TESS GERRITSEN IL PREZZO (Harvest, 1996) 1. Era piccolo per la sua età, più basso degli altri ragazzi che chiedevano la ...
54 downloads
1166 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
TESS GERRITSEN IL PREZZO (Harvest, 1996) 1. Era piccolo per la sua età, più basso degli altri ragazzi che chiedevano la carità nel sottopassaggio dell'Arbatskaja, ma a undici anni aveva già fatto di tutto. Da quattro anni fumava, da tre e mezzo rubava, da due si prostituiva. Per quest'ultimo mestiere, Jakov non si sentiva molto portato, però lo zio Miša ci teneva. Come altrimenti avrebbero potuto comprare pane e sigarette? Toccava a Jakov, in quanto era il più piccolo di statura e il più biondo dei ragazzi dello zio Miša, accollarsi il peso di quel lavoro. I clienti vedevano sempre di buon occhio chi era giovane e carino. Pareva che non facessero caso al fatto che Jakov era privo della mano sinistra, che non si accorgessero neppure del suo moncherino rattrappito. Erano troppo affascinati dalla sua figuretta minuta, dai capelli biondi, dagli arditi occhi azzurri. Jakov non vedeva l'ora di uscire da quel giro, di guadagnarsi da vivere facendo il borseggiatore come i ragazzi più grandi. Ogni mattina, quando si svegliava nell'appartamento di Miša, e ogni sera, prima di piombare nel sonno, sollevava la mano e afferrava la sbarra che sovrastava la sua cuccetta. Si stirava, sperando di aggiungere qualche frazione di centimetro alla sua altezza. Un esercizio inutile, lo ammoniva lo zio Miša: Jakov era basso perché veniva da una famiglia di rachitici. Anche la donna che, otto anni prima, a Mosca, l'aveva abbandonato era una mezza nana. Jakov riusciva a malapena a ricordare quella donna, come rammentava ben poco della propria vita prima di arrivare in città. Sapeva soltanto ciò che gli aveva raccontato lo zio Miša, e anche a quello non credeva più di tanto. Alla tenera età di undici anni Jakov era al contempo piccolo e saggio. E proprio con il suo naturale scetticismo fissava in quel momento l'uomo e la donna che, seduti al tavolo da pranzo, stavano parlando di affari con lo zio Miša. La coppia era giunta fin lì a bordo di una grande automobile nera, con i vetri oscurati. L'uomo, un certo Grigorij, indossava un lussuoso completo, aveva la cravatta e portava scarpe di vera pelle. La donna, Nadja, aveva i capelli biondi, vestiva un tailleur di ottima lana e reggeva una valigia rigida. Non era russa, cosa che era balzata subito agli occhi di tutt'e quattro i
ragazzi che si trovavano nell'appartamento. Era americana, forse, o inglese. Parlava un russo fluente, ma con un marcato accento straniero. Mentre i due uomini discutevano di affari, bevendo vodka, lo sguardo della donna vagava per il minuscolo appartamento, osservando le vecchie cuccette militari accatastate contro la parete, i mucchi di lenzuola sporche, i quattro ragazzi stretti l'uno all'altro in un silenzio ansioso. Gli occhi della donna molto belli, di un color grigio chiaro - si posarono sui ragazzi, uno alla volta. Dapprima fissarono Pëtr, il più anziano, con i suoi quindici anni, poi Stepan, di tredici, e Aleksej, di dieci. Infine quegli occhi si volsero verso Jakov. Lui aveva ormai fatto l'abitudine a essere esaminato dagli adulti e la fissò con assoluta calma. Tuttavia, imprevedibilmente, la donna distolse quasi subito lo sguardo. Di solito, gli adulti ignoravano gli altri ragazzi, eppure stavolta era lo sgraziato Pëtr, dal viso foruncoloso, a monopolizzare l'attenzione della donna. Nadja disse allo zio Miša: «Stai facendo la cosa giusta, Michail Isaevič. Qui i tuoi ragazzi non hanno futuro. Noi offriamo loro una formidabile opportunità!» E sorrise, rivolta ai ragazzi. Stepan, il deficiente, ricambiò il sorriso, come uno stupido innamorato. «Ma tieni presente che non parlano inglese», ribatté lo zio Miša. «Soltanto qualche parola, qua e là.» «I bambini imparano alla svelta. Senza sforzi.» «Avranno bisogno di tempo per imparare. La lingua, il cibo...» «La nostra agenzia conosce bene questi problemi di adattamento. Ci occupiamo di un'infinità di bambini russi. Orfani, come questi. Per un po' se ne staranno in uno speciale istituto, e avranno tutto il tempo necessario per acclimatarsi.» «E se non ci riescono?» Nadja indugiò. «Di tanto in tanto, capita qualche eccezione... problemi caratteriali», spiegò in fretta. Lanciò un'occhiata ai quattro ragazzi. «Ti preoccupi per qualcuno in particolare?» Jakov sapeva di essere il ragazzo con i problemi cui avevano accennato. Lui che rideva molto di rado e che non piangeva mai, lui che lo zio Miša chiamava il suo «bambino di pietra». Jakov non sapeva perché non gli riuscisse di piangere. Agli altri ragazzi, se si facevano male, sgorgavano grosse lacrime infantili. Jakov invece svuotava semplicemente il proprio cervello, lo rendeva vacuo come uno schermo televisivo a notte fonda, quando i programmi sono terminati. Niente più trasmissioni, niente più immagi-
ni... soltanto quel confortante spolverio bianco. Lo zio Miša disse: «Sono tutti bravi figlioli. Gran bei ragazzi». Jakov fissò i suoi tre compagni. Pëtr aveva la fronte sporgente e le spalle sempre curve in avanti, come quelle di un gorilla; Stepan aveva strane orecchie, piccole e grinzose e, in mezzo, un cervello non più grosso di una noce; Aleksej si stava succhiando il pollice. Quanto a me, si disse Jakov, fissando il moncherino, ho una mano sola. Perché dire di noi che siamo gran bei ragazzi? Eppure lo zio Miša insisteva proprio su quel punto. E la donna continuava ad annuire. Erano bravi figlioli, ragazzi sani. «Hanno anche una dentatura perfetta!» puntualizzò Miša. «Nessun dente guasto. E guardate quant'è alto il mio Pëtr.» «Quello là sembra denutrito», disse Grigorij, indicando Jakov. «E che cosa gli è successo alla mano?» «È nato così.» «Colpa delle radiazioni?» «Però non ne risente, no davvero. Gli manca una mano, tutto qui.» «Non ci sono problemi», osservò Nadja. Si alzò. «Dobbiamo andare. È ora.» «Così presto?» «Abbiamo un programma da rispettare.» «Ma... i vestiti...» «Li fornirà l'agenzia. E saranno migliori di quelli che indossano attualmente.» «Deve avvenire tutto così, in fretta e furia? Senza neppure il tempo di salutarci?» Negli occhi della donna balenò un lampo d'irritazione. «Un attimo soltanto. Non vogliamo mancare ai vari appuntamenti che ci aspettano.» Lo zio Miša guardò i suoi ragazzi, i suoi quattro figlioli, legati a lui non da vincoli di sangue e neppure dall'amore, bensì da una reciproca dipendenza, da un reciproco bisogno. Li abbracciò tutti, a uno a uno. Arrivato a Jakov, la stretta fu un po' più lunga, più forte. Lo zio Miša odorava di cipolle e di tabacco: aromi familiari, profumi gradevoli. Istintivamente, però, Jakov si sottrasse a quel contatto. Non gli piaceva essere stretto o toccato, da nessuno. «Quando sarai ricco, in America, ricordati di tuo zio», gli sussurrò Miša. «Non dimenticare che mi sono preso cura di te.» «Non voglio andare in America», protestò Jakov.
«È per il vostro bene. Di tutti voi.» «Voglio stare con te, zio! Voglio rimanere qui.» «Devi andare.» «Perché?» «Perché ho deciso così.» Lo zio Miša l'afferrò per le spalle e lo scosse con forza. «L'ho deciso io.» Jakov guardò gli altri ragazzi: si stavano sorridendo a vicenda. E pensò: Loro ne sono contenti. Perché sono io l'unico ad avere dubbi? La donna prese la mano di Jakov. «Li accompagno alla macchina. Intanto Grigorij può concludere l'accordo.» «Zio?» chiamò Jakov. Miša, però, si era già girato e stava guardando fuori della finestra. Nadja sospinse i quattro ragazzi sul pianerottolo e giù per le scale. Bisognava scendere tre rampe prima di arrivare in strada. Il fragore prodotto da tutte quelle scarpe, da quella rumorosa energia giovanile, parve riecheggiare pesantemente nella tromba delle scale. Erano quasi a pianterreno quando Aleksej si fermò di colpo. «Aspettate! Dimenticavo Shu-Shu!» gridò e, in lacrime, si lanciò su per le scale. «Torna indietro!» lo richiamò Nadja. «Non puoi tornare lassù!» «Devo prenderlo!» urlò Aleksej. «Torna indietro subito!» Aleksej continuò a salire, martellando con i piedi i gradini. La donna stava per lanciarsi dietro di lui quando Pëtr disse: «Non se ne andrà senza Shu-Shu». «Chi diavolo è Shu-Shu?» scattò lei. «Il suo cane di pezza. È sempre stato con lui.» La donna guardò verso il quarto piano e, in quell'attimo, Jakov scorse nei suoi occhi qualcosa che lo sconcertò. Apprensione. Nadja indugiò, quasi fosse incerta se inseguire Aleksej o abbandonarlo. Quando il ragazzo scese di corsa le scale con il cencioso Shu-Shu stretto tra le braccia, la donna trasse un sospiro di sollievo. «L'ho preso!» esultò Aleksej, abbracciando l'animale di pezza. «Adesso andiamo», disse Nadja, spingendoli fuori. I quattro ragazzi si ammassarono sul sedile posteriore dell'auto. Stavano stretti, e Jakov dovette sedersi quasi in grembo a Pëtr. «Non puoi sistemare da un'altra parte il tuo culo ossuto?» brontolò Pëtr. «Dove vuoi che lo metta? Sulla tua faccia?»
Pëtr lo spinse via. Jakov fece resistenza. «Smettetela!» ordinò la donna dal sedile anteriore. «Comportatevi bene.» «Ma qui dietro non c'è abbastanza posto», si lagnò Pëtr. «Stringetevi. E state zitti!» La donna lanciò un'occhiata all'edificio, verso il quarto piano. Verso l'appartamento di Miša. «Che cosa stiamo aspettando?» chiese Aleksej. «Grigorij. Sta firmando le carte.» «Quanto ci mette?» La donna sprofondò nel sedile e guardò fisso davanti a sé. «Non ci vorrà molto.» Per un pelo, pensò Grigorij, mentre Aleksej lasciava per la seconda volta l'appartamento, sbattendosi la porta alle spalle. Se il piccolo bastardo fosse comparso un istante dopo, sarebbe stato un bel guaio. Che cosa stava combinando quella stupida di Nadja? Perché aveva permesso al moccioso di tornare su? Fin dall'inizio si era opposto all'idea di servirsi di Nadja. Ma Reuben aveva insistito: la gente non avrebbe diffidato di una donna. I passi del ragazzo svanirono nella tromba delle scale, un martellare sordo seguito dal tonfo del portone di casa. Grigorij si voltò verso il mezzano. Miša era ancora fermo davanti alla finestra; stava fissando la strada e l'auto in cui si trovavano i suoi quattro ragazzi. Premette una mano contro il vetro, le dita grassocce allargate in segno di saluto. Quando si voltò verso Grigorij, aveva gli occhi velati di lacrime. Ma le sue prime parole furono per il denaro. «È nella valigia?» «Sì», rispose Grigorij. «È tutto?» «Ventimila dollari americani. Cinquemila a bambino. È la cifra concordata.» «Sì.» Miša firmò e si passò una mano sulla faccia. Una faccia le cui rughe rivelavano chiaramente gli effetti di un consumo smodato di vodka e di sigarette. «Saranno adottati da famiglie perbene?» «Alla loro sistemazione penserà Nadja. Ama i bambini, lo sai. È per questo motivo che ha scelto di fare un simile lavoro.» Miša abbozzò un sorriso. «Magari potrebbe trovare anche a me una famiglia americana.» Grigorij doveva allontanarlo dalla finestra. Indicò la valigia, appoggiata
a un'estremità del tavolo. «Su, controlla, se vuoi.» Miša si avvicinò alla valigia e fece scattare la serratura. Dentro c'erano mazzi di banconote americane, legate ordinatamente assieme. Ventimila dollari, sufficienti per tutta la vodka di cui un individuo aveva bisogno per fottersi il fegato. Di questi tempi ci vuole davvero poco per comprare l'anima di un uomo, pensò Grigorij. Sulle strade della nuova Russia si poteva acquistare ogni cosa: una cassetta di agrumi d'Israele, un apparecchio televisivo di fabbricazione americana, il piacere di un corpo femminile. Le opportunità erano ovunque; bastava soltanto sapere dove cercarle. Miša rimase a guardare quel denaro, il suo denaro, ma nei suoi occhi non brillava una luce di trionfo. Si scorgeva un certo disgusto, piuttosto. Chiuse di scatto la valigia e rimase a testa china, le mani appoggiate al coperchio di plastica. Grigorij si portò alle spalle di Miša, dietro la sua testa quasi calva, sollevò velocemente la canna di un'automatica munita di silenziatore e piantò due pallottole nel cranio dell'uomo. Sangue e materia grigia schizzarono sulla parete di fronte. Miša piombò a faccia in giù sul tavolo, facendolo traballare. La valigia cadde sul tappeto accanto a lui. Grigorij l'afferrò, sollevandola prima che il sangue arrivasse a lambirla. Su un lato c'erano brandelli di pelle umana. Andò nella stanza da bagno e tolse quei resti dalla superficie di plastica servendosi di un po' di carta igienica, che poi gettò nel gabinetto. Quando tornò nel locale dove giaceva Miša, sul pavimento si era già formata una pozza di sangue che stava cominciando a intridere un altro tappeto. Grigorij si guardò attorno per verificare di aver sistemato ogni cosa e di non essersi lasciato dietro qualche indizio. Fu tentato di portar via la bottiglia di vodka, ma decise di no. Avrebbe dovuto spiegare perché avesse con sé la preziosa bottiglia di Miša, e Grigorij non possedeva certo la pazienza necessaria per rispondere alle domande dei ragazzi. Quello era un compito che spettava a Nadja. Uscì dall'appartamento e scese le scale. Nadja e i ragazzi stavano aspettando in macchina. Quando Grigorij si sedette al volante, lei gli lanciò un'occhiata interrogativa. «Hai tutte le carte firmate?» chiese. «Sì. Tutte.» Nadja si lasciò andare all'indietro, con un sospiro di sollievo. Non ha davvero sangue freddo, pensò Grigorij, accendendo il motore. Checché ne
dicesse Reuben, quella donna rappresentava un pericolo. Dal sedile posteriore, arrivarono i rumori di una zuffa. Grigorij guardò nello specchietto e vide che i ragazzi si stavano spintonando... a eccezione di quello piccolo, Jakov, il quale fissava dritto davanti a sé. I loro sguardi s'incontrarono nello specchietto e Grigorij ebbe la strana impressione che gli occhi di quel bambino avessero un'espressione da adulto. Poi il ragazzo si girò e sferrò un pugno alla spalla del suo vicino. Di colpo, il sedile posteriore divenne un groviglio di corpi che si contorcevano e di arti che vorticavano. «State fermi!» gridò Nadja. «Non siete capaci di comportarvi bene? C'è molta strada da qui a Riga.» I ragazzi si calmarono. Per qualche istante, regnò il silenzio. Poi Grigorij vide nello specchietto retrovisore il ragazzino, quello con gli occhi da adulto, sferrare un colpo alla spalla del compagno che aveva accanto. Grigorij sorrise. Non c'è motivo di preoccuparsi, si disse. Dopotutto, sono soltanto bambini. 2. Era mezzanotte e Karen Terrio stava lottando per tenere gli occhi aperti, mettendocela tutta per non uscire di strada. Da due giorni ormai non faceva praticamente altro che guidare. Era partita subito dopo il funerale della zia Georgina e si era fermata unicamente per schiacciare un brevissimo sonnellino o per mandar giù un panino e un caffè. Fiumi di caffè. Delle esequie della zia non conservava che immagini confuse, vecchie di due giorni: gladioli già quasi appassiti, cugini di cui non ricordava il nome, tartine stantie. E condoglianze, un sacco di condoglianze. Adesso voleva soltanto arrivare a casa. Sapeva che avrebbe potuto fermarsi in una piazzuola per riposare un po'... ma era così vicina! A Boston ormai mancavano poco più di centocinquanta chilometri. All'ultima stazione di servizio aveva trangugiato altre tre tazze di caffè. A qualcosa erano servite, almeno in parte; le avevano dato quel tanto di energia da affrontare il tragitto tra Springfield e Sturbridge. L'effetto della caffeina, però, si stava esaurendo e, sebbene Karen fosse certa di essere sveglia, fin troppo spesso la testa le cadeva bruscamente in avanti e lei capiva di essersi addormentata, sia pure per un attimo. L'insegna di una stazione di servizio ammiccò dall'oscurità. Karen decise
di fermarsi. Entrata nel locale, ordinò un caffè e un muffin ai mirtilli e si sedette a un tavolino. A quell'ora di notte, nella tavola calda c'erano soltanto pochi clienti, e tutti con lo stesso aspetto pallido e stremato. I fantasmi dell'autostrada, pensò Karen. Le stesse anime stanche che sembravano infestare ogni autogrill. In quel luogo regnava uno strano silenzio; ognuno pensava soltanto a rimanere sveglio e a rimettersi in marcia. Al tavolino accanto sedevano una donna dall'aria esausta e due bambini piccoli, i quali masticavano biscotti in silenzio. Quei bimbi, così beneducati, così biondi, fecero venire in mente a Karen le sue figliole. L'indomani sarebbe stato il loro compleanno. Questa notte, mentre loro sono a letto, pensò Karen, si conclude l'ultimo giorno del loro dodicesimo anno. Un altro giorno che le allontana dalla fanciullezza. Quando vi sveglierete, sarò a casa. Riempì di caffè un'altra tazza, la chiuse con un coperchio di plastica e si avviò verso l'auto. Si sentiva più lucida. Poteva farcela. Due ore, ancora centosessanta chilometri, e avrebbe varcato la porta di casa. Accese il motore e uscì dal parcheggio. Centosessanta chilometri, rifletté. Sono soltanto centosessanta chilometri. Una trentina di chilometri più avanti, Vince Lawry e Chuck Servis, dopo aver parcheggiato la macchina dietro un piccolo supermarket che rimaneva aperto di notte, avevano finito di trincare le ultime sei lattine. Erano quattr'ore filate che bevevano, una piccola gara amichevole per vedere chi riusciva a trangugiare la maggior quantità di birra senza vomitarla subito dopo. Chuck era in vantaggio di una lattina. Avevano perso il conto di quante ne avessero bevute; l'avrebbero appurato la mattina seguente, sommando le lattine accatastate sul sedile posteriore. Sì, Chuck era indiscutibilmente in testa e se ne stava pure vantando, il che mandava Vince in bestia, perché Chuck riusciva meglio in ogni dannatissima cosa. E quella non era una gara onesta. Vince avrebbe potuto affrontare un altro giro, però la birra era finita, e intanto Chuck se ne stava lì con quell'odioso sorrisetto stampato in faccia, anche se sapeva perfettamente che non era un confronto leale. Vince spalancò la portiera dell'auto e scese dal posto di guida. «Dove vai?» gli chiese Chuck.
«A prenderne dell'altra.» «Non ce la fai a mandarne giù ancora.» «Fottiti», replicò Vince e, barcollando, si avviò verso la porta d'ingresso del supermarket. Chuck rise. «Non riesci nemmeno a camminare!» gli gridò dal finestrino. Stronzo, pensò Vince. Che cazzo, ci riusciva, e come. Ma sì, camminava benissimo. Avrebbe fatto un giro nel supermarket, comprando altri due cartoni da sei. Magari tre cartoni. Sì, avrebbe potuto berne anche tre, senza problemi. Aveva uno stomaco di ferro e, a parte il fatto che era costretto a pisciare in continuazione, la birra non gli faceva il minimo effetto. Mentre stava per varcare la porta, inciampò (Maledizione a 'sti gradini d'ingresso, bisognerebbe fargli causa per questo...), ma si rimise in piedi. Andò verso il frigorifero, lo aprì, prese tre confezioni da sei lattine e si diresse ondeggiando verso la cassa. Sbatté sul ripiano una banconota da venti dollari. L'addetto alla cassa fissò il denaro, quindi scosse la testa. «Non posso accettarlo», disse. «Che diavolo dici?» «Non è permesso vendere birra a chi ha già alzato troppo il gomito.» «Vuoi insinuare che sono sbronzo?» «Proprio così.» «Ehi, questi sono soldi, no? Non vuoi i miei fottuti soldi?» «Non voglio avere grane con la legge. Rimetti a posto la birra, figliolo, d'accordo? O, meglio ancora, perché non ti prendi una tazza di caffè o qualcosa da mangiare? Un hot-dog?» «Non voglio un merdoso hot-dog.» «Allora esci di qui, figliolo. Vattene.» Vince lanciò uno dei cartoni lungo il ripiano della cassa. La confezione piombò a terra con uno schianto ma, prima che un altro cartone prendesse il volo, il cassiere tirò fuori un fucile. Vince s'immobilizzò, fissandolo, con il braccio sospeso a metà del lancio. «Vattene, sparisci», gli intimò il cassiere. «Okay.» Vince indietreggiò di qualche passo, tenendo alzate le mani in segno di resa. «Okay, ho capito.» Mentre usciva dalla porta, inciampò di nuovo in quel dannato gradino. «Allora, dov'è?» chiese Chuck, quando Vince rimontò in macchina. «Non hanno più birra.»
«Non è possibile.» «Non ne hanno neanche un fottuto goccio, va bene?» Vince accese il motore e schiacciò l'acceleratore. Uscirono sgommando dal parcheggio. «Adesso dove andiamo?» domandò Chuck. «A cercare un altro supermarket.» Strizzò gli occhi, fissando l'oscurità. «Dov'è la rampa d'ingresso? Dev'essere qui da qualche parte.» «Dai, piantala. Se bevi un altro goccio, vomiti.» «Dov'è 'sta rampa del cazzo?» «Mi sembra che l'abbiamo già superata.» «No, eccola.» Vince sterzò a sinistra e i pneumatici stridettero sull'asfalto. «Ehi», esclamò Chuck. «Ehi, non mi pare...» «Mi sono rimasti venti fottuti dollari. Li accetteranno. Qualcuno li prenderà pure.» «Vince, stai andando nella direzione sbagliata!» «Che cosa?» Chuck urlò: «Stai andando contromano!» Vince scrollò la testa e cercò di mettere a fuoco la strada. Ma le luci erano troppo forti, lo colpivano dritto negli occhi. E sembravano diventare sempre più luminose. «Sterza a destra!» urlò Chuck. «È una macchina! Buttati a destra!» Vince sterzò a destra. Altrettanto fecero quei fari. Vince udì uno strillo, inconsueto, sinistro. Non era stato Chuck a lanciarlo, ma lui stesso. La dottoressa Abby DiMatteo era stanca, più di quanto lo fosse mai stata in vita sua. Era rimasta sveglia per trenta ore filate, a parte un sonnellino di dieci minuti nello studio dei medici in radiologia, e sapeva che la stanchezza era ben visibile. Mentre si lavava le mani nella toilette dell'unità chirurgica di terapia intensiva, si era data un'occhiata allo specchio: le borse sotto gli occhi scuri e i capelli in disordine, ridotti a una massa nera e ispida, l'avevano quasi spaventata. Erano già le dieci di mattina e lei non si era ancora fatta la doccia né lavata i denti. Per colazione aveva mangiato un uovo sodo e bevuto una tazza di caffè dolce, che le erano stati portati un'ora prima da una premurosa infermiera del reparto di chirurgia. Se tutto andava bene, avrebbe trovato il tempo per pranzare e, nella migliore delle ipotesi, sarebbe riuscita a lasciare l'ospedale alle cinque del pomeriggio per
essere a casa alle sei. In quel momento, però, rimanere seduta per qualche istante sarebbe stato un lusso senza pari. Invece il lunedì mattina, quando bisognava fare il giro delle visite, non ci si poteva sedere. E meno che mai se era presente il dottor Colin Wettig, direttore della Scuola di specialità in chirurgia del Bayside Hospital. Il dottor Wettig, generale dell'esercito in pensione, famoso per le sue domande pungenti e spietate, ispirava ad Abby una specie di timor panico, paura condivisa dagli altri specializzandi di quella divisione chirurgica. Erano undici, i medici che affollavano l'unità chirurgica di terapia intensiva, formando un semicerchio di camici bianchi e di divise da chirurgo verdi. Gli occhi di tutti erano fissi sul direttore della Scuola di specialità. Ognuno sapeva di poter incappare in qualche domanda insidiosa. Farsi sorprendere senza una valida risposta significava subire una lunga sfilza di umiliazioni personali. Il gruppo aveva già visitato quattro degenti reduci da operazioni, discutendo terapie e prognosi. In quel momento, era riunito attorno al letto 11. Un paziente nuovo, affidato ad Abby. Toccava a lei illustrare il caso. Pur avendo in mano la cartella clinica, non consultò i propri appunti. Presentò il caso a memoria, con lo sguardo fisso sul volto severo del Generale. «La paziente è una donna bianca di trentaquattro anni, ricoverata stamattina. Ha ricevuto i primi soccorsi sulla statale 90, dov'è rimasta vittima di uno scontro frontale. È stata intubata e stabilizzata sul posto, poi trasportata in elicottero fin qui. Al suo arrivo in accettazione, presentava segni di trauma multiplo. Ho riscontrato fratture tanto al cranio, multiple e depresse, quanto alla clavicola sinistra e all'omero, oltre a gravi lacerazioni facciali. Da quanto ho rilevato nell'esame obiettivo iniziale, è una donna di peso regolare e statura media. Non reagiva a nessuno stimolo, a parte una discutibile risposta in estensione degli arti...» «Discutibile?» obiettò il dottor Wettig. «Che cosa significa? Aveva o non aveva una risposta in estensione?» Abby sentì il cuore martellarle in petto. Accidenti, quell'uomo aveva già trovato qualcosa da ridire. Deglutì, poi spiegò: «Gli arti della paziente, se sottoposti a stimolazione dolorosa, a volte si estendevano e a volte no». «Come interpreta questo fenomeno? Quali sono le reazioni del paziente in coma, in base alla scala Glasgow?» «Be', poiché una risposta nulla ha come valore uno, mentre per quella estensiva il valore è due, direi che la paziente può essere valutata... uno e
mezzo.» Nel gruppetto degli specializzandi risuonarono alcune risatine imbarazzate. «Non è previsto il valore di uno e mezzo», disse il dottor Wettig. «Me ne rendo conto», ribatté Abby, «ma questa paziente non rientra nettamente nel...» «Continui con l'esposizione del caso», tagliò corto lui. Abby indugiò, guardando i volti che l'attorniavano. Aveva già commesso qualche grave errore? Non poteva esserne sicura. Inspirò profondamente e riprese: «Per quanto riguarda i segni vitali, la pressione sanguigna era novanta su sessanta e il polso a cento. La donna era già stata intubata, perché in arresto respiratorio. La respirazione è totalmente supportata dalla ventilazione meccanica con una frequenza di venticinque atti respiratori al minuto». «Perché è stata scelta una frequenza di venticinque?» «Per mantenere la paziente iperventilata.» «A quale scopo?» «Per abbassare il tasso di biossido di carbonio nel sangue e ridurre il rischio di edema cerebrale.» «Continui.» «L'esame del cranio, come ho detto, ha evidenziato fratture multiple e depresse delle ossa parietali e temporali sinistre. La gravità degli edemi e delle lacerazioni del volto rendeva difficile valutare le fratture delle ossa facciali. Le pupille erano midriatiche e areattive. Il naso e la gola...» «Riflessi oculocefalici?» «Non li ho esaminati.» «Non l'ha fatto?» «No, signore. Non volevo manipolare il collo. Temevo una possibile dislocazione vertebrale.» Dal lieve cenno di assenso che lui fece con la testa, Abby capì che Wettig aveva ritenuto accettabile quella risposta. Passò a descrivere l'esame fisico. I normali rumori respiratori, il battito cardiaco regolare, l'addome trattabile. Il dottor Wettig non la interruppe. Quando terminò di descrivere i segni neurologici riscontrati, si sentiva più rinfrancata. Aveva quasi voglia di congratularsi con se stessa. E perché non avrebbe dovuto? Sapeva di aver agito in maniera più che scrupolosa. «In conclusione, a quale diagnosi era giunta?» chiese il dottor Wettig. «Prima di vedere le radiografie, intendo.»
«Basandomi sulla midriasi delle pupille e sulla loro torpidità», rispose Abby, «ho ritenuto che la cosa più probabile fosse una compressione del mesencefalo. Causata da un ematoma sottodurale o epidurale acuto.» Fece una pausa, poi aggiunse con un tono in cui si avvertiva una certa sicurezza: «I risultati della tomografia computerizzata mi hanno dato ragione. Un esteso ematoma sottodurale nell'emisfero sinistro, con un grave dislocamento della linea mediana. Sono stati allertati i neurochirurghi, che hanno effettuato un drenaggio di emergenza del coagulo». «In altre parole, lei sta dicendo che la sua impressione iniziale era assolutamente corretta, è così, dottoressa DiMatteo?» Abby annuì. «Vediamo un po' com'è la situazione stamattina», annunciò il dottor Wettig, dirigendosi verso il letto. Con la sua lampadina esaminò gli occhi della paziente. «Le pupille sono areattive», osservò. Con una nocca premette con forza la cassa toracica. La donna rimase immobile, flaccida. «Nessuna risposta al dolore. Né reazione estensiva né altro.» Benché tutti gli specializzandi avessero fatto un passo avanti, Abby era rimasta ai piedi del letto, con lo sguardo fisso sulla testa bendata della paziente. Mentre Wettig proseguiva il suo esame, percuotendo i tendini con un martelletto di gomma, flettendo gomiti e ginocchia, Abby si accorse che un'ondata di fatica stava spazzando via la sua attenzione. Continuò a fissare la testa della paziente, che era stata rasata a zero. Aveva capelli castano scuro, ricordò, costellati di grumi di sangue e frammenti di vetro. Alcune schegge erano penetrate anche negli indumenti della donna. Nell'ambulatorio del Pronto soccorso, Abby aveva aiutato a sfilarle la camicia, che era di seta, azzurra e bianca, con l'etichetta Donna Karan. Non riusciva a togliersi di mente quell'ultimo particolare. Non pensava al sangue né alle ossa rotte né al volto sfregiato, ma a quella etichetta. Donna Karan. Anche lei una volta aveva comprato un indumento di quella stilista. Si disse che un certo giorno, chissà dove, la donna che giaceva lì era entrata in un negozio, aveva dato un'occhiata alle camicette, aveva udito lo stridio delle grucce che scorrevano sul bastone metallico dell'espositore... Il dottor Wettig si risollevò. «Quando è stato drenato l'ematoma?» chiese all'infermiera dell'unità chirurgica di terapia intensiva. «La paziente ha lasciato la sala operatoria verso le quattro.» «Sei ore fa?» «Sì, all'incirca.» Wettig si rivolse ad Abby. «Per quale motivo allora la paziente non è
migliorata?» Lei si riscosse dal suo stato ďintontimento e vide che tutti la stavano fissando. Abbassò lo sguardo sulla paziente. Osservò il torace alzarsi e ricadere, alzarsi e ricadere a ogni respiro dei polmoni artificiali. «Ci... può essere un edema post-operatorio», disse, lanciando un'occhiata al monitor. «La pressione intracranica è leggermente aumentata fino a venti millimetri.» «Secondo lei è abbastanza alta da causare l'areattività pupillare?» «No, ma...» «L'ha visitata subito dopo l'intervento chirurgico?» «No, signore. La paziente è stata presa in carico dal reparto di neurochirurgia. Ho parlato allo specializzando che ha seguito l'intervento e lui mi ha detto...» «Non mi interessa il parere dello specializzando in neurochirurgia; sto chiedendo il suo, dottoressa DiMatteo. Lei ha diagnosticato un ematoma sottodurale, che è stato drenato. Perché allora le pupille sono areattive e midriatiche benché siano passate sei ore dall'intervento?» Lei esitò. Il Generale la fissava e, come lui, tutti gli altri medici. Quell'umiliante silenzio era interrotto soltanto dal fruscio dell'apparecchio di ventilazione. Il dottor Wettig lanciò un'occhiata imperiosa al gruppo degli specializzandi che lo circondava. «C'è qualcuno tra voi che possa aiutare la dottoressa DiMatteo a rispondere a questa domanda?» Abby raddrizzò la schiena. «Posso rispondere da sola», esclamò. Il dottor Wettig si volse verso di lei, inarcando le sopracciglia. «Allora?» «La... midriasi fissa delle pupille... la rigidità degli arti... sono gravi segni di sofferenza cerebrale. Ieri sera ero convinta che la causa fosse un ematoma sottodurale che premeva sul mesencefalo, ma, poiché la paziente non è migliorata, io... suppongo che ciò stia a indicare che mi ero sbagliata.» «Lei suppone?» Lei si lasciò sfuggire un sospiro. «Mi ero sbagliata.» «Qual è la sua diagnosi attuale?» «Emorragia del mesencefalo. Potrebbe essere dovuta a un aumento della pressione o a danni residui dell'ematoma sottodurale. La tomografia computerizzata potrebbe non evidenziare ancora le modificazioni.» Il dottor Wettig la fissò per qualche istante, con un'espressione impenetrabile. Quindi si rivolse agli altri specializzandi. «Un'emorragia del me-
sencefalo è un'ipotesi ragionevole. Se l'abbiniamo a una scala Glasgow di tre...» Lanciò un'occhiata ad Abby, poi aggiunse, in tono quasi conciliante, «... e mezzo, la prognosi è infausta. La paziente non respira autonomamente, non ha movimenti spontanei e sembra aver perso i riflessi legati alla funzione cerebrale. Al momento, non posso suggerire altro che mantenerla in vita. E valutare la possibilità di un espianto di organi.» Fece ad Abby un brusco cenno con il capo. Poi si spostò al letto accanto. Uno degli specializzandi strinse un braccio di Abby. «Ehi, DiMatteo», sussurrò, «ce l'hai fatta.» Stancamente, lei annuì. «Grazie.» La dottoressa Vivian Chao, cui facevano capo gli specializzandi del corso di chirurgia, era stata protagonista di una vicenda che aveva dell'incredibile, almeno secondo i racconti degli altri medici del Bayside Hospital. Aveva infatti incominciato il periodo di rotazione nell'organico dell'ospedale da appena due giorni quando il suo collega aveva avuto un collasso nervoso ed era stato trasferito di forza, in preda a un pianto incontrollabile, nel reparto alienati. Così, a Vivian era toccato accollarsi tutto il lavoro. Per ventinove giorni di fila era stata l'unico medico ortopedico in servizio, ventiquattr'ore su ventiquattro. Si era praticamente trasferita nella stanza del medico di guardia ed era subito dimagrita di quasi tre chili, per via della dieta basata soltanto su ciò che offriva il bar dell'ospedale. Per ventinove giorni di fila non aveva messo il naso fuori della struttura ospedaliera. All'alba del trentesimo giorno, quando il suo periodo di rotazione in quel reparto era terminato, lei si era avviata verso la propria auto, soltanto per scoprire che era stata portata via già da una settimana. L'addetto al parcheggio si era convinto che fosse una vettura abbandonata. Quattro giorni dopo che Vivian aveva iniziato il nuovo periodo di rotazione, stavolta nel reparto di chirurgia vascolare, il suo nuovo collega era stato investito da un autobus e, avendo riportato la frattura del bacino, era stato ricoverato in clinica. Ancora una volta qualcuno doveva accollarsi tutto il lavoro. Vivian Chao si era di nuovo trasferita con armi e bagagli nella stanza del medico di guardia dell'ospedale. Agli occhi degli altri specializzandi, Vivian era così diventata una sorta di membro onorario della confraternita maschile, una posizione di prestigio che, in seguito, le sarebbe stata riconosciuta durante le annuali cene di
premiazione, dove veniva presentata come una che nascondeva sotto la gonna due palle d'acciaio. Ciononostante Abby, che ovviamente conosceva la sua storia, ebbe qualche difficoltà a conciliare quella fama di dura con l'aspetto esteriore di Vivian Chao, quando la incontrò: una cinese così piccola di statura che per operare aveva bisogno di uno sgabello, e per di più così laconica che non apriva quasi mai bocca durante il giro delle visite. Comunque era sempre in prima fila nel gruppo, con aria sicura e un'espressione di grande freddezza. Fu con la sua abituale aria distaccata che, quel pomeriggio, Vivian si avvicinò ad Abby nell'unità chirurgica di terapia intensiva. Abby ormai era sommersa da un mare di fatica: ogni passo era una lotta, ogni decisione un atto di pura volontà. Non si era neppure accorta che Vivian era al suo fianco finché l'altra donna non l'apostrofò: «Ho sentito dire che hai ricoverato una paziente AB positivo con trauma cranico». Abby sollevò lo sguardo da una cartella clinica su cui stava riportando alcuni dati. «Sì. La notte scorsa.» «La donna è ancora viva?» Abby lanciò un'occhiata alla camera asettica numero 11. «Dipende da che cosa intendi per vita.» «Cuore e polmoni in buono stato?» «Sono funzionanti.» «Quanti anni ha la donna?» «Trentaquattro. Perché?» «Ho in cura un paziente, ricoverato nel nostro istituto universitario. Scompenso cardiaco in fase terminale. Gruppo sanguigno AB positivo. Aspetta un cuore nuovo.» Vivian si avvicinò al cassetto delle cartelle cliniche. «Quale letto?» «Il numero 11.» Vivian estrasse dal contenitore la relativa cartella e sfilò la copertina di metallo. Mentre scorreva rapidamente le pagine, il suo volto non tradì la minima emozione. «Non è più una mia paziente», spiegò Abby. «È un caso di competenza dei neurochirurghi. Le hanno drenato un ematoma sottodurale.» Vivian continuò a leggere la cartella clinica. «Sono trascorse appena dieci ore dall'operazione», osservò Abby. «Mi sembra un po' presto per pensare a un espianto.» «Finora la situazione neurologica è rimasta immutata, a quanto vedo.»
«È vero, ma c'è una possibilità...» «Con tre di scala Glasgow? Non credo proprio.» Vivian rimise la cartella clinica nel cassetto e si avviò verso il letto 11. Abby la seguì. Si fermò sulla soglia della camera asettica a guardare Vivian che visitava la paziente con pochi gesti rapidi, con quel suo modo di fare che adottava abitualmente quando si trovava in sala operatoria: niente perdite di tempo e sforzi inutili. Durante il suo primo anno in quell'ospedale (l'anno della sua ammissione alla Scuola di specialità), Abby aveva spesso avuto modo di osservare Vivian al tavolo operatorio, ammirando la velocità di quelle piccole mani, osservando con stupore reverenziale quelle dita delicate intrecciare nodi perfetti. Al paragone, lei si sentiva inequivocabilmente goffa. Si era esercitata per ore sulle maniglie dei cassetti della sua scrivania, consumando metri e metri di filo per imparare a fare nodi chirurgici, ma, pur avendo acquisito ormai una certa abilità meccanica, sapeva che non avrebbe mai avuto le magiche mani della dottoressa Chao. Tuttavia, in quel momento, mentre guardava Vivian visitare Karen Terrio, l'efficienza di quelle mani le parve anche terribilmente agghiacciante. «Nessuna risposta a stimolazioni dolorose», osservò Vivian. «È ancora presto.» «Forse. E forse no.» Vivian estrasse dalla tasca del camice un martelletto per i riflessi e cominciò a battere sui tendini. «Il suo gruppo sanguigno è AB positivo?» «Sì.» «Un colpo di fortuna.» «Non capisco come tu possa dire una cosa del genere.» «Il mio paziente in attesa di trapianto è AB positivo, te l'ho detto. Aspetta un cuore nuovo da un anno. Non avrebbe potuto sperare in un'occasione migliore.» Abby scrutò Karen Terrio e le ritornò in mente la camicetta azzurra e bianca. Si chiese che cosa avesse pensato la donna quando se l'era abbottonata per l'ultima volta. Pensieri banali, forse. Sicuramente non di morte. Non si era certo immaginata un letto d'ospedale o le cannule dell'ossigeno oppure la macchina che le pompava aria nei polmoni. «Vorrei procedere al crossmatch, cioè al controllo linfocitario, per assicurarmi della compatibilità con il ricevente», continuò Vivian. «E potremmo anche verificare la tipizzazione tessutale per un eventuale trapianto degli altri organi. L'elettroencefalogramma è stato fatto, no?»
«Non sono più io a seguire il suo caso», ribatté Abby. «Comunque mi pare che tutto questo sia prematuro. Non è stato ancora accennato nulla del genere al marito.» «Qualcuno dovrà provvedere.» «Ci sono anche due figlie. Avranno bisogno di tempo per farsene una ragione.» «Gli organi non possono aspettare a lungo.» «Lo so. So bene che va fatto. Ma, come ti ho detto, sono trascorse soltanto dieci ore dall'operazione.» Vivian si avvicinò al lavandino e si sciacquò le mani. «Non ti aspetterai un miracolo, vero?» Un'infermiera dell'unità di terapia intensiva apparve sulla soglia della camera asettica. «Il marito è tornato assieme alle figlie. Aspettano di far visita alla paziente. Ne avete ancora per molto?» «Ho finito», rispose Vivian. Lanciò nel cestino la salvietta di carta stropicciata e uscì. «Posso farli entrare?» chiese l'infermiera ad Abby. Lei guardò Karen Terrio. E fu allora che vide, con dolorosa chiarezza, quale spettacolo si sarebbe parato davanti agli occhi delle ragazzine. «Aspetta», rispose. «Non ancora.» Si avvicinò al letto e rapidamente lisciò le lenzuola. Inumidì una salvietta di carta nel lavandino e fece sparire dalle guance della donna le chiazze di muco secco. Trasferì il sacchetto dell'orina dall'altra parte del letto, perché non fosse visibile. Infine indietreggiò, lanciando un'ultima occhiata a Karen Terrio. E si rese conto che né lei né chiunque altro avrebbe potuto alleviare il dolore che aspettava quelle ragazzine. Sospirò e fece un cenno con il capo all'infermiera. «Adesso possono entrare.» Alle quattro e mezzo di quel pomeriggio, Abby non riusciva quasi a concentrarsi su ciò che stava scrivendo. Le parole sembravano traballarle davanti agli occhi. Era in servizio da trentatré ore e mezzo. Il suo turno pomeridiano era terminato. Finalmente era giunto il momento di andare a casa. Tuttavia, mentre chiudeva l'ultima cartella clinica, si girò a guardare, per l'ennesima volta, la camera asettica numero 11. Vi entrò e indugiò ai piedi del letto, fissando Karen Terrio con occhi appannati. E sforzandosi di pensare che cosa, quale altra cosa, si potesse ancora tentare.
Non udì i passi che le si avvicinavano alle spalle. Soltanto quando sentì una voce dire: «Ciao, tesoro», si girò e vide il dottor Mark Hodell, con i suoi capelli castani e gli occhi azzurri, che le sorrideva. Era un sorriso che lui rivolgeva esclusivamente ad Abby, un sorriso di cui lei aveva tristemente sentito la mancanza per tutto il giorno. Di solito Abby e Mark riuscivano a consumare un rapido pasto assieme o, nella peggiore delle ipotesi, a scambiarsi un saluto, incrociandosi nei corridoi. Quel giorno però non si erano visti neppure di sfuggita e, nel trovarselo di fronte, lei avvertì un fremito di gioia. Mark si chinò a baciarla, poi, indietreggiando, osservò la capigliatura in disordine e la divisa verde da chirurgo tutta spiegazzata. «Dev'essere stata una brutta notte», mormorò con aria comprensiva. «Quanto sei riuscita a dormire?» «Non lo so. Mezz'ora.» «Ho sentito che stamattina hai resistito validamente al Generale.» Abby si strinse nelle spalle. «Diciamo che non ha fatto di me uno straccio da pavimenti.» «Il che equivale a un trionfo.» Lei sorrise, ma poi gli occhi tornarono a rivolgersi al letto 11 e il sorriso svanì. Karen Terrio spariva, fra tutti quei macchinari. L'apparecchio per la ventilazione, le flebo, i drenaggi e i monitor collegati all'elettrocardiografo e ai misuratori della pressione arteriosa e di quelle intracraniche. Un apparecchio per ogni funzione del corpo. In questa nuova era tecnologica, perché preoccuparsi di sentire il polso, di auscultare il torace? A che cosa servivano i medici se le macchine potevano fare tutto il lavoro? «L'ho ricoverata la notte scorsa», spiegò Abby. «Trentaquattro ore fa. Ha un marito e due figlie. Gemelle. Sono appena stati qui, li ho visti. Ed è strano, Mark, ma non hanno avuto il coraggio di toccarla. Stavano lì, immobili, a guardare. Si limitavano a fissarla, però non la toccavano. Continuavo a pensare: Dovete farlo. Dovete toccarla perché potrebbe essere la vostra ultima possibilità. Adesso o mai più. E invece niente. Credo che un giorno o l'altro finiranno per desiderare...» Scosse la testa e si passò rapidamente una mano sugli occhi. «Ho sentito dire che quell'altro stava guidando contromano, ubriaco fradicio. Sai che cosa mi manda in bestia, Mark, che cosa mi manda davvero su tutte le furie? È il fatto che quell'uomo sopravvivrà. In questo momento, se ne sta seduto al piano di sopra, nella divisione ortopedica, a piagnucolare per quattro fottute ossa rotte.» Inspirò di nuovo profondamente e, con il sospiro che seguì, la sua rabbia parve svanire. «Cristo, il mio compito sarebbe quello di salvare vite uma-
ne. E invece vorrei che i brandelli di quell'individuo fossero sparsi per l'autostrada.» Voltò le spalle al letto. «Dev'essere ora di andare a casa.» Mark le fece correre una mano lungo la schiena; un gesto di conforto e di possesso al contempo. «Andiamo», mormorò. «Ti accompagno fuori.» Lasciarono il reparto ed entrarono nell'ascensore. Mentre le porte si chiudevano, Abby si sentì vacillare e si appoggiò a lui. Mark l'accolse nel caldo e familiare cerchio delle sue braccia. Era un posto in cui lei si sentiva al sicuro, dove si era sempre sentita così. Un anno prima, Mark Hodell era tutt'altro che una presenza rassicurante. Lei lavorava come interna e Mark era un aiuto di chirurgia toracica (non un semplice aiuto, bensì una delle colonne portanti dell'équipe addetta ai trapianti cardiaci del Bayside Hospital). Si erano incontrati in sala operatoria per un intervento su un traumatizzato. Il paziente, un bambino di dieci anni, era stato portato lì da un'ambulanza; aveva una freccia piantata nel torace, risultato di una lite tra fratelli combinata con una pessima scelta dei regali di compleanno. Quando Abby era entrata in sala operatoria, Mark aveva già indosso la tenuta da chirurgo. Per lei, quella era la sua prima settimana da interna ed era nervosa, intimidita al pensiero di fare da assistente al famoso dottor Hodell. Si era avvicinata al tavolo operatorio e aveva rivolto un'occhiata timorosa all'uomo in piedi dall'altra parte. Sotto la mascherina da chirurgo aveva scorto un'alta fronte intelligente e un paio di splendidi occhi azzurri. Molto penetranti, inquisitori. Avevano operato assieme. Il bambino era sopravvissuto. Un mese più tardi, Mark aveva chiesto ad Abby di uscire con lui. Per due volte lei aveva rifiutato. Non perché non volesse andar fuori con lui, ma perché non riteneva di poterlo fare. Era trascorso un altro mese. Da parte di Mark era arrivato un nuovo invito. A quel punto, la tentazione si era fatta troppo forte. Lei aveva accettato. Da cinque mesi e mezzo Abby si era trasferita in casa di Mark, a Cambridge. Sulle prime non era stato facile imparare a convivere con uno scapolo di quarantun anni che, prima di allora, non aveva mai diviso la sua vita (o la sua casa) con una donna. In quel momento, però, sentendo Mark stringerla a sé, sorreggerla, non riusciva a immaginare di poter avere come compagno, o come amante, qualcun altro. «Povera piccola», le sussurrò, e Abby avvertì sui capelli il suo fiato caldo. «Sei a pezzi, vero?» «Non sono tagliata per questa vita. Ma che cosa sono convinta di fare?» «Semplicemente ciò che sognavi da sempre. Almeno così mi hai detto.»
«Non rammento nemmeno in che cosa consistesse quel sogno. Sta diventando via via più sfocato.» «Mi pare che avesse qualcosa a che vedere con il salvare vite umane.» «È vero. Ed eccomi qui ad augurare la morte all'ubriaco che guidava l'altra vettura.» Scosse il capo, disgustata di se stessa. «Ormai hai quasi superato il momento peggiore. Ti rimangono altri due giorni di lavoro nel reparto traumatologico. Devi sopravvivere soltanto ad altri due giorni.» «Come se fosse uno scherzo. Poi mi tocca la divisione toracica...» «Una cosa da niente, in confronto. Il reparto traumatizzati è sempre stato un incubo. Tieni duro, come hanno fatto gli altri.» Lei si rannicchiò tra le sue braccia. «Se passassi a psichiatria, avresti ancora un po' di considerazione per me?» «Assolutamente nessuna.» «Sei un disastro.» Ridendo, lui le scoccò un bacio sulla testa. «Sono in molti a pensarlo, ma tu sei l'unica cui sia permesso dirlo.» Una volta giunti al pianterreno, uscirono dall'ospedale. Era già autunno, eppure Boston stava cuocendo per il sesto giorno consecutivo a causa di un'ondata di caldo settembrino. Mentre attraversavano il parcheggio, Abby sentì svanire le sue ultime riserve di energia: riusciva a malapena a trascinare i piedi sull'asfalto. Ecco come ci riduciamo, pensò. Dobbiamo camminare sui carboni ardenti prima di diventare chirurghi. Quelle giornate interminabili, quelle violenze mentali ed emotive, quelle ore di continua tensione mentre interi brandelli di esistenza venivano strappati via. Ma capì che era semplicemente un processo di selezione, inesorabile e necessario. Mark era sopravvissuto; ce l'avrebbe fatta anche lei. Lui l'abbracciò un'altra volta, le diede un ultimo bacio. «Sei sicura di avere la forza di guidare fino a casa?» le chiese. «Inserirò il pilota automatico.» «Sarò a casa tra un'ora. Strada facendo, devo comprare una pizza?» Sbadigliando, Abby si mise al volante. «Non per me.» «Non vuoi cenare?» Lei accese il motore e sospirò. «Stasera, l'unica cosa che desidero è un letto.» 3.
Era notte allorché quel pensiero le si presentò, come il più soave dei sussurri o come il fruscio di ali fatate sul suo volto: Sto morendo. Quella consapevolezza non spaventò Nina Voss. Per settimane, mentre le tre infermiere private si avvicendavano attorno a lei e il dottor Morissey la visitava quotidianamente per somministrarle dosi sempre più massicce di Furosemide, Nina aveva mantenuto la propria serenità. E perché non avrebbe dovuto essere serena? La sua esistenza era stata ricca e fortunata. Aveva conosciuto amore, gioia, cose meravigliose. Nei suoi quarantasei anni di vita, aveva visto sorgere il sole sui templi di Karnak, aveva vagato al crepuscolo tra le rovine di Delfi, aveva scalato le montagne del Nepal. E aveva conosciuto la pace dell'anima che viene soltanto dall'accettazione del proprio posto nell'universo di Dio. Ripensando alla vita trascorsa, rimpiangeva soltanto due cose. La prima, di non aver mai avuto un figlio. La seconda, che Victor sarebbe rimasto solo. Per tutta la notte, il marito aveva vegliato al suo capezzale, le aveva tenuto la mano durante le lunghe ore di respirazione faticosa e di colpi di tosse, mentre le cambiavano le bombole di ossigeno o il dottor Morissey la visitava. Anche quando era assopita, Nina avvertiva la presenza di Victor. A volte, mentre già cominciava ad albeggiare, nella nebbia del sogno lei lo sentiva dire: È così giovane. Così giovane. Non si può tentare qualcos'altro, qualunque altra cosa? Qualcosa! Qualunque cosa! Questo era Victor. Non si rassegnava all'inevitabile. Nina invece sì. Aprì gli occhi e vide che la notte era finalmente passata: la luce del sole penetrava dalla finestra della camera da letto. Da quella finestra, si poteva ammirare a perdita d'occhio lo stretto di Rhode Island, a lei tanto caro. Nei giorni precedenti l'insorgere del suo male, prima che la cardiomiopatia la svuotasse di tutte le energie, l'alba sorprendeva Nina già sveglia e vestita. Usciva sul balcone della sua camera da letto e osservava il sorgere del sole. Anche le mattine in cui il braccio di mare era immerso nella nebbia, quando l'acqua pareva un tremolio argenteo nella bruma, Nina si alzava per sentire la terra ruotarle attorno, il giorno protendersi verso di lei. Come avveniva anche in quel momento. Quante albe ho visto. Ti ringrazio, Dio, per ognuna di esse. «Buongiorno, cara», sussurrò Victor. Nina mise a fuoco il volto del marito, chino su di lei e sorridente. Ad alcuni, Victor Voss sembrava l'immagine stessa dell'autorità; altri vedevano
in lui la personificazione del genio o della crudeltà. Eppure, quella mattina, nel guardare il marito, Nina scorse soltanto l'amore. E la stanchezza. Allungò una mano per prendere la sua. Il marito gliela strinse e se la portò alle labbra. «Dovresti dormire un po', Victor», gli disse Nina. «Non sono stanco.» «Ma io vedo che lo sei.» «No, affatto.» Le baciò di nuovo la mano e le sue labbra erano calde sulla pelle gelida di lei. Per un istante si fissarono. L'ossigeno sibilava piano nei tubi che le entravano nelle narici. Dalla finestra aperta giungeva il fragore delle onde dell'oceano che s'infrangevano sugli scogli. Nina chiuse gli occhi. «Ricordi quella volta...» La voce le venne meno nel tentativo di respirare. «Quale volta?» chiese lui dolcemente. «Il giorno in cui... mi ruppi la gamba...» Nina sorrise. Era stata la settimana in cui si erano conosciuti, a Gstaad. Qualche tempo dopo, lui le aveva rivelato di averla notata per la prima volta mentre scendeva lungo una pericolosa pista di sci, di averla inseguita giù per la montagna, di essere risalito in funivia e di aver fatto di nuovo la discesa. Questo era accaduto venticinque anni prima. Da quel momento erano rimasti assieme, ogni giorno della loro vita. «Lo capii allora», sussurrò Nina. «In quell'ospedale... quando tu stavi accanto al mio letto. Lo capii.» «Che cosa, mia cara?» «Che tu eri l'unico per me.» Aprì gli occhi e gli sorrise di nuovo. Soltanto allora vide una lacrima scendere lungo la guancia rugosa del marito. Oh, ma Victor non piangeva mai! Non l'aveva mai visto piangere, non una volta nei venticinque anni passati assieme. Nina aveva sempre pensato a Victor come a un uomo forte, coraggioso. Adesso però si rendeva conto di quanto si fosse sbagliata. «Victor», disse e strinse la propria mano su quella del marito. «Non devi affliggerti.» Con un gesto rapido, quasi rabbioso, lui si passò una mano sul viso. «Non lascerò che accada. Non ti perderò.» «Sarò sempre con te.» «No. Questo non mi basta! Voglio che tu sia qui in carne e ossa. Con me. Con me.» «Victor, se c'è una cosa... una cosa che so...» Inspirò profondamente, cercando l'aria. «È che questo tempo di cui disponiamo qui... è una ben
piccola parte... della nostra esistenza.» Lo sentì irrigidirsi, spazientito, lo vide ritrarsi. Victor si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra dove, immobile, fissò lo stretto. Nina sentì il calore della mano del marito abbandonare la sua pelle. Avvertì il gelo che tornava a impadronirsene. «Ci penserò io, Nina», disse lui. «Ci sono cose... in questa vita... che non possiamo cambiare.» «Mi sono già dato da fare.» «Ma, Victor...» Lui si girò e la fissò. Le sue spalle, incorniciate dalla finestra, parvero bloccare la luce dell'alba. «Provvederemo a tutto, cara», mormorò. «Non preoccuparti.» Era una di quelle serate calme e perfette; il sole stava tramontando, i cubetti di ghiaccio tintinnavano nei bicchieri, stuoli di signore profumate si aggiravano nei loro abiti di seta. Ad Abby, ferma in piedi nel ben protetto giardino del dottor Bill Archer, pareva che l'aria stessa avesse un che di magico. Clematidi e rose intrecciavano archi attorno a una pergola a graticcio, aiuole di fiori disegnavano larghe pennellate di colore sul vasto prato erboso. Quel giardino era la gioia e l'orgoglio di Marilee Archer, che, in quel momento, stava guidando le mogli dei medici da un'aiuola all'altra, pronunciando una serie di nomi botanici con la sua voce di contralto. Archer, fermo nel patio con un bicchiere di whisky and soda in mano, rise. «Marilee conosce più parole latine di me.» «Io ho studiato il latino al college per tre anni», disse Mark. «Tutto ciò che ricordo è quanto ho appreso alla Scuola di medicina.» Erano riuniti attorno al barbecue in muratura: Bill Archer, Mark, il Generale, due specializzandi in chirurgia e Abby, unica donna del gruppo. Ormai si era abituata a quella situazione. Talvolta le capitava di dimenticarsene per un istante, però le bastava guardarsi attorno, nella stanza in cui erano riuniti i chirurghi, e subito quella familiare sensazione di disagio s'impadroniva di lei: era circondata esclusivamente da uomini. Quella sera, al ricevimento in casa di Archer, c'erano, naturalmente, anche le mogli, ma queste sembravano muoversi in un universo parallelo, che soltanto di rado sconfinava in quello dei loro mariti. Alle orecchie di Abby, isolata nel gruppo dei chirurghi, arrivavano di tanto in tanto frammenti delle conversazioni femminili: parlavano di rose damascene, di viaggi a Parigi, di ricette. Lei si sentiva attratta da entrambe le parti, come
se fosse a cavalcioni della linea di demarcazione tra uomini e donne, senza appartenere né all'uno né all'altro universo, eppure richiamata da entrambi. Era Mark, a tenerla ancorata a quella cerchia di uomini. Bill Archer (un altro chirurgo toracico) e Mark lavoravano quasi sempre assieme. Era stato Archer, capo dell'équipe addetta ai trapianti di cuore, a richiedere, assieme ad altri medici, la presenza di Mark al Bayside Hospital, sette anni prima. Non era sorprendente che i due uomini s'intendessero così bene. Erano tutt'e due forti, atletici e notevolmente competitivi. In sala operatoria lavoravano in équipe, però, fuori dell'ospedale, la loro amichevole rivalità spaziava dalle piste di sci del Vermont alle acque della Massachusetts Bay. Entrambi tenevano le loro barche a vela ancorate nella marina di Marblehead; nelle competizioni veliche di quell'anno, la Red Eye di Archer stava battendo la Gimme Shelter di Mark per sei a cinque. Quel fine settimana, comunque, Mark era convinto di poter pareggiare i conti. Aveva già reclutato Pete Jaegly, uno specializzando del terzo anno, come componente della ciurma. Che cosa, si chiese Abby, creava un tale legame tra uomini e barche? Il loro era un discorso cifrato, altamente tecnologico, carburato a testosterone. In quel gruppo, la parte da protagonista era riservata a uomini dai capelli grigi: ad Archer, con la sua chioma spruzzata d'argento; a Colin Wettig, già molto brizzolato; e a Mark che, a quarantun anni, cominciava ad avere qualche filo bianco alle tempie. Quando la conversazione virò verso il mantenimento dello scafo, il disegno della chiglia e il vergognoso costo degli spinnaker, l'attenzione di Abby venne meno. Fu allora che notò i due ultimi arrivati: il dottor Aaron Levi e sua moglie Elaine. La timidezza di Aaron, il cardiologo dell'équipe dei trapianti, era quasi penosa. L'uomo si era già ritirato nell'angolo più estremo del prato e se ne stava lì, in silenzio, con un bicchiere in mano e le spalle curve. Elaine invece si guardava attorno, cercando qualcuno su cui riversare le proprie chiacchiere. Abby ne approfittò per mollare l'argomento velico. Si allontanò silenziosamente da Mark e raggiunse i Levi. «Mrs Levi? Che piacere rivederla.» Elaine le rivolse un sorriso. «Tu sei... Abby, vero?» «Sì, Abby DiMatteo. Ci siamo conosciute al picnic degli specializzandi, mi pare.» «Oh, sì, certo. Voi della Scuola di specialità ormai siete troppi, non riesco a tenervi a mente tutti. Però di te mi ricordo.»
Lei rise. «Visto che siamo soltanto tre donne nel reparto di chirurgia, attiriamo l'attenzione.» «È comunque molto meglio di qualche tempo fa, quando di donne non ce n'era neppure una. In quale reparto fai pratica, attualmente?» «Domani inizio chirurgia toracica.» «Allora lavorerai con Aaron.» «Se sarò tanto fortunata da assistere a un'operazione di trapianto.» «Ma certo. Ultimamente l'équipe ha avuto molto da fare. Arrivano pazienti persino dal Massachusetts General Hospital, cosa che lusinga molto Aaron.» Elaine si chinò verso Abby. «Alcuni anni fa, mio marito è stato invitato da loro a tenere un corso. Adesso mandano a lui i loro pazienti.» «L'unica cosa per cui il Mass Gen supera il Baysíde è la sua mistica harvardiana», replicò Abby. «Tu conosci Vivian Chao, vero? La nostra specializzanda più anziana.» «Naturalmente.» «Si è laureata in medicina a Harvard con i massimi voti. Però, quando si è trattato di scegliere dove fare la specialità, lei ha messo il Bayside in cima alla lista.» Elaine si rivolse al marito. «Aaron, hai sentito?» Con aria riluttante, l'uomo sollevò lo sguardo dal bicchiere. «Sentito che cosa?» «Vivian Chao ha preferito il Bayside al Mass Gen. Davvero, Aaron, un ospedale migliore di questo non lo potresti trovare. Perché andartene, allora?» «Andarsene?» La giovane si girò a guardare Aaron, ma il cardiologo stava fissando la moglie. Fu l'improvviso silenzio calato su di loro a stupire Abby. Dalla parte opposta del prato arrivavano risate e frammenti di conversazione; in quell'angolo del giardino, invece, nessuno parlava. Aaron si schiarì la gola. «È soltanto un'idea che mi è passata per la mente», spiegò. «Capita, a volte. Abbandonare la grande città, trasferirsi in un paesino. Tutti sognano di vivere in un piccolo centro, ma nessuno vuole farlo realmente.» «Per quanto mi riguarda, non lo sogno neppure», esclamò Elaine. «Io sono cresciuta in una cittadina», intervenne Abby. «A Belfast, nel Maine. Non vedevo l'ora di andarmene.» «È proprio così che me l'immagino», replicò Elaine. «Tutti che lottano con le unghie e con i denti per raggiungere la civiltà.» «Be', la situazione non era così tragica.»
«Tu comunque non torneresti mai indietro, vero?» Lei esitò. «I miei genitori sono morti ed entrambe le mie sorelle si sono trasferite in un altro Stato. Perciò non ho motivo per tornare, mentre ne ho parecchi per rimanere qui.» «Era soltanto un'idea come un'altra», borbottò Aaron e bevve una lunga sorsata. «In realtà, non c'era nulla di concreto.» Nello strano silenzio che seguì, Abby si sentì chiamare. Si girò e vide Mark che le faceva segno. «Scusate», disse e attraversò il prato per raggiungerlo. «Archer ci fa visitare il suo sancta sanctorum», le spiegò Mark. «Che cos'è?» «Vieni. Adesso vedrai.» La prese per mano e la condusse oltre la terrazza, in casa. Imboccarono le scale e salirono al piano di sopra. Prima di allora, Abby non aveva visitato mai quella parte della casa di Archer se si escludeva quella volta in cui aveva potuto ammirare i dipinti a olio esposti nella galleria. Quella sera sarebbe entrata per la prima volta nella stanza alla fine del corridoio. Archer era già lì ad aspettarli. In un cerchio di poltrone di pelle sedevano il dottor Frank Zwick e il dottor Rajiv Mohandas. Ma lei non si accorse quasi dei presenti. La sua attenzione era assorbita dall'ambiente circostante. Era una specie di museo di antichi strumenti medici. In alcune vetrine era esposta una gran quantità di oggetti che affascinavano e incutevano paura al contempo: bisturi e bacinelle per raccogliere il sangue, vasi da chirurgo, forcipi ostetrici con branche capaci di frantumare il cranio di un neonato. Sul caminetto, era appeso un dipinto che rappresentava la Morte e il Medico in lotta per la vita di una giovane donna. Dallo stereo, salivano le note di uno dei Concerti brandeburghesi. Archer abbassò il volume e, di colpo, quella vaghissima musica di sottofondo evidenziò il silenzio che regnava nella stanza. «Aaron non viene?» chiese Archer. «È stato informato. Starà arrivando», disse Mark. «Bene.» Archer sorrise ad Abby. «Che ne pensi della mia piccola collezione?» Abby fissò il contenuto di una vetrina. «È affascinante. Non saprei neppure dire che cosa siano alcuni di questi oggetti.» Archer indicò uno strano assieme d'ingranaggi e di pulegge. «Quest'ap-
parecchio è molto interessante. Serviva a produrre una debole corrente elettrica, che veniva applicata a varie parti del corpo. Si diceva che curasse qualunque male, dai disturbi femminili al diabete. Divertente, non ti pare? Proprio il tipo di sciocchezza in cui la scienza medica ci indurrebbe a credere.» Abby si fermò davanti al dipinto e osservò la figura nerovestita della Morte. Il Medico come eroe, come conquistatore... e, naturalmente, una donna come oggetto della contesa. Una bellissima donna. La porta si aprì. «Eccolo», esclamò Mark. «Ci stavamo chiedendo se te ne fossi dimenticato, Aaron.» Il dottor Levi entrò nella stanza e si limitò a un cenno di saluto con il capo mentre si sedeva in poltrona. «Posso versarti qualcosa da bere, Abby?» chiese Archer, indicando il suo bicchiere vuoto. «Va bene così.» «Che ne diresti di un goccio di brandy? Tanto al ritorno guida Mark, no?» Lei sorrise. «D'accordo. Grazie.» Archer le versò da bere e le riportò il bicchiere. La stanza era stranamente silenziosa, come se tutti stessero aspettando che le formalità venissero espletate. D'un tratto, Abby si rese conto che, in quella stanza, lei era l'unica specializzanda. Bill Archer organizzava periodicamente, a distanza di mesi, quel suo ricevimento, per dare il benvenuto ai nuovi arrivati nei reparti di chirurgia toracica e traumatologia. In quel momento, di sotto, in giardino, c'erano altri sei specializzandi in chirurgia, eppure lì, nel rifugio privato di Archer, c'era soltanto l'équipe dei trapianti. E lei, Abby. Si sedette sul divano accanto a Mark e sorseggiò il suo brandy. Sentiva già serpeggiare dentro di sé sia il calore prodotto dalla bevanda alcolica sia una sorta di tepore suscitato da una attenzione così speciale nei suoi riguardi. Da quando lavorava in ospedale, aveva sempre guardato quei cinque uomini con reverenza e timore, considerando un privilegio il semplice fatto di essere ammessa in sala operatoria accanto ad Archer e a Mohandas. Anche se la sua relazione con Mark l'aveva introdotta nella loro cerchia sociale, non aveva mai dimenticato chi fossero quegli uomini. Né che fossero loro a poter dettare legge sul futuro della sua carriera. Archer si accomodò di fronte a lei. «Ho sentito parlare molto bene di te,
Abby. Dal Generale. Stasera, prima di andarsene, ha avuto per te parole di elogio davvero straordinarie.» «Il dottor Wettig?» Abby non riuscì a trattenere un risolino divertito. «A dire la verità, non so mai che cosa pensi delle mie prestazioni.» «Be', è la tattica del Generale. Spargere un po' d'insicurezza nel mondo.» Gli altri risero, e lei si unì a loro. «Rispetto molto il parere di Colin», proseguì Archer. «E so che, a suo giudizio, tu sei uno dei migliori specializzandi del secondo anno. Avendo lavorato con te, ho potuto constatare di persona la fondatezza della sua approvazione.» Abby fu colta da un moto di nervosismo. Mark le prese una mano e gliela strinse. Il gesto non sfuggì ad Archer, che sorrise. «Mark ritiene che tu sia assolutamente speciale, è ovvio. Questo è uno dei motivi per cui abbiamo ritenuto giusto farti partecipare alla nostra riunione. Lo so, può sembrare un po' prematuro, ma noi programmiamo le cose per tempo. Riteniamo che non sia mai un errore esplorare il territorio in anticipo.» «Temo di non capire», sussurrò Abby. Archer prese la bottiglia del brandy e se ne versò un dito. «La nostra équipe di trapianti è interessata soltanto al meglio. Le migliori credenziali, le migliori prestazioni. Teniamo sempre d'occhio gli specializzandi per trovare elementi validi. Oh, siamo mossi da motivazioni egoistiche, certo. Addestriamo gente adatta alla nostra équipe.» Fece una pausa. «E ci stavamo chiedendo se a te poteva interessare la chirurgia dei trapianti.» Abby lanciò a Mark un'occhiata stupita. Lui annuì. «Non è una decisione che devi prendere all'istante», continuò Archer. «Tuttavia vogliamo che tu ci rifletta. Abbiamo davanti a noi ancora alcuni anni per conoscerci reciprocamente. Alla fine, potresti decidere che non vuoi rimanere in ospedale. Oppure accorgerti di non essere affatto interessata alla chirurgia dei trapianti.» «Ma a me piace...» Abby si chinò in avanti, il volto arrossato dall'entusiasmo. «Confesso che sono quanto mai... sorpresa da questa proposta. E lusingata. Nel nostro corso ci sono molti ottimi specializzandi. Vivian Chao, per esempio.» «Sì, Vivian è un buon elemento.» «E credo che aspiri a diventare di ruolo in ospedale, il prossimo anno.» Mohandas intervenne. «È fuori questione che la tecnica chirurgica della dottoressa Chao sia ottima. E conosco altri specializzandi tecnicamente ec-
cellenti. Ma conosci il detto? 'Si può insegnare a una scimmia a operare; il difficile è insegnarle quando operare.'» «Rajiv intende dire che stiamo cercando una persona dotata di un buon occhio clinico e che sia adatta a fare lavoro di squadra», chiarì Archer. «Tu ci sembri adatta, anche perché non hai mai manifestato particolari ambizioni personali. Se c'è una cosa su cui insistiamo, Abby, è il lavoro d'équipe. Quando stai sudando sette camicie in sala operatoria, possono capitare inconvenienti di ogni tipo, dai macchinari che vanno in tilt al bisturi che ti sfugge di mano o al cuore che non arriva. Dobbiamo essere solidali, che si scateni l'inferno o che le acque ci sommergano. E noi lo siamo.» «Ci aiutiamo anche a vicenda», aggiunse Frank Zwick. «Tanto in sala operatoria quanto fuori.» «Assolutamente», replicò Archer, poi rivolse un'occhiata al dottor Levi. «Non sei d'accordo?» Aaron si schiarì la gola. «Sì, una volta fuori ci diamo una mano l'un l'altro. È uno dei vantaggi che derivano dall'appartenere a questa équipe.» «Uno dei molti vantaggi», precisò Mohandas. Per qualche istante nessuno parlò. In sottofondo si udivano appena le note di Bach. Archer disse: «Amo molto questa parte», e alzò il volume. Mentre il suono dei violini si riversava dagli altoparlanti, Abby si trovò a fissare, ancora una volta, la Morte in lotta con il Medico. La battaglia per la vita di un paziente, per la sua anima. «Stavate dicendo che ci sono... altri vantaggi», disse poi. «Per esempio», spiegò Mohandas, «quando ho completato il mio corso di specialità in chirurgia avevo da pagare molti debiti contratti come studente. Cosa di cui si tenne conto al momento dell'assunzione. Il Bayside Hospital mi aiutò a saldare quei debiti.» «Questo è un argomento che possiamo affrontare, Abby», disse Archer. «Ci sono tanti modi per venire incontro a una persona. Al giorno d'oggi, i giovani chirurghi finiscono la specialità a trent'anni. Molti di loro sono già sposati, magari con un figlio o due. E che cosa possiedono? Centomila dollari di debiti. Non dispongono neppure di una casa di proprietà! Dovranno lavorare almeno dieci anni prima di riuscire a restituire quella somma. E allora saranno già sulla quarantina, e dovranno preoccuparsi di mandare i figli al college!» Scosse la testa. «Non so perché attualmente ci sia ancora qualcuno che sceglie di studiare medicina. Certo non per far soldi.» «Indubbiamente è una vita dura», osservò Abby. «Non dovrebbe essere così. Ecco dove il Bayside può venire in aiuto.
Mark ci ha detto che, per frequentare la Scuola di medicina, hai dovuto ricorrere ad alcuni prestiti.» «In parte ho usufruito di borse di studio, in parte ho chiesto prestiti. Soprattutto prestiti, lo ammetto.» «Oh. Che peccato.» Lei annuì con aria triste. «Comincio ad avvertirne il peso.» «Hai dovuto chiedere un prestito anche per entrare al college?» «Sì. La mia famiglia aveva... problemi finanziari», ammise. «Sembra quasi che te ne vergogni.» «È stato qualcosa di più della semplice... sfortuna. Mio fratello, più giovane di me, è rimasto ricoverato in ospedale per un certo numero di mesi e non eravamo assicurati. Certo, a quei tempi, nella città in cui sono cresciuta, erano molte le persone non assicurate.» «Il che ci fa capire quanto duramente ti sei impegnata per superare le avversità. Tutti qui sanno che cosa significa. Rajiv è immigrato negli Stati Uniti e, fino all'età di dieci anni, non sapeva neppure una parola d'inglese. Quanto a me, sono stato il primo nella mia famiglia ad andare al college. Credimi, in questa stanza non ci sono bostoniani d'alto rango. Nessuno di noi ha avuto un papà ricco o una piccola fondazione alle spalle. Sappiamo come affrontare le avversità perché l'abbiamo fatto. Questo è il genere di forza che cerchiamo per la nostra équipe.» Il concerto era terminato. Gli ultimi accordi svanirono. Archer spense lo stereo e guardò Abby. «In ogni caso, pensaci», disse. «La nostra non è un'offerta definitiva, naturalmente. Piuttosto, è come se stessimo parlando di un... ehm...» Archer rivolse un sorrisetto a Mark. «Di un primo appuntamento.» «Capisco», ribatté Abby. «Devi sapere una cosa. Sei l'unico specializzando da noi contattato. L'unico che abbiamo preso realmente in considerazione. Sarà più saggio non far parola di questo con gli altri studenti del tuo corso. Non vogliamo che insorgano gelosie.» «Non ne parlerò con nessuno.» «Bene.» Archer si guardò attorno nella stanza. «Ritengo che siamo tutti d'accordo. È così, signori?» Annuirono tutti. «C'è il consenso generale», esclamò Archer. Poi, sorridendo, afferrò ancora una volta la bottiglia del brandy. «Questo è ciò che intendo, quando parlo di squadra.»
«Allora, che ne pensi?» chiese Mark, mentre tornavano a casa. Abby buttò indietro la testa e gridò, quasi in preda a un delirio: «Sono al settimo cielo! Dio mio, che serata!» «Sei contenta, eh?» «Stai scherzando? Sono atterrita.» «Atterrita? Perché?» «Perché potrei andare in tilt, mandare tutto all'aria.» Mark rise e le strinse un ginocchio. «Ehi, noi abbiamo lavorato con gli altri specializzandi, non ricordi? Sappiamo come reclutare i migliori.» «Ma quanto ha pesato la tua influenza, dottor Hodell?» «Oh, non ho insistito più di tanto. E, guarda caso, gli altri si sono trovati perfettamente d'accordo con me.» «Davvero?» «È la pura verità. Credimi, sei il numero uno sulla nostra lista. E sono convinto che pure tu ti renderai conto che è un lavoro fantastico.» Abby, sprofondata nel sedile, sorrideva. Costruiva castelli in aria. Fino a quella sera aveva avuto soltanto una confusa idea di ciò che avrebbe fatto di lì a tre anni e mezzo. Con ogni probabilità sarebbe finita a sfacchinare in qualche reparto chirurgico ospedaliero. La pratica privata aveva i giorni contati: lei, se non altro, non vedeva futuro in quel campo, almeno non a Boston. E Boston era la città in cui lei voleva vivere. Perché lì stava Mark. «Ci tengo moltissimo», disse. «Spero soltanto di non deludervi.» «La nostra équipe sa ciò che vuole. Siamo tutti solidali a questo proposito.» Abby rimase per qualche secondo in silenzio. «Anche Aaron Levi?» chiese infine. «Aaron? Perché non dovrebbe?» «Non so. Stasera ho chiacchierato un po' con sua moglie, Elaine. Ho l'impressione che Aaron non sia molto felice. Sapevi che stava meditando di andarsene?» «Che cosa?» Mark le lanciò un'occhiata sorpresa. «Ha accennato alla possibilità di trasferirsi in un piccolo centro.» Mark rise. «Non succederà mai. Elaine è una bostoniana fatta e finita.» «Non si tratta di Elaine. Era Aaron che ci stava pensando.» Per un po' Mark guidò in silenzio. «Devi aver frainteso», esclamò infine. Abby si strinse nelle spalle. «Può darsi.»
«Faccia luce, per favore», disse Abby. Un'infermiera si affrettò a sistemare la lampada centrale in modo da puntare il fascio di luce sul torace della paziente. Il campo operatorio era già segnato sulla pelle: due minuscole x tracciate con inchiostro nero e collegate da una linea che correva all'altezza della quinta costa. Era un torace piccolo, di una donna minuta. Mary Allen, ottantaquattro anni, vedova, era stata ricoverata al Bayside una settimana prima a causa di un forte dimagrimento e d'insopportabili emicranie. La radiografia del torace aveva dato un esito allarmante: noduli multipli in entrambi i polmoni. Per sei giorni, la donna era stata sottoposta a esami, tomografie e radiografie; le avevano infilato nella trachea un broncoscopio e piantato aghi nella parete toracica; eppure la diagnosi rimaneva incerta. Quel giorno avrebbero avuto la risposta definitiva. Il dottor Wettig sollevò il bisturi, poi appoggiò la punta della lama sul campo operatorio. Abby attese che incidesse, ma il chirurgo non incominciava. Invece la fissò da sopra la mascherina, con i suoi occhi di un azzurro metallico. «A quante biopsie a cielo aperto del polmone ha assistito, DiMatteo?» chiese. «A cinque, mi pare.» «Conosce bene la storia clinica di questa paziente? Ha esaminato minuziosamente le radiografie del torace?» «Sì, signore.» Wettig le porse il bisturi. «Operi lei, dottoressa.» Abby, sorpresa, fissò il bisturi che scintillava nella mano del chirurgo. Era raro che il Generale lo cedesse ad altri, fossero anche gli specializzandi più qualificati. Lo prese e avvertì il peso dell'acciaio inossidabile nel suo pugno. Con mano ferma, praticò l'incisione, tenendo tesa la pelle mentre tracciava una linea lungo il margine superiore della costa. La paziente era magra, quasi scheletrica; il tessuto adiposo era così ridotto da non mettere in ombra i punti di repere. Un'altra incisione, un po' più profonda, divise i muscoli intercostali. Ormai era nella cavità pleurica. Inserì un dito nell'incisione e riuscì a sentire la superficie del polmone. Morbido, spugnoso. «Tutto bene?» chiese all'anestesista. «Nella norma.»
«Allora divaricare», ordinò Abby. Le coste furono divaricate, allargando la zona messa a luce. L'apparecchio per la ventilazione pompò un altro soffio d'aria e una piccola porzione di tessuto polmonare fece capolino dall'incisione. Abby l'afferrò con le pinze mentre era ancora gonfia d'aria. Lanciò un'altra occhiata all'anestesista. «Tutto bene?» «Nessun problema.» Si concentrò sul segmento esposto di tessuto polmonare. Le bastò un istante per localizzare uno dei noduli. Vi fece scorrere sopra le dita. «Sembra molto duro», disse. «Brutto segno.» «Niente di sorprendente», replicò Wettig. «Dall'esame ai raggi X ci era sembrata un soggetto da chemioterapia. Dobbiamo soltanto verificare il tipo di cellula.» «L'emicrania? Metastasi al cervello?» Wettig annuì. «Una forma tumorale molto aggressiva. Otto mesi fa la radiografia del torace era risultata normale. Adesso l'organismo è invaso da cellule tumorali.» «La paziente ha ottantaquattro anni», intervenne una delle infermiere. «Se non altro, ha vissuto a lungo.» Ma che genere di vita? si chiese Abby mentre escideva il lembo di polmone contenente il nodulo. Il giorno prima, aveva incontrato Mary Allen per la prima volta. La donna se ne stava seduta, silenziosa e immobile, nella sua stanza d'ospedale. Le tende erano tirate, il letto era in penombra. Per via del mal di testa, aveva spiegato Mary. La luce del sole mi dà fastidio agli occhi. Soltanto quando dormo il dolore sparisce. I dolori, perché sono tanti e diversi... La prego, dottoressa, non potrei avere un sonnifero più forte? Completò la resezione e suturò la zona del polmone interessata. Wettig non fece commenti. Si limitava a osservare il suo lavoro, con l'abituale sguardo gelido. Quel silenzio, però, era già di per sé un complimento; Abby aveva imparato da tempo che il semplice sfuggire alle critiche del Generale era un trionfo. Alla fine, suturato il torace e applicato il tubo di drenaggio, Abby si sfilò i guanti insanguinati e li gettò nel contenitore con la scritta: MATERIALE NON PIÙ STERILE. «Adesso viene la parte peggiore», disse, mentre le infermiere spingevano fuori della sala operatoria il lettino su cui giaceva la paziente. «Comunicarle la cattiva notizia.»
«Lo sa», replicò Wettig. «È sempre così.» Seguirono il fruscio delle ruote del lettino fin nella stanza di rianimazione. Quattro pazienti, appena reduci da interventi chirurgici e più o meno coscienti, occupavano i letti circondati da tende. Mary Allen, nell'ultimo posto, stava cominciando a dar segni di vita. Mosse un piede, gemette, cercò di liberare una mano dall'imbracatura. Con lo stetoscopio, Abby le auscultò rapidamente il torace, poi ordinò: «Somministratele cinque milligrammi di morfina, per endovenosa». L'infermiera iniettò in vena una dose di solfato di morfina, sufficiente a lenire il dolore, permettendo al contempo un calmo ritorno alla coscienza. I gemiti di Mary cessarono. Sul monitor, il tracciato cardiaco si manteneva normale e regolare. «Quali prescrizioni per il decorso post-operatorio, dottor Wettig?» chiese l'infermiera. Ci fu un attimo di silenzio. Abby lanciò uno sguardo al Generale, che disse: «La paziente viene seguita dalla dottoressa DiMatteo». Poi uscì dalla stanza. Le infermiere si scambiarono un'occhiata. Dopo un intervento chirurgico, Wettig metteva sempre per iscritto le sue disposizioni. Quella era un'altra dimostrazione di fiducia nei confronti di Abby. Quest'ultima posò sul tavolo la cartella clinica e cominciò a scrivere: Trasferire la paziente nel padiglione Cinque Est, reparto di chirurgia toracica. Diagnosi: reduce da una biopsia dei polmoni a cielo aperto per noduli polmonari multipli. Condizioni: stabili. Diligentemente prescrisse dieta, farmaci da somministrare, medicazioni. Verificò il numero di codice. Poi si fermò. Dalla scrivania, fissò Mary Allen, distesa sul lettino, immobile. Pensò a che cosa significasse essere una persona di ottantaquattro anni gravemente malata di cancro e con pochi giorni da vivere, tutti contrassegnati da un carico di dolore. Scrisse: «Nessun accanimento terapeutico», quindi chiuse la cartella. «Dottoressa DiMatteo?» La voce proveniva dall'interfono. «Sì?» rispose Abby. «Circa dieci minuti fa l'hanno cercata dal Quattro Est. Desiderano che lei vada lì.» «Il reparto di neurochirurgia? Non hanno specificato il motivo?» «Qualcosa a proposito di una paziente, una certa Terrio. Vorrebbero che lei parlasse al marito.»
«Karen Terrio non è più una mia paziente.» «Dovevo soltanto comunicarle il messaggio, dottoressa.» «Certo, grazie.» Sospirando, si alzò e si avvicinò al lettino di Mary Allen per un ultimo controllo al monitor cardiaco, per una verifica dei segni vitali. Il polso era un po' troppo veloce e la paziente si agitava, gemeva di nuovo. Il dolore tornava a farsi sentire. Abby guardò l'infermiera. «Altri due milligrammi di morfina», disse. Il tracciato sul monitor dell'elettrocardiografo aveva un andamento ritmico e regolare. «Il suo cuore è così forte», mormorò Joe Terrio. «Non vuole arrendersi. È Karen che non vuole cedere.» Sedeva al capezzale della moglie, serrando le mani di lei tra le proprie, lo sguardo fisso su quella linea verde che altalenava sull'oscilloscopio. Sembrava sconcertato dall'armamentario presente nella stanza: i tubi, i monitor, il drenaggio. Sconcertato e Impaurito. Focalizzava la sua attenzione sul monitor dell'elettrocardiografo, quasi pensasse che, se mai fosse riuscito a padroneggiare i segreti di quella scatola misteriosa, sarebbe stato in grado di dominare qualunque altra cosa. Avrebbe capito come e perché si fosse ritrovato seduto al capezzale della donna che amava, la donna il cui cuore rifiutava di cessare di battere. Erano le tre del pomeriggio, sessantun ore dopo che un guidatore ubriaco si era schiantato contro la vettura di Karen Terrio. Lei aveva trentaquattro anni, era HIV negativa, non era affetta da tumore, non presentava infezioni di sorta. Però il suo cervello non dava segni di vita. In altre parole, era un supermarket vivente di organi sani da espiantare. Cuore e polmoni, reni, pancreas, fegato, midollo spinale, cornee, cute. Grazie a un unico, agghiacciante raccolto, una mezza dozzina di vite umane poteva essere salvata o restituita a una condizione migliore. Prese uno sgabello e si sedette di fronte a Joe. Lei era l'unico medico che avesse passato un po' di tempo con quell'uomo, perciò era lei che le infermiere avevano chiamato perché gli comunicasse quanto rimaneva da dire. Perché lo convincesse a firmare le carte, permettendo così a sua moglie di morire definitivamente. Per qualche istante, Abby non parlò. Il corpo di Karen Terrio era disteso tra loro, il torace che si alzava e si abbassava a un ritmo preordinato di venti respiri al minuto. «Lei ha ragione, Joe», mormorò infine Abby. «Il cuore è forte, può con-
tinuare a battere per molto tempo. Ma non per sempre. Alla fine l'organismo si rende conto, capisce.» Joe la fissò, gli occhi rossi per il pianto e la mancanza di sonno. «Capisce?» «Che il cervello è morto. Che il cuore non ha più motivi di continuare a battere.» «Come fa il corpo a rendersene conto?» «Abbiamo bisogno del cervello. Non soltanto per pensare e per provare sensazioni, ma anche per dare uno scopo al resto del nostro organismo. Quando questo scopo non c'è più, il cuore, i polmoni, tutto comincia a cedere.» Abby guardò il ventilatore artificiale. «È la macchina che respira per lei.» «Lo so.» Joe si sfregò le mani sul volto. «Lo so, lo so, lo so...» Lei rimase in silenzio. Joe si stava cullando avanti e indietro sulla sedia, con le mani nei capelli, ed emetteva leggeri grugniti e uggiolii; la manifestazione più simile al pianto che un uomo possa permettersi. Quando rialzò di nuovo la testa, alcune ciocche dei suoi capelli erano umide di lacrime. Rivolse di nuovo gli occhi al monitor. Era l'unica cosa in quella stanza che, apparentemente, riuscisse a guardare senza timore. «Sembra tutto così... prematuro.» «Non lo è. Il lasso di tempo è assai breve: poi gli organi cominciano a deteriorarsi. E saranno inutilizzabili. Allora nessuno ne trarrà giovamento, Joe.» La guardò, al di là del corpo della moglie. «Ha portato i documenti?» «Li ho con me.» Non guardò quasi le carte. Si limitò a firmarle in fondo alla pagina e le restituì ad Abby, che controfirmò quale testimone assieme a un'infermiera del reparto. Copie di quel documento sarebbero finite nella cartella clinica di Karen Terrio, alla New England Organ Bank e nell'archivio del coordinatore dei trapianti del Bayside Hospital. Quindi gli organi sarebbero stati espiantati. Molto tempo dopo le esequie di Karen Terrio, alcune sue parti avrebbero continuato a vivere. Il cuore che lei si era sentita battere nel petto quando, a cinque anni, giocava o quando, a venti, si era sposata o quando, a ventuno, aveva partorito avrebbe seguitato a pulsare nel torace di uno sconosciuto. Era come ottenere un qualcosa di simile all'immortalità. Quella consapevolezza, però, era un ben misero conforto per Joseph Terrio, che seguitava la sua veglia silenziosa al capezzale della moglie.
Abby trovò Vivian Chao intenta a cambiarsi d'abito nello spogliatoio adiacente alla sala operatoria. Vivian aveva appena terminato quattro ore d'interventi d'urgenza, eppure non una sola goccia di sudore macchiava gli indumenti sterili che si era tolta e che adesso giacevano sulla panca accanto a lei. «Abbiamo il consenso per l'espianto», disse Abby. «Le carte sono firmate?» chiese Vivian. «Sì.» «Bene. Richiedo subito il crossmatch linfocitario.» Vivian cercò una divisa da chirurgo pulita. Indossava soltanto mutandine e reggipetto e, sul fragile torace piatto, ogni costa era bene in evidenza. La virilità onoraria, pensò Abby, è uno stato d'animo, non una questione fisica. «Come sono i segni vitali?» chiese Vivian. «Ancora stabili.» «La pressione sanguigna deve essere mantenuta alta. E i reni irrorati. Non capita tutti i giorni di avere a disposizione un bel paio di reni del gruppo AB positivo.» Vivian s'infilò un paio di pantaloni da legare in vita e v'infilò dentro la camicia. Ogni suo movimento era preciso, elegante. «Eseguirai tu l'espianto?» chiese Abby. «Se il cuore è destinato al mio paziente, sì. L'espianto è l'operazione più semplice. La parte interessante viene quando si tratta di ricollegare i principali vasi sanguigni.» Vivian chiuse il suo armadio e fece scattare il lucchetto. «Hai un attimo di tempo? Vorrei presentarti a Josh.» «Chi è Josh?» «Il paziente che mi è stato affidato. È su, nell'unità medica di terapia intensiva.» Lasciarono lo spogliatoio e si avviarono lungo il corridoio, dirette all'ascensore. Vivian sopperiva alla lunghezza limitata delle sue gambe con un'andatura rapida, quasi rabbiosa. «Non si può giudicare il successo di un trapianto di cuore se non si è visto il paziente prima e dopo», disse. «Perciò voglio mostrarti il prima. Forse questo ti renderà le cose più facili.» «Che cosa intendi?» «La tua paziente ha il cuore, ma non ha più il cervello. Il mio ragazzo ha il cervello e praticamente non ha più il cuore.» Le porte dell'ascensore si aprirono. Vivian entrò. «Non appena riesci a lasciarti alle spalle la tragedia, tutto acquista senso.» Il tragitto in ascensore si svolse in silenzio.
Certo che ha senso, pensava Abby. Ha perfettamente senso. Vivian vede la situazione con molta chiarezza. Ma io non riesco a togliermi di mente quelle due ragazzine ferme accanto al letto della madre. Timorose di toccarla... Vivian le fece strada verso l'unità di terapia intensiva. Joshua O'Day era nel letto 4, assopito. «Dorme molto in questi giorni», sussurrò l'infermiera, una bionda dalle fattezze dolci. Il cartellino la identificava come HANNAH LOVE, INF. «C'è qualcosa di nuovo?» chiese Vivian. «Secondo me, è soltanto depresso.» Hannah scosse la testa e sospirò. «Gli ho fatto da infermiera per settimane. Fin da quando è stato ricoverato. È un ragazzo formidabile, sapete? Davvero simpatico. Una testa matta. Ma ultimamente non fa che dormire, oppure guardare i suoi trofei.» Fece un cenno con il capo verso un ripiano accanto al letto dove erano stati amorevolmente disposti svariati premi e riconoscimenti. Uno risaliva all'anno in cui il ragazzo aveva frequentato la terza: una menzione onorevole per un Cub Scout Pinewood Derby. Abby sapeva tutto su quelle gare organizzate dagli scout. Anche suo fratello era stato, come Joshua O'Day, un Lupetto. Si avvicinò al letto. Il ragazzo sembrava più giovane di quanto si fosse aspettata. Aveva diciassette anni, secondo la data di nascita segnata sul foglio stilato da Hannah Love, ma dall'aspetto pareva un quattordicenne. Il suo letto era circondato da una selva di tubi di plastica, dalle cannule delle flebo ai cateteri arteriosi e di Swan-Ganz. Questi ultimi servivano a monitorare la pressione nell'atrio destro e nell'arteria polmonare. Sullo schermo in alto, Abby lesse la pressione atriale destra. Era alta. Il cuore del ragazzo era troppo debole per pompare efficacemente e c'era una stasi venosa. Sarebbe giunta a quella stessa conclusione anche senza il monitor: le era bastato dare un'occhiata alle vene del collo del ragazzo. Erano turgide. «Hai davanti a te l'asso del baseball della Redding High School di due anni fa», spiegò Vivian. «Non conosco bene questo sport, quindi non so come giudicare il punteggio che ha ottenuto come battitore. Ma il padre di Josh ne sembra molto fiero.» «Oh, il suo papà ne è davvero orgoglioso», replicò Hannah. «L'altro giorno è venuto qui con una palla da baseball e il guantone. Quando hanno cominciato a giocare ho dovuto buttarlo fuori di peso.» Hannah scoppiò in una risata. «Il padre è matto come il figlio!» «Da quanto tempo è malato?» chiese Abby. «Da un anno non va più a scuola», rispose Vivian. «L'infezione virale si
è manifestata circa due anni fa. Virus Coxsackie B. Nel giro di sei mesi è sopravvenuto uno scompenso cardiaco congestizio. Josh si trova ormai da un mese nell'unità di terapia intensiva, in attesa di un cuore nuovo.» Vivian smise di parlare e sorrise. «Non è così, Josh?» Il ragazzo aveva aperto gli occhi, ma sembrava che stesse guardando attraverso strati di garza. Batté ripetutamente le palpebre, poi sorrise a Vivian. «Salve, dottoressa Chao.» «Vedo esposti altri trofei», commentò Vivian. «Oh, quelli.» Josh roteò gli occhi. «Non so dove mia madre li abbia pescati. Conserva ogni cosa, sa. Ha persino un sacchetto di plastica con i miei denti di latte. A me sembra una cosa da spostati.» «Josh, ti ho portato una persona che voleva vederti. Ti presento la dottoressa DiMatteo, uno dei nostri specializzandi in chirurgia.» «Ciao, Josh», disse Abby. Il ragazzo sembrò avere qualche difficoltà a rifocalizzare lo sguardo. Non disse nulla. «Ti dispiace se la dottoressa DiMatteo ti visita?» chiese Vivian. «Perché?» «Quando avrai il tuo cuore nuovo, sembrerai quello scalmanato di Road Runner che si vede in televisione. Non riusciremo a tenerti fermo abbastanza a lungo da visitarti.» Josh sorrise. «Lei ha sempre la risposta pronta.» Abby si avvicinò al letto. Josh si era già tirato su la giacca del pigiama, denudando il torace. Era bianco e privo di peli: non era il petto di un adolescente, ma di un bambino. Gli appoggiò una mano sul cuore e le parve di sentire un frenetico battito d'ali, come se un uccellino fosse imprigionato nella cassa toracica. Auscultò il battito cardiaco con lo stetoscopio, consapevole dello sguardo circospetto e diffidente del ragazzo, che non smetteva di fissarla. Aveva visto espressioni simili sul volto dei piccoli pazienti rimasti troppo a lungo nei reparti pediatrici, bambini che avevano imparato che ogni nuovo paio di mani porta un nuovo tipo di dolore. Quando infine si raddrizzò e si rimise in tasca lo stetoscopio, notò un'aria di sollievo diffondersi sul volto di Josh. «Tutto qui?» chiese il ragazzo. «Tutto qui.» Abby si lisciò il camice. «Allora, qual è la tua squadra preferita, Josh?» «Perché, c'è n'è più di una?» «Ah, ho capito. I Red Sox.»
«Mio padre mi ha ripreso con la videocamera le loro partite. Di solito, andavamo allo stadio assieme, mio padre e io. Quando tornerò a casa, me le vedrò tutte. Mi guarderò tutte quelle registrazioni. Tre giorni filati di baseball...» Inspirò profondamente l'aria ossigenata e fissò il soffitto. Poi, a voce bassa, disse: «Voglio andare a casa, dottoressa Chao». «Lo so», ribatté Vivian. «Voglio rivedere la mia stanza. Mi manca.» Deglutì, ma non riuscì a trattenere un singhiozzo. «Voglio vedere la mia stanza. Tutto qui. Voglio soltanto rivedere camera mia.» Hannah si precipitò verso di lui, lo prese tra le braccia e lo cullò. Josh lottava per non piangere, con i pugni serrati, il volto nascosto nei capelli dell'infermiera. «Va tutto bene», mormorò Hannah. «Piccolo mio, lasciati andare e piangi. Sono qui con te. Rimarrò qui, Josh. Finché avrai bisogno di me. Va bene così.» Da sopra la spalla del ragazzo, gli occhi di Hannah incontrarono quelli di Abby. Le lacrime sul volto dell'infermiera non erano di Josh, ma sue. In silenzio, Abby e Vivian lasciarono la stanza. Nel locale delle infermiere di quel reparto, Abby guardò Vivian che firmava la richiesta in doppia copia del crossmatch linfocitario tra il sangue di Josh O'Day e quello di Karen Terrio. «Tra quanto potrà entrare in sala operatoria?» chiese Abby. «Potremmo prepararci a eseguire l'intervento domani mattina. Quanto prima avverrà, tanto meglio. Soltanto nella giornata di ieri il ragazzo ha avuto tre episodi tachicardia. Con un ritmo cardiaco così instabile, non ha più molto tempo da vivere.» Vivian si girò a guardare in faccia Abby. «Vorrei davvero che quel ragazzo potesse assistere a un'altra partita dei Red Sox. E tu?» L'espressione di Vivian era calma e impenetrabile come sempre. Intimamente deve essere cedevole come la neve sciolta, pensò Abby, ma mai e poi mai farà trapelare la sua dolcezza. «Dottoressa Chao?» disse l'addetto al banco. «Sì?» «Ho appena telefonato all'unità chirurgica di terapia intensiva per quel crossmatch linfocitario. Mi hanno detto che lo stanno già eseguendo su Karen Terrio.» «Benissimo. Una volta tanto, il mio paziente ha avuto fortuna.» «Ma il crossmatch non è con Josh O'Day.» Vivian si girò a guardare l'impiegato. «Che cosa?»
«Secondo quanto mi è stato detto dall'unità di terapia intensiva, il paziente interessato è un altro. Una degente privata che si chiama Nina Voss.» «Ma Josh è in pericolo di vita! È il primo sulla lista d'attesa.» «A me hanno detto soltanto che il cuore sarà trapiantato a quell'altra paziente.» Vivian scattò in piedi. Con tre rapidi passi raggiunse il telefono e formò un numero. Un istante dopo, Abby la sentì dire: «Parla la dottoressa Chao. Vorrei sapere chi ha ordinato il crossmatch linfocitario su Karen Terrio». Vivian ascoltò in silenzio, poi riattaccò. «Hai appurato chi è stato?» chiese Abby. «Sì.» «E allora? Chi ha richiesto l'esame?» «Mark Hodell.» 4. Per quella sera, Abby e Mark avevano prenotato un tavolo al Mirabel, un ristorante di Cambridge situato in fondo alla strada in cui si trovava la loro casa. Sebbene con quella cena intendessero festeggiare il sesto mese di coabitazione, l'umore della coppia era tutt'altro che gioioso. «Voglio soltanto sapere», insistette Abby, «chi diavolo è Nina Voss.» «Te lo ripeto, non lo so», rispose Mark. «Possiamo lasciar cadere questo argomento?» «Il ragazzo è in una situazione critica. Dev'essere rianimato praticamente due volte al giorno. Da un anno è in lista d'attesa. Adesso che finalmente possiamo disporre di un cuore AB positivo, tu vuoi ignorare le precedenze? E regalare il cuore a qualche paziente privato che se ne sta ancora a casa sua?» «Noi non regaliamo niente a nessuno, chiaro? È stata una decisione clinica.» «Chi è stato a decidere?» «Aaron Levi. Mi ha telefonato oggi pomeriggio, informandomi che Nina Voss sarebbe stata ricoverata domani, e mi ha pregato di richiedere gli esami di laboratorio sulla donatrice.» «Ti ha detto soltanto questo?» «Praticamente, sì.» Mark prese la bottiglia di borgogna e si riempì il bicchiere, versando però alcune gocce sulla tovaglia. «Adesso possiamo cam-
biare argomento?» Lei lo guardò sorseggiare il vino. Lui non ricambiò lo sguardo; teneva gli occhi rivolti altrove. «Chi è questa paziente?» chiese Abby. «Quanti anni ha?» «Non ho voglia di parlarne.» «Toccherà a te eseguire l'intervento. Devi pur sapere quanti anni ha.» «Quarantasei.» «Viene da un altro Stato?» «È di Boston.» «Ho sentito dire che sarebbe arrivata in volo da Rhode Island. È un'informazione che mi è stata data dalle infermiere.» «Suo marito e lei vivono a Newport durante l'estate.» «Chi è suo marito?» «Un tale di nome Victor Voss. E di lui non so altro.» Abby rifletté. «Come ha fatto Voss a diventare tanto ricco?» «Ho forse parlato di soldi?» «Una casa per le vacanze a Newport? Non prendermi in giro, Mark.» Di nuovo lui evitò di guardarla, continuando a tenere gli occhi fissi sul suo bicchiere di vino. Tante volte, prima di allora, lei l'aveva osservato dall'altra parte di un tavolo, rivedendo tutto ciò che l'aveva affascinata fin dal primo momento: la sincerità dello sguardo, le rughe lasciate sul volto da quarantun anni di allegre risate, il sorriso pronto. Ma quella sera Mark distoglieva addirittura gli occhi. «Non mi ero resa conto che fosse così facile comprare un cuore», mormorò Abby. «Non trarre conclusioni affrettate.» «Due pazienti hanno bisogno di un cuore. Uno è un povero ragazzo ricoverato nell'istituto universitario e che non dispone di copertura assicurativa; l'altra possiede una casa per le vacanze a Newport. Chi ottiene il premio? La risposta è scontata.» Mark allungò di nuovo una mano verso la bottiglia di vino e si versò un altro bicchiere... il terzo. Per essere un uomo che si vantava della morigeratezza del proprio stile di vita, stava bevendo come un ubriacone. «Ascolta», disse, «io passo l'intera giornata in ospedale. L'ultima cosa che mi va di fare è parlarne. Perciò chiudiamo quest'argomento.» Rimasero entrambi in silenzio. Il tema del cuore di Karen Terrio era simile a una coperta che soffocava le scintille di ogni altra conversazione. Forse ci siamo già detti tutto quello che c'era da dire, pensò Abby. Forse
erano arrivati a quella triste fase di una relazione in cui la storia della propria vita è già stata raccontata ed è giunto il momento di trovare nuovo materiale di discussione. Siamo assieme soltanto da sei mesi e i silenzi sono già cominciati. «Quel ragazzo mi fa venire in mente Pete», mormorò lei. «Anche Pete era un tifoso dei Red Sox». «Chi?» «Mio fratello.» Mark tacque. Se ne stava seduto con le spalle curve, in preda a un evidente imbarazzo. Non era mai a suo agio quando si parlava di Pete. Ma, dopotutto, la morte non era un argomento gradito ai medici. Ogni giorno giochiamo a nascondino con questa parola, pensò Abby. Diciamo «è spirato» oppure «non può essere riportato in vita» o anche «è arrivato il momento supremo», ma soltanto raramente ci azzardiamo a dire: «è morto». «Andava matto per i Red Sox», riprese. «Aveva tutte le loro figurine. Risparmiava i soldi del pranzo per comprarle. E poi spendeva una fortuna per le custodie di plastica in cui conservarle. Una custodia da cinque centesimi per un pezzo di cartone che ne costava uno. Sì, lo so che un bambino di dieci anni non può che ragionare così...» Mark bevve un sorso di vino. Rimaneva chiuso nel suo disagio, barricato contro i tentativi di conversazione di Abby. La serata celebrativa fu un disastro. Finirono la cena in un silenzio quasi totale. Tornati a casa, Mark si ritirò dietro il solito mucchio di riviste mediche. Era così che reagiva quando tra loro sorgeva un disaccordo: abbandonando il campo. Dannazione, ad Abby non sarebbe dispiaciuta una bella, sana lite. Nella famiglia DiMatteo le tre cocciute sorelle e il piccolo Pete avevano resistito a una dose più che abbondante di conflitti adolescenziali e rivalità fraterne, ma il reciproco amore non era mai stato messo in forse. Oh, sì, lei poteva affrontare benissimo una discussione. Era il silenzio che non riusciva a sopportare. Frustrata, andò in cucina e si mise a sfregare il lavello. Sto diventando come mia madre, pensò, con un certo disgusto. Mi arrabbio e che cosa faccio? Pulisco la cucina. Deterse il piano dei fornelli, poi smontò i bruciatori e li strofinò accanitamente. Quella dannata cucina splendeva da cima a fondo quando Abby sentì finalmente Mark avviarsi per le scale verso la camera da letto.
Lo seguì. Giacevano l'una di fianco all'altro nel buio, senza toccarsi. Il silenzio di Mark aveva lasciato il segno su di lei, e Abby non riusciva a immaginare in che modo infrangerlo senza dare un'impressione di bisogno, di debolezza. Infine, però, non riuscì più a reggerlo. «Odio questo tuo modo di fare», esclamò. «Per favore, Abby, sono stanco.» «Anch'io. Lo siamo tutt'e due. A quanto pare, siamo sempre stanchi. Ma non posso addormentarmi così. E neppure tu.» «Va bene. Che cosa vuoi che ti dica?» «Qualunque cosa! Voglio soltanto che tu mi parli.» «Non vedo lo scopo di ripetere gli stessi discorsi fino alla noia.» «Ci sono argomenti di cui ho bisogno di parlare.» «Va bene. Ti ascolto.» «Sì, ma lo fai attraverso un muro. Mi pare di essere in un confessionale. Come se stessi parlando dietro una grata a un tizio che non riesco a vedere.» Sospirò e fissò il buio. Ebbe l'improvvisa e vertiginosa sensazione di fluttuare nell'aria, senza appigli. Senza legami. «Il ragazzo è ricoverato nell'unità di terapia intensiva», disse. «Ha soltanto diciassette anni.» Mark non fece commenti. «Mi ricorda tanto mio fratello. Pete era un po' più giovane, ma in lui ho ritrovato quel finto coraggio che possiedono i ragazzi, che aveva anche Pete.» «Non dipende soltanto da me», protestò Mark. «Ci sono coinvolti anche gli altri. L'intera équipe dei trapianti. Aaron Levi, Bill Archer, anche Jeremiah Parr.» «Che cosa c'entra il presidente dell'ospedale?» «Parr vuole che i nostri risultati statistici siano buoni. E, dalle ricerche, risulta che i pazienti che vengono da fuori hanno maggiori probabilità di sopravvivere a un trapianto.» «Senza un cuore nuovo, Josh O'Day non sopravvivrà affatto.» «Lo so che è una tragedia, ma è la vita.» Lei rimase immobile, sconvolta da quel tono indifferente. «Puoi indurii a cambiare idea», disse. «Puoi parlare loro...» «È troppo tardi. L'équipe ha deciso.» «Che cos'è questa équipe, dopotutto? Dio?» Cadde un lungo silenzio. Poi, a voce bassa, Mark disse: «Sta' attenta a ciò che dici, Abby».
«Alludi alla sacra squadra?» «L'altra sera, a casa di Archer, abbiamo parlato di cose serie. In seguito, Archer mi ha confermato che sei la migliore specializzanda con cui abbia avuto a che fare da tre anni a questa parte. Ma Bill è molto scrupoloso nei riguardi di chi recluta e non lo biasimo. Abbiamo bisogno di gente che collabori con noi, non che faccia ostruzionismo.» «Anche se io non fossi del vostro parere?» «È questo che significa far parte di una squadra, Abby. Tutti noi abbiamo le nostre idee, però le decisioni vengono prese collegialmente. E, una volta prese, le rispettiamo.» Allungò una mano a toccare quella di lei. Abby non la ritirò, ma non ricambiò la stretta. «Su», le bisbigliò Mark in tono affettuoso. «Ci sono medici specializzandi che ucciderebbero qualcuno pur di essere assunti nell'équipe dei trapianti del Bayside. Adesso questo posto viene offerto a te, potremmo dire su un piatto d'argento. È quello che vuoi, no?» «Certo che lo è. Lo desidero tanto da provare quasi un senso di paura. La cosa buffa è che non sapevo di volerlo, almeno fino a quando Archer non ha fatto balenare una simile ipotesi...» Inspirò profondamente, emise un lungo sospiro. «Odio questa mia continua aspirazione a qualcosa di più. Sempre di più. È come se dentro di me ci fosse una spinta inarrestabile. Dapprima a frequentare il college, poi la Scuola di medicina, poi a specializzarmi in chirurgia. E adesso questo posto. Mi ritrovo ben lontana da dove sono partita. Desideravo soltanto essere un medico...» «E non basta comunque. Non è così?» «No. Vorrei che bastasse, ma non è così.» «Allora non buttare tutto all'aria, Abby. Per favore. Fallo per noi.» «Da come lo dici, sembra che sia tu quello che ha qualcosa da perdere.» «Sono stato io a proporre il tuo nome. Ho detto loro che eri la scelta migliore che potessero fare.» Si girò a guardarla. «E ne sono ancora convinto.» Nel silenzio che seguì, soltanto le loro mani erano rimaste a contatto. Poi Mark le carezzò un fianco. Non era un vero abbraccio, ma voleva esserlo. Fu sufficiente. Abby lasciò che lui la stringesse tra le braccia. Lo squillo simultaneo di una mezza dozzina di cicalini fu seguito dal secco annuncio emesso dai vari altoparlanti dell'ospedale: «Codice blu, emergenza all'unità medica di terapia intensiva. Codice blu». Abby si lanciò verso le scale assieme agli altri specializzandi in chirur-
gia. Non appena ebbe raggiunto l'unità di terapia intensiva, questa pullulava già di personale medico. Le bastò un'occhiata per capire che era più che sufficiente per gestire quell'emergenza. La maggior parte degli specializzandi stava già cominciando a defluire. Anche lei avrebbe potuto andarsene. E l'avrebbe fatto, se non avesse visto che l'emergenza riguardava il letto 4. Il paziente Joshua O'Day. Si fece largo in un groviglio di camici bianchi e divise da chirurgo. In mezzo a tutti, giaceva Joshua O'Day, il suo fragile corpo esposto alla luce delle lampade che lo sovrastavano. Hannah Love stava praticando il massaggio cardiaco e i suoi capelli biondi frustavano l'aria a ogni compressione dello sterno. Un'altra infermiera rovistava freneticamente nei cassetti del carrello dei medicinali, estraendo fialette e siringhe e passandole ai medici presenti. Abby lanciò un'occhiata allo schermo del monitoraggio cardiaco. Fibrillazione ventricolare. Il tracciato di un cuore morente. «Un tubo endotracheale da sette e mezzo!» gridò una voce. Soltanto in quel momento Abby si accorse della presenza di Vivian Chao, curva sulla testa di Joshua. Vivian aveva già il laringoscopio pronto. L'infermiera accanto al carrello dei medicinali estrasse dall'involucro di plastica un tubo endotracheale e lo passò a Vivian. «Continuate a ventilarlo!» ordinò Vivian. L'anestesista, che teneva una maschera premuta contro la faccia di Josh, seguitò a schiacciare l'ambu, pompando manualmente aria nei polmoni del ragazzo. «Va bene», disse Vivian. «Intubiamo.» L'anestesista tolse la maschera. Bastarono pochi secondi perché Vivian inserisse il tubo in trachea e l'ossigeno venisse collegato. «La lidocaina è stata somministrata», annunciò un'infermiera. Lo specializzando in medicina d'urgenza diede un'occhiata al monitor. «Merda, è ancora in fibrillazione ventricolare. Ci vuole un'altra scarica elettrica. 200 joule.» Un'infermiera gli porse le placche metalliche del defibrillatore. Lui le appoggiò alla parete toracica. Il gel conduttore era già stato spalmato sul torace nelle zone indicate: una placca fu apposta accanto allo sterno, l'altra di lato al capezzolo. «Fatevi da parte.» La scossa elettrica percorse il corpo di Joshua O'Day, contraendo ogni muscolo in uno spasmo simultaneo. Il ragazzo emise un grido grottesco, poi ricadde, immobile.
Gli occhi di tutti corsero allo schermo dell'apparecchio di monitoraggio. «È ancora in fibrillazione ventricolare», disse qualcuno. «Bretilio, 250.» Automaticamente Hannah riprese a praticare il massaggio cardiaco. Era rossa in viso, sudata, sembrava inebetita dalla paura. «Posso continuare io», si offrì Abby. Con un cenno affermativo del capo, Hannah si fece da parte. Abby salì sullo sgabellino e posizionò le mani sul torace di Joshua, i palmi posati sul terzo inferiore dello sterno. Il petto del ragazzo appariva sottile e fragile, sembrava dovesse schiantarsi sotto una pressione troppo vigorosa, e lei ebbe quasi timore di comprimerlo. Cominciò a pompare. Era un compito che non richiedeva sforzi mentali. Soltanto quel movimento ripetitivo: comprimere, lasciar andare, comprimere, lasciar andare. Il ritmo alfa dell'intervallo cardiaco P-R. Abby partecipava all'attività frenetica che circondava Josh, eppure si sentiva distante; la sua mente era volta altrove, si astraeva. Non aveva la forza di guardare il viso del ragazzo, non ce l'aveva fatta a osservare Vivian mentre inseriva il tubo endotracheale. Riusciva soltanto a mettere a fuoco il torace, nel punto di contatto tra lo sterno di Josh e le proprie mani sovrapposte. Gli sterni sono anonimi. Quello poteva essere il torace di chiunque. Di un vecchio. Di un estraneo. Comprimere, rilasciare. Si concentrò. Comprimere, rilasciare. «Indietro tutti, di nuovo!» gridò qualcuno. Abby si scostò. Un'altra scossa dalle placche metalliche, un altro grottesco spasmo. Fibrillazione ventricolare. Il cuore segnalava che non poteva reggere. Abby incrociò le mani e le appoggiò di nuovo sullo sterno del ragazzo. Doveva rimanere calma, rilassarsi. Torna indietro, Joshua, gli stavano dicendo le sue mani. Torna da noi. Una nuova voce s'inserì in quel tumulto. «Proviamo a iniettargli in vena calciocloruro. Cento milligrammi», disse Aaron Levi. Era in piedi accanto alla pedana, lo sguardo fisso sul monitor. «Ma gli stiamo già somministrando digossina», esclamò lo specializzando in medicina d'urgenza. «Al punto in cui siamo, non abbiamo nulla da perdere.» Un'infermiera riempì una siringa e la porse al medico. «Cento milligrammi di calciocloruro.» La dose fu iniettata nella cannula dell'infusione endovenosa. Era come lanciare una moneta nel pozzo chimico dei desideri.
«Proviamo di nuovo con il defibrillatore», propose Aaron. «400 joule, stavolta.» «Tutti indietro.» Abby si ritrasse. Gli arti del ragazzo sussultarono, poi ricaddero, inerti. «Ancora», disse Aaron. Un'altra scarica. Il tracciato sul monitor schizzò in alto. Mentre tornava alla linea di base ci fu un singolo blip: il picco frastagliato di un complesso QRS. Ma subito il tracciato riprese l'andamento irregolare della fibrillazione ventricolare. «Un'altra volta!» disse Aaron. Le placche furono poste di nuovo sul torace. Il corpo si contrasse sotto la scarica da 400 joule. Poi si fece un improvviso silenzio, e gli occhi di tutti si volsero al monitor. Si verificò un complesso QRS. Poi un altro, e un altro ancora. «Siamo in bradicardia sinusale», osservò Aaron. «Sento una pulsazione!» gridò un'infermiera. «Ho avvertito un battito!» «Pressione sanguigna 70 su 40... È salita a 90 su 50...» Nella stanza si udì un sospiro collettivo. Ai piedi del letto Hannah Love stava piangendo senza ritegno. Bentornato, Josh, pensò Abby, con gli occhi appannati dalle lacrime. A uno a uno, i vari medici uscirono dalla stanza, ma lei non trovava la forza di andarsene, si sentiva troppo esausta per muoversi. In silenzio, aiutò le infermiere a raccogliere le siringhe e le fialette usate, i frammenti di vetro e di plastica che ogni codice blu si lasciava alle spalle. Accanto a lei, Hannah Love continuava a tirare su col naso mentre eliminava il gel degli elettrodi, strofinando amorevolmente un panno sul torace di Josh. Fu Vivian a rompere il silenzio. «A quest'ora, nel suo petto potrebbe battere un cuore nuovo», disse. Era ferma accanto al ripiano dov'erano esposti i trofei di Joshua. Prese in mano la decorazione che lui aveva ricevuto quando era un Lupetto. Pinewood Derby, classe terza. «Josh sarebbe potuto entrare in sala operatoria stamattina. Il trapianto poteva essere fatto alle dieci. Se lo perdiamo, la colpa è tua, Aaron.» Si girò a guardare Aaron Levi, che, intento a redigere la cartella clinica, rimase con la penna bloccata a mezz'aria. «Dottoressa Chao», replicò Aaron a bassa voce, «le dispiace se ne parliamo in privata sede?» «Non mi importa se qualcuno ci ascolta! La compatibilità era perfetta. Volevo Josh in sala operatoria stamattina. Ma tu non hai voluto prendere
una decisione. Non hai fatto altro che rimandare, temporeggiare. Al diavolo i rinvii!» Inspirò profondamente e abbassò lo sguardo sul trofeo che aveva in mano. «Non capisco che cosa diavolo abbiate in mente di fare, tutti voi.» «Finché non ti sarai calmata non intendo discutere con te», ribatté Aaron. Poi si girò e uscì. «E invece sì, che lo farai», sibilò Vivian, seguendolo fuori della stanza. Dalla porta aperta, Abby sentì Vivian inseguire Aaron lungo il reparto, tempestandolo furiosamente di domande e di richieste di spiegazione. Quindi si chinò e raccolse il trofeo del Pinewood Derby che Vivian aveva lasciato cadere. Era un nastro verde: non un primo premio, ma una semplice menzione onorevole per le ore trascorse a faticare su un piccolo pezzo di legno, a levigarlo, a dipingerlo, a lubrificarlo, a inserirvi piccoli piombini da pesca per farlo cadere più in fretta. Quella fatica doveva essere ricompensata. I bambini avevano bisogno di cementare il loro tenero amor proprio. Vivian rientrò nella stanza. Era pallida, silenziosa. Si fermò ai piedi del letto di Josh, fissando il ragazzo, osservando il suo torace alzarsi e abbassarsi a ogni soffio dell'apparecchio di ventilazione. «Lo faccio trasferire», annunciò. «Che cosa?» Abby la guardò, incredula. «Dove?» «Al Massachusetts General. Divisione trapianti. Preparate Josh per l'ambulanza. Nel frattempo, io telefono.» Le due infermiere non si mossero. Fissavano Vivian. «Non è in condizione di essere mosso», protestò Hannah. «Se rimane qui, lo perderemo», ribatté Vivian. «Lo perderemo. Volete lasciare che ciò accada?» Hannah abbassò lo sguardo sul fragile torace che si alzava e abbassava sotto il panno con cui lo stava ripulendo. «No», disse. «No. Voglio che viva.» «Ivan Tarasov è stato mio professore di medicina a Harvard», spiegò Vivian. «È il capo dell'équipe dei trapianti del Mass Gen. Se qui da noi non vogliono fare questo intervento, ci penserà Tarasov.» «Ma, sempre ammesso che Josh sopravviva al trasferimento», disse Abby, «ha pur sempre bisogno di un cuore.» «E noi glielo daremo.» Vivian fissò Abby dritto negli occhi. «Quello di Karen Terrio.» Fu allora che comprese ciò che doveva fare. Annuì. «Vado a parlare con
Joe Terrio.» «Deve essere messo tutto per iscritto. Assicurati che lui firmi.» «E per quanto concerne l'espianto? Non possiamo ricorrere all'équipe del Bayside.» «Di solito, Tarasov manda un suo aiuto a fare l'espianto. Noi lo assisteremo. E saremo noi a portargli il cuore. Non possiamo perdere altro tempo. Dobbiamo agire in fretta, prima che qualcuno di questo ospedale ci fermi.» «Aspetti», intervenne l'altra infermiera. «Lei non può autorizzare un trasferimento al Mass Gen.» «Sì, che posso», ribatté Vivian. «Josh O'Day è un degente dell'istituto universitario, il che significa che sono gli specializzandi dell'ultimo anno a decidere per lui. Mi assumo la piena responsabilità. Eseguite semplicemente le mie disposizioni e preparatelo per il trasporto in ambulanza.» «Va bene, dottoressa Chao», disse Hannah. «Anzi, io andrò con lui.» «Tanto meglio.» Vivian guardò Abby. «Forza, DiMatteo», esclamò, «va' a procurarci un cuore.» Novanta minuti più tardi, Abby si stava lavando e disinfettando per l'intervento. Dopo un ultimo accurato risciacquo, spinse con la schiena, tenendo le braccia sollevate e i gomiti piegati, la porta girevole per entrare nella sala operatoria numero 3. La donatrice era distesa sul tavolo, il corpo pallido esposto alla luce fluorescente. Un'infermiera anestesista stava cambiando i flaconi delle flebo. Quella paziente non aveva bisogno di essere anestetizzata: Karen Terrio non poteva sentire dolore. Vivian, già con la divisa e i guanti da chirurgo, era in piedi da un lato del tavolo operatorio. Dall'altro lato c'era il dottor Lim, un chirurgo nefrologo. Abby aveva lavorato con lui in precedenti occasioni. Era un uomo di poche parole, ben noto per il suo modo di procedere rapido e silenzioso. «L'autorizzazione è stata firmata e convalidata?» chiese Vivian. «In triplice copia. È nella cartella clinica.» Lei stessa aveva battuto a macchina il documento che specificava che il cuore di Karen Terrio, dopo l'espianto, sarebbe stato destinato a Josh O'Day, di anni diciassette. Era stata proprio l'età del ragazzo a far capitolare Joe Terrio. Seduto al capezzale della moglie, con una mano di lei tra le sue, aveva ascoltato in silenzio, mentre Abby gli parlava di un ragazzo di diciassette anni che amava il baseball. Poi, senza dire una parola, aveva firmato le carte. Quindi aveva dato alla moglie il suo bacio d'addio.
Abby fu aiutata a indossare un camice sterile e guanti da chirurgo misura sei e mezzo. «Chi esegue l'espianto?» chiese. «Il dottor Frobisher, dell'équipe di Tarasov. Ho lavorato con lui altre volte», spiegò Vivian. «Sta per arrivare.» «E per quanto riguarda Josh?» «Tarasov ha telefonato dieci minuti fa. Sono stati eseguiti gli esami per la tipizzazione tessutale e il crossmatch e c'è già una sala operatoria pronta. Sono lì in attesa.» Diede un'occhiata impaziente a Karen Terrio. «Cristo, potrei espiantare io il cuore. Che fine ha fatto quel Frobisher?» Aspettarono. Dieci minuti, un quarto d'ora. Risuonò l'interfono: era Tarasov che chiamava dal Mass Gen. L'espianto stava procedendo bene? «Non abbiamo ancora cominciato», rispose Vivian. «È questione di minuti.» L'interfono risuonò di nuovo. «Il dottor Frobisher è arrivato», annunciò l'infermiera. «Si sta lavando.» Cinque minuti dopo, la porta della sala operatoria si spalancò ed entrò Frobisher, con le enormi mani grondanti acqua. «Guanti del nove», chiese in tono brusco. Di colpo, l'atmosfera nella sala si fece tesa. Nessuno, a parte Vivian, aveva mai lavorato con Frobisher prima di allora e l'espressione altera del chirurgo non invogliava a far conversazione. Con silenziosa efficienza, le infermiere lo aiutarono a indossare il camice e a infilarsi i guanti. Frobisher si avvicinò al tavolo operatorio e, con occhio critico, valutò la situazione. «Sta di nuovo creando guai, dottoressa Chao?» domandò. «Come sempre», rispose Vivian, poi indicò gli altri medici attorno al tavolo. «Il dottor Lim si occuperà dell'espianto dei reni. La dottoressa DiMatteo e io faremo da assistenti, se ce ne sarà bisogno.» «Qual è la storia clinica di questa paziente?» «Trauma cranico. Morte cerebrale. Gli incartamenti per la donazione degli organi sono firmati. La donatrice ha trentaquattro anni, prima dell'incidente era in buona salute e gli esami del sangue sono già stati fatti.» Frobisher impugnò un bisturi e lo avvicinò al torace. «C'è altro che dovrei sapere?» «Nient'altro. La New England Organ Bank conferma che la compatibilità è perfetta. Si fidi di me.» «Odio sentirmelo dire», mormorò il chirurgo. «Va bene, diamo una rapida occhiata a questo cuore, per assicurarci che sia in buon ordine. Poi ci faremo da parte e lasceremo che operi per primo il dottor Lim.» Appoggiò
la lama del bisturi al torace di Karen Terrio. Con una rapida incisione, tagliò verso il basso, mettendo in luce l'osso dello sterno. «Sega sternale.» L'infermiera ferrista gli porse la sega elettrica. Abby reggeva il divaricatore. Mentre Frobisher segava lo sterno, lei non poté fare a meno di voltarsi. Era in preda a una leggera nausea, suscitata in lei dallo sfrigolio della lama e dall'odore di ossa polverizzate, cose che invece non parevano dar fastidio a Frobisher, le cui mani si muovevano con rapida abilità. In un baleno era già nella cavità toracica, il bisturi premuto sul sacco pericardico. Segare lo sterno era sembrato un atto di forza bruta. Adesso bisognava affrontare un compito molto più delicato. Frobisher incise la membrana. Non appena vide il cuore pulsante, emise un soffocato mormorio di soddisfazione. Lanciò un'occhiata a Vivian e chiese: «La sua opinione, dottoressa Chao?» In un silenzio quasi reverenziale, Vivian affondò le mani nella cavità toracica. Parve carezzare il cuore, strofinargli le pareti con le dita, seguire il corso delle arterie coronariche. Tra le sue mani, l'organo pulsava vigorosamente. «È perfetto», mormorò. Con gli occhi che le scintillavano, guardò Abby. «È proprio il cuore che ci vuole per Josh.» L'interfono squillò. La voce di un'infermiera disse: «Il dottor Tarasov è in linea». «Gli dica che il cuore sembra ottimo», replicò Frobisher. «Stiamo incominciando l'espianto dei reni.» «Vuole parlare a uno dei medici. Dice che è una cosa urgentissima.» Vivian lanciò un'occhiata ad Abby. «Molla qui e va' tu. Senti che cosa vuole.» Abby si sfilò i guanti sterili e andò a rispondere all'apparecchio a muro. «Pronto? Dottor Tarasov, sono Abby DiMatteo, uno dei medici specializzandi. Il cuore sembra in ottime condizioni. Saremo da lei tra un'ora e mezzo.» «Potrebbe essere troppo tardi», replicò Tarasov. All'altro capo del filo, lei udì un frastuono di fondo: un rapido accavallarsi di voci, il rumore di strumenti metallici. Lo stesso Tarasov sembrava teso, distratto. Abby sentì che si allontanava per parlare con qualcun altro, poi tornò al telefono. «Negli ultimi dieci minuti, abbiamo rischiato di perdere il ragazzo due volte. Lo abbiamo appena riportato in ritmo sinusale, ma non possiamo più aspettare. O lo colleghiamo subito alla macchina cuore-polmoni o lo perdiamo. Possiamo perderlo in qualsiasi caso.» Di nuovo si allontanò dal telefono, stavolta per ascoltare qualcuno. Quando tornò a parlare, fu soltanto
per dire: «Cominciamo l'intervento. Voi affrettatevi il più possibile, d'accordo?» Riagganciò e fece ritorno da Vivian. «Stanno per collegare Josh alla macchina cuore-polmoni», spiegò. «Si sono già verificate due emergenze. Hanno bisogno del cuore subito». «Mi ci vorrà un'ora per espiantare i reni», rifletté il dottor Lim. «Al diavolo i reni», scattò Vivian. «Occupiamoci subito del cuore.» «Ma...» «Ha ragione», intervenne Frobisher. Si rivolse alle infermiere e ordinò: «Soluzione fisiologica salina! Preparare il contenitore refrigerante. Ed è meglio che qualcuno chiami un'ambulanza per il trasporto». «Devo indossare un altro camice sterile?» chiese Abby. «No.» Vivian afferrò il divaricatore. «Ci metteremo pochi minuti. Abbiamo bisogno di te per la consegna.» «E i miei pazienti?» «Ti sostituirò io. Lascia il tuo cicalino sulla scrivania fuori della sala operatoria.» Un'infermiera cominciò a imbottire di ghiaccio un contenitore refrigerante e un'altra a portare dosi di soluzione fisiologica accanto al tavolo operatorio. Frobisher non ebbe bisogno d'impartire altri ordini; erano infermiere del reparto di cardiochirurgia e sapevano che cosa fare. Il bisturi di Frobisher si stava già muovendo rapidamente, dissezionando per liberare il cuore. L'organo stava ancora pulsando e, a ogni battito, pompava nelle arterie sangue ricco di ossigeno. Era ormai venuto il momento di fermarlo, di cancellare in Karen Terrio gli ultimi segni di vita. Frobisher iniettò nell'aorta 500 cc di una soluzione potassica. Il cuore batté una volta, due. Poi si fermò. Ormai era flaccido, i suoi muscoli paralizzati dall'improvvisa infusione di potassio. Abby non poté trattenersi dal guardare il monitor dell'elettrocardiografo. Non c'era più traccia di attività cardiaca. Karen Terrio era finalmente, e clinicamente, morta. Un'infermiera versò nella cavità toracica una dose della soluzione salina, che raffreddò rapidamente il cuore. Poi Frobisher si mise al lavoro, legando e recidendo. Pochi attimi dopo estrasse il cuore dal torace e lo pose cautamente in una bacinella. Il sangue formava strani ghirigori nella soluzione fredda. Un'infermiera si fece avanti tenendo aperta una sacca di plastica. Frobisher agitò un po' il cuore nel liquido, poi, dopo aver fatto scolare la soluzione fisiolo-
gica, lo depositò nella sacca, dove fu versata altra soluzione. Il cuore, avvolto in un secondo involucro, fu sistemato nel contenitore refrigerante. «È tutto suo, DiMatteo», esclamò Frobisher. «Corra all'ambulanza, io la seguirò in macchina.» Abby prese il contenitore. Stava già aprendo la porta della sala operatoria quando sentì dietro di sé la voce di Vivian. «Non farlo cadere.» 5. Sto tenendo tra le mani la vita di Josh O'Day, pensò Abby, mentre stringeva con forza il contenitore posato in grembo. Di fronte alle luci lampeggianti dell'ambulanza, il traffico di Boston, convulso come sempre a quell'ora di pranzo, si divideva quasi per magia, offrendo un varco. Prima di allora, lei non era mai montata su un'ambulanza. In altre circostanze si sarebbe goduta quella corsa, l'esilarante esperienza di vedere gli autisti di Boston (i più maleducati del mondo) tenere finalmente la destra. In quel momento, però, era troppo concentrata sul carico che reggeva in grembo, troppo consapevole che ogni secondo che passava era un altro secondo rubato alla vita di Josh O'Day. «C'è una vita là dentro, eh, dottoressa?» disse l'uomo (G. FURILLO, secondo la targhetta sull'uniforme) che era alla guida dell'ambulanza. «C'è un cuore», rispose Abby. «Uno splendido cuore.» «E a chi va?» «A un ragazzo di diciassette anni.» Furillo fece compiere all'ambulanza un'ardita manovra attorno a una fila di auto che si erano fermate, girando il volante con uno scatto delle braccia che aveva un che di aggraziato. «Ho portato di corsa qualche rene dall'aeroporto, ma devo confessarle che questo è il mio primo cuore.» «Anche il mio», ribatté Abby. «Rimane buono per... quanto, cinque ore?» «Più o meno.» Furillo le lanciò un'occhiata e sogghignò. «Si rilassi. La farò arrivare con quattro ore e mezzo d'anticipo.» «Non è il cuore a preoccuparmi. È il ragazzo. L'ultima volta che ho avuto sue notizie, la situazione era molto grave.» Furillo si concentrò con attenzione ancora maggiore sul traffico. «Ci siamo quasi. Tra cinque minuti saremo lì.»
Dalla radio arrivò una voce gracchiante. «Unità mobile ventitré, qui è Bayside. Unità ventitré, qui è Bayside.» Il guidatore sollevò il microfono. «Ventitré, Furillo.» «Ventitré, vi preghiamo di tornare al Bayside Hospital.» «Impossibile. Sto trasportando un organo al Mass Gen. Avete capito? Sono diretto al Mass Gen.» «Ventitré, c'è l'ordine per voi di tornare subito al Bayside.» «Bayside, cercate un'altra unità, okay? Abbiamo un organo vivo a bordo...» «Quest'ordine concerne specificatamente l'unità mobile ventitré. Tornate subito indietro.» «Chi lo ordina?» «Il dottor Aaron Levi in persona. Non procedete fino al Mass Gen. Capito?» Furillo lanciò un'occhiata ad Abby. «Che cavolo di storia è questa?» L'hanno scoperto, pensò lei. Oh, mio Dio, se ne sono accorti. E stanno cercando di fermarci... Guardò la scatola termica che conteneva il cuore di Karen Terrio. Pensò a tutti i mesi e anni di vita che un ragazzo diciassettenne poteva avere davanti a sé. «Non torni indietro. Vada avanti», mormorò. «Che cosa?» «Ho detto: vada avanti.» «Ma mi hanno ordinato...» «Unità ventitré, qui è Bayside», gracchiò la radio. «Per favore, rispondete.» «Mi porti al Mass Gen!» esclamò Abby. «Lo faccia.» Furillo fissò la radio. «Cristo», esclamò, «non so...» «Va bene, mi lasci scendere!» ordinò lei. «Farò il resto della strada a piedi!» La radio riprese: «Unità ventitré, qui è Bayside. Per favore, rispondete subito». «Oh, al diavolo!» Furillo spense la radio. Poi premette il piede sull'acceleratore. All'entrata delle ambulanze, un'infermiera in camice verde stava aspettando e, quando Abby scese, reggendo il contenitore, quasi l'aggredì: «Viene dal Bayside?» «Ho il cuore.»
«Mi segua.» Ebbe appena il tempo di fare un cenno di saluto a Furillo, poi, quasi a passo di corsa, seguì l'infermiera nel reparto di Pronto soccorso, dove intravide affollati corridoi e sale d'aspetto. Entrarono in un ascensore e l'infermiera inserì la chiave d'emergenza. «Come sta il ragazzo?» chiese Abby. «È collegato alla macchina cuore-polmoni. Non potevamo più aspettare.» «Ci sono state altre emergenze?» «È in emergenza continua.» L'infermiera guardò la borsa termica. «Lì dentro c'è la sua ultima chance.» Uscite dall'ascensore, superarono di gran carriera una serie di porte automatiche finché non arrivarono nell'ala chirurgica. «Eccoci. Dia a me il cuore», disse l'infermiera. Attraverso il vetro, Abby vide una dozzina di volti coperti dalle mascherine girarsi a guardare il contenitore che veniva passato attraverso la porta a una infermiera già pronta. La borsa termica fu subito aperta e il cuore sollevato dal suo letto di ghiaccio. «Se si mette un camice sterile, può entrare anche lei in sala operatoria», spiegò un'infermiera ad Abby. «Lo spogliatoio delle donne è in fondo al corridoio.» «Grazie. Vorrei proprio assistere.» Quando ebbe finito d'indossare una divisa verde e una cuffia da chirurgo e d'infilarsi le sovrascarpe, l'équipe in sala operatoria aveva già rimosso il cuore malato di Josh O'Day. Abby si fece avanti tra la folla d'infermiere e assistenti, ma si rese conto che non riusciva a vedere nulla. Però era in grado di sentire quanto si stavano dicendo i chirurghi. Era una conversazione rilassata, quasi divertita. Tutte le sale operatorie si somigliavano, lo stesso acciaio immacolato, gli stessi indumenti e teli blu-verdi e le stesse luci quasi abbaglianti. A cambiare era l'atmosfera che regnava tra quanti lavoravano nella sala, atmosfera che dipendeva dalla personalità del chirurgo più anziano. A giudicare dalla scioltezza della conversazione, doveva essere un piacere lavorare con Ivan Tarasov. Si portò a capo del tavolo operatorio, accanto all'anestesista. In alto, lo schermo del monitoraggio cardiaco mostrava una linea piatta. Nel torace di Josh non batteva il cuore; a tenerlo in vita era la macchina cuore-polmoni. Al ragazzo erano state tappate le palpebre per impedire alle cornee d'inari-
dirsi e i capelli erano stati raccolti sotto una cuffia di carta. Ma era sfuggita una ciocca nera, che gli si arricciava sopra la fronte. È ancora vivo, pensò. Puoi farcela, ragazzo. L'anestesista lanciò un'occhiata ad Abby. «Lei viene dal Bayside?» sussurrò. «Sono il corriere. Perché ci state mettendo tanto?» «Qualche problema. Ma ormai il peggio è passato. Tarasov è un fulmine. Sta già lavorando sull'aorta.» Indicò con la testa il capo dell'équipe chirurgica. Ivan Tarasov, con le sue sopracciglia bianche come la neve e lo sguardo dolce, sembrava il nonno che tutti desidererebbero avere. Quando chiedeva che gli si passasse un nuovo ago da sutura, o che si aspirasse di più, usava lo stesso tono gentile con cui qualcuno potrebbe chiedere, per favore, un'altra tazza di tè. Nessun esibizionismo, nessuna presunzione, soltanto un tranquillo tecnico intento al proprio lavoro. Abby sollevò di nuovo lo sguardo verso il monitor. Ancora una linea piatta. Ancora nessun segno di vita. In sala d'aspetto, i genitori di Josh O'Day stavano piangendo, singhiozzi mescolati a risa. Attorno a loro, volti sorridenti. Erano le sei del pomeriggio e quella prova del fuoco era giunta al termine. «Il nuovo cuore funziona proprio bene», annunciò il dottor Tarasov. «Anzi, ha cominciato a battere prima di quanto ci aspettassimo. È un ottimo cuore, forte. Basterà a Josh per una vita intera.» «Non ce l'aspettavamo», esclamò Mr O'Day. «Ci era stato detto soltanto che era stato trasferito qui. Che c'era una specie di emergenza. Credevamo... credevamo...» Si girò, abbracciò la moglie. Rimasero stretti, senza parlare. Non trovavano le parole. Un'infermiera chiese gentilmente: «Mr e Mrs O'Day? Se volete vedere Josh, sta per svegliarsi». Un sorridente Tarasov guardò gli O'Day avviarsi verso la rianimazione. Poi si girò, fissando Abby con i suoi occhi azzurri che scintillavano dietro le lenti dalla montatura metallica. «È questo il motivo per cui lo facciamo», mormorò. «Per momenti come questi.» «C'è mancato poco», ribatté lei. «L'abbiamo salvato per un soffio.» Scosse la testa. «E sto diventando troppo vecchio per reggere a simili stress.»
Si recarono nella saletta privata dei chirurghi, dove Tarasov versò una tazza di caffè a tutt'e due. Adesso che si era tolto la cuffia, con i grigi capelli in disordine, sembrava più un arruffato professore che un rinomato chirurgo toracico. Porse la tazza ad Abby. «Dica a Vivian di avvisarmi un po' prima, la prossima volta», sospirò. «Mi ha fatto una telefonata, e un attimo dopo mi trovo sulla porta questo ragazzo. Per poco non sono finito io in rianimazione.» «Vivian sapeva quello che faceva, quando le ha mandato il ragazzo.» Lui rise. «Vivian Chao sa sempre quello che fa. Era così anche quando studiava medicina.» «È una dei migliori specializzandi dell'ultimo anno.» «Lei frequenta il corso di specialità in chirurgia del Bayside?» Abby annuì e sorseggiò il caffè bollente. «Secondo anno.» «Bene. Non ci sono abbastanza donne in questo campo. Troppi bisturi in mani virili. E i maschi aspirano soltanto a tagliare.» «Sembrano parole poco consone a un chirurgo.» Tarasov lanciò un'occhiata agli altri medici riuniti accanto alla macchinetta del caffè. «Essere un po' blasfemi», sussurrò, «fa buon sangue.» Lei finì il caffè e guardò l'ora. «Devo tornare al Bayside. Forse non avrei dovuto trattenermi per l'intervento, ma sono felice di averlo fatto.» Sorrise a Tarasov. «Grazie, dottore. Per aver salvato la vita del ragazzo.» Lui le strinse una mano. «Io sono soltanto l'idraulico, dottoressa DiMatteo», ribatté. «È stata lei a procurare la parte vitale.» Erano le sette passate quando Abby scese dal taxi davanti all'ingresso del Bayside Hospital. Mentre varcava la porta, udì il suo nome che veniva chiamato dagli altoparlanti. Afferrò un telefono interno. «Qui è DiMatteo», disse. «Dottoressa, sono ore che la stiamo cercando», replicò l'operatore. «Vivian Chao avrebbe dovuto sostituirmi. Ha il mio cicalino.» «Il suo apparecchio è qui, al banco del centralino. Chi la sta cercando è Mr Parr.» «Jeremiah Parr?» «Lo trova all'interno cinque-sei-sei. Amministrazione.» «Sono le sette. È ancora in ufficio?» «C'era, cinque minuti fa.» Abby riagganciò, avvertendo una stretta allo stomaco. Jeremiah Parr, il presidente dell'ospedale, era un amministratore, non un medico. Lei gli aveva parlato soltanto una volta prima di allora, all'annuale picnic di benve-
nuto al nuovo personale ospedaliero. Si erano stretti la mano, avevano scambiato alcune frasi di cortesia, poi Parr si era allontanato per salutare gli altri specializzandi. Quel breve incontro aveva lasciato in Abby la vivida impressione di un uomo freddo e imperturbabile, che indossava abiti costosi. Ovviamente, dopo quel picnic, si erano incontrati altre volte. Si sorridevano e si facevano un cenno di saluto con il capo ogni volta che si trovavano nello stesso ascensore o s'incrociavano nei corridoi, ma lei dubitava che Parr ricordasse il suo nome. E adesso, alle sette di sera, la stava cercando. Brutto segno, pensò. Un gran brutto segno. Prese di nuovo il telefono e compose il numero dell'abitazione di Vivian. Prima di parlare con Parr doveva sapere che cosa stava succedendo. Vivian di certo ne era al corrente. Nessuno rispose. Abby riattaccò, e la sensazione di allarme si faceva più acuta che mai. È il momento di affrontare le conseguenze. Abbiamo preso una decisione, abbiamo salvato la vita di un ragazzo. Come possono farcene una colpa? Con il cuore che le martellava, salì con l'ascensore al primo piano. L'ala in cui si trovavano gli uffici amministrativi era illuminata soltanto debolmente da una singola fila di pannelli fluorescenti sul soffitto. S'incamminò sotto quella striscia di luce, i passi smorzati dalla moquette. Gli uffici da entrambi i lati erano al buio, alle scrivanie delle segretarie non c'era più nessuno. Però, in fondo al corridoio, la luce filtrava da sotto una porta chiusa. In sala riunioni c'era qualcuno. Si avvicinò alla porta e bussò. L'uscio fu spalancato da Jeremiah Parr che la guardò, con un'espressione impenetrabile sul volto in controluce. Dietro di lui, seduti attorno al grande tavolo, c'era una mezza dozzina di persone. Abby scorse Bill Archer, Mark, Mohandas. L'équipe dei trapianti. «Dottoressa DiMatteo», disse Parr. «Mi dispiace, non sapevo che lei mi stesse cercando», replicò Abby. «Ero fuori ospedale.» «Sappiamo perfettamente dove si trovava.» Parr uscì dalla stanza, seguito subito dopo da Mark, e i due uomini affrontarono Abby nel corridoio in penombra. Avevano lasciato la porta accostata, ma, sotto gli occhi di Abby, Archer si alzò dalla sedia e andò a chiuderla. «Venga nel mio ufficio», mormorò Parr. Una volta dentro tutt'e tre,
chiuse fragorosamente la porta ed esclamò: «Si rende conto del danno che ci ha procurato? Ne ha una minima idea?» Lei guardò Mark, però non lesse nulla sul suo viso. Fu quella la cosa che la spaventò di più: non poter vedere al di là della maschera, non scorgere l'uomo che amava. «Josh O'Day è vivo», protestò. «Il trapianto gli ha salvato la vita. Non riesco a capire che cosa ci sia di sbagliato.» «L'errore consiste nel modo in cui si è proceduto», ribatté Parr. «Eravamo accanto al suo letto, lo vedevamo morire. Un ragazzo così giovane non dovrebbe...» «Abby», intervenne Mark, «non stiamo mettendo in dubbio le tue motivazioni. Erano buone, certo, più che buone...» «Che cos'è questa idiozia delle motivazioni, Hodell?» scattò Parr. «Ci hanno rubato un cuore! Sapevano benissimo quello che stavano facendo e non si sono preoccupate di chi avrebbero coinvolto in questa storia! Infermiere, autisti di ambulanza. Persino il dottor Lim è stato tirato dentro!» «Si presuppone che lei debba eseguire gli ordini dello specializzando più anziano ed è ciò che ha fatto. Ha obbedito a un ordine.» «Dovranno essere presi seri provvedimenti. La semplice espulsione dello specializzando dell'ultimo anno non è sufficiente.» Espulsione? Vivian? Abby lanciò un'occhiata a Mark per averne conferma. «Vivian ha ammesso ogni cosa», spiegò Mark. «Ha dichiarato di aver costretto te e le infermiere a obbedirle.» «Non credo proprio che la dottoressa DiMatteo sia il tipo che permetta simili condizionamenti», osservò Parr. «E Lim, allora?» ribatté Mark. «C'era anche lui in sala operatoria. Vuole licenziare pure lui?» «Lim non aveva idea di ciò che stava accadendo», replicò Parr. «Era lì per espiantare i reni. Sapeva soltanto che il Mass Gen aveva un ricevente sul tavolo operatorio. E, nella cartella clinica, c'era un documento che autorizzava l'espianto e faceva il nome del ricevente.» Parr si girò verso Abby. «Compilato e controfirmato da lei.» «Joe Terrio l'ha firmato spontaneamente», ribatté Abby. «Era d'accordo sul fatto che il cuore andasse al ragazzo.» «Il che significa che nessuno può essere accusato di furto di organi», puntualizzò Mark. «Era perfettamente legale, Parr. Vivian sapeva quali corde tirare e le ha tirate. Inclusa lei.»
Abby fece per parlare, per difendere Vivian, ma scorse negli occhi di Mark un invito alla cautela. Attenta. Non scavarti la fossa con le tue stesse mani. «Abbiamo una paziente che è venuta a farsi trapiantare il cuore e adesso non abbiamo alcun cuore da darle. Che diavolo dovrei dire a suo marito? 'Mi dispiace, Mr Voss, ma il cuore è andato alla persona sbagliata'?» Parr si girò di nuovo verso Abby, il volto contratto dalla collera. «Lei è soltanto una specializzanda, dottoressa DiMatteo. Ha voluto prendere una decisione che non le spettava. Voss ne è già stato messo al corrente. Il Bayside Hospital dovrà pagare per questo. E parecchio.» «Andiamo, Parr», intervenne Mark. «Non siamo ancora a questo punto.» «Crede che Victor Voss non metterà la cosa in mano ai suoi legali?» «Su quale base? C'è un consenso all'espianto con tanto di nome del ricevente. Il cuore doveva andare al ragazzo.» «Soltanto perché lei ha costretto il marito a firmare in quel senso!» sibilò Parr, indicando Abby. «Non ho fatto altro che parlargli di Josh O'Day», replicò lei. «Gli ho spiegato che si trattava di un ragazzo di appena diciassette anni...» «Questo è già più che sufficiente a farla buttar fuori», la interruppe Parr. Guardò l'orologio da polso. «Dalle sette e mezzo di oggi, cioè da questo preciso istante, lei non fa più parte del corso di specialità.» Abby lo fissò, attonita. Fece per protestare, ma si accorse di avere la gola contratta, di non riuscire a emettere neppure un suono. «Non può farlo», disse Mark. «Perché no?» s'inalberò Parr. «Anzitutto, questa è una decisione che può prendere soltanto il direttore del corso di specialità e, conoscendo il Generale, non credo che accetterà che la sua autorità venga usurpata. Inoltre, il nostro staff chirurgico è già ridotto ai minimi termini. Se perdessimo Abby, i chirurghi del nostro reparto dovrebbero essere di guardia ogni due notti. Finirebbero per essere troppo stanchi, e commetterebbero sbagli. Se vuole che gli avvocati si affollino alle nostre porte, ecco il modo giusto per riuscirci.» Diede un'occhiata ad Abby. «Sei di guardia domani notte, vero?» Lei annuì. «Allora, che cosa intende fare, Parr?» chiese Mark. «Conosce qualche altro specializzando del secondo anno che possa farsi avanti e prendere il suo posto?» Jeremiah Parr fissò Mark. «Per adesso soprassederò, ma, mi creda, sol-
tanto provvisoriamente.» Si girò verso Abby. «Domani ne riparleremo. Adesso sparisca da qui.» Benché avesse l'impressione di non reggersi sulle gambe, Abby uscì dall'ufficio di Parr. Era troppo intontita per pensare. Percorse metà del corridoio, poi si fermò. Sentì che l'intontimento stava per lasciare il posto alle lacrime. Si sarebbe messa a piangere, proprio lì e in quel momento, se alle sue spalle non fosse sopraggiunto Mark. «Abby.» La costrinse a voltarsi e a guardarlo. «Per tutto il pomeriggio questo posto è stato un campo di battaglia. Che diavolo credevi di fare?» «Stavo salvando la vita di un ragazzo. Ecco che cosa pensavo di fare!» La voce le s'incrinò, si spezzò in singhiozzi. «L'abbiamo salvato, Mark. È esattamente ciò che dovevamo fare. Non ho obbedito a nessun ordine. Stavo seguendo il mio istinto, il mio.» Si asciugò le lacrime con un gesto rabbioso. «Se Parr vuole prendersela con me, lascialo fare. Mi appellerò alle commissioni etiche ed esporrò i fatti. Un ragazzo di diciassette anni contro la moglie di un uomo ricco. Dirò tutto, Mark. Forse ciò non impedirà la mia estromissione dal corso, però mi difenderò a calci e urla.» Si girò, avviandosi lungo il corridoio. «C'è un altro modo. Più semplice.» «Non vedo quale.» «Ascoltami.» La prese per un braccio. «Lascia che Vivian si accolli ogni colpa! Tanto lo farà comunque.» «Non mi sono limitata a obbedire a un ordine.» «Abby, accetta un regalo quando ti viene offerto! Vivian si è assunta ogni responsabilità. L'ha fatto per proteggere te e le infermiere. Lascia le cose come stanno.» «E a lei che cosa accadrà?» «Ha già dato le dimissioni. Al suo posto è stato messo Peter Dayne.» «E Vivian? Dove andrà?» «Questi sono problemi suoi, non del Bayside.» «Ha fatto la cosa giusta. Ha salvato la vita del suo paziente. Non si butta fuori qualcuno per questo!» «Ha violato la regola numero uno di questo ospedale. Cioè essere solidale con lo staff. Il Bayside non può permettersi un cane sciolto come Vivian Chao. Un medico o è con noi o è contro di noi.» Tacque un istante. «Tu con chi stai?» «Non lo so.» Abby scosse la testa. Si accorse che le lacrime le rigavano il viso. «Non lo so più.»
«Ragiona sulle tue possibilità di scelta. Sempre che te ne rimanga qualcuna. Vivian è arrivata alla fine dei suoi cinque anni di specialità. È già in condizione di entrare di ruolo in qualche ospedale. Può trovarsi un lavoro, aprire uno studio chirurgico. Tu invece hai soltanto una laurea. Se verrai buttata fuori di qui, non diventerai mai un chirurgo. Che cosa intendi fare? Passare il resto della tua vita a far visite fiscali per una società di assicurazioni? È questo che vuoi?» «No.» Inspirò profondamente, poi emise un brusco sospiro di disperazione. «No.» «Allora che diavolo vuoi?» «So esattamente ciò che voglio!» Si passò rabbiosamente una mano sul viso. Inspirò di nuovo, a fondo. «L'ho capito oggi. Questo pomeriggio. Quando ho osservato Tarasov in sala operatoria. L'ho visto sollevare il cuore espiantato ed era flaccido, un mucchietto di carne morta. E sul tavolo c'era il ragazzo. Tarasov ha collegato l'organo al ragazzo e il cuore ha cominciato a pulsare. E di colpo era tornata la vita...» Fece una pausa, ricacciando indietro un altro fiotto di lacrime. «È stato allora che ho capito ciò che voglio. Voglio essere come Tarasov.» Guardò Mark. «Innestare un pezzo di vita nei ragazzi come Josh O'Day.» Mark annuì. «E allora devi fare in modo di riuscirci. Abby, possiamo ancora rimediare. Hai la possibilità di finire il corso, di entrare nella nostra équipe, di ottenere ogni cosa.» «Non vedo come.» «Sono stato io a fare il tuo nome per l'équipe dei trapianti. Sei ancora la mia candidata numero uno. Posso parlare ad Archer e agli altri. Se noi ti spalleggiamo, Parr dovrà cedere.» «Ma c'è quel 'se'.» «Tutto dipende da te. In primo luogo, lascia che Vivian si accolli la colpa. Era un tuo superiore, ti ha dato un ordine sbagliato.» «Non è vero!» «Hai osservato soltanto metà del quadro. Non hai visto l'altra paziente.» «Quale altra paziente?» «Nina Voss. È stata ricoverata oggi a mezzogiorno. Forse potresti andare a trovarla. Vedere con i tuoi occhi che la scelta non era così scontata. Che è possibile che tu abbia davvero commesso un errore.» Abby deglutì, frenando i singhiozzi. «Dove si trova?» «Terzo piano. Unità medica di terapia intensiva.»
Pur trovandosi ancora nel corridoio, Abby riusciva ad avvertire l'intensa attività che ferveva nell'unità di terapia intensiva: la cacofonia delle voci, l'uggiolio di un apparecchio radiografico portatile, i contemporanei squilli di due telefoni. Nell'attimo in cui varcò la soglia del reparto, sentì un brusco silenzio calare nella stanza. Anche i telefoni sembravano essersi improvvisamente zittiti. Alcune delle infermiere la stavano fissando, ma la maggior parte di loro aveva deliberatamente distolto lo sguardo. «Dottoressa DiMatteo», la chiamò Aaron Levi. Era appena emerso dalla camera asettica numero 5 e la fissava con occhi pieni di una rabbia repressa a malapena. «Forse le interesserà vedere questo», aggiunse. Il numeroso personale presente si fece lentamente di lato per permettere ad Abby di avvicinarsi alla camera asettica numero 5. Lei si accostò allo schermo di vetro e vide una donna distesa sul letto, una donna dall'aria fragile, con capelli tra il biondo e il bianco e un volto pallido come le lenzuola. Il tubo endotracheale che le usciva dalla bocca era collegato in alto a un apparecchio per la ventilazione. La donna stava lottando contro la macchina, e con movimenti spasmodici del torace cercava di aspirare più aria. Ma l'apparecchio non cooperava. Il mantice emetteva un ronzio, mentre l'aria veniva spinta nei polmoni secondo un ritmo prestabilito, che non teneva conto delle disperate inspirazioni della paziente. Entrambe le mani della donna erano bloccate. Un medico stava inserendo una cannula nell'arteria di uno dei polsi, perforando profondamente la pelle e immettendo un catetere di plastica nell'arteria radiale. L'altro polso, legato al letto, sembrava un puntaspilli a causa dei tubi per l'infusione endovenosa ed era coperto di ecchimosi. Un'infermiera stava parlando a voce bassa alla paziente, nel tentativo di calmarla, ma la donna, pienamente conscia, aveva negli occhi, rivolti verso l'alto, un'espressione di puro terrore. Era lo sguardo di un animale torturato. «Quella è Nina Voss», spiegò Aaron. Abby rimase in silenzio, sconvolta dall'orrore che leggeva negli occhi della donna. «È stata ricoverata otto ore fa. Quasi nel momento stesso in cui è arrivata le sue condizioni sono precipitate. Alle cinque c'è stata un'emergenza. Tachicardia ventricolare. Venti minuti fa, un'altra emergenza. Per questo è stata intubata. L'intervento chirurgico era previsto per stasera. L'équipe era pronta, la sala operatoria pure. La paziente era più che pronta. Ma, a quel punto, abbiamo scoperto che la donatrice era stata portata in sala operatoria alcune ore prima del previsto. E che il cuore che avrebbe dovuto essere
trapiantato a questa donna era stato rubato. Rubato, dottoressa DiMatteo.» Abby continuava a tacere. Non riusciva a distogliere lo sguardo dall'ordalia che si stava compiendo nella camera asettica numero 5 e di cui lei era testimone. In quel momento, gli occhi di Nina Voss incontrarono i suoi. Soltanto per un attimo, il tempo d'implorare pietà. Il dolore che c'era in quegli occhi la sconvolse. «Non sapevamo», sussurrò. «Non sapevamo che le sue condizioni fossero critiche...» «Si rende conto di ciò che avverrà adesso? Ne ha una vaga idea?» «Il ragazzo...» Abby si girò verso Aaron. «Il ragazzo è vivo.» «E la vita di questa donna?» Non poté rispondere. Qualunque cosa avesse detto, in qualunque modo si fosse difesa, non poteva giustificare la sofferenza che vedeva al di là del vetro. Non si accorse quasi dell'uomo che era uscito dalla stanza delle infermiere e le si era avvicinato. Fu soltanto quando lui chiese: «È questa la dottoressa DiMatteo?» che Abby mise a fuoco il suo viso. Era sulla sessantina, alto e ben vestito, il tipo di uomo la cui semplice presenza richiama un'immediata attenzione. «Sì, sono Abby DiMatteo», mormorò in risposta. Tuttavia, mentre lo diceva, si rese conto di che cosa fosse ciò che vedeva negli occhi di quell'uomo. Era odio allo stato puro, un odio mortale. Tentò quasi di ritrarsi quando lui le si piantò davanti, il volto scuro di rabbia. «Così è lei l'altra», sibilò. «Lei e quella medichessa dalla pelle gialla.» «Mr Voss, la prego», intervenne Aaron. «Crede di potersi prendere beffe di me?» urlò Voss rivolto ad Abby. «O di mia moglie? Non finisce qui, dottoressa. Maledizione a lei, vedrà se non ci saranno conseguenze!» Con i pugni serrati, fece un altro passo verso di lei. «Mr Voss», s'intromise Aaron, «mi creda, ci occuperemo noi della dottoressa DiMatteo.» «Desidero che sia buttata fuori da questo ospedale! Non voglio vedere mai più la sua faccia!» «Mr Voss», replicò Abby, «mi dispiace. Non so dirle quanto mi dispiaccia...» «Toglietemela dai piedi!» ruggì Voss. Aaron prontamente si mise di mezzo, afferrò Abby per un braccio e la allontanò dalla camera asettica. «È meglio che se ne vada», suggerì.
«Se soltanto potessi parlargli... spiegargli...» «In questo momento, la cosa migliore che può fare è andarsene da qui.» Lei guardò Voss, fermo davanti alla camera asettica numero 5 come per proteggere la moglie da qualsiasi attacco. Mai prima di allora aveva visto una tale espressione d'odio. Nessuna frase, nessuna spiegazione avrebbero potuto cancellarla. Docilmente fece un cenno di assenso ad Aaron. «Va bene», sussurrò. «Me ne vado.» Si voltò e uscì dall'unità di terapia intensiva. Tre ore dopo, Stewart Sussman parcheggiò accanto al marciapiede nella Tanner Avenue e dalla sua auto studiò il numero 1451. La casa era una modesta villetta, con serramenti scuri e una veranda coperta. Una staccionata bianca recintava il terreno circostante. Benché l'oscurità fosse tale da impedire a Sussman di vedere bene il prato, l'istinto gli disse che l'erba doveva essere ben rasata e le aiuole prive di erbacce. Nell'aria si avvertiva il leggero profumo delle rose. Sussman scese dalla vettura, superò il cancelletto e salì i gradini della veranda fino a raggiungere la porta d'ingresso. Gli occupanti erano in casa. Le luci erano accese e, attraverso le tende delle finestre, s'intravedevano sagome in movimento. Suonò il campanello. Venne ad aprirgli una donna. Volto stanco, occhi pesti, spalle curve sotto qualche terribile peso psichico. «Sì?» disse. «Mi dispiace disturbarvi. Mi chiamo Stewart Sussman. Posso scambiare qualche parola con Mr Joseph Terrio?» «In questo momento preferirebbe non vedere nessuno. Sa, abbiamo appena avuto una... perdita in famiglia.» «Capisco, Mrs...» «Terrio. Sono la madre di Joe.» «So tutto di sua nuora, Mrs Terrio. E me ne dispiace, davvero. Ma è importante che parli a suo figlio. È una cosa che ha a che fare con la morte di Karen.» La donna esitò un istante. Poi disse: «Mi scusi», e chiuse la porta. Sussman la sentì chiamare: «Joe?» Un minuto dopo, la porta si riaprì e apparve un uomo dagli occhi arrossati, i movimenti appesantiti dal dolore. «Sono Joe Terrio», disse. Sussman gli tese una mano. «Mr Terrio, sono stato mandato qui da qual-
cuno che è molto preoccupato per le circostanze in cui è avvenuto il decesso di sua moglie.» «Circostanze?» «Era ricoverata al Bayside Hospital. Esatto?» «Sì, ma... non capisco di che cosa si tratti.» «Delle cure che ha ricevuto sua moglie, Mr Terrio. E della possibilità che siano stati commessi errori. Errori che potrebbero essere risultati fatali.» «Chi è lei?» «Sono un avvocato dello studio legale Hawkes, Craig e Sussman. Per la precisione, sono un esperto nel settore della malasanità.» «Non ho bisogno di avvocati. Stasera non desidero proprio che qualche dannato cacciatore di ambulanze mi ronzi attorno.» «Mr Terrio...» «Vada al diavolo.» Joe fece per chiudere la porta, ma Sussman tese una mano per fermarlo. «Mr Terrio», esclamò l'avvocato senza alzare la voce, con molta calma, «ho motivo di ritenere che uno dei medici curanti di Karen abbia commesso un errore. Un tragico errore. È possibile che sua moglie non dovesse morire. Non posso ancora averne la certezza. Comunque, con il suo permesso, potrò andare a controllare la cartella clinica e mettere in chiaro i fatti. Tutti, nessuno escluso.» Lentamente Joe riaprì la porta. «Chi la manda? Lei ha detto che è stato mandato da qualcuno. Chi è?» Sussman gli rivolse uno sguardo comprensivo. «Un amico.» 6. Mai prima di allora Abby aveva avuto paura di andare a lavorare, eppure quella mattina, mentre entrava nel Bayside Hospital, ebbe la sensazione di camminare verso un precipizio. La sera prima, Jeremiah Parr aveva minacciato serie ripercussioni; quel giorno lei avrebbe dovuto affrontarle. Tuttavia, finché Wettig non l'avesse effettivamente esclusa dal corso di specialità, era decisa a svolgere le proprie mansioni come al solito. Avrebbe fatto il giro dei suoi pazienti e si sarebbe preparata agli interventi chirurgici già preventivati. Quella notte, inoltre, era di guardia. Maledizione, avrebbe fatto il proprio lavoro e l'avrebbe fatto bene. Lo doveva ai suoi pazienti... e a Vivian. Soltanto un'ora prima si erano parlate per telefono e le ultime paro-
le che Vivian le aveva detto erano state: «Qualcuno là deve prendere la parola a favore dei vari Josh O'Day. Pensaci tu, DiMatteo. Fallo per te e per me». Abby non fece quasi in tempo a mettere piede nell'unità chirurgica di terapia intensiva che le voci dei presenti si abbassarono. Ormai tutti erano al corrente della storia di Josh O'Day. Sebbene nessuno le dicesse una parola, riusciva a sentire i bisbiglii che le infermiere si scambiavano, notava i loro sguardi imbarazzati. Si avvicinò al classificatore e prese le cartelle cliniche dei pazienti che doveva visitare. Dovette far ricorso a tutta la concentrazione di cui disponeva per portare a termine quel compito. Appoggiò le cartelle su un carrellino e spinse quest'ultimo fuori della stanza delle infermiere fino al letto del primo degente sulla sua lista. Fu un sollievo entrare nella camera asettica, sottrarsi agli occhi di tutti. Tirò le tende, nascondendosi così alla vista di chiunque si fosse affacciato alla porta, e si rivolse alla paziente. Mary Allen era distesa sul letto in posizione fetale, con gli occhi chiusi, le braccia e le gambe magre come stecchi ripiegate. Dopo la biopsia a cielo aperto del polmone, eseguita due giorni prima, erano sopravvenuti due brevi episodi d'ipotensione, perciò la paziente non era stata ancora dimessa dall'unità di terapia intensiva, dove poteva essere tenuta sotto stretta osservazione. Secondo gli appunti dell'infermiera, nelle ultime ventiquattr'ore la pressione sanguigna di Mary era rimasta stabile e non si erano rilevati ritmi cardiaci anormali. Stando così le cose, Mary avrebbe potuto essere trasferita l'indomani in una normale stanza di degenza nel reparto chirurgico. Abby si avvicinò al letto. «Mrs Allen?» chiamò. La donna, sveglia, si mosse. «Dottoressa DiMatteo?» mormorò. «Come si sente oggi?» «Non molto bene. Ho ancora dolore, sa.» «Dove?» «Al petto. Alla testa. E adesso alla schiena. Ho dolori dappertutto.» Dalla cartella clinica, vide che le infermiere le avevano somministrato morfina in continuazione. Chiaramente non bastava. Avrebbe dovuto prescrivere una dose più alta. «Le daremo un farmaco più forte per lenire i dolori», disse. «Ogni cosa di cui lei ha bisogno per sentirsi bene.» «E anche per aiutarmi a dormire. Non ci riesco.» Mary emise un sospiro di profonda stanchezza e chiuse gli occhi. «Voglio soltanto addormentarmi, dottoressa, e non risvegliarmi...»
«Mrs Allen? Mary?» «Non potrebbe fare questo per me? Lei è il mio medico curante. Per lei sarebbe così facile. Così semplice.» «Possiamo far sparire il dolore.» «Ma non potete eliminare il cancro. O invece sì?» Riaprì gli occhi e le rivolse uno sguardo in cui si leggeva la supplica di risponderle con assoluta sincerità. «No», mormorò Abby, «questo no. Il tumore è troppo diffuso. Possiamo praticarle la chemioterapia, per rallentare il decorso del male. Per farle guadagnare un po' di tempo.» «Tempo?» Mary emise una risatina rassegnata. «A che mi serve il tempo? A rimanere qui in un letto, un'altra settimana, un altro mese? Piuttosto vorrei farla finita, subito.» Abby prese una mano di Mary. Sembrava che le ossa fossero avvolte nella pergamena. «In primo luogo pensiamo al dolore. Se lo eliminiamo, il resto le sembrerà diverso.» Per tutta risposta, Mary si girò sul fianco, voltandole le spalle. Si stava chiudendo in se stessa, escludendo Abby. «Immagino che voglia auscultarmi i polmoni», disse soltanto. Entrambe sapevano che quell'esame era una pura formalità. Lo stetoscopio sul torace, sul cuore, nient'altro che un inutile cerimoniale. Ma Abby eseguì comunque quei gesti. Aveva poco d'altro da offrire a Mary Allen, a parte quella imposizione di mani. Quando ebbe finito, la paziente aveva ancora la schiena voltata verso di lei. «La trasferiremo fuori dell'unità di terapia intensiva», spiegò Abby. «Le daremo una stanza in reparto. Là ci sarà meno rumore. Sarà meno disturbata.» Nessuna risposta. Soltanto un respiro profondo, un lungo sospiro. Abby lasciò la camera asettica sentendosi più sconfitta, più inutile che mai. Poteva fare davvero poco. Eliminare il dolore era il meglio che avesse da offrire. Oltre alla promessa di lasciare che la natura facesse il suo corso. Aprì la cartella clinica di Mary e scrisse: «La paziente esprime il desiderio di morire. Aumentare la somministrazione di solfato di morfina per tenere il dolore sotto controllo e aggiornare il codice di riferimento». Compilò la richiesta per il cambio di reparto e la porse a Cecily, l'infermiera che seguiva Mary. «Voglio che non soffra», disse. «Per la dose, regolati a seconda dell'entità dei dolori. Somministrale ciò di cui ha bisogno per dormire.»
«Qual è il limite massimo?» Lei indugiò. Pensò all'esigua linea di confine tra benessere e incoscienza, tra sonno e coma, e rispose: «Non c'è limite, Cecily. La paziente vuole morire. Se la morfina rende tutto più facile, non gliela faremo mancare. Anche se vorrà dire accelerare la fine». Cecily annuì. Nei suoi occhi c'era un'espressione di tacito consenso. Mentre Abby si avviava verso la camera asettica adiacente, sentì Cecily richiamarla: «Dottoressa DiMatteo?» Si girò. «Sì?» «Io... volevo dirle una cosa. Credo che lei debba sapere... be'...» Cecily si guardò nervosamente in giro. Vide che alcune delle altre infermiere la stavano fissando. In attesa. Cecily si schiarì la gola. «Volevo che sapesse che, secondo noi, lei e la dottoressa Chao avete fatto la cosa giusta. Dando il cuore a Josh O'Day.» Abby ricacciò indietro un inaspettato fiotto di lacrime. «Grazie», sussurrò. «Vi ringrazio molto». Guardandosi attorno nella stanza, notò soltanto allora che il personale presente annuiva in segno d'approvazione. «Lei è uno dei migliori specializzandi che abbiamo mai avuto, dottoressa D.» proseguì Cecily. «Volevamo che lei sapesse anche questo.» Nel silenzio che era calato nella stanza, risuonò il battito di due mani. Ne seguì un altro e un altro ancora. Abby, incapace di parlare, rimase immobile con una cartella clinica stretta al petto mentre tutte le infermiere dell'unità di terapia intensiva battevano le mani con forza, spontaneamente. Stavano applaudendo lei. Fu una lunga ovazione. «Voglio che sia esclusa dallo staff medico e buttata fuori da questo ospedale», disse Victor Voss. «E sono disposto a fare di tutto pur di riuscirci.» Nei suoi otto anni come presidente del Bayside Hospital, Jeremiah Parr aveva fronteggiato numerose crisi: due scioperi del personale paramedico, diverse cause per svariati milioni di dollari per questioni di malasanità e alcune violente incursioni in ospedale da parte dei militanti del movimento antiabortista... eppure non si era mai trovato di fronte una rabbia incontrollabile pari a quella che leggeva sul volto di Victor Voss. Alle dieci di mattina, Voss, affiancato da due suoi legali, era piombato nell'ufficio di Parr e aveva chiesto di conferire con lui. Ormai era quasi mezzogiorno e il grup-
petto si era allargato, includendo il direttore del corso di specialità, Colin Wettig, e Susan Casado, l'avvocato che rappresentava il Bayside. Era stato Parr a far chiamare Susan. Anche se, fino a quel momento, nessuno aveva accennato a un'azione legale, Parr non poteva correre rischi. Soprattutto con un individuo potente come Victor Voss. «Mia moglie sta morendo», riprese Voss. «Capite? Sta morendo. Può non sopravvivere a un'altra notte. Ne faccio ricadere la colpa su quelle due specializzande.» «La dottoressa DiMatteo è soltanto al secondo anno», replicò Wettig. «Non è stata lei a prendere la decisione. Tutto è stato fatto dalla responsabile degli specializzandi, e la dottoressa Chao è già stata espulsa dal nostro corso.» «Voglio che anche la dottoressa DiMatteo dia le dimissioni.» «Non le ha presentate.» «Allora trovate una scusa qualsiasi per buttarla fuori.» «Dottor Wettig», intervenne Parr in tono calmo e prudente, «dobbiamo escogitare un motivo per escluderla dal corso.» «Non ci sono motivi di sorta», replicò Wettig, mantenendo ostinatamente le proprie posizioni. «Le iniziative prese dalla DiMatteo erano valide e sono assolutamente legali. Mr Voss, mi rendo conto che questa è una situazione assai penosa per lei. So che è più che normale voler attribuire la colpa a qualcuno, ma ritengo che la sua collera sia male indirizzata. Il vero problema è la scarsità di organi. Migliaia di persone hanno bisogno di un cuore nuovo e i cuori disponibili sono pochissimi. Pensi a ciò che potrebbe accadere se eliminassimo dal corso la dottoressa DiMatteo. Potrebbe presentare appello e la questione finirebbe per essere dibattuta in più alte sfere, dove il caso verrebbe esaminato e darebbe luogo a un'inchiesta. Qualcuno potrebbe chiedere perché un ragazzo di diciassette anni non abbia avuto quel cuore fin dall'inizio.» Ci fu un breve silenzio. «Cristo», mormorò Parr. «Capisce?» continuò Wettig. «Un brutto affare. L'ospedale ne uscirebbe danneggiato. Non è il tipo di notizia che ci piace vedere sui giornali. Si sentirebbe puzza d'ingiustizia sociale: il povero sempre svantaggiato di fronte al ricco. Così la stampa ci ricamerebbe sopra. Che sia vero o no.» Wettig si guardò attorno con aria interrogativa. Nessuno aprì bocca. Il nostro silenzio è quanto mai eloquente, pensò Parr. «Naturalmente non possiamo permettere che la gente ne ricavi un'impressione sbagliata», osservò Susan. «Se la stampa insinuasse anche il
semplice sospetto che qui si speculi sugli organi umani, ne usciremmo con le ossa rotte, tanto infamante parrebbe una simile ipotesi.» «Sto semplicemente cercando di far capire qual è la situazione», disse Wettig. «Non m'importa di quale sia la situazione», ribatté Voss. «Quel cuore è stato rubato.» «Si è trattato di una donazione diretta. Mr Terrio aveva ogni diritto di specificare il ricevente.» «Mi avevano garantito che quel cuore sarebbe andato a mia moglie.» «Garantito?» Wettig rivolse a Parr uno sguardo accigliato. «C'è qualcosa di cui non sono stato informato?» «Il trapianto era stato deciso prima che Mrs Voss fosse ricoverata», rispose Parr. «La compatibilita era perfetta.» «Anche nel caso del ragazzo», contrattaccò Wettig. Voss balzò in piedi. «Lasciate che vi spieghi una cosa. Mia moglie sta morendo a causa di Abby DiMatteo. Voialtri non mi conoscete bene, ma permettetemi di dirvi che nessuno può far del male alla mia famiglia o a me e andarsene...» «Mr Voss», intervenne uno dei suoi legali, «forse dovremmo discutere di questo in...» «Maledizione! Mi lasci finire!» «La prego, Mr Voss. Così può nuocere ai suoi stessi interessi.» Voss guardò l'avvocato. Con evidente sforzo, rinunciò all'attacco e tornò a sedersi. «Voglio che si faccia qualcosa contro quella DiMatteo», ribadì. E fissò Parr negli occhi. Parr stava sudando. Dio, sarebbe stato tanto facile buttar fuori quella specializzanda. Sfortunatamente il Generale non aveva intenzione di stare dalla loro parte. Maledizione ai chirurghi e al loro egotismo. Non sopportavano che qualcun altro dettasse legge. Perché Wettig era così testardo in proposito? «Mr Voss», intervenne Susan Casado, con la voce più soave possibile, in quel suo tono da domatrice di fiere, «posso suggerire di prenderci tutti un po' di tempo per meditare sul da farsi? Precipitarsi ad adire le vie legali è raramente la scelta migliore. Nel giro di pochi giorni, saremo in grado di risolvere le sue preoccupazioni.» Poi fissò decisamente Wettig. Altrettanto decisamente il Generale la ignorò. «Nel giro di pochi giorni», esclamò Voss, «mia moglie potrebbe essere morta.» Si alzò, guardando Parr con aria di disprezzo. «Non ho bisogno di
pensarci su. Voglio che venga preso un provvedimento contro la dottoressa DiMatteo. E voglio che venga preso subito.» «Vedo il proiettile», annunciò Abby. Mark orientò il fascio di luce, focalizzandolo sulla parete posteriore della cavità toracica. Qualcosa di metallico scintillò, poi svanì dietro il polmone che si stava riempiendo d'aria. «Che vista acuta, Abby. Dal momento che l'hai individuato tu, vuoi avere l'onore di estrarlo?» Lei prese dall'arcella degli strumenti chirurgici una pinza. I polmoni si erano di nuovo espansi, impedendole di vedere la cavità. «Ho bisogno che il polmone si defletta. Basta un attimo...» «Fatto», disse l'anestesista. Abby affondò una mano nel torace, seguendo la curva interna delle coste. Mentre Mark sollevava delicatamente il polmone destro, lei serrò le punte della pinza attorno al frammento metallico e, con molta cautela, lo estrasse dalla cavità. Il proiettile, un calibro ventidue appiattito, tintinnò nella bacinella metallica. «Non c'è sanguinamento. Direi che possiamo chiudere», propose Abby. «Questo tipo è stato fortunato», esclamò Mark, osservando la probabile traiettoria del proiettile. «Il foro di entrata appena a destra dello sterno. Una costa deve aver deviato la pallottola o qualcosa del genere, facendola finire nella cavità pleurica. Nessuna conseguenza, a parte un pneumotorace.» «Spero che abbia imparato la lezione», ribatté Abby. «Quale lezione?» «Mai far arrabbiare la propria moglie.» «È stata lei a sparargli?» «Eh, abbiamo fatto molta strada, ragazzo mio.» Stavano ormai suturando il torace, lavorando assieme con la cameratesca calma di due persone che si conoscono a fondo. Erano le quattro del pomeriggio. Abby era di turno dalle sette di quella mattina. Le facevano male i polpacci per essere rimasta in piedi tutto il giorno e aveva davanti a sé altre ventiquattr'ore di guardia. Però era di buon umore, galvanizzata dal successo di quell'intervento... e dall'aver potuto operare assieme a Mark. Era proprio così che immaginava il loro futuro: lavorare a fianco a fianco, pieni di fiducia in se stessi e nel partner. Mark era un ottimo chirurgo, rapido
eppure meticoloso. Fin dal primo giorno in cui si era trovata in sala operatoria con lui, era rimasta impressionata dall'atmosfera cameratesca che lo circondava. Mark non aveva mai avuto uno scatto di nervi, non si era mai arrabbiato con un'infermiera, non aveva mai alzato la voce. Abby aveva deciso che, se fosse capitato a lei di finire sotto i ferri, Mark Hodell era l'unico chirurgo cui avrebbe voluto vedere in mano il bisturi. In quel momento, stava lavorando al suo fianco, una mano guantata a stretto contatto con quella di lui, le teste chine ravvicinate. Era assieme all'uomo che amava, e stava facendo il lavoro che prediligeva. Per un breve istante, riuscì a dimenticare Victor Voss e le ombre che incombevano sulla propria carriera. Forse quelle minacce erano svanite. Nessuna scure si era abbattuta su di lei, nessun infausto messaggio era stato emesso dall'ufficio di Parr. Anzi, quella stessa mattina, Colin Wettig l'aveva presa da parte per dirle, nel suo solito modo burbero, che il suo lavoro con i traumatizzati era stato valutato molto positivamente. Andrà bene, pensò, mentre guardava il paziente che veniva portato fuori della sala operatoria. In un modo o nell'altro ogni cosa finirà per andare a posto. «Un lavoro eccellente, DiMatteo», esclamò Mark, togliendosi la divisa da chirurgo. «Scommetto che dici lo stesso a tutti gli specializzandi.» «Ecco qualcosa che non dico mai agli altri specializzandi.» Si chinò verso di lei e le sussurrò: «Raggiungimi nella stanza del medico di guardia». «Ehm... Dottoressa DiMatteo?» Abby e Mark, entrambi rossi in viso, si girarono a guardare l'infermiera che aveva fatto capolino dalla porta. «C'è una chiamata per lei da parte della segretaria di Mr Parr. Vogliono vederla in amministrazione.» «Adesso?» «La stanno aspettando», ribatté l'infermiera, e se ne andò. Lei lanciò a Mark un'occhiata piena di apprensione. «Oh, Dio. Adesso che succede?» «Non farti sconvolgere da loro. Sono sicuro che andrà tutto bene. Vuoi che ti accompagni?» Abby rifletté, poi scosse la testa. «Sono un'adulta. Dovrei essere in grado di cavarmela da sola.» «In caso di guai, chiamami tramite cicalino e arriverò subito.» Le strinse con forza una mano. «Te lo prometto.»
Cercò di sorridere, ma il suo fu un ben pallido sorriso. Quindi spinse la porta della sala operatoria e si diresse con aria mesta verso l'ascensore. Con la stessa sensazione di paura che aveva provato la sera precedente, scese al primo piano e si avviò lungo il corridoio coperto dalla moquette verso l'ufficio di Jeremiah Parr. La segretaria di Parr la indirizzò alla sala riunioni, girato l'angolo. Abby bussò alla porta. «Entri.» Era la voce di Parr. Dopo una tremebonda inspirazione, lei si fece avanti. Parr, seduto al grande tavolo centrale, si alzò ad accoglierla. Nella stanza c'erano anche Colin Wettig e una donna che lei non conosceva, una brunetta sulla quarantina che indossava un elegante tailleur blu. Nulla, nell'espressione di quei volti, fornì ad Abby il minimo indizio sul motivo dell'incontro, eppure l'istinto le diceva che non sarebbe stata una riunione piacevole. «Dottoressa DiMatteo», esordì Parr, «lasci che le presenti Susan Casado, legale del Bayside.» Un avvocato? Grane in vista. Le due donne si strinsero la mano. A contatto con la pelle gelata di Abby, quella della Casado parve innaturalmente calda. Abby si sedette accanto a Wettig. Ci fu un breve silenzio, punteggiato dal fruscio delle carte dell'avvocato e dal secco tossicchiare del Generale. Poi Parr ruppe il silenzio: «Dottoressa DiMatteo, forse lei può dirci quanto ricorda a proposito delle cure prestate a Mrs Karen Terrio». Si accigliò. Non era questo che si aspettava. «Ho visitato Mrs Terrio non appena è stata portata in ospedale», rispose. «Quindi l'ho fatta trasferire nel reparto di neurochirurgia. Hanno preso loro in mano il suo caso.» «Per quanto tempo Mrs Terrio è rimasta affidata alle sue cure?» «Ufficialmente, intende? Un paio d'ore, più o meno.» «E in queste due ore lei che cosa ha fatto, esattamente?» «L'ho stabilizzata. Ho richiesto i necessari esami di laboratorio. Dovrebbe essere segnato nella cartella clinica.» «Sì, ne abbiamo una copia», disse Susan Casado, battendo una mano su un incartamento appoggiato sul tavolo. «Là dentro troverà l'intera documentazione», ribatté Abby. «La mia diagnosi di ammissione e le richieste di esami.» «Tutto ciò che lei ha fatto?» chiese Susan. «Sì. Tutto.» «Di ciò che ha fatto, ricorda qualcosa che avrebbe potuto influire negati-
vamente sullo stato di salute della paziente?» «No.» «Qualcosa che può aver trascurato di fare? Ripensandoci adesso?» «No.» «Mi pare di aver capito che la paziente è morta.» «Era rimasta vittima di un gravissimo trauma cranico. Un incidente automobilistico. Un caso di morte cerebrale conclamato.» «Dopo che lei le aveva prestato le prime cure.» Esasperata, Abby si guardò attorno. «Per favore, qualcuno può dirmi che cosa sta succedendo?» «Sta succedendo», esclamò Parr, «che la società presso cui siamo assicurati, la Vanguard Mutual - che è anche la sua compagnia d'assicurazione -, ha ricevuto poche ore fa una notificazione scritta. È stata recapitata a mano e firmata da un legale dello studio Hawkes, Craig e Sussman. Sono spiacente di doverglielo dire, dottoressa DiMatteo, ma, a quanto sembra, su di lei... e sul Bayside... pende un'accusa di negligenza.» L'aria uscì dai polmoni di Abby così violentemente da farla star male. Si trovò con le mani artigliate al tavolo, a combattere l'improvvisa nausea che le montava dallo stomaco. Si rendeva conto che i presenti attendevano da lei una risposta, ma riusciva soltanto a sgranare gli occhi e a scuotere la testa in segno d'incredulità. «A quanto pare, non si aspettava una simile accusa», osservò Susan Casado. «Io...» Abby deglutì a fatica. «No. No.» «È soltanto una notificazione preliminare», chiarì Susan Casado. «Lei capirà, naturalmente, che prima di arrivare al processo vero e proprio ci sono alcune formalità da espletare. In primo luogo, il caso sarà preso in esame da una commissione medica per determinare se vi sia stata un'effettiva negligenza. Se la commissione decide per il no, tutto dovrebbe finire lì, ma l'attore può non tener conto di tale parere e pretendere comunque di arrivare al processo.» «L'attore», mormorò Abby. «Chi è l'attore?» «Il marito. Joseph Terrio.» «Dev'esserci un errore. Un fraintendimento...» «È dannatamente certo che si tratti di un equivoco», intervenne Wettig. Tutti si girarono a guardare il Generale che fino ad allora era rimasto in silenzio. «Io stesso ho controllato la cartella clinica. Pagina per pagina. Non c'è il minimo segno di negligenza. La dottoressa DiMatteo ha fatto ciò che
doveva fare.» «Allora perché è l'unico medico chiamato in causa nella citazione?» chiese Parr. «Soltanto io?» Fissò l'avvocato. «E i neurochirurghi? I medici del Pronto soccorso? Non viene tirato in ballo nessun altro?» «Soltanto lei, dottoressa», replicò Susan. «E il suo datore di lavoro, il Bayside.» Lei si appoggiò contro lo schienale della sedia, attonita. «Non ci posso credere...» «Neppure io», replicò Wettig. «È una procedura inconsueta e noi lo sappiamo. Di solito quei dannati legali sparano a zero, mettono sotto accusa ogni medico che abbia anche soltanto sfiorato il paziente. Qui c'è qualcosa che non va. C'è sotto qualcos'altro.» «È Victor Voss», mormorò Abby. «Voss?» Il dottor Wettig liquidò l'ipotesi con un brusco gesto della mano. «Non ha nulla da guadagnare in questo caso.» «Cerca di rovinarmi. È questo l'obiettivo che si è prefisso.» Si guardò attorno. «Secondo voi, perché sono proprio io l'unico medico chiamato in causa? In qualche modo, Voss è arrivato a Joe Terrio, l'ha convinto che io ho fatto un errore. Se soltanto potessi parlare con Joe...» «Assolutamente no», ribatté Susan. «Sembrerebbe un atto disperato. Equivarrebbe a confessare all'attore che lei sa di essere nei guai.» «Io sono nei guai.» «No, non ancora. Se non c'è stata negligenza, prima o poi l'intera vicenda si sgonfierà. Non appena la commissione avrà dato un parere favorevole a lei, è quanto mai probabile che la controparte lasci cadere l'accusa.» «E se dovesse insistere per arrivare comunque al processo?» «Non avrebbe senso. Soltanto le spese legali...» «Ma non capite che a sostenerle sarebbe Voss? A lui non importa vincere o perdere! Può permettersi di pagare un esercito di avvocati, soltanto per terrorizzarmi. Quella di Joe Terrio potrebbe essere la prima di una serie di azioni legali. Victor Voss sarebbe capace di rintracciare tutti i pazienti che sono stati affidati alle mie cure e convincerli a uno a uno a farmi causa.» «E noi siamo il suo datore di lavoro, il che significa che farebbero causa anche al Bayside», esclamò Parr. Aveva un'aria angosciata, la stessa angoscia che provava Abby. «Ci deve essere un modo per uscire da questa situazione», disse Susan. «Una via per arrivare a Mr Voss e riportarlo a più miti consigli.»
Nessuno parlò. Ma Abby, osservando la faccia di Parr, riusciva a leggere il pensiero che gli frullava in mente: Il modo più veloce per riportare la calma è sbarazzarci di lei. Attese che il colpo venisse tirato, ormai se l'aspettava. E invece non partì. Parr e Susan si scambiarono semplicemente un'occhiata. Quindi Susan riprese: «Siamo appena agli inizi di questa partita. Abbiamo mesi di tempo per agire, per preparare una risposta. Nel frattempo...» Guardò Abby. «Lei sarà assistita legalmente dalla Vanguard Mutual. Le consiglio d'incontrare il loro avvocato il prima possibile. Comunque sarebbe opportuno che si rivolgesse anche a un suo legale.» «Ritiene che ne abbia bisogno?» «Sì.» Abby deglutì. «Non so come potrò permettermi di pagarne uno...» «Nella sua particolare situazione, dottoressa DiMatteo», ribatté Susan, «non può permettersi di non farlo.» Per Abby, essere di guardia quella notte fu una specie di benedizione. Un frenetico accavallarsi di chiamate e d'interventi la costrinse a correre tutta la sera, per occuparsi di problemi che andavano da un pneumotorace nell'unità medica di terapia intensiva a una febbre post-operatoria nel reparto chirurgico. Non ebbe quasi il tempo di riflettere sull'azione legale intentata da Joe Terrio. Di tanto in tanto, però, quando c'era un attimo di tregua tra una chiamata e l'altra, si accorgeva di essere pericolosamente vicina a scoppiare in lacrime. Di tutti i consorti in lutto che aveva confortato e consigliato, Joe Terrio era l'ultimo da cui si sarebbe aspettata un'accusa di negligenza. Che cosa ho fatto di sbagliato? si chiedeva. Avrei dovuto provare più compassione? Preoccuparmi di più? Maledizione, Joe, che cos'altro volevi da me? Qualunque cosa fosse, sapeva che non avrebbe potuto agire con maggiore impegno. Aveva fatto quanto di meglio poteva. E la ricompensa per essersi tanto tormentata per Karen Terrio era stata uno schiaffo in pieno viso. Provava un senso di rabbia, nei confronti degli avvocati, di Victor Voss, persino di Joe. Si sentiva dispiaciuta per Joe Terrio, ma anche tradita da lui. Dall'uomo le cui sofferenze l'avevano tanto coinvolta. Alle dieci di sera, fu finalmente libera di ritirarsi nella stanza del medico di guardia. Troppo turbata per riuscire a leggere il giornale, troppo demoralizzata per chiacchierare con chiunque, Mark compreso, si sdraiò sul letto e fissò il soffitto. Si sentiva le gambe paralizzate, l'intero corpo senza vi-
ta. Come diavolo riuscirò a superare la notte, si chiese, se non sono neppure in grado di alzarmi da questo letto? Ma si alzò quando, alle dieci e mezzo, squillò il telefono. Si mise a sedere e sollevò la cornetta. «Dottoressa DiMatteo.» «Qui è la sala operatoria. I dottori Archer e Hodell hanno bisogno di lei.» «Subito?» «Devono eseguire un intervento operatorio non previsto.» «Arrivo tra poco.» Abby riagganciò. Sospirando, si passò le mani tra i capelli. In qualunque altro momento, in qualunque altra sera, sarebbe già balzata in piedi e sarebbe corsa a indossare la divisa sterile. Adesso, invece, non riusciva quasi a sopportare l'idea di trovarsi a faccia a faccia con Mark e Archer davanti al tavolo operatorio. Dannazione, sei un chirurgo, DiMatteo. Comportati di conseguenza. Fu il disgusto che provava per se stessa a indurla finalmente ad alzarsi e a uscire dalla stanza. Trovò Mark e Archer al piano di sopra, nella piccola cucina del reparto chirurgico. Erano in piedi accanto al forno a microonde e stavano parlando a bassa voce. Dal modo in cui rialzarono bruscamente la testa nel sentirla entrare, Abby si rese conto che quella loro conversazione doveva rimanere riservata. Tuttavia, nell'istante in cui la videro, entrambi le sorrisero. «Eccoti», esclamò Archer. «Tutto tranquillo in trincea?» «Per il momento», rispose lei. «Mi hanno detto che dovete eseguire un intervento.» «Un trapianto», spiegò Mark. «L'équipe sta per arrivare. Il guaio è che non riusciamo a trovare Mohandas. Lo sostituirà uno specializzando del quinto anno, ma potremmo aver bisogno anche del tuo aiuto. Te la senti di darci una mano?» «Per un trapianto di cuore?» La scarica di adrenalina era ciò di cui aveva bisogno per scrollarsi di dosso la depressione. Annuì a Mark, con enfasi. «Ne sono più che felice.» «C'è soltanto un piccolo problema», intervenne Archer. «La paziente è Nina Voss.» Lei lo fissò. «Le hanno trovato un nuovo cuore così in fretta?» «Siamo stati fortunati. Il cuore sta arrivando da Burlington. A Victor Voss verrebbe probabilmente un colpo se sapesse che fai parte dell'équipe. Comunque la decisione spetta a noi. E potremmo aver bisogno di un altro paio di mani in sala operatoria. Dato che il preavviso è stato così breve, la
nostra scelta è ovviamente caduta su di te.» «Sei ancora dell'idea di partecipare all'intervento?» chiese Mark. Abby non esitò. «Certamente», rispose. «Benissimo», ribatté Archer. «A quanto pare abbiamo un'assistente.» Fece un cenno col capo a Mark. «Vi aspetto entrambi nella sala operatoria numero 3. Tra venti minuti.» Alle undici e mezzo di sera ricevettero la telefonata del chirurgo toracico del Wilcox Memorial Hospital di Burlington, nel Vermont. L'espianto era terminato; l'organo pareva in condizioni eccellenti e sarebbe stato portato di corsa all'aeroporto. Raffreddato a 4 °C, temporaneamente paralizzato da una soluzione di potassio concentrata, il cuore poteva essere conservato per quattro o cinque ore soltanto. In mancanza di afflusso di sangue alle arterie coronariche, ogni minuto che passava - cioè l'intervallo ischemico poteva provocare la morte di alcune cellule miocardiche. Quanto più durava la cosiddetta ischemia fredda, tanto minori erano le probabilità che il cuore riprendesse a funzionare nel petto di Nina Voss. Il volo, su un aereo messo appositamente a disposizione, non poteva durare più di un'ora e mezzo. A mezzanotte, l'équipe dei trapianti del Bayside Hospital era già pronta e vestita con le divise verdi. Oltre a Bill Archer, a Mark e all'anestesista Frank Zwick, c'era un piccolo esercito di supporto: alcune infermiere, un'anestesista, il cardiologo Aaron Levi e Abby. Nina Voss fu portata sul lettino nella sala operatoria numero 3. All'una e mezzo arrivò una telefonata dal Logan International Airport: l'aereo era atterrato senza inconvenienti. Era la notizia che i chirurghi aspettavano per avviarsi alla sala operatoria. Mentre Abby si lavava le mani, poteva vedere, attraverso il divisorio di vetro, la sala numero 3, dove il resto dell'équipe dei trapianti era già in piena attività. Le infermiere stavano tirando fuori le arcelle con gli strumenti chirurgici e aprendo pacchetti di garze sterili. L'anestesista stava calibrando la macchina cuore-polmoni. Uno specializzando del quinto anno, già in divisa da chirurgo, aspettava di preparare il campo operatorio. Sul tavolo, al centro di un groviglio di fili dell'elettrocardiografo e di tubi per l'infusione endovenosa, giaceva Nina Voss. Sembrava ignara dell'attività circostante. Il dottor Zwick era in piedi accanto alla testa della donna e le mormorò qualcosa mentre iniettava una dose di pentobarbital nella cannula inserita in vena. Le palpebre di Nina tremolarono e si chiusero.
Allora Zwick le pose una maschera su bocca e naso, pompò manualmente alcune boccate di ossigeno in rapida successione, poi tolse la maschera. Il passo successivo doveva essere eseguito con estrema rapidità. La paziente era ormai priva di conoscenza, incapace di respirare autonomamente. Inclinandole la testa all'indietro, Zwick le fece scivolare in gola un laringoscopio rigido ricurvo e inserì il tubo endotracheale di plastica. Una cuffia ad aria avrebbe tenuto fermo il tubo nella trachea. Quando Zwick ebbe collegato il tubo all'apparecchio di ventilazione, il torace di Nina cominciò ad alzarsi e abbassarsi seguendo il soffio del mantice. L'intubazione aveva richiesto meno di trenta secondi. Le lampade scialitiche furono girate e rivolte verso il tavolo. Immersa in quella cruda luce, Nina sembrava un essere di un altro mondo. Uno spettro. Un'infermiera tolse il lenzuolo che ricopriva il corpo e mise a nudo il torace, la curva delle coste sotto la pelle cerea, i seni piccoli, quasi rinsecchiti. Lo specializzando procedette a disinfettare il campo operatorio, con larghe pennellate di tintura di iodio sulla pelle. Le porte della sala operatoria si spalancarono; Mark, Archer e Abby, che si erano già lavati, entrarono tenendo le mani sollevate in alto, con l'acqua che gocciolava ancora dai gomiti. Furono aiutati a infilare i camici sterili e i guanti. Quando tutti furono rivestiti a dovere, Nina Voss era già stata preparata all'intervento. Archer si avvicinò al tavolo operatorio. «È già arrivato?» chiese. «Lo stiamo ancora aspettando», rispose un'infermiera. «Dal Logan a qui sono soltanto venti minuti di strada.» «Forse saranno rimasti coinvolti in un ingorgo di macchine.» «Alle due del mattino?» «Cristo», esclamò Mark. «Ci mancherebbe pure questo, adesso. Un incidente.» Archer lanciò un'occhiata ai monitor. «È successo a Mayo. Un rene arrivato in volo dal Texas. Appena fuori dell'aeroporto l'ambulanza si è scontrata con un camion. Per l'organo non c'è stato nulla da fare. E sarebbe stato perfettamente compatibile, per di più.» «Stai scherzando», esclamò Zwick. «Ehi, ti pare che scherzerei su un rene?» Lo specializzando del quinto anno diede un'occhiata all'orologio a muro. «Sono passate tre ore dall'espianto.» «Aspettiamo. Non possiamo fare altro», commentò Archer. Squillò il telefono. Tutti girarono la testa verso l'infermiera che era anda-
ta a rispondere. Un attimo dopo, la donna appese il ricevitore e annunciò: «È di sotto. Il corriere sta salendo». «Va bene», scattò Archer. «Tagliamo.» Dalla sua posizione, Abby riusciva a intravedere soltanto di sbieco l'operato dei chirurghi, e per di più a intermittenza, perché, di tanto in tanto, la spalla di Mark si frapponeva tra i suoi occhi e il tavolo operatorio. Archer e Mark, lavorando velocemente e di concerto, praticarono un'incisione lungo la linea mediana dello sterno e misero in luce dapprima la fascia muscolare e poi le ossa. L'interfono a muro squillò. «Il dottor Mapes, un trapiantista, deve fare una consegna speciale», fu il messaggio che arrivò dall'anticamera della sala operatoria. «Stiamo collegando i vasi sanguigni alla macchina cuore-polmoni», disse Mark. «Gli dica di venire a divertirsi anche lui.» Abby guardò la porta della sala operatoria. Attraverso il pannello di vetro riusciva a scorgere la zona in cui ci si lavava. C'era un uomo, in attesa. Accanto a lui, su un lettino con le ruote, una piccola borsa termica. Simile a quella in cui lei aveva trasportato il cuore di Karen Terrio. «Sarà subito da voi», annunciò l'infermiera all'esterno. «Non appena si sarà cambiato d'abito.» Poco dopo, il dottor Mapes entrò, vestito con la divisa verde. Era un individuo basso con un'arcata sopraccigliare da uomo di Neandertal e, sotto la mascherina chirurgica, un naso prominente simile al becco di un falco. «Benvenuto a Boston», disse Archer, lanciando un'occhiata al nuovo arrivato. «Sono Bill Archer. Lui è Mark Hodell.» «Leonard Mapes. Ho lavorato con il dottor Nicholls a Wilcox.» «Il volo è stato buono, Len?» «Avrebbero potuto anche servirci qualcosa da bere.» Archer abbozzò un sorriso, visibile anche sotto la mascherina. «Allora, che cosa ci porti di bello, Len?» «Un regalo coi fiocchi. Credo che ne sarete soddisfatti.» «Lascia che finisca di collegare i vasi sanguigni e poi darò un'occhiata.» L'incannulazione dell'aorta ascendente era il primo passo per collegare il paziente alla macchina cuore-polmoni. Questo piccolo apparecchio compatto, controllato dall'anestesista, avrebbe sostituito temporaneamente la funzione del cuore e dei polmoni, ricevendo il sangue venoso, ossigenandolo e reimmettendolo nella circolazione arteriosa attraverso l'aorta del paziente.
Archer, usando filo da sutura di seta, cucì due «cordoni a borsa di tabacco» concentrici nella parete dell'aorta ascendente. Con la punta del bisturi praticò un piccolo buco nell'arteria. Ne uscì un fiotto di sangue rosso vivo. Rapidamente Archer infilò la cannula nell'incisione e strinse i «cordoni a borsa di tabacco». Il sanguinamento rallentò fino a ridursi al minimo, poi si arrestò del tutto quando Archer cucì in loco un'estremità della cannula. L'altra estremità era collegata al tubicino arterioso della macchina cuorepolmoni. Mark, con l'aiuto di Abby, stava già incominciando l'incannulazione venosa. «Okay», esclamò Archer, allontanandosi dal tavolo operatorio, «scartiamo il nostro regalo.» Un'infermiera dissigillò il contenitore termico ed estrasse l'organo, avvolto in due comuni borse di plastica. Sciolse i legacci e fece scivolare l'organo nudo in una bacinella di soluzione salina sterile. Cautamente, Archer sollevò dal liquido il cuore mantenuto a bassa temperatura. «Un bell'espianto», osservò. «Voialtri avete lavorato proprio bene.» «Grazie», ribatté Mapes. Archer passò un dito guantato sulla superficie. «Arterie morbide ed elastiche. Pulite come una canna di fucile.» «Sembra un po' piccolo, non vi pare?» osservò Abby, lanciando un'occhiata dall'altra parte del tavolo. «Quanto pesava il donatore?» «Quarantaquattro chili», rispose il dottor Mapes. Abby si accigliò. «Un adulto?» «Un adolescente, in perfetta salute fino al decesso. Un ragazzo.» Lei colse un repentino turbamento nello sguardo di Archer. Le venne in mente che lui aveva due figli adolescenti. Con molta cautela, il chirurgo rimise l'organo nel suo bagno di soluzione salina fredda. «Non permetteremo che vada sciupato», disse. E tornò a rivolgere la propria attenzione a Nina. Mark e Abby stavano già terminando l'incannulazione venosa. Due tubicini di tygon con una guarnizione metallica all'estremità furono inseriti nelle minuscole incisioni praticate negli atri e bloccati con suture a borsa di tabacco. Il sangue venoso sarebbe rifluito in quella cannula e sarebbe stato inviato all'ossigenatore. Lavorando assieme, Archer e Mark chiusero la vena cava superiore e quella inferiore, impedendo un ritorno di sangue al cuore.
«Aorta clampata», annunciò Mark, mentre chiudeva l'aorta ascendente. Il cuore, escluso sia dal flusso venoso in arrivo sia dal deflusso arterioso, era ormai un inutile sacco. La circolazione di Nina Voss era sotto il controllo completo dell'anestesista e della sua magica macchina. Anche la temperatura corporea dipendeva soltanto da loro. Raffreddando la massa ematica, la temperatura del corpo poteva essere lentamente ridotta a 25 °C - la cosiddetta ipotermia chirurgica -, per meglio preservare le cellule miocardiche appena impiantate e diminuire la richiesta di ossigeno del corpo. Żwick spense l'apparecchio di ventilazione. Il ritmico soffio del mantice cessò. Non c'era motivo di pompare aria nei polmoni quando a ogni cosa provvedeva il bypass cardiopolmonare. Era ora di effettuare il trapianto. Archer tagliò l'aorta e l'arteria polmonare. Il sangue defluì nel torace, gocciolò sul pavimento. Immediatamente un'infermiera buttò a terra un telo per asciugare il liquido. Archer continuò a lavorare, dimentico del sudore che gli imperlava la fronte e del forte calore delle lampade. Passò a incidere gli atri. Altro sangue, più scuro, gli macchiò il camice. Affondò le mani nella cavità toracica. Il cuore malato di Nina Voss, pallido e flaccido, fu sollevato e deposto in una bacinella. Al suo posto, si scorgeva un buco simile a un enorme sbadiglio. Abby sollevò lo sguardo verso lo schermo del monitoraggio e provò un'improvvisa fitta di allarme nel vedere la linea piatta dell'elettrocardiogramma. Eppure la mancanza di tracciato era naturale. Non c'era più cuore. Anzi, tutti i classici segni vitali erano scomparsi. I polmoni erano immobili, il cuore inesistente. Eppure, la paziente viveva ancora. Mark sollevò il cuore del donatore dalla bacinella e lo depose nella cavità toracica. «C'è chi definisce questo intervento un benemerito lavoro da idraulico», esclamò, ruotando il cuore per far combaciare i tronchi delle vene polmonari. «Si ritiene che sia analogo al ricucire un animale di pezza o qualcosa del genere. Però, se ti distrai anche soltanto per un attimo, prima che tu te ne renda conto stai attaccando il cuore al contrario.» Lo specializzando del quinto anno ridacchiò. «C'è poco da ridere. È accaduto.» «Soluzione salina», chiese Archer, e un'infermiera versò un fiotto di soluzione fredda sul cuore per mantenerne bassa la temperatura sotto il calore emesso dalle lampade. «Le cose che possono andare storte sono centinaia», proseguì Mark, mentre con l'ago da sutura dava profondi e quasi rabbiosi punti nell'atrio
sinistro. «Intolleranza ai farmaci, complicanze associate all'anestesia. Eppure, dannazione, la colpa ricade sempre sul chirurgo.» «C'è troppo sangue, qui», disse Archer. «Abby, aspira.» Il fischio dell'apparecchio per il drenaggio lasciò il posto a un silenzio teso, mentre i chirurghi lavoravano con una maggiore rapidità. Si udivano soltanto il fruscio dell'ossigenatore e il clicchettio delle pinze porta-aghi quando si chiudevano di scatto a ogni nuovo punto. Benché Abby continuasse ad aspirare, il sangue seguitava a inzuppare le garze e a gocciolare sul pavimento. I teli sotto i loro piedi ne erano completamente impregnati. I chirurghi li spinsero di lato con un calcio e ne furono stesi di nuovi. Archer ritirò l'ago da sutura. «Anastomosi atriale destra completata.» «Catetere perfusionale», disse Mark. Un'infermiera gli tese il catetere. Mark lo introdusse nell'atrio sinistro e infuse soluzione salina a 4 °C. Il liquido freddo abbassò la temperatura del ventricolo ed eliminò qualsiasi sacca d'aria all'interno. «Tutto procede a gonfie vele», annunciò Archer, riposizionando il cuore per portare a termine l'anastomosi aortica. «Adesso attacchiamo questi condotti.» Mark lanciò un'occhiata all'orologio a muro. «Guarda un po', siamo persino in anticipo. Che squadra formidabile.» Squillò l'interfono. Era l'infermiera all'esterno. «Mr Voss vuol sapere come va con sua moglie.» «Bene», rispose Archer. «Nessun problema.» «Per quanto ne avrete ancora, a occhio e croce?» «Un'ora. Digli di star tranquillo.» L'interfono tacque. Archer lanciò un'occhiata a Mark. «Mi fa girare le scatole.» «Voss?» «Vuole avere ogni cosa sotto controllo.» «C'è poco da scherzare!» L'ago da sutura di Archer passò dentro e fuori la lucida parete aortica. «D'altra parte, immagino che, se avessi i suoi soldi, farei anch'io la voce grossa.» «Come se li è fatti, i soldi?» chiese lo specializzando del quinto anno. Archer lo guardò sorpreso. «Non conosci la storia di Victor Voss? Della VMI International? Spazia dai prodotti chimici alla robotica.» «Allora è questo che significa la V della sigla VMI?» «Esattamente.» Archer terminò l'ultima sutura. «L'aorta è a posto. Si de-
clampa.» «Il catetere perfusionale sta uscendo», disse Mark e si girò verso Abby. «Prepara quei due contropulsatori.» Archer prese dal vassoio degli strumenti chirurgici un nuovo ago da sutura e iniziò l'anastomosi polmonare. Aveva appena cominciato quando si accorse che l'organo palpitava. «Guardate!» esclamò. «Freddo come il ghiaccio e già ha avuto una contrazione spontanea. Questa cosina ha voglia di muoversi.» «Contropulsatori inseriti», annunciò Mark. «Infusione d'Isuprel in atto», aggiunse Zwick. «Due microgrammi.» Attesero che l'Isuprel facesse effetto, che il cuore avesse una nuova contrazione. L'organo giaceva inerte come un sacco vuoto. «Su», esclamò Archer. «Non deludermi.» «Defibrillatore?» chiese un'infermiera. «No, lasciamogli una possibilità.» Lentamente il cuore si contrasse, poi tornò flaccido. Zwick ordinò: «Aumentare l'Isuprel a tre microgrammi». Ci fu un'altra contrazione. Dopo, nulla. «Forza», disse Archer. «Stimoliamolo un po' di più.» «Quattro microgrammi», ribatté Zwick, controllando l'infusione endovenosa. Il cuore si contrasse, si rilassò. Si contrasse di nuovo, si rilassò. Zwick lanciò un'occhiata al monitor. Sullo schermo il tracciato stava mostrando complessi QRS. «La frequenza è salita a cinquanta. Sessantaquattro. Settanta...» «Titolazione centodieci», disse Mark. «È quanto sto facendo», replicò Zwick, regolando l'Isuprel. Archer si rivolse a un'infermiera: «Comunichi tramite interfono con l'unità coronarica e dica che stiamo per chiudere». «Frequenza centodieci», esclamò Zwick. «Okay», ribatté Mark. «Stacchiamola dalla macchina cuore-polmoni. Via le cannule.» Zwick rimise in funzione l'apparecchio di ventilazione. Tutti nella sala parvero emettere un simultaneo sospiro di sollievo. «Speriamo soltanto che questo cuore e lei vadano d'accordo», esclamò Mark. «Sappiamo quale sia la compatibilità?» chiese Archer. Si girò a guardare
il dottor Mapes. Ma non vide nessuno alle proprie spalle. Anche Abby si era così concentrata sull'intervento da non accorgersi che il medico se n'era andato. «È uscito venti minuti fa», spiegò una delle infermiere. «Così, senza dire nulla?» «Forse doveva prendere un aereo», rispose l'infermiera. «Non ci ha nemmeno dato la possibilità di stringergli la mano», commentò Archer. Tornò a girarsi verso la paziente sul tavolo operatorio. «Va bene, chiudiamo.» 7. Nadja non ne poteva più. Quei continui piagnistei, quelle assillanti richieste, quell'energia giovanile contenuta che regolarmente erompeva sotto forma d'insulti e spintoni l'avevano completamente stremata. E adesso anche il mal di mare. Persino Grigorij, il duro, continuava a dare di stomaco, come la maggior parte dei ragazzi. Nei giorni peggiori, quando lo scafo dell'imbarcazione picchiava come un martello sull'incudine del mare del Nord, erano rimasti distesi nelle loro cuccette a lamentarsi, e i suoni e gli odori di quella loro infelice condizione erano arrivati a invadere anche i ponti superiori. In quelle giornate, la sala mensa era rimasta buia e semideserta, nei corridoi non si aggirava nessuno e la nave sembrava un enorme e gemente vascello fantasma guidato da una ciurma fatta di spettri. Jakov non si era mai divertito tanto. Senza provare neanche un filo di nausea, vagava liberamente per la nave. Nessuno gli sbarrava il passo. Anzi, l'equipaggio sembrava gradire la sua presenza. Jakov andava spesso a fare visita a Kubičev in sala macchine e, in quel rumoroso inferno, tra pistoni stridenti e fumi di nafta, giocava con lui a scacchi. Qualche volta, Jakov vinceva persino. Quando aveva fame, il ragazzo si avventurava nella cambusa dove Lubi, il cuoco, era solito offrirgli tè, zuppa di barbabietole e una fragrante torta speziata al miele, tipica della sua nativa Ucraina. Lubi non parlava granché, si limitava più che altro a chiedere: «Ancora?» oppure: «Basta, eh?» ma il cibo che serviva compensava ampiamente la sua scarsa eloquenza. Poi c'erano da esplorare la polverosa stiva, la sala radio, con le sue manopole e i suoi pulsanti, e il ponte con i salvagenti coperti dalla tela cerata che offrivano un divertente nascondiglio. L'unica parte cui non si poteva accedere era l'e-
stremità di poppa. Il ragazzo non era riuscito a trovare un passaggio che gli permettesse di arrivare fin là. Il posto che Jakov prediligeva era il ponte di comando. Il capitano Dibrov e l'ufficiale di rotta l'accoglievano di solito con un sorriso indulgente e gli permettevano di sedersi davanti alla carta nautica, sulla quale lui tracciava, con l'indice della sua unica mano, il percorso già fatto. Dal porto di Riga giù per il mar Baltico, su per il canale oltre Malmö e Copenaghen, attorno alla punta della Danimarca e via nel mare del Nord, costellato di piattaforme petrolifere che si chiamavano Montrose, Forties e Piper. Jakov non s'immaginava che il mare del Nord fosse così grande. Non era quella piccola pozza blu che sembrava sulla carta. Vi stavano navigando già da due giorni. E ben presto, gli disse l'ufficiale di rotta, avrebbero attraversato un mare ancora più grande, l'oceano Atlantico. «Non sopravvivranno così a lungo», predisse Jakov. «Chi non sopravvivrà?» «Nadja e gli altri ragazzi.» «Ma sì», ribatté l'ufficiale di rotta. «Nel mare del Nord stanno male tutti, però, dopo qualche tempo, lo stomaco si rimette a posto. È una cosa che dipende dall'orecchio interno.» «Che cosa c'entra l'orecchio con lo stomaco?» «Avverte il movimento. Quando ce n'è troppo va in tilt.» «Come?» «Non lo so, precisamente. Ma è così che funziona.» «Io non sto male. C'è qualcosa di diverso nel mio orecchio interno?» «Devi essere un marinaio nato.» Jakov si guardò il moncherino del braccio sinistro e scosse la testa. «Non credo.» L'ufficiale di rotta sorrise. «Hai un cervello che funziona. E il cervello conta molto più del resto. Ne avrai bisogno, lì dove sei diretto.» «Perché?» «Se sei intelligente, in America puoi fare un sacco di soldi. Vuoi essere ricco, vero?» «Non lo so.» Tanto l'ufficiale di rotta quanto il capitano scoppiarono a ridere. «Forse il ragazzo non ha neanche un briciolo di cervello», esclamò il capitano. Jakov li fissò senza sorridere. «Era soltanto uno scherzo», disse l'ufficiale di rotta.
«Lo so.» «Perché sei sempre così serio, ragazzo? Non ti ho mai visto ridere.» «Non sono mai dell'umore adatto.» Il capitano sbuffò. «Questo fortunato piccolo bastardo finirà in qualche ricca famiglia americana e non si sente dell'umore adatto per ridere. Che cosa c'è che non va, in lui?» Jakov si strinse nelle spalle e tornò a guardare la carta nautica. «Non piango mai, nemmeno.» Aleksej era nella cuccetta più bassa, tutto rannicchiato, con Shu-Shu stretto al petto. Quando Jakov si sedette sul materasso, si svegliò di colpo. «Non ti alzerai mai?» chiese Jakov. Aleksej chiuse gli occhi. «Sto male.» «Lubi ha preparato polpette di agnello per cena. Ne ho mangiate nove.» «Non me ne parlare.» «Non hai fame?» «Certo che ho fame. Ma ho troppa nausea per mangiare.» Jakov sospirò e si guardò attorno nella cabina. C'erano otto cuccette, sei occupate da ragazzi troppo indisposti per giocare. Jakov aveva già visitato la cabina accanto e vi aveva trovato altri ragazzi, anche quelli fuori combattimento. Sarebbe stato sempre così, finché non avessero varcato l'Atlantico? «Dipende dal tuo orecchio interno», disse. «Di che cosa stai parlando?» gemette Aleksej. «Del tuo orecchio. Ti fa ammalare lo stomaco.» «Le mie orecchie stanno benissimo.» «Sono quattro giorni che sei malato. Devi alzarti e mangiare.» «Oh, lasciami in pace.» Jakov afferrò Shu-Shu e lo tenne fuori della portata di Aleksej. «Ridammelo!» piagnucolò il compagno. «Vieni a prenderlo.» «Ridammelo e basta!» «Prima alzati. Dai.» Quando Aleksej cercò vanamente di strappargli di mano il cane di pezza, Jakov si allontanò d'un balzo dalla cuccetta. «Giù dal letto ti sentirai meglio.» Aleksej si mise a sedere. Si rannicchiò sul bordo del materasso, con la testa che gli girava a ogni rullio della nave, poi di colpo si portò una mano alla bocca, si alzò, vacillando, e si trascinò verso la parte opposta della ca-
bina. Vomitò nel lavandino. Gemendo e barcollando, tornò alla propria cuccetta. Con aria solenne, Jakov gli riconsegnò Shu-Shu. Aleksej cullò il cane di pezza contro il petto. «Te l'avevo detto che sto male. Adesso vattene.» Jakov lasciò la zona dei ragazzi e si avviò per il corridoio. Arrivato alla porta della cabina di Nadja, bussò. Non ci fu risposta. Jakov raggiunse la cabina di Grigorij e bussò di nuovo. Arrivò una specie di grugnito: «Chi è?» «Sono io, Jakov. Stai ancora male anche tu?» «Sparisci.» Jakov si allontanò. Vagò un po' per la nave, ma Lubi era andato a dormire. Il capitano e l'ufficiale di rotta erano troppo occupati per parlare con lui. Come al solito, Jakov era abbandonato a se stesso. Andò a trovare Kubičev in sala macchine. Si sedettero davanti alla scacchiera. Jakov mosse per primo: pedone in e4. «Sei mai stato in America?» chiese, a voce abbastanza alta da sovrastare il rombo dei motori. «Due volte», rispose Kubičev, avanzando il pedone davanti alla sua regina. «Ti è piaciuta?» «Non so che dire. Non appena arriviamo in porto, ci ordinano di rimanere a bordo. Non ho mai visto un cavolo di niente.» «Perché il capitano lo ordina?» «Non è il capitano. Sono quei tizi nella cabina di poppa.» «Quali tizi? Non li ho mai visti.» «Nessuno li vede mai.» «Allora come fai a sapere che ci sono?» «Chiedi a Lubi. Cucina per loro. Qualcuno mangia il cibo che lui gli fa avere. Allora, muovi o no?» Con grande concentrazione, Jakov avanzò un altro pedone. «Perché non abbandoni la nave quando arriviamo in porto?» chiese. «E perché dovrei?» «Per rimanere in America e diventare ricco.» Kubičev grugnì. «Mi pagano a sufficienza. Non posso lamentarmi.» «Quanto ti pagano?» «Chiacchieri troppo.»
«È una grossa cifra?» «È più di quanto ero abituato a ricevere. Più di quanto prendono mediamente gli altri. E soltanto per andare avanti e indietro, da una sponda all'altra di questo dannato oceano Atlantico.» Jakov mosse la regina. «Allora, è un buon lavoro fare il macchinista?» «Che mossa stupida, esporre così la regina. Perché l'hai fatta?» «Sto tentando nuove soluzioni. Converrebbe anche a me diventare macchinista, un giorno o l'altro?» «No.» «Ma guadagni molto.» «Soltanto perché lavoro per la compagnia Sigaev. Loro pagano bene.» «Perché?» «Perché tengo la bocca chiusa.» «Perché?» «Che diavolo ne so?» Kubičev allungò una mano sulla scacchiera. «Il mio re mangia la tua regina. Hai visto, te l'avevo detto che era una mossa stupida.» «Era un esperimento», ribatté Jakov. «Be', spero che tu abbia imparato qualcosa.» Alcuni giorni dopo, sul ponte di comando, Jakov chiese all'ufficiale di rotta: «Che cos'è la compagnia Sigaev?» L'ufficiale gli lanciò un'occhiata sorpresa. «Dove hai sentito questo nome?» «Me ne ha parlato Kubičev.» «Non avrebbe dovuto farlo.» «Allora neanche tu vuoi dirmene qualcosa», borbottò Jakov. «Proprio così.» Per un istante, Jakov rimase in silenzio. Osservò l'ufficiale di rotta mentre trafficava con la sua apparecchiatura elettronica. C'era un piccolo schermo dove continuavano a lampeggiare alcuni numeri; l'uomo li trascriveva in un libro e poi guardava la sua carta nautica. «Dove siamo?» chiese Jakov. «Qui.» L'ufficiale di rotta indicò sulla carta una minuscola x. Era proprio in mezzo all'oceano. «Come fai a saperlo?» «Per via dei numeri. Li leggo sullo schermo. Latitudine e longitudine. Vedi?»
«Bisogna essere molto intelligenti per fare l'ufficiale di rotta, vero?» «Be', in realtà non ci vuole un'intelligenza speciale.» L'uomo stava muovendo due righelli di plastica sulla carta nautica. Le asticelle erano incernierate e mandarono un suono secco quando l'ufficiale le fece scivolare sulla rosa della bussola in margine alla carta nautica. «State facendo qualcosa d'illegale?» chiese Jakov. «Che cosa?» «È per questo motivo che è vietato parlarne?» L'ufficiale di rotta sospirò. «Il mio unico compito consiste nel guidare questa nave da Riga a Boston e viceversa.» «Caricate sempre orfani?» «No. Di solito portiamo merci. Casse. Non chiedo che cosa c'è dentro. Non faccio domande, punto e basta.» «Perciò forse state facendo davvero qualcosa d'illegale.» L'ufficiale rise. «Sei un piccolo diavolo, eh?» Ricominciò a scrivere sul suo libro, segnando i numeri in colonne ben ordinate. Il ragazzo rimase a guardarlo per un po' in silenzio. Poi disse: «Credi che qualcuno mi adotterà?» «Ma certo.» «Anche con questo?» Jakov sollevò il moncherino. L'uomo fissò il ragazzo e Jakov scorse nei suoi occhi il solito lampo di compassione. «Sono sicuro che qualcuno ti adotterà», concluse l'ufficiale di rotta. «Come fai a saperlo?» «Qualcuno ha pagato il tuo viaggio, no? Ti ha fatto avere i documenti necessari.» «Non li ho mai visti. E tu?» «Non sono affari miei. Io devo soltanto portare questa nave fino a Boston.» Spinse Jakov di lato. «Perché non torni dagli altri ragazzi? Su, muoviti.» «Stanno ancora tutti male.» «Be', va' a giocare da qualche altra parte.» Riluttante, Jakov lasciò il ponte di comando e uscì in plancia. Lì era solo. Si avvicinò al parapetto e guardò l'acqua che vorticava davanti alla prua. Pensò ai pesci che nuotavano da qualche parte lì sotto, nel loro grigio e torbido mondo, e all'improvviso si accorse di non riuscire quasi più a respirare: l'immagine dell'acqua che turbinava era soffocante. Eppure non si mosse. Rimase accanto al parapetto, aggrappato con la sua unica mano, la-
sciando che quei pensieri spaventosi di acqua profonda e gelida lo sommergessero. La paura era un sentimento che da molto tempo non lo sfiorava. In quel momento la stava provando. 8. Per due notti di fila aveva fatto lo stesso sogno. Secondo le infermiere, dipendeva da quei farmaci che stava prendendo: il metilprednisolone e la ciclosporina, più gli analgesici. Quelle sostanze chimiche le rimescolavano la mente. E, dopo settimane di degenza a letto, era più che naturale che facesse brutti sogni. Capitava a tutti. Non c'era nulla di cui preoccuparsi. Alla fine, quegli incubi sarebbero svaniti. Però, quella mattina, Nina Voss, sdraiata nel suo letto nell'unità di terapia intensiva, con gli occhi pieni di lacrime, capì che il sogno non si sarebbe dileguato, mai più. Ormai faceva parte di lei. Proprio come il nuovo cuore. Cautamente si portò una mano alla fasciatura attorno al torace. Erano trascorsi due giorni dall'operazione e il dolore, per quanto cominciasse a placarsi, la svegliava ancora di notte, a ricordarle il dono che aveva ricevuto. Era un cuore buono, forte. Lei se n'era accorta ad appena un giorno dall'intervento. Nei lunghi mesi della sua malattia, aveva dimenticato che cosa significasse possedere un cuore sano. Camminare senza dover ansimare; sentire il sangue che viene pompato, caldo e vitale, nei muscoli; guardare le proprie dita e meravigliarsi del turgore roseo dei capillari. Aveva vissuto per tanto tempo in attesa della morte, nell'accettazione della fine, che la vita stessa le era diventata estranea. Adesso, invece, poteva scorgerla nelle proprie mani. Poteva avvertirla nei polpastrelli. E nel battito di quel cuore nuovo. Tuttavia non sentiva quell'organo come proprio. E forse non ci sarebbe mai riuscita. Quando era bambina, Nina ereditava spesso i vestiti della sorella maggiore, i bei pullover di lana di Caroline, gli abiti da cerimonia quasi nuovi. Anche se quegli indumenti erano diventati indiscutibilmente suoi, Nina non smetteva di considerarli di proprietà della sorella. Nella sua mente erano sempre gli abiti di Caroline, le gonne di Caroline. E chissà di chi è questo cuore, pensava, sfiorando il petto con una mano. A mezzogiorno, Victor si sedette accanto al suo letto.
«Ho fatto di nuovo quel sogno», gli disse Nina. «Quello sul ragazzo. Stavolta era così nitido! Quando mi sono svegliata, non riuscivo a smettere di piangere.» «È colpa degli steroidi, cara», ribatté Victor. «Ti avevano avvisata degli effetti collaterali.» «Credo che abbia un significato preciso. Non capisci? Ho questa parte di lui dentro di me. Una parte che è ancora viva. Posso sentirlo...» «Quell'infermiera non avrebbe mai dovuto rivelarti che era il cuore di un ragazzo.» «Gliel'ho chiesto io.» «In ogni caso, non avrebbe dovuto dirlo. Saperlo non serve a nessuno. Né al ragazzo né a te.» «No», replicò Nina a voce bassa. «Al ragazzo no. Ma alla sua famiglia... se c'è una famiglia...» «Sono sicuro che non vogliono essere costretti a ricordare. Pensaci, Nina. La procedura dei trapianti è strettamente riservata. C'è un valido motivo.» «Che ci sarebbe di male? Mandare alla famiglia una lettera di ringraziamento? Un biglietto assolutamente anonimo. Una semplice...» «No, Nina. Non se ne parla nemmeno.» La donna si adagiò sui cuscini, in silenzio. Ancora una volta si era comportata da sciocca. Victor aveva ragione. Victor aveva sempre ragione. «Hai uno splendido aspetto oggi, tesoro», riprese lui. «Ti sei già seduta in poltrona?» «Due volte», rispose Nina. Di colpo le parve che nella stanza facesse freddo, molto freddo. Distolse lo sguardo e rabbrividì. Pete era su una sedia accanto al letto di Abby e la guardava. Indossava la sua uniforme azzurra da Lupetto, quella con le piccole etichette cucite sulle maniche e con le perline di plastica che penzolavano dal taschino, una perlina per ogni impresa portata a termine. Non aveva nulla in testa. Dov'è il berretto? si chiese. E poi ricordò che era andato perduto, che le sue sorelle e lei avevano guardato e frugato in ogni angolo della strada, là dove si trovavano i resti contorti della bicicletta, ma inutilmente. Era molto tempo che Pete non veniva a trovarla; non era più comparso dalla notte che aveva preceduto la partenza di Abby per il college. Quando le faceva visita, la scena era sempre la stessa. Lui stava seduto e la guardava, senza parlare.
Lei disse: «Dove sei stato, Pete? Perché sei venuto, se non hai nulla da comunicarmi?» Lui rimaneva seduto e la guardava, le labbra immobili. Il colletto della camicia azzurra era inamidato e rigido, proprio come gliel'aveva sistemato la mamma prima del funerale. Pete si girò e guardò verso un'altra stanza. Pareva che una nota musicale lo stesse chiamando; cominciò a scomporsi, come un riflesso nell'acqua quando viene rimescolata. Abby chiese: «Che cosa sei venuto a dirmi?» Le acque ormai stavano ribollendo, schiumando, sotto la sferza di quelle note musicali. Un trillo simile a quello di un campanello portò a una completa disintegrazione. Rimase soltanto il buio. E il telefono che suonava. Sollevò la cornetta. «DiMatteo», disse. «Qui l'unità chirurgica di terapia intensiva. Credo che sia il caso che lei venga subito.» «Che succede?» «Si tratta di Mrs Voss, letto 15. La paziente trapiantata. Ha la febbre alta, trentotto e sei.» «E le altre funzioni vitali?» «Pressione 100 su 70. Pulsazioni 96.» «Arrivo.» Riattaccò e accese la luce. Erano le due di mattina. La sedia accanto al letto era vuota, Pete non c'era. Con un gemito si alzò dal letto e, barcollando, attraversò la stanza fino al lavandino, dove si spruzzò un po' d'acqua fredda in viso. Non si accorse neppure di quanto fosse gelida. Era come se fosse sotto anestesia. Svegliati, svegliati, si disse. Devi capire che diavolo stai facendo. Un rialzo febbrile post-operatorio. Un trapianto che risaliva a tre giorni prima. Anzitutto, controllare la ferita. Auscultare i polmoni, l'addome. Richiedere una radiografia del torace e un esame colturale. Soprattutto non perdere il tuo sangue freddo. Non poteva permettersi errori. Non in quel momento, e certamente non con quella paziente. Negli ultimi tre giorni, ogni mattina era entrata al Bayside chiedendosi se avesse ancora un lavoro. E ogni pomeriggio, alle cinque, aveva emesso un sospiro di sollievo per essere sopravvissuta ad altre ventiquattro ore. A ogni giorno che passava, la crisi sembrava sempre più evanescente e le minacce di Parr sempre più remote. Abby sapeva di avere Wettig dalla sua, e anche Mark. Con il loro aiuto, forse - forse - avrebbe mantenuto il posto.
Non voleva dare a Parr un motivo, seppur minimo, per mettere in discussione il suo operato di medico, perciò sul lavoro era stata particolarmente scrupolosa, aveva controllato e ricontrollato ogni esame di laboratorio, ogni segno fisico. Ed era stata ben attenta a girare alla larga dalla stanza di Nina Voss. Un altro furioso scontro con Victor Voss era l'ultima cosa di cui aveva bisogno. Ma Nina Voss adesso aveva la febbre e Abby era l'unico medico in servizio. Non poteva sottrarsi a quell'obbligo; era suo dovere assisterla. S'infilò le scarpe da tennis e uscì dalla stanza del medico di guardia. A tarda notte, un reparto ospedaliero è un ambiente surreale. Lunghi corridoi deserti, luci troppo vive e quelle pareti bianche, che, viste da occhi stanchi, sembrano curvarsi e ondeggiare come tunnel semoventi. Abby si stava addentrando proprio in uno di quei tunnel, con il corpo intorpidito, la mente ancora impastoiata. Soltanto il cuore aveva reagito in pieno a quella situazione critica: stava battendo furiosamente. Oltrepassò un angolo e fece il suo ingresso nell'unità coronarica. Le luci erano state abbassate per la notte (una concessione della tecnologia moderna al ritmo biologico dei pazienti umani). Nella penombra della stanza delle infermiere, i tracciati dei cuori di sedici pazienti scorrevano su sedici schermi. Un'occhiata al monitor numero 15 confermò che il polso di Mrs Voss era troppo veloce: cento pulsazioni al minuto. L'infermiera di turno sollevò il telefono che squillava, poi disse: «Il dottor Levi è all'apparecchio. Vuole parlare con il medico di guardia». «Rispondo io», replicò Abby, afferrando la cornetta. «Pronto, dottor Levi? Sono Abby DiMatteo.» Silenzio. «È lei di guardia stanotte?» disse infine Levi e, nella sua voce, lei colse una chiara nota di disappunto. Ne comprese subito il motivo. Abby era l'ultima persona che lui voleva vedere attorno a Nina Voss. Ma quella sera non c'erano alternative: era lei il medico di turno. «Sono venuta a visitare Mrs Voss», spiegò. «Ha la febbre.» «Sì, me l'hanno detto.» Di nuovo cadde il silenzio. Lei si tuffò in quel vuoto, decisa a mantenere la conversazione a un livello puramente professionale. «Seguirò la solita procedura in caso di rialzo febbrile», disse. «La visiterò, richiederò una routine ematochimica, un esame colturale e quello delle orine e la radiografia del torace. Non appena avrò i risultati, le telefonerò.» «Va bene», borbottò lui. «Aspetterò che mi chiami.» Abby s'infilò un camice sterile ed entrò nella camera asettica di Nina
Voss. Era stata lasciata accesa un'unica lampada, che brillava debolmente sul letto. Sotto quel pallido cono di luce, i capelli di Nina Voss, sparsi sul cuscino, erano una massa argentea. La donna aveva gli occhi chiusi, le mani incrociate sul corpo in una strana sembianza di riposo eterno. La principessa nel sepolcro, pensò Abby. Si avvicinò di lato al letto e chiamò a voce bassa: «Mrs Voss?» Nina aprì gli occhi. Lentamente il suo sguardo si focalizzò. «Sì?» «Sono la dottoressa DiMatteo, una degli specializzandi in chirurgia.» Vide negli occhi della donna un lampo di riconoscimento. Il mio nome le dice qualcosa, pensò Abby. Sa chi sono. La profanatrice di tombe, la ladra di cadaveri. Nina Voss rimase in silenzio. Si limitò a fissarla con occhi impenetrabili. «Lei ha la febbre», le spiegò. «Dobbiamo capire perché. Come si sente, Mrs Voss?» «Sono... stanca. Tutto qui», bisbigliò Nina. «Soltanto stanca.» «Devo controllare la ferita.» Abby accese le luci e sollevò le bende dal torace. L'incisione sembrava pulita, non era arrossata e non spurgava. Allora lei si tolse di tasca lo stetoscopio e indagò le altre possibili cause febbrili. Auscultò il murmure vescicolare che risultò normale, tastò l'addome, controllò orecchie, naso e gola. Non trovò nulla di allarmante, nulla che potesse giustificare la febbre. Nel frattempo, Nina era rimasta in silenzio, seguendo con gli occhi ogni mossa del medico. Alla fine, Abby si raddrizzò e disse: «Sembra tutto in ordine. Ma ci dev'essere un motivo per la febbre. Le faremo una radiografia al torace e preleveremo tre diversi campioni di sangue per le colture.» Sorrise con aria di scusa. «Temo che stanotte non le permetteremo di dormire molto.» Nina scosse la testa. «In ogni caso non riesco a dormire granché. Quei sogni. Troppi...» «Incubi?» Nina inspirò, poi lasciò uscire il fiato molto lentamente. «A proposito del ragazzo.» «Quale ragazzo, Mrs Voss?» «Questo.» Si appoggiò lentamente una mano al petto. «Mi hanno detto che apparteneva a un ragazzo. Non conosco neppure il suo nome. O in quale modo sia morto. L'unica cosa che so è che questo apparteneva a un ragazzo.» La guardò. «È così, vero?» Abby annuì. «L'ho sentito dire in sala operatoria.»
«Lei c'era?» «Ho assistito il dottor Hodell.» Un leggero sorriso arricciò le labbra di Nina. «Che strano. Che lei fosse lì, dopo...» Per un istante, nessuna delle due parlò, Abby ammutolita dal senso di colpa, Nina Voss da... che cosa? L'ironia di quel loro incontro? Abby riabbassò le luci. Nella camera asettica, calò di nuovo quella penombra sepolcrale. «Mrs Voss», riprese Abby, «quant'è accaduto pochi giorni fa... L'altro cuore, il primo cuore...» Distolse gli occhi, non riuscendo a sopportare lo sguardo della donna. «C'era un ragazzo. Di diciassette anni. I giovani di quell'età vogliono l'automobile o una fidanzatina, ma lui... lui desiderava soltanto tornare a casa. Nient'altro, soltanto andare a casa.» Emise un sospiro. «Insomma, non potevo lasciare che morisse. Non la conoscevo, Mrs Voss. Non c'era lei, distesa in quel letto. C'era lui. E sono stata costretta a fare una scelta.» Batté le palpebre, sentì le lacrime inumidire le ciglia. «È sopravvissuto?» «Sì. Ce l'ha fatta.» Nina annuì. Di nuovo si toccò il torace. Sembrava stesse comunicando con il suo cuore. Ascoltando, stabilendo un rapporto. Disse: «Questo ragazzo. Anche questo è vivo. Sono così consapevole del suo cuore. Di ogni battito. C'è chi ritiene che il cuore sia la sede dell'anima. Forse è questo che credono i suoi genitori. Penso anche a loro. A quanto dev'essere difficile. Non ho mai avuto un figlio, non ho mai avuto un bambino mio.» Chiuse una mano a pugno, se la premette contro le bende. «Non ritiene che potrebbe essere di conforto sapere che una parte di lui è ancora viva? Se si fosse trattato di mio figlio, io avrei voluto sapere. Avrei voluto sapere.» Stava piangendo: un luccicante filo di lacrime le rigava le tempie. Lei prese una mano della donna e rimase sbalordita dalla forza della stretta di Nina, dalla pelle calda di febbre, dalle dita contratte in una richiesta di aiuto. Nina la stava fissando: uno sguardo, il suo, che sembrava risplendere di un intimo, strano fuoco. Se ti avessi conosciuta allora, pensò Abby, se ti avessi vista morire in un letto, mentre Josh O'Day stava morendo in un altro, quale dei due avrei scelto? Non lo so. Sopra il letto, nella luminosità verde dell'oscilloscopio una linea guizzò in alto. Il cuore di un ragazzo sconosciuto, che pulsava cento volte al minuto, pompando sangue febbrile nelle vene di un'estranea.
Mentre stringeva la mano di Nina, Abby avvertì una pulsazione. Un battito lento, sicuro. Non quello di Nina, ma il proprio. Il tecnico della radiologia ci mise venti minuti ad arrivare con il suo apparecchio mobile e a fare la radiografia del torace, poi ci volle un altro quarto d'ora prima che Abby avesse in mano la lastra sviluppata. L'attaccò contro lo schermo luminoso e l'esaminò alla ricerca di un indizio di polmonite. Non vide nulla. Erano le tre di mattina. Telefonò a casa di Aaron Levi. Rispose la moglie, la voce impastata dal sonno. «Pronto?» «Elaine, parla Abby DiMatteo. Mi dispiace disturbarti a quest'ora. Posso parlare con Aaron?» «È uscito, diretto in ospedale.» «Quanto tempo fa?» «Boh... subito dopo la seconda telefonata. Non è lì?» «Non l'ho visto.» All'altro capo del filo ci fu un attimo di silenzio. «È uscito di casa circa un'ora fa», disse infine Elaine. «Dovrebbe essere lì.» «Lo chiamerò tramite cicalino. Non preoccuparti, Elaine.» Abby riappese, poi compose il numero del cicalino di Aaron e aspettò che il telefono squillasse. Alle tre e un quarto non si era ancora fatto vivo. «Dottoressa DiMatteo?» la chiamò Sheila, l'infermiera addetta a Nina Voss. «L'ultimo prelievo di sangue è stato eseguito. C'è qualcos'altro che vuole richiedere?» Che cosa non ho fatto? pensò Abby. Si chinò in avanti sulla scrivania e si massaggiò le tempie, lottando per rimanere sveglia. Doveva pensare. Una febbre post-operatoria. Da dove partiva quell'infezione? Che cosa aveva trascurato? «E l'organo?» disse Sheila. Abby sollevò lo sguardo. «Il cuore?» «Mi era venuta in mente una cosa. Ma ritengo che sia poco probabile...» «Che cosa hai pensato, Sheila?» L'infermiera esitò. «Qui non l'ho mai visto accadere. Ma, prima di venire al Bayside, lavoravo presso un centro di trapianti renali a Mayo. Ricordo che ci capitò un caso: un paziente cui era stato trapiantato un rene venne colpito da febbre post-operatoria. Non si riuscì a capire quale fosse l'infe-
zione se non dopo il decesso. Saltò fuori che si trattava di funghi. In seguito, si risalì al donatore e si scoprì che le emocolture di quest'ultimo erano positive, ma i risultati erano arrivati soltanto una settimana dopo che i reni erano stati espiantati. Quando era ormai troppo tardi per il ricevente, cioè il nostro paziente.» Abby rifletté. Guardò la sfilata di monitor, il tracciato del letto 15 che saltellava nello schermo. «Dove sono conservate le informazioni relative ai donatori?» chiese. «Dovrebbero essere nell'ufficio della coordinatrice dei trapianti, in fondo alle scale. La caposala ha la chiave.» «Puoi chiederle di prendere quell'incartamento per me?» Riaprì quindi la cartella clinica di Nina Voss. Studiò il documento rilasciato dalla New England Organ Bank, cioè il foglio che aveva accompagnato il cuore dal Vermont. Vi erano registrati il gruppo sanguigno, il risultato negativo della ricerca degli anticorpi anti-Hiv, la titolazione degli anticorpi treponemici e una lunga lista di altri esami di laboratorio per svariate infezioni virali. Del donatore non venivano indicate le generalità. Un quarto d'ora dopo, il telefono squillò. Era la caposala, e cercava Abby. «Non riesco a trovare l'incartamento relativo al donatore», disse. «Non è sotto il nome di Nina Voss?» «Sono catalogati secondo il numero di registrazione del ricevente. Ma qui, sotto il numero di Nina Voss, non c'è nulla.» «Può essere finito per sbaglio sotto un altro numero?» «Ho controllato anche negli incartamenti relativi ai trapianti di rene e di fegato. E ho verificato che il numero di Nina Voss fosse quello esatto. E sicura che non sia rimasto da qualche parte lassù, nell'unità di terapia intensiva?» «Chiederò alle infermiere. Grazie.» Abby riattaccò ed emise un sospiro. Documenti mancanti. Era l'ultima cosa di cui avrebbe voluto occuparsi a quell'ora di mattina, tuttavia andò lei stessa a controllare nel classificatore dove, in quel reparto, venivano conservati i documenti che concernevano le precedenti degenze dei pazienti ricoverati. Se l'incartamento mancante era sepolto lì dentro, chissà dove, la ricerca sarebbe potuta durare anche un'ora. Tanto valeva chiamare direttamente l'ospedale in cui era stato eseguito l'espianto. Lì avrebbero controllato i dati e le avrebbero comunicato l'anamnesi del donatore e i test di laboratorio.
Si fece dare dalla compagnia dei telefoni il numero del Wilcox Memorial. Chiamò e chiese della caposala. Una donna venne al telefono: «Parla Gail DeLeon». «Sono la dottoressa DiMatteo, del Bayside Hospital di Boston», esordì Abby. «Abbiamo una paziente reduce da trapianto cardiaco che è stata colpita da una febbre postoperatoria. Sappiamo che l'organo trapiantato viene dal vostro reparto di chirurgia. Mi chiedo se lei sia in grado di dirmi il nome del donatore.» «L'espianto è stato fatto qui?» «Sì, tre giorni fa. Il donatore era un ragazzo. Un adolescente.» «Mi faccia controllare sul registro della sala operatoria. La richiamo io.» E dieci minuti più tardi richiamò... non per dare una risposta, bensì per fare una domanda: «È sicura di essersi rivolta all'ospedale giusto, dottoressa?» Lei lanciò un'occhiata alla cartella clinica di Nina. «Ce l'ho scritto davanti: OSPEDALE DEL DONATORE, WILCOX MEMORIAL, BURLINGTON, VERMONT.» «Sì, dovremmo essere noi. Però sul registro non vedo espianti.» «Può controllare le schede degli interventi operatori? La data dovrebbe essere...» Controllò sul foglio di accompagnamento del cuore. «24 settembre. L'espianto dovrebbe essere stato eseguito verso mezzanotte.» «Rimanga in linea.» Attraverso il ricevitore, Abby udì il rumore di pagine che venivano girate e sentì l'infermiera schiarirsi la gola. Poi la voce risuonò di nuovo nella cornetta. «Pronto?» «Sì?» «Ho controllato i dati relativi ai giorni 23, 24 e 25 settembre. Ci sono un paio di appendicectomie, una colecistectomia e due cesarei. Nessun espianto d'organi.» «Eppure deve esserci. Abbiamo avuto il cuore.» «Non siamo stati noi a mandarvelo.» Abby scorse rapidamente gli appunti presi dalle infermiere della sala operatoria e vide l'annotazione: 1.05. ARRIVO DEL DOTTOR MAPES DAL WILCOX MEMORIAL. Disse: «Uno dei chirurghi che ha presenziato all'espianto era il dottor Leonard Mapes. È stato lui stesso a consegnarci l'organo». «Nessun dottor Mapes fa parte del nostro staff.» «È un chirurgo toracico...»
«Senta, qui non c'è nessun dottor Mapes. Anzi, non conosco nessun Mapes che faccia il medico a Burlington. Non so da dove abbia tratto le sue informazioni, dottoressa, però è chiaro che sono sbagliate. Forse dovrebbe controllare meglio.» «Ma...» «Provi con un altro ospedale.» Lentamente, Abby riappese la cornetta. Rimase a lungo con lo sguardo fisso sul telefono. Pensava a Victor Voss e al suo denaro, a tutte le cose che i soldi possono comprare. Pensò alle sconcertanti coincidenze che avevano garantito a Nina Voss un cuore nuovo. Un cuore adatto al suo organismo. Ancora una volta, allungò una mano verso il telefono. 9. «Stai esagerando», esclamò Mark, mentre sfogliava la cartella clinica di Nina Voss. «C'è certamente una spiegazione ragionevole per tutto questo.» «Vorrei sapere quale», replicò Abby. «L'intervento era stato eseguito perfettamente, il cuore era stato espiantato bene e consegnato con le dovute cautele. E le carte del donatore c'erano.» «Ma adesso, a quanto sembra, mancano.» «La coordinatrice dei trapianti sarà qui alle nove. Allora potremo chiederle dove sono finite quelle carte. Sono sicuro che si trovano qui, da qualche parte.» «Mark, c'è un'altra cosa. Ho telefonato all'ospedale dov'è stato eseguito l'espianto. Non c'è nessun chirurgo di nome Leonard Mapes in quella struttura. Anzi, in tutta Burlington non c'è un chirurgo che si chiami così.» Fece una pausa. A voce bassa continuò: «Sai veramente da dove è venuto quel cuore?» Mark non rispose. Sembrava troppo stordito, troppo stanco per ragionare lucidamente. Erano le quattro e un quarto. Dopo che Abby gli aveva telefonato, si era buttato giù dal letto e aveva guidato fino al Bayside. Le febbri post-operatorie richiedono un'attenzione immediata e, pur fidandosi della diagnosi di Abby, Mark aveva voluto visitare la paziente di persona. Adesso, seduto nella pallida luce dell'unità chirurgica di terapia intensiva, tentava di raccapezzarsi tra i vari documenti raccolti nella cartella di Nina Voss. Davanti a lui, in alto, c'era una fila di schermi per il monitoraggio
cardiaco e, nei suoi occhiali, si riflettevano tre baluginanti tracciati verdi. Nella semioscurità le infermiere si muovevano come ombre e parlavano a voce bassa. Mark chiuse la cartella. Sospirando, si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi. «Questa febbre. Qual è la maledetta causa? È questo che mi preoccupa realmente.» «Non potrebbe dipendere da un'infezione trasmessa dal donatore?» «Poco probabile. Non l'ho mai visto verificarsi in un trapianto di cuore.» «Eppure non sappiamo nulla del donatore. O della sua anamnesi. Non sappiamo neppure da quale ospedale sia venuto il cuore.» «Abby, stai dando i numeri. So per certo che Archer ha parlato per telefono con il chirurgo che stava eseguendo l'espianto. So anche che le carte c'erano. Erano in una busta marrone.» «Ricordo di averla vista.» «Tanto meglio. Allora abbiamo visto la stessa cosa.» «Ma dov'è adesso questa busta?» «Ehi, io stavo operando, ricordi? Ero immerso nel sangue fino ai gomiti. Non potevo tener d'occhio una dannata busta.» «In ogni caso, perché tanta segretezza sul donatore? Non abbiamo dati, non conosciamo neppure il suo nome.» «È la procedura standard. I dati del donatore devono rimanere segreti. Vengono sempre tenuti separati dalla cartella del ricevente. In caso contrario, finiremmo per avere le famiglie che si mettono in contatto tra loro. Quella del donatore si aspetterebbe dall'altra una perenne gratitudine; e, quanto al ricevente, potrebbe risentirsi o provare un forte senso di colpa. Il tutto porterebbe soltanto a uno spaventoso caos emotivo.» Si appoggiò allo schienale della sedia. «Stiamo perdendo tempo a discutere di questo argomento. Ogni cosa verrà risolta tra poche ore. Concentriamoci sulla febbre.» «D'accordo. Ma, in ogni caso, la New England Organ Bank vorrebbe parlarne con voi.» «Com'è entrata in ballo la NEOB?» «Ho telefonato io. C'è una loro linea in funzione ventiquattr'ore su ventiquattro. Ho detto che Archer o tu vi sareste messi in contatto con loro.» «Tanto vale che sia Archer a prendere in mano la faccenda. Sarà qui a momenti.» «Sta venendo?» «È preoccupato per la febbre. E, tra le altre cose, non riusciamo a metterci in contatto con Aaron. L'hai chiamato di nuovo sul cicalino?»
«Tre volte. Nessuna risposta. Elaine mi ha detto che stava venendo qui.» «Be', so che è arrivato. Ho appena visto la sua auto giù nel parcheggio. Forse avrà da fare nel reparto di medicina interna.» Mark cercò il foglio delle prescrizioni nella cartella clinica di Nina Voss. «Agirò senza di lui.» Abby lanciò un'occhiata al letto di Nina Voss. Gli occhi della paziente erano chiusi, il petto si alzava e si abbassava secondo il delicato ritmo del sonno. «Comincerò a somministrarle antibiotici», disse Mark. «Ad ampio spettro.» «Quale infezione stai combattendo?» «Non lo so. È soltanto una terapia temporanea, in attesa che arrivino i risultati delle colture batteriche. Immunodepressa com'è, non possiamo correre il rischio che si sviluppi un'infezione da qualche parte.» Con aria frustrata, Mark si alzò dalla sedia e si avvicinò alla vetrata della camera asettica. Rimase fermo un istante, guardando Nina Voss. L'aver visto la donna parve calmarlo. Abby si portò al suo fianco. Erano molto vicini, si toccavano quasi, eppure erano separati dal baratro di quella crisi. Dall'altra parte del vetro, Nina Voss dormiva in pace. «Potrebbe essere una reazione ai farmaci», rifletté Abby. «Gliene vengono somministrati tanti. Uno qualunque potrebbe causare la febbre.» «È possibile... Ma non molto verosimile con gli steroidi e la ciclosporina.» «Non sono riuscita a trovare nessuna fonte d'infezione. Da nessuna parte.» «È priva di difese immunitarie. Se trascuriamo qualcosa, muore.» Si girò a prendere la cartella clinica. «Comincio a somministrarle un'associazione antibiotica.» Alle sei di mattina, la prima dose di aztreonam in infusione endovenosa prese a scendere nella vena di Nina. Fu richiesto un consulto con uno specialista di malattie infettive, il dottor Moore, che alle sette e un quarto era già lì e approvò la decisione di Mark. In un paziente immunodepresso, la febbre era troppo pericolosa e bisognava farla sparire a tutti i costi. Alle otto un secondo antibiotico, la piperacillina, fu infuso in vena. A quell'ora, Abby stava facendo il giro mattutino delle visite, con il suo carrellino sovraccarico di cartelle cliniche allineate una accanto all'altra. Era stata una brutta notte: prima di quella telefonata alle due era riuscita a dormire soltanto un'ora e, in seguito, non aveva avuto un attimo di riposo. Rinfrancata da due tazze di caffè e dalla prospettiva della conclusione del
suo turno di guardia, spingeva il carrello lungo la fila di camere asettiche, pensando: Ancora quattro ore e sarò fuori di qui. Mancano soltanto quattro ore a mezzogiorno. Passò accanto al letto 11 e lanciò un'occhiata attraverso il vetro dell'ambiente sterile. Nina era sveglia. Nello scorgere Abby, accennò stancamente un segno di saluto. Lei lasciò il carrello accanto alla porta, indossò un camice sterile ed entrò nella camera asettica. «Buongiorno, dottoressa DiMatteo», mormorò Nina. «Temo che lei non abbia dormito molto a causa mia.» Abby sorrise. «Nessun problema. Ho dormito la settimana scorsa. Come si sente?» «Al centro di ogni attenzione.» Nina guardò la flebo di antibiotico appesa accanto al letto. «È quella la terapia?» «Lo speriamo. Le stiamo somministrando una combinazione di piperacillina e di aztreonam. Antibiotici ad ampio spettro. Se lei ha un'infezione, questi farmaci dovrebbero stroncarla.» «E se non si tratta di un'infezione?» «Allora la febbre non andrà via. E tenteremo qualcos'altro.» «Quindi, in realtà, non sapete quale sia la causa.» Abby rimase in silenzio. «No», ammise infine. «Non lo sappiamo. È un po' come sparare un timido colpo nel buio pesto.» Nina annuì. «Sapevo che lei mi avrebbe detto la verità. Vede, il dottor Archer non l'avrebbe mai fatto. Stamattina è venuto qui e ha continuato a dire di non preoccuparmi, che tutto era sotto controllo. Non ha mai ammesso la sua... ignoranza.» Nina proruppe in una leggera risata, come se la febbre, gli antibiotici, quei tubi e quelle apparecchiature facessero parte di una bizzarra illusione. «Sono certa che non voleva farla angustiare», ribatté. «Ma la verità non mi spaventa. Davvero. Capita abbastanza spesso che i medici non dicano le cose come stanno.» Fissò Abby negli occhi. «Questo lo sappiamo entrambe.» Abby si accorse di aver automaticamente sollevato lo sguardo verso i monitor. Vide che i tracciati sugli schermi avevano valori normali. Le pulsazioni, la pressione sanguigna, la pressione atriale destra. Era una pura abitudine, quell'attenzione ai numeri. Le macchine non pongono domande difficili, non si aspettano risposte dolorosamente sincere. Udì Nina dire, a bassa voce: «Victor».
Si voltò. Soltanto allora, fronteggiando la porta, si rese conto che Victor Voss era entrato nella camera asettica. «Se ne vada», esclamò l'uomo. «Esca dalla stanza di mia moglie.» «Stavo controllando che tutto fosse in ordine.» «Ho detto: vada via!» Fece un passo verso di lei e afferrò un lembo del camice sterile. Istintivamente, Abby diede uno strappo, liberandosi. La camera asettica era così piccola che non c'era spazio per indietreggiare né un angolo in cui rifugiarsi. L'uomo balzò in avanti. Stavolta le afferrò un braccio, con una stretta che voleva far male. «Victor, no!» esclamò Nina. Abby lanciò un grido di dolore mentre veniva trascinata via. Lui la buttò fuori della camera asettica. La violenza della spinta fece sì che la donna urtasse contro il carrellino. Questo rotolò via e Abby piombò violentemente a terra, battendo il sedere. Intanto il carrello era andato a sbattere contro un banco e le cartelle cliniche scivolarono pesantemente al suolo. Stordita dal colpo, sollevò lo sguardo e scorse Victor Voss che torreggiava sopra di lei. Aveva il respiro pesante, non per l'affanno, bensì per la collera. «Non si avvicini più a mia moglie», sibilò. «Mi ha sentito bene, dottoressa? Mi ha capito?» Voss si girò a guardare il gruppetto sconcertato di personale paramedico fermo nel reparto. «Non voglio che questa donna si avvicini a mia moglie. Desidero che ciò venga scritto sul foglio dei parametri e messo bene in evidenza sulla porta. Ed esigo che sia fatto immediatamente.» Rivolse ad Abby un'ultima occhiata rabbiosa, poi rientrò nella camera asettica della moglie e tirò la tendina sul vetro divisorio. Due delle infermiere si precipitarono ad aiutare Abby a tirarsi in piedi. «È tutto a posto», disse lei, facendo loro segno di allontanarsi. «Sto bene.» «È un pazzo», bisbigliò una delle infermiere. «Dovremmo fare rapporto contro di lui al servizio di vigilanza.» «No, meglio di no», replicò. «Non peggioriamo le cose.» «Ma è stata una vera e propria aggressione! Lei può presentare un reclamo.» «Voglio dimenticare, d'accordo?» Abby si avvicinò al carrellino. Le cartelle cliniche erano sul pavimento, fogli ed esami di laboratorio sparsi un po' dovunque. Con il volto in fiamme, raccolse le carte e le rimise a posto. Intanto lottava per trattenere le lacrime. Non posso piangere, pensava. Non
qui. Non mi metterò a piangere. Sollevò lo sguardo. Tutti la stavano fissando. Lasciò il carrello dov'era e uscì dal reparto. Mark la trovò tre ore dopo, al bar. Era seduta a un tavolino d'angolo, china su una tazza di tè e un muffin ai mirtilli. La tartina era stata addentata soltanto una volta e la bustina di tè era stata lasciata a bagno così a lungo che l'acqua era diventata scura come caffè. Mark mise una sedia davanti a lei e si sedette. «È stato Voss a uscire dai gangheri, Abby, non tu.» «Io sono soltanto quella che è atterrata sul sedere davanti agli occhi di tutti.» «Ti ha dato una spinta. Puoi approfittarne. Per pareggiare i conti con quelle sue folli azioni legali.» «Cioè dovrei accusarlo di aggressione?» «Qualcosa del genere.» Lei scosse la testa. «Non voglio pensare a Victor Voss. Non desidero aver nulla a che fare con lui.» «Hai una mezza dozzina di testimoni. L'hanno visto darti uno spintone.» «Mark, ti prego, dimentichiamo l'intera faccenda.» Prese il muffin, lo addentò con scarso entusiasmo e lo rimise sul piatto. Continuò a fissare Mark, desiderando disperatamente cambiare argomento. Infine chiese: «Aaron si è detto d'accordo per quanto riguarda la terapia antibiotica?» «Non l'ho visto per tutto il giorno.» Abby alzò gli occhi, accigliata. «Credevo che fosse qui.» «L'ho chiamato tramite cicalino, però non ha mai risposto.» «Gli hai telefonato a casa?» «Ho trovato soltanto la domestica. Elaine è partita per il fine settimana, è andata a trovare il figlio a Dartmouth.» Mark si strinse nelle spalle. «È sabato. In ogni caso, Aaron non era di turno in questo weekend. Probabilmente ha deciso di prendersi una vacanza.» «Una vacanza.» Sospirò e si strofinò la faccia. «Dio, ecco ciò che vorrei. Una spiaggia con le palme e una piña colada.» «Una prospettiva che alletta anche me.» Allungando il braccio attraverso il tavolo, le prese una mano. «Che ne diresti se ti facessi compagnia?» «A te non piace la piña colada.» «Ma le spiagge con le palme sì. E mi piaci tu.» Le strinse con forza una mano. Era proprio ciò di cui Abby aveva bisogno in quel momento. Il suo tocco. Una presa forte e affidabile come Mark stesso.
Lui si chinò sul tavolo. Proprio lì, al bar, la baciò. «Guardati attorno, stiamo dando pubblico spettacolo», le bisbigliò. «È meglio che tu vada a casa, prima che l'attenzione si concentri su di noi.» Lei guardò l'orologio da polso. Era mezzogiorno, ed era sabato. Il fine settimana era cominciato. Mark l'accompagnò fuori del bar e attraverso l'atrio d'ingresso dell'ospedale. Mentre varcavano le porte d'entrata lui disse: «Quasi dimenticavo. Archer ha telefonato al Wilcox Memorial e ha parlato con un chirurgo toracico che si chiama Tim Nicholls. Pare che questo Nicholls abbia assistito all'espianto. Ha confermato che si trattava di uno dei loro pazienti. E che l'intervento è stato eseguito dal dottor Mapes». «Allora perché Mapes non compare nello staff del Wilcox?» «Perché è arrivato lì da Houston, con il proprio jet privato. Noi non ne sapevamo nulla. A quanto pare, Mr Voss non si fidava di un qualsiasi chirurgo yankee, così per quel lavoro ha fatto venire uno specialista.» «Fin dal Texas?» «Con i soldi che ha, Voss avrebbe potuto portar lì l'intera équipe del Baylor.» «Quindi l'espianto è stato davvero fatto al Wilcox Memorial.» «Nicholls sostiene di essere stato presente. L'infermiera con cui hai parlato la notte scorsa, chiunque fosse, deve aver consultato un registro sbagliato. Se vuoi che telefoni anch'io e mi faccia confermare...» «No, dimentica ogni cosa. Adesso tutto sembra tanto stupido. Non so a che cosa stessi pensando.» Abby sospirò e guardò la propria auto, parcheggiata al solito posto, in fondo. L'estrema Siberia, così gli specializzandi chiamavano la zona del parcheggio loro destinata. Ma per quei condannati ai lavori forzati era già una bella fortuna avere un posto dove lasciare la vettura. «Ci vediamo a casa», disse. «Sempre che riesca a rimanere sveglia.» Mark la cinse con le braccia, le rovesciò all'indietro la testa e la baciò, un corpo stanco contro un altro corpo stremato. «Sta' attenta mentre guidi fino a casa», le sussurrò. «Ti amo.» Lei attraversò il parcheggio, intontita dalla fatica e con il suono di quelle due parole che le riecheggiava nella testa. Ti amo. Si fermò e si guardò indietro per fargli un ultimo cenno di saluto, ma lui era già sparito dietro la porta d'ingresso dell'ospedale. «Anch'io ti amo», mormorò Abby e sorrise.
Si accostò alla vettura, le chiavi già estratte dalla borsa. Soltanto in quel momento si accorse che il blocco della serratura era alzato. Accidenti, che stupida. Aveva lasciato la macchina aperta tutta la notte. Aprì la portiera. Alla prima, disgustosa zaffata, indietreggiò, presa alla gola dal tanfo. E scossa da conati di vomito alla vista di ciò che si trovava sui sedili anteriori. Attorno alla leva del cambio erano avvolti metri d'intestino in putrefazione, con una delle estremità che penzolava dal volante, come un grottesco nastro. Il sedile del passeggero era imbrattato di grumi di un tessuto organico non identificabile, mentre su quello del guidatore c'era, ritto contro il cuscino, un singolo organo sanguinante. Un cuore. Era un indirizzo di Dorchester, un quartiere degradato della Boston sudorientale. L'uomo parcheggiò dall'altra parte della strada e osservò la casa, piccola come una scatola, con il prato invaso dalle erbacce. Nel vialetto, c'era un ragazzo di circa dodici anni che giocava con una palla da basket, tirandola di tanto in tanto verso un canestro fissato sulla porta del garage e mancandolo ogni volta. Non avrebbe certo ottenuto una borsa di studio per meriti atletici. A giudicare dal rottame di auto parcheggiato in garage e dalla generale atmosfera di abbandono della casa, certamente un sussidio avrebbe fatto comodo. L'uomo scese dalla macchina e attraversò la strada. Mentre s'incamminava lungo il vialetto, il ragazzo si bloccò di colpo. Stringendosi la palla al petto, scrutò il visitatore con evidente sospetto. «Cerco l'abitazione dei Fļynt.» «Ah», disse il ragazzo. «È questa.» «I tuoi genitori sono in casa?» «Mio papà sì. Perché?» «Potresti andare a dirgli che c'è una visita.» «Lei chi è?» L'uomo tese al ragazzo il suo biglietto da visita. Il ragazzo lo lesse con un interesse quanto mai vago, poi fece per restituirlo. «No, tienilo pure. Mostralo a tuo padre.» «Vuol dire adesso, subito?» «Se non ha altro da fare.» «Ah. Va bene.» Il ragazzo entrò in casa, richiudendosi rumorosamente la
porta alle spalle. Un attimo dopo, un uomo si fece sulla soglia. Era un tipo ben piantato, dall'aria truce. «Sta cercando me?» «Mr Flynt, mi chiamo Stewart Sussman. Sono dello studio legale Hawkes, Craig e Sussman.» «Sì?» «A quanto mi risulta, sei mesi fa lei è stato ricoverato al Bayside Hospital.» «Fu un incidente. La colpa era di un altro.» «Le hanno asportato la milza. È esatto?» «Come fa a sapere questo?» «Sono qui nel suo interesse, Mr Flynt. Lei ha subito un serio intervento chirurgico, vero?» «Mi hanno detto che ho rischiato di morire. Perciò immagino che l'intervento fosse serio.» «Uno dei suoi medici era una specializzanda di nome Abigail DiMatteo?» «Sì. Veniva a visitarmi ogni giorno. Una donna proprio simpatica.» «La DiMatteo o qualche altro medico le spiegarono le conseguenze di un'asportazione di milza?» «Mi dissero che, se non stavo attento, avrei potuto prendermi qualche brutta infezione.» «Infezioni letali. Questo glielo spiegarono?» «Boh... forse.» «Le dissero qualcosa a proposito di un inconveniente verificatosi accidentalmente durante l'operazione?» «Che cosa?» «Un bisturi sfuggito di mano che avrebbe inciso la milza. Provocando una notevole perdita di sangue.» «No.» L'uomo si stava chinando verso Sussman, con un'espressione molto preoccupata negli occhi. «Mi è accaduta una cosa del genere?» «Vorremmo trovare conferma ai fatti. Ciò di cui ho bisogno è che lei mi autorizzi a richiedere la sua cartella clinica.» «Perché?» «È nel suo interesse, Mr Flynt, appurare se l'asportazione della milza fu in realtà dovuta a un errore chirurgico. Se fu commesso uno sbaglio, lei ha subito un danno gratuito. E deve essere risarcito.» Mr Flynt non disse nulla. Guardò il ragazzo, che stava ascoltando quella
conversazione, probabilmente senza capirne neanche una parola. Poi fissò la penna che Sussman gli stava porgendo. «Parlando di risarcimento, Mr Flynt», riprese l'avvocato, «intendo una somma di denaro.» L'uomo prese la penna e firmò. Tornato in macchina, Sussman infilò nella borsa dei documenti l'autorizzazione firmata e tirò fuori per l'ennesima volta una lista di nomi. Ce n'erano altri quattro, altre quattro firme da ottenere. Non avrebbe incontrato problemi. Avidità e promessa d'indennizzo erano un'accoppiata vincente. Tracciò una riga sul nome FLYNT, HAROLD e accese il motore. 10. «Era un cuore di maiale. Probabilmente me l'hanno messo in macchina la sera prima ed è rimasto per un giorno intero al caldo. Non riesco ancora a togliermene di dosso il tanfo.» «Quell'uomo cerca di sconvolgerti», le fece presente Vivian Chao. «Secondo me, dovresti reagire con le cattive maniere.» Abby e Vivian spinsero le porte d'ingresso e attraversarono l'atrio, dirette all'ascensore. Era mezzogiorno di domenica, al Massachusetts General, e l'ascensore destinato ai visitatori era già pieno zeppo di gente e di palloncini che ballonzolavano in aria. Le porte si chiusero, e gli effluvi di quei corpi umani ebbero immediatamente il sopravvento. «Noi non abbiamo nessuna prova», mormorò Abby. «Non possiamo avere la certezza che sia stato lui a ordire ogni cosa.» «E chi altro, allora? Pensa a quanto ha già combinato. Ti ha fatto intentare una causa, ti ha buttata a terra in pubblico. Dammi ascolto, DiMatteo, è ora di rivolgergli precise accuse: aggressione personale, minacce.» «Il problema è che capisco per quale motivo sta facendo tutto ciò. È sconvolto. Il decorso post-operatorio di sua moglie non va affatto bene.» «Mi sembra di avvertire un pizzico di senso di colpa, o sbaglio?» Abby sospirò. «È difficile non sentirsi in colpa ogni volta che si passa davanti al letto di quella donna.» Uscirono dall'ascensore al terzo piano e imboccarono il corridoio che portava all'ala di cardiochirurgia. «È abbastanza ricco da renderti la vita un inferno per un bel po' di tempo», le fece notare Vivian. «Già ti è piombata addosso una causa e probabilmente ne salteranno fuori altre.»
«Credo che ci siano già. In segreteria mi hanno detto di aver ricevuto altre sei richieste di cartelle cliniche da parte dello studio legale Hawkes, Craig e Sussman. È lo stesso che assiste Joe Terrio.» Vivian la guardò. «Cristo. Passerai il resto della tua vita in tribunale.» «A meno che non dia le dimissioni. Come hai fatto tu.» Vivian riprese a camminare, sempre con quella sua andatura decisa. La piccola amazzone asiatica, pensò Abby. Non ha paura di nulla. «Come mai tu non hai sferrato il contrattacco?» volle sapere. «Ci sto provando. Il problema sta nel fatto che l'uomo che abbiamo di fronte è Victor Voss. Quando ho menzionato il suo nome alla mia legale, è diventata bianca come un cencio. Il che non è impresa da poco, per una donna dalla pelle nera.» «Che cosa ti ha consigliato di fare?» «Di uscire al più presto da questa storia. E di ritenermi fortunata per il fatto di essere già un chirurgo finito. Se non altro, posso trovare un nuovo impiego. Oppure aprire uno studio privato.» «Voss le fa dunque tanta paura?» «Lei non lo ammette, ma è così. Quell'uomo terrorizza un sacco di gente. E, in ogni caso, non mi trovo nella posizione migliore per contrattaccare. Sono stata io, a prendere quella decisione, perciò la testa che va tagliata è la mia. Abbiamo rubato un cuore, DiMatteo. C'è poco da cercar scuse. Se non ci fosse stato di mezzo proprio Victor Voss, avremmo potuto cavarcela. Adesso mi tocca pagare il fio.» Guardò Abby. «Ma a un prezzo minore del tuo.» «Se non altro io ho ancora il mio lavoro.» «Per quanto tempo? Sei soltanto una specializzanda del secondo anno. Devi passare alla controffensiva, Abby. Non lasciare che Voss ti rovini. Sei un medico troppo in gamba per essere tagliata fuori dalla professione.» Lei scosse la testa. «A volte mi chiedo se ne è valsa proprio la pena.» «Valere la pena?» Vivian si fermò davanti alla stanza 417. «Da' un'occhiata, poi mi dirai.» Bussò alla porta, quindi entrò. Il ragazzo era seduto dritto nel letto e stava pigiando sui tasti di un telecomando. Se non fosse stato per il berretto dei Red Sox calcato in testa, Abby non avrebbe mai riconosciuto in lui Josh O'Day, tanto diverso lo faceva apparire quell'aspetto roseo e sano. Non appena si accorse della presenza di Vivian, Josh fece un enorme sorriso. «Ehi, dottoressa Chao!» gridò. «Cavoli, mi stavo giusto chiedendo se sarebbe mai venuta a trovarmi.»
«Sono già venuta», replicò Vivian. «Due volte. Ma eri sempre addormentato.» Scosse la testa in un gesto di finto disprezzo. «Il tipico adolescente pigro.» Scoppiarono tutt'e due in una risata. Ci fu un istante di silenzio, poi, quasi con timidezza, Josh fece il gesto di un abbraccio. Sulle prime, Vivian non si mosse. Sembrava che non sapesse come reagire. Poi di colpo si liberò di qualche invisibile freno e andò verso di lui. L'abbraccio fu breve e goffo. Vivian parve quasi sollevata quando si staccò dal ragazzo. «Allora, come stai?» chiese. «Veramente bene. Ehi, ha visto?» Indicò il televisore. «Mio padre mi ha portato le cassette con le partite di baseball, ma non riusciamo a far funzionare il videoregistratore. Lei ci capisce qualcosa?» «Probabilmente farei saltare in aria il televisore.» «Ed è un medico?» «Va bene, la prossima volta che ti capiterà di aver bisogno di un chirurgo, chiama un tecnico della televisione.» Fece un cenno con il capo verso Abby. «Ti ricordi della dottoressa DiMatteo, no?» Josh la fissò con aria incerta. «Mi pare. Cioè...» Si strinse nelle spalle. «Ho dimenticato molte cose, sa? Cose avvenute l'ultima settimana. È come se allora fossi stato un po' stupido o qualcosa del genere.» «Non c'è nulla di cui preoccuparsi, Josh», disse Vivian. «Quando il cuore si ferma, al cervello non arriva una quantità sufficiente di sangue. E così si dimenticano alcune cose.» Gli appoggiò una mano sulla spalla. Non era un gesto che Vivian Chao facesse abitualmente. Ma in quel momento sì, come per stabilire un contatto concreto. «Se non altro non ti sei dimenticato di me», disse. E aggiunse, ridendo: «Anche se magari ci hai provato». Josh abbassò lo sguardo sul copriletto. «Dottoressa Chao», mormorò, «non voglio dimenticarla mai.» Per un istante, nessuno dei due parlò. Sembravano raggelati dall'imbarazzo in quella posa goffa, Vivian con una mano ancora posata sulla spalla del ragazzo, Josh con gli occhi bassi, la faccia nascosta dalla tesa del berretto. Abby dovette girarsi e appuntare la propria attenzione su qualcos'altro. I trofei. Erano tutti lì, tutti i riconoscimenti e i premi, sistemati sul tavolino da notte. Non più un altare a un ragazzo morente, bensì una celebrazione della vita. Della rinascita. Si sentì bussare alla porta e una donna disse: «Joshie?»
«Ciao, mamma», rispose Josh. La porta si spalancò e la stanza venne invasa da genitori, fratelli, zii e zie di Josh, che si portavano dietro una selva di palloncini pieni di elio e l'odore di patatine fritte di un McDonald. Sciamarono attorno al letto, assalirono Josh con abbracci, baci, esclamazioni di: Guardalo! Che bell'aspetto. Non ha un'ottima cera? Josh sopportò con un'espressione di mite piacere. Non parve accorgersi che Vivian era scivolata lontana dal suo letto per lasciare posto alla rumorosa schiera della famiglia O'Day. «Josh, tesoro, abbiamo portato con noi lo zio Harry, venuto apposta da Newbury. Sa tutto di videoregistratori. Puoi sistemarlo, vero, Harry?» «Ma certamente. Ho messo a posto quelli dei miei vicini.» «Hai portato i cavetti adatti, Harry? Sei sicuro di avere quelli che ti servono?» «Ti pare che avrei dimenticato i cavetti?» «Guarda, Josh. Tre confezioni magnum di patatine. Il dottor Tarasov non ti ha proibito di mangiarle, vero?» «Mamma, ho dimenticato la macchina fotografica! Volevo scattare una foto alla cicatrice di Josh.» «Ma che dici? Una foto della cicatrice?» «Il mio insegnante ha detto che sarebbe una figata.» «Il tuo insegnante è troppo anziano per usare termini come 'figata'. Niente foto della cicatrice. È un'invasione nella privacy di tuo fratello.» «Ehi, Josh, hai bisogno di aiuto per mangiare tutte quelle patatine?» «Allora, Harry, pensi di farcela a sistemarlo?» «Be', non so. È un televisore così vecchio...» Vivian era riuscita finalmente a raggiungere l'angolo in cui stava Abby. Si udì bussare di nuovo alla porta e un'altra ondata di parenti si precipitò nella stanza con altre esclamazioni di: Ma che bell'aspetto! Non ha un'aria proprio sana? Attraverso la calca degli O'Day, Abby intravide Josh. Il ragazzo stava guardando dalla loro parte. Rivolse loro un sorriso di rassegnazione, e fece un cenno di saluto. Abby e Vivian uscirono dalla stanza. Si fermarono nel corridoio, ascoltando le voci dietro la porta. E Vivian disse: «Allora, ti stavi chiedendo se ne valeva la pena? Ecco la risposta». Nella stanza delle infermiere, chiesero di parlare al dottor Ivan Tarasov. L'inserviente di turno suggerì loro di andare a cercarlo nella saletta dei chirurghi. Fu proprio lì che Abby e Vivian lo trovarono, intento a sorseggiare
un caffè e a scribacchiare nelle sue cartelle cliniche. Con gli occhiali che gli scendevano sul naso e la giacca di tweed, il dottor Tarasov sembrava più un gentiluomo inglese pronto a giocare a golf che non il rinomato cardiochirurgo. «Abbiamo fatto visita a Josh», esordì Vivian. Tarasov sollevò lo sguardo dai suoi appunti macchiati di caffè. «E che ne pensa, dottoressa Chao?» «Mi pare che lei abbia fatto un ottimo lavoro. Josh ha un magnifico aspetto.» «Soffre di una leggera forma di amnesia legata alla crisi cardiaca. A parte questo, si è ripreso magnificamente, come capita sempre con i ragazzi. Verrà dimesso nel giro di una settimana, sempre che le infermiere non lo buttino fuori prima.» Tarasov chiuse la cartella clinica e guardò Vivian. Il suo sorriso svanì. «Dovrei sgridarla di brutto, dottoressa.» «Io?» «Sa che cosa intendo. Mi riferisco all'altra paziente in attesa di trapianto al Bayside. Quando lei ha fatto trasferire qui il ragazzo, non ha raccontato l'intera storia. Soltanto in seguito ho appurato che il cuore era già stato destinato.» «Nient'affatto. C'era un'autorizzazione all'espianto che menzionava espressamente chi doveva essere il ricevente.» «Un consenso ottenuto con qualche sotterfugio.» Da dietro le lenti, Tarasov rivolse ad Abby uno sguardo corrucciato. «Il capo del suo ospedale, Mr Parr, mi ha messo al corrente dei particolari. E l'ha fatto anche il legale di Mr Voss.» Le due donne si scambiarono un'occhiata. «Il suo legale?» chiese Vivian. «Esattamente.» Tarasov tornò a guardare Vivian. «Lei aveva intenzione di coinvolgermi in una causa?» «Stavo cercando di salvare il ragazzo.» «Mi ha tenuto all'oscuro della situazione.» «E adesso il ragazzo è vivo e sta bene.» «Glielo dico una volta per tutte: non faccia mai più una cosa del genere.» Vivian parve sul punto di ribattere, ma poi rinunciò. Invece annuì solennemente. Lo fece assumendo l'atteggiamento di deferenza tipico degli asiatici: occhi bassi, la testa leggermente china in avanti. Tarasov non si fece ingannare. La guardò con aria un po' seccata. Poi,
inaspettatamente, scoppiò a ridere. Girandosi verso le sue carte, disse: «Avrei dovuto espellerla da Harvard. Quando ne avevo la possibilità». «Pronti. Orza tutto!» gridò Mark. La prua della Gimme Shelter si mise al vento, con le vele che sbattevano, le scotte che sferzavano la coperta. Rajiv Mohandas si precipitò verso il verricello e cominciò a filare il fiocco. Con una specie di forte schianto, la vela si gonfiò e la Gimme Shelter sbandò, mentre dalla cabina sottostante veniva un tintinnio di lattine di bibita. «Battagliola sopravvento, Abby!» gridò Mark. «Spostati sulla battagliola sopravvento!» Lei si lanciò barcollando attraverso il ponte fino alla murata di sinistra, dove si aggrappò alle draglie esprimendo per l'ennesima volta il fervido proposito di non cascarci mai più. Che cosa c'è tra gli uomini e le loro imbarcazioni, si chiese, che cosa c'è nel mare che li fa urlare tanto? Infatti gridavano tutti, tutt'e quattro: Mark, Mohandas e il suo figliolo diciottenne Hank, e Pete Jaegly, uno specializzando del terzo anno. Urlavano a proposito di vele da cazzare, bracci dello spinnaker, raffiche di vento sprecate. Sbraitavano contro la barca di Archer, la Red Eye, che stava guadagnando su di loro. E, di tanto in tanto, lanciavano urla ad Abby. In realtà, lei aveva una sua parte da giocare in quella gara, costituiva quello che veniva educatamente definito «zavorra». Un peso morto. Un compito che poteva essere svolto da qualche sacco di sabbia. Abby era un sacco di sabbia con le gambe. Loro le lanciavano un urlo e lei raggiungeva di corsa la murata opposta dove, con una certa regolarità, dava di stomaco. Gli uomini non vomitavano, erano troppo occupati a saltare di qua e di là con le loro costose scarpe da vela e a sgolarsi in urla forsennate. «Tutti pronti! Un'altra virata. Attenzione!» Mohandas e Jaegly ripresero la loro frenetica danza sul ponte. «Via sottovento!» La Gimme Shelter virò e sbandò a sinistra. Abby si precipitò dall'altra parte. Le vele schioccarono, le scotte sibilarono. Mohandas azionò il verricello, facendo guizzare i muscoli del braccio abbronzato a ogni giro della manovella. «Ci sta piombando addosso!» sbraitò Hank. Alle loro spalle, la Red Eye aveva guadagnato un'altra mezza lunghezza. Potevano sentire Archer che urlava al suo equipaggio: «Forza, forza!» La Gimme Shelter girò la boa e iniziò a poggiare. Jaegly s'impegnò in
una lotta con il braccio dello spinnaker, mentre Hank ammainava il fiocco. Abby stava vomitando fuori bordo. «Merda, è proprio nella nostra scia!» urlò Mark. «Alza quel fottuto spinnaker! Su, su, dai!» Jaegly e Hank riuscirono a issare lo spinnaker, il vento lo gonfiò con un poderoso boato e la Gimme Shelter fece un improvviso balzo in avanti. «Ce l'hai fatta, bella!» esultò Mark. «Ragazzi, filiamo come il vento!» «Guardate», disse Jaegly, indicando a poppa. «Che diavolo sta succedendo?» Abby riuscì a sollevare la testa e a guardarsi alle spalle, verso l'imbarcazione di Archer. La Red Eye non li stava più inseguendo. Aveva cambiato direzione nei pressi della boa e stava puntando verso il porto. «Hanno acceso il motore», disse Mark. «Credi che si considerino sconfitti?» «Archer? Assolutamente improbabile.» «Allora perché stanno tornando indietro?» «Ritengo che sia meglio appurarlo. Ammainate lo spinnaker.» Mark accese il motore. «Torniamo anche noi.» Ti ringrazio, Signore, pensò Abby. Quando entrarono a motore nella marina la nausea le stava già passando. La Red Eye era ormeggiata al molo e l'equipaggio era impegnato a piegare le vele e ad arrotolare le scotte. «Ehi, Red Eye!» gridò Mark mentre passavano loro accanto. «Che cosa succede?» Archer agitò il telefono cellulare. «Mi ha chiamato Marilee! Mi ha detto di rientrare. È qualcosa di serio. Ci aspetta allo yacht club.» «Va bene. Ci vediamo al bar», replicò Mark. Guardò il proprio equipaggio. «Accostiamo, beviamo qualcosa e poi riprendiamo il mare.» «Dovrete fare a meno della vostra zavorra», esclamò Abby. «Io mi ritiro.» Mark le lanciò un'occhiata sorpresa. «Di già?» «Non mi hai vista piegata fuori bordo? Non stavo ammirando il panorama.» «Povera Abby! Mi farò perdonare, promesso. Champagne, fiori, il ristorante che preferisci.» «Lasciami soltanto scendere da questa benedetta barca.» Ridendo, Mark si diresse verso il pontile. «Agli ordini, capitano.»
Mentre la Gimme Shelter scivolava lungo il molo, Mohandas e Hank saltarono sulla banchina e legarono le cime d'ormeggio. Abby scese dall'imbarcazione in un lampo. Anche la terraferma sembrava ondeggiare. «Lasciate tutto armato», disse Mark. «Almeno finché non appuriamo che cosa deve dirci Archer.» «Probabilmente ha già dato inizio alla festa», commentò Mohandas. Oh, mio Dio, pensò Abby mentre si avviava con Mark lungo il molo, una mano di lui posata sulla sua spalla in un gesto di possesso. Erano in vista altre chiacchiere nautiche. Uomini abbronzati fermi qua e là con i loro gin and tonic, le loro magliette e le loro sonore risate. Entrarono nel club, passando dalla luce del sole alla penombra. La prima cosa che Abby notò fu il silenzio. Vide Marilee in piedi accanto al bar con una bibita in mano; Archer seduto tutto solo a un tavolo, senza niente da bere davanti, soltanto un sottobicchiere di carta; e l'equipaggio della Red Eye riunito attorno al bar, immobili, senza parlare. L'unico rumore che si udiva nel locale era il tintinnio dei cubetti di ghiaccio nella bibita di Marilee quando lei si portava il bicchiere alle labbra, beveva un sorso e lo rimetteva sul banco. Mark chiese: «C'è qualcosa che non va?» Marilee alzò lo sguardo e batté le ciglia, come se vedesse Mark per la prima volta. Poi tornò a fissare il banco, il suo bicchiere. «Hanno trovato Aaron», disse. A provocare quella reazione era di solito lo stridio della sega da ossa Stryker. Oppure il tanfo, e l'individuo in questione puzzava davvero parecchio. Bernard Katzka, detective della squadra omicidi, lanciò un'occhiata al di là del tavolo autoptico e vide che quel fetore aveva avuto la meglio su Lundquist. Il suo collega più giovane si era parzialmente girato dal tavolo e si teneva una mano guantata sul naso e sulla bocca; i bei lineamenti da attore del cinema erano contorti in una smorfia di nausea. Lundquist non aveva ancora sufficiente pelo sullo stomaco da reggere alle autopsie; molti poliziotti non ci riuscivano affatto. Benché la dissezione dei cadaveri non fosse lo spettacolo preferito di Katzka, con gli anni lui aveva fatto in modo di considerare quella procedura come un esercizio intellettuale, focalizzando la propria attenzione non sulla vittima in se stessa bensì sulla natura puramente organica della morte. Aveva visto corpi ustionati dal fuoco, corpi che si erano schiantati a terra dopo una caduta dal ventesimo piano, corpi
che erano stati trapassati da proiettili o da lame o addirittura da entrambi, corpi scarnificati da animali roditori. Fatta eccezione per i bambini, che lo sconvolgevano sempre, sul tavolo autoptico ogni corpo era uguale all'altro, era un qualcosa da smontare, esaminare e catalogare. Se avesse considerato quei cadaveri sotto un'altra luce, gli incubi non avrebbero cessato di perseguitarlo. Bernard Katzka aveva quarantaquattro anni ed era vedovo. Tre anni prima aveva visto sua moglie morire di cancro. Aveva già vissuto il suo peggiore incubo. Fissò con aria impassibile il corpo che stava per essere dissezionato. Apparteneva a un maschio bianco di cinquantaquattro anni, sposato con due figli in età da college, di professione cardiologo. La sua identità era stata confermata dalle impronte digitali, oltre che dal riconoscimento del cadavere da parte della vedova. Quell'esperienza doveva essere stata quanto mai sconvolgente per la povera donna. Vedere il cadavere della persona che si ama è già abbastanza penoso; quando poi l'essere amato è rimasto per due giorni appeso per il collo in una stanza calda e non ventilata, la scena deve risultare davvero orrenda. La vedova, così gli era stato riferito, era crollata, priva di sensi, sul pavimento dell'obitorio. Non c'è da meravigliarsi, pensò Katzka, guardando il cadavere di Aaron Levi. Il volto era di un pallore cereo; l'afflusso di sangue alla testa era stato bloccato dalla stretta della cintura di cuoio messa a mo' di cappio attorno al collo. La lingua che penzolava all'infuori era nera e squamosa: la mucosa superficiale si era inaridita dopo due giorni di esposizione all'aria. Le palpebre erano soltanto parzialmente chiuse e le fessure allungate rivelavano emorragie a livello della sclera che avevano trasformato il bianco degli occhi in uno spaventoso rosso sangue. Sotto il collo, dove la cintura aveva impresso il suo segno mortale, la pelle mostrava i classici segni riscontrabili in ogni impiccato lasciato appeso, cioè una pigmentazione ecchimotica della parte inferiore degli arti ed emorragie a puntura di spillo, chiamate macchie di Tardieu, là dove i capillari si erano rotti. Tutto questo rientrava nel quadro di una morte per impiccagione. L'unica lesione visibile, a parte i segni attorno al collo, era un livido a forma di moneta sulla spalla sinistra. Il dottor Rowbotham e il suo assistente, entrambi con camice, guanti e occhiali di protezione, portarono a termine l'incisione. Era a forma di Y: due tagli in diagonale che partivano dalle spalle e si univano alla base del-
lo sterno, e da lì un taglio in verticale che divideva l'addome fino all'osso pubico. Rowbotham lavorava da trentadue anni nell'ufficio del coroner e non c'era quasi nulla che sembrasse sorprenderlo o eccitarlo. Anzi, quando dissezionava i cadaveri aveva sempre un'aria vagamente annoiata, ed era con tono monocorde che dettava al registratore azionato a pedale. In quel momento, stava sollevando lo scudo triangolare della gabbia toracica, mettendo in luce la cavità pleurica. «Guarda un po', Lumaca», disse, rivolto a Katzka. Il soprannome non aveva nulla a che fare con l'aspetto fisico del detective (assolutamente normale); si riferiva piuttosto al suo carattere flemmatico. Tra i poliziotti suoi colleghi girava la battuta che, se qualcuno avesse sparato a Katzka di lunedì, lui avrebbe risposto al fuoco il venerdì successivo. Ma soltanto se fosse stato veramente fuori di sé dalla rabbia. Katzka si chinò per sbirciare all'interno della cavità toracica. L'indifferenza della sua espressione era pari a quella di Rowbotham. «Non vedo nulla di anormale.» «Esatto. Forse una leggera congestione pleurica, dovuta probabilmente a trasudazione capillare da ipossia. Ma rientra nel quadro della morte per asfissia.» «Allora immagino che l'esame autoptico sia finito, eh?» borbottò Lundquist. Si stava già allontanando dal tavolo, da quel fetore, impaziente di occuparsi di altre cose. Era come tutti i giovani poliziotti, smaniosi di mettersi in caccia, d'inseguire una preda, qualunque fosse. Un suicidio per impiccagione gli sembrava qualcosa per cui non valesse la pena di sprecare tempo. Katzka non si mosse dal tavolo. «Dobbiamo davvero assistere al resto, Lumaca?» chiese Lundquist. «Hanno appena cominciato.» «Si tratta di un suicidio.» «Io ci sento qualcosa di diverso.» «I reperti sono quelli classici, l'hai appena sentito.» «È sceso dal letto in piena notte. Si è alzato, si è vestito ed è montato in macchina. Pensaci. Usciresti da un bel letto caldo per andare a impiccarti in una stanza all'ultimo piano di un ospedale?» Lundquist lanciò un'occhiata al cadavere, poi distolse nuovamente la faccia. Nel frattempo, Rowbotham e il suo assistente avevano reciso la trachea e i grossi vasi sanguigni e stavano togliendo cuore e polmoni quasi fossero
un unico fagotto floscio. Rowbotham li appoggiò su una bilancia. Il piatto d'acciaio andò su e giù un po' di volte, cigolando per il peso degli organi. «Non avrai un'altra possibilità di vederlo», annunciò Rowbotham, lavorando con il bisturi attorno alla milza. «Quando avremo finito, il cadavere verrà subito inumato. Lo ha richiesto la famiglia.» «Qualche motivo particolare?» chiese Lundquist. «Era ebreo. Sai, loro vogliono una sepoltura veloce. E tutti gli organi devono essere rimessi nel corpo.» Rowbotham depositò la milza sul piatto della bilancia e osservò l'ago sussultare e poi fermarsi. Lundquist si aprì con un gesto brusco il camice da autopsia, mettendo in mostra le spalle muscolose, frutto di ore e ore in palestra, passate a esercitarsi e sudare. Aveva un'energia incontenibile, di cui dava prova anche in quel momento. Puntava sempre al meglio e al più difficile: Lundquist era fatto così. Katzka doveva ancora insegnargli molte cose e, quel giorno, la lezione avrebbe riguardato l'inganno della prima impressione: un'impresa non facile con un giovane poliziotto tanto sicuro di sé, così fascinoso. E, per di più, con una folta capigliatura. Rowbotham continuava la dissezione del cadavere. Liberati gli intestini, tirò fuori un groviglio di visceri apparentemente infinito, poi estrasse fegato, pancreas e stomaco in un'unica massa. Infine toccò a reni e vescica essere depositati sul cigolante piatto della bilancia. Un altro peso venne letto e registrato. Altre frasi furono biascicate nel registratore. Nel cadavere, ormai rimaneva una cavità simile a un mostruoso sbadiglio. Rowbotham passò a esaminare la testa. Fece un'incisione dietro un orecchio e tagliò lungo la base della calotta cranica. Poi, con un unico colpo, strappò il cuoio capelluto, ripiegandolo sulla faccia. Eliminò quindi il lembo di pelle che copriva il collo, mettendo a nudo la base del cranio. Prese la sega elettrica. Quando la polvere di ossa incominciò a spandersi per l'aria, il volto del medico legale si contorse in una smorfia. A quel punto, tutti tacquero. La sega faceva troppo rumore e la procedura era diventata disgustosa. L'incisione di un torace o di un addome, per quanto macabra fosse, conservava un che d'impersonale: era come squartare un bue. Ripiegare lo scalpo di un uomo sul suo volto equivaleva invece a mutilare l'aspetto più umano, più intimo, di un cadavere. Lundquist, la cui carnagione aveva assunto una tinta un po' verdastra, si lasciò cadere di colpo su una sedia accanto al lavandino e si prese la testa tra le mani. Erano stati numerosi i poliziotti che avevano fatto ricorso a quella particolare sedia.
Rowbotham mise via la sega e rimosse la calotta cranica, poi cominciò a liberare il cervello per estrarlo. Recise i nervi ottici e staccò i vasi sanguigni e il midollo spinale. Infine, con una certa cautela, sollevò la massa tremolante del cervello. «Niente di anomalo», annunciò e fece scivolare l'organo in un contenitore pieno di formalina. «Adesso siamo al punto culminante: il collo.» Fino a quel momento, ci si era limitati ai preliminari. La rimozione dei visceri e del cervello aveva consentito il drenaggio dei fluidi dalla cavità cranica e da quella toracica. La dissezione del collo poteva procedere senza essere ostacolata, se non in misura minima, dalla presenza di sangue e secrezioni. La cintura era stata rimossa dal collo nelle prime fasi dell'autopsia. Rowbotham esaminò il solco che aveva lasciato impresso sulla pelle. «La classica forma a v capovolta», commentò il perito settore. «Guarda qui, Lumaca, ci sono segni paralleli in corrispondenza dei bordi della cintura. E poi, qui dietro, vedi?» «Sembra l'impronta lasciata dalla fibbia.» «Esatto. Fin qui, niente sorprese.» Rowbotham afferrò il bisturi e incominciò la dissezione del collo. Lundquist, che si era ripreso, era tornato accanto al tavolo autoptico, con un'aria quasi umile. Come piacevolmente democratica, la nausea, pensò Katzka. Faceva abbassare la cresta anche a poliziotti muscolosi con una gran massa di capelli. La lama di Rowbotham era già penetrata nella pelle della nuca. Il perito settore tagliò in profondità, mettendo in luce le corna superiori della cartilagine tiroidea, di un bianco perlaceo. «Nessuna frattura. Abbiamo alcune emorragie qui, nei muscoli laterali, ma sia la tiroide sia l'osso ioide sembrano intatti.» «E questo che significa?» «Praticamente nulla. L'impiccagione non causa necessariamente gravi lesioni interne a livello del collo. La morte deriva dall'interruzione dell'afflusso di sangue al cervello. Basta la compressione delle carotidi. È un tipo di suicidio relativamente indolore.» «Mi sembri sicuro quasi al cento per cento che si tratti di suicidio.» «L'unica altra possibilità è un incidente. Asfissia autoerotica. Ma, come puoi ben vedere, nulla sta a provarlo.» Lundquist mormorò: «Aveva ancora il pene chiuso nei pantaloni. Non pare proprio che si stesse masturbando».
«Il che ci riporta all'ipotesi del suicidio. L'omicidio tramite impiccagione è un caso estremamente raro. La vittima dovrebbe essere strangolata prima, e allora i segni sul collo sarebbero diversi. Non si avrebbe questa v rovesciata. E, qualora la testa fosse stata infilata di forza in un cappio, be', quasi certamente ci sarebbero altri segni di lesione. L'uomo avrebbe cercato di divincolarsi.» «C'è sempre quel livido sul braccio in alto.» Rowbotham si strinse nelle spalle. «Potrebbe essersi procurato quell'ecchimosi in molti altri modi.» «E se fosse stato drogato e reso incosciente prima di essere impiccato?» «Eseguiremo un esame tossicologico, Lumaca, soltanto per farti felice.» Lundquist scoppiò in una risata. «E non possiamo certo scontentare Lumaca.» Si allontanò dal tavolo e cominciò a sfilarsi il camice. «Sono le quattro. Vieni via, Lumaca?» «Mi piacerebbe assistere al resto della dissezione del collo.» «Rimani pure, se la cosa ti diverte tanto. Quanto a me, dico che possiamo definirlo un suicidio e tagliare corto.» «Lo farei anch'io, se non fosse per la luce.» «Quale luce?» chiese Rowbotham, nei cui occhi, dietro gli occhiali di protezione, si era finalmente acceso un bagliore d'interesse. «Lumaca si è fissato con 'sta storia della luce», replicò Lundquist. «Il dottor Levi è stato trovato impiccato in una camera dell'ospedale che non veniva usata», spiegò Katzka. «L'operaio che ha scoperto il corpo si è detto quasi assolutamente certo che la luce fosse spenta.» «Continua», disse Rowbotham. «Be', l'ora del decesso da te stabilita concorda con quanto secondo noi è accaduto, cioè che il dottor Levi sarebbe morto nelle prime ore di sabato. Molto prima dell'alba. Il che significa che si è impiccato al buio. O che qualcuno ha spento la luce nella stanza.» «Oppure che l'operaio non ricordava un cazzo di ciò che aveva visto», precisò Lundquist. «Quel tizio stava vomitando l'anima nel cesso. Credi che fosse in grado di rammentare se la luce era accesa o spenta?» «È soltanto un particolare che mi dà da pensare.» Lundquist rise. «A me no», ribatté e lanciò il suo camice nel contenitore degli indumenti sporchi. Erano all'incirca le sei di sera quando Katzka entrò con la sua Volvo in uno dei parcheggi del Bayside Hospital. Scese dall'auto, fece il suo ingres-
so nell'atrio e prese l'ascensore fino al dodicesimo piano. Più in alto di così non poteva andare senza un passepartout. Dovette uscire dall'ascensore e arrampicarsi sulla scala d'emergenza per raggiungere l'ultimo piano. Non appena ebbe lasciato la scala, la prima cosa che notò fu il silenzio. Il senso di vuoto. Da vari mesi, su quel piano, erano in corso lavori di ristrutturazione. Quel giorno gli operai non erano venuti, ma i loro attrezzi erano un po' dovunque. L'aria odorava di segatura, di vernice fresca... e di qualcos'altro. Un odore che Katzka riconobbe come quello che aleggiava nella sala delle autopsie. Un tanfo di morte, di decomposizione. Il detective superò alcune scale e una sega Makita e girò l'angolo. A metà del corridoio che si stendeva davanti a lui, il nastro giallo della polizia sigillava orizzontalmente una delle porte. Katzka ci passò sotto e spalancò l'uscio. In quella camera, la ristrutturazione era stata completata. La carta da parati era nuova, come il lussuoso arredamento, e da una finestra che andava dal soffitto al pavimento si scorgeva tutta la città. Un attico con tanto di servizio ospedaliero per qualche paziente munito di un portafogli senza fondo. Katzka entrò nella stanza da bagno e fece scattare l'interruttore a muro. Lì il lusso si sprecava. Un tavolino da toilette di marmo, accessori di ottone, uno specchio con faretti regolabili. E un water simile a un trono. Il detective spense la luce e uscì dalla stanza da bagno. Si avvicinò all'armadio a muro. Era lì che il dottor Aaron Levi era stato trovato impiccato. Un'estremità della cintura di cuoio era stata legata attorno al bastone appendiabiti; l'altra estremità infilata a mo' di cappio attorno al collo di Levi. A quanto sembrava, il medico si era semplicemente lasciato andare a corpo morto, provocando la stretta della cintura attorno alla gola e impedendo che il sangue rifluisse al cervello. Se, all'ultimo momento, avesse cambiato idea, non avrebbe dovuto fare altro che puntare i piedi contro il pavimento, rialzarsi e allargare la cintura. Però non l'aveva fatto. Era rimasto sospeso per cinque, dieci secondi, il tempo sufficiente per fargli perdere conoscenza. Trentasei ore più tardi, nel pomeriggio di domenica, uno degli operai era entrato in quella stanza per finire di stuccare la vasca da bagno. Non aveva previsto di trovarsi di fronte un cadavere. Katzka si avvicinò alla finestra e rimase a osservare la città di Boston. Dottor Aaron Levi, pensò, che cosa può essere andato così storto nella tua esistenza? Un cardiologo. Con una moglie, una bella casa a Lexus e due figli, già
grandi e al college. Per un istante, Bernard Katzka provò un irrazionale empito di rabbia nei confronti di Aaron Levi. Che cosa ne sapeva lui della disperazione e del sentirsi impotenti? Quale motivo poteva avere per mettere fine alla propria vita? Vigliacco, codardo. Katzka voltò le spalle alla finestra, sconcertato da quel suo scoppio di collera, dal disgusto che provava per chiunque scegliesse una fine del genere. E perché proprio quella fine? Perché impiccarsi in una stanza appartata dove nessuno l'avrebbe trovato se non dopo giorni e giorni? C'erano altri modi per suicidarsi. Levi era un medico, aveva accesso a narcotici, barbiturici, farmaci di ogni tipo che potevano essere ingeriti in dosi letali. Katzka sapeva esattamente quanto fenobarbital ci voleva per morire. Si era dato da fare per appurarlo. Una volta, aveva contato l'esatto numero di pillole, calcolato in base al suo peso corporeo; le aveva allineate sul tavolo da pranzo e aveva contemplato la libertà che esse rappresentavano. La fine del dolore, della disperazione. Un modo facile ma irreversibile per uscirne, dopo aver sistemato ogni conto in sospeso. Tuttavia non aveva mai trovato il momento giusto. Sulle prime, aveva dovuto pensare alle tante responsabilità che era costretto ad accollarsi. Provvedere alle esequie di Annie, pagare le spese d'ospedale. Poi c'era stato un processo che aveva richiesto la sua testimonianza, quindi un doppio omicidio a Roxbury, le ultime otto rate della macchina da versare, un triplice omicidio a Brookline e un altro processo cui doveva andare a deporre. Insomma, Lumaca Katzka era sempre stato troppo occupato per uccidersi. Ormai erano trascorsi tre anni da allora. Annie era morta e sepolta e quelle pillole di fenobarbital erano state gettate via da un pezzo. Lui non pensava più al suicidio. Ogni tanto, però, gli venivano in mente quelle capsule allineate sul tavolo da pranzo e si chiedeva perché avesse avuto la tentazione di uccidersi. Come mai fosse arrivato così vicino ad arrendersi. Non provava simpatia per il Lumaca di tre anni prima, come disprezzava chiunque si tenesse un flacone di pillole a portata di mano e si lasciasse prendere da un'estrema autocommiserazione. E lei che motivo aveva, dottor Levi? Tornò a guardare lo splendido panorama di Boston e pensò a come doveva essere nell'ultima ora di vita di Aaron Levi. Cercò d'immaginare il medico che si alzava dal letto poco dopo le due di mattina, percorreva in macchina la strada fino all'ospedale, saliva con l'ascensore fino al dodicesimo piano e poi faceva a piedi l'ultima rampa di gradini per raggiun-
gere il tredicesimo, entrava in quella stanza, assicurava la cintura attorno al bastone appendiabiti dell'armadio a muro e infilava la propria testa nel cappio. Katzka si accigliò. Si avvicinò all'interruttore della luce e lo fece scattare. Le lampade si accesero. Funzionavano benissimo. Allora chi le aveva spente? Aaron Levi? L'operaio che aveva scoperto il corpo? Qualcun altro? Dettagli, pensò Katzka. Ma erano i dettagli che lo facevano ammattire. 11. «Non ci posso credere», continuava a ripetere Elaine. «Non ci posso proprio credere.» Non piangeva, era rimasta seduta con gli occhi asciutti durante il funerale, cosa che aveva molto turbato sua suocera Judith, la quale aveva pianto rumorosamente e senza ritegno mentre sulla tomba veniva recitato il Kaddish. Judith mostrava pubblicamente il proprio dolore, come ostentava lo strappo nella camicetta, simbolo di un cuore straziato dall'angoscia. Elaine non si era lacerata l'abito, Elaine non aveva condiviso le lacrime. In quel momento, se ne stava seduta nel suo salotto, con un piatto di tartine in grembo, a ripetere per l'ennesima volta: «Non posso credere che sia morto». «Non hai coperto gli specchi», l'ammonì Judith. «Avresti dovuto. Tutti gli specchi di casa.» «Fallo tu, se ci tieni», ribatté Elaine. Judith lasciò la stanza per andare a cercare i lenzuoli con cui oscurare gli specchi. Un attimo dopo, gli ospiti riuniti nel salotto udirono Judith che apriva e chiudeva gli armadi al piano di sopra. «Dev'essere una tradizione ebraica», sussurrò Marilee Archer mentre passava ad Abby un altro vassoio di cibo. Lei prese una tartina con le olive, poi consegnò il vassoio al vicino, che a sua volta lo fece girare. Il vassoio andò di mano in mano, lungo la fila degli ospiti. Nessuno mangiava davvero. Un educato boccone, un sorso di acqua minerale; pareva che nessuno se la sentisse di mettere altro nello stomaco. Neanche Abby aveva voglia di mangiare. O di parlare. Nella stanza c'erano almeno due dozzine di persone, solennemente sedute sui divani e sulle sedie o in piedi, riunite in piccoli gruppi, ma nessuno diceva più di qualche parola.
Dal piano di sopra giunse il rumore di uno sciacquone. Judith, naturalmente. Elaine ebbe un leggero sussulto d'imbarazzo. Qua e là tra gli ospiti apparvero sorrisi appena accennati. Dietro il divano su cui Abby era seduta, qualcuno cominciò a parlare del ritardo con cui arrivava l'autunno, quell'anno. Era già ottobre e le foglie stavano appena ingiallendo. Se non altro, il silenzio era stato rotto. Presero vita nuove conversazioni, si udirono frasi bisbigliate sui giardini autunnali, su Dartmouth che era una località così gradevole e sul tempo forse troppo mite per essere ottobre. Elaine sedeva al centro di quel parlottio, senza aprire bocca, ma evidentemente sollevata nel constatare che gli altri adesso stavano conversando. Il vassoio delle tartine aveva fatto il giro e tornò, vuoto, nelle mani di Abby. «Vado a riempirlo», mormorò lei a Marilee e, alzatasi dal divano, si recò in cucina, dove trovò i ripiani di marmo coperti da vassoi pieni di cibo. Di certo nessuno, quel giorno, avrebbe sofferto la fame. Stava per togliere la pellicola protettiva da un vassoio di gamberetti quando, nel gettare casualmente un'occhiata dalla finestra di cucina, scorse Archer, Rajiv Mohandas e Frank Zwick sulla terrazza lastricata di pietra. Stavano parlando, scuotendo la testa. È proprio degli uomini tagliare la corda, pensò. Non hanno la pazienza di sopportare le vedove sconsolate o i lunghi silenzi, lasciano quella prova del fuoco alle proprie mogli riunite in casa. Si erano persino portati fuori una bottiglia di scotch, posandola sul tavolo con l'ombrellone. In quel momento, Zwick la prese e si versò un dito di scotch nel bicchiere. Mentre ritappava la bottiglia, scorse Abby. Disse qualcosa ad Archer. Anche Archer e Mohandas si voltarono a guardarla. Tutti fecero un cenno con la testa e un rapido segno di saluto. Poi i tre uomini attraversarono la terrazza e s'incamminarono in giardino. «Quanto cibo. Non so che cosa potrò farne», esclamò Elaine. Abby non si era accorta che fosse entrata in cucina. Elaine si fermò a guardare il ripiano, scuotendo la testa. «Avevo detto al servizio di catering che saremmo stati una quarantina di persone, ed ecco che cosa mi hanno portato. Ma questo non è un matrimonio, dove tutti mangiano. A un funerale non mangia nessuno.» Abbassò lo sguardo su uno dei vassoi e prese un ravanello, tagliato come una piccola rosa. «È proprio carino, preparato così, vero? Tanto lavoro per qualcosa che ti metti soltanto in bocca.» Lo riappoggiò sul vassoio e rimase immobile, senza parlare, a rimirare in silenzio il ravanello a rosetta. «Sono così addolorata, Elaine», disse Abby. «Non so che cosa dire per farti coraggio.»
«Vorrei soltanto capire. Non mi aveva mai fatto parola di nulla. Non mi aveva mai detto che lui...» Deglutì e scosse la testa. Prese il vassoio di cibo e andò a metterlo su un ripiano del frigorifero, richiudendo poi lo sportello. Nel girarsi, guardò Abby. «Tu quella sera gli hai parlato. C'era qualcosa di cui avete discusso... qualcosa che lui potrebbe aver detto...» «Abbiamo parlato di una delle pazienti. Aaron voleva assicurarsi che io stessi applicando la terapia giusta.» «Non avete toccato altri argomenti?» «No. Inoltre Aaron non mi era sembrato diverso dal solito. Soltanto preoccupato. Elaine, non avrei mai immaginato che lui potesse...» Abby tacque. Lo sguardo di Elaine si spostò su un altro vassoio, guarnito di cipolline. «Hai mai sentito dire qualcosa su Aaron che... non vuoi riferirmi?» «Che cosa intendi?» «Un... accenno ad altre donne...» «Mai.» Scosse la testa. Poi ripeté, con maggiore enfasi: «Mai». Elaine annuì, ma sembrava poco confortata dalla rassicurazione di Abby. «In realtà, non ho mai creduto che ci fosse un'altra donna», disse. Prese il secondo vassoio e lo mise in frigorifero. Mentre richiudeva lo sportello, mormorò: «Mia suocera me ne attribuisce la colpa. Ritiene che sia stato per qualcosa che ho fatto io. Saranno in molti a chiederselo». «Nessuno può provocare il suicidio di un altro.» «Non c'è stato nessun campanello d'allarme. Niente di niente. Oh, lo so che non era contento del suo lavoro. Continuava a dire che voleva lasciare Boston. O addirittura abbandonare la professione medica.» «Perché era così infelice?» «Non ne voleva parlare. Quando aveva il suo studio privato a Natick, discutevamo sempre del suo lavoro. Poi arrivò quell'offerta del Bayside, ed era troppo buona per rifiutarla. Tuttavia, non appena ci trasferimmo qui, lui diventò un altro. Tornava a casa e si sedeva come uno zombie davanti a quel dannato computer. Giocava con i videogame per intere serate. A volte, mi svegliavo di notte e sentivo strani bip e clic. Ed era Aaron, seduto tutto solo a giocare al computer.» Scosse la testa e fissò un altro vassoio di cibo, non toccato. «Tu sei una delle ultime persone che ha parlato con lui. Non c'è nulla che ti venga in mente?» Abby guardò fuori della finestra di cucina, cercando di ricostruire l'ultima telefonata con Aaron. Non riusciva a trovare nulla che la distinguesse da qualunque altra telefonata fatta a notte tarda. Sembravano mescolarsi
tutte, un coro di voci monotone che esigevano dal suo cervello stanco una pronta risposta. All'esterno, i tre uomini stavano tornando dalla loro passeggiata in giardino. Lei li osservò attraversare la terrazza, diretti verso la porta della cucina. Zwick reggeva la bottiglia di scotch, ormai semivuota. Entrarono in casa e fecero un cenno di saluto. «Un bel giardinetto», esclamò Archer. «Dovresti andar fuori a fare un giro, Abby.» «Mi piacerebbe», rispose lei. «Elaine, forse potresti venire con me e farmi vedere...» S'interruppe. Non c'era nessuno accanto al frigorifero. Abby si guardò in giro, vide i vassoi sul ripiano e una scatola aperta di pellicola trasparente, da cui penzolava un foglio che ondeggiava nell'aria. Elaine aveva lasciato la stanza. Una donna stava pregando accanto al letto di Mary Allen. Era seduta lì da almeno mezz'ora, a testa china, con le mani giunte, e invocava a voce alta il Signore Gesù, implorandolo di far piovere qualche miracolo su Mary Allen. Che la curasse, la fortificasse, ne purificasse il corpo e l'anima impuri così da permetterle di accettare finalmente la parola di Cristo in tutta la sua gloria. «Mi scusi», disse Abby. «Mi spiace intromettermi, ma devo visitare Mrs Allen.» La donna continuò a pregare. Forse non l'aveva sentita. Stava per ripetere la sua richiesta, quando la donna finalmente disse: «Amen» e alzò la testa. Aveva un'espressione dura negli occhi e capelli di un castano opaco con qualche filo bianco. La fissò con aria irritata. «Sono la dottoressa DiMatteo», spiegò Abby. «Mi prendo cura di Mrs Allen.» «Anch'io», replicò la donna, alzandosi in piedi. Non accennò a porgere una mano al medico, ma rimase immobile, con la Bibbia stretta al petto. «Mi chiamo Brenda Hainey. Sono la nipote di Mary.» «Non sapevo che Mary avesse una nipote. Sono felice che lei possa venire a farle visita.» «Ho saputo soltanto da un paio di giorni che era malata. Nessuno si è preoccupato di avvertirmi.» Il suo tono di voce lasciava intendere che la colpa di quella inadempienza ricadeva in qualche modo su Abby. «Ci era parso che Mary non avesse parenti stretti.»
«Non capisco perché. In ogni caso, adesso sono qui.» Brenda si girò a guardare la zia. «E lei starà bene.» A parte il fatto che sta morendo, pensò Abby. Si avvicinò al letto e chiamò a voce bassa: «Mrs Allen?» Mary aprì gli occhi. «Sono sveglia, dottoressa. Riposavo soltanto.» «Come si sente oggi?» «Ho ancora nausea.» «Potrebbe essere un effetto collaterale della morfina. Le daremo qualcosa per metterle a posto lo stomaco.» Brenda intervenne: «Le somministrate morfina?» «Per calmare i dolori.» «Non c'è un altro modo?» Abby si girò verso la nipote. «Mrs Hainey, per favore, può uscire dalla stanza? Devo visitare sua zia.» «Miss Hainey», ribatté l'altra, «e sono sicura che la zia Mary preferisce che io rimanga.» «La prego di andarsene.» Brenda lanciò un'occhiata alla zia, aspettando una protesta da parte sua, ma Mary Allen guardava fisso davanti a sé, senza aprire bocca. Brenda strinse la Bibbia con maggior forza. «Aspetto fuori della porta, zia Mary.» «Dio santo», bisbigliò Mary, non appena la porta si fu chiusa alle spalle di Brenda, «questa sarà la mia punizione.» «Si riferisce a sua nipote?» Lo sguardo stanco di Mary si appuntò su Abby. «Secondo lei, la mia anima ha bisogno di essere salvata?» «A mio parere questa è una cosa che soltanto lei deve decidere. E nessun altro.» Tirò fuori lo stetoscopio. «Posso auscultarle i polmoni?» Obbediente, Mary si mise a sedere sul letto e si rialzò la camicia da notte. I rumori polmonari erano smorzati. Durante la percussione della schiena di Mary, lei poté sentire il cambiamento tra massa liquida e aria, ricavandone la certezza che altro liquido si era accumulato nel torace dall'ultima volta in cui aveva visitato la paziente. Si raddrizzò. «Come va il respiro?» «Bene.» «Probabilmente dovremo aspirarle il liquido, quanto prima. O inserire un altro catetere intrapleurico.»
«Perché?» «Per facilitarle la respirazione. Per farla star meglio.» «È l'unico motivo?» «Il benessere è un motivo molto valido, Mrs Allen.» Mary si riappoggiò ai cuscini. «Allora le farò sapere quando ne avrò bisogno», sussurrò. Nell'uscire dalla stanza, Abby trovò Brenda Hainey proprio di fronte alla porta, in attesa. «Sua zia vorrebbe dormire un po'», le comunicò. «Forse lei potrebbe tornare in qualche altro momento.» «C'è una questione di cui devo discutere con lei, dottoressa.» «Sì?» «Ne ho appena parlato con l'infermiera. Quella morfina... è proprio necessaria?» «Ritengo che sua zia direbbe di sì.» «La intontisce. Zia Mary non fa altro che dormire.» «Nei limiti delle nostre possibilità, cerchiamo di risparmiarle sofferenze. Il tumore è diffuso ovunque. Nelle ossa, nel cervello. È il peggior tipo di dolore immaginabile. La cosa migliore che possiamo fare è aiutarla ad andarsene soffrendo il meno possibile.» «Che cosa intende con 'aiutarla ad andarsene'?» «Sua zia sta morendo. Non possiamo fare nulla per cambiare questo stato di cose.» «Lei ha usato quelle parole: 'aiutarla ad andarsene'. È a questo che serve la morfina?» «È ciò che sua zia vuole e di cui ha bisogno in questo momento.» «Non è la prima volta che mi sento dire una frase del genere, dottoressa. Mi è capitato con altri parenti. Ma, per quanto ne so, non è legale praticare l'eutanasia.» Abby si sentì avvampare in viso per la rabbia. Lottando per mantenere il controllo di sé, rispose nel tono più calmo che riuscì ad assumere: «Lei sta fraintendendo. Noi stiamo solamente cercando di non far soffrire sua zia». «Ci sono altri modi per riuscirci.» «Quali, per esempio?» «Fare ricorso a una fonte di benessere che trascende l'essere umano.» «Intende la preghiera?» «Perché no? Io vi ho trovato un valido aiuto in momenti difficili.» «Se vuol pregare per sua zia, lei è la benvenuta. Ma, se ricordo bene, nella Bibbia non si dice nulla contro la morfina.»
Il volto di Brenda s'irrigidì. Stava per replicare, quando fu interrotta dal suono di un cicalino. «Mi scusi», disse Abby in tono gelido e si allontanò, lasciando quella conversazione a metà. Tanto meglio, perché stava per dire qualcosa di sarcastico, del tipo: Mentre prega il suo Dio, perché non gli chiede una bella guarigione? Brenda sarebbe certamente andata su tutte le furie. Con l'azione legale intentata da Joe Terrio che balenava all'orizzonte e con Victor Voss che non vedeva l'ora di farla espellere dall'ospedale, l'ultima cosa di cui aveva bisogno era che qualcun altro presentasse un reclamo nei suoi confronti. Raggiunse l'apparecchio telefonico nella stanza delle infermiere e compose il numero che compariva sul suo cicalino. Rispose una voce femminile: «Ufficio informazioni». «Sono la dottoressa DiMatteo. Mi avete cercata?» «Sì, dottoressa. C'è un certo Bernard Katzka qui al banco. Vorrebbe sapere se può incontrarla nell'atrio.» «Non conosco nessuno con questo nome. Sono molto occupata in reparto. Può chiedergli di che cosa si tratta?» In sottofondo si udì un mormorio. Quando la donna tornò all'apparecchio, la sua voce risuonò stranamente perplessa. «Dottoressa DiMatteo?» «Sì?» «È un poliziotto.» L'uomo nell'atrio aveva un aspetto vagamente familiare. Era sui quarantacinque anni, altezza media, corporatura normale, con quel tipo di volto che non è né attraente né scialbo né tale da imprimersi nella memoria. I capelli, di un castano scuro, cominciavano a diradarsi in cima alla testa, incipiente calvizie che lui, diversamente dalla gran parte degli uomini, non cercava di nascondere ricorrendo a un riporto laterale. Mentre Abby si avviava verso il poliziotto, ebbe l'impressione di essere stata a sua volta riconosciuta. Infatti, non aveva fatto in tempo a uscire dall'ascensore che si era sentita gli occhi di lui incollati addosso. «Dottoressa DiMatteo», si sentì apostrofare, «sono il detective Bernard Katzka. Della squadra omicidi.» Nell'udire quelle parole, provò un senso di smarrimento. Di che cosa si trattava? Si strinsero la mano e, in quell'attimo, mentre i loro sguardi s'incrociavano, lei ricordò dove l'avesse già visto. Al cimitero, al funerale di Aaron Levi. Si era tenuto un po' in disparte, una figura silenziosa vestita di
scuro. Durante le esequie si erano scambiati un'occhiata. Abby non capiva una parola del servizio funebre pronunciato in ebraico, perciò la sua attenzione si era rivolta a quanti la circondavano; ed era stato allora che aveva scorto qualcun altro intento a scrutare i presenti. Per un solo istante i loro sguardi si erano incrociati, poi lui aveva distolto il viso. In quell'occasione, lei non aveva notato nulla di rimarchevole in quell'uomo; adesso, però, osservandolo, fu attratta dai suoi occhi grigi, calmi, imperturbabili. Se non fosse stato per l'intelligenza che vi brillava, nessuno avrebbe mai notato Bernard Katzka. Lei chiese: «È un amico della famiglia Levi?» «No.» «Eppure ci siamo visti al cimitero. O mi sbaglio?» «Infatti ero là.» Abby tacque, aspettando una spiegazione, ma l'uomo si limitò a dire: «C'è un posto, qui, in cui si possa parlare?» «Posso chiederle di che cosa si tratta?» «Della morte del dottor Levi.» Lei guardò le porte esterne dell'ospedale. Fuori, il sole brillava e lei era rimasta al chiuso per tutto il giorno. «C'è un cortiletto con qualche panchina», disse. «Perché non ci mettiamo là fuori?» Era uno stupendo pomeriggio d'ottobre. Nel giardino del cortiletto, i crisantemi erano in fiore e l'aiuola circolare rísplendeva di boccioli gialli e arancioni tendenti al ruggine. Dalla fontana al centro scendeva uno zampillo d'acqua. Si sedettero su una delle panchine di legno. Due infermiere che occupavano l'altra panchina si alzarono e tornarono verso l'edificio, lasciando soli Abby e il detective. Per qualche istante nessuno dei due aprì bocca. Quel silenzio la metteva a disagio, ma non sembrava disturbare l'uomo, che dava l'impressione di essere abituato a prolungati silenzi. «È stata Elaine Levi a farmi il suo nome», esordì infine Katzka. «Mi ha suggerito di parlare con lei.» «Perché?» «Sabato scorso, di prima mattina, lei scambiò qualche parola con il dottor Levi. È esatto?» «Sì. Al telefono.» «Ricorda che ore fossero?» «Le due, mi pare. Io ero in ospedale.» «Fu lui a chiamarla?»
«Be', aveva telefonato all'unità chirurgica di terapia intensiva chiedendo di parlare con il medico di guardia. E, quella notte, ero io, di guardia.» «Qual era il motivo della telefonata?» «Una paziente colpita da febbre post-operatoria. Aaron voleva discutere un piano d'azione. Quali esami di laboratorio richiedere, quali radiografie. Le dispiacerebbe dirmi di che cosa si tratta, esattamente?» «Sto cercando di stabilire la cronologia dei fatti. Dunque, il dottor Levi telefonò all'unità chirurgica di terapia intensiva e fu lei ad andare all'apparecchio.» «Sì.» «In seguito, lei gli parlò di nuovo? Dopo le due di mattina, intendo?» «No.» «Cercò di mettersi in contatto con lui?» «Sì, ma era già uscito di casa. Parlai con Elaine.» «Che ore erano?» «Non lo so. Forse le tre, le tre e un quarto. Non tenevo gli occhi fissi sull'orologio.» «E non lo richiamò più a casa?» «No. Cercai diverse volte di contattarlo tramite cicalino, ma sempre senza ricevere risposta. Sapevo che era da qualche parte nell'edificio, perché la sua auto era nel parcheggio.» «A che ora la vide?» «Non la vidi io. Il mio fidanzato, il dottor Hodell... fu lui a notarla quando arrivò qui in macchina, verso le quattro di mattina. Ma, mi dica, perché la squadra omicidi sta facendo indagini?» Lui ignorò la domanda. «Elaine Levi sostiene che ci fu una telefonata verso le due e un quarto. Suo marito rispose, poi, alcuni minuti dopo, si rivestì e uscì di casa. Sa qualcosa di questa telefonata?» «No. Potrebbe essere stata una delle infermiere. Elaine non lo sa?» «Suo marito portò il telefono in stanza da bagno. Lei non udì neppure una parola della conversazione.» «Non ero io. Io ho parlato con Aaron una volta soltanto. Adesso, però, vorrei proprio sapere perché mi sta facendo queste domande. Non può trattarsi di una semplice routine.» «No, non è una semplice routine.» Il cicalino di Abby prese a suonare. Lei riconobbe il numero che vi era apparso: era quello dell'ufficio cui facevano capo gli specializzandi, quindi non si trattava di un'emergenza. Però lei ne aveva abbastanza di quel col-
loquio. Si alzò. «Detective, sono occupata. Ho vari pazienti da visitare. Non ho tempo per rispondere a una valanga di domande nebulose.» «Le mie domande sono quanto mai precise. Sto cercando di stabilire chi quella mattina fece le telefonate e a che ora. E che cosa fu detto durante quelle conversazioni.» «Perché?» «Tutto questo potrebbe avere qualche influenza sulla morte del dottor Levi.» «Sta dicendo che qualcuno gli avrebbe suggerito d'impiccarsi?» «Vorrei semplicemente sapere chi parlò con lui.» «Non può ricavarlo dal computer della società dei telefoni o roba del genere? Le telefonate non vengono registrate?» «La chiamata che il dottor Levi ricevette alle due e un quarto veniva dal Bayside Hospital.» «Allora potrebbe essere stata un'infermiera.» «O chiunque altro nell'edificio.» «È questa, la sua teoria? Sostiene che qualcuno chiamò Aaron dal Bayside e gli disse qualcosa di tanto sconvolgente da indurlo a uccidersi?» «Stiamo considerando altre possibilità oltre al suicidio.» Abby lo fissò. Katzka aveva detto quelle parole a voce così bassa che lei si chiese se avesse capito bene. Lentamente si risedette sulla panchina. Sui due calò il silenzio. Un'infermiera spinse una donna sulla sedia a rotelle attraverso il cortile. Indugiarono accanto all'aiuola, ammirando i crisantemi, poi si allontanarono. L'unico rumore che risuonava nel cortile era il melodioso fruscio della fontana. «Potrebbe essere stato ucciso? È questo che...» chiese Abby. Il detective non rispose subito. E lei non riusciva a capire, guardandolo in faccia, quale potesse essere la risposta. Katzka se ne stava seduto immobile, senza che la posizione, le mani, l'espressione rivelassero alcunché. «Aaron si è impiccato?» chiese lei. «Dall'esame autoptico risulta una morte per asfissia.» «Che è quanto ci si poteva aspettare. Sembrerebbe proprio un suicidio.» «Potrebbe esserlo, infatti.» «Allora perché lei non ne è convinto?» Katzka esitò. Per la prima volta, la donna vide un lampo d'incertezza negli occhi del poliziotto e capì che stava valutando che cosa dire e come dirlo. Era il tipo d'uomo che non faceva una mossa senza prima soppesarne le
conseguenze. Il tipo d'uomo per cui la spontaneità stessa era un'azione pianificata. «Due giorni prima di morire», riprese Katzka, «il dottor Levi si era portato a casa un computer nuovo di zecca». «Tutto qui? È questo che la spinge a fare tante domande?» «Lo utilizzò per parecchie cose. Prenotò due posti su un volo diretto a St. Lucia, nei Caraibi. Il periodo previsto era attorno a Natale. Poi spedì per posta elettronica una lettera al figlio che stava a Dartmouth, facendo progetti per il Giorno del Ringraziamento. Due giorni prima di suicidarsi, quest'uomo faceva piani per il futuro, stava pregustando un piacevole periodo di ferie al mare. Poi, alle due e un quarto di mattina, si alza dal letto e guida fino all'ospedale, prende l'ascensore e poi sale una rampa di scale per raggiungere un piano deserto, lega una cintura alla sbarra dell'armadio a muro, forma un cappio all'altra estremità, v'infila il collo e si lascia andare a peso morto. Non avrà perso subito conoscenza. Gli saranno rimasti cinque, forse dieci secondi per cambiare idea. Ha una moglie, due figli e una spiaggia a St. Lucia cui pensare. Ma sceglie di morire. Solo, e al buio.» Lo sguardo di Katzka non lasciò quello di Abby. «Ci pensi.» Lei mandò giù il groppo che le si era formato in gola. «Non sono sicura di volerlo fare.» «Io, sì.» Lei guardò i silenziosi occhi grigi del poliziotto e si chiese: A quali altri incubi sta pensando? Che tipo di uomo sceglie un lavoro che presuppone tali orrende visioni? «Sappiamo che l'auto del dottor Levi fu trovata al suo solito posto nel parcheggio dell'ospedale», continuò il detective. «Ignoriamo i motivi che lo spinsero a venire qui, o quantomeno a uscire di casa. A eccezione della persona che gli telefonò alle due e un quarto, lei è l'unica di cui sappiamo per certo che parlò con il dottor Levi. Disse qualcosa sul venire o no in ospedale?» «Era preoccupato per la nostra paziente. Potrebbe aver deciso di venire per risolvere di persona quel problema.» «Invece di lasciare che ci pensasse lei?» «Sono una specializzanda del secondo anno, detective Katzka, non un medico d'urgenza. Aaron era l'internista dell'équipe dei trapianti.» «Credevo che fosse un cardiologo.» «Era anche un internista. Quando c'era un problema medico, per esempio un rialzo febbrile, le infermiere di solito si rivolgevano a lui. E lui a-
vrebbe interpellato altri specialisti, qualora ne avesse avuto bisogno.» «Nel corso di quella telefonata, disse che sarebbe venuto in ospedale?» «No. Discutemmo soltanto il da farsi. Gli spiegai come intendevo intervenire: avrei visitato la paziente e richiesto alcuni esami del sangue e certe radiografie. Lui approvò.» «Tutto qui?» «La nostra conversazione si svolse soltanto in questo ambito.» «Lui non disse qualcosa di strano, qualcosa che la colpì?» Abby ripensò alla telefonata. Le venne in mente quel silenzio iniziale. E come, nella voce di Aaron, le fosse sembrato di avvertire una nota di disappunto nel rendersi conto che, all'altro capo del filo, c'era lei. «Dottoressa DiMatteo?» Lei alzò gli occhi verso Katzka. Sebbene il detective avesse pronunciato il suo nome a voce bassa, lo sguardo gli si era fatto vigile. «Si è ricordata di qualcosa?» chiese Katzka. «Rammento che non mi era sembrato molto contento del fatto che il medico di guardia fossi io.» «Perché?» «Per via della paziente coinvolta. Suo marito e io... avevamo avuto uno scontro. Molto serio.» Distolse lo sguardo, provando un leggero senso di nausea al pensiero di Victor Voss. «Sono sicura che Aaron avrebbe preferito sapermi lontana mille miglia da Mrs Voss.» Il silenzio di Katzka la indusse a fissarlo di nuovo. «La moglie di Victor Voss?» chiese infine il poliziotto. «Sì. Lo conosce?» Katzka si abbandonò contro lo schienale della panca, emettendo un sibilo attutito. «So che ha fondato la VMI International. Che tipo di operazione ha subito sua moglie?» «Un trapianto di cuore. Adesso sta molto meglio. Dopo alcuni giorni di terapia antibiotica, la febbre le è passata.» Katzka stava fissando la fontana, il cui zampillo illuminato dal sole scintillava come una catena d'oro. All'improvviso si alzò. «Grazie per avermi dedicato un po' del suo tempo, dottoressa DiMatteo», disse. «È probabile che debba disturbarla ancora.» Abby stava per rispondere: «Quando vuole», ma lui le aveva già voltato le spalle, allontanandosi a grandi passi. Quell'uomo era passato da un'immobilità assoluta alla velocità del suono. Straordinario. Il cicalino suonò. A chiamarla era ancora l'Ufficio specializzandi. Abby
azzerò l'apparecchio. Quando rialzò gli occhi, Katzka era scomparso. Il poliziotto che si dissolveva come d'incanto. Rimuginando ancora sulle sue domande, tornò nell'atrio e andò a telefonare. Rispose una segretaria. «Ufficio specializzandi.» «Sono Abby DiMatteo. Mi ha cercata?» «Oh, sì. Due cose. C'è stata una chiamata per lei dall'esterno: era Helen Lewis, della New England Organ Bank. Voleva sapere se lei ha mai avuto una risposta a quanto chiedeva a proposito di quell'espianto. Dato che non siamo riusciti a metterci in contatto con lei, la Lewis ha riattaccato.» «Se telefona ancora, le dica che ho già avuto la risposta che cercavo. La seconda cosa?» «Le è stata recapitata una citazione. Ho firmato io per lei. Spero di aver fatto bene.» «Una citazione?» «È stata consegnata pochi minuti fa. Pensavo che volesse esserne informata.» «Chi è il mittente?» Si sentì un rumore di carte smosse, poi: «Viene da Hawkes, Craig e Sussman. Uno studio legale». Nello stomaco di Abby si aprì una voragine. «Vengo subito», disse e riattaccò. Ancora la denuncia Terrio. Le ruote della giustizia l'avrebbero certamente stritolata. Le mani le stavano sudando mentre saliva con l'ascensore al piano degli uffici amministrativi. La dottoressa DiMatteo, nota per la sua calma in sala operatoria, è un tremolante fascio di nervi, pensò. La segretaria dell'Ufficio specializzandi era al telefono. Quando scorse Abby, le indicò le cassette della posta. Nella sua c'era un'unica busta. Sull'angolo a sinistra in alto era stampata l'intestazione HAWKES, CRAIG E SUSSMAN. Abby stracciò il lembo ripiegato della busta. Sulle prime, non capì ciò che stava leggendo. Poi focalizzò la sua attenzione sul nome dell'attore e finalmente comprese. Le sembrò che lo stomaco, prima in caduta libera, si fosse schiantato al suolo. Quella notifica non riguardava affatto Karen Terrio, bensì un altro paziente, un certo Michael Freeman, un alcolista che, mentre era ricoverato in ospedale, aveva inaspettatamente avuto un'emorragia da rottura di varice esofagea. L'emorragia si era rivelata letale. Abby era la specializzanda che l'aveva avuto in cura. Ricordava il caso; quel decesso così macabro l'aveva sconvolta. Adesso la moglie di Michael Freeman le faceva causa e si era rivolta allo
studio Hawkes, Craig e Sussman perché la rappresentasse. Abby era la convenuta. L'unica convenuta menzionata nella citazione. «Dottoressa DiMatteo? Si sente bene?» Di colpo, si rese conto di essersi appoggiata alle cassette della posta. La stanza pareva rotearle davanti. La segretaria la fissava con uno sguardo preoccupato. «Sto... bene», mormorò. «È tutto a posto.» Uscì dall'ufficio, sentendosi in preda alla più nera disperazione. Si precipitò nella stanza del medico di guardia, vi si chiuse a chiave e si sedette sul letto. Poi riaprì la lettera e la lesse di nuovo. Più e più volte. Due citazioni in due settimane. Vivian aveva ragione. Abby avrebbe trascorso il resto della sua esistenza nelle aule di tribunale. Sapeva di dover telefonare al proprio avvocato, ma non se la sentiva, non in quel momento. Perciò rimase seduta sul letto, a fissare la lettera che teneva in grembo. Ripercorse mentalmente tutti gli anni trascorsi, tutto il lavoro fatto, per arrivare a quel punto della sua carriera. Ricordò le notti in cui si addormentava sui libri mentre gli altri studenti erano fuori a divertirsi; i fine settimana in cui lei faceva i doppi turni in ospedale come flebotoma, a fare prelievi di sangue, uno via l'altro, per imparare il mestiere. Pensò ai centoventimila dollari di prestiti scolastici che doveva ancora restituire. Alle cene a base di pane e burro di arachidi. Ai film e alle opere teatrali che non aveva mai visto, ai concerti cui non era mai andata. E pensò a Pete, che era stato la causa di tutto ciò. Il fratello che lei avrebbe voluto salvare, ma che non era riuscita a tenere in vita. Pensò soprattutto a Pete, ai suoi eterni dieci anni. Victor Voss aveva la vittoria in pugno. Aveva detto che l'avrebbe distrutta ed era esattamente quello che stava facendo. Contrattaccare. Era il momento di passare alla controffensiva. Però non riusciva a trovare il modo. Non era abbastanza intelligente. La lettera le bruciava in mano, come se fosse stata un acido. Continuò a rimuginare su quanto si poteva fare per fermare Voss, ma lei non aveva armi, a parte la spinta che quell'uomo le aveva dato nell'unità coronarica. Un'accusa di aggressione e lesioni personali. Non bastava, non era sufficientemente forte da fermarlo. Passa al contrattacco. Devi escogitare un modo. Il cicalino suonò. La cercavano dal reparto chirurgico. Di qualunque cosa si trattasse, avrebbe voluto essere lasciata in pace, tuttavia sollevò la cornetta e formò il numero. «DiMatteo», disse bruscamente.
«Dottoressa, abbiamo un problema con la nipote di Mary Allen.» «Che cosa c'è?» «Stiamo cercando di somministrare alla paziente la dose di morfina delle quattro, ma Brenda fa di tutto per impedircelo. Forse lei potrebbe...» «Arrivo.» Buttò giù il ricevitore. Al diavolo Brenda, pensò, infilandosi in tasca la lettera dell'avvocato. Scese le scale facendo due gradini alla volta. Quando arrivò nel reparto, respirava affannosamente, non per lo sforzo, ma per la rabbia. Puntò dritta verso il letto di Mary Allen. Nella stanza c'erano due infermiere che stavano parlando con Brenda. Mary Allen era a letto, sveglia, ma pareva troppo debole e assillata dai dolori per intervenire nella discussione. «È già abbastanza drogata», stava dicendo Brenda Hainey. «Guardatela. Non mi rivolge neppure la parola.» «Forse non vuole parlarle», commentò Abby. Le infermiere si girarono verso di lei con aria di sollievo. Era arrivata la voce dell'autorità. «La prego di uscire da questa stanza, Miss Hainey», ordinò Abby. «La morfina non è necessaria.» «Spetta a me deciderlo. Adesso esca di qui.» «A mia zia non rimane molto tempo. Ha bisogno di tutte le sue facoltà.» «Per che cosa?» «Per accettare pienamente il Signore. Se muore prima di averlo accettato...» Abby tese una mano verso le infermiere. «Datemi la morfina. Gliela somministrerò io.» La siringa le fu prontamente consegnata. Abby si avvicinò alla cannula dell'infusione endovenosa. Mentre scappucciava l'ago, vide Mary Allen farle un debole cenno con il capo, pieno di gratitudine. «Se lei le dà quella droga io mi rivolgerò a un avvocato», disse Brenda. «Lo faccia», ribatté Abby. Infilò l'ago nella cannula dell'infusione endovenosa. Stava spingendo lo stantuffo quando Brenda balzò in avanti e strappò il catetere dal braccio della zia. Il sangue zampillò dalla vena fin sul pavimento. Quelle lucide macchie rosse sul linoleum furono la goccia che fece traboccare il vaso. Mentre un'infermiera applicava una garza sul braccio di Mary Allen, Abby si voltò verso Brenda e le intimò: «Esca da questa stanza!» «Non mi ha lasciato altra scelta, dottoressa.» «Fuori!»
Brenda sgranò gli occhi. Fece un passo indietro. «Vuole che chiami il servizio di vigilanza per farla buttar fuori?» Stava gridando e si avvicinava sempre più a Brenda, che continuava a indietreggiare verso il corridoio. «Non voglio che lei ronzi attorno alla mia paziente! Non voglio che lei la infastidisca con le sue stronzate bibliche!» «Sono una sua parente!» «Non me ne frega un cazzo di chi è lei!» Brenda rimase a bocca aperta. Senza ribattere, si voltò di scatto e si allontanò. «Dottoressa DiMatteo, posso dirle una parola?» Abby si girò e vide la capoinfermiera, Georgina Sperry. «È stato uno sbaglio, dottoressa. Non ci si rivolge ai familiari dei degenti usando simili termini.» «Ha strappato dal braccio della mia paziente il catetere dell'infusione endovenosa!» «Ci sono modi migliori per gestire simili situazioni. Chiamare i sorveglianti, rivolgersi a un superiore. Ma il linguaggio scurrile non è ammesso in questo ospedale. Lo capisce?» Abby inspirò profondamente. «Capisco», replicò. E aggiunse, in un soffio: «Mi dispiace». Dopo aver rimesso il catetere a Mary Allen, si ritirò nella stanza del medico di guardia e si sdraiò svogliatamente sul letto. Mentre fissava il soffitto, pensava: Che cos'è che non va in me? Prima di allora non aveva mai perso l'auto-controllo, non era mai arrivata al punto d'inveire contro un paziente o un suo familiare. Sto uscendo di senno, pensò. Lo stress mi sta mettendo alle corde. Forse non sono fatta per essere un medico. Il cicalino suonò. Cristo, non l'avrebbero mai lasciata in pace? Che cosa non avrebbe dato per rimanere un intero giorno, un'intera settimana, senza essere chiamata al cicalino o al telefono o essere tormentata continuamente. A cercarla era il centralino dell'ospedale. Abby sollevò la cornetta e schiacciò lo 0. «Una chiamata esterna per lei, dottoressa», disse l'operatore. «Gliela passo.» Si udirono alcuni scatti, poi una voce di donna disse: «La dottoressa Abby DiMatteo?» «Sono io.» «Parla Helen Lewis, della New England Organ Bank. Sabato scorso lei mi ha lasciato un messaggio a proposito di un donatore di cuore. Aspettavamo che si facesse vivo qualcuno del Bayside, però non ha richiamato
nessuno. Allora mi è parso il caso di controllare di persona.» «Mi dispiace. Avrei dovuto telefonarle, ma qui è successo di tutto. A quanto pare, si è trattato di un semplice disguido.» «Sono contenta che ogni cosa si sia chiarita. Perché io non ero riuscita a trovare quell'informazione. Se ha altre cose da chiedere, mi dia semplicemente...» «Mi scusi», la interruppe Abby. «Che cosa ha detto?» «Che non sono riuscita a trovare quell'informazione.» «Perché no?» «I dati da lei forniti non trovano riscontro nel nostro archivio.» Per dieci secondi buoni, Abby rimase in silenzio. Poi chiese, scandendo le parole: «È assolutamente certa che non ci siano?» «Ho controllato in tutti i file del nostro computer. Il giorno in cui, secondo lei, sarebbe avvenuto l'espianto, nei nostri archivi non risulta nessun donatore. Da nessuna parte nel Vermont.» 12. «Ecco qui», disse Colin Wettig, spalancando l'Elenco dei chirurghi specialisti. «Timothy Nicholls. Ha frequentato l'università del Vermont, si è laureato a Tufts, e specializzato in chirurgia toracica presso il Massachusetts General. Lavora al Wilcox Memorial di Burlington, nel Vermont.» Spostò il volume sul tavolo della sala riunioni perché chiunque dei presenti potesse controllare. «Dunque esiste veramente un chirurgo toracico di nome Tim Nicholls che svolge la sua professione a Burlington. Non è un parto della fantasia di Archer.» «Sabato, quando ho parlato con lui», intervenne Archer, «Nicholls mi ha detto di aver assistito all'espianto. E ha aggiunto che l'intervento era stato fatto al Wilcox Memorial. Purtroppo mi è stato impossibile trovare qualche altro chirurgo che fosse in sala operatoria assieme a lui. E adesso non riesco più a rintracciare Nicholls. Il suo staff sostiene che si è preso un prolungato periodo di ferie. Non so che cosa stia accadendo, Jeremiah, ma vorrei che noi non fossimo mai entrati in quest'affare. Comincia a puzzare maledettamente di bruciato.» Jeremiah Parr, a disagio, si agitò sulla sedia e lanciò un'occhiata all'avvocato Susan Casado. Non guardò invece Abby, seduta all'altra estremità del tavolo, vicino alla coordinatrice dei trapianti, Donna Toth. Forse Parr non voleva incontrare il suo sguardo. Dopotutto, era stata Abby ad attirare
l'attenzione di tutti su quel pasticcio. Era stata lei a dare il via a quell'incontro. «Che cosa sta accadendo?» chiese. Fu Archer a rispondere. «Credo che Victor Voss abbia brigato per mantenere il donatore di organi al di fuori delle registrazioni ufficiali. Per far arrivare il cuore direttamente a sua moglie.» «Sarebbe in grado di farlo?» «Se consideriamo quanto un'operazione del genere può venire a costare... è probabile.» «Certamente lui il denaro ce l'ha», rifletté Susan. «Ho appena visto pubblicato su Kiplinger's l'elenco delle cinquanta persone più ricche degli Stati Uniti. Voss è salito al quattordicesimo posto.» «Forse sarebbe meglio che mi spiegaste come dovrebbero essere assegnati gli organi da trapiantare», intervenne Parr. «Non riesco a capire il meccanismo...» Archer guardò la coordinatrice dei trapianti. «Di questo si occupa solitamente Donna. Perché non lasciamo che sia lei a spiegarlo?» Donna Toth annuì. «È una procedura molto lineare», disse. «Abbiamo una lista d'attesa, regionale e nazionale a un tempo, di pazienti che necessitano di trapianti di organi. Della parte nazionale si occupa la United Network for Organ Sharing, o, più brevemente, UNOS; quella regionale fa capo alla New England Organ Bank, la NEOB. Entrambe queste associazioni danno la precedenza ai casi più urgenti, indipendentemente da ricchezza, razza o posizione sociale dei pazienti. Per la lista, si tiene conto soltanto di quanto siano critiche le condizioni di salute.» Aprì una cartelletta e ne estrasse un foglio, che passò a Parr. «Ecco la lista regionale più recente. Mi è stata appena trasmessa via fax dall'ufficio della NEOB di Brookline. Come potete vedere, fornisce la situazione clinica di ogni paziente, l'organo richiesto, il più vicino centro di trapianti e il numero telefonico da chiamare, che di solito è quello del coordinatore dei trapianti.» «E queste altre annotazioni?» «Si tratta d'informazioni cliniche: minimo e massimo di altezza e peso accettabili nel donatore, più gli eventuali altri trapianti subiti dal paziente, cosa che renderebbe più difficile il crossmatch a causa degli anticorpi.» «Lei asserisce che questa lista dà la precedenza ai casi più urgenti?» «Proprio così. Il nome al primo posto è quello del paziente nella condizione più critica.» «In che posizione era Mrs Voss?»
«Il giorno in cui le è stato trapiantato il cuore, era il numero tre sulla lista dei pazienti con sangue di gruppo AB.» «Che ne è stato dei primi due nomi?» «Ho controllato presso la NEOB. Pochi giorni dopo entrambi sono stati riclassificati come Codice 8. Tolti dalla lista.» «Il che sta a significare che sono morti?» chiese Susan Casado in un soffio. Donna annuì. «È stato impossibile salvarli per mancanza dell'organo da trapiantare.» «Gesù», gemette Parr. «Quindi Mrs Voss ha avuto un cuore destinato a qualcun altro.» «A quanto sembra, è accaduto proprio così. Non sappiamo in che modo si sia arrivati a questo.» «Come viene notificata a noi l'esistenza di un donatore?» chiese Susan. «Ci telefonano», rispose Donna. «Di solito succede così. Se ne occupa il coordinatore dei trapianti dell'ospedale in cui c'è un donatore. Lui o lei controlla la più recente lista d'attesa della NEOB e telefona al numero di contatto relativo al primo nome segnalato.» «E lei venne chiamata dal coordinatore dei trapianti del Wilcox Memorial?» «Sì. Gli avevo già parlato per telefono, in occasione di altri loro espianti, perciò non avevo motivo di nutrire dubbi su questa particolare donazione.» Archer scosse la testa. «Non so come Voss sia riuscito a tanto. Ogni fase della procedura ci è parsa legale e trasparente. Ovviamente qualcuno del Wilcox è stato pagato e io scommetto che si tratta del loro coordinatore dei trapianti. Così la moglie di Voss ha ottenuto il cuore. E il Bayside è stato coinvolto in una losca compravendita di organi. Non abbiamo neanche le carte relative al donatore per fare un controllo incrociato.» «Non sono state ancora trovate?» chiese Parr. «Non so dove rintracciarle», rispose Donna. «Nel mio ufficio i dati del donatore non ci sono.» Victor Voss, pensò Abby. In qualche modo è riuscito a far sparire i documenti. «Ma c'è di peggio», aggiunse Wettig. «I reni.» Parr guardò il Generale con aria accigliata. «I reni?» «La moglie di Voss non aveva bisogno di un trapianto di reni», spiegò Wettig. «Né di pancreas o di fegato. Dove sono finiti questi organi, dato che non sono mai stati registrati?»
«Probabilmente tra i rifiuti», esclamò Archer. «Già. Avrebbero potuto salvare da tre a quattro vite, invece sono stati sprecati.» Ci fu un balletto di teste che si scuotevano, con varie espressioni di disappunto. «Che cosa intendiamo fare a questo proposito?» chiese Abby. Alla sua domanda seguì un momentaneo silenzio. «Non saprei proprio», disse infine Parr. Guardò l'avvocato. «Siamo obbligati a dar seguito a questa vicenda?» «Da un punto di vista etico, sì», rispose Susan. «Se faremo rapporto, però, ci saranno alcuni strascichi. Parecchi, secondo me. In primo luogo, non ci sarà modo di tenere la stampa all'oscuro della vicenda. Una compravendita di organi, soprattutto se vi è coinvolto Victor Voss, è un formidabile scoop. Secondariamente, noi finiremo per venir meno, in un certo senso, al segreto professionale. Una parte dei nostri degenti non la prenderà bene.» Wettig sbuffò. «Una parte ben precisa... I ricconi.» «Quelli che consentono al nostro ospedale di sopravvivere», corresse Parr. «Proprio così», annuì Susan. «Se venissero a sapere che il Bayside è responsabile del coinvolgimento in un'indagine di una persona del calibro di Victor Voss, non si fiderebbero più della nostra capacità di mantenere il segreto sui loro fatti personali. Potremmo perdere i finanziamenti privati al centro trapianti. Infine, che cosa succederebbe se questa vicenda venisse in qualche modo rovesciata? Se si creasse cioè l'impressione di una nostra partecipazione attiva in una simile congiura? Perderemmo ogni credibilità come centro trapianti. Se saltasse fuori che Voss ha effettivamente brigato per mantenere segreto il donatore, anche noi saremmo marchiati a fuoco.» Abby lanciò un'occhiata ad Archer, che sembrava sconvolto da una simile possibilità. Tutto ciò poteva distruggere il programma trapiantistico del Bayside, e segnare la fine della stessa équipe dei trapianti. «Quanta parte di questa storia è già trapelata all'esterno?» chiese Parr. Si girò a guardare Abby. «Lei, dottoressa DiMatteo, che cosa ha raccontato alla NEOB?» «Quando ho parlato con Helen Lewis, non mi rendevo conto di come stessero realmente le cose. E lei pure. Abbiamo cercato di capire per quale motivo il donatore non fosse stato registrato, lasciando poi la situazione a questo punto. Irrisolta. Subito dopo la telefonata, ho fatto presente questo fatto ad Archer e al dottor Wettig.»
«E a Hodell. Di certo ne ha parlato con Hodell.» «Non ho ancora visto Mark. È stato in sala operatoria tutto il giorno.» Parr sospirò di sollievo. «Va bene. Quindi le persone al corrente della situazione sono tutte in questa stanza. Quanto a Mrs Lewis, sa soltanto che lei non è sicura di quanto sia accaduto.» «Sì.» Sul volto di Susan Casado apparve la stessa espressione di sollievo che si era dipinta su quello di Parr. «Dunque possiamo ancora contenere i danni. A mio parere, ecco che cosa è opportuno fare: il dottor Archer dovrà chiamare la NEOB e rassicurare Mrs Lewis, dicendole che abbiamo chiarito il malinteso. Ci sono buone probabilità che lei lasci le cose come stanno. Intanto noi continueremo a svolgere indagini, ma con estrema discrezione. Cercheremo di metterci di nuovo in contatto con il dottor Nicholls. Lui potrebbe chiarire molti punti oscuri.» «Nessuno sembra in grado di dirci quando Nicholls tornerà dalle ferie», borbottò Archer. «E l'altro chirurgo?» chiese Susan. «Quello venuto dal Texas?» «Mapes? Non ho ancora cercato di contattarlo.» «Qualcuno dovrebbe farlo.» Parr intervenne: «Non sono d'accordo. Non credo che al punto in cui siamo si debbano tirare in ballo altre persone». «Per quale motivo, Jeremiah?» «Quanto meno ne sappiamo, tanto meno ci troveremo coinvolti in questa incresciosa vicenda. Dobbiamo rimanerne fuori il più possibile. Spieghiamo a Helen Lewis che si è trattato di una donazione diretta e che è questo il motivo per cui i dati non sono mai passati attraverso la NEOB. Quindi laviamocene le mani.» «In altre parole», commentò Wettig, «cacciamo la testa nella sabbia.» «'Non c'ero e se c'ero dormivo.'» Parr guardò le persone sedute attorno al tavolo e parve interpretare la mancanza di repliche come segno di assenso. «È superfluo aggiungere che da questa stanza non dovrà uscire parola di quanto è stato detto.» Abby non poté fare a meno d'intervenire. «Il guaio è che non basta ignorare il male per cancellarlo. Anche se chiudiamo occhi e orecchie, il male è sempre lì.» «Il Bayside Hospital non ha colpe», la rimbeccò Parr. «Non vedo perché dovremmo essere penalizzati. E non ci esporremo certamente a polemiche ingiuste.»
«E la nostra responsabilità morale? Un fatto del genere potrebbe ripetersi.» «Dubito fortemente che Mrs Voss possa aver bisogno di un cuore nuovo in tempi molto stretti. È stato un incidente isolato, dottoressa DiMatteo. Un marito disperato viola le regole per salvare la moglie. Dobbiamo soltanto cautelarci per impedire che un simile fatto si verifichi nuovamente.» Parr guardò Archer. «È possibile?» Archer annuì. «Ci riusciremo.» «E come la mettiamo con Victor Voss?» chiese Abby. Dal silenzio con cui fu accolta la sua domanda arguì la risposta: per lui non ci sarebbero state conseguenze. Agli uomini come Victor Voss tutto era permesso. Potevano ignorare le procedure e comprare un cuore, un chirurgo, un intero ospedale. La gente della sua razza era anche in grado di comprare gli avvocati per fare terra bruciata dei sogni di una specializzanda in chirurgia. «Sta cercando di rovinarmi», riprese Abby. «Credevo che il trapianto di cuore della moglie lo inducesse a più miti consigli, ma non è stato così. Mi ha imbrattato l'auto con gli organi interni di un animale, mi ha fatto intentare due cause legali e altre me ne piomberanno addosso, ne sono certa. Per me è difficile chiudere occhi e orecchie, quando lui ricorre a una tattica del genere.» «È in grado di provare che il responsabile di questi fatti sia Voss?» chiese Susan. «Chi altri potrebbe essere?» «Dottoressa DiMatteo», fece Parr, «è in gioco la reputazione di questo ospedale. Abbiamo bisogno che tutti siano solidali, che assumano le stesse posizioni. Inclusa lei. Questo è anche il suo ospedale.» «E se la storia dovesse trapelare all'esterno? Se finisse sulla prima pagina del Globe? Il Bayside verrebbe accusato di aver occultato i fatti. E voi ci perdereste la faccia.» «È questo il motivo per cui non possiamo parlarne al di fuori di qui», ribadì Parr. «Potrebbe diventare comunque di dominio pubblico.» Abby sollevò il mento. «E probabilmente sarà così.» Parr e Susan si scambiarono occhiate nervose. Fu Susan a dire: «È un rischio che dobbiamo correre». Si sfilò il camice usato per l'intervento chirurgico, lo depositò nel contenitore degli indumenti sporchi e spinse le doppie porte della sala operato-
ria. Era quasi mezzanotte. Il paziente, un uomo con una ferita da arma da taglio, era già stato trasferito nell'unità chirurgica di terapia intensiva, le disposizioni post-operatorie erano state messe per iscritto e, per il momento, al Pronto soccorso era tutto calmo. La pace regnava in trincea. Abby non era sicura di apprezzare quella tranquillità. Le concedeva troppo tempo per rimuginare su quanto era stato detto durante la riunione pomeridiana. Si tratta della mia unica possibilità di contrattacco, pensava, e non posso servirmene. Non posso, se intendo essere solidale con gli altri, se voglio avere a cuore gli interessi del Bayside. E anche i suoi propri interessi. Che fosse ancora considerata un membro dell'équipe era un buon segno. Significava che le veniva offerta la possibilità di rimanere, di portare a termine la specialità. In cambio di un patto con il diavolo. Doveva tenere la bocca chiusa e aggrapparsi al sogno. Sempre che Victor Voss glielo permettesse. E ammesso che la sua coscienza non si ribellasse. Quella sera, si era trovata varie volte sul punto di prendere il telefono e chiamare Helen Lewis. Sarebbe bastato soltanto quello, un'unica telefonata, per tirare in ballo la NEOB. Un'unica telefonata per coinvolgere Victor Voss. Mentre si avviava verso la stanza del medico di guardia, stava ancora rimuginando sul da farsi. Aprì la porta ed entrò nella stanza. La prima cosa che notò, prima ancora di accendere la luce, fu il profumo. Un sentore di rose e gigli. Accese la lampada e fissò attonita il vaso di fiori sulla scrivania. Un fruscio di lenzuola attirò il suo sguardo verso il letto. «Mark?» esclamò. Lui si svegliò di soprassalto. Per un attimo parve non rendersi conto di dove fosse. Poi vide Abby e sorrise. «Buon compleanno.» «Oh, cielo, me n'ero completamente dimenticata.» «Io no», ribatté lui. Si avvicinò al letto e si sedette accanto a Mark. Si era addormentato con la divisa da chirurgo ancora addosso e lei, quando si chinò per baciarlo, sentì il familiare odore di betadine e di fatica. «Oh. Hai bisogno di lavarti.» «Ho bisogno di un altro bacio.» Lei sorrise e l'accontentò. «Da quanto tempo sei qui?» «Che ore sono?» «Mezzanotte.» «Da due ore.»
«È dalle dieci che mi aspetti?» «In realtà non erano queste le mie intenzioni. Credo di essermi addormentato.» Si spostò di lato per farle spazio sullo stretto materasso. Abby si tolse le scarpe e si sdraiò accanto a lui, sentendosi confortata dal calore del letto e da quello dell'uomo. Pensò di raccontargli della riunione di quel pomeriggio, della seconda azione legale intentata contro di lei, ma non ne ebbe il coraggio. Voleva soltanto essere abbracciata. «Mi dispiace, ma non ho portato la torta», disse Mark. «Non riesco a credere di aver dimenticato il mio compleanno. O forse volevo dimenticarlo. Già ventotto anni.» Ridendo, Mark la circondò con un braccio. «Che decrepita vecchietta.» «Mi sento vecchia. Stasera in modo particolare.» «Be', allora io potrei essere Matusalemme.» La baciò, piano, su un orecchio. «E non posso ringiovanire. Perciò forse è giunto il momento.» «Quale momento?» «Di fare ciò che avrei dovuto fare mesi fa.» «Cioè?» La girò dalla sua parte e le tenne il viso in una mano. «Chiederti di sposarmi.» Abby lo fissò, senza riuscire a spiccicare parola. Ma la sua felicità era così travolgente che la risposta si leggeva nei suoi occhi. All'improvviso fu consapevole di ogni particolare fisico di Mark: la sua mano che le scaldava il volto e il suo viso stanco e con i primi segni dell'età, ma proprio per quello a lei tanto più caro... «Un paio di notti fa, ho capito che era questo che volevo», mormorò lui. «Tu eri di guardia e io a casa, a mangiare la cena da un piatto di carta. Sono andato a letto e ho visto le tue cose sul tavolino da toilette. La tua spazzola per capelli, la scatola dei gioielli, quel reggipetto che tu sembri lasciare sempre in giro.» Rise piano. Lei lo imitò. «In ogni caso, è stato allora che ho capito. Non voglio vivere senza la tua roba sul mio tavolino. Non credo che potrei. Non più.» «Oh, Mark.» «La cosa buffa è che tu non sei quasi mai a casa. E, quando ci sei, non ci sono io. Ci scambiamo un cenno di saluto nei corridoi dell'ospedale o, se siamo fortunati, ci teniamo per mano in ascensore. Ma a me importa sapere che, una volta arrivato a casa, vedrò le tue cose sul tavolino da toilette. Capire che sei stata lì, o che ci sarai. Questo mi basta.» Attraverso le lacrime, Abby lo vide sorridere. E sentì il proprio cuore
batterle furiosamente nel petto, come per paura. «Allora, che cosa ne pensi, dottoressa D.?» riprese lui. «Puoi inserire un matrimonio tra i tuoi numerosissimi impegni?» La risposta di lei fu per metà un singhiozzo e per metà una risata. «Sì. Sì, sì, sì!» E, sollevatasi, gli rotolò addosso, circondandogli il collo con le braccia, trovando con la propria bocca quella di lui. Ridevano tutt'e due e continuavano a baciarsi, mentre le molle del materasso mandavano orrendi cigolii. Il letto era troppo piccolo, non avrebbero mai potuto dormirci assieme. Ma per fare l'amore andava benissimo. Un tempo era stata molto bella. A volte, mentre si guardava le mani e le vedeva rugose e costellate di brune macchie di vecchiaia, Mary Allen si chiedeva con un soprassalto di meraviglia: Di chi sono queste mani? Di un'estranea, senza dubbio; di una donna molto anziana. Non sono le mie, non sono quelle della graziosa Mary Hatcher. Poi quel momento di confusione passava e lei si guardava in giro, in quella stanza d'ospedale, e capiva di aver sognato di nuovo. Non un vero sogno, come quando si dorme, ma una specie di foschia che le invadeva la mente e ristagnava lì, anche nello stato di veglia. Dipendeva dalla morfina. Mary era contenta che gliela somministrassero. Le leniva i dolori e spalancava nella sua mente un cancello segreto, permettendo l'ingresso a immagini e a ricordi di un'esistenza che, ormai, era giunta al termine. Aveva sentito descrivere la vita come un cerchio, che si concludeva al punto di partenza, ma la sua non sembrava organizzata in quel modo. Era piuttosto come un arazzo dai fili disordinati, alcuni rotti, altri ingarbugliati, e nessuno ben teso e reale. Ma l'arazzo aveva un'infinità di colori. Mary chiuse gli occhi e quel cancello segreto si spalancò. Siepi di roselline, rosee e profumate, lungo la spiaggia. Sabbia tiepida che le inghiottiva le dita dei piedi. Onde che dalla baia venivano a infrangersi sulla risacca. Mani che le spalmavano una lozione sul corpo, inondandola di piacere. Le mani di Geoffrey. Il cancello si aprì ancora di più e lui entrò, un ricordo materializzato. Non com'era su quella spiaggia, ma come lei l'aveva visto per la prima volta, in uniforme, i neri capelli scompigliati, il viso rivolto verso di lei e atteggiato a una mezza risata. Il primo scambio di sguardi. Era accaduto in una strada di Boston. Lei, con il suo sacco di provviste, doveva assomigliare in tutto e per tutto a un'efficiente mogliettina che tornava a casa per
preparare la cena al marito. Il colore del suo vestito era un'orrenda sfumatura di marrone: c'era la guerra e bisognava arrangiarsi con quel poco che si trovava nei negozi. Mary non si era raccolta i capelli e il vento li stava strapazzando, rendendoli simili a una criniera da strega. Doveva avere un aspetto orribile, si era detta. Ma c'era quel giovane che le sorrideva e il suo sguardo l'aveva seguita mentre lei gli passava accanto sul marciapiede. Il giorno seguente sarebbe stato di nuovo lì e loro due si sarebbero guardati, ormai non più estranei. Geoffrey. Un altro filo perduto. Non uno che semplicemente si sfilaccia e si assottiglia fino a spezzarsi, come suo marito, ma uno che è stato strappato dall'arazzo, creando un solco vuoto che corre lungo la superficie fino al bordo. Mary sentì aprirsi la porta. Una porta vera. Sentì un rumore di passi, che si avvicinavano piano al suo letto. Inebetita dalla morfina, dovette fare forza su se stessa per aprire leggermente gli occhi. Quando ci riuscì, vide che nella stanza regnava una totale oscurità, fatta eccezione per un piccolo cerchio di luce che ondeggiava vicino a lei. E proprio su quella luce Mary appuntò lo sguardo. Danzava come una lucciola, ma a un tratto si fermò, una luminosa capocchia di spillo sul suo lenzuolo. Mary si sforzò di mettere a fuoco le immagini e individuò una macchia più scura che si era materializzata accanto al suo letto. Qualcosa di non proprio solido, di parzialmente immateriale. Si chiese se fosse anche quello un sogno creato dalla morfina. Un ricordo sgradito s'insinuò attraverso il cancello, aggredendola. Mary sentì che il lenzuolo veniva fatto scivolare di lato e che una mano le afferrava il braccio con una presa fredda e gommosa. Il respiro le uscì dalla gola in una frenesia di paura. Quello non era un sogno. Era la realtà. La realtà. Quella mano era lì per condurla da qualche parte, per portarla via. Si dibatté in preda al panico, e cercò di sottrarsi alla presa. Una voce disse piano: «Va tutto bene, Mary. Va tutto bene. È soltanto venuto il momento di dormire». Mary s'immobilizzò. «Chi è lei?» «Stanotte, sono io che mi prendo cura di te.» «È già il momento della mia medicina?» «Sì. È il momento.» Mary vide la piccola macchia di luce giocare, ancora una volta, sul suo braccio. Sulla cannula dell'infusione endovenosa. Rimase a guardare men-
tre una mano guantata impugnava una siringa. Il cappuccio di plastica fu rimosso e qualcosa luccicò nel sottile fascio di luce. Un ago. Mary avvertì una nuova sensazione di allarme. Guanti. Perché quelle mani erano guantate? Disse: «Voglio la mia infermiera. La prego, chiami la mia infermiera». «Non ce n'è bisogno.» La punta dell'ago penetrò nella cannula dell'infusione endovenosa. Lo stantuffo cominciò la sua lenta e costante discesa. Mary avvertì un flusso caldo salirle nella vena e poi nel braccio. Si rese conto che la siringa conteneva parecchio liquido, che lo stantuffo ci stava mettendo molto più del solito a riversare la sua dose di oblio indolore. Non va bene, pensò Mary mentre la siringa svuotava il suo contenuto nella vena. C'è qualcosa che non va. «Voglio la mia infermiera», ripeté. Tentò di sollevare la testa e chiamò debolmente: «Infermiera! Per favore! Ho bisogno...» Una mano guantata premette la sua bocca, e la testa ripiombò sul cuscino con tale violenza da dare a Mary la sensazione che il collo le si fosse spezzato. Cercò di far leva sulla mano per allontanarla, ma non ci riuscì. Era premuta con troppa forza, soffocava le sue grida. Mary si dibatté, sentì la cannula dell'infusione endovenosa staccarsi e gocce di liquido cadere fuori. Eppure la mano non le lasciava ancora libera la bocca. Il calore del liquido si era ormai diffuso dal braccio al petto e stava correndo verso il cervello. Mary cercò di muovere le gambe e si accorse di non riuscirci. Si rese conto, d'improvviso, che non le importava. La mano scivolò via dalla sua faccia. Lei stava correndo. Era tornata bambina, con i lunghi capelli castani che le svolazzavano sulle spalle. La sabbia sotto i piedi nudi era tiepida e l'aria aveva un profumo di rose e di mare. Davanti a lei c'era il cancello, spalancato. Lo squillo del telefono strappò Abby da un luogo tiepido e sicuro al contempo. Si svegliò di soprassalto e sentì un braccio che le circondava la vita. Era quello di Mark. Nonostante la piccolezza del letto, erano riusciti in qualche modo ad addormentarsi l'uno accanto all'altra. Si sciolse dolcemente dal suo abbraccio e raggiunse il telefono. «DiMatteo.» «Dottoressa, sono Charlotte del Quattro Ovest. Mrs Allen è appena spirata. Gli internisti sono tutti occupati, perciò ci chiedevamo se poteva venire giù lei a constatarne la morte.»
«Certo, arrivo.» Abby appese il ricevitore e si sdraiò di nuovo sul letto, concedendosi il lusso di un risveglio lento. Mrs Allen. Morta. Era accaduto prima di quanto avesse supposto. Si sentì sollevata all'idea che quello strazio fosse terminato e provò un senso di colpa per aver provato un simile sollievo. Alle tre del mattino, la morte di un paziente diventa più un fastidio che una tragedia: un ennesimo motivo di perdita di sonno. Si sedette sulla sponda del letto e s'infilò le scarpe. Mark russava piano, apparentemente ignaro dei telefoni che squillavano. Sorridendo, Abby si chinò a dargli un bacio. «Ti amo», gli sussurrò in un orecchio. Poi uscì dalla stanza. Charlotte l'aspettava nel locale delle infermiere, al padiglione Quattro Ovest. Assieme si avviarono verso la stanza di Mary, in fondo al corridoio. «L'abbiamo trovata verso le due. A mezzanotte ero andata a vedere come stava ed era addormentata, perciò il decesso dev'essere avvenuto dopo quell'ora. Se non altro, se n'è andata in pace.» «Avete avvisato la famiglia?» «Ho telefonato alla nipote. Al numero indicato sulla cartella clinica. Le ho detto che non c'era bisogno che venisse subito, ma ha insistito. È già per strada. In previsione del suo arrivo abbiamo ripulito ogni cosa.» «Ripulito?» «Mary dev'essersi strappata la cannula dell'infusione endovenosa. Sul pavimento c'erano macchie di soluzione salina e sangue.» Charlotte aprì la porta della camera della paziente e le due donne entrarono. Alla luce della lampada posta accanto al letto, Mary Allen pareva serenamente addormentata, le braccia lungo i fianchi, le lenzuola ordinatamente ripiegate sul petto. Ma non stava dormendo, questo era evidente. Le palpebre erano parzialmente aperte e un asciugamano era stato arrotolato e infilato sotto il mento per reggere la mascella. I parenti che vengono a rendere l'estremo saluto non vogliono guardare nella bocca spalancata del loro congiunto. Impiegò soltanto alcuni minuti. Appoggiò le dita sulla carotide. Nessuna pulsazione. Sollevò la camicia da notte e applicò lo stetoscopio al torace. Auscultò per una decina di secondi. Nessun rumore di respirazione, nessun battito cardiaco. Con la luce della lampadina tascabile esaminò gli occhi. Pupille midriatiche e fisse. Una constatazione di morte era soltanto una questione burocratica. Le infermiere avevano già riconosciuto ciò che era evidente; il ruolo di Abby consisteva nel confermare la diagnosi delle infermiere e registrare il decesso sulla cartella clinica. Era una di quelle re-
sponsabilità che non venivano mai chiaramente spiegate dai docenti. Se si chiedeva a medici appena usciti dall'università di constatare per la prima volta il decesso di un paziente, spesso non sapevano che cosa fare. Mentre alcuni pronunciavano discorsi improvvisati, altri chiedevano una Bibbia, guadagnandosi così un posto di rilievo negli annali, compilati dal personale paramedico, dello sciocchezzaio medico. Un decesso in ospedale non richiede discorsi, bensì montagne di firme e d'incartamenti. Abby prese la cartella clinica di Mary Allen e completò la procedura. Scrisse: «Nessun segno di respirazione autonoma o pulsazione. L'auscultazione non rivela rumori cardiaci. Pupille fisse e midriatiche. Si constata il decesso della paziente alle ore tre e cinque minuti». Chiuse la cartella clinica e fece per uscire dalla stanza. Brenda Hainey era ferma sulla soglia. «Mi dispiace, Miss Hainey», disse Abby. «Sua zia si è spenta nel sonno.» «Quando è successo?» «Un po' dopo mezzanotte. Sono sicura che non ha sofferto.» «C'era qualcuno con lei quando è morta?» «Nel reparto c'erano le infermiere di guardia.» «Ma qui, nella stanza, c'era qualcuno?» Esitò. Poi decise che la verità era sempre la risposta migliore. «No, era sola. Sono sicura che se n'è andata nel sonno. È stata una morte dolce.» Si allontanò dal letto. «Se vuole, può rimanere con lei per un po'. Chiederò alle infermiere di non disturbarla.» Passò accanto a Brenda e uscì. «Perché non si è fatto qualche tentativo per salvarla?» Abby si voltò verso di lei. «Non si poteva fare nulla.» «Si può rianimare un cuore, no? Farlo riprendere a battere.» «In certi casi.» «Lei l'ha fatto?» «No.» «Perché no? Perché mia zia era troppo vecchia e non valeva la pena salvarla?» «L'età non c'entra. Era malata di cancro, in fase terminale.» «Era entrata in ospedale soltanto due settimane fa. Me l'aveva detto lei.» «Era già molto malata.» «Credo che voi dell'ospedale l'abbiate fatta peggiorare.» Abby si sentiva un nodo allo stomaco. Era stanca, voleva tornare a letto, e quella donna non glielo permetteva. Una sopraffazione dopo l'altra. Ep-
pure lei doveva accettarla, doveva rimanere calma. «Non c'era nulla che potessimo fare», ripeté. «Perché non si è cercato almeno di stimolarle elettricamente il cuore?» «Non rientrava più in nessuna categoria codificata. Intendo dire che malati del genere non vengono rianimati, non vengono ventilati artificialmente. Era una precisa richiesta di sua zia e noi l'abbiamo rispettata. Dovrebbe farlo anche lei, Miss Hainey.» Se ne andò prima che Brenda potesse aggiungere altro. E prima di essere lei a dire qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi. Trovò Mark ancora addormentato nella stanza del medico di guardia. S'infilò a letto, si girò di lato con la schiena contro il petto di lui e gli spostò un braccio in modo che le circondasse la vita. Cercò di rintanarsi di nuovo in quel sicuro e tiepido porto che era il sonno, ma continuava a vedere Mary Allen, l'asciugamano infilato sotto il mento, le palpebre abbassate sulle cornee vetrose. Un corpo al suo primo stadio di putrefazione. Si rese conto di non sapere quasi nulla della vita di Mary Allen, dei pensieri che aveva avuto, degli uomini che aveva amato. Pur essendo stata il suo medico, l'unica cosa che sapeva di Mary Allen era il modo in cui era morta. Addormentata, nel suo letto. No, non precisamente. Poco prima di morire, Mary si era strappata la cannula dell'infusione endovenosa. Le infermiere avevano trovato sul pavimento gocce di sangue e di soluzione salina. Mary si era agitata? Era in stato confusionale? Che cosa l'aveva indotta a strapparsi la cannula dalla vena? Ecco un altro particolare riguardante Mary Allen che lei non avrebbe mai conosciuto. Mark sospirò e le si rannicchiò contro. Abby gli prese una mano e se la strinse al petto. Al cuore. Ti amo. Sorrise, benché provasse un senso di tristezza. Era l'inizio di una nuova vita, sua e di Mark. Quella di Mary Allen si era conclusa, la loro stava per cominciare. La morte di un'anziana paziente era una cosa triste, ma era lì, in ospedale, che molte vite arrivavano al loro termine. Ed era lì che incominciavano nuove vite. Erano le dieci di mattina quando il taxi depositò Brenda Hainey davanti a casa sua, a Chelsea. La donna non aveva fatto colazione, non aveva più chiuso occhio dopo aver ricevuto quella telefonata dall'ospedale, ma non si sentiva né affamata né stanca. Si sentiva, invece, immensamente serena.
Aveva pregato al capezzale di sua zia fino alle cinque di mattina, quando erano arrivate le infermiere per portare il corpo all'obitorio, quindi aveva lasciato l'ospedale con l'intenzione di tornare direttamente a casa. Tuttavia, durante il percorso in taxi, era stata attanagliata dalla sensazione di non aver portato a termine un preciso compito. Era una cosa che riguardava l'anima della zia Mary, un'anima che aveva intrapreso da poco il suo viaggio cosmico. Ammesso che fosse davvero in viaggio, perché rischiava di essere bloccata da qualche parte, come un ascensore tra un piano e l'altro. Che poi la direzione presa fosse verso l'alto o verso il basso, Brenda non poteva saperlo con sicurezza. Ecco perché si sentiva turbata. La zia Mary non si era certo spianata la strada. Non si era unita alle preghiere, non aveva chiesto al Signore di perdonarle i suoi peccati, non aveva neppure dato un'occhiata alla Bibbia che Brenda le aveva lasciato accanto al letto. La zia Mary ha dimostrato un'indifferenza assoluta, pensò Brenda. E in simili situazioni non si può rimanere indifferenti. Altre volte prima di allora, in parenti o amici in punto di morte, Brenda aveva visto quell'insensata serenità di fronte alla fine che si avvicinava. A quanto sembrava, lei sola aveva osato chiedere la salvezza delle loro anime, lei sola si era preoccupata della direzione che avrebbe preso il loro ascensore. Grazie a Dio, c'era lei a preoccuparsene. Anzi, prendeva la faccenda tanto a cuore che si teneva sempre aggiornata su quali membri della famiglia fossero seriamente malati. In qualunque parte del Paese abitassero, lei li andava a trovare, rimaneva accanto a loro sino alla fine. Era diventata una missione, e addirittura qualcuno considerava Brenda la santa della famiglia. Ma lei era troppo modesta per accettare una simile definizione. No, lei stava semplicemente eseguendo gli ordini di Dio, come ogni sua buona serva. Nel caso della zia Mary, però, aveva fallito. La morte era sopraggiunta troppo presto, prima che la zia accettasse di accogliere Dio nel suo cuore. Ed era quello il motivo per cui Brenda si era sentita così frustrata mentre, alle cinque e tre quarti di mattina, si allontanava dal Bayside Hospital a bordo di un taxi. La zia era morta, l'anima non poteva più essere salvata. Lei, Brenda, non era stata abbastanza persuasiva. Se la zia Mary fosse vissuta anche soltanto un altro giorno, forse ci sarebbe stato il tempo. Il taxi era passato davanti a una chiesa. Un tempio episcopale, dove non si professava la fede di Brenda, ma pur sempre una casa di Dio. «Si fermi», aveva ordinato al taxista. «Voglio scendere.» E così, alle sei di mattina, Brenda si era trovata seduta in un banco della
chiesa di St. Andrew. Era rimasta seduta lì per due ore e mezzo, a capo chino, le labbra che si muovevano silenziosamente. A pregare per la zia Mary, a implorare che i peccati di quella donna, quali che fossero, venissero perdonati. Che l'anima della zia non fosse più bloccata tra un piano e l'altro e che l'ascensore su cui si trovava puntasse non verso il basso, ma verso l'alto. Quando finalmente Brenda aveva rialzato la testa, erano le otto e mezzo. La chiesa era ancora deserta. La luce della mattina irrompeva dalle vetrate istoriate disegnando un mosaico di azzurri e d'oro. Quando aveva rivolto lo sguardo verso l'altare, la donna aveva visto la sagoma della testa di Cristo aureolata di luce. Era soltanto un'immagine proiettata dalla finestra, lo sapeva, però le era parso un segno. Il segno che le sue preghiere avevano ottenuto risposta. La zia Mary era salva. Brenda si era alzata dal banco, intontita per la mancanza di cibo e di sonno, ma pervasa da un senso di gioia. Un'altra anima si era rivolta alla luce, e tutto grazie ai suoi sforzi. Che fortuna che il Signore avesse ascoltato! Quando era uscita dalla chiesa di St. Andrew, le era sembrato di camminare magicamente sospesa per aria, come se ai piedi avesse due nuvolette a mo' di pantofole. Appena fuori aveva trovato un taxi accanto al marciapiede, come se aspettasse lei. Un altro segno. Aveva compiuto il viaggio fino a casa in uno stato di gioiosa trance. Mentre saliva i gradini della sua veranda, Brenda si riprometteva una tranquilla colazione e poi un lungo e meritato sonnellino. Anche i servi di Dio avevano bisogno di riposo. Aprì la porta. Sul pavimento era sparpagliata un po' di posta. Dovevano avergliela infilata quella mattina nell'apposita scanalatura dell'uscio. Erano fatture, opuscoli religiosi e richieste di offerte in denaro. C'era tanta gente bisognosa a questo mondo! Brenda raccolse la posta e, mentre si avviava verso la cucina, la sfogliò rapidamente. Proprio in fondo al mucchio trovò una busta su cui era scritto il suo nome. Soltanto quello, il nome. Non erano indicate le generalità del mittente. Brenda aprì la busta e ne estrasse, dispiegandolo, un foglio di carta. C'era scritta un'unica frase: SUA ZIA NON È MORTA DI MORTE NATURALE. E la firma: UN AMICO. Il mucchietto di posta le scivolò di mano, fatture e opuscoli si sparpagliarono sul pavimento della cucina. Brenda si lasciò cadere su una sedia.
Non aveva più fame, non era più serena. Udì gracchiare fuori della finestra. Alzò lo sguardo e, su un ramo accanto alla casa, vide un corvo, l'occhio giallo puntato su di lei. Era un altro segno. 13. Frank Zwick alzò gli occhi dal paziente disteso sul tavolo operatorio e disse: «A quanto pare, è il caso di fare le congratulazioni». Abby, con le mani ancora grondanti acqua dopo i dieci minuti obbligatori di lavaggi, era appena entrata in sala operatoria e si era vista accogliere dai sorrisi maliziosi di Zwick e delle due infermiere presenti. «Non avrei mai pensato che uno come lui si facesse prendere all'amo. Neanche in un milione di anni», disse una delle infermiere, porgendo ad Abby un asciugamano. «Ecco la dimostrazione che la scapolaggine è una malattia curabile. Quando le ha chiesto di sposarlo, dottoressa?» Lei infilò le braccia nel camice sterile e si mise i guanti. «Due giorni fa.» «E lei ha tenuto segreta la cosa per ben due giorni?» Abby rise. «Volevo avere la certezza che non cambiasse idea.» E non l'ha cambiata. Semmai, siamo più sicuri l'uno dell'altra di quanto sia mai stato prima, pensò. Sorridendo, si avvicinò al tavolo. Al paziente, già anestetizzato, era stato scoperto il torace e la pelle aveva un colore giallobruno per via della betadine. Si trattava di una semplice toracotomia, per l'asportazione di un nodulo polmonare periferico. Le mani di Abby eseguirono la routine pre-operatoria con la sicurezza derivante da una lunga esperienza. Sistemò le garze sterili, le fissò, poi dispose i teli azzurri e fissò anche quelli. «A quando il grande giorno?» chiese Zwick. «Ne stiamo ancora parlando.» Anzi, quello era quasi l'unico argomento di conversazione tra loro due. Quanto fastosa doveva essere la cerimonia di nozze? Chi avrebbero invitato? E la festa andava organizzata all'aperto o al chiuso? Su un'unica cosa avevano preso una decisione definitiva: avrebbero trascorso la luna di miele su una spiaggia. Una spiaggia qualsiasi, purché nelle vicinanze ci fossero le palme. Abby sentì il proprio sorriso ampliarsi all'idea della sabbia calda e dell'acqua blu. E di Mark. «Scommetto che Mark sta pensando alla sua imbarcazione», esclamò Zwick. «Ecco dove vorrà che venga celebrato il matrimonio.»
«In barca? Mai.» «Oh, oh. Che tono drastico.» Finì di preparare il paziente e lanciò un'occhiata a Mark che, dopo essersi lavato a dovere, entrava in sala operatoria. Lui s'infilò camice e guanti e prese posto al tavolo, di fronte ad Abby. Si sorrisero, poi lei impugnò il bisturi. L'interfono emise un ronzio e, dall'altoparlante, una voce disse: «La dottoressa DiMatteo è lì?» «Sì, è qui», rispose l'infermiera generica. «Può sospendere l'intervento e uscire dalla sala operatoria?» «Hanno appena cominciato. Non si può rimandare a più tardi?» Ci fu un attimo di silenzio, poi: «Mr Parr ha bisogno che esca di lì». «Gli dica che stiamo operando!» esclamò Mark. «Lo sa. È assolutamente indispensabile che la dottoressa DiMatteo venga fuori», ripeté la voce. «Subito.» Mark guardò Abby. «Va' pure. Farò chiamare uno degli internisti perché ci dia una mano.» Lei si allontanò dal tavolo e si sfilò nervosamente il camice. C'era qualche guaio in vista. Parr non le avrebbe fatto interrompere un intervento chirurgico se non fosse sopravvenuto qualcosa di molto grave. Il cuore le batteva violentemente mentre spingeva le porte della sala operatoria ed entrava nel locale antistante. Jeremiah Parr era lì. Accanto a lui, due agenti del servizio di vigilanza dell'ospedale e la capoinfermiera. Nessuno sorrideva. «Dottoressa DiMatteo», esordì Parr, «può venire con noi?» Abby guardò gli agenti. Si erano diretti verso di lei, mettendosi ai suoi fianchi. Anche la capoinfermiera aveva cambiato posizione, indietreggiando di un passo. «Che cosa succede?» chiese Abby. «Dove stiamo andando?» «Al suo armadietto.» «Non capisco.» «È soltanto un normale controllo, dottoressa.» Non c'è nulla di normale in questo, rifletté Abby. Affiancata dai sorveglianti, non poté fare altro che seguire Parr lungo il corridoio fino allo spogliatoio delle donne. La capoinfermiera entrò per prima, per far uscire il personale. Quindi fece cenno a Parr e agli altri di entrare. «Il suo armadietto è il numero 72?» chiese Parr. «Sì.»
«Può aprirlo, per favore?» Abby si diresse verso il lucchetto a combinazione. Fece compiere un giro alla manopola, poi si fermò e si rivolse a Parr. «Anzitutto voglio sapere di che cosa si tratta.» «È soltanto un controllo.» «Credo di aver superato lo stadio delle ispezioni liceali negli armadietti. Che cosa state cercando?» «Poche storie, lo apra.» Lei fissò le guardie, poi la capoinfermiera. La stavano guardando con un'espressione sospettosa. Non posso avere la meglio, rifletté. Se rifiuto di aprirlo, penseranno che stia nascondendo qualcosa. Il modo migliore per ridimensionare questa situazione pazzesca è collaborare. Impugnò la manopola, la girò secondo la combinazione e fece scattare la serratura. Parr si fece avanti. Le guardie lo imitarono, ed erano ai suoi lati quando Abby spalancò lo sportello. Dentro l'armadietto c'erano i suoi vestiti, lo stetoscopio, la borsetta, una busta da toilette a fiori per le notti di guardia in ospedale e il lungo camice bianco che indossava nel giro delle visite. Volevano che lei collaborasse e l'avrebbe fatto sino in fondo. Aprì la chiusura lampo della busta a fiori e ne espose il contenuto perché tutti lo vedessero. Era un campionario di oggetti intimi femminili. Spazzolino da denti, assorbenti interni. Uno degli agenti arrossì. Per quel giorno aveva avuto la sua dose di brivido. Lei richiuse la busta e aprì la borsetta. Nessuna sorpresa anche lì. Un portafogli, un libretto di assegni, le chiavi della macchina, altri assorbenti interni. Le donne e le loro periodiche perdite. I sorveglianti parevano ormai a disagio e un po' impacciati. Abby cominciava a divertirsi. Ripose la borsetta nell'armadio e tolse dal gancio il camice. In quell'attimo, si rese conto che c'era qualcosa di diverso. Era più pesante. Infilò una mano nella tasca e sentì un oggetto cilindrico e liscio. Una fialetta di vetro. La tirò fuori e guardò l'etichetta. Solfato di morfina. La fiala era quasi vuota. «Dottoressa DiMatteo», disse Parr, «per favore, la dia a me.» Lei lo guardò e scosse la testa. «Non so perché si trovi qui.» «Mi dia la fiala.» Troppo sbigottita per reagire diversamente, lei gliela porse. «Non so perché sia qui», ripeté. «Non l'ho mai vista prima d'ora.»
Parr consegnò la fiala alla capoinfermiera, poi si rivolse alle guardie. «Per favore, scortate la dottoressa DiMatteo nel mio ufficio.» «Questa è una carognata», esclamò Mark. «Qualcuno ha cercato d'incriminarla e noi lo sappiamo.» «Non è vero. Non sappiamo nulla», ribatté Parr. «Fa parte dello stesso disegno vessatorio! I procedimenti legali, le budella insanguinate nell'auto, e adesso questo.» «In questo caso la situazione è sostanzialmente diversa, dottor Hodell. Qui c'entra la morte di una paziente.» Parr guardò Abby. «Dottoressa DiMatteo, perché non ci dice la verità e non rende le cose più semplici?» Una confessione, ecco che cosa voleva. Una chiara e semplice ammissione di colpa. Abby fissò Parr, Susan Casado e la capoinfermiera, seduti dall'altra parte del tavolo. L'unico che non riuscì a guardare fu Mark. Temeva di farlo, aveva paura di leggere il dubbio nei suoi occhi. Disse: «Ve lo ripeto, non ne so nulla. Non so perché la morfina fosse nel mio armadietto. Non so come sia morta Mary Allen». «È stata lei a constatarne il decesso», le fece notare Parr. «Due notti fa.» «L'avevano trovata morta le infermiere. Era già spirata.» «Quella notte lei era di guardia.» «Sì.» «Perciò lei è rimasta in ospedale tutta la notte.» «Mi sembra scontato.» «Dunque lei era qui la notte in cui Mrs Allen è morta per una overdose di morfina. E oggi troviamo questo nel suo armadietto.» Appoggiò sul tavolo la fialetta e la lasciò lì, sulla lucida superficie di mogano, al centro dell'attenzione. «Una sostanza di cui è vietata la libera circolazione. Il fatto che lei ne avesse una fiala è già abbastanza grave.» Abby fissò Parr. «Lei sostiene che Mrs Allen è morta per una overdose di morfina. Come fa a saperlo?» «Un controllo post-mortem. Il livello della morfina era altissimo.» «Alla paziente veniva somministrata a scopo terapeutico, in quantità tali da lenire i dolori.» «Ho l'esame farmacologico proprio qui davanti a me. Ci è pervenuto stamattina. 0,4 milligrammi per litro. Un livello di 0,2 è considerato letale.» «Mi faccia vedere», intervenne Mark. «Certo.»
Mark esaminò il responso del laboratorio. «Perché qualcuno dovrebbe richiedere un dosaggio della morfina post-mortem? La paziente era una malata di cancro in fase terminale.» «È stato richiesto. Per quanto la riguarda, non c'è altro da sapere.» «E invece pretendo di saperne di più!» Parr lanciò un'occhiata a Susan Casado, la quale disse: «C'era motivo di sospettare che la morte non fosse stata naturale». «Quale motivo?» «Non è questo il punto...» «Quale motivo?» Susan sbuffò. «Una parente di Mrs Allen ha chiesto di far luce sulle cause del decesso. Ha ricevuto un biglietto o qualcosa del genere in cui si diceva che era una morte sospetta. Ne abbiamo parlato con il dottor Wettig, naturalmente, e lui ha ritenuto opportuno far eseguire l'autopsia.» Mark passò ad Abby il foglio compilato dal laboratorio. Lei lo guardò e riconobbe l'indecifrabile scarabocchio sotto la dicitura MEDICO RICHIEDENTE. Era la firma del Generale, non c'erano dubbi. Il giorno prima, alle undici di mattina, aveva richiesto un'analisi farmacologica. Otto ore dopo la morte di Mary Allen. «Io non c'entro», esclamò. «Non so come mai alla paziente sia stata somministrata tutta questa morfina. A meno che il laboratorio non abbia sbagliato. Oppure potrebbe essere stato un errore delle infermiere...» «Del mio staff, rispondo io», la interruppe la capoinfermiera. «Noi eseguiamo controlli molto severi per quanto riguarda la somministrazione di narcotici. Non c'è nessun errore delle infermiere, in questo caso.» «In altre parole», intervenne Mark, «lei sta dicendo che alla paziente è stata deliberatamente iniettata un'overdose.» Ci fu un lungo silenzio, poi Parr rispose: «Sì». «È ridicolo! Io ero con Abby, quella notte, nella stanza del medico di guardia.» «Tutta la notte?» chiese Susan. «Sì. Era il suo compleanno e noi... be'...» Mark si schiarì la gola e lanciò un'occhiata ad Abby. Abbiamo dormito assieme, stavano pensando entrambi. «Abbiamo festeggiato», concluse Mark. «Siete stati sempre assieme?» chiese Parr. Mark esitò. Non può averne la certezza, pensò Abby. Allorché erano arrivate le telefonate, lui aveva continuato a dormire; non si era neppure mosso quando lei, alle tre, era andata a constatare la morte di Mrs Allen,
né quando era uscita alle quattro per rimettere una cannula per l'infusione endovenosa. Mark era intenzionato a mentire per proteggerla, però Abby sapeva che non sarebbe servito a nulla perché lui ignorava che cosa lei avesse fatto quella notte. Parr, invece, lo sapeva. L'aveva appreso dalle infermiere. E anche dalle annotazioni e dalle richieste di esami che lei aveva scritto di suo pugno, con tanto d'indicazione dell'ora. «Mark era nella stanza del medico di guardia assieme a me», disse. «Ma ha dormito tutta la notte». Lo guardò. Dobbiamo attenerci alla verità. È l'unica cosa che potrà salvarmi. «E lei, dottoressa DiMatteo?» chiese Parr. «È rimasta sempre nella stanza?» «Sono stata chiamata varie volte in diversi reparti. Ma lei questo lo sa già, vero?» Parr annuì. «Credete di sapere tutto!» scattò Mark. «Allora ditemi una cosa: perché avrebbe dovuto farlo? Perché avrebbe ucciso la propria paziente?» «Le sue simpatie per il movimento pro eutanasia non sono un segreto per nessuno», replicò Susan Casado. Abby la fissò. «Che cosa?» «Abbiamo parlato con le infermiere. In una data occasione la dottoressa DiMatteo fu intesa dire, e cito testualmente...» Susan sfogliò le pagine di un incartamento che sembrava un verbale. «...'Se la morfina rende tutto più facile, non gliela faremo mancare. Anche se vorrà dire accelerare la fine.' Sono state queste le sue precise parole.» Susan guardò Abby. «Le ha pronunciate lei, non è vero?» «Ma questo non ha nulla a che vedere con l'eutanasia! Stavo parlando della terapia antidolorifica, di come lenire le sofferenze della paziente!» «Ma ha pronunciato queste parole?» «Può anche darsi! Non ricordo esattamente...» «Poi c'è stato quell'incidente con la nipote di Mrs Allen, Brenda Hainey. Ne sono state testimoni molte infermiere, e la stessa Mrs Sperry.» Indicò la capoinfermiera. Guardò di nuovo nell'incartamento che aveva davanti. «Si è trattato di un vero e proprio diverbio. Brenda Hainey aveva l'impressione che alla zia venisse somministrata troppa morfina. E la dottoressa DiMatteo espresse un'opinione decisamente contraria. Fino al punto di usare un linguaggio scurrile.» Era un'accusa che Abby non poteva negare. Aveva litigato con Brenda. Aveva usato parole scurrili. Adesso tutto si stava riversando su di lei, u-
n'ondata dopo l'altra. Non riusciva a respirare, non riusciva a muoversi, mentre quelle ondate continuavano a piombarle addosso. Si sentì bussare alla porta e il dottor Wettig entrò nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Per un istante, non disse nulla, rimanendo in piedi in fondo al tavolo a guardare Abby. Lei attese la frustata di un'altra onda. «Sostiene di non saperne nulla», esclamò Parr. «La cosa non mi sorprende», ribatté Wettig. «Davvero non ne sa nulla, DiMatteo?» Abby incontrò lo sguardo del Generale. Per lei non era mai stato facile affrontare quegli indifferenti occhi azzurri. Vi scorgeva un potere troppo forte, che teneva in pugno il suo futuro. Tuttavia li fissò con decisione: voleva far capire di non aver nulla da nascondere. «Non ho ucciso la mia paziente», esclamò. «Lo giuro.» «Sapevo che avrebbe detto così.» Wettig s'infilò una mano nella tasca del camice e ne estrasse un lucchetto a combinazione. Lo buttò sul tavolo. «Che cos'è?» chiese Parr. «È il lucchetto dell'armadio della dottoressa DiMatteo. Nell'ultima mezz'ora sono diventato una specie di esperto in serrature. Ho chiamato un fabbro. Secondo lui, questo è un modello a molla, non ci vuole nulla per aprirlo. Basta un colpo un po' violento e scatta. Per di più, sul retro è segnato un codice. Qualsiasi fabbro che conosca il suo mestiere può ricavare da questo codice la combinazione di apertura.» Parr guardò il lucchetto, poi liquidò l'argomento con una scrollata di spalle. «Questo non prova nulla. Abbiamo ancora sul gobbo una paziente morta. E questo.» Indicò la fiala di morfina. «Ma siete impazziti?» esclamò Mark. «Non capite che cosa sta succedendo? Una lettera anonima, la morfina nascosta nel suo armadietto. Qualcuno sta cercando di coinvolgerla.» «Per quale motivo?» chiese Susan. «Per screditarla. Per farla espellere dall'ospedale.» Parr sbuffò. «Secondo lei, qualcuno ha ucciso una paziente con l'unico scopo di rovinare la carriera della DiMatteo?» Mark fece per rispondere, poi parve ripensarci. Era una teoria assurda, e tutti se ne rendevano conto. «Deve riconoscere, dottor Hodell, che l'ipotesi di una congiura è assolutamente campata in aria», osservò Susan. «Non poi tanto, se pensiamo a quanto mi è già capitato», intervenne Abby. «Considerate ciò che Victor Voss ha già fatto. È un individuo men-
talmente squilibrato. Mi ha aggredita nell'unità di terapia intensiva e soltanto una mente malata avrebbe potuto concepire l'idea di mettere nella mia auto quei visceri insanguinati. Poi ci sono le azioni legali che mi sono state intentate: già due. Ed è soltanto l'inizio.» Silenzio. Susan guardò Parr. «Non lo sa?» «A quanto pare, no.» «Sapere che cosa?» chiese Abby. «Poco dopo l'ora di pranzo abbiamo ricevuto una telefonata dallo studio Hawkes, Craig e Sussman», disse Susan. «Le azioni legali contro di lei sono state ritirate. Tutt'e due.» Abby si lasciò andare contro lo schienale della sedia. «Non capisco», mormorò. «Che cosa sta combinando? Che cos'ha in mente Voss?» «Se Victor Voss stava davvero cercando di danneggiarla, a quanto pare ha desistito. In quest'ultima storia lui non c'entra.» «E allora come la spieghiamo?» chiese Mark. «Abbiamo la prova.» Susan indicò la fiala. «Non ci sono testimoni, nulla che possa collegare questa particolare fiala alla morte della paziente.» «Eppure ritengo che siamo in grado di trarre la stessa conclusione.» Il silenzio era opprimente. Abby vide che nessuno la stava guardando, neppure Mark. Infine Wettig parlò. «Che cosa propone, Parr? Chiamare la polizia? Rendere questo ospedale una pista da circo per i media?» Parr esitò. «Sarebbe prematuro...» «O formula chiaramente le sue accuse o le ritira. Qualunque altra soluzione sarebbe ingiusta nei confronti della dottoressa DiMatteo.» «Dio mio, Generale, lasciamo la polizia al di fuori di questa vicenda», esclamò Mark. «Se voialtri intendete definire questa morte come omicidio, allora la polizia dovrà essere chiamata», ribatté Wettig. «E bisognerà convocare anche alcuni giornalisti e mettere al lavoro l'ufficio relazioni pubbliche dell'ospedale. Saprà come sfruttare il clamore che ne nascerà. Portare tutto alla luce del giorno, è questa la tattica migliore.» Fissò Parr. «Se siete intenzionati a parlare di omicidio.» Era una sfida. Parr fu il primo a indietreggiare. Si schiarì la gola e disse a Susan: «Non possiamo esserne certi». «Allora è meglio che se ne assicuri», ribatté Wettig. «Che ne abbia l'as-
soluta certezza. Prima di tirare in ballo la polizia.» «La questione va ancora approfondita», rifletté Susan. «Dobbiamo interrogare altre infermiere del reparto. Verificare che non ci sia qualche particolare che ci è sfuggito.» «Fatelo», esclamò Wettig. Ci fu un altro momento di silenzio. Nessuno guardava Abby. Pareva che nessuno la vedesse: era la donna invisibile della cui presenza nessuno voleva rendersi conto. Parvero sobbalzare tutti quando lei parlò. Abby non riconobbe quasi la propria voce: le sembrò quella di un'estranea, tanto era calma e ferma. «Adesso vorrei tornare dai miei pazienti. Se posso», aggiunse. Wettig annuì. «Vada pure.» «Un attimo», esclamò Parr. «Non può riprendere servizio.» «Non avete provato nulla», replicò lei, alzandosi dalla sedia. «Il Generale ha ragione. O formalizzate le accuse contro di me o le ritirate.» «Tuttavia contro di lei c'è un'accusa che non può essere messa in discussione», intervenne Susan. «Possesso illegale di sostanza stupefacente. Non sappiamo come lei sia riuscita ad avere la morfina, dottoressa, ma la presenza della fiala nel suo armadietto è un fatto piuttosto grave.» Lanciò un'occhiata a Parr. «Non abbiamo scelta. Se succedesse qualcosa a uno qualunque dei suoi pazienti e si venisse a sapere che eravamo al corrente di questa storia della morfina, per noi sarebbe la fine.» Si girò verso Wettig. «E sarebbe la fine anche per il buon nome del suo corso di specialità, Generale.» L'avvertimento di Susan ottenne l'effetto desiderato. Tutti si preoccupavano delle proprie responsabilità. Wettig, come ogni altro medico, temeva avvocati e processi. Stavolta non replicò. «Che cosa significa?» chiese Abby. «Sono espulsa?» Parr si alzò, segno che la riunione era finita e la decisione presa. «Dottoressa DiMatteo, fino a ulteriore comunicazione lei è sospesa. Non dovrà andare nei reparti, né avvicinarsi ai pazienti. È chiaro?» Abby aveva capito. Aveva capito perfettamente. 14. Erano anni che Jakov non sognava sua madre e, negli ultimi mesi, aveva raramente pensato a lei. Rimase quindi piuttosto turbato quando, il tredicesimo giorno di quel viaggio per mare, si svegliò con un ricordo di lei tanto
vivido da poter quasi avvertire l'odore aleggiante nell'aria. L'ultima cosa che aveva visto, prima che il sogno svanisse, era stato il suo viso sorridente, con una ciocca di capelli biondi che le rigava la guancia e due occhi verdi che sembravano attraversarlo, andare al di là, come se fosse lui la persona irreale, incorporea. Quel volto di donna gli era sembrato tanto familiare da non lasciargli dubbi sul fatto che si trattasse di sua madre. Nel corso degli anni, Jakov aveva cercato in ogni modo di rammentarne le fattezze, ma non c'era mai riuscito. Non aveva fotografie né altri oggetti che potessero aiutarlo. Eppure, chissà come, in tutti quegli anni il ricordo di quel viso era rimasto nascosto come un seme nel suolo scuro ma fertile della sua mente. E, quella notte, il seme era germogliato. Adesso la ricordava, ed era bellissima. Quel pomeriggio, il mare era piatto come una lastra di vetro e il cielo aveva assunto la medesima colorazione grigia dell'acqua. In piedi sul ponte, con lo sguardo rivolto oltre il parapetto, Jakov non era in grado di dire dove finisse il mare e dove cominciasse il cielo. Stavano andando alla deriva in una grigia e gigantesca boccia per pesci. Aveva sentito il cuoco dire che era previsto cattivo tempo, che l'indomani nessuno sarebbe riuscito a tenere nello stomaco qualcosa di più di una fetta di pane e di una cucchiaiata di minestra. Eppure, quel giorno, il mare era calmo, anche se l'aria era pesante e metallica, con un sentore di pioggia. Jakov riuscì finalmente a snidare Aleksej dalla sua cuccetta e lo convinse ad andare in giro a esplorare la nave. Il primo posto in cui Jakov portò il compagno fu l'Inferno, la sala macchine. Si aggirarono per un po' in quell'oscurità piena di fragori metallici finché Aleksej non si lamentò del puzzo di carburante che gli faceva tornare la nausea. Aveva lo stomaco di un bebè: non faceva che vomitare. Allora Jakov lo condusse sul ponte di comando, dove però il capitano era troppo occupato per chiacchierare con loro. Lo stesso valeva per l'ufficiale di rotta. Jakov non riuscì neppure a dimostrare la propria posizione di visitatore abituale e accettato. Si recarono quindi nella cambusa, ma il cuoco era di pessimo umore e non offrì loro neppure una fetta di pane. Doveva preparare il pasto per i passeggeri che stavano a poppa, quella gente che nessuno aveva mai visto. Erano due persone esigenti, si lagnò il cuoco, che pretendevano fin troppo in quanto a tempo e ad attenzioni. Continuò a brontolare mentre sistemava due bicchieri e una bottiglia di vino su un vassoio, che infilò nel portavi-
vande. Quindi premette un pulsante e, con un fruscio, il ripiano si avviò verso l'alto, verso le cabine private di quei due. Infine il cuoco tornò accanto ai fornelli su cui sfrigolava una padella e alcune pentole emettevano sbuffi di vapore. Sollevò uno dei coperchi, lasciando uscire un profumo di burro e cipolle, e rimescolò il contenuto con un cucchiaio di legno. «Le cipolle devono cuocere lentamente», spiegò. «Soltanto così diventano dolci come il latte. Per cucinare bene, ci vuole pazienza, ma in questi giorni nessuno ne ha. Tutti esigono che le cose siano fatte immediatamente. Sbattile nel forno a microonde! Tanto varrebbe mangiare cuoio stagionato.» Rimise il coperchio sulla pentola, poi scoprì la padella. Dentro, ben rosolati, c'erano sei uccellini, ognuno non più grande del pugno di una mano infantile. «Sembrano bocconi di cielo», disse. «Sono i polli più piccoli che io abbia mai visto», si stupì Aleksej. Il cuoco rise. «Sono quaglie, sciocco.» «Perché noi non le mangiamo mai?» «Perché non state nelle cabine di poppa.» Il cuoco sistemò su un vassoio le quaglie fumanti e le cosparse di prezzemolo tritato, quindi fece un passo indietro e, con la faccia arrossata e grondante sudore, ammirò la propria creazione. «Di questo piatto non si potranno certo lamentare», esclamò, infilando il vassoio nel portavivande, che era stato rimandato indietro vuoto. «Ho fame», disse Jakov. «Tu hai sempre fame. Va' a tagliarti una fetta di pane. È un po' stantio, ma puoi farlo tostare.» I due ragazzi frugarono nei cassetti alla ricerca del coltello seghettato. Il cuoco aveva ragione: il pane era vecchio e stantio. Tenendo ferma la pagnotta con il moncherino, Jakov tagliò due fette e si avviò verso la macchina per tostare. «Guarda come stai sporcando il mio pavimento!» sbraitò il cuoco. «Hai buttato briciole dappertutto. Raccoglile.» «Pensaci tu», disse Jakov ad Aleksej. «La colpa è tua. Fallo tu.» «Io sto tostando il pane.» «Ma non sono stato io a far cadere per terra le briciole.» «Va bene. Vorrà dire che butto via la tua fetta.» «Qualcuno le tiri su da terra!» ruggì il cuoco. Immediatamente Aleksej s'inginocchiò a raccogliere le briciole. Jakov fece per infilare la prima fetta nel grosso tostapane, quando una pallina di pelo grigio uscì improvvisamente da uno dei vani dell'apparec-
chio e saltò a terra. «Un topo!» strillò Aleksej. «C'è un topo!» La pallina grigia cominciò a correre attorno ai piedi scaldanti di Aleksej, spinto da Jakov in una direzione e in quella opposta dal cuoco, il quale gli tirò dietro anche il coperchio di una pentola. Il topo si arrampicò fino a metà di una gamba di Aleksej, suscitando un tale strillo di orrore da essere immediatamente indotto a invertire la direzione di marcia. Si lasciò cadere al suolo e schizzò via, scomparendo sotto un mobile. Sui fornelli qualcosa stava bruciando. Con una imprecazione, il cuoco corse a spegnere le fiamme. Prese a bestemmiare ancora più forte mentre grattava dalla pentola le cipolle annerite, quelle cipolle che aveva tanto amorevolmente imbiondito nel burro. «Un topo nella mia cucina! E guardate qui! Tutto rovinato. Dovrò ricominciare da capo. Maledettissimo topo.» «Era nel tostapane», disse Jakov. All'improvviso avvertì un leggero senso di nausea. Immaginò quel topo strisciare all'interno dell'apparecchio, grattare in giro. «Probabilmente sarà pieno dei suoi escrementi», esclamò il cuoco. «Schifosa bestiaccia.» Jakov sbirciò cautamente nel tostapane. Non c'erano altri topi, ma molte strane palline marroni. Sollevò il tostapane e si avviò verso il lavello, con l'intenzione di rovesciarvi le briciole. Il cuoco emise un urlo. «Ehi! Sei pazzo? Che cosa stai facendo?» «Pulisco il tostapane.» «In quel lavello c'è dell'acqua! E, guarda, la spina del tostapane è ancora attaccata alla presa. Se lo metti nel lavello e tocchi l'acqua, sei morto. Nessuno ti ha mai insegnato una cosa del genere?» «Lo zio Miša non ha mai avuto un tostapane.» «Non si tratta soltanto di questo, ma di qualunque apparecchio elettrico, qualsiasi cosa attaccata alla corrente. Sei stupido come gli altri.» Agitando le braccia spinse i ragazzi verso la porta. «Via, fuori di qui, tutt'e due. Siete un vero flagello.» «Ma io ho fame», protestò Jakov. «Aspetterai la cena come gli altri.» Buttò un pezzo di burro in una padella, poi, lanciando un'occhiata a Jakov, sbraitò: «Fuori!» I ragazzi uscirono. Giocarono sul ponte per un po' finché non sentirono troppo freddo. Ten-
tarono di recarsi in sala comando, ma furono buttati fuori anche di lì. Fu la noia a condurli infine nell'unico posto sulla nave dove Jakov sapeva che non avrebbero dato fastidio a nessuno, e nessuno avrebbe dato fastidio a loro. Era il suo rifugio segreto, e aveva deciso di mostrarlo ad Aleksej soltanto per fargli un piacere, e soltanto se il compagno fosse riuscito, una volta tanto, a non comportarsi da bamboccio piagnucoloso. L'aveva scoperto durante il terzo giorno di perlustrazione, notando quella porta chiusa nel corridoio che portava in sala macchine. L'aveva aperta e aveva visto che dava su una tromba di scale. Il Paese delle Meraviglie. Il pozzo si estendeva per tre livelli. Una scala a chiocciola saliva a spirale e, all'altezza del secondo livello, si collegava a una fragile passerella metallica che cigolava e ondeggiava ogni volta che ci si saltava sopra. In fondo alla passerella, verso poppa, c'era una porta dipinta di azzurro, sempre chiusa a chiave. Jakov aveva ormai rinunciato a tentare di aprirla. Salirono la scala fino in cima. Lassù, con il pavimento a una distanza da capogiro sotto di loro, era facile spaventare Aleksej con qualche salto rumoroso. «Piantala!» gridò Aleksej. «Qui balla tutto!» «Stiamo cavalcando. Facciamo una cavalcata nel Paese delle Meraviglie. Non ti piace?» «Non voglio cavalcare!» «Non vuoi mai fare nulla.» Jakov avrebbe continuato a saltare su e giù, facendo ondeggiare la passerella, ma Aleksej stava diventando isterico: con una mano si era avvinghiato alla ringhiera e con l'altra si stringeva Shu-Shu al petto. «Voglio tornare giù», piagnucolò. «Oh, va bene.» Discesero la scala, provocando un delizioso fracasso. Una volta in fondo, giocarono per un po' sotto gli ultimi gradini. Aleksej trovò una vecchia fune e ne legò un'estremità alla sbarra più bassa della ringhiera della passerella. Continuava a dondolarsi avanti e indietro come se fosse stato l'uomo scimmia. Ma i suoi piedi toccavano quasi il suolo e perciò non era un gioco molto eccitante. Allora Jakov mostrò al compagno la cassa vuota che aveva trovato in un angolino sotto le scale. Vi strisciarono dentro. Rimasero al buio fra i trucioli di legno ad ascoltare il rombo delle macchine nell'Inferno. Lì il mare sembrava molto vicino, una grande culla scura che ninnava lo scafo della
nave. «Questo è il mio nascondiglio segreto», mormorò Jakov. «Non ti permetto di parlarne agli altri. Giurami che non dirai nulla.» «Perché dovrei? È disgustoso. Ci fa freddo ed è umido. E scommetto che da qualche parte ci sono i topi. Probabilmente proprio adesso siamo seduti sui loro escrementi.» «Non c'è nessuna merda di topo, qui.» «Come fai a saperlo? Non si vede nulla.» «Se questo posto non ti piace, puoi anche andartene. Sparisci.» Jakov gli sferrò un calcio, fra i trucioli di legno. Quello stupido di Aleksej. Non avrebbe mai dovuto portarlo lì. Da uno che si trascinava dietro dappertutto un lurido cane di pezza non ci si poteva aspettare che amasse l'avventura. «Vattene. Mi stai stufando.» «Non so come tornare indietro.» «Speri che ti mostri io la strada?» «Sei stato tu a portarmi qui. Devi spiegarmi come tornare indietro.» «Be', non ne ho nessuna intenzione.» «O lo fai o rivelerò a tutti l'esistenza di questo tuo stupido nascondiglio. Disgustoso, pieno di merda di topi.» Aleksej stava tentando di arrampicarsi fuori della cassa, scalciando trucioli in faccia a Jakov. «Riportami subito indietro, altrimenti...» «Sta' zitto», esclamò Jakov. Afferrò Aleksej per la camicia e lo tirò indietro. I due ragazzi caddero l'uno addosso all'altro. «Stronzo», disse Aleksej. «Sta' a sentire. Ascolta!» «Che cosa?» Da qualche parte sopra di loro, una porta cigolò e si richiuse rumorosamente. La passerella prese a tintinnare, mentre il rumore dei passi si frantumava in mille echi nella tromba delle scale. Jakov strisciò verso l'apertura e sbirciò fuori della cassa, verso la passerella in alto. Qualcuno stava bussando alla porta azzurra. Un attimo dopo, questa si aprì e Jakov riuscì a intravedere una cascata di capelli biondi mentre la donna svaniva oltre la soglia. La porta le si richiuse alle spalle. Jakov rientrò nella cassa. «Era soltanto Nadja.» «È ancora là fuori?» «No, è passata dalla porta azzurra.» «Che cosa c'è al di là?» «Non lo so.»
«Credevo che tu fossi il grande esploratore.» «E tu sei un grande stronzo.» Jakov sferrò un altro calcio, ma riuscì soltanto a sollevare una nuvola di trucioli. «La porta è sempre chiusa a chiave. Ci abita qualcuno, al di là.» «Come fai a saperlo?» «Perché Nadja ha bussato e l'hanno fatta entrare.» Aleksej si cacciò più in fondo alla cassa, perché aveva cambiato idea e non voleva più avventurarsi all'esterno. Sussurrò: «Sono quei due che mangiano le quaglie». Jakov ripensò al vassoio con la bottiglia di vino e ai due bicchieri, alle cipolle che sfrigolavano nel burro, alle sei quaglie ricoperte di sugo. Il suo stomaco cominciò a borbottare. «Sta' a sentire», disse. «Con lo stomaco riesco a fare rumori davvero nauseanti.» Inspirò e spinse in fuori la pancia. Chiunque sarebbe rimasto impressionato da quella sinfonia gorgogliante. Aleksej, invece, disse soltanto: «È disgustoso». «Ti fa schifo tutto. Che ti succede?» «Non mi piacciono le cose disgustose.» «Un tempo le apprezzavi.» «Be', adesso non più.» «È colpa di quella Nadja. Ti ha trasformato in un damerino innamorato. Ti sei preso una cotta per lei.» «Non è vero.» «È verissimo.» «No!» Aleksej lanciò una manciata di trucioli che prese Jakov in piena faccia. I due ragazzi si avvinghiarono, rotolando da una parte e dall'altra della cassa, imprecando, scalciando. Non c'era molto spazio per muoversi, perciò non potevano farsi male sul serio. Infine Aleksej perse Shu-Shu tra i trucioli e cominciò a rovistare nel buio, cercando il suo cane di pezza. Quanto a Jakov, era ormai stanco di combattere. Così la smisero entrambi. Per un po', rimasero l'uno a fianco dell'altro, Aleksej con Shu-Shu stretto al petto e Jakov intento a produrre nuovi e più repellenti borborigmi, finché non si stufò anche di quello. Rimasero fermi, immobilizzati dalla noia, dal fragore delle macchine che invogliava al sonno e dal dondolio della nave. Aleksej ribadì: «Non mi sono preso una cotta per lei». «Se anche fosse, a me non importa.»
«Ma gli altri ragazzi ne vanno matti. Non hai notato come ne parlano?» Aleksej tacque un istante, poi aggiunse: «A me piace il suo odore. Le donne odorano diversamente. Sanno di morbido». «La morbidezza non la senti con il naso.» «Sì, invece. Quando annusi una donna come quella, ti rendi conto che, se la toccassi, la sentiresti morbida. Lo capisci.» Aleksej accarezzò ShuShu. Jakov poteva sentire la sua mano sfregare la stoffa sdrucita. «Mia madre aveva quell'odore», mormorò Aleksej. A Jakov tornò in mente il sogno. La donna, il sorriso. La ciocca di capelli biondi che rigava una guancia. Sì, Aleksej aveva ragione. Nel sogno, sua madre aveva addosso quel sentore di morbidezza. «Sembra una stupidaggine», continuò Aleksej, «ma me lo ricordo. Mi rammento ancora certe cose di lei.» Jakov si stiracchiò e i suoi piedi toccarono il lato opposto della cassa. Sono cresciuto? si chiese. Fosse vero. Potessi almeno crescere tanto da affondare i piedi oltre quella parete. «Non pensi mai a tua madre?» chiese Aleksej. «No.» «In ogni caso, non puoi ricordarla.» «Ricordo che era molto bella. Aveva gli occhi verdi.» «Come fai a saperlo? Lo zio Miša diceva che tu eri un lattante quando lei se n'è andata.» «Avevo quattro anni. Non ero mica un lattante.» «Io ne avevo sei quando mia madre è andata via, e a malapena mi ricordo qualcosa.» «Te lo ripeto: aveva gli occhi verdi.» «Va bene, ho capito. E allora?» Il rumore di una porta che si chiudeva li zittì. Jakov strisciò fino all'apertura della cassa e sbirciò fuori. Era ancora Nadja. Era appena uscita dalla porta azzurra e stava percorrendo la passerella. Sparì dal portello che dava verso la prua. «A me Nadja non piace», esclamò Jakov. «A me, sì. Vorrei che fosse lei mia madre.» «Ma se non ama i bambini!» «Ha detto allo zio Miša che dedica la sua vita a noi.» «E tu ci credi?» «Perché l'avrebbe detto se non fosse vero?» Jakov cercò una risposta, ma non ci riuscì. Comunque, se anche l'avesse
trovata, per Aleksej non avrebbe fatto differenza. Era stupido, Aleksej. Erano stupidi tutti. Nadja li aveva presi in giro. Undici ragazzi, ognuno innamorato di lei. Lottavano per sederle accanto durante i pasti, la osservavano in continuazione, la studiavano, le ronzavano intorno come cuccioli. Di notte, nelle loro cuccette, era un continuo bisbigliare su Nadja qui e Nadja là. I cibi che preferiva, che cosa avrebbe mangiato a pranzo. Si ponevano domande su tutto, da quanti anni avesse a quali indumenti intimi portasse sotto le sottane grigie. Discutevano se Grigorij, che non andava a genio a nessuno di loro, fosse o no il suo amante e, unanimemente, decidevano di no. Mettevano in comune le loro conoscenze dell'anatomia femminile e i ragazzi più grandi spiegavano, con sordidi dettagli, la funzione degli assorbenti interni e come e dove venissero inseriti, trasformando così per sempre la concezione che i ragazzi più giovani avevano delle donne: rendendole cioè creature con misteriosi e oscuri buchi. Il che aumentava ulteriormente il fascino che Nadja esercitava su di loro. Anche Jakov non riusciva a togliersi di mente quella donna, ma non perché l'adorasse. Ciò che lui provava era paura. E tutto per via di quegli esami del sangue. Erano in mare da quattro giorni e i ragazzi erano ancora nelle loro cuccette a gemere e vomitare quando Grigorij e Nadja erano arrivati con una bacinella contenente siringhe e provette. Avrebbero fatto soltanto una piccola puntura, prelevato qualche goccia di sangue, avevano detto, per avere la conferma che fossero in buona salute. Nessuno li avrebbe adottati se non ci fosse stata la certezza che erano sani. I due si erano spostati da ragazzo a ragazzo, ondeggiando un po' a causa del mare grosso, con le provette che tintinnavano nella bacinella. Nadja era pallida, sembrava sul punto di vomitare. Era stato Grigorij a fare i prelievi. A ogni cuccetta, i due si facevano dire dal ragazzo che l'occupava il suo nome e gli applicavano un braccialetto di plastica su cui era scritto un numero, poi Grigorij gli legava una grossa fascia di gomma attorno al braccio e schiaffeggiava la pelle un po' di volte, per inturgidire le vene. Alcuni ragazzi si erano messi a piangere e Nadja aveva dovuto tenere loro una mano e confortarli, mentre Grigorij prelevava il sangue. Jakov era stato l'unico che Nadja non fosse riuscita a tranquillizzare. Pur avendoci provato in tutti i modi, non l'aveva neppure convinto a star fermo. Lui non voleva quell'ago nel braccio e, per spiegarsi più chiaramente, aveva sferrato un calcio a Grigorij. A quel punto era saltata fuori la vera Nadja. Aveva inchiodato un braccio di Jakov contro il letto, immobiliz-
zandolo con una presa che schiacciava e torceva al contempo, permettendo così a Grigorij di fargli il prelievo. Finché l'ago non aveva bucato la pelle e il sangue non era defluito nella siringa, Nadja aveva tenuto gli occhi fissi su Jakov, gli aveva parlato a voce bassa, quasi dolcemente. Nella cabina, chiunque avesse ascoltato la voce di Nadja avrebbe udito soltanto un mormorio di rassicurazione. Ma Jakov, che fissava gli occhi chiari della donna, aveva visto qualcosa di assolutamente diverso. Più tardi si era strappato il braccialetto di plastica. Aleksej portava ancora il suo. Numero 307. Il suo certificato di buona salute. «Secondo te, ha figli suoi?» chiese Aleksej. Jakov fu scosso da un brivido. «Spero di no», rispose e strisciò fino all'apertura della cassa. Guardò fuori e non scorse anima viva, né sulla passerella né sulla scala che saliva attorcigliandosi quasi fosse un serpente. La porta azzurra era, come sempre, chiusa. Spazzolandosi di dosso i trucioli di legno si arrampicò fuori del nascondiglio. «Ho fame», spiegò. Come aveva predetto il cuoco, dopo quel pomeriggio grigio e opprimente il mare si alzò: non sopraggiunse un fortunale, ma una burrasca così violenta da costringere i passeggeri, sia i ragazzi sia gli adulti, a rimanere nelle rispettive cabine. Ed era proprio lì che Aleksej voleva stare. Nulla al mondo l'avrebbe convinto ad allontanarsi dalla sua cuccetta. Fuori faceva freddo e umido, il pavimento saltellava, e Lui non aveva la minima voglia di andare a perlustrare gli angoli oscuri e bagnati che sembravano affascinare tanto Jakov. Ad Aleksej piaceva stare nel suo letto, amava sentire la piacevole presenza della coperta attorno alle spalle, gli sbuffi di calore che gli arrivavano in faccia ogni volta che si girava o si spostava di qua e di là, l'odore di Shu-Shu accanto a lui sul guanciale. La mattina, Jakov tentò di snidare Aleksej dal suo letto, di persuaderlo a fare un altro giro nel Paese delle Meraviglie. Alla fine rinunciò e andò a gironzolare per proprio conto. Tornò un paio di volte per vedere se Aleksej avesse cambiato idea, ma il compagno dormì per tutto il pomeriggio, all'ora di cena e per buona parte della notte. In piena notte, Jakov si svegliò ed ebbe l'improvvisa, assoluta certezza che qualcosa fosse cambiato. Sulle prime, non riuscì a capire che cosa. Forse la burrasca stava passando? Sentiva che la nave non ondeggiava più
come prima. Poi si rese conto che la differenza stava nei motori. L'incessante rombo delle macchine si era tramutato in un sordo brontolio. Scivolò giù dalla sua cuccetta e andò a scuotere Aleksej. «Svegliati», bisbigliò. «Vattene.» «Ascolta. Ci siamo fermati.» «Non m'interessa.» «Vado a dare un'occhiata. Vieni con me.» «Sto dormendo.» «Hai dormito un'intera giornata e parte della notte. Non vuoi vedere la terraferma? Deve essere qui, da qualche parte. Perché la nave dovrebbe fermarsi in mezzo all'oceano?» Jakov s'inginocchiò più vicino ad Aleksej, sussurrando parole allettanti. «Magari possiamo vedere le luci. L'America. Se non vieni con me, ti perderai lo spettacolo.» Aleksej sospirò e si sgranchì, incerto sul da farsi. Jakov lanciò l'ultima esca. «A cena, ho messo da parte una patata», disse. «Te la darò. A condizione che tu venga con me.» Aleksej aveva saltato tanto il pranzo quanto la cena. Una patata sarebbe stata un dono del cielo. «Va bene, va bene.» Si mise a sedere e cominciò ad allacciarsi le scarpe. «Dov'è la patata?» «Prima andiamo su.» «Sei uno stronzo, Jakov.» Superarono in punta di piedi la doppia fila di ragazzi addormentati nelle cuccette e salirono la scaletta fino a sbucare sul ponte di prua. Fuori soffiava un leggero vento. Guardarono oltre il parapetto, aguzzando la vista per scorgere una distesa di luci cittadine, ma sotto la volta stellata l'orizzonte era nero e informe. «Non vedo nulla», borbottò Aleksej. «Dammi la patata.» Jakov estrasse di tasca il tesoro. Aleksej si accovacciò e la divorò seduta stante, fredda. Pareva un animale selvaggio. Jakov si girò e guardò verso il ponte di comando. Attraverso la vetrata poté scorgere il bagliore verdastro dello schermo radar e la sagoma di un uomo in piedi. L'ufficiale di rotta. Che cosa vedeva dalla sua solitaria postazione? Aleksej aveva finito di mangiare la patata. Si alzò, annunciando: «Torno a letto». «Possiamo andare nella cambusa a cercare altro cibo.» «Non voglio incontrare un secondo topo.» Cominciò ad avviarsi sul pon-
te. «Inoltre ho freddo.» «Io, no.» «Allora tu rimani qui.» Avevano appena raggiunto la scaletta quando sentirono una serie di violenti scatti. Di colpo il ponte fu illuminato a giorno. Entrambi i ragazzi s'irrigidirono, battendo le palpebre a quella luce inaspettata. Jakov afferrò una mano di Aleksej e trascinò il compagno sotto la scaletta che portava al ponte di comando, dove si rannicchiarono, sbirciando tra i gradini. Sentirono alcune voci e videro due uomini entrare nel cerchio di luce dei riflettori. Entrambi indossavano impermeabili bianchi. Si chinarono contemporaneamente e diedero uno strappo a qualcosa. Si udì un raschio metallico, mentre una specie di coperchio veniva spinto di lato, rivelando una nuova luce, azzurra. Brillava al centro del cerchio luminoso come la repellente iride di un occhio. «Dannati meccanici», esclamò uno degli uomini. «Non lo ripareranno mai.» Si raddrizzarono e guardarono in alto, verso il cielo. Verso un lontano rombo di tuono. Anche Jakov sollevò gli occhi. Il rombo si stava avvicinando. Non era più un fragore rantolante, bensì un suono più forte e ritmico. I due uomini si ritrassero dal cerchio di luce. Il rumore si localizzò proprio sopra le loro teste, facendo ribollire la notte come un tornado. Aleksej si premette le mani sulle orecchie e si rannicchiò più profondamente nell'ombra. Jakov, no. Rimase a osservare, senza battere ciglio, l'elicottero che discendeva nel bagno di luce e atterrava sul ponte. Uno degli uomini con l'impermeabile riapparve e prese a correre, chino in avanti. Spalancò lo sportello dell'elicottero. Jakov non riusciva a vedere che cosa ci fosse all'interno dell'apparecchio, perché la base della scala gli bloccava la visuale. Uscì dall'ombra e fece qualche passo sul ponte, quel tanto da poter vedere oltre la scala. Riuscì a scorgere il pilota e l'unico passeggero: un uomo. «Ehi!» arrivò un urlo dall'alto. «Tu! Ragazzo!» Jakov alzò lo sguardo e vide l'ufficiale di rotta che lo fissava dal ponte di comando. «Che stai facendo laggiù? Vieni subito su, prima di farti male! Muoviti!» Anche l'uomo con l'impermeabile aveva notato i ragazzi e si stava avviando verso di loro. Non sembrava affatto contento.
Jakov si affrettò a salire la scaletta. Aleksej, in preda al panico, lo seguì a ruota. «Non sapete che bisogna tenersi lontani dal ponte quando atterra un elicottero?» urlò l'ufficiale di rotta. Vibrò una manata sulla schiena di Aleksej, poi spinse i ragazzi in sala comando. Indicò due sedie. «Seduti. Tutt'e due.» «Stavamo soltanto guardando», protestò Jakov. «Voialtri dovreste essere a letto.» «Io ero a letto», piagnucolò Aleksej. «È stato lui a tirarmi fuori.» «Lo sapete che cosa può fare la pala di un elicottero alla testa di un ragazzo? Lo sapete?» L'ufficiale colpì con una mano di taglio il collo magro di Aleksej. «Fa così. E la testa vola per aria, con il sangue che schizza dappertutto. Proprio un bello spettacolo. Credete che stia scherzando, eh? Datemi retta, io non vado laggiù, quando atterra l'elicottero. Me ne sto alla larga. Ma se voi volete farvi affettare quelle vostre stupide teste, non vi trattengo, andate pure.» Aleksej singhiozzò: «Io volevo stare a letto!» Il rombo dell'elicottero li indusse a girarsi. Lo osservarono alzarsi in cielo, mentre il turbine prodotto dalle pale agitava gli impermeabili dei due uomini in piedi sul ponte. L'apparecchio virò lentamente di novanta gradi, poi si allontanò e venne inghiottito dalla notte. Per un po', nell'aria rimase un brontolio sordo, che scemava come un tuono che si allontanasse. «Dov'è diretto?» chiese Jakov. «Credi che me lo dicano?» rispose l'ufficiale di rotta. «Mi avvisano soltanto quando sta per venire a caricare qualcosa e io metto la prua al vento. Tutto qui.» Allungò una mano verso uno degli interruttori sul pannello comandi e lo fece scattare. Di colpo i riflettori si spensero. La plancia fu inghiottita dall'oscurità. Jakov si avvicinò alla vetrata del ponte di comando. Il rumore dell'elicottero era svanito. Da ogni parte si estendeva la nera superficie del mare. Aleksej stava ancora piangendo. «Su, smettila», disse l'ufficiale di rotta, dandogli un colpetto alla spalla con aria di rimprovero. «Un ragazzo della tua età che si comporta come una donnicciola!» «Ma perché è venuto l'elicottero?» chiese Jakov. «Te l'ho spiegato. Per un carico.» «E che cosa carica?» «Io non faccio domande. Mi limito a eseguire ciò che loro mi ordinano.»
«Loro?» «I passeggeri nella cabina di poppa.» Allontanò Jakov dalla vetrata e lo spinse verso la porta. «Tornate alle vostre cuccette. Non vedete che ho un lavoro da svolgere?» Jakov stava seguendo Aleksej fuori della sala quando lo sguardo gli cadde sullo schermo del radar. Tante altre volte prima di allora l'aveva fissato, cadendo quasi in trance per il roteare ipnotico della retta che tracciava il suo arco di 360 gradi. Anche stavolta si fermò a osservare la linea girare e girare, e di colpo la vide, una piccola scheggia bianca sul bordo dello schermo. «Quella è un'altra nave?» chiese. «Lì, sul radar.» Indicò la scheggia che tutt'a un tratto, mentre la linea le passava sopra, si era fatta di un bianco più luminoso. «Che cos'altro dovrebbe essere? Su, fuori di qui.» I ragazzi uscirono e scesero rumorosamente la scaletta che portava sul ponte principale. Jakov alzò gli occhi e, nella vetrata, vide stagliarsi, contro il chiarore verdastro, la sagoma dell'ufficiale di rotta. Allora disse: «Adesso so dove va l'elicottero». A colazione, Pëtr e Valentin non c'erano. Ormai la notizia della loro partenza notturna si era diffusa anche nella cabina di Jakov, cosicché, quando lui si sedette a tavola e scrutò la fila di ragazzi che gli sedevano davanti, comprese il motivo del loro silenzio. Non capivano, nessuno di loro, perché proprio Pëtr e Valentin fossero stati i primi a lasciare la nave, i primi a essere scelti. Tutti, fin dal primo istante, avevano pensato che Pëtr sarebbe stato rifiutato dagli eventuali genitori o sarebbe finito in qualche improbabile famiglia desiderosa di accollarsi piccoli idioti. Valentin, che si era unito al gruppo a Riga, era abbastanza intelligente e di bell'aspetto, ma aveva un vizio segreto ben noto ai ragazzi più giovani. Di notte, quando le luci venivano spente, era solito strisciare nelle loro cuccette tutto nudo e bisbigliare: «Lo senti? Senti quant'è grosso?» Poi afferrava le loro mani e li costringeva a toccarlo. Ma Valentin se n'era andato, e Pëtr con lui. Erano partiti per raggiungere i nuovi genitori che li avevano scelti, diceva Nadja. Gli altri erano stati scartati. Nel pomeriggio, Jakov e Aleksej salirono sul ponte e si distesero proprio là dov'era atterrato l'elicottero. Sdraiati, fissarono l'intenso azzurro luminoso del cielo. Nessuna nuvola, nessun elicottero. Il ponte era tiepido e i ra-
gazzi, come due gattini su un termosifone, cominciarono ad avvertire una certa sonnolenza. «Continuo a pensarci», disse Jakov, con gli occhi chiusi per via del sole. «Se mia madre è viva, non voglio essere adottato.» «Non è viva.» «Potrebbe esserlo.» «Allora perché non è tornata a prenderti?» «Forse mi sta cercando proprio adesso. E io sono qui, in mezzo all'oceano, dove nessuno può trovarmi. A parte il radar. Dirò a Nadja di riportarmi indietro. Non voglio una nuova madre.» «Io, sì», esclamò Aleksej. Rimase in silenzio per qualche istante, poi aggiunse: «Credi che in me ci sia qualcosa che non va?» Jakov rise. «Vuoi dire oltre al fatto che sei un ritardato mentale?» Siccome Aleksej non replicava, Jakov gli lanciò un'occhiata in tralice e rimase sconcertato nel vedere che il compagno si era portato le mani alla faccia e che le spalle gli sussultavano. «Ehi», disse Jakov, «stai piangendo?» «No.» «Piangi, è così?» «No.» «Stavo scherzando. Non sei un ritardato mentale.» Aleksej si era come appallottolato su se stesso e stava piangendo convulsamente. Anche se non emetteva il minimo suono, inspirava spasmodiche boccate d'aria, e il torace si alzava e si abbassava. Di fronte a quello spettacolo, Jakov non sapeva che cosa fare o dire. Gli vennero alle labbra, quasi automaticamente, nuovi insulti: stupida donnicciola, moccioso, ma pensò che fosse meglio evitare. Non aveva mai visto Aleksej in un simile stato e si sentiva un po' colpevole, un po' Impaurito. Era stato soltanto uno scherzo. Perché Aleksej non capiva che lui l'aveva detto soltanto per gioco? «Andiamo giù a dondolarci sulla corda», esclamò. E gli diede una gomitata nel costato. Aleksej reagì con una furiosa spinta e balzò in piedi. «Ma che ti succede?» chiese Jakov. «Perché non hanno preso me al posto di quello stupido di Pëtr?» «Sono stato scartato pure io», replicò Jakov. «Ma io non ho nessun difetto!» gridò Aleksej e corse via dal ponte. Jakov rimase seduto, immobile. Si fissava il moncherino sinistro. Poi
mormorò: «Anch'io non ho nessun difetto». «Cavallo in c3», disse Kubičev, il macchinista. «Fai sempre questa mossa. Perché non tenti qualcosa di nuovo?» «Mi fido di ciò che è codificato e sicuro. Tu non fai che perdere. Tocca a te. Non mettiamoci un'intera giornata.» Jakov girò la scacchiera e la esaminò prima da un angolo, poi dall'altro. S'inginocchiò e fissò la fila di pedoni. Immaginò una schiera di soldati con l'armatura nera, fermi in posizione, in attesa di ordini. «E adesso che diavolo stai facendo?» chiese il macchinista. «Ti eri mai accorto che la regina ha la barba?» «Che cosa?» «Ha la barba. Guarda.» «È soltanto l'increspatura del colletto», grugnì l'altro. Ti vuoi decidere a muovere?» Jakov rimise la regina sulla scacchiera e prese un cavallo. Lo depose, lo sollevò di nuovo. Lo portò in una casella diversa, poi lo rimise al posto di prima. Intorno a loro, intanto, ruggivano i motori dell'Inferno. Kubičev non guardava più la scacchiera. Aveva aperto una rivista e ne stava sfogliando le pagine, dove compariva una serie di visi affascinanti. Le cento più belle donne d'America. Di tanto in tanto scuoteva la testa e diceva: «E questa la definiscono bella?» oppure: «Non permetterei al mio cane di accoppiarsi con questa qui». Jakov riprese in mano la regina e la posò in f6. «Fatto.» L'altro osservò la mossa di Jakov e sbuffò. «Perché ripeti sempre lo stesso errore? Perché muovi la regina troppo presto?» Mise giù la rivista e si chinò in avanti per spostare un pedone. Fu allora che Jakov notò quel volto sulla pagina della rivista. Apparteneva a una donna dai capelli biondi, con una ciocca che le si arricciava sulla guancia, un sorriso melanconico e occhi verdi che non sembravano guardarti, ma fissare qualcosa al di là. «È mia madre», esclamò Jakov. «Che cosa?» «È lei. È la mia mamma!» Nel cercare di afferrare la rivista, diede una ginocchiata alla cassa che fungeva da tavolo. La scacchiera traballò. Pedoni, alfieri, cavalli rotolarono in ogni direzione. Kubičev alzò la rivista, sottraendola alle mani del ragazzo. «Sei ammattito?» «Dammela!» urlò Jakov. Si era avvinghiato al braccio del macchinista,
tentando freneticamente di prendere la foto della donna. «Dammela!» «Sei pazzo, non è tua madre!» «E invece sì! Ricordo la sua faccia! Era proprio così, proprio quella!» «Smettila di graffiarmi. Staccati, hai sentito?» «Dammela!» «Va bene, va bene. Adesso te la faccio vedere. Non è tua madre.» Sbatté la rivista sulla cassa. «Vedi?» Jakov fissò quel viso. Ogni particolare era proprio come l'aveva sognato. Quel modo d'inclinare la testa di lato, la leggera increspatura agli angoli della bocca. Anche il riflesso della luce sui capelli. «È lei», ripeté. «Ho già visto la sua faccia.» «Tutti l'hanno già vista.» Kubičev indicò il nome sulla foto. «Michelle Pfeiffer. È un'attrice. Americana. Neanche il nome è russo.» «Ma io la conosco! L'ho sognata!» L'altro rise. «Tu, e ogni altro ragazzo spiritato.» Notò i pezzi degli scacchi sparsi un po' ovunque. «Guarda che disastro. Saremo fortunati se riusciremo a rintracciare tutti i pedoni. Dai, sei stato tu a buttarli all'aria e adesso raccoglili.» Jakov non si mosse. Immobile, fissava la donna, ricordando il sorriso che gli aveva rivolto. Il macchinista, brontolando, si mise in ginocchio e cominciò a recuperare pezzi degli scacchi da sotto i macchinari. «Probabilmente hai visto quel viso da qualche parte. In televisione o magari su una rivista, e te ne sei dimenticato. Poi l'hai sognata, ecco.» Posò due alfieri e una regina sulla scacchiera e tornò a sedersi. Aveva la faccia arrossata e ansimava pesantemente. Si batté un dito sulla fronte. «Il cervello è una cosa misteriosa. Prende la vita reale e la trasforma in sogno e noi non siamo in grado di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. A volte sogno di star seduto a una tavola imbandita con ogni bendidio, con tutto il cibo che mi piacerebbe mangiare. Poi mi sveglio e scopro che sono ancora su questa dannata nave.» Prese la rivista e strappò la pagina con la foto di Michelle Pfeiffer. «Tieni, è tua.» Jakov prese la pagina, ma non disse nulla. La tenne davanti a sé, continuando a guardarla. «Se vuoi far finta che sia tua madre, fallo pure. Un ragazzo potrebbe combinarne di peggio. Adesso raccogli i pezzi. Ehi, ehi! Dove credi di andare?» Jakov, stringendo ancora in mano il foglio, uscì dall'Inferno.
Salito sul ponte, si fermò accanto al parapetto, la faccia rivolta al mare. La pagina, ormai spiegazzata, sbatteva nel vento. Jakov la fissò e vide che l'aveva stretta troppo forte: c'era una piega su quelle labbra dal sorriso appena accennato. Afferrò con i denti un angolo del foglio e strappò la pagina in due. Non bastava. Non ancora. Jakov respirava affannosamente, era sul punto di scoppiare in lacrime, ma non emetteva il minimo suono. Strappò in più pezzi il foglio, aiutandosi con i denti come un animale che lacerasse carne vera, e lasciò che il vento portasse via quei frammenti. Quando ebbe finito, reggeva ancora in mano un pezzetto di carta. Era un occhio. Proprio al di sotto, coperta dalle sue dita, c'era una grinza a forma di stella. Come il luccichio di una singola lacrima. Jakov gettò il frammento al di là del parapetto e lo guardò ondeggiare al vento e poi cadere in mare. 15. Era quasi sulla cinquantina, con la faccia secca e affilata propria delle donne che avevano smarrito ogni traccia della freschezza della gioventù. Tuttavia, a giudizio di Bernard Katzka, quella mancanza non bastava a togliere attrattiva a una donna. La bellezza femminile non era costituita soltanto dallo splendore della carnagione e dei capelli, ma da ciò che brillava negli occhi. Per quanto lo riguardava, aveva conosciuto un mucchio di affascinanti settantenni, e tra queste c'era sua zia Margaret, una zitella che Bernard aveva cominciato a frequentare molto assiduamente dopo la morte di Annie. Che ogni settimana lui non vedesse l'ora di andare a trovare zia Margaret per bere un caffè con lei e chiacchierare del più e del meno era un fatto che probabilmente avrebbe sconcertato il suo collega, Lundquist. Costui apparteneva a quel genere di uomini che ritenevano inutile soffermarsi più di un istante su una donna che avesse superato il traguardo della menopausa. Senza dubbio, alla base di tutto, c'era un fatto biologico: i maschi non dovevano sprecare energia o sperma con una femmina non più feconda. Non era quindi strano che Lundquist fosse apparso tanto sollevato quando Katzka aveva acconsentito a interrogare Brenda Hainey. Lundquist era convinto che Bernard Katzka fosse l'elemento più adatto per trattare con le donne che avessero superato da un pezzo la menopausa, intendendo con ciò che il suo collega era l'unico detective della squadra omicidi che avesse la pazienza e la forza d'animo necessarie per prestare loro ascolto.
E proprio questo aveva fatto Katzka nel primo quarto d'ora: aveva ascoltato pazientemente le bizzarre accuse formulate da Brenda Hainey. Non era facile seguire i ragionamenti di quella donna, perché mescolava sacro e profano, parlando di segni inviati dal cielo e di siringhe di morfina. Katzka avrebbe potuto trovare divertente quella miscela così strampalata se la donna fosse stata simpatica, ma Brenda Hainey non lo era. Nei suoi occhi azzurri non brillava il minimo calore umano. Era rabbiosa, e quel sentimento non piaceva affatto a Katzka. «Ho accennato a questo fatto con quelli dell'ospedale», disse Brenda. «Sono andata diritta filata dal loro presidente, Mr Parr. Mi ha promesso che avrebbe svolto un'indagine, ma questo è successo cinque giorni fa e, da allora, non ho più saputo nulla. Ho continuato a chiamarlo ogni giorno, e quelli del suo ufficio hanno seguitato a dirmi che stavano ancora indagando. Be', oggi ho deciso che ne avevo abbastanza. Così sono venuta da voi. E anche qui hanno cercato di ostacolarmi, di farmi parlare prima con qualche modesto funzionario di polizia. Be', io sono convinta che bisogna puntare diritto all'autorità più alta. Lo faccio sempre, ogni mattina, quando prego. In questo caso, l'autorità più alta dovrebbe essere lei.» Katzka represse un sorriso. «Ho visto il suo nome sul giornale», continuò Brenda. «Si parlava di quel medico morto al Bayside.» «Si riferisce al dottor Levi?» «Sì. Ho pensato che fosse lei la persona cui dovevo rivolgermi, dato che è già al corrente di ciò che succede in quell'ospedale.» Katzka fu sul punto di emettere un sospiro, ma si trattenne. Sapeva che la donna l'avrebbe preso per ciò che era, un'espressione di noia. Invece disse: «Posso vedere il biglietto?» Brenda estrasse dalla borsa un foglio piegato e glielo consegnò. C'era un'unica riga scritta a macchina: SUA ZIA NON È MORTA DI MORTE NATURALE. UN AMICO. «C'era una busta?» Gli diede anche quella. Sopra, scritto a macchina, c'era il nome BRENDA HAINEY. Il lembo ripiegato era stato incollato, poi stracciato. «Sa chi potrebbe averglielo mandato?» «Non ne ho idea. Forse una delle infermiere. Qualcuno che conosceva abbastanza bene la situazione da informarmi.» «Mi ha detto che sua zia era una malata di cancro in fase terminale. Potrebbe essere morta per cause naturali.»
«Allora perché mandarmi questo biglietto? Qualcuno la pensa diversamente. Qualcuno vuole che s'indaghi. Io voglio che s'indaghi.» «Dov'è il corpo di sua zia, adesso?» «Nella camera mortuaria del Garden of Peace. Se vuol saperlo, l'ospedale se n'è liberato molto in fretta.» «Chi ha preso questa decisione? Toccherebbe al parente più prossimo.» «Prima di morire, mia zia aveva lasciato precise disposizioni. Questo almeno è ciò che mi hanno detto in ospedale.» «Lei ha parlato con i medici che avevano in cura sua zia? Forse potrebbero fornirle i necessari chiarimenti.» «Preferisco non parlare con quella gente.» «Perché?» «Data la situazione, non sono sicura di potermi fidare di loro.» «Capisco.» A quel punto, Katzka sospirò. Prese la penna e aprì il taccuino a una nuova pagina. «Mi dica i nomi dei medici che hanno assistito sua zia.» «Il medico curante era il dottor Colin Wettig, ma chi sembrava prendere le decisioni era una sua specializzanda. Credo che farebbe bene a indagare su questa dottoressa.» «Come si chiama?» «DiMatteo.» Katzka sollevò gli occhi, sorpreso. «Abigail DiMatteo?» Ci fu un breve silenzio. Katzka vide la costernazione scritta a chiare lettere sul volto di Brenda. «Lei la conosce», mormorò la donna, in tono cauto. «Le ho parlato. Per un'altra faccenda.» «Questo non influirà sul suo giudizio riguardo al mio caso, vero?» «Assolutamente no.» «Ne è sicuro?» Brenda lo sfidò con un'occhiata che lui trovò irritante. Katzka non era tipo da irritarsi facilmente e fu costretto a chiedersi perché quella donna lo infastidisse a tal punto. Lundquist scelse quel momento per passare accanto alla scrivania di Katzka, lanciandogli quello che poteva essere definito un sorrisetto di solidale comprensione. Sarebbe dovuto toccare a Lundquist il compito d'interrogare quella donna. Gli avrebbe fatto bene, gli avrebbe insegnato a controllarsi e a essere educato, doti che Lundquist doveva ancora sviluppare. «Cerco sempre di essere obiettivo, Miss Hainey», rispose infine il detective.
«Allora andrà a dare un'occhiata da vicino alla dottoressa DiMatteo?» «Perché a lei in particolare?» «Era lei, quella che voleva la morte di mia zia.» A Katzka le accuse di Brenda sembravano quanto mai improbabili; eppure c'era quel biglietto, spedito da chissà chi. Rifletté sulla possibilità che se lo fosse mandato la stessa Brenda; persone smaniose di attenzione avevano fatto cose anche più strane... Tuttavia era più facile credere a un'ipotesi del genere che a quella prospettata dalla donna, cioè che Mary Allen fosse stata uccisa dai suoi medici curanti. Per settimane, Katzka era rimasto in ospedale a osservare il lento trapasso di sua moglie, perciò conosceva bene i reparti di oncologia. Aveva visto con i propri occhi la compassione delle infermiere, l'impegno dei medici. Tutti loro sapevano quando era il momento di lottare per la vita di un paziente. E sapevano anche quando la battaglia era perduta, quando le sofferenze superavano di gran lunga i benefici di un giorno o una settimana in più di vita. C'erano stati momenti, verso la fine, in cui Katzka aveva desiderato disperatamente di aiutare Annie a varcare la soglia estrema. Se i medici gli avessero suggerito una soluzione del genere, lui avrebbe dato il proprio assenso. Ma non l'avevano mai fatto. Il cancro uccideva abbastanza rapidamente: quale medico avrebbe messo in forse la propria carriera per accelerare il decesso di un paziente? E se anche i medici curanti di Mary Allen avevano preso una simile decisione, era davvero possibile considerare tutto ciò alla stregua di un omicidio? Fu dunque con una certa riluttanza che, quel pomeriggio, dopo la visita di Brenda Hainey, si recò al Bayside Hospital. Era pur sempre obbligato a svolgere alcune indagini. Dall'Ufficio informazioni dell'ospedale ottenne la conferma che Mary Allen era spirata il giorno indicato da Brenda e che la diagnosi era carcinoma con metastasi diffuse. L'impiegato non poté fornirgli altre informazioni. Il dottor Wettig, medico curante di Mrs Allen, era in sala operatoria e per l'intero pomeriggio non sarebbe stato disponibile. Perciò Katzka prese il telefono e chiamò al cicalino la dottoressa DiMatteo. Un attimo dopo, Abby richiamò. «Sono il detective Katzka», disse lui. «Ci siamo incontrati la settimana scorsa.» «Sì, ricordo.» «Dovrei rivolgerle alcune domande su una questione del tutto diversa.
Dove possiamo vederci?» «Mi trovo nella biblioteca dell'ospedale. Ci vorrà molto tempo?» «Non credo.» Lui udì un sospiro, poi un riluttante: «Va bene. La biblioteca è al primo piano. Nell'ala degli uffici amministrativi». Katzka sapeva, per esperienza diretta, che alle persone normali (sempre che non fossero sospettate di qualcosa) piaceva parlare con i poliziotti. La gente provava curiosità per il lavoro svolto dalla polizia in genere e dalla squadra omicidi in particolare. Si era sentito rivolgere certe domande, da vecchie signore dall'aria angelica... La dottoressa DiMatteo, invece, gli era sembrata francamente restia a parlare con lui. Si chiese perché. Trovò la biblioteca incassata tra il centro elettronico e l'ufficio amministrativo. All'interno, scorse alcune file di scaffali di libri, la scrivania della bibliotecaria e, lungo una parete, una mezza dozzina di tavoli destinati ai lettori. La dottoressa DiMatteo era in piedi accanto alla fotocopiatrice, intenta a posizionare sul piano della macchina una rivista di chirurgia. Aveva già riunito un bel numero di fogli in varie pile, che aveva appoggiato su un tavolo accanto alla macchina. Katzka rimase sorpreso nel vederla fare un simile lavoro da segretaria e anche nel constatare che la dottoressa indossava gonna e camicetta invece della divisa verde che, da quanto lui aveva capito, era l'uniforme degli specializzandi in chirurgia. Fin dal primo giorno in cui aveva incontrato Abby DiMatteo, l'aveva giudicata una donna attraente. Nel vederla in abiti femminili e con la folta capigliatura nera sciolta sulle spalle, decise che era davvero affascinante. Abby sollevò lo sguardo e fece un cenno di saluto con la testa. Fu allora che Katzka notò in lei un qualcosa di diverso. Pareva nervosa, persino un po' circospetta. «Ho quasi finito», gli spiegò. «Devo fotocopiare soltanto un articolo.» «Non è di turno, oggi?» «Scusi?» «Credevo che i chirurghi indossassero sempre la divisa verde.» Lei appoggiò un'altra pagina sul piano della Xerox e premette il pulsante d'avvio. «Oggi non presto servizio in sala operatoria. Perciò sto facendo una ricerca bibliografica. Il dottor Wettig ha bisogno di questi testi per una conferenza.» Abbassò gli occhi sulla fotocopiatrice, come se la macchina, con la sua luce abbagliante, il suo fruscio, richiedesse una totale concentrazione. Quando le ultime pagine caddero fuori, le portò al tavolo dove c'erano le altre pile di fogli e si sedette. Katzka si sistemò su una sedia di
fronte a lei. Abby prese in mano una cucitrice, poi la riappoggiò sul tavolo. Sempre senza guardarlo, chiese: «Ci sono stati ulteriori sviluppi?» «Riguardo al dottor Levi, no.» «Vorrei dirle qualcosa di nuovo, ma...» Raccolse alcuni fogli e, con un brusco scatto del polso, li cucì assieme. «Non sono qui per il dottor Levi», ribatté Katzka, «ma per una paziente sua.» «Oh?» Abby prese un altro fascio di fogli e l'infilò nelle ganasce della cucitrice. «Di quale paziente si tratta?» «Di una certa Mary Allen.» La mano di Abby rimase per un attimo in aria, poi ricadde, pesantemente, sulla cucitrice. «Sa di chi parlo?» chiese il poliziotto. «Sì.» «Da quanto mi risulta, è morta la settimana scorsa. Qui, in ospedale.» «È esatto.» «Può confermare che la diagnosi era carcinoma con metastasi diffuse?» «Sì.» «Ed era una malata terminale?» «Sì.» «Allora era prevedibile che morisse?» Abby esitò. Abbastanza a lungo da mettere Katzka in allerta. Poi rispose, lentamente: «Si può dire che fosse prevedibile». L'uomo la stava studiando e lei sembrava rendersene conto. Per qualche istante, Katzka tacque. Il silenzio, l'aveva sperimentato, era molto snervante. Poi chiese, piano: «La sua morte è stata in qualche modo anomala?» Finalmente lei lo guardò. Katzka notò che Abby era immobile, quasi rigida. «In che senso, anomala?» «Le circostanze, il modo in cui è deceduta.» «Posso chiederle perché sta indagando su questo?» «Una parente di Mrs Allen è venuta da noi a esporci alcuni suoi dubbi.» «Si tratta di Brenda Hainey? La nipote?» «Sì. Ritiene che sua zia sia morta per cause non legate alla malattia da cui era affetta.» «E lei sta cercando di scoprire se è stato un omicidio?» «Sto cercando di appurare se ci sono estremi per le indagini. Ci sono?» Abby non rispose.
«Brenda Hainey ha ricevuto un biglietto anonimo, in cui si affermava che Mary Allen non era morta per cause naturali. Lei ha qualche motivo, un motivo qualunque, per ritenere che questa accusa sia fondata?» Le risposte possibili sono tante, pensò Katzka. Abby avrebbe potuto scoppiare in una risata, dicendo che erano sciocchezze; oppure replicare che Brenda Hainey era una pazza; o anche mostrarsi stupita, se non addirittura arrabbiata, per essere costretta a rispondere a una simile domanda. Ognuna di quelle reazioni sarebbe stata appropriata. E invece la risposta che giunse fu del tutto imprevista. La donna, improvvisamente pallidissima, lo fissò e, a voce bassa, disse: «Mi rifiuto di rispondere a qualsiasi altra domanda, detective Katzka». Pochi attimi dopo che il poliziotto era uscito dalla biblioteca, Abby raggiunse il telefono più vicino e chiamò il cicalino di Mark. Con suo grande sollievo, lui la richiamò immediatamente. «Quel detective è venuto qui di nuovo», gli sussurrò Abby. «Mark, sanno di Mary Allen. Brenda è andata a parlare con loro. E questo poliziotto sta indagando sulla morte della zia.» «Non gli hai detto nulla, vero?» «No, io...» Inspirò profondamente. Il respiro che seguì fu molto simile a un singhiozzo. «Non sapevo che cosa dire. Mark, credo di essermi tradita. Sono spaventata e penso che lui se ne sia accorto.» «Abby, ascolta. È importante. Non gli hai parlato della morfina nel tuo armadietto, vero?» «Volevo farlo. Mio Dio, Mark, ero pronta a rivelare ogni cosa. Forse avrei dovuto. Se gli corressi dietro e gli raccontassi tutto...» «No.» «Non è meglio dirgli le cose come stanno? Lo scoprirà comunque. Presto o tardi, riuscirà ad appurare ogni cosa. Ne sono sicura.» Le sfuggì un altro sospiro e avvertì il primo fiotto di lacrime bruciarle gli occhi. Di lì a un attimo si sarebbe messa a singhiozzare, nel bel mezzo della biblioteca, dove tutti potevano vederla. «Non mi pare che esista un'altra via di uscita. Devo andare alla polizia.» «E se non ti credono? Una volta appresa l'esistenza di una prova indiziaria, quella morfina nel tuo armadietto, balzeranno alla conclusione più ovvia.» «E allora che devo fare? Aspettare che mi arrestino? Non posso reggere a questa tensione, non ce la faccio.» La voce s'incrinò. In un sussurro,
Abby ripeté: «Non ce la faccio». «Per adesso la polizia non ha in mano nulla. Io non dirò loro neanche una parola e così faranno anche Wettig e Parr, ne sono sicuro. Desiderano anche più di te che questa storia non venga resa nota. Tieni duro, Abby. Wettig sta facendo il possibile per farti reintegrare nelle tue mansioni.» Le ci volle un poco per riuscire a controllarsi. Quando infine riprese a parlare, la sua voce era bassa ma ferma. «Mark, e se Mary Allen fosse stata davvero uccisa? In tal caso le indagini sarebbero obbligatorie. Noi stessi dovremmo dirlo alla polizia.» «È questo che vuoi?» «Non lo so. Però continuo a ripetermi che è questo che dovremmo fare. Che è nostro dovere.» «Sta a te decidere. Ma vorrei che tu riflettessi bene sulle conseguenze.» Lei l'aveva già fatto. Aveva pensato allo scalpore che ne sarebbe nato, alla possibilità di essere arrestata. Aveva continuato a rimuginarci sopra, sapendo perfettamente che cosa avrebbe dovuto fare, e tuttavia la paura le impediva di agire. Sono una vigliacca. La mia paziente è morta, forse uccisa, e io mi preoccupo soltanto di salvare la mia dannata pelle. La bibliotecaria entrò nella stanza, spingendo un cigolante carrello sovraccarico di libri. Si sedette alla scrivania e cominciò ad apporre il timbro dell'ospedale sui frontespizi. Bam, bam. «Abby», disse Mark, «prima di fare qualsiasi mossa, pensaci bene.» «Ne parliamo più tardi. Adesso devo andare.» Riagganciò, tornò al suo tavolo, si sedette e fissò la pila di articoli fotocopiati. Aveva passato la mattina dedicandosi a raccogliere una pila di fogli. Era un medico che non poteva più praticare la propria professione, un chirurgo bandito dalla sala operatoria. Le infermiere e lo staff medico non sapevano che cosa pensare. Era sicura che le voci stessero già girando, in lungo e in largo e vorticosamente. Quella mattina, quando lei aveva attraversato i reparti alla ricerca del dottor Wettig, le infermiere si erano girate a guardarla. Che cosa sussurravano alle mie spalle? si era chiesta. Aveva paura di scoprirlo. Il bam, bam era cessato. Abby si rese conto che la bibliotecaria aveva finito di apporre il timbro sui frontespizi dei volumi e la stava fissando. Come chiunque altro in questo ospedale, anche lei si sta ponendo domande su di me. Arrossendo, raccolse i suoi fogli e li portò alla scrivania della bibliotecaria.
«Quante copie?» «È materiale per il dottor Wettig. Può addebitarlo al corso di specialità.» «Ho bisogno di sapere il numero esatto delle copie, per segnarlo sul registro della fotocopiatrice. È la prassi.» Abby appoggiò la pigna di fogli e prese a contare le pagine. Avrebbe dovuto sapere che la bibliotecaria non si sarebbe arresa facilmente. Quella donna era al Bayside da sempre e non aveva mai mancato d'informare ogni nuova mandata di specializzandi che lì, nella biblioteca, le cose andavano fatte a modo suo. Abby cominciava a provare un senso di rabbia, nei confronti della bibliotecaria, dell'ospedale, della sua esistenza che si stava trasformando in un inferno. Finì di contare l'ultimo articolo. «Duecentoquattordici pagine», annunciò, sbattendo l'ultimo gruppo di fogli sulla pila degli altri. Dalla copertina, il nome AARON LEVI sembrò saltarle agli occhi. Il titolo dell'articolo era Comparazione delle percentuali di sopravvivenza al trapianto cardiaco tra riceventi già ricoverati in ospedale perché in condizioni critiche e riceventi ricoverati poco prima dell'intervento. Gli autori erano Aaron Levi, Rajiv Mohandas e Lawrence Kunstler. Abby fissò il nome di Aaron, sconvolta dall'improvviso ricordo della sua morte. Anche la bibliotecaria notò quel nome e scosse la testa. «È duro pensare che il dottor Levi non sia più tra noi.» «Già», mormorò Abby. «E vedere quei due nomi sullo stesso articolo.» La donna scosse ancora la testa. «Mi scusi?» «Il dottor Kunstler e il dottor Levi.» «Mi spiace, ma non conosco il dottor Kunstler.» «Oh, era qui prima che lei arrivasse.» La bibliotecaria chiuse il registro della fotocopiatrice e, con un gesto cerimonioso, lo rimise nello scaffale. «Dev'essere successo sei anni fa, almeno.» «Che cosa?» «Fu un caso simile a quello di Charles Stuart. Ricorda, l'uomo che saltò dal Tobin Bridge? Anche il dottor Kunstler si gettò da quel ponte.» Abby tornò a fissare l'articolo, i nomi in cima alla pagina. «Si uccise?» La bibliotecaria annuì. «Proprio come il dottor Levi.» Il ticchettio delle tessere del mah-jong che venivano appoggiate sul tavolo del salotto era tanto forte da impedire la conversazione. Vivian chiuse la
porta della cucina e ritornò al lavello, dove aveva messo il colatoio con i germogli di soia. Riprese quindi a staccare le radici arricciolate e a gettare le cime in una ciotola. Abby non conosceva nessuno che si preoccupasse di togliere le radici ai germogli di soia. Gli unici a farlo, le spiegò Vivian, erano quegli stupidi cinesi, i quali passavano ore a faticare su certi piatti che poi divoravano in un attimo. Ma, in ogni caso, chi se ne sarebbe accorto? La nonna di Vivian l'avrebbe notato subito e, come lei, le sue amiche. Se a quelle signore fosse stato presentato un piatto di germogli di soia con le radicette ancora attaccate, avrebbero storto il naso. Perciò l'obbediente nipote, con tutto che era un ottimo chirurgo che stava per aprire un proprio studio, si prestava al fastidioso compito di nettare i germogli di soia. E lo faceva alla svelta, con notevole efficienza, ogni movimento in puro stile Vivian. Mentre ascoltava la storia di Abby, quelle graziose mani non rimanevano ferme neanche un secondo. «Gesù», Vivian continuava a mormorare, «Gesù, sei nei pasticci.» Nella stanza accanto, il tintinnio delle tessere era cessato e cominciò una nuova partita. Di tanto in tanto, tra il brusio delle chiacchiere, si udiva un leggero tonfo, come se qualcuno avesse gettato una tessera al centro. «Secondo te, che cosa dovrei fare?» chiese Abby. «In un modo o nell'altro, DiMatteo, lui ti ha incastrata.» «È proprio per questo che ne sto parlando con te. Tu sei passata sotto le forche caudine di Victor Voss e sai di che cosa è capace.» «Sì», sospirò Vivian. «Lo so fin troppo bene.» «Secondo te, dovrei andare alla polizia? O è meglio che mi tenga fuori da questa storia sperando che loro non scavino in profondità?» «Qual è l'opinione di Mark?» «Lui sostiene che dovrei tenere la bocca chiusa.» «Sono d'accordo. Considera pure questo mio atteggiamento come una prova di totale sfiducia nelle autorità. Tu, invece, devi avere molta stima della polizia se pensi di metterti a loro disposizione e sperare comunque in bene.» Vivian prese uno strofinaccio e si asciugò le mani, poi guardò Abby. «Davvero ritieni che la tua paziente sia stata assassinata?» «Come spiegare altrimenti la concentrazione della morfina?» «La stava già prendendo. E probabilmente la tollerava abbastanza da aver bisogno di dosaggi altissimi per non soffrire. Forse c'è stato un sovraddosaggio.» «Soltanto se le è stata somministrata una dose extra. Per caso o intenzionalmente.»
«Unicamente per far fuori te?» «Nessuno controlla la concentrazione della morfina nei pazienti terminali affetti da cancro! Qualcuno voleva assicurarsi che questo omicidio non passasse inosservato. Qualcuno che sapeva che era un omicidio. E ha mandato quel biglietto a Brenda Hainey.» «Come fai a sapere che è stato Victor Voss?» «È l'unico che mi vuole fuori del Bayside.» «È davvero l'unico?» Abby fissò Vivian e si chiese: Chi altro non mi vuole? Nel soggiorno, il rumore delle tessere del mah-jong segnalò la fine di un'altra partita. Quel suono fece sobbalzare Abby. Prese a camminare avanti e indietro nella cucina, passando accanto alla pentola del riso che gorgogliava sul bancone, superando i fornelli dove le pentole lasciavano fuoriuscire un vapore speziato e con un non so che di esotico. «Questa è una pazzia. Non posso credere che sia stato qualcun altro a farlo, soltanto per vedermi espulsa.» «Jeremiah Parr deve salvare la propria testa. E, in questo preciso istante, Voss gli starà probabilmente alitando sul collo. Pensaci. Il consiglio d'amministrazione dell'ospedale è schierato a fianco dei ricchi amici di Voss. Potrebbe chiedere il licenziamento di Parr. A meno che non venga silurata tu per prima. Ehi, la tua non è paranoia, DiMatteo. Qualcuno ce l'ha davvero con te.» Abby si sedette di fronte al tavolo di cucina. Il rumore della partita nella stanza accanto le stava facendo venire il mal di testa. Quello e il chiacchiericcio delle vecchie signore. In quella casa, il rumore sembrava regnare sovrano e gli ospiti che conversavano amichevolmente in cantonese avevano un tono di voce così acuto da sembrare prossimi al litigio. Come faceva Vivian a tenersi in casa la nonna? Quel baccano sarebbe stato sufficiente a far impazzire Abby. «Si torna sempre a Victor Voss», disse. «In un modo o nell'altro, riuscirà a vendicarsi.» «Allora perché ha lasciato cadere quelle accuse di negligenza? Non ha senso. Ti spedisce addosso due compressori stradali, poi, di colpo, fermi tutti.» «Invece di essere coinvolta in quei procedimenti legali, mi trovo accusata di omicidio. Che splendida alternativa.» «Ma capisci anche tu che non ha senso! Voss probabilmente ha tirato fuori un sacco di soldi per mettere in moto quelle azioni legali. Non le a-
vrebbe ritirate tanto facilmente. A meno che non tema qualche possibile conseguenza. Magari di essere a sua volta citato in giudizio. Stavi preparando una mossa del genere?» «Ne ho discusso con il mio legale, però lui mi ha dissuasa.» «Allora perché Voss ha rinunciato a quelle cause?» Anche per Abby tutto ciò non aveva il minimo senso. Mentre si dirigeva in macchina verso casa, dopo aver lasciato l'abitazione di Vivian a Melrose, Abby continuò a rimuginare su quella storia. Era pomeriggio inoltrato e il traffico sulla statale 1 era intenso come al solito. Benché l'aria fosse frizzante, tenne il finestrino aperto. Il puzzo degli organi interni del maiale in putrefazione aleggiava ancora nella sua vettura. Lei temeva che non sarebbe mai sparito del tutto. Avrebbe ammorbato per sempre l'abitacolo, a perenne ricordo della rabbia di Victor Voss. Quando si trovò davanti il Tobin Bridge, dove Lawrence Kunstler aveva deciso di porre fine alla sua vita, rallentò. Forse fu un impulso morboso che la indusse, mentre percorreva il ponte, a guardare di lato, verso l'acqua. Sotto il cielo cupo, il fiume sembrava nero, la superficie increspata dal vento. Lei non avrebbe mai scelto di morire affogata. Il panico, braccia e gambe che si dibattevano, la gola che si chiudeva contro la pressione dell'acqua gelida. Si chiese se Kunstler fosse rimasto cosciente dopo l'impatto con l'acqua. Se avesse lottato per contrastare la corrente. Pensò anche ad Aaron. Due medici, due suicidi. Aveva dimenticato di parlare di Kunstler a Vivian. Se era morto soltanto sei anni prima, lei poteva saperne qualcosa. Lo sguardo di Abby era così incollato all'acqua che non notò che l'auto davanti a lei stava rallentando, che si era formata una coda all'altezza del casello. Quando tornò a rivolgere gli occhi alla strada, vide che la macchina davanti era completamente ferma. Inchiodò. E, subito dopo, sussultò per un colpo sordo proveniente da dietro. Guardò nello specchietto retrovisore e vide la donna nell'auto che la seguiva scuotere la testa in un gesto di scusa. Il traffico sul ponte era bloccato, così Abby scese dalla macchina e corse a controllare il danno. Anche l'altra donna smontò dalla propria auto. Rimase nervosamente ad aspettare mentre Abby ispezionava il paraurti. «Sembra tutto a posto», concluse. «Nessun danno.» «Mi dispiace, temo di essermi distratta.» Abby guardò l'auto della donna e vide che anche il suo paraurti anteriore sembrava illeso. «È imbarazzante», continuò la donna. «Ero così occupata a tener d'oc-
chio il muso della vettura che mi tallonava.» Indicò un furgoncino marrone fermo dietro la sua auto. «E poi sono io che vado a sbattere contro quella davanti.» Risuonò un clacson. Il traffico aveva ripreso a muoversi. Abby risalì in macchina e ripartì. Mentre superava il casello, non poté fare a meno di lanciarsi un'ultima occhiata alle spalle, al ponte da cui Lawrence Kunstler aveva fatto quel fatale salto. Si conoscevano, Aaron e Kunstler. Lavoravano assieme. Hanno scritto assieme quell'articolo. Quel pensiero continuò a ronzarle nel cervello mentre percorreva le strade che portavano a Cambridge. Due medici della stessa équipe di trapianti. E tutt'e due si erano suicidati. Si chiese se Kunstler avesse lasciato una vedova. E se Mrs Kunstler fosse rimasta tanto sconvolta quanto Elaine Levi. Girò attorno agli edifici dell'università di Harvard. Mentre svoltava in Brattle Street, lanciò un'occhiata nello specchietto retrovisore. Dietro di lei c'era un furgoncino marrone... che stava svoltando in Brattle Street. Percorse un altro isolato, superò la Willard Street e sbirciò di nuovo nello specchietto. Il furgone le stava ancora dietro. Era lo stesso che si trovava sul ponte? Al momento lei lo aveva soltanto guardato di sfuggita e l'unica cosa che ricordava era il colore. Non riusciva a capire: perché il semplice fatto di rivederlo lì suscitava in lei un tale senso di disagio? Forse dipendeva da quel ponte, dalla visione dell'acqua nera. Dal ricordo della morte di Kunstler. Della morte di Aaron. D'impulso svoltò a sinistra, verso Mercer. Il furgone la imitò. Lei girò di nuovo a sinistra, su Camden, e poi a destra, verso Auburn. Continuava a guardare nello specchietto retrovisore, aspettando, dando quasi per scontato, che il furgone riapparisse. Soltanto allorché raggiunse di nuovo Brattle Street senza avere più alle calcagna l'altro automezzo, si concesse un sospiro di sollievo. Che donnicciola nervosa sono, si disse. Puntò diritto verso casa e infilò il vialetto. Mark non era ancora tornato. Non ne fu sorpresa perché, nonostante quel cielo che prometteva pioggia, lui aveva deciso di uscire in mare con la sua Gimme Shelter per sfidare l'imbarcazione di Archer. Il cattivo tempo, le aveva detto, non era un motivo valido per non prendere il largo e, se proprio non si fosse scatenato un fortunale, quella gara ci sarebbe stata. Entrò in casa. All'interno regnava l'oscurità, appena rotta dalla grigia e
acquosa luce pomeridiana che entrava dalle finestre. Si avvicinò alla lampada da tavolo e stava per accenderla quando sulla Brewster Street udì il sordo brontolio di un'auto. Guardò fuori della finestra. Un furgoncino marrone stava passando davanti alla casa. Nel superare il vialetto rallentò al massimo, come se il guidatore stesse fissando attentamente la macchina di Abby. Devo chiudere a chiave le porte. Sbarrarle. Si lanciò verso la porta d'ingresso, fece scattare il paletto di sicurezza e mise la catena. La porta posteriore. Era chiusa a chiave? Corse lungo il corridoio e attraversò la cucina. Nessun paletto di sicurezza, soltanto una semplice serratura. Afferrò una sedia e l'appoggiò alla porta, incastrandola sotto la maniglia. Tornò di corsa in soggiorno e, in piedi dietro la tenda, sbirciò fuori. Il furgone se n'era andato. Guardò in entrambe le direzioni, sporgendosi per vedere fino all'angolo della strada, ma scorse soltanto una carreggiata deserta, resa viscida da una fine pioggerella. Lasciò le tende aperte e la luce spenta. Seduta nel soggiorno immerso nel buio, rimase a guardare fuori della finestra in attesa che il furgone riapparisse. Si chiedeva se non fosse il caso di telefonare alla polizia. Per denunciare che cosa? Nessuno l'aveva minacciata. Rimase lì seduta per quasi un'ora, a tener d'occhio la strada, sperando che Mark tornasse a casa. Il furgone non si faceva vedere. E neppure Mark. Torna a casa. Scendi da quella tua dannata barca e torna a casa. Lo immaginò al largo nella baia, con le vele che gli schioccavano sulla testa, il boma che ondeggiava nel vento. E l'acqua, torbida e ribollente sotto il cielo grigio. Com'era il fiume. Il fiume in cui era morto Kunstler. Afferrò il telefono e chiamò Vivian. Attraverso il ricevitore le arrivò il fracasso di casa Chao, un vivace scoppio di rumori. Tra il rimbombo di risate e di urla in cantonese, Vivian le disse: «Non riesco a sentirti bene. Puoi ripetere?» «Nell'équipe dei trapianti c'era un altro medico, che è morto sei anni fa. Lo conoscevi?» Vivian rispose urlando. «Sì. Ma non mi pare che sia passato così tanto tempo. Direi piuttosto quattro anni.» «Hai idea del perché si sia suicidato?» «Non fu un suicidio.»
«Che cosa?» «Senti, puoi rimanere in linea? Cambio apparecchio.» Abby sentì il ricevitore che veniva appoggiato rumorosamente e dovette sopportare un'attesa che le parve interminabile prima che Vivian arrivasse all'altro telefono. «Va bene, nonna, adesso puoi riattaccare!» urlò Vivian e il frastuono delle voci cantonesi sparì di colpo. «Perché hai detto che non si trattò di un suicidio?» chiese Abby. «Fu un incidente. La sua caldaia era difettosa e il monossido di carbonio si diffuse per la casa. Morirono anche sua moglie e una bimba piccola.» «Aspetta. Io sto parlando di un tale che si chiamava Lawrence Kunstler.» «Non conosco nessun Kunstler. Deve essere successo prima che arrivassi al Bayside...» «Allora tu di chi stai parlando?» «Di un anestesista. Quello che c'era prima che assumessero Zwick. Il suo nome mi sfugge... Ah, sì, Hennessy. Si chiamava così.» «Faceva parte dell'équipe dei trapianti?» «Sì. Era giovane, appena assunto. Non c'è rimasto molto a lungo. Ricordo che, all'epoca in cui accadde l'incidente, stava meditando di trasferirsi a ovest.» «Sei sicura che quella morte sia stata accidentale?» «Che cos'altro potrebbe essere?» Abby guardò la strada deserta e non disse nulla. «Ehi, c'è qualcosa che non va?» «Questo pomeriggio qualcuno mi ha seguita. Un furgone.» «Stai scherzando.» «Mark non è ancora tornato a casa. È già buio e a quest'ora dovrebbe essere qui. Continuo a pensare ad Aaron. E a Lawrence Kunstler, che si è buttato dal Tobin Bridge. E adesso tu mi parli di Hennessy. Siamo a tre, Vivian.» «Due suicidi e un incidente.» «Più di quanto ci si potrebbe aspettare, in un unico ospedale.» «Un picco statistico? O c'è da pensare che il lavoro al Bayside abbia qualcosa di molto, molto deprimente?» La battuta di Vivian era moscia e lei lo sapeva. Dopo qualche istante di silenzio chiese: «Sei davvero convinta che qualcuno ti stesse pedinando?» «Tu che cosa mi hai detto? La tua non è paranoia. Qualcuno ce l'ha davvero con te.»
«Mi stavo riferendo a Victor Voss. O a Parr. Hanno validi motivi per tormentarti. Ma seguirti con un furgone! E che cos'ha questo a che vedere con Aaron o gli altri due tizi?» «Non lo so.» Abby si rannicchiò sulla sedia, per scaldarsi. Per proteggersi. «Ma comincio ad avere paura. Continuo a pensare ad Aaron. Ti ho riferito quanto mi ha detto quel poliziotto... che la morte di Aaron potrebbe non essere un suicidio.» «Ha qualche prova?» «Se anche le avesse, non verrebbe certo a raccontarle a me.» «Potrebbe averne parlato con Elaine.» Ma sì, la vedova. L'unica che avrebbe voluto sapere, che avrebbe preteso di conoscere la verità. Dopo aver finito di parlare con Vivian, cercò il numero di telefono di Elaine Levi. Poi si sedette e chiamò a raccolta il proprio coraggio per fare quella telefonata. Fuori era ormai buio pesto e l'acquerugiola si era trasformata in una pioggia battente. Mark non era ancora tornato. Abby tirò le tende e accese le lampade. Tutte. Aveva bisogno di luce e di calore. Prese il telefono e compose il numero di Elaine. Ci furono quattro squilli. Lei si schiarì la gola, preparandosi a lasciare un messaggio sull'inevitabile segreteria telefonica. Invece udì tre suoni lancinanti, seguiti da un messaggio registrato: «Il numero da voi chiamato è inesistente. Vi preghiamo di controllare sull'elenco e rifare il numero...» Lo rifece, verificando puntigliosamente ogni cifra prima di schiacciare il pulsante. Quattro squilli furono seguiti dagli stessi suoni lancinanti. «Il numero da voi chiamato è inesistente...» Abbassò il ricevitore e fissò l'apparecchio come se l'avesse tradita. Perché Elaine aveva cambiato numero? A chi stava cercando di sfuggire? All'esterno della casa, un'auto sguazzò nella pioggia. Abby corse alla finestra e sbirciò attraverso le tende. Una BMW stava risalendo il vialetto. Innalzò una silenziosa preghiera di ringraziamento. Mark era tornato a casa. 16. Mark si versò un altro bicchiere di vino. «Sì, li conoscevo entrambi», disse. «Larry Kunstler meglio di Hennessy. Quest'ultimo non ha lavorato
con noi a lungo. Larry invece è stato uno di quelli che mi hanno reclutato nell'équipe dei trapianti, subito dopo la mia entrata al Bayside. Era un tipo in gamba.» Appoggiò la bottiglia di vino sul tavolo. «Proprio in gamba.» Accanto a loro passò il maître che faceva strada a una donna vestita in modo vistoso; la nuova arrivata si fermò al tavolo vicino, dove fu accolta da un rumoroso coro di: «Finalmente ci sei, tesoro!» e: «Che amore di vestito!» In quel particolare momento, quella vociante allegria parve ad Abby volgare, quasi rivoltante. Desiderò di essere rimasta a casa con Mark. Potevano trascorrere assieme pochissime serate e non avevano neppure celebrato nel modo migliore il loro fidanzamento. Mark aveva ordinato il vino, aveva brindato e adesso stava finendo la bottiglia... cosa che in quei giorni sembrava fare sempre più spesso. Abby l'osservò mentre versava le ultime gocce e pensò: Lo stress dei miei problemi con la giustizia comincia a pesare anche su Mark. «Perché non me ne hai mai parlato?» chiese. «Non ce n'è stata l'occasione.» «Secondo me qualcuno avrebbe dovuto dirmelo. Soprattutto dopo la morte di Aaron. L'équipe perde tre colleghi in sei anni e nessuno apre bocca. È come se aveste paura di parlarne.» «È un argomento molto deprimente da affrontare. Cerchiamo di evitarlo, specialmente davanti a Marilee. Lei conosceva la moglie di Hennessy. Aveva persino organizzato la festa in occasione della nascita della bambina.» «Quella che è morta?» Mark annuì. «Fu uno shock. Un'intera famiglia, finita così. Quando apprese la notizia, Marilee ebbe una crisi nervosa.» «Si trattò di un incidente?» «Avevano comprato la casa pochi mesi prima, senza mai avere la possibilità di sostituire la vecchia caldaia. Sì, fu un incidente.» «Ma la morte di Kunstler no.» Mark sospirò. «No. Quella di Larry non fu accidentale.» «Secondo te, perché l'avrebbe fatto?» «E tu sai dirmi perché Aaron si è ucciso? Qual è il motivo che spinge al suicidio? Possiamo ipotizzare una mezza dozzina di cause, ma la verità, Abby, è che non lo sappiamo. Non lo sapremo mai. E non lo capiremo mai. Quando pensiamo al futuro ci diciamo: La situazione migliorerà. Migliora sempre. In qualche modo, Larry aveva smarrito questa visione delle cose, non riusciva più a immaginarle in prospettiva. È allora che si crolla,
quando non si riesce più a intravedere il futuro.» Bevve un sorso di vino, poi un altro, ma sembrava non ricavarne piacere. E non pareva gustare neppure il cibo. Rinunciarono al dessert e uscirono dal ristorante, silenziosi e depressi. Mark guidò attraverso una nebbia che diventava sempre più fitta, rotta a tratti da scrosci di pioggia. Il fruscio dei tergicristalli sopperiva alla mancanza di conversazione. È allora che si crolla, aveva detto Mark, quando non si riesce più a intravedere il futuro. Fissando la nebbia, Abby pensò: Ci sto arrivando, a questo punto. Non riesco più a vedere. Non riesco a immaginare che cosa stia per accadermi. O per accadere a entrambi. Mark sussurrò: «Voglio mostrarti qualcosa, Abby. Voglio sapere che cosa ne pensi. Forse mi crederai soltanto pazzo. Oppure l'idea ti piacerà da morire». «Quale idea?» «Qualcosa che sogno da tempo. Da molto tempo, ormai.» Si diressero a nord, uscirono da Boston e oltrepassarono Revere, Lynn e Swampscott. Arrivati alla marina di Marblehead lui parcheggiò e disse: «Quello cui ti ho accennato è proprio qui. Alla fine del molo». Quello era uno yacht. Abby, tremante di freddo e sconcertata, aspettò sulla banchina, mentre Mark camminava avanti e indietro lungo l'imbarcazione, parlando con voce eccitata, ben diversamente da come s'era comportato durante la serata, e gesticolando per l'entusiasmo. «È uno yacht da crociera», esclamò. «Quattordici metri, completo di tutto, di ogni cosa di cui si possa aver bisogno. Vele nuove di zecca, equipaggiamento nuovo. Be', questa imbarcazione non è mai stata praticamente usata. Può portarci dovunque vorremo. Nei Caraibi, nel Pacifico. Abby, stai guardando la libertà!» Si fermò sulla banchina, le braccia alzate come in un gesto di saluto. «Libertà assoluta!» Lei scosse la testa. «Non capisco.» «È un modo per venirne fuori. Al diavolo la città, al diavolo l'ospedale. Acquistiamo questo yacht, poi prendiamo il largo e andiamo via.» «Andiamo dove?» «In qualsiasi posto.» «Non voglio andare in qualsiasi posto.» «Non c'è motivo per rimanere. Non adesso.» «Sì, che c'è. Per me c'è. Non posso semplicemente fare i bagagli e parti-
re! Mi mancano tre anni, Mark, tre anni di specialità da portare a termine o non sarò mai un chirurgo.» «Io sono un chirurgo, Abby, sono quello che tu vuoi diventare. Quello che credi di voler diventare. E, lasciatelo dire, non ne vale la pena.» «Ho lavorato sodo. Non intendo mollare proprio adesso.» «E io, allora?» Abby lo fissò e si rese conto che, naturalmente, tutto quello riguardava soltanto lui. L'imbarcazione, la fuga verso la libertà. Quell'uomo che stava per sposarsi e che d'un tratto avvertiva l'impulso di fuggire da casa. Era una metafora che lui forse non comprendeva neppure. «Io lo voglio, Abby», esclamò Mark. Le si avvicinò, con gli occhi lucidi. Febbrili. «Ho fatto un'offerta per lo yacht. Per questo sono tornato a casa tanto tardi. Avevo un appuntamento con il venditore.» «Hai fatto un'offerta senza dirmelo? Senza neppure avvisarmi?» «So che sembra una follia...» «Come possiamo permetterci una cosa del genere? Io sono piena di debiti! Ci vorranno anni prima che riesca a restituire i soldi avuti in prestito per studiare. E tu compri una barca?» «Possiamo fare un mutuo. Sarebbe come acquistare una seconda casa.» «Questa non è una casa.» «È pur sempre un investimento.» «Non ci investirei mai il mio denaro.» «Non sto impegnando il tuo denaro.» Abby fece un passo indietro e lo guardò. «Hai ragione», disse con voce sorda. «Non è il mio denaro.» «Abby.» Emise una specie di gemito. «Cristo, Abby...» La pioggia riprese a cadere e le gocce, gelide e paralizzanti, rigarono il volto di Abby. Lei ritornò all'auto e vi salì. Anche Mark rimontò in macchina. Per qualche istante, nessuno dei due parlò. L'unico rumore era quello della pioggia sul tettuccio. Mark disse, piano: «Ritirerò l'offerta». «Non è questo che voglio.» «Che cos'è che vuoi?» «Pensavo che tra noi ci dovesse essere una maggiore condivisione. Non parlo di soldi. Di quelli non m'importa. Ciò che mi ferisce è il fatto che tu abbia accennato al tuo denaro. È così che andranno le cose? Roba tua o mia? Dobbiamo interpellare fin d'ora gli avvocati e stendere un contratto prematrimoniale? Preparare la divisione dei mobili e dei bambini?»
«Non capisci», esclamò Mark e, nella sua voce, Abby avvertì una strana e inattesa nota di disperazione. Poi lui accese il motore. Fecero metà del tragitto verso casa in assoluto silenzio. D'un tratto, Abby disse: «Forse dovremmo ripensare al nostro fidanzamento. Forse il matrimonio non è proprio ciò che vuoi, Mark». «E tu, lo vuoi?» Abby guardò fuori del finestrino e sospirò. «Non lo so», disse in un soffio. «Non lo so più.» Era la verità. Non lo sapeva. TRAGICA FINE DI UNA FAMIGLIA Durante la notte, mentre il dottor Alan Hennessy e i suoi familiari dormivano, un assassino saliva strisciando i gradini della cantina. Il letale monossido di carbonio, fuoriuscito da una caldaia difettosa, è responsabile del decesso, il primo giorno dell'anno, del quarantaquattrenne Hennessy, di sua moglie Gail, trentenne, e della loro figlioletta Linda di appena sei mesi. I corpi sono stati scoperti nel tardo pomeriggio da alcuni amici che erano stati precedentemente invitati a cena... Riposizionò la microfiche e, sullo schermo, apparvero le fotografie di Hennessy e di sua moglie, la faccia di lui grassoccia e seria, quella di lei sorpresa a metà di un sorriso. Della piccola non c'erano foto. Forse il Globe aveva pensato che, in ogni caso, i bambini di sei mesi si assomigliavano tutti. Abby passò ad altre microfiches che risalivano a tre anni e mezzo dopo la morte degli Hennessy. Trovò l'articolo che stava cercando sulla prima pagina dell'inserto cittadino. IL CADAVERE DEL MEDICO SCOMPARSO RINVENUTO A INNER HARBOR Un corpo ripescato martedì dalle acque del porto di Boston è stato identificato oggi come quello del dottor Lawrence Kunstler, un chirurgo toracico locale. La scorsa settimana, l'auto del dottor Kunstler era stata trovata abbandonata nel viottolo che scende verso il pilone sinistro del Tobin Bridge. La polizia ritiene che si tratti di suicidio. Fino-
ra però non si è fatto avanti alcun testimone e le indagini rimangono perciò aperte... Centrò la fotografia di Kunstler sullo schermo del lettore di microfilm. In una posa abbastanza formale, con tanto di camice bianco e stetoscopio, il dottor Kunstler guardava direttamente la macchina fotografica. E adesso guardava direttamente Abby. Perché l'ha fatto? Perché è saltato dal ponte? si chiese Abby. E non riuscì a trattenersi dal formulare un altro pensiero: Ma l'ha fatto davvero? L'unico vantaggio dell'essere stata esonerata dal lavoro in reparto consisteva nella possibilità di stare fuori dell'ospedale per l'intero pomeriggio senza che nessuno al Bayside lo notasse, o se ne preoccupasse. Perciò, quando uscì dalla biblioteca pubblica di Boston e si trovò nel trambusto di Copley Square, Abby provò una sensazione di vuoto e al contempo di sollievo all'idea di non dover tornare in ospedale. Quel pomeriggio era tutto per lei. Decise di raggiungere in macchina la casa di Elaine. Negli ultimi giorni aveva chiesto in giro il suo nuovo numero di telefono, ma sia Marilee Archer sia le altre mogli dei trapiantisti dell'équipe ignoravano addirittura che Elaine avesse cambiato numero. Con i volti di Hennessy e di Kunstler ancora dolorosamente impressi nella mente, Abby si diresse a ovest sulla statale 9, in direzione Newton. Non che un colloquio con Elaine fosse in cima alla lista dei suoi desideri, ma in quegli ultimi giorni, ogni volta che pensava a Kunstler e Hennessy, non poteva fare a meno di ricordare Aaron. Rammentava il giorno del suo funerale, e come nessuno avesse accennato, anche soltanto di sfuggita, alle due morti precedenti. Eppure sarebbe stato logico farvi riferimento, rievocarle. Qualcuno avrebbe osservato: E con lui adesso sono in tre oppure: Perché l'ospedale di Bayside è così sfortunato? o anche: Vi pare che possa esserci un fattore comune? Invece nessuno ne aveva parlato. Neanche Elaine, che doveva essere al corrente delle morti di Kunstler e di Hennessy. Neppure Mark. Se mi ha tenuto nascosto questo, che cos'altro non mi ha detto? Svoltò nel vialetto della casa di Elaine e per qualche istante rimase immobile, con la testa tra le mani, cercando di scrollarsi di dosso la depressione. La stanchezza, però, non l'abbandonava. Mi sta crollando tutto addosso, pensò. Il mio lavoro. E adesso sto perdendo Mark. La cosa peggio-
re è che non ho idea del perché ciò accada. Dalla sera in cui aveva portato il discorso su Kunstler e Hennessy, tra Mark e lei era cambiato tutto. Vivevano nella stessa casa e dormivano nello stesso letto, ma i loro rapporti erano diventati puramente meccanici. Come il sesso. Al buio, con gli occhi chiusi, era come se Abby stesse facendo l'amore con uno sconosciuto. Alzò gli occhi verso la casa. Forse Elaine sa qualcosa, pensò. Scese dalla macchina e salì gli scalini verso la porta d'ingresso. Arrivata in cima, notò i giornali - due - ancora arrotolati, buttati sul pavimento della veranda. Risalivano a una settimana prima e la carta era già ingiallita. Perché Elaine non li aveva raccolti? Suonò il campanello. Non ricevendo risposta, provò a bussare, poi suonò di nuovo. Più e più volte. Riusciva a sentire il trillo riecheggiare all'interno della casa, seguito dal silenzio. Nessun rumore di passi, nessuna voce. Tornò a guardare i due giornali e capì che qualcosa non andava. La porta d'ingresso era chiusa a chiave, così Abby lasciò la veranda e girò attorno alla casa, fino al giardino sul retro. Un sentiero lastricato di pietre correva tra variegate aiuole di azalee e ortensie ben curate. Il prato sembrava rasato di recente, le siepi potate, ma il patio appariva stranamente vuoto. D'un tratto, Abby si ricordò dei mobili, del tavolino con l'ombrellone e delle sedie che aveva intravisto il pomeriggio delle esequie. Non c'erano più. Anche la porta della cucina era chiusa a chiave, ma, appena oltrepassato il patio, c'era una vetrata scorrevole che non era stata bloccata. Abby diede un leggero colpo e l'aprì. Chiamò: «Elaine?» ed entrò. La stanza era vuota. Mobili, tappeti... tutto sparito, persino i quadri. Sconcertata, Abby fissò a bocca aperta le pareti spoglie, il pavimento dove il tappeto mancante aveva lasciato un rettangolo più scuro sul legno sbiadito dal sole. Si diresse verso il soggiorno e i suoi passi riecheggiarono nei locali vuoti. La casa era stata accuratamente spazzata e non c'era più neanche ano spillo, a parte alcuni opuscoli pubblicitari nella cassetta della posta applicata alla porta d'ingresso. Si recò in cucina. Anche il frigorifero era vuoto; era stato accuratamente lavato e puzzava di disinfettante. Il telefono a parete era muto. Ritornata all'aperto, Abby si fermò nel vialetto, avvertendo un'acuta sensazione di disorientamento. Era stata in quella casa soltanto due settimane prima, si era seduta sul divano del salotto, aveva mangiato qualche tartina e aveva visto le fotografie della famiglia Levi sul caminetto. Si chiedeva se
non avesse sognato tutto. Come intontita, risalì in macchina e fece marcia indietro nel vialetto. Prestò scarsa attenzione alla strada; continuava a riflettere sulla strana scomparsa di Elaine. Dov'era andata? Questo brusco sradicamento della sua vita dopo la morte di Aaron non aveva nulla di logico. Piuttosto, sembrava un'azione dettata dal panico. Provando una subitanea sensazione di disagio, guardò nello specchietto retrovisore. Aveva preso l'abitudine di farlo dal sabato precedente, quando aveva notato per la prima volta il furgoncino marrone. Dietro di lei c'era una Volvo verde scuro. Non l'aveva già vista parcheggiata nei pressi della casa di Elaine? Non ne era sicura. Non aveva prestato molta attenzione. La Volvo fece lampeggiare i fari. Abby accelerò. Anche la Volvo. Abby svoltò a destra, immettendosi in un'arteria più trafficata. Davanti a sé vide una distesa di distributori di benzina e di piccoli supermarket, che segnalavano l'inizio del centro cittadino. Testimoni. Molti testimoni. Eppure la Volvo le stava ancora alle calcagna, sempre lampeggiando con i fari. Abby ne aveva abbastanza di essere pedinata, di sentirsi attanagliata dalla paura. Al diavolo. Se Voss voleva tormentarla, lei avrebbe scoperto le carte e l'avrebbe affrontato. Svoltò nel parcheggio di un centro commerciale. La Volvo la seguì. Una rapida occhiata fece capire ad Abby che in quel parcheggio c'era un mucchio di gente, clienti che spingevano i carrelli della spesa, guidatori che cercavano un posto per la propria auto. Era il luogo giusto. Inchiodò. Con uno stridio, la Volvo si bloccò a pochi centimetri dal paraurti posteriore di Abby. Lei si lanciò fuori della macchina e corse verso la Volvo. Picchiò rabbiosamente contro il finestrino del guidatore. «Lo abbassi, maledizione! Lo apra!» L'uomo al posto di guida tirò giù il vetro e la guardò, poi si tolse gli occhiali da sole. «Dottoressa DiMatteo?» disse Bernard Katzka. «Mi sembrava proprio che fosse lei.» «Perché mi stava seguendo?» «L'ho vista allontanarsi dalla casa.» «No, l'altra volta. Perché l'altro giorno mi ha seguita?»
«Quando?» «Sabato. Con quel furgoncino marrone.» Lui scosse la testa. «Non so nulla di un furgone.» Abby fece un passo indietro. «Come non detto. Però la smetta di pedinarmi, va bene?» «Stavo cercando ďindurla a fermarsi. Non ha notato che lampeggiavo?» «Non sapevo che fosse lei.» «Le dispiacerebbe dirmi che cosa stava facendo in casa del dottor Levi?» «C'ero andata per salutare Elaine. Non sapevo che si fosse trasferita.» «Perché non parcheggia qui, da qualche parte? Vorrei parlarle. O intende ancora rifiutarsi di rispondere alle mie domande?» «Dipende da che cosa vuole chiedermi.» «Si tratta del dottor Levi.» «Parleremo di questo e basta? Soltanto di Aaron?» Katzka annuì. Abby meditò. E decise che le domande potevano andare nei due sensi, che anche dal taciturno detective Katzka era possibile ricavare qualche informazione. Guardò il centro commerciale. «A quanto pare lassù c'è un bar. Perché non ci beviamo una tazza di caffè?» Poliziotti e pasticcini. Quell'abbinamento era diventato uno spunto per barzellette cittadine, rafforzato, nell'opinione pubblica, da ogni agente sovrappeso, da ogni macchina della polizia parcheggiata davanti a un bar. Ma Bernard Katzka non sembrava un amante dei dolci; ordinò soltanto una tazza di caffè nero che sorseggiò senza apparente soddisfazione. Ad Abby, Katzka non sembrava il tipo d'uomo che indulgesse in cose piacevoli, peccaminose o anche soltanto inutili. La sua prima domanda andò subito al punto. «Perché si è recata in quella casa?» «Volevo vedere Elaine, parlarle.» «Di che cosa?» «Di una questione personale.» «Avevo avuto l'impressione che voi due vi conosceste appena.» «Gliel'ha detto Elaine?» Ignorò la sua domanda. «Non definirebbe anche lei in questi termini il suo rapporto con Mrs Levi?» Abby si lasciò sfuggire un sospiro. «Sì, penso di sì. Ci conoscevamo
tramite Aaron, ecco.» «Allora perché è andata a trovarla?» Lei inspirò profondamente e si rese conto che, con ogni probabilità, stava rivelando al detective il proprio nervosismo. «Ultimamente mi sono accaduti alcuni fatti strani. Volevo parlarne con Elaine.» «Quali fatti?» «Sabato scorso qualcuno mi ha seguito. Un furgoncino marrone. L'avevo notato sul Tobin Bridge e l'ho visto di nuovo quando sono arrivata a casa.» «Nient'altro?» «Non le sembra una cosa abbastanza sconcertante?» Lo fissò. «Mi sono spaventata.» Lui la scrutò in silenzio, come se stesse cercando di decidere se era davvero paura quella che le leggeva in volto. «Ma questo che cos'ha a che vedere con Mrs Levi?» «È stato lei, detective, a farmi riflettere su Aaron. Se davvero si sia trattato di un suicidio, intendo. Poi sono venuta a sapere che altri due medici del Bayside erano morti.» L'espressione improvvisamente accigliata di Katzka le fece capire che quella per lui era una novità. «Sei anni e mezzo fa», continuò Abby, «un certo dottor Lawrence Kunstler, un chirurgo toracico, si buttò dal Tobin Bridge.» Katzka non disse nulla, ma, con un movimento quasi impercettibile, si portò in avanti sulla sedia. «Poi, tre anni fa, toccò a un anestesista», proseguì lei. «Un certo dottor Hennessy. Lui, sua moglie e la figlioletta morirono intossicati dal monossido di carbonio. Fu considerato un incidente. Una caldaia difettosa.» «Purtroppo tragedie di questo genere capitano ogni inverno.» «E infine c'è Aaron. Con lui fanno tre. Tutt'e tre lavoravano nell'équipe dei trapianti. A lei non pare una coincidenza terribilmente sfortunata?» «Che cosa intende insinuare? Che qualcuno stia decimando l'équipe dei trapianti? Uccidendo i suoi componenti a uno a uno?» «Sto soltanto evidenziando una certa anomalia. Il poliziotto è lei, spetta a lei indagare.» Katzka si appoggiò alla sedia. «Come mai si è trovata coinvolta in questa storia?» «Il mio fidanzato fa parte dell'équipe. Mark non l'ammette, però io credo che sia preoccupato. Mi pare che tutti i medici dell'équipe lo siano e che si stiano chiedendo chi sarà il prossimo. Ma non ne parlano mai. Sa, come fa
la gente in attesa d'imbarcarsi per un volo: non accenna mai ai disastri aerei...» «Quindi lei si preoccupa per la sicurezza del suo fidanzato?» Abby si limitò ad annuire, tacendo la verità più importante: ogni sua azione mirava a far tornare il suo rapporto con Mark com'era prima. Sotto ogni aspetto. Ignorava che cosa fosse accaduto tra loro, ma sapeva che la loro relazione si stava deteriorando. E tutto era cominciato la sera in cui lei aveva menzionato Kunstler e Hennessy. Decise comunque di non rivelare nulla a Katzka, perché si trattava di semplici sensazioni. Katzka era il tipo d'uomo che lavorava su indizi più concreti. Era comunque evidente che lui si aspettava di più. Quando Abby rimase in silenzio, le chiese: «C'è qualcos'altro che vuole dirmi? Su qualunque altra cosa?» Sta alludendo a Mary Allen, pensò Abby con una fitta di panico. Guardandolo, avvertì il desiderio travolgente di raccontargli tutto. Lì, subito. Invece distolse rapidamente gli occhi e replicò facendo a sua volta una domanda. «Perché stava controllando la casa di Elaine?» chiese. «Lo stava facendo, vero?» «Parlavo con l'inquilino della casa accanto. Quando sono uscito, ho visto lei sul vialetto.» «Sta interrogando i vicini di Elaine?» «È la prassi.» «Non ne sono convinta.» Quasi controvoglia, sollevò lo sguardo a incontrare quello del poliziotto. Gli occhi grigi di Katzka erano impenetrabili. «Perché sta ancora indagando su un suicidio?» «La vedova ha fatto i bagagli e se n'è andata praticamente nel giro di una notte, senza lasciare il nuovo indirizzo. È un comportamento inconsueto.» «Con questo non intende dire che Elaine sia colpevole di qualcosa, vero?» «No. Penso che il motivo sia la paura.» «Di che cosa?» «Lei lo sa, dottoressa DiMatteo?» C'era qualcosa nella silenziosa intensità degli occhi del detective che la teneva avvinta, impedendole di distogliere lo sguardo. Provò un breve e assolutamente inatteso fremito di attrazione, pur non riuscendo a capire perché proprio quell'uomo, tra tanti, dovesse ispirarle un simile sen-
timento. «No», rispose infine. «Non ho idea di che cosa abbia indotto Elaine a fuggire.» «Ma forse può aiutarmi a trovare una risposta a un'altra domanda.» «Quale?» «Come aveva fatto Aaron Levi a diventare tanto ricco?» Abby scosse la testa. «Non era particolarmente facoltoso, per quanto ne so. Un cardiologo al culmine della carriera guadagna più o meno duecentomila dollari all'anno. E lui spendeva molto per mantenere al college i due figli.» «Era ricco di famiglia?» «Vuol sapere se ha avuto un'eredità?» Abby si strinse nelle spalle. «Ho sentito dire che il padre di Aaron faceva il meccanico.» Katzka si appoggiò all'indietro, con aria meditabonda. Non stava più guardando Abby, bensì la propria tazza di caffè. Quell'uomo aveva una capacità di concentrazione che lei trovava sconcertante. Era capace di lasciar cadere di botto un discorso, proprio come in quel momento, facendola sentire... abbandonata a se stessa. «Detective, di quale livello di ricchezza stiamo parlando?» Lui tornò a guardarla. «Tre milioni di dollari.» Sbalordita, Abby non riuscì a proferire parola. «Dopo la scomparsa di Mrs Levi», continuò Katzka, «ho pensato di controllare la situazione finanziaria della famiglia. Perciò mi sono rivolto al loro consulente fiscale. Costui mi ha detto che, subito dopo la morte del dottor Levi, Elaine aveva scoperto l'esistenza di un conto corrente in una banca delle isole Cayman. Un conto intestato al marito di cui lei ignorava totalmente l'esistenza. Ha chiesto al consulente fiscale come mettere le mani sul denaro, poi, senza avvisare nessuno, ha lasciato la città.» Katzka rivolse ad Abby un'occhiata interrogativa. «Non ho la minima idea di come Aaron sia riuscito ad accumulare tanti soldi», mormorò lei. «Neanche il suo consulente fiscale ce l'ha.» Rimasero in silenzio per qualche istante. Abby fece per bere il suo caffè e si accorse che era diventato freddo. Come lei. «Lei sa dove si trovi Elaine?» bisbigliò. «Abbiamo un'idea.» «Può rivelarmela?» Il detective scosse la testa. «Per il momento, dottoressa DiMatteo», ri-
batté, «non credo che Mrs Levi voglia essere rintracciata.» Tre milioni di dollari. Come aveva fatto Aaron Levi ad accumulare tre milioni di dollari? Per tutto il tragitto fino a casa, Abby continuò a rimuginare su quella domanda. Non riusciva a capire in quale modo un cardiologo potesse diventare tanto ricco. Non con due figlioli che frequentavano università private e una moglie dai gusti raffinati in fatto di oggetti antichi. E perche aveva tenuto nascosta la sua ricchezza? Un conto alle isole Cayman, di solito, si apre quando ci si vuole sottrarre al fisco. Ma neanche Elaine era stata messa al corrente di quel conto, e ne era stata informata soltanto dopo la morte di Aaron. Chissà com'era rimasta scioccata, mentre esaminava le carte del defunto marito, nello scoprire che lui le aveva tenuto nascosta una simile fortuna. Tre milioni di dollari. Imboccò il vialetto di casa e si rese conto che stava scrutando i dintorni alla ricerca di un furgoncino marrone. Stava diventando un'abitudine, quella rapida occhiata da un'estremità all'altra della strada. Varcò la porta d'ingresso e si trovò tra i piedi il solito mucchio di posta pomeridiana. In gran parte, si trattava di riviste che riguardavano la sua professione, in doppia copia perché i medici in casa erano due. Abby raccolse la posta e la portò in cucina. Sul tavolo cominciò a dividerla in due pile. Una per lui, una per lei. La vita di lui, quella di lei. Nulla su cui valesse davvero la pena di soffermarsi. Erano le quattro del pomeriggio. Quella sera, decise Abby, avrebbe cucinato una gustosa cenetta. Da servire a lume di candela, con una bottiglia di vino. Perché no? Lei non era il tipo da rimanere con le mani in mano. Mentre al Bayside si perdeva tempo a decidere il suo futuro come chirurgo, lei poteva occupare le ore libere a sistemare le cose tra sé e Mark con cene romantiche e moine femminili. Rinunciare alla carriera, ma tenersi l'uomo. Accidenti, DiMatteo, cominci a dar segni di disperazione. Esaminò rapidamente la propria metà di quella inutile corrispondenza, poi si avvicinò al bidone della spazzatura e schiacciò la leva a pedale. Mentre stava per buttarvi dentro la posta, scorse in fondo al contenitore una grossa busta marrone. La parola yacht, stampata in grassetto sull'indirizzo del mittente, le balzò agli occhi. Tirò fuori dal bidone la busta e la ripulì dai fondi di caffè e dai gusci d'uovo.
In alto a sinistra erano stampate tre righe: EAST WIND MARINE VENDITA E MANUTENZIONE DI YACHT MARBLEHEAD La busta era stata spedita a Mark, ma non al loro indirizzo di Brewster Street. A una casella postale. Abby fissò di nuovo quelle parole: VENDITA E MANUTENZIONE DI YACHT. Uscì dalla cucina e andò alla scrivania di Mark, nel soggiorno. Il cassetto in basso, dove lui teneva le sue carte, era chiuso, ma Abby sapeva dove Mark teneva la chiave. L'aveva sentito deporla nel portamatite. La prese e aprì il cassetto. Dentro c'erano i documenti personali di Mark. Polizze d'assicurazione, certificati ipotecari, libretto automobilistico. Abby trovò infine una cartella che recava la scritta IMBARCAZIONI. Dentro c'era una busta per la Gimme Shelter, contrassegnata J-35. Ma ce n'era anche un'altra. Sembrava nuova. Sopra, c'era scritto: H-48. Abby aprì la busta H-48. Conteneva un contratto di vendita, stipulato dalla East Wind Marine, H-48 era un'abbreviazione: stava per yacht Hinckley, lunghezza 48 piedi. Si lasciò cadere su una sedia, in preda a un senso di nausea. Me l'hai tenuto nascosto, pensò. Mi avevi detto che avresti ritirato l'offerta. Invece l'hai comprato. È il tuo denaro, certo. Immagino che questo chiarisca tutto. Il suo sguardo corse in fondo alla pagina, alle condizioni di acquisto. Un attimo dopo uscì di casa. «Denaro contante in cambio di organi. È possibile?» Il dottor Ivan Tarasov, che stava mescolando la panna nella sua tazza di caffè, si fermò di botto e lanciò un'occhiata a Vivian. «Ha qualche prova a sostegno di tale affermazione?» «Non ancora. Le stiamo soltanto chiedendo se è possibile. E, se lo è, in che modo possono verificarsi fatti del genere?» Il dottor Tarasov si sprofondò nel divano e sorseggiò il caffè con aria pensosa. Erano le quattro e tre quarti e, fatta eccezione per qualche specializzando in divisa verde che si recava nel vicino spogliatoio, la saletta dei
medici del Mass Gen era tranquilla. Tarasov, che era uscito dalla sala operatoria da appena venti minuti, aveva ancora le mani leggermente imbiancate dal talco dei guanti e una mascherina da chirurgo appesa al collo. Nel guardarlo, Abby provò per l'ennesima volta la confortante impressione di avere davanti suo nonno. Quei gentili occhi azzurri, quei capelli argentei. La voce bassa. La voce della massima autorità, pensò, appartiene all'uomo che non deve mai alzarla. «Si è accennato di tanto in tanto a qualcosa del genere, naturalmente», ribatté Tarasov. «Ogni volta che a una persona celebre viene trapiantato un organo, la gente si chiede se non ci sia dietro una grossa somma di denaro. Ma le prove non sono mai saltate fuori. Soltanto sospetti.» «Sospetti di che tipo?» «Che si possa comprare un posto più in alto nella lista d'attesa. Tuttavia, per quanto mi riguarda, non l'ho mai visto accadere.» «Io, sì», esclamò Abby. Tarasov la guardò. «Quando?» «Due settimane fa. La moglie di Victor Voss. Era terza in lista d'attesa e ha avuto un cuore. Più tardi, i due in cima alla lista sono morti.» «La UNOS non lo permetterebbe, e neanche la NEOB. Hanno regole molto severe.» «La NEOB non ne è stata messa al corrente. Anzi, nei suoi registri il donatore non figura nemmeno.» Tarasov scosse la testa. «È difficile da credere. Se il cuore non è arrivato tramite la UNOS o la NEOB, da dove salta fuori?» «Noi riteniamo che Voss abbia pagato per tenerlo al di fuori del sistema. In modo che potesse andare a sua moglie», replicò Vivian. «Alcune ore prima che il cuore venisse trapiantato a Mrs Voss», spiegò Abby, «la coordinatrice dei trapianti del Bayside ha ricevuto una telefonata dal Wilcox Memoríal di Burlington in cui si diceva che avevano un donatore. Il cuore è stato espiantato e mandato in aereo a Boston. È giunto nella nostra sala operatoria verso le due di notte, consegnato da un certo dottor Mapes. Assieme al cuore sono arrivate anche le carte relative al donatore, però, non si sa come, sono andate smarrite. Da allora nessuno le ha più viste. Ho cercato il nome Mapes nell'elenco degli specialisti in chirurgia, ma invano.» «Allora chi avrebbe eseguito l'espianto?» «Noi riteniamo che sia stato un chirurgo chiamato Tim Nicholls. Il suo nome compare sull'elenco, perciò sappiamo che esiste davvero. Secondo il
suo curriculum, ha lavorato per alcuni anni al Mass Gen. Se lo ricorda?» «Nicholls», mormorò Tarasov. Scosse la testa. «Quando avrebbe lavorato in questo ospedale?» «Diciannove anni fa.» «Dovrei controllare sui registri del personale.» «Secondo noi», continuò Vivian, «Mrs Voss aveva bisogno di un cuore e suo marito disponeva del denaro necessario per comprarglielo. In qualche modo la notizia si è diffusa. Tramite qualche canale segreto di comunicazione, forse, questo non lo so. Per caso, Tim Nicholls aveva un donatore, così ha inviato il cuore direttamente al Bayside, saltando la NEOB. E molte persone sono state pagate, inclusa una parte dello staff del Bayside.» Tarasov pareva inorridito. «È possibile», rifletté. «Avete ragione, potrebbe essere andata in questo modo.» La porta della saletta dei medici si aprì improvvisamente e due specializzandi entrarono ridendo, diretti verso la macchina del caffè. Si misero a chiacchierare, giocherellando con la panna e lo zucchero, e sembravano intenzionati a rimanere lì per sempre. Infine però se ne andarono. Tarasov aveva ancora un'aria sconvolta. «Io stesso mando continuamente pazienti al Bayside. Stiamo parlando di uno dei più importanti centri di trapianti del Paese. Perché dovrebbero agire al di fuori della legalità? Perché rischiare di trovarsi nei guai con la NEOB e la UNOS?» «La risposta è ovvia», replicò Vivian. «Denaro.» Si zittirono di nuovo quando un altro chirurgo entrò nella stanza, con la parte alta della divisa madida di sudore. L'uomo emise un grugnito di stanchezza e si lasciò cadere in una delle poltrone. Abbandonandosi contro la spalliera, chiuse gli occhi. «Abbiamo bisogno che lei controlli la scheda personale di Tim Nicholls», sussurrò allora Abby a Tarasov. «Scopra su di lui tutto quanto è possibile. Ci informi se realmente ha lavorato qui, o se il suo curriculum è inventato di sana pianta.» «Gli telefonerò di persona. Lo interrogherò direttamente.» «No, non lo faccia. Non sappiamo quali e quante diramazioni abbia questa storia.» «Dottoressa DiMatteo, sarò schietto. Se esiste un'organizzazíone occulta che traffica in organi, be', voglio conoscere ogni particolare.» «Anche noi. Però dobbiamo muoverci con molta cautela, dottor Tarasov.» Abby lanciò un'occhiata inquieta al chirurgo che sonnecchiava nella poltrona e abbassò ulteriormente la voce. «Negli ultimi sei anni, tre medici
del Bayside sono morti. Due suicidi e un incidente. Facevano parte tutt'e tre della nostra équipe dei trapianti.» Dall'espressione sconvolta del viso di Tarasov, Abby comprese che il suo avvertimento aveva ottenuto l'effetto sperato. «State cercando di spaventarmi», disse lui. «Non è così?» Abby annuì. «Dovrebbe essere spaventato. Dovremmo esserlo tutti.» Una volta fuori, nel parcheggio, Abby e Vivian indugiarono sotto un cielo grigio e piovigginoso. Erano arrivate tutt'e due con la propria auto e ormai era tempo che ognuna riprendesse la propria strada. Le giornate si stavano accorciando; erano soltanto le cinque del pomeriggio, eppure la luce cominciava già a svanire. Con un brivido, Abby si strinse addosso l'impermeabile e si guardò attorno. Nessun furgoncino marrone. «Non abbiamo materiale sufficiente», rifletté Vivian. «Non possiamo ancora richiedere un'indagine. Senza contare che, se ci provassimo, Victor Voss potrebbe cancellare ogni traccia.» «Nina Voss non è stata la prima. Sono convinta che al Bayside questo traffico di organi sia avvenuto altre volte. Aaron è morto con tre milioni di dollari su un conto in banca. Per un certo periodo di tempo deve aver ricevuto pagamenti in nero.» «Credi che avesse avuto qualche ripensamento?» «So che stava cercando di mollare il Bayside. Di lasciare Boston. Forse qualcuno non voleva che lui se ne andasse.» «Il che potrebbe essersi verificato anche con Kunstler e Hennessy.» Abby si lasciò sfuggire un profondo sospiro. Di nuovo si guardò attorno, alla ricerca del furgone. «Temo che sia avvenuto proprio questo.» «Abbiamo bisogno di appurare altri nomi, altri casi di trapianti. Di avere ulteriori informazioni sui donatori.» «I dati relativi ai donatori sono chiusi a chiave nell'ufficio della coordinatrice dei trapianti. Dovrò introdurmi lì e rubare le schede. Ammesso che ci siano ancora. Ricordi come hanno fatto sparire le carte del donatore nel caso di Nina Voss?» «Va bene, allora incominciamo la ricerca dalla parte dei riceventi.» «Le cartelle cliniche?» Vivian annuì. «Troviamo i nomi delle persone alle quali è stato trapiantato un organo. E verifichiamo quale posizione occupassero sulla lista d'attesa quando l'intervento è avvenuto.» «Avremo bisogno dell'aiuto della NEOB.»
«Certo. Ma, prima, dobbiamo trovare nomi e date.» «Di questo mi posso occupare io», disse Abby. «Ti darei una mano, ma al Bayside non mi fanno più entrare. Mi considerano il loro peggior incubo.» «Questo vale tanto per te quanto per me.» Vivian ridacchiò, come se fosse qualcosa di cui andare fieri. Nel suo impermeabile fin troppo ampio, sembrava piccola, quasi infantile. Aveva un'aria così fragile... Ma, sebbene la sua statura non ispirasse molta fiducia, il suo sguardo era fermo e deciso. E vedeva lontano. «Su, Abby», sospirò, «dimmi di Mark. E spiegami il motivo per cui lo teniamo all'oscuro di questa storia.» Abby espirò profondamente. La risposta le scaturì dalle labbra in un'ondata d'angoscia. «Credo che c'entri anche lui.» «Mark?» Lei annuì e alzò gli occhi al cielo piovigginoso. «Vuole mollare il Bayside. Mi ha accennato all'idea di partire per mare. Una fuga. Proprio ciò che stava progettando Aaron prima di morire.» «Credi che anche Mark abbia ricevuto pagamenti sotto banco?» «Alcuni giorni fa ha acquistato un'imbarcazione. Non intendo una barca qualsiasi. Uno yacht.» «Ha sempre avuto la mania delle barche.» «Questa costa mezzo milione di dollari.» Vivian rimase in silenzio. «E c'è di peggio», sussurrò Abby. «Ha pagato in contanti.» 17. Il locale in cui venivano archiviate le cartelle cliniche si trovava nel seminterrato, proprio sotto l'ingresso del reparto di patologia e la camera ardente. Quel settore era ben noto ai medici del Bayside. Era lì che firmavano le cartelle, dettavano le lettere di dimissione e sigiavano gli esami di laboratorio e le disposizioni impartite precedentemente a voce. La stanza era arredata con tavoli e comode sedie e, per venire incontro ai medici - i cui orari di lavoro erano tutt'altro che regolari -, rimaneva aperta ogni sera fino alle nove. Erano le sei quando Abby entrò nell'archivio. Come pensava, il locale era quasi deserto, data l'ora di cena. L'unico medico presente, oltre a lei, aveva davanti a sé, sul tavolo, una pigna di cartelle da sistemare e le stava
fissando con aria abbattuta. Con il cuore che le martellava nel petto, Abby si avvicinò alla scrivania dell'addetta all'archivio. «Sto compilando alcune statistiche per il dottor Wettig, che ha in preparazione uno studio sulla percentuale dei trapianti di cuore», esordì, sorridendo. «Può richiamarne l'elenco sul suo computer? Nomi e numeri di registrazione dei trapianti cardiaci eseguiti qui negli ultimi due anni.» «Per una ricerca simile abbiamo bisogno di un'autorizzazione scritta del dipartimento.» «Ormai sono andati tutti a casa. Posso portarle quest'autorizzazione in un secondo momento? Vorrei avere ogni cosa già pronta domani mattina, per sottoporla al Generale. Sa com'è fatto, lui.» L'impiegata rise. Sì, sapeva esattamente com'era fatto il Generale. Si sedette alla tastiera e richiamò la finestra RICERCA. Sotto DIAGNOSI digitò: TRAPIANTO CARDIACO, poi gli anni da prendere in considerazione. Infine premette il tasto d'invio. Nomi e numeri di registrazione cominciarono ad apparire, a uno a uno, sullo schermo. Abby osservava, quasi ipnotizzata dall'elenco che si vedeva scorrere sotto gli occhi. L'impiegata inviò il comando di stampa. Pochi secondi dopo, la lista rotolò fuori della stampante. L'impiegata la consegnò ad Abby. Sull'elenco c'erano ventinove nomi. L'ultimo era Nina Voss. «Potrei avere le cartelle cliniche dei primi dieci?» chiese Abby. «Tanto vale che ci cominci a lavorare fin da stasera.» L'impiegata sparì nell'archivio vero e proprio. Pochi istanti dopo ne riemerse, reggendo alcuni voluminosi fascicoli. «Questi sono soltanto i primi tre. Le procurerò subito il resto.» Abby portò gli incartamenti verso un tavolo, e ve li lasciò cadere, producendo un tonfo sordo. Ogni paziente che aveva ricevuto un cuore nuovo comportava risme e risme di documentazione, e quei tre non erano diversi dagli altri. Abby aprì il primo fascicolo e lesse il foglio illustrativo del paziente. Si chiamava Gerald Luray, di anni 54, abitante a Worcester, Massachusetts. L'intervento era stato pagato da un'assicurazione privata. Non sapendo quale importanza potesse avere ogni singola informazione, Abby le ricopiò integralmente in un blocco a fogli gialli. Segnò anche la data e l'ora del trapianto e i nomi dei chirurghi che l'avevano eseguito. Li riconobbe tutti: Aaron Levi, Bill Archer, Frank Zwick, Rajiv Mohandas... e Mark.
Come previsto, nella cartella clinica non c'era la minima informazione sul donatore. Erano dati, quelli, che venivano tenuti disgiunti dal ricevente. Però, tra le annotazioni fatte dalle infermiere, Abby trovò scritto: 08.30: ESPIANTO COMPLETATO, IL CUORE DEL DONATORE È IN VIAGGIO DA NORWALK, CONNECTICUT. IL RICEVENTE VIENE PORTATO IN S.O. PER LA PREPARAZIONE... Abby ricopiò: 08.30. Espianto a Norwalk, Conn. L'impiegata spinse un carrello fino al tavolo di Abby, depositò altre cinque cartelle e tornò indietro a prendere le ultime. Abby lavorò senza interruzione; non si fermò per mangiare e non si concesse neanche una sosta, se non per chiamare Mark e spiegargli che sarebbe tornata a casa piuttosto tardi. Al momento della chiusura dell'archivio, si sentì affamata. Nel tornare a casa, si fermò in un McDonald e ordinò un hamburger, una confezione gigante di patatine fritte e un milkshake alla vaniglia. Colesterolo per nutrire il cervello. Mangiò seduta a un tavolino d'angolo, osservando il locale. A quell'ora, gli altri clienti erano soprattutto persone appena uscite dai cinema, coppie di adolescenti e, qua e là, qualche scapolo dall'aria depressa. Nessuno parve far caso a lei. Abby finì le patatine, poi uscì. Nel parcheggio, prima di mettere in moto la macchina, si guardò rapidamente in giro. Nessun furgone. Arrivò a casa alle dieci e un quarto e trovò Mark già a letto, con la luce spenta. Provò un certo sollievo all'idea di non dover rispondere a domande di qualsiasi genere. Si spogliò al buio e s'infilò sotto le lenzuola, ma non lo toccò. Aveva quasi paura di farlo. Quando Mark all'improvviso si mosse, cercandola, Abby s'irrigidì. «Mi sei mancata, stasera», mormorò lui. Le voltò la faccia verso la sua e le diede un lungo e intimo bacio, poi le posò una mano all'altezza della vita e le carezzò un fianco. Si strofinò contro la sua coscia. Abby non si mosse. Si sentiva gelida come un manichino, incapace di rispondere o di resistere. Rimase distesa, con gli occhi chiusi, il sangue che le pulsava nelle orecchie, mentre lui la prendeva tra le braccia. Mentre lui la possedeva. Con chi sto facendo l'amore? si chiese mentre Mark affondava in lei più e più volte, e i loro fianchi si urtavano con brutale violenza. Poi tutto finì e lui si ritrasse. «Ti amo», sussurrò. Fu soltanto molto tempo dopo, quando Mark si era già addormentato, che lei gli bisbigliò in risposta: «Anch'io ti amo».
Alle sette e quaranta di mattina Abby tornò all'archivio del Bayside. Molti dei tavoli erano già occupati da medici che espletavano il loro lavoro burocratico prima d'incominciare il giro delle visite. Abby richiese altre cinque cartelle. Annotò ogni cosa rapidamente, restituì le cartelle all'impiegata e se ne andò. Passò la mattinata nella biblioteca dell'ospedale, cercando altri articoli per il dottor Wettig. Ritornò in archivio soltanto nel tardo pomeriggio. Chiese altre dieci cartelle. Vivian finì di mangiare l'ultimo trancio di pizza: il quarto. Dove mettesse tutto il cibo che divorava, era un mistero per Abby. Quel corpo da elfo consumava calorie come una fornace che bruciasse grasso. Da quando si erano sedute nel séparé di Ginelli's, Abby aveva mangiato soltanto pochi bocconi, e anche quelli a fatica. Vivian si pulì la bocca con il tovagliolo. «Dunque Mark non lo sa ancora.» «Non gli ho detto nulla. Ti confesso che ho paura di parlargliene.» «Come puoi sopportare una simile situazione? Vivere nella stessa casa senza rivolgersi la parola?» «Ma noi parliamo. Però non di questo.» Abby toccò il fascio di fogli sul tavolo, le annotazioni da lei prese che si stava portando dietro dalla mattina. Aveva fatto in modo che Mark non potesse trovarle. La sera prima, quando era tornata a casa dal McDonald, aveva nascosto i fogli sotto il divano. Le sembrava di nascondergli una tale massa di cose, da qualche tempo a quella parte... Davvero non sapeva per quanto ancora ce l'avrebbe fatta a tirare avanti. «Abby, alla fine dovrai pure affrontare l'argomento.» «Non ancora. Prima devo sapere ogni cosa.» «Non hai paura di Mark, vero?» «Ho paura che lui possa negare. E non avrei modo di sapere se è sincero o no.» Si passò le mani tra i capelli. «Dio mio, è come se la realtà mi fosse sfuggita completamente di mano. Ero abituata a pensare di muovermi su un terreno solido. Se volevo qualcosa a tutti i costi, mi impegnavo come una matta per ottenerlo. Adesso, invece, non posso decidere che cosa fare, quale mossa scegliere. Ciò su cui facevo affidamento non è più a mia disposizione.» «Intendi Mark.»
Con un moto di stanchezza, Abby si passò una mano sul viso. «Soprattutto Mark.» «Hai un aspetto terribile, sai.» «Non riesco a dormire bene. Ho tanti pensieri per la testa. Non si tratta soltanto di Mark. C'è anche quella storia di Mary Allen. Mi aspetto che, da un momento all'altro, il detective Katzka mi si presenti alla porta con un paio di manette.» «Ritieni che abbia sospetti su di te?» «Credo che sia troppo perspicace per non averne.» «Non si è più fatto vivo. Magari finirà per archiviare ogni cosa. Forse tu stai dando troppo peso a questa vicenda.» Abby ripensò ai tranquilli occhi grigi di Bernard Katzka. «È un uomo difficile da capire», mormorò. «Tuttavia credo che Katzka non sia soltanto intelligente, ma anche caparbio. Mi fa paura. E, cosa abbastanza strana, mi affascina anche.» Vivian si appoggiò allo schienale del sedile. «Interessante. La preda attratta dal cacciatore?» «A volte ho l'impulso di telefonare a Katzka e di rivelargli ogni cosa. Per farla finita.» Abby affondò il viso nelle mani. «Sono così stanca. Vorrei poter scappare da qualche parte. Dormire per una settimana intera.» «Forse dovresti lasciare la casa di Mark. Ho un letto disponibile. E mia nonna è sul punto di andarsene.» «Credevo che fosse una tua ospite fissa.» «Fa il giro dei nipoti. In questo preciso istante, una mia cugina, a Concord, si sta preparando a sostenere l'impatto della sua visita.» Abby scosse la testa. «Non so che fare. Il punto è che io amo Mark. Non mi fido più di lui, ma lo amo. E al contempo so che questa storia potrebbe rovinarlo.» «Potrebbe anche salvargli la vita.» Abby rivolse a Vivian uno sguardo carico d'infelicità. «Gli salvo la vita, ma gli distruggo la carriera. Potrebbe non essermi molto grato.» «Aaron ti avrebbe ringraziato. Anche Kunstler. E certamente la moglie e la figlioletta di Hennessy ti sarebbero state gratissime.» Abby non replicò. «Fino a che punto hai la certezza che Mark sia coinvolto?» «Non ne sono sicura. È questo a rendere ogni cosa più difficile: desiderare di aver fiducia in lui e, al contempo, non possedere la minima prova che mi indirizzi in un senso piuttosto che in un altro.» Posò una mano sui
fogli. «Finora ho controllato venticinque cartelle cliniche. Alcuni dei trapianti risalgono a due anni fa. In tutte le cartelle figura il nome di Mark.» «E anche quello di Archer. E di Aaron. Questo non significa nulla. Che cos'altro hai trovato?» «I dati sembrano più o meno gli stessi. Non c'è nulla che li differenzi.» «Va bene, e per quanto riguarda i donatori?» «Qui le cose si fanno un po' più interessanti.» Abby si guardò attorno nel ristorante, poi si chinò verso Vivian. «Non tutte le cartelle cliniche riportano la città da cui è venuto l'organo del donatore. Alcune, però, lo fanno. E sembra esserci una strana coincidenza. Ben quattro cuori sono arrivati da Burlington, nel Vermont.» «Wilcox Memorial?» «Non lo so. Nelle annotazioni delle infermiere non si menziona mai l'ospedale. Ma mi pare interessante che in una città relativamente piccola qual è Burlington siano tanti i casi di morte cerebrale.» Vivian le rivolse uno sguardo sconcertato. «Qui c'è davvero qualcosa che non va. Stavamo ipotizzando l'esistenza di una semplice organizzazione illegale, di donatori che venivano tenuti al di fuori del sistema codificato. Ma ciò non spiega un accumulo di donatori in una singola città. A meno che...» «A meno che i donatori non vengano creati appositamente.» Rimasero in silenzio. Burlington è una città universitaria, pensò Abby. Piena di studenti giovani, sani. Con cuori giovani, sani. «Potresti rivelarmi le date di quei quattro espianti di Burlington?» chiese Vivian. «Certo, le ho proprio qui. Ma perché?» «Le controllerò con i necrologi apparsi sui giornali di Burlington. Voglio scoprire chi è morto in quei giorni. Forse riuscirò a identificare i quattro donatori e a comprendere i motivi per cui ne è stata dichiarata la morte cerebrale.» «Non tutti i necrologi riportano la causa del decesso.» «Allora dovremo procurarci i certificati di morte. Il che significa che una di noi due dovrà fare un viaggio a Burlington. E io muoio dalla voglia di conoscere quella città. Anche se non vorrei morire davvero.» Il tono di voce di Vivian era quasi allegro. Era l'abituale spavalderia di quella donna agguerrita, il suo modo di ridimensionare ogni cosa. Stavolta, però, non era riuscita a nascondere una punta di apprensione.
«Sei sicura di volerlo fare?» esclamò Abby. «Se non ci muoviamo, Victor Voss vincerà. E a perdere saranno le persone come Josh O'Day.» Fece una pausa. Poi chiese, piano: «Non è questo che tu vuoi, Abby?» Abby nascose di nuovo il volto tra le mani. «Non credo di avere altra scelta.» L'auto di Mark era nel vialetto. Abby vi parcheggiò dietro la sua e spense il motore. Rimase seduta in macchina a lungo. Doveva fare appello a tutte le sue energie per riuscire a scendere dalla vettura ed entrare in casa. Per affrontarlo. Alla fine smontò e si avviò verso l'ingresso. Mark era nel soggiorno, intento ad ascoltare l'ultimo telegiornale della sera. Non appena lei entrò, lui spense il televisore. «Come va Vivian in questi giorni?» chiese. «Sta bene. È caduta in piedi. Sta rilevando uno studio medico a Wakefield.» Appese il soprabito nell'armadio guardaroba. «E la tua giornata com'è andata?» «Abbiamo avuto una dissecazione aortica. Il paziente ha sanguinato moltissimo. Sono uscito dalla sala operatoria soltanto alle sette.» «Lui ce l'ha fatta?» «No. L'abbiamo perso.» «Oh, che peccato. Mi dispiace molto.» Chiuse il battente dell'armadio. «Sono un po' stanca. Penso che andrò a farmi un bagno.» «Abby?» Lei si fermò e lo guardò. Erano ai lati opposti del soggiorno, ma lo spazio che li divideva sembrava terribilmente più vasto. «Che cosa ci è accaduto?» chiese Mark. «Che cos'è che non va?» «Lo sai che cosa non va. Sono preoccupata per il mio lavoro.» «Sto parlando di noi due. C'è qualcosa che non va tra noi.» Abby tacque. «Non ti vedo quasi più. Passi con Vivian molto più tempo di quello che trascorri qui. E, quando sei a casa, ti comporti come se fossi... altrove.» «Sono preoccupata, ecco. Non riesci a capirne il motivo?» Mark si lasciò andare contro lo schienale del divano, con un'aria improvvisamente stanca. «Devo sapere, Abby. Ti vedi con qualcun altro?» Lei lo fissò. Di tutte le cose che Mark poteva dirle, questa era l'ultima che lei si sarebbe aspettata. Le venne quasi da ridere per la banalità di quei
sospetti. Se le cose fossero così semplici. Se soltanto i nostri problemi fossero gli stessi di ogni altra coppia... «Non c'è nessun altro», ribatté. «Credimi.» «Allora perché non mi parli più?» «Lo sto facendo.» «Questo non è parlare! Sono soltanto io che sto cercando di far tornare la Abby di un tempo. L'ho persa da qualche parte, lungo la strada. Ti ho persa.» Scosse la testa e distolse lo sguardo. «Voglio riaverti.» Abby si avvicinò al divano e si sedette accanto a lui. Non tanto vicino da toccarlo, ma abbastanza da sentirsi unita, anche se a distanza. «Dimmi qualcosa, Abby, ti prego.» Lui la guardò e di colpo riapparve il vecchio Mark. Lo stesso volto che le aveva sorriso attraverso il tavolo operatorio. Il volto che lei amava. «Ti prego», ripeté lui in un soffio. Le prese una mano e lei non la tirò indietro, anzi lasciò che lui l'abbracciasse. Ma anche lì, dove un tempo si era sentita al sicuro, non riusciva a rilassarsi. Rimase rigida contro il suo petto. «Dimmi», sussurrò Mark. «Che cos'è che non va tra noi?» Abby chiuse gli occhi per bloccare un fiotto di lacrime. «Nulla», rispose. Sentì le braccia che la circondavano diventare inerti. Senza neppure guardarlo in faccia, Abby capì che Mark si era reso conto che, ancora una volta, lei gli stava mentendo. La mattina seguente, alle sette e mezzo, Abby fermò l'auto nel posto a lei riservato nel parcheggio del Bayside Hospital. Rimase seduta in macchina per qualche istante, osservando il suolo bagnato, la pioggia. È soltanto metà ottobre, pensò, e già si sente terribilmente l'inverno. La notte precedente non aveva dormito bene. Anzi, non riusciva a ricordare quale fosse stata l'ultima volta in cui aveva fatto un buon sonno. Quanto a lungo si poteva reggere senza dormire? Quanto ci voleva perché la stanchezza degenerasse in psicosi? Si guardò nello specchietto retrovisore e quasi non riconobbe quell'estranea dall'aria emaciata che la fissava. In due settimane sembrava invecchiata di dieci anni. Di quel passo, a novembre si sarebbe trovata in menopausa. Poi, nello specchietto, qualcosa di marrone attirò il suo sguardo. Girò di scatto la testa, giusto in tempo per vedere un furgoncino che spariva dietro la vicina fila di macchine. Aspettò che ricomparisse, ma sembrava svanito nel nulla. Scese rapidamente dalla macchina e si avviò verso l'ospedale. La pesan-
te valigetta che aveva con sé sembrava un'ancora che la trattenesse. Sulla sua destra, un motore d'auto fu improvvisamente acceso, con un rombo. Abby roteò su se stessa, aspettandosi di vedere il furgone... ma era soltanto una station wagon che usciva dalla fila di macchine. Il cuore le martellava in petto e riprese un ritmo quasi normale soltanto quando Abby fu all'interno dell'edificio. Imboccò le scale che portavano nel seminterrato e si diresse all'archivio. Sarebbe stata la sua ultima visita: ormai non le mancavano che quattro nomi di quelli segnati sulla lista. Appoggiò il modulo di richiesta sul banco e disse: «Mi scusi, posso avere queste cartelle cliniche?» L'impiegata si voltò a guardarla e parve raggelarsi di colpo. O me lo sto immaginando? si chiese Abby. Si erano già parlate prima di allora e l'impiegata di solito aveva un'aria abbastanza amichevole. In quel momento, invece, sul suo volto non c'era neppure l'ombra di un sorriso. «Ho bisogno di queste quattro cartelle», ripeté Abby. L'impiegata guardò il modulo di richiesta. «Mi dispiace, dottoressa DiMatteo. Non posso dargliele.» «Perché no?» «Non sono disponibili.» «Ma non ha neppure controllato.» «Mi è stato imposto di non darle più nessuna cartella clinica. È un ordine del dottor Wettig. Mi ha detto anche che, se lei fosse venuta, avremmo dovuto comunicarlo immediatamente al suo ufficio.» Abby sentì il sangue defluirle dal viso. Non aprì bocca. «Sostiene di non aver mai autorizzato la ricerca di queste cartelle.» Il tono di voce dell'impiegata era chiaramente accusatorio. Lei ci ha mentito, dottoressa DiMatteo. Lei non seppe che cosa rispondere. Le parve che nella stanza fosse calato un assoluto silenzio. Si girò e vide che nel locale c'erano altri tre medici: la stavano fissando tutti. Uscì dall'archivio. Il suo primo impulso fu di andarsene. Evitare l'inevitabile confronto con Wettig e allontanarsi in macchina, continuare a guidare per almeno un migliaio di chilometri. Si chiese quanto tempo ci sarebbe voluto per raggiungere la Florida, una spiaggia con le palme. Non era mai stata in Florida. Erano tante le cose che lei non aveva mai fatto, diversamente dalla maggioranza delle persone. Adesso poteva farle, nessuna esclusa, se soltanto fosse uscita da quel dannato ospedale, se fosse montata in macchina e a-
vesse detto: Al diavolo ogni cosa. Hai vinto. Avete vinto. Invece non se ne andò. Dal seminterrato entrò nell'ascensore e premette il pulsante per salire. Nel breve tragitto fino al primo piano, dove si trovavano gli uffici amministrativi, due questioni le divennero improvvisamente chiare. Anzitutto che lei era troppo ostinata o troppo stupida per fuggire. In secondo luogo che non desiderava affatto una spiaggia... bensì avere indietro il suo sogno. Uscì dall'ascensore e si avviò nel corridoio rivestito di moquette. L'Ufficio degli specializzandi era appena svoltato l'angolo, oltre quello di Jeremiah Parr. Mentre passava accanto alla segretaria di Parr, vide la donna ergersi bruscamente sulla sedia e afferrare il telefono. Abby girò l'angolo ed entrò nell'Ufficio degli specializzandi. In piedi accanto alla scrivania della segretaria c'erano due uomini che lei non aveva mai visto prima d'allora. L'impiegata alzò lo sguardo verso Abby con la stessa espressione stupefatta che era comparsa sul viso della segretaria di Parr, poi la donna proruppe: «Oh! Dottoressa DiMatteo...» «Ho bisogno di parlare con il dottor Wettig», disse Abby. I due uomini si girarono a guardarla. Un attimo dopo, venne investita da un lampo di luce. Batté gli occhi mentre i lampi si susseguivano. Erano i flash di una macchina fotografica. «Che cosa state facendo?» chiese. «Dottoressa, è disposta a rilasciare una dichiarazione sulla morte di Mary Allen?» esclamò uno degli uomini. «Che cosa?» «Era una sua paziente, non è così?» «Chi diavolo è lei?» «Gary Starke, del Boston Herald. È vero che lei è favorevole all'eutanasia? Sappiamo che si è pronunciata in tal senso.» «Non ho mai detto nulla del...» «Perché è stata esonerata dal lavoro in reparto?» Abby fece un passo indietro. «Stia lontano da me. Non intendo parlarle.» «Dottoressa DiMatteo...» Lei fece per lanciarsi fuori dell'ufficio e per poco non andò a sbattere contro Jeremiah Parr, che era entrato in quel momento. «Voglio che voi reporter usciate dal mio ospedale immediatamente», scattò Parr, poi si rivolse ad Abby. «Dottoressa, venga con me.» Lei seguì Parr fuori della stanza. Percorsero rapidamente il corridoio ed entrarono nel suo ufficio. Parr chiuse la porta e si girò a guardare la donna.
«L'Herald ha cominciato a telefonare mezz'ora fa», disse. «Poi ha chiamato il Globe e quindi è stata la volta di una mezza dozzina di altri giornali. Dopodiché non c'è stata più tregua.» «È stata Brenda Hainey a fornire loro la notizia?» «Non credo. A quanto pare, sapevano della morfina. E della fiala trovata nel suo armadietto. Cose di cui quella donna non era al corrente.» Abby scosse la testa. «E come l'hanno saputo, allora?» «In qualche modo, la notizia è trapelata all'esterno.» Parr si lasciò cadere sulla sedia dietro la scrivania. «Questa sarà la nostra fine. Un'indagine della polizia criminale. Agenti che sciamano su e giù per i reparti.» La squadra omicidi. Certo. Adesso la notizia sarà arrivata anche a loro. Abby fissò Parr. Si sentiva la gola troppo secca per riuscire a emettere anche un unico suono. Si chiese se fosse stato lui a far trapelare quella storia, poi decise che era improbabile. Quello scandalo lo danneggiava al pari degli altri. Si udì bussare bruscamente alla porta e il dottor Wettig entrò. «Che diavolo ne faccio di quei giornalisti?» chiese. «Deve rilasciare una dichiarazione, Generale. Susan Casado sta arrivando. L'aiuterà a stendere il testo. Fino a quel momento, che nessuno parli.» Wettig annuì seccamente. Poi i suoi occhi si fissarono su Abby. «Posso controllare la sua valigetta, dottoressa DiMatteo?» «Perché?» «Lo sa fin troppo bene. Non aveva il diritto di andare a frugare nelle cartelle cliniche di quei pazienti. Si tratta di documenti privati e confidenziali. Le ordino di consegnarmi gli appunti che ha preso.» Abby non si mosse. Non aprì bocca. «Non credo che un'ulteriore accusa di furto possa migliorare il suo caso.» «Furto?» «Ogni informazione raccolta mediante quella illegale ricerca nelle cartelle cliniche è stata rubata. Mi dia la valigetta. Me la dia.» Senza replicare, Abby gliela consegnò. Guardò Wettig aprirla, frugare tra le carte ed estrarne le sue annotazioni. Non poté fare nulla se non chinare la testa, in segno di sconfitta. Ancora una volta avevano avuto la meglio su di lei. Avevano colpito prima del tempo, quando non era preparata. Avrebbe dovuto prevederlo. Avrebbe dovuto nascondere i propri appunti prima di recarsi lì. Ma era troppo concentrata a pensare a ciò che doveva dire, alle spiegazioni che intendeva fornire a Wettig.
Il Generale richiuse la valigetta e gliela riconsegnò. «È tutto qui?» chiese. Abby riuscì soltanto a fare cenno di sì con il capo. Wettig la fissò per qualche istante in silenzio. Poi scosse la testa. «Lei sarebbe stata un ottimo chirurgo, DiMatteo. Ma credo che sia arrivato il momento di riconoscere che ha perso il lume della ragione. Le consiglio di rivolgersi a uno psichiatra. E la espello dal corso di specialità, provvedimento che entra in vigore a partire da oggi.» Poi, con grande sorpresa di Abby, nella voce del Generale vibrò una nota di genuino rammarico quando lui aggiunse, piano: «Mi dispiace». 18. Il detective Lundquist era biondo e aitante, il tipo teutonico per eccellenza. Stava torchiando Abby già da due ore e, mentre le rivolgeva le domande, non la smetteva di camminare avanti e indietro nella piccola stanza riservata agli interrogatori. Se era una tattica per farla sentire minacciata, l'espediente funzionava alla perfezione. Nella piccola città del Maine dove Abby era cresciuta, i poliziotti erano individui che ti salutavano dalle loro auto, camminavano allegramente nelle strade facendo tintinnare le chiavi appese alla cintura e consegnavano i premi della cittadinanza agli allievi che si diplomavano al liceo. Lundquist invece ispirava paura ad Abby. Lei aveva provato un senso di ansia fin dal momento in cui era entrato nella stanza e aveva appoggiato sul tavolo un registratore. E l'ansia era aumentata quando il detective aveva estratto dalla tasca un cartoncino e le aveva letto i suoi diritti. Eppure era stata lei a recarsi spontaneamente alla stazione di polizia. Era andata lì a chiedere di parlare con il detective Katzka. Loro le avevano mandato Lundquist e lui la stava interrogando con la malcelata aggressività che un poliziotto prova di fronte a un criminale. La porta si aprì e Bernard Katzka entrò. Tuttavia il suo volto impassibile non diede ad Abby quel sollievo che lei si sarebbe aspettata. Il detective si fermò dall'altra parte del tavolo, guardandola con un'espressione di stanchezza. «A quanto pare lei non è assistita da un avvocato», disse. «Vuole che gliene chiami uno?» «Sono in arresto?» chiese Abby. «Per il momento, no.»
«Allora sono libera di andarmene in qualsiasi momento?» Katzka guardò Lundquist, che si strinse nelle spalle. «Questo è soltanto un interrogatorio preliminare.» «Lei ritiene che io abbia bisogno di un avvocato, detective Katzka?» Di nuovo il poliziotto parve esitare. «La decisione in realtà spetta a lei, dottoressa DiMatteo.» «Ascolti, sono venuta qui di mia iniziativa. L'ho fatto perché volevo parlarle, raccontarle che cos'è accaduto. Ho risposto di buon grado alle domande di quest'uomo. Se lei intende arrestarmi, allora, sì, chiamerò un avvocato. Ma desidero mettere in chiaro fin da adesso che non ho bisogno di assistenza legale per qualche mia presunta colpevolezza.» Fissò Katzka negli occhi. «Perciò la mia risposta è: non vedo il motivo di convocare un avvocato.» Lundquist e Katzka si scambiarono un'altra occhiata, il cui significato le sfuggì. Poi Lundquist disse: «È tutta tua, Lumaca», e si ritirò in un angolo. Katzka si sedette al tavolo. «Immagino che lei mi farà le stesse domande del suo collega», disse Abby. «Ho perso l'inizio. Ma credo di aver già sentito la maggior parte delle sue risposte.» Indicò con la testa lo specchio nella parete più lontana. Era un vetro camuffato, si rese conto Abby. Lui era rimasto ad ascoltare durante l'interrogatorio condotto da Lundquist. Si chiese quante altre persone ci fossero dietro il finto specchio, a osservarla. Quel pensiero le diede la sensazione di essere stata messa a nudo. Come se le avessero usato violenza. Spostò la sedia, voltando le spalle allo specchio; in quel modo veniva a trovarsi proprio di fronte a Katzka. «Allora che cosa intende chiedermi?» «Ha affermato di ritenere che qualcuno stia tentando di nuocerle. Può dirci di chi si tratterebbe?» «Ero convinta che fosse Victor Voss. Ma adesso non ne sono più tanto sicura.» «Ha altri nemici?» «Naturalmente sì.» «Qualcuno che la odia a tal punto da uccidere la sua paziente? Soltanto per togliere di mezzo lei?» «Forse non si è trattato di un omicidio. Quel dosaggio della morfina non è mai stato confermato.»
«Sì, invece. Mrs Allen è stata riesumata pochi giorni fa, dietro richiesta di Brenda Hainey. Il medico legale ha consegnato stamattina i risultati dell'esame del sangue.» Abby accolse quell'informazione in silenzio. Sentiva il leggero sibilo del registratore ancora in funzione. Si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Ormai non c'erano più dubbi: Mrs Allen era morta a causa di una overdose. «Alcuni giorni fa, dottoressa DiMatteo, lei mi disse di essere stata pedinata da un furgone rosso.» «Marrone», bisbigliò Abby. «Era un furgoncino marrone. L'ho visto di nuovo, proprio oggi.» «Ha preso il numero di targa?» «Non era abbastanza vicino.» «Vediamo se ho capito bene. Qualcuno somministra una overdose di morfina alla sua paziente, Mrs Allen. Poi costui - o costei - nasconde una fiala di morfina nel suo armadietto. In seguito lei viene seguita in giro per la città da un furgone. E sospetta che dietro questi fatti ci sia la mano di Victor Voss?» «Lo pensavo. Ma forse di tratta di qualcun altro.» Katzka si appoggiò allo schienale e la guardò. L'espressione di stanchezza pareva riflettersi nelle spalle, che adesso teneva un po' curve. «Ci racconti ancora quella storia dei trapianti.» «Vi ho già detto tutto.» «Non sono riuscito a capire bene come sia connessa a questo caso.» Abby inspirò profondamente. Aveva già detto ogni cosa a Lundquist, gli aveva raccontato l'intera vicenda di Josh O'Day e le circostanze sospette in cui era avvenuto il trapianto di Nina Voss. A giudicare dalla fiacca reazione di Lundquist, era stata una perdita di tempo. Adesso le si chiedeva di ripetere la storia, e sarebbe stata un'ennesima perdita di tempo. Sconfitta, chiuse gli occhi. «Vorrei un bicchier d'acqua.» Lundquist uscì dalla stanza. Per tutto il tempo in cui rimase assente, né Abby né Katzka dissero una parola. Lei rimase seduta con gli occhi chiusi, desiderando una rapida conclusione di quell'incubo. Ma era impossibile. Sarebbe rimasta in quella stanza per l'eternità, rispondendo per sempre alle stesse domande. Forse, dopotutto, avrebbe fatto bene a chiamare un avvocato. Forse avrebbe dovuto alzarsi e andarsene. Katzka le aveva detto che non era in arresto. Non ancora. Lundquist ritornò con un bicchiere di carta pieno d'acqua. Abby la tran-
gugiò in poche sorsate e posò sul tavolo il bicchiere vuoto. «Allora, dottoressa, questi trapianti di cuore?» la incalzò Katzka. Lei sospirò. «Credo che sia questo il modo in cui Aaron si è procurato quei tre milioni di dollari. Trovando i donatori per riceventi ricchi che non volevano aspettare il loro turno sulla lista.» «La lista?» Abby annuì. «Soltanto nel nostro Paese ci sono cinquemila persone che hanno bisogno di un trapianto cardiaco. La maggior parte di loro è destinata a morire, perché c'è scarsità di cuori da trapiantare. I donatori devono essere individui giovani, che fino al momento del decesso erano in buona salute... il che significa che sono soprattutto persone rimaste vittime di un trauma, con conseguente morte cerebrale. Di donatori così non ce n'è a sufficienza.» «Allora chi decide quale paziente riceverà il cuore nuovo?» «Esiste un registro, un database, continuamente aggiornato. Nel nostro Stato, la selezione dipende dalla New England Organ Bank, la NEOB, che è assolutamente imparziale. La priorità viene stabilita in base alle condizioni di salute e non alle possibilità economiche dell'eventuale ricevente. Il che significa che un paziente che si trova in basso nella lista dovrà attendere a lungo. Dunque, ammettiamo che sia ricco e che tema di morire prima che si riesca a trovargli un cuore nuovo: ovviamente sarà tentato di scavalcare il sistema per procurarsi l'organo da trapiantare.» «È una cosa possibile?» «Presuppone laboratori fantasma in cui eseguire i test di compatibilita. E un'organizzazione in grado di tenere i potenziali donatori al di fuori del sistema codificato e di far arrivare direttamente gli organi espiantati ai pazienti ricchi. Ma c'è anche di peggio.» «Cioè?» «Che i nuovi donatori vengano creati appositamente.» «Intende dire uccidendo la gente?» chiese Lundquist. «E dove sarebbero i cadaveri? Nessuno denuncia la loro scomparsa?» «Non dico che stia accadendo davvero. Vi sto soltanto spiegando come potrebbe funzionare il sistema.» Tacque un istante. «Credo che Aaron Levi ne facesse parte. Ciò spiegherebbe i suoi tre milioni di dollari.» L'espressione di Katzka era praticamente immutata. La sua impassibilità cominciava a dare sui nervi ad Abby. Lei continuò, in tono più animato: «Ma non capite? Ormai mi rendo conto del motivo per cui quei procedimenti legali contro di me sono stati
ritirati. Probabilmente speravano che smettessi di fare domande. Però non ho desistito, ho continuato a farne sempre di più. E ormai devono screditarmi, perché posso attirare l'attenzione su questo traffico. Posso buttare all'aria ogni cosa.» «Ma allora perché non l'hanno semplicemente fatta fuori?» Era stato Lundquist a porre quella domanda, con una sfumatura di tranquillo scetticismo nella voce. Lei esitò. «Lo ignoro. Forse credono che abbia ancora poche carte in mano. O forse hanno paura di suscitare un vespaio. La morte di Aaron è troppo recente.» «Lei ha una bella fantasia», esclamò Lundquist, scoppiando a ridere. Katzka alzò una mano, come a imporgli il silenzio. «Dottoressa DiMatteo», disse, «sarò sincero con lei. Questo scenario non sembra molto credibile.» «È l'unico che mi venga in mente.» «Posso suggerirgliene uno io?» intervenne Lundquist. «Uno estremamente sensato?» Si avvicinò al tavolo, gli occhi fissi su Abby. «La sua paziente, Mary Allen, stava soffrendo. Forse le ha addirittura chiesto di aiutarla a morire. Forse lei ha pensato che fosse la scelta più misericordiosa da fare. Ed era misericordiosa. Una soluzione che qualsiasi medico curante avrebbe preso in considerazione. Perciò le ha iniettato una dose extra di morfina. Il guaio è che una delle infermiere l'ha vista. E ha mandato un biglietto anonimo alla nipote di Mary Allen. Così, a un tratto, lei si trova nei guai, soltanto perché ha cercato di essere compassionevole. Adesso, però, noi stiamo indagando alla ricerca di un omicida, c'è il rischio di finire in prigione. E questo fa molta paura, vero? Perciò lei ha architettato la teoria del complotto. Che non può essere provata... o smentita. Non le sembra una ricostruzione più logica, dottoressa? Per me, lo è.» «Ma non è così che si sono svolti i fatti.» «E allora come...» «Ve l'ho detto. Vi ho detto tutto...» «Ha ucciso Mary Allen?» «No.» Abby si chinò in avanti, le mani strette a pugno sul tavolo. «Non ho ucciso la mia paziente.» Lundquist guardò Katzka e sbottò: «Non convince, come bugiarda, vero?» Poi uscì dalla stanza. Per qualche istante, né Abby né Katzka parlarono. Poi lei chiese, in un soffio: «Sono in arresto?»
«No. Può andare.» Katzka si alzò. Si alzò anche Abby. I due rimasero a fissarsi, come se non fossero davvero convinti che l'interrogatorio ormai fosse finito. «Perché mi rilascia?» chiese Abby. «Sono in corso ulteriori indagini.» «Mi ritiene colpevole?» Katzka esitò. Abby sapeva che a quella domanda lui non poteva rispondere, eppure parve lottare con se stesso per replicare nel modo più sincero possibile. Infine il detective preferì sottrarsi completamente a quel dilemma. «Il dottor Hodell la sta aspettando», disse. «Lo troverà al banco d'ingresso.» Si girò per aprire la porta. «Dovrò parlare ancora con lei, dottoressa DiMatteo», aggiunse, e uscì dalla stanza. Abby si avviò lungo il corridoio ed entrò nell'atrio della stazione di polizia. Mark era lì. «Abby?» disse, piano. Lei lasciò che la stringesse tra le braccia, ma il suo corpo registrò quel contatto con uno strano senso d'intorpidimento, quasi di distacco. Come se lei stesse fluttuando nell'aria e osservasse dall'alto quei due estranei che si abbracciavano, si baciavano. E, sempre da quella distanza, lo sentì dire: «Andiamo a casa». Attraverso il vetro di sicurezza, Bernard Katzka guardò la coppia avviarsi verso la porta, studiando il modo in cui Hodell stringeva a sé la donna. Non era uno spettacolo scontato per un poliziotto. Affetto, amore. Nella stazione di polizia era quasi normale che le coppie si azzuffassero, i volti coperti di lividi, le labbra sanguinanti, le dita puntate in segno di accusa. Oppure c'era di mezzo il sesso. Questo lo si vedeva in continuazione. Era sotto gli occhi di tutti, appariscente come le puttane che passeggiavano nelle strade dei quartieri malfamati di Boston. Katzka stesso non era insensibile ai richiami del sesso, a quel bisogno occasionale di un corpo di donna. Ma l'amore era un sentimento che da lungo tempo non provava più. In quell'istante, provò un senso d'invidia per Mark Hodell. «Ehi, Lumaca!» chiamò qualcuno. «Una telefonata sulla linea tre.» Katzka sollevò il ricevitore. «Detective Katzka.» «Qui è l'ufficio del medico legale. Attenda in linea, le passo il dottor Rowbotham.»
Mentre Katzka aspettava, il suo sguardo corse all'atrio: Abby DiMatteo e Hodell se n'erano andati. Era una coppia che aveva tutto, pensò. Bellezza, denaro, una carriera bene avviata. Poteva una donna in quella situazione invidiabile rischiare ogni cosa soltanto per lenire le sofferenze di una paziente destinata a morire? Sentì la voce di Rowbotham. «Lumaca?» «Sì, che c'è?» «Una sorpresa.» «Buona o cattiva?» «Per adesso definiamola inaspettata. Mi sono arrivati i risultati dell'esame GC-MS sui tessuti del dottor Levi.» La GC-MS, o gascromatografia abbinata alla spettrometria di massa, era una metodica utilizzata dal laboratorio di medicina legale per identificare sostanze stupefacenti e tossiche. «Credevo che tu avessi già controllato», esclamò Bernard Katzka. «Erano state testate le droghe normali: narcotici, barbiturici. Ma avevamo usato metodi d'indagine immunologica e la cromatografia su strato sottile. Poiché stiamo parlando di un medico, ho pensato che non potevamo procedere con lo screening consueto e ho cercato eventuali tracce di fentanile, fenciclidina, alcune delle sostanze volatili. Nel tessuto muscolare il test è risultato positivo. Succinilcolina.» «Che sarebbe?» «È una sostanza che induce un blocco neuromuscolare. Interferisce con uno dei neurotrasmettitori del corpo, l'acetilcolina. Ha un effetto simile a quello della D-tubocurarina.» «Curaro?» «Esattamente, ma la succinilcolina ha un diverso meccanismo chimico. Viene usata abitualmente in sala operatoria. Per immobilizzare i muscoli durante l'intervento. Facilita la ventilazione.» «Mi stai dicendo che il dottor Levi era paralizzato?» esclamò Katzka. «Era del tutto impotente. La cosa peggiore è che era perfettamente conscio, però incapace di lottare.» Rowbotham fece una pausa. «È un tipo di morte orribile, Lumaca.» «Come viene somministrata questa sostanza?» «La si inietta.» «Non si è riscontrato il minimo segno d'iniezione, sul corpo.» «Magari era sullo scalpo, nascosto dai capelli. Stiamo parlando di qualcosa delle dimensioni di una puntura di spillo. Ci può essere sfuggito fa-
cilmente, per i cambiamenti post-mortem che si verificano a livello della cute.» Katzka rifletté. E gli venne in mente qualcosa che Abby DiMatteo gli aveva detto soltanto pochi giorni prima, qualcosa che lui aveva trascurato. «Mi potresti verificare i risultati di due vecchie autopsie?» domandò allora. «Una dovrebbe risalire a circa sei anni fa. Un tizio che si è buttato giù dal Tobin Bridge. Si chiamava Lawrence Kunstler.» «Mi puoi compitare il nome? Va bene, ci sono. E l'altro?» «Dottor Hennessy. Non ricordo con precisione il nome proprio. Avvelenamento accidentale da monossido di carbonio. Morì l'intera famiglia.» «Mi pare di ricordare. Aveva anche un bambino piccolo.» «Proprio lui. Intanto vedrò di ottenere le autorizzazioni per l'esumazione.» «Che cosa stai cercando, Lumaca?» «Non lo so. Qualcosa che all'epoca forse è sfuggito. E che adesso potremmo rintracciare.» «In un cadavere rimasto sepolto per sei anni?» La risata di Rowbotham era palesemente scettica. «Da quando in qua sei diventato un ottimista?» «Altri fiori, Mrs Voss. Sono stati appena consegnati. Vuole che glieli metta in camera? O devo sistemarli nell'ingresso?» «Portali qui, per favore.» Seduta in poltrona in camera da letto, accanto alla sua finestra preferita, Nina osservò la cameriera entrare con il vaso e appoggiarlo su un comodino, poi sistemare i fiori, spostando i gambi qua e là. Un profumo di salvia e di erba arrivò fino a Nina. «Mettili qui, accanto a me.» «Certo, signora.» La cameriera spostò il vaso sul piccolo tavolino da tè accanto alla poltrona di Nina. Per poterlo appoggiare dovette togliere una composizione di gigli orientali. «Non sono i suoi soliti fiori, vero?» disse la cameriera guardando il nuovo vaso. Nel suo tono di voce c'era una leggera nota di disapprovazione. «No.» Guardando quell'insolito bouquet, Nina sorrise. Il suo occhio esperto aveva già identificato ogni macchia di colore. Salvia russa e phlox color salmone, rudbeckia violetti e heliopsis gialli. E margherite. Un'infinità di pratoline. Fiori così comuni, senza importanza. Dove si potevano trovare le pratoline, in autunno avanzato? Passò una mano tra i fiori e inalò quelle fragranze da tarda estate, quel
profumo che le ricordava il giardino che lei, a causa della malattia, era stata costretta a trascurare. Con la fine dell'estate, la casa di Newport era stata chiusa. Come odiava l'inverno! Il giardino che appassiva e il ritorno a Boston, in questa casa con i soffitti dorati, gli stipiti delle porte scolpiti, le stanze da bagno in marmo di Carrara. E tutte quelle boiserie scure, che lei trovava opprimenti. La casa estiva era benedetta dalla luce, da venti tiepidi e dal profumo del mare. Questa casa invece le faceva venire in mente l'inverno. Nina prese una margherita e ne aspirò il profumo pungente. «Non preferirebbe avere accanto a sé i gigli?» chiese la cameriera. «Sono così fragranti.» «Mi stavano facendo venire il mal di testa. Questi fiori, chi li manda?» La cameriera strappò la piccola busta attaccata al vaso con il nastro adesivo e l'aprì. «A MRS VOSS. PER UNA PRONTA GUARIGIONE, JOY. Non dice altro.» Nina si accigliò. «Non conosco nessuno che si chiami Joy.» «Magari le verrà in mente più tardi. Non sarebbe meglio se tornasse a letto? Mr Voss dice che lei deve riposare.» «Non ne posso più di stare a letto.» «Ma Mr Voss dice...» «Mi metterò a letto più tardi. Adesso vorrei rimanere seduta qui per un po'. Da sola.» La cameriera esitò, poi, dopo un cenno di assenso e con aria riluttante, se ne andò. Finalmente, pensò Nina. Finalmente sono sola. Nell'ultima settimana, da quando aveva lasciato l'ospedale, era sempre stata attorniata da un mucchio di gente. Infermiere private, medici, cameriere. E Victor. Soprattutto Victor, che le ronzava continuamente attorno al letto. Leggendole a voce alta i biglietti di auguri di pronta guarigione, vagliando le telefonate che arrivavano. Proteggendola, isolandola. Imprigionandola in quella casa. Perché l'amava. Forse l'amava troppo. Nina affondò stancamente nella poltrona e si trovò a fissare il suo ritratto appeso sulla parete di fronte. Era stato dipinto poco tempo dopo il matrimonio. A commissionarlo era stato Victor, che aveva persino deciso quale vestito lei dovesse indossare: un lungo abito di seta con un disegno a rose appena accennate. Nel quadro, lei era ritratta in piedi sotto un pergolato d'uva, con una mano che stringeva una rosa bianca e l'altra che penzolava impacciata lungo il fianco. Il suo sorriso era timido, incerto, come se lei
stesse pensando: Sono qui soltanto per qualcun altro. Nello studiare quel ritratto di se stessa più giovane, Nina si rese conto di quanto poco fosse cambiata dal giorno in cui aveva posato come fresca sposa nel giardino. Gli anni l'avevano mutata fisicamente, certo. Non aveva più la robusta salute di un tempo. Eppure, in tante altre cose, era rimasta uguale. Ancora timida, impacciata. Era ancora la donna che Victor Voss aveva reclamato come sua. Udì i passi del marito e sollevò lo sguardo quando lui entrò nella camera da letto. «Louisa mi ha detto che eri ancora alzata», esordì lui. «Dovresti fare il tuo sonnellino.» «Sto bene, Victor.» «Non sembri ancora abbastanza forte.» «Sono già passate tre settimane e mezzo. Il dottor Archer dice che gli altri suoi pazienti ormai si esercitano già a camminare sul tapis roulant.» «Tu non sei come gli altri pazienti. Credo che dovresti riposare un po'.» I loro sguardi s'incontrarono. Con voce ferma, lei disse: «Rimarrò seduta qui, Victor. Voglio soltanto guardare fuori della finestra». «Nina, io penso soltanto a ciò che è meglio per te.» Lei però si era già voltata e stava fissando il parco. Gli alberi, il cui splendore autunnale stava già lasciando il posto al bruno dell'inverno. «Mi piacerebbe andare a fare una passeggiata.» «È troppo presto.» «Nel parco. Sino al fiume. In qualunque posto, purché sia fuori di questa casa.» «Non mi stai ascoltando, Nina.» «Sei tu quello che non ascolta», ribatté lei, sospirando. Cadde il silenzio. «Che cosa sono questi?» chiese Victor, indicando il vaso di fiori accanto alla poltrona della moglie. «Sono appena arrivati.» «Chi li manda?» Nina si strinse nelle spalle. «Qualcuno chiamato Joy.» «Fiori del genere si possono cogliere lungo il ciglio della strada.» «È per questo che li chiamano fiori di campo.» Victor sollevò il vaso e lo depose su un tavolo lontano, in un angolo della stanza. Poi prese i gigli orientali e li rimise accanto a Nina. «Almeno questi non sono erbacce», disse e uscì dalla stanza. Lei fissò i gigli. Erano stupendi, esotici e perfetti. Il loro profumo era
così forte da darle la nausea. Nina batté le palpebre per cancellare un inatteso velo di lacrime e mise a fuoco la piccola busta che giaceva sul tavolino. Quella che accompagnava i fiori di campo. Joy... Chi è Joy? L'aprì e ne estrasse il biglietto. Soltanto allora si accorse che sul retro era scarabocchiato qualcosa. Girò il cartoncino. ALCUNI MEDICI DICONO SEMPRE LA VERITÀ, c'era scritto. E, sotto, un numero di telefono. Alle cinque del pomeriggio, quando telefonò Nina Voss, Abby era sola in casa. «Parlo con la dottoressa DiMatteo?» chiese una voce smorzata. «Quella che dice sempre la verità?» «Mrs Voss? Ha ricevuto i miei fiori.» «Sì, la ringrazio. E ho trovato quel suo biglietto alquanto strano.» «Ho tentato in tutti i modi di mettermi in contatto con lei. Lettere, telefonate.» «Eppure è una settimana che sono a casa.» «Ma era sempre occupata.» Silenzio. Poi Nina sussurrò: «Capisco». Non ha idea di quanto sia rimasta isolata, pensò Abby. Non si rende conto di come il marito l'abbia tagliata fuori da qualsiasi comunicazione con l'esterno. «Qualcun altro sta ascoltando questa nostra telefonata?» chiese. «Sono sola nella mia stanza. Di che si tratta?» «Devo vederla, Mrs Voss. E senza che suo marito lo venga a sapere. Può riuscirci?» «Anzitutto mi spieghi il motivo.» «Non è semplice, per telefono.» «Se non me lo dice, non combinerò nessun incontro.» Abby esitò. «Si tratta del suo cuore. Di quello che le hanno trapiantato al Bayside.» «Sì?» «Nessuno sembra sapere di chi fosse. O da dove sia arrivato.» Fece una pausa. Poi chiese, piano: «Lei lo sa, Mrs Voss?» Il silenzio che seguì fu rotto soltanto dal respiro di Nina, rapido e irregolare.
«Mrs Voss?» «Devo andare.» «Aspetti. Quando potrò vederla?» «Domani.» «Come? Dove?» Ci fu un altro silenzio. Prima che la comunicazione venisse interrotta, Nina disse: «Troverò un modo». La pioggia tamburellava senza tregua sul tendone a righe sopra la testa di Abby. Da quaranta minuti stava aspettando in piedi davanti alla drogheria Cellucci's, tremando di freddo sotto la striscia di tela. Nel frattempo, un'infinità di camion era arrivata a scaricare le merci e carrelli e scatoloni erano stati spinti dentro il negozio. Abby si girò di lato allorché, con un ruggito, un camion della Progresso Foods si allontanò di colpo dal marciapiede, emettendo una nuvola di gas di scarico. Quando tornò a guardare davanti a sé, vide che una limousine nera si era fermata dall'altra parte della strada. Il finestrino del guidatore si abbassò di qualche centimetro e un uomo gridò: «Dottoressa DiMatteo? Monti in macchina». Abby esitò. I finestrini erano troppo scuri per permetterle di vedere all'interno, ma nel sedile posteriore si scorgeva la sagoma di un unico passeggero. «Non abbiamo molto tempo», la sollecitò l'autista. Abby attraversò la strada, a testa china contro la pioggia scrosciante, e spalancò la portiera posteriore. Battendo le palpebre per liberarle dall'acqua, mise a fuoco il passeggero. Ciò che vide la sgomentò. Nella penombra dell'auto, Nina Voss sembrava pallida e tirata. La carnagione era di un bianco polveroso. «La prego, salga, dottoressa», disse. Abby scivolò accanto a lei e chiuse lo sportello. La limousine si staccò dal marciapiede e scivolò silenziosamente nella corrente del traffico. Nina era infagottata in un cappotto nero e in una sciarpa dello stesso colore: il suo volto sembrava fluttuare, senza corpo, tra le ombre della vettura. Non era il ritratto di una paziente che si sta riprendendo dopo un trapianto. Abby pensò al viso rubicondo di Josh O'Day, ricordò la sua vivacità, le sue risate. Nina Voss sembrava un cadavere parlante. «Mi dispiace di essere in ritardo», disse. «Abbiamo avuto qualche problema nell'uscire di casa.»
«Suo marito sa di questo nostro incontro?» «No.» Nina ricadde all'indietro e il suo volto venne come risucchiato nella lana nera. «Con gli anni, ho imparato che certe cose a Victor non vanno dette. Il vero segreto di un matrimonio felice, dottoressa DiMatteo, è il silenzio.» «Non sembra proprio una frase da matrimonio felice.» «Ma il nostro lo è. Per strano che ciò possa sembrare.» Nina sorrise e guardò fuori del finestrino. La luce filtrata dalla pioggia proiettò sul suo viso ombre distorte. «Gli uomini devono essere protetti da un'infinità di cose. Il più delle volte da loro stessi. Per questo, sa, hanno bisogno di noi. La cosa buffa è che non lo ammetteranno mai. Sono convinti di prendersi cura loro di noi. Ma noi conosciamo la verità.» Si girò verso Abby e il sorriso svanì. «Ho bisogno di sapere. Che cos'ha fatto Victor?» «Speravo che potesse dirmelo lei.» «Lei ha accennato al mio cuore.» Nina si portò una mano al torace. Nella penombra della macchina il suo gesto sembrò quasi religioso. Padre, Figlio e Spirito Santo. «Lei che cosa sa, a questo proposito?» «So che il suo cuore non è arrivato attraverso i consueti canali. Quasi tutti gli organi da trapiantare vengono destinati ai riceventi tramite un'organizzazione centrale. Per il suo non è andata così. Secondo la New England Organ Bank, noi non abbiamo mai ricevuto un cuore.» La mano di Nina, ancora posata sul petto, si era contratta in una palla bianca. «Allora da dove è venuto?» «Io non lo so. E lei?» La faccia cadaverica la fissò in silenzio. «Credo che suo marito lo sappia», mormorò Abby. «Come mai?» «L'ha comprato.» «I cuori non si possono comprare.» «Invece sì. E, se si ha denaro a sufficienza il prezzo non ha importanza.» Nina non replicò. E, con il suo silenzio, ammise la propria accettazione di quella verità basilare. Il denaro può comprare ogni cosa. Anche un cuore. La limousine svoltò in Embankment Road. Si stavano dirigendo a ovest, lungo il Charles River. La superficie del fiume era grigia e punteggiata di pioggia. «Com'è venuta a sapere queste cose?» chiese Nina. «Ultimamente mi sono trovata ad avere molto tempo libero. È incredibi-
le quante cose si possono fare se, d'un tratto, viene a mancarci il lavoro. Da qualche giorno a questa parte, ho scoperto varie cose. In relazione non soltanto al suo trapianto, ma anche ad altri. E più cose vengo a sapere, Mrs Voss, più ho paura.» «Perché ha voluto parlarne con me? Perché non si è rivolta alle autorità?» «Non è al corrente? In questi giorni mi hanno affibbiato un soprannome: 'dottoressa Cicuta'. Sostengono che uccido i miei pazienti, con gentilezza, beninteso. Non c'è nulla di vero, naturalmente, ma la gente è sempre pronta a credere al peggio.» Lanciò un'occhiata stanca al fiume. «Non ho lavoro. Non ho credibilità. E non ho prove.» «Che cosa le rimane?» Abby la guardò. «Conosco la verità.» La limousine entrò in una pozzanghera. Gli schizzi d'acqua martellarono il fondo della vettura. Si erano allontanati dal fiume e stavano svoltando per la strada che portava a Back Bay Fens. «Alle dieci di sera, il giorno in cui le fu trapiantato il cuore», proseguì Abby, «al Bayside Hospital arrivò una telefonata in cui si diceva che era stato trovato un donatore a Burlington, nel Vermont. Quattro ore più tardi, il cuore ci fu consegnato in sala operatoria. L'espianto era presumibilmente avvenuto al Wilcox Memorial Hospital, eseguito da un chirurgo di nome Timothy Nicholls. Il suo trapianto fu portato a termine... Fin qui non c'era nulla di straordinario. Sotto diversi aspetti assomigliava a ogni altro trapianto eseguito al Bayside.» Fece una pausa. «Con un'unica differenza fondamentale: nessuno sa da dove sia venuto il cuore del donatore.» «Lei ha appena sostenuto che arrivò da Burlington.» «Ho detto che presumibilmente giunse da lì. Ma il dottor Nicholls è svanito nel nulla. È possibile che si nasconda, tuttavia potrebbe anche essere morto. E il Wilcox Memorial esclude che quella notte sia stato eseguito un espianto.» Nina era ripiombata nel silenzio. Sembrava raggrinzirsi nel cappotto di lana. «Lei non è stata la prima», continuò Abby. Nel viso terreo, gli occhi assunsero un'espressione attonita. «Ci sono stati altri casi?» «Almeno quattro. Ho visto le cartelle degli ultimi due anni. È accaduto sempre nello stesso modo. Bayside riceve da Burlington la comunicazione dell'esistenza di un donatore. Il cuore viene consegnato alla nostra sala o-
peratoria un po' dopo mezzanotte. Il trapianto viene eseguito e si rientra nella normale routine. Eppure c'è qualcosa che non va in questo quadro. Stiamo parlando di quattro cuori, di quattro persone morte. Una mia amica e io abbiamo controllato i necrologi apparsi a Burlington in quelle date. Non vi risulta nessuno che potesse configurarsi come donatore.» «Allora da dove vengono i cuori?» Abby tacque. Poi, incrociando lo sguardo incredulo di Nina, disse: «Non lo so». La limousine aveva di nuovo svoltato verso nord e correva ancora una volta lungo il Charles River. Stavano ritornando a Beacon Hill. «Non ho nessuna prova», proseguì Abby. «Non posso rivolgermi alla New England Organ Bank o a chiunque altro. Tutti sanno che su di me pende un'inchiesta. Mi considerano una squilibrata. Per questo mi sono rivolta a lei. Quella notte, quando ci siamo incontrate nell'unità di terapia intensiva, ho pensato: Ecco una donna che vorrei come amica.» Fece una pausa. «Ho bisogno del suo aiuto, Mrs Voss.» Nina si chiuse in un lungo silenzio. Non stava guardando Abby, ma fissava dritto davanti a sé, il volto bianco come ossa calcinate. Infine parve prendere una decisione. Emise un profondo sospiro e disse: «Devo farla scendere, adesso. Le va bene a quest'angolo?» «Mrs Voss, suo marito ha comprato quel cuore. Se l'ha fatto lui, possono farlo anche altri. Non sappiamo chi sono i donatori! Non sappiamo come vengano procurati...» «Fermi qui», ordinò Nina all'autista. La limousine si accostò al marciapiede. «La prego, scenda.» Abby non si mosse. Rimase seduta, senza parlare. La pioggia tamburellava monotona sul tettuccio. «Per favore», bisbigliò Nina. «Credevo di poter fare affidamento su di lei. Pensavo...» Scosse la testa. «Addio, Mrs Voss.» Una mano le toccò il braccio. Abby si girò a guardare gli occhi allucinati della donna. «Amo mio marito», disse Nina. «E lui ama me.» «Questo giustifica ogni cosa?» Silenzio. Abby smontò dall'auto e chiuse la portiera. La limousine si allontanò. Mentre osservava la macchina scivolare nel crepuscolo, pensò: Non la ri-
vedrò mai più. Poi, con le spalle curve, s'incamminò sotto la pioggia. «Torniamo a casa, Mrs Voss?» La voce dell'autista, che le arrivò piatta e metallica dall'interfono, riscosse Nina dal suo stato di trance. «Sì», disse. «Mi porti a casa.» Si raggomitolò ancora più strettamente nel suo bozzolo di lana nera e fissò la pioggia che rigava il finestrino. Pensò a ciò che avrebbe detto a Victor. E a ciò che non avrebbe detto, che non avrebbe potuto dire. Ecco che cos'è diventato il nostro amore, pensò. Segreti su segreti. E lui ha tenuto per sé il più terribile. Chinò la testa e cominciò a piangere, per Victor e per ciò che era accaduto al suo matrimonio. Pianse anche per se stessa, perché aveva capito che cos'era stato fatto, e aveva paura. La pioggia rigava il finestrino come se fosse stata un fiotto di lacrime. Intanto la limousine la riportava a casa, da Victor. 19. Shu-Shu aveva bisogno di un bagno. I ragazzi più grandi lo stavano dicendo da giorni, avevano persino minacciato di buttare il cane di pezza in mare se Aleksej non gli avesse dato una bella lavata. Shu-Shu puzza, dicevano, e non c'è da meravigliarsi, con il moccio che gli riversi addosso. Aleksej non era d'accordo: gli piacevano gli odori di cui era impregnato il suo cane di pezza. Non era mai stato lavato, e ogni effluvio corrispondeva a un ricordo diverso. Sapeva di sugo di carne, perché lui gliel'aveva rovesciato sulla coda, e ciò gli rammentava la cena della sera precedente, quando Nadja gli aveva servito una doppia porzione di tutto. (E gli aveva anche sorriso!) L'odore di sigarette era quello dello zio Miša, aspro ma pieno di calore. Il sentore acido di barbabietola era un ricordo dell'ultima Pasqua, quando di mattina, tra grandi risate, avevano mangiato uova sode e lui aveva versato la zuppa sulla testa di Shu-Shu. E, se chiudeva gli occhi e inspirava profondamente, Aleksej riusciva talvolta a discernere un altro odore, più leggero, che però aveva resistito agli anni. Non era qualcosa che potesse classificare come acre o dolce. Piuttosto lo riconosceva per il rimescolio che gli suscitava dentro. Era un profumo che gli andava dritto al cuore. Era l'odore della sua infanzia. Il ricordo di quando era stato carezzato, cullato e amato. Stringendosi al petto Shu-Shu, Aleksej si rintanò sotto la coperta. Non
permetterò mai che loro ti facciano un bagno, pensò. In ogni caso, non erano rimasti in molti a tormentarlo. Cinque giorni prima, un'altra nave era apparsa dalla nebbia e aveva puntato direttamente sulla loro. Mentre i ragazzi si aggrappavano ai parapetti per vedere, Nadja e Grigorij erano andati avanti e indietro, chiamandone alcuni per nome, uno dopo l'altro. Nikolaj Alekseenko! Pavel Prebazenskij! A ogni nome, si alzavano urla di trionfo, e pugni scattavano in aria. Evviva! Sono stato scelto! Più tardi, quelli rimasti si erano accalcati dietro i parapetti a osservare in silenzio la lancia a motore che portava i fortunati compagni all'altra nave. «Dove vanno?» aveva chiesto Aleksej. «Da alcune famiglie all'ovest», aveva risposto Nadja. «Su, allontanatevi dal parapetto. Comincia a far freddo, qui fuori.» I ragazzi non si erano mossi. Dopo un po', Nadja se n'era andata, come se non le importasse più di tanto che loro rimanessero sul ponte oppure no. «Le famiglie occidentali devono essere stupide», aveva commentato Jakov. Aleksej si era girato a guardarlo. Jakov stava fissando fieramente il mare, il mento spinto in fuori come se fosse smanioso di attaccar briga. «Secondo te, sono tutti stupidi», aveva replicato Aleksej. «È così. Su questa nave lo sono tutti.» «Il che vuol dire che lo sei anche tu.» Jakov non aveva risposto, ma si era aggrappato al parapetto con la sua unica mano, tenendo lo sguardo fisso sull'altra nave che stava scivolando nella nebbia. Poi se n'era andato. Nei pochi giorni seguenti, Aleksej non l'aveva quasi mai visto. Quella sera, come al solito, Jakov era scomparso subito dopo cena. Probabilmente si è rintanato in quel suo stupido Paese delle Meraviglie, pensò Aleksej. Si è nascosto in quella cassa in mezzo agli escrementi di topo. Si tirò la coperta sulla testa. E si addormentò così, raggomitolato nella sua cuccetta con il lurido Shu-Shu premuto contro il viso. Una mano lo scosse. Una voce lo chiamò piano nella notte: «Aleksej. Aleksej». «Mammina», esclamò. «Aleksej, è ora di svegliarsi. Ho una sorpresa per te.» Lentamente, lui riemerse dal sonno, affiorando nell'oscurità. Una mano lo stava ancora scuotendo. Aleksej riconobbe il profumo di Nadja.
«È ora di andare», gli sussurrò. «Dove devo andare?» «Devi prepararti a incontrare la tua nuova mamma.» «È qui?» «Ti porterò io da lei. Sei stato scelto tu, Aleksej, fra tutti i ragazzi. Sei molto fortunato. Adesso vieni, però non fare rumore.» Aleksej si mise a sedere. Non era ancora completamente sveglio. Sto forse sognando? si domandò confusamente. Ma Nadja allungò le braccia e l'aiutò a scendere dalla cuccetta. «Shu-Shu», biascicò il ragazzo. Nadja gli mise il cane di pezza tra le braccia. «Certo, puoi portare il tuo Shu-Shu.» Lo prese per mano. Non l'aveva mai preso per mano prima di allora. L'improvviso empito di gioia lo risvegliò del tutto. Si tenevano per mano e stavano camminando assieme, per andare a incontrare la sua nuova madre. Le luci erano spente e Aleksej aveva paura del buio, ma ci avrebbe pensato Nadja a proteggerlo da ogni cosa. Gli balenò in mente un ricordo, un oscuro ricordo: È questa la sensazione che si prova quando si tiene per mano la mamma. Uscirono dalla cabina e s'incamminarono per un corridoio scarsamente illuminato. Aleksej avanzava in uno stato di gioioso intontimento, senza badare a dove stavano andando perché era Nadja a prendersi cura di ogni cosa. Svoltarono in un altro corridoio. Aleksej non lo riconobbe. Oltrepassarono una porta. Erano nel Paese delle Meraviglie. La passerella d'acciaio correva davanti a loro e, in faccia, c'era la porta azzurra. Aleksej si fermò. «Che cosa c'è?» chiese Nadja. «Non voglio andare là dentro.» «Ma devi.» «Ci abita qualcuno.» «Aleksej, non fare il difficile.» Nadja gli strinse la mano con maggiore forza. «È lì che devi andare.» «Perché?» D'un tratto, lei comprese che bisognava adottare una tattica diversa. Si accovacciò, così da avere i propri occhi all'altezza di quelli del ragazzo, e l'afferrò saldamente per le spalle. «Vuoi mandare all'aria tutto? Vuoi farmi arrabbiare? Lei aspetta un bimbo obbediente e tu ti comporti davvero ma-
le.» Le labbra di Aleksej tremarono. Cercò disperatamente di non piangere, perché sapeva quanto gli adulti fossero infastiditi dalle lacrime infantili. Ma queste cominciavano già a rigargli le guance. Stava rovinando tutto, proprio come Nadja aveva appena detto. Lui rovinava sempre tutto. «Non c'è ancora nulla di definitivo», continuò Nadja. «Lei può ancora scegliere un altro ragazzo. È questo che vuoi?» Aleksej singhiozzò: «No». «Allora perché non ti comporti come si deve?» «Ho paura di quelle persone che mangiano le quaglie.» «Che cosa? Sei ridicolo. Non mi sorprenderebbe se nessuno accettasse di prenderti.» Si raddrizzò, prendendolo di nuovo per mano. «Vieni!» Aleksej fissò la porta azzurra. «Prendimi in braccio», mormorò. «Sei troppo pesante. Mi farei male alla schiena.» «Ti prego, prendimi in braccio.» «Devi camminare, Aleksej. Su, muoviti, o faremo tardi.» Gli passò un braccio attorno alle spalle. Lui prese a camminare, soltanto perché lei era lì accanto, lo teneva stretto. Proprio come lui teneva stretto a sé Shu-Shu. Finché fossero rimasti così uniti, loro tre, nulla di male sarebbe potuto accadere. Nadja bussò alla porta azzurra. La porta venne aperta. Jakov li sentì arrivare sulla passerella sopra di lui. Aleksej che frignava, Nadja che lo sgridava in tono impaziente. Strisciò fino all'apertura della cassa e sbirciò cautamente nella loro direzione. Si stavano avviando verso la porta azzurra. Un attimo dopo scomparvero all'interno. Perché deve essere Aleksej a entrare là dentro e non io? Scivolò fuori della cassa e si arrampicò lungo la scala fino alla porta azzurra. Cercò di aprirla, ma, come sempre, era chiusa a chiave. Sconfitto, tornò alla sua cassa. Ormai era diventata un comodo nascondiglio. Nell'ultima settimana aveva razziato una coperta, una torcia elettrica e un mucchio di riviste con foto di donne nude. Aveva anche portato via a Kubičev un accendino e un pacchetto di sigarette. Ogni tanto Jakov ne fumava una, ma erano poche e stava attento a non sprecarle. Una volta aveva accidentalmente appiccato il fuoco ai trucioli di legno. Era stato divertente. Però in genere si limitava a distribuire le sigarette tutt'attorno a sé, a tenere in mano il pacchetto, leggendo e rileggendo, alla luce della tor-
cia elettrica, quanto c'era scritto sopra. Era quello che stava facendo allorché aveva sentito Aleksej e Nadja sulla passerella. Adesso aspettava che uscissero dalla porta azzurra. Ce ne stavano mettendo, di tempo. Che cosa combinavano là dentro? Jakov buttò a terra il pacchetto di sigarette. Non era giusto. Guardò qualche foto delle riviste. Si divertì ad accendere e a spegnere l'accendino. Poi decise che aveva sonno. Si rannicchiò nella coperta e si appisolò. Qualche tempo dopo, fu svegliato da una specie di rombo. Sulle prime pensò che dipendesse da un'avaria ai motori della nave, poi si rese conto che il rumore si stava facendo sempre più forte e che non veniva dall'Inferno, bensì da sopra, dal ponte. Era l'elicottero. Grigorij legò la parte superiore del sacchetto di plastica e lo infilò nel contenitore refrigerante. Infine tese il tutto a Nadja. «Su, prendilo.» In un primo momento, lei parve non aver udito. Poi guardò Grigorij, con la faccia cerea, e lui pensò: Questa cagna non ce la fa. «C'è bisogno di ghiaccio. Svelta, mettilo.» E spinse il contenitore verso di lei. Nadja indietreggiò di un passo, inorridita. Infine, respirando affannosamente, lo prese, lo portò dall'altra parte della cabina, lo mise su un banco e cominciò a metterci dentro il ghiaccio. Grigorij si accorse che le gambe della donna erano malferme. La prima volta era sempre sconvolgente. Anche lui, all'inizio, aveva vissuto momenti di orrore. Nadja li avrebbe superati. Grigorij si girò verso il tavolo operatorio. L'anestesista aveva già tirato su la chiusura lampo del sudario e stava raccogliendo i teli insanguinati. Il chirurgo non faceva nulla per aiutarlo, anzi era crollato con la schiena contro il banco, come se non riuscisse a tirare il fiato. Grigorij lo guardò con disgusto. C'era qualcosa di particolarmente osceno in un medico che permetteva a se stesso di diventare così grasso. Era quasi grottesco. Quella notte, poi, il chirurgo non pareva in buona salute. Durante l'intervento aveva respirato in modo affannoso e le sue mani erano apparse più tremolanti del solito. «Mi fa male la testa», gemette il medico. «Bevi sempre troppo. Saranno i postumi di qualche fottuta sbronza.» Grigorij si avvicinò al tavolo e afferrò un'estremità del sudario. Con l'aiuto
dell'anestesista lo sollevò e lo buttò nel carrello della lavanderia. Quindi prese gli indumenti sporchi e gettò anche quelli nel carrello. Quasi gli sfuggì il cane di pezza, finito sul pavimento: era tutto liso e macchiato di sangue. Grigorij lo buttò sul resto, poi l'anestesista e lui spinsero il carrello fino al pozzo di scarico. Aprirono il portello e rovesciarono sudario, indumenti e cane di pezza nello scivolo. Il chirurgo gemette: «È la peggiore emicrania...» Grigorij lo ignorò. Si strappò i guanti e andò al lavandino a pulirsi le mani. Non si sapeva mai che cosa si rischiava di prendere, maneggiando quegli schifosi indumenti. Magari i pidocchi. Si lavò accuratamente, come un medico che si apprestasse a operare. Risuonò un tonfo sordo, seguito dal tintinnio di strumenti metallici che cadevano al suolo. Grigorij si girò. Il chirurgo giaceva al suolo, la faccia paonazza, gli arti sussultanti come quelli di un automa sfuggito a ogni controllo. Nadja e l'anestesista s'immobilizzarono, raggelati dall'orrore. «Che cos'ha?» chiese Grigorij. «Non lo so!» gridò l'anestesista. «Be', fa' qualcosa!» L'anestesista s'inginocchiò accanto all'uomo in preda alle convulsioni, tentando inutilmente di rianimarlo. Gli sciolse il camice da chirurgo, gli premette una maschera a ossigeno sul volto. Le convulsioni erano sempre più violente, le braccia sbatacchiavano qua e là come le ali di un'oca. «Reggi tu la maschera al posto mio!» esclamò l'anestesista. «Gli faccio un'iniezione!» Grigorij s'inginocchiò accanto alla testa dell'uomo e tenne ferma la maschera. La faccia del chirurgo era repellente, così grassa e oleosa, e in più dalla bocca gli era uscita una specie di bava, che aveva reso scivolosa la maschera a ossigeno. La pelle stava assumendo una colorazione bluastra. Vedendo l'uomo diventare sempre più cianotico, Grigorij capì che i loro sforzi erano inutili. Pochi attimi dopo, l'uomo era morto. Per un bel po' i tre rimasero in piedi attorno al cadavere, fissandolo. Sembrava ancora più grasso e più grottesco. La pancia si era come distesa e le guance carnose si erano dilatate, simili a flaccide meduse. «Che cazzo facciamo adesso?» mormorò l'anestesista. «Abbiamo bisogno di un altro chirurgo», disse Grigorij. «Non puoi mica pescarlo in mare. Dobbiamo raggiungere il porto prima
del previsto.» «O trasferire il carico umano...» Grigorij alzò di colpo gli occhi. Nadja e l'anestesista lo imitarono. Ormai lo sentivano tutti chiaramente: era il fragore ritmato dell'elicottero. Guardò il contenitore sul banco. «È pronto?» «L'ho imbottito di ghiaccio», rispose Nadja. «Va', allora. Portaglielo.» Grigorij abbassò lo sguardo sul cadavere e, con aria disgustata, gli sferrò un calcio. «Noi intanto ci occuperemo della balena.» L'occhio blu stava brillando sul ponte. Dal suo nascondiglio sotto la scaletta che portava al ponte di comando, Jakov aveva osservato la luce azzurra accendersi per prima, seguita da quelle bianche che formavano un cerchio tutt'attorno. Sfolgoravano a tal punto da impedirgli di guardarle direttamente. Fissò invece il cielo, l'elicottero che volteggiava in aria. L'apparecchio scese dall'oscurità e Jakov chiuse gli occhi mentre l'aria smossa dalle pale gli frustava la faccia. Quando riaprì gli occhi, vide che era atterrato. Il portello fu spalancato, ma non scese nessuno. Stavano aspettando che qualcuno salisse a bordo. Jakov strisciò in avanti, così da guardare nello spazio tra due gradini, direttamente verso l'elicottero. Quel fortunato di Aleksej, pensò. Aleksej se ne va via stanotte. Udì lo schianto di una porta che sbatteva e, sul limitare del cerchio illuminato, apparve una figura. Era Nadja. Attraversò il ponte, con il corpo chino in avanti, il sedere spinto in alto. Temeva che quelle pale potessero staccarle la sua stupida testa. S'infilò nel portello dell'elicottero, con il sedere sempre all'infuori, per parlare al pilota. Poi si ritrasse e indietreggiò fino al margine delle luci. Un attimo dopo, l'elicottero s'innalzò. Le luci furono spente, facendo piombare nel buio il ponte. Jakov uscì da sotto la scaletta per osservare l'elicottero che prendeva quota. Vide la coda girare come un gigantesco pendolo su una corda. Infine l'apparecchio si allontanò, rombando, volando basso sull'acqua, e scomparve nella notte. Una mano artigliò il braccio di Jakov. Lui lanciò un grido mentre veniva strattonato e costretto a girarsi. «Che diavolo stai facendo qui?» chiese Grigorij. «Nulla!»
«Che cosa hai visto?» «Soltanto l'elicottero...» «Che cosa hai visto?» Jakov si limitò a fissarlo, troppo atterrito per rispondere. Nadja aveva udito le loro voci. Attraversò il ponte e li raggiunse. «Che cosa c'è?» «Il ragazzo stava di nuovo spiando. Credevo che tu avessi chiuso a chiave la cabina.» «L'ho fatto. Probabilmente se l'è filata prima.» Nadja guardò Jakov. «Sempre lui. Non posso tenerlo d'occhio ogni secondo.» «In ogni caso, ne ho abbastanza di 'sto moccioso.» Grigorij dette un altro strattone al braccio di Jakov e lo condusse verso il portello delle scale. «Non può tornare con gli altri.» Si girò per aprire la porta. Jakov gli sferrò un calcio sul retro del ginocchio. Con un urlo, Grigorij mollò la presa. Jakov corse via. Sentì le grida di Nadja, udì alcuni passi rimbombare dietro di lui. Poi altri passi, lungo la scala che conduceva al ponte di comando. Si slanciò in avanti, verso la prua. Quando si rese conto che era finito proprio nella zona destinata agli atterraggi era ormai troppo tardi. Si udì un forte clic e i riflettori si accesero. Jakov era intrappolato al centro di quella luce abbagliante. Facendosi schermo agli occhi con una mano, si mosse alla cieca, cercando di allontanarsi dal rumore dei passi degli inseguitori. Ma questi ormai l'avevano circondato e si stavano avvicinando. L'afferrarono per la camicia. Jakov si divincolò. Qualcuno lo colpì in faccia, tanto violentemente da gettarlo a terra. Jakov provò ad allontanarsi carponi, ma un calcio lo fece crollare al suolo. «Basta!» disse Nadja. «Non vorrete mica ucciderlo!» «Piccolo stronzo», grugnì Grigorij. Jakov fu tirato su per i capelli. Grigorij lo spinse attraverso il ponte, verso il portello delle scale. Jakov continuava a inciampare, e ogni volta veniva ripreso per i capelli. Non riusciva a vedere dove si stessero dirigendo. Capiva soltanto che avevano sceso alcuni gradini, che stavano percorrendo un corridoio. Grigorij continuava a bestemmiare. Zoppicava anche leggermente, il che era per Jakov una piccola soddisfazione. Una porta venne spalancata e Jakov fu spinto oltre la soglia. «Marcirai qui per un po'», sibilò Grigorij. E richiuse la porta con un colpo violento.
Jakov sentì scattare il lucchetto e i passi allontanarsi fino a svanire. Era solo, al buio. Si tirò le ginocchia contro il petto e prese a cullarsi. Uno strano tremore si era impossessato del suo corpo e lui fece di tutto per mandarlo via, ma senza riuscirci. Gli battevano i denti, non per il freddo, bensì per un qualcosa che lo scuoteva nel profondo dell'animo. Chiuse gli occhi e rivide la scena cui aveva assistito. Nadja che attraversava il ponte, fluttuando attraverso un campo di luce. Lo sportello dell'elicottero aperto, in attesa. E Nadja che si chinava, che si spingeva in avanti mentre consegnava qualcosa al pilota. Una scatola. Si strinse con più forza le gambe al petto, ma il tremore non cessò. Allora, piagnucolando, s'infilò il pollice in bocca e cominciò a succhiarlo. 20. Per Abby, la mattina era il momento peggiore. Al risveglio, ancora un po' addormentata, cercava d'immaginarsi la giornata che aveva davanti, poi di colpo ricordava: Non devo andare in nessun posto. Quella consapevolezza la colpiva crudelmente, in modo quasi fisico. Rimaneva a letto, ascoltando Mark che si vestiva. Lo sentiva muoversi nella stanza da letto ancora immersa nel buio e veniva colta da una depressione così profonda da impedirle di parlare. In quei giorni, condividevano una casa e un letto, eppure non si rivolgevano quasi mai la parola. È così che muore l'amore, pensò Abby, sentendo Mark uscire dalla porta di casa. Non per qualche frase rabbiosa, ma per il silenzio. Quando Abby aveva dodici anni, suo padre era stato licenziato dalla conceria in cui lavorava. Nelle settimane seguenti, lui aveva continuato a uscire di casa ogni mattina, in macchina, quasi dovesse recarsi davvero al lavoro. Abby non aveva mai scoperto dove andasse o che cosa facesse, e lui non glielo aveva mai rivelato. Lei sapeva soltanto che quell'uomo era atterrito dall'idea di rimanere in casa perché così avrebbe dovuto prendere atto del proprio fallimento. Questo era il motivo per cui, ogni mattina, fingeva che nulla fosse mutato. Proprio come finse Abby quel giorno. Non prese l'auto, ma si avviò a piedi, un isolato dopo l'altro, senza una meta precisa. La sera prima, il tempo si era messo al freddo, tanto che
Abby, quando si decise a fermarsi in un bar, aveva il volto intirizzito. Ordinò caffè e un panino dolce al sesamo, poi si sedette a uno dei tavoli. Aveva appena cominciato a mangiare quando lo sguardo le cadde sull'uomo seduto al tavolo accanto. Stava leggendo il Boston Herald. In prima pagina, Abby scorse la propria foto. Provò la tentazione di strisciare fuori della porta. Si guardò furtivamente in giro, quasi aspettandosi, di vedere gli occhi di tutti i clienti del locale puntati su di lei. Invece nessuno la stava guardando. Si alzò, buttò il panino dolce nel cestino dei rifiuti e uscì. Non aveva più fame. Un isolato più avanti comprò in una rivendita di giornali una copia dell'Herald e, tremante, rannicchiata in un androne, lesse rapidamente l'articolo. LO STRESS DI UN ASPIRANTE CHIRURGO PUÒ SFOCIARE IN UNA TRAGEDIA La dottoressa Abigail DiMatteo era, sotto ogni punto di vista, un promettente futuro chirurgo, uno dei migliori allievi del Bayside Hospital, secondo il direttore della Scuola di specialità, dottor Colin Wettig. Ma, negli ultimi mesi, poco dopo che la dottoressa DiMatteo era entrata nel secondo anno del corso di chirurgia, qualcosa ha cominciato ad andare per il verso sbagliato... Abby dovette interrompere la lettura, perché il respiro le era diventato troppo affannoso. Dopo qualche istante, riuscì a calmarsi quel tanto da terminare l'articolo. Arrivata in fondo, si sentì veramente male. Il giornalista aveva menzionato ogni cosa: i procedimenti legali, la morte di Mary Allen, l'alterco con Brenda. Tutti fatti innegabili. E, messi assieme, tali da creare l'immagine di una personalità instabile, persino pericolosa. L'articolo sfruttava l'inconfessato terrore di ogni persona comune di trovarsi alla mercé di un medico pazzo. Non posso credere che qui si stia parlando proprio di me. Anche se fosse riuscita a non farsi espellere dall'albo dei medici, anche se avesse ottenuto la specializzazione, un articolo come quello l'avrebbe seguita ovunque. Su di lei sarebbe sempre rimasta l'ombra del dubbio. Nessun malato lucido di mente avrebbe accettato di finire sotto il pugnale di una psicopatica. Senza neanche accorgersi di dove stesse andando, continuò per un pezzo
a camminare con il giornale stretto in mano. Quando infine si fermò, si trovava davanti al campus dell'università di Harvard e le orecchie le dolevano per il freddo. Notò che l'ora di pranzo era passata da parecchio. Aveva camminato tutta la mattina, e ormai metà della giornata era trascorsa. Non sapeva dove andare. Chiunque altro in quel campus - che fossero studenti con lo zainetto sulle spalle o professori con giacche di tweed stazzonate - sembrava avere una meta precisa. Lei no. Abbassò di nuovo gli occhi sul giornale. La fotografia che vi era stampata veniva dall'archivio della Scuola di specialità, un'istantanea che le avevano scattato quando lei lavorava in ospedale come interna. Abby aveva sorriso alla macchina fotografica, con il suo volto fresco e pieno d'entusiasmo; aveva l'aria di una giovane donna ansiosa di realizzare il proprio sogno. Gettò il giornale in un cestino dei rifiuti e si avviò verso casa, pensando: Contrattaccare. Devo contrattaccare. Ma lei e Vivian non avevano elementi validi cui appigliarsi. Il giorno prima, Vivian era andata in aereo a Burlington e la sera, quando aveva telefonato ad Abby, le aveva dato notizie non buone: Tim Nicholls aveva chiuso il proprio studio e nessuno sapeva dove fosse finito. Era un vicolo cieco. Quanto poi al Wilcox Memorial, dai registri non risultava che, in quelle quattro date, fossero stati eseguiti interventi di espianto. Un'altra strada senza uscita. Infine Vivian aveva controllato presso la polizia locale, senza però trovare tracce di persone scomparse o di corpi non identificati e privi di cuore. Anche lì, nulla da fare. Hanno cancellato ogni traccia. Non riusciremo mai a sconfiggerli. Non appena ebbe varcato la porta d'ingresso, notò che la segreteria telefonica stava lampeggiando. C'era un messaggio di Vivian, che pregava di richiamarla. Aveva lasciato un numero di Burlington. Abby si affrettò a farlo, ma non ottenne risposta, perciò riappese. Telefonò quindi alla NEOB; tuttavia, come al solito, non riuscì a farsi passare Helen Lewis. Nessuno, a quanto sembrava, era propenso ad ascoltare le ultime congetture della psicopatica dottoressa DiMatteo. Abby non sapeva più chi chiamare. Esaminò l'elenco delle persone che conosceva al Bayside: il dottor Wettig, Mark, Mohandas e Zwick, Susan Casado, Jeremiah Parr. Ma non si fidava di loro. Di nessuno di loro. Aveva appena sollevato la cornetta per richiamare Vivian quando, guardando distrattamente dalla finestra, scorse il furgoncino marrone parcheggiato all'estremità opposta della strada.
Bastardo! Stavolta ti ho in pugno! Raggiunse di corsa l'armadio dell'ingresso e ne tirò fuori un binocolo. Avvicinatasi alla finestra, lo mise a fuoco e riuscì a leggere la targa. Sei mio, pensò, trionfante. Non mi scappi. Riprese in mano il telefono e compose il numero di Katzka. Mentre aspettava che rispondesse, fu colpita dalla stranezza della situazione: perché aveva pensato proprio a lui come all'unica persona da chiamare? Forse era una reazione automatica. Quando si ha bisogno di aiuto ci si rivolge a un poliziotto. E Katzka era l'unico poliziotto che lei conoscesse. «Detective Katzka», rispose lui, con il suo solito tono di voce piatto e sbrigativo. «Il furgone è ricomparso!» gridò Abby. «Prego?» «Sono Abby DiMatteo. Il furgoncino che mi stava seguendo... è parcheggiato proprio nella mia strada. Il numero di targa è 539 TDV. Una targa del Massachusetts.» Lui prese nota. «Lei abita in Brewster Street, vero?» «Sì. La prego, mandi subito qualcuno. Non so che cosa abbiano intenzione di fare.» «Rimanga dov'è e tenga le porte sprangate. Ha capito?» «Va bene.» Si lasciò sfuggire un sospiro nervoso. «D'accordo.» Sapeva che le porte erano già sprangate, ma andò a ricontrollarle. Era tutto a posto. Ritornò nel soggiorno e si sedette dietro le tende, sbirciando fuori di tanto in tanto per assicurarsi che il furgone fosse ancora lì. Desiderava che non si muovesse. Non vedeva l'ora di scorgere la reazione del guidatore una volta che fosse arrivata la polizia. Un quarto d'ora dopo, una Volvo verde - a lei ormai ben nota - imboccò la strada e parcheggiò accanto al marciapiede, dalla parte opposta rispetto al furgone. Abby non si aspettava che arrivasse Katzka in persona, e invece era proprio lui, che smontava dalla sua auto. Nello scorgerlo, provò un travolgente senso di sollievo. Saprà che cosa fare, pensò. Katzka era abbastanza intelligente da affrontare ogni situazione. Lui attraversò la strada e si avvicinò lentamente al furgoncino. Abby si fece più vicina alla finestra, con il cuore che improvvisamente le martellava nel petto. Si chiese se anche il polso del detective fosse veloce quanto il suo. Katzka si avvicinò con aria molto disinvolta alla portiera del guidatore. Soltanto quando si girò, voltandosi leggermente verso Abby, lei
notò che aveva impugnato la pistola. Non l'aveva visto estrarla. Adesso aveva quasi paura di osservare la scena. Paura per lui. Il detective si chinò in avanti e guardò attraverso il finestrino. Apparentemente non vide nulla di sospetto. Girò attorno al furgone, fino al retro, e sbirciò attraverso il lunotto. Poi rimise la pistola nella fondina e osservò la strada da un'estremità all'altra. La porta d'ingresso di una casa vicina si spalancò all'improvviso e un uomo con un soprabito grigio corse giù per i gradini della veranda, strillando e agitando le braccia. Katzka reagì con l'impassibilità che gli era consueta e mostrando il proprio distintivo. L'uomo gli diede un'occhiata e glielo restituì. Poi estrasse il portafogli e mostrò il suo documento d'identità. Per un po', i due uomini rimasero fermi a parlare, indicando di tanto in tanto il furgone e la casa da cui l'uomo con il soprabito grigio era uscito. Alla fine, quest'ultimo tornò da dove era venuto. Katzka si avviò verso l'abitazione di Abby. Lei lo fece entrare in casa. «Che cosa è successo?» «Niente.» «Chi è il guidatore? Perché mi ha pedinata?» «Sostiene di non saperne assolutamente nulla.» Lei seguì il poliziotto nel soggiorno. «Non sono cieca! Ho visto quel furgone qui già prima di oggi. Su questa strada.» «Il guidatore sostiene di non essere mai stato qui.» «Chi è, in ogni caso, il guidatore?» Katzka estrasse il suo taccuino. «John Doherty, 36 anni, residente nel Massachusetts. È un idraulico. Dice che questa è la prima volta che viene chiamato in Brewster Street. Il furgone è registrato a nome della ditta Back Bay Plumbing. Ed è pieno di strumenti di lavoro.» Chiuse il taccuino e se lo infilò nella tasca della giacca, poi guardò Abby con la solita aria di distacco. «Ero così sicura», mormorò lei. «Ero così sicura che fosse lo stesso.» «Insiste ancora nel dire che c'era un furgone?» «Sì, maledizione!» scattò. «C'era un furgone!» Katzka reagì a quello sfogo con un leggero inarcamento delle sopracciglia. Abby si sforzò d'inspirare profondamente. Uno scoppio di collera era l'ultima cosa cui quell'uomo avrebbe reagito. Era un essere assolutamente logico, razionale. Un dottor Spock con il distintivo. Con maggiore calma, disse: «Non mi sto sognando le cose. E non inven-
to nulla». Avviandosi verso la porta di casa, lui replicò: «Se ritenesse di vedere ancora il furgone, prenda il numero di targa». «Se ritenessi di vederlo?» «Mi metterò in contatto con la Back Bay Plumbing per avere la conferma di quanto mi ha detto quel Doherty. Tuttavia sono convinto che sia soltanto un idraulico.» Si girò verso il soggiorno. Il telefono stava squillando. «Non va a rispondere?» «La prego, non se ne vada. Non ancora. Ho alcune cose da dirle.» Katzka aveva già afferrato il pomello della porta. Si fermò, guardando Abby che era andata a rispondere al telefono. «Pronto?» disse lei. Una voce di donna replicò piano: «Dottoressa DiMatteo?» Lo sguardo di Abby incrociò all'istante quello di Katzka. Lui parve capire, da quell'occhiata, che si trattava di una telefonata importante. «Mrs Voss?» chiese Abby. «Ho appurato qualcosa», disse Nina. «Non so che cosa significhi. Ammesso che abbia un significato.» Katzka si mise accanto ad Abby. Si era mosso così in fretta, così silenziosamente, che lei non se n'era quasi accorta. Chinò la testa verso il ricevitore, per ascoltare. «Che cosa ha scoperto?» chiese Abby. «Ho fatto alcune telefonate. Alla banca e al nostro commercialista. Il 23 settembre Victor ha dato disposizioni per un bonifico a una società chiamata Amity Corporation. Di Boston.» «È sicura della data?» «Sì.» 23 settembre, pensò Abby. Un giorno prima del trapianto di Nina Voss. «Che cosa sa di questa Amity?» «Nulla», rispose Nina. «Victor non me l'ha mai menzionata. Data l'entità del bonifico, avrebbe dovuto accennare a qualcosa, come al solito...» Ci fu qualche istante di silenzio. Abby sentì in sottofondo alcune voci, poi un rumore di passi smorzati ma frenetici. Nella cornetta risuonò di nuovo la voce di Nina. Più tesa, più bassa. «Devo chiudere.» «Ha parlato di un grosso bonifico. Quanto grosso?» La risposta non giunse subito. Abby pensò addirittura che Nina avesse già riappeso. Poi udì un sussurro. «Cinque milioni. Ha fatto un bonifico di cinque milioni di dollari.»
Nina riagganciò. Udì i passi di Victor, ma non alzò gli occhi quando lui entrò nella camera da letto. «Con chi stavi parlando?» chiese lui. «Con Cynthia. Ho telefonato per ringraziarla dei fiori.» «Di quali fiori si tratta, stavolta?» «Le orchidee.» Lui diede un'occhiata al vaso sul tavolino da toilette. «Oh, sì. Molto belle.» «Cynthia dice che la prossima primavera andranno in Grecia. Immagino che siano ormai stanchi dei Caraibi.» Con quale facilità gli mentiva. Quando era cominciata quella faccenda? Quando loro avevano smesso di dirsi la verità? Voss si sedette sul letto, accanto a lei. Nina si accorse che la stava osservando attentamente. «Quando starai meglio», lui disse, «forse potremo tornare in Grecia. Magari con Cynthia e Robert. Ti piacerebbe?» Nina annuì e fissò la coperta. Guardò le proprie mani, le dita ossute e sciupate. Ma io non mi riprenderò mai più. Lo sappiamo entrambi. Fece scivolare le gambe da sotto la coperta. «Devo andare in bagno», disse. «Posso aiutarti?» «No, sto bene.» Alzandosi, provò un vago capogiro. Ultimamente la testa le girava spesso, ogni volta che si alzava in piedi o faceva uno sforzo, per quanto minimo. Non disse nulla a Victor; attese soltanto che quell'attimo passasse. Poi si avviò lentamente verso la stanza da bagno. Sentì il marito sollevare il telefono. Soltanto dopo aver chiuso la porta del bagno, Nina si rese improvvisamente conto dell'errore che aveva commesso. L'ultimo numero che aveva chiamato era ancora nella memoria dell'apparecchio. Victor non doveva fare altro che premere il tasto REDIAL e avrebbe saputo che lei gli aveva mentito. Era proprio il genere di cose che Victor faceva. Avrebbe constatato che lei non aveva telefonato a Cynthia, avrebbe scoperto (in un modo o nell'altro ci sarebbe riuscito) che in realtà lei aveva chiamato Abby DiMatteo. Nina rimase in piedi, con la schiena appoggiata alla porta del bagno, ad ascoltare. Lo sentì riabbassare la cornetta. Poi chiamò: «Nina?» Un altro capogiro l'assalì. Lasciò ricadere la testa, lottando contro il buio che cominciava a velarle gli occhi. Le parve che le gambe le cedessero. Si
sentì scivolare a terra. Lui bussò alla porta. «Nina, devo parlarti.» «Victor», sussurrò, ma sapeva che il marito non poteva sentirla. Nessuno poteva sentirla. Giacque sul pavimento del bagno, incapace di muoversi, troppo debole per chiamare Victor. E sentì il cuore sussultarle nel petto, vibrando come un'ala di farfalla. «Non può essere questo il posto», esclamò Abby. Avevano parcheggiato in una squallida strada di Roxbury. Era un quartiere fitto di negozi chiusi e di aziende sul punto di fallire. In apparenza, gli unici segni di attività provenivano da una palestra per il body building, dalle cui finestre aperte arrivavano il clangore degli attrezzi e, a tratti, alcune risate maschili. Appena oltre, c'era un edificio vuoto, con il cartello AFFITTASI. E, accanto a questo, si trovava la sede della Amity, una stretta costruzione di quattro piani. Sopra l'ingresso pendeva un'insegna: AMITY - FORNITURE MEDICHE VENDITA E CONSULENZA Dietro le finestre munite d'inferriate che davano sulla strada si vedevano, stancamente esposti, alcuni prodotti della ditta: stampelle e bastoni, bombole di ossigeno, materassi di lattice per prevenire le piaghe da decubito, seggette da tenere accanto al letto, un manichino vestito con una uniforme e una cuffia da infermiera in stile anni '60. Dalla parte opposta della strada, Abby fissò quella misera esposizione e mormorò: «Non può essere questa la Amity che cerchiamo». «È l'unica che compaia sull'elenco telefonico», ribatté Katzka. «Perché mai Voss avrebbe dovuto fare un bonifico di cinque milioni di dollari a una ditta come questa?» «Potrebbe essere una branca di un complesso industriale molto più grande. Magari ha fiutato un buon investimento.» Lei scosse la testa. «Non era certo il momento più opportuno. Si metta nei panni di Victor Voss. Sua moglie sta morendo, lui tenta disperatamente di procurarle l'organo di cui lei ha bisogno. Non ha tempo di pensare agli investimenti.» «Dipende da quanto si preoccupa per sua moglie.» «Moltissimo.»
«Come fa a saperlo?» Abby lo guardò. «Lo so.» Katzka ricambiò lo sguardo. Che strano, pensò Abby. I suoi occhi non mi mettono più a disagio. Lui aprì la portiera. «Vediamo se riesco a scoprire qualcosa.» «Che cosa intende fare?» «Guardarmi attorno. E rivolgere qualche domanda.» «Vengo con lei.» «No, rimanga in macchina.» Fece per scendere, ma Abby lo tirò indietro. «Ascolti», disse, «sono io quella che ha qualcosa da perdere. Ci ho già rimesso il lavoro, sto per essere espulsa dall'albo. E adesso la gente mi chiama assassina o psicotica o entrambe le cose. È la mia vita che stanno rovinando. Questa potrebbe essere l'unica opportunità di contrattaccare.» «Allora non roviniamo tutto, non le pare? Qualcuno, là dentro, potrebbe riconoscerla. E questo certamente li metterebbe sul chi vive. Vuole correre questo rischio?» Abby ricadde contro il sedile. Katzka aveva ragione. Aveva maledettamente ragione. Fin dall'inizio, il detective si era opposto all'idea di portarsela dietro in quell'esplorazione, ma lei aveva insistito. Gli aveva detto che ci sarebbe andata comunque, con lui o senza di lui. E adesso era lì, ma non poteva neanche entrare nell'edificio. Non poteva neppure combattere le proprie battaglie. Le avevano tolto anche quello. Rimase seduta, scuotendo la testa, furiosa per la propria impotenza. Arrabbiata con Katzka perché glielo aveva fatto notare. «Blocchi le portiere», l'ammonì lui, poi scese dalla macchina. Lo guardò attraversare la strada, entrare nello squallido ingresso. Poteva immaginare che cosa avrebbe trovato all'interno. Una deprimente esposizione di carrozzine per infermi e padelle da letto, rastrelliere con uniformi da infermiera sotto custodie di plastica ingiallite, scatole di scarpe ortopediche. Riusciva a visualizzare ogni cosa fin nei minimi particolari perché lei stessa era andata da un rivenditore del genere quando aveva acquistato i suoi primi camici. Passarono cinque minuti. Poi dieci. Katzka, Katzka. Che cosa sta facendo lì dentro? Avrebbe rivolto qualche domanda, così si era espresso, cercando però di non metterli sul chi vive. Abby si fidava del suo giudizio. Un poliziotto della squadra omicidi, decise, era mediamente più furbo di un chirurgo qualsiasi. Ma forse non di un comune medico internista. Rammentò una
battuta ricorrente nell'ambito ospedaliero: i chirurghi sono stupidi. Chi si occupa di medicina interna fa affidamento sul proprio cervello, mentre il chirurgo ha soltanto mani preziose. Se un internista si trova in un ascensore la cui porta accenna a chiudersi prima del tempo, allunga una mano per impedire la chiusura; un chirurgo invece allunga la testa. Ah, ah! Venti minuti. Erano ormai passate le cinque e l'anemico sole stava già scomparendo dietro un velo di deprimente bruma. Dal finestrino socchiuso, Abby sentiva il rombo delle auto che sfrecciavano sul Martin Luther King Boulevard. Era l'ora di punta. Nella strada, davanti a lei, due uomini con bicipiti di proporzioni eroiche erano appena usciti dalla palestra e si stavano avviando con passo pesante verso le rispettive macchine. Continuò a tener d'occhio l'ingresso della Amity, aspettando che Katzka ne venisse fuori. Le cinque e venticinque. Il traffico cominciava a farsi più intenso anche su quella via. A causa del flusso di macchine, lei riusciva a scorgere soltanto a tratti l'ingresso della ditta. Poi, di colpo, il traffico s'interruppe. Abby stava fissando la parte opposta della strada quando, dalla porta laterale dell'edificio della Amity, emerse un uomo. Si fermò sul marciapiede e guardò l'orologio. Poi sollevò la testa, e fu allora che Abby sentì il cuore balzarle in gola. Aveva riconosciuto quella faccia, la grottesca arcata sopraccigliare, il naso a becco. Era il dottor Mapes, il corriere che aveva consegnato in sala operatoria il cuore destinato a Nina Voss. Mapes prese a camminare. Arrivato a metà della strada si fermò accanto a una Trans-Am blu parcheggiata lungo il marciapiede ed estrasse un mazzo di chiavi. Abby tornò a scrutare l'edificio della Amity, sperando, pregando, che Katzka si facesse vedere. Dai, muoviti, o perderò Mapes! Rivolse di nuovo lo sguardo alla Trans-Am. Mapes era già montato in macchina e si stava allacciando la cintura di sicurezza, poi accese il motore e si staccò leggermente dal marciapiede, in attesa di potersi immettere nel traffico. Abby lanciò un'occhiata al motorino d'avviamento e vide che Katzka aveva lasciato le chiavi inserite. Per lei quella poteva essere una valida opportunità. La sua unica opportunità. La Trans-Am blu si avviò. Non rimaneva altro tempo per pensare. Si spostò sul sedile di guida e, messa in moto la macchina, si lanciò a
sua volta nel traffico, provocando una stridente frenata e un furioso colpo di clacson da parte dell'auto cui aveva tagliato la strada. Un isolato più avanti, Mapes superò l'incrocio proprio quando il semaforo stava passando al rosso. Fu costretta a frenare. Tra lei e l'incrocio si allineavano quattro macchine e non c'era modo di aggirarle. Allorché il semaforo fosse tornato verde, Mapes sarebbe stato già a diversi isolati di distanza. Abby sedeva contando i secondi, imprecando contro i semafori di Boston, gli autisti di Boston e la propria indecisione. Se soltanto si fosse scostata dal marciapiede un attimo prima! La Trans-Am era ormai appena visibile, una macchia blu in una fiumana di auto. Perché quel maledetto semaforo non scattava? Finalmente divenne verde, ma nessuna auto accennò a muoversi. Il guidatore in prima fila doveva essersi addormentato al volante. Abby schiacciò il clacson, emettendo un boato assordante. Le vetture davanti a lei presero a muoversi. Abby calcò il piede sull'acceleratore, poi lo risollevò. Qualcuno stava vibrando una serie di colpi contro la fiancata della macchina. Abby guardò verso destra e vide che Katzka stava correndo a fianco della portiera del passeggero. Inchiodò. Il poliziotto aprì la portiera. «Che diavolo sta facendo?» «Salga.» «No, prima accosti...» «Dannazione, salga!» Katzka batté gli occhi, sorpreso, e montò in macchina. Lei schiacciò bruscamente l'acceleratore e l'auto attraversò d'un balzo l'incrocio. Due isolati di fronte a loro, un lampo blu svoltò a destra. La Trans-Am stava girando in Cottage Street. Se Abby non le fosse stata alle calcagna, l'avrebbe persa nel traffico sempre più intenso. Si buttò nella corsia di sinistra, attraversando la doppia linea continua, e superò tre macchine di fila, poi rientrò nella corsia di destra, appena in tempo. Sentì che Katzka si agganciava la cintura di sicurezza. Tanto meglio. Quello si sarebbe potuto trasformare in un inseguimento folle. Svoltò anche lei nella Cottage Street. «Può spiegarmi che cosa sta succedendo?» chiese il detective. «È uscito dalla porta laterale dell'edificio della Amity. Il tizio alla guida di quella auto blu.» «Chi è?» «La persona che ci ha consegnato il cuore espiantato. Aveva detto di
chiamarsi Mapes.» Scorse un altro varco nel traffico, si spostò di nuovo nella corsia di sinistra, superò altre macchine e rientrò. Katzka disse: «È meglio che guidi io». «Sta puntando verso lo svincolo anulare. Da quale parte? Quale direzione prenderà...?» La Trans-Am girò attorno allo spartitraffico, poi tagliò a est. «Sembra diretto verso l'autostrada», borbottò Katzka. «E così faremo anche noi.» Abby entrò nello svincolo e si lanciò dietro alla Trans-Am. Il detective aveva indovinato. Mapes si stava dirigendo verso la rampa d'accesso all'autostrada. Abby lo seguì, con il cuore che le martellava nel petto, le mani che scivolavano sul volante. Il rischio di farsi sfuggire l'altra vettura stava diventando altissimo. Alle cinque e mezzo del pomeriggio, l'autostrada era simile a un autoscontro con vetture lanciate a cento chilometri all'ora, ogni autista in preda alla folle ansia di tornare a casa. S'inserì nel traffico e scorse Mapes, più avanti, che segnalava di volersi spostare a sinistra. Lei cercò di compiere la stessa manovra, ma si trovò davanti un camion intenzionato a non lasciarle strada. Abby segnalò, gli si portò più vicina. Il camion si limitò a stringere. Era diventato un gioco pericoloso: lei cercava di passare davanti al camion, e questo non rallentava. Era tanta l'adrenalina liberata dall'organismo di Abby da cancellare la paura. Al volante si era trasformata in un'altra donna, in un'estranea disperata, folle, che lei stessa quasi non riconosceva. Stava lottando contro i suoi persecutori ed era una sensazione piacevole. Provava un senso di onnipotenza. Abby DiMatteo carburata al testosterone. Schiacciò a fondo l'acceleratore e si buttò a sinistra, tagliando la strada al camion. «Cristo!» urlò Katzka. «Vuole farci ammazzare?» «Non me ne frega niente. Ho bisogno di quel tale.» «È così che si comporta in sala operatoria?» «Oh, sì. Sono una pazza furiosa. Non l'ha sentito dire?» «Mi ricordi di rimanere sempre in buona salute.» «E adesso che fa, quello?» Davanti a loro, la Trans-Am stava di nuovo segnalando con le frecce. Si spostò a destra, nella deviazione per il Callahan Tunnel. «Dannazione», esclamò Abby, buttandosi a sua volta a destra. Tagliando due corsie, entrò nel tunnel, buio come una caverna. Si lasciò alle spalle,
uno dopo l'altro, i graffiti che coprivano i muri. Le pareti di cemento facevano riecheggiare lo stridio dei pneumatici sull'asfalto e il. vuum-vuum delle vetture che tagliavano l'aria. Quando riemerse nella grigia luce del crepuscolo, per un istante quasi non riuscì a vedere nulla. La Trans-Am uscì dall'autostrada. Abby la imitò. Ormai si trovavano nella zona orientale di Boston, la parte verso il Logan International Airport. Mapes doveva essere diretto lì, pensò Abby. Stava andando all'aeroporto. Rimase sorpresa quando lui invece attraversò rumorosamente i binari della ferrovia e si diresse a ovest, lasciandosi quindi alle spalle l'aeroporto e puntando verso un dedalo di strade. Abby rallentò, lasciando che la Trans-Am si allontanasse un po'. La scarica di adrenalina che aveva sentito durante quel frenetico inseguimento sull'autostrada si stava esaurendo. In quel quartiere, Mapes non le sarebbe certo sfuggito. Piuttosto doveva evitare di farsi scoprire. Stavano passando davanti alle banchine del porto interno di Boston. Dietro una recinzione si scorgeva una serie di container inutilizzati, disposti su tre file come giganteschi pezzi di Lego. Al di là del deposito dei container, c'era il porto industriale. Contro il sole che tramontava, si stagliavano le sagome delle gru da carico e delle navi alla fonda. La Trans-Am svoltò a sinistra, passò attraverso un cancello aperto ed entrò nel deposito dei container. Abby superò il cancello e parcheggiò. Sbirciando da una fessura tra un'autogru e un container, vide la Trans-Am arrivare all'imbocco di un molo e fermarsi. Mapes scese dalla macchina. Si avviò lungo la banchina accanto alla quale era ormeggiata un'imbarcazione. Sembrava una piccola nave da carico; doveva essere un sessanta metri, si disse Abby. Mapes lanciò un richiamo. Un attimo dopo, un uomo apparve sul ponte e gli fece cenno di salire a bordo. Mapes s'incamminò sul ponticello d'imbarco e sparì all'interno del cargo. «Perché è venuto qui?» chiese Abby. «Che c'entra una nave?» «È sicura che si tratti dello stesso uomo?» «Se così non fosse, Mapes dovrebbe avere un sosia che lavora alla Amity.» Si fermò, rammentando dov'era stato Katzka nella mezz'ora precedente. «A proposito, che cosa ha scoperto in quel posto?» «Intende prima che mi accorgessi che qualcuno stava rubando la mia macchina?» Si strinse nelle spalle. «Tutto prevedibile. Una ditta di forniture sanitarie. Ho raccontato che avevo bisogno di un letto da ospedale per
mia moglie e loro mi hanno fatto vedere alcuni dei modelli più recenti.» «Quante persone c'erano nell'edificio?» «Ne ho viste tre. Un tizio nello showroom e due al piano superiore, impegnati a trattare gli ordini per telefono. Nessuno sembrava molto felice di lavorare lì.» «E gli altri due piani?» «Adibiti a magazzino, suppongo. In quell'edificio non c'è proprio nulla per cui valga la pena d'indagare.» Abby fissò, al di là della recinzione, la Trans-Am blu. «Lei potrebbe rivolgersi alla magistratura per ottenere un controllo fiscale dei loro bilanci. Così si riuscirebbe a scoprire dove sono andati a finire i cinque milioni di dollari di Voss.» «Non abbiamo basi per richiedere un controllo fiscale.» «Di quante prove ha bisogno? Io so che quell'uomo era il corriere! So che cosa sta facendo questa gente.» «La sua testimonianza non riuscirebbe a smuovere un giudice. Certo non nelle circostanze attuali.» Una risposta schietta... anche se brutale. «Mi dispiace... Abby. Possiamo darci del tu, vero? Sai bene che la tua credibilità è stata pesantemente messa in discussione.» Abby si sentì respinta e si chiuse in se stessa. «Hai perfettamente ragione», scattò, incollerita. «Chi mai mi crederebbe? Si tratta soltanto di quella pazza della dottoressa DiMatteo, che di nuovo racconta fandonie senza senso.» Katzka non replicò a quello sfogo di autocommiserazione. Nel silenzio che seguì, Abby rimpianse di essersi lasciata andare a quel modo. Il suono della sua voce, ferita e sarcastica, sembrava aleggiare su di loro. Per un po' non dissero nulla. Sulle loro teste passò sibilando un jet, sferzandoli con l'ombra delle sue ali, simili a quelle di un uccello rapace, e puntò verso l'alto, scintillando negli ultimi raggi del sole al tramonto. Soltanto quando il rombo dell'aereo si affievolì, Katzka riaprì bocca. «Non che io non ti creda...» disse. Lei lo fissò. «Mi danno addosso tutti. Perché proprio tu dovresti credermi?» «Per via del dottor Levi. E del modo in cui è morto.» Guardò, diritto davanti a sé, la strada che si stava facendo buia. «Di solito non è così che ci si suicida. In un locale dove magari nessuno ti troverà per giorni e giorni. Non è un pensiero piacevole, quello del tuo corpo che va in decomposizione. Vuoi essere trovato prima che i vermi si facciano avanti,
prima di diventare nero e gonfio. Finché hai ancora un aspetto riconoscibilmente umano, insomma. E poi ci sono i progetti che aveva fatto. Quel viaggio nei Caraibi, e il Giorno del Ringraziamento da trascorrere assieme al figlio. Stava pensando al domani, immaginando un futuro.» Guardò di lato, verso un lampione che si era appena acceso. «E infine c'è sua moglie, Elaine. Ho avuto occasione di parlare spesso con donne diventate da poco vedove. Alcune sono sotto shock, altre disperate, altre ancora provano un vago sollievo. Io stesso sono vedovo. Ricordo che, dopo la morte di mia moglie, l'unica cosa che riuscivo a fare era trascinarmi a stento fuori del letto ogni mattina. Qual è invece la reazione di Elaine Levi? Chiama una ditta di traslochi, fa portar via la mobilia in blocco e lascia la città. Non è il comportamento di una sposa straziata dal dolore. È piuttosto quello di una persona colpevole. O in preda alla paura.» Abby annuì. Anche lei aveva pensato che Elaine fosse Impaurita. «Poi mi hai parlato di Kunstler e di Hennessy», continuò Katzka. «E a un tratto mi trovo a dover considerare non un singolo decesso, bensì una serie. E la morte di Aaron Levi comincia a sembrare sempre meno un suicidio.» Un altro jet si alzò in volo, rendendo impossibile la conversazione per via del rombo dei motori, e virò a sinistra, sfiorando il banco di nebbia serotina che si stava addensando sul porto. Anche dopo che l'aereo fu sparito nel cielo a occidente, Abby continuò a sentirsi nelle orecchie quel fragore. «Il dottor Levi non si è impiccato», mormorò Katzka. Abby lo guardò, accigliata. «Credevo che l'autopsia avesse confermato quell'ipotesi.» «Abbiamo trovato qualcosa nell'analisi tossicologica. Il laboratorio della polizia criminale ci ha fatto avere i risultati proprio la settimana scorsa.» «È saltata fuori qualche novità?» «Nel tessuto muscolare. Hanno trovato tracce di succinilcolina.» Lei lo fissò. Succinilcolina. Veniva usata ogni giorno dagli anestesisti per indurre il rilassamento muscolare durante l'intervento. In sala operatoria era un farmaco d'importanza vitale, però, al di fuori dell'ambito chirurgico, la sua somministrazione avrebbe causato la più orribile delle morti. La paralisi completa di un soggetto pienamente cosciente, che, pur rimanendo sveglio e lucido, si sarebbe trovato nell'impossibilità non soltanto di muoversi, ma anche di respirare. Come annegare in un mare d'aria. Abby deglutì, sentendosi la gola completamente inaridita. «Non è stato un suicidio.»
«No.» Inspirò, poi lasciò uscire il fiato poco per volta. Era troppo inorridita per parlare. Non osava neppure immaginarsi come dovesse essere stata la morte di Aaron. Guardò attraverso la recinzione, in direzione del molo. Mapes non era più ricomparso. La nave da carico era appena visibile, nera e silenziosa nella luce che svaniva. «Voglio sapere che cosa c'è su quel cargo», mormorò. «Voglio appurare per quale motivo lui c'è andato.» Katzka la fermò. «Non ancora.» «Quando, allora?» «Spostiamoci un isolato più in là e parcheggiamo. Possiamo aspettare laggiù.» Diede un'occhiata al cielo, poi alla nebbia che s'infittiva sull'acqua. «Tra poco sarà scuro.» 21. «Quanto tempo è passato?» «Soltanto un'oretta», rispose Katzka. Abby si strinse le braccia attorno al corpo e fu scossa da un brivido. La serata si era fatta ancora più fredda e, dentro l'auto, il loro fiato appannava i finestrini. Nella nebbia che li circondava, il lampione stradale emetteva una luce di un giallo sulfureo. «Soltanto un'oretta, dici? Mi sento come se avessi trascorso qui l'intera nottata.» «Dipende dai punti di vista. Ho passato molto del mio tempo a fare la posta a qualcuno. Quando ero agli inizi della carriera.» Katzka da giovane: Abby non riusciva a immaginarselo, non se lo figurava come uno sbarbatello. «Che cosa ti ha indotto a diventare poliziotto?» chiese. Lui si strinse nelle spalle, un'ombra sobbalzante nell'oscurità che regnava nell'auto. «Era un mestiere che mi andava a genio.» «Suppongo che questo spieghi tutto.» «E che cosa ha spinto te a intraprendere la professione medica?» Abby pulì con una mano un angolo del parabrezza appannato e guardò i canyon squadrati che si aprivano tra una fila di container e l'altra. «Non saprei come rispondere.» «È una domanda così difficile?» «È la risposta che è complicata.»
«Quindi non c'è stata una motivazione semplice. Che so, l'amore per gli esseri umani.» Toccò a lei stringersi nelle spalle. «Gli esseri umani noteranno a stento la mia mancanza.» «Diventare chirurgo vuol dire frequentare l'università per otto anni e poi il corso di specialità per altri cinque. Alla base della tua scelta deve pur esserci stato un motivo serio.» Il vetro si era appannato di nuovo. Abby ci ripassò sopra una mano e, sulla pelle, il vapore condensato le parve stranamente tiepido. «Se devo proprio dare una ragione precisa, credo che sia stato mio fratello. Quando aveva dieci anni, fu ricoverato in ospedale. Io passavo molto tempo a osservare i suoi medici curanti, a vedere come lavoravano.» Katzka aspettò che continuasse, ma Abby taceva. Allora le chiese sottovoce: «Tuo fratello non cc l'ha fatta?» Lei scosse la testa. «È successo tanto tempo fa.» Guardò le gocce che le scintillavano sulla mano. Tiepide come lacrime, pensò. E, per un attimo, temette di scoppiare a piangere. Fu contenta che Katzka rimanesse in silenzio; non se la sentiva di rispondere ad altre domande, né di rivedere quella scena al Pronto soccorso, con Pete disteso su una barella, le scarpe da tennis nuove di zecca macchiate di sangue. Come le erano sembrate piccole, quelle scarpe, fin troppo piccole per un ragazzo di dieci anni. E poi erano venuti i mesi di coma, quando non si poteva fare altro che osservare la sua carne raggrinzirsi e gli arti contrarsi. La notte in cui era morto, Abby l'aveva sollevato dal letto e, seduta, l'aveva cullato tra le braccia. Pete sembrava senza peso, fragile come un neonato. Non disse nulla di ciò a Katzka, eppure ebbe la sensazione che lui avesse afferrato tutto ciò che voleva sapere. Comunicazione per empatia. Era una dote che Abby non avrebbe mai supposto di trovare in quell'uomo. Ma, in fondo, erano numerosi gli aspetti del detective che le parevano sorprendenti. Katzka guardò fuori, nella notte. Poi disse: «Credo che adesso sia abbastanza buio». Uscirono dalla macchina e, varcato il cancello aperto, entrarono nel deposito dei container. La nave da carico era appena visibile nella nebbia. L'unica luce a bordo era uno strano bagliore verdastro che veniva da uno degli oblò in basso. Altrimenti la nave sarebbe potuta sembrare abbandonata. S'incamminarono sulla banchina, superando una torre di casse vuote impilate su una piattaforma.
Arrivati al ponticello d'imbarco si fermarono, ascoltando lo sciaguattio delle onde contro lo scafo, gli svariati gemiti dell'imbarcazione e delle cime d'ormeggio. Il fischio lancinante di un altro jet appena alzatosi in volo li fece trasalire. Abby alzò gli occhi al cielo e, mentre osservava le luci dell'aereo innalzarsi, ebbe la singolare sensazione di essere lei a muoversi nello spazio e nel tempo. Per poco non allungò una mano verso Katzka, per trovare un punto d'appoggio. Come sono finita su questo molo, assieme a quest'uomo? si chiese. Quale strana concatenazione di eventi mi ha portata a questo momento della mia vita? Katzka le toccò il braccio; fu un contatto caldo e solido. «Vado a dare un'occhiata a bordo.» S'incamminò sul ponticello. Aveva fatto soltanto alcuni passi quando si fermò, voltandosi a guardare la banchina alle sue spalle. Un paio di fari era apparso in prossimità del cancello. Il veicolo stava attraversando il deposito dei container, avviandosi dalla loro parte. Era un furgoncino. Abby non ebbe il tempo per mettersi al riparo dietro le casse. Il fascio di luce dei fari l'aveva presa in pieno, e sembrava intrappolarla alla fine della banchina. Il furgone inchiodò. Abby si schermò gli occhi con una mano, ma non riuscì a vedere quasi nulla. Tuttavia sentì che le portiere venivano aperte e poi violentemente richiuse e infine le giunse un rumore di passi sulla ghiaia: qualcuno avanzava verso di lei, sbarrandole in tal modo qualsiasi via di fuga. Katzka le si materializzò accanto. Abby non l'aveva sentito tornare furtivamente indietro sul ponticello, eppure era lì, e si era messo tra lei e il furgone. «Va bene, adesso filiamocela», sussurrò. «Non siamo qui per suscitare un vespaio.» Erano due, gli uomini che avanzavano nella luce dei fari. Nel distinguere Katzka, ebbero un istante di esitazione, poi ripresero a farsi avanti. «Lasciateci passare!» urlò il detective. La schiena di Katzka impediva in parte ad Abby di scorgere i due uomini, e quindi lei non vide ciò che stava accadendo. Si rese conto soltanto che lui si era piegato di scatto, che c'erano stati due spari simultanei e che qualcosa di metallico rimbalzava sul cemento della banchina alle loro spalle. Katzka e Abby si lanciarono contemporaneamente verso la protezione offerta dalle casse. Il detective le premette la testa al suolo mentre altri
spari risuonavano, facendo saltare schegge di legno. Katzka rispose al fuoco. Tre rapidi colpi. Si udì un rumore di passi in ritirata. Un concitato accavallarsi di voci. Poi il motore del furgoncino fu acceso e mandato su di giri; i pneumatici stridettero sulla ghiaia. Abby rialzò la testa per dare un'occhiata. Atterrita, vide che il furgone stava per piombare su di loro, pronto ad abbattere le casse come un ariete da guerra. Katzka mirò e fece fuoco. Quattro colpi che mandarono in frantumi il parabrezza. Il furgone urtò contro la banchina, poi scartò a destra e quindi a sinistra: una macchina da guerra fuori controllo. Katzka tirò due ultimi, disperati colpi. Il furgone continuò ad avanzare. Abby registrò un lampo accecante di fari, dopo di che si lanciò giù dal molo, precipitando nell'oscurità assoluta. Il tuffo nell'acqua gelida fu sconvolgente. Tornò a galla sputando acqua salmastra e carburante, flagellando con mani e piedi la nera superficie. Sentì gli uomini urlare in alto sulla banchina, quindi un violento tonfo. L'acqua ribollì e le sommerse il capo. Tornò di nuovo a galla, tossendo. In fondo al molo, l'acqua sembrava risplendere di un verde fosforescente. Il furgone. Stava affondando e i suoi fari proiettavano due acquosi fasci di luce. Quando l'automezzo fu inghiottito, le luminescenti acque verdi tornarono a essere nere. Kaizka. Dov'è Katzka? Abby si rigirò nell'acqua, scrutando nell'oscurità. La superficie era ancora agitata, piccole onde le sferzavano la faccia e il sale che le bruciava gli occhi le impediva di vedere bene. Udì uno sciaguattio e una testa emerse bruscamente in superficie a poche decine di centimetri da lei. Katzka si girò verso Abby e vide che era in grado di cavarsela da sola. Poi guardò in su, dove risuonavano altre voci... Qualche membro dell'equipaggio della nave? C'erano due uomini, forse tre, e i loro piedi calpestavano pesantemente la banchina, avanti e indietro. Urlavano qualcosa, ma erano frasi tronche e incomprensibili. Non è inglese, pensò Abby, senza però riuscire a identificare la lingua. In alto apparve una luce, il cui raggio tagliò la nebbia e prese a spostarsi lentamente sulla superficie marina. Katzka s'immerse bruscamente. Altrettanto fece Abby. Nuotò sott'acqua,
allontanandosi dalla banchina, verso il nero mare aperto. Tornò in superficie, prese una boccata d'aria e si reimmerse. Quando tornò a galla per la quinta volta, tutt'attorno a lei era buio. Sul molo, due luci si spostavano, frugando nella nebbia come un paio di occhi infaticabili. Abby udì molto vicino a sé un rumore, seguito da una pesante inspirazione, e capì che Katzka era riemerso. «Ho perduto la mia pistola», ansimò il detective. «Che diavolo sta succedendo?» «Continua a nuotare. Fino al prossimo molo.» Di colpo la notte s'illuminò a giorno. Sul cargo erano state accese le luci del ponte di comando, che rivelavano ogni angolo della banchina. Ritto sul ponticello c'era un uomo; accovacciato sul bordo della massicciata un altro, munito di torcia elettrica; accanto a loro un terzo, con un fucile puntato verso l'acqua. «Via!» la incitò Katzka. Abby si rituffò, aprendosi la strada in quell'oscurità liquida. Non era mai stata una brava nuotatrice. L'acqua alta le faceva paura, e quel mare era così nero che poteva benissimo essere senza fondo. Tornò in superficie per prendere una boccata d'aria, ma, sebbene cercasse d'inspirare profondamente, sembrava che nei polmoni non ne entrasse mai abbastanza. «Abby, muoviti!» la sollecitò Katzka. «Cerca di arrivare alla prossima banchina!» Abby si girò per guardare il cargo. Vide che i riflettori stavano tracciando un cerchio sempre più ampio. Il raggio stava per arrivare fino a loro. Si buttò, ancora una volta, sott'acqua. Quando finalmente raggiunsero la terraferma, Abby non riusciva quasi più a muovere gli arti. Si arrampicò su alcune rocce, rese viscide dalla benzina e dalle alghe. Accovacciata al buio, con le conchiglie che le ferivano le ginocchia, vomitò in mare. Katzka le afferrò un braccio, la tenne ferma. Abby tremava a tal punto che, pensò, sarebbe andata in pezzi se non fosse stato per la presa di lui. Alla fine, sollevò debolmente la testa. «Va meglio?» sussurrò Katzka. «Sto gelando.» «Allora cerchiamo un posto caldo.» Alzò gli occhi verso la banchina, appena visibile sopra di loro. «Direi che possiamo arrampicarci da quella parte. Vieni.» S'inerpicarono assieme sulle rocce, scivolando e sdrucciolando su mu-
schi e alghe. Katzka arrivò per primo sulla massicciata, quindi si chinò per tirare su Abby. Rimasero entrambi accovacciati. Il riflettore forò la nebbia, intrappolandoli nel suo fascio di luce. Una pallottola rimbalzò sul cemento proprio accanto ad Abby. «Muoviamoci!» gridò Katzka. Cominciarono a correre. Il riflettore li inseguì, con il suo raggio zigzagante nel buio. Ormai erano giunti alla fine della banchina e si avviarono attraverso il deposito dei container. I proiettili rimbalzavano sulla ghiaia. Davanti a loro si ergevano le sagome indistinte dei container, in un gigantesco groviglio di ombre. Si tuffarono nel passaggio, sentendo le pallottole colpire il metallo. Poi la sparatoria cessò. Abby rallentò. Era esausta per la nuotata, indebolita dall'aver vomitato acqua di mare. E stava tremando così forte che continuava a incespicare. Le voci si fecero più vicine. Sembravano venire contemporaneamente da due direzioni. Katzka le afferrò una mano e la tirò nell'ombra più fitta dei container. Corsero fino all'estremità opposta di quella fila, girarono a sinistra e continuarono a correre. Poi si fermarono entrambi, di colpo. In fondo, davanti a loro, balenò una luce Li abbiamo davanti! Katzka piegò a destra, imboccando un altro passaggio. I container ammassati torreggiavano come le pareti di un baratro. Udirono alcune voci e cambiarono di nuovo direzione. Ormai era impossibile capire se non si erano mossi in cerchio, se qualche secondo prima non erano già passati di lì. Una luce danzò davanti a loro. Si bloccarono, fecero dietrofront. E videro brillare il raggio di un'altra torcia elettrica. Oscillava avanti e indietro, spostandosi verso di loro. Li abbiamo davanti. E alle spalle. In preda al panico, Abby incespicò all'indietro. Allungando una mano per sostenersi, sentì una fessura tra due container. Era abbastanza larga. La luce della torcia si avvicinava. Abby ghermì un braccio di Katzka e s'infilò nella fenditura, tirandosi dietro il detective. Avanzò in una filigrana di ragnatele, finché non andò a sbattere contro il fianco di un container adiacente. Non c'era modo di proseguire. Erano intrappolati lì dentro, incuneati in uno spazio stretto come una bara. Il rumore dei passi sulla ghiaia si avvicinò.
Katzka tese una mano per stringere la sua, ma neppure quel contatto riuscì a calmarla. Il cuore le sobbalzava nel petto. I passi erano sempre più vicini. Abby sentì alcune voci: uno degli uomini chiamava l'altro, poi il secondo rispose in una lingua misteriosa. O era il sangue che le rombava nelle orecchie a rendere incomprensibili quelle parole? Una luce danzò davanti alla fenditura. I due uomini si erano fermati proprio lì e stavano discutendo in tono perplesso. Se avessero diretto il raggio delle torce verso la fessura, avrebbero scorto la loro preda. Qualcuno sferrò un calcio al terreno e la ghiaia schizzò via, tintinnando contro il container. Abby chiuse gli occhi, troppo terrorizzata per guardare. Non voleva vedere quando il fascio di luce avrebbe illuminato il loro nascondiglio. La mano di Katzka strinse con maggior forza la sua. Lei si sentiva le membra irrigidite dalla tensione, aveva il respiro corto. Udì un altro sfregare di scarpe sul terreno, un altro lancio di ghiaia. Poi i passi presero ad allontanarsi. Abby non osò muoversi. Non era sicura di riuscirci; si sentiva le gambe bloccate in quella posizione. Tra qualche anno, pensò, mi troveranno qui: uno scheletro irrigidito dal terrore. Fu Katzka a muoversi per primo. Si spinse fino all'apertura e stava per mettere fuori la testa per guardarsi attorno quando si sentì un leggero crepitio. Una piccola luce balenò e si spense. Qualcuno aveva acceso un fiammifero. Katzka s'immobilizzò. Nell'oscurità, si diffuse l'odore del fumo di sigaretta. Da qualche parte, arrivarono i deboli richiami di un terzo uomo. Il fumatore brontolò una risposta, quindi i suoi passi si allontanarono. Katzka non si mosse. Rimasero impietriti, le mani allacciate, non osando neppure sussurrare una parola. Per due volte sentirono i loro inseguitori passare davanti alla fenditura e per due volte proseguire oltre. A un tratto, si udì un rombo lontano, come un brontolio di tuono che venisse da qualche parte all'orizzonte. Poi, per molto tempo, non sentirono più nulla. Soltanto alcune ore più tardi emersero dal loro nascondiglio. Strisciarono lungo la fila dei container e si fermarono a spiare il porto. Sulla notte era calato un silenzio inquietante. La nebbia si era alzata e, in alto, le stelle brillavano debolmente in un cielo illuminato dalle luci della città.
La banchina accanto era buia. Non videro né uomini né luci, neppure il chiarore di un oblò. C'erano soltanto la lunga sagoma bassa del molo di cemento e il luccicante riflesso della luna sull'acqua. La nave da carico era sparita. 22. L'allarme del monitor cardiaco suonava freneticamente, urlava quasi, mentre il tracciato eseguiva una caotica danza di morte sullo schermo. «Mr Voss.» Un'infermiera afferrò Victor per un braccio, cercando di allontanarlo dal letto di Nina. «I medici hanno bisogno di spazio per lavorare.» «Non la lascio.» «Mr Voss, non possono fare il loro lavoro se lei rimane qui!» Victor si liberò della donna con una tale violenza da costringerla a ritrarsi, come se fosse stata colpita. Lui rimase fermo, stringendo la sbarra in fondo al letto della moglie con tanta forza che le nocche parevano ossa messe a nudo. «Indietro!» arrivò l'ordine. «Tutti indietro!» «Mr Voss!» A parlare era adesso il dottor Archer, e la sua voce sembrava perforare il tumulto. «Dobbiamo impartire una scossa elettrica al cuore di sua moglie! Lei deve staccarsi dal letto immediatamente!» Voss lasciò la sbarra e fece un passo indietro. Fu somministrata la scossa. Percorse il corpo di Nina, facendolo sobbalzare in modo atroce. Lei era troppo piccola, troppo fragile per essere violentata così! In preda all'ira, Voss si fece avanti di un passo, pronto a strappare le placche metalliche, ma si fermò. Sul monitor sopra il letto, la linea frastagliata si era trasformata in una serie calma e ritmica di picchi. Voss sentì qualcuno emettere un sospiro e avvertì il proprio fiato sfuggirgli in una violenta espirazione. «La sistolica è a sessanta. Sessantacinque...» «Il ritmo sembra tenere.» «Sistolica settantacinque.» «Va bene, riduci l'infusione endovenosa.» «La paziente sta muovendo il braccio. Non possiamo bloccarle il polso?» Victor si fece largo tra le infermiere che si affollavano accanto a Nina. Nessuno cercò di fermarlo. Lui le prese una mano e se la premette contro
le labbra. E, sulla pelle di lei, sentì il gusto salato delle proprie lacrime. Rimani con me. Ti prego, ti prego, non abbandonarmi. «Mr Voss?» La voce parve chiamarlo da una distanza infinita. Girandosi, mise a fuoco il volto del dottor Archer. «Può venire fuori con me?» chiese il medico. Victor scosse la testa. «Per il momento, sua moglie sta bene. Questa gente la sta assistendo nel modo migliore. Non ci allontaneremo dalla stanza. Tuttavia ho bisogno di parlarle, e subito.» Victor annuì. Riappoggiò teneramente la mano di Nina sul letto e seguì Archer fuori della camera asettica. Si fermarono in un angolo appartato dell'unità di terapia intensiva. Le luci erano state abbassate per la notte e, contro il banco che reggeva gli schermi verdi, la sagoma dell'infermiera addetta al controllo si stagliava immobile e silenziosa. «Il trapianto è stato rimandato», disse Archer. «C'è stato un problema per l'espianto.» «Che intende dire?» «Stanotte non può essere eseguito. Dobbiamo rinviare a domani.» Victor si girò verso la camera asettica. Attraverso il vetro non schermato dalle tende, vide che Nina stava muovendo la testa. Si stava risvegliando. Aveva bisogno di trovarlo al suo fianco. «Domani sera tutto deve filare liscio», sibilò. «Sarà così.» «Mi ha detto la stessa cosa dopo il primo trapianto.» «Non sempre riusciamo a impedire il rigetto dell'organo. Per quanto accuratamente si tenti di prevenirlo, accade.» «Come fa a sapere che non si verificherà ancora? Con un secondo cuore?» «Non posso prometterle nulla. Ma, al punto in cui siamo, Mr Voss, non abbiamo alternative. La ciclosporina è stata inutile. E sua moglie ha una reazione anafilattica all'OKT-3. Un secondo trapianto è la nostra unica possibilità.» «E sarà per domani?» Archer annuì. «Ci assicureremo che sia così.» Nina non era ancora del tutto cosciente quando Victor tornò al suo capezzale. Tante volte prima di allora era rimasto a osservarla mentre dormiva. Nel corso degli anni, aveva preso nota dei cambiamenti sopravvenuti
nei tratti del viso. Le rughe che si erano formate agli angoli della bocca, il graduale cedimento della linea delle mascelle, quei recenti tocchi di bianco nei capelli. E, per lui, ogni cambiamento era stato un motivo di afflizione, perché gli ricordava che il viaggio che stavano compiendo assieme era soltanto un passaggio temporaneo in una gelida e solitaria eternità. Ciononostante aveva amato ognuno di quei cambiamenti, perché quello era il viso di lei. Passarono alcune ore prima che Nina aprisse gli occhi. Sulle prime, Voss non si rese conto che era sveglia. Era seduto su una sedia accanto al letto, con le spalle curve per la fatica, quando qualcosa lo indusse ad alzare la testa e a girarsi verso la moglie. Nina lo stava guardando. Aprì una mano in una muta richiesta di contatto. Lui la prese, la baciò. «Ogni cosa si sistemerà», mormorò Nina. Voss sorrise. «Sì, sì, certo.» «Sono stata fortunata, Victor. Molto fortunata...» «Lo siamo stati entrambi.» «Ma adesso devi rassegnarti a lasciarmi andare.» Il sorriso di Victor sparì. Scosse la testa. «Non dire una cosa simile.» «Tu hai ancora tanto da vivere.» «Perché non dici noi?» Le stringeva una mano con entrambe le sue, come un uomo che cercasse invano di trattenere l'acqua corrente. «Tu e io, Nina, non siamo come gli altri! Ricordi quante volte abbiamo detto che siamo diversi, speciali, e che nulla poteva accaderci?» «Ma una cosa è accaduta, Victor», rispose Nina. «È accaduta a me.» «E ci penserò io.» Lei non disse nulla, ma scosse tristemente la testa. Mentre gli occhi di Nina si chiudevano di nuovo, a Victor parve d'intravedere, in quell'ultimo sguardo, una silenziosa sfida. Fissò la mano della moglie, che lui stava serrando con tanta decisione, e notò che si era chiusa a pugno. Era quasi mezzanotte quando il detective Lundquist depositò Abby davanti alla porta della sua abitazione. Lei notò che l'auto di Mark non era parcheggiata nel vialetto. Quando entrò in casa, ne avvertì il vuoto con la stessa intensità con cui avrebbe sentito un baratro spalancarsi ai suoi piedi. Dev'essere stato richiamato in ospedale per un'emergenza, pensò. Non era inconsueto che uscisse di casa a notte fonda, chiamato dal Bayside per
prendersi cura di una ferita da arma da fuoco o da coltello. Cercò d'immaginarlo come l'aveva visto tante volte in sala operatoria, con la mascherina blu sul volto e lo sguardo chino verso il basso, ma non le riuscì. Era come se il ricordo, la realtà di un tempo, fosse stato cancellato. Si avvicinò alla segreteria telefonica, sperando che le avesse lasciato un messaggio sul nastro. Trovò soltanto due comunicazioni telefoniche. Erano entrambe di Vivian e il numero che aveva lasciato aveva il prefisso di un altro Stato. Si trovava ancora a Burlington. Era ormai troppo tardi per chiamarla; avrebbe aspettato che si facesse mattina. Salita al piano di sopra, si tolse gli abiti bagnati, li buttò nella lavatrice ed entrò nella doccia. Notò che le piastrelle erano asciutte: quella sera Mark non l'aveva usata. Non era neanche tornato a casa? Mentre l'acqua calda le frustava le spalle, Abby rimase immobile, con gli occhi chiusi, a pensare. Temeva ciò che avrebbe dovuto dire a Mark. Soltanto per quel motivo era tornata lì, in quella casa. Era arrivato il momento di affrontarlo, di esigere precise risposte. L'incertezza si era fatta insopportabile. Uscita dalla doccia, si sedette sul letto e chiamò Mark sul suo cicalino. Quando, un istante dopo, il telefono si mise a squillare, sobbalzò. «Abby?» Era Katzka. «Volevo soltanto controllare che fosse tutto a posto. Ho chiamato poco fa e non ho avuto risposta.» «Ero sotto la doccia. Sto bene, Bernard. Aspetto soltanto che Mark torni a casa.» Una pausa. «Sei sola?» Il suo tono preoccupato le strappò un sorriso. Insomma, bastava grattar via quell'impenetrabile corazza e, sotto, trovavi un uomo come gli altri. «Ho sprangato porte e finestre», rispose. «Come mi avevi detto di fare.» All'altro capo del filo sentì un confuso accavallarsi di voci, oltre al gracidio della radio della polizia, e riuscì a immaginarsi Katzka su quel molo, con le luci blu delle ambulanze riflesse sul viso. «Che cosa sta succedendo lì?» chiese. «Stiamo aspettando i sommozzatori. La gru è già in posizione.» «Ritieni davvero che il guidatore sia rimasto intrappolato nel furgone?» «Temo di sì.» Sospirò ed era un suono così carico di stanchezza che ad Abby sfuggì un mormorio preoccupato. «Dovresti andare a casa, Bernard. Hai bisogno di una doccia bollente e di un brodo di pollo. È la terapia che ti prescrivo.» Lui rise. Era la prima volta e Abby quasi si sorprese. «La seguirei subito
se trovassi la farmacia in grado di fornirmi questi rimedi», ribatté lui. Poi qualcuno gli parlò. Probabilmente un altro poliziotto, perché gli chiese quale fosse stata la traiettoria dei proiettili. Katzka si girò a rispondergli, quindi tornò all'apparecchio. «Devo andare. Sei sicura di voler stare lì? Non preferiresti sistemarti in albergo?» «Starò benissimo.» «Okay.» Di nuovo Abby lo sentì sospirare. «Ma voglio che domani mattina chiami un fabbro. Fagli installare catenacci sulle porte. Specialmente se prevedi di trascorrere molte notti da sola.» «Lo farò.» Ci fu un breve silenzio. Katzka aveva compiti urgenti da sbrigare, eppure sembrava riluttante a interrompere la conversazione. Infine disse: «Ti ritelefonerò domani mattina». «Grazie, Bernard.» Abby riappese. Chiamò nuovamente Mark sul cicalino. Poi si sdraiò sul letto e aspettò che lui si facesse vivo. Ma il telefono rimaneva muto. Mentre le ore passavano, Abby cercò di calmare i suoi crescenti timori, enumerando le possibili cause di quel silenzio. Forse Mark stava dormendo in una delle stanze del medico di guardia, in ospedale; oppure il suo cicalino era rotto; oppure ancora era in sala operatoria, impegnato in un intervento e pertanto irraggiungibile. Ma potrebbe anche essere morto. Come Aaron Levi. Come Kunstler e Hennessy. Rifece il numero del cicalino. Più e più volte. Alle tre di mattina finalmente il telefono squillò. Abby si svegliò di colpo e afferrò il ricevitore. «Abby, sono io.» La voce di Mark era acuta e metallica, come se la stesse chiamando da molto lontano. «Ti ho cercato al cicalino per ore», ribatté lei. «Dove sei?» «Sono in macchina, sto andando in ospedale.» Fece una pausa. «Abby, dobbiamo parlare. Le cose sono... cambiate.» Lei replicò, in un soffio: «Tra noi, intendi dire». «No. No, questo non c'entra affatto con noi. Non è mai stato così. È una cosa che riguarda me. Si viene semplicemente risucchiati, Abby. Ho cercato di farli desistere, ma ormai erano andati troppo oltre.» «Di chi stai parlando?» «Dell'équipe.» Abby temeva di porre la domanda seguente, però non aveva scelta. «Tut-
ti voi? Siete tutti coinvolti?» «Non completamente.» La voce si affievolì e Abby udì un frastuono che sembrava quello del traffico. Poi Mark tornò a essere udibile. «Mohandas e io abbiamo preso una decisione, stasera. È lì che sono stato, a casa sua. Abbiamo parlato, confrontando vari dati. Equivale a infilare la testa nel cappio, lo sappiamo, però abbiamo deciso che è venuto il momento di farla finita. Non possiamo più prestarci a questo gioco. Porteremo tutto alla luce del sole, Mohandas e io. E al diavolo gli altri. Al diavolo il Bayside.» Fece una pausa, poi con voce incrinata aggiunse: «Sono stato un vigliacco. Mi dispiace». Abby chiuse gli occhi. «Tu sapevi. Hai sempre saputo.» «Sapevo qualcosa... Non avevo idea di dove Archer ci stesse portando. Non volevo sapere. Poi tu hai cominciato a fare quelle domande. E io non potevo nascondere la verità più a lungo...» Sospirò profondamente e sussurrò: «Questa storia sarà la mia rovina, Abby». Lei teneva ancora gli occhi chiusi, ma riusciva a vederlo nell'abitacolo buio dell'auto, una mano stretta sul volante, e l'altra sul telefono cellulare. Immaginava l'infelicità che gli segnava il viso. E il coraggio: soprattutto il coraggio. «Ti amo», sussurrò lui. «Vieni a casa, Mark. Ti prego.» «Non ancora. Devo incontrare Mohandas in ospedale. Andiamo a prendere quei dati sui donatori.» «Sai dove vengono tenuti?» «Abbiamo un'idea. Ma siamo soltanto in due e ci vorrà molto per passare gli incartamenti. Se tu ci dessi una mano, potremmo finire in mattinata.» Abby si mise a sedere sul letto. «Non avrei chiuso occhio comunque. Dove t'incontri con Mohandas?» «Nell'archivio. Lui ha la chiave.» Mark esitò. «Sei sicura di voler entrare in questa faccenda, Abby?» «Voglio essere dovunque sei tu. Lo faremo assieme. Va bene?» «Va bene», mormorò lui. «A più tardi.» Cinque minuti dopo, Abby uscì di casa e montò in macchina. Le strade di West Cambridge erano deserte. Svoltò in Memorial Drive, costeggiando il Charles River, diretta a sudest, verso il ponte di River Street. Erano le tre e un quarto di mattina, ma lei non ricordava di essersi mai sentita così sveglia. Così viva. Finalmente riusciremo a sconfiggerli! pensò. E lo faremo assieme. Co-
me avremmo dovuto fare sin dall'inizio. Oltrepassò il ponte e imboccò la rampa che portava all'autostrada. A quell'ora c'erano in giro poche macchine e non ebbe difficoltà a inserirsi nello scarso traffico diretto a est. Dopo cinque chilometri e mezzo, Abby si spostò di corsia, preparandosi a entrare nella deviazione che immetteva nell'autostrada diretta a sud. Mentre svoltava, si rese improvvisamente conto di avere alle spalle un paio di fari. Accelerò, inserendosi nell'autostrada. I fari si stavano avvicinando, le loro luci abbaglianti risplendevano nello specchietto retrovisore. Da quanto tempo le stavano dietro? Non ne aveva idea. Ma diventavano sempre più grandi a ogni minuto che passava. Aumentò la velocità. Anche l'altra macchina. Di colpo si spostò a sinistra, nella corsia adiacente, e finì per affiancarsi alla vettura di Abby. Lei lanciò un'occhiata di lato. Vide il finestrino dell'altra auto abbassarsi. Scorse la sagoma di un uomo sul sedile del passeggero. In preda al panico, schiacciò l'acceleratore a tavoletta. Troppo tardi si accorse della macchina ferma davanti a lei. Inchiodò. La sua auto sbandò e carambolò al di là della barriera di cemento. D'un tratto il mondo si capovolse, poi ogni cosa si mise a vorticare. Gli occhi di Abby videro un alternarsi di buio e luce. Buio, luce. Buio... «...Ripeto, qui è l'unità mobile quarantuno. L'arrivo previsto è fra tre minuti. Capito?» «Capito, quarantuno. Segni vitali?» «La sistolica si mantiene a novantacinque. Polso centodieci. Le stiamo facendo una flebo di soluzione salina. Ehi, sembra che la donna cominci a muoversi.» «Mantenetela immobilizzata.» «Le abbiamo applicato un collare e un sostegno vertebrale.» «Va bene, noi siamo pronti e vi aspettiamo.» «Saremo lì tra un minuto, Bayside...» ...Luce. E dolore. Brevi e violente fitte alla testa. Tentava di gridare, ma non riusciva a emettere suoni. Cercò di sottrarsi a
quella luce perforante, ma il suo collo pareva intrappolato in una morsa. Pensò che, se fosse stata in grado di sfuggire a quella luce e a rifugiarsi di nuovo nel buio, il dolore sarebbe cessato. Facendo appello a tutte le forze, si divincolò, lottando per liberarsi dalla paralisi che si era impadronita dei suoi arti. «Abby. Abby, sta' ferma!» ordinò una voce. «Devo esaminarti gli occhi.» Nel tentativo di girarsi dall'altra parte, lei avvertì le cinghie che le sfregavano polsi e caviglie. Si rese conto che non era la paralisi a impedirle i movimenti. Era legata, mani e piedi, a un lettino. «Abby, sono il dottor Wettig. Guardami. Guarda la luce. Forza, apri gli occhi. Apri.» Aprì gli occhi, si costrinse a mantenerli aperti anche se il fascio della lampadina elettrica pareva una lama che le penetrasse nel cervello. «Segui la luce. Su. Va bene, Abby, entrambe le pupille sono reattive. I movimenti oculari sono normali.» La luce, misericordiosamente, fu spenta. «Comunque voglio farti una TAC.» Abby riusciva ormai a scorgere sagome indistinte. Vedeva l'ombra della testa del dottor Wettig contro la luce diffusa delle lampade poste sopra di lei. Alla periferia del suo campo visivo, c'erano altre teste in movimento e un paravento bianco di tela che fluttuava in lontananza. Avvertì un dolore nel braccio sinistro e si contorse. «Sta' calma, Abby.» Era una voce femminile, bassa, carezzevole. «Devo prelevarti un po' di sangue. Non ti muovere. Ho varie provette da riempire.» Poi una terza voce: «Dottor Wettig, in radiografia sono pronti». «Un attimo», ribatté Wettig. «Voglio un'altra cannula da infusione endovenosa più grossa. Calibro sedici. Forza, ragazzi.» Abby avvertì un'altra puntura, questa volta nel braccio destro. Il dolore si fece strada in mezzo alla confusione mentale e scosse il cervello. Capì esattamente dove si trovava. Non riusciva a ricordare come ci fosse arrivata, ma sapeva che quello era l'ambulatorio del Pronto soccorso del Bayside e che qualcosa di terribile doveva essere accaduto. «Mark», esclamò, cercando di mettersi a sedere. «Dov'è Mark?» «Non ti muovere! Ti uscirà la cannula della flebo!» Una mano le afferrò il gomito, inchiodandole il braccio al lettino. La presa era troppo ferma per essere gentile. Le stavano facendo male, perforandola con i loro aghi, immobilizandola come un animale catturato.
«Mark!» gridò. «Abby, ascoltami.» Era ancora Wettig e la sua voce risuonò spazientita. «Stiamo cercando di trovare Mark. Sono sicuro che tra un po' arriverà. Adesso, però, tu devi cooperare oppure non potremo aiutarti. Capisci? Abby, mi capisci?» Lei lo fissò in viso e smise di dibattersi. Tante volte prima di allora, nella sua posizione di specializzanda, si era sentita intimidita da quegli occhi azzurri. Adesso, immobilizzata e inerme sotto quello sguardo, il timore di un tempo lasciò il posto a una vera, profonda paura. Si guardò attorno nella stanza, alla ricerca di un volto amico, ma tutti erano troppo occupati a pensare alle infusioni endovenose, a prelevare il sangue e a verificare i segni vitali. Abby sentì che il paravento veniva aperto e avvertì un leggero rullio quando il lettino cominciò a muoversi. Il soffitto prese a scorrere velocemente su di lei in una rapida successione di luci; si rese conto che la stavano portando nel cuore dell'ospedale, nelle mani del nemico. Non cercò neppure di divincolarsi; era impossibile sciogliersi dalle cinghie. Ragiona, si disse. Devi pensare. Svoltarono l'angolo ed entrarono in sala raggi. Un altro viso, quello di un uomo, apparve sopra il lettino. Era il tecnico della tomografia computerizzata. Amico o nemico? Non avrebbe saputo dirlo. La trasferirono sul tavolo e le allacciarono altre cinghie attorno al torace e ai fianchi. «Stia ferma», ordinò il tecnico, «o dovremo rifare ogni cosa da capo.» Mentre lo scanner le scivolava sopra la testa, Abby avvertì un'improvvisa ondata di claustrofobla. Ricordò come altri pazienti le avessero descritto quell'esame: «È come avere la testa infilata in un temperamatite...» Chiuse gli occhi. La macchina cominciò a ruotare attorno alla sua testa. Abby si sforzò di pensare, di ricostruire l'incidente. Rammentò di essere salita in macchina, di aver imboccato la rampa per immettersi nell'autostrada. Poi più nulla: nel video della sua memoria c'era un buco. Amnesia retrograda: per quanto riguardava l'incidente, il vuoto era totale. Lentamente, però, riuscì a mettere a fuoco gli avvenimenti che l'avevano preceduto. Quando l'esame radiografico finì, Abby era riuscita a far combaciare un numero sufficiente di frammenti di ricordo da capire che cosa avrebbe dovuto fare. Se voleva rimanere viva. Quando il tecnico della TAC la ritrasferì sul lettino, lei diede prova di una silenziosa collaborazione; anzi, cooperò a tal punto che l'uomo non le
legò i polsi, limitandosi ad allacciarle la cinghia attorno al torace. Poi il tecnico spinse il lettino con le ruote nell'anticamera della sala raggi. «Il personale del Pronto soccorso verrà a prenderla», disse. «Se ha bisogno di me, mi chiami. Sono qui accanto.» Attraverso la porta aperta, Abby lo sentì parlare al telefono. «Sì, qui è la tomografia computerizzata. Abbiamo finito. Il dottor Blaise sta esaminando le lastre. Potete venire a prendere la paziente?» Abby sollevò le braccia e, senza far rumore, sciolse la cinghia attorno al torace. Quando si mise a sedere, le parve di essere su una giostra che roteava a folle velocità. Poi, però, si premette le mani contro le tempie e ogni cosa sembrò tornare a fuoco. L'infusione endovenosa. Si strappò il cerotto dal braccio, socchiudendo gli occhi per il dolore, e si sfilò il catetere. Dalla cannula uscirono alcune gocce di soluzione salina che lei tuttavia ignorò, cercando invece di fermare il flusso di sangue dalla vena. Un calibro sedici procura un grosso buco. Pur comprimendolo con forza, continuava a sanguinare. Ma non aveva tempo per pensarci. La stavano venendo a prendere. Scese dal lettino e i suoi piedi nudi finirono nella pozza di soluzione salina. Nella stanza accanto, il tecnico stava pulendo il tavolo usato per la tomografia computerizzata. Abby sentiva il fruscio del tessuto di carta, lo scatto metallico di un bidone per i rifiuti. Prese un camice da laboratorio appeso a un gancio dietro la porta e se lo infilò sulla camicia da notte dell'ospedale. Quel minimo sforzo sembrò esaurire le sue energie. Mentre si avviava verso la porta, Abby si sforzava di pensare, di mettere a fuoco gli oggetti che la circondavano attraverso una foschia di dolore. Si sentiva le gambe bloccate, come se stesse avanzando tra le sabbie mobili. Si affacciò nel corridoio. Era vuoto. Sempre muovendosi faticosamente nelle sabbie mobili, si avviò lungo il corridoio, allungando ogni tanto una mano per sorreggersi alla parete. Girò un angolo. All'altra estremità del corridoio c'era un'uscita di sicurezza. Si diresse faticosamente in quella direzione, pensando: Se riuscirò a raggiungere quella porta, sarò salva. Da qualche parte dietro di lei, da quella che sembrava una grande distanza, udì alcune voci. Il suono di passi affrettati. Abby spinse in avanti la sbarra della porta di sicurezza e uscì fuori, nella notte. Ma i campanelli d'allarme avevano cominciato a suonare, costrin-
gendola quindi a correre, in preda al panico. Incespicando, scese dal marciapiede e si addentrò nel parcheggio. Frammenti di vetro e ghiaia le penetravano nei piedi nudi. Non aveva piani di fuga, non sapeva dove andare; sapeva soltanto che doveva allontanarsi dal Bayside. Dietro di lei risuonarono alcune voci. Un grido. Lanciandosi un'occhiata alle spalle, Abby vide tre guardie del servizio di vigilanza che uscivano correndo dalla porta principale del Pronto soccorso. Lei si rannicchiò dietro un'auto... troppo tardi. L'avevano individuata. Abby si tirò in piedi, barcollando, e riprese a correre, ma le gambe si rifiutavano di obbedirle. Continuava a incespicare. I passi degli inseguitori risuonavano sempre più vicini: sembravano arrivare contemporaneamente da due direzioni. Abby girò a sinistra, tra due macchine parcheggiate. Gli uomini la circondarono. Una guardia le afferrò il braccio sinistro, un'altra il destro. Abby scalciò, tirò pugni. Cercò persino di morderli. Ma erano in tre e in breve ebbero ragione di lei. La trascinarono verso il Pronto soccorso. La stavano riportando al dottor Wettig. «Mi uccideranno!» gridò. «Lasciatemi andare!» «Nessuno le farà del male, signora.» «Voi non capite! Non capite!» Le porte del Pronto soccorso si spalancarono all'istante. Abby fu trascinata dentro, alla luce, e distesa su un lettino. E venne legata, benché scalciasse e si dibattesse. Sopra di lei apparve la faccia del dottor Wettig, pallida e tesa. «Quattro milligrammi di Haldol intramuscolo.» «No!» urlò Abby. «No!» «Su, presto!» Un'infermiera si materializzò, con una siringa in mano. Abby si contorse, cercando di liberarsi. «Tenetela ferma», sibilò Wettig. «Dannazione, non siete capaci d'immobilizzarla?» Mentre alcune mani le afferravano i polsi, Abby venne girata su un fianco e le fu denudata la natica destra. «Per favore», implorò Abby, guardando l'infermiera china su di lei. «Non permettetegli di farmi del male.» Sentì il gelido contatto dell'alcol, poi la puntura dell'ago che affondava nella natica. «Per favore», sussurrò. Ma sapeva che era troppo tardi.
«Andrà tutto bene», le mormorò l'infermiera, sorridendo. «Ogni cosa si sistemerà nel modo migliore.» 23. «Sul molo non ci sono segni di sbandata», disse il detective Carrier. «Il parabrezza è in frantumi e, a quanto pare, l'uomo al volante è stato raggiunto da una pallottola proprio sopra l'occhio destro. Conosci la procedura, Lumaca. Mi dispiace, ma abbiamo bisogno della tua pistola.» Katzka annuì e fissò stancamente l'acqua. «Di' al palombaro che la troverà proprio qui sotto. A meno che la corrente non l'abbia spostata.» «Credi di aver tirato otto colpi?» «Forse di più. Di certo so che ho cominciato a sparare all'impazzata.» Carrier batté una mano sulla spalla di Katzka. «Va' a casa. Sembri uno straccio, Lumaca.» «Davvero?» replicò Katzka. Poi s'incamminò lungo la banchina, facendosi largo tra gli uomini della scientifica. Il furgone era stato tirato fuori dell'acqua già da qualche ora e sistemato ai limiti del deposito dei container. Festoni di alghe marine penzolavano dall'assale. A causa dell'aria contenuta nei pneumatici, sott'acqua il furgoncino si era ribaltato e il tetto era sprofondato nel fondo sabbioso. I resti del parabrezza erano imbrattati di melma. Dalla targa si era già risaliti al proprietario: il Bayside Hospital, Ufficio del personale. Secondo il responsabile di quell'ufficio, l'automezzo era uno dei tre di proprietà dell'ospedale che venivano utilizzati per trasportare avanti e indietro materiali medici e personale tra il Bayside e le cliniche esterne. Fino a un'ora prima, quando la polizia gli aveva telefonato, il dirigente non aveva ancora segnalato la scomparsa di uno dei suoi furgoni. Lo sportello del guidatore penzolava, aperto, e un fotografo, piegato verso l'interno, stava scattando foto del cruscotto. Il cadavere era già stato rimosso da mezz'ora. Dalla patente era stato identificato come Oleg Boravoj, di anni 39, residente a Newark, nel New Jersey. Si era in attesa di altre informazioni. Katzka non cercò neppure di avvicinarsi al veicolo. Sul suo comportamento in quella vicenda era stata aperta un'inchiesta e lui non voleva essere accusato d'inquinare le prove. Attraversò il deposito dei container fino a raggiungere il luogo dov'era parcheggiata la sua auto, appena oltre la recinzione, e si sedette stancamente al posto di guida. Con un gemito, si la-
sciò cadere la testa tra le mani. Erano le due di mattina, c'era appena il tempo per andare a casa a farsi una doccia e dormire qualche ora; poi, subito dopo l'alba, sarebbe tornato al molo. Sono troppo vecchio per queste cose, pensò, ho almeno dieci anni di troppo. Tutte quelle corse e quelle sparatorie nel buio andavano bene per i giovani leoni, non per un poliziotto di mezz'età. E lui si sentiva più che anziano. Qualcuno bussò al vetro. Katzka alzò lo sguardo e vide Lundquist. Abbassò il finestrino. «Ehi, Lumaca, stai bene?» «Vado a casa a dormire un po'.» «Be', prima che te ne vada immagino che vorrai sapere qualcosa dell'uomo che guidava il furgone.» «Ci sono novità?» «Grazie al computer abbiamo fatto centro: Oleg Boravoj era schedato. Giunto in America nel 1989, proveniente dalla Russia. Ultima residenza conosciuta: Newark, nel New Jersey. Tre arresti, nessuna condanna.» «Quali erano le accuse?» «Rapimento ed estorsione. Non è mai stato possibile concludere i processi perché ogni volta i testimoni sono scomparsi.» Lundquist si chinò in avanti, la voce ridotta a un sussurro. «Stanotte sei incappato in qualcosa di veramente grosso. Secondo la polizia di Newark, Boravoj faceva parte della mafia russa.» «È sicuro?» «Se non lo sanno loro! Il New Jersey è lo Stato in cui gli uomini della mafia russa hanno impiantato le proprie basi. Lumaca, paragonato a questi qui, il cartello dei colombiani sembra un fottuto Rotary Club. Non sono semplici criminali. È gente che, come prima cosa, ti taglia le dita dei piedi e delle mani, per puro divertimento.» Katzka si accigliò, ricordando il panico della notte appena trascorsa. Nell'acqua fino al collo, al buio, mentre quegli uomini correvano sulla banchina sovrastante, gridandosi frasi in una lingua che il detective non comprendeva. Gli balenarono visioni di dita tranciate, di membra umane sparse nelle strade di Boston. Il che lo fece pensare ai bisturi. Alle sale operatorie. «Qual è il collegamento tra Boravoj e il Bayside?» chiese. «Non lo sappiamo.» «Stava guidando un automezzo dell'ospedale.» «E il furgoncino era pieno di forniture mediche», precisò Lundquist.
«Roba che valeva circa duemila dollari. Forse si tratta di mercato nero. È possibile che Boravoj avesse alcuni complici nel Bayside che facevano sparire dall'ospedale medicine e strumenti. E tu l'hai sorpreso proprio mentre stava consegnando la merce alla nave da carico.» «Che sai dirmi di quel cargo? Hai parlato con la capitaneria di porto?» «Sui registri, la nave risulta appartenere a una compagnia del New Jersey chiamata Sigaev. L'ultimo porto in cui si sa che abbia fatto scalo è Riga.» «Dove si trova?» «In Lettonia.» Di nuovo i russi, pensò Katzka. Se in quella vicenda era davvero coinvolta la mafia russa, allora i criminali con cui si aveva a che fare erano ben noti per la loro crudeltà sanguinaria. A ogni ondata legale d'immigranti ne faceva seguito un'altra, nascosta, di delinquenti, di organizzazioni criminali che seguivano i loro compatrioti nella terra delle opportunità. La terra delle facili prede. Katzka pensò ad Abby DiMatteo e la sua ansia di colpo si acuì. Dopo quella telefonata all'una di notte, non le aveva più parlato. Appena un'ora prima, era stato sul punto di richiamarla, ma, mentre formava il numero, si era reso conto che il polso gli si era fatto più rapido. E aveva riconosciuto quel segno per ciò che era. Aspettativa. Un desiderio gioioso e al contempo straziante, del tutto irrazionale, di udire la voce di lei. Erano sensazioni che da anni non provava più e aveva capito, fin troppo dolorosamente, che cosa significassero. Non aveva neppure finito di comporre il numero. E, in quell'ultima ora, si era sentito travolgere da una crescente depressione. Si voltò a guardare la banchina e disse a Lundquist: «Voglio sapere ogni cosa su questa compagnia Sigaev. Bisogna appurare ogni possibile legame con la Amity e con il Bayside Hospital». «Sto già provvedendo, Lumaca.» Katzka accese il motore e studiò Lundquist. «Tuo fratello fa ancora parte della guardia costiera?» «No. Ma ha mantenuto rapporti di amicizia con alcuni di loro.» «Senti un po' che cosa sanno. Verifica se ultimamente il cargo ha toccato qualche porto.» «Ne dubito, se era appena partito da Riga.» Lundquist s'interruppe e alzò gli occhi. Il detective Carrier si stava avvicinando a loro e agitava una mano.
«Ehi, Lumaca», gridò. «Hai saputo della dottoressa DiMatteo?» Katzka spense di scatto il motore, ma non riuscì a bloccare l'improvvisa accelerazione del suo polso. Fissò Carrier, aspettandosi il peggio. «C'è stato un incidente.» Un carrello per il cibo passò cigolando nel corridoio. Abby si svegliò sobbalzando e si accorse di essere distesa tra lenzuola madide di sudore. Il cuore le batteva ancora in gola, per via di quell'incubo. Cercò di girarsi nel letto, ma si rese conto di non poterlo fare: aveva le mani legate, e i polsi le dolevano per lo sfregamento. E capì di non aver fatto un brutto sogno: l'incubo era reale, non c'era possibilità di svegliarsi. Con un sospiro, ricadde contro il guanciale e fissò il soffitto. Poi, nell'udire lo scricchiolio di una sedia, girò la testa. Katzka era seduto accanto alla finestra. Nella luce del mezzogiorno, il suo viso non rasato sembrava più vecchio e più stanco di quanto Abby avesse mai notato prima. «Ho chiesto che ti togliessero i legacci», disse, «ma mi hanno risposto che ti eri strappata troppe flebo.» Si alzò e si avvicinò al letto. «Bentornata, Abby. Sei una ragazza molto fortunata.» «Non ricordo che cosa sia accaduto.» «Hai avuto un incidente. La tua vettura si è capottata in autostrada.» «C'era qualcun altro...» Katzka scosse la testa. «Non ci sono stati altri feriti. Ma la tua macchina è praticamente distrutta.» Cadde il silenzio. Abby notò che il detective non la stava più guardando. Fissava invece il suo guanciale. «Katzka?» chiese a bassa voce. «È stata colpa mia?» Con una certa riluttanza, lui annuì. «A giudicare dai segni lasciati sull'asfalto, sembra che tu stessi viaggiando a velocità molto elevata. Devi aver frenato per evitare un veicolo fermo davanti a te. La tua macchina ha sbandato e ha urtato il guardrail, poi si è capottata, saltando due corsie.» Abby chiuse gli occhi. «Oh, mio Dio.» Qualche istante di silenzio. «Immagino che tu non sappia il resto», riprese infine Katzka. «Ho parlato con il funzionario incaricato delle indagini. Purtroppo hanno trovato nella tua auto i cocci di una bottiglia di vodka.» Lei sbarrò gli occhi. «È impossibile.» «Abby, non puoi ricordare che cos'è accaduto. La notte scorsa, sulla banchina, hai avuto un'esperienza traumatizzante. Forse hai sentito il bisogno di cancellarla. Di bere qualcosa, una volta arrivata a casa.»
«Questo lo ricorderei! Se avessi bevuto, me ne rammenterei...» «Ascolta, la cosa importante adesso è...» «È questo che ha importanza! Non capisci, Bernard? Stanno cercando di nuovo d'invischiarmi!» Il detective si strofinò una mano sugli occhi, il gesto istintivo di un uomo che lotta per rimanere sveglio. «Mi dispiace, Abby», mormorò. «Lo so che per te non sarà facile da accettare, ma il dottor Wettig mi ha appena fatto vedere i risultati del tuo esame del sangue. Te l'hanno fatto ieri sera, al Pronto soccorso. Il livello dell'alcol nel sangue era zero punto ventuno.» Non la stava guardando; fissava invece qualcosa fuori della finestra, come se il semplice atto di rivolgere gli occhi verso di lei fosse uno sforzo troppo gravoso. Abby non poteva neppure girarsi per affrontarlo: le cinghie non glielo permettevano. Diede un violento strappo ai legacci e il dolore che avvertì ai polsi martoriati le fece quasi venire le lacrime agli occhi. Ma non si sarebbe messa a piangere. Maledizione, non avrebbe pianto. Chiuse gli occhi e cercò d'incanalare la propria rabbia. Le rimaneva soltanto quella, era l'unica arma con cui poteva contrattaccare. Le avevano tolto tutto il resto. Le avevano tolto persino Katzka. Lentamente, disse: «Non avevo bevuto. Devi credermi. Non ero ubriaca». «Puoi dirmi dove stavi andando alle tre del mattino?» «Stavo venendo qui, al Bayside. Questo lo ricordo perfettamente. Mark mi aveva telefonato e stavo venendo qui per...» Si fermò. «Lui è stato qui? Perché non c'è?» Il silenzio di Katzka era agghiacciante. Lei girò la testa per guardarlo, ma non riuscì a vederlo in faccia. «Bernard?» «Il cicalino di Mark Hodell non risponde.» «Che cosa?» «La sua vettura non è nel parcheggio dell'ospedale. Nessuno sa dove si trovi.» Abby cercò di parlare, ma una mano invisibile pareva stretta intorno alla sua gola. L'unico suono che riuscì a emettere fu un flebile: «No». «È troppo presto per trarre conclusioni. Il cicalino potrebbe essere rotto. Per adesso non sappiamo niente.» Invece Abby sapeva, sapeva con una certezza che era istintiva e sconvolgente al contempo. Le sembrò che ogni fibra del suo corpo si paralizzasse. Senza vita. Non si rese conto che stava piangendo, non sentì neppu-
re le lacrime rigarle il viso finché Katzka non si alzò, con un fazzoletto in mano, e le asciugò delicatamente una guancia. «Mi dispiace», mormorò il detective. Le scostò i capelli dal viso e per un istante la sua mano indugiò sulla fronte di Abby, in un gesto protettivo. Ripeté, con voce più bassa: «Mi dispiace». «Trovamelo», sussurrò lei. «Ti prego. Per favore, trovamelo.» «Sì.» Un attimo dopo, Abby lo sentì uscire dalla stanza. Soltanto allora si rese conto che le aveva sciolto i legacci. Era libera di alzarsi dal letto, di andarsene da quella stanza. Ma non lo fece. Affondò il volto nel guanciale e pianse. A mezzogiorno entrò un'infermiera che le tolse l'infusione endovenosa e le lasciò un vassoio con il cibo. Abby non lo guardò neppure. Più tardi, il vassoio fu portato via, intatto. Alle due entrò il dottor Wettig. Si fermò accanto al letto, sfogliando la cartella clinica, emettendo vari borbottii mentre controllava gli esami di laboratorio. Alla fine chiuse la cartella e fissò Abby. «Dottoressa DiMatteo?» Lei non rispose. «Il detective Katzka mi ha detto che lei nega di aver bevuto alcol, la notte scorsa», continuò Wettig. Abby rimase in silenzio. Wettig sospirò. «Il primo passo verso la guarigione consiste nell'ammettere di avere un problema. Be', avrei dovuto essere più perspicace. Avrei dovuto capire contro che cosa lei stava lottando. Ma la questione è venuta allo scoperto. È arrivato il momento di occuparcene.» Abby alzò lo sguardo verso di lui. «Quale sarebbe il punto?» chiese con voce atona. «Il punto è che lei deve cercare di salvaguardare il proprio futuro. L'alcolismo è un serio impedimento... però lei è una donna intelligente. Potrà sempre intraprendere una carriera diversa da quella del medico.» La risposta di Abby fu il silenzio. In quel momento, la fine della sua carriera le sembrava una questione quasi insignificante, se paragonata al dolore della scomparsa di Mark. «Ho chiesto al dottor O'Connor di esaminarla», continuò Wettig. «Verrà a trovarla stasera.» «Non ho bisogno di uno psichiatra.» «Io credo di sì, Abby. Ritengo che tu abbia bisogno di molto aiuto. Devi
superare queste manie di persecuzione. Non permetterò che tu venga dimessa dall'ospedale finché O'Connor non avrà dato il suo parere favorevole. Potrebbe decidere di trasferirti nel reparto psichiatrico. La decisione spetta a lui. Non possiamo permettere che tu ti faccia del male, come hai cercato di fare la notte scorsa. Siamo tutti molto preoccupati per te, Abby. Io sono preoccupato per te. Per questo motivo ho richiesto una visita psichiatrica. È per il tuo bene, credimi.» Lei lo fissò dritto negli occhi. «Vada a farsi fottere, Generale.» Con enorme soddisfazione di Abby, Wettig batté gli occhi e indietreggiò di un passo. Poi chiuse bruscamente la cartella. «Ripasserò da lei più tardi, dottoressa DiMatteo», disse e uscì. Abby rimase a lungo a fissare il soffitto. Prima che Wettig entrasse nella stanza, si era sentita troppo debole per lottare. Adesso, invece, i muscoli erano in tensione e si sentiva lo stomaco sottosopra. Le mani le facevano male. Abby abbassò lo sguardo e si rese conto che erano strette a pugno. Al diavolo tutti quanti. Si mise a sedere sul letto. Le vertigini durarono soltanto qualche secondo. Era rimasta per troppo tempo distesa. Era giunto il momento di muoversi. Di riprendere il controllo della sua vita. Si diresse alla porta e la spalancò. Un'infermiera alzò gli occhi dal suo tavolo, fissandola. Sulla sua targhetta c'era il nome: W. SORIANO, INF. «Ha bisogno di qualcosa?» «Be', no», rispose Abby e si ritrasse rapidamente dietro la porta chiusa. Maledizione. La tenevano prigioniera. A piedi nudi, camminò avanti e indietro nella stanza, cercando di pianificare la mossa successiva. Non poteva pensare a Mark in quel momento. Se l'avesse fatto, avrebbe finito di nuovo per rannicchiarsi sul letto a piangere. Era questo che volevano, che si aspettavano, da lei. Si avvicinò alla sedia accanto alla finestra e si sedette a riflettere. La notte precedente, Mark aveva detto che Mohandas era dalla loro parte, ma Mark era introvabile. Abby non poteva fidarsi di Mohandas. In quell'ospedale, non poteva fidarsi di nessuno. Si avvicinò al comodino e sollevò il ricevitore del telefono. La linea era collegata con l'esterno. Fece il numero di Vivian e trovò la segreteria telefonica. Si rammentò allora che Vivian era ancora a Burlington. Chiamò casa, compose il codice di accesso e ascoltò i messaggi registrati sulla segreteria telefonica. C'era un'altra comunicazione di Vivian: a giudicare dal tono di voce, doveva essere urgente. Aveva lasciato un numero
di Burlington. Abby lo chiamò. Stavolta Vivian rispose. «Mi hai trovata per un puro caso. Stavo per andarmene.» «Torni a casa?» «Ho un volo alle sei. Ascolta, questo viaggio è stato un buco nell'acqua. A Burlington non è stato eseguito nessun espianto.» «Come fai a saperlo?» «Ho controllato presso l'aeroporto locale e le altre piste di decollo della zona. Le notti in cui sarebbero avvenuti quei trapianti, da qui non sono partiti voli per Boston. Neanche uno. Burlington è soltanto una copertura. E Tim Nicholls forniva i documenti ufficiali.» «E Nicholls se l'è squagliata.» «O si sono sbarazzati di lui.» Tacquero per qualche istante. Poi Abby sussurrò: «Mark è scomparso». «Che cosa?» «Nessuno sa dove sia. Il detective Katzka sostiene che non riescono a trovare la sua auto. E Mark non risponde al cicalino.» Si fermò, con la gola che le si serrava nuovamente. «Oh, Abby, Abby...» La voce di Vivian s'incrinò. In quell'attimo di silenzio, Abby udì un clic. Stringeva il ricevitore con tanta forza che le dita le facevano male. «Vivian?» chiamò. Ci fu un altro clic. Poi la linea divenne muta. Abby riappese, quindi ricompose il numero, ma l'apparecchio non dava segni di vita. Tentò di chiamare il centralino, schiacciò la forcella più e più volte: tutto inutile. L'ospedale aveva isolato il suo telefono. Katzka si fermò sullo stretto marciapiede del Tobin Bridge, scrutando l'acqua che fluiva, molto in basso, sotto di lui. Il Mystic River scorreva da ovest e, dopo essersi congiunto con il Chelsea River, si dirigeva verso il porto di Boston e il mare. Era un bel salto, pensò Katzka, immaginando il tremendo impatto di un corpo su quell'acqua. Quasi certamente un tuffo mortale. Si girò, guardando oltre il traffico del tardo pomeriggio che gli sibilava accanto e fissando il lato opposto del ponte. Immaginò l'ipotetica sequenza di avvenimenti successivi alla caduta in acqua del corpo. Il cadavere che
viene trascinato dai flutti sino al porto, che rotola sotto la superficie dell'acqua, e che magari raschia il fondale melmoso... Sì, sulle prime andava così. Poi però - in un periodo di tempo che andava da alcune ore a qualche giorno e che dipendeva dalla temperatura dell'acqua e dalla velocità con cui i batteri si moltipllcavano negli intestini in putrefazione - all'interno del cadavere si formavano i gas. E il corpo riaffiorava. Allora sarebbe stato trovato. In un giorno o due. Gonfio e irriconoscibile. Katzka si rivolse all'agente di pattuglia in piedi accanto a lui. Dovette urlare per sovrastare il rumore del traffico. «A che ora ha notato l'auto?» «Attorno alle cinque di mattina. Era ferma nella deviazione che scende verso nord. Proprio là.» Indicò oltre le auto che passavano sibilando. «Una bella BMW verde. Mi sono subito fermato.» «Ha visto qualcuno accanto alla BMW?» «No, signore. Sembrava abbandonata. Ho fatto un controllo con il numero di targa, verificando che non si trattasse di una vettura rubata. Mi sono detto che forse il guidatore aveva avuto qualche guaio al motore e l'aveva lasciata lì per andare a chiedere aiuto. Però, ferma dov'era, intralciava il traffico, così ho chiamato il carro attrezzi.» «Nel cruscotto non c'erano le chiavi? Nessun biglietto?» «No, signore, nulla. All'interno era pulita come la canna di un fucile.» Katzka tornò a guardare l'acqua sotto di lui. Si chiese quanto fosse profondo il fiume in quel punto e quanto fosse veloce la corrente. «Ho telefonato a casa del dottor Hodell, però non rispondeva nessuno», aggiunse l'agente. «Be', non sapevo che fosse scomparso...» Katzka non fece commenti. Continuò a guardare il fiume, pensando ad Abby, chiedendosi che cosa avrebbe potuto dirle. Gli era sembrata così fragile in quel letto d'ospedale... Non sopportava l'idea d'infliggerle altri colpi. Altri dolori. Non glielo dirò. Non ancora, decise. Non prima di aver trovato il corpo. Anche l'agente si chinò a guardare il fiume. «Cristo. Pensa che si sia buttato?» «Se si trova laggiù», replicò Katzka, «non è perché si è buttato.» I telefoni avevano continuato a squillare tutto il giorno; due ausiliarie erano assenti per malattia e l'infermiera di turno, Wendy Soriano, non era neanche riuscita a pranzare. Non si sentiva dell'umore adatto per sostenere un doppio turno, eppure era lì, alle tre e mezzo del pomeriggio, e con la
prospettiva di altre otto ore di servizio. I suoi bambini le avevano già telefonato due volte. Mamma, Jeffy mi ha picchiato di nuovo. Mamma, a che ora torna a casa papà? Mamma, possiamo usare il forno a microonde? Promettiamo di non appiccare il fuoco alla casa. Mamma, mamma, mamma. Perché non telefonavano a papà in ufficio e non rompevano le scatole a lui? Perché il lavoro di papà è maledettamente più importante. Wendy si prese la testa tra le mani e guardò la pigna di cartelle cliniche, fitte di prescrizioni dei medici. Agli specializzandi piaceva moltissimo mettere per iscritto i loro ordini. Arrivavano facendo svolazzare il camice e, con le loro stilografiche di lusso, scarabocchiavano istruzioni del tipo: «Latte di Magnesia per liberare gli intestini» o «Sbarre del letto alzate per tutta la notte». Poi consegnavano alle infermiere le cartelle cliniche con tanto di foglietti allegati, neanche fossero Dio che consegna a Mosè le tavole della legge. Tu non tollererai la stipsi. Con un sospiro, Wendy prese in mano la prima cartella. Il telefono squillò. Mi auguro che non siano ancora i bambini, pensò. Basta con i Mamma, mi ha picchiato. Rispose con un brusco: «Qui Sei Est, Wendy». «Sono il dottor Wettig.» «Oh.» Automaticamente Wendy si raddrizzò sulla sedia. Non si poteva rimanere afflosciati quando si parlava con il dottor Wettig, anche se lui era all'altro capo del filo. «Mi dica, dottore.» «Voglio ricontrollare quel livello dell'alcol nel sangue della dottoressa DiMatteo. E voglio che la provetta venga mandata al laboratorio MedMark.» «Non al nostro?» «No. Lo mandi direttamente al MedMark.» «Certamente, dottore», replicò Wendy, prendendo nota. Era una richiesta insolita, ma ciò che diceva il Generale era legge. «Come sta la DiMatteo?» chiese Wettig. «Un po' agitata.» «Ha tentato di andarsene?» «No. Non è neppure uscita dalla stanza.» «Bene. Si assicuri che rimanga dov'è. E assolutamente nessuna visita. Questo vale anche per il personale medico, a parte coloro che hanno la mia autorizzazione.»
«Sì, dottor Wettig.» Wendy riappese e fissò la scrivania. Durante la telefonata altre tre cartelle postillate vi erano state deposte. Maledizione. Non sarebbe riuscita a eseguire quelle prescrizioni prima di sera. Improvvisamente si sentì girare la testa per la fame. Non aveva ancora pranzato, non aveva fatto neanche un intervallo da ore e ore. Si guardò attorno e vide due ausiliarie che chiacchieravano nel corridoio. In quell'ospedale era lei l'unica persona a darsi da fare? Strappò dal blocchetto la richiesta di controllo del livello dell'alcol nel sangue e la depositò nella casella del tecnico di laboratorio. Mentre si alzava dalla scrivania, il telefono prese a squillare. Wendy lo ignorò; dopotutto, il personale non infermieristico era lì per quello. Uscì dalla stanza mentre riecheggiava lo squillo di ben due linee. Una volta tanto, poteva rispondere qualcun altro a quel dannato telefono. Il vampiro era di nuovo lì, con un contenitore pieno di provette, di etichette di laboratorio e di siringhe. «Mi dispiace, dottoressa DiMatteo, ma devo pungerla di nuovo.» Abby, ritta in piedi accanto alla finestra, lanciò appena un'occhiata all'addetta ai prelievi, poi tornò a girarsi verso l'esterno. «Questo ospedale mi ha succhiato tutto il sangue che avevo», esclamò, fissando il cupo panorama al di là del vetro. Nel parcheggio sottostante, le infermiere si affrettavano verso le porte dell'ospedale, con i capelli che svolazzavano e gli impermeabili sferzati dal vento, mentre a est si ammassavano le nubi, nere e minacciose. Il cielo non tornerà mai più sereno? si chiese. Alle sue spalle, si udì il tintinnio delle provette di vetro. «Dottoressa, devo proprio farle un prelievo.» «Non ho bisogno di altri esami.» «Ma il dottor Wettig l'ha ordinato.» Poi la flebotoma aggiunse, con una punta di disperazione: «La prego, non mi metta i bastoni tra le ruote». Si girò e la guardò. La donna sembrava molto giovane. Abby ripensò a se stessa, qualche tempo prima. Quando anche lei era atterrita da Wettig, aveva paura di commettere uno sbaglio, di perdere ciò per cui si era data tanto da fare. Ormai, però, non aveva più timori del genere. Quella donna, invece, sì. Con un sospiro, Abby tornò accanto al letto e si sedette. La donna appoggiò il reggiprovette sul tavolino da notte e cominciò ad aprire pacchetti sterili contenenti garze, un ago e una siringa. A giudicare
dal numero di provette già piene di sangue che si trovavano nel contenitore, quel giorno doveva aver ripetuto quegli stessi gesti almeno una dozzina di volte. I posti rimasti vuoti erano pochi. «Va bene, quale braccio preferisce?» Abby tese il sinistro e osservò con aria impassibile mentre il laccio di gomma veniva sistemato con uno schiocco, poi strinse il pugno. La vena anticubitale si gonfiò, evidenziandosi, mostrando i segni dei precedenti prelievi. Mentre l'ago le forava la pelle, distolse lo sguardo. Fissò invece il contenitore della flebotoma, con le varie provette piene di sangue e accuratamente etichettate. Una confezione di leccornie per vampiri. La sua attenzione fu attratta da una provetta in particolare, un cilindro dal coperchio purpureo la cui etichetta era rivolta verso di lei. Fissò il nome. VOSS, NINA - UNITÀ CHIRURGICA DI TERAPIA INTENSIVA, LETTO 8. «Ecco fatto», disse il vampiro, estraendo l'ago. «Può tenere a posto la garza?» Abby sollevò lo sguardo. «Come?» «Tenga lei la garza mentre prendo un cerotto.» Automaticamente Abby premette la garza contro il braccio. Tornò a guardare la provetta con il sangue di Nina Voss. Il nome del medico curante era appena visibile, in un angolo dell'etichetta. DOTTOR ARCHER. Nina Voss è di nuovo in ospedale, pensò. È ricoverata ancora nel reparto cardiotoracico. L'addetta ai prelievi se ne andò. Abby tornò accanto alla finestra e guardò fuori, verso le nubi che diventavano sempre più nere. Nel parcheggio volavano pezzi di carta. La finestra cigolò, scossa da una folata di vento. Qualcosa non ha funzionato con il nuovo cuore. Avrebbe dovuto capirlo giorni prima, quando si erano incontrate nella limousine. Ricordò l'aspetto di Nina nella penombra della macchina. Il volto pallido, la tinta bluastra delle labbra. Già allora il cuore trapiantato non stava funzionando a dovere. Si avvicinò all'armadio. Dentro, trovò una borsa di plastica rigonfia con la scritta: EFFETTI PERSONALI DEL PAZIENTE. Conteneva le sue scarpe, i suoi pantaloni macchiati di sangue e la sua borsa. Il portafogli mancava: probabilmente era chiuso nella cassaforte dell'ospedale. Un'attenta ricerca nella borsa portò al ritrovamento di pochi spiccioli sparsi sul
fondo. Le avrebbero fatto comodo. Indossò i pantaloni, vi infilò dentro la camicia da notte dell'ospedale e si mise le scarpe. Poi si avvicinò alla porta e sbirciò fuori. L'infermiera Soriano non era alla scrivania. C'erano però altre due infermiere, una intenta a parlare al telefono e l'altra china su alcune carte. Nessuna delle due guardava dalla parte di Abby. Lei lanciò un'occhiata al corridoio e vide il carrello carico di vassoi con il pasto serale entrare sferragliando nel reparto, spinto da un'anziana volontaria in uniforme rosa. Il carrello si fermò di fronte alla scrivania delle infermiere. La volontaria prese due vassoi con il cibo e li portò nella camera di fronte. Fu allora che Abby scivolò nel corridoio. Il carrello dei pasti impedì alle infermiere di scorgerla mentre passava davanti alla loro scrivania e usciva dal reparto. Non potendo correre il rischio di essere bloccata in un ascensore, puntò dritto verso le scale. Dopo aver salito sei rampe, emerse all'undicesimo piano. Davanti a lei si trovavano le sale operatorie; appena girato l'angolo c'era l'unità chirurgica di terapia intensiva. Dal carrello della biancheria, che si trovava nel corridoio delle sale operatorie, Abby prese un camice chirurgico, una cuffia e un paio di sovrascarpe. Completamente rivestita di azzurro, come gli altri, poteva passare inosservata. Svoltò l'angolo e s'inoltrò nell'unità di terapia intensiva. Lì dentro regnava il caos. Il paziente del letto 2 aveva avuto una crisi cardiaca. A giudicare dalle voci tese e stridule e dal frenetico affollarsi di tutto il personale in quella camera asettica, la rianimazione non procedeva bene. Nessuno notò Abby mentre lei oltrepassava il bancone dei monitor e raggiungeva la camera asettica numero 8. Si fermò davanti al vetro il tempo necessario per sincerarsi che in quel letto ci fosse proprio Nina Voss, poi entrò nella camera asettica. La porta le si richiuse alle spalle, smorzando le voci dell'équipe della rianimazione. Abby tirò le tende sul vetro, per impedire a chiunque di guardare nella camera, e si girò verso il letto. Nina stava dormendo, serenamente inconsapevole dell'attività frenetica che si svolgeva al di là della sua porta chiusa. Dall'ultima volta in cui Abby l'aveva vista sembrava essersi rimpicciolita, come una candela lentamente consumata dalla fiamma della sua malattia. Il corpo sotto le lenzuola pareva quello di una bambina.
Abby prese il foglio dei parametri appeso ai piedi del letto. Le bastò un'occhiata per afferrare la situazione. L'aumento della pressione sulle pareti del cuore. La lenta riduzione delle contrazioni cardiache. L'alto dosaggio di dobutamina nel vano tentativo di aumentare l'efficienza cardiaca. Riappese il foglio al gancio. Mentre si raddrizzava, vide che gli occhi di Nina erano aperti e la fissavano. «Salve, Mrs Voss», disse. Nina sorrise e mormorò: «Ecco il medico che dice sempre la verità». «Come si sente?» «Tranquilla.» Nina sospirò. «Sono tranquilla.» Abby si avvicinò al letto. Le due donne si guardarono, senza parlare. Poi Nína mormorò: «Non ha bisogno di dirmelo. Lo so già». «Che cosa sa, Mrs Voss?» «Che ne ho ancora per poco.» Chiuse gli occhi e trasse un profondo sospiro. Abby le prese una mano. «Non ho mai avuto la possibilità di ringraziarla. Per aver cercato di aiutarmi.» «Era Victor che stavo cercando di aiutare.» «Non capisco.» «È come quel personaggio del mito greco. Quello che scende nell'Ade per riprendersi la moglie.» «Orfeo.» «Sì. Victor è come Orfeo. Vuole riavermi a tutti i costi. Non gli importano le inevitabili implicazioni. Non si cura di quanto possa costargli.» Aprì gli occhi; il suo sguardo era sorprendentemente limpido. «Alla fine», sussurrò, «il prezzo sarà troppo alto.» Non stava parlando di denaro, Abby lo capì. Stava parlando di anime. La porta della camera asettica si aprì improvvisamente. Abby si voltò e vide un'infermiera che la stava fissando, sconcertata. «Oh! Dottoressa DiMatteo, che cosa sta...» Guardò le tendine chiuse, poi i suoi occhi si volsero ai monitor e alle cannule dell'infusione endovenosa. Sta cercando qualche segno di sabotaggio. «Non ho toccato nulla», mormorò Abby. «Può andarsene, per favore?» «Sono venuta semplicemente a farle visita. Avevo sentito che era ricoverata di nuovo nell'unità di terapia intensiva e...» «Mrs Voss ha bisogno di riposo.» L'infermiera aprì la porta e sospinse Abby fuori della camera asettica. «Non ha visto il cartello NIENTE VISI-
TE? Deve essere operata stanotte. Non può essere disturbata.» «Un intervento di che tipo?» «Un nuovo trapianto. Hanno trovato un donatore.» Abby fissò la porta chiusa della camera asettica numero 8. Chiese, a voce bassa: «Mrs Voss lo sa?» «Che cosa?» «Ha firmato il consenso per l'intervento?» «L'ha già firmato suo marito per lei. Ma adesso, per favore, se ne vada immediatamente.» Senza ribattere, Abby si girò e uscì dal reparto. Non sapeva se qualcuno avesse notato la sua assenza; continuò a camminare nel corridoio finché non raggiunse gli ascensori. Una porta si aprì; la cabina era piena di gente. Abby entrò, girando velocemente le spalle agli altri occupanti. Hanno trovato un donatore, rifletté, mentre l'ascensore scendeva. In qualche modo ne hanno trovato uno. Stanotte, Nina Voss avrà un cuore nuovo. Nel tempo impiegato dall'ascensore a raggiungere il pianterreno, Abby ripassò mentalmente la sequenza di fatti che si sarebbe svolta quella notte. Dalle cartelle cliniche degli altri trapianti avvenuti al Bayside, era chiaro che cosa sarebbe accaduto. Verso mezzanotte, Nina sarebbe stata portata in sala operatoria, dove l'équipe di Archer l'avrebbe preparata all'intervento. Poi avrebbero atteso la telefonata. Contemporaneamente, una diversa équipe chirurgica in un'altra sala operatoria si sarebbe riunita attorno a un altro paziente. Quei chirurghi avrebbero preso i loro bisturi e avrebbero cominciato a incidere pelle e muscoli. La sega da ossa avrebbe emesso il suo stridio. Le coste sarebbero state divaricate, mettendo a nudo il tesoro che custodivano. Un cuore vivo, pulsante. L'espianto sarebbe stato veloce e pulito. Stanotte, si disse Abby, avverrà tutto proprio come le altre volte. La porta dell'ascensore si spalancò. Abby uscì, a testa china, lo sguardo fisso sul pavimento. Oltrepassò la porta d'ingresso e si avviò nel vento turbinoso. A due isolati di distanza, infreddolita e tremante, s'infilò in una cabina telefonica. Servendosi della sua preziosa manciata di monetine, compose il numero di Katzka. Non era nel suo ufficio. Il poliziotto che rispose alla chiamata si offrì di prendere il messaggio. «Sono Abby DiMatteo», replicò lei. «Devo parlargli subito! Non ha un
cercapersone o qualcosa del genere?» «Aspetti, le passo il centralino.» Abby sentì un paio di clic, poi la voce dell'operatrice. «Cerco di mettermi in contatto radio con la sua auto», disse. Un attimo dopo, la centralinista si fece sentire di nuovo. «Mi dispiace, ma per il momento il detective Katzka non ci risponde. Può richiamarla lui al suo numero?» «Sì. Cioè, non so. Cercherò di ritelefonargli più tardi.» Abby riagganciò. Non aveva più monete, non poteva più chiamare. Si girò e, nel guardare fuori della cabina telefonica, vide alcuni fogli di giornale turbinare in aria. Non voleva uscire ad affrontare di nuovo quel vento, però non sapeva che cos'altro fare. C'era tuttavia un'altra persona che poteva chiamare. Metà dell'elenco del telefono era stata strappata. Con una sensazione d'impotenza, Abby sfogliò comunque quanto rimaneva di quelle pagine sottili. E, con sua grandissima sorpresa, si trovò davanti il nome che cercava: TARASOV, I. Le mani le tremavano mentre componeva il numero per la telefonata a carico del ricevente. Ti prego, rispondi. Ti supplico, accetta la chiamata. Ci furono quattro squilli prima che Abby sentisse il suo gentile «Pronto?» In sottofondo, si udivano un tintinnio di stoviglie di porcellana, i rumori di una tavola che veniva apparecchiata per la cena, i soavi accordi di un brano di musica classica. Poi: «Sì, accetto la chiamata». Abby fu così sollevata che le parole le uscirono di bocca come un torrente. «Non sapevo a chi altri telefonare! Non posso mettermi in contatto con Vivian e nessun altro mi darebbe ascolto. Lei deve andare alla polizia, costringerli a darle retta!» «Calmati, Abby. Dimmi che cosa sta succedendo.» Lei inspirò profondamente. Sentì che il cuore le batteva con forza: aveva bisogno di scaricare su altri quel peso. «Stanotte Nina Voss verrà sottoposta a un nuovo trapianto», proruppe. «Dottor Tarasov, io credo di sapere come funziona la cosa. I cuori non arrivano in volo da qualche altra città. Gli espianti vengono fatti proprio qui. A Boston.» «Dove? In quale ospedale?» Gli occhi di Abby misero a fuoco un'auto che si muoveva lentamente lungo la strada. Lei rimase con il fiato sospeso finché la vettura non girò l'angolo e sparì. «Abby?»
«Sì, sono ancora qui.» «Ho saputo da Mr Parr che ultimamente eri in un grave stato di stress. Non è possibile che questo sia...» «Ascolti. La prego, mi stia a sentire!» Abby chiuse gli occhi, cercando di mantenere la calma. Di apparire razionale. Tarasov non doveva avere il minimo dubbio sulla sua salute mentale. «Vivian mi ha telefonato oggi da Burlington. Ha scoperto che lì non era stato fatto nessun espianto. Gli organi non sono venuti dal Vermont.» «E allora dove sono stati espiantati?» «Non ne ho l'assoluta certezza, ma suppongo che tutto sia avvenuto in un edificio a Roxbury. Forniture mediche Amity. La polizia deve andare lì prima di mezzanotte. Prima che venga eseguito l'espianto.» «Non so come potrò convincerli.» «Lei ci deve riuscire! Alla omicidi c'è un certo detective Katzka. Se riusciamo a metterci in contatto con lui, credo che ci darà ascolto. Dottor Tarasov, quella non è soltanto un'organizzazione che provvede a fornire organi. Si procura anche i donatori, uccidendo le persone.» In sottofondo, Abby udì una donna chiamare: «Ivan, che cosa aspetti a venire a mangiare? La cena sta diventando fredda». «Dovrò farne a meno, cara», replicò Tarasov. «C'è un'emergenza...» Poi tornò a rivolgersi ad Abby, con voce bassa e ansiosa. «Non credo di doverti dire che questa storia mi spaventa.» «Anch'io ne sono terrorizzata.» «Allora rivolgiamoci alla polizia, mettiamo tutto nelle loro mani. È un affare troppo pericoloso perché lo si gestisca noi.» «Sono d'accordo. Al cento per cento.» «Lo faremo assieme. Quanto più vasto è il coro, tanto più convincente sarà il messaggio.» Lei esitò. «Temo che la mia presenza possa indebolire la causa.» «Io non conosco i particolari, Abby. Tu, sì.» «Va bene», disse lei, dopo una pausa. «D'accordo, andremo assieme. Può venire a prendermi? Sto congelando. E ho paura.» «Dove sei?» Guardò fuori della cabina. A due isolati di distanza, le luci dei torreggianti edifici dell'ospedale sembravano pulsare nell'oscurità ventosa. «Sono in una cabina telefonica. Non so esattamente in quale strada. Un paio d'isolati a est del Bayside.» «Ti troverò.»
«Dottor Tarasov?» «Sì?» «La prego, faccia in fretta.» 24. Mentre atterrava al Logan International Airport, Vivian Chao provò un altro fremito di apprensione, ma non per il fatto di trovarsi su un aereo. Vivian non aveva paura di volare, era capace di dormire pacificamente anche durante le peggiori turbolenze. No, ciò che la turbava in quel momento, mentre il velivolo terminava la sua corsa e lei estraeva il bagaglio a mano dallo scomparto in alto, era l'ultima conversazione telefonica avuta con Abby. Quella brusca interruzione. E il fatto che Abby non avesse richiamato. L'aveva cercata a casa, ma inutilmente. Nel ripensarci durante il volo, si era resa conto di non sapere da dove Abby le avesse telefonato. Quel loro colloquio, conclusosi così in fretta, non le aveva permesso di appurarlo. Reggendo il bagaglio, Vivian scese dall'aereo ed entrò nel terminal. Fu sorpresa di trovarvi una gran folla in attesa ai cancelli. Sotto una foresta di palloncini dai colori vivaci, una calca di adolescenti inalberava cartelli con su scritto: BENTORNATO A CASA, DAVE! ed EVVIVA! e SEI IL NOSTRO EROE! Chiunque fosse quel Dave, aveva un pubblico adorante. Vivian udì un forte applauso e, lanciandosi un'occhiata alle spalle, scorse un giovane sorridente farsi avanti sulla passerella sopraelevata proprio dietro di lei. La folla si lanciò verso Dave e, nell'ansia di festeggiare l'eroe locale, inghiottì praticamente Vivian, che dovette farsi strada a fatica in mezzo a quell'orda di ragazzini ululanti. Ragazzini per modo di dire. La sovrastavano in altezza di almeno una testa. Le ci volle un bel gioco di gomiti per aprirsi un varco. Quando riuscì a emergere dalla calca, stava spingendo con un tale impeto che piombò praticamente addosso a un uomo fermo in piedi ai margini dell'assembramento. Vivian mormorò alcune frettolose parole di scusa e continuò per la sua strada ma, dopo pochi passi, si rese conto che quell'individuo non aveva detto niente in risposta. Subito dopo si fermò alle toilette. Tutta quell'ansia le stimolava la vescica. S'infilò in un gabinetto. Fu mentre usciva dalle toilette che rivide l'uomo, quello contro cui era
finita pochi attimi prima. Era in piedi accanto al negozio di souvenir, dalla parte opposta rispetto ai gabinetti per le donne, e sembrava intento a leggere un giornale. Lo riconobbe subito perché aveva il colletto dell'impermeabile rovesciato. Poco prima, quando gli era piombata addosso, aveva notato quel bavero girato. Vivian continuò a camminare, diretta verso il locale dove venivano riconsegnati i bagagli. Fu durante quel lungo tragitto, mentre passava davanti a una fila interminabile di cancelli delle linee aeree, che Vivian ebbe un'illuminazione. Perché quell'uomo si trovava davanti al cancello da cui era uscita lei? Perché aspettava qualcuno, era ovvio. Ma, se l'incontro con l'ipotetico passeggero c'era stato, perché lui era solo? Si fermò in una rivendita di giornali, prese una rivista a caso e la portò alla cassa. Mentre l'edicolante batteva l'importo, lei si girò quel tanto da poter gettare un'occhiata furtiva attorno a sé. L'uomo era fermo davanti alla macchinetta che distribuiva automaticamente i moduli per stipulare un'assicurazione sulla vita e pareva intento a leggere le istruzioni. Okay, Chao, dunque sta seguendo te. Forse si tratta di amore a prima vista. Forse ti ha dato un'occhiata e ha deciso che non poteva fare a meno di te. Mentre pagava la rivista, Vivian si sentiva il cuore che le martellava nel petto. Ragiona. Perché ti sta seguendo? La risposta era semplice. Quella telefonata di Abby. Se qualcuno era in ascolto, era venuto a sapere che Vivian sarebbe arrivata al Logan con il volo delle sei da Burlington. Prima che la telefonata venisse interrotta, lei aveva sentito un paio di clic sulla linea. Decise d'indugiare un po' nella rivendita di giornali. Scorse i libri economici, con gli occhi fissi sulle copertine e con la mente che vagava altrove. Con ogni probabilità, quell'uomo non era armato, altrimenti non sarebbe riuscito a superare i controlli di sicurezza. Finché lei non usciva dalla zona protetta dell'aeroporto, era al sicuro. Cautamente sbirciò al di sopra del banco dei libri. L'uomo non c'era. Vivian uscì dal negozio e si guardò attorno. Di quell'individuo non c'era traccia. Sei proprio un'idiota. Nessuno ti sta seguendo. Riprese la sua strada, superò la barriera di controllo e scese i gradini fino
al locale per la riconsegna dei bagagli. Le valigie dei passeggeri provenienti da Burlington stavano già arrivando sul tapis-roulant. Vivian scorse la sua Samsonite rossa venire giù dallo scivolo. Stava per avvicinarsi e prenderla quando notò l'uomo con l'impermeabile. Era in piedi accanto all'uscita del terminal e leggeva il giornale. Vivian distolse bruscamente lo sguardo, con il cuore in gola. Quell'individuo stava aspettando che lei prendesse il bagaglio e s'incamminasse davanti a lui, uscendo fuori, nella notte. La Samsonite rossa incominciò un altro giro. Vivian inspirò profondamente e si fece avanti nella folla dei passeggeri in attesa dei propri bagagli. La Samsonite stava per ripassarle davanti. Non la raccolse; con aria indifferente, la seguì mentre la valigia proseguiva il suo lento girotondo. Quando arrivò dalla parte opposta, lo scivolo dei bagagli nascose Vivian alla vista dell'uomo con l'impermeabile. Lei afferrò la valigia e corse via. Si trovò di fronte altri due nastri trasportatori per bagagli, in quel momento fermi entrambi. Li superò di slancio e infilò la porta d'uscita più lontana. Emerse nella notte sferzata dal vento. Alla sua sinistra, udì un certo trambusto. L'individuo con l'impermeabile si era lanciato fuori dell'altra uscita e, dietro di lui, a poca distanza, era comparso un secondo uomo. Uno dei due indicò Vivian e proferì alcune rauche parole incomprensibili. Vivian scattò, correndo sul marciapiede. Sapeva che quegli uomini le stavano dando la caccia; sentì il tonfo di un carrello dei bagagli buttato a terra e le grida infuriate di un facchino. Poi ci fu un rumore sordo e Vivian avvertì qualcosa sfiorarle i capelli. Un proiettile. Il cuore le tamburellava nel petto, i polmoni insufflavano spasmodicamente l'aria appesantita dai gas di scarico dei pullman. Vide davanti a sé una porta. Si tuffò all'interno e corse verso la scala mobile più vicina. Ma questa andava nella direzione opposta. Salì i gradini a due alla volta. Quando raggiunse la sommità, udì un altro rumore sordo. Stavolta avvertì un dolore tagliente alla tempia e sentì sulla guancia un rivolo caldo. Lo sportello dell'American Airlines era proprio davanti a lei. C'era un sacco di gente, una lunga fila di persone che si snodava come un serpente. Dietro di sé, Vivian udì alcuni passi risuonare pesantemente sulla scala e
uno degli uomini urlare alcune parole che le riuscirono incomprensibili. Si lanciò verso la biglietteria, vorticò attorno a un uomo e a un carrello pieno di valigie e saltò sul banco. La spinta la trascinò al di là, facendola atterrare a corpo morto dall'altra parte, sul nastro trasportatore dei bagagli. Quattro sbalordite impiegate della compagnia aerea si chinarono a guardarla. Quando Vivian si rialzò in piedi, le gambe le tremavano. Sbirciò cautamente sopra il banco, ma vide soltanto un gruppo di viaggiatori dall'aria stupita. I due uomini erano scomparsi. Allora si rivolse alle impiegate, ancora impietrite. «Be', non vi sembra il caso di chiamare gli agenti di sicurezza?» Senza ribattere, una delle donne allungò una mano verso il telefono. «E, già che ci siamo», continuò Vivian, «chiami anche la polizia.» Una Mercedes scura avanzò lungo la strada e si fermò accanto alla cabina telefonica. Abby riuscì appena a intravedere il profilo del guidatore, illuminato dai fari di un'auto di passaggio. Era Tarasov. Corse fino allo sportello del passeggero e montò in macchina. «Grazie a Dio, è arrivato.» «Devi essere congelata. Perché non metti il mio impermeabile? È sul sedile posteriore.» «La prego, vada via! Allontaniamoci da qui.» Mentre Tarasov si staccava dal marciapiede, Abby si girò per vedere se qualcuno li stesse seguendo. La strada alle loro spalle era buia. «C'è qualche macchina?» le chiese Tarasov. «No. Direi che ce l'abbiamo fatta.» Tarasov si lasciò sfuggire un respiro tremolante. «Non sono la persona più adatta per cose di questo genere. Non mi piacciono neanche i film polizieschi.» «Si sta comportando benissimo. Adesso andiamo subito alla polizia. Potremo chiamare Vivian e chiederle di raggiungerci.» Tarasov lanciò un'occhiata nervosa nello specchietto retrovisore. «Mi pare di aver visto una macchina.» «Che cosa?» «Svolterò qui. Vediamo che cosa succede.» «Vada avanti. Guarderò io.» Mentre giravano l'angolo, Abby tenne gli occhi fissi sulla strada alle loro spalle. Non vide né fari né altri segni della presenza di un'auto. Soltanto
quando rallentarono sino a fermarsi, lei si girò e guardò davanti a sé. «Che cosa c'è che non va?» «Nulla.» Tarasov spense i fari. «Allora perché...» Le parole le si gelarono in gola. Tarasov aveva premuto il pulsante che toglieva il blocco alle portiere. Quando il suo sportello fu spalancato, Abby lanciò un'occhiata piena di terrore alla sua destra. Una folata di vento l'assalì, poi numerosi mani penetrarono nella vettura e Abby venne trascinata fuori, nella notte. I capelli le ricaddero sugli occhi, oscurandole la vista. Lottò ciecamente contro i rapitori, ma non riuscì a sottrarsi alla loro presa. Le tirarono violentemente le mani dietro la schiena e le legarono assieme i polsi, poi le tapparono la bocca con un pezzo di nastro adesivo, infine la sollevarono e la gettarono nel portabagagli di una vettura ferma lì accanto. Il cofano fu richiuso violentemente, intrappolandola nell'oscurità. L'auto prese a muoversi. Abby rotolò sulla schiena e cominciò a tirare calci verso l'alto. Picchiò ripetutamente contro il cofano posteriore, scalciando finché le cosce non le fecero male, finché quasi non riuscì più a sollevare le gambe. Fu inutile: nessuno poteva sentirla. Esausta, si rannicchiò su un fianco e si sforzò di ragionare. Tarasov. In che modo Tarasov è coinvolto? Lentamente il mosaico prendeva forma, una tessera dopo l'altra. In quell'oscurità paralizzante, con la strada che scorreva rombando sotto di lei, Abby cominciò a capire. Tarasov era a capo di una delle più rispettate équipe di trapianti cardiaci della East Coast. La sua fama attirava da tutto il mondo i pazienti che si trovavano nelle condizioni più disperate e che disponevano del denaro e dei mezzi necessari per ottenere il chirurgo desiderato. Questi pazienti esigevano il meglio e potevano permettersi di pagarlo. Ciò che non potevano comprare, che il sistema non avrebbe mai permesso loro di procurarsi con il denaro, era l'unica cosa di cui avevano bisogno per rimanere vivi: un cuore. Un cuore umano. E questo era ciò che l'équipe dei trapianti del Bayside poteva fornire. Abby ricordò le parole pronunciate in tutt'altra occasione da Tarasov: «Io stesso mando continuamente pazienti al Bayside». Lui faceva da intermediario con il Bayside. Era il loro mezzano. Abby sentì la macchina frenare e svoltare. I pneumatici rotolarono sulla ghiaia, poi si fermarono. In lontananza si udì un rombo, un suono che lei riconobbe come quello di un jet in fase di decollo. Sapeva esattamente do-
ve si trovava. Il portabagagli venne aperto. Abby fu tirata fuori, tra folate di vento che sapevano di benzina diesel e di mare. In parte sorreggendola, in parte trascinandola, le fecero percorrere il molo e il ponticello d'imbarco. Le sue grida erano smorzate dal nastro adesivo che le tappava la bocca e si perdevano nel fragore degli aerei in decollo. Abby riuscì a intravedere il ponte della nave da carico, un'oscurità cangiante tra ombre geometriche, e poi venne trascinata sottocoperta, giù per gradini che mandavano stridii metallici. Una rampa, un'altra. Una porta si aprì cigolando e lei fu buttata dentro, nel buio. Aveva ancora le mani legate dietro la schiena e non poté attutire la caduta. Picchiò il mento sull'impiantito metallico; il dolore sembrò trapassarle il cranio e le offuscò la vista. In preda a un'atroce sofferenza, non trovò la forza di muoversi, di emettere anche soltanto un gemito. Un'altra serie di passi riecheggiò lungo la scala. Abby sentì Tarasov dire: «Se non altro, non abbiamo sprecato del tutto il nostro tempo. Toglietele il nastro dalla bocca. Non possiamo permettere che si soffochi». Abby si rotolò sulla schiena e cercò di mettere a fuoco la vista. Riuscì a scorgere la sagoma di Tarasov, in piedi sulla soglia, sotto una debole luce. Contrasse il volto quando uno degli uomini si chinò su di lei e le strappò il nastro adesivo dalla bocca. «Perché?» sussurrò. Era la sola domanda che le fosse venuta in mente. «Perché?» La figura sulla soglia si strinse nelle spalle, come se quell'interrogativo fosse insignificante. Gli altri due uomini uscirono dalla cabina. Si stavano preparando a chiuderla dentro. «Per il denaro?» gridò Abby. «È così semplice, la risposta?» «Il denaro non significa nulla», replicò Tarasov, «se non ti permette di comprare ciò di cui hai bisogno.» «Cioè un cuore?» «O la vita di tuo figlio. O la tua stessa vita, o quella di tua sorella o di tuo fratello. Lei, dottoressa DiMatteo, dovrebbe capirlo meglio di tanti altri. Sappiamo ogni cosa del piccolo Pete e del suo incidente. Aveva soltanto dieci anni, non è così? Sappiamo fino a che punto questa tragedia abbia inciso sulla sua esistenza. Ci pensi, dottoressa: che cosa non avrebbe fatto per salvare la vita di suo fratello?» Abby non replicò. Quel silenzio faceva intuire la risposta. «Non avrebbe dato qualunque cosa? Non avrebbe fatto qualsiasi cosa?»
Sì, pensò Abby, ed era un'ammissione senza tentennamenti. Sì. «Pensi a che cosa significa veder morire la propria figlia», continuò Tarasov, «avere tutto il denaro del mondo eppure sapere che bisogna rispettare la lista d'attesa. Dopo gli alcolizzati e i tossicomani. E i malati di mente. E quelli che vivono a spese dello Stato senza aver mai lavorato un solo giorno in vita loro.» Fece una pausa. Poi aggiunse, piano: «Ci pensi». La porta venne pesantemente richiusa. Il paletto scivolò cigolando al suo posto. Abby giaceva nella più totale oscurità. Udì lo stridio della scaletta mentre i tre uomini risalivano in coperta, poi il debole tonfo di un portello metallico che veniva chiuso. Quindi, per un po', sentì soltanto il vento e il gemito della nave che tendeva allo spasimo le cime d'ormeggio. Ci pensi. Chiuse gli occhi e cercò di non pensare a Pete. Ma il fratello le stava davanti, fieramente vestito della sua divisa da scout. Rammentò ciò che lui aveva detto all'età di cinque anni: che Abby era la sola ragazza che intendeva sposare. E come era rimasto sconvolto nell'apprendere che non avrebbe potuto sposare sua sorella... Che cosa avrei fatto pur di salvarlo? Qualunque cosa. Nel buio si udì un fruscio. Rimase impietrita. Sentì di nuovo quel rumore, un movimento appena accennato. Topi. Strisciando, cercò di allontanarsi e di mettersi in ginocchio. Non riusciva a vedere nulla, poteva soltanto immaginare giganteschi roditori che correvano sul pavimento tutt'attorno a lei. Si alzò faticosamente in piedi. Un clic smorzato. L'improvviso lampo di luce sembrò inondarle la retina. Abby sobbalzò all'indietro. Una lampadina nuda penzolava dall'alto, mandando un leggero tintinnio mentre sbatteva contro la catenella per l'accensione che le ciondolava accanto. Il movimento che lei aveva avvertito nel buio non era quello di un topo, ma di un ragazzino. Si fissarono, in silenzio. Gli occhi del ragazzo erano diffidenti, cauti. Le gambe, magre e nude sotto i pantaloncini corti, erano contratte come se stessero per spiccare una corsa. Ma non c'era nessun posto verso cui scappare. Dimostrava una decina d'anni, era molto pallido e biondissimo, tanto che i capelli sembravano argentei sotto la luce della lampadina oscillante.
Abby notò sulla sua guancia una macchia bluastra e, con un improvviso empito di rabbia, capì che la macchia non era sporcizia, bensì un'ecchimosi. In quel volto pallido gli occhi profondamente infossati parevano altri due lividi. Avanzò di un passo verso di lui. Il ragazzo indietreggiò. «Non intendo farti del male», gli disse. «Voglio soltanto parlare con te.» Il ragazzo aggrottò la fronte. Poi scosse la testa. «Te lo giuro. Non ti farò del male.» Lui disse qualcosa, ma la sua risposta suonò incomprensibile alle orecchie di Abby. Stavolta toccò a lei corrugare la fronte e scuotere la testa. Si fissarono con la stessa aria smarrita. A un tratto, alzarono entrambi lo sguardo verso l'alto. I motori della nave erano appena entrati in funzione. Abby s'irrigidì, ascoltando il tintinnio della catena dell'ancora, lo stridio delle pompe. Qualche attimo dopo, avvertì il dondolio dello scafo che solcava l'acqua. Avevano lasciato il molo e stavano navigando. Anche se riesco a liberarmi da questi legacci, a uscire da questa cabina, non posso scappare. Disperata, tornò a guardare il ragazzo. Lui non prestava più attenzione al rombo dei motori. Il suo sguardo era invece puntato verso la cintola di Abby. Lentamente si portò di fianco a lei e le fissò i polsi legati, stretti alla schiena. Poi guardò il proprio braccio. Soltanto allora lei notò che gli mancava la mano destra, che l'avambraccio terminava in un moncherino. L'aveva tenuto così vicino al corpo da nasconderle la propria deformità. Sembrava studiarlo. Rialzò gli occhi verso di lei e parlò di nuovo. «Non riesco a capire...» mormorò Abby. Il ragazzo ripeté la frase, questa volta con una punta d'irritazione nella voce. Perché non riusciva a capire? Abby scosse la testa. Si fissarono. Poi il ragazzo sollevò il mento. Abby capì che era giunto a una decisione. Le girò alle spalle e le tirò i polsi, cercando, con una sola mano, di sciogliere i nodi, ma la corda era legata troppo strettamente. Allora s'inginocchiò sul pavimento dietro di lei. Abby sentì i suoi denti, il suo fiato caldo contro la pelle. Mentre la lampadina oscillava sulle loro teste, lui cominciò a rosicchiare i legacci, proprio come un piccolo topo ostinato. «Mi dispiace, ma l'ora delle visite è terminata», disse un'infermiera. «A-
spettate, non potete entrare là dentro. Fermatevi!» Katzka e Vivian superarono la scrivania delle infermiere e irruppero nella stanza 621. «Dov'è Abby?» chiese il detective. Il dottor Colin Wettig si girò verso di loro. «La dottoressa DiMatteo non c'è.» «Lei mi aveva detto che sarebbe stata guardata a vista», ribatté Katzka. «Mi aveva assicurato che nulla poteva accaderle.» «Era guardata a vista. Nessuno è venuto qui senza una mia precisa autorizzazione.» «Allora che cosa le è accaduto?» «Questa è una domanda che dovrebbe rivolgere alla dottoressa DiMatteo.» Fu il tono indifferente della voce di Wettig a far andare Katzka su tutte le furie. Quel tono e lo sguardo, assolutamente privo di emozione. Ecco un uomo che non lasciava trasparire nulla, che sapeva controllarsi. Fissando il volto imperscrutabile di Wettig, Katzka all'improvviso vide se stesso e quella rivelazione lo sconvolse. «Era affidata a lei, dottore. Che cosa le avete fatto?» «Non mi piacciono le sue insinuazioni.» Katzka attraversò la stanza, afferrò il collo del camice da laboratorio di Wettig e sbatté il Generale con le spalle contro il muro. «Dannazione a lei», scattò. «Dove l'avete portata?» Gli occhi azzurri di Wettig tradirono finalmente una certa paura. «Gliel'ho detto, non so dove si trovi! Le infermiere mi hanno telefonato alle sei e mezzo per avvisarmi che se n'era andata. Abbiamo già allertato il servizio di vigilanza. Hanno setacciato l'ospedale, ma non sono riusciti a trovarla.» «Lei sa dov'è, vero?» Wettig scosse la testa. «Non lo sa?» Katzka lo strattonò di nuovo, violentemente. «Non lo so!» ansimò Wettig. Vivian si fece avanti e cercò di separare i due. «La smetta! Lo sta soffocando! Katzka, lo lasci andare!» Il detective mollò Wettig, che barcollò all'indietro verso la parete, respirando pesantemente. «Credevo che, avendo dato segni di squilibrio, fosse più al sicuro in ospedale», spiegò poi, mentre si raddrizzava e si strofinava il collo, dove il bordo del camice da laboratorio aveva lasciato una vistosa impronta rossa. Katzka fissò quei segni, sconvolto dalla prova della sua
violenza. «Non mi ero reso conto», continuò Wettig, «che, dopotutto, stesse dicendo la verità.» Estrasse di tasca un foglio e lo porse a Vivian. «Le infermiere me l'hanno appena consegnato.» «Che cos'è?» chiese Katzka. Vivian si accigliò. «È il livello dell'alcol nel sangue di Abby. Qui dice che è zero.» «Ho chiesto di fare un altro prelievo oggi pomeriggio e l'ho mandato a un laboratorio indipendente», spiegò Wettig. «Lei insisteva nel dire che non era un'alcolizzata. Pensavo che, se l'avessi messa di fronte a una prova irrefutabile, avrei potuto incrinare il suo rifiuto...» «Questa analisi viene da un laboratorio indipendente?» Wettig annuì. «Non ha assolutamente nulla a che fare con il Bayside.» «Lei mi aveva detto che l'alcol era zero punto ventuno.» «Era quello il risultato dell'analisi eseguita alle quattro di mattina nel laboratorio del Bayside.» «L'emivita del tasso alcolemico plasmatico dura dalle due alle quattordici ore», rifletté Vivian. «Se alle quattro di mattina il livello era così alto, qui dovrebbero risultare quantomeno alcune tracce.» «Ma nel suo organismo non sembra esserci alcol», osservò Katzka. «Il che può significare due cose», intervenne Wettig. «O il suo fegato lo metabolizza a una velocità incredibile oppure il laboratorio del Bayside ha commesso un errore.» «È così che lei lo definisce?» replicò Katzka. «Un errore?» Wettig non rispose. Sembrava terribilmente stanco, e molto vecchio. Si sedette sul letto disfatto. «Non mi ero reso conto... Non volevo accettare l'idea...» «Che Abby stesse dicendo la verità?» completò Vivian. Wettig scosse la testa. «Dio mio», mormorò. «Questo ospedale dovrebbe essere chiuso, se ciò che Abby dice è vero.» Katzka sentì su di sé lo sguardo di Vivian. La guardò a sua volta. Lei sibilò: «Lo mette ancora in dubbio?» Il ragazzino aveva dormito per ore tra le sue braccia, inondandole il collo di tiepidi respiri simili a sussurri. Giaceva inerte, braccia e gambe di traverso, come stanno i bambini quando sono completamente, fiduciosamente addormentati. In un primo momento, non appena lei l'aveva abbracciato, lui stava tremando. Abby allora gli aveva massaggiato le gambe nu-
de ed era stato come fregare due bastoni freddi e secchi. Infine il ragazzo si era calmato e, mentre il respiro si faceva più lento, Abby aveva avvertito quella vampata di calore che emana dai bambini quando si abbandonano al sonno. Anche lei aveva dormito per qualche tempo. Quando si ridestò, il vento stava soffiando ancora più forte. Abby lo avvertiva nel gemito della nave. La lampadina ondeggiava. Il ragazzino piagnucolò e si mosse. C'era qualcosa di commovente nell'odore dei bambini, pensò Abby, come un sentore di erba fresca. Le venne in mente Pete, quando dormiva appoggiato alla sua spalla sul sedile posteriore della macchina di famiglia. Per chilometri e chilometri, mentre il padre guidava, Abby aveva sentito i leggeri battiti cardiaci di Pete. Proprio come stava sentendo in quel momento il cuore del ragazzo, che pulsava nel piccolo torace. Lui emise un gemito soffocato e, con un brivido, si svegliò. Sollevò verso di lei gli occhi e disse: «A-bi». Lei annuì. «Bravo. Abby. Te ne sei ricordato.» Sorridendo, gli carezzò il viso, seguendo con un dito il contorno del livido. «E tu sei... Jakov.» Lui fece un cenno d'assenso. Sorrisero entrambi. All'esterno, il vento ululava, mentre il pavimento sobbalzava sotto di loro. Il viso del ragazzo sembrava percorso da ombre. Lui la stava fissando con uno sguardo quasi famelico. «Jakov», ripeté Abby e sfiorò con la bocca uno dei serici sopraccigli biondi. Quando risollevò la testa, avvertì qualcosa di umido sulle labbra. Non erano le lacrime del ragazzo, ma le proprie. Girò il viso verso la spalla per asciugarsele. Quando tornò a guardarlo, vide che lui la stava ancora osservando in quel suo strano, estatico silenzio. «Sto bene qui», mormorò Abby. E, sorridendo, gli passò le dita nei capelli. Dopo un po', le palpebre di Jakov ricaddero e il suo corpo si rilassò di nuovo nel fiducioso abbandono del sonno. «All'inferno il mandato di perquisizione», esclamò Lundquist e sferrò un calcio alla porta, che si spalancò e sbatté rumorosamente contro la parete. Il detective fece capolino nella stanza e rimase impietrito. «Che diavolo...» Katzka fece scattare l'interruttore. Sbatterono le palpebre entrambi, abbagliati dalla luce accecante che pro-
veniva da tre lampade appese al soffitto. Ovunque guardasse, Katzka vedeva superfici risplendenti. Armadi di acciaio inossidabile, bacinelle piene di strumenti e cannule per le infusioni endovenose, monitor, pulsanti e interruttori. Al centro della stanza c'era un tavolo operatorio. Katzka si avvicinò e fissò le cinghie che pendevano ai lati. Due per i polsi, due per le caviglie, due più lunghe per il torace e la vita. I suoi occhi si spostarono verso il carrello dell'anestesia, sistemato a capo del tavolo. Si avvicinò e aprì il cassetto in alto. Dentro, c'erano file di siringhe di vetro e di aghi con i cappucci di plastica. «A che diavolo serve 'sta roba?» chiese Lundquist. Katzka chiuse il cassetto e aprì quello al di sotto. Conteneva piccole fiale di vetro. Ne prese una. Potassiocloruro. Era semivuota. «Questa roba è stata usata», disse. «Che strano. Quale genere d'intervento chirurgico eseguivano qui?» Katzka guardò di nuovo il tavolo. Le cinghie. Di colpo gli venne in mente Abby, i polsi legati al letto, il viso rigato di lacrime. Quel ricordo fu così doloroso che dovette scuotere la testa per cancellare l'immagine. La paura gli impediva di ragionare. E, se non fosse riuscito a ragionare, non avrebbe potuto aiutarla. Non avrebbe potuto salvarla. Bruscamente si allontanò dal tavolo. «Lumaca?» Lundquist lo stava fissando con aria perplessa. «Stai bene?» «Sì.» Katzka si voltò e uscì dalla stanza. «Benissimo.» Tornato fuori, sul marciapiede, si fermò nel vento turbinoso e alzò gli occhi verso l'edificio della Amity. Dalla strada non si notava nulla d'insolito. Era soltanto una delle tante costruzioni fatiscenti in una squallida via. Una facciata di un marrone sporco, finestre con condizionatori d'aria che sporgevano all'esterno. Quando vi era entrato, il giorno prima, aveva visto soltanto ciò che si aspettava di vedere. Ciò che si voleva che lui vedesse. La misera sala da esposizione, le scrivanie malandate coperte di cataloghi dei prodotti, alcuni impiegati che parlavano svogliatamente al telefono. Non aveva visto che cosa c'era di sopra, non aveva neanche sospettato che, salendo con l'ascensore all'ultimo piano, avrebbe finito per trovare una stanza del genere. Quel tavolo con le cinghie. Meno di un'ora prima, Lundquist aveva appurato che l'edificio era di proprietà della compagnia Sigaev... la stessa società del New Jersey sotto il cui nome era registrata la nave da carico. Ancora un legame con la mafia
russa. Quanto profondamente era radicata nel Bayside? Oppure i russi erano semplicemente alleati di qualcuno che lavorava all'interno dell'ospedale? Forse un partner commerciale in quel mercato nero? Il cicalino di Lundquist risuonò. Il detective controllò la chiamata e s'infilò in macchina per prendere il telefono cellulare. Katzka rimase davanti all'edificio, con i pensieri che tornavano sempre ad Abby, chiedendosi dove l'avrebbe cercata. Ogni stanza dell'ospedale era già stata passata al setaccio, e così anche il parcheggio e la zona limitrofa. Sembrava che Abby avesse lasciato l'ospedale da sola. Dove si era diretta? A chi poteva aver telefonato? Doveva essere qualcuno di cui si fidava. «Lumaca!» Katzka si girò e vide Lundquist che agitava il telefono. «Chi è all'apparecchio?» «La guardia costiera. Hanno un elicottero che ci aspetta.» Nel corridoio risuonarono alcuni passi. Abby rialzò la testa di scatto. Tra le sue braccia, Jakov dormiva, ignaro. Lei sentì il proprio cuore battere tanto violentemente che, pensò, avrebbe finito per svegliare il ragazzo, ma lui non pareva accorgersi di nulla. La porta si spalancò. Fermo sulla soglia, Tarasov, fiancheggiato da due uomini, fissò Abby. «È ora di andare.» «Dove?» chiese. «Una breve passeggiata.» Tarasov guardò Jakov. «Lo svegli. Viene anche lui.» «Il ragazzo no», disse Abby, stringendolo a sé. «Lui in modo particolare.» Lei scosse la testa. «Perché?» «È AB positivo. L'unico AB di cui disponiamo al momento.» Abby guardò Jakov, il suo viso arrossato dal sonno. Attraverso il torace magro, sentiva il leggero battito del suo cuore. Nina Voss, rifletté. Nina Voss è AB positivo... Uno degli uomini le ghermì un braccio e, con uno strattone, la tirò in piedi. Il ragazzo le sfuggì dalle braccia e cadde a terra, dove rimase, confuso, battendo le palpebre. Allora l'altro uomo gli sferrò un calcio, ringhiando un ordine in russo. Il ragazzo, non ancora completamente sveglio, si alzò, barcollando. Tarasov fece strada. Giù per un corridoio malamente illuminato, poi attraverso un portello chiuso a chiave. Su per una scaletta e poi attraverso un
altro portello fino a una passerella d'acciaio. Davanti a loro c'era una porta azzurra. Tarasov si avviò da quella parte, con la passerella che risuonava sotto i suoi passi. Di colpo, il ragazzo s'irrigidì. Scartò gli altri e prese a correre nella direzione da cui erano venuti. Uno degli uomini lo afferrò per la camicia, ma Jakov si girò di scatto e gli affondò i denti nella mano. L'uomo, con un urlo di dolore, lo colpì in faccia con un manrovescio. Il colpo fu così violento da far rotolare Jakov per terra. «Basta!» urlò Abby. L'uomo sollevò Jakov e gli diede un altro schiaffo. Il ragazzo si diresse verso Abby, che si affrettò a prenderlo in braccio. Jakov la strinse forte, singhiozzando contro la sua spalla. L'uomo allora si avvicinò, come se volesse separarli. «Sta' lontano da lui!» lo ammonì Abby. Jakov stava tremando, sussurrava parole incomprensibili. Lei gli premette le labbra sui capelli, bisbigliando: «Tesoro, sono qui. Sono qui con te». Il ragazzo la guardò. Fissando i suoi occhi atterriti, Abby comprese: Sa che cosa ci aspetta. Fu spinta in avanti, lungo la passerella e oltre la porta azzurra. Entrarono in un mondo diverso. Il corridoio aveva le pareti rivestite di legno chiaro, il pavimento era coperto di linoleum bianco. Dall'alto scendeva una luce soffusa. I loro passi echeggiarono mentre passavano oltre una scala a chiocciola e superavano un angolo. Alla fine del corridoio c'era una grande porta. Il ragazzo aveva preso a tremare ancor più violentemente e stava diventando troppo pesante. Abby lo mise giù, in piedi, e gli prese il volto in una mano. Per una frazione di secondo, i loro sguardi s'incontrarono e ciò che non poteva essere detto a parole venne comunicato con quella semplice occhiata. Poi Abby prese la mano di Jakov e gliela strinse. Assieme si avviarono verso quella porta. Un uomo li precedeva, un altro li seguiva. Tarasov era davanti a tutti. Quando fece scattare la serratura della porta, Abby spostò il suo peso in avanti, ogni muscolo teso in previsione della mossa successiva. Aveva già lasciato andare la mano di Jakov. Tarasov spinse la porta e la spalancò, rivelando una stanza di un bianco immacolato. Abby si buttò in avanti. Colpì con una spallata l'uomo che la precedeva, il quale franò a terra, andando a sbattere contro Tarasov e facendolo finire in ginocchio oltre la soglia.
«Bastardi!» urlò Abby, agitando in aria le braccia. «Bastardi!» L'uomo dietro di lei cercò di afferrarla. Abby si girò di scatto e lo colpì al viso con un pugno che produsse un rumore sordo. Con la coda dell'occhio notò un guizzo. Era Jakov che, schizzato via di corsa, stava già scomparendo dietro l'angolo. Intanto l'uomo caduto si era rimesso in piedi; le piombò addosso, alle spalle. Lui e l'altro la intrappolarono e la sollevarono da terra. Mentre la portavano oltre la soglia nella stanza bianca, Abby non smise di lottare, agitando freneticamente braccia e gambe. «Dovete immobilizzarla!» esclamò Tarasov. «Il ragazzo...» «Non pensate a lui! Non può andarsene di qui. Mettete la donna sul tavolo!» «Non sta ferma!» «Bastardi!» continuava a urlare Abby, scalciando con l'unica gamba libera. Sentì Tarasov frugare in un mobiletto, poi dire bruscamente: «Datemi il suo braccio! Ho bisogno del suo braccio!» Le si avvicinò, con una siringa in mano. Lei lanciò un grido quando l'ago le penetrò nel braccio. Si divincolò, ma senza riuscire a liberarsi. Si contorse di nuovo, ma questa volta le membra non le risposero quasi. E le palpebre sembravano rifiutarsi di rimanere sollevate. La voce le uscì di gola in un sospiro smorzato. Cercò di gridare, ma non riuscì neanche a insufflare aria nei polmoni. Che cosa mi sta succedendo? Perché non riesco a muovermi? «Portatela nell'altra stanza!» ordinò Tarasov. «Dobbiamo intubarla subito o la perderemo.» Gli uomini la trasportarono nella stanza adiacente e la distesero su un tavolo. In alto furono accese alcune luci che emanarono un bagliore freddo. Pur essendo pienamente consapevole, assolutamente lucida, Abby non riusciva a muovere un muscolo. Ma poteva sentire ogni cosa. Le cinghie che le bloccavano i polsi e le caviglie; la pressione della mano di Tarasov sulla sua fronte, per inclinarle la testa all'indietro; il freddo acciaio del laringoscopio che le scivolava in gola. Il suo urlo di terrore riecheggiò soltanto nella sua testa, perché da lei non uscì il minimo suono. Sentì il tubo endotracheale di plastica insinuarsi nella sua gola, imbavagliandola, soffocandola, mentre superava le corde vocali ed entrava nella trachea. Abby non poteva girarsi, non poteva neppure lottare alla ricerca d'aria. Con un cerotto, il tubo fu attaccato al suo volto e poi collegato a un ambu, che Tarasov
schiacciò tre volte insufflando rapidamente nei polmoni di Abby l'aria che le salvava la vita. Poi lui tolse l'ambu e collegò il tubo endotracheale a un apparecchio per la ventilazione. La macchina entrò in funzione, pompando aria nei polmoni di Abby a intervalli regolari. «Adesso andate a prendere il ragazzo!» sbraitò Tarasov. «No, non tutt'e due. Ho bisogno che qualcuno rimanga qui ad assistermi.» Uno degli uomini si allontanò. L'altro si fece più vicino al tavolo. «Aggancia la cinghia del torace», gli disse Tarasov. «Tra un paio di minuti la succinilcolina smetterà di fare effetto e non voglio che lei cominci a dimenarsi mentre le applico l'infusione endovenosa.» Succinilcolina. È così che è morto Aaron. Senza poter lottare. Senza riuscire a respirare. L'effetto del farmaco stava già cominciando a svanire. Abby sentiva i muscoli del torace che incominciavano a contrarsi per l'intrusione di quel tubo. Ed era ormai in grado di alzare le palpebre, di scorgere la faccia dell'uomo che, in piedi accanto a lei, le stava tagliando gli abiti, mettendole a nudo dapprima í seni (e nel suo sguardo apparve un guizzo d'interesse), e poi l'addome. Tarasov le infilò nel braccio la cannula dell'infusione endovenosa. Quando si raddrizzò, notò che gli occhi di Abby erano completamente aperti e lo fissavano. Vi lesse una domanda. «Un fegato sano», spiegò, «non è una cosa che possiamo dare per scontata. Nel Connecticut c'è un tale piuttosto ricco che da un anno aspetta un donatore.» Tarasov prese un altro flacone di vetro e l'attaccò alla piantana della fleboclisi. Poi guardò Abby. «È stato molto contento di sapere che finalmente ne avevamo trovato uno compatibile.» Tutto quel sangue che mi hanno prelevato al Pronto soccorso, pensò Abby. È servito per la tipizzazione tessutale. Intanto Tarasov continuava la preparazione, collegando la seconda sacca d'infusione alla cannula, aspirando i farmaci nelle siringhe. Abby poteva soltanto osservarlo in silenzio mentre l'apparecchio per la ventilazione le pompava aria nei polmoni. L'attività muscolare stava riprendendo. Era già in grado di flettere le dita, di sollevare le spalle. Una goccia di sudore le scivolò lungo la tempia. Stava sudando per lo sforzo di muoversi, di riprendere il controllo del proprio corpo. Un orologio a muro segnava le undici e un quarto. Tarasov aveva finito di preparare l'arcella con le siringhe. Sentì il rumo-
re della porta che si apriva e si richiudeva e si girò. «Il ragazzo ci è scappato di mano», disse. «Lo stanno ancora cercando. Perciò intanto espiantiamo il fegato.» Alcuni passi si avvicinarono al tavolo. Apparve un altro volto, chino a guardare Abby. Tante volte prima di allora lei aveva fissato quel volto dalla parte opposta del tavolo operatorio. Tante volte prima di allora aveva visto quegli occhi sorriderle al di sopra della maschera da chirurgo. Adesso quegli occhi non sorridevano. No, ansimò Abby, ma l'unico suono che uscì da lei fu un soffio sordo nel tubo endotracheale. No... Mark. 25. Grigorij sapeva che l'unica via di uscita dal quartiere di poppa della nave era la porta azzurra, e quella era chiusa a chiave. Il ragazzo doveva aver imboccato la scala a chiocciola. Sbirciò i gradini, ma vide soltanto un susseguirsi di ombre curve. Cominciò a salire, facendo scricchiolare sotto il suo peso la scala. Il braccio, dove il ragazzo l'aveva morso, gli pulsava ancora. Quel piccolo bastardo. Era stato una fonte di guai fin dall'inizio. Raggiunse il livello superiore e i suoi piedi lasciarono la scala per posarsi su una pesante moquette. Si trovava negli alloggi del chirurgo e del suo assistente. A poppa c'erano due cabine private con gabinetto e doccia in comune. In fondo c'era un salotto ben arredato. L'unica via di uscita da quella zona era la scala. Il ragazzo era in trappola. Grigorij si diresse subito verso poppa. La prima cabina in cui entrò era quella del chirurgo morto. Puzzava di tabacco. Grigorij accese la luce e vide un letto sfatto, un armadietto con l'anta aperta, un tavolo con un portacenere pieno fino all'orlo. Si avvicinò all'armadio. Dentro trovò abiti che puzzavano di fumo, una bottiglia di vodka vuota e una scorta di riviste pornografiche. Nessun ragazzo. Passò a perquisire la cabina dell'assistente del chirurgo. Era molto più ordinata, il letto era rifatto, i vestiti nell'armadio riposti con cura. Anche lì, nessuna traccia di Jakov. Diede un'occhiata al gabinetto, poi si avviò verso il salotto. Prima di mettervi piede, sentì un rumore. Una specie di gemito soffocato.
Entrò nel locale e accese la luce. I suoi occhi passarono rapidamente in rassegna la stanza, osservando il divano, il tavolo da pranzo con le sedie, il televisore, le videocassette. Dov'era il ragazzo? Fece il giro della stanza, poi si fermò, fissando la parete davanti a sé. Il portavivande. Lo raggiunse di corsa e aprì lo sportello. Vide soltanto alcuni cavi. Schiacciò il bottone per la chiamata e i cavi cominciarono a muoversi, gemendo nello sforzo di sollevare il pesante contenitore. Grigorij si chinò in avanti, pronto ad afferrare il fuggiasco. Si trovò invece a fissare una cavità vuota. Il ragazzo era già scappato nella cambusa. Si diresse verso la scala. Non era una tragedia. La cambusa era chiusa a chiave. Da quando si era accorto che l'equipaggio sottraeva cibo alla dispensa, la chiudeva ermeticamente ogni sera. Il moccioso quindi era in trappola. Grigorij varcò la porta azzurra e si avviò lungo la passerella. «Mi dispiace, Abby», disse Mark. «Non avrei mai creduto che la cosa potesse arrivare a questo punto.» Ti prego, pensò lei. Ti prego, non farlo... «Se ci fosse qualche altro modo...» Mark scosse la testa. «Hai tirato troppo la corda. E non sono più riuscito a fermarti. Sei sfuggita al mio controllo.» Una lacrima le sgorgò da un occhio e si perse nei capelli. Per un brevissimo istante, Abby vide un lampo di dolore sul volto di Mark. Poi lui si girò. «È ora di dare inizio alla cerimonia», esclamò Tarasov. «Vuoi fare tu gli onori di casa?» Porse a Mark una siringa. «Pentobarbital. Cerchiamo di avere un po' di umanità, dopotutto.» Mark esitò, poi prese la siringa e si girò verso la cannula dell'infusione endovenosa. Scappucciò l'ago e lo inserì nel raccordo della cannula. Di nuovo esitò. Si girò a guardare Abby. Ti ho amato, pensò lei. Ti ho amato tanto. Mark spinse lo stantuffo. La luce cominciò a indebolirsi. Abby vide il volto di Mark fluttuare, poi svanire in un pozzo grigio sempre più profondo. Ti amavo. Ti amavo...
La porta della cambusa era chiusa a chiave. Jakov strattonò più volte la maniglia, ma la porta non cedette. E adesso, che fare? Risalire con il portavivande? Corse verso il marchingegno e premette il pulsante. Non accadde nulla. Si guardò attorno, esaminando i nascondigli possibili. La dispensa. Gli armadietti. L'enorme frigorifero. No, offrivano un rifugio soltanto provvisorio. Gli uomini avrebbero setacciato il locale, e prima o poi l'avrebbero trovato. Ma lui avrebbe cercato di ostacolarli il più possibile. Alzò lo sguardo verso le luci. In alto scintillavano tre lampadine nude. Jakov corse fino a un mobiletto e ne estrasse una pesante tazza da caffè in ceramica che lanciò contro la lampadina più vicina. Il bulbo di vetro s'infranse e si spense. Jakov tirò fuori altre tazze. Tre lanci, e la seconda lampadina si spense. Stava per mirare alla terza quando lo sguardo gli cadde sulla radio del cuoco. Era al suo solito posto, in cima all'armadio. Gli occhi di Jakov seguirono il cordone elettrico dell'apparecchio che scendeva fino al bancone, dove si trovava l'enorme tostapane. Poi si girò verso i fornelli e scorse una zuppiera vuota. La sollevò e la portò fino al lavello. Aprì il rubinetto. Una radio stava andando a tutto volume. Grigorij spalancò la porta della cambusa ed entrò. Nell'oscurità la musica era assordante. Percussioni e chitarre elettriche. Cercò a tentoni l'interruttore e lo girò. Niente luce. Provò altre volte, ma senza risultato. Fece un passo in avanti e la suola di cuoio scricchiolò su un vetro. Quel piccolo bastardo ha spaccato le lampadine. Cercherà di saltarmi addosso nel buio. Grigorij richiuse la porta. Facendosi luce con un fiammifero, inserì la chiave nella serratura e fece scattare il paletto. Adesso ogni fuga era impossibile. Il fiammifero si spense. «Vieni fuori, ragazzo!» gridò nel buio. «Non ti succederà nulla!» L'unica risposta fu il frastuono della radio. Grigorij si mosse verso quella sorgente sonora, poi si fermò e accese un altro fiammifero. La radio era sul bancone, proprio davanti a lui. Mentre la spegneva, notò il coltello da macellaio che giaceva sul piano. Accanto, c'erano pezzetti di qualcosa che sembrava gomma marrone.
Dunque ha trovato i coltelli del cuoco, eh? Il fiammifero si spense. Grigorij impugnò la pistola e chiamò: «Ragazzo?» Soltanto allora si accorse di avere i piedi bagnati. Accese un terzo fiammifero e guardò in basso. Era fermo in una pozza d'acqua. Da dove veniva quell'acqua? Alla luce vacillante della fiammella, esaminò la zona circostante e vide che l'acqua ricopriva già una buona metà del pavimento. Poi scorse il cordone elettrico, con l'estremità tranciata, i fili metallici che scintillavano ai margini della pozza. Sconcertato, seguì con gli occhi il cordone che si srotolava sul pavimento e saliva verso l'alto, fino a una sedia. L'ultima immagine che Grigorij registrò, un istante prima che il fiammifero si spegnesse, fu un debole scintillio di capelli biondi e la sagoma del ragazzo, il braccio teso verso la presa di corrente sulla parete. L'altra estremità del cordone elettrico gli penzolava dalla mano. Tarasov tese il bisturi. «Incomincia tu a tagliare», disse, e vide il lampo di sgomento negli occhi dell'altro. Non hai scelta, Hodell, pensò. Sei stato tu che hai cercato di reclutarla in quest'affare. Sei stato tu a sbagliare. Adesso tocca a te porre rimedio. Hodell prese il bisturi. Non aveva ancora cominciato a operare e già il sudore gli imperlava la fronte. Si fermò, la lama appoggiata sull'addome esposto. Entrambi sapevano che quella era una prova... forse la prova suprema. Muoviti. Archer ha fatto la sua parte occupandosi di Mary Allen, proprio come Zwick con Aaron Levi. Adesso tocca a te. Dammi la prova che sei ancora un membro dell'équipe, che sei sempre uno di noi. Apri il ventre alla donna con cui una volta facevi l'amore. Fallo. Mark rigirò il bisturi nella mano, come per ottenere una presa migliore. Quindi inspirò profondamente e premette la lama contro la pelle. Fallo. Mark tagliò. Una lunga incisione curva. La pelle si aprì e ne zampillò un filo di sangue che gocciolò sui teli. Tarasov si rilassò. Tutto sommato, Hodell non avrebbe rappresentato un problema. In realtà, aveva superato il punto di non ritorno anni prima, quando faceva pratica come chirurgo. Una notte di pesanti bevute, qualche sniffata di cocaina. La mattina seguente si era ritrovato in un letto che non
conosceva, con una graziosa aspirante infermiera morta strangolata accanto a lui. Hodell non era mai riuscito a ricordare che cosa fosse realmente accaduto. Poi, a cementare il reclutamento, c'era stato il denaro. Il bastone e la carota. Funzionava quasi sempre. Aveva funzionato con Archer, con Zwick, con Mohandas. E anche con Aaron Levi... per un po'. La loro era stata una società segreta, molto attenta a non far trapelare nulla. E a mantenere riservati i profitti. Nessun altro al Bayside, né Colin Wettig né tanto meno Jeremiah Parr, poteva anche soltanto immaginare quanto denaro fosse passato per le loro mani. Il denaro che ci voleva per comprare i migliori medici, la migliore équipe chirurgica... un'équipe che era stata creata da Tarasov. I russi fornivano semplicemente la materia prima e, quand'era necessario, la forza bruta. In sala operatoria, era l'équipe che faceva i miracoli. Il denaro non era stato sufficiente per tenere Aaron Levi nel gruppo. Ma Hodell era ancora uno dei loro. Lo stava dimostrando in quel momento, con ogni incisione del suo bisturi. Tarasov gli faceva da assistente, posizionando i divaricatori, clampando le arterie. Era un piacere lavorare su una carne così giovane e sana. La donna era in eccellenti condizioni. Aveva un minimo strato di tessuto adiposo e i muscoli addominali erano piatti e tesi... tanto tesi che il loro aiutante, a capo del tavolo, dovette iniettare altra succinilcolina per rilassarli e permettere una più facile retrazione. La lama del bisturi penetrò nello strato muscolare. Ormai erano nella cavità addominale. Tarasov allargò i divaricatori. Sotto un sottile velo di tessuto peritoneale, scintillavano il fegato e le anse dell'intestino tenue. Tutto così sano, perfetto! L'organismo umano era uno stupendo quadro da ammirare. Le luci vacillarono e per poco non si spensero. «Che succede?» chiese Hodell. Sollevarono entrambi gli occhi verso la lampada. Le luci tornarono alla loro piena luminosità. «È stato soltanto uno sbalzo di corrente», spiegò Tarasov. «Riesco ancora a sentire il generatore.» «Questa non è una situazione ottimale. Una nave che ondeggia, la corrente che va via...» «È una sistemazione provvisoria. Fino a che non troveremo una nuova sede per la Amity.» Fece un cenno con la testa al campo operatorio. «Con-
tinua.» Hodell sollevò il bisturi e indugiò. Era specializzato in chirurgia toracica e la resezione di un fegato era un'operazione che aveva eseguito soltanto poche volte prima di allora. Forse aveva bisogno di una guida. O forse la consapevolezza di ciò che stava per compiere cominciava a farsi strada in lui. «Qualche problema?» chiese Tarasov. «No.» Mark deglutì. Ancora una volta riprese a tagliare, ma la mano gli tremava. Sollevò il bisturi e trasse alcuni profondi respiri. «Non abbiamo molto tempo, dottor Hodell. C'è un altro organo da espiantare.» «È che... non fa molto caldo qui dentro?» «Non mi pare. Va' avanti.» Hodell annuì. Stringendo con forza il bisturi, stava per fare un'altra incisione quando, di colpo, s'immobilizzò. Tarasov udì un rumore alle proprie spalle... il fruscio di una porta che veniva chiusa silenziosamente. Mark, fissando dritto davanti a sé, sollevò il bisturi. L'esplosione giunse inattesa. La testa di Hodell venne proiettata all'indietro. Sangue e frammenti d'osso si sparsero sul tavolo. Tarasov si girò di scatto verso la porta e intravide i capelli biondi e il volto cereo del ragazzo. L'arma fece fuoco una seconda volta. Il colpo andò a vuoto, il proiettile mandò in frantumi un'anta di vetro dell'armadio delle medicine. Le schegge caddero a pioggia sul pavimento. L'anestesista si buttò sotto l'apparecchio per la ventilazione. Tarasov indietreggiò, con lo sguardo sempre fisso sulla pistola. Era quella di Grigorij, abbastanza compatta e sufficientemente leggera perché anche un ragazzo potesse maneggiarla. Ma la mano che la stringeva stava tremando. È soltanto un bambino, pensò Tarasov. Un bambino spaventato il cui braccio continuava a oscillare indeciso tra Tarasov e l'anestesista. Tarasov lanciò un'occhiata di sbieco alla bacinella degli strumenti e notò la siringa di succinilcolina. Ne conteneva ancora abbastanza da immobilizzare il ragazzo. Lentamente si spostò di lato, scavalcando il cadavere di Hodell e passando sulla pozza di sangue che si stava allargando. In quell'attimo, la pistola scattò verso di lui e Tarasov s'immobilizzò. Il ragazzo stava piangendo, e respirava emettendo singulti strozzati. «Va tutto bene», disse Tarasov con voce carezzevole. Poi sorrise. «Non
aver paura. Sto soltanto aiutando la tua amica. La sto curando. È molto malata. Non lo sai? Ha bisogno di un medico.» Gli occhi del ragazzo si rivolsero al tavolo. Alla donna. Jakov avanzò di un passo, di un altro ancora. Di colpo il respiro gli sfuggì in un gemito straziante, carico di angoscia. Il ragazzo non si accorse che l'anestesista gli sgattaiolava accanto e usciva precipitosamente dalla stanza. Né parve udire il leggero rombo dell'elicottero, che si stava avvicinando, preparandosi a ritirare il suo carico. Tarasov prese la siringa dalla bacinella e si accostò al tavolo. Il ragazzo sollevò la testa e il suo grido si trasformò in un urlo di disperazione. Tarasov alzò la siringa. Jakov lo guardò. E, mentre puntava la pistola di Grigorij, nei suoi occhi non c'era più paura, ma rabbia. E fece fuoco per l'ultima volta. 26. Il ragazzo si rifiutava di allontanarsi dal letto di Abby. Dal momento in cui le infermiere l'avevano portata fuori del Pronto soccorso e l'avevano sistemata in una camera asettica dell'unità chirurgica di terapia intensiva, lui le era sempre rimasto accanto, un piccolo, pallido fantasma ostinato. Per ben due volte le infermiere l'avevano preso per mano e l'avevano trascinato fuori, e tutt'e due le volte il ragazzo era riuscito a tornare al suo posto. Adesso se ne stava in piedi, con le mani strette alle sbarre laterali del letto, supplicando con lo sguardo Abby affinché si svegliasse. Se non altro, non era più in preda a una crisi isterica, com'era quando Katzka l'aveva trovato sulla nave: chino sul corpo sventrato di Abby, singhiozzava e la implorava di vivere. Katzka non aveva capito neanche una parola di ciò che il ragazzo stava dicendo, ma aveva perfettamente compreso il suo panico, la sua disperazione. Si sentì bussare sul vetro della camera asettica. Katzka si girò e vide Vivian, che lo stava chiamando a gesti. Aprì la porta e la raggiunse nel corridoio. «Quel ragazzo non può star qui tutta la notte», gli disse lei. «Dà fastidio alle infermiere. E, per di più, non ha l'aria molto pulita.» «Ogni volta che cercano di portarlo via si mette a gridare.» «Non può convincerlo lei?»
«Non conosco neanche una parola di russo. E lei?» «Stiamo ancora aspettando che arrivi un interprete. Non può esercitare la sua autorità maschile? Lo trascini fuori, e basta.» «Lasciamogli ancora un po' di tempo, d'accordo?» Katzka si girò e, attraverso il vetro della camera asettica, guardò il letto. Stava lottando con se stesso per cancellare l'immagine che si sovrapponeva a ciò che stava vedendo, un'immagine che l'avrebbe ossessionato per il resto della vita: Abby distesa sul tavolo operatorio, con l'addome squarciato e gli intestini che rilucevano sotto le lampade. Il ragazzo che gemeva, cullandole il viso. E, per terra, in un lago formato dal loro stesso sangue, i due uomini: Hodell, già morto, e Tarasov, privo di conoscenza e ferito, ma ancora vivo. Come tutte le altre persone che si trovavano su quella nave, anche Tarasov era stato tratto in arresto. E altri sarebbero finiti in galera. L'indagine era appena agli inizi. In quel preciso momento, le autorità federali stavano stringendo il cerchio attorno alla compagnia Sigaev. Sulla base di quanto aveva già confessato l'equipaggio del cargo, quella vendita di organi aveva implicazioni ben più vaste - e di gran lunga più orrende - di quelle che Katzka poteva aver immaginato. Il detective batté gli occhi e tornò al presente: Abby, distesa nel letto dall'altra parte di quel vetro, l'addome fasciato, il torace che si alzava e si abbassava. Il tracciato sul monitor rivelava il ritmo regolare del suo cuore. Per un brevissimo attimo, Katzka provò la medesima fitta di panico che aveva sperimentato sulla nave, quando, sul monitor, il tracciato cardiaco di Abby aveva cominciato a saltare freneticamente e lui aveva pensato che stava per perderla, perché l'elicottero su cui si trovavano Vivian e Wettig era ancora lontano parecchi chilometri. Alle sue spalle, Vivian mormorò: «Katzka, si rimetterà in fretta. Il Generale e io abbiamo fatto un buon lavoro». Katzka annuì e scivolò nella camera asettica. Il ragazzo sollevò lo sguardo verso di lui, gli occhi umidi come quelli del detective. «A-bi», sussurrò. «Sì, ragazzo. Si chiama così.» Gli sorrise. Entrambi si girarono a guardare il letto. Rimasero nella stessa posizione per quello che a loro parve un tempo lunghissimo. Il silenzio era rotto soltanto dal bip leggero e regolare del monitor cardiaco. Katzka e Jakov, immobili e affiancati, vegliavano su quella donna che nessuno dei due conosceva bene, ma per la quale provavano già un affetto smisurato.
Infine Katzka tese una mano. «Andiamo. Hai bisogno di dormire, figliolo. E anche lei.» Il ragazzo esitò, scrutando attentamente Katzka. Poi, con un po' di riluttanza, prese la mano che gli veniva offerta. Si avviarono attraverso l'unità di terapia intensiva e le scarpe di plastica del ragazzo strisciavano sul linoleum. All'improvviso, Jakov rallentò. «Che cosa c'è?» chiese Katzka. Il ragazzo si era fermato davanti a un'altra camera asettica. Anche il detective guardò attraverso il vetro. Un uomo dai capelli argentei sedeva su una sedia accanto al letto di una degente. Teneva la testa affondata nelle mani e il suo corpo era squassato da singhiozzi silenziosi. Ci sono cose che neppure Victor Voss può comprare, pensò Katzka. Adesso è sul punto di perdere tutto. Sua moglie. La sua libertà. Guardò la donna distesa sul letto. Il suo volto sembrava fragile come porcellana. Gli occhi, semiaperti, avevano la lucentezza opaca della morte incombente. Il ragazzo si fece più vicino al vetro. In quell'attimo, mentre si chinava in avanti, negli occhi della donna parve accendersi un ultimo bagliore di vita. Nina fissò il ragazzo. Lentamente le sue labbra s'incurvarono in un sorriso silenzioso. Poi gli occhi si richiusero. Katzka mormorò: «È ora di andare». Il ragazzo alzò lo sguardo verso di lui. Scosse la testa. Mentre Katzka lo fissava in un silenzio impotente, Jakov si girò, tornando verso la camera asettica di Abby. Di colpo, Katzka si sentì incredibilmente stanco. Guardò Victor Voss, un uomo rovinato, con il corpo oppresso dal peso del dolore. Guardò la donna nel letto, il cui spirito si stava involando sotto i suoi occhi. E rifletté: Abbiamo davvero poco tempo per stare con chi amiamo. Sospirò. Poi anche lui si girò, avviandosi verso la camera asettica di Abby. E riprese il suo posto accanto al ragazzo. FINE