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JACK WILLIAMSON IL POPOLO D'ORO (Golden Blood, 1933) 1 La legione segreta Il sole di mezzogiorno, in Arabia, ricorda stranamente il chiaro di luna. La sua brillantezza ferisce gli occhi e, come quella della luna, cancella tutti i colori, creando un contrasto spietato di chiari e di scuri. I sensi si ritraggono davanti alle sue fiamme divampanti; e la siesta araba, la kaylulah, è un momento di resa supina al superbo giorno. Price Durand, sdraiato sotto una tenda scolorita dal sole, sul ponte della goletta divorato dal caldo, si trovava in quello strano stato di dormiveglia in cui si sogna, e tuttavia, consci che si sogna, si osservano le proprie visioni come in una rappresentazione. E Price, con la parte cosciente di se stesso, era sbalordito del proprio sogno. Perché vedeva Anz, la perduta città della leggenda, là dove essa sorgeva, nascosta nel cuore del deserto. Mura imponenti cingevano le sue torri svettanti, e ai loro piedi iniziavano i filari di palme verdi della grande oasi. Egli vide nel suo sogno le porte di Anz aprirsi come enormi valve di bronzo, e da queste uscire un uomo a cavallo di un gigantesco cammello bianco, un uomo protetto da una scintillante maglia d'oro, che reggeva una pesante ascia di metallo giallo. Il guerriero uscì dalle porte di Anz e s'inoltrò tra le alte palme dell'oasi, fino alle scure dune del deserto di sabbia. Cercava qualcosa, e teneva le dita serrate sull'impugnatura della grande ascia. E il cammello bianco era impaurito. Una mosca svolazzò sopra la testa di Price, e Price si tirò su a sedere, sbadigliando. Che razza di sogno strano era stato! L'antica città gli era apparsa così reale, che era come se fosse comparsa veramente davanti ai suoi occhi. Il suo inconscio doveva avere ricamato sulla leggenda, perché in essa non si parlava affatto di un uomo dalla corazza d'oro. Be', era troppo caldo per stare a preoccuparsi di un sogno, era troppo caldo perfino per pensare. Price si asciugò il sudore dalla faccia e si guardò intorno con gli occhi socchiusi per la luce accecante. Il Mar d'Arabia scintillava sotto il sole spietato, e appariva come una distesa di vetro fuso. Il cielo torrido era screziato di rame, emanava un calore
secco e soffocante. Una linea scura di sabbia segnava l'orizzonte a nord, dove le desolate dune mobili del Rub' Al Khali incontravano il mare incandescente. La goletta «Iñez», segretamente minacciosa come il suo bruno capitano macanese, galleggiava immobile, a un miglio dalla riva, sull'oceano caldissimo color acciaio, e le sue vele scolorite e abbassate proiettavano ombre sottili e tristi sui ponti coperti di grasso. Price Durand, che poltriva sotto la sua logora tenda, non ne poteva più dell'ossessiva solitudine che il mare e la sabbia rovente offrivano. La latente e tenebrosa ostilità del deserto sconosciuto, lì vicino, gli aleggiava intorno come una corrente tangibile, silenziosa e sinistra. Price Durand avvertiva uno strano contrasto nei propri sentimenti, da quando la goletta aveva lasciato il Mar Rosso: era come se in lui due forze stessero lottando tra loro per la supremazia. Lui, il soldato di ventura stanco del mondo, aveva paura di quel deserto, che era il più crudele e il più sconosciuto del mondo, ma naturalmente non ne aveva paura al punto da desiderare di abbandonare la spedizione. Era però costretto a lottare contro il suo potere insidioso e cupo, poiché era fieramente determinato a non lasciarsi catturare dalla sua silenziosa magia. D'altro canto qualcosa in lui accoglieva di buon grado lo spirito ossessivo del deserto, e si abbandonava a esso con gioia. La sua solitudine diventava affascinante, la sua bruna crudeltà rappresentava un muto richiamo. La stessa aspra ostilità che da un lato Price Durand vedeva con paura in quella terra, dall'altro gli era motivo di fascino e attrazione. «Guardate, sta arrivando Fouad», tuonò la voce pacata di Jacob Garth dal ponte di prua. «Perfettamente puntuale. Entro lunedì c'incammineremo verso l'interno». Price alzò gli occhi a guardare Jacob Garth. Garth era un uomo grande e grosso, con la barba rossa e un'aria mite che nascondeva in realtà una forza erculea. Aveva la pelle bianca e liscia, che sembrava restia a scottarsi, sia ad abbronzarsi, sotto quel sole cocente che aveva reso color cioccolata la pelle di tutti quanti gli altri. Reggendo il binocolo col quale aveva osservato la linea rosso scuro della costa, Jacob Garth si girò con agilità, nonostante la sua mole. Non appariva affatto eccitato: i suoi occhi celesti erano freddi e lontani da qualsiasi emozione. Ma le sue parole ridestarono la goletta dal torpore in cui il sole rovente l'aveva calata. Joao de Castro, il bruno eurasiano dagli occhi a mandorla che era il capi-
tano della nave e che proveniva dalla feccia della degenerata Macao, si precipitò fuori della sua cabina urlando eccitato domande per metà in portoghese e per metà in inglese sgrammaticato. De Castro era piccolo e fisicamente insignificante, e manteneva la propria autorità sull'equipaggio solo con la violenza e con la sua malvagità spietata. Price non apprezzava molto nessuno dei mercenari che costituivano lo strano miscuglio di quell'equipaggio; ma Joao era l'unico che realmente odiasse. Era, il suo, un odio naturale e istintivo: era sorto dalle profondità della sua anima la prima volta che aveva visto il capitano, e Price sapeva che il piccolo macanese lo ricambiava di cuore, quell'odio. Jacob Garth pose fine alle febbrili domande del capitano con un'unica parola tonante: «Là!». Allungò il binocolo al piccoletto, e indicò la linea di sabbia ondulata di là dalla scintillante distesa color acciaio del mare. Price tornò a guardare Garth. Dopo tre mesi sapeva di lui solo quello che aveva saputo il giorno che l'aveva conosciuto. Jacob Garth era sempre un enigma, un rebus che Price non era riuscito a risolvere. Il suo viso largo e pallido era una maschera. Il suo carattere sembrava cauto e imperturbabile come il suo corpo massiccio. Price non aveva mai visto Garth esprimere la minima sfumatura di emotività. Probabilmente Garth era inglese. In ogni caso parlava un inglese privo di accento, e aveva il vocabolario di una persona istruita. Price si era detto che forse era un membro dell'aristocrazia che aveva subìto un tracollo a causa della guerra, e che provava a fare quella fantastica spedizione per recuperare la sua fortuna. Ma una simile supposizione non era stata confermata in alcun modo. Era strano, e tuttavia quasi divertente, guardare Garth starsene in piedi immobile e immutabile come un Buddha, mentre la nave era percorsa dalle fiammate di eccitazione che il suo annuncio aveva suscitato. Gli uomini che si trovavano a riposare sul ponte erano scattati in piedi, e altri stavano arrivando di corsa dal boccaporto: tutti si precipitarono ai parapetti gridando e dandosi spinte, e, dimentichi del sole cocente, fissarono l'orizzonte sabbioso. Price osservò anche lui l'orizzonte, meditabondo. Erano dei duri, quella ventina di avventurieri temprati dalla vita che si autodefinivano la «legione segreta». Ma a quell'impresa erano necessari proprio dei duri: non era quello il luogo adatto per teneri pivelli. Ciascun componente la «legione segreta» aveva prestato servizio duran-
te la guerra mondiale. Ciò era essenziale in considerazione del carico della goletta, carico che era dichiarato «macchinario agricolo». Nessun membro dell'equipaggio aveva meno di trent'anni, e pochi ne avevano più di quaranta. Oltre a Price c'era un altro americano: Sam Sorrows, uno smilzo exagricoltore del Kansas. Nove erano inglesi, tutti scelti da Jacob Garth. Gli altri erano originari di una mezza dozzina di stati europei. Tutti gli uomini sapevano usare le «attrezzature» del carico, ed erano anche i tipi adatti a usarle con il coraggio della disperazione; a usarle nel tentativo di trovare il favoloso tesoro che Jacob Garth aveva promesso. A occhio nudo, gli uomini dal parapetto non videro niente. Riluttante, Price si alzò e attraversò il ponte rovente, raggiungendo Garth. Senza dire una parola, l'omone prese il binocolo dalle mani tremanti del capitano e lo allungò a Price. «Guardi oltre la seconda fila di dune, signor Durand». Davanti alle lenti comparvero file interminabili di gonfie creste di sabbia rossa. Poi Price vide i cammelli, una serie di puntolini scuri che si muovevano sinuosamente lungo il fianco giallastro di una lunga duna e serpeggiavano giù verso il mare, in processione interminabile. «Sicuro che siano i suoi arabi?», chiese Price. «Certo», tuonò Garth. «Sa, questo non è mica il Corso. E ho già avuto a che fare con Fouad prima d'ora. Gli ho promesso duecentocinquanta sterline d'oro al giorno per quaranta guerrieri con cammello e altri duecento senza cammello. Sapevo di poter contare su di lui». Ma Price, che aveva già sentito parlare di Fouad El Akmet e della sua banda traditrice di harami, o banditi, beduini, sapeva che si poteva contare poco sul vecchio sceicco, il quale era tipo da tagliare più gole che poteva non appena se ne fosse presentata l'occasione. Il sole cocente costrinse ben presto gli uomini a tornare al riparo di quel po' d'ombra che c'era. Si ristabilì un silenzio soffocante, e la vasta, ostile solitudine del Rub' Al Khali, la Dimora Desolata, si riversò ancora una volta sulla piccola goletta immersa nella luce spietata e accecante del sole. Entro il tramonto del giorno dopo le ultime casse e le ultime scatole erano state portate a terra, in luoghi irraggiungibili dalle onde, da una quarantina di uomini di Fouad. Le cataste, in ordine e coperte d'incerata, erano sistemate accanto all'accampamento cinto dalle tende, vicino ai cammelli accosciati. Price che faceva la guardia alle cataste con un'automatica al fianco, sor-
rise pensando alla costernazione che si sarebbe diffusa in certi ambienti diplomatici se si fosse saputo che gli «attrezzi agricoli» nascosti in quelle casse erano stati rilevati da privati. In cuor suo, ridacchiando, fece l'inventario di tutti gli «attrezzi». Cinquanta fucili Lebel, nuovi fiammanti, calibro 315, a cinque colpi, capaci di sparare a distanza di duecento-quattrocento metri; e cinquantamila proiettili. Quattro mitragliatrici francesi Hotchkiss con raffreddamento ad aria (un particolare importante nella guerra del deserto), anch'esse calibro 315, montate su treppiedi, e 60.000 proiettili in strisce di metallo di trenta colpi l'una. Due cannoni Krupp da montagna, vecchi di vent'anni, usati in parecchie guerre balcaniche, e cinquecento granate shrapnel, ed esplosivo ad alto potenziale. Due mortai da trincea Stokes, e quattrocento granate da dieci libbre d'accompagno. Quattro dozzine di automatiche calibro 45, con munizioni. Dieci casse di bombe a mano. Cinquecento libbre di dinamite, con micce e detonatori. E vicino a Price, accanto a una catasta di fusti di petrolio e di benzina, torreggiava l'arma più ambiziosa di tutte: un carro armato leggero, di tre tonnellate, fornito di due mitragliatrici e dotato di ampi cingoli studiati apposta per le operazioni su terreno sabbioso. Price avrebbe voluto portare anche un aeroplano. Ma Jacob Garth si era opposto senza addurre valide ragioni, altro che quella che atterrare e decollare sulla sabbia del deserto sarebbe stato difficile. Price, in via eccezionale, aveva accondisceso al volere di Garth, senza stare a sindacare sul motivo reale della sua opposizione. Erano state spese molte settimane di ansiosi e cauti sforzi e molte migliaia di dollari (il denaro di Price) per quel moderno corredo bellico, e per fornirlo a quel pugno di duri che si facevano chiamare la «legione segreta». Dal suo posto, accanto alla casse ricoperte d'incerata, Price guardò Jacob Garth allontanarsi dalla goletta ormai vuota. Notò che, curiosamente, Garth non aveva voluto che nessuno rimanesse a bordo, nemmeno Joao de Castro, il bruno capitano della nave dalla faccia butterata. Quando la scialuppa fu vicina a riva, Price si accorse che Garth e de Castro stavano litigando; o meglio, che il piccolo eurasiano strillava invettive contro l'omone dalla barba rossa, il quale sembrava non sentirle nemmeno.
Price si chiese perché non fosse stato lasciato nessuno di sentinella, sulla «Iñez». Proprio in quella vide la goletta, all'ancora, scuotersi all'improvviso tutta quanta. Il placido mare fu attraversato dal rumore smorzato di un'esplosione. Price vide una nuvola di detriti levarsi dal ponte, e del fumo giallo uscir fuori da ablò e portelli della goletta. Con una strana, muta lentezza, la «Iñez» s'inclinò a sinistra, sollevò in aria la prua nera, e s'inabissò di poppa. Fu allora che Jacob Garth, con la sua voce reboante, coprì le urla di protesta dell'infuriato capitano: «Non avremo bisogno della nave, là nel deserto. E non volevo che la sua presenza inducesse magari qualcuno a tornare indietro. Quando troveremo l'oro, de Castro, si potrà comprare la Majestic, se vorrà!». 2 La scimitarra d'oro Jacob Garth era andato a far visita a Price Durand tre mesi prima, in un bar di Port Said: anche allora il viso grasso e pallido dell'omone che Garth era incorniciato da una barba rossa arruffata. I suoi vestiti, che un tempo dovevano essere stati bianchi, erano macchiati e impregnati di sudore; il casco coloniale che aveva in testa era ammaccato e fradicio di sudore. L'uomo possedeva una forza sbalorditiva. Nei suoi occhi celesti e incavati c'era qualcosa di duro, di freddo, una strana scintilla che sembrava rivelare volontà e potere. Contrariamente a quanto Price si era aspettato, la mano di Garth, grande e grossa, non era molliccia, e la sua stretta mozzava il fiato. «Lei è Durand, vero?», aveva detto Garth a Price, con la sua voce profonda e sonora. Con sguardo penetrante aveva soppesato Price, la sua statura di un metro e ottantasette, il suo viso incorniciato da capelli rossi; coi suoi freddi occhi dallo sguardo intenso aveva frugato negli occhi azzurri di lui, che non aveva battuto ciglio. Price, anzi, lo aveva studiato a sua volta, e aveva trovato in lui cose che gli avevano stuzzicato la curiosità. Aveva fatto un cenno di saluto. «Se non mi sbaglio, lei è quello che si potrebbe definire soldato di ventura, vero?», aveva detto Garth. «Sì, forse», aveva ammesso Price. «Ho sempre avuto abbastanza gusto per l'avventura». «Ho da farle una proposta che la può interessare».
«Davvero?». «Ha sentito parlare della leggenda di Anz? Non intendo Anz il villaggio dell'Arabia del nord. Intendo la Anz dell'oasi perduta, di là dalla catena del Jebel Harb». «Sì, conosco le leggende arabe, di Magainma e delle altre città perdute del deserto centrale. Sono un po' come altre "Mille e una notte"». «No, Durand», aveva detto Garth, abbassando la sua voce suadente. «Le leggende beduine di Anz, per quanto fantastiche possano sembrare, sono basate sulla verità. La maggior parte delle leggende lo sono. Persino le "Mille e una notte" che lei ha citato contengono un minimo di verità storica. Ma io dispongo di qualcosa di più delle semplici chiacchiere. Se vuole essere così gentile da accompagnarmi alla mia goletta, potrò scendere in dettaglio con lei e spiegarle tutto. La mia goletta è la "Iñez", ancorata al porto vicino alla diga». «Perché non mi spiega tutto qui?», aveva detto Price, indicando un tavolino d'angolo. «Ci sono alcune cose che vorrei mostrarle a prova di quanto asserisco. E... be', non voglio che qualcuno possa sentire di nascosto quello che dico». Price conosceva di fama la «Iñez» e il suo bruno capitano macanese, ed era una fama poco buona. Tutte le imprese in cui l'una e l'altro erano coinvolti puzzavano di poco pulito. Ma Price in quel momento si sentiva irrequieto, stanco del mondo, ed era aperto a tutto. Così, aveva fatto un cenno d'assenso all'omone di nome Garth. A bordo della goletta Price era stato ricevuto da Joao de Castro, che aveva sfoggiato per l'occasione un sorriso obliquo: il suo viso era stato talmente divorato dal vaiolo che era divenuto glabro. De Castro, coi suoi occhi neri a mandorla, aveva lanciato un'occhiata fuggevole a Jacob Garth, un'occhiata in cui Price aveva letto una muta domanda. Garth era passato oltre quasi spingendo da parte il capitano, e aveva condotto Price fino a una cabina dalla porta scura, nella mezzeria della nave. Chiudendo a chiave la porta dietro di sé, si era girato a guardare Price coi suoi occhi duri. «È sottinteso che non deve dire niente di tutto questo, se non accetta la mia proposta». «Benissimo». Garth aveva studiato ancora una volta Price, poi aveva annuito. «Mi fido di lei».
Lo aveva fatto accomodare, e aveva posato sul tavolo della cabina una bottiglia di whisky e due bicchieri. Price aveva rifiutato il whisky, e Jacob Garth aveva detto, subito dopo: «Perché non mi dice quello che sa di Anz? Della perduta Anz?». «Oh, so solo la solita storia che si racconta. Che il deserto all'interno un tempo era fertile, o se non altro abitabile. Che era dominato da una grande città chiamata Anz. Che l'espandersi dei deserti tagliò fuori la città dal resto del mondo, circa un migliaio d'anni or sono». «Era logico aspettarsi una leggenda del genere, data l'immaginazione degli arabi, e dato il fatto che l'Arabia del sud è, sulle carte geografiche, la zona più disabitata del mondo, a parte le regioni polari». Jacob Garth era intervenuto e aveva parlato lentamente, con la sua voce profonda e priva di emotività. «Durand, quella leggenda, così come lei l'ha raccontata, è vera. Anz esiste. È ancora abitata, o almeno lo è la vecchia oasi. Ed è la città più ricca del mondo. Bottino adatto a un esercito». «Ho già sentito qualcuno dire lo stesso», aveva ribattuto Price. «Lei lo sa per certo?». «Giudichi lei da quanto le dico. Dall'epoca della guerra, dodici anni fa, non ho mai smesso di esplorare i confini del Rub' Al Khali. Ho vissuto coi beduini, e ho scoperto un migliaio di leggende. La maggior parte di esse si sono rivelate semplici versioni distorte della storia di Anz. «E, Durand, sono stato fino alla catena del Jebel Harb». Quell'affermazione aveva indotto Price a stimare maggiormente quell'uomo. Price sapeva che quelle montagne erano considerate leggendarie quanto la città che si diceva sorgesse di là da esse. Se Jacob Garth le aveva viste, doveva essere ben altro che il goffo ammasso di ciccia che sembrava. «Avevo cinque uomini con me», aveva continuato Garth. «Avevamo dei fucili. Ma non riuscimmo a valicare il Jebel Harb. Durand, le montagne erano difese! Ho l'impressione che quelli di Anz sappiano più cose sul mondo esterno di quante noi non ne sappiamo su di loro. E non sembrano per niente ansiosi di riprendere i contatti con noi. «Avevamo dei fucili. Ma loro ci attaccarono con armi che... Be', i particolari sono abbastanza incredibili. I cinque che erano con me erano uomini coraggiosi, eppure tornai solo, benché non del tutto a mani vuote. Tornai con le prove di cui le parlavo». Con movenze feline, nonostante la mole, Jacob Garth si era diretto a un
armadietto, lo aveva aperto, e aveva portato a Price un rotolo di pergamena: una lunga striscia sottile di cartapecora secca, crepata, con la scrittura, sopra, scolorita dai secoli. «Un po' scolorita, ma leggibile», aveva detto Garth. «Sapete leggere lo spagnolo?». «Un po'. Lo spagnolo moderno». «Questo è scritto in buon castigliano». Price prese il rotolo con gran curiosità, lo aveva srotolato con cura, e aveva esaminato gli antichi caratteri. «Mayo del Año 1519», era datato il foglio (maggio dell'anno 1519). Il manoscritto era la breve autobiografia di un certo Fernando Jesus de Quadra y Vargas. Nato a Siviglia intorno al 1480, era stato costretto a fuggire in Portogallo all'età di ventidue anni, in seguito a circostanze che egli non specificava. Entrato a far parte della marina di re Manoel, era stato membro della spedizione portoghese che, al comando di Alfonso de Albuquerque, aveva raggiunto nel 1508 la costa est dell'Arabia. Là, trovandosi per la seconda volta in difficoltà che non stava a descrivere, Fernando abbandonava Albuquerque, per essere poi immediatamente catturato e fatto schiavo dagli arabi. Dopo alcuni anni era riuscito a sfuggire ai suoi catturatori e, non osando tornare dai portoghesi, aveva rubato un cammello ed era partito in direzione della natia Spagna, con l'intenzione di arrivarci attraversando l'Arabia. «Grandi stenti dovetti affrontare», scriveva Fernando, «per mancanza d'acqua, in quella terra pagana dove il vero Dio è sconosciuto, e dove non è conosciuto nemmeno il profeta degli infedeli. Per molte settimane non bevvi altro che il latte della mia cammella, che si nutriva delle piante spinose del crudele deserto. «Poi finii in una regione di sabbie roventi, dove la cammella morì per mancanza d'acqua e di cibo. Io proseguii a piedi, e per concessione della Vergine Maria arrivai finalmente in una terra fiorente. «Trovai ristoro in una città vicina a folti palmizi. E là scoprii, dedito alla più orrenda idolatria, il popolo che si definisce dei Beni Anz. Esso adora degli esseri d'oro vivente, che abitano in una montagna vicina alla città e dimorano in una casa d'oro su detta montagna. «Quegli esseri, gli uomini d'oro, mi fecero prigioniero e mi portarono sulla montagna, dove vidi gl'idoli, che sono una tigre e un grande serpente che vivono e si muovono, nonostante siano d'oro giallo. Un uomo d'oro, il
sacerdote del serpente, mi fece delle domande, poi mi strappò la lingua e mi fece schiavo. «Per tre anni faticai su quella montagna, e poi, per grazia di Dio, uccisi quello che mi sorvegliava con la sua stessa spada d'oro, che ho tuttora con me. Ancora una volta mi procurai un cammello grazie alla benevolenza della Vergine Maria, e m'incamminai verso il mare, lungo un sentiero che è tutto segnato da teschi umani. «Di nuovo sono stato perseguitato dalla sete, e dall'influenza malefica degli dèi d'oro. Il cammello è morto, e io sono zoppo: così non potrò mai lasciare queste montagne, in cui se non altro ho trovato una sorgente. Morirò in questa caverna dove sono, e pregherò che la vendetta di Dio si abbatta presto sulla terra dorata, purgandola dall'idolatria e dal male». Price era rimasto seduto a fissare la vecchia pergamena friabile e aveva cercato di immaginare in dettaglio la disperata avventura che quelle lettere scolorite avevano delineato per sommi capi. L'antico spagnolo doveva essere stato un tipo duro, per avere fatto ciò che aveva fatto: conciare, cioè, la pelle del cammello, fabbricare un inchiostro e scrivere le sue memorie. Evidentemente, anche dopo essersi rassegnato alla morte, aveva conservato qualche vaga pulsione di sopravvivenza. La voce profonda di Garth aveva rotto l'incanto: «Cosa ne pensa?». «Interessante. Molto interessante. Ma potrebbe essere un falso, naturalmente. Ci sono moltissime vecchie pergamene da contraffare, se uno vuole». «Questa qui io l'ho trovata», aveva detto Garth. «L'ho trovata vicino a uno scheletro umano, in una caverna del Jebel Harb». «Questo non risponde alla mia obiezione». Garth aveva fatto un cupo sorriso. «Forse vi risponderà un'altra cosa. Una cosa che non è facile da falsificare». Era tornato all'armadietto e aveva tirato fuori una scimitarra gialla. La scimitarra scintillò mirabilmente, nella cabina semibuia: nella sua impugnatura era incastonato un rubino. Era proprio una yataghan, tutta d'oro! «La guardi!», aveva tuonato Garth con la sua voce baritonale dalla suasività ipnotica. «È d'oro! D'oro puro! E temprato come il migliore acciaio! La guardi!». L'aveva roteata, facendo fischiare l'aria, poi l'aveva allungata a Price. Era un'arma terribile, pesante, con la sua lama ampia e curva affilata come quella di un rasoio. Toccandola, Price si era accorto che il filo della lama era talmente perfetto da escludere la possibilità che si trattasse di un
oro non purissimo o di una lega. L'impugnatura era pure d'oro, e raffigurava un serpente raggomitolato che stringeva nelle fauci un grande rubino rosso sangue. Garth, che era tutto proiettato in avanti, sopra il tavolo, appariva straordinario quanto l'arma: massiccio, con due spalle larghissime, la pelle liscia e bianca come quella di un bambino, emanava dagli occhi celesti scintillanti una forza tutta particolare. «Sì, è oro», aveva ammesso Price. Non c'era modo di negarlo, né di negare che era l'oro più perfetto ch'egli avesse mai visto. «E il rubino è vero». «È soddisfatto?», aveva chiesto Garth. «Sono soddisfatto che lei sia in possesso di una cosa strana e insolita. Sa, il manoscritto aveva un po' l'aria di parlare di posti irreali... Ma qual è la sua proposta?». «Sto organizzando un'altra spedizione. Ho intenzione di usare mezzi abbastanza ingenti da farmi penetrare nel passo sorvegliato del Jebel Harb, e da schiacciare qualunque resistenza la gente di Anz eventualmente opponga una volta che si sia penetrati oltre il passo. In una parola, ho intenzione di arruolare un piccolo esercito». «L'Arabia centrale non è mai stata conquistata, nonostante moltissime nazioni ci abbiano provato, negli ultimi cinquant'anni o giù di lì». «Non sarà facile», aveva riconosciuto Garth, «ma la ricompensa sarà incalcolabile! Pensi alla casa d'oro di cui ha parlato lo spagnolo! Io conosco il deserto; e anche lei lo conosce. Non siamo dei pivellini». «E la sua proposta?». «Ho bisogno di circa centoquarantamila dollari per finire di organizzare la spedizione. Credo che lei sia in grado di anticiparmi una simile somma». «Può darsi. E in cambio?». «Lei sarebbe il comandante in seconda, e de Castro verrebbe subito dopo di lei. Io sono il primo, naturalmente. Metà bottino dovrà essere diviso tra gli uomini. Il rimanente sarà diviso in dodici parti, di cui cinque saranno mie, quattro sue, e tre di de Castro». L'oro di per sé non significava nulla per Price. La sua fortuna, che lui non si era sforzato di aumentare, ammontava a circa quattro milioni di dollari. Ma, a trentun anni, Price si ritrovava stanco della vita, a fare il giramondo: era oppresso da un'insopportabile noia e agitato da vaghi, informi desideri che lui stesso non capiva. Per un intero decennio aveva girato senza posa e senza scopo per i paesi tropicali, alla ricerca di... Non sapeva
nemmeno lui di cosa. Il mistero e l'ostilità che il Rub' Al Khali, la «Dimora Desolata», sprigionava, con le sue distese squallide di sabbia e il suo contorno di montagne che facevano paura perfino ai nomadi beduini, rappresentavano per lui una sorta di sfida. Price sapeva l'arabo, conosceva abbastanza la vita dei beduini, e si era spinto fino ai confini del deserto invincibile. L'idea di trovare il tesoro non gli diceva nulla. Gli diceva molto di più l'idea dell'azione, dell'avventura. Della lotta con la più aspra delle nature. Della battaglia (se la storia di Garth era effettivamente vera) contro lo strano potere che sembrava si celasse nel deserto centrale. Lo spirito di avventura lo spingeva a immaginare un'impresa elettrizzante, un qualcosa di rischioso e difficile che nessuno aveva ancora osato. E l'oro di cui Garth parlava non rappresentava per lui che un semplice trofeo. D'un tratto Price si era sentito impaziente, si era sentito interessato ed entusiasta come ormai non era da molti mesi. Aveva deciso sull'istante. Ma qualcosa in lui si ribellava all'idea di avere diritto solo al secondo posto, di dovere prendere ordini da un altro. «Ci sto a patto che sia io il capo», aveva detto. «Possiamo dividere il bottino in parti uguali: quattro e mezzo per lei, quattro e mezzo per me». Pallido, senza battere ciglio, Jacob Garth aveva scrutato Price in viso. Poi aveva parlato con un'ombra di rabbia. «Ha sentito qual è la mia proposta», aveva detto. Poi aveva aggiunto: «Non abbia paura di eventuali disonestà. Può versare lei stesso il denaro, se non si fida di me. Può stare certo che non mi avventurerei mai nel Rub' Al Khali se non credessi alla verità della storia». «Non posso venire», aveva detto, pacato, Price, «altro che in qualità di capo». E Garth alla fine si era arreso. «D'accordo. Lei prende il comando, e dividiamo in parti uguali». Per due mesi la «Iñez» aveva scivolato furtiva tra i porti dell'Europa dell'est e del Levante, mentre Price e Jacob Garth accumulavano, grazie alle trattative poco pulite necessarie in simili casi, il carico che ufficialmente rientrava nella voce «attrezzi agricoli», nonché il piccolo esercito che finì per autoproclamarsi la «legione segreta». Conclusi gli accordi e portato a bordo il carico, la «Iñez» era discesa verso il Mar Rosso e si era poi diretta a est, lungo la costa araba, fino al punto che Jacob Garth aveva scelto per l'appuntamento con i suoi ambigui
alleati arabi. 3 Il sentiero dei teschi Lo sceicco Fouad el Akmet apparve dolorosamente sorpreso quando seppe che doveva accompagnare la spedizione in una zona proibita, ovvero nel cuore del Rub' Al Khali. Risultò infatti che Jacob Garth aveva assunto Fouad al suo servizio promettendogli duecentocinquanta sterline al giorno, più un ricco bottino di guerra, senza però specificare dove il bottino andasse fatto. «Salaam aleikum! (la pace sia con voi!)», gridò lo sceicco, secondo quanto prestabiliva l'antico cerimoniale del deserto, appena Price Durand e Jacob Garth entrarono nella sua tenda nera, la notte dopo l'affondamento della «Iñez». «Aleikum salaam», rispose Price, pensando in cuor suo che il pio saluto del vecchio beduino avrebbe subito perso tutto il suo significato se mai Fouad avesse ritenuto vincente un eventuale attacco ai suoi alleati farengi. Price e Garth si sedettero sui logori tappeti che erano stesi sulla sabbia accanto alle selle dei cammelli. Fouad era seduto davanti a loro, ed era difeso da una dozzina dei suoi ribaldi, accovacciati in semicerchio. Uno degli arabi servì un caffè denso, viscido e amaro, che versò da una cuccuma d'ottone in un'unica tazzina, la quale fu fatta passare di mano in mano. Price sorseggiò il caffè, rimandando così di un po' le trattative: la faccia di Garth, con la sua aria falsamente mite, era imperscrutabile. Fouad con gli occhi neri e vivaci esprimeva una curiosità ormai incontenibile, e alla fine non riuscì più a trattenersi. «Si partirebbe presto?», chiese. «Senz'altro», disse Price. «Presto». «Scorrerie», disse il vecchio sceicco, «contro gli El Murra? Hanno molti cammelli, della razza pregiata Unamiya». I suoi occhi scintillarono. «O magari arriveremo a fare la guerra perfino ai farengi...?». Jacob Garth allungò la mano verso la guaina di pelle appesa alla sua cintura. Lentamente ne trasse la spada d'oro, e la levò in alto. «Cosa pensa di questa?», chiese al vecchio, in un arabo buono quanto quello di Price. Fouad el Akmet scattò in piedi e si sporse in avanti con aria bramosa. Il bagliore della lama di metallo si rifletté nei suoi occhi.
«Oro?», chiese. Poi, accortosi dell'impugnatura a forma di serpente, e del grande rubino che brillava tra le fauci dell'animale, fece un salto indietro borbottando: «Bismillah!». «Sì, è oro», disse Garth. «La spada è maledetta!», gridò Fouad. «Viene dalla terra proibita!». «Allora lei forse conosce il sentiero dei teschi?», chiese Garth, calmissimo. «Forse ha sentito parlare dei tesori che si troverebbero alla fine di quel sentiero, di là dal Jebel Harb?». «No, per Allah!», gridò il vecchio beduino, con tale veemenza che Price capì che mentiva. «Allora le mostrerò io questo sentiero», disse Garth, «perché il nostro scopo è di saccheggiare la terra che si trova in fondo a esso». «Allah lo proibisce!». Lo sceicco, nervosamente, si tormentò con un dito la barba rada color ruggine: dai suoi occhi trapelava chiara la paura. «Ogni cammello sarà caricato d'oro!», disse Garth. «È proibito ai fedeli di oltrepassare il Jebel Harb!», esclamò lo sceicco con insolito fervore religioso, carezzandosi lo hijab che gli pendeva dal collo. «Di là del Jebel Harb c'è una terra strana e malvagia, dove Allah e il suo profeta sono sconosciuti». «Allora perché non intraprendere una jehad, una guerra santa?», disse Price, con malignità. Sussurri di turbamento provennero dai vari uomini accovacciati in terra. Price sentì parlare di djinn e di 'ifrits. «Cosa c'è, di là dalle montagne, che possa incutere paura?», chiese. «Non lo so», rispose Fouad, «ma gli uomini dicono che ci sono cose strane, nella Dimora Desolata». «E quali sono, queste cose strane?», insistette Price. «Naturalmente io non ci credo», disse Fouad, rinnegando con una certa esitazione i propri timori superstiziosi. «Ma gli uomini dicono che di là dal Jebel Harb c'è una grande città che era già vecchia quando venne il profeta. I suoi abitanti, benché arabi, sono degli infedeli, adorano un serpente d'oro, e non sono governati da uomini, ma da malvagi djin gialli, che hanno solo l'aspetto di uomini. «I gialli djin cavalcano una grande tigre per ricacciare indietro quelli che attraversavano le montagne, e prendono i teschi di questi sventurati per contrassegnare empiamente la loro pista delle carovane, che va fino al mare. Abitano in un castello tutto d'oro, su una montagna nera chiamata hajar jehannum (la roccia dell'inferno).
«Questi sono i racconti che si narrano sul deserto. Ma naturalmente io non ci credo!», ribadì Fouad: era invece chiarissimo che ci credeva e come. «Adesso capisco», disse Price a Garth, «dove abbia attinto il nostro amico spagnolo per scrivere il suo diario fantasioso». «Ho visto cose strane nel Jebel Harb», ribatté Garth. «Ciò che racconta Fouad è più vero di quanto lui stesso non immagini. Non c'è niente di soprannaturale, sia chiaro. La scienza moderna è nata innanzitutto in questa parte del mondo, nell'epoca in cui l'Europa si trovava ancora nelle tenebre del Medioevo. La mia teoria è che abbiamo a che fare con un ramo isolato della civiltà araba classica. Un ramo fiorito in un'oasi sperduta». Price si girò verso Fouad el Akmet, che era tornato a sedersi sul tappeto e fissava affascinato la yataghan d'oro. «Stavamo parlando della Dimora Desolata», spiegò in arabo allo sceicco. «I nostri alleati non hanno nulla da temere, perché abbiamo con noi le armi dei farengi. Anche se ci fossero oltre le montagne le cose terribili di cui parlano gli uomini, noi possiamo distruggerle». «Domani vi mostreremo le nostre armi», disse Garth con voce suadente. Lui e Price si alzarono e tornarono alle loro tende, lasciando il vecchio sceicco a borbottare fra sé. Perché Fouad era incerto, combattuto ovviamente tra la paura degli ignoti orrori del deserto e l'avido desiderio dei suoi altrettanto ignoti tesori. Al tramonto del giorno seguente, quando l'aria tornò ragionevolmente fresca, Price cavalcò, con un cammello preso in prestito, fino in cima a una duna che dominava l'accampamento. Con lui erano il vecchio beduino e un gruppo dei suoi uomini. Jacob Garth era rimasto alle loro spalle, a fare da maestro di cerimonia. «Voi avete dei fucili», disse Price, indicando i fucili ad avancarica che gli arabi avevano con sé. «Ma avete fucili come questo?». Alzò un braccio, e le quattro mitragliatrici Hotchkiss, che stavano sui treppiedi giù sotto la duna, cominciarono a sparare col loro caratteristico crepitio, sollevando con la gragnuola di proiettili nuvolette di sabbia lungo la spiaggia. «I vostri fucili sparano in fretta», ammise Fouad. «Ma cosa possono mai fare dei fucili ai djin?». «Abbiamo fucili ancora più grandi», disse Price, e alzò il braccio una seconda volta.
I mortai Stokes e i due vecchi cannoni da montagna spararono contemporaneamente. Le fragorose detonazioni e l'uggiolio dei frammenti di granate, che scavavano buche nella sabbia, furono terribili perfino per Price. I più prudenti fra gli uomini di Fouad ritrassero indietro i loro cammelli. «E c'è anche il nostro carro della morte!», gridò Price, facendo un altro segnale. Il carro armato, che gli arabi non avevano ancora visto in moto, si animò, ruggendo, e cominciò a salire con gran fracasso su per la duna: sembrava un grigio mostro antidiluviano che avanzava con clangore metallico, con le sue mitragliatrici che martellavano senza posa. Per un attimo gli arabi terrorizzati mantennero la calma; poi, tutti insieme contemporaneamente, spronarono i cammelli e fuggirono. «Mi spiace», disse Jacob Garth quando li vide tornare con aria imbarazzata all'accampamento, «che non siate rimasti a guardare le altre nostre armi». «I cammelli si sono spaventati», disse Fouad. «Non siamo riusciti a governarli». «Proprio come si spaventeranno le sentinelle che stanno di guardia nel deserto», disse Price. «Allora, domani prendiamo il sentiero dei teschi?». Il vecchio sceicco esitò e borbottò qualcosa tra sé. «Pagherà l'oro che ha promesso», disse alla fine, rivolto a Garth, «anche se non troveremo nessun tesoro?». «Sì», lo rassicurò Garth. Price era pronto. Gridò un ordine, e quattro uomini arrivarono dall'accampamento, barcollando sotto il peso di una grande cassa di legno di tek. La deposero in silenzio sulla sabbia, davanti a Price. Senza fretta Price prese la chiave, aprì la cassa, ne sollevò il coperchio e rivelò così il suo contenuto: gialle sovrane tutte luccicanti. La cassa avrebbe potuto essere portata facilmente da due uomini, se fosse stata vuota: ma conteneva invece cinquemila sterline d'oro, che rappresentavano un altro anticipo fatto da Price. Price tenne aperto il coperchio e lasciò che gli arabi si pascessero con occhi avidi di quella vista. «Per ogni giorno vi pagheremo questo po' po' di soldi», disse Price, contando duecentocinquanta sterline e lasciando che Fouad le toccasse con una mano tremante. «Porteremo il tesoro con noi», aggiunse, «nel carro della morte, e vi pagheremo non appena saremo tornati al mare». Il vecchio sceicco si mise a mercanteggiare, chiedendo di essere pagato quotidianamente. Ma Price non cedette e quella notte, al momento di bere
il caffè, Fouad si arrese. «Wallah, effendi. Domani partiremo. Che Allah ci protegga!». Fu una processione curiosa quella che lasciò il luogo dello sbarco la mattina dopo, prima dell'alba. In testa c'era lo sceicco Fouad El Akmet sul suo magnifico hejin bianco, ovvero su un cammello da corsa. Era un uomo alto, Fouad, con la barba rada, il naso a becco, e negli occhi neri una scintilla di rapacità che non smentiva la sua pessima fama. I cammelli da soma venivano in lunga fila dietro di lui, carichi di casse contrassegnate ancora da scritte come «vanghe», «coltivatori», «attrezzi agricoli». Tra i cammelli cavalcavano gli arabi: uomini per lo più molto magri, con la pelle disidratata raggrinzita dal sole del deserto e con facce asciutte, scure e severe, dove campeggiavano labbra strette e occhi penetranti. Come Fouad, portavano bianchi kafiyeh, o copricapi, e nere e rozze abba, o tuniche di pelo di cammello. Gli uomini bianchi erano per lo più di dietro. Tutti, a parte Price e Jacob Garth, erano poco avvezzi ai cammelli, e montavano le loro ondeggianti cavalcature goffamente e tra continue lamentele. Per ultimo veniva il carro armato, col suo motore ruggente e la nuvoletta, dietro, dell'ossido di carbonio. I cammelli avevano paura del carro della morte, e gli arabi lo consideravano un'appendice molto ambigua della carovana. Avrebbe rafforzato la fedeltà piuttosto precaria di Fouad, pensava Price: specialmente considerato che trasportava l'oro. Si erano alzati prima dell'alba, avevano radunato gli svogliati cammelli e avevano consumato una frettolosa colazione: gli arabi con datteri e impasto di pane mezzo crudo, gli altri con bacon, caffè e gallette. Price si era posto quasi alla testa della lunga fila di cammelli da soma, che si snodava lungo le prime serie di dune. Si era messo il più lontano possibile dal mare, perché si sentiva già proiettato verso il grande ignoto, verso la Dimora Desolata e le terribili avventure che essa avrebbe fatto nascere. Tutto sapeva intensamente di vita: la fresca e frizzante brezza del primo mattino, la gloriosa alba scarlatta che stregava il deserto col suo mistero di porpora, il passo vigoroso e veloce della buona bestia che Price cavalcava, le grida degli uomini, e perfino il brontolio dei cammelli. Una carovana animata da uno strano spirito d'avventura! Davanti a sé, Price vide scorrere vaghe e piacevoli immagini. Vide la «terra dorata» del
manoscritto spagnolo e la perduta città di Anz, di là dalle montagne proibite. In lui disillusione e noia scomparvero d'incanto. Si sentiva giovane, libero, forte. Sentiva di non vivere più invano, e di dover compiere ancora splendide imprese. Ma quel breve élan scomparve quando il sole si fece più alto. La sconfinata distesa di colline giallo-rossastre a mezzaluna tremolava irreale nell'insopportabile calura. L'aria era soffocante, quasi irrespirabile, carica della polvere alcalina che si levava dal sentiero in opprimenti nugoli color zafferano. Price s'inzuppò di sudore; la polvere si appiccicò a esso. Ben presto finì per sentirsi sporco e infelice. Gli occhi gli bruciavano per la polvere e gli dolevano per l'intensità della luce accecante che, riversandosi dal sole e dal cielo ardente, veniva riflessa dalla sabbia e rendeva abbagliante il torrido orizzonte. L'aria secca gli bruciava la gola, ma Price non si concesse neanche un goccio dell'acqua della borraccia: Jacob Garth aveva detto che ci sarebbero voluti tre giorni per arrivare al primo pozzo. Il continuo strofinìo contro la sella era irritante. Il sole e la polvere alcalina scavarono crepe nelle labbra di Price, che cominciarono a sanguinare. Ma nonostante tutto, gli strani stimoli che egli sentiva dentro non scomparvero completamente. Price continuava ad avvertire la fiera gioia della conquista ogni volta che raggiungeva la cima di una nuova duna. Ormai sulla distesa ondulata di sabbia il mare stava scomparendo in lontananza, quando il vecchio Fouad, con una certa apprensione, indicò a Price un minuscolo oggetto bianco che brillava avanti a loro contro il giallo rossastro del deserto. Con riluttanza, il vecchio beduino diresse il cammello verso l'oggetto ignoto. A mano a mano che si avvicinavano, Price vide che si trattava di un candido teschio umano infilato su un lungo palo piantato profondamente nella sabbia. Più in là, alla distanza di circa un miglio, ce n'era un altro. «Chi l'ha messo qui?», chiese incuriosito Price allo sceicco. «E come faccio a saperlo?», disse Fouad, nervosamente. «Gli uomini dicono che i djin della terra maledetta lasciano qui le teste degli uomini che hanno attirato nelle loro trappole mortali. Forse questi teschi segnano la strada per Eblis». Price si avvicinò al palo. Il suo cammello si ritrasse davanti allo strano oggetto; Price allora smontò e vi si avvicinò a piedi. Il palo, che aveva un
diametro di sette-otto centimetri, era di un legno molto duro, marrone rossiccio. Il teschio si trovava a tre metri sopra la testa di Price, ma lui riuscì lo stesso a vedere che vi erano ancora attaccati frammenti di capigliatura e di cartilagine. Gli arabi proseguirono, e Price aspettò Jacob Garth. «Lei cosa sa di questi teschi?», gli chiese. «Ce n'è una fila ininterrotta che parte da qui e va fino al passo del Jebel Harb, dove trovai le ossa dello spagnolo. Probabilmente la fila prosegue fino ad Anz... Io non riuscii a valicare le montagne. I teschi devono essere rimasti qui per quattrocento anni, perché Quadra y Vargas ne parla nel suo manoscritto». «Questo teschio qui non ha certo quattrocento anni!», obiettò Price. «Lo guardi!». «È evidente che no. Dev'essere stato sostituito di recente». «Ma chi potrebbe averlo sostituito?». «Credo di averle già detto che penso che il popolo della terra nascosta sappia più cose del mondo esterno di quante il mondo esterno non ne sappia su di esso. Immagino che gli abitanti della terra misteriosa abbiano voluto segnare la strada che porta al mare». «Ma perché usare come pietre miliari dei teschi umani?». «Forse perché durano, sono facili a vedersi, e... economici». Quel giorno Price dovette fare varie puntate verso la retroguardia, per parlare con gli uomini. Ben pochi di loro avevano familiarità coi cammelli. Diffidavano di quelle bestie sconosciute, ed erano pieni di lividi a causa del sobbalzare continuo delle selle. Si lamentavano per la sete e per il caldo, e per la luce accecante del cielo incandescente. Nel momento di maggior calura della giornata la carovana si fermò e fece riposare i cammelli sulla sabbia rovente. Verso sera si riprese il cammino, finché non fu troppo buio per distinguere i teschi che facevano da guida. Il giorno dopo fu fatta la stessa cosa, e così pure il giorno successivo. La mattina del quarto giorno arrivarono a una stretta pianura ghiaiosa, un'estensione scura in mezzo alle dune di sabbia rossa. Là trovarono un pozzo: un pozzo quadrato e scoperto, da cui presero l'acqua con secchi di cuoio e funi di pelo di cammello. L'acqua, destinata sia agli uomini sia alle bestie, era fangosa, amara, salmastra, quasi imbevibile. Era ormai pomeriggio tardo quando si furono abbeverati gli ultimi cammelli e furono riempite le ultime ghirbe. Poi la carovana, seguita dal rumo-
roso carro armato, riprese il cammino, inoltrandosi in un'altra fascia di sabbia rossa. Per altre due notti si accamparono tra le dune. La mattina del sesto giorno s'imbatterono di nuovo in un'aspra zona sassosa che portava a una catena seghettata di aride e sinistre montagne. «Il Jebel Harb», disse Jacob Garth a Price, «dove io non sono più riuscito ad andare avanti. Senz'altro prima di poterlo valicare avremo dei guai... E non so quali guai ci attendano dopo...». Nell'aria trasparente del deserto le montagne apparivano vicinissime. Rocce a strapiombo di granito nero, scanalate in modo da formare gole frastagliate e ostili protuberanze, orribilmente coronate da strati di arenaria rossa, e con pinnacoli di calcare bianco simili a sinistre escrescenze lebbrose. Pareva un muro di morte dalla struttura basaltica. Vette e cime, nude e contorte, erano silenziose e minacciose come ossa scarnificate. I canyon tra le pareti a strapiombo non rivelavano la presenza di vegetazione. La scura catena, ininterrotta, incombeva sull'orizzonte, sinistra barriera destinata a segnare il confine della terra maledetta. Il deserto inganna. La barriera era parsa vicinissima, ma quando fu quasi il tramonto, il giorno seguente, la carovana stava ancora attraversando l'arida zona ghiaiosa dove non crescevano nemmeno le solite acacie e tamerici nane. Fouad era chiaramente sul chi vive. Abbandonando il suo solito posto in testa alla carovana, cavalcò verso la retroguardia e raggiunse Price e Jacob Garth. Privati del loro capo, i suoi uomini si fermarono e contemplarono con manifesta paura la fosca parete di granito che si profilava all'orizzonte. «Sidi», disse lo sceicco, di nuovo stranamente rispettoso, nonostante la preoccupazione. «Allah proibisce di andare oltre! Davanti a noi ci sono le montagne della terra maledetta, che Allah ha consegnato alle forze del male. Di là da esse stanno in agguato i djin, che aspettano di mettere le nostre teste sopra i pali». «Sciocchezze», disse Price. «Non le abbiamo fatto vedere le armi farengi?». Fouad borbottò qualcosa, poi chiese astutamente che gli venisse pagata la settimana trascorsa. I soldi, disse, sarebbero serviti a infondere coraggio nei suoi pavidi uomini. «I soldi li incoraggerebbero soltanto a disertare», gli disse Price, deciso. «Li riceverete solo quando saremo tornati al mare!». «Tra le montagne c'è l'acqua», tuonò Garth. «Lei sa che dobbiamo asso-
lutamente provvederci d'acqua». «Bisshai», ammise Fouad. «Le ghirbe sono vuote e i cammelli hanno sete. Ma nonostante ciò...». «Proseguiamo», lo interruppe Price. E il vecchio beduino, brontolando, finalmente tornò in testa alla colonna. Entro il tramonto avevano coperto metà della distanza che li separava dal passo, viaggiando in mezzo a crepacci e massi torreggianti di granito nero, venati in cima di rosso scuro e di bianco sporco. Fu al tramonto che videro il primo fenomeno strano, che annunciava l'imminente conflitto coi misteriosi poteri della terra sconosciuta. 4 La tigre nel cielo Price aveva spronato il suo stanco cammello e aveva raggiunto di nuovo l'inizio della fila: voleva cavalcare accanto al vecchio Fouad, per fargli coraggio. Jacob Garth era in fondo alla carovana, tra gli uomini bianchi. Come al solito, i cammelli erano in fila indiana: c'era più di un miglio tra le prime posizioni e le ultime, dove si trovava il carro armato, che avanzava rumoreggiando e sobbalzando sul terreno sassoso. Qualche miglio avanti alla carovana, le colossali rocce a strapiombo di granito nero svettavano verso l'alto incoronate da pinnacoli rosso-biancastri di arenaria e calcare, e il passo da valicare era sorvegliato da due rupi gemelle dall'apparenza assai fosca. «Ya Allah!», urlò d'un tratto, terrorizzato, il vecchio bandito arabo. «Abbi pietà!». Alzò da sotto il nero abba un braccio ossuto e tremante, e puntò il dito contro il passo. Price alzò gli occhi e vide una cosa strana in cielo, oltre il valico, sopra le scure, ripide rocce arrossate dal tramonto. Sottili raggi di luce si levavano verso l'alto formando una specie di ampio ventaglio che si stagliava contro il cielo azzurro viola, a est. Erano pallidi, delicati raggi color rosa e zafferano, che parevano sprigionarsi da un unico punto nascosto sotto la catena di montagne nere. Price rimase sbalordito: c'era qualcosa di stranamente artificiale, in quella luminosità. Reprimendo un attimo di panico, si girò verso il tremante Fouad, che era diventato pallido quanto la pigmentazione della sua pelle gli permetteva.
«Cos'è?», chiese. «I malvagi djin della terra maledetta si levano da dietro i morti!». «Sciocchezze! Sono solo i raggi del sole che brillano vicino a una nube e paiono convergere in lontananza. Un fenomeno naturale...». Price scrutò in fretta il cielo per trovare una nube che suffragasse la sua teoria, ma vide che il cielo color indaco era, come sempre, perfettamente terso. Esitò, poi riprese il discorso. «Si tratta forse di un miraggio. Ne vediamo sempre di miraggi, la mattina e la sera. A volte sono strani. Una volta, nel deserto di Sind, a centinaia di miglia dal mare, vidi un piroscafo. Un piroscafo con fumaioli, fumo e tutto quanto. Vidi perfino le sue gru. Si tratta semplicemente della rifrazione della luce negli strati atmosferici...». «Bismillah wa Allahu akbar!», gemette il vecchio sceicco, troppo angosciato per stare ad ascoltare. Price vide allora che sopra il ventaglio di raggi colorati stava prendendo forma un'immagine, quasi che fosse stata proiettata in cielo da una colossale lanterna magica. Eppure sembrava stranamente reale e stereoscopica. Era davvero assurda. Price sapeva che doveva essere per forza un miraggio, un capriccio della fantasia, un'illusione. Non poteva non essere un'allucinazione, una semplice proiezione delle paure degli arabi. Eppure, egli sentiva che non era così, sentiva che era, in qualche modo strano, un riflesso dell'esistenza reale. «La tigre della terra maledetta!», stava gridando Fouad. «La donna gialla del miraggio, la donna la cui bellezza fatale attira gli uomini nel deserto, per farli morire. E il dio dorato, il re dei malvagi djin!». Di colpo il vecchio beduino sferzò il cammello, lo incitò con grida e, girandosi terrorizzato, si diede alla fuga. Smettendo di guardare l'immagine nel cielo, Price tirò fuori l'automatica e gridò al vecchio arabo, in tono minaccioso: «Si fermi! Non può scappare! Io la posso uccidere molto più in fretta di tutti gli 'ifrit dell'Arabia!». Fouad farfugliò qualcosa e imprecò, ma fermò il suo bianco cammello. Con gli occhi neri pieni di paura si voltò indietro a guardare il passo. Nel cielo, sopra i raggi a ventaglio color rosa e topazio, era apparsa una tigre. Era grande quanto una nuvola, e incredibilmente viva e reale. Forte, flessuosa, incredibilmente ingrandita, la bestia si librava sopra le vette frastagliate. Il suo pelo, nei fianchi, presentava strisce brillanti e dorate, dalle sfumature rossastre. Le zampe, grosse e massicce, mostravano in rilievo i
muscoli possenti. La tigre guardava dal cielo verso il basso, coi suoi terribili occhi giallastri stretti a fessura. Legata al dorso di quella bestia fantastica c'era una strana sella simile a una scatola, che ricordava le howdah che si mettono sul dorso degli elefanti. Su di essa c'erano due persone. Una era un uomo dalla barba dorata e dalla pelle gialla, che indossava vesti rosse e portava uno zucchetto cremisi. Aveva un volto fosco e crudele, contrassegnato da un che di sinistro. In equilibrio sulle sue ginocchia c'era una grande mazza ferrata di metallo giallo. L'altra persona era una donna vestita di verde, sdraiata in atteggiamento di disinvolta voluttuosità. Anche lei aveva la pelle gialla: i capelli, che portava lunghi e sciolti, erano rosso-dorati. Il corpo della donna era snello, aggraziato, flessuoso; il viso era bello, ma infido. Gli occhi, leggermente a mandorla, erano verdi con sfumature di giallo, stranamente simili a quelli della tigre. Le palpebre erano scure, come truccate con polvere d'antimonio. Le labbra erano cremisi, le guance dorate imbellettate, le sottili unghie delle mani tinte di henné. La bellezza della donna era esotica e tenebrosa. Fouad, quatto quatto, si mosse, e Price tornò subito a guardare nella sua direzione. Vide che l'intera carovana si era fermata. Perfino il frastuono del carro armato era cessato. Price avvertì la corrente di paura che serpeggiava per tutta la fila: trasmettendosi da uomo a uomo, minacciava di poter degenerare da un momento all'altro in un accesso di panico. Il vecchio sceicco stava cercando di squagliarsela col suo cammello. «Fermo!», lo ammonì Price. «Fermo, o sparo!». Era sicuro che il pericolo non fosse imminente, e sapeva che gli arabi non avrebbero mai disertato senza il loro capo. Tornò a guardare in cielo l'immagine silenziosa e terribile nella sua grandezza: era una visione così inusitatamente strana, che non poteva non incutere terrore. L'uomo dorato scrutò la carovana coi suoi occhi astuti e maligni. La donna invece sorrise a Price. Non era un sorriso buono. Era un sorriso misterioso, enigmatico, sfottente. Il senso di sfida che esprimeva suscitò in Price una vaga e indicibile rabbia: nello stesso tempo, però, quella bellezza esotica era riuscita in qualche modo a risvegliare in lui deboli moti di desiderio. Quell'aureo viso ovale era bello, seducente, e tuttavia sottilmente infido. Quegli occhi verde chiaro suggerivano passioni cocenti, desideri brucianti, ma anche odi fulminanti e capricci non tenuti a bada né dalla paura, né dal-
la legge. Erano occhi sapienti, ma che facevano pensare ad antiche conoscenze non integralmente votate al bene. Sì, erano occhi sfrontati, dietro ai quali sembrava celarsi un potere illimitato esercitato senza nessun freno. E guardavano Price per studiarlo con una punta di sarcasmo... L'uomo dalla barba gialla si mosse. Con entrambe le mani sollevò la mazza ferrata d'oro e la agitò sopra il passo, in un minaccioso gesto di chiara ostilità. Il suo viso duro esprimeva minaccia... e odio. La donna continuò a sorridere a Price, a sfidarlo coi suoi occhi verdi: poi fece scorrere le dita magre tinte di henne tra i capelli rosso oro. «Guardate, Howeja!», sibilò Fouad. «C'ingiunge di tornare indietro!». Price non rispose. Continuò a guardare in su, e fissò gli occhi enigmatici della donna, rispondendo con lo sguardo alla sfida. Fissò quegli occhi con durezza, poi, di colpo, con evidente meraviglia del vecchio arabo, si mise a ridere: una lunga risata rauca e canzonatoria, rivolta alla donna. Quindi distolse lo sguardo. «Una moderna Lilith, eh?», borbottò. «Bene, siamo in ballo. Balliamo». Lentamente com'era apparsa, l'immagine scomparve, dissolvendosi nel cielo color ametista, che s'iscuriva sempre più. Il ventaglio di raggi sottili svanì dietro il valico. Le nere rocce del Jebel Harb tornarono a incombere ostili sull'orizzonte. Price, seduto a cavallo del cammello, continuò a tenere l'automatica puntata su Fouad el Akmet, e rifletté sull'accaduto. Gli strani esseri della terra maledetta non erano dunque solo leggendari. Oltre le montagne abitavano delle persone, persone dalla pelle color oro. Persone la cui pelle non era giallo olivastra come quella dei mongoli, ma proprio dorata; persone che avevano addomesticato le tigri e che dovevano essere in possesso di misteriose nozioni scientifiche. Price era certo che l'apparizione era stata una sorta di miraggio. Ricordò la fata morgana, che aveva visto una volta nello Stretto di Messina, e ricordò i racconti che aveva sentito sul misterioso fenomeno dovuto alla luce che si verificava nelle montagne della Germania. Il fenomeno, chiamato lo Spettro dei Brocken, consisteva in ombre colossali proiettate sulle nubi. Che quella razza sperduta di gente dorata si fosse impadronita dei segreti del miraggio? Che fosse in grado di gestire l'illusione? Se già ora la carovana si era imbattuta in cose strane, cosa mai avrebbe incontrato di là dalle montagne? 5
Il segno del serpente «Tenete conto anche di questo», disse Price. «Se uno qualsiasi di voi torna indietro, lo inseguiremo col carro della morte, e lasceremo il suo teschio a far da nido agli scorpioni». Fouad el Akmet brontolò e si tormentò la barba rada con le dita. La sera prima gli arabi si erano rifiutati di proseguire oltre, avevano persino protestato per la decisione di accamparsi sul luogo del miraggio. Adesso, ovvero la mattina seguente, il vecchio sceicco stava inutilmente opponendosi all'idea di proseguire il cammino. «Sidi, lei sa che l'apparizione era un ammonimento. Forse facciamo ancora in tempo a salvarci dal re dorato dei djin...». «Sì, se proseguiamo e lo sconfiggiamo!». «Nel valico c'è l'acqua», disse Garth. «Una bella sorgente di acqua chiara. E lei sa che sono passati molti giorni da quando abbiamo riempito le ghirbe con l'acqua amara dell'ultimo pozzo. Ben pochi di voi riuscirebbe a sopravvivere tanto da riuscire a tornare a quel pozzo». Fouad era chiaramente indeciso. «Si ricordi del carro della morte», lo incalzò Price. «E dell'oro che è già il vostro, se restate». «Wallah!», gridò alla fine il beduino, benché con ben poco entusiasmo. «Valichiamo questo passo». Le rocce imponenti del Jebel Harb si stagliavano aspre contro un pallido bagliore perlaceo a est, e la carovana cominciò ad arrancare stancamente su per le colline pedemontane, che apparivano rosso scure, nella luce dell'alba. La lunga fila di cammelli imboccò il valico, sorvegliata ai lati da altissime mura ciclopiche di granito. Lo squarcio di cielo davanti alla carovana diventò ben presto una fosca cortina color rosso fiamma, e il deserto si accese di sfumature pastello di zafferano e lavanda. Price cavalcava in testa, accanto a Fouad, per tenere viva la debole scintilla di coraggio del vecchio. Garth era di dietro, con gli uomini: il carro armato, come sempre, veniva per ultimo. La parte più bassa del passo era una gola titanica, uno squarcio gigantesco nella roccia viva. Le sue pareti a strapiombo, quasi parallele tra loro, sembravano serrarsi sopra il pavimento disseminato di ciottoli. Mentre Price e il vecchio arabo procedevano con grande cautela in su, cercando una pista adatta alle zampe delicate dei cammelli, il sole si levò sempre più
alto, incendiando le vette delle montagne. Ma il canyon, sotto, rimase avvolto nell'ombra. Esaminando le pareti sempre più strette davanti a sé, Price vide un bagliore alla base di una colonna di arenaria, un miglio più in là, nella gola. Istintivamente spronò il cammello, e si riparò dietro un gigantesco masso di granito franato. «Il passo è difeso!», gridò a Fouad. «Ho visto il lampeggiare di una lama, davanti a noi. È meglio che ordini ai suoi uomini di correre al riparo». Il vecchio arabo emise un gemito. Price lo guardò e si accorse che, reso immobile dal terrore, stava fissando l'uomo che cavalcava subito dietro di lui. L'uomo era l'arabo Mustafa, un giovane guerriero che montava una cammella nera del cui portamento e della cui resistenza andava oltremodo orgoglioso. Al riparo del masso caduto, Price vide Mustafa congelarsi all'improvviso in una strana immobilità. Il giovane arabo e la sua cammella diventarono come di marmo. La cammella rimase bloccata nell'atto di avanzare, con la zampa anteriore sollevata. L'uomo era proteso in avanti, con una mano alzata a schermarsi dal sole e un'espressione di muto stupore sul viso. Il suo abba nero e il suo bianco kafiyeh erano diventati rigidi come metallo. «Ya, Mustafa!», urlò terrorizzato il vecchio Fouad. La figura immobile cambiò rapidamente e misteriosamente. Sia sull'uomo sia sul cammello si disegnò un ricamo di fili bianchi e scintillanti. Dopo pochi secondi, si formò una spessa pellicola ghiacciata. L'uomo sul cammello era diventato una bianca statua di ghiaccio scintillante. Fissando sbalordito e incredulo la scena, Price sentì provenire dall'arabo a cavallo sinistri scricchiolii. E fu investito da un soffio di aria fredda, quasi polare, che gli gelò il sudore sulla fronte. Allora capì! Non capì, naturalmente, la meccanica della cosa. Ma capì che Mustafa era stato assiderato a morte! Qualche strana forza aveva fatto sì che la temperatura del suo corpo si abbassasse di colpo fino a un punto parecchio al di sotto dello zero. Era così freddo, che il ghiaccio si formava dall'aria stessa. Per un attimo Price rimase quasi stordito, davanti a quella scoperta, e a tutti i pericoli che annunciava. Poi, però, abituato com'era a reagire prontamente alle situazioni inaspettate, scattò automaticamente. «Presto!», gridò agli uomini dietro. «Riparatevi vicino alla roccia, in modo da non essere visti!». E indicò con un gesto il luogo adatto.
Una ventina di beduini e alcuni bianchi si erano trovati abbastanza vicini a Mustafa da vedere tutto. Quando le parole di Price ruppero l'immobilità provocata dal terrore, tutti quanti si girarono dalla parte opposta e si diedero alla fuga, spronando gli stanchi cammelli. Inutilmente Price gridò loro di fermarsi: ormai erano già scomparsi oltre il canyon. Price smontò in fretta dal cammello, si spinse fino all'orlo del masso che gli faceva da riparo e con cautela scrutò la gola davanti a sé. Non vide niente che si muovesse: tra le pareti minacciose incombeva un silenzio sinistro. Studiò la base del monolite di arenaria dove aveva visto il lampo traditore che gli aveva impedito di fare la fine di Mustafa, e fece in fretta una stima del raggio d'azione dell'arma. Poi tornò subito indietro e trovò l'intera carovana radunata confusamente intorno al carro armato. A quella altezza Jacob Garth era riuscito a bloccare gli arabi in fuga. Come lo videro, gli uomini smisero di fare brusio. «Congelamento fino a un grado imprecisato sotto zero», spiegò Price concisamente. «L'uomo è rimasto assiderato sull'istante. La pellicola bianca è ghiaccio. Ho visto nel canyon il lampo dell'arma segreta che ha provocato il fenomeno». Jacob Garth, col suo faccione grasso e i suoi occhi freddi e incavati non manifestò né meraviglia, né paura. «Ci hanno visto, ieri sera», tuonò. «In quel... miraggio. Sono pronti... come già lo furono in passato». «Bene, adesso gli faremo vedere che le nostre armi valgono i quattrini spesi», disse Price. Si rivolse agli uomini e si mise a urlare bruscamente ordini. «Müller, raccogli i tuoi e prepara i Krupp. Puntali contro la base di quella roccia di arenaria». La indicò. «La portata è di circa quattromila metri». «Sì, signore!». Il piccolo teutone, che era stato capitano di artiglieria nell'esercito austriaco, fece in fretta il saluto militare e corse ai cammelli da soma che portavano i cannoni da montagna. Price diede quindi ordine di disimballare le mitragliatrici e di montarle alle spalle dei cannoni. Fece distribuire fucili e pistole, e dispose nei punti strategici dei tiratori scelti, perché sparassero a qualunque nemico misterioso si fosse mostrato allo scoperto. Quando le armi furono disimballate, spedì i cammelli verso la retroguardia, con i mandriani arabi. I cammelli andavano custoditi a tutti i costi, perché la loro perdita avrebbe significato inevitabilmente la fine. Jacob Garth guardò in silenzio Price gridare i suoi ordini: la sua faccia
pallida non esprimeva né approvazione, né disapprovazione. «Tenga d'occhio Fouad», gli disse Price, a bassa voce. «Se ci abbandona e si porta dietro i cammelli, siamo rovinati. Io salirò sul carro armato, da dove potrò vedere i risultati della sparatoria e segnalare le correzioni». Quando i piccoli cannoni da montagna spararono i primi colpi, Price diede le direttive finali, poi saltò sulla torretta del carro armato e si calò giù attraverso la botola, raggiungendo il posto dell'artigliere. Parlò in fretta con Sam Sorrows, l'ex agricoltore del Kansas che stava al posto di guida, e subito il veicolo cominciò ad avanzare ruggendo. Avanzò con gran fracasso su per la gola, passando accanto agli arabi che stavano con aria spaventata tutti raggruppati. Ancora in sella ai cammelli, erano tenuti d'occhio da Jacob Garth. Il carro oltrepassò i cannoni da montagna e le mitragliatrici e i tiratori scelti che li difendevano da eventuali attacchi. All'altezza del masso caduto, vicino a Mustafa e al suo cammello bloccati in una statuaria rigidità, Price uscì dal carro armato e si spinse ancora una volta avanti, per esplorare la gola. Non c'era ombra di nemici. Guardò le raffiche che sollevavano polvere gialla alla base della colonna di arenaria, e gridò le correzioni necessarie a Sam Sorrows, che le segnalò indietro agli uomini dell'artiglieria. Fischiarono le granate, ma il nemico continuò a rimanere nascosto. Price tornò dentro al carro armato. «Segnala loro di smettere di sparare», disse. «Probabilmente non facciamo che sciupare le munizioni. Noi invece proseguiamo, almeno finché c'è visibilità. Hai niente in contrario?». «È lei il capitano», sorrise Sorrows. «Sarà rischioso. Non so cosa troveremo. I nostri cannoni forse hanno messo in fuga il nemico, che adesso magari starà aspettando il momento buono. La cosa che ha colpito Mustafa...». Sam Sorrows era tranquillo al posto di guida. «I rischi fanno parte del mio mestiere. Se li temessi, sarei tornato nel Kansas», disse. «Andiamo!». Price sorrise. Quello era un uomo! Lui stesso non aveva mai cercato di evitare il più possibile i pericoli: aveva una fede fatalistica nella fortuna dei Durand. La sua filosofia era semplice: giocare la partita, e lasciare che a distribuire le carte fosse il fato, il kismet, come lo chiamavano gli arabi. E gli faceva piacere trovare un altro della sua stessa spericolata tempra. Traballando con clangore metallico, con i cingoli che emettevano secchi
suoni colpendo la nuda roccia, il carro armato avanzò tra le pareti di granito sempre più strette, diretto alla colonna di arenaria. E Price si sentì stringere in una morsa di paura: le granate non erano arrivate a colpire l'obiettivo! Le buche scavate dall'artiglieria distavano ancora buoni cento metri da un fantastico congegno di metallo luccicante, forse ottone, e di cristallo trasparente, ricoperto da un enorme specchio elissoidale che splendeva d'argenteo fulgore. Dietro la macchina c'era un unico uomo, vestito di azzurro. Quel misterioso congegno era, capì Price, quello che aveva ucciso Mustafa. Il carro armato leggero sarebbe stato in grado di resistere al freddo terribile che aveva fatto assiderare in un attimo il giovane arabo? Price pensava di no. Si sentì intorpidire dalla paura, la paura più tremenda che avesse mai provato. Un brivido freddo gli passò per la spina dorsale. Un sudore gelido gl'incorniciò la faccia. Teso ma deciso, Price si concentrò sulla mitragliatrice. Il rumore della sua raffica coprì il ruggito del motore. Ma, sballottato di qua e di là dentro il carro che procedeva a sobbalzi, Price non riuscì a mirare. Vari frammenti di roccia danzarono intorno alla strana macchina scintillante, ma l'uomo vestito di azzurro dietro di essa sembrava invulnerabile. D'un tratto sullo specchio elissoidale brillò una luce viola. E l'aria nel carro armato si fece spaventosamente fredda. Price si sentì mancare il respiro e quando riuscì a espirare, emise involontariamente un gemito di terrore. Con le mani intorpidite, continuò a sparare. Alla fine una raffica di proiettili s'abbatté sul misterioso congegno. La macchina fu avvolta da un vivido bagliore purpureo, un'esplosione di fuoco e fiamme dopo la quale non rimase che un ammasso contorto di metallo e cristallo rotto. Scagliato indietro dallo spostamento d'aria, l'uomo in azzurro cadde e giacque immobile. Price e Sorrows scesero dal carro armato e si avvicinarono al nemico che, nonostante fosse bruciacchiato dall'esplosione e crivellato dai proiettili, era ancora vivo. Aveva il vestito tutto insanguinato. Guardò Price con un furioso ghigno di odio. Alto, aveva fattezze di tipo arabo: naso a becco, labbra sottili dalla piega crudele. Avrebbe potuto benissimo essere un beduino. Price si curvò su di lui. L'uomo lo fissò con gli occhi neri appannati dal-
l'odio e sussurrò, in uno strano dialetto arabo dall'inflessione sconosciuta: «Io muoio. Ma su di voi, intrusi, cadrà la maledizione del popolo d'oro. Per Vekyra, e per la tigre e per il serpente, e per Malikar, il padrone... Voi mi seguirete!». Sputò sangue, e morì con un'indicibile espressione di orrore negli occhi. Solo quando i suoi ultimi spasimi di morte furono cessati Price si accorse del segno del serpente: l'uomo aveva sulla fronte un marchio che era rimasto nascosto fino allora dal cappuccio dell'abito tipo burnus. Stampata in oro su quella pelle scura c'era l'immagine di un serpente raggomitolato. Sembrava impressa a fuoco nella carne, in modo indelebile. Price studiò il marchio con uno stupore stranamente confinante con l'orrore. Cosa significava ciò? Quell'uomo era stato forse, in vita, un membro marchiato a fuoco di qualche fosco culto del serpente? «Proseguiamo attraverso il passo», propose d'un tratto Sam Sorrows. «Buona idea. Forse ci sono altri nemici in agguato». Risalirono sul carro armato, che adesso brillava argenteo per via della lieve pellicola di gelo che la macchina infernale aveva fatto in tempo a creare. La gola si strinse ulteriormente, poi si allargò, ed essi passarono con gran fracasso attraverso un altipiano di arenaria. E finalmente guardarono di là dalla catena di montagne. Price si era mezzo aspettato di vedere un'oasi fertile e abitata, ma l'interminabile pianura che si estendeva oltre il Jebel Harb, e che brillava nella caligine dell'insopportabile calura, era completamente desolata e arida. Lunghe, tetre dune di sabbia rossa, simili a mari immobili e privi di vista. Scure estensioni di pietrisco. Orride strisce di argilla giallastra. Saline che brillavano di un bianco da lebbra. Colline basse, consumate dai secoli, di livido calcare e di nero basalto, tristi scheletri spolpati di antiche catene di montagne. La terra maledetta, davvero! Tutti i suoi scuri orizzonti non presentavano traccia di vita. Non c'era niente che si muovesse in essa, altro che l'incessante, muto tremolio dell'aria torrida, che faceva pensare a onde di un mare di spettri. O, quando soffiava il vento, la stessa antica sabbia rossa, che spostandosi sussurrava i segreti di un antichissimo passato. In mezzo a quelle distese desolate portava il sentiero dei teschi. Col binocolo, Price distinse il candido bagliore di quelle orrende pietre miliari, che si allungavano per molte miglia tra la morta solitudine della terra proibita. Cos'avrebbero trovato alla fine di quella strada? Se, naturalmente, fosse-
ro vissuti abbastanza a lungo da raggiungerne la fine! C'erano i pericoli di una scienza sconosciuta... la macchina infernale posta sul valico era la prova che una simile scienza esisteva. I pericoli che già aveva fatto presagire l'uomo dorato, quando aveva brandito minacciosamente la sua mazza ferrata, nel miraggio. E i pericoli di cui Price aveva avuto sentore guardando i verdi occhi beffardi della donna dorata. Jacob Garth, da solo e a piedi, viene incontro al carro armato che tornava indietro per la gola. Ancor prima che parlasse, Price si sentì prendere dall'inquietudine. Garth aveva come sempre quel suo sguardo impenetrabile; fu con voce priva di toni di angoscia o di senso di colpa che disse: «Durand, Fouad è scappato». Con la gola improvvisamente secca, Price riuscì a malapena a sussurrare: «E i cammelli?». «Scomparsi. Siamo nei guai. Come l'antico spagnolo». Price sentì una rabbia impotente sostituirsi alla disperazione. «Le avevo detto di sorvegliarli! Come...». «Stavamo guardando il carro armato. Quando si è coperto di una pellicola bianca e si è fermato, gli arabi hanno fatto dietro-front e sono scappati prima che riuscissimo a fermarli. Hanno portato con loro anche i cammelli da soma. Siamo appiedati». Price aveva sulla punta della lingua una serie di pesanti insulti, ma si trattenne. Dirli non sarebbe servito a niente. Nulla, ormai, poteva più servire a niente. L'unica prospettiva adesso era quella di una battaglia disperata: una battaglia non già con l'uomo, ma col più crudele dei deserti. 6 Il dromedario bianco Da sei giorni si erano lasciati alle spalle il massiccio di granito nero del Jebel Harb. L'ordine di marcia era ancora lo stesso: il vecchio sceicco Fouad el Akmet in testa alla carovana sul suo hejin, lungo il sentiero dei teschi; dietro, l'interminabile fila degli stanchi cammelli con in groppa i banditi beduini, poi i bianchi della «legione segreta», col moderno corredo di guerra, e infine il ruggente e rombante carro armato. Erano rimasti due giorni presso la sorgente d'acqua delle montagne; gli uomini bianchi, durante la prima, dura notte, completamente soli e inermi, senza più cavalcature. Ma all'alba gli arabi fuggitivi, ripresisi dal panico, erano tornati indietro e avevano spiato con cautela i risultati della battaglia.
Le loro condizioni erano disperate quasi quanto quelle dei bianchi, perché sia i cammelli, sia gli uomini soffrivano la sete e naturalmente non erano in grado di ripercorrere la distanza che li separava dall'ultimo pozzo alcalino. Essendosi convinto, pur con grande stupore, che i bianchi avevano avuto ragione dei malvagi djin della terra maledetta, il vecchio Fouad era stato lieto di riaggregarsi alla spedizione. Già due volte da quando avevano lasciato la catena montuosa, la pista dei teschi li aveva condotti a pozzi d'acqua amara e salmastra. Ma in quel regno della morte non s'era ancora visto alcun essere vivente. Le agili gazzelle, le iene e gli avidi sciacalli, i rari struzzi che si trovavano ai confini del deserto ora non si vedevano più. In quella terra arida non c'erano nemmeno le tamerici, le acacie, e l'erba appassita che mangiavano i cammelli. Gli onnipresenti insetti del deserto, formiche, ragni, scorpioni, erano rari. I rakham, gli avvoltoi dalle ali nere che per un certo tempo avevano seguito minacciosi la carovana dopo che essa aveva lasciato le montagne, erano scomparsi da un pezzo. Era pomeriggio tardo, e la lunga carovana stava attraversando una delle strisce di sabbia rossa sempre più frequenti, per entrare nella zona scelta per l'accampamento, quando Price vide un dromedario bianco. Era un magnifico animale candido, che somigliava ai cammelli Unamiya che gli El Murra allevavano ai confini del Rub' Al Khali: si stagliava sopra una desolata duna rossa, a due miglia dal sentiero. Il suo cavaliere, una figura esile vestita di bianco, sembrava stesse guardando la carovana. Price cercò in fretta, tastoni, il binocolo, ma era riuscito a malapena a mettere a fuoco che lo sconosciuto cavaliere scomparve in silenzio dietro la duna. Al momento Price, in quanto capo della spedizione, era impegnato a parlare con lo sceicco per dirimere una difficoltà sorta in seguito alle tendenze ladresche degli arabi e ai nervi logori dei bianchi. Mawson, un piccolo mitragliere londinese, aveva preso a pugni l'arabo Hamed, accusandolo di avergli portato via dalle tasche durante il sonno, un orologio d'oro e altri gingilli. Hamed, che era inequivocabilmente in possesso degli oggetti in questione, giurava di averli trovati in terra quella mattina dopo che era stato tolto l'accampamento, e a suffragare la sua tesi chiamava in causa testimoni spergiuri. Un grattacapo d'ordinaria amministrazione, ma che richiedeva l'esercizio della diplomazia, se si voleva mantenere l'ordine e la disciplina all'interno della spedizione. Erano già state montate le tende sopra una zona piana e
argillosa contornata di sabbia, quando finalmente la faccenda fu risolta con la restituzione a Mawson dei suoi preziosi e un'ammonizione a Hamed. Solo allora Jacob Garth informò Price che aveva mandato tre arabi all'inseguimento del cavaliere solitario sul dromedario bianco. «Non volevo che si sapesse in anticipo del nostro arrivo», disse Garth. «Ho detto agli uomini che si dividessero il bottino». I tre beduini erano già tornati col dromedario bianco, che era un animale d'inestimabile valore, e col suo cavaliere. Il prigioniero era una donna. «È piuttosto bella», aggiunse Garth. «Non biasimo de Castro per averla voluta per sé». «Come si sono comportati con lei?», chiese Price. «I tre hanno diviso il bottino in tre parti, e se lo sono assegnate tirando a sorte. Kanja ha vinto la ragazza. Si è sentito un po' truffato, perché Nur ha avuto il dromedario, che ha ben più valore. Ad Ali sono toccati i vestiti e gli accessori: l'abito, la sella e un lungo coltello d'oro, una specie di jambiyah diritto. «Kanja non era particolarmente soddisfatto della sua parte di bottino. Ma, mentre i tre si dividevano il tutto, de Castro ha visto la donna. Pare che ne sia rimasto colpito: ha offerto a Kanja il suo binocolo in cambio di lei. Deve averlo proprio colpito molto, quella donna. Lei sa quanto gli fosse caro quel binocolo...». «E adesso lei dov'è?». «Joao l'ha legata e la tiene nella sua tenda». «Ma senti un po'!», gridò Price. «Non possiamo tollerare una cosa del genere!». Price per natura provava simpatia umana per i derelitti, per tutti quelli che venivano maltrattati o imbrogliati o vessati solo perché incappavano in qualcuno più forte di loro. Quello che Jacob Garth gli aveva detto a proposito della ragazza venduta e legata gli aveva suscitato una rabbia cieca. E poiché Price Durand era soprattutto un uomo d'azione, quella rabbia era destinata a esprimersi fisicamente. «Qui», disse tranquillo Garth, «siamo molto lontani dalle leggi dell'uomo bianco». I suoi occhi chiari, il suo faccione bianco e pacifico, non esprimevano alcuna emozione. «Ma siamo pur sempre uomini bianchi!», esclamò Price, con foga. Poi, vedendo che l'altro era del tutto indifferente, cercò di trovare argomenti validi. «Anche lasciando da parte l'onore e il decoro», disse, «non è saggio trattare così il primo cittadino di queste contrade che abbiamo incontrato».
«Non può essere un cittadino molto importante», obiettò Garth, «sennò non si sarebbe trovata li da sola, mezza morta di sete». «In ogni modo, se la trattassimo equamente, potrebbe forse darci delle informazioni preziose». «Ce le darà», disse tranquillo Garth. «In questo momento è tutta infuriata e non vuole parlare. Ma Joao de Castro è un artista, quando si tratta di far sciogliere lingue riluttanti». «Non vorrà mica dire che è capace di torturare una donna?!». «Lei non lo conosce». «Vado a vedere la prigioniera», disse deciso Price. «Meglio lasciarla in pace», lo ammonì Garth col suo solito tono indifferente. «Joao è capace di arrabbiarsi molto, se lei gli toglie il suo divertimento. Non possiamo permetterci il lusso di provocare dei guai». Senza rispondere, Price si allontanò e si diresse verso la tenda di de Castro, con l'animo infiammato di rabbia. Davanti alla tenda era radunato un gruppetto di uomini, bianchi e arabi insieme. Il dromedario bianco era legato lì nei pressi. Ali stava orgogliosamente mostrando la parte di bottino che aveva vinto: abba di soffice lana bianca, kamis e cherchis di seta fine, e un sottile coltello d'oro, che tra l'altro, stava dicendo eccitato l'arabo, era della miglior tempra, proprio come fosse stato d'acciaio. Nur, con i gesti e con una mimica elaborata, stava raccontando la storia dell'inseguimento di cui era stato protagonista con gli altri due: la ragazza aveva lottato con furia e Nur, denudandosi un fianco, mostrò la ferita che lei gli aveva fatto con il pugnale d'oro. Kanja stava in disparte e accarezzava tutto contento il suo nuovo binocolo: con un sorriso di gioia quasi infantile, vi guardò dentro, prima da una parte, poi dall'altra. Price avanzò deciso in mezzo al gruppo, dirigendosi verso de Castro che, con la sua faccia scura butterata, stava in piedi davanti all'entrata della tenda, con aria libidinosa. Vicino a lui c'era il suo fedelissimo, Pasić, un montenegrino che era stato comandante in seconda della «Iñez», la goletta di Joao. Bruno, peloso, forte come un toro, si meritava il nomignolo di «scimmia nera» che gli avevano appioppato. «Vorrei vedere la tua prigioniera, de Castro», disse Price. «La buttana è mmia», borbottò il piccolo macanese nel suo inglese masticato, sfoderando un'aria aggressiva. Per un attimo si pose davanti a Price per non farlo passare, poi guardò
coi suoi scaltri e mobili occhi a mandorla gli occhi azzurri decisi di Price, e si fece da parte. La ragazza giaceva sulla dura argilla, nella tenda. I vestiti, bottino di Ali, le erano stati strappati quasi completamente; i polsi e le tenere caviglie erano avvinti da ruvide funi di pelo di cammello. Price si era immaginato che la ragazza dovesse essere bella, visto che de Castro aveva ceduto per lei il binocolo cui era tanto affezionato. Ma non si aspettava una bellezza eccezionale. Era giovane: non doveva avere più di diciannove anni. La pelle del suo corpo sodo e liscio era più bianca di quella di Price. Nemmeno il viso ovale era molto abbronzato: evidentemente la ragazza, pensò Price, era solita portare un velo. La giovane era legata in modo da non potersi alzare. Ma quando Price fece capolino nella tenda, si tirò su più che poté e lo guardò torva, con nobile sdegno. Aveva capelli neri e arruffati, che incorniciavano un viso delicatamente forte, dove spiccavano le labbra rosse. Gli occhi, di un azzurro cupo, quasi viola, non esprimevano ombra di paura. Pur senza fermarsi ad analizzare i propri sentimenti, cosa che faceva molto raramente, Price capì subito che non poteva lasciare quella ragazza nelle mani del macanese. E capì anche, nel contempo, che Joao, pur di non perderla, avrebbe piantato grane grosse. Si diresse verso la donna deciso, con l'intenzione di scioglierle i legacci. Lei si buttò col corpo seminudo contro di lui, e gli scalfì la mano coi denti bianchi e robusti. De Castro proprio in quella afferrò Price per un braccio e lo tirò fuori della tenda prima che lui riuscisse a opporre resistenza. Aveva gli occhi che sprizzavano cieca gelosia. «È mia!», sibilò. «Stà lontano, maledetto!». «De Castro», disse Price, «voglio che tu la lasci libera». Le magre mani olivastre dell'eurasiano tremarono. «Lasciarla libbera?», urlò. «Lasciarla libbera, quando ho dato per lei il mmio bellissimo binocolo? Col cavolo!». «E va bene. Ti pagherò il binocolo. Sono perfino disposto a darti il mio, se vuoi». «Io voglio llei, no il dannato binoccolo!». «Ti darò cinquecento dollari...». «Col cavolo! Che mme ne ffaccio dei soldi, qua?». «Ascolta, de Castro», disse Price, ora con tono autoritario. Capì che i
modi blandi erano stati un errore. «Io sono il capo di questa spedizione. Ti ordino di slegare la ragazza». «Diòs!», urlò l'eurasiano, tremando per la rabbia. «Allora lo farò io al posto tuo». Price fece per entrare di nuovo nella tenda. De Castro allora, con un rapido guizzo della mano, tirò fuori il coltello. Ma Price, che sapeva bene quanto gli uomini del genere di Joao avessero dimestichezza coi coltelli, era preparato. Schivò la coltellata e sferrò un gran pugno in faccia al macanese. Si sentì riempire da una gioia selvaggia quando udì lo scricchiolio dei denti dell'avversario. Con un muggito da toro, il montenegrino partì all'attacco per aiutare il suo amico. Balzò su Price, che questa volta era impreparato, e lo circondò con le sue braccia scimmiesche, stringendolo in un abbraccio selvaggio e sferrandogli perfide ginocchiate sui lombi. Dibattendosi furiosamente ma inutilmente tra le braccia della «scimmia nera», Price colpì invano con zuccate la sua faccia granitica e irsuta. Gli arabi si radunarono in cerchio attorno a loro, applaudendo entusiasti. Pasić buttò indietro le spalle e sollevò da terra Price, che ormai boccheggiava, stretto in quell'abbraccio da gorilla. Il montenegrino lo tirò sempre più su e cambiò abilmente presa: Price capì allora che quella specie di scimmione stava per lanciarlo come una palla in aria, col rischio di spezzargli la schiena. Cercò disperatamente di puntellarsi da qualche parte con le gambe, ma non ci riuscì, e allora si mise a sferrare inutili calci contro Pasić. Poi, con uno sforzo supremo, riuscì a liberare di colpo il braccio sinistro dalla morsa. Subito, con uno scatto fulmineo, colpì col gomito il montenegrino nel plesso solare. L'uomo boccheggiò e per un attimo allentò la presa. Price si liberò da quelle braccia terribili e si allontanò, mettendosi alla distanza adatta per fare a pugni. La «scimmia nera», dotato più di forza bruta che di intelligenza, caricò di nuovo, a braccia aperte. Un colpo fulmineo al suo corpaccio, e il montenegrino si fermò di colpo, con un'espressione stupita sulla faccia ottusa. Un altro colpo, che Price gli sferrò alla mascella, calibrandolo bene e stando attento a imprimergli tutto il peso dei suoi ottantadue chili e l'uomo vacillò e cadde pesantemente vicino a de Castro, che era ancora in terra che si lamentava. Finalmente, Price entrò nella tenda.
7 Aysa della terra dorata La ragazza legata lo guardò torva, con occhi pieni di rabbia e di odio. Non si ritrasse quando vide le mani di Price vicino a sé: dai suoi occhi non trapelava paura, ma solo furore. Di nuovo i suoi denti bianchi risplendettero, pronti a morsicare Price. Lui fece finta di niente e si affrettò a slegare i nodi fermissimi della fune che la teneva prigioniera. D'un tratto, vedendo ciò che Price stava facendo, la ragazza si tranquillizzò e il suo sguardo, anziché rabbia, espresse silenziosa sorpresa. Sciolti i legacci, Price sfregò i polsi e le caviglie della donna per ridare tono alla circolazione; poi le circondò le spalle con un braccio e la fece alzare dalla dura argilla su cui l'avevano buttata. Lei lo fissò con una sfumatura di curiosità negli occhi viola. «Aiee, Ali!», gridò Price girandosi verso l'ingresso della tenda. L'arabo si avvicinò con ancora in braccio i vestiti che erano stati sottratti alla ragazza. «Dammi gli abiti di questa donna», disse Price. L'arabo si mise a protestare. Price ripeté l'ordine in tono più severo, e l'arabo con riluttanza restituì i vestiti. Tenne però il pugnale d'oro, che aveva già appeso alla cintura, e rimase dentro la tenda a guardare la donna con occhi avidi. «Ora vai!», gli disse secco Price. Price si girò e offrì i vestiti alla ragazza. Lei, con gli occhi viola spalancati per lo stupore, li prese meccanicamente. Price guardò il suo corpo bianco e giovane. Con un urletto soffocato, lei s'infilò i vestiti in fretta e senza alcun imbarazzo. Price la guardò vestirsi e ascoltò nel contempo i lamenti di de Castro e di Pasić fuori della tenda, e il concitato brusio della folla che si era raccolta. Sapeva che il macanese avrebbe piantato qualche grana non appena si fosse riavuto, ed era ansioso di portare la ragazza lontano dalle sue grinfie. Quando fu pronta, lui la prese per mano e la condusse fuori della tenda. Dopo un'occhiata interrogativa, lei lo seguì di buon grado. Tuttavia quando fu fuori e vide quelli che l'avevano maltrattata, s'infuriò di nuovo. Si staccò di scatto da Price, si scagliò contro Ali, gli prese dalla cintura il pugnale d'oro. Dopo un attimo era addosso a Joao, che lamentandosi tentava di tirarsi su a sedere.
«Bismillah! Laan'abuk!», imprecò Ali, correndo dietro alla ragazza per riprendersi il coltello, che gli piaceva moltissimo per via dell'eccezionale durezza dell'oro di cui era fatto. Proprio mentre lei stava per calare la lama sul macanese, Ali le afferrò un braccio e glielo torse dolorosamente. Lei emise un gemito soffocato e impallidì. Lasciò cadere l'arma proprio nel momento in cui Price sferrava un pugno contro la mascella di Ali. Il beduino si allontanò barcollando e sputando sangue. La ragazza si morse le labbra per dominare il dolore. Il braccio ingiuriato le pendeva floscio lungo un fianco, ma la mano sana cercò di afferrare da terra il pugnale. Però la mano olivastra di de Castro fu più svelta. Price mise un piede sul polso di Joao, si chinò e gli strappò di mano il coltello. Afferrò deciso la ragazza per le spalle e la condusse alla propria tenda. Lei non oppose resistenza. Molti degli uomini che avevano assistito alla scena fecero per seguirlo. Price si girò e ordinò loro seccamente di tornare indietro. Loro si radunarono con aria comprensiva intorno a Joao. Benché fosse riuscito a liberare la ragazza, Price capì che la vittoria era solo momentanea: la sua posizione era tuttora precaria. Come al solito, il carro armato era fermo vicino alla tenda di Price. Sam Sorrows, il magro ex agricoltore del Kansas, faceva la guardia lì vicino. «Guai in vista, Sam», gli disse Price concisamente. «Per la donna?». Price annuì. «Lo immaginavo. Strano posto, per trovarci una donna. Ma credo che le donne combinino guai dappertutto». «Non è colpa della ragazza». «Non lo è mai». «Sam, vorrei che tu tornassi al carro armato e montassi la guardia con le mitragliatrici per un po'. C'è aria di ammutinamento». «Va bene, signor Durand». Sorrows sorrise come se la prospettiva di una battaglia gli piacesse, e salì sul carro armato. Price condusse la ragazza alla sua tenda e le fece segno di entrare. Lei lo studiò un attimo coi suoi occhi viola, poi sorrise ed entrò. Per un momento Price studiò il disorganizzato accampamento, sulla piccola pianura argillosa tra le dune di sabbia rossa. Lui era vicino al centro. Tutt'intorno alla sua tenda c'erano altre tende, cataste di bagagli, selle,
cammelli accosciati. La folla di persone intorno a de Castro s'infittiva sempre più. Price si sentì mancare, al pensiero dell'inevitabile scontro. Di tutti i settanta uomini della carovana, Sam Sorrows era l'unico di cui si fidasse. Raccolta una borraccia piena d'acqua, entrò nella tenda. La ragazza era vicino all'entrata, e aspettava, pallida e tesa. Lui aprì la borraccia, la scosse in modo che si sentisse il rumore dell'acqua, e la porse alla ragazza. Lei vi si attaccò avidamente, e bevve finché Price, temendo che tutta quell'acqua le facesse male, non le tolse la borraccia da sotto il naso. Lei si mise a ridere e lo guardò con aria interrogativa. Lui sorrise. Poi, d'un tratto, la ragazza ruppe in un pianto disperato. I nervi, messi a dura prova, avevano ceduto. Capendo che era solo una reazione naturale al sollievo di sentirsi in salvo, e tuttavia incerto sul da farsi, Price le si avvicinò e le toccò le spalle con aria comprensiva. Scossa da incontrollabili singhiozzi, lei seppellì fiduciosa il viso nel suo petto. Price si senti sfiorare dai suoi capelli neri, morbidi e profumati. E la abbracciò. Lo scroscio di pianto cessò improvvisamente com'era cominciato. La ragazza si staccò da Price, si ricompose, si asciugò gli occhi con la punta del suo cherchis. Vedendo che era esausta, Price stese una coperta sul pavimento e la invitò con un gesto a sedervisi sopra, cosa che lei fece con sguardo riconoscente. «Parli arabo?», le chiese lui, in bel modo. Lei esitò un attimo, poi dal suo sguardo fu chiaro che aveva capito. «Sì!», disse. «È la lingua della mia gente, anche se tu la parli in modo strano». Il suo arabo era ben comprensibile, benché la sua inflessione fosse insolita. Era chiaramente più simile all'arabo classico che ai vari dialetti moderni che conosceva Price. Ma la sua struttura sembrava ancora più antica di quella dell'arabo classico. La ragazza parlava l'arabo di molti secoli prima! «Benvenuta tra noi», disse Price. «Mi spiace moltissimo che sia stata trattata così. Spero di poter fare ammenda io». «Birkum (grazie)», disse lei, scandendo le parole in modo che fosse facile capirla. «Ti sono molto grata per avermi salvato». Lui avrebbe voluto dirle che il salvataggio era ben lungi dall'essere a prova di bomba, ma pensò che non era il caso di tormentarla inutilmente presentandole la gravità della situazione. Sorrise, e chiese:
«La tua gente è qui vicino?». Lei indicò verso nord. «Da quella parte c'è El Yerim. È a tre giorni di cammello da qui». «Non preoccuparti per quello», disse subito lui, premuroso. «Farò in modo che tu torni sana e salva». Lei sgranò gli occhi, impaurita. «Ma non posso tornare!», esclamò. «Mi consegnerebbero al popolo d'oro». «Allora oltre ai guai che hai incontrato qui avevi già altri guai?». Lei annuì. «Raccontami tutto», disse Price. «Voi siete forestieri. Non conoscete il popolo d'oro?». «No. Veniamo da una terra molto lontana». «Bene», spiegò lei, «il popolo d'oro è composto da persone d'oro che abitano in una montagna vicino a El Yerim. C'è Malikar, un uomo d'oro... o un dio. C'è Vekyra, che è... be', sua moglie. C'è la tigre d'oro, che essi cavalcano per cacciare. E c'è il serpente giallo, che è il dio antico, e il più potente dei quattro». «Capisco. Và avanti». «A ogni stagione del raccolto, Malikar scende a El Yerim cavalcando la tigre: sceglie il grano, i datteri, i giovani cammelli e gli schiavi da dare in offerta al dio serpente. «Cinque giorni fa è arrivato. Yarmud, il nostro re, ha radunato tutti gli abitanti di El Yerim. E Malikar, sulla sua tigre, ha cavalcato in mezzo a loro, scegliendo quelli da consegnare come schiavi al serpente. Quando ha visto me, ha dato ordine che venissi prelevata il giorno dopo e spedita sulla montagna assieme ai cammelli e al grano. «Quella notte misero delle guardie davanti alla mia casa. Benché i preti dicano che è un onore essere offerti in dono al serpente, ben pochi la pensano come i preti». La ragazza fece un sorriso triste. «Riuscii a ingannare le guardie, e sgattaiolai fuori nella notte. Nei campi trovai il dromedario di mio padre, e con quello fuggii nel deserto. «Ho cavalcato quattro giorni. E sono riuscita a portarmi dietro poca acqua e poco cibo». Price, ascoltando il racconto di lei, si accovacciò e si accese una sigaretta, gesto che lei osservò con evidente sbalordimento. La storia della giovane stuzzicava enormemente la sua curiosità, ma si rendeva conto che sarebbe stato scortese interrogarla a lungo, stanca e spossata com'era. Ma una cosa almeno doveva chiederle:
«Quella tigre, e quelle persone dorate... Sono veramente d'oro? Di metallo vivo?». «Non lo so. È strano che il metallo abbia vita. Ma essi sono del colore dell'oro. Sono più forti degli uomini. E non muoiono... Vivono fin dall'epoca della grande Anz». «Anz?». A Price non parve vero di sentir nominare la perduta città della leggenda. Che Anz fosse dopotutto una realtà, e non un mito? «Anz», spiegò la ragazza, «era la grande città dove un tempo viveva il mio popolo: noi ci definiamo tuttora i Beni Anz. Tanto tempo fa le piogge scendevano ogni anno, e tutta questa terra era verde. Ma un migliaio d'anni or sono Anz fu invasa dal deserto, fu coperta dalla sabbia, e la mia gente si spostò nell'oasi di El Yerim». Subito dopo, la ragazza aggiunse: «Io cercavo proprio Anz». «Ma come, non è abbandonata e sepolta dalla sabbia?». Lei apparve incerta ed esitante. Coi suoi occhi stanchi studiò Price. «Non importa...», disse lui, e lei allora riprese a parlare di getto. «Magari mi riterrai una sciocca... Ma esiste una profezia. L'ultimo grande re di Anz fu Iru. Era un guerriero coraggioso, e un uomo giusto. Era alto, come te». Gli occhi viola si soffermarono su Price. «E i suoi occhi erano azzurri come i tuoi, e i suoi capelli rossi, proprio come i tuoi. La leggenda specifica questo, perché la maggior parte della mia gente è bruna». «E la profezia?», chiese Price. «Forse è una storia sciocca», disse lei. Fece una pausa, poi riprese a parlare con foga: «Secondo la leggenda, Iru non sarebbe morto, ma dormirebbe ancora nei corridoi del palazzo, all'interno della città perduta. Aspetterebbe di essere svegliato da qualcuno. Dopo di che, brandendo la sua grande ascia, dovrebbe uccidere il popolo dorato e liberare i Beni Anz». «Tu credi alla leggenda?», chiese Price, sorridendo. «No», disse lei. «Però non so. Potrebbe anche essere vera. Sai, secondo la leggenda dovrebbe essere una donna col mio nome ad andare a svegliare il re». Fece una breva pausa, poi aggiunse: «Quando sono fuggita da El Yerim, non sapevo dove andare, e ho pensato che l'unica era cercare di trovare Anz». La ragazza ebbe un colpo di sonno: si riprese subito, si rizzò, e rivolse a Price un sorriso stanco. «Ancora una cosa, prima che tu ti metta a dormire», disse lui. «Come ti chiami?». «Aysa», sussurrò lei. «E tu come...».
«Price Durand». Fra sé, a bassa voce, sussurrò: «Aysa. Aysa della terra dorata». Lei sorrise e si addormentò di colpo, seduta com'era. Price si alzò e la depose dolcemente sulle coperte, in una posizione comoda. Lei non si svegliò mentre lui la spostava, ma fece un vago sorriso, nel sonno. «Senta un po', Durand, bisogna rimediare a questo pasticcio prima che nascano guai grossi», disse Jacob Garth, facendosi incontro a Price, che stava andando verso la sua tenda. Subito dietro Jacob venivano Joao de Castro e Pasić, che si carezzavano la faccia dolorante e piena di lividi e borbottavano parole ostili. In coda c'erano Fouad e molti altri, sia bianchi sia arabi: per lo più lanciavano a Price occhiate chiaramente ostili. Price andò incontro al gruppo, tentando di mostrare una sicurezza che non sentiva. «Certo», convenne, «nessuno di noi desidera che nascano guai». «Bisogna che lei restituisca la donna a Joao», disse Garth, con la sua voce tonante lontana da qualsiasi emozione. La sua faccia larga, con le guance cascanti e il colorito stranamente bianco nonostante il sole del deserto, era inespressiva come una maschera. Decisi, freddi, quei piccoli occhi chiari fissavano Price. «La ragazza non è un oggetto di proprietà», disse Price, secco. «Diòs!», urlò de Castro. «Che, io compro la buttana perché llui me la rrubi?». Jacob Garth fece un gesto con la mano bianca e grassa. «Stà tranquillo, Joao, che sistemeremo tutto... Durand, Joao ha comprato la donna regolarmente. Lei non può appropriarsene così, con la prepotenza. Gli uomini non possono tollerare la cosa». «Non intendo che la ragazza venga maltrattata», disse Price. Garth gli si avvicinò col suo passo pesante e disse, con tono suadente: «Ascolti, Durand. Noi abbiamo in palio una posta grossa. Ci attende un grande tesoro, un'infinità di tesori! Faremo un colpo d'inconcepibile grandezza. Bisogna che stiamo uniti: non possiamo permetterci di litigare». «Io sono disposto a qualsiasi soluzione ragionevole. Pagherò a de Castro qualunque somma lei ritenga sia giusto dargli». «Non è una questione di soldi. Non in queste circostanze: abbiamo praticamente quasi in mano tutto l'oro che vogliamo. Lei non vorrà certo rovinare il nostro progetto per amore di una donna, no? Cos'è mai una sgualdrina indigena in confronto al tesoro della terra dorata?». «La prego di non parlare della ragazza in questo modo!», gridò Price,
brusco. «In fin dei conti, sono io il capo di questa spedizione. Quando dico giù le mani, dev'essere così! De Castro non avrà la ragazza!». Si pentì immediatamente di essersi lasciato prendere dalla rabbia, perché si accorse degli sguardi biechi degli uomini. Per riparare al danno, si rivolse al gruppetto di bianchi e disse, a mo' di giustificazione: «Sentite, amici, io desidero comportarmi secondo giustizia con tutti voi. Non è che voglia fare un torto a de Castro. Gli offrirò il mio binocolo al posto di quello che lui ha dato per avere la ragazza. Non voglio la ragazza per me...». Si sentirono sguaiate risate di scherno. Cercando di nascondere dietro un sorriso la rabbia crescente, Price continuò: «Certo non vorrete che un'inerme donna venga maltrattata...». «Basta!», lo interruppe Garth. «Deve rendersi conto che questi sono uomini, non chierichetti!». «Uomini, spero, e non bestie». Quella frase non incontrò la simpatia degli uomini. Erano dei duri, quelli: altrimenti non sarebbero stati attratti dalla prospettiva di una scorribanda nel cuore del deserto. Molti di loro erano fuorilegge. Le privazioni, la paura e la cupidigia avevano distrutto in essi ogni cavalleria, ammesso che ne avessero mai avuta. Jacob Garth fissò Price con un sorriso ironico appena accennato. «Le è mai venuto in mente, Durand», disse, deciso, «che la sua utilità come capo si è quasi esaurita? Sa, è anche possibile che si possa fare senza di lei... Ora che non ci sono più assegni da firmare...». «Tutto un doppio gioco, eh?», disse Price, con disprezzo. Garth alzò le sue spalle massicce. «Se vuole definirlo così. Io sono venuto in questo deserto infernale per l'oro. E non intendo essere fermato da una qualsiasi fraschetta indigena. Né da alcuna stupida convenzione». «De Castro non toccherà la ragazza», disse tranquillo Price, gelido. «Almeno fino a che io sono vivo. E adesso cos'ha da dirmi?». «Non voglio spargimenti di sangue, Durand. E capisco che Sorrows, là sul carro armato, ci sta tenendo di mira. Faremo un accordo pacifico». «E cioè?». «Lei si tiene la fraschetta per stanotte. Sono riuscito a convincere de Castro, che lascerà che la possegga lei per primo. Domattina la consegnerà a lui». «Non farò nulla del genere». «Ci pensi su», lo consigliò Garth, pacatamente. «Se non si deciderà a comportarsi in modo ragionevole, prenderemo la ragazza con la forza. Mi
dispiacerà molto perdere la sua amicizia, Durand. Lei è un brav'uomo, ed è proprio di un brav'uomo che abbiamo bisogno. Ma non può rovinare la spedizione. Ci pensi su!». 8 La Siwa Hu Price Durand non era tipo da arrendersi facilmente, nemmeno quando il nemico era molto più forte di lui. A volte avrebbe voluto essere un tipo più malleabile, di quelli che si rassegnano docilmente alle circostanze: in certi casi essere così sarebbe stato molto più comodo. Ma qualche meccanismo oscuro, connaturato profondamente in lui, lo rendeva un combattente. Quando qualcuno si opponeva alla sua volontà, lui veniva preso regolarmente dalla caparbia determinazione a non cedere. Il suo temperamento gl'impediva di sottomettersi agli altri. Quando qualcuno lo contrastava, sentiva che l'unica scelta era combattere con tutti i mezzi a disposizione. Né pensava mai a soppesare le conseguenze di un'eventuale sconfitta. La sua fede fatalistica nella fortuna dei Durand era estrema. Quella fortuna non era mai venuta meno... Probabilmente perché aiutata da una testarda ingegnosità. Quando gli uomini se ne furono andati, Price entrò nella propria tenda. Aysa giaceva immobile sulle coperte, e respirava regolarmente. Il suo viso era in parte rivolto verso Price: era fresco e bello, con le lunghe ciglia che riposavano sulle gote rubiconde, e le labbra, rosse come chicchi di melagrana, lievemente socchiuse. Una sola occhiata bastò a Price per consolidare la propria decisione di non consegnare Aysa all'insidioso de Castro. Gli ribolliva il sangue al pensiero che quella dolce ragazza cadesse sotto le grinfie del bruno eurasiano. No, non gliel'avrebbe mai consegnata. Aveva tempo fino alla mattina per trovare il modo di salvarla... A meno che Joao de Castro, nel frattempo, non trovasse il modo di uccidere lui. La falce gialla della luna crescente era vicina allo zenith, al crepuscolo. Durante la prima metà della notte, Price rimase in attesa presso la propria tenda, vegliando la giovane spossata, che dormiva beatamente. Era impaziente, ansioso di agire. Sam Sorrows si era allegramente offerto di restare di guardia, dentro al carro armato. Price aveva accettato, riconoscente, e gli aveva dato, a testimonianza della propria fiducia, la chiave della cassa d'oro custodita nel
carro armato. Price aveva deciso di fuggire con la ragazza: sembrava l'unica soluzione possibile, se non si accettava di arrendersi vergognosamente al volere altrui. Due uomini non potevano combattere da soli contro un'intera spedizione. Nell'accampamento a poco a poco si addormentarono tutti, finché l'unico rumore non fu quello delle sentinelle, due bianchi e due arabi, che passeggiavano su e giù nella zona oltre i cammelli, dandosi ogni tanto la voce. Verso mezzanotte la luna, diventata più rossa, scomparve dietro le dune, e la sua luce si smorzò; e Price si preparò a mettere in atto il suo piano. Disse due parole a bassa voce a Sam Sorrows, e senza far rumore s'inoltrò nell'oscurità illuminata dalle stelle. In silenzio sellò il suo cammello, che riposava lì vicino; trovò due ghirbe piene d'acqua e le fissò ai pomi della sella, assieme a un piccolo sacco di foraggio per l'animale. Tornando alla tenda preparò le bisacce. Prese cioccolata, gallette, carne essiccata, e rocchi della polpa d'albicocca dura e essiccata che gli arabi chiamano «pelle di cavalla». Poi prese la cassetta del pronto soccorso, il binocolo, e munizioni supplementari per il fucile e l'automatica. Quando tutto fu pronto, si sedette vicino alla ragazza, riluttante a svegliarla. Alla fine non osò indugiare più a lungo. La tirò su delicatamente, avvertendola di far silenzio. Completamente al buio (perché la luce avrebbe messo in allarme l'accampamento), le diede cibo e acqua. Qualche volta, mentre muoveva le mani, incontrava le mani di lei, e si accorse di trovare quel contatto vagamente eccitante. «Gli uomini che sono sotto il mio comando dicono che ti devo restituire a quello al quale ti ho presa», sussurrò. «Non posso combattere da solo contro tutti, perciò è meglio che scappiamo». «Dove?». «Ad Anz, magari. Tu stavi andando là». «Sì, è vero. Ma Anz è una città morta, una città di spettri. Nessun essere vivente l'ha mai vista». Sempre sottovoce, quasi rauca, Aysa aggiunse: «Non voglio che tu muoia, mio protettore. Lascia ch'io vada da sola». «No, vengo con te per vegliare su di te. Ma non parlare di morte. Puoi contare sulla fortuna dei Durand». «Ma io ho tanti nemici... e forti. La mia gente starà già dandomi la caccia per sfuggire all'ira del popolo dorato. E Malikar, a cavallo della sua tigre, mi starà cercando, mi starà inseguendo con... con l'ombra!». «Andiamo», disse Price. Prese le bisacce e uscì dalla tenda. Aysa lo se-
guì in silenzio, stringendo l'impugnatura del suo coltello. Price si fermò a salutare con muta riconoscenza Sam Sorrows, poi guidò la ragazza verso il proprio cammello. «Sali», le sussurrò. «Aspetta», obiettò Aysa. «Forse riesco a trovare il mio dromedario. Lasciami ascoltare!». Rimasero in piedi immobili per quattro-cinque minuti. L'accampamento era buio, sotto la debole luce delle stelle. Qui e là si stagliava la sagoma nera delle tende. I cammelli erano accosciati o sdraiati in modo grottesco. Si scorgevano anche figure d'uomini che dormivano all'aperto, avvolti solo nei loro abba. Si sentiva un misterioso sussurro, nell'oscurità. Era formato dal respiro degli uomini, dai rochi sospiri dei cammelli, dal raro tintinnio dei campanelli delle bestie, e dal richiamo lontano e saltuario delle sentinelle. Il tutto era mescolato a formare uno strano mormorio, forse perché si era alzato il vento dell'alba, e la sabbia, sussurrando tra le dune oltre l'accampamento, portava una nota di lugubre misteriosità. Aysa d'un tratto si scosse e disse: «Il campanello del mio dromedario!». Senza far rumore scivolò in mezzo alle tenebre, guidata da un tintinnio così debole che Price non aveva nemmeno sentito. Price si mise in allarme e fece per seguire Aysa. Ma poi tornò al proprio cammello e rimase lì in piedi ad aspettare e ascoltare, teso. I sommessi e sonnolenti rumori dell'accampamento, uniti al lontano sibilo triste della sabbia mulinante, gli davano l'idea che gli spettri di quella terra morta fossero stati svegliati tutti dal vento dell'alba. Soltanto quando sentì l'acuto grido d'allarme dato da Nur fendere il tormentato silenzio dell'accampamento addormentato, Price capì quanta presa sui suoi sentimenti avesse fatto Aysa in poche ore. Quel suono lo colpì come una pugnalata. Si sentì quasi male fisicamente: si sentì venir meno per la paura e la disperazione. Per un attimo fu scosso da violenti tremiti di paura al pensiero di quello che poteva essere capitato alla ragazza, e si rese conto che nemmeno per sé stesso aveva mai temuto tanto. Poi si riprese: gli tornarono forza e determinazione. Saltò in sella al cammello, lo fece alzare in fretta, e afferrò l'automatica. Capì che l'arabo Nur doveva essersi trovato a dormire accanto al dromedario di Aysa, che era il bottino a lui assegnato: probabilmente quando Aysa si era preparata a montare sull'animale, lui si era svegliato.
Subito l'accampamento fu in grande scompiglio. Gli uomini scattarono in piedi urlando. I cammelli brontolarono, impauriti, e alzandosi si misero a correre di qua e di là, intorno ai paletti cui erano legati. Nelle tende dei bianchi si accesero le luci delle torce elettriche. Colpi di fucile alla cieca accompagnarono imprecazioni in varie lingue europee e appassionati appelli ad Allah nel nome del suo profeta. In mezzo alla confusione Price vide arrivare a precipizio il dromedario bianco con Aysa che, standogli aggrappata, brandiva il pugnale d'oro con cui doveva avergli appena slegato le pastoie. «Aiee, Price Durand!», gridò la ragazza, e Price notò che c'era viva esultanza, in quel grido. Price spronò il suo hejin e cavalcò accanto ad Aysa, dirigendosi verso i confini dell'accampamento. «Shayton el Kabir!», strillò Nur alle loro spalle. «Inseguiteli! Il mio cammello! Prendeteli! Effendi Duran' e la donna!». Tonante, sonora, la voce di Jacob Garth esplose, rivolta alle sentinelle: «Müller! Mawson! Fermateli!». Price sentì fischiare una pallottola vicino alle proprie orecchie, e sentì le urla concitate di Joao de Castro: «Prrendetteli! Al lladro!». Price e Aysa continuarono a cavalcare verso i confini dell'accampamento. Le sentinelle, che erano a piedi, corsero loro incontro con le torce elettriche accese, e spararono senza prendere la mira. «Tienti più bassa che puoi», gridò Price ad Aysa, «e cavalca!». Lei, ansimante, fece una risatina. Con la sua voce chiara gridò un addio sfottente ai suoi nemici: «Wa' salem!». «Montate sui cammelli!», gridò il vecchio sceicco Fouad, alle loro spalle. «Bismillah! Inseguiteli!». «Ddò il mio fucile», gridò de Castro, «a cchiunque mmi porti indietro la buttana!». Price e Aysa, cavalcando fianco a fianco, si trovarono ben presto molto oltre le sentinelle. Davanti a loro si stendeva, misterioso, il deserto illuminato dalle stelle. Spronarono i cammelli per cercare momentanea sicurezza nelle tenebre. Dietro di loro si sentivano grida furiose, gli «Yahh! Yahh! (Forza! Forza!)» degli uomini che incitavano i cammelli, e lo scalpiccio di quelli che correvano a piedi. Price si girò. Alla debole luce delle stelle vide la massa scura degli inseguitori a poche centinaia di metri da loro. Metà uomini dell'accampamento
li stavano inseguendo, disposti a ventaglio. Price si sentì prendere dalla disperazione. C'era poca possibilità di salvezza, con gli inseguitori così vicini. Anche se fossero riusciti a evitare la cattura fino all'alba, gli arabi, esperti nell'arte dell'asar, l'arte di rintracciare il nemico, li avrebbero ben presto messi alle strette. Continuando a cavalcare fianco a fianco, arrivarono in cima alla prima duna. Nell'attimo in cui le loro sagome si stagliarono contro la luce delle stelle, un ventaglio di raffiche crepitò alle loro spalle. Mentre scendevano a gran velocità giù per la duna, Price fece una cosa di cui lui stesso si sorprese. Sporgendosi verso Aysa, gridò: «Aysa della terra dorata, devo dirti una cosa subito, perché non avrò mai un'altra possibilità come questa. Sei bella... e coraggiosa!». La ragazza rise. «Non ci prenderanno mai. Abbiamo il deserto dalla nostra parte! Loro sono come cani che volessero inseguire delle aquile!». In quella si sentì il ruggito del motore del carro armato, seguito dal clangore dei suoi cingoli che calpestavano la pianura rocciosa, e dal crepitio delle sue mitragliatrici. Era mai possibile che il buon vecchio agricoltore del Kansas si fosse unito alla schiera degli inseguitori? Certo che no! Sam Sorrows stava facendo l'unica cosa in grado di salvarli. «Buon vecchio Sam!», gridò Price. «Sta offrendo loro qualcos'altro di cui preoccuparsi!». Price sapeva che gli arabi avevano ancora una paura mortale del carro armato. Vederlo caricare col suo spaventoso frastuono li avrebbe sicuramente terrorizzati e fatti disperdere. E nessun bianco cavalcava ancora abbastanza bene da costituire una seria minaccia. Quando arrivarono in cima alla seconda duna, l'urlo del carro armato, il crepitio delle mitragliatrici e le grida degli uomini erano ormai fiochi. Oltre la terza duna, l'unico rumore diventò il mormorio della sabbia frusciante sollevata dal freddo vento dell'alba, sussurro spettrale dell'arido mondo del deserto. Alle prime luci rossastre dell'alba, i due cavalcavano ancora fianco a fianco. Gli stanchi cammelli arrancavano lentamente sopra una pianura di roccia alcalina bianca come lebbra, che sotto le zampe delle bestie produceva un suono come di neve calpestata. Davanti ai due cavalieri si stendeva un'altra triste serie di dune di sabbia rossa, squallide e irregolari, rese vermiglie dalla luce dell'alba. L'orizzonte,
intorno, era sterminato e terribile. In lontananza si stagliavano infatti basse colline nere, scheletri di granito di antiche montagne. Miglia e miglia di arida sabbia, e saline desolate che brillavano irreali e parevano i fantasmi di quei laghi che una volta erano esistiti al loro posto. Già all'orizzonte la calura disegnava tremori, e i finti laghi argentei dei primi miraggi del mattino scorrevano attraverso l'infernale pianura e si increspavano invitanti, con le loro promesse di fresco ristoro che si dissolvevano poi nel cielo limpido. L'accampamento era molte miglia indietro, ormai, e la sabbia sollevata dal vento dell'alba aveva già ricoperto le orme di Price e di Aysa. Anche il sentiero dei teschi era lontano, adesso. Price e Aysa erano soli nel deserto spietato, soli a combattere contro la tristezza ostile e inesorabile della Dimora Desolata. «La Siwa Hu», sussurrò Price. Era il nome che gli arabi davano al deserto, ovvero: «Là dove non esiste altri che Lui». 9 La città del deserto La sera del terzo giorno si trascinavano in mezzo a uno sterminato oceano le cui onde erano dune di sabbia giallo-rossastra. I cammelli erano moribondi, le ghirbe erano quasi vuote. Ma Price e Aysa continuavano ad andare avanti, alla ricerca dell'antica Anz. Avevano la gola e le labbra secche e parlavano di rado, perché l'aria rovente che entrava in bocca era come sabbia infuocata. Price guardava spesso la ragazza, e si stringeva vicino al dromedario di lei stancamente, ma con irriducibile determinazione. Sotto il bianco kafiyeh, l'ovale di lei era coperto di vesciche: le labbra piene erano crepate e sanguinavano per il sole e per la polvere alcalina, gli occhi viola erano stanchi e infiammati per la luce abbagliante del sole. Ma nonostante ciò, Aysa era sempre bella, e sorrideva a Price con coraggio. Erano stati crudeli, quei tre giorni. Tuttavia Price se ne doleva unicamente perché Aysa aveva dovuto affrontare tutte le privazioni che aveva affrontato. E le aveva sopportate stoicamente. A parte quello, Price si sentiva contento: gli era scomparsa l'antica, amara ennui. La compagnia di Aysa era diventata una cosa preziosa, per la quale valeva la pena vivere. Lei faceva da guida e trovava la strada seguendo misteriosi segnali che solo la tradizione le permetteva di conoscere. Al tramonto si rivolse a Price, preoccupata.
«Anz dovrebbe essere davanti a noi», sussurrò, rauca per la sete. «Avremmo dovuto vederla dalla cima dell'ultima duna». «Non preoccuparti, piccola!», fece lui, cercando di essere allegro. Ma la sua voce gracchiale suonò insincera. «La troveremo». «Anz dovrebbe essere proprio qui», insistette lei. «Mio padre, prima di morire, mi ha insegnato i segnali, proprio come suo padre li insegnò a lui. Dovrebbe essere qui». Forse, pensò Price, la città perduta era lì. Secondo quanto aveva detto Aysa, era da un migliaio d'anni che nessuno della sua gente vedeva la città. Forse c'era, ma sotto di loro, completamente sepolta! Price tenne però quella considerazione per sé. «Andiamo ancora avanti», disse. Fece finta di scoprire con grande sorpresa che nella ghirba c'era ancora un goccio d'acqua: in realtà, quella era la sua parte, che lui non aveva bevuto l'ultima volta che avevano attinto alla boraccia. Dopo avere preso un unico sorso, Aysa sospettò l'eroico sotterfugio, e non volle prenderne più. Spronarono gli stanchi cammelli, mentre il feroce occhio di fuoco del sole lentamente calava. E continuarono ad andare avanti nell'arcana atmosfera creata dal pallido chiaro di luna, a tratti scendendo dai cammelli e camminando a piedi; finché alla fine non crollarono per la fatica, la sete e la disperazione, che li indusse a cercare ristoro in sonni irregolari. Giunse l'alba, e videro Anz. Le mura nere, ciclopici blocchi di basalto, si ergevano a mezzo miglio di distanza. L'erosione della sabbia aveva scavato nei secoli profondi solchi. Qui e là le mura erano frastagliate e in rovina, e parevano sabbia mangiata dalle onde. Gonfie dune scure erano addossate ad esse, e a volte le coprivano completamente. All'interno delle mura si levavano rovine in pezzi, mezzo sepolte e sbriciolate, minacciose e misteriose nella luce dell'alba: cupe e desolate, emergevano dalle ombre della notte appena trascorsa come dalle nebbie d'un tempo immemorabile. Price svegliò Aysa e le indicò le rovine. Ma le sue speranze svanirono in fretta dopo il primo momento di eccitazione. Anz era davvero una città morta, dimenticata, avvolta nel sudario della sabbia. Era difficile che lì, in quella cupa necropoli, si potesse trovare l'acqua che ogni cellula del loro corpo spasmodicamente invocava. Aysa era tutta elettrizzata. «Allora non mi ero perduta!», esclamò. Penetriamo dentro le mura!».
Spronarono i cammelli, che si alzarono malvolentieri, e si trascinarono verso la città. Le mura nere, massicce, minacciose, tenevano testa alla sabbia incombente. Le porte, imponenti pannelli di bronzo inscuriti dalla patina del tempo, erano chiuse, sorvegliate ai fianchi dalle torri di difesa, e i banchi di sabbia rossa vi erano addossati fino a un'altezza vertiginosa, che nemmeno mille uomini avrebbero potuto aprirle spingendo. Guidando i cammelli vacillanti fino alla cima di una duna che aveva superato l'altezza della parete, Price e Aysa videro la città all'interno. Una città strana come un sogno. Una città morta, sepolta tra la sabbia. Qua si levava dalla sabbia rossa una torre pendente e in rovina simile alla punta di un osso marcescente, là si notava una cupola di marmo bianco crepato simile a un teschio spolpato, là ancora sorgeva una cupola di metallo corroso, sorta di monumento funebre che dominava gli edifici sepolti. Nelle silenziose dune della città assediata dalla sabbia Price avvertì la presenza latente e radicata del tempo trascorso, il fantasma nascosto di un antico passato dimenticato. Per un attimo, con gli occhi dell'immaginazione, vide gli edifici integri, le strade ampie liberate dalla sabbia, i viali sontuosi gremiti di una folla morta da eoni. Vide l'antica Anz così com'era stata prima che la morta Petra fosse ricavata dalle rocce di Edrom prima che Babilonia sorgesse sulle rive dell'Eufrate, prima che i primi faraoni innalzassero imponenti mausolei sul Nilo. Per un attimo, Price vide Anz viva. Poi, quando tornò a vederla com'era, morta, ricoperta di sabbia, divorata dal tempo, si sentì stringere il cuore dalla malinconia, da un senso di morte e di dissoluzione. Aysa sospirò, disperata. «Allora la profezia era uno scherzo», sussurrò. «Anz è veramente morta. Non è possibile che Iru sia qui ad aspettare! Questa è una città del deserto!». «Ma può darsi che troviamo dell'acqua», disse Price, cercando di mostrarsi fiducioso. «Ci saranno dei pozzi, o dei serbatoi». Spronarono i cammelli e scesero giù per la duna. Entrarono nell'antica città e cominciarono stancamente a perlustrarne le rovine, alla forse inutile ricerca di un po' d'acqua. Era quasi mezzogiorno quando giunsero vicino a un enorme mucchio di marmo in pezzi che dominava una vasta piattaforma di titanici blocchi di basalto non ancora del tutto ricoperti dalla sabbia. I cammelli, sfiniti, si rifiutarono di salire le dune che occorreva passare per arrivare alla piatta-
forma; Price e Aysa allora li abbandonarono e andarono in esplorazione a piedi. Price dopo imprecò contro se stesso per il fatto di avere tralasciato di prendere il fucile e la fondina con l'automatica dentro appesi ai pomi della sella. Ma era così stanco che faceva fatica a stare in piedi. E Anz aveva talmente l'aria di una città di morti, che era quasi impossibile pensare vi si potessero trovare dei nemici vivi. Si arrampicarono su, fino alla piattaforma sgretolata, e videro un colonnato rotto. Aysa studiò un'iscrizione mezzo cancellata sull'architrave, poi si girò verso Price con quella vivacità che la stanchezza le permetteva, e sussurrò: «È il palazzo di Iru! Il re della leggenda, che secondo quanto si dice starebbe ancora dormendo!». Oltrepassarono le colonne ed entrarono per il cancello sormontato da un'arcata che dava nel cortile del palazzo. «Al Hamdu Lillah!», mormorò Price, incredulo. Nel cortile, circondato da alte mura che la sabbia non era riuscita a raggiungere, si respirava la fresca fragranza di un giardino incassato. All'interno del recinto c'era una piccola e rigogliosa oasi, un meraviglioso giardino tropicale nel cuore della più desolata delle terre: un giardino stupendamente verde. Con gorgoglio dolcissimo, un'acqua cristallina gocciolava da una fontana in fondo al cortile: l'acqua sgorgava dalla pietra e scivolava in mezzo a un fitto intrico di palme da datteri, di fichi, di melograni, di viti e di cespugli fioriti e profumati. Il giardino era selvaggio, non curato. Per un migliaio d'anni, secondo quanto aveva detto Aysa, nessun essere umano l'aveva mai visto: quelle piante dovevano essersi riprodotte per generazioni e generazioni. Per un attimo Price guardò la scena incredulo. Tutto quel verde, quell'acqua cristallina che gorgogliava, non potevano essere veri! Dovevano essere un miraggio. Poi, con un grido rauco che parve un rantolo, prese Aysa per un braccio e corse con lei giù per i gradini di granito corrosi, mai usati per mille anni e più, che conducevano al pavimento del giardino nascosto. Si precipitarono alla fontana, vi s'inginocchiarono accanto, si sciacquarono via la polvere dalla bocca e bevvero avidamente sorsi di deliziosa e fresca acqua chiara. A Price l'ora che seguì sembrò un magnifico sogno: felice, bevve l'acqua cristallina, si pulì il corpo disidratato dalla sporcizia del deserto, mangiò a
sazietà frutti deliziosi e freschi, e si riposò alla dolce ombra degli alberi. Aysa come lui era allegra e sorridente. Poi gli tornarono in mente i cammelli, e allora andò con Aysa a prenderli, perché anch'essi godessero di quel paradiso disabitato. Ma quando arrivò fino all'orlo della piattaforma di basalto e vide dall'alto i cammelli accosciati, Price si lasciò sfuggire un grido di sgomento. Gli animali erano sempre al loro posto. Ma le bisacce da sella erano state stracciate: qualcuno aveva frugato il loro contenuto, parte del quale era sparso sulla sabbia: il fucile e l'automatica, che Price aveva lasciato appesi alla sella, erano scomparsi. 10 Nella cripta di Anz Il saccheggio delle bisacce restava un mistero. Dopo avere fatto quella scoperta, Price perlustrò con gli occhi la città morta, ma non vide nessun essere vivente. Il silenzio era totale e denso di minaccia... ma non successe niente. Reprimendo la paura del pericolo, Price e Aysa rivolsero subito l'attenzione ai cammelli. Con qualche difficoltà. Aysa li tirò per le briglie, Price li spinse e li spronò dal di dietro, finché finalmente le bestie, una alla volta, arrivarono alla piattaforma e da lì al giardino incassato. Poi Price prese il pugnale d'oro di Aysa, l'unica arma che rimanesse loro, e tagliò un ramo, ricavandone una pesante clava. Continuarono a riposare vicino alla fontana fino al tramonto, quindi si avventurarono fuori di nuovo, per scoprire cosa ne era stato delle armi rubate. Rinfrescati, stimolati da una paura ossessiva, esplorarono integralmente la città in rovina, ma senza trovare abitanti o posti abitabili. Eppure non c'era dubbio che i fucili erano stati rubati. Al crepuscolo Price e Aysa stavano tornando al giardino incassato, quando Aysa afferrò terrorizzata Price per le spalle, e indicò in silenzio col dito. Una strana figura era apparsa d'un tratto nel colonnato davanti all'entrata: un uomo alto, magro come gli arabi del deserto, vestito d'un lungo abito col cappuccio, tipo burnus, di un azzurro particolare. Mentre correva lungo la piattaforma per poi balzare sulla sabbia, Price vide che portava con sé il fucile rubato. L'arabo si fermò un attimo e si guardò alle spalle. Sulla fronte, sopra il
viso affilato e crudele, c'era un marchio dorato che raffigurava un serpente raggomitolato. Subito l'uomo riprese a correre, scomparendo dietro una colonna rotta. «Un uomo-serpente», sussurrò Aysa, con la voce rotta dalla paura. «Un cosa?». Price le prese le mani tremanti e la guardò negli angosciati occhi viola. «Uno schiavo del serpente, al comando di Malikar. L'uomo d'oro evidentemente sapeva della profezia che dice che una donna di nome Aysa un giorno sveglierà Iru. Ha immaginato che io sia fuggita ad Anz, e ha mandato qui il sacerdote a catturarmi». Price fissò sbalordito Aysa. Non l'aveva mai vista in preda al terrore. Quando si era trovata a essere inerme prigioniera di Joao de Castro non aveva manifestato alcuna paura. Adesso invece Price era turbato, vedendola pallidissima, tremante e con gli occhi spalancati dal terrore. Anche se era molto seccati» per la perdita delle armi, Price non riteneva di correre con Aysa un pericolo immediato. In fondo, l'uomo vestito d'azzurro era fuggito via. «Fatti coraggio, bimba», disse ad Aysa. «Non può andarci tanto male. Anche se tutto il resto dovesse andare storto, ci rimarrebbe sempre la fortuna dei Durand». Lei gli si avvicinò un poco e lui le mise un braccio intorno alla vita, continuando a guardare con ansia il cielo che si stava sempre più oscurando. Lei gli si strinse di slancio vicino, e mormorò a bassa voce: «M'almé!». Da quel momento Aysa apparve impaurita e apprensiva, con ombre di arcano terrore negli occhi viola. Cercò di dimenticare, di ridere con Price. Ma la sua gaiezza era sforzata, innaturale, febbrile. Passò una settimana, e dell'uomo-serpente non si vide traccia. Price e Aysa erano così felici! L'oasi era un giardino delle delizie, che soddisfaceva tutti i bisogni fisici. Sarebbero stati contenti di dimenticare il mondo esterno e di abitare lì per sempre. Ciascuno riceveva dall'altro una gioia mai provata prima, una felicità resa forse più intensa dalle tenebre dell'ansia. Nelle mura posteriori del cortile c'era un arco che dava su un lungo corridoio di granito, il quale riportava indietro al nucleo principale delle rovine del palazzo. Nel corridoio vicino al giardino c'era abbastanza luce, che filtrava da alte finestre senza vetri. Più in là, però, esse erano completamente oscurate dalle montagne di sabbia. Il corridoio allora diventava buio, e portava a rovine misteriose e sepolte.
Avevano esplorato il luogo fino al punto in cui arrivava la luce del sole, e poiché era l'unico posto dove esistesse ancora un tetto non crollante, ne avevano fatto l'appendice più esterna del loro giardino-dimora. In fondo al corridoio c'era una torre di pietra ancora integra, tanto alta che dominava le mura di Anz. Price saliva più volte al giorno su per i gradini sgretolati, per scrutare le rovine di Anz e il deserto circostante alla ricerca dei nemici di Aysa. La mattina del nono giorno Price vide un puntolino che si muoveva in mezzo all'oceano di dune giallo-rossastre, verso nord. Lo osservò per un'ora, finché non si accorse che era un animale con qualcosa in groppa, che correva verso la città sepolta. «Sta arrivando la tigre gialla», disse ad Aysa quando tornò da lei all'ombra delle verdi piante del giardino. Lei a sentire la notizia fu presa dal terrore. Impallidì e si mise a tremare, anche se mantenne la padronanza di sé. «È Malikar!», sussurrò. «Viene a cavallo della tigre per prendere me. M'almé, dobbiamo nasconderci! Senza le tue armi, non possiamo combattere contro l'uomo dorato! Dove...». Price accennò con la testa al lungo corridoio. «E se andassimo là? È da tempo che ho voglia di esplorarlo». La ragazza scosse la testa. «No, finiremmo per farci intrappolare, là al buio». Dopo un attimo sembrò cambiare idea. «Non importa!», gridò. «Spicciamoci!». Entrambi raccolsero un fascio di torce; le avevano fatte loro, rudimentalmente, con legna da ardere e foglie di palma secche. Poi s'incamminarono lungo il corridoio. Il corridoio, cosparso di sabbia rossa, era largo circa sei metri; il tetto ad arco era alto nove-dieci metri. Per parecchi metri continuò a giungere luce dall'entrata e dalle finestre. Poi Price e Aysa penetrarono nel nucleo centrale del palazzo, che consisteva di una montagna di rovine ricoperte di sabbia. Accesero le torce, e proseguirono attraverso le tenebre e il silenzio assoluto della città sepolta. Calpestavano senza fare alcun rumore la sabbia che ricopriva il pavimento, e parlavano istintivamente a voce bassissima. Dal lungo corridoio centrale si diramavano a tratti corridoi più stretti. Price e Aysa si fermavano ogni volta per scrutarvi dentro. Per lo più erano pieni della sabbia filtrata dall'alto; alcuni erano bloccati dai calcinacci caduti.
Alla fine, a cento e più metri dall'entrata, il corridoio centrale terminò in un nudo muro di pietra. Price era scoraggiato: non avevano trovato né un nascondiglio, né una fortezza. Il corridoio sembrava solo un vicolo cieco. Aysa imboccò decisa l'ultimo corridoio che si diramava lateralmente da quello centrale. Era più piccolo e più basso, e quasi senza sabbia. Ne avevano percorso una trentina di metri, quando videro un mucchio di legno polverizzato che un tempo era stato una porta. Di là da esso, una ripida scala portava giù. E giù si scorgeva soltanto la tenebra più fitta, immersa in un glaciale e irridente silenzio. Price non poté fare a meno di sbrigliare l'immaginazione e di pensare a strani fantasmi in agguato sulla scala buia che portava nelle viscere della città abbandonata da un migliaio d'anni. Esitò, e si mosse solo quando vide Aysa superarlo. Scesero trecento scalini, penetrarono nella cripta. Era un labirinto tetro, quello che li accolse: lunghi corridoi dalle complicate diramazioni, scavati nella roccia scura. L'aria stagnante era umida, pregna della polvere delle tombe, ma Price sapeva che non c'era pericolo, almeno finché le torce erano accese. Fermi ai piedi della scala, si guardarono attorno con apprensione. Le torce erano di gran lunga troppo deboli per illuminare le vaste stanze. Le ombre, tremolando in modo grottesco, sembravano venire loro incontro come demoni danzanti. «Preferirei affrontare Malikar all'esterno», sussurrò Price. «Metti che si spengano le torce!». Le ombre danzavano come demoni, nei tortuosi corridoi sorretti da pilastri, e un'eco beffarda ripeté: «...che si spengano le torce...». «Siamo nella cripta di Anz, tra le tombe degli antichi grandi!», esclamò Aysa. «Iru dorme qui!». Echi spettrali sussurrarono: «...Iru dorme qui!...». Price rabbrividì. Fuori, alla luce del sole, era stato abbastanza facile ridere della profezia che diceva che l'antico re si sarebbe risvegliato; ma in quelle umide e lugubri catacombe, le cui tenebre stavano in agguato pronte a sconfiggere la luce della torcia, anche le cose più macabre e assurde sembravano possibili. Piuttosto riluttante seguì Aysa, che aveva cominciato a perlustrare i muri, fermandosi a studiare le iscrizioni sopra le strette lastre di pietra scura verticali che facevano da porta alle tombe.
«La tomba di Iru!», esclamò d'un tratto Aysa, e Price sussultò. La porta di pietra era bassa e stretta, con una maniglia d'oro opaco. Aysa girò la maniglia e invitò con un gesto Price a spingere la porta con le spalle. Lui esitò, e allora la ragazza provò a spingere da sola. La porta si aprì verso l'interno quando Price si decise a darle una spallata: lo fece più facilmente di quanto lui si fosse aspettato, e senza cigolii. Price rotolò giù, e uscì in un urlo di spavento. Aysa, apprensiva, lo seguì subito. Era una piccola camera quadrata, scavata nella roccia. Nel muro più lontano, su una lunga nicchia simile a uno scaffale, c'erano i resti di Iru. Con sollievo Price constatò che l'antico re era assolutamente morto. Di lui rimaneva solo il nudo scheletro. In fondo alla nicchia c'erano le armi appartenute al re: avvolta in un drappo, una corazza a maglia lavorata finemente, coi cerchietti di connessione d'oro, una grande ascia da battaglia, e uno scudo. Price si buttò sull'ascia: finalmente aveva un'arma a disposizione. Il pesante, massiccio manico era d'oro, e privo di macchie. La lama, curva e affilata e lunga la metà del manico, portava incise in una lingua che Price non era in grado di leggere iscrizioni simili a quelle della spada di oro temprato posseduta da Jacob Garth. L'impugnatura alla base del manico era corta e grossa, di un legno duro e nero, probabilmente ebano. Pareva perfettamente conservata. Intagliata in esso c'era l'impronta di una mano: un solco arrotondato per ciascun dito. Price sollevò l'ascia come per rotearla. E le scanalature del legno si adattarono perfettamente alle sue dita, quasi che l'arma fosse stata fatta per la sua mano e non per lo scheletro di quella nicchia, che giaceva lì da mille anni e più. «Che strano», disse Price. «Si adatta perfettamente alla mia mano». «Proprio così», sussurrò Aysa. «È strano... Ma è poi davvero così strano?». Price colse qualcosa di insolito nella voce di lei, e alzò gli occhi a guardarla. Aysa era in piedi dentro la piccola tomba, e teneva in mano le torce accese. Si stagliava contro le tenebre della cripta e sorrideva, con gli occhi viola che, velati di mistero, alludevano a qualche enigmatico pensiero. Price pensò che non era mai stata così bella. Era tanto bella, che lui sentì un tuffo al cuore e provò l'ardente desiderio di abbracciarla e baciarla, l'ardente desiderio di portarla via da quel mondo di pericoli, verso un posto
lontano pieno solo di pace e tranquillità. «Andiamo via di qui», sussurrò. Aysa si voltò, e così facendo emise un gemito di orrore: la luce della torcia era caduta su un uomo che si trovava sulla soglia alle spalle di lei: un uomo alto e dal viso affilato, che aveva impressa sulla fronte l'effigie dorata di un serpente raggomitolato! Price si gettò contro l'intruso roteando l'ascia d'oro che stringeva ancora in mano. E se Aysa era apparsa impaurita alla vista dell'uomo, l'uomo apparve letteralmente terrorizzato alla vista di Price. Spalancò la bocca, e il suo viso crudele apparve addirittura trasfigurato dall'orrore. Urlando, alzò le braccia a mo' di difesa, indietreggiò, e fuggì nel buio delle labirintiche catacombe. «Uno schiavo del serpente», sussurrò Aysa. «Malikar l'ha mandato qui giù a cercarmi». «Cosa l'ha spaventato così? Sembrava che avesse visto... non so cosa!». «Io credo di saperlo, invece», disse calma Aysa. «Ha visto Iru redivivo». «Iru redivivo? Cosa intendi dire?». «In te si compie la profezia!», esclamò lei, con gli occhi viola che le brillavano. «Tu sei Iru, ritornato per sconfiggere il popolo dorato e per liberare i Beni Anz!». «Io? Ma cosa dici? È assurdo?». «Perché? Tu sei alto come Iru, hai i capelli rossi e gli occhi azzurri come lui. Non si adatta forse perfettamente alla tua mano l'impugnatura dell'ascia?». In effetti, c'erano un minimo di coincidenze. Ma Price aveva sempre visto di malocchio le teorie sulla reincarnazione. Era convinto che la vita fosse già abbastanza piena di fardelli, e che non ci fosse nessun bisogno di prendersi sulle spalle anche quelli dei morti. «In ogni modo», aggiunse Aysa, con spirito pratico, «è un bene che l'uomo-serpente creda che tu sia Iru. Perché non indossi la corazza di maglia?». «Sono disposto a farmi passare per chiunque tu voglia, tesoro, pur di farti fuggire da qui», la rassicurò Price. «E magari sarebbe utile che tu imparassi la canzone dell'ascia, le cui parole sono incise sulla lama», disse lei. «Iru la cantava sempre in battaglia». Alla luce della torcia, Aysa lesse le parole. Stranamente, Price si sentì rimescolare il sangue quando lei le recitò con un ritmo esotico e cantile-
nante. In inglese Price riusci a tradurle solo in modo rudimentale: Taglia, Giustizia in battaglia! Nemica di tutto il male! Colpisci, Figlia dell'incudine! Foggiata dal tuono! Spacca, Korlu la castigatrice! Temprata dal fulmine! Trucida, Korlu ascia di guerra! Tu che bevi il sangue vitale! Uccidi, Korlu morte rossa! Custode delle porte della morte! Price indossò la corazza di maglia. Non essendovi abituato, gli parve fredda, rigida e pesante, ma sembrava esattamente la sua taglia. Raccolse il piccolo scudo ovale e strinse forte l'impugnatura dell'ascia. Gli parve di amare Aysa più che mai mentre, seduto accanto a lei, stava all'erta nella tomba di Iru. L'aria fredda e umida delle catacombe li sfiorava con le sue ali viscide, e i minuti si allungavano in ore, nell'attesa angosciosa dell'arrivo di Malikar. Una luce verdastra tremolò sulle scale, e cinque uomini scesero giù nella cripta. Quattro erano vestiti d'azzurro, e incappucciati: due erano armati di lunghe picche, e due reggevano strane torce che emanavano una luce verde. Il quinto uomo era l'uomo dorato che Price aveva visto in lontananza a cavallo della tigre. Era gigantesco, con spalle massicce e braccia possenti. Portava in testa uno zucchetto rosso e indossava un'ampia tunica cremisi. In spalla portava la sua grossa mazza ferrata di metallo giallo. Guidò i suoi uomini direttamente alla tomba di Iru.
Un perfido ghigno di trionfo attraversava quei lineamenti duri, incorniciati da una barba dorata. Un lampo di malvagia euforia brillava nei suoi freddi occhi scuri. Occhi che esprimevano un sapere e un'età sovrumani, che riflettevano gli oscuri segreti del perduto passato. Price aspettava nella tomba, stringendo l'antica ascia. Gli uomini vestiti di azzurro erano, notò, molto impauriti. Strascicavano i piedi e avevano la faccia pallida e angosciata. Malikar li sorpassò spingendoli sgarbatamente, ma si fermò fuori della tomba. «Esci fuori, donna!», gridò con voce aspra. Aysa non rispose. L'uomo dorato strappò di mano la torcia a uno dei suoi impauriti uomini, ed entrò deciso nella tomba. Price gli si fece incontro sulla soglia. Per un attimo gli occhi freddi di Malikar espressero stupore e incredulità. Poi l'uomo d'oro lanciò a Price un'occhiata torva. «Kalb ibn kalb!», gridò, beffardo, nello stesso arabo dallo strano accento che parlava Aysa. «Iru non riesce a riposare? Lo rimetterò a dormire io!». Gettò la torcia in terra tra di loro: la sua fiamma verde continuò ad ardere, immutata. Poi alzò le braccia, brandendo la mazza ferrata. Price roteò l'ascia d'oro e mirò allo zucchetto rosso dell'uomo dorato. Quello fece un balzo indietro, riparandosi sulla soglia. La lama splendente dell'ascia fendette solo l'aria davanti al viso di Malikar. Ma anche Malikar non riuscì a colpire nel segno: sulla stretta soglia della tomba, non gli era possibile roteare la mazza. L'uomo dorato si fece avanti di nuovo, e Price cominciò a cantare la canzone dell'ascia che Aysa gli aveva insegnato. Ancora una volta i freddi occhi scuri di Malikar espressero paura. Uno degli uomini in azzurro cacciò un urlo di terrore. Dopo un attimo di esitazione, Malikar si slanciò contro Price. Muovendosi al ritmo del proprio canto, Price si ritrasse davanti alla minacciosa mazza, sollevò in alto l'ascia, e si preparò a vibrare con tutte le sue forze un colpo alla testa dell'uomo d'oro. Ma impresse troppa forza al suo colpo. Sentì un sinistro scricchiolio nel legno dell'impugnatura consumato dai secoli, e mentre l'ascia calava giù, capì immediatamente la tragedia che era successa. Una rottura fatale: Price si ritrovò con un inutile pezzo di legno in mano. La lama, con la parte di manico d'oro, cadde con rumore metallico sul pavimento della tomba. Price, atterrito, si ritrasse, e la canzone dell'ascia gli
morì sulle labbra. Si sentì invadere da un'angoscia sconosciuta. La fortuna dei Durand lo aveva tradito... Malikar, con un orribile ghigno di meravigliata gioia dipinto sulla faccia, balzò in avanti e sollevò la mazza ferrata con decisione, determinato a schiacciare il cranio del suo disarmato nemico. Con un piccolo, acuto urlo di dolore e di rabbia, Aysa si gettò in avanti mentre la mazza si abbassava. Stringeva nelle mani il pugnale dorato. Malikar fermò il colpo a mezz'aria: allungò una delle sue grandi mani dorate e afferrò il polso di Aysa, che era sollevato per colpire. Il pugnale sfuggì di mano alla ragazza, che Malikar scagliò brutalmente verso la soglia, là dove aspettavano i quattro uomini vestiti d'azzurro. Price si buttò contro l'uomo giallo, attaccandolo coi pugni nudi. Malikar, con un colpo secco vibrato con un solo braccio, calò la mazza ferrata sulla testa dell'avversario. Price lasciò cadere lo scudo ovale e si accasciò. La mazza distrusse ogni sua difesa; la testa gli diventò un'unica esplosione di fuoco. Price si tirò su a sedere, nell'oscurità fredda e umida delle catacombe. Le torce erano scomparse. Aveva una sete terribile e sentiva nella bocca secca un sapore amaro, metallico. Capì di essere rimasto svenuto parecchie ore. Brancolò nel buio. Non c'era nessun altro essere vivente nella tomba. Andò a sbattere contro qualcosa di grande, liscio e irregolarmente tondo, che finì sul pavimento con un tintinnio. Lottando contro il panico, si diresse barcollando alla porta. Ma si trovò davanti una superficie liscia, fredda, tutta d'un pezzo. Come un pazzo, fece scorrere le dita lungo la lastra di pietra. Poi ricordò che la massiccia porta di pietra della tomba si era aperta verso l'interno, e che dalla parte interna non c'erano maniglie. Era murato vivo dentro la tomba di Iru! 11 Le orme della tigre Dopo un po' di tempo Price pose fine ai frenetici tentativi per aprire la porta della tomba chiusa a chiave e, esausto, si lasciò cadere sul freddo pavimento di pietra dell'antico sepolcro. Sentiva incombere il panico: la rossa, cieca follia del terrore. Il suo cor-
po era tutto scosso da tremiti, ed era appiccicaticcio per l'improvviso sudore. Si ritrovò a battere i pugni sulla pietra fredda e levigata, e la tomba rimbombò delle sue grida rauche e inutili. Una voce calma, dentro il cervello, lo invitava a sedersi, a non sciupare le energie, a pensare. La sua situazione era disperata, quasi melodrammatica: murato in una tomba nelle catacombe di Anz, sotto una città perduta nella sabbia da secoli e secoli. Farsi prendere dai nervi, dalla paura, non gli sarebbe servito a niente. Doveva invece raccogliere tutte le sue forze, e cercare una soluzione. Non osava sperare in un aiuto esterno. Malikar e i suoi fedelissimi, allontanandosi con Aysa prigioniera, avevano naturalmente inteso lasciare lui lì a morire. Price doveva cercare di aprire la tomba con le sue sole forze. E non aveva molto tempo per portare a termine quel compito: l'aria era già viziata. I polmoni erano compressi e lui boccheggiava, nell'aria che sapeva di muffa. La testa gli ronzava e i sintomi del soffocamento erano già chiaramente presenti. In più, Price era ancora stordito dal colpo che gli aveva vibrato Malikar. Premendosi le mani contro la testa che gli pulsava, cercò di pensare. Doveva studiare attentamente la sua prigione. Se fosse riuscito a trovare qualche arnese... Cercò ansiosamente i fiammiferi e trovò la scatolina che li conteneva. Con un sospiro di sollievo ne accese uno e scrutò la piccola stanza quadrata. Tra ossa umane sparpagliate vide il manico rotto dell'ascia, poi, vicino alla porta, l'altra metà d'oro dell'arma. Lì accanto c'era anche lo scudo ovale; la pesante maglia di metallo dorato era ancora addosso a Price. D'un tratto, a causa del terribile dolore per la botta, provò un senso di vertigine: si appoggiò al muro freddo e accese una sigaretta col fiammifero quasi spento. Il fumo gli schiarì un po' le idee e coprì l'odore di ossa e di umidità della tomba. Ma Price continuava ad avere la testa che gli pulsava, e a sentirsi la bocca amara e secca. Quando ebbe finito la sigaretta accese un altro fiammifero ed esaminò la porta, una lastra massiccia di granito squadrato e levigato, messo su abilmente in modo che la serratura di metallo e i cardini rimanessero nascosti. Sulla parte esterna c'era una maniglia dorata, ma all'interno la porta era liscia, nera, priva di possibili appigli. Price s'impose di agire e raccolse, piano e senza fretta, la parte superiore dell'ascia. Mise il proprio fazzoletto intorno alla lama per proteggersi le dita, e aggredì la porta con una punta tipo piccone che si trovava dalla parte
opposta al taglio dell'arma. Il meccanismo segreto della serratura, pensava Price, doveva essere contenuto in un'intercapedine della pietra, all'altezza della maniglia d'oro. L'involucro di granito che lo conteneva doveva essere relativamente sottile, e forse era possibile romperlo. La pietra era dura e l'arnese poco adatto. Price continuava a sentire la testa pulsargli, e l'aria stava diventando sempre più irrespirabile. Mentre lavorava, spesso in preda a vertigini, ansimava e accendeva di tanto in tanto un fiammifero, per vedere a che punto era. Per un lasso di tempo che gli parve di ore continuò faticosamente ad armeggiare: al suo posto, altri avrebbero perso la pazienza, avrebbero imprecando gettato a terra l'arnese, si sarebbero lasciati morire. Ma l'idea della sconfitta, del fallimento, era inconcepibile per Price. Egli confidava ancora che la fortuna dei Durand (benché di recente l'avesse così tradito) sarebbe tornata e l'avrebbe salvato, se solo avesse continuato a combattere. Il pensiero di Aysa, oltre al pensiero della propria salvezza, lo spronava a continuare. Ormai Price aveva capito di amare la coraggiosa fuggitiva dai capelli neri. Lei, per qualche legge eterna della vita, era sua. E il fatto che fosse prigioniera lo riempiva di furia vendicativa. Alla fine l'involucro di pietra che conteneva la serratura risuonò sotto i colpi dell'ascia e si ruppe, sbriciolandosi tutto. Tenendo in mano un fiammifero, Price armeggiò con le leve di bronzo dell'antica serratura. Barcollando, spossato dalla fatica e dal senso di asfissia, tolse il pesante catenaccio, tirò a sé la porta, e corse fuori, nell'aria meno viziata dei sotterranei aperti. Folle di gioia, assaporò quell'aria che fino a poco tempo prima gli era sembrata tanto greve, poi accese una delle torce che lui e Aysa avevano portato lì nella cripta. Quindi raccolse da terra l'ascia e lo scudo ovale, trovò la scala, e salì con passo stanco in superficie. Price rise piano, di pura gioia, quando uscì alla calda luce di mezzogiorno del giardino nascosto. Mezzo accecato dal sole, rimase per un po' lì in piedi senza fare niente, a inebriarsi del chiarore abbagliante e dell'aria fresca e asciutta. Poi si diresse barcollando alla fontana, si sciacquò la bocca e bevve. Si lasciò cadere sull'erba accanto alla sorgente e sprofondò, spossato, nel sonno. Si svegliò all'alba del giorno dopo, un'alba chiara e silenziosa, e si accor-
se di avere una fame da lupi. Il male conseguente al colpo in testa era molto diminuito, e Price sentiva di poter ragionare più lucidamente. Prese un po' di cibo dalle poche provviste rimaste, mangiò, e cominciò subito a pensare a come salvare Aysa. Era tipico di Price non fermarsi a chiedersi se fosse in grado di fare una cosa, in questo caso di salvare la ragazza. Il suo unico problema era il come, non il se. Fu nella terra molle dove l'acqua della fonte era penetrata in eccesso che trovò alla fine, dopo avere mangiato, le orme della tigre. Dapprima non riuscì a capire chi le avesse prodotte, tanto erano grandi. Benché avessero la forma delle impronte di un felino, erano grandi come quelle di un elefante. Price seguì ansiosamente quelle orme profonde lungo la parte laterale del giardino: le seguì fuori del cortile e poi tra le rovine ricoperte di sabbia di Anz. Il vento non aveva ancora sollevato abbastanza sabbia da disperderle. Price decise che doveva continuare a seguire quella pista, che certamente lo avrebbe portato al più presto da Aysa. Non si fermò a riflettere sui pericoli e le difficoltà che potevano presentarsi: certo, era preparato all'idea di affrontarli, ma non li considerava un ostacolo al cammino. Lui non contemplava la possibilità dell'insuccesso, né ammetteva gli indugi, perché era essenzialmente un uomo d'azione. Indugiare avrebbe significato il disastro. La sabbia rossa, che ben presto il vento avrebbe sollevato quasi come un liquido, avrebbe finito per cancellare le impronte. Ma prima di mettersi in cammino, Price doveva fare alcuni preparativi. Prima di tutto perlustrò l'oasi alla ricerca di un bastone di legno duro: trovatolo, ne ricavò un'impugnatura nuova per l'ascia dorata, che adesso era la sua unica arma. Poi sellò i due cammelli, che nel frattempo, lì nella rigogliosa oasi, avevano recuperato quasi completamente le forze. Riempì le ghirbe, prese un fascio di foraggio per gli animali, e mise il tutto sul dromedario di Aysa. Montò sul proprio hejin e, portandosi appresso l'altro, uscì dall'oasi nascosta in cui aveva trovato lo zenit della felicità e il nadir della disperazione. Cavalcò tra gli sparsi mucchi di sabbia di Anz e sopra un'alta duna giallo-rossastra che aveva ricoperto completamente le nere mura della città. Tutto il giorno seguì le gigantesche orme della tigre. Conducevano a
nord, verso un oceano di gonfie colline a mezzaluna. All'inizio fu abbastanza facile seguire la pista. Ma nel torrido pomeriggio si levò un vento caldissimo che sollevò la sabbia, e le orme cominciarono a venire ricoperte. Entro il tramonto le impronte non si vedevano praticamente più. Price, che si trovava sul pendio di una duna, perse le tracce una dozzina di volte, ma le ritrovò poi nella valle oltre la duna. Verso il crepuscolo fu costretto a fermarsi. I cammelli erano stanchi. Benché si fossero ripresi, nell'oasi, erano stati duramente provati dal terribile viaggio che aveva portato Price e Aysa ad Anz. E Price, preso dalla sua fretta disperata, li aveva spronati senza tregua, senza risparmiarli. Diede loro da mangiare il verde foraggio dell'oasi, poi, dopo un pasto frugale, si avvolse nella sua coperta pregando che il vento cessasse. Invece il vento si rinforzò. Tutta la notte la sabbia sussurrò i suoi spettrali e irridenti messaggi: pareva quasi che schernisse Price e gli rimproverasse il destino di Aysa, caduta in mano a Malikar dalla pelle d'oro. Già molto prima dell'alba, della pista non c'era più alcuna traccia. Prima dell'alba Price sellò i due hejin e s'incamminò nella direzione in cui fino allora le orme lo avevano condotto, costringendo così le spossate bestie a un tour de force terribile. Quel pomeriggio il cammello di Price crollò sulla sabbia rovente e morì. Price diede la maggior parte dell'acqua rimasta al dromedario di Aysa e continuò a cavalcare verso nord. Dalla cima della duna successiva si voltò indietro a guardare la sagoma bianca del suo cammello abbandonata sotto il sole. Quella bestia coraggiosa lo aveva servito fedelmente, e gli rincresceva lasciarla così... ma continuò ad andare, e valicò la duna. Il giorno seguente l'ombra della follia cominciò a scendere su di lui: non ricordava più se fosse mattina o pomeriggio quando uscì dalle dune e incontrò una vasta distesa piana di argilla giallastra. Appena vide quella scena Price, ragionando con quella pigra lucidità che precede il delirio, pensò che lì le orme gigantesche della tigre non potevano essere state cancellate dal vento. Per un'ora cavalcò avanti e indietro, finché non ritrovò le gigantesche impronte. Cominciò allora a seguirle accanitamente attraverso la pianura argillosa. Quella notte di acqua non ce n'era più di un goccio. Price si sdraiò vicino al cammello, in una wadi asciutta. Aveva la bocca tumida e secca, e troppa
sete per dormire. Ma se non riuscì a dormire, riuscì però a sognare. Sognò di essere di nuovo nell'oasi perduta insieme con Aysa, di bere alla fonte di acqua cristallina, e di raccogliere frutti gustosi. Il sogno sembrava stranamente vicinissimo alla realtà. Price si accorse di stare parlando con Aysa, e quando si svegliò di soprassalto guardò con sorpresa la desolata distesa d'argilla in cui si trovava. Alla prima luce del giorno si rimise in cammino. I sogni deliranti continuarono. Di nuovo gli parve di essere ad Anz con la bella Aysa. Si trovava con lei nella tomba sotterranea di Iru, e combatteva contro Malikar. Poi si rivide lungo il sentiero dei teschi, nell'accampamento, quando aveva liberato Aysa dalle grinfie di Joao de Castro. Ma, nonostante tutte le visioni di quel semidelirio, Price continuava ad avere nel cervello disorientato un'unica idea dominante, uno scopo preciso da perseguire. E spronò il dromedario spossato dirigendosi a nord, lungo la pista segnata dalle orme della tigre gigante. Poi ridiventò difficile seguire le impronte. L'argilla si fece dura come selce: le zampone della tigre vi avevano lasciato sopra tracce appena visibili. Nel pomeriggio alla pianura argillosa si sostituì una zona di lava nera, un piatto altipiano vulcanico disseminato di sassi appuntiti sui quali il dromedario, con le sue zampe doloranti, faceva fatica a procedere, e sui quali la tigre dorata non aveva lasciato alcuna impronta. Lì le orme si perdevano irrimediabilmente. Price abbandonò ogni tentativo di ritrovarle e continuò ad avanzare verso nord, sul terreno accidentato. Giunse la notte, con le sue tenebre senza luna. Ma Price continuò a spronare il dromedario, orientandosi con la stella polare che brillava pallida sull'orizzonte deserto. La stella polare danzava, e chiamava e scherniva Price. Nel deserto illuminato dalle stelle, egli vedeva apparire e scomparire visioni strane, di totale follia. Ma continuò a cavalcare. A volte, dimenticandosi del perché andava verso nord, si chiese cosa stava cercando, cosa avrebbe trovato. Ma ugualmente continuò ad andare. 12 La roccia dell'inferno Price si svegliò all'alba, tremante e infreddolito sotto la sua coperta. Il magro hejin era sdraiato accanto a lui. Price si alzò in piedi barcollando e cercò invano di ricordarsi quando si fosse fermato. Fu allora che vide la
montagna. Nell'aria fredda e immobile del deserto appariva vicinissima, distante poche miglia dal nero altipiano vulcanico. Era una montagna a forma di cono tronco, con pareti ripide e scoscese. Sulla sua cima c'era una sorta di corona, una cresta dorata che esplose in un fulgore scintillante quando la prima luce del sole la toccò. Price in un primo tempo ebbe paura che si trattasse di un miraggio o di una allucinazione, ma col freddo dell'alba gli era tornata la piena lucidità mentale, e capì che non si trattava di un sogno. D'altra parte, era troppo presto perché si trattasse di un miraggio: e la montagna era troppo immobile, troppo reale. Price rammentò la leggenda araba che parlava di una montagna nera, la Hajar Jehannum, o «Roccia dell'inferno», sulla quale i dorati djinn abitavano, in un palazzo d'oro. Gli tornò in mente la pergamena di Quadra y Vargas, l'antico soldato spagnolo, e il suo fantastico racconto: gli «idoli d'oro che vivevano e si muovevano», e che abitavano sulla montagna, dentro la casa dorada, adorati come dèi dalla popolazione dell'oasi sotto la montagna. Gli era sembrato tutto impossibile, allora. Ma adesso aveva visto la tigre dorata e il suo dorato cavaliere, aveva combattuto contro di lui, contro Malikar, e aveva seguito le orme della tigre per tanti terribili giorni. E adesso la montagna era lì, con la sua vetta dorata. Impossibile. Ma che fosse, come tante cose impossibili, vera? Fece alzare lo stanco dromedario, gli salì in sella e lo diresse verso la montagna. Aysa era stata senz'altro portata là dal suo giallo catturatore. E là intendeva andare anche lui, per riprenderla. Probabilmente non sarebbe stato facile trovarla e liberarla, ma Price intendeva farlo. Se lui avesse fallito, sarebbe pur sempre rimasta la proverbiale fortuna dei Durand. Cavalcò tutto il giorno verso la montagna. A volte il dromedario annaspava e barcollava, e allora Price scendeva e proseguiva a piedi, tenendo la bestia per la briglia finché non si era riposata. A mano a mano che avanzava, Price aveva l'impressione che l'altipiano di lava scura diventasse più grande. Ma al tramonto riuscì a distinguere le torri e le guglie del castello, che splendevano sfolgoranti e sontuose, irresistibilmente affascinanti. Ancora una volta Price evitò di fermarsi e proseguì, cavalcando quasi tutta la notte. All'alba la montagna nera non apparve affatto più vicina, ma solo più larga. Le sue pareti nere di basalto, simili a colonne, strapiomba-
vano orribilmente. Parevano inaccessibili. Price, nei momenti di maggior lucidità, si chiedeva come potesse raggiungere il castello. Un muro merlato di pietra nera costeggiava la cima delle rocce: era un muro chiaramente inutile, perché sotto si stendeva un mezzo miglio di scoscesissimo precipizio. All'interno delle mura si levavano le guglie dell'irrangiungibile castello, dove spiccavano l'oro scintillante e il bianco brillante dell'alabastro. Si vedevano cupole, torri sottili, torrette, minareti con balconate, tetti ampi e guglie appuntite. E ancora oro luccicante e marmo chiaro. L'alto castello non era completamente d'oro. Ma nonostante ciò, il valore di tutto il metallo giallo che si vedeva risplendere doveva essere incalcolabile. Il tesoro che si presentava lassù, davanti agli occhi di Price, poteva forse rivaleggiare con l'oro di tutte le camere blindate del mondo. Ma l'oro adesso non significava niente per Price Durand. Egli stava lottando contro le nebbie della follia, contro le visioni e le allucinazioni, contro la stanchezza terribile e la sete insopportabile che gli torturavano il corpo, per un'unica ragione: una ragazza dai vivaci occhi viola, di nome Aysa. Di nuovo si rimise in cammino. Il sole vermiglio si levò implacabile ancora una volta, a est, e inondò la pianura di lava d'una luce crudele. Alla lucidità portata dal fresco della notte si sostituì la follia portata dai dardi incandescenti del giorno. Passò un po' di tempo. A giorno inoltrato, lo hejin alzò il suo collo bianco simile a un serpente, e guardò verso est: sembrava inspiegabilmente vivace, come non era da giorni e giorni. Da quel momento cercò continuamente di abbandonare la pista seguita da Price. Ma Price, col suo spietato bastone, lo spronò, costringendolo a proseguire verso la montagna. Dopo un certo tempo riuscì a distinguere degli uomini, sopra le alte mura nere. Erano sagome minuscole, vestite d'azzurro, poco più che puntolini. Ma Price pensò che ridessero di lui, che lo schernissero perché cercava di liberare Aysa, che lo beffeggiassero dall'alto della loro sicurezza. Allora imprecò contro di loro con voce rauca e sussurrante. Quando la montagna si fece più vicina, gli vennero incontro degli uomini a cavallo di cammelli. Erano uomini avvolti in tuniche azzurre, e cavalcavano cammelli da corsa. Erano in nove, armati di lunghe picche d'oro e di yataghan pure d'oro. Price, sul suo vacillante dromedario, corse loro incontro mormorando folli imprecazioni. Sapeva che quegli uomini portavano il marchio del ser-
pente dorato, sapeva che erano gli schiavi dell'uomo d'oro, di Malikar, colui che aveva rapito Aysa. Essi si fermarono sulla nuda lava davanti a lui, e aspettarono ch'egli li raggiungesse. Col braccio magro Price sollevò l'ascia d'oro appesa al pomo della sella. Cercando invano di mandare al trotto il dromedario, avanzò, gracchiando con un fil di voce la canzone dell'ascia di Iru. E di colpo i nove uomini corsero via come terrorizzati davanti a quello strano guerriero macilento, che, con la sua corazza d'oro, cavalcava un traballante e scheletrico dromedario. Corsero via, e fuggirono verso la montagna. Il dromedario di Price stava ancora cercando di girare verso destra, di allontanarsi dal sentiero della montagna, ma Price continuò imperterrito a spronarlo in direzione dei nove uomini in fuga. Loro erano già molto lontani, ma alla fine Price girò intorno alla roccia di basalto che saliva con le sue colossali colonne esagonali verso il luccicante castello, e arrivò sul versante est della montagna. Gli uomini tornarono visibili: erano in sella ai loro cammelli e si guardavano con apprensione alle spalle quando Price arrivò sul versante est. Indugiarono ancora un po', quindi indietreggiarono, e parvero penetrare dentro la montagna. Price li seguì. Quando fu in cima a un piccolo rialzo vide un tunnel scuro e quadrato scavato nella roccia: l'imboccatura di una galleria orizzontale che portava direttamente dentro la montagna. Price cominciò a salire su per il monte di basalto. Il suo hejin cadde in ginocchio per la debolezza, e si rifiutò di rialzarsi. Price smontò, prese l'ascia d'oro e lo scudo d'oro ovale, e s'incamminò a piedi. Sentì allora un gran clangore metallico, e vide che l'imboccatura del tunnel era scomparsa. Al suo posto c'era una lastra d'oro luccicante, inserita nelle parete della scura montagna. Assurdo. Price sapeva di essersi spinto fino ai limiti delle possibilità umane. Sapeva di non potersi più fidare dei suoi sensi. Forse, dopotutto, il tunnel non era mai esistito. Gli uomini in fuga potevano anche essere un'allucinazione. Ma, barcollante, continuò a salire, con la maglia dorata di Iru come corazza, e l'ascia e il piccolo scudo tondo dell'antico re di Anz. Arrivò alla lastra d'oro piantata nel fianco della montagna. Gli occhi non lo avevano ingannato: il tunnel c'era. Una porta d'oro ne aveva chiuso l'im-
boccatura. Price vide la linea di giunzione delle due ante della porta, e i massicci cardini sui lati. Pannelli enormi d'oro luccicante, alti sei metri, talmente lisci e levigati che Price poteva specchiarvisi dentro. Vista la propria immagine, Price si fermò un attimo, incredulo. Era proprio lui, Price Durand, quello? Una figura magrissima, dall'aria arcigna, con occhi incavati dallo sguardo vitreo e fisso? Erano sue quelle labbra tumide e nerastre? E quell'ombra di follia e di morte sul viso smunto e incolto? Era proprio Price Durand quello spettro macilento che portava la maglia e le armi di un re morto da secoli? Ma anche quello stupore per la propria immagine svanì, così come svanivano in Price tutte le idee, nella nebbia di follia che il deserto gli aveva creato nel cervello. Tutte le idee, tranne una, immutabile: cercare Aysa. Con voce gracchiante, Price chiese in arabo che gli aprissero la grande porta dorata. Sentì un sommesso tramestio, di là dagli xantici pannelli, ma la lastra d'oro rimase immobile. Price recitò sommessamente la canzone dell'ascia di Iru e picchiò con l'arma sulla porta d'oro. Ma essa non si aprì. Lui continuò a battervi sopra, strillò rauche imprecazioni, gracchiò il nome di Aysa. Ma la porta, immobile e beffarda, continuò a non aprirsi. Allora Price sentì vacillare lo scopo che lo aveva condotto fin lì, dopo giorni e giorni di terribile agonia. E con esso vacillò la ragione che, per sfuggire alla crudeltà di una terra inadatta alla vita, si riparò nel santuario della pazzia. E così Price rimase preda assoluta del delirio. 13 La terra dorata Per parecchi giorni Price delirò, e fu solo molto lentamente che passò dal delirio alla consapevolezza. Si trovava tra arabi. Arabi che vestivano in modo strano e parlavano un curioso dialetto arcaico. Sembravano suoi amici, o meglio, suoi sbigottiti adoratori. Lo chiamavano Iru. Price ricordò vagamente di avere sentito già da qualche parte quello strano dialetto. Aveva già sentito anche il nome di Iru. Ma dovettero passare molti giorni prima che ricordasse in che circostanze lo aveva sentito. Era sdraiato su tappeti e cuscini in una stanza lunga, buia e fresca, con pareti di mattone intonacate. Uno degli strani arabi stava di guardia tutto il giorno accanto a lui. E un uomo che sembrava il capo era venuto molte volte a trovarlo.
Il capo si chiamava Yarmud. Era un tipico arabo, alto, col naso adunco e le labbra sottili. A Price era simpatico. I suoi occhi scuri erano diretti e penetranti. Yarmud aveva un portamento semplice ma fiero. Il suo viso magro e scuro esprimeva orgoglio e dignità quasi regali. Era chiaro che Yarmud era il capo di quel popolo, eppure sembrava considerare Price un sovrano più potente. Price per la maggior parte del tempo dormiva. Non si sforzò di fare niente, a parte bere l'acqua e il latte di cammella e mangiare il cibo semplice che i suoi ospiti gli offrirono. Non cercò di interrogarli, non cercò nemmeno di capire dove si trovava. Le terribili privazioni subite durante la marcia lungo la pista della tigre lo avevano indubbiamente portato vicino alla morte. Il suo corpo torturato e la sua mente tormentata dal delirio non potevano che riprendersi molto lentamente. Finalmente un pomeriggio, quando Yarmud, figura maestosa e imponente col suo lungo abba nero dal taglio strano, entrò nella stanza di Price, Price si svegliò completamente. Si ridestò dal lungo torpore per ritrovarsi ad un tratto sano e lucido come un tempo. Benché si sentisse ancora debole, si alzò e andò incontro al vecchio arabo. Il vecchio Yarmud, vedendolo alzarsi, fece uno smagliante sorriso di contentezza. «Salaam aleikum, grande Iru», disse. E, con estremo stupore di Price, s'inginocchiò in terra. Price ripeté anche lui l'antichissima formula di saluto che si usava nel deserto, e Yarmud si alzò, domandandogli con ansia come si sentisse. «Oh, mi sono ripreso completamente», disse Price, rassicurando l'arabo. «Da quant'è che sono qui?». «Cinque giorni fa il suo dromedario, ovvero il dromedario della giovane Aysa, che è venuta a svegliarla, è arrivato al lago. Lei, Iru, era in groppa alla bestia, legato, per non cadere, ai pomi della sella». Price capì che quella doveva essere la città di El Yerim, la città da cui era fuggita Aysa. Quella gente pensava che lui fosse il leggendario re di Anz, risvegliato per liberarla dalla schiavitù che li legava agli esseri dorati. Non c'era da stupirsene, visto che lo avevano trovato nel deserto più morto che vivo, con le armi e la corazza dell'antico re. «La montagna dove abita Malikar», chiese, «è vicina?». Yarmud fece un gesto col braccio magro. «È verso nordovest. A mezza giornata di distanza». Price capì allora che il dromedario, quando aveva cercato di allontanarsi
dal sentiero della montagna, lo aveva fatto per tentare di tornare alla sua oasi. Pensò che evidentemente, dopo avere rinunciato a picchiare con l'ascia sulla porta d'oro, aveva riacquistato quel po' di coscienza che gli aveva permesso di rimontare sull'animale e legarsi alla sella. Anche se non ricordava niente di tutto ciò. Il fedele dromedario lo aveva condotto fin lì, fino a El Yerim. «E Aysa?», chiese ansiosamente a Yarmud. «Sa dove si trovi?». «No. Fu scelta da Malikar come parte del tributo da offrire al serpente. Lei riuscì a fuggire, nessuno sa come», e qui il vecchio arabo diede un'occhiata come d'intesa a Price, «e andò alla ricerca di Anz, la città perduta, per svegliare lei, Iru. Lei non sa dove sia?». Price si sentì profondamente amico di Yarmud, capendo che era stato connivente alla fuga di Aysa. «No. Malikar è venuto e se l'è portata via. Mi ha murato vivo nelle catacombe. Ma io sono uscito e ho seguito le orme della tigre. Che mi hanno portato alla montagna». «Libereremo Aysa quando sgomineremo il popolo dorato». Notando che Price era ancora molto debole, il vecchio capo dopo poco andò via, lasciandolo solo. E Price si ritrovò a meditare su un problema. Quegli arabi naturalmente lo consideravano il loro antico re risorto. E, considerandolo tale, erano indubbiamente pronti a seguirlo in una guerra contro gli esseri dorati. Dato che lui aveva le armi dell'antico re, e dato che conosceva la canzone dell'ascia, forse gli sarebbe stato abbastanza facile recitare quella parte. Ma Price per carattere era un tipo franco e diretto. Gli ripugnava l'idea di assumere un'identità che non era la sua. La mattina dopo si sentì molto più forte. E prese la sua decisione. Quando Yarmud tornò a visitarlo e fu lì lì per inginocchiarsi, Price lo fermò. «Aspetti», disse. «Lei mi chiama col nome del re della perduta Anz. Ma io non sono Iru. Io mi chiamo Price Durand». Yarmud restò a bocca aperta. «Sono nato in un'altra terra», spiegò Price. «Sono venuto qui attraversando mari e monti». L'arabo si riprese e fece concitate rimostranze: «Ma lei deve per forza essere Iru! Lei è alto e ha gli occhi azzurri e i capelli rossi! Aysa è venuta a cercarla, e l'ha trovata. Lei stesso ha detto che è uscito dalla tomba. Lei è venuto da Anz con le armi di Iru cantando la sua canzone dell'ascia». Price raccontò allora la sua vita, la spedizione nel deserto, e come fosse
arrivato a conoscere Aysa. «Sì, quegli stranieri si trovano qui», convenne Yarmud. «Sono accampati di là dal lago. Prendono il nostro cibo, fanno pascere i cammelli col foraggio dei nostri pascoli, e non ci pagano. Vorrebbero che i miei guerrieri marciassero al loro fianco per sgominare il popolo d'oro, ma nessuno di loro è, come lei, l'immagine di Iru». Alla fine Price si rese conto che era impossibile convincere Yarmud del fatto che lui non era l'antico re redivivo. Come Aysa, il vecchio capo riconosceva allegramente la veridicità della sua storia, ma insisteva a dire che cionondimeno lui era Iru ritornato in vita. E benché fosse restio ad accettare qualunque teoria sostenesse che egli era la reincarnazione di un antico re straniero, Price non riuscì a trovare nessun argomento capace di dimostrare il contrario. «Mi prometta che non dirà più di non essere Iru», gli chiese alla fine Yarmud, astutamente. «Perché i miei guerrieri sono ansiosi di marciare con lei contro il popolo d'oro». E Price, per amore di Aysa, promise abbastanza a cuor leggero. Dopotutto, forse Yarmud aveva ragione, dal punto di vista pratico. Price non intendeva farsene più un problema. Aveva già abbastanza problemi nella vita: non c'era assolutamente bisogno di caricarsene sulla groppa degli altri. Aysa, scoprì, era la figlia del fratello di Yarmud, che era stato sceicco dei Beni Anz finché due anni prima, alla stagione del raccolto, Malikar non lo aveva ucciso per punirlo di avere rifiutato di mandare il tributo annuale al serpente. Dunque Yarmud, il suo successore, era zio di Aysa: cosa che indusse Price a provare ancora più simpatia per il vecchio, fiero capo. Quel giorno, nel tardo pomeriggio, Price lasciò per la prima volta la stanza dove si era risvegliato. «Quando Aysa è scappata, Malikar ha preteso un ulteriore tributo al serpente», gli disse Yarmud. «Un cammello carico di datteri e grano, e un'altra fanciulla. Gli uomini-serpente sono venuti proprio oggi a prendere gli uni e l'altra». Price espresse il desiderio di assistere alla partenza degli uominiserpente col loro bottino. «Va bene», gli concesse Yarmud. «Ma bisognerebbe che si vestisse come i miei guerrieri. Non è bene che Malikar sappia che lei è qui. Non potremmo più prenderlo di sorpresa». Diede a Price un lungo gumbaz, una veste da pelle, un abba scuro, e un kafiyeh, che gli nascose i capelli rossi. Poi per armi gli diede una lunga
spada di bronzo a doppio taglio e una lancia dall'ampia punta e dal manico di legno. Unitosi a una ventina di uomini vestiti come lui, Price entrò a El Yerim. Si ritrovò in mezzo alle strade polverose e irregolari di una città che era disseminata di palme da dattero. I numerosi edifici bassi erano di semplici mattoni cotti al sole, gli stessi che usavano nell'antica Babilonia. Le strade, a parte gruppi di guerrieri, erano deserte: un silenzioso terrore incombeva su esse. Attraversata la città, il gruppo si diresse a nord, arrivò alla riva ghiaiosa di un laghetto. Le sue acque cristalline ribollivano al centro per l'irruenza del getto della sorgente, quella sorgente che aveva dato luogo al giardino in mezzo al deserto che Quadra y Vargas aveva definito «la terra dorata». Sulla riva opposta si vedevano file di palme verdi, e sotto di esse Price notò l'accampamento degli uomini con i quali era arrivato fino a quel deserto: le tende di lino color kaki, perfettamente ordinate, di Jacob Garth, e le altre tende bianche. I neri hejra di pelo di cammello dello sceicco Fouad el Akmet e dei suoi beduini. La grigia sagoma silenziosa del carro armato. Sotto le palme, intenti a guardare qualcosa, c'erano gruppetti di uomini in piedi: Price riconobbe il grosso Jacob Garth e il proprio nemico, Joao de Castro. Poi Price si mise a guardare ciò che gli altri stavano guardando. A circa duecento metri da lui e dai guerrieri arabi, lungo l'ampio sentiero ghiaioso che andava dalla città al laghetto, c'erano una dozzina di cammelli bianchi. In sella a cinque di essi erano degli uomini vestiti di azzurro e armati di luccicanti yataghan gialle. Gli uomini tenevano in mano le briglie degli altri cammelli. Uno di questi ultimi era carico di cesti di vimini: evidentemente, pensò Price, parte del tributo. Dalle case basse di mattoni si levò un lamento straziante. E subito comparvero altri sei uomini-serpente, due dei quali si trascinavano dietro una giovane ragazza che aveva le mani legate dietro la schiena. Dietro al gruppo veniva una donna smunta, che urlava e si batteva il petto. La ragazza sembrava remissiva, paralizzata dalla paura. Non oppose resistenza quando fu sollevata in alto e consegnata a uno degli uomini sul cammello, che depose il suo corpo inerte a cavallo della sella, davanti a sé. Gli altri uomini balzarono sui loro cammelli e li spronarono avanti con furia: mancò poco che non investissero la povera donna distrutta dal dolore. Quando gli undici uomini raggiunsero il lago, con uno di loro in testa
che conduceva il cammello scarico, Price d'impulso ebbe uno scatto. Ma Yarmud lo afferrò per un braccio e lo trattenne. «Aspetti, Iru», sussurrò. «Non si è ancora ripreso completamente dal terribile viaggio. E d'altra parte noi non siamo pronti per la battaglia. Se interferissimo adesso, Malikar arriverebbe subito e per El Yerim sarebbe un bagno di sangue. Per Vekyra, poi, sarebbe una caccia grossa! Aspetti, aspetti che siamo pronti». Price capì che il vecchio capo aveva ragione. Ma era pieno di rabbia, pieno del terribile sdegno che provava sempre quando vedeva i deboli calpestati dai forti. Si sentì invadere dalla fredda determinazione di distruggere completamente gli esseri dorati, umani o di metallo che fossero. Di distruggere gli esseri che avevano ridotto quel popolo in così triste schiavitù. Prima, forse, gli sarebbe bastato salvare Aysa. Ma adesso era freddamente deciso a eliminare senza pietà i suoi rapitori. 14 Il minaccioso miraggio Il Price Durand che, cinque giorni dopo, si diresse a dorso di cammello verso l'accampamento farengi, scortato da Yarmud e da una quarantina di guerrieri Beni Anz, non era più il vagabondo irrequieto che era partito dal Mar d'Arabia tante settimane prima. Adesso si era ristabilito completamente, le sofferenze dell'ultimo terribile viaggio erano un lontano ricordo: bruciava dalla voglia di misurarsi con Malikar, e non sopportava l'idea di ulteriori indugi. Il sole del deserto lo aveva abbronzato come un arabo e gli aveva asciugato il corpo, privandolo d'ogni superflua umidità. Price era magro, forte, resistente. Si sentiva dentro una forza nuova, che nasceva dall'aver combattuto e vinto il deserto, e che lo rendeva instancabile. Lo spirito era altrettanto rinforzato del corpo. Price a suo tempo si era unito a Jacob Garth non per il desiderio d'oro, ma per un'intima scontentezza, un'intima irrequietezza. Si era sentito, allora, come un cacciatore stanco in cerca di nuova selvaggina, come un giramondo spinto da vaghi e oscuri desideri, da indefinibili brame per indefinibili mete. Nel Rub' Al Khali aveva trovato Aysa, quella bella ragazza sconosciuta che fuggiva da un misterioso pericolo. Era fuggito con lei nel deserto... l'aveva perduta a causa di potenti persone che egli ancora non riusciva a comprendere.
Ora era determinato a trovare la ragazza e a liberarla, nonché a eliminare coloro che l'avevano rapita. Era come se la vita nel deserto avesse cristallizzato tutte le sue inquiete energie e le avesse orientate verso un unico scopo, un'unica volontà che non avrebbe ammesso né opposizioni, né insuccessi. Price era conscio di quanti pericoli fossero concreti e immediati. Aveva potuto constatare che i poteri del popolo d'oro erano grandi e minacciosi, realmente terrificanti. Ma per lui la sconfitta in assoluto non esisteva: esisteva solo in quanto stimolo a un'altra battaglia. Jacob Garth uscì dalla sua tenda e andò incontro a Price e alla sua guardia del corpo. Garth non era cambiato: era sempre un enigma. La solita faccia grossa e pallida, pacifica e priva di espressione come una maschera; i soliti occhi celesti freddi e impassibili, che scrutavano la gente e le cose da sopra il groviglio della barba rossa e riccia. Garth si fermò e soppesò per un po' Price, poi, con la sua voce tonante, disse con un tono indifferente, privo di qualsiasi pur minima meraviglia: «Salve, Durand». «Salve, Garth». Dal sua hejin, dono di Yarmund, Price guardò giù quell'omone ottusamente calmo, vestito di un abito kaki scolorito e impolverato. Vide che Garth osservava la sua maglia dorata tutta luccicante, il suo scudo pure dorato, e l'ascia anch'essa gialla. «Dov'è stato, Durand?», chiese d'un tratto Jacob Garth. Price incontrò il suo sguardo impenetrabile. «Abbiamo parecchie cose di cui discutere, Garth. E se ci mettessimo da qualche parte al riparo dal sole?». «Vuol venire nella mia tenda, qui sotto le palme?». Price annuì. Smontò dal cammello e ne diede le briglie a uno degli uomini di Yarmud. Avvertì il vecchio sceicco e seguì Jacob Garth nella sua tenda. Una volta che furono dentro tutti e due, Garth indicò con un gesto la coperta che era stesa sul terreno ghiaioso, ed entrambi vi sedettero sopra, all'indiana. Garth fissò Price in silenzio, quasi con cipiglio, poi, di punto in bianco, disse: «Lei capisce, Durand, che non può pretendere di tornare da noi in qualità di capo spedizione. Sa, gli uomini sono ansiosi di sbarazzarsi di lei, da quando ha disertato...».
«Quello fu un atto di ribellione alla mia autorità!», gridò Price. «E un atto contro tutte le leggi del vivere civile. Io non sono un disertore!». Cercò di controllarsi. «Ma non c'è bisogno che parliamo di questo. Né che lei ricorra ai suoi uomini per sbarazzarsi di me». «A quanto pare ha fatto congrega con gli indigeni», disse Garth. «Mi hanno accolto come capo. Abbiamo intenzione di sferrare un attacco alla montagna del popolo dorato. Sono venuto a vedere se vi interessa unirvi alla spedizione». Jacob Garth sembrò più interessato. «La seguiranno sul serio?», chiese. «Contro i loro dèi dorati?». «Credo di sì». «Allora forse possiamo arrivare a un accordo». La voce tonante di Garth era suadente e priva d'inflessioni come sempre. «È da settimane che siamo qui. Gli uomini si sono riposati e sono pronti all'azione. Ci siamo esercitati con le armi. E abbiamo esplorato la zona. «Ci saremmo già spinti sulla montagna, ma gli indigeni si sono rifiutati di unirsi a noi. E mi pareva una pessima strategia andare avanti e lasciare loro a custodia dell'acqua e dei viveri. Non ci fidiamo di loro». «Sono assolutamente sicuro», disse Price, «Della fedeltà dei Beni Anz a me, o almeno di quella dello sceicco Yarmud, Propongo che uniamo le nostre forze... finché non abbiamo sgominato il popolo d'oro». «E dopo?». «Lei e gli uomini potete impadronirvi da soli del castello. Io voglio soltanto che Aysa sia salva». «Aysa sarebbe la donna che lei ha portato via a de Castro?». Price annuì. «Bene, forse Joao avrà qualcosa da ridire in merito. Gli ho promesso che, qualunque donna prendiamo, la prima scelta toccherà a lui. Ma per parte mia, io accetto le sue condizioni». «Allora siamo alleati?». «Finché non avremo infranto il potere del popolo dorato». Jacob Garth tese la sua mano grassa e bianca. Price la prese e si stupì ancora una volta di vedere la forza eccezionale che si celava sotto quelle apparenze delicate. All'alba del giorno dopo, un vero e proprio esercito copriva come un grosso serpente la distanza che separava l'accampamento farengi dalla città. Il rumoroso carro armato era all'avanguardia. Dietro venivano le truppe cammellate, in doppia colonna.
Jacob Gart e il bruno Joao de Castro dagli occhi neri erano alla testa dei farengi, del loro pugno di avventurieri provati dalla vita e decisi a tutto. Gli animali da soma portavano le mitragliatrici, i cannoni da montagna, i mortai Stokes e gli esplosivi ad alto potenziale, Lo sceicco Fouad el Akmet cavalcava in testa ai suoi circa quaranta nackhawilah, o rinnegati, che portavano orgogliosamente a tracolla scintillanti cartuccere e fiammanti fucili Lebel. Price Durand, con indosso la maglia splendente di Iru, cavalcava accanto a Yarmud, in testa ai quasi cinquecento guerrieri dei Beni Anz. Esultanti «evviva» si levarono dalle colonne di uomini a mano a mano che ciascuna di esse arrivò in vista della montagna e della corona di marmo e oro del suo castello, che brillava come una promessa. Price si sentì elettrizzato, a quella vista. Involontariamente spronò il cammello perché andasse a passo più spedito, e carezzò il manico di quercia di Korlu, la grande ascia. Aysa doveva essere prigioniera dentro quel castello scintillante. Aysa, la bella, coraggiosa ragazza del deserto. «Grande è il giorno!», esclamò Yarmud accanto a lui, spronando anch'egli il proprio cammello. «Prima del tramonto il castello di Verl sarà nostro. Finalmente il popolo dorato morirà...». Di colpo Yarmud s'azzittì. In silenzio, col viso pallido per la paura, indicò la tetra montagna lontana ancora una quindicina di miglia da loro. L'intera colonna si fermò di colpo, e una soffocata esclamazione di terrore corse lungo essa. «L'ombra del popolo d'oro!», disse Yarmund, con la voce arrochita dalla paura. Davanti a loro si stava levando, nel cielo color indaco, un brillante ventaglio di luce. Raggi sottili rosa e topazio si mischiavano in una splendida piramide rovesciata. Il vertice della piramide toccava la guglia dorata più alta. I raggi colorati venivano proiettati verso l'alto da qualcosa nel castello. Sopra il ventaglio di luce rosa e zafferano apparve un'immagine. Dapprima fu vaga; enorme, quasi che fosse stata proiettata sull'intera volta del cielo, ben presto prese forma, colore, consistenza. Un serpente gigantesco, grande come una nube, si raggomitolò nell'aria sopra la montagna. Le spire gialle erano interminabili e il collo sembrava una sottile colonna d'oro, sotto la testa malvagia. Un serpente d'oro. Ogni scaglia brillava e luccicava come metallo lustrato. La testa si abbassò sulla spira più alta, e gli occhi, insidiosi, scintillanti, guardarono le colonne di
uomini bloccati dalla paura. Accanto al serpente c'era una donna, la stessa donna che Price aveva visto sul dorso della tigre nel miraggio avuto vicino al passo della catena del Jebel Harb. Una spira gialla dello spessore del corpo di lei le avvolgeva i piedi; e lei stava mezzo appoggiata alla spira successiva, che sfiorava carezzevolmente con un braccio. Il corpo della donna era giallo come quello del serpente, e aveva qualcosa della sottile, sinuosa grazia del rettile. Era racchiuso in una stretta tunica verde, che non nascondeva nessuna delle forme. I capelli rosso-dorati, lunghi, folti e sciolti, le scendevano sulle spalle. La donna, là nel cielo, guardava giù, e aveva un sorriso malvagio e sprezzante dipinto sul viso ovale ed esotico. Le labbra piene, color cremisi, erano sensuali e crudeli; le palpebre dei provocanti occhi a mandorla erano truccate di nero, e gli occhi stessi erano verdi. Price guardò quegli occhi verdi e obliqui posarsi qua e là tra le colonne di uomini e fermarsi poi su di lui. Era chiaro che la donna vedeva loro come loro vedevano lei, qualunque fosse la meccanica della proiezione. La donna fissò Price spavaldamente: da come lo guardava sembrava quasi che lo conoscesse. Poi, quando si accorse della maglia dorata, dello scudo ovale e dell'ascia d'oro, nei suoi occhi parve comparire un vago stupore, un vago timore. Ma essi continuarono a esprimere sfida e scherno, e anche un'enigmatica promessa stranamente inquietante. Il corpo esile della donna si rilassò appoggiandosi alle grosse spire d'oro del serpente. Con le unghie tinte di rosso, la donna si sollevò un attimo i capelli, per poi farli ricadere in tante cascate di riccioli sulle spalle, Price provò un improvviso, fortissimo desiderio per quel corpo sinuoso dalle curve perfette. Sentì l'improvvisa voglia di trovarsi faccia a faccia con quegli occhi verdi e beffardi. Era libidine, non amore. Lo spirito, la sacralità dell'amore, non c'entravano niente con quelle sensazioni. Price rise in faccia alla donna, con scherno. Lei gettò indietro di colpo i capelli soffici come seta e mandò bagliori di rabbia dagli occbi a mandorla. Era chiaro che aveva visto benissimo la risata di Price. Lui distolse lo sguardo e lo posò sul serpente. Anche confrontato con la grande ombra della donna era molto grosso, più grosso di lei. Come una nube sinistra, stava sospeso in cielo sopra la montagna nera, sopra il ventaglio aperto di raggi colorati. Piatta, triangolare, orrenda, la sua grande testa osservava in silenzio.
I suoi occhi scintillanti erano terribili: neri con sfumature porpora, erano fissi e accesi d'una luce fredda. Price si sentì raggelare dalla paura davanti a essi, e brividi freddi gli serpeggiarono lungo la schiena. Gli occhi del serpente erano pozzi di malvagità fredda e determinata, forti di una saggezza sinistra più antica dell'umanità. Erano ipnotici. Price si era chiesto spesso come si senta un coniglio quando rimane bloccato dalla trance traditrice della paura mentre il serpente gli scivola accanto. E in quel momento lo capì. Sentì l'impatto freddo e mortale di quella maligna, irresistibile forza, una forza impalpabile, inesplicabile, eppure spaventosamente reale. Con uno sforzo distolse lo sguardo da quegli occhi fissi, ipnotici. Si accorse, meravigliato, di avere il corpo tutto teso e ricoperto di sudore freddo. Voltandosi indietro a guardare, vide che uno strano silenzio gravava sugli uomini, un silenzio quasi di morte. Tutti quanti fissavano affascinati il miraggio. Non si udivano voci, e nemmeno esclamazioni di paura o meraviglia. «Attenzione!», gridò Price. Poi, in arabo: «Non guardate il serpente! Distogliete lo sguardo! Guardate indietro, verso l'oasi. Il serpente non ha alcun potere se voi non lo guardate». Vicino a lui, Yarmud fece un gran sospiro e disse, a bassa voce: «Il serpente è una minaccia. La nostra vittoria non sarà facile. Quegli occhi possono distruggerci». «Proseguiamo», disse Price, spronando il cammello. «Provi a cantare la canzone dell'ascia», disse Yarmud. «Gli uomini hanno paura». Price intonò il canto di battaglia dell'antico re straniero la cui corazza indossava. Un coro di evviva si levò dalla colonna, dapprima un po' incerto e sommesso, poi sempre più deciso e fragoroso. E la lunga fila riprese a cavalcare. 15 Specchi pericolosi Passarono le ore. Le truppe cammellate proseguirono il cammino, e la strana immagine continuò a stare sospesa sinistramente in cielo. La donna dagli occhi verdi e il serpente dagli occhi neri continuarono a guardare in giù. A volte l'immagine appariva straordinariamente vicina. Man mano che
le truppe avanzavano, però, si ritirava, come per mantenere costante la distanza. Price strologò alla ricerca di possibili spiegazioni scientifiche, ma non ne trovò nessuna soddisfacente. Il miraggio, pensò, doveva essere semplicemente il riflesso gigantesco di esseri reali, prodotto tramite l'applicazione di leggi dell'ottica ancora sconosciute ai comuni mortali. Il potere ipnotico e paralizzante degli occhi del serpente era ancora più sconcertante. Price pensò che il rettile d'oro doveva avere solo il lieve potere ipnotico dei comuni serpenti che però, aumentato in proporzione alle dimensioni dell'animale (probabilmente nello stesso modo usato per ingrandire l'animale stesso), diventava molto più intenso. Gli uomini erano mogi e spaventati. Il coraggio di Fouad e dei suoi beduini era strettamente dipendente dalla fiducia che essi avevano nel carro armato e nelle altre armi invincibili della banda di farengi. I Beni Anz, similmente, erano sorretti dalla loro convinzione che Price fosse un salvatore redivivo. Molte volte la colonna si fermò. Price, Jacob Garth e Yarmud correvano continuamente avanti e indietro sul loro cammello per incoraggiare gli uomini e per raccomandare di non guardare il folle miraggio sopra le loro teste, di non guardare gli occhi scintillanti del serpente, carichi del fascino freddo e mortale conferito da un'antica e sinistra saggezza. Quando furono vicino alla montagna, Price mandò avanti degli esploratori. A cinque miglia dalla grande massa di basalto nero, la testa della colonna raggiunse l'orlo di una wadi poco profonda, una vallata del diametro di mille metri. Tre esploratori in sella a veloci cammelli erano già arrivati vicini al fondo della valle, quando le basse colline incoronate di lava che dominavano il pendio opposto si animarono minacciosamente. Dal nulla sbucarono fuori decine e decine di uomini vestiti d'azzurro, che trascinavano verso la cima della collina grandi specchi argentati ed ellissoidali, che brillavano al sole: gli specchi erano sorretti da intelaiature di metallo, come lo specchio che aveva ucciso l'arabo Hamed con un misterioso raggio congelante. Le scintillanti figure ellissoidali splendevano al sole mandando strani lampi viola che, inspiegabilmente, facevano male agli occhi. Appena videro il nemico, i tre esploratori si girarono immediatamente e si diedero disperatamente alla fuga, ma non abbastanza in fretta da fuggire
al magico potere degli specchi. Il cammello in testa incespicò e cadde. Sia l'animale, sia il suo cavaliere andarono in frantumi quando caddero in terra: i loro corpi infatti avevano già fatto in tempo a congelarsi e a diventare autentici pezzi di ghiaccio. Un attimo dopo cadde anche il secondo esploratore, in un turbinio di fiocchi di neve. Poi toccò al terzo, che pure andò in frantumi come vetro. La paura serpeggiò nella colonna di uomini in attesa sulle basse colline vulcaniche che dominavano la wadi. L'incombente minaccia del miraggio era stata sopportabile perché lontana e semi-irreale. Ma quegli specchi di ghiaccio, che erano altrettanto strani e spaventosi, presentavano un pericolo tangibile e immediato. I beduini e i Beni Anz si agitarono in preda alla paura, ma vedendo che Price e Jacob Garth non si scomponevano, resistettero. Fu organizzato rapidamente un piano di difesa. Garth gridò ordini secchi. I cannoni Krupp, le quattro mitragliatrici Hotchkiss, i due mortai Stokes furono disimballati in fretta e montati in punti ben protetti della collina. Gli uomini dello sceicco Fouad el Akmed si radunarono dietro il carro armato, per seguirlo nel suo primo attacco. I quattrocentottanta guerrieri dei Beni Anz, armati, tranne cento arcieri, soltanto di lunghe spade e lance, furono tenuti temporaneamente di riserva, nella retroguardia. I due piccoli cannoni cominciarono subito a sparare, bombardando il versante opposto della wadi di granate fischianti. Le mitragliatrici Hotchkiss iniziarono a crepitare e i tiratori scelti, pancia a terra, si strinsero al petto i fucili, facendoli cantare. Qualche minuto dopo gli specchi mandarono un accecante lampo viola. Nell'aria, intorno agli uomini, apparvero mulinelli di ghiaccio, e molti caddero a terra tremanti, temporaneamente paralizzati. Ma la distanza era chiaramente troppo grande perché il raggio misterioso degli specchi avesse un effetto mortale. Gli specchi furono allora riportati indietro, e scomparvero di nuovo dalla vista. Price e Jacob Garth, che erano vicino ai cannoni, esplorarono col binocolo il versante opposto della wadi. Si vedevano una dozzina di corpi feriti o senza vita, colpiti dalle pallottole o dalle schegge. Ma i vivi erano tutti scomparsi. «Bisogna che ci muoviamo», disse Garth, impassibile come sempre. «Non possiamo permetterci il lusso di lasciare che siano loro a prendere l'iniziativa. E le munizioni del Krupp sono in rapida diminuzione».
Si girò e cominciò a impartire ordini. Il carro armato grigio salì rumorosamente in cima alla collina. Lanciato a massima velocità, scese giù per il pendio con gran clangore, calpestando coi cingoli il terreno pietroso della wadi e martellando incessante con le sue mitragliatrici. Dietro esso venivano di corsa i beduini di Fouad, coi loro fiammanti fucili Lebel. Con una carica indisciplinata ma splendida, gli arabi correvano a capofitto dietro il carro armato, tenendo alti i fucili per sparare. Erano a metà strada lungo la valle, quando dalla collina davanti a loro rispuntarono gli specchi di ghiaccio, che erano stati evidentemente nascosti dentro trincee. Un arabo cadde col suo cammello, riducendosi a un mucchio di frammenti di ghiaccio. Poi toccò a un altro e ancora ad altri due di ridursi in ghiaccio. Infine fu la volta del carro armato, che diventò di colpo d'un bianco argenteo e luccicante. Il veicolo continuò ad andare avanti ancora per qualche secondo. Price aveva sperato che la pesante struttura di metallo fosse inattaccabile dal raggio, ma ricordava bene quanto si fosse sentito vicino al congelamento, là nel Jebel Harb. Il ruggito del motore calò, poi si spense del tutto. Il carro armato cambiò direzione e si mise con la fiancata rivolta verso il nemico. Quindi restò immobile e muto, come uno spettro d'argento. Price provò un vivo rammarico per il buon Sam Sorrows. Benché i cannoni e le mitragliatrici continuassero a seminare la morte tra gli uomini in azzurro addetti agli specchi, l'insuccesso riportato dal carro armato buttò a terra il morale degli arabi. Essi fecero un immediato dietrofront e si diedero a una fuga precipitosa, durante la quale altri due di loro caddero stecchiti. Price capì che purtroppo la disfatta incombeva. L'arma di cui i farengi erano più orgogliosi era caduta in brevissimo tempo vittima degli specchi di ghiaccio. Un altro insuccesso come quello avrebbe indubbiamente fatto fuggire a gambe levate gli arabi. «Vuole tentare una carica con i suoi indigeni, Durand?», chiese Garth. «Credo sia l'unica possibilità che abbiamo. Saremo inermi quando le munizioni saranno finite». Price strinse gli occhi e guardò dall'altra parte della wadi. Sarebbe costato molte vite guadagnare l'opposto versante; ma, se si fossero ritirati adesso, i Ben Anz non avrebbero mai più il coraggio di avanzare. «D'accordo», disse a Garth. «Buona fortuna. Vi copriremo le spalle». L'omone strinse a Price la ma-
no con quella sua manona così sorprendentemente forte. Cinque minuti dopo Price cavalcava giù per la wadi roteando l'ascia d'oro e cantando l'antica canzone dell'ascia di Iru. Dietro il suo hejin in corsa venivano i guerrieri Beni Anz, sparpagliati deliberatamente in vari gruppi e file. A mezzo miglio da loro c'era la collina bassa e incoronata di lava, che risplendeva d'una decina di enormi specchi girevoli. Attorno a essi c'erano nugoli di uomini vestiti d'azzurro, molti dei quali cadevano sotto il fuoco dell'artiglieria di Garth. Ma per tanti che ne morivano, altrettanti ne spuntavano dalle trincee nascoste. Le zampe dei cammelli calpestavano il terreno sassoso producendo un cupo rimbombo. Grida di esultanza e di eccitazione risonavano, accompagnando i versi della canzone dell'ascia: «Uccidi... Korlu morte rossa... Tu che bevi il sangue vitale... Custode delle porte della morte!». Gli specchi elissoidali s'inclinarono e girarono, mandando accecanti bagliori viola. Price non si voltò a guardare. Cantando il suo canto di guerra procedette avanti, caricando; ma udì urla di terrore, e l'acuto fragore degli uomini e dei cammelli che, ridotti in ghiaccio, cadevano in mille pezzi sul terreno roccioso, come tante lastre di vetro. Price sentì arrivargli in faccia una raffica di aria gelida e mozzafiato, colma di brulicanti cristalli di ghiaccio. Un raggio congelante gli era passato pericolosamente vicino. Continuò a cavalcare. Sentiva lo scalpiccio dei cammelli degli arabi dietro di sé, e capì che non si erano arrestati. Alla fine il suo cammello s'avventurò su per la collina, in direzione dello specchio più vicino. Il grande aggeggio ellissoidale e scintillante si girò verso Price: era una lastra di metallo argenteo larga due metri e montata su un delicato e complesso meccanismo. Dietro lo specchio stavano due uomini in divisa azzurra: sulla loro fronte brillava il marchio del serpente. Mentre uno girava lo specchio, l'altro manovrava una piccola manopola. Price vide il metallo argenteo animarsi d'un bagliore viola. Ma il suo cammello ormai era già piombato sulla macchina. Lo specchio rovinò in terra con frastuono metallico. Lo hejin cadde malamente. Price balzò giù di sella e si buttò contro i due uomini in divisa azzurra brandendo l'ascia. Tutto questo accadde con la disordinata rapidità di un sogno.
Dopo un attimo, una dozzina di uomini-serpente vestiti d'azzurro circondarono Price roteando le loro gialle e infide yataghan. E dopo un attimo ancora, i Ben Anz piombavano all'attacco come un'irresistibile onda. I cannoni Krupp e le mitragliatrici avevano smesso di fare fuoco appena loro si erano avvicinati alla cima. E gli specchi di ghiaccio cessarono di funzionare appena gli uomini a essi addetti vennero buttati a terra e calpestati dai guerrieri sui cammelli. Per alcuni minuti, sulla cima della collina infuriò una tremenda battaglia senza quartiere. Duecento Beni Anz erano caduti a valle, ma i sopravvissuti che erano riusciti a risalire la collina vendicarono orribilmente i loro compagni morti. Fu un momento di totale confusione. Gli uomini-serpente si radunavano intorno ai loro specchi. I cammelli li caricavano, calpestandoli, mentre i loro cavalieri li colpivano con le spade. Uomini e cammelli crollavano sotto l'infuriare di frecce, yataghan e lance. Price, a piedi, resisteva eroicamente, roteando la grande ascia e continuando a cantare l'antico canto di guerra di Iru. Poi, di colpo, sorprendentemente, la battaglia fu vinta. Sulla cima della collina i grandi specchi giacevano in mucchi contorti di metallo. Intorno a essi e nelle trincee poco profonde alle loro spalle, giacevano senza vita i corpi insanguinati degli uomini-serpente: gli uomini vestiti d'azzurro erano tutti morti, fino all'ultimo. Qui e là si vedevano cammelli morti o moribondi. I Ben Anz sopravvissuti, che erano non più della metà, stavano spogliando in fretta i morti delle loro cose, che caricavano sui cammelli. Giù a valle, contro lo scuro terreno sassoso, spiccavano i resti bianchi e ghiacciati di quelli che un tempo erano stati uomini e cammelli. E in mezzo a essi campeggiava silenzioso il carro armato, ricoperto d'una pellicola candida. Price guardò verso la montagna. A cinque miglia dalla fosca, cupa desolazione dei terreni vulcanici si ergeva la sua inaccessibile massa di basalto: nere, ciclopiche colonne che salivano vertiginosamente per seicento metri su, fino al scintillante fulgore del palazzo del popolo d'oro, con i suoi marmi candidi e le sue guglie dorate. Dalla cima della più alta delle sgargianti torri si levava ancora il ventaglio di sottili raggi color rosa e topazio. Sopra i raggi era sospeso il misterioso miraggio. Sfidando gli occhi ipnotici del serpente, Price si arrischiò a
guardare ancora una volta l'immagine. La donna dorata, che era sempre accanto al gigantesco serpente e gli accarezzava tuttora le spire, incontrò col suo sorriso beffardo lo sguardo di Price e alzò le esili spalle come a dire: «Avrai anche vinto, ma con questo?». «Malikar!» gemette uno degli arabi preso da improvviso terrore «Arriva Malikar! Sulla tigre dorata!». Price distolse gli occhi dal miraggio e vide la tigre gialla attraversare di gran carriera la pianura di lava. Era una bestia gigantesca, grande almeno quanto un elefante, ed era sormontata da una howdah d'ebano sulla quale era seduto Malikar. Benché fosse a parecchie miglia di distanza, il gigantesco felino guadagnava terreno a incredibile velocità. Chiaramente terrificati, i guerrieri Beni Anz caricarono freneticamente il resto del bottino e fecero un rapido dietro-front, tornando nella wadi. 16 Gli strani occhi del serpente Si era ormai nell'ora torrida del mezzogiorno. Gli spietati raggi del sole si riversavano roventi sull'arida pianura vulcanica che la tigre dorata stava attraversando, battendo sui frastagliati pendii di lava sotto il torreggiante cono basaltico dell'Hajar Jehannum. Non tirava un alito di vento: l'aria tremolava per l'insopportabile calura. Dopo alcuni attimi di riflessione, Price decise di ritirarsi nella wadi che aveva appena attraversato a costo della perdita di tante vite umane, e di aspettare lì l'arrivo di Malikar. Non gli andava di fuggire davanti a un singolo uomo. Ma non era sicuro che Malikar fosse un uomo: desiderava mettersi sotto la protezione dei cannoni di Jacob Garth. A metà valle, dove gli orrendi mucchi di bianchi frammenti di ghiaccio si stavano tingendo di rosso, fermò gli arabi e si mise ad aspettare; spedì anche a Jacob Garth un biglietto dove lo informava della vittoria riportata sulla collina e dove lo avvertiva dell'arrivo di Malikar. Ben presto la tigre fece la sua apparizione sulla collina, tra gli specchi a pezzi e i corpi senza vita degli uomini vestiti d'azzurro. Per un po' la gigantesca bestia rimane là ferma: Malikar, seduto sull'howdah e avvolto nelle sue vesti rosse, si guardò intorno. Poi i cannoni Krupp cominciarono di nuovo a far fuoco. Price sentì il fi-
schio degli shrapnel sopra la sua testa. E vide nuvole di fumo bianco levarsi vicino all'immobile tigre, là dove cadevano le granate ad alto potenziale esplosivo. Poi successe una cosa strana. Malikar si alzò in piedi sull'howdah, si girò a guardare il miraggio ancora sospeso nel cielo, e alzò le mani in un imperioso gesto di comando. La donna dorata si voltò e parve parlare al serpente. Con le incredibili, gigantesche scaglie che brillavano di una gialla luce metallica, il grande serpente si mosse nel cielo. Sollevò la larga testa a cuneo e mostrò in tutta la sua lunghezza il collo esile. Lo fece oscillare avanti e indietro lentamente, con ritmo costante, mandando bagliori ipnotici dagli occhi neri pieni di sfumature purpuree. Price cercò di distogliere lo sguardo... ma non ci riuscì! Strani, freddi, malvagi, quegli occhi ipnotici lo attiravano col loro fascino minaccioso. Si sentiva paralizzato in tutto il corpo. Riusciva a stento a respirare. La testa gli pulsava, la gola era secca e contratta, gli arti erano freddi e sudati. I cannoni di là dalla wadi cessarono il fuoco, e Price capì che anche gli altri erano stati colti da quell'incredibile paralisi. Brillanti, nero-rossastri, gli occhi del serpente risplendevano della fredda forza della malvagità più irriducibile. Ma erano anche colmi di un'oscura saggezza, una saggezza più antica della stessa razza umana. Ed esprimevano una titanica, irresistibile volontà. Price si sforzò disperatamente di muoversi. Ma era attanagliato da una paralisi mortale. Il cervello era come oppresso da un peso insopportabile, la testa gli girava. Il senso di soffocamento era intollerabile, e le membra erano sempre più pervase da un freddo formicolìo. Ma non intendeva arrendersi. Non intendeva lasciarsi ipnotizzare da un serpente. Anche se era un serpente d'oro che faceva parte di un folle miraggio. Era una questione di volontà. Lui non sarebbe stato ipnotizzato! Si accorse che involontariamente muoveva la testa per seguire il movimento degli occhi del serpente, il quale continuava a oscillare il capo. Contrasse allora i muscoli del collo e lottò per mantenere la testa immobile e per guardare in basso. Tutto il suo corpo si tese. Price ebbe l'incredibile sensazione che il serpente, accortosi che opponeva resistenza, stesse aumentando il potere ipnotico che lo incatenava. Ma strinse i denti e piegò di scatto la testa. Usò tutta la sua volontà per compiere quello sforzo. E d'un tratto fu come se la corda del male si fosse spezzata. Price era libero. Debole, treman-
te, con una sensazione di nausea alla bocca dello stomaco, ma libero! Ebbe perfino il coraggio di tornare a guardare gli occhi del serpente. E la tremenda paralisi non tornò. Aveva dimostrato di essere padrone di se stesso. Si voltò, ancora barcollante per il capogiro. E vide uno spettacolo orribile. Attorno a lui c'erano quaranta guerrieri Beni Anz, a piedi come lui. Tutti erano bloccati dalla paralisi, e fissavano il miraggio. Sui loro visi pallidi e madidi di sudore era dipinta un'espressione di muto terrore. Avevano gli occhi vitrei, respiravano piano e con difficoltà. E intanto Malikar li uccideva. Il gigante dorato era smontato dalla sua strana cavalcatura gialla, che aspettava immobile a una quarantina di metri da lui, e passava rapidamente dall'uno all'altro degli immobili e paralizzati arabi, conficcando la sua lunga spada a doppio taglio nel petto di ciascuno. Gli uomini erano in piedi, bloccati e irrigiditi, e fissavano il miraggio fatale seguendo con lievi movimenti della testa l'oscillare ipnotico del crudele muso del serpente. Non si rendevano conto di Malikar, che pure era così vicino a loro, e osservavano la sinistra immagine con sguardo colmo d'un inerme e totale terrore. L'uomo d'oro agiva con rapidità, conficcava abilmente la sua spada in quei petti indifesi, la ritirava di colpo, lasciava che le sue vittime crollassero giù a terra in un lago di sangue. Indignato e inorridito davanti alla spaventosa brutalità della scena, Price, con un urlo di rabbia, si lanciò contro Malikar. Malikar si girò di scatto, mentre gli zampilli del sangue della sua nuova vittima colavano sulla sua veste rossa. Per un attimo restò immobile, come bloccato, e nei suoi scuri occhi freddi apparve, inequivocabile, l'ombra della paura. Ma poi si riprese e balzò incontro a Price brandendo la sua spada insanguinata. Price parò il colpo con lo scudo d'oro, roteò l'ascia. L'uomo giallo fece un salto indietro, ma l'ascia gli sfiorò la spalla, e la spada insanguinata gli sfuggì dalle dita. Price si slanciò avanti, nel terreno sassoso, per sfruttare il vantaggio. Ma la fortuna lo abbandonò. Inciampò in un sasso, barcollò, e cadde pesantemente in ginocchio. Mentre cercava di rialzarsi, Malikar corse a raccogliere una pesante pietra e gliela scagliò. Price tentò invano di schivarla. Sentì l'oggetto colpirgli la testa, e subito dopo un'esplosione di dolore gli invase tutto il cervello.
Quando, con un gemito, si tirò su a sedere, il sole era appena tramontato. Il vento freddo che lo aveva fatto rinvenire soffiava dalla grande montagna nera verso la tetra pianura vulcanica. Nella luce rosata del crepuscolo il palazzo d'oro e di marmo bianco in cima alle fosche pareti a picco formava una magnifica corona. E il miraggio era scomparso. Price rinvenì nello stesso punto dove Malikar lo aveva colpito. Il suolo sassoso della wadi era insanguinato e ricoperto di cadaveri a pezzi, che il caldo aveva fatto scongelare. Vicino a lui c'erano gli uomini che Malikar aveva passato a fil di spada approfittando della terribile trance in cui li aveva immersi il serpente. I loro abba neri e i loro kafiyeh bianchi erano tutti macchiati di sangue. Price era solo coi morti. Malikar e la tigre erano scomparsi. Ed erano scomparsi anche i Beni Anz, e gli uomini di Fouad e di Jacob Garth. Ma il piccolo carro armato era ancora là dove il raggio congelante lo aveva colpito: là, in mezzo alla wadi. Con un cupo, opprimente senso di disperazione, Price si rese conto che ancora una volta Malikar lo aveva sconfitto. Si ricordò con amarezza del sasso traditore che lo aveva fatto inciampare. La fortuna dei Durand lo aveva di nuovo abbandonato. I suoi alleati dovevano essersi ritirati con frenetica fretta: forse avevano infranto l'incantesimo del miraggio, così come aveva fatto lui, ed erano fuggiti. Avere abbandonato il carro armato, lui e le proprietà personali dei morti bastava a dimostrare quanto fosse stata precipitosa la fuga. Dopo quella sconfitta, pensò Price, i Beni Alz si sarebbero rifiutati di seguirlo. «Iru» era ormai screditato. E Aysa, la bella Aysa che sapeva essere seria e sorridente, riservata e allegra, la bella Aysa che aveva osato fuggire nel deserto, era ancora prigioniera nelle viscere della montagna; e Price disperava di poterla salvare. Un grosso sasso passò fischiando vicino alla sua testa e cadde con rumore di acciottolio sul duro terreno. Sbalordito, Price senti lo scalpiccìo di passi che correvano e un rauco grido di rabbia e di odio. Ancora stordito e torpido nei movimenti, si alzò in piedi barcollando e si girò a fronteggiare il suo assalitore, che nella luce ormai scura del crepuscolo si era avvicinato strisciando alle sue spalle. Brandendo la sua crudele yataghan d'oro, l'uomo, a una dozzina di metri da lui, stava preparandosi ad attaccarlo. Era un arabo, alto e vestito d'azzurro. Doveva essere un sopravvissuto, come Price. Mentre correva zoppi-
cava, saltellando in modo grottesco. E metà della sua faccia era un'orrida maschera di sangue: nell'altra metà campeggiava un occhio miracolosamente illeso, che brillava della luce sinistra dell'odio. Sulla fronte un marchio: un serpente d'oro, raggomitolato. 17 Lo schiavo del serpente Quando Price Durand s'alzò faticosamente in piedi, provò un tremendo capogiro. La testa gli pulsava forte per il dolore. Barcollò e lottò per mantenere l'equilibrio, mentre il terreno sassoso e coperto di cadaveri gli vorticava intorno. La sagoma scura dell'Hajar Jehannum, con la sua corona d'oro e marmo che brillava fosca nella luce rossa del crepuscolo, vorticava senza posa assieme al suolo roccioso. Price d'un tratto vide tutto nero, poi tornò a mettere a fuoco con gli occhi. E il deserto sassoso smise di vorticare. Per un attimo l'uomo-serpente scomparve. Poi riapparve, col suo passo zoppicante e la minacciosa yataghan stretta in mano. Col suo modo di procedere grottesco, il viso una maschera di sangue, avanzava con determinazione: e nei suoi occhi c'era una furia omicida. Price cercò di combattere lo stordimento e indietreggiò barcollando, per guadagnare tempo. Dietro di lui, in terra, c'era la pesante ascia d'oro, ma Price in quel momento non aveva né il tempo né la forza di raggiungerla e di brandirla. Continuò a barcollare sul terreno sassoso: il senso dell'equilibrio faceva fatica a tornargli. Ma alla fine riuscì a recuperare un po' di forza. In un lampo l'uomo-serpente gli fu addosso: ansava come un animale nel mezzo della lotta, spinto da un odio selvaggio e fanatico. Alzò la scimitarra, e Price allora scattò in avanti, cercando di afferrare il braccio destro dell'arabo per impedirgli di colpire. Nonostante la mossa di difesa di Price, la yataghan gialla riuscì a sfiorargli il fianco, che però era protetto dalla maglia dorata dell'antico Iru. Subito Price abbrancò l'uomo-serpente, e i due razzolarono insieme sul terreno pietroso. Con forza demoniaca l'arabo cercò di liberarsi, di usare la sua spada malvagia. Price però non mollò la presa, pur mordendosi le labbra per combattere il senso di vertigine. Tuttavia, non avendo riportato ferite ma unicamente una commozione
cerebrale, Price a poco a poco si riprese dall'intorpidimento che il lungo svenimento gli aveva procurato, e riacquistò le forze. L'uomo-serpente invece, che aveva perso molto sangue ed era animato soltano da un odio cieco e furibondo, ben presto crollò. Price lo vide lottare sempre più debolmente, finché non si afflosciò tra le sue braccia, svenuto. La ferita che l'uomo aveva nella coscia, riapertasi durante la lotta, aveva ripreso a sanguinare. Price si appropriò della yataghan, si alzò, si allontanò un po' e diede un'occhiata circospetta all'uomo-serpente. «Signor Durand?», disse inaspettatamente una voce alle sue spalle. Price trasalì, si girò di scatto. E vide lo smilzo Sam Sorrows, l'ex agricoltore del Kansas, avanzare verso di lui barcollando, con le braccia cariche di roba. «Ma come! Sam!», esclamò Price, stupefatto. «Ero quasi sicuro che fosse lei, signor Durand. Non pensavo ci fosse qualcun altro vivo oltre a me, qui intorno». «Anch'io ero convinto di essere l'unico, Sam. Ma siamo in tre». «In tre?». Price indicò l'arabo svenuto. «Lo leghi», disse Sorrows, «e venga con me fino al carro armato. Ho qui un po' di roba che ci può servire da cena». Accennò con la testa ai pacchi che aveva in mano. Price legò i polsi e le caviglie dell'uomo-serpente con i kafiyeh presi ad alcuni guerrieri Beni Alz morti, gli fasciò alla meglio la ferita sanguinante che, essendo poco profonda, non era grave, poi seguì Sam Sorrows fino al carro armato, dove Sorrows depose il suo fardello: sacchetti pieni di datteri essiccati, farina non raffinata, carne di cammello essiccata e ridotta in polvere, e un'intera ghirba di acqua. «Ho trovato questa roba nelle trincee», disse Sorrows, indicando con la testa l'altro versante della collina. Accovacciati accanto al grande veicolo di metallo, i due mangiarono e bevvero. «Sei stato colpito dagli specchi, quando eri dentro il carro armato?», chiese Price dopo un po'. «Sì. C'era con me Mawson, l'inglese. È morto. Io ero sotto, al posto di guida. Evidentemente era più protetto. Ma devo essere rimasto svenuto per un pezzo. «Mi sentivo abbastanza male quando sono rinvenuto. Avevo un freddo tremendo e tremavo tutto. E Mawson era là, già rigido e stecchito. Sono
sgusciato fuori alla luce del sole. «Ho fatto capolino dalla botola e ho visto un mucchio di arabi intorno al carro armato. C'era un gran silenzio. Tutti guardavano il miraggio, l'immagine di quel maledetto serpente. Quella bestiaccia oscillava la testa avanti e indietro e aveva ipnotizzato tutti. Ma io ho distolto subito lo sguardo, sa! «E allora ho visto quella tigre là, grande come un elefante, con una sella in groppa. E davanti un uomo giallo che passava a fil di spada tutti quelli che fissavano il miraggio. «Poi ho visto lei lanciarsi contro l'uomo giallo e ho visto lui colpirla con un grosso sasso. «Poco dopo qualcun altro ha cominciato a liberarsi di quel dannato incantesimo. Ho sentito sparare una o due volte, e le granate fischiare. L'uomo giallo è corso dalla sua tigre, e gli arabi sopravvissuti se la sono data a gambe. E io sono tornato giù al posto di guida». «E Jacob Garth?», chiese Price. «È scappato?». «Credo di sì. Quando sono tornato fuori di nuovo, pareva che stessero imballando i cannoni. Immagino che ormai ne avessero abbastanza». «Tu cosa pensi di fare?». «Mi sentivo abbastanza a terra quando sono rinvenuto, circa un'ora fa», disse, ridendo. «Sono andato in giro a cercare cibarie. Ho pensato di dormire nel carro armato stanotte, e di cercare di tornare all'oasi domattina. Lei è d'accordo? Dovremmo arrivarci entro il mezzogiorno». Price si limitò ad annuire. In cuor suo rifletté sulla situazione. Un'ora dopo Price tornò dal suo prigioniero e vide che era rinvenuto. Dopo avere provato inutilmente a liberarsi, l'uomo si rassegnò e guardò torvo Price, con occhi pieni di odio. «Chi sei?», chiese Price nell'arabo arcaico dei Beni Anz. Quello non rispose, ma alla luce della luna Price vide il suo ostinato cenno di diniego, e capì che aveva capito. Tornò al carro armato, dove Sam Sorrows armeggiava intorno al motore preparandosi alla partenza di buon mattino, e prese una borraccia mezza piena d'acqua. Tornò dai prigioniero, gliela posò accanto badando a fargli sentire lo sciacquìo dell'acqua, e ripeté la domanda. Dopo mezz'ora l'arabo cedette e parlò. «Mi chiamo Kreor», disse. «Sono uno schiavo del serpente e obbedisco a Malikar, sacerdote del serpente». E gemendo chiese l'acqua.
«No», disse Price. «Devi dirmi di più e promettermi di aiutarmi, se vuoi bere». «Sono legato da un giuramento al serpente», sibilò l'uomo. «E tu sei Iru, l'antico nemico del serpente e di Malikar. Se tradissi, gli occhi del serpente mi scoverebbero e mi ucciderebbero». «Provvederò a che tu sia dakhile (protetto)», lo assicurò Price. «Dimentica il serpente, se vuoi bere, e servi me». L'arabo rimase in silenzio per un pezzo, a fissare con aria sdegnosa il cielo stellato. Stava quasi per perdere le speranze, quando l'uomo-serpente si decise. «E va bene», sussurrò. «Rinnego il serpente, e rinuncio a servire Malikar, sacerdote del serpente. Sono il tuo schiavo, Iru. E... dakhile?». «Dakhile», lo assicurò ancora Price. Ma l'arabo aveva parlato con un tono di astuta ipocrisia che non lo convinceva affatto. Price si rammaricò che il chiarore delle luna non fosse più intenso, così da permettergli di guardare meglio in faccia l'uomo. «Ora dammi l'acqua, grande Iru», disse l'arabo. Price, ancora una volta, deluse le sue speranze. «Prima mi devi dimostrare la tua fedeltà. Rispondi a questa domanda: dov'è la ragazza di nome Aysa che Malikar ha rapito ad Anz?». L'uomo-serpente esitò, e parlò con riluttanza: «Aysa dorme tra le nebbie d'oro, nella tana del serpente». «Cosa sono queste nebbie? Dov'è la tana del serpente?». «Sotto la montagna. Nel tempio sopra l'abisso delle nebbie d'oro». «Dorme, hai detto? Cosa significa?», domandò Price con un'ombra di panico nella voce. «Non vorrai dire che è morta, vero?». «No, non è morta. Dorme il lungo sonno dei vapori dorati. Malikar le rende un grande onore. Ella entrerà a far parte del popolo d'oro». «È meglio che ti spieghi un po' di più», disse Price, minaccioso. «Di' la verità, se vuoi bere. Cos'è questa storia delle nebbie d'oro?». Di nuovo l'arabo esitò e guardò torvo Price coi suoi occhi astuti dove l'odio non era del tutto sopito. Price scosse la borraccia con l'acqua, e l'altro si arrese. «Nelle caverne sotto la montagna», disse, «ci sono i vapori dorati, l'alito della vita. Coloro che li respirano dormono. E dormendo diventano dorati e immortali, come Malikar». «Allora Aysa viene trasformata in un essere d'oro?», chiese Price, incredulo.
«Sì. Presto il sangue sarà d'oro. Quando si sveglierà diventerà la sacerdotessa del serpente. E Vekyra sarà certamente furiosa di apprendere che Malikar è stanco di lei». «Vekyra?», domandò Price. «Chi è?». «È l'antica sacerdotessa del serpente. Una donna d'oro. Sacerdotessa... e amante di Malikar». «È quella che s'è vista nel miraggio sospeso sopra la montagna?». «Nel cielo? Sì. Vekyra è anche padrona dell'ombra. Ha poteri suoi. Malikar non si libererà facilmente di lei». Price non si fidava dell'uomo. Era difficile che gli dicesse la verità uno che gli era saltato alla gola appena un'ora prima, e che adesso era legato e prigioniero. Inoltre, si coglievano ogni tanto nel suo tono di voce, sfumature di odio e di disprezzo. Ma, naturalmente, l'arabo non voleva morire. Era ugualmente possibile, forse, ottenere un certo aiuto da lui, un minimo di informazioni attendibili. Si trattava di una gara tra le loro due intelligenze. Che qualche diabolico composto chimico stesse davvero trasformando Aysa in un altro mostro dorato? Poteva ben essere una fantasiosa invenzione dell'uomo-serpente. Ma il racconto aveva una sua fosca verosimiglianza che mise Price sul chi vive. «Conosci», domandò, «il modo per entrare segretamente nelle viscere della montagna, dove si trova Aysa? Il tunnel è custodito in continuazione?». Kreor ripiombò nel silenzio: si vedeva che tremava. «Rispondimi!», gridò Price. «Dimmi, dunque. Puoi portarmi fino al posto dove si trova la ragazza?». «La collera del serpente, e di Malikar», borbottò l'arabo. «Ricordati che sei dakhile», disse Price. «Ma sono ferito», protestò l'uomo-serpente. «Non potrei mai arrivare fino alla montagna». «Le tue ferite non sono gravi», lo rassicurò Price. «Già domani sarai in grado di camminare, anche se magari ti farà un po' male. Su, parla». «Non si può penetrare oltre la porta. È sempre chiusa ermeticamente, e sorvegliata». «Esiste un'altra strada?». Di nuovo l'uomo esitò, palesemente sulle spine. «Un'altra strada c'è, grande Iru. Ma molto pericolosa». «Qual è?». «In alto, sulla parete nord della montagna, c'è uno stretto crepaccio che
porta a una grande caverna. Dalla caverna parte una strada che porta ai corridoi che conducono giù alle nebbie d'oro. Ma il pericolo è grande, Iru. Salire fino al crepaccio non è facile, e sopra la tana del serpente ci sono le guardie». «Ci andremo», disse tranquillo Price, «appena potrai camminare. E sarà meglio, molto meglio che tu mi abbia detto la verità». Finalmente permise all'uomo di bere. Poi andò a prendere del cibo dal carro armato, slegò la mani al prigioniero, lo fece mangiare, e lo legò accuratamente di nuovo. Quella notte Price e Sam Sorrows dormirono e vegliarono a turno. Quando fu il suo turno di sentinella, Price sedette con la schiena contro il carro armato, sotto le stelle, e mentre assaporava la frizzante aria del deserto pensò a lungo alla piega che avevano preso gli avvenimenti, e a cosa fare l'indomani. La mattina dopo sarebbe potuto tornare col carro armato a El Yerim, e l'avventura sarebbe finita. Certo i Beni Anz non avrebbero accettato mai di tornare a combattere sotto il suo comando, e il vecchio Yarmud avrebbe trovato modo di ricordarsi che lui aveva negato di essere Iru. Difficilmente poi avrebbe potuto unirsi di nuovo alla comitiva di Jacob Garth, visto che Joao de Castro ce l'aveva a morte con lui. Se fosse tornato indietro, non gli sarebbe rimasto altro da fare che procurarsi uno o due cammelli e riprendere la strada verso la civiltà. In quel caso non avrebbe mai risolto gli strani misteri che gli si erano presentati: il mistero del miraggio, e quello del popolo dorato. E soprattutto, ciò ch'era infinitamente peggio, non avrebbe mai più visto Aysa. L'altra alternativa era rimanere con Kreor finché l'arabo non si fosse riavuto, e affrontare la montagna da solo. Era un piano disperato. Era chiaro che l'arabo lo odiava e che certo, appena se ne fosse presentata l'occasione, l'avrebbe tradito. E l'occasione si sarebbe presentata quasi certamente. Le possibilità di sopravvivere a quell'avventura erano molto esigue. Tuttavia Price non fu mai realmente esitante. Aveva già preso fin dall'inizio la sua decisione, una decisione inevitabile. «Saremo all'accampamento entro mezzogiorno», disse allegramente Sam Sorrows quando, all'alba, fecero colazione insieme. «Io non vengo con te», disse Price. «Cosa?!». «Voglio provare a salire sulla montagna da solo. Mi guiderà il nostro
amico vestito di azzurro. Resteremo nascosti qui finché lui non sarà in grado di camminare». «Ma, signor Durand...», protestò Sam Sorrows, «a me... a me non va di vederla fare una cosa del genere. Io non mi fiderei di quel tizio. È... un serpente!». «Nemmeno io mi fido di lui. Ma non ho altra scelta». Sam Sorrows lo fissò, sorrise e si alzò scuotendo la testa. «Buona fortuna, signor Durand. È veramente una pazzia. Ma può anche darsi che ce la faccia. Le lascerò la ghirba e il cibo. E c'è il caso che trovi qualcos'altro, là nelle trincee». Mezz'ora dopo il carro armato si diresse ruggendo verso l'oasi. Price legò una briglia al collo del suo prigioniero, gli slegò le caviglie e lo condusse a un nascondiglio tra i massi di lava, mezzo miglio più giù, nella wadi. Kreor zoppicava e si lamentava, ma riusciva a camminare. Price gli legò di nuovo le caviglie e tornò al campo di battaglia, a cercare acqua e cibo. Prese tutto ciò che riuscì a portare in mano. Per due giorni Price tenne legato l'arabo, curandogli le ferite. Il secondo giorno, nel tardo pomeriggio, mentre Price dormiva, l'uomo-serpente riuscì a slegarsi. Disturbato da un vago senso di pericolo, forse dal lieve suono dei passi e del respiro dell'arabo, Price aprì gli occhi e vide davanti a sé Kreor che, con le braccia sollevate, si preparava a scagliare una grossa pietra. 18 Ghiaccio d'oro Afferrando l'antica ascia di battaglia che teneva sempre accanto a sé, Price rotolò su se stesso, allontanandosi dall'ombra del masso che gravava sopra di lui. La pietra cadde, un secondo dopo, nel punto in cui fino a un attimo prima si era trovata la sua testa. Con agilità Price scattò in piedi, brandendo l'ascia. L'arabo fece per buttarglisi contro; poi, rendendosi conto di essere inerme, si trattenne, incrociò le braccia sul petto e fissò Price con folle odio. Price, immobile, lo guardò risolutamente negli occhi. «Uccidimi, Iru», mormorò l'arabo. «Colpisci, perché io possa essere accolto nell'abisso del serpente». «No. Ma stasera stessa mi porterai da Aysa. Se sei capace di uccidermi, devi anche essere capace di camminare. Ci farà luce la luna. E se tenterai
qualche trucco, allora non ti perdonerò più, e ti spaccherò la testa in due». L'uomo assentì con tanta remissività che Price trovò la cosa inquietante. «Benissimo, Iru. Poiché gli dèi ti hanno svegliato, non tenterò più di tradirti». Price annodò la briglia intorno al collo dell'uomo, per impedirgli qualsiasi tentativo di fuga. Finirono il resto del cibo e dell'acqua, s'incamminarono per la pianura vulcanica in direzione della montagna, che si profilava scura contro il chiarore della luna. La montagna distava cinque miglia, forse otto o nove prendendo la strada che presero loro, verso la parete nord. Price, tenendo la corda, costringeva la sua guida a camminargli davanti. L'uomo zoppicava un po', e fu solo dopo mezzanotte che arrivarono alla scoscesa parete. La luna era bassa, e faceva buio lì, a ridosso della montagna. Era impossibile, disse Kreor, fare la scalata al buio. Si sdraiarono allora a riposare sulla nuda lava. L'arabo si mise a respirare pesantemente, come se dormisse, ma Price tenne stretta a sé l'ascia e lottò per non dormire. Tenne la corda sempre tirata. Verso l'alba sentì allentarsi e capì che Kreor stava per assalirlo. Diede uno strattone alla fune, e l'arabo cadde a gambe all'aria vicino a lui, protestando la sua innocenza e dicendo che si era alzato solo per sgranchirsi. Alle prime luci del giorno cominciarono a salire piano piano su per uno stretto camino tra due pareti di basalto. L'uomo-serpente era in testa e Price lo seguiva con la corda annodata intorno alla vita, in modo da lasciare libere entrambe le mani. Dopo mezz'ora di difficile scalata si trovarono davanti a una parete quasi verticale, che saliva per un centinaio di metri. Kreor, che era sempre davanti, guadagnò uno stretto orlo dove poteva stare in piedi senza tenersi con le mani, e cercò con tutte le forze di sciogliere il nodo che gli stringeva la gola. Aveva astutamente scelto un momento in cui Price aveva bisogno delle mani e dei piedi per tenersi alla roccia. La loro era una gara disperata che aveva come posta la vita: se fosse riuscito a sciogliere il nodo che lo legava, Kreor avrebbe potuto facilmente spingere giù Price, in un abisso di qualche centinaio di metri. Price si drizzò con incauta rapidità. L'arabo riusci a sciogliere il primo nodo; ma Price, in previsione di un evento del genere, aveva fatto vari nodi. Alla fine, tremante e ansimante per lo sforzo, Price raggiunse un piccolo crepaccio che gli permise di liberarsi una mano. Afferrò la corda e le
diede un tale strattone, che l'uomo-serpente per poco non precipitò giù dall'orlo. «Continua ad andare», gli ordinò. «E tieni tirata la corda». Ringhiando di rabbia e di odio, l'arabo entrò tutto rannicchiato in uno stretto crepaccio sopra l'orlo. Seguendolo, ma tenendo la corda sempre tesa, Price raggiunse l'orlo e da lì passò al crepaccio, che lo condusse in una piccola caverna buia. Kreor lo condusse da un antro all'altro. La luce del giorno presto si perse alle loro spalle, ed essi si ritrovarono in un'oscurità abissale. Era molto umido e dalle pareti, dal suolo e dal soffitto sporgevano sassi appuntiti. A volte era difficile penetrare dentro gli stretti corridoi tra una caverna e l'altra: due volte furono costretti a percorrere un discreto tratto strisciando carponi. Più e più volte Price ordinò alla sua guida di tenere la corda tesa. E continuò a farle domande sottovoce, di modo che le sue risposte gli svelassero la posizione in cui si trovava. Finalmente arrivarono in una caverna più grande. Era troppo buio perché Price potesse valutare esattamente la sua ampiezza ma il debole rumore dei loro passi echeggiava lievemente, se si stava bene ad ascoltare, come se si trovassero in un ambiente grande. Mentre l'arabo procedeva nella misteriosa oscurità, Price contò duecentosessanta passi. Cercava di imprimersi in mente le distanze e le direzioni, in modo da riportare indietro Aysa sana e salva, nel caso fosse riuscito a trovarla. «A questo punto stiamo per imboccare il corridoio, Iru», disse Kreor. «Che ci siano le guardie qui vicino?». «Credo di no. Questi corridoi sono lontani e fuori mano». «Torna indietro, qua». Price tirò la corda e riportò l'uomo dentro la caverna. Kreor emise un gran lamento. «Zitto!», sibilò Price. «Non ho intenzione di ucciderti. Sdraiati». Accese un fiammifero per assicurarsi che l'uomo gli obbedisse. Poi lo imbavagliò mettendogli un fazzoletto in bocca e legandogli un kafiyeh intorno alla testa. «Alzati», gli comandò poi. «E portami da Aysa. Se riuscirò a uscire di qua con lei, ti libererò». Con scontrosa riluttanza Kreor condusse Price dalla caverna a uno stret-
to tunnel dal pavimento liscio. Un'aria fredda e umida vi spirava in mezzo: forse, pensò Price, si trattava di una ventilazione artificiale. Price contò centottanta passi prima che l'uomo-serpente girasse a sinistra. Entrarono in un corridoio più ampio, sempre completamente buio. Con passo sicuro l'arabo procedette lungo esso. D'un tratto su una parete nera davanti a loro brillò una luce verde: strane ombre ingrandite vi danzavano dentro. Price diede uno strattone alla corda e fece fermare Kreor. «Cos'è?», chiese. Poi, ricordandosi che Kreor era imbavagliato, disse: «Mettiamoci al riparo. Presto!». L'arabo rimase immobile. Price era inerme. Non sapeva da che parte andare per mettersi in salvo. E lottare con l'arabo per obbligarlo a obbedirgli avrebbe messo in allarme chiunque si stesse avvicinando. A una cinquantina di metri da loro tre uomini vestiti d'azzurro sbucarono nel corridoio buio, provenienti da un corridoio trasversale. Due portavano lunghe picche dorate, il terzo una torcia che emetteva una strana fiamma d'un vivido verde. Kreor tentò inutilmente di urlare nonostante il bavaglio. Price diede un furioso strattone alla corda e accarezzò l'impugnatura della sua ascia. I tre si fermarono un attimo. Quello con la torcia stava parlando: gli altri due risero, come avesse detto una sciocca facezia. Poi si rimisero tutti in cammino prendendo la direzione opposta a quella di Price. La luce della torcia, che tremolava sulle pareti, sul soffitto e sul pavimento, racchiudeva i tre uomini come in una cornice e li faceva apparire ombre scure sullo sfondo di un quadrato verde. Il quadrato si fece più piccolo, poi scomparve: il corridoio aveva svoltato da qualche parte. «Va' avanti», sussurrò Price. «E non cercare di gridare un'altra volta». Di nuovo procedettero al buio. L'arabo sembrava non avere bisogno della luce. Price teneva la corda tesa e contava i passi. Kreor voltò a sinistra, infilando un corridoio che scendeva rapidamente in giù e curvava leggermente a sinistra. Price calcolò approssimativamente il grado di pendenza e continuò a contare i passi, per poter capire alla fine la reale entità della discesa. Quando si accorse per la prima volta di una strana luce gialla, avevano già percorso circa ottocento metri di discesa. Ciò significava, secondo i suoi calcoli, che il tunnel a spirale li aveva fatti scendere di quasi duecento metri: e forse si trovavano addirittura di cento metri sotto al livello della pianura circostante.
La luce, dapprima, fu solo un vago chiarore dorato appena percettibile. Ma a mano a mano che scendevano giù per il corridoio silenzioso, con l'arabo che di malavoglia mostrava la strada, la luce si fece più forte, diventò una nebbia gialla fatta di minuscoli atomi che danzavano senza posa. Price ora poteva vedere le pareti del corridoio: erano di nero basalto, scavate nel cuore lasciati dagli arnesi. Il tunnel era largo circa due metri e mezzo e alto un po' più di così. Scendeva giù formando una grande spirale. Scesero altri cinquanta-sessanta metri di tunnel illuminato, finché arrivarono all'incrocio con un corridoio trasversale. Lo avevano appena superato, che Price sentì delle voci giù, davanti a sé. Le voci di un uomo e di una donna. Erano concitate, stridule, arrabbiate. «Torna indietro», sibilò a Kreor. Fece imboccare all'arabo il corridoio trasversale, che era della stessa ampiezza dell'altro e pieno d'una nebbia gialla, traslucida e brillante. Nebbia d'oro. Quelle parole risonarono d'un tratto in testa a Price. L'uomo-serpente gli aveva detto che Aysa dormiva nelle viscere della montagna, tra vapori dorati destinati a trasformarla in metallo vivente. Che quella strana luce fosse la nebbia dorata di cui parlava Kreor? Che la sua storia bizzarra fosse vera? Mentre seguiva l'ingrugnito arabo lungo il tunnel, Price notò una cosa straordinaria. Le pareti del corridoio erano ricoperte di ghiaccio dorato. Sopra la superficie di basalto, nera e levigatissima, si stendeva una coltre di cristalli luccicanti, una brina d'oro, un delicato disegno di fiocchi gialli. Perfino il pavimento ne era ricoperto. Ghiaccio d'oro! Era straordinario. I cristalli, pensò Price, dovevano essere stati depositati dalla nebbia gialla. Ciò significava che la nebbia era un qualche composto volatile dell'oro, formatosi, probabilmente, in quel laboratorio naturale che era il sottosuolo del vulcano. Price grosso modo comprendeva il processo di pietrificazione, un processo in cui ogni minima cellula di un animale viene perfettamente sostituita da minerali. Attraverso quel processo si creavano i fossili, destinati a durare anche un milione di anni. Era abbastanza facile capire come un simile processo potesse trasformare un animale, o un essere umano, in oro. Ma poteva, quel processo, aver luogo senza distruggere la vita? Naturalmente no, se i tessuti venivano sostituiti con oro puro. Ma quel vapore giallo non era oro puro. Per esistere in forma di vapore a simili temperature, doveva essere volatile circa quanto l'acqua. L'acqua è la base della vita, di tutti i composti protoplasmici. Che quella
nebbia gialla fosse un composto dell'oro distillato nella vasta storta naturale del vulcano, in grado di sostituire l'acqua presente nel corpo umano senza sconvolgere alcun equilibrio chimico? L'idea era sconcertante, ma non impossibile. Assorto nelle sue congetture, Price si era quasi dimenticato dell'uomo imbavagliato all'altro capo della corda. E d'un tratto si accorse che la corda era lenta, nelle sue mani. Il tunnel era appena sfociato in una stretta balconata dalla ringhiera di pietra. Di là da essa, e sotto, non c'era che il vuoto invaso dalla nebbia d'oro. E d'un tratto l'uomo-serpente, che stava in agguato vicino all'imboccatura del tunnel, si slanciò con silenziosa ferocia contro Price. 19 Lotta per la supremazia Quando l'arabo gli si scagliò contro, Price fece un salto indietro, impugnò l'ascia per difendersi e nel contempo, d'istinto, lasciò cadere a terra il capo della corda che teneva in mano. Probabilmente Kreor si aspettava una simile reazione, perché voltò immediatamente le spalle rinunciando al suo attacco suicida, e si gettò a correre lungo il tunnel, arrotolando la corda mentre scappava. Price si lanciò all'inseguimento, ma l'uomo-serpente sembrava miracolosamente guarito dalla ferita. Correva come un fulmine e guadagnò terreno in fretta, scomparendo ben presto alla vista. Price, arrivato troppo tardi nel punto dov'era scomparso, guardò in alto e in basso, tra le nebbie dorate. L'arabo si era volatilizzato senza fare il minimo rumore. Price si diede dello stupido per averlo lasciato scappare, ma non poté fare a meno di provare una certa ammirazione per il suo ex prigioniero. Certo, era un fedelissimo dell'insidioso Malikar, seguace di un crudele culto del serpente, di cui portava anche il marchio; inoltre, aveva tentato di uccidere Price ogni volta che ne aveva avuto l'occasione. Ma era proprio per la sua determinazione e per la sua irriducibile caparbietà che Price era arrivato a stimarlo un avversario degno. E dunque, anche se sapeva che l'uomo si sarebbe affrettato a dare l'allarme, non poteva dispiacersi completamente del fatto che fosse scappato. Per un attimo restò lì in fondo al corridoio trasversale, incerto se tornare al balcone dove Kreor si era liberato di lui, o scendere giù per il tunnel a
spirale che probabilmente aveva imboccato l'arabo. La curiosità lo induceva a tornare al balcone: era una vista strana e meravigliosa quella che aveva colto un attimo prima della fuga dell'uomo-serpente. Il balcone era largo sei metri circa e lungo il doppio, e aveva un parapetto basso, di pietra. Di là da esso si apriva uno spazio enorme: una sala circolare del diametro di cento-centocinquanta metri, ricavata nella roccia. Il soffitto era una gigantesca cupola incrostata, con le pareti di ghiaccio d'oro. La colossale sala era piena di nebbia gialla e scintillante. Price si sentì intimidito da quell'immensità, da quel mistero. Fu quasi con timore che si spinse fino all'orlo del balcone e guardò giù dalla ringhiera. Il pavimento era distante almeno un centinaio di metri, se non di più. Incrostato di ghiaccio con le pareti, formava un grande semicerchio davanti a Price, ma s'interrompeva, perché la parte di sala direttamente sotto il balcone non aveva pavimento. La coltre di brina d'oro terminava formando una linea frastagliata. Oltre questa si apriva una voragine, un grande baratro pieno di nebbia gialla. Price giudicò che scendesse giù a profondità inaudite, di molte, molte miglia. Profondità insondabili e terrificanti. La sala circolare sopra l'immenso abisso era scavata nel basalto. E metà di essa aveva per pavimento proprio la voragine. Era come un tempio colossale creato sopra il laboratorio naturale dal cui crogiolo vulcanico aveva avuto origine lo strano vapore d'oro. Mentre stava appoggiato al parapetto di pietra ricoperto di ghiaccio dorato, Price vide un ponte, un sottile arco di pietra nera che attraversava il vertiginoso abisso. Partiva da sotto il balcone e arrivava fino al termine del pavimento, là dove esso s'interrompeva in una linea frastagliata, nel centro della sala. Incredibilmente stretto, il ponte dall'alto appariva poco più spesso di una corda. La sala era come un teatro. Il mezzo pavimento era il palcoscenico. L'abisso attraversato dal ponte era lo spazio per l'orchestra, col pavimento crollato. E l'alto balcone cui era appoggiato Price era un palco per una persona sola. Price era ancora lì che guardava giù dal parapetto, quando sul palcoscenico salirono attori che si misero a recitare uno strano, sorprendente dramma. Fianco a fianco uscirono da un'apertura quadrata, probabilmente l'imboccatura di un corridoio, che dava sul pavimento della sala. Erano Mali-
kar e Vekyra, tanto lontani da sembrare quasi marionette. Malikar, l'uomo d'oro contro cui Price aveva combattuto già due volte, portava la solita veste rossa sul corpo massiccio, e lo zucchetto rosso in testa. Teneva raggomitolata in mano, una frusta spessa e lunga. Price finalmente vedeva Vekyra dal vero, non più in quelle strane proiezioni nel cielo. La sua bellezza esotica, selvaggia e sensuale, era quasi sconvolgente. Il suo corpo snello e flessuoso era avvolto in una veste verde, che lo fasciava. I capelli rosso-dorati erano tenuti indietro da un'ampia fascia nera. Le unghie, le labbra e le guance erano tinte di rosso; le palpebre, sopra gli occhi verdi a mandorla, di scuro. Malikar e Vekyra camminavano abbastanza scostati l'uno dall'altra e sembravano litigare. Price capì immediatamente che erano le loro, le voci che aveva sentito lungo il corridoio a spirale. La voce di Vekyra, pur nella rabbia, conservava una certa chiarezza argentina, mentre quella di Malikar era rauca e sgradevole. Price, tuttavia, non riuscì a distinguere le parole che venivano dette. I due parlavano in fretta e il suono si perdeva per via dell'eco che rimbombava nella sala. Non era nemmeno sicuro che parlassero una lingua a lui familiare. La donna d'un tratto si allontanò di corsa da Malikar e salì una scala che portava a una piattaforma di pietra che ricordava un altare, e che era collocata all'interno di una nicchia in fondo al grande «palcoscenico». Price non aveva ancora guardato attentamente la piattaforma e adesso, per la prima volta, si accorse che su essa stava il serpente, il rettile d'oro la cui minacciosa immagine aveva visto nel miraggio. Enorme, immobile, con le scaglie che brillavano dorate, stava raggomitolato con le sue spire enormi e teneva ritto il collo, che sembrava una colonna luminosa. Vekyra si fermò sull'orlo dell'altare, davanti al serpente, e cominciò a cantare. Alzò le braccia nude, nella luce dorata, e cantò con voce acuta, melodiosa, struggentemente dolce. E la canzone aveva uno strano ritmo arcaico. La crudele testa triangolare del serpente oscillò a tempo con le note del canto di Vekyra, e quegli occhi neri dai riflessi purpurei fissarono la donna con la malvagia sapienza di epoche remotissime. Lentamente la testa triangolare si avvicinò a Vekyra, si abbassò fino all'altezza delle sue spalle. Allora la donna smise di cantare e corse dal serpente. Fece scivolare le mani dorate intorno al collo immobile dell'animale e lo accarezzò, risalendo poi fino alla testa.
Allora Price sentì il grido di rabbia di Malikar. Chiaramente contrariato per quanto stava succedendo, l'uomo d'oro stava avvicinandosi a grandi passi alla piattaforma. In mano, con aria minacciosa, stringeva la pesante frusta. Allontanandosi di colpo dal serpente, Vekyra si precipitò giù dalle scale e corse incontro a Malikar, invocando nel contempo l'acuto del serpente con uno strano grido squillante. Il serpente scivolò dietro di lei, lungo la scala. Price vide che era grande come il più grande dei boa, e giudicò che fosse lungo almeno quindici metri. Vekyra si fermò in fondo alla scala. Il serpente la oltrepassò e corse incontro a Malikar: teneva la testa alta e la bocca spalancata, con i due denti dorati che brillavano minacciosi e la lingua che guizzava avanti e indietro, sinistra. Preparandosi ad attaccare Malikar, sibilò: un sibilo che fu come un ruggito, straordinariamente forte, e che echeggiò agghiacciante nel grande tempio. Malikar affrontò il rettile con fare spavaldo: non batté ciglio, gridò con voce stentorea. Il serpente si fermò davanti a lui. Continuò a sibilare furibondo. Vekyra gli corse appresso, sollecitandolo con un tono di voce incalzante. Il serpente scattò e cercò di colpire Malikar. Con sorprendente prontezza di riflessi, l'uomo d'oro fece un balzo indietro e fece schioccare la frusta. Quello schiocco fu come il rimbombo di un colpo di pistola. La testa piatta del rettile rinculò immediatamente, come fosse stata ferita. Malikar avanzò deciso, agitando la frusta. E si mise a urlare qualcosa al serpente con la sua voce forte e tonante. Il serpente si contorse e indietreggiò. Il suo sibilo si ridusse a un incerto sussurro di odio. Vekyra gli corse accanto. Lo accarezzò di nuovo con le sue mani dorate, lo sollecitò con la sua voce argentina. Il serpente smise di indietreggiare e strofinò la testa, amorosamente, contro il corpo dorato della donna. Lei lo accarezzò. Malikar avanzò ancora. Vekyra parlò al serpente con dolcezza, con lusinga, con comando. Il rettile si staccò da lei e provò di nuovo ad attaccare Malikar, ma senza convinzione. Malikar continuava a gridare. Il serpente si ritrasse davanti a quei toni aspri e aggressivi, e smise di sibilare. Fece per allontanarsi, ma Malikar urlò ancora di più. L'animale allora si fermò.
L'uomo d'oro si avvicinò alle sue spire dorate e continuò a gridare come un pazzo, colpendo l'enorme rettile con la frusta. Esso fu scosso da un gran tremito, e fissò il suo persecutore coi suoi strani occhi rossoneri. Di nuovo Malikar lo colpì con la frusta, ed esso non si scosse. Vekyra corse accanto al serpente e cominciò di nuovo ad accarezzarlo e a blandirlo con la sua voce dolce. Ma lui non le prestò alcuna attenzione, continuò a fissare Malikar. Alla fine l'uomo dorato lasciò cadere la frusta e urlò un secco ordine al serpente, che abbassò la testa in direzione della donna. Lei urlò, con voce non più argentina: era chiaramente terrorizzata. Il serpente continuò ad avvicinarlesi, emettendo un sibilo che sembrava l'urlo di un vento lontano. Vekyra continuò a urlare, in preda al terrore. Attraversò di corsa il pavimento incrostato d'oro, si diresse verso il corridoio da cui lei e Malikar erano sbucati. Il grande serpente le scivolò dietro, veloce e sibilante. Quando la donna scomparve nel tunnel, il rettile si fermò. Malikar lo chiamò, ed esso tornò indietro col suo passo sinuoso, in silenzio. Quando fu davanti all'uomo d'oro, si raggomitolò tutto e abbassò la testa piatta, guardando Malikar coi suoi occhi neri. Malikar si mise a frustarlo. La frusta era lunga, era grossa come un polso all'inizio e poi si assottigliava. Malikar la maneggiava con mano esperta. La punta sottile colpì il serpente, producendo uno schiocco che sembrò un'esplosione. Il serpente fu percorso da un brivido, ma non cessò di fissare Malikar coi suoi occhi misteriosi. L'uomo d'oro continuò a frustarlo, abbandonandosi a tratti a roche risate malvagie, come se traesse un piacere sadico da quel rito di tortura. Alla fine smise e rimase per un pezzo immobile, a fissare il serpente. Poi con l'impugnatura della frusta indicò la piattaforma-altare, e urlò qualcosa in falsetto. Il rettile dorato scivolò via, salì la scala e si raggomitolò di nuovo nella nicchia, dove rimase immobile. Malikar raggomitolò la frusta. Tenendola in mano attraversò il pavimento della sala, arrivò fino all'orlo dell'abisso, e imboccò lo stretto ponte. Lungo sessanta-settantametri, privo di parapetti, il ponte era largo non più di una settantina di centimetri. Sotto di esso si apriva la folle voragine, piena di nebbie gialle dalle sfumature verdi. Una voragine così vasta, da sembrare lo spazio interstellare fra due soli. Con passo sicuro il sacerdote del serpente arrivò fino a metà del vertiginoso ponte. Poi, di colpo, si fermò. Price pensò in un primo tempo che fos-
se stato sopraffatto dalle vertigini, ma poi vide che Malikar, dopo avere passato la frusta dalla mano destra alla sinistra, con aria distratta e noncurante si era messo a grattarsi la testa. Come se si fosse dimenticato di qualcosa, si voltò poi in gran fretta e tornò indietro. Attraversò il pavimento della sala circolare e scomparve nel corridoio che anche Vekyra aveva imboccato. 20 La bella addormentata nella nebbia Lo strano duello tra Vekyra e Malikar per ottenere il controllo del serpente d'oro, aveva assorbito completamente l'attenzione di Price. E Price si era, per un attimo, dimenticato del tutto di Kreor, il prigioniero scappato che era senz'altro corso a cercare rinforzi. Appena Malikar scomparve dalla vista, Price si rese conto d'un tratto che doveva andarsene in fretta da quel balcone, se voleva continuare a restare vivo e libero. Un'occhiata gli bastò a capire che c'era un solo modo per fuggire di lì: il corridoio dal quale era venuto. Tornò indietro di corsa, e mentre correva decise di proseguire nell'esplorazione del tunnel illuminati dalla luce gialla. Kreor gli aveva detto che Aysa dormiva da qualche parte lì, nelle viscere della montagna. Price però non si fidava delle parole dell'uomo-serpente. La storia da lui raccontata appariva abbastanza incredibile: c'era da dire tuttavia che la ragazza poteva essere da qualsiasi parte, e dunque, non escluso, anche lì. Price raggiunse il corridoio a spirale e cominciò a scendere con prudenza. D'un tratto sentì davanti a sé rumor di passi, e un borbottio dai toni rabbiosi. Si ritrasse immediatamente, infilandosi nel corridoio trasversale da cui era venuto, e si appiattì contro il muro. Dopo un attimo vide passare Malikar: con aria accigliata, borbottando fra sé, procedeva con passo spedito. Price si chiese quanto tempo Malikar sarebbe rimasto via, e aspettò che ogni rumore cessasse; poi infilò di nuovo il corridoio a spirale e si mise a correre, tenendo le orecchie dritte per assicurarsi di sentire subito l'allarme che probabilmente di lì a poco Kreor avrebbe lanciato. A mano a mano che scendeva, le particelle dorate nell'aria diventavano più fitte, finché alla fine Price si trovò in mezzo a spettrali veli di nebbia xantica. Cominciò ad avvertire uno strano solletichio alle narici, un lieve
senso di soffocamento. Ma, troppo preoccupato per gli altri pericoli, trascurò il possibile pericolo rappresentato dalla nebbia gialla. Il tunnel diventò diritto e orizzontale. Price lo seguì finché lo portò alla grande sala circolare che aveva visto dall'alto della balconata. Le pareti curve erano ricoperte dalla solita crosta di ghiaccio dorato, e salivano alte fino alla cupola per più di un centinaio di metri. In mezzo alla caligine d'oro Price vide, sotto la cupola, il balcone su cui era stato fino a poco prima. Il punto frastagliato in cui il pavimento si apriva nella voragine distava una cinquantina di metri. Di là da quel punto c'era il vuoto, attraversato unicamente da uno strettissimo ponte. Price vide che in fondo al ponte, nella parete, c'era una grande nicchia, come un piccolo palco sopra l'abisso. Alla sua destra, a un centinaio di metri da lui, notò la piattaforma-altare, e il serpente che vi stava raggomitolato sopra. Resosi conto che si trovava nella tana del rettile, Price trasalì e tornò indietro. Ma la testa piatta del serpente riposava tranquilla sopra le spire luccicanti. Gli spaventosi occhi neri erano chiusi. L'animale pareva non essersi accorto dell'intruso. Price era attratto dal ponte sull'abisso. Aveva paura di attraversarlo, perché sapeva che difficilmente avrebbe resistito alla tentazione di guardare giù nel baratro fumante d'oro, ma d'un tratto gli era venuta l'idea che Aysa potesse trovarsi proprio là, nella nicchia in fondo al ponte. Non era il caso di indugiare. Per quanto ne sapeva lui, Malikar poteva tornare da un momento all'altro. E Kreor ben presto sarebbe arrivato con i rinforzi. Ma, soprattutto, il gigantesco serpente avrebbe potuto accorgersi della sua presenza. Senza riflettere più oculatamente sulle difficili condizioni in cui si trovava, Price attraversò il pavimento il più silenziosamente possibile, e arrivò all'orlo frastagliato che dava sull'abisso. Il serpente rimase immobile. Price imboccò il ponte e cominciò a camminarvi sopra. Liscia, senza parapetti di sorta, la passerella era larga circa mezzo metro. Sotto si apriva quel vuoto spaventosamente affascinante, che splendeva di nebbie dorate dalle sfumature verdastre. Un acrobata professionista, addestrato fin dalla nascita a coltivare il senso dell'equilibrio, avrebbe trovato normalissima una traversata di quel tipo. Ma Price si sentì girare la testa. Provò un attimo di nausea e dovette chiudere gli occhi per riacquistare il senso dell'equilibrio. Cercò di non guardare l'abisso, cercò di tenere gli occhi incollati alla striscia di pietra incrostata d'oro sotto i suoi piedi. Ma il baratro lo attirava
col suo fascino sinistro. Price camminò sempre più in fretta, a volte arrivò quasi a correre. Si sentiva lo stomaco stranamente leggero. Aveva la faccia imperlata di sudore freddo e il petto ansimante. Strinse i pugni per farsi forza; li strinse tanto che con le unghie si ferì i palmi. Di nuovo avvertì un terribile senso di capogiro e un'ondata di nausea. Si fermò per cercare di riprendersi. S'impose con tutte le forze di dimenticare quell'immenso baratro nebbioso. Cercò di pensare ad Aysa. Alla notte che gli arabi l'avevano catturata e venduta a Joao de Castro. Alla loro fuga di mezzanotte. Ai dolci giorni troppo brevi che avevano trascorso nel giardino nascosto di Anz. Il capogiro passò, e Price riprese in fretta il cammino. Era a metà del ponte, quando si accorse che gli stava venendo sonnolenza. Quando per la prima volta era entrato in mezzo alle nebbie d'oro aveva provato uno strano solletichìo alle narici e una lieve sensazione di soffocamento. Ma adesso la sensazione si era trasformata in sonnolenza, una sonnolenza insopportabile. Price si sentì d'un tratto stanchissimo, con gli arti che gli pesavano. Gli si offuscò la mente e dovette fare uno sforzo supremo per non chiudere gli occhi. Allarmato, continuò a procedere barcollando in mezzo ai gialli vapori. Con un sospiro di sollievo si accorse di essere arrivato al termine dell'abisso e di avere toccato un pavimento ricoperto di ghiaccio d'oro. Si trovava nella nicchia. Ma il torpore che la caligine provava non lo lasciò, anzi: lo infiacchì sempre di più... di più... di più... Provò un brivido di terrore: capì che non sarebbe riuscito a restare sveglio abbastanza da riattraversare quel ponte spaventoso, dove bastava un passo falso per precipitare nel nulla. Cercò di riprendere il controllo di sé e perlustrò la grande nicchia. Aveva il pavimento semicircolare, con un raggio di dieci-dodici metri; l'entrata era ad arco, scavata nella roccia nera incrostata d'oro. Nella nicchia c'erano quattro grandi lastre oblunghe, di pietra, simili a massicci tavoli: tutte e quattro erano coperte da una coltre di ghiaccio d'oro. Tre di esse erano vuote. Ma sulla quarta giaceva una persona avvolta in abiti che brillavano per i fini cristalli d'oro che vi si erano depositati sopra. Price sentì un tuffo al cuore e corse vicino alla quarta lastra, per vedere chi fosse la persona che vi giaceva.
Era Aysa, ed era addormentata. Il suo bel viso, così come le sue vesti, erano ricoperti di neve d'oro. Col cuore stretto nella morsa della disperazione, Price sfiorò teneramente una guancia della ragazza. Con gran sollievo, vide che la polvere d'oro veniva via, e che, sotto, la pelle era tenera e bianca. Forse stavano davvero trasformando Aysa in metallo vivente, ma se era così, lo strano cambiamento non aveva ancora avuto luogo. «Aysa! Aysa! Svegliati!», gridò Price, scuotendola; ma lei non si scompose. Il vapore dorato era chiaramente soporifero. La ragazza era immersa nello stesso torpore innaturale che Price si sentiva scendere addosso. Price sollevò la ragazza e sentì che era completamente rilassata e abbandonata all'oblio, benché fosse calda e respirasse regolarmente. E lui non riusciva in alcun modo a svegliarla. Il fatto di avere la bella Aysa tra le braccia, e di essere impotente a salvarla, rese ancor più nera la sua disperazione. L'aveva trovata, ma solo per finire, come lei, sconfitto. Se non fosse stato per i vapori soporiferi che gli facevano sempre più effetto, avrebbe potuto portarla fuori all'aria aperta, dove forse lei si sarebbe risvegliata come se niente fosse successo. Ma non osava avventurarsi per quel ponte strettissimo, non osava correre il terribile rischio di farsi sorprendere dal sonno e di precipitare con Aysa nel vuoto. Era lì in piedi con Aysa fra le braccia, a combattere il sonno e a fissare il ponte che non osava attraversare, quando vide Malikar. Con la frusta raggomitolata in mano, il sacerdote del serpente avanzava a grandi passi in direzione dell'imboccatura del ponte. Il primo impulso di Price fu di deporre Aysa e di cercare di nascondersi. Poi pensò che senz'altro Malikar doveva averlo già visto. E anche se non l'avesse visto, si sarebbe immediatamente accorto che Aysa era stata spostata, visto che non aveva più il viso ricoperto di polvere d'oro. Price depose allora delicatamente la ragazza sulla lastra di pietra e aspettò lì in piedi Malikar, con le mani strette sull'impugnatura dell'antica ascia. Malikar infilò il ponte e cominciò ad attraversarlo. Price era sempre più disperato e infuriato contro il destino avverso. Perché quella maledetta nebbia soporifera doveva impedirgli la fuga, proprio adesso che era riuscito a trovare Aysa? E perché, per colmo di sfortuna, Malikar doveva tornare proprio in quell'esatto momento? La proverbiale fortuna dei Durand si stava dunque prendendo gioco di lui?
Si sentì gli arti sempre più pesanti. Respirava con difficoltà e continuava ad avvertire lo strano solletichìo alle narici. Le palpebre gli pesavano come piombo; ogni tanto cadeva in preda a colpi di sonno, a ondate di oblio. Lottò per tenere gli occhi aperti e cercò di concentrarsi sul corpulento uomo d'oro che stava attraversando con passo sicuro il ponte. Tentò di mantenere il controllo del proprio corpo e di tenersi pronto a un'eventuale battaglia. Ma le ondate di sonno si fecero sempre più frequenti, sempre più frequenti... finché lo sommersero nell'oceano dell'oblio. 21 Alla mercé di Malikar Addormentatosi tra la nebbia dorata, Price si risvegliò nella più totale oscurità. Era sdraiato nudo sopra un mucchietto di paglia o di comune erbaccia che gli escoriava la pelle. Non capendo dove si trovasse, si alzò in piedi di scatto, allarmato, e andò a sbattere contro il basso soffitto di pietra. Stordito, Price si lasciò cadere in ginocchio e esplorò con le mani lo stretto spazio che lo circondava. Era in una angusta prigione ampia circa un metro e lunga due, col tetto così basso che non si poteva stare in piedi ritti. Le pareti erano di fredda pietra: la stanza era stata ricavata rozzamente nella roccia. La porta era una grata di metallo dalla quale proveniva aria viziata. Esplorando con le mani intorno, Price non trovò altro che il mucchietto di paglia ammuffita. Si sentì invadere dalla disperazione. Era l'inerme prigioniero di Malikar. Il fatto che un destino del genere avrebbe potuto essere previsto da Price fin dall'inizio della folle avventura della montagna, non lo rendeva più facile da accettarsi. Price cercò di scuotere la griglia di metallo, ma non riuscì nemmeno a farla risonare: sembrava inamovibile. Allora si mise a gridare. La sua voce echeggiò sinistra nei bui corridoi, per venire poi ingoiata dal silenzio. Perplesso, Price, sentendosi impotente, si buttò di nuovo sulla paglia. Era affamato. Aveva la gola secca per la sete, e un gusto amaro in bocca. Era seppellito lì dentro la montagna, e pareva che si fossero dimenticati di lui. Un uomo abbandonato su un pianeta sconosciuto non si sarebbe sentito più isolato di lui, pensò... e se non altro avrebbe avuto il vantaggio di potersi distrarre con un paesaggio nuovo e interessante. Trascorsero innumerevoli ore di noia, durante le quali Price sopportò la tortura della fame e della sete e scandagliò a fondo l'abisso della dispera-
zione. Si addormentò di nuovo. Fu svegliato da una luce verde proveniente da dietro le sbarre. Fuori della porta c'erano tre uomini-serpente armati di picche e di yatarghan: uno di loro aveva in mano una torcia dalla fiamma verde. Aprirono la porta e spinsero dentro due ciotole di terracotta, di cui una conteneva acqua, e l'altra stufato di carne con sugo fatto addensare dalla farina. Mentre gli uomini aspettavano, Price scolò la ciotola con l'acqua e si buttò avidamente sull'altra. Quando ebbe finito di mangiare, gli uomini-serpente, che avevano nel frattempo richiuso la porta, la aprirono un'altra volta. Uno di loro ordinò, seccamente: «Vieni!». Lo condussero lungo un corridoio buio, fino a un tunnel a spirale come quello che Price aveva percorso per arrivare alla tana del serpente. Alla fine giunsero a un altro corridoio, ampio e ad arcata, che dava in una stanza straordinaria. Era una sala lunga, ricavata nella nera roccia vulcanica. Larga sei metri circa e lunga tre volte tanto, aveva un alto soffitto a volta. La prima cosa che colpì Price per la sua stranezza fu che la camera era illuminata da lampadine elettriche fornite di paralume. Lungo ciascuna parete c'erano una dozzina di uomini-serpente con le loro divise azzurre: rigidi e impettiti, armati di picche e yatarghan, guardavano fisso davanti a sé. In fondo alla stanza c'era Malikar. Era seduto dietro a una pesante scrivania di mogano che sarebbe potuta provenire benissimo da qualche ufficio di Manhattan. Sulla scrivania c'era un ventilatore elettrico che ronzava fastidiosamente: accanto a esso era posata la lunga frusta nera con cui l'uomo d'oro aveva punito il serpente. Vestito come al solito di rosso, Malikar sedeva con le grandi mani poggiate sulla scrivania. Con quei suoi strani occhi incastonati in un viso duro e freddo, fissò Price fin dall'attimo in cui lo vide entrare. Lungo la parete di pietra, alle spalle di Malikar erano sistemati in fila degli schedari d'acciaio dipinti di verde, e delle librerie piene di volumi rilegati secondo lo stile occidentale. C'era poi anche un lungo banco sul quale erano disseminati vari strumenti scientifici: microscopi, bilance, provette, reagenti, ed anche una macchina fotografica e un telescopio d'ottone. Sopra la scrivania era appesa una grande carta geografica del mondo datata 1921: vi si leggeva sopra il nome di una famosa case editrice americana.
A Price quei frammenti di civiltà occidentale apparvero altrettanto sorprendenti delle varie stranezze che aveva scoperto in quella terra nascosta. E quando gli uomini-serpente lo condussero davanti alla scrivania, gli parve che Malikar gli leggesse negli occhi lo stupore. «Sorpreso di scoprire che sono un cosmopolita, vero?», disse l'uomo d'oro con la sua voce aspra e fredda. E parlò in inglese. «Si», disse Price. «Sono sorpreso». «Sei inglese, vero?». «Americano». «Ah. Ho visitato New York dieci anni fa. Una città interessante». Price lo guardò fisso. «È circa dall'epoca della caduta di Roma che mi reco all'estero abbastanza di frequente», disse Malikar. «Il mio ultimo viaggio l'ho fatto tra il 1921 e il 1922. Ho passato alcuni mesi a Oxford e a Heidelberg per informarmi sugli ultimi sviluppi della vostra rozza civiltà. Poi sono tornato a casa, non senza avere fatto prima un giro del mondo che mi ha portato anche nel tuo paese. Naturalmente in queste occasioni uso un travestimento che trovo inutile usare qui. «A proposito, immagino che tu abbia seguito la mia strada per venire qui dal mare, vero?». «Intende dire il sentiero dei teschi?». «Precisamente. I teschi umani sono efficaci come segnali: durano a lungo e sono ben visibili... Ma ora vorrei che mi dicessi qualcosa di te, e delle circostanze cui devo questa tua visita». Price arrossì, umiliato dal gelido tono sfottente di Malikar. «Come ti chiami?», chiese l'uomo d'oro. «Price Durand». «Ti rendi conto che ti hanno scambiato per un antico re chiamato Iru... il re la cui tomba a quanto pare hai saccheggiato?». «Sì». Malikar fissò Price coi suoi occhi freddi. «Signor Durand, spiegami un po' lo scopo della tua visita». Price esitò, poi decise di parlare. Non aveva senso la prudenza: niente poteva rendere le circostanze peggiori di come erano. «Cercavo Aysa, la ragazza che lei ha rapito». «Mi fa piacere che se non altro tu sia sincero», disse ironicamente l'uomo d'oro. «Ma, sfortunatamente per te, alla giovane donna è stata destinata una sorte ben migliore di quella che tu avevi programmato per lei. Sarà sa-
cerdotessa del serpente... e mia consorte». «Ha intenzione di trasformarla in oro?», chiese Price secco, reprimendo la collera. «Il serpente non accetterebbe mai di avere per sacerdotessa una comune mortale», rispose Malikar col solito tono sfottente. «È necessario che abbia sangue d'oro nelle vene. «Non capisci come avviene la trasformazione? La nebbia gialla di cui è piena la tana del serpente è un raro composto dell'oro formatosi nelle viscere vulcaniche della terra. Condensandosi sulle pareti del tempio, forma cristalli di ghiaccio dorato. «Se viene respirato da un essere vivente, il composto finisce per sostituire l'acqua nel protoplasma, e per formare una sostanza vivente del colore dell'oro, che è molto più forte e durevole della vile carne». «E crede proprio che Aysa le si conceda?», disse Price, con rabbia. «Lei sa che la odia... e a ragione!». «Ho il sospetto che non mi ami alla follia», disse Malikar, guardando malignamente Price. «Ma quando avrà sangue d'oro nelle vene, non mi sfuggirà facilmente. Non potrà cercare la morte. Domarla sarà per me uno sport piacevole... In fondo, il tempo non significa niente per noi fortunati immortali. Aysa imparerà ad amarmi». Malikar si protese in avanti e fece una risatina maligna e gutturale. Raccolse la pesante frusta nera e se la fece scorrere tra le dita dorate, con gioia demoniaca. Price si accese di furore al pensiero della bella Aysa imprigionata in un corpo d'oro dal quale non poteva scappare e resa schiava e giocattolo di quel perverso demonio giallo. Guardò torvo Malikar, ammutolito dalla rabbia: sentiva l'irresistibile desiderio di stringere le dita intorno al suo collo taurino. D'un tratto l'uomo d'oro si curvò, aprì un cassetto della scrivania, tirò fuori un piccolo pennello e una bottiglietta piena di un liquido dorato. Mettendo pennello e boccetta sulla scrivania, alzò gli occhi a guardare Price. «Signor Durand», disse, in bel modo, «voglio offrirti un'eccezionale possibilità. Quella di aiutarmi a sterminare gli stupidi cercatori d'oro che sono venuti con te fin qui». «Libererà Aysa...», si precipitò a chiedere Price. «No», lo interruppe secco Malikar. «Ma ti dò la possibilità di salvare la tua miserabile vita».
«E cioè...». «E cioè hai questa scelta», disse Malikar con pesante ironia. «Diventare schiavo del serpente, e vivere. Altrimenti, sarai lo schiavo di questo serpente», e qui afferrò la frusta nera, «e morirai in prigione!». Quella voce dura, che con gongolante crudeltà lo prendeva in giro, finì per far perdere il controllo a Price. In preda al furore, così nudo com'era, egli si buttò addosso all'uomo-serpente che gli stava accanto e approfittando dell'elemento sorpresa gli prese di mano la picca dorata. Poi, come un pazzo, cercò di lanciarsi contro l'uomo vestito di rosso seduto alla scrivania. Due guardie lo afferrarono prima ancora che riuscisse a fare due passi. Malikar si alzò di scatto dalla sedia. Con una risatina sinistra, fece scorrere la lunga frusta tra le dita gialle. «Lasciate libero questo figlio d'un cane!», gridò, in arabo, alle guardie. Le guardie mollarono Price e scattarono al loro posto. Di nuovo Price balzò in avanti, con la picca alzata. Malikar fece schioccare la frusta, che guizzò come un tentacolo vivo e, senza toccare Price, si avvolse intorno all'impugnatura di legno della picca. L'arma sfuggì di mano a Price e rotolò sul pavimento. Ma lui continuò a slanciarsi avanti stringendo i pugni, spinto dall'odio cieco per quel demonio che si prendeva allegramente gioco di lui. Di nuovo la frusta schioccò, questa volta con un suono secco come un'esplosione. Nella sua furia Price non si rese conto del dolore. Ma la pelle del petto gli si aprì come fosse stata ferita da un coltello. Price continuò ad avanzare verso Malikar coi pugni chiusi. La frusta, come fosse dotata di vita propria, guizzò un'altra volta e gli si avvolse intorno alle caviglie. Intrappolato, Price inciampò e cadde pesantemente. Mentre cercava di rialzarsi, la frusta gli s'abbatté sulla schiena nuda. Ma lui si rialzò e continuò ad avanzare, barcollando. La frusta gli si avvolse tutt'intorno al corpo, legandogli le braccia. Malikar le diede uno strattone, e Price finì un'altra volta ruzzoloni in terra. Quando riuscì a tirarsi faticosamente in piedi, Price vide che nel lungo atrio alle sue spalle era entrata la tigre d'oro. Sulla sua howdah nera era seduta Vekyra, la donna dorata. La donna osservò Price coi suoi occhi verdi a mandorla: la sua espressione era fredda, distaccata, lontana da qualsiasi compassione. Questa volta la frusta colpì Price sulle spalle, penetrante come una lama.
Malikar rise rauco, ebbro di piacere sadico. Price si girò e corse barcollando verso l'uomo d'oro, cercando di afferrare con le mani la terribile frusta torturatrice. 22 Ospite di Vekyra Più Price si slanciava con furia contro il suo aguzzino, più quello frustava il suo corpo nudo a sangue. Alla fine Price si rese conto che così facendo non otteneva altro che di dare a Malikar il piacere sadico di torturarlo a morte. Così si trattenne dall'attaccare ancora, e rimase in piedi immobile nell'atrio, sotto le lampadine elettriche che sembravano così strane, in quella terra dimenticata nel deserto. Di nuovo la frusta lo colpì, scavandogli un solco sanguinante nella pelle: Price, istintivamente, si ritrasse. Ma subito dopo incrociò le braccia sul petto e guardò fisso Malikar. «Ne hai avuto abbastanza, signor Durand?», lo sfotté l'uomo d'oro. Price si morse le labbra e non disse niente. Malikar fece un gesto agli uomini-serpente che avevano condotto Price nella stanza. Quelli gli si strinsero intorno, preparandosi a riportarlo, capì Price, nell'umido orrore della prigione. Una prigione dalla quale, senz'altro, non sarebbe uscito vivo. Price si girò e vide che la tigre era sempre lì. Era un felino dorato colossale, grosso come un elefante. Stava nel centro dell'atrio e Vekyra, sopra la nera howdah, si sporgeva un po' per osservare Price coi suoi occhi verdi insondabili. La logica della disperazione fece venire a Price un'idea. Sapeva che la donna e Malikar erano ai ferri corti. Li aveva visti lottare per ottenere il controllo sul serpente. Era probabile che Vekyra non fosse precisamente contenta della passione di Malikar per Aysa. Con uno scatto improvviso Price corse allora verso la tigre, urlando: «Vekyra, aiutami! Come puoi permettere che mi seppelliscano vivo?». Era una preghiera senza speranza. Price non aveva visto alcuna espressione di pietà sul viso della donna, mentre veniva frustato da Malikar. Sofferente per le ferite sanguinanti, stordito, tormentato da un senso di vertigine, Price si aggrappava all'ultima, debolissima speranza. «Oh, Vekyra, aiutami, ti prego! Tu che sei così bella...».
Alla fine lei fece un sorriso luminoso ed enigmatico. I suoi occhi verdi s'animarono non di pietà, ma d'interesse. Le guardie intanto esitavano, desiderose com'erano di mantenersi a rispettosa distanza dalla tigre. Malikar gridò loro: «Riportate quel figlio d'un cane in prigione!». Quell'aspro comando ebbe su Vekyra l'effetto che Price aveva inutilmente cercato di ottenere con le sue parole. La donna, con un lampo maligno negli occhi verdi, sorrise ancora una volta a Price. «Straniero, sei mio ospite», disse con voce argentina. «Sali qui con me sulla tigre». Così dicendo, lanciò un'occhiata velenosa a Malikar. «Quell'uomo è mio», ringhiò l'uomo d'oro. «Se io ordino che marcisca in prigione, in prigione deve marcire». «Non se io lo porto nel mio palazzo», disse lei con un sorriso pieno di odio. «Avanti!», urlò Malikar. «Afferrate il prigioniero!». Timorosi, gli uomini-serpente si fecero avanti. «Provatevi a toccarlo», disse Vekyra, «e la tigre mangerà saporitamente stasera». Quelli si fermarono, si girarono a guardare impauriti Malikar. L'uomo d'oro si diresse verso l'atrio facendo schioccare davanti a sé la frusta insanguinata, che sembrava un serpente vivo. Gli uomini-serpente corsero alla rinfusa vicino alle pareti. Vekyra rise, e la sua risata fu sonora e sprezzante. «La tua frusta potrà anche domare il serpente, Gran Sacerdote», gridò. «Ma non potrà mai domare Zor. È da troppo tempo che la tigre è mia». Malikar esitò. Ma continuò a procedere, adesso in direzione di Price. La frusta schioccava minacciosa davanti a lui. Price, che riusciva a malapena a stare in piedi, corse barcollando verso la tigre. Le ferite, profonde, gli facevano un male terribile. Sentiva debolezza e nausea insopportabili, conseguenza dei lunghi giorni passati in prigione e delle ferite appena riportate. Il pavimento cominciò a girargli attorno, assieme alle lampadine del soffitto. Vekyra si sporse in avanti, nella sua howdah, e sussurrò qualcosa alla tigre: il grande orecchio della tigre si tese indietro, in ascolto. Poi la colossale bestia dorata avanzò verso Malikar, contraendo i muscoli come se si preparasse ad attaccare. Rinchiò minacciosa: il suo fu un ruggito così cupo e fragoroso, che rimbombò con inaudita potenza per tutta la
sala. Malikar si fermò e lasciò cadere la frusta. «Donna!», urlò, pieno di odio, «la pagherai per questo! Credi forse che il fatto di avere sangue d'oro nelle vene ti possa risparmiare le mie frustate?». «So che tu non mi frusterai, Malikar... perché non puoi!». «Allora è meglio che ti dica subito che tu non sei più sacerdotessa del serpente, e che non lo sarai mai più. Un'altra è stata scelta al tuo posto». L'altra, come Price sapeva bene, era Aysa. «Di questo ero già informata», disse la donna con gelido furore. «Ma forse io ho trovato un altro capace di ricoprire la carica di sacerdote del serpente e di capo del popolo d'oro. Non era forse un tempo Iru grande quanto Malikar?». «Vekyra indicò Price col suo esile braccio dorato. «Quel figlio d'un cane non è Iru», ringhiò Malikar. «Non è che un impostore che simula d'essere Iru, e che ha saccheggiato la tomba del re». «Perché, Malikar non era forse un tempo un impostore che simulava?», lo rimbeccò acida Vekyra. Poi, assumendo un tono di minaccia, aggiunse: «Fa' bene la guardia alla tua nuova sacerdotessa, Malikar. Sta' attento a che non cada nell'abisso, e a che non finisca per essere cibo, anziché sacerdotessa, del serpente». Di nuovo Vekyra si sporse in avanti e disse qualcosa all'orecchio della tigre. La gigantesca bestia si accucciò fino a toccare con la pancia il pavimento. Con flessuosa grazia la donna saltò giù dall'howdah. Corse accanto a Price, si tolse il mantello verde che teneva sopra la tunica aderente, e lo avvolse intorno alle spalle sanguinanti di lui. «Vieni!», gli sussurrò all'orecchio con tono incalzante. «Sali sull'howdah, prima che il tuo aguzzino escogiti altre malvagità!». Con la testa che gli girava, Price seguì Vekyra. La donna gli circondò le spalle doloranti con un braccio magro e, dimostrando una forza sorprendente, lo sollevò fino alla grande howdah, dove lui si lasciò cadere, grato, tra i cuscini. Malikar corse alla sua scrivania, e batté un grande gong di bronzo che vi stava dietro. Le vibrazioni del gong si ripercossero fragorosamente per tutta la sala. Price, spossato, sofferente, con la testa che gli girava vorticosamente, si rese conto solo vagamente delle urla degli uomini e del clangore delle armi nei corridoi lontani.
Vekyra saltò agilmente nell'howdah accanto a Price e gridò qualcosa all'orecchio della tigre. La grande bestia si rialzò di colpo, ben lontana dalla goffaggine e dalla lentezza con la quale si rialzavano in piedi i cammelli. Vekyra gridò ancora, e l'animale fece dietro-front, correndo via dalla stanza. L'howdah ondeggiò sul suo dorso come una barca trascinata da una forte corrente. Alle loro spalle, Malikar urlò minaccioso: «Donna, per questo assaggerai la mia frusta! E il figlio d'un cane che t'insozzi le mani a toccare farà...». Ma ormai la tigre era arrivata in un corridoio lontano, un corridoio buio illuminato solo a tratti da torce. La luce elettrica, a quanto pareva, era limitata a un'unica stanza. Il corridoio era largo circa due metri e mezzo e alto quasi il doppio, eppure era appena sufficiente a far passare la tigre in corsa. «Dobbiamo sbrigarci», sussurrò Vekyra preoccupata. «Altrimenti Malikar farà chiudere la porta che dà accesso al mio palazzo». Gridò un altro ordine all'orecchio della tigre, e quella si lanciò avanti ancora più veloce di prima, girando attorno a un angolo e inerpicandosi su per un tunnel in salita. A Price sembrava quasi di volare. D'un tratto davanti a sé Price vide un rettangolo di cielo, d'un azzurro quasi accecante per i suoi occhi ormai abituati all'oscurità. Vekyra frugò tra i cuscini accanto a sé e tirò fuori un piccolo arco di metallo dalla forma strana. Da una faretra piena, legata a un angolo dell'howdah, prese una freccia, la accoccò e attese, stando all'erta. D'un tratto figure scure si stagliarono contro il quadrato di luce. E il quadrato cominciò a restringersi. Si sentì uno stridio di pulegge. E Price vide che la grande porta d'oro davanti a loro si stava rapidamente chiudendo. Vekyra avvicinò l'arco alla testa e mirò. Price udì il twang della corda dell'arco, e un grido acuto. Lo stridio delle pulegge cessò. La tigre scivolò in mezzo alla porta socchiusa: lo spazio era cosi ristretto che le cinghie dell'howdah strisciarono contro il metallo. Subito dopo uscirono alla luce del sole, una luce così abbagliante, che Price per un po' non riuscì a vedere niente. Debole e stordito, si lasciò sprofondare tra i cuscini e si coprì gli occhi con un braccio. Poi sentì le braccia lisce di Vekyra circondargli le spalle. «Benvenuto nel mio castello», disse la donna. «Il castello di Verl. Riposati ora, e non avere paura di nulla, perché sei ospite di Vekyra». La donna lo sollevò e, con tono carezzevole e seducente, aggiunse, biz-
zarramente: «Sono la tua schiava». 23 Il popolo d'oro Per alcuni minuti Price restò sdraiato rilassandosi nelle braccia di Vekyra, mentre la tigre correva avanti. Il sole caldo e accecante lo faceva sudare, ed era stranamente gradevole per uno che, come lui, era sfuggito per un pelo alle nere prigioni di Malikar. Il suo calore era lievemente stimolante. Price si tirò su a sedere di colpo, mosso dalla curiosità di guardare lo strano palazzo che incoronava la montagna. Davanti a lui si stendevano meravigliosi giardini orientali. La tigre, che adesso aveva rallentato il passo, stava attraversando un ampio cortile circondato da mura e da colonnati di fulgido oro e di splendente marmo bianco. Una vegetazione lussureggiante cingeva laghetti dall'acqua cristallina, dove sguazzavano allegre bianche colombe. Eleganti palme protendevano in alto le loro grandi foglie color smeraldo. Cespugli dai fiori smaglianti profumavano l'aria con la loro fresca fragranza. Intorno al grande giardino si ergevano le torri d'oro e d'alabastro di Verl. Balconi che parevano un pizzo si affacciavano su una vegetazione lussureggiante. Alte finestre dagli archi trilobati davano su cupole e su sottili minareti. L'architettura era tipicamente araba, ma gli edifici erano tutti d'oro e di candido marmo. Nella luce abbagliante del pomeriggio ci si sarebbe quasi accecati davanti a tutto quell'oro, se la fresca ombra dei giardini non avesse provveduto a mitigare lo splendore della scena. Con passo lento la tigre dorata portò i suoi ospiti lungo un sentiero ghiaioso sopra il quale le foglie delle palme formavano un arco. Price si guardò intorno meravigliato. La scena somigliava talmente a quelle viste in sogno nei suoi giorni peggiori, che d'un tratto gli parve che dovesse essere anche quello un sogno, un'illusione, un miraggio. Che avesse ricominciato a delirare? Raccogliendo disperatamente le forze, si girò di scatto verso la donna che gli stava accanto nell'howdah, la afferrò per un braccio e la scrutò bene in faccia. La sua pelle era dorata e aveva un che di metallico al tatto, ma era calda e tenera: Price sentì che sotto di essa vibravano, sodi, i muscoli. «Donna d'oro», le disse, «sei reale?». Il viso che lo guardava era strano. Ovale, di una bellezza esotica. An-
ch'esso dorato, era incorniciato da capelli rossi. Gli occhi leggermente a mandorla erano verdi, come quelli della tigre. Sotto le ciglia folte e dorate apparivano enigmatici, imperscrutabili. «Sono più reale di te, Iru. Perché io sono d'oro, e tu sei di fragile carne. Perché io ero così come tu mi vedi già tanto tempo fa, quando Anz era brulicante di vita e di gente. E sarò così come tu mi vedi quando le tue ossa saranno come le ossa degli abitanti di Anz». La donna sorrise, e lui lesse uno strano senso di sfida nei suoi occhi. «Sarà anche così, vecchia ragazza», borbottò Price in inglese. «Dimostramelo, e io starò al gioco». Con la volontà non riuscì più a tenere lontano l'oceano dell'oblio. Spossato, si lasciò inghiottire dalla notte, e svenne nelle braccia di Vekyra. Si risvegliò nella stanza più sfarzosa che avesse mai occupato, anche se forse non si poteva dire fosse anche la più comoda. Era una stanza grandissima, col soffitto molto alto, la porta ampia e ad arco e le tende di seta. Il pavimento di marmo era tutto cosparso di tappeti ammonticchiati, dalle tonalità rosse e azzurre. Le pareti erano d'alabastro color latte, ed erano tutte ornate d'oro. Dal suo elaborato letto provvisto di baldacchino, Price vedeva finestre ampie e senza vetri, che davano sulle mura di basalto di Verl, sullo scuro altipiano vulcanico mezzo miglio più sotto, e, in lontananza, sulle desolate dune di sabbia rossa del deserto, che brillavano tremolanti all'orizzonte. Price fu sorpreso di vedere che le ferite da frusta erano completamente guarite. Si sentiva benissimo e si stupì, perché era impossibile che fosse guarito in un sol giorno. Immaginò (e Vekyra in seguito glielo confermò) di essere rimasto a letto molti giorni, immerso nell'oblio procurato dalle medicine misteriose somministrategli da lei. Perché lei, a quanto pareva, era esperta di chimica e di medicina. Un po' confuso, Price il giorno che si svegliò scoprì di avere a sua disposizione sei cameriere personali. Erano giovani donne alte e piuttosto attraenti, con capelli neri, labbra sottili, naso aquilino che denunciavano il loro sangue arabo. Indossavano corte tuniche verde scuro e portavano appeso alla vita un lungo jambiyah d'oro, dalla lama ricurva. In fronte ciascuna di loro aveva impresso il marchio giallo del serpente. Portarono a Price bianche vesti di seta (i suoi vestiti erano ancora in mano a Malikar), e gli offrirono cibo, acqua e vino. Lui cercò di parlare un po' con loro, ma loro, benché sembrassero pateticamente ansiose di servirlo,
elusero ogni sua domanda. Poiché si sentiva ancora fiacco e privo di energia, Price non si alzò da letto che nel tardo pomeriggio, quando Vekyra venne a trovarlo. Indossava un abito verde smagliante e aveva i capelli che le scendevano a cascata sulle spalle. Il taglio a mandorla dei suoi occhi verdi conferiva un che di misterioso al suo volto ovale, Price quando la vide si alzò e le andò incontro. Lei lo salutò chiamandolo Iru, gli chiese come stesse, e si sedette su un sofà pieno di cuscini. Le ragazze, che Price non sapeva se dover chiamare cameriere o carceriere, si ritirarono con molta discrezione. «Una cosa devo dirti subito», iniziò Price piuttosto brutalmente, ansioso di rivelare la propria vera identità. «Tu mi hai chiamato Iru. Ma io non sono Iru. Mi chiamo Price Durand. Sono nato in una terra che sta all'altro capo del mondo. Con calma la donna studiò la sua faccia e osservò le membra magre e muscolose. Price, che sentiva ancora addosso la stanchezza data dalla convalescenza, si sedette davanti a lei. «Tu sei Iru, re di Anz», disse alla fine Vekyra, dopo averlo osservato bene. «Io lo so, perché ho conosciuto bene l'antico Iru... Chi lo conosceva meglio di me? Tu sei lui. Non fa alcuna differenza se sei rinato, e in una terra lontana». «Tu l'hai conosciuto, allora?», chiese Price, incuriosito. Gli interessava molto sapere qualcosa dell'antico re per il quale tante volte era stato scambiato. Ma parlò a Vekyra con curiosità distaccata: non intendeva farle capire in alcun modo che la temeva. «Ti sei dimenticato di me?», perché è semplicemente l'inizio della stessa storia che stiamo vivendo adesso tu e io, e Malikar e Aysa». A sentir nominare Aysa, Price trasalì visibilmente. Vekyra fece un sorriso obliquo e mormorò: «Ah, vedo che lei te la ricordi». «Conosco una ragazza che si chiama cosi», ammise Price. Cercò di usare un tono impersonale, ma la donna evidentemente colse una sfumatura di sentimento nella sua voce, perché di colpo il suo viso s'indurì nell'odio. «Aysa, come te, è nata di nuovo!», sibilò. «Siamo di nuovo tutti e quattro insieme, a terminare la storia che cominciò quando Anz era una città giovane». L'odio scomparve dal viso della donna d'oro con la stessa rapidità con
cui vi era comparso. Vekyra adagiò il corpo flessuoso sui cuscini e gettò indietro la folta massa lucida dei capelli. «Quando ero una ragazza e non avevo ancora il sangue d'oro, Iru era re di Anz. Il popolo lo amava, perché era forte e bello, e famoso per il coraggio e per la destrezza con cui maneggiava la sua ascia d'oro. E tu sei lui!». Price scosse la testa. «Sei alto e magro come lui, e hai gli occhi azzurri e i capelli rossi... e quelli con gli occhi azzurri e i capelli rossi erano molto rari, tra la mia gente. Ma soprattutto riconosco la faccia di Iru, che è la tua faccia! «Anz era grande allora, e aveva milioni di abitanti. Le sabbie striscianti del deserto erano ancora lontane. La pioggia cadeva ogni inverno; i laghi e i bacini erano sempre pieni, e i pascoli e i raccolti sempre abbondanti. «Allora non esisteva ancora il popolo d'oro: esisteva solo il serpente. Il serpente vive nella montagna fin dagli albori dell'umanità. A volte, attraverso una caverna, viene fuori a cacciare. Il popolo di Anz lo ritenne un dio per via dello strano potere ipnotizzante dei suoi occhi, e gli costruì un tempio nelle viscere della montagna. «All'epoca di Iru, Malikar era sacerdote del serpente. Era un uomo audace, che amava il sapere. Come molti preti, sapeva benissimo la verità sul suo dio. Si avventurò nella caverna e scoprì l'abisso pieno di vapore giallo che sale dalle viscere incandescenti della terra e trasformò tutti gli esseri viventi in immortale oro. «Il serpente non era che un comune rettile che si era fatto la tana dentro la montagna e aveva respirato la nebbia dorata. Non era più dio di qualsiasi altro serpente. Malikar fece esperimenti e scoprì il segreto del sangue d'oro. «Tu invece, Iru, eri un guerriero e un cacciatore. Non conoscevi il segreto del serpente, ma sostenevi che era un dio malvagio. Decretasti che la vita e il frutto del lavoro dei Beni Anz non dovevano più essere dati al serpente in offerta sacrificale. Ordinasti ai preti di abbandonare il loro tempio. Per questo Malikar cominciò a odiarti: decise di ucciderti, per fare del serpente il dio supremo e per diventare contemporaneamente sacerdote e re. «Ma tu e Malikar avevate anche un altro motivo di dissidio. Io, Vekyra, a quel tempo ero, come ti ho detto, una giovane donna, una principessa di Anz, e non ero d'oro come adesso. Tu mi amavi. Dicevi, allora, che ero bella. Ci fidanzammo. Dovevamo sposarci, ma anche Malikar mi desiderava. «Iru marciò coi suoi soldati fino al tempio. I preti fuggirono davanti alla
sua ascia d'oro. Lui distrusse il tempio e sigillò ermeticamente la caverna del serpente. «Malikar fuggì quando vide che la battaglia era perduta, e abbandonò gli altri preti al loro destino. Per un passaggio segreto scese nelle viscere della montagna, là dove c'erano i vapori d'oro. Rimase lì a dormire molti giorni, finché la nebbia dorata non penetrò in tutto il suo corpo, trasformando la debole carne in oro immortale. «La ragazza di nome Aysa era una schiava. Io l'avevo comprata da mercanti del nord come cameriera. Un giorno Iru la vide e s'invaghì di lei. Ora, dal momento che lui e io dovevamo sposarci, non fui molto contenta. Gli dissi che gliela avrei ceduta se mi avesse dato in cambio una tigre addomesticata. «Mentre Malikar dormiva tra le nebbie d'oro, Iru andò tra le montagne, combatté contro una tigre e mi riportò il suo piccolo dopo averlo addomesticato. Così io fui costretta a dargli la schiava, Aysa. Ma sarebbe stato molto meglio per lui se si fosse tenuto la tigre!». «Gli occhi verdi di Vekyra s'infiammarono. «Malikar giacque nelle viscere della montagna finché non fu diventato un uomo d'oro. Poi condusse fuori il serpente e andò fra le tribù del deserto che abitavano oltre Anz. E lì predicò la sua nuova religione. Disse che era morto e che era nato di nuovo, partorito dal serpente con un corpo d'oro. «La gente del deserto gli credette. Perché il suo corpo era davvero d'oro, e così forte che nemmeno le spade riuscivano a scalfirlo. Malikar condusse allora quelle tribù contro Anz, e si portò dietro il serpente, perché paralizzasse gli uomini con l'incantesimo dei suoi occhi. «Ma tu eri un grande guerriero. Radunasti i contadini e il bestiame all'interno delle mura. Poi uscisti coi tuoi guerrieri e con Korlu, la tua ascia, e sgominasti gli uomini del deserto, che ritornarono nelle loro terre. «Ma non potesti uccidere Malikar e il serpente, perché erano d'oro. Non avevi altra scelta che ritornare ad Anz e chiudere le porte perché essi non entrassero. «Allora Malikar decise di giocare d'astuzia. Rimandò il serpente nella sua tana in montagna e si dipinse il corpo del colore della pelle normale, come fa ancora quando va in giro per il mondo. Poi penetrò in Anz con l'intenzione di ucciderti. «Ma tu eri circondato dai tuoi guerrieri e tenevi sempre con te la tua ascia. Malikar non poteva avvicinarsi a te senza essere scoperto. «Allora escogitò un altro piano. Andò da Aysa, la schiava. Come riuscì a
convincerla non so. Forse con la promessa dell'oro di cui era piena la caverna del serpente. O forse la impaurì parlandole del dio-serpente. O può anche darsi che i suoi soli baci bastassero a conquistarla. «Aysa mise del veleno nella tua coppa, e tu lo bevesti assieme al vino. Moristi. Ma mal ne incolse alla schiava per il tradimento. Tu sentisti il sapore del veleno, ti rendesti conto di ciò che lei aveva fatto, e prima di cadere la uccidesti con la tua ascia. «Allora Malikar si presentò ai Beni Anz nella sua nuova identità di uomo d'oro e di vendicatore del serpente. Privati del loro re, i Beni Anz gli s'inchinarono davanti. Mandarono in offerta al serpente molti schiavi, e Malikar diventò sacerdote e re. «Con quegli schiavi Malikar costruì un nuovo tempio nel cuore della montagna, là dove c'erano le nebbie dorate. «Morto Iru, Malikar mi portò con la forza nelle viscere della montagna e mi fece dormire in mezzo al vapore giallo, finché anch'io non fui diventata d'oro. Mi avrebbe fatto schiava per l'eternità, se non fosse stato per la tigre. Il cucciolo di tigre che Iru mi aveva dato in cambio di Aysa mi seguì dentro la montagna. «Io dormii sdraiata sul suo dorso, e quando mi risvegliai, vidi che anche l'animale era diventato d'oro. Malikar non poté così ucciderlo, ed esso continuò a servirmi con affetto. Di anno in anno la tigre diventava sempre più grande, forse perché non era ancora cresciuta quando si era addormentata tra le nebbie... Diventò tanto grande, che perfino il serpente ne ebbe e ne ha paura. Questa è la storia del popolo d'oro». Price rimase in silenzio, meravigliato. Non credeva alla reincarnazione, ma non si sentiva nemmeno di negarla. Sapeva che centinaia di milioni di persone l'avevano posta alla base della loro religione. La storia di Vekyra era interessante. E aveva una sua strana veridicità. Spiegava molte delle cose che lui si era chiesto. Era disposto ad ammettere che fosse vera... Ma non era assolutamente disposto ad ammettere che Aysa fosse la reincarnazione di un'assassina. Vekyra si alzò dal suo angolo nel sofà e, calpestando i tappeti in terra, si avvicinò a Price. Si appoggiò al bracciolo della sua sedia e col suo corpo flessuoso sfiorò quasi il corpo di lui, mentre i riccioli rosso dorati gli carezzavano come onde le spalle. «Questa è tutta la storia, Iru», disse. «È da un centinaio di generazioni che vivo in questo palazzo, il palazzo di Verl, che Malikar costruì per me.
Vivo sopportando una vita senza amore, una vita che non conosce la grazia della morte... Ho vissuto finora aspettando una sola cosa: te, mio Iru! «Spesso ho provato la tentazione di saltare nell'abisso dorato. Ma sapevo che una volta o l'altra tu saresti rinato, Iru mio, e che saresti tornato da me... Anche se si frapponevano fra me e te nuove terre e nuovi deserti». La donna d'oro scivolò accanto a Price e premette il suo corpo caldo e vibrante contro il suo. Circondò Price con le braccia esili, tenere eppure fortissime, e sollevò il viso enigmatico, guardandolo con gli occhi verdi brucianti di passione e con le labbra rosse socchiuse in un avido invito. Lui esitò un attimo, quasi tentato di allontanarsi da lei. Ma poi guardò quegli occhi e quelle labbra pieni di passione, si strinse di più a Vekyra, e l'abbracciò. Le calde labbra di lei si protesero verso le sue, avide, e quando le loro bocche si unirono, Price si sentì invadere da un delizioso fuoco. 24 Gli specchi del miraggio Quando Vekyra uscì dalla stanza, Price si sentì un po' in colpa, pensando ad Aysa. Ma, rifletté, la donna d'oro gli aveva indubbiamente salvato la vita. Due o tre baci non erano un prezzo troppo alto, in cambio della salvezza. E c'erano anche altri modi per giustificare il fatto che si fosse abbandonato un attimo nelle braccia della bella sacerdotessa. I buoni uffici di Vekyra erano probabilmente l'unico mezzo in grado di salvare Aysa... Un mezzo molto precario, tra l'altro, visto che Vekyra odiava la sfortunata ragazza. Scontentare la sacerdotessa avrebbe significato per Price il ritorno immediato e forse permanente alle prigioni di Malikar. Ma, essendo sincero con se stesso, Price dovette ammettere che tutte queste considerazioni non gli erano venute in mente nell'attimo in cui si era trovato a baciare Vekyra. La mattina dopo, terminata la colazione, andò a fare un giro per il palazzo, scortato da quattro delle ragazze a lui assegnate. Mentre camminava davanti a loro tra i sontuosi giardini e i colonnati di marmo e oro, stette attento a vedere se ci fosse una qualche possibilità di fuga. Aveva deciso di fuggire da Verl, se se ne fosse presentata l'occasione. Era certo che Vekyra non lo avrebbe mai aiutato di sua volontà a salvare Aysa. E aveva il sospetto che la donna d'oro avesse strane mire nei suoi confronti. Ma la fuga appariva impossibile: lui era disarmato e sorvegliato
in continuazione dalle donne-serpente. «Effendi Duran'!». Price trasalì. Gli sembrava una voce familiare, quella che lo aveva chiamato. Si girò, e vide venirgli incontro, lungo un viale di palme, lo sceicco Fouad el Akmet. Il vecchio beduino era disarmato e al suo fianco c'era, confidenzialmente stretta a lui, una delle ragazze di Vekyra, col suo jambiyah ricurvo appeso alla vita. «La pace sia con lei, sceicco», disse Price, e mosse incontro al beduino. «Anche lei è ospite di Vekyra?». Il vecchio arabo tirò da parte Price e piano, perché le ragazze guerriere non sentissero, disse: «Aywa, Sidi!». Guardò circospetto le ragazze ferme in attesa con gli occhi neri più mobili che mai. «Tre giorni fa l'Howeja Jacob Garth ha spedito me e i miei uomini verso la montagna, in esplorazione. La crudele djinni d'oro, a cavallo della tigre dorata, ci è piombata addosso all'improvviso. La tigre ha ucciso tre dei miei uomini. E io sono stato portato qui, al castello di Eblis». Il vecchio sceicco si guardò ancora alle spalle, e abbassò ulteriormente la voce. «Ma penso di poter scappare. La donna che è con me, lei sì che sa riconoscere un uomo!». Diede scioccamente un'occhiata maliziosa alla donna. «Si chiama Nazira. Ieri sera mi ha promesso di aiutarmi. So fare a trattare le donne io, eh?». Price sorrise al vecchio. Fouad riprese, sottovoce: «Effendi, quando verrà il momento, viene anche lei con me? Bismillah! Non mi piace stare da solo in questa terra di 'ifrit!». «Sì», lo assicurò Price, benché non avesse troppa fiducia nelle arti di seduzione del vecchio arabo, e benché ne avesse ancora meno, nonostante l'aiuto della donna-serpente, nel successo dell'impresa. Il beduino si allontanò e guardò con aria di maliziosa intesa la ragazza di nome Nazira. Price, con la sua scorta, riprese a camminare tra gli splendori di Verl. Subito dopo fu superato da Vekyra a cavallo della sua tigre. La donna d'oro fece accucciare l'animale accanto a Price e tese un esile braccio. Non aveva più il vestito verde, ma una tunica viola chiaro che le fasciava la forma e brillava di luce metallica ogni volta che si muoveva. I capelli rossi erano tenuti indietro da una fascia dello stesso materiale metallico, e apparivano così ancora più splendenti. «Iru», disse Vekyra, «vorrei che questa mattina tu cavalcassi con me nel miraggio».
«Nel miraggio?». «Sì. Io conosco il segreto del miraggio, di quel miraggio che tu hai visto più volte. È un segreto dell'antica Anz. Gli antichi saggi della città conoscevano le leggi dell'illusione, e inventarono degli specchi, e altri congegni, per manovrare il miraggio». «Come...». «Lo vedrai, nella sala del miraggio». Price salì sull'howdah. La donna d'oro parlò alla tigre ed essa, che non portava briglie né guinzagli, corse veloce verso un magnifico colonnato d'oro e marmo. Vekyra sistemò per bene i cuscini dell'howdah e fece accomodare Price accanto a sé. L'ondeggiare del dorso della bestia spinse Price verso Vekyra, e lui sentì il calore del suo corpo flessuoso e il profumo intenso e inebriante dei suoi capelli. La tigre li condusse nel blocco centrale del castello, salì una scala a spirale e arrivò nella grande torre dorata che stava al centro degli edifici. Da finestre senza vetri Price vide parte delle altre ali del castello, e in lontananza l'oceano sterminato del deserto, che appariva azzurrino sotto la caligine creata dal caldo. Alla fine entrarono in una strana sala che si trovava in cima alla torre. La tigre entrò silenziosa e guardinga, e posò le zampe su un vasto specchio, una grande lastra di cristallo che faceva da pavimento. Price si guardò intorno stupito. Non solo il pavimento era di cristallo. Anche le pareti erano specchi, specchi stranamente incurvati e dalla forma strana. Poiché si riflettevano gli uni negli altri, si aveva l'impressione ingannevole di trovarsi tra molteplici sale dalle pareti a specchio, e non si riusciva a capire la reale estensione della stanza. Metà soffitto era costituito da una perfetta lastra di cristallo splendente, l'altra metà invece era aperta, e dava sul cielo turchese. Nelle pareti, nel pavimento, nel soffitto Price vide riflettersi l'immagine di sé e di Vekyra a dorso della tigre. Un'immagine ripetuta mille, diecimila volte, e che a volte appariva gigantesca, a volte minuscola fino ai limiti della visibilità. Vekyra allungò la mano e toccò un gruppetto di piccolissimi bottoni. Price non li aveva notati, prima: sembravano sospesi nello spazio accanto alla tigre. In realtà, capì, sporgevano da una lastra di cristallo vicino a loro, una lastra talmente levigata e lucida da risultare invisibile. Vekyra premette un bottoncino. Sotto, Price sentì le vibrazioni regolari
di un macchinario nascosto. Gli specchi si spostarono, ruotando, e le immagini riflesse si mossero con essi, in sgradevole confusione. Le immagini della tigre, sorprendentemente, furono risucchiate via. Un'unica lastra di azzurro cristallo scintillante si proiettò lontano, in tutte le direzioni, verso l'infinito. Su quella lastra lucente scorreva velocissima l'immagine riflessa della tigre, che si ridusse poi a una serie di minuscoli punti, per poi scomparire. Nei cristalli della sala adesso si rifletteva soltanto l'azzurro del cielo. Price ebbe la strana impressione che la tigre fosse sospesa in un vuoto turchese. Vekyra toccò un bottone verde. Si sentì il ronzìo acuto di un altro meccanismo nascosto. L'aria sembrò caricarsi di elettricità. Price sentì l'odore pungente dell'ozono, e capì che effettivamente intorno a loro si stavano scaricando potenti ondate di elettricità. «Guarda!», esclamò Vekyra. «La curvatura della luce, e la nascita del miraggio!». Price vide apparire sugli specchi, là dove prima c'erano state le loro immagini, puntolini neri; vide i punti prolungarsi nelle linee scure di lontani orizzonti, e poi vide frammenti di deserto che si avvicinavano sempre di più, velocissimi. Vide per prima la caligine azzurrina, quindi la distesa ondulata di dune rosse, e infine strani squarci di deserto, squarci di sabbia sotto un cielo color zaffiro. Tutto si mischiò incredibilmente in un folle e illusorio collage, che si espanse con rapidità, avvicinandosi sempre di più. Poi, di colpo, tutto prese forma. Gli squarci di deserto si unirono in un insieme. L'impressione era che sotto Price e Vekyra, che sembravano trovarsi a un'altezza di cento-duecento metri, ci fosse una grande duna di sabbia giallo rossastra. In lontananza, all'orizzonte, si vedevano altre dune a mezzaluna. Il miraggio era incredibilmente reale. Price vedeva se stesso, la donna d'oro accanto a lui sull'howdah, e laggiù, sotto di loro, il deserto sabbioso. La montagna e l'altipiano vulcanico a essa vicino erano scomparsi. Vekyra gli sorrise, come malignamente soddisfatta di vederlo sorpreso, e premette un bottone giallo. Il deserto parve scorrere velocissimo sotto di loro, anche se Price naturalmente non ebbe affatto la sensazione di muoversi. Si videro fluire veloci vaste saline luccicanti simili a laghi ghiacciati, gialli strati calcarei, desolate pianure di selce e argilla, e neri altipiani vulcanici.
Price allungò una mano verso i bottoni misteriosi. Là dove i suoi occhi credevano di vedere solo l'aria, c'era in realtà un lucidissimo cristallo. Automaticamente, appena ne toccò la superficie, Price ritrasse di scatto la mano: quel contatto gli aveva procurato una strana scossa. «Attento», lo ammonì Vekyra. «La torre è tutta carica della forza che curva la luce. E tu non sei immortale. Almeno, non ancora». La donna toccò un bottone verde. E Price, guardando sotto, vide l'oasi di El Yerim. L'oasi appariva come una grande striscia verde, piena di palme da dattero e di campi di grano, in mezzo a scure pianure di roccia vulcanica. Si vedeva il laghetto contornato di vegetazione, e il quadrato di case di mattoni della città. Di là dal lago c'era l'accampamento di Jacob Garth. Le tende bianche erano raggruppate lungo la riva del lago. Si vedeva il carro armato grigio, segno, pensò Price, che Sam Sorrows era tornato sano e salvo, e le provviste accatastate in pacchi ricoperti d'incerata. Un po' più in là c'erano anche dei beduini di Fouad, e i cammelli. E c'erano anche due cose sorprendenti. Luccicanti fili paralleli attaccati a pali ricavati da tronchi di palme, che denotavano inequivocabilmente la presenza di una radio. E un terreno liscio e sgombro nella zona ghiaiosa di là dall'accampamento, sopra il quale stavano due aeroplani. Erano eleganti biplani grigi, militari, con minacciose mitragliatrici collocate sopra l'abitacolo. Gli aerei, notò Price, erano attrezzati anche per il bombardamento leggero. Accanto alla fusoliera di uno di essi c'era Jacob Garth, inconfondibile nella sua divisa kaki scolorita. Col bianco topi in testa, stava osservando gli aeroplani. Per un attimo Price rimase stupefatto. Poi, d'un tratto, trovò la spiegazione. Garth, abbastanza stranamente, aveva insistito a non voler portare aeroplani, adducendo come unica scusa la difficoltà d'atterraggio nelle sabbie del deserto. Ma in segreto doveva essersi messo d'accordo con misteriosi alleati, e avere lasciato in mano loro gli aeroplani. In mezzo alle provviste aveva schiaffato nascostamente un radiotrasmettitore, all'insaputa di tutti gli altri, poi, preparato il campo d'atterraggio, aveva spedito via radio le istruzioni per gli aeroplani. Ora Price capiva perché Garth si fosse precipitato a far saltare in aria la goletta subito appena sbarcato. Con gli aerei, la goletta non gli sarebbe servita più. E Price capiva anche meglio, adesso, perché Malikar desiderasse il suo aiuto per sbarazzarsi dei cercatori d'oro.
«Quelle sono macchine da guerra?», chiese Vekyra, indicando gli aerei. «Sì. Gli uomini volano su esse... per combattere». «Credi che attaccheranno di nuovo la montagna?». «Sono sicuro di sì. Jacob Garth non è tipo da rinunciare». «Jacob Garth? Era il tuo capo?». «No. Ma adesso è lui che comanda». «Lo vedi, qui sotto?». «Sì. È quell'uomo grasso vicino alla macchina volante», disse Price, indicando col dito. Vekyra studiò attentamente l'uomo, e annui. «Era proprio quello che volevo sapere». Allungò la mano e toccò il bottone centrale. Il ronzio dei meccanismi nascosti, cui l'orecchio di Price si era già abituato, di colpo cessò. La scena sotto di loro si scompose in migliaia di frammenti, in immagini spezzettate riflesse in migliaia di specchi. I frammenti di immagini furono risucchiati via. E sugli specchi della sala, dove fino a un attimo prima appariva l'azzurra brillantezza del cielo, si disegnarono migliaia di puntolini neri. Puntolini che s'ingrandirono sempre più, a grande velocità, dilatandosi nelle immagini della tigre e delle due persone che la cavalcavano. Silenziosa com'era venuta, la tigre attraversò il pavimento di cristallo e uscì dalla sala del miraggio. 25 La corona di Anz La mattina dopo Price si alzò all'alba e trovò ad aspettarlo nella sontuosa stanza tre delle sue cameriere, o carceriere. Esse gli portarono la colazione; quando lui ebbe finito di mangiare e uscì dalla stanza, loro lo seguirono con discrezione, tenendosi a una decina di metri di distanza. Di nuovo Price perlustrò il grande palazzo, nella speranza di fare qualche scoperta che lo aiutasse a trovare un mezzo per fuggire. Adesso che aveva gli aeroplani, Jacob Garth avrebbe sicuramente attaccato la montagna, e con qualche probabilità di successo. Price non vedeva l'ora di riunirsi alla sua banda per cercare ancora una volta di soccorrere Aysa. Vagò due ore intere per il castello. Le tre ragazze, con i loro jambiyah dorati, lo tennero costantemente d'occhio. E le mura di basalto che cingevano il castello erano alte una quindicina di metri, e sorvegliate da guerrie-
re armate nascoste nelle loro torri. A quanto pareva, era impossibile andarsene da Verl senza il permesso di Vekyra. Mentre tornava nella sua stanza, Price incontrò di nuovo lo sceicco Fouad el Akmet, che camminava stringendosi vicino alla ragazza di nome Nazira. Fouad fece un complicato cenno d'intesa a Price. Sfiorandolo mentre gli passava accanto, sussurrò: «Si trovi sul lato est del cortile centrale a mezzanotte, Effendi». La ragazza gli era vicinissima, mentre lui parlava; Fouad le fece l'occhiolino e le diede di gomito, molto confidenzialmente. Lei gli sorrise maliziosamente. «Verrà, Sidi?». Price annuì, e il vecchio beduino fece una smorfia d'intesa. Price aveva la netta impressione che la ragazza si stesse prendendo gioco del vecchio arabo. Ma anche se fosse stata sincera, non gli riusciva proprio di capire in che modo sarebbe stata organizzata la fuga. Certo non potevano essere usati i tunnel teatro la montagna, visto che erano sorvegliati da Malikar e dai suoi uomini-serpente. E Price non aveva visto punti di possibile passaggio, nel precipizio che si stendeva giù per mezzo miglio, fuori dalle mura. Ma decise di andare all'appuntamento con Fouad, guardie permettendo. Non c'era ragione di non andarci, di non tentare... Quella sera Vekyra andò a trovare Price seguita da una schiava che recava la maglia d'oro, lo scudo ovale e la grande ascia dell'antico Iru. «Ho costretto Malikar a darmeli», spiegò la donna d'oro. «Vuoi tenere l'ascia con te?». «Be'... sì», disse Price, sbalordito, confuso e insieme felicissimo per l'inaspettato dono. «Allora promettimi di non usarla qui a Verl». «Lo prometto». «La parola di Iru è forte come le mura di Anz», disse lei. Poi, sorridendogli con una certa aria di sfida, aggiunse: «Iru, vorrei che tu cenassi con me questa sera, al tramonto. Le schiave ti porteranno gli abiti per l'occasione». Poco dopo le schiave portarono un completo che nel suo genere era bellissimo. Price rifiutò l'aiuto che le donne gli offrirono, e indossò da solo un kamis di pura seta bianca, quasi trasparente, e un abba di fili d'argento e seta rossa. Pensò che nell'aria doveva esserci qualcosa di straordinario.
Quando fu pronto, le ragazze lo condussero fuori della stanza fino a un portico molto lungo, le cui colonne a spirale erano alternamente di marmo e d'oro. Dal portico le ragazze lo accompagnarono in una grande sala che lui non aveva ancora visto. Nelle alte pareti di oro brunito erano inseriti ampi pannelli di alabastro candido come la neve, abbellito da strane figure nere e cremisi. Ai muri erano appese torce argentee, che emanavano luci verdi e viola. Il tramonto era vicino, e le luci verdi e viola non erano molto forti: ombre misteriose cominciavano a diffondersi nella grande sala. L'aria, sorprendentemente, era deliziosamente fresca, e aveva un profumo strano e pungente, come se nelle torce bruciasse incenso. Le ragazze-serpente si fermarono presso le tende della porta d'ingresso. Price s'incamminò da solo sui morbidi tappeti: Vekyra lo stava aspettando. Per un attimo si sentì imbarazzato, avvolto com'era in vesti a lui poco familiari: il mantello di fili d'argento era rigido, e pesava molto. In fondo alla sala erano sistemati due divani ampi, bassi, di un legno scuro e antico laccato di rosso. Su uno di essi stava Vekyra, adagiata sopra a grandi cuscini. Con grazia felina la donna d'oro si alzò, andò incontro a Price, e gli prese le mani nelle sue. Indossava una veste scarlatta che faceva apparire quasi bianca la sua pelle dorata. Una fascia nera legata intorno alla testa metteva ancor più in risalto il fulvo splendore dei suoi capelli ribelli. Vekyra non portava gioielli, e il suo vestito, pur nella sua ricchezza, era semplice. In silenzio, con gli occhi a mandorla che brillavano d'una luce insidiosa, la donna condusse Price al proprio divano e cercò di farlo sedere accanto a sé. Ma lui si ritrasse in fretta, e si sedette nell'altro sofà, davanti a lei. Arrabbiata, lei buttò indietro la testa. «Ascolta, Vekyra», disse Price bruscamente. «Non voglio litigare con te. Ma voglio che tu capisca che non ho nessuna intenzione di riprendere qui una vecchia storia d'amore iniziata duemila anni fa. Quello che voglio...». Lei lo zittì con un gesto imperioso della mano. «Non sono forse bella?», disse, con sfida. Lui la guardò. Era bella, con quel suo corpo flussuoso e aggraziato avvolto nella seta scarlatta. Ma la sua bellezza era aggressiva, crudele, terribile. «Sì, sei bella», ammise. «Cosa c'è, Iru, ch'io non possa darti?», sussurrò lei. «Vedi, Vekyra, tu non capisci...».
Lei lo interruppe, irritata. «Qual è la cosa che tutti gli uomini desiderano di più?», disse, con voce dolce eppure stranamente tagliente. «L'amore? La gioventù? La ricchezza? Il potere? La fama? La sapienza? Iru, io non te ne offro una sola: te le offro tutte!». «Oh, ma tu non capisci che...». Lei alzò le spalle, seccata. «Tu dici che sono bella. Pensa che io ti dò un amore che ha avuto la forza di sopravvivere per un centinaio di generazioni. Un amore che ti ha riportato in vita grazie alla propria eccezionale intensità!». Price fece per parlare, ma capì che qualsiasi cosa avesse detto sarebbe servita soltanto a fare arrabbiare Vekyra. Allora si trattenne e ascoltò in silenzio. «Vuoi la gioventù?», disse lei con la sua voce argentina. «Quando avrai come me sangue d'oro nelle vene, sarai giovane per sempre. Un po' di giorni tra le nebbie dorate, e sarai immortale!». I suoi occhi a mandorla scintillarono, nella foga del discorso. «Vuoi la ricchezza? Guardati intorno. Ti offro il mio castello, e tutto l'oro della tana del serpente. È forse poco?». «Vuoi la fama? Starà a te guadagnartela quando diventerai il più forte e il più ricco degli uomini, e per di più immortale. «Vuoi la sapienza? Non t'interessano forse gli antichi segreti di Anz? Io conservo i libri dei saggi di un tempo. Conosco il segreto della sala del miraggio, e degli specchi d'oro. E molti altri. Puoi forse disdegnare la sapienza?». «Ma vedi...», cercò di dire Price, e ancora una volta lei non lo ascoltò. «E tuttavia ti offro ancora di più», disse Vekyra. «La cosa che gli uomini apprezzano più di tutte le altre. La cosa per la quale sono disposti a vendere tutto il resto. Che cos'è questa cosa? «È il potere! Io ti dò le armi dell'antica Anz. Ti dò il potere sulla tigre e sul serpente. Il potere di conquistare tutto il mondo!». Arrabbiata, Vekyra batté le mani. Subito entrò nella stanza una schiava: portava un cuscino rosso, di seta, sul quale era posata una corona di metallo bianco, incrostata di perle coltivate e di grosse gemme rosse e gialle intagliate piuttosto rozzamente. «La corona di Anz!», esclamò Vekyra. «È tua, Iru. Un tempo tu la portavi. Io te la restituisco». La donna d'oro prese in mano la corona; la schiava si dileguò in silenzio.
Price fece un gesto di scoraggiamento. «Mi dispiace, Vekyra, ma bisogna che tu capisca il mio punto di vista. Io non dico che tu non sia bella, perché lo sei. E capisco che mi stai offrendo molto, moltissimo. Molti uomini probabilmente sarebbero lieti di accettare la tua offerta». Lei, arrabbiata, si alzò, tenendo la corona fra le mani. Price le fece segno di tornare a sedersi. «È meglio che tu sappia la verità, anche se non ti piacerà», le disse. «Io amo Aysa, anche se tu dici che è la reincarnazione di un'assassina. La amo, e intendo strapparla alle grinfie di Malikar, anche dovessi metterci tutto il resto della vita. «Se lei è ancora umana, benissimo. Se invece si è già trasformata in un essere dorato, bene, allora sì che mi deciderò ad andare a dormire anch'io tra quelle nebbie d'oro. «Mi dispiace se quello che dico ti può ferire. Ma è meglio che tu lo sappia». Vekyra ascoltò in silenzio, con gli occhi fiammeggianti e il respiro affannato. Fece per alzarsi di nuovo, poi tornò a sedersi. Di colpo la rabbia svanì dal suo viso, come fosse stata tutta una finzione. La donna rivolse a Price un sorriso subdolo, pericolosamente dolce e disarmante. «Iru, mio signore», disse, con voce più melodiosa che mai, «non litighiamo. Il banchetto è pronto». Di nuovo batté le mani, ed entrarono le cameriere. Sui vassoi che portavano c'era una sbalorditiva varietà di cibi. Datteri freschi. Rosse melagrane senza semi. Enormi grappoli di uva nera. Piccole, freschissime noci sgusciate che Price non conosceva. Carne arrosto. Dolci conditi con spezie, dalle molte forme e dai molti gusti. Parecchie varietà di formaggio. Diverse qualità di vino, da quello leggero a quello aspro, da quello rosso a quello bianco e a quello rosato. Ciascun vino era contenuto in alti fiaschi. Price osservò Vekyra, e vide che faceva praticamente finta di mangiare. Sceglieva un boccone di questo e un boccone di quello da ciascun piatto, ma raramente poi li portava alla bocca. Il vino lo assaggiò appena. Price si chiese se gli esseri dorati mangiassero come i comuni mortali, o se invece non bastasse loro respirare la nebbia gialla, per vivere. Decise di mangiare e bere anche lui molto poco. Aveva la sensazione che ci fosse aria di burrasca in giro, ed era deciso a non correre inutili pericoli. Come Vekyra, si limitò ad assaggiare appena il vino e le varie portate. Lesse irritazione negli occhi della donna, e fu più che mai contento del proprio digiuno.
«Sentiamo un po' di musica», sussurrò lei alla fine, e batté ancora una volta le mani. Suonatori e suonatrici nascosti intonarono una dolce melodia esotica stranamente inquietante. L'accompagnamento, sommesso ma insistente, era dato da una sorta di tam-tam. «Ora che hai cenato», disse Vekyra lanciando a Price uno sguardo perverso, «danzerò per te». La donna d'oro scivolò fino a un tappeto azzurro e porpora e si fermò lì, cominciando a ondeggiare al ritmo lento di quella musica antica. Di tra le ciglia dorate, i suoi occhi orientali guardarono Price con la loro espressione misteriosa ed enigmatica. Lui cercò di guardare altrove, di controllarsi. La singolare stanza dalle sommesse luci verdi e viola, strane come il profumo che si sentiva nell'aria. La musica insolita e ritmata; e Vekyra che danzava col suo corpo snello avvolto nella tunica rossa, mentre i capelli le facevano corona intorno alle spalle, simili a una rete gettata per catturare lui, Price. Vekyra cominciò a cantare una curiosa, semplice canzone: Rosse fiamme danzano, fiamme di giungle, danzano e invocano. Tamburi suonano cupi, tamburi di giungla, suonano e invocano. Splende bianca la luna, luna di giungla, splende e invoca. Forte batte il cuore, il mio cuore, batte come un tamburo. Caldo fluisce il sangue, il mio sangue, rosso come la fiamma. La passione arde, nel mio petto, splendente come la luna. La luna s'offusca; le fiamme rosse si spengono; il tamburo tace. Eppure io aspetto, aspetto sempre, il mio amore. Passano i secoli, la terra invecchia... E io ancora aspetto. Le torce brillavano della loro luce viola e verde, proiettando ombre bizzarre sull'oro e sul marmo dei muri. Strane tenebre riempivano gli angoli della sala mentre la musica, lenta e sommessa, accompagnava Vekyra che ondeggiava e si contorceva. L'aria fresca dal profumo d'incenso era inebriante come vino. La musica d'un tratto si fece molto più veloce. Seguendone il ritmo, Vekyra volteggiava leggera e aggraziata come una lingua di fiamma. E men-
tre danzava si tolse la tunica rossa, la gettò in terra e vi piroettò sopra col suo corpo luminoso e superbo. La musica tornò a farsi più lenta; lenta, dolce e ossessionante. Vekyra si diresse verso Price. Era praticamente nuda, e pareva una statua d'oro animata e capace di camminare. I suoi occhi verdi ardevano di passione. La donna d'oro si gettò accanto a Price e lo abbracciò. Lui sentì immediatamente una bruciante ondata di desiderio. D'istinto le mise le braccia intorno alle spalle e strinse a sé quel corpo palpitante. Lei lo guardò con occhi pieni di ardente esultanza. Price fissò un attimo quei forsennati occhi verdi, e provò d'un tratto un senso di orrore. Distolse lo sguardo per non vedere il viso di lei, le sue labbra avide, e cercò di allontanare da sé la donna. Ma lei gli si avvinghiò ancora di più, con incredibile forza. Lo strinse a sé, al suo corpo, e nello stesso tempo chiamò una schiava. La schiava entrò di corsa nella stanza, reggendo una coppa di cristallo piena di vino rosso. «Bevi, grande Iru», sussurrò Vekyra mentre Price lottava fra le sue braccia dorate. «Bevi e dimentica». Lo avvinghiò ancora di più, mentre la ragazza cercava di infilargli a forza in bocca il vino. Price non avrebbe mai voluto colpire una donna, ma... Ma quel vampiro d'oro non era una donna! Si liberò un braccio e buttò in terra la coppa, che formò una macchia come di sangue. Vekyra continuava a stargli avvinghiata, e allora lui la colpì sulle labbra dipinte con la mano a pugno. Lei lo lasciò andare di colpo, gli occhi infiammati di rabbia. «Hai picchiato Vekyra!», sibilò. «Me! Vekyra! Regina di Anz e sacerdotessa del serpente!». Price scattò in piedi e si avviò deciso verso la porta. «Vattene!», gridò lei, furiosa. «E non provarti a implorare pietà per te o per la miserabile schiava che ami!». Con passo deciso, Price continuò a dirigersi verso le tende dell'entrata. Vi era quasi arrivato, quando Vekyra gli gridò dietro: «Iru! Resta! Resta qui, grande Iru!». Price si voltò indietro a guardare, e vide che lei gli stava correndo dietro. Appariva bella e pallida alla luce fioca delle torce. Ma Price tirò la tenda e uscì. Alle sue spalle sentì l'urlo soffocato della donna, sopraffatta dall'odio e dalla rabbia.
Mentre percorreva in fretta il portico diretto al proprio appartamento, Price, inquieto, si concesse una citazione, nel palazzo illuminato dalla luna: «Non c'è furia d'inferno peggiore d'una donna disprezzata!». 26 La vendetta di Vekyra Nonostante tutto, Price era ancora ben lontano dal capire la raffinata insidiosità del carattere di Vekyra. Tornato nella sua stanza con la solita scorta dietro, si rimise i propri vestiti, quelli che Vekyra gli aveva restituito. Si aspettava da un momento all'altro la furiosa vendetta di lei, anche se non riusciva a immaginare in che modo l'avrebbe concepita. Le ragazze, sempre armate di jambiyah, si ritirarono davanti alla porta della sua stanza. Price, indossata la maglia dorata di Iru, si sdraiò sul letto tenendosi accanto lo scudo ovale e l'ascia d'oro dell'antico re. Ma non dormì. Si aspettava che da un momento all'altro succedesse qualcosa. Si chiese in cosa sarebbe consistita la vendetta di Vekyra. Magari la donna d'oro sarebbe venuta a ucciderlo con le proprie mani... Oppure gli avrebbe spedito contro la tigre... E se semplicemente l'avesse restituito a Malikar? C'era la luna piena, fuori, ma le ampie finestre della stanza di Price davano a sudest, e la luce argentea non entrava da esse. Le sentinelle sulla porta avevano una torcia, ma ben presto questa, che aveva la fiamma bassa, si spense. Price rimase in ascolto. Le ragazze parlarono per un po', a voce bassa. Poi tacquero. Qualcuna cominciò a russare. D'un tratto Price si ricordò della promessa che aveva fatto allo sceicco, e dell'appuntamento a mezzanotte nel cortile centrale. Sperava ben poco nel successo di quel piano balordo, ma se non altro era interessante la prospettiva di riempire in qualche modo le ore notturne. E se poi davvero fosse riuscito a fuggire dal castello, e avesse quindi avuto di nuovo la possibilità di usare l'ascia... Si alzò in silenzio da letto e andò alla finestra. Le ragazze, sulla porta, non si mossero. Price scavalcò il davanzale, vi si tenne aggrappato con le mani, poi si lasciò cadere silenziosamente sul sentiero ghiaioso. Nessuno diede l'allarme: tutto fu straordinariamente semplice. Il castello era illuminato dalla luna, la cui luce si riverberava arcana sul marmo bianco e sul lucido oro. I giardini e i porticati erano tutti invasi dal suo chiarore spettrale.
Era difficile nascondersi, in mezzo a quella luce. Ma sembrava non esserci nessuno, in giro. Price scivolò lungo sonnolenti sentieri, finché arrivò al cortile centrale. Anche quello era deserto, sinistramente immobile e inondato di luce. Price si sentì quasi sciocco per essere andato fin lì: era ridicolo pensare che il vecchio beduino e la sua Nazira potessero organizzare un piano di fuga serio. Si chiese se dovesse tornare nella sua stanza, o fare un tentativo suicida e cercare di scavalcare le mura del castello per poi provare a scendere giù dal precipizio. «È lei, Effendi?», sussurrò Fouad. Era all'ombra di una macchia d'alberi. Price gli mosse incontro. Il vecchio arabo si fece vedere alla luce della luna. Era armato d'un lungo giavellotto. La sua ex carceriera era accanto a lui, con il jambiyah alla vita e una corda arrotolata in mano. «Wallah, Sidi», mormorò lo sceicco. «Sono contento che sia venuto! È un posto brutto, questo, al chiaro di luna. Non mi piace quella donna, la djinni d'oro». «Venite, su, in silenzio», mormorò la ragazza. Li condusse verso un viale di palme che li portò alle mura est del castello. Appesa alla parete di basalto, appena un po' a nord di una delle torri di sorveglianza, c'era una scala di corda. «Salite su quella», sussurrò la ragazza. «Non fate nessun rumore. Aspettate all'ombra della torre». Price salì, con Fouad dietro. Poi salì la ragazza, con la corda in mano. Stettero in piedi in cima alla parete, che era larga circa due metri. Da un lato c'era Verl, con le sue guglie splendenti sotto la luce della luna; dall'altro c'era il vuoto, che scendeva per mezzo miglio giù, fino all'altopiano vulcanico, in fondo. La ragazza legò un capo della fune ai ganci di metallo che reggevano la scala di corda, e buttò l'altro capo giù dalla facciata esterna della parete. «Calatevi giù, presto», sussurrò. «Troverete un sentiero scavato nella roccia. Non fate rumore. Presto, prima che la padrona si svegli». Fouad si avvicinò alla ragazza con l'intenzione di abbracciarla. Lei alzò le spalle, seccata, e lo spinse verso la corda. Lui allora afferrò la fune e scomparve dietro la parete. Price aspettò di vedere la corda tornare lenta. Era preoccupato. Quella fuga sembrava troppo facile. C'era qualcosa che non andava; cosa, lui non sapeva certo dirsi. Si calò anche lui. Sentì le mani di Fouad che lo afferravano e lo guidavano verso una stretta sporgenza. Allora lasciò andare la corda, che fu riti-
rata in fretta dalla ragazza. La sporgenza contrassegnava un sentiero scavato nella roccia, liscio e largo circa mezzo metro, che scendeva giù verso destra. Price s'incamminò a passo spedito, seguito da Fouad. Era ancora preoccupato. Era stato troppo facile. Ma una cosa almeno lo consolava. Era fuori del castello. La promessa di non usare l'ascia non valeva più. Il sentiero, zigzagando, attraversava la parete est della montagna. Terminò sopra un ripido pendio, giù dal quale si vedeva l'inizio dell'altipiano vulcanico. Price e Fouad scesero dal pendio in parte camminando, in parte scivolando col sedere. Arrivati in fondo si misero a correre, allontanandosi dalla montagna. «Wallah, Effendi», disse Fouad, ansimando. «Saremo a El Yarim entro l'alba». Quando ebbero percorso un miglio, Price si voltò indietro a guardare. La nera massa della montagna si stagliava tetra e minacciosa contro la luce della luna. Si vedeva il quadrato giallo della porta d'oro da cui lui era passato per un pelo con la tigre e Vekyra, e in alto, in lontananza, il castello, che formava una specie di corona opalescente nel chiarore lunare. Continuarono a correre. Price aveva paura. Continuava a non capire come mai la fuga fosse andata così liscia. C'era qualcosa che non quadrava. «Ya Allah!», urlò d'un tratto Fouad quando ebbero percorso circa due miglia in direzione dell'oasi. Con la voce alterata dal terrore, stava guardandosi alle spalle. Price si girò e frugò con gli occhi nella sinistra massa nera della montagna. Il quadrato d'oro della porta era scomparso. La porta era stata aperta! E fu allora che Price vide la tigre, che correva sull'altipiano vulcanico con l'howdah in groppa. Aveva già percorso mezzo miglio. Sul dorso di quel mostro dorato si distingueva in piccolo, la figura di Vekyra. Price capì in quel momento perché la fuga fosse stata così semplice e facile. E capì quanto fosse raffinatamente orrenda la vendetta di Vekyra. Lei aveva organizzato tutto. Era una trappola! Fouad non aveva fatto colpo sulla sua carceriera, contrariamente a quanto aveva creduto; a conti fatti, non c'era da stupirsi che lei avesse rifiutato di abbracciarlo e lo avesse sospinto in fretta verso la corda... Era stato tutto quanto architettato già da prima che Price facesse infuriare Vekyra. Lei lo aveva temporaneamente risparmiato perché aveva già insidiosamente e sadicamente pianificato la propria vendetta.
«Ya Allah! Ya gharati! (Oh, Dio! Oh, che calamità!)», urlò Fouad. «La djinni ci ha ingannati per poterci perseguitare meglio!». La sua voce si fece rauca e morì in un borbottio. Nel deserto inondato dalla pioggia argentata della luna, risonò soltanto il sinistro ruggito della tigre spronata all'inseguimento. 27 L'accampamento nella «wadi» Sentendo l'urlo della tigre, Price e il vecchio beduino si buttarono a correre. Quel ruggito strano e lamentoso faceva scuotere i nervi e risvegliare terrori atavici e irrazionali. I due uomini cessarono di essere persone raziocinanti. Il ruggito agghiacciante, con tutto ciò che implicava, li rese soltanto due animali terrorizzati. Insieme corsero in mezzo alla pianura di lava illuminata dalla luna con quanto fiato avevano in gola: la paura e la forza nervosa li indussero a sforzare il fisico fino al limite della sopportazione. Quando Price rientrò in sé, sentì un male tremendo ai polmoni. Non respirava più: rantolava. Era completamente inzuppato di sudore e sentiva gli arti rigidi e pesanti come piombo. La notte, d'un tratto, era diventata spaventosamente insopportabile. S'impose di fermarsi. L'oasi era lontana una dozzina di miglia: raggiungerla prima della tigre era ovviamente impossibile. Quella pazza fuga non serviva a niente; serviva solo ad accrescere il sadico piacere che Vekyra metteva nel suo diabolico piano di vendetta. Ansimante, Price si lasciò cadere, prono, dietro a una protuberanza di roccia vulcanica. Fouad continuò a correre, lanciando a ogni passo frenetiche invocazioni ad Allah e al suo profeta. Protetto dall'ombra della roccia, Price si voltò a guardare la desolata pianura inondata dal chiarore lunare. Guardò verso la montagna, e vide in lontananza la terribile sagoma dorata apparire e scomparire nella luce spettrale. Correvano sull'usta delle sue orme Zor, la tigre d'oro, e Vekyra, colei che la cavalcava. Price, calmatosi, si mise ad accarezzare la sua ascia dorata. Era naturalmente pazzesco pensare di poter combattere contro una tigre grande quanto un elefante, ma era un'idea non più suicida di quella della fuga; e Price si sentiva sempre meglio quando combatteva che quando scappava. Guardò la tigre correre con passo felpato e veloce: sembrava quasi gal-
leggiare sulle onde di bianco chiarore lunare. Veniva dritto verso di lui, ma poi deviò un poco. Price sentì il grido di esultanza di Vekyra, che aveva evidentemente individuato la sua preda. Ma no. Non aveva visto Price. Aveva visto Fouad. All'ombra della roccia, lui doveva essere ancora invisibile alla donna d'oro. Ma appena fosse giunta più vicino, lei lo avrebbe indubbiamente scorto. E se la gigantesca tigre seguiva le orme basandosi sull'odore... I suoi pensieri furono interrotti dall'improvviso crepitio di un fucile, proveniente dalla direzione che aveva preso Fouad. Price sentì le pallottole fischiare sopra la sua testa e mirare alla tigre. La bestia si fermò di colpo, rimase immobile. Era a meno di cinquecento metri di distanza. Price adesso vedeva bene l'howdah con Vekyra sopra. Vekyra si alzò in piedi su essa e seguì un attimo con lo sguardo Fouad, mentre le pallottole le fischiavano vicino. Poi tornò a sedersi; la tigre fece dietro-front e fuggì. La sua gialla sagoma ciclopica si fermò un momento sopra una cima lontana, poi parve confondersi col chiaro di luna. Price si alzò, bestemmiando per lo stupore e il sollievo. Di colpo l'enorme tensione nervosa si allentò, e lui si sentì stranamente stanco e scioccato. Curiosamente, gli era venuta una gran voglia di ridere. L'astuto piano di Vekyra, volto a infondere speranza nelle sue vittime permettendo loro di fuggire incolumi e a distruggere quella stessa speranza inseguendole con la tigre, si era trasformato in un gran pasticcio. Alla fine la donna d'oro aveva involontariamente dato loro sul serio quella libertà con cui si proponeva di illuderli e tormentarli. Price s'incamminò nella direzione presa da Fouad e giunse ben presto in vista di un gruppetto di cinque o sei uomini che, fucili alla mano, erano raccolti intorno al vecchio arabo. Uno di essi diede il «chi va là». Price gridò il proprio nome, e subito dopo vide venirgli incontro di corsa il vecchio Sam Sorrows, lo spilungone del Kansas. «Salve, signor Durand», disse Sorrows, stupito. E, quando fu più vicino: «Si può sapere cos'è successo?». «La signora sul dorso della tigre stava facendo un po' di sport. Lo sport della caccia, con Fouad e me come selvaggina. Per fortuna che ci siamo imbattuti in voi». «Fortuna? Può darsi». Sam Sorrows abbassò la voce fino a ridurla a un sussurro. «Meglio che tenga gli occhi bene aperti, signor Durand. Per via di quel mezzosangue di de Castro. Da quando ha strappato quella ragazza
dalle sue grinfie olivastre, il bastardo ce l'ha su con lei. A proposito, ha scoperto niente...». «Sì, Sam, l'ho vista. È nelle viscere della montagna. Quel demonio giallo, Malikar, la vuol trasformare in oro. Ma dimmi di de Castro». «Be', non è che sia ansioso di baciare le terra dove lei cammina. E gli uomini sono per lo più dalla sua parte. E... be', vede, cioè...». Sorrows, imbarazzato, s'interruppe, si mise ad armeggiare col suo fucile. «Cosa c'è, Sam?», disse Price. «Be', vede, signor Durand... insomma, l'abbiamo vista ieri, nel miraggio». «Oh!». Price si ricordò della strana esperienza avuta nella sala del miraggio. «E allora?». «Be', vede, signore, mi dispiace doverlo dire, ma è stato brutto vedere lei e la donna gialla spiarci. Sembrava che lei e la donna fossero in ottimi rapporti. Gli uomini hanno detto...». «Cos'hanno detto?», lo sollecitò Price. «Certo io non metto in dubbio la sua buona fede, signor Durand». Price fu turbato di sentire una lieve incertezza nelle parole di Sorrows, come se non fosse del tutto convinto. «Ma gli uomini pensano che lei ci abbia tradito. De Castro ha fatto un brutto discorso, dicendo che se per caso lei ci capitava un'altra volta tra le mani... Be', io ho pensato bene di metterla in guardia». «Grazie, Sam», disse Price, stringendogli la mano nodosa. «Bisogna che spieghi le sue ragioni, signore. Sembra strano che lei si sia imbattuto per caso in noi mentre scappava, e che poi risulti che scappava perché inseguito dalla donna d'oro. Gli uomini penseranno subito che abbia architettato tutto apposta per spiarci e scoprire quali sono i nostri piani». «Ma c'era anche Fouad con me». «Cosa conta, lui?». Lo spilungone del Kansas girò le spalle per tornare dagli altri. «Buona fortuna, signore», disse. «Si ricordi che io sono con lei». In una wadi poco profonda di là dall'altura, Price trovò un piccolo accampamento senza fuochi. Non c'erano tende. Gli uomini bianchi, una ventina, erano per lo più sdraiati o accovacciati accanto ai bagagli. Gli arabi di Fouad, ridotti a poco più di trenta, erano radunati intorno al loro sceicco e gli facevano festa. Non lontano da lì c'erano i cammelli, che ri-
posavano accosciati o goffamente stesi. E poi c'era il carro armato, con la sua grossa mole scura e silenziosa. Quando Sam Sorrows e Price oltrepassarono il gruppetto di sentinelle sull'altura, Jacob Garth si fece loro incontro. Dato il fresco vento della notte, aveva la testa scoperta e il topi appeso al collo. «Non si fidi troppo di lui», sussurrò Sam Sorrows a Price. «È deciso a compiacere in ogni modo de Castro e gli altri uomini... almeno finché non riesce a mettere le sue manone sull'oro!». Garth era ormai molto vicino: Price perciò non rispose. «Non mi dica che è di nuovo qua, Durand!», tuonò Garth, con la sua solita voce sonora e priva di inflessioni. «Sì». «Sicché lei diserta, ogni tanto fa la sua brava apparizione, e poi pretende di essere convincente?». «Sono in grado di spiegare tutto». «È in grado di spiegare come mai l'abbiamo vista nel miraggio ieri mattina? Seduto confidenzialmente vicino alla donna d'oro dalla quale adesso fa finta di fuggire?». «Sì». «Spieghi, spieghi, allora». «Ascolti, Garth. Lei può anche pensare che io sia un traditore. Ammetto di avere avuto la possibilità di fare il doppio gioco con lei. Ma scappavo con la tigre dietro perché il doppio gioco non l'ho fatto. Garth, io sono penetrato parecchio dentro la montagna. So molte cose che penso possano essere utili, se avete pianificato un altro attacco alla montagna... Immagino intendiate attaccare, vero?». «Così si è messo d'accordo con la donna d'oro contro di noi, eh?». Price arrossì dalla rabbia, ma cercò di controllarsi. «Garth, non le ho dato motivo di dubitare della mia onestà. Le dirò tutto quello che ho saputo sui nostri nemici. Ma prima bisogna che mi assicuri che lei e i suoi uomini rispetteranno la mia vita e la mia libertà». Reso ancora più pallido dal chiarore della luna, Garth studiò Price col suo faccione impassibile e coi suoi occhi freddi. «Benissimo, Durand», disse alla fine. «Sappia che attaccheremo verso l'alba. Fra poco Sam Sorrows partirà per El Yerim con le istruzioni per gli aeroplani. Gli aeroplani bombarderanno il castello. Avranno fine, così, quei maledetti miraggi?». «Se riescono a colpire la macchina, sì. Si tratta di un complicato conge-
gno basato sugli specchi e sulla curvatura della luce. La sala del miraggio è in cima alla torre più alta». «Bene. Dopotutto, forse le sue informazioni saranno utili. Con gli aerei, il carro armato e i cannoni, siamo senz'altro in grado di vincere ogni resistenza. Dentro la montagna ci faremo strada con la dinamite. Lei mi dirà quello che sa. Studierà il piano d'attacco con me. Le prometto l'incolumità. Ma la terrò sotto sorveglianza fino alla fine della battaglia». «C'è un'altra cosa...», cominciò Price. «La ragazza? Be', signor Durand, è meglio che sappia subito che l'ho promessa a de Castro, nel caso che ci capiti fra le mani. Dovrà dimenticarsela». «È un'ingiustizia che...». «La giustizia non m'interessa, Durand. A me interessa l'oro. Se le vanno le mie condizioni, mi racconti tutto quello che sa e io le assicurerò l'incolumità. Se non le vanno, la consegnerò a de Castro. Credo non veda l'ora di infilarle un coltello nella pancia. Adesso sta dormendo. Devo chiamarlo?». Era inutile discutere: Price alla fine si arrese. Era ancora intento a raccontare le sue avventure e a descrivere i corridoi interni della montagna, quando d'un tratto le sentinelle sull'altura spararono in aria un colpo di avvertimento e gridarono il «chi va là». «Jacob Garth! Jacob Garth!», si sentì subito dopo. Era una voce argentina. La voce di Vekyra. Price sentì un tuffo al cuore. Cosa significava quel grido? «Venga con me», disse Jacob Garth, prendendolo per un braccio. Salirono sull'altura. Duecento metri più in là, sull'altipiano vulcanico bagnato dal chiarore di luna, stava Vekyra, quasi spettrale nella luce argentea. Era a piedi: la tigre non si vedeva da nessuna parte. «È lei?», chiese Garth a Price. «Sì. È lei, la donna d'oro. Si chiama Vekyra». «Cosa vuoi?», urlò Garth, in arabo, alla donna. Lei, con voce limpida, gridò ancora: «Jacob Garth! Jacob Garth!». Garth esitò. Si voltò a guardare l'accampamento, poi scrutò la distesa argentata del deserto. Quindi, col solito tono calmo e impassibile, disse, rivolto alle sentinelle: «Vado a parlare. Se qualcosa dovesse andare storto, sparate. E lui tenetelo qui». Indicò con un cenno della testa Price. «Trattatemelo bene. Ci può essere utile». Jacob Garth s'incamminò a grandi passi in direzione di Vekyra. Le sentinelle, con Price in mezzo, stettero all'erta sulla collina. Videro Garth fer-
marsi vicino alla donna e sentirono il mormorio delle loro voci. I due fecero qualche passo, poi si sedettero in terra l'uno davanti all'altra. Si rialzarono quasi un'ora dopo. La donna, più spettrale che mai, si allontanò in fretta, fino a confondersi col chiarore della luna. Jacob Garth tornò con passo deciso all'altura. Benché tutte le sentinelle bruciassero di curiosità, nessuna osò chiedergli niente. «Si è convinto che non vi ho traditi con quella donna?», chiese Price. Garth lo guardò, e borbottò: «Sì, Durand. Con lei si dev'essere comportato proprio come uno stupido. Venga». L'omone lo condusse un po' lontano dalle sentinelle, e abbassando la voce disse: «Durand, non abbiamo più bisogno di lei. E, da quello che mi ha detto la donna, sono convinto che non ci farà... che lei non ci può fare alcun male. Quindi può andare». «Andare?», disse Price, senza capire. «Sì, andare. Andarsene all'accampamento. E al più presto, anche. Joao de Castro non la vede di buon occhio. Meglio che se la squagli fin che può». Si rivolse alle sentinelle, e tuonò: «Ragazzi, il signor Durand ci lascia. Dategli dieci minuti per uscire dal tiro delle pallottole». 28 Il serpente sentinella «Mi dispiace che sia andata così, signor Durand», sorrise Sam Sorrows. «Ma sarebbe potuta andare anche peggio». Era tornato al suo cammello e aveva portato a Price una piccola borraccia di metallo piena d'acqua, e un po' di datteri, di carne di cammello essiccata e di gallette. «Questo le basterà per tornare all'oasi, signore», disse. «E buona fortuna». Price strinse quasi con le lacrime agli occhi la mano al vecchio spilungone del Kansas, e si allontanò sotto il tiro dei minacciosi fucili delle sentinelle. Quando ebbe percorso mezzo miglio, una lieve altura lo fece scomparire dalla vista delle sentinelle. Price continuò a camminare tristemente in mezzo all'ostile e solitaria distesa di scure rocce vulcaniche. Aveva perso tutte le partite, e si era giocato anche l'ultima delle possibilità. Ma non era tipo da rassegnarsi. Non aveva nemmeno per un attimo pen-
sato sul serio di tornare mogio mogio all'oasi, come gli altri credevano avrebbe fatto. E d'un tratto ebbe un'idea, un'idea folle. Conosceva una strada per penetrare dentro la montagna: la strada che, suo malgrado, gli aveva insegnato Kreor, l'uomo-serpente. La ricordava abbastanza bene da ritrovarla da solo. Magari adesso era sorvegliata, ma valeva la pena rischiare. E l'ascia d'oro era ancora nelle sue mani... Nelle viscere della montagna si annidavano pericoli ai quali non amava pensare. I fanatici seguaci di Malikar. Malikar stesso, l'insidioso uomo d'oro. Il serpente giallo, accanto al quale occorreva passare per andare da Aysa... Price rabbrividì al pensiero dell'abisso di malvagità più antica del tempo che brillava negli occhi ipnotici del serpente. Ma, soprattutto, temeva le nebbie dorate. Già una volta gli era capitato di addormentarsi in mezzo a quei vapori. Anche se fosse riuscito a sfuggire a tutti gli altri pericoli, non avrebbe fatto in tempo a portare in salvo Aysa prima di addormentarsi. Ma forse era possibile escogitare un modo per proteggersi dalla nebbia gialla. Magari una rozza maschera antigas... Price cercò di farsi venire in mente tutto quanto sapeva in proposito. E ricordò che le maschere usate a Ypres contro i primi attacchi dei tedeschi erano semplici pezzi di stoffa inumiditi. In ogni caso, non avrebbe fatto male provare con un panno bagnato. Se il gas giallo si univa all'acqua del corpo umano o si sostituiva ad essa, era segno che aveva con essa un'affinità speciale. Price s'infiammò di nuovo di speranza, nonostante le probabilità di successo di quell'impresa fossero minime, e si incamminò in fretta verso ovest, per girare attorno alla parete occidentale della montagna. Stanco per la nottata densa di avvenimenti, si buttò a riposare appena raggiunse il punto in cui lui e Kreor avevano cominciato a salire per la ripida parete nord. Riposò fino all'alba, anche se non si arrischiò a dormire. All'alba cominciò ad arrampicarsi faticosamente su per la parete. Sentì d'un tratto un ronzio di aeroplano, e poi cupi rimbombi di esplosioni, che parevano venire da dentro la roccia. Garth, dunque, aveva attaccato, probabilmente con Vekyra come alleata. Price si sentì morire pensando all'eventualità che i due raggiungessero la tana del serpente prima di lui. Aysa, oggetto dell'odio di Vekyra, avrebbe probabilmente incontrato una sorte peggiore di quella che le sarebbe toccata se de Castro avesse messo le sue grinfie su di lei. Alla fine raggiunse il crepaccio e penetrò nelle serpeggianti caverne della montagna. Ben presto si trovò completamente al buio, con la sola me-
moria a guidarlo. Molte volte inciampò in pietre appuntite, facendosi male. Ma alla fine arrivò in una caverna più grande e, attraverso essa, nel primo corridoio scavato artificialmente nella roccia. Da lì in poi trovò abbastanza facilmente la strada, contando i passi e girando nei punti in cui si ricordava di avere girato quando era con Kreor. Alla fine giunse al tunnel a spirale e, sempre nella completa oscurità, si affrettò a scendere sempre giù. Sentì di nuovo la montagna vibrare per un'esplosione. Poi, per qualche attimo, avvertì delle grida confuse e il crepitio lontano di fucili, che giungevano a lui da qualche corridoio. Si era aspettato di incontrare delle sentinelle. Ma forse Malikar aveva dovuto radunare tutti i suoi uomini da qualche altra parte, per impedire l'entrata a Jacob Garth e Vekyra. Tuttavia, come Price era destinato a scoprire presto, Malikar una sentinella l'aveva lasciata: una sentinella più terribile di qualsiasi essere umano. Il rumore di spari cessò, e Price arrivò finalmente a un punto in cui si cominciava a intravedere un po' di luce gialla. La luce si faceva sempre più forte man mano che lui scendeva; e finalmente gli comparve davanti l'imboccatura del tunnel che portava alla tana del serpente. Lì l'aria era piena di pulviscolo dorato, e le pareti erano ricoperte d'una scintillante coltre di ghiaccio d'oro. Il corridoio s'impiattì, si fece orizzontale, e Price ancora una volta si ritrovò all'entrata del grande tempio. Fu di nuovo colpito dal suo aspetto imponente. L'enorme sala circolare dal soffitto a cupola era invasa dalla brillante nebbia gialla, e le sue pareti di basalto nero erano incrostate di fulgido oro. Appena mise piede sul pavimento ricoperto di brina dorata che stava tra l'entrata e il ponte sull'abisso, Price si sentì salutare da uno spaventoso sibilo. Fece un salto indietro, allarmato, e vide il serpente d'oro che, tutto raggomitolato, stava tra lui e il ponte che portava da Aysa. Le spire del serpente formavano una massa quasi conica, e ogni scaglia brillava d'una sinistra luce metallica. Il collo era eretto, e a tre metri dal pavimento la grande testa piatta dell'animale oscillava avanti e indietro. Price fissò un attimo il serpente, affascinato da quei suoi occhi terribili. Il rettile dorato teneva la bocca orrendamente spalancata mentre sibilava con inaudita intensità.
Price si sentì trafiggere da quegli occhi tremendi, che brillavano d'una sapienza malvagia più antica dell'umanità. Erano duri e affascinanti come gigantesche gemme. Si accorse che stava inconsciamente abbandonandosi al magico potere di essi: avvertì un senso di gelo insinuatisi nel corpo, congelargli le membra, opprimergli il respiro fin quasi a soffocarlo e rallentargli il battito del cuore. Lottò disperatamente contro il magico potere del rettile. Una volta, quando aveva visto l'animale nel miraggio, era riuscito a spezzare l'incantesimo. Perché non poteva farlo di nuovo? E aveva anche visto Malikar domare il serpente con la frusta, sottometterlo completamente. Nemmeno quella bestia mostruosa era immune dalla paura. Price raccolse tutte le sue forze e riuscì a camminare avanti rigidamente, come una bambola meccanica. Si diresse verso il serpente e sollevò goffamente l'ascia con le mani flosce e intorpidite. D'un tratto si ricordò che Malikar aveva gridato contro il rettile, quando lo aveva domato. Scoprì di avere la gola secca, e la voce gli uscì fuori roca e gracchiante. Ma ugualmente intonò la canzone dell'ascia di Iru, usando il tono più aspro che poté. Il serpente smise di oscillare la testa avanti e indietro. La ritrasse e, sempre sibilando, fece per attaccare. Price raccolse quel po' di forza che gli restava e alzò lo scudo per proteggersi la faccia. Ma la testa triangolare del serpente non lo colpì. L'animale aveva paura, e si ritrasse ancora, incerto e spaventato. Price sentì sciogliersi la morsa di gelo in cui gli occhi del rettile lo avevano serrato, e urlando a squarciagola la canzone dell'ascia continuò lentamente ad avanzare. Il serpente ritrasse ancora di più la sua testa coneiforme, la posò sulle spire dorate, e restò immobile. Gli occhi neri dai riflessi color porpora fissarono Price ostili, alieni, eppure impauriti. Lui continuò ad avanzare, cercando con tutte le sue forze di nascondere l'orrore, il terrore, il disgusto che sentiva. Arrivò a toccare con le gambe la spira più esterna dell'animale. La testa d'oro del rettile era abbassata all'altezza di Price, e quegli occhi arcani lo fissavano scintillanti: trapelavano da essi malvagia determinazione ed eccezionale intelligenza, unite alla potenza terribile d'una sapienza più antica dell'uomo. Rabbrividendo, Price, colpi con la mano nuda quell'orrenda testa, così come aveva visto fare a Malikar. Si sentiva male per la paura e per la de-
bolezza. Avvertiva una repulsione terribile, che gli pervadeva ogni fibra del corpo. Tuttavia, più che di colpire aveva paura di non riuscire a colpire. La spira a contatto con le sue gambe si scosse un poco, ma la grande testa triangolare non si scompose. Col palmo aperto Price colpì così forte che a contatto con le fredde scaglie metalliche si fece male alla mano. E intanto continuò a urlare a squarciagola la canzone dell'ascia. Poi distolse lo sguardo e s'impose di camminare, piano e senza voltarsi indietro. Andò fino all'imboccatura dello stretto ponte e la infilò, deciso ad attraversare la vertiginosa voragine fumante di nebbia d'oro, e a raggiungere la nicchia dove sapeva che dormiva Aysa. 29 Sangue d'oro Questa volta, stranamente, Price non sentì vertigini né paura di cadere, quando attraversò l'abisso denso di vapori dorati. Questa volta non badò a quanto fosse pericolosamente sottile quell'arco di nera pietra incrostata d'oro che, privo di parapetti, sfidava il baratro senza fondo. Assorbito dal pensiero di Aysa, Price era diventato inconsapevole dei pericoli. La difficile, strana lotta col serpente gli aveva perfino fatto dimenticare la natura soporifera della nebbia gialla. Fu solo a metà ponte che, sentendosi invadere da un'improvvisa, opprimente stanchezza, se ne ricordò improvvisamente. Si sentiva la mente offuscata e le palpebre pesanti; decise di trattenere il respiro mentre percorreva l'ultimo tratto di ponte che lo separava dalla nicchia, perché non osava fermarsi sopra l'abisso. Quando fu al sicuro nella nicchia, cercò il suo fazzoletto da naso, lo bagnò con l'acqua della borraccia che il buon Sam Sorrows gli aveva generosamente offerto, e lo legò sulla nuca in modo che gli coprisse il naso e la bocca. Aysa era ancora stesa sulla lastra, e aveva il bel viso ricoperto di scintillante polvere d'oro. Era sempre immersa in un sonno profondo: respirava regolarmente, ma molto lentamente. Timoroso, Price le tolse la polvere dorata dalle guance, dalla fronte e dalle mani, ed esplose in un grido di gioia. La carne era ancora tenera, bianca, normale. L'orribile trasformazione non era ancora avvenuta. Forse ci volevano mesi, o magari addirittura anni. Price cercò di svegliare la ragazza. Ma lei era floscia, abbandonata; non si svegliò né reagì in alcun modo quando lui la chiamò per nome.
In quella si udì uno spaventoso sibilo. Il serpente, raggomitolato davanti all'entrata dell'enorme tempio, si era rimesso a sibilare, furioso. E Vekyra gli veniva incontro cavalcando la tigre d'oro. Continuando a sibilare orribilmente, il gigantesco rettile giallo si scagliò contro gli invasori. Vekyra saltò agilmente giù dall'howdah e corse ad affrontarlo, mentre la tigre, ringhiando minacciosa, s'accucciava. La donna d'oro cominciò a parlare con voce melodiosa, e si avvicinò al serpente infuriato senza mostrare alcuna paura. Il rettile non la colpì: si raggomitolò di nuovo, e abbassò la testa. Vekyra, in piedi davanti a esso, continuò a molcirlo con la sua voce argentina, e alla fine l'animale protese la testa verso di lei. Lei gli si avvicinò ancora, lo accarezzò, fece scivolare le braccia dorate intorno al suo grosso collo. E ridusse la voce a un sussurro. Poi di colpo si allontanò, lasciando il serpente tutto quieto e raggomitolato. La tigre era ancora nervosa, e ringhiava; Vekyra la mise a tacere con un urlo. Il grande felino tornò ad accovacciarsi, fissando l'immobile rettile. Vekyra trasse dalla sua tunica un pugnale dorato, sottile e acuminato come uno stiletto, e s'incamminò in fretta verso il ponte. Allora Price capì che era venuta per uccidere Aysa, la ragazza addormentata che senza alcuna colpa aveva suscitato la sua gelosia e il suo odio. Stringendo l'ascia d'oro, Price imboccò il ponte e andò incontro alla donna. Sapeva che lei adesso lo odiava, e che avrebbe dovuto combattere non solo per la vita di Aysa, ma anche per la propria. Vekyra aveva un'espressione di perverso trionfo dipinta sul viso dorato, ma quando si accorse di Price al trionfo si sostituì lo sbalordimento. Poi lo sbalordimento si stemperò in sinistra esultanza. Si incontrarono a una trentina di metri dalla nicchia, sul ponte incrostato d'oro. Vekyra si fermò a tre-quattro metri da Price e lo salutò con un sorriso beffardo, guardandolo con gli occhi verdi che brillavano di malvagità. «La pace sia con te, Iru», disse, con scherno. «Sempre che tu la voglia!». «E sia anche con te, la pace», rispose serio Price, «a patto che tu te ne vada». «Lah! Ma, Iru, non hai per caso cambiato idea?», disse lei, beffarda. «Hai visto che ho parlato con Jacob Garth, ieri sera. Gli ho promesso tutto quello che ho promesso a te. Ha accettato: siamo entrati nelle viscere della montagna insieme. Proprio adesso sta combattendo con Malikar, nei corridoi qua sopra. Io l'ho lasciato per correre qui a fare a pezzi quella miserabile schiava. Nell'abisso, dove la butterò, non potrà più combinare guai».
Price coprì di epiteti la donna, pazzo di rabbia. Lei sorrise, enigmatica come sempre. «Ma dimmi, Iru, hai per caso cambiato idea?», ripeté. «Sei disposto a dimenticare quella schiava e ad accettare la corona di Anz?». «Niente da fare!», ringhiò Price. «Vattene... o combatti!». Vekyra rise. Col pugnale-stiletto indicò l'abisso scintillante, sotto. Price istintivamente guardò giù nel baratro senza fondo dove navigavano le nebbie d'oro, e la testa gli girò per il senso di vertigine. «Allora», disse Vekyra, «tu e la tua amata schiava starete insieme per sempre... laggiù!». E si slanciò avanti con agilità, pugnale alla mano. Price parò il colpo con lo scudo e roteò l'ascia. Vekyra balzò subito indietro, mentre Price fu sbilanciato dal peso dell'ascia d'oro e per poco non rotolò giù dal ponte. Mentre lottava disperatamente per riprendere l'equilibrio, Vekyra gli si scagliò contro mirando col pugnale alla sua gola. Lui dovette indietreggiare per schivare il colpo, e un piede gli finì fuori dal ponte. Vekyra rise, leggendo nei suoi occhi la disperazione. «Ricordati, Iru, che il popolo d'oro non può morire!», disse, sfottente. «E tu invece sei mortale... Anche se forse sei nato di nuovo per uccidermi!». Ancora una volta si gettò su di lui, colpì a vuoto, e di nuovo attaccò, rapidissima. L'antica maglia di Iru lo protesse dal colpo. Ma ormai Price vedeva chiaramente che si trovava davanti un'avversaria eccezionale. La maglia dorata e lo scudo gli davano un vantaggio solo apparente, perché il loro peso gli rendeva i movimenti più lenti e gli faceva mantenere l'equilibrio con più difficoltà. Quanto all'ascia, non la poteva roteare con forza, per paura che il colpo lo facesse vacillare e cadere dal ponte. Vekyra, che pareva dotata di un perfetto senso dell'equilibrio, danzava avanti e indietro sulla stretta passerella vibrando colpi a destra e a manca, veloce come il vento, e schivava facilmente gli attacchi di Price. Più e più volte Price fu messo pericolosamente in difficoltà, sull'angusto ponte. Quasi si pentì di essersi precipitato d'istinto sopra quella vertiginosa striscia di pietra; d'altra parte, non si era sentito di fare arrivare Vekyra fino alla nicchia, dove ella avrebbe potuto trovare il modo di liberarsi di lui con uno scatto fulmineo e di pugnalare Aysa. Decise di tentare di arrivare in fondo al ponte, sull'orlo della nicchia, in modo da avere un punto d'appoggio ampio, e da tenere Vekyra sempre sulla stretta passerella.
Parando una ventina di fulminei colpi, indietreggiò sempre di più, barcollando, finché non si ritrovò finalmente sull'orlo della nicchia. Strega dorata, Vekyra continuava a danzare instancabile sul ponte. Adesso Price poteva roteare la massiccia ascia senza paura che il suo peso lo facesse sbilanciare precipitandolo nell'orrido abisso fumante. Vekyra vibrò un ennesimo colpo, mirando alla gola di Price. Stringendo saldamente l'impugnatura dell'ascia, lui colpì con furia. L'ascia atterrò sulla spalla di lei. Il braccio colpito, che stringeva il pugnale, s'afflosciò. Lo stiletto rotolò tintinnando sull'orlo dell'abisso, cadde silenzioso nelle fiamme giallo-verdi. Con un urlo strozzato di rabbia e di odio, Vekyra fece un balzo indietro, premendosi la mano contro la ferita. Non era una ferita profonda, ma sanguinava, e il sangue gocciolava piano sopra il ponte. Era sangue d'oro, giallo, e luccicava come metallo fuso. Vekyra rimase qualche attimo ferma sul ponte a guardare Price con occhi malvagi e minacciosi. Poi, scattando con la silenziosa ferocia di una tigre, balzò avanti per attaccarlo con le mani nude. Price la aspettava con fiero cipiglio al termine del ponte, impugnando l'ascia di Iru. Quando vide che lei gli si scagliava contro provò a colpirla, ma non ci riuscì. Qualcosa, in lui, qualcosa di profondamente radicato, si ribellava all'idea di tirare un fendente contro una donna disarmata... Anche se la donna era una come Vekyra. Lasciò cadere l'ascia e sferrò un pugno alla strega d'oro. Lei, con incredibile agilità, schivò il colpo e gli si gettò addosso. Aveva già ripreso l'uso del braccio: la paralisi prodotta dalla ferita era solo temporanea. Price si pentì immediatamente dell'assurdo gesto cavalleresco che lo aveva indotto a sbarazzarsi dell'ascia. No, non era una donna, quella d'oro! Gli si scagliò contro come una tigre, graffiandolo con le sue unghie ad artiglio e mordendolo coi denti. Sotto l'impeto di quella furia lui vacillò, e cadde con lei vicino all'orlo dell'abisso. Per un po' rotolarono e si contorsero insieme sul pavimento di roccia, lottando furiosamente. La donna d'oro aveva una forza sovrumana e combatteva con selvaggia, demoniaca energia. Poi tutti e due si rialzarono barcollando in piedi, ancora avvinghiati in uno spossante abbraccio. Price conosceva abbastanza la lotta, ma non tanto da poter far fronte all'inaudita forza di lei. Era madido di sudore: sentiva il proprio respiro ansimante penetrare sibilando oltre il fazzoletto legato alla nuca, e avvertiva
un forte senso di soffocamento. Il corpo gli doleva tutto per l'insopportabile stanchezza. Anche Vekyra ansimava, e respirando in fretta gli alitava addosso. Aveva il corpo viscido del suo stesso sangue. Ma continuò a eludere la stretta di lui, e a tenerlo avvinghiato nella ferrea morsa delle proprie braccia. Lentamente, inesorabilmente, lo sospinse verso l'orlo dell'abisso. Allora lui le fece lo sgambetto, e caddero insieme. Price batté con la spalla sull'orlo duro del baratro. Aveva la testa sopra il vuoto, e per un attimo i suoi occhi incontrarono le dorate, sconfinate profondità. D'istinto strinse più forte il corpo d'oro di Vekyra. Se fosse precipitato nell'abisso, non vi sarebbe precipitato da solo. La donna urlò, lottò disperatamente per liberarsi dalla stretta. Insieme lasciò andare Price e fece un ultimo, frenetico tentativo per salvarsi. Certo che lei ormai non riuscisse più a raggiungere nessun appiglio, Price mollò la presa e si afferrò disperatamente all'orlo del precipizio. Le sue dita si strinsero intorno alla sporgenza aguzza della nicchia, e un attimo dopo tutto il peso del corpo gravò su di esse, sottoponendo a uno sforzo supremo i muscoli già stanchi, che si tesero fino all'inverosimile. La donna d'oro, priva ormai di qualsiasi appiglio, con uno straziante urlo di terrore precipitò giù, e fu inghiottita dall'abisso fumante di vapori dorati. Grato in cuor suo al destino, che aveva messo lui e non Vekyra vicino all'orlo del davanzale roccioso, permettendogli così di trovare un appiglio all'ultimo momento, Price continuò a penzolare appeso per le braccia. Lentamente, con sforzi indicibili, si tirò su centimetro per centimetro, finché riuscì ad appoggiarsi con tutto il corpo all'orlo della nicchia, e a mettersi in salvo. Quando si tirò su in piedi, ansimante e tremante, sentì il crepitio dei fucili e il ruggito del carro armato. Scrutando tra i vapori d'oro, vide in lontananza un gruppetto di uomini-serpente che, pur lottando accanitamente, si ritiravano nella grande sala del tempio, incalzati dal fuoco dei fucili. 30 Oro e ferro Amareggiato, Price osservò la battaglia che si svolgeva di là dall'abisso. L'esito che avrebbe avuto significava poco per lui. Se avessero vinto gli uomini-serpente, lui e Aysa sarebbero stati di nuovo alla mercé di Malikar. Se avessero vinto gli invasori, sarebbero stati alla mercé di Joao de Castro
e degli altri. I sacerdoti vestiti di azzurro, che erano in numero esiguo e continuavano a calare, stavano sull'entrata del tempio e contrastavano l'avanzata agli altri armati soltanto di picche e di lance. Poi arrivò ruggendo in mezzo a essi il carro armato, con la sua musica di morte. I pochi sopravvissuti, in preda al terrore, si sparpagliarono per il pavimento della grande sala. Ma gli invasori non avevano ancora vinto. Il serpente d'oro tornò a sibilare, e si buttò all'attacco. Il carro armato si fermò di colpo, e con esso si fermò il drappello di bianchi che lo seguiva. Price vide il serpente muovere la testa avanti e indietro, e capì che in quel momento gli uomini stavano cadendo vittime del terribile incantesimo dei suoi occhi. Distolse lo sguardo dalla battaglia, si rivolse a Aysa, e provò ancora una volta a svegliarla. La sua maschera antigas improvvisata lo stava ancora efficacemente proteggendo dalle qualità soporifere del vapore giallo. Forse, se fosse riuscito a prepararne un'altra, la ragazza si sarebbe svegliata. E avrebbero potuto avere qualche minuto tutto per loro, prima della fine. Price tolse ad Aysa il kafiyeh, lo scosse per levare la polvere metallica che vi si era depositata, lo bagnò con l'acqua della borraccia e lo stese sul viso di lei. Stava bagnando di nuovo anche il proprio fazzoletto, quando sentì un allucinante coro di ringhi e sibili furiosi. Si girò a guardare verso il tempio, e vide che la tigre d'oro aveva attaccato il serpente. I due mostri si dibattevano sul pavimento dorato, lottando con inaudita forza. La tigre, più forte e con una mole da elefante, colpiva ferocemente il rettile con gli artigli e le zanne. Ma il serpente non era un avversario da poco. Mentre Price guardava, esso avvolse strettamente una spira luccicante intorno al grosso corpo del felino, poi fece la stessa cosa con un'altra spira e ancora con un'altra, stringendo l'avversaria in una morsa soffocante. E, sempre sibilando, colpì più e più volte con i suoi denti dorati. Era una lotta titanica tra giganti semi-metallici, ciascuno dei quali era vecchio di secoli e straordinariamente forte e possente. Gli uomini, sentendosi piccoli e insignificanti davanti a quello spettacolo, per un po' smisero di combattere e si misero a guardare la battaglia campale. Poi il carro armato si rianimò, ruggì sul grande pavimento dorato. Le sue mitragliatrici crepitarono, mirando ora qui ora là, e l'ultimo degli uominiserpente, che sbalorditi si erano fermati a guardare la battaglia ciclopica dei loro dèi, cadde sul pavimento incrostato d'oro.
Tigre e rettile sembravano avere entrambi pane per i loro denti, e gli ex alleati di Price, per il momento, erano padroni della situazione. Price li vide raccolti intorno al carro armato; parevano dei pigmei, in quel posto gigantesco. C'era il corpulento Jacob Garth. C'era Joao de Castro, piccolo, sveglio, attivo. C'era l'enorme e scimmiesco Pasić, il montenegrino. E una dozzina di altri. Sam Sorrows, che si era dimostrato amico fedele di Price e che era l'unico che avrebbe ancora potuto aiutarlo, non c'era. Sam, ricordò Price, era tornato all'oasi con le istruzioni per gli aerei. Alla guida del carro armato doveva esserci Müller. Sembrava che Garth e Joao de Castro stessero litigando con Müller, il quale era sbucato fuori dalla botola del carro armato. Müller alzò le spalle, tornò giù al posto di guida. Il motore ruggì di nuovo e si rimise in moto, in mezzo alla nebbia gialla. L'esito della ciclopica battaglia era ancora incerto. Le spire del serpente si erano strette ancora più forte intorno al corpo della tigre. Il rettile aveva smesso di sibilare, ma i suoi denti dorati lampeggiavano ancora, minacciosi. La tigre, lungi dall'essere domata, ruzzolava sul pavimento cercando disperatamente di spezzare le spire del serpente con i potenti artigli d'oro. Il luccicante corpo metallico del rettile era lacerato in molti punti, dai quali fluiva un brillante sangue dorato. La tigre, allarmata dal rumore del carro armato che si dirigeva verso di lei, si mise sulle quattro zampe sollevando così il serpente, che le era avvolto intorno. Ma il carro armato la colpì prima che essa potesse con un balzo schivarlo. L'impatto fu tale che il felino, barcollante, fu sospinto verso l'abisso. Cadde di nuovo, e le spire inesorabili del serpente lo strinsero ancora di più nella loro morsa. La tigre era caduta pericolosamente vicino all'orlo dell'abisso. Parve rendersi conto del pericolo perché, abbandonando ogni tentativo di liberarsi del serpente, cercò disperatamente di rimettersi sulle quattro zampe, benché la pressione terribile delle spire d'oro l'avesse già mezzo soffocata. Il carro armato aveva il motore spento, adesso. Per un po' restò silenzioso e immobile, poi si animò di nuovo, ruggendo. La tigre avvolta nelle spire del serpente si era appena tirata su faticosamente, che il carro armato la colpì. L'impatto la mandò ancora più vicina all'orlo del baratro. Il carro armato si quietò, poi di nuovo ruggì. Forse il guidatore perse momentaneamente il controllo del veicolo, o
forse non aveva notato l'abisso. Sta di fatto che carro armato, tigre e serpente precipitarono giù dall'orlo tutti insieme. Price li guardò cadere nella nebbia e nel vuoto, la tigre ancora stretta nell'abbraccio mortale. Il vapore dorato li nascose alla vista... Il ruggito del carro armato impazzito si spense giù nelle profondità, e Price tornò a guardare di là dall'abisso. I suoi ex alleati erano vittoriosi, finalmente padroni del tesoro per il quale tanto avevano lottato. In lontananza sentì le loro voci febbrili ed eccitate; li vide buttarsi in ginocchio e con le mani nude gettare via dal pavimento parte dei cristalli dorati che lo incrostavano. Guardò Joao de Castro e Pasić sudare come pazzi per riempire di polvere d'oro un sacchetto di stoffa che avevano usato fino allora per il cibo. Quando lo ebbero riempito, entrambi vi buttarono le mani sopra. Pasić ebbe la meglio e lo portò via all'altro con destrezza. L'eurasiano, allora, si scagliò contro di lui coltello alla mano. Lottarono, e mentre lottavano la polvere d'oro si sparse tutta sul pavimento senza che loro se ne accorgessero. Con tranquilla premeditazione Jacob Garth tirò fuori la sua automatica e con fredda brutalità sparò ai due, facendoli secchi. Resi pazzi dalla cupidigia, gli altri non prestarono alcuna attenzione alla scena. Continuarono a grattare e raschiare la loro polvere d'oro, finché non furono colti dalla sinistra sonnolenza del vapore giallo. Alla fine Jacob Garth si mise in allarme e corse barcollando verso l'entrata, gridando rauco inutili parole di avvertimento. Troppo tardi... No, gli uomini non si erano impadroniti dell'oro... Era l'oro a essersi impadronito di loro. Giacquero scomposti là dove erano caduti, immersi nel sonno che sarebbe durato finché non fossero diventati esseri d'oro. Quando Price si rese conto di cosa ciò significasse, si sentì allargare il cuore per il sollievo. Era incredibile: la strada era libera, adesso, e lui e Aysa potevano scappare. Quando l'avesse messa al sicuro, sarebbe potuto tornare per andare a quegli uomini l'aiuto che era possibile dare a loro. Ma tutte le sue speranze e la sua gioia furono in un sol attimo brutalmente distrutte. Nell'enorme sala circolare entrò con passo maestoso Malikar, fosco, gigantesco e diabolico nella sua veste color cremisi. In spalla portava la mezza ferrata d'oro. Con cautela degna della sua antica età, si era tenuto lontano dai suoi nemici finché questi non erano stati resi inermi dal sonno. Visitò uno per uno gli uomini addormentati. Spietatamente, metodicamente, trasformò il loro sonno temporaneo in un sonno eterno. Quindi re-
stò per un po' in piedi tra i cadaveri appoggiandosi alla grande mazza ferrata, che adesso non era più dorata, ma rossa, intrisa di sangue e di materia cerebrale. Restò lì in piedi come una Nemesi d'oro. Poi, caricandosi in spalla la mazza, s'incamminò verso il ponte. 31 Kismet Price aveva capito che era stato un errore tattico affrontare Vekyra sul ponte, perché lei era più svelta e più agile di lui. Ma, nel caso di Malikar, non valeva lo stesso discorso. Vekyra si era dimostrata straordinariamente forte, ma Malikar, che era assai più corpulento, era indubbiamente molto più forte di lei. In una lotta che si basasse solo sulla forza, Price sarebbe stato sconfitto sicuramente: doveva far sì che la lotta si basasse non sulla forza, ma sulla destrezza. E su quel ponte vertiginoso era molto più importante avere destrezza e rapidità che muscoli. Price aveva in cuore un nero presagio di morte. Tre volte aveva affrontato Malikar, e tre volte l'altro aveva avuto la meglio. Si chinò e spazzò via dalle labbra di Aysa la polvere d'oro. Pochi attimi prima si era già visto con lei alla luce del sole, dove certamente Aysa si sarebbe svegliata, e adesso invece ogni speranza era distrutta. Scomparsi gli altri nemici restava Malikar, più pericoloso che mai. Un urlo di furore e di sorpresa fece capire a Price che Malikar lo aveva individuato, tra la nebbia. Brandendo la mazza insanguinata, il gigante d'oro gli si fece incontro correndo. Price rimise sul viso di Aysa il panno bagnato che aveva tolto per un attimo, afferrò l'antica ascia, e si slanciò verso Malikar. Appena lo riconobbe, Malikar si fermò. Poggiando con noncuranza la grande mazza sullo stretto ponte, rise sonoramente, con malvagia esultanza. «Ancora tu, Iru?», gridò. «Pazzo, non sai che io sono un dio che non può morire?». «No», lo rimbeccò Price, continuando ad avanzare. «Non potrai mai sconfiggere kismet!». Il sacerdote d'oro rise rauco, con gli occhi scuri e freddi che mandavano bagliori perversi. «Tre volte ci siamo affrontati. E tre volte il destino ti ha sconfitto. «Nelle catacombe di Anz, kismet ha voluto che l'impugnatura della tua ascia si rompesse. Quando abbiamo combattuto nella wadi, il fato ha posto
un sasso rotolante sotto i tuoi piedi. Già un'altra volta c'incontrammo qui, e kismet mandò il sonno su di te. «Tu non combatti soltanto contro di me. Anche kismet è contro di te!». Capendo che Malikar usava la vanteria come mezzo per attaccare il suo morale, Price si lanciò avanti per dare inizio alla battaglia, ma le parole di scherno dell'uomo d'oro avevano già conseguito il loro scopo. Avevano instillato in Price l'idea infondata ma disturbante che tutta l'avventura di cui era stato protagonista non fosse che un gioco manovrato da forze sconosciute, da misteriosi dèi che si divertivano a tirare le fila... Gli avevano instillato l'idea che lui non fosse altro che un giocattolo, una marionetta vittima di un crudele destino che si faceva beffe di lei. Vedendolo avvicinarsi Malikar alzò la mazza insanguinata, la roeò, e la abbassò di colpo. Price incassò il colpo difendendosi con lo scudo sollevato. L'impatto fu tremendo, e lui si sentì intorpidire le braccia e le spalle. Barcollò un attimo. Vide accanto a sé vorticare indistinte le dorate profondità dell'abisso. Fece uno sforzo disperato per scuotersi di dosso l'intontimento. Sollevò Korlu, l'antica ascia. Malikar non aveva ancora rialzato in alto la mazza, dopo avere inferto quel colpo terrificante. Price raccolse fino all'ultimo tutte le sue forze e mirò allo zucchetto rosso del prete d'oro. Malikar schivò il colpo, ma la lama gli centrò la spalla. Un uomo normale sarebbe stato spaccato in due fino all'addome da un fendente come quello. Ma Malikar era semimetallico. Si fece un taglio dal quale fluì luccicante sangue dorato, ma la ferita si rivelò insignificante. La violenza del colpo sferrato spedì Price quasi mezzo fuori dal ponte. Goffamente e barcollando, egli riguadagnò l'equilibrio proprio mentre Malikar si accingeva a vibrare un'altra mazzata. Riacquistato l'equilibrio, Price indietreggiò, e la mazza colpì a vuoto. Malikar, trascinato dalla forza del proprio attacco, finì sull'orlo del ponte. Price allora vibrò un colpo con la sua ascia, sperando di fargli perdere l'equilibrio. Ma Malikar lo schivò, e tornò subito al centro del ponte. Price lottò contro il senso di nera disperazione che si stava sempre più impadronendo di lui. I muscoli e le ossa umani non potevano sopportare tanti colpi tremanti come quelli che lui stava incassando; e l'ascia, che aveva centrato l'uomo d'oro con tutta la forza dei muscoli di Price, non lo aveva ferito gravemente. Price capiva che in un confronto basato sulla sola forza era condannato. Non aveva che un'unica possibilità: sorprendere Malikar in posizione critica, e buttarlo giù nell'abisso. Ma il sacerdote del ser-
pente sembrava possedere un senso felino dell'equilibrio, e una notevole prudenza. Price cambiò per necessità la sua tattica. Non si avvicinò più molto all'avversario. Mantenne una certa distanza, invitando Malikar a colpire, e evitò il più possibile le mazzate, aspettando il momento in cui l'ennesimo colpo avesse fatto perdere all'uomo d'oro il senso dell'equilibrio. Il gigante giallo incalzava senza posa, sicché Price fu costretto a indietreggiare sempre di più, correndo il grave pericolo di mettere un piede in fallo. Inoltre, ogni passo indietro lo portava più vicino alla nicchia dove si trovava Aysa, e diminuiva così la possibilità di vittoria. Perché, una volta che Malikar avesse messo piede sulla piattaforma, la battaglia sarebbe stata persa. L'ascia colpì altre due volte. Si spruzzò tutta di sangue d'oro, ma Malikar non pareva affatto disturbato dalle sue ferite. Price barcollò. Più e più volte la mazza si era abbattuta sul suo scudo, nonostante gli sforzi che lui aveva fatto per schivarla. Per la serie di tremendi impatti il braccio e la spalla sinistri gli facevano un male terribile. E la testa gli rintronava, oppressa dal dolore e dal bruciore. Sentiva di essere ormai vicino all'esaurimento. Gli si era accumulata addosso tutta la stanchezza delle dure ore passate. E adesso i suoi sforzi erano molto limitati: buttarsi avanti per far sì che Malikar colpisse, scattare indietro per evitare i colpi, roteare l'ascia d'oro quando se ne presentava l'opportunità. Price non osò guardare indietro per vedere quanto fosse vicino alla nicchia. Ma scorse ben presto sotto i suoi piedi le scintillanti gocce del sangue d'oro di Vekyra. Capì allora che si trovava a meno di un metro dalla piattaforma, dove sarebbe stato completamente alla mercé di Malikar. Cercò disperatamente di resistere, mentre la mazza si sollevava per abbattersi di nuovo su di lui. Lo scudo gli si appiattì contro la testa con una violenza che lo fece barcollare. Raccogliendo tutte le proprie forze, Price roteò di nuovo l'ascia, mirando al grosso collo dell'uomo d'oro. La stanchezza e l'intontimento causato dall'ultimo colpo gli tolsero energia, e Malikar fece in tempo a indietreggiare. La lama d'oro lampeggiò vanamente davanti alla sua gola. Mezzo stordito com'era, Price barcollò verso l'orlo del ponte, trascinato dal peso della propria ascia. Vacillò per un attimo sul margine della stretta passerella mentre, sotto, le dorate profondità parevano vorticargli attorno follemente.
Prima che potesse riprendere l'equilibrio, Malikar colpì ancora con la mazza ferrata. Benché vibrasse un colpo frettoloso e relativamente debole, l'impatto fu ugualmente terribile per Price. La mazza gli colpì la spalla destra. Il braccio, dolorante, s'intorpidì tutto. Le dita, paralizzate, mollarono la presa sull'impugnatura dell'ascia. L'arma dorata sfuggì di mano a Price e precipitò a spirale, silenziosamente, nell'abisso denso di nebbia. Realizzando il disastro, Price si sentì colpire come da una seconda mazzata. Ancora una volta il destino si era intromesso per sconfiggerlo. «Kismet!», gridò Malikar, con espressione di malvagio trionfo. Si lanciò pesantemente avanti, con la mazza alzata. Inerme, Price indietreggiò barcollando, cercò di lottare contro lo stordimento e di mantenersi in equilibrio sopra la stretta passerella. La luccicante pozza del sangue di Vekyra era proprio davanti a Malikar, brillava come una goccia di metallo fuso. E mentre Malikar si slanciava avanti, kismet ancora una volta intervenne nella battaglia. L'uomo d'oro mise i piedi nella pozza di sangue. Come se la mano malvagia di Vekyra gli avesse afferrato la caviglia, scivolò. Barcollò malamente in avanti, e lasciò cadere la mazza per mantenere l'equilibrio. Così si presentò l'occasione che Price aveva disperatamente cercato. Intorpidito dalla stanchezza e dal dolore, chiamò a raccolta tutte le sue forze e sferrò un pugno in testa al sacerdote d'oro. Con quel colpo spese le ultime energie del proprio corpo martoriato. Fece appena in tempo a sentire sotto il suo pugno la solida carne d'oro di Malikar, e a vedere lampi di metallo giallo brillare tra le nebbie per poi annegare nelle tenebre. Poi cadde lungo disteso sullo stretto ponte, afferrandosi con le mani alla roccia incrostata di ghiaccio dorato. 32 L'antica Aysa «M'ALMÈ! M'ALMÈ!». Una dolce voce familiare giunse alle orecchie di Price su ali argentate, in mezzo a cupe nuvole di dolore. Mani delicate gli stavano applicando alla fronte un panno fresco, bagnato. Price non ricordava più niente: anche la mente, come il corpo, pareva intorpidita, inerte, martoriata. «Padrone! Padrone!», gridò ancora ansiosamente la dolce voce, in arabo.
Con la vaga, lontana impressione di essere scampato a un grave pericolo, Price s'impose di aprire gli occhi. Era sdraiato sopra un'ampia lastra di pietra, liscia e stranamente ricoperta di luccicanti cristalli dorati. Intorno aveva scure pareti di basalto. Davanti a lui si apriva un abisso senza fondo, che fumava di strani vapori gialli dai riflessi verdi; l'abisso era attraversato da un ponte inconcepibilmente stretto. Quella nebbia, ricordò vagamente Price, era in qualche modo pericolosa. Inginocchiata accanto a lui c'era una ragazza. Price girò la testa a fatica, per guardarla. Era una bella ragazza. Aveva i capelli neri e ondulati e la pelle liscia, olivastra. La bocca, deliziosa e dalle labbra piene, era color melagrana. Gli occhi della donna erano stupendi. Price ebbe in certo modo l'impressione di averli già visti. Erano azzurro-viola, e sotto le lunghe ciglia apparivano profondi e misteriosi. Esprimevano adesso un cocente senso di pietà e di angoscia. Come le rocce intorno a loro, anche i vestiti della ragazza brillavano di polvere dorata. E polvere dorata c'era anche, a tratti, sul suo viso e sulle sue braccia. La giovane gli si era ansiosamente rivolta in arabo, chiamandolo «padrone». Certo lui non poteva vantare alcun diritto su una creatura così bella! Ma se per caso fosse risultato che poteva vantarne, la circostanza sarebbe stata singolarmente fortunata. Price chiuse gli occhi, frugando nella memoria. Quello strano luogo pieno di vapori dorati e follemente bizzarro gli era vagamente familiare. Inoltre era sicuro di avere già conosciuto quella ragazza, da qualche parte. Vederla accanto a sé lo riempiva di una calda sensazione di gioia. Doveva certo sapere come si chiamava. Si chiamava... Frugò disperatamente fra le nebbie dell'oblio che il dolore gli aveva procurato. E trovò un nome: Aysa. Aysa! Disse quel nome a voce alta. Quando lo sentì, la ragazza fece un grido di gioia. Si lasciò cadere accanto a lui e lo circondò con le proprie braccia. Strano che quell'abbraccio fosse così deliziosamente piacevole! Era una ragazza meravigliosa. Gli piaceva sentirla lì accanto a sé; avrebbe voluto che non lo lasciasse mai più. La sua vicinanza gli dava fremiti immediati di felicità. Era bello stare sdraiati lì con lei che lo abbracciava. Ma non si poteva rimanere a lungo. C'era un pericolo... La nebbia gialla... Price fece uno
sforzo supremo per ricordare. La nebbia d'oro... Sì: la nebbia trasformava la gente in oro. Lui e Aysa sarebbero stati trasformati in esseri d'oro, se fossero rimasti lì. E Price non voleva che ciò succedesse. Cercò tastoni il panno bagnato che la ragazza gli aveva applicato davanti alla fronte, e lo diede a lei perché se lo mettesse davanti alla faccia. Quando Price si mosse, sentì che le braccia gli facevano male. Doveva avere combattuto, per essere così ammaccato e intontito... Sì, adesso ricordava di avere lottato contro un uomo giallo. Respirò attraverso il panno umido, chiuse gli occhi e cercò di ripensare all'uomo giallo... Era un gigantesco uomo d'oro, vestito di scarlatto... Doveva pur sapere il suo nome... Ah, sì, Malikar! Avrebbe chiesto di lui alla ragazza, che parlava l'arabo. «Dov'è Malikar?», sussurrò. Lei indicò l'abisso scintillante. «Mi sono svegliata, m'almé, con un panno bagnato sulla faccia, e ho visto voi che combattevate. Malikar ti ha colpito con la sua mazza. Poi tu lo hai colpito con un pugno, lui ha vacillato ed è precipitato nel baratro. Tu sei caduto lungo disteso sul ponte, e io ti ho trascinato fin qui». Adesso che respirava attraverso il panno bagnato, Price si sentì schiarire le idee. «Ma come hai fatto a venire qui così in fretta da Anz, m'alme? È stato appena ieri sera che Malikar ti ha murato nella tomba di Iru e ha detto a me che eri morto». Dai suoi occhi viola trapelavano il dubbio e la meraviglia. Price finalmente capì: le nebbie dell'oblio furono spazzate via dalla sua mente. Tutto era chiaro, adesso. E Aysa era con lui, sveglia e libera. La cara Aysa, per la quale aveva tanto combattuto. Non era stato la sera prima che Malikar lo aveva rinchiuso nelle catacombe di Anz, ma molte sere prima. Ma ormai non c'era bisogno di dirlo ad Aysa. Price fece scivolare un braccio dolorante intorno alle spalle di lei. Lei gli si strinse vicino, soddisfatta, e alzò il viso a guardarlo con gli occhi viola che brillavano di felicità... Non potevano restare lì. La sonnolenza data dal vapore giallo poteva insinuarsi in loro senza che se ne accorgessero, e trasformarli in oro. Aysa non era stata ancora trasformata, per fortuna. Ma dovevano fuggire, finché potevano... «Sei stanco, m'almé?», sussurrò Aysa. «Riposiamoci qui».
Il sole era basso, e la grande massa nera dell'Hajar Jehannum era lontana ormai tre miglia, alle loro spalle. Di là dall'altipiano vulcanico si vedeva brillare sinistro, alla luce del tramonto, il palazzo d'oro e alabastro di Verl. Due ore prima erano passati attraverso la porta dorata sventrata dall'esplosione delle bombe di Jacob Garth, e avevano cominciato il lungo viaggio verso l'oasi. «Non devi chiamarmi padrone», disse Price ad Aysa quando si sedettero a mangiare le gallette, la carne essicata e i datteri del buon Sam Sorrow. «Perché no? Non sono forse tua? E non mi hai forse comprata una volta per una quantità d'oro pari alla metà del mio peso?». Aysa rise. «E non è forse vero che non desidero altro che appartenerti?». «Cosa intendi dire, cara? Io ti avrei comprata?». «Non ricordi? La storia di Aysa e Iru nell'antica Anz, no? Ma tu non l'hai mai udita! Devo assolutamente raccontartela». «Allora c'era davvero una donna di nome Aysa ad Anz, quando Iru era re?». «Certo, m'almé. A me hanno dato il suo nome perché i miei occhi sono azzurro-viola, com'erano i suoi. Sono pochi, sai, tra i Beni Anz, quelli che hanno occhi azzurro-viola. L'antica Aysa era una schiava: Iru la comprò dalle contrade del nord». Price si sentì stranamente turbato. Che il singolare racconto di Vekyra fosse, dopotutto, vero? Che Aysa, la bella, innocente Aysa, fosse l'omonima, se non la reincarnazione, di un'assassina? «Be', lascia perdere il passato, tesoro!», disse Price. Le circondò le spalle con un braccio dolorante e la strinse forte a sé. Lei rise d'una risata gioiosa e infantile, e guardò Price coi suoi occhi viola scintillanti. Price non avrebbe mai permesso a niente e a nessuno di portargli via Aysa. Lui e lei non si sarebbero lasciati mai più. Era meglio dimenticare la sciocca storia raccontata da Vekyra. Price non credeva alla faccenda della reincarnazione... O almeno, non troppo... «Ti racconterò la storia, m'almé», sussurrò Aysa, nelle sue braccia. «No, dimentichiamola. Non ha alcuna importanza, ormai. E, felici còme siamo adesso, non possiamo permettere che...». «Ma, m'almé, la storia non può rovinare la nostra felicità». «Allora va bene, raccontamela». «Fin da quando era bambino, il re Iru, per desiderio di sua madre, era stato destinato a sposare Vekyra, che era la figlia di un potente principe, e che allora non era d'oro.
«Iru, secondo la leggenda, amava una schiava, Aysa. E Vekyra era gelosa. Una notte fece ubriacare il re, e giocando con lui a un gioco d'azzardo, vinse la schiava». «Immagino come avrà fatto a farlo ubriacare», disse Price, ricordando la propria avventura nel castello di Verl. «Quando Iru fu di nuovo sobrio, chiese che Vekyra gli restituisse la schiava. Lei non osò dire di no. Ma in cambio chiese la cosa più difficile che le riuscì di pensare. Disse a Iru che gli avrebbe ridato la ragazza in cambio di una tigre abbastanza addomesticata da essere cavalcata. «Così Iru prese il cammello e andò tra le montagne, catturò un cucciolo di tigre e lo addomesticò. Quando fu cresciuto, lo diede a Vekyra, e lei dovette cedergli la schiava... Ma Vekyra continuò a odiare Aysa». Price sentì tornare l'inquietudine. Era la stessa storia che gli aveva raccontato Vekyra, la storia della schiava viziata e adorata, destinata a uccidere il suo adoratore. Resistette all'impulso di interrompere la ragazza. In fin dei conti, quello che era successo venti secoli prima non poteva disturbare la serenità dei loro rapporti. «A Iru non andava il culto crudele del serpente. Egli allora distrusse il tempio del serpente e uccise i preti in battaglia. Ma Malikar, che tutti pensavano morto, ritornò dopo un certo tempo. Era diventato un uomo d'oro, e voleva vendicare la profanazione del tempio. Ma invano mosse guerra a Iru; alla fine si travestì ed entrò di soppiatto ad Anz, per uccidere Iru a tradimento. «E trovò una donna disposta a uccidere per lui». Price si sentì stringere il cuore. Il terribile racconto coincideva con quello di Vekyra. «Non so cosa Malikar disse a Vekyra. Le avrà forse offerto l'immortalità del popolo d'oro, che in seguito le diede, e le avrà offerto di regnare con lui sopra i Beni Anz. Vekyra, d'altra parte, odiava senz'altro Iru, per via della schiava. «Così, avvelenò il vino di Iru...». Price sentì allargarsi il cuore in petto. Di colpo strinse forte a sé Aysa e soffocò le sue parole nei baci. «Perché ti fa tanto piacere che Vekyra abbia avvelenato il vino?», chiese lei, ingenuamente. «Non importa, cara. Continua con la tua storia». «Vekyra in persona allungò a Iru la coppa. La schiava Aysa era lì vicino. Vide uno sguardo malvagio negli occhi di Vekyra, e urlò, pregando Iru di
non bere. «Allora Vekyra, per difendersi, fece finta di arrabbiarsi. Coprì di insulti la schiava. Disse che il vino era normalissimo, e che lei stessa era pronta a berlo, se Iru rinunciava alla ragazza e la ridava ancora una volta a lei. «Ma Iru rifiutò. Era troppo leale per capire la viltà degli altri. Irato, portò la coppa alle labbra. Aysa cercò di fargliela cadere di mano, ma lui la tenne stretta. «Aysa allora implorò il re di far bere il vino a lei. Ma Iru vuotò la coppa fino all'ultimo goccio. Cadde immediatamente. Poco prima di morire disse che sarebbe tornato per uccidere Vekyra. «La schiava si gettò disperata sul cadavere del re. Vekyra allora pugnalò i due corpi uniti con uno stiletto che aveva nascosto sotto le vesti, per usarlo in caso il veleno avesse fallito. Poi fuggì via dal palazzo e corse da Malikar, che la ricompensò per il servizio resogli». Price rimase in silenzio. La storia aveva allontanato i suoi ultimi dubbi, aveva fatto crollare l'ultima invisibile barriera che c'era tra lui e Aysa. Adesso loro due erano come una sola persona. A Price pareva che si fosse compiuto un disegno, e che dalle nebbie indistinte della sua vita confusa e irrequieta fosse emerso uno scopo preciso e definitivo. Ora capiva che ogni avvenimento dei suoi anni d'inquieto vagabondaggio non era stato che un ulteriore passo verso il presente, verso quel presente che lo vedeva accanto ad Aysa. Il sole calò, rosso. Come un mare di porpora, la grande ombra dell'Hajar Jehannum si distese sopra l'aspro altipiano di roccia basaltica alle loro spalle. Sui loro visi coperti di vesciche alitò un vento più fresco; la selvaggia violenza del giorno si arrese alla misteriosa pace del crepuscolo. Aysa si mosse un po', sospirando di felicità, e si abbandonò contro il corpo di Price. La spalla di lui fece da guanciale alla bella testa della ragazza. Il deserto, silenzioso, li avvolse nella pace più profonda che Price avesse mai provato, una pace fatta d'una tranquilla serenità, immutabile ed eterna come lo stesso deserto. Quella serenità tutta nuova non fu infranta allorché Aysa, irrigidendosi di colpo, si mise in ascolto e disse: «Cos'è che ronza così, come una grande ape?». Price sentì il ronzio lontano. Vide un puntolino grigio che volteggiava contro l'azzurro sempre più cupo del cielo, a sud. E capì che uno degli aeroplani militari che erano stati chiamati da Jacob Garth via radio.
Veniva verso nord, seguendo la pista che andava all'oasi. Quando arrivò vicino, Price e Aysa si alzarono in piedi. Price si tolse la camicia e la fece sventolare. L'aeroplano li vide e passò ruggendo a bassa quota sopra di loro. Price riconobbe Sam Sorrows, lo spilungone del Kansas: a testa nuda si sporgeva temerariamente dall'abitacolo, faceva gesti di saluto con le braccia. Price gli restituì il saluto, e l'aereo proseguì verso l'oasi. «È una macchina volante che si usa tra la mia gente», spiegò Price ad Aysa. «Se vuoi, possiamo volare con quella fino alla mia terra. L'uomo che mi ha salutato è un amico. Le rocce qui sono cosi aspre che non ha potuto atterrare. Ma verrà a cercarci domani». Con gli occhi sgranati per lo stupore, Aysa gli fece molte domande, dopo che il ronzio dell'aereo si fu spento tra le luci del crepuscolo. Price rispose a tutte, mentre l'antico silenzio del deserto tornava ad avvolgerli e il grande disco chiaro delle luna spuntava sull'orizzonte frastagliato. Aysa era elettrizzata, eccitata. Price invece continuava a sentire dentro una grande pace, in quel mondo di luci argentee e di ombre purpuree sposate a un silenzio e a un mistero antichi di milioni di anni. Con Aysa seduta vicino a sé nel chiarore lunare, si sentiva finalmente contento. FINE