GREG KEYES IL RE DEGLI ALBERI (The Briar King, 2002)
Sappiate, o Cuore Impavido, che in quei giorni non esistevano re ...
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GREG KEYES IL RE DEGLI ALBERI (The Briar King, 2002)
Sappiate, o Cuore Impavido, che in quei giorni non esistevano re e regine, signori e vassalli. Migliaia e migliaia di anni prima di Everon, conosciuto anche come Età dell'Uomo, esistevano solo padroni e schiavi. I primi erano antichi e avvezzi alla crudeltà come le stelle lo sono alla luce. Erano più potenti degli dèi e non erano uomini. Tra i loro schiavi, numerosissimi, c'erano tutti i nostri padri e tutte le nostre madri. Gli umani erano le bestie e il divertimento dei padroni. Ma anche chi è schiavo da mille generazioni può nascere con la luce della speranza nel cuore e la necessaria oscurità per fare ciò che va fatto. Anche uno schiavo può sollevarsi dalla polvere, affilare lo sguardo come un coltello e dire al suo padrone: «Non mi avrai mai.» La testimonianza di sant'Anemlen alla corte del Giullare Nero, poco prima dell'inizio delle sue torture Preludio La regina Nata Il cielo si squarciò e fulmini saettarono tra le crepe della volta. Giunse un pulviscolo nero, un odore di fumo, rame e zolfo e poi un ululato da tempesta infernale. Carsek si alzò, premendo le fasce insanguinate con la speranza che riuscissero a trattenere all'interno le sue viscere fino alla fine, qualunque fosse. «Deve ordinare subito la carica» grugnì tirandosi su con l'asta della lancia. Una mano lo afferrò per la caviglia. «Rimettiti giù, pazzo, se vuoi rimanere vivo fino all'inizio della battaglia.» Carsek diede uno sguardo al compagno, un uomo senza elmo e con la corazza squarciata, gli occhi celesti imploranti e i capelli scuri, bagnati e arruffati. «Stacci tu rannicchiato così, Thaniel» brontolò. «Non ce la faccio più a starmene accovacciato qui. Sono quattordici giorni che ci acquattiamo in questo porcile e dormiamo in mezzo al sangue e alla nostra stessa merda. Non li senti? Al fronte stanno combattendo e voglio guardare, per la miseria!» Si mise a scrutare nella pioggia battente, cercando di capire che cosa stesse succedendo.
«Vedrai la morte che ti saluta, ecco cosa vedrai. Presto arriverà il nostro momento» disse Thaniel. «Sono stufo di strisciare sulla pancia in questo schifo. Sono stato addestrato a combattere in piedi. Voglio un avversario, uno che abbia sangue da versare e ossa da rompere. Sono un guerriero, per Taranos. Mi è stata promessa una guerra, non questa carneficina e ferite inferte da spettri che non riusciamo mai a vedere, da aghi fantasma e raffiche di ferro.» «Voglio questo e voglio quello! Anch'io vorrei una ragazza bella in carne, di nome Alis o Favore o Come-Posso-Accontentarti, seduta in grembo e che mi nutre di prugne. Vorrei dieci pinte di birra e un materasso imbottito di piume di cigno. Eppure eccomi qua, ancora immerso nel fango con te. Che cosa ottieni con tutti questi desideri? Riesci a vederlo il nemico?» «Vedo campi che fumano all'orizzonte, anche sotto questa schifosissima pioggia. Vedo tombe-trincee che noi stessi abbiamo scavato. Vedo quella maledetta rocca, grande come una montagna. Vedo...» Vide un muro nero, che cresceva sempre di più a una velocità impressionante. «Vento di lame!» gridò, rigettandosi nella trincea. Per la fretta atterrò con la faccia nel fango che puzzava d'ammoniaca e cancrena. «Che cosa?» domandò Thaniel, ma proprio in quel momento anche il sole grigio fumo sopra di loro scomparve e il suono di migliaia di spade su migliaia di coti venne a scorticargli il cervello. Due uomini, che non si erano abbassati in tempo, caddero nel fango, mentre dai loro colli ormai senza testa zampillavano schizzi di sangue. «Un'altra dannata magia skasloi» disse Thaniel. «Te l'avevo detto!» Carsek lanciò un urlo di rabbia e frustrazione e la pioggia si mise a cadere ancora più forte. Thaniel lo afferrò per un braccio. «Resisti, Carsek. Aspetta, non ci vorrà molto tempo ancora. Quando lei arriverà, le magie degli Skasloi non avranno più alcun effetto.» «Questo lo dici tu! Non ho ancora visto niente che lo dimostri.» «Lei ha il potere.» Carsek scansò la mano di Thaniel dalla spalla. «Sei uno dei suoi, un Uomo Nato. È la tua regina e la tua strega, è naturale che tu le creda.» «Ah, certo» continuò Thaniel. «Perché noi Uomini Nati crediamo a tutto quello che ci dicono, vero? Siamo stupidi come dici tu. Ma anche tu le credi, Carsek, o non saresti qui.» «Ha usato tante belle parole. Ma dov'è l'acciaio? La tua regina Nata ci ha portato dritti dritti tra le braccia della morte.» «Non è meglio la morte che la schiavitù?»
Carsek sentì il sapore del sangue in bocca, sputò e vide che la saliva era nera. «Tutte e sette le generazioni dei miei antenati sono vissute e morte schiave dei signori skasloi» disse con un ghigno. «Non conosco nemmeno tutti i loro nomi. Voi Uomini Nati siete qui da soli venti anni. La maggior parte di voi ha partorito altrove, senza frusta né senza padroni. Che ne sapete della schiavitù voi e la vostra strega rossa?» Thaniel per un attimo tacque, e quando rispose non usò il suo solito tono scherzoso. «Carsek, non ti conosco da molto tempo, ma insieme abbiamo massacrato i giganti vhomar al Guado del Silenzio. Ne abbiamo uccisi talmente tanti da fare un ponte coi loro corpi. Insieme abbiamo marciato nella pianura Gorgone, dove un quarto della nostra compagnia è stato ridotto in polvere. Ti ho visto combattere, conosco la tua passione. Non me la dai a bere. La tua gente è schiava da più tempo, è vero, ma è la stessa cosa. Uno schiavo è sempre uno schiavo e noi vinceremo, Carsek, brutto mostro dalle mani insanguinate. Quindi bevi questo e pensa a quanto sei stato fortunato ad arrivare fin qui.» Gli passò un fiasco; conteneva qualcosa che sapeva di fuoco, ma che calmò il dolore. «Grazie» grugnì ripassandoglielo. Fece una pausa, poi ricominciò. «Mi dispiace, è solo questa maledetta attesa. È come se fossi nella mia gabbia, prima che il padrone mi faccia uscire per combattere.» Thaniel annuì, bevve anche lui un sorso dal fiasco e lo richiuse. Non lontano, Findos Mezza-Mano, in preda alla febbre, urlava per qualche ricordo o incubo. «Mi sono sempre chiesto, ma non ho mai domandato» fece Thaniel in atteggiamento pensoso «perché mai voi Vhiri Croatani ci chiamate Uomini Nati.» Carsek si asciugò la pioggia dagli occhi col dorso della mano. «Questa sì che è una domanda strana. È così che voi stessi vi chiamate, no? Vhiri Genian appunto. E la vostra regina, la prima della vostra gente a esser nata da queste parti, non si chiama forse Genia, 'la Nata'?» Thaniel lo guardò strizzando gli occhi, poi tirò indietro la testa e scoppiò a ridere. «Che c'è di tanto divertente?» Thaniel scosse la testa. «Ora capisco, suona così nella vostra lingua, ma in realtà...» s'interruppe perché un grido improvviso si era levato tra gli uomini, un urlo collettivo di paura e orrore proveniente dal fronte. Carsek poggiò la mano a terra per tirarsi su e si accorse che il fango era
diventato stranamente tiepido. Adesso nella trincea scorreva un liquido viscoso e dall'odore dolce, alto due dita. «Per tutti gli dèi!» esclamò Thaniel. Era sangue, e ce n'era un fiume. Lanciando un grido inarticolato, Carsek si rimise in piedi. «Non ne posso più di tutto questo, basta!» Iniziò ad arrampicarsi su per la trincea. «Fermati, guerriero!» gli ordinò qualcuno. Era la voce di una donna e lo bloccò come fosse la frusta spettrale di un padrone. Si voltò e la vide. Indossava una cotta nera e il volto era più bianco dell'avorio. I capelli lunghi, di un castano ramato, cadevano dritti, inzuppati dalla pioggia pestilenziale, ma era bella come nessun'altra donna mortale avrebbe potuto essere. Gli occhi scintillavano come fulmini nel cuore di una nuvola nera. Dietro c'erano i suoi difensori, vestiti pressappoco come lei, con le spade fatate sguainate, lucenti come l'ottone ancora caldo. Stavano impettiti e impavidi, sembravano dèi. «Grande regina!» balbettò Carsek. «Sei pronto a combattere, guerriero?» gli chiese. «Lo sono, maestà. Per Taranos, se lo sono!» «Scegli cinquanta uomini e seguimi.» Le trincee erano piene di cadaveri, e solo pochi brandelli di carne erano ancora riconoscibili come umani. Carsek provava a ignorare il risucchio che sentiva sotto i piedi; era diverso dal camminare nel solito fango. Più difficile ignorare il fetore proveniente dalle viscere squartate e dalle frattaglie fresche. Che cosa li aveva uccisi? Un demone? Un incantesimo? Non gli interessava. Erano morti, lui invece stava andando a combattere, per il Gemello e il Toro! Quando si fermarono nella prima trincea, Carsek poté vedere le mura nere della fortezza che si profilavano in lontananza. Questo avevano guadagnato con un mese e duemila sacrifici o forse più - una buca ai piedi della fortezza. «Ora rimane da fare solo una corsetta verso un muro che non si riesce ad abbattere e una porta che non si riesce a violare» commentò Thaniel. «La battaglia è quasi vinta!» «Chi è lo scettico adesso? Finalmente un'occasione per morire gloriosa-
mente e in piedi. È tutto quello che chiedo» disse Carsek. «Già,» rispose Thaniel «anch'io. Non solo voglio coprirmi di gloria, ma anche farmi una bella bevuta quando tutto sarà funto» e porse la mano all'amico. «Stringila, Carsek. Facciamo un patto: ci incontreremo per brindare quando sarà finita. Guarderemo dall'alto l'arena in cui una volta si combatteva e lì stabiliremo chi di noi avrà conquistato la gloria maggiore, e di sicuro sarò stato io!» Carsek accettò: «Proprio sul posto in cui sedeva il padrone.» I due uomini si strinsero la mano. «È fatta allora» disse Thaniel. «Tu non romperai la promessa e neanche io, quindi sicuramente vivremo tutti e due.» «Certo» rispose l'altro. Furono portate delle tavole e vennero sistemate per scalare la trincea. Allora Genia Dare, la regina, gli sorrise impavida. «Quando il sole sarà tramontato saremo tutti liberi o tutti morti» disse «e io non intendo morire.» Detto questo, sguainò la sua spada fatata e si voltò verso Carsek. «Devo raggiungere la porta, capito? Se la porta non viene abbattuta, cinquemila uomini non saranno meglio di cinquanta: più di questi non posso proteggerne dai micidiali incantesimi degli Skasloi, finché ci tengono sotto il loro sguardo fatale e finché rimarremo sotto tiro. Una volta aperta la porta, potremo sgattaiolare dentro così velocemente che non riusciranno a colpirci. Sarà una carica difficile, miei prodi, ma nessun incantesimo vi toccherà, ve lo giuro. Combatterete solo contro spade e frecce, carne e ossa.» «Carne e ossa sono erba e io la falce» disse Carsek. «Vi aprirò la porta, maestà!» «Allora vai e fallo.» Carsek non sentiva neanche più le ferite. La sua pancia era leggera adesso e la testa gli andava a fuoco. Fu il primo a salire sulle tavole e il primo a mettere piede sul suolo nero. I fulmini saettavano su di lui, nel vento di lame, ma stavolta si dividevano passando ai lati di Carsek, di Thaniel e di tutti i suoi uomini. Sentiva Thaniel urlare di gioia perché quei sortilegi mortali li mancavano, impotenti come fantasmi di eunuchi. Caricarono attraverso la terra fumante, gridando in preda al fuoco dell'ira. Carsek vide finalmente un nemico reale davanti alla sua lancia. «Sono Vhomar, ragazzi! Nient'altro che Vhomar!» gridò. Thaniel ridendo aggiunse: «E sono anche pochi!»
Sì, proprio pochi. Alcune centinaia, schierate in sei file davanti alla porta. Ognuno superava di mezzo busto l'uomo più alto della compagnia di Carsek. Aveva combattuto contro molti Vhomar nell'arena, e li aveva rispettati, come meritano i nemici valorosi. Ora invece li odiava più d'ogni altro essere mortale. Di tutti gli schiavi degli Skasloi, solo i Vhomar avevano scelto di rimanere tali e combattere contro chi si era ribellato ai padroni. Un centinaio di archi vhomar scoccò contemporaneamente e frecce con piume nere ricaddero sibilando sui suoi uomini, uccidendone uno ogni tre. Una seconda ondata invece si sciolse nella pioggia e non li colpì affatto; in quel momento Carsek si trovò di fronte alla prima fila di nemici, un muro di giganti in corazze di ferro, e iniziò a urlare alle loro facce brute e inumane. Quell'attimo si dilatò lento e silenzioso nella sua mente; ebbe tutto il tempo per notare i dettagli, le lance e gli scudi con borchie appuntite, le venature del legno, la pioggia nera che scivolava sulla fronte della creatura che gli si profilava davanti, la cicatrice sulla guancia, gli occhi, uno celeste e uno nero, il neo sopra questo... Poi tornarono i suoni, un colpo di maglio quando Carsek fintò l'attacco. Fece il gesto di colpire il volto del gigante, e invece si abbassò; sbucò da sotto il suo enorme scudo sollevato e conficcò la lancia assassina sotto le piastre sovrapposte dell'armatura, gridando con tutto il fiato che aveva mentre il cuoio, la stoffa e la carne si laceravano. Tirò con forza la lancia quando il guerriero precipitò a terra, ma l'asta si spezzò. Allora Carsek prese la sua azza. La pressione dei corpi aumentò quando i Vhomar si spinsero avanti e gli uomini di Carsek, nella brama di uccidere, gli si accalcarono alle spalle. Si sentì soffocare dal puzzo di sudore, intrappolato tra scudi e pance corazzate e senza spazio per vibrare l'azza. Qualcosa lo colpì talmente forte sull'elmo da farlo risuonare e di colpo il copricapo d'acciaio gli fu sfilato dalla testa. Delle grosse dita gli s'intrecciarono fra i capelli e improvvisamente i suoi piedi si sollevarono da terra. Cominciò a dare calci in aria mentre il mostro lo tirava per lo scalpo e lo faceva ciondolare guardandolo negli occhi. Il Vhomar tirò indietro la pesante spada che teneva nell'altra mano, deciso a decapitarlo. «Dannato buffone!» gridò Carsek, mandandogli i denti in frantumi con la lama della sua azza, poi con forza lo colpì al collo una seconda volta. Mugghiando, il Vhomar lo lasciò cadere, cercando di tamponarsi l'uscita del sangue con le mani. Carsek lo azzoppò e si spinse avanti.
La calca rimase fitta e il sangue sembrò scorrere all'infinito. Per ogni Vhomar che Carsek uccideva, ce n'era sempre un altro, se non due o addirittura tre. In realtà aveva dimenticato che il suo obbiettivo era la porta, quando all'improvviso se la trovò lì, davanti a lui. Nella ressa gli sembrò di scorgere il luccichio delle spade fatate, intravide i capelli ramati e scintille di un verde pallido. Poi venne spinto indietro, finché la porta non scomparve dalla vista e dalla mente. La pioggia cessò, ma il cielo divenne ancora più nero. Tutto ciò che riusciva a sentire era il suo respiro affannato; tutto ciò che poteva vedere era una distesa di sangue e ferro che si alzava e ricadeva, come onde del mare che si rompevano sopra di lui. Il suo braccio riusciva a stento ad alzarsi per continuare a uccidere, e si trovava in un cerchio con gli unici otto rimasti dei suoi cinquanta uomini; Thaniel era tra questi. Ma i giganti continuavano ad avanzare, onda dopo onda. Poi ci fu un boato, come se gli dèi si fossero messi a gridare tutti insieme. Una nuova ondata si raccolse alle sue spalle, un muro di uomini urlanti; a centinaia sgorgavano dalle trincee, abbattendosi sui ranghi nemici, e per la prima volta Carsek sollevò lo sguardo dalla morte e vide l'impossibile. Il massiccio portale d'acciaio della cittadella era stato scardinato, deformato, ed era quasi irriconoscibile; da sotto splendeva una luce bianca. All'interno, la battaglia proseguiva e proprio mentre le gambe gli stavano cedendo, Theniel vi si aggrappò. «È stata lei» disse Carsek «la tua strega Nata!» «Te l'avevo detto che l'avrebbe fatto» gli rispose l'amico, «te l'avevo detto.» Carsek non era lì quando cadde la rocca interna. Le sue ferite si erano riaperte e dovevano essere ricucite. Ma quando le nuvole si ruppero, e il sole morente si dissanguò all'orizzonte, Thaniel venne a cercarlo. «Ti vuole là» gli disse. «Lo meriti.» «Tutti lo meritiamo» riuscì a dire. Con un braccio intorno al collo di Thaniel, salì gli scalini insanguinati dell'imponente torre centrale, ricordandosi di quando li aveva percorsi l'ultima volta, in catene, mentre si dirigeva all'arena per combattere; si ricordò il luccichio delle balaustre dorate e delle strane statue sotto la luce incantata degli Skasloi. Era bello e terribile allo stesso tempo. Anche adesso, distrutta e annerita, la torre incuteva timore. Una paura
atavica del potere del padrone, della frusta invisibile, ma che bruciava fin dentro l'anima. Anche adesso tutto sembrava frutto di un inganno, un altro gioco elaborato, un altro divertimento per i padroni che godevano del dolore e della disperazione dei loro schiavi. Ma quando giunsero nella grande sala Carsek vide Genia Dare con uno stivale sulla gola del padrone, e sentì che avevano vinto. Il signore skasloi era ancora in ombra. Carsek non lo aveva mai visto in volto e non lo vide neanche allora, ma riconobbe la risata che veniva da sotto il tacco della regina. Per tutta la vita non avrebbe mai dimenticato quella voce beffarda, spettrale e morente. Ma la voce di Genia Dare tuonò. «Abbiamo lacerato la tua rocca, disperso i tuoi eserciti e poteri, e ora morirai» disse. «Se questo ti diverte, avresti potuto ottenere tanto piacere molto più facilmente. Saremmo stati felici di ucciderti parecchio tempo fa.» Il padrone interruppe quella sua risata gracchiante. Pronunciò lentamente parole mortali, che uscirono come ragni dalla bocca di un cadavere, come un suono che ti coglie di sorpresa e ti lascia con il cuore in gola. «Mi diverto» disse «perché voi siete convinti di aver vinto qualcosa, e invece non avete guadagnato altro che decadenza. Avete usato il potere del sedos, poveri sciocchi. «Credevate forse che non sapessimo niente del sedos? Stupidi. Avevamo buoni motivi per evitare i sentieri di questo sinistro potere. Avete maledetto voi stessi e le vostre generazioni future. Alla fine dei giorni, la caduta del vostro mondo sarà stata peggiore di quella del nostro. Non avete idea di quello che avete fatto.» La regina Nata sputò su di lui. «Questo è per la tua maledizione!» disse con tono aspro. «Non è la mia maledizione, schiava» rispose il padrone «è la vostra.» «Non siamo tuoi schiavi.» «Siete nati schiavi e morirete tali. Avete solo invocato un nuovo padrone. Le figlie del vostro seme sconteranno quello che voi avete tessuto e saranno annientate.» Tra uno sguardo e l'altro, un lampo, un fulmine accecante balenò negli occhi di Carsek, poi la visione. Vide foreste verdi marcire in lande putride, un sole avvelenato inabissarsi in un mare nero, sterile. Camminò tra castelli e città lastricate di ossa umane, le sentì scricchiolare sotto i suoi piedi. E sopra tutto questo, udì la regina Nata, Genia Dare, ridere come se a quella
vista provasse piacere. Poi nient'altro, e si ritrovò steso a terra, come quasi tutti gli altri nella stanza, che si stringevano la testa fra le mani, gemendo e piangendo. Solo la regina rimaneva in piedi, e un fuoco bianco stillava dalle sue mani. Il padrone stava in silenzio. «Non abbiamo paura della tua maledizione» disse Genia. «Non siamo più tuoi schiavi, non esiste timore in noi. Il tuo mondo, le tue maledizioni, il tuo potere sono finiti ormai. Adesso è il momento del nostro mondo, un mondo umano.» Il padrone in risposta si contorse solamente e non parlò più. «Una lenta morte per lui» Carsek sentì dire dalla regina, in un tono più basso. «Una morte molto, molto lenta.» E per Carsek questo fu tutto. Condussero via il padrone e non lo rivide mai più. La regina Nata, a testa alta, si voltò a guardarli tutti e Carsek incrociò per un attimo il suo sguardo. Di nuovo avvertì un lampo, come una fiamma, e per poco non cadde in ginocchio davanti a lei. Ma non si sarebbe mai più inginocchiato per nessuno al mondo. «Ricominceremo a contare i giorni e le stagioni da oggi» disse la regina. «Oggi è il giorno del Valoroso, il Vhasris Slanon. Conteremo il nostro tempo a partire da questo preciso istante, giorno, mese e anno!» Nonostante le ferite e la fatica, le urla che riempirono la sala si fecero quasi assordanti. Carsek e Thaniel tornarono giù, dove stavano iniziando i festeggiamenti. Carsek, da parte sua, voleva soltanto dormire, dimenticare e non sognare mai più, ma Thaniel gli ricordò il patto. E fu così che, nonostante il dolore delle ferite aumentasse, si misero a bere il brandy di Thaniel, mentre Carsek se ne stava seduto su un trono di onice guardando in basso verso l'arena dove aveva combattuto e ucciso tanti compagni schiavi. «Ne avrò uccisi un centinaio davanti alla porta» dichiarò Thaniel. «E io centocinque» gli rispose Carsek. «Ma se non sai neanche contare fino a centocinque!» «Sì, invece! Sono le volte che mi sono fatto tua sorella.» «Bene» fece Thaniel pensando un attimo «allora mia sorella deve aver contato per te. Io so solo che non mi sono bastate le dita per contare le volte che mi sono fatto tua madre.»
Dopo quella battuta entrambi fecero una pausa. «Siamo proprio due simpaticoni, non trovi?» grugnì Carsek. «Siamo uomini» fece Thaniel in tono più serio. «Vivi e liberi, e questo è ciò che conta.» Si grattò la testa. «Non ho capito come dobbiamo chiamare i nostri anni.» «Ci fa un grande onore» rispose Carsek. «È l'antica lingua dei Vhiri Croatani, la lingua dei miei antenati. Vhasris sta per alba. Slanon significa... hmm, non credo di conoscere la parola che usate per questa.» «Cerca di descriverla, allora.» «Significa bello e sano e forte. Come un neonato, in salute e senza difetti.» «Parli come un poeta, Carsek.» Carsek si sentì arrossire e per cambiare argomento, indicando l'arena, mormorò: «Non l'ho mai vista da quassù.» «Sembra diversa?» «Sì, molto. È più piccola. Credo che mi piaccia.» «Ce l'abbiamo fatta, Carsek» sospirò Thaniel. «Come ha detto la regina, il mondo è nostro adesso. Cosa ne faremo?» «Solo gli dèi lo sanno, non ci ho mai pensato.» Trasalì per una fitta nella pancia. «Carsek!» fece Thaniel, preoccupato. «Passerà.» Carsek mandò giù un altro sorso di quel fuoco. «Senti, visto che stiamo facendo lezione di lingue, che cosa stavi dicendo prima nella trincea a proposito di te e della tua gente che non siete gli Uomini Nati?» Thaniel ridacchiò di nuovo. «Ho sempre pensato che ci avevate chiamato così perché eravamo appena giunti in questa terra e perché siamo stati gli ultimi catturati dagli Skasloi per diventare loro schiavi; invece è solo perché ci avete capito male.» «Non sei molto chiaro» gli disse Carsek. «Può darsi che io muoia. Non potresti essere più preciso?» «Non morirai, stupido bestione, ma cercherò comunque di essere più chiaro. Quando la mia gente arrivò qui la prima volta, credette di essere in un posto chiamato Virgenya. Prendeva il nome da una regina, penso, del vecchio paese. Non ne sono sicuro, perché io sono nato qui. Comunque anche la nostra regina prende il nome da lì: Virgenya Elizabeth Dare, questo è il suo vero nome. Quando noi dicevamo Virgenya, voi stupidi Croatani pensavate che stessimo parlando la vostra lingua e che stessimo chiamando noi stessi Vhiri Genian, cioè Uomini Nati. È solo una confusione
linguistica, capisci?» «Ah» rispose Carsek, poi si accasciò. Quando si risvegliò, quattro giorni più tardi, fu felice che non fosse stato solo un sogno. Era il quarto giorno dell'epoca conosciuta come Eberon Vhasris Slanon. Prologo Il giorno in cui l'ultima roccaforte skasloi cadde, iniziò l'età conosciuta come Eberon Vhasris Slanon, nella lingua dei primi Cavarum. Quando quella lingua fu dimenticata da tutti, fatta eccezione per un piccolo gruppo di studiosi monastici, il nome di questa età sopravvisse nella lingua degli uomini come Everon; così come Slanon rimase unito al luogo della vittoria nella forma lierish di Eslen. Everon fu un'età di esseri umani, con tutte le loro glorie e insuccessi. I figli della ribellione si moltiplicarono e ricoprirono la terra dei loro regni. Nell'anno 2.223 E., l'età di Everon giunse a una fine improvvisa e terribile. Può darsi che io sia l'ultimo a ricordarla. Il Codex tereminnam, di anonimo. Nel mese di Estramen, dell'anno 2.215 di Everon, due ragazze se ne stavano rannicchiate nei grovigli più fitti di un giardino sacro nella città dei morti, pregando di non essere viste. La più grande, Anne, che aveva otto anni, spiava attentamente tra i folti intrecci di rami e rampicanti che le circondavano. «È davvero uno Scaos?» chiese Austra, più piccola di un anno. «Shhh!» bisbigliò l'altra. «Sì, è uno Scaos, e anche uno mostruoso, quindi stai giù o vedrà i tuoi capelli. Sono così biondi!» «E i tuoi così rossi!» replicò Austra. «Fastia dice che sono arrugginiti perché non usi la testa come dovresti.» «Chi se ne importa di Fastia. Sta' zitta e va' da quella parte.» «Lì è più buio.» «Lo so, ma non dobbiamo farci vedere o ci ucciderà, e lentamente. Ci divorerà un morso alla volta. Però è troppo grande per seguirci lì dentro.» «Potrebbe usare un'ascia o una spada, per farsi strada tra i rami.»
«No, che non può» fece Anne. «Ma non sai proprio niente? Questo è un horz, non un vecchio giardino qualsiasi. Ecco perché è tutto così selvaggio qui. A nessuno è permesso tagliare le piante, neanche a lui. Se lo fa, santa Fesa e san Selfan lo malediranno.» «Non è che malediranno noi perché ci stiamo nascondendo qui?» «Non stiamo tagliando niente» rispose subito Anne. «Ci stiamo solo nascondendo. E comunque, se lo Scaos ci prende, sarà peggio che essere maledette, non credi? Saremo morte.» «Mi metti paura così.» «L'ho appena visto muoversi!» squittì Anne. «È proprio là! Per tutti i santi e per la nostra vita, scappiamo!» Austra gridò e fece un balzo in avanti, facendosi strada tra grovigli di radici di antiche querce, rampicanti spinosi, primule e viti selvatiche così antiche da essere più carnose delle gambe di Anne. C'era un odore di terra e foglie e di una leggera, dolce decomposizione. Una luce grigio verde era tutto quello che gli strati di foglie e rami lasciavano intravedere del sole. Là fuori, nelle ampie strade lastricate di piombo nella città dei fantasmi, era mezzogiorno. Qui, invece, era il crepuscolo. Arrivarono in una radura dove non cresceva niente, sebbene la vegetazione la ricoprisse con una volta; era come una stanza costruita dalle fate, e lì si rannicchiarono per un momento. «Ci segue ancora» disse Anne ansimando. «Lo senti?» «Sì, che facciamo?» «Dobbiamo...» Non arrivò a finire la frase. Qualcosa si spaccò con un rumore di cocci rotti e, improvvisamente, scivolarono nelle fauci spalancate della terra. Atterrarono con un tonfo su una dura superficie di pietra. Per alcuni istanti Anne rimase con la schiena a terra, socchiudendo gli occhi per la pallida luce che proveniva dall'alto e sputando polvere. Austra respirava velocemente, emettendo dei suoni brevi e buffi. «Stai bene?» le chiese Anne. Austra fece cenno di sì. «Uh-huh, ma che è successo? Dove siamo?» Poi spalancò gli occhi. «Siamo seppellite! I morti ci hanno preso!» «No!» disse Anne, tranquillizzandosi. «Guarda, siamo solo cadute in una tomba più antica. Antichissima, perché l'horz è qui da quattrocento anni, e questa tomba si trova sotto.» Indicò la luce che cadeva dallo stesso pendio impolverato lungo il quale erano cadute. «Il terreno doveva essere più sottile in quel punto, però vedi, possiamo tornare là fuori.»
«Andiamo, allora» esclamò Austra «e subito!» Anne agitò i suoi riccioli rossi. «Diamo un'occhiata qua intorno, prima. Scommetto che nessuno è venuto qui negli ultimi mille anni.» «Mi sa che non è una tomba» disse Austra. «Le tombe devono essere come le case. Questa invece non lo è.» Austra aveva ragione. Erano cadute sulla soglia di una grande stanza circolare. Sette grandi pilastri sorreggevano un blocco piatto ancora più grande che faceva da copertura. Delle pietre più piccole erano state sistemate tutto intorno per tenere lontano la sporcizia. «Forse le case erano fatte così mille anni fa» suggerì Anne. «Forse è la tomba di uno Scaos! E magari è proprio la sua» esclamò Austra. «Non avevano tombe. Credevano di essere immortali. Andiamo, voglio vedere quella cosa.» «Che cos'è?» Anne si alzò in piedi e si diresse verso una scatola di pietra, più lunga che alta o larga. «Sembra un sarcofago» disse. «Non è decorato come quelli che usiamo adesso, ma ha la stessa forma.» «Vuoi dire che dentro c'è una persona morta?» «Guarda!» Sfiorò il coperchio con la mano e sentì delle incisioni sulla pietra. «C'è scritto qualcosa qui.» «Cosa?» «Sono solo delle lettere: V, I, D, A. Non formano una parola, però.» «Forse è un'altra lingua» «O un'abbreviazione. V...» smise di parlare, paralizzata da un pensiero improvviso. «Austra! È Virgenya Dare! V-I stanno per Virgenya e D-A per Dare.» «Non può essere!» «Sì invece, è così!» sussurrò Anne. «Guarda quanto è vecchia questa tomba. Virgenya Dare è stata la capostipite della mia famiglia. Questa deve essere proprio lei.» «Pensavo che la tua famiglia regnava su Crotheny solo da cent'anni» disse Austra. «Sì, è vero, ma forse lei è arrivata qui al tempo dei primi regni. Nessuno sa dov'è andata a finire dopo le guerre, né dov'è stata seppellita. Questa è lei. Me lo sento. Deve essere così! Aiutami a togliere il coperchio, così posso vederla.»
«Anne! Non farlo!» «Dai Austra. È la mia antenata, non se la prenderà.» Anne spinse il coperchio con forza, ma questo non si mosse. Alla fine, riuscì a convincere Austra ad aiutarla; dopo un po', spingendo tutte e due, riuscirono a smuovere il pesante coperchio di pietra di appena un dito. «Ecco, si sta muovendo!» Ma, provando in tutti i modi, non riuscirono a spostarlo più di così. Anne cercò di guardare nella fessura. Non vide nulla, ma l'odore era curioso. Non era cattivo, ma strano, come quello che è sotto un letto che non viene pulito da molto tempo. «Lady Virgenya?» sussurrò nella scatola, sentendo la sua voce rimbombare all'interno. «Mi chiamo Anne, mio padre è William, il re di Crotheny. Piacere di conoscervi.» Non ci fu risposta, ma Anne era sicura che lo spirito avesse sentito. In fondo, dormendo da tutto quel tempo, forse faticava a svegliarsi. «Ti porterò delle candele» promise «e dei doni.» «Ti prego, andiamocene!» «Sì, d'accordo. Tra un po' mia madre e Fastia si accorgeranno che manchiamo.» «Dobbiamo ancora nasconderci dallo Scaos?» «No, sono stanca di quel gioco» rispose Anne. «Questo è meglio, è reale, ed è il nostro segreto. Non voglio che qualcun altro lo scopra. Quindi meglio che andiamo, prima che ci vengano a cercare. Fastia è talmente piccola che riuscirebbe a passare qui dentro.» «Perché deve rimanere un segreto?» «Perché sì, vieni!» Riuscirono ad arrampicarsi verso l'uscita della buca tra la fitta vegetazione, finché non riemersero vicino al muro di pietra sgretolato dell'horz. Fastia era lì in piedi, di spalle, con i lunghi capelli castani che ricadevano sull'abito verde. Si voltò non appena le sentì avvicinarsi. «Dove siete...» s'interruppe, per poi esplodere in una risata violenta. «Ma guardatevi! Tutte sporche! Per tutti i santi, che cosa avete combinato?» «Scusa!» disse Anne. «Facevamo solo finta che uno Scaos ci inseguiva.» «Altro che Scaos, quando tua madre ti vedrà. Anne, qui intorno ci sono tutti i nostri sacri antenati. Dobbiamo onorare zia Fiene e accompagnare il suo corpo nell'aldilà. È una cerimonia solenne, e tu devi esserci invece di metterti a giocare nell'horz.»
«Ci stavamo annoiando. E poi a zia Fiene non importerebbe.» «Non è di zia Fiene che devi preoccuparti, ma di mamma e papà.» Si mise a spazzolare l'abito bianco di Anne tutto sporco e macchiato. «Non c'è modo di darti una pulita prima che mamma ti veda» replicò Fastia. «Anche tu giocavi qui dentro, me l'hai detto» disse Anne. «Forse sì» rispose la sorella maggiore «ma ora ho quindici anni e sto per sposarmi; non mi è più consentito giocare, né far giocare te, almeno in questo preciso momento. Ho l'incarico di controllarti; adesso mi hai messo nei guai.» «Scusaci, Fastia.» La sorella più grande sorrise tirandosi indietro i capelli scuri, tanto simili a quelli della madre, e così diversi dalla zazzera rosso fragola di Anne. «È tutto a posto, sorellina. Questa volta mi prendo io la colpa, ma quando sarò sposata vi terrò a bada, ragazzine," perciò è meglio che vi abituiate a stare attente. Cominciate a fare pratica e provate a darmi retta almeno la metà delle volte, d'accordo? Anche tu, Austra.» «Sì, arcigrefia» biascicò questa, inchinandosi. «Grazie, Fastia» aggiunse Anne. Per poco non disse alla sorella maggiore quello che avevano trovato, ma si trattenne. Fastia era diventata strana ultimamente. Più seria, meno gioviale, più adulta. Anne l'amava, ma non era sicura di potersi ancora fidare di lei. Quella notte, dopo il rimprovero, quando le candele si spensero e lei e Austra furono nel loro grande letto di piume, Anne diede un pizzico al braccio dell'amica, non tanto forte da farle male, ma quasi. «Ahi!» si lamentò lei. «Perché?» «Se dici quello che abbiamo scoperto oggi» l'avvisò «ti pizzicherò ancora più forte!» «Ho detto che non lo faccio.» «Giuralo su tua madre e tuo padre.» Austra stette in silenzio per un istante. «Sono morti» mormorò. «Ancora meglio. I morti ascoltano meglio dei vivi le promesse, così dice sempre mio padre.» «Non costringermi» la supplicò Austra. Sembrava triste, come se fosse sul punto di piangere. «Non ti preoccupare, scusami. Domani penserò a qualcos'altro su cui giurare, d'accordo?» «D'accordo.» «Buona notte, Austra. Che la Donna Nera se ne stia lontana.»
«Buona notte.» Poco dopo il suo respiro indicò che si era addormentata. Ma Anne non riuscì a dormire. La testa le brulicava di storie, racconti di eroi della grande guerra con gli Scaosen e di Virgenya Dare. Pensò alla fessura buia nel sepolcro, al lieve sospiro che era sicura di aver sentito. Si tenne stretto il suo segreto, il suo trofeo, e alla fine, sorridendo, scivolò nei sogni di campi bui e imponenti foreste. Parte prima La venuta del greffyn Anno 2.223 di Everon Mese di terthmen Che cos'è che ha il corpo di un leone Il volto e la sembianza di un falcone Veleno come sangue E occhi che nessun uomo ha mai visto? Indovinello di Crotheny est Il sangue dei re scorrerà a fiumi. E il mondo affogherà. Tradotto dal Tafles taceis, o Libro delle voci Capitolo uno Il guardaboschi Aspar White sentiva l'odore della morte. Di una manciata di foglie secche, arricciate dai primi freddi e frantumate nel palmo di una mano. Jesp la Sudicia, la donna sefry che lo aveva allevato, una volta gli aveva detto che possedeva quella sensibilità così particolare perché era nato da una madre moribonda sul patibolo dove il Veggente compiva i suoi sacrifici. Ma Jesp si guadagnava da vivere mentendo, e il motivo, comunque, non era importante. Tutto quello che interessava ad Aspar era sapere che il
suo naso di solito funzionava bene. Qualcuno avrebbe ucciso qualcun altro o per lo meno ci avrebbe provato. Aspar aveva appena fatto il suo ingresso nella Tetta della Scrofa, dopo una settimana di dura permanenza nelle Colline di Walham. I muscoli gli bruciavano per la fatica, la bocca era più impastata della sabbia, e da giorni non faceva che sognare la dolcezza melata di una birra scura, fresca. Aveva appena mandato giù il primo sorso, che per un momento aveva danzato sulla sua lingua, baciandogli le labbra con la schiuma, quando arrivò quell'odore a rovinarne il gusto. Sospirando, poggiò il boccale ruvido di terracotta sul vecchio tavolo di quercia e ruotò lo sguardo intorno, nella taverna scura e affollata; portando una mano verso l'impugnatura d'avorio levigato del suo pugnale si chiese da dove si stesse avvicinando la morte e quale direzione avrebbe preso. Vide solo la solita folla, per lo più carbonai, con la faccia sporca e nera, ridere e scherzare mentre spazzavano via, bevendo, il sapore di fuliggine dalla lingua. Vicino alla porta, aperta per far entrare l'aria della sera, Loh, il garzone del mugnaio, nella sua camicia fresca di bucato, alzava solennemente il boccale; i suoi amici gridavano mentre se lo scolava tutto d'un fiato. Quattro mercanti Hornladh, con le loro giubbe a quadri e le brache rosse, se ne stavano vicino al fuoco, dove un cinghiale allo spiedo scolava friggendo sulle braci; intorno a loro andava radunandosi un gruppo di giovani, i volti arrossati alla luce del fuoco, impazienti di ascoltare storie sul mondo che si estendeva, vasto, al di là del loro piccolo villaggio di Colbaely. Niente insomma che facesse presagire una rissa. Aspar riprese in mano il suo boccale. Forse, stavolta, la birra era solo un po' rancida. Ma poi vide da dove stava arrivando la morte. Entrò dalla porta aperta, insieme al primo cinguettio di caprimulgo e a una debole, umida promessa di pioggia. Era solo un ragazzo, sui quindici anni forse. Non era di Colbaely, questo Aspar lo sapeva per certo, e probabilmente neanche del Grefato di Holtmarh. Il nuovo venuto lanciò uno sguardo disperato e frettoloso tutto intorno, strizzando gli occhi per adattare la vista alla luce, nella chiara ricerca di qualcuno. Poi vide Aspar, solo al suo tavolo, e avanzò barcollando verso di lui. Il giovane indossava un paio di brache di pelle d'alce ben conciata e una giacca tessuta a mano che aveva visto giorni migliori. I capelli castani erano arruffati e incrostati di fango e foglie. Il pomo gli si muoveva convul-
samente in gola mentre sguainava una spada piuttosto larga da un fodero dietro alla schiena e affrettava il passo. Aspar bevve un altro goccio di birra e sospirò. Era ancora peggio dell'ultimo. Nel silenzio improvviso, si percepiva il fruscio degli stivali del ragazzo sul pavimento di ardesia. «Sei tu il guartaboschi» disse il ragazzo in uno stretto accento almannish. «L'uomo del re.» «Sono il guardaboschi del re» convenne Aspar. «È facile capirlo visto che porto i suoi colori. Io sono Aspar White, e tu chi saresti?» «Sono l'uomo che sta per ucciderti» rispose il ragazzo. Aspar sollevò leggermente il capo, in modo da guardare il giovane di traverso. Maneggiava la spada con evidente impaccio. «Perché?» gli chiese. «Sai perché.» «No. Se lo avessi saputo non te lo avrei chiesto.» «Sai tannatamente pene che sei l'uomo che ha massacrato mia famiglia.» «Parla la lingua del re, ragazzo.» «Che il Malvagio si prenda il re!» gridò il ragazzo. «Questa non è la sua foresta!» «Be', dovrai parlarne con lui. Lui crede il contrario, sai, è il re.» «Lo farò. Ma subito dopo essermi occupato di te. Si risaprà fino a Eslen prima ancora ti afer finito. Ma si comincia qui con te, assassino.» Aspar sospirò. Riusciva a sentirlo nella voce del ragazzo e a vederlo nella tensione delle sue spalle. Parlare non serviva più a niente. Si alzò in piedi rapidamente, schivò la punta della spada passando all'interno e gli fracassò il boccale di birra in testa. La terracotta si ruppe e il giovane lanciò un urlo, lasciando cadere l'arma e stringendosi con la mano l'orecchio lacerato. Aspar con calma tirò fuori il suo lungo coltello, afferrò il ragazzo per il colletto, lo sollevò, senza sforzo con la sua grande mano callosa e lo lasciò cadere violentemente sulla panca del tavolo a cui era stato seduto fino a quel momento. Il ragazzo lo guardò con aria di sfida, in una maschera di dolore e sangue. La mano che stringeva la tempia appariva contemporaneamente scura e lucida sotto la luce fioca. «Lo fetete tutti» urlò il ragazzo con voce gracchiante. «Tutti testimoni! Ucciterà me come ha cia massacrato mia famiglia.» «Ragazzo, ora calmati» disse Aspar con tono secco. Raccolse la spada e
se la mise vicino, sulla panca, con il tavolo a separarla dal ragazzo. Continuava a tenere il coltello a portata di mano. «Armann, portami un'altra birra.» «Hai appena spaccato uno dei miei boccali!» gridò l'oste dal viso tondo e rosso come una barbabietola. «Portamene una o spacco qualche altra cosa.» Alcuni carbonai scoppiarono a ridere e subito quasi tutti gli altri li seguirono. Il chiacchierio riprese. Mentre aspettava la birra, Aspar guardava il ragazzo. Le dita del giovane tremavano e non alzava lo sguardo. Il coraggio sembrava fuoriuscire dal suo corpo insieme al sangue. Succedeva quasi sempre così, pensò Aspar. Fa' sanguinare un uomo appena un po' e diventa subito meno eroico. «Che cosa è successo alla tua famiglia, ragazzo?» «Come se tu non lo sapessi.» «Vuoi un altro pugno? Che il Malvagio ti divori, ti prenderò a schiaffi finché non me lo dici. Non accetto minacce né di essere chiamato assassino quando non ho ucciso nessuno. E per finire non m'importa niente di cosa è, o non è, successo a un gruppo di nomadi, a meno che non sia capitato qualcosa di brutto nella foresta; e saperlo fa parte del mio lavoro, capito? Perché se non m'importa niente di te, m'importa invece della foresta e della giustizia del re. Quindi dimmi tutto per filo e per segno!» «Io so solo, io... sono morti tutti!» E improvvisamente scoppiò a piangere. Non appena le lacrime cominciarono a lavargli il sangue dal volto e a rigargli il mento, Aspar si rese conto che aveva esagerato a dargli quindici anni. Non doveva averne più di tredici, era solo un po' grande per la sua età. «Cavolate» brontolò. «Aspar White!» Alzò lo sguardo e vide Winna Rufoote, la figlia dell'oste. Aveva meno della metà dei suoi anni, appena diciannove, un ovale grazioso, gli occhi verdi e i capelli biondissimi. Una volontà di ferro. Guai a volontà. Aspar, se poteva, la evitava. «Winna.» «Niente Winna. Hai spaccato il cranio di questo povero ragazzo, e pure uno dei nostri boccali, e ora hai intenzione di startene qui seduto a bere birra mentre lui sparge sangue dappertutto?» «Senti...» «Non voglio sentire una sola parola. Non da te almeno, che dovresti es-
sere un uomo del re. Prima mi aiuti a portare questo ragazzo in una stanza per dargli una pulita, poi metti una firma su uno di quei biglietti reali o paghi in monete di rame per il nostro boccale. Dopodiché potrai avere un'altra birra, ma non prima.» «Se questo non fosse l'unico ostello in città...» «Ma lo è. E se vuoi continuare a essere il benvenuto qui...» «Lo sai che non puoi cacciarmi.» «No, certo che non posso cacciare l'uomo del re. Ma potrebbe capitarti di bere birra che sa di piscio, non so se mi spiego.» «Sa già di piscio» brontolò Aspar. Le mani sui fianchi, la ragazza lo guardò con aria di sfida. Lui avvertì una debolezza improvvisa alle ginocchia. In venticinque anni come guardaboschi aveva affrontato orsi, leoni e più fuorilegge di quanti potesse contarne. Ma non aveva ancora imparato come prendere una bella donna. «È lui che è entrato qui per uccidermi, quel soldo di cacio» le ricordò Aspar timidamente. «Strano, vero? E pensare che ho avuto la stessa tentazione.» Tirò fuori uno straccio e lo porse al ragazzo. «Come ti chiami?» gli chiese. «Uscaor» mormorò. «Uscaor Fraletson» «Il tuo orecchio ha solo un taglio. Guarirai.» Aspar fece un lungo sospiro e si rialzò. «Forza, ragazzo. Diamoci una bella pulita, su. Così sarai più carino quando verrai a uccidermi nel mio letto.» Ma appena il ragazzo si mise in piedi, barcollando, Aspar sentì di nuovo l'odore della morte e notò, per la prima volta, la mano destra del ragazzo. Era pesta, viola e nera, e a quella vista un brivido gli attraversò la schiena. «Che cosa hai fatto lì, ragazzo?» chiese. «Non lo so» rispose con tono dolce. «Non me lo ricordo.» «Andiamo Uscaor» disse Winna. «Troviamo un letto.» Aspar lo guardò mentre si allontanava, aggrottando la fronte. Il ragazzo aveva voluto ucciderlo, d'accordo, sebbene non ci fosse andato neanche vicino. Ma quella mano, forse era di quella che il suo naso aveva provato ad avvertirlo per tutto quel tempo. Un po' pensieroso, rimase ad aspettare un'altra birra. Dopo un po', Winna, che era rimasta sola con il ragazzo, disse ad Aspar:
«Si è addormentato. Mi sa che non mangia e non dorme da due o tre giorni. E quella mano è così gonfia e calda. Diversa da tutte le ferite che ho visto finora.» «Già» disse Aspar. «Vale anche per me, forse avrei dovuto tagliargliela e portarla dallo speziale a Eslen perché ci desse un'occhiata.» «Non me la dai a bere, Asp» disse Winna. «Sei più duro di un olmo fuori, ma nel cuore sei tenero.» «Non esserne troppo convinta, Winn. Ti ha detto per quale motivo mi vuole morto?» «Mi ha ripetuto quello che ha detto a te. Crede che gli hai ucciso la famiglia.» «Perché dovrebbe pensare una cosa del genere?» «Ehi, Winna!» gridò qualcuno dall'altra parte della sala. «Lascia stare l'orso del re e vieni a rinfrescarmi!» aggiunse sbattendo un boccale vuoto sul tavolo. «Fa' come fai sempre, Banf, rinfrescati da solo. Sai dov'è il rubinetto. Tanto saprò quanto mi devi da quello che vomiterai più tardi.» Mentre scoppiava una serie di battute ai danni del malcapitato, Winna si sedette di fronte ad Aspar. «Lui e la sua famiglia si erano accampati vicino al torrente Taff» continuò «a poche leghe dal punto in cui si unisce al Mago...» «Appunto. Nomadi, esattamente come avevo immaginato.» «Già, s'erano accampati senza permesso nella foresta, e allora? Un sacco di gente lo fa. Questo significa forse che meritano di morire?» «Non li ho uccisi per quello! Per i denti del Veggente! Non li ho uccisi affatto.» «Uscaor dice di aver visto i colori del re addosso agli assassini.» «No. Non so cosa ha visto, ma di certo non ha visto questo. Nessuno dei miei taglialegna si trova a meno di trenta leghe da qui.» «Sicuro?» «Dannatamente sicuro.» «Allora chi li ha uccisi?» «Non lo so. Nella Foresta del Re c'è un sacco di spazio per ogni tipo di fuorilegge. Ma credo che riuscirò a scoprirlo.» Bevve un altro sorso di birra. «Vicino al Taff hai detto, no? Questo significa a circa due giorni da qui. Partirò alle prime luci dell'alba, quindi di' a Paet di prepararmi i cavalli.» Finì la birra in un unico, lungo sorso e si alzò da tavola. «Ci vediamo.» «Aspetta. Non vuoi parlare ancora un po' col ragazzo?»
«A che scopo? Non sa neanche che cos'è successo. Probabilmente non ha nemmeno visto nessuno. Scommetto che la parte sui colori del re se l'è inventata.» «Come fai a dirlo?» «Sentimi bene. I nomadi vivono nel terrore della giustizia del re. Credono tutti che un giorno saranno impiccati, decapitati o ricacciati indietro, e mi credono un uttin con due teste. Non scoraggio storie come queste, anzi le diffondo. Qualcuno ha ucciso la famiglia di questo ragazzo e lui non ha visto chi è stato. Ha immaginato che sia stato io. Il resto lo ha inventato quando ha iniziato a sentirsi uno stupido.» «Qualcuno li ha uccisi, però» disse lei. «Già. Di tutta la storia, questa è l'unica parte a cui credo.» Sospirò e si alzò in piedi. «'Notte, Winn.» «Non ci andrai mica da solo, vero?» «Tutti i miei uomini sono troppo lontani da qui. Devo andare finché le tracce sono ancora fresche.» «Aspetta che torni qualcuno dei tuoi. Manda un mezzo a Dongal.» «Non c'è tempo. Come mai sei così nervosa, Winn? So quello che faccio.» Lei annuì. «Solo un presentimento. C'è qualcosa di diverso stavolta. Le persone che tornano dalla foresta sono... diverse.» «Conosco la foresta meglio di chiunque altro. È la stessa di sempre.» Annuì poco convinta. «Be', ancora buona notte.» La mano di lei afferrò la sua. «Sta' attento» mormorò, e gliela strinse leggermente. «Certo» rispose lui, sperando di essersi girato in tempo perché lei non lo vedesse arrossire. Aspar si alzò al primo canto del gallo, mentre c'era ancora la luce delle stelle. Quando ebbe finito di spruzzarsi acqua sul viso da un bacile di terracotta e di radersi la barba che spuntava corta, di chiudersi le brache di pelle di alce e la giubba di cotone imbottito, l'oriente era già dorato. Pensò per un momento alla corazza di cuoio conciato; sarebbe stata una giornata calda. Se la mise lo stesso. Meglio sudato che morto. Si allacciò il pugnale dal manico d'osso e sulla stessa cintura sistemò, nell'anello, l'ascia da lancio. Tirò fuori l'arco dalla custodia di tela cerata,
controllò il legno e le corde di ricambio, contò le frecce. Poi lo rimise dentro, scivolò nei suoi stivali alti e scese al piano di sotto. «Alle prime luci dell'alba, eh?» gli disse Winna non appena entrò nella sala da pranzo. «Sto invecchiando» brontolò Aspar. «Be', fa' colazione allora, visto che per mangiare non sei troppo in anticipo.» «Ah, a proposito. Devo comprare...» «Ti ho preparato cibo per una settimana. Paetur te lo sta caricando.» «Ah, grazie.» «Siediti.» Gli portò su un tagliere pane nero, salsiccia all'aglio e frittelle di mela. Aspar fece piazza pulita di tutto. Quando ebbe finito, Winna non era più lì, ma la sentiva muoversi in cucina. Si ricordò di aver avuto una donna che trafficava nella sua cucina, nella sua casa. Era stato tanto tempo prima, ma il dolore non cessava. Winna era così giovane da poter essere sua figlia. Se ne andò senza fare rumore, per non attirare la sua attenzione, sentendosi un po' vigliacco. Una volta uscito, si diresse dritto alle stalle. Paetur, il fratello più piccolo di Winna, era indaffarato con Angela e Orco. Era alto, biondo e magrissimo. Poteva avere, quanto, tredici anni? «'Giorno, sir» disse Paet quando vide Aspar. «Non sono un cavaliere, ragazzo.» «Già, ma siete quanto di più vicino ci possa essere qui intorno, a parte il vecchio sir Symen.» «Un cavaliere è un cavaliere. Sir Symen lo è; io no.» Poi, facendo un cenno verso i cavalli: «Sono pronti a partire?» «Orco dice di sì, Angela di no. Credo fareste meglio a lasciare Angela con me» e con la mano diede un buffetto sul collo del roano. «Lo ha detto lei, eh?» grugnì Aspar. «Non sarà che è stanca per la galoppata che le hai fatto fare ieri?» «Io non...» «Dimmi una bugia e ti do una bella frustata, e tuo padre mi ringrazierà.» Paet arrossì e si guardò le scarpe. «Be'... aveva bisogno di una passeggiata.» «La prossima volta chiedi, capito? E per amor del cielo, non provare a montare Orco.» Il baio striato scelse quel momento per sbuffare, come se condividesse
quelle parole. Paet scoppiò a ridere. «Che c'è di tanto divertente?» «Tom ci ha provato, ieri, a cavalcare Orco.» «Quando lo seppelliscono?» «Ha perso due denti davanti, e basta.» «Fortunato. Il ragazzo è fortunato.» «Sì, signor White.» Aspar accarezzò il muso di Orco. «A quanto pare li hai caricati bene. Ti va di sistemare la faretra e l'arco?» «Posso davvero?» Gli occhi del ragazzo scintillarono impazienti. «Certo.» E gli passò le armi. «È vero che avete ucciso sei uttin con questo?» «Non esistono gli uttin, ragazzo, e neanche i greffyn, né alvs, né genio basilisco, né gabellieri con un cuore.» «È quello che ho detto ai miei amici. Ma Rink dice che suo zio ha visto un uttin...» «È più probabile che fosse ubriaco e si sia visto allo specchio.» «Ma voi avete ucciso il Wargh Nero e i suoi banditi, vero? Tutti e dieci.» «Già» rispose secco Aspar. «Farò qualcosa del genere anch'io, un giorno.» «Non è tutto come sembra» rispose Aspar. E detto questo montò su Orco e si incamminò. Angela li seguiva ubbidiente. Lo stesso faceva Paet. «Dove pensi di andare?» gli chiese Aspar. «Giù al Mago. Ieri notte è arrivata una carovana sefry. Voglio farmi predire il futuro.» «Faresti meglio a stare alla larga da loro» gli suggerì Aspar. «Non siete stato allevato come un Sefry, signor White? Non vi ha allevato Jesp la Sudicia?» «Già. Per questo so quel che dico.» I Sefry avevano scelto un bel posto, un prato pieno di violette, che godeva della vista del fiume ed era circondato da querce. Stavano ancora montando le tende. Una grande, di un cremisi sbiadito e oro, era già stata completamente tirata su, e lo stemma del clan - tre occhi e una luna crescente sventolava in una timida brezza. Cavalli impastoiati pascolavano nel prato, dove dieci uomini e una ventina di ragazzini piantavano pali, srotolavano corde e grosse tele. I più erano nudi fino alla cintola, perché il sole non era
ancora alto abbastanza da bruciare quelle pelli bianche come il latte. A differenza della maggior parte della gente, i Sefry non si scurivano mai al sole. In piena luce, giravano fasciati dalla testa ai piedi. «Ehilà!» gridò uno degli uomini, un tipo dalle spalle strette. I lineamenti facevano pensare che avesse una trentina d'anni, ma Aspar sapeva che ingannavano di almeno quindici. Conosceva Afas da quando erano bambini, e Afas era più grande di lui. «Sbaglio o mi sembra di vedere il Bastardo della Sudicia?» Il Sefry si tirò su, con il martello che gli oscillava su un fianco. Aspar scese da cavallo. Il Bastardo della Sudicia. Un soprannome che non gli era mai piaciuto. «Salve, Afas» rispose, rifiutandosi di lasciar trasparire la sua irritazione. «Piacere di rivederti.» «Sei qui per buttarci fuori?» «Qual è il problema? Vorrei solo che foste in una città diversa, magari un'altra all'interno o intorno alla mia giurisdizione. Comunque, sono di passaggio.» «Be', è generoso da parte tua.» Il Sefry inclinò il capo. «Lei aveva detto che saresti venuto. C'è mancato poco che si sbagliasse, vero?» «Lei chi?» «Madre Cilth» «Per il Malvagio! È ancora viva?» «Queste vecchie muoiono raramente.» Aspar si fermò a pochi passi da Afas. I due uomini erano della stessa statura, ma la somiglianza si fermava lì. Aspar aggiungeva un certo peso all'altezza, una quercia rispetto a quel salice di Afas. Da vicino, la pelle di Afas sembrava una mappa, con i fiumi azzurri, i corsi d'acqua, i ruscelli e i promontori delle vene chiaramente visibili. Aveva sei capezzoli pallidi, distribuiti sul torso agile e ispido quasi fosse una gatta. I capelli erano neri come la notte scura, legati dietro con un fiocco dorato. «Da dove arrivate?» gli chiese Aspar. «Da sud.» «Attraverso la foresta?» Gli occhi indaco di Afas si spalancarono ingenui. «Lo sai meglio di me, guardaboschi. Non viaggeremmo mai nella foresta di Re Randolf senza permesso.» «Re Randolf è morto tredici anni fa. C'è William adesso.» «Fa lo stesso.»
«Be', io sto andando al torrente Taff. È arrivato un ragazzo la notte scorsa dicendo che la sua famiglia è stata uccisa laggiù. Ti sarei grato se potessi dirmi se hai sentito qualcosa di utile in proposito. Non ti farò troppe domande sulla tua fonte.» «È gentile da parte tua, ma non so niente. Però ti dico questo, se fossi stato nella foresta, ne uscirei adesso. Me ne starei bene alla larga da lì.» «Dove andrete?» «Faremo delle riparazioni da queste parti per guadagnare qualcosa per i viveri. E poi? Via, lontano. Tero Gallé, forse, o Virgenya.» «Perché?» Afas indicò con un cenno improvviso del capo la tenda più grande, quella già montata. «Perché lei dice così. Non so più di questo, né lo voglio sapere. Ma puoi chiederglielo. Del resto, lei lo ha già previsto.» «Ah. Allora suppongo che dovrei farlo.» «Potrebbe essere la cosa più saggia.» «Giusto. Tieniti fuori dai pasticci, d'accordo? Ho già abbastanza di cui preoccuparmi e non vorrei alla fine doverti venire a cercare.» «Certo. Qualunque cosa per te, Sudicio.» Madre Cilth era già vecchia quando Aspar era ancora un ragazzo. Ora avrebbe potuto essere un fantasma che scruta dall'abisso della morte. Stava seduta su un mucchio di cuscini, vestita di nero, con una cuffietta nera. Si vedeva solo il suo viso, una maschera d'avorio con ragnatele di zaffiro. Gli occhi, di un dorato pallidissimo, controllavano ogni suo movimento. Gli occhi di Jesp erano dello stesso colore. E anche quelli di Qerla. «Eccoti qua» disse madre Cilth con voce stridula. «Jesperedh mi ha detto che saresti venuto.» Aspar le rispose ricordandole da quanto tempo Jesp fosse morta, ormai. Non aveva importanza. Non aveva mai capito se era una scusa o se i Sefry erano arrivati a credere alle loro stesse bugie. Non importava; quella continua insistenza sul saper parlare con i morti era una scemenza davvero irritante. I morti erano morti; non parlavano. «Volevi vedermi?» Fece un timido tentativo per non far trasparire l'irritazione nella sua voce, ma la cosa non gli riusciva molto bene. «Già ti vedo. Voglio parlarti, invece.» «Sono qui, madre, ti ascolto.» «Sempre il solito impertinente, il solito impaziente. Credevo che mia sorella ti avesse educato meglio.»
«Forse le sue lezioni avrebbero fruttato di più se avesse avuto un po' d'aiuto da tutti voi» rispose Aspar, incapace di allontanare l'amarezza dalla sua voce. «Prendere o lasciare. Non sono stato io a voler parlare con te.» «Sì, invece.» Era vero, o quasi, ma l'idea non gli piaceva comunque. Si girò per andarsene. «Il Re degli Alberi si sta svegliando» sussurrò Cilth. Aspar si fermò, un brivido intenso strisciò piano come un millepiedi lungo la sua spina dorsale. Si voltò molto lentamente per guardare di nuovo in faccia la vecchia. «Cosa?» «Il Re degli Alberi. Si risveglia.» «Cavolate!» commentò secco Aspar, anche se una parte di lui sentiva la terra aprirsi sotto i piedi. «Ho viaggiato nella Foresta del Re per tutta la vita. Sono stato nel suo cuore più oscuro e profondo e in luoghi sulle Montagne della Lepre che nemmeno il cervo ha mai visto. Non c'è nessun Re degli Alberi. Questa è solo un'altra delle vostre sciocchezze sefry.» «Lo sai meglio di me. Stava dormendo ed era invisibile. Ora si sta svegliando. È il primo segnale. Sicuramente Jesp te l'avrà detto.» «Me l'ha detto. Mi ha anche insegnato a imbrogliare ai dadi e a fare la voce da fantasma per le sue sedute spiritiche.» Il volto della vecchia si fece ancora più duro. «Allora dovresti conoscere la differenza» sibilò. «Dovresti conoscere la differenza tra il freddo e il caldo, tra la brezza e la tempesta.» Si chinò ancora di più verso di lui. «Guarda nei miei occhi. Guarda.» Aspar non voleva, ma gli occhi di lei lo avevano già catturato, come un serpente che sta per mangiare un topo. L'oro e il rame delle orbite parvero dilatarsi fino a diventare tutto quello che lui poteva vedere e allora... Una foresta si trasformò in un patibolo, corpi putrefatti pendevano da ogni ramo. Gli alberi erano nodosi e malati, ricoperti da spine nere, e al posto delle foglie sostenevano uccelli necrofagi, corvi e avvoltoi, grassi e sazi. Nel cuore della foresta le ombre tra gli alberi cambiavano direzione, come se qualcosa di grande si stesse muovendo. Aspar cercò di vedere, ma il movimento avveniva ai limiti del suo campo visivo e si arrestava ogni volta che guardava fisso nella sua direzione. Allora si concentrò sul cadavere più vicino. La corda che l'aveva impiccato era quasi completamente marcia e da essa sembravano pendere solo
le ossa e la carne livida, ma gli occhi erano ancora vivi, vivi e di un dorato pallido... Gli stessi occhi che stava guardando in quel momento. Gli occhi di madre Cilth. Respirando affannosamente, Aspar distolse lo sguardo. Madre Cilth scoppiò in una risata stridula. «Vedi?» mormorò. «Stupidaggini» riuscì a dire, ma le gambe gli tremavano. «Un trucco.» Cilth si tirò indietro. «Basta. Credevo che fossi il predestinato. Forse mi sono sbagliata. Forse, dopo tutto, non hai imparato niente.» «Posso solo sperarlo.» «Una vergogna, davvero. Perché se non sei tu il predestinato, allora deve ancora nascere. E se ancora non è nato, la tua razza e la mia saranno cancellate dalla faccia della terra, come se non fossimo mai esistiti. Quella parte della rivelazione non può essere messa in dubbio se non da persone stolte. Ma forse tu sei uno stolto. Mia sorella è morta invano.» Sollevò un velo e se lo mise sul volto. «Ora devo sognare» disse. «Lasciami sola.» Aspar le obbedì, combattendo contro un'insolita voglia di correre. Solo dopo essersi lasciato alle spalle l'accampamento sefry, a una lega di distanza, il suo respiro si calmò. Il Re degli Alberi. Che cavolata, pensò. Ma, qualcosa, in un angolo remoto di quella visione, si muoveva ancora. Capitolo due In un'altra taverna «La regina ovviamente deve morire per prima. Rappresenta il pericolo maggiore per i nostri piani.» La voce dell'uomo era signorile e sibilante, parlava la lingua del re con un leggero accento del Sud. A queste parole Lucoth sentì come un serpente strisciargli lungo la schiena, e improvvisamente temette che il battito del suo cuore fosse un tamburo che tutti potevano sentire. Sono un topo, disse a se stesso. Un topo. Così lo chiamavano tutti. Il suo vero nome era Dunhalth MaypHinthgal, ma solo sua madre lo aveva sempre chiamato Dunhalth. Per chiunque altro nella piccola città di Odhfath, lui era Lucoth, il Topo.
Un secco silenzio seguì le parole dell'uomo. Dal suo nascondiglio sulle travi, Lucoth non riusciva a vedere nessuna delle loro facce: sapeva solo che erano in tre e, a giudicare dalle voci, tutti uomini. Sapeva che avevano pagato l'oste MaypCorgh per utilizzare la stanza sul retro della taverna del Gallo Nero; probabilmente avevano delle faccende segrete di cui discutere. Lucoth aveva già origliato di nascosto altre riunioni del genere. Aveva fatto un patto con l'oste MaypCorgh, che si era impegnato a fargli sapere quando la stanza era occupata. In passato, aveva spiato per lo più contrabbandieri e briganti, scoprendo spesso cose da cui MaypCorgh aveva tratto qualche profitto, una parte del quale era sempre finito a Lucoth. Ma questi non erano né contrabbandieri, né banditi. Lucoth aveva già sentito complottare di omicidi prima di allora, ma mai quello di una regina. Mentre l'eccitazione prendeva il posto della paura, sentì un altro prendere la parola. «La regina» sospirò. Questo aveva una voce più profonda, un po' imbarazzata. «È proprio così chiara la profezia?» «Certamente» rispose quello che aveva parlato per primo. «Quando lui arriverà, non dovrà esistere alcuna regina di sangue a Eslen.» «Che ne facciamo delle figlie?» disse l'ultimo dei tre. Il suo accento era strano anche per Lucoth, che ne aveva sentiti a bizzeffe. La città di Odhfath era situata su un crocevia: prendendo la via a est si arrivava in poco tempo a Virgenya. Quella a ovest era la porta per Paldh. Quella a nord portava a Eslen e infine a Hansa. La strada a sud si immetteva sulla Via del Grande Vitelliano, con le sue variopinte carovane di mercanti. «Le figlie potrebbero anche non succedere al trono» disse il secondo uomo. «Sono in corso dei preparativi per legittimare la loro successione» rispose il primo. «Perciò devono morire tutti, per forza. Il re, la regina e le loro figlie. Solo allora i nostri piani saranno al sicuro.» «È un passo importante» disse il terzo, titubante. «Dopo averlo fatto non potremo più tirarci indietro.» La voce del primo uomo si fece bassa e sommessa. «Il Re degli Alberi si risveglia. L'età dell'uomo è giunta alla fine. Se non ci muoviamo adesso, moriremo come tutti gli altri. Questo non deve accadere.» «D'accordo» disse il secondo. «Sono con voi» aggiunse il terzo. «Ma bisogna fare attenzione. Molta attenzione. Il momento sta per arrivare, ma non è ancora giunto.»
«Certo» disse il primo. Lucoth si leccò le labbra, immaginando quale ricompensa gli sarebbe potuta arrivare per aver salvato una regina. O un'intera famiglia reale. Aveva sempre sognato di visitare il mondo, nella sua vastità, in cerca di fortuna. Ma era abbastanza saggio da sapere che un ragazzo di quattordici anni in giro senza un soldo in tasca avrebbe fatto prima o poi una brutta fine. Col passare degli anni aveva risparmiato quasi quanto bastava per cominciare. Ma questo... riusciva quasi a vedere l'oro davanti ai suoi occhi, montagne d'oro. O magari il titolo di barone, o la mano di una principessa. O tutto insieme. L'oste MaypCorgh non avrebbe saputo niente di tutto questo, ah, no di certo. La posta in palio era talmente alta che avrebbe sicuramente provato a ricattare quegli uomini là sotto. Non era questo il modo di procedere. Doveva andarsene alla svelta dal solaio, aspettare fino all'indomani, e dare una bella occhiata a quegli uomini per poterli descrivere. Poi avrebbe preso i suoi risparmi, comprato un asino e sarebbe partito per Eslen. Lì si sarebbe procurato un'udienza presso l'imperatore William e gli avrebbe raccontato cosa aveva sentito. Improvvisamente si rese conto che quegli uomini lì sotto si erano fatti silenziosi e abbandonò le sue fantasie per concentrarsi su di loro. La testa del primo uomo si mosse, e sebbene Lucoth non riuscisse a vedere gli occhi, si sentì folgorare da uno sguardo. Ma era impossibile. Trattenne il respiro, in attesa che quell'illusione sbiadisse. «Sei coraggioso, ragazzo» disse l'uomo. La sua voce era vellutata. Lucoth si mosse di scatto, ma fu come muoversi dentro un incubo. Conosceva le travi della taverna come il palmo delle mani, ma per qualche motivo gli sembrava tutto estraneo ora, i pochi passi che doveva percorrere per raggiungere la salvezza sembravano leghe. Immobile, la parte pensante della sua mente gli diceva scavalca la parete, salta giù. Dovranno fare il giro dalla porta; questo li farà restare parecchio indietro, quanto basta e avanza per permettere a un topo di trovare un nascondiglio nella città in cui è nato. Qualcosa lo colpì violentemente in viso, non troppo forte però. Si chiese che cosa gli avessero tirato, ma si sentì sollevato perché non doveva essere troppo pericoloso. Qualunque cosa fosse, era ancora lì, ferma contro la guancia. Non aveva
tempo per quello, però. Si diresse verso la parete, che non arrivava fino alle travi, e saltò giù nella stanza vicina. La finestra aperta era lì, che lo aspettava. Si sentiva stordito e avvertiva un sapore strano in bocca. Per una qualche ragione, avrebbe voluto vomitare. Solo quando ebbe raggiunto la strada cercò di scoprire cosa avesse attaccato lì, ma non riusciva a capire: era il manico di un pugnale, e la cosa non aveva alcun senso... Ma poi capì che aveva senso se la lama era conficcata in gola, ed era proprio così. Poteva sentire la punta dentro la trachea. Non tirarlo fuori, pensò. Se lo farai, comincerai a sanguinare... Prese a correre lungo la strada, ma non riusciva a tenere la mano lontana dalla cosa che aveva nel collo, e neanche a concentrare la mente su ciò che gli era successo davvero. Andrà tutto bene, pensò. Deve avere mancato le vene. Andrà tutto bene. Me lo farò togliere dal vecchio Macellacavalli. Cucirà la ferita. Andrà tutto bene. Qualcosa calpestava pesantemente la strada dietro di lui. Si voltò e vide l'ombra di un uomo. Si muoveva nella sua direzione. Continuò a correre. Sentiva il battito del cuore in gola, adesso, e c'era qualcosa che gliela ostruiva. Vomitò, e un'agonia s'impossessò di tutto il lato sinistro del corpo. Fece qualche altro passo barcollando. Santi, per favore fatemi vivere, non parlerò, provò a dire, ma la voce era inchiodata dal coltello. Poi qualcosa di freddo gli bucò la schiena. Tre volte, pensò, forse quattro. L'ultimo tocco fu languido come un bacio, e proprio alla base della nuca. «Dormi bene, ragazzo» sentì dire. Suonava come la voce di un santo, e questo lo fece sentire un po' meglio. Capitolo tre Lo scudiero Nuvole alte nell'oscurità spazzarono via la luna e un gelido vento di mare rese più amara la notte. Neil quasi non sentiva più i piedi e le dita. L'unico odore che riusciva a percepire era quello della salsedine, e l'unico
rumore era quello del vento e delle onde che assalivano la riva. Ma poteva immaginare molto di più: il respiro del nemico, là fuori da qualche parte nella notte; lo strepito dell'acciaio che avrebbe salutato l'alba; il lamento monotono dei freddi e irrequieti draugs sotto le onde, morti eppure vivi, bocche di squali spalancate in attesa della carne dei viventi, quella di Neil MeqVren. «È quasi l'alba» mormorò suo padre, abbassandosi per stendersi accanto a Neil sulla sabbia. «Tieniti pronto.» «Potrebbero essere ovunque» disse qualcun altro, forse lo zio Odcher, pensò Neil. «No. Ci sono solo due posti in cui potrebbero aver lasciato le navi. Qui, o sulla Spiaggialatte. Noi siamo qui, loro devono essere là.» «Dicono che i Weihands possono marciare di notte, che possono vedere nell'oscurità, come i trolls che loro stessi adorano.» «Non possono marciare di notte, esattamente come non possiamo farlo noi» ribatté il padre di Neil. «Se non sono a bordo delle loro navi, staranno facendo proprio come noi - aspettano il sorgere del sole.» «Non mi interessa quello che possono fare» brontolò un altro. «Non si aspettano di incontrare gli uomini del clan MeqVren.» I pochi rimasti, pensò Neil. L'ultima volta, al tramonto del sole, ne aveva contati dodici; dodici! La mattina dopo erano stati trenta. Si stava sfregando le mani per scaldarle, quando un pugno si chiuse sulle sue dita. «Sei pronto, figliolo?» gli sussurrò il padre. «Sì, pa'.» Non riuscì a vedere il volto, ma quello che sentì nella sua voce gli fece venire i brividi in testa. «Stavolta non avrei dovuto portarti.» «Sono già andato in guerra.» «Già, e sono stato orgoglioso di te. Nessun MeqVren - nessun uomo di nessun clan di cui abbia sentito parlare - ha mai ucciso il suo primo nemico a soli undici inverni, ed è successo un anno fa. Ma questa...» «Perderemo, vero pa'? Moriremo tutti.» «Se questo è il volere dei santi, allora che siano maledetti.» Si schiarì la voce e iniziò a cantare, piano: «Siamo nati per combattere e morire Gracchiate, corvi, che vi sto per nutrire» Neil rabbrividì: quella era una strofa del canto di morte dei MeqVren.
Ma suo padre gli strinse il braccio. «Non vuol dire che moriremo, ragazzo. Sorprenderemo la loro guardia.» «Allora il lord barone ci pagherà una bella sommetta, vero pa'?» «È la sua guerra, è un uomo di parola. Ora stiamo zitti, perché arriva l'alba.» Il cielo s'illuminò. I dodici uomini del clan MeqVren stavano nascosti dietro la duna, immobili. Neil si domandava che cosa gliene importasse al barone o ai Weihands di questa isola disgraziata, così rocciosa e arida che non avrebbe dato da mangiare nemmeno alle pecore. Si voltò per guardare il mare. Nel cielo c'era ormai abbastanza luce e poteva scorgere la prua della loro galera, a forma di testa di cavallo. E giù, sulla spiaggia, un'altra e un'altra ancora. Eppure i MeqVren avevano una sola nave. Tirò la manica del padre. «Pa'!» Fu in quel momento che qualcosa sfrecciò ricadendo contro la schiena del padre, che emise un verso strano. Improvvisamente scoppiarono le urla, e i MeqVren si alzarono in piedi sotto una pioggia di frecce per fronteggiare guerrieri che risalivano la spiaggia ed erano il triplo di loro. Neil chiuse gli occhi e saltò in piedi insieme agli altri, con le dita talmente fredde che non riusciva a sentire la lancia, ma poteva vederla, stretta nelle sue mani. Poi una freccia lo colpì. Fece lo stesso rumore di quella che aveva colpito il padre, solo un po' più acuto. Si svegliò di soprassalto e vide che si stava premendo il torace, due dita sotto il cuore, respirando affannosamente come se avesse corso per una lega. Si sentì mancare. Dove mi trovo? La confusione durò solo pochi attimi, poi riconobbe l'ondeggiare della nave, i mobili della sua cabina. Il respiro si calmò e sentì la grinza della piccola cicatrice. Otto anni, ma in sogno il ricordo era ancora vivo. Otto anni. Rimase seduto qualche altro minuto e sentì i marinai sul ponte. Anziché rimettersi a dormire, si alzò per farsi la barba. Voleva apparire al meglio quel giorno. Affilò il rasoio e poi portò la lama tagliente alla guancia, quindi in basso
sui lineamenti squadrati del mento, radendo la barba con movimenti fermi e sicuri. Finì senza neanche un graffio e con la stessa lama si tagliò i capelli color fieno che gli coprivano gli occhi. La Donna Nera di quel giorno sulla spiaggia sbiadì e la sua eccitazione aumentò. Finalmente, quel giorno avrebbe visto Fortezzadispine! Si sciacquò la faccia, si asciugò gli occhi azzurri e poi salì sul ponte. Raggiunsero il Promontorio del Vagabondo a metà pomeriggio e veleggiarono tenendo le scogliere d'alabastro a sinistra per un'altra ora. Lì, doppiato il promontorio, virarono nella Baia Frangiflutti, un grande porto di forma quasi rotonda, circondato a nord dal Promontorio del Vagabondo e a sud da Craigs sull'Ale. A occidente c'era il mare aperto e a est, dove la prua di Arpione dei mari era diretta, sorgeva una meraviglia così sublime che Neil si sentì spezzare il cuore. Sarebbe stato quasi contento di morire di quello stupore. «Santi del mare e del tuono!» riuscì a dire con un filo di voce. La sua esclamazione non fu spazzata via dal vento che schiaffeggiava il ponte di Arpione dei mari, ma il vecchio che gli stava accanto, Fail de Liery, la sentì e digrignò un largo e duro sorriso verso occidente. Con i capelli al vento, come una cortina di fumo, Fail rivolse lo sguardo verso Neil, e sebbene il suo volto fosse scavato, pieno di cicatrici e rughe a causa dei suoi sessanta anni, pareva tornare di nuovo giovane quando sorrideva. «Eccola, ragazzo» disse il vecchio. «Quella è Fortezzadispine. Ne valeva la pena?» Neil fece cenno di sì col capo, muto, mentre il promontorio si allontanava sempre di più alle loro spalle. Il cielo a est, dietro Fortezzadispine, era nero come polvere di carbone e sopra quello specchio scurissimo si ammassavano veli di nuvole come la spuma del mare, che si rompevano nel punto più alto della volta. Ma da ovest il sole, che stava tramontando, emanava obliqui raggi dorati a infiammare la baia e la più potente fortezza del mondo su uno sfondo tempestoso. «Fortezzadispine» ripeté. «Voglio dire, avevo sentito... mi avevate chiesto...» Si fermò per cercare di capire che cosa stesse vedendo veramente, per coglierne la grandezza. Se la Baia Frangiflutti era quasi un cerchio, lo spicchio orientale mancante, largo forse quattro leghe, era un muro color avorio. Sette enormi torri dello stesso materiale trafiggevano il cielo, e quella centrale raggiungeva un'altezza da capogiro.
Mentre Neil guardava, una nave da guerra veleggiò attraverso una delle sei aperture ad arco della parete. I suoi alberi dovevano essere alti più di venti iarde, eppure non arrivavano a sfiorare la parte superiore dell'arco. E questo era solo a metà del muro. «Per tutti i santi» sussurrò Neil. «Sono stati degli uomini a costruirla? Non gli Echesl?» Piegò un dito e si toccò la fronte, un gesto scaramantico contro il male che poteva derivare da quel nome. «Sì, uomini. Estrassero la pietra dalle montagne Eng Fear, duecento leghe risalendo il fiume. Dicono che ci siano voluti sessant'anni per costruirla, ma ora nessuno può muovere contro Crotheny per mare.» «È una meraviglia e sono orgoglioso di servirla» disse Neil. «No, ragazzo» replicò Fail in tono dolce. «Non sei al servizio di un oggetto di pietra, non importa quanto sia grande. Non lo sarai mai. Servirai Crotheny, il suo re e la dinastia regale dei Dare.» «È quello che volevo dire, chever Fail.» «Nella lingua del re, ragazzo, un cavaliere è chiamato sir.» «Sir Fail.» Suonava goffo, come ogni altra parola nella lingua del re. Mancava di musicalità, in un certo senso. Ma era la lingua del suo signore e lui l'aveva imparata. Esercitandosi duramente, come con la spada, la lancia e la mazza. Be', quasi altrettanto duramente. «Sor Fail» ripeté. «E presto sarà anche sir Neil.» «Non posso crederci. Come può il re nominarmi cavaliere? Non ha importanza, comunque sarò orgoglioso di servirlo, anche solo come valletto, purché possa servirlo.» «Ragazzo, ho combattuto contro sir Seimon af Harudrohsn quando ero ancora al mio diciottesimo inverno. Ho lottato al fianco di tutti e cinque i fratelli Cresson nella battaglia di Ravenmarh Wold, e ho spedito sir Duval MaypAvagh, che aveva ucciso più di venti cavalieri, nella città delle ombre, insieme al suo secondo, davanti alle porte di Cath Valk. Ne ho conosciuti di cavalieri, ragazzo, e posso dirti che in tutti i miei cinquantasei anni di vita non ho mai visto un ragazzo che meritasse la rosa più di te.» Neil si sentì un nodo alla gola per affetto e gratitudine verso quell'uomo forte e vecchio. «Grazie, sir Fail. Grazie per... per tutto.» «Spero che sia il vento negli occhi, figliolo. Non amo molto queste lacrime adulatrici, lo sai.» «È il vento chev... volevo dire sir.»
«Bene, e continua così. Non lasciare che qualcuno di quei bellimbusti a corte ti spinga su un cammino diverso. Sei un guerriero di confine, allevato da un buon padre e poi da me. Ricorda solo questo, e rimarrai come sei. È l'acciaio del confine che tiene in salvo l'oro tenero qui nel centro. L'oro è bello, ma taglia a fatica il burro. Non curarti della bellezza, ragazzo, preoccupati solo della tua lama. La corte, per un vero guerriero, è più pericolosa di mille predoni weihand.» «Me ne ricorderò sir.» Cercò di stare più impettito. «Sarete fiero di me.» «Vieni di sotto. Ho qualcosa da darti.» «Avevo intenzione di dartela dopo che il re ti aveva nominato cavaliere, ma la tua armatura ha preso un brutto colpo al Lago Oscuro. Dopo tutto è compito di un lord far sì che i suoi guerrieri mantengano un aspetto bellicoso, no?» Neil non riuscì a rispondere. Come quando aveva visto Fortezzadispine per la prima volta, rimase di nuovo senza parole mentre il suo padrone srotolava un fagotto di pelle di foca, rivelando il bagliore dell'acciaio ben ingrassato. Neil indossava l'armatura da quando aveva dieci anni. Dapprima era stata di cuoio conciato, come quella che portava il giorno sfortunato in cui suo padre morì, poi un elmo d'acciaio e usbergo con gambali, e alla fine la cotta di metallo che indossava adesso, con la corazza ammaccata, ma ancora buona. Finora aveva potuto solo sognare quello che Fail de Liery gli aveva regalato: un'armatura completa, di lamine come quelle dei lord, articolata con giunture snodabili. Era di fattura semplice e buona, senza fronzoli né ornamenti. Doveva esser costata una piccola fortuna. «Sir Fail. Questo è più di quanto abbia mai desiderato. Come potrò mai... non posso accettarla, non dopo tutto quello che ha fatto per me.» «È giusta per te» rispose il vecchio. «Ho fatto prendere le misure quando ti hanno cucito l'ultimo completo. Nessun altro potrebbe portarla, e come sai, mi si offende quando si rifiutano i miei doni.» «Io...» Neil sorrise «non vi insulterei mai, sir Fail.» «Vuoi provarla?» «Per tutti i santi, certo!» Fu così che quando passarono sotto il grande arco di Fortezzadispine, Neil MeqVren se ne stava dritto e impettito sul ponte di Arpione dei mari
con la cotta del casato de Liery fissata sulla più perfetta armatura di tutti i tempi. Si sentiva splendente e implacabile, una spada fatta uomo. Le meraviglie aumentarono. Al di là del grande arco, le acque davanti a loro erano separate da un'alta collina. «Qui s'incontrano due fiumi» gli raccontò Fail. «L'impetuoso Mago da sud-est e il Rugiada che sgorga dai Barghs a nord.» «E così questa è la regale isola di Ynis?» «Già. I fiumi s'incontrano cinque leghe più avanti rispetto a noi, sull'altro lato dell'isola, poi si ridividono e tornano a congiungersi qui.» «Ynis! Allora dov'è Eslen? Dove sono i fiumi che scorrono al di sopra della terra?» «Abbi pazienza, ragazzo. È più a est. Saremo lì verso il tramonto, e per quanto riguarda i fiumi... li vedrai.» Ynis sorgeva su una pianura piatta, adagiandosi in una serie di colline punteggiate da eleganti castelli con guglie, villaggi di ciottoli rossi, campi e boschi. La pianura intorno all'isola era suddivisa per lo più in zone di grano verde. C'erano piccole ville, uomini al lavoro nei campi e strane torri con grandi ruote che giravano sulla sommità. Dal fiume si diramavano dei canali, alcuni dei quali erano talmente lunghi da scomparire all'orizzonte. E poi, con eccitazione sempre maggiore, Neil si rese conto che stava guardando il paesaggio dall'alto. Lungo il fiume, erano stati innalzati degli argini per far scorrere le acque più in alto rispetto alla campagna circostante. «Quando i nostri antenati combatterono qui contro l'ultima roccaforte degli Echesl, questa era una pianura, per lo meno così dicono le leggende» cominciò Fail. «Ynis era il monte che loro stessi eressero per il castello, ma dopo la sconfitta e quando al suo posto fu fondato il castello di Eslen, tutto sprofondò in un pantano e in una palude, fino alla linea dell'orizzonte. Gli Echesl avevano utilizzato una magia per allontanare le acque, e con la loro fine, tornarono anche queste. La gente che viveva qui avrebbe potuto andarsene, trovare un posto migliore verso est, ma non volle farlo. Giurò invece che avrebbe liberato di nuovo la terra dalle acque.» «Scoprirono il segreto della magia degli Echesl?» «No. Lavorarono duramente. Costruirono dighe e queste pompe che vedi qui, azionate dal vento, per allontanare l'acqua. Duemila anni di dure e lente battaglie contro le onde, ma il risultato si vede.» Poggiò una mano sulla spalla di Neil.
«Quindi, come ti dicevo, anche questo fu fatto dagli uomini.» Alla fine, veleggiando al di sopra della terra, come i personaggi di un racconto di fate, giunsero in vista di Eslen dalle tre mura. Sulla collina più alta c'era il castello, con le sue otto torri di pietra bianca come il gesso, insanguinato dalla luce del crepuscolo, con lunghi stendardi che svolazzavano neri contro le nuvole rosate. Da lì, la città si spargeva come acqua versata dalla cima di un colle, arginata brevemente da ciascuno dei muri concentrici che circondavano il castello; acqua mai arrestata completamente, con onde di ardesia a ricoprire i tetti degli edifici disseminati sulle colline più piccole fino a raggiungere il lungomare, ammassandosi lungo le banchine di pietra e i robusti pontili di legno. Veli di nebbia e fumo si stendevano sui bassopiani tra le colline e la luce delle candele trasformava già le finestre in occhi, sparsi qua e là. «È tutto così imponente» mormorò Neil. «Come una città incantata dei Queryen, delle antiche storie. Ho paura che a distogliere lo sguardo svanisca tutto.» «Eslen non è una città di raggi di luna e tele di ragni» lo rassicurò il cavaliere. «È reale, te ne renderai conto. E se pensi che questo sia imponente, aspetta di vedere la corte.» «Non vedo l'ora.» «Ah, imparerai ad aspettare, figliolo, senza alcun dubbio.» Arpione dei mari giunse su un molo, una sorta di piazza d'acqua circondata da darsene piene di barche colorate, di ogni dimensione. Una si distingueva dalle altre, una regina di battaglia a cinque alberi che rendeva insignificante anche Arpione dei mari e tutte le altre navi ancorate lì. Neil la stava ammirando, quando di colpo riconobbe la bandiera che vi sventolava sopra e istintivamente allungò la mano sulla spada. Fail lo afferrò per un braccio. «Neil, ragazzo mio, non serve.» «È una nave da guerra hanzish!» «Hai ragione, ma non è una cosa insolita. Ricordati che siamo in pace con Hansa e i Reiksbaurg.» La bocca di Neil si spalancò, si chiuse e si aprì di nuovo. «Pace? Ma se pagano predoni weihand con argento sonante in cambio di scalpi e orecchie lierish e i loro corsari affondano le nostre navi mercantili!» «Una cosa è il mondo reale» rispose Fail «e una cosa è la corte. Il re dice che siamo in pace con loro, quindi non estrarre la spada se vedi un Reiksbaurg e tieni a bada la lingua, capito?» Neil sentì di aver ingoiato qualcosa di spiacevole. «Ho capito, sir.»
Proprio mentre attraccavano, l'oscurità si abbatté come una scure. Neil mise il piede sui ciottoli di Eslen in una notte molto insolita per lui. Le darsene brulicavano di uomini e donne flebilmente illuminati dalla luce delle lampade. Volti andavano e venivano - belli, sinistri, innocenti e brutali - pure impressioni, che comparivano e sparivano come fantasmi, che andavano verso le navi e tornavano, salutandosi e accomiatandosi, muovendosi furtivamente e trasportando pesi. Pesce sventrato, catrame caldo, cherosene e fogne piene riempivano l'aria di odori. «Le porte alte della città sono chiuse ormai, quindi alloggeremo in una locanda» gli disse Fail, mentre si facevano largo tra la folla sulle banchine e attraversavano una lunga piazza; ragazze e donne dai lineamenti duri lanciavano sguardi provocanti, mendicanti ciechi o storpi se ne stavano rannicchiati nell'ombra a invocare aiuto e i bambini giocavano a combattere tra le gambe dei passanti e le ruote dei carri. Edifici di tre o quattro piani si ammassavano sul bordo della piazza, come giganti accoccolati spalla a spalla, a giocare con gli astragali, riversando nell'aria fresca della notte una luce allegra, fumo di camino e l'odore della carne arrosto. Si diressero proprio verso uno di questi giganti, la locanda del pesce luna, con un'insegna dorata che pendeva sopra la porta. «Fa' il bravo» disse Fail «e controlla che i nostri cavalli siano messi in questa stalla. Da' al garzone un soldo di rame, non di più e non di meno, per ogni cavallo. Poi togliti l'armatura e raggiungimi nella sala da pranzo.» «Vi do la mia parola, sir Fail» rispose Neil. Il pasticcio di birra e merluzzo era buono, molto meglio del cibo a bordo della nave, ma Neil a momenti neanche lo notò, era troppo occupato a guardare. Non aveva mai visto tante facce e vestiti così strani, né aveva mai sentito una confusione di lingue talmente grande. Due tavoli più in là, un gruppo di uomini dalla pelle scura, con abiti colorati, pronunciava suoni gutturali senza senso. Quando la cameriera portò loro il cibo, arricciarono le labbra coperte dai baffi in una sorta di disgusto e fecero dei segni strani con le dita alle sue spalle prima di mangiare. Due tavolate di persone, simili a questi per carnagione, sembravano fare a turno nel pronunciare discorsi infervorati, bevendo vino con stupida fretta. Indossavano giubbe scure e brache rosso sangue e portavano spade lunghe e buffe. Riconobbe anche qualcuno: degli Schilding dalla folta chioma bionda,
con le loro ruvide mani da pescatori e la risata rapida; dei vagabondi di mare provenienti dalle isole Ter-na-Fath; un cavaliere di Hornladh e i suoi scudieri, che indossavano il simbolo del cervo giallo e i galloni del casato MaypHal. Neil chiese informazioni su quel tipo. «Sir Ferghus Lonceth» gli rispose sir Fail. «E lui?» Neil indicò un uomo grosso, con i capelli corti e di un rosso scuro, la barba ben curata e una cotta di zibellino. Il suo stemma era diviso in quattro parti: un leone rampante dorato, tre rose, una spada e un elmo. C'erano sei uomini seduti al suo tavolo, tutti di aspetto settentrionale. Alcuni sarebbero potuti passare per Weihand, e Neil provò subito una certa antipatia per loro. «Non lo conosco» ammise Fail. «È troppo giovane, ma il suo stemma è quello degli Wishilm di Gothfera.» «Hanzish dunque. Vengono dalla nave.» «Sì, ricorda che cosa ti ho detto» lo avvisò il vecchio. «Va bene, sir.» Proprio in quel momento, arrivò uno degli scudieri del cavaliere di Hornladh. «Chever Fail de Liery, il mio padrone, sir Ferghus Lonceth, chiede il piacere della vostra compagnia.» «Sarei felice di accettare» rispose Fail «volete che ci uniamo a voi?» «Non sarebbe più appropriato che fosse il mio padrone a unirsi a voi? Dopo tutto, per anzianità e fama, voi siete certamente il primo, e spetta a voi scegliere il tavolo che preferite.» «Può anche darsi, ragazzo» rispose Fail «ma noi siamo solo in due e voi invece siete otto e avete più spazio al vostro tavolo. È giusto rispettare l'anzianità, ma nella locanda cerchiamo di essere pratici, d'accordo?» Si alzò e poi si voltò verso Neil. «Neil, da bravo invita il cavaliere wishilm a unirsi a noi.» «Sir» intervenne lo scudiero di Hornladh «l'ho invitato a nome del mio padrone e ha disprezzato l'invito.» «Può darsi che farà lo stesso con me, ma non sia mai detto che ho mancato di ospitalità e non l'ho voluto invitare» replicò Fail. Neil annuì e s'incamminò verso il tavolo del cavaliere hanzish. Quando arrivò lì, aspettò educatamente alcuni istanti, ma lo ignorarono tutti, ridendo e scherzando nella loro lingua. Alla fine Neil si schiarì la voce. «Perdonatemi» disse in hanzish.
«Per Tyw! Sa parlare!» disse uno degli scudieri, un tipo gigantesco con il naso rotto. Volse i suoi occhi celesti indemoniati verso Neil e disse: «Prendo un'altra pinta di birra, ragazza, e spicciati!» A quella battuta risero tutti. Neil respirò lentamente e sorrise. «Il mio padrone, sir Fail de Liery, richiede il piacere della vostra presenza.» «Fail de Liery?» rifletté subito il cavaliere hanzish. «Non conosco nessun cavaliere con quel nome. Esiste un vecchio che non si regge in piedi che si chiama così, ma sono quasi sicuro che non è mai stato cavaliere. E tu, ragazzo, che cosa fai per lui?» «Sono il suo scudiero» gli rispose senza alzare la voce. «E se non avete sentito la fama di sir Fail de Liery, vuol dire che non avete orecchie per sentire, o un cervello che trattenga quello che sentite.» «Padrone! Vi ha insultato!» esclamò uno degli scudieri hanzish. «Ah sì?» rispose il Wishilm. «Sembrava più la scoreggia di una blatta!» Occhi-celesti gli agitò un dito davanti: «Il mio padrone non si sporcherà le mani con voi, ve lo assicuro. Combatte solo contro cavalieri veri, ed è chiaro che voi non lo siete. I vostri insulti non significano niente per lui.» «Ma per noi sì» rispose un altro degli Hansans. «Ho promesso al mio padrone di non estrarre la spada, e di non rovinare l'ospitalità di questa casa.» «Che vigliacco!» urlò il tipo, a voce talmente alta da interrompere tutte le conversazioni nella sala da pranzo della locanda. Neil avvertì una specie di tremolio alle mani: «Vi ho invitato e voi non avete accettato. La nostra conversazione è finita.» Sì voltò e si diresse dove stavano seduti il suo padrone e il cavaliere di Hornladh. «Non osare voltarmi le spalle!» Neil lo ignorò. «Ben fatto, ragazzo» gli disse sir Fail, offrendogli un posto vicino a lui sulla panca. «Sarebbe stata una vergogna per entrambi se ti fossi messo a litigare in una locanda.» «Non oserei mai disonorarvi, sir Fail» «Lascia che ti presenti. Sir Ferghus Lonceth, questo è il mio protetto, Neil MeqVren.» Lonceth gli strinse la mano. «Pensavo che fosse vostro figlio, sir. Non è così?» «È come se lo fosse, ma no, non posso rivendicare quest'onore. Suo padre era un guerriero al mio servizio.»
«Piacere di conoscerti» disse sir Ferghus, continuando a stringergli la mano. «MeqVren, temo di non ricordare questa casata. È alleata del clan Fienjeln?» «No, sir. Il mio clan non ha un lignaggio.» Seguì un momento di silenzio, durante il quale i nobili lottarono dentro di sé con l'idea di uno scudiero senza lignaggio che aspirava al cavalierato. «Bene» riprese sir Ferghus, rompendo il silenzio. «Sei il benvenuto tra noi. La raccomandazione di sir Fail de Liery è più importante del sangue di dieci famiglie nobili.» Mentre bevevano, Neil pensò che forse qualcuno degli uomini di Lonceth non fosse d'accordo, ma che comunque erano troppo educati per dire qualcosa. «Ditemi, sir Ferghus» fece sir Fail, dopo aver brindato. «Ho poche notizie del vostro illustre zio. Come si trova a Paldh?» I due cavalieri parlarono di quell'argomento per un po', e gli scudieri, come era opportuno, rimasero in silenzio. La maggior parte degli uomini di Lonceth bevve molto; Neil invece no, non era sua abitudine. In una pausa della conversazione, Neil bussò leggermente sulla spalla del padrone. «Vado" a controllare i cavalli, sir Fail. Uragano e Scalpitasole avevano problemi alle zampe anteriori.» Fail lo guardò con un sorriso un po' sospettoso. «Va' a vedere allora. Ma spicciati a tornare.» I due cavalli stavano bene, e Neil lo sapeva. Il grosso Hansan dagli occhi azzurri e altri due scudieri hanzish lo stavano aspettando in strada - ma sapeva anche questo. Capitolo quattro Il novizio Aspar si svegliò tenendo stretto un tiranno alle note di una musica selvatica sotto di lui: il tamburellare di un picchio, la melodia vibrata di un'allodola, l'adagio delle cicale. Si strofinò gli occhi per liberarsi dalle schegge dei sogni, si aggrappò con le mani alla stretta piattaforma di legno e, facendo molta attenzione, si mise a sedere per salutare l'aurora. Il vento sussurrava tra i tiranni, mentre questi stiravano le antiche membra cigolanti alla luce del mattino; fece schioccare i rami più piccoli e fran-
tumò qualche foglia, che rilasciò un profumo fresco e pepato. Sotto, Orco nitrì. Aspar si sporse dal suo ramo per guardare in lontananza e controllare che entrambi i cavalli fossero ancora lì dove li aveva lasciati la sera prima. Da dove si trovava, sembravano non più grandi di due cani. Il picchio tamburellò di nuovo, quando Aspar sgranchì e iniziò a scendere. Aveva scelto di dormire di più, questa volta. Amava starsene fra i rami quando i primi raggi rossi del sole filtravano obliqui e la foresta cominciava a ronzare e a lamentarsi prendendo vita. Quell'antica piattaforma, che chiamava 'i tiranni' era uno dei rari posti a donargli un piacere così intenso. In altri luoghi, secoli di incendi, disboscamenti e malattie avevano lasciato al massimo una o due antiche querce che svettavano su alberi più piccoli. Lì invece se ne stavano ancora fieri e incontrastati per molte leghe antichi lottatori titanici, con le braccia muscolose e intrecciate, tirandosi e aggrappandosi gli uni agli altri, sostenendo un mondo a parte. Un uomo sarebbe potuto nascere, crescere e morire in quel luogo, bevendo la rugiada che si radunava negli angoli muscosi, nutrendosi di funghi, scoiattoli o di quaglie che fanno capolino tra i rami. Il mondo sottostante, quello degli uomini e dei Sefry, non aveva importanza lassù. Per lo meno così credeva da ragazzo, quando scoprì questo luogo e costruì le sue prime piattaforme. Immaginava che un giorno sarebbe andato a vivere lì. Ma perfino i tiranni potevano essere abbattuti e bruciati. Anche l'eterno avrebbe potuto essere ucciso da un carbonaio affamato o per il capriccio di un nobile. Da ragazzo, Aspar lo aveva visto con i suoi occhi. Fu una delle poche volte in vita sua in cui pianse. Allora decise di diventare un guardaboschi. La Foresta del Re, mah. Il ragazzo della taverna aveva ragione almeno in questo. Il re ci veniva solo una volta o due l'anno per cacciare. Era la foresta di Aspar, a lui spettava proteggerla. Eppure qualcosa stava accadendo là fuori. I Sefry erano dei bugiardi, è vero, non ci si poteva fidare di loro. Ma se veramente stavano fuggendo da quella foresta ombrosa dalle mille caverne, doveva esserci un motivo. I Sefry non uscivano al sole con tanta leggerezza. Quindi, con riluttanza si assicurò di aver preso tutto e iniziò a scendere, ramo dopo ramo, fin dove quelli più bassi, troppo pesanti per tenersi su, si riversavano in terra in sentieri confusi e fitti per mettere nuove radici.
Ecco perché Aspar li chiamava tiranni: sotto l'ombra dei loro rami striscianti non poteva vivere nessun'altra pianta, tranne i muschi e qualche felce. Ma il cervo e l'alce potevano sopravvivere grazie alle ghiande in quantità, e così i loro predatori, i gatti striati, come l'esemplare sinuoso che lo guardava con sospetto da qualche ramo più in alto. Era piccolo, solo tre volte più grande di una gatta di paese. Sulle Montagne della Lepre c'erano ancora leoni e qualche pantera degna di considerazione, ma non lo avrebbero molestato. Non appena mise piede sul tappeto di foglie scure, Orco lo guardò contrariato, mentre Angela lo salutava con un cenno della testa. «Non guardarmi in quel modo, cavallino» grugnì Aspar rivolgendosi a orco. «Hai avuto tutta la notte per vagabondare. Vuoi che cominci a metterti le pastoie e che te le lasci per sempre?» Orco continuò a guardarlo, ma lasciò che si avviassero tra le radici, a tratti ammucchiate una sull'altra, arrivando fino alla spalla dei cavalli; ritornarono lentamente verso la Strada del Vecchio Re, un'ampia pista che correva lungo una serie di monti bassi. In alcuni punti era stata costruita con pietre su terrapieni, perché rimanesse al di sopra delle radici. I rami bassi erano stati tagliati per consentire il passaggio dei carri. Per Aspar, la Strada del Vecchio Re era un affronto, una ferita lunga parecchie leghe nel cuore della foresta. Eppure sembrava improbabile che i tiranni potessero notare una così piccola offesa. Intorno a mezzogiorno gli venne sete; smontò da cavallo e scese giù per un pendio fino a una fonte. Non valeva la pena sprecare l'acqua piovana che aveva raccolto e imbottigliato nei villaggi, e che era oltretutto una robaccia viscida. L'acqua di sorgente era molto meglio, così fresca e limpida. Il torrente gorgogliava da una conca sabbiosa sotto una spaccatura bassa in una roccia friabile; da lì, dopo alcuni lunghi passi, convogliava nel Torrente di Edwin. Si inginocchiò sulla conca, facendo coppa con le mani, e poi rimase impietrito, cercando di capire quello che stava vedendo. Il bacino naturale era largo quasi come il suo avambraccio, e l'acqua gocciolava allegramente al suo interno, come sempre. Ma la conca brulicava di rane dallo sguardo funesto che iniziarono a scappare al suo arrivo. Una mezza dozzina, invece, galleggiava pancia in su nella pozza. E non erano le sole. Una biscia d'acqua dolce, lunga una iarda, era in stato di putrefazione, con una pellicola blu sugli occhi. C'erano anche diverse rane gracchianti che, sebbene vive, non sembravano in buona salute e non
provarono neanche a fuggire. Aspar indietreggiò, avvertendo una strana sensazione nello stomaco. Non aveva mai visto uno spettacolo simile in tutta la sua vita. Un attimo dopo, cominciò a ridiscendere lungo il ruscelletto fin dove questo si tuffava nel torrente. Lungo tutto il percorso c'erano rane morte e, nel punto più basso, anche pesci. C'erano grandi pesci morti anche nel torrente, fermi tra le felci delle sponde o intrappolati nei pescaioli naturali di rametti e radici. Mentre il gelo nelle ossa si faceva sempre più intenso, si tolse l'arco dalla spalla e tirò la corda, poi risalì il torrente. Qualcosa doveva averlo reso velenoso, e le sue creature avevano cercato un'acqua più pulita fino alla fonte. C'era della gente che utilizzava la radice di smilace per stordire i pesci e prenderli più facilmente, ma funzionava solo in una piccola pozza d'acqua stagnante. Per uccidere i pesci di un intero torrente occorreva più smilace di quanta ne esistesse. I pesci morti continuavano per un centinaio di passi e poi cento ancora, e Aspar stava per tornare ai cavalli, quando vide che il torrente diventava limpido di nuovo. Andò un po' più avanti, per essere sicuro, poi tornò indietro e questa volta notò qualcos'altro. Un ciuffo di felci sulla sponda aveva assunto un colorito giallo intenso, come se morisse alla stessa stregua dei pesci e delle rane. Fu proprio vicino alle felci che trovò l'impronta. Le orme non si formavano facilmente sul folto tappeto di foglie della foresta, ma sulla sponda fangosa del torrente trovò il segno di una zampa. Sebbene l'acqua l'avesse riempita e ne avesse sbiadito i contorni, sembrava l'orma di un gatto. Ma nessun gatto striato avrebbe potuto produrla, neanche una pantera. La mano di Aspar la copriva a mala pena. Neppure i leoni delle Montagne della Lepre ne lasciavano di così grandi. Se l'impronta apparteneva a un gatto, allora questo doveva essere più grande di un cavallo. Fece per tracciarne il profilo con un dito, e nel momento in cui la toccò sentì un sapore metallico in bocca, e la sua pancia si contrasse cercando di espellere quanto aveva ingerito a colazione. Quasi senza pensarci, fece un balzo all'indietro e rimase a una distanza di quindici passi dal torrente, tremando come se avesse la febbre. Sarebbe rimasto lì ancora, ma sentì delle voci in lontananza, sulla strada. Proprio dove si trovavano i suoi cavalli. Tornò indietro di corsa, più rapido e silenzioso che poté, con quella nau-
sea che si andava dissolvendo velocemente, così come era venuta. Erano in quattro e avevano già trovato Orco e Angela quando lui arrivò. «C'è il marchio del re sopra» stava dicendo uno di quelli; un uomo giovane, alto e allampanato, senza un dente davanti. «Dovremmo lasciarli stare allora. Non ne verrà niente di buono se li prendiamo.» Questo era un tipo più anziano, basso, tendente al grasso e con un grande naso. Il terzo, un uomo robusto, coi capelli rossi, sembrava non avere una sua precisa opinione. Il quarto, invece, sicuramente ne aveva una, ma non poteva esprimerla, legato e imbavagliato com'era. Quest'ultimo dimostrava non più di sedici anni e aveva l'aspetto di un uomo di città, con quelle scomode brache e la giubba. Aveva i polsi legati davanti a sé ed era impastoiato a una vecchia giumenta giallastra. Avevano altri due cavalli, un baio castrato e una femmina di sauro. Il rosso controllava la foresta. Aveva guardato due volte nella direzione in cui Aspar stava rannicchiato in un cespuglio di felci, ma non sembrava averlo notato. «Un uomo del re non abbandonerebbe mai i suoi cavalli» affermò l'Allampanato. «O è morto o questi sono scappati. Vedi? Non sono impastoiati.» «Non c'è bisogno di farlo con cavalli come questi» rispose Naso Grosso. «Forse è solo andato a fare un pisciata.» «Deve essersi allontanato un bel po' allora» grugnì il Rosso. «Non avrà voluto che i suoi cavalli lo guardassero mentre pisciava.» Aspar non aveva mai visto quei tipi prima di allora, ma sapeva chi erano; i tre rispondevano alla descrizione di alcuni banditi, scesi ultimamente da Wisgarth per infastidire i mercanti occasionali sulla Strada del Vecchio Re. Aveva deciso di dar loro la caccia in estate, quando avrebbe avuto gli uomini sufficienti. Aspettò di vedere che cosa avrebbero fatto. Se non avessero preso i suoi cavalli, li avrebbe seguiti solo per un po'. O forse aveva già trovato i suoi assassini; Allampanato indossava un mantello rosso sangue decorato con terra d'ombra. Colori simili al cremisi e all'oro del re. «Prendiamoceli» suggerì l'Allampanato. «Io dico che dobbiamo prenderli. Anche se è da qualche parte qui intorno, possiamo avvantaggiarci di un giorno con tutti questi cavalli mentre lui rimarrebbe appiedato.» Fece un passo avanti, verso Orco: «Buonooo, cavallinoo!» Aspar sospirò e sistemò una freccia sulla corda. Non poteva permettersi
di fare il generoso con quei tre. Orco ovviamente fece la prima mossa. Non appena l'Allampanato gli si avvicinò, la bestia si drizzò sulle zampe e gli sferrò una tremenda zoccolata sul petto. Quando cadde a terra, Naso Grosso stava già guardando la freccia che gli usciva dalla coscia. Il Rosso era più veloce di quanto Aspar avesse calcolato e aveva un buon fiuto. La prima volta lo mancò, tremava ancora per ciò che gli aveva dato la nausea vicino al ruscello. Lo mancò, e l'arco del Rosso rispose fischiando. Il guardaboschi vide la freccia filare dritta verso di lui pronta a ucciderlo, ingannevolmente lenta, un'illusione ottica. Non avrebbe mai fatto in tempo a spostarsi. Ma il proiettile colpì un intreccio di rampicanti e deviò schioccando su una guancia. «Per il Veggente» imprecò Aspar. Quella sì che l'aveva sfiorato. Si mise subito in movimento, e lo stesso fece il Rosso, entrambi sistemando le frecce sugli archi, muovendosi di qua e di là tra gli alberi. Il Rosso stava sull'altopiano. Era veloce e aveva una mira dannatamente buona. I due correvano paralleli, anche se man mano i loro sentieri si stavano congiungendo. Da quindici iarde il Rosso tirò per la seconda volta. Colpì Aspar sul torace ma la freccia fu deviata dalla corazza di cuoio. Aspar mancò il secondo colpo, e poi furono separati da un boschetto giovane, troppo fitto per riuscire a vedere tra i rami. Si trovarono a sei iarde l'uno dall'altro, in una radura. Aspar si fermò, si mise di profilo e scoccò la freccia. Quella del Rosso gli fischiò vicino, mancandolo di quasi un piede. La punta di Aspar, invece, si conficcò nella spalla destra del Rosso. L'uomo gridò come se lo stessero squartando e lasciò cadere l'arco. Aspar lo raggiunse con cinque lunghi passi. Il tipo stava cercando di prendere il pugnale, ma Aspar assestò un calcio sul braccio, proprio sul gomito. «Se stai fermo non ti uccido» grugnì. Il Rosso urlò di nuovo quando gli portò il braccio ferito e quello sano dietro la schiena, tagliò la corda di tendine dall'arco abbandonato e lo legò. Con un'altra lunga corda, estratta dalla borsa che portava su un fianco, formò un cappio che fece scorrere intorno alla gola del Rosso. «Cammina davanti a me» gli ordinò, guardandosi ancora intorno, nel sospetto che potessero esserci altri nemici. L'Allampanato era ancora in terra quando raggiunsero i cavalli e Orco non aveva ancora finito con lui; le zampe anteriori del cavallo si alzavano e ricadevano, ed era tutto sporco di sangue fino al garrese. Naso Grosso
giaceva a terra, con lo sguardo rivolto alla pozza rossa. Appena arrivati, le gambe del Rosso cedettero e svenne; aveva gli occhi chiusi e il respiro usciva sibilando e stridendo. Aspar tagliò le redini dalla giumenta gialla e legò Naso Grosso con le braccia lungo il corpo. Non si preoccupò dell'Allampanato; le costole gli erano state frantumate nei polmoni ed era morto soffocato nel suo stesso sangue. In tutto questo tempo, il ragazzo sul cavallo aveva emesso grugniti di ogni tipo e grida soffocate. Solo quando fu certo di aver sistemato i banditi, Aspar gli dedicò la sua attenzione, tirandogli giù il bavaglio. «Ti rincrazio molto» cominciò il ragazzo, in modo concitato e con un goffo accento almannish. «Crazie mille, e ora preco slecami.» «Io parlo la lingua del re» mugugnò Aspar, pur comprendendo abbastanza bene il ragazzo. «Ah,» rispose l'altro «anch'io. Pensavo che veniste da qui vicino.» «Già, e non essendo stupido, ho imparato la lingua del re, come chiunque altro al suo servizio» rispose Aspar in tono inspiegabilmente infastidito. «Comunque Virgenya è solo al di là delle montagne, e la sua lingua è molto diffusa da queste parti.» «Vi porgo le mie scuse, non volevo offendervi. Volevo solo ringraziarvi infinitamente e chiedervi di slegarmi le mani.» Aspar guardò il nodo. Non era difficile da sciogliere. «Può darsi che lo farò» disse. «Vuol dire che non avete intenzione di farlo?» «Perché ti hanno legato?» «Per non farmi fuggire. Mi hanno derubato e fatto prigioniero. Probabilmente mi avete salvato la vita.» «Probabilmente.» «Della qual cosa, come vi ho già detto, vi sono grato.» «Perché?» Il tipo lo guardò meravigliato. «Ah, be', perché sento di dover ancora fare molte cose importanti nella mia vita...» «No» fece Aspar, parlando lentamente come a un bambino. «Intendevo dire: 'perché ti hanno fatto prigioniero dopo averti derubato?'» «Forse perché volevano chiedere un riscatto.» «Come facevano a pensare che ne valesse la pena?» «Perché io...» Il ragazzo si fermò, sospettoso. «Voi siete come loro, vero? Siete solo un altro bandito, ecco perché non volete liberarmi. Anche
voi pensate di poter guadagnare qualcosa con me.» «Ragazzo, non riconosci dai colori e dai galloni che porto che sono il guardaboschi del re? Già questa è una cosa stupida, ma insultare un uomo armato quando si è legati, è ancora più stupido.» «Voi siete il guardaboschi?» «Non amo mentire.» «Ma io non vi conosco. Come posso esserne sicuro? Potreste anche aver ucciso il vero guardaboschi e preso le sue cose.» Aspar sentì che un sorriso stava provando a distendergli le labbra, ma resistette. «Be', potrebbe essere così» convenne. «Ma io sono un uomo del re, e non ho intenzione di vendere la tua pelle, né altro. Chi sei?» Il ragazzo tirò il petto in fuori: «Sono Stephen Darige, dei Cape Chavel Darige.» «Davvero? Io sono Aspar White dei White degli Aspar White. Che ci fa Cape Chavel Darige nella foresta, cerca una festa?» «Ah, davvero bravo» disse il ragazzo in tono sarcastico. «Una rima veramente ben fatta. Sto viaggiando sulla Strada del Re, mi pare ovvio, cosa che è gratuita a tutti, no?» «No, se sei un mercante non lo è. Devi pagare un dazio.» «Mio padre è un mercante, io no. Mi sto dirigendo al monastero d'Ef, o per lo meno era ciò che stavo facendo, quando quei furfanti mi hanno catturato. Devo diventare un novizio.» Aspar lo guardò per un attimo, poi prese il pugnale e tagliò la corda intorno alle mani del giovane. «Grazie» disse Stephen, sfregandosi i polsi. «Che cosa vi ha fatto cambiare idea? Siete un uomo devoto?» «No» e indicò gli uomini feriti. «Sei un prete eh? Ne sai qualcosa di salassi?» «Sono stato in collegio a Ralegh, so cucire ferite e rimettere a posto fratture.» «Fammi vedere allora. Estrai le frecce da quei due e fa in modo che almeno uno non muoia dissanguato. Devo parlargli.» Con la mano indicò la foresta intorno: «Ce ne sono altri di tipi così o questa è la banda al completo?» «Questi sono gli unici che ho visto.» «Bene, torno subito.» «Dove state andando?» chiese Darige. «Affari del re, torno subito.»
Aspar tornò indietro di mezza lega lungo la strada, per accertarsi che non vi fossero altri banditi che li seguissero. Tornando, cavalcò di nuovo verso il Torrente di Edwin, cercando altri segni di quella creatura che aveva lasciato l'impronta, ma non riuscì a trovare niente. Sospettava che l'essere avesse camminato nel ruscello. Se avesse avuto tempo, avrebbe sicuramente scovato la pista, ma ora non ne aveva. Il ragazzo sembrava abbastanza sincero, anche se non poteva averne la certezza. Cominciava a sentire l'urgenza di verificare che tipo di massacro era stato fatto al Torrente Taff. Quando tornò indietro, trovò Stephen barcollante, che provava a rimettersi in piedi; era stato in ginocchio sopra quella che sembrava una pozza di vomito. «Be', Cape Chavel Darige, che è successo?» «Stephen indicò l'Allampanato dicendo con un filo di voce: «È morto.» Aspar non riuscì a trattenere la risata che scoppiò irrefrenabile tra le sue labbra. «Che... che c'è di tanto divertente?» «Tu! Certo che è morto, per gli occhi del Malvagio, guardalo!» «Vedete...» gli occhi di Stephen si gonfiarono e iniziarono a lacrimare, poi ebbe un altro spasmo, e stava per vomitare di nuovo, ma si raddrizzò. «Non ho mai visto un morto finora, per lo meno non come quello.» «Be', ci sono molti più morti che vivi, sai?» Poi, ricordando la prima volta che era capitato a lui, addolcì il tono: «Non preoccuparti di quello. E gli altri due? Li hai curati?» «Ma... ho cominciato con uno...» Stephen appariva confuso. «Non avrei dovuto lasciarli a te. Errore mio.» «Ci sto provando! È solo, be', il sangue...» «Come ho già detto,» rispose Aspar in tono brusco «è colpa mia. Avrei dovuto immaginare che non l'avevi mai fatto prima. Non ti sto biasimando.» «Ah,» fece Stephen «pensate che siano morti anche questi?» «Ne dubito. Li ho colpiti ai muscoli, vedi? Non agli organi.» «Perché? Non sembrate preoccuparvi molto di uccidere.» «Te l'ho detto. Ho bisogno di interrogarli.» «Ah.» «Ricominciamo. Sai tagliare delle bende? Lo sai fare?» «L'ho già fatto.» «Bene. Vediamo allora se mi riesce di salvare questi tipi da Madre Mor-
te, così puoi trattenere dentro di te il resto del pasto, d'accordo?» «Sì» rispose Stephen in tono sommesso. Aspar s'inginocchiò davanti al Rosso, che aveva perso i sensi ma respirava ancora. La freccia era conficcata nell'osso della spalla, quindi sarebbe stata necessaria una piccola incisione per tirarla fuori; Aspar cominciò e il Rosso emise un lamento. «Su che cosa volete interrogarli?» chiese Stephen. «Voglio sapere dove si trovavano alcuni giorni fa» grugnì Aspar, afferrando l'asta della freccia e muovendola di qua e di là. «Mi stavano rapendo.» «Dove?» «A due giorni di distanza da qui.» «Non quando, ma dove.» L'asta venne fuori pulita, insieme alla punta. Aspar premette sulla ferita lo straccio che Stephen aveva tagliato. «Tienilo fermo qui» gli ordinò. Stephen ebbe un altro conato, ma fece come gli era stato ordinato. Aspar trovò un'altra benda e cominciò a fasciarlo. «Dove?» ripeté «spingi forte.» «A due giornate di distanza, indietro sulla Strada del Re» rispose. «Cioè? Più vicino a Wexdal o a Forst?» «A dire il vero non lo so.» «D'accordo, avevi già attraversato la Tomba dell'Ozio prima che ti rapissero?» «È il nome di un fiume? Non ne sono sicuro.» «Sì, la Tomba dell'Ozio è un Game. Non puoi non averlo visto. C'è una vecchia strada di pietra che ci passa sopra. Puoi lasciare adesso.» Stephen sollevò le mani, guardando il sangue che le tingeva, con lo sguardo un po' perso. «Ah, volete dire il Pontro Oltiumo.» «Voglio dire quello che ho detto. Che significano queste parole?» «Antico Vitelliano» rispose Stephen. «La lingua degli Egemoni, che costruirono quella strada mille anni fa. Hanno costruito anche questa. Ozio dovrebbe derivare da Oltiumo.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Ho consultato delle carte prima di venire, carte degli Egemoni.» «Come hai fatto a pensare che delle carte compilate mille anni fa potessero esserti di aiuto?» «Le mappe degli Egemoni sono migliori delle nostre, più accurate. Ne ho delle copie, se volete vederle.»
Aspar lo guardò solo per un attimo, poi scosse la testa. «Preti...» mormorò, accertandosi che suonasse come un'offesa. «Passiamo a quest'altro.» Con Naso Grosso fu più semplice. La freccia era andata dritta dentro il muscolo della coscia, senza neanche scalfire l'osso. Se l'Allampanato e la sua banda avevano catturato Dange a est dell'Ozio, era impossibile che fossero stati vicino al Torrente Taff. Quindi quella probabilità svanì. Bisognava dirigersi sul Taff dopo aver deciso cosa fare con loro. Qualunque cosa avesse deciso, lo avrebbe allontanato dalla sua meta di almeno un giorno. Era inevitabile, pensò, a meno di non ucciderli tutti e lasciar vagare il prete. Il pensiero lo tentò. «Aiutami a rimettere in sella questi» grugnì, quando ebbero finito. «Dove andiamo?» «Lo vedrai.» «Intendevo dire che tarderò ad arrivare al monastero!» «Davvero? Proverò a trattenere le lacrime.» «Perché, per quale motivo siete così arrabbiato con me, signor guardaboschi? Non vi ho fatto niente. Non è colpa mia!» «Colpa? Che vuol dire e soprattutto che importa? Ti sei messo in viaggio da Virgenya da solo, solo tu e le tue carte, giusto?» «Sì.» «Perché? Quale libro te l'ha messo in testa?» «Presson Manteo, quando circa un centinaio di anni fa ha scritto l'Amvionnom. Diceva...» «Non importa quello che diceva! Non ti ha aiutato per niente.» «Be', adesso so che è stata una stupidaggine, ma comunque non spiega perché siete infuriato con me.» Aveva ragione, non lo spiegava. Aspar fece un respiro profondo. Il ragazzo non sembrava male, in realtà; era solo un peso di cui non aveva bisogno in quel momento. E quel tono di superiorità e il suo accento dei bassipiani non aiutavano a renderglielo più simpatico. «Ogni anno mi capita di incontrare qualcuno come te,» spiegò «giovani nobili in gita di piacere nel mondo selvaggio. In genere quello che vedo sono i loro cadaveri.» «State dicendo che sono un peso per voi?» Aspar scrollò le spalle. «Andiamo. Ti porto in un luogo sicuro.» «Ditemi la strada, ci andrò da solo. Mi avete già salvato la vita, non voglio darvi altro fastidio.»
«Comunque devo portarci i prigionieri. Cavalca con me.» Fece per montare a cavallo. «Non lo seppelliamo?» gli chiese Stephen, indicando l'Allampanato. Aspar ci pensò, poi si diresse verso il bandito morto. Trascinò il corpo per circa dieci piedi fuori dal sentiero e gli incrociò le braccia sul petto. «Ora andiamo» disse con finta allegria. «Un funerale da guardaboschi. Vuoi dire qualche parola?» «Sì, c'è una liturgia apposita...» «Allora dilla mentre viaggiamo. Prima di sera dobbiamo arrivare in un posto.» Come la maggior parte dei preti, e dei ragazzi, Darige non riusciva a stare zitto. Dopo un'ora aveva smesso di esser triste per il rimprovero, e cominciò a chiacchierare senza tregua dei soggetti più inutili: la relazione tra Almannish e Hanzish, i dialetti di Virgenya, i poteri di certe stelle. Agli alberi, agli uccelli e alle colline diede lunghi nomi impronunciabili e del tutto sbagliati con grande saccenza. Voleva di continuo fermarsi per guardare le cose. «Eccone un'altra» disse per la quinta volta in due ore. «Potete fermarvi solo un attimo?» «No» rispose Aspar. «Davvero, solo un attimo!» Stephen smontò da cavallo e dal suo sacco nuovo tirò fuori un rotolo di carta e ne tolse una pagina. Da una borsa alla cinta prese un pezzo di carbone. Quindi si affrettò verso una pietra alta fino alla vita che stava su un lato della strada. Ce n'erano molte di quel tipo sulla Via del Vecchio Re, colonne quadrate, di due palmi per lato. Erano state quasi tutte divelte dalle radici che vi crescevano sotto, espulse come denti malati. «Questa ha ancora una scritta sopra!» «E allora?» Stephen premette il suo foglio di carta sulla pietra e cominciò ad annerirlo con il carbone. «Per gli occhi del Malvagio, che cosa stai facendo?» «Faccio una riproduzione, così la posso studiare più tardi. Vedete? Compare la scritta.» Sollevò il foglio e, in effetti, Aspar vide che oltre alle venature della pietra e alle impronte dei licheni, poteva scorgere una serie di segni spigolosi. «Antico Vitelliano» esclamò trionfante Stephen. «Questa segna il confi-
ne tra due meddixati e indica la distanza della prossima e ultima torre di guardia.» Osservò meglio con gli occhi strettì, «ma qui chiamano questa strada Traccia di Sangue. Mi chiedo perché. Tutte le carte la indicano come Vio Caldatum.» «Perché hai la testa piena di questa roba?» «È la mia vocazione: le lingue antiche, la storia.» «Però! Sembrano cose utili.» «Se non c'è passato, non c'è futuro» replicò Stephen allegramente. «Il passato è morto e la Traccia di Sangue è un'antica superstizione.» «Aha! Quindi avete già sentito questo nome. Folklore locale? Che cosa dice?» «Non credo ti interesserebbe.» «Ho appena detto proprio il contrario!» «Be', comunque non dovrebbe. Sono chiacchiere da donnacce.» «Forse, ma a volte il folklore conserva un tipo di saggezza che gli studiosi hanno dimenticato. Veri frammenti di storia resi divertenti, racchiusi in semplici schemi tradizionali, perché la gente comune possa capirli, distorti qua e là da equivoci, ma che contengono ancora qualche verità per chi ha abbastanza ingegno e educazione da tirarla fuori.» Aspar rise dicendo: «Certo che questo mi fa sentire orgoglioso di essere un 'popolano'.» «Non volevo intendere che siete una persona semplice. Per favore, parlatemi della Traccia di Sangue.» «Solo se torni a sederti sul tuo maledetto cavallo e ricominci a muoverti!» «Ah, certamente, sicuro!» Arrotolò con cura il foglio di carta, lo rimise nel sacco di tela e rimontò. «Non c'è molto da dire, in realtà» disse il guardaboschi, non appena si rimisero in cammino. «Si dice che molto tempo fa, quando i demoni scaosen governavano il mondo, gli uomini erano usati come segugi, e venivano fatti gareggiare su e giù per questa strada finché i loro piedi non si consumavano. Gli Scaosen scommettevano sul risultato, continuando a farli correre finché non cadevano a terra morti. Dicono che la strada fosse diventata rossa, da un estremo all'altro, per il sangue dei loro piedi.» «Scaosen? Volete dire Skasloi?» «Sto solo raccontando una storia.» «Sì, ma vedete, con un fondo di verità! Voi li chiamate Scaosen, mentre in lingua lierish sono conosciuti come Echesl, in hornladh Shasl. La parola
antica era Skasloi, e sono esistiti veramente, la storia non lo mette in dubbio. I primi Virgenyani li hanno massacrati, con l'aiuto dei santi.» «Già! Conosco la storia, anche se non ho mai visto uno Scaos.» «Be', sono morti tutti.» «Allora non importa se ci credo o no, sbaglio?» «Certo che non è proprio un atteggiamento illuminato.» Aspar scrollò le spalle. «Mi chiedo...» continuò Stephen, accarezzando la barba ispida. «Questa potrebbe essere stata davvero una strada degli Skasloi prima che vitelliana?» «Perché no? Se credi in queste cose, allora sappi che si dice sia abitata da alv per tutta la sua lunghezza. I vecchi dicono che gli alv arrivano come apparizioni sotto forma di foschia bianca, talmente belli che si muore a vederli. I Sefry dicono che sono i fantasmi affamati degli Scaosen. La gente lascia loro dei doni, alcuni gli chiedono favori, ma la maggior parte cerca di evitarli.» «Che altro fanno questi alv?» «Rapiscono bambini, portano malattie, rovinano raccolti, fanno diventare cattivi gli uomini, bisbigliando parole malvagie nelle loro orecchie. Possono anche bloccarti il cuore, toccandolo con le loro dita di nebbia. Ovviamente io non ne ho mai visto uno, quindi...» «...non ci credete. Sì, mio guardaboschi, penso di cominciare a capire voi e la vostra filosofia.» «Werlic! Bene! Ora se non ti dispiace, potresti smettere di chiacchierare per un po'? Così se ci sono alv o uttin o uomini neri qui intorno potrei avere l'occasione di sentirli!» Miracolosamente, dopo quella richiesta, Stephen rimase in silenzio e mentre cavalcavano si mise a studiare la riproduzione che aveva fatto. Aspar sperava quasi che ricominciasse a parlare, perché il silenzio lo riportava alla fonte, alle rane morte, all'impronta così profonda. Gli ricordava che, in effetti, c'erano cose nella foresta che non aveva mai visto in tutti i suoi vagabondaggi da quelle parti. E se fosse stata qualche bestia strana? Perché non il Re degli Alberi? Si ricordò di una canzone che cantava da bambino, quando viveva con i Sefry. Si intonava facendo un girotondo e finiva che tutti si fingevano morti, ma gli sfuggivano i dettagli. Comunque ricordava la canzone: Chiacchierina, chiacchierona
che giri in tondo, il Re degli Alberi vaga nel mondo. Chiacchiera, chiacchiera con lui in alto manticore e greffyn vanno all'assalto. Aspetta, aspetta, che se ti trova il Re degli Alberi ti divora. Nemmen ti accorgi e in un battibaleno fuor ti risputa a spaccare il sereno. «Che cos'era?» domandò Stephen. «Cosa?» grugnì Aspar, tornando in sé con un sussulto. «Stavate cantando.» «No, non è vero.» «Mi sembrava.» «Non era niente. Dimenticalo.» Stephen scrollò le spalle. «Come volete.» Aspar brontolò e spostò le briglie nell'altra mano, desiderando di poter dimenticare con altrettanta facilità. Invece, si ricordò dei versi di un'altra canzone, una che Jesp era solita cantare. Tutto il colle ormai risuona, il corno d'osso un grido intona, il Re di Spine cammina in tondo, come quando dormiva il mondo. Capitolo cinque La principessa «Ci hanno visto!» disse Austra respirando con affanno. Anne stava poggiata a una quercia, con le dita aggrappate alla corteccia dura. Dietro di lei, la sua giumenta bianco crema scalpitava e nitriva.
«Zitta, Fulmine» sussurrò. Le due ragazze stavano all'ombra della foresta, sul limitare del prato ondulato conosciuto come la Manica. Avevano scorto tre uomini a cavallo che si facevano strada tra l'erba ornata di violette, guardandosi intorno. Indossavano la cotta arancio scuro della cavalleria leggera reale e il sole scintillava sulla loro armatura. Si trovavano forse a mezzo tiro di freccia. «No!» disse Anne, voltandosi verso Austra. «Non ci hanno visto, ma ci stanno cercando. Credo che chi li guida sia il capitano Cathond.» «Pensi davvero che li abbiano mandati a cercarci?» chiese Austra, rannicchiandosi ancora di più, scostandosi dagli occhi un ricciolo biondo. «Sicuramente.» «Nascondiamoci all'interno del bosco, allora. Se ci vedono...» «Già, supponiamo che lo facciano» replicò Anne. «È proprio quello che ho detto. Io...» Gli occhi blu di Austra si fecero tondi come due reytoir1 dorati. «No, Anne!» Con un largo sorriso Anne si tirò il cappuccio sui capelli d'oro rosso, poi prese le redini di Fulmine, si aggrappò alla sella e si lanciò sul cavallo. «Aspetta fino a che non ci vedi scomparire. Ci incontriamo dopo a Eslendelle-Ombre.» «No! Non ci vengo!» dichiarò l'altra, cercando di tenere basso il tono della voce. «Tu rimani qui con me!» Anne batté le gambe sui fianchi del cavallo. «Corri come il fulmine!» gli ordinò. La giumenta spuntò dal bosco al galoppo lasciando turbini di foglie dietro di sé. Per circa dieci secondi, l'unico suono fu il soffocato calpestio degli zoccoli sul suolo umido. Poi uno degli uomini a cavallo iniziò a gridare. Anne diede uno sguardo indietro e capì che aveva ragione: era proprio il viso rosso del capitano Cathold che urlava. Spronarono i loro bianchi castrati all'inseguimento. Anne gridò di gioia cavalcando nel vento. La Manica era perfetta per fare una gara, così lunga, verde e bella. A destra la foresta si vestiva di nuove foglie, corniolo e fiori di ciliegio. A sinistra, la Manica scendeva alle lingue paludose che circondavano l'isola di Ynis e contornavano il grande fiume Mago, con argini di color miele dorato. Fulmine era un tuono vivente e Anne l'occhio luminoso del lampo. Che provassero a prenderla! Che ci provassero! La Manica seguiva il bordo meridionale dell'isola, poi voltava a destra, arrampicandosi per le colline gemelle di Tom Woth e Tom Cast. Anne,
però, non aspettò che la Manica girasse, ma tirò le redini costringendo Fulmine a una virata stretta che sollevò in aria zolle d'erba e di terra nera; quindi tornò verso la foresta. Schivò i rami e si tenne stretta quando il cavallo saltò sopra un piccolo torrente. Gettando un rapido sguardo all'indietro vide gli uomini a cavallo tagliare per la foresta, nella speranza di intercettarla. Ma il bosco era fitto a causa della vegetazione nuova e questo li fece rallentare. Comunque, aveva cavalcato lungo il tratto che era stato bruciato alcuni anni prima; abbastanza sgombro, era una delle sue scorciatoie preferite e Fulmine poté correre intorno alle querce e ai frassini dal grande tronco. Anne esultava, mentre gli altri arrivavano al galoppo, passando sotto un albero che era caduto di traverso su un altro, e poi su per una collina, a destra, e di nuovo fuori, sulla Manica, nel punto in cui girava verso Tom Woth e Tom Cast. Quando fu un po' più in alto, al di sopra degli alberi sulla destra, le apparvero le torri più alte e le torrette del castello di Eslen con i vessilli che sventolavano nella brezza. Quando gli uomini riemersero dalla foresta, avevano raddoppiato il distacco iniziale, ed erano solo in due. Compiaciuta, proseguì intorno alla base di Tom Woth e poi tornò indietro verso il lato meridionale dell'isola. La sfida ormai era finita; peccato che, una volta arrivata al Serpente, non avrebbero potuto assistere alla sua prestazione. «Brava, Fulmine» le disse, rallentando un po' l'andatura. «Ora non fare l'ombrosa con me, capito? Dovrai essere coraggiosa, poi potrai riposarti e ti troverò qualcosa di buono da mangiare. Te lo prometto.» Colse un movimento con la coda dell'occhio e restò senza fiato. Il terzo uomo a cavallo, per un qualche miracolo, era appena arrivato alla Manica, e quasi si toccavano. Peggio ancora, dietro di lui comparve un altro tipo su un lupino con una cappa rossa. Un lampo di sorpresa le arroventò la faccia. «Ehilà! Fermatevi!» Riconobbe la voce del capitano Cathold. Il cuore le batteva come un tamburo, ma spronò Fulmine con rabbia, facendo il giro della collina. Tom Woth e Tom Cast insieme sembravano il seno gigante di una donna. Anne cavalcò dritta giù per la spaccatura. «Fareste meglio a rallentare, siete impazzita?» gridò Cathold. «Non c'è niente dall'altra parte!» Si sbagliava, c'era un sacco di cose dall'altra parte: una vista spettacolare di lingue verdeggianti e, parecchio più in basso, il fiume e le paludi meridionali. Passando tra le colline, per un attimo meraviglioso e terribile le
sembrò che il mondo intero si aprisse davanti ai suoi occhi. «Andiamo Fulmine!» urlò quando saltarono dal precipizio nel nulla e le zampe di Fulmine rimasero sospese in aria. Quando fu troppo tardi, provò un brivido di paura così forte che riuscì quasi a sentirne il sapore. Un istante che durò un'eternità, quello in cui Anne si allungò sul cavallo e strinse le dita sulla criniera. Il caldo muschio dell'animale, l'oliò e il cuoio della sella, l'aria sul viso diventarono il suo universo. Sentiva uno strano solletico nella pancia. Urlò in preda a un terrore delirante, e poi gli zoccoli del cavallo atterrarono sul Serpente, una gola stretta che strisciava giù per il fianco ripido dell'isola. Per poco Fulmine non si capovolse e il suo posteriore virò in modo goffo. Poi riprese l'andatura, rimbalzando su e giù lungo il bordo del Serpente, ora scivolando senza controllo ora riconquistandolo e preparando le zampe al salto. Il mondo scorreva in maniera disordinata e la paura di Anne si confondeva a tal punto con la vertiginosa eccitazione che non riusciva più a separarle. Fulmine inciampò violentemente e per poco non infilò la testa nel terreno; sarebbe stata la fine per entrambe. Vada come vada, pensò. Se muoio, muoio, ma in modo glorioso! Non come la nonna, che si era spenta in un letto come un cane malato, ingiallendo poco a poco ed emanando cattivo odore. E neppure come la zia Fiene, morta d'emorragia durante il parto. Poi Anne capì che non sarebbe morta. Fulmine camminava ora su un pendio più dolce e si sentiva più sicura. I salici giganteschi in fondo al Serpente le fecero cenno di entrare, ma prima di andare a nascondersi sotto la loro ombra, diede un ultimo sguardo in alto, sulla via da dove era venuta, e vide il profilo dei suoi inseguitori, ancora sul bordo del precipizio. Non osavano seguirla, ovviamente. Per il momento ce l'aveva fatta, almeno per quel giorno, se era fortunata. Il garrese di Fulmine tremava e Anne scese per lasciarla camminare un po'. Ci sarebbe voluta un'eternità prima che le guardie potessero scendere fin lì seguendo una qualunque delle rotte convenzionali, e poi avrebbero dovuto scegliere tra venti sentieri. Sorrise guardando in alto alla nodosa copertura dei salici, si orientò e riprese verso est in direzione di Eslendelle-Ombre. «È stato bellissimo, Fulmine. Non ci hanno nemmeno pensato a inseguirci!» Si allontanò i capelli dal viso. «Ora cerchiamo Austra e ci nasconderemo tra le tombe per il resto del giorno. Non verranno a cercarci lì.» Il respiro affannato di Fulmine e il sangue che le pulsava nelle orecchie
erano così forti che Anne sentì l'altro cavaliere solo dopo che questi aveva preso la curva dietro di lei. Si girò e rimase immobile, fissandolo con gli occhi spalancati. Era l'uomo sul lupino, con la cappa rossa - l'ultimo venuto. Era alto e biondo, ma con gli occhi scuri, giovane, forse sulla ventina. Il suo cavallo ansimava quasi quanto Fulmine. «Per san Tarn, che cavalcata!» esclamò. «Sei fuori di testa, ragazzo...» si interruppe dandole un'occhiata. «Non sei un ragazzo!» esclamò. «Non lo sono mai stata» rispose Anne freddamente. La fissò, e aggrottò le sopracciglia. «Voi siete la principessa Anne!» «E allora? Cosa ve ne importa?» «Be', non ne sono sicuro. Credevo che la cavalleria reale stesse inseguendo un ladro o un cacciatore di frodo. Volevo aiutarli, per gioco. Ora sono confuso.» «Mia madre li ha chiamati, ne sono sicura. Devo aver dimenticato qualche stupido incarico che avrei dovuto portare a termine.» Mise un piede nella staffa e tornò in sella. «Come, così presto?» disse l'uomo. «Vi ho appena catturato, non merito qualcosa per questo?» «Posso seminarvi di nuovo.» «Non mi avete mai seminato» fece notare. «Vi sono rimasto incollato.» «Non sempre. Vi siete fermato lassù a pensarci un po'.» Scrollò le spalle. «Scommetto che avevate già cavalcato fin qui altre volte. Io, invece, non avevo mai galoppato a Eslen, prima.» «Bravo, allora.» Detto questo si girò per andarsene. «Aspettate, non volete neanche sapere chi sono?» «Perché dovrebbe importarmi?» rispose Anne. «Non lo so, ma di certo importa a me chi siete voi.» «Ah, benissimo. Come vi chiamate?» Scese da cavallo e si inchinò. «Roderick di Dunmrogh.» «Bene, Roderick di Dunmrogh. Io sono Anne Dare, e voi oggi non mi avete vista, d'accordo?» «Che peccato sarebbe stato!» «Siete tremendamente sfacciato, sapete?» «E voi tremendamente carina, principessa Anne. La cavallerizza di Tarn, obbligato! Ma se dite che non vi ho visto, allora non vi ho visto.» «Bene»
«Ma... ehm... se posso chiedervelo, perché non vi avrei visto?» «Ve l'ho già detto. Mia madre...» «La regina.» Lo guardò con aria di sfida. «Sì, la regina, che i santi la proteggano; e me da lei.» Poi socchiuse gli occhi: «Come fate a sapere chi sono?» «Vi ho visto a corte. Ho ricevuto la rosa del cavalierato solo nove giorni fa.» «Ah, allora è sir Roderick.» «Sì, comunque voi eravate lì, insieme alle vostre sorelle.» «Ah, già. Suppongo che mi si distingua bene, l'anatroccolo tra i cigni.» «Sono stati i vostri capelli rossi a catturare la mia attenzione» disse Roderick «non le giovani penne.» «Già, e le lentiggini e questa chiglia di naso.» «Non c'è bisogno di gettare l'esca per catturare le mie lodi» disse. «Mi piace il vostro naso, mi è piaciuto subito, e sono felice di dirlo.» Anne girò lo sguardo. «Ma se pensavate che fossi un ragazzo!» «Siete vestita come un ragazzo, e cavalcate anche come se lo foste. Ma è bastato un solo sguardo da vicino per rompere l'illusione.» Aggrottò la fronte. «Perché portate le brache?» «Avete mai provato a cavalcare con un vestito?» «Le signore cavalcano sempre con il vestito.» «Sì certo, ma all'amazzone. Quanto tempo pensate che sarei rimasta in sella, cavalcando all'amazzone fino al Serpente?» Ridacchiò. «Capisco cosa volete dire.» «Nessun'altra lo fa. A corte non importava quando ero piccola. Tutti lo credevano divertente. Qualcuno mi chiamava 'Piccolo Principe Anne'. Da quando sono in età da matrimonio è cambiato tutto e ora devo agire di nascosto per cavalcare in questo modo. Mia madre dice che a quindici anni si è troppo grandi per le vecchie abitudini infantili. Io...» S'interruppe e un'improvvisa espressione sospettosa le attraversò il volto. «Non siete mica stato inviato a corteggiarmi, vero?» «Che cosa?» Sembrò sinceramente stupito. «Se c'è una cosa che mia madre gradirebbe davvero, sarebbe vedermi sposata, possibilmente con qualcuno vecchio, grasso e stupido.» Lo guardò: «Ma voi non avete nessuna di queste qualità.» Per la prima volta Roderick sembrò infastidito. «Ho solo cercato di farvi un complimento, principessa, e dubito che vostra madre cercherebbe mai nel mio casato il marito per voi. Non siamo straricchi, né adulatori servili,
e quindi non godiamo del favore della corte di vostro padre.» «Bene. Non avete certo peli sulla lingua. Vi chiedo scusa, sir Roderick. Quando sarete stato a corte per un po', vi accorgerete di quanto poco onore e quanta poca lealtà ci siano, e forse mi scuserete. «Sorridete e vi perdonerò all'istante.» Con sua grande sorpresa, avvertì che le labbra si andavano curvando spontaneamente. Per un momento sentì la pancia vuota e strana, come se si stesse ancora lanciando giù per il Serpente. «Eccolo qui; è meglio di qualsiasi perdono reale» disse, e cominciò a montare in sella. «Be', è stato un piacere conoscervi, principessa. Spero che potremo parlare di nuovo.» «Andate via?» «Non è quello che volevate? Tra l'altro ho appena realizzato che tipo di guai potrebbero arrivare se ci trovassero insieme nella foresta, senza accompagnamento.» «Non abbiamo fatto niente di cui vergognarci, né lo faremo. Ma se avete paura...» «Io non ho paura» disse Roderick. «Stavo solo pensando alla vostra reputazione.» «È molto gentile da parte vostra, ma alla mia reputazione so badarci da sola, grazie.» «Vale a dire?» «Non mi fido di voi. Potreste dire a qualcuno che mi avete visto, quindi penso che vi legherò al mio servizio per tutto il resto della giornata, come guardia del corpo.» «Questa sì che è una fortuna. Sono 'sotto la rosa' da una settimana e sto già scortando la principessa del reame. Sarei davvero felice, mia signora, ma non posso trattenermi tutto il giorno. Ho dei doveri, sapete.» «Fate sempre quello che dovreste?» «Non sempre, ma in questo caso sì. Non ho il lusso di essere una principessa.» «Non è un lusso» disse Anne, incitando il cavallo a proseguire. «Che fate, venite o no?» «Dove state andando?» «A Eslen-delle-Ombre, dove riposano i miei nonni.» Cavalcarono in silenzio per alcuni istanti, durante i quali Anne gettò qualche occhiata al suo nuovo compagno. Sedeva dritto, disinvolto e orgo-
glioso sulla sua sella. Le braccia, scoperte quasi fino alla spalla per via della veste da cavaliere, erano magre e nerborute. Il profilo era leggermente aquilino. Per la prima volta, si chiese se fosse veramente chi aveva detto di essere. E se invece fosse un assassino, un ladro, un furfante, o addirittura una spia hanzish? Il suo accento era particolare, e aveva un aspetto settentrionale. «Dunmrogh,» disse lei «dove si trova esattamente?» «A sud. È un grefato del regno di Hornladh.» «Hornladh» ripeté lei, cercando di ricordare la cartina nella galleria dell'impero. In effetti era a sud, così per lo meno le sembrava di ricordare. Gli zoccoli dei cavalli calpestarono il ponte di pietra sul Canale Cer, sostenendo lo sguardo alterato dal tempo nelle facce di pietra scolpite sui pilastri finali. Il silenzio calò di nuovo e sebbene Anne sentisse di dover dire qualcosa, la sua testa era priva di spunti di conversazione. «Eslen è più grande di quanto immaginassi» propose Roderick alla fine. «Questa non è Eslen. Eslen è il castello e la città. L'isola è Ynis. In questo preciso momento siamo sulle lingue, il bassopiano tra Ynis e il Mago.» «E Eslen-delle-Ombre?» «Ancora un attimo... È laggiù» e indicò attraverso un'apertura a volta tra gli alberi. «Per il pugno di san Tarn!» esclamò Roderick sbalordito, guardando in basso verso la città dei morti. La zona più esterna era modesta, file e file di piccole case in legno con tetti di paglia o assicelle, affacciate su strade di terra. Alcune erano in buono stato, con cortili ben tenuti dai familiari. La maggior parte però somigliava agli scheletri che riposavano all'interno, strutture instabili crollate sotto piante rampicanti, rovi e foglie cadute per anni. Da alcune di queste germogliavano degli alberi. C'erano cinque canali circolari all'interno della necropoli, uno dentro l'altro. Dopo aver attraversato il primo, le case sembrarono più solide, costruite con pietra levigata, tetti di ardesia e recinti di ferro. Le strade e i viali in questo punto erano coperti di ciottoli. Da dove si trovavano Anne e Roderick, era difficile scorgere altro, se non che la città si sviluppava a in altezza e imponenza man mano che ci si avvicinava al centro, dove si trovavano cupole e torri. «Abbiamo tombe reali a Dunmrogh» disse Roderick «ma niente del genere! Chi è sepolto in queste case più piccole e misere?» Anne scrollò le spalle. «La gente più povera. Ogni famiglia di Eslen-sul-
Colle ha una porzione di terra qui, da mantenere con i propri mezzi. Sta a loro stabilire che cosa costruirci e come mantenerla. Se la loro fortuna cambia, possono spostare i resti dei loro avi verso l'interno. Se qualcuno al di là del terzo canale cade in disgrazia, dovrebbe spostarsi verso l'esterno.» «Intendete dire che un uomo può essere sepolto in un palazzo e ritrovarsi, un secolo dopo, in una misera topaia?» «Certo.» «Non mi sembra molto giusto.» «Neanche farsi mangiare gli occhi dai vermi lo è, ma anche questa è una conseguenza della morte» rispose Anne con ironia. Roderick rise. «Ah, ho capito» disse, spostandosi sulla sella. «Bene, ora l'ho vista; devo andare.» «Di già?» «Ci vorrà più di un'ora per tornare alla rocca?» «Certo!» «Allora avrei dovuto già essere in viaggio. Qual è la strada più veloce?» «Credo che dovrete trovarvela da solo.» «No, se volete rivedermi. Mio padre mi farà rispedire in uno dei nostri possedimenti minori a un centinaio di leghe da qui se non attendo ai miei doveri.» «Che cosa in nome di san Loy vi fa credere che voglia rivedervi?» Come risposta fece alzare il cavallo sulle zampe posteriori, catturando lo sguardo di lei con i suoi occhi blu acciaio. Anne avvertì un'improvvisa ondata di panico e una specie di paralisi. Quando si chinò verso di lei e la baciò, non avrebbe mai potuto fermarlo, neanche se avesse voluto. E non volle. Non durò molto, solo un breve, meraviglioso, sconvolgente sfiorarsi di labbra. Non avrebbe mai immaginato che un bacio fosse così, niente affatto. I piedi le formicolavano. Battendo le palpebre disse dolcemente: «Percorrete questo canale fino a raggiungere una strada lastricata di piombo. Girate a sinistra, vi porterà su per la collina.» Indicando col capo Eslen-delle-Ombre, Roderick disse: «Mi piacerebbe vedere il resto prima o poi.» «Tornate fra due giorni, intorno a mezzogiorno. Può darsi che mi troviate qui.» Sorrise, annuì con il capo e senza dire altro si allontanò.
Anne si sedette, confusa, fissando l'acqua scura del canale, richiamando alla memoria la sensazione delle labbra di lui che sfioravano le sue; cercò di trattenerla, esaminandola, facendo tutti gli sforzi necessari per capire ogni sfumatura nelle sue parole e nei suoi gesti. Non lo conosceva. Sentì un rumore di zoccoli avvicinarsi e il cuore cominciò a batterle forte, sperando e temendo allo stesso tempo che fosse tornato. Ma quando alzò lo sguardo vide Austra con i ricci dorati che le rimbalzavano sulle spalle e un'espressione contrariata. «Chi era quello?» «Un cavaliere» rispose Anne. Austra sembrò fermarsi a pensare un attimo, poi rivolse il suo sguardo arrabbiato verso Anne. «Perché fai queste cose? Sei scesa giù per il Serpente, vero?» «Ti ha visto qualcuno?» «No, ma io sono la tua dama di compagnia, Anne, e sono fortunata a esserlo, visto che non ho sangue nobile nelle vene. Se succede qualcosa a te...» «Mio padre amava il tuo, Austra, sangue nobile o meno. Pensi che sarebbe mai capace di cacciarti?» Improvvisamente si rese conto che gli occhi della compagna erano colmi di lacrime. «Austra! Che succede?» «Tua sorella Fastia» rispose Austra con tono deciso, battendo le ciglia tra le lacrime. «Non puoi capire, Anne.» «Che cos'è che non posso capire? Siamo cresciute insieme. Abbiamo condiviso lo stesso letto da quando avevamo cinque anni, quando i tuoi genitori morirono e mio padre ti prese come mia dama di corte. Facciamo questi giochi con le guardie da sempre, perché piangi ora?» «Perché Fastia mi ha detto che non sarei più stata la tua dama, se tu non ti fossi calmata! 'Metterò al suo servizio qualcuno che sia più saggio' ha detto.» «Mia sorella sta solo cercando di spaventarti, e poi comunque correremo il rischio, Austra.» «Tu davvero non capisci. Sei una principessa, io sono una serva. La tua famiglia mi dà di che vestirmi e finge di trattarmi come se fossi nobile, ma il fatto è che, per tutti gli altri, io non sono nessuno.» «No, questo non è vero, perché io non permetterei mai che ti accadesse
qualcosa, Austra. Staremo sempre insieme, noi due. Ti voglio bene come a una sorella.» «Basta,» rispose Austra con voce nasale «basta.» «Andiamo, torniamo indietro subito. Entreremo di nascosto mentre ci stanno ancora cercando. Questa volta non ci prenderanno, lo prometto.» «I cavalieri...» «Non sono riusciti a prendermi. Non diranno niente, perché si vergognano, a meno che Fastia o mia madre non glielo chiedano apertamente, e inoltre loro non hanno visto te.» «A Fastia non importa se sono tua complice o se sei riuscita a ingannarmi.» «Non m'importa di Fastia. Non ha tutto il potere che pensi tu. Ora proseguiamo.» Austra annuì, asciugandosi gli occhi con la manica. «Ma che mi dici del cavaliere che invece ti ha preso?» le chiese poi. «Neanche lui lo dirà a nessuno, se vuole salvare la pelle.» Poi aggrottò le ciglia. «Come osa Fastia parlarti così? Dovrei fare qualcosa a riguardo, sì, e penso proprio di sapere cosa.» «Cioè?» «Farò una visita a Virgenya, lo dirò a lei ed escogiterà qualcosa, ne sono sicura.» Austra spalancò gli occhi un'altra volta: «Io... io credevo che avessi detto che avremmo risalito la collina.» «Ci vorrà solo un attimo.» «Ma...» «Lo sto facendo per te» le disse. «Andiamo, sii coraggiosa.» «Riusciremo a muoverci in un'ora?» «Certo!» Austra sollevò il mento. «Andiamo allora.» Procedettero attraverso i canali più interni, fino a che giunsero nel quartiere reale; qui le strade erano lastricate di mattoni di piombo, tirate a lucido dal calpestio e dalle scope dei custodi, figure di pietra sostenevano tetti piatti o inclinati e tutto era intrecciato con primule dal cuore rosa e rovi ajister2, le porte degli edifici chiuse con sigilli e lucchetti d'acciaio. Quest'ultimo cerchio era circondato da mura decorate con un cielo notturno stellato, un bastione di granito nero, granelli di mica e lance di ferro battuto. Le porte erano protette da san Sottomondo, col suo martello e un viso lungo e arcigno, e da santa Tetra con gli occhi pieni di lacrime e la
corona di rose. Il posto era controllato anche da un tipo alto, di mezz'età, che indossava la livrea grigio scuro degli scathomen, i preti-cavalieri che sorvegliano il defunto. «Buona sera, principessa Anne» disse l'uomo. «Buona sera a voi, sir Len.» «Di nuovo qui senza permesso, scommetto.» Si tolse l'elmo, rivelando le trecce castane intorno al viso, che sembrava cesellato su un mattone, tanto era severo e spigoloso. «Perché dite questo? Per caso Fastia o mia madre sono state qui a chiedere di me?» Il cavaliere accennò un sorriso leggero. «Non posso dire se sono venute o andate via, così come non posso dirlo di voi a loro. È contro il mio voto. Non posso rivelare chi viene qui, né che cosa fa; cosa che voi ben sapete, ecco perché venite qua a fare le vostre marachelle.» «Mi state cacciando?» «Sapete che non posso farlo; prego, principessa.» «Grazie, sir Len.» Come passarono la porta, sir Len suonò la campana di ottone, per avvertire i defunti reali che stavano arrivando visite. Anne sentì un leggero nervosismo nella pancia, un segno sicuro che gli spiriti avevano rivolto il loro sguardo su di lei. Vedremo, Fastia, pensò con aria di sfida, vedremo. Anne e Austra smontarono da cavallo e legarono gli animali fuori nel piccolo cortile in cui i defunti della dinastia Dare avevano la loro dimora. C'era un piccolo altare, con fiori freschi e altri avvizziti, candele, alcune mezze consumate, e delle piccole pozze, boccali di legno che profumavano di idromele, vino e birra di quercia. Anne accese una candela e tutte e due si inginocchiarono un istante mentre lei guidava la preghiera. Il piombo era duro e freddo sotto le ginocchia. Da qualche parte lì vicino, una ghiandaia si mise a litigare con un corvo in un'improvvisa musica sgraziata e acuta. Anne recitò: Santi che custodite i miei padri, san Sottomondo che preservi, santa Tetra che osservi fate leggeri i miei passi che dormano o si sveglino, come essi desiderano benediteli, custoditeli
presentatemi, seppur come sogno Sacaro, Sacarum, Sacarafum Prese Austra per mano e bisbigliò: «Andiamo.» Costeggiarono la grande casa dove giacevano le ossa dei suoi avi, dove i suoi zii radunavano corti notturne e il fratello più giovane Avieyen giocava coi suoi balocchi nella culla di marmo; proseguirono intorno al grande colonnato anteriore di marmo rosso e sotto un grande arco di bronzo, oltre il palazzo minore, in cui i cugini più distanti complottavano, come avevano fatto in vita, per avere una posizione tra i loro più augusti parenti; giunsero fino ai muri di pietra diroccati e agli alberi radi e selvaggi dell'horz. Col passare degli anni, Anne e Austra avevano creato un sentiero regolare fino alla tomba, allargandolo man mano che i loro corpi crescevano, non tagliando la vegetazione ovviamente, ma forzandola e spingendola al loro passaggio. I santi del Selvaggio non si erano lamentati, non le avevano colpite con febbri o malattie, e quindi credevano di essere al sicuro per quella piccola alterazione, così come per gli interventi fatti per nascondere il loro segreto, sistemando strategicamente tappeti di viti intrecciate alla rinfusa e un sasso qui e uno lì. Decisiva era stata la volontà di Virgenya, e di questo Anne era sicura. Si era nascosta a tutti per più di duemila anni, tranne che ad Anne e Austra, e sembrava volesse continuare così. Quindi, dopo qualche altro momento a pecoroni, Anne si ritrovò ancora una volta davanti al sarcofago. Non erano mai riuscite a spostare il coperchio più di tanto, neanche usando una leva di legno, e dopo un po' Anne si era convinta di non essere autorizzata a guardare dentro e così smise di provarci. Ma la piccola fessura c'era ancora. «Allora,» disse «hai lo stilo e la lamina?» «Ti prego, non maledire Fastia da parte mia» la implorò. «Non ho intenzione di maledirla. Non proprio, ma è diventata insopportabile. Ti ha minacciato! Merita una punizione.» «Giocava con noi» le ricordò Austra. «Era nostra amica, ci faceva giocare con vestiti intrecciati di capochino e denti di leone.» «È stato tanto tempo fa. Ora, da quando si è sposata, è cambiata, è diventata la nostra padrona.» «Allora chiedi che torni come prima. Non domandare niente di male per lei, ti prego.»
«Voglio solo farle venire qualche foruncolo e pustola su quel bel faccino. Tutto pronto, dammi quelle cose!» Austra le passò un sottilissimo foglio di piombo e uno stilo di ferro. Anne poggiò il piombo sul sarcofago e scrisse. Antenati, per favore, consegnate la seguente richiesta a santa Cer, supplicatela a mio nome. Chiedetele di dissuadere mia sorella Fastia dal minacciare la mia dama di compagnia, Austra, e di renderla più gentile, come quando era più giovane. Anne guardò il foglio, c'era ancora dello spazio sotto. E ancorate il cuore di Roderick di Dunmrogh al mio, che non dorma mai più senza sognarmi. «Che cosa? Chi è Roderick di Dunmrogh?» esclamò Austra. «Stavi spiando alle mie spalle!» «Certo. Temevo che chiedessi delle pustole per Fastia!» «Be', non l'ho fatto, impicciona!» disse Anne, allontanando l'amica. «È vero, ma hai chiesto che un ragazzo si innamori di te.» «È un cavaliere.» «Quello che ti ha inseguito giù per il Serpente? Quello che hai appena conosciuto? Che ti succede, sei innamorata di lui?» «Certo che no. Come potrei esserlo? Ma che male può fargli se si innamora di me?» «Questo genere di cose non finisce mai bene nei racconti di fate, Anne.» «Be', probabilmente Cer non presterà attenzione a nessuna di queste cose. Lei ama le maledizioni.» «Innamorarsi di te potrebbe essere proprio una maledizione.» «Molto divertente. Dovresti prendere il posto di Cappello da Caccia, come buffona di corte.» Lasciò scivolare il foglio di piombo nella fessura del coperchio del sarcofago. «Ecco fatto, e ora possiamo andare.» Come si alzò in piedi, ebbe un improvviso capogiro, e per un attimo non riuscì a ricordarsi dove fosse. Qualcosa di allegro le squillò nel petto, una specie di campanella d'oro, e il contatto delle dita sulla pietra sembrò sparire lontano. «Anne!» la chiamò Austra, con tono preoccupato.
«Non è niente, ho avuto un capogiro, ma è durato un attimo. Andiamo, dovremmo tornare al castello.» Capitolo sei Il re «Ora, lasciate che mi presenti» disse il grosso Hansan a Neil. «Sono Everwulf af Gastenmarka, scudiero di sir Alareik Wishilm, che voi avete insultato.» «Io sono Neil MeqVren, scudiero di sir Fail de Liery e gli ho promesso che non alzerò la spada contro di voi.» «Va bene, non importa. Ti farò saltare la testa a mani nude, non c'è bisogno di spade, non servono.» Neil fece un respiro lento e profondo e rilassò i muscoli. Everwulf caricò come un toro, veloce nonostante la stazza. Neil fu più rapido, girando il corpo da una parte all'ultimo momento e rompendo il naso di quell'omone con il dorso della mano. L'Hansan scalciò in aria e oscillò all'indietro. Neil si avvicinò e gli diede una gomitata sulle costole che sentì rompersi, quindi finì con un pugno violento sotto l'ascella. Il respiro abbandonò Everwulf, che perse i sensi. Gli altri scudieri non avevano intenzione di comportarsi lealmente. Con la coda dell'occhio, Neil vide qualcosa inarcarsi verso di lui. Si abbassò, sferrò un calcio e colpì i piedi. Un uomo andò giù, lasciando cadere l'arma d'allenamento di legno che aveva in mano. Neil la raccolse, e rotolando trafisse un altro assalitore allo stinco. Questo gridò come un cavallo accoltellato. Neil saltò in piedi; il tipo a cui aveva fatto lo sgambetto se la svignò. Everwulf ansimava in terra privo di sensi, e quello trafitto allo stinco rantolava. Neil si poggiò sulla spada di legno in atteggiamento disinvolto: «Abbiamo finito?» chiese. «Finito» rispose il tipo ancora in grado di parlare. «Allora buona notte! Spero di incontrarvi di nuovo sul campo quando avremo tutti preso la rosa.» Lasciò cadere la spada di legno e si risistemò i capelli. Lassù in alto poteva distinguere solo le guglie del castello illuminate dalla luna. La corte! Il giorno dopo avrebbe visto la corte!
William II di Crotheny si appoggiò con le mani al telaio di pietra dell'alta finestra e per un attimo si sentì così leggero che una raffica di vento avrebbe potuto farlo precipitare di sotto. Aghi di alv gli punzecchiavano la testa e una sensazione di terrore sembrò esplodere davanti ai suoi occhi, quasi più accecante del sole; lo fece barcollare. I morti stanno pronunciando il mio nome, pensò, e subito dopo, sto forse per morire? Uno dei suoi zii era morto in quel modo, stava parlando e camminando come se niente fosse e un attimo dopo era finito in terra morto. «Che succede, caro fratello?» gli chiese Robert, dall'altra parte della stanza. Robert, attratto dalla debolezza come gli squali dal sangue. William aprì la bocca e fece un respiro lento e profondo. No, il suo cuore batteva ancora - velocemente, a dire il vero. Fuori il cielo era sereno. Al di là delle guglie e dei tetti appuntiti poteva vedere il nastro verde della Manica e il lontano Breu-en-Trey. Il vento veniva da lì, da occidente, e aveva un delizioso profumo di mare. Non stava morendo, non in un giorno come quello, non poteva. «William!» Volse le spalle alla finestra. «Un momento, fratello, solo un momento. Aspettami fuori, nella Sala delle Colombe.» «Vengo buttato fuori dagli appartamenti di mio fratello?» «Fa' come dico, Robert.» Un'espressione accigliata gli solcò la fronte. «Come desideri, ma non farmi aspettare troppo.» Quando la porta si richiuse, William poté gettarsi sulla sua poltrona. Aveva temuto che le gambe gli cedessero quando Robert era nella stanza, e non sarebbe stato il caso. Che cosa gli stava succedendo? Se ne stette lì seduto per un istante, respirando profondamente, toccando con le dita l'intarsio d'avorio del bracciolo in legno di quercia, poi si alzò e con passo incerto si diresse verso il catino d'acqua per bagnarsi il viso. Dallo specchio, i lineamenti grondanti lo fissavano. La barba ben curata e i capelli ramati avevano solo un po' di grigio, ma gli occhi apparivano infossati, la pelle giallastra, le rughe della fronte profonde come crepacci. Quand'è che sono invecchiato? Si domandò. Aveva solo quarantacinque anni, ma aveva visto facce più giovani su uomini con una ventina d'anni in più. Si asciugò con un panno di lino e suonò una campanella. Un istante do-
po, comparve il suo valletto, un uomo paffuto e quasi calvo sulla sessantina. Indossava una calzamaglia nera e un farsetto rosso e oro. «Dite, sire.» «John, assicurati che mio fratello abbia del vino. Sai quale gli piace. E manda a chiamare Pafel per vestirmi.» «D'accordo Sire. Sire...» «Sì?» «Vi sentite bene?» La voce di John mostrava una preoccupazione sincera. Era il valletto di William da quasi trent'anni. Era uno dei pochi uomini in tutto il regno di cui si fidasse. «Sinceramente, John? No, ho appena avuto una specie di... non so cosa. Una sensazione di terrore, una Donna Nera da sveglio. Non ho mai provato niente del genere, neanche in battaglia. E come se non bastasse, Robert era qui e l'ha visto. E ora devo andare a parlare con lui di questo e quello. Poi c'è la corte. A volte vorrei...» S'interruppe e scosse la testa. «Mi dispiace, sire. C'è niente che possa fare?» «Ne dubito, John, ma grazie lo stesso.» John annuì e fece per andarsene, ma poi si voltò. «Esiste un tipo di paura, sire, che non si può spiegare. È come il panico che si prova quando si cade; arriva così, semplicemente.» «Sì, è stata più o meno quella la sensazione, ma non stavo cadendo.» «Ci sono molti modi di cadere, sire.» William lo fissò per un istante, poi ridacchiò. «Va' pure John, porta il vino a mio fratello.» «Che i santi vi proteggano, sire.» «Guardino anche te, vecchio amico mio.» Pafel, un giovane dalla faccia rossa, con un accento di campagna, giunse qualche istante dopo con il suo nuovo assistente Kenth. «Non l'abito da corte» disse William. «Non ancora. Preferisco qualcosa di comodo.» Aprì le braccia, perché potessero sfilargli la vestaglia. «Come desiderate, sire. Posso? Oggi è tiffedì, quindi andrebbero bene i colori di san Tiff, ma siamo anche nella stagione dell'equinozio, che è regolata da santa Fesa...» Lo vestirono con delle brache nere, ricamate con rampicanti dorati, un farsetto di seta rosso sangue, un colletto rigido a fiorellini dorati e una cappa di ermellino nero. La pratica abituale della vestizione, corredata delle inesauribili spiegazioni di Pafel, lo fece sentire meglio. Dopo tutto, era un giorno come un altro. Non stava per morire e non c'era niente di cui
aver paura. Quando la vestizione fu completata, le mani e le gambe avevano ormai smesso di tremare, e sentiva solo quel lontano presagio che lo accompagnava ormai da qualche mese. «Grazie, signori» disse ai suoi servitori. Quando si furono ritirati, si ricompose e, facendo dei respiri profondi, si diresse nella Sala delle Colombe. Era luminosa e ariosa come solo una stanza di pietra può essere, rivestita di alabastro levigato e arredata con drappi e arazzi verdi e oro pallido. Le ampie finestre erano aperte; dopo tutto se un esercito avesse vinto, le pianure alluvionali, le tre file di mura della città, la fortezza esterna, tutto sarebbe stato perduto comunque. Una macchia sbiadita color ruggine sul pavimento immacolato ricordò a William che questo era successo già una volta. Thiuzwald Fram Reiksbaurg, Pelliccia di Lupo, era caduto lì, colpito al fegato dal primo William Dare che aveva regnato a Eslen, solo un centinaio d'anni prima. William allungò il passo oltre la macchia. Robert sollevò lo sguardo da una poltrona - la poltrona di William - dove fingeva di studiare un libro di preghiere. «Bene» disse. «Non c'era bisogno di farsi belli per me.» «Che cosa posso fare per te, Robert?» «Fare per me?» replicò alzandosi e stiracchiandosi tutto il corpo, magro e lungo. Aveva solo vent'anni; era molto più giovane di William e per enfatizzare la differenza portava baffi piccoli, pizzetto e capelli rasati, secondo la moda dei cortigiani più rammolliti. I lineamenti regolari erano rovinati da un ghigno. «Che cosa posso fare io per te, Wilm.» «Cosa intendi dire?» «La scorsa notte sono andato a fare una passeggiata con lord Reccard, il nostro stimato ambasciatore a Saltmark.» «Una passeggiata?» «Sì. Siamo andati prima alla Barba del Cinghiale, poi all'Orso Parlante, e lungo il canale alla Figlia dell'Avaro...» «Ho capito. Non è morto, spero. Non ci avrai mica portato in guerra contro Saltmark?» «Morto? No, è vivo, forse con qualche rimorso. Per quanto riguarda la guerra... be', aspetta, fammi finire.» «Vai avanti» disse cercando di mostrare un'espressione tranquilla. Avrebbe voluto fidarsi di più di suo fratello. «Ti ricorderai della moglie di Reccard, una dolce creatura di nome Seglasha.»
«Certo, originaria di Herilanz, no?» «Esattamente, e una vera figlia di quel paese barbaro. Ha fatto castrare il suo ultimo marito, come ben sai, e quello precedente è stato ridotto in pezzi dai suoi fratelli per averla offesa in pubblico. Reccard è completamente terrorizzato da lei.» «Non senza motivo, a quanto pare» commentò William. Robert inarcò le sopracciglia. «Parli tu, che hai sposato quella donna de Liery! Lei almeno...» «Non parlare male di mia moglie,» lo avvisò «non voglio sentire!» «No? Neanche dalle tue amanti? Ho sentito alcune lamentele ben fatte da parte di lady Berrye riguardanti tua moglie, che non sembravano per niente inventate.» «Robert, spero che tu non sia venuto per dare a me delle lezioni di comportamento. Sarebbe come il bue che dice cornuto all'asino.» Robert si appoggiò a una colonna d'alabastro, incrociando le braccia al petto. «No, fratello caro, sono venuto a chiederti se sai che Hansa ha spostato trenta galere da guerra e un migliaio di armati a Saltmark.» «Che cosa?» «Quello che ho detto, il povero Reccard è completamente terrorizzato dalla moglie e ho intuito che non avrebbe voluto farle sapere dei giochini fatti la notte scorsa con le signore del Palazzo delle Allodole. Così l'ho convinto che gli sarebbe convenuto essere più... socievole con me.» «Robert, che cospiratore che sei! Un tale comportamento non si addice a un Dare.» Robert fece un verso di disgusto. «Adesso, chi è che sta dando lezioni di moralità? Tu dipendi dal mio comportamento indegno, William. Ti permette di mantenere l'armatura della tua onestà lucida e pulita e allo stesso tempo di conservare il regno. Vuoi ignorare questa informazione solo perché l'ho ottenuta così?» «Sai che non posso. Sapevi che non avrei potuto» «Esattamente, quindi non farmi prediche, Wilm.» William sospirò profondamente e guardò di nuovo fuori dalla finestra. «Chi è al corrente di questo, delle navi hanzish?» «A corte? Tu, io e l'ambasciatore, ovviamente.» «Perché mai Hansa assedierebbe Saltmark? Perché Saltmark dovrebbe permetterlo?» «Non essere sciocco. Quale altra ragione potrebbe esserci? Stanno preparando qualcosa e Saltmark è con loro.»
«Preparando che cosa?» «Reccard non lo sa. Se dovessi indovinare, però, direi che hanno progetti per le Isole del Dolore.» «Le Isole? E perché mai?» «Senza dubbio per provocarci. Hansa scoppia di uomini e navi. L'imperatore di Hansa è un uomo vecchio; vorrà usarli subito, quando ancora può, e non c'è niente che desideri di più al mondo della corona che porti sul capo.» Marcomir Fram Reiksbaurg non è l'unico a volere la mia corona, pensò William stizzito. O mi credi tanto stupido da non averlo capito, caro fratello? «Credo che potresti semplicemente chiederlo al tuo inviato hanzish» proseguì Robert. «La sua nave è approdata ieri.» «Già, questo complica le cose, no? O le semplifica. Forse sono venuti a dichiararci guerra di persona.» Sospirò, passandosi le dita fra i capelli. «A ogni modo, non ho in programma di parlare con quell'ambasciatore fino a dopodomani, dopo il compleanno di mia figlia, e non ho intenzione di cambiare idea; ci farebbe apparire sospettosi.» Fece una pausa, pensando. «Dov'è Reccard adesso?» «Sta smaltendo la sbornia.» «Mettigli dietro delle spie, e anche agli Hansan. Se si scrivono voglio saperlo, se si incontrano, lo facciano pure, ma accertati che siano spiati. Nessun messo deve lasciare la città, assolutamente.» Incrociò le dita e guardandole disse: «Invieremo delle navi alle Isole, con discrezione, un po' alla volta, la prossima settimana.» «La saggezza muove tutto» rispose Robert. «Allora vuoi che in questa faccenda agisca come tuo siniscalco?» «Sì, finché non ti dirò di fare diversamente. Stilerò il documento formale di investitura questo pomeriggio.» «Grazie, William. Cercherò di essere degno di te e del nome della tua famiglia.» Sebbene le sue parole contenessero del sarcasmo, era troppo sottile perché venisse colto. Non aveva alcuna importanza in realtà. William conosceva suo fratello solo da quando era nato, e non era ancora passato moltissimo tempo. Una campana suonò debolmente nel corridoio. «Avanti!» disse William. La porta si aprì cigolando ed entrò John. «È il praifec, sire, appena tor-
nato da Virgenya, e ha con sé una sorpresa.» Il praifec, magnifico! «Certo, fallo entrare.» Un istante dopo, il praifec Marché Hespero, tutto vestito di nero, fece il suo ingresso nella sala. «Vostra maestà» disse inchinandosi a William. Poi si inchinò a Robert: «Arcigrefio.» «Che bello rivedervi, praifec» disse Robert. «Siete tornato da Virgenya tutto intero.» «In effetti» replicò l'uomo di chiesa. «Scommetto che avete riscontrato che i nostri parenti sono testoni quanto noi.» William desiderò che Robert tenesse la bocca chiusa: non era la prima volta che si lasciava sfuggire la verità. Ma Hespero sorrise. «Diciamo che pure loro sono per molti aspetti intrattabili, anche per la questione degli eretici, cosa che è preoccupante. Ma sono i santi a decidere, no?» «Sono certo di sì» rispose William allegramente. Il sorriso di Hespero non esitò. «I santi operano in molti modi, ma il loro strumento preferito è la chiesa. Ed è scritto che il regno dovrebbe essere il cavaliere della chiesa, il suo difensore. Sareste addolorato, re William, se i vostri cavalieri vi abbandonassero?» «Non l'hanno mai fatto» replicò William. «Praifec, cosa vi posso far portare? Vino, formaggio? Le pere verdi sono maturate mentre eravate via e sono eccellenti con il formaggio blu di Tero Gallé.» «Un bicchiere di vino andrebbe bene» rispose Hespero. John riempì un boccale per Hespero, che si accigliò mentre beveva. «Se non è di vostro gradimento, praifec, posso ordinare un'altra annata» propose William. «Il vino è eccellente, sire. Non è questo che mi preoccupa.» «Vi prego, diteci che cosa vi affligge allora, vostra grazia.» Hespero fece una pausa, quindi poggiò il boccale su un piedistallo. «Non ho visto i miei pari al Comven. Sono vere le voci che circolano? Avete nominato le vostre figlie eredi al trono?» «No, non sono stato io a farlo, ma il Comven» rispose William. «Ma su vostra proposta, della quale abbiamo discusso mentre la redigevate, non è così?» «Mi pare che ne abbiamo già discusso, praifec.»
«E ricordate la mia opinione secondo la quale rendere il trono ereditabile dalle donne è proibito dalla dottrina della chiesa?» William sorrise. «Così la pensava uno dei membri del Comven. L'altro ha votato per la riforma. Sembrerebbe che il decreto non sia così chiaro come alcuni pensano, eminenza.» In realtà c'era voluta molta fatica per convincere anche solo uno dei preti a votare per William — e molti dei mezzi sporchi, ma efficaci, di Robert. Doveva ammettere che, in momenti come quelli, Robert aveva una certa abilità. La collera increspò per un attimo la fronte dell'ecclesiastico, poi si stemperò. «Comprendo la vostra preoccupazione per la necessità di un erede. Charles, pur essendo un figlio meraviglioso, è stato in realtà toccato dai santi e...» «Mio figlio non deve entrare in questa conversazione, praifec» disse William in tono pacato. «Siete nella mia casa e ve lo proibisco.» Il volto di Hespero si fece più serio. «Molto bene. Quindi vi informo solamente, e con riluttanza, che dovrò costringere l'alto Senaz della chiesa a prendere in considerazione la questione.» «D'accordo, che lo facciano» rispose William. E che provino pure a ribaltare una decisone del Comven, pensò, dietro a un sorriso. Che la chiesa convinca pure il litigioso mucchio di signorotti che ha preso la decisione sbagliata. No, una delle mie figlie regnerà, e mio figlio, che la sua anima sia lodata, continuerà a giocare con le sue cose e il buffone sefry fino a tarda età. Il tuo re non sarà mai senza cervello, Hespero. Se si arrivasse a questo, preferirei lasciare il trono a Robert, se avesse eredi legittimi. «Per tutti i santi!» li interruppe una voce. «Voi tre non avrete mica intenzione di discutere di politica tutto il giorno, vero?» Robert fu il primo a reagire a quella voce estranea. «Lesbeth!» attraversò la stanza a grandi passi e la sollevò da terra in un abbraccio. Lei rise felice mentre la faceva ruotare intorno alla sala; un pettine le cadde e i capelli rossi le si aprirono a ventaglio sulla schiena. Quando Robert la mise giù, lei lo baciò sulla guancia, poi si liberò e si gettò di corsa tra le braccia di William. «Praifec!» disse Robert. «Sia benedetto colui che riconduce qui la mia amatissima gemella dal suo rustico esilio!» William allontanò un attimo la sorella più giovane per poterle dare un'occhiata. «San Loy, come sei cresciuta, ragazza mia!»
«Identica a nostra madre» aggiunse Robert. «Voi due!» esclamò Lesbeth, prendendoli per mano. «Quanto mi siete mancati!» «Avresti dovuto avvertirci» le disse William. «Avremmo organizzato una grande festa!» «Volevo farvi una sorpresa, e poi domani non è il compleanno di Elseny? Non volevo oscurare l'evento.» «Non potresti mai farlo, cara sorellina» le disse Robert. «Vieni qua, siediti, raccontaci tutto.» «Stiamo mancando di rispetto al praifec,» disse Lesbeth «e dopo che è stato così gentile da scortarmi per tutto il tragitto. Una compagnia piacevolissima! Praifec, non so come ringraziarla.» «Neanch'io» aggiunse rapidamente William. «Praifec, perdonatemi se le mie parole sono state dure. È già stata una giornata gravosa, pur essendo ancora presto. Ma ora mi avete portato la gioia e sono in debito con voi per aver accompagnato mia sorella a casa sana e salva. Sono sempre amico della chiesa e di sicuro ve lo dimostrerò.» «È stato un piacere per me» disse l'ecclesiastico, inchinandosi. «E ora spero che vogliate scusarmi. La mia servitù è persa senza di me e temo che ci vorranno settimane per mettere a posto il mio ufficio. Comunque, sarei onorato di potervi dare consigli quando radunerete la corte.» «Sarò io onorato di avervi lì. Sono stato troppo a lungo senza la vostra saggezza, praifec.» L'uomo di chiesa annuì e fece un inchino. «Dobbiamo avere dell'altro vino!» disse Robert. «E allegria. Voglio sapere tutto.» Si girò sui tacchi. «Preparerò tutto io. Lesbeth, mi raggiungerai nel ballatoio alla mezza?» «Senza dubbio, caro fratello» rispose. «E tu, fratello?» «Farò un salto, poi devo riunire la corte, lo sai.» «Peccato!» Robert agitò l'indice davanti a Lesbeth. «Alla mezza, non fare tardi.» «Puoi contarci.» Robert lasciò la stanza in gran fretta. Quando furono soli, Lesbeth prese la mano di William e la strinse. «Stai bene Wilm? Sembri stanco.» «Lo sono, un po'. Niente di preoccupante però, e poi adesso sto molto meglio.» Anche lui le strinse la mano. «È bello rivederti, mi sei mancata.»
«Anche tu a me. Come sta Muriele? E le ragazze?» «Tutte bene. Non puoi immaginare quanto Anne sia cresciuta. Ed Elseny fidanzata! Ma la vedrai domani al suo compleanno.» «Sì.» I suoi occhi si illuminarono mentre abbassava lo sguardo, quasi in atteggiamento timido. «Wilm, ho un segreto da rivelarti. Devo chiederti il permesso per una cosa, ma devi promettermi che non interferirà con il compleanno di Elseny, me lo prometti?» «Certo. Spero che non sia niente di serio.» Gli occhi di Lesbeth mostrarono una strana luce. «Penso di no, almeno lo spero.» Muriele Dare, la regina di Crotheny, si ritirò dallo spioncino. Qualunque cosa Lesbeth avesse da dire a William, Muriele avrebbe lasciato che i fratelli ne discutessero in privato. Si mosse silenziosamente e con passo felpato lungo lo stretto passaggio, mentre i piedi scalzi scivolavano sulla pietra liscia. Passò attraverso un pannello segreto di legno di quercia rossa ed entrò nella stanza successiva, scese le scale dietro alla statua di santa Brena e finalmente entrò nei suoi appartamenti aprendo una porta ben nascosta. Una volta lì, nella semioscurità, respirò profondamente per qualche istante. «Vi siete messa di nuovo dietro la solita parete, vero?» Muriele trasalì a quella voce di donna. In fondo alla stanza distinse la sagoma di una gonna. «Erren!» «Perché vi siete messa a fare il mio lavoro? Sono io la spia, e voi la regina.» «Mi stavo annoiando, voi eravate altrove e sapevo che era tornato il praifec. Volevo sapere che cosa aveva da dire.» «Ebbene?» «Niente di particolarmente interessante. Ha reagito come ci aspettavamo al fatto che le mie figlie possano essere nominate eredi al trono. Per il resto, avete sentito qualcosa riguardo alla presenza di truppe hanzish a Saltmark?» «Niente di preciso» rispose Erren. «Ma c'è un gran movimento a Hansa. Passeranno presto all'azione.» «Che tipo di azione?» «Crotheny sarà in guerra entro la fine dell'anno, ne sono certa» replicò.
«Ma ci sono eventi più vicini che mi spaventano. Girano voci tra le discepole del coven.» Muriele rifletté su queste parole. Erren era un'assassina davvero speciale, addestrata dalla chiesa a servire le famiglie nobili. «Temete per le nostre vite?» chiese. «Hansa sarà così audace da usare le ragazze del coven per ucciderci?» «No - e sì. No, non impiegheranno le mie sorelle, perché incorrerebbero nell'ira della chiesa. Ma sì, ci sono persone che uccideranno in nome di altri re, e la sensazione a Hansa è che a Crotheny ci sia un re che deve essere ucciso. Questo è quello che so.» Fece una pausa. «Ma c'è qualche altra cosa nell'aria. Voci su nuovi tipi di omicidi, di encrotacnia e trasmigrazione sconosciute alle ragazze del coven. Alcuni dicono che forse i responsabili sono degli assassini provenienti da Hadam o da qualche altro luogo straniero. Dall'altra parte del mare potrebbero avere abilità straordinarie.» «E voi avete motivo di credere che questi nuovi sicari saranno usati contro la mia famiglia?» «Temo di sì» rispose Erren, in un tono che non mostrava alcuna incertezza. Muriele attraversò la stanza. «Allora prendete ogni precauzione necessaria, specialmente con i miei figli» disse. «È tutto ciò che sapete per ora?» «Sì.» «Allora accendete le candele e mandate a prendere del vino caldo. I corridoi sono gelidi oggi.» «Potremmo salire nella vostra stanza del sole. Oggi la temperatura è dolce fuori.» «Preferisco rimanere qui per il momento.» «Come volete.» Erren si diresse nell'anticamera, bisbigliò qualcosa all'inserviente e tornò con un accenditoio. La fiamma era gentile con il suo viso, cancellava gli anni meglio del trucco. Sembrava quasi una ragazza dai lineamenti delicati e i capelli lisci e neri. Solo qualche striatura argentata smentiva tutto. Accese il candeliere vicino allo scrittoio, e non appena la luce nella stanza si raddoppiò, comparvero zampe di gallina, lunghe e sottili intorno agli occhi, e altri segni dell'età si rivelarono con riluttanza, sotto il mento e sulla pelle del collo e della fronte. Si illuminò anche un angolo della stanza di Muriele. C'era il ritratto del padre sulla parete, lo sguardo severo, ma dolce, con venature dorate aggiunte dal pittore; ma quello sguardo non era caldo come era stato in real-
tà. Erren accese una terza candela e dall'ombra apparve un divano rosso, una cassetta da cucito, lo spigolo del letto di Muriele - non quello che condivideva col re, nella stanza matrimoniale - ma il suo letto, fatto con il legno di cedro bianco delle montagne lierish e sormontato da un baldacchino di tessuto nero a stelle argentate; il letto di quando era bambina, dove ogni notte era scivolata nel mondo dei sogni. La quarta candela fece sparire le ombre da ogni cosa, ricacciandole là da dove erano venute. «Quanti anni avete, Erren?» le domandò. «Intendo dire, esattamente.» Erren drizzò il capo. «Gentile da parte vostra chiedermelo. Volete sapere anche quanti figli ho?» «Vi conosco da quando lasciaste il coven. Io avevo otto anni, e voi?» «Venti. Adesso fate i vostri conti.» «Io ne ho trentotto» concluse Muriele. «Questo vuol dire che voi ne avete cinquanta.» «E cinquanta sono» replicò Erren. «Non li dimostrate.» Erren scosse le spalle. «La vecchiaia ha meno da prendersi quando una non è mai stata una bellezza neanche all'inizio.» Muriele si accigliò. «Non vi ho mai considerato insignificante.» «Non siete una grande autorità in queste faccende. Spesso affermate di non essere bella, eppure la vostra bellezza è rinomata da quando avevate tredici anni. Come si può essere circondati da tanta ammirazione senza soccombere?» Muriele sorrise amaramente. «Non si può, e sono sicura che lo sapete bene, cugina mia. Comunque si può sempre coltivare una parvenza di modestia. Se questa parvenza è conservata abbastanza a lungo, chissà, potrebbe anche diventare vera un giorno. E poi l'età aiuta, perché il passare del tempo sottrae bellezza e quando si è sufficientemente vecchi, la falsa modestia deve diventare modestia vera.» «Perdonatemi, maestà e lady Erren» disse una vocina tra le tende della porta. Era Unna, la cameriera, una ragazzetta graziosa, dai capelli biondo miele. «Il vostro vino.» «Portalo dentro Unna.» «Sì, maestà.» La ragazza mise la brocca al centro di un tavolino e un boccale da una parte e uno dall'altra. Si alzò un vapore profumato di fiori d'arancio e chio-
di di garofano. «Quanti anni hai Unna?» le chiese Muriele. «Undici, vostra maestà.» «Una dolce età. Perfino la mia Anne era dolce a quell'età, a modo suo.» La ragazza fece un inchino. «Puoi andare Unna.» «Grazie, maestà.» Erren versò del vino e lo assaggiò. Poi annuì e ne versò un po' a Muriele. «Come mai tutti questi discorsi sull'età?» chiese Erren. «Siete di nuovo andata a spiare vostro marito e le sue amanti? Non vi avrei mai dovuto mostrare il passaggio alle sue stanze.» «Non ho mai fatto una cosa del genere!» «Io sì. Povero uomo, così sagace! Sbuffa, ansima, ma non riesce assolutamente a tenere il passo con la giovane Alis Berrye.» Muriele si coprì le orecchie con le mani. «Non voglio sentire questa roba!» «E a complicargli le cose ci si è messa lady Granirne, che ha iniziato a lamentarsi per le attenzioni rivolte ad Alis.» Muriele lasciò cadere le mani. «Come? La vecchia sgualdrina che si lamenta di quella nuova?» «Che cosa vi aspettavate?» chiese Erren. Muriele emise una risata leggera. «Povero il mio donnaiolo. Quasi mi dispiace per lui. Pensate che dovrei ricominciare le mie scenate sui bastardi di Granirne?» «Potrebbe rendere le cose più interessanti. Alis lo mantiene magro, lady Gramme tortura le sue orecchie e voi eliminate quello che resta. Non dovrebbe essere difficile.» Muriele scrollò le spalle. «Potrei sottoporlo a questo sforzo. Ma sembra... Per un attimo, guardandolo nella Sala delle Colombe oggi, ho pensato che stesse per svenire. Più che stanco, sembrava che avesse visto l'ombra della morte. E se davvero si sta avvicinando la guerra con Hansa... No. Meglio che continui a essere quella su cui può contare.» «Lo siete sempre stata» fece notare Erren. «Ambria Gramme vuole diventare regina, ed è davvero inadatta a quel ruolo. Alis e le meno giovani sperano di... diciamo così, ottenere un vitalizio? La stessa posizione di Gramme, insomma. Ma voi... voi siete la regina. Non avete niente da complottare.» Muriele si infiammò in viso. Guardò il vino e la fiamma della candela
più vicina contorcersi al suo interno come un pesce. «Vorrei che fosse vero» mormorò. «Ma io voglio qualcos'altro da lui, bastardo.» «Amore forse?» la schernì Erren. «Alla vostra età?» «Una volta c'era. Non quando ci sposammo, no, ma dopo. C'è stato un periodo in cui eravamo pazzamente innamorati, sapete?» Erren annuì con riluttanza. «Vi ama ancora» ammise. «Più di quanto ami Gramme?» «Più profondamente.» «Ma meno carnalmente.» «Penso che si senta in colpa quando viene da voi, perciò lo fa sempre meno spesso.» Muriele tirò fuori da qualche parte un vago sorriso. «Io voglio che si senta in colpa.» Erren inarcò le sopracciglia. «Avete mai pensato a trovarvi un amante?» «Come fate a essere sicura che non ne abbia già uno?» Erren ruotò gli occhi. «Per favore, non insultatemi un'altra volta. Avete già preso nota della mia avanzata età, mi sembra abbastanza per oggi.» «D'accordo, sì, ci ho pensato e ci penso ancora.» «Ma non lo fate.» «Credo che pensare in questi casi sia più divertente che fare.» Erren bevve un sorso di vino e si sporse in avanti. «A chi avete pensato? Ditemelo. Il giovane barone di Breu-n'Avele?» «No. Basta parlare di questo.» Rispose Muriele, con le guance arrossate. «Adesso ditemi. Quali marachelle hanno fatto le mie figlie oggi?» Erren sospirò e raddrizzò le spalle. «Fastia è stata una principessa perfetta. Elseny ha ridacchiato parecchio con le sue dame e hanno azzardato qualche improbabile previsione su come sarà la sua prima notte di nozze.» «Oh cielo! È il momento di parlarle, credo.» «Può farlo Fastia.» «Fastia fa già troppe delle cose che dovrei fare io. Che altro? Anne?» «L'abbiamo... persa di nuovo.» «Naturale. Che cosa pensate abbia in mente, un uomo?» «Un mese fa, sicuramente no. Scappava di nascosto, come al solito, a cavallo, e si ubriacava. Ora, non ne sono più così sicura. Penso che potrebbe avere incontrato qualcuno.» «Devo parlare anche a lei, allora.» Sospirò. «Non avrei dovuto lasciare che le cose arrivassero a questo punto. Passerà un momento difficile,
quando sarà sposata.» «Non deve sposarsi per forza» disse Erren dolcemente. «È la più giovane, potreste mandarla da sorella Secula, almeno per qualche anno. Presto la vostra casa avrà bisogno di una nuova...» si fermò. «Una nuova voi? Avete intenzione di morire?» «No, ma tra qualche anno, i miei... compiti più difficili saranno troppo faticosi per me.» «Ma Anne, un'assassina?» «Ha già molte delle qualità necessarie. Dopo tutto riesce a ingannare anche me. Anche se non prende i voti, quelle abilità saranno sempre utili. La disciplina le farà bene, e sorella Secula la terrà ben lontana dai giovanotti, questo ve lo posso assicurare.» Muriele annuì. «Devo pensarci. Non sono convinta che serva qualcosa di così drastico.» Erren fece un cenno d'assenso col capo. «Anne è sempre stata la vostra favorita.» «Si vede?» «Un po'. Io lo so e anche Fastia lo sa; Anne, invece, di certo non se ne rende conto.» «Meglio così, non deve.» Fece una pausa e poi: «Mi odierà se la allontano.» «Per un periodo, non per sempre.» Muriele chiuse gli occhi, poggiando il capo sullo schienale della sedia. «Odio queste cose» bisbigliò. «Ci penserò, Erren, ci penserò bene.» «E adesso che facciamo? Altro vino?» «No, avevate ragione. Andiamo nella stanza del sole a giocare a birilli.» Sorrise di nuovo. «Invitate Alis Berrye, voglio farla sentire un po' in imbarazzo.» Capitolo sette Tor Scath Stephen Darige compose un trattato mentalmente, mentre cavalcava, intitolato Osservazioni sul comportamento bizzarro e rozzo dell'animaleguardaboschi comune. Questa creatura dei boschi, munita di pungiglione, è ripugnante per temperamento, umore e odore, e per nessun motivo andrebbe avvicinata
da uomini di buona o raffinata sensibilità. Le maniere gentili la irritano, la cortesia la innervosisce e la sensatezza provoca un comportamento furioso, come quello di un orso che, mentre ruba il miele, trova un'ape all'interno di... «Ferma il cavallo» disse il guardaboschi con tono burbero. Comunica per lo più con grugniti, ringhi e scoregge sonore. Tra tutte queste forme, le ultime sono le più facilmente comprensibili, anche se non si possono confondere con una vera e propria forma di linguaggio... «Ti ho detto di fermarlo.» Aspar aveva arrestato i suoi cavalli e quelli dei prigionieri. «Perché?» Poi capì. Il guardaboschi stava chiaramente cercando di sentire qualcosa o si aspettava di sentire qualcosa. «Che cos'è?» «Se stai zitto, forse riesco a scoprirlo.» Stephen tese l'orecchio, ma sentì solo il vento che fischiava tra le foglie, e i rami che sbattevano. «Io non sento niente.» «Neanch'io» grugnì Pol, uno degli uomini che avevano rapito Stephen. «Chiudi il becco, tu» gli disse Aspar, spronando il suo cavallo al trotto. «Andiamo. Voglio essere a Tor Scath prima del tramonto.» «Tor Scath? Che cos'è?» chiese Stephen. «Il posto che voglio raggiungere prima del tramonto» replicò il guardaboschi. «Il posto dove ti fai gli orsi?» chiese Pol. Con quella battuta si guadagnò un ceffone e un secondo dopo un bavaglio sulla bocca. A Stephen piacevano i cavalli. Gli piacevano veramente. Alcuni dei suoi ricordi più belli riguardavano il cavallo che aveva da piccolo, Segugio, e le corse con lui nei terreni del padre insieme agli amici, quando fingevano di essere i cavalieri di Virgenya che assaltavano le fortezze degli Skasloi. Amava i cavalli al galoppo, la corsa forsennata, e li amava quando andavano piano. Il trotto invece, lo odiava. Faceva male. Alternarono il trotto al passo nelle due ore successive. A quel punto, ulteriormente ispirato dalla cavalcata a scossoni, Stephen aveva aggiunto altre pagine al suo trattato. Aveva anche cominciato a sentire qualcosa, come il guardaboschi aveva previsto, e a desiderare di non averla sentita. La foresta diventava sempre
più scura, e Stephen aveva preso a immaginare movimenti in ogni ombra. Ora le ombre avevano voci, cupe in lontananza, ululati gutturali che mettevano in apprensione l'udito e poi svanivano. Provò a ignorarle, concentrandosi sul quarto capitolo del suo trattato, Le fastidiosissime abitudini personali dell'animale-guardaboschi, ma quei suoni si insinuavano sempre più dentro la testa, divenendo un grido o un latrato che aveva del soprannaturale. «Guardaboschi... che cos'è?» chiese. «Segugi» gli rispose Aspar White, nel suo modo secco e irritante. «T'avevo detto che li avresti sentiti.» Stephen aveva già sentito dei segugi altre volte in vita sua, ma non ricordava che facessero quei versi. «Di chi sono? Questa è la Foresta del Re! Nessuno abita qui! Sono selvatici?» «Non sono selvatici, non nel senso che intendi tu.» «Fanno versi spaventosi, e misteriosi anche.» Stephen si girò sulla sella, accigliato. «Che cosa vuol dire 'non nel senso che intendo io?' Sono selvatici o no?» Il guardaboschi scrollò le spalle. In quel momento, un suono raccapricciante si aggiunse al latrato, più vicino di prima. Lo stomaco di Stephen si contrasse. «Cesseranno quando sarà notte? Forse dovremmo arrampicarci su un albero, o...» «Per la piscia dei santi!» gridò spaventato Aiken, il bandito coi capelli rossi. «È il Malvagio! Il Malvagio a caccia!» «Zitto» disse Aspar. «Spaventi il ragazzo.» «Che intendi dire, Aiken?» gli chiese Stephen. Il volto del bandito era sbiancato a tal punto che anche le lentiggini erano scomparse. «Il Malvagio da un occhio solo! Va a caccia delle anime perse per la foresta. Oh, santi, tenetelo lontano da me! Non ho mai voluto far del male a qualcuno veramente!» Stephen non era sicuro di chi fosse il Malvagio, ma il nonno gli aveva raccontato storie su una schiera di fantasmi e demoni notturni, guidati da un uomo-bestia, chiamato san Corno il Dannato. Non si era mai preoccupato di controllare se san Corno fosse riconosciuto o meno dalla chiesa o se si trattasse invece solo di una leggenda popolare. Ora, però, rimpianse di non averlo fatto. «Di che parla? È vero?» fece Stephen al guardaboschi. Aspar scrollò le spalle, mostrando un certo nervosismo. «Può darsi» rispose.
«Per la piscia dei santi» gridò Aiken. «Scioglimi!» «Vuoi un bavaglio anche tu?» gli chiese Aspar secco. «No, voi non credete a questo tipo di creature» affermò Stephen, agitando il dito verso Aspar. «Vi conosco abbastanza bene ormai.» «Werlic! Giusto, non ci credo. Affretta il passo!» Per un momento il guardaboschi sembrò quasi spaventato e questo paralizzò le ossa di Stephen. Non aveva mai incontrato uno più insensibile di Aspar White. Se addirittura lui pensava che ci fosse qualcosa di cui aver paura... Aspar stette in silenzio per un attimo, poi con un tono basso disse: «Mi è capitato di sentire quei cani abbaiare furiosi, ma non li ho mai visti. Una volta mi hanno assalito e ho creduto di poterli finalmente vedere. Incoccai una freccia e aspettai. Fu allora che li sentii - in alto sopra di me, nell'aria della notte. Giuro che è l'unico posto in cui potevano essere. «Ecco, li senti? Stanno venendo da noi. Ora vediamo che succede, d'accordo? Non muoverti.» «Tutto questo non ha proprio senso» bisbigliò Stephen. «Io non...» «Abbi pietà, fammi scendere!» si lamentò Aiken. «Se è il Veggente, dobbiamo stenderci a terra o saremo catturati!» «Se è lui, ho in mente qualcosa per semplificargli il lavoro» grugnì Aspar, sfiorando con le dita il manico d'avorio del suo pugnale. «Dopo tutto, le anime dannate sono le sue favorite insieme a quelle libere dal peso della carne e delle ossa. Chiudi quel maledetto pozzo o ti libero dal corpo!» Aiken passò allora a piagnucolare, e si misero ad aspettare. I segugi erano sempre più vicini. Le mani di Stephen iniziarono a tremare sulle redini. Voleva che si fermassero e che la paura volasse via col vento gelido. Il cielo tra gli alberi era grigio plumbeo, e il bosco così tenebroso che a mala pena si riusciva a vedere a una distanza di dieci iarde. Una cosa enorme e scura si abbatté sulla strada e Stephen urlò. Il cavallo si spostò muovendosi di fianco e Stephen ebbe l'impressione di vedere come in un incubo due occhi sfavillanti e coma attorcigliate. Urlò di nuovo, diede uno strattone alle redini e il cavallo girò in senso antiorario, come un cucciolo che cerca di mordersi la coda. Poi i segugi piombarono sulla strada, enormi mastini con denti scintillanti, e un latrato così furioso da far male alle orecchie. La maggior parte sfrecciò via, dietro alla loro terribile preda, ma tre o forse più cominciarono a correre intorno ai cavalli, guaendo e sbavando.
«Che i santi ci proteggano» gridò Stephen, prima di perdere la presa e di cadere dolorosamente sul terreno della foresta coperto di foglie. Sollevando lo sguardo, vide un altro cavaliere sbucare dagli alberi. Aveva sembianze umane, ma una faccia bestiale, occhi piccoli e lucenti e capelli arruffati. «Per tutti i santi!» ripeté Stephen, ricordandosi di san Corno il Dannato. «Il Malvagio!» urlò Aiken. «Salve, Aspar» disse l'uomo-bestia, mostrando di conoscere perfettamente la lingua del re. «Spero che siate felice, probabilmente mi siete costato quel cervo.» «Be', per poco non privavate il mondo di un prete. Guardate questo ragazzo; lo avete spaventato a morte.» «Già, sembra proprio. Chi pensavi che fossi, ragazzo? Il Veggente Malvagio?» «Già!» Stephen si sentiva strozzare. Ora sapeva cosa voleva dire avere il cuore in gola, espressione che aveva sempre considerato puramente metaforica. Il cavaliere era più vicino adesso e il ragazzo capì che, in fin dei conti, aveva un volto umano, coperto da una barba folta e incolta, e i capelli ispidi. «Be', è un ragazzo colto» continuò Aspar. «Le sue carte millenarie dicono che nessuno abita nella Foresta del Re, quindi chi altro potevate essere se non il Veggente?» La figura barbuta s'inchinò leggermente sulla sella. «Symen Rookswald, al vostro servizio» disse. «Sir Symen» lo corresse Aspar. «Una volta» replicò lui in tono triste. «Una volta.» Tor Scath non era neppure sulle carte di Stephen, ma era reale come qualunque ombra scura nella notte. «Fu costruita da re Gaut, più di cinquecento anni fa.» Spiegò sir Symen in tono malinconico, mentre risalivano il sentiero verso la fortezza in cima alla collina. «Dicono che Gaut fosse pazzo, perché fortificò la sua roccaforte non contro nemici mortali, ma contro alv e altri spiriti. Ora è una dimora reale per la caccia.» Stephen poteva distinguerne solo il profilo alla luce della luna, ma da quanto riusciva a vedere, sembrava fosse stata costruita da un folle. Non era grande e le sue guglie e torrette si slanciavano in modo piuttosto disordinato. «Sto cominciando a chiedermi se Gaut fosse davvero pazzo dopo tutto»
aggiunse Rookswald, a voce più bassa. «Che cosa intendete dire?» chiese Aspar. «Che bisogna farne di questi due?» disse Rookswald, ignorando la domanda. «Mi serve una cella» grugnì Aspar «in attesa del giudizio del re quando sarà qui; se non sbaglio dovrebbe arrivare il mese prossimo.» «Siamo innocenti!» dichiarò Aiken debolmente. Sir Symen sbuffò. «Devo dar loro da mangiare fino a quel giorno?» «Non m'importa molto di questo. Avrei potuto anche lasciarli ai lupi, ma credo che potrebbero essere convinti a rispondere ad alcune domande su qualche altra faccenda.» «Altre faccende?» fece Symen. «Be', sono felice che siate arrivato, Aspar, sono felice che la mia richiesta vi abbia raggiunto.» «La vostra cosa?» «Brian. Ho mandato Brian a prendervi.» «Brian? Io non l'ho visto. Quanto tempo fa l'avete mandato?» «Dieci giorni. L'ho inviato a Coalbaely.» «Mmh, allora avrebbe dovuto trovarmi o lasciare detto qualcosa prima di andarsene.» Entrarono passando sotto una torre stretta, e attraversarono un piccolo cortile fetido, dove Symen consegnò i due prigionieri e i cavalli a un grosso bruto, di nome Isarn. Procedettero in una sala scura, arredata in maniera rustica. Stephen notò che c'era qualche mobile solo ogni quattro o cinque torce. Un uomo in livrea bianca e verde, dai capelli grigi, li salutò. «Come è andata la caccia, sir?» «Interrotta» rispose. «Ma da un vecchio amico. Pensi che Anfalthy possa trovare qualcosa con cui adornare questo vecchio tavolo?» «Certo che può. Signor White, che bello rivedervi, e anche voi giovane cavaliere, benvenuto a Tor Scath.» «Lo stesso vale per me, Wilhilm» replicò Aspar. «Grazie» disse Stephen. «Nel frattempo vi porto del formaggio.» «Grazie, Will» e il vecchio si allontanò. Sir Symen si voltò di nuovo verso Stephen. «Benvenuto alla dimora di caccia di re William, nonché la baronia più decaduta e ingrata di tutto il regno.» «Il nostro ospite ha perso, diciamo così, un po' del favore di cui godeva a corte una volta» spiegò Aspar. «E il cielo è, diciamo così, blu» replicò il cavaliere arruffato. Alla luce
non era affatto spaventoso; appariva magro, triste e vecchio. «Aspar vi devo dire delle cose. I Sefry hanno abbandonato la foresta.» «Ho visto il gruppo di madre Cilth a Coalbaely. Me l'hanno detto.» «No, non solo i carovanieri. Tutti, proprio tutti.» «Anche gli Halafolk?» «Tutti.» «Bene! Ho cercato di buttare fuori dalla foresta gli Halafolk per vent'anni, e ora prendono e se ne vanno? Non ci credo. Come fai a esserne così sicuro?» «Me lo hanno detto loro. E hanno avvisato anche me di fare lo stesso.» «Avvisato contro che cosa?» Il sospetto sfrecciò sul volto di sir Symen. «Se Brian non vi ha trovato, perché siete venuto?» «A Coalbaely è arrivato un ragazzo: ha detto che la sua famiglia era stata uccisa da uomini che portavano i colori del re, giù al Torrente Taff. Mentre andavo sul posto per indagare, mi sono imbattuto nel prete e nei suoi rapitori. Ovviamente non potevo continuare a portarmeli dietro, così li ho condotti qui...» «Il Torrente Taff. Anche lì! Non lo sapevo.» «Che significa 'anche lì'?» «C'era un accampamento di taglialegna, due leghe più a sud: tutti uccisi, dal primo all'ultimo. Li abbiamo trovati venti giorni fa. Poi alcuni ambulanti, diretti a Virgenya, anche loro assassinati, e una decina di cacciatori.» «Nessuno di questi aveva il permesso del re?» chiese Aspar. «No, nessuno. Erano tutti nel bosco illegalmente.» «Allora c'è qualcuno che sta facendo il lavoro al posto mio.» Stephen ne ebbe abbastanza. «Dunque in questo consiste il vostro lavoro: uccidere i taglialegna?» «Non l'ho fatta io la legge, ragazzo, ma il re. Se la foresta fosse aperta a tutti, quanto pensi che resisterebbe? Tra cacciatori con le loro trappole, carbonai, taglialegna e agricoltori, in poco tempo i reali non avrebbero più un posto dove cacciare.» «Ma li ammazzate?» «Non uccido i taglialegna, ragazzo, a meno che non provino loro a uccidere me, e a volte neanche in quel caso. Li arresto. Li chiudo da qualche parte in attesa della giustizia del re. La maggior parte delle volte li spavento per farli fuggire. Intendevo dire che chiunque si nasconda dietro a tutto questo, per prima cosa sta uccidendo chi non dovrebbe neanche essere qui.
Ciò non mi rende felice; anzi, mi fa arrabbiare. Questa foresta è sotto la mia custodia, è il mio territorio.» «Comunque Brian è scomparso,» disse Rookswald «e lui era un mio uomo. Anche se forse sono il meno amato tra i cavalieri del re, ho ancora il permesso di stare qui, e così i miei domestici.» In quell'istante ricomparve Wilhilm, con un piatto di gres pieno di formaggio, una brocca di idromele e un boccale di legno per ciascuno. Improvvisamente Stephen si rese conto che aveva fame, e quando diede un morso al formaggio burroso e acido si fece addirittura avido. L'idromele era dolce e sapeva di chiodi di garofano. Anche Aspar White mangiò. Solo il cavaliere con la barba sembrava non notare il cibo. «Non credo che siano stati uccisi da uomini» disse piano Rookswald. «E da chi allora?» gli chiese il guardaboschi con la bocca piena. «Orsi? Lupi?» «Credo che sia stato il Re degli Alberi a ucciderli.» Il guardaboschi lo fissò per un istante, poi sbuffando disse: «Siete stato a sentire i Sefry, sicuro.» «Chi è il Re degli Alberi?» chiese Stephen. «Un'altra delle tue leggende popolari» lo schernì Aspar. «Anch'io la pensavo così, una volta» disse sir Symen. «Ora non lo so. I morti che abbiamo trovato...» fece una piccola pausa, poi alzò lo sguardo. «Erano di due tipi; prima di tutto i taglialegna, che sono morti nel tratto pianeggiante dove erano accampati, e senza segni particolari sul corpo. Nessuna ferita da spada, da artigli, né buchi di frecce. E neanche sono stati sbranati e rosicchiati fino alla morte. Non c'era niente di vivo nell'accampamento. Tutto morto: polli, cani, scoiattoli, pesci nel ruscello. «Ma sai, c'è un seoth qua vicino, una collina con un vecchio tempio. Be', lì abbiamo trovato gli altri, o meglio, ciò che è stato lasciato di loro. Per la maggior parte sono stati uccisi in modo disumano, torturati lentamente.» Stephen notò un'espressione particolare sul viso del guardaboschi, che però venne subito nascosta. «Impronte?» chiese l'uomo dei boschi. «C'erano impronte?» «Sì, c'erano. Simili a quelle di un gatto, ma più grandi, e anche tracce di uomini.» «Ne avete toccata qualcuna? Delle impronte, dico?» Una domanda particolare, pensò Stephen, ma il vecchio cavaliere annuì. «Ho toccato uno dei corpi.» Mostrò la mano, mancavano due dita ed era
fasciata da poco. «Ho dovuto tagliarle, prima che la cancrena si diffondesse su tutto il braccio.» Aggrottò la fronte. «Aspar White, conosco quel vostro sguardo. Voi sapete qualcosa di questa faccenda, che cosa?» «Mi è capitato di vedere una traccia simile» rispose. «Questo è tutto ciò che so.» «I Sefry hanno antiche origini, Aspar, soprattutto gli Halafolk. Conoscono molte cose. Dicono che sono tornati i greffyn, e il signore dei greffyn e di tutte le cose che camminano furtivamente in questo bosco è il Re degli Alberi. Se sono svegli loro, lo è anche lui o lo sarà presto. Fanno quello che lui chiede, i greffyn.» «Greffyn» ripeté Aspar White. Il suo tono faceva sembrare la parola ridicola. «Non potete dirmi nient'altro al riguardo?» chiese Stephen. «Potrei aiutarvi.» «Non ho bisogno del tuo aiuto» rispose secco il guardaboschi. «Domani tu continui il tuo viaggio verso d'Ef. Lì ti divertirai quanto ti pare con le carte e le leggende.» Stephen arrossì, e la lingua per un attimo gli si paralizzò dalla rabbia impotente. Come si poteva essere così arroganti? «Il Re degli Alberi è sempre stato qui» sussurrò sir Symen. «Prima degli Egemoni, delle Guerre dei Maghi, e perfino prima dei potenti Scaosen, era qui. Cambiano le epoche e lui dorme. Quando il suo sonno è troppo turbato, si sveglia.» Ruotò i suoi occhi catarrosi su Stephen. «È questo il vero motivo per cui esiste la Foresta del Re, anche se la maggior parte di noi l'ha dimenticato. Non per fornire un enorme parco di caccia alla famiglia che governa a Eslen, qualunque essa sia, no. Esiste perché quando il Re degli Alberi si risveglierà, non sarà dispiaciuto.» Afferrò il braccio di Aspar. «Non vi ricordate? La vecchia storia? Era un patto stretto fra il Re degli Alberi e Vlatimon, il Monco, quando gli Scaoslen furono massacrati e iniziò il regno di Crotheny: la foresta sarebbe dovuta rimanere per lui, dal fiume Ef al mare, dalle Montagne della Lepre al Mago Grigio. Il patto prevedeva che se questa fosse rimasta illesa, Vlatimon e i suoi discendenti avrebbero potuto mantenere il resto. «Ma se il patto fosse stato infranto, allora ogni cosa vivente sarebbe dovuta morire, come è già successo, e il Re degli Alberi avrebbe fatto sorgere una nuova foresta dalle nostra ossa e ceneri. Quando diciamo che questa è la Foresta del Re, non intendiamo dire del re di Crotheny, ma del suo vero
padrone, quello immortale, il signore dei greffyn.» «Symen...» cominciò Aspar. «Abbiamo rotto l'antico voto di Vlatimon. Ovunque, i confini vengono compromessi, gli alberi tagliati. Si risveglia e non sarà compiaciuto.» «Symen, i Sefry vi hanno offuscato il cervello. Queste sono vecchie storie, non migliori di quelle sugli orsi parlanti e sulle navi che veleggiano sulla terra. Sta succedendo qualcosa di strano, è vero, qualcosa di pericoloso. Ma io scoprirò il colpevole e lo ucciderò, e così porrò fine a tutto questo.» Symen non rispose e scosse solo la testa. Tutto venne interrotto dall'arrivo del cibo, servito da una donna di mezz'età, semplice e allegra, e da due ragazze. Sul tavolo sistemarono due pasticci fumanti, un piatto di piccioni arrosto e dei vassoi di pane nero. Le ragazze si allontanarono velocemente, senza parlare, ma la donna si mise le mani sui fianchi e li guardò. «Bene, salve Aspar e salve a voi giovane cavaliere, chiunque voi siate. Io sono Anfalthy. Non eravamo pronti a ricevere ospiti, ma spero che questo sia di vostro gradimento. Se manca qualcosa - qualunque cosa - vedrò cosa posso fare. Prometto solo che ci proverò.» «Signora, sono sicuro che qualunque cosa ci porterete ci piacerà» rispose Stephen, ricordandosi delle buone maniere. «La caccia è stata scarsa» mormorò Symen. «Non si sarà mica rimesso a parlare della fine del mondo?» chiese Anfalthy. «Sir Symen, non avete neanche toccato il vostro vino. Bevete! Ci ho mischiato delle erbe per tirarvi su il morale.» «Non ne dubito.» «Voi due, non badate ai suoi oscuri mormorii. Va avanti così da mesi. Gli ci vorrebbe un viaggio all'estero, ma non riesco a convincerlo.» «C'è bisogno di me qui» insistette Symen. «Solo per deprimere il luogo? Mangiate, ragazzi, e chiedete se ne volete ancora.» Il pasticcio di carne di cervo, cinghiale e bacche di sambuco era un po' forte per i gusti di Stephen, ma il piccione ripieno di rosmarino, maggiorana e fegato di maiale era delizioso. «Domani vado al Torrente Taff» promise Aspar. «Ora fate come vi ha detto Anfalthy, bevete il vostro vino!» «Vedrete quando sarete lì» disse il vecchio cavaliere, e bevve dal suo bicchiere, dapprima con indifferenza, poi a sorsi sempre più lunghi.
Quando arrivò la sera, il resto dei domestici si unì a loro; sembrava che fossero almeno venti i residenti nella torre. In un'ora la tavola si era popolata e si ricoprì da un estremo all'altro di pasticci, cinghiale, pernici e anatre arrosto, tanto che Stephen si chiese come mangiassero quando la caccia non era scarsa. La conversazione si fece impetuosa, con i bambini e i cani che giocavano sotto i loro piedi, e così svanirono i cupi presagi del vecchio cavaliere. A Stephen bruciava, adesso forse ancora di più, il rifiuto scortese del guardaboschi di ascoltarlo. Così quando l'idromele riuscì a infondergli coraggio, si chinò verso Aspar White. «Volete sapere cosa penso?» gli chiese. Il guardaboschi si accigliò e per un istante Stephen pensò che stesse per dirgli, ancora una volta, di fare silenzio. Allora decise di non dargliene la possibilità. «Sentite» si affrettò a dire. «So che non avete molta stima di me, so che pensate che io sia inutile, ma non lo sono e posso aiutarvi.» «Ah sì? Le tue mappe millenarie possono aiutarmi in questo?» Le labbra di Stephen si contrassero. «Ho capito. Avete paura che sappia qualcosa più di voi e che possa rivelarvi qualcosa di maledettamente utile.» Man mano che le parole ruzzolavano fuori dalla sua bocca, Stephen si andava rendendo conto che l'idromele l'avrebbe portato verso una brutta fine. Ma il guardaboschi era troppo presuntuoso e Stephen troppo ubriaco per sentire la paura o un eventuale bisbiglio di santo in lontananza. Poi, con sua enorme sorpresa, l'uomo scoppiò in una risata aspra. «C'è un sacco di cose che non so» ammise. «Avanti, dimmi che cosa tiri fuori da tutto questo.» Stephen lo guardò sospettoso. «Che cosa?» «Ho detto, avanti, che cosa ne pensi del racconto di sir Symen?» «Ah» per un breve istante vide due Aspar, poi di nuovo uno solo. «Io non ci credo» disse Stephen, pesando ogni parola. Il guardaboschi alzò un sopracciglio. «Davvero?» «Davvero. Prima di tutto, ci sono troppi dettagli che non quadrano. Vlatimon, per esempio. Non ha fondato Crotheny, non faceva neanche parte dei Croatani, la tribù che diede il nome al paese. Vlatimon era un Bolgoi e conquistò un piccolo regno nelle Regioni Interne che durò solo mezzo secolo per poi essere inghiottito dal Giullare Nero nella Prima Guerra dei Maghi. «Shec... secondo, l'idea complessiva di un vecchio demone della foresta
che ha quel tipo di potere - il potere di uccidere il mondo intero - va contro la dottrina della chiesa. Esiste chi ha dei poteri, questo è vero, e la chiesa tollera che siano chiamati santi o angeli o dèi, come il costume locale preferisce, ma questi sono tutti sciub... sciubordin... tutti servono l'Onnipotente. Non per essere troppo tecnico, ma...» «E tu saresti quello che dice che le leggende contengono una qualche verità? Vale solo se la verità non entra in collisione con gli insegnamenti della tua chiesa?» «È anche la vostra chiesa.» Ma improvvisamente Stephen dubitò di quanto appena detto. E se il guardaboschi fosse stato un eretico? «Diciamo della chiesa. Be' allora?» «La risposta è sì e no. A Virgenya abbiamo racconti di fate e su un certo barone Fogliaverde; anche questo dormirebbe in un luogo nascosto e si sveglierebbe per vendicare i torti fatti alla foresta, in maniera molto scimile... ehm stimile... simile al Re degli Alberi. I personaggi del Barone Fogliaverde e del Re degli Alberi si basano probabilmente entrambi su una persona reale - uno dei primi re magici, forse, o addirittura uno degli Skasloi, che sopravvisse agli altri. «O forse si tratta solo di un equivoco reso palese. Dopo tutto, la chiesa insegna che il Guardiano di tutte le foreste richiede un equilibrio tra terre coltivate e terre incolte. Non solo ogni villaggio deve avere un horz sacro, in cui la vegetazione cresca spontanea, ma anche il resto del mondo deve avere luoghi selvaggi. Nell'immaginario popolare, forse questa foresta è l'horz del mondo, e il Re degli Alberi è una personificazione della punizione che deriva dalla sua violazione.» «E questi morti? Queste voci sui greffyn?» Stephen scosse le spalle. «Assassini che uccidono con veleni, non lo so. Ma le spiegazioni potrebbero essere molte.» «E lo dice proprio chi solo qualche giorno fa parlava di fantasmi e spiriti demoniaci e che oggi si è spaventato credendo che il Malvagio fosse arrivato a prenderselo?» «Io parlo della dottrina della chiesa, di ciò che ammette il Guardiano di tutte le foreste. I morti hanno un'anima e nel mondo esistono spiriti, creature della luce e delle tenebre. Sono tutti accettati dalla chiesa, catalogati e nominati. Il vostro Re degli Alberi non lo è. «Riguardo ai greffyn non so, può darsi. Gli Skasloi e i signori magici dopo di loro cercarono ogni sorta di creatura innaturale e feroce per metterla al proprio servizio. Alcune di queste potrebbero esistere ancora, negli
angoli più sperduti della terra, non è impossibile.» «E questa faccenda dei sacrifici al seoth di cui sir Symen ci ha parlato? So che la chiesa ci costruisce templi sopra.» «Nella chiesa usiamo l'antico termine sedos. Sono la sede del potere dei santi sulla terra. Visitando i sedoi, i preti entrano in comunione con i santi e assumono santità su di sé. Quindi noi ora costruiamo templi, è vero, per segnalarli e per assicurarci che chi li visiti sia nella giusta disposizione d'animo. Ma la chiesa conserva templi solo sui sedoi attivi, non su quelli estinti.» «Che intendi per estinti?» «Un sedos è un luogo in cui un santo ha lasciato parte del suo potere, una qualche virtù della sua stessa essenza. Col tempo, questa sbiadisce. Una volta che la sacralità si è estinta, la chiesa smette di mantenere il tempio. La maggior parte di quelli nella Foresta del Re è esaurita. Comunque, vivi o estinti che siano, non ho mai sentito parlare di sacrifici umani in un sedos - neanche tra gli eretici. Per lo meno non negli ultimi secoli.» «Aspetta! Allora ne hai sentito parlare.» «Gli stregoni più feroci, durante le Guerre dei Maghi, sacrificarono vittime ai nove santi dannati, ma questo non c'entra.» Aspar si grattò il mento, poi sollevò lo sguardo: «Perché no?» «Perché con la fine della guerra finì anche questa pratica. La chiesa ha fatto buona guardia su questo tipo di male.» «Ah» Aspar bevve un altro sorso di idromele e annuì. «Grazie, Cape Chavel Darige» disse. «Per una volta mi hai dato qualcosa su cui pensare.» «Veramente?» «Ho bevuto un sacco di idromele.» «Grazie a voi per avermi ascoltato.» Il guardaboschi scosse le spalle. «Ho disposto la tua partenza per d'Ef, per domani.» «Potrei rimanere un po' di più, venire con voi a quel ruscello...» Il guardaboschi scosse il capo. «Per farmi vedere come questo pasto esce dal tuo corpo quando troveremo i cadaveri? No grazie, me la caverò meglio da solo.» «Penso di sì.» Il volto di Stephen si avvampò, mentre afferrava la brocca di idromele. In qualche modo, però, prese male le misure, e vide un rivolo di miele cadere sul tavolo. «Anfalthy!» gridò Aspar. «Potresti mostrare a questo ragazzino la sua camera?» «Non sono un ragazzino» brontolò. Ma la stanza aveva cominciato a gi-
rare e improvvisamente non volle più restare vicino a quel guardaboschi arrogante, al cavaliere imbronciato, né agli altri tipi rozzi. «Andiamo, ragazzo» disse Anfalthy, prendendolo per mano. Acconsentì senza fiatare e la seguì con la luce e il chiasso che man mano si affievolivano alle sue spalle. «Ha ragione.» Stephen si accorse di averlo detto a se stesso. La sua voce suonava arrabbiata e lontanissima. «Chi ha ragione?» gli chiese Anfalthy. «Il guardaboschi. Non sono bravo con le armi e roba del genere. Il sangue mi fa star male.» «Aspar è una persona buona, bravo in ciò che fa» disse Anfalthy. «Ma non è un uomo paziente.» «Volevo solo dargli una mano.» Anfalthy lo condusse in una stanza, dove con una candela ne accese un'altra in un candeliere a parete. Stephen si buttò seduto sul letto. Anfalthy si fermò un attimo davanti a lui, guardandolo con il suo faccione rassicurante. «Aspar ha già troppi fantasmi sulle spalle. Non vuole aggiungere anche te. Sono sicura che gli piaci.» «Mi odia.» «Non credo» disse dolcemente. «Esiste una sola persona al mondo che Aspar White odia, e quella non sei tu. Ora dormi, domani devi partire, no?» «Sì» rispose. «Allora ci vediamo a colazione.» Quando Stephen si alzò il mattino dopo, la testa gli batteva forte e Aspar White era già andato via. Sir Symen diede a Stephen due cavalli freschi e un giovane cacciatore come guida e gli fece i suoi auguri. Anfalthy gli lasciò un fagotto di pane, formaggio e carne e lo baciò su una guancia. Man mano che il mal di testa migliorava, l'umore di Stephen faceva altrettanto. Dopo tutto, pensò, in due giorni sarebbe arrivato a d'Ef, dove avrebbe potuto iniziare il suo lavoro, e la sua cultura sarebbe stata apprezzata, valorizzata e ripagata. Lo scriftorium a d'Ef era uno dei più completi al mondo, e lui vi avrebbe avuto accesso! L'impazienza sentita quando era partito da Cape Chavel più di un mese prima cominciava a tornare. I banditi, il rapimento e il rozzo guardaboschi l'avevano offuscata, ma pensava che ormai la sua razione di problemi fosse finita. Che altro gli sarebbe potuto succedere?
Capitolo otto Le rose nere Anne avvertiva una vaga agitazione nello stomaco e la pelle d'oca, anche se il vento della notte veniva dal mare, tiepido, pesante, umido e salmastro. Il cielo sembrava gonfiarsi per il bisogno di liberarsi della pioggia e la luna andava e veniva a intermittenza dietro le nuvole livide, mentre ordinate file di meli ondeggiavano e frusciavano al vento. Sul cammino di ronda della rocca, poteva sentire due sentinelle parlare, ma non riusciva a capire cosa stessero dicendo. La testa le girava leggermente, una vertigine debole che andava e veniva da un mese, da quando aveva visitato Eslen-delle-Ombre. Si mise sotto uno degli alberi appoggiandosi al tronco, inebriata dal profumo dei fiori. Sollevò il pezzetto di carta che lo stalliere le aveva passato quando aveva rimesso dentro Fulmine. Incontriamoci nel frutteto vicino alla porta occidentale al decimo rintocco. R. «Sei veloce, nel tuo lavoro, Virgenya» sussurrò. Fastia però ancora non mostrava i segni della sua richiesta a santa Cer. Erano sicuramente le dieci, adesso. Avevano per caso dimenticato di suonare la campana? Non avrebbe dovuto fare quello che stava facendo. E se non si fosse presentato? E se fosse venuto solo per un crudele scherzo di cui ridere poi con gli altri cavalieri e stallieri? Sciocca. Che cosa sapeva di questo tipo? Niente. Si mise a spazzolare nervosamente il suo vestito di broccato vitelliano, sentendosi sempre più una stupida. Improvvisamente un brivido le formicolò sul collo. Un raggio dell'incostante luna illuminò una sagoma grande e nera, che si muoveva tra i rami del melo più vicino. «Lei è come un sogno, come la nebbia, come le fate che danzano, intra-
viste nella radura del bosco» sussurrò una voce. «Roderick?» Sobbalzò quando la campana delle dieci cominciò a suonare, su in alto nella Torre Augusta, e poi di nuovo quando la lunga ombra saltò giù dal ramo e atterrò con un leggero tonfo. «Al vostro servizio.» L'ombra fece un inchino. «Mi avete spaventato. Eravate un ladro prima di diventare cavaliere?» chiese. «Di certo non siete un poeta!» «Questo mi ferisce, principessa.» «Allora andate da un dottore o da una strega delle lingue paludose. Che cosa volete, Roderick?» Si mosse alla luce della luna. I suoi occhi erano ombre in una scultura d'avorio. «Volevo vedervi con indosso un vestito diverso da quello che usate per cavalcare.» «Avete detto di avermi già visto a corte.» «Vero, ma adesso siete più bella.» «Perché è più buio?» «No, perché adesso vi ho conosciuta e questo rende tutto diverso.» «Immagino che vogliate baciarmi di nuovo?» «No, niente affatto. Voglio che questa volta siate voi a baciarmi.» «Ma ci siamo appena conosciuti!» «Già, e abbiamo iniziato bene, no?» Le si avvicinò improvvisamente e le prese la mano. «Voi siete la donna che ha cavalcato giù per il Serpente correndo come una pazza. Non c'è niente di prudente in voi, principessa. Vi ho baciato e l'ho fatto tante altre volte da capire che vi è piaciuto. Se mi sbaglio, ditemelo, e me ne andrò immediatamente, ma se ho ragione... perché non riproviamo?» Anne incrociò le braccia e piegò indietro la testa, cercando di trovare una buona risposta, ma lui non le diede il tempo. «Vi ho portato questa.» Le porse una cosa. Lei la prese e scoprì di avere in mano il bocciolo di un fiore. «Ho tagliato via le spine per voi, è una rosa nera» disse. Restò senza fiato, sbigottita. «Dove l'avete trovata?» «L'ho comprata da un capitano di mare, che l'aveva presa a Liery.» Anne inspirò profondamente il suo strano profumo di prugne e anice. «Crescono solo a Liery» gli disse. «Mia madre ne parla sempre. Non ne avevo mai vista una.» «Be',» replicò Roderick avvicinandosi ancora un po' «l'ho presa per far
piacere a voi, non per ricordarvi di vostra madre.» «Ssh! Non parlate così forte!» «Non ho paura.» «Doveste averne, invece. Sapete cosa vi succederà se ci scoprono qui?» «Non ci riusciranno.» La sua mano trovò quella di Anne e improvvisamente lei si sentì la testa strana. Non riusciva a pensare a niente. Era rigida, quasi stordita, quando lui la strinse a sé. I loro volti erano così vicini che sentiva il suo respiro sulle labbra. «Baciatemi» le sussurrò. E lei lo fece. Il rumore del mare irruppe nelle sue orecchie. Poteva sentire i muscoli forti della schiena di Roderick da sotto la sua camicia di lino e una sorta di caldo prurito e formicolio. Le prese il viso tra le mani e l'accarezzò dolcemente dietro le orecchie, mentre le sue labbra si poggiarono su quelle di lei, ora mordicchiandole, ora aprendosi avidamente. Le sussurrò qualcosa, ma lei non sentì. Le parole persero ogni significato quando le labbra di lui le scivolarono lentamente lungo il collo; pensò di essere sul punto di gridare, e allora le guardie l'avrebbero sentita e poi be', chi poteva sapere cosa sarebbe successo dopo? Qualcosa di brutto. Le sembrava quasi di sentire sua madre adesso... «Anne. Anne!» Qualcuno la stava chiamando. «Chi è? Chi va là?» disse Roderick, ansimando. «È la mia dama di compagnia, Austra. Io...» La baciò ancora. «Mandatela via» le bisbigliò nell'orecchio. Le fece il solletico e Anne scoppiò improvvisamente a ridere. «Be', no, non posso. Mia sorella Fastia presto andrà nella mia camera e, se non mi trova lì, darà l'allarme. Austra sta controllando l'ora. Se mi chiama, devo andare.» «Non potete, non ancora!» «Devo, devo, ma possiamo incontrarci di nuovo.» «Non sarà mai troppo presto per me.» «Domani è il compleanno di mia sorella, inventerò qualcosa, Austra vi farà sapere.» «Anne!» «Vengo, Austra.» Si voltò per andarsene, ma lui l'afferrò per la vita e la fece volteggiare verso il suo braccio, come in un ballo, per poi baciarla ancora una volta. Lei rise e rispose al bacio. Quando alla fine si voltò per andarsene, sentì
una fitta al petto. «Presto!» Austra le prese la mano e la trascinò di peso. «Fastia potrebbe essere già lì!» «Chi se ne importa di Fastia, non arriva mai prima delle undici.» «Sono quasi le undici adesso, sciocchina!» Austra trascinò Anne su per le scale che si avvolgevano fino in cima al muro del frutteto. Sull'ultimo gradino Anne rivolse un altro sguardo al giardino, ma vide solo l'ombra fiera come l'inchiostro della rocca che incombeva dall'altra parte. «Avanti!» le ordinò Austra. «Passa qui sotto!» Anne si attaccò al vestito di Austra mentre correvano nell'oscurità. Qualche istante dopo salirono velocemente su per un'altra rampa di scale per riemergere poi in un corridoio più ampio, illuminato da alti candelabri. Arrivate di fronte a una porta alta e stretta, Austra stentò a trovare la chiave sulla cinta e la infilò nella serratura d'ottone. Non appena la porta si aprì, dalla tromba delle scale dall'altra parte del corridoio si sentirono dei passi. «Fastia!» esclamò Anne con un filo di voce. Si tuffarono nell'anticamera degli appartamenti di Anne. Austra chiuse a chiave la porta, mentre Anne lanciava via le scarpe umide in un vaso vuoto sul tavolo accanto al divano. Si lasciò cadere sul piccolo sofà e con un solo strattone si liberò di entrambe le calze, poi corse a piedi scalzi tra le tende della porta e dritta nella sua camera da letto. Gettò le calze dall'altra parte del letto a baldacchino e provò a slacciarsi il vestito. «Aiutami!» «Non c'è tempo» rispose Austra. «Mettiti direttamente sopra la camicia da notte.» «Si vedrà lo strascico!» «No, se stai sotto le coperte!» Nel frattempo, Austra si sfilò il vestito dalla testa. Anne soffocò un grido divertito, perché Austra non indossava la sottogonna, né il busto; era nuda come un mollusco nella zuppa. «Ssh!» disse Austra dimenandosi nell'infilare la camicia da notte e calciando sotto il letto il vestito che s'era tolto. «Non ridere di me!» «Si direbbe sia tu quella che in realtà è uscita per incontrare qualcuno.» «Ssh! Non fare la morbosa! È solo più semplice in questo modo, nessuno si sarebbe accorto che non portavo il corsetto. Mettiti sotto le coperte!» Una chiave scricchiolò nella serratura. Austra squittì, guardando Anne e mimandole di sciogliersi i capelli. Anne gettò via la retina a caso verso l'armadio e si tuffò sotto le coperte.
Austra raggiunse il materasso quasi nello stesso istante, con la spazzola in mano. «Ahi!» gridò Anne all'incagliarsi della spazzola in un nodo. Frattanto, la tenda si apri. «Salve a tutte e due.» Anne rimase sorpresa, non era Fastia. «Lesbeth!» esclamò, saltando fuori dal letto e lanciandosi ad abbracciare la zia. Lesbeth la prese fra le braccia, ridendo. «San Loy! Siamo quasi della stessa altezza, adesso, vero? Come sei potuta crescere così tanto in due anni? Quanti anni hai adesso, quattordici?» «Quindici.» «Quindici... Ma guardati - una Dare da capo a piedi.» Anne realizzò che in effetti lei era simile a Lesbeth; cosa non buona, perché mentre Lesbeth era molto carina, Elseny, Fastia e sua madre erano belle. Avrebbe somigliato al lato sbagliato della famiglia. «Sei calda» le disse Lesbeth. «Hai la faccia che va a fuoco! Hai la febbre?» Queste parole provocarono la risata soffocata di Austra. «Che succede?» chiese Lesbeth, con un tono di voce immediatamente sospettoso. Fece un passo indietro. «È un vestito quello che porti sotto la camicia da notte? A quest'ora? Sei stata fuori!» «Per favore non dirlo a Fastia o alla mamma. È tutto molto innocente...» «Non ci sarà bisogno che glielo dica io. Fastia sta arrivando.» «Anche lei?» «Certo, non crederai mica che abbia affidato a me il suo compito?» «Quanto tempo ho?» «Sta finendo di bere il suo boccale di vino. Ne aveva ancora metà quando sono venuta via e le ho chiesto di rimanere sola con te un momento.» «Che i santi siano lodati. Aiutami a togliere il vestito!» Lesbeth sembrò seria per un attimo, poi scoppiò a ridere. «Molto bene, Austra, potresti portare uno straccio umido? Glielo dobbiamo passare sul volto.» «Sì, duchessa.» Alcuni istanti dopo avevano già tolto il vestito e Lesbeth le stava slacciando il corsetto. Anne emise un sospiro di sollievo quando le costole tornarono ad allargarsi nella posizione che la natura testarda aveva deciso che avessero.
«Lo portavi molto stretto, eh?» commentò Lesbeth. «Chi è lui?» Anne temette che le guance prendessero fuoco. «Non posso dirtelo.» «Ah, allora è un tipo sconveniente, non sarà mica uno stalliere?» «No! È un nobile... solo che la mamma non approverebbe.» «Allora è sconveniente di sicuro. Avanti, parla. Lo sai che non mollo, e inoltre ho un grande segreto da rivelarti. Siamo pari.» «Be'...» si morse il labbro. «Si chiama Roderick di Dunmrogh.» «Dunmrogh? Bene, ecco qual è il tuo problema!» «Perché?» Il corsetto cadde e Anne si rese conto che la camiciola le si era incollata addosso per il sudore. «È di tipo politico. I greti di Dunmrogh hanno sangue Reiksbaurg.» «E allora? La nostra guerra coi Reiksbaurg è finita cento anni fa.» «Ah se potessi tornare giovane e ingenua di nuovo! Girati, voglio vedere il tuo viso, cara. Anne, la guerra con i Reiksbaurg non finirà mai. Desiderano il trono con un'intensità pari a ciascun anno trascorso da quando l'hanno perduto, moltiplicato per mille.» «Ma Roderick non è un Reiksbaurg.» «No,» proseguì l'altra, passandole lo straccio freddo sul viso e il collo, «ma cinquant'anni fa i Dunmrogh si allearono con un Reiksbaurg aspirante al trono. Non con le armi, tanto che hanno mantenuto le loro terre quando tutto finì - ma supportandolo nel Comven. Hanno ancora una cattiva reputazione per quel fatto.» «Non è giusto.» «Lo so che non lo è, tesoro mio, ma sarà meglio parlarne dopo. Cambiati quella camiciola e metti la veste per la notte.» Anne corse verso l'armadio e sostituì la camicia di lino fradicia con una asciutta. «Quando hai imparato tutte queste cose sulla politica?» le chiese mentre si cambiava. «Ho trascorso appena due anni a Virgenya. Laggiù parlano solo di questo.» «Deve essere stato estremamente noioso.» «Oh... potresti rimanere sorpresa.» Anne si sedette sul bordo del letto. «Non dirai a nessuno di Roderick, vero? Anche se è una questione politica?» Lesbeth rise e le diede un bacio sulla fronte, poi si mise in ginocchio e le prese la mano. «Dubito molto che si tratti di politica per lui. Probabilmente è giovane e sciocco come te.» «Ha la tua età, diciannove anni.»
«Io ne ho venti, passerotta.» Scostò un riccio dal viso di Anne. «E quando tua sorella entra, cerca di tenere il lato sinistro della tua faccia lontano da lei.» «Perché?» «Hai un succhiotto lì, proprio sotto l'orecchio. Penso che anche Fastia saprebbe riconoscere di che cosa si tratta.» «Oh, per carità!» «Ti pettinerò i capelli, come stavo facendo quando è entrata la duchessa» si offrì Austra. «Posso tenerli tesi sopra quella macchia.» «Questa sì che è una buona idea» approvò Lesbeth. Ridacchiò di nuovo. «Austra, quando è successo tutto questo alla nostra piccola allodola? L'ultima volta che l'ho vista indossava ancora abiti da stalliere per non cavalcare all'amazzone. Quando è diventata una signorina?» «Vado ancora a cavallo» si difese Anne. «È vero» intervenne Austra. «È così che ha incontrato quel tipo. L'ha seguita giù per il Serpente.» «Allora non è un vigliacco.» «Roderick è tutto meno che vigliacco» rispose Anne. «Allora qual è il tuo grande segreto, Lez?» Lesbeth sorrise. «Ho già chiesto il consenso a tuo padre, quindi credo di potertelo dire. Mi sposo.» «Ti sposi?» ripeterono Anne e Austra in coro. «Sì» Lesbeth si accigliò. «Non mi è piaciuto quel tono! Sembrate incredule.» «È solo che... alla tua età...» «Ah, capisco. Pensavate che rimanessi zitella. Be', avevo un sacco di sorelle, tutte ben accasate. Io ero la più giovane e ho potuto fare qualcosa che a loro non è stato possibile. Fare la difficile.» «E allora chi è?» «Un uomo meraviglioso, coraggioso e gentile. Proprio come il tuo Roderick, niente affatto vigliacco. Possiede il castello più elegante e una proprietà che si estende...» «Chi è?» «Il principe Cheiso di Safnia.» «Safnia?» replicò Anne. «Dove si trova?» chiese Austra. «Sulla costa meridionale» disse Lesbeth sognante. «Dove nei giardini crescono arance e limoni e cantano gli uccelli.»
«Non ne ho mai sentito parlare.» «Non mi sorprende, se presti ai tuoi precettori la stessa attenzione di quando vivevo qui.» «Lo ami, vero?» chiese Anne. «Certo che sì, con tutto il cuore.» «Quindi non è un affare politico?» Lesbeth rise di nuovo. «Tutto è politico, passerotta. Non è che avrei potuto sposare un allevatore di mucche. Safnia, sebbene voi signorine non ne abbiate mai sentito parlare, è un luogo piuttosto importante.» «Ma tu ti sposi per amore!» «Sì» e agitò un dito verso Anne. «Ma questo non ti faccia venire strane idee in testa. Torna nel mondo reale, non in quello che dovrebbe essere.» «Bene» disse una voce un po' fredda, mentre le tende della porta dell'anticamera tornarono ad aprirsi. «Questo è il miglior consiglio che le potessi dare, Lesbeth.» «Salve, Fastia.» Fastia era la più grande di tutte loro, aveva quasi ventitré anni. I suoi capelli erano come seta color terra d'ombra, ora raccolti in una retina, e i lineamenti perfetti e delicati. Non era più alta di Anne o Austra, e un palmo più bassa di Lesbeth. Ma s'imponeva con il suo portamento. «Cara Fastia» disse Lesbeth. «Stavo solo riferendo alla cara Anne le mie novità.» «Sul tuo fidanzamento, immagino!» «Già lo hai saputo? Ma se ho chiesto il consenso a mio fratello William solo qualche ora fa.» «Temo che tu abbia dimenticato quanto viaggiano veloci le notizie a Eslen. Congratulazioni. Scoprirai che il matrimonio è una gioia.» Il tono però diceva un'altra cosa. Anne provò una leggera compassione per la sorella maggiore. «Penso di sì» replicò Lesbeth. «Bene» chiese Fastia «è tutto in ordine qui? Avete recitato le vostre preghiere e lavato il viso?» «Stavano pregando, credo, proprio quando sono entrata nella stanza» disse Lesbeth con aria ingenua. Anne annuì. «Stiamo per dormire.» «Non sembrate stanche.» «È l'eccitazione per aver rivisto Lesbeth. Ci stava dicendo di Shanifar, dove regna il suo promesso sposo. Un posto che deve essere delizioso...»
«Safnia» la corresse Fastia. «Una delle cinque province originarie degli Egemoni. Migliaia di anni fa, ovviamente. Un posto importante una volta, e ancora particolare, da quanto ho sentito.» «Sì, è vero» disse Lesbeth, come se non avesse notato la cortesia nel tono di Fastia. «È molto particolare.» «Sembra esotico e fantastico» aggiunse Anne. «Come la maggior parte dei posti, fino a che non ci vai» rispose Fastia. «Ora, io non voglio fare il troll, ma ho il compito di accertarmi che queste ragazze vadano a dormire. Lesbeth, posso invitarti a prendere un cordiale?» Ma non prendermi in giro, pensò Anne. Adori fare il troll. Che cosa ti è successo? «Sicuramente possiamo rimanere sveglie ancora un po'. Sono due anni che non vediamo Lesbeth.» «Domani, alla festa di compleanno di Elseny, avrete tutto il tempo che vorrete. Ora è il momento di fare due chiacchiere fra donne.» «Anche noi siamo donne» rispose Anne. «Quando sarai fidanzata, sarai una donna anche tu» replicò Fastia. «E ora buona notte, o come direbbe il principe safnian di Lesbeth, dena nocha. Austra, vedete di dormire entro un'ora.» «Sì, arcigrefia.» «Notte, gioie» disse Lesbeth, lanciando loro un bacio, mentre passavano sotto la tenda e poi nell'anticamera. Un attimo dopo sentirono l'ultima porta che si chiudeva. «Perché deve fare così?» brontolò Anne. «Se non lo facesse, tua madre dovrebbe trovare un'altra al suo posto» replicò Austra. «Penso di sì, solo che mi dà fastidio.» «In effetti, sono quasi felice che se ne siano andate.» «Perché mai?» Un cuscino la colpì sul viso. «Perché non mi hai ancora detto che cosa è successo, brutta donnaccia!» «Oh, Austra! È stato straordinario. È stato così... voglio dire, pensavo di prendere fuoco! Mi ha regalato una rosa nera...» S'interruppe immediatamente. «Dov'è la mia rosa?» «Ce l'avevi quando sei entrata nella stanza.» «Be', adesso non ce l'ho più! Devo farla seccare, o farci quello che di solito si fa con le rose...» «Penso che prima si debba trovare» disse Austra.
Ma non era nella stanza di ricevimento, né sul pavimento, né sotto il letto. Non riuscirono a trovarla in nessun posto. «La cerchiamo domani mattina, con più luce» disse Austra. «Certo» rispose Anne dubbiosa. Anne sognò di essere in un campo di rose d'ebano, con un vestito di raso nero ricamato con perle che luccicavano fioche sotto la luce d'avorio della luna. L'aria era così impregnata del profumo dei fiori che pensò di essere sul punto di soffocare. Erano infinite; si estendevano fino all'orizzonte in una serie di dolci pendii, coi gambi piegati dal vento. Si girò lentamente per vedere se era così anche nelle altre direzioni. Dietro di lei il campo terminava di colpo in una parete d'alberi, mostri di un marrone scuro coperti di spine raggrinzite, più grandi della sua mano; erano così alti che non riusciva a vederne la cima nella debole luce. Rampicanti spinosi, spessi come le sue braccia, si intrecciavano tra gli alberi e strisciavano sul terreno. Tra i rami e al di là dei rovi c'erano solo tenebre. Sentiva un'oscurità avida, che la guardava, la odiava e la voleva. Più lei la fissava e più aumentava il terrore delle ombre che potevano muoversi, dei rumori di passi o ali. E poi, quando ormai pensava che il terrore non sarebbe potuto diventare più forte, qualcosa si fece largo tra i rovi, venendo verso di lei. La luce della luna illuminò un braccio coperto da un'armatura nera e le dita di una mano che si aprivano. Poi comparve anche l'elmo, appuntito, con corna nere che si curvavano in alto, sulle spalle di un gigante. La visiera era aperta, e all'interno vide qualcosa che le strappò un suono acuto, il più strano che avesse mai sentito. Si voltò e prese a fuggire tra le rose ma il vestito s'impigliò sulle piccole spine; ora la luna sembrava l'occhio di un pesce putrefatto... Si svegliò, agitata dalla corsa, senza sapere dove fosse. Poi capì e si mise a sedere sul letto, con le braccia strette sulla pancia. «Un sogno» disse alla stanza scura, oscillando avanti e indietro. «Solo uri sogno.» Ma l'aria era ancora impregnata del profumo di prugne e anice. Alla pallida luce della luna che entrava dalla finestra, vide petali neri sparpagliati sul suo corsetto. Li sentì nell'aria. Il sudore le gocciò sul viso, e il sapore forte del sale arrivò alle labbra.
Anne quella notte non riuscì a riaddormentarsi, ma aspettò il canto del gallo e la luce del sole. Capitolo nove Sulla Manica Neil si svegliò presto, ispezionò la sua nuova armatura per vedere se c'erano falle, pur avendola indossata una volta sola. Controllò i suoi speroni e la cotta, infine sguainò Corvo, il suo spadone, e si accertò che splendesse come oro in tutta la sua possente lunghezza. Muovendosi piano, si infilò gli stivali e con passi felpati uscì dalla camera e scese le scale fin fuori dalla locanda. All'esterno, la nebbia del mattino stava iniziando ad alzarsi, e le banchine erano già piene di movimento: gruppi di pescatori che uscivano verso i bassi fondali, maghi del mare, salatori e prostitute che ammiccavano per farsi prendere a bordo, gabbiani e altri predatori di pesce che si litigavano gli scarti. Il giorno prima, Neil aveva notato la cappella di san Lier, con la sua guglia a forma di albero. Era un edificio di legno modesto, sulla sponda del mare, eretto su fondamenta in pietra. Mentre si avvicinava, vide uscirne diversi marinai dall'aspetto ruvido. Li salutò passandosi la mano sul viso, il segno di san Lier. «Che la sua mano vi protegga» disse loro. «Grazie, altrettanto a te, ragazzo» rispose uno con voce roca. All'interno, la cappella era scura e semplice, tutta in legno, nello stile dell'isola. L'unico ornamento era costituito da una semplice statuetta del santo, sopra l'altare; scolpita in zanna di tricheco, lo raffigurava in una coracle. Neil inserì due monete d'argento nella scatola e si inginocchiò. Cominciò a pregare: «Padre della spuma che cammini sulle Onde Tu che porgi l'orecchio alle nostre chiglie e ascolti le nostre preghiere Che ci concedi un passaggio sulle tue larghe spalle Che ci guidi a riva quando la tempesta ci assale Ti prego ora Concedi un passaggio alla mia preghiera. Signore-del-vento, Settima onda, che conosci i miei avi raccolti tra dita di spuma
e li hai visti combattere e morire sulle grandi vie del mare Neil, figlio di Fren ti chiede di esaudire la sua preghiera.» Pregò per l'anima di suo padre e di sua madre, per sir Fail e lady Fiene, per gli affamati spiriti del mare. Pregò per il re William, la regina Muriele e per Crotheny, ma soprattutto pregò che potesse essere degno. Poi, dopo qualche istante di silenzio, si alzò per andarsene. Dietro di lui c'era una donna con un mantello verde scuro. Trasalì, perché nell'intensità delle sue preghiere non l'aveva sentita entrare. «Mi scusi, signora» disse dolcemente. «Non avevo intenzione di tenervi lontana dall'altare.» «C'è tanto spazio qui» rispose. «Non mi avete tenuta lontana, anzi. È da tanto tempo che non sentivo qualcuno pregare così bene. Mi faceva piacere ascoltare, temo, quindi sono io che devo chiedervi scusa.» «Perché?» chiese. «Non mi vergogno delle mie preghiere, è un onore per me che abbiate trovato qualcosa in quelle parole. Io...» I suoi occhi lo afferrarono, erano verdi come il mare. Da sotto il cappuccio, ricci neri uscivano a cascata e le sue labbra erano un arco rosso rubino. Non riuscì a indovinare la sua età, ma se fosse stato costretto, le avrebbe dato una trentina d'anni. Era troppo bella per essere umana, e assalito da un'improvvisa vertigine, pensò che non fosse di questo mondo, ma una visione, una santa o forse un angelo. Quella sensazione si fece così forte che la lingua gli si incollò al palato, e non riuscì a ricordarsi che cosa avrebbe voluto dire. «L'onore è mio, ragazzo» disse. Tirò indietro la testa. «Avete un accento isolano, venite forse da Liery?» «Sono nato a Skern, mia signora» riuscì a rispondere. «Ma sono legato a un lord di Liery, come se fosse mio padre.» «Questo lord, non sarà mica il barone sir Fail de Liery?» «Sì, mia signora» replicò, sentendosi come in un sogno. «Un uomo buono e nobile. Fate molto bene a servirlo.» «Come facevate, signora, a sapere...» «Dimenticate che ho ascoltato le vostre preghiere. Sir Fail è con voi? È qui vicino?» «Sì, signora. Nella locanda proprio in cima alla strada. Siamo arrivati ieri; intende presentarmi a corte oggi, anche se non sono degno di tanto onore.»
«Se sir Fail desidera presentarvi, l'unica cosa indegna è proprio il vostro dubbio. Lui sa quello che fa.» «Sì, signora. Certo.» Abbassò il capo. «Dovreste sapere che la corte, oggi, sarà sulla collina di Tom Worth, per festeggiare il compleanno della principessa Elseny. Può darsi che sir Fail, essendo appena arrivato, non lo sappia. Prendete la porta a nord e cavalcate su per la Manica. Sir Fail sa dov'è. Ditegli di andare al cerchio di pietra e di aspettare.» «Sono ai vostri ordini, signora.» Il cuore gli batteva come un tamburo e non sapeva il perché. Voleva chiederle il nome, ma temeva la risposta. «Vogliate scusarmi adesso» disse la donna. «Le mie preghiere sono meno eleganti delle vostre. Il santo perdonerà la mia goffaggine, lo so, ma preferirei che nessun altro le sentisse. È da molto tempo che non vengo qui, troppo.» Il suo tono sembrava infinitamente triste. «Signora, se c'è qualcosa che posso fare per voi, per cortesia ditemelo.» I suoi occhi scintillarono nell'oscurità. «State attento a corte» gli disse piano. «Rimanete voi stesso, così come siete. Non sarà una... cosa facile.». «Sì, signora. Se me lo chiedete, sarà fatto.» Così dicendo la lasciò lì, sentendo i piedi stranamente pesanti sul selciato della strada. «Uno spettacolo, vero?» chiese Fail de Liery. Neil non riusciva e fermare i suoi pensieri. «Non ho mai visto niente di simile, vestiti come quelli, tanti colori e quella seta!» Centinaia di cortigiani cavalcavano su per il prato, insieme a nani, giganti, giullari e valletti, tutti con abiti sgargianti. «E non è finita qui! Vieni, ecco le pietre, lassù.» Spronarono i cavalli al galoppo, in direzione del piccolo cerchio di pietre verticali, vicino al bordo della foresta. C'era una folla che aspettava, alcuni a cavallo, altri a piedi. Neil notò certi cavalieri che indossavano una livrea nera e verde scuro, con ricami color bronzo. Non sapeva a chi appartenessero quei colori, e non portavano stemmi. «Sir Fail!» gridò un uomo quando si furono avvicinati. Alzando la mano in segno di saluto, cavalcò fuori dal cerchio. Non aveva armatura, era di mezz'età, i capelli castani ramati tenuti con un cerchietto semplice, d'oro, sicuramente un tipo di una certa importanza. Sir Fail smontò da cavallo seguito da Neil, mentre anche il nuovo arrivato scendeva dal suo, uno
splendido stallone galleano bianco, con macchie nere sparse sul garrese e il muso. «De Liery, vecchia chiatta da guerra! Come state?» «Bene, vostra maestà.» Le gambe di Neil si fecero improvvisamente instabili. Maestà? «Meno male! Sono davvero felice di vedervi qui» proseguì tranquillamente. «Davvero felice!» «Sono contento di avervi trovato! Mi sarei diretto in un palazzo vuoto adesso, se non fosse stato per questo mio giovane scudiero. Posso presentarvelo?» Gli occhi del re si voltarono verso Neil, improvvisamente; sembravano lampi di luce intensa ma al tempo stesso offuscata. «Certamente.» «Vostra maestà, questo è Neil MeqVren, un giovane dalle numerose virtù e grandi azioni. Neil, sua maestà William II di Crotheny.» Neil si ricordò di piegarsi su un ginocchio e abbassò così tanto la testa da toccare quasi il terreno. «Vostra maestà» riuscì a dire con voce roca. «Alzati, ragazzo» gli ordinò il re. Neil si mise in piedi. «Sembra un giovane promettente» disse il re. «Avete detto scudiero? Questo è il tipo di cui ho sentito tanto parlare, il ragazzo della battaglia del Lago Scuro?» «Sì, sire.» «Bene, Neil MeqVren. Penso che parleremo molto di te.» «Ma non adesso» disse una giovane donna dal portamento distinto, avvicinandosi a cavallo di un baio dall'aspetto elegante. Chinò il capo verso Neil e lui avvertì la strana sensazione che si fossero già incontrati. Qualcosa di quegli occhi color nocciola gli sembrava familiare, o quasi. Era di una bellezza austera, zigomi alti e capelli castani lucenti con sfumature più scure. «Questo giorno è per Elseny e nessun altro» proseguì la donna. «Ma vi auguro una buona giornata... Neil MeqVren, vero?» A Neil ci volle un po' prima di richiudere la bocca e rendersi conto che lei gli stava porgendo la mano. La prese, anche se in ritardo, e baciò l'anello con il sigillo reale. «Vostra maestà» disse. Perché era sicuramente la regina. Una risata si sparse tra le persone del gruppo, e capì di aver commesso un errore.
«Questa è mia figlia Fastia, ora del casato Tighern» disse il re. «Smettetela di ridere, voi!» disse Fastia con tono severo. «Quest'uomo è nostro ospite. D'altra parte, è chiaro che sa riconoscere le qualità reali quando le vede.» Il suo sorriso fu rapido, più una contrazione, a dire il vero. In quel momento un'altra giovane donna arrivò correndo fra le braccia di sir Fail. Lui la fece volteggiare e lei urlò divertita. «Elseny, che spettacolo sei diventata!» disse il vecchio, quando riuscì a guardarla. Neil dovette dargli ragione. Era più giovane di Fastia - poteva avere diciassette anni - i capelli di un nero corvino, non castani. Se Fastia mostrava una certa durezza nella sua bellezza, questa aveva gli occhi grandi e ingenui come una bambina. «È perfetto rivedervi proprio oggi, prozio Fail! Siete venuto per il mio compleanno?» «Questa, a dire il vero, è stata opera dei santi» rispose Fail. «Sicuramente ti sono amici.» «E chi è questo giovane che ci hai portato?» chiese Elseny. «Lo hanno conosciuto tutti, tranne me!» «È sotto la mia custodia, Neil MeqVren.» Il viso di Neil si fece sempre più rosso a tutte quelle attenzioni. Elseny era vestita in modo stravagante: un abito di seta colorato, con un ricamo elaborato di fiori e rampicanti intrecciati e qualcosa come un paio d'ali d'insetto che spuntava dalla schiena. I capelli erano tirati su in spire complicate e su ogni fila erano incastonati fiori diversi: centinaia di minuscole violette sulla prima, trifogli rossi sulla successiva, quindi gigli di un verde pallido e infine una corona di loto bianco. Come Fastia, porse la mano. «Prozio» disse, dopo che Neil ebbe baciato il suo anello. «In realtà, oggi non sono Elseny, dovreste saperlo! Sono Meresven, la regina delle fate.» «Ah, già! Avrei dovuto saperlo, certo!» «Siete venuto per essere nominato cavaliere?» chiese improvvisamente a Neil. «Ehm... è il mio più grande desiderio, principessa - voglio dire vostra maestà.» «Bene. Venite alla mia corte e sicuramente vi farò cavaliere di Elphin.» Sbatté le ciglia e parve subito dimenticarsi di lui, voltandosi verso Fail e tirandolo per un braccio. «Adesso, zio, dovete dirmi come stanno i miei
cugini a Liery! Vi chiedono di me? Avete saputo che sono fidanzata?» «Ed ecco mio figlio, Charles» disse il re, essendo terminata la presentazione di Neil a Elseny. Neil aveva notato Charles di sfuggita mentre cavalcavano fin lassù. Aveva già visto uomini di quel tipo prima, adulti nella fisionomia ma con un comportamento infantile. Erano gli occhi a tradirli: distratti, curiosi, stranamente vaghi. In quel momento, Charles stava parlando con un uomo vestito con colori accesi da capo a piedi, come se quindici abiti diversi fossero stati strappati, mischiati e ricuciti. Aveva sul capo uno strano cappello a tese larghe e flosce con campanelli d'argento che suonavano mentre camminava. Era così grande che quel tipo sembrava un cappello ambulante. «Charles!» ripeté il re. Charles era un omone con i capelli rossi e ricci. Neil sentì un piccolo brivido quando incontrò quello sguardo toccato dai santi. «Salve» gli disse Charles. «Chi sei?» parlava come un bambino. «Sono Neil MeqVren, mio signore» rispose Neil, inchinandosi. «Io sono il principe» rispose il giovane. «È chiaro, mio signore.» «Oggi è il compleanno di mia sorella.» «L'ho sentito dire.» «Questo è Cappello da Caccia, il mio giullare. È un Sefry.» Una faccia lo guardò da sotto il cappello; era più bianca dell'avorio e con gli occhi color rame chiaro. Neil lo fissò, stupefatto; non aveva mai visto un Sefry prima. Si diceva che non si fossero mai avventurati sul mare. «Buona giornata» disse Neil, chinando il capo verso di lui, non sapendo cos'altro dire. Il Sefry fece un sorrisino maligno. Cominciò a cantare saltellando un pò, mentre il grande cappello oscillava: «Buona giornata a voi cavaliere! O forse non-cavaliere, Perché vedere non posso Una rosa lì addosso. Dalle parti vostre Sulle lontane coste Non è che forse, per cortesia, il cavaliere riposa in compagnia
di porci e cavalli con allegria? Rispondete alle nostre domande, oh forestiero. È questo che distingue un vero guerriero? La canzone del giullare provocò scoppi di risa fra la folla. Tra tutti si distinse Charles, che, divertito, diede una pacca sulla spalla del Sefry, facendolo cadere a terra con un ruzzolone assurdo. Questi cominciò a rotolare come una palla, afferrandosi i corni del grande cappello. Quando arrivava vicino ai piedi di qualcuno, gli davano un calcio e riprendeva a ruzzolare in un'altra direzione urlando. In pochi istanti, un estemporaneo gioco con la palla, guidato dal principe, aveva distratto tutti da Neil, ma le sue orecchie ancora bruciavano per quella risata. Perfino il re, Fastia ed Elseny avevano riso di lui, mentre Fail per fortuna aveva semplicemente girato lo sguardo. Neil sigillò le labbra, trattenendo la risposta al giullare. Non voleva far vergognare sir Fail con quella sua lingua, che più di una volta aveva creato problemi. «Non badate a Cappello da Caccia» gli disse Fastia. «Prende in giro tutti quelli che può. È la sua vocazione, capite. Venite, camminate con me. Proseguirò a istruirvi sulla corte. È chiaro che ne avete bisogno.» «Grazie, mia signora.» «Ci manca una sorella, Anne, la più piccola. È quella con il . broncio, laggiù, con i capelli rosso fragola. La vedete? Ed ecco che arriva mia madre, la regina.» Neil seguì il suo sguardo. Non indossava più il cappuccio, ma la riconobbe immediatamente, dagli occhi e dal leggero sorriso che gli rivolse in segno di riconoscimento. Ora capiva anche perché Elseny e Fastia gli erano sembrate familiari. Somigliavano alla madre. «Così alla fine vi siete alzato, vecchio Fail» disse la regina. «Maestà! Sì, maestà.» Questa volta gli sembrò di aver sbattuto la testa contro il prato. «Vi siete già incontrati?» chiese Fastia. «Sono andata alla cappella di san Lier» rispose la regina. «Questo ragazzo era lì e pregava come un vero poeta. Insegnano a pregare così solo sulle isole. Capii che doveva essere con Fail.» «Vostra maestà, vi prego di perdonare ogni mia impertinenza che abbia mai potuto...»
Il re lo interruppe. «Siete andata al porto senza una scorta?» La mia guardia era vicina ed Erren stava fuori, avevo un cappuccio; ero per così dire mascherata.» «È stata un'imprudenza Muriele, soprattutto di questi tempi.» «Vi chiedo scusa se vi ho fatto preoccupare.» «Preoccupato? Ma se non ne sapevo niente. È proprio questo che ora mi preoccupa. Da adesso in poi, per favore, non andate più in giro senza scorta.» Sembrò accorgersi che il tono della sua voce era diventato troppo forte e lo abbassò. «Ne parleremo dopo» disse. «Non intendo dare il benvenuto a Fail e al suo giovane ospite con una lite in famiglia.» «A proposito di liti,» disse la regina Muriele «spero che mi perdonerete un attimo. Ho visto qualcuno con cui devo parlare. Giovane MeqVren, vi chiedo scusa per avervi ingannato, ma ne è valsa la pena vedendo la vostra espressione adesso.» Poi guardò il marito. «Vado solo fin là» disse «nel caso voleste saperlo.» Neil fu felice che lei avesse così rapidamente cambiato argomento di conversazione, perché non avrebbe saputo come rispondere. Si sentiva in colpa per qualcosa che non riusciva neanche a nominare. «Deve essere stata Fastia» disse Anne ad Austra, mentre cavalcavano al passo su per la Manica coperta di violette. L'aria emanava un profumo denso di primavera, ma Anne era troppo agitata per riuscire a goderne. «Fastia, in genere, è molto più diretta» dissentì Austra. «Ti avrebbe fatto domande sulla rosa, non ti avrebbe preso in giro con quella.» «E invece sì, se sapesse già tutto.» «Non sa tutto, non può.» «E allora chi è stato? Lesbeth?» «Lei è cambiata» le fece notare Austra. «È diventata più politica. Forse è cambiata quanto Fastia, ma ancora non ce ne siamo rese conto.» Anne considerò l'ipotesi per un attimo, spostandosi un po' sulla sella. Odiava cavalcare all'amazzone - o a scivolasella, quella era l'espressione corretta. Le sembrava sempre di essere sul punto di scivolare per terra. Se lei e Austra fossero state sole, avrebbe cambiato posizione per cavalcare in un modo più naturale, maledette sottogonne. Purtroppo però, non erano sole. Metà dei nobili del regno stava cavalcando sul dolce pendio. «Non posso crederci. Lesbeth non mi tradirebbe mai, proprio come non lo faresti tu.»
«Non sospetterai mica di me?» domandò Austra indignata. «Fai silenzio, stupidina. Certo che no. È proprio questo che intendevo dire.» «Ah, bene! Ma chi è stato allora? Chi ha la chiave della tua stanza? Solo Fastia.» «Forse ha dimenticato di chiudere a chiave.» «Ne dubito» disse Austra. «Anch'io, eppure...» «Tua madre.» «È vero, mamma ha sicuramente le chiavi. Ma...» «No, intendevo dire: ecco tua madre.» Anne alzò lo sguardo e allarmata da un improvviso formicolio si rese conto che era vero. Muriele Dare née de Liery, regina di Crotheny, si stava allontanando dalla sua scorta, conducendo al trotto la nera giumenta vitelliana dritta verso loro due. «Buon giorno, Austra» disse Muriele. «Buon giorno, vostra maestà.» «Mi chiedo se posso cavalcare con mia figlia per qualche istante. Da sola.» «Certo, vostra maestà!» Austra diede immediatamente uno strattone alle redini e trottò via, lanciando solo un preoccupato sguardo di scusa. Se Anne era nei guai, c'erano buone probabilità che lo fosse anche lei. «Voi due sembrate nervose per qualche cosa, stamattina» osservò Muriele «e non state cavalcando con il seguito reale.» «Ho fatto un brutto sogno» le disse Anne. Almeno era una mezza verità. «E nessuno ci ha detto che dovevamo cavalcare insieme al seguito reale.» «Mi dispiace per il tuo sogno. Stanotte ti faccio portare da Fastia un decotto al finocchio, si dice che tenga lontana la Donna Nera.» Anne scrollò le spalle. «Comunque credo che ci sia qualcosa di più che i brutti sogni. Fastia crede che esista una causa più profonda per la tua agitazione.» «A Fastia non piaccio» replicò Anne. «Al contrario. Tua sorella ti ama, e lo sai. Solo che non sempre ti approva, ed è giusto così.» «Tutti mi disapprovano» borbottò Anne. Sua madre la cercò con i suoi occhi di giada. «Anne, tu sei una principessa e devi ancora considerare seriamente questa realtà. Finché si è picco-
li si può perdonare, per un po'. Ma adesso sei in età da marito, ed è ora che abbandoni questo comportamento infantile. Tuo padre e io siamo rimasti davvero imbarazzati per l'incidente del grefio di Austgarth.» «Era un vecchio disgustoso. Non potevate aspettarvi che io...» «È un gentiluomo e, soprattutto, la sua alleanza è di enorme importanza per noi. Trovi disgustoso il bene del regno di tuo padre? Hai idea di quanti tuoi antenati sono morti per questo paese?» «Non è giusto.» «Giusto? Non siamo come la gente normale. Molte delle nostre scelte sono prese per noi fin dalla nascita.» «Lesbeth si sposa per amore!» Muriele scosse la testa. «Ah, è proprio questo che temevo e che Fastia temeva. Il suo è un matrimonio fortunato, ma Lesbeth non conosce l'amore, proprio come te.» «Ah davvero, madre? Come se voi conosceste ogni minima cosa al riguardo!» esplose Anne. «Tutti a Eslen sanno che mio padre trascorre più tempo con lady Granirne di quanto abbia mai fatto nei vostri appartamenti.» A volte la madre riusciva a essere rapidissima. Anne non vide arrivare lo schiaffo e se ne accorse solo quando sentì il bruciore sulla guancia. «Non sai quello che dici» disse Muriele con un tono basso, piatto e pericoloso, che Anne non aveva mai sentito. Le lacrime le si raccolsero negli occhi e sentì un nodo in gola. Non piangerò, si disse. «Ora ascoltami bene. Ci sono tre giovani qui oggi, tutti più o meno decorosi. Mi stai ascoltando? Sono Wingaln Kathson di Avlham, William Fulham del baronato Winston e Duncath MeqAvhan. Uno qualunque di loro sarebbe un buon partito, nessuno di loro è un vecchio disgustoso: mi aspetto che tu li intrattenga tutti, capito? Sono venuti solo per te.» Anne cavalcava accigliata in silenzio. «Hai capito?» ripeté Muriele. «Sì. Come faccio a riconoscerli?» «Sarai presentata, non temere. È già stato deciso.» «Molto bene. Ho capito.» «Anne, è solo per il tuo bene.» «Che fortuna che qualcuno sa cosa è bene per me.» «Non fare l'impertinente. Oggi è il compleanno di tua sorella. Mostrati felice - se non per me, almeno per lei. Finiamola di litigare, ti prego, fallo
per me.» Muriele fece quel leggero sorriso freddo di cui Anne non si era mai fidata. «Sì, madre.» Ma dentro di sé, nonostante lo schiaffo le bruciasse ancora sul viso, sentiva il cuore più leggero. La madre non sapeva niente di Roderick. Ma qualcun altro sì. Qualcuno aveva trovato la sua rosa. Per un istante si chiese se aveva a che fare con Roderick, ma lui nel suo sogno non c'era. «Che cosa vedo?» squillò una voce maschile da un lato. «Le due donne più amabili del regno a cavallo senza scorta?» Anne e Muriele si girarono entrambe per salutare il nuovo venuto. «Salve, Robert» disse Muriele. «Buon giorno cara cognata. Come siete bella! L'alba si è presentata tardi stamattina per paura di dover competere con voi.» «È molto gentile da parte vostra» replicò Muriele. Ignorando il suo tono freddo, Robert deviò la sua attenzione verso Anne. «E voi, mia cara nipote, che creatura meravigliosa siete diventata. Temo che questo compleanno possa tramutarsi in una carneficina di giovani cavalieri che giostreranno in vostro nome, se non li fermiamo.» Anne per poco non arrossì. Lo zio Robert era un bell'uomo, ben messo, con le spalle larghe e la vita stretta. Era scuro come tutti i Dare, con gli occhi neri, un paio di piccoli baffi e la barba perfettamente in armonia con il suo atteggiamento sardonico. «Meglio preoccuparsi di Elseny» replicò Anne. «È di gran lunga più bella di me, e dopo tutto è il suo compleanno.» Robert si avvicinò al trotto e le prese la mano. «Signora,» disse «mio fratello ha tre belle figlie e voi non siete da meno. Se un uomo ha detto questo, ditemi il suo nome e potrò vedere i corvi strappargli gli occhi prima di sera.» «Robert» disse Muriele, con una vena di irritazione nel tono della voce «non adulare mia figlia in maniera così spudorata. Non è bene per lei.» «Dico solo la verità, cara Muriele. Se sembra adulazione, be', spero di essere perdonato per questo. Ma parlando seriamente, dov'è la vostra guardia del corpo?» «Lì» rispose Muriele, volgendo la mano verso il punto in cui si trovavano il re e la sua scorta. «Volevo parlare con mia figlia da sola, ma loro sono lì, e tutti pronti, ve lo assicuro.» «Spero di non aver interrotto nulla. Sembravate così serie.»
«In realtà» rispose Anne, sperando di dare la risposta giusta «stavamo parlando del futuro matrimonio di Lesbeth. Non è fantastico?» Si accorse troppo tardi dello sguardo ammonitore della madre. «Come sarebbe?» Davanti a quelle parole, il tono di Robert si fece improvvisamente piuttosto freddo. «Lesbeth» disse Anne, stavolta un po' meno sicura «ha chiesto il consenso di mio padre, ieri notte.» Robert accennò un sorriso, ma la fronte era corrugata. «Strano che non abbia chiesto il mio. Santo cielo! Sembra uno scherzo contro di me!» «Aveva intenzione di dirvelo oggi» disse Muriele. «Be', forse. Sarà meglio che vada a cercarla per darle l'opportunità di farlo. Vogliate scusarmi, signore.» «Certo» rispose Muriele. «Ricordate a Lesbeth che ha promesso di venirmi a trovare oggi!» gridò Anne mentre lo zio si allontanava. Proseguirono in silenzio per un po'. «Dovresti stare più attenta a quello che ti lasci scappare» disse Muriele. Ma non sembrava più arrabbiata. «Io... tutto il castello lo sa già. Pensavo che lo avesse detto a suo fratello.» «Robert è sempre stato molto protettivo nei confronti di Lesbeth. Dopo tutto sono gemelli.» «Sì, è per questo che credevo lo sapesse.» «Non funziona sempre così.» «Lo vedo. Posso andare a cavallo con Austra, adesso?» «Dovresti unirti alla famiglia. Il tuo prozio Fail è qui... ma sembra proprio che si sia allontanato con tuo padre. D'accordo, puoi startene per conto tuo se vuoi, ma stasera dovrai essere socievole e simpatica alla festa di tua sorella.» Diede uno strattone alle redini e si allontanò, poi voltandosi le gridò: «E cavalca nella maniera che ti si addice, capito? In particolar modo, oggi.» La Manica girava e saliva gradatamente fino all'ampia cima di Tom Woth, che si affacciava sulle propaggini orientali della città e sulla sua gemella a ovest, Tom Cast. Lì era stato eretto uno sfavillante padiglione di seta giallo, aperto sui lati, sul quale sventolava il vessillo con l'ape e il cardo, l'emblema immaginario di Elphin. Un enorme labirinto floreale circondava il padiglione. Le siepi erano di
girasoli e capochino color perla. Sopra e intorno a questi steli robusti si intrecciavano rampicanti dai fiori scarlatti a imbuto, convolvoli e fiori di piselli odorosi. I cortigiani erano già scesi da cavallo e cominciavano a entrare nel labirinto, ridendo eccitati. Da qualche parte lì dentro giungeva la musica di un oboe, una crotta, una grande arpa e campanelli. Austra applaudì. «Non ti sembra fantastico?» Anne si sforzò di sorridere, determinata a divertirsi. Dopo tutto, le cose avrebbero potuto essere peggiori e l'atmosfera della festa era contagiosa. «Sì» rispose. «Mamma si è superata stavolta. Elseny sarà impazzita di gioia.» «Ti senti bene?» le chiese Austra, sentendosi quasi in colpa. «Sì, non credo che mamma sappia di Roderick. Forse sono stata io a distruggere il fiore nel sonno.» Austra sgranò gli occhi. «Sì! Hai già fatto cose del genere! Ti capita di andartene in giro, senza renderti conto di chiunque provi a parlarti. E poi, quasi sempre nel sonno biascichi e borbotti.» «Allora deve essere andata così. Mi sa che siamo salve, cara amica mia. Ora devo solo intrattenere tre giovanotti e tutti penseranno bene di me.» «Tranne Roderick.» «Dovrò chiedergli scusa più tardi. Preparerai tu l'incontro?» «Certo.» «Bene, allora. Osiamo entrare a Elphin?» «Credo che dobbiamo!» Smontarono da cavallo e si avvicinarono a un arco d'ingresso del labirinto presidiato da due uomini che indossavano armature fatte di pratoline. Anne li riconobbe come attori presi tra i domestici di casa. «Mie belle dame» disse uno in maniera affettata. «Che cosa cercate qui?» «Be', un'udienza con la regina di Elphin, credo» rispose Anne. «Milady, tra voi e la gloriosa regina sì estendono i complessi regni delle fate, pieni di bellezze e pericoli mortali. In tutta onestà, non posso farvi entrare senza la scorta di un vero cavaliere. Vi imploro, sceglietene uno.» Anne seguì l'indice puntato su un gruppo di ragazzi vestiti come cavalieri. Indossavano stravaganti armature di carta e stoffa, fiori ed elmi come maschere, per non farsi riconoscere. Anne si incamminò verso di loro mentre sì disponevano in fila. Ci volle solo qualche secondo per accertarsi che Roderick non fosse fra quelli.
«Quale?» disse Anne ad alta voce, battendosi il mento. «Che ne dici Austra?» «Mi sembrano tutti coraggiosi.» «Non abbastanza. Ne ho un altro in mente. Voi, cavaliere dei gigli verdi, prestatemi la vostra spada.» Obbediente, il giovane le diede la spada, un ramo di salice dipinto d'oro con una guardia di petali di magnolia laccati. «Molto bene, e adesso il vostro elmo.» Qui il ragazzo esitò, ma dopo tutto lei era la principessa. Si tolse l'elmo per rivelare un volto giovane, familiare, ma che non riuscì a riconoscere. Anne si sporse e lo baciò sulla guancia. «Vi ringrazio, cavaliere di Elphin.» «Milady...» «Posso sapere il vostro nome?» «Ehm... William Fulham, milady.» «Sir Fulham, conserverete un ballo per me, quando saremo alla corte della regina?» «Certamente, milady!» «Meraviglioso.» Detto questo, si mise il suo elmo e marciò verso le guardie. «Mi chiamo sir Anne,» proclamò «del clan delle Api Pungenti, e scorterò lady Austra dalla regina.» «Molto bene, sir Anne. Ma fate attenzione. Si dice che il Re degli Alberi sia da queste parti.» A queste parole, Anne sentì qualcosa di strano nello stomaco, come se avesse sceso un gradino più alto di quanto pensasse, e l'immagine del sogno le sfrecciò davanti agli occhi - il campo di rose nere, la foresta di rovi, la mano che cercava di raggiungerla. Vacillò un momento. «Che succede?» le chiese Austra. «Niente,» replicò «è il sole.» Quindi entrò nel labirinto. Capitolo dieci Il Taff Aspar lasciò Tor Scatti prima dell'alba, abbandonando la Strada del Re e
piegando verso le zone montuose di Brogh y Stradh, attraverso prati splendenti di trifoglio rosso, cespugli di lavanda e rosa multiflora. Vicino alla sorgente del Taff, trovò una piccola mandria di uri che calpestavano la riva del ruscello facendone un pantano dall'odore di muschio. Lo guardarono con occhi sospettosi quando, insieme a Orco e Angela, si fece strada tra il fitto labirinto di antichi salici che circondavano e ombreggiavano la loro fonte d'abbeveraggio. Proseguì lungo il torrente, lasciandosi alle spalle il muggito dei tori ma non il loro odore di bestia selvatica. Tutto sembrava a posto, ma non lo era. Ora ne era più certo che mai; non era proprio come aveva detto sir Symen. Sì, cominciava a credere alle chiacchiere del vecchio. Tutto sommato, il cavaliere era attendibile su ciò che diceva di aver visto. I cadaveri, le mutilazioni, la strana assenza di ferite erano sicuramente vere, ma Aspar voleva vedere di persona. Al resto, però - il greffyn, il Re degli Alberi e simili - a quello non credeva. Sebbene le conclusioni di Symen non fossero affidabili, Aspar sentiva dentro di sé qualcosa che lo preoccupava. La notte precedente, sulla strada, quando aveva provato a spaventare il futuro prete, per poco non si era messo paura da solo; aveva quasi creduto che il cacciatore di anime si fosse abbattuto su di loro, anche se aveva sempre saputo, nella sua testa, che si trattava solo di Symen e dei suoi cani. C'era qualcosa là fuori, ma non sapeva cosa. Nonostante le chiacchiere su greffyn e Re degli Alberi, neanche Symen lo sapeva. Ed era proprio questa la cosa preoccupante, il fatto di non sapere. Orco era ombroso, le sue orecchie scattavano di continuo e per due volte scartò davanti a niente. Orco che scartava! Così Aspar poco a poco si preparò a quello che avrebbe trovato sul Torrente Taff. I corpi giacevano come uno stormo di uccelli abbattuti da qualche strano vento, sparpagliati intorno ai loro nidi non ancora finiti. Legò i cavalli a debita distanza e si mise a camminare tra quelli. Erano morti da giorni. La carne era diventata nera e rossa e gli occhi spalancati erano infossati nelle orbite, come se fossero stati incisi su delle zucche lasciate poi troppo tempo al sole. Ma non poteva essere. Gli avvoltoi avrebbero dovuto strappare gli occhi già da molto tempo. Avrebbero dovuto esserci vermi e il tanfo della putrefazione. Invece c'era solo un odore di foglie secche.
Proprio come aveva descritto Symen; erano semplicemente caduti in terra morti, il che poteva significare... Si guardò intorno. I Seothen - sedoi, li aveva chiamati il prete - di solito si trovavano sulle alture, ma non sempre. Se la chiesa ci costruiva dei templi sopra, dovevano esserci dei sentieri; ma, come aveva detto il ragazzo, pochi sedoi nella Foresta del Re erano ancora usati dalla chiesa, anche se fino alla notte prima Aspar non aveva mai pensato a domandarsi il perché. Sapeva solo che la chiesa non si occupava della maggior parte di questi. Qualcun altro però lo faceva. Lo trovò su una collinetta, non lontano dal torrente, seguendo la puzza di carne putrefatta e il gracchiare degli avvoltoi. Il tempio era quasi distrutto, c'erano pochi massi ad accennare un'antica parete e un altare di pietra. Ma sugli alberi che lo circondavano, inchiodati mani e piedi, c'erano i cadaveri di uomini, donne e bambini. Erano stati squartati dallo sterno all'inguine e gli intestini sparsi come corde intorno al tempio a formare una specie di recinzione. Anche i grandi muscoli delle braccia e delle gambe erano stati strappati. Lì vicino, il fetore era talmente forte da farlo quasi vomitare. A differenza di quelli nei campi, questi cadaveri erano in stato di decomposizione, e gli alberi erano pieni di corvi sazi di carne umana. Alcuni corpi erano già stati privati degli arti, così da sconvolgere l'empia architettura costruita dagli assassini. Ai piedi della collina Orco nitrì e sbuffò. Aspar riconobbe il verso, e voltando la schiena a quel quadro spettrale, si affrettò a tornare indietro. Si fermò quando vide, vicino ai cavalli, nel groviglio accanto al torrente, un occhio grande come una mela. Il resto andava immaginato, nascosto nel mosaico d'ombre della foresta. Ma lo stava guardando, di questo era sicuro, ed era grande, grande abbastanza da lasciare l'impronta vista vicino al Torrente di Edwin. Più grande di Orco. Espirò lentamente e quando inspirò di nuovo raggiunse con la mano la faretra dietro la schiena, prese una delle frecce nere tre dita callose, la tirò fuori e la sistemò sull'arco. L'occhio si spostò e alcune foglie si mossero. Vide un becco nero, curvo e appuntito e si domandò se non fosse già morto per averlo guardato la creatura negli occhi.
Non riusciva a ricordare molto sui greffyn. Non esistevano e Aspar White non aveva mai prestato molta attenzione alle cose che non esistevano. Eppure quell'essere era lì e aveva ucciso i nomadi senza neanche toccarli. In qualche modo l'aveva fatto. Ma perché era ancora lì? Forse era andato e tornato? Sollevò l'arco, quando il greffyn avanzò lento nella radura. La testa ricordava vagamente un'aquila, come raccontavano le vecchie storie, anche se era più piatta. Non aveva piume, ma scaglie nere e di un verde scuro iridescente. Dal collo partiva una specie di criniera di pelo ruvido. Le zampe anteriori erano muscolose, come quelle di un bue, ma sinuose. Si muoveva come un uccello, a scatti, ma rapido e sicuro. Avrebbe avuto il tempo di tirare una sola volta, ma dubitava che fosse sufficiente. Mirò all'occhio. Il greffyn drizzò il capo e Aspar notò qualcosa che non aveva mai visto in un animale. Calcolo, riflessione. Disprezzo. Tese l'arco e grugnì: «Avanti, forza galletto vagabondo. O ti avvicini o te ne vai, non m'interessa niente, basta che fai una delle due cose.» Il greffyn si rannicchiò come un gatto che si prepara al salto. Tutt'intorno si fece silenzio. La corda dell'arco gli tagliava le dita, e il suo odore di resina gli bruciava nel naso. Sentiva il profumo del tappeto di foglie, dei fiori di castagno, e del fumo del bosco - e il suo; sapeva d'animale, sì, ma ricordava anche l'odore della pioggia sui sassi arroventati intorno a un falò. Guizzò come un serpente nell'atto di attaccare, saltando e allontanandosi, con un ronzio. Nonostante le dimensioni, era la cosa più veloce che avesse mai visto. Si precipitò nel prato, verso sud, muovendosi ad angolo retto rispetto a lui. In un battibaleno era sparito. Aspar rimase per un lungo momento a meravigliarsi e a chiedersi se sarebbe mai riuscito a colpirlo, felice che non si fosse avvicinato abbastanza per poterlo fare. Felice che il suo sguardo non lo avesse ucciso. Poi le gambe cominciarono a vacillare sotto di lui; il terreno della foresta si sollevò e lo schiaffeggiò sul viso, e gli sembrò di sentire Jesp la Sudicia, da qualche parte, che esplodeva nella sua risata carezzevole e indulgente. Si risvegliò con una mano che gli sfiorava il viso e un mormorio dolce. Fece per prendere il pugnale, o almeno ci provò, ma la sua mano non si
mosse. Mi hanno legato, pensò, o inchiodato a un albero. Ma poi aprì gli occhi e vide Winna, la figlia dell'oste di Coalbaely. «Cosa?» biascicò. Si sentiva la bocca impastata. «Ne hai toccato qualcuno?» gli chiese. «Non mi sembra di vedere segni, ma...» «Dove sono?» «Dove ti ho trovato, vicino al Taff. Proprio là dove tutta la famiglia di quel povero ragazzo giace morta. Hai toccato qualche corpo?» «No.» «Allora che ti succede?» Ho visto un greffyn. «Non lo so» le rispose. Adesso riusciva a muovere un po' le mani. Formicolavano. «Il ragazzo è morto» disse. «Quella mano rossa, anzi tutto il braccio gli si è fatto nero. Non era una ferita. Se l'era procurata provando a risvegliare la madre.» «Non ne ho toccato nessuno. Puoi aiutarmi a mettermi seduto?» «Sei sicuro?» «Sì.» Gli fece vedere le sue mani, mostrando segni rossi e infiammati sulle dita e i palmi. «Mi sono venuti lavandogli le ferite. Quella sera mi bruciavano, ma non gli ho dato importanza. A mezzogiorno, quando eri già andato via, ero piena di vesciche.» Un gelo si diffuse nella schiena di Aspar non appena gli tornarono in mente le dita mancanti di Symen. «Dobbiamo trovare una sanguisuga» disse. Winna scosse il capo. «Ho visto madre Cilth, mi ha dato un unguento e mi ha detto che il veleno era troppo debole per farmi male seriamente.» Fece una pausa. «Mi ha anche detto che avevi bisogno di me.» Aspar si mosse per dimostrare che si sbagliava, ma fu assalito da un attacco di vertigini. Winna andò a mettersi dietro di lui, infilò le sue piccole braccia sotto quelle dell'uomo e lo tirò su. Aspar si sentiva debole, ma con l'aiuto di Winna riuscì velocemente ad appoggiarsi a un albero, rimanendo in piedi. Lei aveva la pelle morbida e odorava di buono, di pulito. «Pensavo fossi morto» disse a bassa voce. «Mi hai seguito fin qui?»
«No, stupido, ho fatto un incantesimo col manico della mia scopa alv e ti ho riportato a Coalbaely. Sì, certo che ti ho seguito. Temevo che avresti toccato i corpi e rimanessi colpito da quel sortilegio che li ha uccisi.» La guardò. «Cavolate. Mi hai seguito da sola? Hai idea di quale rischio hai corso? Assassini e bestie si aggirano da queste parti anche di giorno, ma dimmi, non sei stata proprio tu ad avvisarmi che la foresta ormai è diversa?» «E non sei stato tu a prendermi in giro per avertelo detto? Ora sarai disposto ad ammettere che avevo ragione?» «Non è questo il punto» rispose secco Aspar. «Il punto è che avrebbero potuto ucciderti.» Le sopracciglia di Winna si abbassarono pericolosamente. «Aspar White, non sei l'unica persona a sapere tutto sulla Foresta del Re, almeno qui intorno. E poi chi di noi due stava per essere ucciso? Avrebbe potuto trovarti un bandito o un lupo, così come ti ho trovato io, e saresti morto nel sonno.» «Lo stesso lupo avrebbe potuto trovare te.» Esplose in una risata sincera. «Già, ed essersi saziato a tal punto con un guardaboschi che non mi avrebbe voluto. Aspar White, non stai sprecando il fiato per una cosa che ormai e già stata fatta?» Aveva una risposta a quella battuta, ne era sicuro, ma lo assalì un altro attacco di nausea, e tutto quello che riuscì a fare fu non vomitare. «Allora ne hai toccato uno!» esclamò, e la collera fu subito sostituita dalla preoccupazione. Lui scosse la testa. «Mi sono fermato a Tor Scath. Sir Symen ha trovato dei cadaveri come questi e ha perso due dita per averli toccati. Perché non hai mandato qualcun altro? Non saresti dovuta venire tu, Winn, qualunque cosa t'abbia detto quella vecchia strega di Cilth.» Lo guardò a lungo. «Sei uno sciocco, Aspar White» gli disse. Poi lo baciò. «Penso che la legna per il fuoco sia abbastanza» disse Winna, quando Aspar arrivò con il suo quarto fascio. «Anch'io» rispose. Rimase lì in piedi, impacciato per un attimo, poi indicò i conigli che si arrostivano sugli spiedi sopra un piccolo fuoco. «Hanno un buon profumo.» «Già.»
«Bene, dovrei...» «Dovresti sederti qui e raccontarmi che cosa è successo, non ti ho mai visto così, Asp. Sembri... be', non spaventato, ma quasi. Prima ti trovo in terra come morto, poi vuoi cavalcare all'impazzata fin quasi a notte. Che cosa ha ucciso quelle persone, Aspar? Pensi che ci stia inseguendo?» Hai lasciato qualcosa lì fuori pensò tra sé e sé, ricordando, nel frattempo, il contatto del respiro di lei con il suo. Qualcosa che ti sta annebbiando la mente. Rimase ancora un po' in piedi, poi si sedette dall'altra parte del fuoco. «Ho visto una cosa.» «Una cosa? Qualche animale?» «Una cosa che non dovrebbe esistere.» Lei allargò le mani e agitò le spalle, un silenzioso continua, ti ascolto. «I Sefry avevano delle filastrocche da bambino su di loro. Forse anche tu le hai sentite. Sui greffyn.» «Greffyn? Vuoi dire che hai visto un greffyn? Un leone con la testa d'aquila, ali e tutto il resto?» «Non esattamente come dici tu, perché non ho visto né ali, né piume. Ma qualcuno potrebbe descriverlo in quel modo. Era come un enorme gatto con il becco e si muoveva in qualche modo come un uccello.» «Be', si dice che odino i cavalli e che depongano uova d'oro, credo. Non c'era anche la storia di un cavaliere che provò ad addomesticarne uno per cavalcarlo?» «Ricordi qualcosa a proposito del veleno?» «Veleno? No, non me lo ricordo.» S'illuminò. «Non potrebbe essere stato un basilisco? Si dice che siano velenosi, ricordi? Potrebbero nascondere talmente tanto veleno in un albero che i suoi frutti ucciderebbero chiunque li mangiasse.» «Ecco. È questo che stavo cercando di ricordare. Winna, qualunque cosa io abbia visto, quello che tocca, muore.» «E a quanto pare anche qualunque cosa tocchi quello che l'ha toccata.» Improvvisamente il volto si piegò in una smorfia di terrore. «Non ti avrà mica toccato?» «No, mi ha solo guardato, tutto qua. Ma anche questo ha avuto il suo effetto, oppure forse c'era del veleno nell'aria. Non lo so.» «È per questo che ho voluto andar via in fretta, per portarti lontano da lì.» «Da dove credi che venga?» «Non lo so, forse dalle montagne.» Scosse le spalle. «Come li uccidono,
nelle storie?» «Aspar, No.» «Devo trovarlo, Winn. Lo sai, sono il guardaboschi, rifletti!» «Rifletti tu: come puoi uccidere una cosa che non puoi neanche guardare? Come fai a sapere che può essere ucciso?» «Tutto può essere ucciso.» «Questo è proprio da te. Tre giorni fa neanche credevi che questa creatura esistesse. Ora sai per certo che puoi ucciderla.» «Devo provarci.» Disse testardamente. «Certo» replicò disgustata. Girò un po' i conigli. «Ti dispiace che t'ho baciato?» gli chiese improvvisamente. La faccia le si avvampò quando lo disse, ma la voce era ferma. «Ah... no. Solo che io...» Si ricordò delle sue labbra, di un sapore caldo, della guancia di lei che accarezzava la sua e i loro occhi così vicini. «Non lo farò più» continuò. «Non mi aspettavo che lo rifacessi.» «No, la prossima volta dovrai essere tu a baciare me, Aspar White, se ci sarà mai un altro bacio. Chiaro?» Chiaro? No, proprio per niente! Pensò. «Werlic! Chiaro!» mentì. Che cosa voleva dire con questo? Voleva che lui si avvicinasse e la baciasse adesso, oppure pensava che fosse stato un errore baciarlo? Una cosa era certa: alla tenue luce del fuoco, era davvero attraente. «I conigli sono pronti» disse. «Bene, ho fame.» «Allora tieni.» Gli passò uno degli spiedi. Era ancora bollente quando gli diede il primo morso. Per un po' ebbe una scusa perfetta per non parlare, o non baciare, o non impegnare la bocca in un'attività diversa dal masticare. Ma quando arrivò alle ossa scivolose, il silenzio si fece di nuovo insopportabile. «Winna, conosci la strada per Tor Scath? È a meno di una giornata a est da qui.» «So dov'è.» «Sapresti arrivarci da sola? Non mi piace chiedertelo, ma se ti riaccompagno fin là e poi torno, ho paura di perdere la traccia del greffyn.» «Non ci vado a Tor Scath.» «È troppo lontana Coalbaely da qui, con quel tipo di esseri che vagano nel bosco. In realtà...» S'interruppe. Il greffyn non aveva mani, giusto?
Come aveva fatto a inchiodare quella gente sugli alberi e a mettere su un recinto con i loro intestini? «In realtà, a pensarci bene, ti accompagno io a Tor Scath. La traccia del greffyn può aspettare.» «Aspar, se mi porti a Tor Scath, scapperò alla prima occasione che mi si presenta, e ti seguirò di nuovo. Se mi porti indietro a Coalbaely, farò la stessa cosa. Se non mi vuoi mandare in giro per la foresta da sola, devi portarmi con te, e questo è quanto.» «Portarti con me?» «Se sei tanto pazzo da dare la caccia a questa cosa, non te lo lascerò fare da solo.» «Winna...» «Non si discute» disse. «Ho deciso.» «Cavolo, Winna! Questo mostro è la cosa più pericolosa che abbia mai sentito e tanto meno visto. Devo preoccuparmi di te oltre che di me...» «Quindi starai doppiamente attento, no? Ci penserai meglio prima di fare qualche sciocchezza.» «Ho detto di no.» «E io ho detto che non si discute» concluse Winna. «Ora, possiamo parlare di qualcosa di più piacevole oppure possiamo dormire un po' e muoverci presto domani. Quale delle due cose?» Aspar smosse il fuoco con la punta dello spiedo unto. Lì nei paraggi Orco brontolò qualcosa. «Vuoi fare il primo turno di guardia o quello della mattina?» chiese alla fine. «La mattina» rispose subito. «Tirami quella coperta e non dimenticare di svegliarmi.» Qualche minuto dopo, si era addormentata. Aspar si mise l'arco in spalla e uscì dal cerchio di luce. Erano tornati indietro a Brogh y Stradh, e non molto lontano si intravedeva tra gli alberi uno dei numerosi prati montani. Si portò sul bordo di uno di questi e guardò la luna che sorgeva. Era grande e arancione, quasi piena. Un uccello notturno emise un richiamo e Aspar rabbrividì. Aveva sempre amato la foresta di notte e trovato nelle foglie il letto più comodo del mondo. Ora l'oscurità sembrava una tana piena di vipere. Si ricordò dell'occhio del greffyn, del suo spaventoso disprezzo. Come si poteva uccidere una cosa del genere? Forse il giovane prete lo sapeva, o forse no, e comunque era troppo tardi. Ormai era almeno a una giornata di viag-
gio da d'Ef. Magari anche Winna fosse così lontana. Magari non lo avesse trovato. Non importa con quanta onestà avesse pronunciato quelle parole tra sé e sé, perché suonavano false. Disgustato girò le spalle alla malvagia luna e tornò vicino al fuoco e al respiro lento e regolare di Winna. Capitolo undici In senso antiorario Quando ebbero raggiunto il luogo dei festeggiamenti, Fastia aveva riempito la testa di Neil con nomi di così tanti lord, lady, servitori, grefi, arcigrefi, margrefi, ufficiali di corte, siniscalchi, duchi, conti, landfroas, andvati, baroni e cavalieri che per poco non gli scoppiava. Per la maggior parte del tempo aveva annuito col capo e emesso suoni per farle capire che stava sentendo. Intanto, sir Fail, che stava ancora parlando col re, si era allontanato sempre di più. Il resto del seguito reale li aveva superati ed erano rimasti solo lui, Fastia e alcuni dei cavalieri senza stemma. Giunti in cima alla collina, tra miriadi di meravigliose tende sgargianti, piante rigogliose e domestici in costume, anche Fastia si scusò. «Ho bisogno di parlare con mia madre» spiegò. «Dettagli sui festeggiaménti. Vi prego, cercate di divertirvi.» «Ci proverò, arcigrefia. Vi ringrazio infinitamente per la conversazione.» «È stata breve» rispose Fastia in modo formale. «È raro che giunga una ventata d'aria fresca in questa corte, perciò vale la pena di respirarla quando arriva.» Iniziò ad allontanarsi, poi si fermò, rigirò il cavallo e avvicinò la testa a quella di lui, così tanto che Neil poté sentire il suo profumo alla cannella. «Ci sono altri della corte che non avete ancora conosciuto. Vi ho indicato mio zio Robert, il fratello di mio padre? Ha anche due sorelle: Lesbeth, la duchessa di Andeneur ed Elyoner, la duchessa di Loiyes. Troverete la prima dolce e simpatica nella conversazione. Vi consiglio di evitare Elyoner, almeno fino a che non sarete più esperto, può essere pericolosa per i giovani come voi.» Neil fece un inchino dalla sella. «Grazie di nuovo, principessa Fastia, per la vostra compagnia e i consigli.»
«Di niente.» Questa volta si allontanò senza voltarsi. Rimase da solo, così ebbe il tempo di far scendere tutte quelle parole dentro di sé, cercando di capire cosa aveva intorno; gli sembrava tutto così caotico. E realizzò di avere incontrato il re. Non un re qualunque, ma il re, l'Amrath, l'Adrey - l'imperatore di Crotheny e dei regni vassalli, la più grande nazione del mondo. Cominciò una breve preghiera per ringraziare san Lier. «Guarda come cavalca sir Bifolco» disse qualcuno dietro di lui. «Pregate di poter rimanere in sella, sir Bifolco?» rispose un altro con una risata fragorosa. Neil terminò la sua preghiera, poi si guardò intorno per vedere chi fosse questo 'sir Bifolco' e trovò due cavalieri vestiti di nero e verde che lo guardavano. Quello che aveva parlato aveva un naso aquilino e una barbetta nera. Il compagno aveva il volto butterato, i denti scheggiati e occhi di ghiaccio. Nelle vicinanze un altro cavaliere iniziò a muoversi verso di loro. «Vi sbagliate, almeno per un motivo» replicò Neil. «Non possiedo quel titolo e quindi non posso essere nessun tipo di 'sir'.» «Allora è solo Bifolco? Che peccato» disse il cavaliere, tirandosi pensoso il pizzetto. «Vedendo che cavalcate così male, avevo pensato di vedere come cadevate, ma credo che se aspetto un po', succederà da sé.» «Vi ho offeso in qualche modo, sir?» «Offeso è una parola grossa. Mi divertite.» «Be', penso che dovrei essere felice, se posso far divertire un gran signore come voi» rispose Neil con voce pacata. «Voi pensate? Non sapete neanche chi sono, vero?» «No, sir. Non portate stemmi.» «Questo somaro isolano non sa chi sono, compagni.» Arrivò il terzo cavaliere, un uomo grande come un orso, con una folta barba bionda. «A volte anche vostra madre finge di non conoscervi, Jemmy» rispose con una voce bassa. «Lasciate stare il ragazzo.» Quello increspò le labbra come per formulare una risposta, poi però si mise a ridere. «Suppongo che debba obbedire» disse. «Dopo tutto, è troppo in basso rispetto a me e non vale la pena prenderlo in giro. Vai pure, Bifolco.» Spronò il cavallo e si voltò con indifferenza. «Vi prego, sir, ditemi il vostro nome» gli gridò dietro Neil. Il tipo si voltò lentamente. «E perché mai, Bifolco?» «Perché quando prenderò la rosa e sarò investito cavaliere potrò sfidarvi.»
Il cavaliere rise, e con lui il suo compagno. «Molto bene» rispose. «Sono sir James Cathmayl. Sarò lieto di ucciderti, non appena prenderai la rosa. Girano voci che sei solo un cucciolo smarrito, sempre ai calcagni di sir Fail, senza casa, terre, titolo, né buon nome. È vero?» Neil si drizzò sulla sella. «Tutto tranne l'ultima cosa. Mio padre mi ha dato questo nome, e suo padre prima di lui, e abbiamo sempre servito fedelmente il Toute del Liery per tre generazioni. MeqVren è un buon nome, e chi lo mette in dubbio è un bugiardo.» Alzò la testa. «E se è vero che sono un uomo di poco conto, come mai girano già delle voci su di me?» Sir James si lisciò i baffi. «Perché sir Fail, anche se eccentrico, è uno degli uomini più importanti del regno e perché hai già parlato sia col re, sia con la regina.» «E perché si dice che tu abbia fatto cacare sotto tre scudieri di quello zotico di Alareik Fram Wishilm» aggiunse il gigante con la barba bionda. «Anche» ammise sir James. «Siete una curiosità, ecco cosa siete.» «E chi siete voi invece? Quale signore servite?» Barba bionda rise amabilmente; gli altri due sogghignarono. «È proprio un ragazzino, vero?» grugnì sir James, ruotando gli occhi. «Chi pensi che siamo, ragazzo?» Non aspettò la risposta, ma si girò e cavalcò via. E dietro di lui, Faccia Butterata. Neil arrossì, ma tenne duro. «Siamo i maestri, ragazzo» disse Barba Bionda. «La guardia del corpo reale.» «Ah.» Ovviamente aveva sentito parlare della guardia più famosa della regione. Che stupido era stato a non riconoscere i loro colori. «Vi porgo le mie scuse. Avrei dovuto capirlo dalla vostra presenza intorno al re.» Il biondo scrollò le spalle. «Non badare a Jemmy. Quando avrai imparato a conoscerlo, ti renderai conto che non è un tipo cattivo.» «Posso sapere il vostro nome?» «Perché? Vuoi sfidare anche me?» «No di certo. Vorrei conoscere il nome dell'uomo che si è mostrato gentile nei miei confronti.» «Bene, sono Vargus Farre, al tuo servizio. Mi fa piacere conoscerti, e ti auguro buona fortuna. Penso però che sia onesto dirti questo: non ho mai sentito di un uomo di umili origini che sia stato nominato cavaliere, e se tu, per miracolo, dovessi essere il primo, avrai poca pace. Sarai considerato un affronto, e ogni cavaliere del paese vorrà sfidarti. Segui il mio consiglio: rimani con sir Fail come suo uomo d'arme. Sarà un bene per te.»
«Prenderò quello che il re vorrà darmi, non desidero altro» replicò Neil. «Il mio unico desiderio è servire sua maestà come meglio posso.» Sir Vargus sorrise. «Queste parole le ho sentite così spesso che ormai non hanno più senso del grido delle oche. Eppure credo che tu le pensi veramente.» «Certo.» «Bene, che i santi ti sorridano allora. Ora devo fare il mio dovere.» Neil lo vide allontanarsi, e continuò a sentirsi uno stupido. Poi notò che lo fissavano da lontano. Anche se il re e sir Fail sembravano soli, di fatto avevano intorno i maestri che si tenevano in cerchio a una certa distanza, in modo da non farsi notare. Ma appena qualcuno si muoveva verso il re, loro facevano lo stesso. Cercò la regina e la trovò sull'orlo della collina, che parlava con due signore. Anche lì, i maestri vigili facevano la guardia e mantenevano la distanza. Si diceva che questi uomini avessero rinunciato a ogni terra e proprietà per entrare nel corpo di guardia. E che non provassero dolore né desiderio, che nessuno potesse tener loro testa e che le loro armi fossero state forgiate dai giganti. Forse per questo non li aveva riconosciuti. A Neil sembravano uomini normali. Di nuovo solo, Neil ebbe il tempo per riflettere su quanto si sentisse fuori posto. A Liery sapeva chi era. Neil, figlio di Fren, e dopo la distruzione del suo clan, figlio adottivo di Fail de Liery. Soprattutto era stato un guerriero, e anche valoroso. Perfino i cavalieri di Liery lo avevano riconosciuto e si erano complimentati con lui. Era stato uno di loro in tutto, tranne che per il titolo. Nessuno era riuscito a batterlo in combattimento, dall'età di quattordici anni. Nessun nemico dei de Liery lo aveva più vinto da quel giorno sulla spiaggia. Ma cosa poteva fare invece in un posto come questo, con tende ornate di trine e gente in costume, dove perfino il più civile della guardia reale gli parlava con formalità? Che cosa mai avrebbe potuto fare qui? Meglio servire l'impero come aveva sempre fatto, come un guerriero di confine, dove importava poco se avevi la rosa o no, e contava invece solo come maneggiavi la spada. Avrebbe trovato Fail de Liery e gli avrebbe chiesto di non raccomandarlo. Era l'unica cosa ragionevole da fare. Si guardò intorno e vide sir Fail staccarsi dal re.
«Andiamo Uragano» si rivolse al suo destriero «diciamoglielo e speriamo che non sia troppo tardi.» Ma, girandosi, diede un'occhiata veloce alla regina. Quello spettacolo per un attimo lo bloccò. Era ancora a cavallo e la sua figura spiccava sul cielo azzurro. Dietro di lei, la terra declinava in lontananza in un prato, avvolto dalla foschia mattutina. Una brezza le increspava i capelli. Realizzò che la stava fissando da troppo tempo, e fece per girarsi, quando un movimento attirò il suo sguardo. Era uno dei maestri, al galoppo, che correva inclinato su un lato attraverso il prato verso di lei, con un lungo lampo d'acciaio fra le mani. Neil non pensò, ma spronò il cavallo. Di certo il cavaliere si affrettava per scongiurare qualche minaccia. Neil cercò freneticamente con lo sguardo mentre galoppava, ma non vide niente contro cui il cavaliere avrebbe potuto scontrarsi. Allora capì. Sfoderò Corvo, e la brandì lanciando il lacerante grido di guerra dei MeqVren. Austra rise quando Anne cacciò via uno zoticone vestito da orco, brandendo la sua spada fatta con un ramo di salice. «È divertente» disse la dama di compagnia. «Per fortuna che lo dici tu» replicò Anne. «Altrimenti non me ne sarei mai accorta.» «Dai, sciocchina. Anche tu ti stai divertendo.» «Forse un po', ma è arrivato il momento di dividerci, bella dama.» «Che cosa vuoi dire?» chiese Austra. «Sei il mio cavaliere. Chi altro mi scorterà al centro del labirinto e alla corte della regina di Elphin?» «Non dovrai arrivare fin là, lo sai bene. Devi trovare Roderick e dirgli di incontrarmi al tempio di san Sottomondo.» «A Eslen-delle-Ombre? Quello è...» «L'ultimo luogo in cui ci cercherebbero, e non è distante da qui. Deve incontrarmi al crepuscolo. Trovalo e poi vieni di nuovo a cercarmi nel labirinto. Poi andremo insieme verso la corte per il compleanno di mia sorella, e nessuno si accorgerà di niente.» «Non lo so. Fastia e tua madre ci staranno osservando.» «In mezzo a tutta questa confusione? Sarebbe difficile, non credi?» «Difficile quanto per me trovare Roderick.» «Ho fiducia in te Austra. E adesso corri!»
Austra sfrecciò via e Anne continuò nel labirinto da sola. Sapeva come trovare l'uscita nei labirinti. Alcuni dei suoi primi ricordi erano legati alla proprietà di Glenchest di sua zia Elyoner, a Loiyes, e alla sua enorme siepe a labirinto. Ne aveva avuto paura, finché sua zia non le aveva spiegato il segreto. Bisognava semplicemente tenere una mano su una parete e camminare, mantenendo sempre il contatto. Così si riusciva ad arrivare fino in fondo. Poteva essere una cosa lunga, ma mai quanto brancolare in modo confuso intorno allo stesso angolo per quattro ore. Non aveva fretta, ma per abitudine teneva la mano sinistra sulla parete fiorita. Nel frattempo i bambini e i nani di corte, vestiti da uomini neri e kovald, correvano gridando e facendo smorfie feroci. Molti giganti di corte erano travestiti da uttin con teste di maiale e zanne o da troll con la pelle verde e gli occhi rigonfi. Cappello da Caccia, il giullare di suo padre, si toccò la falda del cappello in segno di saluto quando Anne passò, con la faccia in ombra, l'unica parte del corpo visibile, poiché tutto il resto era coperto da abiti voluminosi che gli gonfiavano perfino le mani. Sperava che Austra avrebbe trovato Roderick. Il bacio nel frutteto era stato ben diverso da quello frettoloso nella città dei morti; o meglio, i baci nel frutteto, perché le sembrava di aver perso la cognizione del tempo per più di mezz'ora, mentre era con lui. Un bacio non era solo labbra, come aveva sempre immaginato. Era anche viso e occhi così vicini, che tenendoli aperti non si sarebbe potuto nascondere nulla. E il calore dei corpi - quello l'aveva spaventata un po', e confusa. Ne voleva ancora. Anne si fermò, con la mano sempre sulla parete. C'era qualcosa di diverso. Le sembrò di essere entrata in un angolo del labirinto che nessun altro aveva trovato, neanche i 'mostri' che avrebbero dovuto abitarlo. Era così assorta nei suoi pensieri, che non ci aveva fatto caso. Ora, drizzando le orecchie, non riusciva neanche più a sentire gli altri. Ma quanto poteva essere grande quel labirinto? Anche i fiori erano cambiati. Qui le pareti erano di primule bianche e scarlatte - ed erano più fitte. Non riusciva a vedere niente dall'altra parte. In effetti alla base gli steli erano molto fitti, come se crescessero lì da molto tempo. Ma era stata su Tom Woth a metà inverno, e non c'era traccia di un labirinto. I girasoli potevano crescere più alti di una testa in pochi mesi, ma era impossibile che ci fosse una fitta siepe di primule come questa.
Il suo respiro accelerò. «Ehilà!» gridò. Nessuno rispose. Accigliata, Anne si girò, e stavolta era la mano destra a toccare la parete che stava seguendo. Camminando velocemente tornò indietro. Dopo un centinaio di passi o giù di lì, si alzò la gonna e cominciò a correre. Il labirinto era ancora fatto di primule, ora del rosso del tramonto, poi blu come il cielo e bianche come la neve, rosa e color lavanda. Non c'erano girasoli né piselli attorcigliati, né giullari o bambini vestiti da folletti o cortigiani divertiti. Solo infiniti corridoi di fiori e il suo respiro affannato. Alla fine si fermò, cercando di mantenersi calma. Ovviamente non si trovava più su Tom Woth, ma allora, dov'era? Il cielo sembrava lo stesso, eppure qualcosa era cambiato. Qualcos'altro rispetto al labirinto. Dapprima non riuscì a capire, poi spalancò la bocca, e senza volerlo iniziò a tremare. Non riusciva a vedere il sole, quindi doveva essere tramontato; eppure non c'erano ombre, né quelle del labirinto, né la sua. Si sollevò la gonna. Perfino sotto di lei il prato era illuminato uniformemente come tutto il resto. Si diede uno schiaffo, poi un pizzico, ma non cambiò nulla. Finché a un tratto, dietro di sé, sentì una risata debole e roca. Il tempo rallentò, come succedeva spesso a Neil in momenti come questo. Il cavallo del maestro sembrava spostarsi lentamente verso la regina; le sue zampe scintillavano e ondeggiavano come acque nere sotto la luna. La regina non aveva ancora notato niente di insolito, perché il cavaliere nero e verde le si stava avvicinando da dietro, ma Fastia era rivolta verso il cavaliere che sopraggiungeva e l'espressione del suo volto si trasformò poco a poco da stupore in orrore. Perché l'obbiettivo del maestro era proprio la regina. Teneva la spada all'indietro, all'altezza della vita e parallela al terreno, preparando il colpo conosciuto come falciatura, mirato a baciare il collo di sua maestà e a fare una fontana della sua amabile gola. In quei lunghi istanti di calcolo, Neil rimase sospeso tra diverse possibilità. Se il maestro non esitava, non avrebbe mai fatto in tempo a fermarlo. Il maestro non esitò, ma il cavallo sì, vedendo Uragano arrivare così veloce. Una sola esitazione, più piccola di un secondo, ma fu abbastanza.
Uragano si abbatté sulla parte posteriore dell'altro cavallo, colpendolo con tanta forza da far compiere un giro al maestro. Per questo, il colpo di Neil volto a decapitarlo terminò alto, ma il ragazzo riuscì ad afferrarlo con il braccio sinistro, e i due uomini vestiti d'acciaio cozzarono l'uno contro l'altro con il frastuono di una tonnellata di catene gettate sui ciottoli dalla torre di guardia. Poi ci fu un intreccio di arti senza peso e Neil si accorse che sulla collina c'era un burrone. Loro due ci stavano per volare dentro come gli uccelli più goffi e improbabili del mondo. Un tuono echeggiò ripetutamente quando atterrarono sull'erba e presero a rimbalzare e a rotolare. A Neil sfuggì la presa e si separarono. Corvo non era più nelle sue mani. Finalmente si arrestò contro una roccia, e il suo sguardo si riempì di lampi come scintille su un'incudine. Non sapeva quanto fosse rimasto steso in terra, ma non doveva essere passato molto, perché lui e la guardia reale erano ancora soli, sebbene la cima della collina in lontananza brulicasse di figure. Neil riuscì ad alzarsi in piedi qualche istante prima del maestro, che giaceva a una decina di passi di distanza. Fortunatamente Corvo era rimasto a metà strada tra i due. Purtroppo, però, il cavaliere aveva ancora la sua spada in mano. Neil non riuscì a raccogliere Corvo in tempo e fu colpito per primo, sull'avambraccio. Pur rivestito d'acciaio come era, la lama pesante gli avrebbe frantumato l'osso, se non avesse piegato il braccio ad angolo, facendo scivolare la lama di lato. La violenza del colpo attraversò tutto il corpo fino all'anca, come un fulmine, e per un attimo il tempo si fermò di nuovo. Poi Neil raccolse Corvo, il suo avvoltoio affamato, sollevando la lama parallela al terreno con una mano: un colpo debole, ma dritto sotto il mento del cavaliere. L'elmo lo parò, ma la testa scattò all'indietro e ormai Neil aveva tutte e due le mani intorno alla sua arma. Assestò un altro colpo a destra, colpendo di nuovo l'elmo, ma stavolta proprio lì dove avrebbe dovuto esserci l'orecchio. Il cavaliere cadde a terra. Neil aspettò che si alzasse. Lo fece, ma l'elmo era profondamente ammaccato, e l'uomo zoppicava un po'. Era un tipo grosso, e dal modo in cui teneva la mezza guardia, Neil capì che sapeva combattere senza scudo.
Il maestro colpì, arrivando dritto, fingendo di mirare alla testa e abbassandosi invece per colpire sotto il braccio. Fu ben fatto, ma Neil capì e fece un passo lungo e veloce a destra, e la lama fendette inutilmente l'aria. Corvo, invece, sollevata come per parare la finta, tornò indietro e colpì di nuovo l'elmo conico, nello stesso punto in cui l'aveva preso prima. Questa volta, dalla visiera zampillò sangue. Il suo nemico barcollò e cadde, provando a girare la testa. Neil sospirò, fece alcuni passi e si sedette, avendo bisogno di fare dei respiri profondi. Non fu facile. La sua bella armatura nuova era sfondata da sotto il braccio sinistro fino all'anca, ed era sicuro che anche le costole fossero rotte. Sentì delle grida da sopra, troppo acute per essere di cavalli. Cinque maestri scendevano giù per la discesa, come meglio potevano con le loro armature. Neil sollevò di nuovo Corvo, pronto a riceverli. L'abito era di un rosso così scuro che sembrava quasi nero, ed era bordato con strani ricami rosso rubino arricciati e lucenti. Sopra portava un mantello nero, ricamato di stelle, draghi, salamandre e greffyn d'oro pallido. Capelli color ambra, legati in centinaia di trecce, arrivavano fino alla vita. Indossava una maschera d'oro rosso, finemente forgiata. Aveva un sopracciglio alzato, come per esprimere divertimento, e le labbra avevano un'espressione capricciosa, quasi un ghigno. «Chi siete?» le chiese Anne. La voce suonò ridicola alle sue orecchie, tremante come quella di un uccellino. «Hai camminato in senso antiorario» le disse la donna dolcemente. «Devi stare attenta quando lo fai, perché l'ombra finisce dietro di te, e non puoi proteggerla. Qualcuno potrebbe rapirtela. Così.» Fece schioccare le dita. «Dove sono i miei amici e la corte?» «Dove sono sempre stati. Siamo noi a trovarci altrove. Noi ombre.» «Riportatemi indietro. Riportatemi indietro immediatamente. O...» «O cosa? Credi di essere una principessa, qui?» «Riportatemi indietro, vi prego.» «Lo farò, ma prima devi ascoltarmi. È la mia unica condizione. Abbiamo poco tempo.» Questo è un sogno, pensò Anne. Proprio come quello dell'altra notte. Fece un respiro profondo. «Va bene.» «Crotheny non deve cadere» disse la donna. «Certo che no, ma che cosa intendete?»
«Crotheny non deve cadere, e deve esserci una regina a Crotheny quando lui arriverà.» «Quando arriverà chi?» «Non lo posso nominare. Non qui, non adesso, e il suo nome non ti sarebbe d'aiuto.» «C'è già una regina a Crotheny. Mia madre è la regina.» «E così deve rimanere.» «Sta per succedere qualcosa alla Mamma?» «Non posso vedere il futuro, Anne, vedo solo il bisogno. E il tuo regno avrà bisogno di te. Questo è inciso sulla terra e sulla pietra. Non so dire quando, né perché, ma ha a che fare con la regina: tua madre, o una delle tue sorelle... o te.» «Ma non ha senso. Se succede qualcosa a mia madre, non ci sarà un'altra regina, a meno che mio padre non si risposi. E non può sposare una delle sue figlie. Se succede qualcosa a mio padre, invece, mio fratello Charles sarà il nuovo re, e qualunque donna sceglierà come moglie, questa sarà la regina.» «Comunque, se non ci sarà una regina a Crotheny, quando lui arriverà, tutto sarà perduto, e intendo dire proprio tutto. Ti affido questo compito.» «Perché io e non Fastia? È lei la...» «Sei la più giovane, e questo ha un valore. È compito tuo, una tua responsabilità. Se fallisci, sarà la rovina del tuo regno e di tutti gli altri. Hai capito?» «Tutti gli altri?» «Hai capito?» «No.» «Allora ricorda. Ti basterà ricordare, per il momento.» «Ma io...» «Se vuoi saperne di più, chiedi ai tuoi avi. Forse loro possono aiutarti, laddove io non posso. Adesso vai.» «No, aspettate. Voi...» Qualcosa la face sobbalzare e batté le palpebre. Quando riaprì gli occhi, Austra era davanti a lei, e la scuoteva. «Anne! Che ti succede?» la voce di Austra era isterica. «Fermati!» le ordinò Anne. «Dove è andata? Dov'è?» «Anne! Stavi qui con lo sguardo fisso, senza reagire, nonostante ti scuotessi con forza!» «Dove è andata la donna con la maschera d'oro?» Ma la donna con la maschera era sparita. Guardando in basso, Anne vide
che aveva di nuovo un'ombra. Parte seconda Il regno della notte e della foresta Anno 2.223 di Everon Mese di truthmen Quando gli eserciti dell'uomo sconfissero gli Skasloi, i santi prevalsero sui vecchi dèi. Con la loro sconfitta, gli antichi incantesimi degli Skasloi persero molto del loro potere, ma non furono distratti completamente. Fu il Sacaratum - la santissima crociata che diffuse la saggezza e le benedizioni della chiesa in tutti i regni di Everon - a purificare il mondo dal male. Quello che resta sono solo fantasmi nella mente degli ignoranti e degli eretici. Dalla Naration Lisum Saahtum: La proclamazione della legge sacra, rivista nel 1.407 E. dai Maims del Senaz della Chiesa Niwhan scalth gadauthath sa ovil Sleapath at in werlic Falhath thae skauden in thae raznes Af sa naht ya sa holt. (Il male non muore mai Si addormenta solamente Ombre si nascondono nel regno Della notte e della foresta) Proverbio ingorn Capitolo uno Gli Halafolk
Il fulmine squarciò un albero, così vicino che Aspar sentì il crepitio sul terreno umido e l'odore metallico e bruciacchiato dell'aria. Orco ebbe un sussulto e Angela nitrì, impennandosi furiosamente. Lo stesso fece Pony Pasticcio, il cavallo di Winna, tanto che lei dovette aggrapparsi alla criniera con la mano libera. Il vento ululava tra i rami come un esercito di fantasmi in fuga, e i vecchi alberi scricchiolavano come titani condannati davanti al Signore della Tempesta. Un tuono basso brontolò lontano e vivaci scoppi di rame risuonarono più vicini. Ruote di carro e schiocchi di frusta, li aveva chiamati una volta il padre, quando Aspar era ancora molto giovane. Non riusciva a ricordare il volto del padre, né il nome e quasi nient'altro tranne quella frase e l'odore affumicato della pelle di daino conciata con il tannino. «Non dovremmo uscire da qui sotto?» gli chiese Winna, alzando la voce contro la tempesta in arrivo. «Sì» concordò Aspar. «La domanda è questa: dove andiamo? E la risposta: non lo so. Non c'è nessun altro posto dove andare, a meno che non ci siano nomadi da queste parti di cui non sono al corrente.» Uno stormo di rondini passò garrendo sopra la loro testa, quasi confondendosi tra le foglie scosse dal vento furioso. Cadde una goccia di pioggia, grossa come un uovo di quaglia. Aspar scrutò il paesaggio. In quelle due settimane sulle tracce del greffyn si erano addentrati parecchio, tra le felci basse intorno al fiume Slaghish. Questo aveva le sue sorgenti a sud, sulle Montagne della Lepre, da dove stava arrivando la tempesta. Se non avessero trovato un altopiano, presto alla preoccupazione dei fulmini si sarebbe aggiunta anche quella dell'inondazione. Non veniva qui da molto tempo, e comunque anche in passato c'era capitato solo di passaggio. Quale lato della valle si alzava più velocemente? A quanto ricordava, doveva esserci un crinale vicinissimo se si prendeva la giusta direzione, ma diventava distante alcune leghe se si andava in quella opposta. All'improvviso si ricordò di un'altra cosa. Gliel'aveva detta Jesp, tanti, tanti anni prima. «Proviamo da questa parte» gridò. «Il fiume?» «Mi sembra che si possa guadarlo in questo punto.» «Se lo dici tu.» L'acqua era già agitata e piena di fango. Smontarono da cavallo e cercarono il punto per attraversarlo, Aspar guidava. A metà tragitto l'acqua gli
arrivava al torace e quasi al collo di Winna. La corrente aumentò parecchio mentre guadavano il fiume; non sarebbero potuti tornare indietro velocemente. Una volta dall'altra parte, rimontarono in sella e cavalcarono il bassopiano verso est. Poco più tardi, la pioggia arrivò davvero. Man mano che i ruscelli che si gettavano nello Slaghish crescevano di livello, la terra si faceva sempre più umida, e Aspar temette di aver commesso un errore. Lo preoccupava il fatto che avrebbero dovuto arrampicarsi su un albero, lasciando i cavalli liberi di badare a se stessi. Ma poi, alla fine, la terra cominciò a salire, e iniziarono ad allontanarsi dalla valle. La pioggia era battente ora, un'implacabile cortina grigia. Aspar era fradicio fino al midollo e Winna sembrava sconsolata. La tempesta si fece più violenta e intorno a loro non c'erano che rami e alberi squarciati dai fulmini e trasportati dal vento. Se quello che Jesp gli aveva detto era vero - e se gli anni non avevano offuscato troppo il ricordo - il crinale avrebbe dovuto essere roccioso, pieno di caverne e ripari. Anche una semplice sporgenza sarebbe stata ben accetta. Fu con un certo sollievo che trovò il versante roccioso. Allora forse Jesp gli aveva detto la verità, cosa che era per lui sempre una piacevole sorpresa. Dopo tutto aveva voluto bene alla vecchia strega, e a modo suo anche lei gliene aveva voluto. Seguirono il crinale, mentre, sopra di loro, il cielo grigio tempesta si andava scurendo. Stava calando la notte e la tempesta continuava ad aumentare. I suoi calcoli si rivelarono giusti, però. Ancora con luce a sufficienza per vedere, trovò un rifugio sotto una sporgenza, ampio abbastanza da poter ospitare comodamente i due viaggiatori e i loro cavalli. «Grazie ai santi» disse Winna. «Credo che non sarei riuscita a sopportare tutto questo neanche un secondo di più.» Sembrava pallida e congelata. Non era freddo fuori, ma la temperatura era comunque più rigida di quella di un corpo umano e la pioggia aveva lavato via tutto il tepore. Aspar srotolò un'incerata trattata con la resina per respingere l'acqua e tirò fuori una coperta asciutta. «Togliti i vestiti bagnati e avvolgiti in questa» le disse. «Io torno subito.» «Dove stai andando?»
«A cercare legna da ardere.» «Pensi di trovare qualcosa là fuori che possa bruciare?» disse battendo i denti. «Sì, tu cambiati.» «D'accordo, girati.» «Sto uscendo.» Ci volle un po' per trovare quello che cercava - ramoscelli di pino per accendere il fuoco, legna asciutta nei ripari della roccia e altra roba che forse avrebbe fatto fumo, ma che comunque si sarebbe accesa. Quando ne ebbe fatto un bel fascio ed ebbe riempito uno zaino con esche per il fuoco tornò alla caverna. Ormai era quasi buio, i tuoni più forti si erano allontanati, ma il vento faceva ancora schioccare i rami. Winna, ben avvolta nella coperta, lo guardò in silenzio mentre faceva crescere la fiamma dalla legna umida. Aspar notò che aveva tolto la sella ai cavalli e li aveva spazzolati. «Grazie per esserti occupata di Orco e Angela» disse. Annuì pensierosa. «Pensi che adesso perderemo le tracce?» gli chiese. Aspar scosse la testa. «La cosa strana delle tracce del greffyn è che diventa più facile seguirle se ci teniamo a una distanza maggiore da lui: le cose hanno più tempo per morire.» «E a proposito degli uomini?» Esitò. «Lo hai notato anche tu, vero?» «Asp, non sono abile a seguire le tracce, non ho neanche mai cacciato, ma non sono stupida. Le impronte dei cavalli sono chiare e ho visto che ce n'è più di uno; di tanto in tanto ci sono anche quelle degli stivali.» «Già.» «Pensi che qualcun altro stia seguendo il greffyn?» «No. Penso che qualcuno stia viaggiando con lui.» Le spiegò con riluttanza la sua teoria sui corpi al sedos, quelli uccisi chiaramente da uomini, aggiungendo anche i racconti di sir Symen su omicidi simili. «Ti ci sono voluti quindici giorni per raccontarmi questo?» «All'inizio, non ero sicuro che questi fossero con lui. Le tracce s'incrociano, si dividono e poi tornano insieme.» «C'è qualcos'altro che non mi hai detto?» «I Sefry credono che tutto questo sia opera del Re degli Alberi.» Si fece ancora più pallida. «Tu ci credi?» gli chiese. «All'inizio no.» «Ma adesso sì?»
Esitò un po' troppo. «No» «Questo è proprio da te, Asp. Ammettere che potrebbero aver ragione ti farebbe apparire un credulone, vero?» «Forse avrei dovuto dirtelo dall'inizio» replicò. «Forse allora sarei riuscito a convincerti a non venire.» «No, qui ti sbagli.» Fece la faccia coraggiosa, ma lui notò che il mento le tremava. Ebbe improvvisamente una tentazione irrefrenabile di stringerla fra le braccia, tenerla al caldo e ammettere di essere un bastardo scorbutico e prometterle che tutto sarebbe andato a finire bene. «Perché odi così tanto i Sefry, quando loro invece ti hanno allevato? Quando hai addirittura amato una di loro?» Quelle parole spezzarono qualcosa che sì era ormai freddato dentro di lui, e lo fecero rispondere duramente. «Questo è un maledetto problema che non ti riguarda, Winna» esclamò irritato. Quando sul suo volto notò il dolore per quella risposta non riuscì più a guardarla. Si sentì quasi sollevato vedendola alzarsi in piedi in silenzio e dirigersi verso i cavalli. Dapprima pensò che forse stava piangendo, ma non le diede importanza. Winna era una dura, non una lagnosa come certe donne. Ficcanaso sì, ma non lagnosa. Avrebbe voluto non aver usato quel tono, ma era troppo tardi adesso, e chiedere scusa non avrebbe migliorato la situazione, o forse sì? Il giorno dopo, il cielo era ancora plumbeo, ma la pioggia era cessata, lasciando solo la nebbia nella valle sottostante. Come Aspar aveva immaginato, i bassipiani si erano allagati e ci sarebbero voluti diversi giorni perché si asciugassero. Decise di continuare verso sud, lungo il crinale; il tragitto del greffyn si era comunque mantenuto più o meno in quella direzione. Prima di mezzogiorno trovarono piante morte o morenti. Ogni traccia umana era sparita, ma se lo aspettava. Come al solito, gli uomini seguivano il mostro fiancheggiando il velenoso percorso, non camminandoci sopra. «Il Re degli Alberi» disse Winna, rompendo per la prima volta quel gelido silenzio. «Quando vivevo a Glangaf, nominavamo un Re degli Alberi ogni anno - sai, per la festa di primavera. Rompeva i barili di birra e guidava le danze. A noi bambini dava caramelle di zucchero e regali. Quando ci trasferimmo con mio padre a Coalbaely, per rilevare l'attività di mio zio, lì non facevano la stessa cosa. Le vecchie costruiscono fantocci di vimini e
al loro interno bruciano polli. Si fanno il segno del male se qualcuno pronuncia il suo nome.» «Già, Coalbaely è più vicina alla foresta e la sua gente per la maggior parte è di vecchio stampo. Non sono come gli abitanti di montagna di Virgenya o come i fattori dell'Ovest. Per quella vecchia gente con il Re degli Alberi non si scherza.» «Che cosa dicono i Sefry a proposito?» Aspar si schiarì la voce con una certa riluttanza. «Che una volta era un principe tra le vecchie divinità, quelle che hanno creato il mondo. Mentre tutte le divinità morirono, lui fu maledetto e costretto a vivere. Il suo unico desiderio è morire, ma l'unico modo per farlo è distruggendo il mondo. Gli Scaosen, che hanno ucciso i vecchi dèi, riuscirono a costringerlo a dormire, ma più o meno all'inizio di ogni età si risveglia...» Si accigliò. «C'è una donna, per quello che so io, e c'è un ladro che ha provato a derubarlo e che ormai fa parte della maledizione. E un certo cavaliere condannato, le solite stupidaggini. Non ho mai prestato attenzione a queste cose.» «Ricordo di aver sentito che si sveglia solo quando la terra sta male» aggiunse Winna. «Nella città di Dolham dicono che si svegli ogni anno» grugnì Aspar. «Che inizi a tossire e a girarsi in autunno, riapra le crepe degli occhi nel cuore dell'inverno e poi cambi posizione e si riaddormenti a primavera. Tutte le storie raccontano una cosa diversa, ecco perché non ci credo. Se fossero vere, dovrebbero dire la stessa cosa.» «Non sono totalmente diverse» disse Winna. «Tutte sembrano considerare il suo risveglio una cosa negativa.» «Fatta eccezione per il tuo amico Rovescia Birra di Glangaf.» «Anche lui ha fatto cose brutte. Ricordo un tipo che era stato giudicato adultero dal Comven della città. Il Re degli Alberi gli rovesciò addosso sterco di maiale proprio in mezzo alla piazza e gli sradicò mezzo raccolto di patate. Qualunque cosa facesse il Re degli Alberi andava sopportata. Dopo la festa della primavera, nessuno voleva vederlo, perché in quel caso stava arrivando per punire qualcuno. E doveva farlo, capisci? Faceva parte dei compiti attribuitigli al momento della scelta.» «Strana città, Glangaf. Alla fine dell'anno che succedeva al tipo scelto per fare il re?» «Ognuno fingeva di perdonarlo, ma di solito non lo facevano.» «In base a cosa sceglievano il re ogni anno?» «Gli uomini tiravano a sorte, chi perdeva doveva fare il re.»
«Che fine hanno fatto le tracce?» chiese Winna. Aspar si stava domandando la stessa cosa, e la risposta che gli si presentava non gli piaceva. Si trovavano di fronte a una rupe della stessa roccia gialla e friabile che li aveva riparati la notte precedente. Alle spalle di questa, le colline si inerpicavano ripide. Un ruscello gocciolava dalla cima, picchiettando in un laghetto di circa venti passi di diametro. Da qui partiva un torrente che proseguiva lungo la collina per arrivare nei bassipiani dello Slaghish. A sud, il vago profilo delle Montagne della Lepre s'impennava tra nuvole imperturbate. Le tracce portavano nell'acqua. «Non toccarla» l'avvisò Aspar. «Lo so meglio di te» replicò Winna, mentre Aspar smontava da cavallo e cominciava a indagare. Niente tracce, niente pesci morti. Forse la tempesta aveva ripulito per bene il laghetto. In realtà, secondo i suoi calcoli erano ad almeno tre giorni dalla bestia, quindi dubitava che l'acqua fosse la stessa di quando era passato il greffyn; ormai era tutta nello Slaghish, in direzione del Mago e probabilmente del mare di Lier. Comunque, voleva esserne sicuro. Trovò una scarpata che gli permise di salire sulla cima della rupe. Non c'erano segni del passaggio del greffyn lassù. Ridiscese. «Non sono nell'acqua?» chiese Winna. «È entrato, non penso che sia uscito.» Cominciò a incordare l'arco. «Vuoi dire che credi sia affogato?» «No.» «Allora...» Iniziò a indietreggiare. «Guarda» gli disse indicando. Sulla superficie del laghetto gerridi tessevano ragnatele increspate e piccoli pesci andavano a caccia intorno alle sponde. «Se fosse ancora là dentro, questi non sarebbero vivi, non credo.» «A meno che non possa scegliere se uccidere o no. In questo caso, può darsi che si stia nascondendo, in tua attesa.» «No, non credo. Non penso che il laghetto sia così profondo.» «Allora?» «Jesp, la donna sefry che mi ha allevato, mi parlava spesso di questo posto. Diceva che su queste colline c'era una rewn degli Halafolk.»
«Una che?» «Gli Halafolk abitano in caverne nascoste. Le chiamano rewn.» «Pensavo che fossero solo cose da racconti fantastici.» Aspar scosse la testa. «Se mi ricordo bene, questa si chiama Rewn Aluth. Credo che Jesp dicesse la verità.» «Gli Halafolk» ripeté Winna. «Là sotto?» «Già. Scommetto che c'è un'entrata sotto l'acqua. È tipico.» «Sei... sei già stato in una di queste rewn?» Annuì. «La maggior parte della gente crede che i Sefry e gli Halafolk siano due popolazioni diverse; non è così. I carovanieri sono nomadi, stanno sempre in viaggio. Ma, di tanto in tanto, tornano a casa. Quando ero bambino, mi portarono con loro.» Si sedette su un sasso e iniziò a slacciarsi la corazza. «Che cosa stai facendo?» gli chiese Winna. «Le tracce che stiamo seguendo, quelle che si accompagnano al greffyn, possono benissimo essere sia sefry sia umane.» «Vuoi dire che si sono uniti? Che gli Halafolk sono responsabili degli omicidi?» «Tutti i cadaveri che ho visto sono umani. Sono anni che cerchiamo di cacciare i Sefry dalla foresta reale. Forse si sono stancati di questo.» «Se è così, non puoi entrare lì dentro da solo. Anche se il greffyn non ti uccide, lo faranno gli Halafolk. Hai bisogno di un esercito o di qualcos'altro.» «Il re, per mandare un esercito, esige un buon motivo. Posso dargli solo supposizioni, per il momento.» Si tolse la casacca. «Aspettami qui» le disse. Il laghetto era poco più profondo della sua statura e abbastanza limpido perché riuscisse a trovare ciò che stava cercando: un'apertura rettangolare nella roccia che lo portasse all'interno della collina e leggermente più in basso. Tornò indietro. «C'è un tunnel» disse. «Vado a vedere dove porta.» «Fa' attenzione.» «D'accordo.» Tolse la corda dall'arco e lo ripose nella custodia, rimettendolo sulla sella di Orco, insieme alla sua corazza. Si accertò di avere con sé il pugnale e l'ascia, prese fiato più volte, con lunghi respiri, poi ne fece uno più profondo e si tuffò.
Il tunnel era piuttosto largo e liscio, ma non ebbe problemi a spingersi avanti. Ciò che l'ostacolava era l'oscurità. La luce del giorno svanì piuttosto rapidamente alle sue spalle e i polmoni iniziarono a fargli male. Si ricordò troppo tardi che gli Halafolk erano famosi per creare delle false entrate ai loro rifugi. Trappole studiate per uccidere gli incauti. E gli venne in mente che il tunnel era troppo stretto per potersi girare e tornare indietro. Sarebbe riuscito a tornare indietro tanto velocemente da salvarsi la vita? No, non ce l'avrebbe fatta. Nuotò più veloce. Macchie colorate iniziarono a danzargli davanti agli occhi. E poi l'aria, umida e dall'odore di sabbia, ma pur sempre aria, e oscurità totale. Respirò qualche altro attimo prima di riprendere l'esplorazione. Era in un'altro laghetto, non molto più largo di quello da cui era entrato. Tastando, Aspar capì che questo era circondato da una camera con muri di pietra grezza che sembravano proseguire in una sola direzione. Era abbastanza per il momento. Sarebbe tornato indietro per la stessa strada che aveva fatto, avrebbe preso tutte le sue armi e qualche torcia e sarebbe venuto di nuovo qui per scoprire dove portava il passaggio. Avrebbe dovuto in qualche modo convincere Winna a rimanere indietro. Quella sarebbe stata la parte più difficile. Stava giusto pensando a questo, quando sentì un rumore nell'acqua e un respiro affannato alle sue spalle. Tirò immediatamente fuori il pugnale, tenendolo tra sé e l'ignoto. «Aspar! Aspar sei qui?» «Winna! Ti avevo detto di non seguirmi, e abbassa la voce!» «Aspar!» Teneva la voce bassa, ma lui colse lo stesso un tono terrorizzato e convulso. «Subito dopo che ti sei tuffato, sono arrivati alcuni uomini a cavallo. Tre, forse quattro. Hanno cominciato a tirarmi delle frecce. Non sapevo cosa fare e...» Durante tutto quel tempo l'aveva cercata nell'oscurità, adesso l'aveva trovata e, quando la toccò, lei uscì dall'acqua con passò malfermo finendo dritta nelle sue braccia, stringendolo con una forza che lui non avrebbe mai immaginato. Nell'oscurità gli fu facile stringerla a sua volta. «Tre o quattro, hai detto? Potevano essere anche di più?» «Forse. È stato tutto così rapido, Aspar. Orco e Angela sono ancora liberi.»
«Meglio così, hai fatto bene Winna. Sei sveglia, ragazza!» «E adesso? Se mi hanno seguita?» «Erano umani o Sefry?» «Non ho potuto vedere molto bene le loro facce. Indossavano dei cappucci.» «Allora forse erano Sefry.» «Per tutti i santi! Questo significa che ci inseguiranno. Siamo già nel loro rifugio!» «Forse. Sarà meglio non farci trovare qui, quando arriveranno. Dammi la mano. Cerca di sentire con l'altra e con i piedi, e mantieni la calma. Ce la faremo, Winna, fidati di me.» «Mi fido di te, Aspar.» «Bene.» Ora, pensò, se solo mi fidassi di me stesso. Che diavolo di situazione. Capitolo due D'Ef «Bene, eccolo lì» disse Henne, volgendo il viso abbronzato verso Stephen, e un sorriso di denti scheggiati. «Che cosa?» chiese Stephen. Non vedeva niente di insolito, solo la Strada del Re, i lunghi fusti dalla corteccia pallida delle betulle nere, e il verde tumulto delle canne che segnava l'argine del fiume Ef, alla loro destra. Henne indicò un cespuglio di felci, poco dopo Stephen si rese conto che dietro di esse si celava un marcatore di confine in pietra. Da quel punto della Strada del Re, si staccava un sentiero, forse battuto dai cervi, che passava nella foresta. «Alla fine di questo c'è la terra del monastero. La strada principale entra da sud, ma questo vi porterà lì più in fretta.» «Non riesco a vedere il monastero.» «Già, perché è alla base della collina, a circa un'altra lega di distanza. Cavalcherò con voi fin là se lo desiderate.» Stephen si morse il labbro. Ultimamente, era diventato più cauto ad andarsene da solo per la foresta. «Probabilmente, come minimo, vi daranno qualcosa da mangiare, per avermi accompagnato per tutta la strada» disse al cacciatore. «Certo» rispose Henne. «Ma allora dovrei fermarmi un po' ed essere ca-
rino con loro. Niente in contrario con questo, ma il villaggio di Whitraff è a tre leghe più a valle e vorrei arrivarci in tempo per il rintocco della sera. A Whitraff c'è quel tipo di persone simpatiche, che in genere non si trova in un monastero, senza offesa per voi, ragazzo.» «Ah,» disse Stephen «non vi preoccupate. Riuscirò a fare l'ultima lega da solo. Grazie tante per la vostra compagnia durante il viaggio.» «Di niente» rispose Henne. «Forse di tanto in tanto verrò a trovarvi, perché sir Symen manda qualcuno lì a comprare vino e formaggio, e per assicurarsi che tutto vada bene. Può darsi che mi fermi quando torno, magari potete metterci una buona parola per un prezzo vantaggioso.» «Sicuramente dirò al fratrex dell'ospitalità della gente di Tor Scath» promise Stephen. «D'accordo, gite con la bona ventura, allora» disse Henne rigirando il cavallo verso la Strada del Re. «Che i santi vi proteggano» replicò Stephen. Un istante dopo, per la prima volta dal suo rapimento, Stephen si ritrovò da solo. Con sua sorpresa, si sentì felice. Stette in sella per un momento, assaporando il silenzio della foresta. Improvvisamente si chiese che effetto gli avrebbe fatto essere Aspar White, solitario e a casa sua in questa grande terra. Libero, senza legami con nessuno, capace di andare e venire come il vento. Non aveva mai sperimentato quella sensazione, né l'avrebbe mai fatto in futuro. Non ci aveva neanche mai pensato fin a quel momento. La sua strada era stata decisa; essendo l'ultimo figlio, era stato il tributo di suo padre alla chiesa, fin dalla nascita. E Stephen voleva servire, soprattutto studiare, lo voleva veramente. Ma a volte... Accigliato per certi ridicoli pensieri, spronò il cavallo e si mosse. La foresta iniziò a diradarsi. I ceppi diventarono comuni quanto gli alberi, e poi anche più frequenti. Le radure erano piene di more e coreopsidi rosse, prugni selvatici, denti di leone e mirtilli. Il ronzio degli insetti cresceva e calava intorno a lui, e per la prima volta dopo giorni, il sole caldo riusciva a scendere a terra senza ostacoli. Questo lo mise di buon umore e cominciò a suonare una piva. Un tonfo e una maledizione nel sottobosco lo interruppero e gli mandarono il sangue alla testa. Per un attimo terribile, veniva di nuovo tirato giù da cavallo, legato e imbavagliato da uomini che avrebbero potuto ucciderlo da un momento all'altro. Per qualche istante di batticuore la memoria sem-
brò più vera della realtà. Si calmò quando vide un vecchio con il saio da fratir dell'ordine decmanusiano. «Posso aiutarvi?» domandò Stephen. «Come?» I cespugli grigi delle sopracciglia del vecchio si alzarono verso il cielo. «Chi siete voi?» «Sono Stephen Darige, del Cape... Ehm, Stephen Darige, al vostro servizio.» «Bene, bene. Avete intenzione di comprare formaggio?» «No, a dire il vero io...» «Sì, sì. Il nostro formaggio è famoso in lungo e in largo. Vengono qui da Fenburh per questo. Bene, visto che state andando a d'Ef, i santi vi sorriderebbero se voleste aiutare un povero vecchio.» «Come ho già detto, sono al vostro servizio. Qual è il problema?» «Non esistono problemi quando i santi prevalgono, giovanotto, solo una sfida.» Fece un timido sorriso. «Ma bisogna essere saggi e capire quando una sfida va accettata. Ho un fagotto di legna da ardere qui, che ho ehm... infagottato troppo. Vi sarei molto grato se mi aiutaste con questo. È qui, intrappolato in questi rovi di mora.» Per enfatizzare quanto aveva detto, diede un calcio a qualcosa che Stephen a momenti non riuscì neanche a vedere. «Non c'è problema» disse Stephen, smontando da cavallo. «Non c'è problema per un fratir. Siete un novizio o un primo iniziato? Non so distinguere i sai.» «Sono quello che vedete» rispose il tipo, un po' mortificato, illuminandosi di nuovo rapidamente. «Sono fratello Pell.» «Siete di Hornladh?» «Sì, sì, certo.» All'improvviso sembrò insospettirsi. «Come avete fatto a capirlo?» «Avete il nome di san Queislas» spiegò Stephen, in modo un po' compiaciuto. «Il suo nome ha molte forme: Ceasel, qui a Crotheny, ma è solo dalle parti delle campagne di Hornladh che lo chiamano san Pell.» «Non è vero. Lo chiamano così anche a Tero Gallé.» «Con tutto il rispetto, caro fratello, lì è conosciuto come Pell.» «È quasi la stessa cosa.» «Quasi, ma comunque diversa.» Fratello Pell lo guardò con gli occhi socchiusi per un po', poi scrollò le spalle. «Ecco la legna, allora.» Sorrise vago.
Stephen guardò in basso. Il fagotto era enorme, probabilmente pesava più del vecchio. «È stata una fortuna che sia arrivato io» disse Stephen. «Quanto dista il monastero?» «Mezza lega. I santi hanno deciso, mi darete una mano?» «Riposatevi un attimo, fratello, lo prendo io.» «Grazie mille, giovane cavaliere esperto di nomi di santi.» «Prego» rispose Stephen, tirando le pesanti corde che legavano i ramoscelli. Dopo un gran da fare di strappa, tira e alza, riuscì a metterselo sulla schiena. Era davvero pesante e scomodo, le ginocchia quasi gli tremavano. Mezza lega! Sarebbe stato fortunato se fosse riuscito a portarlo fino al cavallo. Che fosse la bestia a trascinarlo. Ma quando iniziò a mettere giù il fagotto dietro al cavallo, il vecchio chiese: «Che cosa state facendo, giovane cavaliere?» «Ho intenzione di attaccare la vostra legna al mio cavallo.» «No, no, signor Darige. Non si può. San Decamnus, il patrono del nostro santuario, è piuttosto chiaro al riguardo. Le braccia degli alberi devono essere raccolte da braccia umane e portate da braccia umane. Non ci è permesso servirci del vostro cavallo per la legna.» «Ah.» Stephen spostò leggermente il peso sulla schiena. Non l'aveva mai sentita quella. «Bene allora, porreste prendere voi le redini?» «Certo, signor Darige.» Continuarono lungo il sentiero, Stephen brontolando sotto il carico, fratello Pell fischiettando un motivetto reel. La foresta finì all'improvviso e dalla sua posizione curva, Stephen poté vedere bene il prato verde cosparso di pizze di escrementi di vacca. Quando riuscì a convincere la testa ad alzarsi, vide una distesa di bei pascoli in cui brucavano placide mandrie bianche e ruggine. «Già, la fonte del nostro famoso formaggio» disse fratello Pell. «Sono una buona razza, ma il segreto è l'erba. Quando è inzuppata dalla rugiada è di una dolcezza mai sentita. Vi verrebbe quasi voglia di mangiarla, vero?» Il fratello salutò un paio di pastori, e questi lo ricambiarono dal posticino all'ombra dove si stavano riposando, vicino a un fiumicello fiancheggiato da salici. «Il pesce è eccellente in quel torrente» osservò fratello Pell. «È un buon posto per meditare.» Poi ripeté ridacchiando: «Pesce eccellente nel torrente. Quasi un verso, no?»
«Credo di aver bisogno di meditare adesso» disse Stephen a denti stretti. Quel fiumiciattolo ombreggiato pareva un paradiso. «Via, non manca molto» gli assicurò fratello Pell. «Guardate, stiamo entrando nel frutteto.» Stephen stava cominciando un altro trattato. Il mio viaggio con il dannato, parte seconda: lo strano caso del monaco con il cervello da gallina. Se a prima vista questa creatura dall'apparenza umana sembra intelligente, l'illusione svanisce presto quando prova a fare una conversazione... Mentre Stephen componeva, avanzava vacillando tra file di meli dai dolci fiori primaverili, regno di api e farfalle. Le gambe lo imploravano di fermarsi, e di appoggiarsi solo per un attimo a uno di quei tronchi profumati. Pensò alle mele; voleva addentarne una e lasciar colare il succo sul mento. Pensò al sidro freddo che gli rinfrescava la gola secca come una pergamena. Le parole del suo trattato si fecero più aspre. «Sentite, fratello, quanto manca ancora?» «Non si può neanche più parlare di una distanza vera e propria. Ditemi, signor Stephen, come mai sapete quelle cose sui nomi dei santi?» «Sono andato al collegio di Ralegh. Sono venuto qui per riempire il posto vacante nello scriftorium.» «San Lujé! Siete il ragazzo che viene da Virgenya! Avevamo perso le speranze! Sono state fatte tre ricerche, ma non è stata trovata traccia di voi.» «Sono stato rapito» rispose Stephen, tra lunghi respiri affannati. «Mi ha salvato il guardaboschi. Mi ha portato a... Tor Scath.» «Il vostro santo protettore deve avervi salvato allora. Ma... perché mi avete detto di essere venuto qui per comprare del formaggio?» Stephen riuscì ad alzare un occhio per fissare il monaco. ...ogni pensiero che entra nella sua testa svolazza qua e là nel vuoto come un insetto senza meta, causando una perplessità infinita... «Non l'ho mai detto» rispose Stephen esasperato. «Io...» «Ecco, ecco, ho capito. Sono sicuro che le vostre disavventure vi hanno reso più cauto. Ma adesso siete al sicuro, siete con noi. Guardate, viviamo lì.» Indicò in una direzione, ma Stephen riusciva a vedere solo il terreno, finché non sollevò il capo più in alto e poi ancora di più. Il sentiero si abbarbicava sui ripidi fianchi di una collina a forma di cono, e lì, appollaiate
proprio sulla cima, c'erano le mura e le torri del monastero d'Ef. «Coraggio!» disse fratello Pell. «Affrettiamoci e forse arriveremo in tempo per il praicersnu. Penso che oggi ci siano ciliege e prosciutto.» Ma Stephen era allo stremo delle forze, ormai. «Mi riposo un attimo prima di arrampicarmi» disse, forse con un tono un po' aspro. «No, ragazzo, no! Non si può. Avete messo piede sul suolo sacro. Ricordate il vostro san Decamnus! Il fardello è una benedizione sulla strada dei giusti. Non mettetelo giù fino alla fine del viaggio, dove vi verrà tolto.» «Non sono sicuro che intendesse un peso in senso letterale» protestò Stephen. «Per tutti i santi, non sarete mica uno di quelli che inventano infinite scuse per dire che i santi non hanno mai detto una cosa, o se l'hanno detta, non ne avevano intenzione, vero? Non funziona così qui. Inoltre siete sotto gli occhi del reverendo fratrex, e dovreste provare a fare una buona impressione su di lui.» «Pensate davvero che il fratrex ci stia guardando adesso?» «Sicuro! Non rischierei proprio ora, se fossi in voi.» «Pensavo che un fratrex avesse di meglio da fare che guardare fuori da una finestra tutto il giorno» si lamentò Stephen. «Andiamo ragazzo, forza!» Con un altro sospiro di rassegnazione, Stephen iniziò a salire su per il sentiero. Crollò proprio davanti alle porte di d'Ef, tra le risate e i ghigni di alcuni uomini con il saio, che tornavano dai campi. «Fratello Lewes,» disse fratello Pell a un tipo grosso coi capelli color sabbia «potresti prendere il carico del nostro nuovo fratello?» Il monaco annuì, si avvicinò e sollevò il fagotto come se fosse stato una catasta di ramoscelli. «Venite dall'altra parte» disse fratello Pell. «Ho l'impressione che abbiate bisogno di un po' d'acqua.» «Ve ne sarei molto grato» rispose Stephen. Senza il peso schiacciante della legna, Stephen diede un'altra occhiata al monastero. Era stato costruito nello stile austero del periodo dei primi de Loy; i reggenti della dinastia Liery, che sedevano sul trono di Eslen, fecero venire architetti da Safnia e Vitellio per unire il loro talento alla maestria degli artigiani locali. Qui il risultato era eccezionale, potente e pratico,
costruito con granito rosa pallido. La cappella era contraddistinta da una torre campanaria a doppio arco, posta sopra una navata lunga e stretta, con una guglia. Le porte erano incastrate in archi alti. Due ali partivano dal centro della cappella e si allungavano per trenta iarde, poi curvavano ad angolo retto e tornavano verso Stephen, diventando più piccole delle porte della cappella. Nei due cortili chiusi da queste tre pareti, c'erano orti di piante medicinali, piccoli vigneti, polli, edifici scoperti, qualche cane inoperoso e diversi monaci intenti in varie attività. Fratello Pell lo condusse nel cortile a destra, attraversando un arco di quell'ala, e Stephen vide che il retro della struttura era speculare al davanti. Questo cortile, però, era più tranquillo, adornato da piante di rose e statue e tabernacoli dedicati a vari santi. Contro la parete della cappella era stato eretto un chiosco coperto di vite e sotto c'erano panche di legno e tavoli per mangiare. Fratello Pell portò Stephen verso una panca. La tavola era apparecchiata con una caraffa, due boccali e diversi vassoi di cibo. «Sedete, sedete» lo invitò fratello Pell. Prese la caraffa di gres e versò un bicchiere d'acqua per tutti e due. Era fredda e pura; quando gli scese in gola gli sembrò la risata di un angelo. Stephen la bevve tutta d'un fiato e si riempì un altro bicchiere. Fratello Pell aveva rivolto la sua attenzione ai vassoi coperti con un panno. «Che cosa abbiamo qui?» disse, sollevando il telo di lino. La risposta fece venire l'acquolina a Stephen: pane croccante, una forma di formaggio morbido e sapido, fette di prosciutto rosso mattone così salato che già poteva sentirne il sapore sulla lingua, e ciliege di stucco rosso e giallo. «Posso?» chiese Stephen. «Solo il pane» replicò fratello Pell. «Ai novizi non è permesso mangiare carne, formaggio o frutta nel loro primo mese qui al convento.» «Neanche...» Chiuse la bocca. Aveva sentito parlare di questo tipo di cose, avrebbe dovuto essere preparato. Fratello Pell rise amabilmente e batté le mani tre volte. «Mi scuserete, vero? Vi stavo prendendo in giro. Prego, mangiate tutto quello che volete. Non ci sono dure leggi sul cibo qui, tranne nei giorni di digiuno o quando viene assegnata la contemplazione. 'Mangiare con parsimonia, ma bene': è questo il nostro motto qui. «Allora...» «Fatevi una scorpacciata» lo esortò Pell. Stephen eseguì alla lettera. Si impose di mangiare lentamente, ma era
difficile. Il suo stomaco voleva tutto e subito. «Che cosa vi ha condotto qui, fratello Darige?» chiese fratello Pell. «Alla chiesa o a d'Ef?» «A d'Ef, so che avete richiesto specificatamente questo monastero.» «Sì, è vero. Per il suo scriftorium. Ne esiste solo un altro più grande, quello nel sacarasio del Calilo Vallaimo a z'Irbina.» «Ah, già. Ora capisco il vostro interesse per i nomi e cose del genere, ma perché non siete andato lì allora? Perché proprio d'Ef?» «Il Caillo Vallaimo ha più scritti. D'Ef però ha i migliori, almeno per quello che interessa a me.» «Cioè?» «D'Ef ha la migliore collezione di testi sui primi giorni degli Egemoni in questa regione.» «E perché v'interessa questa roba?» «È la cronaca della diffusione della fede, le lotte contro le eresie e la magia nera. Mi interessano molto anche le prime lingue di queste regioni, quelle parlate prima che venisse imposto il vitelliano.» «Capisco. Allora siete pratico di dialetti e manoscritti allotersi?» Stephen annuì eccitato. «È stato il mio principale corso di studi.» «E di vadiano?» «Quello è un po' più difficile. Esistono solo tre righe scritte in quella lingua, pur essendo molto simile all'Antico Piatii, per quello che so. Io...» «Abbiamo dieci scrifti in vadiano qui. Nessuno è mai stato completamente decifrato.» «Cosa?» per l'eccitazione Stephen rovesciò il boccale, che volò dal tavolo e si ruppe in mille pezzi ai piedi del frate. «Oh!» disse Stephen, mentre fratello Pell si piegava a raccogliere le schegge. «Oh, mi dispiace, fratello Pell, ero così...» «Non fa niente, fratello Darige, vedete?» E Stephen vide con la bocca spalancata. Fratello Pell aveva raccolto i pezzi, ma sul tavolo rimise un boccale intero, dal quale usciva un leggero vapore. «Voi...» Stephen guardò più volte tra il vecchio e il bicchiere risanato e si sentì punzecchiare la faccia da migliaia di spilli. «V-voi avete fatto un sacaum riparatore. Solo un...» Arrivò all'inevitabile conclusione. «Voi allora dovete essere il r-reverendo fratrex» balbettò. «Ebbene sì. Vedete? Ho di meglio da fare che guardare da una finestra tutto il giorno.» Le folte sopracciglia si inarcarono pericolosamente. «E ora
dobbiamo pensare a cosa fare di un giovane così orgoglioso, eh sì.» Capitolo tre Venti di guerra «Non siamo in guerra con voi» spiegò l'arcigrefio Valamhar af Aradal a William II e alla sua corte, accarezzandosi i baffi biondi. «Anzi, Hansa non è in guerra con nessuno.» William contò fino a sette, un trucco che gli aveva insegnato suo padre. Un re non dovrebbe rispondere troppo velocemente, dovrebbe sempre apparire calmo. Il vecchio gli aveva dato un sacco di consigli, la maggior parte dei quali, William l'aveva scoperto più tardi, veniva da un libro scritto secoli addietro dal primo ministro di Ter Eslief, un paese che non esisteva neanche più. Cambiò posizione sul semplice trono di frassino bianco di Hadam e si guardò intorno nella stanza minore del trono. Era 'minore' solo perché non era ornata come la stanza in cui si svolgeva l'incoronazione e si riuniva l'alta corte. Per dimensioni era ugualmente imponente, con il suo alto soffitto a volte e il pavimento di marmo rosso, così grande da far apparire piccolo anche un tipo grasso e arrogante come Aradal. Era proprio questo il punto. Le guardie di Aradal stavano dietro di lui, con l'armatura, ma senza armi, e indossavano sorcotti dagli accesi colori rosso sangue e nero. Dieci maestri erano più del doppio rispetto a quei quattro. A destra di William c'era il praifec Marché Hespero, in abito scuro e cappello quadrato. A sinistra, dove avrebbe dovuto esserci un primo ministro, c'era invece Robert, vestito di velluto giallo acceso e verde. Le uniche altre persone nella stanza erano il barone sir Fail de Liery, con un sorcotto grigio, e il suo giovane protetto Neil MeqVren. Sette... Ora riuscì a parlare in tono calmo, anziché in preda alla collera. «Non erano truppe hanzish quelle che su navi hanzish hanno saccheggiato quattro città delle Isole del Dolore? Mi sembra che siamo pericolosamente vicino a una guerra, per come la vedo io.» «La guerra,» rispose Aradal «se così si può definire questa piccola scaramuccia, è tra le Isole e Saltmark. Saltmark, sicuramente lo sapete, è una
vecchia alleata di Hansa. Ci ha chiesto aiuto, e le abbiamo dato quello che abbiamo potuto reperire; le nostre navi e truppe sono sotto il suo comando. Dopo tutto sono state le Isole del Dolore ad attaccare. E vorrei anche farvi notare, vostra maestà, che queste Isole non fanno parte dell'impero crotanico.» William poggiò il gomito sul bracciolo del trono e il mento sul pugno chiuso, guardando l'ambasciatore hanzish. Aradal aveva una faccia grossa e rosa, su un corpo massiccio sfarzosamente vestito con un farsetto di pelle di foca nero, ricamato con della porporina; portava stivaletti di pelle di capretto rossi ornati di diamanti; difficile che potesse rappresentare la virilità hanzish. Eppure tutto questo era ingannevole, come ben sapeva William per sua amara esperienza. Quell'uomo era furbo come un corvo. «Le Isole del Dolore sono sotto la nostra protezione» disse William «così come Saltmark è sotto la vostra, come ben sapete. Quale prova avete che il re Donech sia stato l'aggressore in tutta questa faccenda?» Aradal sorrise. «È iniziata come un conflitto per il territorio di pesca, maestà. I fondali occidentali sono pescosi e, per il trattato, sono territorio neutro. Nell'ultimo anno, dieci pescherecci di Saltmark indifesi sono colati a picco per mano delle navi corsare doloriane. Ne sono stati affondati altri tre nelle acque territoriali di Saltmark. Chi avrebbe sopportato questa violazione del trattato? E che razza di protettore sarebbe Hansa se restasse ferma a guardare mentre i nostri alleati affrontano la flotta doloriana? Una flotta equipaggiata e rifornita da Liery e Crotheny?» «Ho chiesto prove, non racconti di marinai» esplose William, dimenticando di contare i secondi. «Che prove ho che le navi di Saltmark siano state affondate e, se anche fosse vero, che a farlo siano state navi delle Isole del Dolore?» Aradal giocherellava con i baffi. Chissà se le labbra si muovevano, se stava contando anche lui. Maledetto libro. «Possiamo dimostrarlo» disse infine l'ambasciatore. «Abbiamo testimonianze in quantità. Ma la vera prova è che vostra maestà ha raddoppiato il numero delle sue navi sulle Isole.» «Così come voi avete più che raddoppiato le vostre a Saltmark.» «Ah, è vero! Ma sembra che voi abbiate mandato le vostre navi prima di noi» replicò Aradal. «Questo non significa forse che vostra maestà era ben a conoscenza di un conflitto che stava scoppiando tra le Isole e il nostro protettorato? Non conoscevate forse la causa della guerra, prima di intraprendere un'azione simile?»
William mantenne un'espressione impassibile. Aveva spostato le navi in segreto, di notte, verso porti nascosti. Come aveva fatto Hansa a saperlo? «Che cosa intendete dire?» gli chiese. «Che noi abbiamo affondato i vostri pescherecci?» «No, sire. Solo che voi sapevate che le Isole sarebbero andate incontro a una giusta vendetta. Che sono come i vostri figli e anche se dovessero sbagliare, le proteggereste ugualmente.» Il suo sguardo s'indurì. «E che sarebbe un errore, così come lo sarebbe costringere un solo cavaliere, soldato o comandante dell'esercito di Crotheny a unirsi a questo conflitto.» «Che cos'è, una minaccia?» «È una semplice constatazione. Se muovete guerra a Saltmark, dovete muovere guerra anche a Hansa, e questo, maestà, non sarebbe buono per nessuno.» Sir Fail de Liery, fino a quel momento tranquillamente seduto, con uno scatto balzò in piedi dalla sua panca. «Senti un po' damerino! Credi che Liery se ne starà buona mentre voi conquistate i nostri cugini con questo ridicolo pretesto?» «Se Liery si unisce alle Isole del Dolore, non avremo altra alternativa che considerarci in guerra anche con voi» replicò l'ambasciatore. «E senza dubbio» disse pacato William facendo cenno a de Liery di rimettersi seduto «mi consigliate di non unirmi a Liery! E quando sia Liery sia le Isole saranno nelle vostre mani, e qualche scusa vi permetterà di rivolgere la vostra attenzione ad Andemeur. continuerete a insistere che non sono affari miei! Che cosa direte, quando vi sarete accampati sulla Manica? O nel mio salotto?» «Non è di questo che stiamo parlando, maestà» rispose tranquillamente Aradal. «Quando Saltmark stipulerà un nuovo trattato con le Isole del Dolore, questa piccola, triste faccenda sarà conclusa. Abbiamo goduto di trent'anni di pace, maestà. Non mettiamola a rischio, vi supplico.» «Te lo do io il rischio, dannato damerino» cominciò Fail, ma William lo interruppe. «Questa è la nostra corte, sir Fail. Prenderemo in considerazione quello che Liery ha da dire, ma più tardi. Lord Aradal è qui per trattare con Crotheny.» Il vecchio cavaliere, furioso, riprese il suo posto. William tornò a sedersi, poi diede un'occhiata a Marché Hespero. «Praifec, avete qualcosa da aggiungere a questa... discussione?» Hespero increspò le labbra, aspettando qualche istante prima di parlare.
«Sono addolorato che alla chiesa non venga affidato il ruolo tradizionale di paciere. Non riesco a capire perché non abbia ricevuto una parola su questa situazione dalla mia controparte a Hansa, sebbene convinto che il ritardo non sia intenzionale. Tuttavia, mi sembra che col passar del tempo la chiesa sia sempre meno consultata su decisioni importanti, e questo, come ho già detto, è un atteggiamento deplorevole.» I suoi occhi neri scrutarono gli astanti. Si mise le mani dietro la schiena. «Il Senaz della chiesa e sua santità il fratrex Prismo sono stati chiari sul loro desiderio di pace tra Hansa e Crotheny. Una guerra tra loro potrebbe devastare il mondo. Io vi sprono a mettere da parte ogni altra ostilità fino a che non avrò parlato con il Praifec Topan e non avrò consultato il Senaz.» Neil guardò l'ambasciatore hanzish abbandonare la stanza. Non gli piacque il suo sorriso. «Capite cosa voglio dire?» esplose Fail. «Combattiamo da anni una lunga guerra con Hansa, vostro padre ne è stato una vittima. Ma quando poi si arriva qui, si parla solo di diritti di pesca e di chi avrebbe dovuto essere consultato.» «Disapprovate la nostra politica, sir Fail?» gli chiese William serenamente. «Disapprovo che si fugga da quello che tutti noi sappiamo. Ma credo che vostra maestà oggi sia stato energico. Eppure, che cosa abbiamo concluso? È questo che voglio sapere. Ci aiuterete a mandarli via dalle Isole del Dolore?» «Preferirei che si ritirassero» replicò William. «Di certo aspetterò che il praifec abbia fatto le sue indagini.» «Preferireste che si ritirassero? Tanto vale aspettare che una lupa allatti un cerbiatto!» «Basta, sir Fail. Discuteremo la questione nei dettagli, ve lo assicuro. Non vi ho mandato a chiamare per litigare oggi.» «Perché allora?» «Per due ragioni. Prima di tutto per farvi sentire cosa aveva da dirmi l'ambasciatore Aradal e cosa gli avrei risposto, per poi poterlo riferire a Liery quando tornerete lì; e poi perché volevo vedere il vostro giovane allievo. Sono passati dieci giorni da quando ha salvato la vita della regina, e non l'ho ancora ringraziato a dovere.» Neil si inginocchiò. «Vostra maestà, non dovete ringraziarmi.» «Io penso di sì, soprattutto dopo che siete stato malmenato dai miei ma-
estri. Spero vi abbiano spiegato che non avevano capito perché avevate attaccato sir Argom.» Neil lanciò un'occhiata a Vargus Farre, uno dei cavalieri che stavano nella stanza. A lui doveva una costola rotta. «Sì, lo so, vostra maestà. Se fossi stato al loro posto, sapendo quello che loro sapevano, avrei fatto la stessa cosa.» William si sporse in avanti per ascoltare con attenzione. «Come sapevate che Argom avrebbe attaccato la regina?» «All'inizio non lo sapevo. Pensavo che avesse visto qualche pericolo vicino a lei e stesse accorrendo per intercettarlo. Ma nessuno la stava minacciando; eppure sir Argom si stava preparando a falciare, così chiamiamo noi il colpo con la lama bassa e piatta. Serve contro la folla disarmata e i cavalieri ben educati non lo usano. Se la regina fosse minacciata da qualcuno vicino a lei, non si oserebbe mai utilizzarlo. Le possibilità di ferirla nella lotta sarebbero troppo elevate. Quindi ho pensato che non fosse un vero maestro, ma uno falso che aveva indossato la divisa.» «Tutto questo in pochi secondi.» «È molto veloce in questi frangenti» s'intromise sir Fail. William rialzò il busto. «Ecco il mio problema, Neil, figlio di Fren. Un giorno, la vostra ricompensa per aver salvato la regina di Crotheny sarebbe stata una piccola baronia. Sfortunatamente, per come stanno le cose, ho bisogno dell'appoggio di tutti i miei nobili, e per essere franco, non posso permettermi che qualcuno di loro s'indigni perché ho consegnato delle terre a un uomo di umili origini.» «Capisco, maestà» rispose Neil. Era preparato a questo, ma gli fece molto male lo stesso, ancor più delle botte che aveva preso. «Ah, capisci? Io no che non capisco!» ruggì Fail. «Andiamo, sir Fail» disse Robert, il fratello del re. «So che amate la teatralità, ma permettete al re di finire, no?» William rimase impassibile. Le sue labbra sembrarono muoversi leggermente. Stava forse pregando? «D'altra parte siamo rimasti tutti impressionati da voi. Mia moglie in particolare, come era normale aspettarsi. Venite dalla sua stessa terra, godete della fiducia e della buona parola di sir Fail, che già da sola vale come l'oceano, e vi siete dimostrato migliore della sua stessa guardia del corpo nel salvarla dal pericolo. In realtà, poiché non sappiamo ancora per quale motivo un cavaliere così leale come sir Argom si sia trasformato, tutti i nostri maestri rimangono sospettati.
«Quindi ecco cosa faremo. Vi consegneremo la rosa e diventerete il capitano della guardia personale della regina, che da questo momento sarà chiamata Guardia Lier. Come i maestri dovrete rinunciare alle vostre terre e ai vostri possedimenti. Visto che non ne avete, la questione è presto risolta. Ciò farà felice la regina e me e infastidirà solo un po' i miei nobili più estremisti. «La domanda è: 'farà felice anche voi?'» «Vostra maestà...» La testa di Neil sembrava avvolta da una luce bianca e calda. «Venite qui e inginocchiatevi.» Neil lo fece senza pronunciare una parola. «Praifec, vorrete benedire questo giovane come cavaliere al mio servizio?» «Certo,» disse l'ecclesiastico «e lo benedico al servizio dei santi. Per san Michael, san Mamres, santa Anne e san Nod.» «Molto bene.» William estrasse il suo spadone e due maestri avvicinarono un grande ceppo di legno. «Mettete la vostra mano destra sul ceppo.» Neil mise il palmo sul legno, notando i tagli profondi sopra. William abbassò la sua spada fino a che la lama non si posò sul polso di Neil. «Giurate lealtà al regno di Crotheny?» «Lo giuro, vostra maestà» . «E di proteggere il suo re e il castello?» «Lo giuro.» «E di proteggere specialmente e soprattutto la regina Muriele Dare née de Liery?» «Lo giuro, maestà.» «Giurate obbedienza e povertà?» «Lo giuro, sire.» «San Nod diede la sua mano in sacrificio perché il suo popolo continuasse a vivere. Farete lo stesso?» «La mia mano, la mia testa e la mia vita» rispose Neil. «Per me sono la stessa cosa.» William annuì e passò rapidamente la spada sulla carne di Neil. Il sangue cominciò a uscire, ma Neil non fece una mossa. «Tenetevi la mano per adesso, sir Neil» gli disse il re. «Ne avrete bisogno.»
Si avvicinò un domestico con un cuscino su cui poggiava una rosa rossa. «Potete aggiungere la rosa al vostro stemma, come ornamento di armatura, spada e scudo. Alzatevi.» Neil obbedì. Le ginocchia gli tremavano, e il suo cuore era un tamburo di guerra, forte, violento e orgoglioso. Quasi non si accorse che sir Fail si era avvicinato e gli stringeva il braccio. «Bravo, figliolo. Troviamo una benda per il tuo polso!» «Solo per non far cadere il sangue a terra» mormorò Neil, «perché non voglio fasciarlo. Che sanguini quanto vuole. Sono davvero un cavaliere?» Sir Fail rise. «Certo che lo sei,» gli disse «di nome e di fatto.» Dietro, un colpo di tosse richiamò la loro attenzione. Neil si girò e vide Vargus Farre incombere sopra di lui. «Sir Neil,» gli disse piegandosi leggermente alla cinta «lasciate che sia il primo dei maestri a congratularmi con voi. Lo meritate. Mentre noi dormivamo voi eravate sveglio.» Neil ricambiò l'inchino. «Grazie sir Vargus, lo apprezzo molto.» Con la coda dell'occhio vide che sir James Cathmayl si avvicinava. «Quindi ora è proprio sir Bifolco» disse. Il tono sembrava un po' innaturale. «Per Lier!» scoppiò Fail. «Che ragione avete di insultare il mio protetto? Vi sfiderò a duello per questo.» Sir James scrollò le spalle. «Va bene, sir, ma ho prima un altro appuntamento con il vostro protetto. Ha giurato che quando avrebbe preso la rosa, avrebbe indossato gli speroni e mi avrebbe ucciso.» «È non sono più il vostro protetto, sir Fail» gli ricordò Neil. «Posso combattere le mie battaglie da solo.» «James, basta con queste sciocchezze» scoppiò Vargus. «Il ragazzo... ehm, sir Neil non sa che state scherzando. Adesso ha giurato di proteggere la regina; vorreste mettere il vostro orgoglio davanti a questo? Siete un maestro! Le guardie della famiglia reale non combattono tra di loro.» «È stato lui a sfidarmi» disse sir James. «Se vuole tirarsi indietro, non mi oppongo.» «Mi ritirerò se voi ritirerete i vostri insulti, sir» replicò Neil. Per un lungo istante di gelo, sir James lo guardò. «Certi insulti derivano dalla fretta e dallo scarso giudizio,» disse alla fine «altri dalla conoscenza e dalla considerazione. I miei erano falsi e vi chiedo scusa. Comunque, lasciatemi dire come la penso. Continuo a non approvare la vostra promo-
zione. Il cavalierato dovrebbe essere riservato ai nobili per nascita. Ma il mio re ha parlato e la mia regina ha un protettore e dico che non posso gettare biasimo ai vostri piedi... sir Neil.» Fece una smorfia. «Sir Neil, mi si blocca la lingua a chiamarvi così, ma devo farlo.» Lo guardò dritto negli occhi, da pari a pari. «Adesso abbiamo ancora motivo di combattere, sir?» «No, sir James, e ne sono felice. Ho un dovere verso la regina adesso, e sarebbe frivolo impegnarsi in un combattimento che priverebbe la guardia reale di una persona, comunque andasse a finire il duello, soprattutto quando in gioco non c'è niente di più del mio onore. Siete stato sincero a dichiarare le vostre obiezioni, non vedo offesa nelle vostre parole.» Sir James fece un inchino rigido e appena accennato. «Molto bene,» disse «alla prossima volta, allora.» Mentre se ne andava, Vargus ammiccò a Neil. «Tra breve sarete grandi amici. E adesso, se volete, vi mostrerò dove sono le nostre armature e provviste. Finché non avrete la vostra guardia, dovrete condividere questo posto con noi, credo.» «È molto gentile da parte vostra, sir Vargus. Davvero molto gentile.» «Be', è stato davvero commovente, fratello» disse Robert, quando si furono ritirati negli appartamenti esterni di William. «Credo che funzionerà.» Robert scrollò le spalle. «Alcuni saranno furiosi, ne sono convinto, ma conservi la buona amicizia di sir Fail - quella vecchia merda - e comunque il ragazzo è molto popolare tra la gente comune. Non gli fa mica male sapere che uno di loro può, a volte, fare del bene. E neanche ai nobili fa male ricordare chi è il loro re.» «Proprio per niente» concordò William. Mise da parte l'intera faccenda con un gesto della mano. «Questa situazione con Hansa, però. Pensi che il praifec si schiererà dalla nostra parte?» «Perché dovrebbe?» rispose Robert, alzando le dita per ispezionarsi le unghie. «Hai impiegato gli ultimi cinque anni a fargli capire in modo fin troppo chiaro che non sopporti alcuna interferenza da parte sua e della chiesa nelle faccende interne, e adesso vuoi che s'impegni con la tua causa? No, aspetterà, e ti farà sudare. Rifiuta il suo appoggio fino a che non ne avrai realmente bisogno. Allora ti chiederà qualcosa in cambio. Probabilmente ti chiederà di nominare un erede maschio.» «Ti piacerebbe, vero? Perché dovrei nominare te.»
«Sciocchezze. Per lui sarebbe la stessa cosa che se rimanessi tu al trono. Ma tuo figlio potrebbe regnare, sotto una guida appropriata... non so se capisci quello che dico.» «Ah. Intendi dire una guida sacra!» «Certo.» «Come fai a sapere che Hespero mi chiederà questo?» «Non lo so, è solo una supposizione. Hespero ha sempre immaginato che un giorno avrebbe governato tutto l'impero, ma non con il suo nome. Facendo eredi le tue figlie hai rovinato i suoi piani. Fastia ha una volontà troppo rigida e in più ci si metterebbe di mezzo anche il marito; Elseny, anche se meno decisa, sarà presto sposata. Anne... be', chi può dire cosa farà Anne?» William corrugò la fronte. «Basta con Hespero e con le sue pretese. Hai saputo niente dell'attentato a mia moglie? Le mie spie non mi hanno riferito nulla.» «Si parla di trasmigrazione ed encrotacnia» rispose Robert. «Sir Argom ci ha servito lealmente per dieci anni. Non riesco a vederci un'alleanza con i nostri nemici, e non posso immaginare niente per cui sarebbe stato ricattato o corrotto.» Scrollò le spalle. «E poi il ricatto funziona solo perché c'è qualche segreto. No, non posso dirti niente più di quello che già sai, fratello.» «Bene.» William tamburellò con le dita sulla parete. «Continuo a chiedermi: perché Muriele? Se un maestro può essere corrotto, allora avrebbe potuto uccidere con altrettanta facilità me, o te, o uno dei miei figli.» «Un re addolorato può essere più utile di uno morto. O forse volevano colpire Liery, non te.» «Chi c'è dietro a questo attacco?» Robert rise. «Fratello! Possibile che siamo così diversi? Non sappiamo come sir Argom sia stato trasformato da protettore in assassino, né esattamente perché, ma certo sappiamo chi ne è a capo.» «Hansa?» «Intendono impossessarsi del tuo trono, questo ormai dovrebbe essere abbastanza chiaro anche a te. All'inizio rosicchieranno, ma presto il loro appetito li porterà a morsi più avidi. Le piccole guerre alla frontiera, gli assassinii e i sabotaggi qui nella capitale esprimono il modo di pensare tipico di Marcomir.» «Come fai a esserne così sicuro?» «Perché lo capisco. Marcomir è un uomo pratico, che non si lascia inti-
morire da scrupoli o concetti come l'onore. È un re abile, e un nemico pericolosissimo.» «In altre parole, è come te.» «Esattamente, fratello.» «Allora che cosa dovrei fare?» «Far uccidere Marcomir» rispose pronto Robert. «Prima possibile. Il suo erede, Berimund, forse non sarà altrettanto abile.» «Far uccidere Marcomir?» ripeté incredulo William. Robert alzò gli occhi al cielo. «Per le tette di sant'Anna, fratello! Ha provato a far uccidere tua moglie, alla festa di compleanno di tua figlia.» «Non ne ho la certezza» disse William. «Invece sì. Ma se pure avessi torto, come potrebbe la morte di Marcomir essere un male per Crotheny?» «Se l'omicidio dovesse esser ricondotto a me, questo causerebbe di sicuro una guerra.» «Sì, porterà una guerra con Berimund, una guerra che possiamo vincere però. Fratello, cerchiamo di essere franchi in questa stanza. Hansa è troppo forte. Se decidono di pagare un prezzo abbastanza elevato, poi otterranno Tier Eslen, la tua corona e le nostre teste. Marcomir intende pagare quel prezzo e ha la forza di volontà per imporlo ai suoi nobili. Berimund, invece, non ha quella forza.» «Se noi abbiamo l'appoggio della chiesa...» «Se. Forse. Da quanto tempo le truppe sante non vengono usate in una guerra tra due regni della chiesa? A Hansa non sono eretici, almeno non sembra. Fratello, spengi questa candela al più presto. Fa' uccidere Marcomir.» «No.» «William...» «No e basta. Non è una questione di pudore, come stai sicuramente pensando, ma di prudenza. Marcomir è ben protetto e non solo da spade. Chi potremmo inviare ed essere sicuri che non fallisca?» «Lady Erren.» «È al servizio di mia moglie e non si separerebbe mai da lei.» «Un'altra allieva del coven, allora.» «È rischioso. Le allieve del coven riportano tutto alla chiesa.» «Potrei trovarne una che non lo fa.» «Basta, Robert. Se vuoi dare una mano, pensa a un modo per vincere il favore di Hespero, e non a come far adirare la chiesa con noi.»
Robert sospirò. «Come vuoi. Ma almeno fa' questo: spedisci Muriele e i tuoi figli a Cal Azroth.» «Cal Azroth? Perché?» «Là sarà più facile proteggerli. È la nostra fortezza più sicura, senza una città piena di assassini e streghe alle soglie. Nessuno può andare o venire senza essere visto. Nostra sorella Elyoner controlla la campagna, e tra tutti noi è l'unica a non avere aspirazioni politiche di nessun tipo. «C'è un gran movimento qui, William, e tanti traffici che sfuggono perfino a me. Qualcuno ha deciso di colpire te attraverso la tua famiglia. Sarai in grado di prendere decisioni migliori, se loro sono al sicuro.» William annuì con riluttanza. «Ci penserò.» «Bene.» «Robert?» «Sì, caro fratello?» «Non prendertela per il fatto che Lesbeth non sia venuta prima da te a chiedere il consenso.» «Non me l'ha chiesto proprio» disse Robert, con una voce strana e sottile. «Aveva paura che non approvassi.» «Certo. Perché dovrei dare la mia gemella in sposa a quel bietolone di Safnia, vista l'indifferenza con cui questo mi ha trattato?» «Lo vedi?» Robert sospirò. «No, se me l'avesse chiesto, avrei protestato, avrei provato a convincerla, e a scoprire ogni motivazione; ma se si fosse mantenuta ferma, alla fine avrei acconsentito.» Guardò William mentre i suoi occhi, come la voce, erano diventati strani. «Nessuno di voi crede che in me possa esserci del bene» mormorò. «Nessuno di voi crede che possa avere pensieri generosi. Pensavo che almeno lei tra tutti...» S'interruppe, e il suo volto era pallido. «Abbiamo finito, fratello?» «Sì, ma volevo anche dirti che sono soddisfatto della tua prestazione come siniscalco. Lord Hynde è rimasto troppo a lungo senza un successore. Vorrei nominarti mio primo ministro.» «Fai come vuoi» disse Robert. «Ma attento, conosco la differenza tra le parole e i pensieri.» Detto questo, lasciò la stanza, con lo sguardo dritto davanti a sé. Inginocchiata nel confessionale, Anne sollevò lo sguardo giusto in tempo per notare che il praifec Hespero l'aveva vista e inarcava le sopracci-
glia. Anne provò ad accennare un sorriso. «Chi è questa straniera?» chiese gentilmente l'ecclesiastico. Anne abbassò il capo. «Credo che sia passato un po' di tempo da quando sono venuta qui l'ultima volta» mormorò. «Senza scorta, sì. Posso solo dedurre che c'è qualcosa che vi preoccupa molto. O siete venuta solo per purificarvi?» Anne scosse la testa. «Non sapevo con chi altro parlare e chi potesse dirmi se... se sto perdendo la ragione oppure no.» Hespero annuì. «Sono sempre qui, figliola.» Si sedette su uno sgabello, immerse le dita nel piatto con l'olio profumato e bagnò la fronte di Anne. «Piesum deicus, tacez» mormorò. Poi si sporse in avanti, con le mani sulle ginocchia. «Sentiamo, cos'è che vi preoccupa?» «Faccio dei sogni ultimamente, sogni molto strani.» «Raccontatemeli.» «Ho sognato di essere all'esterno di una foresta oscura, piena di rovi. Intorno a me c'erano delle rose nere, come quelle che crescono a Liery. C'era qualcosa di terribile nella foresta, che mi guardava; poi ha cominciato a venire fuori e mi sono svegliata.» Si sentì improvvisamente una sciocca, ma Hespero l'ascoltava con grande attenzione. Per poco non gli raccontò della sua rosa scomparsa, ma si trattenne. Non serviva che Hespero sapesse di Roderick. Il praifec si grattò la guancia. «Mi era sembrato di capire che avevate fatto più di un brutto sogno.» «L'altro non è stato un sogno vero e proprio. È successo alla festa di Elseny, nello stesso momento in cui si attentava alla vita di mia madre.» Raccontò l'accaduto come meglio poté ricordarlo. Ancora una volta Hespero ascoltò in silenzio. Un silenzio che si dilatò quando Anne ebbe finito. «Siete sicura di non aver perso i sensi?» le chiese alla fine. «La vostra dama di compagnia vi ha trovato in uno stato di vaneggiamento, vero?» «Sì, praifec.» «E quando credevate di esservi smarrita nel labirinto siete entrata nel panico.» «Ma non era il labirinto, praifec. Era un altro posto, e non avevo un'ombra e...» «Può esservi sembrato così» disse Hespero in tono rassicurante. «Non è insolito per le ragazze della vostra età. Esistono diversi vapori nel mondo, e in questi primi anni in cui state diventando una donna, vi sarete particolarmente suscettibile. Con molta probabilità vi è successo proprio questo.
«C'è poi la remota possibilità che siate rimasta vittima di un incantesimo, e allora la faccenda sarebbe molto più seria. Se era stregoneria, le cose che vi sono state dette sono tutte bugie. La profezia viene solo dai santi e solo attraverso la vera chiesa. Credere in qualunque altra cosa è un'eresia.» «Quindi non pensate che Crotheny o mia madre siano veramente in pericolo.» «Sono ambedue in pericolo, mia cara. C'è stato un attentato contro vostra madre. Girano voci di guerra. Ma vostro padre si occuperà di questi pericoli con l'aiuto della chiesa. Non dovete impensierire la vostra testolina con queste cose, principessa. Sarebbe un'inutile cattiveria nei vostri confronti ed esattamente quello che i nemici di questo paese vorrebbero.» Alzò un dito. «Aspettate un attimo.» Svanì in una stanza dietro all'altare e tornò qualche istante dopo, con una piccola cosa in mano. «È un simbolo della tua omonima, santa Anne. Se siete vittima di stregoneria, dovrebbe proteggervi.» Le consegnò l'oggetto. Era una piccola targhetta di legno, con il nome della santa inciso sopra. «È stato ricavato da un albero che cresce sul sedos di santa Anne, ad Andemeur» disse. «Potete portarla con una collana, o tenerla nella tasca del vestito.» Anne fece un inchino. «Grazie, praifec. Io...» S'interruppe, incerta. Voleva raccontargli della tomba di Virgenya Dare, della maledizione che aveva pronunciato lì. Ma se lui l'avesse saputo, forse avrebbe visto le cose in maniera diversa. Mentre si sforzava di trovare le parole cambiò idea. Virgenya era il suo segreto, il suo e di Austra. Non poteva tradirlo, neanche con l'uomo più sacro del regno. E poi era sicuramente come diceva lui. I suoi sogni non erano altro che fantasmi di vapore, o stregoneria. «C'è qualcos'altro?» le chiese con dolcezza. «No, praifec. Sono certa che avete ragione su tutto.» «Fidatevi di me. Ma se avete altri attacchi di questo tipo, fatemelo sapere. Come vi ho già detto, io sono sempre qui. Questo regno e la famiglia che lo governa sono sotto la mia sacra responsabilità, anche se vostro padre non sempre la vede così.» Anne sorrise, lo ringraziò di nuovo e se ne andò con il cuore più leggero. Capitolo quattro
Rewn Haluth Il passaggio divenne una rampa di scale, ricavata dalla roccia viva. Aspar contò gli scalini mentre li saliva. Aveva contato fino a trenta, quando sentì delle voci provenire dal basso. Anche Winna le sentì e rafforzò la sua stretta sulla mano di lui. Aspar la guardò, pensieroso, e si rese conto che ora riusciva a scorgere il suo volto. Anche Winna notò la debole luce. «Deve esserci un'uscita!» bisbigliò speranzosa, man mano che la luce argentata si faceva più intensa. «Ssh!» Aspar guardò in alto e vide la fonte di luce, che si muoveva debolmente lungo le scale. Portò la mano al pugnale, ma poi si fermò. «Luce-stregata» disse. Era una sfera di vapore luminescente, fioco, della dimensione di un pugno, che si muoveva verso di loro. «È pericolosa?» «No.» Winna si sporse per toccarla e le sue dita passarono attraverso la luce. «Per tutti i santi!» «Dopo!» disse Aspar. «Ora andiamo.» Altri trenta gradini li condussero sulla cima della scalinata curva. Per un istante l'unico suono fu l'esclamazione di stupore di Winna e il lontano tintinnio dell'acqua. Migliaia di luci stregate si levarono tra le spire e le colonne di roccia trasparente, provocando lampi di colore qua e là, ma lasciando solo intravedere la vastità della caverna che si estendeva davanti a loro. Proprio sotto i loro piedi, la sporgenza su cui poggiavano scendeva in un vasto specchio di ossidiana. «È bello» sospirò Winna. «Che cos'è... acqua? Un lago sotterraneo?» «Già.» Aspar aveva poco tempo per meravigliarsi. Stava scrutando le tenebre. Se questa sporgenza non portava da nessuna parte, si sarebbe fermato e avrebbe provato a uccidere gli inseguitori uno alla volta, man mano che salivano le scale. Forse ci sarebbe potuto riuscire, anche se questi avessero avuto spade. Ma non fu necessario. La sporgenza proseguiva e si allargava a sinistra. «Da questa parte» disse, tirandola per la mano. Alcune luci stregate cominciarono a seguirli. Si ricordò di come lo divertivano da bambino e dei nomi che aveva dato loro, come se fossero state degli animali domestici. Ora, però, desiderava che se ne andassero;
riunendosi intorno a lui e Winna, li avrebbero rivelati ai nemici. Ovviamente, la cosa era reciproca. Anche gli inseguitori avrebbero trovato un gruppo di luci stregate. Il sentiero li portava in basso, tra stretti tornanti lungo il fianco della rupe. Aspar capì che erano scesi di dieci iarde, prima di arrivare su una banchina a pochi piedi dalle acque scure. Lì furono piuttosto fortunati, perché trovarono due barche legate. Salirono a bordo di una, e Aspar sfondò l'altra con la sua ascia. Mentre remavano sulle acque ferme, Aspar notò un mucchio di luci stregate in alto, dove le scale finivano nella caverna. Ma quella illuminazione incerta gli offrì solo un profilo indistinto e cangiante. Non poteva dire quanti fossero. Presto scomparvero dalla loro vista e rimase solo l'acqua e un odore minerale pulito e umido. «Non ho mai neanche sognato un posto così» bisbigliò Winna. «Che meraviglia!» «Anch'io la pensavo in questo modo quando ero bambino. Ma dopo un po', l'oscurità ti opprime. Anche tra i Sefry non tutti possono vivere nelle tenebre. Ecco perché escono e affrontano coraggiosamente il sole.» «Dove sono gli Halafolk?» «Non lo so. Avremmo già dovuto incontrarli ormai.» Wilma sorrise. «Sei buffo con quelle lucine che ti seguono. Sembri più giovane, un ragazzo.» Non seppe cosa rispondere, e grugnì solamente. Poi il volto di lei cambiò. «Che cos'è?» chiese indicando dietro di lui. Si girò. Una cosa enorme e indistinta si ergeva dal lago. Un'isola, gli sembrava, perché il lago era apparso molto più grande da sopra. «Credo che qui troveremo gli Halafolk» mormorò. Quello che trovarono fu una città fantasma. Le case erano alte e strette, stravaganti, e creavano corridoi di strade anguste, smussati sul pavimento della caverna. Gli edifici erano costruiti con pietre perfettamente allineate, tetti di ardesia a punta, progettati per contrastare il continuo gocciolio che cadeva dalla volta. Su alcuni erano spuntate piccole dita di pietra, che salivano verso il soffitto invisibile della caverna. Ad Aspar una volta avevano detto che era così che si riconoscevano le dimore più antiche; la pietra infatti non cresceva velocemente. Le case erano completamente vuote. I passi di Aspar e Winna sull'ac-
ciottolato risuonavano come l'eco di un piccolo esercito. «Sir Symen mi aveva detto che tutti i Sefry stavano lasciando la foresta, perfino gli Halafolk» rifletté Aspar. «Non ho voluto credergli. Perché mai avrebbero dovuto farlo?» «Devono avere un buon motivo per lasciare tutto questo.» «Non è pensabile» mormorò. Indicò un'insegna che pendeva sulla porta di una casa. Un intarsio argentato nell'ardesia raffigurava una mano con sei dita, tre delle quali sovrastate da piccole fiamme di candela. «È lo stemma della casa Sern. Dicono che nessuno di quella famiglia sia più risalito in superficie da cinque generazioni. Alcuni di questi casati neanche li conosco.» «Dobbiamo perquisire gli edifici?» «Perché mai? Quello che ci serve è una via d'uscita.» «Pensi che il greffyn sia ancora qui?» «Non so cosa pensare. Continuiamo in questa direzione, voglio arrivare al centro della città.» L'isola non era larga, ma lunga. Attraversarono parchi con pallidi alberi felciformi e giunchi neri. Ponti di rete li portarono sopra canali in cui erano ancora ormeggiate sottili gondole nere, in attesa di passeggeri che non sarebbero mai arrivati. Dopo un po' raggiunsero una vasta piazza e il più grande edificio che avessero visto fino a quel momento. Sembrava un castello - o la parodia di un castello - costruito per eleganza più che per utilità, con le sue guglie di quarzo trasparente e cupole che risplendevano di una luminescenza naturale. «Il palazzo?» «Questo è il luogo in cui viveva il loro principe e dove si tenevano i consigli. Se c'è ancora qualcuno, qui lo troveremo.» «Se c'è ancora qualcuno, lo dobbiamo trovare per forza?» Aspar annuì risoluto. «Sì. Dobbiamo scoprire cos'è successo.» «E gli uomini che ci seguono? Non arriveranno qui come abbiamo fatto noi?» «Già.» Rimase pensieroso per qualche momento. «Werlic, è una buona osservazione. Rimarremo in uno di questi altri edifici sulla piazza e controlleremo. Se siamo fortunati, saranno troppo pochi per venire a cercarci in ogni casa della città.» «Bene, sono stanca. Vorrei riposarmi.» Aspar scelse una casa a quattro piani, che non dava nell'occhio, con una
buona vista sulla piazza. La porta era aperta. Nove luci stregate li seguirono all'interno e su per la scala a chiocciola. Non si fermarono fino a che non raggiunsero l'ultimo piano. Era una stanza da letto stretta, posta nel senso della larghezza della casa, rivestita di calcedonio color avorio, con un lettino basso e un letto più grande, a baldacchino. Pomi di cristallo sulle colonnine di questo rilucevano di un bianco debole, cosicché, anche senza le luci stregate, ci sarebbe stata un po' di luminosità. Su un lato della scala, una porta ad arco conduceva su un piccolo balcone che si affacciava da un'altra parte rispetto alla piazza. La vista lì era buia, ma sotto la luce-stregata Aspar riuscì a distinguere un'altra struttura a quattro piani sul lato opposto della strada, un po' più bassa di quella in cui si trovavano. Tornato in camera, trascinò il lettino sotto un'ampia finestra che guardava sulla piazza. Accostò i pesanti scuri, lasciando solo una fessura attraverso cui scrutare. Non sarebbe stata sufficiente a far notare che questo piano era illuminato. «Stai di guardia, qui» disse. «Vado a vedere se trovo qualcosa da mangiare.» «Non stare via a lungo.» «D'accordo.» La dispensa si trovava sotto al livello della strada, ricavata nelle fondazioni rocciose dell'isola. La maggior parte del pane era ammuffito, ma andava bene lo stesso; e trovò anche pesce salato, cacciagione, cinghiale selvatico, una forma di formaggio giallo e rastrelliere di bottiglie di vino. Tagliò un tocco di formaggio e una fetta di prosciutto, si mise due bottiglie di vino sotto il braccio e tornò all'ultimo piano. «È roba sicura da mangiare?» chiese Winna. «Si dice di fare attenzione a condividere il pane con gli Halafolk.» Aspar sogghignò. «Il formaggio viene da Holtmarh. Il vino dalle regioni centrali e la carne è stata cacciata illegalmente nella Foresta del Re. L'unico cibo che coltivano loro quaggiù è hrew, una specie di nocciola che vive nell'acqua. Con questa ci fanno il pane. È cattivo di sapore, ma è sicuro. Se il lago ha del pesce, allora mangiano anche questo.» Fece un cenno verso la finestra. «Niente?» «No, ma potrei non averli visti.» Guardò Aspar con un'espressione fanciullesca sul volto. «Non ho paura» disse. «Sei una ragazza coraggiosa.»
«No, dico davvero. Dovrei aver paura. Ne ho avuta prima, al laghetto e quando ti ho detto che sarei venuta con te. Ora... mi ha completamente abbandonato.» «Tornerà» disse Aspar. «Te lo giuro.» «Non ho mai pensato che tu potessi aver paura. Per quello che mi ricordo, sei sempre stato pronto, Aspar. Quando ero piccola, apparivi semplicemente dalla foresta, come un antico eroe leggendario.» Distolse lo sguardo. «Chissà che cosa penserai di me» aggiunse. Aspar versò un boccale di vino per lei e uno per sé. Era viscoso e leggermente amaro. Non si era reso conto di quanta sete avesse. «Ho avuto paura, invece» disse lui. «Ora lo so» rispose Winna. Si diresse alla finestra, per vedere fuori. La piazza sottostante era calma e tranquilla. Lei rimase dov'era, più o meno alla distanza di un braccio. «Dove credi che siano andati gli Halafolk?» Aspar scrollò le spalle. «Forse sulle montagne, o hanno attraversato il mare a est, per quello che ne so io.» Bevve un altro sorso. Il vino gli stava accendendo un piccolo fuoco nella pancia. «Sono stato troppo brusco ieri notte» mormorò. «Non volevo litigare.» Lo sguardo di lei si fissò sul suo. «Be', sai come potresti farti perdonare» disse. «Non dovrei consigliartelo, e nessuno mi crederà mai se dovessi parlarne.» «Non sono bravo in queste cose» mugugnò Aspar. «No, hai ragione, ma ti perdono.» Bevve un altro sorso di vino mentre cercava qualcosa da dire, quando Winna trasalì improvvisamente. «Che cos'è quello?» e subito era contro di lui, e lo stringeva con gli occhi spalancati. «Che cosa? Hai sentito qualcosa?» Il volto di lei era vicinissimo e sorrideva. «Davvero non sei granché in queste cose.» «Non intendevo dire questo, Winna, io...» Lei si sentiva bene tra le sue braccia, e Aspar improvvisamente si rese conto che era passato molto tempo da quando aveva toccato qualcuno, a parte il bacio di qualche settimana prima. Il bacio. Non decise di farlo, sapeva di non averlo deciso, ma di colpo la sua faccia era contro quella di lei, le sue labbra la desideravano e si sentì stupido e
strano, come un ragazzo con la sua prima donna. I vestiti caddero, pezzo dopo pezzo e dita e labbra seguirono il profilo della carne appena scoperta. In una parte di lui suonava un piccolo campanello d'allarme, c'erano dei nemici là fuori. Ma al resto di sé non importava. Quando i due corpi si unirono e le caviglie di lei si avvinghiarono dietro le sue ginocchia, lui la fissò negli occhi per un lungo momento, senza batter ciglio. Quello che vide lo meravigliò. Lei ricambiò lo sguardo carezzandolo sulla guancia. Il tempo trascorse. Se ne stavano distesi, i loro corpi intrecciati e sazi, e Aspar le carezzava la pelle sopra le costole, chiedendosi se doveva credere a ciò che stava provando. Si sedette per guardare fuori dalla finestra. «L'esercito sefry è già là fuori?» chiese Winna con voce languida. «Potrebbe aver marciato dieci volte intorno alla piazza, non me ne sarei accorto» replicò. «Credo che non sia stata una mossa troppo intelligente, farlo proprio ora.» Sollevò le spalle, inerme. «Forse è la cosa più intelligente che abbia fatto in tutti questi anni.» Rise e lo baciò. «È stato bello; ora non dire un'altra parola. Sicuramente trovi un modo per rovinare tutto se continui a parlarne, e voglio essere felice per un po'.» «D'accordo» guardò di nuovo fuori dalla finestra. «Ma parla di qualcos'altro, altrimenti mi addormento.» «Questa non è una cattiva idea. Io mi metto di guardia.» «No, non ancora. Chi pensi siano quelli che ci stanno seguendo?» «Da quello che hai detto erano vestiti come Sefry.» «Sì, ma ricordo anche qualche altra cosa. Uno di loro aveva una benda su un occhio.» «Come?» La prese per le spalle. «Aspar! Mi fai male!» «Una benda sull'occhio? Quale occhio?» «Non lo so, Aspar, ma che ti prende? Lo conosci?» Lasciò cadere le mani. «Forse sì, non lo so.» «Per tutti i santi! Aspar, la tua faccia...» Si fermò. «Ha a che fare con lei, vero?» «Winna, ho bisogno di riflettere.» «Allora rifletti.» Nonostante la sua indignazione, dal tono della voce ca-
pì che si sentiva ferita. «Lo vedi?» le disse. «Non importa come, trovo sempre un modo per rovinare tutto.» Lei si alzò, si diresse verso il letto e si avvolse in un lenzuolo. «Lo capisco se non vuoi parlare di lei» disse. «Ma quest'uomo. Ha provato a uccidere me, Aspar.» «Vieni qua» disse. Esitò un momento, poi tornò fra le sue braccia. «Si chiamava Qerla, mia moglie» cominciò dolcemente. «Era del clan Nere. Ci incontrammo... be', non importa. Eravamo giovani e credevamo che non importasse.» «Che cosa non v'importava?» «Il fatto che Umani e Sefry non possono fare figli insieme, che il suo clan l'avrebbe disonorata, negandole protezione, che saremmo rimasti soli, solamente noi due.» «Sembra romantico.» «Lo è stato per un po', dopodiché è stato difficile; più per lei che per me. Non ho mai avuto un clan, solo una vecchia madre, Jesp. Qerla è stata la prima persona che io abbia mai... che sia stata mia, in tutti i sensi.» «L'amavi?» «Sì, l'amavo.» «E l'uomo con la benda, è colui che...» s'interruppe. «L'ha uccisa» confermò Aspar. «Se è lo stesso uomo. Era un fuorilegge sefry, un tipo di nome Fend. Stava tendendo una trappola per me, e invece prese loro.» «Loro? Credevo...» «Un suo vecchio amante sefry, uno del clan Jasper. Fend li trovò a letto insieme e li uccise. Poi io ho trovato lui.» Increspò le labbra. «Mi ha conficcato una spada nello stomaco, e io un pugnale in un occhio. Cademmo a terra entrambi e quando mi ripresi lui non c'era più.» «Ti ha tradito.» «Penso d'averla tradita io per primo in qualche modo.» «Non credo» sussurrò. «Non credo proprio. Tutti possono essere deboli, e lei lo è stata. Non significa che non ti amasse.» Poiché lui non disse niente, lei gli prese la mano. «Pensi veramente che l'uomo che ho visto sia Fend?» «Pensavo fosse morto, ma chi può dirlo? Forse sì.» In cuor suo non aveva dubbi. Se gli dèi di suo padre fossero esistiti, que-
sto era il genere di cose che li divertiva. Per un po' non parlarono e Winna si assopì tra le sue braccia. Guardandola in viso, si sentì leggermente colpevole. Era così giovane! Quando Qerla era viva, Winna non era ancora nata. Il senso di colpa passò. Nelle cose importanti; Winna era più grande di lui. Un giorno lei avrebbe potuto accorgersi di non aver più alcun interesse per un vecchio guardaboschi pieno di cicatrici; fino a quel momento però avrebbe continuato a ritenersi fortunato e avrebbe tirato avanti. E le avrebbe fatto superare tutto questo, viva. E avrebbe ucciso Fend. Non riusciva a immaginare cosa c'entrasse questo fuorilegge con il Re degli Alberi e i greffyn. Ma l'avrebbe scoperto e stavolta l'avrebbe ucciso. Stava quasi per addormentarsi quando sentì il rumore degli zoccoli sul selciato. Scrutò dalla finestra e vide gruppi di luci stregate che si muovevano nella piazza. Ritirò indietro la testa perché aveva luci stregate tutto intorno. Pensava di averlo fatto in tempo. «Cavalli» bisbigliò. «Devono aver trovato un'altra entrata.» «Forse non è la stessa banda che ha provato a uccidermi.» «Forse» disse dubbioso. Da sotto sentì il suono alto e acuto di un corno e le luci stregate si radunarono improvvisamente fuori della finestra, come in risposta alla chiamata. «Vestiti» disse a Winna. «Fa' presto.» Capitolo cinque Fratellanza Il fratrex fece marciare Stephen per il cortile e attraverso una piccola porta ad arco. Stephen tenne a freno la lingua, per paura di dire qualcosa che avrebbe scavato una fossa più profonda per il suo amor proprio. Cercò invece di ricordare cosa aveva sentito sulla penitenza decmanusiana. Che cosa prevedeva? La fustigazione? La segregazione? «Su, su, spicciatevi!» disse fratrex Pell. «Qua sotto» e gli indicò una porta molto bassa; l'architrave arrivava alla cinta di Stephen. «Sì, sì... in ginocchio.» Stephen si abbandonò contrito, strisciando sotto l'apertura, irrigidendosi
al pensiero di quello che sarebbe seguito. Disse una piccola preghiera e sollevò il capo. Allora lasciò andare un'esclamazione di stupore. «Sulle ginocchia andiamo dai nostri santi» disse fratrex Pell, alle sue spalle. «Allo stesso modo andiamo verso la conoscenza: umilmente.» «È meraviglioso» disse Stephen. Le lacrime gli bruciarono negli occhi. «È come stare davanti a centomila regali, tutti in attesa di essere aperti.» «Andate più avanti, così posso seguirvi.» Stephen obbedì, in muta soggezione. Lo scriftorium si aprì tutto intorno a lui, una torre con pareti di tomi, rotoli, tavole, astucci di pergamena, mappe. Non riuscì a vedere un pezzo di parete libero; l'intera struttura poteva essere sorretta dai ponteggi e dalle scale che come ragnatele si intrecciavano dal pavimento fino al livello superiore. Da lì cominciava uno stretto camminamento, che correva alla base di un altro livello di scaffali e forniva l'appoggio alle scale per il terzo livello. Ce n'erano quattro in tutto, e poi una cupola con pannelli di cristallo, così la luce del sole entrava a illuminare tutto. I tavoli, al piano terra, erano stracolmi di scrifti e monaci studiosi erano assorti nelle loro letture e nei loro lavori di copiatura, quando lui e il fratrex entrarono. Altri lavoravano su tavoli precari nelle balconate che a tratti sporgevano dalla parete. Corde e carrucole erano in azione in ogni angolo, mentre i monaci issavano e calavano cesti pieni di manoscritti da un livello all'altro o li spedivano in linea orizzontale rumorosamente intorno alla stanza. E che odore! Inchiostro e pergamena, carta, gesso e cera fusa. Stephen si accorse che stava sorridendo come uno scemo. «Ecco la vostra punizione» disse fratrex Pell in tono pacato. «Che cosa intendete?» chiese Stephen. «La vista di questa stanza mi arreca solo gioia.» «Il vostro peccato è stato l'orgoglio; pensate di essere sagace e lo siete. Ma quando starete qui, dovrete ricordarvi di quanto non sapete, e non saprete mai. Siate umile, Stephen e sarete un uomo migliore e un membro migliore di questo ordine.» «Grazie reverendo fratrex, sono così...» Scosse la testa. «Così grato e impaziente! Quando posso cominciare? Che cosa devo fare?» «Oggi? Tutto quello che volete. Familiarizzate con lo scriftorium. Gironzolate. Domani vedremo come ve la cavate con il vadiano. Abbiamo un'impellente necessità di tradurre quei testi; è uno dei motivi per cui ho
sollecitato il vostro arrivo.» «Volete dire che voi...» «Fatevi un giro, avanti. Ci vediamo ai vespri.» «Bene. Tu devi essere quello nuovo.» Stephen sollevò lo sguardo dal testo su cui stava curvo e vide un uomo dalla faccia simpatica, con i capelli castano ramato, che lo guardava. «Ah... sì, fratello.» Ripose lo scrift con cura da una parte e si alzò, scoprendo di arrivare alle spalle dello sconosciuto. «Mi chiamo Stephen Darige.» «Desmond Spendlove.» «Sei di Virgenya!» «Sì» «Di quale zona?» «A sud di Quick sul fiume Nerih.» «Conosco il posto!» commentò Stephen. «Andavamo sempre in barca fino a Cheter-sul-mare. Poi ci fermavamo lì, nella piccola città, quella con la statua del maiale...» «Wildeaston. Sì, è a meno di mezzo miglio dal luogo in cui sono cresciuto.» «Be', piacere di conoscerti.» Disse Stephen. «Ti stai orientando nello scriftorium, vero?» Stephen ridacchiò. «Non sono arrivato molto lontano, mi sono imbattuto subito in questo. È uno degli originali dell'Amena Tirson, una sorta di geografia della regione de...» «Dell'epoca pre-egemonica» concluse Spendlove. «Sì, conosco piuttosto bene l'Amena Tirson. È stato il mio progetto in collegio a Pennwys.» «Davvero? Scusami, ho appena ricevuto la prima lezione d'umiltà, ed eccomi qui a chiederti scusa.» «Non preoccuparti. Il vecchio ti ha portato su con il trucco del trasporto della legna, vero?» «Trucco?» «Nessuno può avvicinarsi a d'Ef senza che lui lo sappia. Accoglie la maggior parte dei novizi in modo simile.» «Ah.» Spendlove indicò il manoscritto. «Ma stavi dicendo qualcosa sull'Amena Tirson» gli ricordò. «Sì. Questa versione è diversa da quelle che ho visto finora.»
«Un po' diversa. Il capitolo sugli alberi è più lungo.» «Non intendevo questo. C'è un elenco di templi e altre località di cui non ho mai sentito parlare, e dice di visitarli a piedi.» «Be', qui c'è la via dei templi, la via di san Decamnus.» «Sì, certo. Ma questi altri...» Desmond scrollò le spalle. «Sicuramente sono stati distrutti, o la presenza dei santi è talmente debole che non vengono più visitati.» «Capisco» replicò Stephen. «Solo che è strano. Ci sono stati omicidi...» S'interruppe. «Per tutti i santi! Come posso averli dimenticati? Sono stato così indaffarato, prima a portare la legna, poi a scoprire che lui era il fratrex, e poi tutto questo!» «Di che cosa stai parlando?» chiese con calma Desmond. «Sono stati commessi degli omicidi nella Foresta del Re.» «Non è una novità. Il posto brulica di banditi.» «Sì, lo so. Ma questo caso è diverso, credo. Si tratta di rituali sanguinari sui vecchi sedoi e di un certo mostro che sarebbe coinvolto.» «Mostro? Ha a che fare con il vecchio Symen su a Tor Scath?» «Sì, sì. È lì che ne ho sentito parlare.» «Allora devo avvisarti che il vecchio cavaliere è ben conosciuto per le sue esagerazioni. Due settimane fa ha inviato un uomo quaggiù per avvertirci di stare in guardia contro qualcosa di malvagio nella foresta. Abbiamo messo di guardia più sentinelle, per prudenza, e il fratrex ha fatto rapporto al praifec a Eslen. Eppure i gruppi di ricognizione che abbiamo inviato a cercarti non hanno trovato nulla.» «Ah, anch'io avevo i miei dubbi su questa storia, ma...» Ma sir Symen aveva visto qualcosa, di questo Stephen era certo. Il guardaboschi era andato a cercare la verità, e non aveva voluto portarsi dietro Stephen. Qualunque cosa fosse, di sicuro Aspar White l'avrebbe uccisa. Stephen avrebbe scritto un resoconto al fratrex, ma i suoi obblighi finivano lì. Ora avrebbe potuto dedicarsi anima e corpo ai suoi studi. «Andiamo» gli disse Desmond dandogli un colpo sulla spalla. «Manca poco ai vespri e al pasto serale. Andiamo a fare due passi. Ci sono cose sulla vita qui a d'Ef che il fratrex non ti ha detto.» Stephen lanciò uno sguardo riluttante all'Amena Tirson e poi annuì. Ripose i sottili fogli di pergamena nella scatola di cedro e la rimise sullo scaffale. «Pronto!» disse.
Fuori era scesa la calma della sera. In lontananza, le mucche muggivano, i grilli avevano iniziato il loro canto e le rane nei bassopiani dell'Ef gorgheggiavano melodie roche. La stella della sera era una gemma incastonata nel velluto del cielo a est, mentre a ovest un letto di ceneri ardenti si andava spegnendo. La foresta era verde e distante, al di là di una distesa di pascoli ondeggianti e vigneti. Stephen e Desmond stavano in cima alla collina su cui sorgeva il monastero; dentro, la debole luce delle candele iniziava a brillare alle finestre. «La via dei templi inizia nella cappella» disse Desmond «e finisce là fuori. Ci vogliono quasi due giorni di cammino.» «Allora, tu l'hai percorsa?» «Sì, e anche tu lo farai, abbastanza presto. Non sei un novizio come gli altri, da quello che sento. I misteri ti verranno svelati più velocemente, credo.» «Non me lo merito.» «No, infatti.» La voce di Desmond suonò un po' diversa. Stephen guardò il suo compagno e vide una certa durezza sul suo volto. «Esiste un ordine per tutte le cose» spiegò Desmond. «Almeno dovrebbe esistere. Sono qui per controllare che quell'ordine sia mantenuto, capisci?» Stephen fece qualche passo allontanandosi dal monaco. «Che cosa intendi dire?» Desmond sorrise, ma non era un sorriso molto confortante. Stephen si allontanò ancora, chiedendosi se fosse il caso di fuggire. Invece finì dritto con la schiena contro un altro monaco. Era fratello Lewes, il gigante che aveva sollevato il carico di legna come un rametto di salice. Stephen provò a sfuggirgli, ma il monaco lo afferrò per un braccio. Allora iniziò a gridare, ma una mano carnosa gli tenne la bocca chiusa. Puzzava di fieno e letame di vacca. «Sei nuovo» spiegò Desmond. «Come ho già detto, ci sono delle cose che dovresti conoscere. Iniziamo con questa: non mi interessa chi sei, o quale sia la tua famiglia. Qui si ricomincia daccapo. Qui la tua vita ha un nuovo inizio. E io sono tuo padre, tuo fratello e il tuo migliore amico. Ti aiuterò in tutto, ma devi fidarti di me, devi credere in me. «Il fratrex crede che tu sia speciale. Questo per noi non significa niente, devi dimostrarci chi sei. Non importa cosa il fratrex pensi di te, se scivoli e sbatti la testa su un sasso, se cadi su un forcone o mangi il fungo sbagliato; Siamo solo noi i responsabili. Capisci quello che ti sto dicendo?»
Adesso intorno a loro si erano radunati altri monaci, una decina almeno. Avevano tirato su il cappuccio e Stephen non riusciva a vederne i volti. Era entrato nel panico totale; sapeva che non doveva reagire, ma non riusciva a fermarsi. Da quando era stato rapito, il solo pensiero di essere imprigionato gli era divenuto insopportabile. Ora, bloccato da questa presa d'acciaio, quel pensiero era diventato realtà. Non riusciva a pensare per quanto era indignato e terrorizzato. Le lacrime gli inondarono gli occhi. «Fratello, lascia libera la lingua di fratello Stephen, perché possa dirmi se ha capito.» La mano sparì. «Ho capito! Certo che ho capito! Tutto quello che hai detto.» Desmond annuì in segno di approvazione. «Sembravi sincero, ma non ti conosco, fratello Stephen, non posso esserne sicuro, e tu non puoi essere sicuro di me. Quindi facciamo una lezione, d'accordo?» Fece un cenno col capo e gli altri monaci si avvicinarono. Stephen provò a urlare, ma gli infilarono uno straccio in bocca. Gli tirarono su le braccia e gli sfilarono il saio. Venne scaraventato a terra, pancia in sotto, e con le braccia e le gambe aperte. «Ecco la tua lezione» disse la voce di Desmond, lontana eppure troppo vicina. «Le sette virtù. La prima è la solidarietà.» Una frustata così dolorosa Stephen non l'aveva mai sentita e gli spaccò la schiena in due. Urlò con tutto il bavaglio, un grido acuto e isterico di puro terrore animale. «La seconda è la castità.» Un altro colpo infuocato ricadde su di lui e delle gocce gli schizzarono su una guancia. Perse il conto delle virtù dopo il numero tre. Forse svenne. La cosa successiva di cui si rese conto fu la voce di Desmond vicinissima al suo orecchio. «Ti lascio uno straccio e vestiti nuovi. C'è una fonte in fondo alla collina, datti una pulita e vieni a cena. Siedi al mio tavolo e non parlare di questo con nessuno. Come sai, esistono più di sette virtù, ce ne sono sette volte sette.» Gli tolsero il bavaglio e fu rilasciato. Giacque lì, incapace di muoversi, e di pensare a muoversi, mentre calava la notte. Capitolo sei
Madre Gastya «Ci hanno visto?» bisbigliò Winna. «Penso di sì» disse Aspar, rimettendosi le brache. «Hai visto cosa hanno fatto le luci stregate? Qualcuno le ha chiamate. Sapranno sempre dove siamo, finché quelle si radunano intorno alle persone.» «Forse le luci sono scese perché lì c'era più gente.» «Forse, ma ne dubito, visto il modo improvviso in cui sono andate via. E poi quel corno. Se l'uomo con la benda è Fend... lui possiede alcune doti magiche, e non mi stupirebbe se potesse richiamare le luci stregate. Quindi sbrigati, vestiti, forse non abbiamo molto tempo.» Imprecò in silenzio mentre finiva di tirar su le brache. Fino a un attimo prima, la passione gli era sembrata degna del rischio, ma ora... quanti anni crédeva di avere? Adesso sapeva di più. Uno degli inseguitori era Fend. «Pronta» bisbigliò. La voce non sembrava spaventata. «Ecco» disse Aspar. Svitò due delle sfere di cristallo luminoso sulle colonnine del letto e ne diede una a Winna. «Non è molto» disse, «ma visto che le luci stregate sono andate via, è il meglio che possiamo avere. Ora, da questa parte.» Attraverso la porta ad arco passò sul balcone. Senza le luci stregate si vedeva solo il vuoto e la pallida illuminazione delle sfere di cristallo non era sufficiente. Aspar sollevò la sfera che aveva in mano, cercando di ricordare dove fosse l'altro balcone. Poi la lasciò cadere. Si ruppe con un tintinnio argenteo, e improvvisamente si liberò una luce fioca, una nuvola luminosa. Allora comparve il balcone, una struttura bassa con la ringhiera in ferro battuto che riproduceva serpenti coronati e code piumate. «Pensi di riuscire a saltare fin là?» le chiese Aspar. Si stropicciò gli occhi. «Sì.» «Allora fallo. Fa' presto perché tra qualche istante la luce svanisce. Quando arrivi là, entra dentro e cerca una via d'uscita da quel piano... sopra, sotto, fuori dalle finestre. Io ti seguirò.» «Che hai intenzione di fare?» «Sprangare la porta che dà sulle scale. Può darsi che pensino che ci stiamo barricando dentro.» Annuì, si preparò e fece un salto. Nell'attimo stesso in cui si lanciò, Aspar capì di aver sbagliato. Winna non aveva la più pallida idea se sarebbe riuscita a saltare fin là; l'aveva detto solo per sembrargli sicura.
Ci riuscì quasi senza problemi, ma entrando diede una botta alla ringhiera bassa, perse l'equilibrio, ruotò le braccia con le spalle nel vuoto, solo la ringhiera del balcone a sostenerla dietro le ginocchia. Aspar trattenne il respiro, cercando di non gridare e con il sangue che risaliva violento al cervello e le dita che fremevano perché volevano afferrarla. Si piegò per saltare nella vana speranza di raggiungerla prima che cadesse, ma in quel momento Winna si riprese e si sedette, indolenzita. Si voltò, mostrandogli un sorriso incerto, poi provò a forzare la finestra. L'apri, si girò di nuovo e con le labbra gli disse spicciati, poi scivolò dentro. Aspar sospirò per il sollievo, estrasse pugnale e ascia, e tornò nella stanza. Ridiscese piano le scale, desiderando che i muscoli si rilassassero e l'affanno si calmasse. Senza luci stregate o sfere di cristallo era tutto scuro come la pece. Sentì l'odore di foglie morte. Giunse al primo pianerottolo e si fermò ad ascoltare. Non avvertendo niente, pensò di essersi sbagliato. Forse nessuno sapeva che erano lì. Continuò a scendere, silenzioso come la nebbia nella notte. Si fermò sul pianerottolo successivo e si accovacciò in attesa. Sentì il suo respiro, e qualcos'altro. Chiuse gli occhi; non serviva con quel buio, ma lo aiutava a concentrarsi. Fece un respiro lungo e profondo, assaggiando l'aria, ma sentì solo polvere. Trattenne il fiato nei polmoni. Non c'erano rumori, ma rimase immobile. Continuava a stare accovacciato ad aspettare. E poi ci fu un respiro, non il suo. Non lo avvertì con le orecchie, ma direttamente sul viso. Aspar saltò su con il coltello, con violenza, e lo sentì penetrare in una corazza. Quindi ci fu un grugnito e la corsa di qualcosa che gli passò accanto alla faccia. Allungò le braccia, cercando di afferrare gli arti superiori; qualcosa lo colpì alla schiena. Il suo nemico invisibile gridò, aiutando così Aspar a individuarne il volto. Un elmo echeggiò sotto la lama della sua ascia e riuscì a infilare il pugnale in qualcosa di morbido, forse la gola. Indovinò perché il grido si spense. Poi qualcosa lo colpì al petto con la forza di un mulo, un dito o due a destra dello sterno. Vide lampi dorati negli occhi, mentre continuava a colpirlo e sentì un'asta di legno nel torace; allora capì che una lancia gli usciva dal petto e qualcuno continuava a spingerla. Non poteva dire quanto
fosse entrata. Si allontanò dalla forza che spingeva e colpì con la sua ascia. Si levò un urlò. La lancia adesso gli pendeva libera nel petto e fu il peso stesso a strapparla via. Il dolore fu così forte che le ginocchia gli si piegarono, salvandolo così da qualcosa che sfrecciò sulla sua testa e provocò scintille contro con il muro. In quell'attimo di luce vide un'ombra immobilizzarsi, e Aspar si drizzò da quell'involontaria flessione, conficcando il pugnale da sotto la mascella fino al cervello. Spinse indietro il corpo singhiozzante, con uno scossone, e sentì qualcuno grugnire come se fosse stato colpito. «Stupidi!» gridò una voce, da sotto, «vi avevo detto di aspettare fino a... Ecco!» Improvvisamente le scale si riempirono di colori e uno sciame di luci stregate volò seguendo la curva del pianerottolo successivo, arrivando a circondare Aspar come pulci assetate di sangue. Nella luce vide tre Sefry uno sull'altro, due probabilmente morti e un terzo che cercava di rimettersi a posto la mano mezza staccata. Girando l'angolo, dietro le luci ce n'erano almeno altri quattro. Uno aveva una benda sull'occhio, ma Aspar lo sapeva già, aveva riconosciuto la voce di Fend. Per poco non gli scagliò contro la lancia. Per lo meno avrebbe potuto ucciderlo prima di morire. Altrimenti Fend avrebbe catturato Winna. Se fosse riuscito a uccidere quel bastardo di un Sefry, i suoi uomini lo avrebbero ucciso lo stesso e poi avrebbero preso Winna. Così raccolse la lancia dal pavimento e corse indietro su per le scale, ammantato di luci stregate. Arrivato in cima, chiuse la porta, tirò giù la spranga e ci incastrò sotto la punta della lancia. Si toccò il petto e le dita si fecero appiccicose. Non c'era abbastanza luce per vedere quanto fosse profonda la ferita. Avrebbe potuto infilarci il dito per capirlo, ma aveva già la nausea e quella mossa lo avrebbe fatto star male. In quel momento non poteva permetterselo. Quindi lasciò perdere e seguì Winna, saltando nel balcone dell'altro edificio dove era rimasta ad aspettarlo. «Dove sei stato?» gli chiese. «Ne ho ucciso qualcuno. Saranno qui fra poco, dobbiamo correre, hai studiato il nostro prossimo percorso?» «Aspetta» disse Winna. Sollevò e rivoltò un cesto sul balcone. Vetri rotti si riversarono con un tintinnio musicale.
«Ho trovato dei vasi e li ho rotti. Fa' che loro ci saltino sopra quando proveranno a seguirci.» «Buon'idea» disse Aspar, sentendosi scoppiare d'orgoglio. «Adesso andiamocene.» «Usciamo da lì allora» disse lei. «Non è necessario scendere per il momento, penso di aver trovato una strada migliore. Non riuscivo a vedere in lontananza, ma ora che abbiamo le luci stregate dietro, possiamo essere sicuri.» La seguì alla finestra successiva, ad angolo retto con l'altra. Al di là c'erano tetti a punta, vicini, fatti di scaglie. Saltarono, Winna per prima, e si arrampicarono sull'ardesia lucida, intorno alla base di una guglia ripida, cercando di nascondere la loro scorta luminosa agli inseguitori, qualunque via avessero preso. Aspar continuava a guardarsi indietro. Dall'altra parte della guglia, bisognava saltare ancora; la distanza era poco più di un passo, ma la forte pendenza dell'altro tetto rese l'atterraggio meno sicuro. Proseguirono così, di tetto in tetto. Sfortunatamente Aspar sentiva che le forze lo stavano abbandonando e cominciava a soffrire un po' di vertigini. Quando arrivarono sul bordo del quarto tetto, l'equilibrio lo tradì e scivolò sull'ardesia liscia finché la ringhiera del balcone sottostante lo fermò bruscamente, permettendogli di aggrapparsi alle sbarre di ferro. Quando riuscì a tirarsi sul balcone e a respirare di nuovo, Winna lo aveva già raggiunto. «Stai bene? Ti hanno...» Spalancò gli occhi. «Stai sanguinando.» «Credo che per ora basti con i tetti» mormorò. «Scendiamo in strada.» «Ma stai sanguinando» ripeté. «Sto bene. Non possiamo fermarci a parlare di questo. Dobbiamo continuare a muoverci e a nasconderci. Forse riusciamo a trovare una via d'uscita o può darsi che si arrendano.» Se Fend non sa a chi sta dando la caccia. Altrimenti, non si arrenderà. «Stavolta dobbiamo trovare un posto senza finestre.» In lontananza sentì di nuovo il corno e imprecò quando le luci stregate che gli ronzavano intorno si misero a volteggiare improvvisamente come gli zampilli di una fontana colorata. Si sollevarono verso la volta della caverna, poi scesero di nuovo come api infuriate verso di loro. Aspar non disse una parola, non ce n'era bisogno. Winna infatti capì che cosa era appena successo.
«Giù» gli disse. Un calpestio di zoccoli li accolse quando arrivarono in strada, anche se Aspar non riuscì a capire da quale direzione provenisse. La vasta cavità della caverna e le vicine mura della città giocarono a fionda con quel rumore. Lui e Winna si tuffavano e riemergevano dai vicoli più o meno a caso. Aspar sentiva le gambe staccate dal corpo e iniziò a pensare che la lancia poteva essere avvelenata. Di sicuro non aveva perso tanto sangue. «Quale strada prendiamo?» sussurrò Winna arrivati a un incrocio. Un pilastro al centro portava incisa una testa con quattro facce, tutte con gli occhi gonfi come quelli di un pesce. «Per il Malvagio!» brontolò «scegli tu.» «Aspar, sei grave?» «Non lo so. Scegli una direzione.» Le luci stregate li avevano abbandonati di nuovo, e solo una sfera mostrava loro la strada. Scelse lei e poi lo fece ancora. Aspar perse la cognizione degli eventi; quindi si ritrovò sdraiato in terra sui ciottoli. Alzando un po' la testa riuscì a vedere l'orlo della gonna di Winna tutto a brandelli, e a sentire lo sciabordio dell'acqua. Era sul bordo del canale. Le luci stregate erano tornate. «...Alzati, dannato testone» gli stava dicendo Winna. La voce sembrava in preda al panico. Con il suo aiuto si rimise a fatica seduto. «Dovrai continuare senza di me, Winn» riuscì a dire. «Neanche per tutto l'oro del mondo» rispose Winna. «Fallo per me. Ci troveranno, e presto. Non posso permettere che Fend... non posso permettergli di uccidere un'altra...» Si fermò e le afferrò il braccio, quando una cosa molto grande attraversò il vicolo. «Girati» esclamò Aspar. «Non guardarlo.» Tirò fuori l'ascia, tenendo la lama di taglio per utilizzarla come uno specchio opaco. Era tutta sporca di sangue però, e poté vedere solo un debole bagliore giallo. Ma il greffyn era là, alla fine del vicolo, più grande di un cavallo. Percepiva la sua luce malvagia contro il viso. «Il greffyn?» chiese, con la voce tremante. Grazie al Malvagio, gli aveva ubbidito e si era girata. «Già. Buttati nel canale e non voltarti!» «Nel canale tutti e due, o nella mia barca se preferite.» La voce era gutturale, roca, come se avesse parlato troppo o troppo poco. Aspar scrutò
nell'oscurità e a mala pena riuscì a distinguere una figura incappucciata, in una gondola esile, proprio sulla sponda. Non aveva molto altro da dire a proposito. Winna, brontolando, lo rotolò dal bordo del canale nella barca, e lo seguì. Non appena la gondola cominciò a muoversi, improvvisamente dietro di loro esplose un suono aspro, un acuto insopportabile, e Aspar si accorse che stava vomitando. Winna iniziò a singhiozzare, poi si sentì soffocare e vomitò nell'acqua. Passarono sotto un arco che sembrava un ponte, ma non aveva fine, un buco dentro l'altro, l'entrata dell'inferno probabilmente, del regno della polvere e del piombo. Ma la mano di Winna trovò la sua, e non si preoccupò più; un'altra specie di notte lo portò via. Si risvegliò all'odore familiare del tè di tradescanzia e del forno a legna, con delle dita che sfioravano il suo volto e una debolezza in petto. Cercò di aprire le palpebre, ma non si muovevano. Le sentì come cucite. «Starà bene» disse una voce. Era la stessa voce gutturale della barca. «È forte» replicò la voce di Winna. «Anche tu.» «Chi sei?» gracchiò Aspar. «Ah! Salve trovatello. Mi chiamo... non ricordo più il mio vero nome. Chiamami solo... chiamami madre Gastya.» «Madre Gastya. Perché ci hai salvato?» Un lungo silenzio, poi un colpo di tosse. «Non lo so. Penso di avere qualcosa da dirti. Vedi, mi dimentico.» «Dimentichi cosa?» «Tutto.» «Ricordi dove sono andati a finire tutti gli altri? I Sefry della città?» «Sono andati via» rispose con voce stridula madre Gastya. «Certo che se ne sono andati. Sono rimasta solo io.» «Ma gli uomini che ci danno la caccia sono Sefry» disse Winna. «Non di queste case. Non li conosco. E sono venuti con il sedhmhar. Sono venuti a uccidermi.» «Sedhmhar. Il greffyn?» «Se così volete chiamarlo.» «Ma che cos'è?» chiese Aspar. «Il greffyn, voglio dire.» «È il sogno di morte della foresta. Quello sguardo spaventato prima che gli occhi si girino per l'ultima volta. Il verme che esce dalla ferita.»
«Che significa?» chiese Winna. Alla fine l'irritazione diede ad Aspar la forza di aprire gli occhi, anche se pesavano come valve di ferro. Si trovava in una piccola caverna o stanza, arredata in modo rozzo. Sotto la luce-stregata riuscì a vedere il viso di Winna, bello e giovane. Davanti a lei c'era il Sefry più vecchio che avesse mai visto. Madre Cilth a confronto sembrava una ragazzina. «I Sefry non parlano mai in modo chiaro, Winna» grugnì Aspar. «Anche quando vogliono farlo. Dicono così tante bugie e talmente spesso, che è praticamente impossibile per loro parlare con franchezza.» «Hai trovato la forza di insultarmi» disse la vecchia. I suoi occhi azzurri e brillanti lo fissarono e lui percepì un debole colpo a quel contatto. Il suo viso non si lasciò leggere; sembrava che fosse stato scorticato, curato e riappoggiato sul teschio. Una maschera. «È un buon segno.» «Dove siamo?» «Nel vecchio tempio hisli. I fuori casta non ci troveranno qui, almeno per un po'.» «Certo che mi fai sentire al sicuro!» commentò Aspar. «Ci ha salvato, Aspar» gli ricordò Winna. «Questo rimane da vedere» brontolò. «Quanto sono grave?» «La ferita al torace non è profonda» rispose Gastya. «Ma era avvelenata dall'odore del sedhmhari.» «Allora morirò.» «No, non oggi. Il veleno è stato estratto. Vivrai e il tuo odio vivrà con te.» Tirò indietro la testa. «Il tuo odio è un peccato. Jesperedh ha fatto del suo meglio.» «Come fai tu a... Ci siamo già incontrati?» «Sono nata qui a Rewn Aluth, non mi sono mai mossa.» «E io non sono mai stato qui prima d'ora. Quindi come facevi a sapere?» «Conosco Jesperedh. E lei conosce te.» «Jesp è morta.» La vecchia strizzò gli occhi, poi sorrise poi scrollando le spalle. «Come preferisci. Ma per quanto riguarda il tuo odio... preoccuparsi degli umani non è cosa facile, lo sai. Nella maggior parte dei clan è proibito. Jesperedh avrebbe dovuto lasciarti morire.» «Avrebbe potuto, ma io le sono grato, come non lo sono invece al resto di voi.» «Giusto» concesse Gastya.
«Perché gli altri Sefry hanno abbandonato Rewn Aluth?» Madre Gastya schioccò la lingua in segno di disapprovazione. «Sai, il Re degli Alberi si sveglia e il sedhmhar vaga. I nostri antichi posti non sono più sicuri. Sapevamo che non lo sarebbero stati, quando fosse arrivato il momento. Tutte le grandi rewn della foresta sono vuote ormai.» «Ma perché?? Tutti insieme avreste potuto battere il greffyn.» «Hmm? Forse, ma il greffyn è solo un messaggero. Spade, lance e magia non potranno mai sconfiggere quello che verrà dopo. Quando l'acqua si alza, noi Sefry non aspettiamo l'inondazione, abbiamo costruito le nostre barche da molto tempo.» «Ma il greffyn può essere ucciso» insistette Aspar. «Forse sì, ma poi?» «Dammi una risposta chiara, maledetta strega. Madre Cilth voleva che facessi qualcosa, ma che cosa?» «Io...» fece una pausa. «Sì, adesso mi ricordo. Voleva che mi trovassi; che trovassi me e il Re degli Alberi. Di più non so.» «E il greffyn mi condurrà dal Re degli Alberi?» «Sarebbe meglio se lo raggiungessi prima di lui» mormorò madre Gastya. «Perché? E come faccio?» «Per quanto riguarda la prima domanda ho un formicolio in testa. Per la seconda... segui lo Slagbish fino alle Montagne della Lepre, sempre prendendo le biforcazioni a sud e a ovest. Tra la sorgente e gli Sproni del Gallo c'è una valle profonda.» «No, non è vero» disse Aspar. «Ci sono stato.» «Sì invece.» «Cavolate.» La vecchiaccia scosse la testa. «C'è sempre stata, ma dietro una specie di parete, all'interno della quale si è formata una breccia. Scendi a valle, attraverso le gole di rovi. Lo troverai lì.» «Non esiste questa valle» fece Aspar testardamente. «Non si può nascondere una cosa del genere, ma supponiamo che ci sia. Supponiamo che i maiali si accoppino con le oche e che tutto quello che hai detto sia vero; perché dovrei fare quello che vuole madre Cilth? Che me ne verrà?» Gli occhi di madre Gastya tremarono come un fulmine lontano. «Perché allora crederai, Aspar White. Solo vedendolo lo farai. E per fare quello che devi, devi prima credere, fino all'ultima goccia del tuo sangue.» Aspar si strofinò la fronte con la mano. «Odio i Sefry» mormorò. «Vi
odio. Perché io? Perché devo farlo io?» Scosse le spalle. «Tu vedi con occhi umani e sefry.» «Che differenza fa?» «Farà differenza. Avrà respiro umano e Possiederà anima umana; ma dovrà avere gli occhi rapidi dei Sefry e vedere i colori della notte. Così dice la profezia.» «Profezia? Che il Malvagio ti prenda, io...» s'interruppe all'eco di una voce. «Che cos'era?» «I fuori casta. Stanno arrivando per te.» «Pensavo avessi detto che non potevano trovarci.» «No, ho detto che l'avrebbero fatto, al momento opportuno. Il momento è vicino, ma troveranno solo me, non voi. Prendete la mia barca e lasciatevi trasportare dalla corrente lungo il fiume. A un certo punto vedrete una luce, virate in quella direzione.» «Perché non vieni con noi?» «La luce mi finirebbe, e ci sono cose che devo fare prima.» «Fend ti ucciderà.» Gastya gracchiò piano a quelle parole e mise la mano in quella di Aspar per un istante. Con un brivido tremendo, non vide né sentì la sua carne, ma solo ossa grigie e fredde. «Andate,» disse madre Gastya «ma prendete questa.» Le ossa della mano si aprirono e lasciarono cadere nel palmo di Aspar una piccola sfera di cera. «Serve per estrarre il veleno. Può darsi che ti sentirai male ancora; se hai di nuovo la nausea premila contro la ferita.» Aspar prese la sfera, fissando la mano. «Andiamo Winna» mormorò. «S-sì.» «La barca è là» disse Gastya, sollevando il mento per indicare. «Non perdere tempo, trovalo.» Lui non rispose. Un brivido gli percorse la schiena su e giù come un topo in un tubo. Temeva che la voce gli tremasse parlando. Prese la mano di Winna e andarono a cercare la barca. Ma quando l'acqua ebbe portato la gondola al di là dei pilastri di pietra scolpita del tempio hisli, in un tunnel basso, lontano da madre Gastya e dalla sua voce vuota e scarna, Winna gli strinse le dita. «Aspar, era... era morta?» «Non lo so» mormorò. «I Sefry dicono... dicono che la loro magia può fare queste cose. Io però non ci ho mai creduto, mai.» «Adesso sì però.» «Poteva essere un incantesimo. Forse era un incantesimo.»
Molto tempo dopo, almeno così sembrò, giunsero strani suoni dal tunnel. Sembravano urla, ma Aspar non seppe dire di chi fossero. Capitolo sette Piani per un viaggio «Maestà!» protestò la guardia. «Non potete... è...» Muriele fulminò con lo sguardo quel tipo alto e col mento cascante. Aveva baffi molto ben curati ed era immacolato nella livrea bianca e blu della casa di Gramme. Non riuscì a ricordarsi il nome o forse non ci provò neanche. «Non posso cosa?» rispose secca. «Sono la tua regina o no?» L'uomo indietreggiò e fece un inchino e un altro ancora, come aveva fatto da quando si erano incontrati. «Sì, maestà, certo, ma...» «E lady Gramme non è forse una mia suddita e un'ospite della casa di mio marito?» «Sì, maestà, certo, ma...» «Ma cosa? Queste sono le mie stanze, nonostante la vostra signora ci viva dentro. Toglietevi di mezzo, voglio entrare, a meno che non conosciate un motivo per cui non dovrei.» «Per cortesia, maestà. La vedova Gramme sta... intrattenendo.» «Intrattenendo? Di certo starà intrattenendo il re in persona, visto che volete ostacolare la mia volontà. Volete forse dirmi, sir, che lady Gramme sta intrattenendo mio marito?» Il giovane cavaliere rimase lì, per un lungo istante, provando diversi movimenti delle labbra, ma senza riuscire a pronunciare un suono vero e proprio. Guardò da Muriele a Erren al giovane cavaliere Neil MeqVren, che teneva la mano sull'elsa della spada. Poi sospirò. «No, maestà non voglio dirvi questo.» «Molto bene, allora, aprite la porta.» Un attimo dopo entrava a grandi passi nella suite. Adlainn Selgrene, la dama di compagnia di Gramme, fece cadere il suo lavoro di cucito ed emise un piccolo urlo quando Muriele si diresse verso la camera da letto; ma, a uno sguardo duro di Erren, la biondina ammutolì. Muriele si fermò davanti alla doppia porta e parlò a Neil ed Erren senza guardarli. «Rimanete fuori un momento,» disse «dategli il tempo di ricomporsi.»
Poi afferrò la maniglia e spalancò la porta. Lady Gramme e William II erano un intreccio rosa di corpi sull'enorme letto di lei. La gente sembra stupida mentre fa sesso pensò Muriele, stranamente distaccata. Indifesa e stupida, come dei bambini, privi però di ogni fascino. «Per tutti i santi!» esclamò Muriele senza espressione. «Che cosa state facendo con mio marito, lady Gramme?» Gramme gridò risentita, senza paura, e il re emise una specie di muggito, ma entrambi in un attimo si infilarono sotto le coperte. «Muriele, in nome dei santi, che cosa...» gridò William con la faccia paonazza. «Come osate irrompere nei miei appartamenti...» urlò Gramme, tirandosi indietro i boccoli biondo cenere con una mano e avvicinando il copriletto con l'altra. «Chiudete il becco tutti e due» gridò Muriele. «Specialmente voi, lady Gramme. Il fatto che tutti sappiano di... questo... non lo rende legale davanti alla chiesa. Mio marito può anche essere al di sopra del sacro giudizio, ma vi assicuro che voi, voi non lo siete, e lui - in momenti come questi - non si opporrà se mi metterò in testa di invocarlo.» «Muriele...» «No, fai silenzio William. La guerra incombe, vero? Con quale famiglia preferiresti rischiare una frattura? Con la mia dall'impareggiabile flotta e legioni di cavalieri o con quella di questa sgualdrina, e i quaranta pony montati da bietoloni con le pentole in testa che comanda suo padre?» Gramme capì la minaccia più velocemente di William. E la sua bocca si chiuse all'istante, sebbene fosse vicina alle lacrime per la rabbia. Anche William, mordendosi il labbro, iniziò a calmarsi. «Che cosa vuoi, Muriele?» chiese con un tanto stanco. «La tua attenzione, manto mio. Mi è stato detto che sarò scortata in chiatta a Cal Azroth. Non ricordo di aver deciso di andarci né che mi sia mai stato chiesto.» «Sono ancora tuo marito; sono ancora il re. Devo forse chiedere il permesso di mettere mia moglie al sicuro? Ti hanno quasi ucciso!» «La tua preoccupazione è ben nota. È di questo che sei venuto a discutere con lady Gramme, no? Della tua profonda angoscia per la mia salute?» William ignorò la frecciata. «Eslen non è sicura per te, Munele. Questo ormai è chiaro. Sarà più facile controllarti a Cal Azroth. È per questo che quel posto è stato costruito.»
«Allora sposta lì tutta la corte, non solo me.» «Impossibile. Devo stare qui, vicino alla flotta. Ma Fastia, Anne, Elseny e Charles verranno con te. Non voglio rischiare neanche i miei figli con questi assassini in giro.» «Io rifiuto questa protezione. Manda i ragazzi, se vuoi.» Il volto di William si indurì. «Erren, parlate con la vostra signora.» Con la coda dell'occhio Muriele notò che Erren e sir Neil, dopo aver atteso il tempo necessario, erano entrati nella stanza. «Sa già come la penso, maestà» rispose Erren. «Lady Erren, almeno voi dovreste avere il buon senso per capire che è la cosa migliore da fare.» Erren s'inchinò educatamente. «Sì, maestà, se lo dite voi, maestà.» «Ebbene sì, lo dico io!» William saltò di colpo fuori dal letto e raccolse un indumento da terra, infilandoselo dalla testa. «Muriele,» disse con voce roca «raggiungimi nella stanza del sole di lady Gramme. Tutti gli altri rimangano qui. Sono il vostro re, dannazione, e non dimenticatelo mai!» William si appoggiò al davanzale della finestra fissando il tramonto. Non guardava Muriele mentre parlava. «Quello che hai fatto è stato infantile, Muriele, infantile e distruttivo. Che voci gireranno per la corte adesso? Volevi davvero che lady Gramme pensasse che non ti avevo detto niente? Vuoi che lo dica in giro?» Muriele soffocò le lacrime. «Tu non mi dici mai niente, dannazione. Se non mi ascolti tu, perché mai qualcuno dovrebbe pensare il contrario? Preferirei si dicesse che mi hai ripudiato, piuttosto che sono una stupida, marito mio.» William le rivolse uno sguardo esausto. «Questa è una situazione eccezionale» protestò. «Quando tutto è normale, io confido in te e cerco il tuo parere. L'ho tenuto segreto perché sapevo che non saresti voluta andare, mentre io ho bisogno che tu ci vada. Hai ragione, la guerra incombe, e hanno già provato a ucciderti una volta. Non so nemmeno come l'abbiano fatto. Scommetto che neanche la tua vecchia micidiale Erren lo sa.» «Allora perché credi che Cal Azroth sarà più sicura per me?» «Perché di tutti i nostri palazzi, è quello meglio costruito per la difesa da attentati, inganni e artifici, da qualunque tipo di morte alata e malvagia possa sopraggiungere. Ha una completa guarnigione, così se anche spediscono un esercito contro di te, potresti salvarti. Conosci quel posto, Murie-
le. Non capisci il motivo?» «È più facile vedere qualcosa alla luce del giorno che quando avanza alle tue spalle nell'oscurità. Non mi piace conoscere la mia sorte dalle chiacchiere altrui. Quattro anni fa non mi avresti trattato così. Ora è la norma. Non è che forse i sussurri di Granirne si stanno radicando nella tua testa? Hai forse deciso di sostituirmi come regina?» Allora qualcosa scese sul volto di William, qualcosa che non vedeva da molto tempo. Si girò di nuovo, incapace di sostenere lo sguardo di lei. «Tutti i re hanno delle amanti, Muriele, anche vostro padre le aveva.» «Non hai risposto alla mia domanda.» Si girò verso di lei. «Tu sei la mia regina, mia moglie, e credo mia amica ancora.» «Una volta eravamo amici» disse lei, più dolcemente e un po' confusa. «Non posso permettere che ti uccidano, è la semplice verità. Senza Ambria, Alis o tutte le altre, posso vivere. Senza di te...» Le mani gli caddero inermi lungo i fianchi. «Essere re è già abbastanza duro, senza che tu mi chieda di essere un uomo migliore. Non me l'hai mai chiesto, mai hai menzionato le mie amanti. Perché proprio ora, quando le cose vanno peggio e sono più delicate, decidi di... di... esplodere in questa maniera?» Sollevò il mento in aria di sfida. «Non lo so. Forse perché questa è la prima volta che mi sento veramente indesiderata. Dopo che mi avevano quasi uccisa, sei venuto da me. Sei stato dolce, come lo eri prima, e poi puf! Niente. È stato come se in quell'unica notte avessi potuto far sparire il mio terrore. E ora mi mandi via, come una bambina, senza neanche parlarmi! Non riesco a tollerarlo.» Piegò la testa. «Stanotte. Non possiamo discuterne stanotte quando ci saremo calmati un po'?» «Vuoi che venga nel tuo letto quando hai ancora il suo fetore addosso? Quando ormai lo so per certo? Che cosa pensi di me, che non abbia un briciolo di orgoglio? Sono una de Liery, Wilm, dannazione!» Sapeva di essere sul punto di piangere se non se ne fosse andata subito. «Ci vado. Non per me, ma se dici che i miei figli saranno più al sicuro a Cal Azroth, li porterò là. Non m'importa del tuo ridic...» non riuscì a finire. Si voltò e scese le scale velocemente e poi passò nella stanza da letto. «Erren, sir Neil, venite con me ora.» Quando raggiunsero la sala, le spalle le stavano tremando. Arrivati alla Scala Depren, erano iniziate a scorrere le lacrime.
Neil passeggiava lentamente nell'anticamera, chiedendosi cosa dovesse fare. Solo qualche ora prima aveva iniziato il suo servizio come unico membro della Guardia Lier. La regina gli aveva rivolto sì e no due parole e prima ancora di saperlo si era ritrovato davanti al suo sovrano - lo stesso re che gli aveva appena dato la rosa - nudo con la sua amante. Ora la regina si era chiusa nella sua stanza e lady Erren era con lei. Gli altri cavalieri assegnati alla regina erano confinati nei corridoi. Solo Neil era ammesso negli appartamenti. Forse avrebbe potuto far capolino e chiedere a loro cosa doveva fare; ma Vargus non c'era, e neanche sir James, e gli altri non li conosceva. Sentì il cigolio di una porta, si voltò con la mano su Corvo. Era lady Erren. «Rilassatevi, giovane chever» disse in lierish. «La regina mi manda a porgervi le sue scuse. Era, come penso abbiate visto, troppo turbata per darvi il benvenuto nella sua squadra.» «Non fa niente» rispose Neil. «È un onore talmente grande per me, che non riesco nemmeno a parlare. Ma...» «Ma avete delle domande, vero? Chiedete pure.» «Grazie, signora. Soprattutto questa: quali sono esattamente i miei doveri?» Erren fece un sorriso austero. «È piuttosto semplice: proteggere la regina. Non me, né le figlie, né suo marito, né il principe, solo la regina, sempre ed esclusivamente, i vostri occhi devono essere la sua sicurezza. Se vi doveste trovare nella situazione di salvare la vita del re, permettendo però che la regina venisse punta da un'ape, dovrete lasciar morire il re. È abbastanza chiaro?» «Sì, piuttosto chiaro.» «In quel caso avete potere assoluto. Non vi potrà essere dato alcun ordine, compito o incarico che vi allontani dal suo fianco. Non importa chi ve lo dia. Agite sempre come ritenete più opportuno.» «E gli altri cavalieri? I maestri?» «Non sono sotto il vostro comando, se è questo che intendete, e voi non siete sotto il loro. La regina comanda questa squadra e io sono il capo del suo personale. Voi obbedite agli ordini della regina, poi ai miei e poi a quelli del re, in questa sequenza. Se in qualunque momento sentite che un certo ordine mette a rischio la regina, dovrete ignorarlo.» Fece una pausa. «Ma state sicuro. Non permetterò a nessun giovanotto presuntuoso di giudicare ogni ordine che impartisco. Non siete voi lo stratega qui. Voi siete il
cane da guardia, la spada. Capite la differenza?» «Sì, signora.» «Molto bene allora. Col tempo metteremo insieme una vera Guardia Lier, e voi ne sarete il capitano. Fino a quel momento, le cose staranno come vi ho detto. Avete altre domande? Per esempio su quello che è appena successo?» «Nessuna domanda che possa essere opportuna, credo.» «Che cosa intendete dire?» «Volevo dire che è una domanda che vorrei rivolgere al re, se non fosse impertinente» rispose con delicatezza. Un'espressione mista di approvazione e allarme sfrecciò sul volto di lady Erren. Gli mise una mano sulla spalla. «Amatela» disse «ma non innamoratevi di lei. Conta su di voi per la propria vita, e non vorrei mai che ve ne occupaste a mente lucida. Ma innamoratevi e lei è morta. Sarebbe come trafiggere voi stesso con un coltello. Capite?» Neil s'irrigidì. «Conosco la mia posizione, signora.» «Ne sono sicura. Non è di questo che sto parlando.» «So di cosa state parlando, lady Erren. Forse sarò giovane, ma non stupido.» «Se avessi pensato il contrario non sareste qui» rispose dolcemente Erren. «E se mai arriverò a pensarlo, allora vi assicuro che svanirete piuttosto in fretta.» Si piegò verso di lui e lo baciò sulla guancia. «Ecco. Benvenuto nel gruppo. Devo uscire per un po'.» «In questo caso, non dovrei essere nella sua stanza? Voglio dire, se non è sotto il vostro controllo, non dovrebbe forse essere sotto il mio?» «Eccellente osservazione. Lasciate che la prepari. Tornerò presto. Ho delle notizie da dare all'arcigrefia Fastia. A lei lo sgradito compito di diffonderle.» «Cal Azroth?» sbottò Anne. «Non posso andare a Cal Azroth! Non ora!» Fastia la guardò incuriosita. «Che cosa intendi dire, Anne? Quali cose particolari ti terrebbero qui, in questo particolare momento?» Anne sentì lo stomaco rilassarsi. «Non intendevo questo» disse pronta. «È solo che non voglio andarci, tutto qua. Cal Azroth è un posto noioso.» Lo sguardo sospettoso di Fastia indugiò un istante. Poi scrollò le spalle. «Anne, lascia che ti spieghi come stanno le cose. Primo: nostra madre è stata quasi uccisa. Secondo: nostro padre, Erren e tutti quelli che dovreb-
bero conoscere meglio le cose, temono che tu, io, ognuno di noi possa essere il prossimo. Andremo tutti dove potremo essere protetti. Terzo: tu andrai a Cal Azroth. Non è una funzione serale, o una lezione di cucito dalla quale puoi scappare travestendoti da ragazzo e guidando la cavalleria reale in un'allegra caccia. Se sarà necessario, verrai legata mani e piedi fino a che la chiatta non sarà lontana.» Anne spalancò la bocca per iniziare una protesta furibonda, ma Fastia si portò il dito alle labbra. «Un momento. Lascia che ti dica ancora una cosa. Mamma ha bisogno di noi, Anne. Pensi che lei sia tanto più contenta di andarsene in esilio? Quando l'ha saputo si è infuriata con nostro padre e si è opposta. Ma papà ha bisogno di sapere che siamo al sicuro e lei ha bisogno dei suoi figli. Ha bisogno di te, Anne.» Anne chiuse la bocca. Fastia sapeva come far suonare vere le cose. E se era coinvolta Erren... be', lei sapeva come scoprire la verità, se ci si metteva d'impegno; e non doveva scoprire niente su Roderick. «Molto bene» rispose Anne. «Capisco che è importante. Quando partiamo?» «Domani, e non dirlo a nessuno, intesi? Troppe persone sanno già dove siamo dirette.» Anne annuì. «Verrà anche Austra, ovviamente?» «Certo.» Fastia prese il mento di Anne fra le mani. «Sembri stanca, Anne. Hai dormito bene?» «Ho avuto delle Donne Nere» ammise Anne. «Io...» Sentì l'improvvisa e forte tentazione di dire a Fastia del labirinto. Ma se lo stesso praifec le aveva detto di non preoccuparsi, allora non ce n'era bisogno. Fastia avrebbe solo pensato che c'era una cosa in più che non andava bene in lei. «Sì?» la spronò Fastia. «Che tipo di Donne Nere?» «Stupidaggini» mentì. «Se ti tengono sveglia, devi parlarmene. I sogni possono essere importanti, lo sai.» «Lo so. Ma questi sono solo... sciocchezze.» «No, se ti fanno stare male.» Anne si sforzò di sorridere. «Be', ci sarà un sacco di tempo per parlare di questo a Cal Azroth. Non c'è niente altro da fare lì.» «C'è sempre Elyoner. Sono sicura che verrà a trovarci. E vedrò di far portare il tuo cavallo Fulmine. Che ne pensi?» «Oh, Fastia, davvero?»
«Farò del mio meglio.» «Grazie.» «Adesso, prepara le tue cose. Ci vediamo presto.» «Va bene.» «E... Anne!» «Sì, Fastia?» «Ti voglio bene, lo sai vero? Sei la mia sorellina. Lo so che a volte pensi...» Si accigliò e arrossì leggermente. «Comunque...» le sue mani erano un po' agitate, poi si calmarono. «Prepara le tue cose» disse. Quando Fastia se ne fu andata, Austra entrò con passo felpato nella stanza. «Hai sentito?» chiese Anne. «Sì.» «Che noia! Pensavo di incontrare Roderick domani.» «Vuoi che gli faccia sapere qualcosa?» chiese Austra un po' trepidante. «Sì» mormorò l'altra. «Sì. Digli che invece ci vediamo stanotte. Al rintocco di mezzanotte, nella cripta dei miei avi.» «Anne, questa è davvero una brutta idea.» «Forse non lo rivedrò per mesi. Devo vederlo prima di partire.» Capitolo otto Scrifti Al bruciore improvviso di una pacca che lo scosse, Stephen si ridestò dal mondo dei sogni. In effetti era grato al dolore perché lo liberava dal terrore, un inferno di uomini-bestia con corna, donne e bambini sventrati, volti lascivi che si formavano e dissipavano come nuvole, e poi quelli dei suoi rapitori, di Aspar White e di fratello Desmond. La gratitudine non durò molto. Nel sonno, il sangue gli aveva incollato la camicia alla schiena e in alcuni punti alla panca di legno su cui dormiva. Muovendosi ora gli parve di sentire altre frustate sugli arti e sul dorso. «Ecco un bravo ragazzo» disse un fratello piegato su di lui, quando Stephen si sedette. «In piedi» e gli diede un'altra pacca sulla schiena, causandogli un sospiro improvviso e lacrime di sofferenza. «Lascialo stare» disse una voce più dolce. «Desmond e la sua banda non sono qui intorno adesso.»
«Non lo so» brontolò il primo tipo. Era basso, col torace ben sviluppato e le braccia ossute, i capelli rossi e tante lentiggini. «Per quello che ne so, tu stai con loro. E non fa mai male trattare in modo brusco i nuovi arrivati. Può far male essere gentili con loro.» Gli diede ancora una pacca, anche se non forte come le altre. Ma stavolta Stephen non ne poté più e saltò in piedi dalla tavola su cui aveva dormito, sovrastando il suo antagonista di almeno una testa. «Stai alla larga da me» lo avvisò. «Non toccarmi un'altra volta.» Il rosso fece due passi indietro, ma non sembrava molto preoccupato. «Come ti chiami?» Era la voce dell'altro uomo, un giovane allampanato con le orecchie grandi e un sorriso spontaneo. «Stephen Darige.» «Io sono fratello Alprin, e il piccoletto è fratello Ehan.» «Non chiamarmi 'piccoletto'» lo avvisò il rosso. «Gozh margens ezwes, mehelz brodai Ehan» disse Stephen. «Come?» esclamò fratello Ehan. «Questo è herilanzer! Come mai parli la mia lingua?» «Non la parlo, conosco solo poche parole.» «Come hai fatto a capire che era Herilanzer?» chiese fratello Alprin. «Il nome, l'accento. Sono bravo in questo genere di cose.» E finora mi ha sempre ficcato nei guai. Avrei dovuto tenere la bocca chiusa. Ma Ehan sogghignò: «Be', questa è bella. Nessuno capisce l'herilanzer se non è Herilanzer. Nessuno ci prova neanche. A che scopo dovrebbe farlo?» Stephen scrollò le spalle. «Forse un giorno andrò a Herilanz.» «Questa è ancora più divertente» disse Ehan. «Dureresti circa mezz'ora nella mia città. Se non fosse il gelo a ucciderti, sarebbe il primo bambino che ti passa vicino.» Stephen pensò che se fratello Ehan era il tipico adulto herilanzer, i bambini gli sarebbero arrivati al massimo al ginocchio, ma decise di non parlare. Soffriva già troppo. Invece annuì. «Forse» concesse. Diede uno sguardo intorno: il dormitorio era uno stanzone illuminato da alte feritoie. Aveva un aspetto molto sobrio: cinquanta panche di legno, larghe quanto necessario per dormirci sopra, e una piccola scatola aperta ai piedi di ogni tavola per gli effetti personali. Notò che la sua era vuota. «Le mie cose! I miei libri, il mio carboncino... le mie riproduzioni! Dov'è finito tutto?» «L'ha preso uno dei ragazzi di Desmond. Se sei fortunato e ti comporti bene, lo riavrai indietro.»
«Il fratrex... voglio dire...» «Non cominciare a pensarlo neanche» lo avvisò Alprin. «L'unico modo con Desmond e la sua banda è cooperare, ringraziarli e sperare che prima o poi si rivolgano contro qualcun altro. Non so dirti se il firatrex sa di tutto questo. È un punto discutibile. Se vai da lui, o da chiunque altro, commetterai un grosso errore.» «Ma come può - anzi come possono - fare cose come queste?» Fratello Ehan gli diede l'ennesima pacca sulla schiena, e Stephen per poco non si spaccò la lingua a metà con un morso. «Idiota!» sibilò Ehan. «Mi conosci forse? O conosci fratello Alprin? Ci hai appena incontrato! Potremmo anche essere i peggiori della banda. E se lo fossimo, in questo preciso momento, per i santi della tempesta e del sangue, staresti rimpiangendo quello che hai appena detto, ah sì, e terribilmente. Vuoi sopravvivere qui? Ascolta e impara: non parlare fino a che non conosci l'altro.» «Non stai infrangendo la tua stessa regola? Neanche tu mi conosci.» «So che sei nuovo. È sufficiente.» «Ha ragione» disse Alprin. «E non aspettarti gentilezze da parte nostra, o da chiunque altro, se c'è anche la minima possibilità che qualcuno stia osservando. Esistono delle regole precise sui nuovi. Neanche io voglio infrangerle troppe volte.» «Quindi sei stato avvertito» grugnì Ehan. «È più di quanto intendessi fare, ed è l'ultima cosa che riceverai. Non fidarti di nessuno.» Si grattò il mento. «Ah, il fratrex ti voleva nello scriftorium circa un quarto d'ora fa. Qualcosa a proposito di 'importanti traduzioni'.» «Per tutti i santi!» disse Stephen. «Ma le mie cose...» «Dimenticale» disse Alprin. «Davvero. E poi ti sei votato alla povertà.» «Ma le mie cose non erano ricchezze. Mi servivano per il mio lavoro.» «Hai tutto lo scriftorium» disse Ehan. «Che altro potrebbe servirti?» «I miei appunti.» «Mi dispiace.» Quindi si rivolse a fratello Alprin. «È tempo di andare. Abbiamo già rischiato il collo abbastanza per un giorno solo, e ho del lavoro da fare.» «Grazie» disse Stephen. «Eh Danka 'zwes.» Ehan rise mentre si allontanava. «Parla l'herilanzer» esclamò. «E poi?» Già poi? Stephen si fermò a pensare. A Tor Scatti credeva di aver passato il peggio. Ora si scoprì a provare già nostalgia per quei giorni.
Ma lo scriftorium l'attendeva e quel pensiero ancora lo eccitava, anche se frenato dai sospetti. «Indolenzito per aver trasportato quella legna, eh?» chiese il fratrex scrutandolo dall'alto in basso. «Molto, reverendo» rispose Stephen. Era vero ciò che avvertiva. Nonostante avesse scelto con cura le parole aveva appena mentito al suo superiore. Non gli piacque, ma fino a che non capiva qualcosa di più sul monastero e i suoi abitanti, aveva deciso di seguire il minaccioso consiglio dei fratelli Ehan e Alprin. Il fratrex apparve compassionevole. «Be', stasera porterete da mangiare alle sentinelle. La passeggiata vi aiuterà a sgranchirvi.» «Grazie, fratrex.» «Di niente. Ora, ragazzo mio, avete trovato niente di interessante, ieri sera? Sono sicuro di sì.» Ho trovato delle mele marce nel paniere della chiesa, pensò stizzito. «Ho trovato una delle prime copie dell'Amelia Tirson» disse. Il fratrex annuì in segno di approvazione. «Ah sì, la geografia antica. Abbiamo l'originale.» «Allora doveva essere quello che ho trovato. Le copie furono... sono state fatte qui?» Il fratrex si grattò il mento e tirò indietro la testa. «È qui da due secoli, quindi suppongo che ogni copia che avete visto altrove deve esser partita da qui. Perché, avete trovato degli errori?» «Non esattamente. Quello che ho...» «Bene allora! Certo che no. Abbiamo i migliori copisti del mondo.» Strizzò l'occhio a Stephen. «E i traduttori più competenti, eh? Ora, volete vedere che cosa vi ho portato?» «Sì, fratrex Pell.» Il vecchio batté la mano su una scatola di cedro. «È qui.» La scatola era molto simile a quella dell'Amena Tirson, ma più grande. Sembrava nuova, al contrario del contenuto. «Tavole di piombo» mormorò Stephen, quasi a se stesso. «Un testo sacro.» «Apparentemente. Ma vedete la data? Precede gli Egemoni — e la diffusione della chiesa in questa zona - di almeno duecento anni.» «Già, è vero» concordò Stephen. «Ma la scrittura su piombo sembra avesse una certa importanza anche prima che la chiesa ne codificasse l'uso.
I messaggi ai defunti, per esempio, erano scritti in quel modo, in vitelliano arcaico, prima del Sacaratum e dell'avvento della chiesa.» «I messaggi ai defunti, sì è vero» riconobbe il fratrex. «Secondo le nostre prime dottrine, gli spiriti dei dipartiti leggevano meglio sul piombo. Ma per la chiesa quei messaggi erano poca cosa: maledizioni e altre richieste, simili a quelle che alcuni scrivono ancora oggi. È solo a partire dalla seconda riforma che vennero scritti in questo modo anche i testi dedicati ai santi, perché i santi sono serviti dai defunti. «Ma qui, molto tempo prima della seconda riforma... be', guardate voi stesso.» Stephen si avvicinò per dare un'occhiata più da vicino mentre il cuore gli batteva forte. Il dolore alla schiena non sparì, ma per un istante quasi se ne dimenticò. «È un testo intero» disse. «Un libro, come le sacre scritture della chiesa.» «E conoscete la lingua?» «Posso prenderlo?» «Certo.» Stephen sollevò la prima pagina, pesava. Quando lo toccò, gli sembrò quasi di sentire il sapore del piombo in bocca, e le dita gli tremarono leggermente. Chi l'aveva scritto? Che cosa aveva provato l'autore, mentre buttava giù questa prima pagina? L'immensità del tempo si estendeva sopra Stephen come un'onda, che lo trascinava nell'oceano, piacevole e al tempo stesso inquietante. Diede uno sguardo alle piccole figure. «C'è una gran quantità di patinatura» mormorò, sfiorando la pellicola bianca che lo copriva. «Dov'è stato trovato?» «Nella vecchia cappella di san Donwys, nei confini di Hume, o giù di lì, così mi hanno detto.» «Non l'hanno trattato molto bene» notò Stephen. «È stato tenuto all'umidità.» Si accigliò. «E sembra quasi... potrebbe essere stato sepolto!» «Ne dubito» disse il fratrex. «A ogni modo adesso è qui e lo tratteremo bene. In realtà, anche per questo abbiamo richiesto un fratello con le vostre qualifiche. In tutta onestà, avrei preferito qualcuno più alto di grado nell'ordine rispetto a un novizio, ma sono sicuro che vi dimostrerete degno della fiducia della chiesa.» «Mi sforzerò di esserlo, reverendo.» «Ora. Che mi potete dire di questo? È vadiano, per quel poco che capisco, ma...»
«Con il massimo rispetto, reverendo» disse Stephen, con molto tatto, ricordando la sua ultima lezione di umiltà. «A una prima occhiata, non sono molto convinto che sia così.» «Ah no?» «Somiglia, ma...» fissò la prima riga, accigliandosi. «Sono i caratteri vadiani, no?» chiese il fratrex. «Sì, ma guardate questa linea. Sembra Dhyvhubh khamy, 'indirizzato agli dèi'. In vadiano avrebbe dovuto essere Kanmi udhe dhivhi. Vedete? Il vadiano aveva perso le desinenze dell'antico croatano. Penso che si tratti di un dialetto sconosciuto, probabilmente una forma molto antica di vadiano.» «Davvero? Quanto antica? La data ci dice che è stato scritto durante il regno del Giullare Nero, e la lingua del suo impero era il vadiano.» «Il testo potrebbe essere stato copiato. Vedete qui, sotto la data?» «Vedo la lettera Q, se capisco bene lo scrift.» «È una Q» confermò Stephen. «Il Giullare Nero regnò per quasi un secolo. Durante i primi anni del suo regno, diventò un'usanza per uno scriba o un traduttore mettere questo segno sotto la data.» Fece un sorriso arcigno. «Il Giullare voleva sapere chi doveva punire se una cosa veniva copiata in modo errato. Dopo la sua sconfitta, ovviamente, si stabilirono gli Egemoni e la chiesa impose le sue procedure.» «Quindi pensate che questa sia una copia di qualcosa di più antico?» «È possibile. O forse è una specie di dialetto letterario - come noi usiamo il vitelliano o il croatano per i nostri testi sacri.» Il fratrex annuì. «Qui riconosco i miei limiti. Forse è come dite voi.» «O forse no» si spicciò a precisare Stephen. «Dopo tutto mi sono basato solo su poche parole. Ma studiandolo ancora, posso sviluppare una teoria più sicura.» «Quanto vi ci vorrà per tradurre l'intera cosa?» «Non posso dirlo con certezza, reverendo. Se è un dialetto sconosciuto, potrebbe essere problematico.» «Capisco. Potreste farcela in nove giorni?» «Reverendo, ma...» Sbigottito, cercò di nascondere la tensione nella voce. «Posso provarci. È così importante?» Il reverendo aggrottò le ciglia. «Per me no. Ma consideratelo una prova, un primo atto di devozione. Fatelo nel tempo che vi ho concesso, e potrete percorrere la via dei templi prima di ogni altro novizio.» I templi gli ricordarono il dolore. Che cosa avrebbe detto fratello De-
smond di quella faccenda? «Reverendo, non desidero alcun trattamento speciale. Ovviamente tradurrò con alacrità. È ciò per cui mi avete fatto venire qui, e non vi deluderò.» «Non mi aspetto che lo facciate.» Il tono di fratrex Pell s'indurì. «Così come non mi aspetto che mettiate in dubbio il mio giudizio. Se affermo che siete pronto per visitare i templi, è perché lo siete. Capito, sì? Non si tratta di trattamento speciale. «Abbiamo sbattuto la testa su questo scrift per mesi, e in cento secondi avete già rivelato uno dei suoi misteri. È un chiaro segno dei santi; anche il vostro successo o fallimento nei prossimi nove giorni sarà un chiaro segno, in un modo o nell'altro, chiaro?» «In un modo o nell'altro, reverendo?» «Esattamente.» Il fratrex gli diede un'energica pacca sulla spalla, causandogli frecciate di agonia in tutto il corpo. «Ragazzo mio, siete davvero delicato» commentò il fratrex. «Bene, vi lascio al lavoro. Che i santi vi accompagnino.» «Anche a voi, reverendo.» Quando il fratrex se ne fu andato, le sue parole rimasero sospese nell'aria, ma ferme come se fossero state scritte su piombo, e allo stesso tempo oscure come il contenuto del manoscritto. In un modo o nell'altro. Se Stephen ci fosse riuscito, avrebbe subito visitato i templi diventando un iniziato, invece di attendere un anno o più. Ovviamente Desmond Spendlove lo avrebbe picchiato a morte. Ma se avesse fallito? Che avrebbero detto i santi al fratrex? Ma no, una cosa era certa - nessuno aveva letto queste antiche parole da più di mille anni. Lo avrebbe fatto, le conseguenze e i rischi non contavano. Trovò della carta e del carboncino per il ricalco, un pennello per pulire i caratteri e mischiò dell'inchiostro. Bastò poco per fargli dimenticare del fratrex, di Desmond Spendlove e di tutte le minacce di punizione e sofferenza, mentre antichi pensieri gli si andavano rivelando lentamente e con una certa esitazione. Il dialetto era, in effetti, sconosciuto. Le parole erano molto simili al vadiano, ma sintassi e grammatica erano più antiche, più simili alle lingue del primo cavarum. La campana dei vespri lo trovò ancora curvo sul manoscritto, con righe
tradotte e scarabocchiate sulla carta lì vicino. Mentre procedeva, aveva cancellato le intuizioni preliminari, sostituendole con quelle più certe. Drizzando la schiena, fece scrocchiare il collo e si strofinò gli occhi, poi tornò a rileggere i suoi appunti. Aveva iniziato a mettere insieme i pezzi di un rompicapo, la coniugazione di questo o quel verbo, la relazione tra soggetto e oggetto, ma non aveva ancora provato a mettere tutto insieme. Così, su un foglio pulito, iniziò una traduzione scorrevole Questo è indirizzato agli dèi. Queste parole furono copiate nel trentottesimo anno del regno di Ukel Kradh dhe'Uvh (un titolo del Giullare Nero, che significa 'Cuore Impavido' scritto in dialetto vadiano, a differenza del resto del documento - S.D.). Leggetele, perché sono terribili. Sono per i vostri occhi Signore, e per nessun altro. Signore dei sedoi, qui si parla di (noybhubh: chiese? altari? templi?) che appartengono a (zhedunmara: dannati? demoni profani?). Qui si parla di (vath thadhathun: vie dei sedoi? vie dei templi?) della Madre-Divoratrice, del Desiderio 'Sacro, del Signore Pazzo, del Fulmine-Attorcigliato-Dentro, dei loro congiunti e del loro clan. Qui si dice come intrattenerli. (Uwdathez: Maledetto?) chiunque altro legga queste parole. E (maledetto?) colui che le scrive. Il gelo gli afferrò la spina dorsale. In nome dei santi, che cosa aveva lì davanti? Non aveva mai visto un testo antico, neanche lontanamente simile a questo. Certo, era rimasto ben poco dell'epoca delle Guerre dei Maghi. Gran parte degli scritti del tempo era profana e peccaminosa e quindi fu distrutta dalla chiesa. Se questo era uno di quei testi, come aveva fatto a sfuggire? Solo perché nessuno l'aveva saputo leggere? Non aveva senso. Quando gli Egemoni riportarono la pace nel Nord, avevano con sé alcuni dei più grandi studiosi del mondo antico. Inoltre, questa lingua doveva essere piuttosto vicina ai dialetti del tempo e qualunque studioso poteva tradurlo più facilmente di lui - facendo riferimento alle lingue sorelle. Forse questo era stato nascosto o, come sospettava Stephen, sepolto. Forse qualche contadino l'aveva scoperto zappando la terra e l'aveva portato ai fratelli di san Donwys, che pensando fosse un testo sacro l'avevano
messo nello scriftorium. Qualunque fosse la sua provenienza, era certo che non sarebbe dovuto esistere. E se la chiesa avesse visto cosa diceva, lo avrebbe distrutto. Avrebbe dovuto dire subito tutto a fratrex Pell. Non doveva andare avanti. «Fratello.» Per poco Stephen non saltò fuori dal corpo. Un monaco che non conosceva stava in piedi a pochi passi da lui. «Sì?» disse Stephen. «Fratrex Pell vuole che portiate il pasto serale alle torri di guardia.» «Ah, certo!» «Lo rimetto a posto?» Il fratello indicò lo scrift. «Ah... no. È una cosa che sto traducendo per il fratrex. Potremmo lasciarlo qui, così domani ricomincio subito?» «Certo.» «Sono Stephen Darige» disse. «Fratello Sangen, al tuo servizio. Mi occupo di mettere le cose sugli scaffali. Questo è uno dei nuovi scritti vadiani?» «Ce ne sono altri?» «Oh sì. Stanno entrando qui a frotte negli ultimi anni.» «Davvero? Tutto da san Donwys?» «Cielo, no. Da ogni parte.» Aggrottò un poco le sopracciglia, come se si fosse improvvisamente preoccupato. «Faresti meglio ad andare. Fratrex Pell è molto paziente, ma quando chiede che una cosa venga fatta, non ammette scuse.» «Certo.» Stephen raccolse la sua traduzione libera e i suoi appunti. «Ho intenzione di portare questi con me, per rimuginarci sopra un po' prima di dormire. Si può fare?» «Certo. Buona serata, fratello Stephen.» Poi abbassò la voce e disse: «Stai attento mentre vai alle torri di guardia. Si dice che il sentiero a sud, vicino al bosco, sia più lungo, ma più... piacevole. Ti posso spiegare la strada, se vuoi.» «Sì, grazie mille.» Nel crepuscolo, con le lucciole che si levavano come fantasmi che abbandonano questo mondo, Stephen sentì quel gelo tornare. Combatteva contro la tentazione di andare dritto dal fratrex e rivelargli quanto aveva scoperto.
Non aveva paura della maledizione, ovviamente. Qualunque fosse il dio pagano invocato, era ormai morto da tempo, o prigioniero dei santi. Il Giullare Nero era stato sconfitto e giaceva morto da più di un millennio. La maledizione non aveva più alcuna importanza. Ma tutti gli scrifti che iniziavano con una maledizione così forte con ogni probabilità contenevano poi cose che nessun uomo avrebbe dovuto leggere. Tuttavia non poteva esserne sicuro. Poteva rivelarsi solo un catalogo di demoni morti e forse conteneva informazioni utili alla chiesa. Fino a che non fosse stato certo di non poterne ricavare niente di buono, non poteva lasciare che venisse distrutto. Avrebbe letto ancora. Se si fosse imbattuto in qualcosa di chiaramente empio e pericoloso, lo avrebbe portato subito dal fratrex. In quel momento aveva ben altre preoccupazioni. Fratello Sangen lo stava davvero aiutando a evitare fratello Desmond e i suoi criminali o lo stava spedendo dritto nelle loro braccia? Non c'era modo di saperlo e nient'altro da fare che stare pronti. Ebbe l'improvvisa e strana sensazione che sarebbe stato bello avere Aspar White con lui in quel momento. Il guardaboschi era sgarbato, ma sembrava sapere molto bene cosa fosse giusto o sbagliato. Senza contare che Desmond Spendlove e i suoi bulli non sarebbero durati venti secondi contro Aspar. Quello sì che era uno scontro cui avrebbe assistito volentieri. E poi, ancora una volta, Aspar lo avrebbe schernito per essere un bambino debole e viziato. Raddrizzò le spalle; non poteva sconfiggere i suoi nemici, ma poteva fare in modo che non lo sconfiggessero; se anche lo avessero sbattuto a terra, non avrebbero abbattuto il suo spirito. Era il meglio che potesse fare e doveva bastargli; sperava solo che non lo uccidessero. Sulla scia di quel pensiero, una voce parlò dalla foresta, dolce ma sostenuta. «Bene. Che cosa fai, piccoletto?» Stephen trattenne il fiato, per darsi coraggio, mentre Desmond Spendlove faceva un passo avanti sul prato, con una luce malvagia appena visibile negli occhi. Ci volle un attimo prima che Stephen capisse che non stava parlando a lui. In realtà non l'aveva neanche visto. Veloce, si tuffò dietro una collinetta di fieno, scrutando da un lato.
La preda intorno a cui Spendlove e i suoi lupi si andavano radunando era fratello Ehan. «Non chiamarmi così» lo avvertì Ehan. «Ti chiamo come mi pare. Che cosa hai detto al nuovo arrivato, fratello Ehan? Niente di denigratorio spero.» «Niente che non sapesse già» rispose Ehan. «Come fai a sapere quello che lui sa o non sa? Siete già così amici?» Il mento di fratello Ehan si alzò in aria di sfida. «Andiamo Spendlove. Solo tu e io, senza i tuoi cani.» «Sentito come vi ha chiamato, compagni?» disse fratello Desmond. «Cani» ripeté Ehan. «Piccole cagne che seguono quella più grande.» Il cerchio si strinse. Ehan scattò subito, dritto verso fratello Desmond. Non lo raggiunse però. Una delle altre figure incappucciate allungò un braccio, rigido, afferrando Ehan sotto il mento. I piedi volarono in aria e riatterrò con un sonoro fischio, udito fino al nascondiglio di Stephen. Si sentì un nodo in gola. Non doveva interferire, l'istinto lo avvisava di non farlo. Eppure, da lontano, sentiva ancora in qualche modo lo sguardo di Aspar su di sé. Aspar White, per quanto rozzo potesse essere, nonostante i suoi difetti, non se ne sarebbe mai stato lì a guardare. «Maledetti vigliacchi!» gridò Stephen, o forse la sua gola. Non si ricordava di avere dato lui l'ordine. Comunque attirò la loro attenzione. Fratello Desmond e altri quattro si mossero verso la collinetta, di corsa. Tre dritti contro di lui e gli altri due girarono dall'altra parte del mucchio di fieno. Stephen si tuffò dietro alla collinetta di paglia odorosa. Poteva cominciare a correre, ma quelli erano veloci, molto più veloci di lui. Lo avrebbero preso. Quindi piantò le dita nel fieno intrecciato e si arrampicò più rapido che poté. Quasi sulla cima si fermò, immobile; sotto vide i suoi inseguitori incontrarsi e correre disordinatamente. «Deve essere andato verso la linea degli alberi, coperto dalla collina di fieno» fece uno di loro. «Trovalo.» Era fratello Desmond; Stephen riuscì a distinguerne il volto abbastanza bene, perché una bolla di luce gli era apparsa intorno, una specie di foschia luminosa. San Tyw, fa' che non guardino in alto pregò in silenzio. Che fosse per la grazia concessa dal santo o perché semplicemente non ci pensarono, non alzarono lo sguardo, ma si sparpagliarono e corsero ver-
so gli alberi. Questo non li avrebbe distratti per molto. Oltre il ruscello e l'argine di salici c'era solo pascolo aperto e si sarebbero presto accorti che lui non era lì. Si arrampicò fin sopra la collinetta e scivolò giù dall'altra parte. Ne erano rimasti due con Ehan; uno lo teneva a terra, mentre l'altro mostrava qualcosa come un pesante sacco. Lo videro all'ultimo secondo, quando diede un calcio sotto il mento a quello che stava sopra Ehan. Sentì i denti sbattere, mentre l'altro, mugghiando come un toro, lo colpì con il sacco. La botta fu forte, in basso sulla schiena, e sentì dolore. Sembrava un sacco pieno di pere, e probabilmente lo era. Stephen cadde in ginocchio, sentendo il sapore del sangue in bocca. La cosa successiva che vide era Ehan che lo trascinava. «Alzati, idiota! Saranno qui tra un attimo!» Stephen si rialzò stordito. Il tipo a cui aveva dato il calcio giaceva in terra immobile, e anche l'altro, e si lamentavano. «Andiamo!» ripeté Ehan. Poi cominciò a correre. Stephen lo seguì, spinto da Desmond e gli altri che intimavano loro di fermarsi, e minacciavano cose terribili. Seguì Ehan fino al bordo della foresta, e all'improvviso furono solo rami che lo graffiavano, rocce invisibili che affioravano e poi un sentiero che si attorcigliava su per la collina. I polmoni erano come una coppia di lanterne bollenti, e il dolore alle reni, dove era stato colpito dal sacco, si trasformò in un altro incendio. Finalmente, deviarono in una radura. Era notte fonda, ma Ehan sembrava sapere dove andare. Proprio quando Stephen pensò che non sarebbe riuscito a muovere un altro passo, il suo compagno l'afferrò per un braccio e lo tirò giù. «Non credo ci stiano seguendo ancora» disse affannato. «Aspettiamo qui e vediamo. Possono trovarci quando vogliono; probabilmente non sprecheranno altra fatica.» «Perché... abbiamo... corso... allora?» riuscì a dire tra respiri impetuosi e dolorosi. «Non avrei dovuto, se tu non avessi fatto quello che hai fatto» rispose Ehan. «Ma avrebbero potuto ucciderci in quel momento. La prossima volta che Desmond ci prende da soli, sarà brutto, ma avrà avuto il tempo" di calmarli.» «Non possono ucciderci!» protestò Stephen. «Ah, no? Non possono, ragazzino? Hanno ucciso un novizio solo due
mesi fa. Gli hanno rotto il collo e l'hanno buttato in un pozzo, in modo che potesse sembrare un incidente. Quei tipi non scherzano. Quello che hai fatto è stata una grande stupidaggine. Siamo stati solo fortunati che abbiano lasciato Inest e Dyonis con me; non hanno ancora i santi doni. Se fosse stato uno qualsiasi degli altri, saremmo morti.» Ehan si fermò. «Ma... Eh Danka 'zwes, yah? Grazie. Non potevi sapere come vanno le cose qui. Sei migliore di quanto pensassi. Stupido, ma buono.» «Non potevo restare a guardare» spiegò Stephen. «Faresti meglio a imparare» disse Ehan serio. «Faresti molto meglio.» «Di sicuro se ci unissimo tutti...» «Scordatelo. Ascolta, prima o poi ti lasceranno stare. Questa è la prima volta in un anno che mi prendono di mira.» «Perché hai parlato con me?» «Sì, credo.» Stephen annuì nell'oscurità e rimasero seduti lì, finché la tempesta che avevano dentro non si fu calmata in uno zefiro dal soffio tranquillo. «Bene» disse Ehan. «Da questa parte si va al dormitorio.» Stephen sentì il sacco delle provviste ancora appeso alla cinta.» Devo portare questo alle sentinelle.» «Ti staranno ad aspettare, oppure no.» «Il fratrex mi ha chiesto di farlo.» «I fratelli di guardia capiranno.» «Il fratrex mi ha chiesto di farlo» ripeté Stephen «e io lo farò.» Ehan borbottò qualcosa nella sua lingua, a voce troppo bassa e troppo velocemente perché Stephen potesse capire. «Molto bene» disse infine. «Se insisti a fare lo stupido... Ma lascia che ti mostri una via per tornare indietro.» Capitolo nove L'esilio Anne trattenne il respiro mentre le dita di Roderick le sfioravano il seno, lievemente. Era stato un caso? Non l'aveva mai fatto prima. Ma non era neanche mai stato così prima d'allora; i baci erano diventati così passionali che adesso chiedevano di più. No, ecco di nuovo la sua mano sul seno, intenzionalmente. Il primo con-
tatto era stato un'incursione, per vedere come reagiva. Ma ora era tornato con sicurezza, seguendo il sottile tessuto del vestito, sollevando il capezzolo come la torre di una piccola fortezza. La bocca mangiucchiava e mordeva e la lingua seguiva il percorso intorno al collo, mentre rimaneva dietro di lei, ansimando vicino alla nuca, con una mano ferma sul seno e l'altra che scivolava dalla pancia sempre più in basso, esplorandola come un avventuriero in una terra sconosciuta. Quando non poté più resistere, lei si girò mentre lui continuava a stringerla e lo baciò ardentemente, cominciando anche lei un'esplorazione dalla base del collo al torace dove la casacca si apriva. Come le loro labbra si incontrarono di nuovo, lo fecero in un intreccio feroce e passionale, come se qualcos'altro e non il cervello prendesse il controllo su di loro, e Anne iniziò ad avvicinare e a spingere il suo corpo contro quello di lui con tutta la forza che aveva. Si separarono, ansimando entrambi come animali, e per un attimo Anne provò vergogna e paura. Ma poi la mano di Roderick si posò sulla sua guancia, dolcemente, e i suoi occhi scuri la sostennero, promettendo solo felicità e devozione. Intorno a loro la tomba era un silenzio totale, appena illuminata da una sola candela in un candeliere da parete. Erano al centro della stanza, dove i corpi giacevano in gran pompa e la famiglia si riuniva per i riti dei defunti. Nessuno era morto di recente; i suoi avi erano altrove, nelle loro camere, nelle tombe che formavano le stanze della grande casa. Prima che Roderick arrivasse, aveva detto una preghiera per tenerli calmi. «Sei più bella di qualunque altra donna su cui abbia mai messo gli occhi» sussurrò Roderick. «La prima volta che ti ho vista, non era così. Eri bella, sì, ma ora...» Cercò le parole. «È come se ogni volta che ti vedo, splendessi di una luce più intensa.» Lei non riusciva a pensare a qualcosa da dire, e a mala pena poteva sostenere l'intensità di quello sguardo, così si inclinò e piegò la testa sotto il mento di lui, poggiandogli la guancia sul petto. «Deve essere l'amore che aggiunge una bellezza in più» disse tra i capelli di lei. «Cosa?» Si tirò indietro per vedere se stava scherzando. «Lo so, è destino, ma è così. Ti amo, Anne.» Stavolta non si sottrasse al suo sguardo, ma fissò il viso di lui che si avvicinava, le labbra che si aprivano in un bacio lungo e dolce. Poi però si spinse via da lui.
«Domani devo partire» disse bruscamente. Sentì all'improvviso le lacrime che si raccoglievano e cercavano di uscire. «Che vuoi dire?» «Mio padre ci manda lontano a Cal Azroth. Mia madre, le mie sorelle, mio fratello... e me. Pensa che qui siamo in pericolo. È una cosa stupida, come potremmo essere più sicure là?» «Domani?» La voce di Roderick sembrava addolorata. «Per quanto tempo?» «Non lo so. Mesi forse, fino a che non finisce questa stupida cosa con Saltmark.» «È tenibile» sussurrò. «Non voglio andare.» Adesso era lei ad accarezzargli la guancia. «Abbiamo ancora tempo» disse. «Baciami ancora, Roderick. Preoccupiamoci di domani quando arriverà il momento.» E lui la baciò lentamente, ma in pochi istanti tornò a reclamare tutto il territorio che aveva conquistato prima e si spinse oltre. Quando le afferrò il capezzolo tra l'indice e il pollice, lei rise di piacere: chi avrebbe mai pensato a una cosa del genere? Era tutto così sorprendente! Le slacciò il corpetto e baciò il lungo bordo di tessuto e la carne; così ogni tocco delle labbra era umido e vivo, e allo stesso tempo distante, e proprio per questo più eccitante. Il corpetto si aprì. Quando la sua mano avanzò oltre le calze, sulla carne nuda della parte superiore della coscia, tutto il corpo si irrigidì. Gemette e per la prima volta ebbe davvero paura. Ma una paura mista a qualcos'altro. E Roderick sembrava così sicuro di quello che faceva. E l'amava, vero? Lui si fermò e la catturò di nuovo con i suoi grandi occhi. «Vuoi che smetta? Se hai qualche dubbio, Anne dimmelo.» «Ti fermeresti se te lo chiedessi?» disse ansimando. «Sì.» «Perché non sono sicura... ma non voglio neanche che ti fermi.» Sogghignò: «Ti amo, Anne Dare.» «Anch'io» e proprio mentre stava realizzando quello che aveva detto, lui tornò da lei e una specie di arrendevolezza la inghiottì, come se nessuno potesse biasimarla di nulla. E aveva quindici anni! Chi era ancora vergine a quell'età? Solo allora Roderick si bloccò e saltò in piedi, girando su se stesso rapi-
damente, e cercando di afferrare la spada. «Giovanotto» disse una voce familiare, «non essere più sciocco di quanto lo sei stato finora.» Anne si sedette, coprendosi il petto con il vestito. «Chi è là? Erren?» Erren attraversò l'entrata, e dietro di lei, per carità dei santi, arrivò Fastia. «Stavamo...» cominciò Roderick. «Per congiungervi come due capre? Sì, l'ho visto» disse in modo brusco Erren. «Anne, allacciati i vestiti» ordinò Fastia con asprezza. «Ora! Per tutti i santi, proprio nella casa dei nostri avi?» Qualcosa di strano tremò nella sua voce, qualcosa di più dell'oltraggio, ma Anne non riuscì a identificarlo. «Anne, non ha colpa» iniziò Roderick. Ma lei ritrovò la voce. «Come osate» esplose. «Come osate seguirmi fin qua? Questi sono affari miei e miei solamente! Non deve importare a nessuno chi amo!» «Forse no» rispose Erren. «Ma temo che importi al regno con chi vi accoppiate.» «Ah sì? Davvero? E allora che ne dite di mio padre che va a letto con ogni sgualdrina che...» «Zitta, Anne!» gridò Fastia. «...si aggira nel palazzo? No, non sto zitta, Fastia. A differenza di voi due, nelle mie vene non scorre ghiaccio.» «Ora tu invece farai silenzio» ribadì Fastia. «E voi, Roderick di Dunmrogh, fareste meglio ad andarvene e subito, prima che questo si trasformi in un incidente da portare davanti alla corte.» Roderick sollevò il mento. «Non m'interessa. Non abbiamo fatto niente di cui vergognarci, Anne e io, abbiamo solo seguito il nostro cuore.» «Se i cuori ora si agitano tra le cosce, allora avete senz'altro ragione» disse Erren. «Non andare, Roderick» intervenne Anne. Era più un comando che una supplica. Lui le prese la mano. «Vado via, ma non finisce qua, avrai mie notizie.» Rivolse a Erren e Fastia uno sguardo aggressivo e poi partì senza voltarsi. Anche Anne guardò con occhi furiosi le altre due donne, mettendo ordine tra le sue argomentazioni, mentre il rumore degli zoccoli del cavallo si allontanava sulla pavimentazione di piombo. Il volto di Fastia, nel frattem-
po, assumeva orrende contorsioni. E improvvisamente, la sorella maggiore di Anne scoppiò a ridere. Anche Erren si unì, sogghignando e scuotendo la testa. «Per tutti i santi del cielo!» riuscì a dire Fastia «Dove l'hai trovato quello?» «Non c'è niente di divertente! Perché ridete?» «Perché la cosa è troppo buffa! Pensi di essere la prima a venire alle tombe per queste cose? Pensavi di essere furba? E Roderick poi. 'Vuoi che smetta?' Oh, cara! E tu che pensavi l'avrebbe fatto e avresti addirittura voluto che lo facesse!» «Siete state a guardare tutto il tempo?» Fastia si calmò, ma stava ancora ridacchiando. «No, non tutto il tempo. Solo da quando cominciava a farsi interessante.» «Non ne avevi il diritto, cagna insensibile!» Quelle parole bloccarono la risata di Fastia e Anne fu subito dispiaciuta. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che aveva visto sua sorella ridere? Anche se a sue spese. La sua ipocrisia vacillò. Fastia annuì, quasi a se stessa. «Vieni con me un momento, Anne. Erren, potreste restare qui?» «Certo.» Fuori, l'aria era un po' fredda. La necropoli si stendeva sotto una luce argentata. Fastia fece qualche passo nel cortile e poi guardò in alto verso la mezza luna. Gli occhi erano grandi e brillavano. Anne non era sicura che avessero lacrime. «Pensi che ti invidi per questo Anne?» chiese con dolcezza. «Pensi che non capisca esattamente come ti senti?» «Nessuno sa come mi sento.» Fastia sospirò. «Fa solo parte del gioco, Anne. La prima volta che ascolti una nuova canzone, pensi di essere la prima ad averla sentita, non importa su quante labbra sia già stata. Pensi che io non abbia mai avuto un appuntamento, Anne? Che non abbia mai provato la passione o pensato di essere innamorata?» «Sembrerebbe di no.» «Già, sembra così. So come ti senti, me lo ricordo. È stato il periodo più eccitante della mia vita.» «E poi ti sei sposata.» Con grande sorpresa di Anne, Fastia annuì col capo. «Sì. Ossei è un lord forte, un buon alleato. È un uomo buono, tutto sommato.»
«Però non è buono per te» disse Anne. «Non c'entra niente. Anne, il punto è che ogni passione che ho provato alla tua età, ogni piacere, ogni desiderio è adesso come una spina dentro di me, che punge. Rimpiango di...» Agitava le mani confusa. «Non so come dirlo.» «Io sì. Se non avessi mai saputo come è bello amare, non odieresti così tanto la vita con tuo marito.» Le labbra di Fastia si contrassero. «È crudo, ma in sintesi è così.» «Ma se ti fossi sposata per amore...» La voce di Fastia si fece più severa. «Anne, noi non ci sposiamo per amore, né possiamo, come fanno i nostri uomini, trovare l'amore dopo il matrimonio. Quella spada non si muove in entrambe le direzioni. Possiamo trovare altri piaceri: nei nostri figli, nei nostri libri, nel ricamo e nei nostri doveri. Ma non possiamo...» Le sue mani volavano in aria come uccelli confusi, e alla fine le incrociò sul petto. «Anne, ti invidio e ti compatisco allo stesso tempo. Sei proprio come me, e quando la realtà cadrà sui tuoi sogni, diventerai altrettanto dura. So che cosa pensi di me, sai? Lo so da anni, da quando mi hai cacciato dal tuo cuore.» «Io? Ero una bambina! Tu mi hai cacciato dal tuo, quando hai sposato quello stupido.» Fastia congiunse le mani. «Forse, ma non volevo. I primi anni sono stati i peggiori e poi...» Alzò le spalle. «Poi è sembrato che andasse meglio. Ti sposerai un giorno, e te ne andrai e neanch'io ti vedrò più.» Anne fissò Fastia per un lungo istante. «Se tutto questo è vero, voglio...» «Sapere perché ti ho seguito lì sotto?» «Sì. Perché non hai lasciato stare le cose come andavano?» «Non hai sentito? Ti ho detto le mie ragioni. Ma ce ne sono altre. Questo Roderick è un cospiratore che viene da una famiglia di cospiratori, Anne. Se ti avesse messo incinta, non sarebbe finita più.» «Non è vero! Roderick non è come hai detto tu. Non lo conosci, e non m'interessa niente della sua famiglia.» «Sì, lo so e vorrei che non interessasse neanche a me, ma a mamma e papà interessa, e molto. Anne, non ho nient'altro che i miei doveri, lo capisci? Non potevo tirarmi indietro e lasciare che questo accadesse. Se adesso tutto ciò ti fa male, pensa che ti avrebbe fatto ancora più male in seguito. E avrebbe danneggiato il regno, e lo so che non t'interessa ancora, ma è così.»
«Ah, cavolate!» esplose Anne. «Che stupidaggini. Tra l'altro io e lui... non abbiamo mai... voglio dire, non poteva mettermi incinta, perché non abbiamo mai...» «Stavate per farlo, Anne. Forse puoi pensare di no, ma stavate per farlo.» «Non puoi saperlo.» «Anne, per favore. Sai che è la verità. Senza la mia intromissione, non te ne saresti andata via vergine da qui dentro.» Anne drizzò le spalle. «Lo dirai a mamma?» «Lo ha già fatto Erren. Ci sta aspettando.» Anne sentì un improvviso fremito di paura. «Cosa?» «È stata mamma a mandarci qui.» «Che cosa farà adesso? Che cosa può farmi? Sono già stata esiliata. A Cal Azroth non potrò vederlo.» «Non lo so, Anne. Puoi credermi o no, ho parlato in tuo favore, e lo stesso ha fatto Lesbeth, per questa faccenda.» «Lesbeth? Ha parlato? Mi ha tradito?» Le sopracciglia di Fastia s'inarcarono. «Ah, quindi Lesbeth lo sapeva? Interessante.» Anne credette di avvertire un tono ferito nella sua voce. «E anche prevedibile, credo. No, mamma ha chiesto la sua opinione in materia, come ha fatto con me.» «Ah.» Fastia scostò i capelli dal viso di Anne. «Vieni. Renditi presentabile. Più facciamo aspettare mamma, più s'infuria.» Anne annuì stordita. Mentre saliva la collina e poi entrava nel castello, da Eslen-delle-Ombre agli appartamenti della madre, Anne preparò le sue argomentazioni. Coltivò quel senso di oltraggio, si convinse dell'ingiustizia del tutto. Ma non appena entrò nelle camere della madre e trovò la regina che troneggiava su una poltrona, le si asciugò la bocca. «Siediti» disse Muriele. Anne obbedì. «Quello che hai fatto è molto spiacevole» cominciò sua madre. «Pensavo che, fra tutte le mie figlie, tu fossi quella che, a suo modo, aveva più buon senso. A quanto pare mi sono ingannata.» «Madre, io...» «Fai silenzio, Anne. Che cosa puoi dire che mi possa far cambiare ide-
a?» «Lui mi ama! E io amo lui!» Sua madre sbuffò. «Certo, certo che ti ama.» «È la Verità!» «Ascoltami, Anne» le disse dolcemente, sporgendosi verso di lei. «Non. Mi. Interessa.» Misurò ogni singola parola perché avesse il massimo effetto. Poi si riappoggiò allo schienale e proseguì: «La maggior parte delle persone di questo regno sarebbe disposta a uccidere per vivere la tua vita, per godere dei tuoi privilegi. Non conoscerai mai che cos'è la fame, la sete, la mancanza di vestiti e di un tetto. Non soffrirai mai per il minimo foruncolo, senza che il migliore dei medici di questa terra non trascorra ore ad alleviarti il fastidio e a curarti. Sei coccolata, viziata e riverita, e non lo apprezzi per niente. E questo, Anne, questo è il prezzo che devi pagare per i tuoi privilegi: la responsabilità. «Cioè, la mia felicità, volete dire.» Muriele socchiuse lentamente gli occhi. «Vedi? Non hai la minima idea di quello che voglio dire. Ma capirai Anne, capirai.» Quella certezza strinse il cuore di Anne. «Che intendete dire, madre?» «Lady Erren ha scritto una lettera per me. Ho fatto preparare una carrozza, un vetturino e una scorta. Partirai domani mattina.» «Per Cal Azroth, volete dire? Credevo andassimo in chiatta.» «Noi sì. Tu non verrai a Cal Azroth.» «E dove andrò?» «Vai a studiare le stesse cose che ha studiato Erren. Imparerai le arti più utili che una signora possa conoscere.» «Erren?» sbottò Anne. «Mi state... mi state spedendo in un coven?» «Un coven molto speciale.» «Madre, no!» Fu presa dal panico. «Cha altro posso fare con te? Non mi lasci scelta.» «Vi prego. Non mandatemi via.» «Non è per sempre. Solo finché non avrai imparato qualche lezione, e ad apprezzare quello che hai, a capire che in questo mondo servi più di quanto desideri. Non devi prendere i voti, anche se potrai scegliere di farlo, ovviamente al quarto anno.» «Quarto anno? Per pietà dei santi, madre!» «Anne, basta. Ti sei già messa abbastanza in difficoltà in una sola notte.»
«Ma non è giusto!» Anne si sentì il sangue alle guance. «La vita lo è raramente.» «Vi odio!» Muriele sospirò. «Spero che non sia vero.» «Lo è invece. Vi odio.» «Molto bene» rispose sua madre. «Allora questo è il prezzo che io devo pagare. Adesso vai e prepara le tue cose. Ma non perdere tempo a prendere i tuoi abiti migliori.» Capitolo dieci Nel groviglio di rovi «Non ho mai visto niente di così bello» esclamò Winna, e poi ammutolì per la soggezione. Stava in piedi su una cresta rocciosa che si stagliava contro il mostruoso picco di Slé Eru, dove i ghiacciai riflettevano il sole e le aquile si libravano in pigre spirali. Su ogni lato, la cresta - in realtà un valico tra Slé Eru e il picco minore ma pur sempre affascinante di Slé Cray - scendeva in strette valli mozzafiato, profonde e ricoperte dalla foresta. Erano appena saliti da Valle Ferth, dove lo Slaghish nasceva dallo scioglimento dei ghiacci delle due montagne. Era un salto profondissimo, in un grande bacino verde, e il bordo opposto, in lontananza, si sfumava di blu; nel centro lo Slaghish era un sottile ruscello argentato. L'altro lato della cresta non scendeva così in basso, ma non per questo era meno impressionante: un altopiano ricoperto di prati e betulle e, al di là, un'altra linea di modeste montagne su cui poggiava l'immensa catena, le vette appena visibili, anche con un cielo azzurro e sereno. «Hai ragione» rispose Aspar. Ma lui non stava guardando il paesaggio; guardava Winna che si stagliava contro i nevai di Slé Eru. Sorrideva e aveva le guance rosa per la fatica e l'eccitazione e gli occhi impreziositi dallo stupore. Winna se ne accorse e gli lanciò una timida occhiata di traverso. «Cosa dici, Aspar White! Erano parole da innamorato?» «Il meglio che possa dire» replicò. «Sei bravo» lo rassicurò. Indicò i picchi più alti all'orizzonte. «Che montagne sono quelle?» «Sa'Ceth ag sa'Nem - Le Spalle del Cielo.» «Sei mai stato lì?»
«Sì.» «Le hai scalate?» «Nessun uomo ha mai scalato le Spalle» rispose. «Neanche quelli delle tribù che vivono là. Quelle montagne cominciano dove vedi la linea dei nevai.» «Sono stupende.» «Già, è vero.» «E questa valle sotto di noi? Come si chiama?» «Come vuoi. Non l'ho mai vista prima, né l'ho mai sentita nominare. Quelli al di là sono gli Sproni del Gallo.» «Allora madre Gastya aveva ragione. C'è una valle nascosta qui.» «Sembra proprio di sì» concordò Aspar. Voleva essere infastidito per questo, ma non ci riuscì. Si meravigliava invece della potenza della magia, che riusciva a nascondere un'intera valle - e di cosa avrebbe potuto fare contro due piccole persone. «Andiamo, allora!» esclamò Winna. «Facciamo riposare un po' i cavalli» rispose Aspar. «Non sono abituati all'altitudine, e hanno fatto una bella arrampicata. Non voglio rischiare un passo falso proprio adesso.» Dopo aver lasciato il canale che usciva da Rewn Aluth, Orco, Angela e Pony Pasticcio erano lì ad aspettarli. Come avevano fatto a sapere dove fermarsi, sarebbe rimasto per sempre un mistero; Orco era un cavallo intelligente, ma non così tanto. Doveva esserci di mezzo Madre Gastya e ad Aspar la cosa non piaceva granché - il pensiero cioè che i suoi cavalli potessero essere stregati. Comunque le era immensamente grato per averli ritrovati. «Quanto tempo dovremo farli riposare?» «Un'ora, più o meno. Lasciamo che mangino un po' lungo il pendio.» «Sì. E noi che facciamo nel frattempo?» «Ci riposiamo, credo.» «Davvero? Con una vista da camera da letto come questa? Avevo in mente qualche altra cosa.» E sorrise, in quel modo che Aspar aveva iniziato ad amare. «Che cosa stai guardando adesso?» chiese Winna un ora dopo. Erano ancora sulla cresta. Lei si stava riallacciando il vestito, mentre Aspar si rimetteva gli stivali. Stava guardando indietro verso lo Slaghish e la via da cui erano venuti.
«Allora?» insisté. «Li vedi?» «Non c'è traccia, è questo che mi preoccupa. Sono venticinque giorni che abbiamo lasciato Rewn Aluth e non c'è il minimo segno di Fend o del greffyn.» «Sei deluso?» «No. Ma dove sono? Se il greffyn sta venendo qui, come ha detto madre Gastya, e se Fend e la sua banda sono con lui, o lo seguono...» scosse la testa. «Che cosa stanno facendo?» «Non credi che siano loro quelli che vanno compiendo sacrifici ai vecchi - come li hai chiamati? - templi sedoi e che fanno a pezzi quella povera gente?» «C'erano degli uomini con il greffyn al Torrente Taff» rispose Aspar, allacciandosi gli stivali. «Alcuni sono rimasti con lui per tutto il tragitto fino a Rewn Aluth, credo, ma altri sono tornati a ovest. Ovviamente, non potevo seguire entrambi i gruppi. Quindi, sì, credo che Fend abbia a che fare con quella roba, anche se non è solo. C'è un altro gruppo da qualche parte là fuori.» «Quindi loro hanno ucciso i nomadi nella foresta e hanno inseguito gli Halafolk a Rewn Aluth» disse lei. «Stanno cacciando la gente dalla Foresta del Re.» «Già.» «Quindi forse non hanno ancora finito. Forse si sono messi a inseguire altri nomadi, o sono entrati in un'altra rewn degli Halafolk, prima di tornare dal Re degli Alberi.» «Sembrerebbe possibile.» «Ma non capisco i sacrifici. Il greffyn uccide solo toccando. Quindi sono gli uomini che fanno quelle cose orrende, vero? Non che la morte sia mai bella, ma capisci quello che voglio dire, no?» «Sì, sono stati degli uomini a fare quello che ho visto al Taff.» «Allora perché? Che cosa ha a che fare questo con il greffyn?» Aspar guardò il dorso delle sue mani, notando per la prima volta come erano diventate rugose. «Quel prete di cui ti ho parlato, il Virgenyano, ha detto che i maghi facevano cose del genere, in epoche passate. Sacrifici ai santi dannati, ha detto. La gente di mio padre...» indicò vagamente verso nordest «...impicca ancora i criminali in sacrificio al Malvagio.» Winna spalancò gli occhi. «Questa è la prima volta che mi parli dei tuoi genitori.» «Mio padre era un Ingorn, mia madre una Watau. Lei morì quando io
nacqui, ma mio padre si risposò, e andammo a vivere con la sua gente, sulle montagne. Gli Ingorn conservano le vecchie usanze, ma non ricordo molto della mia vita lì. C'era una qualche sorta di faida e mio padre fu bandito. Scese qualche lega più in basso rispetto alle Mura del Perlustratore, e andammo a vivere nei boschi da quelle parti fino all'età di sette anni, più o meno. Poi la faida ci raggiunse. Uccisero mio padre e la mia matrigna. Corsi come un coniglio, ma una freccia mi colpì. Mi diedero per morto, e lo sarei stato, ma Jesp mi trovò.» «E ti allevò.» «Già.» «Mi dispiace per i tuoi genitori. Avevo immaginato che fossero morti, ma non sapevo come.» «Non racconto questa storia da moltissimo tempo.» «Aspar!» «Hmm?» Lo baciò sulla guancia. «Grazie per avermene parlato.» Annuì. «Sta diventando tremendamente facile dirti le cose.» Troppo facile, forse. Scesero lungo la valle, come gli aveva indicato madre Gastya, accampandosi quella sera sul limitare di un prato e svegliandosi al debole richiamo degli uri. Gli animali della foresta frugavano al margine del bosco, e alcuni maschi lanciavano sguardi inquieti verso di loro. Orco scalpitò e nitrì in segno di sfida. «Cuccioli» sussurrò Aspar, indicando col capo le bestie più piccole. «Meglio che ci allontaniamo da qui, lentamente.» Smantellarono il campo e si ritirarono nel bosco, costeggiando il prato con i suoi permalosi occupanti. Per la maggior parte della giornata continuarono a scendere lungo il dolce pendio della vallata, tra campi verdi e brillanti, o ardenti di trifoglio rosso. Cervi, alci e un branco di leoni pezzati che Aspar aveva notato li guardarono mentre se ne andavano, con occhi piuttosto pigri. Era come se la sua reputazione non avesse ancora raggiunto quel luogo. Verso la fine della giornata il terreno cominciò a farsi più ripido e si trovarono a seguire il corso roccioso di un torrente, bordato da alti equiseti e felci. Le pendici della valle si alzavano ripide su tutti i fianchi, chiudendoli all'interno, ed era impossibile scalarle senza corde e chiodi.
La notte calò rapidamente nella valle stretta; Aspar e Winna fecero il bagno in un laghetto talmente freddo da togliere il respiro, abbracciandosi prima per scaldarsi e poi per qualcosa di più. Winna sapeva d'acqua leggermente metallica per vigore. Poi, si arrotolarono tra le coperte sotto le felci. Quando Winna si fu addormentata, Aspar rimase disteso ad ascoltare il gorgheggio delle rane e degli uccelli notturni, e il gocciolio dell'acqua sopra la pietra. Da qualche parte, lì vicino, quel gocciolio diventava uno scroscio potente, come se il ruscello cadesse verso profondità sconosciute. Era stato quel suono a far fermare Aspar, un po' intimidito dalle tenebre. Se dovevano superare una rupe, era meglio farlo alla luce del giorno. Mentre stava lì disteso, si meravigliò di sentirsi così bene. C'era qualcosa lì nella foresta, una specie di vitalità sensuale, che non percepiva da quando era bambino. Era la stessa forza che lo fece innamorare dei boschi la prima volta, una forza fatta di meraviglia, bellezza e terrore forgiati insieme. Non si era reso conto di quanto quegli anni duri gli avessero portato via fino al momento in cui, ora, improvvisamente lo aveva riguadagnato. Era davvero diverso quel posto, forse più vivo del resto del mondo, o era lui diverso per - be', per il Malvagio, poteva ammetterlo almeno con se stesso, anche se ad alta voce sarebbe sembrato ridicolo - l'amore? Non lo sapeva e non gli importava. Per la prima volta da quando era piccolo, si sentiva in perfetta armonia con il mondo. In effetti c'era una rupe, che scendeva a picco, come sempre, e sembrava sparire nel vuoto. Ma era difficile dirlo, perché il canyon - le pareti non distavano nemmeno quattro passi - era pieno di alberi. Non erano tronchi alti e sottili, ma un labirinto di rami fitti, contorti, attorcigliati e intrecciati, neri e con spine più grandi della sua mano. Si alzavano dal fondo invisibile in un intrico impetuoso che gli ricordava solo i tiranni. Non si sarebbe andati lontano cadendo lì dentro. Sarebbero finiti impalati in quelle spine grandi come coltelli. «Che tipo di albero è quello?» chiese Winna. «Non ne ho mai visti di simili.» Lei fece un cenno alle foglie verdi e lucenti, a forma di lunghi cuori sottili. «Alberi di spine, forse, per il Re degli Alberi?» «Perché no?» si domandò Aspar. «Dobbiamo scendere lì in mezzo, vero?» «O così o torniamo indietro.»
«E i cavalli?» Aspar annuì con riluttanza. «Dobbiamo lasciarli. Credo che comunque torneremo indietro per questa stessa strada. Ho la sensazione che la valle si chiuda da qualche parte, più avanti.» Si voltò e diede una pacca al muso di Orco. «Prenditi cura di questi due, come hai fatto prima, d'accordo? Torno presto da te.» Orco lo guardò ombroso, poi scosse la testa scalpitando. Si tennero vicini al solido appoggio della parete di granito, scendendo uno dopo l'altro i rami sinuosi. Erano così intricati che raramente Aspar trovava lo spazio sufficiente per stare in piedi. I rovi, almeno, lasciavano lo spazio per essere scansati con una certa facilità, e anzi fornivano dei buoni appigli per le mani. Il cielo diventò un mosaico, un vetro colorato, poi un ricordo. A mezzogiorno erano nel crepuscolo, e le foglie diventarono gialle e sottili, affamate di sole. E un po' più in basso, sparirono. I rami diventarono invece riparo per pallidi basidiomiceti e terriccio melmoso di colore giallo, funghi sferoidali bianchi e pipe cremisi vagamente oscene. Libellule grandi come uccellini volavano tra le spine e animali pallidi, simili a scoiattoli, sgattaiolavano via da Aspar e Winna che scendevano sempre più lontani dal sole. Winna, di ottimo umore, si muoveva due passi avanti ad Aspar, acquistando sicurezza nella discesa. Non gli piaceva la cosa, e glielo disse, ma lei rispose facendo del sarcasmo sulla sua età e lo incoraggiò ad accelerare il passo. Quando urlò per la prima volta, lui pensava che fosse un altro scherzo, perché il grido gli era sembrato così irreale. Ma come lo risentì, ne colse il terrore. «Winna!» Saltò quanto la sua altezza, sbatté contro un ramo scivoloso per la presenza di funghi e per poco non cadde. Comunque riuscì ad aggrapparsi e scese sul ramo successivo con l'agilità di uno scoiattolo. Riusciva a vederla, ma non capiva cosa la terrorizzasse. Dondolò sotto un altro ramo e qualcosa lo colpì in faccia, afferrandolo poi come una gigantesca mano pelosa. Lanciò un urlo roco e agguantò quella cosa, tirando via un ragno più grande della sua testa. Si trovò intrappolato in una ragnatela che però riuscì a lacerare abbastanza facilmente, anche se era disgustosamente appiccicosa. Scagliò il ragno lontano, sperando che non l'avesse morso; in effetti non si sentiva morsi addosso.
Un attimo dopo era proprio sopra a Winna. Anche lei era ricoperta da quella appiccicosa tela di ragno bianca, e urlava e tremava. Una creatura a otto zampe stava avanzando verso di lei, lungo il ramo. La inchiodò lì con la sua ascia da lancio. Le zampe si agitarono ferocemente, ma rimase ben attaccata al ramo. «Ti ha morso?» le chiese, non appena riuscì a raggiungerla. «Sei stata morsa da una di quelle cose?» Scosse la testa, ma agitò la mano tremante intorno a loro. Erano ovunque, i ragni, sparpagliati tra i rami. Alcuni erano grandi come pugni, altri come gatti. Avevano le zampe carnose e pelose, con striature gialle. A distanza di un braccio da Winna, uno scoiattolo si agitava in una ragnatela, mentre il tessitore si muoveva verso di lui, con le mascelle che lavoravano impazienti. «Sono velenosi?» chiese Winna con voce leggermente stridula. «Non resteremo qui a scoprirlo» rispose Aspar. «Torniamo su, viaggeremo tra i rami più alti.» «Ma non dobbiamo scendere?» «Non ancora. Non adesso. Forse è solo un nido isolato.» Aspar recuperò l'ascia e si arrampicarono più in alto, muovendosi a zig zag tra le ragnatele. Un ragno scese da un ramo, dritto verso la testa di Aspar, ma lui lo gettò via con un grugnito disgustato. Infine, quando furono ben al di sopra del livello in cui vivevano i ragni, si fermarono e si ripulirono dalle ragnatele come meglio poterono. Poi si esaminarono a vicenda per vedere se c'erano ferite e trascorsero qualche istante abbracciati. «Dovremo essere fuori da questi alberi prima che cali la notte» disse Aspar. «Perché? Pensi che i ragni salgano fin qui?» «No, ma cos'altro abita in questo posto? Che cosa c'è più sotto ancora, dove è sempre buio? Non so cosa potrebbe uscire fuori al tramonto, e il problema è proprio questo. Inoltre non riusciremmo a dormire su questi rami, e non possiamo accendere un fuoco.» «Allora dobbiamo andare.» La voce le tremava. «Ce la fai?» «Sì.» Sentì la forte tentazione di baciarla e lo fece. «E questo per che cos'era?» «Sei una ragazza coraggiosa, Winna. La più coraggiosa.»
Scoppiò in una risata discontinua. «Non mi sento coraggiosa. Urlo davanti ai ragni.» Aspar ruotò lo sguardo. «Andiamo.» Proseguirono tenendosi a mezza altezza. Le pareti della rupe giunsero quasi a toccarsi e poi iniziarono ad allontanarsi di nuovo, e quando si furono separate, la foresta di rovi diventò sempre più rada; senza le strette pareti che li costringevano a salire verso il sole, i rami potevano distendersi. Di tanto in tanto, Aspar riusciva infatti a vedere la terra, coperta di felci bianche, almeno così sembrava. Ma quella caverna sotto di loro, grande, scura e sconosciuta lo preoccupava sempre di più, man mano che il giorno calava. Poteva quasi percepire la presenza di qualcosa di grande e tenebroso, ingabbiato dal sole, ma libero di vagare non appena il Re Splendente si fosse addormentato. E sarebbe accaduto presto. «Torniamo giù» disse Aspar «e speriamo di non incontrare altre sorprese.» I ragni erano ancora là, ma di meno e più radi. Erano anche più piccoli, così Aspar e Winna riuscirono a scendere senza grande ansia. Infine, con una certa riluttanza, Aspar spiccò un balzo enorme dall'ultimo ramo sul tappeto di foglie che copriva il terreno, evitando le macchie bianche di cespugli che potevano nascondere altri predatori del genere. Un istante dopo, afferrò Winna che lo aveva seguito laggiù. Somigliava ancora di più a una caverna. I tronchi degli alberi avevano una circonferenza massiccia, ma erano radi. Sembrava una sala buia e gigantesca, dal soffitto basso e con molte colonne. Dalla via che avevano percorso, dal cuore delle tenebre, Aspar sentì arrivare un odore fetido. «Vieni» disse. «Sbrighiamoci.» Si misero quasi a correre. Aspar tese l'arco davanti a sé in caso si fossero imbattuti in ragnatele impreviste. Il terreno era piatto e uniforme e si affondava nella fanghiglia. Odorava di chilopodi, come un pezzo di corteccia marcio. Quando la luce calò, i tronchi sembrarono più alti, ma Aspar non riusciva ancora a vederne la fine. Poi, disperato, con la schiena a pezzi e l'odore delle foglie secche nelle narici, notò un albero con una grande cavità. «Se questa foresta ha una fine, non la troveremo prima di notte» disse a Winna. «Questo è il massimo che possiamo fare.» Accendendo l'esca, la portò dentro e si assicurò che il posto fosse vuoto, poi ci si accovacciarono.
La foresta sbiadì e si dissolse, e Aspar si mise tra Winna e l'esterno, con l'arco in mano. Dietro di lui, dopo circa un'ora, il respiro di Winna cominciò ad arrivare lento e regolare. Dopo poco, gli uccelli notturni smisero di cantare e l'oscurità si fece silenziosissima. E poi... ancora nessun rumore, ma Aspar lo sentì, come un cieco sente il calore del sole sul viso. La terra tremò leggermente, e poi un fetore appesantì l'aria. Aspar guardò sospettoso l'oscurità e aspettò. Capitolo undici Partenze «Lo so che non è giusto, colomba mia» disse Lesbeth, raccogliendo i capelli di Anne dietro il capo con uno spillone. «Ma tua madre sente che è la cosa migliore per te.» «Roderick mi dimenticherà.» «Se lo farà, allora vuol dire che non ti ha mai amato. E poi Anne io ho provato ad avvisarti.» «Ma tu ti sposi per amore!» disse Anne. «Sei la più giovane, proprio come me.» «Sono stata paziente e soprattutto fortunata.» «Vorrei essere anch'io così fortunata.» Lesbeth girò intorno ad Anne per poterla guardare negli occhi. «Allora fa' quello che ti dice tua madre. Forse non capisci Anne, ma ti sta dando la migliore opportunità che tu abbia mai avuto di trovare il vero amore.» «Mandandomi via? In un covern? Non ha senso.» «Oh, sì che ce l'ha invece» le assicurò Lesbeth. «Per prima cosa terrà il matrimonio lontano per un po' di tempo e anche quando lascerai il coven avrai un periodo di grazia, durante il quale potrai dire che stai considerando l'ipotesi di prendere i voti. Avrai modo di far attendere i pretendenti e quindi l'opportunità di essere corteggiata da più persone. Più ne avrai, più aumenteranno le possibilità di trovare quello che ti piace. E se al peggio si aggiunge il peggio... be', puoi sempre prendere i voti.» «Mai» Anne scosse la testa. «E poi ho già trovato il corteggiatore che voglio.» «Lui non puoi averlo, e questo è quanto, Anne. Almeno non per adesso.
Forse tra qualche anno. Può darsi che Roderick si dimostrerà leale o troverà il modo per redimere la sua famiglia. Ma è più probabile che capirai che questa è una passione giovane, un amore da bollitore: sarà finito una volta svanito il vapore. Ci sono più uomini fatti così di quanti tu possa immaginare.» Lesbeth prese le dita di Arme tra le sue. «Un mercante lo sa: mai comprare la prima merce che vedi. Può sembrare buona, ma senza metri di giudizio, chi può saperlo veramente?» «Be', sicuramente non troverò un miglior metro nel coven!» rispose Anne sarcastica. «Pazienza» replicò Lesbeth. «E poi avrai Austra con te, no?» «Sì» concordò Anne con riluttanza «ma sarà orrendo lo stesso. Imparare a essere come Erren! Che cosa fa esattamente, oltre a spiare e a ficcare il naso nelle cose altrui?» Lesbeth mostrò un'espressione un po' accigliata, ma divertita. «Sicuramente lo sai che cosa fa Erren.» «È la spia di mia madre.» «Sì, ma è anche... Anne, Erren uccide la gente.» Anne fece per ridere a quelle parole, ma poi vide che Lesbeth non stava scherzando. «Uccide chi? Come?» domandò. «La gente. Le persone pericolose per il regno e per tua madre.» «Ma chi? Chi ha ucciso?» La voce di Lesbeth si abbassò di colpo. «È un segreto, il più delle volte. È questa l'abilità di Erren; è molto... discreta. Ma, ti ricordi quel signore grasso che veniva da Wys-sul-mare? Hemming?» «Sì. Credevo che fosse una specie di buffone, scherzava sempre.» «Era una spia dei Reiksbaurg. Si trattava di un complotto per rapire Fastia.» «Ma ricordo che morì nelle sue stanze. Dissero che era stato il cuore.» «Forse, ma è stata Erren a fermarglielo, non si può dire se con il veleno, l'ago o un sacaum mortale. È stata Erren. Una volta ho sentito tua madre che ne parlava.» «Allora...» Anne non sapeva cosa fosse. Erren era sempre stata un tipo sinistro, ma...» Io imparerò questo genere di cose?» chiese. «Perché?» «Le grandi famiglie devono avere donne come Erren. È la cugina di primo grado di tua madre, lo sai, di sangue nobile. Ma tua madre pensa questo: se non servirai la tua famiglia con il matrimonio, la servirai in qualche altro modo. Ti sta dando la possibilità di scegliere.»
«Non ci credo. Mamma mi odia.» «Che assurdità! Ti ama, forse anche più di tutti i suoi figli.» «Come fai a dirlo?» «Non riesci a guardarti, vero? Se non in uno specchio, e in quel caso tutto appare capovolto. Credimi. Tua madre ti ama, e anch'io vorrei che non ti mandasse via, ma capisco perché lo fa. E anche tu lo capirai un giorno, anche se non sarai mai d'accordo. Questo dovrebbe significare crescere, sai, o comunque dovrebbe esserne una conseguenza: la capacità di capire una cosa pur essendo estremamente contraria a essa.» Anne sentì che stava per piangere. «Mi mancherai, Lesbeth, ti avevo appena ritrovato e ora sono io che devo andarmene.» «Anche tu mi mancherai, Anne» disse Lesbeth, stringendola in un lungo abbraccio. «E ora devo andare, non posso sopportare di vederti partire.» «Neanche mamma, o Fastia.» «Loro sono già andate via, Anne. Non lo sapevi? Sono partite con la chiatta prima dell'alba, e tutti credono che tu sia con loro.» Compreso Roderick pensò Anne, mentre vedeva sua zia scomparire sotto l'arco nel cortile della scuderia. Ancora crede che stia andando a Cal Azroth. Lei e Austra erano controllate come prigioniere e non aveva avuto il tempo, né l'opportunità di mandargli un messaggio. Tra l'altro neanche lei sapeva dove stesse andando. Coglierò la prima occasione, pensò. Non possono farmi questo. Neanche Lesbeth, che amo così tanto, mi capisce. Non posso essere intrappolata in un coven. Non Posso. Anche se dovessi vivere come un bandito, o vestirmi come un uomo e combattere come un soldato, non lo accetterò. Era ancora immersa in questi pensieri, quando arrivò la carrozza insieme ad Austra e alcuni portatori con il loro bagaglio. «Dove credi ci porteranno?» bisbigliò Austra non appena furono tirate le tende della carrozza e questa cominciò a muoversi. «Non m'importa» disse Anne, con falsa vivacità. «Non m'importa niente.» Murìele guardò gli olmi che si allontanavano. Bordavano il canale come un colonnato; avevano radici profonde e dritte, che non avrebbero mai rovinato gli argini su cui erano stati piantati, anzi li avrebbero rinforzati. Al di là degli olmi, i campi di Terranuova si estendevano verdi e piatti fino all'orizzonte. Solo la protuberanza ormai lontana dell'isola di Ynis spiccava su quella pianura, perché anche le colline meridionali erano oscu-
rate dalla foschia di mezzogiorno. «Ho fatto la cosa giusta?» mormorò. Il viso di Anne era vivo nella memoria. Ti odio. Quale madre poteva sopportare di sentirsi dire quella frase da un figlio? Alcune cose bisognava sopportarle. «Mia regina!» Muriele si voltò e trovò il giovane cavaliere, Neil MeqVren, che le si era avvicinato. «Sì?» chiese. «Scusate, vostra maestà» disse, inchinandosi frettolosamente. «Pensavo diceste a me.» «No.» Rispose lei. «Parlavo con me stessa o con i santi.» «Mi dispiace di avervi disturbato, allora.» «Nessun disturbo. Avrete salutato sir Fail, spero.» «Ho avuto poco tempo, e ci siamo scambiati solo poche parole.» «Scoppia d'orgoglio per voi. Credo che non potrebbe essere più orgoglioso, se foste veramente suo figlio.» «Non potrei essere più felice per questo, se fosse il mio vero padre.» «Sono sicura che è così» replicò Muriele. Per qualche istante, lasciò che calasse il silenzio tra loro. «Che cosa pensate di tutto questo, Neil?» «Di Terranuova?» «No, non è questo che intendevo, ma visto che l'avete nominata, avrete certo una vostra opinione.» Neil sorrise un po' timidamente e sembrò molto, molto giovane. «Credo, maestà, che mi metta ansia. Venite da Liery, quindi credo che possiate capire; non metteremmo mai le catene al nostro signore, il mare. Non ci sogneremmo mai di dirgli dove può o non può andare. Eppure, qui - be' è imponente, e stupefacente il fatto che la terra sia stata tirata fuori dalle onde. E credo che san Lier non abbia fatto obiezioni, ma sembra... impertinente.» «Anche da parte dell'imperatore di Crotheny?» «Con il vostro permesso, vostra maestà, ma anche l'imperatore è un semplice uomo. Io servo lui e tutto quello che rappresenta, e se doveste chiedermi di gettarmi nel buco di una di queste dighe per chiuderlo con il mio corpo e tenere il mare fuori, lo farei, e poi che siano i santi a giudicarmi come vogliono. Eppure, dopo tutto, io amo il mare, il mio signore, ma non mi fido di lui quando è sopra la mia testa, non so se capite quello che voglio dire.»
«Sì» rispose Muriele con calma. «I Reiksbaurg hanno cominciato tutto questo e la famiglia di mio marito l'ha portato a termine. Sotto queste acque hanno trovato il terreno più fertile del mondo. Ma non fatevi prendere in giro; noi paghiamo un tributo ai santi delle onde, delle paludi, del fiume. E a volte sono loro che si prendono il loro tributo. È, come dite voi, un patto che mette ansia.» Neil annuì. «Allora, cosa intendevate, maestà, quando mi avete chiesto che cosa ne pensavo?» «Siete d'accordo con mio marito? Andare a Cal Azroth è quello che avremmo dovuto fare?» Neil pesò con cura le parole prima di rispondere. «I signori di Hansa sono persone false» disse alla fine. «Combattono dietro il fumo, sempre coperti da maschere. Pagano corsari weihand per avere la testa dei Lierish, e non la chiamano guerra. Si dilettano di stregoneria, nonostante fingano di essere una nazione devota e legata alla chiesa. L'uomo contro cui ho combattuto era un vostro uomo, dalla testa ai piedi, ne sono convinto. Eppure vi avrebbe ucciso.» «Questi sono più o meno i fatti» notò Muriele. «Ma che cosa ne pensate voi?» «Credo che se Hansa pensasse veramente che colpendo la famiglia del re riuscirebbe a indebolire il regno, lo farebbe. Ma, a essere sincero, questa ritirata in campagna mi rende inquieto.» «Perché?» «Non ne sono completamente sicuro. Sento che è... sbagliato. Perché provare ad assassinare voi anziché il re in persona? E come potete essere al sicuro in un posto qualsiasi, quando ancora non sappiamo come un vostro uomo sia stato istigato contro di voi? Se fosse trasmigrazione, anch'io potrei essere aizzato contro di voi altrettanto facilmente. Mi getterei sulla mia stessa spada prima di farlo, ma scommetto che il cavaliere che ho ucciso avrebbe giurato la stessa cosa.» «Forse, sir Neil, per certe cose siete più maturo degli anni che avete, ma per la vita di corte siete ancora ingenuo. Non serve la stregoneria per corrompere un uomo, o anche un maestro. La magia dell'avidità, della paura e dell'invidia è sufficiente a produrre più male di quanto ne vedrete mai a corte. Per quanto riguarda la domanda 'perché io anziché il re' ammetto di essere un po' perplessa.» «Forse...» Neil si accigliò un momento. «E se tutti i vostri nemici desiderassero separarvi dal re, dividere la vostra famiglia?»
Qualcosa nelle parole del cavaliere suonava incredibilmente veritiero. «Proseguite» gli disse. «Se io fossi il re, improvvisamente privato di figli e moglie mi sentirei più debole. Come una carrozza senza una ruota.» «Mio marito ha ancora le sue amanti e suo fratello.» «Sì, vostra maestà. Ma... se fossero proprio loro a volervi lontana?» Muriele fissò il giovane, realizzando improvvisamente di non averlo valutato come meritava. «Per tutti i santi, sir Neil» mormorò. «Ho detto un'autentica falsità quando vi ho definito ingenuo. Accettate le mie scuse, vi prego.» «Non so nulla, vostra maestà» disse Neil lentamente, «ma seguo il consiglio di lady Erren fino in fondo. Nella mia mente devo considerare chiunque un vostro nemico, lady Erren e me compresi. E se penso in questo modo, ogni cosa appare degna di sospetto e, santi permettendo, non rimarrò sorpreso a lungo quando i vostri nemici alzeranno di nuovo le mani. Li ucciderò, invece, sul posto.» La passione nelle sue parole le fece venire i brividi. A volte, a corte, ci si dimenticava che esistevano persone vere nel mondo, gente sincera. Questo giovane era ancora una di quelle persone. Era sincero, pericoloso, e santi permettendo, era suo. «Grazie, sir Neil, del vostro parere. Lo trovo degna di nota.» «Grazie a voi, maestà, per aver dato ascolto alle mie preoccupazioni.» Lesbeth si tirò indietro i capelli ramati e guardò lontano attraverso la baia occidentale; vide i grandi denti bianchi di Fortezzadispine spiccare dal mare color pervinca. Poté individuare le bianche vele di un mercantile vicino all'orizzonte. Un gabbiano roteava sopra la sua testa, cercando sicuramente i resti della gallina al forno, del formaggio di Donchest, e dei dolci al miele ancora sparsi sul telo da pic-nic. «Bella giornata» disse suo fratello Robert, bevendo l'ultima metà della loro seconda bottiglia di vino. Sedevano vicini sull'ultimo rilievo occidentale di Ynis, uno sperone verde disseminato dei resti sbriciolati di una vecchia torre. «Già» rispose Lesbeth, lanciandogli un sorriso non del tutto sincero. Robert era... freddo da quando sapeva del suo fidanzamento. Lei aveva accettato il suo invito a un picnic nella speranza di ricucire quella ferita. Ma non avrebbe mai immaginato che di tanti posti, lui l'avrebbe portata proprio lì.
Robert era velenoso, è vero, ma in genere non con lei. Concentrati solo sul cielo e il mare si disse. Concentrati sulla bellezza. Ma Robert sembrava deciso a non permetterglielo. «Ti ricordi di quando venivamo quassù da bambini?» le chiese. «Fingevamo che quella torre fosse il nostro castello.» «Erano giorni meravigliosi» disse Lesbeth con un nodo in gola. «Allora ti conoscevo o credevo di conoscerti. Mi sono sempre illuso di conoscere ogni tuo minimo pensiero, e tu i miei.» Mandò giù un altro sorso di vino. «Allora.» Lesbeth gli prese la mano tra le sue. «Robert, mi dispiace. Avrei dovuto chiederti il consenso al mio matrimonio, lo so, e te lo chiedo adesso.» Uno sguardo strano attraversò il viso di Robert, ma scosse la testa. «Lo hai chiesto a Wilm, è lui il più grande.» Lesbeth gli strinse la mano. «Lo so che ti ho fatto male, Robert. È solo che non sapevo come dirtelo.» «Come può essere?» Lesbeth fece un respiro profondo. «È come dici tu. Una volta eravamo così vicini che nessuno dei due poteva batter ciglio senza che l'altro non se ne accorgesse. E ora, in qualche modo...» «Non mi riconosci più» terminò lui. «Siamo cresciuti separati, da quel giorno in cui Rose...» «Per favore, non continuare!» Lesbeth chiuse gli occhi contro quel ricordo terribile, sperando di riuscire a cacciarlo via. «Come vuoi, ma non abbiamo mai parlato di...» «E non lo faremo. Io non ce la faccio.» Robert annuì e un'espressione rassegnata attraversò il suo volto. «E poi» proseguì lei. «So che pensi che il mio principe Cheiso ti abbia insultato...» «Non è che lo penso, lo ha fatto veramente. Ne sono certo.» «Per favore, Robert, non voleva offenderti.» Robert sorrise e alzò le mani. «Forse no» concesse. «E allora dov'è adesso? Penso che sarebbe dovuto venire a chiedere la tua mano... se non a me, almeno a Wilm. Perché l'ha lasciato fare a te?» «Sarà qui tra una decina di giorni o forse venti.» Rispose lei. «Aveva delle faccende da sbrigare. Mi ha chiesto di aspettarlo per fare il viaggio insieme, ma ero impaziente. Volevo comunicare le novità.» Piegò il viso da un lato. «Per favore Robert, sii felice per me. Sei mio fratello, e io ti voglio bene, ma dopo...»
«Dopo che abbiamo ucciso Rose?» disse senza mezzi termini. Lesbeth annuì in silenzio, incapace di andare avanti. «È stato un incidente» le ricordò. Ma per Lesbeth non era andata così. Ricordava un gioco crudele, fatto con una domestica, un gioco che andò oltre il limite che non avrebbe mai dovuto superare. Ed era stato Robert a far degenerare le cose. Dopo quella volta, non aveva più voluto sapere cosa pensasse Robert. Ma annuì ancora una volta, come se fosse d'accordo con lui. «Non riesco a parlare di questo» ripeté. «Mi dispiace» mormorò. «Ho rovinato la nostra gita. Non era mia intenzione. Ci sono anni tra noi che non possiamo più recuperare, lo so. Il silenzio ha lavorato su di noi come veleno. Ma siamo gemelli, Lesbeth.» Si alzò in piedi improvvisamente. «Ti posso mostrare una cosa?» «Che cosa?» Sorrise e per un attimo sembrò quel ragazzo che lei ricordava. «Un regalo di matrimonio» rispose. «Quassù?» «Sì.» Sembrava un po' imbarazzato. «È qualcosa che ho fatto con le mie mani. Non è molto distante.» Lesbeth sorrise titubante. C'era un'offesa troppo grande in lui, qualcosa si era rotto. Però lei lo amava. Prese la sua mano e si fece tirare su, e lo seguì mentre la guidava tra i giardini per lo più incolti che li circondavano. Un tempo erano ben curati, ma col passare degli anni il posto era diventato fuori moda e le rose e le siepi avevano invaso tutto. Adesso, in alcuni punti, era folto come una foresta. Robert non la condusse lontano. «Eccolo.» Lesbeth riuscì solo a sgranare gli occhi in muto stupore. Il sole brillava, i fiori stavano sbocciando, lei stava per sposarsi. Come poteva farle una cosa del genere? Aveva riesumato Rose. Le sue piccole ossa - aveva dieci anni all'epoca giacevano sul fondo di una buca aperta nel terreno. I vestiti erano ormai stracci putridi, ma Lesbeth aveva riconosciuto quello che rimaneva del vestitino blu che indossava l'ultima volta. «Per tutti i santi, Robert...» L'orrore soffocò tutte le parole che avrebbe potuto pronunciare. Voleva correre e urlare fino a farsi uscire gli occhi dalle orbite. Invece, poteva solo guardare quella buca, quel tenibile crimine del passato. Non aveva mai saputo cosa ne avesse fatto del corpo. Avevano raccontato a tutti che Rose era fuggita.
Scusa Rose, pensò. Santi del dolore, mi dispiace. «Io ti amo, Lesbeth» disse Robert dolcemente. «Avresti dovuto chiedere il consenso a me, non a Wilm, a me.» E appena sì girò a guardarlo, lui la colpì al petto, così violentemente che la fece vacillare e cadere seduta in terra, con la gonna tutta sparpagliata intorno. Lo guardò, più stupita che ferita. Robert non l'aveva mai colpita prima, mai. «Robert, che cosa...» Non appena provò a parlare si accorse che c'era qualcosa di molto, molto sbagliato. Si sentì un groviglio dentro, e il respiro le bruciava come un fuoco. E Robert stava lì in piedi davanti a lei; la sua mano ancora chiusa a pugno, ma c'era un coltello lì dentro, il piccolo stiletto che portava sempre con sé alla cinta, quello che il nonno gli aveva regalato quando aveva undici anni. Era rosso fino all'impugnatura. Poi guardò in basso, sul davanti del suo vestito e vide il rosso umido sopra il cuore. Anche la sua mano era sporca di sangue, nel punto in cui aveva fatto pressione, senza pensare di essere ferita. Mentre guardava, infatti, il sangue sgorgava tra le sue dita, come una fonte sgorga dalla terra. «Robert, no!» esclamò in un tono acuto e strano. «Robert, non uccidermi.» Si piegò su di lei, gli occhi scuri lucenti di lacrime. «L'ho già fatto, Lesbeth» disse dolcemente. «L'ho già fatto.» E la baciò sulla fronte. Scuotendo la testa, lei strisciò via, cercando di mettersi in piedi, senza riuscirci. «Sto per sposarmi» gli disse, cercando di fargli capire, «con un principe safniano. Verrà a cercarmi.» Riusciva quasi a vedere Cheiso, davanti a lei. «Gli darò dei bambini, e uno lo chiamerò come te, Robert, non...» Il panico puro s'impadronì di lei, doveva fuggire, Robert era impazzito, voleva farle del male. Ma le braccia non avevano forza, qualcosa le tratteneva la caviglia; il prato scivolava sotto di lei, che lasciava una larga scia, come un serpente gigantesco, ma rosso. E poi si sentì galleggiare, e il volto di Robert era di nuovo sopra di lei. «Dormi bene, sorellina. Sogna di quando eravamo bambini e tutto era bello. Sogna di quando mi amavi con tutto il cuore.» «Non uccidermi Robert» supplicò, ora singhiozzava. «Aiutami.» «Ci sarà Rose con te, e presto avrai compagnia in abbondanza. In abbondanza.» E sorrise, ma il suo volto sembrava lontanissimo, e si stava ritirando.
Non si era accorta di esser caduta, ma le orbite vuote del piccolo teschio bianco di Rose erano vicino a lei adesso. Lesbeth sentì la musica degli uccelli e un bisbiglio che avrebbe dovuto riconoscere, parole che capì a metà. Sembravano molto importanti. E poi, all'improvviso più niente. Capitolo dodici Spendlove Quando Stephen Darige si svegliò, liberandosi dalle grinfie della Donna Nera per la quarta volta consecutiva in una notte, maledì il sonno e si alzò, abbandonando furtivamente il dormitorio. Fuori, la notte era limpida e senza luna, con il profumo del primo autunno nell'aria. Fece qualche passo, fin dove il fianco della collina cominciava a rotolare in basso verso i pascoli, e si sedette lì a guardare le stelle. Le stelle eterne, le chiamava suo nonno. Ma si sbagliava; niente era eterno. Neanche le stelle e le montagne, neanche i santi, l'amore e la verità. «San Michael» mormorò. «Dimmi qual è la verità; io non lo so più.» Sentiva che qualcosa si era rovinato dentro di sé, qualcosa che aveva il maledetto bisogno di espellere. Ma aveva paura che se fosse uscito fuori, avrebbe preso forma e vita e lo avrebbe divorato. Avrebbe dovuto rivelare subito al fratrex la verità sul rotolo, non appena l'aveva capita. Non avrebbe dovuto tradurlo, per tutti i santi, non avrebbe dovuto. Adesso era troppo tardi. Ora aveva dentro di sé quelle parole malvagie, e non poteva farle uscire. Un debole fruscio di passi sul prato lo avvertì che c'era qualcuno dietro di lui. Era sicuro di sapere chi fosse e non gli importava. «Salve, fratello Desmond.» «Buon giorno, fratello Stephen. Prendi un po' d'aria?» Stephen si voltò e vide l'ombra dell'uomo in piedi davanti alle stelle. «Lasciami stare o uccidimi, fa' come ti pare.» «Davvero?» Il modo in cui lo disse suonò strano, quasi come una ninna nanna. Poi lo afferrò per i capelli e lo gettò a terra. Lo trascinò per qualche passo e poi si accovacciò, portandogli la larga lama di un coltello alla gola. «Non t'importa?» sussurrò di nuovo, quasi nell'orecchio di Stephen.
«Perché?» riuscì a dire. «Perché mi fai questo?» «Perché non mi piaci. Il mese prossimo percorrerai la via dei templi. Lo sapevi?» «Cosa?» «Sì. Hai finito la tua traduzione, no?» «Ma come hai fatto a saperlo?» «Io so tutto quello che succede qui intorno, piscione. Perché non avrei dovuto sapere questo?» «Non l'ho detto a nessuno.» «Non preoccuparti. Ho portato i tuoi appunti al fratrex al posto tuo, dopo averli letti.» Il coltello sparì, e fratello Desmond si alzò in piedi. Stephen si aspettava un calcio furioso, e invece, con sua enorme sorpresa, Desmond sospirò e si sedette accanto a lui sull'erba. «Roba malvagia» disse Spendlove, quasi bisbigliando. «Incantesimi per trasformare gli uomini in gelatina, preghiere ai santi dannati, riti sanguinari, deformazioni di bambini. Maligno di prim'ordine. È per questo che non riesci a dormire?» «L'hai letto!» commentò stupidamente Stephen. «E tu riesci a dormire?» Desmond brontolò qualcosa, come una risata. «Non ci sono mai riuscito» replicò. «Perché hai rubato il mio lavoro?» «Perché no?» «Ma lo hai dato al fratrex!» «Sì, pensa quello che vuoi su di me, fratello Stephen, ma io servo il mio ordine.» La sua voce si fece ancora più bassa. «Lo servo molto bene.» Stephen annuì. «Be', mi hai fatto un favore. Non sapevo se avrei mai trovato il coraggio.» «Che cosa vuoi dire?» Stephen sentì il desiderio improvviso di vedere gli occhi di fratello Desmond. Per la prima volta da quando si erano incontrati, l'altro sembrava perplesso. «Lo sai. Lo sai molto bene che non percorrerò nessuna via dei templi dopo che il fratrex avrà letto quello che ho scritto e realizzato quello che ho fatto.» «Hai fatto quello che ti ha chiesto di fare» replicò Spendlove, e stavolta non c'erano dubbi, il monaco era perplesso, o stava fingendo in maniera egregia.
«Fratello Desmond, l'impegno della chiesa è sempre stato indirizzato a distruggere testi come quello. Appena mi sono accorto di cosa si trattava, avrei dovuto consultare il fratrex. Invece, ho continuato imperterrito a tradurre uno scrift proibito. Ho probabilmente dannato me stesso, e perderò il mio posto qui.» Queste parole provocarono una risata soffocata in Spendlove. «Fratello Stephen, forse tu crederai che io sono il tuo peggiore nemico in questo posto, ma non è così. Sei tu il tuo peggior nemico e non augurerei questa cosa a nessuno.» Detto questo fratello Desmond si alzò. «Buona fortuna con la via dei templi» disse. Sembrava quasi sincero. Un attimo dopo Stephen era di nuovo solo, con le stelle. Il fratrex sollevò lo sguardo da una scrivania piena di libri, carta e vari calamai. «Sì? Buon giorno, fratello Stephen.» Picchiettò su alcuni fogli di carta che aveva sul tavolo. «Ottimo lavoro, questo. Siete sicuro di tutto quanto?» «Sicurissimo, reverendo:» «Bene, posso dirvi che non mi avete deluso.» «Ma, reverendo...» Si sentì come quando nella foresta stavano arrivando i segugi e per un attimo aveva creduto che il Veggente Malvagio di Aspar White si stesse piegando su di lui. Aveva provato la stessa sensazione quando a metà del manoscritto aveva capito veramente di cosa si trattasse. Era quella sensazione vertiginosa che lo assaliva quando all'improvviso si rendeva conto di non capire il mondo, quando troppe certezze venivano sconvolte in un colpo solo. Il fratrex se ne stava seduto in attesa che continuasse, con un sopracciglio alzato. «La natura dello scrift» spiegò Stephen. «Avrei dovuto parlarvene appena l'ho capito. Avrei dovuto fermarmi prima di finire. Mi dispiace. Lo capisco se vuole chiedere le mie dimissioni.» «Non dovete dirmelo voi» rispose il fratrex. «Se io chiedo le vostre dimissioni, le ottengo, e il fatto che voi capiate o meno è del tutto ininfluente. Ma perché dovrei chiederle? Avete fatto esattamente quello che vi ho ordinato e in maniera splendida, anche.» «Non capisco, reverendo. La politica della chiesa...» «È compresa molto meglio da me che da voi» tagliò secco il fratrex. «La chiesa ha preoccupazioni tali che non potete capire, e che, in questo momento, non posso spiegarvi. Mi basti dire che esiste il male nel mondo, o
sbaglio? E quel male può rimanere in silenzio per molti anni, ma quando ricomincia a parlare, dovremmo almeno essere in grado di capire la lingua che usa. Se non lo facciamo, può benissimo attirarci tutti col suo fascino.» Le conseguenze di quel ragionamento presero a camminare dentro di lui come un fantasma, lasciando gelide impronte sul suo cuore. «Reverendo, posso confidarmi con voi?» «Come con nessun altro.» «Ho sentito... delle cose durante il mio viaggio fin qui, per strada, a Tor Scath.» «Andate avanti... e, vi prego, sedetevi. Sembra che le vostre gambe stiano per abbandonarvi da un momento all'altro.» «Grazie, reverendo.» Si sedette su un piccolo sgabello duro. «Parlatemi di queste cose.» Stephen gli raccontò delle voci sul greffyn e dei terribili riti nei templi sedoi abbandonati. Quando ebbe finito il fratrex si sporse in avanti. «Queste voci non ci sono nuove» disse con tono basso. «E non dovrebbero essere diffuse ulteriormente. Tenetele per voi, e vi assicuro che la chiesa non è felice di questa situazione.» «Sì, reverendo. È solo che... i sacrifici ai templi somigliano a certi riti descritti nello scrift.» «Me ne sono accorto, per quale motivo credete ve l'abbia fatto tradurre?» «Ma... credo che chiunque stia facendo queste cose sia consapevole solo in parte delle conseguenze di quell'atto.» «Che cosa pensate stiano tentando di fare?» «Non ne sono sicuro, ma credo stiano cercando di far tornare in vita un'antica via dei templi, una di quelle proibite. Forse proprio quella che il Giullare Nero percorse per guadagnare i suoi poteri maledetti. I riti sono una specie di prova, per vedere quali delle migliaia di templi della foresta hanno ancora un potere e per determinare l'ordine con cui visitarli. «Ma non stanno compiendo quei riti nella maniera giusta, quindi non abbiamo niente da temere... tuttavia...» il fratrex si mise a riflettere. «Tuttavia il mio lavoro potrebbe aiutarli» continuò pacatamente Stephen. «Alcuni dei pezzi mancanti al loro rompicapo possono trovarsi in quello che avete davanti a voi.» Il fratrex annuì solenne. «Certo ne siamo consapevoli, ma non possiamo rischiare di combattere un nemico alla cieca. Loro hanno alcuni segreti, li custodiscono da qualche parte. Non possiamo opporci a loro senza sapere
niente.» «Ma reverendo...» L'immagine di Desmond Spendlove gli balenò nella mente, «...e se i nemici fossero già in mezzo a noi? All'interno della chiesa stessa?» Il fratrex fece un sorriso arcigno. «A modo più sicuro per catturare una donnola è mettere una trappola. E per tendere una trappola serve un'esca.» Si alzò. «Penso di avervi dato una lezione di umiltà. Mi domando ora se ho avuto successo. Non sono uno stupido pauroso e la chiesa è troppo astuta per farsi abbindolare dal male. Ma la vostra lingua sciolta e le vostre domande potrebbero fare un sacco di danni, capite? Svolgete i compiti che vi assegno. Non parlatene con nessun altro all'infuori di me. Fate del vostro meglio per tenere lontano chiunque dal vostro lavoro.» «Ma il mio lavoro è già stato visto.» «Da fratello Desmond, sì lo so. Era stato previsto, ma in futuro state più attento. Nascondete i vostri progressi, scrivete traduzioni false insieme a quelle giuste.» «Reverendo! La traduzione è finita.» In risposta, il fratrex si piegò e da sotto la scrivania tirò fuori una grande scatola di cedro. «Ce ne sono altre. Mi aspetto la stessa alacrità che mi avete già dimostrato finora.» Fece un sorriso sottile. «E ora vi suggerisco di meditare e prepararvi. Presto percorrerete la via dei templi di san Decamnus e dovrete trovarvi nello stato d'animo appropriato.» Stephen s'inginocchiò e s'inchinò. «Grazie, reverendo. E vi chiedo scusa per ogni impertinenza. Vi assicuro che deriva solo dalla preoccupazione per il benessere della chiesa.» «In questo luogo, quella preoccupazione spetta a me» gli ricordò il fratrex. Agitò il dorso della mano. «Andate. Mettete via le vostre anise e preparatevi alle rivelazioni.» Ma Stephen andò via con la sensazione di aver già avuto una rivelazione di troppo. Temeva che un'altra potesse spezzarlo. Capitolo tredici Il Re degli Alberi La dolce agitazione del mattino trovò Aspar ancora sveglio, con i crampi alle gambe e l'arco teso.
Qualunque cosa fosse arrivata con la notte ora era andata via con lei, lasciando solo il ricordo del suo fetore. E quando Winna cominciò a svegliarsi, Aspar mosse i suoi passi con cautela verso la luce e diede un'occhiata intorno. I primi incontaminati raggi del sole baciavano le foglie più in alto, e le ombre allungate sul terreno erano rivolte nella direzione da dove loro erano venuti. Davanti, la foresta si diradava, e non molto lontano da lì Aspar riuscì a vederne la fine, notando degli spazi aperti tra le cime degli alberi. Ispezionò il tappeto di foglie umide per trovare qualche segno di ciò che si era avvicinato in silenzio durante la notte, ma non trovò nessuna traccia o pista, nessun ramo rotto, né peli o piume. Forse i sensi lo avevano ingannato. Dopo tutto si trovava lì per commissione di una Sefry, ecco perché verità e menzogne si mischiavano nella stessa acqua torbida. «Buon giorno, Aspar» disse Winna. «Non hai dormito per niente?» Fece un sorriso ironico. «Sicuramente no.» «Eravamo d'accordo di dividerci i turni di guardia» gli ricordò, con tono irritato. «Avresti dovuto svegliarmi.» «Puoi farti domani notte, allora, tutta intera» promise. «Comunque, guarda, credo che siamo quasi fuori dalla foresta.» Con il capo indicò la direzione in cui gli alberi si diradavano. Winna si stirò sbadigliando. «A me sembra sempre uguale, ma mi fido della tua parola. Abbiamo avuto visite stanotte?» «Qualcosa è venuto, ma non ha fatto rumore e non ha lasciato impronte. Se n'è andato prima dell'alba.» Winna si accigliò. «Ho sognato qualcosa dall'odore disgustoso.» «Quel fetore non era un sogno, era reale.» «Potrebbe... potrebbe essere stato il Re degli Alberi in persona!» pensò. «Per il Malvagio, spero di no» imprecò Aspar. «Qualunque cosa sia sbucata col buio, non voglio saperlo.» Winna sembrò agitata da quelle parole, ma non disse nulla. «E ora?» domandò invece. «Credo che andremo avanti per vedere quello che c'è da vedere. Hai bisogno di mangiare?» «Non ancora. Possiamo mangiare tra poco. Preferirei allontanarmi da qui. Non si sa mai, potrebbero esserci altri ragni. Per tutti i santi, mi hanno perseguitato anche in sogno!» Non appena lo spazio tra i tronchi degli alberi si allargò, la bianca coper-
tura del terreno, simile alla paglia, lasciò il posto a felci ed equiseti e poi a una vegetazione più cespugliosa: mucchi irregolari di arbusti di more, erba gatta alta fino alle ginocchia andropogone e viti che si arrampicavano su tutto. Per Aspar era un sollievo vedere piante che conosceva, per l'occhio sanguinario del Malvagio! Finalmente, poco prima di mezzogiorno, si lasciarono la foresta alle spalle. Gli alberi finirono quasi all'improvviso, lasciando spazio al terreno gentilmente ondulato di una valle. Le montagne la incorniciavano in ogni direzione, rafforzando la convinzione di Aspar che l'unica via per entrare e uscire da quel luogo - tolta la scalata dei ghiacciai - era probabilmente quella che avevano percorso loro. I campi erano pieni di cespugli d'erba, cardi e primule selvatiche, ma calpestati qua e là dal passaggio di animali così da rendere più agevole il cammino. Se solo avessero avuto un posto dove andare, ma non ce l'avevano. Continuarono a farsi strada verso la parete lontana della valle, ma lentamente. In nome della strega del bosco di Sarn, cosa sto cercando? si chiedeva Aspar. Era passata un'ora quando Winna, indicando a destra, domandò: «Che cos'è quello?» Aspar l'aveva già notata: una fila di alberelli, non molto più alti dell'erba, che marciava verso la parete della valle, non proprio in parallelo col loro sentiero. «Un torrente, molto probabilmente.» «Molto probabilmente» concesse Winna. «Ma mi sembra strano.» «Non c'è niente di strano» dichiarò Aspar. «Che c'è di male se andiamo a dare un'occhiata?» chiese Winna. «Non vedo niente di pericoloso.» «Hai ragione» disse. Deviarono il loro cammino in quella direzione. Dopo qualche centinaio di passi, Winna domandò: «Aspar, che cosa voleva che facessimo qui, quella Sefry?» «Trovare il Re degli Alberi, credo.» «Solo trovarlo?» «Questo è quello che ha detto madre Gastya» rispose Aspar. Winna annuì. «Sì, ma non sei tu quello che dice che i Sefry mentono sempre?» «Sì» ammise. «Ma non ha importanza. Qualunque cosa volessero da me, sarei venuto qui ugualmente. Ho vissuto nella foresta per tutta la mia vita,
Winn. C'è qualcosa di sbagliato qui adesso, di molto sbagliato.» Si morse il labbro e si schiarì la voce. «Credo che stia morendo, e che il greffyn abbia qualcosa a che fare con questo, e se un Re degli Alberi esiste, ed è alla base di questa rovina, be' devo scoprirlo.» «Ma supponiamo che madre Gastya abbia mentito. Supponiamo che il Re degli Alberi non sia qui e che ti abbia spedito più lontano possibile da lui.» «Ci ho pensato. Ho voluto tentare.» La guardò. «Ma non è questo che ti preoccupa, vero? Ti preoccupa la possibilità che lui sia qui.» Per qualche istante il fruscio della gonna sbrindellata di Winna contro l'erba fu l'unico suono. «Lo so che è qui» disse alla fine. «Ma se la Sefry ti avesse mandato qui per farti uccidere da lui?» «Se madre Gastya mi avesse voluto morto, bastava che facesse silenzio per qualche altro secondo nella Rewn Aluth» le fece notare Aspar. «Qualunque cosa volesse la Sefry, non era certo la mia morte.» «Immagino di no» concordò Winna. Poi si fermò. Avevano raggiunto la linea degli alberelli. «Non vedo nessun ruscello.» «Infatti» replicò Aspar lentamente. Gli alberi erano una versione molto piccola di quelli di spine. Arrivavano giusto sopra la vita. «Guarda che distanza regolare tra l'uno e l'altro» disse Winna. «Come se qualcuno li avesse piantati.» «C'è qualcos'altro» disse Aspar accovacciandosi. «Qualcosa...» Gli ricordavano una traccia, in qualche modo, ma gli ci vollero altri venti secondi per capire perché. «Sono piantati come un'impronta d'uomo» disse. «Un uomo grande, ma... vedi? È come se a ogni passo nascesse un albero.» Guardò dietro alla sua spalla. Le impronte di alberi conducevano da una parte di nuovo nella foresta e dall'altra verso la parete della valle. «Che cos'è?» Aspar seguì la linea immaginaria tracciata nell'aria dal dito di lei. In lontananza, a circa mezza lega, la fila d'alberi portava a una specie di cupola. Sembrava fatta dall'uomo. Un edificio?pensò. Sembra quasi un'abitazione comune watau. Non era un'abitazione comune. La gente della tribù di sua madre costruiva gli alloggi con alberi giovani tagliati di fresco, piegandoli ad arco e poi coprendo il tutto con pezzi di corteccia. La struttura che lui e Winna
stavano osservando era fatta anch'essa di alberi, ma ancora vivi, con radici forti ben piantate a terra e con i rami strettamente intrecciati. Aveva la forma di un gigantesco nido d'uccello, capovolto. Era alta forse venti iarde all'apice. Gli alberi erano così intrecciati e fitti che non si riusciva a vedere niente all'interno, anche quando si avvicinarono a toccarla. La circonferenza della misteriosa struttura vivente li condusse a una specie d'apertura: un passaggio serpeggiante tra i tronchi e i rami, largo abbastanza da consentire ad Aspar di introdurvisi a forza. Dall'interno non proveniva alcun suono. «Tu rimani qua» disse a Winna. Winna lo guardò accigliata. «Aspar White, ho scalato montagne, nuotato in acque gelide e sopportato tempeste insieme a te. Ti ho salvato la vita due volte ormai, secondo i miei calcoli...» «Winna, fallo per me.» «Dammi un motivo, uno che abbia un senso.» La guardò, poi fece un passo e le mise il palmo della mano sulla guancia. «Perché stavolta è diverso. L'astuzia non c'entra, qui. Chissà quali storie sono vere e quali false? Se lo sguardo del greffyn provoca debolezza, gli occhi del Re degli Alberi potrebbero uccidere con un solo batter di ciglia.» La baciò. «Perché ti amo, Winna, e voglio proteggerti, che tu lo voglia o no. E infine, se dovesse succedermi qualcosa, qualcuno deve andare a dirlo al re e agli altri guardaboschi. Qualcuno deve salvare la mia foresta.» Winna chiuse gli occhi per un lungo momento e quando li riaprì, erano sorridenti e umidi. «Anch'io ti amo, zoticone. Vedi di tornare vivo da lì dentro, capito? E poi devi portarmi fuori da questo posto, non riuscirei a ritrovare la strada da sola.» «Te lo prometto.» Un attimo, dopo era entrato tra gli alberi. Subito successe qualcosa di strano. Ebbe una specie di sussulto, come se si fosse appisolato, e sollevò immediatamente lo sguardo. Un bombo gli ronzava nel torace, accompagnato da un altro ronzio ritmico, quello dei suoi polmoni. Continuò a camminare seguendo il tortuoso sentiero e gli sembrò di trovarsi parecchio al di sotto della superficie della terra. C'era anche un odore, intenso e mutevole, sempre diverso a ogni respiro
e tuttavia piuttosto costante. Puzzava di monotropa, pelliccia d'orso, muschio di serpente, hickory bruciato, sudore acido, carogna, frutta rancida, urina di cavallo, rose. Man mano che si avvicinava, diventava sempre più forte, e poi sembrò stabilizzarsi, facendosi meno vario, fino a che l'esalazione di morte e fiori gli riempì la testa. Quindi Aspar girò l'ultimo angolo del labirinto e vide il Re degli Alberi. Sembrava un'ombra, illuminata da migliaia di minuscoli aghi di luce che penetravano nelle fessure del tetto della sala vivente. Era fatto di rovi e primule, radici, rami e rampicanti nodosi, con le dita di viticci, la barba e i capelli di muschio grigio e verde e rami intrecciati a guisa di coma sulla testa. Ma il suo volto... il volto era fatto di licheni screziati applicati su un teschio umano, con fiori neri che uscivano dalle orbite degli occhi. E mentre Aspar guardava, il Re si voltò lentamente verso di lui e le rose si aprirono ancora floride. Aspar spalancò la bocca, ma non disse nulla. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi fiorenti, con gli stami d'avorio che sembravano crescere sempre di più fino a diventare l'unica cosa al mondo. Il fetore della morte misto al profumo lo soffocarono, gli arti iniziarono a contrarsi, il corpo sentì un prurito intenso, e improvvisamente, la sua visione si crepò come uno specchio e da dietro vide... immagini. Vide le querce, le sue querce, i tiranni imputridire, con i rami spezzati, e invasioni di lombrichi e mosche che brulicavano da sotto la corteccia decomposta, come vermi che uscivano da cadaveri. Vide il fiume Mago scorrere nero, cervi che morivano, cose verdi avvizzire e sciogliersi in un pus viscoso. Sentì il fetore della putrefazione. Il senso di nausea che lo aveva assalito quando aveva toccato l'impronta del greffyn lo colpì di nuovo, cento volte più forte, e si piegò per vomitare, e poi... ...poi impazzì. Quando tornò a capire qualcosa con chiarezza si trovava in preda all'agonia. Aveva una spalla che bruciava come il fuoco. «Aspar!» Guardò su, offuscato dal dolore, e vide Winna che lo fissava trepidante. Si trovavano in una zona alberata, da qualche parte. Pioppi. Aveva qualcosa chiuso nel palmo della mano. «Aspar, sei in te? Capisci?» «Io... che succede?»
«Eri sparito...» Scosse improvvisamente la testa e quando riprese a parlare, la sua voce era molto più bassa. «Sei stato lì dentro per tre giorni! La casa tra gli alberi si è chiusa, e non ho potuto seguirti. Poi, quando sei uscito, correvi come un pazzo! Ho dovuto rincorrerti.» Si afferrò la spalla e vi trovò una fasciatura rimediata, imbevuta di sangue. «L'uomo con un occhio solo e la sua banda sono qui. Li hai attaccati e loro ti hanno colpito. Adesso ci stanno dando la caccia.» «Fend è qui?» «Ssh! Credo che siano vicini.» «Tre giorni?» grugnì. «Com'è possibile?» Si guardò intorno. «E il mio arco dov'è?» Osservò intontito quello che aveva in mano. Era un corno d'osso bianco, inciso con segni misteriosi. Dove l'aveva preso? «Credo che stia ancora dal Re degli Alberi. Quando sei uscito, non...» La testa di Winna ebbe di nuovo uno scatto improvviso e preparò un pugnale, era quello di Aspar. «Dallo a me. Posso ancora combattere» grugnì. Mise il corno nel suo sacco e prese l'arma. «Ma se fossi in te non lo farei» disse una voce familiare. Un cerchio d'archi si materializzò intorno a loro, e lì, in una visione infiammata dal dolore, apparve un Sefry, con un cappello a larghe tese, che sì stagliava contro il cielo ambrato della sera. Indossava un farsetto e un mantello di feltro color terra d'ombra, lo stesso del cappello. Aveva un occhio di un verde chiaro e sull'altro c'era invece una benda gialla. «Fend!» ringhiò Aspar. «Vieni a morire!» Fend rise. «No, grazie» rispose. «State lontani» disse Winna «o colpirò il primo che si avvicina.» «Allora non ci avvicineremo» replicò Fend. «Vi riempiremo di frecce da lontano. Aspar, di' alla tua ragazzetta di posare il coltello e venire qui.» Aspar non ci pensò su due volte. «Fa' come ti dice, Winna» le ordinò. «Asp...» «Ti ucciderà se non lo fai.» «E tu?» «Ragazza» disse Fend «non ho nulla contro di te, davvero, ma ovviamente non posso permettere ad Aspar di continuare a vivere. Lo sa bene quanto me. Ma sa anche che se ti comporti bene, potrei lasciarti in vita.» «Lasciala stare! Prometti di non farle del male» disse Aspar. «E perché dovrei? Dopo tutto ci sono così tanti tipi di male che qualcuno
potrebbe perfino piacerle.» Winna girò il coltello e se lo puntò al petto. «Te lo puoi scordare» disse. Ma un attimo dopo, il pugnale era in terra, e Winna urlava con gli occhi spalancati davanti a una freccia abilmente conficcata nel palmo della sua mano. «Winna!» gridò Aspar. E subito dopo, «Fend!» Un'energia impossibile attraversò gli arti di Aspar, che raccolse il coltello e si scagliò contro Fend. Una seconda freccia lo colpì alla coscia, una terza al braccio. Iniziò a vacillare, ma sapeva che stavano mancando volutamente gli organi vitali, e si ricordò dei corpi intorno al vecchio tempio sedos sul Taff, torturati e lasciati dissanguare mentre erano ancora vivi. Si rimise in piedi, con una smorfia e sentì la risata di Fend. «Oh, Aspar, ammiro così tanto la tua tenacia.» «Ti ucciderò, Fend!» disse con calma. «Credimi, figlio di un cane.» Girò la freccia che aveva nella coscia fino a che non riuscì a estrarla. Fu assalito dalle vertigini per il dolore, ma fece un altro passo verso il Sefry da un occhio solo. La punta non aveva reciso i tendini. Improvvisamente, gli uomini di Fend arretrarono e lo stesso Fend fece un passo indietro, con gli occhi spalancati. Aspar per un attimo provò una furiosa soddisfazione, prima di capire che non era lui a spaventarli. Era il greffyn. Era uscito silenzioso dalla foresta. Si muoveva con passi volutamente felpati verso Aspar. «Bene» disse Fend. «Ha scelto te. Avrei preferito ucciderti io, ma immagino che lo farà lui. Arrivederci, Aspar.» Aspar guardò il greffyn con gli occhi socchiusi, a meno di una iarda di distanza. Poi si girò e cominciò a correre. Fend rise di nuovo. Il greffyn non sembrava aver fretta di finirlo. Aspar correva come in un incubo, con i piedi che annaspavano sul terreno. Se fosse riuscito a sfuggirgli e a ritrovare il suo arco, avrebbe avuto una possibilità di salvare Winna. Si aggrappò a questo pensiero per continuare a correre e perché il suo cuore continuasse a pompare sangue e a far muovere le gambe. Non si girò, ma riusciva a sentire il greffyn dietro di lui adesso, che sfrecciava sull'erba. Forse si divertiva a dargli la caccia, come il gatto a cui somigliava. Comunque adesso sapeva dove si trovava. In preda alla pazzia si era spinto più avanti sulla parete del canyon. Davanti a sé poteva vedere la
collina vivente e misteriosa del Re degli Alberi. Se avesse potuto raggiungerla, il greffyn non sarebbe riuscito a spingersi in quella stretta apertura. Il suo arco era lì dentro. Continuò a correre, ma le sue gambe si arrestarono e fu come se il corpo se ne staccasse. Tra la sorpresa e il torpore si ritrovò con il viso in terra. Riuscì a girarsi con il pugnale pronto. Il greffyn era lì, che lo guardava con i suoi occhi grandi. L'altra mano di Aspar si diresse alla cintura e trovò l'ascia. Il greffyn avanzò di un altro passo e chinò la testa, lo annusò, fece schioccare le mascelle; quindi si avvicinò ancora e lo annusò di nuovo. «Un po' più vicino» disse Aspar afferrando l'ascia. «Avanti, che stai aspettando?» Ma l'annusò un'altra volta e poi si tirò indietro. Aspar non sapeva cosa significasse, ma colse l'opportunità di rimettersi in piedi. Si girò e continuò a correre, barcollando qua e là, ma il greffyn smise di seguirlo. Il suo sguardo invece continuava a farlo, provocando quella dolce e calda nausea che aveva già sperimentato tre volte. Stavolta, però non era forte. Forse la medicina che madre Gastya gli aveva dato per curarlo nella Rewn Aluth faceva ancora effetto. Forse era per quello che il greffyn non aveva voluto toccarlo. Comunque fosse, due ferite di freccia e lo sguardo letale del greffyn alla fine si rivelarono troppo per lui. Cadde nell'erba alta e si addormentò, sognando orribili Donne Nere. Si risvegliò in mezzo al suo stesso vomito. Le ferite avevano smesso di sanguinare, ma erano infiammate e pulsavano; sentiva un caldo infernale. Riuscì comunque a mettersi in piedi, al pensiero di Winna nelle mani di Fend. Accese un piccolo fuoco e si strappò via l'ultima freccia rimasta, poi cauterizzò le ferite con un pezzo di brace ardente. Premette l'unguento che madre Gastya gli aveva dato sui buchi richiusi e li fasciò con frammenti della sua camicia. La notte venne e se ne andò ma lui era riuscito a barcollare solo per poche iarde; il sole sembrò fornirgli una nuova forza, e con ostinazione si alzò per cercare Fend, i suoi uomini e Winna. Soprattutto Winna. Trovò solo le loro tracce che portavano di nuovo nella foresta degli alberi di spine. Senza tregua, desiderando che la mente gli si schiarisse, e che il dolore diminuisse anziché aumentare a ogni passo, iniziò a seguirli.
«Ti ucciderò, Fend» mormorò. «Per il Malvagio, ti ucciderò, te lo giuro.» Lo ripeté fino a che non ebbe più senso, fino a che, parecchio tempo dopo, fu di nuovo capace di pensare razionalmente. Ma anche allora, non smise di muoversi. Solo la morte avrebbe potuto fermarlo. Parte terza Le prigioni oscure Anno 2.223 di Everon Mese di ponthmen Quando il mondo oscuro si risveglierà, la spada sarà una piuma, il lupo un topo, la legione una baldoria. Io riderò dalla mia tomba, e sarà come il suono di un liuto. Dalla confessione della strega Emme Viccars, al momento del pronunciamento della sua condanna a morte Capitolo uno Nel Salone delle Guerre William si versò un altro boccale del suo vino virgenyano preferito e continuò a passeggiare sul pavimento di marmo rosso del Salone delle Guerre. Bevve un buon sorso di quel nettare color ametista, poi posò il boccale sul grande tavolo nero al centro della stanza. I dipinti lo stavano fissando di nuovo e lui ricambiò il loro sguardo indagatore, con ostilità. Erano ovunque; alti pannelli da parete, che arrivavano fino al soffitto, racchiusi in cornici con foglie di quercia dorate e dipinti con tinte cupe e fosche, come se fossero state ottenute da fango, fuliggine e sangue. In un certo senso lo erano, perché ognuno di quelli raffigurava una parte della lunga storia di guerra della sua famiglia. «Preferite guardare quei vecchi quadri piuttosto che me?» domandò Alis
Berrye imbronciata. Stava abbandonata su una poltrona, col bustino slacciato che rivelava due seni sodi e capezzoli rosa. Si sfilò le calze e poggiò una gamba nuda sul bracciolo della poltrona. Era una gamba graziosa, sottile, bianca come il latte. Alis aveva i capelli castani leggermente scompigliati, e i suoi occhi di zaffiro erano languidi, malgrado il tono contrariato della voce. Aveva bevuto parecchio, quasi quanto lui, e la sua mente era annebbiata. Non era poi così diversa dai dipinti che la circondavano. «Mi dispiace, cara» mormorò William. «Non ho più voglia.» «Posso ridarvela io, mio signore, ve l'assicuro.» «Sì» sospirò. «Ne sono certo, ma non voglio.» «Siete stanco di me, vostra maestà?» chiese Alis, incapace di nascondere un po' di panico. Lui la guardò per un momento, considerando la domanda seriamente. Era un'amante esuberante ed entusiasta, anche se priva delle qualità delle donne più anziane, e le sue mire politiche erano deliziosamente trasparenti e ingenue. Si ubriacava bene e, quando allentava la guardia, diventava dolce e la sua mente seguiva percorsi strani per lui, che però si divertiva a seguire tra i cuscini. Era un cambiamento ben accetto rispetto a Granirne, il cui pensiero, negli ultimi anni, si era rivolto in modo quasi ossessivo ai suoi bastardi. Erano ben mantenuti ovviamente, e a lui piacevano, soprattutto la piccola Mery, ma Gramme voleva che avessero il nome Dare e si era espressa al riguardo, fin troppo spesso. Alis era meno ambiziosa, e forse non aveva neanche l'intelligenza per tanta ambizione. Andava bene così. Due donne intelligenti nella sua vita erano più che sufficienti. «No, niente affatto» le rispose. «Sei una delizia per me.» «Allora che ne dite di andare a letto? È da poco passata la mezzanotte. Posso calmarvi e farvi addormentare se non desiderate fare l'amore.» «Vai a letto, mia signora» le disse gentilmente. «Ti raggiungerò subito.» «Nelle vostre stanze, maestà?» William si girò accigliato verso di lei. «Lo sai benissimo. Quello è il mio letto matrimoniale, e lo divido solo con mia moglie. Non pensarci neanche, Alis, solo perché lei è lontana.» Lei chinò il viso, non appena realizzò il suo errore. «Scusatemi, sire. Verrete nelle mie stanze, allora?» «Ti ho già detto di sì.» Si alzò barcollando, raccolse le calze, poi si avvicinò, e sulla punta dei
piedi gli diede un piccolo bacio sulle labbra. Poi sorrise, quasi di nascosto, diede uno sguardo in basso e per un momento lui si sentì agitare, ma era troppo ubriaco e troppo triste, e ne era consapevole. «Buona notte, sire» mormorò. «Buona notte, Alis.» Non la guardò andar via, perché continuava a fissare il dipinto più grande della stanza. Raffigurava Genya Dare, raggiante come una santa, alla guida di un grande esercito. Davanti a lei torreggiava l'ombra vaga ma minacciosa della fortezza skasloi, che una volta si ergeva dove ora si trovava il castello di Eslen. Sullo sfondo rosso scuro della cittadella erano appena visibili le ombre nere e informi dei giganti. «Che cosa devo fare?» mormorò. «Che cosa è giusto che faccia?» Spostò lo sguardo sugli altri dipinti - la battaglia di Cattedrale-sul-Mare, con i suoi sonori cumulinembi, il combattimento al Guado Woorm; l'assedio di Carwen. In ognuno di quelli, c'era un Dare fermo e risoluto alla guida di un esercito. Cento anni prima, quelle stesse pareti avevano raffigurato le scene della vittoria di Reiksbaurg. Erano state tolte e ridipinte. Poteva succedere ancora. Rabbrividì al pensiero e pensò che forse era arrivato il momento di andarla a trovare, quella cosa nella prigione sotterranea, la cosa che suo padre gli aveva mostrato, così tanto tempo prima. Trovò quel pensiero preoccupante, quasi quanto quello di una vittoria di Reiksbaurg, e l'accantonò. Tornò invece al tavolo e srotolò una mappa, tenendo fermi gli angoli con pesi di ottone che raffiguravano vipere attorcigliate con corna d'ariete, pronte ad attaccare. «Ancora alzato? Ancora pensieroso?» domandò una voce leggermente canzonatoria. «Robert?» William fece un giro su se stesso, e per poco non perse l'equilibrio. Imprecò. «Che succede?» «Niente, non posso bere in questi giorni. Basta una bottiglia a rendermi le gambe insicure. Dove sei stato in questi nove giorni, per tutti i santi?» Robert fece un leggero sorriso. «A Saltmark, in realtà.» «Cosa? Senza il mio permesso? Per quale motivo?» «Era meglio non ottenere il tuo permesso per questo» rispose Robert con voce cupa. «Si trattava di uno dei miei - credo che li definiresti inappropriati - affari.» Tirò fuori un ghigno. «Mi hai nominato primo ministro,
ricordi?» «Aveva a che fare con Lesbeth?» Robert si portò un dito sui baffi. «In parte.» William fece una pausa per trovare il coraggio di fare la domanda successiva. «L'hanno uccisa?» «No, è viva. Mi hanno perfino permesso di vederla.» William bevve un lungo sorso di vino. «Sant'Anne sia lodata» bofonchiò. «Che tipo di riscatto vogliono?» «Posso avere un po' di vino?» chiese Robert gentilmente. «Serviti pure.» Robert diede un'occhiata alla brocca sul tavolo ed emise un verso disgustato. «Non hai nient'altro? Qualcosa che venga da un posto un po' più a sud? Non capisco come fa il tuo stomaco a sopportare quella roba così acre.» William fece un cenno verso l'armadietto. «C'è una bottiglia appena travasata di quel rosso di Tero Gallé di cui sei tanto amante.» «Vin Crové?» «Sì, quello.» Guardò Robert con impazienza, mentre questi prendeva e versava un po' di quel liquido sanguigno e poi lo assaggiava. «Ah! Questo è già meglio. Almeno i tuoi vinai hanno buon gusto.» «Come fai a essere così calmo, quando nostra sorella è stata rapita?» «Non provare neanche a dubitare della mia preoccupazione per Lesbeth» lo ammonì Robert con tono aspro. «Scusa, ho sbagliato, ma per favore dimmi: che notizie hai?» «Come ti ho già detto, sta bene, e mi hanno permesso di vederla. Ti manda i suoi saluti.» «Da dove? Dove si trova?» «È prigioniera del duca di Austrobaurg.» «Come? Per tutti i santi, come è successo? È stata vista l'ultima volta sul suo cavallo, che andava verso est rispetto alla Manica. Come hanno fatto a rapirla da quest'isola?» «Questo, Austrobaurg non me l'ha voluto dire.» «Il suo fidanzato è arrivato ieri da Safnia, lo sai. È fuori di sé.» «Davvero?» gli occhi di Robert brillarono di una strana luce. «Be', su, che cosa vuole il duca?» «Che cosa dici tu? Un riscatto è ovvio.» «Di che tipo?»
«Vuole un riscatto in navi, venti a essere precisi.» «Venti navi? Non possiamo farne a meno se muoviamo guerra a Saltmark, o Hansa. Poveri noi!» «Ah, ma non vuole venti delle nostre navi. Ne vuole venti di quelle delle Isole, e affondate, a picco nell'oceano.» «Cosa?» tuonò William. Scagliò il boccale contro la parete facendolo frantumare in mille frammenti color porpora. «Come osa? Per le palle di san Gallo, come osa?» «È un uomo ambizioso, sire. Venti navi a suo vanto lo porteranno lontano presso la corte di Hansa.» «A suo vanto? Le mie navi devono sembrare navi di Saltmark? Vuoi dire che lui si aspetta che le mie navi, i miei equipaggi, veleggino sotto la sua bandiera?» «Questa è la sua richiesta, vostra maestà» disse Robert. Il suo tono si fece arrabbiato. «Altrimenti, come dice lui, si accoppierà con nostra sorella fino a saziare ogni suo desiderio e poi la darà ai suoi uomini con l'ordine di montarla fino a spaccarle la schiena.» «San Michael» imprecò William, mettendosi a sedere. «A che punto siamo arrivati! Non esiste più onore!» «Onore?» Robert scoppiò in una risata amara. «Ascolta William...» «Sai che non posso farlo.» «Tu...» Robert perse le staffe per un istante. «Stupido presuntuoso, si tratta di Lesbeth!» esplose. «E io sono un imperatore. Non posso vendere l'onore del mio trono, per una sorella, non importa quanto l'ami.» «No» replicò Robert, a voce molto bassa e col dito puntato come un coltello. «No. William, affonderò io stesso quelle navi, capito? Con le mie mani nude, se ce n'è bisogno. Avresti dovuto mandare via Lesbeth con le altre, ma hai voluto ascoltare i suoi capricci e farla rimanere perché incontrasse il suo principe safniano. Lo stesso principe, aggiungerei, che l'ha venduta ad Austrobaurg.» «Cosa?» William fissò il fratello, pensando di aver sentito male. «Ho detto che Austrobaurg non mi aveva voluto dire come l'aveva rapita. Ma io l'ho scoperto con le mie spie, un omicidio e un po' di tortura, di cui sono sicuro non vuoi sentir parlare. Austrobaurg ha dei nemici, alcuni anche molto vicini a lui, anche se non abbastanza da aprirgli la gola, purtroppo, almeno non ancora. Ma ho scoperto quello che volevo sapere. Il principe safniano di Lesbeth è stato pagato più volte da Hansa. Lo cono-
scono bene lì, ed è al loro servizio. Ha inviato una lettera, dicendo a Lesbeth di incontrarlo al Promontorio del Vagabondo, perché la sua nave aveva un problema e lui si era accampato lì. Lei ci è andata e ha trovato solo una corvetta hanzish.» «Il principe Cheiso ha fatto questo? Ne hai le prove?» «Ho la prova delle mie orecchie, mi fido delle mie fonti. Ah, e poi c'è questo.» Tirò fuori qualcosa dalla borsa che portava alla cinta e lo lanciò a William. Era una sottile scatola di metallo con un fermaglio che la chiudeva. «Che cos'è?» Robert fece uno strano verso e William fu colpito vedendo che gli occhi del fratello s'inumidivano di lacrime. «È un suo dito, che tu sia maledetto.» Allungò la mano destra e dimenò l'indice. «Quello con l'anello gemello di questo mio dito. Lo portiamo da quando avevamo otto anni e nessuno dei due è stato più capace di toglierlo da quando ne avevamo quindici.» William tolse il fermaglio. Dentro, effettivamente c'era un dito sottile, quasi nero, con una fascia d'oro e una corona di foglie di quercia intorno. «Oh santi, pietà!» Richiuse la scatola di scatto con le mani tremanti. Chi poteva aver fatto questo a Lesbeth? La migliore, la più compassionevole di tutti loro, quella che era sempre allegra? «Robert. Non lo sapevo. Io...» lottò per tirare indietro le lacrime. «Non consolare me, Wilm. Riportala qui, o lo farò io.» William trovò un altro boccale. Aveva bisogno di altro vino per questo, per calmare il sangue nelle orecchie, la cieca rabbia che sentiva crescere di nuovo. «Come, Robert?» chiese secco. «Se facciamo questa cosa, potrebbe costarci ogni alleanza. Perfino Liery potrebbe rompere con noi. È impossibile. «No» disse Robert con la voce ancora tremante. «Non lo è. Abbiamo già inviato navi in segreto nel mare Saurga, no?» «Non è più un gran segreto.» «Comunque non sono state contate o stimate. Solo noi due sappiamo quante ne abbiamo inviate. Gli equipaggi si trovano, so dove prenderli. Equipaggi che non faranno domande e saranno leali se ben pagati.» William fissò Robert per un lungo momento. «Tutto questo è vero?» «Sì. Austrobaurg si prenderà tutto il merito, come desidera e di conseguenza anche tutta la colpa. I signori del mare di Liery non scopriranno la
nostra parte e rimarremo amici. Controllerò io personalmente, William. Conosci il mio amore per Lesbeth; non rischierei niente in questa faccenda che potesse costarle la vita, ma non rischierei neanche il nostro regno.» William bevve dell'altro vino. Presto sarebbe stato troppo; il mondo era già diventato piatto, come i dipinti sulla parete. Era il momento sbagliato per decidere, o forse, in questi casi, era quello migliore. «Fallo» bisbigliò. «Ma non voglio conoscere i dettagli.» «Consideralo già fatto» «E per quanto riguarda il principe Cheiso, fallo arrestare e rinchiudere nella Torre della Zitella. Di lui mi occuperò domattina.» Capitolo due Il principe dell'ombra L'aria sopra i mattoni ocra del Piato da Fiussa tremava come sul piano di una stufa. Era così caldo che neanche i piccioni e gli storni - che di solito ricoprivano la piazza, ripulendola da molliche di pane e formaggio - osavano atterrarvi per paura di rimanere arrostiti. Catio, con lo stesso timore, si limitava a percorrere la distanza di un braccio, per seguire l'ombra della fontana di marmo su cui poggiava la schiena, mentre guardava furtivamente intorno alla piazza. C'erano poche persone con la stessa sua voglia di muoversi. Nel mattino, la piccola cittadina commerciale di Avella era stata un luogo pieno di gente; ora, con il sole a mezzogiorno, le persone si erano fatte più accorte. Edifici costruiti tutti con gli stessi mattoni gialli, alti fino a tre piani, circondavano il piato, ma solo sul lato sud proiettavano un'ombra sottile. Sotto quella gradita ombra, i proprietari delle botteghe, i muratori, i venditori ambulanti, gli ufficiali cittadini e i bambini di Avella stavano seduti, sdraiati o ciondolanti, sorseggiando i giovani vini frizzantini del Terro Mefio, mangiucchiando fichi freschi di cantina o tamponando la fronte con stracci umidi. Piccoli gruppi sotto le tende, vicino alle scale - ovunque il sole potesse essere contrastato - facevano ben capire perché le ore tra mezzogiorno e le tre fossero chiamate z'onfros caros: le ombre predilette. E in una città in cui l'ombra di mezzogiorno aveva un valore tale che a volte veniva addirittura venduta e comprata, l'ombra della fontana di Fiussa era una delle preferite.
Catio si stava riposando proprio lì, con la dea nuda e ornata di fiori che lo proteggeva. Le tre ninfe ai suoi piedi versavano alte piume d'acqua cosicché una dolce nebbia umida si posava sul suo viso minacciosamente bello e sulle larghe spalle. La vasca di marmo era fresca e, a prescindere da quale ora della sessa fosse, c'era un'ombra abbondante, per quattro persone forse. Catio esaminava pigramente le finestre dell'ultimo piano dall'altra parte del piato. A quell'ora del giorno le finestre color ruggine e marrone erano tutte spalancate, e a volte si potevano vedere delle ragazze graziose, che si affacciavano a prendere un po' di brezza. La sua furtiva ricerca fu premiata. «Guarda là» disse al suo amico Alo, che stava sdraiato lì vicino. «È Braza daca Feiossa.» Fece cenno col capo verso una bellezza mora che guardava sulla piazza. Portava solo una camiciola di cotone, che lasciava scoperta gran parte del collo e delle spalle. «La vedo» disse Alo. «Sta cercando di attirare la mia attenzione.» «Sì, certo, come no? Il sole è uscito solo per te oggi, ne sono sicuro.» «Vorrei che non si fosse disturbato» mormorò Catio, asciugandosi una goccia di sudore dalla fronte e tirandosi indietro la sua fitta zazzera di capelli neri. «Chi me l'ha fatto fare di alzarmi così presto?» Alo trasalì. «Presto? Ma se ti sei appena alzato!» Alo era un ragazzo di sedici anni, dal volto giallastro, con i capelli color caramello, un anno più giovane di Catio. «Sì, è vero, ma fa troppo caldo per lavorare, vedi? Sono tutti d'accordo.» «Lavorare? Che cosa ne sai tu del lavoro?» grugnì Alo. «Loro sono stati a lavorare tutta la mattina. Io sono in piedi dall'alba, a scaricare mucchi di grano.» Catio guardò Alo e scosse la testa tristemente. «Scaricare il grano? Questo non è lavoro. È fatica.» «Perché, esiste una differenza?» Catio picchiettò sul pomo scintillante della sua spada. «Certo. Un gentiluomo lavora, può compiere gesta, ma non può faticare.» «Un gentiluomo, allora, può anche morire di fame. Dubito che tu voglia un po' del cibo dentro questo cesto, visto che ho dovuto faticare per riempirlo.» Catio rifletté sull'odore forte di pecorino, la pagnotta schiacciata di pane nero, la brocca di coccio piena di vino. «Al contrario» disse ad Alo. «Un
gentiluomo non ha obiezioni a vivere della fatica degli altri. È proprio il tipo di patto che s'instaura tra padrone e servo.» «Sì, ma io non sono il tuo servo» puntualizzò Alo. «E se anche lo fossi, non vedo che cosa ci guadagnerei da questo patto.» «Be', l'onore di servire un gentiluomo, e il privilegio di riposare qui, nel mio palazzo d'ombra, e poi la protezione della mia spada.» «Ho la mia di spada.» Catio diede un'occhiata all'arma arrugginita dell'amico. «Ah sì, certo» replicò, caricando di condiscendenza la sua voce. «Certo che sì.» «E può anche darti una bella mano. Guarda! Forse hai subito un'occasione di usarla.» Alo si girò per seguire il suo sguardo. Due uomini a cavallo erano appena arrivati nella piazza da Vio aza Vera. Uno era tutto ben vestito con un farsetto di velluto rosso, brache nere e cappello a larghe tese, elegante e con una piuma. Aveva la barba ben curata e i baffi finemente arricciati. Il suo compagno era vestito in modo più modesto con un completo marrone, semplice. Si diressero dritti verso la fontana. Catio tirò di nuovo indietro la testa e chiuse gli occhi, con l'orecchio attento agli zoceoli che si avvicinavano. Quando furono abbastanza vicini, sentì uno scricchiolio di cuoio, poi il fruscio degli stivali sui mattoni quando i due smontarono da cavallo. «Non è che vi dà fastidio se bevo un sorso dalla fontana, vero?» domandò una voce divertita. «No, per niente casnar» rispose Catio. «La fontana è un'opera pubblica e l'acqua è di tutti.» «Esatto. Tefio portami da bere.» «Sì, padrone» rispose il suo lacchè. «Sembra un posticino confortevole, quello dove state seduto» disse l'uomo, un attimo dopo. «Credo che mi metterò lì anch'io.» «Be', qui vi sbagliate, casnar» rispose Catio in tono garbato e con gli occhi ancora chiusi. «Vedete, l'ombra non è un'opera pubblica, ma è proiettata dalla dea Fiussa, come potete notare. E lei - come potete notare ancora favorisce me.» «Io noto solo un paio di ragazzi che non sembrano conoscere il proprio rango.» Alo fece per spostarsi, ma Catio lo trattenne, mettendogli una mano sul braccio. «Io conosco solo quello che mi hanno insegnato, casnar» rispose
tranquillamente. «Mi state implorando di darvi una lezione?» Catio si sedette un po' più dritto. «Implorare? Non conosco il significato di questa parola. Visto che per voi invece è così familiare, devo forse capire che mi state offrendo una lezione di grammatica?» «Ah, ora capisco. Voi siete il buffone del villaggio.» Catio rise. «No, non lo sono, ma se anche lo fossi, la mia posizione sarebbe cambiata nel momento esatto in cui avete varcato le porte di Avella.» «Ora è troppo. Lasciatemi il vostro posto o il mio lacchè vi picchierà.» «Mettetelo contro di me e rimarrete senza lacchè, e ora forse vi ho capito. Non vi sentite all'altezza di insegnarmi qualcosa? Per favore ditemi qualcos'altro a proposito di questo 'implorare'.» «Ora prendete nota di quello che vi può succedere quando parlate così con una spada» disse l'uomo, e il suo tono si fece improvvisamente basso e minaccioso. «Prendere nota? Con questa?» domandò Catio, indicando la sua spada. «Questa serve per prendere nota, è vero. È una buona penna, se la inzuppo nel calamaio giusto... ma non mi sono mai scritto addosso. O forse intendete dire che notate in me i segni della dessrata e volete fare uno scambio di abilità? Che magnifica idea! Voi mi insegnerete come si implora e io vi insegnerò l'arte della scherma.» «Io vi insegnerò a implorare, questo sì, e per Mamres lo farò davvero.» «Molto bene» replicò Catio, rimettendosi in piedi lentamente. «Ma facciamo così, facciamo un patto: chi di noi imparerà la lezione migliore dovrà pagare il giusto prezzo. Ora non ho idea di quanto chiedano per lezioni di implorazioni, ma alla scuola di scherma di maestro Esterno, ho sentito dire che la tariffa è un regatur d'oro.» L'uomo guardò il corsetto di pelle scolorita e le brache di velluto logoro di Catio. «Non avete un soldo» lo schernì. Cario sospirò e da sotto il colletto della sua bianca camicia estrasse un medaglione. Era d'oro, con un cinghiale rampante in rilievo. Era quasi tutto quello che gli rimaneva della fortuna del padre, e valeva almeno tre regatur. L'uomo scrollò le spalle. «Chi tiene i nostri soldi?» domandò. Catio si tolse il medaglione e glielo tirò. «Sembrate un tipo onesto, o almeno lo sarete da morto, perché tutti i morti sono fermamente onesti. Sono molto fermi, non so se mi spiego. Vi presento Caspator, siamo en-
trambi felici di insegnarvi l'arte della dessrata.» L'uomo sguainò la sua spada. Era uno stocco come Caspator, con una lama stretta e leggera e una coccia sull'impugnatura. «Non mi preoccupo di dare un nome alle mie spade. Io mi chiamo Minato Sepios daz'Afinio, e questo è già abbastanza.» «Già, che bisogno avete infatti di una spada con quel nome che vi ritrovate? Se lo ripetete più di una volta, diciamo anche solo due, il vostro avversario cadrà a terra addormentato.» «In guardia» gridò daz'Afinio mettendosi in posizione. Catio si accigliò e agitò un dito in segno di disapprovazione. «No, no. Lezione numero uno: la posizione dei piedi è tutto. Vedete? I vostri sono troppo vicini, e vi state sporgendo troppo in avanti, a meno che non abbiate intenzione di usare un freddo stiletto. Mettete il piede avanti in questo modo...» Daz'Afinio gridò e fece un affondo. Catio saltellò su un lato. «Ah, l'affondo! L'affondo si esegue così.» Fece una finta con le spalle, un salto a sinistra, e quando daz'Afinio sollevò di scatto la lama per parare l'attacco inesistente, lui, con un colpetto allontanò la lama e puntò il piede in avanti. La punta di Caspator punse leggermente il braccio di daz'Afinio, ma non in maniera tanto profonda da ferirlo. «Vedete? Vi preparate il terreno con qualche altra mossa e poi...» Daz'Afinio assunse un'espressione arcigna e avanzò con una raffica di duri attacchi, deboli spinte e umili tentativi di legamento. Catio rise divertito, parandoli tutti o schivandoli, saltellando in senso orario intorno al suo avversario. Improvvisamente daz'Afinio fece un lungo affondo, con la punta della spada diretta al cuore di Catio. Ma questi si piegò e la punta andò a finire dritta sopra la testa, e mentre si chinava distese la sua lama. Daz'Afinio, che ancora si stava spostando in avanti nella foga dell'attacco, fu toccato da Caspator, di nuovo in modo superficiale, anche se stavolta la punta della spada era tinta di rosso, e non era velluto. «Il pertumum penna praisef» lo informò Catio. Daz'Afinio sferrò un fendente sulla mano dell'avversario. Questi però bloccò la lama con la sua, neutralizzò l'arma del nemico con una rotazione veloce e poi colpì. Daz'Afinio dovette indietreggiare velocemente con un salto per evitare un altro fendente. «L'aflukam en truz.» Daz'Afinio colpì la lama e fece un altro affondo. Catio parò, fece una pausa e lo infilzò sulla coscia.
«Parata prismo com postro en utave. Una risposta difficile, ma piace.» Vide che daz'Afinio lasciava cadere la sua arma e crollava in ginocchio, afferrandosi la coscia che sanguinava copiosamente. Catio si prese un momento per inchinarsi all'applauso degli spettatori sotto l'ombra intorno al piato, notando con interesse che tra di loro c'era anche Braza daca Feiossa. Le fece l'occhiolino e le mandò un bacio con la mano, poi si girò di nuovo verso il suo avversario in terra. «Credo, sir, che la mia lezione sia finita. Vi va di farmi la vostra adesso, quella sull'implorazione?» La porta tremò, emise una rugginosa protesta e si incurvò sui cardini quando Catio la spalancò. Qualcosa - un topo molto probabilmente - fuggì di corsa lungo le crepe del pavimento nel portico annerito che si apriva al di là della porta. Noncurante, Catio si diresse attraverso il passaggio coperto nel cortile più interno della villa. Come il resto dell'abitazione, era tutto un sudiciume. Il giardino aveva lasciato il posto alle erbacce e le viti strisciavano senza controllo sui battenti e sulla parete. La vasca di rame e la meridiana che una volta indicavano il centro del cortile giacevano da una parte, da due armi ormai. L'unica zona ordinata della casa, in realtà, era la piccola area risparmiata per la pratica della dessrata: un posto luminoso con un lastricato di pietra, e una piccola palla che ciondolava da una corda, un manichino da allenamento tempestato di colpi con i vari umori e punti vitali del corpo segnati con un inchiostro sbiadito. Lì vicino, allungato su una panca di marmo, un uomo russava in modo regolare. Dimostrava una cinquantina d'anni, aveva il volto coperto da una barba corta, ispida e brizzolata e una lunga cicatrice bianca che deturpava una guancia. I capelli lunghi erano nel più completo disordine. Indossava un farsetto marrone sbrindellato, abbondantemente macchiato di vino rosso, e stava senza brache. C'era una brocca di vino vuota vicino alla mano semiaperta, rovesciata sul pavimento. «Z'Acatto.» L'uomo arricciò il naso. «Z'Acatto!» «Va via o ti uccido» ringhiò l'uomo senza aprire gli occhi. «Ho portato da mangiare.» Allora socchiuse le palpebre. Gli occhi lì sotto erano rossi e lacrimosi.
Catio gli passò un sacco di canapa. «C'è del formaggio, del pane e un pezzo di salsiccia.» «E con che cosa li annaffiamo?» domandò z'Acatto, con una fioca scintilla nello sguardo. «Ecco.» Catio gli diede una caraffa di ceramica. Z'Acatto bevve immediatamente un lungo sorso, che risputò un istante dopo, urlando come un'anima dannata, e tirando il contenitore contro la parete, frantumandolo in mille pezzi. «Veleno!» gridò. «Acqua» lo corresse Catio. «Sai quella sostanza che cade dal cielo e che l'erba trova molto nutriente?» «L'acqua è quello che bevono all'inferno» brontolò z'Acatto. «Be', allora dovresti cominciare adesso a sviluppare una tolleranza, perché senza dubbio sarai ospite di lord Ontro e lady Mefita nell'aldilà. E poi non avevo i soldi per il vino.» «Brutto ingrato! Pensi solo a riempirti la pancia.» «Anche la tua, veramente» lo corresse Catio. «Tieni, mangia.» «Bah» brontolò, mettendosi lentamente a sedere. «Io...» All'improvviso arricciò il naso e il sospetto si annidò sulla fronte. «Avvicinati!» «No, non credo proprio» rispose Catio. «L'acqua può essere usata anche all'esterno del corpo, sai?» aggiunse. Ma z'Acatto si alzò in piedi e avanzò verso di lui. «Hai l'alito che sa di vino» lo accusò. «Vino dac'arva di Troscia dell'anno scorso.» «Sciocchezze. Era di Escarra.» «Hah! È la stessa uva!» gridò z'Acatto, agitando le braccia come un pazzo. «Il carbonchio ha distrutto i vigneti di Escarra dieci anni fa, e hanno dovuto chiedere i vitigni a Troscia.» «Interessante, cercherò di ricordarmelo. A ogni modo il vino non era il mio, ma di Alo, e comunque ora è finito. Mangia qualcosa.» «Mangiare» si accigliò di nuovo. «Perché no?» Tornò alla sua panca, annaspò nel sacco e tirò fuori il pane. Ne spezzò un tocco e iniziò a masticare. Parlando con la bocca piena, domandò: «In quanti combattimenti ti sei cacciato oggi?» «Volevi dire duelli? Solo uno, ecco qual è il problema. Faceva troppo caldo, credo, e non c'erano abbastanza stranieri, quindi non abbastanza soldi.» «Tu non duelli» brontolò z'Acatto. «Tu ti azzuffi. È uno stupido spreco dell'arte che ti insegno, una marchetta.»
«Ah sì? E dimmi, come faremmo a vivere se non facessi così? Disprezzi il cibo che ti porto, eppure è l'unico che hai la probabilità di vedere. E da dove viene il tuo vino, quando ce l'hai? Lo compri con le monete che rubacchi a me!» «Tuo padre non è mai sceso così in basso.» «Mio padre aveva possedimenti, scemo! Aveva vigneti e frutteti e campi da pascolo, e ha pensato bene di farsi uccidere in uno dei tuoi duelli d'onore, e passare così la sua proprietà al suo assassino, anziché a me. Oltre al suo titolo, l'unica cosa che mio padre mi ha lasciato sei tu...» «E questa casa.» «Sì, e guardala.» «Potresti ricavarne una rendita» rispose z'Acatto. «Potrebbe essere affittata...» «È la mia casa!» esclamò Catio. «E decido io se viverci o affittarla!.» Z'Acatto agitò il dito davanti a Cario. «Anche tu finirai ucciso.» «Chi da queste parti può battermi alla scherma? Nessuno. In due anni nessuno ci è neanche andato vicino. Non c'è pericolo in tutto questo, nessun azzardo. È pura scienza.» «Io sono ancora meglio di te. E anche se sono forse il maestro di dessrata più grande del mondo, esiste chi si avvicina a me in abilità. E un giorno lo incontrerai.» Catio lo guardò senza battere ciglio. «Allora è compito tuo fare in modo che io sia pronto quando arriverà, o avrai fallito con me come con mio padre.» Il vecchio chinò il capo e la sua faccia sì contrasse in un'espressione ancora più accigliata. «I tuoi fratelli se lo sono gettato alle spalle» disse. «Sì, credo di sì. Lascerebbero che il nostro buon nome volasse via col vento di mare con cui sono fuggiti. Ma io no, Catio no. Sono un da Chiovattio, per Diuvo!» «Non conosco il viso dell'uomo che ha ucciso tuo padre» disse z'Acatto dolcemente. «M'interessa poco. Mio padre si è scontrato con l'uomo sbagliato e per motivi sbagliati. Io non commetterò quell'errore, e non lo rimpiango. Ma neanche fingerò di essere di umili origini. Sono nato per combattere e vincere, per reclamare quello che mio padre ha perso, e lo farò.» Z'Acatto l'afferrò per la manica. «Tu credi di essere saggio, di conoscere come va il mondo. Ragazzo, Avella non è il mondo, e tu non sai niente. Vuoi riconquistare i possedimenti di tuo padre? Comincia da questa casa.
Comincia da ciò che hai.» Catio gli allontanò la mano. «Non ho nulla» disse, alzandosi. Z'Acatto non replicò quando Catio uscì di nuovo. Una volta in strada, Catio sì sentì in colpa. Z'Acatto non era molto, ma lo aveva allevato dall'età di cinque anni. Avevano trascorso dei bei momenti insieme. Anche se non ultimamente. Avella, di notte, era più buia di una caverna, ma Catio si sapeva muovere bene. Trovò le mura settentrionali con la stessa facilità con cui un cieco trova al tatto la sua casa; dopo aver salito le scale, si fermò a guardare i vigneti e gli uliveti alluminati dalla luna al vento della notte, le colline dolcemente ondulate del Tero Mefio, la regione centrale di Vitellio. Rimase così per più di un rintocco, cercando di schiarirsi la mente. Gli chiederò scusa pensò tra sé e sé. Dopo tutto ci sono dei segreti della dessrata che ancora non mi ha rivelato. Tornando verso casa, sentì uno strano prurito dietro al collo, e allungò la mano sulla spada. «Chi va là?» domandò. Intorno a lui sentì il morbido fruscio del cuoio sul lastricato. Quattro, forse cinque persone. «Codardi» disse più piano. «Che lord Mamres sputi su tutti voi.» Caspator non fece il minimo rumore quando lui la sguainò. Catio rimase in attesa del primo assalto. Capitolo tre Fuga e fantasie Anne spalancò i battenti di legno, trasalendo al leggero cigolio. Fuori l'aria della notte era tiepida e intrisa dell'odore di legna bruciata e letame di cavallo. La luna indossava il suo abito più semplice e screziava i tetti d'ardesia del villaggio con la sua fioca luce d'avorio. Anne non riusciva a vedere il terreno - la strada sottostante era avvolta da un'ombra fuligginosa - ma sapeva che c'era solo un piano sotto di lei, che proprio sotto la sua finestra sporgeva una stretta grondaia e più in basso ancora c'era la porta d'entrata della piccola locanda. Aveva saltato da punti più alti prima d'allora.
Erano passati venti lunghi giorni da quando lei, Austra, e cinque maestri avevano lasciato Eslen. Anne non sapeva dove si trovasse o quanto si fosse allontanata, ma seppe riconoscere la migliore opportunità di fuga, non appena le si presentò. Era riuscita a mettere da parte abbastanza pecorino e pane da poter resistere qualche giorno. Se avesse trovato un arco o un coltello, era sicura che sarebbe riuscita a vivere di quello che la terra le offriva. Le sarebbero serviti abiti migliori per cavalcare, ma avrebbe trovato anche quelli. Santa Erenda le avrebbe sicuramente sorriso e portato fortuna. Gettò uno sguardo verso Austra che dormiva, e cercò di reprimere il forte senso di colpa. Ma non poteva dire alla sua migliore amica che cosa aveva progettato; meglio che non sapesse niente di tutto questo, perché la mattina dopo sarebbe apparsa sorpresa quanto il capitano Marl e il resto della scorta. Dopo aver preso un lungo respiro, si sedette sul davanzale e cercò la grondaia sottostante con i piedi scalzi. La trovò più in basso di quanto avesse sperato e più inclinata di quanto si ricordasse. La paura di cadere la trattenne un momento, ma poi abbandonò il suo peso verso il basso. Scivolò velocemente. Le mani grattarono in maniera spaventosa mentre continuava a scendere. All'ultimo momento prese qualcosa e vi si aggrappò, con il respiro affannato, e i piedi che ciondolavano sospesi sopra il terreno invisibile. Al tatto, sentiva di essere aggrappata al gallo di legno che spuntava sopra la porta della locanda. Lì vicino una risata fragorosa squarciò le tenebre. All'inizio credette che qualcuno l'avesse vista, poi due uomini iniziarono a parlare in una lingua che non capì. Trattenne il respiro mentre le voci passavano sotto di lei, per poi allontanarsi. Le braccia cominciarono a tremarle per la fatica di tenersi. Doveva saltare o arrampicarsi di nuovo fin sopra la finestra. Guardò in basso, anche se non riusciva a vedere neanche i suoi piedi, e dopo un'altra rapida preghiera, si lasciò andare. L'aria sembrò frusciare intorno a lei più a lungo di quanto avrebbe dovuto, poi incontrò il terreno. Le ginocchia si piegarono e cadde faccia avanti. Una delle mani andò a finire in qualcosa di molle e dall'odore capì che era cacca di cavallo fresca. Tremando, ma con una sensazione di trionfo sempre crescente, si mise in piedi, sfregandosi il letame umido dalla mano. «Anne!» una voce disperata dall'alto rotta dal tentativo di bisbigliare più
forte possibile. «Zitta, Austra» sibilò Anne in risposta. «Dove stai andando?» «Non lo so. Torna a dormire.» «Anne! Ti farai uccidere. Non sai neanche dove siamo!» «Non m'importa! Io non andrò in nessun coven! Addio Austra... ti voglio bene!» «Questa sarà la mia fine!» rantolò Austra. «Se ti lascio andare...» «Sono scappata mentre dormivi, non possono rimproverarti.» Austra non rispose, ma Anne sentì qualcosa grattare in alto. «Che cosa stai facendo?» «Vengo con te, ovviamente. Non ti lascerò morire da sola.» «Austra, no!» Ma era troppo tardi. Austra emise un grido cortissimo. La sua discesa produsse un leggera brezza prima di colpire il terreno con un tonfo sonoro. «Il suo braccio è ferito seriamente, ma non rotto» le disse il capitano Marl, in maniera molto diretta. Era quel tipo d'uomo taciturno e schietto. I suoi modi si accompagnavano bene con il suo viso butterato e affabile. «Voglio vederla» disse Anne. «Non ancora, principessa. C'è prima da chiarire la questione di che cosa stavate facendo.» «Stavamo facendo le stupide. Facevamo la lotta vicino alla finestra e abbiamo perso l'equilibrio.» «E come mai voi non siete neanche ferita e lei invece sì?» «Sono stata fortunata. Ma mi sono sporcata il vestito, come potete vedere.» «E c'è anche questo, come mai eravate tutta vestita?» «Non lo ero. Non avevo le scarpe.» «La vostra dama di compagnia aveva una camicia da notte, cosa che avreste dovuto indossare anche voi.» «Capitano, chi siete voi per dire come si dovrebbe vestire la principessa di Crotheny? Mi trattate come se fossi una prigioniera di guerra!» «Vi tratto per quello che siete, principessa: una mia protetta. So qual è il mio dovere e lo faccio seriamente. Vostro padre si fida di me e ha motivo di farlo.» Sospirò e intrecciò le mani dietro la schiena. «Non mi piace quello che sto per fare. Le giovani donne dovrebbero avere la loro intimità, lontano dalla compagnia degli uomini. Pensavo di potervela concedere.
Ora capisco che sono stato uno stupido.» «Non starete mica pensando di farmi dividere la stanza con uno dei vostri uomini, vero?» «No, principessa. Nessuno dei miei uomini lo farà.» Il suo viso arrossì leggermente. «Ma nel caso non riuscissi a trovare un alloggio che precludesse la fuga, sarò costretto a montare di guardia io stesso nella vostra stanza.» «Mia madre chiederà la vostra testa!» esclamò Anne. «Se così deve essere, sia!» rispose Marl cortesemente. Aveva imparato a non discutere con lui quando assumeva quel tono. Aveva preso una decisione e si sarebbe fatto tagliare la testa prima di cambiarla. «Posso vedere Austra, ora?» chiese invece. «Sì, principessa.» Il viso di Austra era bianco, e aveva il braccio fasciato. Stava sdraiata sulla schiena e non volle incontrare lo sguardo di Anne quando entrò. «Mi dispiace» disse Austra con un tono stranamente piatto. «Ti sta bene» replicò Anne. «Avresti dovuto fare quello che ti avevo detto. Ora Marl non mi mollerà un attimo.» «Ti ho detto che mi dispiace.» Le lacrime scorrevano sul volto di Austra, ma piangeva in silenzio. Anne sospirò e strinse la mano dell'amica. «Non fa niente» disse. «Come sta il tuo braccio?» Austra chiuse la bocca e non rispose. «Va tutto bene» ripeté Anne più dolcemente. «Troverò un'altra occasione.» Allora Austra si girò verso di lei, con gli occhi rossi e furiosi. «Come hai potuto?» disse. «Dopo tutte le volte che mi sono presa cura di te, che ho mentito per te e ti ho aiutato nei tuoi stupidi giochi. Tua madre avrebbe potuto mandarmi a lavorare con le serve delle pulizie! Per tutti i santi, avrebbe potuto farmi tagliare la testa, ma io ho sempre fatto quello che tu mi hai chiesto! E per che cosa? Perché potessi abbandonarmi senza neanche un ripensamento?» Per un attimo Anne fu così sorpresa che non riuscì a dire nulla. «Ti avrei mandata a chiamare» riuscì a dire alla fine. «Una volta che fossi stata al sicuro e...» «Mandare a chiamarmi? Hai una vaga idea di quello che stai progettando?»
«Sì, di scappare, cercare il mio amore e il mio destino.» «Il destino di una donna sola in un paese straniero, di cui non conosci neanche la lingua? Come pensavi di trovare del cibo?» «Sarei vissuta di quello che la terra poteva darmi.» «Anne, c'è sempre qualcuno che possiede la terra. La gente viene impiccata per aver cacciato di frodo, lo sai questo? Oppure marcisce in prigione o serve in schiavitù fino a che non salda il suo debito. Ecco cosa succede a quelli che 'vivono della terra' nel regno di tuo padre.» «Nessuno impiccherebbe me, almeno non quando venissero a sapere chi sono.» «Ah sì. Così una volta catturata, tu spiegheresti loro che sei una principessa importante e allora cosa credi che farebbero? Che ti lascerebbero andare? Che ti darebbero un piccolo possedimento? O forse ti chiamerebbero bugiarda e finirebbero con l'impiccarti? Ovviamente siccome sei una donna, e anche carina, non ti impiccherebbero subito. Prima si divertirebbero. «Oppure supponiamo che riuscissi a convincerli su chi sei veramente. Nel migliore dei casi ti rispedirebbero a casa e così ricominceresti tutto daccapo, solo che io starei trasportando sulla schiena carbone dalle chiatte o chissà cosa. Nel peggiore dei casi, ti tratterrebbero per un riscatto, spedirebbero le tue dita a tuo padre una alla volta per provare che sei davvero nelle loro mani.» «Ho in mente di vestirmi da uomo. Non mi prenderanno.» Austra ruotò lo sguardo. «Ah, allora vestiti da uomo, vedrai che funzionerà.» «Sarà meglio che andare in un coven.» L'altra la guardò ancora più infuriata. «Questa cosa è stupida ed egoista.» Chiuse il pugno del braccio sano e lo sbatté contro la colonnina del letto. «Io sono stata una stupida a pensare che eri mia amica, a pensare che ti fregasse qualcosa di me!» «Austra!» «Lasciami stare.» Anne provò a dire qualcos'altro, ma lo sguardo di Austra si fece furibondo. «Lasciami stare!» Si alzò. «Ne parliamo dopo.» «Vattene!» gridò Austra, scoppiando in lacrime. Sul punto di fare altrettanto, Anne uscì.
Vide il viso di Austra dipinto su uno sfondo di pascoli ondulati, interrotti da boschi di cedri slanciati e pioppi eleganti. La sua testa eclissava una collina lontana dove un piccolo castello dominava casette dai tetti rossi. Una mandria di cavalli fissò incuriosita la carrozza, mentre passava sferragliando. «Ancora non mi parli?» la supplicò Anne. «Sono passati tre giorni.» Austra, accigliata, continuò a guardare fuori dal finestrino. «Bene» disse Anne secca. «Ti ho chiesto scusa fino al punto da farmi diventare la lingua verde. Non so cos'altro vuoi che faccia.» Austra mormorò qualcosa, che però volò via dal finestrino come un uccello. «Cos'hai detto?» «Ho detto che potresti promettere» rispose Austra, ancora senza guardarla. «Promettere che non proverai di nuovo a fuggire.» «Non posso scappare. Il capitano Marl è fin troppo guardingo adesso.» «Quando arriveremo al coven, non ci sarà nessun capitano Marl» disse lentamente Austra, come se stesse parlando con una bambina. «Voglio che mi prometti di non provare a scappare da lì.» «Tu non capisci, Austra.» Silenzio. Anne aprì la bocca per dire qualcos'altro, che però le rimase intrappolato fra i denti. Chiuse gli occhi invece, lasciò che il corpo si abbandonasse al continuo dondolio della carrozza e finse di essere lontana. Si infilò nei sogni come fossero vestiti. Prima si provò Roderick, il ricordo di quel primo bacio dolce, mentre erano a cavallo, poi i loro incontri regolari più intimi. Alla fine però, tutto portava sempre e solo a quella notte nella tomba e all'umiliazione che ne era seguita. Quella notte era stata rovinata, ma voleva ricordare lo stesso, e sentire ancora quelle ultime, eccitanti, terrificanti carezze. Cambiò scena, fingendo di aver incontrato Roderick nelle sue stanze a Eslen, ma non andò meglio. Quando provò a immaginare come fossero gli appartamenti di lui a Dunmrogh, fallì del tutto. Alla fine, con un'ispirazione improvvisa, che le disegnò un lieve sorriso sul volto, immaginò il piccolo castello sulla collina 'che aveva appena visto qualche attimo prima. Lei stava sulla porta, in un abito verde, e Roderick cavalcava fra i campi, sontuosamente bardato. Si avvicinò a lei, smontò da cavallo, fece un profondo inchino e le baciò la mano. Poi, con il fuoco negli occhi, la strinse a sé, contro l'acciaio che portava addosso, e la baciò
sulle labbra. All'interno, il castello era arioso e pieno di luce, con le pareti ornate di arazzi di seta, e tutto brillava grazie alla luce del sole che passava fra decine di finestre di cristallo. Roderick entrò di nuovo, vestito con un bel farsetto e ora finalmente riuscì a evocare la sensazione della mano di lui sulla sua pelle; spingendosi avanti con la fantasia, lo vide proseguire, e alla fine erano entrambi senza vestiti. Amplificò il ricordo della sua mano sulle cosce, immaginando lui disteso su di sé. Solo in un particolare difettava la sua fantasia, sebbene l'avesse sentito contro di lei attraverso le brache. Ma non aveva mai visto le parti intime di un uomo, pur avendo visto stalloni in quantità. Dovevano avere almeno la stessa forma. Ma l'immagine evocata era così ridicola che si sentì improvvisamente insicura e allora riaggiustò la sua fantasia sugli occhi di lui che fissavano i suoi. Qualcosa non quadrò lo stesso e nel terrore improvviso capì cosa fosse. Non riusciva a ricordare il volto di Roderick! Era ancora in grado di descriverlo, ma non di vederlo, tra le ombre della memoria. Decisa, cambiò di nuovo scena, il loro primo incontro, l'ultimo... Ma non servì a niente. Era come provare a prendere un pesce con le mani. Aprì gli occhi e trovò Austra addormentata. Frustrata, Anne si mise a guardare lo scenario dal vetro e ora cercò di immaginare che tipo di gente vivesse là fuori, in quel paese così sconosciuto per lei. Ma nella vana ricerca del volto di Roderick, aveva risvegliato qualcos'altro e trovato un viso diverso. La donna mascherata con i capelli d'ambra. Per quasi due mesi aveva accantonato quel fantasma, tenendolo nascosto come con il sogno delle rose nere. Ora tornarono entrambi, insieme, reclamando la sua attenzione, nonostante le parole rassicuranti di praifec Hespero. Avendo sopportato tre giorni di silenzio e broncio da parte di Austra, senza qualcosa che la distraesse, il pensiero di quel giorno su Tom Woth tornava a infastidirla come un prurito e l'unico modo di alleviarlo era pensando. Che cosa era successo? Era svenuta come pensava il praifec? Sembrava la cosa più probabile e quello che si ripeteva. Tuttavia, nel fondo del suo cuore, sapeva che non era vero. Qualcosa le era successo davvero; aveva visto una santa, o un demone, che le aveva parlato. Riusciva quasi a sentire la voce nella testa, una specie di protesta e rim-
provero. Come poteva pensare a sé e Roderick quando stava accadendo tutto ciò? Sua madre e suo padre erano in pencolo, forse anche l'intero regno, e solo lei lo sapeva. Tuttavia non aveva fatto nulla, non lo aveva detto a nessuno, inseguendo quell'amore egoista e senza speranza. Le parole del praifec le avevano solo fornito una scusa. «No» disse Anne sottovoce. «Non sono io che parlo, ma Fastia, o mamma.» Ma non era nessuna delle due e lo sapeva. Era Genya Dare; la sua voce sussurrava da leghe di distanza, attraverso la fessura nella tomba. Genya Dare, la prima regina, la sua antenata più antica. Chissà se Genya Dare avrebbe mai ignorato le proprie responsabilità per un piacere egoista di gioventù! Anne trasalì. Quel pensiero non l'aveva formulato lei; era una voce che aveva parlato nel suo orecchio. Non era neanche un bisbiglio, ma aveva un tono sicuro, era una voce di donna. La voce della donna mascherata, ne era quasi certa. Girò la testa da una parte e dall'altra, ma c'era solo Austra, che stava dormendo. Anne si risistemò sul sedile, col respiro" affannato. «Dove siete?» sussurrò. «Chi parla?» Ma la voce non tornò, e Anne iniziò a pensare che forse si era addormentata un attimo, abbastanza perché la Donna Nera potesse bisbigliarle qualcosa nell'orecchio. «Non siete Genya Dare» mormorò. «No, non lo siete.» Stava diventando pazza, e parlava da sola. Era sicuramente così. Aveva letto cose del genere, di prigionieri nelle torri che, non parlando con nessuno per lungo tempo, avevano perso la ragione. Scosse il ginocchio dell'amica. «Svegliati.» «Hmm?» Austra aprì gli occhi. «Ah,» disse «sei tu.» «Te lo prometto.» «Come?» «Te lo prometto. Non proverò più a fuggire.» «Davvero?» «Sì. Devo...» si accigliò, imbarazzata. «Tutti stanno cercando di dirmi la stessa cosa. Mamma, Fastia, tu. Sono stata un'egoista, ma credo... di servire a qualcosa.» «Di che stai parlando?» «Non lo so. Di niente probabilmente. Ma farò del mio meglio, per fare
quello che ci si aspetta da me.» «Vuol dire che lasci Roderick?» «No, alcune cose sono scritte e noi due siamo destinati a stare insieme. L'ho chiesto a Genya di farlo innamorare di me, ricordi? È colpa mia, e non posso abbandonare il suo amore.» «Hai chiesto a Genya anche di rendere Fastia più simpatica» le ricordò Austra. «E lo era diventata» rispose Anne, ricordando i loro due ultimi incontri. «Lo era diventata. Era quasi tornata la Fastia che amavo da bambina. Lei e mamma hanno deciso per me, ma loro credono di fare il mio bene. Me lo ha spiegato Lesbeth, ma, all'epoca non ho voluto ascoltarla.» «Che cosa ti ha convinto?» «Un sogno, credo. O un ricordo, ma soprattutto tu. Se anche la mia migliore amica pensa che io sia una ragazzaccia egoista, come posso non fermarmi a riflettere?» «Ora cominci a preoccuparmi. Hai per caso sbattuto la testa, scappando dalla finestra?» «Non prendermi in giro. Volevi che fossi più brava, be' ecco, ci sto provando.» L'altra annuì seria. «Scusa, hai ragione.» «Mi sono sentita sola, non potendo parlare con te.» Gli occhi di Austra si fecero lucidi. «Anch'io, Anne, e ho paura del posto in cui stiamo andando e di come sarà.» «Allora staremo sempre insieme, da adesso in poi, vero?» «Lo giuriamo su Genya?» «Sulla sua tomba. Se avessi del piombo su cui scriverlo, lo farei. Giuro di non provare a scappare da lì, per quanto spaventoso possa essere. E sarò sempre la tua compagna in quest'avventura, accada quel che accada, non ti lascerò mai e poi mai.» Finalmente Austra riuscì a sorridere anche se non in modo sereno. «Grazie» disse. Si allungò e si strinsero velocemente la mano. «Dove credi che siamo?» domandò Anne, per cambiare argomento. «Mi sembra di capire che stiamo viaggiando verso sud.» L'amica accennò un sorriso. «Conosco quello sguardo!» disse Anne. «Tu sai qualcosa.» «Ho raccolto delle indicazioni: i nomi delle città, dei fiumi e tutto il resto. Quindi potremmo scoprire la nostra rotta, se dovessimo trovare una cartina.»
Anne spalancò la bocca meravigliata. «Austra, che astuzia! Ma perché non ci ho pensato anch'io? Sono proprio una stupida!» «No. È solo che non hai mai viaggiato. Probabilmente pensavi che se fossi riuscita a fuggire, la strada ti avrebbe portato da sola là dove volevi andare, come nelle storie delle fate. Ma nel mondo reale, devi seguire le indicazioni.» «Il tuo diario, allora! Posso vederlo?» Austra cercò nella sua borsa e tirò fuori un libricino. «Non ho preso i nomi di tutte le città. Solo di quelle che sentivo menzionare dalle guardie o che qualche volta ho visto segnalate. Il modo in cui scrivono sembra quasi come il nostro, ma con qualche strano ghirigoro. Dammi, te lo leggo io; potresti avere problemi con i miei scarabocchi e te lo posso riassumere.» «Avanti.» «Prima abbiamo attraversato il Mago sulla strada rialzata. Il sole tramontava a destra, quindi andavamo verso sud. Poi abbiamo risalito delle colline, sempre a sud. «Allora eravamo a Hornladh! Roderick è di Hornladh! L'ho trovata sulla cartina, dopo averlo incontrato.» «Sulle colline, ci siamo fermati in un posto chiamato Carec, una città molto piccola. Le notti seguenti non sono riuscita a prendere nessun nome, ma abbiamo attraversato una foresta, che mi sembra si chiamasse Duv Caldh, o qualcosa del genere. Appena passata ci siamo fermati in un posticino chiamato Prentreff.» «Ah, sì, la locanda con quel tremendo suonatore di liuto.» «Esattamente. Da lì credo che abbiamo continuato a sud, ma più verso ovest, poi il giorno seguente pioveva e quindi non so. In seguito abbiamo trascorso due notti a Paldh.» «Mi ricordo di Paldh sulla cartina! È un porto, quindi eravamo sul mare! Mi sembrava di aver sentito l'odore del mare quella notte.» «Dopodiché abbiamo attraversato un fiume. Mi sembra che si chiamasse Teremené e così anche la città. È lì che abbiamo cominciato a vedere più campi che boschi, e le case con i tetti rossi o bianchi, e i vigneti. Ti ricordi quei vigneti interminabili? Poi abbiamo alloggiato in una piccola città che si chiamava Pacre, poi Alfohes, Avalé e Vio Toto. Per la maggior parte del tempo credo che abbiamo continuato in direzione sud-ovest. Abbiamo attraversato un altro fiume, non so il nome, ma la città dall'altra parte era Cheslaia. Quindi ho perso qualche città, ma il posto in cui hai tentato la
fuga si chiamava Trivo Rufo. Da quel momento non ho più scritto nulla. Ero troppo arrabbiata.» «È più che sufficiente. Ma non capisco. Se non volevi che io fuggissi, perché hai fatto una cosa del genere? Perché mi hai tracciato una strada per tornare a casa?» «Non volevo dirtelo finché non mi avessi promesso che non saresti più fuggita. Ma ho pensato: 'sempre meglio sapere dove siamo'. Supponiamo che succeda qualcosa di tremendo, per esempio che siamo assaliti da banditi, che la nostra scorta venga uccisa e che siamo costrette a scappare. È meglio sapere.» Agitò un dito verso Anne. «Ma una promessa è sempre una promessa, vero?» «Certo. Ma hai ragione, da adesso in poi, anch'io terrò un diario.» «In quale paese credi che siamo adesso?» domandò Austra. «Non ne ho idea. Non sono mai stata attenta alle lezioni e ho guardato la cartina solo per trovare il paese di origine di Roderick. Forse siamo a Safnia, dove vive il fidanzato di Lesbeth.» «Può darsi, ma non credo. Penso che sia Vitellio.» «Vitellio!» Anne guardò di nuovo dal finestrino. La strada sfrecciava attraverso un vasto campo di grano, di un tipo particolare. Dopo aver intersecato ripide pendenze, il terreno diventava di un bianco brillante. «Pensavo che Vitellio fosse tutto giallo e rosso e disseminato di grandi città e chiese! E che la gente andasse vestita di seta e colori fantastici e litigasse continuamente.» «Potrei sbagliarmi.» «Qualunque sia il posto, la campagna è molto bella» osservò Anne. «Mi piacerebbe molto cavalcare Fulmine su quei campi. Mi chiedo quanto ancora dobbiamo viaggiare.» «Chi può dirlo? Questo coven deve essere in capo al mondo.» «Forse, dopo tutto, questa sarà un'avventura» commentò Anne, sentendo che il suo umore migliorava. Ma le venne un pensiero improvviso che non doveva fare. Roderick arriverebbe fino in capo al mondo per trovarmi disse a se stessa. E se potessi inviargli una lettera, riuscirebbe a sapere dove sono. Provò a cacciarlo via, e a rimanere ferma nelle sue nuove convinzioni, e poco dopo, mentre le due ragazze chiacchieravano di come poteva essere Vitellio, aveva già quasi dimenticato di averlo partorito. Otto giorni dopo, sotto la luce stracciata del tramonto, in una campagna senza case, ma piena di alberi ondeggianti e pascoli, lei e Austra scesero
dalla carrozza per l'ultima volta. Capitolo quattro La via dei templi Fratello Ehan stava con le mani sui fianchi e un'espressione preoccupata sul volto, mentre guardava Stephen che si preparava. «Sta' attento a fratello Desmond e la sua cricca» disse. «Non sono contenti che tu percorra la via così presto.» «Lo so» Stephen scosse le spalle. «Che posso farci? Se mi seguono, mi seguono. Se mi prendono da solo nella foresta, non c'è molto da fare, che li veda arrivare o no.» «Potresti fuggire.» «Mi aspetterebbero al tempio successivo, comunque non sarei in grado di terminare il percorso.» «Ma saresti ancora vivo.» «Questo è vero» concesse Stephen. «Non sembri tanto felice di andare.» «Qualcosa lo preoccupa» disse fratello Alprin. Era appena rientrato dai vigneti, e indossava ancora un cappello a larghe tese per proteggersi dal sole. «E non è fratello Desmond.» «Nostalgia di casa?» domandò Ehan, un po' sarcastico. «No» rispose. Anche se in parte aveva ragione. Più che di un posto, provava nostalgia di un mondo che avesse ancora un senso. «Allora che cos'è?» insistette Ehan. Ma Stephen rimase in silenzio. «Ce lo dirà quando si sentirà pronto» disse Alprin. «Vero, fratello? Comunque non preoccuparti di fratello Desmond. Il fratrex l'ha spedito lontano ieri.» «Lontano?» fece Stephen. «Vuoi dire via?» «No, non siamo così fortunati. Solo lontano a svolgere alcune commissioni per la chiesa.» Stephen si ricordò all'improvviso dell'atteggiamento strano e tranquillo di fratello Desmond quella notte sulla collina. «Rifornimenti o che?» «Ah no!» grugnì fratello Ehan. «Lo manda a occuparsi di certe cose. Fratello Desmond ha percorso la via dei templi di san Mamres. A breve sarà promosso cavaliere della chiesa. Perché credi che sia così veloce e
forte? È la benedizione di san Mamres. Circa nove giorni prima che tu arrivassi, alcuni banditi stavano depredando il tempio di Baymdal, nelle Regioni Centrali. Il fratrex ha inviato lì fratello Desmond e la sua corte.» «Desmond ha smesso per sempre di fare scorrerie. Una scelta definitiva, da quello che ho sentito.» Ehan inarcò le sopracciglia. «Questa volta potrebbe essere peggio. E se si mettessero a ciondolare nella foresta per un giorno? Se ti si dovesse trovare con il collo spezzato, loro avrebbero un alibi.» «Aspetta» disse Stephen. «Non pensavo che il fratrex avesse quell'autorità. Credo che possa disporre di uomini solo per difendere il monastero. Un ordine di mandarli da qualche parte deve venire da un praifec.» «Ieri è arrivato un messaggero di praifec Hespero di Eslen» disse fratello Alprin. «Ah.» «Non mi preoccuperei troppo di fratello Desmond» continuò Alprin. «Si diverte durante queste gite. Può ucciderti quando vuole.» «Molto confortante» replicò Stephen. Alprin sorrise. «E poi devi assumere un atteggiamento meditativo per percorrere la via dei templi nel modo giusto.» «Ci sto provando. Potete dirmi cosa mi devo aspettare, come ci si sente?» «No» risposero in coro. «Ma sarai diverso, dopo» aggiunse fratello Ehan. «Niente sarà più lo stesso.» Forse lo disse per incoraggiarlo, e invece aprì un'altra voragine nello stomaco di Stephen. Da quando aveva lasciato casa, aveva avuto una sorpresa dopo l'altra, sempre più brutte. Tutto il suo mondo era appena stato capovolto e provava un senso di vuoto all'idea che la sua prima visita ai templi sarebbe stata completamente diversa da come si aspettava. E se la tendenza era quella, il viaggio sarebbe stato sicuramente spiacevole. Così, sebbene facesse del suo meglio per concentrarsi sui santi e iniziare i primi passi verso il sacerdozio con atteggiamento meditativo, fu invece con trepidazione che cominciò il percorso e si avvicinò al primo dei dodici templi di San Decamnus. Entrato nella grande navata del monastero, si sentì un intruso. Non l'aveva mai vista così vuota e silenziosa. Desiderava percepire suoni normali, un'altra persona con cui parlare. Ma da quel momento fino alla fine del
viaggio, sarebbe stato da solo. Rimase fermo un istante, esaminando il grande contrafforte che sorreggeva il soffitto, stupefatto che esseri umani fragili e imperfetti avessero potuto costruire tanta bellezza. Era questo potenziale che i santi vedevano negli uomini? La capacità di creare meraviglie che compensassero il male che facevano? Non sapeva trovare una risposta e forse non ne esisteva una. Pregando si fermò alle stazioni, dodici piccole nicchie con statue e bassorilievi sui vari aspetti della santità di Decamnus. Non avevano alcun potere, ma gli ricordavano quello che presto avrebbe sperimentato, perché la via dei templi era simile a quelle piccole stazioni, solo scritta in grande. Dopo aver acceso una candela in ogni nicchia, si diresse verso il primo tempio. Si trovava dietro una porticina, sul retro della navata. La pietra che circondava la porta sembrava molto più antica di quella del resto 'del monastero e quasi certamente lo era. Il santo aveva lasciato lì il suo segno prima ancora che la chiesa si diffondesse in quelle terre, e addirittura prima che gli Skasloi venissero sconfitti. Una volta lì c'era solo una collina. Un tempio o addirittura un monastero non aumentava il potere del sedos in sé; serviva solamente a preparare chi stava per percorrere la via a entrare in comunione col santo e a quello che sarebbe seguito. Quando raggiunse la maniglia della porta, avvertì un improvviso prurito allo stomaco e capì che se non avesse digiunato per tre giorni, di sicuro avrebbe perso quello che aveva ingerito. Rimase fermo e con lo sguardo fisso, restio a cominciare. Non era pronto a iniziare; la sua mente non era concentrata sull'obiettivo, la santificazione dell'anima e della carne. Conteneva ancora troppe cose che non erano affatto sacre. Con un sospiro, s'inginocchiò sulla pietra davanti alla porta per provare a meditare. A volte quando non riusciva a dormire era per colpa degli eventi del giorno che continuavano a rincorrersi nella sua mente, come topi che cercano di prendersi la coda. Pensava a cosa doveva dire o fare oppure non dire o non fare, ragionandoci sopra più volte. Ora, mentre provava a meditare, gli succedeva la stessa cosa. Cercò di allontanare i suoi pensieri, di scioglierli come sale nell'acqua bollente, ma si riformavano sempre, più insistenti di prima. E tra questi c'era soprattutto una domanda: dopo aver fatto quello che
aveva fatto, come poteva meritare la benedizione del santo? Dopo circa mezz'ora, capì che cercare di sgombrare la mente non avrebbe mai funzionato, e cambiò tattica. Anziché provare a svuotare la testa, meditare sui ricordi. Se nella memoria fosse riuscito a trovare dei momenti di pace, avrebbe allora potuto raggiungere lo stato di tranquilla accettazione necessario per entrare nel tempio. Così chiuse gli occhi e spalancò la galleria della memoria, guardando le immagini che conteneva, congelate come dipinti. C'era attaccato fratello Geffry, nella sala dell'oratorio del Collegio del Signore, alto e diritto sotto la luce cupa che filtrava dalle finestre strette; fratello Geffry che spiegava i misteri della sacarizzazione in modo così eloquente da farli sembrare un canto. Suo padre, Rothering Darige, inginocchiato sulla scogliera di Cape Chavel, e sullo sfondo il mare macchiato di bianco e il cielo azzurro. Suo padre, che gli impartiva i rudimenti su come comportarsi in un tempio. Stephen aveva otto anni allora e provava soggezione davanti alla conoscenza del padre e al fatto che presto avrebbe visto le stanze dell'altare. Sua sorella Kay, che gli teneva la mano alla festa di san Temnos, quando tutti indossavano maschere di teschi e portavano turiboli di liquidambar fumante. Falò a forma di uomini bruciavano lungo la costa come titani immolati. Musicisti e acrobati sefry, travestiti da scheletri, facevano capriole pazze tra la folla dopo il tramonto. I preti sverrun, tutti vestiti di nero, intonavano canti funebri e trascinavano catene. Kay gli diceva che i Sefry portavano via i bambini, facendoli sparire per sempre. Era l'esperienza più forte della sua vita, perché per la prima volta aveva avvertito la presenza dei santi e dei fantasmi che camminavano tra gli uomini, li aveva sentiti come se fossero stati lì in carne e ossa. Eppure di tutti quei dipinti della memoria, fu il vecchio sacritor Burden, il prete più anziano dell'attish di Stephen, che lo portò più vicino a quello di cui aveva bisogno. Sulla tela, poteva vedere la faccia giallastra del vecchio, il suo sorriso fugace ma un po' triste, le sopracciglia lucertiformi per l'età, come se il tempo lo stesse trasformando in qualcosa di diverso dall'umano. Ma la sua voce era umana, ed era stata dolce quel giorno in cui lo aveva condotto nel piccolo scriftorium, nelle stanze dietro all'altare. Stephen si concentrò, poi si rilassò fino a che il dipinto immobile non cominciò ad animarsi e finché non tornò a vedere con gli occhi di un ragazzo di dodici estati e a sentire la voce del suo passato.
Scrutava la stanza e le scatole e i rotoli di scrifti. Aveva visto suo padre scrivere, e il libro di preghiere che sua madre portava alla cinta, ma aveva dei problemi a capire questi altri. Che cosa mai potevano trattare tutti quegli scritti? «Il dono più grande dei santi è la conoscenza» gli disse sacritor Burden, tirando giù un rotolo di pergamena sbiadita e aprendolo. «La forma più raffinata di venerazione è proprio il raggiungimento di quella conoscenza, che va ravvivata come una piccola fiamma al vento e tenuta in vita per le generazioni future.» «Di che cosa parla quello?» domandò Stephen indicando il rotolo. «Questo? L'ho scelto a caso.» Il prete diede un'occhiata al contenuto. «Ah, vedi? È un elenco di tutti i nomi di san Michael.» Stephen non capì. «San Michael ha forse più di un nome?» Burden annuì. «Sarebbe meglio dire che san Michael è uno dei tanti nomi di un potere che in realtà non ha nome: la vera essenza del santo, quella che noi chiamiamo sahto.» «Non capisco.» «Quanti santi esistono, Stephen?» «Non lo so. Centinaia.» «Se contiamo i nomi» rifletté il sacritor «dovremmo dire migliaia. San Michael, per esempio, è anche conosciuto come san Tyw, Nod, Mamres, Tirving, e sono solamente quattro su quaranta. Allo stesso modo, san Tuono è detto anche Diuvo, Fargun, Tarn e così via.» «Ah!» rispose Stephen. «Volete dire che sono detti così in altre lingue, come il lierish e il crotanico.» Sorrise e guardò il prete. «Ho imparato un po' di lierish da un capitano di mare. Volete sentire?» Il prete fece un largo sorriso. «Sei un ragazzo intelligente, Stephen. Ho notato la tua rapidità con le lingue; ti raccomanda al sacerdozio.» «È quello che dice papà.» «Non sembri molto entusiasta.» Stephen abbassò lo sguardo e cercò di non agitarsi. A suo padre non piaceva quando si agitava. «Io... io non credo di voler diventare un prete» ammise, «preferirei fare il capitano di una nave che veleggia ovunque e vedere così tutto il mondo; o forse potrei fare il cartografo.» «Be', di questo parleremo più avanti. Poco fa hai fatto un'acuta osservazione; alcuni nomi di santi sono solo il modo in cui altre popolazioni li
chiamano nella propria lingua. Ma è più complesso di così. La vera essenza di un santo, il sahto, non ha nome, né forma. Sono solo gli aspetti mutevoli del sahto quelli che sperimentiamo e nominiamo, e ogni sahto possiede molti aspetti. A ognuno di questi noi attribuiamo il nome di un santo, nella lingua del re. A Hansa li chiamano ansi o dèi, a Vitellio signori; gli Herilanzer li chiamano angilu. Questo non ha importanza; la chiesa consente al costume locale di chiamare questi aspetti nel modo che preferiscono.» «Quindi San Michael e San Nod sono lo stesso santo?» «No, sono aspetti dello stesso sahto, ma sono santi diversi.» Ridacchiò vedendo l'espressione confusa di Stephen. «Vieni qua.» Sacritor Burden lo condusse a un tavolino traballante e prese da un cofanetto di legno lì sopra uno strano pezzo di cristallo, tagliato in modo da avere tre facce lunghe della stessa larghezza e due basi triangolari. Poggiava stabilmente sul palmo del sacritor. «Questo è un prisma, un semplice pezzo di vetro, no? Eppure guarda cosa succede alla luce.» Lo spostò sotto un raggio di sole che proveniva da una finestrella senza vetri e risplendeva sul tavolo. All'inizio non notò niente di insolito, ma poi comprese. Non era il cristallo che era cambiato, ma il tavolo, su cui si dispiegava un piccolo arcobaleno. «Cos'è che lo forma?» domandò Stephen. «La luce contiene tutti questi colori» spiegò il prete. «Passando attraverso il cristallo si dividono e così riusciamo a vederli singolarmente. Un sahto è come una luce e i santi come tutti questi colori. Distinti ma tutti parte della stessa cosa. Capisci?» «Non ne sono sicuro» rispose Stephen. Ma poi credette di comprendere e si sentì afferrare da un'improvvisa vertiginosa sensazione. «Di solito» proseguì sacritor Burden «non riusciamo a sperimentare la verità di un sahto. Conosciamo solo i suoi aspetti, i vari nomi, e la natura di ogni sua forma. Ma se facciamo attenzione a comprendere i colori, e li rimettiamo insieme allora riusciamo a sperimentare, per poco tempo, la luce bianca: il vero sahto. E così facendo, diventiamo noi stessi, in un certo senso, un aspetto minore della forza sacra.» «Come? Leggendo questi libri?» «Possiamo comprenderli qui usando i libri» rispose Burden, picchiettando il suo cranio quasi calvo. «Ma per comprenderli qui,» spostò la mano sul cuore «per assorbire anche il raggio più debole, dobbiamo visitare i
templi.» «Sì, ne ho sentito parlare; è quello che fanno i preti.» «Sì. È così che veniamo santificati, ed è così che li conosciamo.» «Come nascono i templi?» «Esistono dei posti in cui i santi si sono riposati o hanno vissuto, o in cui sono state sepolte parti dei loro corpi. Questi luoghi li chiamiamo sedoi, sedos al singolare. Sono piccole colline, in genere. La chiesa è benedetta dalla conoscenza necessaria per trovare questi sedoi e identificare il santo, il cui potere continua a vivere in quel posto. Allora ci costruiamo i templi, per identificarli, così i visitatori sanno chi pregare e a chi fare offerte.» «Quindi se vado in un tempio, riceverò la benedizione?» «In piccola parte e se il santo vuole. Ma percorrere una via dei templi è qualcosa di diverso. Per farlo, bisogna visitare molti templi, in ognuno dei quali è stato lasciato un diverso aspetto dello stesso salito. Devono essere visitati con un ordine prestabilito, facendo delle abluzioni specifiche lungo il cammino.» «E i santi... ehm il sahto... conferisce i suoi poteri?» «Ci concedono dei doni, sì, da usare al loro servizio, se ne siamo degni.» «Anch'io potrei percorrere la via dei templi e imparare da questi libri?» «Se lo desideri» rispose dolcemente sacritor Burden. «Ne hai le capacità. Se studi e ti voti alla chiesa, credo che porresti riuscirci, e fare del bene al mondo.» «Non lo so.» «Come ti ho già detto, tuo padre è d'accordo.» «Lo so.» Eppure per la prima volta, non sembrò una cosa tanto brutta. Il mistero delle parole che lo circondavano stimolò la sua immaginazione. Il prisma e i suoi riflessi colorati lo affascinarono. Con poche parole, sacritor Burden aveva dispiegato a Stephen un mondo sconosciuto, strano e lontano come il chiacchierato Hadam, eppure così vicino come un raggio di luce. Burden dovette notare qualcosa sul suo viso. «Non è il percorso più semplice» mormorò. «Pochi li visitano di propria iniziativa. Ma può essere un viaggio ricco di felicità.» E in quell'istante, Stephen credette al vecchio. Fu un vero sollievo. Fino ad allora non aveva saputo se sarebbe mai riuscito ad affrontare suo padre o se addirittura ne avrebbe mai avuto voglia. E ora la meraviglia l'aveva catturato; si ricordò di come sacritor Burden sapesse catturare la luce dall'aria, la musica dalle pietre, i pesci dai fondali quando la pesca era scarsa.
Piccoli miracoli, di quelli quotidiani e a cui nessuno pensa. Ma devono esserci miracoli più grandi in un mondo così vasto e complesso. Quante vie dei templi esistevano? Erano state scoperte tutte? Forse fare il prete non sarebbe stato poi tanto male. Chinò il capo. «Reverendo, vorrei provare. Mi piacerebbe imparare.» Il sacritor annuì solennemente. «È una gioia per un vecchio uomo sentir dire questo. Una gioia. Vuoi iniziare subito?» «Subito?» «Sì, cominceremo con il primo dono di san Decamnus: l'alfabeto.» Stephen abbandonò i ricordi sentendo una ghiandaia che rincorreva un altro uccello tra le alte volte della navata, protestando vivacemente. Riuscì a fare un sorriso preoccupato. Sacritor Burden era stato un uomo di fede e sani principi, un brav'uomo. Lo stesso fratrex Pell sembrava un brav'uomo, anche se un po' severo a volte. Il fratrex sapeva esattamente quello che Stephen aveva fatto, eppure lo riteneva ancora degno di percorrere la via dei templi. Se c'era una lezione che aveva imparato negli ultimi mesi, era che prendersi troppo seriamente portava solo guai. In fondo cos'era? Solo un novizio. No, si era fidato di sacritor Burden e si sarebbe fidato anche di fratrex Pell. Sembrava un buon ragionamento, ma chissà se sacritor Burden avrebbe mai immaginato che, tra i colori brillanti dell'arcobaleno, si nascondeva una striscia di fitta oscurità. Un pensiero che metteva paura. Fratrex Pell lo sapeva; e comunque l'ineffabile sostanza che alcuni chiamavano san Decamnus lo avrebbe giudicato degno o meno. Si tirò su con la maniglia, cercò un'altra volta di mettere ordine tra i suoi pensieri e aprì il portale di legno. Indugiò un brevissimo istante sulla soglia, con la mano sulla pietra logorata dal tempo, poi, mormorando una preghiera, entrò e richiuse la porta alle sue spalle. L'oscurità l'inghiottì. Una volta dentro, tirò fuori la scatola con l'acciarino e una candela bianca. L'accese e guardò la fiamma salire la sua scala di fumo. Il tempio era così piccolo che Stephen riusciva quasi a toccare entrambe le pareti distendendo le braccia. Era essenziale; l'arredamento era costituito solo da una panca di pietra per inginocchiarsi e dall'altare. Dietro all'altare, sulla parete, c'era un piccolo bassorilievo di san Decamnus, una figura rovinata dal tempo, curva su un rotolo di pergamena con una lanterna in una mano e una penna nell'altra. «Decamnus ezum aittis sahto faamo tangineis. Vos Dadom» disse
Stephen. «Decamnus, aspetto del sahto dell'autorevole conoscenza. Io mi affido a te.» «Tu impersoni il potere della parola scritta» proseguì nella lingua della liturgia. «Tu ci hai dato l'inchiostro, la carta e le lettere che scriviamo con essi. Tuo il mistero e il potere e tua la rivelazione della conoscenza scritta. Tu ci muovi dal passato al futuro con le memorie dei nostri padri. Tu mantieni la nostra fede ardente. Io mi affido a te.» Alla luce incostante, sembrò che la statua gli sorridesse, un sorriso gentile, ma ironico. «Io mi affido» ripeté, ma stavolta molto debolmente. Quando la candela si fu consumata per metà ed ebbe completato la sua veglia, non era cambiato nulla; non si sentiva diverso. Con un sospiro spense la fiamma premendo lo stoppino tra il pollice e l'indice della mano destra. La fiamma si estinse friggendo e un secondo dopo capì che qualcosa non andava, ma sapeva cosa. Poi realizzò di non avere sentito la fiamma né lo stoppino. Si strofinò le dita e di nuovo non avvertì nulla. Dalla punta delle dita al polso, la sua mano era quella di un fantasma. Diede dei pizzichi fino a farla diventare rossa, ma era come pizzicare un arrosto. Lo stupore si trasformò rapidamente in orrore e poi in panico. Fuggì subito dal tempio e rientrò nella cappella vuota, dove si inginocchiò ed emise singhiozzi secchi e gracchianti, usciti da uno stomaco vuoto che cercava di svuotarsi ancora di più. Quella cosa morta, la sua mano, lo disgustava, e a un tratto si ritrovò a rovistare nel sacco come un ossesso, alla ricerca della piccola ascia per tagliare la legna. Quando riuscì a trovarla, ebbe il tempo di chiedersi per quale motivo la stesse cercando. Stava lì seduto, con lo sguardo furioso, muovendo gli occhi dall'ascia alla mano insensibile. Si sentì come un castoro con la zampa intrappolata, pronto a staccarsela a morsi. «Oh santi, che cosa ho fatto?» gemette. Ma lo sapeva bene; si era messo nelle loro mani, e loro l'avevano trovato bisognoso. Tremando, mise via l'ascia. Non poteva tagliarla, adesso che l'attimo di pazzia stava passando. Allora, ancora tremante e scosso da conati di vomito, si distese sul pavimento di pietra a fissare la luce che entrava dal vetro colorato, e pianse fino a che tornò sano di nuovo. Poi si alzò traballante, recuperò la candela e disse un'altra preghiera a san Decamnus. Quindi, senza guardarsi indietro, passò sotto un'altra porta,
più piccola, che conduceva all'esterno dove iniziava il percorso. Lo fissò cupamente. Da questo punto proseguiva in un'unica direzione. Poteva fermarsi, ammettere di aver fallito e farla finita con tutto questo. Suo padre l'avrebbe disprezzato, ma non sarebbe stata una novità. Se si ritirava adesso, avrebbe fuggito tutto: fratello Desmond, gli orribili testi, le richieste di fratrex Pell, le maledizioni dei santi. Sarebbe stato libero. Ma dopo il panico arrivò una ferma risoluzione. Avrebbe continuato fino in fondo. Se i santi lo odiavano, la sua vita era comunque finita. Forse dopo averlo punito abbastanza, gli avrebbero offerto l'assoluzione. Altrimenti, be', l'avrebbe scoperto, ma non sarebbe tornato indietro. Il sentiero andava in una sola direzione. Qualche tocco dopo mezzogiorno raggiunse il tempio di San Ciesel, sotto un cielo già oscurato dalle nuvole, in un boschetto di frassini. Era l'atmosfera appropriata, perché la storia di san Ciesel era piuttosto cupa. Da vivo, era stato fratrex di un monastero nelle allora pagane Isole Lierish. Un re barbaro bruciò il monastero di Ciesel e tutti i suoi manoscritti, molti di un valore inestimabile, e poi gettò Ciesel in una prigione sotterranea. Lì, nell'oscurità, il santo aveva riscritto a memoria tutti i manoscritti distrutti, incidendoli sulla sua carne con le unghie affilate contro la pietra della sua cella, utilizzando la sporcizia grassa del pavimento per scurire i graffi. Quando morì, coloro che l'avevano catturato gettarono il suo corpo in mare, ma san Lier, signore del mare, consegnò il corpo alla riva di Hornladh, vicino a un monastero dello stesso ordine di Ciesel, e i monaci lo trovarono. La pelle di Ciesel era stata conservata e copiata attraverso le epoche. Si diceva che la pelle originale fosse tenuta nel sale nel Caillo Vallaimo, il tempio su cui poggia la chiesa di z'Irbina. Stephen bruciò la sua candela e fece le sue abluzioni. Lasciò il tempio senza sentire più la pelle del torace. Due ore dopo, santa Mefitis, patrona e inventrice della scrittura per i morti, lo privò della sensibilità della gamba destra. Si accampò poco più avanti, e mentre accendeva un fuoco per tenere lontane le bestie, fu sorpreso di scoprire del sangue all'altezza delle natiche. Aveva colpito di striscio la sua stessa gamba con l'ascia senza accorgersene. La ferita era piccola, ma avrebbe potuto tagliarsi un piede e non avrebbe sentito niente di diverso. Non riuscì a dormire, eppure fece dei sogni terribili. Il terrore covava al di là della luce del fuoco; aveva invaso il suo corpo. Se fosse riuscito a
completare la via dei templi, sarebbe sicuramente morto. La prima triade di templi rappresentava aspetti della conoscenza legati alla parola scritta; i tre successivi erano più selvaggi, come dimostravano le sculture più rozze e primitive. Santa Rosmerta, la patrona della memoria e della poesia, era raffigurata con una semplicità quasi selvaggia, a mala pena riconoscibile come umana. Questa gli sottrasse l'uso della lingua. Sant'Eugmie gli prese l'udito e da quel momento in poi Stephen barcollò nella foresta in uno spaventoso silenzio. San Woth gli prese la vista all'occhio sinistro. Quando, il terzo giorno, si svegliò in questo stato, gli venne il dubbio di essere già morto. Suo nonno gli raccontava che la morte prepara i vecchi sottraendo i loro sensi uno alla volta. Di quanti anni era invecchiato Stephen, un centinaio? Era storpio, sordo e mezzo cieco. Il giorno seguente andò meglio; i templi erano quelli di Coem, Huyan e Veiza, aspetti della saggezza, meditazione e deduzione. Per quello che poteva dire, non gli sottrassero nulla, e ormai si stava abituando a camminare su una gamba insensibile. E al silenzio. Senza il canto degli uccelli o il crepitio dei rami o il rumore dei suoi passi, la foresta era diventata un sogno talmente irreale che non riusciva più a immaginare pericoli al suo interno. Era come i dipinti della sua memoria, un'immagine o una serie di immagini a cui era collegato solo lontanamente, un qualcosa che sembrava aver poco a che fare con il qui e l'ora. Ma quando cominciò ad accendere il fuoco quella notte, non sapeva più come fare. Rovistò fra le sue cose, sapendo di avere gli strumenti necessari, ma non riuscì a riconoscerli. Cercò di raffigurarsi il processo, ma fallì anche in questo. Con enorme sgomento realizzò che non riusciva neanche a ricordarsi la parola fuoco, e quando ci provò, neanche il nome di sua madre o di suo padre. E neanche il suo. Ma ricordava perfettamente la paura, anche se non la parola, e trascorse la notte in ginocchio, pregando che arrivasse il sole e tutto finisse. L'alba sbirciò tra i rami e lui non sapeva più chi fosse. L'unica risposta che riuscì a darsi fu: Io sto percorrendo questo sentiero. Si fermò nei vari edifici che incontrò, ma non ricordava più il motivo, e comunque non gli importava. Quando raggiunse l'ultimo - in qualche modo sapeva che era
l'ultimo e che aveva quasi finito - era ormai una nuvola con un solo occhio, che si muoveva in un miscuglio di colori e forme sconosciute; molte erano simili, ma allo stesso tempo diverse. Era meno del vento ormai e l'unica sensazione che gli rimaneva era un battito ritmico che lo Stephen di alcuni giorni prima avrebbe riconosciuto come il suo cuore. Quando entrò nell'ultimo tempio, anche quel battito cessò. Capitolo cinque Duello nell'oscurità Un occhio di fuoco si spalancò nell'oscurità, proprio alla sua destra, e Catio si trovò illuminato da un fascio di luce. Un'altra lanterna venne scoperta vicino alla sua mano destra; erano entrambe lampade bronzee, che proiettavano la luce in un'unica direzione attraverso uno specchietto di bronzo lucido racchiuso in un paralume di stagno. Ora i nemici di Catio potevano vederlo bene, ma lui riusciva a distinguere solo vaghe ombre e il luccichio occasionale dell'acciaio. Si voltò lentamente, rilassando le spalle e le cosce, tenendo Caspator tra le dita, quasi senza stringerla. Sperava con tutto se stesso che i suoi nemici avessero solo spade. Gli archi erano proibiti a tutti all'interno delle mura della città, tranne che alle guardie, ma, secondo la sua esperienza, gli assassini non si facevano scrupolo di infrangere la legge. Uno degli uomini si fece coraggio, e la lunga punta della spada saettò, in un fendente diretto alla sua mano. Catio rise, riuscendo a schivarlo con facilità. Tirò giù la punta della sua spada a toccare il terreno. «Avanti, combattenti valorosi» disse. «Mi avete superato di numero e quasi accecato per poi cominciare con questo timido colpetto?» «Tieni la bocca chiusa, ragazzo, e forse avrai ancora un cuore che batte quando ce ne andremo» disse qualcuno. La voce suonava vagamente familiare. «Ah!» esclamò Catio. «Parli come un uomo, eppure non mostri i giusti attributi. Che cos'hai fra le gambe, una borsa piena di marmo, così alla luce del giorno nessuno si accorgerà di quanto sei codardo sotto la luna?» «Ti avevo avvisato.» Una lama fendette la luce ruotando per infliggergli un colpo da sopra la testa. Non era uno stocco, ma una spada più pesante, fatta per tagliare via braccia e teste dalle spalle. In quel momento, quando il tipo si piegò per
colpire, Catio vide l'avambraccio in un bagliore. Lo colpì con una contromossa, infilzando il gomito. L'uomo non portò a termine la rotazione. L'uomo non completò la rotazione e, urlando, lasciò cadere rumorosamente l'arma. «Canti come un soprano» disse. «È proprio la voce che immaginavo per te.» Un attimo dopo, si trovò a difendersi contro tre lame, due stocchi leggeri e un'altra mannaia, ma stavolta poté intravedere i suoi nemici; attaccandolo, infatti, erano entrati nei fasci di luce. Parò, schivò, affondò e andò molto vicino a infilzare una faccia sorpresa. Poi, molto rapidamente, si girò e saltò verso una delle lanterne. Un rapido doppio affondo e la sua punta entrò dritta nella fiamma e passò oltre. Colui che la sosteneva, spaventato, la lasciò cadere non appena l'olio sprizzò; questa s'incendiò trasformandosi in una torcia. Catio si girò di nuovo. L'olio incendiato correva lungo la lama della sua spada. Alzando lo stivale, diede un calcio alla massa infiammata che si stava radunando sulla punta e la tirò contro i suoi nemici. Apparvero sotto un'improvvisa esplosione di luce e con un grido Catio gli si lanciò contro. Sferrò un colpo contro il polso di uno, che non riuscì a tenere in mano la spada, poi saltò dietro a un altro con lo stocco ancora in fiamme. Riconobbe la faccia: una delle guardie della famiglia z'Irbono, un tipo di nome Laro e qualche cosa. Laro sembrava stesse guardando il signore Ontro che veniva per portarlo all'inferno, cosa che divertì enormemente Catio. Poi qualcosa lo colpì forte dietro alla testa, e dei gigli bianchi fiorirono davanti ai suoi occhi. Cercò di colpire con la sua arma, ma l'attacco venne ripetuto, stavolta al ginocchio, e vacillò gemendo. Uno stivale lo raggiunse sotto il mento e gli fece mordere la lingua. Poi, all'improvviso, si trovò steso in strada e l'attacco contro di lui era cessato. Provò ad alzarsi su un gomito, ma non riuscì a trovare un briciolo di forza. «Questo non ti riguarda, ubriacone» sentì dire da Laro. «Vattene.» Catio riuscì finalmente a tirar su la testa. La lampada accesa adesso illuminava tutto il vicolo. Z'Acatto stava in piedi al margine della zona illuminata, con una brocca di vino in mano. «Avete fatto quello che volevate» biascicò z'Acatto. «Ora lasciatelo in pace.» «Lo decidiamo noi quando abbiamo finito.»
Dietro a Laro, a tenere l'altra lanterna, c'era daz'Afinio, l'uomo con cui aveva duellato poche ore prima. Quello che si stava curando la mano era Tefio, il lacchè di daz'Afinio. «Quest'uomo mi ha preso alla sprovvista e mi ha derubato» dichiarò daz'Afinio. «Gli ho solo restituito il favore.» «Lo sistemo io, mio signore» disse Laro, sollevando il piede, pronto a calpestare la mano distesa di Catio. «Così, dopo, non potrà fare più i suoi giochetti con la spada.» Ma non lo fece e anzi cadde all'indietro, perché z'Acatto gli frantumò la brocca di vino in testa, spaccandogli il naso. E, in qualche modo, allo stesso tempo sguainò la sua spada. Inciampò in avanti insicuro. Uno degli altri uomini fece l'errore di impegnare la lama di z'Acatto. Catio osservò il vecchio fare un legamento in perto e poi infilzare l'avversario sulla spalla. Catio riuscì a rimettersi in piedi vacillando, proprio mentre daz'Afinio alzava la spada e si lanciava all'attacco, non contro z'Acatto, ma contro di lui. Riuscì a distendere in tempo il braccio e Caspator affondò fino all'elsa nella pancia di daz'Afinio. Il nobile sgranò gli occhi. «Io...» disse Catio con la voce che gli si strozzava in gola. «Io non volevo...» Daz'Afinio cadde all'indietro, Caspator si sfilò e quello si strinse le mani sulla pancia. «Il prossimo che si fa avanti morirà» esclamò z'Acatto. Non sembrava la voce di un ubriaco. Solo uno era illeso, ma indietreggiarono tutti, tranne daz'Afinio, che venne trascinato piegato su se stesso. «Siete due pazzi» disse un altro tipo. Catio lo riconobbe come uno della guardia z'Irbono, un certo Mareo qualche cosa. «Hai una vaga idea di chi hai appena infilzato?» «Un vigliacco e un assassino» rispose z'Acatto. «Se lo porti dal cerusico, sotto l'ago, può darsi anche che sopravviva. È più di quanto merita, di quanto meritate tutti. Adesso andatevene.» «Non finirà qui» minacciò Mareo. «Avresti dovuto accettare la sconfitta, Catio. Adesso sarai impiccato sulla piazza.» «Corri» lo incitò z'Acatto. «Non vedi che sputa sangue adesso? Non è mai un buon segno.» Senza dire altro gli uomini tirarono su daz'Afinio e lo portarono via. «Andiamo» disse z'Acatto. «Lasciati portare a casa per vedere come stai
conciato. Ti hanno ferito?» «No, solo malmenato.» «Hai combattuto contro quell'uomo oggi? Contro daz'Afinio?» «Perché, lo conosci?» «Certo. Che il signore Diuvo ti aiuti se quell'uomo muore.» «Non volevo...» «No, certo che no. Per te è tutto un gioco. Una punzecchiata sul braccio, un taglio sulla coscia e poi raccogli i soldi, no? Vieni con me.» Zoppicando, Catio fece quello che gli aveva ordinato il suo maestro di scherma. «Sei fortunato» disse z'Acatto. «È solo un'ammaccatura, la tua.» Catio trasalì quando il vecchio lo toccò. «Sì, te l'avevo detto.» Si allungò per prendere la camicia. «Come mai mi stavi seguendo?» «A dire il vero non lo stavo facendo. Ero uscito per cercare un po' di vino e ti ho sentito gridare. È stata la tua salvezza.» «Sì, la mia salvezza. Come fai a conoscere daz'Afinio?» «Chiunque abbia un po' di sale in zucca lo conosce. È il cognato di Velo z'Irbono.» «Cosa? Quello zotico ha sposato Setera?» «Quello zotico possiede mille versos di vigneti nel Tero Valliamo, tre proprietà, e suo fratello è l'aidil di Ceresa. Di tutte le persone con cui attaccare briga...» «Era un duello, e ha cominciato lui.» «Dopo una dose sufficiente di insulti, sicuramente.» «Be', di insulti ce ne sono stati abbastanza.» «Comunque sia, ora l'hai insultato con un buco da parte a parte.» «Morirà?» «E te ne preoccupi adesso?» Il maestro cercò qualcosa lì intorno. «Dov'è il mio vino?» «L'hai rotto in faccia a Laro Vintallio.» «Già, maledizione!» «Morirà daz'Afinio?» ripeté Catio. «Può darsi!» rispose secco z'Acatto. «Che razza di domanda è? Quel tipo di ferita non è sempre letale, ma chi può dirlo?» «Non mi possono accusare. Sono venuti loro da me, come ladri nelle tenebre. Sono loro nel torto, non io. La corte starà dalla mia parte.» «Velo z'Irbono è la corte, giovane idiota.»
«Ah, è vero.» «Ora dobbiamo svignarcela.» «Io non scappo come un vigliacco!» «Non puoi usare la dessrata contro il cappio del boia, ragazzo mio, o contro gli archi della guardia cittadina.» «No!» «Solo per un po'. Andremo in un posto dove possiamo ricevere notizie. Se daz'Afinio vive, le acque si calmeranno.» «E se muore?» Z'Acatto scrollò le spalle. «Fai come nella scherma, occupati dell'attacco solo quando arriva.» Catio agitò un dito davanti al vecchio. «Sei stato tu a insegnarmi a guardare avanti, e a capire quali saranno le prossime cinque mosse dell'avversario.» «Sì, certo. Ma se tu fai affidamento sulla tua previsione, potresti anche morire se hai mal calcolato le intenzioni del nemico. A volte l'avversario non è intelligente o abile abbastanza da avere intenzioni, e allora che fai? Avevo un amico nella scuola del maestro Acameno; studiava da quattordici anni, da quando era bambino. Neanche il maestro riusciva a batterlo in un incontro. Fu ucciso da uno sporco dilettante. Perché? Perché il dilettante non sapeva quello che faceva. Non reagiva come il mio amico si aspettava, così il mio compagno morì.» Catio sospirò. «Non posso lasciare la mia casa. E se la prendono come pegno per il mio ritorno?» «Lo faranno. Ma possiamo fare in modo che sia acquistata da qualcuno di nostra fiducia.» «E chi sarebbe?» mormorò Catio. «Mi fido solo di te, e neanche troppo.» «Pensa, ragazzo! Orchaevia. La contessa Orchaevia amava la tua famiglia e te in particolare. Ci ospiterà e nessuno penserà di venire a cercarci là, così lontano nella campagna. E la contessa può fare in modo che la tua casa cada nelle mani giuste.» «La contessa...» rifletté. «Non la vedo da quando ero bambino. Pensi davvero che ci ospiterà?» «Deve molti favori a tuo padre, e non è il tipo che trascura i suoi obblighi.» «Però...» brontolò Catio. Proprio in quel momento un pugno si abbatté contro la porta.
«Catio Pachiomadio da Chiovattio!» gridò una voce, che arrivò debolmente attraverso il portone. «Non puoi duellare contro una corda» gli ricordò il vecchio per la seconda volta. «È vero. Se devo morire, lo farò con la spada» giurò Catio. «Non qui. Ne ferirai qualcuno, e poi ti butteranno giù di peso, proprio come hanno fatto nel vicolo.» Z'Acatto scrollò le spalle. «Ti ricorderai di queste parole quando sentirai il cappio che si stringe.» «Molto bene!» rispose deciso. «Non mi piace, ma hai ragione. Raccogliamo le nostre cose e andiamocene passando per la cisterna.» «Sai del tunnel che passa per la cisterna?» «Sì, da quando avevo otto anni. Come pensi che riuscissi a uscire tutte le notti, anche quando mi sigillavi la finestra?» «Maledizione, avrei dovuto pensarci. Bene, allora andiamo.» Capitolo sei La dimora delle Grazie Una donna compassata in saio ocra con soggolo e guanti neri salutò Anne e Austra quando scesero dalla carrozza. I suoi occhi grigi esaminarono le due ragazze in modo piuttosto clinico da sopra un naso appuntito e all'insù. Doveva avere circa trent'anni, con una bocca larga e sottile ben abituata a mostrare disapprovazione. Anne tirò il petto in fuori, mentre dietro di lei i cavalieri iniziarono a scaricare le sue cose dal tetto della carrozza. «Sono la principessa Anne, della casa dei Dare, figlia dell'imperatore di Crotheny» disse alla donna per informarla. «Questa è la mia dama di compagnia Austra Laesdauter. Con chi ho l'onore di parlare?» Le labbra della suora si contrassero in modo istintivo. «Sono chiamata sorella Casita» disse con un pesante accento virgenyano. «Benvenute nella dimora delle Grazie.» Sorella Casita non s'inchinò e neanche piegò il capo pronunciando queste parole, e Anne pensò che forse era dura d'orecchio. Vitellio non poteva essere un posto così diverso che non vi si riconosceva la figlia di un re. ma dove era capitata? Ho preso una decisione, pensò, combattendo contro il sapore amaro che improvvisamente avvertì in bocca. Farò buon viso a cattivo gioco.
La dimora delle Grazie non era un luogo spiacevole all'apparenza. Anzi, era piuttosto esotico, ergendosi su un paesaggio sobrio e rustico, come se vi fosse cresciuto spontaneamente. Le pietre di cui era fatto avevano lo stesso colore di quelle esposte in filoni lungo la strada: un rosso giallastro. Il coven si ergeva sulla cima di una collina, circondato da mura merlate più lunghe che larghe, e racchiudeva un'area grande come un piccolo villaggio. Torri a base quadrata con tetti a punta di tegole color ruggine s'innalzavano tutto intorno alle mura a distanza irregolare e ad altezze diverse, mentre attraverso l'arco d'entrata Anne poteva distinguere le case parrocchiali larghe ma stranamente basse su un cortile lastricato in pietra. L'unica costruzione che spiccava all'interno delle mura era rappresentata da una volta a nervatura singola, forse la navata della cappella. Viti e primule strisciavano su per i muri e le torri mentre alberi d'ulivo si contorcevano tra le crepe dei ciottoli, conferendo al posto un'aria allo stesso tempo disordinata e immacolata. L'unica nota stonata era una specie di accampamento di persone con carri e muli fuori dalle porte. Fasciate dalla testa ai piedi con più stoffe cucite insieme e veli trasparenti, stavano sedute o accoccolate sotto tende temporanee di cotone leggero. «Sefry» mormorò Austra. «Cosa?» chiese sorella Casita seccamente. «Con il vostro permesso, sorella. Stavo giusto notando l'accampamento sefry» e abbozzò un inchino. «Fate attenzione» disse la suora. «Se dite qualcosa a voce bassa, verrà interpretata come una cattiveria.» «Grazie, sorella» rispose Austra a voce più alta stavolta. Irritata, Anne si schiarì la gola. «Dove posso far portare le nostre cose ai miei uomini?» domandò. «Ovviamente non è consentito a nessun uomo di entrare nella dimora delle Grazie» replicò sorella Casita. «Dovrete trasportare voi stesse quello che desiderate.» «Cosa?» «Scegliete quello che volete e potrete trasportarlo con un solo viaggio. Il resto rimarrà fuori dei cancelli.» «Ma i Sefry...» «Se lo prenderanno, sì, certo. Ecco perché sono qui.» «Ma è una follia» commentò Anne. «Queste sono cose mie.» La suora scrollò le spalle. «Allora trasportatele.»
«Tra tutte...» «Anne Dare, siete molto lontane da Crotheny.» Anne notò la mancanza di ogni titolo onorifico in quelle parole. «Crotheny viaggia insieme a me» rispose, indicando con la testa il capitano Marl e il resto della sua guardia. «Non interferiranno» l'assicurò sorella Casita. Anne si voltò verso il capitano. «Avete intenzione di lasciare che mi trattino in questo modo?» «Gli ordini ricevuti mi impediscono di interferire con la volontà delle sorelle» rispose il capitano Marl. «Il mio compito era di portarvi qui, sana e salva, e di rimettervi nelle mani del coven di Santa Cer, noto anche come la dimora delle Grazie. Cosa che ho fatto.» Anne spostò lo sguardo dal capitano alla suora, poi guardò di nuovo le sue cose. C'erano due bauli, entrambi troppo grandi e scomodi perché potesse portarli sulle spalle. «Molto bene» disse alla fine. «I vostri ordini vi impediscono anche di darmi un cavallo, capitano Marl?» «Sì, principessa.» «E una corda?» Esitò. «Non vedo il motivo per cui non dovrei darvi una corda» disse alla fine. «Datemene una allora.» Anne grugnì, strattonando con la schiena e le gambe, e i bauli avanzarono lentamente e con riluttanza di un altro palmo, più o meno. Cambiò passo. «Vi posso assicurare» disse sorella Casita «che qualunque cosa abbiate lì dentro non vale lo sforzo. C'è bisogno di molto poco tra queste mura: saio, nutrimento, acqua e strumenti. E tutto questo vi sarà fornito. Se proprio siete vanitosa, recuperate il vostro pettine. Non vi sarà consentito portare gioielli o vestiti eleganti.» «È roba mia» ripeté Anne digrignando i denti. «Lasciate che l'aiuti» chiese Austra per la sesta volta. ' «Non sono le vostre cose, mia cara» rispose la suora. «Potete trasportare solo la roba vostra.» Anne alzò lo sguardo infuriata. Dopo un'ora di trascinamento, non aveva ancora raggiunto la porta. Intanto si era radunato un pubblico di una ventina di ragazze più o meno della sua età. Indossavano semplici tonache mar-
roni e soggoli dello stesso colore. Molte ridevano e la prendevano in giro, ma lei le ignorò. Diede un altro strattone, sentendo che la corda che aveva legato al torace le stava tagliando il bustino. Il piede cercò di far presa sulle prime pietre del lastricato, ma non ci riuscì. Anche i Sefry sembravano divertirsi a quello spettacolo, come tutti gli altri. Uno aveva tirato fuori un tamburo e un altro una piccola crotta a cinque corde che stava suonando con un archetto. «Lascia stare principessa Mulo!» gridò una delle ragazze. «Non ce la farai mai a portarli dentro, non importa se sei testarda come un asino! E perché mai vorresti farlo?» La battuta di quella ragazza sollevò un bel coro di risate. Anne la individuò, con quel suo lungo collo sottile e gli occhi scuri. I capelli erano nascosti dal soggolo. Comunque non le rispose, ma con espressione severa tirò ancora un po'. Dovette tornare indietro e mettere sul lastricato un baule alla volta, così diventò un po' più agevole. Ma sfortunatamente le sue energie si stavano esaurendo. Dapprima non si accorse dell'improvviso silenzio piombato sulle altre ragazze, e quando se ne rese conto pensò che fosse perché aveva inciampato. Poi sollevò lo sguardo e vide che cosa, in realtà, le aveva ammutolite. Prima notò gli occhi, crudeli, penetranti e luminosi, come quelli di santa Fendve, la patrona della follia guerriera, nel dipinto dentro la cappella della battaglia di suo padre. Erano talmente impressionanti, che le ci volle qualche istante per decifrarne il colore, ammesso che di colore si potesse trattare, visto che erano di un nero insondabile. Il viso era severo, vecchio e molto, molto scuro, il colore del legno di ciliegio. Indossava un abito nero, con soggolo grigio tempesta, e nel momento in cui Anne incrociò il suo sguardo, ebbe paura di lei, del male che poteva nascondersi dietro a quegli occhi e ai lineamenti duri del viso. «Chi sei,» le domandò la vecchia donna «e che cosa credi di fare?» Anne irrigidì la mascella. Chiunque fosse, era solo una donna. Non poteva essere peggio di sua madre o Erren. «Sono Anne della famiglia Dare, principessa di Crotheny. Mi è stato detto che posso tenere solo le cose che riesco a trasportare in camera ed è quello che sto facendo. Posso chiedere il vostro nome, sorella?» Una collettiva esclamazione di stupore si levò tra le ragazze lì assemblate e perfino Casita inarcò un sopracciglio.
La suora anziana batté le palpebre, ma non cambiò espressione. «Il mio nome non viene pronunciato, così come il nome di tutte le altre sorelle, ma potete chiamarmi sorella Secula. Sono la mestra di questo coven.» «Molto bene» replicò Anne, cercando di mantenersi coraggiosa. «Dove posso mettere le mie cose?» Sorella Secula la guardò freddamente per un altro istante, poi sollevò il dito. All'inizio Anne pensò che stesse indicando il cielo. «La stanza in cima a sinistra» disse tranquillamente. Fu allora che Anne realizzò che stava indicando la torre più alta delle mura. Mezzanotte trovò Anne sfinita ai piedi della stretta scala a chiocciola che conduceva in cima alla torre. Sorella Casita era stata sostituita da un'altra osservatrice, un membro più anziano dell'ordine, che si faceva chiamare Salaus. Austra era ancora lì, ovviamente, il cortile invece si era svuotato. «Perché insisti così, Anne?» bisbigliò Austra. «Se fossi riuscita a scappare, li avresti lasciati indietro. Perché te ne preoccupi così tanto adesso?» Anne guardò l'amica con espressione furiosa. «Perché in quel caso sarebbe stata una mia scelta, Austra. Tutte le altre scelte vengono fatte per me. Tenere le mie cose è l'unica scelta che posso ancora fare da sola.» «Sono stata fino in cima alle scale, non puoi farcela e non ti permetteranno di trasportarne uno alla volta. Lascia indietro uno dei due bauli.» «No.» «Anne...» «E se te ne regalo uno?» domandò ad Austra. «Non mi è consentito aiutarti.» «No, voglio dire, ti regalo uno dei bauli con tutto quello che contiene.» «Ah, ho capito, e poi te lo restituisco più in là.» «No, sarà tuo per sempre, Austra.» Austra si portò una mano alla bocca. «Non ho mai posseduto niente, Anne. Non credo che mi sia consentito.» «Non essere assurda» esclamò Anne, alzando la voce. «Sorella Salaus. Voglio donare uno dei bauli alla mia amica Austra. È consentito?» «Se è un dono vero.» «Lo è» rispose Anne. Batté su quello più piccolo. «Prendi questo. Contiene due abiti eleganti, calze, specchio e pettini...» «Il completo con lo specchio di opale?» domandò Austra stupita. «Sì, quello.»
«Non puoi darmi quello.» «L'ho già fatto. Adesso. Scegli se portare le tue cose nelle nostre stanze o se lasciarle ai Sefry. Io ho fatto già la mia scelta. Ora fai la tua.» Varcarono la soglia della loro stanza un'ora circa prima dell'alba, trascinando i bauli. Sorella Salaus donò loro una candela accesa e un paio di sai scuri. «La colazione è alle sette» disse. «Non dovreste perderla.» Fece una pausa e il suo cipiglio aumentò. «Non ho mai visto una cosa simile. Non so se questo inizio è di buono o cattivo augurio qui, ma certamente vi distingue.» Detto questo, se ne andò. Anne e Austra si guardarono per qualche istante e poi scoppiarono in un attacco di risa. «Certamente vi distingue» disse Austra, imitando lo stretto accento vitelliano della suora. «Ecco una cosa ben detta!» replicò Anne. Diede uno sguardo alla stanza. «San Loy, è davvero questo il posto in cui dobbiamo alloggiare?» La stanza era un quarto della torre, con un lato di circa cinque passi. Il soffitto era fatto di semplici travi, e al di sopra di esse la profonda oscurità del tetto conico. Le ragazze potevano sentire i colombi tubare mentre le piume e gli escrementi decoravano il pavimento e i due letti di legno che costituivano gli unici mobili. C'era una finestrella. «È poco meglio di una prigione sotterranea» disse Austra. «Be',» sospirò Anne, «credo che sia una buona cosa il fatto che sono una principessa e non una grefia.» «Non è poi tanto male» disse Austra poco convinta. «A ogni modo adesso sei una principessa chiusa dentro una torre, proprio come la storia di Rafquin.» «Sì, inizierò subito a tessere una scala di seta di ragno, così quando Roderick arriverà...» La faccia di Austra divenne seria. «Anne!» «Sto scherzando, colombella» disse Anne. Tuttavia si avvicinò alla finestra e guardò fuori. «Guarda! È l'alba.» Il pallido orizzonte divenne una striscia dorata e il sole sbirciò in alto per scoprire leghe di pascoli dolcemente ondulati, disseminati di ulivi nodosi e cedri sottili. Un fiume serpeggiava gentilmente vestendosi del verde acceso di salici e cipressi e, al di là di quello, il paesaggio sbiadiva nel giallo
per confondersi infine con il cielo. «Questo posto andrà bene» commentò Anne con dolcezza. «Se riesco a vedere l'orizzonte, potrò sopportare tutto.» «Proviamoci questo, adesso» disse Austra, porgendole il saio. «Bene, ecco la principessa Mulo» disse la ragazza dal collo lungo, non appena loro due entrarono nel refettorio. Anne arrossì quando le ragazze accanto si misero a ridere e cominciarono a chiacchierare in vitelliano. «Pare che mi sia guadagnata un soprannome» notò. Il refettorio era un posto arioso, il soffitto piatto era supportato da archi sottili e aperti su tutti i lati. I tavoli erano lunghi, semplici e rustici ed erano rimasti pochi posti vuoti. Anne si sedette all'estremità di una panca meno affollata delle altre, davanti a una giovane tarchiata con la mascella larga e gli occhi vicini. Vide che alle altre erano già state servite ciotole di porridge condito con una specie di ricotta o formaggio fresco. Le ragazze al tavolo la guardavano con la coda dell'occhio, ma non parlavano; dopo qualche attimo di disagio la ragazza tarchiata, senza alzare lo sguardo dal suo pasto, disse, con accento virgenyano: «Devi servirti da sola, sai? Dal pentolone sul fuoco.» Indicò, e Anne vide una grossa pignatta controllata da due ragazze vestite di scuro. «Vado a prendere la nostra porzione» disse Austra subito. «Non è permesso» rispose la ragazza. «Possibile che non sappia proprio niente?» si chiese ad alta voce un'altra. «Neanche tu lo sapevi quando sei arrivata, Tursas» fece notare la ragazza tarchiata. Poi, rivolta ad Anne, disse: «Farai meglio a sbrigarti, perché tra poco porteranno il cibo avanzato alle capre.» «Che razza di posto è mai questo?» sussurrò Anne. «Mio padre...» «E dimentica la tua estrazione qui» commentò la ragazza. «Dimenticala e presto, o mestra Secula ti farà pentire della tua testardaggine. Hai già fatto abbastanza sciocchezze. Segui il mio consiglio.» «Rehta dovrebbe saperlo» disse l'altra ragazza. «Sorella Mestra l'ha messa...» «Taci, Tursas» replicò aspramente Rehta. Anne pensò di ignorare il consiglio, ma la sua pancia ebbe l'ultima parola. Con le guance in fiamme, sentendo gli occhi di tutte le ragazze puntati su di lei, andò a prendersi il porridge, versandolo con un mestolo in una
ciotola di pietra e procurandosi un cucchiaio per mangiarlo. Austra si unì a lei. Nonostante la consistenza, la poltiglia era sorprendentemente buona. Anne ci bevve sopra dell'acqua fresca e avrebbe voluto del pane. A metà pasto, tornò a guardare Rehta. «Grazie per il consiglio» disse. «E adesso cosa succede?» domandò Austra. «Che fate tutto il giorno?» «Parlerete con la mestra» rispose Tursas. «Vi darà i vostri nomi e vi assegnerà compiti e studi.» «Sembra fantastico» commentò Anne ironica. Le altre ragazze non risposero. Incontrarono la mestra in una stanzetta scura, senza finestre e illuminata solo da una lampada a olio. La vecchia suora guardò a lungo le ragazze da dietro un piccolo scrittoio, prima di parlare. Poi fissò il registro davanti a lei. «Austra Laesdauter. D'ora in avanti sarete conosciuta come sorella Persondra. Voi, Anne Dare, sarete invece sorella Ivexa.» «Ma vuol dire...» «Nella lingua della chiesa significa femmina di vitello e denota il comportamento che desidero da voi: obbediente e passivo.» «Stupido, insomma.» La mestra concentrò di nuovo il suo sguardo terrificante su Anne. «Non pensate di creare problemi qui» disse con molta calma. «Un'educazione presso la Dimora delle Grazie è un privilegio raro e un'opportunità preziosa. Lady Erren vi ha raccomandato e io ho molta stima di lei. Se voi mi deludete, anche lei mi delude, e provare questo sentimento nei suoi confronti mi sconvolge.» «Cerco di fare del mio meglio» replicò Anne rigidamente. «Non mi sembra proprio. Avete iniziato la vostra permanenza qui con una collera indecorosa, mi auguro che non accada più. Può darsi che un giorno tornerete nel mondo. Se mai lo farete, il vostro comportamento dovrà riflettere il tempo passato qui, altrimenti io e tutte le altre sorelle di quest'ordine e la stessa signora delle Tenebre dovremo sopportare la vostra vergogna. Se, dopo un certo periodo, non sarò sicura che ci rappresenterete degnamente, vi prometto che non ve ne andrete affatto.» Anne a quelle parole avvertì un forte prurito in testa e un panico improvviso s'impadronì della sua gola. Tutto a un tratto, solo al pensiero dei tanti mezzi con cui mestra Secula avrebbe potuto mantenere quella pro-
messa, si sentì molto insicura e lontana da casa. Ne aveva già in mente due, e né l'uno né l'altro le sembravano molto promettenti. Capitolo sette Doni Stephen si svegliò al rumore del suo respiro e al dolore bruciante come fuoco che lo attanagliava dai polmoni alle dita dei piedi, con due buchi ardenti al posto degli occhi e i capelli arroventati. Schiuse le palpebre tremanti a una luce terrificante che versò colori da incubo nel suo cranio, lasciandoli lì a radunarsi in forme così terribili e fantastiche da farlo urlare. Giacque in terra gemendo e coprendosi gli occhi finché il dolore non cominciò a calare gradualmente, e si rese conto che non era nemmeno dolore, ma il ritorno dal nulla a una normale sensibilità. Nulla. Era diventato un niente, non era neanche morto. Era stato sempre meno e poi... niente. Adesso era tornato, e man mano che si riabituava a sentire si rendeva conto che quelle forme terribili erano solo gli alberi della foresta e il cielo azzurro sopra di essi. Il bruciore sulla pelle era invece una gentile brezza che faceva ondeggiare le foglie delle felci. «Io sono» disse tremando «Stephen Darige.» Si sedette e si portò le mani alla faccia, sentì la forma delle ossa sotto la pelle, la barba corta sul mento, e iniziò a piangere. Inspirò e venerò il respiro. Molto tempo più tardi si tirò in piedi con l'aiuto di un alberello lì vicino. La corteccia era un godimento a contatto con le sue dita rozze e tossì una risata che suonò strana alle sue orecchie. Era sudicio, coperto di fango e sangue uscito da graffi superficiali. Puzzava come se non si fosse lavato da settimane, ma quell'odore età meraviglioso. Quando la ragione tornò in lui, provo a capire dove si trovasse. Aveva perso i sensi, chissà da quanto tempo, sul dolce pendio di un sedos, spoglio d'alberi, ma coperto di felci floride. Sulla sommità c'era un piccolo tempio, e dalle parole incise sulla facciata riconobbe che era dedicato al santo Dryth, l'incarnazione finale di Decamnus sulla via dei templi. Questo significava che aveva terminato il percorso. I santi non l'avevano distrutto.
Trovò un laghetto alimentato dalle acque limpide di una fonte, si tolse i vestiti puzzolenti e si immerse sotto i rami di un antico salice piangente. Aveva lo stomaco piatto e vuoto come un tamburo, ma si sentiva incredibilmente bene, nonostante la fame. Puh i vestiti, strofinandoli, li stese ad asciugare e oziò sulla riva coperta di muschio, assaporando i suoni intorno a lui, così felice di vivere e sentire da non volersi perdere nulla. Un uccello trillò un complesso groviglio di note e un altro gli rispose con un motivo leggermente differente. Libellule color bronzo e verde metallico danzavano sull'acqua e uccelli radenti sul laghetto increspavano la superficie trasparente di un altro mondo in cui sfrecciavano sanguinerole argentate e i gamberi si muovevano furtivi in cerca di prede. Era tutto affascinante, e per la prima volta dopo tanto tempo, si ricordò perché aveva voluto farsi prete: per conoscere il mondo in tutta la sua gloria e perché i suoi segreti divenissero parte di sé, non per un guadagno, ma per il semplice piacere di arrivare a conoscerli. Il sole raggiunse la sua massima altezza e quando i suoi vestiti furono asciutti a sufficienza, se li rimise e riprese fischiettando il cammino verso il monastero, chiedendosi da quanto tempo fosse via ormai e cercando di capire cosa gli fosse successo. Si mise a parlare ad alta voce, per potersi sentire di nuovo. «Ogni santo mi ha sottratto un senso» disse alla foresta. «Ma alla fine, me li hanno restituiti. Li avranno forse modellati, cambiati come un fabbro prende il materiale grezzo e ne fa qualche cosa di meglio? Niente sembra più lo stesso!» Soprattutto sentiva che niente sarebbe stato più lo stesso in futuro. Riprese a fischiare. Rimase immobile quando si sentì rispondere nello stesso modo e con stupore realizzò che era il canto di un uccello che aveva sentito prima. Ogni nota, ogni sua variazione, gli rimaneva nella testa, limpida e delicata. Rise di nuovo. Lo sapeva fare anche prima o era un dono per aver percorso la via dei templi? I doni erano diversi a seconda della via e della persona che la percorreva, quindi non c'era modo di scoprire che cosa avesse guadagnato. E se il potere di imitare gli uccelli era tutto quello che aveva ricevuto, sarebbe comunque stato abbastanza. Quando calò la notte i canti cambiarono, e mentre sedeva dietro al fuoco, Stephen si divertì a imparare anche questi. Gli sembrava di non poter dimenticare più niente adesso. Senza alcuno sforzo riusciva a ricordarsi anche il minimo dettaglio del laghetto in cui aveva fatto il bagno. Ascolta-
va i motivi notturni come se li avesse sempre capiti. Il sahto di Decamnus era quello della conoscenza, della comprensione in tutte le sue forme. Gli sembrava di essere... migliorato veramente. Il giorno dopo continuò a testare le sue abilità recitando le ballate mentre viaggiava. La Gorgoriade, la Saga degli incatenati, la Storia di Findomere. Non s'inceppò mai su una sola parola o frase, pur avendo sentito l'ultima solo una volta, dieci anni prima, e la recitazione gli prese quasi due ore. Vicino a ogni altare compì dei sacrifici e ringraziò i santi, ma non salì sui sedoi. Chissà cosa comportava percorrere all'indietro la via dei templi... La seconda notte il canto cambiò ancora. Conteneva un tremito, l'eco di una cosa che conosceva, come se la foresta stesse spettegolando su qualcosa di oscuro e terribile che Stephen aveva già incontrato una volta. Più ascoltava, più si persuadeva che aveva a che fare con lui. Quella convinzione crebbe man mano che il sonno lo abbandonava, ma cercò di ignorarla. Lo aspettavano al monastero. Aveva del lavoro da fare, e il fratrex probabilmente non sarebbe stato contento se si fosse messo a perdere tempo. Dopo tutto, aveva percorso la via dei templi per meglio ottemperare ai suoi compiti. Ma al mattino la foresta si svegliò con lo stesso terribile sottofondo e ogni volta che girava lo sguardo verso est si sentiva raggelare e avvertiva una leggera nausea. Si ricordò dei racconti oscuri a Tor Scath, della convinzione del vecchio cavaliere che c'era qualcosa di malvagio lì fuori. Quando penso al Re degli Alberi, l'assali una sensazione di terrore. Al tempio di san Ciesel, quella sensazione cominciò a sbiadire, e man mano che si avvicinava al monastero diventava sempre più debole. Presto ricominciò a fischiare, a cantare altre canzoni e ballate che conosceva, ma anche in questo modo la gioia diminuiva, sostituita da un rimorso profondo. C'era qualcosa di sbagliato lì fuori, qualcosa che aveva bisogno di lui e a cui aveva voltato le spalle. Giunse a un torrente, che ricordava di aver attraversato all'inizio del suo viaggio. Era quasi arrivato e sarebbe entrato nel monastero al tramonto. La mattina seguente avrebbe provato i suoi nuovi doni sulle cose che amava di più, gli antichi manoscritti e tomi della chiesa. Questo di sicuro san Decamnus voleva da lui, e non andare a caccia di un brutto sogno nel mondo selvaggio. Fissò il torrente per un po', tremando, ma alla fine virò il suo nuovo cuore verso est. Deviò dal sentiero, verso la foresta selvaggia.
La fame si faceva sentire adesso. Doveva aver smarrito il cibo che si era procurato all'inizio del viaggio; forse non mangiava da tre o quattro giorni. La foresta forniva poco; niente di commestibile cresceva sotto quei grandi alberi e lui non sapeva cacciare né con l'arco, né con le trappole. Riuscì ad arpionare qualche pesce con un bastone che aveva appuntito con il suo coltellino, e scoprì che gli spazi aperti, bruciati da fulmini in passato, erano vere e proprie oasi; in questi luoghi trovò un sottobosco di mele dure e cachi, piccole ciliege e uva. Con i frutti riuscì a sostentarsi, ma la fame continuò a crescere. Per il resto del giorno viaggiò verso est e si accampò in un posto elevato, in cui la roccia aveva sfondato il terreno e si era rivestita di licheni. Accese un piccolo fuoco e ascoltò la notte agitarsi poco a poco. Perché qualunque cosa fosse a turbare la notte, era vicina. Il suo udito era più acuto di quanto fosse mai stato; riuscì a sentire passi pesanti nell'oscurità, lo scricchiolio dei rami e qualcosa che grattava contro la corteccia. Di tanto in tanto un brontolio crepitante procedeva tra gli alberi. Che cosa sto facendo qui? Si chiese, quando lo scricchiolio diventò un frastuono in tutta la foresta. Qualunque cosa sia, che posso farci io? Lui non era Aspar White. Se era il greffyn, di sicuro sarebbe morto. Se era il Re degli Alberi... Il frastuono adesso era molto vicino. In preda al panico, si sentì terribilmente esposto alla luce del fuoco. Con il suo arpione appuntito, si spostò dal cerchio illuminato, chiedendosi in ritardo se doveva arrampicarsi su un albero, qualora ne avesse trovato uno con i rami abbastanza bassi. Invece si acquattò vicino a un grande tronco, cercando di calmare l'eco del suo cuore che batteva nelle orecchie. Poi i rumori cessarono. Tutti. I caprimulghi e i succiacapre, le rane e i grilli. La notte era una scatola vuota, ora. Aspettò e pregò, tentando di impedire alla paura di afferrargli la testa e le gambe. Una volta aveva visto un gatto inseguire un topo di campagna. Il gatto aveva giocato con la piccola creatura, senza mai colpirla fino a che la paura aveva stanato il topo. Non perché il gatto non riuscisse a vederlo, ma perché, come tutti i suoi simili, aveva una vena di crudeltà. Stephen si sentiva molto simile al topo in questo momento, ma non lo era. Aveva la ragione e poteva combattere i suoi istinti. Ma forse, in questo caso, dopo tutto, sarebbe stato meglio fuggire... Lo Stephen di un tempo non avrebbe mai sentito il rumore in tempo per muoversi, il debole fruscio di cuoio contro le foglie umide. Fece un salto
in avanti, allontanandosi, ma qualcosa lo colpì con violenza dietro le gambe, perse l'equilibrio e cadde. Una cosa scura si aggrappò ai suoi piedi; girandosi sulla schiena, la prese a calci, trascinandosi all'indietro. La creatura avanzò, tirandosi su e rivelandosi alla luce del fuoco. Aveva la sagoma di un uomo e un'espressione terribile e familiare allo stesso tempo. «Aspar!» gridò Stephen, pur non essendo ancora del tutto sicuro. Ma era proprio il guardaboschi, con la faccia annerita e ferita, e gli occhi che non avevano niente di umano. Sentendo pronunciare il suo nome, vacillò e spalancò la bocca sorpreso. «Aspar, sono io, Stephen Darige!» «Ste...» Il viso del guardaboschi si rilassò in una specie di folle stupore, e poi crollò a terra. Stephen spalancò la bocca e fece un passo verso il guardaboschi, poi si trattenne immobile quando vide cosa c'era alle spalle del suo vecchio compagno, cosa il suo corpo aveva nascosto finché era rimasto in piedi. Un paio di lucenti occhi gialli fissavano Stephen nell'oscurità. Si avvicinarono senza far rumore, e il tremolio della fiamma del fuoco disegnò una cosa enorme con un becco simile a quello di un uccello. Lo annusò battendo le palpebre lentamente. Poi alzò la testa ed emise un suono simile a quello di un macellaio che sega l'osso lungo di una mucca. Fece un altro passo verso Stephen, poi agitò il becco con rabbia contro di lui. Batté le palpebre di nuovo, e con una rapidità silenziosa scomparve tra gli alberi, correndo più velocemente di qualunque altra cosa, lasciando solo il silenzio, Stephen e Aspar White, morto o forse solo privo di sensi. Capitolo otto Corso di studi Anne avvertì un momentaneo sapore di bile nella gola, quando la pelle del torace dell'uomo si aprì in due grandi lembi come gli sportelli mosci di una credenza. All'interno c'era un brulichio di vermi che non aveva mai immaginato in un corpo umano. Forse aveva sempre pensato che l'interno di una persona fosse molto simile all'esterno, giusto un po' più rosso per via del sangue, ma piuttosto privo di caratteristiche. Quello che vedeva adesso perciò le sembrava privo di senso e bizzarro. La ragazza alla sua destra cadde in ginocchio vomitando, dando inizio a una catena che portò tutte le otto ragazze della stanza, tranne due, a rila-
sciare il pasto della mattina. Anne non si unì a loro, e neanche Serevkis, la ragazza dal collo lungo che l'aveva soprannominata 'principessa mulo'. Con la coda dell'occhio, Anne catturò il suo sguardo e rimase sorpresa quando la ragazza le lanciò un breve sorriso beffardo. Sorella Casita, che aveva fatto le incisioni sul cadavere, attese pazientemente la fine dell'involontaria purificazione. Anne fece distratte manovre per mantenere le scarpe pulite, concentrando l'attenzione sul cadavere. «È una reazione naturale» disse Casita, quando la sequenza di vomito sembrò ormai passata. «Vi assicuro che quest'uomo è stato un criminale della peggiore specie. Servire la chiesa e il nostro ordine è l'unica cosa virtuosa che abbia mai fatto e i suoi resti avranno una degna sepoltura.» «Come mai non sanguina?» domandò Anne. Casita la guardò inarcando il sopracciglio. «Sorella Ivexa ha posto una domanda interessante, al momento sbagliato, ma interessante.» Indicò una cosa grande come un pugno, di un grigio bluastro, a destra del torace. «Qui c'è il cuore. Brutto, vero? All'apparenza non proprio degno delle innumerevoli lodi attribuitegli dalla poesia e dalle metafore. Ma è sicuramente un organo importante. In vita si contrae e distende, cosa che provoca il battito che avvertite nel petto. Così facendo fa correre il sangue in tutto il corpo all'interno di canali tubolari. Qui ne vedete quattro.» Indicò quattro grandi condotti attaccati stretti al cuore. «Una volta morti, il cuore cessa la sua attività e il sangue si ferma. Ristagna e congela nel corpo; così, come ha messo in evidenza sorella Ivexa, anche il taglio più profondo fa uscire pochissimo sangue.» «Posso sorella?» mormorò Serevkis. «Certo.» «Se doveste aprire un uomo vivo, allora potremmo vedere il cuore battere e il sangue uscire?» «Sì, fino a che non muore.» Anne poggiò la mano sullo sterno e sentì il cuore pulsare. Possibile che il suo fosse come quello? «E da dove viene il sangue?» «Ah. È generato da una confluenza di umori nel corpo. Imparerete tutto questo a tempo debito. Oggi studieremo il nome di alcune parti, e poi gli umori che le controllano. Infine discuteremo di come ogni organo può essere portato ad ammalarsi e morire, sia tramite una ferita, sia una medicina, sia sacro sacaum. Ma oggi voglio che questo sia molto chiaro.» Ruotò gli occhi intorno alla stanza. «Sorella Facifela, sorella Aferum, volete prestare
attenzione?» esclamò. Facifela, una ragazza allampanata con il mento sfuggente, sollevò lo sguardo timido. «È uno spettacolo difficile da guardare, sorella Casita.» «All'inizio, ma dovete guardare. Alla fine della giornata, dovrete ripetermi i nomi di questi organi. Ma la prima lezione è la seguente, quindi ascoltate attentamente.» Infilò le mani nella cavità del corpo e tirò fuori diverse cose, producendo un gorgoglio di oggetti bagnati. «Voi, vostro padre, vostra madre, il più valoroso guerriero del regno, il fratrex più importante della chiesa, re, furfanti, assassini, cavalieri senza macchia... all'interno siamo tutti così. A dire il vero c'è differenza di forza, salute e fermezza morale, ma alla fine poco importa. Sotto l'armatura, i vestiti e la pelle, c'è sempre questo interno soffice, umido e infinitamente vulnerabile. È qui dentro che risiede la nostra vita; è qui che si nasconde la morte, come un verme che aspetta di nascere. Gli uomini combattono dall'esterno, con sgraziate spade e frecce, cercando di infilzare gli strati di protezione da cui siamo avvolti. Essi appartengono all'esterno. Noi all'interno. Possiamo raggiungerlo in migliaia di modi, scivolando tra le fessure degli occhi e delle orecchie, delle narici e delle labbra, e attraverso i pori della pelle. Ecco la vostra frontiera, sorelle, ma anche il vostro dominio. Qui, con un tocco sarete la causa della nascita e della caduta dei regni.» Anne avvertì un piccolo tremore e per un istante credette di risentire l'odore di putrefazione secca della cripta che lei e Austra avevano trovato tanto tempo prima. Non provò paura, ma eccitazione. Era come se, tutto a un tratto, stesse su una barchetta nell'Oceano e per la prima volta le stessero spiegando il significato dell'acqua. Camminando nella sala, per poco non sbatté il naso contro quello di sorella Serevkis e si trovò a fissarla negli occhi grigi e freddi. «Non ti ha fatto ribrezzo?» le domandò Serevkis. «Un po'» ammise Anne. «Ma è stato interessante. Ho notato che neanche tu hai vomitato.» «No, ma mia madre seppelliva i morti per il meddix di Formesso. È una vita che vedo viscere di cadaveri. Questa, invece, era la tua prima volta, vero?» «Sì.» Serevkis guardò lontano, oltre Anne. «Il tuo vitelliano ha fatto progressi» notò. «Grazie, ci sto lavorando sodo.» «Buon'idea» rispose. Sorrise e di nuovo il suo sguardo incontrò quello di
Anne. «Devo andare a lezione di calcolo. Può darsi che ci vediamo a cena, sorella Ivexa.» Il resto delle lezioni di Anne era meno intrigante, soprattutto i numeri, ma faceva del suo meglio per stare attenta e fare i conti. Poi fu il momento di erboristeria, che all'inizio credeva più interessante. Perfino lei sapeva che le erbe che nascevano sotto i rami degli alberi e i fiori di moringa porpora scuro erano usati per fare veleni. Non discussero di questo, però, e si dedicarono appassionatamente invece alla cura delle rose come se stessero studiando per diventare giardiniere anziché assassine. Alla fine della lezione, sorella Casita entrò e pronunciò tre nomi tra cui il suo. Furono condotte nel cortile alle spalle del coven, dove venivano portate le pecore per essere munte e tosate. Anne fissò quelle creature mute che vagavano senza meta, mentre sorella Casita spiegò qualcosa alle altre due ragazze nella loro lingua, che Anne credette safniano. Rivolse di nuovo l'attenzione alla donna anziana quando questa passò a parlare in vitelliano. «Le mie scuse» disse la suora. «Queste due non hanno fatto i vostri stessi progressi con il vitelliano. Devo ammettere che siete stata molto brava in così poco tempo.» «Brazi, sor Casita» disse Anne. «Ho studiato il vitelliano della chiesa a casa. Credo di averne memorizzato più di quanto mi aspettassi, e molte parole sono simili.» Fece un cenno col capo verso gli animali. «Perché siamo qui con le pecore, sorella?» «Ah. Dovrete imparare a mungerle.» «Il latte di pecora ha forse qualche utilità in medicina?» «No; alla fine di ogni mese, a ogni sorella viene assegnato un compito. Questo dovrà essere il vostro, mungere e fare il formaggio.» Anne la fissò, poi scoppiò a ridere. Gli occhi le bruciavano per le lacrime mentre la verga lasciò una striscia infuocata sulle spalle nude, ma Anne non pianse. Al contrario, fissò la sua torturatrice con uno sguardo furioso che avrebbe fatto scappare qualunque cortigiano. Ma sorella Secula non era un cortigiano, e non fu molto impressionata da quell'espressione. Un'altra sferzata la colpì e stavolta le labbra lasciarono uscire un piccolo sospiro. «Di già?» esclamò sorella Secula. «Ne bastano solo tre per farvi trovare
il fiato? Non avete il coraggio che si addice al vostro atteggiamento, piccola Ivexa.» «Frustatemi quanto volete. Quando mio padre lo scoprirà...» «Non farà niente. Vi ha mandato qui, mia cara. I vostri regali genitori hanno già accettato tutte le medicine che decido di somministrarvi e questa è l'ultima volta che ve lo ricordo. Ma non vi frusterò ancora, non per ora almeno. Ho già sentito quello che volevo. La prossima volta aspettatevi più di tre sferzate. Adesso tornate al compito assegnatovi.» «No, non ci torno.» «Come? Che cosa avete detto?» Anne drizzò la schiena. «Non mungerò le pecore, sorella Secula. Sono nata principessa della casa Dare e duchessa della casa de Liery, e morirò tale e lo sarò per tutti gli anni a venire. Non importa quanto tempo mi terrete in questo posto, né come deciderete di trattarmi, rimarrò sempre quella che sono e non mi abbasserò a svolgere questi umili compiti.» Sorella Secula annuì pensierosa. «Capisco. State proteggendo la dignità del vostro titolo.» «Sì.» «Come la proteggevate quando avete ignorato la volontà di vostra madre cavalcando come una capra selvatica per tutta Eslen? O come quando eravate impegnata ad allargare le gambe davanti al primo montone che vi ha declamato dei versi? Sembra proprio che abbiate imparato in fretta la dignità che si addice al vostro rango, non appena vi è stato richiesto di fare qualcosa che avete trovato disgustoso.» Anne tornò a poggiare il capo sul tavolo delle punizioni. «Colpitemi ancora, se volete. Non m'interessa.» Sorella Secula scoppiò a ridere. «Questa è un'altra cosa che dovrete imparare, piccola Ivexa. Imparerete a interessarvi alle cose. Ma forse non è con la frusta che lo farete. Chi credete che siano le signore di questo coven, delle contadine di umili origini? Provengono dalle migliori famiglie di tutte le regioni. Se sceglieranno di tornare nel mondo, troveranno i loro titoli ad attenderle. Qui, sono membri di questo ordine, niente di più e niente di meno. E voi, mia cara, siete la peggiore di tutte.» «Non è vero, non sarò mai la peggiore.» «Non dite assurdità. Siete la meno colta in ogni materia, la meno disciplinata, la meno degna perfino dell'abito da novizia che indossate. Ascoltatemi bene! Avete mai fatto qualcosa? Non avete niente che non vi sia stato dato per nascita.»
«Mi basta.» «Ma solo se la vostra unica ambizione è quella di essere la cavalla da riproduzione per qualche sciocco gentiluomo; perché le cavalle da riproduzione non hanno bisogno, né posseggono abbastanza cervello per desiderare più di quello per cui sono nate. Eppure sono convinta che il vero motivo per cui mi siete stata affidata è che anche quella minima ambizione fugga dalla vostra testa ottusa.» «Io ho delle capacità. Ho il mio destino.» «Avete delle inclinazioni, dei desideri. Anche un somaro da tiro ne ha.» «No, io ne ho di più.» I miei sogni, le mie visioni, ma non lo disse ad alta voce. «Be', vedremo, no?» «Che cosa intendete dire?» «Vi considerate una creatura a parte, migliore di ogni altra ragazza qui. Molto bene. Vi daremo l'occasione per dimostrarlo, ah sì che ve la daremo. Seguitemi.» Anne guardò giù nell'oscurità totale e cercò di non tremare. Dietro di lei, tre suore tendevano una serie di corde che supportavano i finimenti di cuoio che le avevano legato addosso. «Non fatemi questo» disse Anne, cercando di tenere bassa la voce. Nessuna delle suore rispose e sorella Secula era già sparita. L'aria che usciva dal buco era fredda e metallica. «Che cos'è? Dove mi state mettendo?» «Lo chiamano il grembo di lady Mefitis» rispose una delle iniziate. «Mefita è, come saprete, un aspetto di Cer.» «L'aspetto che tortura le anime dannate.» «Niente affatto. Questa è la convinzione comune. È l'aspetto del movimento fermo, dell'essere incinta senza nascita, del tempo senza il giorno né la notte.» «Quanto tempo dovrò rimanere là sotto?» «Nove giorni. È la penitenza che viene associata all'umiltà. Ma ti consiglio di utilizzare il tuo tempo per meditare e percepire la gloria della nostra signora. Dopo tutto, lì c'è il suo tempio.» «Nove giorni? Morirò di fame!» «Ti caleremo cibo e acqua a sufficienza per tutto quel tempo.» «Anche una lampada?» «Le lampade non sono permesse nel grembo.»
«Impazzirò!» «No. Ma imparerai a essere umile.» Il suo sorriso nascose un'emozione indecifrabile. Trionfo? Dolore? Forse entrambi. «Devi imparare prima o poi. E adesso entra.» «No!» Anne scalciò e urlò, ma inutilmente. L'avevano legata bene e in un secondo le iniziate l'avevano alzata sul pozzo oscuro e cominciavano a calarla dentro. L'apertura era larga quanto la statura di Anne. Ma quando la discesa terminò e i suoi pedi toccarono terra, sembrò non più ampia di una stella luminosa. «Rimani vicino a dove la pietra è piatta e liscia» disse una voce che si propagò fino a lei. «Non scavalcare la parete che abbiamo costruito o ti troverai in pericolo. Le caverne non contengono bestie, ma sono piene di crepe e burroni. Rimani al di qua della parete e starai al sicuro.» Quindi il cerchio svanì e l'unica luce che rimase fu un'illusione dipinta sulle palpebre, un'unica macchia che scolorì rapidamente: verde, rosa, rosso scuro... sparita. Anne urlò fino a che non si sentì lacerare la gola. Capitolo nove Il Prigioniero Il principe Cheiso di Safnia in preda agli spasmi tossì fiotti di sangue sul pavimento di pietra mentre il suo torturatore gli marchiava un segno sulla schiena con un ferro arroventato, ma non urlò. William però, vide lo stesso quel grido, sepolto nel viso del Safniano, che scavava per uscire fuori come la larva di una vespa che lotta per emergere da un ragno paralizzato. Ma rimase imprigionato in quel viso scuro, coraggioso. Non poté fare a meno di ammirarne il valore. L'uomo aveva subito la frusta e il fuoco, la carne della schiena era stata grattata a sangue e strofinata col sale. Aveva quattro dita rotte ed era stato immerso più volte in un tino di frattaglie e urina. Eppure non aveva implorato pietà, né urlato o confessato. Questi Safniani erano fatti di una fibra più rigida di quanto immaginasse. Non pensava che potesse resistere così tanto. «Che fate, allora, parlate?» gli chiese Robert gentilmente. Stava in piedi dietro al principe e gli asciugava la fronte con uno straccio umido. «Anche
voi avete delle sorelle, principe Cheiso. Provate a immaginare come ci sentiamo. Ci disonora trattarvi così, ma riusciremo a sapere perché l'avete tradita.» Steso lì su un tavolo, a pancia in su, Cheiso sollevò lo sguardo, ma non su Robert. I suoi occhi si fissarono, invece, immobili su William. Si leccò le labbra e parlò. «Vostra maestà» disse in quel suo accento così lontano. «Io sono il principe Cheiso di Safnia, figlio di Amfile, nipote di Verufnio, che ricacciò indietro la flotta Harshem a Bidhala con due navi e un solo ordine. Non dico bugie e non tradisco il mio onore. Lesbeth, vostra sorella, è l'affetto più caro che ho, e se le è stato fatto del male, vivrò per trovare il colpevole e gliela farò pagare. Ma voi, imperatore di Crotheny, siete uno sciocco. Vi siete cibato di bugie che vi hanno ingrassato il cervello. Potete scavare con la vostra punta di ferro fin dentro le mie ossa e tappezzare con il mio sangue il vostro pavimento, ma non c'è nient'altro che posso dirvi, tranne che sono innocente.» Robert fece un cenno e il torturatore strinse l'orecchio del Safniano tra tenaglie arroventate. Il corpo magro del principe s'inarcò, come se cercasse di spezzarsi la schiena e di piegarsi, e stavolta gli sfuggì un sospiro spossato, ma nient'altro. «Manca poco» disse il torturatore a Robert «e confesserà.» William si prese le mani dietro alla schiena, cercando di non agitarsi. «Robert» grugnì. «Una parola.» «Certo, caro fratello» e diretto al torturatore disse: «Continua.» «No» fece William. «Concedigli una pausa, fino a che non abbiamo finito di parlare.» «Ma, fratello caro...» «Concedigli una pausa» ordinò con fermezza. Robert alzò le mani. «Ah, molto bene. Ma questa è un'arte, Wilm. Se chiedi al pittore di alzare il pennello nel bel mezzo di una pennellata...» Ma vide che William era deciso e s'interruppe. Si allontanarono nell'umido corridoio a volta delle prigioni, sotto Eslen, dove potevano parlare senza essere ascoltati. «Che cosa ti preoccupa, fratello?» «Non sono affatto convinto che quest'uomo sia un disonesto.» Robert incrociò le braccia. «Gli uccellini che cinguettano alle mie orecchie dicono il contrario.» «I tuoi uccelli si sono già dimostrati dei ciarloni altre volte, mettendoci
fuori strada. Come in questo caso.» «Non puoi esserne sicuro. Andiamo avanti fino a che non è stato dissipato ogni dubbio.» «E se dopo tutto questo scopriamo che è innocente? Hanno delle navi a Safnia, lo sai bene. Potrebbero prestarle ai nostri nemici, e in un momento in cui la guerra si avvicina, non è poca cosa.» Robert aggrottò le sopracciglia. «Stai scherzando con me, Wilm?» «Ti pare che possa scherzare su questo?» «Ho già diffuso la notizia che il principe e tutti i suoi seguaci sono stati uccisi dai pirati rovish nel Mare di Ale. Non trapelerà una sola parola di quello che sta succedendo qui.» «Non ti aspetterai mica che faccia uccidere quest'uomo?» chiese incredulo William. «Che razza di sovrano sei? Che razza di fratello?» «Se è innocente...» «Ma non lo è» esplose Robert. È un Safniano, nato da un migliaio di anni di grasse bugie del Sud. Certo, sembra convincente, ma confesserà e morirà, così il tradimento subito da Lesbeth sarà vendicato. Le mie fonti non sono false, Wilm.» «E in che modo tutto questo ci restituirà nostra sorella, Robert? La vendetta è una festa triste da affiancare però alla gioia di ritrovare una persona amata.» «Avremo entrambe le cose, te lo prometto, Wilm. Hai accettato le condizioni di Austrobaurg; sono già state inviate venti navi nel bacino del Mare Saurga.» «E tu sei convinto che Austrobaurg manterrà la sua parola?» «È un vigliacco ambizioso; non esiste sorta d'uomo di cui ci si possa fidare di più, se riesci a capirlo. Farà come dice.» «Austrobaurg ha mutilato Lesbeth, Robert. Come può sperare di calmare la nostra vendetta se ce la restituisce?» «Perché se proverai a vendicarti, dirà ai signori di Liery che hai appoggiato la sua causa contro i loro alleati. E di sicuro può mostrare le prove.» «E tu non potevi prevederlo?» «Certo che sì. Ma l'ho considerata l'unica garanzia del ritorno di Lesbeth sana e salva.» «Allora, avresti dovuto essere più chiaro su questo punto.» Robert sollevò un po' il naso. «Sei tu l'imperatore. Se non riesci a prevedere le conseguenze... non sono il tuo unico consigliere, fratello.»
«Liery non dovrà mai sapere quello che abbiamo fatto.» «Sono d'accordo. Appunto per questo, non si dovrà mai sapere fuori di qua che Lesbeth è stata rapita. Ci farebbe apparire deboli, cosa che non possiamo mai permetterci, neanche nei momenti migliori. No, tutta questa faccenda va cancellata. Austrobaurg non parlerà. Lesbeth è nostra sorella.» «Rimane solo Cheiso» ammise William contrariato. «D'accordo.» Robert chinò il capo poi sollevò lo sguardo. «Non è necessario che osservi il resto. Può volerci ancora del tempo.» William aggrottò le sopracciglia, ma annuì. «Se confessa, voglio sentirlo. Non ucciderlo troppo in fretta.» Robert sogghignò. «L'uomo che ha tradito Lesbeth non deve morire facilmente.» I passi di William tra le prigioni erano lenti. La vaga paura che viveva in lui da mesi stava diventando più profonda e ora iniziava ad assumere una forma più acuta. Il suo regno aveva conosciuto rivolte regionali e di confine, ma era riuscito a evitare la guerra. In apparenza questa faccenda con Saltmark sembrava un'altra disputa di poco conto, tuttavia William sentiva che lui e il suo impero sì reggevano in equilibrio sulla punta di un ago. I suoi nemici stavano colpendo in diversi modi, all'interno della sua stessa casa: prima Muriele, adesso Lesbeth. Ridevano di lui, l'impotente sovrano del più forte impero del mondo. E mentre Robert tesseva oscure tele per intrappolare i loro problemi, William non faceva nulla. Forse avrebbe dovuto essere Robert il re. Si fermò, realizzando tutto a un tratto che i suoi passi non lo avevano avvicinato alla scalinata che conduceva al palazzo, ma più all'interno, nelle prigioni. La luce delle torce tremolava ancora in questa zona, e l'olio bruciato offuscava l'aria umida, ma il passaggio sbiadiva nell'oscurità. Rimase lì un momento a scrutarla. Quanti anni erano passati da quando era venuto qui? Venti? Sì, dal giorno in cui suo padre gli aveva mostrato colui che giaceva nella prigione più profonda del castello di Eslen, non c'era più tornato. Ebbe un momento di panico e cercò di controllare il desiderio di fuggire verso la luce. Poi, cercando almeno di fingersi risoluto, proseguì un po' finché arrivò in una piccola stanza che non era una prigione, ma che aveva un porticina di legno. Al di là di questa William sentì una dolce, debole melodia sconosciuta, suonata sulle corde di una tiorba. La tonalità era mi-
nore e triste, con piccoli trilli come il canto di un uccello e suoni profondi che ricordavano il mare. Esitante, attese che la musica facesse una pausa, ma la melodia non sembrava mai arrivare alla fine; scherniva l'orecchio con la promessa di una chiusura, ma poi tornava a soffiare come uno zefiro capriccioso. Alla fine si ricordò di essere il re e bussò alla porta. Per un po' non successe niente, ma poi la musica si fermò a metà frase e la porta si spalancò verso l'interno, silenziosa, con i cardini ben oliati, e alla luce arancione apparve un volto spettrale che aveva la forma di uno stretto cuneo. Occhi bianco latte fissavano un mondo che William non conosceva, ma l'antico Sefry sorrise come a una battuta segreta. «Vostra maestà...» mormorò con voce debole. «Sono passati parecchi anni.» «Come...» William esitò ancora. Come avevano fatto quegli occhi privi di vista a riconoscerlo? «Sapevo che eravate voi» disse il Sefry «perché il Prigioniero vi ha invocato. Era destino che veniste.» Dita di cadavere accarezzarono la sua spina dorsale. I morti stanno facendo il mio nome. Si ricordò di quel giorno nelle sue stanze, il giorno che tornò Lesbeth, lo stesso in cui aveva saputo di Saltmark da Robert. «Penso che vorrete parlargli» disse il vecchio. «Non ricordo il vostro nome, sir.» Il Sefry sorrise e rivelò i denti ancora bianchi ma consumati fin quasi alle gengive. «Non ho mai avuto un nome, signore. Quelli assegnati a tenere la chiave non vengono mai nominati. Potete chiamarmi Carceriere. Si voltò e i suoi vestiti di seta si mossero scivolando su quella che probabilmente era un'impalcatura di ossa. «Vado a prendere la mia chiave.» Svanì nell'oscurità della sua dimora e riapparve un momento dopo con una chiave di ferro stretta tra le dita bianche. Nell'altra mano portava una lanterna. «Vi dispiace accendere questa, maestà? Il fuoco e io non siamo molto amici.» William prese una torcia dalla parete e l'accese. «Da quanto siete qui sotto? Mio padre mi raccontò che eravate il Carceriere dal tempo di suo padre.» Quanti anni vivono i Sefry? «Sono arrivato con il primo dei Dare» disse quella creatura avvizzita, avviandosi giù per il corridoio. «I vostri avi non si fidarono del mio predecessore, poiché era un servo dei Reiksbaurg.» Sibilò una lunga risata. «U-
na paura inutile.» «Che cosa intendete dire?» «Che il Carceriere non serviva i Reiksbaurg più di quanto io faccia con voi, mio signore. Il mio incarico è parecchio più antico di qualunque dinastia mai salita su questo trono.» «Quindi voi servite il trono senza tener conto di chi ci sta seduto?» I passi silenziosi del Sefry strisciarono dieci volte sulla pietra prima che questi rispondesse in tono tranquillo: «Io servo questo luogo e questa terra, senza alcun riguardo del trono.» Proseguirono in silenzio, giù per una scala stretta; nella pietra di tanto in tanto si vedevano ossa nere di bestie sconosciute, costole e orbite vuote di un teschio piatto e insolito. Era come se la pietra si fosse sciolta e scorresse intorno a loro. «Queste ossa nella roccia. Sono per caso mostri imprigionati dalla mia antenata o qualche altra stregoneria skasloi?» «Questa stregoneria è più antica degli Skasloi» mormorò il Carceriere. «Il mondo è molto antico.» William immaginò il suo stesso teschio, che guardava nel vuoto dalla roccia attraverso abissi temporali inimmaginabili. Avvertì subito un senso di vertigine, come se fosse sospeso su una grande voragine. «Adesso ci troviamo sotto a Eslen» lo informò il Sefry. «Siamo tra i resti di Ulheqelesh.» «Non pronunciate quel nome» gli ordinò William, cercando di controllare il suo respiro. Nonostante la strettezza delle scale, le sue strane vertigini continuarono. Il Sefry scosse la testa. «Di tutti i nomi che possono essere pronunciati qui sotto, quello è il meno potente. La vostra antenata non solo distrusse la cittadella, ma anche la sua vera anima. Il nome è ormai solo un suono.» «Un terribile suono.» «Se vi infastidisce, non lo pronuncerò più» promise il Sefry con diffidenza. Proseguirono senza parlare, ma la strada non era più molto silenziosa. Insieme al fruscio delle loro scarpe sulla pietra, c'era un sibilo, un bisbiglio. William non riuscì a distinguere le parole, se di quello si trattava e non di un movimento dell'aria o dell'acqua in quegli abissi. Ma quando si avvicinò alla meta, divenne un suono familiare. Forse il vecchio aveva ragione. Forse il Prigioniero stava pronunciando il suo nome. Le parole sembravano farfugliate da una creatura senza lab-
bra: Hriiyah, Hriiyah Darrrr... «Perché i suoi guardiani non vengono mai nominati?» domandò William, per zittire la voce nella sua testa. «Lo sentite perché. I nomi gli danno un certo potere. Non temete. È debole, e io controllerò la sua forza.» «Ne siete sicuro?» «È il mio unico dovere, sire. Vostro nonno veniva qui spesso, anche vostro padre. Si fidavano di me.» «Molto bene.» Si fermò e fissò la porta che stava lì davanti a loro. Era di ferro, ma nonostante l'umidità la ruggine non ne aveva rovinato la superficie. Alla luce della lanterna appariva nera, e i caratteri ondulati incisi su di essa erano ancora più scuri. Un debole odore pendeva nell'aria, vagamente simile a resina bruciata. Il Carceriere si avvicinò alla porta e inserì la chiave in una delle due serrature. Ma fece una pausa. «Non dovete farlo per forza, sire. Potete sempre tornare indietro.» Crede che sia più debole di mio padre e di mio nonno, pensò William vergognandosi. Avverte una mancanza di volontà. «Credo di voler continuare.» «Allora c'è bisogno dell'altra chiave.» William annuì e raggiunse la catena che pendeva sotto il farsetto, estraendo la chiave che indossava da quando era salito al trono, la chiave che ogni re di Crotheny aveva indossato dai tempi del vecchio Cavarum. William di solito non la portava addosso; era fredda contro il torace e quasi sempre rimaneva in un forziere vicino al suo letto. L'aveva indossata quella mattina prima di scendere nelle segrete. Come la porta che apriva, la chiave era di metallo nero e, come quella, sembrava inattaccabile dalla ruggine e da tutti gli altri segni della scure del tempo. Inserì la chiave nella serratura e la girò. Non produsse quasi alcun rumore, solo deboli scatti che provenivano dall'interno. Io sono il re pensò William. Questo è un mio privilegio. Non ho paura. Afferrò la maniglia della porta e spinse, avvertendone la sorprendente solidità. Tuttavia, nonostante la sua inerzia, si mosse come se fosse il solo tocco della mano anziché la forza del braccio a spostarla. La voce si fece più forte e si ruppe in un misterioso suono basso, forse una risata. «E adesso, sire, dovete spegnere la lanterna prima che apriamo la porta
interna» disse il carceriere. «La luce non deve entrare lì dentro.» «Sì, me lo ricordo. Potete guidarmi voi?» «È proprio questo il mio compito, sire, e non sono ancora troppo infermo per svolgerlo.» William spense la lanterna e le tenebre scaturirono dal cuore oscuro del mondo. Avvertì la pressione delle antiche ossa tutto intorno a lui, come se nell'oscurità la roccia stesse galleggiando, strisciando sempre più vicino per catturarlo. Un attimo dopo, ci fu un fruscio metallico e l'odore si fece più forte e amaro. Aveva già sentito quell'odore una volta nel suo sudore, subito dopo che un'ape lo aveva punto. «Qexqaneh» disse il Sefry, con il tono di voce più alto che William gli avesse sentito usare finora. «Qexqanehilhidhitholuh, uleqedhinikhu.» «Cento» rispose una voce con una erre arrotata, così vicina e familiare da farlo sussultare. «Cento. Eccovi qua, imperratorre di Crrotheny, eccovi qua mio dolce signorre.» Il tono non era canzonatorio, e neanche le parole, nemmeno un po'. Tuttavia William si sentì deriso. «Sono l'imperatore» disse con una confidenza forzata. «Rivolgiti a me come si conviene.» «Un imperratorre effimero, che vivrrà poco più di due battiti del mio cuorre» replicò il Prigioniero. «No, se lo faccio cessare di battere» gli rispose. Poi un movimento, un suono come di squame che grattavano il terreno e un'alta risata frivola. «Davverro puoi, ehm potete farrlo? Piangerrò lacrrime di un rrosso scurro perr voi, piccolo prrincipe. Sanguinerrò orro bianco e cacherrò diamanti perr voi.» Seguì una tosse roca. «No, piccolo rre, no, no. Non sono queste le rregole del gioco. Quella cagna della tua antenata lo ha deciso. Torniate nelle vostrre sale assolate e cullate la vostrra paurra. Dimenticatevi di me e trrascorrrete la vostrra vita fantasticando.» «Qexqaneh» disse il Carceriere deciso. «Controllati.» Il Prigioniero si arrotolò e una rabbia furiosa pervase la sua voce. «Il mio nome è più antico della vostrra rrazza, il mio nome, e lo usate come uno strraccio per pulirrvi dopo averr liberrato il vostrro intestino.» William contrasse le labbra. «Qexqaneh, per il tuo nome, rispondimi.» La furia del Prigioniero svanì rapidamente così come era venuta e ora tornò a bisbigliare. «Oh, piccolo rre, sarrò felice. Le rrisposte mi darranno gioia» disse.
«E rispondi sinceramente.» «Devo farrlo, da quando quella puttana dalle trrecce rrosse ha iniziato la vostrra dinastia e mi ha incatenato. Ma sicurramente voi questo lo sapete.» «È così, sire» convenne il Carceriere. «Ma può rispondere in modo elusivo. Dovete setacciare le sue parole.» William annuì. «Qexqaneh, puoi vedere il futuro?» «Se potessi prrevederre il futurro, non sarrei in questo posto, stupido umano. Ma posso vederre l'inevitabile, che è un'altea cosa.» «Il mio regno è destinato alla guerra?» «Hmm! Una marrea di sangue è in arrivo. Mille stagioni di dolorre. Spade berranno a sazietà e ancorra di più.» Il terrore irretì William, ma non la sorpresa. «Posso impedirlo?» domandò con poche speranze. «Si può fermare?» «Potete possederre la monte o lei possiederrà voi. Non esiste altea scelta.» «Intendi dire che dovrei continuare questa guerra e attaccare Saltmark o Hansa?» «Questo ha poca imporrtanza. Saprreste possederre la monte, piccolo ne? Sarreste in grrado di tenerrla vicino al vostrro cuorre ed esserrle amico? Le darreste in pasto la vostrra famiglia, la vostrra nazione, la vostrra miserra anima? Posso dirrvi come farre. Potete esserre immorrtale, mio rre. Potete esserre come me, l'ultimo della vostrra specie, eterrno, ma con la differrenza che non ci sarrà nessuno a farrvi prrigionierro.» «L'ultimo della mia specie?» queste parole lo confusero. «L'ultimo Dare?» «Ah sì, e l'ultimo Rreiksbaurrg, e l'ultimo de Lierry, l'ultimo della vostrra rrazza pietosa, piccolo umano. La vostrra prrima rregina vi ha ucciso tutti. È stata una morrte lenta, intorrpidita, ma orra si è svegliata. Non potete arrestarrla. Ma potete esserre lei.» «Non capisco, nessuna guerra può uccidere tutti, è questo che stai dicendo vero? E che solo un uomo sopravvivrà al massacro? Che stupidaggine è mai questa?» Guardò il Carceriere. «Siete sicuro che non possa mentire?» «Non può mentire di proposito, no. Ma può rigirare la verità in spire» rispose il Carceriere. «Vi dico» riprese Qexqaneh con calma «che voi potete esserre quello. Potete spegnerre le terrce di questo mondo e iniziarrne uno nuovo.» «Siete pazzo.» «Qualcuno lo farrà, piccolo rre. L'Uomo-Orrtica si sta già alzando, sape-
te? La putrrefazione è arrivata allo stadio più prrofondo e cominciano a uscirre i verrmi. Sento la puzza della decomposizione fin qui. Voi potete esserre quello. Potete indossarre gli abiti della notte e agitarre lo scettrro della corrruzione.» «Sii chiaro. Vuoi dire davvero che la fine del mondo è vicina?» «No, cerrto che no. Ma la fine della vostrra famiglia, del vostrro rregno, della vostrra rrazza disgustosa e di tutti i suoi figli, questa è sicuramente vicina al tramonto.» «E sarà un uomo la causa di questo?» «No, no. Cosa sono quelle cose ai lati della vostrra testa? Possibile che niente di quello che sentite rraggiunge il vostrro cerrvello? Uno ne trrarrà beneficio.» «A quale prezzo?» chiese scettico William. «Diverso da quello di essere come te?» «Il prrezzo è basso. Vostrra moglie, le vostrre figlie.» «Cosa?» «Morrirranno comunque. Almeno potete trarre beneficio dal lorro massacrro.» «Basta!» esplose William. Si girò per andarsene, ma tutto a un tratto tornò sui suoi passi. «Qualcuno ha attentato alla vita di mia moglie. Era questo il motivo? Una profezia imperfetta di un futuro che anche tu ammetti di non riuscire a vedere veramente?» «Io l'ho ammesso?» «Sì, adesso rispondimi, Qexqaneh. Altre persone conoscono questa tua profezia?» Il Prigioniero ansimò per qualche istante e l'aria sembrò scaldarsi. «Quando voi maledetti schiavi animali vi errgeste sulle ossa della mia gente» disse alla fine con voce graffiante «quando voi, vermi infami, brruciaste tutto ciò che di bello esisteva e crredeste di esserrvi impadrroniti del mondo, io ve lo dissi che cosa sarrebbe accaduto. Le mie parrole hanno dato inizio a una nuova erra, questa che voi chiamate Everron. Sono rricordate in molti luoghi.» «Allora l'attentato a mia moglie?» «Non lo so. Le coincidenze capitano, e la vostrra rrazza è appassionata di omicidi. Erra questo che vi rrendeva diverrtenti come schiavi. Ma lei morrirrà e anche le vostrre figlie.» «Non puoi saperlo. Non puoi. Parli solo per ingannarmi.»
«Come desiderrate.» «Ne ho abbastanza di tutto questo. Ho sbagliato a venire qui.» «Sì» convenne Qexqaneh. «È verro, non avete la stessa temprra dei vostrri prredecessorri. Non avrrebberro esitato lorro, addio, effimerro.» A quel punto William se ne andò, tornando nei corridoi superiori, ma quella risata camminava dietro di lui, come un millepiedi. Quella notte non riuscì a dormire e andò da Alis Berrye. Le fece illuminare la stanza con delle candele e lei suonò il liuto e cantò canzoni allegre fino all'alba. Capitolo dieci Smarrito Aspar White aprì gli occhi su un soffitto a volta in pietra e sentì una litania monotona e distante. La febbre correva come un millepiedi sotto la sua pelle e quando provò a muoversi, si sentì gli arti come foglie di felce fradice. Rimase disteso, immobile, ascoltando quello strano canto e il suo respiro da vecchio, stridulo, mentre disorientato dall'aria interrogava i suoi muti ricordi. Stava meglio di prima, se lo ricordava. Era stato febbricitante, e il dolore gli aveva incatenato i pensieri. Che cosa era successo? Dove si trovava adesso? Con grande sforzo girò la testa per guardarsi intorno. Stava disteso su un duro giaciglio di legno, con pareti di pietra, su tre lati e un soffitto basso e curvo. Sarebbe parsa una tomba, se non fosse stato per una feritoia nella parete sopra la testa che lasciava entrare l'aria dall'esterno. Dall'odore sembrava tarda primavera. Guardando sopra i suoi piedi, vide la nicchia che si apriva su uno spazio più largo: la sala di un castello o, a giudicare dalla lingua misteriosa del canto, una chiesa. Poco a poco provò a mettersi seduto. Le gambe gli tremavano dal dolore, ma ispezionando, le trovò tutte e due al loro posto, con suo grande sollievo. Quando si fu tirato un po' su, fu assalito da vertigini così forti che si arrese e tornò supino. Riuscì a vincere la nausea e il sudore gli si addensò sulla fronte. Dovette passare un po' prima che potesse riprendere la sua ispezione e quando lo fece, scoprì che sotto il lenzuolo era nudo fatta eccezione per le
fasce. Le sue armi, i suoi vestiti e la corazza erano spariti. Le fasce indicavano qualcuno ben disposto verso di lui, ma non era una certezza. Dove si trovava? Si mise a seguire i ricordi come un segugio su una debole traccia, fermandosi ai punti di riferimento. Era sceso dalle montagne, questo se lo ricordava, aggrappato alla schiena di Orco. Era quasi caduto scendendo per una scarpata ed era precipitato in un burrone. A un certo punto era caduto da cavallo e non era riuscito a ritrovarlo. Gli tornarono in mente spezzoni di giorni in cui aveva galleggiato sul fiume aggrappato a un tronco e poi aveva barcollato all'infinito in un paesaggio collinare, che poi però era diventato uniformemente piatto. Infine si ricordò di qualcosa che lo seguiva, che gli era sempre dietro, come se si prendesse gioco di lui. Dopodiché, la memoria non l'assisteva più. Ripercorse all'indietro la traccia nella mente, fino alle montagne, quando si arrampicò su un intreccio di rami scuri, con una canzone fissa in testa. Chiacchierina, chiacchierona Che giri in tondo. Il Re degli Alberi. Si ricordò con una nausea improvvisa della cosa dentro la struttura vivente. Si sveglia. È tutto vero. «Winna!» gridò con voce gracchiante. Maledetto Re degli Alberi, maledetto il mondo. Fend aveva preso Winna. Prima Qerla, adesso Winna. Mise giù le gambe, ignorando le fitte di dolore. Qualcosa gli girava in testa come una trottola, ma nonostante questo riuscì a mettersi in piedi. Due passi lo portarono alla parete che si curvava verso l'alto e la usò come appoggio per farsi strada fuori della nicchia. Per un attimo vide tutto nero, e poi si ritrovò in uno spazio più largo, un'enorme caverna, come una rewn sefry, ma regolare, che si piegava molto, molto in alto. No, non era una caverna. Che stupido! Era l'interno di un edificio... Le gambe non lo sostennero più. Il pavimento di pietra gli spiegò bruscamente quanto stupido era stato a provare a camminare. Imprecando contro di esso, si preparò a strisciare. Da qualche parte rintoccò una campana, e il canto s'interruppe. Qualche istante dopo sentì un sospiro vicino. «Santi benedetti!» esclamò una voce maschile. «Sir, dovreste stare ancora a letto.» Aspar, guardando di traverso, vide una persona con un abito nero da uomo di chiesa. «Winna» spiegò Aspar, digrignando i denti, poi svenne di nuovo.
Quando rinvenne la volta successiva, fu al timbro di una voce familiare. «Ah» grugnì Aspar. «Ho fatto un sacco di fatica per trascinarvi fin qui» disse Stephen Darige. Il giovane stava seduto su uno sgabello di legno a pochi piedi di distanza. «Lo apprezzerei molto se non rendeste quella fatica vana, suicidandovi adesso.» «Dove sono?» «Al monastero d'Ef, ovviamente.» «D'Ef?» brontolò. «A più di sessanta leghe?» «Sessanta leghe da dove? Che cosa vi è successo, guardaboschi White?» «E mi hai trovato tu?» grugnì scettico. «Sì.» Provò a sedersi di nuovo. «Darige, devo andare.» «Non potete» rispose Stephen poggiandogli una mano sul braccio. «Ora state meglio, ma siete ancora gravemente ferito. Morirete prima di aver percorso mezza lega, e qualunque cosa abbiate da fare di così urgente, non riuscireste a farla comunque, tanto vale riposarsi un po'.» «Che stupidaggine! Sono ferito, è vero, ma non così gravemente.» «Guardaboschi, se non vi avessi trovato io, a quest'ora sareste bell'e morto. Se non vi avessi trovato vicino a un monastero dove si sa curare con il sacaum, sareste morto lo stesso o come minimo avreste perso le gambe. Ci sono ancora tre tipi di veleno che stanno cercando di uccidervi, e l'unica cosa che li tiene buoni è il trattamento che state facendo qui.» Aspar lo fissò negli occhi, pensando. «Quanto tempo devo rimanere prima di potermene andare?» ringhiò. «Quindici, venti giorni.» «Troppi.» Stephen fece un'espressione seria e si sporse in avanti. «Che cosa avete trovato là fuori?» gli chiese a bassa voce. «Che cosa vi ha ridotto così?» fece una pausa. «Quando vi ho trovato, c'era una specie di belva con gli occhi sfavillanti, che vi stava seguendo.» Non è che cosa ho trovato, pensò Aspar tristemente. È che cosa ho perso. Ma guardò di nuovo Stephen negli occhi. Doveva dirlo a qualcuno, no? «Quello era il greffyn. È come ci ha detto sir Symon. Ho visto tutto con i miei occhi. I morti, i sacrifici al sedos, il greffyn, il Re degli Alberi. Ho visto tutto.» «Il Re degli Alberi?»
«L'ho visto. Non credo che sia già completamente sveglio, ma si sta muovendo. L'ho sentito.» «Ma chi... che cos'è?» «Non lo so, che il Malvagio mi si porti, non lo so. Ma vorrei non averlo mai visto.» «È stato lui a ridurvi così?» «Un uomo di nome Fend è in parte il responsabile. I suoi uomini mi hanno colpito con delle frecce. Il resto l'ha fatto il greffyn.» Si grattò la testa. «Darige, devo almeno far arrivare la notizia agli altri guardaboschi, prima possibile, e anche al re. Puoi pensare tu a questo?» «Sì» disse Stephen, ma ad Aspar sembrò di scorgere un'esitazione. «Quest'uomo che mi ha ferito, Fend, ha fatto prigioniera una mia amica. Devo trovarlo.» «Lo farete» disse Stephen dolcemente. «Ma non ora. Se anche lo trovaste, pensate che riuscireste a combattere contro di lui in questo stato?» «No» rispose riluttante. Se Fend aveva intenzione di uccidere Winna, allora era già morta. Se aveva un qualche motivo per lasciarla vivere, sarebbe stata salva per un po'. Trasalì all'immagine di lei, inchiodata a un albero con le viscere di fuori e... No, è ancora viva; deve esserlo. Il ragazzo aveva ragione. Stava permettendo ai sentimenti di guastare la ragione. Improvvisamente, gli tornò in mente una cosa. «Hai detto di aver visto il greffyn da vicino?» Stephen annuì. «Ammesso che lo fosse. Era buio, ma aveva gli occhi luminescenti e il becco come quello di un uccello.» «Werlic, già! Ma non ti sei sentito male, però. Non ha provato ad attaccarti?» «No, strano. Ha fatto per venirmi contro, e poi se n'è andato. Non so perché, avrebbe potuto uccidermi con un colpo solo, ne sono sicuro.» «Avrebbe potuto ucciderti col suo respiro» lo corresse Aspar. «Sono caduto solo per aver incontrato il suo sguardo. So di un ragazzo che è morto il semplice fatto di per aver toccato il cadavere di una persona morta per aver toccato il mostro. E tu non hai neanche avuto un mal di stomaco?» Stephen aggrottò le ciglia. «Avevo appena percorso la via dei templi di Decamnus. Forse il santo mi ha protetto.» Aspar annuì. C'era, però, più di una cosa che non capiva del greffyn. Avrebbe potuto ucciderlo diverse volte, ma non l'aveva fatto. «Puoi conse-
gnare quella lettera per me?» «Posso trovare qualcuno. Ma adesso devo andare.» «Allora prendila al ritorno. Non mi fido di nessun altro qui.» «Vi fidate di me?» «Già. Non credere chissà che, il fatto è che non conosco nessun altro qui. A te un po' ti conosco.» Fece una pausa. «Non montarti la testa per questo, ma comunque... grazie.» Il giovane prete provò a non sorridere. «Ve lo dovevo.» Rispose. La sua faccia si fece più seria. «Ho qualcos'altro da chiedervi. Quando vi ho trovato, avevate questo con voi.» Stephen cercò dentro una borsa di cuoio e tirò fuori un corno inciso. Aspar fu attraversato da un brivido quando lo vide. «Già!» «Dove l'avete trovato?» «Non lo so. Non mi ricordo niente di quello che è successo dopo aver visto il Re degli Alberi. Questo me lo sono ritrovato dopo. Sai che cos'è?» «No, ma la lingua dell'iscrizione è molto antica.» «Che cosa dice?» «Non lo so.» Il prete sembrava preoccupato. «Ma ho intenzione di scoprirlo. Posso prenderlo in prestito per un po'?» «Sì. Non so che farmene di quel maledetto coso.» Stephen annuì e si mosse per andarsene. «Ah, un'altra cosa. I vostri cavalli sono ricomparsi il giorno dopo che vi avevo portato qui. Nessuno riesce ad avvicinarli, ovviamente, ma hanno pascolo in abbondanza. Saranno lasciati in pace fino a che non vi sarete rimesso.» Aspar sentì un nodo alla gola e per un attimo ebbe una paura tremenda di scoppiare a piangere davanti al ragazzo. Almeno non aveva perso Orco e Angela. Lo avevano seguito, quelle bestie maledettamente stupide, leali anche con un greffyn a inseguirli. «Torno non appena ho finito con i miei doveri» lo rassicurò Stephen. «Non preoccuparti» replicò brusco. «Non ho bisogno di una bambinaia.» «Invece sì.» Aspar grugnì e richiuse gli occhi. Sentì i passi di Stephen allontanarsi. Ti ritroverò Winna, o ti vendicherò, promise. Fratrex Pell sorrise a Stephen quando questi entrò nella sua umile stanza. «Sono molto soddisfatto» disse, picchiettando l'ultimo fascio di fogli tradotti. «Nessun altro era riuscito a tradurre una sola frase di questa lastra.
I santi devono avervi benedetto.» «Lo hanno fatto veramente, fratrex» rispose Stephen. «La lingua in sé non era difficile: un dialetto del Cavarum più antico.» «Allora qual è stata la difficoltà?» «Era scritto al contrario.» Il fratrex sbatté le palpebre. «Al contrario?» «Ogni parola era capovolta.» «Quale scriba farebbe una cosa del genere?» Stephen ricordò il contenuto scomodo della lastra. «Uno scriba che non voleva che il suo scritto fosse letto da molte persone, credo.» Cercò a fatica le parole giuste. «Fratrex, so che ne abbiamo già discusso, ma mi sento in dovere di dire ancora una volta che il mio cuore mi suggerisce di lasciare queste cose indecifrate.» «La conoscenza appartiene alla chiesa» replicò il fratrex con gentilezza. «Ogni tipo di conoscenza. Mettiamo fine ai vostri dubbi, fratello Stephen, una volta per tutte. Ammiro la vostra tenacia, ma è mal riposta.» Stephen annuì. «Sì, fratrex.» «E ora questo.» Prese in mano un rotolo di pergamena. «Sono perplesso, non vi avevo chiesto io di tradurlo.» «No, fratrex, ma alla luce di quello che ci ha raccontato il guardaboschi, ,ho creduto opportuno vedere cosa contenesse lo scriftorium sul Re degli Alberi e i greffyn.» «Capisco. Presumo che lo stiate facendo nel vostro tempo libero, vero?» «La notte, fratrex, nell'ora di meditazione.» «Quell'ora è chiamata così per un motivo, fratello Stephen. Dovreste meditare.» «Sì, fratrex. Ma credo che questo potrebbe essere importante.» Il fratrex sospirò e spinse indietro i manoscritti. «Il guardaboschi era fuori di senno per la febbre quando lo avete portato qui, attendeva sul molo la barca di san Farsinth. Qualunque allucinazione abbia avuto, probabilmente non corrisponde alla realtà.» «Era ferito grave» concesse Stephen. «Ma lo conosco, in un certo senso. È molto pragmatico e non incline a voli di fantasia. Quando l'ho visto l'ultima volta, pensava che i greffyn e il Re degli Alberi non fossero altro che fantasie infantili. Ora è convinto di averli visti entrambi.» «Spesso ci prendiamo gioco delle cose in cui crediamo più fermamente, e ancor più di quelle in cui non vorremmo credere. Esiste una grande differenza tra la mente sana e quella folle.»
«Sì, fratrex, ma vedete, nel Tafles taceis, il Libro delle voci, c'è un passo copiato da una fonte anonima in antico alto cavari. In questo si fa menzione del gorgos gripon, il 'terrore dal naso curvo'. È descritto come il 'segugio del signore con le corna' e più avanti si dice che il suo sguardo è fatale.» «So leggere, sapete. Il Tafles taceis è un elenco di follie pagane. Il commento dice che questo era molto probabilmente il termine usato per descrivere la guardia personale del re delle streghe Bhragnos, vero? Assassini malvagi noti per i loro elmi rostrati.» «Sì, dice così, tra l'altro il commento fu scritto cinquecento anni dopo il brano originale.» «Da un membro colto della chiesa.» «Ma, fratrex, io ho visto quella bestia.» «Certo che avete visto una bestia. I leoni a volte escono dalle colline.» «Non credo che fosse un leone, fratrex.» «Ne avete mai visto uno nel cuore della notte?» «Non ne ho mai visto uno in vita mia, eminenza.» «Appunto. Se quello che avete visto era una di quelle belve, come mai non vi ha ucciso? Perché non siete stato avvelenato dalla sua presenza? Avreste dovuto esserlo, se prendiamo sul serio i vaneggiamenti del guardaboschi.» «Non so rispondere a queste domande, fratrex.» «Credo che questa vostra indagine sia una perdita di tempo per noi.» «È quindi vostro desiderio che non vada avanti?» Il fratrex scrollò le spalle. «Finché non interferisce con i compiti che ci si attende da voi, potete continuare a fare quello che volete. Ma per me, state andando a caccia di fantasmi.» «Vi ringrazio per la vostra opinione, fratrex» rispose Stephen inchinandosi. Perché non gli ho parlato del corno? Si chiese Stephen, non appena si fu congedato. Il corno rappresentava un problema. Le lettere che riportava incise le aveva viste solo due volte. Era una grafia segreta usata sotto il regno del Giullare Nero. Era possibile decifrarla solo grazie a un singolo scrift - scritto su pelle umana - accompagnato da un'iscrizione parallela nel manoscritto vadhiano. Le lettere erano diverse da tutte quelle note alla chiesa, e per questo aveva sempre pensato che fossero state inventate dagli scribi che le usavano.
Eppure eccole qui di nuovo, e questa volta registravano qualcosa in una lingua talmente strana che non aveva la più pallida idea di cosa volessero dire. Non somigliava a nessun'altra che avesse mai visto o sentito. Per lo meno, a nessuna lingua umana. Le parole sembravano formate da piccoli frammenti come quelli della lingua skasloi glossati nei primi testi Cavarum. Che cosa aveva trovato il guardaboschi? Arricciando le labbra, Stephen tornò allo scriftorium. Un'indagine più approfondita del Libro delle voci si dimostrò frustrante. Aveva pensato che l'espressione homed lord potesse essere tradotta meglio con il signore con le corna, perché la parola in questione si riferiva chiaramente a qualcosa come una ramificazione di corna, piuttosto che a uno strumento di corno. Rimase seduto per un po', fissando il testo, accigliato, desiderando di poter accedere alle fonti originali a cui l'autore sconosciuto aveva attinto. La sua mente continuò a ronzare su diverse strade che non portavano da nessuna parte. Sfogliò, seppure con poche speranze, il Tomo delle reliquie, sperando di trovare qualche icona religiosa che combaciasse con la descrizione del corno. Se la lingua era veramente un dialetto skasloi, probabilmente era anteriore al trionfo dei santi sugli dèi. Mentre stava rimettendo a posto il libro, s'insinuò il ricordo di una sera di non molto tempo prima, quando Aspar White lo aveva spaventato con la minaccia del Veggente Malvagio. Si ricordò del suo fantasioso collegamento con il san Corno Dannato citato da suo nonno, e istintivamente si mise a cercare un volume di santi oscuri e falsi, caratteristici della zona est di Crofheny. Non ci mise molto a trovarlo. Dopo aver percorso la via dei templi, Stephen scoprì che lo scriftorium era diventato una specie di appendice della sua mente e delle sue dita; il solo pensiero di un argomento lo conduceva direttamente agli scaffali giusti. Il libro era abbastanza recente, scritto da uno studioso delle Regioni Centrali e, sebbene la sua struttura fosse piuttosto arcaica, trovò subito il riferimento che stava cercando. Seguendo le righe con il pollice, cominciò a leggere. La gente di Oost sussurra a bassa voce il nome del Veggente Malvagio, uno spirito folle, assetato di sangue, che cavalca dando la caccia ai defunti. È indubbio che costui non sia altri che una manifestazione di sant'Irato,
o come è chiamato in Hanzish, Ansi Woth, un santo con una storia particolare. In origine era uno degli antichi dèi, ma possedeva un carattere volubile, e al principio dell'era di Everon mutò la sua alleanza e divenne un santo, anche se incerto. Presiede all'impiccagione dei criminali, e la sua benedizione è da evitare, perché conduce con tutta certezza alla pazzia e alla rovina. Si dice che il suono del suo corno, come quello del signore di Vimini, susciti la distruzione. Stephen fece una pausa, ma poi continuò. Quello che venne dopo però era per lo più la recita di altri nomi del Veggente, uno dei quali era proprio san Como Dannato, perché si diceva che avesse attirato su di sé la maledizione degli antichi dèi per averli traditi. Ma Stephen continuava a tornare al riferimento al signore di Vimini, e quando ebbe finito, cercò un passo che lo riguardasse. Con sua grande delusione, questo era molto stringato. Il signore di Vimini è un falso santo, senza dubbio un 'invenzione della gente di campagna, originata dalla paura della foresta buia e impenetrabile che la circonda. Si trova più spesso nelle canzoni da bambini, in cui è rappresentato come un oggetto che incute terrore. Si dice che il suo risveglio spezzi il cielo e sia connesso a un corno che lo accompagna nella sua collina di spine. È forse collegato alle storie del barone Fogliaverde e può essere una versione confusa di san Silvano, perché anche su di loro vengono raccontate storie simili. In alcune canzoni è noto come il Re degli Alberi. Eccitato, Stephen si gettò su fonti simili, e trovò alcune delle canzoni da bambino citate, ma nessuna di queste fu di aiuto. Si era fatto tardi, ed era rimasto solo lui nello scriftorium. Il sonno gli appesantiva le palpebre, e stava quasi per concludere che aveva trovato tutto quello che poteva. Rimaneva un solo scrift, e non prometteva niente di eccezionale, essendo poco più di un libro di favole; ma mentre lo sfogliava stancamente, una piccola illustrazione catturò il suo sguardo. Era una creatura antropomorfa, fatta di foglie e rampicanti, con rami che spuntavano dalla testa come corna ramificate. In una mano teneva stretto un piccolo corno. La didascalia era una canzone che aveva già letto altre due volte, un girotondo. Quando stava per rimetterlo a posto, le dita sfiorarono i margini e sentì
qualcosa: un'impronta sulla pergamena. Incuriosito, la esaminò più da vicino. Sembrava che qualcuno avesse scritto un appunto su un'altra pergamena o un pezzo di carta, con uno stilo di piombo probabilmente, e ne fosse rimasto il calco. Cercò ansioso un pezzo di carbone, lo strofinò leggermente sul foglio, come aveva fatto con la pietra di confine sul Vio Caldatum, ed emersero dei deboli caratteri. Quando ebbe finito, rimase a fissare il risultato. I caratteri erano identici a quelli incisi sul corno di Aspar. Poi c'era un'unica parola nella lingua del re. Trovare. «Io le starei lontano, se fossi in te» osservò fratello Ehan, il giorno dopo, quando Stephen si avvicinò un po' di più, di traverso ad Angela. «L'ho già cavalcata in passato, vero ragazza?» La giumenta lo guardò dubbiosa. «Be', forse non sarà ribelle come l'altro, ma è diventata un po' selvatica.» «Ssh, Angela.» Le offrì una mela che lei annusò sospettosa distogliendo poi lo sguardo, ma avvicinandosi di uno o due passi ancora. «Brava ragazza, vieni qui.» «Comunque non capisco perché lo fai» disse Ehan. «Lo faccio» rispose calmo Stephen «perché la voglio cavalcare.» «Perché?» «Perché potrebbe volerci troppo tempo per andare a piedi dove voglio arrivare.» «Di che cosa parli, per san Gallo?» Adesso poteva quasi toccare la giumenta. I fianchi le tremavano mentre faceva un altro passo, abbassò il muso, poi lo risollevò e prese la mela, docilmente. «Brava, ragazza» disse Stephen. «Te la ricordi questa?» Le mostrò una briglia che aveva dietro la schiena. Angela la guardò, e sembrò quasi tranquillizzata. Stephen gliela portò su una lato del muso perché potesse dare una bella annusata a lui e alla briglia, poi iniziò a mettergliela con delicatezza. Lei non si oppose. «Sei la mia innamorata» la coccolò. «Dimmi dove stai andando» gli chiese Ehan. «Dovremmo occuparci del frutteto dopo di questo.» «Lo so. Se scoprono che manco, non ti chiedo di mentire per me, e per-
ciò non ti dico dove vado.» Ehan si morse il labbro e sputò. «Sarai qui per i vespri?» «Se non sono tornato per quell'ora vuol dire che non torno più» garantì Stephen. «D'accordo, ragazza, sei pronta?» Angela rispose accettando che lui, con circospezione, le salisse in groppa. Scalpitò un po', ma poi accettò le briglie. Stephen la spronò a un trotto vivace, una cosa non molto piacevole senza sella, per nessuno dei due. «Scusami ragazza. Non potevo portare una sella qui fuori senza essere notato.» Gli ci erano voluti quasi due giorni per trascinare Aspar White da dove l'aveva trovato fino al monastero, ma in realtà era solo una lega di distanza. A cavallo e senza peso percorse quella distanza in due ore. Da quando aveva percorso la via dei templi, aveva una memoria perfetta nel ricordare le strade come in ogni altra cosa, quindi riuscì a trovare il posto senza troppi problemi. Si guardò intorno, poi, accigliato, smontò da cavallo. C'erano delle foglie morte che ricoprivano il terreno, cadute da un albero che sembrava colpito da un fulmine, senza mostrarne i segni. Eppure era morto, come la scia di felci e di sottobosco che si snodava verso la radura. Si fermò a poca distanza dai resti del suo fuoco, poi continuò in una direzione diversa. Il punto in cui girava la scia era esattamente quello in cui si era trovata la creatura col becco. «Nessun leone può aver fatto una cosa del genere, Angela» mormorò, anche se non aveva mai accettato l'ipotesi del fratrex. Stava ancora studiando quella traccia innaturale, quando sentì delle voci in lontananza. Stephen aveva avuto diverse esperienze con stranieri nella foresta, ed erano già abbastanza per una vita intera, quindi cominciò a trascinare Angela via da lì, silenziosamente. Ricordando la storia di Aspar, salì su un pendio, dove una striscia di vegetazione più fitta poteva nasconderlo dalla valle. Impastoiò la giumenta nella parte opposta del pendio, poi scivolò in un punto da dove poteva vedere il luogo in cui aveva trovato Aspar White. Dopo circa mezz'ora, giunsero in vista otto uomini a cavallo. Stephen si sentì raggelare quando vide di chi si trattava. Era Desmond Spendlove con la sua banda. Avevano tirato giù il cappuccio e Stephen poté riconoscerne qualcuno: quel goffo omone di fratello Lewes, e poi Aligera, Topan, Seigereik, i quattro peggiori, secondo Ehan. Gli altri li aveva già visti, ma non sapeva i nomi. Erano otto in tutto.
Si fermarono ed esaminarono il fuoco e la vegetazione morta. «Che stava facendo?» grugnì Lewes. Spendlove scosse la testa. «Non lo so. Stava dando la caccia a qualcuno. Forse quel guardaboschi di cui ci ha parlato Fend.» «Giusto. Ma allora dov'è?» «Qualcuno deve aver trascinato via il corpo» suggerì Seigereik, studiando il terreno. «Da quella parte.» «D'Ef è a una lega in quella direzione» pensò Spendlove. «Interessante.» «Ma il greffyn non l'ha seguito» osservò Seigereik. «Forse se n'è andato dopo aver ucciso la sua preda.» «Dobbiamo riprendere le sue tracce, allora?» Spendlove scosse la testa. «No. Abbiamo del lavoro da fare a ovest.» «Ah, la regina!» «Il changeling nella sua guardia ha fallito l'omicidio. Ora tocca a noi. Dobbiamo incontrare Fend a Loiyes.» Guardò di nuovo la traccia del greffyn. «Ma prima credo che sia meglio fermarci a d'Ef per sapere qualcosa di più su quanto è successo qui.» «Con gli alleati che si ritrova, Fend dovrebbe essere in grado di sbrigare questa faccenda da solo» disse Topan, mentre i suoi occhi di ghiaccio punzecchiavano a caso la foresta circostante. «Fend può fallire, proprio come il changeling. Avrebbero dovuto mandare noi a cominciare, ma possiamo essere noi a fare obiezioni.» «Inoltre potremmo metterci un mese ad arrivare fin là» argomentò Topan. «E se facciamo tutta quella strada per niente?» «Ci sono altre questioni da risolvere» lo rassicurò Spendlove. «E poi l'aria di campagna ti farà bene.» «Ne ho respirata fin troppa ultimamente.» «Facciamo quello che dobbiamo fare» replicò Spendlove. «Se non vuoi più continuare, sai bene qual è la via d'uscita.» E si diresse verso il suo cavallo. Quando si furono allontanati, Stephen non ebbe il coraggio di respirare. Se ne stava lì disteso, coi denti stretti, realizzando che forse aveva portato Aspar White nel posto più pericoloso che si potesse immaginare. Capitolo undici Il grembo di Mefitis
Anne sognò la luce del sole sul prato della Manica, e la fornace del tramonto sulle lingue di terra e la semplice danza della fiamma di una candela. Si avvolse nel ricordo del colore e delle ombre, sperando di non dimenticare il modo in cui il vento tra le foglie degli olmi alti, lungo i canali, frammentava la luce in incantevoli spicchi d'oro; come invece aveva fatto con il volto di Roderick. Non vorranno farmi impazzire, pensò. Non mi lasceranno qui dentro per nove giorni. Ma forse c'erano già riusciti. Forse era lì già da un mese, un anno. Forse i suoi capelli erano diventati grigi, Roderick si era sposato e suo padre era morto di vecchiaia. Forse era una pazzia già solo aggrapparsi alla speranza e fingere di non essere lì da molto. Provò a ricreare il tempo contando i battiti del suo cuore o picchiettando con le dita. Provò a misurarlo con i momenti di fame, o contando quanto cibo e acqua le rimanevano. Preferiva tenere gli occhi chiusi, perché in questo modo poteva fingere che le cose fossero come avrebbero dovuto essere e cioè che lei fosse sdraiata nel suo letto, a cercare di addormentarsi. Ovviamente, non riusciva quasi più a cogliere la differenza tra veglia e sonno. La sua unica consolazione era che aveva iniziato a odiare l'oscurità; non la temeva più, come prima, né le si era arresa come sorella Secula sicuramente voleva che facesse. No, la detestava, e complottava contro di lei, pensando a come avrebbe potuto accendere una luce nel suo ventre schifoso, uccidendola. Cercò tra le scarse provviste, nella speranza di trovare qualche piccolo pezzo di acciaio, un qualcosa che avrebbe potuto provocare una scintilla contro una pietra, ma non c'era niente, ovviamente. Quante ragazze avevano messo lì dentro nei secoli? Quante dovevano aver pensato la stessa cosa? «Ma io non sono le altre» brontolò Anne, sentendo il suono della sua voce che riempiva lo spazio. «Sono una figlia della dinastia Dare.» Così, con grande determinazione, fissò il nulla, immaginando anche un solo punto luminoso, allontanando ogni altro pensiero. Se non poteva spezzare le tenebre nella realtà, poteva farlo almeno nel suo cuore. Ci provò e forse riuscì ad addormentarsi, poi ci provò di nuovo. Prese l'idea della luce e i ricordi che ne aveva e li strizzò insieme davanti agli occhi, desiderando con ogni fibra del suo essere che fossero reali. E tutto a un tratto eccola lì: una scintilla, un punto minuscolo, non più grande di una punta di spillo.
«Santi!» esclamò, ma poi scomparve. Pianse per un po', si asciugò gli occhi e con maggiore determinazione di prima, ricominciò. La seconda volta che apparve la scintilla, la trattenne, la alimentò e la nutrì di tutti i ricordi di luce che poté trovare, e questa crebbe lenta, esitante, bella. Crebbe fino a raggiungere la dimensione di una ghianda, poi di una mano, conteneva del colore e sbocciava come un'ipomea che spalanca i suoi petali. Ora riusciva a vedere le cose, ma non quello che si aspettava. Non muri e un pavimento di pietra, ma la ruvida corteccia di una quercia, intrecci di rampicanti, un mazzetto di fiori gialli, come se la luce fosse un buco nella parete di una stanza scura che si affaccia su un giardino. Ma non era un buco. Era una sfera, e spinse via le tenebre fino a che non rimase più nulla. Non si trovava più in una caverna, ma nella radura di una foresta piena di luce. Guardò in basso e non riuscì a vedere la sua ombra e con un tonfo al cuore capì dov'era. La sua pazzia era ormai compiuta. «Sei venuta senza la tua ombra» disse una voce. Era una donna, ma non la stessa di quel giorno su Tom Woth. Questa aveva i capelli sciolti di un castano lucente e una maschera incisa d'avorio lucido e liscio. I lineamenti erano fini e verosimili, e la bocca rimaneva scoperta. Indossava un abito di seta color bronzo, ricamato con trecce e nodi di serpenti cornuti e foglie di quercia. «Veramente non volevo venire qui affatto.» «Eppure l'hai fatto. A Eslen hai fatto un patto con Cer. Ti ha portato al coven di santa Cer e ora ti porta qui.» Fece una pausa. «Mi chiedo che cosa voglia dire.» Per qualche ragione, quella semplice frase terrorizzò Anne più di quanto avesse fatto l'oscurità. «Non lo sapete? Non siete una santa? Allora chi siete e dov'è l'altra donna, quella con i capelli d'oro?» La donna sorrise nervosa. «Mia sorella? Vicino, ne sono sicura. Per quanto riguarda me, non so più chi sono. Sto aspettando di saperlo, come te.» «Io so chi sono. Sono Anne Dare.» «Sai il nome e basta. Tutto il resto è una supposizione o un'illusione.» «Non vi capisco.» La donna scrollò le spalle. «Non ha importanza. Che vuoi?»
«Che cosa voglio io?» «Sei venuta qui per qualche motivo.» Anne esitò. «Voglio uscire dalla caverna, dal grembo di Santa Mefitis.» «Presto fatto, vattene da lì.» «C'è forse una via d'uscita?» «Sì. Ne hai già trovata una, ma ce n'è un'altra. Tutto qui?» Anne ci pensò attentamente per un attimo. Forse era pazza, ma se non lo era... Se non lo era, stavolta sarebbe stata più brava dell'ultima. «No» rispose decisa. «Quando vostra sorella mi ha rapito, mi ha detto delle cose. Pensavo fossero sciocchezze, o che stessi sognando. Anche praifec Hespero lo ha creduto quando gliel'ho raccontato.» «E ora?» «Adesso credo che fosse vera e voglio capire cosa voleva dirmi.» Le labbra della donna si curvarono in un sorriso. «Ti ha detto che deve esserci una regina a Eslen quando lui arriverà.» «Sì. Ma perché e chi è questo 'lui'? E perché lo ha detto a me?» «Sono sicura che hai già fatto queste domande a mia sorella.» «Sì, e mi ha risposto cose senza senso. Quella volta ero spaventata, troppo spaventata, per esigere delle risposte migliori. Ora le pretendo.» «Non puoi sempre avere quello che vuoi.» «Ma voi... lei... vuole che faccia qualcosa. Tutti vogliono che faccia qualcosa, che agisca in un modo anziché in un altro, che vada in un coven, che prometta questo e quello. Be', eccomi qua! Se volete qualcosa da me spiegatemelo o statevene fuori dai miei sogni!» «Stavolta sei venuta tu, Anne, di tua spontanea volontà.» La donna con la maschera sospirò. «Fammi le tue domande, cercherò di esserti di maggior aiuto rispetto a mia sorella. Ma devi capire, Anne, che non siamo padrone di noi stesse più di quanto non lo sia tu, non importa cosa credi di essere. Un cane non sa parlare come un uomo e il cielo non può suonare come un liuto. Il cane abbaia, il cielo tuona. È così che sono fatti.» Anne arricciò le labbra. «Vostra sorella ha detto che Crotheny non deve cadere, e che deve esserci una regina a Eslen quando questo misterioso 'lui' arriverà. Nel momento esatto in cui lei mi diceva queste cose, mia madre, la regina, veniva quasi uccisa. Sapeva che stava succedendo?» «Lo sapeva.» «Perché non me l'ha detto?» «A che sarebbe servito? L'attentato contro tua madre si era concluso
quando sei tornata a Eslen. Mia sorella ti ha detto quello che dovevi sapere.» «Ma non mi ha detto niente. Chi è l'uomo che sta arrivando? Perché deve esserci una regina? Ma soprattutto - soprattutto - che cosa devo fare?» «Lo saprai quando arriverà il momento, se solo ricorderai quello che ti ha detto. Deve esserci una regina. Non la moglie di un re - capito? - ma una regina suprema.» Anne spalancò la bocca. «No, no. Non ho capito per niente. Ma comunque...» «Devi fare in modo che ci sia una regina, Anne.» «Intendete dire che devo diventarlo?» La donna alzò le spalle. «Potrebbe essere un modo.» «Sì, ma impossibile. Mio padre, mia madre, mio fratello e tutte le mie sorelle dovrebbero essere morte... prima che...» Per un attimo non riuscì ad andare avanti. «Allora è questo?» domandò, avvertendo un gelo improvviso. «È questo che sta per succedere?» «Non lo so.» «Non ditemi questo! Ditemi qualcosa di vero.» La donna inclinò la testa da una parte. «Noi possiamo vedere solo di cosa c'è bisogno, Anne. Come un bravo cuoco, so quando l'arrosto necessita di altro sale o di una foglia d'alloro, se deve rimanere sullo spiedo per un'altra ora o no.» «Crotheny non è un arrosto.» «No, e neanche il resto del mondo lo è. Forse sono più come un cerusico, allora. Vedo un uomo così ferito e infetto che alcune parti hanno già iniziato a decomporsi, e i vermi, divenuti più audaci, cominciano a divorare quello che resta. Sento il suo dolore e il suo male e so quali unguenti servono, dove bisogna mettere il fuoco sulla ferita e quando.» «Crotheny non è in decomposizione.» La donna scosse la testa. «È molto prossima alla morte.» Anne ebbe un gesto di stizza nei confronti della donna. «Prima siete una nuvola, poi un cerusico. Crotheny è un arrosto e un uomo ferito. Parlate chiaro! Voi insinuate che il mio paese e la mia famiglia sono in grave pericolo, e che devo essere la regina o colei che genera" la regina, eppure sono qui a Vitellio a migliaia di leghe di distanza! Devo rimanere o partire? Ditemi cosa devo fare e basta con le stupidaggini sugli arrosti e i malati.» «Sei dove devi essere, Anne, e ti ho già detto che cosa fare. Il resto devi
capirlo da sola.» Anne ruotò gli occhi. «No, pretendo di più. Allora rispondetemi chiaramente a questa domanda, se potete. Perché proprio io? Se non riuscite a vedere il futuro, perché, per tutti i santi, c'è bisogno proprio di me e non di Fastia, o della mamma?» La donna voltò le spalle ad Anne e fece qualche passo. Con la schiena ancora girata, sospirò e disse: «Perché sento che c'è bisogno di te. Perché le querce lo sussurrano, anche quando il greffyn le uccide, e perché tra tutte le donne viventi, sei l'unica che può venire da me in questo modo, di tua volontà.» «Cosa?» «Mia sorella ti ha chiamato quando hai camminato in senso antiorario sotto il sole. Io invece no, sei stata tu a chiamare me.» «Io... come?» «Te l'ho detto. Hai fatto un patto con santa Cer. Quando chiedi qualcosa tramite i morti, c'è sempre un prezzo, sempre una conseguenza.» «Ma io non lo sapevo.» La donna emise una piccola risata raggelante. «Se un cieco passeggia sul bordo di un precipizio, l'aria, prima di rifiutare di sostenerlo, non gli chiede mica se sapeva cosa stesse facendo; e le rocce sottostanti, prima di rompergli le ossa non gli chiedono mica se sapeva o no qualcosa su di loro.» «Allora Cer mi ha maledetto?» «Ti ha benedetto. Hai percorso la sua via dei templi più strana. Sei stata toccata da lei, come nessun altro mortale.» «Non ho mai percorso una via dei templi. Queste sono cose da preti, non da donne.» Un sorriso attraversò le labbra sottili ed esangui della donna. «La tomba sotto Eslen-delle-Ombre è un sedos» disse. «Il Grembo di santa Mefitis è un altro, il suo gemello. Sono due metà della stessa cosa. Una via dei templi molto breve, credo, ma difficilissima da trovare. Sei l'unica che l'ha percorsa in più di mille anni. E sarai l'ultima a farlo per altri mille, probabilmente.» «Che cosa significa?» La donna rise di nuovo. «Se lo sapessi te lo direi. Però so questo: doveva succedere. La tua preghiera a santa Cer ti ha portato qui e ha messo in movimento tutte le conseguenze di quel viaggio, compresa questa. Come ti ho già detto, sei dove devi essere.»
«Quindi devo rimanere nel coven, anche se mi gettano nella terra a marcire? No, ho capito. Dovevano gettarmi quaggiù perché santa Cer lo desiderava.» Sbuffò. «Che succede se decido di non credervi? E se penso che siete una strega incantatrice, che cerca di tendermi una trappola? Entrate nei miei sogni, mi raccontate delle bugie e vi aspettate che io me le beva come acqua.» Le venne in mente un pensiero improvviso che la colpì dritta allo stomaco. «E se foste uno stregone hanzish? E se voi e vostra sorella aveste stregato il cavaliere che ha provato a uccidere mia madre? Certo, deve essere così! Che stupida!» Queste ipotesi le fecero tremare le ginocchia. Tutti a Eslen stavano cercando qualcuno con il potere di stregare un maestro, e durante l'attentato Anne stava parlando proprio con quella persona. E lei non l'aveva raccontato a nessuno tranne che al praifec, il quale non le aveva creduto; e ora eccola qui, intrappolata tra le grinfie di suore sadiche a migliaia di leghe di distanza da tutti coloro di cui si fidava. Inoltre Austra le aveva fatto promettere di non fuggire, forse anche lei era stregata. «Siete una bugiarda; una bugiarda e una strega.» La donna scosse la testa, ma Anne non capì se era un diniego. Cominciò ad allontanarsi nel bosco. «No! Tornate indietro e rispondetemi!» La donna agitò la mano e tutto tornò buio. «No!» gemette ancora. Ma era di nuovo sul freddo pavimento di pietra della caverna. Batté sul terreno con i pugni, mentre lacrime di rabbia le sgorgavano dagli occhi. Dopo essersi chiamata stupida per alcune centinaia di volte, Anne giunse a una conclusione inconfutabile: non poteva né voleva fidarsi di sorella Secula che voleva impedirle di uscire dalla caverna. La donna con la maschera le aveva detto che c'era un'altra via d'uscita. Forse era una bugia, ma ora si ricordava di storie che parlavano di caverne, e in effetti c'era sempre più di un'uscita. Così, muovendosi molto lentamente e con attenzione sulle mani e le ginocchia, oltrepassò il confine che le suore le avevano detto di non superare, e si ritrovò sul suolo sconosciuto e irregolare della caverna. Era più facile di quanto si aspettasse. Ogni avvallamento e curva del terreno sembrava essere dove doveva essere, e l'esplorazione divenne presto
più simile a un ricordo. Era eccitante e terrificante allo stesso tempo. E se avesse davvero percorso una via dei templi come un prete? Come Genya Dare e i suoi eroi? E se questa nuova sensibilità non fosse frutto della sua immaginazione, ma realtà? Immaginazione o no, divenne sempre più sicura della strada e si alzò in piedi. L'eco dei suoi passi la informava quando era in una galleria grande o piccola. La sensazione di un'aria più fresca l'avvisava di una profonda spaccatura nella roccia e il sapore dell'alito della caverna le suggeriva la presenza di acqua. Quel sapore si fece sempre più forte, man mano che proseguiva, fino a che riuscì a sentire un allegro gocciolio. E dopo essersi trascinata su e giù attraverso cunicoli - a volte troppo stretti per passarci in mezzo - riuscì a scorgere la luce. Una luce fioca. Ma vera. Presto fu abbastanza luminosa da essere insostenibile, e dovette fermarsi per consentire ai suoi occhi di riguadagnare la forza dopo tanti giorni di oscurità. Ma alla fine, quando i raggi del sole non furono più lame, si avvicinò alla bocca della caverna e per un po' non fece altro che deliziarsi con la sensazione della luce e del vento sulla pelle. Poi cominciò a perlustrare quello che la circondava. La caverna si apriva sul fianco di una collina fitta di ulivi, alloro e ginepro. Anne dedusse che si trattava dello stesso lungo pendio su cui si trovava il coven, ma guardando attentamente non riuscì a vedere le torri da nessuna parte, il che le suggerì che doveva trovarsi sull'altro lato. Pian piano s'incamminò verso la cuna finché riuscì a vedere il coven e si rese conto che era piuttosto distante. Felice di sapere dove fosse, ridiscese e cominciò a esplorare, attenta a memorizzare i punti di riferimento vicini alla caverna. Il terreno sotto di essa era più pianeggiante e coperto da una foresta non molto fitta, con le linee degli alberi spesso interrotte da radure erbose. Una volta doveva essere stato un pascolo, forse per quelle stupide pecore, ma non vedeva segni recenti. Poco più avanti tornò a sentire il gocciolio e con grande soddisfazione scoprì un laghetto d'acqua sorgiva. Dalle cime degli alberi che lo circondavano uscì uno stormo di uccelli, sfrecciando nel cielo. Erano di un giallo così intenso che Anne esclamò dallo stupore. Dopo aver finito di esplorare la zona intorno al laghetto, si avvicinò a sentire l'acqua e la trovò fresca. Si guardò di nuovo intorno e, sicura d'essere completamente sola, si tolse i vestiti maleodoranti e si lasciò andare
nell'acqua. Provò una sensazione meravigliosa e, dopo aver nuotato un po', fu contenta di riposarsi nella secca con l'acqua che le arrivava al mento, chiuse gli occhi, e l'interno delle palpebre s'illuminò di rosso. Cercò di dimenticare le sue esperienze nel Grembo di santa Mefitis, anche che doveva tornarci. Non sapeva se la donna della visione fosse una bugiarda o meno, ma restava la promessa fatta ad Austra e non poteva romperla. Forse si era appisolata, perché si destò certa di aver sentito qualcosa, ma non sapeva cosa. In preda a un improvviso terrore, si guardò rapidamente intorno, realizzando che non era a Eslen e che da quelle parti potevano esserci infinite belve di cui non sapeva assolutamente niente. Ma non era una belva a guardarla con occhi grandi e scuri. Era un uomo alto, giovane e in farsetto nero, brache marroni e un cappello a larghe tese. Aveva una mano poggiata sul pomo di una lunga spada. Le fece un sorriso che ad Anne non piacque affatto. Capitolo dodici Una rapida decisione Non appena fratello Spendlove e i suoi uomini furono a debita distanza, Stephen deviò dal sentiero diretto che riportava a d'Ef. Spendlove aveva percorso la via dei templi di Mamres, ma anche quella che aveva fatto Stephen. Chiunque percorreva una via dei templi riceveva doni diversi, ma era ragionevole supporre che anche i sensi di Spendlove fossero stati acuiti, e che quindi potesse sentire bene quanto Stephen. Quando Stephen non riuscì più a distinguere le loro voci, portò Angela su un sentiero parallelo per tornare al monastero e la spinse al galoppo. Cavalcare al galoppo su un sentiero era una cosa, ma farlo senza sella e nella foresta era un'altra. Stephen strinse le ginocchia sui fianchi del cavallo, infilò le mani nella criniera e tenne il corpo basso. Angela attraversò con mille schizzi d'acqua un torrente, inciampò risalendo la riva opposta e poi riconquistò l'equilibrio. Stephen pregò che la giumenta non mettesse le zampe in qualche buca o tana nascosta dalle foglie, ma non poteva permettersi di risparmiare quella povera bestia. Sapeva fin dentro le ossa che se non avesse raggiunto d'Ef prima di Desmond Spendlove, Aspar White sarebbe stato un uomo morto. Inghiottì la paura, mantenendo quell'andatura velocissima e facendo del suo meglio per resistere.
Lui e la giumenta sbucarono dal bosco nel pascolo sottostante, dove una manciata di mucche si sparpagliò lontano da loro mentre i due fratelli che le stavano controllando li guardavano stupiti. Una volta entrati nella radura, il passo di Angela cambiò da velocissimo a terrificante. Salivano su per la collina dove aveva visto Orco l'ultima volta. Il grande stallone era ancora lì, e li guardava avvicinarsi con aria sospettosa. Stephen rallentò man mano che si avvicinava, si schiarì la gola e urlò, «Seguimi Orco!» imitando meglio che poté la voce di Aspar White. Si stupì per come aveva lo aveva imitato. La voce infatti suonò identica, alle sue orecchie e alla sua memoria. Orco esitò, scalpitando. Stephen ripeté il comando e la bestia scosse la testa prima di cominciare a trottare dietro ad Angela, con un luccichio metallico negli occhi. Insieme, attraversarono di corsa il frutteto, sfrecciando accanto a fratello Ehan. Il piccolo frate gridò qualcosa che Stephen non riuscì a sentire; lo ignorò, non aveva tempo di tornare indietro, e non c'era bisogno di coinvolgere in questo guaio l'unica persona che poteva quasi definire amica. Doveva raggiungere Aspar. Forse a eccezione di fratello Ehan, non c'era nessun altro a d'Ef su cui poter contare. Il guardaboschi non ce l'avrebbe mai fatta da solo a sopravvivere, viste le sue condizioni, e comunque lo stesso Stephen sarebbe stato in pericolo per averlo aiutato. Dovevano fuggire insieme, e anche se provava un senso di vergogna e fallimento e ogni altra cosa che suo padre avrebbe visto in quella fuga, doveva anche ammettere che era maledettamente pronto a lasciare il monastero d'Ef. C'erano troppe cose sbagliate lì, troppe tenebre, e non aveva gli strumenti per affrontare tutto questo. Inoltre, se la regina di Crotheny era in pericolo, era suo dovere avvisarla. Arrestò Angela davanti all'entrata della navata e salto giù, poi si affrettò nella fresca oscurità sperando di non essere arrivato troppo tardi. Aspar stava disteso là dove era sempre stato, pallido e con gli occhi chiusi, ma prima che Stephen fosse a cinque passi da lui, il guardaboschi spalancò improvvisamente gli occhi e si mise a sedere. «Che succede?» grugnì. «Siete in pericolo. Siamo in pericolo. Dobbiamo andarcene e subito. Ce la fate?» Aspar strinse le labbra, forse pronto a qualche battuta pungente, ma poi agitò la testa di scatto in segno di assenso. «Sì. Mi serve un cavallo.» Stephen tirò un sospiro di sollievo, sorpreso e gratificato che il guarda-
boschi seguisse così prontamente il suo consiglio. «Orco è proprio qui fuori.» «Hai delle armi?» «No, e non c'è tempo per cercarne.» «Ci seguiranno?» «Sono sicuro di sì.» «Avrò bisogno di armi allora. Un arco. Non sai dove prenderne uno?» «Forse, ma guardaboschi...» «Vai.» Esasperato, Stephen si precipitò fuori, ricordandosi di un arco usato per la caccia al cervo nel frutteto, custodito nel capanno del parco. Non aveva mai visto altre armi a d'Ef, a meno che non contassero anche le mannaie del macellaio. Doveva esserci un'armeria da qualche parte, ma non aveva mai pensato di scoprirla. Per poco non investì fratello Recard uscendo. «Fratello! Ma che succede?» domandò il monaco hanzish. «Banditi» improvvisò Stephen. «Forse una cinquantina, vengono dai frutteti! Dovremo difenderci. Suona l'allarme.» Il monaco spalancò gli occhi. «Ma perché sei entrato qui dentro?» «Perché conosco i banditi» grugnì Aspar. «Forse mi hanno seguito fin qui. Assassini fuorilegge da oltre i Naksoks, barbari sanguinari. Non rispetteranno il tuo stato di ecclesiastico. Se non combatti, ti prenderanno vivo e ti mangeranno un occhio mentre con l'altro ti lasceranno guardare.» «Vado a suonare la campana!» esclamò Recard, mentre si precipitava a farlo. «Ora vado a prendervi l'arco.» «Sì. I cavalli sono qui fuori? Vi aspetto là.» Stephen raggiunse il capanno e staccò l'arco dal gancio, controllando rapido che avesse il tendine, poi afferrò la faretra con otto frecce, appesa lì accanto. Mentre stava per uscire dal capanno, notò una roncola appoggiata alla parete, di quelle per pulire il sottobosco. Prese anche quella e tornò di corsa verso la chiesa. Trovò il guardaboschi là fuori, con la faccia bianca che sudava nel tentativo di montare su Orco. I monaci gli sfrecciavano accanto, mentre si dirigevano nelle postazioni stabilite nel caso di attacco al monastero, pronti a ricevere ordini dal fratrex. Questo, in piedi all'entrata della cappella, osservò accigliato il guardaboschi che montava in sella.
Stephen sì avvicinò cauto. Il fratrex spostò lo sguardo. «Fratello Stephen, ci siete voi dietro a tutto questo scompiglio? Perché siete armato?» Stephen non rispose, ma diede l'arco al guardaboschi e salì su Angela, tenendo in mano la roncola. «Rispondetemi» gli ordinò il fratrex. «Fratello Spendlove sta venendo qui per uccidere quest'uomo» rispose Stephen. «Io non lo permetterò.» «Fratello Spendlove non farà mai una cosa del genere, perché dovrebbe?» «Perché è proprio lui che uccide le persone nella foresta, compiendo i riti di sangue sui sedoi. Gli stessi riti sanguinari che mi avete chiesto di studiare.» «Spendlove?» chiese il fratrex. «Come fate a saperlo?» «Gliel'ho sentito dire. E ora ha intenzione di uccidere la regina.» «Uno del nostro ordine? Non è possibile, a meno che...» Spalancò gli occhi sempre di più. Gorgogliò sputando sangue dalla bocca e crollò a terra. Dall'ombra della cappella dietro di lui, Desmond Spendlove fece un passo verso la luce, con i suoi uomini alle spalle. «Congratulazioni, fratello Stephen» disse. «Per salvare questo guardaboschi, hai ucciso il fratrex.» Ancora una volta, le sue certezze sul mondo crollarono davanti ai suoi occhi. «Ma io credevo...» «Lo so. Molto divertente pensare che questo vecchio scemo tremolante fosse alla base di tutto. Non avrai mica pensato che fosse intelligente?» guardò Aspar. «E voi. Ho degli amici che vi stanno cercando. Credo che saranno piuttosto felici di ricevere una prova della vostra morte. La vostra testa, magari. E smettetela di provare a tendere quell'arco, vi farò falciare immediatamente.» Tornò a guardare Stephen. «Fratello, nonostante le tue trasgressioni, puoi essere perdonato. Be', forse non perdonato, ma risparmiato. Puoi essere ancora utile.» «Non vi aiuterò più» rispose, avvertendo un nodo in gola per la paura, ma sentendo anche, con sua sorpresa, qualcosa nel petto crescere più forte. «Non tradirò i miei voti, la mia chiesa o la gente del mio paese. Dovrete uccidere anche me.» Sollevò la sua arma improvvisata. «Mi chiedo se hai il coraggio di uccidermi tu stesso.» Spendlove scrollò le spalle. «Coraggio? Il coraggio non è niente. Vedrai
cosa succederà al tuo quando ti squarteremo, non per ucciderti, bada bene. Solo per convincerti del tuo valore. Temo di non poterti lasciare semplicemente a santa Tetra.» Stephen provò a rispondere qualcosa, ma esitò. Sollevò l'arma, con le mani che gli tremavano. «Scappate, Aspar White» disse. «Farò del mio meglio per tenerli qui.» «Non riuscirei ad arrivare lontano. Tanto vale morire qui, che in qualunque altro posto.» «Allora fatemi un favore. Ficcatemi quella freccia nel cuore se fanno un passo verso di me.» «Tutto questo è molto commovente» commentò Spendlove. Improvvisamente scoprì i denti e Stephen sentì passare come un vento caldo. Aspar White spalancò la bocca in preda al dolore e la freccia che stava tenendo cadde a terra. «Ecco» disse Spendlove. «E adesso...» Guardò in basso, qualcosa si mosse vicino ai suoi piedi. Era il fratrex, che stava tirando su e cercava di raggiungere la parete del monastero. «Spendlove, traditore, eretico» mormorò il vecchio, con un tono di voce appena percepibile. Improvvisamente sulla parete della chiesa si diffusero delle crepe come tele di ragni, si moltiplicarono in un attimo, con uno strepito assordante, poi l'intera facciata dell'edificio crollò. Spendlove e i suoi uomini svanirono tra la polvere e le macerie. «Sali a cavallo, maledetto» gridò Aspar, ancora prima che le pietre finissero a terra. «Ma io...» Stephen si mosse impotente verso l'edificio che stava crollando. «Sali e forse riusciamo a sopravvivere per combattere più tardi. Rimani qui e moriremo oggi.» Stephen esitò ancora un po', poi girò su se stesso e saltò in groppa ad Angela. I due cavalcarono insieme come se avessero tutti i santi malvagi alle calcagna. E forse era proprio così. Capitolo tredici Un incontro Catio terme la mano sul pomo di Caspator e si appoggiò a un albero di
melograno. La ragazza nel laghetto lo vide, e con un'esclamazione di sorpresa tornò a immergersi fino al mento. Fu un vero peccato, perché in quel corpo bianco e longilineo tutto era ben fatto, compreso il collo, e ora non si vedeva più nulla. Sorrise e raccolse il mucchio dei vestiti con la punta della spada. «Grazie» disse, con voce sostenuta, volgendo lo sguardo al cielo. «Grazie, lady Erenda, patrona degli innamorati, per aver esaudito il mio desiderio.» «Io non sono il vostro desiderio» rispose la ragazza brusca e irritata. «Dovete andarvene immediatamente, chiunque voi siate.» Aveva un accento esotico, come il colore dei suoi capelli. La cosa si faceva sempre più interessante. Certo, era anche la prima ragazza che vedeva da settimane, da quando cioè lui e z'Acatto avevano accettato l'ospitalità della contessa Orchaevia. Questa infatti preferiva domestici maschi, e il villaggio più vicino era a un'intera giornata di cammino da lì. Ma lì, a distanza di una sola lega dalla villa, la fortuna gli aveva arriso. «E io non sono il vostro schiavo, signora, e non obbedisco ai vostri ordini.» E poi, agitando un dito verso di lei: «Inoltre, chi siete voi per sapere cosa desidero veramente? Stavo camminando e proprio adesso avevo detto a lady Erenda: 'Signora, questo mondo è pieno di bruttezza e sofferenza. È un triste luogo di dolore e le mie tribolazioni mi hanno portato a disprezzarlo. Il risultato è che io, Catio Pachiomadio da Chiovattio, che una volta amavo la vita, sono stufo di tutto. Lady Erenda - pregavo così - se poteste mostrarmi solo la bellezza più perfetta che si possa immaginare, concedermi solo un'occhiata veloce, riuscirei allora a trovare la forza di andare avanti, e sopportare il peso che un uomo come me è destinato a sopportare. Ed ecco che un attimo dopo ho sentito il rumore dell'acqua, ho visto questo laghetto e, al suo interno, la risposta alla mia preghiera.» Non era proprio un bugia. Aveva desiderato ardentemente una donna, ma non si era rivolto alla signora dell'amore, almeno non in questi termini. La giovane si accigliò ulteriormente. «Le ragazze di Vitellio sono forse più stupide delle altre? O forse mi credete sciocca solo perché vengo da un'altra regione?» «Stupida? No, niente affatto. Vedo l'intelligenza nei vostri occhi. Forse siete stata solo sbadata a venire a fare il bagno in un lago frequentato da banditi e altri furfanti di cattiva reputazione, ma sono sicuro che è solo perché non conoscete la zona.» «Sto imparando in fretta» replicò la ragazza. «Sono qui da pochi istanti e
ho già incontrato qualcuno con una cattiva reputazione.» «Ora state provando a offendermi» si lamentò Catio. «Andatevene, così potrò rivestirmi.» «Non posso» rispose lui con rammarico. «Il mio cuore non me lo permetterà, almeno non prima che mi abbiate detto come vi chiamate.» «Mi chiamo... Fiene.» «Un nome intrigante.» «Sì, e ora che lo sapete, andatevene.» «Un nome musicale. Il mio cuore lo sta già cantando. Da quali terre lontane viene questo nome, signora?» «Liery, zotico maleducato. Ve ne andrete adesso?» Catio la guardò con gli occhi socchiusi. «Mi state sorridendo, Fiena.» «Fiene, e no, non vi sto sorridendo, o se lo sto facendo è solo perché siete assurdo... e si pronuncia Fi-e ne.» «Non volete sapere il mio nome?» «Lo avete già detto: Cashew, o qualcosa del genere.» «Ca-ti-o» la corresse. «Catio. Bene, Catio, adesso dovete andarvene.» Catio annuì e si mise a sedere sulla radice nodosa di un salice. «Sicuro che devo» convenne. Improvvisamente si rese conto che il mucchio di vestiti era un saio. «Siete una suora?» domandò. «No, ne ho trovata una, l'ho uccisa e ho preso i suoi vestiti. Che cosa credevate, zoticone, con la dimora delle Grazie proprio sulla collina?» Catio si guardò intorno. «C'è un coven qui vicino?» «Dall'altro lato del colle.» «Un intero edificio pieno di donne carine come voi? Certo che lady Erenda deve essere davvero soddisfatta di me.» «Sì, fareste meglio a correre a corteggiarle» disse Fiene. «Sono tutte completamente nude come me.» «Sarebbe una perdita di tempo» rispose Catio, cercando di apparire toste. «Ho già trovato la più carina. Dovrei salire su per la collina solo per poi tornare indietro fin qua. E questo mi fa venire in mente una domanda: perché siete qui? Qualcosa mi dice che non dovreste.» «Siete un bandito?» domandò la ragazza tutto a un tratto. «Siete un furfante?» «Sono ai vostri ordini. Se volete un delinquente, be' posso diventarlo.» «Voglio un gentiluomo che mi permetta di vestirmi.» «Questo gentiluomo che avete davanti ve lo permetterà» replicò Catio,
picchiettando con la mano sui vestiti. «Non se voi state lì a guardare.» «Ma la vostra vista mi è stata concessa da una dea. Chi sono io per negare la sua volontà?» «Non mi avete vista» lo corresse Fiene, ma non troppo convinta. «Ero sommersa.» Catio la squadrò. «Lo ammetto, non ho visto un'immagine chiara. L'increspatura dell'acqua può creare dei difetti nella figura. Sto cominciando a chiedermi se siete veramente così bella come immagino.» «Diamine!» replicò Fiene. «Non posso sopportare quest'offesa. Ecco, giudicate se ci sono difetti.» Così dicendo cominciò a uscire dall'acqua, ma quando questa le arrivò all'altezza dello sterno, emise un verso divertito e si immerse di nuovo. «Torno a dire, perché credete che sia una stupida?» Catio chinò il capo. «Sono io lo stupido. Lo so già che la vostra bellezza è perfetta.» Fiene ruotò gli occhi e poi li fissò audacemente su di lui. «Sono impegnata, sir. Non m'importa se mi trovate perfetta o perfettamente brutta.» «Ah, allora non siete una suora.» «Sono stata mandata qui per ricevere un'istruzione, tutto qua.» «Lodato sia ogni signore e signora del cielo, della notte e sotto terra!» Esclamò Catio. «Perché adesso almeno ho una minima speranza.» «Speranza? Per noi?» rise. «Non c'è alcuna speranza, a meno che non intendiate uccidermi e abusare del mio corpo. Dopo di che potete anche aspettare la morte per mano del mio fidanzato, Roderick.» «Roderick? È un nome ripugnante. Suona come pustole e inganni.» «Invece è nobile e buono, e non approfitterebbe mai delle difficoltà di una signora, come state facendo voi.» Suo malgrado, Catio si sentì arrivare il sangue alle orecchie. «Allora non è un vero uomo, perché nessun uomo riuscirebbe mai a distogliere lo sguardo dal vostro volto.» «Ah, è il mio volto che vi interessa. Allora non vi dispiace se mi rivesto. Il soggolo non nasconderà i miei lineamenti.» «No, se mi promettete di rimanere qui e parlare un po' con me» replicò Catio ammorbidendo il tono. «Mi sembra di capire che non avete una gran fretta.» La ragazza inarcò le sopracciglia. «Potreste almeno girare la schiena?» «Certo, signora.» E lo fece, nonostante il suono tentatore di lei che usci-
va dall'acqua, e il fruscio dei vestiti mentre li recuperava. Per un attimo gli fu così vicina che avrebbe potuto voltarsi e toccarla. Ma era vivace, la ragazza. Gli avrebbe richiesto un po' più di lavoro. Sentì che trascinava i vestiti verso il lago. «Che giorno è?» gli chiese. «Posso girarmi?» «No.» «Oggi è menzodì» «Altri tre giorni» mormorò. «Bene, grazie.» «Altri tre giorni di cosa?» «Non avete niente da mangiare?» domandò Fiene, invece di rispondergli. «Niente, temo.» «D'accordo. No, non giratevi ancora, non ho finito.» Catio gonfiò le guance e sbatté il piede a terra. «Non mi avete ancora detto che cosa ci stavate facendo qui. State combinando qualche marachella, vero?» Non rispose. «Posso girarmi, ora? Ho mantenuto la mia promessa.» Poiché ancora una volta non gli rispose, si girò, giusto in tempo per vederla sparire sul fianco della collina. «Bellezza sleale!» le gridò dietro. La seguì con gli occhi mentre lei, trotterellando, lo salutava e gli tirava un bacio. Poi scomparve. Pensò di correrle dietro, ma decise di non farlo. Se voleva giocare in quel modo, che lord Ontro se la prendesse. Con un sospiro si voltò e ricominciò a camminare verso la casa della contessa Orchaevia. Ma fece attenzione a fissare in mente i punti di riferimento di quel posto. Il sole era una moneta d'oro perfetta e mancava un'ora al tramonto quando Catio tornò in vista della villa. Si trovava sotto di lui, in mezzo a centinaia di versos di vigneti e una sola strada per andare e venire da lì. La casa era enorme, con le pareti bianche e il tetto rosso, uno spazioso cortile interno e un horz dai muri grezzi sull'ala occidentale. Dietro c'erano le stalle, il fienile e la cantina dove il vino fermentava e veniva imbottigliato. Catio scese tra filari di viti, raccogliendo pigramente di tanto in tanto gli acini rossi e inspirando il dolce odore di vino che veniva da quelli caduti che marcivano a terra. Non riusciva a smettere di pensare a quella ragazza. Aveva detto di veni-
re da Liery. Che razza di paese era? Sicuramente uno di quelli del Nord, dove la pelle così chiara e lo strano colore di capelli erano comuni. Si ritrovò al cancello della villa ancor prima di accorgersene. Un domestico giovane, dai lineamenti spigolosi, con calze gialle e farsetto color prugna, lo riconobbe e lo fece entrare nel cortile lastricato con pietre rosse. Una voce gutturale di donna lo salutò al suo ingresso. «Cario, mio dello!» Catio fece un inchino. «Buona sera, casnara contessa Orchaevia. Mi ero soffermato ad ammirare la bellezza dei vostri possedimenti.» La contessa Orchaevia sedeva a un lungo tavolo sotto la gronda del muro del cortile. Era una donna di mezza età, arrotondata dal cibo che adornava copioso sempre la sua tavola. Il viso era tondo e lucido come un piatto di porcellana, con un piccolo naso camuso, occhi smeraldo e guance rosa. Catio raramente l'aveva vista senza il sorriso sulle labbra. «Di nuovo in giro? Vorrei trovare qualcosa per farvi divertire di più qui, così da non costringervi a camminare per tutto l'universo.» «Mi piace, mi tiene in forma.» «Be', un giovane dovrebbe sempre tenersi in forma. Per favore, fatemi compagnia nella cena.» Indicò con un cenno del capo le pietanze davanti a lei. «Credo proprio che lo farò. Ho sviluppato un certo appetito.» Prese una sedia di cuoio, si sedette e diede un'occhiata a cosa c'era da mangiare. Si soffermò su un fico, tagliato e aperto come un fiore e guarnito col prosciutto secco e salato della regione. Un servitore si avvicinò e gli versò un boccale di vino rosso. «Z'Acatto è venuto con voi?» domandò la contessa. «È tutt'oggi che non lo vedo.» «Avete controllato in cantina? Ha la tendenza a sistemarsi lì.» «Be', allora lasciamocelo» brontolò, spalmando un cubetto di formaggio fresco imbevuto d'olio d'oliva e aglio su una fetta di pane tostato. «Tanto non riuscirà a trovare le annate migliori. Crede forse che non lo sappia che cosa sta cercando?» Sollevò lo sguardo su Catio. «In che direzione siete andato oggi?» Catio indicò verso ovest con la metà di fico rimasta. «Ah, avete fatto visita alla dimora delle Grazie.» «Non so di che cosa stiate parlando» rispose ingenuamente, bevendo un sorso di vino. «Ho visto solo alberi e pecore.» Lo guardò con aria sospettosa. «Volete dirmi che un giovane dello come
voi, non ha ancora fiutato la presenza di un coven pieno di ragazze? Non avrei mai creduto che vi ci volesse così tanto.» Catio alzò le spalle e prese un'oliva nera matura. «Forse ci vado domani.» La contessa agitò una zampa di pernice arrosto verso di lui. «Non create problemi. Sapete, sono le mie vicine. Ogni anno organizzo una piccola festa per loro. È l'unico lusso che si concedono.» «Davvero?» esclamò Catio deponendo il nocciolo d'oliva in un piattino per poi rivolgere l'attenzione a un piatto di pere affettate e formaggio pecorino. «Ah, adesso Orchaevia ha guadagnato la vostra attenzione, vero?» «Sciocchezze» rispose Catio allungando le gambe e incrociandole. «Be', se non siete interessato...» Alzò le spalle e bevve un lungo sorso di vino. «Ah, d'accordo, facciamo finta che mi interessi un po'. Quando si verificherebbe questa festa?» La contessa sorrise. «Alla vigilia del Fiussanale, il primo giorno di Seftamenza.» «Fra tre settimane...» «Ovviamente, non siete invitato» disse maliziosa. «Ma potrei vedere di escogitare qualcosa se fosse in gioco una questione di cuore.» «Non c'è niente del genere. Inoltre, può darsi che non sia più qui fra tre settimane.» Orchaevia scosse la testa. «Mah, le acque non si sono ancora calmate ad Avella. Ci vorrà ancora tempo.» «Avevo pensato di fare un viaggio a Furonesso» disse Catio. La contessa farfugliò nel bicchiere. «Con questo caldo? Per quale motivo?» «La mia spada si sta arrugginendo.» «Ma se fate pratica tutti i giorni con le mie guardie!» Catio scrollò le spalle. La contessa strinse gli occhi e poi tutto a un tratto scoppiò a ridere allegramente. «Rimarrete» concluse mentre spalmava paté di fegato di coniglio su un altro toast. «State solo cercando di convincere voi stesso che nessuna vi abbia raggirato.» Catio si fermò con un uovo di quaglia imburrato a mezz'aria. «Casnara, di che diamine state parlando?»
Sorrise. «Lo vedo da quell'espressione distratta sul vostro viso, quella che avete fatto quando ho parlato della festa. Non provate a prendere in giro Orchaevia quando si parla di questioni d'amore. Voi siete innamorato.» «Questo poi, ma è ridicolo!» commentò con enfasi Catio. Si stava infastidendo. «Anche ammesso che abbia incontrato qualcuno oggi, credete che il mio cuore possa rimanere colpito così facilmente? Queste sono fantasie d'amore, non la vita reale, contessa.» «Questo è quello che ogni uomo pensa fino a che non succede a lui» rispose la contessa, strizzando l'occhio. «Domani vagherete nella stessa direzione di oggi, datemi retta.» Anne si svegliò nell'oscurità. Nascosta sulla collina, aveva visto quell'uomo strano andarsene, ma non si era sentita sicura che non tornasse, perciò era andata a dormire nella caverna. Certo, sembrava abbastanza innocuo; non l'aveva mai minacciata, aveva solo fatto lo spaccone e il gradasso come un galletto. Ma non conveniva comportarsi da stupida. Si alzò, si stiracchiò, si orientò e riprese cautamente la strada verso l'esterno. Lo stomaco brontolava; tutto il cibo che le avevano dato stava nel tempio di Mefitis, e Anne non aveva intenzione di tornare lì fino al momento necessario. Aveva pensato di rifare tutta la strada indietro fin là per dormire, nella remota probabilità che le sorelle la cercassero; ma visto che in sei giorni non l'avevano mai fatto non pensava che sarebbero comparse proprio ora. Eppure, doveva fare qualcosa per la fame, subito. Forse sarebbe riuscita a trovare mele e melograni. Si fermò un po' all'entrata della caverna, osservando e ascoltando, poi cominciò a ridiscendere. Ritrovò il laghetto, lo costeggiò diverse volte, e non vide nessuno. Quindi cominciò a cercare del cibo. Intorno a mezzogiorno era pronta ad arrendersi e a tornare al tempio. Aveva trovato alcuni frutti ma, o non sapeva cosa fossero, o non erano maturi. Aveva visto un coniglio e molti scoiattoli, ma non sapeva cacciare, né accendere un fuoco nell'eventualità che fosse riuscita a prendere qualcosa; Austra aveva ragione: la sua fantasia di vivere libera rimaneva tale, una fantasia. Era stata una fortuna che non fosse riuscita a fuggire. Sconsolata, s'incamminò di nuovo verso la caverna. Passando vicino al laghetto, colse un movimento con la coda dell'occhio e si tuffò dietro un cespuglio. Trasalì alla confusione che fece, poi con cau-
tela scrutò da dietro le foglie. Catio era tornato. Indossava una camicia bianca e brache di un rosso scuro. La spada era puntellata contro un ulivo lì vicino e lui stava seduto su una coperta. Era indaffarato a estrarre cose da un cesto: pere, formaggio, pane, una bottiglia di vino. «Stavolta ho portato del cibo» esclamò, senza voltarsi. Anne esitò. Si trovava a una distanza tale che, se si fosse messa a correre, non sarebbe riuscito a prenderla. Dopo tutto che cosa sapeva di questo tipo, se non che era uno stupido arrogante? Anche se era rimasto girato quando lei era nuda, come gli aveva chiesto. Dopo un attimo di esitazione, uscì fuori e s'incamminò verso di lui. «Siete tenace» notò lei. «E voi affamata» replicò il tipo. Si alzò in piedi e fece un inchino. «Ieri non ci siamo presentati in modo adeguato. Sono Catio Pachiamadio da Chiovattio. Sarò in debito con voi se vorrete rimanere con me per un po'.» Anne fece una smorfia con la bocca. «Come dicevate, ho fame.» «Allora, vi prego casnara Fiene, sedetevi con me.» «E voi vi comporterete da gentiluomo?» «Certo.» Si accomodò con cautela dall'altra parte della coperta, davanti al cibo. Guardò le vivande avidamente. «Prego, mangiate pure» la invitò. Prese una pera e le diede un morso. Era dolce e matura e un po' di succo le colò giù per il mento. «Provatela con il formaggio» le consigliò, versandole un boccale di vino rosso. «È caso dac'uva, uno dei migliori della regione.» Anne prese una fetta di formaggio. Era forte e piccante e si abbinava molto bene con la pera. Poi annaffiò il tutto con il vino. Anche Catio cominciò a mangiare, a un'andatura molto più tranquilla. «Grazie» disse lei, dopo essersi presa un po' di pane e un altro goccio di vino, che iniziava già a scaldarle i pensieri. «Rivedervi è un ringraziamento sufficiente.» «Dopo tutto, non siete un furfante.» Catio alzò le spalle. «Qualcuno avrebbe da ridire su questo, ma io non ho mai avuto la pretesa di esserlo, solo l'atteggiamento.» «Che cosa siete allora? Non certo un pastore, vista la spada. Un vagabondo?» «Una specie.»
«Quindi non siete di qua?» «Sono di Avella.» Anne non si soffermò su questa risposta. Non sapeva dove fosse Avella e non le interessava. «Siete in vacanza?» gli domandò. Catio sogghignò. «Più o meno» rispose. «Anche se non è stata molto divertente fino a questo momento.» «Sono sempre fidanzata, ricordate?» «Sì, me l'hanno detto. Una situazione temporanea, perché quando avrete imparato a conoscermi...» «Sicuramente continuerò a pensare che siete uno sciocco, se continuate a parlare in questo modo.» Catio si strinse il petto. «Questa freccia mi ha colpito dritto al cuore.» Anne rise. «Non avete un cuore, Catio. o almeno non troppo vistoso. Credo che altri aspetti di voi siano più evidenti.» «Pensate di conoscermi già così bene? Questo fidanzato di cui parlate si presenta tanto meglio?» «Non c'è paragone. Scrive meravigliose lettere, parla come un poeta.» Fece una pausa. «Per lo meno lo faceva, quando poteva ancora parlare con me e scrivermi.» «Vi ha mai detto che i vostri capelli sono come lo zafferano rosso più raro di Shaum? Si è mai specchiato nella miriade di colori dei vostri occhi? Conosce il vostro respiro come conosce il suo?» Tutto a un tratto i suoi occhi fissarono quelli di lei, che cominciò a sentirsi a disagio. «Non dovreste dire certe cose» mormorò confusa Anne, avvertendo un improvviso senso di vuoto. Non riesco nemmeno a ricordare il suo viso. Tuttavia lei amava Roderick, lo sapeva. «Quant'è che non lo vedete?» «Quasi due mesi.» «Siete sicura di essere ancora fidanzata?» «Che cosa volete dire?» «Voglio dire che un uomo che lascia che il suo amore venga trascinato in un coven a migliaia di leghe di distanza, potrebbe essere meno fermo nei suoi affetti, rispetto ad altri.» «Questo... Ritirate quello che avete detto!» Anne si alzò in piedi, infuriata, quasi dimenticando che il suo 'fidanzamento' era una bugia. Roderick non aveva mai parlato di matrimonio. Lei lo aveva tirato in ballo solo per deviare le attenzioni di Catio. «Non era mia intenzione offendervi» rispose velocemente lui. «Se mi
sono spinto troppo oltre, vi chiedo scusa. Come dite voi, so essere uno stupido. Vi prego, bevete un altro po' di vino.» Quello già bevuto l'aveva già stordita, tuttavia Anne s'inginocchiò di nuovo e accettò un altro bicchiere pieno. Continuava però a guardare Catio con un'espressione che sembrava fredda. . «Ho un'idea» disse lui dopo qualche istante. «Come deve sentirsi sola.» «Vi ho già chiesto scusa» le ricordò. «D'accordo. Qual è questa idea?» «Presumo che il vostro amato non vi abbia scritto perché non vi è permesso tenere una corrispondenza nel coven.» «Non sa dove sono, ma seppure lo sapesse, una mia lettera non lo raggiungerebbe mai, temo.» «Sapete riconoscere la sua grafia?» «Come se fosse la mia.» «Molto bene» disse Catio, appoggiandosi su un gomito e tenendo il boccale alzato. «Scrivete e sigillate una lettera, e io farò in modo che sia consegnata a questo Roderick in persona. Poi riceverò la risposta e ve la porterò dove vorrete.» «Lo fareste davvero? Perché?» «Se lui è veramente pazzo di voi, come dite, vi risponderà. Se vi ama, cavalcherà fin qui per vedervi. Se vi ha dimenticato, non farà nessuna delle due cose. In quest'ultimo caso, ho ancora speranze di vincere.» Anne esitò, stupita dalla proposta, ma si rese subito conto del tranello che nascondeva. «Ma se affido a voi la sua risposta» fece notare «potreste facilmente accusarlo di infedeltà non spedendo mai la mia lettera.» «Ma vi do la mia parola che vi consegnerò ogni lettera che vi spedirà. Lo giuro sul nome di mio padre e sulla lama della mia spada, Caspator.» «Non accetterò mai l'assenza di corrispondenza come prova.» «Tuttavia la mia offerta rimane valida» rispose tranquillo. «Di nuovo: perché?» «Se tra noi non deve esistere nient'altro, voglio che almeno conosciate la mia onestà. E poi questa cosa mi costa poco. Un viaggetto in un villaggio vicino, una manciata di monete a un cuveitur. Devo solo sapere dove trovare il vostro Roderick.» «Potrebbe essere difficile per noi incontrarci da oggi in poi. E poi non ho niente con cui scrivere.» «Sicuramente ci inventeremo qualcosa.»
Anne ci pensò un attimo, e fu folgorata dal pensiero di scrivere non solo un messaggio a Roderick, ma anche a suo padre, per avvisarlo delle sue visioni e della minaccia che annunciano per Crotheny. «Avete visto il coven?» gli domandò. «Non ancora. Sta dietro la collina, vero?» «Sì. La mia stanza è l'ultima nella torre più alta. Scriverò la lettera, ci legherò un peso e la getterò di sotto. Forse riusciamo a escogitare qualcosa con una corda per tirare su le risposte. O forse potrò di nuovo incontrarvi qui. In quest'ultimo caso vi lascerò cadere un altro messaggio.» Alzò lo sguardo su di lui. «Sarà troppo disturbo per voi?» «Assolutamente no.» «Non è che vi rimetterete a vagabondare?» «Sto bene in questa regione per il momento.» «Allora vi ringrazio di nuovo. La vostra offerta è molto più di quanto avessi mai potuto sperare. Troverò un modo per ricompensarvi.» Per un attimo, sembrò quasi che Catio stesse arrossendo. Poi scrollò di nuovo le spalle. «Non fa niente. Se dovrà esserci una ricompensa, sarà la nostra amicizia.» Sollevò il bicchiere. «All'amicizia.» Sorridendo, Anne ricambiò il brindisi. Catio sogghignò sarcastico tra sé e sé mentre attraversava i campi verso la villa di Orchaevia. Era soddisfatto di se stesso. Forse da quelle parti non c'era nessuno degno della sua spada, ma almeno aveva trovato una sfida. Amore no, Orchaevia era una sciocca romantica, ma la caccia sì, quella era fruttuosa. Avrebbe reso l'amoreggiamento ancora più dolce, nel momento in cui Fiene avesse ceduto. Era un degno progetto su cui spendere del tempo. E se questo Roderick fosse venuto a vedere? Be', allora Caspator gli avrebbe dato una lezione o due, e sarebbe stato ancora meglio. Capitolo quattordici Inseguimento «Li sento» sussurrò Stephen con la voce più bassa possibile. «Da quella parte.» Allungò il dito verso est, indicando tra gli alberi. «Io non sento niente» replicò il guardaboschi.
«Ssh. Se riesco a sentirli io, può darsi che loro possano fare altrettanto. La via dei templi ha benedetto i miei sensi, e alcuni di loro hanno percorso la mia stessa via.» Aspar annuì solamente e si portò il dito alle labbra, per indicare di fare silenzio. Dopo un po', il rumore dei cavalli e degli uomini si allontanò. «Ora non ci sentono più» comunicò Stephen, quando fu sicuro. «Allora hanno seguito le false tracce, bene.» Il guardaboschi si alzò in piedi. Aveva ancora il volto pallido e stanco, e si muoveva come se le gambe fossero mezze rigide. «Avete bisogno di riposare e di riguardarvi.» «Cavolate. Mi sento meglio.» Stephen aveva i suoi dubbi, ma non disse nulla. «E adesso?» domandò invece. «Dimmi esattamente che cosa dicevano.» Stephen ripeté la conversazione che aveva sentito. Quando arrivò alla parte che riguardava Fend, il guardaboschi s'irrigidì. «Sei sicuro? Sei sicuro che hanno detto Fend?» «Sì. Anche la mia memoria è migliorata adesso.» «Fend e un gruppo di monaci, in viaggio per uccidere la regina. Che cosa sta succedendo, per gli occhi del Veggente?» «Magari lo sapessi.» «Cal Azroth» pensò Aspar. «Si trova a Loiyes. È dove vanno i reali quando hanno bisogno di una protezione straordinaria. Non riesco a capire come può una banda di assassini entrare là dentro.» «Hanno il greffyn.» «Non ne sono sicuro. Lo stavano seguendo, sì, e non li ha attaccati, ma non credo che siano loro a controllarlo.» «Ma è il Re degli Alberi che lo fa, allora» replicò Stephen. «E il Re degli Alberi probabilmente sta dietro a tutto questo. E chissà quali poteri ha guadagnato Spendlove dalle oscure vie dei templi!» «Già. Ma non importa, li seguiremo e li uccideremo.» «Non siete in grado di uccidere nessuno. Non possiamo contattare il re e farci mandare dei cavalieri?» «Nel momento in cui riuscissimo a fare questo, loro sarebbero già a Cal Azroth.» «E che ne dite di sir Symen?» «Troppo lontano.»
«Quindi rimaniamo solo noi.» «Sì.» Stephen fece un respiro profondo. «Bene, allora. Credo che ce la possiamo fare.» Lanciò un'occhiata al guardaboschi. «Grazie, comunque.» «Per che cosa? Sei stato tu a salvarmi, ancora una volta.» «Per aver creduto in me. Vi siete fidato. Se vi foste fermato a chiedere...» «Ascolta. Sei giovane, ingenuo e fastidioso, ma non sei un bugiardo, e se vedi un pericolo, deve essere maledettamente vero.» «Per poco non facevo in tempo.» «Ma ci sei riuscito. Devono essere stati i tuoi nuovi occhi.» «Non ho fatto in tempo a salvare il fratrex» disse Stephen, avvertendo una fitta allo stomaco. «Sì, be', il fratrex era lì da più tempo di te, avrebbe dovuto scoprirlo» disse Aspar muovendosi verso Orco. «Comunque, stiamo sprecando tempo, con tutto questo piagnucolio e queste pacche sulla spalla. Seguiamo le loro tracce prima che si raffreddino.» Stephen annuì, salirono a cavallo e partirono. Intorno a loro la foresta intonava un canto di morte incipiente. Parte quarta Il sangue dei reali Anno 2.223 di Everon Mese di seftmen Oh madre sono ferito E quest'oggi dovrò morire Ma devo dirti cosa ho visto Prima di partire La rossa falce miete le stelle E suona alto un corno E dove sangue di re viene versato Crescono alberi intorno
Da Riciar ya sa Alvqin, ballata popolare di Crotheny est Capitolo uno Un'escursione Neil MeqVren gettò uno sguardo sul fianco della collina, alla ricerca di possibili assassini. Incitò Uragano sottovoce, spronandolo a raggiungere la regina e lady Erren, che cavalcavano all'amazzone poco più avanti, sul sentiero in salita. «Maestà,» disse per la terza volta «non mi sembra una buona idea.» «Sono d'accordo» dichiarò Erren. «Conosco le vostre opinioni» rispose la regina, allontanando con un gesto le loro proteste. «Anzi, forse le ho ascoltate due volte di troppo.» «Siamo venuti a Cal Azroth per la protezione che questo posto garantisce» fece notare Erren. «Certo» replicò la regina. «Ma se non stiamo dentro Cal Azroth, che protezione può esserci?» Erren indicò la rocca, ancora visibile alle loro spalle. Non era grande, ma godeva di una buona posizione sulla collina, aveva tre muri difensivi e un presidio ed era circondata da larghi fossati. Ci fu una volta in cui dieci uomini riuscirono a tenere Cal Azroth contro altri duemila. «Non sono convinta che siamo più al sicuro nella fortezza che qui fuori» rispose la regina. «È protetta contro un esercito, sono d'accordo. Ma credete che qualcuno manderà un esercito per uccidere me o i miei figli? Io credo di no. Condivido sempre di più l'opinione di sir Neil.» «Quale opinione? Se posso chiedere...» domandò Erren con fare mite, lanciando un'occhiata così tagliente a Neil che avrebbe potuto fendere l'acciaio. «Che William è stato convinto da qualcuno a mandarci qui, forse Robert o lady Gramme, per tenerci lontani dalla corte per un po'.» Erren socchiuse gli occhi. «Non che non lo abbia sospettato anch'io, ma vorrei sapere per quale motivo sir Neil non abbia comunicato questa opinione a me.» Sono solo una spada, ricordate? pensò Neil. «Ero certo che voi, signora, aveste un'opinione più informata della mia.» «Comunque, avete ragione. Ma non vi è venuto in mente che se qualcu-
no l'ha convinto a mandare sua maestà e i suoi figli qui, poteva avere un obiettivo in più oltre quello di eliminare semplicemente la loro influenza dalla corte? Per esempio quello di far loro del male?» Prima che Neil potesse rispondere, la regina scoppiò a ridere. «Se è così, allora la fortezza è proprio l'ultimo posto in cui dovremmo essere, visto che è lì che i cospiratori si aspettano di trovarci tutti insieme, come agnelli che attendono il coltello del macellaio.» «A meno che non si aspettino da voi qualche sciocchezza, come andare a cavallo fino a Glenchest.» La regina alzò gli occhi al cielo. «Erren, siamo rinchiuse a Cal Azroth da quasi due mesi. La casa di Elyoner è a meno di mezza giornata a cavallo, e abbiamo dodici cavalieri armati e trenta fanti al nostro seguito.» «Sì, non passiamo certo inosservati» commentò Erren. «Lady Erren, sir Neil, arrendetevi» consigliò Fastia, sopraggiungendo da dietro. «Una volta che la mamma decide una cosa, è così, lo dovreste sapere, Erren. Andremo a trovare zia Elyoner e questo è quanto.» «Inoltre» concordò Elseny «sono stanca di quel vecchio castello. Non c'è niente da fare lì.» Sospirò. «Mi manca così tanto la corte. Il principe Cheiso, il fidanzato di Lesbeth, sarà arrivato ormai, e volevo conoscerlo.» «Lo conoscerai presto» la tranquillizzò la regina. Neil sentì tutta quella conversazione con un orecchio solo; l'altro lo teneva teso verso il pericolo. La strada che stavano percorrendo passava per lo più in aperta campagna: frutteti di pere e mele, campi di grano e miglio. Eppure anche un posto come quello offriva numerose possibilità per un agguato. Un solo schiocco di freccia, ben fatto, da qualcuno nascosto tra i rami di un albero, e tutto sarebbe stato perduto. Come aveva notato Erren, facevano una processione tutti insieme. La regina, Erren, Fastia, Elseny e lui cavalcavano tutti vicini. Audra e Mere, le dame di compagnia rispettivamente di Fastia e Elseny, cavalcavano a qualche iarda di distanza, chiacchierando come gazze. Il Principe Charles era ancora più indietro, e cantava una canzone infantile, mentre Cappello da Caccia saltellava a piedi al suo fianco. Stavolta il cappello rosso del giullare era così grande da coprirlo fino alle ginocchia, eppure Neil era sicuro che il Sefry riuscisse a vedere grazie a qualche artificio, anche se non sapeva esattamente come, perché non c'erano buchi sul cappello. Intorno alla famiglia reale, i maestri e la Guardia Reale a piedi formavano un quadrato largo e vuoto, pronti a stringerlo in ogni momento. Questo non era di gran conforto per Neil. Per quanto ne sapeva, quegli
uomini avrebbero potuto rivoltarsi contro di lui dal primo all'ultimo. Ma in quel caso, la regina aveva ragione: avrebbero potuto uccidere in una rocca come all'aria aperta. «Perché siete così triste, sir?» Spaventato, Neil trasalì sulla sella. Concentrato sulla media e lunga distanza non aveva notato. Fastia che gli si era avvicinata. «Non sono triste, arcigrefia, solo concentrato.» «Sembrate più che concentrato. Vi aspettate davvero del pericolo qui? Siamo a Loiyes, dopo tutto, non a Hansa.» «Ed eravamo a Eslen quando vostra madre è stata attaccata.» «Vero. Eppure, vale quello che vi ho detto un momento fa. La mamma non si lascerà dissuadere, quindi vi conviene fare buon viso a cattivo gioco.» Sorrise, ed era un'espressione così inaspettata su quel viso solitamente composto e severo che Neil non poté fare a meno di risponderle nello stesso modo. «Ora va meglio» disse lei, ancora sorridendo. «Io...» Improvvisamente pensò di avere un insetto o qualcos'altro fra i denti. «C'è qualcosa che vi diverte, arcigrefia?» «Giratevi e guardate voi stesso.» Neil obbedì. C'erano il principe Charles e Cappello da Caccia, e le damigelle... Quando il suo sguardo incontrò Audra e Mere, queste si fecero rosse come ciliegie mature e poi esplosero in una risatina. Mortificato, Neil si girò immediatamente. «È tutta la mattina che parlano di voi lì dietro» disse Fastia. «Sembra proprio che non ne abbiano mai abbastanza di guardarvi.» Neil si sentì avvampare in volto e pensò che questo si sarebbe intonato al colorito delle ragazze. «Io non... Voglio dire, non ho...» «Neanche parlato con loro? Lo so. Se voi lo faceste, credo che sarebbero capaci di cadere da cavallo.» «Ma perché?» «Sir Neil, per favore! Siete un bell'uomo, e dovreste saperlo. Ci saranno state delle ragazze a Liery, no?» «Ah, be'... ce n'era una.» Si sentì a disagio a parlare di queste cose, soprattutto a una persona così formale come Fastia. «Una? In tutte le isole?» «Volevo dire solo una che ho...» «Avete avuto solo un'innamorata?»
«Non lo è mai stata veramente. Si fidanzò, subito dopo che ci eravamo conosciuti.» «Quanti anni avevate?» «Dodici.» «Era fidanzata quando avevate dodici anni? E dopo di quella, nessun'altra donna vi è mai venuta dietro?» «Qualcuna sì, credo. Ma il mio cuore era impegnato. Vedete, le promisi che fino a che fosse rimasta in vita non avrei amato nessun'altra.» «Ma è una promessa fatta a dodici anni. E lei non vi ha mai sciolto da questo voto?» «È morta di parto, principessa, un anno fa.» Gli occhi di Fastia si spalancarono e si fecero stranamente teneri. Non li aveva mai visti così dolci. «Che sant'Anne la benedica, mi dispiace.» Neil annuì semplicemente. «Ma, e scusatemi se sembra crudele, adesso siete libero dal vostro voto.» «È vero, ma ne ho fatto un altro: proteggere vostra madre.» «Ah» annui. «Scoprirete, credo, che pochi uomini mantengono le loro promesse come fate voi.» Una nota di amarezza s'insinuò nella sua voce. «Soprattutto quelle di matrimonio.» Neil non riuscì a trovare le parole giuste per replicare, perciò rimase in silenzio. Fastia si rischiarò subito. «Che noiosa, vero? Anne ha ragione sul mio conto.» «Non vi trovo noiosa. Tra tutti quelli che ho incontrato in questa corte, siete la persona più gentile e carina con me.» Le guance di Fastia si tinsero di rosa. «È cortese da parte vostra, sir. Ho molto apprezzato la vostra compagnia in questi ultimi mesi.» Neil tutto a un tratto temette di aver passato il limite a cui non avrebbe mai dovuto avvicinarsi, perciò inchiodò di nuovo lo sguardo sul paesaggio. La sua attenzione venne catturata dai fiori a stelo lungo sul ciglio della strada, simili a minuscole scale a chiocciola, di colore arancio acceso. «Conoscete il nome di quel tipo di fiore?» domandò, non trovando niente di meglio da chiedere. «Non ne ho mai visti a Liery.» «Sono le torri di Jeremy. Sapete? Una volta sapevo il nome di ogni qualità di fiore che crescesse lungo questa strada.» «Vi dispiacerebbe intrattenermi dicendomeli, principessa? Mi aiuterebbe a mantenermi vigile. So che non è carino guardare da un'altra parte mentre si fa conversazione, ma...»
«Capisco perfettamente. Sarò felice di intrattenervi in questo modo, sir Neil.» Quando si fermarono per abbeverare i cavalli, Fastia intrecciò corone di polyantha per le ragazze, per Charles e per Neil. Si sentiva stupido a portarla, ma non riuscì a trovare un modo gentile per rifiutarla. Mentre il gruppo si preparava a ripartire, Neil cavalcò sulla cima della collina più vicina, per avere una visuale migliore. La terra era ondulata e bella, ricoperta d'alberi, ma soprattutto di pascoli punteggiati di mucche bianche e marroni. A circa una lega di distanza, poté scorgere le sottili torri di un castello, probabilmente Glenchest, la loro meta. Il rumore degli zoccoli segnalò l'arrivo di sir James Cathmayl e sir Vargus Farre. «Bene, non siete il capitano della guardia della regina?» domandò Cathmayl. «Quante chance avete capitano, pensate di riuscire a conquistarla?» «Prego?» «Siete un abile stratega, devo ammetterlo. Avete ottenuto il sorriso della principessa di ghiaccio, ed è un buon inizio per riuscire a conquistare quel sorriso che si trova più in basso.» «Sir James, spero onestamente che non vogliate insinuare quello che penso di aver capito.» «Lasciamo che i furbetti si insinuino dove possono» replicò Sir James. «Porcherie a parte,» s'intromise Vargus «sembra che abbiate un ascendente su di lei.» «Sotto i vestiti è ancora una ragazza» continuò James. «Quello stupido di Ossei neanche la sfiora, dicono. Ma non le ho mai visto mostrare desiderio finora.» Neil guardò sir James con espressione severa. «La principessa Fastia, se è a lei che alludete, è una signora perfetta e cortese. La gentilezza che mi mostra è dettata solo dalle buone maniere, ve l'assicuro.» «Be', speriamo che altrettanto educatamente vi lecchi...» «Sir, fatela finita, vi avverto!» gridò Neil. James obbedì, e un ghigno malvagio gli si disegnò sul viso. Poi, ridacchiando, si allontanò sul suo cavallo. «Sir Neil,» disse Vargus «siete un bersaglio troppo facile per James. Non lo dice con cattiveria, ma adora vedere come vi infervorate.»
«Non dovrebbe parlare in quel modo dell'arcigrefia. È un'offesa al suo onore.» Vargus scosse la testa. «Siete stato allevato da sir Fail. So per certo che vi ha insegnato che l'onore ha il suo posto, ma anche la leggerezza ne ha uno, così come pure la volgarità.» Spostò la mano verso il gruppo ai piedi della collina. «Siamo pronti a dare la vita per ognuno di loro, in qualunque momento, e sir James non fa eccezione. Perché non possiamo concederci un po' di divertimento? Ma soprattutto, gli uomini della guardia non impareranno ad amarvi se continuate a tenere questo atteggiamento rigido e scostante, e invece avete bisogno che vi apprezzino, sir Neil. State per radunare un gruppo di persone per la guardia personale della regina, che farà capo a voi, no?» «Sì.» «Sarà meglio che siano uomini che vi stimano.» «La maggior parte non mi apprezzerà comunque. Non sono di sangue nobile, e molti considerano questo fatto un'offesa.» «Molti altri no, però. I guerrieri possono stringere legami molto più forti di ogni titolo o rango. Ma dovete essere disposto a creare una parte di quella corda.» Neil arricciò le labbra. «Sono sempre stato apprezzato a Liery, come dicevate. Ho combattuto al fianco di signori e li ho chiamati fratelli. Ma non siamo a Liery.» «Lì avete guadagnato una posizione, ora dovete fare lo stesso qui.» «Sarà difficile senza battaglie da combattere.» «Ci sono molti tipi di battaglie, sir Neil, specie a corte.» «Non so molto di quel tipo di arte bellica» ammise Neil. «Siete giovane e imparerete.» Neil annuì pensieroso. «Grazie sir Vargus» disse sinceramente. «Lo terrò a mente.» Glenchest si dimostrò non tanto un castello quanto un luogo di divertimento circondato da mura. Le torri erano affusolate, belle e del tutto inutili per la difesa. Le mura, sebbene fossero alte a sufficienza per tenere lontano le capre e i contadini, sarebbero riuscite a obbligare un esercito solo a una momentanea esitazione. Il cancello era uno scherzo, una griglia elaborata in ferro battuto che riproduceva uccelli canterini e rovi fioriti attraverso la quale si poteva vedere il vasto parco di alberi, siepi, fontane e laghetti. Affianco alle torri Neil poté vedere il tetto della villa in rame scintillan-
te, dalla forma di scafo rovesciato. Il castello sorgeva su un monticello, e la città a valle era pulita, ordinata e molto piccola, evidentemente sorta da poco per servire Glenchest. I suoi abitanti guardarono arrivare il gruppo della regina con curiosità. Quando furono più vicino, quattro ragazze si staccarono dagli altri, saltellando eccitate verso di loro. La mano di Neil si portò alla spada. «Sir Neil, fermate la vostra mano» bisbigliò Fastia. «Le ragazze del villaggio non rappresentano alcun pericolo.» Da parte loro, quelle non sembrarono accorgersi del suo atteggiamento difensivo. Si avvicinarono al garrese di Uragano, con occhi lucidi e rivolti in alto. Ridacchiarono, in modo molto simile a quello delle damigelle di prima. «Sir cavaliere,» disse quella che sembrava la più grande, una ragazza castana sui tredici anni «non potreste farci un favore?» Neil le fissò, confuso. «Un favore?» ripeté. «Per il mio cuore desideroso» disse la ragazza con pudore, abbassando lo sguardo. «Avanti, sir Neil» lo incitò Vargus allegramente. «Date a quella ragazza un piccolo ricordo.» Neil esitò, sentendosi il volto in fiamme, ma si ricordò del consiglio del cavaliere più anziano. «Io non...» s'interruppe confuso. Elseny scoppiò a ridere. «Ecco» disse sir Vargus. «Anch'io sono un cavaliere, signore, sebbene non altrettanto giovane e carino. Andrebbe bene lo stesso un dono da parte mia?» «Ah sì, a me!» gridò una delle più giovani, dirigendo immediatamente la sua attenzione a Vargus. Il cavaliere sorrise e tirò fuori un coltello, con il quale si tagliò un riccio dei capelli. «Questo è per voi, signorina» disse. «Grazie, sir!» rispose la ragazza, e poi si allontanò di corsa, tenendo in alto il premio. «È un'usanza da queste parti» disse Fastia. «Esprimeranno un desiderio su quel regalo e pregheranno santa Erren per incontrare un amore nobile come voi.» «Ah» commentò Neil. Guardò in basso verso le tre che erano ancora in trepidante attesa. «Credo che non ci sia niente di male.» Estrasse il coltello dalla cinta, tagliò una ciocca di capelli e la porse alla ragazza. Questa gli sorrise radiosa, fece un inchino e corse via. Le altre la seguirono, chieden-
dole una parte del premio. Elseny applaudì. Audra e Mere sembravano seccate. «Come ho già detto,» disse lentamente sir James «questo qui ha un vero ascendente sulle donne.» Neil colse un movimento con la coda dell'occhio e mortificato si rese conto di essersi distratto tanto da non aver notato l'arrivo di un gruppo folto gruppo di persone dall'aspetto appariscente che usciva dal cancello. C'erano paggi in brache gialle e vesti arancio, fanti con corazze d'argento sembrava argento vero, e l'effetto era ridicolo - cavalieri in armature barocche e fiorate, con sorcotti rossi e blu impreziositi da lacci dorati. In mezzo a tutta questa gente, su un palanchino coperto con tende di seta dal quale spuntavano stendardi di tessuto d'oro e d'argento, stava adagiata una donna in un abito voluminoso di broccato dorato e verde foresta, adornato qua e là con fiori scarlatti. Il vestito trasbordava dal palanchino in tutte le direzioni come fosse una cascata, e c'era da chiedersi come fosse possibile camminarci. Il corsetto aveva una scollatura profonda e precaria e spingeva pericolosamente in alto il suo contenuto tanto che Neil pensò un movimento qualunque avrebbe fatto uscire tutti e due i seni, rivelando così quel poco che rimaneva ancora nascosto. Il viso che padroneggiava tutto questo era, a prima vista, piuttosto semplice. Un ovale delicato, con un nasino dritto e labbra piccole. Ma gli occhi erano cerulei e irradiavano una certa propensione alla malizia. Le labbra erano truccate di rosso e arcuate in un sorriso intonato al resto. Tutto questo ne faceva una donna stravagante, ma bella. Aveva i capelli castano chiaro, raccolti in un elaborato diadema argentato. «Mia zia Elyoner, sorella di mio padre e duchessa di Loiyes» sussurrò Fastia. Si scostò e poi si avvicinò di nuovo. «Mia zia è vedova e nemica della virtù. State attento a lei, soprattutto se vi trovate da solo.» Neil annuì, pensando che la duchessa non somigliasse affatto a suo fratello, il re. «Muriele, mia cara!» esclamò la duchessa, quando si furono avvicinate. «Che sfortuna per voi arrivare proprio adesso! Non ero pronta a ricevere visite. Sono appena tornata dalla campagna qualche giorno fa e non ho avuto il tempo di sistemare le cose in modo opportuno. Spero che perdonerete questa sciatteria nell'accogliervi! È stato il meglio che sono riuscita a organizzare con così poco preavviso, ma non potevo evitare di darvi il mio benvenuto!» Mentre parlava, dei paggi spargevano gigli sulla strada davanti a loro,
mentre altri offrivano boccali di vino e prendevano le redini dei cavalli. La regina accettò uno dei boccali. «Un gradito ricevimento, come sempre» disse. «È un piacere rivedervi, Elyoner.» La duchessa girò lo sguardo timidamente. «Siete sempre così cara, Muriele. Vi prego, scendete tutti da queste bestie sudate. Ho sedie per la maggior parte di voi, e alla vostra guardia farà piacere fare due passi.» Indicò quattro palanchini, ognuno con due posti. Erano un po' più piccoli del suo. «Elseny, come sei diventata bella!» proseguì, quando la famiglia reale fu scesa da cavallo. «E Fastia! È tornato un po' di colore sulle tue guance. Hai finalmente seguito il mio consiglio e trovato un amante?» Fastia emise un verso simile a un singulto e improvvisamente, non si sa come, la duchessa concentrò lo sguardo su Neil. «Aha!» commentò. «Scelta eccellente.» «Non ho fatto niente del genere, zia Elyoner,» rispose Fastia «come dovreste ben sapere.» «Davvero? Che tristezza. Allora a quanto pare questo delizioso giovane cavaliere è libero e disponibile!» «È sir Neil MeqVren, capitano della mia Guardia Lier» disse Muriele. «Che strano, avrei giurato che fosse la guardia di Fastia, ma comunque questa non è la risposta alla mia domanda.» Con un improvviso senso di colpa, Neil realizzò che in realtà si trovava più vicino a Fastia che a sua madre. «Zia Elyoner, non avete ritegno, davvero.» disse Fastia. «Be', non ho mai affermato il contrario, cara. Adesso vieni a darmi un bacio e ritiriamoci da questa terribile luce!» «Vi prego di nuovo di accettare le mie scuse» disse la duchessa quella stessa sera a cena indicando il tavolo, una cosa enorme, della lunghezza di alcune gallerie. «La credenza era quasi vuota e il mio cuoco troppo malato per occuparsene.» Neil stava cominciando a capire che era solo un modo di fare della duchessa. La lucida superficie di quercia era piena da un'estremità all'altra di pernici in salsa al burro, tortini di quaglia con uva sultanina e mandorle, decine di tipi di formaggi, erbe miste, vassoi fumanti di stufato di anguilla, capponi in crosta di sale, tre maialini arrosto e una testa di toro dorata. Il vino scorreva come acqua dal momento in cui avevano superato il cancello e i fantastici giardini di Glenchest, e la stessa Elyoner ne aveva bevuto un
bel po', sebbene non si mostrasse particolarmente. I domestici correvano su e giù per riempire i bicchieri e Neil doveva cercare di controllarsi per non bere troppo. «La vostra ospitalità è, come al solito, molto più che adeguata» le assicurò la regina. «Bene, soprattutto perché sono riuscita a tirarvi fuori da quello squallido buco di Cal Azroth!» «Sì, ma un buco sicuro» brontolò Erren. «Ah sì. L'attentato alla vita di Muriele. Ho appreso la notizia solo poco tempo fa. Deve essere stato terribile, mia cara.» «Ho avuto giusto il tempo di accorgermene e sir Neil aveva già rimosso il pericolo.» «Aha!» disse la duchessa, agitando il boccale verso Neil. «È lui allora! Lo sapevo che questo giovane aveva delle qualità. Sono capace di individuare questo genere di cose all'istante.» «Grazie delle belle parole, duchessa» intervenne Neil «ma ho fatto esclusivamente quello che ogni altro uomo della guardia avrebbe fatto. È solo che mi trovavo più vicino.» «Ah, è anche modesto» disse la duchessa. «Lo è davvero» disse Fastia, poggiando il boccale sul tavolo e facendo cadere un po' di vino nel processo. «Non è finzione cortigiana. È...» Fastia sembrò sorpresa, e guardò il suo bicchiere di vino un po' mortificata. Un paggio s'affrettò a riempirlo di nuovo, equivocando la sua espressione. Visto il suo modo di biascicare e il colore purpureo delle guance, quello non era proprio ciò di cui la 'sobria' Fastia aveva bisogno. Neil fu l'unico che sembrò notarne il disagio, forse perché lo condivideva. «Bene, sir Neil» disse la duchessa con un sorriso scaltro, «dovremo pensare a una ricompensa per voi. Nostra cognata c'è molto cara, e vi ringraziamo moltissimo per averle salvato la vita.» Neil annuì educatamente. «Ora, cara Muriele, ditemi tutto della corte... be', no, non le cose noiose, sapete, la politica, la guerra o questioni di quel tipo. Solo quelle interessanti, ovviamente. Informatemi sui movimenti dei galli nei pollai. Paggio! Porta del brandy!» Dopo cena fu il momento dei giochi in giardino: freccette, tennis, nascondino nel labirinto di siepi. La duchessa fece portare alcolici sempre
più forti a Neil, il quale li sorseggiava e li rovesciava quando lei non guardava. La regina prese parte ai giochi, e sembrava addirittura divertirsi. Lo stesso faceva Fastia, anche se barcollava malferma, per vi di tutto quel vino e brandy che aveva incamerato. La duchessa si era cambiata prima di cena e adesso indossava un abito nero ricamato d'argento e di una lunghezza più comoda, sebbene fosse ancora scandalosamente rivelatore. Dominava i giochi da un piccolo trono che i suoi servi spostavano da un posto all'altro. Quando il sole tramontò, fece cenno a Neil di avvicinarsi. Come le fu accanto, il suo servo gli mostrò una piccola chiave dorata. «Questa è per voi» disse Elyoner, mentre il suo sguardo seguiva il volto di lui con occhiate languide. «Spero che la userete.» «Non capisco, duchessa.» «È la chiave per una certa stanza, nella torre più alta, lassù. Lì dentro credo che troverete una ricompensa molto gradita.» «Mia signora, devo rimanere accanto alla regina.» «Sciocchezze. La proteggerò io. Sono la padrona di casa e do gli ordini.» «Signora, col dovuto rispetto, e con tutte le mie scuse, non posso abbandonare il fianco della mia regina.» «Cosa? Dormite con lei?» «No, signora, ma vicino.» «C'è Erren con lei, quando dorme.» «Sono davvero spiacente» ripeté deciso. «Ma il mio primo e unico dovere è nei confronti della regina.» La duchessa studiò il volto di lui affascinata. «Voi siete un tipo virtuoso, vero? Pensavo che li avessero gettati tutti da un dirupo molto tempo fa quelli come voi.» Si morse un angolo del labbro inferiore e poi lo distese in un sorriso. «Quanto è eccitante. Rende la caccia ancora più intrigante. Sono giovane e ho un sacco di tempo.» Si accigliò un po'. «Concordate con me, sir Neil, ditemi che sono giovane.» «Lo siete, mia signora, e bella.» «Non tanto quanto altre donne, forse, ma vi dico una cosa, sir Neil: sono molto, molto esperta. Ho letto libri, di quelli proibiti, io che odio leggere. Ma ne valeva la pena.» Lo accarezzò sulla guancia, separandogli le labbra con un dito. «Scoprireste che i miei studi non sono stati inutili, ve lo garantisco.» Il corpo di Neil ne era già convinto, e dovette ingoiare prima di poter ri-
spondere. «Dovere» riuscì a dire. Elyoner esplose in una risata dal suono vivo e vibrato. «Sì, lo vedremo. Vi prenderete una pausa, ma tutti i cavalli possono essere montati.» Inarcò le labbra in un sorriso. «Supponiamo vi dicessi che potrei far mettere qualcosa nel vostro bicchiere, qualcosa che vi farebbe impazzire dal desiderio.» «Allora dovrei smettere di bere.» «E se vi dicessi che l'avete già bevuto?» Neil spalancò la bocca, stupito. Effettivamente si sentiva avvampare e certe parti del suo corpo erano piuttosto in allerta. Sentiva la fragranza fiorita della duchessa, e i suoi occhi erano sempre più attratti dalla scollatura vertiginosa che mostrava. «Vogliate scusarmi, signora!» disse Neil. «Certo mio caro» rispose. Gli prese la mano e la sfiorò, provocandogli uno scossone in tutto il corpo. «Siete un po' nervoso, vero?» e gli lasciò la mano. «Ci vediamo più tardi, sir Neil. Spero che porterete tutto voi stesso.» Più tardi quella notte, una volta accertatosi che le stanze della regina erano al sicuro, Neil si ritirò in una cameretta fuori dalla stanza di ricevimento, si tolse l'armatura, la giubba imbottita e la biancheria. Si spruzzò dell'acqua fredda dal catino sulla faccia e poi si mise a sedere sul letto, cercando di controllare il respiro, ancora un po' affannato. Era abbastanza certo, adesso, che la duchessa l'avesse in qualche modo stregato. Era come se il fulmine stesse folgorando la sua mente e a ogni bagliore mettesse in luce un arto o una curva di una figura femminile immaginaria. Sapeva che nella stanza accanto la regina si stava spogliando, e lo disgustava il fatto che non riuscisse a togliersi quell'idea dalla mente. Si sdraiò sul letto, richiamando ricordi di battaglie e di morte e di qualunque altra cosa che lo distogliesse da pensieri libidinosi. Non riuscendoci, si alzò e cominciò a esercitarsi con passi silenziosi nella piccola stanza ripassando i movimenti della pratica della spada a mani nude, come li aveva imparati la prima volta. Alla fine, tutto sudato e sapendo che aveva bisogno di dormire per stare in guardia, tornò a sedersi sul letto con la testa fra le mani. Quasi non sentì la porta scricchiolare da quanto gli batteva il cuore, ma il corpo era agile e pronto e in un attimo aveva già la spada in pugno e s'era messo in guardia.
«Sir Neil, sono io» sussurrò una voce di donna. Lentamente riabbassò la spada, cercando di distinguere l'ombra vaga sulla porta. Sapeva che doveva essere la duchessa e il sangue pompò ancora più forte nelle sue orecchie. Lei fece un altro passo nella stanza, e la luce della luna, attraverso la finestra le sfiorò il volto. Con un sussulto, Neil si rese conto che era Fastia. Capitolo due Tracce Aspar s'inginocchiò accanto alle ceneri ancora fumanti dell'accampamento e brontolò qualcosa fra i denti. «Che c'è che non va?» domandò Stephen. Il guardaboschi non si girò verso il ragazzo, ma rimase in piedi e continuò a ispezionare la radura. «Non hanno provato a nascondere le loro tracce. Non hanno neanche smorzato il fumo dei tizzoni. Ci hanno portato dritti fin qui.» «Forse non immaginano che li stiamo seguendo. È passato quasi un mese, ormai.» In effetti avevano lasciato d'Ef nei giorni più caldi di sestemen, e adesso erano entrati già nel mese di seftmen. Le foglie erano già state toccate dal colore dell'autunno anche qui nei bassipiani, dove pascoli e terre coltivate interrompevano la Foresta del Re. Aspar non era riuscito a tenere il passo necessario per raggiungere i monaci, tutto qui. Adesso era più forte, anche se non si era rimesso del tutto. «Sanno che gli stiamo dietro. Non fare errori.» Preparò una freccia sull'arco, una delle quattro che rimanevano. Le altre si erano spezzate durante la caccia. «Pensate...» cominciò Stephen, ma in quel momento Aspar fiutò l'imboscata. Due uomini correvano a tutta velocità dagli alberi dietro di loro. Nudi fino alla cinta, erano coperti di tatuaggi sulle spalle e sul petto e impugnavano degli spadoni. Correvano a una velocità inimmaginabile. «È la banda di Desmond!» gridò Stephen. «O solo due di loro!» «Monta» urlò Aspar, saltando su Orco e infilandogli i talloni sui fianchi. Il suo grande cavallo schizzò. Gli uomini si separarono, uno diretto verso Stephen e l'altro a inseguire Aspar. Aspar si tirò in piedi sulle staffe e si voltò, mirando la freccia contro
quello che stava attaccando Stephen. Orco non aveva ancora stabilito un'andatura, ma Aspar non poteva aspettare. Scoccò la freccia. Questa sibilò quasi dritta verso il monaco, colpendolo al fegato. L'uomo cadde, dando il tempo necessario a Stephen per montare su Angela, ma si rimise in piedi velocemente. Nel frattempo, inaspettatamente, l'altro monaco stava raggiungendo Orco. Con una smorfia, Aspar preparò un'altra freccia e la scoccò, ma proprio mentre lo faceva il cavallo saltò su un tronco caduto e il colpo finì alto e largo. Gli erano rimaste due frecce. Diede uno strattone alle redini, fece girare il cavallo e lo diresse dritto contro il suo inseguitore, puntando l'arco contro di lui. Vide il volto dell'uomo fermo e determinato, pazzo come una delle furie del Veggente. Mirò al cuore. All'ultimo momento il monaco si buttò da una parte e la freccia si conficcò nell'erba. Fece per tagliare ferocemente le zampe di Orco quando gli passò vicino, ma il cavallo evitò il colpo per un pelo. Si diressero tuonando di nuovo verso Stephen, a cui si stava avvicinando l'assalitore ferito. Pur sanguinando copiosamente, aveva rallentato solo un po'. Per fortuna, era così intento sul ragazzo che notò Orco solo quando era ormai troppo tardi, e le zampe anteriori dell'animale gli fracassarono il cranio. Aspar girò di nuovo, estraendo l'ultima freccia e scendendo da cavallo con un salto. «Orco, qalyast!» gridò... Orco caricò immediatamente verso il monaco, che si preparò con un ghigno ad attenderlo. In quel momento di relativa calma, Aspar scoccò la freccia diretta al centro del petto. Il monaco ruotò il corpo, schivando sia il colpo che l'attacco di Orco, poi corse dietro al cavallo, verso Aspar. Imprecando, Aspar si voltò e brandì la spada dell'uomo morto. Non era un'arma di cui sapesse molto, avrebbe preferito il suo pugnale o l'ascia, ma la tenne in guardia e aspettò. Alle sue spalle sentì Stephen scendere da cavallo. Il monaco era su di lui adesso, sferrando colpi rapidi e violenti verso la sua testa. Aspar cercò di parare i colpi, ma quella spada troppo pesante lo mise in difficoltà. Sentì la spalla vibrare come se avesse appena bloccato trenta massi che cadevano da una torre. Stephen sopraggiunse da destra, brandendo il suo arnese da campo, ma il guerriero si voltò e spaccò agilmente in due l'asta di legno. Aspar ruotò la spada goffamente e il monaco saltellò da una parte, fece una finta e colpì. Aspar con un balzo passò sotto
il braccio del nemico e, lasciando cadere la sua arma, glielo afferrò con la sinistra, mentre gli assestava un destro alla gola. Sentì la cartilagine frantumarsi, ma il suo avversario lo colpì violentemente con una ginocchiata al petto, lanciandolo indietro e a terra, senza fiato. Il monaco vacillò in avanti, sollevando la spada proprio nel momento in cui Orco lo colpiva alle spalle. Cadde a terra e il cavallo continuò a calpestarlo fino a che gli zoccoli non divennero rossi e il corpo cominciò a contrarsi. «Avrebbero anche potuto ucciderci se fossero stati un po' più furbi» commentò Aspar, quando ebbe ripreso fiato. «Erano troppo sicuri di sé. Avrebbero dovuto ignorarci e andare dritti contro Orco.» «Se sono presuntuosi è meglio per noi» replicò Stephen. «Questi due erano i più mediocri della cricca di Spendlove: Topan e Aligera. Spendlove non sarebbe mai stato così stupido.» «Già, credo abbia mandato gli uomini che poteva anche permettersi di perdere. Se fossero riusciti a prendere anche uno solo di noi due, sarebbe stato un successo. Avrebbe dovuto dar loro degli archi, però.» «Quelli che percorrono la via dei templi di san Mamres non possono usare archi» si ricordò Stephen. «Be', allora ringrazia san Mamres nelle tue preghiere.» Disarmarono i corpi, e con grande soddisfazione di Aspar trovarono un pugnale da combattimento, non molto diverso da quello che aveva perduto. Trovarono anche qualche tieni d'argento e carne salata e pane a sufficienza per un giorno, tutte aggiunte gradite ai magri averi di Aspar e Stephen. «Credo che ne rimangano sei di loro più tutti quelli che sono con Fend. Speriamo che seguitino a mandarne due alla volta in questo modo, così possiamo continuare ad avere le stesse possibilità.» «Dubito che Spendlove possa fare lo stesso errore due volte» disse Stephen. «La prossima volta, vorrà essere sicuro.» «Ogni momento potrebbe essere la prossima volta. Questi due potrebbero essere stati mandati solo per illuderci. Usciamo da qui subito e non prendiamo la via che loro si aspettano. Sappiamo dove stanno andando, non c'è bisogno di seguire le loro tracce.» Una volta a cavallo, Aspar ridacchiò. «Che c'è?» domandò Stephen. «Vedo che non ti preoccupi di seppellire questi due, come l'ultima volta.» «Per loro va più che bene una sepoltura da guardaboschi.»
«Werlic! Almeno hai imparato qualcosa.» Capitolo Tre Progetti «Bene, sorella mulo» disse Serevkis. «L'erboristeria è diventata molto più interessante, vero?» Anne sollevò lo sguardo, distogliendolo dal latte di peciora che fermentava a bagnomaria. Amava l'odore del latte, ancora caldo, appena munto, ma amava ancora di più l'attesa della magia che stava per compiersi. «Perché continui a chiamarmi così?» domandò distratta. «Non preferiresti essere un mulo anziché una piccola mucca?» Anne sorrise. «È vero» concordò. «Sì, l'erboristeria è più interessante adesso. Tutto lo è.» «Anche il calcolo?» chiese scettica Serevkis. «Sì. Se mi avessero detto fin dall'inizio che stavamo studiando i numeri per poter gestire i soldi delle nostre case, avrei prestato più attenzione da subito.» «Ma l'erboristeria è più interessante» insisté Serevkis. «Chi poteva immaginare che esistevano tutti questi veleni sotto i nostri piedi o tra i muri dei giardini, e che serviva solo un po' di alchimia per renderli più potenti?» «Lo stesso succede in un sacco di altri campi. Anche questo formaggio che sto preparando, serve a capire che abbiamo il potere di cambiare le cose, di crearne una da un'altra.» «Tu e il tuo formaggio. Ancora non succede niente?» «Non ancora.» «Comunque hai ragione. È fantastico il fatto di essere in grado di trasformare l'innocuo in letale.» «Sei una ragazza perfida, sorella Serevkis» disse Anne. «Chi sarà la prima persona che ucciderai, sorella mulo?» «Ssh! Se la mestra o una delle più anziane ti sente parlare in questo modo...» Serevkis sbadigliò e si stirò i lunghi arti. «Non ci sentiranno. La mestra e le sue favorite sono uscite dai cancelli quattro ore fa, e il resto è in aula. Non viene mai nessuno al caseificio. Chi ucciderai nel buio della notte?» «Non mi viene in mente nessuno, eccetto una persona dal collo lungo, che si diverte coi nomignoli.»
«Dai, seriamente.» Anne incontrò lo sguardo inconsapevolmente malvagio della ragazza. «Perché, tu hai in mente qualcuno?» «Oh, certo. Più di qualcuno. C'è Dechio. Lui sarebbe il primo. Userò il polline della pianta avvizzirla, cotto in una colla con solanacea. Lo metterò nelle candele della sua stanza.» «È una morte lunga e crudele. Che cosa t'ha fatto questo Dechio?» «È stato il mio primo amante.» «Ti ha piantato?» «Avevo dieci anni, lui venti. Ha finto di essermi amico, mi ha fatto bere vino fino a che non riuscivo più a stare in piedi e poi ha approfittato di me.» «Ti ha violentato?» domandò Anne incredula. «È proprio quella la parola» disse Serevkis. Le labbra, poi, si contrassero. «E tuo padre non ti ha vendicato?» Serevkis scoppiò in una risata un po' amara. «Cosa se ne sarebbe fatto di una figlia violata così presto? No, meglio per me se mi fossi suicidata gettandomi dalla torre nel fossato piuttosto che dire a mio padre cosa aveva fatto Dechio quel giorno; e così ha continuato a farlo finché non sono diventata troppo vecchia per attrarlo.» «Capisco.» Ma in realtà non capiva. Non riusciva a immaginarlo. «Posso darti un suggerimento?» «Certo.» «Vedove nere, nutrite su mosche di cadaveri. Incolla dei fili sottili a queste e l'altra estremità sotto il bordo della latrina. Così quando lo fa ciondolare in basso...» Serevkis applaudì. «Fantastico. Gli andrebbe in putrefazione come una vecchia salsiccia, vero? Ma forse lui non morirebbe.» «Vero, ma esistono altri modi per finirlo. Dopo tutto, anche il metodo delle candele potrebbe uccidere qualche innocente: la ragazza che gli pulisce la stanza, o un'altra delle sue vittime.» «Potrei anche lasciarlo vivere con un una mazza putrefatta. Sei geniale, sorella mulo.» «Grazie.» Guardò di nuovo il latte a bagnomaria. «Guarda!» esclamò. «Vedi? Si sta coagulando!» Serevkis si alzò per vedere. Una massa bianca solida si era formata nella pignatta e si andava contra-
endo leggermente, allontanandosi dai bordi del contenitore. Galleggiava come un'isola, circondata da un liquido giallo chiaro. Anne introdusse uno spiedo di legno nella parte solida, e quando lo ritrasse rimase il buco. «La parte densa è il caglio» spiegò Anne. «Il resto è il siero.» «Che cosa ha provocato queste trasformazioni?» domandò Serevkis, improvvisamente interessata. «Che cosa ha separato il latte in due?» «La mucosa estratta dalla pancia della mucca.» «Sembra buono! Che cos'altro può raggrumarsi? Il sangue! Comincio a capire perché trovi interessante tutto questo.» «Ovviamente. Prima era una cosa sola: latte. Ora sono diventate due.» «Non sembra ancora un formaggio vero e proprio.» «Vero. Deve compiersi ancora qualche magia.» «Sai,» disse Serevkis «quando ero bambina, avevamo una serva di Herilanz. Fingeva di essere religiosa, ma era pagana. Una volta mi disse che il suo dio, Yemoz, aveva creato il mondo dal latte.» «Separando il caglio dal siero, la terra dalle acque» rifletté Anne. «Ha un senso, in fondo. Dopo tutto, i santi separarono il mondo nelle sue parti.» «Santa mulo: la donna che produsse il caglio e il siero dal latte» proclamò Serevkis e rise. «Sei come una dea, adesso.» «Puoi anche ridere, ma il punto è proprio questo. Quando impariamo a creare queste cose, tu le tue candele velenose, e io il mio formaggio, prendiamo parte alla creazione. Nel nostro piccolo, diventiamo come santi.» Serevkis aggrottò le ciglia scettica. «Sei stata troppo a sentire sorella Secula» disse. Anne scrollò le spalle. «Sarà anche crudele, ma sa tutto.» «Ma se ti ha messo nella caverna!» Anne fece un sorriso enigmatico. «Non è stato poi tanto male.» Tutte erano rimaste sorprese dalla compostezza di Anne quando l'avevano tirata su dal tempio di Mefitis, e sorella Secula le aveva rivolto più di uno sguardo sospettoso notando il suo colorito. Non aveva indagato più di tanto sulla questione. Anne non si confidò con sorella Serevkis, non l'aveva detto neanche ad Austra. Sentiva che, in un certo modo, quello che era successo era un suo segreto e doveva rimanere tale. Non sarebbe servito a niente che Austra sapesse della lettera a Roderick; anche se non era una violazione del giuramento, Anne temeva non sarebbe stata felice della cosa. Catio aveva mantenuto la prima parte della promessa. Quando lei aveva gettato le lettere dalla finestra, la prima sera che era tornata al coven, era
comparso intorno al tramonto, l'aveva salutata e aveva ritirato la corrispondenza. Il tempo avrebbe detto se era veramente onesto. Nel frattempo, lei si sentiva felice. Tutto diventò interessante, e aveva cominciato a capire cosa volesse dire sorella Secula quando aveva definito la presenza di Anne alla dimora delle Grazie un privilegio. Odiava ancora la mestra, ma aveva cominciato ad ammettere a malincuore che valeva la pena starla a sentire. «E adesso?» domandò Serevkis. «Ora tagliamo il nostro nuovo mondo a dadini per consentire al siero ancora all'interno di uscire fuori.» Con un coltello d'avorio affilato, lo tagliò, prima longitudinalmente, poi orizzontalmente, poi obliquamente verso il fondo della pignatta. Quando ebbe finito e rimescolato, una miriade di cubetti si ritrovò a galleggiare nel siero giallastro. «Ora lo cuociamo ancora un po' e lo mettiamo in una forma e in una pressa. Tra sei mesi, lo mangeremo.» «La creazione richiede molto tempo» commentò Serevkis. «Mi è venuta fame.» «Ecco perché i santi sono pazienti. Ma c'è cibo in abbondanza qui intorno» Austra si precipitò nel caseificio passando dal giardino, e la interruppe. «Avete sentito?» chiese la ragazza dai capelli biondi, tutta eccitata. «Salve, sorella Perrssondra» disse Anne, ruotando la r e la s in modo comico. «Ho sempre sentito» osservò Serevkis. «E continuo a farlo.» «Volevo dire le notizie. Tutte le ragazze ne parlano. Usciamo.» «Che vuoi dire?» «Andiamo in una grande triva in campagna. La casnara organizza lì una festa ogni anno per le donne del coven, e sarà fra tre giorni!» «Davvero? Non riesco a credere che sorella Secula lo permetta.» «No, è vero» confermò Serevkis. «Le ragazze più grandi me ne hanno parlato. Dicono che dia un gran ballo, anche se per sole donne.» «Sembra comunque divertente» rispose Austra, un po' sulla difensiva. «Se non lo è» replicò Serevkis «lo facciamo diventare noi.» «A che festa possiamo andare vestite con queste tuniche?» si chiese Anne. «Be', voi avete le vostre cose, sorella mulo. Ma ho sentito che la contessa ha abbastanza abiti per tutte noi.»
«Un abito prestato?» fece Anne disgustata. «Ma non vale per noi» esclamò Austra. «Come dice sorella Servkis, grazie alla tua cocciutaggine almeno noi possiamo indossare le nostre cose.» «Tu sì. Ho portato un solo abito e te l'ho regalato.» Austra spalancò la bocca per un attimo. «Ma l'altro baule? È più pesante del mio.» «Sì, ma perché ci ho messo dentro la mia sella.» «La tua sella?» «Sì, quella che zia Fiene mi ha regalato, quella con cui cavalco Fulmine.» «Hai lavorato tutta la notte provocando il dispiacere della mestra, solo per una sella?» domandò Serevkis. Anne annuì solamente. Non le andava di dare spiegazioni. Ma Austra non lasciò cadere l'argomento. «Perché?» le domandò quella notte nella stanza. «Perché ti sei portata la sella? Per poter scappare?» «Questo era uno dei motivi» ammise Anne. «Ma l'hai trascinata su per le scale, dopo che mi hai promesso che non avresti più provato a fuggire.» «Lo so.» Austra rimase in silenzio per un attimo, e quando parlò di nuovo sembrò che la voce le uscisse controvoglia. «Anne, ce l'hai con me?» Anne si sedette sul letto e guardò l'amica in faccia alla pallida luce della luna. «Perché mai pensi una cosa del genere?» «Perché sei... sei diversa. Passi tutto quel tempo con Serevkis, ultimamente.» «È una mia amica, studiamo le stesse materie.» «Solo che non hai mai avuto altre amiche a Eslen.» «Sei ancora la mia favorita, Austra. Mi dispiace che ti senta trascurata, ma...» «Ma non posso parlare delle stesse cose di cui tu e Serevkis discutete» continuò Austra in modo secco. «Voi imparate stregoneria, mentre io pulisco le pentole; lei è nobile, è normale che tu preferisca la sua compagnia.» «Austra, sciocca diumma, non preferisco la sua compagnia alla tua. Ora dormi.» «Non ho capito neanche come mi hai chiamato» sussurrò. «Vedi? Sono una stupida.»
«È una specie di spirito delle acque, e non sei una stupida perché non conosci questa parola particolare. Se ti fosse permesso studiare le mie stesse materie, lo sapresti. Adesso basta! Austra, sarai sempre la mia preferita.» «Lo spero.» «Pensa a come sarai bella alla festa. L'unica ragazza a indossare un vestito suo.» «Non ho intenzione di mettermelo.» «Cosa? E perché? È tuo.» «Ma tu non ne hai uno, non sarebbe giusto.» Anne scoppiò a ridere. «Come un sacco di gente, te compresa, si è preoccupata di farmi notare, non siamo più a Crotheny. Qui, non sono una principessa, e tu non sei una damigella.» «No?» fece Austra in tono pacato. «Allora come mai tu impari la magia e io batto i tappeti?» A quella domanda, Anne non seppe dare una risposta. La lama sfrecciò verso Cario, più rapida di quanto avesse immaginato, e gli graffiò la guancia. Il dolore gli fece mettere tutto a fuoco, e con un grido scalpitò, si spostò lateralmente, tornò di colpo indietro da dove era venuto e si preparò per un debole fléche. Si dimostrò una decisione poco saggia. Z'Acatto parò in prismo, deviando l'attacco di Catio; gli si avvicinò con la mano libera e afferrò la stoffa della sua casacca. Continuando a parare, il maestro di scherma sollevò l'elsa dell'arma sopra la testa e la spada ricadde inclinata, fermando la lingua tagliente sull'ombelico di Catio. «Che cos'hai che non va, in nome del signor Fufio?» gli abbaiò il vecchio in faccia. «Dove hai il cervello? Non puoi tirare di scherma solo con mani e piedi!» L'alito di z'Acatto era irrancidito dal vino della notte prima. Catio arricciò il naso disgustato. «Lasciami andare» gli disse. «Dirai questo al tuo prossimo avversario quando ti avrà incastrato nella stessa posizione o in una peggiore?» «Non permetterei mai che accadesse in un combattimento vero» dichiarò Catio. «Ogni volta che prendi quella spada è un combattimento vero» ruggì z'Acatto. Lo lasciò andare e si allontanò a grandi passi. «Sei irrecuperabi-
le! Io mi arrendo!» «Lo dici da dieci anni» gli ricordò Catio. «Ed è sempre stato vero. Sei un dessratore senza speranza.» «Questo è ridicolo. Non sono mai stato battuto, se non da te.» Z'Acatto si voltò inviperito e lo guardò dritto negli occhi. «Adesso hai intenzione di dirmi che sai meglio di me cosa vuol dire essere un buon dessratore?» Teneva la spada parallela al terreno puntata verso Catio. «In guardia!» ringhiò. «Z'Acatto...» iniziò a dire, ma il vecchio si lanciò in avanti e lui fu costretto ad alzare la sua lama. Cedette terreno, parò e rispose con un passoaffondo, ma il suo maestro intercettò la spada in un legamento e spinse, poi mollò in una cavazione veloce come il fulmine. Catio indietreggiò e parò di nuovo, rispondendo in modo disperato. Quasi con disprezzo, z'Acatto saltellò agilmente su un lato e contrattaccò. Catio lo evitò solo gettandosi all'indietro; inciampò, ma non cadde a terra. Z'Acatto lo seguì, con una luce negli occhi che Catio non gli aveva mai visto prima, e che gli fece venire un brivido di panico lungo la schiena. No. Non ho paura pensò Catio, ricomponendosi. Per un attimo i due uomini girarono l'uno intorno all'altro con cautela, avvicinandosi e allontanandosi dalla distanza di tiro. Stavolta fu Catio che attaccò per primo, una finta che si trasformò in un colpo mirato al braccio del maestro. Z'Acatto tirò giù la mano, allontanandola dal pericolo, poi attaccò verso la gola. Con rapida intuizione, Catio realizzò che con la sua finta il vecchio spadaccino aveva tirato indietro il suo piede d'appoggio e stava osando un affondo troppo profondo. Si girò, così la punta lo prese sulla spalla sinistra penetrando fino all'osso. Con un grido distese il braccio con la spada. Z'Acatto tirò fuori la lama con una torsione e in un attimo i due uomini si trovarono a toccarsi reciprocamente il petto con la punta delle spade. «Che facciamo, la parata delle due vedove?» ringhiò z'Acatto. «Nessuno di noi è sposato» rispose Catio, affannato, sentendo che il sangue gli stava inzuppando la camicia. Rimasero in quella posizione e, per un interminabile momento di angoscia, Catio pensò di dover affondare l'arma. Poteva quasi sentire l'acciaio della lama del vecchio nel suo cuore. Ma alla fine z'Acatto lasciò cadere la spada. «Bah» fece con tono iroso, mentre l'arma risuonava contro il pavimento di pietra. Catio sprofondò su una sedia, tenendosi la spalla. Si sentiva sollevato «Pensavo che volessi uccidermi» disse, non appena ebbe recuperato
un po' di fiato. «Anch'io» replicò z'Acatto, con gli occhi ancora lucidi per la rabbia. Poi, in tono più calmo, mormorò: «Ragazzo, sei un bravo spadaccino, ma non sei un dessratore. Non hai quello che serve qui dentro.» Si portò una mano al cuore. «Allora insegnamelo.» «Ci ho provato.» Chinò il capo. «Adesso fasciamo quella ferita. Ho bisogno di una bevuta e anche tu.» Poco dopo, sedevano nella veranda in cortile, con una bottiglia di vino già scolata e un'altra mezza vuota. Era sufficiente per far dimenticare a Catio il dolore alla spalla. Intorno a loro i servi di Orchaevia stavano appendendo lanterne, vessilli e ghirlande di fiori secchi. La stessa Orchaevia, in un abito verde lime ricamato di rose dorate, si stava dando da fare. «Be', voi due siete uno spettacolo» osservò la contessa. «Che ne dite di quell'annata? Non l'ho mai considerata una delle migliori della regione.» «No» lamentò z'Acatto. «La migliore dovrebbe essere l'annata di quando il barone Irpinichio divenne meddisso delle Sette Città.» «Esatto, e forse un giorno il vostro viaggio nelle mie numerose cantine, allo stesso tempo chiare e oscure, vi porterà a trovarlo, sebbene non lo ritenga molto probabile.» Si voltò verso Catio. «Mentre forse sarò in grado di aiutare voi.» «Come, contessa?» «Le giovani del coven saranno qui domani notte.» «Di che state parlando?» domandò z'Acatto. «L'ultima cosa di cui ha bisogno il ragazzo è cominciare a frequentare una banda di suore. È già abbastanza distratto.» «Già, e cosa credete l'abbia distratto?» chiese Orchaevia. «Stupidaggini» rispose Catio, agitando la mano per mandare via le sue parole come fossero mosche. «Ecco cos'è!» esplose z'Acatto. «Ora mi ricordo. È come quando andavi dietro a quella ragazzetta da Brettii. La stessa stupida espressione. Non mi meraviglio che non riesci neanche a tenere in mano la spada.» «Non c'è nessuna ragazza» insistette Catio. Era troppo, cominciava davvero a sentirsi uno stupido. «Certo che no» replicò Orchaevia. «E se anche ci fosse, non potreste incontrarla alla mia festa, perché la mestra del coven vieta alle sue protette di vedere uomini. Ho dovuto chiamare delle domestiche da Trevina e manda-
re la mia servitù abituale in vacanza. Ma... è possibile che una di quelle care ragazze si trovi da sola, nel giardino di lavanda, se solo sapessi come è fatta.» Catio annuì e bevve dell'altro vino. La testa cominciava a girargli e così cedette un po'. «Non c'è nessuna ragazza, ma visto che avete intenzione di metterne una sulla mia strada, fate in modo che abbia la carnagione chiara e i capelli rossi. Una ragazza del Nord, ne ho sempre sognata una.» Il sorriso di Orchaevia si allargò al punto che Catio credette che le avrebbe stracciato la faccia. «Vedrò cosa si può fare.» Z'Acatto finì la bottiglia di vino con un solo, lungo sorso. «Non ne verrà mente di buono da tutto questo» predisse con un sospiro. Capitolo quattro Un incontro inaspettato «Lady Fastia?» esclamò Neil spalancando la bocca per lo stupore. Lei era lì, alla luce della luna, con i capelli lunghi e sciolti che le arrivavano alla vita, lucenti come la seta. «Io...» Fastia sembrava confusa, poi improvvisamente spalancò la bocca e si portò la mano alle labbra. «Sir Neil, siete completamente svestito!» Realizzando che aveva ragione, afferrò una coperta dal letto e se l'avvolse intorno al corpo. Si sentì uno stupido per aver aspettato così tanto tempo a reagire. E se Fastia fosse stata un'assassina venuta a uccidere la regina? Perché era venuta? «Avete sbagliato stanza, signora? Volete che vi indichi la vostra?» «No.» Fastia guardò in basso, sul pavimento. Allora lui notò che indossava una vestaglia di broccato di seta su una sottile camicia da notte di cotone. «No» ripeté. «Sono venuta perché... io... Elyoner mi ha dato la chiave. E lei... Sir Neil, sto impazzendo.» Neil sapeva che cosa voleva dire. Il suo cuore batteva come un tamburo di guerra. Il volto di Fastia era perfetto nella semioscurità, avorio e gioielli, un'ombra misteriosa che chiedeva di essere toccata e qualcosa di più. Sentì una fitta tremenda al petto e un afflusso violento di sangue in tutto il corpo. «La duchessa deve averci somministrato qualcosa, o fatto un incantesimo» disse Neil. «Sì» rispose Fastia. Poi sollevò lo sguardo deciso. «E io sono anche
completamente ubriaca, ma non m'importa.» Corrugò le sopracciglia. «Be', sì, m'importa, ma non m'importa.» Poi si mosse verso di lui, o almeno così sembrò, e lui dovette fare lo stesso, perché un istante dopo la stava guardando in viso e gli occhi di Fastia erano vicinissimi ai suoi, così come le sue labbra, tanto che riusciva ad avvertire il suo respiro. Anche a lui di colpo non importò più cosa stesse succedendo. Le braccia di Fastia erano saldamente intrecciate intorno al suo corpo e il capo era reclinato. Neil sentì l'incantesimo di Elyoner impossessarsi di lui, e non riuscì a trovare un buon motivo per non arrendersi e baciare Fastia, sentire quelle labbra contro le sue e lasciarsi andare all'emozione che attraversava il suo corpo. Ma un motivo c'era e lui lo sapeva. L'allontanò con dolcezza e gli occhi di lei improvvisamente apparvero feriti. «Non mi volete?» domandò. «Io... credo di non potere» rispose Neil. Pronunciare quelle parole fu come ingoiare schegge di vetro, e vedere l'espressione di lei ancora peggio. «Sono giovane» gli disse Fastia dolcemente. «Sono una donna giovane sposata a un vecchio, un vecchio a cui non importa neanche che sia una donna, e meno ancora che sia giovane, anche se si diverte con quelle ancora più giovani. Sono così infelice, sir Neil. La felicità più grande che ho provato è legata alle nostre conversazioni degli ultimi due mesi. Voglio di più ora che ho smesso di preoccuparmi e che l'incantesimo di Elyoner s'è impossessato di me.» Poi cominciò a piangere, e questo non era giusto. Significava che lui doveva avvicinarsi a lei di nuovo, per provare ad asciugarle le lacrime. «Arcigrefia...» cominciò. «Mi chiamo Fastia, solo Fastia. Almeno chiamatemi così.» «Fastia, voi siete la figlia della mia regina» «So benissimo chi sono» replicò con un tono improvvisamente adirato. «Per tutti i santi, credetemi, so bene chi sono. Ogni benedetto giorno recito la mia parte e osservo la mia posizione, come un rampicante costretto a seguire una pergola, come un cane ammaestrato a portare le pantofole. Non dimentico mai chi sono, mai tran...» La sua espressione divenne di colpo feroce, e si lanciò su di lui. Questa volta Neil fu incapace di resistere. Le labbra di lei si chiusero sulle sue. Bagnate dalle lacrime, sapevano di mare. «Solo questa volta» gli disse fra le labbra, mentre si baciavano. «So-
lo questa volta.» Caddero sul letto, brancolando nell'oscurità, la vestaglia volteggiò sopra di lui come fosse un paio d'ali, mentre lei lo baciava sul collo, e per un po' non ci furono pensieri, ma solo sensazioni e una specie di pazza felicità. Ma quando il loro corpi furono nudi l'uno contro l'altro, ad esplorarsi a vicenda, quel poco di ragione che gli era rimasta lo fermò di nuovo. «Non posso» disse. «Fastia...» Lei si allontanò e si mise a sedere. La luce della luna era più intensa adesso, e la faceva apparire come una santa che incombeva su di lui. «Lo vorrei» disse con voce roca. «Ma non posso.» Fastia lo fissò, rimanendo indecifrabile per qualche istante, poi sorrise lievemente. «Lo so» disse, carezzandogli la guancia. «Lo so, neanche io ci riesco.» Piegò una gamba e si rivestì, ma non se ne andò. «Posso stare sdraiata con voi per un momento? Qui al vostro fianco?» «Sì, certo» rispose. In realtà avrebbe voluto che rimanesse per tutta la notte. Si sistemò accanto a lui con lo sguardo fisso sul soffitto. «Mi dispiace, sono terribilmente imbarazzata. Non sono così, in realtà. Non ho mai...» «Sono io che devo chiedervi scusa» disse. «La duchessa mi aveva avvisato della droga. Pensavo di essere preparato a combatterne gli effetti. Ma questo è perché credevo che sarebbe venuta lei, non voi.» Inclinò il viso verso di lui. «Davvero provate qualcosa per me?» «Non me ne ero accorto fino a stanotte, o forse non volevo ammetterlo.» «Allora, forse, è solo effetto dell'incantesimo.» Neil sorrise leggermente. «Credete veramente che ci sia un incantesimo? Io ho i miei dubbi.» «Anch'io» ammise Fastia. «Domani lo sapremo, quando staremo di nuovo da soli. Ma saremo di nuovo noi stessi e non credo che parleremo di questo.» «Neanch'io. Ma sappiate solo che se non foste sposata, e io fossi di nobili origini...» «Tacete. Se i desideri fossero lacrime, il mondo si allagherebbe, sir Neil.» Gli occhi le divennero lucidi, e non parlarono più. Fastia dormiva ormai profondamente quando Neil la prese in braccio e si diresse verso la sua stanza. Quando aprì la porta, vide una sagoma nel corridoio. «Lady Erren» disse con fermezza. «Sir Neil» replicò. «Vi serve una mano per consegnare quel pacco?»
«Non pensate male dell'arcigrefia, lady Erren. Non era in possesso delle sue facoltà. È tutta colpa mia.» Erren alzò le spalle. «Venite, rimettiamola nel suo letto.» Portarono Fastia addormentata lungo il corridoio e la sistemarono nella sua stanza. Nonostante la presenza di Erren, lui si fermò a guardare il suo volto sognante, così giovane alla luce della candela. Poi i due si allontanarono in silenzio. Tornati nel corridoio, Erren lo esaminò: «Non avete consumato. Eravate sulla strada giusta, ma non avete aperto la porta.» «Come fate a saperlo?» domandò Neil, meravigliato e allo stesso tempo grato del fatto che lei sapesse la verità. «Lo so. Fa parte del mio lavoro sapere certe cose. Non che avrei disapprovato se foste andato a letto con Fastia, sir Neil, non l'atto in sé. I Santi sanno quanto lei abbia bisogno di un tipo come voi. Forse, ha bisogno proprio di voi. Ho osservato gli amoreggiamenti di questa famiglia per la maggior parte della mia vita, e non ho più un'opinione morale sull'argomento. Ma, sir Neil, siete votato alla regina, capite? Non potete essere distratto dall'amore. Se avete bisogno di un corpo da stringere, se ne può trovare uno, in maniera discreta, e non ci vedo niente di male. Ma non potete innamorarvi.» Strizzò gli occhi. «Anche se forse è troppo tardi per questo, che i santi abbiano pietà di voi. Ma staremo a vedere. Stanotte un nemico avrebbe potuto passare inosservato. Non deve succedere di nuovo.» «Capisco, lady Erren.» «Un'altra cosa, sir.» «Sì, lady?» «Avete ragione. L'unico incantesimo che Elyoner ha usato su di voi è stata la suggestione, e solo l'alcol come droga. In futuro ricordatevi dell'effetto che possono avere entrambi, d'accordo?» «Sì, mia signora» rispose Neil, profondamente imbarazzato. Il giorno seguente, indossò la sua armatura e scese con la regina a fare colazione. Elyoner era già lì, con gli occhi un po' insonnoliti, ma sorridente, in una vestaglia di lamé dorato bordata di visone nero. Lo salutò con un piccolo sorriso, che rapidamente si trasformò in un cipiglio esasperato. «Puh, sir Neil» sospirò. Neil si sentì nudo sotto il suo sguardo. Come faceva lei a saperlo? Lo sapevano tutti?
La regina no. «Che cosa avete fatto al mio cavaliere, Elyoner?» le domandò Muriele dolcemente. «Quale misfatto avete architettato?» «Niente di che, a vederlo» borbottò, poi s'illuminò. «Be', ogni giorno porta nuove speranze.» Mentre parlava, i domestici portavano vassoi di uova sode, formaggio bianco cremoso e frittelle di mela, crema, focaccine e marmellata di cachi. Elseny scese agilmente le scale tutta eccitata, vestita di un blu acceso, seguita dalla sua biondissima damigella Mere. «Che divertimento ci avete preparato per oggi, zia Elyoner?» «Un giro in barca sull'Evermere, credo, e poi il gioco degli anelli sul prato del frutteto.» «Fuori questione» commentò Erren. «Sono d'accordo» replicò Neil. «Madre!» protestò Elseny. «Sembra delizioso!» Muriele sorseggiò il tè e scosse la testa. «Penso che stavolta dovrò delegare la decisone ai miei guardiani. Temo di averli già forzati abbastanza a portarci qui.» «Grazie, maestà» disse Neil. «Sì, lode ai santi» borbottò Erren. «Ma mia cara» disse Elyoner, accigliandosi. «È già tutto organizzato! Vi assicuro che non c'è pericolo, qui nelle mie terre.» «Tuttavia» rispose Muriele «devo pensare ai miei figli.» «Come pensavate ad Anne?» domandò Elyoner, con una punta di sarcasmo nella voce. «Anne è una mia questione. Ho fatto quello che andava fatto.» «Avete mandato via una ragazza assolutamente meravigliosa e vivace per trasformarla in una brontolona» ribatté Elyoner «come quella vecchia guastafeste di Erren.» «L'ho protetta da se stessa. E non parliamone più.» Mentre discutevano, Charles e Cappello da Caccia stavano scendendo le scale; il principe era ancora vestito per la notte. «Mele!» esclamò Charles, come un bambino. «Zia Elyoner, le mie frittelle preferite!» «Già, ragazzo, me lo ricordavo. Prendine quante ne vuoi. Temo che sia l'unico divertimento che avrai oggi.» Quindi sospirò e passandosi il dito sul mento disse: «Penso che potremmo far recitare qualcosa ai miei attori, sempre che non lo consideriate troppo rischioso, sir Neil. Elseny, puoi fare una scena con loro, se vuoi.»
«Sì, credo sia meglio di niente» rispose imbronciata. «Anche se la gita in barca sarebbe molto più piacevole.» Audra scese le scale da sola. «Dov'è la principessa Fastia?» chiese Elyoner alla dama di compagnia. «Si sente poco bene, duchessa, e mi ha chiesto di portarle qualcosa dalle cucine.» «Capisco. Bene, il cuoco preparerà tutto quello che vuole. Prego, prendete qualcosa per voi, piccola.» «Grazie, duchessa, sembra tutto così buono!» Neil diede un morso a un uovo sodo, sollevato di non dover affrontare Fastia per il momento, e al tempo stesso vergognandosi di provare quella sensazione. Forse lei lo odiava perché lui avevo tutto quello che voleva. Mangiò malinconico, mentre la famiglia chiacchierava intorno a lui e la casa si andava svegliando. Un lacchè entrò interrompendo i suoi pensieri. «C'è un uomo a cavallo» annunciò. «Viene da Eslen.» «Davvero? Che notizie porta?» Il lacchè fece un inchino. «Notizie di guerra, duchessa. Liery ha dichiarato guerra a Saltmark.» «Si comincia» bisbigliò Erren. «Muriele...» «Bene» commentò Muriele. «Sir Neil, informate la guardia, torneremo alla sicurezza di Cal Azroth. Partiamo fra un'ora.» «Ma questo è ridicolo!» esclamò Elyoner. «Vi dico che siete al sicuro qui. Non sembra che anche Crotheny sia in guerra.» «Ci sono voluti cinque giorni al cavaliere per arrivare fin qua» osservò Muriele. «Le notizie sono vecchie. Se Liery è in guerra, per Crotheny non ci vorrà molto. E se entriamo in guerra noi, lo farà anche Hansa. Forse è già successo, mentre parliamo. Ragazzi, preparate le vostre cose.» «Ma siamo appena arrivati» protestò Elseny. «Cal Azroth è così indicibilmente noiosa.» «Sì, lo è» riconobbe Muriele. «Prepara le tue cose.» Suo malgrado, Neil si sentì sollevato. La guerra era meno pericolosa di Glenchest. Capitolo cinque Appuntamento sul promontorio
Il sole sorse soffocato dalla nebbia, diffondendo una luce flebile e gelata sul promontorio di Aenah. William si strinse nel mantello, nonostante la brezza marina gli portasse un vago sentore d'estate. Il suo sguardo perlustrava ininterrottamente giù per il dirupo, in direzione degli scogli, e poi più in là, verso la traballante linea del cielo e del mare. Intorno a lui quindici cavalieri sedevano in silenzio sui loro cavalli. Robert invece, con il volto sgualcito da un'insolita serietà, era smontato. Anche lui guardava lontano, verso il mare. «Dove sono?» ringhiò William. Robert alzò le spalle. «Sai bene come me che le vie del mare sono insicure. San Lier si preoccupa poco della puntualità dei marinai.» «E ancor meno di quella dei pirati. Sei sicuro che sia stato deciso così? Ci ridaranno Lesbeth?» «Abbiamo mantenuto la nostra promessa, loro faranno lo stesso. Austrobaurg sa di aver ottenuto tutto quello che poteva dalla sua cattura. Gli è stato detto chiaramente.» «Ma perché questo incontro segreto? Perché insistere che venissimo anche noi due?» Ananias Hargoln, capitano dei lancieri, parlò francamente. «La mia opinione, sire? Sembra fin troppo chiaramente una trappola.» I suoi occhi azzurro acciaio viaggiavano lungo la linea della costa, sospettosi. «Abbiamo già controllato il territorio, le mie spie hanno messo al sicuro la regione» rispose Robert secco. «Per caso sir Ananias dubita del suo primo ministro?» Il capitano scosse la testa; i suoi capelli si stavano tingendo di bianco. «Niente affatto, mio principe. Ma dubito del duca di Austrobaurg. Prima cattura un membro della famiglia reale, e ora vuole scambiarlo solo alla presenza dell'imperatore su questa landa di terra dimenticata dai santi. Anche se abbiamo accettato i termini di quindici uomini ciascuno, l'imperatore ha diritto ad avere dei dubbi. Sembra che si stia implorando il regicidio.» «Anche Austrobaurg avrà solo quindici uomini» fece notare Robert. «Così ha promesso, ma non è detto che rispetti l'accordo.» Robert indicò il sentiero tortuoso sul lato della scogliera che portava su dal mare. «Avremo tutto il tempo necessario per accorgerci se ne porta di più. No, i motivi di Austrobaurg sono molto meno misteriosi. Vuole pisciarci in faccia e ridere quando vedrà che non possiamo fare niente in risposta.»
«Sì, sarebbe capace» brontolò William. «Me lo ricordo fin troppo bene. È un pallone gonfiato, uno spaccone.» Si inchinò verso Robert. «Lasciamogli godere il suo momento» bisbigliò. «Ma quando questo sarà finito e Lesbeth sarà a Eslen sana e salva, allora, Robert, dovremo parlare di nuovo di Austrobaurg.» Robert inarcò le sopracciglia. «Certo, forse riusciremo a fare di te un politico, Wilm.» «Sempre dando per scontato che venga» aggiunse William. Ma Robert stava indicando col capo verso le onde, sollevando un dito in quella direzione. «Eccoli» disse. Gli occhi di William non erano più quelli di una volta, e solo pochi istanti dopo riuscì a distinguere quello che Robert aveva visto: il lungo profilo di una galera che solcava la cresta delle onde in direzione della spiaggia ciottolosa. Nel frastuono dei marosi riuscì a sentire l'incitazione a vogare che si accompagnava ai colpi lunghi e piatti dei remi. «Quanti uomini vedi?» domandò William a sir Ananias. Il cavaliere sporse in avanti la sua sottile figura e analizzò la nave che si avvicinava. «Non più di quindici, sire» disse alla fine. «Quelli che aveva promesso.» «Potrebbero essercene altri sotto coperta?» «Sì, sire. Consiglierei a voi di rimanere in cima alla scogliera, mentre io vado ad accertarmi che non ci siano inganni. Lasciate che vi tenga al sicuro il più possibile.» «Ottimo consiglio, fratello» commentò Robert. «Molto bene. Andategli incontro mentre attraccano. Di' loro che sei andato ad accertarti che i termini dell'accordo siano stati rispettati, da entrambe le parti. Di' anche che possono mandare un inviato a verificare il nostro numero.» Osservò Ananias che si allontanava giù per il sentiero tortuoso e stretto, intagliato sulla superficie bianca della scogliera; la sua figura si rimpicciolì poco a poco, fino a che lui e il suo destriero divennero uno scarafaggio argentato. Raggiunse la riva proprio quando la nave veniva tirata in secco; una figura con un'armatura d'oro cesellato stava in piedi sulla prua. Si dissero qualcosa, poi il cavaliere salì a bordo della galera. Un cavallo venne portato su dalla stiva e subito dopo un cavaliere di Austrobaurg cominciò a salire sul promontorio. Intanto altri cavalli venivano fatti scendere a terra. Il cavaliere si presentò ampollosamente nella lingua del re come sir Wignhund Fram Hravenfera, e continuò a perlustrare il promontorio alla ri-
cerca di altre eventuali truppe che William poteva aver nascosto. L'indagine non richiese molto tempo; il promontorio sorgeva dove la pianura Maog Vaost piegava verso il mare. Era terra da pascolo, leggermente in discesa, senza alberi né creste o crepacci dietro cui potersi nascondere, in nessuna direzione. Ananias tornò dopo poco. «Sono il numero concordato» disse sir Ananias. «Quindici, né più né meno.» «E Lesbeth? Sta bene?» Il lungo volto del cavaliere si accigliò. «Non l'ho vista, sire.» William si voltò verso il fratello. «Che cosa succede qui, Robert?» Robert alzò le spalle. «Non lo so. Senza dubbio vuole darsi delle arie.» «Non mi piace, sire» disse sir Ananias. «Suggerisco una ritirata. Che sia il primo ministro a far loro delle domande.» «Certo» rispose Robert. «Che sia uno con gli attributi necessari a parlare con questo 'pallone gonfiato'.» «Sto solo parlando della sicurezza dell'imperatore, principe Robert» rispose brusco il cavaliere. «Nessuno si ritira» intervenne William. «Voglio parlare io stesso con Austrobaurg.» Se ne stava seduto con impazienza, mentre la compagnia nemica avanzava. Erano bardati alla maniera elegante degli Hanzish, con campanelli d'oro e d'argento che stridevano sulle criniere e le selle dei cavalli, con crini di cavallo o piume che uscivano dagli elmi. William aveva mantenuto la sua compagnia senza ornamenti, per evitare di essere riconosciuti cavalcando verso il promontorio. Ma Austrobaurg stava gridando al mondo chi era, pur sapendo che solo William e i suoi cavalieri l'avrebbero visto. Robert aveva ragione: era una spacconeria, come sale strofinato nella ferita dal duca di una piccola provincia che aveva fatto piegare l'imperatore alla sua volontà. Questa umiliazione aveva il sapore di carne marcia e bruciò nello stomaco di William. Il duca di Austrobaurg era un uomo basso e grosso con un paio di baffi ispidi, gli occhi verdi come le onde del maree i capelli lunghi e neri striati di grigio. Tirò le redini fermandosi a poche iarde di distanza, con espressione autoritaria. Uno dei suoi cavalieri sollevò una mano e disse: «Il duca Alfreix di Austrobaurg saluta l'impero di Crotheny e augura un
buon incontro.» Robert si schiarì la voce. «L'imperatore...» William lo interruppe, parlando in hanzish. «Che significa tutto questo, Austrobaurg? Dov'è mia sorella Lesbeth?» Con sua meraviglia, il duca sembrò frastornato. «Signor imperatore. Non so niente di sua altezza. Perché mai dovreste chiederlo a me?» William provò a contare fino a sette. Riuscì ad arrivare solo fino a cinque. «Non ho pazienza per queste stupidaggini» esplose. «Avete avuto quello che volevate: venti navi delle Isole del Dolore giacciono in fondo al mare. Ora datemi mia sorella, o per san Fendve, incendierò tutte le vostre città.» Il duca spostò il suo sguardo su Robert. «Di che cosa parla sua maestà? Avevamo un accordo.» «Sapete molto bene di che cosa parla il re, mio fratello» rispose Robert adirato. «Vostra Altezza» disse Austrobaurg, tornando a guardare William. «Io non so niente di questo, sono qui su vostra richiesta, per sistemare la questione tra Saltmark e le Isole. Questa guerra non fa bene a nessuno, come abbiamo già detto nelle nostre lettere.» «Robert!» chiamò William, voltandosi verso il fratello. Robert rise forte e spronò il cavallo al galoppo. William lo vide allontanarsi, fissandolo con la bocca spalancata. Mentre stava lì confuso e i suoi cavalieri cominciavano a gridare e a impugnare le armi, la terra iniziò a vomitare morte. Dapprima William pensò che fosse uno strano stormo di uccelli notturni, che svolazzavano da qualche nido sotterraneo, perché l'aria si riempì di nuvole nere e di un terribile fruscio. Poi la parte di lui che una volta, molto tempo prima, era stata un guerriero, capì, mentre una freccia colpiva sir Ananias in un occhio facendogli zampillare il sangue da dietro il cranio. A venti iarde di distanza era comparsa una trincea, non appena gli arcieri, nascosti lì, avevano sollevato il manto d'erba con cui si erano coperti. Erano vestiti di nero come corvi, come le frecce che scoccavano. «Tradimento!» gridò Austrobaurg, cercando disperatamente di far girare il cavallo e trovare una copertura dietro i suoi uomini. «Tradimento di Crotheny!» «No!» gridò William, ma i cavalieri di Austrobaurg erano già impegnati contro i suoi, e le spade stavano versando sangue. Solo lui sembrò accor-
gersi che entrambe le parti cadevano sotto la mira mortale degli arcieri. «È lì il nostro nemico!» gridò, sguainando la sua spada e brandendola verso la trincea. «Il nemico di tutti i noi!» Robert mi ha tradito. Cercò di combattere con lucidità e caricare gli arcieri, trasalendo quando una freccia rimbalzò sulla corazza. Vide suo cugino, sir Tarn Dare, dirigersi verso gli assassini, e poi cadere, infilzato da tante frecce, come un istrice. Un cavaliere di Austrobaurg cadde a terra nello stesso modo. La testa di sir Avieyen MaqFergoist volò via dalle spalle, falciata dalla spada di un cavaliere che portava il cimiero della casa Sigrohsn. Un cavallo nitrì, il suo, e William gli vide una freccia conficcata nel collo. L'animale indietreggiò e ne ricevette una nella pancia, poi crollò a terra, piegandosi mentre cadeva. Anche William si piegò e sentì la rapida e lancinante frattura di un osso quando il cavallo gli cadde sopra. Il cavallo si agitò, continuando a scalciare. Uno zoccolo, forse del suo cavallo, o di un altro, lo colpì in testa, e per un po' non vide più niente. Rinvenne alla brezza marina e con la vista sulla scogliera. Stava seduto, poggiato contro un masso, con i piedi rivolti in direzione del mare, e la testa ferita gravemente. Cercò di alzarsi, ma sentì che le gambe non ce la facevano. «Bentornato fra noi, fratello.» William girò la testa, fitte di dolore gli si propagarono giù per il collo. Robert era in piedi dietro di lui, e guardava lontano, verso l'orizzonte. Il sole aveva coagulato la nebbia in nuvole, e le onde adesso danzavano sotto una luce intermittente. «Che cosa è successo?» chiese William. Forse se avesse finto di non ricordare niente, Robert avrebbe cambiato piano. «L'imboscata...» «Sono morti tutti tranne me.» «E me» lo corresse William. Robert fece schioccare la lingua. «No, Wilm, tu sei praticamente un fantasma, un messaggero per i nostri antenati.» William guardò il fratello in volto. Era più tranquillo di quanto l'avesse mai visto, quasi sereno. «Hai intenzione di uccidermi, fratello?» Robert si grattò il collo distrattamente. «Sei già morto, ti ho detto. Ti sei rotto la schiena cadendo da cavallo. Abbi un po' di dignità, fratello.» Lacrime calde si formarono negli occhi di William, ma le trattenne. L'aria stessa sembrava irreale, di un colore troppo giallo, come in un sogno.
Respinse la paura e il terrore insieme alle lacrime. «Perché Robert? Perché questo massacro? Perché vuoi uccidermi?» «Non preoccuparti, avrai un sacco di compagnia nel tuo viaggio a ovest. Muriele morirà oggi, insieme alle tue figlie. Lesbeth è già lì che ti aspetta.» «Tutte? Tutte quante?» William scoprì di riuscire ancora a muovere le mani, sebbene tremassero come paralizzate. «Lurida bestia. Tu non sei un Dare, non sei mio fratello.» La rabbia irruppe nella voce di Robert. «Ma l'avevi già deciso tu, no? Se mi avessi considerato un fratello, non avresti mai impegnato Lesbeth senza chiedermelo. Non potrò mai perdonartelo.» «Tu l'hai uccisa. L'hai uccisa e le hai tagliato un dito perché pensassi... Perché? E le mie figlie? Mia moglie? Tutto per una sola negligenza?» Adesso aveva messo la mano sull'impugnatura del suo echein doif, il piccolo pugnale che ogni guerriero tiene nascosto in un posto particolare. Il pugnale estremo. «E per il trono congiunto di Hansa e Crotheny, e un giorno anche di Liery» rispose distrattamente. «Ma la tua dimenticanza sarebbe comunque bastata. Sono stato trascurato troppo spesso da questa famiglia, e troppo spesso tradito.» «Sei pazzo. Crotheny non l'avrai, non per molto. E Hansa...» «È già quasi mia.» Sorrise. «Ho un segreto, e per ora rimarrà tale. Ci sono diversi modi per parlare con i morti, e anche se il tuo spirito vagherà lontano dalle case dei nostri avi, non sono così stupido da correre il rischio. Ma ti ringrazio per il tuo aiuto, fratello.» «Aiuto?» «Non avrei potuto spedire le nostre navi contro le Isole del Dolore. Sei stato tu a farlo. Non sapevi che i signori di Liery hanno scoperto l'identità di quelle navi? Se vivessi qualche altro giorno, riceveresti una tirata d'orecchi, te l'assicuro. Dovresti ringraziarmi per averti risparmiato l'onesta pomposità di quel vecchio buffone di Fail de Liery.» «Non capisco.» «Possibile che tu non sappia far funzionare il cervello, Wilm? I signori del mare hanno scoperto che abbiamo aiutato Saltmark contro i loro alleati. Mi sono lasciato scappare dei dettagli che li hanno aiutati a scoprire la cosa.» «Ma io ero d'accordo solo perché pensavo che Lesbeth...» «Sta' zitto e ascolta. Ovviamente loro non sapranno mai questa cosa. Tutti quelli che avevano creduto alla storia del rapimento di Lesbeth sono
morti. Il clamore e il grido contro la tua politica è già iniziato, e ora tu e Austrobaurg siete morti, mentre tentavate di concludere una pace duratura. Davvero sospetto. Soprattutto perché tu sei stato ucciso da frecce lierish.» Il suo sorriso era spettrale. «Ci sarà una guerra» gemette William. «Per tutti i santi, sarà guerra contro Liery.» «Sì, soprattutto quando verrà scoperta la morte di Muriele. La sua famiglia non la prenderà molto bene.» «Perché Muriele? Perché le mie ragazze?» «Le hai uccise tu quando le hai nominate tue eredi. Muriele doveva morire, ovviamente. È bella e non mi dispiacerebbe farla mia regina, ma ha un carattere troppo forte.» Tutto a un tratto William capì. «Charles!» «Proprio così. Quel tuo povero figlio idiota sarà imperatore e io il suo primo ministro. Le ragazze, anche Elseny, avrebbero potuto sviluppare una mente indipendente. C'è troppo della madre in loro. Ma Charles... non potrebbe mai.» «Capisco» mormorò William lentamente, sperando che Robert si avvicinasse. «Ma se intendi governare il nostro paese, perché cerchi la guerra con Liery? Non ha senso, ti indebolirà solamente.» Robert scoppiò a ridere. «Proprio così. Hansa non sarebbe mai riuscita a trionfare su una Crotheny forte, che conservava Liery come alleata, neanche con un incompetente come te sul trono. I tuoi generali, dopo tutto, hanno molto buon senso, almeno alcuni di loro. Ma ora, se questo non li spingerà alla guerra, per lo meno allontanerà i signori del mare dalle nostre costole. Comunque vada, darà a Hansa un vantaggio nella guerra imminente.» «Imminente... tu vuoi che Hansa conquisti Crotheny? Sei completamente pazzo?» «Vedi? Anche tu puoi imparare a ragionare, almeno un po'. Troppo tardi però, credo. E adesso, mio caro fratello, è il momento di dirsi addio.» Si avvicinò ai piedi di William e si piegò per afferrarli. «Aspetta. Come hai ucciso Muriele?» «Non sono stato io, ovviamente, visto che sono qui e lei a Cal Azroth. E non è nemmeno per opera mia che lei morirà. A questo hanno pensato altri.» «Chi?»
Robert apparve restio a confessarlo. «No, no. Non posso dirtelo. Diciamo certe persone con cui condivido obiettivi comuni, per il momento. Solo per ora.» Si leccò le labbra. «Desideravano Muriele morta per... motivi di superstizione. Ho usato la loro credulità. Ora, se vorrai sopportare con un po' di quel famoso stoicismo Dare...» William vide Robert afferrargli le caviglie, ma non sentì niente. Lo tirò per pochi passi verso il bordo della scogliera. «Dimmi dov'è la chiave, però. Non la porti addosso.» «Quale chiave?» «William, per favore, non essere sciocco, almeno stavolta. L'imperatore deve possedere la chiave della cella del Prigioniero.» Una piccola speranza si accese in William. «Posso mostrarti dov'è, ma non te lo dirò.» Robert si accarezzò la barba pensieroso, poi scosse la testa. «La troverò. Probabilmente è nel forziere nella tua stanza.» Tornò al lavoro. San Fendve, dammi la forza, pregò William. «Dimmi un'ultima cosa, Robert. Che cosa ne hai fatto del cadavere di Lesbeth?» «L'ho seppellito sul posto, in giardino.» I piedi di William ciondolavano quasi sulla rupe, adesso. Robert si accigliò, vedendo che non riusciva a scaraventare il fratello direttamente di sotto. «Adesso vediamo come posso fare» bisbigliò più a se stesso che a William. «Meno solenne, ma facciamo così.» Tirò le gambe morte di William, cambiando loro posizione, in modo che si trovassero parallele al ciglio. William sentì i gabbiani in basso. Se Robert adesso avesse gettato le sue gambe di sotto, il peso avrebbe trascinato il resto del corpo. «Non volevo sapere dove l'hai seppellita, Robert, ma che cosa hai fatto con il corpo prima di seppellirlo, oltre a tagliarle un dito. Un uomo intelligente come te, deve essersi divertito con il corpo di una sorella, soprattutto con la sorella che ha sempre desiderato in modo così innaturale...» Fu interrotto da un calcio in testa e dal lampo rosso sangue che lo accecò. «Mai!» gridò Robert; la sua calma si frantumò come vetro frangibile. «Noi mai! Il mio amore per lei era puro...» «Puro desiderio carnale, merda schifosa!» Il piede tornò ancora una volta, ma stavolta William lo afferrò e infilò la
lama del suo echein nel polpaccio del fratello. Robert gridò al dolore inaspettato e cadde col ginocchio sul suo petto. Con un urlo inarticolato, William si tirò su e gli infilò il pugnale nel cuore. Fino al manico. Ma Robert gli diede un forte spintone e si ritrovò in aria, senza peso. Infilò la mano nel terreno, in cerca di un appiglio, quasi ne trovò uno... e poi non ce ne furono più. Gli scogli lo ricevettero, ma senza dolore. Gli spruzzi del mare, il sangue salato del mondo, gli inumidirono il volto. Muriele pensò, Muriele. Nelle profondità sentì i draug cantare, tristi e affamati... stavano arrivando a prenderlo. Almeno aveva ucciso Robert. Chiuse gli occhi e il vento cessò. Poi apparve una sagoma, su uno sfondo grigio, come quelle del teatro delle ombre. Era alta, dall'aspetto umano e tuttavia diversa; corna come quelle di un cervo che si ramificavano sulla testa. La figura fece un gesto e William vide Eslen ridotta in rovine fumanti, sul palmo della sua mano. Poi vide le regioni centrali di Crotheny inaridite e secche nell'altra mano aperta. Nei suoi occhi, come in uno specchio illuminato dal fuoco, vide la guerra. Lontano, lontano, William sentì il suono acuto di un corno. La figura dalla corona di cervo cominciò a crescere, non più come un uomo adesso, ma come una foresta; le corna si moltiplicarono a formare rami, il corpo si allungò e si squarciò trasformandosi in viticci scuri e spinosi e in rampicanti striscianti. E continuando a crescere, la cosa oscura pronunciò un solo nome: Anne. Quel nome scisse la sua anima dal corpo, e questa fu la fine di William E, imperatore di Crotheny. Robert boccheggiava, nel tentativo di respirare. Fissò il pugnale conficcato nel petto e si sentì uno sciocco. «Bravo, Wilm» bisbigliò. «Bravo davvero, che tu sia dannato.» Era uno strano momento per sentirsi orgoglioso del fratello, ma così fu. «Mio principe!» Robert riconobbe la voce del capitano dei suoi Predoni delle Tenebre, ma suonava lontana. Non si voltò a guardare; non riusciva a distogliere lo sguardo dal coltel-
lo. Dalla sua prospettiva, stava dritto come una torre contro il mare. In lontananza, gli sembrò di aver sentito uno squillo di tromba, poi il cielo piombò su di lui. Capitolo sei La vigilia del Fiussanale Anne, Austra e Serevkis gironzolavano nei giardini della contessa Orchaevia. Musica e risate inondavano il crepuscolo, fiori di fantastiche forme e colori profumavano l'aria, e l'atmosfera era decisamente allegra. Tutto questo faceva sentire Anne molto triste, e non capiva perché. In parte per il vestito preso in prestito; era un po' troppo stretto e di un verde così vivace che quasi le faceva male agli occhi. Ma gran parte di quello sconforto era nascosto nei suoi pensieri, finché Austra non lo illuminò con una semplice osservazione. «Tutto questo mi ricorda il compleanno di Elseny» disse. «Tutti questi fiori.» «Ecco cos'è» bisbigliò Anne. «Cosa?» «Niente.» Ma era quello. Era la festa di Ssanta Fesa o, come la chiamavano lì, lady Fiussa; era la patrona dei fiori e della vegetazione, e nei primi giorni d'autunno, quando Fiussa se ne andava per il suo lungo sonno, era usanza farle gli auguri e pregare per il suo ritorno la primavera successiva. Perciò al compleanno di Elseny c'erano fiori dappertutto, alcuni fatti essiccare a primavera perché conservassero il loro colore. Austra notò la sua tristezza, e provò a sondare il terreno. «Danno molta importanza al Fiussanale qui, vero?» disse con cautela. «Più che a Eslen.» «Già» rispose Anne distrattamente, ignorando l'allusione dell'amica. Non aveva raccontato le sue visioni ad Austra, e non era sicura di volerlo fare. Non aveva mai avuto segreti con la sua migliore amica, ma adesso che aveva cominciato per quella strada, era difficile tornare indietro. Serevkis la salvò, senza volerlo. «Davvero?» osservò la ragazza di Vitellio. «Come si festeggia il Fiussanale a Crotheny?» «Ci scambiamo medaglioni con fiori pressati» le rispose Austra. «Costruiamo un feinglest nell'horz sacro e beviamo il vino novello.»
«Che cos'è un feinglest?» chiese Serevkis. «È una specie di composizione floreale in una struttura di vimini» rispose Anne. «Credo che l'usanza venga da Liery.» «Ah» disse Serevkis con un largo sorriso. «Mi pare che anche da noi ci sia un'usanza del genere, anche se la chiamiamo in modo diverso. Seguitemi, mi sembra di aver visto un horz qui vicino.» Atraversarono una zona irregolare di ulivi decorati con lanterne di carta, poi percorsero un'ala della triva verso un piccolo giardino recintato. Lì, accanto a un'antica quercia nodosa, c'era una donna fatta di fiori. Gli occhi erano papaveri, la gonna era fatta di verga aurea e roselline arancioni procumbenti e le dita di aster porpora. A quella vista, Anne fu subito assalita da un terribile senso di nausea, perché le ricordava le donne della sua visione, le rose nere e la cosa con le corna nella foresta. «Questo feinglest è simile al vostro?» domandò Serevkis. «No» rispose Anne con voce flebile. «Cioè sì, ma a Crotheny, noi facciamo coni o alti canestri, o... mai niente del genere. Mai una cosa che sembra una persona.» Poi si ricordò che feinglest era la parola lierish per donna verde. Avvertì un profondo senso di vuoto e angoscia. «Andiamocene da qui» disse. Alla luce della lanterna, sembrava che la donna verde muovesse le labbra in un sorriso, come se da un momento all'altro potesse venire verso di loro. «Per me è carina» dichiarò Austra. «Io me ne vado.» Anne si voltò e s'incamminò di nuovo verso la casa e i suoni dei festeggiamenti. «Ma che le prende?» mormorò Serevkis, più stupita che arrabbiata. Anne affrettò il passo. Voleva andarsene da quel giardino, dal cielo della notte, dai campi e dagli alberi. Voleva la luce delle lanterne, la gente e il vino. Soprattutto il vino. Non appena misero di nuovo piede nell'ampio cortile della villa, la contessa in persona si avvicinò a loro, sorridendo. Indossava un abito ricamato senza gusto con rampicanti fioriti d'oro e d'argento. «Mia cara,» disse rivolgendosi ad Anne «che faccia! Spero che vi stiate divertendo.» «Sì, casnara» mentì Anne. «Grazie infinite per la vostra ospitalità.» «Di niente» disse la donna, raggiante. «E per voi, mia cara, penso di ave-
re una sorpresa speciale.» Anne batté le ciglia. Al suo arrivo aveva salutato la contessa, insieme a tutte le altre, ma non riusciva a capire come aveva fatto ad attirare la sua attenzione. «Venite qui» disse la contessa, prendendola da parte e bisbigliandole qualcosa all'orecchio. «Entrate nella mia casa dalla porta più grande, troverete una scala a sinistra. Salitela, poi proseguite lungo il corridoio che finisce su un giardino di lavanda. Lì troverete un giovane che desidera enormemente la vostra compagnia.» «Io... un giovane?» La contessa sembrava molto compiaciuta. «Dalla vostra espressione, capisco che dovete essere proprio voi. Credo che sappiate a chi alludo.» «Grazie, contessa» rispose Anne, cercando di mantenere un'espressione neutra. Ma il suo cuore stava facendo le bizze, e i pensieri correvano all'impazzata. Ormai Roderick doveva aver ricevuto la sua lettera. Forse era arrivato lì. Forse aveva sentito di quella festa e aveva colpito la contessa con il suo amore profondo e il bisogno di vederla, e ovviamente solo qui e ora poteva succedere una cosa del genere. Se fosse venuto al coven, l'avrebbero certo mandato via. Forse ci aveva già provato e nessuno le aveva detto niente. «Che ti ha detto?» le domandò Serevkis. «Niente. Ha chiesto ad Austra e me di farle un favore, tutto qui.» «Vengo anch'io.» «No!» disse Anne, a voce un po' troppo alta. Diverse teste si voltarono verso di lei, compresa quella di sorella Casita. «No» ripeté più dolcemente. «Ha chiesto solo a me e Austra di andare.» «Quanto mistero!» fece Serevkis, un po' scettica. «Qualcuno potrebbe pensare che sta succedendo qualcosa di ambiguo.» «No, niente del genere» insistette Anne. «E di che genere, allora?» domandò Serevkis, alzando un sopracciglio. «Te lo dirò più tardi. Andiamo Austra.» Tirò l'amica per la mano, verso la porta che la contessa le aveva indicato. «Che cosa ti ha detto la contessa?» domandò Austra, quando ebbero passato la porta e imboccato le scale. «Dove diamine stiamo andando?» Anne si voltò e prese le mani di Austra nelle sue. «Credo che Roderick sia qui» le confidò eccitata. Austra sgranò gli occhi. «Come può essere?» «Gli ho mandato una lettera e delle indicazioni.»
«Cosa? E come hai fatto?» «Te lo spiegherò dopo. Ma deve essere lui.» Raggiunsero la fine del corridoio e si trovarono davanti a una porta in ferro battuto, al di là della quale le chiome degli alberi frusciavano dolcemente nella brezza, e le stelle brillavano al di sopra di un muro piastrellato. Anne si sentì quasi pietrificata dall'attesa. «Dovrebbe essere lì dentro» disse all'amica. «Aspetto qui, per dare l'allarme se si avvicina una delle sorelle?» domandò Austra. «No, entra con me, fino a che non sono sicura. Ti dirò io se dovrai andartene.» «Molto bene» rispose Austra, ma non sembrava per niente tranquilla. Insieme, le ragazze varcarono la soglia. Il giardino era piccolo, mattonato di rosso. Aranci e limoni crescevano in vasi di terracotta, e la lavanda in cassette di pietra; l'aria era intrisa di una fragranza speciale. Una fontanella stillava acqua in una vasca smerlata. C'era un uomo nell'ombra. Anne riusciva a distinguerne il profilo. «Roderick?» domandò quasi senza fiato. «Non ho sue notizie, mi dispiace» replicò l'uomo. Anne riconobbe subito la voce, e la sua speranza crollò. «Voi!» disse. Catio uscì alla luce della luna e sorrise, togliendosi il cappello, con un ampio gesto. «Vi avevo detto che ero ospite in campagna. Devo dire che sembrate completamente diversa con i vestiti addosso.» «Anne» mormorò Austra, tirandola per una manica. «Chi è questo? Come mai lo conosci?» Le diede un improvviso strattone. «E che cosa vuole dire dei vestiti?» «Sono Catio Pachiomadio da Chiovattio» disse, inchinandosi di nuovo. «E voi dovete essere la sorella di lady Fiene, per come siete bella e graziosa.» «Fiene?» fece Austra confusa. «Catio mi conosce col mio nome reale, non con quello del coven» disse Anne, sperando che Austra afferrasse. Lo fece. «Ah, capisco» disse. «Vorreste incantarmi con il vostro nome, lady?» «Margry» improvvisò Austra. Catio si avvicinò, le prese la mano e la portò alle labbra. «Attenta» l'avvisò Anne. «Usa miele, laddove la maggior parte degli
uomini usa parole.» «Meglio miele che succo di limone» replicò Catio. Girò leggermente il capo. «Sbaglio o siete un po' arrabbiata con me, lady Fiene?» «No» ammise Anne, scoprendo che non lo era. «Ma credevo che fosse arrivato Roderick.» «E siete delusa, giustamente. È andato tutto bene con l'invio della lettera, ma forse il tempo è stato cattivo a nord. Ci sono tante cose che possono far tardare anche un uomo profondamente innamorato.» Ad Anne sembrò di cogliere un po' di sarcasmo in quelle parole. «Margry» disse Anne «potresti aspettare nel corridoio e dare l'allarme se arriva qualche suora? Poi ti spiego tutto.» «Come desideri» rispose Austra, con un po' di rancore nascosto nella voce. Quando Austra ebbe lasciato il giardino, Anne si rivolse a Catio dicendo: «Allora cosa volete?» Con sua sorpresa, lui esitò, come per trovare le parole, una cosa che non gli aveva mai visto fare prima. «Non lo so» disse infine. «La contessa si è offerta di organizzare il nostro incontro. Forse volevo sapere solo come stavate.» Anne sentì che la sua guardia si stava leggermente abbassando. «Sto abbastanza bene. Che cosa avete fatto al braccio? È fasciato.» «Un graffio nella pratica della scherma, non è niente.» «Scherma? Avete combattuto?» Il tono si fece più disinvolto. «Non un vero combattimento, cinque banditi, non sono durati molto.» «Veramente?» Esitò ancora una volta. «No» ammise. «Me la sono procurata mentre mi allenavo con il mio maestro. Era arrabbiato con me.» «Per quale motivo?» «Pensa che io sia troppo distratto per tirare di scherma. Credo che abbia ragione.» Anne sentì uno strano calore nello stomaco. «Che cosa vi ha distratto?» domandò ingenua. «Dovreste saperlo bene.» I suoi occhi erano luminosi nell'oscurità e per un istante... «Ve l'ho già detto, Catio» disse lei. «Detto cosa?» chiese mite. «Non mi avete detto neanche il vostro vero nome e poi vi lamentate della mia onestà.»
Rimase un attimo in silenzio, poi annuì. «Giusto, me lo sono meritato.» Tornò a guardarlo. «Mi chiamo Anne.» Lui le prese la mano. Anne avrebbe voluto tirarla indietro, ma non le riuscì di farlo. «Piacere di conoscervi, Anne.» E baciò il dorso della mano. «Posso riaverla adesso?» «È sempre stata vostra.» «Avete spedito la mia lettera?» «Sì, speravo che venisse e lo spero ancora.» «Perché?» «A volte la distanza aumenta l'amore, a volte lo annienta. Penso che meritiate di sapere che cosa è successo.» «Roderick mi ama» disse seccata. «Che lo dimostri, allora.» «Perché, voi mi amate invece?» domandò Anne, pentendosi della domanda nello stesso momento in cui la faceva. Ma Catio non rispose subito. Quando lo fece, usò ancora una volta quel tono nuovo, incerto. «Non credo che la gente si innamori così rapidamente.» Sembrava onesto, e in qualche modo sconvolse Anne più di quanto avrebbe potuto fare ogni altra dichiarazione d'amore. «Allora cosa volete da me?» «Conoscervi meglio» disse Catio dolcemente. Anne si sentì un nodo alla gola. «E come pensate di farlo?» domandò cercando di suonare sarcastica. «Fissando la mia torre tutto il giorno?» «Forse, se questo è l'unico modo per vedervi.» «È ridicolo» replicò Anne, poi si guardò alle spalle. «Noteranno la nostra assenza. Dobbiamo andare.» «Quando posso rivedervi?» «Non potete» rispose Anne e, detto questo, si girò e uscì dal giardino. Fu dura non voltarsi a guardare, ma ci riuscì. Catio strusciò il piede a terra insoddisfatto e sospirò. Che cosa gli stava succedendo? Che gliene importava di questa strega tutta pelle e ossa, dal colorito pallido e dalla zazzera rossa? Niente, ecco. Era stato tutto un piano di Orchaevia, non suo. Un rumore leggero lo mise in allerta, e la mano volò all'elsa di Caspator, ma era solo l'altra ragazza, quella bionda. «È stato un piacere conoscervi, casnar Chiovattio» disse e fece un picco-
lo inchino. Catio fu folgorato da un'ispirazione. «Un momento, vi prego» disse. «Devo seguire la mia signora.» «Vi imploro, casnara. Anne potrà fare a meno di voi per un momento.» Fece una pausa. «Avete detto signora?» «Sono la sua damigella.» «Anche voi nel coven?» «Sì.» «E il vostro nome è davvero Margry?» La ragazza guardò dietro di sé. «No, casnar. Mi chiamo Austra.» Catio tirò fuori il suo miglior sorriso. «Questo sì che è un nome adatto a una ragazza affascinante come voi» disse facendo le fusa. «Non dovreste dire queste cose, casnar» disse la ragazza, guardando timida a terra. «Chiamatemi semplicemente Catio, se volete.» Le toccò i capelli. «Sono intessuti d'oro?» A quel tocco, s'insospettì. «Per favore, devo andare.» Fece per ritirarsi. «Un momento.» Si avvicinò ancora di più. Dapprima pensò che volesse fuggire, ma non lo fece. Si portò molto vicino e le prese la mano. «Questo Roderick, con cui Anne è fidanzata, è proprio così bello?» «Fidanzata?» fece Austra, spalancando gli occhi. Aha! Pensò Catio. Quindi non è fidanzata veramente. «Cioè, sì, sono fidanzati» si corresse Austra. Catio lasciò passare quella falsità. «Ma non era questa la mia domanda. Rispondetemi, graziosa fanciulla.» «Lui è...» Abbassò la voce. «Per me non è così bello. A dire la verità, voi mi sembrate molto più carino, anche se vi ho appena conosciuto.» «Vi ringrazio Austra, è molto gentile da parte vostra.» «È solo che Anne sa essere... testarda.» «Bene, allora, che continui pure» disse Catio. «Non mi metterò a inseguire chi non desidera lasciarsi prendere.» Le strinse la mano dicendo: «Grazie per aver parlato con me.» «Il piacere è stato mio, Catio.» Lui fece un inchino, poi aggrottò le sopracciglia, come in segno di costernazione. «Oh, guardate» disse ad Austra, indicandole la bocca. «Avete qualcosa sul labbro.» «Che cosa?» Austra alzò una mano, ma lui la fermò, si piegò rapidamente e la baciò. Lei esclamò sorpresa e si tirò indietro, ma non tanto decisa.
«Vedete? C'era un bacio, ma l'ho preso.» La luce non era abbastanza fioca da nascondere a Catio il rossore della sua pelle. Senza dire una parola, Austra si ritirò e fuggì lungo lo stesso corridoio nel quale era svanita Anne. Catio la guardò allontanarsi, compiaciuto. Se i suoi servigi non avevano sortito l'effetto desiderato, forse un po' di gelosia avrebbe funzionato, pensò. Il cacciatore era tornato all'inseguimento. Fischiettando, si mise a guardare le stelle. Capitolo sette Sacrificio Aspar s'inginocchiò a esaminare lo sterco di cavallo sul sentiero e annuì tra sé e sé. «Siamo vicini» commentò in tono secco. «A neanche un giorno da loro. E sono stati raggiunti da altri, forse una decina.» Stephen osservò il guardaboschi, cercando di capire i segni che stava leggendo. «Pensate che i nuovi arrivati siano Sefry? Si tratta di Fend e i suoi furfanti?» L'espressione di Aspar si oscurò. «Così aveva detto quel tuo fratello, no? Che avrebbe incontrato Fend a Cal Azroth?» «Non sono il fratello di Desmond Spendlove» rispose Stephen, irritato dal tono di Aspar. «Qualunque cosa stia facendo, non ha niente a che fare con la chiesa.» «Sembri estremamente sicuro di questo.» «Pensateci, guardaboschi. Il fratrex ci ha salvato la vita. Credete che lo avrebbe fatto se la chiesa fosse stata dietro a tutto questo?» Aspar si tirò su. «Dimmelo tu» disse seriamente. Continuava a sentirsi sorpreso ogni volta che il guardaboschi chiedeva la sua opinione. Si ricordò di Desmond, quella notte al monastero, quando gli parlò di come serviva la chiesa. Quella conversazione era sembrata sincera, l'unico momento di pura onestà che avesse avuto con quell'assassino di Spendlove. «Fratello Desmond risponde a qualcuno» concesse Stephen. «Potrebbe essere qualcuno all'interno della chiesa, come potrebbe non esserlo. Non è del tutto savio, credo.»
«Pensi che risponda a Fend?» grugnì Aspar. Stephen ci pensò un momento. «No» disse infine. «Ha parlato di Fend come di una sorta di complice, e con un certo disgusto. Credo che Spendlove e il vostro fuorilegge sefry servano un padrone più in alto. Non so chi potrebbe essere.» «Be', tra poco la foresta finisce» disse Aspar. «Arriveremo alla pianura di Mey Ghorn, dove si trova Cal Azroth. Si sono riuniti, quindi qualunque cosa stiano programmando, accadrà presto.» «Non possiamo aggirarli e raggiungere la fortezza prima di loro e avvertire così la regina?» «Forse» pensò Aspar. «Ma probabilmente no.» «E allora? Altri dieci significa che sono sedici tra uomini e Sefry. Non possiamo combattere contro tutti.» Aspar inarcò il sopracciglio. «Noi, Cape Chavel Darige? Potrei mettere le tue conoscenze su come si combatte dentro una birra e di sicuro galleggerebbe.» «Sì, be', avreste potuto insegnarmi qualcosa, guardaboschi. Vi sarei stato d'aiuto.» «Avrei potuto insegnarti solo quanto basta per aiutarti a fare di te un cadavere» ribatté Aspar. «Quindi li ucciderete tutti da solo? E come?» Aspar grugnì una risata. «Non ho mai detto che non mi saresti stato d'aiuto. Potresti agitare le braccia e attirare le frecce, mentre io striscio intorno a loro, alle tue spalle.» «Sono disposto a farlo» disse Stephen serio. «Se potesse funzionare.» «Era una battuta, ragazzo.» «Ah» disse Stephen, e allora il suo sarcasmo prevalse sulla sua sensibilità. «Già, è stato un errore mio, ma naturale. Una battuta da voi? Vi chiedo scusa, ma la prima volta che vedete un pesce volare, è probabile che pensiate sia un uccello.» Poi tornò serio. «Bene, allora che facciamo?» «Non ne ho idea, escogiterò qualcosa prima di raggiungerli.» «Piano fantastico.» Aspar scrollò le spalle. «Ne hai uno migliore? Qualcosa che magari hai letto in un libro?» «Be'» pensò Stephen, «nei Viaggi di Hinn, quando vengono assaliti dai briganti, Hinn e i suoi compagni fanno credere di essere più numerosi costruendo figure di fango e paglia.» «Già e riescono pure a farle camminare?»
«Ah... no. Ma se potessimo convincere Desmond e i suoi uomini a farci inseguire...» «E a combattere contro i nostri uomini fatti di rami?» «D'accordo, forse non funzionerebbe. E se preparassimo una trappola? Scaviamo una buca, ci mettiamo dentro pali appuntiti e la copriamo con foglie o qualcos'altro.» Aspar annuì. «Buon'idea. Vediamo di scavare questa buca con le nostre mani prima dell'alba, d'accordo? Forse nel frattempo puoi fare il girotondo con loro, mentre io e i cavalli scaviamo.» «Sto solo cercando di dare una mano» brontolò Stephen. «E me l'avete chiesto voi.» «Ah io, vero?» Aspar sospirò. «Poi ti chiederò anche di darmi un colpo in testa. Sarebbe più utile.» Rimontò su Orco, poi rivolse all'altro uno sguardo più amichevole. «Continua a pensare» disse. «Chissà, forse ti viene fuori qualcosa di buono.» Si dimostrò utile qualche ora dopo, quando fece un cenno per richiamare l'attenzione di Aspar. Il guardaboschi colse subito il gesto e strattonò le redini di Orco per fermarlo. Stephen si toccò l'orecchio, poi indicò in lontananza. Riusciva a sentire uomini che parlavano un po' più avanti, ed era sicuro che fossero i monaci. Si era convinto che nessuno degli uomini che stavano inseguendo avesse i sensi affilati come i suoi, ma era inutile correre altri rischi. Finora, tenendosi al limite consentito dal suo udito, erano riusciti a rimanere nascosti. Voleva continuare a usare quella regola. Aspar capì i suoi segni e smontò con molta cautela. Stephen fece lo stesso. Il guardaboschi ordinò a bassa voce ai cavalli di stare fermi e i due cominciarono a strisciare verso il limite della foresta, verso la fonte del suono. Si fermarono, acquattandosi in una massa aggrovigliata di viti sui fianchi logori di una collina. Più in basso, la collina si apriva in campi con alberi radi, e al di là di quelli c'era una larga pianura, che la luce pomeridiana accendeva di un verde dorato. Sedici uomini si stavano accampando intorno a un piccolo tumulo conico nella radura. Un paio di tende era già stato tirato su. Dieci figure portavano cappelli dalle larghe falde e avevano il viso avvolto in una garza. Quelli dovrebbero essere i Sefry, pensò Stephen. Il resto era costituito da umani e tra loro c'erano anche Desmond e gli altri monaci. Lanciò un'occhiata ad Aspar e colse in lui quell'espressione di collera muta che ormai
aveva imparato a riconoscere. Stephen sollevò un sopracciglio e il guardaboschi rispose con uno sguardo, muovendo le labbra per mimare una parola: Fend. Senza dubbio stava già pensando a come uccidere quindici uomini e arrivare così all'ultimo. Aspar gli fece cenno di rimanere dove si trovava e si mise a inseguire la preda in silenzio come un gatto selvatico. Stephen voleva disperatamente chiedergli dove stesse andando, ma non osò. Una volta che il guardaboschi fu scomparso di vista, lui si sdraiò lì, osservando e chiedendosi che cosa avrebbe dovuto fare. Sotto, i monaci e i Sefry avevano già finito di preparare l'accampamento, ma le loro attività non cessarono. Infatti, il piccolo tumulo era diventato il cuore di una nuova operosità. Con un presentimento realizzò che la collinetta doveva essere un sedos. Faceva fresco, ma il sudore gli imperlava la fronte mentre si avvicinava strisciando; alla fine si nascose dietro le radici ammassate di un'enorme quercia, sulla parte più bassa della collina. I suoi sensi si dilatarono, e la vita della foresta palpitò attraverso di lui con i suoi suoni. Nel chiacchierio degli scoiattoli, accompagnato dai versi striduli dei grilli e dal sopraggiungere dell'oscurità, di lì a poco. Il coro crepitante delle formiche tagliafoglie indaffarate nei loro compiti gli solleticava i timpani. Fringuelli cinguettavano allegramente e ghiandaie protestavano contro la presenza del gruppo di Spendlove lì sotto. Aumentò la sua concentrazione e riuscì a isolare le voci dei nemici nella confusione della foresta. Spendlove cantava in una lingua che Stephen non riconobbe, anche se di tanto in tanto coglieva una parola che suonava come Antico Vadhiano. Altri due monaci, Seigereik e un altro che non conosceva, erano stati denudati fino alla vita, e uno dei Sefry stava dipingendo strani geroglifici e simboli sul loro petto. Era stato spogliato anche un altro uomo, che però non sembrava un monaco. Era stato portato sulla cima del sedos e legato a un palo con le braccia aperte. Aveva qualcosa infilato in bocca. Dov'è Aspar? Si chiese Stephen disperatamente. Qualcosa di molto brutto stava per succedere, qualcosa che andava impedito. Cercò nei dintorni, ma il guardaboschi sapeva muoversi senza essere visto quando voleva, e neanche i sensi donati dai santi gli permettevano sempre di localizzarlo. Desmond cambiò lingua mettendosi a parlare in Antico Vadhiano e Ste-
phen si sentì improvvisamente attratto. La sua mente traduceva così rapida che era come se stesse ascoltando la sua lingua nativa. Uno per aprire la via, potere terribile, e uno per percorrerla. Un sentiero di sangue per il changeling, un'anima per operare il cambiamento. Spendlove estrasse una cosa dal suo abito, una cosa che brillava così forte che Stephen sentì una fitta agli occhi. Fratello Desmond si spostò verso l'uomo legato, che cercò di urlare, ma non ci riuscì. Desmond s'inginocchiò sull'uomo legato e Stephen realizzò con lento stupore che quella cosa tremenda che aveva in mano era una specie di coltello; il monaco aprì l'uomo dallo sterno all'inguine e cominciò a tirare fuori le interiora. La lotta presto si ridusse a degli spasmi. Il pasto mattutino di Stephen salì in gola, ma riuscì a trattenerlo lì, con uno sforzo di volontà, concentrato sui dettagli di ciò che stava succedendo; cercò di renderli astratti, convincendosi che quella non era la fine di una vita umana, che non erano intestini quelli che Spendlove e i suoi uomini sparpagliavano in strani disegni intorno alla figura che ancora si contorceva. Dopo un po', come soddisfatto, Spendlove fece cenno di avvicinarsi a uno dei monaci col torace scoperto, Seigereik. Questi obbedì, con un'espressione risoluta, divaricando le gambe sulla figura sbudellata, che ancora si contraeva. «Sei pronto, fratello?» domandò Spendlove dolcemente. «Lo sono, fratello Spendlove» rispose questi con voce ferma. «Sii forte» lo esortò. «Ci sarà un momento di disorientamento. Sentirai dolore, ma devi sopportare. E devi aver successo. Non si può fallire un'altra volta.» «Non fallirò, fratello Spendlove.» «Lo so, fratello Seigereik, mio guerriero.» Seigereik sollevò le braccia e chiuse gli occhi. «Un'anima per operare il cambiamento» intonò Spendlove, e colpì Seigereik al cuore con il coltello scintillante. Stephen soffocò un'esclamazione di stupore, quando le gambe del monaco si piegarono e cadde a terra senza vita. L'aria intorno al sedos sembrò oscurarsi, e un vento simile a un lamento funebre carico di fumo nero mormorò tra le cime degli alberi. Che cos'è che ho appena visto? si domandò Stephen. Due sacrificati, uno solo volontario. E Seigereik doveva portare a termine un compito dopo la morte. Non aveva molto senso. A meno che... Forse quel corpo si sarebbe rialzato. Forse Desmond aveva fatto una co-
sa inimmaginabile: aveva spezzato la legge della morte. Ma il corpo del monaco rimase dov'era. No, era l'anima che era stata spedita via, avvolta in una magia nera. Si scrollò di dosso le sue supposizioni. I Sefry e due dei monaci rimanenti stavano montando a cavallo. «Sarà meglio che ci riesca» osservò uno dei Sefry, che a giudicare dall'occhio bendato doveva essere Fend. «La tua strada è stata preparata» lo rassicurò Spendlove. «Può darsi anche che sia già tutto finito quando arriverai là.» «Ne dubito.» «Un altro renderà la cosa sicura» replicò Spendlove. S'inginocchiò sull'uomo sbudellato. «C'è ancora vita in lui. Probabilmente posso usarlo ancora. Fratello Ashern, preparati.» L'altro monaco dipinto annuì. «Perché correre il rischio?» domandò Fend, indicando il prigioniero sventrato. «Usa la ragazza.» «Pensavo che volessi ucciderla davanti al guardaboschi» replicò Spendlove. «Dopo tutto, l'hai portata fin qua.» «Sì, avevo quella fantasia, ma mi è passata. Basta che la lasci in un punto in cui lui possa trovarla.» Desmond diede un'occhiata all'uomo morente. «Forse hai ragione» convenne. «Se questo muore di colpo, nel mezzo del rito, la trasmigrazione di Ashern andrà a monte.» Fend e i suoi Sefry si allontanarono. Pochi istanti dopo, Spendlove ruotò la testa verso uno degli uomini e disse: «Portatela qui.» Da una delle tende venne tirata fuori una donna che si dimenava. Guardaboschi, dove sei? Si chiese Stephen freneticamente. Aspar White non si vedeva da nessuna parte. Se il guardaboschi aveva notato Fend che si allontanava a cavallo, e di sicuro l'aveva fatto, probabilmente l'aveva seguito per ucciderlo. Si rese conto che non poteva più fare affidamento su Aspar White in quel momento; l'ossessione di quell'uomo nei confronti del Sefry orbo era palese, anche se non si era mai degnato di spiegargli da dove derivasse. Stephen pensava di conoscere le intenzioni di Spendlove adesso, anche se sembravano incredibili. Se non avesse agito all'istante, la giovane donna lì sotto sarebbe stata uccisa in un modo molto poco simpatico. Aveva già visto morire un uomo in quella maniera. Avrebbe preferito morire lui stesso prima di vederlo accadere di nuovo. Risoluto, cominciò a
muoversi verso l'accampamento più velocemente possibile. Capitolo otto La pianura del terrore Il vento, respiro dei santi, sussurrò tra i merli di Cal Azroth, mentre lo sguardo di Neil si spostava dalla vista della regina a quella del sole che andava sciogliendosi in lontananza sulla linea verde dell'orizzonte. La pianura di Mey Ghorn era aperta e immobile, l'unico movimento in vista era il turbinio sporadico delle rondini sopra di loro. Il triplo anello di fossati intorno alla fortezza era già in ombra, e presto le loro acque avrebbero accolto le stelle. Lontano, alla sua destra, sentì i soldati parlare nel presidio collegato alla rocca interna da un corridoio rialzato. La regina si metteva spesso in questa posizione la sera, rivolta verso Eslen. Una risata gorgogliò dal varco tra la rocca e il presidio; Elseny, a giudicare dal suono. Neil diede un'occhiata in basso, sul retro, e la vide là. Dall'alto, il cerchio del suo vestito giallo e i suoi capelli neri la facevano sembrare un girasole. Si trovava nel piccolo horz della cittadella con le mura alte, sul grande masso piatto che stava nel mezzo, e metteva fiori nel feinglest in vimini che due domestiche avevano costruito quello stesso giorno. Neil non ne aveva mai visto uno come quello, dalla forma vagamente umana. A Liery era considerato di cattivo augurio costruirne uno così, sebbene non avesse mai saputo perché. Un movimento laterale attirò il suo sguardo e trasalendo realizzò che poteva vedere il bordo di un altro vestito, da sotto la copertura di un frassino; era blu e meno appariscente sotto la debole luce. Poi arrivò il lampo di un viso chiaro rivolto in alto, e lo sguardo di Fastia incrociò il suo. Lei subito l'abbassò, mentre Neil si mordeva il labbro, e il suo volto s'infiammò. Erano trascorsi circa venti giorni da quella sera a Glenchest, e Fastia continuava a evitarlo. Non sapeva se lo odiava o... Comunque non importa, disse a se stesso. Ricorda che cosa ti ha detto Erren. Non riusciva a controllare i suoi sentimenti, ma sicuramente poteva controllare le sue azioni. Fatta una sola eccezione, era questo quello che faceva da sempre. E comunque, una volta era già abbastanza. Una sensazione insolita di fallimento gli gravava sul cuore.
«Diecimila uomini e donne sono morti su questa pianura» disse la regina piano. Neil trasalì e allontanò il suo sguardo dall'horz, sentendosi in colpa, ma la regina non lo stava guardando. Non era nemmeno sicuro che stesse parlando con lui. «Davvero, vostra maestà?» domandò, non sapendo cosa replicare. «È successo nella battaglia contro Hansa?» «Hansa? No. Hansa non era neanche un sogno a quel tempo, e neanche Crotheny. Allora le famiglie degli uomini non erano divise. Gli antenati di Marcomir combattevano al fianco dei Dare.» «Allora era la guerra contro gli Skasloi?» Annuì. «Si tolsero le catene e bruciarono le fortezze a est, ma non sarebbe servito a niente se non avessero raggiunto Ulheqelesh e non avessero vinto là.» Si voltò verso di lui, e Neil si stupì nel vedere che aveva gli occhi pieni di lacrime. «Ulheqelesh si trovava dove oggi sorge Eslen.» «Non conoscevo il nome nella lingua dei demoni» rispose Neil. Si sentì un povero ignorante. «Non lo pronunciamo spesso, la maggior parte della gente non lo conosce. Fa parte degli oneri della regalità studiare la storia più antica.» «E che mi dite della battaglia qui, a Mey Ghorn?» «Il nome è stato corrotto dal tempo. Nella vecchia lingua era Magos Gorgon, la Pianura del Terrore.» «La battaglia, fu grande?» «Non ci fu una battaglia vera e propria. Marciavano e morivano, la carne gli veniva strappata dalle ossa, le ossa diventavano polvere. Eppure continuavano a marciare.» «Non riuscivano a vedere il nemico? Non c'era un nemico contro cui sollevare le armi?» La regina scosse la testa. «Marciavano e morivano» ripeté. «Perché sapevano di doverlo fare; l'unica alternativa era vivere da schiavi.» Neil guardò verso la pianura che andava scurendosi, e lo attraversò uno strano brivido di soggezione. «Ogni passo su quella pianura ricade sui resti di quei guerrieri.» La regina annuì. «È una storia terribile» disse Neil. «I guerrieri dovrebbero morire in battaglia.» «No, i guerrieri dovrebbero morire nel loro letto» lo contraddisse la re-
gina, e la sua voce si fece improvvisamente pungente e irosa. «Non mi avete sentito? Diecimila fantasmi sono incatenati al suolo di Mey Ghorn. Diecimila fratelli e sorelle, padri e madri di Hansa, Crotheny, Saltmark, Tero Gallé, Virgenya: ogni nazione di Everon ha delle ossa in questa polvere. Erano nobili, valorosi, e la loro unica arma era la speranza che i loro figli potessero vedere un giorno migliore, conoscere un mondo migliore. «E guardate che cosa abbiamo fatto. Per che cosa combattiamo adesso? Litigi per la pesca, per tariffe commerciali; dissidi ai confini. Tutta la nostra gente è diventata meschina e corrotta. Combattiamo per niente.» Fece un gesto con la mano a indicare tutta la terra lì intorno. «Offendiamo la loro memoria. Quanta vergogna avranno di noi...» Neil rimase in silenzio per qualche istante, finché la regina non si voltò a guardarlo. «Sir Neil!» disse dolcemente. «Volete dire qualcosa?» Fissò il suo sguardo in quello di lei, in quegli occhi tanto simili a quelli di sua figlia. «So poco di tariffe commerciali e di politica» ammise. «So poco di queste storie oscure.» «Eppure sapete qualcosa» disse lei. «Conoscevo mio nonno, Dovei MeqFinden. Era un brav'uomo. Mi costruiva barchette di legno quando ero piccolo e mi portava in spalla per i campi rocciosi di Skern. Mi mostrò il mare e mi raccontò del bel Fier de Meur e dei terribili draugs che dimorano nelle sue profondità.» «Andate avanti.» «Skern è un posto piccolo, maestà. Forse non sapete che a quel tempo il nostro signore supremo era un duca di Hansa, e le cose rimasero così per sei generazioni. Ci impedirono di usare la nostra lingua e metà del nostro raccolto e bestiame veniva confiscato da quell'uomo e dalla sua famiglia. Quando arrivammo a morire di fame, dovemmo cominciare a chiedere prestiti al duca e per ripagarlo ci mettemmo al suo servizio. Siamo gente orgogliosa, maestà, ma non al punto di lasciar morire di fame i nostri figli.» «E vostro nonno?» «Arrivò un'epidemia che decimò quasi tutto il suo bestiame, e non poté ripagare quello che aveva preso in prestito. Fu costretto a lavorare nelle stalle del nostro signore, il duca. Un giorno, una figlia di questo signore, montò un cavallo troppo selvaggio per lei. Mio nonno l'avvisò, ma non volle ascoltarlo. Fu disarcionata.»
«Morì?» «No. Erano presenti dieci uomini come testimoni. Mio nonno la raggiunse e la tirò fuori da sotto gli zoccoli del cavallo, ricevendo un duro colpo. Le salvò la vita, ma, così facendo, la toccò, la grande signora di famiglia hanzish. Per questo fu impiccato.» Un senso di compassione addolcì il viso della regina. «Mi dispiace» disse. Neil alzò le spalle. «È una delle tante storie. Tante volte abbiamo provato a ribellarci contro i nostri padroni hanzish. Abbiamo sempre fallito, fino al giorno in cui Fail de Liery giunse per mare con le sue barche e ci consegnò le armi, combattendo insieme a noi, e rispedì il duca e i suoi uomini di nuovo nella loro terra natia. Forse Liery combatté per Skern per una disputa meschina, non lo so. So solo che la mia gente può mangiare e vestirsi adesso, e non viene impiccata perché parla la propria lingua. So che adesso possiamo vivere da uomini e non come cani da compagnia degli Hanzish; forse è una piccola cosa, paragonata a quello che è successo su questa pianura, ma in cuor mio, maestà, so che la tirannia non è finita con gli Skasloi e la lotta per ciò che è giusto non è terminata con la marcia degli uomini a Mey Ghorn. So che manco di istruzione...» Tutto a un tratto sentì di essersi spinto troppo in là. Chi era lui per contraddire la regina? «No» disse lei, con un sorriso che arrivò a illuminarle il volto. «L'unica cosa che vi manca è la visione affettata e astratta tipica dei nobili di nascita. Devo ringraziare i santi per voi, Neil MeqVren. Mi avete rimesso al mio posto.» «Maestà, non era mia intenzione...» «Ssh! Ho smesso di guardare dall'alto grazie a voi. Non parliamone più, e scendiamo a rallegrarci. È la vigilia del Fiussanale, sapete?» Un'immagine gli balenò in mente, di un vestito blu e di un viso che guardava in su verso di lui, e il desiderio si accapigliò con l'ansia nel campo di battaglia del suo cuore. Quando però raggiunsero l'horz, Fastia non era più da nessuna parte. La notte accarezzò la fortezza. All'ottavo rintocco della campana i preparativi del Fiussanale erano già terminati, e perfino l'eccitata Elseny se ne stava tranquilla nei suoi appartamenti in attesa di prender sonno. Però il sonno sfuggì da Neil. Il ricordo di Fastia al chiaro di luna lo perseguitava, e c'era anche qualcos'altro che lo stava tormentando, forse le parole della regina sulla miriade di antichi morti intorno a Cal Azroth. Ri-
tornò fuori, sul bastione della torre in cui lei aveva i suoi appartamenti. Da lì poteva notare chiunque fosse entrato o uscito dalla residenza reale, e così continuare a svolgere il suo dovere. Ma poteva anche osservare la pianura infestata dai fantasmi e illuminata dalla luna, cercando ogni frammento di nebbia o luce che rivelasse qualche segnale di presenza di fantasmi. Dopo il rintocco delle dieci, le palpebre finalmente cominciarono ad appesantirsi e la luna si andò sistemando sull'orizzonte. Neil stava pensando di tornare nelle sue stanze, quando, con un leggero brivido, notò un movimento con la coda dell'occhio. Fissando dritto davanti a sé, dapprima non vide nulla, poi riuscì a distinguere diverse figure che si muovevano veloci verso il castello. Non pensò a fantasmi. Scese giù dalla torre, all'altezza dei merli, sperando di usufruire di una visuale migliore e avvisare la guardia. Quello che aveva visto, avrebbe potuto essere qualunque cosa, un gruppo di cani selvatici, una banda di Sefry, messaggeri della corte; ma la sua parola d'ordine era 'sospetto'. Non riuscì a vedere meglio dai merli, ma nel cortile sottostante notò una cosa che gli fece drizzare i peli. C'erano due figure umane a terra, immobili. La luna non si era ancora alzata, perciò non poté capire chi fossero, ma la posizione gli fece dubitare che stessero semplicemente dormendo per aver bevuto troppo. Esitò solo il tempo necessario per valutare se avrebbe dovuto mettersi il resto dell'armatura. Indossava la giubba di cuoio imbottita e la cotta di maglia leggera, e gli sarebbe servito troppo tempo per infilarsi anche la corazza. Deciso, e con il cuore che batteva forte, si diresse verso le scale, con passo leggero. Sotto, nel cortile, scoprì che i suoi timori erano fondati; il cancello massiccio a doppio battente era aperto, e al di là poteva vedere le stelle. C'erano degli uomini a terra, in una pozza di sangue che li dichiarava morti: portavano le divise della Guardia Reale. Un uomo, che dall'alto non aveva visto, giaceva accartocciato alla base delle scale. Era ancora vivo, anche se il respiro usciva in strani sibili. Neil si avvicinò cauto, con lo sguardo a perlustrare la cinta muraria. A destra del cancello aperto, oltre un secondo portale ancora chiuso, c'era il corridoio che portava al presidio. A sinistra c'era la torre della regina. Non avendo scorto nessuno, né un movimento in nessuna direzione, rivolse allora la sua attenzione all'uomo ferito. Con un sussulto, vide che si trattava di sir James Cathmayl. Aveva la go-
la tagliata, e stava cercando invano di arrestare con le mani il sangue e la vita che fuggivano via. I suoi occhi fissarono Neil e provò a dire qualcosa. Ma non uscì alcun suono, solo più sangue; il cavaliere a terra indicò una cosa alle spalle di Neil, e i suoi occhi morenti scintillarono in segno di pericolo. Neil si lanciò immediatamente verso destra, e un rumore d'acciaio colpì i ciottoli là dove era stato in ginocchio un istante prima. Si voltò e portò Corvo in guardia. C'era un uomo lì, un cavaliere completamente ricoperto dall'armatura. «La morte ti ha trovato» gli disse quello. «La morte mi ha trovato molte volte» rispose Neil. «L'ho sempre mandata via affamata.» Poi, alzando la voce, gridò: «Allarme! Il cancello è stato violato e i nemici sono dentro!» Il cavaliere scoppiò a ridere e si avvicinò, ma non sollevò l'arma, e con un brivido di stupore Neil vide che era Vargus Farre. «Traditore» esclamò Neil con voce stridula, balzando avanti e sferrando con Corvo un pesante colpo verso il basso. Il cavaliere si tirò tutto indietro e stavolta portò la sua arma in guardia. «Non la sentite, signor cavaliere?» domandò Vargus. C'era qualcosa di strano nel suo accento, nel modo in cui parlava, e anche se aveva il volto di sir Vargus, Neil dubitò che potesse essere davvero l'uomo che lui conosceva. «No?» ripeté sir Vargus. «Non la sentite la morte che arriva?» «Che succede, sir Vargus, o chiunque voi siate. Per chi avete aperto la porta?» «La sentirai presto.» E tutto a un tratto la sentì. Qualcosa lo colpì, come una fiamma tra gli occhi, ma una fiamma che lo divorava dall'interno. Sentì una voce nelle orecchie, che non era la sua, sentì una volontà non sua graffiargli il cranio. Con un grido cadde in ginocchio, e Corvo gli cadde rumorosamente accanto. Il cavaliere che non poteva essere sir Vargus rise di nuovo, e qualcosa dietro le labbra di Neil gorgogliò in una risposta sarcastica. Capitolo nove Visite notturne
«Be', è stata piuttosto noiosa» borbottò Anne, accendendo una candela per illuminare la stanza nella torre che condivideva con Austra. «Davvero?» domandò Austra, e la sua voce sembrava distante. «Io l'ho trovata abbastanza divertente.» «Io la definirei al massimo singolare.» «Singolare» ripeté Austra, annuendo. Andò alla finestra e guardò fuori nella notte. Anne sospirò e cominciò a cambiarsi d'abito. «Se non altro, è stato bello poter indossare di nuovo un vestito,» disse «anche se di gusto così discutibile.» Tenne il vestito davanti a sé, poi, scrollando le spalle, lo ripiegò con cura. Quindi, s'infilò la sua rozza camicia da notte. «Domani si torna a lezione» disse, cercando di distrarsi dalla delusione ancora viva di non aver visto Roderick e dal senso di disagio che quello spudorato Vitelliano le aveva provocato. «Impareremo a usare la pianta degli alv, pare, e non vedo l'ora di farlo.» «Uh-hu!» mormorò Austra. Anne rivolse uno sguardo sospettoso verso l'amica. «Faremo anche una lezione per imparare a trasformare i neonati in cuccioli e viceversa.» «Bene» replicò Austra annuendo. «Deve essere interessante.» «Per tutti i santi, ma che hai?» le domandò Anne. «Non mi stai nemmeno a sentire.» Austra si voltò verso la finestra con un senso di colpa. «Niente, niente di strano. Ho solo sonno.» «Non sembri insonnolita. Sembri invece facilmente eccitabile.» «Be', non lo sono» insisté. «Ho sonno.» «Sì? Allora che c'è di così interessante là fuori?» «Niente, è solo una bella serata.» «Ma se non c'è neanche la luna e non si vede niente.» «Riesco a vedere un sacco di cose. Forse mi capita di scorgere Roderick che arriva a cavallo.» «Austra Laesdauter, ti stai prendendo gioco di me?» «No. Lo spero per te che venga, lo ami ancora, vero?» «Sì.» «E questo come-si-chiama...» «Catio?» «Sì, lui. Come l'hai incontrato? Avevi detto che me lo avresti raccontato.»
Anne ci pensò su. «Questo è uno di quei segreti, Austra» disse infine. «Uno di quei nostri segreti sacri.» Austra si mise la mano sul cuore. «Su Genya Dare, giuro che manterrò il segreto.» Anne le spiegò come aveva trovato una via d'uscita dalla caverna e come aveva incontrato Catio, continuando a omettere la visione della donna misteriosa e dei suoi nuovi sensi. Si sentì in colpa per questo, ma qualcosa le ripeteva che era più prudente così. «Perciò vedi,» concluse Anne «qualunque impressione ti abbia fatto stasera, Catio rimane un mascalzone maleducato.» «Carino, però.» Anne spalancò la bocca, la richiuse e poi scoppiò a ridere. «Sei attratta da lui» dichiarò. «Che cosa?» il viso di Austra si contrasse per lo sgomento. «No, non è vero.» Anne incrociò le braccia e la guardò scettica da sopra la spalla. «Sei rimasta dietro di me per un po'. Che cosa è successo? Che ti ha detto?» Austra arrossì tanto che fu visibile anche alla luce della candela. «È come dici tu» disse, guardando un angolo della stanza come se lì avesse perso qualcosa. «È un vagabondo e un furfante.» «Austra, dimmi che cosa è successo.» «Ti arrabbierai.» «Mi arrabbio se continui a fare la preziosa e l'infatuata. Dimmelo!» «Be'... mi ha dato un bacio, credo.» «Credi? Che cosa vuol dire credo? O ti ha baciato o non l'ha fatto.» «Allora mi ha baciato» replicò Austra con una punta di sfida. «Lo vedi che sei attratta da lui!» l'accusò di nuovo Anne. «Ma se nemmeno lo conosco.» «Che volubilità!» esplose Anne. «Prima stravede per me e dodici secondi dopo sbava per te. Che cosa hai potuto trovare in un cuore così infedele?» «Niente! Solo...» «Solo cosa?» «Be', è stato bello, il bacio. Bacia bene.» «Io non lo so come bacia, né mi interessa saperlo.» «Non dovrebbe infatti. Hai già Roderick per questo. A ogni modo, sono certa che nessuna delle due vedrà casnar da Chiovattio di nuovo.» «Se i santi saranno benigni.»
Austra alzò le spalle e si voltò di nuovo verso la finestra. «Oh!» esclamò. «Che succede? È lì sotto? Sarebbe da lui, seguirci fin qua e importunarci.» «No, no» affermò Austra. «No, a meno che non abbia portato degli amici con sé. Guarda quante torce.» «Cosa? Fammi vedere.» Anne con una spallata si fece spazio davanti alla finestra e vide che Austra aveva ragione. Un lungo verme luminoso si stava avvicinando al coven. Anne sentì i cavalli sbuffare e il rumore degli zoccoli. «Chi può essere a quest'ora?» si chiese Anne. «Una carovana sefry, probabilmente. Viaggiano di notte, loro.» «Forse» rispose Anne dubbiosa. In quel preciso istante le campane del coven cominciarono a chiamare le suore a raccolta. «Credo che stiamo per scoprirlo» disse Anne. Sorella Casita andò loro incontro nel cortile in fondo alle scale, dove altre ragazze insonnolite stavano già iniziando a radunarsi, borbottando irritate e confuse per essere state svegliate così presto. «Scendete in grotta» disse Casita, facendo segno a tutte con una bacchetta di salice. «Rimanete lì finché non vi verrà detto di tornare nelle vostre stanze.» «Che succede?» domandò Anne. «Dalla torre abbiamo visto degli uomini a cavallo che si avvicinavano.» «Ssh! Sorella Ivexa, fate silenzio e andate dove vi ho detto: in grotta!» «Io non vado da nessuna parte finché non mi dite che cosa succede» insisté Anne. Prima che Anne potesse evitarla, sorella Casita la colpì sulla bocca con la bacchetta. Anne provò a gridare ma si sentì le labbra congelate. «Obbedite» disse Casita a tutte le ragazze assembrate lì. Vedendo cos'era successo ad Anne, nessuna osò farle domande. Anne, infuriata e spaventata, si diresse comunque con le altre verso la grotta. Il sacaum che sorella Casita aveva gettato sulle labbra di Anne svanì pochi istanti dopo, lasciandole solo uno strano formicolio nelle mascelle. In quel momento lei e Austra avevano raggiunto la testa delle scale che portavano sotto al coven, ma, anziché scenderle insieme alle altre, Anne tirò Austra in un corridoio laterale.
«Andiamo.» «Dove?» «Sulle mura. Voglio sapere che cosa succede.» «Sei pazza? Non hai ancora imparato a non disubbidire?» «Staremo nascoste, ma lo scoprirò. C'è qualcosa che non va. Penso che vogliano attaccare il coven.» «Per quale motivo qualcuno vorrebbe attaccare un coven?» «Non lo so. Ecco perché non voglio andare in grotta.» «Anne...» «Vai con le altre, se vuoi. So quello che faccio.» Si voltò e s'allontanò. Un istante dopo sentì un sospiro e il delicato fruscio di Austra che la seguiva. Girarono oltre la cucina e il giardino di erbe, dove si allargava la piccola pergola di viti con viticci che si arrampicavano sulle crepe della pietra. Lì, Anne si ricordava che c'era una scala stretta che portava sulla cima delle mura di cinta del coven. Era ripida e sbriciolata, e scivolò due volte, ma riuscirono a raggiungere la sommità e il camminamento piuttosto presto. Cominciò a muoversi lentamente verso il cancello d'entrata con Austra dietro di lei. A un tratto, sentirono correre dei passi e si tuffarono nell'ombra di una torre quando entrò una figura in un abito lungo. Anne ascoltò il suono dei passi silenziosi che salivano lassù e per poi allontanarsi frettolosi. Il largo cortile al di qua della porta d'entrata era pieno di figure vestite di scuro, per la maggior parte sicuramente membri dell'ordine ceriano. Sorella Secula non era con loro; stava sul muro sopra al cancello insieme a sorella Savitor e Curnax, con lo sguardo rivolto a chiunque si trovasse lì sotto. Anne la sentì parlare, ma non riuscì a distinguere le parole. Si avvicinò strisciando, mentre Austra continuava a seguirla, e insieme scoprirono una porzione sporgente del bastione da cui potevano vedere sorella Secula e gli uomini che erano arrivati fuori del cancello. «Santi!» mormorò Anne. Alle luci delle torce poté distinguere circa trenta uomini vestiti con armature, dritti in sella su cavalli di battaglia. Nessuno di loro però portava uno stemma, neanche il loro capo, che indossava un'armatura con i bordi dorati e cavalcava circa due iarde più avanti rispetto a tutti gli altri. Aveva tirato su la visiera, ma Anne non riusciva a discernere i suoi lineamenti da lontano. Stava parlando con sorella Secula, o meglio era lei che parlava a lui.
«...il problema» stava dicendo. «Siamo sotto la protezione della chiesa e del meddisso. Se non mi ascoltate, le conseguenze saranno disastrose. Adesso andatevene.» La voce era ferma nel comando, e anche se le parole non erano dirette ad Anne, la fecero comunque sussultare. Non avrebbe mai voluto essere nei panni di quel cavaliere, chiunque fosse. Quello però non sembrò impressionato. «Non posso, signora» gridò. Alle sue spalle si sentiva il rumore metallico degli speroni e i cavalli scalpitavano. L'odore di catrame bruciato delle torce saliva su per le mura. Tutta la scena era irreale come un sogno. «Ho giurato» proseguì il cavaliere. «Fatela uscire, così la facciamo finita con questa faccenda. Lamentatevi pure quanto volete.» «Pensate forse che siccome venite qui come dei vigliacchi senza stemmi o vessilli, non riusciremo a scoprire chi siete?» rispose sorella Secula. «Andatevene, qui non otterrete nient'altro che la maledizione dei santi.» «I santi sono dalla nostra parte, sorella» replicò l'altro sicuro di sé. «La nostra causa è pulita, non ho paura delle stregonerie che potete usare contro di me. Ve lo chiedo ancora una volta, fate scendere Anne Dare, o mi costringerete a essere incivile.» «Anne!» esclamò sorpresa Austra. Lei prese la mano dell'amica, mentre il cuore cominciava ad accelerare. Sembrava che il mondo ruotasse vorticosamente mentre tutto quello che stava succedendo si andava riallineando. Tutto questo era per lei. «Vi avviso ancora una volta,» disse Secula al cavaliere «la vostra invasione andrebbe al di là di ogni sopportazione. Nessun uomo può mettere piede in questo coven.» Anne non riusciva a vedere il viso della mestra, ma poteva immaginarlo e si chiese se il cavaliere senza nome stesse effettivamente incrociando quello sguardo. «Mi dispiace per quello che sto per fare, ma ormai mi avete costretto.» Fece un gesto e la sua compagnia si divise, facendo comparire dieci arcieri e altrettanti uomini che tenevano un ariete. Gli arcieri puntarono l'arco verso le suore sul muro. «Aprite il cancello. Per amore dei santi, aprite e fateci entrare.» In risposta, sorella Secula allargò la mano e Anne avvertì un formicolio improvviso sulla pelle, una sensazione allo stesso tempo simile e diversa da quella provata davanti a un incendio. Una cosa oscura uscì dai polpastrelli della mestra, come una tela di ragno, ma più sottile e inconsistente.
Si posò sugli uomini sottostanti. Quando toccò i più alti, questi iniziarono a urlare portandosi le mani agli occhi. Anne vide il sangue zampillare dalle loro dita e il suo stomaco si contrasse per l'orrore. Aveva sentito parlare dei sacaum encrotacnici, anche se non ci aveva mai creduto del tutto. Il cavaliere sollevò le braccia e gridò, e ancora una volta, sentì un impeto forte, che stavolta l'attraversò con fredda violenza. Il sacaum della mestra si sbriciolò, galleggiando nell'aria della notte, e poi svanì. «E così» disse Secula, «finalmente mostrate la vostra faccia, fratello. Ora so la verità.» «Una verità forse» rispose l'uomo. «Questa faccenda supera la vostra comprensione, mestra.» «Illuminatemi.» «Non posso.» Fece un gesto e i suoi uomini ondeggiarono in avanti; l'ariete cozzò contro il cancello. In quello stesso istante, le mani del cavaliere emisero un bagliore bianco, un tuono improvviso spaccò l'aria e un fuoco blu si attorcigliò in una spirale da sotto le mura. Anne non riuscì a vedere il lato del cancello colpito, ma solo la parte dentro il cortile, e spalancò la bocca, sorpresa, quando il fuoco scoppiettò tra le giunture come fossero lunghi viticci. Al secondo colpo, il portone cedette e il cavaliere entrò, seguito dai suoi uomini. Anne non avvertiva più il suo corpo. Si sentiva separata, senza peso, una presenza fragile come uno spettro che osservava quello che succedeva. Le suore si riunirono in gruppo pronunciando parole oscure, e i cavalieri cadevano a terra levandosi gli elmi e rivelando facce azzurre. Si staccavano la lingua a morsi e i denti si frantumavano negli spasmi delle mascelle; piangevano lacrime verdi, mentre attraversavano le acque della morte. Il loro capo camminava a lunghi passi, illeso, attraverso l'invisibile velo del massacro. Alzò in aria la pesante spada, e un attimo dopo una delle suore si trovò senza testa, afflosciandosi sulle ginocchia lentamente, mentre il collo sembrava allungarsi e fiorire come un'orchidea rossa. La spada sanguinaria colpì ancora e ancora, tagliandosi la strada tra le suore di Cer. Dapprima queste resistettero, e i cavalieri continuarono a cadere come formiche nel fuoco, ma d'un tratto crollarono davanti a quella lama assassina. Frecce scoccarono in alto sui merli, dove sorella Secula faceva precipitare una grandine nera che passava attraverso le armature come se queste non fossero esistite. Savitor e Curnax caddero, con lo sguardo fisso alle frecce che le trafiggevano. Sorella Secula batté le mani e sembrò scivolare
in un'ombra che non era lì, e in nessun'altra parte. «Oh, santi!» gridò Austra. «Tutto questo per causa mia» commentò Anne intontita. Le parole non avevano senso, ma erano lì. «Dobbiamo andare nella grotta» disse Austra. «Dobbiamo raggiungere un posto sicuro, dai andiamo.» Ma Anne non riusciva a muoversi. C'era sangue dappertutto, adesso. Non avrebbe mai immaginato che potesse esistere tutto quel sangue nel mondo, o che dei corpi senza testa potessero agitarsi in quel modo, o che gli occhi dei morti fossero così simili al vetro. «Anne!» le gridò in un orecchio Austra. Il capo dei cavalieri la sentì e guardò in alto. La visiera era ancora sollevata, ma l'unica cosa che Anne notò di quel volto furono gli occhi di un blu così intenso da sembrare quasi bianchi. «Lassù!» gridò, distendendo il dito d'acciaio verso di lei. «Anne!» Austra piangeva ininterrottamente di paura e dolore, tirandola per un braccio. Anne ritrovò le gambe, o si trovarono da sole, e di scatto si mise a correre veloce tra i merli, con tutti i suoi sensi acuiti dalla paura. Austra la seguiva vicinissima, quasi spingendola. Trovarono la scala da cui erano salite e cominciarono a scenderla brancolando. Anne scivolò e le ginocchia sbatterono contro la dura pietra, ma quasi non se ne accorse, perché quando ebbero raggiunto il cortile arrivò un altro grido roco. «La grotta!» urlò Austra, facendole segno. «Per rimanere in trappola? No!» Anne girò nel refettorio, non osando affrontare il suono dei passi metallici che schiaffeggiavano la pietra alle loro spalle. Come girarono oltre l'entrata verso la dispensa, però, Austra gridò di nuovo e stavolta Anne fu costretta a girarsi. Il loro inseguitore, un uomo con una mezza armatura e lunghi capelli neri raccolti in una coda, aveva preso Austra per i capelli e puntava la spada contro Anne. «Basta correre» ordinò. «Venite con me.» Lo sguardo di Austra terrorizzato e di colpo Anne si sentì più furiosa che sgomenta. La cosa più a portata di mano era un martello usato per inchiodare i fusti di legno. L'afferrò e lo lanciò. Non fu un colpo forte, ma sorprendentemente preciso. Ebbe una fugace
visione dello stupore sul volto del cavaliere, un attimo prima che la mazza gli spaccasse il naso. Imprecò e vacillò all'indietro, e Austra si ritrovò libera. Le due ragazze ricominciarono a correre. Alle loro spalle, Anne sentì il cavaliere gridare e scalpitare e poi qualcosa la colpì forte sulla testa. Si sentì leggera e poi pesante, e la guancia sbatté contro il terreno. Sputò sangue e provò ad alzarsi, ma uno stivale scese contro la sua schiena. «Piccola cagna» disse l'uomo. «Ti insegnerò io a... santi!» Quell'ultima parola suonò come un grido così acuto che ricordò un cavallo morente e la pressione contro la schiena svanì. Confusa, si alzò sulle ginocchia, barcollando, e voltandosi, vide che il cavaliere giaceva in terra morto, con un vapore che gli usciva dalle labbra. «Alzatevi, su, presto!» Anne guardò verso la nuova voce. Accanto a lei, Austra si stava tirando su a fatica. Sorella Secula guardava verso di loro. «Venite,» disse «le altre suore non riusciranno a tenerli lontano ancora per molto.» Anne annuì senza dire una parola, grattandosi la testa, che ancora le rimbombava per il colpo. Fissò il retro del saio della mesta, chiedendosi di nuovo se tutto stesse accadendo veramente. Troppo veloce, era tutto troppo veloce. Le cose erano offuscate. Quando tornò a rendersi conto di dove si trovassero, erano in piedi davanti al pozzo che portava al tempio di Mefitis. La mestra la prese per le spalle. «Non mi aspettavo tutto questo» mormorò in una voce stranamente dolce. «Non avevo finito con voi e non siete ancora pronta, ma così stanno le cose.» «Che cosa vogliono da me quegli uomini?» domandò Anne. Sorella Secula socchiuse gli occhi. «Rubare la speranza al mondo, sottrarvi a esso.» Indicò l'imbracatura. «Entrate, tutte e due.» «Aspettate» fece Anne. Sentiva che c'era qualcosa che doveva chiedere. «Non c'è tempo» replicò la donna più anziana. «Afferratevi bene alle corde.» «Che devo fare?» domandò Anne, mentre lei e Austra si sistemavano nell'intreccio di corde. «Non capisco che devo fare.» «Rimanete viva» le consigliò sorella Secula. «Il resto si rivelerà come meglio può, santi permettendo. Lasciate questo posto, e subito, altrimenti vi troveranno. Continuate a fuggire, e non fidatevi di nessuna illusione di
salvezza.» Cominciò a lasciar andare l'argano calandole giù e il suo viso scomparve sopra Anne. Qualcosa cominciò a colpire con violenza la porta sopra di loro. «Conoscete la via d'uscita» le disse la mestra. «Andatevene subito appena raggiungete il fondo.» «Lo sapevate?» esplose Anne. L'unica risposta di sorella Secula fu una dolce risata. Le calò velocemente e, non appena toccarono il pavimento di pietra, sentirono da sopra un coro di urla, come di anime dannate, e un debole odore di zolfo. Poi il silenzio. Nell'oscurità, Anne si sentì improvvisamente più forte. «Austra, dammi la mano.» «Com'è buio» protestò l'altra. «Cadremo in un burrone o inciamperemo.» «Fidati di me e dammi la mano. Hai sentito la mestra? Conosco la strada.» Voci di uomini echeggiarono dall'alto. «Hai sentito? Sanno che siamo qui.» «Già» disse Austra. «Andiamo.» Con le mani intrecciate, le due ragazze si mossero nell'oscurità. Capitolo dieci Il suono Desmond aveva già visto Stephen molto tempo prima che questi entrasse nella radura. E lui lo sapeva. Il monaco interruppe il suo incantesimo, e un sorriso sarcastico comparve sul suo volto. «Lewes! Owlic!» disse. «State in guardia. Il guardaboschi deve essere qui vicino. È pericoloso, se è riuscito a uccidere Topan e Aligern.» Fece un sorriso ancora più ampio. «Non hai potuto partecipare come si deve alla loro uccisione, vero fratello Stephen?» «No, hai ragione» rispose Stephen allegramente. Incrociò le braccia cercando di apparire indifferente. Desmond alzò la testa a quella risposta e poi scrollò le spalle. «Sei impazzito, penso. Ma questo va a tuo vantaggio, considerando quanto sto per farti.»
«Però ti sbagli sul guardaboschi» proseguì Stephen. «Ha ucciso lui Topan e Aligern, ma Topan gli ha inferto un colpo mortale. Dovrò ucciderti io stesso.» «D'accordo» rispose Spendlove. «Potrai farlo tra un momento. Nel frattempo, mettiti comodo, seduto se preferisci. Devo finire un lavoretto prima di passare al tuo caso.» Guardò Lewes e Owlic. «Probabilmente non dice la verità sul guardaboschi. State in guardia.» Poi si voltò di nuovo verso la ragazza. «Non devi per forza ripetere tutta quella tiritera, sai?» gli confidò Stephen. «Al sedos non importa se dici qualcosa o no.» Desmond si accigliò. «Forse no. Ma ai santi oscuri interessa molto invece.» «I santi oscuri sono morti. Dimostri tutta la tua ignoranza, cantando come l'uomo dei prodigi watau. I sedoi sono quello che resta della loro potenza, solo antiche tracce. Il potere è lì, ma privo di vita.» Cambiò tono assumendone uno che avrebbe potuto usare con un bambino. «Questo significa che non può sentirti.» Desmond provò a sorridere di nuovo, ma stavolta sembrò forzato. «Parli di cose di cui non sai niente.» Stephen si mise a ridere. «Questa è buona, detta da uno stupido come te. Che cosa non capisco secondo te? Lo so che stai creando dei changeling. Hai appena mandato l'anima di fratello Seigereik a rubare un corpo e ora stai inviando quella di Ashern a fare la stessa cosa. Cavalieri della Guardia della regina, probabilmente. Non è un riccio di capelli quello che vedo intorno al collo di Ashern? Occorre un oggetto personale per trovare il corpo, no?» «Lewes fallo stare zitto fino a che non ho finito» blaterò Desmond. Sollevò un dito in aria in segno di ammonimento. «Non ucciderlo, però.» Il monaco grande e goffo si mosse verso Stephen. «Siete voi che non sapete quello che state facendo» disse Stephen. «La vostra conoscenza è incompleta ed è più superstizione che altro. Ecco perché avevate bisogno di me, e ne avete ancora.» «Ah, e tu saresti pronto ad aiutarci adesso? Non so perché, ma ho i miei dubbi.» «Richiama Lewes. Richiamalo o userò questo.» Prese il corno dal sacco, quello che il guardaboschi aveva riportato dalle Montagne della Lepre a d'Ef. Desmond strizzò gli occhi.
«Stai lontano, Lewes» ordinò Spendlove. Questi si allontanò leggermente dalla ragazza, alzando le mani nude perché fosse ben visibile che non la stava più minacciando. «Dove l'hai preso?» «Avresti dovuto spendere un po' più di tempo nello scriftorium e un po' meno a gingillarti con i cadaveri» gli disse Stephen. «Lo sai che cos'è? Io credo di sì.» «Qualcosa che non dovresti avere, qualcosa che non avrai ancora per molto.» «Non mi serve per molto, solo per un istante.» Desmond scosse la testa. «Non puoi pensare che io sia così stupido. Il rituale impiegato...» «Non ha più senso di quello che stai farfugliando adesso. Qualunque sedos può liberare il potere del corno. Chiunque può suonarlo. E guarda caso, qui ci sono entrambe le cose.» «Se sai veramente che cos'hai in mano, sai ancora meglio che non va usato. Chiamarlo non ti aiuterà.» «Hai paura di nominarlo? Io no: il Re degli Alberi, il signore con le corna, l'uomo-ortica. E per quanto riguarda il fatto di chiamarlo, sai, non so bene che cosa succederà, e nemmeno tu. Può darsi che ci uccida tutti, sebbene il Codex khwrn affermi che chi possiede il corno non sarà colpito. Questa è un'opportunità che non voglio perdere, considerando che, per tua stessa ammissione, hai in mente cose sgradevoli per me.» Sollevò il corno, chiedendosi se veramente esistesse uno scrift come il Codex Khwm. «Fermo!» urlò Desmond, con una nota di disperazione nella voce. «Aspetta un momento.» «Sei tanto bendisposto verso i santi oscuri, e poi non vuoi incontrarne uno?» «Non lui, non ancora.» Alzò la testa. «Non sai tutto, fratello Stephen, neanche la metà delle cose. Se lo svegli adesso, se lo fai uscire dalla foresta prima che abbiamo finito i preparativi, ti ritroverai più sangue sulle mani di quanto tu possa immaginare.» Stephen scrollò le spalle. «Allora, non lo svegliamo.» La voce di Desmond assunse un tono di contrattazione. «Che cosa vuoi?» domandò. «La ragazza, lasciala andare.» «Conosci questa sgualdrina?» «Non ho mai messo gli occhi su di lei prima d'ora, ma non mi va di stare a guardarti mentre l'ammazzi. Liberala e lasciaci andare via.»
«Dov'è il guardaboschi?» «Te l'ho detto, è morto.» Spendlove scosse la testa. «Probabilmente ha seguito Fend. Sono vecchi amici quei due.» Lewes si trovava a sole poche iarde di distanza, teso come se fosse pronto a saltare. Stephen si portò il corno alle labbra e agitò un dito come per avvisare il gigante. Fratello Ashern, seminudo, in piedi sul sedos, si schiarì la voce. «Seigereik probabilmente ha già aperto il cancello ormai» disse. «Forse non c'è bisogno che vada anch'io.» Desmond rise amaramente. «Sei sempre stato un vigliacco nel profondo, fratello Ashern. Tu hai il compito più importante di tutti. Se gli altri falliscono, sei tu che devi uccidere la regina. Lei si fiderà di te.» «Se suona il corno non riuscirò a uccidere nessuna regina» si difese fratello Ashern. «Con il cancello aperto, Fend e i suoi uomini entreranno presto. È a meno di mezz'ora di cavalcata, anche nell'oscurità. Prenderanno la regina, è quasi certo.» «Non sappiamo neanche se è quello vero» brontolò Lewes. «Potrebbe anche essere un corno di bue che ha raccolto da qualche parte.» «O potrebbe darsi che abbia viaggiato con il guardaboschi che ha visto il Re degli Alberi, proprio nella sua dimora. Certo, Fend ve l'ha raccontato. Era questo che cercava prima di tutto: il corno. Pensi che l'abbia trovato?» Stavano facendo ipotesi, ma dalle loro facce capì che aveva fatto centro. Lewes si stava avvicinando. «No, Lewes» gli ordinò Spendlove. «Ha ragione, e anche fratello Ashern. Presto la regina e le sue figlie saranno morte; il guardaboschi non può uccidere Fend e tutti i suoi uomini da solo. L'impresa si è conclusa. Non abbiamo bisogno di uccidere questa puttanella.» Tirò fuori un coltello dalla cinta, che splendeva di una luce attinica. «Ho intenzione di liberarla.» Stephen si poggiò il corno alle labbra, un monito silenzioso. Non aveva fatto i conti con la velocità di Spendlove. Il pugnale fu improvvisamente un ronzio in aria e poi un dolore tagliente nel braccio di Stephen. Emise un lamento. Il mondo si riempì di un solo suono. Non aveva mai voluto suonare il corno, ovviamente, né aveva mai creduto che potesse succedere qualcosa se l'avesse fatto. Contava nella fede superstiziosa di Spendlove nei santi oscuri. Non sapeva neanche come suonare un corno, sebbene l'avesse visto fare
e capisse che era diverso da un oboe o un flauto dolce; bisognava far vibrare le labbra o qualcosa del genere. Non bastava far passare l'aria. Ma la nota limpida che si levò nell'oscurità confutò tutto questo, e sembrò che non si volesse più fermare. Anche quando Stephen crollò in ginocchio, col sangue che gli sgorgava dal braccio, il corno continuò a suonare sempre più forte, succhiandogli l'aria, mentre le rocce e gli alberi sembravano raccogliere la nota e il cielo rabbrividiva. Anche quando fratello Lewes lo colpì e gli strappò lo strumento dalle mani, il suono continuò, raccogliendo forza come un cumulonembo, sempre più acuto fino a farsi assordante, fino a oscurare ogni altro suono nel mondo. Fratello Lewes lo fece cadere a terra. Digrignando i denti, Stephen estrasse il coltello dal braccio, e per poco non svenne per il dolore. Si girò sulla schiena, sollevando in modo confuso il coltello in un gesto di difesa. Ma fratello Lewes stava facendo qualcosa di strano. Sembrava che si fosse conficcato qualcosa dritto nell'occhio destro. Perché? Quando una seconda freccia colpì il monaco al cuore, tutto improvvisamente acquistò un senso. Guardò intontito Lewes che afferrò la freccia, emise un'ultima esclamazione di stupore e cadde. «Aspar» gridò Stephen. Non riusciva a sentire le sue parole per il suono del corno. Afferrando il pugnale si rimise in piedi barcollando. Voleva che il dolore del braccio sparisse e così fu, esattamente come quando i sensi lo avevano abbandonato sulla via dei templi. Con un'espressione arcigna si mosse verso Desmond. Il monaco lo vide avvicinarsi. Stephen era in qualche modo consapevole che adesso Aspar stava attaccando Owlic. Nell'aria intorno a loro, la nota del corno stava finalmente cominciando ad affievolirsi, ma lentamente. «Sei il più grande stupido del mondo» gridò Spendlove. «Idiota, che cosa hai combinato?» Stephen non rispose. Il suo primo respiro da quando aveva suonato il corno gli sembrò una boccata d'aria ghiacciata, d'inverno. Sapeva che Spendlove l'avrebbe ucciso, ma non gli importava. Col coltello alzato cominciò a correre contro l'altro monaco, dimenticando il braccio ferito. Desmond diede un'occhiata alla donna legata a terra e poi, veloce come un gatto, afferrò fratello Ashern e lo sistemò sopra la prima vittima, che ancora si contorceva leggermente. Lo pugnalò al cuore. Quasi nello stesso istante, una freccia colpì Desmond in pieno petto, e lui cadde all'indietro
emettendo un grugnito. Così Stephen ebbe un momento per scegliere e in quell'istante avvertì una cocente certezza. Abbandonò la carica e con la spalla spinse via dal tumulo fratello Ashern che stava morendo con uno sguardo attonito. Poi si inginocchiò presso l'altro uomo, che ancora fissava a bocca spalancata le sue budella. «Perdonatemi» disse, e spinse il coltello luccicante all'interno del suo occhio blu, già torturato, premendo fino a che lo sentì scendere. «Una volta che la lama è dentro» ricordò di aver letto nella Fisionomia di Ulh «agitarlo bene per mescolare il cervello. Seguirà una morte rapida.» Lo agitò e qualcosa in terra, sotto di lui, sembrò lamentarsi. Sollevò lo sguardo proprio mentre Desmond lo colpiva. Sentì il naso fracassarsi e un sapore di sangue in gola, e quando saltò giù dal sedos non provava più niente. Desmond lo seguì con un'espressione maligna, strappandosi la freccia dal petto. Stephen lo vide schivarne un'altra, e poi si sentì afferrare per il colletto, e di nuovo si trovò in aria. Crollò a terra dall'altra parte della collina. Qui sarà coperto, pensò Stephen. Aspar non sarà in grado di colpirlo se non si sposta. Sarò morto quando arriverà qui. Desmond aggirò il sedos e gli diede un calcio alle costole. Stephen grugnì; non poteva respirare col naso, e la bocca era piena di sangue. «Ne ho abbastanza di te, Stephen Darige» disse Desmond. «Ne ho davvero abbastanza.» Avvertì qualcosa nella mano mentre cercava di tirarsi indietro e realizzò di avere ancora il pugnale. Ma non poteva usarlo. Il monaco era troppo veloce e lui non sapeva lanciarlo come gli aveva visto fare. O forse sì? Si ricordò che Spendlove aveva tirato indietro la mano e poi l'aveva lanciato verso di lui. Con la stessa fulminea rapidità nel colpo, ripercorse col pensiero ogni singolo movimento. Pensò di far compiere alla sua mano le stesse mosse. Spendlove si avvicinò, con aria quasi sprezzante. Stephen, che non si era ancora completamente rialzato, tirò indietro la mano e lanciò. Era certo di averlo mancato, quando Spendlove, incredulo e con gli occhi spalancati, si toccò lo sterno, dov'era conficcato il manico del pugnale, proprio sotto la ferita della freccia. Stephen balzò in piedi, e una feroce esultanza gli agitò le membra. Spendlove lo colpì di nuovo, al torace, forse con una mazza, ma lui si spinse avanti agilmente, gettando le braccia intorno al monaco.
Questo lo afferrò per il collo con tutte e due le mani e cominciò a stringere. Il mondo diventò grigio mentre le sue dita gli penetravano nel collo. Con il gelo nella pancia, si chiese come potesse Spendlove essere così stupido. Era forse un tranello? Decise di no; Spendlove era solo pazzo di rabbia. Con entrambe le mani, Stephen afferrò il manico del coltello e lo tirò verso il basso. «Oh, merda» disse Spendlove, osservando le budella che gli si rovesciavano in terra. Lasciò andare Stephen, fece tre passi indietro, e ricadde pesantemente sul tumulo. Provò a chiudersi con le braccia la pancia squartata. «Mi chiedo come mai non ci hai pensato» commentò Stephen, cadendo in ginocchio. «Troppo furioso. Santi, Darige, certo che sai come farmi impazzire.» Ruotò gli occhi. «Mi hai ucciso. Io, ucciso da uno come te.» «Non avresti dovuto tradire la chiesa» osservò Stephen. «Non avresti dovuto uccidere fratrex Pell.» «Sei sempre uno sciocco, fratello Stephen» replicò Spendlove. «So che ci sono altri coinvolti all'interno della chiesa» gli disse Stephen. «So che prendevi ordini da qualcuno. Dimmi da chi. Confessati, fratello Desmond. So che ti penti per quello che hai fatto.» «Mi pento di non averti ucciso quando ti ho conosciuto, quello sì.» «Già, non mi hai ucciso. E quella notte sulla collina?» Spendlove sembrò molto affaticato. Se non fosse stato per il fiume di sangue che gli scorreva tra le braccia incrociate, si sarebbe detto che stava preparandosi per fare un pisolino. Batté le palpebre. «Non ho mai avuto una possibilità» mormorò. «Pensavo che avrebbero fatto di me qualcosa di meglio, invece mi hanno trasformato in peggio.» Guardò di lato, come se stesse vedendo qualcosa. «Eccoli lì. Venite a prendermi.» «Dimmi chi erano i tuoi superiori» insistette Stephen. «Avvicinati, te lo dico in un orecchio» disse Spendlove, battendo le palpebre come ali di farfalle ferite. «Non credo che lo farò. Hai ancora la forza per uccidermi.» «Be', almeno hai imparato qualcosa.» Si distese. «In ogni caso è meglio che tu viva per vedere il mondo che hai creato. Spero che ti divertirai, fratello Stephen.» «Che cosa vuoi dire?» «Sono qui.» La voce di Spendlove suonò improvvisamente terrorizzata.
Tirò indietro la testa e inarcò la schiena. «È solo cenere, ora. Sono stato uno sciocco a credere che avrei potuto essere qualcosa di più. Per tutti i santi!» Lanciò un ultimo grido, poi rimase immobile, disteso, il corpo tranquillo e la faccia straziata. Stephen si sedette a guardarlo, col petto ansimante, mentre cercava a poco a poco di tornare in sé. Aspar colpì quell'odioso monaco al collo e mentre questi vacillava gli tirò l'ultima freccia al cuore. Rimaneva solo il loro capo, che era andato dietro alla collinetta con Stephen. Aspar uscì a tutta velocità dalla copertura. Ma il tipo che aveva appena colpito non voleva mollare. Si incontrarono a metà strada verso il tumulo, e sferrò un colpo contro Aspar con una spada, una macchia grigio acciaio. Lui si fermò di colpo, fece un salto all'indietro, incrociando la mano che serrava il pugnale con l'ascia che aveva acquistato in un villaggio vicino, due giorni prima. Gli fece abbassare la spada, poi sollevò l'arma di taglio contro il mento del monaco, spaccandogli la mandibola. In risposta, ricevette un colpo col pomo della spada che lo stese. Lo schermidore avanzò, colpendo in basso, più lentamente stavolta. Aspar spostò la lama da un lato e si mise rapido a sedere, infilando il pugnale nell'inguine del nemico. Quando questi si piegò in due, estrasse il coltello e glielo infilò nel cuore, e lo finì. Poi Aspar si rimise in piedi dolorante e riprese a correre verso il tumulo dove Winna giaceva ancora legata. «Winn!» Dietro a lei vide l'ultimo monaco piegato sulla pancia, e Stephen che lo guardava con sarcasmo da alcune iarde di distanza. Il ragazzo sanguinava copiosamente dal braccio ferito, ma per il resto sembrava che stesse piuttosto bene. Winna lo guardava, con gli occhi stranamente calmi. Inginocchiandosi, le tagliò la corda, la prese in braccio e le tolse il bavaglio. «Winna...» Voleva dire qualcosa di più, ma non ci riuscì, perché gli sembrava di aver ingoiato un macigno. E perché aveva la faccia umida? Era forse ferito sulla fronte? Lei scoppiò in singhiozzi e sprofondò il viso nel suo collo; rimasero così per un lungo istante. Alla fine la allontanò dolcemente. «Winna, ti hanno ferito? Ti hanno...» «Non hanno toccato il mio corpo» bisbigliò. «Ne hanno parlato spesso, ma lui non glielo ha permesso, Fend. Mi voleva pura, diceva. Voleva fare
delle cose davanti a te. È morto?» «Fend? Non ancora. Winna!» «Sapevo che mi avresti trovato.» «Ti amo, Winna. Se tu fossi morta...» Lei si asciugò gli occhi, e la sua voce tornò quella di sempre. «Non sono morta. E neanche tu. Così eccoci qua. Anch'io ti amo. La regina invece morirà se non facciamo qualcosa.» «Ho già qui l'unica regina di cui m'importa» replicò Aspar con voce roca. «Ucciderò Fend, sì, ma prima, per il Veggente, voglio vederti al sicuro.» «Non ci pensare neanche. Abbiamo iniziato tutto questo insieme, Aspar, e continueremo a rimanere insieme.» «Ha ragione» intervenne Stephen dietro di loro, alzandosi. «Dobbiamo fare tutto quello che possiamo.» «Lo abbiamo già fatto, credo» disse Aspar. «No. Non ancora. Forse non saremo in grado di aiutarli a Cal Azroth, ma dobbiamo provarci.» «Hai combattuto maledettamente bene qui, ragazzo. Ci hai resi tutti orgogliosi di te. Ma guardati. Non c'è più forza in te. Se non fasciamo quel braccio, morirai dissanguato.» «Fasciatemelo allora, così poi andiamo.» Aspar guardò quei due giovani volti così determinati e sospirò, sentendosi improvvisamente in minoranza. «Winna, non dovresti essere quella con un po' di buon senso?» domandò. Lei alzò il mento verso Stephen. «Mi chiamo Winna Rufoote.» «Stephen Darige, al vostro servizio.» Lanciò un'occhiata ad Aspar come a dirgli avresti potuto informarmi, ma dalla sua bocca non uscì altro. Tutto a un tratto Aspar si sentì imbarazzato e stupido. «È stato cocciuto con voi come con me?» domandò Winna a Stephen. «Non lo so. Non so se potrebbe mai essere più testardo di come l'ho visto io.» «Be' può esserlo, ma io sono la sua donna.» Si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò. «Vero, amore?» Aspar si sentì un fuoco sulle guance e arricciò le labbra. «Cavolo» grugnì. «Ci andiamo, ma facciamo come dico io, d'accordo?» «Agli ordini» rispose Winna. «E ci portiamo i cavalli. Ne avremo bisogno.»
Capitolo undici Il changeling Neil cadde in ginocchio, vomitando. Proprio per questo, non riuscì a sentire né le mani, né la pietra sottostante. Filamenti oscuri si intrecciarono dietro ai suoi occhi. «Benvenuto fratello Ashern» disse il cavaliere che era e non era Vargus Farre. «Sei in ritardo. C'è stato qualche problema?» Neil non poté obbligare le sue corde vocali a rispondere. «Che cosa gli prende?» domandò qualcun altro. Neil chiuse gli occhi e vide la voce come una linea blu irrequieta, come un fulmine. «Non lo so» rispose Vargus. «Anch'io all'inizio sono stato male, ma non così.» «Non importa» disse la nuova voce. «Possiamo fare quello che dobbiamo, con o senza di lui. Ma non possiamo aspettare.» «D'accordo» replicò Vargus. «Fratello Ashern, quando ti sei ripreso dal viaggio, cerca la regina. Se non è stata già sistemata, fallo tu. Ricorda, lei crede che tu sia la sua guardia personale, ti chiami Neil. Te lo ricordi?» Le sue parole non avevano senso. La trama nera che andava tessendosi dietro gli occhi di Neil si faceva sempre più fitta, avvolgendolo, affondando nelle sue ossa, come una rete gettata a mare. Pensò un attimo a che cosa avrebbe potuto riportare in superficie quella rete e si ricordò della luce del sole sulla cresta delle onde. Sentì la mano del padre nella sua. Poi nient'altro. Si svegliò là dove era caduto, con la faccia schiacciata contro la pietra. Aveva la bocca secca e la testa gli faceva male, come se avesse bevuto troppo vino. Combattendo lo stimolo al vomito, trovò Corvo e si rialzò con fatica. Vacillò un momento, la testa ancora gli girava, e si mise a esplorare con lo sguardo le ombre della rocca. Era ancora notte, quindi non doveva aver perso i sensi per troppo tempo, ma il falso Vargus e quello con cui aveva parlato non erano da nessuna parte. Che cosa mi è successo? I due uomini avevano parlato come se lui fosse qualcun altro. Ma lui si sentiva ancora Neil MeqVren. Guardando a terra, vide sir James Cathmayl privo di vita, con gli occhi
di vetro che fissavano la morte. Tutt'intorno, Cal Azroth era calma e tranquilla, eppure Neil percepiva un movimento agitato, un'oscurità tagliente che attendeva di chiudersi su di lui e bucargli le vene. La regina. Corse all'impazzata su per le scale. Vargus aveva fatto entrare qualcuno dentro Cal Azroth, qualcuno per uccidere. Pregò i santi che ci fosse ancora tempo per fermarlo. Il corpo di guardia sul muro non esisteva più, erano tutti morti, uccisi nelle loro postazioni. Quando entrò nella torre, Neil trovò altri morti. La pozza di sangue sul pavimento era ancora tiepida. Passò la stanza di Elseny e vide la porta aperta. «Elseny?» chiamò a bassa voce. Poteva vederla sdraiata sul letto. Esitò, il suo primo dovere era la regina, ma decise di svegliarla e portarla con sé. Non ci fu modo di svegliarla, però. Le coperte sotto il suo mento erano nere e come una seconda bocca si spalancava nel suo collo bianco e sottile. Gli occhi erano impietriti, e aveva un'espressione stupita. Fastia. Il panico s'impossessò di Neil. La stanza di Fastia era dall'altro lato della torre, in direzione opposta a quella della regina. Esitò solo un attimo, poi continuò risoluto verso gli appartamenti della regina. Nell'anticamera trovò una carneficina. C'erano due uomini e un Sefry sul pavimento. La porta interna era chiusa a chiave. Si mosse verso di essa, ma qualcosa di affilato lo punse alla base del collo, e rimase congelato là dove si trovava. «Non muoverti» gracchiò la voce di Erren. «Posso ucciderti prima che tu faccia un altro respiro, molto prima che possa girarti.» «Lady Erren, sono io, Neil.» «Ho visto anche Vargus Farre» rispose Erren. «Ma non era Vagus Farre. Dimostrami che sei veramente sir Neil. Dimmi qualcosa che solo sir Neil potrebbe sapere.» «La regina sta bene?» «Fa' quello che ti ho detto.» Neil si morse il labbro. «Sapevate che ero con Fastia quella notte a Glenchest. Mi avete raccomandato di non innamorarmi di lei.» L'assassina stette in silenzio per un secondo. «Molto bene. Giratevi.» Ubbidì e lei si spostò così velocemente che quasi non la vide. La sua mano schioccò contro il suo viso. «Dove eravate? Maledetto, dove erava-
te?» «Ho visto degli uomini che arrivavano attraverso la pianura. Ho provato a dare l'allarme, ma il cancello era già aperto. L'aveva aperto sir Vargus. Poi mi ha fatto qualcosa, mi ha stregato. Ho vomitato e sono svenuto; non so per quanto tempo. La regina...» «È lì dentro, e sta bene.» «I santi siano lodati.» Abbassò il tono della voce. «Lady Erren, Elseny è morta. Anche Fastia potrebbe essere in pericolo.» «Elseny?» Il volto di Erren si contrasse in una smorfia di dolore, ma poi socchiuse gli occhi e i lineamenti tornarono a essere scolpiti nel marmo. «Rimanete qui, sir Neil» disse Erren con un filo di voce. «Il vostro dovere è verso Muriele e solo lei.» «Allora andate voi, lady Erren» la spronò Neil. «Portate Fastia qui, dove possiamo proteggerla, e Charles. Tutti i figli sono in pericolo.» Erren scosse la testa. «Non posso, non ho la forza.» «Che cosa volete dire?» «Sono ferita, sir Neil. Non passerò la nottata, forse neanche un'altra ora.» Lui fece allora un passo indietro, e vide che stava appoggiata contro la parete, in modo strano. Era troppo buio per vedere dove fosse stata ferita esattamente, ma sentì l'odore del sangue. «Non può essere tanto grave.» «Conosco la morte, sir Neil. È come una madre per me. Fidatevi di quello che vi dico. Non sprecate tempo ad addolorarvi, né per me, né per Elseny, e non perdete tempo a temere per Fastia. Tenete la mente lucida e rispondete alle mie domande. Ne ho uccisi tre. Quanti sono in tutto?» «Non lo so» ammise Neil. «Quando la nausea mi ha sopraffatto, non ero lucido. Ma mi hanno detto di uccidere la regina.» La fronte di Erren si increspò. «Hanno creduto che foste un changeling, come Vargus, ma non lo siete. Il sortilegio deve essere stato in qualche modo interrotto.» «Non capisco.» «Encrotacnia oscura» bisbigliò Erren. «Un uomo viene ucciso e la sua anima stregata è spedita a prendere il corpo di un altro. L'anima che è in quel corpo viene strappata. Non dovreste esser vivo sir Neil, eppure eccovi qua. Ma questo può andare a vostro vantaggio. Se fingete di essere chi credono che voi siate, potete avere più libertà per colpire.» «Sì, signora.»
«Credete che le guardie e la servitù siano morte?» domandò Erren. «Sì, signora.» «Allora dovete portare la regina al presidio. Non possono aver ucciso tutti i soldati che ci sono. Sono troppi.» Un debole rumore arrivò dal fondo del corridoio. «Ssh!» Erren si spostò su un lato della porta. Neil poté distinguere due figure pallide che si muovevano verso di loro, e strinse forte Corvo. «Sei tu, Ashern?» A Neil sembrò di ricordare che quel nome fosse stato pronunciato giù nel cortile. «Sì.» «Hai fatto? La regina è morta?» Erano ormai vicini, e Neil poté vedere che erano entrambi Sefry. Quello che parlava aveva un occhio bendato. «Sì, fatto.» «Bene, fammi vedere allora. Non dobbiamo perder tempo.» «Non vi fidate della mia parola?» Adesso erano abbastanza vicini, ma il Sefry con l'occhio bendato esitò, proprio nel momento in cui Neil colpì. Fecero tutti e due un salto all'indietro, ma quello che aveva parlato fu più rapido, e Corvo colpì l'altro sulla spalla aprendolo fino ai polmoni. Qualcosa di contundente colpì l'armatura di Neil, proprio sopra il cuore. Il Sefry dall'occhio bendato indietreggiò e fece un movimento sospetto con la mano. Neil capì e si gettò da una parte e un secondo coltello gli ronzò vicino alla testa andando a sbattere contro la pietra. Il tempo di riprendersi e il Sefry era sparito. «Ora il vostro vantaggio è finito» disse Erren. «Quindi dovete andare, e subito, prima che torni con gli altri.» «Forse non ce ne sono più.» «Il changeling di Vargus è ancora vivo. Il che fa almeno due, ma dobbiamo presumere che siano di più.» Bussò alla porta della regina, con tre colpi dolci, una pausa, poi due più forti. Sentì tirare un catenaccio e la porta scricchiolò verso l'interno, lasciandogli scorgere gli occhi della regina. «Sir Neil è qui» disse Erren. «Rimarrà con voi.» «Erren, voi siete ferita» notò la regina. «Venite dentro.» Erren accennò un sorriso. «Devo ancora ricevere altre visite. Sir Neil vi porterà al presidio. Lì sarete al sicuro.»
«Le mie figlie...» «Le vostre figlie sono già in salvo» rispose Erren, e Neil sentì che gli toccava la schiena con una mano, come per fargli un segno. «Ora dovete andare con sir Neil.» «Io non vi lascio.» «Dovete» replicò semplicemente. «Vi raggiungerò al presidio.» Un rumore risuonò alla fine del corridoio, ed Erren si girò in tempo per ricevere una delle tre frecce che saettarono attraverso la porta. La prese al fegato. Le altre due rimbalzarono contro la parete accanto a Neil. «Erren!» gridò la regina. «Sir Neil!» gli ricordò Erren, in tono di comando freddo e indiscutibile. Neil attraversò la soglia in un secondo e con la spalla spinse da parte la regina. Chiuse la porta dietro di loro, proprio mentre altre frecce bussarono dall'altro lato. La sprangò. «Non apritela» disse alla regina. «Erren...» «Erren è morta. È morta perché voi poteste continuare a vivere, non la tradite!» Il viso della regina cambiò espressione. La confusione e il dolore l'abbandonarono, rimpiazzati da una regale determinazione. «Molto bene» disse. «Ma chiunque sia stato a fare questo, avrà motivo di rimpiangerlo. Promettetemelo.» Neil pensò a Elseny, morta nel suo letto, a tutta la sua allegria e i suoi capricci insanguinati tra le coperte. Pensò a Fastia e cullò una tremenda speranza che fosse ancora viva. «Ve lo prometto, ma dobbiamo prima sopravvivere a questa notte.» Andò alla finestra, rinfoderando Corvo. Aveva esaminato la stanza già in precedenza, e anche senza la luna sapeva che la parete della torre scendeva per cinque iarde fino a raggiungere il muro della rocca interna, dove era stato prima, quella stessa notte, a osservare i fantasmi. Un'occhiata gli rivelò che fuori non c'era nessuno. Tornò verso il letto e annodò insieme le lenzuola, legandone un'estremità alla colonnina del letto. La porta vacillava sotto i ripetuti colpi. «Finite questo, legatele bene. Quando ne avrete legate altre due, cominciate a scendere. Non mi aspettate.» La regina annuì e si mise a lavoro. Nel frattempo, Neil spinse un baule pesante verso la porta, per aumentarne il peso. Non fece in tempo. Il catenaccio scattò improvvisamente, come se fosse
stato tirato da dita invisibili. Neil con un salto lo raggiunse, estrasse Corvo, aprì con violenza la porta e colpì con la spada. Il viso bianco di un Sefry lo guardò sorpreso mentre Corvo gli spaccava l'osso del collo, il cuore e lo sterno. Neil non lasciò cadere quel bastardo, ma lo sollevò in aria usandolo come scudo contro le inevitabili frecce che iniziarono a sibilare nell'oscurità. Poi spinse via il corpo e richiuse la porta, tirando bene il catenaccio. Gettando una rapida occhiata dietro di sé capì che la regina aveva già cominciato a scendere. Andò alla finestra e la osservò fino a che non ebbe raggiunto il selciato; si stava voltando per seguirla, quando la porta esplose verso l'interno. Tagliò le lenzuola sulla colonnina del letto e saltò sul davanzale, lasciandosi cadere in modo da rimanere appeso con le dita, mentre due frecce gli ronzarono accanto e una terza venne deviata dal suo usbergo. Poi lasciò la presa. Un salto di tre iarde, anche se indossava solo mezza armatura, avrebbe potuto spezzargli le ossa con una certa facilità. Si sentì mancare il respiro e vide delle schegge luminose davanti agli occhi. «Sir Neil!» La regina era lì. All'orizzonte stava sorgendo una falce porpora. Per un attimo, Neil non la riconobbe come la luna. «Via dalla finestra» esclamò, afferrandola. Lei gli prese la mano, e si tuffarono dietro la curva della torre, al riparo da frecce che potessero individuarli dall'alto. «Da questa parte» fece Neil. Cominciarono a correre lungo i merli verso la scala che portava al cortile, guardando spesso dietro di loro. Neil scorse, alla luce della luna, una figura sottile che si lanciava dalla torre e sperò che non fosse uno degli arcieri. Raggiunsero i gradini senza incidenti. Una volta scesi, dovevano solo attraversare il cortile e aprire il cancello che portava al presidio, attraverso il vecchio muro e il fossato. L'ultima volta che l'aveva guardata, quella iarda era risultata priva di vita e sperava che lo fosse ancora. Avevano disceso solo il primo gradino, però, quando la regina improvvisamente si liberò di lui con uno strattone e tornò su. «Vostra maestà...» cominciò. «Fastia!» gridò la regina. Neil vide Fastia girare l'angolo dei merli, a forse venti iarde di distanza, con ancora indosso il vestito blu che le aveva visto prima. Fastia alzò lo sguardo quando si sentì chiamare.
«Madre, sir Neil!» «Fastia vieni qui, subito! Siamo in pericolo!» La regina si mosse per raggiungere la figlia. Neil imprecò e la seguì, notando tre figure che si avvicinavano rapidamente dalla stessa strada da cui erano venuti loro. Una quarta comparve in silenzio dall'ombra alle spalle di Fastia. «Fastia!» gridò. «Dietro di voi! Correte qui!» Subito dopo superò la regina con il cuore in gola, vedendo il viso di Fastia avvicinarsi, con un'espressione di confusione mista a paura, mentre si girava per vedere quello contro cui Neil la stava mettendo in guardia. «Sta' lontano da lei!» tuonò Neil. «Per tutti i santi, stalle lontano!» Ma la figura vestita di nero era là, che si muoveva terribilmente veloce, con un frammento di raggio di luna in mano. Lo sollevò e poi lo conficcò nel petto di Fastia, due secondi prima che Neil la raggiungesse. L'uomo fece un balzo indietro ed estrasse una spada, mentre Neil gridava avanzando, con Corvo stretta tra le mani. L'uomo parò e colpì a sua volta, ma Neil ricevette il colpo sulla cotta e si abbatté su di lui, dandogli una gomitata al mento con un grido roco. L'uomo cadde, ma si stava già rialzando quando Corvo gli spaccò il cranio. La regina era inginocchiata accanto alla figlia, e gli uomini che arrivavano dalla torre erano quasi su di loro. Non ce l'avrebbero mai fatta a raggiungere le scale e a scenderle prima che questi arrivassero. Fastia lo guardò, battendo le ciglia e singhiozzando. C'era una sola strada e Neil la prese. «Sopra il muro, giù nel fossato e a nuoto fino al camminamento del presidio» disse alla regina. «Fastia la prendo io.» «Sì» rispose la regina. Non esitò un attimo, e saltò. Neil sollevò Fastia fra le braccia. «Ti amo» disse Fastia con fatica. «Anch'io» fece lui, e saltò giù. Qui il muro era alto sette iarde e l'acqua sembrava pietra quando lui entrò. La cotta lo trascinò dritto a fondo e dovette lasciare Fastia per potersela sfilare. Per un attimo fu preso dal panico perché non riusciva a ritrovarla, ma poi sentì il suo braccio, la riafferrò e la portò su. Si orientò e si diresse verso il camminamento che portava al presidio. Sembrava troppo lontano. Davanti a lui, la regina stava già nuotando. Fastia aveva chiuso gli occhi, ma sentiva ancora il sibilo del suo respiro nell'orecchio. Due forti tonfi echeggiarono alle sue spalle. Nuotò più veloce, impre-
cando. Mise piede sul camminamento quasi contemporaneamente alla regina. Sollevò Fastia fra le braccia e corse verso la porta del presidio, consapevole di avere alle spalle il cancello che dava sull'altro cortile, insieme a quelli che ora probabilmente lo occupavano. Anche il cancello del presidio era aperto e i corpi di circa dieci soldati stavano accasciati sotto l'arco. Nell'oscurità, Neil sentì un lamento e vide occhi scintillanti e un'ombra delle dimensioni di un cavallo, ma diverso da tutti i cavalli visti fino a quel momento. Capitolo dodici Una lezione di scherma Catio si svegliò chiedendosi dove si trovasse, mortificato per essersi appisolato. Muovendo solo lo sguardo, poco a poco prese coscienza di ciò che lo circondava. Stava disteso in un boschetto di ulivi, attraverso il quale le stelle brillavano vivaci in un cielo senza nuvole. Non lontano da lì, si levava l'ombra del coven di santa Cer. Si mise a sedere, stropicciandosi gli occhi, poi cercò istintivamente Caspator e tirò un respiro di sollievo nel trovare l'elsa amica accanto a sé. Che cosa l'aveva svegliato? Sembrava un rumore familiare. O era solo un sogno? La memoria gli tornò lentamente, ma non c'era molto da ricordare. Quando le ragazze avevano lasciato la festa di Orchaevia, era andato a fare due passi per la campagna. Non aveva mai avuto paura del buio, e pensava che imparando a muoversi nell'oscurità, e a percepire l'invisibile, avrebbe potuto solo migliorare le sue abilità nella scherma. Ma non sapeva dire per quale motivo e in che modo i suoi passi lo avevano portato fino al coven. Una volta lì, aveva pensato a cosa era meglio fare. Era troppo presto per attirare l'attenzione di Anne e Austra: avrebbe fatto la figura dell'impaziente. Così aveva solo guardato in su verso la torre per un po', concludendo infine che il miglior cacciatore è colui che conosce le abitudini della sua preda. Decise di fermarsi un po' lì sotto, nella speranza di intravederle. Dopo tutto era una notte piacevole, non male da trascorrere sotto le stelle. Sicuramente z'Acatto stava vagando ubriaco per
la triva con una voglia matta di litigare, e poi c'era Orchaevia che lo stava sicuramente cercando per farsi fare il resoconto dei suoi successi, o insuccessi, con Anne. All'inizio era proprio per evitare questa conversazione che era uscito a fare una passeggiata notturna. Con quei pensieri in testa, aveva trovato il boschetto di ulivi e aveva aspettato. Una lanterna accesa per caso aveva illuminato la torre e aveva potuto osservare l'ombra delle ragazze alla finestra, che discutevano di lui, senza dubbio. Poi la luce si era spenta, troppo presto, aveva chiuso gli occhi per un attimo... e si era addormentato, a quanto pare. Si congratulò con se stesso per aver scongiurato il rischio. Quanto sarebbe apparso stupido se avesse dormito fino alla mattina. Se Anne l'avesse visto, l'avrebbe giudicato, come Orchaevia, 'un malato d'amore'. Solo a pensarle, quelle parole lo fecero trasalire. Lui, Catio Pachiomadio da Chiovattio, un malato d'amore. Ridicolo. Sollevò di nuovo lo sguardo verso la torre. Non c'era luce alla finestra, ma perché avrebbe dovuto esserci? Doveva essere quasi mattina ora. Il rumore che l'aveva svegliato si ripeté, il rintocco di una campana, e con improvviso interesse Catio realizzò che stava succedendo qualcosa al coven. Vide torce sui merli, che si muovevano con frenesia. Gli sembrò anche di sentire dei cavalli, cosa alquanto strana, e poi deboli grida, e di tanto in tanto quello che sembrava un suono metallico. Si mise dritto a sedere. No, per Diuvo, quello era proprio acciaio. Non era un suono che confondeva facilmente. Passò in un attimo dall'intontimento alla piena consapevolezza, e saltò in piedi con una fretta tale che sbatté la testa a un ramo basso. Imprecando, trovò il suo cappello e se lo mise, prese il mantello che aveva usato come giaciglio e lo indossò. Chi stava combattendo nel coven? Era forse stato attaccato dai banditi? O da stupratori folli, che vagavano dalle Colline dei Limoni verso sud? Doveva scoprirlo. Cominciò ad avanzare a grandi passi verso sinistra, dove pensava che fosse il cancello. Se non era niente, ma solo uno strano modo di celebrare il Fiussanale, al massimo lo avrebbero cacciato. Non si era allontanato più di cinquanta pereci, quando sentì uno scalpitio di zoccoli. Fermandosi, si portò la mano all'orecchio per cercare di capire da che parte provenissero quei rumori sempre più forti e concluse che stava andando nella direzione giusta. Cercò le torce - chi cavalcherebbe di
notte senza torce? - ma non ne vide nessuna. Era sorto uno spicchio di luna, del colore più strano che avesse mai visto, quasi porpora. Doveva avere un significato, ma non ricordò dove l'avesse sentito. Era un verso? L'ombra di due, forse tre cavalli si stagliò sulle mura più illuminate del coven. Cavalcavano al galoppo, e producevano un suono sferragliante: chiunque fosse, indossava un'armatura. Gli passarono a fianco, senza fermarsi. Ma gli stupratori vaganti delle colline gialle non indossavano l'armatura. Era consentita solo ai cavalieri del meddisso. O a quelli di un esercito invasore, a cui non importava cosa * ordinasse il meddisso. Ancora più interessato, Catio cambiò direzione, procedendo dietro ai cavalieri a un'andatura comoda, a passi larghi, mentre Caspator gli sbatteva sulla coscia. «Ho sempre desiderato di battermi con uno di questi famosi cavalieri con le loro spade grandi e goffe, Caspator» confidò al suo stocco. «Forse stanotte ne avrò la possibilità.» Fu piuttosto facile seguirli, perché presto entrarono là dove la vegetazione era più selvaggia, dietro la collina, dove aveva incontrato Anne per la prima volta. Lì furono costretti a rallentare i loro cavalli, cosa che Catio intuì dai rami che si rompevano e sbattevano. Di tanto in tanto coglieva il suono di una lingua forestiera. Un nuovo sospetto si radicò in lui, eccitante. Forse alla fine era arrivato l'amante misterioso di Anne. Catio sapeva che Anne doveva avere una segreta via d'uscita dal coven, vicino al laghetto dove l'aveva incontrata, e quello doveva essere il posto luogo dell'appuntamento. In quel caso, ci sarebbe stato da divertirsi. Si arrestò, realizzando che i cavalli si erano fermati e che gli stava quasi andando a finire addosso. Riusciva a distinguerli vagamente perché, tra gli alberi, la luce purpurea della luna rifletteva sull'armatura lucida. «Unnut» disse uno degli uomini, in una chiara nota baritonale. Sembrava seccato. «Sa taujaza ni waiht» aggiunse. «Ney» rispose l'altro, nello stesso linguaggio brutto e incomprensibile. «Wakath Jainar, inna baymes.» Indicò, mentre diceva queste parole. Poi spronarono i cavalli a riprendere la marcia, ma questa volta proseguendo in direzioni diverse. Catio guardò dove stava indicando quell'uomo e scorse due sagome magre, con abito lungo, che attraversavano una radura sotto la luna.
Stavano cercando di circondare la preda. A cavallo e con le armature, si muovevano meno agilmente in mezzo agli alberi rispetto alle figure a piedi, ma era solo questione di tempo, se ci avessero saputo fare. Catio sentì esclamare una delle figure in fuga, ed era chiaramente un suono femminile. Estrasse Caspator e cominciò a correre, tracciando una linea più dritta tra i cespugli rispetto ai cavalieri. In un raggio di luna improvviso, fu certo di aver visto il volto di Anne. Uno degli uomini a cavallo sbucò dalla vegetazione proprio davanti a lui. L'odore dell'animale riempì i polmoni dello schermidore, e per un brevissimo istante le dimensioni della bestia pizzicarono una sottilissima corda di paura nel suo cuore. Infuriato per questa sensazione, e arrabbiato perché il cavaliere non sembrava averlo neanche notato, Catio con un balzo fu sull'uomo, e lo colpì sul torace con l'elsa di Caspator, tenendola con entrambe le mani chiuse a pugno. Si sentì come se avesse sbattuto contro un muro di pietra a gran velocità, ma il cavaliere gridò e rotolò giù da cavallo, cadendo con un piede ancora infilato nella staffa. L'elmo sbatté contro un sasso e il cavallo rallentò fino a fermarsi. L'uomo brancolò debolmente. Catio gli si scagliò sopra e gli tolse l'elmo, spargendo dei lunghi capelli color latte. La faccia sembrava molto giovane. «Le mie scuse, casnar» disse Catio. «Se lo desiderate possiamo duellare quando avrò finito col vostro amico. Per il momento, però, devo assicurarmi uguali condizioni e non darle per scontate.» Detto questo, lo colpì con l'elsa, facendogli perdere i sensi. Compiaciuto, riprese a correre dietro alle ragazze. Le raggiunse, mentre esitavano sul bordo del bosco, probabilmente indecise se cercare una copertura o correre in aperta campagna. «Anne! Austra!» chiamò a bassa voce. Le due si girarono, e lui vide che erano proprio loro. «Catio?» domandò Anne, con un tono di speranza nella voce. Poi si fece più acuta. «State lontano da me. Che cosa avete a che fare con tutto questo?» Lo prese alla sprovvista. «Che cosa? Perché voi...» Ma in quel momento il secondo cavaliere uscì dagli alberi. Catio lanciò ad Anne un'occhiata sprezzante, mentre si piantava davanti all'uomo. Stava passando tra due tronchi, quindi avrebbe dovuto superare Catio per raggiungere Anne e Austra, oppure tornare indietro e cercare un'altra strada.
«Combattete con me, casnar» gli gridò Catio. «Fanno uomini dalle vostre parti o solo stupratori di donne indifese?» La visiera del cavaliere era alzata, ma Catio non riuscì a distinguerne i lineamenti. «Non so chi siate» disse il cavaliere come se stesse cercando di ingoiare qualcosa e parlare allo stesso tempo, «ma vi avviso che è meglio che vi facciate da parte.» «E io vi avviso che è meglio che smontiate, sir, o sarò costretto a impalare il vostro bel cavallo, cosa che non vorrei dover fare. Potete continuare a indossare il vostro guscio di tartaruga, perché non vorrei farvi partire svantaggiato chiedendovi di combattere ad armi pari.» «Questo non è un gioco» ringhiò il cavaliere. «Non mi fate perdere tempo, e vi permetterò di continuare a vivere.» «Una lezione di dessrata non sarebbe una perdita di tempo» replicò Catio. «Almeno avrete qualcosa su cui rimuginare, per ingannare il tempo all'inferno o mentre ve ne starete accovacciato a piangere sul divano di vostra madre, dipende da quanta pietà avrò nei vostri confronti.» Il cavaliere non rispose e smontò, estraendo uno scudo a forma di triangolo curvo da un fianco del cavallo e sollevando, con la mano libera, uno spadone dall'aspetto incredibilmente goffo. Tirò giù la visiera e avanzò verso di lui a piedi. Catio fece un largo sorriso e si sistemò nella posizione aperta tipica della dessrata, facendo passaggi in aria con la sua lama, saltellando leggermente su una gamba, a ginocchio piegato. Il cavaliere non fece nessun saluto, né assunse una posizione, o cose del genere. Quando fu a due pereci, caricò semplicemente con lo scudo avanti a sé e la spada rivolta all'indietro su una spalla. Sorprese Catio, ma questi all'ultimo momento fece un rapido ancio, oscillando col corpo fuori dalla carica e lasciando la punta in linea per infilzare il cavaliere. Caspator scivolò al di sopra dello scudo e si arrestò contro la parte superiore della cotta, perché la gorgiera fermò la punta. Il cavaliere, per nulla spaventato, spinse in su lo scudo, costringendo lo stocco ad alzarsi e l'avambraccio di Catio a sbattere contro il suo petto con una tale violenza da sollevarlo da terra. Rimessosi in piedi, perse per un attimo l'equilibrio, vacillando all'indietro e il cavaliere lo raggiunse velocemente, con la spada ancora sulla spalla. Catio ritrovò l'equilibrio giusto in tempo per parare il colpo da sopra la spalla, arrivato con tanta forza che per poco non gli fece cadere Caspator, e il suo braccio già indolenzito rimase mezzo intorpidito dall'urto. Senza pensare rispose colpendo la coscia del cavaliere, ma ancora una volta non ottenne che il suono di acciaio contro acciaio. Però ebbe il
tempo di riprendersi e fece un salto all'indietro fuori portata, mentre l'altro di nuovo tirava su la spada. Catio si ricordò che una volta z'Acatto gli aveva detto qualcosa, a cui però non aveva prestato molta attenzione. «I cavalieri con l'armatura non tirano di scherma» gli aveva detto, dopo aver bevuto un sorso di vino abràdano di colore chiaro. «Davvero?» aveva risposto Cario con diffidenza, affilando la lunga lama di Caspator. «No. Le loro spade pesano otto coinix, se non di più. Non fanno altro che colpirsi fino a che non scoprono chi ha l'armatura migliore.» «Ah sì?» aveva riposto Catio. «Dovrebbero essere lenti e goffi, allora.» «A loro basta colpirti una sola volta. Non puoi duellare contro i cavalieri. O scappi o gli lanci in testa qualcosa di molto pesante dalle mura di un castello. Non si tira di scherma contro di loro.» «Sarà come dite voi» aveva risposto Catio, non molto convinto. Qualunque uomo con la spada poteva essere battuto da un maestro di dessrata. Lo aveva detto lo stesso z'Acatto, nei suoi momenti di maggior lucidità. Ma questo cavaliere non sembrava molto lento e goffo, e non aveva il minimo timore di essere colpito da Caspator. Lui intanto continuava a saltellare fuori portata, cercando di pensare. Doveva colpirlo nella fessura della visiera, decise, un bersaglio davvero difficile. Ci provò, fingendo di colpire il ginocchio, per fare abbassare lo scudo. L'uomo con l'armatura lo tirò giù velocemente, ma lo rialzò quando Catio fece il suo affondo, e così spinse di nuovo lo stocco verso l'alto. Poi quell'enorme mannaia di una spada ricomparve sibilando, da un lato dello scudo, un colpo mirato a tagliarlo in due. E ci sarebbe riuscito, se lui non avesse parato con freddezza in prismo, abbassando la punta della spada perpendicolarmente al terreno con l'elsa a sinistra della testa, controllando tutta quella parte. Qualunque altro stocco sarebbe stato deviato senza danno, ma non uno spadone di otto o nove coinix. Caspator colpi lo stesso Catio, lasciandolo senza fiato. Sentì il dolore e il rumore delle costole che si rompevano, e si trovò di nuovo in aria, stavolta ricadendo violentemente sulla schiena. Si toccò il fianco e sentì la mano umida; parte della lama era entrata. Il taglio era superficiale, ma le costole rotte gli facevano male quasi al punto da paralizzarlo. Il cavaliere stava tornando verso di lui, e non pensava di fare in tempo a rialzarsi. Forse stavolta era nei guai.
Capitolo tredici Il canto del corvo Quando Muriele vide quella cosa che sembrava uscire da una Donna Nera o da una favola per bambini, sentì schegge di febbre perforarle i polmoni. Per un attimo rimasero tutti come statue in uno strano pantheon: Neil MeqVren con la principessa morente fra le braccia, il mostro col becco e lei. La meraviglia è una cosa terribile, pensò. Si sentì trascinare via la mente. Poi vide Neil che prendeva la spada. «No!» gridò lei. «Non fatelo!» E sembrò il grido in un sogno, un suono che nessun altro avrebbe potuto sentire. Ma il giovane cavaliere esitò. «Io sono la vostra regina» gridò. Il terrore che era in lei aveva adesso una voce sottile, resa quasi muta dalla pazzia. «Ve lo ordino!» Queste parole penetrarono il giovane cavaliere. Girò sui talloni, sempre continuando a tenere Fastia in braccio, e seguì Muriele correndo con passo malfermo, tornando indietro verso la rocca interna che avevano appena abbandonato. Ma trovarono il cancello chiuso e sbarrato dall'altra parte. Non c'era una via d'uscita in quel punto. Muriele guardò dietro di sé. Il mostro si stava muovendo con passo felpato verso di loro, senza fretta. Perché mai avrebbe dovuto averne? Con una rivelazione improvvisa, capì che il mondo intero - Crotheny, i suoi figli, suo marito e lei stessa - si trovava sull'orlo di un enorme precipizio invisibile. Avevano camminato lì sopra senza neanche accorgersene. Ora ci stavano scivolando dentro, e la bestia dietro di loro si trovava sul fondo, ad aspettarli. Ad aspettarla. Senza più alcuna fretta, come il suo inseguitore, si guardò intorno e vide che era rimasto un solo posto dove andare. «L'horz!» esclamò, indicandolo. L'horz occupava un'area tra la rocca e il presidio. L'ingresso era a sole dieci iarde. Muriele vi si diresse correndo, e il greffyn li seguì, aumentando leggermente l'andatura. Sentiva il suo sguardo bruciarle la schiena, e la nuova ondata di terrore
che la invase la convinse di non essere ancora impazzita. Corse verso l'arco di ingresso nel giardino sacro. Forse sperando che i santi li avrebbero protetti. Quando attraversarono la soglia dell'horz, sir Neil sembrò ritornare in sé. Rapido, depose con delicatezza Fastia su un letto di muschio, vicino alla lapide centrale, poi estrasse la spada e si girò velocemente. L'entrata dell'horz era aperta a tutti. «Nascondetevi, vostra maestà» disse. «Cercate la parte più folta del giardino e nascondetevi là.» Muriele però teneva lo sguardo fisso dietro di lui. Il greffyn, dietro di loro fino a quel momento, era sparito. Poi la regina si piegò su se stessa, i muscoli delle gambe si contrassero e la febbre le bruciò nelle vene. Cadde accanto a sua figlia e cercò di toccarla, per confortarla, ma la pelle di Fastia era fredda e il suo cuore aveva smesso di battere. Incapace di fare altro, Muriele rimase distesa e pianse in attesa della morte. Neil si diresse vacillando verso la porta; aveva la vista annebbiata. Dov'era andato a finire quel mostro? Era stato a pochi passi da loro. Ora era svanito misteriosamente così come era apparso. Ancora una volta quella notte tornò a chiedersi se fosse diventato pazzo. Le gambe gli tremavano, un senso di nausea si contorceva dentro di lui. «Ho fallito, padre» bisbigliò. «Avrei dovuto seguire i consigli ricevuti. Non sono mai stato adatto a questo incarico.» A Liery, sapeva chi era. A Liery non aveva mai fallito in niente. Qui aveva fatto un passo falso dopo l'altro, andando di male in peggio. I suoi sentimenti per Fastia, che nessun vero cavaliere avrebbe mai dovuto provare, avevano bruciato ogni certezza. Si era tirato indietro, aveva esitato, e quella mancanza di sicurezza aveva ucciso sir James ed Elseny. Aveva fallito con la regina, sotto la sua custodia giurata; tuttavia, ancora adesso una parte di lui sapeva che avrebbe rifatto tutto pur di salvare Fastia. Nonostante il suo giuramento, nonostante fosse sbagliato. Non meritava il respiro nei polmoni. Una freccia scoccò contro la pietra, e si rese conto di aver dimenticato i suoi nemici mortali. Ancora un altro errore. Imprecando, cercò il miglio riparo possibile e lo trovò dietro l'arco, cercando di vedere chi c'era là fuori. Distinse due, forse tre arcieri sefry sul camminamento. Un altro era entrato dalla rocca interna e stava sotto la copertura della porta ora aperta. La
figura che indossava l'armatura di Vargus Farre gli si avvicinava a grandi passi. Quando lo vide urlò e aumentò l'andatura, estraendo lo spadone da dietro la schiena. Neil, appena in grado di reggersi in piedi, raccolse risoluto tutta la forza che aveva e uscì allo scoperto per incontrarlo. «Non sei Ashern» disse il falso cavaliere, quando si fu avvicinato. «Non so chi sia questo Ashern. Ma ascolta quello che ti dico: io sono la mano della morte.'» «Sei indebolito dallo sguardo del greffyn, sei esausto per la lotta e la battaglia. Posa le tue armi e accetta l'inevitabile.» Sembrava allettante, e provò orrore a quel pensiero. Abbandonare le armi, farsi tagliare la testa dal nemico. Almeno non avrebbe più potuto commettere errori, e sarebbe stato in pace. Ma no. Sarebbe morto da uomo, per quanto poco potesse significare. «Lo farò quando il mare cadrà nel cielo» rispose. «Quel giorno potrebbe non essere così lontano come pensi» replicò Farre. Sollevò la spada e colpì. Neil riuscì a parare, ma vacillò. Replicò con un colpo sulla giuntura della spalla, ma mancò il bersaglio, e la sua arma cozzò innocua contro l'acciaio. Farre attaccò di nuovo, stavolta però Neil riuscì ad abbassarsi. La lama andò a vuoto, ma lui fu preso da un senso di vertigini, e prima che potesse riprendersi rovescio lo colpì sulla schiena. La corazza a maglia lo raccolse con un fracasso metallico, ma non attutì la forza dell'attacco, che lo fece cadere in ginocchio. "Sir Vargus gli diede un calcio sotto il mento, ma Neil riuscì ad avvinghiare un braccio contro la gamba di metallo e la trafisse con Corvo. Il colpo fu troppo debole, e ancora una volta Corvo stridette di frustrazione perché oltrepassò l'armatura, ma non ferì il nemico. L'elsa ricadde verso la sua testa come una mazza, ma Neil si spostò e la prese sulla spalla. Un dolore lancinante esplose lungo la clavicola, e capì che probabilmente se l'era fratturata. Farre gli affibbiò un altro calcio e Neil rotolò di nuovo nell'horz come una bambola di pezza. Il cavaliere lo seguì. Sembrava che i santi non fossero interessati a quello che sarebbe successo a Neil MeqVren. Sputando sangue, si rimise faticosamente in piedi, guardando attraverso una nebbia rossa di dolore il suo nemico che si avvicinava. Sembrava farlo molto lentamente, come se ogni batter di ciglio impiegasse giorni. Tutto a un tratto, stranamente, Neil sentì di nuovo il suono del mare e il
sapore freddo del sale sulle labbra. Per un attimo fu di nuovo sulla spiaggia con suo padre, con la mano in quella del suo vecchio. Perderemo, vero pa'? Moriremo tutti? E poi, chiara come se gli avesse parlato in un orecchio, sentì una voce. Sei un MeqVren, ragazzo. Maledizione, non mollare. Neil si rimise in piedi e fece un respiro che bruciò come un vento infuocato. Muriele riuscì a sollevare la testa quando sentì il canto. Cominciò piano, quasi un sussurro, ma nella lingua della sua infanzia. «Mi Etier meuf, eyoiz'etiern rem Crach-toi, mi viveut-toi dein.» Era sir Neil, in piedi davanti a Vargus Farre. Io, mio padre, i miei antenati, Gracchiate, o corvi, vi sto per nutrire. Cantava, sebbene sembrasse impossibile che potesse anche solo reggersi in piedi. Sir Vargus sferrò un potente colpo a due mani contro quell'uomo più piccolo di lui. Sir Neil parò l'arma dell'avversario con un movimento sicuro, e alzò ancora di più la voce. Difendiamo l'onore in mare e in terra Gracchiate, o corvi, vi sto per nutrire. Improvvisamente la spada di sir Neil colpì, in modo scoordinato, e produsse uno strepito metallico. Vargus vacillò all'indietro per il colpo, e un altro lo seguì come dal nulla. Ora sir Neil gridava. Con spada e lancia e armi in pugno, Gracchiate, o corvi, vi sto per nutrire. Sir Vargus si riprese e colpì duramente Neil su un fianco. La cotta di maglia si spaccò stridendo, e il sangue cominciò a zampillare, ma il giovane cavaliere non sembrò accorgersene. Continuò a cantare, mentre i suoi colpi incalzanti risuonavano contro l'armatura dell'avversario.
Siamo nati per combattere e morire Gracchiate, corvi, che vi sto per nutrire. Neil ora urlava, e Muriele capì. Era in preda all'ira. Vargus Farre non attaccava più. Inciampò e cadde sotto l'attacco furioso di Neil che lo percosse con la sua lama come se fosse stata una mazza, facendo schioccare scintille dall'armatura. Penetrò la giuntura del braccio di Farre all'altezza del gomito; poi schiacciò l'elmo, continuò a colpire quel corpo ormai senza vita rivestito d'acciaio ancora a lungo, gridando il canto di morte dei suoi antenati skernish. E quando alla fine si fermò e rivolse lo sguardo verso di lei, Muriele si trovò di fonte allo spettacolo più terrificante di tutta la sua vita. «I cancelli sono aperti» mormorò Stephen, mentre cavalcavano da un ponte levatoio all'altro di Cal Azroth. «Sembra di vederli anche a me» grugnì Aspar. «Stai zitto un momento e ascolta.» Stephen annuì chiudendo gli occhi. L'unico suono che Aspar riusciva a distinguere era il suo respiro e quello affannato dei cavalli. Winna era un peso piacevole contro la sua schiena, ma anche una preoccupazione in più. L'aveva ritrovata, non poteva perderla di nuovo. Fend era lì, ne avvertiva l'odore. «Sento il rumore d'acciaio contro acciaio» disse Stephen un attimo dopo. «E c'è qualcuno che canta, in lierish, credo. A parte quello, è tutto tranquillo.» «Fend è tranquillo» mormorò Aspar. Da Cal Azroth giunse un alito di vento, che sapeva d'autunno. «Rimanete tutti e due qui e aspettatemi.» «Niente affatto» replicò Winna. «Ci sarà da combattere. Mi sareste di intralcio.» «Hai bisogno dell'orecchio di Stephen e della mia furbizia» rispose lei con voce pacata. «Ti abbiamo entrambi salvato la vita in passato, Aspar White. Niente nega che potremmo farlo di nuovo.» Aspar stava pensando a una risposta da darle, quando Stephen fece uno strano verso. «Che c'è?» domandò Aspar. «Non lo sentite?» «No, ho solo due orecchie normali, io.»
«L'eco del corno. Sta tornando.» «Forse è un altro corno.» «No, è lo stesso.» «Un'eco? Ma non ha senso» commentò Aspar. «No, invece» replicò Stephen. «Ce l'ha. Lui sta arrivando. Il Re degli Alberi sta rispondendo alla chiamata, e l'eco sta tornando con lui.» Lo sguardo di Stephen rivelava paura, ma la sua voce era ferma. «Credo che faremmo meglio a spicciarci, guardaboschi. C'è qualcosa che rischia più della regina.» «Aspetta e ascoltami bene un momento» protestò Aspar. «Fend e i suoi Sefry sono là dentro, aspettando di uccidere chiunque passi quel cancello. O entriamo convinti e con attenzione, o niente.» Stephen annuì come se avesse capito. Un istante dopo calciò con forza Angela e l'animale sfrecciò verso il cancello aperto. «Che il Malvagio ti divori e ti cachi subito dopo» ringhiò Aspar. Ma spronò il fianco di Orco e lo seguì. Entrò nella rocca disseminata di cadaveri subito dietro a Stephen. Sentì subito lo schiocco delle corde degli archi, esattamente come aveva previsto. Virò Orco verso una copertura dietro il cancello e saltò giù da cavallo. «Scendi!» ordinò a Winna. «Orco combatterà meglio con te al sicuro. Rimani qui nascosta.» «Sì» sussurrò lei. Gli strinse la mano. «Sta' attento amore mio, fallo per me.» «Te lo prometto.» Tirò fuori il suo arco e schizzò da sotto la porta, tristemente consapevole di aver recuperato solo cinque frecce intatte dall'ultimo scontro. Aveva fatto a mala pena dieci iarde, quando una sibilò giù dall'alto e finì contro il cortile di pietra. Aspar si voltò rimanendo calmo, vide l'ombra sulle mura soprastanti e fece un respiro profondo per prendere la mira. La sua freccia volò verso le stelle nello stesso momento in cui una seconda invece gli sfiorava un braccio. Non aspettò di vedere cosa sarebbe successo. Perché sapeva di aver colpito nel segno. Si girò invece e corse dietro a Stephen, che si era già imbattuto in guai seri. Angela aveva preso una freccia sul fianco e aveva disarcionato il ragazzo. Lui stava cercando di rimettersi in piedi, ma per miracolo non rimase infilzato, perché il cortile intorno era bersagliato da miriadi di frecce. Aspar individuò un arciere e lo colpì con la sua seconda. Fu un lancio difficile, e sapeva di non aver preso nessuna parte vitale, ma l'uomo smise di
tirare, almeno per il momento. Il resto degli assassini stava coperto dietro al secondo cancello; Aspar ne contò cinque o sei e sentì che qualcuno stava combattendo anche dall'altra parte. «Trova un posto per ripararti» gridò a Stephen, mentre atterrava un Sefry con un altro tiro. Rimanevano solo due frecce, quindi doveva ridurre la distanza. S'incamminò verso la porta, con un'altra freccia pronta sulla corda. Fu più facile di quanto pensasse, perché gli arcieri erano distratti dal combattimento che Aspar non riusciva a vedere. Quando uno di loro distolse lo sguardo, Aspar lo fece pentire di averlo fatto. Stephen aveva obbedito al suo ordine e stava schiacciato contro la parete della porta. E gli stava indicando qualcosa dietro di lui. «Guardaboschi!» gridò. Aspar non fece domande, si girò e si buttò sulla destra, trovandosi quasi faccia a faccia con Fend. Il Sefry impugnava due coltelli, e aveva un'espressione a metà tra la felicità e la furia. Aspar sollevò l'arco in posizione di difesa, ma era troppo vicino per tirare, e i pugnali di Fend brillavano e scintillavano verso di lui. Aspar cercò di difendersi come meglio poté, ma il coltello dell'avversario oltrepassò il legno del suo arco e gli si conficcò nell'avambraccio. Riuscì a rispondere sferrando un colpo con l'arco, ma l'altro non si fece niente; diede giusto il tempo ad Aspar di tirare fuori il suo coltello e l'ascia. Ora Fend era più sospettoso, camminava in cerchio facendo finte con le spalle. Aspar girava con lui, pronto a colpire. «Stai invecchiando, Asp» commentò Fend. «E sei diventato lento. Non c'è partita.» «È per questo che mi sei arrivato alle spalle?» «Ah, ma avrei fatto in modo che mi guardassi prima di ucciderti. Così avresti saputo che ero io.» Lanciò un'occhiata a Winna. «Un grazioso bocconcino di carne» ammise. «Quasi dolce quanto Qerla, e forse ugualmente fedele.» Aspar sorrise freddo. «Penso che mi prenderò anche l'altro occhio, Fend.» «Lo dubito, vecchio. Ma sei il benvenuto se vuoi provarci.» La furia di Aspar era così assoluta che si sentiva addosso una calma glaciale. Udì una risata sgorgare dalle sue stesse labbra e fu sorpreso. «Che c'è?» domandò Fend. «Sei tu, cerchi di provocarmi come un bambino spaventato.»
«Mi sto solo divertendo un po'. Non è tanto...» Non finì la frase, ma fece un salto in avanti. Aspar notò che aveva sollevato la gamba di dietro mentre parlavano. Bloccò il pugnale della mano destra con il suo e colpì l'altro polso con l'ascia. Lo ferì leggermente e macchiò di sangue l'oscurità della notte; ma Fend era veloce, e il taglio non era profondo. Il Sefry saltellava continuamente, colpendo con la destra e tenendo la sinistra arretrata. Aspar lo fece avvicinare, schivando il colpo e dandogli un calcio forte sulla caviglia del piede davanti. Fu un impatto violento, il suo nemico perse l'equilibrio e, senza nemmeno vacillare, cadde dritto a terra con un tonfo. Quando sì rialzò aveva un solo coltello. Aspar pensò che fosse una buona cosa fino a che non si accorse che l'impugnatura dell'altro sporgeva dalla sua gamba. «Hai sbagliato mira» commentò Aspar, piegandosi ed estraendo Tarma. Sentì dolore, ma il muscolo anteriore della coscia era incline al perdono. Probabilmente non avrebbe neanche perso molto sangue. Ripose il pugnale nella cinta e si avvicinò di nuovo a Fend. Questi sembrava ancora sicuro di sé e cominciò una danza agile intorno ad Aspar. Il guardaboschi girava intorno, ma con un lavoro di gambe più lento. Fend si riavvicinò e tentò di afferrargli con la sinistra il polso con l'ascia; Aspar gli lasciò credere di essere talmente lento da farsi prendere. Non appena lo toccò, però, si allontanò di scatto facendo un giro, e lo colpì con l'ascia. Entrò in profondità, scavandogli una spaccatura nella spalla e sentendo che l'osso si fratturava. Il Sefry emise un verso e si tirò indietro, spalancando l'occhio per lo stupore. «Già, credo proprio che oggi ti ucciderò, Fend. Hai avuto la tua occasione, quando hai lanciato il coltello, ma hai fallito.» Si spostò in avanti con cautela. Si trovarono vicini ancora una volta, ma ora nei movimenti del Sefry si leggeva la disperazione. Era tutto più rapido e vicino adesso, e quando si allontanarono ancora una volta, avevano entrambi delle nuove ferite. Quelle di Aspar erano tutte superficiali, ma Fend aveva un buco nel costato. Non profondo tanto da ucciderlo, ma probabilmente molto doloroso. «Perché Qerla, Fend? Perché l'hai uccisa? Non l'ho mai capito.» Fend fece un largo sorriso, mostrando i denti. «Non lo sai? Questa è bella.» Tossì. «Sei un vecchio fortunato, lo sai? Sei sempre stato fortunato.» «Già, fortunatissimo. Mi rispondi o no?» «Credo proprio di no.»
Aspar alzò le spalle. «Questa era l'unica cosa che volevo da te oltre alla tua vita. Credo che risolverò la faccenda.» «Credo di avere anch'io un po' di fortuna. Guarda la tua signora.» Era un vecchio trucco e Aspar non ci cascò fino a che non sentì Winna gridare. Allora Aspar si voltò e si abbassò, sapendo che qualunque cosa stesse succedendo, il suo nemico non avrebbe perso quell'opportunità. Il secondo pugnale di Fend sibilò sopra la sua testa, ma Aspar non era più interessato a lui. Il greffyn era appena entrato. Si stava muovendo verso Winna e Orco scalpitava, pronto ad accoglierlo. Capitolo quattordici L'apparizione Quando Anne vide il cavaliere avanzare verso Catio, qualcosa in lei si oscurò, proprio mentre la luna sembrava accendersi di rosso; era come se l'oscurità da essa cacciata cercasse rifugio nella sua anima. «Ucciderà Catio e poi passerà a noi» esclamò Austra. «Sì» replicò Anne. Pensò che avrebbero dovuto fuggire mentre Catio combatteva, ma qualcosa le bloccava i piedi. Forse c'era ancora tempo; sicuramente il Vitelliano avrebbe perso la battaglia, ma avrebbe resistito ancora un po', il tempo necessario per fuggire. Ma poi, da amazzone qual era, realizzò che per quanto veloce avessero potuto correre sarebbero state raggiunte. La loro prima speranza era stata una fuga inosservata, e la seconda Catio. Nessuna delle due sembrava realistica. Osservò il cavallo pensierosa, ma no, un cavallo da battaglia non l'avrebbe mai fatta salire in groppa. Probabilmente l'avrebbe colpita a morte se solo si fosse avvicinata per provarci. «Non possiamo aiutarlo?» domandò Austra. «Contro un cavaliere?» Ma proprio mentre lo diceva, avvertì una strana confusione, come se in lei ci fossero due Anne diverse: quella che aveva cavalcato impavida giù per la Manica, e quella che stava iniziando a capire la vita, che aveva appena osservato un cavaliere come questo massacrare delle donne come se fossero animali da cortile. Un tempo aveva immaginato avventure in cui, vestita come un cavaliere, sconfiggeva nemici malvagi. Ora non vedeva che sangue, e riusciva a immaginare solo la sua testa che schizzava dalle spalle con un fiotto rosso.
Soltanto qualche mese fa, si sarebbe precipitata ad aiutare Catio. Ora le sue illusioni stavano morendo, e rimaneva solo la realtà delle cose. E in quella realtà una donna non poteva opporsi a un cavaliere. Austra le diede una strana occhiata, che Anne non riconobbe, come se la sua cara amica fosse diventata un'estranea appena incontrata. Nel frattempo il cavaliere stava sollevando la spada sopra Catio che, steso a terra, gli opponeva la sua fragile arma come unica difesa. «No!» gridò Austra. Prima che Anne potesse pensare di fermarla, la ragazza si era lanciata in avanti, aveva afferrato un sasso e lo aveva tirato. Questo rimbalzò sull'armatura del cavaliere, distraendolo per un secondo. Austra continuò a correre verso di lui. Anne afferrò un ramo caduto, imprecando. Non poteva stare lì a guardare la sua amica mentre moriva. La ragazza provò ad afferrare il braccio armato del guerriero, ma questo la colpì sulla tempia con un pugno d'acciaio. Catio si tirò in piedi vacillando, appena fuori portata, mentre Anne aveva raggiunto Austra alle spalle, col bastone in mano. La visiera del cavaliere si voltò verso di lei. «Non siate sciocca» disse. Tra le fessure dell'elmo vide un'espressione di disprezzo e la luna si rifletté nei suoi occhi; improvvisamente Anne fu assalita da un'oscura furia. I suoi pensieri erano come gufi dalle ali silenziose, che scendevano in picchiata sui topi. Come osava, sotto la falce della luna? Come osava, nel cuore della notte? Lui che aveva violato il sacro suolo di Cer e lo aveva imbrattato con il sangue delle sue figlie? Come osava guardarla in quel modo? «Voi» disse Anne con voce roca. «Non guardatemi.» Non riconobbe la sua stessa voce, sembrava così inerte, priva di vita, come se l'oscurità che era in lei fuoriuscisse con le sue parole. La luce negli occhi del cavaliere svanì, anche se la luna era ancora là, anche se non aveva girato la testa. Il respiro gli si fermò, ed emise un rantolo, poi cominciò a ruotare la testa da una parte e dall'altra. Si strofinò gli occhi, ora due buchi più bui dell'ombra della luna. «Gli uomini combattono dall'esterno, con sgraziate spade e frecce» aveva detto Sorella Casita «cercando di infilzare gli strati di protezione da cui siamo avvolti. Essi appartengono all'esterno. Noi all'interno. Possiamo raggiungerlo in migliaia di modi, scivolando tra le fessure degli occhi e delle orecchie, delle narici e delle labbra, e attraverso i pori della pelle. Ecco la vostra frontiera, sorelle, ma anche il vostro dominio. Qui, con un tocco sarete la causa della nascita e della caduta dei regni.»
Anne, confusa e tutto a un tratto spaventata, indietreggiò vacillando e tremando. Che cosa aveva fatto e come c'era riuscita? «Casnar!» gridò Catio. Anne notò che era riuscito a rimettersi in piedi, anche se non in perfetto equilibrio. «Interrompete la vostra coraggiosa battaglia contro due donne indifese e rivolgetevi a me.» Il cavaliere lo ignorò, sferrando colpi selvaggi in aria. «Haliurun! Waizeza! Hundan!» gridò. «Meina auyos! Hwa... Che cosa avete fatto ai miei occhi?» «Hanzish» esclamò Anne. «Austra, vengono da Hansa!» Si voltò verso Catio. «Uccidetelo! Adesso che non ci vede!» Cario aveva cominciato ad avanzare, ma poi si fermò, confuso. «Non ci vede? Non posso combattere contro un uomo che non ci vede.» Il cavaliere si lanciò verso Catio, ma pur essendo ferito, il Vitelliano riuscì a evitarlo facilmente. «Ma come avete fatto?» domandò Catio, mentre guardava l'altro sbattere contro un albero. «Ho sentito che un granello di polvere di noce dell'abito di lady Una...» «Stava per uccidervi» lo interruppe Anne. «È un uomo senza onore,» disse Catio «io no.» «Allora scappiamo!» suggerì Austra. «L'onore ce lo consente?» domandò sarcastica Anne. Catio tossì e un'espressione di dolore gli corrugò la fronte. «L'onore lo impedisce» disse. Anne agitò un dito verso di lui in segno di protesta. «Sentitemi bene, Catio Pachiomadio da Chiovattio!» disse, ricordandosi di come suonavano gli ordini dati da sua madre. «Ci sono molti altri cavalieri oltre a questo, perciò noi siamo in pericolo. Ho bisogno della vostra protezione per Austra e per me. Ho bisogno del vostro aiuto per sfuggire al pericolo. Il vostro onore non vorrà mica impedirvi di aiutarci?» Catio si grattò la testa, poi fece un timido sorriso. Il cavaliere accecato stava appoggiato con la schiena a un albero, con la spada sguainata, a cercare chi non vedeva. «No, casnaras» rispose. «Vi accompagnerò.» «Allora andiamo, e in fretta» esclamò Austra. «Un momento» fece Anne. Alzò la voce e disse: «Cavaliere di Hansa, perché voi e i vostri compagni avete dissacrato santa Cer? Perché avete ucciso le suore, e perché mi inseguite? Rispondetemi, o avvizzirò quello che rimane di voi, come ho già oscurato i vostri occhi.»
Il cavaliere si voltò verso la voce. «Non conosco la risposta a questa domanda, signora. So solo che quello che il mio principe mi ordina di fare, va fatto.» Detto questo, caricò verso di lei brancolando Catio gli fece lo sgambetto e il cavaliere inciampò. Cadde in terra lungo, in modo scomposto. «Avete altre domande per lui?» domandò il Vitelliano. «Fatemi pensare» replicò Anne. «La notte volge alla fine ed è nostra alleata. Il sole non sarà così gentile.» Anne annuì. Non credeva che il cavaliere hanzish le avrebbe detto di più, anche se avesse saputo qualcosa. Avrebbero perso tempo prezioso. «Molto bene» disse Catio. «Seguitemi, belle casnaras. Conosco la campagna qui intorno e vi farò da guida.» Aggrottò la fronte. «Sempre che non mi priviate della vista, ovviamente.» Le costole di Catio andavano in fiamme, ma almeno non perdeva troppo sangue. Era in grado di tenere un buon passo, ma non ce la faceva a correre. Andava bene lo stesso, lo sapeva, perché la corsa li avrebbe solo sfiniti. Non c'era ragione per cui i cavalieri che stavano attaccando il coven li avrebbero seguiti. Se stavano cercando delle donne, ne avevano già trovate in abbondanza. O no? «Quanti ce ne sono di questi ruffiani corazzati da scarafaggi?» domandò. «Non ne sono sicura» rispose Anne. «Una trentina all'inizio. Alcuni sono stati uccisi dalle suore del coven.» Tutto questo era impressionante. «E non avete idea del perché?» Gli sembrò che Anne esitasse troppo prima di rispondere. «Non lo so. Ma credo che abbiano ucciso tutte le suore. Le novizie stavano nascoste, non so che cosa sia successo a loro. Io e Austra siamo fuggite attraverso il tempio di santa Mefitis, una caverna vicina al punto in cui ci avete trovato. Dove stiamo andando?» «Alla triva della contessa Orchaevia.» «Ci potrà proteggere? Non ho visto soldati là.» «Vero. Li ha mandati via per il Fiussanale, Ma perché mai questi cavalieri dovrebbero seguirci?» «E perché no?» «Hanno qualche rancore particolare contro di voi? Ve li siete inimicati in qualche modo?»
Ancora una volta sembrò che Anne esitasse. «Ci seguiranno, Catio.» «Perché?» «Non posso dirvelo, e non sono sicura neanche di saperlo. Ma è così.» Eppure qualcosa sapeva, ma non voleva dirlo. La guardò di nuovo. Chi era veramente questa ragazza? La figlia di qualche condottiero? In che cosa si era andato a immischiare? «Molto bene, allora» disse. Qualunque cosa fosse, ormai si era compromesso troppo. Doveva andare fino in fondo. Forse ci avrebbe guadagnato addirittura una ricompensa. La veste di lady Ausa stendeva coralli sull'orizzonte a est e le stelle svanivano in alto. Erano in aperta campagna, facile preda per gli uomini a cavallo. Cercò di affrettare il passo. Se Anne aveva ragione, ed erano inseguiti, tornando alla triva di Orchaevia avrebbe mal ripagato la contessa dell'ospitalità che lei gli aveva mostrato. Il posto poteva essere difeso, ma non da due schermidori e qualche donna di servizio. «C'è una vecchia tenuta lì vicino» pensò ad alta voce. Z'Acatto ce l'aveva trascinato un giorno nella speranza di trovare una cantina non ancora saccheggiata. L'avevano trovata, ma tutto il vino era diventato aceto. «Sarà un buon nascondiglio» decise. Dopo tutto, se non riusciva a sconfiggere un solo cavaliere in combattimento, che possibilità aveva contro dieci o venti? Suo padre aveva commesso l'errore di affrontare il nemico sbagliato per motivi sbagliali. Lui non avrebbe fatto lo stesso sbaglio. Anne non rispose, ma stava cominciando a vacillare. I sandali che lei e Austra portavano ai piedi non erano molto adatti a quel tipo di viaggio. I cavalli di lord Abullo erano ormai alti nel cielo e trainavano il sole arancio fuoco via dall'orizzonte, quando Cario poté scorgere le mura sbriciolate dell'antica triva. Si chiese se il pozzo fosse ancora buono, perché aveva una sete tremenda. L'aceto era finito, perché z'Acatto aveva rotto tutte le bottiglie in un attacco di collera. Avevano quasi raggiunto le mura, quando gli sembrò di sentire gli zoccoli dei cavalli e, dando un'occhiata indietro, vide due cavalieri che si avvicinavano. C'era poco da chiedersi chi fossero, perché il bagliore del sole ormai dorato era evidente sulle loro armature. «Forse non ci hanno ancora visto» disse ad alta voce Catio speranzoso, guidandole dietro a una fila di cedri che circondavano la villa abbandonata. «Forza!» il cancello si era sgretolato molto tempo prima, e rimanevano solo le colonne del pastato3 e muri diroccati. Erbacce e piccoli ulivi avevano crepato le pietre del cortile, sollevandole, come se lord Selvans stesse
cercando di reclamare quel posto come suo. In lontananza sentì avvicinarsi lo scalpitio. «Ancora dove l'ho lasciata» mormorò Catio, quando raggiunsero l'entrata della grotta per il vino coperta di rampicanti. Le scale erano ancora lì, anche se spezzate e coperte di terra e muschio. Un alito fresco sembrava uscire dall'interno. «Saremo in trappola laggiù» protestò Anne. «Meglio lì che all'aperto» fece notare Catio. «Vedete come è stretto il passaggio per scendere? Non porteranno dentro i cavalli e non potranno muovere quelle lame da macellaio. Questo mi darà un vantaggio.» «Ma se non ce la fate neanche a reggervi in piedi, a momenti!» disse Anne. «Sì, ma un da Chiovattio che sta in piedi a fatica è come sei uomini sani e forti. E quelli sono solo due.» «Non mentitemi, Catio. Se andiamo laggiù, avete qualche speranza di vincere?» Scrollò le spalle. «Non posso dirlo, ma sicuramente fuori, all'aperto, no.» Quelle parole ebbero per lui uno strano suono, anche se le aveva davvero pensate. Prese la mano di Anne, e lei non protestò. «A piedi, là fuori sareste raggiunte prima di aver corso pochi metri. È inutile desiderare alternative che non esistono.» Con riluttanza, le due ragazze lo seguirono lì sotto. «Puzza di aceto qua dentro» osservò Austra. «Sì, è vero. Ora rimanete qui.» Per un attimo gli sembrò che il mondo girasse in modo strano, e un secondo dopo si trovò steso sulla pietra fredda. «Catio!» esclamò Austra, avvicinandosi. «Non è niente» mormorò lui. «Un giramento di testa. Forse un altro bacio potrebbe farmi sentire meglio.» «Non può combattere contro di loro» disse Austra. «Verrà ucciso.» «Forse non sanno che siamo qui» osservò Catio. Ma sentirono gli zoccoli contro la pietra, lì vicino. «Avrò bisogno di quel bacio» bisbigliò. Non riuscì a vedere se stava arrossendo, ma Austra si piegò su di lui e sfiorò con le labbra la sua bocca. Avevano un sapore dolce, di vino e prugne, e lui cercò di trattenerlo. Era come se fosse l'ultimo bacio della sua vita. Pensò di chiederne uno anche ad Anne, ma lei non glielo avrebbe dato e il tempo era prezioso, adesso.
«Questo sarà il mio pegno» disse rimettendosi in piedi con difficoltà. «E ora sarà un piacere per me difendervi, signore.» Con le gambe che gli tremavano, tornò su verso il sole, dove le ombre si diradavano. Per qualche motivo, si ricordò di dove aveva sentito della luna rossa. Era in una canzone che suo padre gli cantava quando era bambino. Q uando dal cielo caleranno le nubi E le nebbie scenderanno dai dirupi Quando la cima del monte il mare incontrerà A suon di pioggia il momento arriverà. Quando è che il cielo corna rosse vedrà? Quando il vecchio spinoso a vagar riprenderà Si ricordò dei versi perché, a differenza degli altri che aveva sentito, questi non avevano mai avuto un senso per lui. E ancora non ce l'avevano. In lontananza credette di sentire il suono di un corno. Per Muriele il mondo divenne improvvisamente muto, come se tutti i rumori della battaglia si fossero ritirati a una distanza infinita. Guardò il volto senza vita di sua figlia, la rivide bambina, all'età di sei anni, che versava il latte sul tappeto galleano della sua stanza del sole, e poi una donna in abito da sposa. Il silenzio le strizzò il cuore, in attesa di diventare un urlo. Anche Elseny deve essere morta, ed Erren, e Charles... Ma il silenzio era dentro di lei, non fuori. L'acciaio infatti risuonava ancora, e il grido feroce di battaglia di Neil dimostrava che era ancora vivo. E al di sopra di tutto arrivò il suono di un corno, che cresceva sempre più forte. Dapprima si era sentito in lontananza, come se nascesse insistente dai confini del mondo. Ora suonava più vicino, ma con un brivido realizzò che non si stava avvicinando, ma solo intensificando. E la fonte del suono era invece vicinissima. Ma dove? Muriele rimase perplessa e usò quel mistero per oscurare il volto senza vita di Fastia e la propria immaginazione. Non le ci volle mol-
to per capire che il suono proveniva dal feinglest in vimini fatto da Elseny e riempito di fiori solo il giorno prima. E davanti ai suoi occhi stupefatti, il feinglest si stava trasformando, lentamente e in modo reale, proprio come l'alba affoga la stella del mattino in una luce grigia. Fissò lo sguardo e non lo distolse, e quando il corno suonò più forte, la trasformazione si fece più rapida, e la struttura in vimini si fece più fitta e alta. In pochi secondi assunse sembianze vagamente umane. Muriele osservò, incapace di parlare, mentre la sua mente rifiutava la visone giustificandola come un sogno a occhi aperti. La cosa continuò a crescere e il gemito del corno si fece così forte che Muriele alla fine dovette premersi le mani contro le orecchie per cercare di fermarlo, ma non valse a nulla. Neanche il cervello riuscì a impedire ai suoi occhi di vedere il feinglest tremare come un'ala di vespa in volo, tirar fuori braccia e corna imponenti sulla testa, spalancare due occhi quasi umani, orbite verde foglia in nere fessure a mandorla. Un intenso odore di muschio animale penetrò nelle sue narici, sopraffacendo il profumo dolce e nauseante dei fiori. Il Re degli Alberi la dominava, alto quanto due uomini, uno sull'altro. Il suo sguardo si fissò su di lei. Era nudo, e la carne era di corteccia screziata. Una barba di muschio si arricciava sul volto e ricci lunghi della stessa sostanza pendevano dalla testa. I suoi occhi sembravano non vedere niente e allo stesso tempo tutto, come quelli di un neonato. Le narici tremarono e dalla gola uscì un verso che per lei non aveva significato, come il grugnito di una strana bestia. Si chinò su di lei fiutando di nuovo, e anche se aveva un naso di forma umana fece venire in mente a Muriele un cavallo o un cervo più che un uomo. Il suo alito era freddo e umido, e profumava di ruscello di bosco. Muriele ebbe dei brividi lungo la pelle, come se fosse ricoperta di formiche. Il Re degli Alberi si voltò verso Fastia e socchiuse gli occhi, lentamente, poi li spostò di nuovo su Muriele, stringendoli finché non diventarono delle semplici dita che uscivano da quelli di lei. La visione si dissolse in quegli occhi. Vide strani boschi, profondi e pieni di alberi come muschi giganti, e felci con fusti che erano tronchi. Vide bestie con occhi da gufo e corpi di mastino. Di nuovo lui batté le palpebre, lentamente, e lei vide Eslen andare in rovina, inghiottita da rampicanti di rovi neri con fiori simili a ragni rossi. Vide Terranuova sotto le stelle, coperta da acque scure, e poi quelle stesse
acque danzare con pallide fiammelle. E una vasta sala in ombra e un trono di pietra fuligginosa e su di esso una figura il cui volto rimaneva invisibile, tranne per gli occhi che bruciavano come un fuoco verde. Sentì una risata che sembrava quasi il latrato di un segugio. E poi, come in uno specchio di giaietto lucido, vide la sua stessa faccia senza vita. Poi tornò il viso del Re degli Alberi, e la sua paura scomparve, come se fosse morta veramente e si muovesse al di sopra dei pensieri mortali. Come in un sogno, si allungò per toccargli la barba. Il volto di lui si contrasse in un'improvvisa espressione di dolore e rabbia, e gridò, producendo un verso che non aveva nulla di umano, del tutto selvaggio. Aspar si trovava troppo lontano dal suo arco. Il greffyn avrebbe raggiunto Winna e Orco molto prima che lui fosse riuscito a scoccare una freccia. Fece l'unica cosa che poteva fare. Lanciò l'ascia. Colpì il greffyn dietro la testa, e dal taglio che si aprì vide uscire piccole gocce rosse. «Allora puoi sanguinare, vagabondo di un gallo» ringhiò Aspar in un tono perverso e soddisfatto. Il greffyn si voltò lentamente a guardarlo e lui si sentì invadere le ossa dalla febbre che nasceva da quegli occhi. Ma non fu una sensazione così forte come la volta precedente; le ginocchia gli tremarono, ma non lo abbandonarono. Afferrò il coltello mentre quello si avvicinava, senza guardarlo. Si concentrò invece su Winna, sul suo volto, perché voleva ricordarselo. Non riusciva quasi più a ricordarsi quello di Qerla. Era stato fortunato a trovare l'amore due volte nella vita, pensò, e la fortuna ha sempre un prezzo. Era arrivato il momento di pagare, probabilmente. Dammi la forza, Veggente, pensò. Non aveva mai chiesto niente al Malvagio prima d'allora. Forse il Veggente ne avrebbe tenuto conto. Il greffyn gli si scagliò addosso, quasi più veloce di quanto lo sguardo riuscisse a stargli dietro. Aspar si voltò appena un po' di lato, colpendo l'animale, in alto, fra gli occhi, con l'impugnatura di ferro del suo pugnale. Sentì un colpo terribile al braccio e capì di essere già morto. Sentì Winna gridare. Incredibilmente, il greffyn vacillò a causa del colpo e Aspar colse quell'occasione irripetibile. Gli si gettò sulla schiena squamosa e avvinghiò un braccio sotto alla mascella uncinata. Allora la creatura urlò, una cacofonia
acuta che quasi coprì il suono sempre più forte del corno. Immaginò dove potesse trovarsi il cuore e conficcò il pugnale una volta, due e poi ancora. Il greffyn sbatté contro la parete del cortile, provando a farlo cadere, ma in quel momento il suo braccio era una fascia d'acciaio. Aspar si sentì più grande, come uno degli imponenti tiranni della foresta, con le radici profonde, che traggono forza dalla roccia, dal terreno e da fonti nascoste, e quando il suo cuore tornò a battere seppe di essere la foresta in persona, che chiedeva vendetta. Il movimento offuscò tutto il resto. Riuscì a dare una rapida occhiata al viso angosciato di Winna, a quello di Orco, orgoglioso e impavido, che si precipitava in suo aiuto. Ci fu aria e poi acqua, quando si tuffarono nel fossato al di là della porta. Chiudi il cancello, Winna, pensò. Sii furba, come sempre, ragazza. Avrebbe voluto gridarlo, ma l'acqua lo avvinghiava. In tutto quel tempo, il coltello di Aspar continuava a colpire, come se il Malvagio si fosse davvero impossessato della sua mano. L'acqua del fossato bruciava come liscivia. Catio si fermò instabile davanti all'entrata della grotta, ma quando sollevò Caspator l'arma non tremò. «Salve, miei cari casnar» disse ai due uomini con l'armatura. «Chi dei due avrò l'onore di uccidere per primo?» I cavalieri erano appena smontati. Notò che uno di loro aveva un'armatura più decorata dell'altro, con i bordi tutti dorati. Fu questo a rispondergli: «Non so chi siate, sir, ma non c'è bisogno che moriate. Andatevene e tornate a una vita che potrebbe essere lunga e prospera.» Catio abbassò lo sguardo sulla lama di Caspator. Chissà se suo padre si era sentito così alla fine. Sicuramente questo combattimento non avrebbe portato alcun profitto. Nessuno ne avrebbe sentito parlare. «Preferisco una vita onorevole a una lunga, casnar» rispose. «Si può dire lo stesso di voi?» Il cavaliere lo guardò in modo enigmatico per un momento e Catio nutrì una minima speranza. Poi quello girò la testa verso il suo compagno. «Uccidilo tu per me» gli disse. L'altro fece un cenno d'assenso e si mosse. Almeno questo non ha uno scudo, osservò Catio fra sé e sé. Le fessure degli occhi. Quello deve essere il mio obiettivo. Il suono del corno in lontananza si fece più forte. Forse indicava l'arrivo
di altri. Il cavaliere si avvicinò a furia di colpi che Catio parava con calma, sebbene Caspator tremasse per la loro potenza. Contrattaccò alla visiera, ma l'avversario si teneva a distanza, e lui non aveva i piedi in posizione per un affondo. Si sferrarono lunghe sequenze di colpi prima che lo spadone ricadesse pesantemente sull'elsa di Caspator, scuotendo il braccio già intorpidito di Catio e facendo cadere l'arma a terra con fragore. Fu allora che una cascata di calce e mattoni precipitò sulla testa del cavaliere. Seguirono polvere e frammenti, e Catio avvertì un bruciore agli occhi. La muratura crollò davanti a lui fino alla scala malconcia, e vide l'uomo cadere, con l'elmo gravemente ammaccato. Il cavaliere dorato, che non era rimasto sotto le macerie, fece appena in tempo ad alzare lo sguardo che ricevette un mattone sulla faccia e poi un altro ancora. Sbalordito, Catio si piegò per recuperare Caspator, quando z'Acatto saltò giù dall'arco della porta. «Te l'avevo detto, ragazzo» grugnì il maestro. «Non si tira di scherma contro i cavalieri.» «Questo è sicuro» rispose, notando che il cavaliere dorato si stava rimettendo in piedi. Con quel poco di forza che gli rimaneva, Catio fece un salto in avanti. Lo spadone si alzò e ricadde, ma lui si girò evitandolo e stavolta Caspator s'infilò precisa nella fessura dell'elmo penetrando fino all'impatto con il cranio, o addirittura con l'acciaio al di là di esso. Ritrasse la punta insanguinata e vide il cavaliere cadere prima sulle ginocchia e poi a faccia avanti. «La prossima volta seguirò più alla lettera il tuo consiglio» promise al vecchio schermidore. «In che cosa ti sei immischiato, ragazzo?» domandò z'Acatto. Guardò dietro Catio e scosse la testa. «Ah, ora capisco qual è il problema.» Anne e Austra erano risalite in cima alle scale e stavano fissando la scena. «Ne arriveranno ancora» disse Catio. «Altre donne?» «Altri guai.» «È la stessa cosa» «Altri cavalieri,» chiarì Catio «forse molti di più.» «Ho due cavalli» disse z'Acatto. «Cavalcheremo in coppie.»
Catio incrociò le braccia e lanciò uno sguardo sospettoso al suo maestro. «È una fortuna che tu abbia portato i cavalli, e molto strano.» «Non fare la bottiglia vuota, ragazzo. La strada che va al coven passa vicino al pozzo al confine della tenuta di Orchaevia. Li ho visti arrivare.» «Che cosa ci facevi là?» Z'Acatto fece un largo sorriso e tirò fuori una bottiglia sottile di vetro verde da sotto il farsetto. La portò alla luce. «L'ho trovata» disse trionfante. «L'annata migliore di tutte. Sapevo che l'avrei fiutata prima o poi.» Catio ruotò gli occhi. «Almeno siamo stati salvati da una buona bottiglia» disse. «La migliore» ripeté felice z'Acatto. Il ragazzo accennò un inchino alle due donne. «Le mie casnaras Anne e Austra. Vi presento il mio maestro di scherma, il grande z'Acatto.» Esitò e colse lo sguardo del vecchio. «Il mio maestro e il mio migliore amico.» Z'Acatto sostenne lo sguardo per un istante, e Catio vide scintillare in quegli occhi qualcosa che non capì bene. Poi il vecchio si rivolse ad Anne e Austra. «Molto lieto, casnaras» disse. «Spero che una di voi non disdegnerà la mia compagnia a cavallo.» Anne s'inchinò. «Ci avete salvato la vita, sir.» Poi lanciò un'occhiata significativa a Catio. «Tutti e due. Sono in debito con voi.» Quindi emise un urlo verso qualcosa che stava alle spalle di Catio. Questi sospirò e si voltò, pronto a tutto. A tutto tranne che a quello che vide. Lentamente, tremando, il cavaliere dorato stava provando a rialzarsi. Il sangue sgorgava dalla visiera come acqua da una fontana. Catio sollevò la spada. «No» disse z'Acatto. «No, non è vivo.» Catio non capì se questa fosse un'affermazione o una domanda, ma z'Acatto estrasse la sua spada e la conficcò nell'altro occhio. Il cavaliere cadde di nuovo, ma stavolta provò subito a rialzarsi. «Per Diuvo, si sta muovendo...» Z'Acatto non finì l'imprecazione, ma raccolse lo spadone abbandonato del cavaliere e gli staccò di netto la testa. Le dita continuarono a graffiare il terreno. Z'Acatto guardò per un attimo. «Consiglio una fuga rapida» disse. «E poi un po' di vino.» «Siamo d'accordo» rispose Catio con una voce roca.
L'ira aveva quasi abbandonato Neil quando l'horz esplose. L'arciere sefry sulla punta della sua spada stava boccheggiando verso l'altro mondo, e non essendoci altri nemici a portata di mano la nube rossa cominciò a dileguarsi, consentendo alla ragione di far ritorno nella sua testa. Aveva già sentito parlare dell'ira prima di allora; suo zio Odcher aveva quel dono. In tutti quegli anni di battaglie, Neil non l'aveva mai sperimentata prima. Mentre guardava il Sefry che abbandonava lentamente la vita, fissò la carneficina intorno a lui, cercando di ricordare che cosa stesse facendo quando la sua anima era stata assalita dal fulmine. Il rumore di pietra in frantumi lo fece girare, e vide una cosa che sembrava una spirale di fumo nero e denso levarsi dalle spaccature dei muri del giardino. Avanzò vacillando verso l'horz, ricordandosi che aveva lasciato la regina e Fastia lì dentro. Fu solo quando si tuffò veramente in quello che credeva fumo che riuscì a vedere bene, sebbene non capisse. Viticci neri brancolavano davanti a lui, aggrappandosi ai suoi arti, avvinghiandosi alla pietra del camminamento. Li tagliò e caddero a terra avvizziti, ma erano solo la propagazione dei rampicanti più fitti da cui nascevano, doppi come gambe e in crescita continua. Le spine dure cercavano di lacerargli l'armatura. I rovi lo respingevano verso il bordo del camminamento, nonostante li tagliasse con Corvo. Era passato parecchio tempo dall'ultima volta, il mondo aveva avuto un senso, ora non si preoccupava più. Aveva lasciato la regina nell'horz, doveva tornare da lei. Così si lanciò in avanti, con il sudore e il sangue che gli lucidavano la faccia e gli occhi che gli bruciavano; lottò a rilento contro quell'assurdo fogliame, finché la sua spada non colpì qualcosa che non riuscì a tagliare. Alzò lo sguardo e vide che un paio di occhi verdi lo stavano fissando dall'alto. Quella cosa era molto più alta di un uomo ed era completamente avvolta in rampicanti neri, che la imbrigliavano, tirandola verso terra; ma la cosa ignorava la presa, così come ignorò Neil dopo avergli dato una sola occhiata. Neil sentì l'odore della pioggia di primavera mista al legno fradicio. La cosa dagli occhi verdi camminava a larghi passi e oltrepassò il giovane guerriero, spezzando i rampicanti e strappandoli dalla pietra, ma ovunque poggiasse i piedi spuntava nuova vegetazione. Neil la guardò con la bocca spalancata mentre entrava nel fossato; le acque più profonde gli ar-
rivavano solo alla vita. Se prima di allora non aveva mai visto un mostro, adesso poteva dire di averne incontrati due. La regina, stupido! La fine del mondo non doveva essere una sua preoccupazione. Muriele Dare invece sì. Girò lo sguardo verso quello che rimaneva dell'horz, e iniziò a tagliare i fitti rampicanti con Corvo, piangendo. Immaginava come avrebbero potuto ridurre la carne umana quei viticci che riuscivano a spaccare la pietra. Ma trovò la regina illesa, sulla pietra da cui il rampicante più grande si era originato, che fissava il punto in cui i rovi neri avevano strisciato sul corpo di Fastia. Con freddezza, Neil prese la regina in braccio, inciampando nel sentiero che egli stesso aveva tagliato fra i le piante, e avanzò verso il cortile pieno di cadaveri fino alla porta. Vide di nuovo il gigante di rovi, che camminava a passi larghi lungo il fossato, là dove questo piegava verso il cancello frontale di Cal Azroth; lì altre persone stavano guardando. Neil poggiò la regina sull'erba e cercò Corvo; dovevano esserci sicuramente altri nemici... Ma santa Dimenticanza lo chiamò e lui non seppe resistere. Il greffyn rotolò e precipitò sul fondo, ma i polmoni di Aspar reclamavano ossigeno. Allentò la presa e fu scagliato via. Nuotò verso la superficie col pugnale ancora in mano. Si avvicinò al bordo del fossato e cominciò ad arrampicarsi, tirandosi fuori dall'acqua solo con la forza della disperazione. Dovette lottare per rimanere in piedi, perché il corpo era in preda al tremore, e fissò l'acqua torbida, certo che da lì sarebbe emersa una rapida morte. Si sentiva tutto rotto. Vomitò e vide che per lo più era sangue. In lontananza sentì chiamare il suo nome, ma non ebbe tempo per quello, perché il greffyn uscì dall'acqua, bello e sinuoso, sembrava una creatura nata dai versi di un poeta. Si meravigliò per non averlo guardato in quel modo fin dall'inizio. Si sarebbe quasi pentito di averlo ferito, se non fosse per il fatto che lo doveva uccidere per forza. «Vieni qui» gli disse Aspar. «Non è rimasto molto di me, ma vieni a prenderti quello che c'è, se ce la fai.» La bestia gli inflisse una frustata col grande becco, ma gli sembrò che fosse più lenta. Non credeva di avere il tempo necessario per pugnalarla in un occhio, e invece ci riuscì. Proprio come Fend, pensò, chiedendosi dove fosse andato a finire il
Sefry. Poi il greffyn lo colpì col peso di un cavallo completamente bardato. Tutto diventò bianco, ma Aspar si mantenne cosciente, piegando le mani ora vuote, pur sapendo che questo non lo avrebbe aiutato affatto, ma felice di poter lottare fino alla fine. Quando si voltò, vide la bestia stesa immobile. Aveva sbattuto su un cumulo di roccia e aveva il collo piegato in due, a formare un angolo impossibile. Bene, più facile di quanto pensassi. Malvagio, se questa fortuna è venuta da te, grazie. È bello vedere il tuo nemico morire prima di te. Ora se Fend fosse così gentile da cadere morto qui vicino... Aspar giaceva lì, tossendo sangue, mentre sentiva aumentare quella sensazione di avvelenamento che ormai gli era diventata familiare. Sperò che Stephen riuscisse a tenere lontana Winna, ma comunque sarebbe stata attenta a non toccare il suo cadavere, o no? Girò la testa e la vide là, dall'altra parte del canale, in piedi accanto a Stephen. Stava piangendo. Aspar sollevò una mano debolmente, ma non ebbe la forza di parlare. «Rimani lì, ragazza» bisbigliò. «Per il Malvagio, resta lì.» Doveva esserci veleno in tutti i punti in cui il greffyn aveva versato il suo sangue. Ma qualcosa si abbatté sul volto di Winna e anche su quello di Stephen. Un'ombra scese su di lui, arrestando il sole del mattino, e Aspar sollevò il capo esausto per guardare ancora una volta il Re degli Alberi. Stephen lasciò cadere dalle mani tremanti l'arco di Aspar. Aveva provato a tirare contro il greffyn, ma aveva avuto paura di colpire Aspar, e ora, incredibilmente, la bestia era morta. Winna fece per avanzare, ma lui la trattenne. «Non c'è niente che possiate fare per aiutarlo» le disse. «Se vi avvicinate, morirete anche voi.» «Non m'importa» rispose con voce roca. «Non m'importa.» «Ma a lui importerebbe. Non ve lo permetterò.» Lei dischiuse la bocca, forse per ribattere ancora, ma dall'angolo della rocca apparve colui che dall'aspetto poteva essere solo il Re degli Alberi. Guadò il canale, trascinandosi dietro una scia di spine. Uscì dall'acqua con un'ampia falcata e si mosse con andatura decisa in direzione della Foresta del Re. Poi si fermò e alzò il naso come se avesse fiutato qualcosa. La sua testa dalle corna ramificate si voltò a guardare le sagome di Aspar e del greffyn.
Si mosse verso di loro. «È successo» sussurrò Stephen. «Santi, è successo davvero.» Rivide nella sua mente gli scrift e i tomi che aveva studiato, i frammenti di annotazioni rovinati dal tempo, le terribili profezie. E in terra e nel cielo sentì come se qualcosa si fosse spezzato e stesse morendo, come se il mondo sanguinasse. Come se la fine fosse davvero iniziata. Questo significava che non valeva più la pena far niente. Ma bisognava provarci, pensò. Raccolse l'arco e scoccò l'unica freccia rimasta. Non capì se veramente aveva colpito il mostro, ma di sicuro questo non se n'era accorto nemmeno. Prima si chinò su Aspar, e dei rampicanti si seccarono tutt'intorno al suo corpo. Quindi lo lasciò e si mosse verso il greffyn. Stephen lo vide prendere in braccio la bestia uccisa e cullarla come fosse un bambino, per poi allontanarsi lasciandosi dietro una scia di virgulti neri. Dietro di loro, le pietre di Cal Azroth cominciarono lentamente a spaccarsi: i rampicanti la stavano disgregando. Capitolo quindici Osservazioni strane e curiose «Stephen Darige?» Stephen alzò lo sguardo verso il paggio, che portava calzamaglie arancioni e una giubba nera con bordi di pelliccia. La conosceva da poco e pensò che questo era il meglio che la duchessa di Loiyes potesse fare nel vestire a lutto la sua servitù, almeno quando veniva avvertita senza un congruo anticipo. Osservazioni e speculazioni sui damerini variopinti iniziò nella sua testa. O, malattie assortite di sangue reale. «Mio signore» ripeté il domestico. «Siete voi Stephen Darige?» «Sì, sono io» ammise stanco, con lo sguardo che seguiva languido i prati di Glenchest attentamente curati. In lontananza, poteva scorgere il principe della corona, Charles, quel povero ragazzo toccato dai santi, che giocava coi birilli insieme al suo buffone sefry. Lo aveva conosciuto quattro giorni prima, al suo arrivo a Glenchest. Charles non sembrava essersi accorto della strage della sua famiglia. Non era tra le mura di Cal Azroth quando Fend e i changeling erano arrivati, ma dormiva nelle stalle dopo una gior-
nata di giochi infantili. Quel piccolo drappello di fanti che gli era stato assegnato doveva essergli grato; erano gli unici sopravvissuti della guardia che aveva accompagnato i reali a Cal Azroth. Mentre la fortezza cadeva a pezzi sotto la morsa delle spine innaturali del Re degli Alberi, erano riusciti facilmente a mettere in salvo Charles, e poi a chiedere aiuto a Glenchest. «Sua maestà Muriele Dare richiede la vostra presenza nella Stanza dei Passeri.» «A che ora?» «Se volete, potete seguirmi subito.» «Ah, adesso?» «Se volete.» «Altrimenti?» Il paggio sembrò confuso. «Signore?» «Niente. Mostratemi la strada, brav'uomo.» Desiderava che il paggio smettesse di chiamarlo signore, ma la duchessa insisteva che tutti i suoi ospiti fossero trattati come nobili, almeno nominalmente. Seguì il ragazzo attraverso le siepi e su per un sentiero coperto da una galleria di salici intrecciati. Pensò che se una volta amava questo tipo di giardini, adesso gli suscitavano un leggero senso di claustrofobia. Si ricordò dei grandi alberi della Foresta del Re, ed ebbe un forte e improvviso desiderio di trovarcisi in mezzo, anche se questo voleva dire sopportare il sarcasmo e il disprezzo di Aspar White. Quale utilità credevo avessero delle mappe vecchie di millenni? Si chiese. A volte era difficile riuscire a comprendere il vecchio Stephen Darige, adesso era così cambiato. Deboli voci stimolarono il suo orecchio benedetto dai santi, infilandosi fra i suoi pensieri. «...trovato i corpi. Erano monaci, c'è stato detto, e lo è anche questo Stephen Darige. E per di più dello stesso ordine.» Era la voce di Humfry Thenroesn, consigliere della duchessa di Loiyes, per così dire. Stephen riusciva a sentile l'aspro odore del brandy che veniva dall'alito di quel tipo insieme alla brezza autunnale, sebbene non fossero ancora entrati nella villa. «Darige ha rischiato la vita per i miei figli. È stato ferito per questo.» Stavolta era la voce della regina. «Questo lo dice lui» replicò Thenroesn. «Abbiamo solo la sua parola. Può darsi che facesse parte del gruppo degli invasori e quando ha visto che
stavano perdendo...» La regina lo interruppe. «Il guardaboschi che era con lui ha ucciso metà degli assassini rimasti, compreso il greffyn.» Thenroesn tirò su con il naso. «Ancora una volta, maestà, questo l'abbiamo solo sentito dire. È un grave rischio fidarsi di Darige.» Stephen passò sotto l'arco d'entrata. Notò che le mura erano decorate con serpenti di mare dorati. Il tono di Humfry si fece ancor più orgoglioso. «Ho inviato un uomo da sua eminenza, il praifec Hespero» si vantò, come se aver preso questa iniziativa gli facesse meritare un elogio. «Manderà sicuramente qualcuno a confermare la versione di Darige. Fino a quel momento, suggerisco che venga tenuto prigioniero.» Ci fu una pausa durante la quale Stephen sentì solo i suoi stessi passi, e poi arrivò la voce della regina, così gelida che Stephen rabbrividì pur essendo ancora distante. «Devo capire dunque che voi avete contattato il praifec senza che io lo sapessi?» domandò. Stephen seguì il paggio per un lungo corridoio mentre Thenroesn si mise sulle difensive. «Vostra maestà, rientra nei miei compiti...» «Devo capire» domandò nuovamente la regina «che avete contattato il praifec senza che io lo sapessi?» «Sì, maestà.» «Duchessa, avete una prigione in questo... in questo posto?» Stephen riconobbe la voce della duchessa di Loiyes nella risposta: «Sì, maestà cara.» «Fateci rinchiudere quest'uomo, per favore.» «Ma vostra maestà» cominciò Humfry Thenroesn, poi la duchessa lo interruppe proprio mentre Stephen arrivava all'entrata della stanza. «Dovreste stare davvero più attento a non offendere mia cognata, caro Humfry» disse la duchessa. Si voltò verso una delle sue guardie. «Drey, per favore scortate lord Humfry in una delle celle più umide.» La regina guardò Stephen, che stava in piedi sulla porta, aspettando di essere ammesso nella stanza. Era bella come si diceva, e i suoi lineamenti erano composti, ma rigidi. La sua espressione era indecifrabile: poteva essere ugualmente infuriata, disperata o indifferente. Eppure la sua voce rivelò a Stephen un cuore in subbuglio e un'anima tormentata. «Mandate un uomo a intercettare il messaggero di lord Humfry» disse la regina alla duchessa. «Non fategli alcun male, a meno che non sia necessa-
rio. Fatelo solo tornare indietro col suo messaggio.» A un cenno della duchessa un'altra delle guardie di Loiyes s'inchinò e uscì di corsa a sbrigare quell'incarico. La regina rivolse nuovamente la sua attenzione a Stephen. «Fraleth Darige, prego unitevi a noi.» Stephen fece un inchino. «Vostra maestà.» La regina stava seduta su una poltrona modesta e indossava un abito di broccato nero con un collo che saliva rigido. Anche la duchessa, su una sedia accanto a lei, era vestita di nero, sebbene la sua scollatura fosse meno modesta. «Fraleth Darige, due delle mie figlie sono morte. Ditemi perché.» Per Stephen quella voce era come una ferita aperta, nonostante il tono piatto e misurato. «Vostra maestà, non lo so. Come ho già detto alla duchessa e al suo consigliere, ho scoperto il complotto per caso al monastero d'Ef, quando Aspar White, il vostro guardaboschi, arrivò ferito da noi. Abbiamo seguito Desmond Spendlove e i suoi uomini fin qui, dove si sono uniti a fuorilegge sefry e hanno effettuato un'encrotacnia proibita. Credo che si siano fatti aprire i cancelli della rocca dall'interno proprio in questo modo.» «Spiegatevi.» Stephen descrisse il rito come meglio poté. Si aspettava scetticismo, ma la regina annuì come se avesse capito. «La mia ultima dama di compagnia, Erren, aveva ipotizzato la stessa cosa prima che mi fosse sottratta» disse. «Potremo mai essere veramente protetti? Dobbiamo continuare a temere che questi changeling siano tra di noi?» «Esiste un modo per proteggersi dall'encrotacnia. Se vostra maestà lo desidera, e può mettermi a disposizione uno scriftorium, posso scoprirlo, ne sono sicuro.» «Avrete accesso a qualunque scirftorium del regno» gli assicurò la regina. «Ora ditemi. C'entra qualcosa Hansa in tutto questo?» «Hansa, mia regina?» domandò Stephen confuso. «No. Desmond Spendlove era di Virgenya. I Sefry non sono alleati con nessuna nazione.» «Non vedete coinvolta neanche Liery?» domandò con dolcezza. «No, maestà.» «Sapevate che anche il re è morto? Ne hanno parlato?» Stephen si rese conto di aver spalancato la bocca, ma non disse niente. «Allora?» «No, maestà» riuscì a dire. «Non è mai stato detto niente sul re.»
«Deve essere successo lo stesso giorno» disse la regina. «Il cavaliere ci ha appena raggiunto con la notizia.» «Io... le mie più sentite condoglianze, vostra maestà.» «Grazie.» La fronte si contrasse e poi si distese. Sembrò che stesse per dire qualcosa, poi ci pensò meglio e ricominciò: «Sono successe delle cose molto strane a Cal Azroth, molto fuori dal comune. Mi è stato riferito il vostro resoconto, ma mi piacerebbe risentirlo, insieme alle vostre opinioni in merito.» Stephen le raccontò quanto sapeva del greffyn e del Re degli Alberi, le avventure di Aspar White e le sue. Sapeva che tutto poteva sembrare incredibile, ma la sua memoria benedetta dai santi era limpida. Non poteva rifugiarsi, come una persona normale, nel mondo dei sogni, dove i fatti diventavano fantasie, dove il Re degli Alberi e il greffyn nascevano dal terrore e dallo sfinimento, o dal vino. «Gli eventi si mischiano» concluse. «Il greffyn aveva l'abitudine di seguire i Sefry, non so dire perché. Non credo che loro comandassero lui o viceversa, so solo che viaggiavano senza essere attaccati, così come i monaci. Il Re degli Alberi è stato svegliato e chiamato dal corno, credo, e sembra tornato nella Foresta del Re.» «La sua traccia è molto chiara» osservò la duchessa. «I miei cavalieri hanno trovato un sentiero di rovi scuri, che portava al bordo della foresta.» «Gli stessi rovi che hanno distrutto Cal Azroth» disse la regina. «Non sapete perché è venuto?» Stephen trasalì. «Come sapete, sono tornato ieri a Cal Azroth con i cavalieri al servizio di sua signoria la duchessa. La crescita dei rampicanti è diminuita; strisciano ancora, ma più lentamente. Per quanto riguarda il Re degli Alberi, e credo che sia proprio lui quello che abbiamo visto, è molto antico, forse una delle divinità auree sconfitte, come si dice, dai santi. È arrivato a Cal Azroth perché l'ho chiamato io con il suo corno. Il sedos ha rafforzato la chiamata e il feinglest sacro a Fiussa è diventato la porta della sua manifestazione. «Qualunque cosa fosse prima, adesso è di carne, e cammina nel mondo.» «Non avete risposto alla mia domanda» replicò la regina. «Non conosco la risposta, maestà» rispose Stephen con calma. «Ma se dobbiamo credere alle fonti che abbiamo, il suo risveglio preannuncia tempi funesti.» Fece una pausa. «Molto funesti. Forse la fine di tutto quello che conosciamo.»
«L'ho sentito dire anch'io, eppure il mondo esiste ancora.» «Col vostro permesso, maestà» replicò Stephen. «Forse è così, ma sento che è come se una clessidra fosse stata girata, e quando la sabbia sarà finita...» Scosse la testa. Non trovò il modo di concludere quel pensiero. La regina parve capire in qualche modo e non lo forzò. Eppure anche quel silenzio era pesante. «Maestà,» riprese «avevo solo minacciato di suonare il corno per interrompere l'incantesimo di Desmond Spendlove.» Fece una pausa, e un senso di colpa acuto come il dolore, gli ostruì la gola. «Non avevo intenzione di suonarlo veramente, e non credevo neanche che sarebbe successo qualcosa se lo avessi fatto. Tutto quello che ne è derivato è colpa mia.» La regina alzò le spalle. «Se sir Neil fosse diventato un changeling, adesso sarei già morta. Quella minaccia è svanita grazie a voi. Vorrei solo che foste intervenuto prima, perché in quel caso adesso anche le mie figlie sarebbero ancora vive. Per quanto riguarda l'apparizione di quell'essere che abbiamo visto tutti, nonostante le vostre sensazioni, non mi sembrava essere malintenzionato. Ha voluto risparmiarmi, questo è sicuro. Se ne è andato subito dopo essere comparso, e la distruzione di Cal Azroth, credo, è stata solo una conseguenza accidentale della sua venuta. Tenete il vostro senso di colpa, Stephen Darige, per quando sì dimostrerà giustificato.» Stephen s'inchinò. «Cercherò di scoprire che cosa ho provocato e di aggiustare le cose, maestà. Una volta credevo di sapere molte cose. Ora penso invece di sapere davvero poco.» Guardò la regina dritto negli occhi. «Ma mi sento costretto a ripetere che parlo in base a qualcosa di più profondo dell'istinto. I nostri guai non sono finiti; sono appena cominciati. Il mondo è cambiato, non lo avvertite maestà?» «Due delle mie figlie sono morte» rispose la regina, con lo sguardo fisso a una media distanza. «Mio marito, l'imperatore di Crotheny, è morto. La mia migliore amica è morta anche lei.» Improvvisamente il suo sguardo trafisse quello di Stephen. «Il mondo che io conoscevo non è cambiato: è morto, non esiste più.» L'udienza si concluse con quelle parole, e Stephen colse l'opportunità per vagare tra i corridoi ariosi di Glenchest, fino all'infermeria allestita in una delle stanze meno utilizzate. Lì si trovava un giovane cavaliere di Liery, un certo Neil MeqVren. Il suo respiro regolare e pesante indicava che stava dormendo, dando al suo corpo il riposo necessario per riprender-
si dalle ferite riportate. Il letto di Stephen era vuoto ormai da due giorni. La ferita al braccio ancora gli faceva male, ma la febbre se n'era andata in fretta. Il terzo letto, quello di Aspar, era vuoto ovviamente. Sentì delle voci all'esterno. Scrutò dalla porta verso il terrazzo: due figure erano sedute su una panchina tra un paio di aranci in vaso, guardando le floride colline ondulate di Loiyes. Si era appena girato, deciso a non interrompere, quando una voce roca lo chiamò. «Perché ti tiri indietro, Cape Chavel Darige? Unisciti a noi sotto questo sole.» «Sì, dai» disse Winna, che sedeva accanto ad Aspar. Stephen notò che i due si tenevano per mano. «Mi avete detto più volte che non sono molto bravo a nascondermi. Pensavo di essere migliorato.» «Con l'allenamento? Perché, non esistono libri in materia?» «Certo» rispose Stephen. «Se ne parla in un certo bestiario che conosco.» Osservazioni sul comportamento bizzarro e rozzo dell'animaleguardaboschi comune. Riuscì a reprimere un sorriso. «Ma a volte,» proseguì «a volte, ho imparato che è necessario avere anche un po' di allenamento.» «Già» concordò Aspar. «A volte sono convinto di sì, ma altre, non spesso, bada bene, lo studio dei libri può avere la sua utilità.» Stephen fece un giro sulla terrazza di pietra bianca. L'aria era impregnata della promessa d'autunno, e lo dimostravano i meli nei campi con le loro corone dorate. Winna si alzò, diede un colpetto sulla mano di Aspar e gli sfiorò le labbra con un bacio. «Torno tra poco. Vado a vedere che cosa riesco a racimolare in cucina. Porto qualcosa per fare un pic-nic.» «Niente lingue di allodola in salamoia o testicoli di basilisco dorato» grugnì Aspar. «Cerca nella dispensa della servitù e vedi se riesci a trovare un po' di formaggio come si deve.» Quando si fu allontanata, Aspar fissò Stephen con aria minacciosa. «Perché staresti ridacchiando?» «Siete diventato rosso, quando vi ha baciato.» «Cavolate. È il sole, ecco tutto.» «Va bene per voi, credo. Migliora sensibilmente la vostra indole.»
«Non ha mai avuto bisogno di migliorare la mia indole.» «Così disse il vecchio gallo prima di finire in pentola» replicò Stephen. «Ah ah!» brontolò Aspar, chiaramente incapace di difendersi meglio. Stephen si mise a sedere su un'altra panca, e tra i due il silenzio aumentò, fino a che Aspar non si schiarì la voce. «Come mai sono ancora vivo?» domandò. «La medicina che mi aveva dato madre Gastya non avrebbe mai potuto essere così potente, e tra l'altro era finita.» «Vero» concordò Stephen. «Speravo che ve lo ricordaste, invece niente?» Aspar guardò lontano, verso la Foresta del Re. «È stato lui, vero?» «Credo di sì. Non chiedetemi perché.» «Allora non sai trovare una spiegazione! Ma il Re degli Alberi non doveva arrivare e ucciderci tutti?» «Può ancora farlo. Ci ha lasciato perché aveva altre cose da fare, e sospetto che non ci piaceranno.» Scrollò le spalle. «Vi ha tolto il veleno, non ha richiuso le ferite, né fermato il sangue; quello l'abbiamo dovuto fare noi, perché stavate comunque molto male.» Stephen sollevò le mani. «Forse vi ha creduto una creatura del suo regno, e forse lo siete, di sicuro odorate come se lo foste. Un cinghiale storpio, un orso malconcio, potreste essere confuso con una di queste bestie.» Aspar lo fissò a lungo. «Mi ricordo solo che quando mi ha toccato ho sentito una cosa, che non sentivo più da quando ero bambino. Era...» Si accigliò. «Cavolo, non so spiegarlo.» Agitò le mani, lasciando cadere l'argomento. Rimase in silenzio per molto tempo, e Stephen cominciò a desiderare che Winna si affrettasse a tornare. Lei sapeva come appianare le cose. Ma poi Aspar parlò, senza guardarlo. «Ho la sensazione di essere stato fortunato a incontrarti, Cape Chavel Darige.» Stephen sbatté le palpebre davanti a un'inattesa umidità negli occhi. Sulla stranissima, sottile indole dell'animale guardaboschi, cominciò a comporre nella sua testa. Sebbene estremamente irascibile, bisogna ammettere che l'animale non solo ha una disposizione all'irritazione, ma sotto la pelle spessa e simile al cuoio, possiede anche qualcosa che somiglia, per molti aspetti, a un cuore umano. «Perché staresti ridacchiando, adesso!» Stephen si rese conto che stava sorridendo. «Niente, una cosa che ho let-
to una volta.» Quando Catio entrò nel cerchio del fuoco, Anne trasalì involontariamente. Z'Acatto schioccò la lingua e disse: «Non avete motivo di preoccuparvi, giovane casnara. Siamo ben lontani da quei diavoli.» «Almeno per ora» lo corresse il ragazzo. «Se sono così resistenti nella caccia come lo sono a lasciare questa vita, allora li rivedremo.» «Non far preoccupare le signore con questi discorsi» borbottò z'Acatto. «Per il momento li abbiamo seminati, di questo possiamo stare certi. Tra noi e loro avremo messo un centinaio di leghe tortuose, senza mai lasciare tracce.» Rivolse un'occhiata espressiva al giovane. «A meno che tu non ne abbia lasciate stanotte.» «Sono stato un fantasma» rispose. «Sono entrato come un'ombra nella taverna del Cinghiale Balbuziente, e come un'ombra sono uscito.» «Spero tu sia uscito più pesante di un'ombra» commentò z'Acatto fiducioso, dando un'occhiata al sacco che Catio aveva gettato casualmente su una spalla. «Sì, più pesante. Ma questo è lavoro per te, vecchio. Non sono un ladro di mestiere.» «Fallo da principiante, allora. Che cosa porti là?» Anne sentì che il suo stomaco mormorava. La campagna offriva poco per sostentarsi, e non avevano potuto chiedere ospitalità a nessuno per evitare di essere visti e descritti ai loro inseguitori; d'altronde z'Acatto li aveva rassicurati che l'ospitalità era carente nella provincia povera e rozza di Curhavia. In ogni caso tutti e quattro dal giorno prima avevano mangiato solo pane ammuffito, e neanche tanto. «Stasera facciamo festa» disse Catio. Tirò fuori un pezzo di prosciutto, una gallina arrostita allo spiedo, una bella pagnotta croccante di pane nero, un'ampollina d'olio d'oliva e due bottiglie nere di vino. Anne lo osservò affamata, ma quando guardò Austra, vide qualcosa di molto simile alla venerazione, cosa che la fece irritare. Catio era migliore di quanto avesse supposto prima, era vero, e lei e Austra gli dovevano la vita, ma non c'era motivo di essere così stupide. «Hai preso l'annata sbagliata» si lamentò z'Acatto. «I fantasmi bevono quello che trovano. Sono sicuro che andrà bene.» Z'Acatto afferrò una delle bottiglie, ne bevve un sorso, e se lo fece sciacquare in bocca.
«Poco meglio dell'aceto» disse. Comunque, ne mandò giù un altro lungo sorso. Mangiarono senza pensare a chiacchierare. Solo più tardi, dopo essersi scolati un bel po' di vino, ripresero la conversazione. «Entro tre giorni raggiungeremo la costa» disse Catio. «Sicuramente vi troveremo un passaggio verso un posto sicuro, forse addirittura casa vostra.» «Siete stati gentilissimi» disse Anne. «Non potete mettere due donne da sole su una nave» protestò Austra. «E se i cavalieri hanzish ci trovassero in mare?» «Mi preoccuperei maggiormente dei marinai» fece z'Acatto. «Sono il pericolo più noto e più scontato.» «Bene, allora vai con loro» propose Catio. «Io ritorno a casa mia ad Avella e fingerò di non aver mai visto un cavaliere che non voleva morire.» «Il padre di Anne vi ricompenserà» si lasciò scappare Austra. «Austra, sta' zitta» le disse Anne. «Casnar da Chiovattio e z'Acatto hanno già fatto più di quanto potremo mai fare noi per ripagarli.» «Un gentiluomo non pretende mai una ricompensa per aver salvato delle giovani signore in difficoltà» evidenziò Catio. «Ma un gentiluomo senza fondi non può neanche estinguere l'ipoteca sulla sua proprietà,» disse z'Acatto «anche se certe complicazioni legali sono svanite, cosa che comunque non può essere data per certa.» Catio apparve afflitto. «Dovete per forza angosciarmi con queste faccende materiali?» domandò. Ma poi si rivolse ad Anne: «A ogni modo, chi è vostro padre?» Anne esitò. «Un uomo ricco» disse. «Di che paese?» «Dell'impero di Crotheny.» «Sarà un lungo viaggio» osservò. «Bah!» esclamò z'Acatto. «Non sai nemmeno dove si trova! Non ne hai la più pallida idea! Per te, z'Irbina è la fine del mondo.» «Mi accontento di Vitellio, se è questo che vuoi dire. Devo riconquistare le proprietà di mio padre.» «Vogliate perdonarlo, casnaras. L'esperienza con i vostri cavalieri hanzish gli ha insegnato una certa riluttanza davanti a faccende straniere. Vedete, ad Avella, può credersi un grande schermidore. Nel resto del mondo potrebbe scoprire il contrario.» Catio apparve colpito. «Questa è una bugia bella e buona e tu lo sai.»
«So quello che vedo. La dessrata è nei fatti, non nelle parole.» «E tu mi hai detto più volte che non sono un dessratore.» «A volte tendo al pessimismo» mormorò z'Acatto. «Cioè?» Catio inarcò le sopracciglia in un'espressione sorpresa. «Cioè, forse potrebbe esserci qualche speranza per te.» Agitò la bottiglia di vino davanti al suo allievo. «Ho detto potrebbe.» «Allora l'ammetti!» «Non ammetto un bel niente!» «Vecchio ubriacone, io...» Continuarono a discutere, ma Anne sapeva che la battaglia era già stata vinta. Lei e Austra avrebbero avuto la loro scorta fino a Crotheny. Pensò di nuovo alle sue visioni, a quello che aveva fatto al cavaliere hanzish, e desiderò che tutto al mondo fosse semplice come Cario. Per lei, il mondo non sarebbe più stato semplice. Capitolo sedici L'imperatore sale al trono L'imperatore di Crotheny contò fino a tre e poi batté le mani divertito quando Cappello da Caccia fece uscire una pernice da quella che sembrava solo aria. «Bravissimo, sire!» esclamò il Sefry. «E ora farò un fuoco, ma vi imploro di contare fino a quattro stavolta.» Muriele lanciò un'occhiata severa al Sefry e poi disse in tono più dolce al figlio: «Charles, è ora di riunire la corte.» Charles la guardò, e la sua faccia si contrasse. «Madre» bisbigliò, «non so contare fino a quattro, cosa devo fare?» «Charles» gli disse, con tono un po' più insistente. «È ora di riunire la corte. Devi concentrarti e fare il re.» «Ma papà è il re.» «Tuo padre ora non c'è. Al suo posto, devi farlo tu. Capito?» Dovette aver sentito la frustrazione nella voce della madre, perché fece la faccia triste. Charles non sempre capiva il significato delle parole, ma a volte era sorprendentemente sensibile agli stati d'animo. «Come faccio, madre? Come faccio a fare il re?» Gli accarezzò la mano. «Ti insegnerò io. Tra pochissimo, entreranno degli uomini. Ne riconoscerai alcuni, per esempio tuo zio Fail de Liery.»
«Zio Fail?» «Sì. Io parlerò con loro, mentre tu rimarrai in silenzio. Se lo farai, allora dopo potrai mangiare le frittelle di mela e la crema, e giocare sul prato.» «Non so se voglio andare sul prato» rispose Charles dubbioso. «Allora potrai fare tutto quello che vorrai, ma dovrai stare in silenzio mentre parlo a questi signori, a meno che io non ti guardi. Se la faccio, allora devi dire, 'questo è un mio ordine'. Tutto qui. Lo sai fare?» «È così che si comporta un re?» «Esattamente così.» Charles annuì serio. «Questo è un mio ordine» si esercitò a dire. Muriele trasalì perché suonò quasi identico a come lo avrebbe detto il suo William, ormai morto. Charles doveva aver sentito più di quanto lei avesse mai pensato, quelle poche volte che era stato a corte. «Molto bene.» Stava per fare cenno a una delle guardie a piedi, ma fece una breve pausa, per guardare sir Neil, che stava dritto e rigido a pochi passi da lei. «Sir Neil! Siete pronto per questo?» Sir Neil rivolse i suoi occhi neri infossati verso di lei. «Ai vostri ordini, vostra maestà» rispose. Lei fece un respiro profondo e disse: «Avvicinatevi, sir Neil.» Obbedì e s'inginocchiò davanti a lei. «Alzatevi e sedete accanto a me.» Il giovane cavaliere dagli occhi invecchiati fece come gli era stato chiesto, sedendosi sulla sedia senza braccioli alla sinistra della regina. «Sir Neil,» disse dolcemente «ho bisogno di voi qui con me. Essendo morta Erren, ho bisogno di voi, nella vostra totalità. Ci state?» «Sono con voi, maestà. Non sbaglierò un'altra volta.» «Non avete mai sbagliato, sir Neil. Come potete pensare una cosa del genere? Mi avete salvato la vita più di due volte. Nessun'altro uomo del regno sarebbe riuscito a salvarmi a Cal Azroth, eppure voi ce l'avete fatta.» Neil non rispose, ma strinse le labbra e lei scorse un dubbio in quell'espressione. «So che amavate mia figlia» disse dolcemente. «No,' non è stata Erren a dirmelo, né l'ho mai letto sul vostro volto, ma l'ho visto su quello di Fastia. «Sir Neil, noi che siamo vicine al trono non siamo destinate a condurre esistenze votate alla felicità. Viviamo la vita che ci viene data, e lo facciamo come meglio possiamo. Mia figlia non ha avuto molta felicità nella sua vita. L'ho vista appassire e trasformarsi da ragazza gioiosa in donna vec-
chia e amareggiata nel giro di pochi anni. Voi avete riportato felicità e speranza in lei, prima che morisse. Non vi avrei potuto chiedere di più.» «Avreste potuto chiedermi di salvarla» disse aspramente. «Non era quello il vostro compito. Il vostro dovere era legato a me e quello avete rispettato. Sir Neil, voi siete il mio unico cavaliere leale.» «Non mi sento degno di tutto questo, maestà.» «Non m'importa quello che vi sentite, Sir Neil» disse, lasciando trapelare la rabbia nella sua voce. «Quando si riunirà questa corte, guardatevi intorno. Vedrete il praifec Hespero, un uomo ambizioso e influente, lady Gramme, e accanto a lei il bastardo di mio marito. Noterete uno scintillio di avidità negli occhi di quella donna. Vedrete dieci nobili che credono questa sia un'opportunità per sostituire il loro grosso sedere a quello di mio figlio sul trono. Vedrete la mia famiglia e i vostri vecchi compagni di Liery, che desiderano una guerra contro di noi, pensando sia giunto il momento di riprendersi Crotheny. E poi c'è sempre Hansa, che prepara i suoi eserciti, e intreccia complotti contro di noi. «Chi di loro ha ucciso mio marito? Potrebbe essere stato chiunque. È stato colpito da frecce lierish, ma è una mossa fin troppo evidente. Qualcuno di questi, sir Neil, ha ucciso lui e le mie figlie e il principe Robert. Qualcuno di questa stessa corte, ma chi? Qui a Eslen non vedrete che miei nemici, e tutto quello che mi rimane a separarmi da loro siete voi. Quindi non m'interessano gli errori che pensate di aver commesso, non m'interessa quello che soffrite, perché vi giuro che non è neanche un decimo di quello che provo io. Ma vi ordino, come regina e madre del vostro re, di proteggermi, di concentrare i vostri sensi e la vostra attenzione. Insieme a voi posso resistere ancora qualche mese in questo gioco, ma senza di voi non sopravviverò un solo giorno.» Neil chinò il capo, poi lo rialzò e finalmente Muriele riconobbe in lui qualcosa del giovane che aveva visto pregare nella cappella di san Lier. «Sono qui, maestà» disse, questa volta con fermezza. «Sono con voi.» «Bene. È una fortuna.» «Maestà! Posso farvi una domanda?» «Sì.» «Ci sarà una guerra contro Liery?» Ci pensò un attimo prima di rispondere. «Se pure fosse, sareste pronto a uccidere quelli al cui fianco una volta combattevate?» Aggrottò la fronte come se non avesse capito la domanda. «Certo, maestà. Ucciderò tutti quelli che andranno uccisi, per voi. Vorrei solo sapere
per poter meglio preparare la guardia.» «La guerra contro Liery è l'ultima delle mie preoccupazioni. In me vedono un modo per conquistare il trono senza combattere, e poi hanno Saltmark e Hansa di cui preoccuparsi. Devo solo far credere loro che hanno, grazie a me, una grande influenza sul trono e lasciare che uno dei miei cugini mi corteggi, forse. I fatti che circondano la morte di mio marito e le navi delle Isole del Dolore che abbiamo affondato possono essere dimenticati tranquillamente, e lo saranno. Non so che cosa stessero facendo William e Robert, e probabilmente non lo saprò mai, ma posso spazzar via la confusione. È Hansa che mi preoccupa e che pugnala dall'interno la mia stessa casa.» «Sì, maestà.» Inclinò il capo. «Ora, come vi ho detto, dovete osservare quello che io non posso. Prima sarà fatto entrare Hespero, e lo nominerò mio primo ministro.» Sir Neil alzò un sopracciglio. «Credevo non vi fidaste di lui.» «Neanche un po', ma lui non deve saperlo. Deve essere illuso e coccolato. Va tenuto d'occhio, e sarà più facile farlo se si troverà sempre alla mia destra. Dopo che avrò parlato con lui, allora toccherà ai signori del mare, e faremo pace con loro.» «Sì, vostra maestà.» «Questo è un mio ordine» gridò Charles, per esercitarsi. Neil s'inchinò a Charles. «Sì, vostra maestà» disse all'imperatore. «Come in ogni altra cosa, sono il vostro servo.» Charles fece un largo sorriso, infantile, sciocco. «Sarà divertente» disse. Epilogo L'ultima maledizione Quando l'eco dei suoi ultimi passi fu inghiottita dalle tenebre voraci, Muriele Dare percepì un lamento basso, come di artigli che graffiavano la pelle di un timpano. Qualcosa di invisibile si mosse, e sebbene non ci fosse luce nell'oscurità, sentì due occhi roventi come brace che la fissavano. «L'odorre pungente di una donna» disse una voce irritata. «Sono passati molti lunghi secoli da quando ne ho sentito uno.» Poi un debole scatto, e la voce continuò pensierosa. «Voi non siete lei. Simile ma non uguale.» Muriele sentì un formicolio al naso per il profumo di resina che incensa-
va la stanza. «Sei colui che quest'uomo dice?» domandò. «Sei uno Skaslos?» «Lo sono, lo fui e lo sarrò.» Le parole sembrarono strisciare nell'aria come millepiedi. «Come siete arrrivata qui se non mi conoscevate?» «Ho trovato una chiave negli appartamenti di mio marito, e ho indagato. Qexqaneh, rispondi alla mia domanda.» «Il mio nome...» disse il Prigioniero. Suonò come un'imprecazione. «Ho dimenticato parrecchie cose del mio passato. Ma sì, una volta mi chiamavo così.» «Sei qui da duemila anni?» «Non mi rricorrdo degli anni più di quanto mesca a rricorrdarrmi della luna.» Altro graffiare nell'oscurità. «Non mi piace il vostrro odorre.» «Non m'interessa quello che piace a voi» gli disse Muriele. «Allora di che cosa vi prrepccupate? Perrché mi disturrbate?» «La tua razza conosce delle cose che la mia non sa.» «Date poca imporrtanza a molte cose, è verro.» «Dimmi: puoi vedere l'invisibile? Sai chi ha ucciso le mie figlie e mio marito? Puoi dirmi se la mia figlia più giovane è ancora viva?» «Vedo» replicò il Prigioniero. «Vedo il fumo che vola nell'arria. Vedo il mantello della morrte che spazza via il mondo. Vedo una falce in voi, desiderrosa di mieterre.» «Chi ha ucciso le mie figlie?» «Baciamiiiiii» disse ansimando. «Le loro forrme sono trroppo vaghe. Sono dietrro al drrappo funebrre.» Alzò la voce in un grido. «Rregina! Avete un pugnale dentrro di voi, che non vede Forra di colpirre e di attorcigliarrsi.» «Sta mentendo?» Muriele domandò al Carceriere. «Non può mentire» le disse l'antico Sefry. «Che cosa hai detto a mio marito?» «Di essere la morrte o morrirre. Capisco che cosa ha scelto. Vorrrete esserre la morrte, voi che puzzate di materrnità?» «Vorrei vedere morti gli assassini della mia famiglia.» «Sssssssssssssssss! Questa è una faccenda più semplice che vederre chi ha compiuto l'atto» disse il Prigioniero. «Posso svelarrvi una maledizione, la più trremenda, la più orrribile che mi rricorrdo.» «Maestà» disse il Carceriere. «Non ascoltatelo.» Ignorò il vecchio. «Posso maledire coloro che hanno portato via le mie figlie?»
«Oh sì, facilmente, molto facilmente.» «Allora parla.» «Maestà...» ricominciò il Carceriere, ma Muriele lo interruppe. «Mi avete avvisato tre volte, Carceriere. Non fatelo ancora, o vi farò rompere i timpani. Come farete poi a divertirvi con la vostra musica solitaria?» Il Sefry rimase in silenzio davanti alla minaccia. «Come volete, maestà» disse infine. «Aspettatemi dove non potete sentire questa conversazione. Vi chiamerò quando avrò bisogno di una guida.» «Sì, maestà.» Sentì il fruscio che si allontanava. «Siete una figlia della rregina?» disse il Prigioniero, quando il Sefry si fu allontanato. «Io sono la regina. Parlatemi della maledizione.» «Vi dirrò una cosa da scrriverre, e la scrriverrete su un pezzo di piombo, la infilerrete in un sarrcofago che trroverrete sotto all'horrz nella città dei monti. Chi rriposa lì, porrterrà il vostrro messaggio a qualcuno che sa bene come maledirre.» Muriele ci pensò un momento, ricordando il respiro che abbandonava Fastia. «Ditemi che cosa devo scrivere.» Le candele nella cappella tremolavano come se un'ala invisibile stesse battendo sopra di loro. Sacritor Hohn si guardò intorno nervosamente, come si fosse svegliato da un incubo notturno, sebbene non si fosse addormentato. Sembrava che non mancasse niente. La cappella era tranquilla. Si era quasi calmato, quando l'urlo cominciò. Veniva dalla stanza delle cure, dove si trovava lo straniero. Subito il sacritor si avviò in quella direzione, sapendo che cosa doveva aspettarsi. Degli uomini forti, vestiti di nero, avevano portato lo straniero alcune settimane prima. Sacritor Hohn non sapeva chi fosse, ma doveva essere sicuramente un uomo importante a giudicare da come era vestito e dal modo in cui era riverito. Era stato ferito vicino al cuore, e le sue medicine e il sacaum per curarlo erano riuscite solo a rallentare il passo della morte. Proprio quella mattina, si era aggravato. L'unica sorpresa era che avesse ancora la forza di urlare.
Quando il sacritor tirò la tenda, però, lo straniero non urlava più, ma non era neanche morto. Stava in piedi nudo e fissava un orizzonte di onore invisibile. «Mio signore» disse il sacritor. «Vi siete svegliato.» «Davvero?» bisbigliò l'uomo. «Mi sembra di essere in un sogno. Un sogno ripugnante.» «Il santo vi ha benedetto» disse il sacritor, segnandosi. «Non avrei mai creduto di vedervi in piedi. Solo questa mattina l'anima vi stava abbandonando.» L'uomo lo guardò, e qualcosa nei suoi occhi fece rabbrividire il sacritor. «Dove sono?» domandò. «Nella cappella di san Loy a Copenwis.» «Dove sono i miei uomini?» «Alloggiati in città, credo. Uno sta di guardia qui fuori. Volete che lo chiami?» «Sì, un attimo. Mio fratello è morto?» «Non conosco vostro fratello, mio signore.» «Sapete chi sono io?» «No, mio signore.» Lo straniero annuì e si grattò la barba. «Neanch'io, credo» disse. Sacritor Hohn non era sicuro di aver capito. «Avete perso la memoria?» domandò. «Ho sentito già di altri casi. A volte succede quando si è feriti gravemente...» «No, non credo. Mi ricordo tutto fin troppo bene. Portatemi i vestiti.» «Mio signore, non siete ancora in grado di viaggiare.» «Credo di sì, invece.» Qualcosa negli occhi dell'uomo gli fece capire che non c'era da discutere. Dopo tutto, aveva appena assistito a un miracolo. Se i santi avevano salvato un uomo dalla morte, avrebbero potuto rimetterlo in forze con la stessa facilità. Ovviamente la ferita era ancora lì... «Come volete, mio signore» disse inchinandosi. «Ma prima di andare, volete che vi confessi? Volete purificarvi?» L'uomo lo fissò, e le sue labbra si schiusero. Emise un verso, come se stesse per soffocare, e poi un altro. Ma solo al terzo il sacritor riconobbe in ciò che udiva era una risata più aspra del mare in tempesta. Note
1
Reytoir è un neologismo dell'autore che sta ad indicare un oggetto sferico. Il termine ret in danese significa infatti piatto, e ré in gaelico significa luna (N.d.T.). 2 Il termine ajister è un neologismo dell'autore, che deriva dall'aggettivo a/i, che in giapponese significa lucente, luminoso (N.d.T.). 3 Il termine pastaio in lituano significa frontale, di fronte, davanti (N.d.T.). Ringraziamenti Ringrazio per aver letto e commentato il manoscritto nelle varie fasi di lavorazione T. Karen Anderson, Kris Boldis, Ken Carelton, Veronica Chapman, Dave Gross, la professoressa Lanelle Keyes, Nancy Ridout Landrum e Brian Smith. Un libro è spesso il frutto di un lavoro collettivo. A volte penso che bisognerebbe introdurre i titoli di coda come nei film. Alla Del Rey ho molte persone da ringraziare. Betsy Mitchell, capo redattore e vera sostenitrice de Il Re degli Alberi fin dalla firma del contratto. Nancy Delia, direttore editoriale, che ha tenuto i vagoni sui binari. Lisa Collins, revisore di bozze, che ha avuto a che fare non solo con i miei errori di ortografia in inglese, ma anche in diverse altre lingue immaginarie. Denise Fitzer, l'assistente editoriale - senza assistenti editoriali competenti le cose possono crollare facilmente, e questa volta non sono crollate. E ovviamente, Steve Saffel, il mio editor, che ha creduto in questo libro e ha combattuto tenacemente per anni per la sua realizzazione. Infine un grazie anche a Kuo-Yu Liang per gli anni di sostegno come editor, amico e compagno di bevute. Vorrei ringraziare il direttore di produzione, Barbara Greenberg, e Eric Peterson per l'illustrazione della copertina, e David Stevenson per il progetto grafico e per essersi tenuto in contatto con me al fine di assicurarsi che le cartine fossero giuste. Il realizzatore della cartina Kirk Caldwell per il suo capolavoro artistico, il guru della pubblicità Colleen Lindsay, e la maga del marketing on line, Christine Cabello. Un grande ringraziamento a Dana Hayward per aver speso il suo tempo e i suoi sforzi per la prima bozza, per aver fatto uscire lo stampato il prima possibile. Inoltre mi piacerebbe ringraziare Elizabeth B. Vega, per il suo aiuto con
la colonna sonora (capirete di più cosa intendo dire nel libro secondo) e il Savannah Fencing Club per il supporto morale. Questo libro sembra avere sostenitori anche al di fuori del mio circolo di amici, cosa per la quale sono grato a David Weller, Chuck Errig, Lisa Congelosi, Rebeccah Fitting, David Phetean, Ron Schoop, e David Underwood. FINE