.» «Cosa deduci da questo?», chiese Corund. E Gro rispose: «La fortuna nei dadi non va di pari passo con la fortuna in guerra.»
Corund grugnì nella sua barba e, appoggiando la sua mano enorme sulla spalla di Lord Gro, «Vorrei parlarti da solo,» disse e, quando si furono appartati, «Non negare un consiglio», disse Corund, «a me ed ai miei figli. Non sono forse stato in questi quattro anni come un fratello per te? E vorresti ancora essere reticente con noi?» Ma Gro fece un triste sorriso e disse: «Perché dovremmo infliggere un altro colpo ad un albero che già vacilla per le parole di un cattivo presagio?» Corund grugnì. «I presagi,» disse, «si affollano su di noi dal momento in cui il Re ha accettato la sfida, malauguratamente, ed opponendosi con caparbietà al consiglio tuo, al mio, ed a quello di tutti i Notabili del nostro paese. Di certo gli Dei lo hanno reso strambo, avendo deciso la sua distruzione e la nostra umiliazione davanti a questi Demoni.» Poi aggiunse: «I presagi s'infittiscono su di noi, Gro. Per prima cosa, il corvo notturno che volò all'indietro intorno al Palazzo di Carce, la notte in cui il Re accettò questa sfida, e noi eravamo tutti ubriachi di vino dopo aver gozzovigliato nella sua sala. Poi, il Re che inciampa quando mette piede sulla poppa della lunga nave che ci ha portati su queste isole. Ed ancora, il coppiere strabico che ci ha versato il vino addosso la scorsa notte. E, in tutto questo tempo, l'orgoglio diabolico e l'umore da spaccone del Re. Non c'è altro da dire: è molto strano! E i dadi non sono con lui.» Gro osservò: «Corund, non ti nasconderò che il mio cuore è gonfio quanto il tuo sotto l'ombra del male che si avvicina. Infatti, mentre stavo dormendo accarezzato dalla notte, un sogno è venuto accanto al mio letto e mi ha fissato con uno sguardo così terribile da farmi sentire impaurito e tremante. E mi è sembrato che il sogno scuotesse il tetto sopra il mio letto, e che il tetto si aprisse e rivelasse le tenebre esterne, e che nel buio vagasse una stella barbuta, mentre la notte era percorsa da segni purpurei. C'era sangue sul tetto, e schizzi di sangue sui muri e sulle gambe del mio letto. Ed il sogno ha strillato come un allocco di palude, gridando: «Witchland non è più tua, Ο Re! E mi è parso che l'intero mondo diventasse una pira, e con un gran grido mi sono svegliato dal sogno.» «Tu sei un Veggente,» disse Corund; «e forse il sogno era un vero sogno, inviato a te attraverso la Porta di Corno, e forse preannunzia eventi grandi e funesti per il Re e per Witchland.» «Non rivelarlo agli altri,» disse Gro, «perché nessuno può combattere il Fato ed ottenere la vittoria, e questo sogno servirebbe solo a scoraggiarli. Ma è opportuno che ci prepariamo alla sorte avversa. Se (può ancora darsi
che gli Dei non vogliano) questo incontro di lotta finirà male, prima di intraprendere qualsiasi cosa, non mancate, tutti voi, di chiedermi consiglio. 'La schiena è nuda senza un fratello dietro di essa.' Tutti assieme faremo quello che c'è da fare.» «Su questo ti do la mia assicurazione!», disse Corund. In quel momento, una folta schiera di soldati uscì dal palazzo e prese posto ai lati del terreno dello scontro. Il Foliot Rosso arrivò sul suo carro di ebano lucido, trainato da sei cavalli neri con criniere e code fluenti; davanti a lui venivano i suoi suonatori, pifferai e Menestrelli che facevano sfoggio della loro bravura, e dietro di lui cinquanta lancieri, appesantiti da armature e scudi massicci che li coprivano dal mento ai piedi. Le loro armature erano dipinte di robbia, (7) in maniera tale che sembrava avessero fatto un bagno nel sangue. Era mite a vedersi il Foliot Rosso, eppure regale. La sua pelle era scarlatta come la testa del picchio verde. Portava un diadema d'argento, ed una rozza tunica ornata di pelliccia nera. Così, quando i Foliot si furono radunati, uno di essi che reggeva un corno, al comando del Foliot Rosso, fece un passo avanti e suonò tre squilli. Al che, i Signori di Demonland coi loro uomini d'arme, Juss, Goldry e Spitfire, e Brandoch Daha, avanzarono dai loro padiglioni tutti in assetto di battaglia tranne Goldry, che era avvolto in un mantello di tessuto dorato con dei grandi cuori ricamati con fili di seta rossa. E, subito dopo, a loro volta, avanzarono dai loro padiglioni i Signori di Witchland, tutti armati, con i loro soldati, e c'era ben poco amore negli sguardi che scambiarono con i Demoni. Al centro, il Re avanzava con andatura maestosa, con le membra poderose avvolte - come Goldry - in un mantello: era di seta nera foderato di pelle d'orso nero, ed ornato di granchi fatti di diamanti. La corona di Witchland, foggiata come un orribile granchio e tempestata di gioielli così fittamente che nessuno avrebbe potuto distinguere il ferro di cui era fatta, gravava sulla sua fronte sporgente. La sua barba era nera e setolosa, a forma di vanga e foltissima: i capelli erano tagliati a zero. Il suo labbro superiore era rasato e rivelava la bocca beffarda e, dall'ombra delle sue sopracciglia, guardavano degli occhi che scintillavano di una luce verde, come quelli di un lupo. Corund camminava a sinistra del Re, e la sua corporatura gigantesca era di un pollice inferiore a quella di Gorice. Corinius (8) stava a destra, ed indossava un sfarzoso mantello di tessuto azzurro cielo sopra la sua splendente armatura. Era alto e marziale, giovane e attraente, dal portamento spavaldo, lo sguardo insolente, ed i denti serrati. Aveva i tratti
del volto molto marcati, ed il sole brillava sulle sue guance rasate. Il Foliot Rosso fece suonare un'altra volta il corno e, restando sul suo carro d'ebano, lesse le condizioni, che erano queste: «Gorice XI, glorioso Re di Witchland, e Lord Goldry Bluszco, Comandante dell'esercito di Demonland. È stato deciso fra di voi, e confermato da solenni giuramenti dei quali io, il Foliot Rosso, sono custode, che sosterrete tre incontri di lotta a queste condizioni, e cioè: che se il Re Gorice sarà vittorioso, allora avrà lui la gloria e con essa la completa libertà di far valere con la spada le sue pretese di sovranità sulla regione montagnosa di Demonland; ma se la vittoria andrà a Lord Goldry Bluszco, allora i Demoni lasceranno in pace le Streghe, e queste i Demoni, e le Streghe rinunceranno per sempre a tutte le loro pretese di sovranità sui Demoni. E tu, ο Re, e tu, Goldry Bluszco, allo stesso modo siete vincolati da un giuramento a lottare con lealtà ed a sottostare alle decisioni mie, del Foliot Rosso, che avete voluto scegliere come arbitro. Ed io prometto che sarò imparziale nel giudicare. Le regole dello scontro sono che nessuno potrà strangolare l'avversario con le mani, né morderlo, né artigliarlo, né graffiargli la pelle, né cavargli gli occhi, né colpirlo coi pugni, né fare qualsiasi cosa sleale a suo danno ma, per il resto, potrete combattere liberamente. E colui che sarà spinto a terra con un fianco ο con la spalla, sarà dichiarato sconfitto.» Poi il Foliot Rosso disse: «Ho detto bene, ο Re? Giuri di rispettare queste condizioni?» Il Re rispose: «Giuro!» Allo stesso modo, il Foliot Rosso chiese: «Giuri di rispettare queste condizioni, Lord Goldry Bluszco?» E Goldry rispose a sua volta: «Giuro!» Senza aggiungere altro, il Re avanzò sul terreno dello scontro dal suo lato, e Goldry Bluszco dal suo, quindi gettarono via i loro magnifici mantelli e si fecero avanti per dare inizio all'incontro di lotta. Tutti rimasero in silenzio, ammirando nervi e muscoli di quei due, indecisi su chi avesse la corporatura più possente e potesse essere il più probabile vincitore. Il Re era di poco più alto, ed aveva le braccia più lunghe di Goldry. Ma la poderosa struttura fisica di Goldry mostrava proporzioni eccellenti, con ogni parte unita alle altre come nei corpo di un Dio e, se c'era uno dei due che aveva il torace più muscoloso, questo era lui, ed il suo collo era più massiccio di quello del Re. Il Re schernì Goldry, dicendo: «Cane ribelle, è giusto che io provi su di te la validità delle mie pretese, e su questi Foliot e Demoni che assistono al
nostro scontro, poiché io sono Re e Signore, non solo in virtù di questa mia corona di Witchland, che metterò da parte per un'ora, ma anche per la superiorità del mio corpo sul tuo e per il mio vigore e la mia forza. Sta sicuro che non finirò con te finché non ti avrò privato della vita, ed avrò mandato la tua anima incorporea ad urlare nell'ignoto. E il tuo teschio e le tue ossa li porterò a Carce, nel mio Palazzo, che io sono stato il flagello di cento grandi Campioni che ho sconfitto nella lotta, né tu sarai il peggiore fra quelli che ho ucciso in questa disciplina. Dopodiché, quando avrò mangiato, bevuto, e fatto festa nel mio Palazzo Reale di Carce, navigherò col mio esercito sopra gli abissi marini fino alla montuosa Demonland. Ed essa sarà lo sgabello sul quale poserò i piedi, e questi altri Demoni saranno miei schiavi, sì, e schiavi dei miei schiavi!» Ma Lord Goldry Bluszco rise appena e disse al Foliot Rosso: «Foliot Rosso, non sono venuto qui per lottare col Re di Witchland a base di inutili ingiurie, ma per confrontare la mia forza con la sua, muscoli contro muscoli.» Erano pronti: il Foliot Rosso fece un segno con la mano, ed i cembali suonarono per il primo incontro. Allo strepito dei cembali i due Campioni avanzarono e si afferrarono con le loro forti braccia, ognuno col braccio destro sotto ed il braccio sinistro sopra la spalla dell'altro, finché la carne non si contrasse sotto la pressione delle loro braccia che erano come cerchi d'ottone. Vacillarono un po', come grandi alberi che oscillano nella tempesta, con le gambe saldamente piantate al punto che sembravano spuntare dal terreno come tronchi di querce. Nessuno dei due cedeva all'altro, né riusciva a piazzare una presa vincente sull'avversario. Così ondeggiarono a lungo avanti e indietro, ansimando. Poi Goldry, raccogliendo tutte le sue energie, riuscì a sollevare leggermente il Re dal suolo, ed aveva intenzione di capovolgerlo e di scaraventarlo a terra, ma il Re, quando si trovò sollevato, si piegò in avanti con forza e portò rapidamente il tallone intorno alla gamba di Goldry, verso l'esterno, colpendolo dietro e un po' al disotto della caviglia, in modo tale che Goldry fu costretto ad allentare la presa. La folla si stupì grandemente perché egli riuscì in quella situazione svantaggiosa ad evitare di essere proiettato all'indietro dal Re. Si afferrarono quindi di nuovo finché sulle loro schiene e sulle spalle non apparvero delle chiazze rosse a causa della stretta dolorosa delle brac-
cia. Poi il Re piegò bruscamente il corpo di lato, allontanando il fianco destro da Goldry e, agganciando con la propria gamba il punto interno al disotto del grosso muscolo del polpaccio, e tenendo ancora più stretto l'avversario, gli diede una spinta, cercando di farlo cadere per poi avventarsi su di lui e schiacciarlo a terra. Ma Goldry si curvò violentemente in avanti, continuando a mantenere la presa sul Re, e la sua spinta fu così violenta che il Re dovette rinunciare al suo proposito; caddero entrambi a terra avvinti, fianco a fianco, con un forte tonfo, e giacquero confusi per il tempo che s'impiegherebbe per contare fino a dieci. Il Foliot Rosso proclamò la parità nel primo incontro, e ciascuno tornò dai suoi compagni per riprendere fiato e riposarsi per un po'. Mentre stavano riposando, un pipistrello svolazzò via dai padiglioni di Witchland, girò intorno al terreno della lotta, quindi tornò silenziosamente nel punto da dove era venuto. Lord Gro lo vide, ed il cuore ne! suo petto diventò pesante. Si rivolse a Corund e disse: «Devo assolutamente fare un tentativo se non ci sono altri mezzi per distogliere il Re da ulteriori azioni rischiose per lui, prima che tutto sia perduto.» «Fa come vuoi,» disse Corund, «ma sarà inutile.» Così Gro andò accanto al Re e gli disse: «Signore, rinuncia a questo incontro. Questo Demone ha un corpo poderoso e gli arti molto più possenti di quelli dei Campioni che hai sconfitto finora, eppure lo hai battuto. Perché tu lo hai spinto, come abbiamo visto tutti con chiarezza, e il Foliot Rosso ha giudicato male nell'attribuire il pareggio poiché, nello spingerlo, tu, Maestà, sei caduto a terra. Non tentare il destino in un altro incontro. In questo combattimento la vittoria è tua: e adesso noi, i tuoi servitori, attendiamo solo un tuo cenno per portare un repentino assalto su questi Demoni e ucciderli, dal momento che possiamo facilmente avere ragione di loro prendendoli alla sprovvista. Per quanto riguarda i Foliot, sono un popolo pacifico e docile, ed avranno paura quando avremo fatto assaggiare ai Demoni il filo della spada.» Il Re guardò con acrimonia Lord Gro, e disse: «Il tuo consiglio è inaccettabile e inopportuno. Cosa c'è dietro di esso?» «Ci sono stati dei presagi, mio Re,» rispose Gro. E il Re chiese: «Quali presagi?» «Non ti nasconderò, mio Signore,» rispose Gro, «che nell'ora del mio sonno più profondo, un sogno è venuto accanto al mio letto e mi ha fissato con uno sguardo così terribile che i capelli mi si sono rizzati in testa e sono stato afferrato da un profondo terrore. Ho avuto la sensazione che il sonno
scuotesse il tetto al di sopra del mio letto, e che il tetto si spalancasse all'aria della mezzanotte, che era percorsa da segni di fuoco, mentre una stella cometa vagava nel buio che non da' riparo. Ho visto che il tetto ed i muri erano schizzati di sangue! E nel sogno ha strillato come un allocco di palude, gridando: «Witchland non è più tua, Ο Re!» Poi il mondo intero mi è parso avvolto dalle fiamme, e mi sono svegliato con un grido, grondante di sudore. Ma il Re roteò con collera gli occhi su Lord Gro e disse: «Sono stato davvero servito bene da volpi scaltre e infide come te! Evidentemente non ti va a genio che io porti a termine questa impresa e, nella cecità della tua impudente follia, vieni da me con delle storielle buone per spaventare i bambini, implorandomi gentilmente di rinunziare alla mia gloria, affinché tu ed i tuoi compagni possiate rendervi grandi agli occhi del mondo con le armi in pugno.» «Signore, non è così!», esclamò Gro. Ma il Re non volle ascoltarlo, e disse: «Mi pare che i sudditi leali debbano cercare la propria grandezza nella grandezza del loro Re, e non desiderare di brillare di luce propria. Riguardo poi a questo Demone, quando dici che l'ho battuto, dici un'enorme e impudente bugia. In questo primo incontro mi sono soltanto misurato con lui, ma adesso ho la certezza che, quando farò ricorso a tutta la mia potenza, egli non sarà in grado di resistermi; e fra poco vedrete tutti quanti come, simile ad uno che spezzi uno stelo di angelica, (9) spezzerò e frantumerò gli arti di questo Goldry Bluszco. E riguardo a te, falso amico, volpe sottile, servo infedele, per troppo tempo ti ho visto strisciare su e giù per il mio palazzo facendo oscuri progetti a me ignoti: tu, che non sei della stirpe di Witchland, ma solo uno straniero, un Goblin esule, un serpente accolto nel mio seno a mio danno! Ma tutto questo finirà. Quando avrò steso a terra questo Goldry Bluszco, allora, con comodo, stenderò a terra anche te.» E Gro s'inchinò col cuore amareggiato davanti alla collera del Re, senza aggiungere altro. Fu suonato il corno per il secondo incontro, e i due contendenti avanzarono sul terreno della lotta. Al suono dei cembali, il Re si avventò su Goldry come una pantera, e con la forza del suo attacco lo spinse all'indietro e ben fuori dal terreno della lotta. Quando si trovarono quasi fra i Demoni, nel punto dove questi stavano ad osservare lo scontro, Goldry si girò verso sinistra come aveva fatto prima per sollevare il Re, ma questi sventò la mossa e si scagliò su di lui con tutto il suo enorme peso, cosicché la spi-
na dorsale di Goldry fu sul punto di spezzarsi sotto la violenza omicida delle braccia del Re. Fu allora che Lord Goldry Bluszco dimostrò tutto il suo valore come lottatore perché, pur soggetto alla stretta mortale del Re, con tutta la potenza dei muscoli del suo torace poderoso, spinse il suo antagonista prima a destra poi a sinistra; e la stretta del Re si allentò, e ci vollero tutta la sua abilità e maestria a salvarlo solo per un pelo da una penosa caduta. Goldry non indugiò né rifletté sulla sua mossa successiva ma, rapido come un fulmine, allentò la presa e si girò e, con la schiena sotto lo stomaco del Re, diede un potente strattone. Coloro che stavano osservando rimasero stupefatti, in attesa di vedere il Re scagliato sopra la testa di Goldry. Eppure, malgrado i suoi sforzi, Goldry non riuscì a sollevare il Re dal suolo. Tentò due, tre volte ma, ad ogni tentativo, sembrava meno vicino al suo scopo, mentre il Re migliorava la sua presa. Al quarto tentativo che Goldry fece per sollevare il Re sopra la schiena e scagliarlo a testa in avanti, Gorice diede una spinta e gli fece lo sgambetto da dietro, cosicché Goldry cadde sulle mani e sulle ginocchia. Allora il Re lo afferrò da dietro e gli passò le braccia intorno al corpo al disotto delle ascelle e sopra le spalle, con l'intenzione di intrecciare le mani sulla nuca del Demone. «Il Demone è spacciato,» disse Corund. «Con questa presa il Re ha procurato la disfatta di più di sessanta Campioni famosi. Aspetta soltanto di congiungere le dita dietro il collo di quel maledetto Demone per abbassargli la testa fino a che le ossa del collo ο lo sterno non si saranno spezzati,» «Sta aspettando troppo, per i miei gusti!», disse Gro. Il fiato dei Re usciva in grandi sbuffi e grugniti mentre cercava con tutte le sue forze di congiungere le dita dietro al collo di Goldry. Fu solo la grossezza spropositata del collo e del torace a salvare in quel frangente Lord Goldry Bluszco dalla totale disfatta. Carponi com'era, non avrebbe potuto in alcun modo sfuggire alla presa del Re, né a sua volta tentare una presa su di lui; nondimeno, a causa della grossezza del collo e del torace di Goldry, era impossibile per il Re realizzare quella presa, malgrado tutti i suoi sforzi. Quando il Re si rese conto del fatto che stava sprecando le forze, disse: «Mollerò la presa e lascerò che tu ti rimetta in piedi, così saremo di nuovo faccia a faccia. Ritengo sia indecoroso restare avvinghiati a terra come cani.» Quindi si alzarono, e lottarono un altro po' in silenzio. Ben presto il Re
ripeté ancora una volta la mossa con la quale aveva cercato di scaraventare a terra l'avversario nel primo incontro, ruotando bruscamente il fianco destro contro Goldry, ed agganciandogli la gamba con la propria, per poi spingerlo con forza. E quando, come prima, Goldry si portò violentemente in avanti rinsaldando la sua stretta, il Re s'inchinò verso di lui e, sebbene ancora contrariato per aver mancato quella presa che mai in precedenza aveva fallito, con rabbia crudele spinse le dita su per il naso di Goldry, graffiando ed artigliando le delicate parti interne delle narici in maniera tale che Goldry fu costretto a tirare indietro la testa. Dopodiché il Re, spingendolo con forza ancora maggiore, lo fece cadere pesantemente sulla schiena, e cadde a sua volta sopra di lui, schiacciandolo al suolo e stordendolo. Allora il Foliot Rosso proclamò Re Gorice vincitore di quell'incontro. Il Re tornò dalle sue Streghe che inneggiavano a gran voce alla sua superiorità su Goldry. «E, come avevo detto: prima bisogna saggiare,» disse rivolto a Gro, «poi pestare e, nell'incontro conclusivo, spezzare ed uccidere!» Guardò Gro con malevolenza. Questi non disse una parola, perché la sua anima soffriva nel vedere il sangue sulle unghie e le dita della mano sinistra del Re. Era convinto che Gorice sarebbe stato battuto in quell'incontro, poi aveva visto che era stato costretto a compiere una mossa infame, altrimenti non sarebbe mai riuscito a sconfiggere il suo avversario. Ma, quando Lord Goldry Bluszco riprese i sensi e si rimise in piedi dopo quella penosa caduta, si rivolse al Foliot Rosso con immensa ira, dicendo: «Questo cane mi ha battuto con l'astuzia, approfittando di una mossa vergognosa: mi ha ficcato le dita nel naso.» I figli di Corund strepitarono alle parole di Goldry, urlando a piena voce che era un grandissimo bugiardo ed un vile; per contro, tutti quelli di Witchland gridarono ed imprecarono allo stesso modo. Ma Goldry gridò con voce simile ad una tromba di ottone, che si udì con chiarezza al di sopra del clamore delle Streghe: «Foliot Rosso, giudice imparziale fra me e Gorice, come hai giurato di essere: fagli mostrare le unghie, in modo da vedere se c'è ο no del sangue su di esse. Questo incontro è nullo, ed io chiedo che combattiamo di nuovo.» E i Signori di Demonland gridarono allo stesso modo che si disputasse nuovamente l'incontro. Ora, il Foliot Rosso in realtà si era reso conto di quello che era accaduto, ed era stato propenso a dichiarare nullo l'incontro. Ma aveva evitato di farlo per paura di Re Gorice, che gli aveva rivolto un'occhiata da basilisco, minacciandolo. Adesso, mentre il Foliot Rosso rifletteva inquieto, non riu-
scendo a decidere fra le urla adirate delle Streghe e dei Demoni se la sua incolumità dipendeva dal tener fede al suo onore ο nel prendere le parti di Re Gorice, quest'ultimo disse una parola a Corinius, che si fece avanti e, fermatosi accanto al Foliot Rosso, gli parlò nell'orecchio e lo minacciò, dicendogli: «Attento a non farti intimidire dai Demoni. Giustamente hai aggiudicato la vittoria in questo incontro al nostro Re, e questa storia delle dita ficcate nel naso è solo un pretesto ed una vile invenzione di Goldry Bluszco il quale, gettato a terra lealmente davanti ai tuoi occhi ed a tutti noi, e rendendosi conto di non potersi opporre al Re, ora crede con questa spacconata di farla franca, e pensa di evitare la sconfitta con la frode e l'astuzia. Se, a dispetto di quello che ti hanno mostrato i tuoi occhi, di ciò che noi abbiamo visto, e della parola data dal Re, sei così testardo da prestare attenzione alle scaltre rimostranze di questi Demoni, allora ricordati che il Re ha sopraffatto novantanove grandi Campioni in questa disciplina, e questo sarebbe il centesimo; e ricordati, inoltre, che Witchland è più vicina di Demonland alle tue Isole di molti giorni di navigazione. Sarebbe arduo per te opporti alla spada vendicatrice di Witchland se ci facessi un torto e, a dispetto del tuo giuramento di essere arbitro imparziale, propendessi per i nostri nemici in questa disputa». Così parlò Corinius, e il Foliot Rosso ebbe paura. Benché fosse convinto di tutto cuore che il Re avesse fatto ciò di cui Goldry lo accusava, per paura del Re e di Corinius che gli stava accanto in atteggiamento minaccioso, non manifestò il suo pensiero, ma con addolorato imbarazzo diede ordine di suonare il corno per il terzo incontro. Al suono del corno avvenne che il pipistrello volò di nuovo via dai padiglioni delle Streghe e, svolazzando all'indietro, intorno al terreno della lotta, ritornò sulle ali silenziose nel punto da cui era venuto. Quando Lord Goldry Bluszco comprese che il Foliot Rosso non aveva prestato la minima attenzione alla sua accusa, divenne rosso come il sangue. Era spaventoso vedere come si stava gonfiando per la rabbia, ed i suoi occhi scintillavano come stelle nefaste a mezzanotte. Irrigidito dalla collera, digrignò i denti finché la saliva non gli spuntò sulle labbra e gocciolò giù dal mento. In quel momento i cembali strepitarono per l'ultimo scontro. Goldry si avventò sul Re come un forsennato, muggendo mentre correva, e lo afferrò per il braccio destro con entrambe le mani, una al polso ed una vicino alla spalla. E così, prima che il Re potesse fare un solo gesto, Goldry ruotò la schiena e, con la sua forza smisurata aggiunta alla forza della rabbia che
era in lui, sollevò il Re sopra la testa (10), scagliandolo a terra come si scaglia una pesante lancia, con la testa in avanti. Gorice colpì il suolo con la testa, e le ossa del cranio e della spina dorsale si schiacciarono e si spezzarono, ed il sangue gli fluì dalle orecchie e dal naso. Con la violenza riversata in quel colpo, l'ira abbandonò Goldry e lo lasciò sfinito (11), al punto che vacillò mentre usciva dal terreno dello scontro. I suoi fratelli, Juss e Spitfire, lo sostennero, ed avvolsero il mantello di stoffa dorata ricamato di cuori rossi intorno alle sue membra possenti. Nel frattempo, sulle Streghe era sceso lo sgomento nel vedere il loro Re sollevato così bruscamente e scaraventato a terra, dove giaceva in un mucchio scomposto, distrutto come il fusto di un abete abbattuto e spaccato. Il Foliot Rosso, con grande agitazione, scese dal carro di ebano e raggiunse in fretta il punto dove il Re era caduto; e i Signori di Witchland accorsero a loro volta, col cuore a pezzi, e Corund sollevò il Re nelle sue braccia vigorose. Ma il Re era morto. Allora i figli di Corund fecero una lettiga con le loro lance e vi adagiarono il Re, poi stesero su di lui il mantello regale di seta nera foderato di pelle d'orso, gli posero la corona sulla testa e, in silenzio, lo trasportarono ai padiglioni delle Streghe. III. IL FOLIOT ROSSO Del trattenimento delle Streghe nel palazzo del Foliot Rosso; degli stratagemmi e delle astuzie di Lord Gro; e di come le Streghe partirono di notte dalle Isole Foliot. Il Foliot Rosso rientrò nel suo palazzo e si sedette sul suo alto scranno, poi mandò a dire ai Signori di Witchland e di Demonland che potevano pure entrare per parlare con lui. Essi non indugiarono, ma vennero immediatamente e si sedettero sulle lunghe panche, le Streghe sul lato orientale della sala e i Demoni su quello occidentale, coi loro soldati schierati da entrambi i lati, dietro di loro. Così sedettero nella penombra della sala, e il sole che si abbassava sull'orizzonte occidentale, splendeva attraverso le alte finestre della sala sulle armature e sulle armi luccicanti delle Streghe. Quando il Foliot Rosso parlò, disse: «Un grande Campione è stato oggi battuto in leale ed equo combattimento. E, conformemente ai solenni giuramenti dai quali siete vincolati, e dei quali sono custode, questa è la fine
delle controversie fra Witchland e Demonland, e voi di Witchland rinuncerete a tutte le pretese di sovranità sui Demoni. Ora, per sigillare e rendere immediato questo patto solenne fra voi, non vedo niente di meglio che unirvi oggi a me in lieta amicizia, per dimenticare le vostre dispute bevendo in onore (1) di Re Gorice XI, del quale nessuno ha mai regnato con maggiore potenza e magnificenza in tutto il mondo, e quindi possiate ripartire in pace per le vostre terre natie.» Così parlò il Foliot Rosso, ed i Signori di Witchland assentirono. Ma Lord Juss rispose: «Foliot Rosso, per quanto riguarda le promesse fra noi ed il Re di Witchland, hai parlato bene; e noi non modificheremo alcunché dalle condizioni del nostro patto, per cui le Streghe - per quel che ci riguarda - potranno vivere in pace per sempre se - anche se ciò è decisamente contrario alle loro abitudini ed alla loro natura - eviteranno di fare progetti a nostro danno. Perché la natura di Witchland è sempre stata come quella della pulce, che attacca l'uomo nel buio. Ma noi non mangeremo né berremo coi Signori di Witchland, che tradirono ed abbandonarono noi, loro fedeli alleati, nella battaglia navale contro i Ghoul. E non berremo in onore di Re Gorice XI, che ha messo in atto una vergognosa e sleale furberia contro mio fratello, oggi, durante l'incontro di lotta.» Così parlò Lord Juss, e Corund sussurrò nell'orecchio di Gro: «Se non fosse per la presenza di questa rispettabile compagnia, ora sarebbe il momento di saltare loro addosso!» Ma Gro rispose: «Ti prego di avere ancora pazienza. Sarebbe troppo rischioso, perché la fortuna è contro Witchland. Li assaliremo questa notte, quando saranno a letto.» Il Foliot Rosso sarebbe stato lieto di distogliere i Demoni dal loro proposito, ma non vi riuscì; essi lo ringraziarono cortesemente della sua ospitalità, ma dissero che avrebbero trascorso con piacere la notte nei loro padiglioni, avendo intenzione, la mattina dopo, di raggiungere le loro navi munite di rostri e di navigare sul mare tranquillo alla volta di Demonland. Quindi Lord Juss si alzò, e con lui Lord Goldry Bluszco, in assetto di guerra, con l'elmo cornuto d'oro e la cotta di maglia dorata coi cuori di rubino, ed il suo spadone a due mani forgiato dagli Elfi col quale aveva ucciso nei giorni andati la bestia emersa dal mare; e Lord Spitfire, che rivolse ai Signori di Witchland lo sguardo di un falco impaziente di mettere gli artigli sulla preda; e Lord Brandoch Daha, che li guardò tutti, e principalmente Corinius, con nello sguardo uno sprezzante divertimento, giocando oziosamente con l'elsa ingioiellata della spada, finché Corinius non diven-
ne inquieto sotto quello sguardo e si agitò sulla sua panca, restituendogli un'occhiata di sfida. Nonostante il ricco abbigliamento, il portamento, ed i bei lineamenti di Corinius, questi sembrava solo uno zotico accanto a Lord Brandoch Daha. Poi i Signori di Demonland, coi loro soldati, uscirono dalla sala. Il Foliot Rosso li fece seguire perché fossero serviti nei loro padiglioni grandi quantità di vino e di ottime e delicate pietanze, e mandò loro dei musici ed un Menestrello perché li intrattenessero e li rallegrassero con canzoni e vecchie storie. Ma, per gli altri suoi ospiti, fece portare le coppe d'argento massiccio, e le grandi giare di vino a due manici che contenevano due firkin (2) ciascuna, e fece mescere alle Streghe ed ai Foliot, che bevvero alla memoria del Re Gorice XI, ucciso quel giorno per mano di Goldry Bluszco. Poi, quando le loro coppe vennero nuovamente colmate di vino spumeggiante, il Foliot Rosso disse: «Signori di Witchland, volete che pronunci un'orazione in onore di Re Gorice che oggi è stato raccolto dalla Nera Mietitrice?» Quando tutti acconsentirono, fece venire il suonatore di tiorba (3) e quello di oboe (4), ed ordinò: «Suonate una musica solenne». E quelli suonarono dolcemente, con un'armonia eolia (5), una musica che era come il lamento del vento fra i rami spogli in una notte senza luna. Allora il Foliot Rosso si sporse sul suo alto scranno e recitò questo lamento funebre: Io che ero allegro e contento Sono in preda ad un gran turbamento E la debolezza infiacchisce me: Timor Mortis conturbai me. (6) Il nostro giardino (7) è solo vanagloria, Questa falsa realtà è transitoria, La carne è fragile, l'Apparenza vaga: Timor Mortis conturbai me. Dell'uomo si modifica e varia lo stato Ora lieto, ora triste, ora sano, ora malato, Ora è quasi felice, ora ha la morte con sé: Timor Mortis conturbat me. Nel mondo nessuna condizione è più dolorosa; Come il ramo scosso dal vento (8) senza posa, La vanità si dissolve e non c'è: Timor Mortis conturbat me.
Tutti alla Morte sono destinati, Potestà, Principi e Prelati, Povero, ricco ο comunque si è: Timor Mortis conturbat me. Prende sul campo i cavalieri, Con corazza, scudo e schinieri; La Vittoria ha sempre per sé: Timor Mortis conturbai me. Quel tiranno inumano e potente, Prende anche il bambino innocente Che succhia al seno materno, testé: Timor Mortis conturbai me. Prende il campione nel duello, Il sovrano nel suo castello, La giovane dama pur bella com'è: Timor Mortis conturbai me. Non risparmia alcun Lord se ha potenza, Ο un erudito per la sua intelligenza; Mai nessuno sfuggirle poté: Timor Mortis conturbat me. Maghi, Stregoni e astrologhi, Retori, logici e teologhi, Benché scaltri non sfuggono, ahimè: Timor Mortis conturbat me. In medicina anche i più praticanti, Cerusici, chirurghi e medici importanti, Non possono allontanarla da sé: Timor Mortis conturbat me. Quando il Foliot Rosso giunse a questo punto della sua lamentazione, fu interrotto da una rissa scoppiata fra Corinius ed uno dei figli di Corund. Perché Corinius, al quale non importava assolutamente né della musica né delle lamentazioni, ma piacevano solo le carte e i dadi, aveva portato il suo bussolotto coi dadi per giocare col figlio di Corund. Avevano giocato per un po', con grande divertimento di Corinius, perché ad ogni lancio vinceva ed il borsellino dell'altro si svuotava. Ma, all'undicesima strofa, il figlio di Corund gridò che il dado di Corinius era truccato, e lo colpì sulla guancia rasata col bussolotto, chiamandolo baro e cane ro-
gnoso, al che Corinius tirò fuori uno stiletto per piantarglielo nel collo. Ma qualcuno si interpose fra loro e, nel tafferuglio che ne seguì, in mezzo al baccano ed alle imprecazioni, furono separati e, constatato che i dadi non erano truccati, il figlio di Corund fu costretto a chiedere scusa a Corinius, e così si riappacificarono. Il vino fu di nuovo versato ai Signori di Witchland, ed il Foliot Rosso bevve un lungo sorso alla gloria di quella terra ed ai suoi governanti. Poi diede questo ordine: «Fate entrare Kagu affinché danzi per noi, e poi gli altri miei danzatori. Perché non c'è piacere più desiderato dai Foliot di quello della danza, e per noi è una delizia osservarla, sia essa una maestosa Pavana (9) che incede come grandi nuvole che passano solennemente al tramonto, ο una graziosa Allemande (10), ο un Fandango (11), che procede gradualmente da una bellezza languida alla rapidità ed alla passione dei Baccanali (12) danzati sugli alti prati sotto una luna estiva sospesa fra i pini, ο l'intreccio gioioso di una Gagliarda, (13) ο una Giga, (4) assai cara ai Foliot. Per cui, non indugiamo oltre, e facciamo entrare la nostra Kagu, perché danzi davanti a noi.» Subito dopo, Kagu entrò nella sala in penombra, muovendosi con dolcezza e con un'andatura leggermente oscillante, la testa tesa in avanti; e c'era un po' di nervosismo nel suo portamento mentre dardeggiava qua e là i suoi grandi e bellissimi occhi, dolci e timidi, che erano come oro liquido al calore rosso. Era simile ad un airone, ma più robusta e con le gambe più corte: il suo becco era più corto e grosso di quello dell'airone, ed il suo piumaggio di un pallido grigio era così lungo e delicato che era arduo dire se si trattava di capelli ο di piume. Gli strumenti a fiato ed i liuti attaccarono un Coranto (15), e Kagu attraversò con passo leggero l'intera sala, fra i lunghi tavoli, saltellando un po' e un po' chinandosi ad ogni passo, ma tenendo in maniera eccellente il ritmo della musica. Quando giunse vicino alla pedana dove sedeva il Foliot Rosso, che era estasiato dalla sua danza, Kagu allungò il passo e scivolò morbidamente e lentamente verso di lui. Così scivolando, si accostò con magnifico portamento, aprì la bocca, e tirò indietro la testa finché il becco non le si appoggiò sul petto, scostando le piume in modo che sembrarono un'ampia gonna con una crinolina. La cresta sulla sua testa si eresse per metà della sua altezza dal suolo, ed ella veleggiò maestosamente verso il Foliot Rosso. Kagu fece così ad ogni giro del Coranto, avanti e indietro lungo la sala dei Foliot. Quando la danza terminò, il Foliot Rosso chiamò a sé Kagu e la
fece sedere sullo scranno accanto a lui, accarezzandone le soffici piume grigie e lodandola con passione. Tutta vergognosa, lei restò seduta accanto al Foliot Rosso, alzando con espressione meravigliata gli occhi di rubino sulle Streghe e sul loro seguito. Dopodiché, il Foliot Rosso chiamò i suoi Orsi-Gatti, che si fermarono davanti a lui col pelo rossastro ed i ventri bianchi, le facce tonde e pelose, gli occhi innocenti color ambra, le grosse zampe morbide, e le code ad anelli alterni rossi e color crema. Allora lui disse: «Orsi-Gatti, danzate per noi che tanto amiamo la vostra danza.» E loro gli chiesero: «Signore, vuoi che eseguiamo una Giga?» «D'accordo,» rispose lui. Allora gli strumenti a corda cominciarono un rapido movimento, i tamburelli e i triangoli assunsero il ritmo, e le zampe degli Orsi-Gatti saltellarono in una danza gioiosa. La musica si diffuse e fluì, ed i danzatori danzarono finché la sala non parve vorticare al ritmo della loro danza, e le Streghe applaudirono fragorosamente. Poi, bruscamente, la musica cessò, e i danzatori s'immobilizzarono: quindi, fianco a fianco, zampa pelosa nella zampa, s'inchinarono timidamente alla compagnia, ed il Foliot Rosso li chiamò vicino a lui, li baciò sulla bocca e li fece accomodare sui loro sedili, affinché potessero riposare ed osservare le altre danze in programma. Dopodiché, il Foliot Rosso chiamò i suoi Pavoni Bianchi, del colore del chiaro di luna, perché guidassero la Pavana davanti ai Signori di Witchland. Essi spiegarono le loro code in tutta la loro magnificenza per quella danza maestosa, ed era una visione bellissima ed incantevole la loro grazia e la solennità del loro portamento mentre si muovevano seguendo una musica severa e nobile. A loro si unirono i Fagiani Dorati, che spiegarono i loro collari d'oro, i Fagiani Argentei, ed i Fagiani Pavoni: poi gli Struzzi, e le Ottarde, (16) che danzavano in grande pompa, puntando le dita delle zampe, e chinandosi e arretrando a tempo col ritmo solenne della Pavana. Tutti gli strumenti avevano un ruolo in quella danza maestosa: i liuti e i salteri, le tiorbe, i tromboni, e gli oboe; i flauti trillavano dolcemente come uccelli in volo, e le trombe d'argento ed i corni soffiavano melodie profonde che vibravano con un mistero ed una tenerezza tali da scuotere il cuore; il tamburo batteva un ritmo marziale, e poi c'era il palpito eccitato dell'arpa, ed i cembali che cozzavano con clangore marziale. Quindi, un usignolo seduto accanto al Foliot Rosso, cantò la Pavana con toni appassionati che avvolsero le anime dei presenti nella loro bellezza dolce e malinconica.
Lord Gro si coprì la faccia col mantello e pianse nel vedere e sentire la divina Pavana; perché, come spettri risorti, essa evocò per lui i giorni passati - e quasi dimenticati - a Goblinland, prima che cospirasse contro Re Gaslark e fosse costretto ad abbandonare la sua terra natia, per andare in esilio nella terra di Witchland, bagnata dalle acque. Dopo, il Foliot Rosso diede disposizioni per una Gagliarda. La melodia si diffuse gioiosamente dagli strumenti a corda, e due ghiri, grassi come burro, entrarono roteando nella sala. Più vorticosa diventava la musica, e più in alto piroettavano i ghiri fino a rimbalzare dal pavimento alle travi del tetto a volta, e di nuovo giù, poi di nuovo fino alle travi in una danza frenetica. E i Foliot si unirono alla Gagliarda, roteando e saltellando nel folle esaltazione della danza. Quindi nella sala entrarono piroettando tre capripedi, che si muovevano con leggerezza mentre la musica diventava ancora più rapida, e un piedone si mise a saltellare qua e là, senza fermarsi, come una pulce, finché le Streghe divennero rauche per il cantare, l'urlare e gli sforzi di seguirlo nelle sue evoluzioni. Ma i ghiri saltavano più in alto e più freneticamente di tutti gli altri, e le loro piccole zampe guizzavano così rapidamente alla musica galoppante che nessun occhio era in grado di seguire i loro movimenti. Ma Lord Gro si divertiva ben poco a quell'allegra danza. Gli era compagna una triste malinconia, che oscurava i suoi pensieri e gli rendeva odiosa l'allegria, come lo è la luce del sole per i gufi notturni. Così si sentì sollevato quando notò che il Foliot Rosso si alzava dal suo scranno sul baldacchino ed usciva furtivamente dalla sala attraverso una porta. Al vedere ciò, anche lui si allontanò piano piano in mezzo al movimento ondoso della Gagliarda che riempiva quella sala vorticosa e giuliva, guadagnando la quiete della sera dove, sopra le basse colline, il vento si cullava addormentandosi negli spazi sterminati e silenziosi del cielo, e l'occidente era una sorta di ricettacolo di luce arancione che sfumava nel porpora e nel blu insondabile del cielo più in alto, e non si udiva nulla se non il mormorio del mare insonne, né si vedeva altro se non uno stormo di oche selvatiche che volava contro il tramonto. In quella tranquillità, Gro s'incamminò verso occidente nella valletta finché non giunse sulla costa e si fermò sull'orlo di una scogliera di maiolica che cadeva sul mare, e si accorse del Foliot Rosso, solo su quell'alta falesia occidentale, che fissava assorto i colori morenti di ponente. Dopo essere rimasti per un po' senza parlare, a guardare il mare, Gro
disse: «Guarda come muore il giorno a occidente. Così la gloria è svanita da Witchland.» Il Foliot Rosso non rispose, ma rimase assorto. «Demonland si trova dove vedi il sole che scende,» continuò Gro, «mentre a est di Witchland vedi lo splendore del mattino. Per cui, domani il sole sorgerà e, con la stessa certezza, vedrai in breve tempo tornare a risplendere la gloria, l'onore e la potenza di Witchland, e sotto la sua spada distruttiva i suoi nemici saranno come erba sotto il falcetto.» Il Foliot Rosso disse: «Io amo la pace ed il soffio dell'aria della sera. Lasciami solo, oppure, se vuoi restare, non rompere l'incantesimo.» «Foliot Rosso,» disse Gro, «ami davvero la pace? Allora la nuova ascesa di Witchland dovrebbe essere come una dolce musica per le tue orecchie, dal momento che noi di Witchland amiamo la pace, e non siamo fomentatori di guerre come i Demoni. La guerra contro i Ghoul, per la quale furono sconvolti i quattro angoli del mondo, fu voluta da Demonland...» «Senza volerlo,» disse il Foliot Rosso, «hai rivolto loro una gran lode. Infatti, chi ha mai visto qualcosa di paragonabile a quei Ghoul mangiatori di uomini, in quanto a costumi corrotti, degenerazione inumana, ed ogni sorta d'iniquità? Essi, che ogni cinque anni da tempo immemorabile avevano avuto il loro grande anno climaterico, e soltanto l'anno scorso si sono abbandonati ad una ferocia inimmaginabile. Ma, se adesso navigano ancora, stanno di certo veleggiando su un lago oscuro, e non infestano i mari ο i fiumi di questo mondo. Sii dunque riconoscente a Demonland, che li ha annientati per sempre.» «Non lo metto in discussione,» rispose Lord Gro. «Ma l'acqua sporca, così come quella limpida, spegne qualsiasi fuoco. Noi di Witchland in quella guerra ci unimmo ai Demoni contro la nostra volontà, prevedendo (com'è stato poi sanguinosamente dimostrato) che la sua conclusione avrebbe soltanto gonfiato le ambizioni dei Demoni, i quali non desiderano altro che diventare signori e tiranni di tutto il mondo.» «Tu,» disse il Foliot Rosso, «nella tua giovinezza eri un uomo di Re Gaslark: un Goblin nato e cresciuto, suo fratellastro, nutrito al medesimo seno. Perché dovrei prestare ascolto a te, che hai vergognosamente tradito un Re così buono? La tua perfidia è stata allora apertamente disapprovata dalla gente comune (come ben ho potuto percepire anche dopo tanto tempo, l'autunno scorso, quando ero nella città di Zaje Zaculo nel periodo delle festività per il fidanzamento della prima cugina del Re, la Principessa Armelline, con Lord Goldry Bluszco), quella gente che portava i tuoi orrendi
ritratti nelle strade, cantando così: Oh ma che pena! Ha tanta vena Ma è scontento: Non è ingiusto Se è disposto Al tradimento Se fa regali son solo strali Senza creanza: E il suo coraggio È solo oltraggio e vile baldanza.» «Il valore di questa canzonetta,» disse Gro, trasalendo leggermente, «ben si addice al sentimento ed alla condizione di chi l'ha inventata. Non posso credere che un nobile Principe quale tu sei possa mettere le sue vele al vento degli odi e delle invidie così ingiusti della gente. Per quanto riguarda la vile accusa di traditore, la respingo e ci sputo sopra. Ma è vero che, senza stare a preoccuparmi del Dio degli sciocchi e delle donne, seguo la mia rotta continuando a osservare la mia stella guida (17). Nondimeno, non sono venuto per discutere con te di una cosa così poco importante come me stesso. Volevo dirti solo questo, col tono più triste e serio possibile: non cullarti nell'idea che i Demoni lasceranno il mondo in pace, dato che ciò è molto lontano dai loro intenti. Essi non hanno voluto ascoltare le tue parole concilianti e sedere a pranzo con noi, e ciò fa pensare che stiano tramando qualcosa a nostro danno. Cos'ha detto Juss? "Witchland è sempre stata come una pulce": sì, come una pulce che egli gratta per schiacciarla fra le unghie. Se ami la pace, c'è una via breve che conduce ai desideri del tuo cuore.» Il Foliot Rosso non disse nulla, e continuò a fissare i tenui riflessi del tramonto che indugiavano sotto un cielo che si oscurava dove le stelle erano già nate. Gro parlò piano, come un gatto che fa le fusa. «Dove falliscono gli unguenti emollienti, una drastica operazione chirurgica porta ad una più rapida guarigione. Vuoi che me ne occupi io?» Ma il Foliot Rosso gli rivolse uno sguardo incollerito, dicendo: «Cosa ho a che fare io con le tue inimicizie? Hai giurato di mantenere la pace, ed io
non tollererò da parte tua la violenza, ο che tu venga meno al tuo giuramento nel mio pacifico regno.» «I giuramenti,» disse Gro, «vengono dal cuore, e colui che li rompe apertamente spesso non è, come in questo caso, un trasgressore vero e proprio, perché essi sono già stati dileggiati e calpestati dai suoi avversari.» Ma il Foliot Rosso disse ancora: «Cosa ho a che fare io con le tue inimicizie che ti aizzano come un cane mastino? Devo ancora vedere una persona dal cuore retto, dalle mani pulite, e che non odia nessuno, trascinata nelle dispute e nei massacri di gente come voi e i Demoni.» Lord Gro lo guardò fisso. «Credi di poter ancora uscire da quello stretto sentiero che unisce noi a loro? Se era questo il tuo scopo, avresti dovuto pensarci prima di emettere quel giudizio nel secondo incontro. Perché era chiaro come il giorno per noi e per la tua gente, come per la maggior parte dei Demoni, che il Re ha combattuto slealmente in quell'incontro e, quando lo hai dichiarato vittorioso, è come se ti fossi proclamato a gran voce amico suo, e nemico di Demonland. Non ti sei accorto, quando hanno lasciato la sala, che sguardo di serpente ti ha rivolto Lord Juss? Non soltanto con noi, ma anche con te ha rifiutato di mangiare e bere, affinché i suoi scrupoli superstiziosi non vengano suscitati quando procederà alla tua distruzione. Perché è questo che vogliono. Niente è più certo!» Il Foliot Rosso abbassò il mento sul petto, e restò silenzioso per un po'. I colori della morte e del silenzio si diffondevano là dove splendevano gli ultimi fuochi del tramonto, e le grandi stelle si schiudevano come fiori sui campi sterminati del cielo notturno: Arturo, Spica, Gemini, il Cane Minore, e Capella con i suoi Fratelli. Poi il Foliot Rosso disse: «Witchland si trova davanti alla mia porta. E Demonland... come devo comportarmi con loro?» «Anche domani,» disse Lord Gro, «il sole nascerà da Witchland.» Per un po' non parlarono. Poi Lord Gro tirò fuori una pergamena dall'abito, e disse: «Il raccolto di questo mondo è per gli uomini risoluti, e colui che è senza carattere (18) viene a trovarsi fra incudine ε martello. Non puoi tornare indietro: essi ti disprezzerebbero e si farebbero beffe di te, e di noi Streghe. Adesso c'è un solo modo per far si che la pace duri: vale a dire, ponendo Re Gorice di Witchland sul trono di Demonland, e la completa umiliazione di quella progenie sotto il tallone delle Streghe.» «Non è stato ucciso Re Gorice da un Demone,» disse il Foliot Rosso, «e non abbiamo forse bevuto in suo onore? E non è il secondo in quella linea di discendenza che è morto per mano di un Demone?»
«Un dodicesimo Gorice,» disse Gro, «in questo preciso momento siede sul trono di Carce. Foliot Rosso, sappi che io sono un lettore dei pianeti della notte e di quei poteri che tessono la tela del Fato. Per cui so che questo dodicesimo Re della Casata di Gorice di Carce sarà uno Stregone abilissimo, astuto ed ingannatore, che con la potenza della sua Negromanzia (19) e della spada di Witchland supererà tutti i poteri di questo mondo. E, ineluttabile come un fulmine del cielo, rovescerà la sua collera sui suoi nemici.» Detto questo, Gro s'interruppe e prese una lucciola dall'erba. dicendole gentilmente: «Carina, la tua luce per un momento...», quindi le soffiò sopra, tenendola poi davanti alla pergamena, mentre diceva: «Apponi la tua regale firma a questo patto, che non ti richiede affatto di entrare in guerra, ma solo (nel caso che la guerra ci sia) di essere dalla nostra parte, e contro questi Demoni che attentano segretamente alla tua vita.» Ma il Foliot Rosso obiettò: «Come posso essere certo che non mi hai mentito?» Allora Gro prese un foglio scritto dal suo borsellino e mostrò un Sigillo su di esso che sembrava quello di Lord Juss. Sopra c'era scritto (20): «A Volle con fiducia e affetto: non ti venga meno, mentre veleggi alla volta di Wichlande, di mandare III ο IV legni alle Isole Foliot per annientarle e bruciare il Foliot Rosso nella sua magione. Perché, se non strapperemo la vita a quei vermi, l'infamia ricadrà per sempre su di noi.» E Gro aggiunse: «Un mio servo ha rubato questo mentre stavano parlando con te nella sala, questa notte.» Il Foliot Rosso, convinto, prese dalla cintura la sua penna ed il corno con l'inchiostro, e scrisse il suo regale nome sotto le condizioni del patto propostogli. Subito dopo, Lord Gro ripose nell'abito il rotolo di pergamena e disse: «Sarà una rapida operazione chirurgica. Dobbiamo sorprenderli stanotte nei loro letti; così, l'alba di domani porterà gloria e trionfo a Witchland, che adesso si trova in eclissi, e pace e soddisfazione al mondo intero.» Ma il Foliot Rosso gli rispose: «Mio Lord Gro, ho apposto la mia firma a queste condizioni, per cui mi trovo ad essere nemico di Demonland. Ma non tradirò i miei ospiti, che hanno mangiato alla mia tavola, e non sono mai stati miei nemici giurati. Sappi che ho fatto mettere delle guardie davanti ai padiglioni vostri ed a quelli di Demonland questa notte, affinché non vi siano atti ostili fra voi. Questo ho fatto, e così sarà, e domani mattina partirete tutti in pace, come quando siete arrivati. Dal momento che so-
no vostro amico ed ho giurato su quel patto, io ed i miei Foliot saremo dalla vostra parte quando ci sarà la guerra fra Witchland e Demonland. Ma non tollererò assassini notturni né massacri sulle mie Isole.» A queste parole del Foliot Rosso, Lord Gro si sentì come uno che cammina lungo un sentiero fiorito per tornare a casa e, mentre sta percorrendo gli ultimi passi, un precipizio gli si spalanca attraverso il sentiero, per cui si ferma sbalordito e frustrato. Eppure, nella sua scaltrezza, non manifestò nulla, ma replicò immediatamente: «Hai preso una decisione corretta e saggia, Foliot Rosso, perché giustamente è stato detto: Le menti ragionevoli non vacillino nel sospetto Di soffrire morte e infamia per ciò che è retto... e che ciò che seminiamo nelle tenebre deve schiudersi alla luce del giorno, per timore che lo si ritrovi avvizzito nel momento della maturità. Non avevo l'intenzione di spingerti a fare diversamente, ma ho una tremenda paura di questi Demoni, e la mia mente era tutta tesa ad annullare le loro cospirazioni. Ti chiedo di fare un'unica cosa per noi. Se salpiamo diretti a casa con loro alle calcagna, essi ci prenderanno alla sprovvista, perché hanno una nave più veloce; se invece prenderanno il largo prima di noi, ci aspetteranno in mare aperto. Consentici allora di partire stanotte, ed escogita un pretesto per farli restare qui ancora per tre giorni, cosicché noi possiamo tornare a casa, prima che essi lascino le Isole Foliot.» «Questo non te lo negherò,» rispose il Foliot Rosso, «perché non v'è nulla di contrario a ciò che è leale, giusto ed onorevole per me. Verrò a mezzanotte nei vostri padiglioni e vi condurrò alla vostra nave.» Quando Gro tornò nei padiglioni delle Streghe, li trovò presidiati proprio come aveva detto il Foliot Rosso, come pure quelli di Demonland. Allora andò nel Padiglione Reale dove il Re giaceva su un feretro di lance, abbigliato con la sua tunica regale sopra l'armatura dipinta di nero e intarsiata d'oro, e con la corona di Witchland sulla testa. Due candele ardevano accanto al capo di Re Gorice e due ai piedi; il vento notturno spirava attraverso le fessure del padiglione facendole sfavillare e guizzare, cosicché le ombre danzavano incessantemente sulla parete, sul tetto e sul pavimento. Sulle panche tutt'intorno sedevano i Signori di Witchland con espressione tetra, perché il vino si era dissolto dentro di loro. Osservarono con aria funesta l'ingresso di Lord Gro, e Corinius si raddrizzò sulla sua panca dicendo: «Ecco il Goblin, causa unica di tutte le nostre sventure: venite, ucci-
diamolo!» Gro si fermò, eretto in mezzo a loro, con gli occhi fissi su Corinius, e disse: «Noi di Witchland non siamo dei folli, mio Lord Corinius, al punto di fare un simile favore ai Demoni: addentarci alla gola l'un l'altro come dei lupi! Se Witchland fosse soltanto la mia terra di adozione, non mi sembra di essere stato da meno degli altri, nella circostanza in cui ci troviamo, nel cercare di evitarle la completa distruzione. Se avete qualcosa contro di me, lasciate che io ascolti, e datemi la possibilità di rispondere.» Corinius fece una risata amara. «Ascoltate questo idiota! Credi che siamo dei bambini ο delle femminucce, evidentemente! Non è chiaro come il giorno che ti sei opposto a che noi aggredissimo i Demoni quando avremmo potuto farlo, adducendo non so quali sciocche ragioni perché lo facessimo di notte? E adesso è notte, e noi siamo prigionieri nei nostri padiglioni, e non abbiamo alcuna possibilità di raggiungerli a meno di non suscitare un vespaio di Foliot tutt'intorno, avvertendo così delle nostre intenzioni i Demoni ed ogni anima vivente sull'isola. E tutto ciò è derivato dal fatto che te la sei svignata col Foliot Rosso e ti sei messo a complottare con lui. Ma ora la tua astuzia ha gabbato se stessa, per cui ti uccideremo, e così metteremo fine anche alle tue cospirazioni.» Dopodiché Corinius balzò in piedi e sfilò la spada, e le altre Streghe con lui. Ma Lord Gro non batté ciglio, limitandosi a dire: «Ascoltate prima la mia risposta. Abbiamo tutta la notte davanti a noi, e uccidermi sarà solo questione di un attimo.» Al che Lord Corund si pose con la sua corporatura massiccia fra Gro e Corinius, dicendo con voce possente: «Chiunque punterà la sua arma contro di lui, dovrà prima vedersela con me, anche se fosse uno dei miei figli. Lo ascolteremo e, se non ci fornirà delle spiegazioni valide, lo faremo a pezzi.» Tutti si sedettero, borbottando, e Gro disse: «Per prima cosa, osservate questa pergamena, che contiene le condizioni di un patto ed un'alleanza solenni, e osservate dove il Foliot Rosso ha scritto il nome, di suo pugno. È vero, questo è un paese di scarso valore militare, e noi potremmo annientarlo e non sentirne neanche i resti appiccicarsi ai nostri stivali, e ben poco vantaggio ci darà il loro fiacco sostegno nel giorno della battaglia. Ma in queste Isole c'è una via abbastanza buona ed un ancoraggio per le navi e, se fossero occupati dai nostri nemici, la loro flotta si troverebbe in una posizione particolarmente adatta per farci tutto il male immaginabile. Vi pare dunque un beneficio da poco questo patto al punto in cui siamo? Poi, sap-
piate che quando vi ho consigliato di cogliere i Demoni nei loro letti invece di avventarvi su di loro nella sala dei Foliot, l'ho fatto sapendo che il Foliot Rosso aveva ordinato ai suoi soldati di opporsi a noi ο ai Demoni, chiunque avesse per primo vibrato la spada contro l'altro. E se sono uscito dalla sala è stato, come Corinius ha intuito con esattezza, per complottare col Foliot Rosso. Ma lo scopo del mio cospirare ve l'ho mostrato: erano le condizioni di questa alleanza. E infatti, se avessi congiurato col Foliot Rosso contro Witchland, della qual cosa Corinius mi ha così vilmente accusato, difficilmente sarei stato così stupido da tornare per mettermi nelle vostre mani quando avrei potuto rifugiarmi nel suo palazzo.» Quando Gro ebbe la percezione che l'ira delle Streghe contro di lui si fosse attenuata grazie a ciò che aveva detto in propria difesa - una difesa che, astutamente, conteneva sia parole vere che bugie - aggiunse: «Ben poco profitto ho tratto dalle afflizioni e riflessioni che ho speso per Witchland. E sarebbe stato meglio se i miei consigli fossero stati tenuti in maggior conto. Corund ben sa come, con mio grande pericolo, ho consigliato al Re di non continuare a lottare dopo il primo incontro e, se lui avesse seguito il mio consiglio invece di insospettirsi e di minacciare di uccidermi, adesso non dovremmo riportarlo morto nelle catacombe dei Re a Carce.» «Hai detto il vero!», osservò Corund. «In una sola cosa ho sbagliato,» disse Gro, «ma ad essa si potrà porre subito rimedio. Il Foliot Rosso, nonostante il patto, non si lascerà convincere ad attaccare i Demoni con l'inganno, né ci permetterà di distruggerli su queste Isole. Scrupoli ingenui sono ancora sospesi come ragnatele nella sua mente, e s'irrigidisce quando vengono sfiorati. Ma sono riuscito a persuaderlo a trattenere qui i Demoni per tre giorni, mentre noi prenderemo il largo questa notte stessa, dicendogli - cosa alla quale ha ingenuamente prestato fede - che noi temiamo i Demoni, e che abbiamo intenzione di fuggire prima che essi possano raggiungerci, in condizioni di vantaggio, in alto mare. Ed a casa infatti torneremo, prima che essi salpino, ma non perché li temiamo, ma piuttosto perché possiamo progettare un colpo mortale da infliggere loro, in modo da non farli più tornare a Demonland.» «Quale colpo, Goblin?», chiese Corinius. «Un colpo che escogiterò assieme al nostro Re e Signore, Gorice XII,» rispose Gro, «che ora ci attende a Carce. Ed io non lo spiattellerò ad un ubriacone e giocatore di dadi che sa solo puntare la spada contro uno che ama davvero Witchland.» Al che Corinius balzò in piedi in preda ad un'ira
incontrollabile per infiggere la sua spada nei corpo di Gro. Ma Corund e i suoi figli lo trattennero. A tempo debito, le stelle scivolarono nella mezzanotte, ed il Foliot Rosso giunse furtivamente con le sue guardie nei padiglioni delle Streghe. I Signori di Witchland presero le loro armi, i soldati trasportarono le salmerie, ed il Re Gorice fu portato sul suo feretro di lance. Così si fecero strada con cautela intorno al palazzo nella notte senza luna, giù per il sentiero tortuoso che conduceva in fondo alla valletta, e lungo il corso d'acqua che si dirigeva ad ovest verso il mare. Qui ritennero di poter accendere una torcia che illuminasse loro la strada senza correre rischi. I fianchi della valletta sembravano desolati e lugubri nel bagliore della fiamma agitata dal vento; e il bagliore fu riflesso dai gioielli della Corona Reale di Witchland, dai coturni rivestiti di metallo infilati nei piedi del Re, rigidi, con le dita puntate verso l'alto che spuntavano dal mantello di pelle d'orso, dall'armatura e dalle armi di quelli che lo sorreggevano e gli camminavano a fianco, e dalla gelida superficie nera del fiumiciattolo che correva incessantemente sul suo letto di sassi fino al mare. Il sentiero era accidentato e pietroso, per cui avanzarono con lentezza, nel timore d'inciampare e di far cadere il Re. IV. MAGIA NELLA TORRE DI FERRO Della Fortezza di Carce, e dei rituali di mezzanotte di Re Gorice XII, nell'antica camera, per preparare un destino funesto per i Signori di Demonland. Quando le Streghe furono a bordo della loro nave, tutto fu sistemato nella stiva, ed i rematori si furono disposti in ordine sulle panche, salutarono il Foliot Rosso e remarono verso il mare profondo. Qui issarono le vele, manovrarono il timone e navigarono verso est costeggiando la terra. Le stelle ruotarono sulle loro teste, l'oriente impallidì, ed il sole emerse dal mare a babordo. Continuarono a navigare per due giorni e due notti, e il terzo giorno c'era terra davanti a loro. Il mattino nacque velato dalla nebbia e dalle nuvole, ed il sole era una sfera di fuoco rosso ad est di Witchland. Indugiarono un
po' al largo di Tenemos in attesa della marea e, quando l'acqua salì, navigarono sopra i banchi di sabbia e su per il Druima oltre le dune, le pianure fangose, ed il lago di Ergaspian, finché raggiunsero l'ansa del fiume ai piedi di Carce. Una solitaria landa acquitrinosa si estendeva tutt'intorno fin dove arrivava lo sguardo, con gruppi di salici e sporadiche fattorie sparsi sulla piana. A nord, al di sopra dell'ansa, una rupe scoscesa cadeva a picco sull'ansa del fiume e, dall'altro lato, declinava dolcemente per poche miglia fino a perdersi nella piana desolata delle paludi. Sul fianco meridionale della rupe, mostruosa come una montagna su quella pianura, era sospesa, nera e tozza, la Fortezza di Carce. Era costruita in marmo nero, rozzamente tagliato e scabro, e le sue fortificazioni cingevano diversi acri. Un muro interno con una torre ad ogni angolo formava la roccaforte principale, e nell'angolo a sud-ovest c'era il palazzo, che sovrastava il fiume. Poi, nell'angolo di sud-ovest del palazzo, torreggiante dal limite dell'acqua per oltre settanta cubiti fino ai bastioni, c'era il Maschio, una torre rotonda rinforzata con strutture di ferro, che reggeva sul modiglione (1) al di sotto del parapetto la figura scolpita dal granchio di Witchiand in innumerevoli forme. La parte esterna della fortezza era ombreggiata da cipressi simili a fiamme nere che divampavano senza posa fino al cielo da un mare ondeggiante di oscurità. Ad est del Maschio c'era la porta e, accanto ad essa, un ponte con un casello all'estremità, dall'altro lato del fiume, ben fortificato con torrette e caditoie (2) e controllato dall'alto dai bastioni del Maschio. Era tetra e spaventosa a vedersi la Fortezza di Carce, come l'anima incarnata di una notte terribile che aleggiasse sull'acqua di quel fiume indolente: di giorno, era un'ombra nella piena luce del sole, un'immagine di violenza spietata assisa in un luogo di potere, che rendeva ancora più tetra la desolazione di quel lugubre acquitrino; di notte, era un'oscurità più nera delle tenebre notturne. La nave si era avvicinata alla porta principale, ed i Signori di Witchland scesero a terra coi loro soldati. Quando la porta si aprì per loro, entrarono tristemente e salirono la ripida scalinata che conduceva al palazzo, trasportando il macabro fardello del Re. Gorice XI fu deposto nella grande sala di Carce, e lì giacque per tutta la notte; così il giorno giunse alla fine. Re Gorice XII non pronunciò una sola parola. Ma, quando cominciarono a scendere le ombre della notte, un Ciambellano raggiunse Lord Gro che stava passeggiando sul terrazzo all'esterno del
muro occidentale del palazzo, e gli disse: «Milord, il Re ti ordina di recarti da lui nella Torre di Ferro, e t'incarica di portagli la Corona Reale di Witchland.» Gro si affrettò ad eseguire gli ordini del Re, e si diresse nella grande sala dei banchetti. Con venerazione sollevò la corona di ferro di Witchland tempestata di gemme inestimabili, poi salì una scala a chiocciola che conduceva sulla torre, col Ciambellano davanti a lui. Quando ebbero raggiunto il primo pianerottolo, il Ciambellano bussò ad una porta massiccia, che fu immediatamente aperta da una guardia, e disse: «Milord, è volontà del Re che tu incontri Sua Maestà nella sua camera segreta in cima alla torre.» Gro si stupì, perché nessuno entrava più in quella camera da molti anni. Molto tempo prima, Gorice VII vi aveva praticato delle Arti Proibite, e la gente diceva che in quella camera egli aveva evocati quegli Spiriti a causa dei quali era andato incontro al suo destino. Da allora, la camera era rimasta sigillata, e gli ultimi Re non ne avevano avuto bisogno, dal momento che riponevano scarsa fiducia nelle Arti Magiche, preferendo affidarsi alla forza delle loro mani e delle spade di Witchland. Ma Gro si rallegrò dentro di sé, perché l'apertura di quella camera da parte del Re favoriva i suoi piani. Senza alcun timore salì per la scala e chiocciola oscurata dalle ombre della notte imminente, invasa dalle ragnatele e dalla polvere dell'abbandono, finché giunse alla bassa porticina della camera e, fermatosi, bussò e restò in ascolto della risposta. Qualcuno disse dall'interno: «Chi è?», e Gro rispose: «Signore, sono io, Gro.» I chiavistelli furono allora tirati e, dopo che la porta fu aperta, il Re ordinò: «Entra!» Gro entrò, e si trovò alla presenza del Re. Ora, la caratteristica di quella camera era che era rotonda, ed occupava l'intero spazio del piano più elevato del dongione (3). Era immersa nella penombra, e solo un debole chiarore crepuscolare entrava attraverso le profonde strombature delle finestre che foravano le pareti della torre, rivolte verso i quattro quadranti del cielo. Una fornace che ardeva nel grande focolare scagliava bagliori guizzanti nei recessi della camera, che illuminavano bizzarre forme di vetro e terracotta, fiasche e storte (4), bilance, clessidre, crogiuoli ed astrolabi (5), un mostruoso alambicco (6) a tre colli di vetro fosforescente appoggiato ad un vassoio per bagnomaria (7), ed altri strumenti di aspetto dubbio ed illecito. Sotto la finestra aperta a nord, di fronte alla porta d'ingresso, stava un massiccio tavolo annerito dal tempo, sul quale c'erano dei grossi volumi rilega-
ti in pelle nera con rinforzi di ferro e pesanti lucchetti. Seduto su un'enorme sedia accanto al tavolo, c'era Re Gorice XII, abbigliato con la sua tunica di Mago nera e dorata, con la guancia appoggiata su una mano che era affusolata come l'artiglio di un'aquila. La luce bassa, madre d'ombre e di misteri, che baluginava nella camera, si agitava intorno alla figura immobile del Re, che aveva il naso a uncino come un becco d'aquila, i capelli tagliati a zero, le guance ed il labbro superiore rasati, gli zigomi alti e la crudele mandibola sporgente, e le cavità oculari buie nelle quali gli occhi verdi luccicavano senza che vi fosse una lampada ad illuminarli. La porta si richiuse poi senza rumore, e Gro si fermò davanti al Re. L'oscurità divenne più profonda, la luce del fuoco pulsò e guizzò in quella camera spaventosa, ed il Re si appoggiò sulla sua mano quindi, senza fare apparentemente alcun movimento, rivolse la fronte verso Gro. Il silenzio era totale se si eccettuava il debole crepitio della fornace. Dopo un po' il Re disse: «Ti ho mandato a chiamare, perché tu solo sei stato così coraggioso da tentare fino all'ultimo di dare consigli al Re che adesso è morto, Gorice XI, il cui ricordo sarà glorioso per sempre. E perché il tuo consiglio era buono. Ti meraviglia il fatto che io conosca quale fosse il tuo consiglio?» «O Re, mio Signore,» disse Gro, «questo non mi meraviglia. Infatti so che l'anima sopravvive, anche se il corpo perisce.» «Fa in modo che le tue labbra non parlino mai più del necessario,» disse il Re. «Il solo pensare a questi misteri può metterti in pericolo e, chi ne parla, anche in un luogo segreto come questo e con me solo, lo fa con sommo pericolo per la propria vita.» «O Re,» rispose Gro, «non ho parlato con leggerezza; inoltre, tu mi hai messo alla prova con la tua domanda. Comunque, seguirò alla lettera il tuo ammonimento.» Gorice si alzò dalla sedia ed avanzò verso Gro, con lentezza. Era esageratamente alto, e magro come un cormorano (8) affamato. Appoggiando le mani sulle spalle di Gro e chinando il suo volto su quello di lui, «Non hai timore,» gli chiese, «di stare insieme a me in questa camera, sul finire del giorno? Oppure non ci avevi pensato, e non hai riflettuto sugli strumenti che vedi, sui loro usi ed i loro scopi, e sull'uso che anticamente veniva fatto di questa camera?» Gro non arretrò nemmeno di un pollice, ma disse con fermezza: «Non ho paura, mio Signore e Re. Al contrario, sono lieto di essere stato convo-
cato. Poiché ciò concorda coi miei disegni, quando ho riflettuto segretamente nel mio cuore dopo le sventure che le Parche avevano preparato per Witchland nelle Isole Foliot. Perché quel giorno, ο Re, quando vidi la luce di Witchland oscurarsi e la sua potenza indebolirsi con la sconfitta di Re Gorice XI, di gloriosa memoria, pensai a te, Signore, al Dodicesimo Gorice diventato Re a Carce; ed erano presenti nella mia mente le parole dell'antico aruspice, che salmodiò: Dieci, undici, dodici vedo là. Una progressiva varietà Di potenza, e abilità Di spada, muscoli e Magia sarà. Nella fortezza che a Carce sta, Essi governano in maestà. «Ed essendo convinto che egli si riferisse a te, il Dodicesimo, come potente nella Magia, tutta la mia preoccupazione fu che questi Demoni fossero trattenuti nel raggio dei tuoi Incantesimi finché non avessimo avuto il tempo di venire da te e di informarti delle loro azioni, in modo che tu potessi servirti del tuo Potere per distruggerli con le Arti Magiche, ο impedire che tornassero al sicuro nella loro montagnosa terra di Demonland.» Il Re si strinse al petto Gro e lo baciò, dicendo: «Non sei un vero gioiello di saggezza e discrezione? Lascia che ti abbracci e che ti ami per sempre.» Poi Gorice fece un passo indietro, tenendo le mani sulle spalle di Gro, e lo scrutò in silenzio per un po'. Quindi accese una candela che stava in un candeliere di ferro sul tavolo dov'erano i libri, e la sollevò davanti al volto di Gro. «Sì,» disse il Re, «sei saggio ed hai discernimento, ed anche coraggio. Ma se vuoi essermi utile questa notte, è necessario che io ti metta prima alla prova con delle cose spaventose, finché non ti sarai abituato a esse, come l'oro che si liquefa nel crogiuolo; se invece sei soltanto un metallo vile, sarai divorato da esse.» «Per molti anni, Signore,» disse Gro, «prima che arrivassi a Carce, ho viaggiato su e giù per il mondo, ed ho avuto a che fare con cose terribili, come un bambù ο con i giocattoli. Ho visto negli oceani del sud, al chiarore di Achernar e Canopo, giganteschi cavalli marini, lottare contro seppie con otto tentacoli nei Gorghi di Korsh. Ma non ho avuto paura. Ero nell'Isola di Ciona quando il primo abisso esplose e la spaccò in due come un'a-
scia spacca il cranio di un uomo, e le verdi profondità del mare la inghiottirono: il fetore ed il vapore rimasero per giorni sospesi nell'aria dove la roccia ardente e la terra erano affondate sfrigolando nell'oceano. Ma non ho avuto paura. Ero anche con Gaslark nella fuga da Zaje Zaculo, quando i Ghoul sollevarono il palazzo sopra le nostre teste, e mille portenti si aggiravano nelle sue sale alla luce del giorno, quando i Ghoul evocarono il sole dal cielo. Ma non ho avuto paura. E, per tre giorni e tre notti, ho vagabondato, solo, sulla superficie del Moruna nell'Alto Impland, dove raramente si è avventurata un'anima vivente: laggiù le creature maligne che popolano quel deserto m'inseguirono e mi parlarono farfugliando nelle tenebre. Ma non ho avuto paura. E, a tempo debito, giunsi a Morna Moruna, e da lì, sul margine della scarpata, come se fosse l'orlo del mondo, guardai a sud dove mai occhi mortale aveva guardato in precedenza, al di là delle foreste vergini del Bhavinan. E, attraverso quella distanza celeste, al di là di catene su catene di montagne ammantate di neve, vidi due picchi troneggiare perennemente fra terra e cielo, di bellezza ultraterrena: erano le cuspidi e le creste eteree del Koshtra Pivrarcha, ed i selvaggi precipizi che si elevavano dagli abissi fino alla cupola silente, innevata e regale, del Koshtra Belorn.» Quando Gro ebbe finito, il Re lo fece voltare e, presa da una mensola una storta colma di un fluido blu scuro, la pose su un vassoio per bagnomaria, e vi accese sotto una lampada. Vapori di colore porpora chiaro fuoriuscirono dal collo della storta, ed il Re li raccolse in una fiaschetta, poi fece dei segni sopra la finestra e la scosse, versandosi nella mano della polvere sottile. Quindi disse a Gro, tendendogli la polvere nel palmo aperto della mano: «Osserva attentamente questa polvere.» E Gro guardò. Il Re mormorò un Incantesimo, e la polvere si agitò e si sollevò, ed era come una massa brulicante di acari in un formaggio troppo maturo. Si accrebbe di volume nella mano del Re, e Gro percepì che ogni singolo granulo aveva delle zampe. I granuli crebbero davanti ai suoi occhi, diventando grossi come semi di senape, e poi come chicchi d'orzo, strisciando velocemente gli uni sugli altri. Poi, proprio mentre osservava, sempre più meravigliato, divennero come fagioli bianchi, ed allora la loro forma gli divenne chiara, e vide che erano delle piccole rane e rospi che traboccavano dalla mano del Re mentre aumentavano rapidamente di dimensioni, riversandosi sul pavimento. Erano pallidi, e traslucidi come corno sottile, ed il loro colore era un porpora chiaro, proprio quello del vapore dal quale erano stati generati. La stanza
adesso ne era piena, ed erano costretti a montare uno sul dorso dell'altro, grossi ormai come cani ben pasciuti: allora rivolsero i loro occhi tondi su Gro e gracidarono. Il Re guardò attentamente Gro, che era rimasto immobile davanti a quello spettacolo, con in mano la corona di Witchland, e notò che la corona non tremava affatto nelle mani che la reggevano. Allora disse una certa parola, ed i rospi e le rane divennero nuovamente piccoli, rimpicciolendo più rapidamente di quando erano cresciuti, e svanirono. Il Re prese allora da una mensola una sfera grossa quanto un uovo di struzzo, di cristallo verde scuro. «Osserva attentamente questo cristallo,» disse a Gro, «e dimmi cosa vedi.» Gro gli rispose: «Dentro vedo un'ombra che si muove.» Il Re gli ordinò: «Scaraventala con tutta la tua forza sul pavimento.» Lord Gro sollevò sopra la testa la sfera con entrambe le mani: era pesante come una sfera di piombo. Obbedendo all'ordine di Re Gorice, la gettò a terra, ed essa andò in pezzi. E - meraviglia! - uno sbuffo di fumo denso si sollevò dai frammenti della sfera ed assunse una forma umana dall'aspetto spaventoso: le sue gambe erano costituite da due serpenti che si contorcevano. Era così alta quella cosa nella stanza, che la sua testa toccava il soffitto a volta, ed osservava il Re e Gro con espressione malevola e minacciosa. Il Re tirò giù una spada appesa alla parete, e la mise in mano a Gro, gridando: «Tagliale le gambe! E non indugiare, altrimenti sarai morto!» Gro tirò un fendente e tagliò la gamba sinistra di quella cosa maligna, con facilità, come se stesse tagliando del burro. Ma dal moncone fuoriuscirono altri due serpenti frementi; fece la stessa cosa con la gamba destra, ma il Re gridò: «Colpisci e non ti fermare, ο sarai morto!», e, mentre Gro continuava a tagliare in due un serpente, continuavano a spuntarne due dal taglio, finché la camera non divenne un intrico di forme serpentine che si contorcevano. Ma Gro continuò a recidere con determinazione, finché non gli colò il sudore dalla fronte, ed allora disse, ansimando fra un colpo e l'altro: «O Re, ho fatto diventare questa cosa un centopiedi: devo farla diventare un miriapode prima che la notte finisca?» Allora il Re sorrise, disse una parola di oscuro significato e, subito dopo, quel caos orribile svanì come un soffio di vento che si estingue, e non rimase nulla a parte i frammenti della sfera verde sul pavimento della came-
ra. «Non ti sei spaventato?», domandò il Re e, quando Gro disse di no, «Pensavo che queste visioni di terrore ti avrebbero spaventato parecchio,» continuò, «dal momento che so bene che non sei avvezzo alle Arti Magiche.» «Io sono un filosofo,» rispose Lord Gro, «e so di alchimia e delle misteriose proprietà di questo mondo materiale: conosco le virtù delle erbe, delle piante, delle pietre e dei minerali, il corso delle stelle, e le influenze di quei corpi celesti. Ed ho conversato con gli uccelli e con i pesci, nel loro linguaggio, e non disdegno neanche quel genere di creature che strisciano sulla terra, ma spesso parlo piacevolmente col tritone dello stagno, con la lucciola, con la coccinella, con la formica, e con altri esseri del genere, facendo di loro i miei confidenti. Così posseggo una certa erudizione che mi fa approdare nel cortile esterno del tempio segreto della Magia e delle Arti Proibite, anche se non sono mai riuscito a scrutare all'interno di quel tempio. E dalla mia filosofia, ο Re, ho ricavato la certezza, riguardo a queste apparizioni che hai evocato per me, che esse fossero solo illusioni e fantasmi, capaci di terrorizzare solo l'anima di colui che non conosce la divina filosofia, ma senza potere ο essenza fisica. Non c'è nulla da temere in questo, se non la paura stessa con la quale queste illusioni colpiscono gli ingenui.» «Da cosa te ne sei accorto?», disse il Re. «O Re,» rispose Lord Gro, «hai evocato quelle forme terribili con la stessa facilità con la quale un bambino agita una ghirlanda di margheritine. Non si comporta così chi evoca dal profondo un terrore mortale. Egli opera con fatica, sudore, e con terribile tensione della mente, della volontà, del cuore e dei muscoli.» Gorice sorrise. «Tu dici il vero. Ora, comunque, dal momento che il tuo cuore non si è lasciato sgomentare da una fantasmagoria (9), ti presenterò un orrore più materiale.» (10) Accese quindi le candele poste nei grandi candelieri di ferro ed aprì una porticina segreta situata nella parete della camera vicino al pavimento; Gro vide le sbarre di ferro dentro la porticina, ed udì un sibilo provenire da dietro le sbarre. Il Re prese una chiave di ferro di delicata fattura, con l'impugnatura sottile e lunga tre spanne, ed aprì la porta dalla grata di ferro. «Guarda ed osserva,» gli disse, «ciò che è nato dall'uovo di un gallo, covato da una vipera palustre. Lo sguardo dei suoi occhi è sufficiente a trasformare in pietra tutti gli esseri viventi che lo guardino. Se solo per un i-
stante allentassi il vincolo degli Incantesimi coi quali riesco a tenerlo sotto controllo, in quello stesso momento finirebbero i miei giorni ed i tuoi. È talmente forte il potere malefico di questo serpente, che l'antico Nemico che dimora nelle tenebre lo ha posto su questa terra come sventura per i figli degli uomini, ma anche come strumento di potere nelle mani degli Incantatori e degli Stregoni.» Quel frutto della perdizione uscì dal suo covo, camminando impettito sulle zampe che erano le zampe di un gallo. E di gallo aveva la testa, con cresta e bargigli rosei, ma la sua faccia non era simile a quella dei volatili domestici di questo mondo ma piuttosto a quella di una Gorgone (11) uscita dall'Inferno. Nere piume luccicanti crescevano sul suo collo, ma il suo corpo era quello di un drago, con le scaglie che scintillavano nei raggi delle candele, ed aveva una cresta scagliosa sul dorso. Le sue ali erano simili alle ali di un pipistrello, e la coda era la coda di un aspide (12) con un aculeo all'estremità, mentre dal becco la sua lingua biforcuta guizzava malignamente. La statura di quell'essere era di poco superiore ad un cubito. A causa degli Incantesimi di Re Gorice, coi quali egli lo teneva stregato, non avrebbe potuto gettare il suo sguardo pernicioso su di lui ο su Gro, ma camminava avanti e indietro alla luce delle candele, distogliendo gli occhi da loro. Le penne del suo collo erano arruffate per la rabbia, e lo stupore fece rapidamente attorcigliare la sua coda scagliosa. Sibilò con ferocia ancora maggiore, irritato dai vincoli degli Incantesimi del Re, ed il suo respiro era fetido, e si librava in pesanti spirali nella camera. Così, camminò per un po' davanti a loro e, mentre guardava obliquamente al di là di Gro, questi vide la luce dei suoi occhi che erano come lune malate che ardevano malignamente attraverso una nebbia gialloverdognola nell'oscurità della notte. Allora un'estrema ripugnanza lo afferrò, il cibo che aveva da poco ingerito gli salì in gola mentre guardava quella cosa, e la fronte ed i palmi delle mani gli divennero umidi. «Mio Signore,» disse, «ho guardato finora questo bellissimo essere ed esso non mi ha affatto spaventato, ma la sua visione mi ripugna, ed il cibo mi è risalito in gola...» Detto questo, vomitò. Il Re allora ordinò al rettile di tornare nella sua tana, e quello vi ritornò con un sibilo di collera. Gorice versò del vino, pronunciando un Incantesimo sulla coppa e, quando il liquido spumeggiante ebbe aiutato Lord Gro a riprendersi, il Re disse: «È un bene, Gro, che tu mi abbia rivelato di essere un filosofo, e dal cuore intrepido. Eppure, proprio come nessuna lama si può dire davvero salda se non viene messa alla prova in una vera battaglia dove, se essa si
spezza, dolore e sventura attendono la mano che la regge, così tu, questa notte, dovrai sopportare una vampa di terrore ancora più intensa e, se essa ti brucerà, saremo entrambi perduti per l'eternità, e Carce e Witchland saranno condannate per sempre alla rovina e all'oblio. Te la senti di sostenere questa prova?» «Sono ansioso di obbedire ai tuoi ordini, mio Re,» rispose Gro. «Perché so bene che è inutile sperare di spaventare i Demoni con fantasmi ed illusioni, e che contro i Demoni l'occhio mortale del Basilisco si poserebbe invano. Hanno il cuore saldo, quelli, sono istruiti nelle scienze, e Juss è un Mago di antico Potere, che conosce Incantesimi per ottundere lo sguardo di un Basilisco. Chi vuole annientare i Demoni deve ricorrere alla Magia.» «Grande,» disse il Re, «è la forza e l'astuzia del seme di Demonland. Riguardo alla forza fisica, hanno dimostrato di esserci superiori, come ha tristemente provato la sconfitta di Gorice XI, contro il quale nessun mortale era mai riuscito a restare in piedi ed a combattere e a sopravvivere, finché quel maledetto Goldry, èbbro di collera e d'invidia, non lo ha ucciso nelle Isole Foliot. E, fino a poco fa, non c'era nessuno che potesse superarci nel maneggiare le armi, e Gorice X, vittorioso in innumerevoli combattimenti corpo a corpo, rese il nostro nome glorioso in tutto il mondo. Eppure, alla fine, egli trovò la morte, in maniera assolutamente inaspettata ed in virtù di chissà quale inganno, in una singolar tenzone contro quel riccioluto ballerino di Krothering. Ma io, che sono abile nelle Arti Magiche, dovrò usare contro i Demoni uno strumento più potente dei muscoli ο della spada. E il mio strumento è pericoloso per colui che lo adopera.» Subito dopo, il Re aprì il lucchetto del più grosso dei libri che stavano sul tavolo massiccio, dicendo nell'orecchio di Gro, come uno che non vuole farsi sentire: «Questo è quel terribile libro di Magia col quale, in questa stessa camera, in una notte come questa, Gorice VII sconvolse l'immenso abisso. E sappi che, unicamente da questo fatto, derivò la rovina di Re Gorice VII poiché, dopo aver evocato con la sua scienza infernale qualcosa dal buio primordiale, completamente esausto per la fatica e la tensione dell'evocazione, per un momento rimase stordito, in maniera tale che forse dimenticò le parole scritte in questo libro, ο la pagina sulla quale erano scritte, ο forse non riuscì a pronunciare le parole che dovevano essere pronunciate, ο forse non riuscì a fare quelle cose che dovevano essere fatte per completare l'Incantesimo. Accadde, insomma, che non fosse in grado di mantenere il controllo su quella cosa che aveva evocato dall'abisso, la quale si rivoltò contro di lui e lo dilaniò. Io eviterò di andare incontro al mede-
simo destino, nel ripetere adesso quegli stessi sortilegi, se avrai il coraggio di stare accanto a me impavido mentre pronuncerò il mio Incantesimo. E, se mi vedrai sbagliare ο vacillare prima che tutto sia compiuto, allora sarai tu a portare la tua mano sul libro ο sul crogiuolo ed a fare ciò che è necessario, come ti mostrerò adesso. Questo ti spaventa?» «Signore, mostrami ciò che debbo fare,» disse Gro, «ed io lo farò! Anche se tutte le Furie dell'Abisso dovessero precipitarsi in questa camera per impedirmelo!» Allora il Re istruì Gro, ripetendogli i gesti che sarebbero stati necessari, e indicandogli le diverse pagine del libro di Magia sulle quali erano scritte le parole che dovevano essere dette nei momenti opportuni e nella giusta sequenza. Ma il Re non pronunciò ancora quelle parole, limitandosi a indicarle soltanto nel libro, perché chiunque le pronunciava inutilmente e in momenti non appropriati era perduto. Quando le storte ed i bicchieri coi loro svariati colli, tubi ed appendici, furono messi ai loro posti, e quando gli empi procedimenti di fissazione, congiunzione, deflagrazione, putrefazione e rubificazione, furono prossimi alla conclusione (13), e quando Antares, la stella funesta, venne a trovarsi in prossimità del culmine dell'astrolabio - cosa che indicava il prossimo avvento della mezzanotte - il Re disegnò sul pavimento con la sua bacchetta magica tre pentacoli inclusi in una stella a sette punte, coi simboli del Cancro e dello Scorpione congiunti da certe rune. In mezzo alla stella eseguì un piccolo disegno di un granchio verde che divorava il sole e, voltando la settantatreesima pagina del grande Grimorio Nero, il Re recitò con voce possente delle parole dall'oscuro significato, invocando quel nome che è sacrilegio pronunciare. Dopo aver eseguito il primo Incantesimo, tacque. Nella camera scese un silenzio mortale, e nell'aria si avvertì un gelo invernale. Nel silenzio totale che li circondava, Gro sentì il Re che emetteva e tirava il respiro, come uno che avesse remato per un lungo tratto. Poi il sangue riaffluì nel cuore di Gro, e le mani e i piedi gli divennero gelati, mentre un sudore freddo gli spuntava sulla fronte. Ma, nonostante ciò, egli mantenne saldo il suo coraggio e vigile la sua mente. Il Re gli fece segno di spezzare l'estremità di una certa goccia di cristallo nero che stava sul tavolo e, quando l'estremità si staccò, l'intera goccia si ridusse in frammenti, come una grossolana polvere nera. Gro, su indicazione del Re, raccolse quella polvere e la versò nel grande alambicco dove un fluido verde bolliva e spumeggiava sulla fiamma di una lampada: allora
il fluido divenne rosso come sangue, l'alambicco si riempì di un fumo color bronzo, e scintille accecanti come il sole guizzarono e crepitarono. Subito dopo, dal collo dell'alambicco si distillò un bianco olio incombustibile, nel quale il Re immerse la sua bacchetta, tracciando poi intorno alla stella a sette punte sul pavimento la figura del Serpente Ouroboros, che si mangia la coda. Scrisse poi la formula del granchio sotto il cerchio, e pronunciò il suo secondo Incantesimo. Quando ciò fu fatto, l'aria notturna parve ancora più pungente ed il silenzio della camera ancora più sepolcrale. La mano del Re tremò come per un attacco di brividi mentre voltava le pagine di quel libro massiccio. I denti di Gro gli battevano per la paura, ma lui li strinse, ed attese. Fu allora che, attraverso ogni finestra, giunse una luce nella stanza come di cieli che impallidiscono all'alba. Eppure non fu esattamente così; perché l'alba non viene mai a mezzanotte, e non da tutti e quattro i quadranti del cielo contemporaneamente, né con una luce che si accresce con tale rapidità, ο così spettrale. Le fiamme delle candele ardevano diafane mentre il chiarore proveniente dall'esterno diventava più intenso: era una pallida luce maligna, pregna di tristezza e corruzione, in cui le mani ed i volti di Re Gorice e del suo discepolo apparivano pallidi come la morte, e le loro labbra nere come la buccia scura di un chicco d'uva cui sia stata tolta la polpa. Il Re gridò con voce terribile: «Il momento si avvicina!», e prese una fiala di cristallo contenente un decotto (16) di gelatina di lupo e sangue di salamandra, poi lasciò cadere sette gocce dall'alambicco nella fiala e versò quel liquido sul granchio disegnato sul pavimento. Gro si appoggiò alla parete, debole nel corpo ma sorretto da una volontà indomita. Il freddo era così rigido che aveva le mani ed i piedi intorpiditi, ed il liquido della fiala si congelò nel punto dove cadde. Eppure c'erano ancora delle gocce di sudore sulla fronte del Re a causa dell'enorme sforzo che stava sostenendo. Nel bagliore irresistibile di quella luce che non proveniva dal cielo, egli stava rigido ed eretto, le mani strette e le braccia tese, e pronunciò le parole: LURO VOPO VIR VOARCHADUMIA. Non appena queste parole furono pronunciate, la luce vivida svanì come se fosse stata spenta una lampada, e le tenebre di nuovo si chiusero intorno a loro. Non si udiva alcun suono tranne l'ansito pesante del Re; ma era come se la notte trattenesse il fiato in attesa di ciò che stava per arrivare. Le candele crepitarono e la loro fiamma divenne azzurra. Il Re vacillò e si afferrò al tavolo con la mano sinistra, poi pronunciò ancora una volta con
voce terribile la parola VOARCHADUMIA. Per la durata di dieci battiti di cuore, il silenzio rimase sospeso come un gheppio (15) librato nella notte in ascolto. Allora si udì uno schianto fra terra e cielo, ed un bagliore accecante attraversò la camera come se fosse un fulmine. L'intera Carce sussultò, e la camera si riempì di un frullare d'ali, come quelle di un uccello mostruoso. L'aria, che era gelida come d'inverno, divenne improvvisamente calda come il respiro di un vulcano, e Gro era prossimo a tossire per l'odore di fuliggine e di zolfo. Poi la camera ondeggiò come una nave sulla cresta di un'onda col vento contrario, ma il Re, sostenendosi al tavolo e afferrandone l'orlo finché le vene sulla sua mano scarna non parvero sul punto di scoppiare, gridò con brevi respiri e con voce alterata: «Per queste figure disegnate, per questi Incantesimi pronunciati, per l'Unzione del Lupo e della Salamandra, per il Segno non consacrato del Cancro che ora s'inclina verso il sole, e per il Cuore Ardente dello Scorpione che divampa in quest'ora sul meridiano della notte, tu sei mio schiavo e mio strumento! Inchinati e servimi, verme dell'Abisso! Altrimenti evocherò subito, dalla notte antica, intelligenze e dominazioni molto più potenti di te, ed esse serviranno i miei scopi, e t'incateneranno con catene di fuoco inestinguibile e ti trascineranno di tormento in tormento attraverso gli Abissi.» Subito dopo, il terremoto si fermò, e rimase solo una vibrazione delle mura e del pavimento, il vento di quelle ali invisibili, e l'odore intenso di fuliggine e di zolfo bruciato. Dall'aria tremolante di quella camera uscì una voce, stranamente dolce, che disse: «Dannato essere miserabile che turbi la nostra tranquillità, cosa vuoi?» L'orrore di quella voce fece seccare la gola di Gro, ed i capelli gli si rizzarono sulla testa. Il Re tremò in tutte le membra come un cavallo spaventato, ma la sua voce era piatta e la sua espressione serena mentre diceva rauco: «I miei nemici sono salpati all'alba dalle Isole Foliot. Voglio che tu ti avventi su di loro come un falcone che s'invola dal mio polso. Li dono a te: fa di loro ciò che vuoi! Non importa come ο dove, ma devi distruggerli ed eliminarli dalla faccia del mondo. Va!» Però la resistenza del Re si era ormai del tutto esaurita. Le ginocchia gli cedettero ed egli cadde come un uomo privo di sensi sulla sua enorme sedia. La stanza si riempì di un tumulto come di acqua che scorre, e si udì una risata al di sopra di quel tumulto simile alla risata delle anime condannate. Il Re si rese conto di non aver pronunciato quella parola che avrebbe
congedato il suo Messo, ma si sentiva così debole e le sue energie si erano talmente esaurite durante il rituale degli Incantesimi, che la lingua gli era rimasta attaccata al palato, e non riusciva a pronunciare la parola. Allora roteò orribilmente verso l'alto il bianco degli occhi facendo cenno a Gro di avvicinarsi, mentre le sue dita tentavano debolmente di voltare le pesanti pagine del Grimorio. Gro si precipitò vicino al tavolo, e vi si appoggiò contro, perché adesso la grande Fortezza di Carce era scossa di nuovo come si scuote un bussolotto coi dadi: i lampi squarciavano il cielo, il tuono ruggiva senza posa, il rumore dell'acqua assordava le orecchie, e quella risata ancora echeggiava al di sopra del tumulto. Gro seppe che al Re stava accadendo proprio quello che era accaduto a Gorice VII, nei tempi andati, quando le sue forze avevano ceduto e lo spettro lo aveva dilaniato, spargendo il suo sangue sulle pareti della camera. Ma Gro, anche in quella orribile tempesta di terrore, rammentò la novantasettesima pagina sulla quale il Re gli aveva mostrato la parola di congedo, ed allora strappò il libro alla debole stretta di Gorice e trovò la pagina. I suoi occhi erano appena riusciti a scorgere la parola, quando un vortice di grandine e nevischio entrò nella camera, le candele si spensero, ed i tavoli furono rovesciati. E, nelle tenebre che si avventavano sotto lo schianto del tuono, Gro, cadendo con la testa in avanti, sentì degli artigli che gli afferravano la testa ed il corpo. Gridò la parola, TRIPSARECOPSEM, nell'agonia del panico, poi perse i sensi. Era mezzogiorno quando Lord Gro riprese i sensi in quella camera. L'intensa luce del sole primaverile si riversava attraverso la finestra meridionale, illuminando lo scempio di quella notte. I tavoli erano rovesciati ed il pavimento era cosparso e spruzzato di costose essenze (16) e di terre fuoruscite da fiale, giare e cofanetti infranti: si trattava di afroselmia, oroconchiglia, oro-zafferano, asem, allume, strypteria di Melos mescolata con mandragora, vimini ardens, cloruro d'ammonio, divorante acqua regia, piccole polle e sferette sparse di mercurio, velenosi decotti di funghi e di bacche di tasso, aconito, stramonio, napello ed elleboro nero, quintessenze di sangue di drago e bile di serpente; e con questi, mescolati assieme e sciupati per sempre, degli elisir che molti Veggenti avevano continuato a sognare fino alla morte: lo spiritus mundi, quel solvente universale che dissolve qualsiasi sostanza vi viene immersa, e l'aurum potabile (1)), che essendo esso stesso perfetto, induce la perfezione nelle forme viventi. E, in quel guazzabuglio di tesori rovinati, c'erano i grandi libri di Magia
scaraventati in mezzo a quella confusione di storte, aludelli di vetro e di piombo e d'argento, bagni a sabbia, matracci, spatole, athanor, ed altri innumerevoli strumenti di forme bizzarre (18), sparsi ed infranti sul pavimento della camera. La sedia del Re era spinta contro la fornace e, rannicchiato accanto al tavolo, giaceva Gorice, con la testa reclinata all'indietro e la barba nera puntata verso l'alto, a rivelare il suo collo muscoloso ed irsuto. Gro lo esaminò da vicino; vide che sembrava illeso ma profondamente addormentato; e così, ben sapendo che il sonno è un rimedio efficace per ogni male, rimase a vegliare sul Re in silenzio per tutto il giorno fino all'ora di cena, nonostante fosse dolorante ed affamato. Quando finalmente si svegliò, il Re si guardò intorno stupefatto. «Credevo di essere giunto all'ultima tappa del viaggio di questa notte,» disse. «Qualcosa di veramente strano e terribile ha lasciato il suo segno nella mia camera.» «Signore,» rispose Gro, «sono stato duramente provato; ma ho ubbidito ai tuoi ordini.» Il Re rise come chi si sente tranquillo e, alzandosi in piedi, disse a Gro: «Prendi la Corona di Witchland ed incoronami! Questo alto onore ti tocca, poiché io ti amo per ciò che hai fatto questa notte.» Fuori, riuniti nella corte, c'erano i Signori di Witchland, diretti alla grande sala dei banchetti per bere e mangiare. Il Re, abbigliato nella sua veste di Mago, li raggiunse uscendo dalla porta inferiore del Maschio. Le gemme della corona di ferro di Witchland scintillavano mirabilmente sopra l'ampia fronte, gli zigomi pronunciati, e sul labbro fiero e sdegnoso del Re, mentre stava là, immobile nella sua maestà, e Gro con la Guardia d'Onore era fermo nell'ombra della porta. «Miei Signori Corund, Corsus, Corinius e Gallandus,» disse il Re. «E voi figli di Corsus e Corund, e Voialtre Streghe, ecco il vostro Re, il Dodicesimo Gorice, incoronato con questa corona di Carce per essere Re di Witchland e Demonland. E tutti i paesi del mondo ed i loro governanti, tutti quelli sui quali il sole riversa i suoi raggi, mi dovranno obbedienza, e mi chiameranno Re e Signore.» Tutti acclamarono, rendendo lode al Re ed inchinandosi davanti a lui. «Non pensiate,» disse il Re, «che i giuramenti fatti ai Demoni da Gorice XI - il cui ricordo sarà sempre glorioso - mi vincolino minimamente. Io non sarò mai in pace con quel Juss e con i suoi fratelli: li considero tutti quanti miei nemici. E, la notte scorsa, ho evocato qualcuno che li trascine-
rà in acque deserte mentre navigano in direzione della montuosa Demonland.» «Signore,» disse Corund, «le tue parole sono come vino dentro di noi. Avevamo compreso che i Sovrani della Tenebre erano in marcia ieri notte, vedendo che l'intera Carce vacillava e le sue fondamenta si sollevavano e si abbassavano come il petto di una titanica creatura della terra che stia respirando.» Quando furono entrati nella sala dei banchetti, il Re disse: «Gro siederà alla mia destra stanotte, perché mi ha servito con sprezzo del pericolo.» E, quando i Signori si accigliarono nell'udire quelle parole, e mormorarono l'uno nell'orecchio dell'altro, il Re aggiunse: «Chi fra di voi mi servirà e contribuirà alla crescita di Witchland come ha fatto Gro ieri notte, riceverà da me il medesimo onore.» Poi, rivolto a Gro, aggiunse: «Ti porterò a Goblinland in trionfo, tu che la lasciasti per andare in esilio. Caccerò Gaslark da quel trono, e ti nominerò Re a Zaje Zaculo, e tutta Goblinland sarà un mio feudo che tu governerai, da sovrano assoluto.» V. IL MESSO DI RE GORICE Di Re Gaslark, e dell'arrivo del Messo dai Demoni in mare aperto; e di come Lord Juss su istigazione dei suoi compagni fu indotto ad una sconsiderata imprudenza. La mattina successiva alla notte in cui Re Gorice XII fu incoronato a Carce com'è stato detto, Gaslark stava navigando da est diretto a casa. Aveva sette navi da guerra, che avanzavano in fila verso sud-ovest col vento che le spingeva a tribordo. La nave più grande e bella era quella che si trovava in testa, un'enorme drakkar dipinto dell'azzurro del mare estivo con la torreggiante testa di drago, rivestita d'oro con scaglie sovrapposte, che lanciava la sua sfida dalla prua della nave, e con la coda che si protendeva a poppa. Settantacinque uomini scelti di Goblinland viaggiavano su quella nave, abbigliati con vistose tuniche (1) e cotte di maglia, armati di asce, lance e spade. I loro scudi, ognuno col proprio stemma, pendevano dai parapetti. Re Gaslark stava a poppa, con le robuste mani strette alla grossa barra del
timone. Erano di aspetto attraente e ben fatti tutti i Goblin che viaggiavano su quella grande nave, eppure Gaslark li superava tutti per avvenenza, vigore e regalità. Indossava una tunica di seta di porpora di Tiro. (2) Larghi braccialetti d'oro intrecciato erano ai suoi polsi. Era bruno di carnagione come uno che viveva tutti i suoi giorni sotto i raggi del sole: di lineamenti marcati, aveva il naso un po' aquilino, occhi grandi, denti bianchi e neri baffi arricciati. Non c'era nulla di tranquillo nel suo aspetto e nel suo portamento, ma solo temerarietà e fuoco impetuoso; ed era selvaggio a vedersi, agile e bello come un cervo in autunno. Teshmar, che era il Comandante della sua nave, stava accanto a lui. «Non è uno dei tre spettacoli più splendidi del mondo?», disse Gaslark. «Una bella nave che solca le rapide onde del mare come una stupenda regina, disperdendo davanti alla sua prua le creste delle onde in una pioggia scintillante?» «Sì, Signore,» rispose l'altro; «e quali sono gli altri due?» «Uno è quello che, con grande sventura, ho perso, e del quale abbiamo avuto notizia soltanto ieri: uno scontro fra due grandi Campioni, ed una vittoria come quella che Lord Goldry ha ottenuto su quel vanaglorioso tiranno.» «Il terzo lo si vedrà, credo,» disse Teshmar, «quando Lord Goldry Bluszco nel tuo Palazzo Reale di Zaje Zaculo, in mezzo al fasto ed alla gioia, sposerà la giovane Principessa tua cugina: è un uomo assai fortunato, visto che sarà signore di colei che tutti, anche i critici più severi, considerano l'ornamento della terra, il modello del Paradiso, e la regina della bellezza.» «Che gli Dei benevoli facciano venire in fretta quel giorno,» disse Gaslark. «Perché è davvero una dolcissima ragazza, e quei nostri parenti di Demonland sono dei carissimi amici. Senza il loro decisivo e continuo sostegno in passato, Teshmar, dove sarei oggi e dove sarebbe il mio regno, e tu, e tutti voi?» La fronte del Re si oscurò un poco, mentre rifletteva. Dopo una pausa riprese a dire: «Devo portare a termine qualche impresa memorabile: gli insignificanti saccheggi, i bottini di Nevria, la caccia ai neri Esamociani, sono semplici giochi che non si addicono al nostro grande nome ed alla nostra fama fra le nazioni. Vorrei fare qualcosa che sconvolga e meravigli il mondo proprio come fecero i Demoni quando purificarono la terra dai Ghoul, prima di scivolare nell'oblio.» Teshmar stava fissando l'orizzonte meridionale. Ad un certo punto, indicò con la mano: «C'è una grande nave laggiù, mio Re. E mi sembra di a-
spetto strano.» Gaslark la osservò attentamente per un istante, poi subito manovrò il timone e fece rotta verso di essa. Non parlò più, e continuò a fissare la nave notando, a mano a mano che la distanza diminuiva, altri particolari. La vela di seta pendeva dal pennone, ridotta a brandelli; l'imbarcazione avanzava spinta debolmente dai remi, come uno che si muove a tastoni nel buio, con forza appena sufficiente a impedirle di derivare verso poppa spinta dal vento. Indugiava sul mare, come uno istupidito da un colpo, incerta su dove si trovasse il porto ο su quale rotta prendere. Dava l'impressione di una cosa che fosse stata tenuta sospesa sulla fiamma di una mostruosa candela, bruciacchiata ed annerita dalla fuliggine. La sua magnifica polena era distrutta, come distrutto era il castello di prua, e le assi scolpite della poppa erano bruciate e frantumate assieme ai bei sedili che vi si trovavano. Imbarcava acqua, per cui almeno una ventina degli uomini della ciurma dovevano essere ancora impegnati a sgottare per tenerla a galla. Dei suoi cinquanta remi, metà erano spezzati ο persi alla deriva, e molti dei rematori giacevano feriti - ed alcuni morti - sotto le traversine. Re Gaslark si accorse, mentre si avvicinava, che c'era Lord Juss al timone sulla poppa devastata e, accanto a lui, Spitfire e Brandoch Daha. Le loro armi ingioiellate, gli abiti ed i ricchi ornamenti erano neri di una fuliggine puzzolente, ed era come se lo stupore, l'angoscia e la rabbia, fossero così celati e mescolati dentro di essi che nessuno di quei sentimenti riuscisse ad affermarsi sugli altri ed a manifestarsi sui loro lineamenti irrigiditi. Quando si trovarono a distanza di voce, Gaslark li chiamò. Ma quelli non risposero, limitandosi a fissarlo con occhi estranei. Fecero però fermare la nave, ed allora Gaslark l'affiancò, salì a bordo, poi raggiunse la poppa e li salutò. «Mi fa piacere incontrarvi, anche se in un'occasione non certo lieta. Cos'è accaduto?» Lord Juss parve sul punto di parlare, ma non pronunciò alcuna parola. Si limitò a stringere entrambe le mani di Gaslark e, con un forte gemito, si sedette sulla poppa, voltando la faccia. Gaslark lo sollecitò: «Juss, molte volte hai sopportato una parte delle mie sventure e mi hai dato una mano. Non posso adesso sopportare una parte delle tue?» Ma Juss rispose con una voce roca e strana, che non sembrava la sua: «Le mie, dici, Gaslark? Cos'è davvero mio in questo mondo, se in un attimo mi è stato strappato il mio amato fratello, il mio braccio, il baluardo principale del mio Regno?» E proruppe in un pianto accorato. Gli anelli di Re Gaslark furono spinti nella carne delle sue dita dalla
stretta delle forti mani di Juss. Ma egli si rese appena conto del dolore, tale era l'agonia della sua mente per la perdita dell'amico, e per l'amarezza e la meraviglia che provava nel vedere quei tre grandi Signori di Demonland che piangevano come delle donnicciole spaventate, mentre tutti i veterani della ciurma superstite, piangevano e gemevano vicino a loro. Gaslark allora comprese che le loro anime nobili dovevano essere rimaste sconvolte a causa di qualche fatto spaventoso, le cui conseguenze rovinose i suoi occhi stavano osservando con grandissima afflizione, mentre i particolari gli erano ancora oscuri, come un qualcosa di terribile nel buio che avrebbe potuto fargli tremare il cuore. Alla fine, dopo aver fatto molte domande, fu informato di ciò che era accaduto. Il giorno prima, a mezzogiorno, su un mare assolutamente calmo, era stato udito un rumore come di un battito d'ali spiegate che riempiva tutto il cielo e, in un attimo, il mare calmo si era sollevato ed era ricaduto, poi aveva cominciato ad agitarsi ed a ruggire: ma la nave non era affondata. C'era stato un tumulto, intorno a loro, di tuoni, acque infuriate, tenebre e lampi notturni; un tumulto che di lì a poco era passato, portandosi via le tenebre, e lasciando il mare solitario fin dove lo sguardo riusciva ad arrivare. «È assolutamente certo,» disse Juss, «che si trattava di qualcosa mandato da Re Gorice XII, del quale i Profeti avevano parlato come di un grande esperto in Negromanzia, superiore a chiunque altro questo mondo abbia mai visto. E questa è la sua vendetta per il dolore che abbiamo causato a Witchland nelle Isole Foliot. Contro un pericolo del genere mi ero premunito con degli amuleti fatti di pietra alettoria (3), che si sviluppa nel ventre di un gallo nato in una notte senza luna quando Saturno splende in un Segno zodiacale umano ed il Signore della Terra Casa si trova nell'Ascendente. Sono questi che ci hanno salvati dalla distruzione, anche se siamo contusi e doloranti: tutti tranne Goldry. Lui, per qualche maledetta coincidenza, ha forse dimenticato di portare con sé l'amuleto che gli avevo dato, oppure la catena gli si sarà spezzata mentre la nave veniva sballottata, oppure è andato perduto per qualche altra ragione: quando è tornata la luce del giorno, eravamo solo in tre su questa poppa dove prima eravamo in quattro. Non so altro.» «Gaslark,» disse Spitfire, «nostro fratello è stato rapito: non ci resta che trovarlo e liberarlo.» Ma Juss gemette e disse: «Sotto quale stella dell'irraggiungibile cielo vuoi cominciare la nostra ricerca? Ο in quale delle misteriose correnti
dell'oceano dove gli ultimi raggi si dileguano nelle tenebre melmose?» Gaslark rimase silenzioso per un po', poi disse: «Ritengo che la cosa più probabile sia che Gorice abbia fatto portare Goldry Bluszco a Carce, dove lo tiene segregato. E là dobbiamo andare immediatamente per salvarlo.» Juss non rispose, ma Gaslark gli afferrò una mano, dicendo: ««L'antico affetto che ci lega e l'aiuto che spesso ci avete dato nei giorni passati, rende anche mia questa guerra. Ascolta il mio consiglio! Mentre navigavo verso est attraverso lo Stretto di Rinath, vidi una potente flotta di quaranta navi, dirette a est verso il Mare Beshtriano. Fu un bene che non ci avvistarono mentre ci trovavamo in prossimità delle Isole di Ellien nel buio della sera. Infatti, toccando più tardi Norvasp in Pixyland, apprendemmo che di là era passato Laxus con l'intera flotta di Witchland, evidentemente intenzionato a compiere qualche malefatta nei confronti delle pacifiche città della costa beshtriana. Se io e le mie sette navi avessimo incontrato quei maledetti in alto mare e con quello spiegamento di forze, sarebbe stato come un'antilope che s'imbatte in un leone affamato. Ma adesso, guarda com'è spalancata la porta dei nostri desideri. Laxus e quella grande flotta stanno razziando ad est. Mi domando se in questo momento ci sono più di centottanta ο duecento soldati a Carce. Qui ho circa cinquecento dei miei uomini. Mai si è verificata un'opportunità più favorevole per cogliere Witchland con gli artigli sotto il tavolo, e noi possiamo graffiar abbondantemente la faccia prima che riesca a tirarli fuori.» Gaslark rise per la gioia della battaglia imminente, e gridò: «Juss, non ti sorride questo mio consiglio?» «Gaslark,» disse Lord Juss, «hai fatto la tua nobile offerta con quel coraggio e quella generosità che ho sempre amato in te. Eppure, Witchland non potrà essere sopraffatta così, ma solo dopo lunghi giorni di fatica, e dopo aver approntato piani, costruito navi e raccolto un contingente di uomini paragonabile a quello che guidammo contro i Ghoul quando li distruggemmo.» E, nonostante tutti i suoi incitamenti, Gaslark non riuscì a smuoverlo di un pollice. Spitfire si sedette allora accanto al fratello e gli disse, senza farsi sentire dagli altri: «Fratello, cosa ti affligge? Tutto il coraggio e la rapidità di agire sono stati spremuti da Demonland, e ci resta solo l'inutile buccia? Sei chiaramente diverso dall'uomo che conoscevo e, se Witchland potesse osservarci in questo momento, penserebbe che siamo in preda ad una vile paura, vedendo che con un vantaggio di forze fortunatamente così a nostro favo-
re, indietreggiamo senza sferrare il colpo.» Juss disse nell'orecchio di Spitfire: «Il fatto è che io dubito della risolutezza dei Goblin. La fiamma subitanea del loro ardimento è troppo simile ad un fuoco di foglie morte: è una cosa troppo misera su cui contare se viene messa alla prova. Reputo sciocco confidare in loro per il nostro tentativo di assalire Carce. Inoltre, è solo una fantasia azzardata che Goldry sia stato trasportato là.» Ma Spitfire balzò in piedi imprecando, e gridò: «Gaslark, farai meglio a tornare a casa. Noi ci recheremo a Carce alla luce del sole, e chiederemo udienza al grande Re, supplicandolo di lasciarci baciare le dita dei suoi piedi, riconoscendo lui come nostro Re e noi come suoi figli irritabili e disobbedienti. In tal modo, probabilmente, dopo averci rimproverati ci restituirà nostro fratello, e forse avrà la bontà di rimandarci a Demonland, in modo che potremo servire e adulare Corsus ο lo spregevole Corinius, ο chiunque altro deciderà di inviare a Galing come suo Viceré. Perché con Goldry se n'è andata via da Demonland tutta la virilità, e siamo rimasti solo noi: delle donnicciole meritevoli solo di scherno e disprezzo!» Mentre Spitfire parlava con tanta collera e pena nel cuore, Lord Brandoch Daha vagava avanti e indietro sulla passerella, come una pantera in gabbia quando l'ora del pasto è passata da un pezzo. E, di tanto in tanto, batteva la mano sull'elsa della sua spada lunga e luccicante e la scuoteva nel fodero, facendola tintinnare. Infine, torreggiando su Gaslark, e guardandolo con occhi canzonatori, «Gaslark,» disse, «ciò che è accaduto provoca dentro di me un turbamento crudele che mi deprime, suscita una tempesta nella mia mente, induce il mio corpo alla malinconia, e mi porta sull'orlo della follia (4). L'unico rimedio per questo è combattere. Quindi, se tu provi affetto per me, Gaslark, impugna la spada e mettiti in guardia. Devo combattere, altrimenti questa furia mi ucciderà. Mi duole dover puntare la spada contro un amico, ma dal momento che non c'è la possibilità di combattere contro i nostri nemici, quale scelta ci resta?» Gaslark scoppiò a ridere e lo afferrò scherzosamente per le braccia, dicendo: «Non mi batterò con te, per quanto tu me lo chieda con gentilezza, Brandoch Daha, che salvasti Goblinland dalle Streghe». Ma immediatamente riassunse un'espressione grave e disse a Juss: «Juss, ascolta il mio consiglio. Tu vedi che temperamento hanno i tuoi amici. Siamo tutti come dei cani che danno strattoni al guinzaglio per essere liberati contro Carce in questo momento favorevole, che probabilmente non si verificherà più.»
Quando Lord Juss comprese che erano tutti contro di lui, e più che propensi a compiere quel tentativo, sorrise sdegnosamente e disse: «Fratello mio, amici, sembrate echi e zampogne che danno l'impressione di agguantare la saggezza imitandone la voce! Ma siete matti da legare, tutti quanti, e anch'io. In primo luogo, rompere il ghiaccio ne farebbe crollare ancora di più. E certo non mi preoccupo molto per la mia vita ora che Goldry non è più con me. Estraiamo a sorte, allora, chi di noi tre tornerà a Demonland con questa nave, che ormai è solo un'anatra zoppa. E colui sul quale ricadrà la scelta, dovrà tornare a casa per organizzare la costruzione di una potente flotta e l'approntamento di un esercito ben armato che porterà avanti la nostra guerra contro le Streghe.» Così parlò Lord Juss, e quelli che solo un'ora prima si erano sentiti in una condizione che non lasciava loro alcuna speranza di recupero né di vita, si sentirono come sollevati in preda ad una sorta di ebbrezza, e pensarono soltanto alla gioia di combattere. I Signori di Demonland gettarono quindi ognuno il proprio Sigillo nell'elmo di Gaslark, e questi lo agitò estraendone il Sigillo di Lord Spitfire, che rimase molto contrariato. Allora i Signori di Demonland si tolsero le armature ed i ricchi abiti che erano neri di fuliggine, e li fecero pulire. Sessanta dei loro soldati che non erano stati ustionati dal Messo di Witchland, salirono a bordo di una delle navi di Gaslark, e la ciurma di quella nave divenne l'equipaggio della nave di Demonland. Spitfire prese la barra del timone, e i Demoni feriti si portarono nella stiva svuotata della nave. Fu recuperata una vela di riserva ed issata al posto di quella che era andata distrutta; così, con evidente mestizia ma con espressione allegra, Lord Spitfire fece rotta verso ovest. Gaslark si sedette accanto alla barra del timone del suo bellissimo drakkar, e vicino a lui presero posto Lord Juss e Lord Brandoch Daha, il quale ultimo era come un destriero impaziente di andare in battaglia. La prua della nave ruotò verso nord, e poi verso est, e la sua vela ricamata di iris strattonò l'albero maestro e si riempì del vento di nordovest. Le altre sei navi veleggiarono dietro di essa in fila, con le vele bianche spiegate, cavalcando maestosamente le onde. VI. GLI ARTIGLI DI WITCHLAND Del tentativo notturno guidato da Gaslark, di assalire Carce, di come egli si comportò
là dentro, e della strenua resistenza di Lord Juss e Lord Brandoch Daha. La sera del terzo giorno, quando giunsero in vista della costa di Witchland, ammainarono le vele ed attesero la notte, per poter approdare nel buio; anche se era improbabile che il Re avesse saputo dei loro movimento. Il loro piano era di tirare a riva le navi sulla spiaggia solitaria qualche lega a nord di Tenemos, dalla quale c'erano soltanto due ore di marcia attraverso la palude fino a Carce. Così, quando il sole fu tramontato e calò il buio, avvolsero degli stracci intorno ai remi e remarono silenziosamente fino alla bassa riva che sembrava stranamente vicina nelle tenebre, ma che dava anche l'impressione di allontanarsi e mantenersi sempre alla stessa distanza mentre si avvicinavano. Giunti finalmente a riva, tirarono le imbarcazioni sulla spiaggia. Lasciarono di guardia una cinquantina di uomini, mentre gli altri prendevano le armi. Quando si furono schierati, marciarono sulle dune diretti nell'entroterra e sulla vasta palude; poi, vedendo che la maggior parte di loro era di Goblinland, Juss, Brandoch Daha e Gaslark, convennero che bisognava lasciare a quest'ultimo il comando di quell'operazione. Si mossero silenziosi attraverso gli acquitrini, che erano abbastanza compatti da potervi marciare, a patto che lo si facesse con circospezione, aggirando le torbiere più insidiose e i laghetti che erano disseminati un po' dappertutto. Questo perché il tempo era stato clemente per diversi giorni, e non si era aggiunta nuova acqua alla palude. Ma, mentre si stavano avvicinando a Carce, il tempo peggiorò e cominciò a cadere una pioggia sottile. Sebbene non fosse proprio confortevole camminare nell'oscurità piovigginosa verso quella fortezza dal nome infausto, tuttavia, Lord Juss, fu grato alla pioggia, dal momento che favoriva la sorpresa, sulla quale si fondavano tutte le loro speranze. A mezzanotte circa si fermarono, quando erano più ο meno a quattrocento passi dalle mura più esterne di Carce, che si profilava spettrale attraverso la cortina d'acqua, e silenziosa come se fosse stata la tomba nella quale giacevano le spoglie mortali di Witchland, piuttosto che il ricettacolo fortificato in cui era in attesa un Potere così grande. La vista di quella massa poderosa rintanata nell'ombra ed immersa nella pioggia, accese il fuoco della battaglia nel petto di Gaslark: gli sarebbe piaciuto raggiungere immediatamente le mura con tutti gli uomini che lo
seguivano, e girare intorno ad esse in cerca di un punto attraverso il quale penetrare nell'interno e prendere possesso di quel luogo. Per cui non volle ascoltare il consiglio di Lord Juss, che avrebbe voluto mandare delle pattuglie che individuassero un punto adatto all'assalto e tornassero indietro a riferire prima di far avanzare l'intero contingente. «Stai certo,» disse Gaslark, «che là dentro sono tutti frastornati e ubriachi, dopo tre notti di bevute per festeggiare il trionfo ottenuto dal Messo del Re, e questa notte ci deve essere solo una sorveglianza svogliata. Chi mai, hanno pensato, potrebbe attaccare Carce ora che il potere di Demonland è ridotto in pezzi? I disprezzati Goblin? Un gesto degno solo di risate e derisione. Ma la tua avanguardia potrebbe metterli in allarme prima che il grosso dei nostri uomini possa approfittare dell'occasione. No, come i Ghoul in quell'infausto giorno, avventandosi all'improvviso su di me a Zaje Zaculo, presero il mio palazzo prima ancora che fossimo consapevoli del loro arrivo, così noi prenderemo la Fortezza di Carce. E, se temi una sortita, io invece la desidero caldamente. Infatti, se aprono la porta, saremo in grado di fare irruzione indipendentemente da quanti di loro sono là dentro.» Juss non fu convinto da questo ragionamento ma, per uno strano languore che ancora gli ottundeva la mente, non contraddisse Gaslark. Così, furtivamente, si avvicinarono strisciando alle poderose mura di Carce. La pioggia cadeva ancora leggera, i cipressi nel cortile più esterno trattenevano il respiro, e le mura di marmo nero del castello addormentato erano inespressive, mute ed abbandonate. Una cupa tenebra gravava su tutto. Gaslark girò intorno alle mura, verso nord, perché non c'era alcun passaggio fra le alte mura ed il fiume a sud e ad est, ma a nord-est sperava di individuare un punto adatto per penetrare nella fortezza. Alla guida di un centinaio dei suoi uomini più abili, capeggiava la fila, e dietro di lui venivano i Demoni. Il grosso del contingente di Goblin veniva subito dopo, con Teshmar al comando. Si mossero con circospezione, e giunsero sul tratto elevato di terreno che scendeva a nord e ad ovest dal promontorio di Carce fino alla palude. I Goblin erano impazienti ed ebbri per la battaglia imminente, e quelli dell'avanguardia avanzavano con passo rapido, distanziando i Demoni, cosicché Juss fu costretto ad accelerare l'andatura per non perdere il contatto con loro e sbagliare strada. Ma gli uomini di Teshmar ebbero paura di essere lasciati indietro, e lui non riuscì a trattenerli, per cui si portarono fra i Demoni e le mura, con l'intenzione di congiungersi a Gaslark. Juss impre-
cò sottovoce, dicendo: «Guarda la calca disordinata dei Goblin. Saranno ancora una volta la nostra rovina!» Questa era la loro disposizione, e gli uomini di Teshmar si trovavano a non più di venti passi dalle mura quando, subitanei come lampi notturni, dei fuochi si accesero lungo le mura, abbagliando i Goblin e i Demoni, ed illuminandoli intensamente a vantaggio della guarnigione, che cominciò a bersagliarli con lance, frecce e pietre. Nello stesso istante si aprì una porta segreta, dalla quale uscì Lord Corinius con circa centocinquanta vigorosi uomini di Witchland, gridando: «Chi vuole mangiare il granchio di Witchland deve vedersela con le chele prima di spezzare il guscio» e, caricando sul fianco la compagnia di Gaslark, la divise in due. Corinius venne avanti come un folle, agitando un'ascia bipenne con l'impugnatura rivestita di bronzo; e, sebbene gli uomini di Gaslark fossero più numerosi, essi furono talmente presi alla sprovvista e frastornati dall'attacco improvviso di Corinius, che non riuscirono ad opporglisi e cedettero il terreno. Molti rimasero feriti ed alcuni furono uccisi; fra questi Teshmar di Goblinland, Comandante della nave di Gaslark. Aveva cercato di colpire Corinius e lo aveva mancato, così si era trovato sbilanciato in avanti dal colpo; Corinius aveva vibrato l'ascia, che si era abbattuta sul collo del malcapitato staccandogli la testa di netto. Gaslark era arrivato coi migliori dei suoi soldati poco oltre la porta segreta ma, mentre essi si lanciavano nel combattimento, egli si voltò per fronteggiare Corinius, gridando a gran voce ai suoi uomini di radunarsi e di respingere le Streghe all'interno delle mura. Così, quando Gaslark fendette la ressa portandosi in vicinanza di Corinius, colpì quest'ultimo con la lancia, ferendolo ad un braccio. Ma Corinius spezzò l'asta della lancia con la sua ascia, e balzò su Gaslark, ferendolo gravemente alla spalla. Gaslark prese la spada, ed entrambi si assestarono dei colpi che li fecero vacillare, finché Corinius abbatté l'ascia sull'elmo di Gaslark, come uno che colpisce un palo con un mazzuolo. Fu solo grazie all'ottimo elmo che indossava, regalatogli in passato da Lord Juss in segno di affetto e amicizia, che Gaslark si salvò e la sua testa non venne spaccata; infatti l'ascia di Corinius non riuscì a intaccare quell'elmo. Però, a causa di quel forte colpo, Gaslark perse i sensi e crollò al suolo, e la sua caduta gettò nello sgomento quelli di Goblinland. Tutto questo accadde nella prima fase della battaglia, ma i Signori di
Demonland non erano ancora arrivati al corpo a corpo, perché la grande ressa degli uomini di Gaslark si trovava fra loro e le Streghe; ma poi, Juss e Brandoch Daha si fecero avanti coi loro soldati, e raggiunsero Gaslark che giaceva come morto. Juss incaricò un gruppo di Goblin di trasportarlo alle navi, e là fu appunto condotto sano e salvo. Ma le Streghe gridarono che Re Gaslark era stato ucciso e, in quel momento evidentemente stabilito, Corund, che era uscito furtivamente da una porta nascosta sul lato occidentale di Carce con cinquanta uomini, aggredì con violenza i Goblin alle spalle. Questi, arretrando davanti a Corinius ed a Corund, e col cuore angustiato per la presunta uccisione di Gaslark, divennero sempre più incerti e scoraggiati; infatti, nelle tenebre piovigginose non potevano in nessun modo rendersi conto della loro superiorità numerica nei confronti degli uomini di Witchland. Si fecero quindi prendere dal panico cosicché ruppero i ranghi e fuggirono davanti alle Streghe, che li inseguirono caparbiamente, come un ermellino che tallona un coniglio, e li uccisero in gran numero mentre fuggivano da Carce. Solo una sessantina degli uomini di quella valorosa compagnia di Goblin che era venuta con Gaslark per attaccare Carce riuscì ad attraversare gli acquitrini ed a raggiungere le navi, sfuggendo alla totale distruzione. Ma Corund, Corinius ed il grosso dei loro uomini si voltarono per affrontare i Demoni senza ulteriori indugi, e ne sortì una feroce battaglia fra i due gruppi, assordante per il clangore dei loro colpi. Le sorti del combattimento erano adesso chiaramente cambiate data l'estromissione dei Goblin, dal momento che soltanto pochi uomini di Witchland erano caduti, ed erano quattro contro uno rispetto ai Demoni: così li circondarono e li assalirono da tutti i lati. Alcuni li bersagliavano dalle mura, finché un colpo fortuito non sfondò l'elmo di Corund, il quale subito gridò che, quando fosse terminato lo scontro, avrebbe ridotto in polpette quello stupido somaro che aveva effettuato il tiro, mettendo a repentaglio la vita dei suoi stessi compagni. Al che i tiri dalle mura cessarono. La battaglia proseguì spietata e cruenta, perché i Demoni opponevano una strenua resistenza all'assalto delle Streghe, e Lord Brandoch Daha si avventò con impeto su Corund e Corinius. Nessuno di quei due grandi Capitani avrebbe potuto resistergli a lungo, ed entrambi arretravano davanti a Lord Brandoch Daha. Imprecavano l'uno rivolto all'altro e tutti e due furono costretti a porsi in salvo in mezzo alla massa dei loro soldati.
Chiunque avrebbe desiderato assistere alle gesta straordinarie compiute quella notte da Lord Brandoch Daha, che maneggiò la spada con la leggerezza con cui si può maneggiare una bacchetta di salice; ma sulla sua punta c'era la morte. Undici robusti spadaccini di Witchland furono uccisi da lui, ed altri quindici vennero gravemente feriti. Alla fine, Corinius, punto dagli insulti di Corun come da un tafano, e prossimo ad esplodere per la frustrazione e la vergogna che provava a causa della lentezza dei suoi movimenti, balzò su Lord Brandoch Daha come preso dalla follia, e gli indirizzò un poderoso colpo a due mani che sarebbe stato in grado di spaccarlo in due fino al petto. Ma Brandoch Daha evitò il colpo con la destrezza di un martin pescatore che, sorvolando un fiume ombreggiato dagli ontani, evita un ramo, e colpì con la sua spada il polso destro di Corinius. Questi si trovò immediatamente fuori combattimento. Né incontrarono sorte migliore quelli che aggredirono Lord Juss, che li falciò con fendenti ampi e violenti, decapitandone alcuni e tagliandone in due altri, al punto che furono costretti a mantenersi lontani dalla sua lama mulinante. I Demoni combattevano con enorme coraggio ed in condizione di evidente inferiorità nella nebbia piovigginosa e nel riverbero delle luci, finché non furono annientati tutti tranne i loro due Signori, Juss e Brandoch Daha. Re Gorice adesso stava sui bastioni più esterni di Carce, nella sua armatura nera intarsiata d'oro. Vide quei due uomini che combattevano schiena contro schiena, e come le Streghe li accerchiavano senza tuttavia riuscire a prevalere su di loro, e disse a Gro che stava accanto a lui sulle mura: «I miei occhi sono abbagliati (1) dalla nebbia e dalla luce delle torce. Chi sono quei due che riescono a mantenere una così sanguinosa superiorità sui miei guerrieri (2)?» «Mio Re,» rispose Gro, «quei due non possono essere altri che Lord Juss e Lord Brandoch Daha di Krothering.» «Il mio Messo,» disse il Re, «sta tornando senza fretta a casa. Infatti, grazie al mio Potere, intuisco, anche se non ne ho la certezza, che Goldry sia stato catturato da lui; così, finalmente, potrò mettere le mani su colui che odio di più. E costoro, salvati dai loro Incantesimi da un'analoga rovina, sono impazziti al punto di infilarsi nella bocca spalancata della mia vendetta.» Dopo che ebbe osservato ancora un po', il Re sogghignò e disse a Gro: «È incredibile vedere un centinaio dei miei uomini più abili indietreggiare e inchinarsi davanti a quei due. Finora credevo ci fossero spade a
Witchland, e che Corinius e Corund non fossero degli spacconi senza vigore e coraggio, come adesso sembra, dal momento che si rannicchiano come ragazzini presi a vergate davanti alle spade luccicanti di Juss e di quello spregevole accattone di Krothering.» Ma Corinius, che non era più nella mischia ma stava accanto al Re, colmo di rabbia e col polso sanguinante, gridò: «Tu ci giudichi male, ο Re. Sarebbe più giusto lodare la mia abilità nel tendere l'imboscata a questo grosso contingente di nemici e nell'averli massacrati. E, se non ho avuto la meglio su questo Brandoch Daha, la Tua Maestà non deve meravigliarsi, dal momento che uno ben più grande di me, Gorice X, il cui ricordo sarà glorioso per sempre, fu facilmente battuto da lui. In questo posso dire di essere stato più fortunato: ci ho rimesso solo il polso, non la vita. Quei due sono invulnerabili, e nessuna punta ο lama può intaccarli. Non potremo aspettarci nulla di più, finché avremo a che fare con un Mago come questo Juss.» «La verità,» disse il Re, «è che siete solo delle donnicciole! Ma ne ho abbastanza di questo interludio: facciamolo finire immediatamente!» Al che il Re chiamò a sé il vecchio Duca Corsus, ordinandogli di prendere delle reti per catturare i Demoni. E Corsus, avvicinandosi con le reti, solo grazie alla superiorità numerica e dopo la morte di una ventina di Streghe, riuscì a portare a termine l'incarico. Lord Juss e Lord Brandoch Daha furono intrappolati nelle reti, avvolti come bruchi nei loro bozzoli e trasportati all'interno di Carce. Qui vennero scaraventati rumorosamente a terra, e le Streghe si rallegrarono per avere finalmente nelle loro mani, privi di sensi, quei due valorosi combattenti. Ma Corund ed i suoi uomini erano completamente esausti, e dovettero stendersi a terra per la stanchezza. Quando furono portati dentro Carce, il Re mandò degli uomini in perlustrazione con le torce e fece portare dentro quelli di Witchland che giacevano feriti davanti alle mura; e tutti i Demoni e i Goblin nei quali s'imbatterono per caso, furono passati a fil di spada. Lord Juss e Lord Brandoch Daha, sempre strettamente avvolti nelle reti, furono gettati in un angolo del cortile interno del palazzo come due balle di merce danneggiata, ed una guardia fu posta a sorvegliarli fino al mattino. Mentre stavano per andare a dormire, i Signori di Witchland videro verso est, in prossimità del mare, un bagliore rosso, e delle lingue di fuoco che divampavano nella notte. Corinius disse a Lord Gro: «Guarda, i tuoi Goblin hanno bruciato le loro navi, per timore che noi possiamo seguirli mentre fuggono vergognosamente verso casa con la nave che hanno evita-
to di bruciare. Una sola nave è sufficiente: la maggior parte di loro sono morti.» E Corinius s'incamminò, insonnolito, per andare a letto, fermandosi lungo il cammino per assestare un calcio a Lord Brandoch Daha, che giaceva completamente avvolto nella rete, impotente ed impossibilitato a reagire. VII. OSPITI DEL RE A CARCE Delle due sale di banchetti che erano a Carce l'antica e la nuova - e dell'intrattenimento dato da Re Gorice XII in una sala per Lord Juss e Lord Brandoch Daha e nell'altra per il Principe La Fireez; e del loro congedo quando il banchetto terminò. Il giorno successivo alla battaglia si levò una splendida alba su Carce. Gli uomini indugiarono a lungo nel letto dopo quel duro combattimento e, finché il sole non fu alto, niente si mosse davanti alle mura. Ma, a mezzogiorno circa, uscì un drappello mandato da Re Gorice per portare dentro i cadaveri; furono presi i corpi degli uomini uccisi e adagiati in una fossa scavata sull'argine destro del fiume Druima, mezzo miglio sotto Carce: Streghe, Demoni e Goblin furono messi in un'unica fossa tutti assieme, e sopra di essi venne eretto un grande tumulo. Il calore del sole adesso era intenso, ma l'ombra dell'enorme fortezza si proiettava ancora sulla terrazza all'esterno del muro ovest del palazzo. Quella terrazza era fresca e tranquilla, pavimentata con lastre di diaspro rosso, asplenio (1), assafetida (2), lividi funghi velenosi e dracene, mentre delle ipomee dall'odore pungente crescevano nelle connessure. Sul margine esterno della terrazza c'erano dei cespugli di tuia (3) piantati in fila, tozzi e rotondi come ghiri dormienti, con dei ciuffi di aconito fra di essi. Da nord a sud, la terrazza era lunga molte centinaia di piedi e, da entrambi i lati, una scalinata di marmo nero conduceva giù al livello del cortile interno e delle mura merlate. Massicce panchine di diaspro verde, con sopra dei cuscini di velluto multicolori, erano sistemate contro il muro del palazzo rivolto a ovest, e sulla panchina più vicina alla Torre di Ferro stava tranquillamente seduta una Dama, che mangiava cialde alla crema e una torta di cotogne (4) servite dalle vallette in piatti di oro pallido per il suo pasto mattutino.
La Dama era alta e snella, ed in lei la bellezza dimorava come la luce del sole dimora nel suolo rossiccio e nei tronchi grigio-verdi di un bosco di faggi all'inizio della primavera. I suoi capelli color bronzo erano raccolti in larghe ciocche tenute ferme da grossi spilloni d'argento, le cui teste erano diamanti anachiti. La gonna era di tessuto argenteo con un ricamo di seta nera completamente ornato di piccole pietre di luna e, sopra di essa, indossava una mantella di raso decorato color ala di colombaccio, intrecciata e ricoperta di fili d'argento. Aveva la carnagione pallida e la grazia di un'antilope. I suoi occhi erano verdi e scintillanti di giallo. Mangiò con delicatezza la torta e le cialde, sorseggiando di tanto in tanto da un calice d'ambra cesellato del freddo vino bianco proveniente dalle cantine di Carce, mentre una giovinetta seduta ai suoi piedi suonava un liuto a sette corde, cantando dolcemente questa canzone: Non chiedermi più dove Giove ha posato La rosa vizza quando giugno è andato; Perché nello splendor delle tue forme, Com'è suo vezzo questo fiore dorme. Non chiedermi più dove vanno in tanti Del giorno i bei frammenti luccicanti; Perché il cielo creò questi granella Per puro amore, per i tuoi capelli. Non chiedermi più dove si porta in volo, Quando maggio se n'è andato, l'usignolo; Perché nella tua gola dolce e calda Esso sverna e il suo canto riscalda. Non chiedermi più dove luccicano le stelle, Che nel profondo della notte van giù, belle; Perché dentro i tuoi occhi esse stanno, E come nel loro cielo fisse si fanno. Non chiedermi più se ad est ο a ponente Fa la Fenice quel suo nido aulente; Perché alla fine vola sul tuo cuore, E sul bel seno tuo fragrante muore. «Basta,» disse la Dama; «la tua voce stamane è rauca. Non riesci a trovare nessuno qui in giro che possa dirmi cosa è accaduto ieri sera? Ο stanno facendo tutti come il mio Signore, che sta ancora dormendo come se
tutti i papaveri dei giardini di questo mondo stessero soffiando il sonno intorno alla sua testa?» «Uno sta arrivando, Signora,» disse la damigella. «Lord Gro...», constatò la Dama. «Lui può mettermi al corrente. Ha partecipato al combattimento della scorsa notte, che, a quanto pare, è stato una vera meraviglia.» Di lì a poco, Gro apparve sulla terrazza da nord, vestito con un mantello di velluto color bruno grigiastro dal colletto bordato di fili d'argento intrecciati; e la sua barba nera, lunga e ricciuta, era profumata di essenze di fiori d'arancio ed angelica. Quando si furono scambiati i saluti, e la Dama ebbe ordinato alle sue ancelle di allontanarsi, ella disse: «Mio Signore, ho sete di notizie. Raccontami tutto ciò che è accaduto a partire dal calar del sole. Perché ho dormito profondamente fino a che i raggi della luce del mattino non sono entrati dalle finestre della mia camera, e mi sono svegliata da un sogno pieno di fanfare che suonavano per l'assalto, di torce nella notte, e di allarmi notturni. E c'erano torce, infatti, nella mia camera, che illuminavano il mio Signore nel letto, il quale non mi ha detto alcuna parola ma è caduto immediatamente addormentato come per una totale stanchezza. Aveva alcuni graffi lievi, ma per il resto era illeso. Non ho voluto svegliarlo, perché il sonno è un balsamo; inoltre, non è piacevole avere a che fare con lui quando lo si sveglia in quel modo. Ma le chiacchiere e le confuse congetture dei servi, come sempre evocano le cose più meravigliose: che a Tenemos è sbarcato un grande esercito di Demonland, che sono stati tutti messi in fuga la notte scorsa dal mio Signore e da Corinius, e che Goldry Bluszco è stato ucciso in un duello dal Re. Ο anche che Juss ha gettato un Incantesimo su Laxus e su tutta la nostra flotta, facendoli navigare come parricidi contro questa terra, con Juss e gli altri Demoni alla loro guida; e che sono stati uccisi tutti tranne Laxus e Goldry Bluszco, ma che questi sono stati condotti prigionieri a Carce, impazziti e con la bava alla bocca, e che Corinius è morto in seguito alle ferite dopo aver ucciso Brandoch Daha. Ο anche, ma ciò è assurdo,» e i suoi occhi verdi s'illuminarono di una luce pericolosa, «che era mio fratello ribellatosi per strappare Pixyland alla sovranità di Gorice, che si era unito a Gaslark a quello scopo, e che il loro esercito era stato sconfitto ed entrambi erano stati fatti prigionieri.» Gro scoppiò a ridere e disse: «Mia Lady Prezmyra, certo la verità si presenta sotto ben strane fogge quando cavalca i manici delle scope attraverso i Palazzi dei Re. Ma qualcosa di lei comunque ti è stato mostrato, se con-
cludi che fra il calare ed il sorgere del sole ha avuto origine un evento che ha fatto vacillare il mondo, e che la potenza di Witchland questa notte è fiorita in una gloria immensa.» «Dici parole grosse, mio Signore,» osservò la Dama. «C'entrano i Demoni in tutto questo?» «Sì, Signora,» fu la risposta. «Sono stati veramente sconfitti? Ed uccisi?» «Tutti tranne Juss e Brandoch Daha, che sono stati catturati,» specificò Gro. «È stato merito del mio Signore?», chiese lei. «In gran parte: ne sono convinto!», disse Gro. «Anche se Corinius rivendica a sé, come sempre, il merito principale.» «Quello rivendica troppo!», borbottò Prezmyra. «Non c'era nessun altro tranne i Demoni?» Gro, intuendo ciò che la donna stava pensando, sorrise e rispose: «Signora, c'erano le Streghe!» «Mio Lord Gro,» gridò lei, «fai male a prendermi in giro. Tu sei mio amico. Sai che il Principe mio fratello è orgoglioso ed incline alla collera, e sai che non sopporta di dover sottostare a Witchland, Sai ciò che accadde parecchio tempo fa, quando dovette portare il primo tributo al Re.» I grandi occhi bovini di Gro erano dolci mentre guardava Lady Prezmyra, e diceva: «È più che certo che sono tuo amico, Signora. Forse, se dobbiamo dire la verità, tu ed il tuo Signore siete gli unici veri amici che ho a Witchland. Voi due, e il Re; ma chi può dormire tranquillo nelle grazie dei Re? Ah, Signore, nessuno di Pixyland ha partecipato alla battaglia di ieri notte. Per cui, tranquillizzati pure! Il mio unico incarico è stato quello di restare accanto al Re sui bastioni, e di sorridere mentre Corinius ed i nostri armigeri facevano strage di quattro ο cinquecento uomini della mia terra.» Prezmyra trattenne il fiato e restò silenziosa per un momento. Poi disse: «Gaslark?» «Il grosso degli uomini erano suoi, a quanto pare,» rispose Lord Gro. «Corinius pretende di averlo ucciso, e di certo è stato lui ad abbatterlo. Ma sono stato segretamente informato che non era fra i cadaveri raccolti questa mattina.» «Mio Signore,» disse lei, «il mio desiderio di notizie si disseta mentre tu sei digiuno. Portate del cibo e del vino per Lord Gro!» A quell'ordine, due damigelle corsero e tornarono con del vino dorato scintillante in una cop-
pa, ed un piatto di lamprede in salsa «hippocras» (5). Allora Gro si sedette sulla panchina di diaspro e, mentre mangiava e beveva, raccontò a Lady Prezmyra gli avvenimenti notturni. Quando ebbe terminato, la donna disse: «Cosa ne ha fatto il Re, di quei due: Lord Juss e Lord Brandoch Daha?» Gro rispose: «Li ha fatti condurre nella vecchia sala dei banchetti nella Torre di Ferro.» Poi si fece scuro in volto, e disse: «È una fortuna che il tuo Signore sia ancora a letto, così non ha potuto partecipare al Consiglio, dove Corsus e Corinius, spalleggiati dai figliastri e dai figli di Corsus, hanno spinto il Re a trattare ignominiosamente questi Signori di Demonland. È degno di fede quel distico che ammonisce: Bada come parli, perché spesso è Pericoloso dar consigli ai Re; e avrei ricevuto scarso utile, e corso invece grossi rischi, se li avessi apertamente contraddetti. Corinius è sempre pronto a rinfacciarmi di essere un Goblin, e Corund interviene nei Consigli con la stessa mano pesante che usa in battaglia.» Mentre Gro parlava, Lord Corund uscì sulla terrazza, chiedendo del vino non frizzante per rinfrescarsi la gola. Prezmyra glielo versò: «Dovresti vergognarti per essere rimasto a letto, mio Signore, quando invece avresti dovuto essere insieme al Re per decidere la sorte dei nemici fatti prigionieri la notte scorsa.» Corund si sedette accanto a sua moglie sulla panchina e bevve. «Se è per questo, Signora,» disse, «allora ho poco di cui vergognarmi. Perché l'unica cosa da fare è tagliar loro la testa, e così portare tutto alla giusta e felice conclusione.» «Il Re,» disse Gro, «ha preso una decisione molto diversa. Ha fatto trascinare davanti a lui Lord Juss e Lord Brandoch Daha e, ridendo e sbeffeggiandoli, 'Benvenuti a Carce', ha detto, 'Sulla vostra tavola non mancheranno i cibi raffinati finché sarete miei ospiti; anche se non siete stati invitati.' Dopodiché, li ha fatti trascinare nell'antica sala dei banchetti. Ha ordinato ai suoi fabbri di conficcare dei grossi ganci di ferro nella parete, dai quali ha fatto penzolare i Demoni per i polsi, con le braccia e le gambe divaricate, e i polsi e le caviglie assicurati ai ceppi di ferro. Poi il Re ha fatto apparecchiare la tavola ai loro piedi come per un banchetto, affinché la vista e gli aromi li tormentassero. Quindi ci ha riuniti tutti in Consiglio
perché lodassimo la sua idea e potessimo schernirli anche noi.» «Un grande Re,» disse Prezmyra, «dovrebbe essere un cane che uccide con decisione, piuttosto che un gatto che giochicchia e dà buffetti alla sua preda.» «È vero!», disse Corund. «Dovrebbero essere uccisi.» Si alzò dalla panchina. «È bene che io parli col Re.» «Perché?», domandò Prezmyra. «Colui che dorme fino a tardi,» disse Corund, rivolgendole uno sguardo divertito, «a volte ha notizie per colei che si è alzata di buonora per sedersi sulla terrazza occidentale. Quello che sto per dirti è che poco fa, guardando ad est attraverso la finestra della nostra camera, ho visto dei cavalli diretti alla volta di Carce lungo la Strada dei Re, provenienti da Pixyland...» «La Fireez?», chiese lei. «I miei occhi sono abbastanza acuti e abbastanza limpidi,» disse Corund, «ma difficilmente potrei giurare su mio fratello a tre miglia di distanza. E, per quanto riguarda il tuo, lascio giurare te.» «Chi può venire da Pixyland sulla Strada dei Re,» gridò Prezmyra, «se non La Fireez?» «Signora, è l'eco a risponderti,» disse Corund. «E sono più che convinto che il Principe mio cognato sia uno che si lega alle corde del cuore il ricordo delle buone azioni ricevute in passato. E nessuno gli ha mai reso un beneficio più grande di Juss, che gli salvò la vita a Impland sei inverni fa. (6) Quindi, se La Fireez banchetterà con noi stanotte, è necessario che il Re ordini a questi chiacchieroni di non far parola riguardo a quei Signori che si trovano nell'antica sala dei banchetti, e in generale riguardo alla parte avuta da Demonland nello scontro.» Prezmyra si alzò: «Andiamo! Vengo con te.» Trovarono il Re sui bastioni più alti al di sopra della porta del fiume, coi suoi Signori intorno a lui, che guardavano ad est le basse colline al di là delle quali si trovava Pixyland. Ma, quando Corund cominciò a illustrare la sua idea al Re, questi disse: «Diventi vecchio, Corund, e come un venditore ambulante fannullone porti la tua merce al mercato quando questo è già finito. Ho già dato ordini a questo riguardo, ed ho incaricato i miei uomini di non fare assolutamente parola di quanto è accaduto la scorsa notte, se non di un'incursione dei Goblin contro Carce, della loro disfatta, e della caccia che ho dato loro fino al mare, col massacro che ne è seguito. Chiunque con parole ο gesti riveli a La Fireez che c'erano anche i Demoni, ο che questi miei nemici sono da me intrattenuti - con loro disagio - nella vec-
chia sala dei banchetti, sarà privato della vita.» «Ottimamente!», approvò Corund. «Comandante,» disse il Re, «qual è la nostra forza?» «Settantatré uomini sono stati uccisi,» rispose Corinius, «e gli altri sono per la maggior parte feriti: anch'io faccio parte di loro e, per un po', dovrò usare una mano sola. Attualmente, non riuscirei a trovare cinquanta uomini sani a Carce.» «Lord Corund,» disse il Re, «i tuoi occhi scrutano anche una lega più in là del migliore fra noi, giovane ο vecchio che sia. Quanti uomini ci sono in quel drappello?» Corund si appoggiò al parapetto e si riparò gli occhi con la mano che era larga come un eglefino affumicato e coperta sul dorso di peli gialli che crescevano un po' alla rinfusa, come i peli sulla pelle di un piccolo elefante. «Con lui ci sono sessanta cavalieri, mio Re. Forse uno ο due in più, ma se c'è un solo cavaliere in meno, non sono più degno della tua stima.» Il Re borbottò un'imprecazione. «È la maledizione del destino che lo ha condotto qui ora che il mio Potere è esausto e mi resta troppo poca forza per intimorirlo se comincerà ad infastidirmi. Corund, uno dei tuoi figli prenda un cavallo e vada a sud, a Zorn ed a Permio, e raduni una cinquantina di uomini fra i pastori e i contadini, il più in fretta possibile. Questo è il mio ordine!» Il pomeriggio stava diventando sera quando il Principe La Fireez fece il suo ingresso con tutto il suo drappello e, dopo i saluti di rito e la consegna del tributo, venne assegnata a lui ed ai suoi uomini una camera per dormire. Subito dopo, tutti si riunirono nella grande sala dei banchetti che era stata fatta costruire da Gorice XI, non appena divenuto Re, nell'angolo sudorientale del palazzo. Essa superava di gran lunga in grandezza e magnificenza la vecchia sala dove Lord Juss e Lord Brandoch Daha erano stati incatenati. Aveva sette pareti uguali, di diaspro verde scuro chiazzato di macchie color sangue. In mezzo ad una parete c'era l'alto vano d'ingresso e, nelle pareti a destra e a sinistra di questa ed in quelle che includevano l'angolo di fronte alla porta, c'erano delle grandi finestre poste in alto, che davano luce alla sala dei banchetti. In ciascuno dei sette angoli c'era una cariatide (7), scolpita in poderosi blocchi di serpentino nero ad immagine di un gigante a tre teste, chino sotto la massa di un mostruoso granchio scolpito nella stes-
sa pietra. Le enormi chele di quei sette granchi, tese verso l'alto, sostenevano la cupola del tetto, che era levigata e completamente coperta di affreschi di battaglie, scene di caccia ed incontri di lotta, nei colori scuri e fumosi adatti alla cupa magnificenza di quella sala. Sulle pareti sotto le finestre, luccicavano armi da guerra e da caccia, e sulle due pareti cieche erano inchiodati ordinatamente i teschi e le ossa di quei campioni che avevano lottato con Re Gorice XI prima che questi decidesse, in un infausto momento, di lottare con Goldry Bluszco. Di traverso, nell'angolo di fronte alla porta, c'era un lungo tavolo ed una panca scolpita e, alle due estremità del tavolo, perpendicolari ad esso, altri due tavoli ancora più lunghi con delle panche accanto ad essi sui lati rivolti verso le pareti, a poca distanza dalla porta. Nel mezzo della panca a destra della porta, c'era un alto sedile di antico legno di cipresso, grande e ben fatto, con cuscini di velluto nero ricamati in oro e, di fronte, al tavolo opposto, un'altro sedile, più piccolo, coi cuscini dalle cuciture d'argento. Nello spazio fra i tavoli, cinque bracieri di ferro, massicci e coi piedi a forma di artigli d'aquila, stavano in fila, e dietro le panche - su entrambi i lati - c'erano nove grandi piedistalli che servivano da sostegno alle lampade per illuminare la sala di notte, e sette stavano dietro la panca trasversale, sistemati ad eguale distanza e parallelamente alle pareti. Il pavimento era fatto di lastre di steatite, bianche e color crema, con venature marroni, nere e porpora, e chiazze di scarlatto. I tavoli appoggiati su dei grandi cavalletti, erano delle massicce lastre di scura pietra levigata, punteggiata di scintille d'oro minuscole come atomi. Le donne sedevano sulla panca trasversale e, in mezzo a loro, stava Lady Prezmyra, che sovrastava le altre per bellezza e regalità come Venere i pianeti minori di notte. Zenambria, moglie del Duca Corsus, sedeva alla sua sinistra, ed alla sua destra vi era Sriva, figlia di Corsus, stranamente bella per un padre di quella fatta. Sulla panca più alta, a destra della porta, sedevano i Signori di Witchland, ad un livello inferiore a quello dell'alto scranno del Re, con gli abiti da cerimonia, mentre quelli di Pixyland avevano preso posto di fronte a loro sulla panca più bassa. Il sedile più alto su questa panca era stato destinato a La Fireez. Grandi vassoi, piatti d'oro e d'argento, e porcellane dipinte, colmi di leccornie, erano stati disposti ordinatamente sui tavoli. Arpe e cornamuse suonarono una musica barbarica (8), e gli ospiti si alzaro-
no in piedi quando le porte luccicanti si spalancarono e Re Gorice, seguito dal Principe suo ospite, entrò nella sala. Come un'aquila nera che sorveglia la terra da qualche alta montagna, il Re avanzava in tutta la sua maestà. La sua cotta di maglia era nera, ed il colletto, le maniche, ed il gonnellino, erano orlati di placche d'oro tempestate di zaffiri ed opali neri. La sua calzamaglia era nera, e le giarrettiere erano bande di pelle di foca ornate di diamanti. Al pollice sinistro aveva il suo grande Sigillo ad anello forgiato in oro a forma del Serpente Ouroboros che si mangia la coda: il castone dell'anello era la testa del serpente, ricavata da un rubino color pesca grosso come un uovo di passero. Il suo mantello era realizzato con pelli di cobra nero cucite assieme con filo d'oro, e la sua fodera di seta nera scintillava di polvere d'oro. La corona di ferro di Witchland era poggiata sulla sua fronte, con le chele del granchio erette come corna; e lo splendore dei suoi gioielli era multicolore come i raggi di Sirio in una limpida notte natalizia di gelo e di vento. Il Principe La Fireez aveva un mantello di zendale nero spruzzato di lustrini d'oro, e la tunica sotto di esso, di ricca seta decorata, era dipinta col porpora scuro dell'anemone pulsatilla (9). Dal cerchio dorato sulla sua testa, due ali si spiegavano verso l'alto, squisitamente foggiate con lamine di rame battuto, completamente coperte di gioielli e smalti, e placcate di metalli preziosi per somigliare alle ali dell'atropo dell'oleandro (10). Era di altezza leggermente inferiore alla media, ma aveva una corporatura massiccia, vigorosa e di ossatura robusta, con capelli crespi, rossi e ricciuti, una faccia larga e rubizza, rasata, un naso dalle narici larghe, e delle folte e cespugliose sopracciglia rosse, dalle quali i suoi occhi, molto simili a quelli della sorella - acuti e color verde mare - lanciavano occhiate leonine. Quando il Re si fu accomodato sul suo alto scranno, con Corund e Corinius alla sua sinistra ed alla sua destra in riconoscimento delle grandi imprese militari compiute, e La Fireez di fronte a lui sul sedile alto della panca più bassa, i servi si affrettarono a portare piatti di piccole anguille in salamoia, ostriche nelle conchiglie, e anatra selvatica, lumache, e cardi (1) fritti in olio d'oliva che galleggiavano nella salsa 'hippocras' bianca e rossa. I convitati non indugiarono nell'aggredire quelle squisitezze, mentre i coppieri portavano in giro un'enorme coppa di oro battuto colma di vino frizzante di colore giallo zaffiro, e fornita di sei mestoli d'oro coi manici appesi a sei tacche a forma di mezzaluna sistemate sull'orlo di quel gigantesco recipiente. Ciascun ospite, quando gli veniva portata la coppa, dove-
va riempire il proprio calice col mestolo, e bere in onore di Witchland e dei suoi governanti. Corinius guardava il Principe con una certa invidia e, sussurrando in un orecchio a Heming, il figlio di Corund, che sedeva accanto a lui, disse: «È proprio vero che quei La Fireez è uno degli uomini più appariscenti in tutto ciò che concerne l'abbigliamento e gli ornamenti lussuosi. Guarda con che ridicolo eccesso imita Demonland nel gran numero di gioielli che sfoggia, e con quale insolenza scimmiesca siede a tavola. Eppure, questo gallo pieno di boria vive solo per nostra concessione, e vedo che non ha dimenticato di portare con sé a Witchland il compenso per impedire alla nostra mano di torcergli il collo.» In quel momento furono portate pietanze a base di carpe, sardine, ed aragoste, seguite da una discreta varietà di carni: un grasso capretto, arrostito intero e guarnito di piselli su un capace vassoio d'argento, pasticci sempre di capretto, piatti di lingue di bue e animelle, conigli da latte in gelatina, ricci cotti al forno nella loro pelle, interiora di maiale, grigliate, frattaglie, e pasticci di ghiro. Queste ed altre succulenti pietanze venivano portate in continuazione dai servi che si muovevano silenziosi, a piedi nudi; e la conversazione diventava sempre più amabile mentre l'appetito veniva un po' smussato, ed i cuori venivano riscaldati dal vino. «Niente di nuovo a Witchland?», chiese La Fireez. «La cosa più nuova che ho sentito,» rispose il Re, «è l'uccisione di Gaslark.» E raccontò la battaglia notturna, fornendo con franchezza ed aperta onestà tutti i particolari dell'accaduto; anche se nessuno avrebbe potuto intuire dal suo racconto che qualcuno di Demonland avesse avuto parte ο interesse in quella battaglia. «È strano,» disse La Fireez, «che vi abbia attaccato in questo modo. C'è qualcosa che non quadra.» «La nostra grandezza...» disse Corinius, fissandolo con arroganza, «è una fiamma nella quale altre farfalle, a parte lui, si sono bruciate. Credo che non ci sia nulla di strano.» «In verità,» disse Prezmyra, «non c'è mai nulla di strano quando si tratta di Gaslark. Trattandosi di lui, è certo che nessuna improvvisa ο assurda fantasia fosse troppo frivola da impedirgli di volare come lanugine di cardo (12) per assalire il cielo stesso.» «Una bolla d'aria, Signora: colori bellissimi intorno e vuota all'interno. Ne ho conosciuti altri come lui,» disse Corinius, mantenendo ancora, con studiata insolenza, lo sguardo sul Principe.
L'occhio di Prezmyra danzò. «Lord Corinius,» disse lei, «cambia atteggiamento, ti prego, prima che Vestiti-Belli si convinca che tu sei uno sciocco, perché, guardandoti, c'è da mettere in dubbio la tua educazione... ο la tua saggezza.» Corinius svuotò il suo calice e scoppiò a ridere. Il suo volto insolente ed attraente era in qualche modo arrossito sulle guance e sulla mascella rasata, perché di certo non c'era nessuno in quella sala che fosse abbigliato più riccamente di lui. Il suo ampio torace era coperto da un giustacuore (13) di pelle di daino non conciata rivestito di scaglie d'argento, ed indossava un collare d'oro tempestato di smaragditi (14) ed un lungo mantello di broccato azzurro cielo foderato di tessuto argenteo. Al polso destro aveva un massiccio bracciale d'oro, e sulla testa un serto di brionia nera (15) e belladonna (16). Gro sussurrò nell'orecchio di Corund: «Se l'è bevuta subito, ed è ancora presto. Ci sono guai in vista, dal momento che in lui l'impulsività cammina sempre sui calcagni della scontrosità, a mano a mano che diventa più ubriaco.» Corund grugnì un assenso, dicendo a voce alta: «Gaslark ha tentato di arrampicarsi su tutte le vette della gloria, ma sempre con la medesima avventatezza. Non si è mai udito niente di più pietoso della sua grande spedizione ad Impland, dieci anni fa quando, nella repentina presunzione di poter trascinare l'intera Impland sotto di lui e diventare il più potente monarca del mondo, assoldò Zeldornius, Helteranius e Jalcanaius Fostus...» «I tre più famosi Comandanti del mondo,» disse La Fireez. «Niente di più vero,» convenne Corund. «Li assoldò, e condusse navi, soldati, cavalli ed una tale quantità di macchine da guerra che non si era mai vista nelle ultime centinaia di anni, e li mandò... dove? Nelle ricche e salubri terre di Beshtria? No! A Demonland? Neanche per sogno! Qui a Witchland, dove con una forza venti volte inferiore ha rischiato tutto ed ha subito la morte e la distruzione? Qui a Witchland, dove con una forza venti volte inferiore ha rischiato tutto ed ha subito la morte e la distruzione? No! Li mandò nelle terre selvagge e maledette dell'Alto Impland, spoglie, aride, dove non c'era neanche un anima per pagargli un tributo se fosse riuscito a sottometterle, tranne le bande erranti dei Diavoli selvaggi, con più cimici sui loro corpi che monete nelle borse, te lo assicuro. Ο forse aveva intenzione di diventare Re degli Spiriti dell'Aria, dei Fantasmi, e dei Folletti che si trovano in quel deserto?» «Senza alcun dubbio ci devono essere diciassette diversi tipi di Spiriti
sul Moruna!», disse Corsus, intervenendo all'improvviso a voce alta, cosicché tutti voltarono la testa per guardarlo. «Spiriti del fuoco, dell'aria e del sottosuolo. Senza alcun dubbio ne sono stati visti sette tipi, diciassette diversi tipi di Folletti, e diversi tipi di Spiriti che, se mi viene il capriccio, posso nominare tutti a memoria.» Nel faccione di Corsus, mentre i suoi occhi erano gonfi nella parte inferiore ed iniettati di sangue, le sue guance cascanti, ed il labbro superiore tumido, i baffi ed i grigi favoriti setolosi erano infinitamente solenni. Aveva mangiato, principalmente per stimolare la sete, delle olive sottaceto, capperi, mandorle salate, acciughe, sardine affumicate e fritte con mostarda, ed ora stava aspettando la lombata salata di bue da porre come cuscino d'appoggio nello stomaco per nuove libagioni. Lady Zenambria domandò: «Sapete con certezza quale fu il destino di Jalcanaius, Helteranius e Zeldornius, e delle loro armate?» «Non sono stati condotti, come ho sentito dire,» intervenne Prezmyra, «da un Fuoco Fatuo nelle regioni Iperboree (17), e laggiù fatti Re?» «Questo temo che ti sia stato detto da un barbagianni, sorella,» disse La Fireez. «Mentre viaggiavo attraverso Impland la Grande, sei anni fa, mi furono raccontate molte storie bizzarre, ma nessuna degna di credito.» La lombata fu servita con un contorno di porri su un grande vassoio d'oro sorretto da quattro servitori, tanto era pesante. Una luce scintillò nell'occhio appannato di Corsus quando la vide arrivare, Corund si alzò in piedi con un calice colmo, e le Streghe gridarono: «La canzone della lombata, Corund!» Corund incombeva imponente come un bue nella sua tunica di velluto color ruggine, stretta in vita da una larga cintura di pelle di coccodrillo orlata d'oro. Dalle spalle gli pendeva un mantello di pelle di lupo col pelo rivolto verso l'interno, e la parte esterna era conciata e damascata con seta purpurea. La luce del giorno si era quasi dileguata e, attraverso la foschia del vapore che si sollevava dal banchetto, le lampade splendevano sul suo cranio calvo chiazzato qua e là da ciuffetti di capelli brizzolati, sui suoi penetranti occhi grigi, e sulla barba lunga e cespugliosa. «Facciamo un brindisi, miei Signori! E, se qualcuno non canterà con me il ritornello, non gli rivolgerò più la parola.» Quindi si mise a cantare questa canzone della lombata con una voce simile ad un gong; e tutti si unirono a lui nel ritornello, al punto che i piatti ammonticchiati sui tavoli tintinnarono:
Portami la Vecchia Lombata, la Fredda Lombata, E vieni a vedere Ile come l'ha innaffiata Ah, quel muscolo, quel muscolo salato e bello, Con un prezioso calice di moscatello: Come canterò, che cera avrò, Quando, il Capo-cuoco loderò? Il porco sì girerà e mi risponderà così, Puoi risparmiarmi una spalla? Ahi, Ahi. L'Anatra, l'Oca, e il Cappone, bei tipi quelli lì, Ti faranno danzare all'antica, ed il tacchino altresì: Ma, oh, la Fredda Lombata, la Fredda Lombata è già qui: Come canterò, che cera avrò, Quando il Capo-cuoco loderò? Con una mistura Ile ti unge da capo a piè, Scivolerai più svelto di una ruota oliata testé; Con una torta faremo di te L'ottavo saggio che nel futuro è; Ma, oh, la Vecchia Lombata, la Fredda Lombata per me: Come canterò, che cera avrò, Quando il Capo-cuoco loderò? Quando la lombata fu trinciata e le coppe nuovamente riempite, il Re ordinò: «Chiamate il mio gnomo, e fategli eseguire davanti a noi i suoi antichi gesti.» Di lì a poco lo gnomo entrò nella sala, facendo smorfie e boccacce, abbigliato con un giustacuore senza maniche di lana scadente (18) a strisce gialle e rosse. E la sua coda lunga e floscia si trascinava sul pavimento dietro di lui. «Questo gnomo mi sembra alquanto disgustoso,» osservò La Fireez. «Attento a come parli, Principe!», disse Corinius. «Non sai qual è il suo incarico? È stato inviato da Re Gorice XI, il cui ricordo sarà glorioso in eterno, come Messo straordinario a Lord Juss a Galing dai Signori di Demonland. Ed è stato solo per uno straordinario atto di cortesia da parte nostra che abbiamo mandato da loro questo gonzo come nostro ambasciato-
re.» Lo gnomo si esibì davanti a loro con grande divertimento dei Signori di Witchland e dei loro ospiti, tranne quando prese in giro Corinius ed il Principe, definendoli due pavoni, così simili nel loro sgargiante piumaggio che nessuno avrebbe potuto distinguere l'uno dall'altro; e ciò, in qualche modo, li fece irritare entrambi. Il vino aveva rallegrato il cuore del Re, che brindò alla salute di Gro, dicendo: «Che tu sia felice, Gro, e non dubitare: manterrò la promessa che ti ho fatto, e ti farò Re a Zaje Zaculo.» «Signore, potrai disporre di me come vorrai,» rispose Gro. «Ma sento di essere poco adatto a fare il Re. Mi sembra di essere sempre stato miglior amministratore delle fortune degli altri piuttosto che della mia.» Al che il Duca Corsus, che si era adagiato scompostamente sul tavolo e si era quasi appisolato, gridò con voce fortissima ma rauca: «Che uno spirito mi arrostisca se non hai detto il vero! Se le tue fortune per sventura svaniscono, non preoccupartene. Datemi un po' di vino, un calice colmo, che trabocchi! Ah! Ah! Portatelo via! Ah! Ah! Witchland! Quando porterai la corona di Demonland, mio Re?» «Cosa c'è, Corsus?», chiese il Re. «Sei ubriaco?» Ma La Fireez intervenne. «Avete giurato di stare in pace coi Demoni nelle Isole Foliot, e siete vincolati da un patto ferreo a mettere da parte per sempre le vostre pretese di sovranità su Demonland. Avevo sperato che le vostre dispute fossero concluse.» «Lo sono, infatti,» disse il Re. Corsus ridacchiò debolmente. «Avete parlato bene: molto bene, mio Re, e molto bene, anche tu La Fireez. Le nostre dispute sono concluse! Non c'è altro da dire perché, guarda: Demonland è un frutto maturo prossimo a cadere così nella nostra bocca.» Inclinandosi all'indietro spalancò la bocca, sospendendo sopra di essa con una zampa uno zigolo (19) cosparso del suo stesso sugo. L'uccello gli scivolò fra le dita, e gli cadde sulla guancia, poi sul petto, e quindi sul pavimento, e la cotta di maglia di ottone e le maniche della tunica verde pallido si sporcarono di sugo. Al che, Corinius proruppe in uno scroscio di risate; ma La Fireez divenne rosso dalla rabbia e disse, aggrottando le sopracciglia: «L'ubriachezza, Signore, fa ridere solo gli schiavi.» «Allora taci, Principe,» disse Corinius, «se non vuoi che il tuo rango sia messo in discussione. Per parte mia rido per le mie riflessioni, ed esse sono di prima qualità.»
Ma Corsus si pulì la faccia e si mise a cantare: Ogni volta che bevo il vino, S'addormentano tutti i miei affanni. Un fico per l'irritazione Un fico per questa tensione, Non m'importa un fico dei miei affanni. Se la morte deve venire, ohimè, Perché affligger con gli affari i miei anni? Venite, mandiamo giù il vino Di Bacco sì bello esso è Perché, mentre beviamo testé, S'addormentano tutti gli affanni. Dopodiché, Corsus ricadde di nuovo pesantemente sul tavolo. E lo gnomo, i cui scherzi tutti gli altri della compagnia avevano ben gradito anche quando essi stessi ne erano il bersaglio, si mise a saltellare, gridando: «Che meraviglia! Questo budino canta. Portate due vassoi, schiavi! Lo avete servito a tavola senza piatto. Uno era troppo piccolo per contenere una massa così grande di sangue e lardo di manzo. Svelti, e trinciatelo prima che i vapori gli facciano scoppiare la pelle!» «Trincerò te, pattume!», disse Corsus, e si alzò in piedi barcollando; agguantato lo gnomo per un polso con una mano, gli sferrò un pugno poderoso sull'orecchio con l'altra. Lo gnomo strillò e addentò fino all'osso il pollice di Corsus, dimodoché questi dovette lasciare la presa; poi lo gnomo scappò dalla sala, mentre la compagnia rideva a crepapelle. «Così scappa lo sciocco davanti alla saggezza che è nel vino,» disse il Re. «La notte è giovane: portate la bottarga (20), il caviale ed il pane abbrustolito. Bevi, Principe! Il vino rosso thramniano è denso come il miele e stimola l'anima alla divina filosofia. Che cosa vana è l'ambizione! Questo era il destino di Gaslark, le cui imprese tanto grandiose e straordinarie sono finite in questo modo, in una specie di nulla (21). Cosa ne pensi tu, Gro, che sei un filosofo?» «Ohimè, povero Gaslark!», disse Gro. «Se tutto fosse andato secondo i suoi piani, e se, contro tutte le aspettative, ci avesse sconfitti, anche così non sarebbe stato più vicino ai desideri del suo cuore di quando aveva deciso per la prima volta di cimentarsi nell'impresa. Poiché a Zaje Zaculo aveva da mangiare e da bere, e giardini, e tesori, e musici, ed una bella mo-
glie, e tutte le comodità e le piacevolezze. Ma, alla fine, in qualsiasi modo diamo forma alla nostra vita, arriva il papavero che ci spinge nel rifugio dell'oblio che è così arduo epurare. Foglie di alloro ο di cipresso avvizzite, e un po' di polvere. Nient'altro rimane!» «Lo dico con tristezza,» disse il Re: «pensavo che fosse saggio e preferisse vivere felice, come il Foliot Rosso, e non sfidasse gli Dei con un'ambizione sempre più sfrenata che lo avrebbe portato all'annientamento.» La Fireez si era costretto a risedersi sul suo alto sedile coi gomiti appoggiati ai braccioli e le mani che penzolavano indolentemente ai lati. Mantenendo alta la testa, e con un sorriso incredulo, ascoltò le parole di Re Gorice. Gro disse nell'orecchio di Corund: «Il Re ha trovato nel calice una strana gentilezza.» «Credo che tu ed io costituiamo delle eccezioni qua dentro,» rispose Corund con un sussurro, «perché non siamo ancora ubriachi; e il motivo di questo è che tu hai bevuto con misura, il che è una buona cosa, mentre io sono stato mantenuto sobrio da quest'ametista alla mia cintura, anche se non sono mai stato così gonfio di vino.» «Ti piace scherzare, ο Re,» disse La Fireez. «Per parte mia, questa cosa piena di muschio che ho sempre avuto sulle spalle come testa è troppo ottusa per avere ambizioni.» «Se tu non fossi il nostro principesco ospite,» disse Corinius, «avrei detto che questo discorsetto è stato fatto da una persona insignificante. Witchland non si abbandona a simili vanterie, ma può permettersi di parlare come il nostro Re con orgogliosa umiltà. I tacchini incedono impettiti e gloglottano; non così l'aquila, che tiene il mondo in soggezione.» «Ho compassione di te,» gridò il Principe, «se questa meschina vittoria ti ha così frastornato. I Goblin!» Corinius si accigliò, e Corsus ridacchiò, dicendo a se stesso, ma con voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti: «Goblin, davvero? Sarebbero stati poca cosa se fossero stati solo loro. Certo, è proprio così: se fossero stati solo loro!» La fronte del Re era come una nube nera e tempestosa. Le donne trattennero il fiato. Ma Corsus, insensibile alle minacce che si stavano addensando, batté il tempo sul tavolo con la sua coppa, cantando in un'atmosfera estremamente tetra: Quando gli uccelli negli abissi guizzano,
Ed i pesci nell'aria volano, Quando l'acqua brucia ed il fuoco gela tutto, E l'ostrica cresce sull'albero come un frutto... Poi un clamoroso singhiozzo lo costrinse ad una brusca conclusione. La conversazione si era spenta, ed i Signori di Witchland, a disagio, stavano cercando di far assumere alle loro facce la stessa espressione del Re. Ma Prezmyra parlò, e la musica della sua voce giunse come uno scroscio rinfrescante di pioggia. «Questa canzone di Lord Corsus,» disse, «mi da la speranza di ottenere una risposta ad una domanda filosofica; ma Bacco, come vedete, ha condotto temporaneamente la sua anima agli Elisi, e temo che stanotte dalla sua bocca non sortiranno né verità né saggezza. La domanda era questa: è vero che tutti gli animali della terra hanno degli analoghi nel mare? Lord Corinius, oppure tu, mio principesco fratello, potete darmi una risposta?» «Ebbene, così si ritiene, Signora,» disse La Fireez. «E una rapida indagine ti fornirà molti esempi interessanti: come la rana di mare, la volpe di mare, il cane marino (22), il cavallo marino, il leone marino, l'orso marino (23). Ed ho anche saputo che il barbaro popolo di Esamocia mangia una conserva di ratti marini pestati e macerati in un mortaio con la carne di un animale chiamato bos marinus, stagionato con sale e aglio.» «Puah! Continuate a parlare, presto,» gridò Lady Sriva, «prima che nella mia immaginazione assaggi quel cibo disgustoso. Per favore, datemi quelle pesche dorate e quell'uva passa come antidoto.» «Lord Gro ti informerà meglio di me,» disse La Fireez. «Per parte mia, pur tenendo in gran conto la filosofia, non mi ha mai fatto molto piacere studiarla. Sono andato spesso a caccia di tassi, eppure non ho mai risposto a quella domanda dei dotti se essi abbiano le zampe di un lato più corte delle altre. Né so, nonostante tutte le lamprede che ho mangiato, quanti occhi ha la lampreda, se nove ο due.» Prezmyra sorrise: «Fratello mio, sei troppo, troppo soffocato, temo, dalla polvere del campo di battaglia, per interessarti a ricerche di questo tipo. Ma ci sono uccelli sotto il mare, Lord Gro?» «Nei fiumi, certamente,» rispose Gro, «anche se sono soltanto uccelli dell'aria che vi si trattengono per un po'. Come li ho trovati io stesso nell'Impland Esterno, addormentati nel periodo invernale in fondo ai laghi ed ai fiumi, due assieme, becco contro becco, ali contro ali. Ma in primavera essi tornano a vivere, ed i boschi in breve tempo si riempiono dei loro
canti. Per quanto riguarda il mare, ci sono dei veri cuculi marini, dei tordi marini, dei passeri marini (24), e molti altri.» «Che cosa strana!», disse Zenambria. Corsus cantò: Quando i Maghi non faranno magie losche, Quando i ragni non mangeranno più le mosche... Prezmyra si voltò verso Corund dicendo: «Se non sbaglio, mio Signore, una volta c'è stata una divertente disputa riguardante il rospo ed il ragno (25), fra te, che affermavi essi si uccidessero l'un l'altro col veleno, e Lord Gro che voleva dimostrarti il contrario.» «Proprio così, Signora!», disse Corund. «E la controversia è ancora aperta.» Corsus cantò: E quando i merli più non canteranno, Ed i serpenti più non morderanno, Allora potrai dire, e giustamente, Il vecchio mondo è nuovo, finalmente... poi ricadde nel silenzio tipico degli ebbri. «Mio Signore e Re,» gridò Prezmyra, «ti supplico di dare l'ordine che porrà fine alla disputa fra i due tuoi Consiglieri, prima che essa diventi pericolosamente rovente. Fa che siano portati senza indugio un rospo e dei ragni, così essi potranno fare il loro esperimento davanti ai nostri graditi ospiti.» Al che tutti scoppiarono a ridere, e il Re diede l'ordine a un servo, il quale di lì a poco portò sette grossi ragni ed un calice da vino di cristallo, sotto il quale, assieme a essi, mise un rospo, e pose il tutto davanti al Re. Tutti si misero a guardare con impazienza. «Scommetto due firkin (26) di vino bianco permiano contro un mazzo di ravanelli,» disse Corund, «che la vittoria andrà ai ragni. Guarda come, senza alcuna resistenza, camminano sopra la sua testa e passano sul suo corpo.» «Accettato!», disse Gro. «Perderai la scommessa, Corund,» disse il Re. «Questo rospo non riceve alcun danno dai ragni, ma rimane tranquillo, senza alcuna preoccupazione,
spingendoli così a essere audaci, in modo da poterli inghiottire da una posizione di vantaggio.» Mentre osservavano, venne portata la frutta: mele-regina, mandorle, melagrane e pistacchi, e nuove caraffe e giare di vino e, fra esse, un boccale di cristallo del vino color pesca di Krothering, vendemmiato molte estati prima nei vigneti che si estendono a sud, dai piedi del castello di Lord Brandoch Daha, in direzione del mare. Corinius bevve abbondantemente, e gridò: «Che bevanda regale, questo vino di Krothering! La gente dice che questa estate si venderà a buon mercato.» A queste parole, La Fireez gli lanciò un'occhiata, ed il Re, notandola, disse nell'orecchio di Corinius: «Vuoi essere prudente, sì ο no? Non permettere che il tuo orgoglio ti induca a pensare che te la caveresti meglio dell'ultimo dei miei schiavi, se a causa del tuo modo di fare questo Principe scoprisse i miei segreti.» Era ormai tardi, e le donne si congedarono: gli schiavi fecero loro luce con le lampade fino alle porte, scortandole in pompa magna. Di lì a poco, quando furono uscite, «Peste a tutti ragni!», gridò Corund. «Il tuo rospo ne ha già inghiottito uno.» «Altri due!», osservò Gro. «La tua teoria è crollata subito, Corund. Due in un colpo solo, e ne restano solo quattro.» Lord Corinius, il cui volto adesso era in fiamme per le bevute sfrenate, sollevò la sua coppa attirando l'attenzione del Principe: «Osserva bene, La Fireez!», gridò. «Un segno ed una profezia! Prima uno, poi due in un sol boccone; e fra poco, sono convinto, i quattro che rimangono. Non hai paura di scoprire di essere un ragno quando arriverà il momento dello scontro?» «Ti sei ubriacato fino a diventare pazzo furioso, Corinius?», sussurrò il Re, con la voce che gli tremava per la rabbia. «È intelligente come un divora-marmellate col quale parlo sempre,» disse La Fireez, «ma non riesco a capire a cosa diamine si riferisce.» «Quello che intendo dire,» rispose Corinius, «dovrebbe far ritornare seria la tua faccia giuliva. Mi riferisco ai nostri nemici atavici, a quei vili bastardi di Demonland. Il primo boccone, Goldry, rapito il cielo sa dove dal Messo del Re in un mortale soffio di vento...» «Che tu sia maledetto!», gridò il Re. «Che volgare parlata da ubriachi è mai questa?» Ma il Principe La Fireez divenne rosso come il sangue, e disse: «C'è
questo allora dietro gli insulti gratuiti di costui: volete fare guerra a Demonland? Non sperate di trascinarmici dentro.» «Non dormiremo peggio per questo,» disse Corinius. «La nostra bocca è abbastanza grande per una briciola di marzapane come te, se ci verrai a noia.» «La tua bocca è abbastanza grande da spifferare le informazioni più riservate, come ci hai appena mostrato in maniera così ridicola,» disse La Fireez, «Se io fossi il Re, infilerei degli aculei di aragosta nella tua pelle, damerino alticcio e cinguettante!» (27) «Un insulto!», gridò Lord Corinius, balzando in piedi. «Non accetterei un insulto dagli Dei del cielo. Portatemi una spada, garzoni! Farò delle incisioni beshtriane nelle sue budella!» (28) «Pace!», disse il Re a voce alta, mentre Corund si affiancava a Corinius e Gro al Principe per calmarli. «Corinius è ferito al polso e non può battersi, e forse il suo cervello è febbricitante per la ferita.» «Allora guariscigli quel taglio che ha ricevuto dai Goblin, e poi lo taglierò io come un cappone,» disse il Principe. «Goblin!» disse Corinius, infuriato. «Sappi, codardo, che questa ferita mi è stata inferta dai migliori spadaccini del mondo. Se avessi avuto te di fronte, ti avrei fatto a fette, tanto sei già un cappone.» Ma il Re si eresse in tutta la sua maestà, dicendo: «Silenzio!» Ed i suoi occhi scintillarono di collera, quando continuò: «Riguardo a te, Corinius, né la tua focosa giovinezza ed il sangue ribelle, né il vino che hai messo in quella tua pancia ingorda mitigheranno il rigore del mio scontento. Domani stabilirò la tua punizione. E tu, La Fireez, bada di comportarti con maggiore umiltà nella mia dimora. Troppo impudente era il messaggio consegnatomi dal tuo araldo al tuo arrivo questa mattina. Ricordava troppo una formula di saluti da pari a pari, e definiva il tuo tributo un dono, anche se esso, e tu, e tutto il tuo Principato, siete miei di diritto e posso fare di voi ciò che mi piace. Eppure sono stato paziente con te, e poco saggiamente, credo, dal momento che la tua impudenza nutrita dalla mia tolleranza è saltata fuori ancora più rozzamente alla mia tavola, e tu insulti e ti azzuffi nelle mie sale. Sta attento, prima che la mia ira scagli dei fulmini contro di te!» Il Principe La Fireez rispose: «Conserva i cipigli e le minacce per i tuoi schiavi disobbedienti, ο Re, dal momento che essi non mi spaventano, ed io me ne rido. Né mi preoccupo di rispondere alle tue parole ingiuriose, dal momento che sai bene quale antica amicizia mi lega alla tua Casata ed a
Witchland, e da quali vincoli di matrimonio sono unito a Lord Corund, al quale ho concesso la mano di mia sorella. Anche se il mio stomaco non se la sente di proclamare, come tuo umile servitore, la tua sovranità, non hai tuttavia alcuna ragione di muovere ingiustificate obiezioni a questo, dal momento che il tributo ti è stato pagato, e oltre misura. Ma io sono legato a Demonland, come tutti sanno, e sarebbe più facile per te costringere i fulmini del cielo a scendere ed a combattere per te, che costringere la mia volontà. E, a Corinius che fa lo smargiasso, dico che Demonland è sempre stata un osso troppo duro per le Streghe. Goldry Bluszco e Brandoch Daha ve lo hanno dimostrato. Il consiglio che ti do, ο Re, è quello di far pace con Demonland, e per queste ragioni: innanzi tutto, perché non hai alcun motivo di disputa con loro, poi (e questo dovrebbe farti riflettere un po' di più) perché, se persisti nel voler combattere contro di loro, questo significherà la rovina tua e di tutta Witchland.» Il Re si morse le dita in una straordinaria manifestazione di rabbia e, per lo spazio di un minuto, non si udì alcun suono in quella sala. Soltanto Corund parlò sottovoce al Re, dicendo: «Signore, per il bene di tutti controlla la tua regale collera. Potrai dargli una sferzata quando tornerà mio figlio Hacmon, ma in questo momento lui ha più uomini di noi, ed i tuoi sono così sopraffatti dal vino che, credimi, non rischierei il costo di una rapa sulle possibilità a nostro favore se si dovesse combattere.» Corund era profondamente turbato, perché sapeva bene quanto sua moglie aveva a cuore la pace fra La Fireez e le Streghe. In quel momento di tensione Corsus, che era uscito in qualche modo dal letargo a causa del vocio della discussione e dell'agitazione, cominciò a cantare: Quando tutte le prigioni della città Avran ridato ai prigionieri libertà, Poiché non v'è ragione che più regge Che sian tenuti dentro per la legge. Al che Corinius, nel quale il vino, la scaramuccia verbale ed i rimproveri del Re avevano acceso il fuoco di un livore sconsiderato ed oltraggioso davanti al quale tutti i consigli di prudenza ο di accortezza si scioglievano come cera in una fornace, gridò a gran voce: «Vuoi vedere i nostri prigionieri, Principe, nella vecchia sala dei banchetti, così ti convincerai che sei uno sciocco?»
«Quali prigionieri?», gridò il Principe, alzandosi in piedi di scatto. «Furie dell'inferno! Sono stanco di queste allusioni oscure: voglio sapere la verità!» «Perché ti incollerisci tanto?», disse il Re. «Quell'uomo è ubriaco. Basta con le parole arroganti!» «Tu non puoi mettermi da parte in questo modo. Voglio sapere la verità!», disse La Fireez. «La conoscerai,» disse Corinius. «Le Streghe sono uomini migliori di te e dei tuoi Folletti dal cuore di gallina, e migliori di quei maledetti Demoni. Non è necessario nasconderti la verità. Abbiamo sollevato per i calcagni due di quella progenie, e li abbiamo inchiodati al muro della vecchia sala dei banchetti, come i contadini inchiodano donnole e puzzole alla porta del granaio. E là resteranno fino alla morte: sono Juss e Brandoch Daha.» «Quale ignobile menzogna!», disse il Re. «Ti farò tagliare a pezzi.» Ma Corinius disse: «Io difendo il tuo onore, ο Re. Non dobbiamo più nasconderci davanti a questi Folletti.» «Morirai per questo!», disse il Re. «È una menzogna!» Per un poco ci fu un totale silenzio. Alla fine, il Principe tornò lentamente a sedersi. Il suo volto era pallido e teso, ed egli parlò al Re, con lentezza ed a bassa voce: «O Re, se sono stato in qualche modo veemente con te, dimenticalo. E se ho omesso una qualsiasi forma di obbedienza che ti è dovuta, pensa che nel mio sangue c'è l'irritazione per questo tipo di cerimonie, invece di pensare che io non provi amicizia nei tuoi confronti ο che io abbia mai sognato di mettere in discussione la tua sovranità. Qualsiasi cosa mi chiederai e che non sia in conflitto col mio senso dell'onore, che sia un cerimoniale ο giuramento di fedeltà, sarò ben lieto di farla. E la mia spada è già puntata contro i tuoi nemici, a patto che non siano di Demonland. Ma qui, ο Re, c'è una torre che sta vacillando, ed è sul punto di crollare sulla nostra amicizia e di mandarla in frantumi. È ben noto sia a te, che a tutti i Signori di Witchland, che le mie ossa si sarebbero imbiancate durante questi ultimi sei anni a Impland la Grande se Lord Juss non mi avesse salvato dai barbari Diavoli al seguito di Fax Fay Faz, che assediarono per quattro mesi me e il mio piccolo contingente, bloccati a Lida Nanguna. Avrai la mia amicizia, Ο Re, se mi restituirai i miei amici.» Ma il Re disse: «Io non ho i tuoi amici.» «Allora mostrami l'antica sala dei banchetti,» disse il Principe. «Te la mostrerò fra poco...», replicò il Re. «Voglio vederla subito!» disse il Principe, e si alzò dalla sedia.
«Non fingerò più con te,» disse il Re. «Provo affetto per te ma, quando mi chiedi di restituirti Juss e Brandoch Daha, mi chiedi una cosa che tutta Pixyland ed il sangue del tuo cuore audace non sarebbero capaci di ottenere da me. Questi sono i miei peggiori nemici. Non sai a costo di quale fatica e pericoli sono riuscito finalmente a mettere le mani su di loro. Ed ora non permettere che le tue speranze ti rendano incredulo, quando ti giuro che Juss e Brandoch Daha marciranno e moriranno in prigione.» Nonostante tutte le sue parole gentili, e le offerte di ricchezza, di lussuosi vantaggi e di sostegno in pace ed in guerra, La Fireez non riuscì a scuotere il Re che disse: «Smettila, La Fireez, ο finirai con l'irritarmi. Devono marcire in prigione!» Quando il Principe La Fireez si accorse che non sarebbe riuscito a smuovere il Re con le parole gentili, sollevò il suo bel calice di cristallo a forma d'uovo con tre ganci d'oro per essere attaccato a un cerchio d'oro ornato di topazi che portava intorno alla vita, e lo scagliò contro Re Gorice. Il calice lo colpì alla fronte, ed il cristallo si frantumò per effetto del colpo. La fronte si spaccò, ed il Re cadde privo di sensi. Al che, nella sala dei banchetti si sollevò un tremendo tumulto. Non c'era nessuno in quel luogo che avesse una mano più lesta di Corund, il quale afferrò il suo spadone a due mani e gridando: «Bada al Re, Gro! La festa è finita!», balzò sul tavolo. I suoi figli, Gallandus, e le altre Streghe, afferrarono anch'essi le armi, e lo stesso fecero La Fireez ed i suoi uomini. Ci fu battaglia nella grande sala di Carce. Corinius, che poteva reggere un'arma soltanto con la mano sinistra, si lanciò valorosamente in avanti, urlando all'indirizzo del Principe parole ingiuriose per dare forza al suo assalto. Ma i fumi delle sfrenate libagioni, che essendo fluiti nel suo cervello lo avevano reso farneticante, gli entrarono anche nelle gambe, smorzando la loro consueta agilità. Scivolando con un piede in una pozza di vino versato, cadde dolorosamente all'indietro, battendo la testa contro il tavolo lucido. E Corsus, che adesso era quasi senza parole e stordito dalle bevute, cosicché un bambino avrebbe potuto dire altrettanto bene quanto lui cosa significava tutto quel trambusto, fece girare il calice nella mano, gridando: «L'ubriachezza per il corpo è meglio di una medicina! Bevete sempre, e non morirete mai!» Mentre gridava in questa maniera, fu colpito in piena bocca da una costola di vitello scagliatagli da Elaron di Pixyland, il Capitano della Guardia del Corpo del Principe, e cadde come un maiale addosso a Corinius, sul quale giacque immobile e privo di sensi. Furono rovesciati i tavoli, inferte
e ricevute ferite, e rapidamente le sorti della lotta volsero a sfavore delle Streghe. Perché, anche se i Folletti non erano grandi combattenti come quelli di Witchland, si rivelò un grosso vantaggio per loro il fatto che fossero abbastanza sobri, mentre i loro avversari, come tante botti colme di vino, vacillavano e farneticavano quasi tutti a causa delle abbondanti bevute. Né l'ametista giovò molto a Corund, anzi il vino gli riempiva le vene al punto che si sentiva sempre più mancare il fiato ed i suoi colpi erano più leggeri e più lenti del solito. Per l'affetto che aveva verso la sorella Prezmyra e per l'antica amicizia per Witchland, il Principe ordinò ai suoi uomini di combattere solo per sopraffare le Streghe, senza uccidere nessuno, a meno di non esservi costretti, e di fare in modo, se tenevano alle loro vite, che Lord Corund non ricevesse ferite. Quando ebbero con facilità conquistato il campo, La Fireez si accertò che i suoi prendessero delle giare di vino, con le quali innaffiare vigorosamente le facce di Corund e dei suoi uomini, mentre gli altri li tenevano sotto la minaccia delle armi, acciocché con l'effetto del vino dentro e addosso ad essi, fossero messi del tutto fuori causa. Barricarono quindi la grande porta della sala con le panche, i ripiani dei tavoli ed i pesanti sostegni di quercia, e La Fireez incaricò Elaron di sorvegliare la porta col grosso del suo seguito, e pose delle guardie accanto ad ogni finestra in modo che nessuno potesse uscire dalla sala. Poi il Principe stesso prese delle torce e si recò con sei uomini nella vecchia sala dei banchetti. Sopraffatte le guardie, sfondò le porte e si trovò davanti Lord Juss e Lord Bradoch Daha incatenati fianco a fianco su un muro. I due Demoni rimasero un po' abbagliati dall'improvvisa luce delle torce, ma Lord Brandoch Daha parlò e salutò il Principe, ed il suo pigro tono altezzoso e canzonatorio era appena reso dimesso dall'inedia, dalla lunga veglia e dall'ansia e dalla preoccupazione per le sue afflizioni. «La Fireez!», esclamò. «Finora il giorno era andato avanti monotono (29). E pensavo che foste delle false puzzole allevate nell'immondizia e negli acquitrini: la progenie di Witchland, tornata per irriderci e sbeffeggiarci.» La Fireez raccontò loro come erano andate le cose, e disse: «Gli avvenimenti precipitano. Vi libererò a queste condizioni: che veniate subito via con me da Carce, e non cerchiate di vendicarvi delle Streghe questa notte stessa.»
Juss acconsentì; e Brandoch Daha scoppiò a ridere, dicendo: «Principe, provo affetto per te e non posso rifiutarti nulla: se vuoi, posso radermi metà barba, per esempio, vestirmi di fustagno fino al tempo del raccolto, dormire nei miei abiti, ο discorrere insensatamente per sette ore al giorno col cagnolino di mia moglie. Questa notte noi ti apparteniamo. Sopportaci solo un momento: questo cibo sembra troppo buono per non essere assaggiato dopo averlo fissato così a lungo. Sarebbe troppo scortese lasciarlo.» Dopodiché, non appena le catene vennero spezzate, egli mangiò una grossa fetta di tacchino e tre quaglie disossate e servite nella gelatina, e Juss una dozzina di uova di piviere ed una pernice fredda. Poi Lord Brandoch Daha disse a Juss: «Ti prego di rompere i gusci d'uovo, Juss, dopo averne mangiato il contenuto, per evitare che qualche Mago possa inciderli ο scrivervi sopra il tuo nome, e così far del male alla tua persona.» E, versatasi una brocca di vino, la tracannò, e tornò a riempirla. «Che possa essere dannato se non è il mio vino di Krothering! Hai mai visto un ospite più premuroso di Re Gorice?» E bevve il secondo bicchiere alla salute di Lord Juss, dicendo: «Berrò ancora con te a Carce quando il Re di Witchland e tutti i suoi Signori saranno uccisi.» Dopodiché, presero le loro armi che stavano sul tavolo, messe là per tormentare le loro anime con l'esigua speranza di poterle riprendere e col cuore lieto, anche se con gli arti irrigiditi, uscirono assieme a La Fireez dalla sala dei banchetti. Quando furono giunti nel cortile, Juss disse: «L'onore ci fermerebbe la mano anche se non avessimo fatto il patto con te, La Fireez. Sarebbe una grande ignominia per noi se ci accanissimo contro i Signori di Witchland mentre essi sono ubriachi e incapaci di affrontarci da pari a pari. Ma, prima che ce ne andiamo da Carce, permettici di perlustrare la fortezza per vedere di rintracciare mio fratello Goldry Bluszco, dal momento che siamo venuti fin qui solo con la speranza di trovarlo e di salvarlo.» «Per me va bene, se non toccherete nessun altro se non Goldry, quando lo avremo trovato,» disse il Principe. Quando ebbero trovato le chiavi frugarono nell'intera Carce, anche nella spaventosa camera dove il Re aveva compiuto la sua evocazione, nelle cripte e nelle cantine sotto il fiume. Ma non servì a nulla. Mentre stavano nel cortile alla luce delle torce, uscì su un balcone Lady Prezmyra in camicia da notte, evidentemente disturbata dal trepestio. Sembrava eterea come una nuvola, splendida in quella notte serena, come una nuvola sfiorata dagli effluvi della luna non sorta. «Che cambiamento è
mai questo?», disse. «Dei Demoni liberi nel cortile?» «Rallegrati, mia cara!», disse il Principe. «Il tuo uomo è salvo, e anche tutti gli altri, credo; anche se il Re ha la testa rotta, cosa della quale mi dolgo, e guarirà senza dubbio in breve tempo. Sono tutti distesi nella sala dei banchetti, stanotte, troppo instupiditi dal sonno dovuto alle bevute per raggiungere le loro camere.» «I miei timori sono ricaduti su di me!», gridò Prezmyra. «Hai rotto con Witchland?» «Questa è una cosa che non posso prevedere,» rispose lui. «Domani di loro che non sono animato dall'odio, ma che sono stato spinto solo dalle circostanze. Perché non sono né un codardo né un essere spregevole al punto da lasciare i miei amici in prigione mentre mi restano ancora abbastanza forze da poter fare qualcosa per liberarli.» «Dovete lasciare Carce,» disse Prezmyra, «e subito! Il mio figliastro Hacmon, che era stato mandato a raccogliere degli uomini per tenerti in soggezione, qualora ve ne fosse stato bisogno, in questo momento sta arrivando da sud con un grosso contingente. I vostri cavalli sono freschi, e potrete ben distanziare gli uomini del Re se essi si metteranno al vostro inseguimento. Se non vuoi far scorrere un fiume di sangue fra noi, va via!» «Addio allora, sorella! E non aver paura, questa incrinatura fra me e Witchland sarà presto accomodata e dimenticata.» Così parlò il Principe con voce allegra, ma col cuore in pena. Poiché sapeva bene che il Re non gli avrebbe mai perdonato quel colpo alla fronte, né di avergli sottratto la sua preda. Ma lei disse con tristezza: «Addio, fratello mio! Il cuore mi dice che non ti rivedrò più. Nel liberare questi due, hai dissotterrato due mandragole che porteranno dolore e morte (30) a te, a me, ed a tutta Witchland.» Il Principe rimase silenzioso, ma Lord Juss s'inchinò a Prezmyra, dicendo: «Signora, queste cose sono nelle mani del Fato. Ma non pensare neppure che, finché avremo vita e fiato dentro di noi, faremo mancare il nostro sostegno al Principe tuo fratello. I suoi nemici sono nostri nemici, dopo questa notte.» «Sei disposto a giurarlo?», disse lei. «Signora,» rispose Juss, «lo giuro a te ed a lui!» Lady Prezmyra si ritirò mestamente nella sua stanza, e di lì a poco udì gli zoccoli dei loro cavalli sul ponte. Allora guardò, e vide che stavano galoppando sulla Strada dei Re, appena distinguibili nella luce color rame della luna calante che saliva su Pixyland.
Si sedette allora accanto alla finestra della camera da letto di Corund, continuando a scrutare nella notte molto dopo che suo fratello, i suoi uomini ed i Signori di Demonland erano scomparsi alla vista, molto dopo che l'ultimo tonfo degli zoccoli aveva smesso di echeggiare sulla strada. Dopo un po', gli zoccoli di altri cavalli ed il rumore di una numerosa compagnia risuonarono da sud; ed ella comprese che era il giovane Hacmon che stava tornando da Permio. VIII. LA PRIMA SPEDIZIONE AD IMPLAND Del ritorno dei Demoni, e di come Lord Juss apprese da un sogno dove cercare notizie del suo caro fratello, e di come essi tennero consiglio a Krothering, e decisero la spedizione ad Impland. Una notte di mezza estate - una notte di ambrosia ammantata di stelle scivolava sul mare, mentre la nave che riportava i Demoni a casa si avvicinava alla fine del suo viaggio. I mantelli di Lord Juss e Lord Brandoch Daha, che dormivano a poppa, erano umidi di rugiada. Avevano viaggiato dolcemente in quella notte incantata, mentre i venti si erano assopiti e non si udiva nulla tranne le onde che ciarlavano sotto la prua della nave, il canto ritmato e monotono del nocchiere, ed il cigolio, il tonfo, e lo sciabordio dei remi che seguivano il ritmo del canto. Vega ardeva come uno zaffiro in prossimità dello zenit, e Arturo era bassa a nord-ovest ed illuminava Demonland. Lontanissima, a sud-est, Fomalhaut saliva dal mare: era uno splendore solitario nella regione oscura del Capricorno e dei Pesci. Remarono finché non spuntò il giorno, ed un vento leggero si sollevò fresco e vivace. Quando Juss si svegliò, si alzò per scrutare la grigia superficie cristallina del mare che si estendeva fino a grandissima distanza, dove il cielo e l'acqua si confondevano. A poppa enormi nuvole ostruivano le porte del giorno, condensandosi verso l'alto in dirupi di scuri vapori color vino ed in ardenti pennacchi di luce solare. Negli spazi immacolati del cielo sopra di esse, si librava la luna cornuta, diafana e pallida come un bianco fiore di spuma sbocciato dalle onde (1). Ad ovest, di fronte all'alba immersa nei vapori, la stupenda cresta lontana del Kardatza era come un cristallo tagliato contro il cielo: era la prima iso-
la-sentinella della montuosa Demonland, con i suoi strapiombi più elevati illuminati di oro pallido ed ametista, mentre i declivi più bassi erano ancora immersi nell'oscurità, avvolti nelle pieghe della notte. Con l'avvento del giorno, le nebbie che ammantavano le falde della montagna si sollevarono in masse fluttuanti che si dilatavano, si contraevano e si dilatavano di nuovo, rese inquiete dai venti capricciosi che il giorno aveva destato nel fianco concavo della montagna, e da essi lacerate in ciocche e strisce. Alcune furono spinte verso l'alto, diffondendosi su per le grandi gole nelle rocce sotto la vetta, mentre di tanto in tanto uno sbuffo di vapore si staccava per qualche minuto, fluttuava per un po' come sul punto di sollevarsi verso il cielo, poi si abbassava pigramente di nuovo sulla parete della montagna per velarla con una coltre inconsistente di vapore dorato. Ora, tutta la costa occidentale di Demonland era chiaramente visibile. Si estendeva per più di cinquanta miglia dai Northouse Skerries al di là dei Drakeholm e delle basse colline di Kestawick e Byland, oltre le quali torreggiavano le montagne dello Scarf, fino al profilo frastagliato dei Thornbacks e delle lontane vette di Neverdale che incombevano sulle rive boscose di Onwardlithe e del Basso Tivarandardale, fino all'estremo promontorio meridionale, diafano a quella distanza, dove la grande catena di Rimon Ermon tuffava i suoi ultimi, selvaggi bastioni nel mare. Come un uomo che guarda la sua amante, così Lord Juss fissava Demonland che sorgeva dal mare. Non pronunciò alcuna parola finché non giunsero al promontorio di Lookinghaven e poterono vedere il punto dove, al di là di quella sporgenza rostrata, si apriva lo stretto fra Kardatza ed il continente. Anche se il mare aperto era calmo, l'aria nello stretto era carica degli spruzzi dell'acqua che ribolliva fra le scogliere e le secche insidiose. Perché la marea correva come un torrente attraverso quello stretto, e il suo rombo si udiva nettamente a due miglia di distanza, dove essi stavano navigando. «Ti ricordi come ho guidato la flotta dei Ghoul fra quelle mandibole?», disse Juss. «Mi sono vergognato di dirtelo finché sono stato preda dell'angoscia. Ma questo è il primo giorno, da quando siamo stati raggiunti dal Messo di Gorice, che non ho desiderato nel mio cuore che le Correnti di Kardatza inghiottissero anche me, facendomi fare la stessa fine dei maledetti Ghoul.» Lord Brandoch Daha gli rivolse una rapida occhiata e rimase silenzioso.
In breve tempo, la nave raggiunse Lookinghaven e si accostò alla banchina di marmo. Spitfire stava in mezzo alla sua gente e li salutò, dicendo: «Avevo fatto preparare ogni cosa in modo da portarvi tutti e tre in trionfo dalla nave fino a casa, ma Volle mi ha sconsigliato. Sono lieto di aver seguito il suo consiglio, e di aver fatto togliere le cose che avevo preparato. Vederle, adesso mi avrebbe spezzato il cuore.» «Fratello mio,» rispose Juss, «questo clangore di martelli a Lookinghaven, e queste dieci chiglie sul molo, mi dimostrano che, da quando sei tornato a casa, siete stati impegnati in cose molto più necessarie delle corone della vittoria e dei festeggiamenti.» Montati a cavallo, durante il tragitto riferirono a Spitfire tutto ciò che era accaduto da quando si erano messi in viaggio per Carce. Così facendo, si portarono a nord del porto, ed oltre Havershaw Tongue, fino a Beckfoot dove presero il sentiero che saliva attraverso Evendale e raggiungeva le falde di Starksty Pike, arrivando poco prima di mezzogiorno a Galing. La nera rupe di Galing si trovava all'estremità del contrafforte che si estendeva giù dal crinale meridionale del Little Drakeholm, dividendo Brankdale da Evendale. Su tre lati le pareti cadevano a picco dalle mura del castello fino ai folti boschi di querce, betulle e sorbi selvatici che ricoprivano la pianura di Moogarth Bottom e adornavano le pareti del burrone attraverso il quale il torrente di Brankdale precipitava in cascate su cascate. Solo a nord-est una creatura che non fosse alata avrebbe potuto raggiungere il castello lungo un'agevole sella erbosa, larga meno di un tiro di sasso. Al di sopra di quella sella si snodava la via lastricata che conduceva dalla strada di Brankdale alla Porta del Leone, al di là della quale c'era il giardino del sentiero erboso fra i tassi dove Lessingham si era fermato col rondicchio nove settimane prima, quando era giunto per la prima volta a Demonland. Quando scese la notte e la cena terminò, Juss se ne andò a passeggiare da solo sulle mura del suo castello, osservando le costellazioni che splendevano nel cielo senza luna al di sopra delle ombre imponenti delle montagne, ascoltando il grido dei gufi nei boschi sottostanti ed il debole tintinnio lontano dei campanacci, e respirando la fragranza che il vento notturno portava dal giardino e che anche in piena estate aveva l'intenso sentore delle montagne e del mare. Le immagini, i profumi e le voci di quella notte straordinaria, lo irretirono a tal punto che mancava soltanto un'ora alla mezzanotte quando lasciò i bastioni, e chiamò le sue insonnolite guardie
del corpo (2) per illuminargli la strada fino alla sua camera nella torre sud di Galing. Il grande letto a quattro colonne di Lord Juss era magnifico. Costruito in oro massiccio, era circondato da arazzi di colore blu scuro sui quali erano raffigurati dei papaveri. Il baldacchino sovrastante il letto era un mosaico di pietre minuscole (3) - giaietto, serpentina, zircone scuro, marmo nero, eliotropio e lapislazzuli - talmente mescolate in un intrico di tinte cangianti e luccicanti, da imitare il cielo scintillante della notte. E su di esso era raffigurata la costellazione di Orione, che Juss considerava depositaria delle sue fortune, le cui stelle, come quelle sotto la volta d'oro della Sala delle Udienze, erano gioielli che splendevano di luce propria, e non materia inerte che luccicava nel buio. Per Betelgeuse c'era un rubino scintillante, per Rigel un diamante, e pallidi topazi per le altre stelle. Le quattro colonne del letto erano spesse quanto il braccio di un uomo nella parte superiore, ma la parte inferiore era larga come un bacino e scolpita ad immagine di uccelli ed animali: ai piedi del letto c'erano un leone ed un gufo come simboli di coraggio e saggezza e, a capo, un alano ed un martin pescatore a simboleggiare lealtà e felicità. Sulla cornice del letto e sui pannelli sopra il cuscino, contro la parete, erano scolpite le audaci imprese di Juss; e l'ultimo bassorilievo si riferiva alla battaglia navale coi Ghoul. A destra del letto c'era un tavolo con antichi libri di canzoni, di stelle, di erbe, di animali, e di racconti di viaggiatori, ed era là che Juss era solito appoggiare la spada accanto a sé mentre dormiva. Tutte le pareti erano rivestite di pannelli di legno scuro e profumato, e su di esse erano appese armi e armature. Grosse casse e forzieri muniti di lucchetti (4) e bordati d'oro, nei quali egli custodiva i suoi ricchi abiti, erano appoggiati contro la parete. Le finestre erano aperte ad ovest ed a sud, e su ogni davanzale c'era una boccia di pallidissima giada colma di rose bianche; e l'aria che entrava nella camera da letto, era pregna del loro profumo. Poco prima del canto del gallo, a Juss venne un sogno, che si fermò accanto alla sua testa e gli sfiorò gli occhi cosicché ebbe la sensazione di svegliarsi e di osservare la camera. Gli parve di vedere una bestia malefica con molte teste, che emetteva fiamme come un drago, aggirarsi per la stanza: era la più maligna che avesse mai visto in tutta la sua vita, ed intorno aveva cinque cuccioli, simili ad essa ma più piccoli. A Juss parve che al posto della sua spada sul tavolo accanto al letto vi fosse una lancia di squisita fattura; e, nel sogno, gli parve che quella lancia
fosse stata sua da sempre, che fosse l'oggetto più prezioso che aveva, e che con essa avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, mentre senza non avrebbe ricordato nulla. Cercò di allungare una mano verso la lancia, ma un qualche misterioso potere glielo impedì cosicché, nonostante tutti gli sforzi, non riuscì a muoversi. Ma la bestia afferrò la lancia fra le fauci, ed uscì con quella dalla camera. A Juss parve che il potere che lo aveva imprigionato se ne fosse andato assieme alla bestia, ed allora balzò in piedi, staccò le armi dalla parete ed assalì i cuccioli orrendi che stavano lacerando gli arazzi e deturpando col loro fiato ardente la figura del martin pescatore a capo del letto. Tutta la camera era piena del tanfo di bruciato, ed allora pensò che i suoi amici fossero con lui nella stanza - Volle, Vizz, Zigg, Spitfire e Brandoch Daha - e stessero combattendo con la bestia, la quale però stava avendo la meglio su di loro. Allora gli parve che la colonna del letto scolpita ad immagine di un gufo gli parlasse con linguaggio umano, e dicesse: «Stolto, ciò provocherà una infelicità senza fine, a meno che tu non riporti indietro la lancia. Hai dimenticato che essa è il più grande tesoro che hai, e la cosa più importante che ti è stata affidata?» Al che la bestia orribile e spaventosa rientrò nella stanza, e Juss la assalì, gridando al gufo: «Gufo scortese, dove mai potrò trovare la mia lancia che questa bestia ha nascosto?» E gli parve che il gufo rispondesse: «Cerca sul Koshtra Belorn!» Era stato così tumultuoso il sogno di Lord Juss, che egli si svegliò cadendo dal letto sui tappeti di pelle di daino che erano distesi sul pavimento, e la sua mano destra afferrò l'elsa dello spadone che stava sul tavolo accanto al letto, nel punto dove nel sogno aveva visto la lancia. Era profondamente emozionato. Subito si vestì, attraversò i corridoi buio e, giunto nella stanza di Spitfire, si sedette sul suo letto e lo svegliò. Gli raccontò il sogno e disse: «Ritengo di non dovermi vergognare di nulla, perché da quel giorno ho avuto una sola preoccupazione: come trovare il mio caro fratello e riportarlo a casa, e solo allora sfogare la mia ira sulle Streghe. E cosa poteva essere quella lancia nel mio sogno se non Goldry? Questa visione notturna accende per noi un faro che dobbiamo seguire. Ci consiglia di cercare sul Koshtra Belorn e, finché ciò non sarà fatto, non avrò più riposo e non penserò più ad altro.» «Tu sei il nostro fratello più anziano,» rispose Spitfire, «ed io ti seguirò e ti obbedirò in tutto ciò che vorrai ed ordinerai.»
Quind Juss si recò nella camera degli ospiti, dove stava dormendo Brandoch Daha, lo svegliò e gli disse tutto. Brandoch Daha si rannicchiò sotto le coltri e mormorò: «Lasciami stare e fammi dormire per un paio d'ore ancora. Dopo mi alzerò, farò il bagno, mi vestirò e mangerò il mio pasto mattutino, quindi terrò consiglio con te e ti dirò qualcosa che ti sarà utile. Non ho dormito su un letto di piume d'oca e fra lenzuola di batista per diverse settimane. Se mi affliggi adesso, per Dio, porterò immediatamente il mio cavallo sull'Erta per Krothering, e lascerò che tu ed i tuoi problemi andiate al diavolo!» Juss scoppiò a ridere e lo lasciò in pace. Più tardi, quando ebbero mangiato, s'incamminarono su un sentiero invaso dall'acqua, dove l'aria era fresca e l'ombra purpurea che si proiettava per terra era chiazzata di brillanti schegge di luce solare. Lord Brandoch Daha disse: «Tu sai che il Koshtra Belorn, è una grande montagna, vicino alla quale le nostre montagne di Demonland sembrano soltanto delle piccole colline insignificanti, e che si trova nelle estreme propaggini della terra che si stende al di là dei deserti dell'Alto Impland, e che potresti cercare per un anno fra i popoli del mondo senza trovare nessun anima vivente che l'ha guardata anche solo da lontano.» «Lo so bene!», rispose Lord Juss. «Il tuo cuore è fermamente deciso a compiere questo viaggio?», chiese Brandoch Daha. «Oppure è solo un'idea bizzarra, una cosa che va a vantaggio dei nostri nemici, il fatto che saremmo spinti da questo sogno a precipitarci in una terra così lontana e pericolosa, invece di far pagare a Witchland l'affronto che ci hanno fatto?» «Il mio letto,» rispose Juss, «è protetto da Incantesimi così efficaci che nessun sogno insignificante potrebbe attraversare la Porta d'Avorio né una malefica Stregoneria avrebbe il potere di disturbare il sonno di colui che vi dorme. Questo sogno è veritiero! C'è tempo per Witchland. Se non verrai con me sul Koshtra Belorn, dovrò andarci senza di te.» «Basta così!», disse Lord Brandoch Daha. «Tu sai che per te il mio borsellino è legato con un filo di ragno. Allora andremo ad Impland, ed in questo posso aiutarti. Ascolta ciò che sto per dirti. Quando uccisi Gorice X a Goblinland, Gaslark mi diede, assieme ad altri doni, una cosa molto curiosa: un trattato ο libro scritto su pergamena dal suo segretario, Bhorreon, in cui si parlava di tutte le strade che portano ad Impland e di quali paesi e regni si trovano dopo il Moruna e prima, e delle meraviglie di quelle terre. Tutto ciò Bhorreon scrisse dopo aver ascoltato i racconti di Gro, quello
stesso Gro che adesso sta dalla parte di Witchland. Grandi onori ricevette a suo tempo Gro da Gaslark per i suoi viaggi in terre lontane e per ciò che è descritto in questo libro di meraviglie; e fu proprio questo libro a far nascere nella mente di Gaslark l'idea di inviare quella spedizione ad Impland, che tanto gli costò e giunse così miseramente ad un nulla di fatto. Se vuoi davvero andare sul Koshtra Belorn, vieni oggi stesso a casa mia e ti mostrerò quel libro.» Così parlò Lord Brandoch Daha, e Lord Juss subito ordinò che fossero portati i cavalli, ed inviò dei messaggeri a Volle, ai piedi del Kardatza, ed a Vizz a Darklairstead invitandoli a raggiungerlo a Krothering a tutta velocità. Quattro ore prima di mezzogiorno, Juss, Spitfire, e Brandoch Daha, cavalcarono giù da Galing e attraverso i boschi di Moongarth Bottom ai piedi del lago, prendendo la strada principale su per Breakingdale, che si snodava dal margine occidentale di Moonmere sotto gli speroni dello Scarf. Procedevano con lentezza, perché il sole picchiava forte sulle loro schiene. Il lago era cristallino e simile ad un turchese, con i crinali coperti di betulle ad est e a nord mentre, al di là di essi, le pendici aspre e nude dello Stathfell e del Budrafell si riflettevano nelle sue profondità. Sulla sinistra rispetto a loro, gli speroni dello Scarf incombevano come bastioni di porfido nero addossati l'uno all'altro, simili a castelli di giganti; e piccole valli ostruite da mostruosi macigni, fra i quali i boschetti di betulle argentee apparivano come minuscole piante di giardino, si snodavano ripide verso l'alto fra gli speroni. Al di sopra di quelle valli apparvero successivamente le vette maggiori dello Scarf, selvagge e remote, che guardavano minacciose verso il basso come se questo fosse fra le loro ginocchia: erano Glaumry Pike, Micklescarf, ed Illstack. A mezzogiorno si erano arrampicati fino alla punta estrema di Breakingdale, e si fermarono sull'Erta, poco oltre lo spartiacque, sotto lo strapiombo settentrionale di Ill Drennock. Davanti a loro il passo scendeva ripidamente fino ad Amadardale. Il tratto inferiore dello Switchwater scintillava quindici miglia ο più a ovest, quasi invisibile nella foschia. Più vicino, a nord-ovest, c'era Rammerick Mere, annidata fra le dolci colline di Kelialand e gli altopiani più orientali di Shalgreth Heath, col mare alle spalle; e, sul fondovalle, in prossimità del punto dove il Transdale confluiva nell'Amadardale, era possibile scorgere i tetti della casa di Zigg a Many Bushes. Quando vi giunsero, Zigg era uscito per andare a caccia. Così lasciarono
un messaggio a sua moglie, bevvero il bicchiere della staffa e proseguirono su per Switchwater Way, e per dodici miglia e più lungo la riva sinistra dello Switchwater. Poi giunsero a Gashterndale, e da lì, aggirando le pendici occidentali di Erngate End, salirono sul Versante di Krothering dove le ombre si stavano allungando nella dorata sera estiva. Il Versante scendeva dolcemente verso ovest per più di una lega fin dove l'Estuario di Thunder giaceva come oro battuto sotto il sole. Al di là dell'Estuario le foreste di pini di Westmark, antiche come il mondo, di elevavano verso Brocksty Edge e Gemsar Edge: era un esteso anfiteatro di pareti nudi e falde detritiche che si chiudeva a nord. Sulla sinistra torreggiavano, altissimi, i precipizi di Erngate End; invece, a sud ed a sud-est, c'era il mare. Cavalcarono giù per il Versante, attraverso distese d'erba bellissime e tranquille, punteggiate di margherite di campo, campanule, olmarie gialle e licnidi marine, genziane di color azzurro cupo, agrimonia e maggiorana selvatica, trifoglio rosa, convolvolo e grandi ranuncoli gialli che si crogiolavano nel sole (5). Su una sporgenza oltre la quale il suolo scendeva ancora più ripidamente verso il mare, le torri d'onice (6) di Krothering che sovrastavano boschi e giardini, apparivano di color bianco latte contro il cielo ed il mare ialino (7). Quando si trovarono a solo mezzo miglio dal castello, Juss disse: «Guarda. Lady Mevrian ci ha scorti da lontano, e sta arrivando per condurti a casa.» Brandoch Daha avanzò al piccolo galoppo per andarle incontro. Era una donna di corporatura snella e straordinariamente graziosa a vedersi, dal portamento splendido come quello di un destriero, i lineamenti delicati, la bella fronte, gli occhi grigi e fieri; aveva una voce dolce, ma non come di chi dice soltanto cose sdolcinate. La sua veste era di seta color camoscio chiaro, con un corpetto ricoperto di sottilissimi fili dorati come una tela di ragno, ed indossava una gala di trine (8) resa rigida da fili d'oro e d'argento e ornata di piccoli diamanti. I suoi folti capelli, neri come l'ala di un corvo, erano tenuti assieme con spilloni d'oro, e una rosa gialla che portava in mezzo alle crocchie, era come una luna che occhieggiasse fra dense nubi notturne. «Le cose stanno precipitando, mia cara sorella,» disse Lord Brandoch Daha. «Da quando salpammo da qui, abbiamo eliminato un Re di Witchland; e siamo stati ospiti di un altro a Carce, con nostro scarso piacere. Ti racconterò tutto fra poco. La nostra destinazione adesso è Impland, e
Krothering è solo il nostro caravanserraglio.» (9) Lei fece voltare il cavallo, e si misero tutti al galoppo all'ombra degli antichi cedri che si trovavano raggruppati a nord dei prati e dei giardini: erano maestosi, dai rami sottili, dalle chiome basse, e pallidi contro il cielo. A sinistra, un lago coperto di gigli dormiva placido sotto imponenti olmi, con un cigno nero in prossimità dell'argine ed i suoi quattro piccoli in fila, assopiti, con le testoline infilate sotto le ali, al punto che sembravano batuffoli di schiuma fluttuanti sull'acqua. Il sentiero che conduceva al ponte levatoio saliva ripido e tortuoso su per il pendio fra basse e larghe balaustre (10) di onice bianco che sostenevano, ad intervalli, dei vasi di onice quadrati, in alcuni dei quali erano piantate delle rose gialle, ed in altri degli splendidi fiori, grandi e delicati, con dei fragili petali bianchi a forma di conchiglia. Avevano una parte centrale profonda e misteriosa, quei fiori, ricoperta di folti peli e scura all'interno, di un colore porpora vellutato screziato di nero, sangue e oro. Il castello di Lord Brandoch Daha, che si trovava in cima al pendio, era circondato da un fossato largo e profondo. La porta davanti al ponte levatoio era di ferro dorato e riccamente lavorato. Le torri e la guardiola erano di onice bianco come il castello stesso, e su entrambi i lati davanti alla porta c'erano due colossali ippogrifi di marmo, che si ergevano per più di trenta piedi fino al garrese; e le ali, gli zoccoli ed i loro talloni, nonché le criniere e le piume, erano coperti d'oro, mentre avevano gli occhi costituiti da rubini di lucentezza purissima. Sopra la porta c'era scritto in lettere d'oro: Voi gradassi che state là, Attenti che vien qua, Lord Brandoch Daha. È possibile citare solo la decima parte delle meraviglie che si trovavano nella casa di Krothering: le sue tranquille corti ed i colonnati adorni di gemme e profumati di aromi costosissimi; le sue camere da letto dove, racchiuso come Afrodite nel suo nido, lo spirito del sonno sembrava sempre scrollarsi il sopore dalle piume, e dove nessuno poteva restare sveglio a lungo perché il dolce sonno si posava sulle sue palpebre: inoltre vi erano la Camera del Sole e la Camera della Luna, e la grande sala centrale con la sua alta tribuna e la scalinata d'avorio. Parlare di tutte queste cose significherebbe solo riempire l'immaginazione con eccessive descrizioni di magnificenza e splendore.
Non accadde nulla quella notte, a parte l'arrivo di Zigg prima del tramonto, e dei fratelli Volle e Vizz alla sera, avendo essi cavalcato alacremente per obbedire all'ordine di Juss. Al mattino, dopo aver mangiato, i Signori di Demonland scesero nel giardino, e con essi c'era Lady Mevrian. Si sedettero in un sentiero che aveva per tetto delle travi di cedro appoggiate a colonne di marmo, con le travi e le colonne ricoperte di rose color rosso cupo, che guardavano verso est al di là del giardino infossato. Il clima era mite e gradevole, ed una abbondante rugiada si era posata sui pallidi prati a terrazze che scendevano fra le aiuole di fiori fino al laghetto che stava nel mezzo. L'acqua formava uno specchio immobile sul quale fluttuavano ninfee gialle e cremisi che si aprivano verso il cielo. Tutti i verdi colori dei fiori splendevano caldi e nitidi, ma nello stesso tempo erano morbidi e sfumati, velati dalla grigia foschia della mattina estiva. Si sedettero su sedie e panche, accanto ad un enorme vasca ο vaso di giada verde scuro dove crescevano dei gigli color zolfo di languida bellezza, coi petali arricciati all'indietro che mostravano le antere scarlatte; e l'aria era pregna della loro fragranza. Il grande vaso di giada era tondo e piatto come il corpo di una tartaruga aperto in cima, dove crescevano i gigli. Era scolpito a scaglie, come se fosse il corpo di un drago, e una testa di drago con la bocca spalancata si sollevava ad una estremità, mentre all'altra una coda si curvava verso l'alto come il manico di una cesta. La coda aveva delle piccole zampe anteriori e posteriori munite di artigli, ed una testa più piccola alla sua estremità era rivolta verso il basso e addentava la testa grande. Quattro zampe sostenevano il corpo, ed ogni zampa era un piccolo drago ritto sulle zampe posteriori, la cui testa cresceva nel corpo principale, così come la coscia ο l'attaccatura della spalla si congiungono al tronco. Lord Brandoch Daha si sedette con disinvoltura nella curva del collo della creatura, col dorso appoggiato alla testa, un piede che toccava il suolo e l'altro che oscillava. In mano aveva il libro, rilegato in pelle di capra scura color pulce e oro, donatogli da Gaslark anni prima. Zigg lo vide voltare pigramente le pagine mentre gli altri conversavano. Sporgendosi verso Mevrian, le sussurrò in un orecchio: «Non ti sembra nato per conquistare il mondo e averlo ai suoi piedi, tuo fratello? Un uomo avvezzo al sangue ed al pericolo, eppure così bello di aspetto?» Gli occhi di lei brillarono. «È la pura verità, mio Signore!», disse. «Leggi per noi il libro di Gro,» esclamò Spitfire, «ti prego! Perché la
mia anima è ansiosa di cominciare questo viaggio.» «La scrittura è contorta,» disse Brandoch Daha, «e lo stile è assai prolisso. Ho speso metà della notte a cercare, e apparentemente non esiste altra strada in queste montagne se non quella di Moruna e, al di là di Moruna (se Gro dice il vero), c'è solo una strada, quella dal Golfo di Muelva: 'un viaggio di venti giorni da nord a sud-est'. Perché qui egli parla di sorgenti lungo la strada, ma dice che in altre parti del deserto non ci sono sorgenti, tranne quelle velenose, dove 'L'acqua puzza come un pitale, ed ha un olezzo in qualche modo sulfureo e sgradevolissimo' e, 'Il suolo qui non nutre piante né erbe, eccetto funghi velenosi ο sterpaglia'.» «E se mentisse?», chiese Spitfire. «È un voltagabbana ed un rinnegato. Perché non dovrebbe essere anche un bugiardo?» «È un filosofo,» rispose Juss. «L'ho conosciuto bene un tempo a Goblinland, e ritengo che ci sia da diffidare di lui soltanto in politica. Ha una mente acuta, e nutre una passione speciale per gli intrighi ed i complotti e, come credo, si schiera sempre - perversamente - dalla parte perdente, se si trova impelagato in una controversia: è questo che lo ha trascinato spesso nella sventura. Ma in questo libro dei suoi viaggi ho l'impressione che dica la verità: non avrebbe avuto senso mentire a se stesso.» Lady Mevrian rivolse uno sguardo di approvazione a Lord Juss ed i suoi occhi scintillarono. Per sua indole provava molto piacere nell'ascoltare uomini dalla personalità tanto straordinaria. «Juss, amico del mio cuore,» disse Lord Brandoch Daha, «le parole scaturiscono, come sempre, dalla vera fonte della saggezza, ed io accolgo fra le mie braccia loro e te. Questo libro è una guida che seguiremo non pedissequamente ma come vecchi uomini d'arme. Se la strada giusta per Morna Moruna parte dal Golfo di Musiva, non faremmo meglio a navigare fin là, ed ormeggiare le nostre navi in quel Golfo dove sulla costa e nell'entroterra non vi sono abitazioni, invece di fare il viaggio fino a un porto più vicino dell'Impland Esterno, come Arlan Mouth, dove andaste tu e Spitfire sei estati fa?» «Niente Arlan Mouth, questa volta!», disse Juss. «Forse potremmo divertirci un po' laggiù se avessimo il tempo per batterci con i suoi maledetti abitanti, ma ogni giorno di indugio significherebbe un ulteriore giorno di prigionia per mio fratello. I Principi ed i Faz dei Diavoli hanno molte città fortificate e torri su tutte le loro coste e, sull'isolotto in mezzo al fiume Arlan, ad Orpish, c'è il grande castello di Fax Fay Faz, dove io e Goldry riportammo La Fireez da Lida Nanguna.»
«È una pessima costa per trovarvi un approdo,» disse Brandoch Daha, voltando le pagine del libro. «Come dice Gro, 'Impland la Grande comincia sul lato ovest della foce dell'Arlan e si estende per tutto il promontorio di Sibrion, e da lì a sud fino al Corshe, per circa settecento miglia, ed il mare non è favorevole e non vi è un porto ο un rifugio per le navi.'» Dopo aver discusso ancora un po' ed aver sfogliato il libro di Gro, stabilirono il seguente piano: avrebbero viaggiato fino ad Impland attraverso lo Stretto di Melikaphkhaz ed il Mare Didorniano, ed avrebbero ormeggiato le navi nel Golfo di Muelva. Dopodiché avrebbero attraversato la landa di Morna Moruna, seguendo esattamente la strada descritta da Gro. «Prima di riporre il libro,» disse Brandoch Daha, «ascoltate cosa dice a proposito del Koshtra Belorn. Lo osservò da Morna Moruna, della quale dice: 'La regione è collinosa, sabbiosa, e priva di boschi e campi, ma con selve invase dall'erica, brughiere, torbiere e colline pietrose. In mezzo al deserto c'è un enorme e poderoso rifugio per serpenti volanti, in una zona sabbiosa e coperta d'erica, e nelle vicinanze il piccolo castello rotondo di Morna Moruna si erge su Omprenne Edge, come fosse al limite del mondo, deturpato dalle intemperie ed in rovina. 'Questo castello fu assediato durante la guerra, saccheggiato e raso al suolo da Re Gorice IV di Witchland molto tempo fa. E dicono che in esso abitavano persone buone e gentili, e che non vi era alcuna ragione per cui Gorice dovesse essere così crudele, quando fece portare al suo cospetto tutti gli abitanti e ne uccise alcuni di mano propria, facendo gettare gli altri giù dal precipizio. 'Solo in pochi sopravvissero alla caduta, e questi fuggirono via attraverso le foreste vergini di Bavvynaune e senza dubbio morirono laggiù tra grandi pene e tormenti. Qualcuno ipotizza che fu proprio in conseguenza di questa azione crudele che Re Gorice fu divorato dagli Spiriti sul Moruna con tutti i suoi soldati. Solo un uomo tornò a casa per raccontare ciò che era accaduto.' Poi osserva: 'Da Morna Moruna ho guardato a sud due grandi montagne che incombono su Bavygnane belle come due Regine, e si elevano nel cielo apparentemente per venti leghe al di sopra delle altre montagne. Una di esse appresi che era il Kosthtra Belorn e l'altra il Koshtra Pivrarca. Rimasi a guardarle fino al calar del sole, e fu lo spettacolo più bello, straordinario e meraviglioso che i miei occhi avessero mai visto. 'Parlai con quelle piccole creature che dimorano in mezzo alle rovine e fra i cespugli che crescono là intorno, com'è mio solito, e fra esse in parti-
colare con uno di quegli uccelli chiamati rondicchi che hanno delle zampe così piccole da dare la sensazione di non averle. E quel piccolo rondicchio che stava su un cespuglio di lamponi, mi disse che nessuno poteva salire vivo sul Koshtra Belorn, perché le manticore delle montagne gli avrebbero di certo divorato il cervello prima che riuscisse a giungere lassù. E, se anche fosse stato così fortunato da sfuggire alle manticore, non sarebbe mai riuscito ad arrampicarci sulle grandi balze di ghiaccio e roccia del Koshtra Belorn, perché nessuno è così forte da poterle scalare senza l'ausilio delle Arti Magiche, ed è tale il potere di quella montagna, che nessuna Magia è efficace lassù, ma solo la forza e la saggezza e, come ho detto, queste non servono per arrampicarsi su quelle pareti e su quei fiumi gelati.'» «Cosa sono queste manticore delle montagne che divorano i cervelli degli uomini?», domandò Lady Mevrian. «Questo libro è scritto così bene,» rispose il fratello, «che la risposta alla tua domanda compare sulla medesima pagina: 'La Manticora, che significa proprio divoratrice di uomini, vive, come ho sentito dire, sulle falde dei monti al di sotto delle nevi. Sono bestie mostruose, orribili e spaventose, nemiche degli esseri umani, di colore rosso, con due file di enormi zanne nella bocca. Hanno la testa di un uomo, gli occhi di capra, ed il corpo di leone con degli aculei appuntiti nella parte posteriore. La coda è quella di uno scorpione. Ed è più probabile vederle manifestare affetto che vederle fuggire. E la loro voce è simile al ruggito di dieci leoni.'» «Queste bestie,» disse Spitfire, «sono da sole sufficienti ad attirarmi laggiù. Te ne porterò una piccola, Signora, per tenerla incatenata nel cortile.» «Ciò mi farebbe rinunciare per sempre, alla tua amicizia, cugino,» disse Mevrian, accarezzando le orecchie pennute del piccolo uistiti (12) che stava rannicchiato nel suo grembo. «Una cosa che si nutre di cervelli, avrebbe cibo in abbondanza a Demonland, e probabilmente finirebbe con l'infestare tutto il paese.» «Mandala a Witchland,» disse Zigg. «Dopo che avrà mangiato Gro e Corund, potrà fare una cena leggera col Re, e poi fortunatamente morirà d'inedia per mancanza di nutrimento appropriato.» Juss si alza dalla sua sedia. «Tu, io e Spitfire,» disse a Brandoch Daha, «dobbiamo lavorare alacremente a radunare gli uomini, perché siamo già a metà dell'estate. Voi - Vizz, Volle e Zigg - sorveglierete le nostre case mentre saremo via. Non possiamo essere meno di duemila spade in questo viaggio.»
«Quante navi, Volle,» chiese Lord Brandoch Daha, «puoi darci, in assetto di guerra, prima che la luna cali?» «Quattordici sono già in mare,» disse Volle. «E, a parte queste, dieci chiglie si trovano sui moli a Lookinghaven, ed altre nove le ha Spitfire, ma adesso si trovano sulla spiaggia davanti alla sua casa ad Owlswick.» «Trentatré in tutto,» disse Spitfire. «Come vedi non abbiamo fatto girare i pollici mentre eravate via.» Juss si mise a camminare avanti e indietro a grandi passi, con la fronte aggrondata e le mascelle serrate. Dopo un po', disse: «Laxus ha quaranta vele: dei drakkar. Non sono così avventato da recarmi ad impland senza una flotta, ma è certo che, se i nostri nemici vorranno muoverci guerra, ci troviamo in una condizione di evidente debolezza, qui e altrove, per respingere il loro assalto.» «Di queste diciannove navi in costruzione,» disse Volle, «non più di due possono prendere il mare da qui a un mese, e altre sette non prima di sei mesi, per quanto non abbiamo mai lavorato così intensamente.» «Il tempo passa, e la resistenza di mio fratello si sta fiaccando. Dobbiamo salpare prima che cresca un'altra luna.» «Allora salperai con sedici vele, Juss,» disse Volle, «e non ci lascerai una sola nave, finché le altre non saranno terminate e messe in mare.» «Come possiamo lasciarvi in queste condizioni?», gridò Spitfire. Ma Brandoch Dalia guardò sua sorella, lesse il suo sguardo, e disse soddisfatto: «La scelta sta a noi,» affermò. «Se vogliamo mangiare l'uovo, c'è poco da discutere se dovremo rompere ο no il guscio.» Mevrian si alzò dalla panca ridendo, e disse: «Allora sciogliamo il Consiglio, miei Signori.» E i suoi occhi divennero seri mentre diceva: «Possiamo permettere che si compongano rime su di noi, le quali dicano che noi di Demonland, i cui uomini sono reputati i Signori più potenti del mondo, indugiamo davanti a questa impresa necessaria? E solo perché temiamo, dato che i nostri migliori Comandanti sono in mare, che il nemico possa sorprenderci nelle nostre case in condizioni di svantaggio? Non sarà mai detto che le donne di Demonland diano consigli di questo genere!» IX. LE COLLINE DI SALAPANTA Dell'approdo di Lord Juss e dei suoi compagni nell'Impland Esterno e del loro incontro con Zeldornius, Helteranius, e Jalcanaius Fostus;
e delle notizie riferite da Mivarsh, e del comportamento dei tre grandi Capitani sulle colline di Salapanta. Il trentunesimo giorno dopo il Consiglio tenuto a Krothering, la flotta di Demonland salpò da Lookinghaven: erano undici drakkar e due grandi navi da carico, che solcavano i mari più remoti della terra in cerca di Lord Goldry Bluszco. Milleottocento Demoni partirono in quella spedizione, ed erano tutti guerrieri veterani. Per cinque giorni remarono verso sud su un mare senza vento, ed il sesto le scogliere di Goblinland uscirono dalla foschia sul lato destro della prua. Remarono verso sud lungo la costa e, il decimo giorno dalla partenza da Lookinghaven, passarono sotto il Capo di Ozam, navigando per i successivi quattro giorni con un vento favorevole in mare aperto fino a Sibrion. Ma, quando ebbero aggirato quell'oscuro promontorio e si apprestarono a virare a est lungo la costa di Impland la Grande, e meno di dieci giorni di viaggio li separavano dal porto di Muelva, furono sorpresi da una violenta tempesta. Per quaranta giorni essa li sferzò con grandine e nevischio sull'oceano sconvolto, senza la luce di una stella, senza che potessero seguire una rotta; finché, in una mezzanotte selvaggia di vento, tenebre e acque ruggenti, la nave di Juss, quella di Spitfire ed altre quattro, furono trascinate sulle rocce di un tratto di costa e ridotte in pezzi. Con grande difficoltà, e dopo essersi a lungo dibattuti fra le onde gigantesche, i fratelli, esausti e contusi, raggiunsero la riva. Nella poco confortante luce di un'alba umida e ventosa, radunarono sulla spiaggia tutti i loro uomini che erano scampati alle fauci della distruzione: erano trecentotrentatré. Spitfire, guardandosi intorno, disse: «Questa terra ha un pessimo aspetto che ha stimolato la mia memoria, come un succo di frutta acerba (1) che, solo a guardarlo, rende aspra la bocca di chi lo ha assaggiato una volta. Ricordi questa terra?» Juss scrutò la lunga e bassa linea costiera che si allargava a nord-ovest in un estuario, e proseguiva verso ovest finché non scompariva alla vista schermata dalle nubi basse e dalle onde spumeggianti. Degli uccelli volavano solitari sul mare agitato. «Di certo,» disse Juss, questa è la foce dell'Arlan, che è l'ultimo luogo dove avrei voluto approdare con un contingente così scarso di uomini. Ciò dimostra, come sempre, che tutti gli avve-
nimenti sono per noi soltanto dei gradini che ci faranno ascendere le vette della gloria.» «La nostra nave è perduta!», gridò Spitfire, «come anche la maggior parte dei nostri uomini e, cosa peggiore di tutte, Brandoch Daha che ne vale diecimila. È più facile che una formica prosciughi l'oceano, che noi riusciamo a portare a termine la nostra impresa.» Poi imprecò e bestemmiò, dicendo: «Che sia maledetto questo mare maligno il quale, dopo aver decimato le nostre forze, ci ha scaraventati su questa riva portandoci alla completa rovina; e, così facendo, ha dato un grande aiuto al Re di Witchland, e provocato un grande danno a tutto il mondo.» Ma Juss replicò: «Non credere che questi venti contrari siano causati dalla sfortuna ο dall'influsso di stelle maligne e avverse. Questa tempesta viene da Carce. Proprio come queste onde che stai vedendo defluire e frangersi, così, dopo il Messo di Gorice è arrivata questa tempesta disastrosa, a causa della quale, anche se si tratta di una cosa meno spaventevole, molti sono annegati ed è stato trascinato via chi non era riuscito a mantenersi saldo di fronte al primo impeto dei frangenti. Da quel giorno, per due volte siamo andati vicini alla nostra distruzione: la prima, quando la nostra avvedutezza fu offuscata da una strana follia e ci unimmo a Gaslark per assalire Carce; poi, quando questa tempesta ci ha fatti naufragare qui, in prossimità della foce dell'Arlan. Anche se, grazie alle mie Arti Magiche, sono riuscito a respingere il Messo del Re, nulla hanno potuto i miei Incantesimi contro questa malefica tempesta che lo ha seguito, né le virtù di tutte le erbe magiche che coltivo.» «Se le cose stanno così, come fai a essere così paziente?», chiese Spitfire. «Non ti scoraggiare,» continuò Juss. «Le sabbie scorrono. Per un po' di tempo il fiume degli eventi si è avventato contro di noi; ma adesso dovrebbe essersi quasi prosciugato, e per Gorice sarebbe troppo pericoloso fare una seconda evocazione, come quella che ha effettuato lo scorso maggio a Carce.» «Chi ti ha detto questo?», domandò Spitfire. «È soltanto una mia congettura,» gli rispose Juss, «che ho ricavato dagli studi che ho fatto su certi scritti profetici che riguardavano i Principi di quel sangue e di quella discendenza. Da essi si deduce (anche se non chiaramente, ma dopo aver decifrato delle frasi enigmatiche) che se lo stesso Re che ha tentato una seconda volta e personalmente un'impresa di quel genere, fallisse, e le Potenze delle Tenebre lo distruggessero, allora non sa-
rebbe solo cancellata la sua vita (come accadde in precedenza a Gorice VII, al suo primo tentativo), ma avrebbe fine per sempre l'intera Casata dei Gorice che ha regnato a Carce per tante generazioni.» «Bene,» disse Spitfire, «allora abbiamo qualche possibilità! Il vecchio concime alla fine fiorisce.» Per diciannove giorni i fratelli ed i loro uomini viaggiarono verso est nell'Impland Esterno: prima attraverso una regione di fiumi tortuosi e indolenti ed una miriade di laghi circondati da canneti, poi attraverso altipiani ondulati e pianure aperte. Finalmente, una sera, giunsero in una brughiera che saliva verso est fino ad un gruppo di colline. Queste non erano né elevate né ripide, ma avevano il profilo irregolare e la loro superficie era accidentata per le balze ed i macigni, formando così un labirinto di piccole sporgenze e valli coperte di erica, felci e folta erba dal colore smorto, con biancospini nani e ginepri che fiorivano nelle fenditure delle rocce. Sullo spartiacque, come se fosse in groppa ad un cavallo, s'imbatterono in un fortilizio, che guardava a ovest verso il rosso tramonto ottobrino e a sud verso la lontana linea del Mare Didorniano. Il fortilizio era antico e solitario, e c'era un uomo seduto davanti alla porta. I cuori si sciolsero loro nel petto per la gioia, quando riconobbero in lui Brandoch Daha. Lo abbracciarono come uno che, al di là di ogni speranza, fosse ritornato dalla tomba, e lui disse: «Sono stato trascinato attraverso lo Stretto di Melikaphkhaz, e scaraventato infine sulla spiaggia solitaria che si trova dieci leghe a sud di questo posto, dove sono giunto solo, avendo perduto la mia nave e tutti i miei compagni. Nella mia mente c'era la convinzione che avreste seguito questa strada per andare a Muelva, nel caso aveste fatto naufragio sulle coste più estreme di Impland. «Prestate attenzione,» disse, «e vi racconterò una cosa straordinaria. Per sette notti vi ho aspettato su questa specie di rifugio per taccole e gufi. È un vero e proprio caravanserraglio di grandi armate che passano nella landa e, dopo aver parlato con due di esse, aspetto la terza. Sono infatti convinto di aver svelato un grande mistero, che ha tenute impegnate le menti degli uomini più sapienti per anni. «Il giorno in cui sono arrivato qui, quando il tramonto era rosso come lo vedete adesso, vidi un'armata proveniente da est che marciava con grandi bandiere che ondeggiavano al vento ed ogni genere di musica. Mentre le osservavo, pensai: se questi sono nemici, i giorni della mia vita finiranno
con onore e, se sono amici, allora stanno arrivando delle provvigioni su quei carri al seguito di questa armata. Una motivazione importante, dal momento che non sentivo odore di viveri, salvo quello delle disgustose nocciole e bacche della selva, delle quali mi ero nutrito da quando ero emerso dal mare. Allora raccolsi le mie armi, salii sulle mura di questo fortilizio e chiamai a gran voce, invitandoli a rivelare chi erano. Quello che era il loro Comandante cavalcò fin sotto le mura, e mi salutò con cortesia e portamento nobile. E chi credete che fosse?» Nessuno rispose. «Uno che è stato famoso,» continuò Brandoch Daha, «in lungo e in largo sulla terra come valoroso e audace mercenario. Avete dimenticato quell'impresa di Gaslark che naufragò ad Impland?» «Era piccolo e bruno,» domandò Juss, «come un pugnale aguzzo sfoderato improvvisamente a mezzanotte? Ο biondo, con lo splendore di una lancia munita di vessillo in un torneo di un giorno di gran festa? Ο aveva l'aspetto pericoloso di una vecchia spada, arrugginita in mezzo ma lucente nella punta e nel filo, brandita per un'impresa eroica in un giorno predestinato?» «La tua freccia ha colpito il triplo cerchio del bersaglio,» disse Lord Brandoch Daha. «Era grosso di statura, ed un vero pavone nello splendore della sua panoplia di guerra; e montava uno stallone nero come la pece. Allora mi rivolsi a lui, dicendo: Ό grandissimo e divino Helteranius, trionfatore in cento battaglie, cos'hai fatto durante questi lunghi anni nell'Impland Esterno con questo grande esercito? E quale misterioso magnete ti ha attirato in questi nove anni, da quando, con gran suono di trombe e scalpitare di cavalli tu, Zeldornius e Jalcanaius Fostus, veniste qui per trascinare Impland sotto i piedi di Gaslark? Da allora tutto il mondo vi crede morti.' Lui mi fissò con occhi alieni, e rispose: «Brandoch Daha, il mondo gira spinto da una volontà idiota, ma io cammino sempre col mio scopo davanti a me. Che siano nove anni, ο soltanto nove lune, ο nove ere, cosa importa? Devo trovare Zeldornius, che continua a sfuggirmi, ed ingaggiare battaglia con lui. Mangia e bevi con me questa notte; ma non credere di distogliermi dal mio proposito con idee peregrine. Infatti, al sorgere del nuovo giorno, riprenderò a muovermi in cerca di Zeldornius.' «Così quella notte mangiai, bevvi e trascorsi in allegria il mio tempo con Helteranius nel suo padiglione di seta e oro. All'alba, egli radunò la sua armata e marciò verso ovest in direzione delle pianure. «Il terzo giorno, mentre stavo seduto davanti a queste mura, maledicen-
do la lentezza della vostra venuta, vidi un'armata che marciava da est ed il suo condottiero che montava un piccolo cavallo bigio. Era vestito con un'armatura nera che luccicava come l'ala di un corvo, con piume di aquila nera sull'elmo, ed i suoi occhi erano come quelli di un puma, e sprizzavano scintille. Era di corporatura piccola e agile, aveva il volto fiero, ed era vigoroso e instancabile a vedersi come un ermellino. Lo salutai dal punto dove mi trovavo, e dissi: «O eminentissimo e potente Jalcanaius Fostus, sterminatore di uomini, dove siete diretti tu e la tua grande armata su questa landa solitaria?' Ed egli scese da cavallo, mi strinse le braccia con entrambe le mani, e disse: 'Sognare di parlare coi morti è un buon presagio. E non vieni forse dal Regno dei Morti tu, Brandoch Daha? Infatti, emergendo da un tempo dimenticato, che adesso sboccia nella mia mente dopo tanti anni come un fiore in un giardino invaso dalle erbacce, così tu adesso affiori nella mia memoria: grande fra i grandi del mondo che fu, tu e la tua casa di Krothering sopra i fiordi della montagnosa Demonland! Ma l'oblio, come un mare mormorante, risuona fra me e quei giorni, il rumore della risacca mi ottura le orecchie, e la nebbia del mare mi offusca gli occhi che si sforzano di lanciare un'occhiata a quei tempi lontani ed agli avvenimenti di allora. In ricordo di quei giorni, mangia e bevi con me stanotte, dal momento che ancora una volta - per una notte - pianterò la mia tenda qui, sulle Colline di Salapanta. E domandi ripartirò. Perché il riposo non potrà mai placare la mia anima finché non troverò, Helteranius e gli staccherò la testa dalle spalle. È una grande infamia per lui, ma non fa meraviglia che egli scappi davanti a me come una lepre. Infatti i traditori sono sempre codardi. E chi ha mai sentito di un traditore più infame e maledetto di lui? Nove anni fa, quando Zeldornius ed io ci dicemmo pronti a risolvere la nostra disputa con le armi, mi giunse fortunosamente la notizia che Helteranius, con l'astuzia del colubro, la malizia della vipera, e la destrezza del serpente, si accingeva ad attaccarmi alle spalle. Così mi voltai per annientarlo, ma quel grosso zoticone era fuggito.' «Questo disse Jalcanaius Fostus; ed io mangiai e bevvi con lui quella notte, e gozzovigliai con lui nella sua tenda. E, allo spuntar del giorno, egli tolse le tende e cavalcò verso est con la sua armata.» Brandoch Daha a questo punto s'interruppe, e guardò ad est verso le porte della notte. Ed ecco un'armata avanzare proveniente dalla brughiera e diretta sul crinale: erano cavalieri e fanti in file serrate, ed il loro Capitano cavalcava alla loro testa su un enorme cavallo sauro. Era magro, ed aveva gambe e braccia lunghe. Indossava un'armatura
rugginosa, ammaccata ed intaccata da centinaia di combattimenti, con alle mani guanti di cuoio consunti, ed uno scolorito mantello da campagna gettato sulle spalle. Portava l'elmo attaccato alla sella e la sua testa era nuda: sembrava la testa di un vecchio e magro cane da caccia, coi bianchi capelli tirati indietro su una fronte solcata da rughe, sulla quale erano visibili le vene bluastre. Aveva un grosso naso e la faccia ossuta, con enormi baffi e sopraccigli bianchi e cespugliosi, ed i suoi occhi azzurri scintillavano nelle orbite cavernose. Il suo cavallo appariva bizzoso, con le orecchie tese all'indietro e gli occhi minacciosi iniettati di sangue, mentre lui sedeva sulla sella eretto e rigido come una lancia. Quando lui e la sua armata salirono sul crinale, egli tirò le redini e salutò i Demoni, dicendo: «Ogni nove giorni, durante questi nove anni, ho osservato questo tratto di terreno solitario mentre inseguivo Jalcanaius Fostus, che ancora una volta è riuscito ad eludermi ed a sfuggirmi; e questo è strano, dal momento che egli è sempre stato un grande combattente ed ha trascorso nove anni a combattere con me. Ma adesso ho paura che la vecchiaia abbia tirato un velo d'illusione davanti ai miei occhi, preannunciandomi che la morte arriverà prima che io possa portare a termine il mio proposito. Infatti qui, nella luce incerta della sera, davanti a me si levano le forme e le sembianze degli ospiti di Re Gaslark a Zaje Zaculo, tanto tempo fa: Brandoch Daha, che uccise il Re di Witchland, e Spitfire di Owlswick, e Juss suo fratello, che aveva la sovranità su tutti i Demoni prima che partissimo per Impland. Spettri e anime erranti di un mondo dimenticato... Ma, se siete esseri in carne e ossa, parlate e palesatevi.» «O temibilissimo ed invincibile Zeldornius,» rispose Juss, «un uomo potrebbe davvero aspettarsi di vedere gli Spiriti dei morti su queste colline silenziose a quest'ora del giorno. E, se tu ci consideri tali, come non dovremmo noi, che siamo dei naufraghi gettati a riva dal mare infuriato, considerare te solo un'ombra, e i tuoi uomini solo gli Spiriti dei morti che risalgono dall'Erebo (2) mentre il sole muore?» «O famosissimo ed invincibile Zeldornius,» intervenne a sua volta Brandoch Daha, «tu fosti una volta mio ospite a Krothering. Per sciogliere i tuoi dubbi ed i nostri, invitaci a cena. In verità, è sempre stato oggetto di disputa il fatto che gli spiriti senza corpo possano bere vino e mangiare cibo terreno.» Allora Zeldornius fece piantare le tende, e stabilì che avrebbe cenato coi Signori di Demonland alla quinta ora prima di mezzanotte. Prima di riunirsi nella tenda di Zeldornius, essi parlarono fra di loro, e Spitfire disse: «È
stato un evento straordinario ο un deplorevole scherzo delle Parche quello che ha spinto questi tre grandi Comandanti a sprecare il resto dei loro giorni in questa terra lontana e selvaggia? C'è senza dubbio qualcosa di oscuro che li ha spinti a percorrere in questi lunghi anni un circolo immutabile, con ognuno di loro che fugge da colui che è costretto a rincorrerlo, e che continua a rincorrere un altro che fugge davanti a lui.» «Non avevo mai visto un uomo con gli occhi come quelli di Zeldornius,» disse Juss. «Dev'essere stato stregato!» «Helteranius e Jalcanaius,» disse Brandoch Daha, «avevano lo stesso aspetto. Ma la cosa può tornare a nostro vantaggio. Sarebbe per noi molto utile spezzare l'Incantesimo e chiedere il loro aiuto per i nostri piani. Vogliamo rivelare tutta la verità al vecchio leone, stanotte?» Così parlò Brandoch Daha, e i suo fratelli giudicarono buono il suo consiglio. Così, a cena, quando i cuori degli uomini erano nella giusta disposizione di spirito, Lord Juss si sedette accanto a Zeldornius e cominciò il discorso dicendo: «O famosissimo Zeldornius, com'è accaduto che ti sei trovato durante questi nove anni ad inseguire Jalcanaius Fostus, distruttore di uomini, e qual è la controversia che vi ha messi l'uno contro l'altri?» «O Juss,» disse Zeldornius, «è necessario che ti risponda che la causa di tutto ciò è da ricercarsi nelle stelle e nel Fato che governano le vite degli uomini? Ti basterà sapere che c'è stato un litigio fra me e Jalcanaius, e fu stabilito che la nostra disputa sarebbe terminata su un campo di battaglia. Ma lui non ha rispettato la decisione; e, in questi nove anni, ho cercato invano di scontrarmi con lui.» «C'era un altro di voi,» disse Juss. «Quali notizie hai di Helteranius?» «Nessuna,» rispose Zeldornius. «Vuoi,» disse Juss, «che ti illumini io su questo?» «Tu e i tuoi compagni,» disse Zeldornius, «siete i soli, fra tutti i figli degli uomini, ad aver parlato con me da quando tutto questo è cominciato. Perché quelli che abitavano in questa regione scapparono via anni fa, credendo che il luogo fosse maledetto. Ma erano gente miserabile, e solo carne buona per le nostre spade. Parla, dunque, se sei animato da buone intenzioni, e dimmi tutto.» «Helteranius,» spiegò Lord Juss, «ti ha inseguito per questi nove anni, mentre tu inseguivi Jalcanaius Fostus. Mio cugino lo ha visto qui soltanto sei giorni fa, in questo stesso posto, ed ha parlato con lui, gli ha stretto la mano, ed ha appreso le sue intenzioni. Di certo, siete tutti e tre vittima di un Incantesimo, che spinge tre vecchi camerati a perseguitarsi l'un l'altro in
maniera così strana e meschina. Ti prego di permetterci di far da tramite fra di voi per riunirvi, e liberarvi da questa strana schiavitù.» Ma, a queste parole, Zeldornius divenne rosso come il sangue. Dopo un po' disse: «È una volgare menzogna! Non ci credo!» Brandoch Daha gli rispose: «L'ho sentito dalle sue labbra, Zeldornius. E ti giuro che è la verità. Ed ho anche sentito che Jalcanaius Fostus evitò di scontrarsi con te nove anni fa (come mi ha detto egli stesso, confermando le sue parole con terribili giuramenti) perché gli venne riferito che Helteranius in quel momento aveva intenzione di aggredirlo alle spalle.» «Sì,» disse Spitfire, «e finora egli è stato alle calcagna di Helteranius come tu alle sue.» A queste parole Zeldornius divenne giallo come una vecchia pergamena, ed i suoi baffi bianchi si rizzarono come quelli di un leone. Rimase per un po' seduto in silenzio, poi, con lo sguardo gelido e saldo dei suoi occhi azzurri fisso su Juss: «Il mondo ritorna a me,» disse, «e con esso il ricordo che quelli di Demonland erano sinceri, sia con gli amici che con i nemici, ed hanno sempre ritenuto vergognoso ingannare e mentire.» Tutti annuirono gravemente ed egli continuò con gli occhi accesi d'ira: «Questo Helteranius trama contro di me, è ovvio, la stessa slealtà della quale fu falsamente accusato da Jalcanaius Fostus. Non ci sono luoghi più adatti per annientarlo di questo, delle Colline di Salapanta. Se resto qui per respingere il suo attacco, il terreno è a mio vantaggio, e Jalcanaius che è alle sue calcagna, potrà raccogliere le briciole dopo che avrò banchettato.» Brandoch Daha disse nell'orecchio di Juss: «Il nostro tentativo di pacificazione promette davvero bene!» Ma niente di quello che dissero riuscì a smuovere Zeldornius. Così, alla fine, gli offrirono il loro sostegno in quell'avventura. «E quando la battaglia sarà vinta, allora potrai darci in prestito i tuoi uomini per la nostra impresa, e aiutarci nella nostra guerra contro Witchland.» Ma Zeldornius disse: «O Juss e voi, Signori di Demonland, vi ringrazio: ma non dovete interferire in questa battaglia. Infatti noi tre Capitani giungemmo in questa terra coi nostri eserciti, la esplorammo e la sottomettemmo. Essa è nostra e, se qualcuno s'intromette ο si pone contro di noi, per quanta ostilità possiamo nutrire l'uno verso l'altro, ci uniremo e lo annienteremo. Non intervenite dunque, e limitatevi ad osservare ed a vedere cosa deciderà il destino sulle Colline di Salapanta. Ma, se sopravviverò, allora avrete la mia amicizia ed il mio aiuto in tutte le vostre imprese.» Per un po' restò seduto senza parlare, con le mani forti, sulle quali spic-
cavano le vene, strette sul tavolo davanti a lui; poi si alzò, e si recò in silenzio fino alla porta del padiglione per osservare la notte. Quindi si voltò di nuovo verso Lord Juss e gli disse: «Sappi che, quando questa luna che adesso è passata era vecchia solo di tre giorni, cominciai ad essere tormentato da un raffreddore che ancora mi infastidisce; e sai bene che, chiunque si ammali nel terzo giorno della luna, morirà. Stanotte, inoltre, è luna nuova, ed è sabato; e ciò fa presagire un combattimento ed un massacro. Il vento, poi, soffia da sud; e colui che inizia un gioco del genere con un vento del sud, avrà la vittoria. La Porta del Fato si apre davanti a me con un'estrema incertezza di luci e ombre.» Juss annuì e disse: «Ciò che dici è vero, Zeldornius.» «Sono sempre stato un guerriero,» mormorò Zeldornius. Fino a notte inoltrata restarono nella tenda del famoso Zeldornius, a bere ed a parlare della vita, del destino, delle guerre passate, e delle possibilità di nuove guerre e avventure e, un'ora dopo mezzanotte, se ne andarono. Juss, Spitfire e Brandoch Daha andarono a dormire nella torre di guardia sul crinale di Salapanta. Così trascorsero tre giorni, con Zeldornius che aspettava con la sua armata sulla collina, e i Demoni che cenavano con lui a sera. Il terzo giorno fece schierare il suo esercito in assetto di battaglia, in attesa di Helteranius. Ma, né quel giorno, né il successivo, né quello ancora successivo, portarono notizie di Helteranius, né tantomeno egli apparve alla vista, e ad essi parve strano e risultò difficile da capire quale evento fortuito avesse ritardato la sua venuta. La sesta notte il cielo era coperto, e le tenebre coprivano la terra. Quando la cena fu finita e mentre stavano andando a dormire, i Demoni udirono un tafferuglio e la voce di Brandoch Daha, che guidava la fila, gridare: «Ho catturato un cucciolo di cane delle brughiere. Fatemi luce. Cosa devo farne?» Gli uomini si svegliarono e portarono le luci, e Brandoch Daha esaminò l'individuo al quale aveva immobilizzato le braccia, agguantandolo all'ingresso del fortilizio: era un uomo che aveva degli occhi spaventati, da animale selvatico, in una faccia fosca, con degli orecchini d'oro alle orecchie, ed una folta barba spuntata ed intrecciata con fili d'oro fra i riccioli. Aveva le braccia nude, una tunica di pelliccia di lontra, ampi calzoni di pelo cuciti con fili d'argento, un cerchietto d'oro sulla testa, e capelli scuri e ricciuti raccolti in due grosse trecce che gli pendevano sulle spalle. Le sue
labbra erano ritratte, come nel ringhio, spaventato e feroce assieme, di un cane bizzoso, ed i suoi denti bianchi e appuntiti ed il bianco dei suoi occhi scintillavano alla luce delle torce. Lo portarono con loro all'interno della torre, e si posero davanti a lui. Juss gli disse: «Non temere, ma dicci il tuo nome e il tuo lignaggio, e cosa ti ha spinto a muoverti furtivamente nella notte intorno ai nostri alloggi. Non abbiamo intenzione di farti del male, quindi non c'è motivo per cui tu debba complottare ai nostri danni. Sei un abitante di Impland, ο un vagabondo, come noi, che viene dal mare? Hai dei compagni e, se è così, dove, chi, e quanti sono?» Lo straniero digrignò i denti, e rispose: «Diavoli d'oltremare, non prendetevi gioco di me: uccidetemi!» Juss cercò di convincerlo usando un tono gentile, poi gli offrì da mangiare e da bere e, dopo in po', gli chiese di nuovo: «Come ti chiami?» Al che quello replicò: «O diavolo d'oltremare, mi fa pena la tua ignoranza dal momento che non conosci Mivarsh Faz.» E si lasciò andare ad un accesso di pianto, gridando forte: «È una giusta sventura quella che si è abbattuta su tutta la terra di Impland!» «Cosa vuoi dire?», disse Juss. Ma Mivarsh non smise di lamentarsi e di gemere, dicendo: «Dolore e sventura per Fax Fay Faz, e Illarosh Faz, e Lurmesh Faz, e Gandassa Faz e tutti i grandi della terra!» E, quando gli fecero delle altre domande, gridò di nuovo: «Sia maledetto Philpritz Faz, che ci ha traditi consegnandoci al diavolo oltremontano nel castello di Orpish.» «Di quale diavolo stai parlando?», domandò Juss. «È venuto sulle montagne,» rispose, «dal nord del paese, e solo Fax Fay Faz sapeva parlare con lui. E la sua voce è come il muggito di un toro.» «Dal nord?», disse Juss, versandogli dell'altro vino, e scambiando sguardi d'intesa con Spitfire e Brandoch Daha. «Mi piacerebbe saperne di più.» Mivarsh bevve e disse: «O Diavoli d'oltremare, voi mi date del liquido forte per confortare la mia anima, e mi dite parole gentili. Ma perché non dovrei temere le parole gentili? Parole gentili furono pronunciate anche da quel diavolo oltremontano, quando lui e quel maledetto Philpritz ci rivolsero delle parole gentili ad Orpish: a me, a Fax Fay Faz, a Gandassa, a Illarosh, e a tutti noi, dopo la nostra sconfitta in battaglia contro di lui vicino alle sponde dell'Arlan.» «Che aspetto ha?», domandò Juss. «Ha una grande barba gialla chiazzata di grigio,» disse Mivarsh, «una
testa calva e lucida, ed è grosso come un bue.» Juss disse sottovoce a Brandoch Daha: «Se dice la verità, ci sono guai in vista.» E Brandoch Daha versò altro vino a Mivarsh e lo invitò a bere ancora, dicendo: «Mivarsh Faz, noi siamo stranieri e ospiti nella sterminata Impland. Sappi che il nostro potere è al di là della tua comprensione e trascende l'immaginazione degli uomini. Eppure, la nostra benevolenza è pari al nostro potere ed alle nostre ricchezze, e sgorga come miele dai nostri cuori su chi ci accoglie con gentilezza e ci dice la verità. Stai attento però, perché, se ci racconti il falso ο tenti di ingannarci, neanche le manticore che vivono al di là del Moruna possono essere più terribili di noi.» Mivarsh parve intimidito, ma gli rispose: «Mi avete trattato bene: voi non siete come lui, perciò saprete da me tutta la verità. Prima ci ha sconfitti con la spada, e poi, con parole subdole, ci ha invitati a parlare con lui ad Orpish, fingendo amicizia. Ma quelli che gli hanno prestato ascolto sono tutti morti. Infatti, quando li ebbe rinchiusi nella Sala del Consiglio ad Orpish, ne uscì segretamente, mentre i suoi uomini assalivano Gandassa Faz, Illarosh Faz, Fax Fay Faz, che era il più grande di tutti noi, e Lurmesh Faz, tagliavano loro le teste e le infilavano sui pali davanti alle porte. E le nostre armate che aspettavano fuori rimasero sgomente nel vedere le teste dei Faz di Impland sui pali, con le armate dei Diavoli oltremontani che ancora minacciavano di distruggerci. E quel grosso diavolo calvo e barbuto parlò loro della bontà di Impland, dicendo che quelli che aveva ucciso erano oppressori e che avrebbe soddisfatto tutti i loro desideri se essi si fossero sottomessi a lui, che li avrebbe resi tutti uomini liberi, e che avrebbe suddiviso Impland fra di loro. Così la gente venne beffata e soggiogata da questo diavolo calvo venuto da oltre le montagne, e adesso nessuno in tutta Impland gli si oppone. Ma io, che evitai di partecipare al Consiglio ad Orpish, temendo la sua astuzia, riuscii a malapena a sfuggire alla mia gente che si sollevò contro di me. E scappai nei boschi e nella landa.» «Dove lo hai visto l'ultima volta?», chiese Juss. «A tre giorni di viaggio a nord-ovest di qui, a Tomerish, nell'Archery....», rispose Mivarsh. «Cosa faceva là?» «Continuava a progettare nefandezze.» «Contro chi?» «Contro Zeldornius, che è anche lui un diavolo d'oltremare.» «Dammi un altro po' di vino,» disse Juss, «e riempi un altro boccale per Mivarsh Faz. Mi piace molto ascoltare delle storie di notte. Con chi stava
complottando contro Zeldornius?» «Con un altro diavolo proveniente dal mare; ho dimenticato il suo nome.» «Bevi e cerca di ricordare,» disse Juss, «e, se non ci riesci, descrivimelo.» «Ha all'incirca la mia corporatura,» disse Mivarsh, che era piccolo di statura. «I suoi occhi sono vivaci e, in qualche modo somiglia a costui,» indicò Spitfire, «anche se forse non ha un volto così feroce. Ha il viso magro e la pelle scura, ed indossa un'armatura di ferro nera.» «Si chiama Jalcanaius Fostus?», domandò Juss. E Mivarsh rispose: «Sì.» «C'è muschio e ambra nelle tue parole,» disse Juss. «Devo saperne di più. Cos'hanno intenzione di fare?» «Ecco,» disse Mivarsh. «Mentre ero seduto ad ascoltare fuori dalla tenda, fu chiarito al di là di ogni dubbio che questo Jalcanaius era stato ingannato quando gli era stato fatto credere che un altro diavolo d'oltremare, che gli uomini chiamavano Helteranius, aveva progettato di tradirlo; mentre, come il diavolo calvo gli stava dicendo, le cose non erano andate in quel modo. Allora fu deciso che Jalcanaius avrebbe mandato dei cavalieri da Helteranius per fare la pace con lui, e che loro due si sarebbero uniti per uccidere Zeldornius, assalendolo uno di fronte ed uno alle spalle.» «Allora è venuto per questo?», disse Spitfire. «E, quando avranno ucciso Zeldornius,» disse Mivarsh, «allora aiuteranno Testapelata nelle sue imprese.» «Per ripagarlo in questo modo dei suoi consigli?», disse Juss. «Proprio così!», rispose Mivarsh. «Vorrei sapere un'altra cosa,» disse Juss. «Quanto è numeroso l'esercito che ha raccolto ad Impland?» «Il più grande che ha potuto,» rispose Mivarsh. «Credo che i Diavoli oltremontani siano quattromila. Molti lo hanno seguito, ma hanno solo le armi del nostro paese.» Lord Brandoch Daha prese Juss per un braccio ed uscì con lui nella notte. L'erba gelata crepitò sotto i loro piedi: strane stelle ammiccavano a sud in uno spazio ventoso fra le nuvole e la terra dormiente, mentre Achernar, in prossimità dello zenit, offuscava tutti gli altri fuochi minori con la sua radianza purissima. «Così Corund si è avventato su di noi come un'aquila proveniente dall'azzurro invisibile,» disse Brandoch Daha, «con un esercito grande dodici
volte il nostro per ostacolarci nel nostro cammino fino al Moruna, e tutta Impland gli sta alle calcagna come un cane giulivo. Sempre se quell'anima semplice dice il vero, come sono convinto.» «Vedo che hai perso tutto il tuo umore vacanziero,» disse Juss, «al primo sentore di questo grande pericolo.» «Juss,» gridò Brandoch Daha, «il tuo respiro è diventato più leggero, e le parole ti escono con maggiore vivacità. Non sono tutte le terre, tutta l'aria, un intero paese contro di noi, cosicché ci sarà una grande opportunità per mantenere lucide le nostre spade?» «Prima di andare a dormire,» disse Juss, «dirò a Zeldornius come il vento è cambiato. Adesso deve fronteggiare due nemici, finché questo campo non sarà arato. Questa battaglia non è contro di lui, poiché i suoi nemici sono stati assoldati (se Mivarsh dice il vero) per fornire a Corund l'apporto delle loro spade.» Si diressero verso la tenda di Zeldornius, e Juss soggiunse: «Di questo sii certo: Corund non sfodererà la spada sulle Colline di Salapanta. Il Re ha degli agenti che lo tengono informato su tutti i luoghi magici del mondo, e sa bene quali influssi ci sono qui, come testimonia la sventura che per questi nove anni ha perseguitato i tre Comandanti. Per cui Corund, istruito in tal senso dal suo padrone che lo ha mandato qui, cercherà di scontrarsi con noi in un luogo diverso da questo angolo stregato del mondo. Intromettersi nella battaglia ora imminente sarebbe per lui come afferrare un orso per un dente, e così ha riunito questi tre eserciti addestrati per i suoi scopi distruttivi.» Oltrepassarono le guardie con la Parola d'Ordine, svegliarono Zeldornius e gli dissero tutto. E questi, imbaccuccato nel suo grande mantello scolorito, uscì per sistemare le Guardie in modo da essere pronti ad un attacco da entrambi i lati. Ritto davanti alla sua tenda per augurare la buona notte ai Signori di Demonland, disse: «Meglio così. Sono sempre stato un guerriero; e così si combatterà di più.» Il giorno spuntò e trascorse senza che accadesse nulla, e così il giorno successivo. Ma, il mattino del terzo giorno, dopo l'arrivo di Mivarsh, ecco, a est ed a ovest, due grandi armate che marciavano sulla pianura, e le schiere di Zeldornius si serrarono per affrontarli sul crinale, con le armi scintillanti, i cavalli scalpitanti e le trombe che suonavano il richiamo alla battaglia. Non vi furono convenevoli fra loro, né tantomeno un messaggio di sfida
ο provocatorio: Jalcanaius coi suoi Cavalieri Neri si lanciò all'assalto da ovest, ed Helteranius da est. Ma Zeldornius, come un vecchio lupo grigio, scattando ora da un lato ora dall'altro, riuscì ad arginare l'ondata dell'assalto. Così cominciò l'aspra e feroce battaglia, che proseguì per tutto il giorno. Zeldornius si avventò tre volte su entrambi i fronti con un grosso contingente di uomini scelti, al punto che i suoi nemici fuggirono davanti a lui come fa la pernice davanti allo sparviero; e, per tre volte Helteranius, e per tre volte Jalcanaius Fostus, ripresero coraggio e lo respinsero, risalendo di nuovo sul crinale. Ma, quando si avvicinò la sera, ed il giorno si oscurò per diventare notte, la battaglia cessò, placandosi nel silenzio. I Signori di Demonland scesero dalla loro torre, ed avanzarono fra i mucchi di cadaveri dirigendosi verso il lastrone di roccia sulla gobba del crinale. La', solo sul campo di battaglia, Zeldornius stava appoggiato alla lancia, meditabondo, con lo sguardo rivolto verso il basso, ed un braccio intorno al collo del suo vecchio cavallo sauro che chinava la testa ed annusava il suolo. Il sole splendeva attraverso uno squarcio fra le nuvole d'occidente; ma i suoi raggi non erano rossi come l'erica e l'agrostide (3) delle Colline di Salapania. Mentre Juss ed i suoi compagni si avvicinavano, non udivano alcun suono tranne quelli provenienti dal fortilizio alle loro spalle; lo strimpellare discordante di un'arpa, e la voce di Mivarsh che camminava e suonava davanti alle mura, cantando questa canzone: La strega in tutta fretta Va a cavallo stanotte; Lei e il diavolo in combutta. Nella sorte buona ο cattiva, Se ne va sì giuliva, Anche se la sera è tanto brutta. Una spina ο un bastone Ella ha per sperone, A una frusta di rovo s'affida; Fra cespugli e fossi, Su pantani e dossi, Segue lo spirito che la guida. Nessuna bestia in cerca di preda Per il bosco par che si veda, Ma si nascondono là nelle grotte;
Mentre individui di malaffare, Per la terra e per il mare, Sono in giro a quell'ora di notte. La tempesta si alzerà Ed il cielo sconvolgerà; Questa notte uscirà dalla tomba, Lo spettro che è stato destato E che vagherà spaventato, Evocato dal tuono che romba. Quando raggiunsero Zeldornius, Lord Juss disse: «O temibilissimo Zeldornius, valoroso in guerra, di certo i tuoi presagi derivati dalla luna erano veri. Guarda quale straordinaria vittoria hai ottenuto sui tuoi nemici.» Ma Zeldornius non rispose, e continuò a fissare verso il basso, davanti ai suoi piedi. In quel punto giaceva Helteranius, con la spada di Jalcanaius Fostus piantata nel cuore, mentre la mano destra artigliava ancora la propria spada che aveva consegnato Jalcanaius al suo triste destino. Rimasero tutti a fissare per un po' quei due grandi condottieri uccisi. Poi Zeldornius disse: «Non parlarmi così facilmente di vittoria, Juss. Finché i padroni di quelle due spade, che conquistarono con me l'intera Impland, erano vivi, non ho desiderato la mia salvezza più della loro distruzione. E guarda con quale ferocia essi volevano provocare la mia distruzione, ed in quale inattesa rovina sono improvvisamente incappati.» Poi, come se fosse stato colto da una profonda tristezza disse: «Dov'era l'eroismo se non in Helteranius? E un uomo farebbe prima a realizzare un abito per la luna che a ripetere le imprese temerarie del grande Jalcanaius, che adesso ha lasciato il suo corpo a concimare quella terra che fino a poco fa aveva tremato per paura di lui. Ho camminato nel sangue che mi arrivava alle ginocchia e, in questo momento, negli anni della mia vecchiaia, il mondo è diventato per me solo una visione ed una beffa.» Si voltò quindi a guardare i Demoni, e nei suoi occhi c'era qualcosa che impedì loro di parlare. Dopo un po' egli parlò di nuovo, dicendo: «Ho giurato che vi avrei aiutato se avessi vinto. Ma adesso la mia armata è svanita come cera che si scioglie davanti al fuoco, ed io aspetto il Fosco Traghettatore che non aspetta nessuno (4). Eppure, dal momento che non ho mai scritto le mie promesse sulla sabbia ma nel marmo, e poiché la vittoria è mia, ecco questi doni per voi: prima a te, Brandoch Daha, la mia spada, poiché prima
ancora di compiere diciotto anni eri considerato il più forte fra i guerrieri. E a te, Spitfire, dono il mio mantello. È vecchio, ma ti sarà utile, poiché ha la virtù di non permettere che chi lo indossa cada vivo nelle mani dei suoi nemici. Indossalo per me. Ma a te, Juss, non darò alcun dono, poiché già possiedi tutte le cose più preziose: posso solo augurarti ogni bene, prima che la terra si spalanchi per me.» Allora essi lo ringraziarono, ed egli disse: «Andate via. Ormai si avvicina ciò che renderà completa la distruzione di questo giorno.» I Demoni si avviarono verso il fortilizio, e la notte scese sulle colline. Un forte vento che spirava, gemendo, dallo stinto occidente, lacerò le nuvole come vesti strappate, rivelando la luna solitaria che scivolava nuda fra di esse. Mentre i Demoni si voltavano a guardare nel chiaro di luna il punto dove Zeldornius era rimasto a fissare i morti, un rombo come di tuono fece tremare la terra e coprì l'ululato del vento. E videro la terra che si spalancava per Zeldornius. Dopodiché le tenebre coprirono la luna, e la notte ed il silenzio gravarono sul campo di battaglia di Salapanta. X. LE FRONTIERE DI MORUNA Del viaggio dei Demoni da Salapanta a Eshgrar Ogo: dove si trova, afflitta, la Signora di Ishnain Nemartra, e di altri avvenimenti di rilievo. Mivarsh Faz, la mattina dopo, venne di buonora dai Signori di Demonland, e li trovò pronti a partire. Chiese loro dove fossero diretti, ed essi risposero: «Ad est.» «Ad est,» disse Mivarsh, «tutte le strade portano al Moruna. Nessuno può recarsi là e sopravvivere.» Ma essi scoppiarono a ridere e gli risposero: «Non sottovalutare i nostri poteri, amabile Mivarsh, riducendoli alle tue capacità. Sappi che il nostro viaggio è cosa già stabilita, ed è fissato con chiodi di diamante (1) al muro della necessità ineluttabile.» Si congedarono da lui, e si avviarono per la loro strada col piccolo esercito. Per quattro giorni procedettero attraverso fitti boschi coperti da un tappeto di foglie di mille autunni, dove in pieno mezzogiorno il crepuscolo dimorava fra i rumori ovattati dei terreni boscosi, ed occhi solenni scintil-
lavano di notte fra i tronchi degli alberi, fissando i Demoni mentre marciavano ο riposavano. Il quinto giorno, e il sesto ed il settimo, avanzarono costeggiando il margine meridionale di un mare sabbioso, fatto interamente di sabbia e ghiaia, e per niente di acqua, che pure fluiva e rifluiva con grandi ondate come fa qualsiasi mare, senza mai restare immobile e fermo. Mentre attraversavano il deserto, continuamente, di giorno e di notte, c'era un rumore assordante e spaventevole, ed un suono come di tamburelli e trombe, pur essendo quel luogo solitario a vedersi, e non essendovi in giro alcuna creatura vivente tranne il piccolo esercito che si dirigeva verso est. L'ottavo giorno lasciarono la riva di quel mare privo d'acqua e scesero attraverso un tratto di terreno accidentato e pietroso in una valle estesa, non riparata e sterile, con l'ampio letto sassoso di un fiumiciattolo che serpeggiava laggiù. Guardando verso est videro, nella luminosità dell'ultimo sole, un castello di pietra rossa su un ampio pascolo montano al di là della valle. Juss disse: «Saremo là prima di notte, e chiederemo asilo.» Quando giunsero nelle vicinanze, avvistarono - fra il tramonto ed il chiaro di luna - qualcuno seduto su un macigno posto sul sentiero che stavano percorrendo, a circa un furlong dal castello, che sembrava li stesse osservando ed aspettando. Ma, quando raggiunsero il macigno, non c'era nessuno. Così proseguirono il loro cammino in direzione del castello e, quando si voltarono indietro, ecco di nuovo là quell'uomo seduto sul macigno che si sosteneva la testa con le mani: una cosa stranissima, che avrebbe fatto inorridire chiunque. La porta del castello era aperta: essi entrarono e, attraverso il cortile, raggiunsero una grande sala, col tavolo preparato come per un banchetto, e con dei fuochi ed un centinaio di candele che ardevano nell'aria immobile, ma senza che si vedesse una sola creatura vivente, né che si sentisse una voce in tutto il castello. Lord Brandoch Daha disse: «In questa terra, la meraviglia più grande sarebbe quella di non meravigliarsi anche solo per un'ora. Banchettiamo con allegria, dunque, ed andiamocene a letto.» Si sedettero, mangiarono e bevvero il vino dolce come il miele, finché tutti i pensieri di guerra, di sventura, degli inimmaginabili pericoli della landa e del grande esercito di Corund che preparava la loro distruzione, svanirono dalla loro mente, e lo spirito del sonno sedusse i loro corpi stanchi. Poi una debole musica, perturbante nella sua dolcezza voluttuosa e selvaggia, aleggiò nell'aria, ed essi videro una Dama salire sulla predella. La
sua bellezza trascendeva quelle delle donne mortali: nei suoi capelli neri c'era una falce di luna in cimofane (2) color miele, ogni pietra della quale teneva prigioniero un raggio di luce che scintillava come i raggi del sole che tremolano nelle limpide profondità di un mare estivo. Indossava un abito di seta cremisi molto aderente, cosicché era lei stessa il vero ornamento del suo abito, e con la sua avvenenza lo rendeva più sontuoso. «Miei Signori ed ospiti di Ishnain Nemartra, qui ci sono letti di piume e lenzuola di lino per tutti voi che siete stanchi. Ma sappiate che ho uno sparviero appollaiato su un trespolo nella torre orientale e, se uno di voi lo terrà sveglio per tutta la notte, da solo e senza mai addormentarsi, mi recherò da lui al termine della notte e gli concederò la prima cosa che mi chiederà fra tutte le cose disponibili sulla terra.» Così dicendo, scomparve come un sogno. «Estraiamo a sorte colui che si cimenterà in questa avventura!», disse Brandoch Daha. Ma Lord Juss si oppose, dicendo: «Ci dev'essere sicuramente un'insidia in questa proposta. In questa terra maledetta non dobbiamo lasciarci sedurre la mente, ma seguire lo scopo che ci siamo prefissi. Non dobbiamo fare come quelli che partono per cercare la lana e tornano a casa tosati.» Brandoch Daha e Spitfire risero a queste parole, e tirarono a sorte fra di loro. La sorte scelse Lord Brandoch Daha. «Non mi impedirai di farlo,» disse a Lord Juss, «altrimenti non potrai più contare su di me.» «Non ti ho mai impedito di fare alcunché, finora,» replicò Juss. «Non siamo forse, io e te, indice e pollice? Solo, non dimenticare, qualunque cosa accada, la ragione per la quale siamo venuti qui.» «Non siamo io e te indice e pollice?», disse Brandoch Daha. «Non temere, amico del mio cuore, non lo dimenticheremo!» Così mentre gli altri andavano a dormire, Brandoch Daha vegliò sullo sparviero per tutta la notte, nella camera orientale. Anche se la fredda collina all'esterno era coperta di brina, l'aria in quella camera era calda e pesante, ed invogliava decisamente a dormire. Eppure lui non chiuse occhio, ma continuò a guardare lo sparviero, raccontandogli storie e pizzicandogli la coda ogniqualvolta quello si appisolava. Ed esso reagiva bruscamente e scontrosamente, rivolgendogli uno sguardo malevolo. Quando l'alba si colorò d'oro, la Dama apparve nella penombra del vano d'ingresso. Quando ella entrò, lo sparviero agitò le ali come per rabbia e, senza fare altro, infilò il becco sotto l'ala e si addormentò. Ma la Dama, allegramente, guardando Brandoch Daha, disse: «Chiedimi, mio Lord, la co-
sa che più desideri fra le cose terrestri.» Ma lui, come frastornato, si alzò, dicendo: «Signora, la tua bellezza nella luce dell'alba non è forse uno splendore che potrebbe dissipare le nebbie dell'Inferno? Il mio cuore è incantato dalla tua avvenenza e si nutre della tua visione. Voglio il tuo corpo, dunque, e nessun altra cosa della terra!» «Sei pazzo!», ella gridò. «Non sai quello che chiedi! Avresti potuto scegliere una cosa qualsiasi della terra; ma io non sono terrena.» «Non voglio nient'altro!», ribadì lui. «Allora sarai in un grande pericolo,» replicò lei, «e perderai tutta la tua buona fortuna, per te ed i tuoi amici.» Ma Brandoch Daha, vedendo come il suo volto era diventato all'improvviso del colore delle rose appena sbocciate all'alba, e come i suoi occhi erano diventati grandi e scuri per il desiderio, le si avvicinò, la prese fra le braccia, e la baciò. Restarono così per un po', ed egli non fu consapevole di nessun altra cosa sulla terra tranne la carezza sconvolgente dei capelli della donna, del suo profumo, del bacio della sua bocca, del sollevarsi e abbassarsi del suo seno contro di lui. «Vedo che sei troppo arrogante,» gli disse lei in un orecchio, con un sussurro. «Vedo che sei uno al quale non si può negare nulla che il suo cuore desideri. Vieni...», ed attraversarono una porta chiusa da pesanti tendaggi, entrando in una camera interna, dove l'aria era pregna del profumo della mirra, del nardo e dell'ambra grigia (3), formando una fragranza come di bellezza addormentata. Là, nella penombra dei magnifici tendaggi e dei tenui barbagli d'oro, una calda radianza di lampada schermate vegliava su un'alcova maestosa, ampia e coperta di cuscini di piume. E là essi giacquero a lungo, assaporando le delizie dell'amore. Dal momento che tutto ha una fine, dopo egli disse: «Mia Signora, padrona di qualsiasi cuore, vorrei restare qui per sempre, abbandonando tutto il resto per amarti. Ma i miei compagni mi aspettano giù nelle tue sale, e grandi imprese mi attendono. Dammi ancora una volta le tue labbra divine, e dimmi addio.» Lei era distesa come addormentata sul petto di lui: la sua pelle morbida era bianca, calda, con la gola ben fatta reclinata all'indietro contro i suoi neri capelli sciolti e profumati; una sola treccia, spessa e splendida come un pitone, era attorcigliata fra un candido braccio ed il suo seno. Si girò lesta come un serpente, avvinghiandosi freneticamente a lui, premendo avidamente sulla bocca del Demone le sue labbra dolci e insa-
ziabili, gridando che egli sarebbe rimasto con lei per l'eternità nell'ebbrezza dell'amore e del piacere assoluto. Ma quando alla fine, costringendola con gentilezza a lasciarlo andare, egli si alzò, si vestì e riprese le sue armi, la donna si avvolse in una tunica trasparente di lucentezza argentea, come quando la luna estiva vela ma non cela il suo splendore con una nube diafana e, ponendosi davanti a lui, disse: «Va, allora! È stato come gettare perle ai porci. Non posso ucciderti, dal momento che non ho potere sul tuo corpo. Affinché tu non possa ridere ancora, per avere ottenuto da me ciò che andava al di là dei patti e per aver goduto di ciò che adesso disprezzi ed insulti, allora sappi, uomo arrogante, che ti donerò altre tre cose a mia scelta! Avrai guerra e non pace! Colui che odi di più trascinerà nella rovina il tuo bel regno, il Castello di Krothering e le terre che lo circondano! E, anche se alla fine la vendetta lo coglierà, essa verrà da un'altra mano che non sarà la tua, mentre alla tua mano sarà negata!» E scoppiò in un pianto dirotto. Lord Brandoch Daha, con grande determinazione, uscì dalla camera (4) e, voltandosi a guardare dalla soglia, vide che in quella camera e nell'altra erano scomparsi la Dama e lo sparviero. Si sentì all'improvviso preda di una grande stanchezza. Così, quando scese giù, trovò Lord Juss ed i suoi compagni che dormivano sulle fredde pietre, e la sala dei banchetti completamente vuota di ogni suppellettile e invasa dal muschio e dalle ragnatele. Diversi pipistrelli dormivano a testa in giù fra le travi erose, e non c'era alcun segno del banchetto della notte precedente. Allora Brandoch Daha svegliò i compagni, e raccontò a Juss quello che gli era accaduto, e della maledizione (5) gettatagli addosso da quella donna. Abbandonarono quindi in tutta fretta il castello maledetto di Ishnain Nemartra, lieti di esserne usciti sani e salvi. Il nono giorno dalla loro partenza da Salapanta, attraversarono un deserto di pietra e roccia viva, dove non si muoveva neanche un pidocchio della terra. Qua e là, delle forre fendevano il suolo: erano dei labirinti di roccia e tenebre, che i raggi del sole e della luna non visitavano mai, e nelle cui profondità acque tumultuose si agitavano e ribollivano continuamente, mai calme e mai silenziose. Tortuosissimo fu il percorso di quel giorno, dovendo serpeggiare su e giù lungo gli argini di quei corsi d'acqua per trovare i punti dove guadare. Quando a mezzogiorno furono bloccati dal crepaccio più profondo che
avessero mai visto, arrivò correndo un uomo che cadde davanti a Juss e giacque ansimante con la faccia a terra, senza fiato come per una lunga corsa. E, quando lo sollevarono, videro che era Mivarsh, bardato con l'uniforme di Cavaliere Nero di Jalcanaius Fostus e armato d'ascia e spada. Era agitatissimo, e non riusciva a parlare perché gli mancava il fiato. Lo trattarono con gentilezza, e lo fecero bere da un grande otre di vino, dono di Zeldornius, e di lì a poco egli disse: «Ha armato centinaia e centinaia dei nostri uomini con le armi prese dal campo di battaglia di Salapanta. Guidati da quei diavoli dei suoi figli, con Philpritz maledetto dagli Dei, sono andati avanti per bloccare tutte le strade che conducono ad est. Ho cavalcato e corso notte e giorno per avvertirvi. Egli stesso, col grosso del suo esercito di Diavoli oltremontani, galoppa sulle vostre tracce.» Lo ringraziarono con calore, meravigliandosi molto che avesse sopportato quelle sofferenze per avvertirli del pericolo. «Siete stati ospitali con me,» rispose Mivarsh, «e inoltre voi siete nemici di quel malvagio testacalva che è venuto sulle montagne per opprimerci. Perciò voglio esservi utile. Ma non posso fare molto: perché sono povero, anche se prima possedevo ricchezze e terre, e perché sono solo, anche se un tempo avevo cinquecento lancieri che mi ubbidivano.» «È necessario agire in fretta!», disse Lord Brandoch Daha. «Fra quanto credi che ci raggiungerà?» «Dovrebbe essere qui fra un'ora ο due,» disse Mivarsh, e scoppiò a piangere. «Affrontarlo in campo aperto,» disse Juss, «sarebbe una grande gloria per noi, ma sarebbe anche la nostra fine.» «Lasciatemi riflettere solo per un minuto,» disse Brandoch Daha. E, mentre si preparavano, s'incamminò meditabondo fino all'orlo del burrone, spingendo dei sassolini con la spada oltre il margine. Poi disse: «Questo è senza dubbio il fiume Athrashah di cui parlava Gro. Mivarsh, questo corso d'acqua non scorre verso sud fino ai laghi salati di Ogo Morveo? E laggiù, non c'è una fortezza chiamata Eshgrar Ugo?» «È così!», rispose Mivarsh. «Ma non ho mai sentito parlare di qualcuno talmente sciocco da recarsi laggiù. Qui dove ci troviamo è già una terra abbastanza spaventosa; ma Eshgrar Ogo si trova ai confini del Moruna. Nessun uomo è approdato là negli ultimi cento anni.» «È ancora in piedi?», disse Brandoch Daha. «Per quanto ne so...», rispose Mivarsh. «È ben solida?»
«Molto tempo fa si pensava che non vi fosse nessun luogo più inespugnabile. Ma voi potreste morire qui per mano dei Diavoli oltremontani, come essere fatti a pezzi laggiù dagli Spiriti Maligni.» Brandoch Daha si voltò verso Juss. «È deciso, allora?», chiese. Juss rispose: «Sì,» e immediatamente si avviarono a passo rapido verso sud, lungo il fiume. «Credevo che sareste stati spazzati via prima» disse Mivarsh mentre procedevano. «Questo è il mio nono ο decimo giorno di viaggio, e ne sono trascorsi sedici da quando mi lasciaste sulle Colline di Salapanta.» Brandoch Daha rise. «Sedici!», disse. «Saresti ricco, Mivarsh, se contassi i soldi come fai coi giorni. Questo è solo il nostro nono giorno di viaggio.» Ma Mivarsh restò caparbiamente del suo parere, dicendo che era il settimo giorno dalla loro partenza, quando Corund era giunto per la prima volta a Salapanta. «Ed io ho corso per nove giorni prima che egli si mettesse sulle vostre tracce, e contro tutte le aspettative si lanciasse al vostro inseguimento.» E, nonostante lo scherno di cui fu oggetto, non cambiò idea. Quando, mentre ancora procedevano nel deserto verso sud, il sole declinò e tramontò in un cielo limpido, apparve la luna un po' oltre la sua fase piena; e Juss vide che era di sette giorni più vecchia rispetto a quella della notte in cui erano giunti a Ishnain Nemartra. Allora fece notare quella stranezza a Brandoch Daha ed a Spitfire, i quali si meravigliarono moltissimo. «Mi dovete molta riconoscenza,» disse Brandoch Daha, «per non avervi fatto attendere un anno intero. Che io sia dannato, ma quel periodo di sette giorni mi è sembrato soltanto un'ora!» «È abbastanza verosimile, per quel che riguarda te,» disse Spitfire con una certa acrimonia. «Ma tutti noi abbiamo dormito per una settimana sulle pietre nude, ed io sono ancora mezzo zoppo per la sofferenza che questo mi ha causato.» «No,» disse Juss, ridendo, «non ti permetterò di biasimarlo.» La luna era alta quando giunsero ai laghi salati che stavano l'uno sopra l'altro dentro dei bacini rocciosi. Le loro acque erano di argento grezzo, e la superficie irregolare della landa era nera e argentea nel chiaro di luna: era come una regione di ossa morte, buia e sterile sotto la luna. In mezzo ai laghi un costolone roccioso saliva mostruoso fino a diventare una protuberanza circondata dai dirupi su ogni lato, con delle mura nere che si ergevano in cerchio al di sopra degli strapiombi.
Si affrettarono in quella direzione e, mentre si arrampicavano ed incespicavano fra le balze, un gufo femmina stridette sui bastioni e svolazzò come uno spettro sopra le loro teste. I denti di Mivarsh Faz battevano, ma i Demoni erano allegri mentre salivano sulle rocce e, alla fine, entravano nella fortezza deserta. Fuori, la notte era tranquilla; ma dei fuochi stavano bruciando nel deserto ad est e, mentre essi guardavano, degli altri vennero accesi ad ovest, cosicché, di lì a poco, ci fu un cerchio completo di punti rossi intorno ad Eshgrar Ogo ed ai laghi. «Li abbiamo preceduti di circa un'ora. E guardate: ci ha fatti accerchiare come degli uomini che circondano uno scorpione in fiamme.» Allora perlustrarono accuratamente il luogo, sistemarono le sentinelle, e dormirono fino a dopo l'alba. Ma Mivarsh non dormì, per paura degli Spettri provenienti dal Moruna. XI. LA FORTEZZA DI ESHGRAR OGO Dell'assedio della fortezza da parte di Lord Corund sui laghi di Ogo Morveo, e cosa accadde là fra lui e i Demoni; c'è anche un esempio di come l'astuzia a volte costituisca un pericolo di morte. Quando Lord Corund seppe con certezza di aver circondato i Demoni a Eshgrar Ogo, fece preparare la cena nella sua tenda, e si rimpinzò di pasticci di carne di selvaggina, fagiani e astici dei laghi. Bevve quasi un otre di dolce vino rosso thramniano cosicché, un'ora prima di mezzanotte, quando si ammutolì del tutto, fu aiutato ad andare a letto da Gro e dormì di un sonno profondo fino al mattino. Gro vegliò nella tenda, col gomito destro appoggiato al tavolo, la guancia adagiata sulla mano, e la mano sinistra che si allungava ora per giocherellare con la massa lucente e profumata della sua barba, ora col calice dal quale sorseggiava di tanto in tanto del pallido vino di Permio. I suoi pensieri, irrequieti come insetti in un giardino d'estate, volteggiavano in continuazione, soffermandosi ora sulle scena davanti a lui - la grossa sagoma del Generale immersa nel sonno - ora su altre scene separate da grandi estensioni di tempo e faticose leghe di strade insidiose. In un istante, vide nella sua fantasia quella Dama a Carce che accoglieva il suo Signore che tornava in trionfo, e lui, forse, incoronato Re della con-
quistata Impland; poi, scivolando dal futuro al passato, vide di nuovo la grande festa di commiato a Zaje Zaculo, con Gaslark in tutta la sua magnificenza sulle scale d'oro che salutava quei tre Condottieri ed il loro formidabile esercito destinato a cani e corvi sulle Colline di Salapanta; e sempre, come uno sfondo tetro che si andava oscurando nella sua mente, appariva il vuoto spalancato, indistinto e sterminato, al di là del cerchio assediante delle armate di Corund: il vuoto spaventoso e cieco del Moruna. Mentre era in preda a queste fantasie, la malinconia si posò come un grande uccello sulla sua anima. Le luci baluginarono nei loro alvei, grandi occhi liquidi a causa dell'estrema stanchezza; e, troppo stanco per alzarsi dalla sedia e raggiungere il suo giaciglio, cadde in avanti sul tavolo, con la testa appoggiata sulle braccia. Il bagliore rosso del braciere si affievolì sempre di più sulla magra forma di Gro e sui suoi riccioli neri e luccicanti, e sulla sagoma possente di Corund che era disteso con una gamba calzata di stivale fornito di sperone allungata sul giaciglio, mentre l'altra oscillava di lato col tacco appoggiato al suolo. Mancavano solo due ore a mezzogiorno, quando un raggio di sole - attraversando un varco nella copertura della tenda - splendette sulle palpebre di Corund, ed egli si svegliò fresco e vivace come un ragazzo in un mattino di caccia. Svegliato Gro, dopo avergli dato una pacca sulla spalla, «Stai facendo torto a una bella mattinata,» disse. «Il diavolo mi rende nero come il latticello (1) se il tuo non è un comportamento vergognoso; ed io, che sono nato in questo giorno quarantasei anni fa, sono già alle prese con le mie faccende fin dal sorgere del sole.» Gro sbadigliò, sorrise e si stiracchiò. «Corund,» disse, «cerca di simulare una meraviglia più vivace se vuoi persuadermi di aver visto l'alba. Perché credo che sarebbe per te una visione nuova e senza precedenti come qualsiasi altra tra quelle che io potrei mostrarti ad Impland.» «Raramente,» rispose Corund, «sono stato così incivile da sorprendere Madama Aurora in camicia da notte. E, le tre ο quattro volte che vi sono stato costretto, ho pensato che essa è un'ora di aria e nebbia pungenti che producono umori freddi e neri nel corpo (2), un'ora in cui la fiaccola della vita arde debolissima. Presto! Portatemi la mia bevanda mattutina!» Il ragazzo portò due coppe di vino bianco e, mentre bevevano: «È una bevanda insipida e poco gradevole l'acqua di fonte,» disse Corund, «una bevanda per damerini dallo stomaco delicato: per allodole della sabbia,
non per uomini. E simile a essa è l'alba: un'ora spiacevole e scialba, un'ora per i traditori dal sangue freddo abituati a colpire alla schiena. Ah, datemi il vino,» gridò, «i vizi del giorno fatto, e le iniquità più sfrontate!» «Pure, ci sono molte cose utili che si possono fare al crepuscolo,» disse Gro. «Sì,» convenne Corund, «cose tenebrose: e in questo, mio Signore, sono ancora tuo discepolo. Vieni, diamoci da fare!» E, preso l'elmo e le armi, ed indossando il suo grande mantello di pelle di lupo, poiché l'aria fuori era gelida e pungente, si avviò con passo deciso. Gro si avvolse nel suo mantello di pelliccia, s'infilò i guanti di pelle d'agnello, e lo seguì. «Se vuoi il mio consiglio,» disse Lord Gro, mentre fissavano Eshgrar Ogo nella tenua luce del sole, «dovresti concedere a Philpritz l'onore, che non ritengo egli desideri molto, di far sferrare a lui ed ai suoi il primo colpo a questa noce. Ha un aspetto molto solido. Sarebbe un peccato sprecare del buon sangue di Witchland in un primo assalto, dal momento che questi vili strumenti sono qui pronti per i nostri scopi.» Corund grugnì nella sua barba e, con Gro al suo fianco, attraversò in silenzio le linee, mentre i suoi occhi acuti cercavano sempre gli strapiombi e le mura di Eshgrar Ogo finché, nel volgere di circa mezzora, non si fermò di nuovo davanti alla sua tenda, dopo aver fatto un giro completo intorno alla fortezza. Allora disse: «Se io mi trovassi là dentro assieme a cinquanta ragazzi in gamba per presidiare le mura, potrei resistere all'assalto di diecimila uomini!» Gro restò zitto per un po', poi chiese: «Dici sul serio?» «Sono assolutamente serio e sobrio,» rispose Corund, raddrizzando le spalle di fronte alla fortezza. «Allora non l'assalirai?» Corund scoppiò a ridere. «Non l'assalirò davvero! Ci sarebbero delle storie divertenti a Carce se l'assalissi!» «Pensaci bene,» disse Gro, prendendolo per un braccio. «Ecco come immagino la situazione: sono pochi e chiusi in uno spazio ristretto, in questa terra lontana, senza la possibilità e la speranza di ricevere soccorsi. Essendo Diavoli e non uomini, la moltitudine delle nostre armate e le tue sperimentate doti di condottiero dovrebbero scoraggiarli. Se il luogo non fosse così inespugnabile, stai certo che qualche dubbio avvelenerebbe la loro tranquillità. Per cui, prima di rischiare la sconfitta in un attacco, cosa che dissolverebbe quei dubbi, usa il tuo vantaggio. Invita Juss a parlamentare. Offrigli delle condizioni: non importa quali. Inducili ad uscire allo scoper-
to.» «Un bel piano!», disse Corund. «Anzi, meriteresti addirittura la corona della saggezza se mi dicessi quali condizioni potrei offrire loro che potessero risultare accettabili. E anche se riesci a risolvere questo problema, ricordati che io e te siamo quelli che decidono qui, ma è un altro quello che regna a Carce.» Lord Gro rise piano. «Basta con l'ironia, Corund,» disse, «e non sperare di darmi a bere che sei così ingenuo nella politica. Pensi che il Re ci farebbe una colpa se rinunciassimo per iscritto a Demonland - e sì, al mondo intero - per indurre Juss a uscire fuori? A meno che non fossimo così noncuranti dei nostri interessi da permettergli, una volta fuori, di eludere i nostri artigli...» «Gro,» disse Corund, «provo dell'affetto per te. Ma difficilmente riuscirai a farmi credere che riuscirò a costringere costoro, coi quali mi sono scontrato per tutta la vita, ad uscire allo scoperto. Non ho esitato a prendere parte alla tua congiura contro quei poveri diavoli di Impland che intrappolammo ad Orpish: qualsiasi cosa andava bene contro gente così meschina. Inoltre, ci trovavamo in una situazione di estrema necessità, ed è difficile per un sacco vuoto rimanere dritto. Ma questa è un'altra storia. Qui occorre soltanto cogliere la mela: la mia principale ambizione è quella di umiliare pubblicamente questi Demoni con la minaccia della mia spada. Per cui, con loro non si servirò di frodi ο trappole ο dei tuoi trucchi diabolici, che mi porterebbero più vergogna che gloria agli occhi dei posteri.» Detto questo, emanò gli ordini ed inviò un araldo sotto i bastioni con una bandiera di tregua. E l'araldo gridò e disse: «Da Corund di Witchland ai Signori di Demonland, questo dice Lord Corund: 'Ho stretto la fortezza di Eshgrar Ogo come una noce in uno schiaccianoci. Venite a parlare con me sul terreno davanti alla fortezza, e vi prometto pace e incolumità mentre parleremo. Lo giuro sul mio onore di soldato.» Quando furono espletati i cerimoniali di rito, Lord Juss scese da Eshgrar Ogo assieme a Spitfire e Brandoch Daha, ed a venti uomini che fungevano da guardia del corpo. Corund venne a incontrarli attorniato dalla sua Guardia, e dai suoi quattro figli che erano venuti ad Impland con lui: Hacmon, Heming, Viglus e Dormanes, quattro giovani accigliati e cupi, di aspetto gradevole, e fierezza poco meno inferiore a quella del padre. Gro, bello a vedersi e snello come un cavallo da corsa, procedeva al suo fianco, imbaccuccato fino alle orecchie in un mantello di ermellino; e dietro veniva Philpritz Faz con in testa un elmo alato in ferro e oro. Aveva un
corsaletto (3) d'oro e calzoni di pelle di pantera, e procedeva furtivo alle calcagna di Corund, come uno sciacallo che segua furtivamente il leone. Quando s'incontrarono, Juss disse: «Prima di tutto, Lord Corund, voglio sapere come sei venuto qui, e perché, e con quale diritti ci blocchi la strada che conduce ad est di Impland.» Appoggiandosi alla lancia, Corund rispose: «Non è necessario che io ti dia una risposta, eppure lo farò. Come sono venuto qui? La risposta è: scalando la gelida parete montagnosa di Akra Skambrath. E questa è un'impresa che, a memoria d'uomo, nessuno aveva fatto prima d'ora con un tale contingente di uomini, ed in così breve tempo.» «È abbastanza vero!», disse Juss. «Devo riconoscere che hai superato tutte le mie aspettative.» «Poi hai domandato perché,» disse Corund. «Ti basti sapere che il Re è stato informato del vostro viaggio ad Impland e dei vostri progetti al riguardo. Vanificarli è la ragione per cui sono venuto.» «Sono stati scolati molti firkin (4) di vino a Carce,» disse Hacmon, «e c'erano molti Nobili privi di sensi ed altri che vomitavano sul pavimento prima del mattino per puro divertimento, quando il maledetto Goldry fu portato via. Non ci preoccupammo molto che quei brindisi risultassero inutili alla fine.» «Fu prima che tu tornassi da Permio?», chiese Lord Brandoch Daha. «Un Dio buono fu al nostro fianco quella notte, se la memoria non m'inganna.» «Hai chiesto infine,» disse Corund, «Lord Juss, con quale diritto vi sto sbarrando la strada verso est. Sappi, dunque, che non ti sto parlando a titolo personale, ma come Vicario nella sterminata Impland del nostro Signore, Gorice XII, Re dei Re, gloriosissimo e grandissimo. Non avete via d'uscita da questo posto se non quella che conduce direttamente nelle mie mani. Per cui, secondo le consuetudini degli uomini di valore, ti propongo delle onorevoli condizioni. Questa è la mia offerta, Juss: lascia questa fortezza di Eshgrar Ogo, e con essa la tua parola vergata su un documento che riconosca il Re nostro Signore come Re di Demonland e tutti voi come suoi sudditi pacifici ed ubbidienti, proprio come noi. Ed io, per parte mia, e nel nome del nostro Re, ti prometto che potrete partire in pace, anche con degli ostaggi, per qualsiasi luogo desideriate, senza che vi sia torto un capello.» Lord Juss lo fissò con espressione minacciosa. «Corund,» disse, «le tue parole sono comprensibili come il soffio insensato del vento. Le cose fra
noi e voi di Witchland si sono fatte spesso incandescenti, e la Casa di Gorice si è sempre comportata come un rospo ripugnante, che non sopporta il dolce odore del vino quando è in pieno rigoglio. Questa volta resisteremo in questa fortezza, e respingeremo anche i vostri assalti più feroci.» «Ho fatto quest'offerta in tutta onestà e col cuore aperto,» disse Corund. «Se la rifiuterai non aspettarti di ritrovarmi pronto a ripeterla.» «È tutto scritto e sigillato,» disse Gro, «e richiede soltanto la tua firma, Lord Juss.» Così dicendo, fece un segno a Philpritz Faz che si avvicinò a Lord Juss con una pergamena, ma Juss l'allontanò con un gesto, dicendo: «Basta così: vi abbiamo dato la nostra risposta!», e stava girando sui tacchi, quando Philpritz, curvandosi improvvisamente, gli inferse un duro colpo sotto le costole (5) con un pugnale che aveva sfilato da una manica. Ma Juss indossava un giaco sotto la veste che deviò il pugnale. Nondimeno, la forza del colpo lo fece barcollare all'indietro. Spitfire portò una mano alla spada, e gli altri Demoni con lui, ma Juss gridò a gran voce che non sarebbero stati loro a rompere la tregua ed avrebbero prima dovuto capire cosa aveva intenzione di fare Corund, il quale disse: «Mi credi, Juss? Non ho avuto né mano né parte in questa cosa!» Brandoch Daha sollevò un labbro e rispose: «Non è accaduto nulla che non fosse stato cercato. È sorprendente, Juss, che tu voglia tendere a questi cani rognosi una mano che non regga una frusta.» «Queste schermaglie non sortiranno alcun effetto,» disse Gro piano nell'orecchio di Corund, e si strinse nel mantello, guardando i Demoni segretamente divertito. Ma Corund col volto rosso per la rabbia chiese: «È questa la tua risposta, Juss?» E quando Juss confermò: «È questa, Corund!», replicò con violenza: «Allora ci sarà una battaglia sanguinosa. Ma questo testimonierà della nostra lealtà.» Fece quindi immobilizzare Philpritz Faz e, di sua mano, gli staccò la testa dal corpo davanti agli occhi dei due schieramenti. Poi disse a gran voce: «Come ho vendicato col sangue l'onore di Witchland su questo Philpritz, così lo vendicherò su tutti voi prima di condurre via le mie armate dai Laghi di Ogo Morveo.» Quindi i Demoni risalirono nella fortezza, e Gro e Corund tornarono nelle loro tende. «È stata un'ottima idea,» disse Gro, «quella di sventolare la bandiera dell'onestà apparente, e con quel gesto ci hai anche liberato da quell'individuo che sarebbe stata una spina nel nostro fianco qui ad Impland.» Corund non rispose.
Dopo un breve lasso di tempo, Corund schierò i suoi uomini e andò all'assalto di Eshgrar Ogo, ponendo quelli di Impland all'avanguardia. Non conseguirono alcun successo. Molte decine di uomini giacquero uccisi davanti alle mura quella notte; e le bestie ripugnanti provenienti dal deserto banchettarono coi loro corpi dalla luce della luna (6). La mattina dopo, Lord Corund inviò un araldo ed invitò nuovamente i Demoni a parlamentare. Questa volta parlò solo a Brandoch Dalia, dicendogli di riferire poi ai due fratelli, Juss e Spitfire: «E, se li convincerai ad accettare, allora tu e tutta la tua gente potrete andarvene in pace senza condizioni.» «Si tratta di un'offerta, dunque,» disse Lord Brandoch Daha; «a meno che non si tratti di una trappola. Falla a gran voce, affinché la mia gente possa sentire!» Corund la fece, e i Demoni l'ascoltarono dalle mura della fortezza. Lord Brandoch Daha restò un po' in disparte da Juss, Spitfire e dalle loro guardie. «Mettila per iscritto,» aggiunse poi, «perché, per quanto possa ritenere degna di fede la tua parola, devo mostrare il tuo Sigillo a coloro che sono con me, prima che essi acconsentano.» «Scrivi tu,» disse Corund a Gro. «Scrivere il mio nome è tutto quello che so fare.» Allora Gro tirò fuori il suo calamaio di corno e scrisse l'offerta sulla pergamena in grande e bella grafia. «La più spaventosa bestemmia che conosci,» disse Corund; e Gro la scrisse, sussurrando: «Ci sta solo prendendo in giro.» Ma Corund disse: «Non importa: è un rischio che dobbiamo correre,» e, lentamente e laboriosamente, appose la sua firma allo scritto, e lo consegnò a Brandoch Daha. Brandoch Daha lo lesse attentamente, e poi lo infilò sotto la sua cotta di maglia. «Questo,» disse, «sarà un pegno fra me e te, Lord Corund. Mi rammenterà,» e qui i suoi occhi divennero terribili, «finché sopravviverà una sola anima a Witchland, che dovrò insegnare al mondo cosa sarà costretto a sopportare colui che ha osato insultarmi con una simile proposta.» «Sei un tipetto vivace!», rispose Corund. «È straordinario come cammini impettito per l'accampamento abbigliato come una donnicciola. E il tuo scudo: quante di quelle bagatelle luccicanti credi che ci lascerei sopra se venissimo alle mani?» «Ti dirò,» rispose Brandoch Daha, «che, per ogni gemma staccata dal mio scudo in battaglia, non sono mai tornato a casa senza riportarne cento prese dalle spoglie dei miei nemici. Ma ora ti voglio dire questo, Corund,
in risposta alle tue parole ingiuriose: ti sfido a singolar tenzone, qui e subito! Se rifiuti, allora sei, al di là di ogni dubbio, un codardo!» Corund ridacchiò nella barba, ma la sua fronte si oscurò un poco. «Di grazia, quanti anni credi che abbia io?», disse. «Già impugnavo una spada quando tu eri ancora in fasce. Guarda il mio esercito, e quale vantaggio ho su di voi. Oh, la mia spada è saggia, Signore: non uscirà dal fodero!» Brandoch Daha sorrise sdegnosamente, e disse a Spitfire: «Osserva bene, ti prego, questo grande Signore di Witchland. Quante dita ha la mano sinistra di una Strega?» «Quante ne ha la destra,» rispose Spitfire. «Bravo! E quante ne hanno entrambe?» «Due meno di un paio,» disse Spitfire, «perché sono ipocriti e pusillanimi fino alla punta delle dita.» «Ottima risposta!», disse Lord Brandoch Daha. «Siete molto divertenti!», borbottò Corund. «Ma le vostre rozze provocazioni non mi smuovono di un pollice. Sarebbe sciocco accettare la tua proposta quando tutti i miei saggi consiglieri mi invitano ad usare la mia forza per annientarti.» «Potresti ammazzarmi immediatamente con la bocca,» disse Brandoch Daha. «In breve, sei un uomo audace quando si tratta di ruggire ed imprecare: ma direi piuttosto che sei una grossa botte di vino, dal momento che, come si dice, per te ubriacarsi è lecito ogni giorno della settimana; temo però che non oserai batterti.» «Il tuo naso non sente una forte puzza?», chiese Spitfire. Ma Corund si strinse nelle spalle. «Al diavolo le vostre provocazioni!», rispose. «Non ho alcuna voglia di fare un simile favore a voi di Demonland, di rinunciare, cioè, al mio vantaggio, per combattere da solo contro un esperto spadaccino (7). Voi vecchie volpi cadete spesso nelle trappole.» «Ne ero certo!», disse Lord Brandoch Daha. «Penso che sia più facile che a una rana crescano i capelli, piuttosto che uno di voi di Witchland osi battersi con me!» Così terminò il secondo incontro davanti ad Eshgrar Ogo. Lo stesso giorno, Corund sferrò di nuovo un attacco alla fortezza: la battaglia fu sanguinosa ed a stento quelli di Demoland riuscirono a difendere le mura. Ma, alla fine, gli uomini di Corund furono respinti dopo un grande massacro. Quando scese la notte, fecero ritorno alle loro tende. «La mia fantasia,» disse Gro, quando il giorno dopo tennero consiglio,
«ha ancora qualcosa in serbo che potrebbe funzionare, se le cose andranno come ci aspettiamo. Ma dubito molto che possa piacerti.» «Be', parla! Poi esprimerò la mia opinione,» disse Corund. «È ormai chiaro,» disse Gro, «che non abbatteremo questo albero tagliandolo al di sopra del suolo. Scaviamo allora intorno alle radici ma, prima, concediamo loro sette notti di tempo per riflettere sulle loro possibilità, in modo che possano vedere mattina e sera dalla fortezza il tuo esercito schierato per assalirli. Poi, quando le loro speranze saranno in qualche modo ridimensionate da quella vista, e la necessità di agire li avrà spinti a tetre riflessioni, invitali a parlamentare, andando sotto le mura; e questa volta comportati in maniera normale, offrendo loro tutte le condizioni più generose alle quali riesci a pensare. Ci sono ben poche cose che possono chiederci che non potremmo tranquillamente concedere se solo ci consegneranno i loro Comandanti.» «Non mi piace,» rispose Corund. «Ma può funzionare. Tu, però, sarai il mio portavoce. Infatti non sono mai andato col cappello in mano a chiedere un favore al letame del mondo, né lo farò adesso!» «E invece devi!», disse Gro. «Da te accetteranno in buona fede quello che, se fossi io a proporlo, sarebbe considerato soltanto un trucco.» «È abbastanza vero,» disse Corund. «Ma non riesco a mandarla giù. Inoltre, sono un parlatore troppo rozzo.» Gro sorrise. «Chi ha bisogno di un cane,» disse, «lo chiama 'Signor Cane'. Vieni, vieni, t'istruirò io. In fondo è poca cosa rispetto a mesi e mesi di tediose privazioni in questo deserto gelato. Pensa anche alla gloria che te ne verrà quando tornerai a Carce con Juss, Spitfire e Brandoch Daha legati mani e piedi.» Corund si convinse, ma soltanto dopo un lungo lavoro di persuasione. Alla fine acconsentì. Per sette giorni e sette notti, le sue armate rimasero schierate davanti alla fortezza senza dare alcun segno di volersi muovere e, l'ottavo giorno, egli invitò i Demoni a parlamentare e, quando essi accettarono, salì coi suoi figli e con venti uomini armati su per il grande costolone di roccia fra i laghi, e si fermò sotto il muro orientale della fortezza. L'aria era gelida e pungente quel giorno. Una neve farinosa veniva spinta in piccoli mucchi sul terreno, e le rocce erano rese scivolose da un'invisibile patina di ghiaccio. Lord Gro, colpito da una febbre, si scusò per non poter partecipare alla spedizione e restò nella sua tenda. Corund stava sotto le mura coi suoi uomini intorno a lui. «Ho da dire qualcosa di molto importante,» gridò, «ed è necessario che sia ascoltato
dal primo e dall'ultimo di voi. Prima che cominci, fate venire tutti da questa parte delle mura: qualche sentinella sarà sufficiente a proteggervi da un eventuale assalto improvviso, cosa che, giuro, non è assolutamente nelle mie intenzioni.» Quando si furono accalcati sul muro sopra di lui, cominciò a dire: «Soldati di Demonland, non ho mai avuto nulla contro di voi. Guardate come qui ad Impland ho fatto germogliare la libertà come un fiore. Ho tagliato la testa di Philpritz Faz, di Illarosh, di Lurmesh, di Gandassa, di Fax Fay Faz, che erano qui Signori e Governatori, vere sentine di colpe sanguinose, oppressione, ingordigia, indolenza, crudeltà ed estorsioni. E, nella mia clemenza, ho consegnato tutti i loro possedimenti ai loro sudditi perché li conservassero e li organizzassero secondo la loro volontà, visto che si erano armati di pazienza ed erano stati costretti a tollerare con grande rancore la tirannia di questi Faz, finché non hanno trovato in me un rimedio per riconquistare la loro libertà. Allo stesso modo, non è contro di voi che combatto, uomini di Demonland, ma contro i tiranni che vi costringono, per il loro tornaconto, a sopportare privazioni e morte in questo paese lontano: ovverosia, contro Juss e Spitfire, che sono venuti qui in cerca del loro maledetto fratello, che il nostro potente Re ha fortunatamente provveduto a far portare via. E contro Brandoch Daha, un insolente selvaggio, che conduce la sua esistenza oziosa mangiando, bevendo ed esercitando la tirannia, mentre le ridenti regioni di Krothering, Failze e Stropardon, e gli abitanti delle isole Sorbey, Morvey, Sturfey, Danley e Kenarvey, nonché quelli di Westmark e di tutti i territori occidentali di Demonland, patiscono e muoiono di fame per pagare i suoi fasti. Questi tre vi hanno condotti qui solo per farvi del male, come buoi al macello. Consegnateli a me, affinché io possa castigarli, ed io, che sono il Gran Viceré di Impland, vi darò la libertà e vi farò Signori: un feudo per ognuno di voi nel mio reame di Impland.» Mentre Corund parlava, Lord Brandoch Daha si portò fra i soldati e ordinò loro di mantenersi tranquilli e di non inveire contro Corund. Ma affidò un incarico a quelli che erano più ansiosi di battersi, in preparazione di ciò che aveva in mente. Così, quando Lord Corund finì di declamare, tutto era pronto e, all'unisono, i soldati di Lord Juss che stavano sulle mura gridarono: «Questa è la tua parola, Corund, e questa è la nostra risposta,» e, immediatamente, scaraventarono su di lui da pentole, secchi, e da ogni tipo di recipienti, un diluvio di liquami, frattaglie e tutti i rifiuti che avevano a portata di mano.
Il contenuto di un secchio investì la bocca di Corund, insozzandogli tutta la folta barba, cosicché egli arretrò sputacchiando. Lui e i suoi, che si trovavano in prossimità delle mura e non si aspettavano una reazione così improvvisa e maligna, si ritirarono vergognosamente, completamente inzaccherati e lordi di sozzura. Al che, dalle mura si sollevò un coro di risate fragorose. Ma Corund gridò: «Rifiuti di Demonland, questa è l'ultima volta che ho parlato con voi. Dovessi impiegarci dieci anni, stringerò d'assedio questa fortezza, e la farò crollare sulle vostre teste. Alla fine scoprirete quanto sarà nefasto avere a che fare con me, e come sarò potente, fiero, implacabile, crudele e sanguinario nella mia conquista.» «Che succede, ragazzi?», chiese Lord Brandoch Daha, ritto sui bastioni. «Non abbiamo nutrito abbastanza questa bestia con l'acqua dei maiali, visto che continua a sbuffare e ad abbaiare davanti alla nostra porta? Portatemi un altro secchio.» Così le Streghe tornarono scornate alle loro tende. Era talmente rovente la collera di Corund nei confronti dei Demoni, che non mangiò né bevve quando ridiscese da Eshgrar Ogo, ma riunì immediatamente gli uomini e sferrò un attacco contro la fortezza, il più potente fino a quel momento: vi parteciparono anche gli uomini scelti di Witchland e fu lui stesso a guidarlo. Per tre volte, trascinati dall'impeto, riuscirono ad entrare nella fortezza, ma tutti quelli che vi misero piede furono uccisi, e il giovane figlio di Corund, Dormanes, rimase mortalmente ferito. Quando scese la sera, dovettero rinunciare alla battaglia: in quel combattimento caddero circa centottanta Demoni, cinquecento Diavoli, e trecentonovantanove Streghe. E molti altri di entrambi gli schieramenti rimasero feriti. All'ora di cena, l'ira era sospesa come un fulmine sulla fronte di Corund. Mangiò furiosamente il suo pasto, infilandosi in bocca dei grossi pezzi, masticando le ossa come un animale, e scolando abbondanti sorsate di vino ad ogni boccone, cosa che, comunque, non dissipò il suo umor nero. Di fronte a lui, Gro stava seduto in silenzio, rabbrividendo di tanto in tanto, nonostante fosse avvolto nel suo mantello d'ermellino ed avesse il braciere accanto a sé. Mangiò un pasto frugale, limitandosi a bere vino caldo a piccoli sorsi ed intingendovi dei pezzettini di pane. Quel pasto funereo e senza scambi di cortesie fu consumato in silenzio, finché Lord Corund, rivolgendo improvvisamente uno sguardo a Gro al di là del tavolo e cogliendo gli occhi dell'altro che lo fissavano, disse: «È sta-
ta la tua buona stella a splendere su di te, quando sei stato colto da questo attacco di brividi e così non sei venuto con me per essere insozzato di letame davanti alla fortezza.» «Chi poteva aspettarsi,» rispose Gro, «che si sarebbero comportati in maniera così vile ed infame?» «Non tu, ci giurerei,» disse Corund, rivolgendogli un'occhiata malevole e notando, ο credendo di notare, una luce di scherno negli occhi di Gro. Questi rabbrividì ancora, sorseggiando il suo vino e distolse lo sguardo a disagio per quella assai poco amichevole occhiata. Corund bevve per un po' in silenzio poi, diventando di un rosso più scuro, si protese al di sopra del tavolo verso l'altro e disse: «Hai capito perché ho detto 'non tu'?» «Non era necessario, per un tuo amico,» disse Gro. «L'ho detto,» disse Corund, «perché tu ti aspettavi un'altra cosa quando ti sei proditoriamente rintanato qui.» «Un'altra cosa?» «Non stare seduto là con quell'espressione altezzosa di chi finge un'innocenza che certamente non ha,» disse Corund, «altrimenti ti ammazzo. Tu hai tramato perché fossi ucciso dai Demoni. E, poiché non ha un solo briciolo d'onore nella tua anima, non hai avuto il buon senso di renderti conto che la loro nobiltà si ritrarrebbe da un'azione indegna come quella che le tue speranze avevano accarezzato.» «Questo è uno scherzo che non mi fa ridere,» disse Gro, «oppure il vaneggiamento di un pazzo.» «Vigliacco ipocrita,» disse Corund, «sappi che io non ritengo meno colpevole colui che regge la scala di colui che sale sul muro. Era tuo disegno che essi ci colpissero di sorpresa quando siamo saliti da loro con questo piano che con tanto fervore mi ha convinto ad accettare.» Gro fece come per alzarsi. «Siediti!», gridò Corund. «Ora rispondi: non sei stato tu forse ad istigare quel povero sciocco di Philpritz a fare quel tentativo su Juss?» «Me ne aveva parlato...», disse Gro. «Oh, sei scaltro,» replicò Corund. «Anche in questo vedo la tua slealtà. Se essi ci avessero assaliti, avresti potuto cavartela affidandoti alla loro misericordia.» «Questa è una sciocchezza. Eravamo più forti di loro.» «È così, invece. Quando mai ti ho reputato saggio e dotato di senno e giudizio? Sei pieno fino al collo di slealtà.»
«E tu sei mio amico!» Dopo un po' Corund disse: «Sapevo già da un pezzo che eri una volpe astuta e subdola, ed ora non oso più fidarmi di te, per tema di ricadere nelle tue trame. Ho deciso di ucciderti.» Gro ricadde sulla sedia ed allargò le braccia. «Sono già stato una volta in questo luogo,» disse. «L'ho osservato, al chiaro di luna e nello splendore del giorno, nel bel tempo e nelle bufere di neve, coi venti impetuosi che spiravano sulle distese desertiche. Ed ho capito che era maledetto! Dal Morna Moruna, prima che nascessimo noi, Corund, ο chiunque altro, nacquero il tradimento e la crudeltà, più neri della notte stessa, e portarono la morte a chi se ne rese responsabile ed a tutta la sua gente. Dal Morna Moruna spira sul deserto questo vento che dissolve il nostro amore e ci porta la distruzione. Sì, uccidimi! Non mi opporrò in alcun modo.» «Non conta molto, Goblin,» disse Corund, «che tu ti opponga ο no. Sei soltanto un verme fra le mie dita, da uccidere ο gettare via come meglio riterrò.» «Ero un uomo di Re Gaslark,» disse Gro, parlando come in un sogno; «e, da quando ero un ragazzo di quasi quindici anni fino a quando sono diventato uomo, l'ho servito con lealtà e zelo. Eppure, per tutto quel tempo e verso la fine, il mio unico successo è stato quello di avere la barba sul viso ed il rimorso nel cuore. Per quale meschino proposito ho complottato ai suoi danni? Solo per compassione di Witchland, che scivola come allora nel baratro dell'avversa fortuna: è stato questo che mi ha spinto. Ed ho servito bene Witchland: ma il destino si è sempre schierato dall'altra parte. Fui io a consigliare Re Gorice XI di ritirarsi dal combattimento a Kardatza, eppure la capricciosa Fortuna ruotò a favore di Demonland. Lo pregai di non lottare con Goldry sulle Isole Foliot, e tu mi appoggiasti. Non ricavai nient'altro che rimproveri e minacce di morte; ma, proprio per aver ignorato i miei consigli, Witchland si trovò nei guai. Aiutai il nostro Re quando fece la sua evocazione e mandò il Messo contro i Demoni. Per questo egli mi ha manifestato il suo affetto e mi ha protetto, ma ciò ha suscitato grande invidia nei miei confronti a Carce. Mi sono denudato, perché la tua amicizia e quella di tua moglie sono state dei fuochi così ardenti da difendermi dal gelo dell'ostilità. E adesso, a causa dell'affetto che provo per te, ti ho seguito qui ad Impland. E qui, nei pressi del Moruna dove un tempo mi aggirai nel pericolo e nell'afflizione, è giusto che io contempli, finalmente, l'inutilità della mia esistenza.» Gro rimase silenzioso per un minuto, quindi cominciò a dire: «Corund,
denuderò la mia anima davanti a te prima che tu mi uccida. È verissimo che, fino ad ora, seduto davanti ad Eshgrar Ogo, il mio cuore ha avuto ben presente quale grande vantaggio abbiamo nei confronti dei Demoni, il valore col quale si difendono, considerato quanto sono pochi rispetto a noi, e la grande gloria che viene loro dal respingere i nostri assalti: queste cose sono straordinarie per la mia anima che le osserva attentamente. Un fascino del genere mi ha sempre abbagliato quando nella mia vita ho visto grandi uomini continuare a lottare sotto gli strali dell'avversa fortuna e, pur essendo miei nemici, non ho mai negato loro la mia ammirazione ed il mio rispetto. Ma non sono mai stato ipocrita con te, né tantomeno ho mai pensato, come tu crudelmente mi accusi, di tramare per la tua distruzione.» «Piagnucoli come una donna per la tua vita,» disse Corund. «I cani codardi non suscitano mai pietà in me.» Ma non si mosse, limitandosi a fissare cupamente Gro. Gro sfilò la propria spada, e la tese a Corund con l'elsa in avanti attraverso il tavolo. «Queste parole sono peggiori di un colpo di spada,» disse. «Vedrai come la morte sarà per me la benvenuta. Il Re ti loderà, quando gli spiegherai la ragione. E sarà una bella notizia per Corinius e per coloro che mi odiano, il fatto che l'affetto che provi per me mi ha annientato, e che finalmente li hai liberati di me.» Ma Corund non si mosse: dopo un po', riempì un altro calice, bevve e rimase seduto. Gro restò immobile di fronte a lui: infine, Corund si alzò pesantemente dalla sedia e, spingendo indietro la spada attraverso il tavolo, «Faresti meglio ad andare a letto,» disse, «l'aria notturna è troppo pungente per il tuo malanno. Dormi nel mio letto stanotte.» Il giorno spuntò freddo e grigio e, all'alba, Corund dispose le sue schiere intorno a Eshgrar Ogo e preparò l'assedio. Per dieci giorni rimase davanti alla fortezza, e non accadde nulla, dall'alba alla notte, dalla notte all'alba: solo le sentinelle si aggiravano sulle mura e gli uomini di Corund osservavano le loro sagome. L'undicesimo giorno, un banco di nebbia giunse scivolando verso ovest dal Moruna, gelido e malsano, offuscando il paesaggio. Cadde la neve, la nebbia rimase sospesa sulla terra, e la notte giunse nera come la pece al punto che anche alla luce delle torce un uomo non sarebbe riuscito a distinguere la mano tesa alla distanza di un braccio davanti a sé. La nebbia durò cinque giorni. La quinta notte, il ventiquattro di Novembre, nel buio della terza ora dopo mezzanotte, suonò l'allarme, e Corund fu
chiamato da un messaggero proveniente dal nord il quale riferì che era stata fatta una sortita da Eshgrar Ogo, che le linee in quel punto avevano ceduto, e che il combattimento stava proseguendo nel buio. Corund si era bardato alla meglio e stava avanzando nella notte, quando un secondo messaggero giunse a gambe levate da sud con notizie di un'accanita battaglia che si stava svolgendo laggiù. Nelle tenebre c'era gran confusione, e niente era certo se non che i Demoni avevano fatto una sortita da Eshgrar Ogo. Di lì a poco, mentre Corund giungeva con i suoi a nord e si univa al combattimento, arrivò un messaggio da suo figlio Heming, il quale riferiva che Spitfire con un certo numero di uomini aveva spezzato l'accerchiamento dall'altra parte, allontanandosi verso est, e che un grosso contingente lo stava inseguendo in direzione dell'Impland Esterno; e, inoltre, che più di cento Demoni erano stati circondati e bloccati fra le rive dei laghi, e che gli uomini di Corund erano penetrati nella fortezza e l'avevano conquistata. Ma di Juss e di Brandoch Daha non si sapeva nulla di certo, salvo che non si trovavano con Spitfire, ma con quelli contro i quali Corund era avanzato di persona, quando si era diretto a nord. La battaglia proseguì nella notte. Corund stesso s'imbatté in Juss e scambiò dei colpi di lancia con lui quando la nebbia cominciò a sollevarsi all'approssimarsi dell'alba, ed uno dei suoi figli riferì che Brandoch Daha si trovava anch'egli là, e gli aveva inflitto una grave ferita. Quando la notte passò, e le Streghe tornarono dall'inseguimento, Corund interrogò subito i suoi ufficiali, e si aggirò egli stesso sul campo di battaglia ascoltando i racconti che facevano gli uomini ed esaminando i morti. I Demoni che erano stati circondati in mezzo ai laghi erano stati tutti uccisi, altri erano stati trovati morti altrove, e pochi erano quelli sopravvissuti. I suoi ufficiali avrebbero voluto farli uccidere, ma Corund disse: «Poiché sono Re di Impland finché non la consegnerò al Re, non è certo questo pugno di vermi della terra che potrà procurarmi dei guai qui; posso ben concedere loro la vita, dal momento che si sono battuti con valore.» Così li lasciò andare in pace. E a Gro disse: «Non m'importerebbe che per ogni Demone morto a Ogo Morveo se ne sollevassero contro di noi dieci, se soltanto Juss e Brandoch Daha fossero stati uccisi.» «Sosterrò la tua storia, se dichiarerai che sono morti,» disse Gro. «E non c'è niente di più probabile, se sono andati sul Moruna solo con due ο tre uomini, che questa storia diventi vera prima che possiamo raccontarla a Carce.»
«Puah!», esclamò Corund. «Al diavolo questi sotterfugi! Ciò che abbiamo fatto ci darà abbastanza gloria anche senza di loro: Impland conquistata, l'esercito di Juss massacrato, lui stesso e Brandoch Daha inseguiti come schiavi fuggiaschi sul Moruna. Dove, se gli Spiriti li dilanieranno, si avvererà il mio più grande desiderio. Se non sarà così, allora sentirai ancora parlare di loro, stanne certo! Credi che potrebbero sopravvivere senza sollevare un clamore che si sentirebbe da qui a Carce?» XII. IL KOSHTRA PIVRARCHA Dell'arrivo dei Signori di Demonland sul Morna Moruna, da dove osservarono le Montagne Zimiamviane, viste da Gro negli anni passati; e delle meraviglie da loro viste e dei pericoli incontrati e delle imprese compiute nel loro tentativo sul Koshtra Pivrarcha, l'unica montagna della Terra dalla quale si vede dall'alto il Koshtra Belorn; e di come nessuno può salire fino sul Koshtra Belorn se prima non l'ha visto dall'alto. Ora dobbiamo parlare di Lord Juss e di Lord Brandoch Daha, i quali, trovandosi divisi dai loro uomini nella nebbia, e non essendo in grado di riunirsi a loro, quando l'ultimo suono della battaglia si spense, pulirono e rinfoderarono le loro spade lorde di sangue e si avviarono a passo spedito verso est. Di tutti gli uomini che erano con loro, il solo Mivarsh li seguì. Le sue labbra erano leggermente ritratte e mostravano i denti, ma egli avanzava con fierezza, con la mente tranquilla di uno che cammina verso la sua distruzione. Avanzarono giorno dopo giorno, a volte col bel tempo, altre nella nebbia ο nel nevischio, sul deserto immutabile, senza altro punto di riferimento, se non un pigro fiumiciattolo qui, ο una sporgenza del suolo là, ο uno stagno, ο un ammasso di rocce: piccole cose che si confondevano col paesaggio uniforme prima ancora di trovarsi mezzo miglio alle loro spalle. Ogni giorno era come il precedente, e si trascinava fino ad un identico giorno successivo. E la paura camminava sempre alle loro calcagna e sedeva accanto a loro mentre dormivano: un frullare d'ali sul vento, il silenzio minaccioso che incombeva nella luce del sole, e rumori provenienti dalle tenebre e dal vuoto, come il battere dei denti. Il ventesimo giorno,
giunsero sul Morna Moruna e, a sera, nel tetro crepuscolo, si fermarono davanti al piccolo castello rotondo che si ergeva silenzioso sull'Orlo di Omprenne. Ai loro piedi, la parete scendeva a picco. Era strano, stando là sull'orlo congelato del Moruna - come sul bordo del mondo - guardare verso sud una regione in piena estate, e respirare l'opprimente aria estiva che saliva dagli alberi e dai monti coperti di fiori. In fondo, un tappeto di enormi cime d'alberi rivestiva una vasta distesa, in mezzo alla quale, visibile qua e là fra gli alberi come una striscia argentea, il Bhavinan trasportava le acque di mille, segrete solitudini, attraverso montagne giù fino ad un mare ignoto. Al di là del fiume, i fitti boschi, azzurri a quella distanza, si estendevano fino alle sommità piumate delle colline con le loro cime aguzze, addensandosi intorno ad esse come nubi. I Demoni strizzarono gli occhi per sondare la cortina di mistero dietro e al di sopra di quelle colline pedemontane, ma i grandi picchi, come donne gigantesche, si velarono sotto il loro sguardo indiscreto, ed essi non ebbero alcuna visione delle nevi. Di certo, essere a Morna Moruna, era come essere nella camera mortuaria di una persona un tempo attraente. Sulle mura c'erano macchie di bruciato. La bella tribuna di legno che correva sopra il muro maestro, era bruciata ed in parte caduta in rovina, e le estremità annerite delle travi che la reggevano sporgevano alla cieca dallo squarcio. Nello scempio di sedie e panche intagliate, sfasciate e divorate dai vermi, c'erano brandelli putrefatti di arazzi decorati, ormai tana di scarafaggi e ragni. Chiazze di colore, linee sbiadite, ammuffite e umide per una corruzione durata duecento anni, sopravvivevano in ricordo degli splendidi affreschi sulle pareti, come lo scheletro mummificato della figlia di un Re, prematuramente morta da molti anni. Cinque notti e cinque giorni i Demoni e Mivarsh dimorarono a Morna Moruna, e si abituarono ai portenti al punto da notarli appena, come un uomo si avvede delle rondini sulla sua finestra. Nella tranquillità della notte si vedevano fuochi e, nell'aria illuminata dalla luna, indistinte forme alate. Nelle notti illuni e prive di stelle, si udivano gemiti e borbottii: prodigi si verificarono accanto ai loro giacigli, e dita scarnificate tiravano Juss, invisibili, quando egli usciva per interrogare la notte. Nubi e nebbia incombevano sempre a sud e, della grande catena al di là del Bhavinan, erano visibili solo le colline pedemontane. Ma la sera del sesto giorno prima di Yule, il diciannove dicembre, quando Betelgeuse a
mezzanotte si trova allo zenith, un vento soffiò da nord-ovest portando con sé improvvisi rovesci di nevischio e squarci di luce solare. Il giorno moriva mentre essi stavano sullo strapiombo. Le distese di boschi erano azzurre per le ombre della notte che si avvicinava; il fiume era color argento opaco; le lontane cime coperte d'alberi confondevano i loro profili con le torri, ed i banchi del turbolento vapore azzurro cupo si scagliavano incessantemente negli strati alti dell'aria. Improvvisamente, nelle nuvole si aprì una finestra su un cielo terso e pallido, spazzato dal vento, proprio sopra le colline irte di alberi. In quel momento, Juss trattenne il fiato, nel vedere quegli esseri immortali che splendevano avvolti nell'aria traslucida, distanti, enormi e solitari, simili alle creature dei cieli irraggiungibili, fatte di vento e fuoco, troppo pure per contenere particole degli elementi più pesanti della terra ο dell'acqua. Era come se la luce rosso-rosata del tramonto fosse stata cristallizzata e quegli esseri fossero stati sbozzati da essa, diventando eterni, compatti ed immutevoli fra il vortice delle nebbie nate dalla terra, sotto, ed il cielo tumultuoso, sopra. Lo squarcio si dilatava sempre di più, verso est e verso ovest, aprendosi su altri picchi e nevi incendiate dal tramonto. E un arcobaleno che si estendeva verso sud era come una magnifica spada che attraversava quella visione. Immobili, come falchi che fissavano da quell'alto punto di prospettiva, Juss e Brandoch Daha guardavano le montagne del loro desiderio. Juss parlò esitando, come uno che parla in un sogno. «Il dolce profumo... questa brezza capricciosa... la pietra sulla quale i piedi si posano: li ho già conosciuti. Non c'è stata una sola notte da quando siamo salpati da Lookinghaven che non ho visto in sogno queste montagne e sentito i loro nomi.» «Chi ti ha detto i loro nomi?», chiese Lord Brandoch Daha. «Il mio sogno,» rispose Juss. «Lo sognai la prima volta nel mio letto a Galing quando tornai a casa dopo essere stato tuo ospite a giugno scorso. E sono sogni veri quelli che si sognano là.» Poi aggiunse: «Vedi dove le colline si dividono in corrispondenza di quella valle scura che penetra in profondità nella catena, e le montagne sono esposte alla vista dalla vetta ai piedi? Osserva dove, nella schiera di monti più vicini, quei precipizi dall'aspetto desolato, con quei larghi corridoi di neve che formano una ragnatela, salgono fino ad un contrafforte dove le torri di roccia si stagliano contro il cielo. Quello è il grande massiccio del Koshtra Pivrarcha, e la più alta di quelle guglie è la sua cima segreta.»
Mentre parlava, i suoi occhi seguivano la linea della catena orientale, dove le torri, come Dei oscuri scesi dal cielo, scendevano verso un parapetto che si snodava orizzontalmente al di sopra di una cortina di neve scanalata dalle valanghe. Poi tacque, mentre il suo sguardo si soffermava sulla vetta gemella che a est della gola fiammeggiava verso il cielo coi suoi strapiombi impervi fino alla sommità innevata, la quale si delineava dolcemente come la guancia di una fanciulla, più pura della rugiada, più incantevole di un sogno. Mentre guardavano, i fuochi del tramonto si spensero sopra le montagne, lasciando soltanto i pallidi colori della morte e del silenzio. «Se il tuo sogno,» disse Lord Brandoch Daha, «ti ha condotto fino a quest'Orlo, sopra il Bhavinan, attraverso quei boschi e quelle colline, su per le leghe di ghiaccio e roccia gelata che corrono fra noi ed il massiccio principale, su per il sentiero che porta alle nevi più elevate del Koshtra Belorn, allora è stato proprio un sogno.» «Mi ha mostrato tutto questo,» disse Juss, «fino alle rocce più basse del grande contrafforte settentrionale del Koshtra Pivrarcha, che dev'essere prima scalato da chi vuole salire sul Koshtra Belorn. Ma, al di là di quelle rocce, neanche un sogno è mai salito. Prima che la luce si attenui, ti mostrerò il percorso che faremo sulla catena più vicina.» Così dicendo, indicò un punto dove un ghiacciaio scivolava fra pareti in ombra giù da una distesa di neve divisa in due che saliva ripida fino ad una sella. Ad est c'erano due picchi bianchi e, ad ovest, una montagna dalle pareti a strapiombo e dall'ampio dorso simile ad una roccaforte, tozza e nera sotto il profilo scosceso del Koshtra Pivrarcha che incombeva nell'aria alle sue spalle. «È la Valle di Zia,» disse Juss, «che si estende nel Bhavinan. Laggiù c'è il nostro sentiero: sotto quel bastione scuro chiamato dagli Dei Tetrachnampf.» Al mattino, Lord Brandoch Daha andò da Mivarsh Faz e gli disse: «Oggi dobbiamo scendere dall'Orlo di Omprenne. Per nessuna ragione vorrei lasciarti sul Moruna, ma discendere questa parete non sarà una passeggiata. Sei uno scalatore?» «Sono nato,» rispose Mivarsh, «nell'alta valle di Perarshyn, vicino alle acque superiori del Beirun ad Impland. Laggiù, i ragazzini a malapena camminano quando imparano a scalare una roccia. Questa discesa non mi spaventa, né queste montagne. Ma la regione è ignota e terribile, e molti
esseri orribili la popolano: Spettri e mangiatori di uomini. Ο Diavoli d'oltremare, amici, non siete ancora soddisfatti? Torniamo indietro e, se gli Dei salveranno le nostre vite, saremo famosi per sempre, come coloro che sono saliti sul Marna Moruna e tornati vivi.» Ma Juss rispose: «Mivarsh Faz, devi sapere che non abbiamo intrapreso questo viaggio per la gloria. La nostra grandezza già mette in ombra tutto il mondo, come un grande albero di cedro che proietta la sua ombra in un giardino; e questa impresa, per quanto grandiosa, aggiungerà alla nostra gloria solo quanto potresti aggiungere tu a queste foreste del Bhavinan piantando un altro albero. La verità è che il grande Re di Witchland, praticando nelle tenebre del suo palazzo reale a Carce le Arti della Magia e dell'Evocazione che minacciano il mondo come mai prima, ha mandato una cosa malvagia a rapire mio fratello, Lord Goldry Bluszco, che mi è caro come la mia anima. E Coloro che Abitano nel Mistero, mi hanno detto in sogno, spingendomi ad ubbidirli che, se volevo notizie del mio caro fratello, avrei dovuto cercare sul Koshtra Belorn. Dunque, Mivarsh, puoi venire con noi se vuoi ma, se non vuoi, allora ti auguro buon viaggio. Perché nulla, se non la morte, potrebbe impedirmi di andare in lassù!» E Mivarsh, pensando che se le manticore delle montagne lo avessero divorato assieme a quei due sarebbe stato un destino anche più benevolo di andarsene tutto solo ad affrontare quelle cose che sapeva che abitavano sul Moruna, afferrò la corda e, dopo essersi raccomandato alla protezione degli Dei, seguì Lord Brandoch Daha giù per gli insidiosi declivi di roccia e terra gelata situati all'estremità di una gola che conduceva verso il precipizio. Malgrado si fossero messi in marcia di prima mattina, era mezzogiorno quando si staccarono dalle rocce. Il pericolo di frane li spinse prima fuori dal letto della gola sul contrafforte ad est e dopo, quando questo divenne troppo ripido, di nuovo sulla parete occidentale. Nel giro di un'ora ο due, il letto della gola divenne meno profondo e si restrinse all'estremità, da dove Brandoch Daha osservò fra i suoi piedi il punto dove, poche lunghezze di lancia più sotto, i lisci lastroni si curvavano verso il basso perdendosi alla vista e l'occhio balzava direttamente dal loro margine netto alle cime scintillanti degli alberi che sembravano minuscoli come muschio al di là dell'invisibile abisso d'aria. Là essi riposarono un po' quindi, risalendo per un breve tratto la gola, raggiunsero faticosamente la superficie ed eseguirono una difficile traversata fino ad un'altra gola posta ad ovest della prima. Finalmente scesero
lungo la falda detritica e si fermarono a riposare sul soffice tappeto erboso ai piedi della parete. Piccole genziane di montagna crescevano laggiù, e la foresta inesplorata si estendeva come un mare sotto di loro. Davanti, le montagne di Zia svettavano altissime: i bianchi frontoni di Islargyn, il magro dito scuro di Tetrachnampf nan Tshark che si ergeva alle spalle del Passo di Zia indicando il cielo e, ad ovest, incombente sulla valle, il tozzo bastione di Tetrachnampf nan Tsurm. Le montagne più grandi erano per la maggior parte nascoste dalla catena più prossima, ma il Koshtra Belorn torreggiava ancora al di sopra del Passo. Come una regina che guardava giù dalla sua alta finestra, essa dominava quei boschi verdi addormentati a mezzogiorno e, sulla sua fronte, la bellezza splendeva come una stella. Dietro di essa, la scarpata s'innalzava in una stretta prospettiva: contrafforti ammucchiati uno sull'altro separavano gole che si snodavano verso l'alto, da quella terra di foglie e acque fino ai falsi-piani misteriosi e gelidi del Moruna. Quella notte dormirono sul pascolo sotto le stelle, e il giorno dopo, scendendo nei boschi, giunsero al crepuscolo in una vasta radura in prossimità delle acque dell'ampio Bhavinan. Il suolo erboso era come un cuscino, un luogo adatto alle danze degli Elfi. L'altro argine, distante esattamente mezzo miglio, era coperto fino all'acqua di betulle argentee, splendide come ninfe montane: i rami scintillavano nel crepuscolo, e i loro riflessi tremolavano nelle profondità del fiume possente. In alto nel cielo, il giorno indugiava ancora, un tenue chiarore tingeva i profili delle montagne e, ad ovest, a monte del fiume, la giovane luna si chinava sugli alberi. Ad est della radura una piccola sporgenza coperta d'alberi - non più alta di una casa - si allungava dalla riva del fiume e, sulla sua sommità, c'era una cavità. «Che te ne pare?», chiese Juss. «Stai certo che non avremmo potuto trovare un posto migliore di quello come rifugio finché le nevi non si scioglieranno e potremo proseguire. Infatti, anche se l'estate dura tutto l'anno in questa valle fortunata, in alta collina è inverno e, finché non verrà la primavera, saremmo dei pazzi a tentare la nostra impresa.» «Allora,» disse Brandoch Daha, «mettiamoci a fare i pastori per un po'. Tu suonerai il piffero per me, ed io eseguirò danze che indurranno le driadi a pensare di non essere mai andate a scuola. E Mivarsh sarà il Dio dal piede caprino che le inseguirà perché, a dirti la verità, le ragazze di compagna mi sono venute a noia da un bel po' di tempo. Oh, questa è vita! Ma, prima
che ci abbandoniamo ad essa, rifletti su questo, Juss: il tempo passa, e il mondo gira. Cosa succederà a Demonland finché non verrà l'estate e noi non saremo di nuovo a casa?» «Anche il mio cuore è triste per mio fratello Spitfire,» disse Juss. «Oh, è una situazione terribile, e questi contrattempi sono ancora più terribili!» «Basta con questi rimpianti inutili,» disse Lord Brandoch Daha. «Mi sono imbarcato in questo viaggio per te e per tuo fratello, e sai bene che non ho mai allungato le mani su qualcosa che non ho preso, se ne avevo voglia.» Così fecero di quella caverna vicino al turbinoso Bhavinan la loro residenza, e davanti ad essa consumarono il loro banchetto di Yule, il più strano che avessero mai consumato in tutta la loro vita: seduti, non come sempre sui loro alti scranni di rubino ο di opale, ma sulle zolle muscose dove dormivano le pratoline ed il timo rampicante; illuminati non dai carbonchi fatati dell'alta Sala delle Udienze di Galing, ma dai raggi cangianti di un fuoco di sterpi, che non ardeva su quelle colonne coronate di mostri che erano una meraviglia del mondo, ma sulle colonne ben più massicce dei faggi dormienti. E, al posto del falso cielo di gioielli splendenti di luce propria che si trovava sotto la volta dorata di Galing, mangiarono avvolti da un'incantevole notte d'estate, dove le grandi stelle invernali - Orione, Sirio e il Cane Minore - si trovavano vicino allo zenith, seguendo le loro traiettorie nel cielo meridionale fino a Canopo ed alle strane stelle del sud. Quando gli alberi parlarono, non lo fecero con la voce invernale dei nudi rami crepitanti, ma col sussurro delle foglie e dei coleotteri che ronzavano nell'aria fragrante. I cespugli erano coperti di boccioli bianchi, e le chiazze appena visibili sotto gli alberi non erano neve, ma gigli selvatici e anemoni dei boschi che dormivano nella notte. Tutte le creature della foresta parteciparono al banchetto. Non avendo mai visto un uomo, non avevano timore. Piccole scimmie arboricole, pappagalli, cinciallegre, cince more, scriccioli, lemuri miti dagli occhi tondi, conigli, tassi, ghiri, scoiattoli macchiettati, castori dei fiumi, cicogne, corvi, ottarde, vombati, e una scimmia ragno coi suoi piccoli al seno, tutti vennero a guardare con curiosità quei viaggiatori. E non solo questi, ma bestie feroci dei boschi e delle lande: il bufalo selvaggio, il lupo, la tigre dai mostruosi artigli, l'orso, l'unicorno dagli occhi di fuoco, l'elefante, il leone e la leonessa nella loro maestà, vennero a osservarli alla luce del fuoco in quella radura tranquilla. «A quanto pare, il nostro ricevimento di Corte stanotte lo teniamo nei
boschi,» disse Lord Brandoch Daha. «È molto piacevole, ma tieniti pronto come me a porre qualche torcia fra noi e loro se ce ne fosse bisogno. È probabile che alcuni di quei grossi animali abbiano appreso poco de! Cerimoniale di Corte.» «Se mi sei affezionato,» rispose Juss, «non fare niente del genere. C'è una maledizione sospesa su tutta la regione del Bhavinan: chiunque, uomo ο animale, uccida ο compia un qualsiasi atto di violenza qui, vedrà cadere su di lui una calamità che lo distruggerà all'istante e lo cancellerà per sempre dalla faccia della terra. È per questa ragione che tolsi a Mivarsh l'arco e le frecce quando scendemmo dall'Orlo di Omprenne, nel timore che potesse uccidere della cacciagione per noi attirando su di sé qualche disgrazia.» Mivarsh non prestò attenzione, ma si mise a fissare, tutto tremante, un coccodrillo che era salito pesantemente sull'argine. Fu allora che cominciò a strillare, gridando: «Aiutatemi! Fatemi fuggire! Datemi le mie armi! Mi è stato predetto da una Veggente che sarei stato divorato da un rettile!» Al che gli animali si ritrassero inquieti, ed il coccodrillo, coi suoi piccoli occhi spalancati, spaventato dalle grida di Mivarsh e dal suo violento gesticolare, ritornò barcollando nell'acqua, con tutta la velocità di cui era capace. Lord Juss, Lord Brandoch Daha e Mivarsh Faz, dimorarono in quel luogo per quattro lune. Non furono mai privi di cibo e di acqua, perché le bestie della foresta, trovandoli ben disposti, portarono in dono le loro provviste. Inoltre, verso la fine dell'anno, giunse volando da sud un rondicchio, che si posò sul grembo di Juss e gli disse: «La nobile Regina Sophonisba (1), figlia adottiva degli Dei, ha avuto notizia del vostro arrivo. E, poiché vi conosce come uomini valorosi e coraggiosi, mi ha mandato a porgervi i suoi saluti.» «Ο piccolo rondicchio,» disse Juss, «vorremmo vedere da vicino la Regina, e ringraziarla.» «Potrete ringraziarla,» disse l'uccello, «sul Koshtra Belorn.» «Lo faremo,» disse Brandoch Daha. «È proprio laggiù che avevamo intenzione di recarci.» «La vostra bravura,» disse il rondicchio, «farà in modo che possiate attuare il vostro proposito. Ma sappiate che è più facile per voi sottomettere il mondo con le armi che salire a piedi su quella montagna.» «Le tue ali sono troppo deboli per sollevarmi, altrimenti le prenderei in prestito,» disse Brandoch Daha. Ma il rondicchio rispose: «Neanche l'aquila che vola contro il sole può
scendere sul Koshtra Belorn. Nessun piede può calpestarla, tranne quelli prescelti dagli Dei ere fa, finché essi non sono diventati ciò che gli anni attendevano: uomini simili agli Dei per bellezza e potenza, i quali unicamente con la loro forza e possanza, e senza l'aiuto delle Arti Magiche, si scaveranno un passaggio attraverso le nevi silenti.» Brandoch Daha rise. «Neanche l'aquila?», gridò. «E tu, piccolo pennuto?» «Niente che abbia le zampe,» disse il rondicchio. «Ed io non le ho.» Lord Brandoch Daha lo prese gentilmente in mano e lo sollevò in aria, guardando gli altipiani a sud. Le betulle che oscillavano vicino al Bhavinan non erano più belle né i lontani dirupi dietro di esse erano più indomabili di lui. «Vola dalla Regina,» disse, «e dille che hai parlato vicino al Bhavinan con Lord Juss e con Lord Brandoch Daha di Demonland. Dille che noi siamo i predestinati; e che, unicamente con la nostra forza e possanza, prima che la primavera diventi estate, saliremo da lei sul Koshtra Belorn per ringraziarla del suo cortese messaggio.» Quando venne Aprile il sole, muovendosi fra i segni del cielo, fu sul punto di lasciare l'Ariete per entrare nel Toro, e lo scioglimento delle nevi sulle alte montagne aveva gonfiato i corsi d'acqua fino a farli straripare, riempiendo il fiume al punto che esso traboccò dagli argini e si avventò come una corrente di marea. Lord Juss disse: «Questa è la stagione propizia per attraversare il Bhavinan ed avviarci verso le montagne.» «Con un po' di buona volontà,» disse Lord Brandoch Daha. «Ma lo guaderemo, nuoteremo, ο lo sorvoleremo? Per quel che mi riguarda, dal momento che ho nuotato avanti e indietro molte volte sull'Estuario di Thunder per aumentare il mio appetito prima di rompere il digiuno, questo fiumiciattolo è poca cosa per quanto sia rapido. Ma, con le nostre bardature, le armi e gli indumenti, le cose stanno ben diversamente.» «Allora perché saremmo diventati amici delle creature che abitano questi boschi?», disse Juss. «Il coccodrillo ci porterà oltre il Bhavinan se glielo chiederemo.» «È un brutto pesce quello!», osservò Mivarsh. «Ed io non gli piaccio per niente.» «Allora saresti costretto a restare qui,» disse Brandoch Daha. «Ma non spaventarti, io verrò con te. Il pesce può portarci tutti e due insieme senza affondare.» «Mi fu predetto da una Veggente,» replicò Mivarsh, «che un rettile come quello sarebbe stato la mia rovina. Ma sia come vuoi tu.»
Così chiamarono con un fischio il coccodrillo, e fu Lord Juss che attraversò per primo il Bhavinan sul dorso di quel rettile, con tutti i suoi abiti e le armi da guerra, ed approdò diverse centinaia di passi a valle perché la corrente era molto forte. Dopodiché, il coccodrillo tornò sulla riva nord, prese Lord Brandoch Daha e Mivarsh Faz, e li trasportò alla stessa maniera. Mivarsh ostentò un'espressione spavalda, ma si sedette il più vicino possibile alla coda, palpando nella sua bisaccia certe erbe che erano efficaci contro i rettili, mentre le sue labbra formulavano delle suppliche pressanti ai suoi Dei. Quando giunsero a riva, ringraziarono il coccodrillo, lo salutarono, ed avanzarono rapidamente attraverso il bosco. Mivarsh, come uno che fosse stato liberato dalla prigione, si muoveva davanti a loro con passo leggero, cantando e facendo schioccare le dita. Per tre ο quattro giorni seguirono un percorso serpeggiante attraverso le colline pedemontane, dopodiché si fermarono per quaranta giorni nella Valle di Zia, sopra le forre. Lì la valle si allargava diventando un anfiteatro dal fondo piatto, e da tutte le parti svettavano delle balze di calcare. A sud, adagiato sulle grandi morene grigie, il Ghiacciaio Zia, col dorso rugoso simile ad un drago sopravvissuto al caos primigenio, spingeva il suo muso nella valle. Là il giovane fiume sgorgava tuonando dalle sue caverne di ghiaccio, e sollevava uno spruzzo dove gli arcobaleni si libravano quando il sole splendeva. L'aria spirava gelida dal ghiacciaio, ed i fiori alpini e gli arboscelli si nutrivano della luce solare. Laggiù raccolsero una buona provvista di cibo. E, ogni mattina, si alzavano prima dell'alba, per salire sulle montagne ad esercitare la loro abilità di rocciatori prima di affrontare i picchi più elevati. Esplorarono tutti gli speroni di Tetrachnampf e di Islargyn, e le loro vette; i picchi rocciosi della catena più bassa di Nuanner che sovrasta il Bhavinan; le cime innevate a est di Islargyn: Avsek, Kiurmsur, Myrsu, Byrshnargyn, e Borch Mehephtharsk, la più alta del massiccio, con tutti i suoi crinali, e trovarono rifugio per una settimana sulle morene del ghiacciaio del Mehephtharsk sopra l'alta Valle di Foana; e, ad ovest, il gruppo dolomitico del Burdjazarsha e la titanica parete di Shilack. Il continuo esercizio aveva reso i loro muscoli simili a leve di ferro, e loro stessi robusti come orsi di montagna e agili come capre. Così, il nono giorno di maggio, attraversarono il Passo di Zia e si accamparono sulle rocce al di sotto della parete sud del Tetrachnampf nan Tshark. Il sole scendeva giù, come sangue, in un cielo senza nuvole. Dall'altra
parte, e davanti a loro, le nevi si stendevano azzurre e silenziose. L'aria su quelle alte distese di neve era pungente. Una lega ο più a sud, una fila di neri strapiombi circondava il bacino del ghiacciaio. Sopra la parete nera, dodici miglia più in là, il Koshtra Belorn ed il Koshtra Pivrarcha torreggiavano contro un cielo color opale. Mentre cenavano nella luce che si affievoliva, Juss disse: «La parete che vedi è chiamata la Barriera di Emshir. Sebbene al di sopra di essa ci sia la strada più corta per il Koshtra Pivrarcha, essa non sarà la nostra strada. Infatti, innanzi tutto, quella barriera è stata ritenuta finora invalicabile, come hanno testimoniato anche gli stessi Semidei che la tentarono.» «Non aspetterò di sentire la tua seconda ragione,» disse Brandoch Daha. «Finora sei stato tu a decidere ma, in questa circostanza, devi rimetterti a me: domani ti mostrerò come tu ed io avremo ragione di questa barriera, se essa si porrà sul cammino fra noi e la nostra meta.» «Se fosse soltanto questo,» replicò Juss, «non oserei contraddirti. Ma non avremo a che fare solo con le rocce inanimate se prenderemo questa strada. Vedi dove la Barriera termina ad est contro quella mostruosa piramide di balze e ghiacciai incombenti che bloccano la nostra prospettiva ad oriente? Gli uomini la chiamano Menksur, ma nei cieli ha un nome più spaventoso: Ela Mantissera, che vuol dire 'Letto delle Manticore'. Brandoch Daha, scalerò con te qualsiasi strapiombo inaccessibile vorrai, e combatterò con te contro le bestie più spaventose che abbiano mai pascolato vicino al fiume del Tartaro (2). Ma, affrontare entrambe le cose contemporaneamente, sarebbe sciocco ed avventato.» Brandoch Daha scoppiò a ridere, e rispose: «Non potrei paragonarti a nient'altro, Juss, che ad uno sparviero-cammello al quale, se uno dice: 'Vola', lui risponde: 'Non posso, perché sono un cammello'. E se uno gli dice: 'Portami sul dorso', lui risponde: 'Non posso, perché sono un uccello'.» «Vuoi prendermi in giro?», disse Juss. «Sì,» disse Brandoch Daha, «se continui a fare lo sciocco.» «Vuoi litigare?» «Mi conosci.» «Bene!», disse Juss. «Il tuo consiglio è risultato giusto in un'occasione e ci ha salvato, mentre altre nove volte è risultato sbagliato: il mio consiglio invece ti ha evitato una brutta fine. Se ci capiterà qualcosa di male, è certo che sarà derivato dalla tua testardaggine.» Poi si avvolsero nei loro mantelli e si addormentarono. Al mattino si alzarono presto, e si avviarono verso sud sulla nave che era
friabile e dura per il gelo notturno. La Barriera, simile ad un sasso lanciato lontano, si ergeva nera davanti a loro; la luce delle stelle inghiottiva dimensioni e distanze, al punto che, mentre essi avanzavano, la parete non sembrava né avvicinarsi né ingrandirsi. Per due ο tre volte scesero in una valle ο attraversarono una piega sporgente del ghiacciaio finché, allo spuntar del giorno, si trovarono sotto la liscia parete nuda e gelata, con neppure una sporgenza visibile abbastanza grande da reggere la neve, che sbarrava loro la strada verso sud. Si fermarono, mangiarono, ed esaminarono la parete sopra di loro. Non ne ricavarono una buona impressione. Cercarono un'ascesa e, alla fine, trovarono un punto dove il ghiacciaio si gonfiava verso l'alto, a meno di un miglio dal versante occidentale di Ela Mantissera. Là lo strapiombo era alto solo quattro ο cinquecento piedi: era abbastanza liscio e pericoloso a vedersi, ma era la soluzione più accessibile. Ci volle un po' di tempo prima che riuscissero a trovare un punto d'appoggio sulla parete, ma finalmente Brandoch Daha, ritto sulle spalle di Juss, trovò un appiglio invisibile dal basso e, con grande sforzo, si arrampicò sulla roccia e riuscì a raggiungere un punto ad un centinaio di piedi di altezza, dal quale, trovata una posizione stabile su una cengia abbastanza larga da reggere sei ο sette persone contemporaneamente, aiutò Lord Juss a salire con una corda e, dopo di lui, Mivarsh. Quella breve arrampicata richiese un'ora e mezza. «Lo sperone nord-occidentale di Ill Stack è roba per bambini rispetto a questa!», ansimò Lord Juss. «C'è di peggio!», osservò Brandoch Daha, appoggiando la schiena contro il precipizio, con le mani strette dietro la testa e le gambe che penzolavano dalla sporgenza. «In confidenza, Juss: non risalirei per primo sulla corda a questa altezza per tutta la ricchezza di Impland.» «Sei pentito e vuoi tornare giù?», disse Juss. «Se starai tu in coda,» rispose Brandoch Daha. «Altrimenti, preferirei affrontare quello che ci aspetta in alto. Se sarà peggio, sono un ateo impenitente.» Lord Juss si sporse, afferrandosi alla roccia con la mano destra, e scrutò la parete vicino e sopra di loro. Per un istante restò così, poi si tirò indietro. La sua mascella quadrata era irrigidita, ed i suoi denti emisero un intenso scintillio sotto i baffi neri, come un lampo fra il cielo nero ed il mare in una notte tempestosa. Le sue narici si dilatarono, come quelle di un cavallo da guerra al richiamo della battaglia; i suoi occhi erano come lampi violet-
ti, e tutto il corpo s'irrigidì come la corda tesa di un arco mentre agguantava la sua spada affilata e la sfilava dal fodero facendola stridere e sibilare. Brandoch Daha scattò in piedi e sfoderò la sua spada, dono di Zeldornius. «Che succede?», gridò. «Sembri uno spettro. Hai lo stesso aspetto che avevi quando prendesti il timone e le nostre prore virarono a ovest in direzione dello Stretto di Kardatza, mentre il destino di Demonland e di tutto il mondo era in mano tua per piangere ο gioire.» «C'è poco spazio per le spade,» disse Juss. E tornò a guardare verso est e di lato lungo la parete. Brandoch Daha guardò sopra la sua spalla. Mivarsh prèse l'arco ed incoccò una freccia. «Ha sentito il nostro odore nel vento!», disse Brandoch Daha. C'era poco tempo per pensare. Avanzando da un appiglio all'altro attraverso quel vertiginoso precipizio, come una scimmia che si sposta da un ramo all'altro, la bestia si avvicinò. Aveva la forma di un leone, ma era più grossa e più alta, il suo colore era rosso opaco, ed aveva degli aculei dietro, come un porcospino. La sua faccia era quella di un uomo, se una faccia umana poteva essere concepita così orribile, con gli occhi fissi, una bassa fronte rugosa, orecchie elefantine, una sorta di criniera a ciuffi e scabbiosa come quella di un leone, enormi fauci ossute, e delle zanne scure e macchiate di sangue che spuntavano fra le labbra setolose. Puntò dritto verso la sporgenza e, mentre essi si preparavano ad affrontarla, con un ampio scarto si sollevò ad altezza d'uomo sopra di loro e balzò dall'alto sulla sporgenza fra Juss e Brandoch Daha prima che potessero accorgersi del suo cambiamento di direzione. Brandoch Daha le vibrò un gran colpo con tutta la sua forza, e le staccò di netto la coda di scorpione; ma quella artigliò la spalla di Juss, scaraventò giù Mivarsh, e caricò come un leone Brandoch Daha il quale, perdendo l'equilibrio sullo stretto orlo di roccia, cadde all'indietro giù per la parete, facendo un gran salto di un centinaio di piedi prima di atterrare sulla neve sottostante. Mentre la bestia si sporgeva, con l'intenzione di seguirlo e finirlo, Juss la colpì sulla parte posteriore ed alla coscia, tranciando la carne fino all'osso, e la sua spada urtò con un rumore metallico le unghie d'ottone della zampa. Allora, con un orrendo muggito, essa si voltò verso Juss, impennandosi come un cavallo; era più alta di tre teste di un uomo alto quando si sollevò, ed il suo torace era largo quanto quello di un orso. Il tanfo del fiato di quell'animale gli mozzò il respiro e gli fece quasi perdere i sensi, ma riuscì a ferirla al ventre con un gran colpo circolare, a-
prendo uno squarcio dal quale uscirono i visceri. Poi le tirò un altro fendente, ma la mancò, e la sua spada cozzò contro la roccia andando in pezzi. Così, quando quel mostro disgustoso si lanciò su di lui ruggendo come mille leoni, Juss gli si avvinghiò, scivolando sotto il suo corpo, abbrancandolo ed affondando le braccia nella ferita per strappargli via gli organi vitali. Gli si era avvinghiato così strettamente, che esso non poteva raggiungerlo con le sue zanne mortali, ma gli artigli della bestie lacerarono la carne del suo ginocchio sinistro giù fino all'astragalo, ed essa cadde su di lui e lo schiacciò sulla roccia, schiantandogli le ossa del torace. Nonostante la terribile sofferenza, pur essendo quasi soffocato dal lezzo intenso del fiato della creatura, e dal tanfo del suo sangue e della carne lacerata stretta contro il suo viso ed il suo petto, lottò con grande vigore contro quella feroce e ripugnante mangiatrice di uomini. Ed immerse sempre di più in profondità la mano destra, che stringeva l'elsa ed il troncone della spada infrante, fino a raggiungere il cuore che staccò come un limone, lacerando i grandi vasi intorno ad esso finché il sangue non sprizzò su di lui come una fontana. La bestia si accartocciò come un bruco e si raddrizzò negli spasmi dell'agonia, poi rotolò e cadde dalla sporgenza accanto a Brandoch Daha - la più orribile e la più amabile creatura della terra - arrossando col suo sangue la neve candida. Tutti gli aculei delle parti posteriori della bestia fuoruscivano e rientravano in continuazione come il pungiglione di una vespa morta da poco. Non era caduta interamente sulla neve, come invece per fortuna era accaduto a Brandoch Daha, ma aveva colpito un bordo di roccia in prossimità del fondo, e la materia cerebrale era fuoriuscita dalla sua testa. Là giacque nel suo sangue, con le fauci spalancate rivolte verso il cielo. Juss era disteso a faccia in giù come morto, su quella vertiginosa sporgenza di roccia. Mivarsh lo aveva salvato, afferrandolo per un piede e tirandolo in salvo quando la bestia era caduta. Era una visione raccapricciante, coperto com'era dalla testa ai piedi del sangue della creatura e del proprio. Mivarsh bendò le ferite e lo appoggiò più dolcemente che poteva alla parete, poi scrutò giù a lungo per accertarsi che la bestia fosse davvero morta. Quando ebbe guardato con tale fissità e così a lungo che i suoi occhi lacrimarono per lo sforzo, senza che la bestia si fosse mossa, Mivarsh si prosternò e rivolse questa supplica: «O Shlimphli, Shlamphli e Shebamri, Dei di mio padre e del padre di mio padre, abbiate pietà di vostro figlio se, co-
me credo fermamente, il vostro potere si estende su questa terra lontana e dimenticata non meno che su Impland, dove vostro figlio vi ha sempre adorato nei luoghi a voi consacrati. Ho insegnato ai miei figli ed alle mie figlie ad onorare i vostri sacri nomi, ho eretto un altare nella mia casa, orientato verso le stelle secondo le antiche usanze, ho sacrificato il mio settimo figlio, ed ero deciso a sacrificare la mia settima figlia con umiltà e rettitudine conformi alla vostra sacra volontà; ma questo non ho potuto farlo, dal momento che non mi avete concesso una settima figlia, ma solo la sesta. Perciò vi supplico, per i vostri Santi Nomi, di fortificare la mia mano affinché io possa calare con la corda giù sano e salvo questo mio compagno, e quindi possa portare me stesso in salvo giù da questa roccia, anche se lui è un diavolo e un miscredente. Salvate la sua vita, salvate le loro vite. Perché sono certo che, se essi non vivranno, vostro figlio non tornerà mai più, ma morirà di fame in questa terra lontana, come un insetto che sopravvive solo un giorno.» Così pregò Mivarsh. E forse gli Dei furono mossi a compassione dalla sua innocenza, sentendolo implorare aiuto dai suoi feticci, dai quali nessuno aiuto poteva arrivare; ο forse non avevano intenzione di lasciar morire così ignominiosamente, laggiù, prima del tempo, quei Signori di Demonland, senza onore e senza cerimoniale. Comunque, Mivarsh si alzò e legò la corda intorno a Lord Juss, annodandogliela abilmente sotto le braccia, in modo che non si stringesse durante la discesa e gli spezzasse lo sterno e le costole, poi lo calò in fondo allo strapiombo con uno sforzo immane. Dopodiché, lo stesso Mivarsh discese quella parete insidiosa e, anche se più di una volta pensò di essere vicino alla morte, grazie alla sua abilità di rocciatore stimolata dalla fredda necessità, finalmente arrivò in fondo. Giunto là, non perse tempo e si prese cura dei suoi compagni che stavano tornando in sé, gemendo. Ma, quando Lord Juss riprese i sensi, utilizzò le sue arti taumaturgiche su se stesso e su Lord Brandoch Daha, cosicché, in breve tempo, entrambi furono in grado di alzarsi in piedi, anche se un po' irrigiditi, esausti e prossimi a vomitare. Erano trascorse tre ore dopo mezzogiorno. Mentre riposavano, osservando il punto dove la manticora giaceva nel suo sangue, Juss disse: «Bisogna dire, Brandoch Daha, che oggi hai fatto due cose: una pessima ed una ottima. La pessima, quando sei stato così testardo da intraprendere questa scalata che ci è quasi costata la tua e la mia vita. Quella ottima, quando hai staccato la coda di quella cosa. È stato un atto deliberato ο un caso?»
«Accidenti!», disse l'altro, «non sono mai stato così meschino da sentire la necessità di fare il millantatore. Era più agile della mia spada, e non mi piaceva vederla agitarsi. Cos'ho fatto di straordinario?» «Il pungiglione di quella coda,» rispose Juss, «avrebbe potuto causare sia la tua che la mia morte, e ci ha mancati solo per un pelo.» «Parli come un libro stampato,» disse Brandoch Daha. «Se non fosse così, difficilmente potrei riconoscere in te il mio nobile amico, lordo come sei di sangue come un bufalo lo è di fango. Non portarmi rancore se mi sento più a mio agio sopravvento rispetto a te.» Juss scoppiò a ridere. «Se non sei troppo schizzinoso,» disse, «vai da quella bestia e bagnati col sangue dei suoi visceri. No, non sto scherzando; è una cosa utilissima. Queste creature non sono nemiche soltanto del genere umano, ma l'una dell'altra; vivono ognuna per proprio conto, e detestano quelle della loro specie, vive ο morte che siano, al punto che non c'è niente di più detestabile al mondo per loro del sangue dei loro simili, il cui odore aborrono come un cane idrofobo aborre l'acqua. Ed è un odore persistente per cui, dopo questo incontro, saremo più al sicuro da loro.» Quella notte si accamparono ai piedi di uno sperone dell'Avsek e, all'alba, si avviarono giù per la lunga valle verso est. Per tutto il giorno udirono i ruggiti delle manticore sui fianchi desolati di Ela Mantissera che adesso non sembrava più una piramide, ma un alto paravento che costituiva il bastione meridionale di quella valle. Il cammino fu duro, e si affaticarono non poco. Il giorno era appena finito quando, al di là delle pendici orientali di Ela, giunsero dove le bianche acque del fiume che stavano seguendo si scontravano tuonando con un'acqua nera che scendeva impetuosa da sud-ovest. Sotto, il fiume scorreva verso est in un'ampia valle che scendeva lontano in abissi coperti di vegetazione. Nella biforcazione al di sopra del punto di confluenza delle acque, le rocce circondavano un'alta collinetta verde, simile al frammento di un clima più gradevole che sopravviva in un periodo di cataclismi. «Anche qui,» disse Juss, «mi ha condotto il mio sogno. E, anche se sarà arduo attraversare qui dove il fiume si divide in una dozzina di cateratte un po' al di sopra del punto dove s'incontrano le acque, credo proprio che questo sia l'unico passaggio possibile.» Così, prima che la luna si affievolisse, attraversarono quel punto pericoloso sopra le cascate, e si addormentarono sulla collinetta verde.
Juss chiamò Throstlegarth (3) quella collina, dopo che un tordo li ebbe svegliati la mattina dopo, cantando in un piccolo rovo di montagna sconvolto dal vento che cresceva fra le rocce. Quella melodia familiare risuonò strana su quel freddo versante della montagna, sotto le empie vette di Ela, vicino ai confini di quelle nevi incantate che sorvegliano il Koshtra Belorn. Non riuscirono a vedere in alcun modo le alte montagne da Throstlegarth né, per lungo tempo, dal letto di quella forra dritta e ripida dalla quale scendevano le acque nere e che ora stavano risalendo. Aspri contrafforti e speroni di roccia bloccavano la vista. Salirono su per l'argine sinistro al di sopra delle cateratte, sferzati dal vento che guizzava e vorticava fra i dirupi, con le orecchie assordate dal rombo delle acque e gli occhi investiti dagli spruzzi che schizzavano verso l'alto. Mivarsh li seguiva. Avanzarono silenziosi, perché il sentiero era erto e, con quel vento e quel rumore di torrenti, un uomo avrebbe dovuto urlare a squarciagola per farsi sentire. Quella valle era molto desolata, ed il suo aspetto era tetro e spettrale, simile a quello delle forre infernali del Flegetonte e dell'Acheronte (4). Non videro alcuna creatura vivente, tranne, di tanto in tanto, in alto sopra le loro teste, un'aquila che veleggiava nel vento e, una volta sola, una di quelle creature che correva sulla parete concava della montagna. Si fermò a fissarli, sollevando la sua ripugnante faccia umana con gli occhi che scintillavano sanguigni ed erano simili a piattini; poi sentì l'odore della sua specie, sussultò, e fuggì fra le balze. Avanzarono per tre ore e poi, girando all'improvviso intorno alla sommità della collina, si fermarono sul bordo superiore di una forra all'imbocco di una piatta valle elevata. Qui poterono osservare qualcosa la cui visione oscurava tutte le meraviglie della terra e faceva ammutolire tutti i suoi cantori con la sua magnificenza. Incorniciato dai dirupi delle colline, e sovrastato dal cielo azzurro, il Koshtra Pivrarcha si ergeva davanti a loro. Era così enorme che anche là, a sei miglia di distanza, l'occhio non riusciva a racchiuderlo in una sola occhiata, ma era costretto a spostarsi su e giù come davanti ad un panorama esteso, dalle titaniche radici della montagna che spuntavano nere ed a perpendicolo dal ghiacciaio, su per la parete, dove contrafforti si ammucchiavano su contrafforti e torrioni su torrioni in una radianza accecante di precipizi coperti di ghiaccio e gole colme di neve, fino ai picchi solitari dove le bianche zanne della cresta incidevano il cielo come lance minacciose
puntate contro la volta celeste. Da destra a sinistra esso riempiva circa un quarto del cielo, dall'aggraziato Picco di Ailinon che sovrastava il suo versante occidentale, fino al punto dove, ad est, le pendici innevate dello Jalchi chiudevano la prospettiva, celando il Koshtra Belorn. Quella sera si accamparono sulla morena sinistra dell'Alto Ghiacciaio di Temarm. Lunghi tralci di nubi, simili a zampe di ragno, e diafani come la mussolina del velo di una Dama, si protendevano verso est dai pinnacoli della cresta, ad indicare una turbolenza in alta quota. «L'aria è cristallina,» disse Juss. «Ciò non lascia presagire bel tempo.» «Be', il tempo ci aspetterà se sarà necessario!», esclamò Brandoch Daha. «Il desiderio mi lancia grida così potenti da quei corni di ghiaccio che, avendoli guardati una volta, morire ο non scalarli sarebbe per me la stessa cosa. Ma di te, Juss, mi meraviglio. Fosti spinto a cercare sul Koshtra Belorn, e di certo esso era più facile da scalare del Koshtra Pivrarcha, dato che restava dietro allo Jalchi attraverso le distese di neve, ed evitava così i suoi grandi strapiombi occidentali.» «A Impland c'è un proverbio,» rispose Juss. «'Guardati da una moglie alta'. C'è una maledizione sospesa su chiunque tenterà di salire sul Koshtra Belorn senza averlo prima guardato dall'alto: morirà senza riuscire a soddisfare il suo desiderio. Da un solo punto della terra è possibile guardare giù sul Koshtra Belorn, ed è quel dente di ghiaccio mai scalato dove vedi ardere l'ultimo raggio di sole. Perché quello è il pinnacolo più alto del Koshtra Pivrarcha, ed è il punto più alto delle terre conosciute.» Restarono silenziosi per lo spazio di un minuto, poi Juss disse: «Sei sempre stato il più abile di noi come scalatore. Quale ti sembra il percorso migliore per salire lassù?» «Juss,» disse Brandoch Daha, «sul ghiaccio e la neve tu mi sei maestro, per cui dammi un tuo consiglio. Per quel che mi riguarda, avrei deciso così: saliamo sulla sella fra le due montagne, e da là dirigiamoci verso ovest su per il crinale occidentale del Pivrarcha.» «È un'ascesa spaventosa a vedersi,» disse Juss, «ed è forse quella che ci procurerebbe più gloria: per entrambe queste tue considerazioni avrei scommesso che sarebbe stata questa la tua decisione. Quella sella viene chiamata 'Le Porte di Zimiamvia'. (5) Essa, ed il ghiacciaio Koshtrao che vi si estende, sono soggetti alla maledizione di cui ti ho parlato. Per noi sarebbe la morte avventurarci lassù prima di aver guardato giù sul Koshtra Belorn; fatto questo, l'Incantesimo per noi si spezzerà e, da quel momento in poi, saranno soltanto necessari il nostro vigore, la nostra abilità ed il co-
raggio, per portare a termine ciò che desideriamo.» «Allora, vada per il grande contrafforte settentrionale!», gridò Brandoch Daha. «Così il Koshtra non ci osserverà mentre saliamo, finché non avremo raggiunto il dente più alto, da dove lo guarderemo dall'alto e lo sottometteremo alla nostra volontà.» Cenarono e dormirono, ma il vento urlò fra i dirupi per tutta la notte e, al mattino, la neve e la grandine nascosero le montagne. La tempesta durò per tutto il giorno e, in un momento di calma, tolsero il campo e ridiscesero a Throstlegarth, e là si fermarono per nove giorni e nove notti bersagliati dal vento, dalla pioggia e dalla grandine battente. Il decimo giorno, il tempo migliorò, ed essi salirono, attraversarono il ghiacciaio, e si rifugiarono in una caverna nella roccia ai piedi del grande contrafforte settentrionale del Koshtra Pivrarcha. All'alba, Juss e Brandoch Daha uscirono per osservare il panorama. Varcarono l'imbocco della ripida valle invasa dalla neve che saliva su per il crinale principale fra Ashnilan ad ovest ed il Koshtra Pivrarcha ad est, aggirarono la base dell'Aitinon, e salirono da ovest su una sella innevata a circa tremila piedi sul fianco di quella montagna, da dove poterono vedere il contrafforte e scegliere il percorso per il loro tentativo. «Ci vogliono due giorni di ascesa per raggiungere la cima,» disse Lord Brandoch Daha. «Se la nottata sul crinale non ci farà morire congelati, non temo altri ostacoli. Quella cresta nera che si solleva mezzo miglio al di sopra del nostro campo, ci porterà fino alla cresta del contrafforte, nel punto sopra la grande torre all'estremità settentrionale. Se le rocce sono simili a quelle sulle quali ci siamo accampati, dure come diamante e diseguali come una spugna, non ci tradiranno se non per nostra negligenza. In tutta la mia vita non ne ho mai viste di più adatte per arrampicarsi.» «Fin qui, tutto bene,» disse Juss. «Più in alto,» disse Brandoch Daha, «potrei condurti su un cocchio finché non raggiungeremo il primo grande sperone sul crinale. Dovremo aggirarlo, prima di proseguire: da questo lato sembra abbastanza impervio, perché le rocce digradano verso l'esterno. Se sono ghiacciate, sarà parecchio complicato. Al di là di esso, non posso prevedere nulla, Juss, perché non vedo niente tranne il fatto che il crinale è attraversato da crepacci e guglie. Come faremo ad attraversarli è una cosa tutta da dimostrare. È troppo alto e troppo lontano per saperlo. Di concreto c'è solo questo: finora siamo arrivati dove volevamo. E, se c'è un sentiero in prossimità di quel crinale, è proprio quello che porta in cima a quella montagna per raggiun-
gere la quale abbiamo attraversato il mondo.» Il giorno dopo, al primo impallidire del cielo, si alzarono tutti e tre e procedettero verso sud sulla neve fresca. Si misero in cordata ai piedi del ghiacciaio che scendeva giù dalla sella, circa cinquemila piedi sopra di loro, dove la cresta principale si ergeva fra Ashnilan ed il Koshtra Pivrarcha. Prima che le stelle splendenti fossero inghiottite dalla luce del mattino, si stavano facendo strada fra le torri e le voragini labirintiche della seraccata (8). Ben presto, la nuova luce del giorno inondò le distese di neve dell'Alto Ghiacciaio di Temarm, tingendole di verde, zafferano e rosa pallido. Le nevi di Islargyn scintillavano lontanissime a nord, a destra della cupola bianca di Emshir. Ela Mantissera bloccava la vista a nord-ovest. Il contrafforte che chiudeva la valle ad est, proiettava su di essa un'ombra azzurrina come quella di un mare estivo. In alto, dall'altro lato, i picchi gemelli di Ailinon e Ashnilan, svegliati dal silenzio congelato della notte da quei caldi raggi, brontolavano di tanto in tanto per le valanghe e le rocce che precipitavano. Juss stava in testa sulla seraccata, ed ora li guidava lungo le alte creste che scendevano a precipizio su entrambi i lati fino ad abissi silenziosi, ed ora fra i margini di quelle voragini, lungo i basamenti delle torri di ghiaccio. Queste, alte cinque volte un uomo, alcune tozze, altre sormontate da pinnacoli, altre ancora infrante ο sommerse dalle rovine delle loro simili, si chinavano sul sentiero, come sul punto di cadere, di schiacciare gli scalatori e di scagliare per sempre le loro ossa in quei segreti luoghi verde-azzurri di gelo e silenzio dove le schegge di ghiaccio emettevano un tintinnio soffocato mentre Juss avanzava, ricavando i punti d'appoggio per i suoi piedi con l'ascia di Mivarsh. Finalmente, il pendio divenne più dolce, ed essi avanzarono sulla superficie intatta del ghiacciaio e, passando su un ponte di neve sopra il grande crepaccio, fra il ghiacciaio ed il fianco della montagna, giunsero due ore prima di mezzogiorno ai piedi del costone di roccia che avevano scorto da Ailinon. Allora fu Brandoch Daha a guidarli. Si arrampicarono con la faccia rivolta verso la roccia, con lentezza e senza riposarsi, perché la roccia era solida e compatta così come gli appigli erano pochi e piccoli su quella parete a strapiombo. Qua e là c'era un camino che costituiva per loro un passaggio verso l'alto, ma la scalata fu effettuata principalmente con l'ausilio delle crepe e degli orli delle rocce, una prova di forza e resistenza che po-
chi avrebbero potuto sostenere anche solo per poco tempo: ma quella parete era alta tremila piedi. A mezzogiorno guadagnarono la vetta, e lassù riposarono sulle rocce, troppo esausti per parlare, guardando lungo la parete spazzata dalla valanghe del Koshtra Pivrarcha fino al parapetto munito di cornicione che terminava sopra i baratri occidentali del Koshtra Belorn. Per un certo tratto il crinale del contrafforte era largo e piatto, poi si restringeva improvvisamente fino alla larghezza del dorso di un cavallo, e si sollevava verso l'alto per duemila piedi e più. Brandoch Daha avanzò e salì per pochi piedi su per la parete. Essa sporgeva al di sopra di lui, levigata e senza appigli. Tentò di arrampicarsi una volta, riprovò, quindi ridiscese dicendo: «Niente da fare senza le ali!» Poi si spostò a sinistra. Là, ghiacciai pendenti sovrastavano la parete e, mentre stava guardando, una valanga di blocchi di ghiaccio scese rombando su di essa. Allora si portò a destra, e là la roccia digradava verso l'esterno, e le sporgenze oblique erano invase dai detriti e dalla rocce cadute e rese scivolose dalla neve e dal ghiaccio. Dopo aver percorso un breve tratto, tornò indietro e, «Juss,» disse, «se seguiamo il percorso dritto davanti a noi, dovremo volare, perché non c'è il minimo appiglio; oppure possiamo andare verso est e schivare le valanghe; ο ad ovest, dove tutto è cedevole e scivoloso, ed una semplice scivolata potrebbe costarci la vita.» Discussero a lungo e, alla fine, decisero per il sentiero ad est. Era un'erta insidiosa che girava intorno all'angolo aggettante della torre. C'erano pochi appigli, e la parete era tronca nella parte inferiore cosicché, una pietra od un uomo staccatisi da quel punto, avrebbero compiuto un balzo di tre ο quattromila piedi fino al ghiacciaio Koshtra, schiantandovisi. Più avanti, ampie cengie permisero loro di passare lungo la parete della torre, che ora rientrava, volgendosi a sud. Molto più in alto, accecante nella luce del sole, l'orlo frastagliato del ghiacciaio e gli spuntoni si protendevano contro l'azzurro, mentre ghiaccioli più grandi di un uomo pendevano scintillanti da ogni prominenza: era una visione splendida, che essi apprezzarono poco, dovendosi affrettare come non mai per uscire dalle insidie di quella parete invasa dal ghiaccio. All'improvviso ci fu un rumore sopra di loro come lo schiocco di una frusta gigantesca e, guardando in alto, essi videro contro il cielo una massa scura che si apriva come un fiore e si sparpagliava in una miriade di frammenti. I Demoni e Mivarsh si appiattirono contro la parete nel punto in cui
si trovavano, ma c'era ben poco riparo. Tutta l'aria fu riempita dallo stridio delle pietre, che dilagavano verso il basso come diavoli che tornano nell'abisso, e dallo schianto di quelle che colpivano la parete frantumandosi. Gli echi si diffusero e riverberarono da strapiombo a strapiombo, e le pendici della montagna parvero fremere come per una staffilata. Quando tutto fu finito, Mivarsh stava gemendo per il dolore al polso sinistro che era stato ferito seriamente da una pietra. Gli altri erano illesi. Juss disse a Brandoch Daha: «Torniamo indietro, anche se ti dispiace.» Tornarono indietro; una valanga di ghiaccio poco dopo si abbatté sulla parete e li avrebbe annientati se avessero deciso di procedere. «Mi giudichi male,» disse Brandoch Daha, ridendo. «Fammi trovare in una situazione dove la mia vita dipende dal mio vigore e dalla mia forza: allora il pericolo sarà per me cibo e bevanda, e niente mi farà arretrare. Ma qui, su questa parete maledetta, sulle cui sporgenze uno zoppo potrebbe camminare agevolmente, siamo trastulli nelle mani del caso. E sarebbe pura follia trattenersi su di essa un minuto di più.» «Ci restano due strade,» disse Juss. «Tornare indietro, e ciò sarebbe a nostra perenne vergogna; ο affrontare la traversata occidentale.» «La quale significherebbe la fine di chiunque, tranne me e te,» disse Brandoch Daha. «E, se sarà la nostra fine, accidenti, dormiremo profondamente!» «Mivarsh,» disse Juss, «non è costretto a seguirci in questa avventura. Finora è rimasto valorosamente al nostro fianco, e ci è stato amico. Ma ora siamo giunti ad un punto tale, che non saprei dire se per lui è meno pericoloso seguirci ο cercare da solo la salvezza.» Mivarsh assunse un'espressione ardita. Non disse neanche una parola, ma abbassò la testa, come per dire: «Proseguiamo.» «Prima ti farò da cerusico,» disse Juss, e legò il polso di Mivarsh. E, poiché il giorno era finito da un pezzo, si accamparono sotto la grande torre, sperando che il giorno dopo avrebbero raggiunto la sommità del Koshtra Pivrarcha, invisibile a circa seimila piedi sopra di loro. La mattina dopo, quando c'era abbastanza luce per arrampicarsi, si avviarono. Durante le due ore di quella traversata, non passò un istante senza che non fossero in pericolo di morte. Non erano legati in cordata, perché su quelle rocce sdrucciolevoli un uomo che fosse scivolato ne avrebbe trascinati un'altra dozzina alla completa distruzione. Le sporgenze s'inclinavano verso l'esterno ed erano coperte da mucchi di pietre spezzate e fango;
la friabile roccia rossa si frantumava al tocco di una mano e precipitava sul ghiacciaio sottostante. Il loro percorso proseguì a saliscendi ed a zigzag, intorno alla base di quella torre titanica, ed infine li portò nei pressi di un burrone riparato dal crinale che lo sovrastava. Mentre salivano, le bianche nuvole a ciuffi che al mattino si erano ammassate nelle alte gole di Ailinon, erano cresciute diventando una massa nera che celava tutte le montagne occidentali. Grandi tentacoli si protendevano da essa attraverso l'abisso sottostante, poi si congiungevano e ribollivano verso l'alto, sollevandosi ed abbassandosi come un mare in alta marea. Alla fine salirono sull'alto crinale dov'erano i Demoni e li avvolsero in un manto di vapore che recava un vento gelido nelle sue pieghe, e tenebre in pieno giorno. Si fermarono, perché non riuscivano a vedere le rocce davanti a loro. Il vento divenne turbolento ed urlò fra le torri scheggiate. La neve farinosa e fitta bersagliò il crinale. Le nubi si sollevarono e ridiscesero simili ad un grosso uccello che faceva loro ombra con le sue ali. Dal suo petto, un fulmine scoccò verso l'alto e verso il basso. Il tuono rombò all'inseguimento del lampo, facendo rotolare gli echi fra i precipizi lontani. Le loro armi, piantate nella neve, sfrigolarono di una fiamma azzurrina; Juss aveva suggerito di metterle via per timore che essi potessero perire tenendole addosso. Accoccolati in una depressione nella neve fra le rocce di quell'alto crinale del Koshtra Pivrarcha, Lord Juss, Lord Brandoch Dalia e Mivarsh Faz, riuscirono a sopravvivere a quella notte di terrore. Non avrebbero saputo dire quando era scesa la notte, perché la tempesta fece calare le tenebre su di loro diverse ore prima del tramonto del sole. Neve fittissima, grandine, lampi, tuoni, e venti impetuosi che fischiavano nelle gole al punto che la montagna sembrava oscillare, li tennero svegli. Erano quasi assiderati, e non desideravano altro che la morte, la quale li avrebbe strappati a quell'infernale rondò. Il giorno spuntò con una luce grigia e fiacca, e la tempesta cessò. Juss si alzò, stanco oltre ogni dire. Mivarsh disse: «Voi siete diavoli, ma di me mi meraviglio. Infatti ho trascorso tutta la vita in prossimità di montagne innevate, ed ho saputo di molti che sono rimasti bloccati sulla neve in una notte tempestosa. Sono tutti morti per congelamento. Parlo di quelli che sono stati ritrovati. Molti non sono mai stati ritrovati, perché gli Spiriti li avevano divorati.» A queste parole, Lord Brandoch Daha scoppiò a ridere, dicendo: «Mi-
varsh, temo che in te ci sia solo un cane sgraziato. Guarda lui che in coraggio ed in resistenza fisica al gelo ed al fuoco supera di gran lunga me, come io supero te. Eppure è il più stanco di tutti e tre. Vuoi sapere perché? Te lo dirò: ha lottato tutta la notte contro il freddo, massaggiando non solo se stesso, ma anche me e te per salvarci dal morso del gelo. E sii certo che nient'altro ha salvato la tua carcassa.» La nebbia era diventata più luminosa, cosicché ora potevano vedere il crinale che saliva davanti a loro per un centinaio di passi ο più, con ogni pinnacolo che spiccava ombreggiato ed inconsistente contro il successivo ancora più ombreggiato. E i pinnacoli apparivano mostruosamente enormi attraverso la nebbia, come picchi montani. Si legarono in cordata e si avviarono, scalando le torri ο aggirandole, ora da questa parte ora dall'altra; a volte fermandosi sui denti di roccia che sembravano strappati alla terra, solitari in un mare di vapore, a volte discendendo in una profonda fenditura nel crinale con una parete liscia che s'innalzava dall'altro lato e l'aria vuota che si spalancava a destra e a sinistra. Le rocce erano salde e compatte, come quelle che avevano scalato per la prima volta dal ghiacciaio. Ma procedettero con lentezza, perché la salita era difficile e resa pericolosa dalla neve fresca e dal ghiaccio che ricopriva le rocce. Mentre il giorno si consumava, il vento calò, e tutto era immobile quando, finalmente, giunsero davanti ad una cresta di solido ghiaccio che si ergeva ripida davanti a loro come il filo di spada. Il suo fianco orientale alla loro sinistra era quasi a picco, e terminava in un precipizio levigato che s'inabissava svanendo alla vista senza un'incrinatura. Il fianco occidentale, appena un po' meno ripido, scendeva giù in una bianca superficie regolare di neve ghiacciata finché le nubi non lo inghiottivano. Brandoch Daha era in attesa sull'ultimo dente smussato di roccia ai piedi della cresta di ghiaccio. «Ora tocca a te!», gridò Lord Juss. «Credo che nessuno, a parte te, debba calpestarla per primo, perché è la tua montagna.» «Senza di te non sarei mai riuscito ad arrivare fin qui,» replicò Juss; «e non è giusto che debba avere io l'onore di raggiungere per primo il picco quando il merito principale è tuo. Vai tu avanti.» «No,» disse Lord Brandoch Daha. «Non è come tu dici.» Allora Juss si portò in testa, ricavando con la sua ascia degli ampi scalini esattamente al di sotto della spina dorsale della cresta sul lato occidentale, e Lord Brandoch Daha e Mivarsh Faz lo seguirono.
Subito, un vento si sollevò dagli spazi invisibili del cielo, e lacerò la nebbia come un abito marcio. Lance di luce solare balenarono attraverso gli squarci. Lontane terre soleggiate scintillarono nelle profondità inimmaginabili a sud, visibili al di sopra della cresta di una spaventosa parete al di là dell'abisso: era una cortina di contrafforti di roccia nera striati da migliaia di gole di neve luccicante, e coronata, come bastioni, da una fila di picchi montani selvaggi ed impervi a vedersi, che facevano ammiccare per la loro lucentezza. Si trattava delle guglie sottili della vetta del Koshtra Pivrarcha. Queste, che i Demoni avevano così a lungo osservato con la testa alzata come per guardare il cielo, ora si trovavano al di sotto dei loro piedi. Solo la vetta che stavano scalando si elevava ancora sopra di loro, adesso nitida e vicina, mostrando a nord-est uno strapiombo nudo, sovrastato da un cornicione di neve. Juss guardò il cornicione, poi riprese ad avanzare lavorando con l'ascia e, mezzora dopo che le nuvole si erano squarciate, giunse sul quel pinnacolo mai scalato, con tutta la terra ai suoi piedi. Scesero per alcuni piedi sul lato sud e si sedettero sulle rocce. Un bellissimo lago costellato di isole e circondato da colline boscose e dirupate stava ai piedi di una valle profonda che si estendeva giù dalle Porte di Zimiamvia. Ailinon ed Ashnilan si ergevano vicini ed ovest, col picco bianco e delicato di Akra Garsh visibile fra loro. Più in là, montagne su montagne si susseguivano come un mare. Juss guardò a sud dove la terra azzurra si estendeva in continue pieghe di terreno ondulato, pallida e nebbiosa, fino a confondersi col cielo. «Tu e io,» disse, «primi fra i figli degli uomini, stiamo guardando con occhi vivi la favolosa terra di Zimiamvia. È proprio vero, non credi, ciò che ci hanno detto i filosofi di quella terra felice: ossia, che nessun piede mortale può calpestarla, ma che la abitano solo le anime dei morti, di coloro che sono stati grandi sulla terra ed hanno compiuto grandi imprese quando erano in vita, che non disprezzarono il mondo, i suoi piaceri e le sue glorie, e che agirono con giustizia e non furono né codardi né oppressori.» «Chi lo sa?», disse Brandoch Daha, appoggiando il mento sulla mano e guardando verso sud come in un sogno. «Chi potrà mai saperlo?» Rimasero per un po' silenziosi, poi Juss disse: «Se tu ed io alla fine andremo laggiù, amico mio, riusciremo a conservare il ricordo di Demonland?» Quando l'altro gli rispose di no, Juss continuò: «Preferirei remare sul Moonmere sotto le stelle di una notte d'estate, piuttosto che essere Re
di tutta la terra di Zimiamvia. E preferirei osservare il sorgere del sole sullo Scarf, piuttosto che dimorare felicemente per tutta la vita su un'isola dell'incantevole Lago di Ravary, sotto il Koshtra Belorn.» La cortina di nuvole che era rimasta sospesa fino a quel momento intorno alle montagne orientali, si lacerò, ed il Koshtra Belorn si profilò come una vergine davanti a loro, due ο tre miglia ad est, di fronte ai raggi obliqui del sole. Su tutti i suoi spaventosi precipizi a stento si riusciva a vedere una roccia nuda, talmente erano avvolte da una tunica abbagliante di neve. Sembrava più incantevole e leggiadra che mai in quel suo aspetto etereo. Juss e Brandoch Daha si alzarono, come uomini che si alzano per salutare una regina in tutta la sua maestà, poi guardarono in silenzio per alcuni minuti. Quindi Brandoch Daha disse: «Ecco la tua sposa, Juss!» XIII. IL KOSHTRA BELORN Come Lord Juss alla fine eseguì l'ordine avuto in sogno di cercare sul Kostra Belorn; e quale genere di risposta ricevette. Quella notte la trascorsero tranquillamente, col favore degli Dei, sotto le balze più elevate del Koshtra Pivrarcha, in una cavità riparata e circondata da mucchi di neve. L'alba giunse come un giglio, con sfumature color zafferano, striata di bande grigio-fumo che s'inclinavano da nord. Le grandi vette si ergevano come isole su un mare di nuvole piatte, dalle quali il sole emerse fiammeggiando simile ad una sfera di fuoco rosso-dorato. Un'ora prima che la sua faccia apparisse, i Demoni e Mivarsh si erano legati in cordata, iniziando il loro viaggio verso est. La cresta del grande contrafforte settentrionale dal quale avevano scalato la montagna era insidiosa, certo, ma il crinale orientale che portava al Koshtra Belorn era sette volte peggio. Il suo dorso era più stretto e, ai suoi lati, c'erano degli abissi più profondi; era più fittamente percorso da fenditure, e troppo infido, in quanto la roccia solida diventava bruscamente friabile e pericolosa. Era cosparso di balze malsicure e di cornicioni di neve farinosa, e circondato da strapiombi lisci e senza appigli come le mura di un castello. Non c'è da stupirsi se impiegarono tredici ore per discendere quel crinale. Il sole era declinato verso ovest quando infine raggiunsero quell'orlo ghiacciato, affilato come una falce, che si trovava alle Porte di Zimiamvia.
Erano esausti, e non più legati assieme; perché non sarebbe stato assolutamente possibile scendere da quell'ultimo grande torrione se non con la corda assicurata in alto. Un impetuoso vento di nord-est aveva spazzato i crinali per tutto il giorno, portando tempeste di neve sulle sue ali. Le loro dita erano intorpidite per il freddo, e le barbe di Lord Brandoch Daha e Mivarsh Faz, indurite dal ghiaccio. Troppo stanchi per fermarsi, si avviarono di nuovo con Juss in testa. Avevano percorso diverse centinaia di passi lungo quell'orlo gelato, ed il sole era prossimo a tramontare, quando finalmente giunsero ad un tiro di sasso dalla parete del Koshtra Belorn. Fin da prima di mezzogiorno, le valanghe avevano tuonato incessantemente giù per quegli strapiombi. Ora, nel freddo della sera, tutto era immobile. Il vento era caduto, il cielo azzurro scuro era senza nuvole, ed i fuochi del tramonto erano scesi lentamente giù per gli enormi precipizi bianchi davanti a loro al punto che ogni sporgenza, piega, ο pinnacolo di ghiaccio, scintillava di rosa, ed ogni ombra diventava uno smeraldo. L'ombra del Koshtra Pivrarcha si ergeva là, gelida, sulle pendici inferiori del versante di Zimiamvia. Il bordo di quell'ombra era come la linea di demarcazione fra la vita e la morte. «Cosa ne pensi?», chiese Juss a Brandoch Daha, che era appoggiato alla sua spada e fissava quel magnifico spettacolo. Brandoch Daha si scosse e lo guardò. «Accidenti,» disse, «penso che il tuo sogno fosse solo un'esca, preparata per noi dal Re che voleva spingerci a compiere azioni tali da provocare la nostra morte. Da questo lato almeno è certo che non c'è alcun modo per salire sul Koshtra Belorn.» «E cosa pensi del piccolo rondicchio,» disse Juss, «il quale, mentre eravamo ancora molto lontani, è volato fino a noi da sud con quel cortese messaggio?» «Chi ci garantisce che non sia un suo maligno emissario?», disse Brandoch Daha. «Non tornerò indietro,» disse Juss. «Ma non è necessario che tu venga con me.» E si voltò di nuovo per guardare quegli strapiombi gelati. «No?», disse Brandoch Daha. «E tu non verrai con me. Mi farai incollerire se continuerai a fraintendere in questo modo le mie parole. Cerca solo di non essere così sicuro di te, e tieni pronta in mano la tua ascia - come io terrò la mia spada - per un lavoro ben più piacevole dello scavare appigli nella roccia. E, se nutri la speranza di arrampicarti fin lassù su questa parete davanti a noi, allora vuol dire che l'Incantesimo del Re ti ha reso stupi-
do.» Il sole ormai era scomparso. Sotto le ali delle notte innalzatesi da est, le smisurate altitudini dell'aria erano diventate di un colore blu più cupo; e, qua e là, pallidissimo e difficile da distinguere, palpitava un minuscolo puntino di luce: le stelle più grandi aprivano le loro palpebre nel buio che si ammassava. L'oscurità saliva furtivamente, riempiendo le lontane valli sottostanti come la marea montante del mare. Il gelo e la quiete aspettavano la notte eterna per tornare a regnare. I solenni precipizi del Koshtra Belorn stavano, in quel silenzio immane, pallidi come la morte contro il cielo. Juss fece un passo indietro sul crinale e, posando una mano sulla spalla di Brandoch Daha, «Calmati,» disse, «ed osserva questa meraviglia.» Leggermente in alto, sulla parete della montagna sul versante di Zimiamvia, era come se dei residui degli ultimi bagliori del sole fossero rimasti imprigionati fra le balze e le cortine congelate di neve. Mentre l'oscurità diventava più profonda, quel bagliore si ravvivò e si diffuse, riempiendo una fenditura che sembrava propagarsi all'interno della montagna. «È per causa nostra,» disse Juss, a bassa voce. «Arde dal desiderio di incontrarci.» Non si udiva alcun suono tranne il pulsare del loro respiro, i colpi dell'ascia di Juss, ed i frammenti di ghiaccio che tintinnavano verso il basso nel silenzio mentre egli ricavava appigli sul crinale. E, ancora più intensa, mentre scendeva la notte, ardeva quella strana ultima luce del tramonto sopra di loro. L'ascesa fu pericolosa per cinquanta piedi ο più dal crinale, perché non avevano corda, il percorso era difficile da riconoscere, le rocce erano ripide e ghiacciate, ed ogni sporgenza era carica di neve. Ma, alla fine, giunsero indenni all'estremità di una gola ripida e corta, là dove essa si allargava fino a quella fenditura di luce straordinaria. Là si poteva avanzare in due fianco a fianco, e Lord Juss e Lord Brandoch Daha impugnarono le loro armi ed entrarono assieme nel crepaccio. Mivarsh ebbe l'impulso di chiamarli, ma non riuscì a pronunciare parola. Allora li seguì, tenendosi alle loro calcagna come un cane. Per un certo tratto il letto della caverna era in salita, poi si abbassava con una lieve inclinazione scendendo nelle profondità della montagna. L'aria era fredda, eppure calda dopo l'aria gelida all'esterno. La luce rosso-rosa splendeva calda sulle pareti e sul pavimento del cunicolo, ma nessuno avrebbe potuto dire da dove proveniva. Strane sculture luccicavano sopra le
loro teste, uomini con la testa di toro, cervi dalle facce umane, mammut, ed antidiluviani behemoth (1): forme enormi e confuse scolpite nella roccia viva. Juss ed i suoi compagni procedettero per ore, seguendo quella discesa tortuosa, e perdendo del tutto l'orientamento. A poco a poco, la luce si affievolì: dopo un'ora ο due, si trovarono ad avanzare nelle tenebre, non nel buio assolato tuttavia, ma come in una notte d'estate senza stelle nella quale il crepuscolo si protrae fino al mattino. Avanzavano con passo circospetto, per timore di imbattersi in qualche crepaccio. Dopo un po', Juss si fermò ed annusò l'aria. «Sento odore di grano appena falciato,» disse, «e di fiori. È la mia immaginazione, ο senti anche tu la stessa cosa?» «Sì, e lo sento da mezzora a questa parte,» rispose Brandoch Daha. «Inoltre, il passaggio si sta allargando davanti a noi, e il soffitto diventa sempre più alto.» «Questa,» disse Juss, «è una cosa davvero straordinaria.» Proseguirono e, dopo un po', l'inclinazione diminuì, ed avvertirono sassi e pietrisco sotto i piedi quindi, di lì a poco, la terra soffice. Si chinarono a toccare il suolo: c'era l'erba, e rugiada notturna sull'erba, e pratoline ripiegate ed addormentate. Un ruscello frusciava dolcemente sulla destra. Attraversarono il prato nel buio, finché non giunsero sotto una massa in ombra che incombeva sopra di loro. In una parete scura, così alta che la sua sommità era inghiottita dalle tenebre, c'era una porta aperta. Attraversarono la soglia ed uno slargo pavimentato che risuonava sotto i loro passi. Sul davanti, una rampa di scale saliva fino a una porta a due battenti situata sotto un'arcata. Lord Brandoch Daha si accorse che Mivarsh lo stava tirando per una manica. I denti del piccolo uomo stavano battendo per il terrore. Brandoch Daha sorrise e lo circondò con un braccio. Juss appoggiò il piede sul gradino più basso. In quell'istante giunse il suono di una musica, ma non riuscirono a capire da quale strumento proveniva. Cominciò col fragore di grandi strumenti a corda, come trombe che chiamassero alla battaglia, prima alto, poi basso, poi tremolante fino ad azzittirsi; quindi nuovamente un potente richiamo che lanciava una sfida. Allora le corde generarono nuove voci, che brancolavano nel buio e salivano fino a diventare un lamento appassionato, che si librava e svaniva col vento, finché non restava altro che un rombo come di un tuono smorza-
to, lungo, basso, monotono, ma minaccioso. E poi, dalle tenebre di quel preambolo, sortì qualcosa di poderoso: tre squilli potenti, come di frangenti che si avventano e si abbattono su una spiaggia. Quindi vi fu una pausa; poi di nuovo gli squilli; ancora una pausa opprimente seguita da un frullare di ali, come delle Furie che emergono dall'abisso (2); un'altra fuga paurosa nel suo lento incedere, e quindi un frenetico crescendo ed un nuovo smorzarsi: sembrava una confusione infernale di serpenti infuriati che balenavano nel cielo notturno. Poi, ad un tratto, da una corda lontana giunse una dolce melodia, prolungata e chiara, come un lampo di bassa luce solare che penetra le nuvole di polvere su un campo di battaglia. Ma fu solo un interludio prima del terribile motivo principale che sgorgò dagli abissi con un ritmo tumultuoso, infuriando fino a raggiungere un apogeo per poi scemare nel silenzio. Quindi si alzò un motivo maestoso, solenne e calmo, nato da quel terrore, che riconduceva ad esso: un contrasto fra questi due temi in chiavi svariate e, alla fine, un potente squillo triplo, tonante con nuovo vigore, che annientò tutta la gioia e la dolcezza come una mazza di ferro, e che ridusse in completa rovina le radici della vita. Ma, anche nel ritmo della sua violenza e del terrore, quel grande potere parve avvizzire. Il rombo di tuono risuonò più debolmente, i colpi poderosi stridettero, e l'enorme incastellatura di violenza distruttrice crollò ansimando, vacillò, e rumoreggiò ingloriosamente, azzittendosi. Come fossero preda di uno stato ipnotico, i Signori di Demonland ascoltarono gli ultimi echi del grande e mesto strumento a corda che con quella musica aveva esalato l'ultimo respiro, come se si fosse spezzato il cuore stesso dell'ira. Ma non era ancora la fine. Riservata e serena come una vergine virtuosa votata agli Dei, coi limpidi occhi che non vedevano nient'altro che il cielo, una tranquilla melodia salì da quel pozzo di terrore. All'inizio sembrava fiacca, una piccola cosa dopo quel cataclisma; una piccola cosa, come il primo bocciolo di primavera che spunta dopo l'arido regno del gelo e del ghiaccio. Eppure incedeva imperterrita, acquistando gradatamente - mentre avanzava - bellezza e potere. E, all'improvviso, la porta a due battenti si spalancò, riversando un flusso radioso giù per le scale. Lord Juss e Lord Brandoch Daha si misero a guardare - come uomini che assistessero al sorgere di una stella - quel portale raggiante. E proprio come una stella, ο come la tranquilla apparizione dalla luna, videro una forma incoronata come una Regina da un diadema di piccole nubi che sembravano rubate al tramonto dietro le montagne, che emanava tenui rag-
gi di luminosità rosa. Stava sola sotto quel portico immane sostenuto dalle sue enormi figure in ombra di leoni alati scolpite in pietra luccicante, nere come giaietto. Sembrava giocare, come se avesse dato da poco l'addio all'infanzia, con labbra dolci dalla piega grave, occhi neri e solenni, e capelli simili alla notte. Piccoli rondicchi neri erano appollaiati sulle sue spalle, ed un'altra dozzina svolazzavano sopra la sua testa, con un battito d'ali così rapido che l'occhio riusciva appena a seguirli. Nel frattempo, quella melodia semplice e delicata saliva sempre più in alto, finché in breve non bruciò con tutti i fuochi: bruciò come l'estate fino all'ultimo tizzone, ardente ed incontrollabile nella sua profusione d'amore e di bellezza. E così, prima che l'ultimo accordo fosse svanito nel silenzio, quella musica aveva riproposto a Juss tutti gli splendori di quelle montagne, i fuochi del tramonto del Koshtra Belorn, e la prima straordinaria visione dei picchi dai Morna Moruna; ma soprattutto, come rivelò agli occhi lo spirito di quella musica, l'immagine di quella Regina così amabile nella sua giovinezza e nel solenne rispetto della dolce promessa della sua fronte pura. In ogni linea e atteggiamento delle sue forme leggiadre c'era la squisitezza virginale di un fiore e, illuminata dall'interno come mai nessun fiore, quella divinità al cui cospetto le parole e le canzoni tacciono e gli uomini possono soltanto trattenere il fiato e prosternarsi. Quando parlò, lo fece con una voce cristallina: «Siano rese grazie agli Dei benedetti. Perché, ecco, gli anni passano, e il destino esegue gli ordini degli Dei. Voi siete coloro che dovevano arrivare.» Quei potenti Signori di Demonland stavano come dei ragazzini davanti a lei. «Non siete voi Lord Juss e Lord Brandoch Daha di Demonland,» proseguì lei, «venuti fino a me sul Koshtra Belorn seguendo vie proibite a tutti gli altri mortali?» Lord Juss rispose per entrambi: «Sì, Regina Sophonisba, siamo proprio quelli che hai nominato.» La Regina li guidò nel suo palazzo, e poi in una grande sala dov'era il suo trono. Le colonne della sala erano delle enormi torri, e c'erano delle tribune sopra di esse: file su file, che salivano fin dove poteva giungere la vista ο la luce delle fioche lampade sistemate sui loro sostegni che illuminavano i tavoli ed il pavimento. Le pareti e le colonne erano di una pietra scura e grezza, e sui muri c'erano delle strane rappresentazioni: leoni, draghi, elefanti marini (3), aquile
con le ali spiegate, elefanti, cigni, unicorni, ed altre creature, dipinte minuziosamente con colori strani e vivaci. Erano tutte di dimensioni gigantesche, al di là delle conoscenze del genere umano cosicché, trovarsi in quella sala, era come trovare riparo in un ristretto spazio di luce e di vita, sovrastato e circondato dall'ignoto. La Regina sedette sul suo trono che era splendente come la superficie di un fiume increspata dal vento sotto una luna argentea. A parte i piccoli rondicchi, non aveva nessuno al suo seguito. Fece sedere di fronte a lei i Signori di Demonland, e delle mani invisibili portarono davanti a loro tavoli e piatti preziosi colmi di vivande sconosciute. Si udì quindi una dolce musica, diffusa nell'aria da qualche invisibile artificio a loro ignoto. «Ecco,» disse la Regina, «l'ambrosia che gli Dei mangiano e il nettare che bevono; cibo e vino con cui io stessa mi nutro, per concessione degli Dei benedetti. E il loro sapore non stanca, ed il colore e il profumo non svaniscono mai.» Così assaggiarono l'ambrosia, che era bianca a vedersi, friabile sotto i denti e dolce, e che - una volta mangiata - ridiede vigore ai loro corpi più di un quarto di manzo, nonché il nettare, che era pieno di schiuma ed aveva il colore dei fuochi più nascosti del tramonto. Di certo c'era qualcosa della pace degli Dei in quel nettare divino. «Ditemi: perché siete venuti?», domandò la Regina. «È stato un sogno a mandarmi, Regina Sophonisba,» rispose Juss, «attraverso la Porta di Corno (4), e mi ha ordinato di cercare qui colui che più bramo riavere con me, e per il quale la mia anima si strugge dal dolore da ormai un anno: il mio caro fratello, Lord Goldry Bluszco.» Le parole gli si bloccarono in gola. Infatti, nel pronunciare quel nome, l'intera struttura del palazzo fremette come le foglie di una foresta per una bufera improvvisa. Il colore svanì dalla scena come il sangue dalla faccia di un uomo terrorizzato, e tutto divenne pallido, come il panorama che si vede in un luminoso giorno d'estate dopo essere stati con gli occhi chiusi per un po' di tempo con la faccia rivolta in alto sotto il sole accecante: tutto grigio ed esangue, con i caldi colori finiti in cenere. A questo, seguì l'apparizione di piccole e odiose creature che emersero dalle commessure delle pietre del pavimento e dei grandi blocchi delle pareti e delle colonne: alcune erano simili a cavallette con teste umane ed ali di mosche, altre simili a pesci con pungiglioni nelle code, altre grosse come rospi, altre simili ad anguille che si contorcevano con teste di cagnolini ed orecchie d'asino. Ma tutte erano orribili, e tutt'altro che paradisiache,
bensì squamose ed oscene! Quindi l'orrore passò, e tornò il colore. La Regina sedeva come un idolo, con le labbra dischiuse. Dopo un po', disse con voce turbata, bassa, e con lo sguardo rivolto a terra: «Signori, mi chiedete una cosa strana davvero, della quale finora mai sono stata a conoscenza. Se siete veramente nobili, vi supplico di non pronunciare di nuovo quel nome. Nel nome degli Dei benedetti, non pronunciatelo più!» Lord Juss rimase in silenzio, preso da infausti pensieri. Quando fu il momento, un piccolo rondicchio, su ordine della Regina, li condusse nelle loro camere da letto, ed allora si disposero per riposare in quei grandi letti soffici e profumati. Juss restò a lungo sveglio nella luce incerta, in preda all'inquietudine. Il bagliore delle lampade si confondeva coi suoi sogni, ed i suoi sogni con esso, cosicché non sapeva se era sveglio ο addormentato quando vide le pareti della camera da letto scomparire, rivelando la prospettiva di intricati sentieri al chiaro di luna, e di un picco solitario che spuntava nudo da un mare di nuvole illuminate di bianco sotto la luna. Gli parve di avere il potére di volare, di raggiungere in volo quella montagna e di librarsi nell'aria guardandola a poca distanza. Un cerchio che sembrava di fuoco era intorno ad essa e, sulla sommità della montagna, si intravedeva una fortezza ο cittadella di ottone resa verde dal tempo e battuta dal gelo e dai venti delle ere. Sui bastioni si potevano scorgere le sagome di una numerosa compagnia di uomini e donne, in continuo movimento, che ora camminavano sulle mura con le mani sollevate come in una supplica alle luci cristalline del cielo, ora si gettavano in ginocchio ο si appoggiavano ai bastioni d'ottone per nascondere le facce nelle mani, oppure stavano a guardare come sonnambuli che fissano il vuoto. Alcuni sembravano guerrieri, e altri grandi cortigiani a giudicare dal loro ricco abbigliamento; poi vi erano Governanti, Re e figlie di Re, solenni Consiglieri barbuti, giovani, fanciulle e Regine incoronate. E che si muovessero, ο stessero fermi, ο sembrassero urlare aspramente, tutto era senza rumore come in una tomba, e le facce di quei dolenti avevano il pallore dei cadaveri. Allora parve a Juss di vedere un maschio di ottone col tetto a terrazza sulla destra, un po' più alto delle mura, con una merlatura sul tetto. Si sforzò di gridare, ma era come se un diavolo gli stringesse la gola soffocandolo, per cui non ne uscì alcun suono. Infatti, in mezzo al tetto, come se fosse
assiso su uno scranno di pietra, c'era la figura di un uomo chinato, col mento appoggiato sulla grossa mano destra, il gomito su un braccio dello scranno, ed il suo pesante spadone a due mani accanto a lui col pomo di rubino a forma di cuore che scintillava oscuramente nel chiaro di luna. Non sembrava diverso da quando Juss lo aveva visto per l'ultima volta sulla loro nave prima che le tenebre li inghiottissero; solo che il colorito roseo della vita sembrava averlo abbandonato, e la sua fronte era offuscata dalla tristezza. Il suo sguardo incontrò quello del fratello, ma senza dare la sensazione di riconoscerlo, ed era fisso come se guardasse un punto lontano negli abissi al di là delle stelle. Juss pensò che era proprio così che si era aspettato di trovare suo fratello: con la testa alta nonostante l'oppressione di quei poteri oscuri che lo tenevano prigioniero, con l'attenzione sempre desta come un Dio, e parimenti noncurante dei lamenti di coloro che condividevano la sua prigione e della minaccia della notte ostile che si stendeva intorno a lui. Poi la visione svanì, e Lord Juss si ritrovò di nuovo nel suo letto, con la fredda luce del mattino che scivolava furtivamente fra i tendaggi delle finestre ed offuscava il debole fulgore delle lampade. Per sette giorni dimorarono in quel palazzo. Non incontrarono alcuna creatura vivente tranne la Regina ed i suoi piccoli rondicchi ma, a tutte le cose che desideravano, provvedettero delle mani invisibili e la Regina stessa. Eppure, Lord Juss aveva il cuore gonfio, perché tutte le volte che aveva interrogato la Regina a proposito di Goldry, lei lo aveva sempre interrotto, pregandolo fervidamente di non pronunciare una seconda volta quel nome terribile. Alla fine, mentre passeggiava da solo con lei nel fresco della sera su un sentiero del prato dove crescevano l'asfodelo ed altri fiori sacri in prossimità di un tranquillo corso d'acqua, le disse: «Regina Sophonisba, quando sono venuto qui ed ho parlato con te la prima volta, ero convinto che avrei ricevuto una valido aiuto per ciò che mi affliggeva. Non mi avevi promesso la tua benevolenza ed il tuo favore?» «È così!», assentì la Regina. «Allora perché, quando ti chiedo ciò che più mi sta a cuore, mi interrompi ο fingi di ignorarmi?» Lei rimase in silenzio, scuotendo la testa. Juss rivolse un'occhiata obliqua al suo dolce profilo, ed alla linea pura e grave della bocca e del mento. «A chi dovrei rivolgermi,» disse, «se non a te, che sei la Regina del Ko-
shtra Belorn e conosci ogni cosa?» Lei si fermò e lo fronteggiò con gli occhi scuri che erano innocenti come quelli di un fanciullo e magnifici come quelli di una Dea. «Mio Signore, se non ti ho risposto, non pensare che sia stato per un intento malvagio. In realtà, c'era una parte disumana dentro di me ostile a voi di Demonland che avete spezzato l'Incantesimo e mi avete resa di nuovo libera di visitare il mondo degli uomini come tanto desidero, malgrado tutte le afflizioni che ho patito in questo luogo per così tanto tempo. Ο forse dovrei dimenticare che siete rivali della malvagia Casata di Witchland, e quindi doppiamente amici?» «Questo è da dimostrare, Regina...», disse Lord Juss. «Hai visto il Morna Moruna?», gridò la donna. «L'hai vista nella landa selvaggia?» E, quando lui la guardò, ancora fosco e diffidente, la Regina aggiunse: «È stata dimenticata? Ed io che credevo che sarebbe stata menzionata e ricordata fino alla fine del mondo! Ti prego, mio Signore, dimmi: quanti anni hai?» «Ho guardato questo mondo,» rispose Lord Juss, «per trent'anni.» «E io,» disse la Regina, «soltanto per diciassette estati. Eppure avevo la stessa età quando nascesti, e quando nacque tuo nonno prima di te, e suo nonno prima di lui. Perché gli Dei mi regalarono una eterna giovinezza, quando mi portarono qui dopo il saccheggio della nostra casa, e mi offrirono una casa su questa montagna.» A questo punto s'interruppe e restò immobile, con le mani giunte davanti a lei, la testa china e la faccia leggermente voltata, per cui lui riusciva a vedere solo la bianca curva del suo collo ed il dolce profilo della sua guancia. L'aria era invasa da un bagliore crepuscolare, anche se lassù non c'era alcun sole, ma solo una luminosità diffusa, emanata da quell'alto tetto di roccia che era come un cielo sopra di loro, splendente di luce propria. Poi ricominciò lentamente a parlare, con gli accenti cristallini della sua voce che risuonavano come le deboli note di una campana venute da lontano sull'aria quieta di una sera estiva. «Il tempo è passato come un'ombra da quei giorni, quando ero Regina a Morna Moruna, e vivevo là con mia madre ed i Principi miei cugini nella felicità e nella pace. Finché Gorice III, il Grande Re di Witchland, non venne dal nord con l'intenzione di esplorare queste montagne, spinto dal suo spropositato orgoglio e dal suo cuore insolente; cosa che gli costò cara. Era una sera di prima estate quando lo vedemmo cavalcare assieme alla sua gente sui prati in fiore del Moruna. Lo accogliemmo con tutti gli onori e, quando venimmo a conoscenza
della via che intendeva percorrere, gli consigliammo di tornare indietro, perché le manticore lo avrebbero sbranato se si fosse ostinato a proseguire. Ma lui si burlò dei nostri consigli e, il mattino seguente, partì coi suoi per la strada dell'Orlo di Omprenne. Non furono visti mai più. «Non fu una grande perdita; ma fu la causa di una terribile tragedia. Infatti, nella primavera di quello stesso anno, arrivò da Witchland Gorice IV con un grande esercito, sostenendo apertamente la menzogna che noi eravamo gli assassini del Re morto: noi che eravamo gente pacifica, e che non avremmo mai compiuto un gesto che ci avrebbe fatti definire infami, per tutte le ricchezze di Impland! «Giunsero di notte, quando tutti, tranne le sentinelle sulle mura, erano a letto certi di essere nel giusto. Catturarono i Principi miei cugini e tutti i nostri uomini, e li ammazzarono senza pietà davanti ai nostri occhi. Mia madre, nel vedere ciò, cadde immediatamente in un fatale deliquio e morì. Il Re ordinò di bruciare la casa, distrusse gli altari sacri agli Dei, e profanò i luoghi a loro consacrati. A me, che ero giovane e graziosa, propose questa scelta: sarei potuta andare con lui come sua schiava, altrimenti sarei stata gettata giù dall'Orlo e mi sarei sfracellata nella caduta. Optai per questa seconda scelta, senza alcuna esitazione. Ma gli Dei, che aiutano ogni causa giusta, resero lieve la mia caduta, e mi guidarono fin qui sana e salva, attraverso i pericoli delle altitudini, del freddo e delle bestie feroci, donandomi giovinezza e pace eterna, qui al confine fra la vita e la morte. «E gli Dei soffiarono su tutta la terra del Moruna nel fuoco della loro ira, per devastarla e spazzare via uomini e animali, a testimonianza delle azioni malvagie di Re Gorice, proprio come lui aveva devastato il nostro piccolo castello ed i nostri bei luoghi. La faccia della terra fu sollevata fino agli alti strati del cielo dove dimora il gelo, al punto che gli strapiombi dell'Orlo di Omprenne dai quali siete scesi adesso, hanno un'altezza decupla di quella che avevano quando Gorice III vi discese. Fu la fine di tutti i fiori sul Moruna, e la fine dei giorni di primavera e d'estate, per sempre!» La Regina finì di parlare, e Lord Juss rimase silenzioso per un po', in preda ad un grande stupore. «Dimmi adesso,» continuò lei, «se credi ancora che i tuoi nemici non siano anche miei nemici. È evidente, mio Signore, che tu mi giudichi nient'altro che una tiepida amica, che non ti sarà di nessun aiuto nella tua impresa. Eppure, da quando sei venuto qui, non ho mai cessato di cercare e di chiedere, ed ho mandato i miei piccoli rondicchi a nord, a sud, ad est e ad ovest, per avere notizie di colui che hai nominato. Sono velocissimi, pro-
prio come pensieri alati che girano intorno al mondo; e sono tornati da me con le ali esauste, ma senza neppure una notizia del tuo congiunto.» Juss guardò gli occhi della fanciulla che erano pieni di lacrime. Nei suoi occhi la verità si librava come un angelo. «Regina,» disse, «perché i tuoi piccoli beniamini devono perlustrare il mondo, quando mio fratello si trova qui sui Koshtra Belorn?» Lei scosse la testa, dicendo: «Posso darti la mia parola: nessun mortale è salito fin qui, tranne te ed i tuoi compagni, in questi ultimi duecento anni.» Ma Juss insistette: «Mio fratello è qui sul Koshtra Belorn! L'ho visto con i miei stessi occhi la prima notte che sono giunto qui, avvolto da un cerchio di fuoco. È tenuto prigioniero su una torre di ottone in cima ad una montagna.» «Non ci sono montagne qui,» disse la Regina, «tranne questa sul cui grembo si erge la nostra dimora.» «Eppure io vi ho visto mio fratello, sotto i raggi argentei della luna piena.» «Non c'è luna qui.» Allora Lord Juss le raccontò la visione di quella notte, riferendo tutti i particolari. Lei ascoltò con gravità e, quando lui ebbe concluso, stava tremando lievemente. «Questo, mio Signore,» disse, «è un mistero che va al di là della mia comprensione.» Rimase in silenzio per un po', quindi cominciò a dire con voce soffocata, come se le parole ed il respiro potessero alimentare qualcosa di spaventoso: «Rapito da un malefico Messo di Re Gorice XII. È sempre stato così: ogni volta che muore uno della Casata di Gorice, un altro prende il suo posto, dotato di maggiori Poteri del precedente. La morte non indebolisce questa Casata di Witchland ma, come il dente di leone reciso e schiacciato, rinasce più forte. Lo sai perché?» «No,» rispose Juss. «Gli Dei benedetti,» disse la donna, parlando con voce ancora più bassa, «mi hanno mostrato molte cose segrete che i figli degli uomini neppure immaginano. Rifletti su questo mistero: esiste un solo Gorice. E, col favore del cielo (che a volte si manifesta in un modo che il nostro discernimento fallace cerca invano di giustificare), questo crudele e malvagio Gorice, ogni volta che muore di spada e nel pieno dei suoi anni, ritrova la sua anima e lo spirito in un corpo nuovo e sano, e vive un'altra vita per vessare ed opprimere il mondo, finché il suo corpo non muore. Allora ne assume uno nuovo, e così via. In questo modo, gode di una sorta di vita eterna.»
«Ciò che dici, Regina Sophonisba,» disse Juss, «è in contrasto col concetto di mortalità. Quello che mi hai rivelato è stupefacente. Avevo già intuito qualcosa, ma non ero a conoscenza delle cose più importanti. Ora capisco perché il Re, dal momento che gode di una vita interminabile, porta al pollice quel Serpente Ouroboros che i sapienti, da tempo immemorabile, hanno assunto come Simbolo dell'Eternità. La sua fine è sempre l'inizio, e l'inizio è la fine.» «Ti sei reso conto allora di quali difficoltà hai di fronte?», chiese la Regina. «Ma io, mio Signore, non ho dimenticato, che c'è un'altra cosa che ti sta più a cuore di questa: liberare colui (non nominarlo!) riguardo al quale mi hai rivolto le due domande. A tale proposito sappi, per tuo conforto, che intravedo uno spiraglio di luce. Non chiedermi altro finché non avrò effettuato un tentativo, per vedere se non si tratta di una falsa aurora. Se sarà come credo, potrai compiere un tentativo che ti consentirà di portare a termine la tua impresa più coraggiosa.» XIV. IL LAGO DI RAVARY Dell'aiuto dato dalla Regina Sophonisba figlia adottiva degli Dei, a Lord Juss ed a Lord Brandoch Daha; e di come l'uovo dell'Ippogrifo si schiuse vicino al lago incantato, e cosa ne uscì. Il giorno dopo, la Regina venne da Lord Juss e Lord Brandoch Daha e li condusse con sé, assieme a Mivarsh che avrebbe potuto essere d'aiuto, sui prati e poi giù per un passaggio simile a quello attraverso il quale erano saliti sulla montagna, solo che questo conduceva verso il basso. «Forse provate meraviglia,» disse, «nel vedere la luce del giorno nel cuore di questa grande montagna. Eppure si tratta soltanto dell'opera misteriosa della Natura. Perché i raggi del sole, colpendo per tutto il giorno il Koshtra Belorn ed il suo manto bianco, penetrano come acqua nella neve e, infiltrandosi nei recessi delle rocce, tornano a risplendere in questo bacino ed in questi corridoi scavati dagli Dei per consentirci di entrare ed uscire. E, mentre il tramonto segue il giorno coi suoi fuochi variopinti, il chiaro di luna ο il buio seguono il tramonto, e l'alba segue la notte annunciando nuovamente il giorno, così questi mutamenti di oscurità e luce si succedono all'interno di queste montagne.»
Proseguirono verso il basso finché, dopo diverse ore, uscirono improvvisamente nella luce del sole. Si fermarono all'imboccatura di una caverna su una spiaggia di sabbia bianca e pulita, che era lambita dalle piccole onde di un lago di zaffiro: era un lago esteso, cosparso di isolette dirupate e lussureggianti di alberi e fiori. Quel lago aveva molti rami che si snodavano in insenature segrete situate dietro dei promontori, che erano gli speroni rocciosi delle montagne che lo accoglievano nel loro seno: alcuni erano coperti d'alberi ο verdi per il rigoglioso tappeto erboso chiazzato di fiori che arrivava fino al limite dell'acqua; altri, erano sormontati da dirupi dal profilo scabro che immergevano le loro falde detritiche nel lago sottostante. Era metà pomeriggio, e l'aria era fragrante: una giornata chiazzata dalle luci cangianti e dalle ombre delle nubi. Uccelli bianchi volavano in cerchio sul lago e, di tanto in tanto, un martin pescatore guizzava come una striscia di fiamma azzurrina. La spiaggia era rivolta ad ovest, e si trovava all'estremità di un promontorio che si protendeva, ammantato di foreste di pini inframmezzate da radure di primule odorose, da un contrafforte del Koshtra Belorn. A nord, le due grandi montagne dominavano una valle stretta e dritta che si arrampicava fino alle porte di Zimiamvia. Ai Demoni parvero più immense di quanto le avessero mai viste, dato che si profilavano ad una distanza di appena sei ο sette miglia per sedicimila piedi al di sopra del lago. Da nessun altro punto di vista erano più belle a vedersi: il Koshtra Pivrarcha simile ad un'aquila araldica, che faceva ombra con le sue ali, ed il Koshtra Belorn simile ad una Dea addormentata, bella come la stella del mattino. Nella luce del sole, le loro nevi erano straordinariamente splendenti eppure, attraverso la pallida aria estiva, apparivano spettrali ed immateriali. Alberi d'ulivo, grigi e dai contorni incerti come se fossero fatti di nebbia, crescevano nelle valli più basse; boschi di querce e betulle e di altri alberi della foresta coprivano le falde; e, nelle pieghe più calde dei fianchi della montagna, nastri di rododendri si sparpagliavano fino alle morene, sopra i ghiacciai inferiori, e sul limitare delle nevi. La Regina guardò Lord Juss mentre lo sguardo di lui si spostava oltre il Koshtra Pivrarcha, oltre la più bassa cresta smussata del Goglio, fino ad un grande picco solitario a molte miglia di distanza che scrutava, arcigno, l'intricato labirinto dei crinali più vicini sovrastanti il lago. Il suo versante meridionale si estendeva in una lunga linea maestosa di
precipizi fino alla sommità aguzza; a nord, era molto più ripido. Poca neve ricopriva gli strapiombi di roccia, tranne dove le gole li fendevano. Per grazia e bellezza, lo stesso Koshtra Belorn superava a malapena quel picco: ma il suo aspetto era terribile, e sembrava la dimora della notte, da dove neanche il sole di mezzogiorno riusciva a scacciare del tutto le tenebre. «Laggiù c'è una montagna altissima e bellissima,» disse Lord Brandoch Daha, «che era nascosta da una nuvola quando eravamo sugli alti crinali. Ha l'aspetto di una enorme bestia accucciata.» La Regina stava guardando Lord Juss, che stava ancora fissando il picco. «Era come pensavi?», chiese. Lui trasse un lungo respiro. «Fu così che lo vidi la prima volta,» disse, «come se mi trovassi qui di persona. Ma siamo troppo lontani per vedere la cittadella d'ottone, ο per sapere se essa si trovi davvero là.» Quindi si rivolse a Brandoch Daha: «Non ci resta altro da fare: dobbiamo scalare quella montagna.» «Non ci riuscirete mai!», affermò la Regina. «Vedremo,» disse Brandoch Daha. «Ascoltate,» aggiunse la donna. «Quella montagna non ha alcun nome perché finora, tranne me e voi, non è mai stata guardata dagli occhi di un uomo vivo. Ma per gli Dei, per gli Spiriti benedetti che dimorano in questa regione, e per quelle anime infelici che sono tenute prigioniere sulla sua gelida vetta, essa ha un nome: Zora Rack nam Psarrion, e questo nome è dovuto al fatto che si erge solitaria sopra le distese di neve silenti e senza vita che alimentano i ghiacciai di Psarrion; è la più solitaria e misteriosa di tutte le montagne del mondo, e la più maledetta. Miei Signori,» proseguì, «non sperate di riuscire a scalare Zora. Degli Incantesimi la circondano, cosicché non riuscireste ad arrivare nemmeno al limite delle distese di neve ai suoi piedi, prima di essere annientati.» Juss sorrise. «Regina Sophonisba, ci conosci ben poco, se credi che ciò basterà a farci tornare indietro.» «Vi ho detto questo,» disse la Regina, «non per ottenere questo inutile scopo, ma per mostrarvi la necessità di quella via di cui adesso vi parlerò, poiché so bene che non rinuncerete a questo tentativo. Non avrei mai osato dirlo a nessuno, tranne che ad un Demone, per timore che il Cielo potesse ritenermi responsabile della sua morte. Ma a voi posso dare questo pericoloso consiglio col minimo pericolo se è vero - come mi è stato detto molto tempo fa - che l'ippogrifo fu visto in passato a Demonland.» «L'ippogrifo?», disse Lord Brandoch Daha. «Che altro è se non l'em-
blema della nostra grandezza? Mille anni fa essi nidificavano a Neverdale House, e laggiù vi sono a tutt'oggi nelle rocce le impronte dei loro zoccoli e dei loro artigli. Colui che li montò è un antenato mio e di Lord Juss.» «E colui che lo monterà di nuovo,» disse la Regina Sophonisba, «sarà il solo, fra tutti i mortali, a poter scalare Zora Rach e, se sarà abbastanza uomo, potrà salvare dalla prigionia colui che vi sta a cuore.» «Regina,» disse Juss, «so qualcosa di Magia e di teologia, eppure devo inchinarmi a te per queste tue conoscenze, a te che hai vissuto qui per generazioni e comunichi coi morti. Ma dove possiamo trovare questo destriero? Sono pochi, volano alti sul mondo, e ne nasce soltanto uno ogni trecento anni!» «Ho un uovo...», rispose lei. «In qualsiasi altra terra un uovo simile sarebbe sterile e vuoto, ma non qui, a Zimiamvia, che è una terra sacra alla nobile stirpe dei morti. Ecco come viene alla luce questo animale: quando un uomo potente e coraggioso al di là della norma dorme in questa terra con un uovo sul suo grembo, desiderando sommamente qualche grande impresa, il fuoco della sua brama fa schiudere l'uovo, e l'ippogrifo ne esce, all'inizio con ali molto deboli come quelle di una farfalla uscita dalla sua crisalide. Poi bisogna solo montarlo e, se si è abbastanza uomini da piegarlo alla propria volontà lui porterà colui che lo ha domato fino al più lontano luogo che il suo cuore desideri raggiungere. Ma se la sua grandezza non è sufficiente, deve stare in guardia da quel destriero, e montare solo dei corsieri terrestri. Perché se in lui c'è qualcosa di indegno, se il suo cuore vacilla, il suo proposito tentenna (1), oppure dimentica il vero scopo della sua gloria, allora esso lo scaraventerà giù, annientandolo!» «Tu hai davvero quest'uovo, Regina?», chiese Lord Juss. «Mio Signore,» rispose lei, piano, «l'ho trovato più di cento anni fa, mentre vagavo sulle pareti che circondano questo lago incantato di Ravary. E qui l'ho nascosto, dopo che gli Dei mi rivelarono la natura di ciò che avevo trovato e sapendo ciò che era predestinato: che un uomo della terra sarebbe giunto sul Koshtra Belorn. E pensavo tra di me che, colui che sarebbe giunto, avrebbe avuto un grande desiderio inappagato, ed avrebbe avuto un potere tale da guidare un simile destriero secondo i suoi desideri.» Attesero sulla spiaggia di quel lago incantato, conversando di tanto in tanto, fino a sera. Poi si alzarono, e si recarono in un padiglione nei pressi del lago, costruito in un boschetto di alberi in fiore. Prima di andare a dormire, lei portò con loro l'uovo di ippogrifo, grande come il corpo di un
uomo, eppure leggero, ruvido e dal colore dorato. E disse: «Chi è di voi allora, miei Signori che lo farà schiudere?» «Spetterebbe a lui,» rispose Juss, «se contassero solo il vigore e il coraggio. Ma invece sarò io, perché è mio fratello colui che dobbiamo liberare da quel luogo fosco.» Allora la Regina consegnò l'uovo a Lord Juss e lui, stringendolo fra le braccia, le augurò la buona notte, dicendo: «Non c'è bisogno di altro laudano che questo per farmi addormentare.» Poi scese la notte di ambrosia. E un dolce sonno, più dolce di qualsiasi altro, chiuse i loro occhi in quel padiglione situato accanto al lago incantato. Mivarsh non dormì. Il Lago di Ravary gli aveva procurato ben poca gioia, in quanto lui non si era interessato a nessuna delle sue bellezze ma aveva rivolto la sua attenzione a certe forme immonde che si crogiolavano al sole sulle rive per tutto il pomeriggio dorato. Aveva interrogato in merito uno dei rondicchi della Regina, che era scoppiato a ridere e gli aveva detto che erano dei coccodrilli, guardiani del lago, mansueti e gentili nei confronti degli eroi che si recavano lì per fare il bagno e divertirsi. «Ma se uno come te,» aveva detto l'uccello, «si avventura fin qui, essi lo divoreranno in un sol boccone.» Questo lo aveva rattristato. Infatti, si sentiva poco tranquillo da quando aveva lasciato Impland, e desiderava ardentemente tornare a casa, sebbene fosse stata saccheggiata e bruciata, e ritrovare gli uomini del suo sangue, sebbene si fossero rivelati suoi nemici. Pensò che, se Juss fosse volato con Brandoch Daha su un ippogrifo fino a quel gelido picco montano dove le anime dei grandi venivano tenute prigioniere, non sarebbe mai riuscito a tornare da solo nel mondo degli uomini, né a superare le montagne gelate, le manticore, ed i coccodrilli che vivevano nei dintorni del Bhavinan. Rimase sveglio per un'ora ο due, gemendo piano finché nel cuore gigantesco della mezzanotte, gli arrivarono con impetuosa chiarezza le parole della Regina, dalle quali capì che l'uovo si sarebbe schiuso grazie al calore della grande brama che aveva nel cuore, e che avrebbe cavalcato sul vento fino al desiderio che nutriva nel suo cuore. Al che, Mivarsh si alzò a sedere, con le mani umidicce per la paura e la smania. Gli sembrava, sveglio com'era e solo con quei due addormentati in quella notte senza un alito di vento, che nessuna brama potesse essere più
grande della sua. Allora si disse: «Ora mi alzerò, sottrarrò furtivamente l'uovo al diavolo d'oltremare e lo terrò stretto io stesso. Facendo questo non provocherò alcun danno, perché non ha forse lei detto che non era pericoloso? Inoltre, ognuno porta l'acqua al suo mulino.» Allora si alzò, e raggiunse con circospezione Juss nel punto dove il Signore dei Demoni giaceva con le braccia vigorose strette intorno all'uovo. Un raggio di luna entrò dalla finestra, illuminando il volto di Juss, che somigliava al volto di un Dio. Mivarsh si chinò su di lui e sottrasse con delicatezza l'uovo dalle sue braccia, mormorando nel frattempo una fervente preghiera. E, poiché Juss era immerso in un sonno profondo, e la sua anima era volata via dietro misteriose visioni lontano dalla terra e da quella spiaggia divina, fino a quelle regioni solitarie dove Goldry attendeva congelato nella sua funerea pazienza sulla vetta di Zora, Mivarsh riuscì a prendere l'uovo ed a portarlo nel suo giaciglio. Era caldissimo e crepitava, mentre lo teneva fra le braccia, come per qualcosa che lo scuotesse dall'interno. Così Mivarsh cadde addormentato, stringendo l'uovo come un uomo che stringe la persona che più gli è cara. Poco prima dell'alba, quello sí schiuse fra le sue braccia e cadde in pezzi, ed allora lui si svegliò di soprassalto, con le braccia strette intorno al collo di uno strano destriero. L'ippogrifo avanzò nella luce pallida che precede il sorgere del sole, con Mivarsh strettamente aggrappato a lui. Lo splendore del suo piumaggio ricordava quello del pavone, ed i suoi occhi erano come la fiamma cangiante di una stella in una notte ventosa. Le sue narici si dilatarono nella brezza dell'alba, e le ali si spiegarono e s'irrigidirono, con le piume simili a quelle della coda di un pavone, bianche con occhi purpurei, e dure al tocco come lame di ferro. Mivarsh stava sulla sua groppa, aggrappato alla criniera luccicante con entrambe le mani, tutto tremante. Ora era ansioso di scendere, ma l'ippogrifo sbuffò e s'impennò, e lui, temendo di cadere rovinosamente, si aggrappò con più forza. L'animale scalpitò, con gli zoccoli d'argento, battendo le ali, agitandosi come una leonessa, strappando l'erba con gli artigli. Mivarsh urlò, dibattuto fra la speranza e la paura. Poi l'ippogrifo si lanciò in avanti, balzò nell'aria, e volò. I Demoni, svegliati dal frullare delle sue ali, si precipitarono fuori dal padiglione, per vedere quella meraviglia che volava sullo sfondo dell'occidente oscuro. Il suo volo era frenetico, come quello di un beccaccino che si tuffa e guizza in avanti. E, mentre guardavano, videro il cavaliere cascare
giù ed udirono, qualche istante dopo, un tonfo sordo e lo sciacquio di un corpo caduto nel lago. Il selvaggio destriero svanì, involandosi verso gli strati più alti dell'aria. Degli anelli si allargarono dal punto di caduta, turbando la superficie del lago, e deformando il riflesso scuro del Zora Rack, che si specchiava nelle acque tranquille. «Povero Mivarsh!», gridò Lord Brandoch Daha. «Dopo tutte le leghe che gli ho fatto percorrere!» si tolse il mantello, strinse un coltello fra i denti, e nuotò con vigorose bracciate fino al punto dove Mivarsh era caduto. Ma non trovò nulla: vide solo, sulla spiaggetta di un isola lì vicino, un coccodrillo grosso e gonfio, che lo guardò con aria colpevole e non attese il suo arrivo, ma avanzò pesantemente fino all'acqua, si immerse e disparve. Allora Brandoch Daha si voltò, e tornò a nuotare raggiungendo la riva. Lord Juss stava là come pietrificato. Disperato, ma a testa alta, si voltò verso la Regina, che si avvicinò avvolta in un mantello di piume di cigno. «Regina Sophonisba, abbiamo raggiunto il punto più basso e tetro dei nostri giorni (2), giunto quando stavamo annusando la dolcezza del mattino.» «Mio Signore,» disse lei, «le cose effimere prendono vita col sole e muoiono con la rugiada (3). Ma tu, se sei veramente grande, non torcerti le mani per la disperazione. Lascia che la triste fine del tuo povero servo sia per te come un monumento contro la stoltezza. La terra non può essere sconvolta da un singolo acquazzone. Torna con me sul Koshtra Belorn!» Mangiarono in silenzio il pasto mattutino e tornarono per la strada dalla quale erano giunti. «Miei Signori Juss e Brandoch Daha,» disse la Regina, «esistono pochi destrieri di quella specie per portarvi a Zora Rack nam Psarrion, e neanche voi, che pure siete più che Semidei per potenza e virtù, avreste la capacità di cavalcarli senza averli fatti uscire dall'uovo. Volano talmente in alto, e sono così ombrosi, che non riuscireste a catturarli neanche se aspettaste per un tempo lungo tre vite umane. Ora manderò i miei rondicchi a vedere se nel mondo c'è un altro uovo.» Così lì mandò, a nord e ad ovest, e a sud e ad est. E, a tempo debito, quei piccoli uccelli tornarono sulle loro ali stanche - tutti tranne uno - senza alcuna notizia. «Sono tutti tornati da me,» disse la Regina, «tranne Arabella. Nel mondo, sono molti i pericoli che li attendono: uccelli da preda, ed uomini che uccidono gli uccellini per puro divertimento. Ma sperate con me che alla fine possa ritornare.» «Regina Sophonisba,» disse Lord Juss, «non è nella mia natura sperare e
attendere, ma essere rapido, risoluto e preciso quando intravedo la mia strada davanti a me. Ho sempre ritenuto giusto che le fragole crescessero sotto l'ortica. Tenterò di scalare il Zora!» Tutte le preghiere della donna non riuscirono a distoglierlo da quel proposito sconsiderato che, tra l'altro, lo stesso Brandoch Daha sosteneva con ardore. Per due giorni e due notti stettero via, e la Regina li attese, con grande angoscia nel cuore, nel padiglione vicino al lago incantato. La terza sera, Brandoch Daha tornò nel padiglione, mortalmente stanco, portando con sé Juss che aveva l'aspetto di un uomo in punto di morte. «Non dirmi nulla!», disse la Regina. «Dimenticare è il solo rimedio sovrano, cosa che con tutte le mie arti tenterò di indurre nella tua mente e nella sua. Disperavo di rivedervi vivi, dal momento che vi siete avventurati con tanta sconsideratezza in quelle regioni proibite.» Brandoch Daha sorrise, ma il suo aspetto era spettrale. «Non rimproverarci oltre, cara Regina. Chi mira al sole di mezzogiorno, pur sapendo di non poter mai andare a segno, sarà almeno sicuro di mirare più in alto di colui che vuol colpire solo un cespuglio.» Poi la voce gli si spezzò in gola: il bianco dei suoi occhi roteò verso l'alto, ed afferrò la mano della Regina come un bambino spaventato. Quindi, con uno sforzo immane, si controllò: «Abbi un po' di pazienza con me,» disse. «Dopo un po' di cibo ed acqua, mi passerà. Solo ti prego di esaminare Juss: sembra morto, non credi?» I giorni trascorsero, poi i mesi, e Lord Juss giaceva ancora come in punto di morte, assistito dal suo amico e dalla Regina in quel padiglione nei pressi del lago. Finalmente, quando l'inverno era ormai passato nella Terra di Mezzo (4), a primavera inoltrata, tornò l'ultimo piccolo rondicchio sulle sue ali stanche, quello che da tempo avevano considerato perduto. Quando si posò sul grembo della sua padrona, era quasi morto per la stanchezza, ma la Regina lo nutrì, e gli diede del nettare, cosicché riprese le forze e disse: «Regina Sophonisba, figlia adottiva degli Dei, ho volato per te ad est, a sud, ad ovest ed a nord, per mare e per terra, nel caldo e nel gelo, fino ai poli gelati, in ogni dove. E infine sono giunta a Demonland, fino alla catena di Neverdale. C'è un laghetto fra le montagne, che gli uomini chiamano Dule. È molto profondo, e gli uomini che vivono di pane ritengono che sia senza fondo. Ma un fondo ce l'ha, e laggiù c'è un uovo di ippogrifo, che io ho visto, perché ho volato a grande altezza sopra di esso.» «A Demonland!», disse la Regina. Poi, rivolta a Brandoch Dalia: «È l'u-
nico. Dovete andare a prenderlo!», concluse. «A Demonland?», disse Brandoch Daha. «Dopo che abbiamo speso tutte le nostre forze e attraversato il mondo per trovare la strada che ci portasse da Goldry?» Ma, quando Lord Juss lo venne a sapere, subito, grazie alla rinnovata speranza, la sua malattia cominciò a regredire cosicché, nel giro di poche settimane, recuperò completamente le forze. Era trascorso un anno intero da quando i Demoni erano saliti per la prima volta sul Koshtra Belorn. XV. LA REGINA PREZMYRA Come Lady Prezmyra rivelò a Lord Gro ciò che avrebbe voluto causare a Demonland, nella qual cosa si sarebbe anche manifestata la superiorità del suo Signore: e come il parlare a voce eccessivamente alta dei suoi progetti fu l'occasione grazie alla quale Lord Corinius apprese la dolcezza della felicità differita. Nella stessa ventiseiesima notte di maggio, mentre Lord Juss e Lord Brandoch Daha osservavano dal più alto pinnacolo del mondo la terra di Zimiamvia ed il Koshtra Belorn, Gro passeggiava con Lady Prezmyra sulla terrazza occidentale di Carce. Mancavano ancora due ore alla mezzanotte, l'aria era calda, ed il cielo un pergolato di raggi di luna e di stelle. Di tanto in tanto, spirava una leggera brezza come se la notte si agitasse nel sonno. I muri del palazzo e la Torre di Ferro impedivano che la luce della luna giungesse direttamente sulla terrazza, e le lampade diffondevano il loro chiarore tremolante creando zone alterne di luce ed oscurità. Vivaci melodie ed uno strepito di gozzoviglie giungevano dall'interno del palazzo. «Se la tua domanda, Regina,» disse Gro, «cela il desiderio di mandarmi via, ti obbedirò come un fulmine, per quanto la cosa possa rattristarmi.» «La tua è solo un'inutile perplessità,» disse la donna. «Resta pure.» «È soltanto un'espressione di saggezza innata,» disse Gro, «seguire la luce. Quando sei uscita dalla sala mi è parso che tutte le luci si offuscassero.» La guardò con la coda dell'occhio mentre passavano attraverso il ba-
gliore di una lampada, studiando la sua espressione che sembrava rannuvolata da tetri pensieri. Era bellissima, nobile e splendida, con quella corona d'oro tempestata di ametiste scure. Un granchio, singolarmente lavorato in argento, le sormontava la fronte, e reggeva in ogni chela una sfera di crisolito (1) della grandezza di un uovo di tordo. Lord Juss disse: «Anche questo avevo in mente di fare: osservare quelle stelle nel cielo che gli uomini chiamano la Chioma di Berenice, e scoprire se riuscivano a superare in splendore i tuoi capelli, Regina.» Camminarono in silenzio. Poi: «Queste espressioni di galanteria ostentata,» disse lei, «non si addicono alla nostra amicizia, Lord Gro. Se non sono in collera, è soltanto perché attribuisco la loro paternità ai ripetuti brindisi che hai dedicato al nostro Re in questa notte in cui ricorre l'anniversario della sua evocazione, e della nostra vendetta su Demonland.» «Signora,» disse lui, «volevo solo che tu abbandonassi questa malinconia. Ti sembra poca cosa che il Re abbia voluto - cosa strana per lui - onorare tuo marito Corund concedendogli la dignità di Re e tutta Impland come feudo? Tutti si sono accorti della mestizia con la quale hai accettato questa corona reale quando il Re te l'ha consegnata stanotte, in onore del tuo nobile Signore, per indossarla in sua vece finché non tornerà per reclamarla. Questo e le grandi lodi tributate dal Re a Corund, avrebbero dovuto portare il calore dell'orgoglio sulle tue guance. Ma tutte queste cose hanno giovato poco alla tua malinconia gelida e sdegnosa, come il fiacco sole invernale serve a poco nei confronti delle polle solidificate dal gelo.» «Le corone oggigiorno sono solo ciarpame,» disse Prezmyra: «quando il Re solleva i suoi lacchè al rango di Re della terra. Ti meravigli se la mia gioia per questa corona si è leggermente incrinata quando ho visto l'altra concessa dal Re a Laxus?» «Signora,» disse Gro, «devi dimenticare Laxus. Tu sai che non ha mai messo piede a Pixyland; e, se ora dev'essere chiamato suo Re, ciò dovrebbe farti piacere, in quanto ciò è avvenuto a scapito di Corinius che è andato a combattere laggiù e che per abilità ο fortuna ha superato il tuo nobile fratello e lo ha costretto all'esilio.» «Corinius,» rispose lei, «perdendo la corona, ha assaggiato quella sventura ο sorte avversa che ho ardentemente invocati su tutti coloro che avessero tratto vantaggi dalla rovina di mio fratello.» «Allora, che il malumore di Corinius possa aumentare la tua gioia!», disse Gro. «Il Fato è solo un bambino cieco: non contare sulla prossima volta.»
«Non sono forse una Regina?», disse Prezmyra. «Non siamo a Witchland? Non abbiamo la forza di lanciare delle potenti maledizioni, se il Fato è davvero cieco?» Si fermarono in cima ad una scala che conduceva giù nel cortile interno. Lady Prezmyra si appoggiò per un po' alla balaustra di marmo nero, guardando in direzione del mare che si stendeva al di là della piana paludosa inondata dalla luce lunare. «Che m'importa di Laxus?», disse alla fine. «Che m'importa di Corinius? Sono solo dei falchi lanciati dal Re su una preda che per valore e nobiltà eclissa cento come loro. Non permetterò che la mia indignazione si prenda gioco della giustizia al punto da persuadermi che la colpa è solo di Re Gorice XII. È verissimo che il Principe mio fratello ha congiurato coi nostri nemici a nostro danno, spalancando, anche se non lo sapeva, le porte della distruzione per se stesso e per noi, quella notte in cui il nostro banchetto fu da lui trasformato in campo di battaglia e la nostra ebbrezza in furia sanguinaria.» Rimase silenziosa per un po', poi aggiunse: «Traditore: una parola odiosissima, invisa al genere umano. Due facce in un solo cappuccio. Oh, se quella terra si ribellasse e colpisse i peccatori che la calpestano!» «Vedo che stai guardando ad ovest, verso il mare,» disse Gro. «C'è qualcosa allora che non riesci a vedere, Lord Gro,» disse Prezmyra. «Quella volta mi dicesti con quali solenni giuramenti e strane promesse di amicizia Lord Juss si congedò da te mentre fuggiva da Carce. Ma sei in errore, Regina, se ritieni un'infamia rompere promesse fatte in condizioni così estreme, e che si dimostrano di solito simili al pesce: dopo tre giorni, puzzano.» «Di certo, è una cosa insignificante il fatto che mio fratello abbia messo da parte i suoi interessi e la sua alleanza per salvare quei valorosi da una morte infame; ed essi, una volta in salvo, lo hanno appena ringraziato e se ne sono andati, lasciando che fosse annientato lontano dalla sua terra e, per quello che possa loro importare, perdesse la vita. Possa il gran Demonio dell'Inferno torturare le loro anime!» «Signora, vorrei che tu guardassi le cose con calma, senza questi accessi di amarezza. I Demoni salvarono tuo fratello una volta a Lida Nanguna, ed il fatto che lui li abbia strappati dalle mani del nostro Re, è stato solo un giusto risarcimento. I piatti della bilancia si sono equivalsi.» «Non lordare le mie orecchie con parole che li scusano. Ci hanno vergognosamente raggirati; e la colpa del loro sporco comportamento li inchioda, giorno dopo giorno, sempre più saldamente al mio odio profondo. Sei
così erudito per ciò che concerne la natura e la filosofia, che non credo sia necessario che io debba insegnarti che il mortale elleboro ο il vomito di un rospo sono veleni adatti alla malizia di una donna.» Le tenebre di un grande banco di nuvole che si propagava da sud inghiottirono il chiaro di luna. Prezmyra si voltò per riprendere poi a camminare lentamente lungo la terrazza. Le guizzanti scintille gialle nei suoi occhi brillavano nel bagliore delle lampade. Aveva il pericoloso aspetto di una leonessa, ed allo stesso tempo era delicata e graziosa come un'antilope. Gro camminava accanto a lei, dicendo: «Corund non li ha forse costretti a salire, d'inverno, sul Moruna? Pensi che possano sopravvivere, soli e circondati da pericoli così gravi?» «Mio Signore,» gridò lei, «riferisci queste buone notizie alle sguattere, non a me. Accidenti! Tu stesso negli anni passati sei entrato nei cuore del Moruna, eppure ne sei uscito, altrimenti sei il più grande dei bugiardi. Solo questo corrode la mia anima: che passano i giorni, i mesi, ed il Re sottomette tutti i popoli, eppure deve tollerare che la orgogliosa corona di questi ribelli di Demonland, non sia calpestata dai suoi piedi. Ha ritenuto forse che fosse meglio risparmiare un nemico e rovinare un amico? Allora è stata una conclusione infelice e disumana. Oppure è un uomo condannato, come lo fu Gorice XI? Il cielo lo protegge, ma farà una brutta fine e la completa rovina si abbatterà su tutti noi se allontanerà il suo staffile da Demonland finché Juss e Brandoch Daha non torneranno per affrontarlo di nuovo.» «Signora,» disse Lord Gro, «con queste poche parole mi hai prospettato proprio quello che anch'io sto pensando. E perdonami se all'inizio ti ho parlato con diffidenza, poiché questi sono momenti d'importanza cruciale e, prima di aprirti la mia mente, volevo essere certo che la tua valutazione dei fatti coincidesse con la mia. Lasciamo che il Re colpisca adesso, quando i loro più valorosi campioni sono assenti. Così saremo al meglio delle nostre forze contro di loro se torneranno, e se per caso Goldry sarà con loro.» Lei sorrise, e parve che tutta la notte afosa rinfrescasse e si addolcisse al sorriso della donna. «Sei un caro amico,» disse. «La tua malinconia è per me come un bosco ombroso d'estate, dove posso danzare quando voglio, e cioè spessissimo, oppure rattristarmi quando voglio, e ciò, in questi giorni, avviene più spesso di quanto mi piacerebbe: ma tu non ti opponi mai al mio stato d'animo. Solo adesso ti sei comportato così, mi hai afflitto col tuo linguaggio ricercato e adulatorio, finché non ho pensato che tu avessi
scambiato la tua pelle con quella di Laxus ο del giovane Corinius, cercando lusinghe come quei corteggiatori che spiegano le loro ali per poi posarsi sul seno di una donna.» «Volevo scuoterti dalla tua tristezza,» disse Gro, che poi aggiunse: «Dovresti solo lodarmi, dal momento che non ho detto altro che la verità.» «Oh, smettila, mio Signore!», gridò la Regina. «Altrimenti ti chiederò di allontanarti.» E, mentre camminavano, Prezmyra cantò dolcemente: Colui che solo amore può cercare, E invece contro di esso lotterà, Mai la mia fantasia farà volare, Perché egli ama contro la volontà; Né colui che è tutto ciò che ha, E può scegliere a suo piacimento; Quando sono presa, lui se ne va, E quando egli desidera, dissento. Né colui che ama solo la bellezza. Perché essa è cercata da tutti; Né colui che è attratto dalla bruttezza, Perché il suo Giudizio allora non vale nulla; Né colui... A questo punto s'interruppe bruscamente, dicendo: «Vieni, sono riuscita a scrollare dal mio cupo stato d'animo l'immagine di Laxus e di questa sgargiante corona. Pensiamo ad agire. Ma, prima di tutto, devo dirti una cosa. Ciò di cui stiamo parlando è stato ben presente nella mia mente durante queste ultime due ο tre lune, fin dalla campagna di Corinius a Pixyland. Così, quando giunse notizia della distruzione dei Demoni da parte del mio Signore, e del fatto che egli stava spingendo Juss e Brandoch Daha sul Moruna come degli schiavi fuggiaschi, gli mandai una lettera per mano di Viglus che gli riferiva il conferimento del titolo di Re di Impland da parte del nostro Re. In essa espressi l'opinione che la Corona di Demonland per noi sarebbe stata più bella di quella di Impland, per quanto questa possa scintillare e lo pregai di spingere il Re a spedire un esercito a Demonland, con lui come Comandante; oppure, se non era in grado di tornare subito per chiederlo lui stesso, lo supplicavo di fare di me la sua ambasciatrice presso il Re, al quale avrei presentato questa proposta, chiedendogli di assegnare l'incarico a Corund.»
«La sua risposta non si trova in quelle lettere che ti ho portato?», chiese Gro. «Sì,» rispose la donna, «ed è una risposta meschina, leccapiedi e gretta per un Signore che avevo proposto per un'impresa del genere. Ohimè, il solo parlarne fa sgonfiare tutta la mia devozione di moglie, e mi spinge ad imprecare come una Stracciona.» «Mi allontanerò, Signora,» disse Gro, «se vuoi rimanere sola per liberarti la mente.» Prezmyra scoppiò a ridere. «Non è stata una risposta così negativa,» disse, «eppure mi manda in collera. Lui sostiene completamente il progetto, ed io ho il suo permesso di proporlo al Re come sua portavoce, e di spronarlo perché lo accetti completamente. Ma, per quanto riguarda il comando delle operazioni, lui non lo vuole. Questo dovrà andare a Corsus, ο a Corinius. Aspetta, fammi leggere di nuovo!» E, fermandosi accanto ad una delle luci, tirò fuori una pergamena dal seno. «Puah! È troppo stupido! Non disonorerò il mio Signore leggendola, neanche a te.» «Be',» disse Gro, «se fossi il Re, sarebbe Corund il Generale da me prescelto per umiliare Demonland. Può darsi che mandi Corsus, perché in questi giorni si è comportato molto bene ma, a mio giudizio, non è adatto ad un'impresa del genere. E, riguardo a Corinius, non gli ha ancora perdonato l'errore commesso al banchetto un anno fa.» «Corinius!», disse Prezmyra. «Così la strage che ha compiuto nella mia terra non solo è rimasta senza ricompensa, ma non gli ha neanche consentito di ritornare nei favori del Re, non è così?» «Credo di sì!», disse Lord Gro. «Inoltre, è furente per aver colto quel frutto spinoso solo perché un altro lo mangi. Si è comportato in maniera così presuntuosa nella sala stanotte, turlupinando e tormentando (2) Laxus e sfoderando la spada, e con tale sfacciataggine e dissolutezza - in particolare col suo aperto tentativo di importunare Sriva, che da un mese è fidanzata a Laxus - che sarebbe incredibile se non scorresse il sangue fra di loro prima che finisca la notte. Mi sembra che non sia dell'umore di iniziare una campagna senza una ricompensa certa; e mi sembra che il Re, avendo compreso le sue intenzioni, non si azzarderà ad offrirgli una nuova impresa per rendere così motivo di vanto un suo rifiuto.» Si trovavano accanto ad un ingresso ad arco che si apriva sulla terrazza dal cortile interno. La musica risuonava ancora dalla grande sala dei banchetti di Gorice XI. Sotto il passaggio ad arco e all'ombra degli enormi contrafforti delle mura, era come se gli elementi della notte, cacciati via
dai cerchi luminosi intorno alle lampade, si stringessero assieme alle oscurità affini per creare una doppia tenebra. «Bene, mio Signore,» disse Prezmyra, «la tua saggezza benedica il mio proposito?» «Qualunque esso sia, sì, perché è tuo, Regina!» «Qualunque esso sia!», gridò lei. «Ne dubiti ancora? Quale altro proposito, se non chiedere udienza al Re come mi sono preoccupata di fare stamane per prima cosa. Non sono stata esortata anche dal mio Signore?» «E se il tuo zelo superasse la sua esortazione in un particolare?», disse Gro. «Accidenti, è così!», disse Prezmyra. «E se io non ti darò notizia prima di mezzogiorno di domani che è stato dato l'ordine per Demonland, che il mio Signore Corund è stato nominato Generale della spedizione, e che le lettere per un suo rapido richiamo da Orpish sono state sigillate...». «Zitta!», disse Gro. «Sento un rumore di passi nel cortile.» Si voltarono verso il passaggio ad arco, mentre Prezmyra cantava sottovoce: Né colui che la moglie paga ancora, Poiché per questo sarebbe una schiava; Né colui che non paga, perché allora Fra sé pensa che non è più brava. Allora un tipo d'uomo non c'è Che possa mettere alla prova, pertanto? Darò sfogo alle mie voglie, ohimè, Nell'amare me stessa soltanto. Incontrarono Corinius sotto l'ingresso ad arco, mentre usciva dalla sala dei banchetti. Si fermò proprio davanti a loro per scrutare attentamente Prezmyra nel buio, e lei sentì il calore del suo fiato, reso pesante dal vino. Era troppo scuro per poter distinguere le facce, ma lui la riconobbe dalla statura e dal portamento. «Ti chiedo scusa, Signora,» disse. «Mi sembrava che un istante fa... ma non importa! Ti auguro un buon riposo.» Così dicendo, si fece da parte con un profondo inchino, sgomitando rudemente Gro nel farlo. Questi, poco intenzionato ad attaccar briga, gli cedette il passo, e seguì Prezmyra nel cortile interno.
Lord Corinius si sedette sulla panca più vicina, appoggiò la robusta schiena ai cuscini e si rilassò, tamburellando con le dita e cantando fra sé: Che somaro è quello Che implora una donna per avere Solo un po' di piacere, Per poi, sul più bello, Gabbato e abbandonato rimanere. Che somaro, è quello! Perché dovrei cercare Di una donna il favore? Se un altro è suo signore, Perché mi dovrei disperare? Quando di denaro e lavoro La mia parte posso vantare. Se vedo venire di qua Una bruna, m'innamoro. Finché ne vedo un'altra ancora Più bruna di quella là; Perché sono amante e adoro La mia libertà. Un fruscio alle sue spalle, sulla sinistra, gli fece voltare la testa. Una figura uscì furtivamente dall'ombra del contrafforte più vicino al passaggio ad arco. Lui balzò in piedi e giunse per primo alla porta, bloccandola con le braccia allargate. «Ah,» gridò, «ci sono delle cinciallegre appollaiate nell'ombra, eh? Quale riscatto mi pagherai per aver mancato all'appuntamento la notte scorsa? Già, e stavi strisciando via di qui per prenderti ancora una volta gioco di me per tutta la notte, perché non avrei potuto prenderti.» La donna scoppiò a ridere. «La notte scorsa, mio padre mi ha trattenuta con lui; e stanotte, mio Signore, non meritavi forse di essere trattato in questo modo per quella tua sfacciata canzoncina? Ti sembra una dolce serenata per le orecchie di una signora? Cantala ancora, per la tua libertà, e dimostra quanto sei somaro.» «Sei molto coraggiosa a provocarmi, senza che vi sia una stella come testimone se decido di liberarmi di te. Queste lampade sono delle vecchie ubriacone, che impallidiscono davanti alle scene di violenza. Non ciarle-
ranno.» «No: se parli nei fumi del vino, me ne andrò, mio Signore.» E, mentre lui muoveva un passo verso di lei, «E non tornerò, qui ο altrove, ma ti sfuggirò per sempre,» disse. «Non mi farò trattare come una sguattera. Ho sopportato fin troppo le tue maniere da soldataccio.» Corinius la cinse con la braccia, sollevandola contro il suo largo torace cosicché le dita dei piedi di lei a malapena toccavano il suolo. «Sriva,» disse con voce incerta, chinando la sua faccia su quella della donna, «credi di poter accendere un fuoco così intenso, per poi camminarci sopra senza bruciarti?» Aveva le braccia immobilizzate contro i fianchi da quel vigoroso abbraccio. Si sentiva in estasi, come un giglio nella luce intensa del sole di mezzogiorno. Corinius chinò la faccia e la baciò con ardore, dicendo: «Per tutte le delizie che mai abbiano gustato le tenebre, stanotte sarai mia!» «Domani...», disse lei, quasi soffocata. Ma Corinius insisté: «Stanotte, gioia mia!» «Mio caro,» disse Lady Sriva, con dolcezza, «dal momento che hai conquistato il mio amore, non essere un conquistatore rude e sfrontato. Ti giuro, in nome di tutti i terribili poteri che si aggirano sulla terra, che devo andare - e subito - da mio padre, questa notte. Non c'è altro motivo. È stata solo questa la ragione per cui ti ho evitato poco fa: questa, e non la frivola idea di tormentarti.» «Lui può attendere i nostri comodi,» disse Corinius. «È vecchio, e spesso rimane seduto a leggere fino a tardi.» «Cosa? E tu hai lasciato che gozzovigliasse? C'è qualcosa che devo riferirgli prima che il vino gli annebbi la mente. Anche questo ritardo, per quanto dolce sia per noi, è pericoloso.» Ma Corinius continuò: «Non ti lascerò andare.» «Bene,» disse lei, «allora sei un bruto. Ma sappi che invocherò aiuto con urla tali da attirare qui tutta Carce, ed i miei fratelli. E Laxus, se è un uomo, ti farà pagar cara la tua violenza nei miei confronti. Ma, se presti ascolto al lato nobile della tua coscienza e rispetti il mio amore, lasciami andare. E, se verrai di nascosto alla porta della mia camera, un'ora dopo mezzanotte, credo che non troverai il chiavistello tirato.» «Me lo prometti?» «Che la rovina possa inghiottirmi, se non sarà così!» «Un'ora dopo mezzanotte! Fino a quel momento mi sembrerà un anno per i miei desideri!»
«Ha parlato il mio nobile amante!», disse Sriva, donandogli ancora la bocca. Poi attraversò frettolosamente il passaggio in ombra ed il cortile fino al punto nel porticato a nord dove suo padre aveva la sua camera. Lord Corinius tornò a sedersi sulla panca, e rimase per un po' adagiato con indolenza sui cuscini, borbottando una vecchia canzone: La mia Signora è un volano, (3) Di sughero e piume è fatta; Ogni racchetta la cerca nella mano, E sul cuoio la impatta, Ma la scaglia dove vuoi tu, E lei rimbalza sempre più... Fa, la, la, la, la, la. Poi distese le braccia e sbadigliò. «Be', Laxus, caro vigliacco dalla faccia di carpa, questa medicina ha alleviato moltissimo la mia insoddisfazione. Mi pare giusto, dal momento che devo perdere la mia corona, che debba avere in cambio la tua donna. E, a dire il vero, vedendo com'è meschino, piccolo e ordinario questo Regno di Pixyland, mentre Sriva è una deliziosa cutrettola che in questi due anni non avevo mai guardato senza che mi venisse l'acquolina in bocca, accidenti, posso ritenermi in parte ripagato! Perlomeno finché non mi sarò stancato di lei... L'amore è tutta la mia vita, Perché mi spinge ad agire: Ma il mio amore e le mie mire Non sono per colei che mi è unita... «Un'ora dopo mezzanotte, eh? Qual è il vino migliore per gli amanti? Andrò a berne un boccale, e giocherò a dadi con qualcuno di quei ragazzi per passare il tempo finché non verrà il momento.» XVI. LA MISSIONE DI LADY SRIVA Come il Duca Corsus pensò bene di affidare un altro incarico a sua figlia: e come lei lo portò a termine.
Sriva raggiunse rapidamente la camera privata di suo padre e, trovando la madre che cuciva sulla sua sedia col capo che le ciondolava per il sonno, e due candele alla sua destra ed alla sua sinistra, disse: «Signora madre, c'è una corona di Regina che aspetta di essere raccolta. Cadrà in grembo ad una straniera se tu e mio padre non vi date da fare. Ma lui dov'è? Ancora nella sala dei banchetti? Tu ο io dobbiamo andare subito a chiamarlo.» «Vergognati!», gridò Zenambria. «Mi hai spaventata! Cerca di parlare più lentamente, ragazza mia. Con questo parlare così brusco, non so che cosa vuoi dire, né di che stai parlando.» Ma Sriva rispose: «È una cosa importantissima! Non vuoi andare? Bene, allora andrò io a cercarlo. Saprai tutto fra poco, madre...», e si voltò verso la porta. Tutte le grida di sua madre a proposito dell'indecenza di tornare nella sala dei banchetti molto dopo l'ora del ritiro delle donne, non riuscirono a farla desistere dal suo proposito. Cosicché, Lady Zenambria, vedendola tanto ostinata, pensò che sarebbe stato meno sconveniente se ci fosse andata lei, ed andò. Poco dopo, tornò con Corsus. Corsus sedette sulla sua ampia sedia di fronte alla moglie, mentre la figlia gli raccontava la sua storia. «Due, tre volte,» disse, «mi sono passati vicino, come lo siamo io e te in questo momento, padre mio, con lei che si appoggiava familiarmente al braccio del suo ricciuto filosofo. Era chiaro che non pensavano che ci fosse qualcuno nelle vicinanze che potesse udirli. Ha detto così e così...», e Sriva riferì quello che Lady Prezmyra aveva detto circa una spedizione a Demonland, sul suo proposito di parlare col Re, sul suo disegno che Corund fosse il Generale di quella spedizione, e sulla lettera che il giorno dopo avrebbe richiesto il suo immediato ritorno da Orpish. Il Duca ascoltò, immobile, col respiro pesante, proteso in avanti, i gomiti sulle ginocchia, ed una mano grossa e grassa che attorcigliava e tirava i baffi radi e grigi. I suoi occhi guizzavano lanciando occhiate improvvise alla stanza, e le sue guance cascanti, rosse per le libagioni, divennero di un rosso più scuro. Zenambria disse: «Ohimè, non ti avevo detto già da molto tempo, mio Signore, che Corund ha fatto male a sposare una donna giovane? È da questo che ora deriva quell'infamia che ci si doveva aspettare. È un vero peccato, in verità, che lei giochi a tira e molla con l'onore di un uomo così degno - ora non più nel fiore degli anni - che si trova nell'altro capo del mondo. Spero proprio che lui si vendichi su di lei quando tornerà a casa. Ne sono certa: Corund è troppo nobile per ricavare dei vantaggi ad un prezzo
così vergognoso.» «Quello che dici, moglie,» disse Corsus, «dimostra capelli lunghi e cervello corto. In breve, sei una sciocca!» Restò silenzioso per un po', quindi sollevò lo sguardo su Sriva, che stava con la schiena rivolta al tavolo massiccio, né in piedi né seduta, con le mani riccamente ingioiellate appoggiate sull'orlo del tavolo, e le braccia simili a delicate colonne bianche che sorreggevano la sua figura leggiadra. In qualche modo, lo sguardo opaco di Corsus scintillò, soffermandosi su di lei. «Vieni qui,» disse, «sulle mie ginocchia, così!» Quando si fu seduta, le disse: «Indossi uno splendido abito, questa notte, piccola mia. Rosso, per un umore sanguigno.» Il suo grosso braccio le circondò le spalle, e la sua mano, grossa come un vassoio, si appoggiò come uno scudo sotto il suo seno. «Hai un bellissimo profumo.» «Sono foglie di malabathrum,» rispose lei. «Sono lieta che ti piaccia, mio Signore,» disse Zenambria. «La mia Dama di Compagnia sostiene che esso, bollito col vino, produce un profumo che supera tutti gli altri.» Corsus stava ancora fissando Sriva. Dopo un po' le chiese: «Cosa stavi facendo sulla terrazza al buio, eh?» Lei abbassò lo sguardo, dicendo: «Laxus mi ha pregato di aspettarlo là.» «Hum!», disse Corsus. «È strano, dal momento che è stato ad aspettarti per un'ora vicino al sentiero pavimentato del cortile interno.» «Evidentemente si era spiegato male,» disse Sriva. «E ben gli sta, dal momento che è così trascurato.» «Certo. E tu stanotte sei diventata una politicante, mia piccola gattina?», sorrise Corsus. «Ed hai avuto sentore di una spedizione a Demonland? È probabile... ma credo che il Re manderà Corinius.» «Corinius?», disse Sriva. «Non è questo il piano. Sarà Corund a partire, se non insisti questa notte per far prendere la decisione al Re, padre mio, prima che quella volpe parli con lui in privato domani.» «Bah!», esclamò Corsus. «Sei soltanto una ragazzina, e non sai nulla. Quella donna non ha né il coraggio né la determinazione per poterlo influenzare in questa maniera. No, non è Corund, che lui porta in palma di mano, ma Corinius. È per questo che il Re gli ha negato Pixyland, che gli toccava, ed ha lasciato quella bazzecola a Laxus.» «Accidenti!», disse Zenambria, «è mostruoso che Corinius debba avere Demonland, che sicuramente supera di molto la Corona di Pixyland. Questo giovincello avrà tutta la carne, e a te, poiché sei vecchio, toccheranno
solo le ossa e le bucce?» «Tieni a freno la lingua, donna!», l'ammonì Corsus, guardandola come si può guardare un intruglio sgradevole. «Perché non hai avuto l'arguzia di adescarlo per tua figlia?» «È vero, marito, mi dispiace...», disse Zenambria. Lady Sriva scoppiò a ridere, mettendo un braccio intorno al collo di torello del padre e giocando coi suoi baffi. «Stai tranquilla,» disse, «mia signora madre. Posso fare tranquillamente la mia scelta - questo è sicurissimo - fra tutti i Nobili di Carce. E adesso sto pensando a Lord Corinius che, accidenti, è proprio l'uomo adatto: ha anche il labbro rasato, cosa che, come l'esperienza testimonia, supera di molto questi tuoi brutti baffi.» «Be',» disse Corsus, baciandola, «comunque sia, stanotte andrò dal Re per cercare di convincerlo. Nel frattempo, signora,» disse a Zenambria, «ti invito ad andare subito nella tua camera. Metti il chiavistello alla porta e, per maggior sicurezza, chiuderò io stesso dall'altro lato. C'è troppa allegria in giro stanotte, e non vorrei che questi ubriaconi vacillanti ti recassero offesa, come ben potrebbe accadere, mentre sarò impegnato in questa missione di stato.» Zenambria gli augurò la buona notte, ed avrebbe voluto portare la figlia con sé, ma Corsus si oppose, dicendo: «Farò in modo che sia al sicuro.» Quando furono soli, e Lady Zenambria si fu chiusa in camera, Corsus tirò fuori da una credenza di quercia un grosso bricco d'argento e due coppe cesellate. Poi avvicinò la sedia e, sedendosi pesantemente, incrociò le braccia sul tavolo e vi appoggiò la testa. Sriva camminò avanti e indietro nella stanza, impaziente per la strana posizione assunta dal padre e per il suo silenzio. Di certo il vino le metteva il fuoco nelle vene; di certo, in quella camera silenziosa, le tornavano in mente i baci ardenti simili a fasce di bronzo che la tenevano stretta. Suonarono i rintocchi della mezzanotte. Le ossa sembravano liquefarsi dentro di lei mentre pensava alla promessa che avrebbe dovuto mantenere fra un'ora. «Padre,» disse alla fine, «è mezzanotte. Non vuoi andare prima che sia troppo tardi?» Il Duca sollevò la testa e la guardò: «No...», rispose. «No!», ripeté. «Che beneficio ne ricaverei? Sto diventando vecchio, figlia mia, e le forze mi abbandoneranno prima ο poi. Il mondo è per i giovani. Per Corinius, per Laxus, per te! Ma soprattutto per Corund che, pur essendo vecchio, ha il suo crocchio di figli, ed ha soprattutto sua moglie, che è la scala che gli consentirà di salire sul trono.»
«Ma se avevi detto...», disse Sriva. «Sì, quando c'era tua madre. È giunta prima del tempo alla sua seconda infanzia, così devo parlarle come ad una bambina. Corund ha fatto male a sposare una donna giovane, eh? Puah! Non è questo il vero bastione e baluardo della sua fortuna? Hai mai visto qualcuno salire così in alto con la stessa rapidità? Era mio segretario quando guidai la guerra contro i Ghoul, ed ora mi ha decisamente superato, pur essendo io di nove anni più vecchio. È stato nominato Re, addirittura, ed è prossimo a diventare Dominus Factotum in tutto il mondo, se utilizzerà quella donna nel migliore dei modi. E il Re, come ricompensa - così come lei si prefigge - non metterà Demonland al di sopra di Impland e di tutto il mondo? Un dignitario all'Inferno, questo sarò io!» Si alzò, allungando una mano incerta verso la brocca di vino. Poi osservò furtivamente là figlia, distogliendo lo sguardo quando quello di lei incontro il suo. «Corund,» disse, versandosi un po' di vino, «si sbellicherebbe dalle risate se sentisse lo sproloquiare sussiegoso di tua madre: lui che con gioia, senza alcun dubbio, deve aver affidato alla moglie questa incombenza. E, se al suo ritorno a casa, la tormenterà a proposito di questa faccenda, saranno solo tormenti d'amore e di gratitudine per averlo fatto prevalere su di noi. Credimi, non tutte le donne di classe elevata riescono a entrare nei favori di un Re.» Il telaio della finestra era aperto e, mentre stavano senza parlare, il suono di un liuto tremolò verso l'alto dalla corte sottostante, e la voce di un uomo, dolce e profonda, cantò questa canzone: Corna al toro, Zoccoli ai destrieri, Alle piccole gazzelle Per correre piedi leggeri, E ai leoni diede zanne Spalancate a divorare. Ai pesci il nuoto, Ed agli uccelli il volare, Agli uomini il giudizio Ed a ragionare, Lei insegnò. Eppure, al genere umano Non ha niente di ciò da dare.
Per le donne la bellezza Lei proclama Come loro unico scudo Come loro unica lama. E trionfano sul fuoco e sulla spada, Ma solo bellezza possono portare. Lady Sriva sapeva che era Laxus che stava cantando sotto la finestra della sua camera. Il sangue le pulsava violentemente, e lo spirito d'avventura faceva volare la sua immaginazione non verso di lui, e neppure verso Corinius, ma lungo viali stranamente e pericolosamente allettanti, che non aveva mai sognato prima. Il Duca suo padre le si avvicinò, scostando le sedie dal suo cammino, e disse: «Corund ed il suo crocchio di figli! Corund e la sua giovane Regina! Se lui congiura con la rosa rossa, perché non dovremmo farlo tu e io con la bianca? È così bella a vedersi, che il Diavolo mi danni! E fragrante come un dolce profumo!» Lei lo fissò con gli occhi spalancati, e le guance imporporate. Lui le prese le mani nelle sue. «È possibile che questa straniera,» disse, «e il suo pallido cavaliere debbano ottenere gloria a nostro danno? Le barbe lunghe, sia pure bianche ο nere, sono un difetto troppo grande per i nostri occhi, mi pare. È insopportabile che proprio questa donna, coi suoi modi forestieri... Hai paura di scendere in campo contro lei?» Sriva gli appoggiò la fronte sulla spalla e disse, con voce appena udibile: «Se è necessario, sono pronta.» «Dev'essere adesso,» disse Corsus. «Mi hai detto che Prezmyra chiederà udienza domani mattina presto. Le donne danno il loro meglio di notte.» «Se Laxus potesse sentirti!», esclamò Sriva. «Ohibò, non potrà fartene una colpa, anche se venisse a saperlo, ed è una cosa che potremo sempre risolvere. La tua sciocca madre poco fa blaterava sull'onore. Ma è soltanto una bella parola e, se avesse un senso, dimmi tu da dove sgorga la fonte dell'onore se non dal Re dei Re. Se lui ti riceverà, allora sarai onorata, e con te tutti coloro che ti sono legati. Devo ancora imparare che sia disonorato colui ο colei che il Re onora.» Lei scoppiò a ridere, voltandosi verso la finestra, con le mani ancora nelle sue. «Puah, mi hai dato una pozione potentissima! E penso che essa, padre mio, mi abbia convinto più delle tue argomentazioni che, a dire il vero,
non riesco neppure a ricordare, poiché non vi ho dato molto credito.» Il Duca Corsus le strinse una spalla. Il suo volto la sovrastava un poco, perché Sriva non era di alta statura. «Per gli Dei!», disse. «Quello della rosa rossa è un profumo ben più intenso di quella bianca per far ubriacare un uomo, anche se questo è un fiore più grande.» Ed aggiunse: «Perché no, se è un gioco, uno scherzo un po' folle? Un mantello ed un cappuccio... una maschera se vuoi, ed il mio anello che provi che sei mia ambasciatrice. Ti aspetterò nel cortile, ai piedi della scalinata.» Lei non disse nulla, e gli sorrise mentre si allontanava per avvolgere le spalle nel grande mantello di velluto. «Ah,» disse Corsus, «è proprio vero che una figlia femmina vale più di dieci figli maschi!» Nel frattempo, Re Gorice sedeva nella sua camera privata, e stava scrivendo su una pergamena stesa davanti a lui sul tavolo di antigorite. (1) Una lampada d'argento ardeva accanto al suo gomito sinistro. La finestra era aperta alla notte. Il Re aveva appoggiato accanto a sé la corona, che scintillava oscuramente nell'ombra al di sotto della lampada. Depose la penna e lesse di nuovo ciò che aveva scritto: Da Me, Gorice Dodicesimo, Grande Re di Wychland, di Impland, di Demonland e di tutti i regni sui quali il sole proietta i suoi raggi, a Corsus, Mio servo. Questo messaggio per ordinarti di preparare con tutta la celerità possibile una forza adeguata di uomini e navi per Demonland, affinché quella gentaglia indocile e traditrice che vi abita assaggi la mia punizione. Ti ordino, in qualità di mio Generale laggiù, di invadere la suddetta regione e di saccheggiare, distruggere e spopolare con ogni cura quella terra, uccidendo, torturando e sopprimendo secondo il tuo giudizio tutti coloro che cadranno nelle tue mani, ed in particolare abbattendo e distruggendo tutte le loro fortezze, le cittadelle ed i castelli, come Galinge, Dreppabie, Crothryng, ed altri. Questa missione è una delle più grandi che siano mai state fatte per annientare Demonland e tagliare una volta per tutte quelle teste che potrebbero danneggiarci... Tu devi capire che, senza le esperienze straordinarie che hai accumulato, non ti avrei affidato un incarico così importante, e in special modo in un momento come questo. E, poiché tutte le grandi imprese devono essere portate avanti con rapidità e risolutezza, questa dovrà essere eseguita e portata a termine non più in là del prossimo raccolto. Per cui è mia volontà che tu, Corsus, ordi-
ni all'istante di preparare navi, marinai, soldati, cavalieri, ufficiali, e persone con particolari incarichi, armi, munizioni, e tutte le altre cose ritenute necessarie per le armate che debbono essere messe assieme per la suddetta impresa: per la qual cosa, questa missiva basterà come mandato di mia mano. Stesa sotto il mio Sigillo di Ouroborus nel mio Palazzo di Carce il XXX giorno di maggio, VII giorno del mio anno II. Il Re prese la cera e una candela dal grande calamaio d'oro sullo scrittoio, e sigillò il mandato con la testa di rubino del Serpente Ouroborus, dicendo: «Il rubino: confortante per il cuore, il cervello, il vigore e la memoria dell'uomo. Così si conferma.» In quell'istante, quando la cera era ancora morbida dopo che il marchio del Re aveva sigillato l'ordine per Corsus, qualcuno bussò gentilmente alla porta della camera. Il re ordinò di entrare. Era il Capitano delle Guardie che gli si fermò davanti, dicendo che fuori c'era una persona in attesa che chiedeva di ottenere subito udienza, «E mi ha mostrato un simbolo, Ο Re mio Signore, una testa di toro con froge fiammeggianti scolpita in opale nero nel castone di un anello, che ho riconosciuto come il Sigillo di Lord Corsus che Sua Signoria porta sempre al pollice sinistro. È stato solo questo a persuadermi a riferire alla tua Maestà un tal messaggio in un'ora così inopportuna. Se ho sbagliato, spero umilmente che la tua Maestà voglia perdonarmi.» «Conosci quell'uomo?», chiese il Re. «Non avrei potuto riconoscerlo, augusto Signore, a causa della maschera e del grande mantello col cappuccio che indossa. È di corporatura piccola, e parla con un rauco sussurro.» «Fallo passare!», disse Re Gorice; e, quando Sriva fu entrata, mascherata ed incappucciata, ed ebbe mostrato l'anello, lui disse: «Il tuo aspetto invita alla conversazione, (2) anche se è stato questo simbolo ad aprirti la strada. Togliti quella bardatura e fatti riconoscere.» Ma lei, parlando ancora con un sussurro rauco, gli chiese di restare sola con lui prima di rivelarsi. Allora il Re ordinò al Capitano di lasciarli soli. «Augusto Signore,» disse il soldato, «vuoi che rimanga davanti alla porta?» «No,» disse il Re. «Fa sgombrare l'anticamera, sistema le Guardie, e fa che nessuno mi disturbi.» Ed a Sriva disse: «Se il tuo incarico non si rivelerà più rispettabile del tuo aspetto, questa sarà una notte infausta per te. Col semplice cenno di un dito sono in grado di trasformarti in una man-
dragora. Se già non lo sei...» Quando furono soli, Lady Sriva si tolse la maschera e tirò indietro il cappuccio, scoprendo la testa che era incoronata da due pesanti trecce dei suoi capelli color castano scuro legate ed intrecciate sopra la fronte e le orecchie e fissate con spilloni d'argento, le cui capocchie erano costituite da granati del colore dei carboni ardenti. Il Re la osservò dall'ombra della sua fronte, foscamente, senza che il movimento di un sopracciglio ο di una linea del suo volto magro, tradissero ciò che stava passando nella sua mente dopo quella rivelazione. La donna tremò e disse: «O Re mio Signore, spero che tu sia indulgente e mi perdoni questa violazione. Sono stupita dell'audacia che mi ha spinto a venire da te.» Con un gesto della mano, il Re la invitò a sedersi su una sedia alla sua destra, accanto al tavolo. «Non devi aver paura, Signora,» disse. «Se ti ho lasciata entrare, vuol dire che sei la benvenuta. Dimmi qual è la tua missione.» Il fuoco del vino di suo padre vacillava dentro di lei come una fiamma bassa in un soffio di vento mentre stava là, sola, seduta vicino a Re Gorice XII nel cerchio della luce della lampada. Trasse un profondo respiro per calmare i palpiti del cuore e disse: «O Re, avevo paura di venire per rivolgerti una preghiera: una piccola cosa per te, Signore, ma una grande cosa per me che sono l'ultima delle tue serve. Però, adesso che sono qui, non oso fartela.» Lo scintillio degli occhi del Re da quelle pozze di tenebra la sgomentò; e poco conforto ricevette dalla corona di ferro che si trovava accanto al gomito di lui, splendente di gemme con quelle chele sollevate, ο dai serpenti di rame allacciati che costituivano i braccioli della sua sedia, ο dall'immagine vivida della lampada riflessa sulla superficie del tavolo dove delle strisce rosse come sangue e nere come fili di spada, striavano la superficie verde e luccicante della pietra. Eppure Sriva ebbe il coraggio di dire: «Se io fossi un grande Signore che ha reso alla tua Maestà dei servigi come quelli che ha reso mio padre, ο come quelli resi dagli altri ai quali hai conferito onori questa notte, sarebbe stato diverso.» Lui non disse nulla, e allora, raccogliendo il suo coraggio, Sriva proseguì: «Anch'io vorrei servirti, Ο Re. E sono venuta per chiederti come.» Il Re sorrise. «Ti sono molto obbligato, Signora. Continua a fare ciò che hai fatto finora, e sarò contento. Fa festa e sii allegra, e non riempirti la te-
sta con questi interrogativi di mezzanotte, altrimenti queste eccessive preoccupazioni, ti faranno dimagrire.» «Dimagrire? Giudica tu!» Così dicendo, Lady Sriva si alzò e rimase davanti a lui nella luce della lampada. Lentamente allargò ed alzò le braccia, sollevandosi dalle spalle il mantello di velluto, finché le pieghe del mantello scuro non pendettero da entrambe le mani sollevate come le ali di un uccello spiegate per involarsi. Le spalle nude, le braccia, la gola ed il suo seno erano di uno splendore abbagliante. Un grosso zaffiro, appeso ad una catena d'oro che portava al collo, era adagiato nell'incavo fra i due seni. Splendeva e si oscurava con l'alterno sollevarsi e abbassarsi del suo respiro. «Poco fa Signore, mi hai minacciata» disse, «di trasformarmi in una mandragora. Potresti trasformarmi in un uomo?» Nell'oscurità lei non riuscì a leggere nulla dei suoi lineamenti, con quelle labbra ferree e gli occhi che erano fuochi pulsanti dentro delle cavità buie. «Così, Signore, potrei servirti meglio di quanto possa farlo la mia scarsa bellezza. Se fossi un uomo, sarei venuto da te questa notte e ti avrei detto: Ό Re, non possiamo continuare a tollerare quel cane di Juss. Dammi una spada, ed io annienterò Demonland per te e li calpesterò tutti.'» Poi Sriva ricadde lentamente sulla sedia, e lasciò che il mantello di velluto le ricoprisse la schiena. Il Re fece scorrere pensierosamente le dita lungo le chele della corona che stava accanto a lui sul tavolo. «È questa la preghiera che mi rivolgi?», disse alla fine. «Una spedizione a Demonland!» Sriva rispose di sì. «Devono salpare stanotte?», chiese il Re, fissandola ancora. Lei sorrise scioccamente. «Vorrei solo sapere,» disse il Re, «quale irresistibile impulso ti ha spinto a venire qui così stranamente ed improvvisamente, dopo la mezzanotte.» La donna restò in silenzio per un minuto poi, raccogliendo il coraggio: «Temevo che un altro potesse venire da te per primo, Ο Re», rispose. «Credimi: so che qualcuno ci sta pensando, e che verrà da te domattina a chiederti questa cosa a nome di un altro. Sono certa che le informazioni che ho sono vere.» «Un altro?», disse il Re. «Signore,» rispose Sriva, «non farò nomi. Ma ci sono alcuni che, da supplici sdolcinati ma pericolosi, affidano probabilmente le loro speranze a corde diverse da quelle che possiamo suonare noi.»
Aveva chinato la testa sulla tavola levigata, e stava curiosamente guardando nelle sue profondità. Il suo corpetto ed il vestito di broccato (3) scarlatto erano come il calice, e le sue braccia e le spalle candide come i petali di un grande fiore. Alla fine alzò la testa. «Tu sorridi, mia Lady Sriva!», disse il Re. «Sorrido per un mio pensiero,» disse lei. «Riderai nel sentirlo, mio Signore, poiché è ben diverso da ciò di cui abbiamo parlato. Ma si sa, dei pensieri di una donna non si può essere più certi né ci si può fidare più di una banderuola che gira secondo il vento.» «Lasciami sentire,» disse il Re, chinandosi in avanti, la mano scarna e pelosa gettata pigramente oltre il bordo del tavolo. «Il motivo era questo, Signore,» disse Sriva. «Mi è venuto in mente all'improvviso quello che disse Lady Prezmyra quando andò in sposa a Corund e venne a vivere per la prima volta qui a Carce. Ella disse che tutta la parte destra del suo corpo era di Witchland, ma che la parte sinistra era di Pixyland. Al che, la nostra gente che si trovava là, si rallegrò del fatto che lei avesse concesso la parte destra del suo corpo a Witchland. Ma Prezmyra fece notare che il suo cuore era nella parte sinistra.» «E tu dove hai il tuo?», chiese il Re. Sriva non osava guardarlo, e così non vide la luce divertita che gli attraversava come un lampo estivo il volto in ombra mentre lei pronunciava il nome di Prezmyra. La mano di lui era scesa dal bordo del tavolo; Sriva sentì che le toccava il ginocchio. Tremò come una vela gonfia abbandonata improvvisamente, per un attimo, dal vento. Restò seduto immobile, dicendo a bassa voce: «C'è una parola, mio Signore e, se la pronunci, la mia risposta ti giungerà come un raggio di luce.» Ma lui si sporse ancora di più verso di lei, dicendo: «Credi che io voglia mercanteggiare con te? Saprò la risposta prima che torni la luce.» «Signore,» sussurrò lei, «non sarei venuta da te nel profondo della notte se non avessi saputo che sei un Re grande e nobile, e non un libertino che mi tratta con falsità.» Il corpo di Sriva profumava di essenze, di un caldo aroma delicato che faceva vacillare i sensi; era la fragranza del malabathrum macerato nel vino, e le essenze di gigli color zolfo piantati nel giardino di Afrodite. Il Re la attirò a sé, e lei gii circondò il collo con le braccia, dicendogli nell'orecchio: «Signore, non riuscirò a dormire finché non mi dirai che partiranno, con Corsus come Comandante.» Il Re la sollevò, la strinse fra le braccia come una bambina, e la baciò
sulla bocca, lungamente. Poi balzò in piedi, la mise giù come una bambola sul tavolo davanti a lui, vicino alla lampada, si risedette sulla sedia e la guardò con un sorriso strano ed inquietante. Ad un tratto, la sua fronte si oscurò e, avvicinando la sua faccia a quella di lei, con la folta barba nera e ben curata che si protendeva al di sotto della curva del suo labbro superiore rasato: «Ragazza,» disse, «chi ti ha mandata qui da me?» Ruotò gli occhi su di lei con uno sguardo talmente da Gorgone che il sangue di Sriva defluì con un gran balzo verso il cuore, ed allora lei rispose, con voce appena udibile: «In verità, Ο Re, è stato mio padre a mandarmi.» «Era ubriaco quando ti ha mandata?», chiese il Re. «Per la verità, Signore, credo di sì.» «Quel calice col quale si è ubriacato gli farà apprezzare ed amare la sua vita. Se fosse stato sobrio, non avrebbe mai pensato di poter comprare i miei favori con una cortigiana; (4) ma, per l'anima mia, da ubriaco ha cercato di farlo, e questo gli costerà la vita!» Sriva cominciò a piangere, dicendo: «O Re, ti imploro di perdonarlo.» Ma il Re si mise a percorrere la stanza come un leone in cerca di preda. «Temeva che nominassi Corund al suo posto?», disse. «Questo sarebbe stato un modo infallibile per spingermi a farlo, se davvero i suoi intrighi potessero spingermi in qualche maniera. Digli di venire da me con la sua bocca se spera di ottenere da me dei vantaggi. In caso contrario, che vada via da Carce ed eviti di farsi vedere. Che tutti i padroni dell'Inferno se lo portino!» Il Re si fermò alla fine accanto a Sriva, che stava ancora seduta sul tavolo, manifestando una sorta di dolcezza nelle lacrime, e singhiozzando in maniera da suscitare compassione, con la faccia nascosta fra le mani. Per un po' rimase fermo a guardarla, poi la fece scendere dal tavolo e, mentre sedeva sulla sua sedia imponente, tenendola sulle ginocchia con una mano, con l'altra le scostò gentilmente le mani dal viso. «Vieni,» disse, «non do a te la colpa. Smettila di piangere, e prendi quella pergamena sul tavolo.» Lei si girò nelle sue braccia e si protese per prendere la pergamena. «Conosci il mio Sigillo?», disse il Re. Lei annuì: «Sì.» «Leggi!», ordinò Re Gorice, lasciandola, e Sriva si avvicinò alla lampada. Il Re era alle sue spalle. La strinse sotto le braccia, chinandosi per sus-
surrarle nell'orecchio: «Vedi? Avevo già scelto il mio Generale. Ho voluto che tu lo sapessi, perché non ho intenzione di lasciarti andare prima di mattina; e non avrei sopportato che tu pensassi che la tua avvenenza, quantunque mi sia molto gradita, abbia una tale malia da influenzare le mie decisioni politiche.» Lei appoggiò la schiena al suo petto, debole e sfinita, mentre lui le baciava il collo, gli occhi e la gola; poi le labbra di Sriva incontrarono le sue in un lungo bacio voluttuoso. Le mani del Re su di lei erano come carboni ardenti. Pensando a Corinius, fumante di rabbia davanti ad una porta aperta e ad una camera vuota, Lady Sriva si rallegrò. XVII. IL RE LANCIA IL SUO FALCO Come Lady Prezmyra venne dal Re per una missione di stato, e cosa ottenne. Si vede anche perché il Re mandasse il Duca Corsus a Demonland; e come, il quindicesimo giorno di Luglio, i Signori Corsus, Laxus, Gro, e Gallandus, salparono con una flotta da Tenemos. Al mattino, Lady Prezmyra venne per chiedere udienza al Re e, quando fu ammessa nella sua camera privata, si fermò davanti a lui in tutta la sua bellezza ed il suo splendore, dicendo: «Signore, sono venuta per ringraziarti, dal momento che non mi sembrava appropriato farlo la notte scorsa nella sala dei banchetti. Certo, non è un compito facile poiché, se ti ringraziassi come vorrei, potrei apparire troppo immemore dei meriti di Corund che ha conquistato questo regno: ma, se parlo troppo di questo, mi sembrerà di sminuire la tua generosità, l'ingratitudine è un difetto che aborro.» «Signora,» disse il Re, «non è necessario che tu mi ringrazi. E, per le mie orecchie, le grandi imprese hanno le loro trombe.» Lei gli parlò delle lettere di Corund ricevute da Impland. «Si sa, Signore,» disse, «che in questi giorni stai sottomettendo tutti i popoli, e creando nuovi Re vassalli da aggiungere alla tua magnifica Corte di Carce. Ο Re, fino a quando la malerba di Demonland continuerà ad oltraggiarci ed a restare impunita?» Il Re non le rispose. Solo, il suo labbro mostrò uno scintillio di denti,
come di una tigre disturbata durante il pasto. Ma Prezmyra proseguì con grande vigore: «Signore, non essere in collera con me. Mi pare che sia naturale per un fedele servitore, onorato dal suo padrone, cercare di rendergli nuovi servigi. E dove potrebbe esserti più utile Corund se non a occidente, al di là del mare, alla guida di una flotta con il compito di distruggere i Demoni, prima che la loro grandezza risorga di nuovo dal colpo che hai loro inferto a maggio dell'anno passato?» «Signora,» disse il Re, «di questo devo preoccuparmi io. Quando avrò bisogno del tuo consiglio, te lo dirò, ma non è adesso.» E, alzandosi come per porre fine alla questione, disse: «Ho intenzione di dedicarmi al mio passatempo preferito oggi. Mi hanno detto che possiedi un falcone addestrato a librarsi (1) così bene da superare anche il migliore di quelli di Corinius. È una giornata mite: vuoi portarlo fuori quest'oggi e mostrarci come caccia (2) l'airone?» «Con gioia, Ο Re!», rispose Prezmyra. «Ma ti supplico di aggiungere alla tua naturale benevolenza anche il favore di ascoltare da me un'ultima parola. Qualcosa mi dice che tu hai già deciso per questa impresa, e il tuo desiderio di sbarazzarti di me mi fa temere che la tua Maestà non intende affidare a Corund l'incarico, ma a qualcun altro.» Fosco e immobile come la sua fortezza di fronte alla luce del mattino, Re Gorice rimase a fissarla. I raggi del sole, entrando a fiotti attraverso la finestra orientale, accendevano fulgori rosso-dorati nelle pesanti crocchie dei capelli della donna, e rifluivano in nugoli abbaglianti dai diamanti legati fra le crocchie. Dopo un po' disse: «Supponi che io sia un giardiniere. Non vado a chiedere consigli ad una farfalla. Faccio in modo che essa si rallegri dei cespugli di rose e della borraccina rossa; e, se le manca qualcosa, le do tutto ciò che vuole, come do a te feste mascherate, banchetti e divertimenti qui a Carce. Ma la guerra e la politica non sono per le donne.» «Hai dimenticato,» disse Lady Prezmyra, «che sono ambasciatrice di Corund.» Poi, vedendo scendere il buio sul volto del Re, disse in fretta: «Ma non in tutto: voglio essere chiara come il giorno per te. Egli raccomanda fortemente questa spedizione, ma non con lui a guidarla.» Il Re la guardò, torvo. «Sono lieto di sentirlo,» disse. Quindi, con la fronte che gli si schiariva: «Sappi a tuo beneficio, Signora, che l'ordine è già stato dato. Prima che tornino le notti invernali, Demonland sarà il mio posapiedi. Per cui puoi scrivere al tuo Signore che ho anticipato il suo desiderio.» Gli occhi di Prezmyra danzarono, trionfanti. «O che giorno felice!», gri-
dò. «Anche il mio, Ο Re?» «Se il tuo è il suo...», disse il Re. «Ah,» disse lei «tu sai che il mio lo supera.» «Allora addestra il tuo, Signora,» disse il Re, «a correre coi finimenti. Perché credi che io abbia mandato Corund ad Impland, se non perché sapevo che aveva l'intelligenza ed il coraggio per governare un grande regno? Credevi che fossi un bambino ostinato che gli togliesse Impland quando era ancora un regno tutto da sistemare?» Quindi, congedandola con maggiore gentilezza: «Allora ci vedremo, Signora, la terza ora prima di mezzogiorno,» disse, e batté su un gong per convocare il Capitano delle Guardie. «Soldato,» disse, «accompagna la Regina di Impland. E va a dire al Duca Corsus di presentarsi subito da me.» La terza ora prima di mezzogiorno, Lord Gro incontrò Lady Prezmyra sulla porta del cortile interno. La donna indossava un abito da amazzone di mussola verde scuro ed una stretta gorgiera bordata di madreperla. «Vieni con noi, mio Signore?», chiese. «Ti sono obbligata. So che non ami questo genere di passatempo, eppure solo tu puoi salvarmi da Corinius. Da stamane mi sta assillando con strane gentilezze; anche se non so dire perché lo sta facendo.» «In questo,» disse Lord Gro, «come in cose più importanti, sono tuo servo, Regina. C'è ancora tempo, comunque. Il Re non sarà pronto che fra mezzora. L'ho lasciato in colloquio privato con Corsus, che sta preparando il suo esercito contro i Demoni. Hai sentito?» «Sono sorda,» disse Prezmyra, «se una campana sta risuonando per tutta Carce?» «Ohimè!», disse Gro. «Il fatto è che abbiamo vegliato troppo la scorsa notte, ed abbiamo indugiato troppo a letto stamattina!» «Non io,» rispose Prezmyra. «Ma sono in collera con me stessa per non averlo fatto.» «Come? Hai visto il Re prima del Consiglio?» Lei chinò la testa per dire sì. «E lui ti ha detto di no?» «Con infinita pazienza,» disse Prezmyra, «ma con la massima fermezza. Il mio Signore deve restare ad Impland finché Demonland sarà stata definitivamente sconfitta. E, se ci penso, mi pare una ragione plausibile.» «Non c'è dubbio, Signora,» disse Gro, «che tu l'abbia presa con quella
serena nobiltà e ragionevolezza che mi aspettavo da te.» Lei rise. «Otterrò parecchio, se Demonland sarà sottomessa. Nondimeno, suscita meraviglia che il Re abbia scelto per questo incarico un randello così rozzo, quando molte ottime spade erano pronte nella sua mano. Guarda che arsenale.» Fermi sull'ingresso, all'inizio della ripida discesa che conduceva al fiume, videro i Signori di Witchland che si erano riuniti al di là del ponte per andare a caccia col falco. Prezmyra disse: «Non è splendido, mio Lord Gro, abitare a Carce? Non è la cosa più splendida essere a Carce, che domina il mondo?» (3) Scesero, attraversarono il ponte e percorsero la Strada dei Re per raggiungere coloro che stavano in mezzo al prato sull'argine sinistro del Druima. Prezmyra disse a Laxus, che cavalcava un castrone nero con un folto pelame argenteo: «Vedo che oggi hai i tuoi astori, (4) mio Signore.» «Sì, Signora,» rispose Laxus. «Non esiste un falco più abile di questi. Inoltre sono tenacissimi ed irritabili, e devo tenerli isolati, per evitare che uccidano tutti gli altri.» Sriva, che era là vicino, allungò una mano per accarezzarli. «È vero,» disse, «amo molto i tuoi astori. Sono intrepidi e regali.» Poi scoppiò a ridere ed aggiunse: «Oggi il mio sguardo è davvero andato più in basso di un Re.» «Puoi guardare me, allora,» disse Laxus, «dal momento che non indosso la mia corona in questa circostanza.» «È per questo che non ti prenderò in considerazione,» rise lei. Laxus disse a Prezmyra: «Non vuoi elogiare i miei falchi, Regina?» «Li elogio con circospezione. Perché mi pare che essi si adattino più al tuo temperamento che al mio. Sono degli ottimi falchi per avventarsi sui cespugli, ma io sono per la caccia in volo.» Il suo figliastro Heming, dalle sopracciglia scure e lo sguardo cupo, rise fra sé, sapendo che lei stava facendo dell'ironia e si riferiva a Demonland. Nel frattempo Corinius, in groppa ad un grosso destriero bianco argenteo con le punte delle orecchie, la criniera, la coda, e le quattro zampe nere come carbone, raggiunse Lady Sriva e parlò con lei in disparte, dicendole sottovoce in modo che nessun altro potesse sentire: «La prossima volta non mi prenderai in giro: ti avrò quando e dove vorrò. Puoi ingannare il Diavolo con la tua perfidia, ma non me una seconda volta, piccola megera mentitrice!» «Orribile uomo,» rispose lei, piano, «ho tenuto fede alle condizioni del
mio patto, e ti ho lasciato la porta aperta la scorsa notte. Se non mi hai cercata, ciò non dipende da me. E sappi che, per questa ragione, cercherò qualcuno più grande di te, qualcuno più vicino ai miei gusti: uno meno pronto a baciare sulle labbra una qualsiasi sguattera. Conosco le tue abitudini, mio Signore, e le tue inclinazioni!» La faccia di lui divenne rossa. «Se questo fosse il mio costume, adesso mi correggerei. Sei un cucciolo della stessa figliata, così le sguattere per me sono detestabili quanto lo sei tu.» «Miao!» disse Sriva. «Che bel discorso spiritoso! Proprio alla maniera di un garzone di stalla, quale sei!» Corinius conficcò gli speroni nei fianchi del suo cavallo cosicché questo fece un salto, poi gridò e disse a Prezmyra: «Incomparabile Signora, ti mostrerò il mio nuovo cavallo, e vedrai che curve, che balzi, e che frenate riesce a eseguire nel pieno del galoppo più vivace!» Dopodiché, raggiuntala al trotto, fece compiere al cavallo una stretta curva su una zampa sola, si allontanò con un rapido ambio e poi, dopo alcune doppie curve, tornò al galoppo e si bloccò accanto a Prezmyra. «È splendido, mio Signore!», disse lei. «Ma non vorrei essere il tuo cavallo.» «Davvero, Signora?», gridò Corinius. «E perché?» «Perché, se io avessi la natura più paziente, forte e docile del mondo, e fossi vivace e abile nelle corvette e sgroppate (5), avrei comunque paura che alla fine mi cadesse la criniera, per tutti i tuoi irritanti colpi di sprone.» Al che, Lady Sriva scoppiò a ridere. In quel momento Re Gorice arrivò coi suoi austingeri (6) e falconieri, ed i cacciatori coi setter, gli spaniel ed i grossi e tenaci danesi al guinzaglio. Montava una giumenta nera con gli occhi rossi come il fuoco, così alta che la testa di un uomo di alta statura a malapena le arrivava al garrese. Portava un guanto di cuoio alla mano destra, sul cui polso era appollaiata un'aquila, incappucciata e immobile, che si teneva stretta con gli artigli. «Eccoci qui!», disse. «Corsus non viene con noi: l'ho mandato a cacciare qualcosa di ben più importante. I suoi figli lo assistono, senza perdere neanche un'ora nel preparare il viaggio. Gli altri si divertiranno in questa caccia.» Tutti acclamarono il Re, e si avviarono con lui verso est. Lady Sriva sussurrò nell'orecchio di Corinius: «La Magia, mio Signore, impera a Carce, ed è essa a determinare il fatto che nessuno può vedermi ο toccarmi fra la mezzanotte ed il canto del gallo, tranne colui che sarà Re di Demonland.»
Ma Corinius fece mostra di non sentirla, voltandosi verso Lady Prezmyra, che a sua volta si voltò verso Gro. Sriva scoppiò a ridere. Sembrava di umore gaio quel giorno, impaziente come il piccolo smeriglio (7) appollaiato sul suo pugno, e desiderosa di parlare con Re Gorice. Ma il Re non badava affatto a lei, e non le rivolgeva né uno sguardo né una parola. Così cavalcarono per un po', scherzando e discorrendo, in direzione della frontiera con Pixyland, stanando aironi lungo la strada; nella qual cosa nessuno fece meglio dei falconi di Prezmyra, che si lanciavano dal suo pugno a molte centinaia di passi mentre la preda s'involava, e salivano assieme ad essa fino alle nuvole in un volo a spirale, anello dopo anello, su e su finché il volatile diventava solo una macchia nel cielo, ed i falconi di Prezmyra due macchie più piccole sotto. Ma quando giunsero sulle alture, nella macchia e nel sottobosco, il Re, con un fischio, lanciò l'aquila dal suo pugno. Essa volò via come se non avesse dovuto mai più tornare indietro, ma subito, al suo grido, ritornò; quindi, librandosi, attese sopra la sua testa, finché i segugi non stanarono un lupo da un cespuglio. Dopodiché si avventò come un fulmine; il Re smontò di sella e l'aiutò col suo coltello da caccia; fu così ancora per tre ο quattro volte, finché non furono uccisi quattro lupi. Fu un gran divertimento. Il Re fece grandi feste alla sua aquila, regalandole le interiora ed il fegato delle prede perché si rimpinzasse. Poi l'affidò al suo Falconiere e disse: «Ora ci recheremo nelle Piane di Armany, perché voglio far volare la mia aquila selvaggia (8) che ho catturato nel mese di marzo sulle colline di Largos. Mi è costato molte ore di riposo notturno, tenerla sveglia, addestrarla, insegnarle a riconoscere il mio richiamo, e ad ubbidirmi. Adesso la scaglierò contro il grande cinghiale nero di Largos che ha tormentato i contadini dei dintorni durante questi ultimi due anni arrecando morte e distruzione. Assisteremo ad un grande scontro, se non sarà troppo riluttante e ribelle.» Così il Falconiere del Re portò l'aquila, ed il Re la prese sul suo pugno. Era un'aquila nera dal becco rosso, e magnifica a vedersi. I suoi geti erano di cuoio rosso con piccoli anelli d'argento sui quali era inciso il granchio di Witchland. Il suo cappuccio (9) era di cuoio rosso guarnito di nappine d'argento. All'inizio si staccava dal polso del Re, stridendo e battendo le ali, ma ben presto si calmò. Allora il Re spronò il cavallo, facendosi precedere dai suoi grossi segugi chiazzati, che avrebbero dovuto scovare il cinghiale; e tutti gli altri dietro.
In poco tempo stanarono il cinghiale, che si voltò - inferocito e con gli occhi rossi - verso i cani del Re, e li caricò dilaniando quello che era in testa e strappandogli i visceri. Il Re tolse il cappuccio alla sua aquila e la liberò dal pugno. Ma essa, selvaggia ed inferocita, non si avventò sul cinghiale, ma su un cane che lo tratteneva per un orecchio. Affondò i suoi artigli crudeli sul collo della povera bestia e gli strappò gli occhi prima che qualcuno potesse indirizzarle una maledizione. Gro, che si trovava vicino al Re, mormorò: «Non mi piace! È un segno infausto.» Ma il Re aveva spronato il cavallo, ed aveva infilzato il cinghiale con la lancia, conficcandogliela sopra e un po' dietro la spalla, cosicché la punta gli aveva trapassato il cuore, e quello era crollato a terra morendo nel proprio sangue. Allora il Re, adirato, colpì la sua aquila con l'impugnatura della lancia, ma il colpo fu lieve e sbilenco per cui essa volò via e si perse alla vista. Il Re era incollerito, nonostante il cinghiale fosse stato ucciso, a causa della perdita del suo segugio e della sua aquila, e dell'assurdo comportamento di quest'ultima. Così ordinò ai suoi cacciatori di scuoiare il cinghiale per portarne a casa la pelle come trofeo, e si mise in cammino per tornare a casa. Dopo un po', Re Gorice chiamò Lord Gro perché cavalcasse accanto a lui e non fosse a portata di voce degli altri. «Hai un'espressione scontenta...», gli disse. «È perché non ho mandato Corund a Demonland affinché coronasse degnamente il lavoro iniziato a Eshgrar Ogo? Hai anche farfugliato di presagi...» «O Re mio Signore,» rispose Gro, «perdona le mie paure. Per quanto riguarda i presagi, sovente è come dice il proverbio: "Quando lo sciocco pensa, la campana vacilla". Ho parlato in fretta. Chi può distogliere il Fato dal suo proposito? Ma, dal momento che hai fatto il nome di Corund...» «Ho fatto il suo nome,» disse il Re, «perché le orecchie mi ronzano ancora per tutte le chiacchiere delle donne. Delle quali non dubito tu sia al corrente.» «Solo nel senso,» rispose Gro, «che questo è il mio pensiero: lui è il nostro uomo migliore, ο Re!» «Forse è così,» disse il Re. «Ma avresti voluto che bloccassi il colpo a mezz'aria quando l'occasione bussava alla porta? Sono potente nelle Arti Magiche, lo sai, ma a malapena avrei potuto frenare le ali del tempo mentre richiamavo Corund da Impland e lo mandavo a ovest.»
Gro rimase impassibile. «Bene,» disse il Re, «voglio sentire qualcos'altro da te.» «Signore,» rispose l'altro, «non mi piace Corsus.» Il Re gli rivolse un'occhiata sarcastica. Gro rimase nuovamente impassibile per un po' ma, vedendo che il Re voleva ancora sentirlo parlare, disse: «Dal momento che la tua Maestà gradisce un mio consiglio, parlerò. Tu sai, Signore, che di tutti i tuoi uomini a Carce, Corinius è quello a cui sono meno amico e, se lo sostengo, non dovresti essere portato a pensare che sono spinto dall'interesse. A mio giudizio, se Corund è escluso da questo viaggio (com'è logico, ne convengo, egli deve restare ad Impland, sia per mietere vittorie laggiù e bloccare la strada a Juss ed a Brandoch Daha casomai tornino dal Moruna, sia perché il tempo, come hai giustamente detto, richiede una rapida azione), non hai niente di meglio di Corinius. Un soldato completo, esperto Capitano, giovane e risoluto, ed uno che, una volta intrapresa un'azione, non si rassegna finché non l'ha portata a compimento. Manda lui a Demonland!» «No,» disse il Re. «Non manderò Corinius. Non hai visto che i falchi, nel pieno rigoglio della loro bellezza e virtù, devono essere addomesticati prima di essere scagliati sulla preda? Lui è come loro, ed io lo addomesticherò con severità e durezza finché non sarò certo di lui. Inoltre, un anno fa - quando nell'ubriachezza tradì il mio segreto e sconvolse i nostri piani, mi portò alla rottura con Pixyland e fece liberare i miei prigionieri - gli giurai che Corund, Corsus e Laxus gli sarebbero stati preferiti finché lui, servendomi umilmente, non fosse riuscito a riconquistare i miei favori.» «Concedi allora la gloria a Corsus, ma affida a Corinius un incarico impegnativo. Mandalo come segretario di Corsus, e il tuo incarico sarà eseguito meglio.» Ma il Re disse: «No. Sei uno sciocco se pensi che accetterebbe. Essendo in disgrazia, non si umilierebbe, ma si mostrerebbe più orgoglioso di prima. E di certo non glielo chiederò, per concedergli la soddisfazione di rifiutare.» «Mio Signore,» disse Gro, «quando ti ho detto che Corsus non mi piace, mi hai deriso. Ma non è una semplice questione estetica che mi spinge a dirlo, quanto piuttosto il timore che lui si dimostrerà simile ad un abito scadente: rimpicciolirà nell'umidità e non supererà alcuna prova.» «Per le Corna di Satana!» esclamò il Re. «Che parlare da folle è questo? Hai dimenticato i Ghoul, dodici anni fa? È vero, tu non eri qui, ma dov'eri quando nel mondo si diffuse la notizia della loro disfatta, con Witchland
che si trovò come non mai in una posizione critica, e quando Corsus, più di qualsiasi altro, fu l'artefice della nostra salvezza? Ed anche in seguito, cinque anni dopo, quando fu lui a difendere Harquem contro Goldry Bluszco, costringendolo a togliere l'assedio ed a tornare ingloriosamente a casa, evitando in tal modo che tutta la costa di Sibrion fosse appannaggio (10) dei Demoni e non nostro.» Gro chinò la testa, non avendo nulla da dire. Il Re rimase silenzioso per un po', quindi scoprì i denti. «Se voglio bruciare la casa del mio nemico,» disse, «scelgo una buona fiaccola, impregnata di pece e resina, adatta a spargere fuoco e ad incendiare. Corsus è qualcosa del genere, fin da quando si recò a Goblinland dieci anni fa, in quella disastrosa spedizione che, se fossi stato io il Re, non avrei autorizzato: allora, Brandoch Daha lo fece prigioniero a Lormeron e lo trattò con perfidia, denudandolo del tutto, rasandolo completamente da un lato come una palla da tennis, tingendolo di giallo, e rispedendolo a casa con somma vergogna di Witchland. Che l'Inferno mi divori, ma sono convinto che metterà il cuore in questa impresa, e che sentirai grandi cose su Demonland quando tornerà.» Gro era ancora silenzioso, e il Re, dopo un po', disse: «Ritengo di averti fornito abbastanza motivazioni del perché ho mandato Corsus a Demonland. Ce n'è un'altra, che di per sé conta poco ma che, assieme al resto, fa pendere decisamente la bilancia, se non sei ancora convinto. Agli altri miei uomini ho affidato incarichi importanti e concesso grosse ricompense: a Corund, Impland ed una corona di Re, a Laxus, Pixyland e la medesima cosa, ed a te - fin da ora - Goblinland, perché questa è la mia volontà. Ma questo mio vecchio cane da caccia sta ancora nella sua cuccia con neppure un osso per tenere impegnati i denti. Non è giusto, e non sarà più così, dal momento che non ve n'è motivo.» «Signore,» disse Gro, «dal punto di vista delle argomentazioni e della saggezza delle previsioni, mi hai ampiamente convinto. Ma il mio cuore presagisce disgrazie. Stai cavalcando verso Galing con un cavallo che non ha una stella sulla fronte. C'è invece una nube sulla sua faccia; e ciò dimostra che è sfrenato, ostinato, maligno ed apportatore di sfortune.» Poi scesero e raggiunsero la Strada dei Re. Ad ovest, davanti a loro, c'erano le paludi, con la poderosa massa di Carce a otto ο dieci miglia di distanza come principale punto di riferimento, e le Torri di Tenemos che spezzavano la linea dell'orizzonte. Il Re, dopo un lungo silenzio, guardò Gro. Il suo volto scarno e dai lineamenti marcati si stagliava scuro contro il cielo, terribile e altero. «Anche
tu,» disse, «parteciperai a questa spedizione a Demonland. Laxus avrà il comando della Flotta, dal momento che l'acqua è il suo elemento naturale. Gallandus sarà il segretario di Corsus, e tu sarai loro consigliere. Ma il comando generale, come ho stabilito, sarà di Corsus. Non diminuirò la sua autorità, no: neanche di un capello. Poiché Juss ha messo la posta, giocherò d'azzardo con Corsus. Se farò un cattivo lancio con lui, l'Inferno lo farà marcire perché è un dado falso. Ma non è un tale lancio che annullerà la mia fortuna: ho un dado truccato nel mio borsellino che alla fine mi farà vincere tutto, anche se i Demoni cercheranno di barare.» Così finì quel giorno di divertimenti. E quel giorno, e il successivo, e per circa un mese, il Duca Corsus fu impegnatissimo a preparare il suo grande spiegamento di forze. Il quindici di luglio, la Flotta era pronta ed equipaggiata nella rada di Tenemos, ed un grande esercito di cinquemila soldati, con cavalli ed ogni tipo di arma da guerra, marciò dall'accampamento davanti a Carce fino al mare. In testa c'era Laxus con la sua Guardia costituita da marinai: portava la corona di Pixyland e le Guardie lo acclamavano a gran voce come Re, e Gorice come Signore Supremo. Era magnifico, agile e vigoroso, armato di tutto punto, con l'espressione franca e gli occhi limpidi da uomo di mare, ed i capelli e la barba bruni, crespi e ricciuti. Poi veniva il grosso della fanteria pesante, armato di ascia, lancia e del corto spadino tipico di Witchland, costituito da agricoltori e contadini provenienti dalle pianure intorno a Carce, ο dai vigneti del sud, ο dalle colline ai confini con Pixyland: erano tipi corpulenti e spacconi, rudi come orsi, vigorosi come buoi selvatici, agili come scimmie. Si trattava di quattromila soldati scelti da Corsus in lungo e in largo proprio per quella grande impresa. I figli di Corsus, Dekalajus e Gorius, cavalcavano fianco a fianco davanti a loro con venti musici che suonavano un inno di battaglia. Di certo, lo scalpiccio di quell'armata sulla strada pavimentata era come lo scalpiccio del Fato che arrivava da est. Re Gorice, seduto solennemente sui bastioni sovrastanti la porta principale, soffiava dalle narici come un leone al sentore del sangue. Era prima mattina, il vento spirava da sud, e le grandi bandiere, blu, verdi, porpora e oro, ognuna con un granchio di ferro visibile sopra, garrivano nel sole. Poi venivano quattro ο cinque compagnie a cavallo - quattrocento ο cinquecento uomini in tutto - con armature di ottone, scudi e lance scintillanti; e, da ultimo, Corsus con la sua legione di cinquecento picchieri veterani
che formavano la retroguardia, fieri soldati della costa che lo avevano seguito un tempo fino alle Terre Orientali ed a Goblinland, ed erano stati al suo fianco nei giorni gloriosi in cui aveva sconfitto i Ghoul a Witchland. A sinistra ed a destra di Corsus, leggermente dietro di lui, cavalcavano Gro e Gallandus. Quest'ultimo aveva il viso rubicondo, l'espressione allegra e l'aspetto attraente, gli arti lunghi, i baffi folti e castani, e occhi grandi e mansueti come quelli di un cane. Prezmyra stava accanto al Re, e con lei erano Zenambria e Sriva, che guardavano la lunga colonna in marcia verso il mare: Heming, il figlio di Corund, stava appoggiato ai merli. Dietro di lui Corinius, con la bocca sprezzante e le braccia incrociate, magnifico nei suoi abiti da cerimonia con una ghirlanda di belladonna intorno alla fronte, indossava sul torace possente l'insegna d'oro di Capitano Generale del Re a Carce. Corsus, mentre cavalcava sotto di loro, collocò sulla punta della spada il suo grande elmo di bronzo adorno di piume di struzzo verdi e lo sollevò in alto sopra la testa in segno di omaggio al Re. Le sue sparse ciocche di capelli grigi si agitarono nella brezza, e l'orgoglio gli fiammeggiò sul viso come un tramonto novembrino. Montava un baio scuro, che aveva la stazza di un orso ed incedeva con pesantezza perché gravato del peso del suo cavaliere e del fardello dell'equipaggiamento e dei finimenti da battaglia. I veterani che marciavano alle sue calcagna sollevarono gli elmi sulle lance, le spade e le alabarde, cantando la loro vecchia canzone al ritmo del clangore dei piedi calzati di maglia di ferro che marciavano lungo la Strada dei Re: Quando Corsus stava a Tenemos, Vicino al mare di Tenemos, Tirra lirra lo, I Gulli vennero a Tenemos, E bruciarono la sua casa a Tenemos, Brutto giorno che passò. Ma strappò Corsus ai Gulli Quella carne puzzolente Prima di mangiarseli, Fece giarrettiere coi loro budelli. Quando tornò a casa a Tenemos, Tornò di nuovo a casa a Tenemos,
Con un rondò. Il Re sollevò il suo scettro, ricambiando il saluto di Corsus, e tutta Carce acclamò dalle mura. Così Lord Corsus raggiunse le navi con la sua grande armata che avrebbe dovuto arrecare calamità e sventure a Demonland. XVIII. CORSUS UCCIDE GALLANDUS Dell'inizio della guerra scatenata da Re Gorice XII in Demonland; in cui si vede come in un vecchio soldato l'arroganza e la tirannia possono soffocare la buona attitudine al comando, e come il disappunto di un grande Re dura solo fintantoché si confà alla sua politica. Non accadde nulla di notevole dopo la partenza della flotta da Tenemos, finché agosto non fu quasi del tutto trascorso. Allora giunse da ovest una nave di Witchland che risalì il fiume fino a Carce ed ormeggiò nei pressi della porta principale. Il suo Comandante, sceso a terra, salì nel Palazzo Reale di Carce e nella nuova sala dei banchetti, dove Re Gorice XII mangiava e beveva con la sua Corte, e consegnò una lettera nelle mani del Re. Era scesa la notte, e tutte le luci erano state accese nella sala. Il banchetto stava per concludersi, ed i servi versarono al Re ed a coloro che stavano mangiando con lui, de! vino rosso che segnava la fine del pasto. Misero poi davanti ai convitati dei dolciumi di straordinaria bellezza: tori, maiali, grifoni ed altri animali, tutti di zucchero, alcuni con un rubinetto nell'addome dal quale si poteva gustare del succo fermentato di frutta. Ogni convitato aveva la sua forchetta d'argento. La notte, nella grande sala di Carce, era allegra e piacevole, ma adesso tutti zittirono, osservando il viso del Re mentre leggeva la lettera. Nessuno, tuttavia, riuscì a capire cosa pensasse il sovrano, che era impenetrabile come le alte mura cieche di Carce che sovrastavano la palude. Così in quel silenzio d'attesa, seduto sul suo alto scranno, egli lesse la lettera, che era di Corsus e diceva: «Sommo Re, altissimo Principe e Lord, Gorice XII di Witchland e De-
monland, e di tutti i reami sui quali il sole spande i suoi raggi, il tuo servo Corsus si prosterna davanti alla tua grandezza, ed al cospetto del mondo. Gli Dei concedano a te, nobilissimo Signore, molti anni di salute, vita e prosperità. Dopo aver ricevuto i tuoi ordini ed essermi congedato dalla tua Maestà, che ha voluto, nella sua regale generosità, affidare a me il comando di tutte le forze inviate contro Demonland, ti farà piacere sapere che ho condotto con celerità la mia armata, le armi, le munizioni, i viveri ed altri rifornimenti, come concordato, verso quelle zone di Demonland che costeggiano il Mare Orientale. Qui, con ventisette navi e la maggior parte dei miei uomini, nel risalire l'Estuario del Micklefirth, c'imbattemmo, al largo del porto di Lookinghaven, in dieci ο undici navi dei Demoni in navigazione, al cui comando c'era Volle, ed in breve le affondammo tutte senza eccezioni, ed uccidemmo la maggior parte degli uomini che erano a bordo con lui. «Devo anche comunicarti, ο Re mio Signore che, prima di approdare, divisi la mia armata in due contingenti, e mandai Gallandus con tredici navi a nord per sbarcare con millecinquecento uomini a Eccanois, con l'ordine di salire sulle colline di Celialonde e bloccare il passo chiamato Stile in modo che nessuno potesse giungere da ovest; infatti, chiunque si trovi in una simile posizione vantaggiosa, se non è un somaro, può opporsi efficacemente ad un gran numero di avversari. «Così, essendomi liberato di Volle, e poiché, secondo le mie speranze ed i miei informatori, la sua intera flotta era stata affondata e distrutta - ed il compito era stato davvero semplice e rapido dal momento che erano pochi rispetto a noi - scesi a terra nel luogo chiamato Grunda a nord dell'estuario, dove l'acqua del Brekingdal precipita nel mare. Là feci erigere l'accampamento le cui fortificazioni si estendono fino alla riva del mare davanti e dietro di me, feci portare dentro i rifornimenti, e mandai fuori dei cavalieri in cerca di notizie. Il quarto giorno seppi di un grosso esercito che stava arrivando da sud, da Owlswick, per assalirmi a Grunda. Erano quattro ο cinquemila uomini, e riuscii a respingerli. Il giorno dopo, seguii quelli che si stavano ritirando verso Owlswick, e li costrinsi ad affrontarmi in un luogo chiamato Crosby Outsikes dove si erano fermati per bloccare i guadi ed i transiti sul fiume Ethery. Là ci fu una grande e sanguinosa battaglia dove il tuo servitore respinse e sconfisse con grande perizia quei Demoni, facendone un massacro quale
mai si era visto prima a memoria d'uomo, e ti comunico con gioia che Vizz, il loro Comandante, è stato ucciso ed è morto per le ferite ricevute sul campo di battaglia di Crosby. «Adesso, grazie a questa vittoria, ho alla mia portata la conquista ed il possesso di tutta la terra di Demonland, e mi propongo di infliggere a tutti i castelli, i villaggi, le fattorie e la gente che incontrerò sul mio cammino su questa costa estrema, nel raggio di cinquanta miglia, gli stupri, gli omicidi, gli incendi e la ferrea disciplina che la tua Maestà desidera. Ora sono fermo con la mia armata davanti ad Owlswick, il grande e famoso castello di Spitfire, quella fortezza maledetta che sola sopravvive nella terra dei nostri acerrimi e malefici nemici, e poiché lo stesso Spitfire è fuggito sulle montagne al mio arrivo, ho sottomesso tutti riducendoli a tuoi vassalli. Ma, quando non potrò concludere alcun accordo di pace, ucciderò uomini, donne e bambini, poiché ho sempre nella mente la soddisfazione del tuo regale piacere. «Per non dilungarmi troppo, evito di parlarti dei molti curiosi e notevoli accadimenti ed osservazioni che tuttavia terrò in mente per riferirti al mio ritorno ο in qualche ulteriore missiva. Laxus, che porta il titolo di Re, si gonfia d'orgoglio nel sostenere di aver vinto lui la battaglia navale, ma io dimostrerò alla tua Maestà il contrario. Gro ha seguito le battaglie come gli ha consentito il suo gracile corpo. A proposito di Gallandus, devo dire che si è spesso intromesso, consigliandomi di fare questo e quest'altro, cosa che non ho mai fatto. Inoltre, nella sua maniera irrispettosa, si è spesso servito di me, cosa che finora ho sopportato, ma che non sopporterò più. Se continuerà a calunniarmi con ogni mezzo, ti prego di farmelo sapere, Signore, sebbene mi disgusti avere a che fare con lui e con gente della sua risma. In riconoscimento dei grandi favori che mi hai concesso, bacio la mano della tua Maestà. «Con somma umiltà e venerazione al Re mio Signore, sotto il mio Sigillo, Corsus.» Il Re ripose la pergamena. «Portatemi la coppa di Corsus,» ordinò. Quando lo fecero, il Re disse: «Riempitela di vino thramniano. Lasciate cadere dentro la coppa uno smeraldo in segno di favore, ed augurategli saggezza e buona sorte nella vittoria.» Prezmyra, che aveva osservato il Re fino a quel momento come una ma-
dre osserva il suo bambino durante una crisi di febbre, si sollevò radiosa sul suo scranno e gridò: «Vittoria!» Tutti si misero ad urlare ed a battere sui tavoli finché le travi del tetto non tremarono per il grande clamore, mentre il Re beveva per primo e faceva girare la coppa affinché tutti potessero bere uno alla volta. Ma Re Gorice si sedette fra loro, fosco, come una falesia di serpentina (1) che si erge minacciosa sui marosi danzanti di una grande marea estiva. Quando le donne lasciarono la sala dei banchetti, Lady Prezmyra si recò dal Re e disse: «La tua fronte è troppo tetra, Signore, se consideri che queste notizie sono tutte buone al punto da illuminare dall'interno il tuo cuore e la tua mente.» Il Re rispose: «Signora, le notizie sono ottime. Ma ricorda che è arduo sollevare una coppa colma senza versarne nemmeno una goccia.» L'estate era trascorsa ed il racconto archiviato quando, il ventisettesimo giorno dopo gli avvenimenti descritti, giunse da ovest un'altra nave di Witchland, veleggiando sugli abissi brulicanti di vita. Avanzò spinta dai remi, sfruttando la marea montante, su per il Druima e attraverso il laghetto di Ergaspian, poi si ancorò sotto Carce un'ora prima dell'ora di cena. Era una serata limpida e tranquilla, e Re Gorice stava tornando al galoppo dalla caccia, nel momento in cui la nave attraccò nei pressi della porta principale. A bordo c'era Lord Gro, ed il suo volto, mentre scendeva dalla nave e si fermava per salutare il Re, aveva il colore della calce spenta (2). Il Re lo osservò attentamente poi, salutandolo con ostentata spontaneità ed allegria, lo condusse con sé nei suoi alloggi. Là gli fece bere un grosso boccale di vino rosso, e gli disse: «Sono tutto sudato ed infangato per la caccia. Vieni con me nei miei bagni e raccontami tutto mentre mi rinfresco prima di cena. I Principi sono in pericolo più di tutti gli altri uomini, se quegli uomini non osano informarli dei pericoli che corrono. Ma hai un aspetto orribile! Sappi che potresti riferirmi della completa disfatta della mia flotta e dell'esercito a Demonland, e questo non guasterebbe il mio stomaco al banchetto di stasera. Witchland non è povera al punto che io non possa ripianare tre ο quattro volte una simile perdita ed avere ancora del denaro nella mia borsa.» Così dicendo, il Re giunse con Gro nella sua grande sala dei bagni, le cui mura ed il pavimento erano di serpentina verde, con delfini scolpiti nella pietra che riversavano acqua nelle due vasche rivestite di marmo bianco e scavate nel pavimento, entrambe spaziose e profonde: il bagno a sinistra
era caldo, mentre quello freddo, molto più grande, si trovava a destra dell'ingresso nella camera. Il Re fece allontanare tutti i suoi servitori, e fece sedere Gro su una panca coperta di cuscini sopra la vasca del bagno caldo, invitandolo a bere dell'altro vino. Poi si tolse il giustacuore di cuoio, la calzamaglia e la camicia di bianca lana di Beshtria, e scese nella vasca fumante. Gro osservò con meraviglia le possenti membra di Re Gorice, magre eppure così forti a vedersi, come se fossero fatte di ferro; ed era straordinario come il Re, pur essendosi liberato delle vesti e degli ornamenti regali, ed essendosi immerso nudo nel bagno, sembrasse non aver perso nulla della regalità, della maestà e della soggezione che ispirava e che erano sue proprie. Così, quando si fu immerso per un po' nell'acqua vorticante del bagno, insaponato dalla testa ai piedi ed immerso di nuovo, il Re si distese voluttuosamente nell'acqua e disse a Gro: «Dimmi di Corsus e dei suoi figli, di Laxus e di Gallandus, e di tutti gli uomini che ho mandato ad ovest, al di là del mare, come parleresti di coloro la cui vita ο morte per noi rivestisse l'interesse di quella di uno scarabeo. Parla e non temere, senza omettere né nascondere nulla. Avrai ragione di temermi solo se tenterai di ingannarmi.» «O Re mio Signore,» disse Gro, «hai una lettera di Corsus, credo, nella quale egli ti parla del nostro arrivo a Demonland, di come sconfiggemmo Volle in una battaglia navale e, di come sbarcammo a Grunda dove combattemmo due volte contro Vizz che alla fine sconfiggemmo, uccidendolo.» «Hai visto quella lettera?», chiese il Re. «Sì,» rispose Gro. «È vero ciò che vi si dice?» «Nel complesso, sì, ο Re, anche se qui e là Corsus modifica le cose a suo vantaggio, gonfiando esageratamente i suoi meriti. Come a Grunda, dove sopravvalutò l'esercito dei Demoni, che invece, da un calcolo più preciso, risultò meno numeroso del nostro, e la battaglia non fu né a nostro né a loro favore perché, mentre la nostra ala sinistra li impegnava in prossimità del mare, essi presero d'assalto il nostro campo a destra. E credo che fu per attirarci in una zona più adatta ai suoi scopi che Vizz quella notte si ritirò in direzione di Owlswick. Ma, riguardo alla battaglia di Crossby Outsikes, Corsus ha molto di cui vantarsi. Fu un combattimento accanito e ben condotto da lui, che inoltre uccise Vizz con le sue mani nel bel mezzo della
mischia: ottenne una grande vittoria e disperse le forze nemiche, assalendole all'improvviso ed in posizione di vantaggio.» Così dicendo, Gro prese tra le sue dita bianche e delicate il calice che si trovava accanto a lui e bevve. «E adesso, mio Re,» disse, chinandosi in avanti sulle ginocchia e facendo scorrere le dita nei riccioli profumati sopra le sue orecchie, «sto per parlarti del sorgere di quello scontento che alterò la nostra fortuna e ci confuse tutti. Gallandus scese con pochi uomini da Breakingdale, lasciando il grosso del suo contingente di circa quattrocento uomini a presidiare lo Stile come stabilito in precedenza: aveva saputo che Spitfire stava arrivando dalla zona occidentale della regione dove si trovava quando noi siamo arrivati a Demonland e passava il tempo a cacciare l'orso che abitava quelle montagne. Ora però stava arrivando a tutta velocità dopo aver radunato i suoi uomini a Galing. Su pressante richiesta di Gallandus, fu tenuto un Consiglio di Guerra tre giorni dopo Crossby Outsikes e, in esso, Gallandus propose di mettersi subito in marcia verso nord - verso Galing - per disperdere il nemico. «Tutti pensarono che fosse una buona idea, tranne Corsus. Questi la considerò pessima, e si mostrò ostinato nel voler portare a termine il piano che aveva già stabilito, quello cioè di far seguire alla sua vittoria di Crossby Outsikes tanti di quei massacri, stupri ed incendi, su e giù per la regione dell'Alto e Basso Tivarandandale, nell'Onwardlithe e sulle coste meridionali, da dimostrare a quei vermi che lui era il padrone di cui avevano bisogno, e di essere la frusta della tua mano, ο Re, che li avrebbe sferzati fino a strappar loro la carne dalle ossa. «Al che, Gallandus rispose che i preparativi a Galing comportavano che si dovesse fare qualcosa e presto, e che: "Sarebbe un bel pasticcio se Owlswick e Drepaby ci costringessero a guardarci le spalle mentre quelli davanti a noi (Galing, cioè) ci spaccano la testa" Corsus replicò con malagrazia: "Non mi convincerò di questo finché non ne avrò una sicura conferma." E non volle più ascoltare nulla, ma disse che quelle erano le sue decisioni, e che tutti avremmo dovuto rispettarle altrimenti l'avremmo pagata cara: che, conquistato col terrore e la spietatezza quell'angolo sud-orientale della regione, il corso della guerra in Demonland sarebbe stato vinto, e tutti quelli che risiedevano a Galing ο altrove, non avrebbero avuto altra scelta che morire come cani: che sarebbe stata pura follia, date le strade impervie e dissestate del paese, assalire Galing; e che avrebbe dimostrato rapidamente a Gallandus di essere il padrone laggiù. «Così, il Consiglio fu sciolto in mezzo ad un notevole scontento. Gal-
landus si fermò davanti ad Owlswick, che, come ben sai, è un luogo inespugnabile, situato su un braccio di terra che si protende nel mare vicino al porto. La via che vi conduce è invasa dal mare salvo che durante la bassa marea primaverile. «Trasportammo là una grande quantità di rifornimenti, in previsione di un possibile assedio. Ma Corsus, col grosso delle sue truppe, si recò a sud, massacrando e saccheggiando, per raggiungere la nuova casa di Goldry Bluszco a Drepaby, annunciando che da quel momento in poi la gente non avrebbe più parlato di Drepaby Mire e Drepaby Combust che i Ghoul avevano bruciato, ma che entrambe sarebbero state di lì a poco bruciate allo stesso modo come due tizzoni.» «Ho capito,» disse il Re, uscendo dalla vasca. «E lo ha fatto?» «Lo ha fatto, ο Re!», rispose Gro. Il Re sollevò le braccia sopra la testa e si tuffò con la testa in avanti nella grande vasca di acqua fredda. Ne uscì di lì a poco, prese un asciugamano e, stringendo le sue estremità con entrambe le mani, si portò vicino a Gro e disse: «Continua, dimmi il resto.» «Signore,» disse Gro, «alla fine, quelli che si trovavano ad Owlswick, lasciarono quel luogo a Gallandus, e Corsus fece ritorno dall'incendio di Drepaby Mire. Aveva ridotto gli abitanti di quella regione di Demonland nella più misera delle condizioni. Ma stava per scoprire, e nella maniera più sgradevole, cosa avrebbe provocato la sua negligenza per non essere andato a nord, a Galing, come gli aveva consigliato Gallandus. «Giunse notizia che Spitfire stava arrivando da Galing con duemiladuecento fanti e duecentocinquanta cavalieri. In seguito a queste notizie, ci mettemmo in assetto di guerra e muovemmo verso nord per affrontarli e, l'ultima mattina di agosto, c'imbattemmo nella loro armata in un luogo chiamato le Rovine di Brima, nelle zone aperte del Basso Tivarandandale. «Avevamo tutti il cuore allegro, perché eravamo in vantaggio su di loro, sia numerico (infatti eravamo più di tremilaquattrocento guerrieri, di cui quattrocento a cavallo), sia per la posizione, in quanto ci trovavamo sul limitare di una valletta che sovrastava Spitfire ed i suoi. Indugiammo là per un po', per vedere quali erano le sue intenzioni, finché Corsus non si stancò e disse: "Siamo più numerosi di loro. Marcerò a nord e poi ad est attraverso la parte alta della valle, e così li bloccherò, in modo che non potranno scappare di nuovo a nord dopo la battaglia, quando li avremo annientati." «Gallandus si oppose fermamente, essendo sua intenzione restare per so-
stenere il loro assalto; infatti, essendo dei montanari, alla fine avrebbero certamente scelto, se non ci fossimo mossi, di attaccarci sul pendio, e ciò si sarebbe volto a nostro vantaggio. Ma Corsus, che di giorno in giorno diventava sempre più intrattabile, non volle ascoltarlo e, alla fine, non esitò ad accusarlo davanti a tutti (cosa assolutamente falsa) di aver tentato di prendere lui il comando, e di aver architettato tutto in modo che Corsus ed i suoi figli fossero ammazzati mentre uscivano dai loro alloggi la notte prima. «Corsus diede ordine di marciare nella direzione che ti ho detto prima, e questa si rivelò una decisione folle. Perché Spitfire, quando vide la nostra colonna che attraversava il punto più alto della valle alla sua sinistra, diede ordine di attaccare, ci aggredì sul fianco, ci tagliò in due tronconi e, nel giro di due ore, ci schiacciò come un uovo lasciato cadere da una torre su un pavimento di granito. «Non ho mai visto uno scempio simile perpetuato ai danni di un grande esercito. Con enorme difficoltà riuscimmo a tornare - con soli millesettecento uomini - ad Owlswick, e di essi alcune centinaia erano gravemente feriti. E se sono caduti duecento nemici, beh, si tratta di una cosa straordinaria che supera ogni aspettativa, dal momento che la vittoria ottenuta su di noi da Spitfire alle Rovine di Brima fu grandissima. «Il nostro dolore poi fu acuito da alcuni fuggitivi provenienti da nord, i quali riferirono che Zigg aveva assalito il piccolo contingente lasciato a presidiare lo Stile e lo aveva sopraffatto. Così adesso eravamo bloccati ad Owlswick e assediati da Spitfire e dal suo esercito che, se non fosse stato per la diabolica stupidità di Corsus, non avrebbe mai potuto tenerci testa. «Fu una notte terribile quella, ο Re mio Signore, ad Owlswick, vicino al mare. Corsus era ubriaco, e così i suoi figli, che ingurgitavano coppe su coppe di vino delle cantine di Spitfire. Finché, finalmente, crollò vomitando sul pavimento fra i tavoli, e Gallandus, fermo in mezzo a noi, al colmo dell'ira a causa della vergogna e della rovina delle nostre fortune, gridò: "Soldati di Witchland, sono stanco di questo Corsus: è un dissoluto, un libertino, un ingordo, un attaccabrighe, un distruttore di eserciti - ma dei nostri non di quelli dei nemici - che ci porterà tutti all'Inferno se non faremo in modo di impedirglielo." Ed aggiunse: "Tornerò a Witchland, e non parteciperò più a questa infamia." Ma tutti gridarono: "Al diavolo Corsus! Sii tu il nostro Generale!"» Gro rimase silenzioso per un minuto. «O Re,» disse infine, «non incolparmi oltremisura se la malizia degli Dei e la mia sfortuna mi hanno con-
dotto ad avere un ruolo colpevole in ciò che è accaduto. Sarebbe stata di ben poco aiuto, ne sono convinto, una mia parola a Corsus, dato il suo modo di portare avanti quella sfortunata impresa. Quando tutti ebbero inneggiato a Gallandus, dicendo: "Ah, Gallandus! Strappa la malerba, prima che il grano si corrompa! Sii tu il nostro Generale!", egli mi prese da parte per parlarmi, poiché disse che voleva qualche consiglio da me prima di accettare un simile incarico. Ed io, vedendo il pericolo mortale che si annidava in quella confusione, e ritenendo che la nostra salvezza fosse riposta unicamente nella sua accettazione del comando, poiché lui era un soldato incline alle imprese grandi e nobili, lo spinsi ad accettare. Cosicché, sia pure con riluttanza, alla fine egli accettò. Tutti applaudirono, e Corsus non si oppose, essendo troppo ubriaco, proprio come ci si può aspettare da uno preda di una solenne sbornia, incapace di parlare ο di muoversi. «Così, quella notte andammo a dormire. Ma, al mattino presto, ο Re, c'era un grande clamore nel cortile principale di Owlswick. Ed io, correndo in camicia nella nebbia grigia dell'alba, vidi Corsus fermo in un portico davanti agli alloggi di Gallandus che si trovavano al piano superiore. Era nudo fino alla vita, col petto villoso e le braccia grondanti di sangue fino alle ascelle, e con due pugnali insanguinati in mano. Gridava a gran voce: «Tradimento! Ma l'ho scoperto (4). Chi vuole Gallandus come suo Generale salga su, ed io mescolerò il suo sangue con quello di quel traditore, e li unirò per sempre!» Il Re aveva indossato la sua calzamaglia di seta, una camicia di seta pulita, e stava per allacciarsi il farsetto nero ornato di diamanti. «Mi hai parlato,» disse, «di due errori commessi da Corsus. Prima ha perso una battaglia e quasi la metà dei suoi uomini, e poi ha assassinato Gallandus in un accesso di collera quando invece avrebbe dovuto cercare di emendarsi.» «Ha ucciso Gallandus nel sonno,» disse Gro, «e lo ha mandato nella Casa delle Tenebre.» «Bene,» disse il Re, «in ogni mese ci sono due giorni nei quali, qualsiasi cosa si inizi, non sarà mai portata a termine. Ed io ritengo che fu in uno di questi giorni che egli mise in atto il suo proposito su Gallandus.» «Tutto l'accampamento,» disse Lord Gro, «si è sollevato contro di lui, essendo rimasto sconvolto dall'omicidio di un soldato così valoroso. Eppure non hanno osato opporsi apertamente a Corsus; infatti i suoi veterani lo proteggono, e lui ha già fatto sventrare una dozzina ο più di uomini che hanno osato criticarlo più degli altri, cosicché tutti hanno timore di ribellarsi apertamente a lui.
«Ti dico, Ο Re, che il tuo esercito a Demonland versa in grande rischio e pericolo. Spitfire si trova davanti ad Owlswick con un grande schieramento di truppe, e non possiamo resistere a lungo senza rinforzi. C'è pericolo anche perché Corsus potrebbe compiere qualche gesto disperato. Non vedo come, con un esercito maldisposto come il suo, egli possa tentare una qualsiasi cosa. Eppure, deve avere le orecchie piene di quanto si dice di lui, e del disprezzo che si diffonderà a seguito dei suoi atti se non riparerà subito all'errore commesso alle Rovine di Brima. Si ritiene che i Demoni non abbiano navi, e che Laxus sia padrone del mare. Ma è arduo stabilire un collegamento fra la flotta ed Owlswick, e ci sono molti approdi favorevoli e diversi luoghi destinati alla costruzione delle navi di Demonland. Se quelli riuscissero ad impedire l'arrivo dei soccorsi a Corsus, e ad affrontare Laxus con una flotta in primavera, una grande calamità potrebbe abbattersi su di noi.» «Come hai fatto a venir via di là?», chiese il Re. «Dopo quell'assassinio ad Owlswick,» rispose Lord Gro, ogni giorno ho temuto che mi potesse succedere qualcosa così, per il mio bene e per il bene di Witchland, pensai a come avrei potuto andarmene. Alla fine raggiunsi furtivamente la flotta e riferii tutto a Laxus, che si adirò molto nei confronti di Corsus per quest'ultima malefatta - a causa della quale tutte le nostre speranze potevano andare in fumo - e mi pregò di venire qui da te a nome suo e di tutti i veri sudditi di Witchland che vogliono la tua grandezza, e non la tua disfatta, per chiederti di mandare loro rinforzi prima che tutto sia perduto. Poiché di certo un accesso di follia deve aver sconvolto la mente di Corsus e spezzato quella naturale gentilezza che tu gli riconoscevi. La fortuna lo ha abbandonato, e adesso è uno che potrebbe cadere sulla schiena e rompersi il naso. Ti prego di agire, prima che il Fato agisca per primo e colpisca in maniera irreparabile.» (5) «Bah!», disse il Re. «Non sollevarmi prima che io sia caduto. È ora di cena: accompagnami al banchetto.» Re Gorice era ormai in completo abito da cerimonia, col farsetto di mussola nera dagli spacchi di velluto nero e decorato di diamanti, la calzamaglia intrecciata con nastri di seta ornati di lustrini d'argento, un grande mantello di pelle d'orso nero, ed un pesante nastro d'oro al collo. In testa aveva la Corona di Ferro. Prese dalla parete della camera, mentre vi passavano accanto, una spada con l'impugnatura d'acciaio azzurro ed il pomo di eliotropio (6) cesellato a forma di teschio. Stringendola in mano, si recarono nella sala dei banchetti.
Quelli che si trovavano là, si alzarono in piedi in silenzio, guardando con rispetto il Re che stava fra le colonne della porta con la spada affilata tenuta in alto ed il gioiello a forma di granchio che gli scintillava sulla fronte. Ma fissavano soprattutto i suoi occhi. La luce negli occhi del Re sotto le sopracciglia cespugliose era come quella diffusa negli strati inferiori del cielo dall'abisso dell'inferno. Non disse una sola parola, ma chiamò con un gesto Corinius. Questi si alzò e si avvicinò al Re, lentamente, come un sonnambulo, obbediente sotto quello sguardo terribile. Il suo mantello di seta azzurro cielo era spinto indietro sulle spalle. Il torace, largo come quello di un bue, era gonfio sotto le luccicanti scaglie d'argento del suo giaco, che aveva le maniche corte e lasciava nude alla vista le braccia massicce con gli anelli d'oro intorno ai polsi. Si fermò davanti al Re, fiero, con la testa fermamente eretta sulla gola e sul collo poderosi; la sua bocca orgogliosa e sensuale, fatta per i calici di vino e le labbra delle fanciulle, era ferma sopra il mento e la mandibola robusti e rasati; i bei riccioli folti dei suoi capelli erano legati con tralci di brionia nera, (7) e l'insolenza che dimorava nei suoi occhi azzurro cupo era sottomessa, in quel frangente, di fronte a quella luce verde che baluginava nello sguardo risoluto del Re. Dopo essere rimasti in silenzio per uno spazio durante il quale si sarebbero potuti contare venti respiri, il Re disse: «Corinius, accetta il titolo di Re di Demonland che il tuo Signore e Re ti concede, e rendimi omaggio per questo.» Un mormorio di stupore si diffuse nella sala. Corinius s'inginocchiò, ed il Re gli consegnò la spada che aveva in mano, dicendo: «Con questa spada, Corinius, cancellerai quella macchia e quella colpa che finora ti hanno nascosto ai miei occhi. Corsus si è dimostrato un selvaggio (8). A Demonland ha fallito, e la sua stupidità lo ha fatto bloccare ad Owlswick e mi è costata metà dell'esercito. La sua gelosia, rivolta in maniera malvagia e sanguinaria contro i miei amici invece che contro i miei nemici, mi è costata un ottimo Comandante. L'incredibile confusione e le difficoltà della sua armata, se non trovi un rimedio, faranno passare le nostre fortune dalla felicità al dolore. Se agirai bene, un solo colpo ben assestato modificherà le cose. Ora vai, e mostra quello che vali.» Lord Corinius si alzò, stringendo in mano la spada con la punta rivolta a terra. Il suo volto era fiammeggiante come il cielo autunnale quando le nuvole plumbee improvvisamente si fendono ad occidente ed appare il sole.
«O Re mio Signore,» disse, «dimmi dove posso sedermi: andrò dove potrò sdraiarmi. Prima che un'altra luna diventi piena, partirò da Tenemos. Se non troverò in breve tempo un rimedio per quelle cose che quel maledetto pazzo ha portato alla rovina, potrai sputarmi in faccia, negarmi la luce del tuo favore, e gettare su di me degli Incantesimi che mi annienteranno per sempre!» XIX. LA SCOGLIERA DI THREMNIR Dell'assedio di Lord Spitfire alle Streghe chiuse nel suo castello di Owlswick; e di come egli combatté contro Corinius sotto la Scogliera di Thremnir, e di come gli uomini di Witchland vinsero. Lord Spitfire sedeva nella sua tenda davanti ad Owlswick, sommamente scontento. Un braciere di carboni ardenti generava un piacevole tepore, e le luci riempivano quella magnifica tenda di fulgore. Dall'esterno giungeva il rumore della pioggia che cadeva monotona nella fosca notte autunnale, schizzando nelle pozzanghere e picchiettando sul tetto di seta. Zigg sedeva accanto a Spitfire sul letto, coi suoi lineamenti da falco rabbuiati da un'insolita espressione preoccupata. La spada stava fra le sue ginocchia con la punta rivolta verso il pavimento. Lui la inclinava lentamente con entrambe le mani, ora a destra ora a sinistra, osservando con sguardo pensieroso la luce che mutava e balenava sulla sfera di balascio (1) che costituiva il pomo della spada. «È andata proprio così?», disse Spitfire. «Tutte e dieci, hai detto, a Rammerick Strands?» Zigg annuì. «Dov'era lui, e perché non le ha salvate?», chiese Spitfire. «Oh, è stata una cosa vergognosa!» «È stato un approdo rapido e furtivo favorito dal buio», rispose Zigg. «Un miglio ad est del porto. Non devi fargliene una colpa senza averlo ascoltato.» «Non preoccuparti: lo ascolterò. Quante ce ne restano? Le navi che ci restano sono sufficienti: tre sono a Northsands Eres, sotto Elmerstead; cinque a Throwater; due a Lychness; altre due ad Aurwath; sei, per mio esplicito ordine, sull'Estuario dello Stropardon, e sette qui sulla spiaggia.» «Altre quattro si trovano sull'Estuario di Westmark. Ed è stato dato l'or-
dine di portarne altre nelle Isole.» «In totale sono ventinove, ed in più ci saranno quelle delle Isole ma nessuna sarà in mare, finché non verrà la primavera. Ma se Laxus dovesse scoprirle e distruggerle con la stessa facilità con la quale ha bruciato queste sotto il naso di Volle a Rammerick Strands, non ci rimane altro che andarle a costruire nel deserto.» Detto questo, Spitfire si alzò e si mise a percorrere la tenda a lenti passi. «Devi mettere assieme per me un bel po' di uomini se vogliamo entrare in Owlswick. Per l'Inferno!», esclamò Zigg. «Quello che mi fa impazzire è il fatto che sono costretto da due mesi a rimanere davanti alla porta di casa mia come un mendicante, mentre Corsus e quegli imbecilli dei suoi figli si ubriacano e giocano coi miei tesori.» «Il capomastro,» disse Zigg, «può rendersi conto della solidità dell'edificio che ha costruito solo quando si trova dal lato sbagliato del muro...» Spitfire si fermò accanto al braciere, allargando le mani sul fuoco. Dopo un po' parlò con maggiore compostezza: «Non sono queste poche navi bruciate a nord che possono preoccuparmi; e, di fatto, Laxus non ha neanche cinquecento uomini coi quali equipaggiare la sua flotta. Ma lui ha il dominio del mare e, da quando ha fatto salpare trenta vele da Lookinghaven, mi aspetto nuovi rinforzi da Witchland. È questo che mi roderà dentro finché non avremmo riconquistato la fortezza; perché allora potremo finalmente affrontarli quando sbarcheranno. «Ma sarebbe estremamente sbagliato in questo periodo dell'anno portare avanti un assedio su un suolo basso ed acquitrinoso, con l'esercito nemico indenne e non impegnato. Perciò, amico mio, questa è la mia decisione: andrai con la massima rapidità sullo Stile a cercare dei rinforzi. Lascia un numero di uomini sufficiente a sorvegliare le navi in costruzione, dovunque esse siano, ed un buon contingente a Krothering e nei dintorni, perché nessuno dovrà considerarmi un sovrintendente incapace di tutelare l'incolumità di sua sorella. Ed assicurarti anche che la tua casa sia ben protetta. «Ma, dopo aver provveduto a tutto questo, fai circolare il dardo-diguerra (2) e portami da ovest cinquecento ο ottocento guerrieri. Poiché sono convinto che tu ed io, con un contingente di uomini di Demonland come quello che guideremo, schianteremo le porte di Owlswick, e strapperemo da lì Corsus come un mollusco dalla conchiglia.» «Partirò domani stesso allo spuntar del giorno!», rispose Zigg. Si alzarono e, prese le loro armi, si avvolsero negli ampi mantelli da campagna, quindi uscirono coi tedofori per camminare fra le linee, come
faceva ogni notte Spitfire prima di andare a dormire, per consultare i Capitani e stabilire i turni di guardia. La pioggia cadeva più dolcemente, e la notte era senza stelle. La sabbia umida scintillava per le luci del Castello di Owlswick, dal quale giungeva a tratti il rumore del banchetto, udibile al di sopra dello sciabordio e del lamento del mare cupo ed insonne. Quando si furono assicurati di tutto e si trovarono di nuovo in prossimità della tenda di Spitfire, dove Zigg stava per augurargli la buonanotte, uscì dall'ombra della tenda un vecchio e si portò in mezzo a loro nel bagliore delle torce. Sembrava raggrinzito, rugoso e curvo per la considerevole età. I capelli e la barba gli pendevano in ciocche arruffate ed intrise di pioggia, la sua bocca era sdentata, ed aveva gli occhi come quelli di un pesce morto. Toccò il mantello di Spitfire con la mano scarna, dicendo con voce simile a quella di un corvo: «Spitfire, stai attento alla Scogliera di Thremnir.» (3) «Chi è costui?», disse Spitfire. «Come diavolo ha fatto ad entrare nel mio accampamento?» Ma quel vecchio continuò a stringergli il mantello, dicendo: «Spitfire, questa non è la tua casa di Owlswick? Non è forse il luogo più bello ed inespugnabile che si sia mai visto in questa regione?» «Toglimi le mani di dosso, disgraziato!», esclamò Spitfire. «Altrimenti ti passerò subito a fil di spada, e ti scaraventerò nel Tartaro, dove non c'è dubbio che i Diavoli ti stiano già aspettando da un pezzo!» Ma il vecchio disse ancora: «Una mente troppo inquieta, può esser fatta facilmente prigioniera. Tieniti stretto, Spitfire, a ciò che è tuo, e stai attento alla Scogliera di Thremnir!» Adesso Lord Spitfire era davvero in collera e, poiché quell'uomo lo teneva ancora per il mantello e non si decideva a lasciarlo andare, tirò fuori la spada, con l'intenzione di colpirlo alla testa di piatto. Ma, mentre vibrava il colpo, una folata di vento spirò intorno a loro, e le fiamme delle fiaccole quasi si spensero: fu una cosa strana, in quella notte senza vento. E, in quella folata, il vecchio svanì, come una nuvola che passa nella notte. Zigg disse: «La tenue consistenza degli Spettri vanifica la forza delle armi.» «Puah!», disse Spitfire. «Era uno Spettro quello? Credo piuttosto che fosse un simulacro ο un'illusione creata per noi da quelli di Witchland, per offuscare il nostro intelletto e far vacillare la nostra fermezza.» Al mattino, mentre l'alba era ancora rossa, Lord Zigg scese sulla spiag-
gia per bagnarsi nelle grandi polle che fronteggiavano il sud da un capo all'altro della piccola baia di Owlswick. L'aria salsa era fresca dopo la pioggia, ed il vento che era girato ad est, soffiava in folate fredde e pungenti. In uno squarcio fra le nuvole blu-ardesia, il sole basso emetteva fiamme rosso sangue. Lontano, a sud-est, dove le acque di Micklefirth si aprivano sull'oceano, le basse scogliere di Lookinghaven si profilavano vaghe come un banco di nubi. Zigg appoggiò a terra la spada e la lancia, poi guardò a sud-est al di là dell'estuario; ed ecco, una nave con tutte le vele spiegate, aggirò il promontorio e virò a babordo, verso nord. Dopo essersi tolto il giubbetto, guardò di nuovo e prese le sue armi: adesso c'erano quindici navi che si stavano dirigendo in fila verso l'estuario. Erano navi da guerra! Raggiunse frettolosamente la tenda di Spitfire, e lo trovò ancora a letto, perché il dolce sonno nutriva ancora al suo seno l'impetuoso Spitfire; la sua testa era gettata indietro sul cuscino ricamato, e mostrava la gola massiccia ed il mento rasati; la sua bocca fiera sotto i folti baffi biondi era rilassata nel sonno, ed i suoi occhi ardenti erano chiusi sotto le setolose sopracciglia gialle. Zigg lo afferrò per i piedi e lo svegliò, poi gli disse: «Ci sono quindici navi, ed ognuna di esse (come ho potuto vedere chiaramente mentre si avvicinavano) è piena di uomini come lo sono di uova le ovaie delle aringhe. Così si avverano le nostre aspettative.» «E così,» disse Spitfire, «Laxus è tornato a Demonland, con carne fresca con cui saziare le nostre spade!» Raccolte le sue armi, raggiunse di corsa la sommità di una collinetta che si elevava sulla spiaggia di fronte al Castello di Owlswick. E tutti i soldati accorsero per osservare quelle navi da guerra che risalivano l'estuario nell'alba incombente. «Stanno ammainando le vele,» disse Spitfire, «e si apprestano ad attraccare a Scaramsey. La lezione che ho dato a questa gente di Witchland alle Rovine di Brima è servita a qualcosa! Laxus, da quando è stato testimone della disfatta del loro esercito, ora giudica le Isole più salutari del continente, ben sapendo che non abbiamo vele né ali per colpirlo dall'altra parte dell'estuario. Eppure, difficilmente, nascondendosi sulle Isole, potrà spezzare l'assedio di Owlswick.» «Vorrei sapere dove sono le altre sue quindici navi...», disse Zigg. «Su quindici navi,» disse Spitfire, «non è possibile che vi siano più di milleseicento ο millesettecento uomini. Contro di essi oggi ho forze suffi-
cienti - se dovessero avventurarsi a terra - per scaraventarli in mare e respingere Corsus se dovesse tentare una sortita. Ad essere sinceri, però, non mi sento tanto sicuro. La situazione attuale richiede ancora di più che si attui il tuo previsto viaggio ad ovest.» Così Lord Zigg chiamò a sé una dozzina di soldati e partì al galoppo. Le navi ormai erano state condotte a forza di remi sulla riva sotto la lingua di terra meridionale di Scaramsey, dove c'era un buon ancoraggio per le navi. Laggiù rimanevano celate alla vista, tutte salvo i loro alberi che erano visibili al di sopra della lingua di terra, cosicché i Demoni non poterono vedere nulla dello sbarco. Spitfire cavalcò con Zigg per tre ο quattro miglia, fino al limite della discesa che portava al guado di Ethreywater e, quando furono là, lo salutò. «Il fulmine sarà lento al mio confronto,» disse Zigg, «fra l'andare e il tornare. Nel frattempo, vorrei che tu tenessi conto dell'avvertimento di quel vecchio.» «Pigolio di passeri!», esclamò Spitfire. «Ho già dimenticato il suo farneticare.» Tuttavia, il suo sguardo si spostò verso sud, al di là di Owlswick, fino alla grande scogliera coperta d'alberi che sorvegliava come una sentinella i prati del Basso Tivarandardale, lasciando solo uno stretto sentiero fra i suoi dirupi ed il mare. Poi scoppiò a ridere. «Amico mio, ho la sensazione che tu mi giudichi ancora un ragazzo, anche se ormai ho quasi ventinove anni!» «Ridi pure di me, se ti pare,» disse Zigg. «Ma non me ne andrò se non mi darai la tua parola.» «Bene,» disse Spitfire, «per acquietare le tue paure, ti assicuro che non andrò sulla Scogliera di Thremnir finché non sarai tornato.» Per più di una settimana non ci fu nulla da dire salvo che l'esercito di Spitfire continuò ad aspettare davanti ad Owlswick, e che quelli che si erano nascosti sulle Isole mandarono di tanto in tanto tre ο quattro navi nei dintorni di Lookinghaven, ο nella parte superiore dell'estuario, ο a sud al di là di Drepaby fino alla costa sotto Rimon Armon, per saccheggiare ed incendiare. E, quando fu possibile mettere assieme un contingente per affrontarli, tornarono di nuovo a bordo e si ritirarono a Scaramsey. In quei giorni giunse Volle da ovest con un centinaio di uomini e si unì a Spitfire. L'ottavo giorno di novembre, il clima peggiorò, e le nuvole si ammassarono da ovest e da sud, finché il cielo non fu altro che un tumulto di enormi nubi plumbee cariche d'acqua, separate una dall'altra da strisce untuose di bianco. Il vento divenne sempre più incostante col giorno che si consu-
mava. Il mare era nero come ferro opaco, e la pioggia cominciò a cadere in grosse gocce. Le montagne apparivano mostruose e fosche: alcune scure come inchiostro blu, altre - ad ovest - sembravano mura e bastioni di nebbia raggrumata contro la foschia incolore del cielo dietro di esse. La sera si concluse con tuoni, pioggia, e banchi di vapore lacerati dai lampi. Per tutta la notte i tuoni rombarono con cupe interruzioni, e nuovi banchi di nubi temporalesche si fusero, si separarono e poi si fusero ancora. Il chiarore della luna era fioco, e nessuna luce era visibile eccetto i fulmini, i fuochi del campo davanti ad Owlswick, e la luce del banchetto all'interno. Fu così che i Demoni accampati davanti al castello, non si accorsero delle quindici navi che salparono da Scaramsey sul mare agitato ed approdarono a due ο tre miglia a sud nei pressi della grande Scogliera di Thremnir. Né si avvidero di quelli che sbarcarono dalle navi: erano millecinquecento ο milleseicento soldati comandati da Heming di Witchland e dal suo giovane fratello Cargo. Poi le navi tornarono spinte dai remi a Scaramsey vincendo la violenta tempesta e la furia degli elementi, tutte tranne una che affondò nello Stretto di Bothrey. Al mattino, quando la tempesta si placò, tutti poterono vedere la partenza di quattordici navi da guerra da Scaramsey, ognuna delle quali era carica di soldati. Attraversarono rapidamente l'estuario, ed approdarono due miglia a sud di Owlswick. Le navi poi si ritirarono, ma l'armata marciò sui prati sopra Mingarn Hope per ingaggiare battaglia. Lord Spitfire fece serrare le file e si avviò allontanandosi dalle linee davanti ad Owlswick verso sud. Quando giunsero a circa mezzo miglio di distanza dall'armata di Witchland, cosicché si potevano vedere chiaramente le loro tuniche rosso ruggine, gli scudi, le armature di bronzo, ed il debole scintillio delle loro spade e delle punte delle lance, Volle, che cavalcava al fianco di Spitfire, disse: «Hai notato, Spitfire, quello che va avanti e indietro davanti a loro, gridando ordini? Corinius cavalca sempre in quel modo; dovresti riconoscerlo anche tu dallo sfarzo e dalla vivacità del suo portamento. Ma ora guarda che cosa strana: hai mai sentito dire che quella testa calda si sia tirato indietro davanti ad un combattimento? Ed ora, prima ancora di essere a tiro delle loro lance...» «Per l'occhio splendente del giorno!», esclamò Spitfire. «È vero! Non vuole battersi con me? Manderò un gruppo di cavalieri ad intercettarli prima che siano fuggiti e scomparsi alla vista.» Dopodiché, diede ordine ai suoi cavalieri di lanciarsi sul nemico. Questi
si misero al galoppo con Astar di Rettray, che era cognato di Lord Zigg, al loro comando. Ma la cavalleria di Witchland li intercettò in prossimità delle Secche di Aron Pow e li bloccò sulle acque basse, mentre Corinius, col grosso del suo esercito, attraversava il fiume. E quando l'armata dei Demoni sopraggiunse ed attraversò il passaggio con veemenza, quelli di Witchland vennero spinti sulle marcite fino alla strettoia fra la spiaggia e la Scogliera di Thremnir. Allora Spitfire disse: «Non si fermano per schierarsi nello stretto passaggio fra il mare e la Scogliera. Eppure potrebbe essere la loro salvezza, se solo avessero il coraggio di voltarsi e di affrontarci.» Quindi gridò con forza ai suoi uomini di caricare il nemico, e di non permettere che nessuna Strega sopravvivesse al massacro. Allora i fanti afferrarono le staffe di cuoio dei cavalieri e, un po' correndo ed un po' facendosi trainare, si riversarono nella strettoia; Spitfire era sempre alla testa dei suoi uomini, tirando fendenti a destra e a manca nella mischia, cavalcando quella impetuosa marca di battaglia che sembrava portarlo in trionfo. Ma, ad un tratto, Spitfire, che aveva seguito con grande impeto millecinquecento nemici con soli milleduecento uomini nello stretto passaggio sotto la Scogliera di Thremnir, si accorse, troppo tardi, che ne avrebbe dovuto affrontare tremila. Corinius radunò i suoi e si voltò come un lupo nella strettoia, mentre i figli di Corund, che erano approdati come già detto durante la tempesta nel buio della notte, si precipitavano giù con le loro schiere dai declivi boscosi della Scogliera. Tutto ciò avvenne così rapidamente che Spitfire non ebbe alcuna avvisaglia del disastro, ma lo avvertì nel momento stesso in cui si abbatté su di lui col fragore del colpo sferrato frontalmente sul fianco ed alle sue spalle. Ci fu un eccidio fra la Scogliera ed il mare. I Demoni, presi alla sprovvista, erano come uomini che incespicano in una corda tesa davanti ai loro piedi. A causa dell'impetuoso assalto delle Streghe, furono sospinti nell'acqua bassa e la spuma del mare si colorò di sangue. Lord Corinius, ora che la finta ritirata era finita, si aggirava tra i combattenti come un rivolo di insaziabile fuoco greco, e nessuno di quelli che erano intorno a lui riusciva a resistere ai suoi colpi. Il cavallo di Spitfire rimase ucciso sotto di lui da una lancia, mentre cavalcava nella sabbia molle che gli arrivava ai garretti: Spitfire stava radunando i suoi uomini per respingere Heming. Ma Bremery di Shaws gli portò un altro cavallo, ed allora si avventò con tale impeto sulle Streghe, che i
figli di Corund furono costretti a retrocedere sotto il suo attacco, e quell'ala dell'esercito di Witchland fu spinta sul terreno accidentato ai piedi della Scogliera. Ciò, tuttavia, non fu di grande utilità, poiché Corinius irruppe da nord e, con grande spargimento di sangue, li respinse dal mare, cosicché si trovarono imprigionati fra lui ed Heming. Al che Spitfire si voltò con alcune compagnie di picchieri per affrontare Corinius e, per un po', parve che un gran numero di Streghe dovessero essere sopraffatte e scomparire fra le onde. Corinius stesso si trovò in pericolo di vita, perché il suo cavallo rimase invischiato nella sabbia molle e non riusciva a liberarsi nonostante il suo dimenarsi. In quel preciso istante Spitfire sopraggiunse in mezzo al parapiglia seminando la morte, con un gruppo di Demoni intorno a lui. Con voce terribile gridò: «Corinius, per quanto odio le Porte dell'Inferno, adesso ti ucciderò, e la tua carcassa andrà ad ingrassare i dolci prati di Owlswick.» Corinius gli rispose: «Maledetto Spitfire, ultimo di tre cani rognosi, dato che i tuoi fratelli sono ormai morti e putridi, ora ti farò inghiottire una pera acerba!» (4) A queste parole Spitfire gli scagliò una lancia che lo mancò ma raggiunse il suo poderoso cavallo alla spalla: questo si accasciò, colpito a morte. Ma Corinius, scattando agilmente in piedi, afferrò il cavallo di Spitfire per le redini e lo colpì sul muso proprio mentre si stava avventando su di lui, cosicché il cavallo s'impennò e fece uno scarto. Spitfire gli indirizzò un potente colpo d'ascia, ma questa si abbatté di traverso sull'orlo dell'elmo e fu deviata in aria. Allora Corinius spinse la spada verso l'alto sotto lo scudo di Spitfire, la punta penetrò nel grosso muscolo del braccio accanto all'ascella e, deviando contro l'osso, tranciò i muscoli della spalla. Fu una ferita terribile! Tuttavia Spitfire non diminuì il suo impeto, ma colpì ancora l'avversario, con l'intenzione di recidergli il braccio la cui mano stringeva ancora le redini. Corinius bloccò l'ascia con lo scudo, ma le sue dita lasciarono le redini e quasi cadde a terra sotto quel colpo tremendo, che ammaccò l'ottimo scudo di bronzo. Essendo state lasciate le redini, il cavallo di Spitfire fu spinto in avanti, e trasportò con sé il suo cavaliere oltre Corinius e verso il mare. Ma Spitfire si voltò e gridò: «Procurati un cavallo! Considero disdicevole combattere con te in questa condizione di vantaggio: io a cavallo e tu a piedi.» Corinius rispose, gridando anche lui: «Allora scendi dal tuo cavallo, e
battiamoci tutti e due a terra. E sappi, mio piccolo tordo, che io sono il Re di Demonland, rango questo conferitomi dal Re dei Re, Gorice di Witchland, mio unico sovrano. È giusto che io mostri in un duello a te, che ti vanti di essere il più indomabile dei ribelli ancora in vita nel mio regno, quanto la mia forza sia più grande della tua.» «Queste sono parole grosse,» disse Spitfire. «Te le ricaccerò di nuovo in gola!» Dopodiché fece come per scendere da cavallo; ma, mentre stava per farlo, una nebbia gli scivolò davanti agli occhi e vacillò sulla sella. I suoi uomini accorsero per porsi fra lui e Corinius, ed il suo Capitano delle Guardie lo sostenne, dicendo: «Sei ferito, mio Signore. Non puoi continuare a combattere con Corinius, perché le tue condizioni non ti consentono di batterti, e non ce la fai a reggerti.» Così, quelli che erano intorno a lui, sorressero Spitfire. E il combattimento che si era interrotto in quei paraggi mentre i due Signori duellavano, riprese con accanimento. Esso proseguì furioso sotto la Scogliera di Thremnir, e grande fu l'eroismo dei Demoni; perché molte centinaia di loro erano stati uccisi ο feriti a morte, e solo pochi ormai ne restavano per continuare la battaglia contro le Streghe. Quelli che stavano con Spitfire si allontanarono più furtivamente che poterono dal combattimento, avvolgendolo in un mantello azzurro per celare la sua armatura scintillante. Arrestarono il sangue che gli usciva a fiotti dalla terribile ferita alla spalla e la fasciarono con cura, poi, per ordine di Volle, lo trasportarono sul dorso di un cavallo nel Tremmerdale attraverso dei sentieri ignoti della montagna fino ad un desolato circo glaciale (5) ad est del Passo di Sterry, sotto la grande falda detritica che fiancheggiava i precipizi della sommità meridionale del Dina. Spitfire giacque a lungo privo di sensi, come morto. Infatti, in quel combattimento impari, aveva ricevuto molte ferite, ed era contuso ed ammaccato in più punti. Ma la più grave di tutte era la ferita che gli aveva inferto Corinius prima che si allentassero dal confine fra la terra ed il mare. Quando fu scesa la notte e tutto era buio, in quella piccola valle solitaria, arrivò Lord Volle con pochi compagni completamente sfiniti. La notte era tranquilla e senza nuvole, e la luna crescente incedeva alta nel cielo, rendendo più nere le ombre dei grandi picchi simili a denti di squalo che brillavano nella notte. Spitfire era disteso su un letto di erica e di mantelli al riparo di un grosso macigno, ed il suo volto era pallido come quello di uno
Spettro nel chiaro di luna argenteo. Volle si appoggiò alla sua lancia guardandolo ansiosamente. Gli altri gli chiesero notizie, ed egli rispose: «Tutto è perduto!», e continuò ad osservare Spitfire. «Signore,» gli dissero, «abbiamo arrestato il sangue e fasciato le ferite, ma Sua Signoria è ancora priva di sensi. Temiamo molto per la sua vita, e che questa ferita possa essergli fatale.» Volle gli s'inginocchiò accanto sulle pietre scabre e fredde e si prese cura di lui come una madre di un figlio malato, applicando sulla ferita foglie di marrubio nero, di achillea (6) e di altre erbe medicinali, e facendogli bere da una fiasca del prezioso vino di Arshalmar, invecchiato per lunghi anni nelle profonde cantine di Krothering. Di lì a poco, Spitfire aprì gli occhi e disse: «Tirate indietro i drappeggi del letto, poiché è trascorso più di un giorno da quando mi sono svegliato ad Owlswick. Ο forse è notte? Com'è andata la battaglia?» I suoi occhi fissarono le rocce nude ed il nudo cielo al di là di esse. Poi, con un gemito, si sollevò sul gomito destro. Volle lo cinse con un braccio vigoroso, dicendo: «Bevi questo buon vino, e calmati! Ci aspettano grandi cose.» Spitfire si guardò intorno per un po', poi disse con violenza: «Siamo volpi ο fuggiaschi che si devono rifugiare sulle montagne? Il giorno è finito, eh? Allora liberiamoci da queste pastoie.» E cominciò a strapparsi le bende dalle ferite. Ma Volle lo fermò con le sue mani forti, dicendogli: «Pensa, glorioso Spitfire, che solo su di te, e sul tuo cuore saggio e sul tuo animo prode che si esaltano nei combattimenti più violenti, si poggia la nostra speranza di risparmiare alle nostre mogli, ai nostri cari figli, a tutta la nostra bella terra ed ai nostri feudi, la furia degli uomini di Witchland, e di mantenere vivo il grande nome di Demonland. Non lasciare che il tuo cuore orgoglioso si abbandoni alla disperazione.» Ma Spitfire gemette e rispose: «È certo che il dolore ed il destino avverso incomberanno su Demonland finché i miei congiunti non saranno tornati. Ma credo che quel giorno non spunterà mai.» Poi gridò: «Corinius non si è forse vantato di essere il Re di Demonland? E non sono nemmeno riuscito a conficcargli la spada nei visceri! E tu pensi che io possa sopportare di vivere con questa infamia?» Detto questo, tentò ancora di strapparsi le bende, ma Volle glielo impedì. Allora cominciò a delirare, gridando: «Chi è stato a portarmi via dalla
battaglia? Non avrò pietà di lui, dal momento che ha osato oltraggiarmi in questo modo. Meglio morto che in fuga come un cucciolo bastonato. Lasciatemi andare, traditori! Porrò rimedio a questo. Morirò combattendo! Fatemi tornare indietro!» «Alza gli occhi, grande Spitfire,» disse Volle, «ed osserva la Signora Luna: adesso ella cammina come una vergine libera per i campi selvaggi del cielo e nella gloria delle stelle che l'accompagnano con la loro moltitudine. Le nebbie della terra e le tempeste poco la offuscano e, anche se per un po' viene nascosta, quando la tempesta si placa ed il cielo si libera dalle nuvole, riappare nel suo cammino incessante, signora delle maree e delle stagioni, e maestra dei destini dei mortali: così è anche la gloria di Demonland, cinta dalle acque, e la gloria della tua Casa, Spitfire. E, come i tumulti del cielo non servono molto a spostare queste montagne perenni, così una guerra disastrosa, anche se si tratta di una grande battaglia persa come quella di oggi, non serve per abbattere la nostra grandezza, noi che da sempre siamo i più forti con la lancia in pugno e possiamo far inchinare tutto il mondo davanti alla nostra gloria.» Così parlò Volle, e Lord Spitfire guardò al di là della valle dormiente invasa dalla nebbia le enormi pareti rocciose, indistinte nel chiaro di luna, ed i picchi aguzzi e silenziosi. Non rispose, ο perché era esausto, ο perché ridotto al silenzio dai potenti influssi della notte, dalle montagne silenti e dalla voce di Volle che parlava profonda e calma nel suo orecchio, come la voce della notte stessa, che placa i tumulti e le disperazioni degli uomini. Dopo un po', Volle parlò ancora: «I tuoi fratelli torneranno a casa, non dubitare! Ma, fino a quel momento, sei tu la nostra forza. Per cui, sii paziente: guarisci dalle tue ferite e recupera le forze. Ma se tu, impazzito per la disperazione, dovessi por fine alla tua vita, allora sarebbe la nostra rovina.» XX. RE CORINIUS Dell'ingresso di Lord Corinius ad Owlswick e di come fu incoronato sul trono di zaffiro di Spitfire come Viceré di Re Gorice e Re di Demonland: e di come tutti quelli che erano nel Castello di Owlswick lo accolsero e lo accettarono. Corinius, dopo aver conseguito questa grande vittoria, tornò con tutto il
suo esercito ad Owlswick mentre la luce del giorno cominciava ad attenuarsi. Il ponte levatoio era stato abbassato per lui e le grandi porte, guarnite di borchie d'argento e costellate di diamanti, erano spalancate. Lui ed i suoi fecero il loro ingresso in gran pompa nel Castello di Owlswick, sulla strada ricavata nella roccia viva e lastricata di blocchi di granito che partiva da Tremmerdale. Il grosso dell'armala era rimasto nell'accampamento di Spitfire davanti al castello, ma con lui, quando entrò ad Owlswick coi figli di Corund ed i Signori Gro e Laxus, c'erano un migliaio di uomini, poiché la flotta era venuta a calare le ancore là quando si erano resi conto che la battaglia era vinta. Corsus li accolse con calore, ed avrebbe voluto accompagnarli nei loro alloggi vicini alla sua camera, affinché potessero liberarsi delle armature ed indossare biancheria pulita ed abiti da cerimonia prima di cena. Ma Corinius si scusò, dicendo che non aveva mangiato nulla da quando aveva fatto colazione: «Per cui consentici di evitare i cerimoniali, ed accompagnaci direttamente, ti prego, nella sala dei banchetti.» Corinius entrò con Corsus davanti a tutti gli altri, passandogli affettuosamente intorno alle spalle il braccio imbrattato di polvere e di sangue raggrumato. Non aveva avuto il tempo di lavarsi le mani, e ciò non era certo un bene per il mantello ricamato di taffetà porpora che il Duca Corsus portava sulle spalle. Nondimeno, Corsus si comportò come se non lo avesse notato. Quando furono entrati nella sala, Corsus si guardò intorno e disse: «Come vedi, Lord Corinius, questa sala è un po' piccola per la gran folla che vi è entrata. Molta della gente di rango usa per antico costume sedersi con noi. E non ci sono sedie per loro. Ti prego di ordinare a qualcuno dei tuoi di basso rango di cedere il posto, in modo che tutto si possa svolgere secondo le regole. I miei ufficiali non devono accalcarsi nelle cucine.» «Mi spiace, mio Signore,» rispose Corinius, «ma è necessario tenere nella giusta considerazione questi miei ragazzi che, più degli altri, hanno sostenuto il peso della battaglia, e so bene che non vorrai negare loro l'onore di sedersi a mangiare con noi: sono loro che devi maggiormente ringraziare per aver aperto le porte di Owlswick ed aver rotto l'assedio che per tanto tempo i nostri nemici avevano mantenuto.» Così presero posto, e fu loro servita la cena: capretti farciti di noci, mandorle e pistacchi; aironi in salsa di cameline, (1) lombate di manzo; oche e ottarde; e grandi coppe e boccali pieni di vino rosso rubino. Corinius ed i suoi erano allegri, e nella sala per un po' ci fu silenzio, salvo l'acciottolio
dei piatti ed il masticare rumoroso dei convitati. Finalmente Corinius, tracannando in un solo sorso un enorme calice di vino, disse: «C'è stata battaglia sui prati vicini alla Scogliera di Thremnir, mio Duca. Hai partecipato al combattimento?» Le guance pesanti di Corsus si colorarono di rosso. «Lo sai che non c'ero,» rispose. «Sarebbe stato un biasimevole azzardo tentare una sortita quando sembrava che Spitfire stesse vincendo.» «Mio Signore,» disse Corinius, «non credere che voglia mettermi a discutere con te. Purtroppo, lascia che ti dimostri la mia stima.» Al che, gridò un ordine al ragazzo che stava dietro alla sua sedia, e questi tornò di lì a poco con un diadema d'oro lucente tempestato di topazi che sembrava fosse passato attraverso il fuoco; e, sulla parte frontale di quel diadema, c'era la piccola figura di un granchio in ferro opaco, i cui occhi erano due berilli verdi su steli d'argento. Il ragazzo lo pose sul tavolo davanti a Lord Corinius, come se fosse stato un piatto colmo di cibo. Corinius prese una pergamena dalla sua borsa, e l'appoggiò sul tavolo perché Corsus la vedesse: su di essa c'era il Sigillo del Serpente Ourobors in cera scarlatta, e la firma di Re Gorice. «Duca Corsus,» disse, «e voi figli di Corsus, e Voialtre Streghe, voglio che sappiate che il Re nostro Signore con queste disposizioni mi ha nominato suo Viceré per la Provincia di Demonland: vuole che io sia chiamato Re di questa terra e che, nel suo nome, tutti mi si sottomettano.» Corsus, guardando la corona ed il Mandato Reale, divenne improvvisamente pallido come un morto, e subito dopo rosso come il sangue. «Mi inginocchio davanti a te, Corsus,» disse Corinius, «fra tutte queste nobili persone qui riunite ad Owlswick, perché tu possa incoronarmi con questa corona, come Re di Demonland. Questo, affinché tu possa sapere quale alta considerazione ho di te.» Ora tutti tacevano, aspettando che Corsus parlasse, ma lui non disse una parola. Dekalajus allora gli sussurrò in un orecchio: «Padre mio, se regna la scimmia, danza davanti a lei. Al momento opportuno avrai la tua occasione.» E Corsus, riconoscendo la saggezza di questo consiglio, pur senza riuscire a controllare l'espressione del suo volto, ordinò a se stesso di ingoiare le ingiurie che aveva in animo di pronunciare. Quindi eseguì senza malagrazia il cerimoniale, e pose sulla testa di Corinius la corona di Demonland. Corinius adesso era seduto sul trono di Spitfire, dal quale Corsus si era alzato per far posto a lui: l'alto scranno di Spitfire era fatto di giada color
fumo, bizzarramente intagliato e coperto di zaffiri luccicanti, con a destra ed a sinistra due altri candelabri d'oro fino. L'ampiezza delle spalle di Corinius riempiva tutto lo spazio fra le colonne di quello spazioso sedile. Aveva l'aspetto di un uomo difficile da trattare, vestito di giovinezza e vigore, armato fino ai denti ed ancora accaldato per la battaglia (2). Corsus, seduto fra i suoi figli, disse sottovoce: «Rabarbaro! Portatemi del rabarbaro per purificarmi dalla bile!» (3) Ma Dekalajus gli sussurrò: «Calmati, e sii cauto! Non permettere che i nostri piani vadano in malora, ma celali a tutti attentamente. Alimenta la sua sicumera: sarà la nostra salvezza ed il mezzo col quale spazzeremo via questa infamia. Gallandus non era grosso quanto lui?» L'occhio opaco di Corsus brillò, ed il Duca sollevò una coppa colma di vino per bere alla salute di Corinius. Questi lo ringraziò e disse: «Mio Signore Duca, fai entrare i tuoi ufficiali, ti prego, e di loro chi sono, in modo che possano comunicare a tutto l'esercito che si trova qui ad Owlswick la notizia che sono io il Re.» Corsus lo fece, anche se di malavoglia, non riuscendo a trovare alcun valido motivo per non farlo. Quando nel cortile esterno si udirono gli applausi che lo acclamavano Re, Corinius parlò di nuovo: «Io ed i miei uomini siamo stanchi, mio Signore, e vorremmo andare subito a riposare. Dai ordine, ti prego, di preparare i miei alloggi. E ordina che siano gli stessi alloggi occupati da Gallandus quando era ad Owlswick.» A queste parole Corsus riuscì a stento a trattenere un sussulto, ma gli occhi di Corinius erano fissi su di lui, ed allora diede l'ordine. Mentre aspettava che fossero pronti i suoi alloggi, Lord Corinius si abbandonò ad una grande allegria, chiedendo altro vino e nuove leccornie da offrire ai Signori di Witchland: olive, bottarga, conserva di fegato d'oca molto speziata, il tutto prelevato dai fornitissimi magazzini di Spitfire. Nel frattempo, Corsus parlò piano ai suoi figli: «Non mi piace questo riferimento a Gallandus. Eppure sembra che sia assolutamente tranquillo, come uno che non tema alcuna insidia.» E Dekalajus gli rispose in un orecchio: «Per spingerlo a scegliere quella camera, forse gli Dei hanno stabilito la sua fine.» Scoppiarono a ridere. Poi il banchetto si avviò alla conclusione tra una grande allegria e divertimento. Quindi si fecero avanti degli uomini con le torce per illuminare il tragitto fino alle camere. Mentre si alzavano per augurarsi la buona notte, Corinius
disse: «Sono spiacente, mio Signore, dopo il tuo lodevole comportamento, di dover fare qualcosa che non ti soddisferà. Ma non dubito che il Castello di Owlswick debba risultare molto noioso a te ed ai tuoi figli, troppo a lungo rinchiusi in esso, e non dubito che siate esausti per quest'assedio e l'interminabile stato di guerra. Per cui, è mia volontà che voi torniate subito a Witchland. Laxus ha una nave equipaggiata pronta a portarvi là. Per apporre un conveniente e amichevole suggello al tuo piacevole banchetto, vi accompagneremo fino alla nave.» La mandibola di Corsus ricadde. Eppure riuscì a far dire alla sua lingua: «Signore, sarà come tu vorrai. Ma vorrei sapere il motivo di questo rientro. Certamente le nostre spade sono utili a Witchland nel paese dei nostri nemici, per cui non possiamo semplicemente rinfoderarle e tornarcene a casa. Nondimeno, non è necessario affrontare la questione con particolare urgenza. Terremo consiglio domani mattina.» Ma Corinius rispose: «Mi dispiace, ma è necessario che stanotte voi siate a bordo della nave.» E gli rivolse uno sguardo di ghiaccio, dicendo: «Siccome dormirò negli alloggi di Gallandus, ritengo opportuno che la mia Guardia del Corpo stazioni nella tua camera che, come ho appena saputo, è adiacente ad essi.» Corsus non disse una parola. Ma Gorius, il suo figlio minore, che si era ubriacato di vino, balzò in piedi e gridò: «Corinius, sei giunto in questa terra nel momento sbagliato per chiederci di servirti. E devi aver avuto delle informazioni calunniose su mio padre se ci temi a causa di ciò che è accaduto a Gallandus. È questa vipera seduta accanto a te, il vile Goblin, che ti ha detto il falso su di noi. Ed è un peccato che egli abbia tanta confidenza con te, dal momento che continua a complottare contro Witchland!» Dekalajus lo spinse di lato, dicendo a Corinius: «Non badare a mio fratello se parla in maniera avventata e scortese; infatti sta parlando tra i fumi del vino, ed il vino fa di lui un altro uomo. Ma una cosa è certa, Corinius, e questo il Duca mio padre e tutti noi possiamo giurarlo e confermarlo nella maniera più solenne che desideri, ossia che Gallandus cercò di usurpare il comando, al solo scopo di consegnare al nemico la nostra intera armata. Ed è stato solo per questo che Corsus lo ha ucciso.» «Questa è una vergognosa bugia!», disse Laxus. Gro rise piano. La spada di Corinius scivolò a metà fuori dal fodero, ed egli fece un passo verso Corsus e i suoi figli: «Chiamatemi Re quando parlate con me,» disse, guardandoli con espressione minacciosa. «Voi figli di Corsus non
siete buoni neanche per fabbricarmi un bastone per catturare gli uccelli, né potete essermi utili in alcun modo. E tu,» disse, guardando con ferocia Corsus, «farai meglio ad andartene a testa bassa, senza provocarmi. Sciocco! Credi che io sia un altro Gallandus? Hai assassinato lui, ma non assassinerai me! Oppure credi che ti abbia liberato dalla trappola in cui ti hanno cacciato la tua follia e la tua perversione, solo per far sì che tu continui a essere sovrano di questa terra, e commetta gli errori che la tua malvagità ti suggerisce? Qui ci sono le guardie che vi accompagneranno alla nave, e ringrazia il cielo se non ti stacco la testa dal collo!» Corsus ed i suoi figli rimasero per un po' in dubbio se fosse più opportuno balzare su Corinius con le armi in pugno, e tentare la sorte nella sala di Owlswick, ο rassegnarsi alla necessità di andare sulla nave. Poi, andarsene docilmente a bordo sembrò loro la scelta migliore: infatti, là c'erano Corinius, Laxus ed i loro uomini, mentre erano pochi gli uomini di Corsus, tra i quali ce ne sarebbero stati sicuramente ancora meno dalla sua parte se si fosse giunti al combattimento. Inoltre, non erano affatto desiderosi di avere a che fare con Corinius, neanche se fossero stati in parità numerica. Così, alla fine, con la rabbia e l'amarezza nel cuore, si rassegnarono ad obbedire alla sua volontà e, nel giro di un'ora, Laxus li accompagnò alla nave, poi li fece condurre dall'altra parte dell'estuario a Scaramsey. Là essi erano in salvo come un topo in una macina. Infatti, il Comandante della nave era Cadarus, fedelissimo a Lord Laxus, e la sua ciurma era composta di uomini leali e fedeli a Corinius ed a Laxus. La nave quella notte rimase all'ancora al riparo dell'isola e, al primo bagliore dell'alba, navigò giù per l'estuario, portando Corsus ed i suoi figli via da Demonland, a casa. XXI. L'INCONTRO DAVANTI A KROTHERING In cui si dimostra come la politica di guerra ed un ritratto trascinino la guerra ad ovest; e di come Lord Gro si recasse come ambasciatore alle Porte di Krothering, e della risposta che là ricevette. Ora va detto che Zigg non aveva mancato di eseguire l'ordine di Spitfire, ma aveva raccolto in fretta e furia un'armata di più di millecinquecento cavalieri e fanti nelle valli del nord, nei villaggi intorno a Shalgreth Heath,
nei pascoli di Kelialand e di Switchwater Way e nella regione di Rammerick, e stava avanzando rapidamente sullo Stile. Ma, quando Corinius seppe di questa spedizione da ovest, marciò con tremila uomini per affrontare il nemico sopra Moonmere Head, e bloccargli la strada per Galing. Zigg, quando si trovava ancora sulle alte gole di Breakingdale, ebbe notizia per la prima volta del grande eccidio della Scogliera di Thremnir, di come le armate di Spitfire e Volle erano state annientate e disperse, e loro stessi erano fuggiti sulle montagne; e così, ritenendo poco proficuo dare battaglia a Corinius con un esercito così piccolo, senza por tempo in mezzo, diede l'ordine di invertire la marcia e tornò in fretta sullo Stile da dove era venuto. Corinius inviò un piccolo contingente per disturbare la sua ritirata ma, non essendo intenzionato a seguirli nelle Terre Occidentali, fece erigere un fortilizio nella gola di un passo in posizione vantaggiosa, vi lasciò un numero sufficiente di uomini come presidio, e tornò di nuovo ad Owlswick. Quelli che adesso si trovavano con Corinius a Demonland erano più di cinquemila soldati: un esercito numeroso e formidabile. Con quegli uomini, essendo il clima mite e favorevole, in breve tempo conquistò tutta la parte orientale di Demonland, eccetto Galing. Bremery di Shaws difese Galing per Lord Juss con soli settanta uomini contro tutti gli assalti. E così Corinius, pensando che questo frutto sarebbe maturato più tardi e sarebbe caduto nelle sue mani quando tutto il resto fosse stato raccolto, decise alla fine dell'inverno di marciare col grosso della sua armata verso le Terre Occidentali, lasciando un piccolo contingente a presidiare la regione orientale ed a bloccare Bremery a Galing. A questa decisione era stato condotto da argomentazioni puramente militari, che più felicemente assecondavano le sue inclinazioni. Infatti, a parte le motivazioni di strategia bellica, due poli di poco più deboli lo attiravano ad ovest: innanzitutto, l'antico livore ulceroso che nutriva nel cuore nei confronti di Lord Brandoch Dalia, che faceva di Krothering la sua preda più ambita, e poi, il desiderio bramoso che provava per Lady Mevrian. E questo solo per averne visto un ritratto, trovato da lui stesso in un armadio di Spitfire fra penne, calamai ed altre cianfrusaglie. Gli era bastato solo guardarlo per giurare che, con l'aiuto del Cielo (sì, ο senza se così doveva essere), lei sarebbe stata la sua amante. Così, il quattordicesimo giorno di marzo, una mattina limpida e fredda, marciò col grosso della sua armata su per Breakingdale e sullo Stile, seguendo la medesima strada che avevano percorso Lord Juss e Lord Bran-
doch Daha, quel giorno d'estate quando erano andati a tenere consiglio a Krothering prima della spedizione ad Impland. Le Streghe giunsero fino al punto dove confluivano i corsi d'acqua, poi deviarono verso Many Bushes. Là non trovarono Zigg, né sua moglie, né la sua gente: la casa era stata abbandonata. Allora la depredarono, la bruciarono e ripartirono. Saccheggiarono e bruciarono anche un importante castello di Juss ai confini di Kelialand, un altro a Switchwater Way, ed una residenza estiva di Spitfire su una collinetta sopra Rammerick Mere. Poi scesero vittoriosamente giù per Switchwater Way, e nessuno contrastò il loro cammino, ma tutti fuggirono all'avvicinarsi di quella grande armata e si nascosero in rifugi segreti sulle montagne, evitando la morte ed il fato avverso. Quando ebbero attraversato le Gole di Gashterndale e raggiunto Krothering Side, Corinius fece erigere l'accampamento sotto Erngate End, ai piedi dei declivi cosparsi di detriti che s'innalzavano ripidi fino all'alta parete occidentale della montagna, dove le strette balze disposte a schiera si stagliavano come un muro contro il cielo. Corinius andò quindi da Lord Gro e gli disse: «Affiderò a te il mio messaggio per questa Lady Mevrian. Andrai con una bandiera di tregua che ti consentirà di entrare nel castello; se invece non vorranno farti entrare, allora invitala a parlamentare con te fuori dalle mura. Allora ti servirai di quel fantasioso gergo da cortigiano che la natura e la tua inventiva ti consiglieranno, e dirai: "Corinius, per grazia del Grande Re, Re di Demonland, si trova, come puoi ben vedere, con tutta la sua invincibile potenza davanti a questo castello. Ma ha voluto che io ti riferissi che lui non è venuto per fare guerra a Dame e Damigelle, e puoi essere certa che non dirà nulla né farà del male né a te né a nessun altro che si trova in questa fortezza. Egli si propone solo di conferirti questo onore: unirsi in matrimonio con te e fare di te la Regina di Demonland." Dopodiché, se lei risponderà di sì, andrà benissimo, e noi potremo entrare a Krothering con tutta tranquillità e possedere la fortezza e la donna. Ma, se rifiuterà, allora le dirai con tutta la ferocia possibile che mi scaglierò contro il castello come un leone, e non riposerò né mi fermerò prima di averlo ridotto in rovina intorno a lei e di aver passato tutta la sua gente a fil di spada. Ed aggiungerai che, se mi rifiuterà amore e cortesia, io le otterrò con la forza, e lei ed i suoi Demoni arroganti mi riconosceranno come loro Re, e padrone di tutto ciò che posseggono e dei loro corpi, che per me saranno solo degli oggetti da utilizzare a mio piacimento.»
«Mio Signore Corinius,» disse Gro, «scegli un altro più adatto di me, ti prego, per questo incarico,» e continuò a lungo a supplicarlo con ardore. Ma Corinius, più aveva la percezione che l'incombenza non fosse gradita a Gro, più fermamente si convinceva che nessuno a parte Gro avrebbe potuto assolverla. Così, alla fine, Gro dovette acconsentire e, di lì a poco, si recò con undici uomini davanti alle porte di Krothering, con la bandiera bianca della tregua che sventolava davanti a lui. Mandò fino alla porta il suo araldo, che chiese a suo nome di parlare con Lady Mevrian. Dopo un po', le porte si aprirono, e la donna scese con una scorta per incontrare Lord Gro nel giardino aperto davanti al ponte levatoio. Era ormai pomeriggio inoltrato, ed il sole ardente scivolava giù fra piatte nuvole striate color cremisi, incendiando le acque dell'Estuario di Thunder coi riflessi dei suoi raggi. Dall'orizzonte, in alto al di là delle colline coperte di pini di Westmark, si sollevava una schiera di nuvole, solide e color ferro, dal profilo così netto contro il cielo vaporoso del tramonto, che sembravano vere e proprie montagne prodigiosamente innalzate per Demonland, per la quale le sue antiche colline non costituivano più una barriera sufficiente contro il nemico. Là, sulla porta di Krothering, la gaultheria ed i piccoli cespugli di dafne purpuree che fiorivano prima di mettere le foglie, diffondevano intorno la loro fragranza. Ma non era quella dolcezza nell'aria che turbava Lord Gro, né il magnifico incendio ad occidente che gli offuscava gli occhi: era la visione di quella donna sulla porta, bruna e dalla carnagione candida, come la Divina Cacciatrice, (1) alta, fiera, e bellissima. Mevrian, vedendo che lui non parlava, disse infine: «Mio Signore, ho sentito che devi riferirmi qualcosa. E, vedendo un grande accampamento in assetto di guerra eretto sotto Erngate End, ed avendo sentito parlare di razzie e misfatti compiuti qui intorno per molte lune, non credo che tu abbia da riferirmi cose gradevoli. Fatti coraggio, dunque, e dimmi con chiarezza tutte le cose spiacevoli che devi!» Gro rispose: «Prima devi dirmi se tu che stai parlando sei davvero Lady Mevrian, perché devo sapere se sto parlando con una creatura umana ο con qualche Dea scesa dal tetto scintillante del cielo.» «Non so che farmene dei tuoi complimenti,» rispose lei. «Ma sono colei che hai nominato.» «Signora,» disse Lord Gro, «non avrei mai voluto parlarti né riferirti questo messaggio, ma so con certezza che, se avessi rifiutato di farlo, te lo
avrebbe portato un altro, con meno cortesia e dispiacere di me.» Lei annuì gravemente, come per dire: Procedi. Così, con tutta la partecipazione che poteva, egli riferì il suo messaggio, dicendo alla fine: «Questo, Signora, ha detto il Re Corinius: e questo mi ha incaricato di riferire alla tua Altezza.» Mevrian lo ascoltò attentamente col capo eretto. Quando Gro ebbe concluso, rimase silenziosa per un po', scrutandolo ancora. Poi parlò: «Adesso mi sembra di riconoscerti. È Lord Gro di Goblinland colui che mi ha riferito questo messaggio.» «Signora,» replicò Gro, «colui che hai nominato se ne andò vent'anni fa da quella terra. Io sono Lord Gro di Witchland.» «Così mi è parso infatti, dal tuo modo di parlare,» disse Mevrian, e di nuovo ammutolì. Lo sguardo fermo degli occhi di quella donna era come un coltello che gli incideva la pelle, cosicché Gro finì col provare un disagio quasi insopportabile. Dopo un po' lei disse: «Mi ricordo di te, mio Signore. Lasciami rimestare nella memoria. Undici anni fa, mio fratello si recò a combattere a Goblinland contro le Streghe, e le sconfisse sul campo di Lormeron. Laggiù egli uccise in duello il Grande Re di Witchland, Gorice X, che fino a quel giorno era ritenuto il miglior guerriero del mondo. Mio fratello allora aveva solo diciotto inverni, e quella fu la prima vampata della sua immensa fama e gloria. Re Gaslark fece gran festa e ci fu grande allegria a Zaje Zaculo per la liberazione della sua terra dall'oppressore. Anch'io partecipai a quelle feste. Ti ho visto là, mio Signore e, essendo soltanto una fanciulla di undici estati, sedetti sulle tue ginocchia nelle sale di Gaslark. Mi mostrasti dei libri, con disegni in bizzarri colori d'oro, verde e scarlatto, di uccelli, animali, paesi lontani e meraviglie del mondo. Ed io, che ero solo una bambina indifesa, pensai che fossi buono e gentile, e ti volli bene.» A questo punto s'interruppe, e Gro, come se avesse ingerito una droga soporifera, rimase a fissarla, confuso. «Parlami,» disse lei, «di questo Corinius. È proprio un combattente valoroso come dicono?» «È uno dei più intrepidi Comandanti che siano mai esistiti,» rispose Gro. «Neppure i suoi peggiori nemici possono negarlo.» «Credi che sia un buon consorte,» disse Mevrian, «per una Dama di Demonland? Tieni bene a mente che ho rifiutato dei Re incoronati. Desidero conoscere la tua opinione, poiché egli senza dubbio deve essere un tuo
amico molto stretto, dal momento che ha voluto che tu fossi suo intermediario.» Gro si accorse che lei lo stava prendendo in giro, e ne fu rattristato. «Signora,» disse, e la sua voce tremò un poco, «non disprezzare troppo questa parte vile di me. In verità questo che ti ho portato è il più disonorevole dei messaggi, e te l'ho consegnato contro la mia volontà. Eppure, essendo costretto a farlo, avrei potuto soltanto battere la fronte contro il marmo e consegnarti il messaggio parola per parola.» «La tua lingua,» disse Mevrian, «ha gettato ferro incandescente sul mio viso. Torna dal tuo padrone. Se vuole una risposta, digli che potrà leggerla in lettere d'oro sopra le porte.» «Il tuo nobile fratello, Signora,» disse Gro, «non è qui per dare forza a quella risposta.» Le si avvicinò. «Non illuderti. Questo Corinius è un giovane perverso, malvagio e lussurioso, che ti tratterà senza alcun rispetto una volta penetrato con la forza nel Castello di Krothering. Sarebbe più saggio se tu mostrassi di volerlo accogliere: così, con parole gentili ed allontanandolo con fermezza, potresti trovare l'occasione per fuggire.» Ma Mevrian disse: «Hai già la mia risposta. Non ho orecchie per la tua richiesta. Riferisci anche che mio cugino Lord Spitfire è guarito dalle sue ferite, e che ha un'armata in marcia che spazzerà queste Streghe dalle mie porte prima che siano trascorsi molti giorni.» Così dicendo, Mevrian tornò nel castello con espressione colma di disprezzo. Lord Gro ritornò all'accampamento e da Corinius, che gli domandò com'era andata. Lui rispose che Lady Mevrian aveva opposto un netto rifiuto. «Così,» disse Corinius, «quella donna mi respinge? Ma fermare anche solo per un istante le mie brame serve solo a renderle più incontenibili. Perché io l'avrò! E questa ritrosia e questo impertinente rifiuto mi hanno convinto ancora di più.» XXII. AURWATH E SWITCHWATER Come Lady Mevrian osservò dalle Mura di Krothering l'Armata di Witchland ed i suoi Capitani; e delle notizie riferitele sulla guerra nelle regioni dell'ovest, di Aurwath Field e del grande massacro
di Switchwater Way. Il quarto giorno dopo gli avvenimenti descritti, Lady Mevrian camminava sui bastioni della fortezza di Krothering. Un vento impetuoso soffiava da nord-ovest. Il cielo era senza nubi: azzurro chiaro sopra la testa, grigio perla tutto il resto, e l'aria un po' velata dalla nebbia. Il suo vecchio Siniscalco, robusto e dall'aspetto militaresco, con gambali, elmo e giustacuore di pelle di toro coperto di piastre, camminava accanto a lei. «L'ora sta per scoccare,» disse la donna. «Sarà oggi ο domani, mi disse Lord Zigg quando fu ospite qui. Se Goblinland sarà puntuale all'appuntamento, sarà un'impresa quasi impossibile assalirli insieme.» «Sarebbe come se tu, mia Signora, schiacciassi un moscerino fra i palmi delle mani,» disse il vecchio; e guardò di nuovo a sud, al di là del mare. Lady Mevrian spostò il suo sguardo nella medesima direzione. «Non vedo niente, a parte la nebbia e gli spruzzi,» disse dopo aver scrutato per qualche minuto. «Sono lieta di aver mandato a Lord Spitfire quei duecento cavalieri. Dovrebbe essere riuscito a radunare tutti gli uomini ormai. Cosa pensi, Ravnor: se Re Gaslark non verrà, lord Spitfire sarà in grado di tener testa da solo alle Streghe?» Ravnor ridacchiò nella sua barba. «Credo di sì. E, se il mio Signore tuo fratello fosse qui, ti risponderebbe anche lui allo stesso modo, mia Signora. Fin da quando ho usato per la prima volta un archetto (1) mi hanno insegnato che un Demone vale almeno cinque Streghe.» Lei lo guardò con un po' di malinconia. «Ah,» disse, «se lui fosse qui! Se Lord Juss fosse qui!» Poi si voltò all'improvviso verso nord, indicando l'accampamento. «Se fossero qui,» gridò, «non vedresti degli stranieri minacciarci con le armi a Krothering Side, farmi offerte infamanti, e tenermi prigioniera come un uccello in questo castello. Erano mai accadute simili cose a Demonland, finora?» Un ragazzo arrivò correndo lungo i bastioni dall'altro lato della torre, gridando che delle navi erano apparse all'orizzonte a sud-est. «Si dirigono verso l'estuario!» «Da dove verranno?», disse Mevrian, mentre tornavano indietro in fretta per vedere. «Da Goblinland, no?», rispose Ravnor. «Oh, non essere così precipitoso nel dirlo!», gridò lei. Aggirato il muro della torretta, il mare e l'Estuario di Stropardon si spalancarono, sgombri, davanti a loro. «Non vedo niente!», disse Mevrian. «O la flotta che hanno
visto è quello stormo di gavine laggiù?» «Si riferiva all'Estuario di Thunder,» disse Ravnor, che l'aveva preceduta, indicando ad ovest. «Fanno rotta verso Aurwath. È certamente Re Gaslark: osserva l'azzurro e l'oro delle sue vele.» Mevrian osservò, mentre la sua mano guantata tamburellava nervosamente sui merli di marmo. Aveva un aspetto maestoso, avvolta com'era in un mantello di seta bianca col collo e la fodera di ermellino che sventolava per la brezza marina. «Diciotto navi!», esclamò. «Non avrei mai pensato che Goblinland potesse mettere assieme una simile flotta!» «Vediamo, mia Signora,» disse Ravnor, tornando indietro lungo le mura, «se le Streghe hanno dormito mentre quelle navi veleggiavano in direzione del porto.» Lei lo seguì e guardò. C'era grande agitazione nell'armata di Witchland, che si stava schierando davanti all'accampamento: c'era un andare e venire, un saltare a cavallo, e, debole nel vento, giunse alle orecchie di Mevrian lo squillo delle trombe mentre osservava dall'alta torre di guardia. Poi l'esercito si mosse lungo i prati, in perfetto ordine, scintillante di bronzo e di acciaio. Avanzò verso sud, attraversando infine il terreno davanti a Krothering, al punto che ogni uomo era chiaramente visibile dai bastioni, mentre cavalcava laggiù in basso. Mevrian si sporse da una strombatura, con una mano su entrambi i merli alla sua sinistra ed alla sua destra. «Vorrei conoscere i loro nomi,» (2) disse. «Tu, che sei andato sovente in guerra, puoi aiutarmi a riconoscerli. Riconosco Gro, che ha una lunga barba, e fa male al cuore vedere un Signore di Goblinland in simile compagnia. Ma chi è quello accanto a lui, quel cavaliere barbuto, con un elmo alato circondato da un diadema, come quello di un Re, che regge una lancia dall'asta color cremisi? Ha l'aspetto fiero.» Il vecchio rispose: «È Laxus di Witchland: lo stesso che era Ammiraglio della loro flotta contro i Ghoul.» «È un uomo intrepido a vedersi, e adatto ad una causa migliore. E chi è quello che sta passando adesso sotto di noi, alla guida della loro cavalleria: quello rubicondo, bruno e di corporatura snella, con la fronte aggrondata, che indossa un'armatura dal collo ai piedi?» «Altezza,» rispose Ravnor, «non lo riconosco con certezza, dal momento che i figli di Corund si somigliano molto. Ma credo che sia il giovane Principe Heming.» Mevrian scoppiò a ridere. «Un Principe quello? Davvero?» «Così va il mondo, mia Signora. Da quando Gorice ha posto Corund sul
trono di Impland...» «Chiamalo Heming Faz,» disse Mevrian, «ti prego! Ti assicuro che tengono molto a questi titoli barbari. Heming Faz, hai finito di farla da padrone a Demonland!» «Ma il più smargiasso di tutti,» proseguì dopo un poco, «mi pare si tenga nelle retrovie. Oh, eccolo! Dolce cielo, che modo sfrenato di cavalcare! In fede mia però, sa davvero stare in groppa a un cavallo, Ravnor, ed ha la corporatura di un atleta. Guarda come galoppa a testa nuda lungo le file dei soldati. Immagino che avrà bisogno di qualcosa di più di quei riccioli d'oro per conservare intatta la testa prima di aver finito con Gaslark e con la nostra gente che verrà da nord. Vedo che tiene l'elmo attaccato alla sella. Schernirci così!», gridò, mentre quello si avvicinava. «Tutto seta e argento! Avrei giurato che solo un Demone potesse andare in battaglia abbigliato così riccamente. Oh, se avessi delle forbici per tagliargli quella cresta!» Così dicendo, si sporse più che poteva, per osservarlo. E l'uomo, mentre galoppava proprio là sotto, alzò la testa e, vedendo che lei lo stava fissando in quel modo, diede un forte strappo alle redini del suo cavallo sauro, facendogli piegare il collo fin quasi sull'anca. Poi, mentre il cavallo si lanciava in avanti, impennandosi, Corinius la salutò a gran voce, gridando: «Buon giorno, Signora! Vincerò e poi sarò subito fra le tue braccia!» Stava cavalcando talmente vicino che lei poté scorgere i lineamenti del suo volto mentre lui stava con la testa alzata e le gridava quelle parole. Poi Corinius le rivolse un saluto con la spada, e diede di sprone per raggiungere Gro e Laxus all'avanguardia. Come colta da un improvviso malore, ο come se avesse calpestato un marasso dal morso mortale, Lady Mevrian si appoggiò al marmo della merlatura. Ravnor fece un passo verso di lei: «Stai male, mia Signora? Cosa è successo?» «Uno sciocco malessere...», disse Lady Mevrian con voce fioca. «Se vuoi curarlo, mostrami lo scintillio degli speroni di Spitfire a nord. Questa terra deserta mi annebbia la mente.» Il pomeriggio trascorse. Due e tre volte Mevrian salì sulle mura, ma non riuscì a scorgere nulla tranne il mare, gli estuari e la pianura cinta dalle montagne, bella e tranquilla a primavera: nessun segno di uomini ο di squilli di guerra, tranne gli alberi delle navi di Gaslark visibili al di sopra del promontorio situato tre miglia ο più a sud. Eppure, lei sapeva per certo che, vicino a quelle navi nei pressi del porto
di Aurwath, doveva essere in corso un combattimento disperato: Re Gaslark era di certo duramente impegnato contro Laxus, Corinius e le lance di Witchland. Il sole scivolò basso sopra i neri pini di Westmark, ma ancora non veniva alcun segno da nord. «Hai mandato qualcuno in cerca di notizie?», chiese Mevrian a Ravnor, la terza volta che salì sulle mura. «Stamattina presto,» rispose lui, «Altezza. Ma l'esploratore si sarà sicuramente mosso con lentezza fino ad un miglio ο due di distanza dal castello, poiché sarà stato costretto ad eludere le bande che si aggirano nella zona.» «Non appena ritorna portalo da me!», ordinò lei. Quindi, con un piede sulle scale, si voltò. «Ravnor...», lo chiamò. Lui la raggiunse. «Tu,» disse Mevrian, «sei stato per tanti anni Siniscalco di mio fratello a Krothering, e di nostro padre prima di lui, e quindi sai bene quale mente e spirito hanno quelli della nostra Casata. Dimmi, in tutta sincerità, cosa pensi. Lord Spitfire dev'essere in ritardo; Goblinland, invece, è troppo in anticipo (e questo è un suo antico errore). Cosa vedi tu in tutto questo? Rispondimi come se fosse stato Lord Brandoch Daha a porti questa domanda!» «Altezza,» disse il vecchio Ravnor, «ti dirò cosa penso veramente: la sventura cadrà su Goblinland. Poiché Lord Brandoch Daha non è ancora arrivato da nord, solo gli Dei immortali scesi dal cielo possono salvare Re Gaslark. Le Streghe, secondo una stima approssimativa, sono in numero doppio dei suoi; e, in un corpo a corpo, sarebbe come contrapporre un cane ad un orso, se mettiamo le Streghe contro i Goblin. Nonostante siano fieri e pieni di coraggio, l'orso alla fine prevarrà!» Mevrian ascoltò, guardandolo con occhi fissi e tristi. «E lui è stato così nobile e generoso da correre in aiuto di Demonland in un momento terribile come questo!», disse alla fine. «Può il destino essere così beffardo? Oh, Ravnor, che infamia! Prima La Fireez, adesso Gaslark. Chi ci amerà ancora? Che infamia, Ravnor!» «Non era mia intenzione, Altezza,» disse Ravnor, «far sì che tu gettassi frettolosamente la colpa su di noi. Se il loro piano è fallito, è più probabile che sia per colpa di Re Gaslark che di Lord Spitfire. Non sappiamo con certezza quale giorno fosse previsto per il suo arrivo.» Mentre diceva questo, Ravnor stava guardando il mare dietro di lei, leggermente a sud della zona più rossa del tramonto. Poi i suoi occhi si spa-
lancarono, e toccò il braccio della donna indicando con una mano. Delle vele erano state issate sugli alberi ad Aurwath, e del fumo - come di un incendio - saliva nel cielo. Mentre osservavano, la maggior parte delle navi si mosse verso il mare aperto. Da quelle che restavano - cinque ο sei - si sollevavano fiamme e nere nubi di fumo. Le altre, allontanatesi dal riparo della terraferma, si diressero a sud, al largo, sotto la spinta dei remi e delle vele. Nessuno dei due parlò; e Lady Mevrian, appoggiando i gomiti sul parapetto del muro, si nascose la faccia fra le mani. Finalmente l'esploratore di Ravnor tornò dalla sua missione, ed il vecchio lo condusse da Mevrian nel suo appartamento situato nella parte sud di Krothering. Lì arrivato, l'esploratore disse: «Altezza, non porto messaggi scritti, dal momento che sarebbe stato troppo pericoloso se fossi caduto nelle mani delle Streghe. Ma mi è stata concessa udienza da Lord Spitfire e Lord Zigg alle porte di Gashterndale, e le loro Eccellenze mi hanno ordinato di riferirti, Altezza, che devi essere fiduciosa e tranquilla, dal momento che loro controllano tutte le strade di accesso a Krothering, e che l'armata di Witchland non può ritirarsi da qui se non attraverso gli Estuari di Thunder e di Stropardon, e solo ingaggiando battaglia con le nostre forze. Se invece le Streghe scelgono di restare qui a Krothering, allora il nostro esercito potrà accerchiarli ed annientarli, dal momento che le nostre forze li superano di circa mille lance. Cosa che accadrà domani in ogni caso, poiché quello è giorno stabilito per l'arrivo ad Aurwath di Gaslark con un suo contingente di soldati.» «Allora non sanno nulla,» disse Mevrian, «del malaugurato errore di Gaslark, del fatto che è arrivato in anticipo, e che è stato ricacciato in mare?» Quindi aggiunse: «Dobbiamo avvertirli. In fretta: stanotte stessa!» Quando l'uomo ebbe udito questo, rispose: «Dieci minuti per un morso ed una bevuta, e sarò pronto a servirti, Altezza.» Di lì a poco, quell'uomo uscì di nuovo da Krothering nel crepuscolo, furtivamente, per portare a Lord Spitfire la notizia di ciò che era accaduto. E le sentinelle che scrutavano nella notte dalle mura di Krothering, videro a nord, sotto Erngate End, i fuochi dell'accampamento delle Streghe che brillavano come stelle. La notte passò, spuntò il giorno, e l'accampamento delle Streghe si presentò deserto come un guscio vuoto.
«Se ne sono andati durante la notte!», osservò Mevrian. «Altezza, penso che fra non molto riceverai grandi notizie!», replicò Ravnor. «È probabile che avremo degli ospiti stanotte a Krothering,» disse Mevrian. Poi diede ordine che tutti si tenessero pronti per il loro arrivo, e preparassero le camere migliori per accogliere Spitfire e Zigg. Così, con tutto quel daffare, il giorno trascorse ma, mentre calava la sera, e non si vedeva alcun movimento a nord, alcune ombre di ansia e di dubbio, scesero con le avvisaglie della notte, strisciando nel cielo e nell'attesa impaziente di quanti si trovavano a Krothering. Il messaggero di Lady Mevrian non faceva ritorno. La donna andò tardi a riposare, e fu in piedi alle prime luci dell'alba, avvolta dal suo ampio mantello di velluto e piume di cigno per proteggersi dal vento pungente del mattino. Recatasi sui bastioni assieme al vecchio Ravnor, scrutò il paesaggio desolato: il giorno spuntava pallido su un panorama deserto, e così fu fino a sera: lei scrutava, aspettava, ed interrogava il proprio cuore. Alla fine, la terza notte dopo la battaglia di Aurwath, andarono a mangiare. Ma, prima che la cena fosse giunta a metà del suo svolgimento, si udì un movimento nel cortile esterno, lo sferragliare del ponte levatoio che veniva abbassato, ed un battere di zoccoli sul ponte e sul diaspro (3) della pavimentazione. Mevrian rimase seduta, eretta ed impaziente, e fece un cenno con la testa a Ravnor il quale, senza attendere altri segni, uscì in tutta fretta, e tornò nel giro di un istante con passo rapido ed il volto triste. Le disse in un orecchio: «Ci sono novità, mia Signora, ma sarebbe meglio che tu le sentissi in udienza privata. Bevi prima questo calice,» aggiunse, versando un po' di vino per lei. Lei allora si alzò, dicendo al Siniscalco: «Vieni anche tu, e conduci il messaggero con te.» Mentre s'incamminavano, lui le sussurrò: «Si tratta di Astar di Rettray, mandato da Lord Zigg con una cosa importantissima da riferire alla tua Altezza.» Lady Mevrian sedette sul suo scranno d'avorio ricoperto con cuscini di magnifiche sete di Beshtria, con sopra ricamati uccellini dorati, foglie di fragole coi fiori i cui ricchi frutti rossi erano raffigurati con colori sgargianti. Quindi tese la mano ad Astar che stava davanti a lei nella sua armatura da battaglia, coperto di fango e di sangue dalla testa ai piedi. Questi s'inchinò e le baciò la mano: poi rimase in silenzio. Tenendo alta la testa la
fissò in volto, ma i suoi occhi erano iniettati di sangue e la sua espressione era spettrale come quella di un messaggero di sventure. «Signore,» disse Mevrian, «non essere indeciso, e riferisci tutto. Sai che non è nella nostra natura avvilirci davanti ai pericoli ed alle disgrazie.» «Mio cognato Zigg,» disse Astar, «mi ha affidato l'incarico, Signora, di dirti tutta la verità.» «Procedi!», disse lei. «Tu sei già a conoscenza delle ultime novità. Fin da quel momento, ora dopo ora, abbiamo sperato in una vittoria. Scusa se, aspettando il vostro arrivo, non ho fatto preparare alcun banchetto di benvenuto.» Astar gemette. «Mia Signora,» disse, «adesso devi preparare una spada, non un banchetto. Ti ricordi di aver mandato un messaggero da Lord Spitfire?» «Sì.» «Quella notte ci ha riferito della disfatta di Gaslark. Ohimè, Goblinland è arrivata con un giorno di anticipo, e così ha dovuto affrontare da sola lo scontro. Eppure eravamo convinti di avere la vendetta a portata di mano. Ogni passo ed ogni sentiero erano sorvegliati, ed avevamo anche l'esercito più numeroso. Così, quella notte, aspettammo, osservando i fuochi dell'accampamento di Corinius accesi a Krothering Side, con l'intenzione di scagliarci contro di lui all'alba del giorno successivo. C'era nebbia quella notte, e la luna era tramontata presto. Ma, tanto vero quanto assurdo, l'intera armata di Witchland ci superò marciando nel buio.» «Cosa?», gridò Mevrian. «Dormivate tutti? E li avete fatti passare?» «Nel bel mezzo della notte,» rispose Astar, «avemmo notizie certe che Corinius era in marcia, e che i fuochi ardevano ancora nel suo accampamento solo per ingannarci. Dalle tracce inequivocabili, capimmo che era diretto a nord-ovest, dove avrebbe dovuto prendere la strada più elevata che conduce a Mealand sopra Brocksty Hause. Zigg, con settecento cavalieri, galoppò fino ad Heathby per precederlo, mentre il grosso dei nostri avanzava il più rapidamente possibile su per Little Ravendale. Come vedi, Signora, Corinius marciava lungo l'arco e noi lungo la corda.» «Sì,» disse Mevrian. «Dovevate soltanto ostacolarlo con la cavalleria ad Heathby, ed egli avrebbe dovuto combattere ο ritirarsi verso Justdale dove probabilmente avrebbe perso metà dei suoi negli Acquitrini di Memmery. Difficilmente gli stranieri riescono a trovare un sentiero sicuro laggiù in una notte buia.» «Avremmo dovuto aver ragione di lui,» disse Astar. «Ma è certo che egli
marciò rapido come una lepre e si prese gioco di noi tutti: tornò sui suoi passi, come più tardi capimmo, in qualche punto nei pressi di Goosesand, e con tutto il suo esercito si portò indietro verso est passando sotto la nostra retroguardia. È stata l'impresa più straordinaria mai narrata nelle cronache di guerra.» «Silenzio, Nobile Astar!», disse Mevrian. «Non sforzarti di tessere le lodi di Witchland, e non pensare che io stimi di meno l'abilità militare di Spitfire ο di Zigg se Corinius, per un caso fortuito, li ha elusi nel buio.» «Mia Signora, tieniti pronta, perché ora viene il peggio.» I grandi occhi di lei lo fissarono. «Ci venne riferito,» proseguì lui, «che si erano diretti a tutta velocità ad est oltre Switchwater; e, prima che il sole fosse sopra Gemsar Edge, eravamo sulle loro tracce, con la consapevolezza che eravamo più numerosi e che la nostra sola speranza era quella di costringerli a combattere prima che raggiungessero lo Stile, da dove avremmo avuto scarse speranze di stanarli se vi fossero arrivati.» S'interruppe. «Continua!», disse Lady Mevrian. «Signora,» proseguì Astar, «che noi di Demonland siamo prodi e invincibili in guerra, è cosa certa. Ma in questi giorni abbiamo combattuto come un uomo che combatte legato, ο con solo metà del suo equipaggiamento, ο appena svegliato dal sonno. Era come se fossimo stati privati della nostra abilità. E, così impediti, su di noi si è abbattuta una disfatta simile a quella che, alla Scogliera di Thremnir, l'autunno scorso, frantumò le nostre forze, e che adesso, ancora più terribile, ci ha annientati a Switchwater Way.» Le guance di Mevrian divennero pallide, ma lei non disse una parola, ed attese. «Eravamo strenuamente impegnati nell'inseguimento,» disse Astar, «e te ne ho spiegato il perché, Signora. Tu sai quanto vicino alle montagne si snodi la strada al di là di Switchwater, e come la riva del lago costeggi per miglia la strada di fronte agli speroni rocciosi, come i boschi ricoprano le pendici inferiori, e vallette e forre salgano fra gli speroni nel fianco della montagna. La giornata era nebbiosa, e la nebbia incombeva sulle rive di Switchwater. «Avevamo marciato tanto, che la nostra avanguardia si trovava quasi ad Highbank, che sta sulla riva più lontana, quando cominciò la battaglia: con loro evidente vantaggio, poiché Corinius aveva sistemato un buon numero di uomini sulle colline alla nostra destra. Fu così che ci tese un'imboscata e
ci prese alla sprovvista. Non voglio affliggerti con un racconto doloroso, Signora, comunque siamo stati sanguinosamente sconfitti ed il nostro esercito è stato praticamente annientato. «Nel bel mezzo del tumulto, Zigg rubò un istante per incaricarmi, in nome dell'affetto che provo per lui, di venire qui a Krothering, come se a questa missione fosse affidata la mia vita e la salvezza di tutti noi, e di pregarti di fuggire da qui, dirigendoti a Westmark ο sulle Isole, ο dovunque tu voglia, prima che le Streghe tornino e ti prendano in trappola. Dal momento che, salvo queste mura ed i pochi e valorosi soldati che hai per sorvegliarle, non c'è più alcuna difesa fra te e questi individui malvagi.» Lei restò ancora in silenzio. Astar continuò: «Ti prego di non odiarmi troppo, mia gentilissima Signora, per questo crudo racconto di disfatta. L'incalzare degli eventi esclude la possibilità di qualsiasi discorso arzigogolato. Ho ritenuto che la chiarezza del racconto ti avrebbe soddisfatta più di una falsa cortesia da parte mia, che avrebbe dovuto spingermi a mostrarti consolazione là dove consolazione non c'è.» Lady Mevrian si alzò e gli prese entrambe le mani. Di certo la luce dei suoi occhi era come la nuova luce dell'alba scintillante attraverso la nebbia sulla superficie grigia ed immobile di un laghetto montano, ed il tono della sua voce era dolce come le voci del mattino mentre diceva: «Astar, non ritenermi così meschina, e neppure così sciocca! Grazie! Ma tu non hai cenato, e di certo in un soldato la battaglia ed una lunga galoppata stimolano la fame, per quanto sgradevoli possano essere le notizie che reca. Non ti accoglieremo con freddezza solo perché aspettavamo altri, a parte te, e ben altre notizie. Ti è già stata preparata una camera: ora mangia e bevi e, quando la notte sarà passata, ci sarà abbastanza tempo per parlare ancora di queste cose.» «Signora,» disse lui, «devi fuggire subito, ο sarà troppo tardi.» Ma lei gli rispose: «No, nobile Astar. Questa è la casa di mio fratello e, finché sarò in grado di difenderla, non sgattaiolerò via da Krothering come un ratto, ma resterò al mio posto. E questo è certo: non aprirò le porte di Krothering alle Streghe, ma io e la mia gente vivremo per tenerle sbarrate davanti a loro.» Mevrian convinse Astar ad andare a cenare, ma lei rimase seduta da sola fino a notte fonda nella Camera della Luna, che si trovava nel torrione che dominava il cortile interno di Krothering. Era la camera da pranzo di Lord Brandoch Daha, progettata ed arredata
da lui negli anni passati; e là Mevrian era solita sedersi con lui, e non si servivano della sala dei banchetti situata dall'altro lato del cortile, salvo quando c'erano molti ospiti. Quella camera era rotonda, perché seguiva il muro rotondo della torre in cui si trovava. Tutte le colonne, i muri, ed il tetto a volta, erano fatti di una pietra strana, bianca e liscia, che emanava uno scintillio di oro pallido, simile al chiarore dorato della luna piena di una calda notte di mezza estate. Bagliori che erano di uno splendente color opale lattiginoso, riempivano la camera di una tenue radianza, in cui i bassorilievi delicatamente scolpiti del plinto (6), che rappresentavano i fiori immortali di amaranto, nepente, aglio selvatico ed asfodelo degli Elisi, erano visibili in tutta la loro delicata bellezza (7), così come i bei ritratti del Signore di Krothering e di sua sorella, e di Lord Juss, il quale ultimo si trovava sopra il grande focolare con Goldry e Spitfire alla sua sinistra ed alla sua destra. C'erano alcuni altri ritratti, ma erano pochi e più piccoli: la Principessa Armelline di Goblinland, Zigg e sua moglie, e altri personaggi. Erano veramente meravigliosi. Lady Mevrian rimase seduta a lungo là. Aveva un piccolo liuto fatto di legno dolce di sandalo e di avorio, intarsiato con gemme. Mentre rifletteva, le sue dita scivolavano pigramente sulle corde, e cantava con voce bassa e dolce: Su un albero c'eran tre corvi, Neri più che mai e torvi. Traila lalla là. Uno di essi ad un altro domandò, Dove faremo il nostro pasto però? Laggiù disteso su quel verde prato, C'è un cavaliere morto ammazzato. I suoi cani stanno lì a guardare, E sul padrone possono vegliare. Ed i suoi falchi volan senza sosta, Perciò nessun uccello a lui s'accosta. Colà giunge una cerva malaccorta
Pregna per il cucciolo che porta. Gli solleva la testa insanguinata. E bacia la ferita sì arrossata. Dopo lo carica sul proprio dorso, E compie fino al lago il suo percorso. Lo seppellì che era primavera; E lei stessa morì prima di sera. Dio: manda ad ogni cavaliere errante Questi falchi, questi cani e quest'amante. Traila lalla là. Mentre le ultime note, dolci e tremolanti, venivano emesse dalle corde, depose il liuto dicendo: «La disarmonia dei miei pensieri, liuto mio, mal si concilia con l'armonia delle tue corde. Smettiamo!» Poi si mise a fissare il dipinto di suo fratello, Lord Brandoch Daha, ritratto nella sua cotta di maglia ingioiellata guarnita d'oro, con la mano sulla spada. Ed il suo pigro sguardo irridente eppure imperioso era là, meravigliosamente colto dall'arte del pittore, come pure il taglio attraente della sua fronte, delle labbra e della mascella, dove sonnecchiavano il potere e la determinazione imperiosa, così come il bronzeo Ares sonnecchiava fra le braccia della Regina dell'Amore (6). Mevrian fissò a lungo quel ritratto, meditando. Poi, seppellendo il viso fra i cuscini del lungo scranno sul quale era seduta, scoppiò in un pianto dirotto. XXIII. LO STRANO INIZIO DI ISHNAIN NEMARTRA Del consiglio tenuto dalle Streghe riguardo all'andamento della guerra: e di come, al quinto assalto, il castello di Lord Brandoch Daha divenne preda di Corinius. C'era poco tempo per discutere ο far congetture poiché, la mattina del
giorno dopo, ancora una volta l'armata di Witchland fu davanti a Krothering, ed un araldo fu mandato da Corinius per convincere Mevrian a cedere il castello e la sua stessa persona, per evitare che accadessero cose peggiori. Ma lei rifiutò con fermezza, e Corinius sferrò subito un attacco al castello, che non ottenne alcun risultato. Per i tre giorni successivi assalì altre tre volte Krothering, poi, avendo fallito e perso molti uomini senza essere riuscito a fare alcunché, cinse d'assedio la fortezza. A quel punto, chiamò a sé gli altri Signori di Witchland per parlare con loro. «Cosa avete da dire?», chiese, «Che decisione dobbiamo prendere? Sono in pochi a presidiare le mura e, sia per noi che per tutta Witchland, sarebbe una grande infamia non riuscire a prendere questa fortezza, pur essendo in tanti e guidati da Capitani così esperti.» Laxus disse: «Sei tu il Re di Demonland, ed è compito tuo decidere quello che si deve fare. Ma, se accetti un mio consiglio, allora te lo darò.» «Desidero che ognuno di voi,» disse Corinius, «mi esponga con franchezza e liberamente il suo parere. E sapete bene che io mi batto solo per la gloria di Witchland e per consolidare le nostre conquiste quaggiù.» «Bene,» disse Laxus, «ti ho già espresso una volta il mio parere, e tu ti incolleristi con me. Hai ottenuto una grande vittoria a Switchwater Way; se avessimo insistito, spingendo a fondo la spada del nostro vantaggio finché l'elsa non avesse urtato la corazza dei nostri avversari, adesso avremmo spazzato da questa terra tutta la loro nidiata: Spitfire, Zigg e Volle. Ma ora sono fuggiti solo il Diavolo sa dove, per preparare delle nuove spine con le quali pungolarci i fianchi.» «Non parlare col senno di poi, Signore,» disse Corinius. «Non è stato questo il tuo suggerimento. Tu volevi convincermi ad abbandonare Krothering: una cosa che non farò mai, una volta che ho teso la mia mano su di essa.» «Non solo ti ho consigliato come ho detto io,» gli rispose Laxus, «ma Heming è qui, e può confermare che proposi che lui od io, con un piccolo contingente, avremmo potuto mantenere chiuso per te questo vasetto di marmellata, finché tu non avessi portato a termine l'incombenza più importante.» «È così!», disse Heming. «Non è così, Heming,» replicò Corinius. «E, se anche così fosse, si comprende facilmente la ragione per cui tu ο lui bramate di succhiare per primi questo frutto delizioso. Ma non capisco perché dovrei cederlo a voi.»
«Questa,» disse Laxus, «è una insinuazione vergognosa! Vedo che la tua memoria ha bisogno di essere rinfrescata, e che stai scivolando nell'ingratitudine. Quanti frutti di questo genere hai gustato da quando siamo venuti qui, frutti che noi ci siamo presi la briga di raccogliere?» «Oh, devi scusarmi, Signore!», disse Corinius. «Avrei dovuto saperlo che il pensiero delle roride labbra di Sriva ti avrebbe impedito di smarrirti. Ma basta con queste sciocchezze, e veniamo al punto!» Lord Laxus arrossì. «In fede mia,» disse, «è proprio questo il punto. Sarebbe bene, Corinius, che tu evitassi di far smarrire i tuoi pensieri. Sprecare uomini per una fortezza? Meglio attaccare Galing, allora: sarebbe un trofeo più fruttifero per la nostra sopravvivenza e la nostra sovranità su questa terra.» «Sì,» disse Heming. «Scoviamo il nemico! Dopo torneremo qui: ma non per cercare donne per te.» A queste parole Lord Corinius lo colpì sul viso, attraverso il tavolo, con un forte schiaffo. Heming, folle di rabbia, estrasse un pugnale, ma Gro e Laxus lo afferrarono per le mani, bloccandolo. Gro disse: «Miei Signori, basta con queste parole offensive e pericolose! Noi tutti dobbiamo avere un solo cuore ed una sola mente qui, tesi ad esaltare il Re nostro Signore e la sua gloria. Tu, Heming, non dimenticare che il Re ha messo la sovranità nella mano di Corinius, cosicché il tuo pugnale puntato contro di lui è come se fosse puntato contro la maestà del Re. E tu, mio Signore, cerca di temperare la tua irruenza. È certo il desiderio di combattere in campo aperto che spinge a queste contese private.» Quando, per effetto di queste parole, l'agitazione si fu calmata, Corinius invitò Gro ad esprimere la sua opinione su quale dovesse essere la prossima mossa. Al che Gro rispose: «Sono dello stesso parere di Laxus. Restando qui davanti a Krothering, ci comportiamo come quei cuochi pigri che si trastullano coi dolciumi mentre l'arrosto brucia. Dovremmo cercare le forze nemiche e distruggerle dove ancora sono in libertà, prima che esse accrescano fino a metterci in pericolo: ovunque siano fuggiti quei Signori dei Demoni, non credere che rinuncino a preparare qualcosa di molto sgradevole per tutti noi.» «Vedo,» disse Corinius, «che tutti e tre vi siete messi d'accordo contro di me. Ma non c'è neppure un solo seme di queste idee che il vostro discorso sia riuscito a piantare nella mia mente, ο che sia in grado di penetrare attraverso quella nube nella quale vi trovate.» «È un fatto,» disse Laxus, «che noi riteniamo in qualche modo infaman-
te combattere contro le donne.» «Ah, ecco che finalmente è stato tolto il coperchio dal piatto!», esclamò Corinius. «E che bel pasticcio c'è dentro! Voi avete l'idea fissa delle donne - ognuno di voi - e ciò vi offusca la vista inducendovi a pensare che io soffra della stessa follia. Tu e la tua smorfiosetta dagli occhi neri, che sono certo ti ha già dimenticato da mesi per qualcun altro! Ed Heming! Non so davvero per quale dolce fanciulla il suo cuore palpita! Rimane Gro... ah! ah!», e scoppiò a ridere. «Per quale ragione il Re mi abbia rifilato questo Goblin, lo sa soltanto lui e il Diavolo che gli fa da segretario, non io! «Per Satana, lo sguardo di desiderio che hai negli occhi, mi porta a credere che l'incarico per cui ti mandai davanti alle porte di Krothering non deve averti fatto bene. Lo sguardo lascivo del mio gatto mi dimostra che il mio gatto è in calore. Trovi che il colore dell'ala del corvo sia più adatto del rosso-rame ai capelli di una fanciulla per scuotere coloro che hanno il sangue freddo? Ο ritieni che costei abbia un seno più morbido di quello della tua Regina per far da cuscino ai tuoi riccioli profumati?» A queste parole, gli altri tre balzarono dalle sedie. Gro, con la faccia grigia come la cenere, disse: «A me puoi sputare addosso tutta la sozzura che ti pare, dato che sono abituato a sopportare ciò per il bene di Witchland e finché il tuo stesso veleno non ti soffocherà, ma c'è una cosa che non farai finché campo, tu ο chiunque altro: pronunciare con la tua lingua immonda il nome della Regina Prezmyra.» Corinius sedeva ancora sulla sedia in un atteggiamento di studiata naturalezza, ma la sua spada era a portata di mano. La sua grossa mascella si era irrigidita, ed i suoi occhi azzurri ed insolenti scivolavano sprezzanti dall'uno all'altro di quei Signori che lo minacciavano. «Puah!», borbottò infine. «Chi ha pronunciato il suo nome se non tu stesso, Lord Gro? Io no.» «Faresti meglio a non pronunciarlo di nuovo, Corinius,» disse Heming. «Non ti abbiamo finora seguito e sostenuto con fedeltà? E così continueremo a fare. Ma ricorda, io sono figlio di Re Corund e, se dici ancora una menzogna, essa ti costerà la vita.» Corinius allargò le braccia e scoppiò a ridere. «Suvvia,» disse, alzandosi ed ostentando un gaio atteggiamento amichevole, «era solo uno scherzo; e, lo riconosco tranquillamente, uno scherzo di cattivo gusto. Mi dispiace, miei Signori!» «E adesso,» proseguì, «torniamo al punto. Non rinuncerò al Castello di Krothering, dal momento che non è mia abitudine voltare le spalle davanti
a nessun uomo, né davanti agli Dei Onnipotenti, una volta imboccata la mia strada. Ma farò un patto con voi, che è questo: domani assaliremo per l'ultima volta la fortezza, utilizzando tutti i nostri uomini e la nostra potenza. E se, come ritengo fortemente improbabile e infamante, falliremo, allora ce ne andremo e seguiremo il tuo suggerimento, Laxus.» «Abbiamo già perso quattro giorni,» disse Laxus, «che non potrai recuperare. Comunque, sia come tu vuoi!» Così terminò il Consiglio. Ma la mente ed il cuore di Lord Gro non erano tranquilli: erano in preda ad un tumulto di fantasie, di speranze, timori ed antichi desideri, che s'intrecciavano come serpenti attorcigliati ed in lotta fra loro. Niente gli era chiaro, tranne l'oscura agitazione del suo scontento; ed era come se la consapevolezza di una segreta ammissione avesse spinto la sua mente interiore a gettare all'improvviso un velo fra sé e quei suoi pensieri che non osava sceverare. La mattina presto, Corinius si lanciò all'assalto di Krothering con tutte le sue forze, Laxus da sud, Heming e Gro da est contro la porta principale, e lui stesso da ovest dove le mura e le torri apparivano più solide ma le forze che presidiavano quel punto erano più deboli che altrove. Adesso, gli uomini all'interno erano diminuiti, poiché quei duecento cavalieri mandati da Mevrian al seguito di Zigg e quelli che erano andati a Switchwater, non erano tornati. E, mentre il giorno passava e la battaglia proseguiva, ed ancora venivano inferte e ricevute ferite, gli eventi si evolvevano ancora più a sfavore di quelli di Demonland, ed il castello doveva sempre più difendersi soltanto con la sua forza, poiché non c'erano abbastanza uomini illesi a presidiare le mura. Corinius ormai aveva quasi conquistato il castello. Salì sulle mura ad ovest del dongione, e lui ed i suoi si avventarono come lupi per sgomberare i bastioni. Ma Astar di Rattray lo attese lassù e gli assestò un colpo di spada sull'elmo con tale forza da scaraventarlo, stordito, al di là delle mura nel fossato, dove i suoi uomini lo trassero in salvo. Lord Corinius dunque fu messo fuori combattimento; ma continuò a incitare con veemenza i suoi uomini e, alla quinta ora circa dopo mezzogiorno, i figli di Corund presero la porta principale. Lady Mevrian in quel momento aveva portato con le sue mani una brocca di vino ad Astar in un attimo di stasi della battaglia. Mentre lui beveva, lei gli disse: «Astar, la situazione impone che io ti chieda obbedienza, proprio come l'ho chiesta alla mia gente ed a Ravnor, che comanda la guarnigione qui a Krothering.»
«Mia Signora Mevrian,» rispose lui, «per la tua salvezza, ti obbedirò.» «Non ci sono condizioni, Signore. Presta bene attenzione. Per prima cosa, voglio ringraziare te e questi uomini valorosi che con ardimento hanno difeso noi e la nostra preziosa Krothering dal nemico. Era questo il mio intento: difenderla fino all'ultimo poiché e la casa del mio caro fratello, e ritengo infamante che Corinius possa impastoiare i cavalli nelle nostre stanze, e gozzovigliare in mezzo ai suoi ubriaconi nella nostra splendida sala dei banchetti. Ma adesso, per dura necessità di questa guerra disastrosa, questo non conta più, e tutto è caduto nelle sue mani tranne quest'unica torre.» «Ohimè, Signora, con nostra vergogna, non posso negarlo.» «Oh, scaccia ogni pensiero di vergogna! Una ventina di loro contro ognuno di noi: la gloria della nostra strenua resistenza durerà per sempre! Ma non è soltanto per me che lui continua a sferrare su Krothering dei colpi possenti, fitti come la pioggia che cade dal cielo. Adesso dovete obbedirmi ed eseguire i miei ordini; altrimenti periremo, poiché anche su questa torre non siamo in numero sufficiente per resistere a Corinius per molti giorni.» «Divina Signora, solo una volta si compie il crudele passo della morte. Io e la tua gente ti difenderemo fino alla fine!» «Signore,» disse lei, standogli davanti come una Regina, «adesso difenderò me stessa e le nostre ricchezze a Krothering meglio di quanto potreste fare voi guerrieri.» E gli spiegò in breve il suo disegno: consegnare, cioè, la fortezza a Corinius dietro la promessa di un salvacondotto per Astar, per Ravnor e per tutti i suoi uomini. «E ti sottometterai a Corinius?», disse Astar. Ma lei rispose: «La tua spada probabilmente gli ha mozzato gli artigli per un po'. Io non lo temo!» All'inizio, Astar non voleva assolutamente acconsentire a tutto questo, ed il vecchio siniscalco manifestò la sua contrarietà. Ma Mevrian fu fermissima nel suo proposito, e dimostrò loro in maniera chiara che quella era la sola speranza di salvare se stessa e Krothering, che altrimenti le Streghe avrebbero saccheggiato la residenza di Krothering e, nel giro di pochi giorni, avrebbero conquistato in ogni caso la fortezza. «E poi,» aggiunse, «ne seguirebbe una perfida disperazione; oltre alla convinzione che la colpa non sia stata della sorte ma di noi stessi, che non siamo stati in grado di determinare la nostra fortuna.» Così, alla fine, pur col cuore gonfio, acconsentirono ad eseguire i suoi ordini. Senza indugi, fu chiesto di parlamentare. Mevrian parlò personalmente
da un'alta finestra che si apriva sulla corte a Gro perché riferisse a Corinius. Nel colloquio fu stabilito che lei avrebbe consegnato la torre; che i soldati che vi si trovavano all'interno sarebbero stati trasportati sani e salvi nel luogo da ciascuno desiderato; che non sarebbero stati inferti danni né oltraggi a Krothering od al territorio circostante; che tutto questo sarebbe stato vergato e sigillato da Corinius, Gro e Laxus, e che le porte sarebbero state aperte alle Streghe, e tutte le chiavi consegnate entro mezzora dal ricevimento dello scritto sigillato nelle mani di Mevrian. Tutto questo fu accettato, e la fortezza di Krothering fu consegnata a Lord Corinius. Astar, Ravnor ed i suoi uomini avrebbero voluto essere fatti prigionieri per stare con Mevrian, ma Corinius non volle acconsentire, e giurò con spaventose imprecazioni che avrebbe fatto uccidere tutti quelli che, di lì a un'ora, fossero stati trovati nel raggio di tre miglia da Krothering. Così, a seguito di un ordine perentorio di Mevrian, se ne andarono via. XXIV. UN RE A KROTHERING Come Lord Corinius decise di trovare una regina a Demonland, e di organizzare un banchetto nuziale; c'è anche un esempio notevole di come a coloro che amano gli Dei sono destinati aiuto e conforto anche in mezzo ai loro nemici. Quella stessa sera Corinius ordinò che fosse allestito un banchetto nella Camera della Luna per circa quaranta dei suoi ufficiali: un intrattenimento in pompa regale. E, pensando di poter adesso soddisfare il suo desiderio di toccare Lady Mevrian, mandò uno dei suoi membri della sua Guardia del Corpo a dirle che doveva presentarsi da lui. Quando lei gli fece riferire gentilmente in risposta che tutti nel castello erano a sua disposizione, ma che lei era completamente esausta ed aveva un gran desiderio di riposare e dormire quella notte, Corinius scoppiò a ridere smodatamente e disse: «Un desiderio assolutamente inopportuno, e che ha tutta l'aria di una presa in giro, dal momento che sa bene cosa mi prefiggo di fare questa notte. Voglio che venga qui, e subito, se non vuole essere trascinata a forza!» Avendo ricevuto quel messaggio, Mevrian venne lei stessa dopo un po',
completamente vestita di un nero funereo, con un abito ed un corsetto aderente di zendale nero striato di ermesino, (1) ed intorno alla gola una catena di zaffiri che scintillavano cupamente. Il suo portamento era nobilissimo. Incorniciato dai folti capelli neri ed intrecciati, il suo viso appariva pallido, ma composto e deciso. Tutti al suo ingresso si alzarono per salutarla, e Corinius disse: «Signora, hai cambiato rapidamente idea da quando affermasti la prima volta che mai mi avresti consegnato Krothering.» «L'ho cambiata rapidamente quanto ho potuto, mio Signore,» disse lei, «perché mi sono resa conto che ero in errore.» Lui restò in silenzio per qualche minuto, con gli occhi avidi che scivolavano sulle sue forme stupende, poi disse: «L'hai fatto per salvare i tuoi amici?» «Sì.» «Per quanto riguarda te, ciò non ha cambiato assolutamente nulla. Mi sia testimone l'onniscienza degli Dei, ai quali niente può essere nascosto: voglio soltanto farti del bene.» «Mio Signore, faccio tesoro della consolazione che mi dà questa parola. Ma sappi che il mio bene dipende unicamente da me: non è condizionato dalle scelte di alcun uomo.» Al che Corinius, che aveva alzato parecchio il gomito, assumendo l'espressione più gradevole di cui era capace, rispose: «Non dubito affatto che stanotte, Signora, avrai la saggezza di scegliere quell'elevatissima condizione - fino a oggi da te ignorata - che ora ti offro: essere la Regina di Demonland.» Mevrian lo ringraziò con le sue espressioni più gentili, ma disse che aveva intenzione di rinunciare a quel titolo apparentemente allettante. «Come?», disse Corinius. «È troppo poco per te? Oppure la mia sensazione che mi stai deridendo è giusta?» La donna rispose: «Mio Signore, poco mi si addirebbe, visto che appartengo ad una stirpe di guerrieri da lunghe generazioni, intrappolare la mia mente con false manifestazioni di una grandezza che non esiste più. Eppure ti prego di non dimenticare questo: l'autorità dei Demoni era solita elevarsi al di sopra della comune regalità e, come l'occhio del giorno, osservava i Re dall'alto. Riguardo poi a questo titolo di Regina che tu mi offri, ti dico che è una cosa che non desidero, dal momento che sono la sorella di colui che appose sopra la porta quell'iscrizione, la cui verità tutti voi avreste constatato se lui fosse stato qui a ricevervi.»
«È vero,» disse Corinius, «alcuni si sono gloriati davanti al mondo, ma io li ho fatti schiavi. I miei stivali hanno conosciuto cose a Carce, signora, che non ti racconterò per non tormentarti il cuore.» Poi però, percependo un accesso di rabbia sdegnosa balenare negli occhi di Mevrian: «Ti chiedo perdono,» aggiunse, «incomparabile Signora; sono andato oltre i limiti. Non voglio macchiare la nostra fresca amicizia con ricordi di... Olà! Una sedia accanto a me per la Regina.» Ma Mevrian la fece sistemare dall'altro lato del tavolo, e là sedette, dicendo: «Ti prego, Lord Corinius, di non pronunciare più quella parola. Sai che non la gradisco.» Lui la guardò in silenzio per un minuto, sporgendosi sul tavolo, con le labbra leggermente dischiuse ed il fiato che usciva ed entrava fra di esse pesante e rapido. «Bene,» disse, «siedi pure là, se preferisci, Signora, ed elargiscimi con gradualità il piacere. L'anno scorso fra noi c'era il mondo intero, e quest'anno le montagne; ieri le mura di Krothering, e stanotte la larghezza di un tavolo; e, prima che passi la notte, neanche...» Gro colse una luce selvaggia negli occhi di Lady Mevrian. «Questo,» disse lei, «è un linguaggio che non ho imparato a capire, Signore.» «Te lo insegnerò io,» disse Corinius, col volto in fiamme. «Gli amanti vivono d'amore e le allodole di porri. Per Satana, io ti amo come se fossi il mio cuore strappatomi dal corpo.» «Lord Corinius, noi Dame del Nord, siamo poco inclini a questo tipo di linguaggio, per quanto esso possa essere diffuso nella terra circondata dalle acque di Witchland. Se vuoi avere la mia amicizia, dimostramelo in questa occasione. Questi non sono discorsi adatti ad un banchetto.» «Accidenti, abbiamo fatto presto a capirci! Ti dimostrerò con piacere tutto questo, e un'altra cosa ancora più bella, nella tua camera! Ma era al di là delle mie speranze che tu mi concedessi questo così all'improvviso. Stiamo già così bene assieme?» Lady Mevrian si alzò dal tavolo con grande rabbia e vergogna. Corinius, un po' vacillando, balzò in piedi. Nonostante la sua mole, lei era così alta da guardarlo proprio negli occhi. E lui, come quando un uomo brandisce una fiaccola, di fronte ad una bestia che vaga di notte, rimase istupidito sotto quello sguardo, con lo stimolo all'azione stranamente congelato dentro di lui all'improvviso, e disse tetro: «Signora, io sono un soldato. Ma il sentimento che provo per te non prescinde di certo dalla cortesia che ti devo. Ti prego, siediti!» Ma Mevrian rispose: «Il tuo linguaggio, Signore, è troppo sfrontato e
scorretto. Vieni domani da me, se vuoi, ma voglio che tu sappia che solo la pazienza e la cortesia possono rendermi ben disposta.» Quindi si diresse verso la porta. Corinius, come se il voltarsi degli occhi di quella donna avesse spazzato l'incantesimo, gridò ai suoi di fermarla. Ma nessuno si mosse. Allora, come se non riuscisse più a controllare i suoi impulsi lascivi, ribaltando panche e tavoli per l'incontenibile brama di metterle le mani addosso, si lanciò in avanti, ma inciampò e cadde scompostamente. Prima che fosse nuovamente in piedi, Lady Mevrian era uscita dalla stanza. Corinius si alzò dolorante, e profferì un guazzabuglio di imprecazioni barbariche e volgari, talché Laxus, che lo aveva aiutato ad alzarsi in piedi, fu spinto ad apostrofarlo bruscamente, dicendo: «Mio Signore, non abbruttirti con una simile trasformazione bestiale. (2) Non abbiamo forse ancora le armature addosso (3) in un regno appena conquistato, i cui antichi Signori sono stati sconfitti ma non uccisi, e stanno tramando per sollevare nuove forze contro di noi? E tu vuoi mettere da parte problemi così seri per far posto alle lusinghe dell'amore?» «Sì!», rispose lui. «E un sempliciotto come te non mi metterà i bastoni fra le ruote! Chiedi alla tua piccola Sriva, quando tornerai a casa per sposarla, se non sono più bravo di te nel compiacere una donna. Lei te lo dirà! E con parole che risulteranno ben comprensibili ad uno come te.» Sia Gro che i figli di Corund si trovavano nelle vicinanze quindi udirono quelle parole. Lord Laxus si costrinse a ridere, poi si voltò verso Gro, dicendo: «Il Generale è annegato nel vino.» Gro, notando che il volto di Laxus era diventato rosso fino alle orecchie nonostante la sua studiata indifferenza, gli disse, piano: «È proprio così, milord. Solo che nel vino c'è la verità.» A quel punto Corinius, pensando che era ancora presto e che il banchetto era appena cominciato, fece mettere delle sentinelle in tutti i corridoi che portavano agli alloggi di Mevrian, affinché non potesse allontanarsene, ma stesse lì ferma ad attendere i suoi comodi. Fatto ciò, ordinò che si proseguisse il banchetto. C'era abbondanza di cibi e vini deliziosi, e i Signori di Witchland tornarono a sedersi con entusiasmo per riprendere a banchettare. Laxus, preso in disparte Gro, gli disse: «So bene che non hai affatto gradito ciò che è accaduto. Tieni bene a mente che, se giudicherai opportuno giocargli uno scherzo e rubargli la donna, non troverai in me alcun ostacolo.» «In un mazzo di carte,» disse Gro, «i fanti servono i re. Non è un male, e
noi qui lo abbiamo fatto. Ultimamente ho sentito cantare da un uccellino che hai avuto una disputa con lui.» «Non è cosa che ti riguardi,» rispose Laxus. «Ti darò ancora un Orlando per il tuo Oliviero (4), ma voglio aggiungere che si vede chiaramente che tu ami questa Signora.» «Mi attribuisci una dolce stravaganza che è estranea alla mia natura, dal momento che sono uno studioso serio il quale, se mai si è gingillato con queste cose, le ha ormai da lungo tempo sfuggite. Mi pare solo ingiusto che lei debba cedergli contro la sua volontà. Sai che Corinius ha una mente rozza e del tutto militaresca, e che è un frequentatore di molte altre donne dissolute.» «Bah, per quanto mi riguarda, può fare ciò che gli pare e stringersi come una farfalla a quella donna. Ma, dati i nostri interessi quaggiù, sarebbe meglio sbarazzarsi di lei. In questo senso, ti asseconderò in tutti i modi. Se lui passa qui tutta l'estate ad amoreggiare, giustamente il Re potrebbe irritarsi con noi per aver rimpinzato il suo falco migliore nel bel mezzo della competizione, facendogli così perdere la gara.» «Vedo,» disse Gro, ridendo dentro di sé, «che sei un uomo assennato ed intelligente, e che pensi prima di tutto a Witchland. E questo è giusto ed onesto!» Il banchetto proseguì con grande abbondanza di vino. Le donne di Mevrian che erano là - molte contro la loro volontà - per servire a tavola, misero nuove pietanze davanti ai convitati e versarono altro vino, dorato, bronzeo e rosso rubino, in calici di giada, cristallo ed oro battuto. L'aria in quella magnifica sala era pregna del fumo degli arrosti e dell'alito saturo di vino dei convitati, cosicché la luminosità delle lampade di opale assumeva il colore del rame e, intorno ad ogni lampada, c'era un fascio di raggi color rame come i raggi di una torcia che brucia nella nebbia. L'acciottolio dei boccali, ed il tintinnio dei bicchieri mentre nella loro ebbrezza le Streghe scagliavano a terra i calici di valore inestimabile riducendoli in frantumi, era forte. C'era un enorme strepito di risate e canti e, in mezzo a questo, si udivano le voci di donne che cantavano, sebbene fossero quasi sommerse dalla confusione. Gli uomini di Corinius avevano infatti costretto le damigelle di Mevrian a cantare ed a danzare al loro cospetto, per quanto in cuor loro fossero afflitte. Ma ad intrattenimenti ben diversi da quelli della danza e del canto parecchi commensali dalle barbe nere volevano costringerle, e cercavano le occasioni per farlo, ma solo furtivamente, e lontano dagli occhi del loro
Generale. Infatti, adesso la sua collera si abbatteva su quelli che davanti a lui sconsideratamente ostentavano di divertirsi, permettendosi di andare a cacciare in quel campo dove il loro Signore era rimasto digiuno. Dopo un po' Heming, che sedeva accanto a Gro, gli disse in un sussurro: «Questo è un pessimo banchetto.» «Mi pare invece che sia ottimo!», replicò Gro. «Spero in un esito diverso da quello che lui si propone. Tu cosa ne pensi?» «Non posso biasimarlo troppo,» rispose Gro. «Lady Mevrian è una donna bellissima!» «Non trovi che quell'uomo sia uno spregevole maiale? E dobbiamo tollerare che realizzi il suo ignobile proposito su una così dolce Signora?» «Cosa posso farci?» «Non puoi stare senza far niente!» «La cosa ti ripugna?» «Sei ο non sei un uomo?», disse Heming. «E lei lo detesta come si può detestare Atropo!» (5) Gro gli rivolse una rapida occhiata indagatrice. Poi sussurrò, col capo chino sull'uva che stava piluccando: «Se questo è il tuo parere, bene!» Quindi, parlando piano, e lanciando qua e là qualche frase ο scherzo ad alta voce per non apparire troppo impegnato in una conversazione segreta, disse ad Heming con meticolosità e chiarezza ciò che doveva fare, rivelandogli che anche Laxus, roso dalla gelosia, era d'accordo con loro. «Tuo fratello Cargo è più adatto a una cosa del genere. Ha più ο meno la sua stessa altezza e, data la sua età, non ha ancora la barba. Vai a cercarlo, e riferiscigli parola per parola quello che abbiamo detto. Corinius sospetta troppo di me per perdermi di vista questa notte, per cui l'incombenza ricade su voi figli di Corund; intanto io, restando accanto a lui, posso servire a trattenerlo qui nella sala finché tutto sarà fatto. Ora vai! Per il tuo tentativo servono precisione e rapidità.» Lady Mevrian, fuggita nella sua camera nella torre a sud, sedeva accanto alla finestra orientale che si affacciava sui giardini, sul lago, sui fiordi di Stropardon più in là, e sulle scure colline di Eastmark, fino alle maestose catene lontane che incombevano a mezz'aria su Mosedale, Murkdale, Swartriverdale, e sul Mare Interno di Throwater. Le ultime luci del giorno indugiavano ancora sulle loro vette più alte; su Ironbeak, sulla parete desolata di Skarta, e sulle lontane torri gemelle di
Dina, visibili al di là della catena più bassa di Mosedale nella depressione di Neverdale House. Dietro di esse rotolavano su per le rampe le ruote della notte; la Sacra Notte, madre degli Dei e del sonno, tenera nutrice degli uccellini e degli animali che abitavano nelle campagne, e di tutti i cuori affaticati e stanchi; madre di strani figli, di paure, stupri, e di audaci assassini perpetrati a mezzanotte. Mevrian rimase seduta là finché tutta la terra non fu offuscata dalle tenebre ed il cielo scintillò di stelle, perché mancava ancora un'ora al sorgere della luna. Intanto rivolgeva le sue preghiere ad Artemide, chiamandola coi suoi nomi segreti e dicendo: «Dea e Vergine casta e santa; Dea una e trina, che sei nel cielo e sulla terra Divina Cacciatrice, ed hai la tua dimora anche nei luoghi nascosti e senza sole sotto la terra, dove si aggirano i morti, salvami e proteggimi perché sono ancora una tua vergine.» Fece quindi notare l'anello che aveva al dito e scrutò nell'oscurità che si addensava nel suo castone, fatto di quel crisopazio che è invisibile alla luce ma visibile al buio, e rosso fiammante di notte ma giallo ο pallido di giorno. Ed ecco, esso palpitò di splendore dall'interno, e fu come se migliaia di scintille dorate danzassero e vorticassero dentro la pietra. Mentre lei meditava sull'interpretazione più probabile di quella improvvisa fioritura di splendore insolito all'interno del crisopazio, ecco che una delle due Dame di Compagnia, che reggeva una lampada, giunse dalla camera da letto e, fermandosi davanti a lei, disse: «Due di quei Signori di Witchland vorrebbero parlare con la tua Signoria in privato.» «Due?», disse Mevrian. «Anche nei numeri può esserci la salvezza? Chi sono?» «Sono di corporatura snella ed alta, e sembrano preoccupati. Si muovono con la circospezione di un ghiro, e sono lodevolmente sobri.» «Si tratta forse di Lord Gro?», domandò Mevrian. «Uno ha una grande barba nera, ricciuta e profumata?» «Altezza, non ho notato se entrambi portano la barba, e non conosco i loro nomi.» «Bene, falli entrare! E tu e le tue compagne mi farete compagnia mentre concederò loro udienza.» Tutto fu fatto secondo i suoi ordini, e fu così che entrarono i due figli di Corund. Dopo che le ebbero rivolto un rispettoso saluto, Heming disse: «Quello che dobbiamo dirti, Eccellentissima Signora, è solo per le tue orecchie, se non ti dispiace.»
Mevrian si rivolse alle sue domestiche: «Chiudete bene la porta, e restate in attesa nell'anticamera. E allora, miei Signori?», chiese, ed attese che cominciassero. Era seduta obliquamente nella finestra, fra la luce ed il buio. Le lampade di cristallo che splendevano nella stanza creavano nei suoi capelli tenebre più profonde di quelle della notte all'esterno. La curva delle sue braccia candide appoggiate sul grembo era come quella della luna crescente sospesa sopra il tramonto. Una brezza che spirava da sud portò con sé il mormorio del mare lontano che si frangeva sulla costa al di là di campi e vigneti, e batteva senza posa, anche in quella notte mite, le caverne marine di Stropardon. Era come se il mare e la notte che avvolgevano Demonland, trasalissero per l'indignazione davanti a quelle cose che Corinius, ritenendosi ormai sicuro possessore di tutto ciò che lo circondava, aveva progettato di fare quella notte a Krothering. I fratelli erano confusi alla presenza di una bellezza così rara. Heming, tratto un profondo respiro, cominciò: «Signora, per quanto negativa sia l'opinione che ti possa essere fatta di noi di Witchland, ti prego di credere che io e mio fratello ti abbiamo cercata con cuore innocente per farti un grande favore.» «Principi,» disse lei, «potrei a malapena biasimarmi se dubitassi di voi. Ma, dal momento che i giorni della mia vita non sono stati ambigui né fraudolenti, ma amanti dell'onestà e della schiettezza, vi dirò che, neanche dopo quello che ho dovuto sopportare questa notte, il mio cuore vuole credere che tutta la civiltà si sia consumata a Witchland. Non ho accolto liberamente lo stesso Corinius quando ho aperto per lui le porte della mia fortezza, credendo di avere a che fare con un Re e non già con un lupo famelico?» Allora Heming disse: «Riesci ad indossare un'armatura, Signora? Sei alta più ο meno come mio fratello e, per superare le guardie se, quando ti accompagnerò avrai addosso l'armatura, il vino che hanno bevuto lavorerà a tuo favore. Ho procurato un cavallo. In tal modo, nelle sembianze del mio giovane fratello, stanotte potrai uscire cavalcando dal castello, ed allontanarti. Infatti, così come sei, non riusciresti mai a lasciare questi alloggi, poiché Corinius ha fatto mettere dappertutto delle guardie, dato che è deciso - accada quel che accada - a farti visita questa notte: nella tua camera, Signora!» I rumori della baldoria affluivano dalla sala dei banchetti. Mevrian sen-
tiva a tratti la voce di Corinius che cantava una canzone scurrile. Come in presenza di qualche oscuro influsso foriero di una disgrazia che non le riusciva di comprendere, ma a causa del quale sentiva il proprio sangue fremere ed il cuore mancarle, fissò i due fratelli. Alla fine chiese: «Qual è il vostro piano?» «È stato Lord Gro,» rispose Heming, «a concepirlo, con estremo ingegno. Ma Corinius, che ha sempre diffidato di lui, soprattutto quando è molto ubriaco, lo costringe a stare al suo fianco.» Cargo si tolse l'armatura, e Mevrian, chiamando le sue Dame affinché prendessero quella e gli altri indumenti, si avviò verso una stanza più interna per cambiarsi. Heming disse al fratello: «Dovrai muoverti con grande circospezione, per andartene quando ci saremo allontanati senza essere scorto. Se fossi in te, sarei tentato di giocare a Corinius lo scherzo di aspettare la sua venuta, per vedere se sai impersonare bene Mevrian come lei riesce ad impersonare te.» «Tu,» disse Cargo, «puoi ben ridere ed essere contento, dato che devi accompagnarla. E sei determinato - scommetterei la mia testa contro una rapa - a fare ogni sforzo per privare Corinius di quella felicità che si è prefissato per questa notte, per poi gloriartene.» «Questo tuo,» rispose Heming, «è il più turpe dei pensieri! La mia lingua è così menzognera da dire che non amo questa donna? Metti assieme la sua bellezza e la mia giovinezza: come potrebbe essere diversamente? Ma l'amo con tale ardore che non potrei chiederle nulla di disonesto, così come una foglia non può fare violenza ad una stella del firmamento.» «Cosa può dire il ragazzino saggio al suo fratello maggiore?», disse Cargo. «"Dal momento che hai preso la torta, fratello, devo accontentarmi delle briciole." Quando te ne sarai andato via, e tutto sarà silenzio e quiete, io resterò qui fra le donne in attesa, ma sarà ben difficile che possa insegnare loro qualcosa prima di dar loro la buonanotte.» In quel momento la porta della camera interna si aprì e, davanti a loro si fermò Lady Mevrian vestita di armatura ed elmo. «Non è facile zoppicare davanti ad un zoppo. Credete che funzionerà al buio, miei Signori?» I due risposero che era eccellente aldilà di qualunque elogio. «Ti ringrazio, Principe Cargo,» disse la donna, tendendogli la mano. Lui si chinò e la baciò in silenzio. «Questa armatura,» proseguì, «sarà per me un pegno regalatomi da un nobile nemico. Spero che un giorno potrò chiamarvi amici per come vi siete comportati questa notte.»
Al che, dopo aver detto addio al giovane Cargo, uscì dalla camera col fratello ed attraversò l'anticamera fino alla scalinata in ombra dove stavano facendo la guardia i soldati di Corinius. Questi (che come tanti annegavano più facilmente in un calice che nell'oceano), non particolarmente svegli dopo le gozzoviglie, vedendo i due che camminavano assieme con le loro armature sferraglianti e riconoscendo la voce di Heming quando rispose al «Chi va la?», non ebbero alcun dubbio che si trattasse dei figli di Corund che tornavano al banchetto. Così superarono le sentinelle ma, mentre avanzavano lungo l'alto corridoio che si trovava all'esterno della Camera della Luna, le porte di quella camera si aprirono all'improvviso a destra ed a sinistra e ne uscirono dei tedofori e menestrelli in fila per due come in processione, con cembali che cozzavano, flauti e tamburelli, cosicché il corridoio si riempì del bagliore delle lampade e dello strepito degli strumenti. Al centro camminava Lord Corinius. Il sangue che scorreva gagliardo dentro di lui, ardeva scarlatto sulla sua faccia luccicante, e rendeva le vene simili a corde sul suo collo massiccio, sulle braccia e sulle mani. I folti riccioli sopra la fronte, sparsi sotto la ghirlanda di belladonna, erano bagnati di sudore. Era evidente che non era in condizioni ideali, dopo quel forte colpo alla testa che Astar gli aveva assestato quel giorno, per resistere ad abbondanti libagioni. Avanzava fra Gro e Laxus, appoggiandosi pesantemente ora al braccio di questo ora di quello, con la mano destra che batteva il tempo della musica di una canzone. Mevrian sussurrò ad Heming: «Assumiamo un'espressione tranquilla finché siamo ancora vivi.» Si fecero da parte, sperando di essere passati inosservati, poiché non c'era la possibilità né di battere in ritirata né di nascondersi. Ma Corinius li scorse con un'occhiata fugace, si fermò e li salutò, afferrandoli ognuno per un braccio, e gridando: «Heming, sei ubriaco! Cargo, sei ubriaco, benedetto ragazzo! È una dannata follia, essere così ubriachi, con queste graziose fanciulle che ho procurato per voi. Come farò a consolarle, ditemelo, quando verranno da me domattina a lamentarsi, per il fatto che hanno trascorso tutta la notte con la testa di un ubriacone addormentato appoggiata sul grembo?» Mevrian, come se avesse tutte le membra flaccide, stava appoggiata pesantemente ad Heming, con la testa che le ciondolava. Heming non riuscì a pensare ad altro di più adatto da dire che: «In verità, Corinius, noi siamo sobri.»
«Tu menti!», disse Corinius. «È sempre stato un evidente segno di ubriachezza il negarlo. Vedete, miei Signori, io non nego di essere ubriaco. La qual cosa è segno evidente che sono ubriaco: voglio dire, che sono sobrio. Ma è il momento di dedicarsi ad incombenze diverse dal discutere di queste cose. Muoviamoci!» Così dicendo vacillò, urtando Gro, e (come spinto da un influsso nell'aria che, sussurrandogli di qualche trama in atto, cospirasse col vino che aveva bevuto per spingerlo a cercare altrove quel tradimento che invece aveva sotto gli occhi) lo afferrò per un braccio, dicendo: «Stammi vicino, Goblin, sarà meglio! Ti amo con molta prudenza, e ti prenderò per le orecchie, per far sì che tu non mi morda, né che te ne vada in giro a bighellonare.» Essendo stati, per un caso fortuito, liberati dal pericolo, Heming e Mevrian, con la maggior fretta possibile, e senza altri contrattempi od intralci, raggiunsero i cavalli ed attraversarono la porta principale, passando in mezzo agli ippogrifi di marmo, le cui enormi figure brillavano sopra di loro, rigide, nei raggi bassi della luna nascente. Cavalcarono in silenzio attraverso i giardini, i prati e nella foresta che si stendeva più in là, accelerando il passo fino al galoppo sul suolo cedevole. Galoppavano così rapidi, che l'aria della notte d'aprile senza vento sferzava come una tempesta i loro volti. Il calpestio, il rimbombo degli zoccoli, e la visione fugace degli alberi, erano per il giovane Heming soltanto un sottofondo al rombo del suo sangue che la notte, la velocità, e la donna che galoppava al suo fianco, facevano tumultuare dentro di lui. Ma per Mevrian - mentre sfrecciava lungo la pista sul terreno boscoso - quelle radure nel chiaro di luna, la notte e le stelle fisse, s'intonavano ad una musica più celeste; cosicché ella avvertì per un attimo una meravigliosa tranquillità nel cuore, come un'assoluta sicurezza che le grandi mutazioni del mondo non potessero verificarsi senza la gloria durevole di Demonland, e che i loro nemici avrebbero potuto usurpare solo per poco lo scranno del suo caro fratello a Krothering. Quando furono in una radura nei pressi di un'ampia distesa d'acqua tirarono le redini. Boschi di pini si ergevano sulla sua estremità più lontana, ombrosi nel chiaro di luna. Mevrian cavalcò fino ad un piccolo promontorio sull'acqua e rivolse lo sguardo verso Krothering. Lontana, molte miglia ad est, poteva difficilmente essere scorta, se non dai suoi occhi avvezzi ed amorevoli, indistinta com'era nella tenue radianza della luna. Continuò a fissare per un po' la dorata Krothering, mentre il suo cavallo pascolava
tranquillo, ed Heming al suo fianco manteneva il passo, osservandola. Alla fine, voltandosi a guardare ed incontrando lo sguardo di lui: «Principe Heming,» disse, «da qui partono un sentiero nascosto che si dirige a nord accanto all'estuario, una strada asciutta che attraversa la palude ed un guado ed una pista per cavalli che porta a Westmark. Qui, come ovunque a Demonland, potrei muovermi ad occhi chiusi. E qui ti saluterò. La mia lingua non sa fare poesie, ma ricordo le parole del poeta, quando dice: La mia mente è come l'asbesto, Che se una volta è toccato dalle fiamme, Non vuole tornare a esser freddo. Che l'esito di questa guerra sia la vittoria dei miei consanguinei - come credo fermamente che sarà - ο di Gorice, non dimenticherò la nobiltà d'animo che mi hai manifestato questa notte.» Ma Heming, che ancora la stava fissando, non rispose. «Come sta la Regina tua matrigna?», domandò Mevrian. «Sette estati fa, ero a Norvasp al banchetto nuziale di Lord Corund, e stavo accanto a lei alle nozze. È ancora così bella?» «Signora,» rispose lui, «come giugno porta alla perfezione la rosa dorata, così con gli anni aumenta la sua bellezza.» «Lei ed io,» disse Mevrian, «eravamo amiche, anche se lei è più anziana di me di due estati. È ancora così volitiva?» «Signora, lei è la Regina!», disse Heming, fissando gli occhi su Mevrian. Il volto di lei, rivolto verso di lui, con la dolce bocca socchiusa e gli occhi limpidi sollevati verso est, appariva indistinto nella malia della luna, ed il suo corpo era come un giglio caduto addormentato nei pressi di un lago incantato a mezzanotte. Con la gola secca, lui disse: «Signora, fino a questa notte non avevo mai immaginato che potesse esistere sulla terra una donna più bella di lei.» Poi, l'amore che era in lui si sollevò come un vento ed una tenebra che gli investissero la mente. Come se fosse stato troppo a lungo impaurito e indeciso, evitando di tirare il chiavistello di quella porta che si apriva sulla casa del suo cuore, la cinse con le braccia. La guancia di lei era soffice sotto il suo bacio, ma mortalmente fredda: i suoi occhi erano come quelli di un uccello selvatico catturato in una sciabica. L'armatura del fratello che le ricopriva il corpo non era così inanimata né così dura sotto la sua mano come lo era per il suo amore quella guancia morbida, quell'espressione e-
stranea. Come uno le cui facoltà mentali vacillino in presenza di un'eventualità inattesa, disse: «Non mi ami?» Mevrian scosse la testa, allontanandolo da sé con gentilezza. Come l'esaurirsi di un fuoco nella secca calura estiva, la fiamma della passione di Heming si spense, lasciando solo la cenere desolante di una collera cupa e sprezzante: collera verso se stesso e verso il destino avverso. «Ti prego di dimenticarmi, Signora,» disse, con voce bassa e vergognosa. Mevrian mormorò: «Principe, gli Dei ti concedano una buona notte. Sii gentile con Krothering: ho lasciato laggiù un malvagio Siniscalco.» Così dicendo, arrestò il cavallo tirando le redini e lo fece voltare verso ovest, in direzione dell'estuario. Heming la osservò per un istante, col cervello che turbinava. Quindi, conficcando gli speroni nei fianchi del suo cavallo al punto che questi s'impennò e fece un balzo, si allontanò al galoppo verso est, di nuovo attraverso i boschi, in direzione di Krothering. XXV. LORD GRO E LADY MEVRIAN Come Lord Gro, condotto da uno strano innamoramento ad un fallimento, viaggiò con nessuno salvo questo a fargli da guida nella regione di Neverdale, e là vide cose meravigliose, ed avvertì di nuovo per un po' la bontà di quelle cose che più desiderava Novantuno giorni dopo gli avvenimenti narrati, nell'ultima ora che precedeva l'alba, Lord Gro stava cavalcando verso l'oriente che impallidiva giù dalle colline di Eastmark fino ai Guadi di Mardardale. Il suo cavallo scese a passo d'uomo fino alla riva, e si fermò con l'acqua che gli arrivava ai garretti: i suoi fianchi erano bagnati e non aveva più fiato, per aver galoppato in aperta campagna fin dalla mezzanotte. Allungò il collo verso il suolo, annusò la fresca acqua del fiume, e bevve. Gro si voltò sulla sella, tendendo l'orecchio, con la mano sinistra avanti per allentare le redini, e la destra appoggiata sulla groppa. Ma non c'era nulla da sentire, tranne il mormorio dell'acqua bassa, il rumore di risucchio del cavallo che beveva, e lo sciacquio e lo scricchiolio degli zoccoli quando muoveva le zampe fra i ciottoli. Avanti, indietro e su entrambi i lati, i boschi, la valle (1) e le colline in-
torno, apparivano indistinti in quel grigiore a metà strada fra le tenebre ed il crepuscolo. Una nebbia leggera nascondeva le stelle: niente si muoveva salvo un gufo che svolazzò come un fantasma fuori da un agrifoglio sulla riva scoscesa ad un tiro d'arco ο più a valle, attraversò il sentiero di Gro, e si posò sul ramo di un albero morto sopra di lui a sinistra, dove rimase fermo come per osservare il cammino di quell'uomo e del suo cavallo che attraversavano la valle in quella notte tranquilla. Gro si chinò in avanti per dare una pacca sul collo dell'animale. «Su, amico mio, dobbiamo proseguire!», disse. «E non meravigliarti se non trovi pace nel venire con me, dato che non sono mai riuscito a trovare un rifugio duraturo sotto il globo della luna.» Così guadarono il fiume, e proseguirono attraverso il basso pascolo al di là di esso e lungo le propaggini di una foresta, su fino all'aperta brughiera, e continuarono per un miglio ο due, sempre verso est, finché girarono a destra giù per una larga valle ed attraversarono un fiume sopra il punto di confluenza. Poi continuarono verso est di nuovo, su per il letto sassoso di un torrente, fino a raggiungere un aspro sentiero montano che attraversava un tratto paludoso e saliva sempre più in alto dal fondo della valle che si restringeva diventando un Passo fra le colline. Finalmente il pendio divenne meno ripido ed essi, passando come attraverso una porta fra due alte montagne che incombevano a strapiombo e desolate su entrambi i lati, uscirono su una brughiera di erica e mirto, disseminata di laghetti e ricca di corsi d'acqua, torbiere, ed affioramenti di roccia viva; i lontani picchi montani stavano intorno a quella landa solitaria come re guerrieri. Ora il colore si stava destando nel cielo ad oriente: il mattino splendente cominciava a rischiarare la terra. Conigli sgattaiolavano davanti agli zoccoli del cavallo per nascondersi; piccoli uccelli s'involavano dalla brughiera: alcuni cervi rossi rimasero a fissarli fra le felci, poi si allontanarono verso sud; un tetraone lanciò il suo richiamo. Gro disse fra sé: «Come può non ritenermi matto la gente comune, sconsiderato e arrogante come sono nel mettere in pericolo la mia vita? Sì, contro tutto ciò che è ragionevole. Ed ho dimostrato questa follia quando per pazienza, coraggio e saggezza politica avevo ottenuto - a dispetto della sorte avversa - quello che con ostinazione fino a quel momento essa mi aveva negato: quando, dopo aver subito diversi tragici eventi, avevo conseguito il favore e la grazia del Re, che mi aveva ammesso con tutti gli onori alla sua Corte, e mi teneva, presumo, nella stessa considerazione dei
suoi stessi occhi.» Si tolse l'elmo, esponendo la fronte bianca ed i morbidi riccioli neri all'aria del mattino, poi gettò indietro la testa per aspirare profondamente attraverso le narici l'aria dolce e frizzante ed il suo profumo torboso. «Eppure, secondo l'opinione comune, lo sciocco non sono io,» disse, «ma colui che immagina dopo le sue fatiche di ottenere una felicità durevole, allo stesso modo in cui crede di poter pestare l'acqua in un mortaio. Non ci sono abbastanza esempi, nella bizzarria della natura, per ridere di questa stupidaggine fuori moda? Una favola di grandi uomini che si sollevano e conquistano nazioni: il giorno che si oppone alla notte tiranna! Che spirito delicato è il giorno: come un cerbiatto che si arrampica sulla montagna... una pallida luce accoppiata al buio primordiale! Ma tutto ciò che è dolce milita nella sua luce, come le influenze celesti: la frescura dei capricciosi venticelli del mattino, i fiori che si svegliano, gli uccelli che cantano, la rugiada che scintilla sulle meravigliose ragnatele che i piccoli ragni sospendono fra le fronde di felce ed i rovi, ο fra i rovi e le foglie umide e delicate della argentea betulla. Il nuovo giorno ride nella sua forza, selvaggio nella sua bellezza: fuoco, vita ed ogni odore e colore, rinascono per trionfare sul Caos, sulle tenebre tarde, e sulla notte straniera. «Ma poiché il giorno nelle prime ore dell'alba mi ha così ammaliato, dovrei amarlo ancora quando, sazio di trionfo, diventa mezzogiorno accecante? Preferisco voltarmi come adesso mi volto verso Demonland, nel triste tramonto del suo orgoglio. E chi può definirmi un voltagabbana, se adesso mi limito a perseguire quella rara saggezza che ho seguito per tutta la vita: amare il sorgere ed il calar del sole, e le stelle del mattino e della sera? Dal momento che solo là dimora l'essenza della nobiltà, del vero amore, e la meraviglia, nonché la gloria della speranza e della paura.» Così rimuginando, cavalcò con andatura lenta verso nord ed un po' ad est attraverso la brughiera immerso, a causa della strana armonia che c'era fra le cose esterne ed i pensieri del suo cuore, in una profonda meditazione. Giunto al limitare della brughiera, si avventurò nelle propaggini delle montagne situate al di là di essa, attraversando dei bassi valichi, e facendosi strada fra i boschi ed i corsi d'acqua, su e giù, intorno e intorno. Il cavallo lo portava dove voleva, poiché Gro non prestava alcuna attenzione né coglieva gli indizi intorno a sé, a causa dello stato di profonda introspezione in cui si trovava. Era mezzogiorno esatto. Il cavallo ed il suo cavaliere erano giunti in una valletta di erba verde con un torrente serpeggiante di acqua gelida che flui-
va su un letto di ciottoli. Intorno alla piccola valle crescevano molti alberi alti e dritti. Al di sopra degli alberi, gli alti dirupi montani cotti dal sole apparivano eterei nella calura tremolante. Un mormorio di acque, un ronzio di minuscole ali che svolazzavano da fiore a fiore, il rumore del cavallo che pascolava sull'erba lussureggiante: non si udiva altro. Non una foglia si muoveva, né un uccello. Il silenzio di quel mezzogiorno estivo senza vento, arso dal sole, più spaventoso di qualsiasi specie di notte, rimaneva sospeso su quella valle solitaria. Gro, come se fosse stato svegliato proprio da quel silenzio, si guardò rapidamente intorno. Il cavallo forse avvertì nelle ossa l'inquietudine del suo cavaliere; smise di pascolare e rimase vigile con gli occhi guizzanti ed i fianchi tremanti. Gro lo accarezzò e gli rivolse alcune parole gentili quindi, guidato da qualche impulso interno del quale non conosceva la ragione, voltò verso ovest costeggiando un piccolo ruscello tributario, e cavalcò piano in direzione del bosco. Qui fu bloccato da un gruppo di alberi così accostati l'uno all'altro che temette che sarebbe stato sbalzato dalla sella se vi avesse galoppato in mezzo. Perciò smontò, legò il cavallo ad una quercia, e risalì il letto del piccolo corso d'acqua finché non raggiunse un punto da dove poteva vedere a nord, al di sopra delle cime degli alberi, uno spiazzo verde che si trovava all'incirca al suo stesso livello, e a circa cinquanta passi di distanza lungo il fianco della collina, protetto da tre ο quattro sorbi selvatici. Nello spiazzo c'era un laghetto montano ο una cisterna di roccia di. acqua limpida, freddissima e profonda. Si fermò, appoggiandosi con la mano sinistra ad una roccia sporgente coperta di coronarie. Certo non dovevano essere figlie dell'uomo quelle che si aggiravano su quel prato nascosto sotto il bordo di quella fontana, né creature mortali. Mortali erano forse le capre, i capretti e le cerve dagli occhi dolci che danzavano allegramente in mezzo a loro sulle zampe posteriori; ma non lo erano certo quelle creature di forma umana con le orecchie appuntite e pelose, le gambe coperte di pelo ispido, e gli zoccoli fessi, né quelle fanciulle dalle membra bianche sotto i cui piedi le genziane azzurre e le piccole potentine dorate non piegavano i loro fiori, tanto lieve era la loro danza. A suonare per loro erano dei fanciullini dal piede caprino con delle lunghe orecchie puntute, che sedevano su un monticello di roccia coperta d'erba e soffiavano nelle siringhe (2), coi corpi bruciati dal vento e dal sole, e che avevano il colore della terra rossa. Ma, forse perché la loro musi-
ca era troppo bella per le orecchie mortali, forse per qualche altra ragione, Gro non sentiva alcuna nota provenire da quei pifferi. Il pesante silenzio di quel mezzogiorno desolato e bianco era signore della scena, mentre le ninfe delle montagne, e gli spiriti elementali del carice, del fiume, delle balze e della solitudine della brughiera, tessevano l'intreccio della danza. Lord Gro stava lì immobile, perso nella sua ammirazione, e diceva fra sé: «Cosa spinge la mia mente offuscata a sognare simili fantasie? Ho già visto prima d'ora Spiriti del Male nelle loro manifestazioni; ho visto cose bizzarre create e rivelate dalle Arti Magiche; ho sognato di notte strani sogni. Ma finora avevo ritenuto un racconto futile dovuto alle farneticazioni dei poeti il fatto che nei boschi, nelle foreste, nelle campagne fertili, sulle coste, sulle rive dei grandi fiumi e sui bordi delle sorgenti, si manifestassero a certi occhi privilegiati le ninfe ed i semidei dei campi. Se davvero adesso sto vedendo tutto questo, si tratta di una cosa meravigliosa, e bene intuisco con quali strani allettamenti questa regione desolata ha trovato ultimamente il modo di influenzare le mie emozioni.» Poi rifletté un poco, ragionando così nella sua mente: «Se questa è solo un'apparizione, non ha la sostanza per potermi arrecare alcun danno. Se, al contrario, queste sono davvero delle creature materiali, devono certamente accogliermi con gioia e trattarmi bene, essendo loro i veri spiriti vitali della montuosa Demonland: perché è per il suo bene e per il recupero della sua antica gloria che ho piegato tutte le mie idee ed ho preso delle decisioni dolorose con questa strana determinazione.» Quindi, portatosi allo scoperto, lanciò loro un richiamo. Le creature selvatiche si allontanarono a balzi e scomparvero sui fianchi della collina: i capripedi invece, smesso all'istante di suonare e di danzare, si misero ad osservarlo accovacciati con occhi diffidenti ed allarmati. Soltanto le Oreadi (3), ancora sotto un influsso ammaliante, continuavano a volteggiare: vedeva dolci labbra di fanciulle, seni magnifici, e membra snelle e flessuose, mentre le mani congiunte ad altre mani delicate si separavano e si riunivano per poi separarsi ancora, secondo i ritmi di una inesauribile varietà. Qui ve n'era una che, con le braccia candide strette dietro la testa dove i capelli intrecciati assomigliavano all'oro brunito, girava in tondo ed oscillava con un movimento languido; là, un'altra saltellava e si fermava librandosi sulle punte dei piedi, poi sfrecciava come un raggio di sole attraverso il tetto di foglie di un pino antico quando il tiepido vento delle colline agita le cime degli alberi ed apre una minuscola finestra al cielo. Gro avanzò verso di loro lungo il fianco erboso della collina.
Quando ebbe percorso una dozzina di passi, le forze abbandonarono le sue membra. Allora s'inginocchiò, gridando: «Divinità della terra! Non rifiutatemi, non respingetemi! Anche se finora ho oppresso con crudeltà la vostra terra, non lo farò più. Le tracce della mia virtù calpestata sono ancora in me, come amaro segno di accusa. Conducetemi, vi prego, dove possa trovare coloro che possedevano questa terra, coloro che per causa mia e dei miei uomini sono stati banditi sui boschi e sulle montagne per poter espiare.» Così parlò, con la testa china per il dolore. Ed udì, come la vibrazione della corda d'argento di un liuto, una voce che gridava: È nord, è nord! Che vogliamo di più? Sollevò gli occhi. La visione era svanita: soltanto il sole alto e i boschi, silenziosi, solitari, abbaglianti, erano intorno e sopra di lui. Lord Gro tornò dal suo cavallo, gli salì in groppa e cavalcò verso nord attraverso i pascoli in quel pomeriggio estivo, pieno di fosche fantasie. Quando giunse la sera, si trovava in alto sul fianco ripido di una montagna fra detriti ed erba, e seguiva un piccolo sentiero creato dalle pecore selvatiche. Giù nella valle c'era un fiumiciattolo che fluiva tortuoso lungo un letto di macigni in mezzo a collinette di antiche morene che erano come le onde di un mare di terra coperta di erba. Il sole di luglio ruotava basso, proiettando le ombre delle colline lontano sulle pendici rivolte ad ovest, dove Gro si stava dirigendo ma, nel punto dove stava cavalcando e sopra di lui, il fianco della collina era ancora illuminato dal sole caldo e basso; ed il picco lontano che chiudeva la parte alta della valle, sollevando la sua enorme mole come il frontone di una casa, con le immense costole di roccia nuda, le falde detritiche ed una cresta di balze simile ad un enorme spaccapietre pietrificato nel mezzo del suo gesto, era ancora immerso in una radianza di luce opalescente. Girando intorno alla collina in un punto dove questa era tagliata da una bassa gola, vide davanti a sé una cava, od un cantuccio riparato. Là, protetti dall'immensa mole della collina alle raffiche del vento dell'est e del nord, due sorbi selvatici ed alcuni agrifogli crescevano nelle fenditure della roccia sopra il corso d'acqua. Sotto la loro ombra c'era una caverna, non larga ma grande abbastanza da poter essere abitata da un uomo e asciutta anche col brutto tempo e, al
di là di essa, a destra, una piccola cascata incantevole a vedersi. Era fatta così: una lastra di roccia, alta due volte un uomo, spuntava inclinandosi dalla collina, cosicché l'acqua cedeva dal suo bordo superiore con uno stretto rivolo in un bacino di roccia. L'acqua nel bacino era limpida e profonda, ma era mossa in continuazione dalle bollicine provocate dallo zampillo che cadeva dall'alto; e, sopra le rocce che la circondavano, crescevano muschi, licheni e piccoli fiori acquatici, nutriti nelle radici dal corso d'acqua e rinfrescati dagli spruzzi. Lord Gro disse nel profondo del suo cuore: «Mi piacerebbe vivere qui per sempre se avessi il potere di farmi piccolo come una salamandra. E mi costruirei una casa alta una spanna accanto a quel cuscino di muschio color smeraldo, con quei digitali rosa che fanno oscillare le loro campanelle sulle acque spumeggianti a fare ombra alla mia porta. Questa erba rara del Parnaso (4) sarebbe la mia coppa per bere, con quel calice bianchissimo appoggiato sullo stelo sottile come un capello; e le cortine del mio letto sarebbero quelle piccole arenarie secche che, come un cielo verde disseminato di stelle bianche come latte, velano i lati in ombra di queste rocce.» Soffermandosi su queste fantasie, Gro trascorse un bel po' di tempo a fissare quel posto incantevole, situato così misteriosamente in una piega della montagna spoglia. Quindi, riluttante ad allontanarsi da quel luogo fatato, e pensando, inoltre, che dopo tante ore il suo cavallo fosse stanco, smontò e si distese accanto al ruscello. In breve, avendo sublimato il suo spirito con la dolce immaginazione di quelle cose che aveva visto, fu lieto che le lunghe ciglia nere ricadessero sui suoi occhi grandi e liquidi. Poi, un sonno profondo lo vinse. Quando si svegliò, tutto il cielo era incendiato dal rosso del tramonto. C'era un'ombra fra lui e la luce ad occidente: era la sagoma di qualcuno chino su di lui, che diceva con tono autoritario, ma con accenti nei quali gli echi ed i ricordi di tutti i suoni dolci sembravano mescolati e annullati per sempre: «Non muoverti, mio Signore, e non invocare aiuto. Ecco, questa è la tua spada: te l'ho tolta mentre dormivi.» E divenne consapevole di una spada affilata puntata contro la sua gola dov'erano le grosse vene che partivano da sotto la lingua. Non si mosse affatto, né articolò parola, limitandosi ad alzare la testa verso di lei, come davanti ad una visione deliziosa smarrita da un gregge di sogni fuggitivi.
La donna gli chiese: «Dove sono i tuoi compagni? E quanti sono? Rispondimi!» Lui le rispose come in sogno: «Come faccio a risponderti? Come posso attribuire loro un numero se sono innumerevoli? E come posso dare un nome alle loro abitazioni che si trovano, anche adesso, più vicine a me delle mani ο dei piedi, eppure nell'istante successivo sono ad una distanza probabilmente più incredibile di quella che attraversa il raggio di una stella?» «Non parlare per enigmi,» disse lei. «Farai meglio a rispondermi.» «Signora,» disse Gro, «i compagni di cui ti ho parlato sono i miei pensieri silenziosi. E, a parte il mio cavallo, sono questi i soli compagni che mi hanno seguito fin qui.» «Solo? E dormi così tranquillamente nel paese dei tuoi nemici? Ciò dimostra una strana fiducia...» «Spero che non siano miei nemici.» Ma Lady Mevrian gridò: «Non sei tu Lord Gro di Witchland?» «Quello,» rispose lui, «si è ammalato molto tempo fa di una malattia mortale: adesso sono trascorsi un giorno ed una notte da quando ne è morto.» «Chi sei, allora?» «Se la tua Grazia vuole accettarmi così, sono Lord Gro di Demonland.» «Un voltagabbana incallito! Forse anche loro si sono stancati di te e del tuo modo di agire. Ohimè,» disse la donna con voce alterata, «ti chiedo perdono! Dal momento che senza dubbio sarà stato per la tua generosità nei miei confronti che si sono messi contro di te, quando ti sei dimostrato mio amico.» «Ti dirò la pura verità, Altezza,» replicò lui. «Le cose fra me e loro non erano mai andate meglio di ieri sera, quando ho deciso di lasciarli.» Lady Mevrian rimase silenziosa, col volto rabbuiato. Poi: «Sono sola,» disse, «ma non credere che abbia poco coraggio né che abbia dimenticato i servigi da te ricevuti, se voglio essere più sicura di te prima di permetterti di alzarti. Giurami che non mi tradirai!» Ma Gro disse: «Come potrebbe rassicurarti una promessa fatta da me, Signora? Le promesse non vincolano i malvagi: se avessi intenzione di farti del male, potrei giurare su tutto ciò che vuoi e, un istante dopo, tranquillamente abiurare.» «Non è giusto ciò che hai detto,» disse Mevrian. «E non ti è nemmeno di aiuto. Voi uomini affermate che il cuore delle donne è debole e timido, ma
ti dimostrerò che per me vale il contrario. Fa in modo di esaudire la mia richiesta, altrimenti puoi star certo che ti ucciderò con la tua stessa spada.» Lord Gro giaceva sulla schiena, con le scarne mani strette dietro la testa. «Ti prego,» disse, «spostati dall'altro lato, affinché possa vedere il tuo volto.» Lei lo fece, minacciandolo ancora con la spada. E lui disse, sorridendo: «Divina Signora, per tutta la mia vita ho costituito un pericolo per i miei compagni, ed un pericolo mortale per i miei amici. Una volta conducendo una vita difficile in una Corte principesca, dove l'assassinio s'annidava nelle coppe di vino e nelle alcove; una volta viaggiando da solo in terre più pericolose di questa, come il Moruna, dove la regione era piena di animali velenosi e serpenti striscianti, e gli Spiriti erano numerosi come cavallette sul fianco caldo di una collina d'estate. Chi ha paura, è uno schiavo, e non sarà mai ricco, né potente. Ma chi è senza paura è sovrano del mondo. Tu hai la mia spada: colpisci! La morte per me sarà un dolce riposo. La schiavitù, non la morte, mi spaventerebbe.» Lei per un po' non si mosse, poi gli disse: «Mio Signore Gro, una volta mi hai fatto un grande favore. E certamente ho potuto costruire la mia salvezza sul fatto che mai un nibbio ha ucciso un buon falco cacciatore.» Cambiata la presa sulla spada, con grande gentilezza gliela consegnò con l'elsa in avanti, dicendo: «Te la restituisco, Signore, non dubitando che userai con onore ciò che con onore ti è stato reso.» Ma egli, alzandosi, le disse: «Signora, questa e le tue nobili parole hanno reso così saldo il patto fra di noi, che ora esso può far fiorire qualsiasi giuramento tu voglia; infatti i giuramenti sono i fiori dell'amicizia, non le radici. E tu troverai in me un sincero depositario della mia giurata amicizia per te, senza macchie né incertezze.» Per diversi giorni e diverse notti, Gro e Mevrian si trattennero in quel luogo, a volte cacciando per sostentarsi, bevendo la dolce acqua di sorgente, e dormendo di notte, lei in una grotta sotto gli agrifogli ed i sorbi vicino alla cascata, lui in una fenditura delle rocce un po' più sotto nella gola, dove il muschio creava cuscini morbidi ed elastici come i grandi letti imbottiti di Carce. In quel giorno lei gli parlò dei suoi vagabondaggi da quella notte di aprile quando era fuggita da Krothering: di come prima, aveva trovato rifugio a By nel Westmark ma, avendo sentito l'approssimarsi di un pericolo dopo un giorno ο due era fuggita di nuovo ad est e dopo aver soggiornato per un
po' nei pressi di Throwater, era infine giunta, circa un mese prima, in quella caverna vicino alla piccola fontana, e là si era fermata. Era stata sua intenzione raggiungere Galing attraverso le montagne ma, dopo il primo tentativo, aveva rinunciato a quel disegno, per paura delle bande di nemici dalle cui mani era riuscita a fuggire per un pelo quando era giunta nelle valli inferiori che si aprivano sulle coste orientali. Così era ritornata in quel rifugio segreto sulle colline, misterioso e remoto come nessun altro a Demonland. Infatti, gli rivelò, quella valletta era Neverdale, dove non conduceva nessuna strada tranne i sentieri dei cervi e delle capre di montagna; inoltre, non si apriva nessun recinto su quella valletta, ed il vento che spirava lassù non portava alcun odore di focolari umani. Il picco nel punto più alto della valle era la più meridionale delle Forche di Nantreganon, asilo dell'avvoltoio e dell'aquila: un sentiero nascosto aggirava il lato destro del picco, sopra la cresta zannuta vicino a Neverdale Hause e fino alle acque superiori di Tivarandardale. In un pomeriggio di afosa calura estiva, stavano riposando sotto la protezione di un bastione di roccia che sporgeva dal declivio sud-occidentale. Sotto i loro piedi la parete cadeva bruscamente a precipizio in un abisso vertiginoso, estendendosi a semicerchio in un grande circo al di sopra del quale la montagna si elevava come una fortezza della Tartaria, massiccia, crudele, deturpata ed incisa dagli ampi solchi di una spaccatura come se la parete della montagna fosse stata colpita dall'ascia di un gigante. In fondo, le acque del Dule Tarn dormivano placide ed impenetrabili. Gro stava steso sull'orlo dello strapiombo, a faccia sotto, puntellato sui gomiti, e scrutava quelle acque scure. «Sicuramente,» disse, «le grandi montagne di tutto il mondo sarebbero un rimedio efficace contro l'insoddisfazione e le ambizioni moderne se gli uomini le conoscessero. Sulle colline c'è la fonte della saggezza. Esse sono antiche e conoscono le vie del sole e del vento, i passi impetuosi del fulmine, il gelo che frantuma, la pioggia che avvolge nel suo sudario, la neve che copre la loro nudità con una coperta più soffice di un bel prato: e, anche se la loro vasta filosofia non si chiede se si tratti di un lenzuolo nuziale ο di un sudario, questa calma assoluta non trova comunque la sua giustificazione negli anni che si ripetono, e non è un modo per schernire le nostre inutili preoccupazioni? Noi, piccoli figli della polvere, figli di un solo giorno, già carichi di tanti fardelli, ci carichiamo con i pensieri, le paure, i desideri ed i tortuosi disegni della mente, cosicché invecchiamo prima del tempo e crolliamo esausti prima che il breve giorno sia trascorso ed una falce finalmente ci mieta liberandoci da
tutte le nostre pene.» Quando Gro alzò la testa, Mevrian incontrò lo sguardo dei suoi grandi occhi, che sembravano due profonde polle di tenebre dove strane cose fluttuavano invisibili, inquietanti a vedersi, eppure colme di un fascino discreto che addolcisce e placa. «Stai sognando, mio Signore,» disse Mevrian, «e per me è molto arduo seguirti nei tuoi sogni, dal momento che sono sveglia, nella piena luce del giorno, e vorrei agire.» «È davvero ingiusto,» disse Lord Gro, «che tu, che non sei stata allevata nella povertà e nell'indigenza ma in una attenzione e ricchezza esagerate, debba essere una fuggiasca nelle terre che ti appartengono, e dimorare con le volpi e gli animali delle montagne selvagge.» «È comunque una dimora più accogliente,» disse lei, «di quanto lo sia oggi Krothering. È per questo che fremo per agire. Raggiungere Galing, già sarebbe qualcosa.» «Quale beneficio può venire da Galing,» disse Gro, «privo di Lord Juss?» «Vuoi dire,» rispose Mevrian, «che è proprio come Krothering senza mio fratello?» Guardando obliquamente la donna che stava seduta, coperta dall'armatura accanto a lui, vide che una lacrima le tremava su una palpebra. Disse con gentilezza: «Chi conosce le vie del Fato? Forse, Altezza, stai meglio qui.» Lady Mevrian si alzò ed indicò un'impronta nella roccia viva davanti ai suoi piedi. «L'impronta degli zoccoli di un ippogrifo,» gridò. «Incisa nella roccia ere fa da quell'uccello altezzoso che da molto tempo presiede alla gloria della nostra Casata, per indicarci una fama che si elevi al di sopra della regione delle stelle scintillanti. È vero il detto che la terra governata da una donna sola non è retta bene. Non continuerò a stare qui in ozio.» Gro, vedendola sull'orlo dell'alto dirupo con quell'armatura che associava con tanta perfezione all'avvenenza femminile la virilità maschile, pensò che là vi era la vera incarnazione del mattino e della sera, quel prodigio che lo aveva richiamato da Krothering, e verso il quale gli Spiriti della montagna, dei boschi e dei campi, avevano indirizzato il suo cammino con una benedizione celeste, spingendolo ad andare verso nord nella vera casa del suo cuore. Si inginocchiò e prese la mano di lei nella sua, stringendola e baciandola come qualcosa in cui fossero riposte tutte le sue speranze, e dicendole con
passione: «Mevrian, Mevrian, lascia solo che io mi armi, sotto i tuoi buoni auspici, e sconfiggerò qualsiasi cosa sia ο sarà contro di te. Proprio come il sole che illumina tutto il cielo a mezzogiorno, e dona luce a questa terra desolata, così tu sei la vera luce di Demonland che, grazie a te, dà gloria al mondo. Che ben vengano a me tutti i tormenti, così potrò essere ben accolto da te.» Lei fece un balzo indietro, tirando via la mano: la spada, uscì sibilando dal fodero. Ma Gro, che era talmente rapito ed affranto da non badare a nulla di terreno a parte il volto della donna che stava fissando, rimase immobile. Lei gli gridò: «Schiena contro schiena! Presto, ο sarà troppo tardi!» Lui balzò in piedi, appena in tempo. Sei tipi corpulenti - dei soldati di Witchland che si erano avvicinati furtivamente - erano ormai su di loro. Non c'era tempo da sprecare per parlare, e si sentiva solo il clangore dell'acciaio: lui e Mevrian, stavano schiena contro schiena su una lastra di roccia, mentre quei sei si disponevano ai due lati. «Uccidete il Goblin!», urlarono. «Ma non fate male alla donna: sarà la morte per tutti se solo sarà sfiorata!» Così, per un po' di tempo, i due si difesero con tutte le loro forze. Eppure, in quelle condizioni, l'esito dello scontro non poteva rimanere a lungo in bilico, e il disperato coraggio di Gro non poteva compensare quello che gli mancava in forza fisica e nell'abilità con le armi. Lady Mevrian era un'astuta schermitrice, come quelli, per loro sfortuna, non avevano previsto; infatti il primo, un tipo grosso e zotico che credeva di scaraventarla a terra avventandosi su di lei, ebbe la gola trapassata da un abile colpo che superò la sua guardia; da questo evento, i suoi compagni trassero una lezione di cautela. Ma, caduto infine a terra Gro coperto di svariate ferite, l'istante successivo avevano afferrato Mevrian alle spalle mentre degli altri la impegnavano di fronte quando, proprio in quel momento, come per intervento del cielo, gli avvenimenti ebbero un'inversione di rotta, e tutti e cinque in un solo istante giacquero sanguinanti sulle pietre accanto al compagno. Mevrian, guardandosi intorno e vedendo ciò che la circondava, cadde priva di forze fra le braccia del fratello, sopraffatta da tanta gioia dopo la tensione generata dal pericolo e dall'azione: constatando adesso coi suoi stessi occhi quel ritorno che gli Spiriti di quella terra avevano preannunciato, ed in quelli di Gro la medesima gioia frenetica: Brandoch Daha e Juss erano tornati a Demonland, come se fossero risorti dalla morte!
«Sono illesa,» rispose loro. «Ma esaminate Lord Gro: temo che sia ferito. Esaminatelo bene, poiché ha dimostrato di essere davvero nostro amico.» XXVI. LA BATTAGLIA DI KROTHERING SIDE Come fu riferito a Lord Corinius che Lord Juss e Brandoch Daha erano ritornati, e come egli decise di dar loro battaglia sulla riva, sotto Erngate End; e della grande marcia di Lord Brandoch Daha sulle montagne da Transdale, della grande battaglia, e del suo esito. Laxus ed i figli di Corund passeggiavano un pomeriggio sui prati di Krothering. Il cielo sopra di loro era ribollente e color piombo, e faceva presagire tempesta. Non spirava alcun vento fra gli alberi che erano di un verde livido sullo sfondo della cappa plumbea. Il rumore dei picconi e dei palanchini arrivava senza sosta dal castello. Dov'erano stati i giardini e le pergole ombrose e profumate, adesso c'era solo rovina: colonne spezzate e vasi di porfido di rara fattura infranti, cumuli di terra e di vegetazione marcia. E quei grandi cedri, emblematici del rango e dell'orgoglio di quei Signori, ora giacevano al suolo con le radici esposte, in un intrico di fogliame appassito e rami spezzati, avvizziti e senza vita. Al di sopra di questo letto di morte e di bellezza scempiata, le torri d'onice si stagliavano spettrali contro il cielo. «Non c'è una congiunzione favorevole nel numero sette?», disse Cargo. «La settimana scorsa era la sesta volta che pensavamo di aver afferrato l'anguilla per la coda su quelle colline di Mealand coperte di uova di mosche, ed invece siamo tornati a mani vuote. Laxus, quando credi che riusciremo ad inseguirli fino alla loro tana?» «Quando le frittate cresceranno sugli alberi di mele,» rispose Laxus. «No, il Generale tiene in maggior conto i suoi proclami riguardanti la giovane donna (che probabilmente non li ha mai sentiti, e sicuramente non sarà riportata a casa da loro), e queste meschine vendette, piuttosto che l'azione militare. Ascoltate! L'attività giornaliera procede.» Si voltarono udendo un grido provenire dalla porta, per vedere quello settentrionale dei due ippogrifi d'oro vacillare e precipitare dai gradini per
poi frantumarsi nel fossato, sollevando un gran fumo dalle pietre e calcinacci che avevano seguito la sua scia. La fronte di Lord Laxus era scura. Appoggiò la mano sul braccio di Heming, dicendo: «La situazione richiede che prendiamo le più sagge decisioni possibili, figli di Corund, se il Re nostro Signore alla fine dovrà ottenere da questa spedizione a Demonland la vittoria sui suoi nemici. Tenetelo bene a mente: per noi è stata una grande perdita la diserzione del Goblin.» «Quella vipera!», esclamò Cargo. «Corinius aveva ragione a non fidarsi dell'onestà di un viscido animale di quella fatta. Per un mese ο due non ci è stato di alcuna utilità, e poi è passato al nemico.» «Corinius,» disse Laxus, «occupa da poco tempo il trono di Demonland. Ritiene che il suo regno sarà solo fatto di divertimento e di gioia di governare? Questi colpi avversi della sfortuna possono ancora rovesciarlo, mentre egli consuma la sua giovinezza nel vino, nella lussuria e si rode nel rancore che prova per quella donna. La sua instabile giovinezza dev'essere puntellata dai consigli dei più anziani, per evitare che tutto sia perduto.» «Che saggio consigliere sei!», disse Cargo. «A soli trentasei anni di età!» «Noi siamo in tre,» disse Heming. «Assumi tu il comando. Io e mio fratello ti seguiremo.» «Rimangiatevi subito queste parole,» disse Laxus, «e fate conto che non siano mai state pronunciate. Ricordate Corsus e Gallandus! Inoltre, sebbene adesso Corinius sembri alquanto squinternato piuttosto che uno in possesso di tutte le sue facoltà mentali, quando è sobrio, è un soldato valoroso e potente, un Capitano abile e accorto come altri non se ne trovano a Demonland, e neppure a Witchland, a parte il vostro nobile padre; e tenete presente che è ancora molto giovane.» «Questo è vero,» disse Heming. «Mi hai rimproverato giustamente.» Mentre stavano così conversando, arrivò un uomo dal castello e rivolse un inchino a Laxus, dicendo: «Sei pregato, ο Re, se non ti dispiace, di recarti nella camera a nord.» «Si tratta del messaggero che è di nuovo tornato da est?», domandò Laxus. «È così!», rispose l'uomo con un basso inchino. «Non ha ancora parlato con Re Corinius?» «Ha chiesto udienza, ma gli è stata negata. Gli avvenimenti incalzano, e lui mi ha spinto a cercare tua Signoria.»
Mentre s'incamminavano verso il castello, Heming disse in un orecchio a Laxus: «Non eri al corrente di questa splendida novità nel cerimoniale di Corte? In questi giorni, in cui elimina degli ostaggi solo per far dispetto a Lady Mevrian, così come oggi ha fatto distruggere l'aquila dalla testa di cavallo, non concede udienza fino al calar del sole. Infatti, compiuti questi atti di vendetta, si ritira nella sua camera assieme ad una ragazza, la più graziosa e allegra che riesce a procurarsi; e così, perso per due ο tre ore nell'oceano dei suoi piaceri, allevia per un po' di tempo le sue pene d'amore.» Quando Laxus fu di ritorno dopo aver parlato col messaggero venuto da est, si recò senza indugio nella camera di Corinius. Là, spinte di lato le guardie, spalancò le porte luccicanti, e trovò Lord Corinius in allegra disposizione d'animo. Era disteso su un giaciglio coperto di tre strati di cuscini di velluto verde scuro. Un tavolo d'avorio intarsiato d'argento e d'ebano stava accanto al suo gomito, e reggeva un boccale di cristallo di vino spumeggiante vuoto già per due terzi, ed un bel calice d'oro. Indossava una lunga tunica slacciata, senza maniche, di seta bianca orlata con una frangia d'oro; questa, aprendosi all'altezza del collo, gli lasciava scoperto il torace ed un braccio vigoroso che, in quel momento, quando Laxus entrò, era proteso ad agguantare una coppa di vino. Sulle ginocchia aveva una fanciulla di circa diciassette anni, bella e fresca come una rosa, con la quale era chiaramente sul punto di passare da una conversazione amichevole ad un'intimità amorosa. Guardò incollerito Laxus che, senza cerimonie, disse: «Tutto l'est è in tumulto. La fortezza che costruimmo sullo Stile è caduta. Spitfire è entrato nel Breakingdale per approvvigionare Galing, ed ha sbaragliato l'armata che l'assediava.» Corinius bevve un sorso e sputò. «Puah!», disse. «Molto rumore, ma pochi frutti. Vorrei sapere chi ti autorizza a infastidirmi con questi pettegolezzi, mentre sono piacevolmente dedito alla gioia ed allo svago. Non avresti potuto attendere l'ora di cena?» Prima che Laxus potesse aggiungere altro, si udì un forte trepestio fuori sulle scale, ed entrarono i figli di Corund. «Sono ο non sono il Re?», brontolò Corinius, stringendosi intorno al corpo la tunica. «Chi mi obbliga a ricevervi? Uscite da questa stanza!» Poi, notando che rimanevano in silenzio, con le espressioni turbate: «Cos'è accaduto?», disse. «Siete in preda alle vertigini? Oppure siete ammattiti?» «Non siamo pazzi, Signore.» rispose Heming. «È arrivato Didarus, al
quale era stata affidata la fortezza dello Stile, giunto da est con tutta la velocità del suo cavallo, proprio alle calcagna del primo messaggero, con notizie più sicure, più fresche di quattro giorni di quelle dell'altro. Ti prego di ascoltarlo.» «Lo ascolterò,» disse Corinius, «all'ora di cena. Non prima, neanche se stesse prendendo fuoco il tetto.» «È la terra sotto i tuoi piedi che sta prendendo fuoco!», gridò Heming. «Juss e Brandoch Daha sono tornati, ed hai già perso mezza regione prima ancora di averne notizia. Quei diavoli sono tornati! Dobbiamo sentire queste cose e continuare a risciacquare scodelle?» Corinius ascoltò con le braccia incrociate. La sua grossa mascella era rivolta verso l'alto, ed aveva le narici dilatate. Per un minuto rimase in silenzio, poi: «Sono tornati?», disse. «E l'est è in tumulto? Non è poi così grave. Ringrazia Didarus per queste notizie: potrà addolcirmi le orecchie con altre a cena. Ed ora, lasciatemi, se non volete assaggiare i miei pugni!» Ma Laxus, con espressione triste e grave, si portò accanto a lui e disse: «Signore, non dimenticare che tu qui sei il Vicario e Legato del Re. La corona che porti sulla testa deve comunicare il pericolo ai tuoi pensieri, così puoi prestare ascolto pacificamente a coloro che vogliono aiutarti con validi e saggi consigli. Se ci dai questa notte stessa l'ordine di marciare per Switchwater, possiamo benissimo arginare questo pericolo e soffocarlo prima che si gonfi fino a diventare troppo grande. Se al contrario consentiamo ai nostri nemici di arrivare qui ad ovest, invaderanno tutto il paese senza incontrare la minima resistenza.» Corinius rivolse gli occhi su di lui. «Ma non c'è nulla,» disse, «che ti convinca ad ubbidire? Occupati solo delle cose che ti riguardano! La flotta è in perfetto ordine? Quella è la forza, la tranquillità e l'ancora del nostro potere, sia per approvvigionarci, sia per modificare le nostre forze in relazione al nemico che decidiamo di affrontare, sia per garantirci un rifugio sicuro qualora fosse necessario. Cosa ti affligge? Durante questi quattro mesi non abbiamo forse desiderato più di ogni altra cosa che questi Demoni trovassero il coraggio di affrontarci in campo aperto? Se è vero che Juss stesso e Brandoch Daha hanno sopraffatto le fortezze e le guarnigioni che avevo ad est e si stanno muovendo con un'armata contro di noi, allora li ho già nella fornace, e fra poco li metterò sotto il mio martello. (1) E stai pur certo che sceglierò io il terreno su cui combattere.» «C'è comunque motivo per affrettare i tempi,» disse Laxus. «Una giornata di marcia, se non li contrastiamo, li porterà davanti a Krothering.»
«Questo,» rispose Corinius, «si adatta perfettamente ai miei piani. Non farò una lega per sbarrare loro la strada, ma li attenderò qui, dove il terreno è favorevole per affrontare un nemico. Impiegherò questo vantaggio per portare a termine la parte più faticosa dei preparativi, disponendo le schiere dei miei soldati sulla riva di Krothering e con il fianco contro la montagna. La flotta invece si recherà nel porto di Aurwath.» Laxus si accarezzò la barba e rimase silenzioso per un minuto, riflettendo. Poi alzò la testa e disse: «Questo è un ottimo piano, non posso negarlo.» «È un piano, Signore,» disse Corinius, «che ho concepito da parecchio tempo, ed ho tenuto da parte per questa occasione. Lasciatemi solo, dunque, a fare ciò che è nel mio diritto. Ha un altro lato positivo, se andrà in porto: quel damerino sarà costretto a rivedere la sua casa prima di essere ucciso da me, e penso che troverà ben triste questa visione, dopo il trattamento che le ho riservato!» Il terzo giorno dopo questi avvenimenti, un fattore di Holt (2) stava nel suo portico che si apriva verso ovest su Tivarandardale. Era vecchio e curvo come un rovo di montagna, ma aveva gli occhi neri e vivaci, ed i capelli ricciuti e crespi gli ricadevano ancora sulla fronte. Era pomeriggio inoltrato, ed il cielo era coperto di nubi. Dei cani pastori dal pelo arruffato sonnecchiavano davanti alla porta, e le rondini si radunavano nel cielo. Vicino a lui sedeva una fanciulla, delicata come una pispola (3), e flessuosa come un'antilope: stava triturando il grano in un macinino e cantava: Macina, mulino, macina, Corinius ci macina tutti; Regnando nella vedova Krothering. Il vecchio stava lustrando uno scudo ed un morione (4), e altre bardature di guerra giacevano ai suoi piedi. «Mi meraviglio che tu sia ancora indaffarato con le tue armi, padre mio,» disse la ragazza, smettendo un momento di cantare e macinare. «Se sono tornati i giorni infausti, cosa può fare un vecchio se non dolersi e tacere?» «Ci sarà tempo dopo per questo,» disse il vecchio. «Ma, anche se soltanto per un poco, la mia mano è pronta a colpire!» (5) «Se torneranno, probabilmente, sarà solo per dare fuoco al tetto,» disse
la fanciulla, riprendendo a macinare. «Sei una ragazzina disubbidiente. Se solo tu fossi andata a rifugiarti nel capanno del gregge come ti avevo ordinato, su nella valle, non mi sarebbe importato un fico secco dei loro incendi.» «Lascia che tutto bruci,» disse la ragazza, «se lui è stato preso. Perché dovremmo ancora aspettare io e te? Tu sei solo un vecchio pieno di ricordi, ed io non resterò più qui.» Un grosso cane che stava accanto a lei si svegliò e si scrollò, poi le si avvicinò e le appoggiò il naso sul grembo, guardandola con occhi gentili e solenni. Il vecchio disse: «Sei una ragazzina disubbidiente e, per quel che ti riguarda, spada ο fuoco che sia, non dovrei preoccuparmi assolutamente, sapendo che si tratta solo di un temporale passeggero, ora che il mio Signore è tornato.» «Ma loro hanno tolto la terra a Spitfire: ricordalo!» «È vero, piccola stupida. Ma vedrai che il mio Signore la riprenderà.» «Davvero?», disse lei. E continuò a macinare ed a cantare: Macina, mulino, macina, Corinius ci macina tutti. Dopo un po', il vecchio disse: «Non era un rumore di zoccoli sul viottolo? Vai dentro, finché non saprò se sono amici.» Poi si chinò penosamente per raccogliere la sua arma che tremò miserevolmente nella sua debole mano. Ma la ragazza, come se avesse riconosciuto quel passo, non badando ad altro, balzò in piedi col volto prima rosso, poi pallido, poi di nuovo imporporato, e corse alla porta del recinto. I cani pastori correvano saltellando davanti a lei. Sulla porta le venne incontro un giovane che montava un cavallo esausto. Era abbigliato come un soldato, e uomo e cavallo erano talmente imbrattati di melma, polvere ed ogni genere di lordura, da far pena a vedersi, ed erano talmente sfiniti che si aveva la sensazione che difficilmente sarebbero riusciti ad avanzare per un altro furlong. Si fermarono davanti alla porta, e tutti i cani si misero a saltare intorno a loro, uggiolando ed abbaiando per la gioia. Prima che il soldato fosse sceso del tutto dalla sella, ricevette un dolce abbraccio. «Piano, cuore mio,» disse, «la mia spalla è alquanto scorticata.
No, non ti preoccupare: ho riportato tutte le membra a casa.» «C'è stata una battaglia?», disse il vecchio. «C'è stata una battaglia, padre?», gridò lui. «Ti dico solo questo: Krothering Side è piena zeppa di cadaveri più di quanto lo è il nostro recinto di pecore nella stagione della tosatura.» «Ohimè, ma questa è una terribile ferita, caro!», disse la ragazza. «Entra, e la laverò e vi spargerò sopra del millefoglio pastaio nel miele; è un rimedio sovrano contro il dolore e la perdita di sangue, asciuga i lembi della ferita e sana in un tempo incredibilmente breve. Hai perso troppo sangue, sciocco: come faresti a cavartela senza tua moglie che si prende cura di te?» Il fattore gli circondò le spalle con un braccio, e gli chiese: «Il campo è nostro, ragazzo?» «Ti racconterò tutto con ordine, vecchio, ma prima devo metterlo nella stalla,» disse additando il cavallo che gli stava strofinando il muso contro il petto. «Prima però dovete darmi da mangiare. Dio ci protegga, non è una storia che un uomo possa raccontare digiuno!» «Orsù, padre,» disse la fanciulla, «non abbiamo qualche crostino, in modo da riuscire a trattenerlo qui con noi? E, buone ο cattive che siano, lasciamogli il tempo per raccontare le notizie che ha.» Così gli lavarono le ferite, vi collocarono sopra con delicatezza delle erbe medicinali, le avvolsero con del lino pulito, gli fecero indossare delle nuove vesti, lo aiutarono a sedersi su una panca all'esterno del portico e gli diedero da mangiare e da bere: focacce di farina d'orzo e di miele scuro, con del vino bianco asprigno di Tivarandardale. I cani stavano accucciati vicino a lui come se ci fossero tepore e tranquillità dovunque lui si trovasse, e la sua giovane moglie stringeva le mani di lui nelle sue, come se ciò bastasse a far durare quell'istante per sempre. Il vecchio intanto, ingoiando la sua impazienza come uno scolaretto che attende con irritazione la campana, tastava la sua partigiana (6) con mano tremante. «Padre, hai ricevuto il messaggio che ti ho mandato dopo la battaglia sotto Galing?» «Sì. Le notizie erano buone.» «Quella notte tennero consiglio,» disse il soldato. «I grandi uomini erano tutti assieme nell'alta sala di Galing, che era uno splendore a vedersi. Io ero uno dei coppieri, poiché avevo ucciso il portabandiera delle Streghe, proprio nella battaglia sotto Galing. Non pensavo di aver fatto una gran
cosa finché, ecco, dopo la battaglia, il mio Signore in persona era accanto a me e mi disse: "Arnod" (sì, mi chiamò per nome, padre), "hai abbattuto il Vessillo di Witchland che con tanta arroganza sventolava contro la nostra libertà. È il più bel gesto a favore di Demonland in questi giorni tristi, e stanotte reggerai la mia coppa, in segno della mia stima." Vorrei, ragazza, che avessi visto i suoi occhi in quel momento: è un uomo che fa venire la voglia di combattere, il nostro Signore.» «Avevano davanti a loro la grande mappa del mondo, di Demonland, per decidere il da farsi. Io stavo là vicino, a versare il vino, ed ascoltavo i loro discorsi. È meravigliosa quella mappa, realizzata in cristallo e bronzo, molto minuziosa, con acque che scintillano e montagne che s'innalzano solide al tatto. Poi il mio Signore puntò la sua spada. "Qui," disse, "c'è Corinius, secondo le notizie che abbiamo, e non si muove da Krothering. E, per gli Dei, è invero una decisione molto saggia. Perché, notate, se attraversiamo Gashterndale, come dobbiamo fare per arrivare da lui, egli può abbattersi su di noi come un martello su un'incudine. E, se tagliamo in direzione dell'imbocco dell'Estuario di Thunder - e qui lo indicò con la spada può prenderci sul fianco; e la pendenza del terreno va a suo vantaggio ed a nostro danno."» «Ricordo queste parole,» disse il giovane, «poiché Lord Brandoch Daha, scoppiò a ridere e disse: "Siamo diventati tanto estranei a causa dei nostri viaggi, che la nostra terra si schieri dalla parte del nemico? Fatemi vedere meglio!"» «Riempii la sua coppa. Oh Dei, avrei riempito una ciotola col mio stesso sangue se me lo avesse chiesto, dopo quello che avevamo passato assieme, padre! Ma avrei fatto anche di più. È un gentiluomo ed un Capitano senza pari!» «Ma Lord Spitfire, che nel frattempo stava andando avanti e indietro nella stanza, gridò: "Sarebbe una follia seguire il percorso che lui si aspetta. Prendiamolo da quel lato dove meno pensa di vederci arrivare: da sud, attraverso le montagne, e poi sulle sue retrovie di Mardardale."» «"Ah," disse il mio Signore, "ed essere così respinti a Murkdale Hags se falliamo il primo assalto. È troppo pericoloso: è peggio di Gashterndale!"» «Ed andò avanti così: un no per ogni sì, e nulla che sembrava soddisfarli. Finché, alla fine, Lord Brandoch Daha, che era rimasto a lungo a esaminare la mappa, disse: "Ora che avete frugato nell'intero pagliaio senza trovare l'ago, vi rivelerò il mio pensiero, così non potrete dire che è un consiglio avventato."»
«Gli altri lo pregarono di parlare, e lui disse al mio Signore: "Tu, con il grosso dei tuoi, andrete a Switchwater Waye, e farai in modo che la notizia del vostro arrivo si diffonda in tutto il territorio davanti a voi. Ti fermerai domani notte in un luogo buono per combattere, dove non sarebbe vantaggioso aggredirti: per esempio nei vecchi recinti per le greggi sopra Wrenthwaite, ο in qualsiasi luogo favorevole prima che la strada scenda verso sud a Gashterndale. Ma, allo spuntar del giorno, togli le tende, attraversa Gashterndale e poi sali su verso la riva per ingaggiare battaglia con lui. Così tutto si svolgerà proprio come le sue speranze ed aspettative desiderano. Ma io," disse Lord Brandoch Daha, "con settecento cavalieri scelti, nel frattempo mi sarò mosso lungo il crinale della montagna da Transdale fino a Erngate End; così, quando lui impegnerà tutte le sue forze a nord sulla riva per sopraffarti, sull'apparente sicurezza del suo fianco e delle sue retrovie piomberà qualcosa che non si è neppure sognato. Se resisterà alla mia carica improvvisa sul fianco, con te di fronte a tenergli testa, e con un vantaggio di uomini così irrisorio su di noi, se resisterà a questo, beh, allora buona notte! Dovremo ammettere che le Streghe ci sono superiori nelle armi, dovremo scoprirci la testa davanti a loro, e non dovremo sforzarci più di ottenere giustizia."» «Questo disse Lord Brandoch Daha, ma tutti gli risposero che era matto a pensare una cosa del genere. Trasportare un'armata a dorso di cavallo in così poco tempo e su un terreno così difficile? Impossibile! "Beh," disse lui, "dal momento che lo ritenete impossibile, vuol dire che è l'unica cosa da fare. I consigli cauti ci servono a ben poco in questo frangente. Datemi solo il mio contingente scelto ed i cavalli in numero di settecento, ed io indosserò questa maschera in maniera tale che non potrete desiderare un miglior maestro di cerimonie."» «Così, alla fine, l'ebbe vinta. E, a mezzanotte passata - lo so bene - erano ancora tutti là a fare piani ed a ponderare.» «All'alba, l'intera armata era schierata sui prati sotto Moonmere, ed il mio Signore parlò ai soldati e disse che era intenzionato a marciare verso ovest ed a spazzare via le Streghe da Demonland; poi invitò ogni uomo che avesse deciso di averne abbastanza della guerra e che pensasse che fosse meglio tornarsene a casa, a manifestare le sue intenzioni senza paura, perché lo avrebbe lasciato andar via, e gli avrebbe anche dato una ricompensa, dal momento che tutti avevano svolto valorosamente il proprio servizio. Solo, lui non voleva nessun uomo in quell'impresa che non l'affrontasse con tutto il suo coraggio e la sua volontà.» (7)
La fanciulla disse: «Spero bene che nessuno abbia accettato questa offerta.» «Si sollevò,» disse il soldato, «un tale clamore, con un tale battere di piedi ed un tale clangore di armi cozzate assieme, che la terra tremò, e nelle alte gole dello Scarf rotolarono come tuoni gli echi delle grida: "Krothering!" "Juss!" "Brandoch Daha" "Guidateci a Krothering!"» «Senza aggiungere altro, fu raccolto l'equipaggiamento e, prima di mezzogiorno, l'intera armata fu condotta sopra lo Stile. Mentre eravamo fermi per il pasto nei pressi di Blackwood ad Amaraldale, giunse Lord Brandoch Daha al galoppo fra i ranghi per scegliere il suo contingente di settecento fra i più abili cavalieri. Non volle affidare questo incarico ai suoi ufficiali, ma fu lui stesso a chiamare ognuno di quelli che riteneva adatti, chiedendogli se voleva andare con lui.» «Credo che non ricevesse alcun rifiuto. Il mio cuore si gelò per il timore che sfuggissi al suo sguardo, vedendolo passare a cavallo baldanzoso come un Re. Ma lui tirò le redini facendo fermare il cavallo e disse: "Arnod, il tuo è un bel cavallo. Ce la farebbe a portarti stamattina a caccia di maiali giù per Erngate End?" Lo salutai e dissi: "Non soltanto fin là, ma fino all'Inferno se ci guiderai tu!". "Andiamo," disse lui. "Ti guiderò fino ad una porta più bella di quella: saremo a Krothering prima di sera."» «Il contingente era stato scelto, ed il grosso dell'armata era pronto a marciare verso ovest per Switchwater Way, con Lord Zigg al comando della cavalleria, e Lord Volle, il mio Signore e suo fratello Spitfire, al centro. Con loro c'era anche quello straniero traditore, Lord Gro: ma credo che lui sia più un bastoncino di zucchero che un uomo di guerra. Molti gentiluomini di valore procedevano con loro: Gismore Gleam di Justdale, Astar di Rettray, Bremery di Shaws e molti altri nomi importanti. Con Lord Brandoch Daha rimasero Arnund di By, Tharmrod di Kenarvey, Kamerar di Stropardon, Emeron Galt, Hesper Golthring di Elmerstead, Styrkmir di Blackwood, Melchar di Strufey, i tre figli di Qazz di Dalney, e Stypmar di Failze: giovani gentiluomini fieri ed impavidi, fidatissimi, credo; cavalieri provetti, non particolarmente tesi verso le cose troppo di là da venire, ma legati alle vicende del presente; troppo sconsiderati per guidare un'armata, ma i migliori quando si tratta di obbedire e di seguire il mio Signore in un'impresa così gloriosa.
«Prima di partire, Lord Juss venne a parlare con Lord Brandoch Daha. Guardò il cielo che era coperto di nuvole nere e ventoso, e gli disse: "Non mancare all'appuntamento, cugino! Hai detto che tu ed io siamo come indice e pollice; e questo, se non sarà dimostrato domani, non lo sarà mai più."» «"Amico del mio cuore, stai tranquillo!", rispose Lord Brandoch Daha. "Ti risulta che io abbia qualche volta trascurato i miei ospiti? E poi, non vi ho forse invitato a colazione con me domani mattina sui prati di Krothering?"» «Noi settecento voltammo a sinistra nel punto in cui le acque confluiscono nelle montagne a Transdale. Poi il maltempo si abbatté su di noi, il peggiore che abbia mai visto. La strada per Trasdale è abbastanza agevole e breve, come tu sai padre, ma divenne estenuante perché ogni sentiero battuto dai cervi era un corso d'acqua e, sotto i piedi, era tutto un pantano: non si vedeva nulla tranne la nebbia bianca e la pioggia sopra e intorno a noi, nonché erba inzuppata ed acqua sotto gli zoccoli dei cavalli. C'è poco altro da dire se non che finalmente giungemmo sulla sommità del Passo, dove le nubi non erano più dense né il vento più impetuoso. Tutti eravamo bagnati fino al midollo, e portavamo una pinta d'acqua nelle scarpe.» «Mentre eravamo fermi, Lord Brandoch Daha non riposò affatto, ma affidò il cavallo al suo servo e si mise a girare fra di noi. Per ognuno ebbe una parola scherzosa ο uno sguardo allegro, così fu come se avessimo mangiato e bevuto solo ascoltandolo ο vedendolo. Ma ci permise di sostare solo per poco; quindi voltammo a destra, lungo il crinale, dove il percorso era anche peggiore di quello della valletta, con rocce e precipizi nascosti dall'erica, e lastre sdrucciolevoli di granito.» «In fede mia, credo che nessun cavallo che non sia nato e cresciuto là potrebbe attraversare quella regione, brutto ο bel tempo che sia; si azzopperebbe ο si spezzerebbe le zampe od il collo del suo cavaliere prima di aver percorso due ore di cammino su quei crinali. Ma noi, che cavalcavamo con Lord Brandoch Daha verso Krothering Side, procedemmo per dieci ore, a parte le soste per abbeverare i cavalli e quelle più lunghe per foraggiarli, effettuando l'ultima parte del percorso nell'oscurità della notte, e lottando sempre contro la pioggia ridotta dal vento in spruzzi, nonché la grandine che cadeva di tanto in tanto.» «Quando smise di piovere, il vento girò a nord-ovest ed investì i crinali, asciugandoli. Fu allora che dei piccoli frammenti di granito eroso colpirono i nostri volti come chicchi di grandine soffiati dal vento. Non c'era ripa-
ro, non sul lato sottovento delle rocce, ma ovunque il vento impetuoso ci investiva e schiaffeggiava, e batteva le sue ali in mezzo alle balze come un tuono.» «Giusto Cielo, eravamo esausti e prossimi a crollare, congelati fino al midollo e, sia gli uomini che i cavalli erano quasi ciechi, eppure proseguimmo con zelo spaventoso. Lord Brandoch Daha ora si trovava all'avanguardia ora alla retroguardia, sollevando i cuori degli uomini che notavano con quale serenità di spirito affrontava le medesime avversità dell'ultimo dei suoi soldati: sembrava uno che stesse andando tranquillamente a cavallo ad un banchetto di nozze, e gridava: "Procediamo bene, ragazzi! Quei rospi di palude del Druima capiranno troppo tardi che i nostri cavallini di montagna sono capaci di arrampicarsi come cervi."» «Quando si avvicinò il mattino, facemmo l'ultima sosta, ed i nostri settecento cavalieri si nascosero in un circo glaciale sotto gli alti strapiombi di Erngate End. Vi assicuro che ci muovevamo con la massima cautela, affinché nessun maiale ficcanaso di Witchland alzando la testa potesse cogliere la visione fugace di un uomo ο di un cavallo contro il cielo.» «Per prima cosa sua Altezza dispose le sentinelle e fece chiamare l'adunata, poi si accertò che ogni uomo avesse il suo pasto mattutino ed ogni cavallo il suo cibo. Quindi si mise dietro una sporgenza di roccia da dove poteva osservare la landa sottostante. Mi aveva voluto accanto a sé durante quelle incombenze.» «Alle prime luci guardammo in basso - verso ovest - al di sopra dell'orlo della montagna, e vedemmo Krothering ed i bracci di mare. Non era buio al punto da non consentirci di vedere la flotta all'ancora nella Rada di Aurwath, e l'accampamento dei nostri nemici simile ad un gruppo di alveari, cosicché si poteva pensare di lanciarvi contro una pietra.» «Era la prima volta che andavo in guerra con il mio Signore. In fede mia, è un uomo affascinante a vedersi: sporto in avanti, lassù sull'erica, col mento sulle braccia incrociate, l'elmo poggiato di lato affinché le Streghe non potessero vederlo scintillare dal basso. Era tranquillo come un gatto: mezzo assopito avreste detto, ma gli occhi erano svegli e fissavano Krothering. Era ben visibile, anche a quella distanza, il vile trattamento che le avevano riservato.» «Il grande sole rosso balzò fuori dai banchi di nuvole ad est. Cominciò una certa agitazione nell'accampamento sottostante: furono issati i vessilli, gli uomini si radunarono, poi si formarono i ranghi, e suonarono le trombe; quindi, una ventina di cavalieri giunse galoppando nel campo dalla strada
di Gashterndale.» «Sua Altezza, senza girare la testa, mi fece segno con la mano di chiamare i suoi Capitani. Andai a chiamarli di corsa. Egli impartì loro dei rapidi ordini, indicando là dove quei porci di Witchland preparavano la loro battaglia; erano ladri e pirati che depredavano i possedimenti di sua Altezza stesi fra i suoi corsi d'acqua; gli stendardi, i vessilli e le lance scintillanti, si muovevano verso nord provenendo dalle tende. Poi, nel silenzio, arrivò un suono che fece balzare il cuore nel petto di noi tutti: debole, dalle valli lontane di Gashterndale, proveniva il richiamo di battaglia delle trombe del mio Signore, Lord Juss.» «Lord Brandoch Daha indugiò per un minuto, guardando giù. Quindi si voltò con una faccia che splendeva come il mattino. "Miei Signori," disse "montiamo a cavallo con allegria, poiché Juss sta già combattendo contro i suoi nemici." Penso che fosse molto contento, e che fosse certo che quel giorno si sarebbe preso la soddisfazione di zittire tutti quelli che avevano diffidato di lui.» «Fu una lunga cavalcata quella da Erngate End. Sebbene il nostro sangue ribollisse spingendoci ad accelerare il passo, fummo costretti a procedere con cautela, facendoci strada su quel terreno insidioso, ripido come l'inclinazione di un tetto, irregolare e privo di appigli sicuri per i piedi, con ruscelletti che si facevano strada nel fango umido, rocce affioranti e falde instabili. Non c'era altro da fare che affidarsi ai cavalli, e questi ci portarono giù per quella parete con grande coraggio.» «Eravamo a metà strada, quando sentimmo e vedemmo che la battaglia era cominciata. I soldati di Witchland erano così impegnati a cimentarsi col grosso dell'esercito del mio Signore, che credo avessimo ormai disceso il pendio e ci fossimo disposti per l'attacco quando si accorsero di noi. I nostri suonatori di trombe intonarono la sfida di battaglia. Chi importuna Brandoch Daha?, e quindi ci scagliammo contro Krothering Side come una valanga.» «A malapena posso dire come si svolse la battaglia. Fu come uno scontro fra due fiumi in piena. Penso che le Streghe si fossero aperte a destra ed a sinistra davanti a noi per attutire il colpo. Quelli che ci fronteggiavano, andarono giù come frumento sotto una tempesta di grandine. Poi ruotammo su entrambi i lati: una parte andò a sinistra respingendo il nemico verso l'accampamento, gli altri, con Lord Brandoch Daha, a destra. Io mi trovavo con questi ultimi nel bel mezzo della battaglia: sua Altezza cavalcava come un forsennato; ginocchio contro ginocchio con lui stavano Strykmir di
Blackwood da un lato e Tharmrod dall'altro. Nessun uomo ο cavallo riusciva a restare in piedi davanti a loro, ed essi avanzavano come in un labirinto, ora di qua ora di là, in mezzo al parapiglia ed al massacro dei fanti, teste e braccia recise, uomini divisi in due dal capo al ventre, sì, fino alla sella, cavalli impazziti senza cavalieri, e sangue che schizzava su dal suolo come fanghiglia da un acquitrino.» «Per un po' andò avanti così, finché non esaurimmo il vantaggio del nostro assalto ed avvertimmo per la prima volta il peso della loro forza. Corinius, come sembra, si staccò dall'avanguardia dove per un certo lasso di tempo aveva respinto il grosso del nostro esercito, e si scagliò contro Lord Brandoch Daha con un gruppo di cavalieri e lancieri, ordinando ai suoi frombolieri di mirare su di noi e spingerci in direzione dell'accampamento.» «E così, nell'altalena di quella grande battaglia, fummo trascinati di nuovo verso l'accampamento, e là si verificò un vero e proprio pandemonio: cavalli ed uomini che inciampavano nelle corde delle tende, tende abbattute, schianti di terraglie infrante, e Re Laxus - che era giunto coi suoi marinai dalle navi - che azzoppava i nostri cavalli, mentre Corinius ci caricava da nord e da est.» «Quel Corinius in battaglia si comportava più come un Diavolo dell'Inferno che come un mortale. Coi primi due colpi della sua spada abbatté due dei nostri migliori Capitani, Romenard di Dalney ed Emeron Galt. Strykmir, che gli si parò avanti per fermarlo, fu scaraventato a terra dalla sua lancia, sia lui che il suo cavallo. Si dice che due volte quel giorno incrociò Lord Brandoch Daha, ma in entrambe le occasioni furono divisi dalla calca prima di potersi affrontare.» «Ho partecipato ad alcune grandi battaglie, padre, come tu ben sai: prima seguendo il mio Signore e Lord Goldry Bluszco in paesi stranieri, l'anno scorso alla grande disfatta di Crossby Outsikes, poi di nuovo con Lord Spitfire quando sconfisse le Streghe alle Rovine di Brima, ed il grande massacro della Scogliera di Thremnir. Ma non mi sono mai trovato in una battaglia come quella di ieri.» «Non avevo mai visto simili atti di eroismo. Kamerar di Stropardon, con uno spadone a due mani recise la gamba di un nemico vicino all'anca, con un colpo così potente che la lama attraversò la gamba, la sella ed il cavallo. Styrkmir di Blackwood, emergendo come un diavolo da un mucchio di cadaveri, e sebbene avesse perso l'elmo e stesse sanguinando da tre ο quattro brutte ferite, tenne a bada una dozzina di Streghe con fendenti ed attacchi
mortali, finche quelli non ne ebbero abbastanza ed arretrarono davanti a lui: erano dodici contro uno, e quell'uno era stato dato per morto poco tempo prima.» «Ma tutti i grandi atti eroici parvero inezie a confronto delle imprese di Lord Brandoch Daha. In un breve lasso di tempo ebbe tre cavalli uccisi sotto di lui, eppure non ricevette alcuna ferita: un vero prodigio! Infatti, egli cavalcava di qua e di là senza la minima cautela, abbattendo i campioni avversari. Ricordo quando, col cavallo fatto a pezzi ed ucciso sotto di lui, mentre uno di quei Signori di Witchland menava colpi di lancia al suo indirizzo al suolo, egli balzò di nuovo in piedi, afferrò la lancia con le mani e, con una forza incredibile, scaraventò il suo nemico giù dalla sella.» «Era il Principe Cargo, il più giovane dei figli di Corund. Le donne di Witchland sforzeranno a lungo i loro begli occhi, ma non vedranno mai più quell'agile ragazzo tornare a casa su una nave. (8) Sua Altezza gli tirò un colpo così violento sulla nuca che quello crollò a terra, e la sua testa volò in aria come una palla da tennis. In un batter d'occhio, Lord Brandoch Daha montò sul cavallo del suo nemico, poi si voltò per caricarne un altro.» «Pensereste che il suo braccio alla fine dovesse indebolirsi per la stanchezza, essendo egli così snello e delicato a vedersi, ma sono certo che il suo ultimo colpo in quella battaglia non è stato più fiacco del primo. E sassi, lance e fendenti sembravano arrivare su di lui senza avere un effetto maggiore di colpi dati con un fuscello su un diamante.» «Non so quanto durò il combattimento fra le tende. Ma è stato il più bel combattimento al quale ho partecipato, ed il più sanguinoso! E, dalle notizie che sono giunte, è stato così dappertutto, anche dove il mio Signore ed i suoi hanno dovuto lottare per farsi strada fino alla riva. Ma di questo non sappiamo nulla. È certo, comunque, che saremmo tutti morti se il mio Signore non avesse avuto la meglio laggiù, ed è certo che non avrebbe mai avuto la meglio se noi non avessimo aggredito sul fianco il nemico quando si era avventato su di lui la prima volta.» «In quell'ultima ora tutti noi che stavamo combattendo pensammo la stessa cosa: come poter uccidere un'altra Strega, e poi ancora un'altra Strega, prima di morire. Perché Corinius, in quell'ora, mise in campo tutta la sua forza per annientarci e, per ogni nemico che cadeva, altri due sembravano sollevarsi davanti a noi. Ed anche i nostri sono caduti come mosche, e le tende - che erano così bianche - sono diventate un unico ammasso di sangue.» «Quando ero bambino, padre, avevamo un passatempo: nuotare nei pro-
fondi laghetti di Tivarandarwater, finché uno non riusciva ad afferrare l'altro (9) ed a tenerlo sott'acqua facendogli mancare il fiato. Mi sembra che al mondo non ci sia niente di più terribile della mancanza d'aria quando colui che è più forte di te ti tiene bloccato sott'acqua, e niente di più piacevole come l'aria buona che ritorna nei polmoni quando sei lasciato libero di schizzare fuori in superficie. Fu proprio così per noi, che avevamo detto addio alla speranza ed avevamo perso tutto tranne la vita stessa, e non potevamo resistere oltre, quando udimmo all'improvviso lo squillo delle trombe del mio Signore che suonavano per la carica.» «Prima che le nostre menti spaventate potessero pensare correttamente a quello che ciò significava, l'intero campo di battaglia fu sferzato e sconvolto come l'acqua di un lago in preda ad un turbine; e la massa dei nemici che ci aveva investito da tutte le parti rovesciandoci addosso sassi ed acciaio, prima vacillò in avanti, poi indietro, poi di nuovo avanti su di noi, nella più totale delle confusioni. Credo che nelle nostre braccia affluì nuova forza; credo che le nostre spade aprirono le loro bocche. Perché a nord vedemmo il vessillo di Galing che sventolava come una stella scintillante, ed il mio Signore, in testa alla massa tumultuante, mentre Zigg, ed Astar, e centinaia di cavalieri, si aprivano la strada verso di noi come noi ce la aprivamo verso di loro.» «Adesso per noi era tempo di mietitura, e tempo di riscossione per tutte quelle ore sanguinose durante le quali ci eravamo aggrappati alla vita coi denti fra le tende di Krothering Side, mentre quelli che stavano dall'altra parte - il mio Signore ed i suoi - avevano, nonostante le avversità del suolo, dolorosamente e palmo dopo palmo portato il combattimento alla vittoria. E poi, prima che ce ne accorgessimo, il giorno finì, la vittoria fu nostra, e il nemico disperso e costretto ad una tale disfatta che mai era stata vista a memoria d'uomo.» «Quel falso Re Corinius, dopo che ebbe indugiato per vedere la fine della battaglia, sfuggì al massacro con pochi dei suoi uomini e, com'è stato appurato più tardi, s'imbarcò nel porto di Aurwath e fuggì in alto mare con tre ο quattro navi. Ma la maggior parte della loro flotta fu bruciata là nel porto per evitare che finisse nelle nostre mani.» «Il mio Signore diede ordine di recuperare i feriti e di curarli, amici e nemici indistintamente. Fra di loro c'era Re Laxus, stordito da un colpo di mazza ο qualcosa del genere. Lo portarono davanti ai Signori che stavano riposando a poca distanza dalla riva sui prati di Krothering. «Lui li guardò dritto negli occhi, con espressione orgogliosa e marziale,
poi disse al mio Signore: "Può essere doloroso, ma non è una vergogna per noi essere stati sconfitti dopo un combattimento così strenuo. Devo solo rimproverare la mia sfortuna, che non mi ha concesso di cadere in battaglia. Ora, Juss, puoi tagliarmi la testa per il mio tradimento di tre anni fa. E, dal momento che so che la tua natura è cortese e nobile, non mi vergogno di chiederti il favore di non indugiare e di farlo subito."» «Il mio Signore stava là come un destriero dopo una pausa per riprendere fiato. Gli prese una mano e disse: "Laxus, non ti donerò soltanto la testa, ma anche la tua spada," e, così dicendo, gliela tese con l'elsa in avanti. "Riguardo al tuo comportamento nei nostri confronti nella battaglia di Kardatza, lasciamo che il tempo - che ha il potere di rendere polvere tutte le cose - faccia lo stesso col loro ricordo. Da allora, ti sei dimostrato un nemico nobile; e così ti considerammo."» «Dopodiché, il mio Signore ordinò di condurre Re Laxus fino al mare, e di farlo salire su una nave, poiché Corinius indugiava ancora al largo con le sue navi, aspettando per cercare di salvare lui ο qualcun altro dei suoi.» «Ma mentre Re Laxus stava per partire, Lord Brandoch Daha, facendo mostra di noncuranza come se gli fosse venuta in mente per caso una cosa di scarsa importanza: "Signore," disse, "non ho mai chiesto favori a nessuno. Soltanto a titolo di scambio di cortesie, credo che potresti portare a Corinius i miei saluti, dal momento che non ho altri messaggeri."» «Laxus rispose che lo avrebbe fatto senz'altro. Poi Lord Brandoch Daha aggiunse: "Digli che non gli faccio nessuna colpa se non ci ha attesi sul campo dopo che la battaglia era perduta, poiché sarebbe stato un comportamento ingenuo, contro tutte le regole del giusto comportamento militare, e sarebbe servito solo a fargli perdere la vita. Nelle mie sale si è comportato, come mi è stato riferito, più come un maiale od una scimmia brutale che come un uomo. Pregalo di venire a riva prima di salpare alla volta di casa, in modo che io e lui, senza nessun altro che possa mettersi fra noi, possiamo saldare i nostri conti. Gli promettiamo pace, protezione ed un salvacondotto fino alle sue navi se prevarrà su di me ο se lo costringerò ad implorare pietà. Se non accetterà quest'offerta, allora è un codardo; e il mondo intero lo griderà."» «"Signore," disse Laxus, "riferirò parola per parola il tuo messaggio."» «Non so, padre, se lo abbia fatto oppure no ma, se lo ha fatto, non credo che Corinius lo abbia gradito molto. Infatti, non appena fu salito a bordo della sua nave, quella alzò le vele e si diresse verso il mare aperto. E addio!»
Il giovane terminò il suo racconto, e tutti e tre rimasero silenziosi per un po'. Una brezza leggera fece fremere il fogliame delle querce di Tivarandardale. Il sole era basso dietro le maestose cime di Thronback, e tutto il cielo, da un capo all'altro, era illuminato dallo splendore del tramonto. Chiazze di nuvole, con l'azzurro che faceva capolino qua e là, coprivano il cielo, tranne ad ovest, dove un grande arco di aria limpida si apriva fra il cielo e la terra: l'aria era di un azzurro che sembrava ardere, talmente era puro, profondo, e pregno di calore. Non era l'azzurro intenso del mezzogiorno né il sontuoso blu orientale della notte al suo apparire, ma un luminoso azzurro-cielo bordato di verde, profondo, tenue e delicato come lo spirito della sera. In mezzo a quella finestra ad occidente, obliqua, c'era una lama di nubi, dai contorni netti e seghettata, del colore dei carboni ardenti, ignea e color ferro alternativamente, allungata come una spada ribattuta. Le nuvole sopra l'arco erano rosa pallido: lo zenit sembrava un opale nero, blu scuro e grigio temporalesco, chiazzato di fuoco. XXVII. LA SECONDA SPEDIZIONE AD IMPLAND Come Lord Juss, senza poter essere distolto dal suo ostinato proposito, scopre, dove meno se lo aspetta, un sostegno in questa risoluzione; e del viaggio dell'armata fino a Muelva attraverso gli Stretti di Melikaphkhaz. Era l'ultimo tizzone di un'estate infuocata quello che bruciò quando raccolsero le messi a Krothering Side. Venne l'autunno, poi i mesi invernali, e le giornate sempre più lunghe del nuovo anno. Al primo respiro della primavera, i porti erano pieni di navi da guerra, tante quante non si erano mai viste prima in quella terra ed in ogni regione, dalle Isole Occidentali a Bytand, da Shalgreth e Kelialand ai promontori sotto Rimon Armon, erano ammassati soldati coi loro cavalli e tutto l'armamentario. Lord Brandoch Daha venne a cavallo da ovest, il giorno in cui gli anemoni si schiusero per la prima volta sulle rive scoscese sotto Erngate End e le primule profumavano le foreste di betulle e Gashterndale. Si era svegliato presto, aveva cavalcato di buona lena, ed era entrato a Galing attraverso la Porta del Leone quando era circa mezzogiorno.
Lord Juss si trovava nella sua camera, e lo salutò con grande gioia e affetto. Brandoch Daha gli chiese: «Come procedono le cose?» E Juss rispose: «Trentacinque navi sono in mare a Lookinghaven, e tutte, tranne quattro, sono navi da guerra. Sono in attesa dell'arrivo domani di Zigg con gli uomini arruolati a Kelialand; Spitfire è ad Owlswick con millecinquecento uomini del sud; Volle è arrivato tre ore fa con altri quattrocento. In totale, saranno quattromila, calcolando gli equipaggi delle navi e le nostre guardie.» «Io ho otto navi da guerra,» disse Lord Brandoch Daha, «nell'Estuario di Stropardon, tutte attrezzate e pronte. Altre cinque sono ad Aurwath, cinque a Lornagay nel Morvey, e tre sulla costa di Mealand a Stackray Oyce, oltre alle quattro sulle Isole. Ed ho millecinquecento lancieri e seicento cavalieri. Tutti questi uomini si uniranno ai tuoi a Lookinghaven con un semplice schiocco delle mie dita: sarà sufficiente avvertirmi sette giorni prima.» Juss gli strinse una mano. «La mia schiena sarebbe nuda senza di te!», disse. «A Krothering non ho ancora spostato una pietra, né ho fatto pulire una sola stanza,» disse Brandoch Daha. «È un letamaio! Ogni uomo ai miei ordini sarà utilizzato solo per questo: ma adesso ci siamo!» Si voltò quindi bruscamente verso Juss e lo fissò per un minuto in silenzio poi, con una gravità che non di frequente era dato di vedere sulle sue labbra disse: «Lascia che ti sproni ancora una volta: colpisci senza indugi! Non fare di nuovo a Gorice quella cortesia che gli abbiamo già fatto una volta, sprecando inutilmente le nostre forze sulle rive maledette di Impland, ο vicino alle acque incantate di Ravary, cosicché egli ha potuto, sicuro come la morte, mandare Corsus e Corinius a seminare strage qui; ed in tal modo far pendere su di noi la più grande infamia che si sia mai posata su un mortale. Noi non siamo stati allevati per tollerare infamie!» «Hai detto sette giorni,» disse Kuss. «Fai schioccare le dita e chiama le tue armate. Non ti tratterrò nemmeno un'altra ora.» «Sì, ma io mi riferisco a Carce.» «A Carce, certo. Ma voglio portare mio fratello Goldry con noi.» «Io dico che bisogna dare la precedenza a Carce!», disse Brandoch Daha. «Lascia che la mia opinione ti influenzi. Accidenti, te lo direbbe anche uno scolaretto: fai piazza pulita ai tuoi fianchi ed alle tue spalle prima di avanzare!» Juss sorrise. «Apprezzo questa tua nuova cautela, cugino,» disse; «che ti si addice particolarmente. Mi chiedo tuttavia se non sia questa la vera mo-
tivazione: che Corinius non abbia accettato la tua sfida l'estate scorsa, ma l'abbia fatta cadere, lasciandoti ancora affamato.» Brandoch Daha lo guardò dritto negli occhi, poi scoppiò a ridere. «Juss,» disse, «hai colto quasi nel segno, ma non è così! La motivazione della mia rabbia sta nella maledizione che mi gettò addosso la gran Dama, in quel castello abbandonato ad Impland: ossia, che colui che io odiavo di più, avrebbe devastato la mia terra, e che la vendetta sarebbe stata negata alla mia mano. Cosa questa che ho già dovuto sopportare. Oh, no! Pensa solo che ogni indugio può essere pericoloso. Andiamo, sii saggio: non essere cocciuto!» Ma l'espressione di Lord Juss era grave. «Non insistere oltre, amico mio,» disse. «Tu dormi bene ma, per quel che mi riguarda, quando mi trovo nel primo sonno, molte volte mi viene in mente l'immagine di Goldry Bluszco, prigioniero di un malefico Incantesimo sulla vetta del Zora Rack, separato da tutti, privato della luce del sole, di tutti i suoni e del calore della vita. Molto tempo fa ho promesso solennemente che non avrei deflettuto dalla mia strada, prima di averlo salvato.» «È tuo fratello,» disse Lord Brandoch Daha. «Inoltre è l'unico consanguineo per il quale provo un affetto di poco inferiore a quello che provo per te. Ma, quando parli di promesse, ricorda che c'è anche La Fireez. Cosa penserà di noi dopo la promessa che gli facemmo tre anni fa quella notte a Carce? Eppure, con quest'unico colpo renderemo giustizia anche a lui.» «Capirà!», disse Juss. «Sta per arrivare con Gaslark, e mi hai detto che li stai aspettando a momenti,» disse Brandoch Daha. «Ti lascio: non me la sento di dirgli: "Pazienza, amico, non è ancora il momento: sarai ripagato a suo tempo." Cielo, mi vergognerei di trattare così il mio sarto! E lui è un nostro amico, che ha perso tutto ed ora langue in esilio per averci salvato la vita.» Così dicendo, si alzò, con grande delusione ed ira, e fece per lasciare la stanza, ma Juss lo afferrò per il polso. «Mi hai rimproverato ingiustamente, e nel tuo cuore lo sai bene: per questo sei così adirato. Ascolta: il corno suona alla porta, ed è Gaslark. Non permetterò che tu te ne vada!» «Bene,» disse Lord Brandoch Daha, «come vuoi. Solo, non chiedermi di perorare la tua causa davanti a loro. Se parlerò, sarà solo per darti torto. Sei avvisato!» Si recarono nella Sala delle Cerimonie, dove c'erano molte Dame, Capitani e Nobili provenienti da ogni parte, e salirono sulla predella. Re Gaslark avanzò sul pavimento luccicante e, dietro di lui, i suoi Capitani e
Consiglieri venivano a due a due. Il Principe La Fireez stava al suo fianco, fiero come un leone. Salutarono con gioia i Signori di Demonland che si alzarono per accoglierli sotto la volta stellata, e Lady Mevrian, che stava fra suo fratello e Lord Juss, cosicché sarebbe stato arduo dire chi dei tre era più affascinante a vedersi, tanto erano diversi nello splendore della loro bellezza. Gro, che era là vicino, diceva fra sé: «Io conosco una quarta persona che, se si unisse a loro, farebbe si che la corona della bellezza di tutto il mondo alloggiasse per intero in questa sala, nell'unico scrigno giusto! E gli Dei del cielo (se davvero gli Dei esistono) impallidirebbero per l'invidia, per non avere nella loro sala stellata una bellezza da paragonare a questa; non Febo Apollo, né la Vergine Cacciatrice, né la stessa Regina (1) nata dalla schiuma del mare.» Ma Gaslark, quando i suoi occhi si posarono sulla lunga barba nera, sulla figura magra leggermente curva, la fronte pallida, i riccioli cosparsi di unguenti profumati, il naso a falce, i grandi occhi liquidi, e la mano candida del Goblin, osservando e riconoscendo quell'uomo, divenne in un attimo fosco come un temporale mentre il sangue gli affluiva sotto la pelle scurita dal sole e, con un rapido movimento, sfoderò la spada, come se volesse infilzarlo senza neppure consentirgli di mettersi in guardia. Gro fece subito un passo indietro, ma Lord Juss si interpose fra di loro. «Lasciaci soli, Juss!», gridò Gaslark. «Non riconosci quale nemico e vipera abbiamo in mezzo a noi? Un furfante ben profumato che per tanti anni ha imbastito intorno a me una trama di sedizioni ed intrighi, mentre la sua lingua melliflua continuava a chiedermi denaro. Finalmente! Ora gli strapperò l'anima!» Ma Lord Juss appoggiò la mano sul braccio di Gaslark. «Gaslark,» disse, «allontana la tua ira, e riponi la spada. Un anno fa non mi sarei opposto ma, oggi, uccideresti uno dei miei uomini, nonché uno dei Signori di Demonland.» Quando tutti ebbero terminato di salutarsi, si lavarono le mani, si sedettero, e venne loro servito un sontuoso banchetto. Lord Juss fece riconciliare Gro e Gaslark, anche se non fu cosa facile indurre Gaslark a dimenticare. Dopodiché si ritirarono con Gaslark e La Fireez in una camera privata. Re Gaslark disse: «Nessuno può negare, Juss, che la battaglia che avete vinto nell'ultima stagione del raccolto sia stata la più grande mai vista sulla terra da molti anni a questa parte, e quella che ha avuto gli effetti più rilevanti. Ma ho sentito dire che saranno portate a termine imprese ancora più
grandi prima che molte lune siano passate. Io e La Fireez, che siamo tuoi amici da lungo tempo, siamo venuti qui per pregarti di condurci con te alla ricerca di tuo fratello, la cui perdita ci addolora tutti, e poi farci venire con te all'assalto di Carce.» «Juss,» disse il Principe, «non vogliamo che in futuro si dica che quella volta in cui i Demoni andarono in terre pericolose e incantate, e con la loro forza ed il loro valore liberarono Lord Goldry Bluszco (o che misero fine ai loro giorni in quella gloriosa ricerca), Gaslark e La Fireez non erano con loro. Che avevano detto addio ai loro amici ed avevano appeso le spade al muro, per vivere una vita tranquilla e felice a Zaje Zaculo, per cui il loro ricordo era meglio che andasse perduto.» Lord Juss restò in silenzio per un minuto, profondamente commosso. «Gaslark,» disse alla fine, «accetterò la tua offerta senza che tu aggiunga un'altra parola. Ma riguardo a te, caro Principe, devo mettere a nudo il mio cuore. Poiché tu non sei venuto qui obbligato a sprecare il tuo sangue a causa di questa nostra disputa, ma solo per rendere ancora più gravoso il nostro debito nei tuoi confronti. Non ti si potrebbe fare gran colpa se tu mi tacciassi, in maniera disonorevole - come faranno molti - di essere un amico falso ed uno spergiuro.» Ma il Principe La Fireez lo interruppe, dicendo: «Ti prego di non continuare, altrimenti mi farai arrossire di vergogna. Tutto ciò che ho fatto a Carce, è stata una giusta ricompensa per il fatto che mi avevate salvato la vita a Lida Nanguna. Così, i conti fra noi sono pari. Quindi non pensarci più, e non negarmi di venire con te ad Impland. Ma non verrò a Carce con" te: perché, anche se ho definitivamente chiuso con Witchland, contro Corund e la sua famiglia non alzerò la spada e neppure contro mia sorella. Maledetto il giorno in cui ho concesso la sua mano a Corund! Lei ha molto della nostra stirpe: il suo stemma araldico sono i cuori, non le mani e, donando la sua mano, lei ha donato il suo cuore (2). È uno strano mondo!» «La Fireez,» disse Juss, «noi non teniamo in poco conto i nostri obblighi nei tuoi confronti. Eppure, io devo seguire la mia strada, dal momento che ho giurato solennemente che non avrei fatto nient'altro finché non avessi liberato il mio caro fratello Goldry. Così giurai prima di quella maledetta spedizione a Carce nella quale fui rinchiuso in prigione e da te liberato. Né il biasimo degli amici, né un errore di valutazione, né qualsiasi potere potranno distogliermi da questo proposito. Ma, quando esso sarà compiuto, non avremo riposo finché non ti avremo aiutato a riconquistare il tuo legittimo Regno di Pixyland, e molte altre cose in sovrappiù, in segno del no-
stro affetto.» «Fai bene ad agire così,» disse il Principe. «Avresti il mio biasimo se ti comportassi diversamente.» «Ed anche il mio,» disse Gaslark. «Credi che non mi addolori vedere la guance della Principessa Armelline, la mia dolce e giovane cugina, diventare ogni giorno più smunte e pallide? E tutto questo a causa della pena e dell'afflizione che prova per il suo diletto Goldry Bluszco. Lei, che è stata allevata dalla madre con tale sollecitudine che niente era troppo duro ο difficile da poter essere fatto passare come un suo desiderio, ritenendo che una creatura così nobile e perfetta non potesse essere tirata su con troppa delicatezza! Credo che oggi sia meglio di domani, e domani meglio di dopodomani, per salpare alla volta di Impland.» Durante questo dialogo, Lord Brandoch Daha non disse neanche una parola. Stava seduto sul suo scranno di avorio e crisopazio (3), ora giocando coi suoi anelli d'oro, ora attorcigliando ed allungando i riccioli gialli dei suoi baffi e della barba. Dopo un po' sbadigliò, si alzò dal suo scranno e si mise a passeggiare avanti e indietro con indolenza. Aveva legato la sua spada di traverso sulla schiena sotto i gomiti, cosicché la punta del fodero spuntava da sotto un braccio e l'elsa ingioiellata da sotto l'altro. Le sue dita simulavano dei motivi musicali sul davanti del ricco farsetto di velluto rosa che gli avvolgeva il torace. Il sole primaverile, mentre si spostava dalla luce all'ombra e di nuovo alla luce attraversando le alte finestre, sembrava accarezzare il suo volto e la sua figura. Era come se la primavera ridesse di gioia riconoscendo in lui un proprio figlio, che agli occhi di chi lo guardava risultava ammantato di straordinaria leggiadria e grazia, ma colmo fino agli occhi ed alle punte delle dita di fuoco e vitalità, come i boccioli che spuntavano nei suoi boschetti di Brankdale. Dopo un po' smise di camminare, e si fermò accanto a Lord Gro, che sedeva un po' in disparte. «Cosa pensi, Gro, delle nostre decisioni? Sei per la strada dritta ο per quella tortuosa? Per Carce ο Zora Rochi» «Un uomo saggio,» rispose Gro, «sceglie sempre le vie traverse. Ma, considerando la questione, tu che sei un esperto rocciatore, pensa alla nostra vita come ad una parete elevata. Io mi sto arrampicando: talvolta vado verso l'alto, talvolta verso il basso. Dove porta, di grazia, la strada dritta su una simile parete? Accidenti, da nessuna parte! Non è possibile che io riesca a salire seguendo la strada dritta: sarei lasciato là con la bocca aperta mentre tu guadagneresti la vetta seguendo i tuoi percorsi tortuosi. Potrei
andare giù, pensando che è più semplice e rapido; ma, allora, non ci sarebbe più niente da scalare per me, e tu, scendendo giù lungo il percorso tortuoso, mi troveresti ridotto cadavere ed orrendo a vedersi sul fondo.» «Grazie per i tuoi "me" e "te",» disse Lord Brandoch Daha. «Beh, è una teoria molto ponderata, sorretta da un'esposizione assai accurata e vivace. È il massimo che puoi esprimere nell'attuale situazione?» Lord Gro alzò lo sguardo su di lui. «Signori, vi siete comportati bene con me e, per meritarmi il vostro affetto ed accrescere le vostre fortune, ho riflettuto molto su come voi di Demonland possiate ottenere la migliore vendetta sui vostri nemici. Pensandoci tutti i giorni, e figurandomi nella mente svariate ipotesi, un solo sistema mi è sembrato il migliore di tutti, ed è questo...» «Facci sentire!», disse Lord Brandoch Daha. «C'è una manchevolezza in voi Demoni,» disse Gro. «Il fatto che non riusciate a capire come spesso sia un bene far tirare fuori dalla sua tana il serpente dalla mano di un altro. Riflettete ora sulla vostra situazione. Avete una grande potenza in terra e in mare, ma non dovete fidarvi troppo di questo. Spesso accade che colui che è inferiore abbia ragione di nemici molto più potenti, riuscendo ad intrappolarli con la furbizia e la politica. Ma riflettete ancora: voi possedete una cosa che è di gran lunga più potente dei vostri cavalieri, dei lancieri e delle navi da guerra, più potente della tua stessa spada, mio Signore, e tu sei considerato il miglior spadaccino del mondo!» «Di che cosa si tratta?» «La reputazione, Lord Brandoch Daha!», rispose Gro. «La reputazione che voi Demoni avete perché agite sempre con lealtà, anche con i vostri peggiori nemici.» «Mah... questo è il nostro modo di agire. Inoltre, penso sia una cosa naturale nelle persone nobili, in qualsiasi paese siano nate. La slealtà e la doppiezza derivano solitamente dalla paura, e questa è una cosa che ritengo nessun uomo di questa terra possa comprendere. Per quel che mi riguarda penso che, quando gli Dei creano una persona come me, tracciano fra i suoi occhi qualcosa - non so cosa - che gli uomini comuni non riescono a guardare senza tremare.» «Datemi il permesso di farlo,» disse Lord Gro, «ed io, nel breve spazio di un'ora, coglierò per voi un trionfo più straordinario di quello che potrebbero procurarvi le vostre spade in due anni. Rivolgete parole affabili a Gorice, proponetegli un accordo, convincetelo a partecipare ad un Consi-
glio, e con lui tutti i suoi uomini migliori. Se faremo così, saranno tutti eliminati in una sola notte, dopo che li avremo aggrediti nei loro letti, ο come troveremo più conveniente. Tutti, tranne Corund ed i suoi figli: faremo cosa saggia a risparmiarli, ed a trattare la pace con loro. Questo non ritarderà più di dieci giorni la vostra partenza per Impland, quando potrete procedere col cuore leggero e la mente tranquilla.» «Sull'anima mia, è molto ben pensato!», disse Brandoch Dalia. «Se mi consenti però, ti dirò che faresti meglio a non parlare a Juss in questa maniera. Non adesso, voglio dire, mentre la sua mente è così presa da questioni di responsabilità e lealtà. Né potrei riferire questo a mia sorella Mevrian. Le donne spesso considerano idee simili deplorevoli, anche se sono espresse soltanto per amor di discussione. Con me è diverso. Io stesso sono un po' filosofo, ed il tuo scherzo si adatta piacevolmente al mio umore.» «Fai bene ad essere allegro,» disse Lord Gro. «Molti, prima d'ora - come gli eventi hanno dimostrato - hanno respinto i miei saggi consigli con loro grande danno.» Ma Brandoch Daha disse con disinvoltura: «Non temere, Lord Gro, non respingeremo gli onesti consigli di un Consigliere saggio come te. Ma,» e nei suoi occhi si accese una luce che fece trasalire Gro, «se un uomo con intenti seri osa spingermi ad un'azione vile, avrà la mia spada infilata attraverso la parte più cara del suo corpo.» Lord Brandoch Daha si voltò quindi verso gli altri. «Juss,» disse, «amico del mio cuore, mi pare che siate tutti d'accordo fra voi, ma non con me. Mi congedo da voi. Addio, Gaslark! Addio, La Fireez!» «Ma dove vai?», gli chiese Juss, alzandosi dal suo scranno. «Non devi lasciarci.» «Dove, se non a casa mia?», rispose lui, ed uscì dalla sala. Gaslark disse: «È molto incollerito. Cos'hai fatto per irritarlo a tal punto?» Mevrian si rivolse a Juss: «Andrò io a calmarlo.» Uscì, ma subito tornò, dicendo: «Niente da fare, miei Signori. Si è allontanato al galoppo da Galing con tutta la velocità del suo cavallo.» Tutti avvertirono una grande ansia, chi congetturando una cosa chi un'altra. Solo Lord Juss e Lady Mevrian mantennero il silenzio ed un'espressione tranquilla. Alla fine, Juss disse a Gaslark: «Il fatto è che ogni giorno di indugio che gli impedisce di raggiungere Corinius lo irrita grandemente. Non lo biasimo certo, sapendo quale ignobile affronto ha subito da quell'uomo, e l'insolenza che hai subito anche tu, Signora. Ma non ti preoccu-
pare: la sua coscienza lo riporterà da me quando sarà il momento. Nessun altro potere riuscirebbe ad opporsi alla sua volontà. Neppure il Cielo potrebbe piegare con la forza il suo grande cuore.» E infatti, la notte successiva, quando tutti erano a letto ed addormentati, Juss, che stava seduto a leggere a tarda ora nella sua camera da letto, sentì un tintinnio di redini. Allora chiamò i suoi uomini perché andassero con lui, con le torce, fino alla porta. E là, nella luce danzante delle fiaccole, arrivò al galoppo Lord Brandoch Daha che fece il suo ingresso nel Castello di Galing, e qualcosa che aveva le dimensioni di una grossa zucca avvolta in un panno di seta pendeva dalla sua sella. Juss gli andò incontro da solo sulla porta. «Fammi scendere dal cavallo,» disse Brandoch Daha, «così potrò consegnarti il compagno di letto col quale dovrai dormire vicino al Lago di Ravary.» «Lo hai preso?», disse Juss. «L'uovo dell'Ippogrifo? L'hai preso nel Laghetto di Dule, da solo?» E ricevette con cautela nelle sue mani l'involto. «Sì,» rispose Brandoch Daha. «Era proprio dove tu ed io avevamo pensato fosse l'estate scorsa, in relazione a ciò che aveva detto quel piccolo rondicchio che lo aveva trovato per noi. Il laghetto era ghiacciato e freddo in maniera allucinante ed è stato complicato nuotarvi dentro. Stupisce poco che tu sia un uomo fortunato nelle tue imprese, Juss, dal momento che hai l'abilità di trascinare i tuoi amici ad assecondarti.» «Ero sicuro che non mi avresti abbandonato,» disse Juss. «Sicuro?», gridò Brandoch Daha. «Come avresti solo potuto credere che ti avrei lasciato solo in questa follia? No, prima verrò al lago incantato con te e, per l'intanto, lascerò stare Carce. Comunque, faccio questo contro il mio modo di vedere.» Occorsero altri sei giorni di preparativi, ma il secondo giorno di aprile era tutto pronto a Lookinghaven per far salpare un grande spiegamento di forze: si trattava di cinquantanove navi da guerra, cinque navi da carico e seimila uomini. Lady Mevrian stava sulla sua giumenta bianco-latte ad osservare il porto dove le navi galleggiavano alla fonda tutte in ordine, grigie contro lo scintillio intenso del mare, con qui e là qualche chiazza di colore, cremisi, blu ο verde erba, che proveniva dagli scafi dipinti ο da un raggio di sole che si rifletteva sui loro alberi dorati ο sulle polene. Gro reggeva le briglie della giumenta. La strada di Galing, serpeggiando giù dalla Lingua di Havershaw, scendeva a breve distanza sotto di loro e
lungo la riva fino ai moli di Lookinghaven. Sulla strada, la terra tremava per lo scalpiccio degli uomini armati e dei cavalli, ed il leggero vento dell'ovest soffiava su Gro e Mevrian, e sulla collina erbosa dove si trovavano: si udivano brani di canti di battaglia emessi da voci profonde ο note galoppanti di trombe, nonché pifferi e tamburi che facevano palpitare il cuore. All'avanguardia cavalcava Lord Zigg, con quattro trombettieri che marciavano davanti a lui vestiti di oro e porpora. La sua armatura - dal mento ai piedi - scintillava d'argento, e gioielli risplendevano sulla gorgiera, sul balteo (4) e sull'elsa della sua spada lunga e dritta. Montava uno stallone nero dagli occhi selvaggi, con le orecchie inclinate all'indietro e la coda che spazzava il suolo. Lo seguiva una numerosa compagnia di cavalieri, di cui metà erano lancieri, con giustacuori di pelle color ruggine coperti di piastre d'ottone e d'argento. «Questi,» spiegò Lady Mevrian, «vengono da Kelialand, dalle rive dell'Estuario di Arrow e dai Feudi di Rammerick e Amadardale. Quello che cavalca un po' dietro di lui, alla sua destra, è Hesper Golthring, che ama due sole cose: un buon cavallo ed una nave veloce. L'uomo a sinistra, con l'elmo d'argento opaco provvisto di ali di corvo, con le gambe così lunghe che, se montasse un piccolo cavallo, potrebbe stare a gambe divaricate e camminare, è invece Styrkmir di Blackwood. È un nostro consanguineo; non ha ancora vent'anni eppure, dopo la battaglia di Krothering Side, viene ritenuto uno dei migliori.» Così lei gli mostrò tutti quelli che passavano (5). Peridor di Sule, Capitano dei Mealanders, e suo nipote Stypmar. Fendor di Shalgreth con Emeron Galt, il suo giovane fratello, che era appena guarito da una brutta ferita ricevuta per mano di Corinius a Krothering Side: guidavano i pastori ed i mandriani che venivano dalle grandi brughiere a nord di Switchwater, i quali si sarebbero aggrappati alle staffe e, con i loro scudi leggeri e le piccole spade scure, sarebbero andati in battaglia a passo di corsa coi cavalieri contro i nemici. Poi vi era Bremery, col suo elmo d'oro dalle corna di ariete e la sopravveste ricamata di velluto scarlatto, che guidava i valligiani di Onwardlithe e Tivarandardale. Trentmar di Scorradale con gli uomini arruolati a nordest a Byland, a Stands ed a Breakingdale. E Astar di Rettray, snello ed agile, con la faccia ossuta, lo sguardo galante, la pelle candida, ed i capelli e la barba fulvi, che montava il suo bel roano in testa e due compagnie di lancieri dotati di enormi scudi guarniti di ferro: erano uomini provenienti
dalla zona di Drepaby e dalle valli sud-orientali, uomini delle campagne e dei possedimenti di Lord Goldry Bluszco. Venivano quindi gli abitanti delle Isole Occidentali, col vecchio Quazz di Dalney che cavalcava al posto d'onore, nobile a vedersi con la sua barba candida come la neve e l'armatura splendente, ma coi più giovani e veri comandanti in battaglia che erano: Melchar di Strufey, dal torace ampio, gli occhi fieri, i folti capelli ricciuti e castani, che cavalcava un sauro impetuoso, con la cotta rilucente d'oro ed un ricco mantello di broccato color crema gettato intorno alle larghe spalle; e Tharmrod, sulla sua piccola giumenta nera, con la cotta d'argento e l'elmo dalle ali di pipistrello, che reggeva Kenarvey come Feudo di Lord Brandoch Daha, sottile e teso come una freccia tirata fino ai barbigli. Ed infine, dopo di essi, gli uomini di Westmark, con Arund di By come loro Capitano. E, dopo ancora, quattrocento cavalieri, che per bellezza e ordine di schieramento non erano superati da nessuno in quella grande armata, con il giovane Kamerar che procedeva alla loro testa, corpulento come un gigante, dritto come una lancia, abbigliato come un Re, e che issava sulla sua enorme lancia il vessillo del Signore di Krothering. «Guardali bene!», disse Mevrian mentre passavano. «Sono i nostri uomini della Riva e dell'Estuario di Thunder e di Stropardon. Potresti cercare in tutto il mondo, ma non troveresti mai chi stia loro alla pari per velocità, ardimento, abilità militare e prontezza nell'esecuzione degli ordini. Ma hai l'espressione triste, mio Signore.» «Signora,» rispose Lord Gro, «all'orecchio di uno che è solito, come me, riflettere sulla vanità di tutte le glorie terrene, la musica di tutta questa magnificenza bellica ha un cupo sottofondo di tristezza. Re e governanti che esultano nella forza, nella bellezza, nel vigore e nei ricchi vestimenti, mostrandosi per un po' sul palcoscenico del mondo e sotto il cielo, cosa sono se non una mosca estiva dorata che muore alla morte del giorno?» «Mio fratello e gli altri non resteranno qui,» disse la donna. «Hanno intenzione di salire a bordo non appena l'armata avrà raggiunto il porto, poiché le loro navi salperanno per prime dell'Estuario. Hai proprio deciso che andrai con loro in questa spedizione?» «Così ho deciso, Signora,» disse Gro. Lei stava cominciando a muoversi in direzione della strada e del porto, quando Gro prese in mano le redini e la fermò. «Dolce Signora,» disse, «per tre notti ho fatto un sogno: un sogno strano, i cui particolari presagiscono una grande ansietà, un aumento dei pericoli, ed una grande sciagura; promette comunque un terribile esito!
Sono convinto che, se partirò per questo viaggio, non vedrai più la mia faccia.» «Oh, mio Signore!», gridò lei, tendendogli la mano. «Non sprecare neanche un pensiero su queste fantasie insensate. Era soltanto la luna che scintillava nei tuoi occhi. Se no, resta qui con noi ed eludi il Fato.» Gro le baciò la mano, e la tenne nella sua. «Lady Mevrian,» disse, «il Fato non può essere ingannato: non abbiamo la saggezza necessaria per farlo. Penso che non siano molti quelli che, in maniera nobile, temono il volto della morte meno di me. Farò questo viaggio. C'è solo una cosa che potrebbe farmi cambiare idea.» «E cioè?», chiese lei, poiché lui era improvvisamente ammutolito. L'uomo fece una pausa, guardando la mano guantata di lei che stava nella sua. «Un uomo diventa rauco e muto,» disse, «se un lupo ha il vantaggio di adocchiarlo per primo. Tu puoi procurarti un lupo che mi azzittisca quando vorrei parlarti? Ma io l'ho già fatto; abbastanza comunque per farti capire. Mevrian, ricordi Neverdale?» Alzò la testa a guardarla, ma Mevrian stava col capo eretto, come la sua Divina Patronessa, con le dolci labbra imperturbabili ferme e gli occhi saldi fissi sul cielo e sulle navi alla fonda. Gentilmente ritirò la mano da quella di Gro, e lui non tentò di trattenerla. Lei allentò le redini, e Gro balzò in sella e la seguì. Cavalcarono in silenzio lungo la strada e verso sud, fianco a fianco, fino al porto. Prima di giungere sulla banchina, Mevrian disse: «Non giudicarmi ingrata né immemore, mio Signore. Chiedimi tutto ciò che è mio e te lo darò con entrambe le mani, ma non chiedermi ciò che non posso dare, ο che potrei dare soltanto come oro falso. Questa sarebbe una cosa brutta per te e per me, ed io non la farei a un nemico, e tantomeno a te, amico mio.» L'intera armata ormai era salita a bordo, ed era stato rivolto un saluto a Volle ed a coloro che restavano con lui. Le navi si spinsero ordinatamente nell'Estuario coi remi e le vele di seta spiegate, e quel grande esercito salpò verso sud nel mare aperto sotto un cielo limpido. Ebbero il vento favorevole per tutto il tragitto, e fecero una rapida traversata cosicché, la trentesima mattina dopo la partenza da Lookinghaven, avvistarono la lunga linea di scogliere grigie di Impland la Grande confusa nella bassa spuma del mare, e veleggiarono in mezzo allo Stretto di Melikaphkhaz in fila, poiché a malapena due navi potevano passare fianco a fianco attraverso quell'angusto passaggio.
Scogliere nere chiudevano lo stretto su entrambi i lati, e gli uccelli marini, a migliaia, imbiancavano come neve ogni piccola sporgenza di quegli strapiombi. Grandi stormi s'involavano e roteavano in alto mentre le navi passavano, e l'aria era piena delle loro strida. A destra e a sinistra, come per i soffi di giovani balene, colonne di schiuma bianca schizzavano in continuazione dalla superficie del mare. Erano le sule, dalle magnifiche ali, che pescavano nello Stretto. Volavano a tre ο a quattro, una dietro l'altra in una fila ordinata, a molti alberi di nave di altezza; e, ogni tanto, una di esse frenava il suo volo come se fosse stata colpita da un dardo, e scendeva in picchiata con le ali semi-spiegate, come una freccia dai larghi barbigli di un biancore abbagliante finché, arrivata a pochi piedi dalla superficie, richiudeva con un colpo le ali e fendeva l'acqua col tonfo di una grossa pietra gettata nel mare. Poi, dopo un momento, risaliva a galla, bianca ed elegante con la preda che aveva nella gola; cavalcava per un minuto le onde per riposare e riflettere quindi, con dei colpi d'ala rapidi e potenti, s'innalzava di nuovo per riprendere il volo. Dopo un miglio ο due, la strettoia si apriva e le scogliere diventavano più basse, e la flotta passò davanti ai rossi Strapiombi di Uaimnaz ed agli alti Faraglioni di Pashnemarthra, bianchi di gabbiani sulla solitudine azzurra del Mare Didorniano. Per tutto il giorno navigarono verso sud-est con un vento scarso. La linea costiera di Melikaphkhaz digradava a poppa, pallida per la foschia della distanza, poi si perse alla vista, finché solo il profilo tronco e tozzo delle Isole Pashnemartrane ruppe l'orizzonte piatto del mare. Quindi, anche queste scomparvero alla vista, e le navi remarono verso sud-est in una calma mortale. Il sole declinò verso le onde ad occidente, entrando in una polla di fuoco rosso-sangue. Quindi affondò, e tutto divenne scuro. Continuarono a remare per tutta la notte sotto le strane stelle occidentali, e le acque increspate del mare, ad ogni colpo di remi, erano come fuoco fiammeggiante. Poi, dal mare ad est, venne la stella del mattino, più luminosa di tutte le stelle della notte, che faceva strada all'alba e tracciava un sottile sentiero dorato sull'acqua. E quindi l'alba, che riempì la parte inferiore del cielo orientale con una flotta di conchiglie di un abbagliante fuoco dorato; ed infine l'enorme faccia fiammeggiante del sole. E, col sorgere del sole, cominciò a spirare un vento leggero, che fece gonfiare le vele sul lato di tribordo cosicché, prima che il giorno finisse, le Scogliere di Muelva incombevano bianche nella nebbia dal lato di babordo della prua.
Tirarono a riva le navi su una spiaggia di sabbia calcarea dietro un promontorio che la proteggeva da est e da nord. Qui la barriera di scogliere si ergeva ad una certa distanza dalla riva, facendo posto ad una fertile valletta di verdi pascoli, dove gli alberi si addossavano ai piedi della parete, ed al cui centro c'era una piccola sorgente d'acqua. Per quella notte dormirono a bordo e, il giorno dopo, eressero l'accampamento, scaricando le navi che erano state riempite di cavalli e di tutto il necessario. Ma Juss non aveva intenzione di trattenersi a Muelva un'ora più del tempo sufficiente a dare tutti gli ordini necessari a Gaslark ed a La Fireez su cosa dovevano fare, quando aspettarlo, e sul fare provviste per sé e per coloro che dovevano viaggiare con lui oltre quelle scogliere ombrose nelle distese desolate e infestate dagli Spettri del Moruna. Prima di mezzogiorno, tutto fu fatto, furono scambiati i saluti, e Juss, Spitfire e Brandoch Daha si avviarono sulla spiaggia verso sud in direzione di un punto dove sembrava più agevole riuscire a scalare la scogliera. Con loro andò anche Lord Gro, sia perché lo desiderava, sia perché aveva già conosciuto il Moruna e la zona circostante; e con loro andarono anche i due cognati, Zigg e Astar, che trasportavano il prezioso fardello dell'uomo, perché Juss aveva concesso loro quell'onore acconsentendo alla loro pressante richiesta. Così, con qualche difficoltà, dopo poco più di un'ora, erano in cima alla barriera, e si fermarono per un minuto sull'orlo della scogliera. La pelle delle mani di Gro era lacerata per gli spigoli delle rocce. Infilò con delicatezza i suoi guanti di lana pregiata, e rabbrividì un poco; l'alito del deserto soffiava acuto e gelido e sembrava ci fosse un'ombra nell'aria a sud, sebbene il tempo fosse limpido e mite laggiù in basso da dove erano venuti. Eppure, anche se il suo fragile corpo tremava, lo spirito dentro di lui si elevava inseguendo fantasie alte e nobili mentre stava sull'orlo di quella scogliera rocciosa. La volta sgombra di nuvole del cielo; le innumerevoli risate del mare; quella tranquilla insenatura sottostante, le navi da guerra e quell'armata accampata nelle vicinanze; il vuoto della landa brulla a sud, dove ogni roccia sembrava il teschio di un morto ed ogni schiera di ciuffi d'erba una megera a cavallo; il portamento di quei Signori di Demonland che stavano accanto a lui, come se nulla potesse per loro essere più normale che voltare le spalle alla terra dei vivi ed entrare in quella regione dei morti: tutte queste cose, con un potere simile a quello di una musica maestosa, mozzarono il fiato nella gola di Gro e gli fecero spuntare le lacrime negli occhi. In questa maniera, dopo più di due anni, Lord Juss cominciò la sua se-
conda traversata del Moruna alla ricerca del suo caro fratello, Lord Goldry Bluszco. XXVIII. ZORA RACH NAM PSARRION Della cavalcata sull'ippogrifo di Lord Juss fino al Zora Rach, delle avversità incontrate da lui in quel luogo maledetto, e del modo in cui portò a termine la grande impresa di liberare suo fratello dalla prigionia. Cullato da una lieve brezza, troppo gentile per increspare la sua superficie cristallina, una brezza profumata d'incenso e addolcita dalla fragranza dei fiori immortali, l'incantevole Lago di Ravary sognava sotto la luna. Barche fatate, che sembravano fatte della luce delle lucciole, andavano alla deriva sul seno stellato del lago. Sopra i boschi declinanti si abbassavano le membra della montagna, smisurate, titaniche, misteriose nel chiaro di luna. Negli spazi remoti della notte al di là di essa luccicavano le cuspidi del Koshtra Pivrarcha e le nevi vergini del Roshmir e del Koshtra Belorn. Nessun uccello ο animale si muoveva in quella quiete: solo un usignolo che cantava alle stelle da un boschetto di ulivi in prossimità del Padiglione della Regina sulla riva orientale. E c'era una nota che non somigliava affatto a quelle emesse da un uccello terrestre, ma era una nota che ammaliava gli spiriti dell'aria, ο estasiava i sensi imperituri degli Dei quando essi erano in comunione con la Sacra Notte e la rendevano perfetta, così come rendevano tutte le sue luci e voci perfette ai loro occhi. I drappeggi di seta della porta del padiglione, dividendosi come nel portale di una visione, fecero passare la Regina, figlia adottiva degli Dei più alti. Lei si fermò un passo ο due oltre la soglia, guardando il punto dove i Signori di Demonland, Spitfire e Brandoch Daha, con Gro, Zigg ed Astar, avvolti nei loro mantelli, erano distesi sulla sponda rugiadosa coperta di pratoline che declinava fino al limite dell'acqua. «Dormite,» sussurrò. «Proprio come colui che è dentro dorme in vista dell'alba. Credo che solo nel grembo di un uomo nobile il sonno abbia un letto così soffice quando si stanno approssimando degli eventi straordinari.» Come un giglio, ο come un raggio di luna persosi attraverso il tetto di foglie in un bosco silenzioso, lei stava là, il volto sollevato verso la notte
stellata dove tutta l'aria era impregnata della radianza argentea della luna. E allora, con voce dolce, cominciò a supplicare gli Dei eterni, invocandoli uno per uno coi loro nomi sacri: Pallade dagli occhi grigi, e Apollo, e Artemide l'agile Cacciatrice, e Afrodite, ed Era, Regina del Cielo, e Ares, ed Ermes, e lo Scuotiterra dai capelli neri (1). Né ebbe paura di rivolgere le sue preghiere a Colui (2) che dal suo portico velato vicino all'Acheronte ed al Lete imponeva il suo volere ai diavoli delle tenebre sotterranee, né al grande Padre di Tutti (3) ai cui occhi il tempo, dall'inizio a oggi, è solo l'immersione di una bacchetta nell'oceano sterminato dell'Eternità. Così, lei rivolse le sue preghiere agli Dei benedetti, implorandoli con insistenza di mettere sotto la loro protezione quel volo che prima sulla terra non si era mai visto: il volo dell'ippogrifo, non incautamente voluto da uno sciocco - com'era già accaduto - votato alla propria distruzione, ma dall'uomo che con un limpido scopo e con determinazione poteva senza paura guidarlo secondo i propri desideri. Ad est, oltre le sommità aguzze degli alberi delle colline e della grande parete di neve del Roshmir, si stavano aprendo i cancelli del giorno. I dormienti si svegliarono e si alzarono. C'era un grande strepito nel padiglione. Quando si voltarono con gli occhi spalancati, dai drappeggi 'dell'ingresso uscì quella giovane cosa appena nata, pallida ed esitante come la luce nuova che tremolava nel cielo. Juss le si avvicinò, ed appoggiò la mano sulla sua criniera di zaffiro. La sua espressione era altera e risoluta, mentre augurava il buon giorno alla Regina, a suo fratello, ed ai suoi amici, i quali non dissero una parola, ma si limitarono - uno alla volta - a stringergli la mano. Era giunto il momento. Infatti, proprio mentre il giorno, avanzando a grandi passi sulle distese di neve ad oriente, scacciava la notte dal cielo, allo stesso modo e con la medesima crescita di splendore, in quel destriero selvaggio aumentavano il vigore ed il desiderio delle grandi altezze. Splendeva come se fosse illuminato dall'interno da una lampada baluginante. Annusò l'aria dolce del mattino e nitrì, afferrando l'erba della riva e strappandola con gli artigli d'oro. Juss diede un buffetto sul collo arcuato della creatura, poi guardò le briglie che erano fissate alla sua bocca, controllò i legacci della propria armatura, e trasse lo spadone nel fodero. In quel momento, il sole fece un balzo nel cielo. La Regina disse: «Ricorda: quando vedrai il Signore tuo fratello nelle
sue sembianze, non sarà un'illusione. Diffida di tutto il resto. E che gli Dei onnipotenti ti proteggano e confortino!» Dopodiché l'ippogrifo, come reso folle dai raggi solari, si lanciò in avanti simile ad un cavallo selvaggio, spiegò le ali color arcobaleno, s'impennò e prese il volo. Ma Lord Juss gli era balzato in groppa, e le sue ginocchia si strinsero sulle costole della creatura come pinze d'ottone. La terraferma parve sfrecciare sotto di lui; il lago, la riva e le isole, in un momento diventarono minuscoli e remoti, e le figure della Regina e dei suoi compagni prima parvero miniature, poi puntini, poi rimpicciolirono ancora fino a diventare un nulla, ed il silenzio sterminato del cielo si aprì e lo accolse nella solitudine totale. In quel silenzio, terra e cielo rotearono come il vino in un calice agitato mentre il selvaggio destriero saliva sempre più in alto in ampie spirali. Una nuvola bianca e fluttuante chiudeva il cielo davanti a loro; diventò sempre più luminosa nel suo abbagliante biancore mentre si avvicinavano, finché non la toccarono, e quella cosa magnifica si dissolse in una nebbia grigia che divenne ancora più scura e fredda mentre volavano. Poi, all'improvviso, emersero dall'altro lato della nuvola in una radianza di azzurro ed oro che accecava nel suo splendore. Per un po' volarono senza una direzione stabilita, solo verso l'alto finché, finalmente, obbedendo al volere di Juss, l'ippogrifo pose fine alle sue evoluzioni e si diresse, docile, verso ovest: così, in un rapido volo rettilineo, sempre salendo, sfrecciò sopra Ravary in direzione della notte che si allontanava. E fu davvero come se avessero raggiunto la notte nelle sue caverne occidentali. Infatti, l'aria divenne sempre più scura intorno a loro, finché i grandi picchi che si ergevano intorno a Ravary svanirono, e tutta la verde terra di Zimiamvia, con le sue pianure, i suoi tortuosi corsi d'acqua, le colline, gli altipiani, ed i boschi incantevoli, si perse in un malefico crepuscolo. Gli strati più alti dell'aria pullulavano di portenti: intere armate di uomini che guerreggiavano nel cielo, draghi, bestie feroci, sanguigne aurore boreali, comete fiammeggianti, balenii di fuoco, ed altre innumerevoli apparizioni. Ma tutto era silenzio, e gelo, cosicché le mani ed i piedi di Juss erano intorpiditi per il freddo, ed i suoi baffi rigidi e candidi per il ghiaccio. Davanti a loro adesso, invisibile fino a quel momento, si profilava il vertiginoso picco del Zora Rack, nero, gelido ed immenso, ancora torreggiante su di loro benché fossero saliti più in alto, enorme e solitario sulle diste-
se gelate dei Ghiacciai di Psarrion. Juss fissò il picco finché il vento del loro volo non gli riempì gli occhi di lacrime, accecandolo. Ma era ancora troppo lontano per poter vedere ciò che desiderava: non si vedeva nessuna cittadella d'ottone, nessuna corona di fiamma, nessuna sentinella sulla vetta Zora, come una fosca Regina dell'Inferno che non gradisce che presuntuosi occhi mortali osino posarsi con amore sulla sua bellezza spaventosa, aveva davanti alla fronte un velo di nubi temporalesche. Proseguirono il volo, e quel drappo azzurro-acciaio di vapore vorticante si srotolò in avanti fino a coprire con una volta tutto il cielo sopra di loro. Juss infilò le mani per riscaldarle sotto le ascelle piumate delle ali dell'ippogrifo, nel punto dove queste si congiungevano al corpo della creatura. Il freddo era così intenso che i suoi globi oculari erano congelati e fissi, ma il dolore era poca cosa a confronto di quello che ora sentiva dentro di lui, e che non aveva mai sentito prima: un orrore mortale come di una solitudine senza rifugio che gli artigliava il cuore. Alla fine scesero su una balza di ossidiana nera un po' al di sotto delle nuvole che celavano le rocce più elevate. L'ippogrifo, rannicchiato sul ripido pendio, voltò la testa per guardare Juss. Questi sentì il corpo della creatura tremare sotto di lui: le sue orecchie erano tese all'indietro, e gli occhi spalancati dal terrore. «Povero cucciolo,» disse. «Ti ho guidato in un viaggio terribile, e solo un'ora fa sei uscito dall'uovo.» Smontò e, in quello stesso istante, perse il suo compagno. Perché l'ippogrifo, con un nitrito di terrore, s'involò e scomparve giù per l'aria gelida, lanciandosi a capofitto verso est, verso il mondo della vita e del sole. E Lord Juss rimase solo in quella regione di paura, di gelo e di oscurità che sgomentava l'anima, sotto il nero picco del Zora Rack. Disponendo come gli aveva consigliato di fare la Regina, tutto il suo cuore e la mente verso il terribile scopo che si era prefisso, si voltò verso la parete ghiacciata. Mentre si arrampicava, la nube gelida lo avvolgeva, ma non era così fitta da non consentirgli di vedere a dieci passi di distanza davanti e intorno a lui mentre saliva. Figure abbastanza spaventose da far vacillare la determinazione di un uomo forte apparvero sul suo percorso: figure di Diavoli dannati e Gorgoni dell'abisso vorticarono intorno a lui, minacciandolo di morte e rovina. Ma Juss, stringendo i denti continuò ad arrampicarsi passando in mezzo a loro, dal momento che erano figure prive di sostanza. Poi si udì un grido spettrale: «Chi è quel mortale che disturba la nostra quiete? Fatelo smettere! Chiamate i basilischi. Chiamate il Basilisco Aure-
o, che con un soffio dà fuoco a tutto ciò che guarda. Chiamate il Basilisco Stellato, che se guarda ο tocca una cosa viva la fa liquefare finché rimangono soltanto le ossa!» Era una voce da far ghiacciare il sangue nelle vene, ma lui proseguì, dicendosi: «È tutto un'illusione, tranne quella sola cosa di cui lei mi ha parlato.» Ma non apparve nulla: soltanto il silenzio ed il gelo, e le rocce divennero ancora più ripide, la loro patina di ghiaccio più pericolosa, e la difficoltà dell'ascesa divenne simile a quella delle Barriere di Emshir, sulle quali più di due anni prima aveva seguito Brandoch Daha e sulle quali aveva incontrato ed ucciso la manticora. Le ore di piombo trascorsero, e la notte chiuse i battenti, rigida, nera e silente. Una grande stanchezza fisica aveva preso Juss, e la sua anima era esausta e prossima alla morte quando entrò in una gola col fondo coperto di neve che penetrava nel fianco della montagna, per attendere il giorno. Non osava dormire in quella notte glaciale; appena si permetteva di riposare per timore che il freddo si impadronisse di lui, ma doveva continuare a muoversi, a pestare ed a sfregare mani e piedi. Eppure, mentre la notte scivolava via lentamente, la morte sembrava una cosa desiderabile che avrebbe posto fine a quella stanchezza assoluta. Il mattino giunse con solo un freddo cambiamento della nebbia dal nero al grigio, che svelò le rocce coperte di neve, silenziose, tetre e morte. Juss, che stava costringendo le proprie membra semicongelate a riprendere l'ascesa, assisté ad una scena troppo terribile da guardare: un giovane, con elmo e armatura di ferro nero, un negro con gli occhi sporgenti ed i denti bianchi sogghignanti, stringeva il collo di una bella fanciulla piegata sulle ginocchia che lo afferrava come per supplicarlo, mentre lui sollevava con fare minaccioso la sua lancia lunga sei piedi con l'intenzione di toglierle la vita. La donna, vedendo Lord Juss, gridò pietosamente al suo indirizzo implorando aiuto, chiamandolo per nome e dicendo: «Lord Juss di Demonland, abbi pietà e, nel tuo trionfo sui poteri della notte, fermati un istante e libera me, povera fanciulla afflitta, da questo tiranno crudele. Può il tuo spirito straordinario, che ha soggiogato regni interi, riuscire a fermarlo? Ciò farà di te davvero un uomo nobile, e sarai benedetto per sempre!» Di certo, il cuore di Juss gemette, ed egli batté la mano sulla spada desiderando porre riparo ad un simile torto. Ma, sempre avanzando, pensò alle astuzie del male che dimorava in quel luogo, ed a suo fratello, e con un gemito proseguì. In quell'istante vide con la coda dell'occhio come il cru-
dele assassino colpiva con la lancia quella fanciulla delicata, recidendole le grosse vene del collo, cosicché ella cadde morta nel suo sangue. Ma, quando Juss raggiunse a grandi passi la parte alta della gola, voltandosi indietro vide che il negro e la donna si erano trasformati in due serpenti che si attorcigliavano. Continuò ad avanzare, col cuore scosso, eppure lieto di essere sfuggito a quei poteri che avrebbero voluto ostacolarlo. La nebbia divenne più scura, e più grande il terrore aleggiante che sembrava un elemento dell'aria che spirava intorno alla montagna. Fermandosi pressoché esausto su un piccolo cumulo di neve, Juss vide una figura umana coperta da un'armatura, che si rotolava sul suo cammino, graffiando con le unghie la dura roccia e la neve ghiacciata che costituiva un ammasso di sangue sotto l'uomo; il quale lo scongiurò con voce soffocata di non proseguire, ma di sollevarlo e di aiutarlo a scendere dalla montagna. Quando Juss, dopo aver esitato un istante fra la compassione ed il suo proposito, stava per proseguire, l'uomo gridò: «Aspetta, poiché io sono il fratello che tu stai cercando, anche se il Re con le sue Arti mi ha conferito altre fattezze, sperando di ingannarti. In nome dell'affetto che provi per me, non lasciarti ingannare!» Adesso la voce somigliava a quella di suo fratello Goldry, sebbene fosse debole. Ma Lord Juss pensò di nuovo alle parole della Regina Sophonisba - che egli avrebbe visto il fratello sotto le sue vere sembianze, e non avrebbe dovuto prestare fede ad altro - e pensò: «È un'illusione anche questa.» Perciò disse: «Se sei davvero il mio caro fratello, riprendi la tua forma.» Ma l'uomo gridò con una voce simile a quella di Goldry Bluszco: «Non posso, finché non sarò sceso dalla montagna. Portami giù, ο la mia maledizione cadrà per sempre su di te.» Lord Juss fu lacerato dalla pena, dal dubbio e dallo stupore, nell'udire ancora la voce del suo caro fratello che lo implorava. Eppure rispose: «Fratello, se sei davvero tu, allora resisti finché non avrò raggiunto la cima di questa montagna e la cittadella d'ottone che vidi in sogno, in modo che possa rendermi conto che tu non sei là, ma qui. Allora tornerò e ti soccorrerò. Ma, finché non ti vedrò sotto le tue vere sembianze, diffiderò di tutto. Poiché sono venuto qui fin dai confini del mondo per liberarti, e non metterò a repentaglio il mio obiettivo seguendo un dubbio, dopo aver speso tanto e corso tanti pericoli per salvarti.» Così, col cuore gonfio, affrontò di nuovo quelle rocce nere, ghiacciate e scivolose al tocco. Al che si udì di nuovo un grido spettrale: «Gioite, che questo mortale è pazzo! Gioite, che non è un amico perfetto colui che ab-
bandona il fratello nel momento del bisogno!» Ma Juss continuò a salire e, di lì a poco, voltatosi a guardare, vide che nel punto dov'era quella forma all'apparenza umana, si contorceva uno spaventoso serpente. E ne fu felice, per quanto poteva esserlo su quella montagna di dolore e disperazione. Ormai aveva quasi esaurito le sue forze, mentre il giorno scivolava di nuovo verso la notte, quando superò le ultime balze sotto il picco del Zora. Ed egli, che per tutti i suoi giorni aveva bevuto abbondantemente alla fontana della gioia di vivere, della gloria e del prodigio dell'esistenza, provava sempre più mortale ed oscuro nella sua anima quell'orrore per la solitudine che aveva provato per la prima volta il giorno precedente, quando aveva gettato il primo sguardo ravvicinato al Zora, mentre volava nell'aria gelida carica di portenti; ed il suo cuore soffriva a causa di esso. Giunse nel punto dov'era l'anello di fuoco intorno alla sommità della montagna. Era ormai al di là del terrore ο del desiderio di vivere, per cui attraversò il fuoco come se fosse stata la soglia della sua casa. Le azzurre lingue di fiamma si spensero sotto i suoi piedi, aprendo un sentiero davanti a lui. Le porte d'ottone erano spalancate. Entrò, salì sulla scalinata d'ottone, poi si fermò su quell'alto tetto che aveva visto nei sogni, e guardò come in un sogno l'uomo per trovare il quale aveva attraversato il confine della morte: Lord Goldry Bluszco, che continuava la sua veglia solitaria sull'empia vetta del Zora! Lord Goldry non aveva cambiato posizione neanche di un capello, da quando Juss lo aveva visto quella prima notte sul Koshtra Belorn, tanto tempo addietro. Era adagiato, appoggiato su un gomito, su una panca di ottone, col capo eretto e gli occhi fissi su un punto lontano, che scrutavano le profondità al di là delle stelle, come uno che attenda la fine del tempo. Non si voltò quando il fratello lo salutò. Juss allora gli si avvicinò e si fermò accanto a lui. Lord Goldry Bluszco non mosse un ciglio. Juss parlò di nuovo, e gli toccò la mano. Era rigida e simile a terra malsana. Il suo gelo attraversò il corpo di Juss e lo colpì al cuore. Allora si disse: «È morto!» A queste parole, l'orrore si chiuse sull'anima di Juss come la follia. Si guardò intorno spaventato: la nuvola si era sollevata dalla vetta della montagna ed incombeva come un drappo funebre sulla sua nudità. L'aria gelida come il respiro di tutte le tombe del mondo; enormi barriere di nubi; vaghe forme lontane di neve e ghiaccio, silenziose, solitarie, pallide, come le montagne dei morti: era come se il fondo del mondo si fosse spalancato rivelando la nuda verità, il Nulla finale. Per scacciare l'orrore della sua anima, Juss richiamò alla mente la vita
che gli era cara sulla terra, quelle cose che aveva maggiormente nel cuore, gli uomini e le donne che aveva amato di più nel corso della sua esistenza; le battaglie e i trionfi dei primi anni della sua virilità, le grandi feste a Galing, i dorati mezzogiorni estivi sotto i pini di Westmark, le mattinate di caccia sulle alte vette di Mealand; il giorno in cui aveva montato il suo primo cavallo, una mattina di primavera in una radura di primule che si apriva su Moonmere, quando le sue piccole gambe brune avevano appena la lunghezza dei suoi attuali avambracci, ed il suo caro padre lo teneva per un piede mentre egli trottava, e gli mostrava dove lo scoiattolo aveva fabbricato il nido nella vecchia quercia. Chinò la testa come per evitare un colpo, talmente chiara gli parve di sentire una cosa dentro di lui che gridava con voce alta e forte: «Tu non sei niente. E tutti i tuoi desideri, ricordi, affetti e sogni sono niente. Il piccolo pidocchio della terra è più utile di te, eppure è niente come tu sei niente. Perché tutto è niente: la terra, il cielo, il mare e quelli che vi abitano. Né può confortati l'illusione che quando non ci sarai più queste cose dureranno ancora per un poco, le stelle e i mesi torneranno, gli uomini diventeranno vecchi e moriranno, e nuovi uomini e donne vivranno, ameranno, moriranno e saranno dimenticati. Perché cos'è per te ciò che è solo una vampa di fiamma? E tutte le cose della terra e del cielo, e le cose passate e quelle future, e la vita e la morte, ed i semplici elementi dello spazio e del tempo, dell'essere e del non essere, tutto sarà niente per te; poiché tu sarai niente per sempre.» Allora Lord Juss gridò nel suo dolore: «Gettatemi nel Tartaro, consegnatemi alle nere Furie infernali, lasciate che esse mi accechino, fatemi bollire nel Lago Ardente! Perché là c'è ancora la speranza. Ma, nell'orrore di questo Nulla, non c'è speranza, né vita, né morte, né sonno, né veglia, per sempre. Per sempre!» Rimase per un po' in questo cupo stato d'animo di orrore, finché un rumore di pianti e di lamenti gli fece sollevare la testa, e vide un gruppo di prefiche che avanzavano una dietro l'altra sul pavimento di ottone, tutte avvolte in neri mantelli funerei: piangevano la morte di Lord Goldry Bluszco. Esse enumeravano le sue imprese gloriose e lodavano la sua bellezza, la prodezza, l'avvenenza e la sua forza: erano dolci le voci di quelle donne che si lamentavano, cosicché l'anima di Lord Juss parve stare in ascolto per risollevarsi dal vuoto dell'annullamento, ed il suo cuore ridivenne tenero, fino alle lacrime. Si sentì sfiorare un braccio e, alzando la testa, incontrò lo sguardo di due
occhi gentili come quelli di una colomba, colmi di lacrime, che fissavano i suoi dalle tenebre di quel cappuccio di dolore poi, una voce di donna disse: «Questo è il giorno in cui si celebra la morte di Lord Goldry Bluszco, morto un anno fa; e noi abbiamo preso l'impegno di piangerlo, come puoi vedere, e continueremo a piangerlo anno dopo anno, finché saremo in vita. E per te, grande Signore, dobbiamo elevare lamenti ancora più dolorosi, poiché questa è la vana ricompensa per tutte le grandi imprese che hai compiuto, dato che questo è il momento della tua ambizione. Ma vieni: troverai un po' di conforto, dal momento che il Fato pone fine a tutti i regni, e non c'è alcun Re sulla strada della morte.» Così Lord Juss, col cuore morto dentro di lui per la pena e la disperazione, permise che quella donna lo prendesse per mano e lo guidasse giù per una scala a chiocciola che conduceva dal tetto d'ottone ad una camera interna profumata e deliziosa, illuminata da lampade tremolanti. La vita ed i suoi travagli parvero ridursi ad un mormorio lontano e futile, e l'orrore del vuoto sembrava solo una vana fantasia nella fragranza intensa di quella camera. I suoi sensi andarono in estasi, ed egli si voltò verso la sua guida velata. Questa, con un brusco movimento, si liberò del mantello, e stette là, col bellissimo corpo svelato allo sguardo di lui e le braccia aperte: era una visione che riempiva l'anima d'amore e di delizia. Stava quasi per stringere a sé quella visione di abbagliante bellezza, quando la sorte, ο gli altri Dei, ο la sua stessa forza d'animo, risvegliarono nel suo cervello stupefatto il ricordo del suo scopo, cosicché si allontanò con violenza da quell'esca predisposta per la sua distruzione, uscì risolutamente dalla camera, e salì sul tetto dove il suo caro fratello giaceva come morto. Gli prese una mano e disse: «Parlami, fratello. Sono io, Juss. Sono Juss, tuo fratello!» Ma Goldry non si mosse, e non disse una parola. Juss guardò la mano inerte nella sua, così simile alla propria nella forma delle unghie, nei peli che crescevano sul dorso della mano, nelle dita. Poi la lasciò andare, ed il braccio ricadde senza vita. «È proprio così,» disse, «sei come congelato, e la tua mente e la tua capacità di comprensione sono congelate dentro di te.» Così dicendo, si chinò per guardare da vicino gli occhi di Goldry, toccandogli al contempo un braccio ed una spalla. Neppure un muscolo si muoveva e non c'era battito di ciglia. Lo afferrò per una mano e per la manica come per spingerlo ad alzarsi dalla panca, chiamandolo ad alta voce
per nome, e scuotendolo rudemente, gridando: «Parlami! Parla con tuo fratello, che ha attraversato il mondo per trovarti!», ma era un peso morto quello che Juss reggeva. «Se morirai,» disse Juss, «allora morirò anch'io. Ma, fino a quel momento, mi rifiuto di pensare che tu sia morto.» E si sedette sulla panca accanto al fratello, tenendo la sua mano nelle proprie, e guardandosi intorno. C'era un silenzio totale. La notte era scesa, e la tranquilla radianza della luna e delle stelle scintillanti si confondeva coi fuochi pallidi che orlavano la sommità di quella montagna di una luce incerta. L'Inferno non sguinzagliava più i suoi abitanti nell'aria e, fin dal momento in cui si era liberato da quell'ultima illusione nella camera interna, Juss non aveva più visto simulacri di uomini ο di diavoli tranne suo fratello Goldry. Quell'orrore non avrebbe potuto più dominare il suo cuore, ed il suo ricordo ormai era solo come il gelo pungente di un mare d'inverno che toglie per un istante il fiato al nuotatore quando per la prima volta si getta nelle acque ghiacciate. Così, con la mente calma ed incrollabile, Lord Juss rimase là per la seconda notte senza chiudere occhio, poiché non osava dormire in quel luogo maledetto. Ma, data la gioia di aver ritrovato il fratello, sebbene in lui sembrasse non esserci parola, né vista, né udito, Juss si rendeva conto a malapena della sua estrema stanchezza. Si nutrì con l'ambrosia donatagli dalla Regina, in quanto sapeva bene che il suo corpo sarebbe stato sottoposto al massimo sforzo nel compito che ancora lo attendeva. Quando venne il giorno, si alzò e, caricatosi sulla schiena il corpo di suo fratello Goldry, si avviò. Lo trasportò oltre le porte di ottone, oltre le barriere di fiamma e, dolorosamente e passo dopo passo, giù per il lungo crinale settentrionale che sovrastava il Ghiacciaio di Psarrion. Per tutto il giorno e la notte seguenti, e per tutto il giorno successivo, furono ancora sulla montagna, e Juss era davvero prossimo alla morte quando, il secondo giorno, un'ora ο due prima del calar del sole, raggiunsero la morena. Ma il suo cuore era trionfante, e felice per la grande impresa compiuta. Quella notte giacquero distesi in un boschetto di corbezzoli sotto le pendici ripide di una montagna che si trovava a circa dieci miglia al di là della riva occidentale del Ravary e, la sera del giorno seguente, incontrarono Spitfire e Brandoch Daha, che avevano atteso con la loro barca per due notti nel luogo stabilito. Da quando Juss lo aveva trasportato lontano dalla montagna, la condizione di congelamento di Lord Goldry si era talmente mitigata che ora era in grado di reggersi in piedi e di camminare; ma non riusciva a pronuncia-
re neppure una parola, né a rivolgere uno sguardo: i suoi occhi erano ancora fissi ed immobili, e davano la sensazione, quando si posavano sui suoi compagni, di trapassarli come per fissare una cosa visibile nella nebbia. Tutti e tre erano segretamente preoccupati, e temevano che questo stato di Lord Goldry Bluszco si sarebbe rivelato senza rimedi, e che l'uomo che avevano strappato alla prigionia fosse soltanto il misero relitto di colui che avevano tanto desiderato riavere fra di loro. Approdati, io condussero dalla Regina Sophonisba, e lei si affrettò ad andare loro incontro sul bel prato che cresceva davanti al suo padiglione. La Regina, come se conoscesse in anticipo il problema e la soluzione, prese per mano Lord Juss e disse; «Mio Signore, ti resta ancora una cosa da fare per liberarlo definitivamente. Una piccola cosa per te che hai affrontato terrori al di là della sopportazione umana per riportarlo indietro: una piccola pietra, in verità, per coronare questo tuo edificio, eppure, senza di essa tutto sarebbe vano, come essa stessa sarebbe vana senza tutto quello che hai fatto tu. Quest'ultima cosa è mia, e te la dono con tutta la purezza del mio cuore.» Così dicendo, fece chinare Lord Juss finché non riuscì a baciargli la bocca, dolcemente e sobriamente: un unico, leggero bacio. Poi disse: «Devi dare questo a tuo fratello.» E Juss così fece, baciando il suo caro fratello allo stesso modo sulla bocca. Quindi la donna aggiunse: «È di nuovo con voi, miei Signori. Ho definitivamente scacciato il ricordo di queste cose dal suo cuore. È tornato fra voi, e dovete rendere grazie agli Dei per questo!» Lord Goldry Bluszco rivolse il suo sguardo su di loro, sulla bellissima Regina, sulle montagne, sui boschi e sull'incanto di quel lago tranquillo, come un uomo risvegliatosi da un sonno profondo. Ci fu gioia in tutti i loro cuori quel giorno. XXIX. LA FLOTTA A MUELVA Come i Signori di Demonland tornarono alle loro navi a Muelva, e le notizi che appresero là. Per lo spazio di nove giorni i Signori di Demonland si trattennero con la Regina Sophonisba sul Koshtra Belorn e vicino al Lago di Ravary godendo di delizie straordinarie che, probabilmente, nessun altro aveva mai pro-
vato, se non gli spiriti dei Beati negli Elisi. Quando si congedarono da lei, la Regina disse: «I miei piccoli rondicchi mi porteranno notizie di voi e, quando avrete gettato nella totale rovina le forze malefiche di Witchland e sarete ritornati nella vostra cara terra natale, allora, Lord Juss, verrà per me il tempo di fare ciò di cui ti ho parlato, ed il cui pensiero ha spesso allietato i miei sogni: visitare di nuovo la terra e le dimore degli uomini, ed accettare l'ospitalità della montuosa Demonland.» Juss le baciò la mano e disse: «Non mancare di farlo, cara Regina, qualsiasi cosa accada!» Così la Regina li fece guidare per un sentiero segreto fino alle distese di neve che si trovavano fra il Koshtra Belorn ed il Romshir, da dove scesero nella forra dell'acqua scura che scorre dal Ghiacciaio di Temarm. Superando molte insidie e per diversi giorni, ripercorsero la strada del Moruna e raggiunsero alla fine Muelva e le navi. Laggiù, Gaslark e La Fireez, dopo una festosa accoglienza, dissero a Lord Juss: «Siamo rimasti troppo a lungo qui. Siamo entrati nel barile e loro lo hanno tappato.» Al che condussero da lui Hesper Golthring, che tre giorni prima era salpato per lo Stretto per andare in cerca di cibo ed era tornato solo il giorno prima con un'allarmante notizia: si era imbattuto in alcune navi di Witchland, aveva ingaggiato battaglia con loro, e ne aveva affondata una prima che si allontanassero. Aveva fatto dei prigionieri. «In base a quello che ho saputo da loro,» disse, «ed a quello che io stesso ho intuito e dedotto, sembra che Laxus stia presidiando lo Stretto con centosessanta navi da guerra, le più grandi che abbiano solcato il mare fino a oggi, giunte qui col proposito di distruggerci.» «Centosessanta navi?», esclamò Lord Brandoch Daha. «Witchland non possiede la metà, né la terza parte di una simile forza da quando li sconfiggemmo, la scorsa stagione nella mietitura, nel porto di Aurwath. Non è possibile, Hesper!» «Scoprirai che è vero, Altezza,» rispose Hesper; «e allora la tua afflizione e lo stupore saranno maggiori.» «Deve trattarsi di navi fornite dai loro sudditi-alleati,» disse Spitfire. «Non sarà troppo difficile per noi disfarci di loro.» Juss si rivolse a Lord Gro: «Cosa pensi di queste notizie, Signore?» «Non mi stupiscono,» rispose lui. «Witchland ha buona memoria e ricorda la vostra abilità marinaresca a Kardatza. Non è abituata a perdere tempo, né a correre rischi eccessivi. E non illuderti, Lord Spitfire, pensando che queste siano galee da diporto prese in prestito dai rammolliti Be-
shtriani ο dagli ingenui Foliot. Questi sono vascelli nuovi costruiti apposta per noi, miei Signori, per annientarci: non vi dico questo per ipotesi, ma per mia diretta conoscenza, anche se il loro numero mi sembra ben più grande di quello che pensavo. Ma, prima che partissi con Corinius alla volta di Demonland, a Tenemos fervevano i lavori per approntare una grande forza navale.» «Credo proprio,» disse Re Gaslark, «che nessuno possa sapere questo meglio di te, dal momento che fosti tu a consigliarlo.» «Gaslark,» disse Lord Brandoch Daha, «hai ancora voglia di giocare al tiro-alla-ciliegia quando il tempo delle ciliegie è passato? Lascialo in pace! È nostro amico, adesso.» «Centosessanta navi nello Stretto,» mormorò Juss. «E noi ne abbiamo un solo centinaio. Si vede bene che divario e svantaggio c'è a nostro sfavore. Eppure siamo costretti ad affrontarli, altrimenti non torneremo più a casa, né tantomeno andremo a Carce. Infatti, per uscire da questo tratto di mare, non c'è altra strada che lo Stretto di Melikaphkhaz.» «Saremo noi ad avere ragione di Laxus,» disse Lord Brandoch Daha, «proprio perché crede di averci in pugno.» Ma Juss rimaneva in silenzio, col mento appoggiato sulla mano. Goldry Bluszco intervenne: «Posso concedergli tutto il vantaggio che vuole, e poi annientarlo!» «Sarebbe una vergogna per te, Juss,» disse Brandoch Daha, «se ti lasciassi abbattere da questo. Che importa se sono in numero superiore a noi? Per fede, ardimento e forza ci sono inferiori di molto!» Ma Juss, sempre meditabondo, allungò una mano e lo afferrò per una manica, trattenendolo così per un istante ο due. Quindi alzò lo sguardo su di lui e disse: «Tu sei il più grande attaccabrighe che io abbia mai conosciuto e, se fossi un uomo irascibile, non sarei stato capace di sopportarti. Posso avere tre minuti per riflettere, senza che tu mi gridi nell'orecchio di essere una femminuccia?» Tutti scoppiarono a ridere, e Lord Juss si alzò e ordinò: «Convochiamo un Consiglio di Guerra. Hesper Golthring ed i Comandanti che lo hanno seguito in quell'escursione parteciperanno anche loro. E prepariamo i bagagli, perché domattina salperemo. Se questa lattuga non ci piace, possiamo solo allontanare le labbra: non ci resta altra scelta! Se Laxus non ci lascerà passare nello Stretto di Melikaphkhaz, credo che da qui salirà uno schianto che, quando il Re lo sentirà, saprà che è il primo colpo alla porta di Carce.»
XXX. NOTIZIE DA MELIKAPHKHAZ Delle notizie dal sud riferite a Re Gorice a Carce e di come Lord Laxus teneva prigioniera con la sua armata nello stretto la flotta di Demonland nel Mare di Midland. In una notte di fine estate che ormai declinava verso l'autunno, otto settimane dopo la partenza dei Demoni da Muelva, com'è stato raccontato, Lady Prezmyra sedeva davanti allo specchio nella camera da letto di Corund a Carce. Fuori, la notte era mite e piena di stelle, dentro, le gialle fiamme delle candele che ardevano su entrambi i lati dello specchio, irradiavano trefoli di sgargiante splendore in una doppia aureola ο in sfere luminose di calore. In quella tenue radianza, granelli simili a fuoco dorato ondeggiavano e ruotavano, perdendosi ai confini dell'oscurità dove i mobili imponenti, gli arazzi ed i drappeggi decorati del letto, erano solo sezioni e zone di addensamento del buio generale. I capelli di Prezmyra catturavano i raggi e li imprigionavano in un viluppo bronzeo di splendore che si avvolgeva intorno alla sua testa ed alle spalle, per poi scendere giù fino ai fermagli di smeraldo della cintura. Con gli occhi che indugiavano oziosamente sulla sua bella immagine riflessa dallo specchio, chiacchierava del più e del meno con le sue Dame di Compagnia che la stavano pettinando nella camera da letto stando dietro alla sua sedia in oro e tartaruga. «Dammi quel libro, nutrice. Voglio leggere un'altra volta le parole di quella serenata che Lord Gro scrisse per me quella notte in cui, per la prima volta, avemmo notizie del mio Signore da Impland, quando aveva conquistato quella terra ed il Re Gorice lo aveva proclamato suo sovrano.» L'anziana donna le porse il libro, che era rilegato in pelle di capra cesellata ed ornata dai doratori, munito di fibbie d'oro, ed abbellito da piccole gemme, smeraldi e madreperla, intarsiati nei riquadri della copertina. Prezmyra voltò la pagina e lesse: Voi misere bellezze della sera, Che poco i nostri occhi deliziate,
Sia pure in tante: non la luce impera; Voi che nel Cielo intero dimorate; Quando la Luna sorge, dov'è state? Voi del bosco indiscreti cantori, Che gorgheggiate i canti di Natura, Credendo di affidare i vostri ardori A quei deboli accenti; che figura, Se l'usignolo al suo canto dà la stura! Voi violette che per prime spuntate, Note per il violaceo vostro manto, Vergini dell'anno che orgogliose state, Come se della primavera foste il vanto; Chi siete quando la rosa vi è accanto? Quando la mia Principessa vedremo noi Nella forma e nella bellezza della mente, Regina per virtù, per scelta poi, Ditemi, se non si pone veramente Come eclisse e gloria della sua gente. Prezmyra rimase per un po' in silenzio poi, con voce bassa e dolce, dove sembravano vibrare tutte le corde musicali: «Tre anni saranno trascorsi il prossimo Natale,» disse, «da quando udii per la prima volta questa canzone. E non mi sono ancora abituata ad essere Regina.» «È un peccato per Lord Gro!», disse la nutrice. «Credi?» «C'era più spesso allegria sul tuo viso, Regina, quando lui era qui: solevi alleviare la sua malinconia e burlarti delle sue predizioni bizzarre ed argute.» «Sovente non dubitavo dei suoi presagi,» disse Prezmyra, «anche mentre lo prendevo in giro. Ma non ho mai saputo che il tuono minaccioso possa distruggere chi lo fronteggia ed oltrepassare chi gli si sottomette.» «Egli era soprattutto schiavo della tua bellezza,» disse l'anziana donna. «Eppure,» aggiunse, osservando di sottecchi la padrona per vedere come reagiva, «una perdita a volte può essere un bene.» Continuò per un po' a darsi da fare col pettine, in silenzio, dopodiché
continuò: «Regina, padrona dei cuori degli uomini, non c'è un solo Signore in Witchland, né su tutta la terra, che non riusciresti ad incatenare come tuo schiavo con uno di questi tuoi capelli. Puoi conquistare i più dotati ed i più avvenenti con un solo sguardo!» Lady Prezmyra rivolse uno sguardo sognante al riflesso dei propri occhi verde-mare nello specchio, poi fece un sorriso ironico e disse: «Chi consideri tu come l'uomo più dotato e avvenente del mondo?» L'anziana donna sorrise. «Regina,» rispose, «questo è stato il solo argomento di discussione fra noi questa sera a cena.» «Che discussione piacevole!», disse Prezmyra. «Fatemi divertire un po'. Chi è, secondo il vostro giudizio, il più bello e valoroso della nostra Corte?» «Il verdetto non è stato unanime, Regina. Alcune hanno detto Lord Gro.» «Per me è troppo femmineo...», disse Prezmyra. «Altre, il Re nostro Signore.» «Nessuno è più grande di lui,» disse Prezmyra, «né più venerabile. Ma, come marito... sarebbe meglio sposare un temporale ο il mare famelico. Fammi degli altri nomi!» «Alcune hanno scelto il Lord Ammiraglio.» «Questo,» disse Prezmyra, «già si avvicina di più al bersaglio. Non è un fulmine di guerra né uno sdolcinato cortigiano, ma un valoroso, alto, e galante gentiluomo. Sì, ma è nato sotto una stella troppo sbiadita: somiglia più ad una statua che ad un uomo! No, nutrice, indicamene uno migliore.» La nutrice disse: «In verità, Regina, quasi tutte erano d'accordo con me quando ho fatto la mia scelta: il Re di Demonland.» «Vergogna!», gridò Prezmyra. «Non nominare colui che non ha avuto la forza di difendere il suo regno dai nostri nemici.» «La gente dice che è con l'astuzia e le Arti Magiche che fu sconfitto a Krothering Side. La gente dice che erano Spiriti e non cavalli quelli che portarono i Demoni giù dalla montagna contro di noi.» «Dicono!», gridò Prezmyra. «Io ti dico che lui ha trovato più consono alle sue attitudini pavoneggiarsi con la sua corona a Witchland che metterli in ginocchio a Galing. Davanti ad un vero Re si devono piegare cuore e ginocchia ma, in questo caso, le loro ginocchia si sono piegate dietro le sue terga, per rispedirlo a casa.» «Vergognati, Signora!», esclamò la nutrice. «Tieni a freno la lingua, nutrice!», la redarguì Prezmyra. «Sarebbe bene
che voi tutte foste frustate come un branco di stupide giumente che non sanno distinguere un cavallo da un asino!» L'anziana donna, osservandola nello specchio, capì che faceva meglio a starsene zitta. Prezmyra continuò sottovoce, come parlando a se stessa: «Conosco un uomo che non avrebbe fallito così miseramente.» L'anziana nutrice, che non amava Lord Corund, i suoi modi altezzosi, il suo linguaggio rozzo e le sue ubriacature, ed era inoltre gelosa del fatto che un uomo così rude portasse gioielli ricchi come quelli della sua padrona, fece finta di non capire quello che lei intendeva dire. Dopo un po', l'anziana donna parlò con dolcezza e disse: «Sei piena di pensieri stasera, Signora...» Gli occhi di Prezmyra incontrarono i suoi nello specchio. «Perché, non posso esserlo? Non mi si addice?», chiese. Lo sguardo di pietra di quegli occhi colpì come un gong alcuni ricordi di vent'anni prima nel cuore della nutrice: vide l'ostinata fanciullina, difficile da stimolare ma piacevole da guidare, che la guardava dal volto di quella Regina attraverso gli anni. All'improvviso s'inginocchiò e passò le braccia intorno alla vita della padrona. «Perché ti sei sposata allora, cuore mio,» disse, «se avevi intenzione di fare ciò che ti piace? Gli uomini non amano le espressioni tristi nelle mogli. Puoi mettere il morso ad un amante, Signora ma, una volta sposato, sarà tutta un'altra musica: la sua musica, Signora, e stai attenta ai "se lo avessi saputo"!» La padrona le rivolse uno sguardo ironico. «Questa notte fanno sette anni che sono sposata. Queste cose dovrei saperle!» «Questa notte!», mormorò la nutrice. «Manca solo un'ora a mezzanotte, eppure egli siede al tavolo del Consiglio.» Lady Prezmyra si raddrizzò per guardare ancora la sua graziosa figura riflessa. La fiera bocca le si addolcì in un sorriso. «Vuoi insegnarmi la saggezza delle donne comuni?», disse, e c'era una dolcezza ancora più voluttuosa che fremeva nella sua voce. «Ti racconterò una storia, come me le raccontavi tu un tempo a Norvasp per farmi addormentare. Hai mai sentito parlare di quella volta che il Duca Hilmanes di Maltraeny, fra le tante visioni che appaiono di notte nei luoghi più svariati, ne ebbe una nelle sembianze di una donna, vecchia e di bassa statura, che strofinava le sue pentole e casseruole, e faceva quelle cose che fanno le serve, generosamente e senza provocare danni? Per sua intuizione, egli sapeva che quella cosa lo avrebbe servito, e gli avrebbe portato tutto ciò che lui voleva, per tutto il tempo in cui lui sarebbe stato lieto delle cose che essa le portava. Ma que-
sto Duca, essendo un uomo sciocco e avido, si fece portare dal suo familiare, contemporaneamente, tutte le stagioni dell'anno, tutti i loro prodotti, e tutte le cose buone della terra. Così, nel giro di sei mesi, si saziò di tutte queste buone cose, e non gli rimase altro da chiedere ο da desiderare, perché era ormai disgustato. Vorrei non aver mai preso marito, nutrice, e non ho mai creduto che sarei stata capace di dargli ogni volta che avessi voluto un nuovo cielo ed una nuova terra, e mai la stessa cosa per due volte.» Prese le mani dell'anziana donna nelle sue e se le strinse al seno, come per far sì che imparassero, cullate per un minuto nell'infinita dolcezza e bontà di quel luogo, che quelle erano soltanto sciocche paure. All'improvviso, Prezmyra strinse più forte quelle mani nelle sue, e rabbrividì un poco. Poi si chinò per sussurrare nell'orecchio della nutrice: «Vorrei non morire. Il mondo senza di me sarebbe un'estate senza rose. Carce senza di me sarebbe una notte senza stelle.» La sua voce scemò come la brezza notturna in un giardino estivo. Nel silenzio, le due donne udirono il tuffo e lo sciabordio delle pale dei remi dal fiume, al di fuori, poi l'intimazione della sentinella, e la risposta dalla nave. Prezmyra si alzò in fretta ed andò alla finestra. Riuscì a vedere lo scafo nero della nave nei pressi della porta principale, ed un concitato andirivieni, ma niente di chiaro. «Devono esserci notizie dalla flotta,» disse. «Aggiustami i capelli!», ordinò. Prima che avesse finito, un paggetto arrivò correndo alla porta della sua camera, che gli venne aperta. Ansimando per la corsa, disse: «Il Re tuo marito mi ha ordinato di dirti, Signora, che ti prega di scendere giù da lui nella grande sala. Temo ci siano brutte notizie.» «Tu temi, poppante?», disse la Regina. «Ti farò frustare se comunichi a me le tue paure. Non sai altro? Cos'è accaduto?» «La nave è parecchio malconcia, Regina. Il Comandante è a colloquio privato col Re nostro Signore. Nessuno osa parlare. Si teme che l'Alto Ammiraglio...» «Si teme!», gridò lei, girandosi affinché la nutrice le appoggiasse sulle spalle candide il mantello di zendale e argento, il cui colletto scintillava di ametiste porpora e profumava di cedro, galbano (1) e mirra. Imboccato il corridoio buio, scese la scala a chiocciola di marmo, attraversò il cortile, e si affrettò verso la sala dei banchetti. Il cortile era pieno di gente che discorreva; ma non c'era niente di certo, niente se non ansia e stupore; voci di una grande battaglia navale a sud, una strepitosa vittoria di Laxus sui Demoni: Juss e quei Signori di Demonland morti e scomparsi, i
prigionieri che sarebbero arrivati il giorno dopo. E qua e là, come un sottofondo a queste notizie trionfanti, voci contrastanti, sussurrate piano, come il sibilo di un marasso nella sua tana nascosta: tutto era andato storto, il Lord Ammiraglio era stato ferito, metà delle navi perse, l'esito della battaglia assai incerto, e che i Demoni erano fuggiti. La Regina entrò nella grande sala; e là c'erano i Signori ed i Capitani delle Streghe tutti apparentemente calmi in attesa. Il Duca Corsus ciondolava su una panca: aveva il respiro pesante, ed i suoi piccoli occhi erano immobili in una fissità da ubriaco. Dall'altro lato sedeva Corund, enorme ed immoto, il gomito appoggiato sul tavolo, il mento nella mano, sobrio e silenzioso, e fissava il muro. Gli altri si erano riuniti in crocchi, e parlavano sottovoce. Lord Corinius andava su e giù dietro la panca, con le mani strette dietro la schiena, le dita che schioccavano con impazienza di tanto in tanto, le sue forti mascelle rivolte in alto, e lo sguardo altezzoso ed ardito. Prezmyra si avvicinò ad Heming che stava assieme ad altri tre ο quattro e gli toccò un braccio. «Non sappiamo nulla, Signora,» disse quello. «È col Re.» Allora lei si recò dal suo Signore. «Mi hai mandata a chiamare?» Corund la guardò. «Accidenti, è proprio così, Signora! Ci sono notizie dalla flotta. Forse qualcosa... forse niente. Ma sarà meglio che tu rimanga qui.» «Buone ο cattive notizie che siano, non scuoteranno le mura di Carce,» rispose lei. Bruscamente, il basso mormorio delle conversazioni smise. Il Re stava davanti ai tendaggi della porta. Tutti si alzarono in piedi per andargli incontro, tranne Corsus che rimase seduto, ubriaco, al suo posto. La corona di Witchland diffondeva malefici barbagli sull'oscurità del volto simile ad una tetra roccaforte di Re Gorice: ma quello che colpiva era lo scintillio dei suoi occhi terribili, la linea spietata della sua bocca, e la barba nera e squadrata che si protendeva verso il basso. Si ergeva come una torre, ed alle sue spalle - nell'ombra - c'era il messaggero venuto dalla flotta con la faccia del colore della calce. Il Re disse: «Miei Signori, ci sono notizie della cui veridicità sono certissimo. La flotta è perduta! C'è stata una battaglia a Melikaphkhaz nelle acque di Impland, e Juss ha affondato le nostre navi. Tutte tranne quella che ha portato le notizie sono affondate, con Laxus e gli uomini che erano con lui.» Fece una pausa, quindi: «Sono notizie tristi,» aggiunse, «e voglio
che reagiate alla maniera dell'antica Witchland: più duro è il colpo, più dura dev'essere la reazione.» Nello strano silenzio si udì un piccolo grido strozzato, e Lady Sriva crollò al suolo priva di sensi. Il Re disse: «I Re di Impland e di Demonland resteranno con me. Tutti gli altri, è mio desiderio che vadano immediatamente a dormire!» Lord Corund mormorò in un orecchio alla moglie mentre s'incamminava, con una mano intorno alla sua spalla. «Cosa c'è, ragazza? Quando il brodo è finito, resta la carne. Vai a letto, e non dubitare che renderemo loro pan per focaccia.» Poi seguì il Re con Corinius. Era mezzanotte passata quando il Consiglio si sciolse, e Corund raggiunse la sua camera nel portico orientale sopra il cortile interno. Trovò sua moglie seduta ancora davanti alla finestra, che osservava la falsa aurora sopra Pixyland. Congedati i tedofori che lo avevano accompagnato, sprangò la grande porta imbullettata di ferro. La larghezza delle sue spalle quando si voltò, riempiva il vano della porta in ombra; la sua testa sfiorava l'architrave. Era difficile interpretare la sua espressione nella penombra in cui si trovava al di là della zona di luce creata dalle candele, ma gli occhi di Prezmyra notarono la preoccupazione sulla sua fronte, e c'era nel contegno della sua figura poderosa la regalità e l'energia di una forte determinazione. La donna si alzò, guardandolo come un compagno sul quale poteva contare e che poteva a sua volta contare su di lei. «Ebbene?», chiese. «Tutto è pronto,» disse lui, senza muoversi. «Il Re mi ha nominato suo Capitano Generale a Carce.» «Siamo dunque a questo punto?» «Ci hanno strappato un arto. Ora sanno che devono colpire al cuore.» «È così, allora? Ottomila uomini? Il doppio dell'esercito che conquistò Impland? Tutti annegati?» «È stata la diabolica abilità marinaresca di quei maledetti Demoni! Sembra che Laxus presidiasse lo Stretto che essi avrebbero dovuto attraversare per tornare a casa, con l'intenzione di affrontarli in quell'angusto braccio di mare e schiacciarli col peso delle sue navi con la facilità con la quale si uccidono le mosche, avendo un notevolissimo vantaggio di navi e uomini. Loro, d'altra parte, occupavano il mare all'esterno dello Stretto, facendo del loro meglio per attirarlo fuori in modo da poter eseguire in mare aperto i
loro trucchi di marinai. Per più di una settimana ha resistito finché, il nono giorno (il diavolo maledica la sua stoltezza, perché non ha avuto più pazienza?), di mattina, stanco dell'inazione ed avendo in qualche modo il vento e la marea a suo favore...» Lord Corund grugnì e fece schioccare le dita, sprezzante «Oh, ma ti racconterò tutto domani, Signora. Ne ho abbastanza per stanotte! Il risultato è che Laxus è annegato con tutti quelli che erano con lui, mentre Juss con tutta la sua armata è diretto a nord, verso Witchland.» «E padrone del mare! Quando dovrebbe arrivare?» «Il vento spira verso est. Arriverà...» «È stato un bene affidare a te il comando. Ma cosa ne è stato dei gentiluomini che hanno ricoperto quest'incarico in passato? Si comporterà allo stesso modo?» «I cani affamati mangiano anche le salsicce sporche. Credo che lo farà, anche se in un primo tempo ha mostrato i denti.» «Lascia che conservi i denti per i Demoni.» «Questa nave è stata catturata,» disse Corund, «e mandata qui da loro con una smargiassata per farci sapere quello che era accaduto: uno stupido atto di insolenza che costerà loro caro, perché ci ha messi in guardia. Il Comandante aveva questa lettera per te: me l'ha consegnata con incredibile circospezione.» Prezmyra tolse la cera, aprì la lettera, e seppe chi l'aveva scritta. La tese a Corund: «Leggila per me, mio Signore, la mia vista è stanca per il troppo scrutare: leggo male alla luce ondeggiante delle candele.» Ma lui rispose: «Sono uno scolaro mediocre. Ti prego, leggila tu.» Alla luce incerta delle candele, Prezmyra, infastidita da un vento dell'est che soffiava da prima dell'alba, lesse la lettera, che era così concepita: «Alla tua Altezza legittima e non riconosciuta Principessa, Regina di Impland, uno che era tuo servo ma che - essendo ora un manifesto traditore e spergiuro che il Cielo aborre, la terra detesta, il sole, la luna e le stelle vituperano, e tutte le creature maledicono e giudicano indegno di respirare e vivere - desidera soltanto morire facendo ammenda. Con grande pena ti mando questo avvertimento: chiedo alla tua Maestà, con tutta umiltà, di riflettere bene, dal momento che la Vostra sconfitta e rovina è ormai prossima. E, sebbene a Carce tu ti senta al sicuro, è certo che lo sei come uno che è appeso alle foglie di un albero alla fine dell'autunno, quando le foglie cominciano a cadere.
Infatti, in quest'ultima battaglia nel Mare di Melikafkaz, l'intera forza navale di Witchland è stata sconfitta ed annientata, l'Alto Ammiraglio della vostra marina è morto, e non riesco a contare il numero di grandi e nobili uomini che sono rimasti uccisi in battaglia, né dei semplici soldati, in numero minori questi, poiché per la maggior parte sono annegati in mare. Ma di Demonland non sono andate perdute nemmeno due compagnie di navi, e ora, con grande ardore, sì sono diretti verso Carce. Con loro c'è Goldry Bluszco, stranamente liberato dalla sua prigione e come resuscitato, ed una grande armata costituita dagli uomini più forti e feroci che io abbia mai visto ο di cui abbia sentito parlare. È la Guerra. Nobilissima Principessa, voglio parlarti non per enigmi ο per oscuri simboli, ma con chiarezza, affinché tu non ti lasci scappare questa occasione. Perché ho fatto un brutto sogno ed ho sognato la completa rovina di Witchland: alla vigilia di questa stessa battaglia, fui terrorizzato e sconvolto dall'apparizione di Laxus, vestito della sua armatura, che gridava a gran voce: "È la fine, la fine, la fine di tutto!". Perciò, con grande insistenza, imploro la tua Maestà ed il tuo nobile Signore, che fu mio amico prima che a causa del mio infame tradimento perdessi te, lui e tutto il resto, di provvedere alla vostra incolumità, e di farlo in tutta fretta. Questo dovete fare: andate subito nella tua terra di Pixyland e là raccogliete un esercito. Dovete precedere questi ribaldi Demoni ostinati nel loro tentativo di abbattere Witchland, conquistando la loro amicizia, dal momento che è certo che saranno con tutta la loro invincibile armata davanti a Carce prima che Witchland abbia il tempo di respingerli. Questo è il Consiglio che vi do, poiché so benissimo che il potere e la forza dei Demoni sono in questo momento invincibili e non possono essere contrastati. Non restate su una nave che affonda, ma fate come vi ho detto, altrimenti tutto sarà perduto. Un'altra cosa voglio dirvi, che renderà ancora più valido il mio consiglio, la notizia più brutta di tutte!» «È una brutta notizia che un traditore come lui sia sopravvissuto a tanti uomini onesti!» disse Corund. Lady Prezmyra tese la lettera al suo Signore. «I miei occhi si confondono,» disse. «Leggi tu il resto!» Corund la circondò col suo braccio vigoroso mentre si sedeva al tavolo davanti allo specchio e scorreva attentamente lo scritto, seguendolo con un
dito. Era poco istruito, e gli occorse un po' di tempo prima di afferrarne il significato. Non lo lesse ad alta voce; il volto di sua moglie gli rivelò che lei lo aveva già letto prima che lui cominciasse. Era questa l'ultima notizia che la lettera di Gro riferiva: il Principe suo fratello era morto nella battaglia navale, combattendo per Demonland; era morto annegato nel mare di Malikaphkhaz. Prezmyra andò alla finestra. L'alba stava spuntando, deprimente e grigia. Dopo un minuto, voltò la testa: sembrava una leonessa, fiera e dagli occhi minacciosi. Era pallidissima. Il suo tono, piatto e calmo, faceva fremere le vene, come il rullare di un tamburo lontano, mentre diceva: «L'aiuto di Demonland: è tardivo e non serve più!» Corund la guardò, inquieto. «Le promesse fatte a me ed a lui!», disse. «Fatte a noi quella notte a Carce. Che amici! Oh, mangerei i loro cuori con l'aglio!» Lui le appoggiò le grandi mani sulle spalle, ma lei le scrollò via. «In una cosa,» gridò, «Gro ci ha ben consigliati: non bisogna restare su una nave che affonda. Dobbiamo raccogliere degli uomini ma non, come avrebbe voluto lui, per appoggiare i Demoni, quegli infami spergiuri! Dobbiamo andarcene questa notte.» Il suo Signore si era tolto il suo grande mantello di pelle di lupo. «Vieni, Signora,» disse, «la nostra prossima meta sarà il letto.» «Non andrò a letto,» rispose Prezmyra. «Si vedrà adesso, Corund, se sei davvero un Re!» Lui si sedette sull'orlo del letto per sfilarsi gli stivali. «Beh,» disse, «ognuno fa quello che gli pare, come disse quel tale quando baciò la sua vacca. L'alba è prossima; dovrò alzarmi presto, e una notte insonne è poco foriera di idee.» Ma lei gli si pose davanti, dicendo: «Si vedrà se sei un vero Re! E non illuderti: se non sarai con me, non m'importerà più niente di te. Questa notte dobbiamo andarcene! Raccoglierai uomini a Pixyland, che adesso è mia di diritto, e raccoglierai altri uomini nel tuo vasto regno di Impland. Lascia perdere Witchland! Cosa importa a noi se affonda ο nuota? È solo questo il punto: punire quei vili Demoni spergiuri, nemici nostri e del mondo!» «Non abbiamo bisogno di metterci in viaggio per questo,» disse Corund, mentre si stava sfilando gli stivali. «Fra poco vedrai Juss ed i suoi fratelli davanti a Carce con seimila uomini al loro seguito. Quindi, il metallo viene sull'incudine. Su, su, non piangere!» «Non piango,» disse lei. «E non piangerò. Ma non mi lascerò prendere a
Carce come un topo in trappola.» «Sono lieto che tu non pianga, Signora. È una pena veder piangere una donna, come un'oca che va a piedi scalzi. Suvvia, non essere sciocca! Non dobbiamo dividere le forze adesso. Dobbiamo affrontare la tempesta a Carce.» Ma Prezmyra gridò: «C'è una maledizione su Carce. Abbiamo perso Gro ed i suoi consigli. Mio caro, vedo qualcosa di malefico che come una spessa cortina nera oscura il cielo sopra di noi. Quale luogo non è soggetto al potere ed alla sovranità di Re Gorice? Ma lui è troppo orgoglioso: noi tutti siamo insolenti e presuntuosi. Carce è diventata troppo grande, e gli Dei si sono offesi. L'abiezione sfrontata di Corinius e quel vecchio rimbambito di Corsus sempre attaccato al boccale... queste e le nostre dispute private a Carce, saranno la nostra rovina! Non opporti alla volontà degli Dei, e prendi il timone nelle tue mani prima che sia troppo tardi!» «Taci, Signora!», disse Corund. «Questi sono soltanto fantasmi: la luce del giorno ti farà ridere di loro.» Ma Prezmyra non riuscì più a mantenere il controllo e gli gettò le braccia intorno al collo. «Sei tu l'uomo sbagliato in questa situazione. Vuoi farci trascinare da questo vortice e non nuotare per uscirne prima che sia troppo tardi?» Poi aggiunse con voce soffocata: «Il mio cuore è prossimo a spezzarsi. Non essere tu a spezzarmelo completamente. Mi rimani solo tu ormai.» L'alba gelida, la stanza silenziosa, le candele incerte, e quella donna di alti sentimenti, per un istante privata del suo coraggio nobile e costante che si rannicchiava come un uccellino fra le sue braccia: queste cose furono come un alito ghiacciato che lo sgomentò per un momento. Le prese le mani e la allontanò da lui. Lei eresse di nuovo la testa, anche se le sue guance erano pallide; Corund avvertì la stretta affettuosa delle mani di lei nelle sue. «Ragazza mia,» disse, «non ritengo di essere l'uomo sbagliato per questa progenie di Demonland. La mia mano, e la mano dei miei figli, è qui, per te e per il Re, pronta ad abbattersi su Demonland finché avremo il fiato per farlo! Ma, dal momento che il Re nostro Signore mi ha fatto Re, comunque spiri il vento, dobbiamo resistere a Carce. Ha ragione il proverbio che dice: "Si regna per la gloria, non per vivere a lungo."» Prezmyra pensò nel suo cuore che quelle erano parole leziose. Ma, avendo ormai abbandonato la speranza e la paura, era risoluta a non continuare a prendere a calci il vento, ma a restare immobile e vedere cosa le ri-
servava il destino. XXXI. I DEMONI DAVANTI A CARCE Come Re Gorice, sebbene fosse un potente Stregone, decise che questa volta con la spada, e soprattutto con Lord Corund come Comandante in Capo, gli eventi si sarebbero svolti; e come quei due, il Re e Lord Juss, alla fine s'incontrarono faccia a faccia; e della sanguinosa battaglia davanti a Carce, e quali frutti furono là ammassati e cosa si salvò dalla messe. Re Gorice sedeva nella sua camera la tredicesima mattina dopo che a Carce erano state portate quelle notizie. Sul tavolo sotto la sua mano c'erano resoconti ed elenchi dei suoi uomini e degli equipaggiamenti. Corund era seduto alla destra del Re, e dall'altro lato c'era Corinius. Le grosse mani pelose di Corund erano strette davanti a lui sul tavolo. Parlò senza consultare le carte, con lo sguardo fisso sulle nuvole persistenti che si muovevano sul rettangolo di cielo visibile attraverso l'alta finestra che lo fronteggiava. «Riguardo a Witchland ed alle sue Province, ο Re, va tutto bene. Tutte le compagnie di soldati con l'ordine di dirigersi qui entro il dieci del mese sono arrivate, tranne alcuni gruppi di lancieri del sud, ed alcuni di Estreganzia. Questi ultimi sono attesi per oggi; Viglus ha scritto che verranno con lui assieme alle truppe di Baltary. Sono presenti: Thramne, Zorn, Permio, la Terra di Ar, Trace, Buteny ed Estremerine. Riguardo ai nostri alleati-vassalli, le cose vanno meno bene. I Re di Mynia e Gilta, Olis di Tecapan, Countyu Escobrine di Tzeusha, il Re di Ellien: sono tutti qui coi loro contingenti. «Ma nomi ben più importanti mancano all'appello. Il Duca Maxtlin di Azumel ha rotto l'alleanza e tagliato le orecchie del tuo inviato, presumibilmente a causa di un comportamento non proprio degno tenuto dai figli di Corsus nei confronti della sorella. Questo ci costa seicento vigorosi combattimenti. Il Signore di Eushtlan non ha mandato risposta, e Mynia e Gilta ci hanno riferito adesso della sua palese doppiezza e del suo tradimento, quando ha ostinatamente impedito che essi attraversassero le sue
terre per venire qui secondo gli ordini della tua Maestà.» «Poi ci sono i contingenti Ojediani, circa mille lancieri, in ritardo di dieci giorni. Heming, che sta raccogliendo uomini a Pixyland a nome di Prezmyra, li getterà nella mischia se farà in tempo. Ha anche l'ordine, dal momento che si trova sulla sua strada, di spingere Maltraeny, da cui non abbiamo ricevuto alcun messaggio, a muoversi: temo che anche loro ci abbiano tradito. Sia Maltraeny che Ojchedia, sono apparse restie a muoversi. Re Brasht di Toribia ha mandato un netto rifiuto.» «Devi anche sapere,» disse Corinius, «che il Re di Nevria è arrivato la scorsa notte, con molto ritardo sul giorno stabilito, e con solo la metà del contingente dovuto.» Gorice strinse le labbra. «Non gli rovinerò il morale rimproverandolo per il regalo che ci ha fatto. Dopo, avrò la sua testa per questo.» «Questo è tutto,» disse Corund. «No, avevo dimenticato il Foliot Rosso con la sua gente - forse trecento - che sono giunti questa mattina.» Corinius spinse fuori la lingua e scoppiò a ridere: «Un gambero femmina come quello potrà a malapena essere servito come portata di questo banchetto.» «Ha mantenuto la promessa,» disse Corund, «quando uomini ben più vigorosi di lui si sono dimostrati dei codardi. Ora si vede che le alleanze forzate sono salde come se fossero sigillate col burro. Devi assolutamente concedergli udienza.» Il Re rimase silenzioso per un po', a studiare le sue carte. «Quale forza abbiamo a Carce?», domandò. Corund gli rispose: «All'incirca quattromila fanti e mille cavalieri: cinquemila in tutto. E, cosa sulla quale confido di più, ο Re, sono quasi tutti grandi, grossi e forti ragazzi di Witchland.» «Non è stato un bene, Corund,» disse il Re, «costringere tuo figlio a perdere tempo per Ojedia e Maltraeny. Ora sarebbe qui a Carce con un migliaio di Pixylandesi ad impinguare le nostre forze.» «Ho fatto ciò che ho fatto,» rispose Corund, «solo per il tuo bene, ο Re. Pochi giorni di ritardo possono procurarci un migliaio di lance.» «Il ritardo,» disse il Re, «ha favorito i miei nemici. Questo avremmo dovuto fare: appena sbarcati, non dargli neppure il tempo di sbattere le palpebre, assalirli con tutte le nostre forze, e scaraventarli in mare!» «Se la fortuna è con noi, possiamo ancora farlo,» disse Corund. Le narici del Re si dilatarono. Si sporse in avanti, fissando Corund e Corinius, con la mascella spinta in fuori cosicché la sua rigida barba nera
spazzolò le carte sul tavolo davanti a lui. «I Demoni,» disse, «sono approdati durante la notte a Ralpa. Ora sono diretti a nord con passo spedito. Saranno qui in meno di tre giorni.» I due divennero rossi come il sangue. Corund chiese: «Chi ti ha riferito queste cose?» «Non preoccuparti di questo,» disse il Re, «Ti basti sapere che lo so. Siete stati presi alla sprovvista?» «No. Durante questi ultimi dieci giorni siamo stati sempre pronti - con tutti gli uomini che avevamo a disposizione - ad accoglierli, da qualunque direzione fossero venuti. Tuttavia, mentre noi siamo in attesa degli aiuti da Pixyland, Juss ha un certo vantaggio su di noi se, come i nostri informatori ci riferiscono, lo seguono seimila soldati, rafforzati da alcuni che avrebbero dovuto essere dei nostri (1).» «E tu vorresti attendere,» disse il Re, «quelli di Pixyland, con gli altri che Heming riuscirà a mettere assieme, prima di affrontarli in battaglia?» «È quello che vorrei,» disse Corund. «Dobbiamo guardare oltre la prossima curva della strada, mio Signore.» «Ed è proprio quello che io non vorrei!», disse Corinius. «Questa è un'affermazione coraggiosa,» disse il Re. «Ma ricordati che avevi un esercito ben più grande a Krothering Side, eppure fosti sconfitto.» «È questo che non riesco a togliermi dalla mente, Signore,» disse Corund. «Perché so bene che, se fossi stato io laggiù, non avrei potuto fare di meglio.» Lord Corinius, la cui fronte si era oscurata nel sentir parlare della sua disfatta, adesso appariva allegro e disse: «Ti prego soltanto di considerare, mio Signore, che qui non c'è spazio per furberie ο tranelli come quelli che mi tesero nella loro terra. Dal momento che Juss, Brandoch Daha ed i loro straccioni puzzolenti vengono a ingiuriarci sul suolo di Witchland, è tempo di infliggere loro il colpo di grazia. Cosa che, col tuo permesso, Signore, ti prometto che farò, a costo della mia vita.» «Dammi la mano,» disse Corund. «Fra tutti gli uomini avrei scelto te per un giorno come questo e (se proprio dobbiamo affrontare oggi l'intera potenza bellica di Demonland) per condividere questa posizione svantaggiosa nella quale dobbiamo portare a termine un'impresa sanguinosa come questa. Ma sentiamo cosa ci ordina il Re e, qualsiasi cosa deciderà, noi la eseguiremo.» Re Gorice rimase silenzioso. Teneva una mano magra appoggiata sulla testa di serpente di ferro del bracciolo della sua sedia, e con l'altra, col dito
disteso contro lo zigomo sporgente, si reggeva il mento. Solo nell'ombra densa delle sue cavità oculari si muoveva una luce scintillante. Alla fine si mosse, come se il suo spirito, volato verso un abisso insondabile di tempo ο spazio, fosse tornato in quell'istante nella sua dimora mortale. Raccolse le carte in un mucchio e le consegnò a Corund. «Troppe cose sono affidate a queste,» disse. «Chi possiede molti piselli può metterne di più nella pentola. Ma ormai si avvicina il giorno in cui io e Juss dobbiamo regolare i nostri conti, e uno ο tutti saranno condotti alla morte ed alla rovina.» Poi si alzò dalla sedia e guardò i suoi due Capitani, valorosi uomini di guerra da lui elevati al rango di sovrani di due quarti del mondo, ed essi lo guardarono come uccellini sotto gli occhi di un serpente. «Il terreno qui intorno,» disse il Re, «non è adatto alla cavalleria, e i Demoni sono abili cavalieri. Carce è solidissima, e non potrà mai essere presa con un assalto. Inoltre, davanti ai miei occhi, gli uomini di Witchland promettono di compiere imprese straordinarie. Quindi, resisteremo qui a Carce, finché il giovane Heming non tornerà con gli uomini raccolti a Pixyland. Allora ci avventeremo su di loro e non smetteremo prima di aver purificato definitivamente la terra dalla loro presenza, e di aver ucciso tutti i Signori di Demonland.» «Ascoltarti è obbedire, ο Re!», disse Corinius. «Comunque, ad essere sincero con te, avrei preferito affrontarli subito, piuttosto che lasciar loro il tempo di riposare e ritemprarsi. Le occasioni sono come fanciulle capricciose, leste a circuire un altro uomo se uno le guarda con freddezza. Per di più, Signore, non potresti con le tue Arti, in poco tempo, e con certe combinazioni...?» Ma il Re lo interruppe, dicendo: «Non sai di cosa parli. Questa è la tua spada, questi sono i tuoi uomini, e questi sono i miei ordini. Preoccupati di eseguire tutto a puntino quando verrà il momento.» «Signore,» disse Corinius, «vedrai che non ti deluderò.» Dopodiché gli rese omaggio e si allontanò. Il Re si rivolse a Corund. «Hai ammansito bene il tuo astore (2). C'era il pericolo che non gradisse essere soggetto a te in queste imprese di guerra, e che potesse alimentare una disputa che avrebbe influito negativamente sulle nostre azioni.» «Non pensarci, ο Re,» rispose Corund. «È stato così per gli anni passati, ma adesso non mangia più nella mia mano.» «Perché con lui ti sei comportato in maniera franca ed onorevole. Hai cominciato col piede giusto, ma ricordati che nella tua mano c'è la spada di
Witchland, e che in essa ripongo tutta la mia fiducia in quest'ora cruciale.» Corund guardò il Re con i suoi occhi grigi ed acuti che scintillavano come se stesse fissando quelli di un'aquila. Poi batté sulla mano il piatto della sua pesante spada e disse: «Questa è una volpe tenace, mio Signore; non deluderà il suo padrone.» Dopodiché, lieto degli elogi del Re, gli rese omaggio ed uscì dalla camera. Quella stessa notte, apparve sul cielo sovrastante Carce una stella fiammeggiante con due code. Corund la scorse in uno squarcio fra le nuvole mentre si recava nella sua camera. Non disse nulla alla moglie, per tema che ciò la turbasse, ma anche lei aveva visto la stella dalla sua finestra, e non ne parlò al suo Signore per la medesima ragione. Anche Re Gorice, seduto nella sua stanza tra i suoi malefici tomi, vide quella stella e le sue fiamme guizzanti, e fu una visione che non gradì. Infatti, sebbene non ne conoscesse con certezza il significato, appariva evidente ad uno così addentro alla Negromanzia ed ai segreti astronomici, che si trattava di un evento fatale, che rientrava nel novero di quei prodigi e presagi infausti che preludono alla tragica fine di persone nobili ed alla rovina delle nazioni. Il terzo giorno successivo, in un pallido mattino, le sentinelle, dalle mura di Carce, avvistarono, le armate dei Demoni che riempivano l'intera pianura a sud. Ma dei rinforzi da Pixyland non si vedeva alcun segno. Re Gorice, coerentemente con quello che aveva deciso, tenne tutti i suoi uomini tranquilli all'interno della fortezza. Ma, col passare del tempo, e poiché trovava piacevole l'idea di parlare faccia a faccia con Lord Juss prima che cominciasse quest'ultima sfida fatale fra loro, il Re mandò Cadarus come suo araldo, con la bandiera bianca ed i rami d'ulivo, fra le linee dei Demoni. In quell'incontro si concluse che i Demoni avrebbero ritirato il loro esercito a tre tiri d'arco dalle mura, e che quelli di Witchland sarebbero rimasti all'interno della fortezza. Solo il Re con quattordici dei suoi disarmati, e Juss con un identico numero di uomini anch'essi disarmati, si sarebbero portati al centro del terreno dove avrebbero tenuto un colloquio. L'incontro sarebbe avvenuto alla terza ora dopo mezzogiorno. Entrambi i gruppi giunsero al colloquio all'ora stabilita. Juss venne a capo scoperto ma, tranne questo, era completamente vestito con la sua cotta
di maglia con la gorgiera, le piastre sulle spalle damascate e riccamente coperte di fili d'oro, i gambali dorati, ed i bracciali d'oro ai polsi. La sua tunica era di seta, ed indossava quel mantello scuro che gli avevano cucito le silfidi, il cui colletto era ricamato ed ornato di strani animali realizzati con fili d'argento. Conformemente all'accordo non portava armi; recava solo in mano un piccolo scettro d'avorio intarsiato di pietre preziose, la cui estremità era una sfera di quella pietra che gli uomini chiamano Occhio di Belus, che è bianca ed ha all'interno un pomo nero, in mezzo al quale è distinguibile uno scintillio dorato. Rimase imperioso e fiero davanti al Re, con la testa eretta come quella di un cervo che annusa il mattino. I suoi fratelli e Brandoch Daha rimasero un paio di passi dietro di lui, con Re Gaslark ed i Signori Zigg, Gro, Melchar, Tharmrod, Styrkmir, Quazz coi suoi due figli, Astar e Bremery di Shaws: erano uomini splendidi e nobili a vedersi, tutti senza armi, e mirabile era lo scintillio dei gioielli che indossavano. Di fronte a loro, in compagnia del Re, c'erano: Corund Re di Impland, e Corinius che era stato proclamato Re di Demonland, Hacmon e Viglus, figli di Corund, il Duca Corsus con i suoi figli Decalajus e Gorius, Eulien Re di Mynia, Olis Signore di Tecapan, il Duca Avel di Estreganzia, il Foliot Rosso, Erp il Re di Ellien, ed i Conti di Thramne e Tzeusha; erano anche loro disarmati, ma vestiti con armature che arrivavano alla gola, corpulenti, vigorosi e di nobile portamento, ma nessuno che si potesse paragonare a Corinius ed a Corund. Il Re, nel suo mantello di pelle di cobra, con lo scettro in mano, sovrastava di mezza testa tutti gli altri uomini intorno a lui, sia amici che nemici. Torreggiava magro e scuro fra loro, come un pino colpito da un fulmine sullo sfondo del tramonto. Così, in quell'aureo pomeriggio autunnale, in mezzo a quella desolata distesa di carice dove fra gli argini limacciosi il Druima pieno di erbacce serpeggiava verso il mare, si fronteggiarono quei due uomini; la loro ambizione ed il loro orgoglio rendevano il mondo troppo piccolo per contenerli entrambi. Intanto, simile ad un antico drago assopito, rannicchiato, sinistro e mostruoso, la cittadella di Carce dominava tutto, immersa nel sonno. Il Re disse: «Ti ho chiesto di venire perché ritengo sia un bene che tu ed io parliamo quando c'è ancora tempo per parlare.» «Non ho niente da ridire su questo,» replicò Juss.
«Tu,» disse il Re, «sei un uomo saggio e impavido. Consiglio a te, ed a tutti costoro che sono con te, di andar via da Carce. Vedo bene che il sangue che hai bevuto a Melikaphkhaz non ha alleviato la tua sete, e che la guerra per te è come una perla od un'amante. Malgrado ciò, devi andartene da Carce. Ora sei al vertice delle tue ambizioni, se cerchi di fare un balzo per salire più in alto, cadrai nell'abisso. Lascia che i quattro angoli della terra siano scossi dalla nostra guerra, non il centro. Perché qui nessun uomo raccoglierà frutti, ma solo morte; ο forse quell'unico frutto, lo Zoacum, quel frutto amarissimo che, quando viene assaggiato, fa diventare tenebra tutte le luci splendenti del cielo e tutte le cose buone della terra cenere per tutti i giorni della vita, fino alla morte.» A questo punto fece una pausa. Lord Juss rimase immobile, per nulla intimidito da quello sguardo terribile, mentre i compagni alle sue spalle si agitavano e mormoravano. Lord Brandoch Daha, con l'ironia negli occhi, disse qualcosa sottovoce a Goldry Bluszco. Ma il Re si rivolse di nuovo a Lord Juss. «Non t'illudere! Non ti dico queste cose per cercare di distoglierti dal tuo proposito con storielle inventate per spaventare i bambini: conosco troppo bene il tuo valore. Ma ho letto dei segni nel cielo: anche se non sono chiari, sono comunque funesti sia per te che per me. Te lo dico per il tuo bene, Juss, e di nuovo (poiché il nostro ultimo colloquio lascerà l'impronta più indelebile) ti do questo consiglio: va via da Carce ο sarà troppo tardi!» Lord Juss ascoltò con attenzione le parole di Re Gorice e, quando questi ebbe terminato, rispose: «O Re, ci hai dato un buon consiglio, ma è troppo enigmatico. E, mentre ti ascoltavo, i miei occhi erano fissi sulla corona che porti, che ha la forma di un granchio (3) il quale, poiché guarda da una parte e si muove dall'altra, mi sembra che raffiguri perfettamente il tuo guardare ai nostri pericoli e cercare, nel contempo, il tuo vantaggio.» Il Re gli rivolse uno sguardo malevolo, dicendo: «Io sono il tuo Signore Supremo. Non sta bene che i sudditi si comportino in maniera così familiare col loro Re.» «Tu decidi per te e per me,» rispose Juss (4). «E, per la verità, sarebbe sciocco se uno di noi s'inginocchiasse davanti all'altro, quando la sovranità di tutta la terra è destinata a colui che vincerà nella nostra grande contesa. Tu sei stato franco con me nel farmi sapere che non sei ansioso di scendere in campo contro di noi, ma anch'io sarò franco, e ti farò un'offerta: noi ce ne andremo dalla tua terra e non compiremo altre azioni contro di te (a meno che tu non ci provochi ancora) e tu, per parte tua, rinuncerai a tutte le
pretese sulla terra di Demonland, di Pixyland e di Impland, e mi consegnerai i tuoi servi Corsus e Corinius in modo che io possa punirli per i misfatti da loro compiuti nella nostra terra, quando non eravamo là a difenderla.» Terminò. Per un lungo minuto si fissarono in silenzio, poi il Re sollevò il mento e fece un sinistro sorriso. Corinius gli sussurrò scherzosamente in un orecchio: «Signore, puoi tranquillamente consegnargli Corsus. Sarebbe una transazione semplice, e penso che a loro starebbe bene.» «Torna al tuo posto,» disse il Re, «e sta zitto!» E a Lord Juss disse: «La rovina che seguirà sarà colpa tua; perché ora sono deciso a non riporre la spada finché non potrò giocare a palla con la tua testa sanguinante. E adesso, che la terra tremi e Cynthia oscuri il suo splendore: non più parole, ma solo silenzio. Il tuono, il sangue e la notte usurpino i nostri ruoli, per completare e realizzare la catastrofe di questa grande rappresentazione!» Quella notte il Re andò avanti e indietro nella sua camera nella Torre di Ferro da solo. Negli ultimi tre anni di rado si era recato là, e di solito solo per prendere uno ο l'altro dei suoi libri da studiare nei suoi alloggi. Le giare, le fiasche e le bottiglie di vetro azzurro, verde e porpora nelle quali conservava le sue droghe maledette e gli elettuari (5) di composizione segreta, i suoi athal e athanor, i crogiuoli, le storte panciute, gli alambicchi ed i vassoi per le bagnomarie, stavano in fila sulle mensole coperte di polvere, dalle quali pendevano qua e là le opache tessiture dei ragni; la fornace era fredda; i vetri delle finestre erano offuscati dal sudiciume; le pareti erano coperte di muffa; l'aria nella camera era stagnante e sapeva di chiuso. Il Re era immerso nelle sue meditazioni, con un grosso libro nero aperto davanti a lui sul leggio esagonale: era il più malefico di tutti i suoi libri, lo stesso che gli aveva suggerito, in precedenza, cosa avrebbe dovuto fare quando, col potere perverso dell'Incantesimo, avesse voluto provocare la morte e la rovina di Demonland e di tutti i suoi Signori. La pagina aperta sotto la sua mano era di pergamena scolorita dal tempo, e quanto vi era scritto era in antiquati caratteri contorti, ampollosi e neri; le grandi iniziali ed i margini miniati erano dipinti e dorati con tinte scure ed intense, e raffiguravano volti spaventosi, forme serpentine, uomini con le facce di rospo, scimmie, manticore, succubi ed incubi (6), rappresentazioni oscene e forme di illecito significato. Erano queste le parole sulla pagina che il Re esaminò più volte, riim-
mergendosi in una profonda meditazione ad ogni intervallo, e poi studiando ancora le parole dell'antico scritto profetico che si riferiva al destino della Casa Reale di Gorice a Carce: Così la tua Casa sarà Fino all'eternità Ma lenta camminerà Sapendo in realtà Che se con empietà Quando un nuovo corpo avrà La magia praticherà. Uno di voi preso sarà Dai Diavoli con viltà; La vita perderà E la serie spezzerà. Dannato per l'eternità La terra mai più ti vedrà; Neanche un Dio ti libererà Nell'Inferno starai là Fino all'Eternità Come una stella detto mi ha. Poi Re Gorice si alzò ed andò alla finestra meridionale. I chiavistelli dei battenti erano arrugginiti: li forzò ed essi scivolarono indietro con un cigolio, un fracasso ed una sottile pioggia di polvere e frammenti di metallo. Aprì la finestra e guardò fuori: la notte plumbea stava giungendo all'apice del suo silenzio. C'erano luci lontane sulla palude, le luci dei fuochi dell'accampamento di Lord Juss, e del suo esercito ammassato di fronte a Carce. Difficilmente un uomo all'esterno avrebbe potuto guardare il Re alla finestra senza provare un brivido; infatti, in quell'alta e scarna figura, c'era qualcosa di metallico come se non fosse fatta di carne e sangue ma di qualche sostanza ben più fredda, e la sua espressione, come l'immagine di una divinità oscura scolpita ere prima da uomini morti da lungo tempo, recava l'impronta di quelle caratteristiche ataviche di potere implacabile, disprezzo, violenza e tirannia, antiche come la notte stessa eppure non sfiorate dal tempo, giovani come ogni notte quando essa cala, e vecchie ed elementali come le tenebre primordiali.
Rimase là a lungo, poi andò di nuovo al suo libro. «Gorice VII,» mormorò fra sé e sé, «lo ha fatto una sola volta, ed io ho fatto meglio di lui, ma non abbastanza. È troppo rischioso, la seconda volta, da solo. Corund è un uomo intrepido in guerra, ma è troppo superstizioso e trema davanti a qualsiasi cosa che non sia di carne e sangue. Le apparizioni di Elfi e Folletti lo privano quasi completamente del coraggio. Corinius non teme né Dei né uomini, ma è troppo avventato ed irriflessivo: sarei pazzo a fidarmi di lui! Se il Goblin fosse qui, sarebbe stato tutto più semplice, ma quel dannato furfante voltagabbana mi ha abbandonato!» Scrutò la pagina come se i suoi occhi acuti avessero potuto penetrare le barriere del tempo e della morte e scoprire nuovi significati nelle parole, come se sarebbero riusciti ad adattarsi meglio a quella cosa che la sua mente desiderava ma che il suo giudizio rifiutava. «Dice "dannato per l'eternità", dice che spezza la serie, e che "la terra mai più ti vedrà". Lasciamo perdere.» Quindi il Re chiuse lentamente il libro, lo serrò con tre lucchetti, e s'infilò la chiave nel farsetto. «Non è ancora necessario...», disse. «La spada deve avere la sua opportunità, per cui Corund l'avrà. Ma se essa mi tradirà, allora non mi tirerò indietro, e farò ciò che devo fare.» Nello stesso momento in cui il Re rientrava nei suoi alloggi, giunse un messo di Heming il quale riferì che questi, forte di millecinquecento uomini, era partito da Pixyland e marciava lungo la Strada dei Re. Inoltre, la flotta dei Demoni quella notte si era ormeggiata nel fiume, e non era improbabile che l'attacco avesse luogo la mattina dopo da terra e dall'acqua. Il Re rimase seduto per tutta la notte nella sua camera tenendo consiglio coi suoi Generali e dando tutte le disposizioni per il mattino dopo. Per tutta la notte non chiuse gli occhi per un solo istante, ma fece andare a dormire gli altri a turno affinché potessero essere svegli e pronti per la battaglia. Questo fu deciso: di far uscire l'intera armata sull'argine sinistro davanti al ponte e là ingaggiare battaglia coi Demoni allo spuntar del giorno. Infatti, se fossero rimasti dentro ed avessero permesso ai Demoni di tagliare la strada ad Heming prima del ponte, allora lui sarebbe stato perduto, e se la guardiola sul ponte fosse caduta in mano al nemico ed il ponte con essa, i Demoni avrebbero potuto agevolmente imbarcare tutti gli uomini necessari per poterli traghettare sull'argine destro, e da lì assalire Carce. Di un attacco sull'argine destro non avevano paura, ben sapendo di avere la possibilità di starsene rintanati e di ridersene di loro, dal momento che le mura là erano inespugnabili. Ma, se la battaglia fosse stata ingaggiata davanti al ponte come essi avevano intenzione di fare, ed Heming fosse en-
trato in combattimento da est, c'era una discreta speranza che sarebbero stati in grado di schiacciare i Demoni, spingendoli verso il centro da ovest, mentre Heming li avrebbe assaliti dall'altra parte. Grazie a questo, sarebbero stati gettati in una grande confusione e non avrebbero potuto fuggire sulle loro navi, ma là, sulle paludi davanti a Carce, sarebbero stati facile preda delle Streghe. Quando giunse l'ultima, fredda ora prima dell'alba, i Generali ricevettero dal Re i loro ultimi ordini prima di condurre fuori i loro armati. Corinius uscì per primo dalla camera del Re poco prima degli altri. Nel corridoio ventilato le lampade oscillavano ed emettevano fumo, creando una luce incerta e ondeggiante, ed in quel baluginare incerto, scorse sul pianerottolo Lady Sriva, che sembrava essere in attesa di salutare il padre ο solo per oziosa curiosità. Qualunque fosse la ragione, lui non ci pensò minimamente ma, raggiuntala lestamente, la trascinò in una nicchia dove la luce era appena sufficiente a consentirgli di vedere il pallido scintillio del suo vestito di seta, i capelli neri raccolti frettolosamente con gli spilloni in grosse ciocche sinuose, e gli occhi scuri e splendenti. «Mia astuta ingannatrice, ti ho presa! No, non resistermi. Il tuo respiro profuma di cinnamomo. Baciami, Sriva!» «No!», disse lei, divincolandosi per sfuggirgli. «Furfante, devo essere trattata così?» Ma, accorgendosi che non otteneva nulla, gli disse sottovoce: «Bene, se stanotte sconfiggerai Demonland, non ci saranno altre discussioni.» «Senti questa brutta traditrice!», disse lui. «Solo la notte scorsa mi ha fatto un'incivilissima scortesia, e adesso mi parla con gentilezza: e perché diavolo poi? Solo perché ha la sensazione che non tornerò dalla battaglia di oggi. Ma io tornerò, Signora dei baci fugaci; sì, per gli Dei, ed avrò la mia ricompensa!» Le sue labbra si nutrirono avidamente di quelle di lei, e le sue mani forti la sottomisero con dolcezza contro la volontà della donna finché, con un piccolo grido soffocato, lei lo abbracciò, stringendo il suo corpo morbido contro l'armatura che lo rivestiva. Fra i baci, Sriva gli sussurrò: «Sì, sì, stanotte!» Di certo egli maledisse la sfortuna che non aveva fatto avvenire quell'incontro mezzora prima. Quando lui andò via, Sriva rimase nell'ombra della nicchia per rimettersi in ordine i capelli e l'abito, scompigliatisi non poco in quell'ardente corteggiamento. Protetta da quel buio, ebbe la possibilità di osservare il commiato di Lady Prezmyra dal suo Signore mentre scendevano il tortuoso
corridoio e si fermavano in cima alle scale. Prezmyra aveva un braccio sotto quello del marito. «So dove il Diavolo tiene la sua coda, Signora,» disse Corund. «E so riconoscere un vero traditore quando lo vedo.» «Mio Signore, quando mai ti sei trovato male nel seguire un mio consiglio?», disse Prezmyra. «Oppure ti ho mai rifiutato qualcosa che tu mi hai chiesto? Durante questi sette anni ti ho dedicato la mia giovinezza. Venti Re mi avevano chiesto in moglie, ma ho preferito te a tutti, sapendo che il falcone non può unirsi ad un pappagallo né un'aquila ad un cigno, ο ad un'ottarda. E tu vuoi negarmi questo?» Si voltò per guardarlo. Le pupille dei suoi grandi occhi erano dilatate nella luce incerta delle lampade, ed annegavano le loro scintille verdi in profonde pozze di mistero e di tenebra. I ricchi e fastosi ornamenti della corona e della cintura sembravano soltanto un misero scrigno di fronte agli elementi della sua incomparabile bellezza: il volto, dove ogni più dolce qualità ed ogni cosa desiderabile della terra ο del cielo avevano dato forma ai lineamenti; la magnificenza dei suoi capelli, simili allo splendore del rosso sole; ed infine il portamento e la postura dell'intero corpo, simile a quello di un superbo volatile appena posatosi dopo il volo. «Anche se mi costa molto,» disse Corund, «posso dirti di no questa volta? Non questa volta, mia Regina.» «Grazie, mio Signore. Disarma Gro e portalo qui se puoi. Il Re non ci negherà il favore di perdonare la sua follia, quando avrai ottenuto per lui la vittoria sui nostri nemici.» Lady Sriva non riuscì ad udire altro, sebbene non avesse mai teso l'orecchio con tanta curiosità. Ma, quando furono ai piedi della scalinata, Corund si fermò un minuto per verificare le fibbie della sua armatura. La sua fronte era offuscata. Alla fine parlò. «Questa sarà una battaglia fatale e spaventosa per entrambe le parti. Contro avversari potenti come quelli che abbiamo, è anche possibile che non ci vediamo più. Baciami, cara. E se... ma no, non sarà così! Eppure, non ti lascerò senza dirtelo: se capiterà il peggio, non voglio che tu sprechi i tuoi giorni a piangermi. Tu sai che non sono uno di quegli individui acidi e invidiosi, che hanno un concetto così meschino di se stessi da non sopportare che le loro mogli possano sposarsi di nuovo per timore che il secondo marito possa rivelarsi migliore di loro.» Ma Prezmyra gli si avvicinò con un'espressione affettuosa ed allegra: «Permetti che io ti chiuda la bocca, mio Signore. Questi sono pensieri stupidi per un grande Re che sta andando a combattere. Torna vincitore, e nel
frattempo pensa a me che ti aspetto: come si aspetta una stella, mio Signore. E non avere dubbi sull'esito finale.» «L'esito,» rispose lui, «te lo dirò quando tutto sarà concluso. Non sono un astronomo. La mia spada taglierà ed ucciderà, amor mio e, se potrò, vanificherò la loro presunzione.» «Buona fortuna e il mio amore sia con te!», lo salutò la donna. Sriva, uscendo dal suo nascondiglio, si affrettò verso l'alloggio della madre, e la trovò là col volto gonfio di lacrime, che aveva appena salutato i due figli. Nello stesso istante il Duca suo marito venne a cambiare la spada, e Lady Zenambria gli cinse il collo con le braccia e fece per baciarlo. Ma Corsus se la scrollò di dosso, gridando che era stanco di lei e della sua bocca sbavante, e la minacciò inoltre, con sordide imprecazioni, di trascinarla con sé e di gettarla dai Demoni i quali, dal momento che provavano grande ripugnanza per donne così brutte e vecchie, l'avrebbero di certo impiccata ο sventrata, liberandolo da quella interminabile afflizione. Dopodiché, uscì con passo frettoloso, ma sua moglie e sua figlia, piangendo l'una sulla spalla dell'altra, scesero nel cortile, con l'intenzione di salire sulla torre sopra la porta principale per vedere l'armata che attraversava a passo di marcia il fiume. E, mentre vi si recavano, Sriva riferì tutto ciò che aveva sentito dire da Corund e Prezmyra. Nel cortile incontrarono proprio Prezmyra, la quale, camminando con espressione allegra, passo leggero e canticchiando un motivetto, augurò loro il buongiorno. «Vedo che riesci a sopportare queste cose più coraggiosamente di noi, Signora,» disse Zenambria. «Noi siamo troppo miti e compassionevoli, credo.» «È vero, Signora,» replicò Prezmyra. «Non ho la debolezza di voi, Dame piagnucolanti! E, col vostro permesso, conserverò le lacrime (che inoltre sono così nocive alle guance) per quando saranno necessarie.» Quando furono passate oltre, Sriva disse: «Non è una sfacciata dal cuore di pietra, madre mia? E non sono scandalose le sue risate e le sue ironie? Come ti ho detto, quando lo ha salutato, ha solo pensato a come fare per indurlo a salvare la vita di quel cane traditore.» «Col quale,» disse Zenambria, «è solita fare quella cosa che mi vergogno di dire. Davvero questa straniera - col suo comportamento licenzioso ed impudico - getta discredito su tutti noi.» Ma Prezmyra proseguì per la sua strada, lieta che nessun tremito delle palpebre avesse consentito al suo Signore di comprendere quale terrore
possedesse la sua mente, dal momento che per tutta quella triste notte aveva avuto visioni strane e crudeli che presagivano la perdita e la rovina di tutto ciò che le era caro. Quando venne l'alba, l'intero esercito del Re era schierato per la battaglia davanti alla guardiola del ponte. Corinius aveva il comando dell'ala sinistra. Lo seguivano millecinquecento uomini scelti di Witchland, coi Duchi di Trace ed Estreganzia, oltre ai seguenti Re e Principi coi loro contingenti stranieri: il Re di Mynia, il Conte Escobrine di Tzeusha, e il Foliot Rosso. Corsus guidava il centro, e con lui erano Re Erp di Ellien ed i suoi frombolieri dalle cotte verdi, il Re di Nevria, Axtacus, Signore di Permio, il Re di Gilta, Olis di Tecapan, ed altri Capitani: millesettecento uomini in tutto. Lord Corund aveva scelto per sé l'ala destra. Duemila uomini di Witchland, i migliori, temprati dalle guerre in Impland, in Demonland ed ai confini sud-orientali, seguivano il suo Vessillo, oltre ai lancieri di Baltary ed agli spadaccini di Buteny e Ar. Viglus suo figlio era là, col Conte di Thramne, Cadarus, Didarus di Largos, ed il Signore di Estremerine. Ma, quando i Demoni si accorsero di quel grande esercito disposto davanti al ponte, si schierarono anch'essi per la battaglia, e le loro navi si prepararono a risalire il fiume fin sotto Carce, in modo da poter attaccare il ponte dall'acqua e tagliare alle Streghe la via della ritirata. C'era un sole basso e splendente, e lo scintillio delle armature ingioiellate dei Demoni, delle loro tuniche multicolori e delle piume sugli elmi era una meraviglia a vedersi. Il loro ordine di battaglia era questo. A sinistra, in prossimità del fiume, c'era una grande compagnia di cavalieri, e Lord Brandoch Dalia li guidava su un grosso bigio dorato dagli occhi fieri. I suoi uomini delle Isole, Melchar e Tharmrod, con Kamerar di Stropardon e Strykmir e Stypmar, erano i Comandanti che cavalcavano al suo fianco. Accanto a questi venivano le truppe pesanti dell'est, e Lord Juss stesso era alla loro testa su un sauro poderoso e scalpitante. Intorno a lui c'era la sua Guardia del Corpo di cavalieri, con Bremery di Shaws al comando. Con lui c'erano anche questi Comandanti: Astar di Rettray, Gismor Gleam di Justdale e Peridor di Shule. Lord Spitfire comandava il centro, e con lui c'erano Fendor di Shalgreth, Emeron, e gli uomini di Dalney, temibili lancieri; inoltre c'era il Duca di Azumel, a volte alleato di Witchland. C'era anche Lord Gro, che continuava a scrutare quelle mura poderose col cuore gonfio, e pensava al grande Re chiuso dentro di esse, che con
straordinaria forza di volontà ed intelligenza governava quegli uomini turbolenti e sanguinari che aveva in pugno. E pensava alla Regina Prezmyra... Nella sua fantasia morbosa, le tenebre di Carce, che nessuna luce intensa del mattino avrebbe potuto illuminare, non sembravano come un tempo l'immagine e l'emblema della Casa Reale di Witchland e della sua magnificenza e del suo potere sulla terra, ma piuttosto l'ombra proiettata dal destino e dalla morte pronti ad abbattere quel potere per sempre. Che ciò si fosse verificato ο no, non era cosa che lo riguardava molto, essendo consapevole delle ansie e dei desideri irrefrenabili della vita, che pensava di aver imparato fin troppo: perché a lui che, come sembrava, doveva ancora unirsi ai nemici dopo aver abbandonato gli altri, la fortuna di sopravvivere ai colpi infertigli non avrebbe portato finalmente la pace. A destra dei Demoni, Lord Goldry Bluszco faceva sventolare i suoi stendardi, guidando in battaglia gli uomini provenienti dagli Estuari del sud ed i lancieri di Mardardale e Throwater. Con lui c'era Re Gaslark e la sua armata di Goblinland, nonché i contingenti da Ojedia ed Eushtlan, che di recente avevano rotto la loro alleanza con Re Gorice. Lord Zigg, con la sua cavalleria leggera di Rammerick, Kelialand e delle valli del nord, copriva il loro fianco ad est (7). Re Gorice osservava le posizioni dalla sua torre sopra la porta principale. Vide, inoltre, una cosa che i Demoni non potevano vedere dal basso, a causa di un piccolo rigonfiamento del suolo che ostacolava la vista: uomini in marcia lungo la Strada dei Re da est: era il giovane Heming con gli uomini dei Vassalli di Pixyland e Maltraeny. Mandò un uomo fidato ad avvertire Corund di questo. Lord Juss fece suonare la tromba della battaglia e, con un forte squillo, le schiere dei Demoni si lanciarono avanti per combattere. Il cozzo delle armate quando si scontrarono davanti a Carce fu come l'esplosione di una nube temporalesca ma, come una grande scogliera che pazientemente, per ere, sopporta la furia dei venti tempestosi, e che un fragoroso vento notturno ed i frangenti non possono logorare, l'esercito di Witchland sostenne l'assalto, si mescolò al nemico, poi lo respinse e mantenne la sua posizione. Le schiere di Corund dovettero reggere il carico più pesante di questo primo scontro, e lo fecero nel migliore dei modi. Infatti le navi, col giovane Hesper Golthring al comando che le spronava con accanimento, risalirono il fiume per forzare il ponte, a Corund, mentre subiva sul suo fronte l'assalto delle forze migliori di Demonland, doveva anche essere bersaglia-
to da queste. Hacmon e Viglus, i Principi suoi figli, erano stati incaricati di sorvegliare il ponte e le mura per bruciare e fare a pezzi le navi, ed essi, attaccandoli da tutte le parti, respinsero i Demoni che avevano messo piede sul ponte finché, dopo un lungo e cruento combattimento che si concluse fatalmente per Hesper ed i suoi, le navi furono tutte incendiate e la maggior parte degli uomini finirono bruciati, annegati, ο passati a fil di spada. Hasper stesso, coperto di innumerevoli e gravi ferite, rimasto solo sul ponte nell'ultimo assalto, cercò di strisciare via ma fu trafitto da un pugnale e morì. Le navi allora si ritirarono sul fiume, almeno quelle che furono in grado di farlo, ed i figli di Corund, avendo portato valorosamente a termine il loro incarico, si lanciarono coi loro uomini nel pieno della battaglia. Il fumo delle navi in fiamme era come incenso per le narici del Re che osservava questi avvenimenti dalla sua torre sopra la porta principale. Ci fu una breve pausa fra questo primo scontro ed il successivo, poiché adesso Heming sopraggiunse da est, assalì i cavalieri di Zigg che erano ostacolati nei movimenti dal terreno pesante, e si spinse contro il fianco destro dei Demoni. Lungo l'intera linea, dalla postazione di Corund vicino al fiume fino al fianco orientale dove Heming si congiunse a Corinius, le Streghe si avventarono con grande impeto: ora il vantaggio numerico, che prima era a loro sfavore, era tornato sensibilmente dalla loro parte e, sotto questo potente colpo al fianco, né tutta la perizia militare di Lord Goldry Bluszco né tutto il terrore ispirato dalla sua abilità con le armi, poterono sostenere la linea di battaglia dei Demoni. Iarda dopo iarda, essi arretrarono davanti alle Streghe, riuscendo valorosamente a mantenere intatto lo schieramento, anche se gli alleati stranieri cedettero e fuggirono. Nel frattempo, sulla sinistra dei Demoni, Juss e Brandoch Dalia resistevano tenacemente all'assalto, sebbene si trovassero ad affrontare le truppe scelte di Witchland. In quel combattimento si verificò la più spaventosa carneficina di quel giorno, e lo scontro fu così selvaggio e mortale che fu difficile capire come qualcuno fosse stato in grado di uscirne vivo, dal momento che nessun uomo di entrambe le parti avrebbe potuto indietreggiare di un pollice senza morire, se non avesse prima ucciso il nemico che aveva di fronte. Così le armate si fronteggiavano per un'ora come lottatori in gabbia ma, alla fine, Lord Corund ebbe la meglio, e rimase padrone del terreno davanti al ponte. Romenard di Dalney, raggiungendo al galoppo Lord Juss che si era fer-
mato ansimando per la violenza dello scontro, gli riferì per ordine di Spitfire ciò che era accaduto all'ala destra. Goldry non avrebbe potuto resistere oltre con quello svantaggio numerico; il centro teneva ancora, ma non avrebbe resistito al prossimo assalto, oppure l'ala destra sarebbe stata spinta contro la retroguardia e schiacciata. «Se tu, Signore, non riesci a respingere Corund, tutto è perduto!», esclamò. In quei pochi minuti di calma (se si poteva definire calma, dal momento che la battaglia continuava a rombare come un mare fragoroso, con lo strepito incessante dei cavalli al galoppo, delle uccisioni e del clangore delle armi), Juss fece la sua scelta. Demonland e il destino del mondo intero dipendevano dalla sua decisione. Non aveva consiglieri, né tempo per riflettere con calma. In un momento del genere l'immaginazione, la risolutezza, la rapidità di decisione, tutte le più alte doti di natura, erano niente: erano come dei cavalli veloci inghiottiti e persi nell'abisso che il destino avverso aveva scavato davanti a loro. Solo quella conoscenza sofferta, accumulata pazientemente in anni di esperienza, avrebbe potuto tracciare una strada sicura e sgombra per quegli zoccoli agili che li avrebbero sostenuti in quell'ora fatale. Era stato sempre così per i grandi condottieri, e così fu per Lord Juss nell'ora in cui la rovina calava sulle sue armate. Rimase silenzioso per due minuti, poi mandò Bremery di Shaws al galoppo ad ovest, a rotta di collo, coi suoi ordini per Brandoch Daha, e Romenard ad est, di nuovo da Spitfire. E lui stesso cavalcò fra i soldati gridando con voce simile ad una tromba squillante, che dovevano tenersi pronti per la prova più dura di tutte. «È forse diventato pazzo mio cugino?», disse Lord Brandoch Daha, quando ascoltò e comprese la natura degli ordini. «O ha trovato Corund così mansueto da poter fare a meno di me e di quasi la metà della sua forza, riuscendo ugualmente a respingerlo?» «Vuole mollare la presa,» rispose Bremery, «per salvare noi tutti. È disperato, ma tutte le altre strade ci porterebbero solo alla distruzione. La nostra ala destra è stata completamente respinta, e la sinistra tiene a malapena le posizioni. Lui ti incarica di rompere il loro centro, se puoi. Hanno fatto avanzare pericolosamente la loro sinistra, e questa è un'insidia per loro se saremo abbastanza rapidi. Ma ricorda che qui, da questo lato, hanno il grosso delle loro forze e, se saremo sopraffatti prima che tu possa aggirare...» «Basta con gli indugi!», esclamò Lord Brandoch Daha. «Il tempo galoppa: e noi dobbiamo fare lo stesso!»
Proprio in quel momento, quando Goldry e Zigg, cedendo terreno passo dopo passo davanti alle forze preponderanti del nemico, venivano quasi spinti con le spalle al fiume, Corund, alla sinistra dei Demoni, dopo un aspro combattimento conteneva la loro avanzata e li respingeva, minacciando di portare a termine con un unico grande assalto il loro totale annientamento. Juss, ricorrendo ad un disperato espediente per affrontare un pericolo che altrimenti li avrebbe distrutti, indebolì la sua folta ala sinistra per mandare Brandoch Daha e circa ottocento cavalieri nella zona di Spitfire, affinché formassero un cuneo fra Corsus e Corinius. Mezzogiorno era trascorso da parecchio. La tempesta della battaglia che si era acquietata per un po', aveva preso di nuovo a ruggire da una parte all'altra, quando Brandoch Daha spinse i suoi cavalieri su Corsus e gli alleati, mentre lungo l'intero fronte del combattimento i Demoni si riprendevano per respingere il nemico. Per un breve intervallo di tempo carico d'ansia, l'esito fu incerto: poi gli uomini di Gilta e Nevria cedettero e fuggirono, e Brandoch Daha con la sua cavalleria s'insinuò nel varco, lanciandosi a destra ed a sinistra ed assalendo Corsus e Corinius ai fianchi ed alle spalle. In questo assalto caddero Axtacus, Signore di Permio, i Re di Ellien e Gilta, Gorius figlio di Corsus, il Conte di Tzeisha, e molti altri gentiluomini e notabili. Dei Demoni parecchi rimasero feriti e uccisi, ma nessuno di rilievo tranne Kamerar di Stropardon, la cui testa Corinius staccò di netto con un colpo della sua ascia, e Trentmar, che Corsus colpì in pieno stomaco con un giavellotto facendolo cadere dal cavallo e che morì subito. Tutta la sinistra ed il centro delle Streghe furono gettati nella più grande confusione, e gli alleati, in preda al disordine, furono costretti ad arrendersi e ad implorare pietà. Il Re, rendendosi conto della portata del disastro, mandò un Aiutante di Campo a Corund, che fece immediatamente recapitare a Corsus ed a Corinius l'ordine di rientrare a tutta velocità coi loro uomini a Carce, finché potevano. Egli stesso, nel frattempo, manifestando come il sole il suo migliore aspetto nella bassa estate, si avviò col suo contingente esausto per arginare l'avanzata di Juss, che adesso stava raccogliendo forze fresche contro di lui, e per tenere sgombra per le restanti forze del Re la strada che attraverso il ponte conduceva a Carce. Corinius, quando ebbe compreso, galoppò fin là con un gruppo di uomini per aiutare Corund, e così fecero Heming, Dekalajus ed altri Capitani delle Streghe. Ma Corsus, considerando la battaglia perduta ed il fatto che era vecchio e aveva combattuto abbastanza, rientrò di nascosto e Carce più
rapidamente che poteva. E, per la verità, stava perdendo sangue da molte ferite. Grazie alla grande resistenza di Corund e dei suoi uomini, fu possibile a gran parte dei superstiti dell'armata rifugiarsi dentro Carce. E, più le Streghe venivano respinte e perdevano terreno, più Lord Corund col suo valore ed il suo nobile coraggio confortava i suoi. Arretravano con grande lentezza, disputando il terreno piede dopo piede fino al ponte, cosicché furono in grado di rientrare in parecchi. Juss disse: «Questo è il più grande fatto d'armi che abbia mai visto nei giorni della mia vita, e nutro tale ammirazione e meraviglia per Corund che vorrei quasi concedergli la pace. Ma ho giurato che non avrei mai fatto pace con Witchland.» Lord Gro in quella battaglia era coi Demoni. Trapassò con la spada il collo di Didarus, che cadde a terra morto. Corund, quando lo vide, sollevò l'ascia, ma cambiò idea mentre compiva il gesto, dicendo: «O sentina d'iniquità, uccidi gli uomini della mia Casata davanti ai miei occhi? Non voglio essere amico di una banderuola. Vivi, da quel traditore che sei!» Gro, sconvolto da quelle parole, e fissando Corund con gli occhi spalancati come un uomo risvegliatosi da un sogno, rispose: «Ho dunque sbagliato? Ma a questo c'è rimedio.» Dopodiché si voltò ed uccise un uomo di Demonland. Vedendo questo, Spitfire rivolse un grido di rabbia a Gro, chiamandolo sporco traditore e, caricandolo selvaggiamente, gli tirò un fendente che gli recise la cinghia dell'elmo e gli sfondò il cranio. Così, per una repentina vendetta, miseramente si conclusero i giorni di Lord Gro il quale, essendo un filosofo ed un uomo di pace indifferente alle cose terrene, aveva seguito e osservato per l'intera esistenza un'unica stella del cielo; eppure adesso, in quella sanguinosa battaglia davanti a Carce, era morto, secondo la comune opinione degli uomini, come traditore e spergiuro, ed aveva ottenuto la ricompensa per i suoi inganni. Juss sopraggiunse in quel momento con una grande moltitudine di uomini armati, sul suo cavallo, con la spada che ancora stillava sangue, e la battaglia riprese con strepito e furia maggiori. Ci fu un grande massacro, e molti uomini di Witchland caddero in quello scontro, e i Demoni riuscirono quasi a scalzare i nemici dalla loro posizione davanti al ponte. Ma Lord Corund, radunando i suoi, respinse di nuovo la marea del nemico, sebbene si trovasse in grave inferiorità numerica. In quel mortale corpo a corpo, egli continuò a cercare Juss e, quando lo vide, non si ritirò
ma lo affrontò con impeto ancora maggiore. Per un po' si scambiarono dei colpi tremendi, finché Corund non spezzò in due lo scudo di Juss e lo scaraventò giù dal cavallo. Ma Juss, balzato di nuovo in piedi, tirò a Corund un fendente con la spada e, con la violenza del colpo, gli sfondò gli anelli della cotta di maglia e gli conficcò la spada nel petto. Corund crollò a terra battendo l'elmo con forza, e giacque privo di sensi. La battaglia infuriava ancora intorno all'imbocco del ponte, e gravi perdite furono inferte e subite da entrambe le parti. Ma i figli di Corund videro che il loro padre aveva perso molto sangue e diventava sempre più debole e, poiché anche gli altri lo videro e si accorsero di essere rimasti in pochi contro tanti, cominciarono a scoraggiarsi. Allora i figli di Corund, lo raggiunsero al galoppo da entrambi i lati con un gruppo di uomini, e lo condussero con loro dentro Carce attraverso la porta, cosa che egli fece come se fosse frastornato ed inconsapevole di ciò che stava facendo. E suscitò davvero molto stupore il fatto che un così grande Signore, ferito a morte, riuscisse ancora a stare a cavallo. Una volta nel cortile, fu tirato giù dalla sella. Lady Prezmyra, quando si avvide che la sua armatura era tutta rossa di sangue, e vide la ferita, non crollò a terra svenuta come avrebbe fatto qualsiasi altra donna, ma si mise il braccio di lui intorno alla spalla e così lo sorresse, coi figliastri che la aiutavano: quel fisico poderoso che fino a quel momento lo aveva sorretto contro l'esercito di un mondo intero, adesso non era più in grado di reggerlo. Arrivarono dei cerusici che lei aveva mandato a chiamare con una lettiga, e lo trasportarono nella sala dei banchetti. Ma, dopo non molto tempo, quegli uomini esperti dovettero confessare che la ferita era mortale, e che tutte le loro conoscenze non potevano nulla. Al che, disdegnando di morire nel suo letto, e non sul campo combattendo contro il nemico, Lord Corund volle essere posto, completamente armato ed equipaggiato, con le macchie e la polvere della battaglia ancora su di lui, sul suo scranno, per attendere la morte. Heming, quando ciò fu fatto, andò a riferirlo al Re, che dalla torre sopra la porta osservava la fine della battaglia. I Demoni avevano occupato la guardiola sul ponte, ed il combattimento era finito. Gorice allora sedette sulla sua sedia guardando in basso il campo di battaglia, col mantello scuro avvolto intorno alle spalle. Si chinò e si appoggiò il mento sulla mano. Gli uomini della sua Guardia del Corpo - nove ο dieci - rimasero addossati l'uno all'altro a qualche iarda di distanza come se avessero paura di avvici-
narglisi. Quando Heming lo raggiunse, Gorice voltò lentamente la testa per guardarlo. Il sole basso e color sangue, sospeso sopra Tenemos, illuminava il volto del Re e, mentre Heming lo guardava, la paura s'impadronì di lui, cosicché non osò rivolgergli la parola, ma fece un inchino e si allontanò, tremando come uno che avesse visto cosa c'era dietro il velo. XXXII. LA FINE DI TUTTI I LORD DI WITCHLAND Del consiglio di guerra; e di come Lord Corsus, respinto dal Re, diresse i suoi pensieri verso altre cose; e dell'ultima evocazione fatta a Carce e dell'ultima libagione; e di come ancora una volta Lady Prezmyra parlò coi Signori di Demonland a Carce. Re Gorice tenne nella sua camera privata un Consiglio di Guerra all'indomani della battaglia davanti a Carce. Il mattino era coperto di nuvole bigie e, sebbene tutte le finestre fossero spalancate, l'aria stagnava nella stanza, come se fosse troppo pervasa dall'umore freddo e tetro che intasava gli organi vitali di quei Signori di Witchland come una droga soporifera, ο come se le stelle alitassero fra loro per una sventura ancora più grande. Erano pallide e tese le facce di quei Signori e, malgrado si sforzassero di assumere un'espressione fiera davanti al Re, il vigore e l'atteggiamento marziale che avevano il giorno prima erano chiaramente svaniti. Solo Corinius conservava parte della sua consueta vigoria e dignità, seduto con le mani sui fianchi di fronte al Re, la grossa mascella protesa in avanti e le narici dilatate. Aveva dormito male ο vegliato fino a tardi, perché i suoi occhi erano iniettati di sangue, ed il respiro che emettevano dalle narici era carico di vino. «Siamo in attesa di Corsus,» disse il Re. «Non gli è stato comunicato il mio ordine?» Dekalajus disse: «Signore, lo chiamerò un'altra volta. Temo che queste sventure gravino sulla sua mente e, col permesso della tua Maestà, devo dirti che è da ieri che non è più in sé.» «Fallo subito!», ordinò il Re, che aggiunse: «Dammi le tue carte, Corinius. Sei tu il mio Generale da quando Corund è morto. Vedrò cosa ci è
costata la giornata di ieri e cosa ci resta per schiacciare questi serpenti con la forza delle armi.» «Questi sono i numeri...» disse Corinius. «Soltanto tremilacinquecento uomini, e circa metà di loro con troppe ferite per poter fare qualcosa al di fuori di queste mura. Affrontare i Demoni in campo aperto significherebbe far conseguire loro una facile vittoria, dal momento che sono là davanti a Carce con quattromila soldati integri.» Il Re soffiò sdegnosamente attraverso le narici. «Chi ti ha informato della loro forza?», disse. «Sarebbe un azzardo anche attribuire loro un solo uomo in mano,» rispose Corinius. E Hacmon aggiunse: «O Re mio Signore, scommetterei la testa che sono di più. E non devi dimenticare che sono tutti gonfi di ardimento e orgoglio dopo la battaglia di ieri, mentre i nostri uomini...» «Voi figli di Corund,» disse il Re, calmo, interrompendolo e guardandolo minacciosamente «eravate solo ramoscelli dell'albero di vostro padre, ai quali, essendo stato esso abbattuto, non resta più virilità né linfa vitale, e che avvizziscono preda di un totale rimbambimento? Non tollererò che simili consigli da donnicciole siano pronunciati a Carce, e nemmeno pensati.» Corund intervenne: «Avevamo avuto informazioni sicure, ο Re, quando sbarcarono, che il grosso della loro armata era di seimila uomini; e, la scorsa notte, ho parlato io stesso con una ventina dei nostri ufficiali, ed abbiamo ottenuto notizie certe da alcuni Demoni catturati prima di passarli a fil di spada. Quando ti dico che Juss sta davanti a Carce con quattromila uomini, non sto gonfiando la verità. Le sue perdite ieri sono state soltanto una puntura di pulce rispetto alle nostre.» Il Re fece un secco assenso. Corinius proseguì: «Se potessimo riuscire ad ottenere aiuto dall'esterno di Carce - anche solo cinquecento lancieri per distogliere in parte la sua attenzione da noi - soltanto un ordine irrevocabile della tua Maestà mi impedirebbe di attaccarlo. Sarebbe pericoloso anche così, ma tu sai che non ho mai evitato di cogliere un frutto per paura delle spine. Fino a quel momento, tuttavia, solo un tuo ordine perentorio mi convincerebbe a tentare una sortita. So bene che sarebbe la mia fine, e la tua rovina, ο Re, nonché quella di tutta Witchland.» Il Re ascoltò con espressione impassibile, il labbro rasato atteggiato in qualche modo in un sogghigno, gli occhi socchiusi come quelli di un gatto accovacciato come una sfinge nel sole. Ma nessun sole splendeva in quella
camera dove si teneva il Consiglio. La cappa di piombo incombeva sempre più scura all'esterno, proprio mentre il mattino diventava mezzogiorno. «O Re mio Signore,» disse Heming, «manda me! Superare le loro sentinelle di notte non è un cosa impossibile. Fatto questo, potrò raccogliere un piccolo contingente di uomini, sufficiente per questa occasione, dovessi rastrellare i Sette Regni per metterlo assieme!» Mentre Heming parlava, la porta si aprì e il Duca Corsus entrò nella camera. Faceva pena a vedersi, con le guance più flosce e gli occhi più appannati del solito. Il suo volto era esangue, la sua grossa epa sembrava rimpicciolita, e le sue spalle erano ancora più ingobbite dal giorno prima. Avanzava con passo incerto, e la mano gli tremò quando spostò la sedia dal tavolo e si sedette di fronte al Re. Questi lo guardò per un po' in silenzio e, sotto quello sguardo, delle gocce di sudore spuntarono sulla fronte di Corsus ed il suo labbro inferiore si contrasse. «Abbiamo bisogno del tuo consiglio, Corsus,» disse il Re. «Le cose stanno così: dal momento che le stelle avverse hanno consegnato la vittoria ai Demoni ribelli nella battaglia di ieri, Juss ed i suoi fratelli ci fronteggiano con quattromila uomini, mentre io non ho nemmeno duemila soldati illesi dentro Carce. Corinius ci ritiene troppo deboli per rischiare una sortita a meno che non riusciamo ad escogitare un diversivo all'esterno. E questo (dopo la giornata di ieri) appare impensabile. Qui e a Melikaphkhaz abbiamo esaurito tutte le nostre forze, ed i sudditi-alleati non per amor nostro ma per paura e avidità si erano raccolti intorno al nostro Vessillo. Questi vermi adesso ci hanno abbandonati. Tuttavia, se non combattiamo, allora vuol dire che le nostre forze sono del tutto esaurite, e ai nostri nemici basterà sedersi davanti a Carce finché non saremo morti di fame. È una questione molto difficile e spinosa da risolvere.» «Difficile davvero, mio Signore!», disse Corsus. I suoi occhi girarono intorno al tavolo, evitando lo sguardo fisso che gli proveniva da sotto l'arcata della fronte di Re Gorice, e si posarono alla fine sullo splendore ingioiellato della corona di Witchland che stava sulla sua testa. «O Re,» disse, «tu mi chiedi un consiglio, ed io non ti dirò né Consiglierò nulla se non qualcosa da cui potrà venire del bene, per quanto possiamo aspettarci dalla situazione in cui ci troviamo. Infatti adesso la nostra grandezza è diventata pena, dolore ed avvilimento. Ed è facile riconoscerlo col senno di poi.» Fece una pausa, e la sua mandibola tentennò e fece uno scatto. «Continua a parlare,» disse il Re. «Stai balbettando e farfugliando come un'oca in preda ad una febbre malarica. Dimmi qual è il tuo suggerimen-
to.» «So che non lo accetterai,» disse Corsus, «perché noi di Witchland siamo sempre stati governati dalla roccia piuttosto che dal timore, e ti confesso che preferirei star zitto. Nessuno è mai stato accusato per essere rimasto in silenzio.» «Vuoi... non vuoi!», esclamò il Re. «Ma da dove hai preso questo aspetto da tazza di siero spruzzato di sangue (3)? Parla, ο mi farai andare in collera!» «Allora non biasimarmi...» disse Corsus. «Ho questa convinzione: che sia giunta l'ora in cui noi di Witchland dobbiamo assolutamente riconoscere la rovina nei nostri occhi ed ammettere di aver fatto l'ultimo tentativo, e perso tutto. I Demoni, come per nostra sventura abbiamo visto, sono invincibili in guerra. E, tuttavia, le loro menti sono troppo infarcite di sciocche fantasie sull'onore e la cortesia, e ciò può forse consentirci di usufruire della feccia ancora non spillata dal calice della nostra fortuna, se mettiamo da parte un orgoglio inopportuno e vediamo dov'è il nostro vantaggio.» «Ciarle, ciarle!», disse il Re. «Che io sia dannato se riesco a trovare un significato in queste chiacchiere! Qual è il consiglio che mi dai?» Corsus incontrò finalmente gli occhi del Re, e si irrigidì come per ricevere un colpo. «Di non gettare il mantello nel fuoco perché la tua casa sta bruciando, ο Re! Arrendiamoci a Juss e rimettiamoci a lui. Credimi: la stupida generosità di questi Demoni ci lascerà liberi, e potremo sopravvivere in tutta tranquillità.» Il Re si era leggermente proteso verso Corsus il quale, pur con la gola secca ma raccogliendo tutto il suo coraggio mentre parlava, aveva sconsideratamente espresso il suo consiglio di resa. Nessuno fra gli uomini guardò Corsus, ma tutti guardarono il Re e, per un minuto, non si udì nulla tranne i respiri in quella camera. Poi un soffio d'aria calda investì una finestra con un tonfo, ed il Re senza muovere la testa roteò il suo sguardo terribile avanti e indietro sui suoi sudditi, lentamente, fissandoli uno per uno. Poi disse: «Per chi di voi questo risulta un consiglio accettabile? Che parli e lo dica.» Tutti rimasero seduti senza profferire verbo. Il Re parlò di nuovo, dicendo: «Bene! Se quelli che fanno parte del mio Consiglio fossero stati dei vermi, stupidi, e col coraggio di un pidocchio come colui che ha parlato, mi sarei persuaso che Witchland è una pera molle, marcia dentro. Se così fosse stato, avrei subito ordinato la sortita e, per suo castigo e vostro disonore, sarebbe stato Corsus a guidarvi. E tutto sarebbe finito, prima che il
fetore della nostra vergogna potesse appestare la terra ed il cielo.» «Non mi stupisco, Signore, che tu mi biasimi,» disse Corsus. «Eppure ti prego di pensare a tutti quei Re che a Carce hanno coperto di ingiurie coloro che hanno avuto l'ardire di dare loro dei buoni consigli prima della disfatta. Anche se tu fossi un Semidio ο una Furia dell'abisso, non potresti con una resistenza ad oltranza liberarci da questa rete nella quale i Demoni ci hanno imprigionati. Non puoi continuare a tenere in vita le galline, ο Re! Vuoi spezzarmi in due perché ti sto pregando di accontentarti dei pulcini?» Corinius colpì il tavolo col pugno. «Verme schifoso!», gridò. «Tu sei stato scottato, e noi dovremmo aver paura dell'acqua fredda?» Ma il Re si alzò in tutta la sua maestà, e Corsus si rannicchiò sotto la fiamma della sua collera regale. Poi il Re disse: «Il Consiglio è terminato, miei Signori. Riguardo a te, Corsus, sei estromesso dal mio Consiglio. Devi ringraziare la mia clemenza se non ho preso la tua testa per questo. Per la tua incolumità, che so bene che tieni in maggiore considerazione del mio cuore, non farti vedere davanti a me finché questi giorni di pericolo non saranno trascorsi.» E a Corinius disse: «Sarà tuo incarico impedire ai Demoni di prendere d'assalto la fortezza, cosa che probabilmente il loro orgoglio rinvigorito li spingerà a tentare. Non aspettatemi per la cena: questa notte sarò nella Torre di Ferro, e fate in modo che nessuno mi disturbi, pena la sua testa.» «Voi del mio Consiglio mi aspetterete qui per quattro ore prima del mezzogiorno di domani. Sia chiaro, Corinius, che non farai nulla né impiegherai in alcun modo le nostre forze contro i Demoni finché non riceverai miei ulteriori ordini, tranne che per difendere Carce da un assalto se sarà necessario. Risponderai di questo con la vita.» «Per quanto riguarda i Demoni, farebbero meglio ad aspettare stanotte per cantare vittoria. Se il mio nemico solleva un sasso per gettarlo sulla mia dimora, sono abbastanza rapido di mano, nella frazione di tempo in cui egli barcolla prima di abbattere la mia casa, per rovesciare il sasso su di lui e ridurgli la testa in poltiglia.» Così dicendo, il Re avanzò con passo risoluto verso la porta. Là si fermò, con la mano sul chiavistello d'argento e, guardando con occhi di tigre Corsus, «Sei avvertito!», disse. «Non attraversarmi il cammino. E, mentre sto meditando, non mandarmi più tua figlia, come facesti l'anno scorso. È un ottimo passatempo, e quella volta mi ha servito abbastanza bene. Ma il Re di Witchland non mangia due volte nello stesso piatto, e non gli man-
cano le belle figliole se ne ha bisogno.» Tutti risero. Ma il volto di Corsus divenne rosso come il sangue. Così si sciolse il Consiglio. Corinius si recò sulle mura coi figli di Corund e di Corsus dando ordini in accordo col volere di Re Gorice. Il vecchio Duca Corsus andò nella sua camera nel portico settentrionale, ma non riuscì a mantenersi calmo neanche per un po', e si sedeva ora sul suo scranno intagliato, ora sul davanzale della finestra, ora sul grande letto a baldacchino, e di tanto in tanto si metteva a misurare il pavimento della camera torcendosi le mani e mordicchiandosi il labbro. Non c'era da meravigliarsi se la sua mente era turbata, stretto com'era fra l'incudine e il martello, con l'ira del Re che lo minacciava dentro Carce e le schiere di Demonland all'esterno. Così trascorse il giorno fino all'ora di cena e Corsus, con grande meraviglia di tutti, andò a mangiare e si sedette al suo posto, con Zenambria e Sriva. Bevve parecchio e, quando la cena fu finita, riempì un calice e disse: «Re di Demonland e voialtre Streghe, è un bene che noi, nella condizione in cui ci troviamo, con un piede nelle fauci della distruzione, ci dobbiamo sopportare l'un l'altro. Nessuno deve nascondere all'altro il suo pensiero, ma deve dire apertamente, proprio come ho fatto io questa mattina davanti al Re nostro Signore, il suo pensiero e la sua opinione. Quindi, senza vergognarmi, ammetto di essere stato dissennato oggi, quando ho cercato di convincere il Re a fare la pace con Demonland. Sto diventando vecchio, e i vecchi spesso nutrono pensieri timorosi che, se c'è ancora saggezza e prodezza in loro, rinnegano subito quando il momento critico è passato ed hanno l'agio di ripensare ad essi con mente sobria. Ed è chiaro come il giorno che il Re ha avuto ragione, sia nel castigare il mio scarso coraggio sia nell'ordinarti, o Re Corinius, di restare ad osservare e di non fare nulla finché non sarà passata la notte. Perché si è recato nella Torre di Ferro? E a che scopo trascorrere la notte in quella camera spaventosa se non per dedicarsi alla Stregoneria ed alle sue Arti Magiche, come già fece una volta, e condurre alla distruzione i Demoni proprio quando la sorte è più propizia a loro? Mai Witchland ha avuto bisogno dei nostri voti più che nella mezzanotte che sta per venire, ed io vi prego, miei Signori, di restare un po' tutti assieme in questa sala affinché, con un solo cuore e una sola mente, possiamo brindare alla buona riuscita degli incantesimi del Re.» Con queste parole amabili ed assennate, che tra l'altro giunsero quando i calici di vino avevano già infuso una certa allegria nei loro cuori provati
dalle avverse vicissitudini di quella guerra disastrosa, Corsus riconquistò l'amicizia dei Signori di Witchland. Così, quando furono sistemate le sentinelle e prese le misure di sicurezza necessarie per la notte, si recarono tutti insieme nella grande sala dei banchetti, dove più di tre anni prima il Principe La Fireez aveva prima mangiato e poi combattuto contro di loro. Ma adesso era annegato nelle onde dello Stretto di Melikaphkhaz, e Lord Corund, che quella notte aveva combattuto così valorosamente, adesso giaceva nella medesima sala, armato dalla gola ai piedi come si conviene ad un grande guerriero defunto, maestoso e con sulla fronte la corona d'ametista di Impland. Le spaziose panche laterali erano sgombre e vuoti gli altri scranni, e la panca trasversale era stata rimossa per far posto al feretro di Corund. I Signori di Witchland sedettero ad un piccolo tavolo sotto la pedana: Corinius al posto d'onore all'estremità più vicina alla porta, di fronte a lui Corsus, alla sinistra di Corinius Zenambria, a destra Decalajus figlio di Corsus, e poi Heming; invece, alla sinistra di Corsus c'era sua figlia Sriva, con i due figli superstiti di Corund a destra. C'erano tutti tranne Prezmyra che, dopo la morte del suo Signore nessuno aveva più visto, e che stava nella sua camera. Le lampade stavano sui loro supporti d'argento come sempre, illuminando gli angoli più remoti della sala, e quattro candele rabbrividivano intorno al feretro dove Corund riposava. Sul tavolo erano appoggiati degli splendidi calici pieni fino all'orlo del dolce vino rosso Thramniano, uno per ogni convitato, e torte fredde di pancetta affumicata, bottarga e gamberi d'acqua dolce in salsa hippocras, costituivano il leggero pasto di mezzanotte. Si erano appena sistemati, quando le lampade impallidirono per una strana luce proveniente dall'esterno: era un bagliore malefico, fiacco, intollerabile, come quello che aveva visto Gro un tempo quando Re Gorice XII aveva per la prima volta evocato gli Spiriti a Carce. Corinius indugiò prima di prendere posto. Appariva splendido e risoluto nel suo mantello di seta azzurra e nella cotta di maglia argentea. La magnifica corona di Demonland, che Corsus era stato costretto a porgli sul capo quella notte ad Owlswick, scintillava sui suoi ricciuti capelli castani. Giovinezza e gagliardia si manifestavano in ogni tratto del suo corpo poderoso e delle braccia nude e muscolose ricoperte di braccialetti d'oro; ma il pallore cadaverico di quella luce sulla sua mascella rasata era in qualche modo spettrale, e le sue grosse labbra atteggiate ad un ghigno sprezzante, erano livide come quelle di un uomo avvelenato, in quella luce malsana.
«Non avete già visto questa luce?», gridò. «È stata l'ombra davanti al sole della nostra onnipotenza. Il martello del Fato si è sollevato per colpire. Bevete con me al Re nostro Signore che sfida il destino!» Tutti bevvero abbondantemente, e Corinius disse: «Passiamoci l'un l'altro le coppe in modo che ognuno possa svuotare quella del suo vicino. È una vecchia usanza beneaugurante che Corund mi insegnò al ritorno da Impland. Presto, perché il destino di Witchland è ora in equilibrio!» Al che passò la sua coppa a Zenambria, che la bevve fino in fondo. E tutti, cedendo i loro calici, bevvero di nuovo abbondantemente; tutti tranne Corsus, i cui occhi erano spalancati per il terrore mentre guardava la coppa che gli era stata passata dal figlio di Corund. «Bevi, Corsus!», disse Corinius e, vedendo che quello ancora titubava, «Cosa affligge quel vecchio rimbambito?», gridò. «Fissa quel buon vino con l'occhio stravolto di un cane rabbioso che guarda l'acqua.» In quell'istante il bagliore ultraterreno si spense come una torcia in un soffio di vento, e solo le lampade e le candele funerarie baluginarono sui commensali con la loro incerta radianza. Corinius disse ancora: «Bevi!» Ma Corsus mise giù la coppa senza sfiorarla con le labbra, e rimase dubbioso. Corinius aprì la bocca per parlare, ma la sua mascella ricadde, come se fosse stato colto improvvisamente da uno spaventoso sospetto. Ma, prima che potesse proferire una sola parola, un lampo abbagliante scoccò fra la terra ed il cielo, ed il pavimento della sala dei banchetti oscillò e tremò come per un terremoto. Tutti, tranne Corinius, ricaddero sugli scranni, afferrandosi al tavolo, sgomenti ed ammutoliti. Tonfo dopo tonfo, con le orecchie che stavano ascoltando quasi strappate via dal fragore, l'orrore spuntato dalle viscere della notte tuonò ed infuriò a Carce. Risa, come di anime dannate che banchettassero all'Inferno, si diffusero nell'aria torturata. Un lampo squarciò le tenebre, quasi accecando quelli che sedevano intorno al tavolo, e Corinius ne afferrò il bordo con entrambe le mani, mentre un ultimo schianto assordante scuoteva le pareti. Una fiamma sfrecciò nella notte, illuminando il cielo intero con un bagliore livido e, in quel fulmine, Corinius vide attraverso la finestra di sud-ovest la Torre di Ferro esplodere e spezzarsi in due, e l'istante dopo crollare in una valanga di rovine infuocate. «Il Maschio è crollato!», gridò. Poi, sentendosi d'un tratto mortalmente esausto, si lasciò cadere di peso sul suo scranno. Il cataclisma era passato come un vento nella notte ma, in quel momento, si udì un tumulto come se il nemico si precipitasse all'assalto.
Corinius tentò di alzarsi, ma le sue gambe erano debolissime. Il suo sguardo colse il calice non toccato da Corsus, che gli era stato passato da Viglus figlio di Corund, e gridò: «Che cosa diabolica è mai questa? Ho uno strano torpore nelle ossa. Cielo, ora berrai da quella coppa, ο morrai!» Viglus, con gli occhi protesi e la mano stretta sul petto, si dimenò per alzarsi, ma non ci riuscì. Heming si era quasi rizzato in piedi e barcollava, annaspando per agguantare la spada, ma si abbatté sul tavolo con un orrendo rantolo. Corsus balzò in piedi tremando, gli occhi appannati che bruciavano di trionfante malizia. «Il Re ha rischiato ed ha perso,» gridò, «come avevo previsto. Ed ora i Figli della Notte lo hanno portato via con loro. E tu, dannato Corinius, e voi figli di Corund, siete solo delle canaglie che stanno morendo davanti a me. Avete bevuto tutti un veleno, e siete morti! Adesso consegnerò Carce ai Demoni. Ed essa, con i vostri corpi pieni del mio veleno elettuario, mi garantiranno la pace con Demonland. «È orribile! Allora anch'io sono avvelenata,» gridò Lady Zenambria, e cadde in deliquio. «Mi dispiace,» disse Corsus, «ma devi dare la colpa allo scambio di calici. Non ho potuto parlare prima che il veleno incatenasse per me le membra di questi maledetti, e li rendesse inermi.» La mandibola di Corinius si strinse come quella di un bulldog. Digrignando dolorosamente i denti, si alzò dallo scranno, con la spada snudata in mano. Corsus, che gli stava passando accanto per raggiungere la porta, si avvide troppo tardi di aver fatto i conti senza l'oste. Corinius, sebbene la droga gli legasse le gambe come un sudario di tela cerata, era ancora troppo rapido per Corsus il quale, fuggendo davanti a lui verso la porta, ebbe appena il tempo di afferrare la pesante tenda prima che la spada di Corinius lo colpisse alla schiena. Cadde, e giacque contorcendosi goffamente, come un rospo infilzato in uno spiedo. E il pavimento di steatite fu reso scivoloso dal suo sangue. «Bene! Proprio nelle budella!», disse Corinius. Ma non riuscì a sollevare nuovamente la spada, vacillò come un ubriaco, e crollò al suolo, contro i montanti dell'alto vano d'ingresso. Giacque per un po' là, ascoltando lo strepito della battaglia che veniva da fuori; infatti, la Torre di Ferro era crollata sul muro esterno, aprendo una breccia attraverso le linee difensive. E fu attraverso quella breccia che i Demoni presero d'assalto la fortezza di Carce, nella quale mai piede nemico era entrato con la forza nei secoli trascorsi da quando Gorice I l'aveva
edificata. Per Corinius fu terribile essere costretto ad ascoltare quel combattimento impari, incapace di muovere una mano, e con tutti coloro che avrebbero dovuto guidare i difensori morti ο morenti davanti ai suoi occhi. Eppure il respiro gli divenne più leggero ed il dolore in parte più lieve quando il suo sguardo si posò sul grasso corpo di Corsus che si torceva nell'agonia della morte infilzato dalla sua spada. Così trascorse circa un'ora. Il vigore fisico di Corinius ed il suo cuore di ferro sopportarono il potere del veleno per parecchio tempo, dopo che tutti gli altri avevano già esalato le loro anime. Ma la battaglia ormai era finita e la vittoria era andata a Demonland, quando Lord Juss, Goldry Bluszco e Brandoch Daha con alcuni dei loro uomini entrarono nella sala dei banchetti. Erano lordi di sangue e della polvere della battaglia, perché la fortezza era stata alla fine conquistata non senza grande sforzo e senza la perdita di molti uomini coraggiosi. Goldry, mentre si fermavano sulla porta, disse: «Questa è la sala di banchetti della Morte! Cosa sarà mai accaduto?» La fronte di Corinius si oscurò alla vista dei Signori di Demonland, e tentò disperatamente di alzarsi, ma ricadde gemendo. «Ho un gelo invincibile nelle ossa!», disse. «Quel dannato traditore ci ha avvelenati tutti, altrimenti avrei di certo dato la morte a qualcuno di voi, prima che foste riusciti a entrare a Carce.» «Dategli un po' d'acqua,» disse Juss. E lui e Brandoch Daha sollevarono con delicatezza Corinius e lo trasportarono sul suo scranno dove sarebbe stato in una posizione più comoda. Goldry osservò: «Qui c'è una donna viva.» E infatti Sriva, che essendo seduta a sinistra del padre aveva evitato il veleno al passaggio delle coppe, si alzò dal tavolo dove si era acquattata in un silenzio spaventato, e si gettò piangendo e supplicando davanti alle ginocchia di Goldry. Questi ordinò che fosse accompagnata nell'accampamento e che le venisse dato asilo fino al mattino. Corinius era prossimo alla fine, ma raccolse tutte le forze per dire: «Sono contento che non siamo stati abbattuti dalle vostre spade, ma da un iniquo capriccio della fortuna, i cui strumenti sono stati Corsus e l'orgoglio diabolico dei Re, che voleva aggiogare il Cielo e l'Inferno al suo cocchio. La fortuna è una sgualdrina, che accarezza il collo per poi assestare un pugno nel diaframma.» «Non la fortuna, Lord Corinius, ma gli Dei,» disse Goldry, «i cui piedi sono rivestiti di lana!»
Fu portata l'acqua, e Brandoch Daha avrebbe voluto fargliela bere, ma Corinius rifiutò, scostò la testa, rovesciò la coppa e, fissando con fierezza Lord Brandoch Daha, «Vile,» disse, «anche tu sei venuto a oltraggiare la tomba di Witchland? Dovresti colpirmi al cuore, a meno che tu non sia una danzatrice invece che un soldato.» «Come?», disse Brandoch Daha. «Se un cane mi morde una coscia dovrei morderlo nello stesso punto?» Le palpebre di Corinius si chiusero, ed egli disse debolmente: «Come ti sembra Krothering da quando l'ho pestata come una cagna?» Poi il veleno fluì nel suo cuore, e Corinius morì. Per un po' ci fu silenzio nella sala dei banchetti. Poi nel silenzio si udì un trepestio, ed i Signori di Demonland si voltarono verso l'alto vano d'ingresso, che sbadigliò come l'oscuro imbocco ad arco di una caverna. Infatti Corsus aveva strappato i tendaggi negli spasimi della morte, ed essi si erano ammonticchiati sulla soglia: sopra vi era il suo cadavere con l'elsa della spada di Corinius schiacciata contro le costole e la lama che gli sporgeva di un piede dal petto. Mentre guardavano, Lady Prezmyra attraversò la soglia nella luce cangiante delle lampade, incoronata ed abbigliata coi suoi abiti ed ornamenti più ricchi e sontuosi. La sua espressione era tetra come la luna invernale che scivola alta in una notte ventosa fra nubi temporalesche, e quei Signori presi dall'incantesimo della sua bellezza triste e gelida, rimasero senza parole. Dopo un po' Juss, controllando attentamente la propria voce, e rivolgendole un solenne inchino, disse: «O Regina, ti concediamo la pace. Puoi ordinarci qualsiasi cosa ma, innanzi tutto, prima di tornare alle nostre case, sarà nostro compito ristabilirti nel tuo legittimo Regno di Pixyland. Ma questa è un'ora troppo piena di eventi tragici e fatali per tenere consiglio: ne riparleremo domani. La notte ci chiede di riposare. Ti prego di volerci far prendere congedo.» Prezmyra guardò Juss, ed i suoi occhi erano stretti come fessure e scintillavano di un verde splendore metallico, simili a quelli di una leonessa pronta a lottare. «Tu offri Pixyland, Lord Juss,» disse la donna, «a me, che sono la Regina di Impland! E ritiene che questa notte possa portarmi il riposo! Quelli che mi erano cari stanno davvero riposando: il mio amato Corund; il Principe mio fratello; Gro, che era mio amico. Voi, siete stati fatali per loro, sia
come amici che come nemici.» «Regina Prezmyra,» disse Juss, «il nido cade con l'albero. È stato il Fato a volere che queste cose accadessero, e noi siamo soltanto le estremità della sua sferza che guizzano da una parte all'altra secondo la sua volontà. Non siamo tuoi nemici, e ti giuro che tutto ciò che vogliamo è fare ammenda nei tuoi confronti.» «Oh, le vostre promesse!», disse Prezmyra. «Ma quale ammenda potete fare? Sono giovane e ancora abbastanza bella. Siete capaci di richiamare in vita quei tre uomini che avete ucciso? Malgrado tutto il vostro decantato potere, credo che sarebbe un compito troppo arduo!» Tutti rimasero in silenzio, guardandola mentre avanzava con passo leggero oltre il tavolo. Osservò con occhio distante, e all'apparenza perplesso, i commensali morti ed i loro calici vuoti. Tutti vuoti, tranne quello passato da Viglus, dal quale Corsus non aveva bevuto e che era mezzo vuoto. Era di bizzarra fattura: il vetro era di colore verde pallido, e lo stelo era formato da tre serpenti intrecciati, uno d'oro, uno d'argento ed uno di ferro. Sfiorandole negligentemente con le dita sollevò ancora una volta gli occhi scintillanti sui Demoni, e disse: «È sempre stata una vostra abitudine mangiare l'uovo e donare in elemosina il guscio.» E, indicando i Signori di Witchland morti davanti ai resti del banchetto, domandò: «Anche costoro sono vostre vittime in questo giorno di caccia, miei Signori?» «Ci giudichi male, Signore!», gridò Goldry. «Demonland non ha mai fatto uso di simili armi contro i suoi nemici.» Lord Brandoch Daha gli rivolse un'occhiata fugace, ed avanzò con indolenza, dicendo: «Non riconosco la fattura di quel calice, ma è stranamente simile ad uno che vidi ad Impland. Ma questo è più bello, e di proporzioni più accurate.» Ma Prezmyra anticipò la sua mano tesa e, con calma, attirò verso di sé la coppa fuori dalla portata di Brandoch Daha. Come una spada s'incrocia con una spada, il suo sguardo incrociò quello di lui, e disse: «Non pensate di avere sulla terra un nemico peggiore di me. Sono stata io a mandare Corsus e Corinius a Demonland. Se avessi avuto solo una scintilla delle loro virtù virili, almeno una delle vostre anime sarebbe stata scaraventata urlante nelle ombre a tener compagnia ai miei cari prima della mia dipartita. Ma non ne ho nessuna. Uccidetemi, dunque, e lasciatemi andare!» Juss, che impugnava la spada, la infilò nel fodero ed avanzò verso di lei. Ma il tavolo era fra loro, e la donna arretrò fino alla pedana dove giaceva Corund. Là, come una Dea trionfante, li sovrastò, col calice di veleno in
mano. «Non superate il tavolo, miei Signori,» disse, «altrimenti svuoterò questo calice per la vostra dannazione.» Brandoch Daha disse: «Il dado è tratto, Juss. E la Regina ha vinto!» «Signora,» disse Juss, «ti giuro che non subirai costrizioni di alcun genere, ma sarai solo onorata e venerata, ed avrai la nostra amicizia se vorrai. Questa potresti accettarla da noi, in ricordo di tuo fratello.» Al che lei gli rivolse uno sguardo terribile, ma lui continuò: «In questa notte selvaggia non fare del male a te stessa. Fallo per loro, che in questo momento ci osservano da quell'arida regione ignota, al di là del lago del dolore: non farlo!» Sempre fronteggiandoli, con il calice sollevato nella mano destra Prezmyra appoggiò delicatamente la mano sinistra sulle piastre d'ottone della cotta di Corun che gli copriva i muscoli poderosi del torace. Con la mano sfiorò la sua barba, poi si scostò bruscamente ma, un istante dopo, la posò di nuovo con dolcezza sul suo petto. In qualche modo la sua leggiadria levantina parve attenuarsi per un effimero minuto nella luce cangiante, ed allora disse: «Ero giovane quando sono stata concessa a Corund. Questa notte dormirò con lui, ο regnerò con lui, fra le schiere dei morti!» Juss fece per parlare, ma lei lo fermò con un'occhiata: le linee del suo corpo s'indurirono nuovamente e la leonessa tornò a guardare attraverso i suoi occhi incomparabili. «La tua magnanimità,» disse, «ti ha offuscato l'intelligenza al punto da farti pensare che io sopporterei di essere una tua pensionante, io che sono stata Principessa a Pixyland, Regina di Impland, e moglie del più grande guerriero della fortezza di Carce, che finora era stato il flagello ed il terrore del Mondo? Ο miei stupidi Signori di Demonland, non ditemi altro, perché i vostri sono solo discorsi sciocchi. Toglietevi pure il cappello davanti a una stupida cerva che corre sulla montagna: pregatela gentilmente di venire ad abitare col vostro bestiame nella stalla, dopo averle ucciso il compagno. Il gelo che avvizzisce, quando fa appassire e seccare i fiori del giardino, dirà alla rosa: Sopportami: ma potrà mai lei prestare ascolto ad una simile proposta?» Così dicendo svuotò il calice; e disinteressandosi di quei Signori di Demonland come una Regina che si allontana da una moltitudine di cui non si cura, s'inginocchiò lentamente accanto al feretro di Corund, con le braccia candide strette intorno alla testa di lui ed il volto appoggiato sul suo petto. Quando Juss parlò, la sua voce era soffocata dalle lacrime. Ordinò a Bremery di sollevare i corpi di Corsus e Zenambria, dei figli di Corund e
di Corsus, che giacevano avvelenati e morti in quella sala e di celebrare per loro delle rispettose onoranze funebri. «Per quanto riguarda Lord Corinius, voglio che prepariate un degno cataletto funebre, affinché possa giacere in questa sala stanotte, per essere poi domani adagiato in una fossa davanti a Carce, così come si conviene ad un Comandante tanto valoroso. Ma il grande Corund e sua moglie non dovranno essere separati: riposeranno nella stessa tomba, fianco a fianco, in nome del loro amore. Prima di andarcene erigerò per loro un monumento funebre come si fa coi grandi Re e le Principesse quando muoiono. Perché la regalità e la nobiltà erano attributi di Corund, che era un potente guerriero ed un combattente leale, anche se nostro acerrimo nemico. È stupefacente con quali vincoli affettivi sia riuscito a legare a sé questa impareggiabile Regina. Chi ha mai incontrato una sua pari fra le donne per schiettezza e nobiltà di sentimenti? Certamente nessuno è mai stato più sfortunato.» Poi si recarono nella parte più esterna di Carce. La notte recava ancora i segni di quel tumulto che di recente era esploso nell'aria e poi svanito, ed alcuni drappi lacerati di nubi temporalesche pendevano ancora attraverso il volto del firmamento. Fra di essi, nelle zone sgombre del cielo, baluginavano ancora poche stelle, e la luna, che era illuminata per più della metà e stava diventando piena scendeva sopra Tenemos. Soffiava un debole alito autunnale, e i Demoni rabbrividivano un po', essendo appena usciti dall'aria pesante della grande sala dei banchetti. Le rovine della Torre di Ferro sprigionavano fumo verso il cielo, ed i cumuli di macerie intorno ad essa apparivano mostruosi nell'oscurità simili a frammenti del Caos Primigenio; da essi e dal suolo spaccato sottostante, si levavano fumi pungenti come di zolfo bruciato. Attraverso questi vapori sulfurei svolazzavano instancabili, avanti e indietro, tracciando dei cerchi interminabili, osceni uccelli notturni e pipistrelli dalle ali membranose, che s'intravedevano solo a tratti nel buio incerto, tranne quando la loro traiettoria li faceva stagliare, neri, contro la luna. Dalle solitudini del lugubre acquitrino, suoni di lamenti lontani si diffondevano nella notte: era una confusione di stridii, rumori singhiozzanti e lunghi gemiti che aumentava, scemava e tremolava fino ad azzittirsi. Juss appoggiò una mano sul braccio di Goldry, e disse: «Non c'è nulla di terreno in questi lamenti, e quelli che hai visto volteggiare nel fumo, non erano pipistrelli ο gufi. Sono i familiari di Gorice, senza più padrone, che piangono per il loro Signore. Molte creature del genere lo servivano, sem-
plici Spiriti della terra, dell'aria ο dell'acqua, resi suoi schiavi grazie a pratiche magiche e innaturali, che andavano, venivano ed agivano secondo il suo volere.» «Non gli sono serviti a molto,» disse Goldry, «né gli è servita la spada di Witchland contro la nostra potenza, che l'ha spezzata in due nella sua mano ed ha ucciso i suoi uomini più valorosi.» «Eppure è vero,» disse Lord Juss, «che sulla terra non è mai vissuto nessuno più grande di Re Gorice XII. Quando, dopo quelle lunghe guerre, lo abbiamo tenuto a bada come un giovane gallo da combattimento, lui non ha avuto timore di tentare una seconda volta, e stavolta da solo e senza alcun aiuto, cosa che nessun altro uomo ha mai fatto, riuscendo a sopravvivere. E sapeva bene che ciò che aveva evocato dall'Abisso lo avrebbe annientato se qualche cosa gli fosse sfuggita di mano, come era accaduto anni prima quando il suo discepolo lo aveva soccorso. «Guarda adesso con quale terribile fragore, e senza essere stato domato da alcun potere terreno, ha lasciato questo mondo: con le rovine annerite e fumanti di Carce come suo monumento, i Signori di Witchland e centinaia dei nostri soldati e delle Streghe a fare da pietanze al suo banchetto funebre, e gli Spiriti piangenti nella notte come prefiche.» Poi tornarono all'accampamento. E, a tempo debito, la luna tramontò, le nubi si allontanarono, e le stelle tranquille seguirono le loro rotte perenni fino al termine della notte. Come se quella notte fosse stata simile ad altre notti: una notte che aveva visto il potere e la gloria di Witchland ridotti in pezzi dal martello del destino. XXXIII. LA REGINA SOPHONISBA A GALING Del ricevimento di Lord Juss offerto in onore della Regina Sophonisba, figlia adottiva degli Dei, e di quella circostanza che, al di là di tutte le cose meravigliose mostratele in quel paese, la stupì maggiormente; e di un raro esempio di come, in un mondo fortunato oltre ogni aspettativa, nella primavera dell'anno, giunge una nuova nascita. Il passare dei mesi fece giungere il momento in cui la Regina Sophoni-
sba sarebbe dovuta arrivare - secondo la promessa fatta - come ospite di Lord Juss a Galing. E così, nel silenzio di un'alba d'aprile senza vento, la caravella di Zimiamvia che portava la Regina, risalì remando l'Estuario di Lookinghaven. L'oriente era tutto d'oro per le prime luci dell'alba. Il Kardatza, nettamente delineato come se fosse stato scolpito nel bronzo, celava ancora il sole; e nella grande ombra della montagna, il porto, le basse colline, ed i boschetti di lecci e di corbezzoli, sonnecchiavano in una densa oscurità di blu e porpora, contro la quale i viali di fiori di mandorli rosa e le banchine di marmo, si stagliavano in tutta la loro pallida bellezza, riflessa come in uno specchio nel mare tranquillo. Ad ovest, al di là dell'Estuario, tutta la terra era illuminata dal giorno nascente. La neve indugiava ancora sui picchi più alti. Non celati dalle nuvole, immersi nella luce dorata, si ergevano contro l'azzurro: Dina, le Forche di Nantreganon, Pike o'Shards, e tutti i picchi della catena del Thornback e del Neverdale. Il mattino rise sui loro alti crinali e baciò i boschi che erano avvinghiati intorno alle pendici più basse: boschi ondeggianti, dove i ricchi toni di marrone e porpora testimoniavano che ogni singolo ramoscello della miriade di rami era fitto ed infiammato di boccioli. Una nebbia pallida si stendeva come un copriletto sulle marcite dove Tivarandandale si apre sul mare. Sulle rive di Brothrey e Scaramsey, sulla terraferma in prossimità del grande promontorio della Scogliera di Thremnir, ed un po' a sud di Owlswick, degli spazi vuoti fra i boschi di betulle rivelavano un color giallo dorato: erano gli asfodeli in fiore a primavera. Remarono fino all'approdo più a nord ed ormeggiarono la caravella. La fragranza dei mandorli era la fragranza della primavera nell'aria, e la primavera era nel volto della Regina mentre saliva coi suoi accompagnatori i gradini splendenti, coi piccoli rondicchi che le svolazzavano intorno ο si posavano sulle sue spalle: colei alla quale gli Antichi Dei avevano donato giovinezza e pace eterna sul Koshtra Belorn. Lord Juss ed i suoi fratelli erano sulla banchina per incontrarla, con Lord Brandoch Daha. S'inchinarono uno alla volta, baciandole le mani ed augurandole il benvenuto a Demonland. Ma lei disse: «Non solo a Demonland, miei Signori, ma di nuovo in tutto il mondo. E verso quale porto della terra avrei potuto navigare, e verso quale terra, se non questa che appartiene a voi che, con le vostre vittorie, avete riportato la pace e la felicità in tutto il mondo? Certamente, nei tempi passati, prima che i nomi di Gorice e Wi-
tchland si udissero in quella regione, la pace non dormiva sul Moruna più placidamente di quanto farà ora per noi in questa terra di Demonland, adesso che quei nomi sono sprofondati per sempre nei vortici dell'oblio e delle tenebre.» «Regina Sophonisba,» disse Juss, «non desiderare che i nomi dei grandi uomini siano dimenticati per sempre. Se così fosse, quelle guerre che l'anno passato hanno avuto un esito tale da renderci signori incontrastati della terra, si perderebbero nell'oblio con quelli che hanno combattuto contro di noi. Ma la fama di queste cose sarà sulle labbra e nelle canzoni degli uomini di generazione in generazione, finché il mondo esisterà.» Montarono a cavallo e cavalcarono dal porto su per l'erta, e quindi attraverso i pascoli aperti fino ad Havershaw Tongue. Agnelli facevano capriole sui prati coperti di rugiada ai lati della strada; merli volavano di cespuglio in cespuglio; allodole trillavano nel cielo invisibile; e, mentre scendevano attraverso i boschi in direzione di Beckfoot, i colombacci tubavano fra gli alberi, e gli scoiattoli scrutavano con gli occhi luccicanti. La Regina parlava poco. Queste ed altre creature timorose dei boschi e dei campi l'avevano irretita, incantandola fino a costringerla ad un silenzio interrotto solo, di tanto in tanto, da una piccola esclamazione di gioia. Lord Juss, che amava anch'egli quelle creature, osservava la sua gioia. Salirono per l'erta tortuosa di Beckfoot, ed entrarono a Galing attraverso la Porta del Leone. Il viale di tassi irlandesi era fiancheggiato da soldati della Guardia del Corpo di Juss, Goldry, Spitfire e Brandoch Daha. Questi sollevarono in alto le lance, mentre i trombettieri eseguivano tre fanfare con le trombe d'argento. Poi, con un accompagnamento di liuti, tiorbe e cetre (1), che svariavano sul pulsare di tamburi smorzati, un coro di fanciulle cantò una canzone di benvenuto, cospargendo il sentiero davanti ai Signori di Demonland ed alla Regina, di profumati giacinti bianchi e boccioli di narcisi, mentre le Dame Mevrian ed Armelline, più graziosa di qualunque Regina della terra, attendevano sulla sommità della scalinata aurea nel cortile interno per salutare la Regina Sophonisba venuta a Galing. Sarebbe arduo parlare di tutti i divertimenti preparati per la Regina Sophonisba dai Signori di Demonland. Trascorse il primo giorno fra i parchi ed i giardini di Galing, dove Lord Juss le mostrò i grandi viali di tigli, i rifugi fra i tassi, i giardini carichi di frutti, quelli interrati, i sentieri segreti ed i pergolati. Inoltre, i sentieri di timo rampicante che, quando venivano calpestati, emanavano dolci odori per rinfrancare chi vi passeggiava; infi-
ne, gli antichi giardini acquatici vicino a Brankdale Beck, dove si recavano d'estate le ninfe d'acqua che si vedevano sotto la luna mentre cantavano e si pettinavano i capelli con pettini d'oro. Il secondo giorno le mostrò i suoi giardini di erbe medicinali, rivelandole le proprietà segrete delle erbe, che lui conosceva in maniera approfondita. Là cresceva lo Zamalenticion che, se viene pestato assieme al grasso senza sale, è un rimedio sovrano per qualsiasi ferita. E il Dittamo che, se mangiato subito, spinge fuori le frecce e guarisce le ferite; e non solo con la sua presenza scaccia i serpenti che capitano nelle sue vicinanze, ma li uccide col suo profumo trasportato dal vento se lo annusano. E la Mandragora che, se viene posta in mezzo ad una casa, ne scaccia tutti i mali, e inoltre allevia i dolori di testa e favorisce il sonno. Poi le mostrò l'Agrifoglio Marino, che spunta in luoghi misteriosi e umidi, le cui radici sono come la testa di quel mostro che gli uomini chiamano Gorgone, ed i cui virgulti hanno gli occhi, il naso ed il colore dei serpenti. Le raccontò anche che, quando si estrae una radice di questa pianta, bisogna accertarsi che il sole non la illumini e che, chi vuole intagliarla, deve distogliere lo sguardo, perché non è consentito che un uomo possa vedere quella radice restando illeso. Il terzo giorno, Juss mostrò alla Regina le stalle, dove erano i suoi destrieri, i cavalli da caccia e quelli per le corse dei cocchi custoditi in box con arredi d'argento: Sophonisba si stupì molto davanti alle sue sette giumente bianche, tutte sorelle, così simili che era impossibile distinguerle l'una dall'altra, che gli erano state donate tempo prima dai Sacerdoti di Artemide nelle regioni oltre il tramonto. Erano immortali, poiché avevano icore nelle vene e non sangue, ed il fuoco divino splendeva nei loro occhi come una vampa. La quarta e la quinta notte la Regina le trascorse a Drepaby, ospite di Lord Goldry Bluszco e della Principessa Armellina, che si erano sposati a Zaje Zaculo a luglio; e la sesta e la settima notte ad Owlswick, dove Spitfire le preparò un sontuoso ricevimento. Ma Lord Brandoch Daha non volle che la Regina si recasse a Krothering, poiché non aveva ancora ripristinato i suoi bei giardini e parchi e restaurato i suoi meravigliosi e considerevoli tesori secondo i suoi progetti, dopo l'ignobile trattamento riservato loro da Corinius. E non voleva che lei vedesse il Castello di Krothering finché tutto non fosse stato riportato alla sua antica magnificenza. L'ottavo giorno la Regina tornò a Galing, e Lord Juss le mostrò il suo studio, con gli astrolabi di oricalco (2), su cui erano raffigurati tutti i Segni
dello Zodiaco e le fasi della luna, che si elevavano sul pavimento fino all'altezza di un uomo, ed i telescopi, i guanti, i cristalli e gli specchi concavi. Inoltre i grandi globi di cristallo dove egli custodiva gli omuncoli che aveva creato con misteriosi procedimenti naturali, maschi e femmine, alti meno di una spanna, belli come più non si poteva desiderare, avvolti nei loro piccoli mantelli, che mangiavano, bevevano e sbrigavano le loro cose in quegli enormi globi di cristallo dove la sua arte aveva dato loro la possibilità di vivere. Ogni notte, a Galing, ad Owlswick ο a Drepaby Mire, c'erano dei banchetti in onore della Regina, con musiche, danze, duelli ο gare di cavalli, e rappresentazioni tali che non si era mai visto niente di simile sulla terra per bellezza, allegria e magnificenza. Era il nono giorno di visita della Regina a Demonland, e la vigilia del compleanno di Lord Juss, quando tutti i notabili della regione si riunirono, come quattro anni prima, per rendere omaggio - la mattina successiva - a lui ed ai suoi fratelli com'era vecchia consuetudine. La giornata era bella e splendente, con ogni tanto un rovescio di pioggia che rendeva l'aria fresca, e recava colore e ristoro alla terra, ed allegrezza alla luce del sole. Juss, quella mattina, passeggiò con la Regina nei boschi di Moogarth Bottom, che adesso si stavano rivestendo di foglie; e, dopo il pasto di mezzogiorno, le mostrò i sui tesori custoditi in una caverna scavata nella viva roccia sotto il Castello di Galing, dove ella ammirò lingotti d'oro e d'argento ammonticchiati come tronchi d'alberi; cristalli grezzi di rubino, crisopazio ο zircone, così pesanti che un uomo forte non avrebbe potuto sollevarli; mucchi di zanne d'avorio, che arrivavano al soffitto; casse e giare colme di profumi e preziose spezie, ambra grigia, incenso, legno di sandalo dal dolce profumo, mirra e nardo; calici, coppe e boccali di vino a due manici, lampade e scrigni d'oro puro, lavorati e cesellati con figure di uomini, donne, uccelli, animali e creature striscianti, tutti ornati di gioielli inestimabili, perle e zaffiri rosa e gialli, smeraldi, crisoberilli e diamanti gialli. Quando la Regina ebbe riempito a sufficienza i propri occhi di quelle cose, egli la condusse nella sua grande biblioteca dov'erano le statue delle Nove Muse intorno ad Apollo, e tutte le pareti erano nascoste dai libri: storie e canzoni dei tempi antichi, libri di filosofia, alchimia, astronomia ed Arti Magiche, storie romantiche, musica e vite di grandi uomini defunti, e grandi trattati di tutte le arti della pace e della guerra, con disegni e caratteri miniati.
Grandi finestre si aprivano a sud sul giardino dalla biblioteca, e piante di rose rampicanti, di caprifogli e di magnolie sempreverdi, si raggruppavano intorno alle finestre. Grandi scranni e divani stavano intorno al focolare scoperto dove d'inverno ardeva un fuoco di ciocchi di cedro. Lampade di splendenti lunarie ombreggiate di tormalina verde screziata, stavano su sostegni d'argento appoggiati sul tavolo e vicino ad ogni scranno e divano, per far luce quando finiva il giorno; tutta l'aria era fragrante per il profumo dei petali di rose secchi conservati in bocce ed antichi vasi di terracotta dipinta. La Regina Sophonisba disse: «Signore, questo mi piace più di tutte le altre cose che mi hai mostrato nel tuo Castello di Galing: qui, dove tutti gli affanni sembrano l'eco dimenticata di un mondo malvagio lasciato alle spalle. Il mio cuore è davvero lieto, amico mio, perché tu e gli altri Signori di Demonland adesso potete godere dei vostri tesori e delle belle giornate nella vostra cara terra natia, nella pace e nella serenità per tutta la vostra vita.» Lord Juss stava davanti alla finestra che guardava verso ovest, al di là del lago, la grande parete dello Scarf. Qualche accenno di una nobile malinconia adombrava l'espressione dolce e tenebrosa del suo volto, mentre il suo sguardo indugiava su una cortina di pioggia che bersagliava la parete della montagna, velando in parte la vetta rocciosa. «Eppure io credo, Signora,» disse, «che noi siamo giovani. E, per le menti attive, c'è inquietudine nella quiete eccessiva.» La condusse attraverso le armerie dove egli custodiva le sue armi, quelle dei suoi soldati e tutte le panoplie di guerra. Le mostrò spade e lance, mazze, asce e pugnali, cesellati damascati ed intarsiati con gioielli; cotte di maglia, baltei e scudi; lame così affilate, che un capello spinto contro di esse dal vento sarebbe stato tagliato in due; elmi fatati che nessuna spada normale avrebbe potuto incidere. Poi Juss disse alla Regina: «Signora, cosa pensi di queste spade e lance? Perché devi sapere che questi sono i pioli della scala sulla quale noi di Demonland siamo saliti per raggiungere quella sovranità e supremazia che ora possiamo imporre ai quattro angoli del mondo.» «Signore,» rispose lei, «ho una nobile opinione di loro. Perché sarebbe assurdo, mentre ci si rallegra del raccolto, disprezzare gli strumenti che hanno preparato la terra e l'hanno mietuta.» Mentre parlava, Juss tirò giù da un gancio uno spadone dall'impugnatura legata con fili attorcigliati d'oro e d'argento. L'elsa era tempestata di ameti-
ste e con due teste di drago alle estremità che avevano per occhi degli almandini cremisi, mentre il pomello era una sfera di opale color ambra scuro con riflessi rossi e verdi. «Con questa spada,» disse, «raggiunsi insieme a Gaslark le porte di Carce, quattro anni fa, con la mente offuscata dalle conseguenze dell'incontro col messo di Re Gorice. Con questa spada combattei per un'ora, schiena contro schiena, assieme a Brandoch Daha, contro Corund, Corinius e i loro uomini più coraggiosi: la più grande battaglia che abbia mai combattuto, e in condizioni di spaventosa inferiorità. Witchland stesso ci osservava dalle mura di Carce attraverso la nebbia ed i lampi, e si meravigliò che due uomini nati di donna potessero compiere una simile impresa.» Slegò le cinghie della spada e la estrasse sibilante dal fodero. «Con questa spada,» disse, guardando con affetto la lama, «ho sconfitto centinaia di nemici: Streghe, Ghoul, barbari di Impland e dei mari meridionali, pirati di Esamocia e Principi del Continente Orientale. Con questa spada ho conseguito la vittoria in tante battaglie e, con maggiore gloria di tutte, nella battaglia davanti a Carce il settembre scorso. Laggiù, combattendo contro il valoroso Corund nella mischia, gli infersi con questa spada la ferita che gli fu fatale.» Quindi ripose di nuovo la spada nel fodero: la tenne per un minuto come a chiedersi se legarla ο no intorno alla vita, poi lentamente la rimise al suo posto sulla parete, riappendendola. Tenne la testa eretta come quella di un destriero, distogliendo lo sguardo dalla Regina mentre uscivano dalla grande armeria di Galing; ma non fu abbastanza accorto, perché lei notò un luccichio nei suoi occhi che sembrava una lacrima ferma sulla palpebra inferiore. Quella notte la cena fu preparata nella camera privata di Lord Juss: un pasto leggero, ma molto sontuoso. Sedettero a un tavolo rotondo in nove: i tre fratelli, lord Brandoch Daha, Zigg e Volle, Lady Armelline e Mevrian, e la Regina. I vini di Krothering e Norvasp scorsero allegramente e la conversazione, all'apparenza, andò avanti gaiamente. Ma, di tanto in tanto, il silenzio incombeva sulla tavola come un drappo grigio, finché Zigg, ο Brandoch Daha ο sua sorella Mevrian, lo interrompevano con una frase scherzosa. La Regina avvertiva il gelo dietro quell'allegria. Le pause silenziose si infittirono a mano a mano che il banchetto procedeva, come se il vino ed il buonumore avessero perso la loro qualità originaria e fossero diventati
causa di malumore e di cupe meditazioni. Lord Goldry Bluszco, che fino a quel momento aveva parlato poco, smise completamente di parlare, col volto bruno ed orgoglioso fisso in un'espressione pensierosa e preoccupata. Anche Spitfire si azzittì, la faccia appoggiata alla mano, la fronte china, ora bevendo abbondantemente, ora tambureggiando con le dita sul tavolo. Lord Brandoch Daha aveva appoggiato la schiena al suo scranno d'avorio, e stava sorseggiando il vino. Con molta discrezione, attraverso gli occhi socchiusi, come una pantera sonnecchiante a mezzogiorno, osservava i compagni di banchetto. Come raggi di sole rincorsi da ombre di nuvole sulla parete di una montagna in un giorno ventoso, le luci dell'ilarità giocavano sul suo volto. La Regina disse: «Miei Signori, mi avevate promesso che avrei ascoltato l'intera storia della vostra guerra ad Impland ed in quei mari, di come giungeste a Carce, della grande battaglia che vi fu laggiù, e della fine di tutti i Signori di Witchland e di Gorice XII, di maledetta memoria. Vi prego di raccontarmela adesso, affinché i vostri cuori possano rallegrarsi al racconto di quelle grandi imprese il cui ricordo resterà per generazioni, e affinché possiamo tutti tornare a gioire per la morte di tutti i Signori di Witchland, a causa della cui tirannia la terra ha sofferto e tribolato per molti anni.» Lord Juss, sul cui volto calmo lei aveva visto la stessa malinconia che aveva notato in lui nella biblioteca quel giorno, si versò dell'altro vino e disse: «Regina Sophonisba, ora saprai tutto.» E le raccontò tutto quello che era accaduto da quando si erano congedati sul Koshtra Belorn: della marcia fino al mare a Muelva; di Laxus e della sua grande flotta distrutta e affondata a Melikaphkhaz; della battaglia davanti a Carce e delle sue alterne vicende; dell'empia luce e dei segni sfolgoranti nel cielo dai quali avevano dedotto che il Re stava facendo una nuova evocazione dentro Carce, della loro attesa nella notte, armati di tutto punto, con portafortuna e amuleti pronti contro tutto ciò che di spaventoso fosse sortito dagli Incantesimi del Re; dell'esplosione della Torre di Ferro e delle tenebre calate sulla fortezza; dei Signori di Witchland assassinati al banchetto, cosicché nulla era rimasto alla fine del potere, del fasto, e del terrore di Witchland tranne i tizzoni ardenti delle pire funebri e le voci piangenti nel vento prima dell'alba. Quando ebbe finito, la Regina disse, come parlando in sogno: «Certo, di questi Re e Signori di Witchland morti si può dire:
Queste persone eminenti e spregevoli Non lasciano più fama dietro di loro di colui Che cammina sulla neve, e vi lascia le impronte; Non appena il sole splende, scioglie per sempre Sia la forma che la sostanza. Dopo queste parole il silenzio ricadde come un drappo sulla tavola imbandita, più triste ed opprimente di prima. Ad un tratto, Lord Brandoch Daha si alzò, slacciandosi dalla spalla la cinghia della spada coperta di zaffiri color albicocca, di diamanti e di opali scarlatti che rappresentavano delle saette. La gettò davanti a sé sul tavolo, con tutta la spada, facendo risuonare le coppe. «Regina Sophonisba,» disse, «hai pronunciato un'orazione funebre per la gloria nostra e per quella di Witchland. Questa è la spada che mi diede Zeldornius. L'ho portata con me a Krothering Side contro Corinius, quando lo scacciai da Demonland. L'ho portata a Melikaphkhaz, e l'ho portata nell'ultima grande battaglia di Witchland. Potresti dire che mi ha portato fortuna e vittoria in combattimento, ma non mi ha portato, come invece portò a Zeldornius, la fortuna più grande di tutte: che la terra si spalancasse per me al termine di tutte le imprese che ho compiuto.» La Regina lo guardò stupefatta, meravigliandosi di vedere così commosso un uomo che aveva conosciuto fino a quel momento come gioviale ed incline allo scherzo. Ma gli altri Signori di Demonland si alzarono e gettarono le loro spade ingioiellate sul tavolo accanto a quella di Lord Brandoch Daha. E Lord Juss disse: «Possiamo anche gettare a terra le nostre spade come ultima offerta sulla tomba di Witchland. Tanto adesso faranno la ruggine; l'abilità marinaresca e tutte le arti belliche avvizziranno; e, ora che i nostri grandi nemici sono morti e scomparsi, noi che eravamo Signori del mondo dobbiamo tornare ad essere pecorai e cacciatori, se non vogliamo diventare saltimbanchi e vagheggini, colleghi dei rammolliti Beshtriani e del Foliot Rosso. «Regina Sophonisba, e voi fratelli e amici, che siete venuti per festeggiare con me domani il mio compleanno a Galing, cosa fate così abbigliati come damerini? Piangete piuttosto, e continuate a piangere, e vestitevi di nero, pensando che le nostre gesta più straordinarie ed il culmine raggiunto dalla stella della nostra gloria potrebbero averci trascinato all'eterna rovina. E pensare che noi, che combattiamo per il puro piacere di combattere, alla
fine abbiamo combattuto così bene che non dovremo combattere mai più, se non gli uni contro gli altri con furore fratricida. Ma, prima che ciò accada, possa la terra chiudersi su di noi e il nostro ricordo perire.» La Regina era sommamente commossa nell'assistere ad una sofferenza così struggente, sebbene non riuscisse a comprenderne le radici e le ragioni. La sua voce tremava un poco mentre diceva: «Lord Juss, Lord Brandoch Daha, e voi Signori tutti di Demonland, non mi sarei mai aspettata di vedervi così sconvolti dal dolore. Ero venuta per gioire con voi, ma suona bizzarro al mio orecchio sentire che vi lamentate e gemete perché i vostri nemici, dopo il grande rischio corso dalle vostre vite e dai vostri cari, sono stati finalmente sconfitti. Sono solo una donna e per giunta giovane, anche se la mia memoria può tornare indietro di duecento primavere, e mal mi si addice dare consigli a dei grandi Signori e guerrieri come voi. Eppure mi sembra strano che non esistano per voi gioie e grandi cose da fare in periodo di pace, per voi che siete giovani, nobili, Signori del mondo, ricchi di ogni tesoro e del dono della conoscenza, e che avete come paesi natii le più belle regioni della terra. Se non volete che le vostre spade arrugginiscano, usatele contro le razze incivili di Impland e di altri paesi lontani per assoggettarle.» Ma Lord Goldry Bluszco scoppiò in una risata amara. «Regina,» gridò, «pensi che sconfiggere dei selvaggi soddisferebbe queste spade, che hanno combattuto contro la Casa di Gorice e contro tutti i suoi Comandamenti più valorosi che sostenevano il potere di Carce, con la gloria ed il terrore che ispirava?» «Come possiamo gioire,» disse Spitfire, «dei letti soffici, dei cibi delicati e dei piaceri che si provano nella montuosa Demonland. Se dobbiamo essere fuchi senza pungiglione, senza poter far nulla per stimolare il nostro desiderio di tranquillità?» Tutti rimasero silenziosi per un po'. Poi Lord Juss disse: «Regina Sophonisba, hai mai osservato, in una giornata piovosa di primavera, l'arcobaleno sospeso fra terra e cielo, e notato come tutte le cose della terra al di là di esso, gli alberi, le montagne, i fiumi, i campi, i boschi e le dimore degli uomini, sono trasfigurate dai colori dell'arcobaleno?» «Sì,» rispose lei, «ed ho spesso desiderato raggiungerle.» «Noi,» proseguì Juss, «siamo stati al di là dell'arcobaleno. E laggiù non abbiamo trovato la terra favolosa dei desideri del cuore, ma solo pioggia, vento e la fredda parete di una montagna. Ora, nei nostri cuori c'è il gelo per questo.»
«Quanti anni hai, Lord Juss?» disse la Regina, «tu che parli come un vecchio?» «Domani,» rispose Juss, «avrò trentatré anni, e non sono molti secondo la misura degli uomini. Nessuno di noi è vecchio, ed i miei fratelli e Lord Brandoch Daha sono più giovani di me. Ma adesso dobbiamo guardare come dei vecchi alla nostra vita futura, dal momento che le sue gioie sono svanite.» Quindi aggiunse: «Tu, ο Regina, difficilmente puoi comprendere la nostra pena. Infatti, a te gli Dei benedetti hanno concesso ciò che il tuo cuore desiderava: giovinezza eterna, e pace. Se volessero fare a noi un dono gradito, questo dovrebbe essere giovinezza eterna e guerra, e vigore ed abilità con le armi imperituri. Se solo potessero restituirci i nostri nemici, di nuovo vivi e integri! Perché per noi sarebbe meglio rischiare ancora una volta la completa distruzione, piuttosto che vivere le nostre vite come bestiame che ingrassa per il macello, ο come stupide piante da giardino.» Gli occhi della Regina erano spalancati per lo stupore. «Vorreste davvero questo?», disse. «Dice bene il proverbio,» rispose Juss, «che 'le tombe sono putride fondamenta'. Se in questo momento tu mi dicessi che il Grande Re è tornato in vita e siede di nuovo sul Trono di Carce, e minaccia di trascinarci in una guerra, ti renderesti subito conto che sto dicendo il vero.» Mentre Juss parlava, la Regina voltò lo sguardo da uno all'altro intorno al tavolo. In tutti gli occhi, quando egli parlava di Carce, vide il lampo del piacere della battaglia, come se la vita stesse tornando a uomini sospesi in una trance mortale. E, quando egli ebbe concluso, vide in tutti gli occhi quella luce spegnersi. Sembravano Dei, nello splendore della loro giovinezza e fierezza, seduti intorno al tavolo; ma tristi e tragici, come Dei esiliati dal Cielo.» Nessuno parlò, e la Regina abbassò gli occhi, restando seduta come persa nelle sue riflessioni. Allora Lord Juss si alzò in piedi, e disse: «Regina Sophonisba, perdonaci se le nostre pene personali ci hanno resi talmente dimentichi dei doveri dell'ospitalità da annoiare la nostra ospite con un banchetto così triste. Ma pensa che ciò è accaduto perché ti riteniamo una nostra cara amica, con la quale non dobbiamo preoccuparci dei cerimoniali. Domani faremo festa con te, qualunque cosa accada dopo.» Si augurarono la buona notte ma, mentre uscivano nel giardino sotto le stelle, la Regina prese da parte Juss e gli disse: «Signore, da quando tu e Lord Brandoch Daha veniste primi fra i mortali sul Koshtra Belorn, ed annullaste la maledizione secondo quanto era stato prestabilito, il mio deside-
rio è stato soltanto questo: favorirvi, stare al vostro fianco ed ottenere per voi tutto ciò che volete, per quanto è in mio potere. Anche se sono soltanto una debole fanciulla, gli Dei hanno voluto essere gentili con me. Una sola preghiera può far accadere cose che non osiamo neppure sognare. Volete che rivolga Loro una preghiera stanotte?» «Ohimè, Regina,» disse Juss, «le ceneri che si sono allontanate e disperse possono tornare a unirsi? Chi può invertire il flusso inalterabile della necessità?» Ma lei disse: «Tu possiedi cristalli e facoltà che ti consentono di vedere cose molto lontane nel tempo. Ti prego di prenderli, e di condurmi in barca su fino a Moonmere Head, affinché possiamo arrivare là a mezzanotte circa. E lascia che Lord Brandoch Daha ed i tuoi fratelli vengano con noi. Ma non farlo sapere a nessun altro. Significherebbe solo illuderli con una falsa alba, se alla fine il risultato fosse quello che la tua saggezza si attende, e non quello che vogliono le mie preghiere.» Lord Juss acconsentì, e tutti accompagnarono la Regina sul lago al chiaro di luna. Nessuno parlava, e la Regina si sedette in disparte sulla prua della barca, elevando una ardente supplica agli Dei. Quando furono giunti all'estremità del lago, approdarono su una lingua di sabbia argentea. La notte di aprile era sopra di loro, attenuata dalla luce. Le ombre delle falde montuose si elevavano nere come l'inchiostro ed enormi in maniera inimmaginabile contro il cielo. La Regina s'inginocchiò per qualche istante in silenzio sul suolo freddo, ed i Signori di Demonland rimasero assieme, muti, ad osservarla. Dopo un po' lei sollevò gli occhi al cielo; ed ecco, fra i due picchi principali dello Scarf, una meteora scivolò lentamente fuori dalle tenebre ed attraversò il cielo notturno, lasciando una scia di fuoco argenteo e rientrando silenziosamente nel buio. Poi ne videro un'altra, ed un'altra ancora, finché il cielo occidentale sopra la montagna non si incendiò per i loro bagliori. Venivano da due punti del cielo: uno si trovava fra le zampe anteriori del Leone e l'altro nel segno oscuro del Cancro. E quelle che venivano dal Leone erano scintillanti come i bianchi fuochi di Rigel ο di Altair, mentre quelle che venivano dal Cancro erano di un rosso fiammante, simile a quello di Antares. I Signori di Demonland, appoggiati alle spade, osservarono a lungo ed in silenzio quei portenti. Poi le stelle cadenti scomparvero, e le stelle fisse tornarono a splendere solitarie e tranquille. Una leggera brezza soffiava fra gli ontani ed i salici vicini al lago, e le acque che lambivano la riva di ciot-
toli eseguivano una dolce melodia. Un usignolo in un boschetto sulla sommità di una collinetta, trillava così appassionatamente da far pensare a uno Spirito che cantasse. Come in trance, essi si misero ad ascoltare, finché quel canto non finì ed il silenzio scese sull'acqua, sul bosco e sulla radura. Poi, tutto l'oriente s'infiammò di saette per un istante, e il tuono rombò da est al di là del mare. Il tuono si diffuse nel cielo come una sinfonia, riempiendo la terra ed il cielo con trombe che squillavano un inno di battaglia, prima alto, poi basso, poi tremolante fino a spegnersi nel silenzio. Juss e Brandoch Daha lo riconobbero per il grande inno di battaglia che era servito da preludio quella notte tetra quando, sul Kostra Belorn, si erano fermati per la prima volta davanti al mirabile portale del palazzo della Regina. Il grande inno si diffuse ancora fra terra e cielo, in segno di sfida; e, dopo di esso, nuove voci, brancolando nel buio, si levarono in un lamento appassionato, si librarono, e si spensero sul vento, finché non rimase altro che il rombo di un tuono smorzato, lungo basso, sommesso, gonfio di minaccia. La Regina si voltò verso Lord Juss. I suoi occhi erano simili a due stelle splendenti nell'oscurità. Disse con voce soffocata, «Le tue facoltà, Signore.» Così Lord Juss accese un fuoco con certe spezie ed erbe, e il fumo si sollevò in una densa nube piena di scintille guizzanti, con un odore dolce e intenso. «Noi non guarderemo, mia Signora.» disse, «perché i nostri desideri ci offuscherebbero i sensi. Guarda tu stessa attraverso il fumo, e dicci cosa vedi ad est oltre il mare pieno di vita.» La Regina guardò e disse: «Vedo una città portuale ed un fiume che scende pigro fino al porto attraverso un acquitrino cosparso di chiazze di fango, ed una grande pianura paludosa che si estende dal mare nell'entroterra. Vicino alla riva del fiume, nell'entroterra, vedo una grande altura che si erge sulla palude. E ci sono delle mura sull'altura come se vi fosse una cittadella. E l'altura e la fortezza cinta da mura appollaiata su di essa sono nere come la notte fonda, e come l'iniquità che regna in un luogo di potere, proiettano tenebre sulla desolazione di quella palude.» «Le mura sono in rovina?», disse Juss. «La grande torre rotonda a sudovest è crollata sulle mura?» «Tutto è intatto e integro,» rispose ella, «come le mura del tuo castello, Signore.» «Gira il cristallo, Regina, in modo da poter vedere dentro le mura se vi è
qualcuno, e dicci qual è il loro aspetto.» La Regina rimase silenziosa per un po', fissando intensamente il cristallo. Poi disse: «Vedo una sala di banchetti con pareti di diaspro verde scuro screziate di rosso, ed un massiccio cornicione sostenuto da giganti a tre teste scolpiti in serpentina nera; ogni gigante è chino sotto il peso di un enorme granchio. La sala ha sei lati. Ci sono due lunghi tavoli ed una panca trasversale. Ci sono bracieri di ferro al centro della sala e lampade che ardono su sostegni d'argento, e commensali che gozzovigliano intorno ai lunghi tavoli. Alcuni giovani bruni dalle sopracciglia nere e dalle mascelle pesanti, di aspetto marziale... forse sono fratelli. Vi è un altro con loro, di aspetto rubicondo e più mite a vedersi, con dei lunghi baffi castani. Un altro indossa una cotta di bronzo ed una tunica verdemare; è un vecchio, con una rada peluria grigia e guance cascanti... è grasso e goffo: un vecchio niente affatto gradevole a vedersi.» Smise di parlare, e Juss le chiese: «Chi altro vedi nella sala dei banchetti, Regina?» «Il bagliore delle lampade non illumina la panca trasversale. Girerò di nuovo il cristallo. Adesso vedo due che si divertono giocando a dadi sul tavolo davanti alla panca. Uno ha un aspetto abbastanza attraente: è ben piantato, di nobile portamento, con capelli e barba castani e ricciuti, e gli occhi acuti da marinaio. L'altro sembra più giovane, più giovane di voi, miei Signori. Ha il volto liscio e rasato, una carnagione fresca, e dei bei capelli ricciuti, e la sua fronte è incoronata da una festosa ghirlanda. È un giovane vigoroso ed avvenente. Eppure c'è qualcosa che mi rende inquieta quando lo guardo e, nonostante il bell'aspetto ed il portamento regale, risulta sgradevole ai miei occhi. «C'è anche una fanciulla, che li osserva mentre giocano. È vestita sfarzosamente, e può essere considerata bella. Ma posso a malapena ammirarla...» Poi, improvvisamente turbata, la Regina depose il cristallo. L'occhio di Lord Brandoch Daha ammiccò, ma rimase in silenzio. Lord Juss disse: «Continua, ti prego, Regina, prima che il fumo svanisca e la visione scompaia. Se questo è tutto ciò che vedi nella sala dei banchetti, non c'è altro all'esterno?» La Regina Sophonisba guardò ancora e, dopo un po', disse: «C'è una terrazza che si affaccia ad ovest sotto un muro interno di quella fortezza tenebrosa, e su di essa, alla luce di una torcia, passeggia un uomo con una corona di Re. È molto alto, magro, ed ha gli arti lunghi. Indossa un farsetto nero tempestato di diamanti, la sua corona ha la forma di un granchio, ed i
gioielli che l'adornano sfidano il sole in splendore. Ma riesco appena a vedere il suo abbigliamento a causa del suo volto, che è il più terribile che io abbia mai visto. L'intero aspetto di quell'uomo è pregno di tenebra, di potere, di terrore e di tracotanza, al punto che gli Spiriti sottoterra tremerebbero ed eseguirebbero i suoi ordini.» Juss disse: «Il cielo non voglia che questo sia soltanto un dolce e piacevole sogno, e che ci svegliamo domattina per scoprire che è volato via.» «Con lui passeggia,» proseguì la Regina, «in confidenziale conversazione, come un servo che parli col suo Signore, un uomo con una lunga barba nera, ricciuta come il manto di una pecora e lucente come l'ala di un corvo. È pallido come la luna nelle ore diurne, snello, con lineamenti ben disegnati e grandi occhi scuri, ed il suo naso è curvo come una falce; è gentile e malinconico di aspetto, ma nobile.» Lord Brandoch Daha chiese: «Non vedi nessuno, Regina negli alloggi del portico orientale sopra la corte interna del palazzo?» «Vedo un'alta camera da letto rivestita di arazzi. È buia, salvo che per due candelieri multipli che ardono davanti ad un grande specchio. Vedo una donna davanti allo specchio, con sui folti capelli del colore delle lingue di fuoco una corona di Regina in ametiste rosse. Un uomo entra dalla porta alle sue spalle, scostando a destra ed a sinistra i pesanti drappeggi. È un uomo corpulento, ed ha l'aspetto di un Re, nel suo grande mantello di pelle di lupo e nella tunica di velluto rosso con ornamenti d'oro. I riccioli brizzolati che spuntano qua e là sulla sua testa calva e la barba cespugliosa picchiettata di grigio dimostrano che ha superato da un po' la giovinezza; ma la luce della gioventù brucia nei suoi occhi vivaci ed il vigore della gioventù nel suo passo. Lei si volta per salutarlo: è alta, giovane e bella, ed ha un viso fiero e dolce. È leale e gaia, se l'aspetto non inganna.» Quindi la Regina Sophonisba si coprì gli occhi, dicendo: «Miei Signori non vedo altro. Il cristallo è diventato opaco all'interno come la schiuma in un vortice sotto una pioggia battente. I miei occhi mi dolgono per lo sforzo di guardare. Torniamo indietro, poiché la notte è inoltrata ed io sono stanca.» Ma Juss la sostenne e disse: «Lasciami sognare ancora un po'. Il doppio pilastro del mondo, uno dei cui elementi noi, ciechi strumenti del Cielo imperscrutabile, abbattemmo, si è forse reintegrato? Per tenere in vita da ora in poi me e lui, il suo ed il mio, e per sempre, senza età e senza fine, la contesa che deve decidere se lui ο noi dobbiamo essere i padroni del mondo? Se questi sono fantasmi, Regina, allora ci hai condotti nel cuore stesso
dell'amarezza. Se non avessimo visto od immaginato, avremmo anche potuto sopportare: ma ora no. Eppure, com'è possibile che gli Dei possano intenerirsi ed il tempo tornare indietro?» La Regina parlò, e la sua voce era simile alle ombre calanti della sera, che pulsano di uno splendore nascosto, come un senso di chiarore stellare che si risvegli, vivo nell'azzurro che si oscura. «Questo Re,» disse, «nella perversione del suo empio orgoglio porta al pollice il simbolo del Serpente Ouroboros, come per dire che il suo regno non avrà mai fine. Eppure, quando è giunta la sua ora, è stato scaraventato negli abissi dell'Inferno. E se ora è tornato a rivivere, non è per sua virtù, ma solo grazie a voi, miei Signori, che gli Dei Onnipotenti amano. Per cui vi prego di conservare l'umiltà nei vostri cuori davanti agli alti Dei, e di non pronunciare parole vane. Torniamo alla barca.» L'alba venne con le sue dita d'oro, ma i Signori di Demonland rimasero a letto fino a tardi dopo la loro veglia notturna. All'incirca alla terza ora prima di mezzogiorno, erano tutti riuniti nella Sala delle Udienze, e i tre fratelli erano seduti sui loro troni, come quattro anni prima, fra gli ippogrifi d'oro, ed accanto a loro erano stati posti degli scranni per la Regina Sophonisba e Lord Brandoch Daha. La Regina aveva visto tutte le cose splendide e mirabili del Castello di Galing, ma non aveva visto fino a quel momento la Sala delle Udienze. Si meravigliò grandemente davanti a quelle bellezze e rarità impareggiabili: i drappeggi ed i bassorilievi sulle pareti, le belle raffigurazioni, le lampade di pietra di luna e carbonchi che splendevano di luce propria, i mostri sulle ventiquattro colonne, scolpiti in pietre preziose così grandi che due uomini avrebbero a malapena potuto circondare con le braccia, e le costellazioni che ardevano nel firmamento di lapislazzuli sotto la volta dorata. Quando brindarono a Lord Juss, augurandogli lunga vita e gioia e gloria per sempre, la Regina prese una piccola cetra e disse: «Signore, voglio cantare un sonetto per te, per voi miei Signori e per Demonland circondata dal mare.» Così dicendo, pizzicò le corde e cantò con la sua voce cristallina, talmente pura e delicata che tutti coloro che si trovavano nella sala rimasero estasiati dalla sua bellezza: Dovrei paragonarti ad una giornata estiva? Tu sei molto più amabile e più mite: I venti impetuosi scuotono le gemme di Maggio,
E la fine dell'Estate viene sempre prima. A volte l'occhio del cielo è troppo caldo, E spesso il suo colore aureo si offusca. Le cose più belle lentamente declinano, Per caso ο per il corso irregolare del creato; Ma la tua Estate eterna non svanisce Né perde la bellezza che possiedi Né la Morte ti farà vagar nella sua ombra, Quando verrà la tua ora chissà quando: Finché un uomo respirerà, ed un occhio vedrà. Finché tutto questo vivrà, e la vita ti darà. Quando ebbe concluso, Lord Juss si alzò con grande solennità e le baciò la mano, dicendo: «Regina Sophonisba, figlia adottiva degli Dei, non farci arrossire con lodi troppo grandi per i mortali. Poiché sai bene qual è l'unica cosa che può rallegrarci. E non è pensabile che ciò che abbiamo visto la scorsa notte a Moonmere Head fosse reale, e non piuttosto una visione di sogno.» Ma la Regina Sophonisba rispose: «Lord Juss, non ingiuriare la generosità degli Dei benedetti, perché potrebbero incollerirsi e negartela, Essi che hanno concesso a voi di Demonland, da questo giorno in poi, giovinezza eterna, vigore ed abilità con le armi imperituri, e... ma ascolta!», disse, perché una tromba, alla porta principale, aveva emesso tre squilli stridenti. Al suono di quella tromba, i Signori Goldry e Spitfire balzarono su dai loro scranni, portando le mani alle spade. Lord Juss era immobile come un cervo pronto a scattare. Lord Brandoch Daha stava ancora seduto sulla sua sedia d'oro, senza quasi aver modificato la sua postura di grazia indolente, ma tutto il suo corpo sembrava ardere per l'azione imminente, come il principio attivo della luce pulsa ed aumenta nel cielo all'alba. Guardò la Regina, con gli occhi colmi di un irrefrenabile sospetto (3). Un servitore, obbedendo ad un cenno della testa di Juss, uscì di corsa dalla sala. Non si udì alcun suono nella Sala delle Udienze di Galing finché, dopo un minuto, il servitore non tornò con un'espressione spaventata, e, inchinandosi davanti a Juss, disse: «Signore, c'è un Ambasciatore di Witchland col suo seguito. Chiede immediata udienza.» APPENDICI
CRONOLOGIA [Date Anno Carces Conditae. Gli avvenimenti narrati coprono esattamente quattro anni: dal 22 Aprile 399 al 22 Aprile 403 A. C. C.] Anno A.C.C. 171 La Regina Sophonisba nasce a Morna Moruna. 187 Gorice III viene divorato dalle Manticore al di là del Bhavinan. 188 Morna Moruna viene saccheggiata da Gorice IV. La Regina Sophonisba, per intervento divino, arriva sul Koshtra Belorn. 337 Gorice VII è ucciso dagli Spiriti mentre effettua un'evocazione a Carce. 341 Nascita di Zeldornius. 344 Nascita di Corsus a Tenemos. 353 Corund nasce a Carce. 354 Nascita di Zenambria, Duchessa moglie di Corsus. 357 Nascita di Helteranius. 360 Volle nasce a Darklairstead, a Demonland. 361 Nascita di Jalcanaius Fostus. 363 Nascita di Vizz a Darklairstead. 364 In Goblinland, alla Corte di Zaje Zaculo, nasce Gro, fratello di latte di Re Gaslark. Gaslark nasce a Zaje Zaculo. 366 Laxus, Alto Ammiraglio di Witchland e futuro Re di Pixyland, nasce a Estremerine. 367 Nascita di Gallandus a Buteny. Zigg nasce a Many Bushes in Amadardale. 370 Juss nasce a Galing. 371 Goldry Bluszco nasce a Galing. Dekalajus, il maggiore dei figli di Corsus, nasce a Witchland. 372 Spitfire nasce a Galing. Brandoch Daha nasce a Krothering. 374 La Fireez nasce a Norvasp in Pixyland. Gorius, secondo dei figli di Corsus, nasce a Witchland. 375 Corinius nasce a Carce. 376 Prezmyra sorella del Principe La Fireez, seconda moglie di Corund, e futura Regina di Impland, nasce a Novarsp. 379 Nascita di Hacmon, maggiore dei figli di Corund, Mevrian, sorella
di Lord Brandoch Daha, nasce a Krothering. 380 Nasce Heming, secondo dei figli di Corund. 381 Nasce Dormanes, terzo dei figli di Corund. 382 Nascita di Viglus, quarto figlio di Corund, a Carce. Recedor, Re di Goblinland, viene segretamente avvelenato da Corsus: Gaslark sale sul trono in sua vece a Zaje Zaculo, Sriva, figlia di Corsus e Zenambria, nasce a Carce. 383 Armelline, cugina di Re Gaslark, futura fidanzata e sposa di Goldry Bluszco, nasce a Carce. 384 Cargo, minore dei figli di Corund, nasce a Carce. 388 Goblinland viene invasa dai Ghoul; fuga da Zaje Zaculo; incendio di Tenemos. Il potere dei Ghoul è annientato da Corsus. 389 Zeldornius, Helteranius e Jalcanaius Fostus sono inviati da Gaslark con un esercito di Impland, e là subiscono un Incantesimo. 390 Le Streghe invadono Goblinland: loro sconfitta con l'aiuto di Demonland sul campo di Lormeron; uccisione di Gorice X da parte di Lord Brandoch Daha; Corsus preso prigioniero e sbeffeggiato dai Demoni; Gro, abbandonando la causa dei Goblin, si reca in esilio alla Corte di Witchland. 393 La Fireez, assediato da Fax Fay Faz a Lida Nanguna nell'Impland Esterno, viene liberato dai Demoni; Goldry Bluszco è respinto da Corsus davanti ad Harquem. 395 Corund sposa a Norvasp la Principessa Prezmyra. 398 I Ghoul riesplodono con ferocia inimmaginabile. Invasione di Demonland e incendio della casa di Goldry a Drepaby. 399 Guerra santa di Witchland, Demonland, Goblinland, e altre nazioni civili contro i Ghoul; Laxus, con l'approvazione del suo Re, Gorice XI, e su consiglio di Gro, diserta con tutta la sua flotta nella battaglia di Kartadza (sulla costa orientale di Demonland); i Ghoul vengono tuttavia sopraffatti dai Demoni nello Stretto di Kartadza, e la loro intera razza viene sterminata; Gorice XI pretende la sottomissione dei Demoni, lotta con Goldry Bluszco, e viene ucciso nell'incontro. Gorice XII, rinnovando con maggior fortuna le pratiche di Magia di Gorice VII a Carce, fa rapire Goldry da un messo malefico; Juss e Brandoch Daha, quasi usciti di senno, attaccano Carce con l'aiuto di Gaslark e vengono catturati; sono liberati grazie a La Fireez, e tornano nel loro paese; sogno di Juss; consiglio a Krothering; prima spedizione ad Impland. La vendetta del Re su Pixyland
viene eseguita per mano di Corinius, e La Fireez viene spodestato e costretto all'esilio. Grande marcia di Corund su Akra Skabranth, improvvisa irruzione nell'Impland Esterno, e conquista di quella regione; naufragio della flotta dei Demoni; massacro a Salapanta; marcia dei Demoni nell'lmpland Superiore; commercio amoroso di Brandoch Daha con la Signora di Ishnaian Nemartra, che gli getta addosso una maledizione; Corund assedia e conquista Eshgrar Ogo; Juss e Brandoch Daha fuggono sul Moruna e trascorrono l'inverno nei pressi del Bhavinan. 400 A Carce giungono notizie da Eshgrar Ogo; Corund viene insignito da Gorice XII del titolo di Re di Impland. Juss e Brandoch Daha attraversano il Passo di Zia; lotta con la manticora; scalata del Koshtra Pivrarcha, arrivo sul Koshtra Belorn, ed incontro con la Regina Sophonisba; Juss ha la visione di Goldry prigioniero sul Zora; la Regina li aiuta nei loro piani; l'ippogrifo nasce vicino al Lago di Ravary; la fatale stupidità di Mivarsh; Juss, malgrado gli ammonimenti della Regina, tenta la scalata del Zora Rach e finisce quasi per perdere la vita. A Carce sono incoronati Prezmyra Regina di Impland e Laxus Re di Pixyland; il Re manda una spedizione per abbattere Demonland, ponendo Corsus al comando; Laxus sconfigge Volle nel mare di Lookinghaven, e Corsus sconfigge Vizz, che viene ucciso, a Crosshy Outiskes; infidi e crudeli intrighi politici di Corsus; contrasto fra lui e Gallandus; alterne fortune di Spitfire che fa poi a pezzi l'armata di Corsus sui Raspi di Brima ed assedia i superstiti ad Owlswick; scontento dell'esercito; Corsus uccide con le sue mani Gallandus ad Owlswick; Gro reca notizie a Carce; Corsus degradato dal Re, che conferisce a Corinius il titolo di Re di Demonland per porre rimedio alla situazione; battaglia della Scogliera di Thremnir e disfatta di Spitfire; Corinius incoronato ad Owlswick; arresto di Corsus e dei suoi figli e loro ritorno forzato a Witchland. 401 Conquista delle regioni orientali di Demonland da parte di Corinius, tranne la sola Galing che Bremery difende con settanta uomini. Corinius si muove ad ovest sullo Stile; sue insolenti richieste a Mevrian. Insuccesso della spedizione di Gaslark per liberare Krothering, e sua sconfitta ad Aurwath. Magistrale ritirata di Corinius da Krothering davanti a forze nemiche preponderanti; sua imboscata e distruzione dell'esercito di Spitfire sulle rive di Switchwater. Caduta di Krothering e resa di Mevrian; sua fuga per consiglio di Gro, aiuto
dei figli di Corund e connivenza di Laxus; suo arrivo a Westmark e partenza verso est nel Neverdale. Gro abbandona la causa di Witchland per quella di Demonland; lui e Mevrian incontrano Juss e Brandoch Daha che tornano a casa dopo due anni. Rivolta ad est e liberazione di Galing; ordini oculati da parte di Corinius e dei Demoni per un combattimento decisivo. Battaglia di Krothering Side e cacciata delle Streghe da Demonland. 402 Seconda spedizione ad Impland - in cui Gaslark e La Fireez si uniscono ai Demoni - che approda a Muelva sul Mare Didorniano. Juss, Spitfire, Brandoch Daha, Gro, Zigg e Astar attraversano il Moruna. Volo di Juss sull'ippogrifo fino al Zora Rach e liberazione di Goldry. Laxus mandato dal Re con una potentissima flotta per chiudere lo Stretto di Melikaphkhaz; distruzione della forza navale di Witchland. Laxus e La Fireez rimangono uccisi; l'unica nave superstite reca notizie a Carce. Corund viene nominato Comandante Generale e Carce. Adunata degli eserciti di Witchland e dei suoi vassalli. Approdo dei Demoni a sud; incontro davanti a Carce. Minaccia del Re a Juss; implacabile ostilità fra di loro. Segni e presagi nei cieli. Risoluzione disperata del Re in caso di esito negativo della battaglia. Battaglia davanti a Carce; uccisione di Gro e Corund; sconfitta delle forze del Re. Consiglio di Guerra a Carce: Corinius di nuovo Comandante Generale. Corsus, avendo consigliato la resa, cade in disgrazia agli occhi del Re e viene da lui sbeffeggiato e destituito; disperato, Corsus trama la morte col veleno di Corinius e dei figli di Corund ma, sfortunatamente, provoca anche quelle del proprio figlio e della moglie, ma viene ucciso da Corinius. Esplosione della Torre di Ferro nel fallimento dell'ultima evocazione del Re. I Demoni entrano in Carce; loro incontro con la Regina Sophonisba. Tragica e gloriosa fine di Prezmyra. Crollo definitivo dell'impero e della sovranità della Casata di Gorice a Carce. 403 La Regina Sophonisba è a Demonland: meraviglia delle meraviglie ella, nel giorno natale di Lord Juss, il trentatreesimo anno della sua vita a Galing, ottiene dagli Dei la rinascita di Re Gorice XII, dei Signori di Witchland, ed il ripristino del vecchio mondo. NOTE BIBLIOGRAFICHE AI VERSI
CΑΡ. III
Lamento funebre per Re Gorice XI. Satira su Gro...
IV
VII
IX XV
XVII XXII XXIV
Profezia riguardante gli ultimi tre Re della Casa di Gorice a Carce. Canzone in lode di Prezmyra. Canzone di Corund sulla lombata. «Quando scolo il vino» (Corsus) Gli altri canti di Corsus Canto di Mivarsh a Salapanta La canzone degli Amanti di Prezmyra Canto d'amore di Corinius: «Che Asino è» Canto di Corinius alla sua Signora Serenata di Laxus... Marcia dei veterani di Corsus Ballata dei Corvi di Mevrian Citazione di Mevrian sulla pietra di asbesto
William Dunbar (tardo XV secolo) «Lament for the Mak. "ris: quhen he was seik".» Epigramma in memoria di William Parrie, «un traditore capitale,» eseguito per tradimento nel 1584: citato da Holinshed.
Thomas Carew (1598-1639). «Un Antidoto per la Malinconia» (1661). Aracreonta XXV; trad. dal greco. Dalle «Ballate di Roxburgh» (raccolte nel 1774). «Hesperides», Herrick (1591-1674) Donne (1573-1631). «Merry Drollerie» (1691). ibid. Anacreonta II, trad. dal greco.
Antica Ballata: «I Tre Corvi» Robert Green (1560-92), «Alfonso, Re d'Aragona».
XXX
Serenata di Gro a Prezmyra
XXXI
Profezia riguardante le evocazioni
XXXIII
Versi citati dalla Regina Sophonisba sulla caduta di Witchland Sonetto della Regina Sophonisba
Sir Henry Wottom (1568-1639) versi per Elisabetta, Regina di Boemia.
Webster (inizi del XVII secolo); «La Duchessa di Amalfi», Atto V, v. Shakespeare, Sonetto XVIII
Il testo qui stampato del poema di Wottom è quello di «Reliquiae Wottonianae», prima ed. 1651, curato da Isaak Walton; anche se ho letto (coi primi testi). 1.5 Moone, 1.8 Passion, 1.16 Princess, invece di Sun, Voyces, Mistris dell'edizione del 1651. Il sonetto di Shakespeare è tratto dal volume in quarto del 1609. Il brano da Njal's Saga nell'Induzione è tratto dalla traduzione classica di George Dasent. E.R.E. NOTE ALL'INTRODUZIONE 1. Mark Graubard parla dell'Ouroboros nel suo Astrology and Alchemy: Two Fossil Sciences (New York, The Philosophical Library, 1953). Questo antico simbolo non è sconosciuto agli studenti di filosofia moderna, poiché è stato usato da C.G. Jung e Erich Neumann nelle loro discussioni sullo sviluppo della personalità. Vedi Symbole der Wandlung (Simboli di Trasformazione), trad. R.F.C. Hull (New Haven, Princeton Up, 1956) e The Origins and History of Consciousness di Neumann. È curiosa la foto di un antico papiro manoscritto che contiene il disegno di un Ouroboros a pagina 103 di Greek Papyri in the British Museum (Londra, stampato per volere dei Fiduciari del British Museum, 1893). Un volume-guida analizza il disegno: Greek Papyri in the British Museum. Catalogue with Texts, curato da F.G. Kenyon (Londra, William Clones and Sons, Ltd., 1893), vedi pag. 103. 2. Gli antichi alchimisti attribuivano all'oro, oltre al suo significato letterale, quello metaforico di metallo perfetto. Qualsiasi sostanza di propor-
zioni ben definite poteva essere definita «aurea». 3. Graubard, Astrology and Alchemy, pag. 240. 4. Robert Steele, «Alchemy», Shakespeare's England (Oxford, Clarendon Press, 1970) 1: 462-475. 5. Eddison a K. Henderson, 5 Febbraio 1923, in-fol 18 di Ms. Eng. Letters c. 231, Bodleian Library, Oxford. 6. La maggior parte dei lettori non abituali di Letteratura Scandinava non hanno mai sentito parlare delle Saghe Islandesi. Il Professor Gwyn Jones descrive le Saghe nel suo libro A History of the Vikings (Londra, Oxford UP, 1973), pag. 288: «Il tredicesimo secolo... è stata l'epoca classica delle saghe (cioè delle saghe familiari). Le centoventi ο più saghe (sogur) e racconti brevi (thaettir) ci forniscono una storia liberamente interpretata e spesso romanzata di gran parte del Decimo Secolo e del primo terzo dell'Undicesimo, narrata attraverso le vite di uomini e donne eminenti, e delle tradizionali faide fra famiglie notabili, ma troppo condizionata dall'immaginazione creativa dei narratori, autori e scribi, dai mutamenti ai quali la tradizione è soggetta in un periodo di due ο trecento anni, e dalle distorsioni inevitabili quando uomini animati da interessi di tipo «archeologico» ο dall'orgoglio familiare rappresentano un'epoca, parzialmente, coi termini di un'altra.» 7. H. Rider Haggard a Eddison, 14 Maggio 1922, fol. 13 di Ms. Eng. Lettere c. 231, Bodleian Library, Oxford. 8. Qui sto parafrasando le parole e le idee espresse da J.R.R. Tolkien nel suo saggio «Sulle Fiabe» dall'antologia Essays Presented to Charles Williams, a cura di C.S. Lewis (Grand Rapids, Michigan, Eerdmans, 1974), pag. 60. Queste sono le parole di Tolkien a proposito dell'attitudine del lettore a credere nella letteratura fantastica: «Quella condizione della mente è stata definita 'sospensione volontaria dell'incredulità'. Ma questa non mi pare una buona descrizione di ciò che accade. Quello che realmente accade è che il creatore di storie dimostra di essere un efficace «sub-creatore». Egli crea un Mondo Secondario nel quale la tua mente può entrare. Dentro di esso, ciò che egli racconta è 'vero': esso è coerente con le leggi di quel mondo. Tu, dunque, ci credi, per tutto il tempo in cui ti ci trovi, per così dire, dentro. Nel momento in cui l'incredulità sale, l'incantesimo si rompe: la magia, ο piuttosto l'arte, ha fallito. Allora ti ritrovi nel Mondo Primario, e guardi dall'esterno quel Mondo Secondario appena abortito.» 9. Tolkien a Caroline Everett, lettera 199, The Letter of J.R.R. Tolkien, a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien (Boston, Houghton
Mifflin Company, 1981), pag. 258. 10. Ransome a Eddison, 10 Settembre 1922, fol. 40 di Ms. Eng. Letters c. 231, Bodleian Library, Oxford. 11. Arthur Ransome, The Autobiography of Arthur Ransome (Londra, Jonathan Cape, 1976), pag. 38. 12. Eddison a Brinton, 6 Agosto 1922, SRQ823.91 ED23, Corrispondenza relativa a Styrbion the Strong, Local History Department, Reference Library, Central Library, Leeds. 13. SRQ823.91 ED23, Note relative a Styrbion the Strong, Local History Department, Reference Library, Leeds. 14. SRQ823.91 ED23, Corrispondenza relativa a Egil's Saga, Local History Department, Reference Library, Central Library, Leeds. 15. Questo e tutti gli altri riferimenti secondari in questa sezione («Racconterò... accattivante») sono tratti dalle pagine XXVIII-XXXII dell'Introduzione di Eddison alla sua traduzione di Egil's Saga (Cambridge, Cambridge University Press, 1930). 16. Eddison, Egil's Saga, XIX. 17. Gwyn Jones, Eirik the Red and Other Icelandic Sagas, trad. Gwyn Jones (Oxford, Oxford University Press, 1982), pag. IX. 18. Magnus Magnusson e Hermann Palson, Njal's Saga, trad. M. Magnussori e H. Palson (Harmondsworth, Middlesex, Penguin, 1986), pag. 25. 19. Jones, Eirik the Red, pag. XIV. 20. E.V. Gordon, An introduction to Old Norse (Oxford, Clarendon Press, 1927), pag. XXXII. 21. Eddison a Mrs. Ford. 24 Gennaio 1923, fol. 9 di Mas. Eng. Lettere c. 231, Bodleian Library, Oxford. 22. Eddison, Egil's Saga, XXIX. 23. Eddison a Henderson, 5 Febbraio 1923, fols. 18-21 di Ms. Eng. Letters c. 231, Bdleian Library, Oxford. 24. La «Gran Reggia» di Priamo «avea cinquanta/talami... edificati/l'un presso all'altro, e di polita pietra/splendidi tutti» (VI: 305-308). L'Iliade di Omero, trad. Vincenzo Monti (Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1990), pag. 328. 25. Vedere pagine 177, 183, e 331 per i soli riferimenti ai genitori. 26. H. Munro Chadwick, The Heroic Age (Cambridge, Cambridge University Press, 1917), pag. 387. 27. Jones, History of the Vikings, pp. 279-287. 28. Monti, Iliade; pp. 623, 625, 628, 630.
29. Otello, II. III.
Eric Rucker Eddison (1882-1845) NOTE A THE WORM OUROBOROS Ho usato dal principio alla fine due abbreviazioni: «ERE» per E.R. Eddison, e «WO» per The Worm Ouroboros. Ho citato alcune fonti letterarie e poetiche, e ovviamente ho consultato alcune opere che hanno dato un notevole contributo al mio lavoro. Nel 1928, l'Università di Oxford, ha pubblicato con la tipografia Clarendon il dizionario inglese Oxford in 10 volumi; nel 1933 è stato ripubblicato in 12 volumi col nome di «Il Nuovo Dizionario Inglese,» e nel 1989 viene pubblicata la seconda edizione rivista e annotata, dal titolo «Dizionario Inglese di Oxford.» Questi volumi sono stati i miei costanti compagni: quasi tutte le parole arcaiche ed esoteriche sono state consultate nella prima e seconda edizione di quest'epoca. Le mie citazioni di Shakespeare seguono il metodo «Attraverso le linee dei numeri» adottato da David Bevington nella sua terza edizione del «Tutte le opere di Shakespeare,» pubblicata da Scott, Foresman & Company a Glenview, Illinois, nel 1951. Ho estratto le citazioni omeriche dalla stupenda traduzione di Richmond Lattimore, le cui opere sono «Iliade di O-
mero» e «Odissea di Omero.» La prima fu pubblicata nel 1951 a Chicago dalla locale Università, e la seconda fu pubblicata nel 1965 a New York da Harper & Row. Ho anche usufruito del «John Webster» in 3 volumi, edito da D.C. Gunby e pubblicato a Harmondsworth, Middlesex, nel 1972 dalla Penguin Books. Dove potevo, ho cercato di indicare le fonti che hanno delle influenze di un certo rilievo sul testo. Questo per evidenziare minuziosamente nell'introduzione, quelle opere letterarie che colpirono Eddison abbastanza da stimolare le sue creazioni oppure che rivelano alcuni dei pensieri che vagavano nella sua mente durante la scrittura del libro. Molte delle fonti indicate sono letterarie, mentre non conosco altre materie - come ad esempio l'astronomia - che è una scienza che Eddison ha studiato minuziosamente in alcuni dei suoi aspetti. L'induzione 1. L'induzione. L'induzione è stata definita come il «principale punto debole del libro» (vedi nota 8 capitolo II), ma ERE intende introdurre il tono e l'atmosfera del romanzo. La parola ha diversi significati, e quasi tutti trovano riscontro qui. Principalmente, questo termine è un arcaismo, e iniziando con un termine del genere, il primo di un centinaio di arcaismi, ERE immediatamente ci introduce nello stile molto particolare del romanzo: esso è un mixaggio eclettico della lingua moderna e quella arcaica. Questo termine ha anche quest'altro significato, cioè «azione di persuasione» (persuasive inducement), e in queste poche pagine di prosa ERE cerca di persuaderci a continuare in questa storia. Il metodo di ERE ricorda molto il poeta Elisabettiano, Thomas Sackville. La conoscenza approfondita di ERE della letteratura elisabettiana l'ha introdotto sulla via della famosa opera «Investitura» di Sackville al poema didattico «Mirrour for Magistrates» scritto da vari poeti e pubblicato in quattro edizioni tra il 1559 e il 1587. Nell'opera «Induzione,» che è modellata sul libro VI dell'Eneide, il dolore (Sorrow) personificato incontra il narratore in una giornata invernale malinconica, e lo vuole condurre dal mondo conosciuto a quello dell'inferno. Entrando vi sono cancelli neri, e dolore man mano fa conoscere al narratore una successione di personaggi tetri: Rimorso, Terrore, Vendetta, Miseria, Vecchiaia, Malattia, Carestia e Guerra. La «Guerra» personificata porta un enorme scudo sul quale erano dipinti grandi eroi dell'era antica: Dario, Annibale, Pompeo, Cesare, Scilla e Mario. Sackville descrive ogni
personaggio ed ogni altra cosa, con una immaginazione molto dettagliata per indicare Hell (Inferno) come un posto di orrori sensuali e profonda malinconia. Tutto ciò prepara il lettore ai temi ed agli esempi specifici del «Mirrour,» perché l'Inferno buio e sinistro di Sackville, che è in contrasto con gli agi del mondo luminoso, enfatizza i messaggi del poema sulle punizioni sofferte nell'inferno per i peccati politici commessi nel mondo vivente. In maniera analoga alla natura strana dell'immaginario di ERE, Mercurio necessita la sua investitura, ma non è né allegorica né didattica come quella di Sackville. ERE deve provocare il credo nel mondo immaginario, contrapponendolo alle realtà della terra. Così ERE affianca al lettore una compagnia (companion) lungo tutto il viaggio fino al mondo alieno di Mercurio. Il successo dell'induzione rimane nell'affermazione inadeguata e negli eventi dell'intreccio non spiegati: ciò produce mistero nel testo, e ovviamente il mistero produce curiosità nel lettore. La bizzarria della casa, il cui nome è «Casa della Pace» e «Casa del Pomeriggio» e «Casa del Desiderio del Cuore,» i riferimenti alla Stanza del Sognatore (Lotus Room) con le sue allusioni a quel strano irresistibile frutto del sognatore, che gli fa dimenticare la sua patria (vedi «Odissea» di Omero, Libro IX: 82-104), il rapporto tra la Stanza del Sognatore e Mercurio, l'arrivo del rondicchio (martlet), il cavallo alato e il suo cavalliere: né ERE come narratore né Lessingham come personaggio principale spiegano queste cose. Gli eventi dell'induzione semplice si susseguono in un intreccio mitico, essi devono essere accettati, come spiega Keats, «senza alcuna ricerca irritabile del fatto e delle ragioni» (da una lettera ai suoi fratelli, 21-27 dicembre 1817). Parlando del titolo dell'opera di Couperin, «Le Barricades Mystérieuses,» Lessingham sussurra a Mary: «Solamente io e te sappiamo cosa realmente significa.» Ciò riassume l'intera induzione: ERE ed i suoi personaggi conoscono la situazione, ma il lettore ottiene solamente degli accenni che stimolano il suo interesse, mentre placano la sua accettazione delle meraviglie. «Come in un sogno» Lessingham segue il rondicchio, e il lettore, nella curiosità sognatrice, segue Lessingham nella magnificenza del Castello di Galing. 2. C'era un uomo chiamato Lessingham: ERE inizia il suo romanzo con lo stile di una Saga. Tutte le leggende Islandesi cominciano in questo modo: nella «la Leggenda di Mal» -, «C'era un nano chiamato "Mord"...» «La leggenda di Egil»: «C'era un uomo chiamato Wolf...»
3. Nel Wasdale... gli Screes: per tutti coloro che hanno camminato e si sono arrampicati sulle catene montuose dell'Asia, dell'Europa ο del Nord America, le cime dell'English Lake District assomigliano a montagne rimpicciolite, e i loro pendii rocciosi del Cumbia, sono di impareggiabile bellezza. ERE conosceva ed amava Lakeland, ed è per questo che Wasdale fu uno dei suoi posti preferiti. Questa valle si trova nella parte ovest del Lakeland e vi si trova il Wast Water, il lago più profondo di tutto il distretto (250 piedi). Wasdale ha vicino la foresta di Copeland: Copeland si estende su per le montagne ad ovest di Wast Water, e nell'angoletto più a sud si trova il tranquillo villaggio di Nether Wasdale. Una strada, costeggiando la parte ad ovest del Wast Water, ricollega dal villaggio di Nether Wasdale al villaggio di Wasdale Head nella parte nord della valle. Passeggiando a nord lungo questa strada, si può vedere verso est la distesa da Wast Water agli Screes, che aumenta precipitosamente dalla costa ad est del lago. Gli Screes, da questo punto, sembrano trasportare l'osservatore all'ultima era glaciale. Gli Screes mutano in altezza ed estensione tra due cime: la Whin Rigg (1,755 piedi) e Illgill Head (1,998 piedi). La casa di Lessingham deve essere nel sud vicino al villaggio di Nether Wasdale, ma è probabilmente ad est del fiume Irt, per la vista dal giardino che è a nord-est verso il Iago e Gable può essere vista dietro il Screes. Gable, meglio detta come Great Gable, è alta 2,949 piedi. A. Wainwright, che scrisse «Pictorial Guide to the Lakeland Fells» in sette volumi ed è la bibbia degli esploratori delle cime, descrive Great Gable, «il canuto vecchio favorito,» in parole molto migliori di quelle che potrebbero essere le mie. È l'indiscusso signore del gruppo delle colline al quale appartiene, e la sua altezza superiore è messa in evidenza tremendamente dal profondo golfo che lo separa dai Scafells e che permette una visione che rivela tutta la sua altezza, quasi come fosse una frastagliata piramide: questo è l'aspetto del pendio roccioso dal quale si è guadagnato il nome. Great Gable affascina. Parte come un avversario onorabile e poi diviene un amico. 4. Nial: Mary, la moglie di Lessingham, legge dal capitolo 124 la molto ammirata traduzione di Njal's Saga (Leggenda di Njal) di George Webbe Dasent. Intitolato «The story of Burnt Njal,» fu pubblicato in 2 volumi con
la firma di Edmonston e Douglas ad Edinburgo nel 1861. ERE ottenne i volumi nel 1900, e essi sopportarono per 20 anni la consultazione di ERE, il quale voleva estrarre questa sezione/paragrafo per WO; la copertina verde scolorita (faded green cover) del libro di Mary forse poteva assomigliare a quella di ERE. Le copertine elaborate hanno due vecchi proverbi dell'Islanda sbalzati in oro: «But a short while is hand fain of blow» e «Bare is back without brother behind it.» La traduzione di Dasent è stata ristampata in parte nel «Everyman's Library» di J.M. Dent in Inghilterra e E.P. Dutton negli Stati Uniti. Forse il grande tema di «Njal's Saga» è la saggezza di trovare soluzioni di pace a conflitti potenzialmente violenti. Il saggio Njal costantemente lavora per mantenere i legami salutari di parentela ed amicizia mentre altri uomini più collerici lavorano per rompere questi legami e per soddisfare la loro ira. La trama complicata della leggenda ci parla dei tentativi di amicizia falliti per mettere da parte l'ostilità, del perdono per calmare la vendetta, dell'umiltà per far vacillare l'orgoglio e del compromesso per far svanire la testardaggine. La sinistra «corsa del lupo» presagisce la disfatta finale di Njal ed il trionfo della violenza. L'uomo che vede «la corsa del lupo,» è chiamato Hildigrum, ma esso ha soltanto un piccolo spazio nell'azione della storia. L'uomo sul cavallo grigio con i fianchi «macchiati di brina» racconta a Hildigrum che i consigli di Flosi sono come la torcia accesa che regge. Flosi Thordarson, patrigno di Hoskuld Hvitaness-Priest, intende attaccare la casa di Njal e di uccidere i suoi figli per vendicare la morte di Hildigrum. Flosi attacca la casa di Njal a Bergthorsknoll e uccide tutta la famiglia. È difficile dire esattamente il perché ERE sceglie questo particolare passaggio nella sua induzione: le parole finali di Dasent, «grandi notizie,» potrebbero avere alcune connessioni con il viaggio di Lessingham verso Mercurio. Il presagio potrebbe riferirsi alle grandi notizie della guerra su Mercurio. Conoscendo l'avversione di ERE alle allegorie, evito di suggerire qualche connessione tra i battaglieri islandesi ed i battaglieri Demoni e le Streghe. 5. Pipistrelli rapaci (Hawking bats): ERE pensa che i pipistrelli cacciano insetti come i falchi cacciano gli uccelli. In realtà quest'analogia non è corretta perché i pipistrelli localizzano gli insetti con l'ecogoniometro (sonar) e li mangiano sull'ala, mentre i falchi uccidono altri uccelli tuffandosi su di essi a gran velocità. Questa espressione è un piccolo esempio dell'aspetto Elizabettiano dello stile di ERE. Shakespeare usa il verbo nello stes-
so modo nel Macbeth quando Ross e l'uomo anziano discutono sugli strani presagi ai quali seguì l'uccisione del Re Ducan. Di solito i predatori notturni, le civette, si avventano silenziosamente sulle vittime. Una civetta che normalmente mangia topi uccide un falco con lo stesso metodo che usa il falco stesso. 6. Les Barricade Mysterieuses: il rondeau breve in si bemolle maggiore di Françoise Couperin deve essere suonato «vivement.» 7. Rondicchio (martlet). Normalmente, questi uccelli immaginari non hanno piedi, e sebbene un volatile senza piedi appare nel 12° capitolo, il piccolo e laconico amico di Lessingham sembra possa camminare. 8. Sembrava un cavallo: vedi nota 6 capitolo 1. CAPITOLO I 1. Due sogni che camminano: le parole del rondicchio potrebbero essere state ispirate, a quel che si dice, da Lady Mary Seraskier nel «Peter Ibbetson» di George du Maurier, un romanzo che ERE ammirò molto. Peter Ibbetson incontra Lady Mary in un sogno, ed entrambi viaggiano nella loro infanzia verso Parigi. Una volta lì, Lady Mary avverte Peter: «E ricorda anche che devi stare attento a come tocchi le cose ο le persone - devi sentire, vedere e odorare; ma non devi toccare, né cogliere fiori ο foglie, né spostare niente. Offusca il sogno, come quando si soffia su una finestra. Non so perché, ma è così. Devi ricordarti che tutto qui è morto e finito. Con me e te è differente; noi siamo vivi e reali...» ERE ha capovolto la situazione: nell'opera «Peter Ibbetson» i viaggiatori sognanti sono reali e Parigi è illusoria, ma in WO i viaggiatori sognanti sembrano illusori mentre Mercurio sembra reale. 2. Cresos: Governando dal 560-546 avanti Cristo, egli fu un re pieno di potere e ricco dei Lidi. Egli conquistò Efeso e sottomise i Greci ionici, ma non poté conquistare le isole ioniche, così si alleò ad essi (la versione di Erode della nascita dell'alleanza ha del fascino: vedi The History). Quando Solone (arionte e legislatore) di Atene, lo visitò, Creso chiese a Solone dove si trovasse l'uomo più santo del mondo. Solone disse, «mi è chiaro ciò che tu mi chiedi, io non te lo posso dire, finché io non sento che tu hai vis-
suto la tua vita in buona salute fino alla fine.» Creso non accettò questa risposta e mandò via Solone «non facendo più affidamento a lui, pensandolo come un uomo stupido.» 3. Minosse: un re mitico di creta e figlio di Giove (Zeus); sua moglie, Pasiphae, diede vita al Minotauro; egli sacrificò 7 vergini e adolescenti ogni anno per il Minotauro; egli divenne il giudice della morte nell'Ade. 4. Semiramide: molte leggende circondano questa antica principessa assira che visse nel 9° secolo a.C. La costruzione di Babilonia e i suoi giardini pensili sono attribuiti a lei. Alcune leggende dicono che sia la reincarnazione delle sacerdotesse Ishtar e Astarte. 5. Alla sala delle udienze dei signori di Demonland: Nel 1904, quando ERE aveva 22 anni, ottenne l'edizione di John Ashton del «The Voiage and Travayle» di Sir John Maundeville Knight, scritto inizialmente in francese Anglo-Norman nel 1356-7. Sembra probabile che questo strano e immaginario libro di Maundeville ispirò ERE nella sua descrizione della Galing sala. Maundeville disse ciò che segue sul palazzo del re di Giava: «Il re di questa terra ha un palazzo ricco che è il più bello di questo mondo, per gli scalini di questa sala e le stanze tutte di argento e oro, le pareti ornate di piatti di fine oro e argento, su cui vi sono storie di guerrieri e di battaglie. I pavimenti delle sale e delle stanze sono d'oro e argento, e non c'è uomo che può credere in queste ricchezze finché non le abbia viste...» 6. Ippogrifi: diversamente dal Pegaso di Ovidio questa parola, ippogrifo, fu utilizzata inizialmente nel 16° secolo dal poeta italiano Ariosto per indicare l'ibrido del cavallo e del grifone. Ariosto dichiara inoltre che l'ippogrifo è una bestia naturale per distinguerlo dal cavallo alato del «Orlando Innamorato» di Boiardo, il poema ed il poeta che in parte inspirarono Ariosto. Il cavallo alato che portò Lessingham a Mercurio assomiglia alla bestia di Ariosto, ed è ovvio che il mezzo di trasporto di Lessingham sia il simbolo della terra del demonio (DemonLand). 7. Anguilla di mare: anguilla di acqua salata comune nelle coste della Britannia; raggiunge la lunghezza dai 6 ai 10 piedi ed è mangiabile.
8. Arpia: ERE studiò Virgilio a Oxford, e probabilmente aveva in memoria «Eneide» quando scrisse sul mostro urlante (Libro III: versi 28187). Enea, narrando dei suoi viaggi alla festa di Didone, parla delle Arpie che attaccano con «urli terrificanti», «con orrendi strilli» (A. Mandelbaum) e «frullare di ali» (Dryden). 9. Drago di fuoco: il Dragone ucciso da Beowulf venne chiamato «fyrdraca» e la parola fu usata dagli Elizabettiani per indicare un dragone sputa fuoco. 10. Basilisco: vedi nota 9 capitolo IV. 11. Ciclope: giganti che hanno un occhio rotondo al centro della fronte. Molti vivevano in Sicilia, ma ora sono estinti. 12. Chimere: un mostro che sputa fuoco, con una testa leonina, con il corpo da capra, ed una coda da serpente. 13. Leviatani: Nelle antiche poesie Ebree questo nome si riferisce ad un gigante/enorme animale acquatico reale-immaginario. Gli Elizabettiani lo indicano come balena ο come un mostro marino immaginario. 14. Crisoliti: una varietà giallastra del prezioso berillo. 15. Berili: una pietra trasparente di un verde pallido, qualche volta con riflessi bluastri, gialli ο bianchi. 16. Ametiste: una pietra trasparente di un verde pallido, qualche volta con riflessi bluastri, gialli ο bianchi. 16. Amestite: una pietra composta di manganese e quarzo che è trasparente purpurea ο di colore bluastro-violaceo. 17. Carbonchi (carbuncle): La parola si riferisce ad alcune pietre preziose grandi e rosse; il più comune è il rubino. Tra il 14° e 17° secolo il nome fu applicato ad una pietra mitica inguantata di luce. Riferimenti alla pietra incandescente si possono trovare in scrittori come William Caxton, Sir
Walter Raleigh, ma ERE trovò questa leggendaria pietra nell'opera «Voiage and Travayle» di Sir John Maundeville. 18. Lapis lazzuli: una pietra di silicato sulfureo di un colore blu luminoso. 19. Tessuti (cloth of tissue): un tessuto prezioso intrecciato con fili in oro e argento. Gli Elizabettiani e Vittoriani lo valutarono molto. ERE lo conobbe tramite John Webster. In II: 1 del «The White Devil» il Duca di Firenze rimprovera Brachiano con sospetto per l'adulterio di Brachiano con Vittoria Corombona, ed egli crede che Vittoria venga pagata da Brachiano per essere la sua mente. Her husband is lord of a poor fortune Yet she wears cloth of tissue 20. Mussole: garza, mussola finissima. 21. Monili (carcanets): collane intarse di gioielli. 22. Elena: Elena di Troia era tanto bella da rendere invidiosa Afrodite. 23. Atalanta: ERE ammirò l'«Atalanta» di Swinburne da comperare la sua opera completa di 19 volumi. Nell'opera «Atalanta in Calydon» di Swinburne, Meleager il principe di Calydon ama e riverisce una fanciulla arcadica. 24. Frine: una amabile donna greca del 4 secolo a.C. Pose come modella per Prassitele quando egli creò la «Cnidian Aphrodite», la prima scultura a grandezza naturale, figura nuda nell'arte classica greca. 25. Regina dei morti: Persefone, la figlia di Zeus e Demetria, fu portata da Ade nell'oltretomba; lì essa mangiò del cibo e questo la obbligò a restare con Ade per sei mesi all'anno. 26. Silfidi: più spiriti che abitano nell'aria. 27. Fuoco fatuo: letteralmente, un fuoco che divampa spontaneamente in una palude ο in un pantano; perché esso vaga con una irresistibile e miste-
riosa luce; questo termine è usato in senso figurativo e per tutto ciò che è attrazione/seduzione ma anche inganno. 28. Cendale: un materiale di seta leggero e ricco. 29. Receder... murthered: Accadde nel 382; vedi cronologia. 30. Nella battaglia coi Ghoul: questa guerra iniziò nel 399. In un lettera (16 marzo 1942) ad un amico americano di nome J.M. Howard, ERE fece una comparazione tra la guerra con la Germania e la guerra contro i Ghouls. Fece una distinzione tra «le contese per la vita» come le guerre gioiose (joyous) «di Galing contro Carce» e la guerra distruttiva, infelice, odiosa, disgraziata contro l'ideologia di Hitler. CAPITOLO II 1. Circo glaciale: una valle ο un lato di una collina tagliata da un ghiacciaio. 2. Terreno... lotta: ERE modellò questo episodio sulle istituzioni islandesi del combattimento imparziale chiamato «holmgand». Fino all'anno 1006, entrambi, l'imputato e il querelante, ebbero il diritto di chiamare «holmgand» come un metodo per risolvere delle dispute legali. Un esempio di «holmgand», vedi capitolo 65 della «Egil's Saga». 3. greaves: una corazza per la parte inferiore della gamba, che copre lo stinco. 4. aspetterò che queste cose si chiariscano: queste sono le ultime parole di Lessingham. Orville Prescott crede che l'uso che ERE fa di Lessingham sia imbarazzante. Lin Carter, dice che Prescott «laid his finger on the book's main flaw» (mise il suo dito sul punto debole del libro). È vero che la partecipazione di Lessingham nel romanzo finisce inaspettatamente, ma la mancanza di spiegazione per questa fine improvvisa non è necessariamente un punto debole. Forse il silenzio di Lessingham fino alla fine del romanzo è un espressione della sua dichiarazione «non ballerò alle sue canzoni, ed aspetterò che queste cose si chiariscano». Oppure, forse ERE intende utilizzare
Lessingham come narratore di una leggenda che non interpreta azioni ο che non giudica i personaggi. D'altra parte, forse la spiegazione è lì. Il rondicchio spiega accuratamente la posizione di Lessingham su Mercurio. ERE spiega chiaramente che Lessingham è realmente al di fuori di questo mondo (come lo è il lettore) sebbene lo stia guardando, e avendo stabilito la sua presenza come osservatore costante, ERE non crede necessario dire qualsiasi cosa su di lui. 5. Lord Gro: Nel «Book of Drawings» (vedi sezione 2 nell'introduzione) Gro emerge come figura molto complicata. Agisce molto più eroicamente nei disegni in confronto al WO. Un disegno ci mostra «Lord Gro mentre spezza il giavellotto del figlio di Corund in due»: una maestria di cui solo Gunnar e Kolskegg del «Njal's Saga» sarebbero capaci. C'è un'altro disegno «I leoni che tentano di trattenere e disarmare Lord Gro affinché il figlio di Corsus possa scappare.» In questo disegno Gro è visto come un eroe più grande e più forte dei demoni; infatti i tre demoni hanno difficoltà a trattenerlo. Il momento più importante di Gro nel «Book of Drawings» è quando guida la carica contro un'armata di streghe: «Gorice stava di certo vincendo, quando Lord Gro arrivò per la liberazione con 50 uomini.» Nel WO, Gro non fa niente di così eroico, anche se combatte nella battaglia finale prima di Carce. Nel «Book of Drawings» Gro è incrollabile al fianco dei Demoni: egli non è un voltafaccia, nato con un cuore (heroworkshiping). Ciò nonostante, Gro è descritto in situazioni che fanno pensare che egli abbia alcune caratteristiche dell'ingegno di Macchiavelli. Due disegni mostrano Gro sparare ad un'altro lord alle spalle. Un'altro è intitolato «Lord Gro pugnala Lord Gandari mentre beve.» Sicuramente non sono momenti di coraggio simile alla sua tremenda carica su Gorice. «Io non so per quale motivo Gro uccide quest'uomo, ma il quadro mostra Lord Gro che si scaglia contro qualcuno che fu suo alleato.» Da allora alcuni disegni mostrano largamente dei tratti differenti, e io credo che Gro divenne il personaggio più complicato nell'immaginazione di ERE. 6. La sua lunga barba nera era folta e ricciuta: ERE ha in mente le figure barbute di bronzo e pietra e le sculture in rilievo dell'antica Akkad, Assyria e Babilonia. ERE credeva fermamente nella bellezza della barba e nel 1930 dichiarò le sue vedute in un immaginario e non pubblicato saggio chiamata «A Night Piece on Hair». ERE, col suo io narrante, può solo identificarsi con le grandi sculture
barbute degli Assiri. ERE portò i baffi per quasi tutta la sua vita adulta. Durante un viaggio in Islanda nel 1926, si fece crescere la barba e al suo ritorno, sua moglie, Winifred, e sua figlia, Jean, lo supplicarono di tagliarla. Per compiacerle, si rasò, ma per non allontanare completamente questo ornamento di mascolinità, mantenne i baffi fino alla fine dei suoi giorni. 7. Robbia: una pietra rampicante le cui radici producono dei pigmenti rossi usati per produrre una tintura. 8. Corinius: questo figlio di Witchland possiede alcuni, ma sicuramente non tutti, i tratti del suo omonimo nell'opera «Historia Regum Britanniae» di Geoffrey of Monmouth. L'eroe narrativo di Geoffrey, Brutus, mentre guida il suo popolo verso Albion, incontra l'esiliato Corineus di Troja, «un uomo saggio, prudente nel consiglio, di grande coraggio e audacia» in Mauretania. Corineus ed il suo popolo si uniscono a Brutus, ed essi navigano verso l'Aquitania, dove Corineus, già rinomato come combattente contro i giganti, colpisce Brutus nel guidare i guerrieri alla conquista degli Aquitani: «Corineus brandisce la sua ascia tra i battaglioni ritirati... con un solo colpo stacca la testa di un uomo, e poi taglia le gambe.» ERE probabilmente lesse Geoffrey nella sua giovinezza. Sebbene l'eroe di ERE abbia lo stesso coraggio di quello di Geoffrey, non è sicuramente così saggio. 9. angelica: pianta aromatica; le sue radici sono usate nel campo della medicina contro malattie e veleno. 10. Sollevò il re sopra la testa: l'opera «Egil's Saga» è la fonte dell'atto di violenza di Goldry. Nell'episodio imitato da ERE, Skallagrim, il padre di Egil, si gonfia di rabbia durante un gioco di palla che assomiglia al rugby, e la sua forza aumenta proporzionalmente: Grin divenne così forte che afferrò Thord e lo gettò a terra con tale violenza da annientarlo sul colpo. Vedi le seguenti note che descrivono la natura di Skalagrim e la furia battagliera di Goldry. 11. L'ira abbandonò Goldry e lo lasciò sfinito: la rabbia improvvisa che aumenta in Goldry, la sua follia temporanea il suo digrignare i denti e la sua bava alla bocca, la sua irascibile e straordinaria violenza, e l'improvvisa scomparsa della rabbia e della forza, sono alcune della caratteristiche
del «berserk.» Questo Vecchio Termine islandese si riferisce ad un guerriero la cui mente e corpo divengono preda della furia battagliera ο «furor athleticus,» come Tacito descrisse tra le tribù germaniche. Controversia ancora esiste sul significato preciso della parola: alcuni studiosi credono che esso descriva i guerrieri che vanno in battaglia vestendo solamente la pelle d'orso; altri credono che descriva i guerrieri che vanno in battaglia con una maglia di ferro. ERE, consapevole di questa controversia e forse senza voler prendere una posizione, fece combattere Goldry e Gorice XI nudi. «Egil's Saga» dà una descrizione del «Berserkgang.» Per un uomo essere «shape strong» significa che ha l'abilità di cambiare la sua forma, usualmente in quella di un lupo ο di un orso, e Kveldulf, che fu eccezionalmente forte ha un nome che significa «lupo della sera.» La tradizione di Shapestrong è spesso collegata alla tradizione del berserk nella letteratura Old Norse. Il folclore di molte culture contengono una tradizione di licantropia. CAPITOLO III 1. In onore (arvale): questa parola usualmente si riferisce a una festa funeraria. Qui sembra si riferisca a un brindisi. 2. firkin: botte piccola con una capacità di 8 ο 9 galloni. 3. tiorba: un liuto con 2 colli (fretted = inquietanti) e 2 serie di tuning pegs; la parte del collo inferiore contiene le corde da soprano, e il collo superiore, le corde del basso. 4. oboe: uno strumento con una doppia pancia di legno con estensione intonata di 2 e mezzo ottave; divenne un oboe moderno. 5. Armonia eolia: una scala sulla quale alcuni canti gregoriani erano basati. 6. Timor Mortis conturbai me: la paura della morte mi turba. 7. Giardino (pleasance): un giardino; qui usato per indicare il mondo materiale.
8. Ramo (wicker): un ramo del salice; forse una candela. 9. Pavana: Un maestoso ballo lento (tempo 2/2). 10. Allemande: un nome dato a vari balli germanici. 11. Fandango: un ballo veloce spagnolo (tempo 3/4). 12. Baccanali: le danze selvagge delle sacerdotesse di Bacco. 13. Gagliarda: un ballo svelto. 14. Giga: un ballo (tempo 6/8). 15. Coranto: un ballo francese molto vivo (tempo triplo). 16. Ottarde: grandi uccelli europei che non volano, ma capaci di correre con grande velocità. Essi sono molto rari adesso in Europa; la grande ottarda una volta fu molto comune in Inghilterra, ma adesso è estinta. 17. Stella guida: una stella che fa da guida nella navigazione. 18. Senza carattere (infirm of purpose): le parole sprezzanti di lady Macbeth a suo marito quando egli ebbe paura di portare indietro i pugnali alla Chamber di Duncan. 19. Negromanzia: popolarmente, «magia nera,» riferendosi all'evocazione; originariamente, l'arte di raccontare gli eventi del futuro attraverso la comunicazione con i morti. 20. C'era scritto: nel brano originale la parola rara «chirt» (schiacciare) e quella scritta «brenne» (burri) dovrebbe collocare questo pezzettino di prosa nel 16° secolo. Ma nel 1500 già molti scrittori scrissero hous senza la e finale; la parola shippe la si può trovare in Caxton. Così, considerando queste parole insieme, questo scrivere può essere collocato alla fine del 15° secolo. Esso contrasta ai colloqui dei personaggi, i quali richiamano echi, e qualche volta li quota, come gli scrittori inglesi del tardo 16° sec. e primo 17° sec. (Vedere anche nota 10 al capitolo VIII). Eddison conserva
un eclettismo alchemico nello stile. (La resa in italiano è, ovviamente solo approssimativa). CAPITOLO IV 1. Modiglione: (beccatello, mensola) una proiezione di una pietra incastrata nel muro e che sporge e tiene come supporto il peso della struttura al di sopra; il beccatello della tavola a Carce supporta la torre e il parapetto. 2. Caditoie: aperture tra 2 beccatelli di sostegno (corbel supports); attraverso questa apertura il piombo liquefatto/fuso ο l'acqua bollita può essere versato. 3. Dongione: la parte più interna e protetta del castello. 4. Storte: recipienti di vetro con un collo lungo, fine e curvo; utilizzati per distillare liquidi. 5. astrolabio: uno strumento obsoleto precedentemente usato per calcolare l'altezza; esso ha diverse forme, ma comunemente aveva dei cerchi metallici che corrispondevano alle orbite planetarie. 6. Alambicco: recipiente usato per distillare. 7. cormorani: un uccello nero con una lunghezza che supera i 3 piedi; essi vivono sui litorali a nord dell'emisfero e sono conosciuti come insaziabilmente voraci. 8. fantasmagoria: un esibizione di illusioni ottiche. 9. Un orrore più materiale: un piccolo ma mortale mostro uscito dal guscio dell'uovo di una gallina covato da un serpente. Come con il Gorgon, un'occhiata può uccidere. ERE costruisce la sua descrizione sul folclore elisabettiano. Perfino la dolce Giulietta parla de «L'occhio mortale del Basilisco» (Romeo e Giulietta, II: ii: 47). 10. gorgone: Phorcus, una quantità marina, generò tre gorgoni, le cui teste erano coperte di serpenti e i cui occhi trasformavano uomini in pietre.
Medusa, che Perseo uccise, fu la sua figlia più famosa. 11. unhallowed processes... nearing maturity: i termini nominati sono dei processi alchemici. Fissazione è il processo per ridurre uno spirito volatile in una forma permanente corporea; nella moderna chimica, significa combinare un gas con un solido. Congiunzione è un processo di unificazione dei componenti della materia. Deflagrazione è un'improvvisa combustione che modifica la composizione di una sostanza. Putrefazione è la decomposizione di una sostanza per azione chimica. Rubificazione è il processo che porta al calor rosso un metallo. 12. Decozione: Processo dove si fa bollire una sostanza nell'acqua per poter estrarre le sue parti solubili. 13. Gheppio: un piccolo falco. 14. Costose essenze: l'oro-conchiglia è oro per disegnare ο scrivere ed è contenuto in una cozza. L'oro zafferano è una preparazione chimica color zafferano. L'allume è amianto. Mandragora è una pianta velenosa usata come narcotico (vedi nota 58 capitolo VII). L'aconito e l'elleboro nero sono delle piante velenose. Lo stramonio è una pianta usata come narcotico che ha il frutto tondo e il gambo spinoso. Afiroselmia, asem, strypteria di Melos, e vinum ardens sono delle sostanze così esoteriche che la loro conoscenza è stata proibita dal 16° secolo. 15. aurum potabile: nell'alchimia, è il più agognato elisir della perfezione, che potrebbe allungare la vita e dare salute perfetta. 16. Innumerevoli strumenti di forme bizzarre: sono recipienti usati in alchimia. L'aludeldo è un recipiente a forma di pera in vetro ο terra cotta aperto ad entrambi i lati. Un bagno a sabbia è un recipiente di sabbia riscaldata utilizzata per riscaldare altri recipienti. Matraccio è un recipiente di vetro rotondo con un collo lungo usato per distillare. L'athanor è un forno che mantiene costante il calore. CAPITOLO V 1. Tuniche: una tunica ο mantello che qualche volta arriva alle ginoc-
chia; usualmente da mettere sopra una maglietta ο sotto il cappotto. 2. Porpora di tiro: tiro, la terra dalla quale la grande regina di Cartagine Didone scappò, è rinomata per i suoi colori porpora. 3. Alettoria: una pietra di un color acqua pallido localizzata nella gola di un gallo. 4. Sull'orlo della foglia: Brandoch Daha qui fa esperienza della progressione emozionale di un «berserk,» ma l'attacco non si verifica (vedi nota 11 al capitolo II). CAPITOLO VI 1. I miei occhi sono abbagliati: ERE amò così tanto due tragedie italiane di Webster da farsi coinvolgere totalmente. Molte righe di Webster ondeggiano nell'immaginazione di ERE, e una sua espressione è stata utilizzata in senso colloquiale: Cover her face. Mine eyes dazile: she dieci young. (Copri il suo viso. I miei occhi sono abbagliati: lei è morta giovane). Ferdinando dice queste parole mentre guarda il corpo della sorella gemella the Duchess. Egli ordinò la sua morte (The Duchess of Malfi: IV: ii: 263). 2. Guerrieri (kemperie men): un lottatore; questo termine venne utilizzato nel linguaggio medievale germanico. CAPITOLO VII 1. Asplenio: nome utilizzato per varie specie di felce. 2. assafoetida: una gomma resinosa con un forte odore di aglio; ottenuta da piante nell'Asia centrale. 3. Tuia: nome popolare per alcuni arbusti sempreverdi. 4. Cotogne: varietà di mele.
5. hippocras: vino aromatizzato con delle spezie. 6. Gli salvò la vita a Impland sei inverni fa: vedi «Cronologia,» anno 393. 7. cariatide: una figura femminile usata come colonna per reggere un architrave ο una trabeazione. 8. Una musica barbarica: musica da una delle provincie esterne all'impero di Witchland. 9. Pulsatilla: una specie di anemone con il fiore porpora a campana; sono tipici fiori di aprile. 10. Atropo dell'oleandro: queste amabili falene hanno ali che assomigliano agli aerei moderni da guerra; hanno delle sfumature verdi, con delle strie bianche, gialle, rosa e un tocco di lavanda. Il bruco vive sull'oleandro, un arbusto velenoso sempreverde con fiori bianchi e rosa. La falena può essere nella calda Europa mediterranea, ma è più comune in Africa. 11. Cardii: una specie di molluschi. 12. Anugine di cardo: sostanza leggera come una piuma, sottile che circonda (surrounds) i semi del cardo selvatico e che consente ad essi di diffondere la loro specie trasportando i semi nel vento. 13. Giustacuore: giacca corta e aderente. 14. Brionia: una pianta vinicola dell'Inghilterra del Sud. Le tre varietà sono note come rossa, bianca e nera. 15. Belladonna: una pianta con fiori bianchi e bacche nere velenose. 16. Iperboree: dell'estremo nord della terra. 17. Lana scadente (mockado): un materiale di lana di qualità minore della seta ο del velluto; prodotta nei paesi bassi nel 16° e 17° secolo.
18. Zigolo: una specie di uccelli; si trova in Europa, Nordafrica e nell'Asia; ricercato per il suo sapore. 19. Bottarga: uova di pesce salate, caviale italiano. 20. In una specie di...: per dare una spiegazione sull'ambizione, ERE fa uso di 2 citazioni da alcuni versi di Shakespeare e di Webster. (Dall'Amleto e dalla The Duchess of Malfi). 21. Riguardante il rosso e il raggio: durante il periodo Elisabettiano, lo studio degli anfibi e degli aracnidi fu talmente approfondito da intaccare le credenze popolari che circondano i ragni e i rospi. Edward Topsell, nel Historie of Serpents (1608), classifica sia i ragni sia i rospi come velenosi serpenti, sono tutte bestie velenose; sia quelle che strisciano senza gambe, come le vipere e i serpenti, sia quelle con le gambe, come i coccodrilli e le lucertole, e sia quelle con dimensioni minori, come i rospi, ragni e le api. Robert Greene credeva nel 1592 che i ragni succhiassero il veleno dai fiati. In questo modo, ERE aggiunge un'altra attitudine Elisabettiana ai costumi di Mercurio. Un passo di Sir Thomas Browne è, invece, la fonte delle argomentazioni di prezmyra: egli, con i suoi esperimenti, demolì le convinzioni Elisabettiane. ERE ottenne 3 volumi delle opere di Sir Thomas Browne nel 1916, ed egli ammirò queste opere per tutta la sua vita. Spesso riconobbe il suo debito verso Browne. 22. Damerino alticcio e linguettante (Popinjay): ERE con molta probabilità ricordava le prime righe di apertura dell'opera Enrico IV di Hotspur nel quale viene raccontato che il re non liberò i Primonieri perché fu «importunato da un popinjay.» Poponjay è un termine Elisabettiano per intendere un pappagallo sprezzante, con connotazioni omosessuali, per indicare un uomo schizzinoso, delicato ed effeminato con un guardaroba molto vistoso. 23. Farò delle incisioni Beshtriane nelle sue budella: ERE ha estratto dall'opera di John Webster «The White Devil» questa espressione, quando per la rabbia del suo esilio, il Conte Ludovico minaccia il Duca di Firenze e il Duca di Brachiano. Italian Cut-work era un tipo di ricamo fatto con stoffa tagliata ο stampata, ed era molto popolare nel 16 e 17° secolo in Ita-
lia. ERE giudiziosamente ha collocato questo passatempo su Mercurio. 24. Finora il giorno era andato avanti monotono: Brandoch Daha fa riferimento al fascinoso, impetuoso, esuberante e amorale Flamineo dell'opera «The White Devil» di Webster. 25. Hai dissotterrato due mandragole che porteranno dolore e morte: la mandragola ha un frutto velenoso che veniva usato come narcotico e per gli enteroclismi, e veniva considerato, fin dai tempi antichi, un afrodisiaco. A causa della forma delle sue radici, che somiglia alla parte inferiore di un corpo umano, nel periodo Elisabettiano era oggetto di molte superstizioni. CAPITOLO VIII 1. Negli spazi immacolati... dalle onde: in questo paragrafo si può udire l'eco de «The Rime of the Ancient Mariner» di Coleridge, forse il lavoro di Coleridge che ERE ammirò maggiormente. 2. Guardie del corpo house-carles: nell'antica Norvegia un «Huskarl» era un servitore; nell'antica Inghilterra il termine indicava i membri delle guardie del corpo del re. 3. Mosaico di pietre minuscole: il gaietto è nero e lucido. La serpentina è un minerale verde scuro. Lo zircone scuro è una pietra preziosa blu scura. L'eliotiropio è il diaspro od ogni altra pietra preziosa con delle macchie rosse. 4. Forzieri muniti di lucchetti (almerie hasped): è un armadio a muro ο una credenza che assomiglia ad una cassaforte moderna. 5. Cavalcarono... crogiolavano al sole: la conoscenza di ERE dei fiori selvaggi era notevole. La margheritina di campo è la margherita comune bianca e gialla che si trova sui campi tra giugno e agosto. Il Bluebell potrebbe essere una delle erbe con larghe foglie e piccoli fiori a campana. Le olmarie gialle fioriscono nel periodo estivo; hanno dei fili d'erba verdi e vicino ci sono dei fiori con tanti petali gialli con al centro delle macchie nere... Quando era ragazzo, ERE girovagava sulle colline di Adel, villaggio in
cui era nato e adesso è un sobborgo di Leeds. Da giovane camminava nel Yorkshire Dales e tra le rupi di Lakeland. Più tardi visitò l'Islanda, il Canada e la Svizzera. In una lettera indirizzata a me e datata 15 maggio 1983, la figlia di ERE, Jean G.R. Latahm, parlava del suo amore per la natura: «Egli fu così innamorato della natura e dell'arte e io imparai tanto da lui, come la gioia per gli animali, gli uccelli, i fiori e le vacanze in montagna». 6. Onice: una varietà di quarzo che riflette molti colori dalla parte interna del cristallo; 7. Ialino: un nome per il mare quando è limpido e piatto. 8. Caravan serraglio: un punto d'incontro ο di sosta. 9. balustrates: file di colonne sormontate da una ringhiera per formare un muro ornamentale all'angolo di una terrazza ο balcone. 10. C'era scritto in lettere d'oro: questa originale iscrizione unisce il ye arcaico con le parole del dialetto scozzese (an' a', awa', frae) e una parola dai dialetti del Wiltshire ο del West Somerset (skeered). Questa iscrizione è un altro esempio dell'eclettismo alchemico di ERE. Tutti i suoi personaggi comunicano in inglese, ed egli pone ampi limiti al loro modo di comunicare; i loro modi di parlare e scrivere evocano geograficamente diversi dialetti, e spaziano dal 15 al 20° secolo. 11. What be these mantichores...?: in questo paragrafo sui «mantichores» ERE ci fa conoscere una parte del suo metodo di composizione: una consultazione abituale del Oxford English Dictionary per assicurare l'uso proprio degli arcaismi. CAPITOLO IX 1. Succo di frutta acerba: il succo acido di chicchi d'uva non maturi; usato in cucina e come medicina. 2. Erebos: Nella «teogonia» di Esiodo, Erebo rappresenta le tenebre primordiali del caos. Lui e sua sorella, Notte, sono i genitori di Etere e Giorno. Usualmente, l'Erebo è il nome usato per l'oltretomba.
3. Il fosco traghettatore che non aspetta nessuno: Zeldornius, si riferisce all'impaziente e insolente Caronte, il marinaio dello Stige, il cui impegno compito è quello di portare le anime dei morti ai campi del dolore. Virgilio lo descrive nel libro VI dell'Eneide quando la Sibilla conduce Enea attraverso l'oltretomba per incontrarsi con il padre Anchise: CAPITOLO X 1. Fissato con chiodi di diamante: Flammeo nel White Devil di John Webster è il segretario di Brachiano e suo ruffiano nella storia d'amore con Vittoria. Egli rassicura quest'ultima, dicendole: «Lo incontrerai, è certo, fissato coi chiodi di diamante dalla necessità inevitabile». (I: ii: 158-159). 2. Cimofane: un sinonimo di «crisoberillo»; una gemma giallo-verde. 3. Della mirra del nardo e dell'ambra grigia: Sono dei profumi. La Mirra è una gomma-resina prodotta dall'arbusto di mirra; è associata con i paesi del Medio Oriente. Il Nardo è un unguento aromatico estratto dalla pianta di nardo attraverso la bollitura. L'ambra grigia è una secrezione odorosa della balena. 4. ... Dalla camera: Questo episodio a Eshgrar Ogo fu ispirato in parte da «The Voiage and Travayle of Sir John Maundeville Knight» (1357). 5. Maledizione (Weird): ai nostri tempi questa parola è usata universalmente come aggettivo per descrivere qualcosa di strano ο anormale. Questo uso moderno discende principalmente da «the weird sisters» del Macbeth, donne misteriose e strane, dall'aspetto bizzarro. Weird originariamente era una parola dell'inglese antico scritta «wyrd» e ha il significato, in molti poemi, di fato, destino, esperienza. CAPITOLO XI 1. Il diavolo mi renda nero come il latticello: Qui Corund, in un momento di tranquillità parla con ironia a Gro, il latticello, ovviamente è ben lungi dall'essere nero.
2. Umori freddi e neri nel corpo: La medicina del Medioevo e del Rinascimento catalogava gli umori in quattro tipi: sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico. 3. firkin: barile/botte che può contenere dagli 8 agli 9 galloni. 4. Un duro colpo sotto le costole: qui ERE usa una frase di Otello nel quale Iago cerca di scoprire la lealtà di Otello, raccontandogli il suo desiderio di uccidere Brabantio. 5. Bestie ripugnanti... Banchettarono coi loro corpi alla luce della luna: questa immagine, comune alla poesia eroica, ispira orrore agli eroi e alle loro famiglie perché la gloria finale e la reputazione di un eroe richiedono che sia bruciato; se questo corpo invece rimane sul campo per essere mangiucchiato dagli animali, la gloria finale gli è negata. I versi di apertura dell'Iliade dimostrano direttamente questo orrore. 6. Per combattere da solo contro un esperto spadaccino: Nell'atto III scena XIII di «Antonio e Cleopatra», Antonio decide di sfidare Cesare Ottaviano in un combattimento. Il dialogo fra lui ed Enobarbo, suo ufficiale, è simile a questo fra Corund e Brandoch Daha. CAPITOLO XII 1. Regina Sophonisba: il nome deriva da una tragedia scritta nel 1606 da John Marston. ERE venne a conoscenza di questo nome probabilmente attraverso John Webster, il quale ammirò l'opera di Marston. 2. Tartaro: deriva dal Tartaro, la regione nell'oltretomba della mitologia romana nella quale gli spiriti colpevoli erano puniti. 3. Delle forre infernali del flegetonte e dell'acheronte: Pyriphlegethon è più comunemente nota come Phlegethon, ed è uno dei fiumi dell'Oltretomba della mitologia romana e che letteralmente ha il significato, «fiammeggiante». L'Acheronte è il fiume del dolore nell'Oltretomba romana ma è anche usato come nome per l'Oltretomba. Il Faust dannato di Christopher Marlowe giura davanti ad entrambi i fiumi. Forse ERE aveva in mente i suoi versi quando scrisse questo capitolo,
data la grande ammirazione per Marlowe. ERE ottenne l'edizione Mermaid Series delle opere di Marlowe nel 1904 e le custodì fino alla sua morte. 4. Le porte di Zimiamvia: È il primo riferimento al luogo che divenne poi il «paradiso privato» dei personaggi come Edward Lessingham e Mary Scarnside Lessingham creati da ERE, 10 anni dopo e durante la preparazione del «Mistress of Mistresses». Questi personaggi, poiché capitano nell'«induzione» di WO, forniscono una connessione tra i due romanzi, che sono stati pubblicati a 14 anni di distanza. La posizione geografica di Zimiamvia su Mercurio, qui così chiara, diviene nebulosa nei libri successivi, dove Mercurio non viene mai nominato. CAPITOLO XIII 1. Furie che emergono dall'abisso: nati dalle goccie del sangue che sgorga dai genitali di Urano ferito, le tre furie divennero delle creature alate con dei serpenti che si contorcono sui loro capelli. Sono messe in relazione con l'odio, la rabbia e la vendetta. 2. Elefanti marini: Probabilmente un «nicker» è uno squalo ο una balena-killer, ma alcuni hanno pensato ad un ippopotamo. Per gli Anglosassoni essi furono dei mostri marini, e Beowulf combatte con alcuni di essi soffrendo grandi pene (vedi Beowulf, riga 422-23). Personalmente, piace l'idea di un gruppo di ippopotami che danno a Beowulf un passaggio in cambio del suo dervaro. 3. La porta di corno: nelle leggende greche i sogni veri attraversano la porta di Corno, e quelli falsi attraverso la porta d'avorio. CAPITOLO XIV 1. Il suo proposito tentenna: versi di Macbeth prima del suo sanguinario attacco al castello di Macduff in Fife (IV: i: 153-154). 2. Il punto più basso e tetro dei nostri giorni: Nel 1916 ERE ottenne «Pseudodoxia Epidemica, Religio Medici e Hydriotaphia» di Sir Thomas Browne (1605-1682). Qui ERE da riferimento alla visione di Brown della provvidenza di Dio dal 43 del «Religio Medici».
3. Le effimere prendono vita col sole e muoiono con la rugiada: ERE fa riferimento al «The Honorable Historie of Frier Bacon and Frier Bongay» (1594) di Roberto Greene. 4. Terra di mezzo: questo è il nome per la terra abitata dagli uomini. Il termine moderno viene dalla parola «middangeard» dell'inglese antico, che significa «terra» ο «mondo». CAPITOLO XV 1. Crisolito: una gemma verde. 2. Turlupinando e tormentando (gleeking e galling): «Gleeke» era un gioco di carte familiare ai Jacobini ed Elisabettiani. John Webster si riferisce ad esso ne «The Devil's Law Case». CAPITOLO XVI 1. Antigorite: marmo laminato, con colore lucente color verde pallido. 2. Cortigiana (bona roba): un «buon vestito»; un eufemismo italiano per una signora. CAPITOLO XVII 1. Librarsi: un falco cacciatore che vola in circolo ad una altezza immensa, prima di buttarsi a grande velocità sulla sua preda; questi cerchi alti sono chiamati «towering». 2. Caccia mounty: nella falconeria, l'azione nell'innalzarsi per la caccia alla preda. 3. Non è la cosa più splendida... che domina il mondo?: Qui ERE parafrasa dei versi del Tamburlaine di Cristopher Marlowe (II; V: 51-54). 4. Astori: un grande falco dalle ali corte.
5. Corvette e Sgroppate: nell'equitazione la corvette è un salto nel quale il cavallo alza le zampe anteriori e poi salta con le zampe posteriori prima che quelle anteriori arrivino a terra. Una sgroppata è un salto seguito da un movimento rotatorio delle zampe posteriori. 6. Austringetri: I custodi dei falchi. 7. Smeriglio: falco europeo, molto piccolo ma molto coraggioso. 8. Aquila selvaggia: un falcone preso dopo essere cresciuto libero. 9. Geti... anelli d'argento... cappuccio: Nella falconeria i «geti» sono le «briglie» attaccate alle zampe del falco e alla gruccia. Gli anelli sono dei cerchi metallici connessi ai «geti» e a dei piccoli guinzagli. Il cappuccio è un piccolo sacchetto di pelle infilato sulla testa del falco e usato per renderlo docile. 10. Appannaggio: una provincia per il sostentamento di un principe. CAPITOLO XVIII 1. serpentina: marmo. 2. Calce spenta: quando il calcare viene bruciato al punto di decomporlo, esso libera acido di carbonio mentre l'ossido di calcio ο la calce viva rimane e deve essere spento ο lavato via con l'acqua. La calce viva ha un colore giallo pallido. 3. Scarabeo (scarab fly): il nome usato per lo scarabeo che si riproduce e si nutre di letame. 4. L'ho scoperto: È ovvio che dopo un omicidio simile a quello di Macbeth, Corsus usasse una delle espressioni di Maebeth. Incoronato e adesso pieno di paure e ansie, Macbeth racconta alla moglie che dovranno essere commessi molti più omicidi, prima che si possano salvare: «Abbiamo scoperto la serpe, ma non l'abbiamo uccisa». 5. Colpisca in maniera irreparabile nel testo: È un termine di tennis ob-
soleto: gli azzardi erano 3 posti vincenti del campo; se la palla viene indirizzata in uno di questi, viene segnato un punto. 6. Eliotropio: quarzo macchiato di verde ο striato di rosso. 7. Brionia: una pianta rampicante simile alla vite. 8. Corsus si è dimostrato un'aquila selvaggia: La metafora del re conferma che l'incidente del Cap. XVII era un malefico presagio: l'aquila selvaggia rappresenta Corsus; il cane, Gallandus; il cinghiale, Demonland; e gli occhi strappati, l'assassino di Gallandus da parte di Corsus. Le parole del re riecheggiano anche quelle di Otello nell'atto III scena III. CAPITOLO XIX 1. Balascio: originariamente un nome proprio per indicare il distretto vicino Sarmarcanda dove sono stati trovati i rubini. 2. Il dardo-di-guerra: Nel 10° sec. in Norvegia, frecce simboliche di ferro e legno circolavano attraverso tutto il paese quando un lord aveva la necessità di radunare in fretta un'armata. 3. Stai attento scogliera di Thremnir!: Questa piccola scena è un'altra delle combinazioni eclettiche di ERE. Il vecchio sembra sia Odino, per il suo aspetto che si avvicina molto a Odino nella Volsunga Saga. In quella storia Odino appare cinque volte, e viene sempre descritto come un uomo vecchio che ha un occhio solo, con una lunga barba e porta in testa un cappello a cencio. Il vecchio rimanda anche all'indovino che si avvicina a Giulio Cesare e lo avverte: «Attento alle idi di Marco!» (Giulio Cesare: I: II: 18). 4. Ti farò inghiottire una pera acerba: qui ERE si fa prestare un verso da The White Devil di John Webster. Il cardinale Monticelso, rimproverando Vittoria per suo sarcasmo usato durante la prova di aulterio dice questa frase. 5. Choke-pear: è una pera non ancora matura e amara.
6. Marrubbio nero... Achilea: la prima è un'erba con foglie coperte da una lanugine bianca; la seconda è un erba che si trova sul bordo della strada con un robusto gambo e con dei fiori bianchi. CAPITOLO XX 1. cameline: un genere di piante con quattro fiori che crescono con una forma a croce. 2. Fumante per la battaglia: il fumo è il vapore che deriva dal sangue umano bollente e salato in una mattina fredda. CAPITOLO XXI 1. Divina Cacciatrice: in Grecia, la dea Artemide; a Roma, Diana. CAPITOLO XXII 1. Archetto: il vecchio guerriero Ravnor dimostra un inaspettata frivolezza, rivelando di aver giocato a croquet. 2. Vorrei conoscere i loro nomi: vedi nota 5 Capitolo XXVII. 3. Diaspro: una roccia di quarzo con vari colori. 4. Dado: un continuo basamento che supporta le colonne. 5. In tutta la loro delicata bellezza: ERE potrebbe avere avuto in mente il «Prometeo» di Shelley quando scrisse questa frase. L'amaranto è un fiore immaginario il cui fiore non avvizzisce mai. La nepente è una pianta famosa per la droga che si ottiene dalle foglie, ma ERE, come Shelley, elogia il suo fiore; la droga della nepente porta l'oblio. Hermes diede l'aglio selvatico, un'erba con dei fiori bianchi, a Ulisse per proteggerlo dalla maga Circe. 6. Fra le braccia della regina dell'amore: Demodoco, la voce chiara, canta dell'«amore tra Ares e la dolce Afrodite», scoperti a Ietto da Efesto, e delle risate degli altri dei, allo spettacolo di Ares e Afrodite. (Odissea,
VIII: 266-366). CAPITOLO XXIV 1. Zendale... Ermesino: entrambi sono fini e soffici tessuti di seta. 2. Mio Signore non abbruttirti con una simile trasformazione bestiale: rimanda alla rampogna di Lady Macbeth al marito, dopo che questi diventa isterico per la visione dello spettro di banco (Macbeth, III: IV: 74). 3. Le armature addosso: da una frase di Macbeth, pronunciata quando gli viene riferito che la foresta di Birnam si sta muovendo verso la collina di Ounsinane (Macbeth, V: VII: 51-52). 4. Un Orlando per il tuo Oliviero: «La Chanson de Roland» è un poema epico francese del 12° secolo; in quest'opera vengono narrate le imprese di Oliviero e Orlando, i quali erano grandi amici ed i migliori combattenti della cavalleria di Carlo Magno. In questo poema si nota il grande valore epico dato ad una piccola, sanguinosa, battaglia sui Pirenei vicino a Roncisvalle il 15 agosto 778; i Guasconi uccidono alcuni cavalieri francesi che facevano parte dell'armata di Carlomagno, mentre questi marciando verso il nord della Francia, dopo aver combattuto contro i saraceni in Spagna. Nel poema Orlando e Oliviero e altri dieci cavalieri muoiono mentre combattono contro 400mila saraceni. 5. Atropo: è la più vecchia delle tre parche, le dee che decidono il destino umano nella mitologia greca. CAPITOLO XXV 1. Valle: una valle immensa piena di colline e foreste che è attraversata da un fiume. 2. Oreadi: ninfe delle montagne. 3. Parnaso: una montagna nella Grecia sacra ad Apollo. CAPITOLO XXVI
1. Allora... sotto il mio martello: riferimento al bosola di Webster. (The duchess of Malfi, V: IV: 77-79). 2. Un fattore di Holt: quest'uomo, sua figlia e suo figlio costituiscono l'unica informazione fornita da ERE nel romanzo riguardo all'agricoltura e la sola diversità da personaggi aristocratici. Poiché l'uomo è un contadino ma anche un vecchio guerriero, e dato che il figlio combatte per il suo lord Brandoch Daha, la famiglia assomiglia ad una famiglia dell'Islanda ai tempi delle saghe. 3. Pispola: un uccello che assomiglia all'allodola. 4. Morione: un elmetto del 16° secolo senza visiera. 5. La mia mano è pronta a colpire: vedi nota 4 dell'Introduzione. 6. Partigiana: una lunga maneggevole lancia con lame laterali; qualche volta chiamata alabarda; usata nel 16° e 17° secolo. 7. ... che non l'affrontasse con tutto il suo coraggio e la sua volontà: frase che rimanda alla prima parte del discorso di Enrico V nel giorno di San Crispino (Enrico V, IV: III: 34-39). 8. Dal capo al ventre: soltanto i più grandi eroi come Orlando sono capaci di una cosa simile, come quando ammazza il principe saraceno Grandoyne. (Le Chanson de Roland). 9. Tornare a casa su una nave: Qui Arnod di ERE evoca una famosa ballata scozzese «Sir Patrick Spens», dove il capitano Spens e i suoi uomini naufragano in una tempesta e tornano con le navi «quasi capovolte» ad Aberdeen. CAPITOLO XXVII 1. Cacciatrice... Regina: cacciatrice (Artemier)... Regina (Afrodite). 2. Ha donato il suo cuore: La Fireez cita le parole d'alcuni versi che O-
tello recita a Desdemona (III: IV: 46-47). 3. Crisopazio: una pietra semipreziosa oro-verde che fa parte della famiglia del berillo. 4. Sulla gorgiera, sul balteo: il primo è un pezzo di corazza che copre e protegge la gola; il secondo è una fascia di pelle che tiene la spada ed è posta sulle spalle. 5. Così lei gli mostrò tutti quelli che passavano: nel III libro dell'Iliade, Menelao e Paride si preparano per il combattimento in onore di Elena. Prima del combattimento il vecchio re Priamo chiede a Elena di sedersi con lui in una delle torri del palazzo perché gli parli degli eroi greci che combattono. Elena e il re Priamo parlano nei versi 161-242 ed Elena descrive Agamennone, Ulisse e Aiace. Sebbene non esistano corrispondenze simboliche, in questa scena, Gro occupa il posto di Priamo e Mevrian quello di Elena. ERE utilizza questa scena per ben due volte; a pagina 258 Mevrian ha il posto di Priamo e Ravnor il posto di Elena. Vedi anche nota 6 Capitolo XXXI per una discussione sul catalogo epico. CAPITOLO XXVIII 1. Lo scuotiterra dai capelli neri: Poseidone 2. Colui: Ade 3. Padre di tutti: Giove, Zeus CAPITOLO XXX 1. galbano: profumata resina gommosa degli alberi persiani. CAPITOLO XXXI 1. Rafforzati da alcuni che avrebbero dovuto essere dei nostri: avendo sentito parlare dell'avvicinamento delle armate inglesi e scozzese congiunte, guidate dal Principe Malcolm, e da MacDuff, e avendo perduto l'alleanza di molti nobili, signori e armate, Macbeth pronuncia questa stessa frase
(Macbeth, V: V: 5-7). 2. Grancio: questa frase trae origine dall'«Arcadia» di Sir Philip Sidney. Webster l'ammirò talmente da imitarla. Vedi l'opera «The complete works of John Webster», ed. F.L. Luca (London: Chatto & Windus, 1928). 3. Tu decidi per te e per me: Juss ricorre ai pronomi formali (you, you) ed informali (thou, thee), i quali non esistono più nell'Inglese moderno. I Romanzi moderni mantengono questa distinzione tra il linguaggio formale e quello familiare. 4. electuaries: medicinali che consistono in una polvere mista con miele e alcune altre basi dolci. Qualche volta sono usati come afrodisiaci. 5. Succubi e incubi: spiriti che intrecciano rapporti sessuali con i mortali; il «succubus» è femminile e l'«incubus» maschile. 6. Quando venne l'alba... ad est: passando in rassegna i comandanti e le truppe ERE imita una convenzione dell'epica iniziata dall'Iliade. Nel libro II Omero fornisce il «catalogo» delle armate degli Achei. Nei versi 494759, e quello dei troiani, nei versi 816-877. «Cataloghi» simili appaiono nell'Eneide, nella Gerusalemme liberata, nel Paradiso perduto, e ne I Sette Pilastri della Saggezza. ERE ha fornito, in sovrappiù, altri due cataloghi (Cap. XVI e Cap. XXVII). CAPITOLO XXXII 1. Continua a parlare... stai balbettando... come un'oca in preda a una febbre malarica... ma da dove ha preso questo aspetto da tazza di siero spruzzato di sangue?: in queste frasi il re riecheggia il furioso Macbeth del quinto atto, quando aggredisce il servo spaventato che gli ha riferito di Malcom e dell'avvicinarsi dell'esercito Inglese (V: III: 11-17). CAPITOLO XXXIII 1. Tiorbe e Cetre: il primo è un liuto con doppio collo; il secondo è uno strumento che assomiglia ad una chitarra ma ha delle corde di filo metallico, che devono essere pizzicate e non strimpellate.
2. Oricalco: un minerale giallo, ο una lega di rame; qualche volta indica l'ottone. 3. Di un irrefrenabile sospetto: qui ERE evoca il famoso sonetto di John Keats, «On First Looking into Chapman's Homer». FINE