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Presentazione Per la prima volta da quando si era trasferita in Germania, Janet Beerbaum si sente diversa: libera, senza passato e senza futuro, senza vincoli e impegni. Il suo viaggio nel Kent finalmente la fa sentire a casa, nel suo ambiente e con la gente giusta. Ritrovare a Londra Andrew, l’ispettore di polizia di cui era da sempre innamorata, la farà sentire, dopo tanti anni, una donna ancora in grado di amare e di essere amata. Eppure Janet sa di avere delle grosse responsabilità nei confronti della famiglia che ha creato, verso Phillip, suo marito, uomo mite e sempre disponibile, e verso Mario e Max, i suoi affascinanti e inseparabili gemelli, che però le causano non poche preoccupazioni… Andrew non può aiutarla, né può indagare sulle cause che l’hanno spinta a ritornare da lui: qualcosa gli impedisce di comprendere qual è il tipo di relazione in cui ora Janet lo vuole coinvolgere, ma il suo istinto di poliziotto e la sua ostinazione gli suggeriscono di indagare a fondo. Qual è il segreto di Janet? Da che cosa sta scappando? Perché appare così turbata quando lui le racconta dell’assassino che ha catturato e che sta per essere processato? E, soprattutto, quando viene a sapere che Mario è in Provenza in vacanza con la sua ragazza, l’equilibrio che Janet si era imposta comincia precipitosamente a frantumarsi. Un turbine di eventi sconvolgerà la vita di tutti, il passato tornerà imperioso a saldare i conti, ma fino a che punto Janet si spingerà per salvaguardare le persone che ama veramente?
Charlotte Link, nata nel 1963, è una delle scrittrici tedesche contemporanee più affermate. Deve la sua fama soprattutto alla sua versatilità: conosciuta inizialmente per i romanzi a sfondo storico, ha avuto molto successo anche con i thriller psicologici, tanto che ogni suo nuovo libro occupa per mesi i primi posti delle classifiche tedesche. In Italia Corbaccio ha pubblicato La casa delle sorelle, La donna delle rose, Alla fine del silenzio, L’uomo che amava troppo, La doppia vita, L’ospite sconosciuto, Nemico senza volto, la trilogia Venti di tempesta, Profumi perduti, Una difficile eredità, L’isola, L’ultima traccia, (tutti anche in edizione TEA), Nobody e Quando l’amore non finisce.
NARRATORI CORBACCIO
Titolo originale: Die Sünde der Engel
Traduzione dall’originale tedesco di Umberto Gandini
In copertina: © Ken Elliott/Monsoon/Photolibrary/Corbis Grafica Elena Leoni / Booh Stoodio
Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it www.infinitestorie.it
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Copyright © 1995 AVA-Autoren-und Verlags-Agentur GmbH Published by arrangement with Il Caduceo Agenzia Letteraria © 2011 Casa Editrice Corbaccio s.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol
www.corbaccio.it ISBN 978-88-6380-248-1
Prima edizione digitale 2011 Realizzato da Jouve Quest´opera è protetta dalla Legge sul diritto d´autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Infatti non c’è differenza perché tutti hanno peccato... Lettera ai Romani, 3,23
Giovedì 25 maggio 1995 Il Ringlestone Inn, le aveva spiegato con orgoglio il taverniere, era stato costruito nel 1533 ed era stato adattato a pub dal XVII secolo: da allora, fra quelle mura, non era cambiato quasi niente. Il basso soffitto era sorretto da pesanti travi di quercia annerite dalla fuliggine, i vetri rotondi cinti di piombo componevano le minuscole finestrelle incassate nelle spesse pareti imbiancate. Subito dopo l’ingresso, un imponente camino a muro accoglieva gli ospiti con un fuoco scoppiettante. Per passare da un ambiente all’altro occorreva abbassare la testa e badare a non incespicare nei gradini o nelle assi sporgenti dal pavimento che comparivano all’improvviso. Panche, sedie e tavoli erano fittamente addossati le une agli altri, e dal soffitto pendevano oscillando vecchissimi lampadari. Nessuno si sarebbe stupito granché se – stivaloni alla moschettiera, cappello piumato, nero mantello svolazzante – improvvisamente fosse entrato a grandi passi Oliver Cromwell per verificare con attenzione e diffidenza se in qualche recesso della casa non si nascondesse per caso qualche monarchico... Fuori, pensava Janet, sul piazzale accanto all’edificio, ci dovrebbero essere dei cavalli piuttosto che il posteggio per le automobili: sarebbero più adatti a questo posto. Durante le ultime ore si era sentita trasportata in un secolo lontano. Era partita in macchina da Londra, aveva lasciato la strada per Dover poco prima di Rochester, svoltando verso sud. Lungo il tragitto era passata attraverso idilliaci villaggi apparentemente dimenticati dal progredire del tempo, accanto a silenziose e fantastiche costruzioni elisabettiane racchiuse da mura screpolate e coperte di muschio, a giardini lussureggianti i cui alberi protendevano verso la strada sconnessa un tetto di foglie e di rami. A un certo punto i cartelloni stradali le avevano annunciato che sarebbe arrivata presto sulla costa e contemporaneamente si era resa conto che, dal misero spuntino che le avevano servito in aereo quella mattina, non aveva messo più nulla nello stomaco. Aveva quindi deciso di lasciare la strada principale e di girare un po’ a casaccio nei dintorni in cerca di una trattoria. Era una luminosa sera di maggio. Il cielo, dopo una giornata di pioggia, all’improvviso si era schiarito e le nuvole erano scomparse consentendo al sole di illuminare la campagna bagnata, dalla quale ora si levavano volute di vapore. A Janet il Kent era sempre piaciuto, ma raramente ne era stata affascinata come quella sera. Le sue preoccupazioni si erano dissolte assieme alle nuvole. Per un paio d’ore era stata una donna senza passato e senza futuro, senza impegni e senza vincoli. Nessuno sapeva dov’era, nessuno poteva aspettarsi o pretendere qualcosa da lei. Quando si era fermata davanti al Ringlestone Inn ed era scesa dalla macchina, l’arietta fresca l’aveva fatta rabbrividire, eppure, dentro di sé, da tempo non avvertiva tanto calore. «È diretta a Folkstone, vero?» le chiese il taverniere. Janet fece un cenno di diniego. «No. Probabilmente rientrerò stasera stessa a Londra.» Si passò le mani sulle braccia nude e poi indicò il tavolo vuoto davanti al camino: «Posso sedermi lì?» «Certo.» Il taverniere si affrettò a scostarle la sedia. Janet si accomodò. Accanto al fuoco il calore era soffocante, tanto che non ci avrebbe resistito per più di mezz’ora, ma nel frattempo si sarebbe scaldata le ossa e forse le si sarebbero anche asciugate le scarpe ancora umide di pioggia. Vagò con lo sguardo per il locale e constatò che il pub era evidentemente frequentato in prevalenza dagli abitanti dei villaggi circostanti, uomini anziani che bevevano birra, parlavano di politica e discorrevano sul prossimo raccolto. Nessuno che badasse a lei. La gradevole sensazione di distensione si accentuò. Ordinò, assieme a un bicchiere di ginger ale, una porzione di pollo con riso sulla quale si avventò come un’affamata. Nel piatto non lasciò neanche una briciola e, quando ebbe finito, si concesse per dessert una fetta di dolce. Erano anni che soffriva di disturbi della digestione, e spesso le era capitato di vomitare, ma quel giorno non lo doveva temere, non sarebbe accaduto.
Mentre sorseggiava il caffè e fumava una sigaretta si avvicinò il taverniere a tenerle compagnia. Aveva evidente voglia di chiacchierare e, senza sforzarsi di essere originale, introdusse la conversazione con un’osservazione meteorologica. «Suppongo che da dove viene lei il tempo fosse migliore», disse. Janet corrugò appena la fronte. «Il suo è un abbigliamento decisamente estivo», spiegò l’uomo. Lei abbassò gli occhi su di sé. Pullover di cotone a maniche corte, gonna leggera, scarpe di cinghiale con macchie di umidità. Sorrise. «Sono arrivata stamattina a Londra, con un volo da Amburgo, e ad Amburgo faceva decisamente caldo.» «Amburgo? Mio padre c’è stato una volta, dopo la guerra!» «Davvero?» Lo sguardo del taverniere era raggiante, come se avessero appena scoperto di avere un comune antenato. Janet si sentì in dovere di aggiungere, a titolo di spiegazione: «Ma sono inglese di nascita». «È già da tanto che vive in Germania?» «Da venticinque anni. Ho sposato un tedesco.» Quasi si spaventò nel fornire l’informazione. Un quarto di secolo ! Aveva diciott’anni quando se ne era andata. Troppo giovane per sapere quello che stava facendo... «E adesso è tornata a far visita al suo paese», tirò a indovinare il taverniere. «È bello rimettere piede a casa, vero? È originaria di queste parti?» «No. Sono nata e cresciuta a Cambridge. E oggi, per essere sincera, avrei dovuto raggiungere Edimburgo.» «Ah...» Il taverniere non nascose la sorpresa. Gli sembrò davvero strano che qualcuno diretto a Edimburgo fosse invece capitato al Ringlestone Inn, fra Maidstone e Canterbury, nell’Inghilterra sudorientale. Janet gettò un’occhiata all’orologio che aveva al polso. «Il mio aereo per Edimburgo partirà fra dieci minuti da Heathrow», constatò, soddisfatta. «Be’, quell’aereo credo proprio che non lo prenderà più», dichiarò il taverniere accompagnando le parole con un sorriso imbarazzato. Stava cominciando lentamente a capire che c’era qualcosa che non quadrava in quella donna. Non avrebbe saputo dire che cosa gli dava quell’impressione, però c’era in lei un che di... Sembrava tranquilla, rilassata, tuttavia s’intuiva anche che la paura e l’inquietudine erano in agguato. «Poco male», commentò incerto. «Di aerei per Edimburgo ne partono tutti i giorni. Vuol dire che prenderà quello di domani.» «Credo proprio», gli confidò Janet, «che non prenderò nessun aereo.»
In fondo l’aveva deciso già quella mattina, quando era atterrata a Londra, verso le dieci del mattino. Aveva intenzionalmente prenotato i voli in modo che le rimanessero, fra l’uno e l’altro, undici ore di sosta. Così, aveva spiegato a Phillip, suo marito, avrebbe potuto inserirci un comodo sightseeing a Londra. «Come se non conoscessi Londra come le tue tasche!» aveva obiettato Phillip. «Che cosa vuoi vedere ancora?» «Non ci vado da un sacco di tempo. Ho voglia di respirare Londra, ecco... di odorarla, sentirla.» In realtà si era proposta di cercare, in quelle undici ore, un pretesto per non raggiungere Edimburgo. L’idea del sightseeing si era rivelata irrealizzabile. Pioveva a dirotto e, proprio quando era sembrato che la pioggia potesse diradare, si era invece fatta anche più fitta. Infine Janet si era rifugiata da Harrod’s dove si era spostata a casaccio da un piano all’altro. Aveva comprato tè, marmellata
d’arance e cookies per Phillip, e uno Swatch per Mario. Aveva pagato una sterlina per poter accedere alla lussuosa toilette in oro e marmo del primo piano e aveva cercato di rinfrescarsi un po’. Guardandosi nello specchio sopra il lavandino aveva constatato di avere un aspetto alquanto malmesso. I capelli, bagnati dalla pioggia, si stavano arricciando a modo loro, e la faccia pallida aveva perduto ogni traccia di colore. Si era restaurata con un po’ di rossetto e fard, ma l’espressione afflitta e preoccupata era rimasta. Nel piano sotterraneo, per rimettere in movimento il sangue nelle vene, aveva bevuto due bicchieri di spumante al banco di un bar. Dopo di che si era sentita rinfrancata al punto da poter tornare all’aeroporto, dove aveva noleggiato una macchina con cui allontanarsi il più possibile dalla metropoli. La circolazione che l’obbligava a tenere la sinistra lì per lì le aveva creato qualche problema, ma quando era entrata in autostrada le cose erano andate subito meglio. Più tardi, lungo le strette strade provinciali del Kent, si era sentita già molto sicura. E aveva continuato a mormorare: «Non devo prendere quell’aereo se non lo voglio. Non devo fare niente se non lo voglio». Ma avrebbe desiderato trovare il freddo coraggio di andarci di persona, semplicemente, a disdire il volo per Edimburgo, anziché imbrogliare se stessa e mettersi a fare qualcosa, una cosa qualunque che le impedisse di tornare puntualmente a Heathrow. «Sei ancora la ragazzina incapace di assumersi la responsabilità di una decisione », aveva borbottato tra sé, insoddisfatta. Se non altro quella fuga le aveva regalato una bella giornata. Aveva vagabondato in macchina per l’Inghilterra e aveva scoperto un pub da favola. Le ricordava i tempi con Andrew. Assieme a lui era partita spesso senza avere una meta precisa. Pernottavano in una località qualunque, possibilmente a casa del diavolo... Il taverniere si era allontanato per qualche minuto, poi era tornato con due bicchieri d’acquavite. «Offre la casa», disse, e alzando il suo bicchiere: «Alla sua!» Janet rispose con un «Prosit!» ed entrambi li vuotarono d’un fiato. «E quando tornerà in Germania?» s’informò il taverniere. Janet alzò le spalle. «In teoria domani, ma poi, chissà...» Non completò la frase e, per cambiare discorso, domandò a sua volta: «È suo il Ringlestone Inn?» «Oh no, no! Io ci lavoro soltanto. Io abito a Harrietsham.» «Ah.» «Ho moglie e cinque figli», dichiarò, fiero, «e un sesto è in viaggio. » Janet rabbrividì leggermente, ma riuscì a nascondere bene il suo orrore. «Ho sempre desiderato avere tanti figli», spiegò il taverniere. «Lei ne ha?» «Sì. Due.» «Maschi o femmine?» «Due ragazzi. Gemelli.» «Gemelli!» L’uomo era entusiasta. «Ecco una cosa che noi invece non siamo riusciti a fare! Quanti anni hanno?» «Ventiquattro.» «Cosa?! Ma lei è troppo giovane per...» Janet sorrise. «La ringrazio, però quando sono nati avevo diciannove anni.» «E si assomigliano davvero?» «Completamente. Voglio dire: io li so distinguere, è ovvio. L’espressione degli occhi, il sorriso... Non li confonderei mai. Però gli altri sì, li scambiano spesso. Riuscivano a trarre in inganno persino il loro padre.» Avvinto dal racconto, il taverniere continuò a insistere sull’argomento fino a quando lei gli mostrò una fotografia. Ne aveva solo una con sé, di quando i ragazzi avevano appena dieci anni. Stavano seduti a tavola, in soggiorno, ed entrambi indossavano lo stesso maglione rosso a collo alto e i jeans. Guardavano l’obiettivo con espressione innocente. Troppo innocente, pensò Janet anche questa volta. Sembravano proprio due angioletti.
L’uomo non si dava pace. «Da non credere! Non c’è la benché minima differenza! Incredibile, io non riuscirei mai a capire chi dei due è l’uno e chi l’altro!» «Nemmeno gli insegnanti ci riuscivano, a scuola. Qualche volta mi chiedevano persino di vestirli almeno in modo differente, ma non c’è stato niente da fare. Volevano avere sempre la stessa roba addosso. Erano...» Janet si bloccò, ma poi proseguì comunque: «Si sentivano una persona sola, capisce? Si scambiavano di continuo i nomi perché per loro non avevano importanza. E si sostituivano l’uno con l’altro.» Il taverniere fissò di nuovo la fotografia. «Robe da matti!» farfugliò. «Questo è Maximilian», spiegò Janet. «E questo è Mario. È più vecchio del fratello di cinque minuti e mezzo.» «Hanno dei bei faccini, vero? Dovrebbe vedere i miei cinque, invece. Ragazzacci mocciosi, furbi come il demonio!» Ovviamente aveva pacchi di loro foto che si affrettò a esibire a Janet. Ai tre maschi mancava qui o là qualche dente ed erano pieni di lentiggini, le due figlie sembravano maschi anche loro e nella maggior parte delle fotografie facevano la linguaccia. A Janet sembrarono tipi abbastanza comuni, un po’ rozzi forse, ma l’impressione poteva dipendere anche dal fatto che la differenza fra quei bambini e i suoi era troppo grande, e che constatarlo l’addolorava. «Ma che carini! Proprio bellini!» commentò gentile, poi tirò fuori con decisione il portafoglio e chiese il conto. Il taverniere sembrò deluso e anche un po’ seccato, ma si affrettò a prepararglielo. Janet ricompensò la sua premura con una mancia principesca e poi lasciò l’edificio. Fuori, nel frattempo, si era fatto proprio freddo e, naturalmente, era calata una fitta oscurità. Il cielo però era rimasto limpido e Janet sperò di non imbattersi più nella pioggia durante il viaggio di ritorno. Di notte ci vedeva male e la pioggia non avrebbe che peggiorato le cose. In macchina impostò il riscaldamento al massimo, ma il calore si sarebbe fatto sentire solo dopo un po’. Vagò a casaccio per qualche minuto prima di trovare la M20 per Londra, che tuttavia abbandonò già dopo un breve tratto per prendere la strada provinciale in direzione di Maidstone. Forse ci avrebbe pernottato. Strada facendo, si sentì di nuovo presa dall’ormai solita sensazione di angoscia. Doveva ancora telefonare a Phillip, certo. Gli aveva promesso che si sarebbe fatta viva al più tardi da Edimburgo. Se non l’avesse fatto, lui si sarebbe convinto che le fosse capitata qualche disgrazia. A Maidstone fermò la macchina accanto alla prima cabina telefonica che vide. Tirò fuori tutti gli spiccioli che aveva e compose il numero. Phillip doveva essersi seduto accanto al telefono perché rispose dopo il primo squillo. «Janet! Speravo che ti facessi sentire prima! Sei già a Edimburgo? » «No, Phillip. Sono a Maidstone. Nel Kent.» Silenzio. Poi la domanda sconcertata: «Cosa?» «Ho noleggiato una macchina e ho girato un po’. E così il tempo mi è scappato.» «Ma non è possibile! E adesso come credi di poter arrivare in Scozia? Domattina alle 9 hai appuntamento con quel mister... mister... » «Grant. Mister Grant.» «Appunto, mister Grant. Sai quanto è stato difficile organizzare la cosa! Janet, sa il cielo se quell’uomo aspetta i nostri comodi, è capacissimo di non fissarti un’altra data, di non riceverti più per niente... E adesso che cosa facciamo?» Sembrava completamente sconvolto. Janet infilò altre monete nella fessura. Quel suo panico le faceva male. Dimostrava ancora una volta quanto fossero distanti le loro posizioni e come fossero inconciliabili le loro volontà. «Non ce l’ho fatta, Phillip», disse piano. Da Amburgo arrivò un profondo sospiro. «Hai deliberatamente evitato di salire su quell’aereo, giusto?» Tacque. La voce di Phillip assunse un tono disperato. «E ora come rimediamo? Ne avevamo
parlato, avevamo deciso! Janet, non c’è altra soluzione. Alla fine l’hai ammesso anche tu!» «No, non è vero. Ho ceduto solo perché tu hai continuato ad assillarmi. » «Janet, Maximilian non può tornare da noi! Non è possibile, punto e basta. Non possiamo assumerci questa responsabilità, e poi...» Attraverso il telefono erano già venuti due insistenti segnali d’avvertimento. A quel punto la comunicazione si troncò. Janet avrebbe avuto altre monete da usare, ma non volle farlo. Phillip, a casa, disperato, si sarebbe messo a girare per la stanza come un leone in gabbia sperando che lei lo richiamasse. Per un breve momento Janet fu colta dal rimorso all’idea di piantarlo lì in quello stato di smarrimento. Ma poi pensò, con caparbietà, che Phillip se l’era cercata, se l’era meritato. Non aveva fatto che lamentarsi e piantar grane, fino a quando lei aveva ceduto. Avrebbe dovuto saperlo che, una volta lontana da lui, ci sarebbe stato il rischio che lei cambiasse idea. E così adesso non sarebbe caduto dalle nuvole. Janet fece un lieve movimento con le spalle, come per scuotersi di dosso qualcosa. Poi infilò nella fessura le monete che le erano rimaste e formò il numero di Andrew.
Phillip era in effetti rimasto piantato accanto al telefono ad aspettare che Janet lo richiamasse. Passata mezz’ora senza uno squillo, si arrese, andò in cucina, tirò fuori la bottiglia del vino bianco dal frigorifero e se ne versò un bicchiere. O non aveva più spiccioli oppure – ed era la spiegazione più verosimile – non voleva più discutere e in quel modo si sottraeva dal farlo. Tipico di Janet. L’aveva sempre fatto. Quando i problemi la sopraffacevano, sceglieva la fuga, letteralmente: spariva e si rendeva irreperibile, oppure si arroccava in una qualche misteriosa malattia che le causava effettivamente violenti dolori e febbre alta. «Sei rimasta una bambina!» le aveva gridato Phillip una volta. «Non sai far altro che sperare che arrivi qualcosa o qualcuno che ti protegga o che ti tolga le castagne dal fuoco. Anziché alzare la testa e affrontare le situazioni!» Avrebbe dovuto saperlo che anche stavolta si sarebbe sottratta alle sue responsabilità. Stanco, spossato, rimase seduto al tavolo della cucina, bevve un secondo bicchiere di vino e spiò il lieve fruscio della pioggia che, fuori, stava cominciando a cadere. Alzò la testa solo quando sentì aprirsi, piano, la porta di casa. «Non c’è bisogno che tu ti muova di soppiatto!» esclamò. «Sono sveglio!» Mario, uno dei suoi due figli, entrò in cucina. I capelli scuri erano bagnati dalla pioggia, reggeva un gocciolante mazzo di lillà e aveva un’espressione vagamente smarrita. «Mi stavi aspettando?» domandò. «Ho raccolto dei fiori.» Phillip lo guardò un po’ stupito. Era notte, pioveva. «Hai raccolto dei fiori?» «Sì... Non ero solo.» Mario prelevò un vaso da un pensile della cucina, lo riempì d’acqua e ci dispose i rametti. Aveva un’aria colpevole e Phillip non riusciva a capire perché. Doveva aver conosciuto una ragazza... ed evidentemente si era innamorato. Solo chi è innamorato raccoglie fiori di notte e sotto la pioggia. Era proprio ora che cominciasse a interessarsi alla parte femminile dell’umanità. Nonostante le preoccupazioni, Phillip provò un senso di sollievo. Si sentiva sempre sollevato quando s’imbatteva, nella sua famiglia, in un segno di normalità. «Come si chiama?» domandò. «Tina. Io... io la conosco già da un po’.» Phillip sollevò le mani. «Non mi devi spiegazioni. Sono contento per te, Mario!» Il ragazzo gli sembrò a disagio e quindi, con tatto, cambiò argomento. «Che ore sono?» «Manca poco a mezzanotte. Ti stai ubriacando?» «No. Ho bevuto due bicchieri di vino. Tutto qui.»
«Hai notizie di Janet?» Maximilian e Mario avevano sette anni quando avevano cominciato a chiamare la madre per nome. Janet se ne era dispiaciuta, ma non c’era stato verso di togliere ai gemelli quell’abitudine. «Sì. Ha chiamato», rispose Phillip alla domanda del figlio. «Da Maidstone. Una località del Kent.» Mario lo fissò: «Come mai? A quest’ora avrebbe dovuto essere in Scozia!» «Ci ha ripensato. O, meglio, probabilmente non ha mai voluto andare sul serio da quel mister Grant. Sono un idiota!» Phillip si batté un pugno sulla fronte. «Avrei dovuto prenderlo io, quell’aereo, lo so. Solo che... sai che parlo male l’inglese. Inoltre avevo un impegno importante in ufficio... In ogni caso avrei dovuto occuparmene io.» «E adesso?» «Domattina telefonerò a quel mister Grant e lo pregherò di fissarmi un altro appuntamento. Non è proprio il caso di affliggerlo con le indecisioni e i tentennamenti privati di una famiglia tedesca. Sono tanti quelli che aspettano con ansia che si liberi un posto alla Blackstone Farm.» Mario si lasciò cadere su una sedia. «Forse Janet ha ragione», dichiarò. «Non sarebbe una buona soluzione per Max.» «E quale sarebbe la buona soluzione secondo te?» ribatté Phillip con irruenza. «Vuole tornare a casa. Vuole tornare a vivere con noi.» «Non è possibile.» «Eppure io credo che...» «Mario, è escluso. Nessuno può assumersi una simile responsabilità. O quanto meno nessuno che non abbia la necessaria preparazione. » «È guarito, papà. Il professor Echinger dice...» «Non mi fido. Nessuno lo può garantire.» Continuarono a guardarsi: Phillip seccato e profondamente inquieto, Mario pensieroso e un po’ triste. «Se dipendesse da te, lo terresti chiuso a chiave per il resto della sua vita. Lo so, papà», disse a bassa voce. «E ti stupisce?» chiese Phillip, brusco. La voce di Mario suonò pacata: «I miei sentimenti sono diversi dai tuoi. È mio fratello. Fratello gemello. A volte soffro terribilmente la sua assenza. Di notte sento che mi parla. E non potergli rispondere mi angoscia». Phillip rimase in silenzio. «Domattina telefonerò ugualmente a mister Grant», disse infine. Mario annuì e si alzò. «Vado a dormire. Domani la prima lezione è alle 9.» «Buona notte», disse Phillip. Fuori il rumore della pioggia si era fatto più intenso e ora tambureggiava in crescendo sul tetto. Mario indugiò ancora per qualche attimo, ma suo padre sembrava ormai sprofondato di nuovo nelle sue elucubrazioni. Uscì dalla cucina senza far rumore.
Venerdì 26 maggio 1995 Tina Weiss non aveva quasi conosciuto sua madre, e quindi erano stati rari i momenti dolorosi in cui aveva avvertito con malinconia la mancanza, nella sua vita, di una donna con la quale confidarsi. Il padre le aveva mostrato alcune fotografie e lei aveva osservato con rispetto la bella giovane bionda ritratta, senza che quelle immagini riuscissero tuttavia a ridestare in lei più che un vago ricordo. Aveva due anni a mezzo quando Marietta Weiss era morta di cancro, ma anche prima raramente la madre le era stata vicina. Accuratamente raccolta dal padre, una serie di ritagli di giornale e di lunghe recensioni si soffermava con entusiasmo sull’attrice di teatro Marietta Weiss. «Era una grande artista», le aveva raccontato il padre, «per questo era sempre in giro. Una scrittura dopo l’altra. L’ho implorata di non esagerare, perché – stranamente per un’attrice – aveva il terrore della ribalta. Quando doveva affacciarsi al di là del sipario il suo viso diventava verde e tremava tutta.» «Ma perché allora non ha smesso?» aveva chiesto Tina, piena di compassione per quell’estranea. Michael Weiss aveva scosso il capo. «Non poteva. La tratteneva la passione per il teatro. Non viveva che per il teatro e...» a questo punto il tono della voce si abbassava «è morta per il teatro. Il suo fisico non ha resistito alla continua tensione. E alla fine si è vendicato. » Tina non sentiva mancanza di affetto, cura e dedizione perché il padre gliene dava in abbondanza. Erano tutto l’uno per l’altra, e Tina, qualche volta, si sorprendeva a pensare di non riuscire neppure a figurarsi la presenza di una terza persona in quel loro serrato, quasi cospirativo rapporto a due: le sembrava addirittura che non sarebbe stata neanche capace di sopportarla. Dividere l’amore del padre? Impensabile. L’irritava perfino che la fotografia incorniciata di sua madre fosse ancora sul comodino di Michael. D’altra parte non avrebbe osato esprimere il fastidio che le dava. Si consolava con l’idea che, fino a quando suo padre non fosse riuscito a staccarsi dal ricordo di Marietta, nessun’altra donna si sarebbe potuta insinuare nella sua vita: quella sì che sarebbe stata una vera catastrofe! Tina preferiva decisamente la fotografia di una donna accanto al letto a una donna in carne e ossa nel letto del padre. Da qualche tempo però il loro rapporto si era incrinato. La ragazza se ne rese nuovamente conto quel venerdì mattina a colazione, seduta davanti al padre, osservandogli la profonda ruga di disapprovazione che gli solcava verticalmente la fronte. Aveva dormito male, glielo si leggeva in faccia, e di sicuro era dipeso da lei. O, per meglio dire, dal suo essere rientrata tardi la sera prima e dal fatto di essere stata ancora una volta in compagnia di «quel Mario ». «Oggi sei piuttosto taciturno, papà», disse Tina. Michael impugnò il cucchiaino e lo girò con troppa forza nella tazza del caffè. «Era ormai quasi mezzanotte quando sei tornata a casa ieri sera», le fece notare. «Abbiamo raccolto fiori. Lillà. Li hai visti in soggiorno?» reagì Tina con un breve sospiro. «No.» «Papà, mezzanotte non è tanto tardi!» «È troppo tardi per una ragazzina che fra tre giorni deve affrontare gli orali della maturità!» «Non mi pare proprio che sia il caso che tu ti preoccupi per questo !» Era vero. I suoi voti erano sempre stati eccellenti. «Quel Mario non mi va, ecco che cos’è», ammise Michael con franchezza. «E inoltre sei troppo giovane per avere un... un amico. » «Ho diciott’anni, papà. E le mie amiche...» Tina si bloccò e all’ultimo momento decise di non rivelare al padre di quali esperienze mozzafiato si vantavano le sue amiche. Anche se fossero state per
metà inventate, ce n’era abbastanza per scioccarlo profondamente e per dare a lei, Tina, la sensazione di essere un’ochetta che doveva provvedere a recuperare in fretta un importantissimo arretrato. Michael non aveva neppure fatto caso alla frase lasciata in sospeso. Guardava la figlia con un’espressione che tradiva un dolore autentico, e per alcuni secondi Tina, nel sostenere quello sguardo, capì con compassione che cosa lo turbava. Poi però, in un baleno, l’egoismo della gioventù riprese il sopravvento. Si aspettava che il padre, maturo e ragionevole, tollerasse un qualcosa che lei, al contrario, non avrebbe accettato mai da parte sua: l’evasione dal loro lungo, tenero cameratismo, il volgersi a bandiere spiegate verso un nuovo amore. Aveva conosciuto Mario ai primi di febbraio, in una gelida serata trascorsa in casa di un’amica che l’aveva invitata alla festa di compleanno del fratello maggiore. C’erano solo studenti universitari e lei si era sentita molto smarrita. Era in piedi in mezzo alla ressa, aggrappata a un bicchiere di CocaCola, e stava pensando a come squagliarsela senza dare nell’occhio quando un giovane le aveva rivolto la parola. Capelli scuri, occhi ancora più scuri dei capelli, aveva un volto di un pallore appariscente. In seguito aveva saputo che il festeggiato, che evidentemente stava osservando con attenzione i suoi ospiti, lo aveva pregato con discrezione di occuparsi della timida Christina Weiss. Si erano messi a chiacchierare e ben presto avevano concluso che non si stavano divertendo molto, tanto da decidere di andare a mangiare qualcosa insieme da un’altra parte. Quando Tina, infine, era tornata a casa, era l’una di notte, e il padre la stava aspettando sulla porta di casa, fuori di sé dalla rabbia. «Eravamo d’accordo che saresti rientrata alle undici e mezzo!» aveva tuonato, poi l’aveva presa per un braccio e l’aveva letteralmente trascinata dentro. «Dove sei stata?» «Sono stata invitata a cena da un ragazzo molto simpatico», gli aveva risposto Tina massaggiandosi il polso dolorante, «e il tempo ci è sfuggito.» «Non voglio che tu lo riveda più!» «Ho diciott’anni, papà», aveva detto Tina, guardando il padre con espressione risoluta e spavalda. Il giorno dopo, di sera, Michael l’aveva sottoposta al terzo grado: «Quanti anni ha? Che cosa fa? Come si chiama? Che cosa fanno i suoi genitori?» Tina aveva risposto a tutte le domande sperando, in quel modo, di evitare una litigata più lunga con il sospettoso e geloso genitore: «Si chiama Mario Beerbaum, ha ventiquattro anni e studia giurisprudenza». «Ah», era stata la sorpresa reazione di Michael, magistrato della Procura di Stato. «È venuto a stare qui ad Amburgo sei anni fa, con i genitori. Prima abitavano a Monaco di Baviera. Il padre e la madre hanno uno studio di consulenza fiscale e sono molto benestanti.» «Hmm... Ha fratelli? Sorelle?» «No.» Michael aveva dovuto ammettere che non c’era nulla in quelle informazioni che potesse essere giudicato in qualche modo allarmante. Eppure quella storia non gli era andata giù. Si era rifiutato di conoscere Mario e aveva sofferto ogni volta che Tina era stata in compagnia di quel ragazzo. «A proposito: ieri sera, mentre non c’eri, ha telefonato tua zia Paula», dichiarò a quel punto. «Voleva sapere come vanno i tuoi esami.» «Bene. Come vuole che vadano?» rispose Tina di malumore. La zia Paula non le piaceva in particolar modo. Era la sorella maggiore di Michael, una donna severa, senza un briciolo di umorismo, che non si era mai sposata. Viveva a Berlino e difendeva caparbiamente l’affermazione di averci avuto, quarant’anni prima, un corteggiatore il quale era disgraziatamente morto di polmonite prima di poterla impalmare. Tina dubitava che fosse vero. Secondo lei la zia Paula, in quel modo, voleva solo affrancarsi dalla macchia dello zitellaggio dalla quale non sarebbe comunque mai riuscita a liberarsi a causa della figura ossuta, le labbra sottili e la totale avversione per ogni piacere terreno. Trattava fratello e nipote allo stesso modo, cioè dall’alto in basso e trovando sempre qualcosa da ridire. Michael
era tuttavia convinto che li amasse comunque, entrambi, dal profondo dell’animo. Si inteneriva di fronte ai risvolti tragici di quella vita solitaria e scialba, mentre Tina si rifiutava di mostrarsi comprensiva con una donna che non faceva altro che richiamarla all’ordine e che la criticava ininterrottamente. «Paula vorrebbe invitarti lì da lei a Berlino, dopo la maturità», disse Michael, «vuole mostrarti la città e i dintorni.» «Oddio, ma io conosco già Berlino», insorse Tina. «Ci siamo stati centinaia di volte !» «Sempre per poco tempo. E di certi dintorni non sai un bel niente perché una volta non ci si poteva neppure andare.» «Papà: no! Non intendo trottare di continuo dietro a quel libro ambulante e rinsecchito di storia patria e nel frattempo farmi anche dire in continuazione che dovrei tenere più in ordine i capelli e non indossare jeans così aderenti!» «Le sue intenzioni sono buone. Vuole farti un piacere, e...» «Del resto non sarebbe comunque possibile», lo interruppe risolutamente la ragazza. «Dopo la maturità farò un viaggetto con Mario.» Silenzio. Il successivo «Cosa?» di Michael fu quasi un bisbiglio. «Così è e basta. Devo farlo.» «Che cosa devi fare?» «Non lo capiresti», fu la secca risposta di Tina. Suo padre era l’ultima persona con la quale sarebbe stata disposta a discutere del grosso problema che aveva con Mario.
L’edificio era vecchio, costruito più di cent’anni prima. Esternamente sembrava una costruzione massiccia, tutta pietre. All’interno invece, nonostante la disposizione piuttosto tortuosa degli ambienti, era raffinato e accogliente. Sorgeva in mezzo a estesi prati e pascoli. Davanti al portone principale c’era un vasto piazzale lastricato da cui partiva, in direzione dello stradone provinciale e orlato di salici sempre scompigliati dal vento, un grigio viale serpeggiante fra i campi di colza percorso solo di rado da qualche automobile. Lassù, nell’estremità settentrionale della Germania, a neanche due chilometri dal confine con la Danimarca, i giorni e le notti passavano tranquillamente. Nei dintorni erano sparse alcune fattorie di mattoni rossi, sui prati d’un verde grasso pascolavano mucche pezzate, nei paraggi sorgevano alcune piccole località in cui tutti conoscevano tutti. I turisti venivano, sì, ma solo di passaggio, diretti in Scandinavia oppure verso le isole Frisone settentrionali. Le piccole, sognanti baie lungo il mar Baltico non erano state ancora scoperte come mete di villeggiatura. L’antico edificio in passato era stato al centro di una grande tenuta, ma nel frattempo le stalle e i fienili erano stati demoliti. La famiglia che vi risiedeva si era sparsa ai quattro venti. C’erano stati momenti in cui alla giovane generazione era sembrato troppo dispendioso continuare a mantenere quella casa padronale, investendoci enormi quantità di quattrini per poi lasciarla vuota, in pratica, durante tutto l’anno. Ogni tanto l’una o l’altra pronipote del costruttore vi si era rifugiata a sbollire pene d’amore o a preparare un esame; di quando in quando una famiglia ci aveva trascorso le vacanze estive ma in sostanza solo per annoiarsi a morte; a volte, ma raramente, era anche stato fatto il tentativo di organizzare nelle vecchie sale feste di Natale o di Capodanno per l’intero clan, ma il tutto si era poi risolto in clamorose litigate e in precipitose partenze anticipate. All’inizio degli anni Ottanta i proprietari si erano finalmente accordati di vendere. L’acquirente era un signore senza famiglia, professore di psicoterapia ad Amburgo: Friedrich Echinger, cinquant’anni, il quale, entrato in possesso nel momento per lui più opportuno di quella magione, vi aveva realizzato il sogno della sua vita, e cioè l’allestimento, in quelle nordiche solitudini, di una clinica privata per la cura delle malattie nervose e
per la psicoterapia. Dopo le difficoltà iniziali, ora i posti disponibili erano accanitamente disputati. Echinger aveva assunto medici eccellenti, pieni di ideali, persone talmente assorbite dal loro lavoro da non essere spaventate dalla lontananza dal mondo di quella località. L’assistenza di cui godevano i pazienti, o meglio gli ospiti come si preferiva chiamarli, era considerata esemplare. Maximilian Beerbaum era affacciato a una finestra del primo piano e guardava quel poco che c’era da guardare di quella piovosa giornata di maggio. L’acqua, caduta a catinelle per tutta la notte, stava giusto diminuendo d’intensità. Fra le nuvole si era aperto un varco dal quale occhieggiava un po’ d’azzurro. I campi di colza, fradici, dondolavano al vento leggero. Le enormi foglie di felce, d’un verde scuro, brillavano umide in giardino. Il canto stridulo di alcuni uccelli salutava i primi, prudenti raggi di sole. Un pettirosso si era posato sul muro che racchiudeva il giardino e becchettava con impeto nelle crepe fra le pietre. Il muro, fatto di rettangolari lastroni grigioverdi accuratamente sovrapposti, era alto tre metri ed era una delle poche cose che in quell’edificio ricordavano che non si potesse entrare e uscire a piacimento. «Sta smettendo di piovere», annunciò Maximilian allontanandosi dalla finestra. Il professor Echinger era seduto sulla sua poltrona di pelle nera, a ridosso della parete frontale della stanza; teneva le gambe accavallate e le mani congiunte in grembo. Osservava Maximilian sopra il sottile bordo dorato degli occhiali. «Quindi suppongo che si dedicherà di nuovo a una di quelle sue lunghe passeggiate», disse. Maximilian rispose con un’alzata di spalle prima che con le parole: «Non lo so ancora. Per me, quando un anno fa sono uscito per la prima volta dal portone senza essere sorvegliato, è stato una specie di miracolo. Mi sembrava di non riuscire a godermelo abbastanza a lungo. Vagabondare per i prati, distendermi vicino a uno stagno a guardare le ranocchie...» «Ha sentito molto la mancanza della libertà in questi anni, vero? » domandò Echinger, cauto. Maximilian annuì. Tornò alla sua sedia, collocata di fronte al professore, e si sedette di nuovo. Però non vi si appoggiò comodamente all’indietro: puntate le braccia sulle ginocchia, rimase invece quasi piegato in avanti, con la testa fra le mani. «All’inizio stavo molto male, lo sa bene. I primi due anni sono stati... ah! è meglio dimenticarli. Poi è venuta la fase durante la quale mi sono sentito grato di poter star qui anziché in prigione. Ero disposto a vedere il lato positivo del mio stato. Sennonché la gratitudine non è un sentimento particolarmente durevole, non trova? Le depressioni non sono tornate, eppure mi sentivo... come se questa fosse una prigione.» Maximilian tacque per un momento, poi alzò gli occhi e fissò il professore. «Spero di non offenderla con le mie parole.» «Assolutamente no!» rispose Echinger. «Capisco bene i suoi sentimenti. Mi dica: che cosa prova all’idea di tornare a casa?» Il ragazzo rise appena, si alzò nuovamente e poi rimase in piedi dietro la sedia. «A casa? Sa bene che per me non esiste più!» «La questione non è stata ancora chiarita?» «Mio padre si rifiuta nettamente di riaccogliermi. Mia madre è d’altro parere, ma non riuscirà a imporsi. Posso dare ormai per sicuro e scontato il posto che mi attende in quell’orribile farm in Scozia. » «Non l’attira l’idea di andarci?» Negli occhi di Maximilian apparve un’espressione cinica. Il professor Echinger si rese conto una volta di più di quanto fosse intelligente e – per usare una parola banale – bello quel giovane. Gli occhi erano d’un marrone talmente scuro da sembrare neri come il carbone. Il suo sorriso pareva letteralmente abbracciare la persona cui lo donava. Per tutta la vita quel giovanotto avrebbe catturato in un battibaleno le simpatie e l’ammirazione di qualunque estraneo. Disgraziatamente quella capacità non gli avrebbe tuttavia reso affatto più semplice la vita. «Lo sa che gente c’è in quella farm? Drogati. Criminali. Alcolizzati. Dicono che la semplice
vita di campagna in una piccola comunità, la responsabilità degli animali, il duro lavoro nei campi dovrebbero consentirne il recupero e quindi rendere possibile il loro rientro nella vita civile. È anche probabile che per alcuni quel modo di vivere sia d’aiuto, ma...» «Progetti di quel genere si sono rivelati molto validi.» «Lo so. Sennonché io sono già sano. Per quale ragione dovrei dunque arare i campi e dormire su un tavolaccio di legno?» «Anche gli altri giovani affidati a quell’istituzione non sono più malati», spiegò Echinger. «Sono ex drogati, ex alcolizzati, ex criminali. Devono solo imparare a...» «Ex criminali», lo interruppe Maximilian. «Come me.» «Lei ha ventiquattro anni. È una persona adulta. E libera. Il tribunale, in base a più perizie, redatte separatamente, ha deciso la sospensione del suo ricovero qui da noi. Nessuno la può costringere ad andare dove non vuole. Lei è tuttora sottoposto a un certo controllo da parte di chi è incaricato di seguire il suo caso e che ha ora approvato il progetto di mandarla in Scozia. Però nessuno può imporglielo contro la sua volontà. Lei può dire di no.» Maximilian sorrise. «Forse in teoria. Ma in che condizioni mi troverò quando uscirò fuori da queste mura? Non ho finito le scuole, non ho nessuna preparazione. Non ho soldi. In compenso ho documenti che attestano sei anni di ricovero in una clinica psichiatrica. E a prescindere da...» Si morse le labbra. «Sì?» insistette Echinger. «... dal motivo per cui sono finito qui», disse Maximilian piano. Echinger lanciò una rapida occhiata al piccolo orologio collocato su un tavolino davanti a lui, che gli permetteva di verificare l’ora senza innervosire il paziente, come sarebbe invece successo se avesse consultato l’orologio che aveva al polso. «Purtroppo anche oggi il tempo a nostra disposizione è finito», disse. «Comunque sia certo: ne parlerò ancora con suo padre.» «Non servirà a niente. Vuole tenermi alla larga, il più lontano possibile. La Scozia! Una fattoria fuori mano, in chissà quale località solitaria. Crede che lui l’abbia scelta a caso? È già tanto che non mi abbia spedito direttamente in America!» Il giovane si avviò verso la porta. Il professore si alzò, si tolse gli occhiali. Maximilian lo sapeva bene: era un privilegio, in quella clinica, essere sottoposti a terapia da Echinger in persona. Quell’uomo aveva grandi doti. Il problema era che il suo ascendente, l’influenza di cui disponeva cessavano, al più tardi, in fondo al viale che partiva dalla casa padronale. Il professore era capace di rimettere in piedi un paziente, ma poi doveva lasciare che camminasse da solo. Maximilian ebbe l’improvvisa sensazione che, al di fuori di quell’eremo dai giardini inselvatichiti e intrisi di pioggia, fosse in agguato, ovunque intorno a lui, un mondo fatto solo di pericoli e ostilità... nel quale non sarebbe più riuscito a orientarsi dopo tutti quegli anni in cui era stato custodito e tenuto al riparo da ogni imprevisto. Per alcuni secondi fu di nuovo invaso da quel panico che aveva imparato a conoscere proprio lì e contro il quale, durante l’ultimo anno, si era battuto sino allo sfinimento totale. Si rese conto che stava impallidendo. Il momento critico non era sfuggito neppure al professore. «Suo fratello», gli disse Echinger, «quel suo gemello... la rivuole a casa, vero?» Maximilian, la mano già sulla maniglia, si voltò. «Mario?... Non lo so. È da un po’ che è cambiato. C’è qualcosa che... Lui non me ne parla, ma ho la sensazione che si stia allontanando da me.» Uscì dalla stanza, lasciando che la porta gli si chiudesse alle spalle da sola. Il professore si avvicinò alla scrivania, pensieroso, tolse da un cassetto una grande agenda rilegata in pelle e cominciò ad annotare le poche informazioni desunte dall’ora appena trascorsa. Si domandò anche come mai, d’un tratto, si sentiva così stanco. Così scoraggiato e vecchio. Depose la matita, si alzò, si avvicinò alla finestra e l’aprì. Respirò a fondo l’aria fresca e umida. Dover cedere un paziente lo aveva sempre depresso. Critico come usava essere anche con se stesso, si diceva spesso che in quel modo si abbandonava a un comportamento sbagliato e sconveniente
per un terapeuta. Per quanto si sforzasse di evitarlo, finiva inevitabilmente con l’assumere un ruolo paterno con la persona che di volta in volta gli si trovava seduta davanti, che gli consentiva di guardare nella sua psiche, che cercava da lui consiglio, consolazione, aiuto, che lo elevava per qualche tempo al ruolo di istanza massima nella questione di come affrontare l’esistenza. E così, quando poi doveva mandarla via, fuori dalle mura protettive di quella sua casa, quando doveva riaffidarla al mondo e alla vita e a tutte le connesse imponderabilità, sentiva quasi di strapparsi un figlio dal petto per gettarlo in un fiume... senza essere sicuro che sapesse nuotare. Quando era nello stato d’animo di giudicarsi in modo particolarmente severo, si rinfacciava di mentire a se stesso con quella presunta paura per l’ulteriore sorte dei suoi protetti... perché, anche se non si sarebbe dovuto consentire di provare per i suoi pazienti un affetto paterno, quel sentimento era pur sempre bellamente ammantato di premura, compassione, e senso di responsabilità. Sarebbe stato di gran lunga peggio e imperdonabile se, in realtà, non avesse sopportato l’idea di perdere l’ascendente, l’autorità, di non essere più a lungo per loro quell’àncora alla quale si aggrappavano. Fino a che punto si poteva diventare megalomani nella solitudine di quella clinica, dietro quelle alte mura al cui interno si era padre, madre e Dio per i pazienti? E perché lo angosciava particolarmente proprio la sorte di Maximilian Beerbaum? Solo perché conosceva i gravi problemi che opprimevano quel giovane a causa del padre che, in effetti, si rifiutava ostinatamente di accettarlo, di accoglierlo? Oppure perché doveva lasciar andare un paziente che non si era mai davvero aggrappato a lui, non nei primi due anni delle sue gravi depressioni (quando aveva sempre chiesto della madre e del fratello), né più tardi, durante la fase della graduale guarigione? Al contrario: a volte, con quella sua cinica intelligenza, Maximilian aveva elevato una barriera fra loro due, ostentando spesso un beffardo distacco verso il terapeuta. Che il giovane Beerbaum, per quanto egli potesse essere orgoglioso del modo in cui si era evoluto come «caso», intaccasse come essere umano la considerazione che Echinger aveva di sé? Era un pensiero che lo inquietava profondamente. Pur abituato a essere sempre anche spietatamente sincero con se stesso, era una domanda alla quale non sarebbe riuscito a dare una risposta soddisfacente. Ma quando mai l’animo umano dà una risposta soddisfacente a una qualunque domanda? Anzi, in quel caso specifico avrebbe fatto meglio a dire una risposta «chiara», piuttosto che «soddisfacente». Forse era quella la ragione della sua stanchezza: l’essersi occupato, per tutta la vita, di una scienza che, in senso stretto, scienza non era. Nella quale due più due non faceva quattro, ma cinque o otto. Nella quale la riflessione sulla psiche, propria o altrui, poteva facilmente portare a un nevrotico, interminabile dilaniarsi. È stancante, pensò, proprio stancante non trovare mai una risposta. Chiuse gli occhi.
Andrew Davies viveva ancora nel piccolo appartamento urbano di Chelsea il cui indirizzo aveva spedito anni prima a Janet in Germania come ultimo suo segno di vita. La sera prima, quando gli aveva telefonato da Maidstone, Janet era quasi convinta che le avrebbe risposto chissà chi e che avrebbe appreso che Andrew si era da tempo trasferito altrove. Quando invece aveva sentito la sua voce – inconfondibile – dire «Hallo?», era quasi ammutolita dalla sorpresa. Si era ripresa solo quando da Andrew era venuto anche un irritato «Chi parla?» «Sono io, Janet.» E a quel punto era ammutolito lui. Solo dopo un po’ aveva commentato, incredulo: «Janet? Da non credere!» «Ma sì, sono io. Mi trovo in Inghilterra per caso e allora ho pensato di telefonarti.» «Sei qui a Londra?»
«No, a Maidstone. Però sarò a Londra domattina.» In realtà sarebbe rientrata a Londra ancora quella sera e avrebbe cercato un albergo: ma non voleva dargli l’impressione di saltargli letteralmente addosso. «Domattina?» Lo aveva sentito riflettere. «Pensi che potremmo incontrarci?» «Sì. Se hai tempo.» «Non per tutto il giorno, purtroppo. Ma verso le cinque e mezzo sarei libero. Allora sarai già ripartita?» Janet aveva subito sospettato che, in fondo, lui non volesse neppure vederla e che avesse accennato a quell’ora solo nella speranza che lei non fosse più a Londra. Tuttavia aveva deciso di correre il rischio. «Rimarrò in Inghilterra per un po’», gli aveva detto, «e quindi il tempo non mi manca.» Andrew le aveva dato l’impressione di essere sinceramente contento. «E allora si può combinare. Dove potremmo incontrarci?» «È semplice: verrei a prenderti io. Alle sei.» «Okay, Janet... sono felice!» Dopo di che si erano salutati, Janet era rientrata a Londra, aveva riconsegnato la macchina e preso una stanza in un albergo. La mattina dopo aveva constatato che, se voleva davvero trattenersi più a lungo, aveva urgente bisogno di qualche indumento e soprattutto di biancheria di ricambio. La sua carta di credito era stata rilasciata a carico del conto corrente che aveva in comune con Phillip, e poteva ben immaginare che suo marito non sarebbe stato molto entusiasta se avesse fatto accreditare su quel conto tutte le spese di quel non programmato soggiorno in Inghilterra, ma accantonò il pensiero. Tornò da Harrod’s, comprò biancheria, calze, un paio di solide scarpe, jeans, due pullover e un vestito. Ogni volta che era stata sul punto di farsi travolgere dal pensiero di Phillip e di Mario, si era immediatamente ordinata di occuparsi di qualcosa di completamente diverso, come sparire con un vestito impossibile in una cabina di prova, scivolarci dentro non senza fatica per poi mettersi a ridere della troppo provocante scollatura e chiedersi se esistessero davvero donne disposte a presentarsi in pubblico così conciate. In quel modo era riuscita a distogliersi completamente, fino a pomeriggio inoltrato, dai problemi irrisolti che aveva lasciato a casa. Dopo di che la prospettiva dell’imminente incontro con Andrew l’aveva innervosita al punto di non poter comunque più pensare ad altro. A un certo punto ritenne di dover constatare di avere un aspetto tutt’altro che attraente. Il vestito che aveva comprato non le stava bene: dava l’impressione di una cosa vecchiotta, datata, troppo castigata. I capelli le sembrarono spenti e scomposti. Gli occhi stanchi. Si portò le mani sul collo, con apprensione, e cominciò a tastarsi mentre gli occhi cercavano spietatamente ogni traccia di ruga. Janet non era mai stata una di quelle donne che hanno paura d’invecchiare, ma in quel momento realizzò all’improvviso che aveva venticinque anni quando aveva visto Andrew l’ultima volta: un’età in cui era molto sexy, molto eccitante e a volte anche abbastanza spudorata. «E oggi ne hai quarantatré», disse alla sua immagine nello specchio: «Si può sapere allora perché vai da quell’uomo?» Bella domanda. Tanto più che si era comportata in un modo proprio sconveniente. Andrew stava ancora pensando a dove si sarebbero potuti incontrare, e lei, subito, gli aveva detto che sarebbe andata a casa sua. Che maniere! Anche se con l’uomo in questione aveva passato le notti più folli della sua vita... «Semplice: non ci andrò», si disse. «Lui non sa in che albergo sono e quindi non potrà neppure telefonare per chiedere dove mi sono cacciata. Lo liquiderò come ho liquidato Phillip.» Ma Andrew non era Phillip e Janet lo aveva da sempre trattato in modo ben diverso. Andrew non era il tipo da lasciarsi piantare in asso senza almeno una parola d’avvertimento, esattamente come non era mai riuscita a scuoterlo con i capricci, a innervosirlo con le urla, a smuoverlo con i protratti e tenaci silenzi. Phillip, per una sola parola storta, si era dovuto sorbire porte sbattute, fiumi di lacrime,
piatti rotti e settimane di astinenza sessuale. Andrew invece lo aveva trattato con guanti di velluto anche quando la stava già ingannando e umiliando in continuazione. E così anche stavolta Janet si accinse a incontrarlo, ma non dopo essersi fatta coraggio con il contenuto d’una bottiglietta prelevata dal minibar. Si fece portare dal taxi dalle parti del Chelsea Embankment e proseguì poi a piedi, lungo il fiume, fino al Cheyne Walk. La calda sera di maggio la fece stare subito meglio. Non era più piovuto per tutto la giornata e dal giorno prima la temperatura era salita notevolmente. Gli alberi erano in piena fioritura, i loro rami giocavano con il vento, c’era odore di fiume e di alghe, e sul Tamigi dondolavano bianche imbarcazioni. La dorata luce della sera aveva indotto molti a concedersi quattro passi. Uomini in completi grigi che rientravano a casa dall’ufficio, coppiette di innamorati che camminavano strettamente allacciate sotto gli alberi, persone anziane che sonnecchiavano sulle panchine, bambini che giocavano o schizzavano da un punto all’altro del marciapiede con gli skate-board. Svoltò in Old Church Street. Quando raggiunse la King’s Road era di ottimo umore, cominciava a conciliarsi con il vestito che indossava e a considerarsi, dopo tutto, ancora bella. Le tornarono a galla sensazioni rimaste sepolte tanto a lungo che era convinta di averle ormai dimenticate: il senso di libertà, la leggerezza, l’attesa spensierata e incuriosita da ciò che poteva arrivare. Andrew abitava in Chelsea Square. Quando Janet premette il pulsante in corrispondenza della targhetta con il cognome «Davies » sentì che le sue guance stavano arrossendo e che gli occhi avevano perduto l’espressione stanca. Ecco il ronzio del cicalino: entrò. Andrew si sporse oltre la ringhiera del piano superiore e chiese: «Janet?» Dopo la luce di fuori gli occhi faticarono a adattarsi a quell’illuminazione fioca. Li socchiuse per vederci meglio. «Sì, sono io.» E salì le scale.
Quando Mario rientrò a casa quella sera si stupì nel trovare il padre in giardino. Phillip, alla sua lenta e impacciata maniera, stava lavoricchiando attorno all’aiuola delle rose. Non aveva mai mostrato il benché minimo interesse per quella vegetazione e non sapeva come trattare le piante, tanto da scansare il più possibile ogni cosa che le riguardava. Doveva dunque trovarsi alle prese con una crisi acuta se era uscito di casa e aveva cominciato a smuovere e a rivoltare il terriccio dell’aiuola. «Pensavo che tu volessi andare in Scozia», disse Mario. Phillip reggeva le cesoie da giardinaggio come se fossero una baionetta e riduceva i cespugli di rose, con spietate sforbiciate, a poveri moncherini. «Ho parlato con quel Grant», spiegò, furibondo. «Quell’individuo è la persona più arrogante nella quale io mi sia mai imbattuto. Poiché Janet non ha ritenuto opportuno presentarsi puntualmente all’appuntamento convenuto, ha già assegnato il posto a un altro.» Phillip imitò mister Grant con un’affettata voce in falsetto: «Ma lo sa quant’è lungo l’elenco delle richieste che abbiamo? Non posso permettermi il lusso di far aspettare altri che hanno urgente bisogno di aiuto solo perché sua moglie non sa decidersi !» Alle parole seguì un iroso colpo di cesoie e un bel ramo con tanto di bocciolo rosso scuro volò per terra. Mario fermò la mano di Phillip: «Ma che cosa stai facendo a queste povere rose?» «Bisogna pur potarle prima o poi, giusto?» chiese Phillip, un po’ incerto. «Semmai è un lavoro che va fatto in autunno. E sicuramente non ora», spiegò Mario. Si tolse gli occhiali da sole che gli conferivano l’aspetto di un affascinante e svagato attore. «Quando rientrerà Janet? » Phillip rinunciò a maltrattare ulteriormente le rose, depose le cesoie e si tolse i guanti da giardinaggio. «Non lo so», rispose, «è da ieri sera che non la sento.» Il ragazzo lo fissò, sorpreso: «Non si è più fatta viva?»
«No.» «Ma... e lo dici così, semplicemente? Potrebbe esserle successo qualcosa!» «Che cosa dovrei fare secondo te?» «Non lo so... ma non possiamo nemmeno far niente!» «Forse è andata a trovare gli amici di una volta. Ho telefonato a sua zia Liz, a Ely. Se Janet farà un salto da uno di loro, Liz lo verrà a sapere e mi avviserà.» «Non mi sembra corretto da parte di Janet», dichiarò Mario, seccato. «Si aggira chissà dove per l’Inghilterra e ci lascia del tutto all’oscuro!» «Penso che, ora come ora, si limiti a tentare di sottrarsi al peso dei problemi. Non sa neppure lei, esattamente come non lo so io, che cosa si può fare con Maximilian, e così nasconde la testa nella sabbia.» «Ascolta, papà, sto parlando sul serio: non capisco tutte queste storie. Perché Max non può tornare semplicemente a vivere con noi?» «Qui nessuno sa della sua esistenza. Come dovremmo spiegarne l’improvvisa presenza?» «E tu ti preoccupi della reazione della gente?» «Noi qui ci siamo costruiti un’esistenza, Mario. Sono un consulente fiscale. Dipendo dalla fiducia che ha in me chi mi si rivolge. So che quelli della vostra generazione lo giudicano piccino, ma per me è importante avere un buon nome. Se si venisse a sapere in giro che mio figlio...» Non completò la frase. Gettò con noncuranza i guanti nell’erba. «Vieni. Entriamo e vediamo che cosa possiamo prepararci per cena.» Quando furono in cucina, alle prese con i pomodori e i cetrioli da pulire e da affettare, Mario disse, come per inciso: «Tina sosterrà lunedì gli orali della maturità». Phillip se ne rammentò solo dopo un istante di sorpresa: Tina, la ragazza di cui Mario aveva parlato la sera prima. «Da quanto tempo la conosci?» chiese. «Dai primi di febbraio.» «Non me ne avevi mai parlato.» Mario alzò le spalle, poi disse: «Lì per lì ho preferito tenerlo per me». «Capisco. E sta dando l’esame di maturità?» «Sì. E una settimana dopo, il lunedì di Pentecoste, vorremmo andarcene per un po’. Per un bel po’, per essere precisi.» Phillip versò i pomodori in una ciotola per insalata. «Già. Capisco. Avrà bisogno di distrarsi. E dove avete intenzione di andare?» «È di questo appunto che volevo parlarti. Ho pensato alla Provenza. » «A Duverelle per caso?» «È un’eternità che nessuno di noi va più a stare in quella casetta. Sarebbe anche una buona occasione per darci un’occhiata.» «Da qualche tempo sto pensando di vendere quella casa», disse Phillip. «Mantenerla ci costa e non l’usa più nessuno.» «Però è legata a tanti bei ricordi. Un tempo ci andavamo sempre durante le vacanze.» «Un tempo sì», commentò Phillip. Per un momento sembrò rincorrere nella memoria un paio di belle ma già confuse immagini del passato, ma poi si accorse che il figlio lo guardava in attesa di una risposta. «Per conto mio potete andarci a passare qualche giorno. Quando vi pare. Temo solo che la tua Tina ci si annoierà. Non credi che preferirebbe un elegante albergo sulla Costa Azzurra?» «Sono sicuro che le piacerà», dichiarò Mario. «La vedrò più tardi e così potrò darle subito la bella notizia.» Qualcosa nel tono della voce di Mario non piacque a Phillip. Osservò pensieroso il figlio. Non c’era felicità nelle sue parole, né sembrava felice. Non pareva affatto impaziente di partire con Tina.
«Evidentemente stai sbagliando qualcosa», disse Dana. Era seduta sul davanzale della finestra nella stanza di Tina, teneva i piedi puntati sullo schienale di una sedia e teneva aperto sulle ginocchia il libro di fisica. «Forse non lo incoraggi abbastanza.» Tina era distesa a pancia in giù in mezzo alla camera, anche lei con il libro di fisica davanti ma, esattamente come l’amica, palesemente poco interessata al suo contenuto. Lei e Dana si conoscevano fin dal primo anno di scuola. Si confidavano tutto, senza riserve. Non c’era niente che non avrebbero condiviso. D’aspetto erano molto differenti. Tina, bionda e graziosa, non arrivava alla punta del naso della robusta e bruna Dana. Era da quando aveva dodici anni che Dana aveva il corpo sviluppato di una donna, mentre Tina anche adesso, nonostante i diciotto anni, sembrava una magra ragazzina. Tina si sentiva depressa, a volte, nell’osservare il vivace effetto che Dana esercitava sugli uomini. Li attirava, quasi come per magia, ovunque fosse o andasse. E ovviamente aveva già provato e sperimentato in tutta la loro gamma le cose essenziali della vita: sesso, droghe leggere e anche certe fughe in compagnia di noti capiscarichi. Era stata in Spagna, per un festival del rock, assieme a una gang di motociclisti, e aveva vagabondato da sola per il Canada. Per un anno, quando ne aveva quindici, si era trovata una volta alla settimana con un amante non più giovanissimo in una suite dell’Atlantic, dove si era fatta rimpinzare di caviale e aveva messo le mani su un’intera collezione di abiti firmati. Contemporaneamente aveva avuto una relazione con una specie di vagabondo dai capelli lunghi, con il quale se l’era allegramente spassata sul sedile posteriore di un maggiolino di tutti i colori e in procinto di schiattare di vecchiaia. Dana non aveva la puzza sotto il naso e non aveva principi morali. Raccattava tutto quello che le piaceva e che la divertiva e, poiché sua madre, una giornalista liberale che l’aveva allevata da sola, le permetteva praticamente tutto, non rischiava mai di andare «oltre» qualcosa. Ciò nonostante era legata d’un affetto commovente alla Tina educata alla vecchia maniera la quale, assieme a Michael, il padre conservatore, le dava quel sostegno di cui, senza accorgersene, era costantemente alla ricerca. «Forse lo ha intimidito quello che gli ho raccontato di mio padre », ipotizzò ora Tina, riprendendo l’osservazione di Dana. «Probabilmente teme che, esagerando con le avance, mio padre gli possa dare una lezione.» «Non sarebbe una preoccupazione del tutto infondata», dichiarò Dana. Indossava jeans e un top che le lasciava l’ombelico al vento e le si tendeva sul petto in una maniera tale che Michael, quando l’aveva incontrata giù nell’atrio, aveva distolto lo sguardo, imbarazzato. «D’altra parte questo Mario è giovane, ha ventiquattro anni, e quindi dovrebbe essere abbastanza uomo per...» «Per che cosa?» s’informò Tina. Dana ghignò. «Dio mio, Tina, siete pur spesso abbastanza soli! Voglio dire: tuo padre, dopo, come vuoi che se ne accorga?» Tina arrossì, e Dana, per riguardo, finse di non notarlo. «Questa del viaggetto insieme è comunque una buona idea e hai fatto bene a insistere», disse. «Oggi chiederà a suo padre se potrà disporre di una loro casa dalle parti di Nizza», spiegò Tina. «Diamogli quest’ultima occasione. Se continuerà a non volerti a letto, allora vuol dire che in lui c’è qualcosa che non va!» «Dana, ne parli come se si trattasse di un esame! La sua ‘ultima occasione’! Io amo Mario. È un buon segno che non sia così precipitoso. Dopo tutto sono appena quattro mesi che stiamo insieme.» «Fin troppo, direi», osservo Dana. Tirò fuori una sigaretta e l’accese. «C’è un qualcosa in lui... non so...» disse seguendo le volute del fumo. Tina guardò l’amica con insistenza: «Dana, sii sincera, ma proprio sincera: che cosa pensi di Mario?» «Be’, lo conosco appena.» Il tono era quello di una che preferisce non scottarsi le dita. In effetti
lei e Mario si erano incontrati solo due volte. Una volta, ma proprio di sfuggita, nel corso di quel party durante il quale lui aveva conosciuto Tina, e poi in aprile, il giorno del compleanno di Dana. Ogni volta c’era stata troppa gente perché Dana potesse esaminare meglio e più attentamente Mario, eppure Tina sapeva che se ne era fatta lo stesso un’idea precisa. I giudizi di Dana erano sempre immediati... e raramente si sbagliava. «Avrai pure un’opinione su di lui», insistette Tina. Dana decise di vuotare il sacco: «Okay, se proprio ci tieni a saperlo... non mi dice un granché». «Però la prima volta che te l’ho chiesto mi hai detto che ti sembrava abbastanza carino», obiettò Tina, un po’ offesa. «Sì, certo che te l’ho detto.» Dana era imbarazzata perché quella volta l’aveva imbrogliata, e con Tina non l’aveva mai fatto prima. «Non ho voluto ferirti, ecco tutto. Inoltre ero contenta che tu ne avessi finalmente acchiappato uno e non ho voluto rischiare di fartelo uscire di testa.» «Sentiamo: perché non ti piace?» «È solo una sensazione. Non so spiegarla. C’è in lui qualcosa che... Oh, insomma, non so che parole usare, davvero. Probabilmente è solo un’impressione sbagliata.» «Probabilmente», approvò Tina, con sollievo. Secondo lei Dana diffidava di qualsiasi uomo che non si avventasse immediatamente su una donna. Capacissima, dentro di sé, di credere che Mario fosse gay. «E tuo padre ti lascia partire così, senza piantar grane?» chiese ora Dana, decisa a cambiare almeno in parte discorso. Tina scosse la testa. «Macché. Tutt’altro che senza piantar grane. Se fosse dipeso solo da lui, me l’avrebbe proibito. È stata la prima volta che gli ho fatto notare con chiarezza di essere ormai maggiorenne. Ma da quel momento le cose fra di noi non sono più come prima. Lui sa che non può impedirmi di fare questo viaggio e io, in un certo senso, mi sento la coscienza sporca.» «Oddio, non dirmi che vuoi cambiare idea! Se non partirai con lui, ciao, non se ne farà mai niente!» «Ma sì, ma sì, ci andrò», disse Tina, spazientita. Improvvisamente pensò che sarebbe stato meglio se non avesse mai parlato di Mario con gli altri. Allora Dana non avrebbe potuto dire che non le piaceva e suo padre non avrebbe potuto insistere per conoscerlo prima della partenza. La relativa cena era stata programmata per la domenica successiva. E Tina, d’un tratto, ebbe paura. E se suo padre l’avesse trovato insopportabile? E se fosse andato storto qualcosa? E se la cena fosse finita con un fiasco? E se Michael si fosse comportato come un inquisitore? E se Mario, innervosito, avesse detto qualcosa di sbagliato?... Se fosse dipeso soltanto da lei, sarebbe fuggita con Mario di nascosto, nel meridione della Francia, senza dover ascoltare prima i pareri di tanta gente benintenzionata.
La prima cosa che, dopo tutti quegli anni, Janet e Andrew si dissero quasi all’unisono fu: «Non sei affatto cambiato!» Ovvero «cambiata », ovviamente. Janet aveva venticinque anni quando si erano incontrati l’ultima volta, e Andrew trentasei; ora lei ne aveva quarantatré e lui cinquantaquattro. Certo che erano cambiati. Eppure nessuno dei due aveva voluto solo frettolosamente lusingare l’altro. La confidenza fra di loro esisteva ancora, nient’affatto intaccata: sembrava che non fosse passato un giorno da quando si erano lasciati. I capelli grigi di Andrew e le sottili rughe attorno agli occhi di Janet non bastavano certo per scalfirla, e nemmeno le tracce che le risate, i pianti, la solitudine e l’euforia avevano lasciato sui loro volti. Tracce che avrebbero notato meglio solo nei giorni successivi, quando ebbero l’opportunità di esaminarsi con più cura e attenzione. Andrew aveva abbracciato Janet con semplice spontaneità e l’aveva baciata su entrambe le guance. «Janet, è così bello rivederti!» Le prese le mani e la tirò in casa. «Vieni, dammi la giacca! Ti va
di bere qualcosa? Non dirmi che è tuttora il gin tonic che...» «L’hai detto: tuttora.» Si guardò in giro nel soggiorno mentre lui trafficava in cucina. Esattamente così si era sempre figurata una casa arredata da lui: luminosa, senza fronzoli, con tanti libri. Sul davanzale della finestra c’era una fotografia incorniciata. Janet si avvicinò. Un ragazzino e una ragazzina, entrambi sui dieci, dodici anni. «I miei figli», spiegò Andrew alle sue spalle. Era entrato nella stanza senza far rumore, con due bicchieri in mano. «Pamela e Nicolas. Vivono con la madre a New York.» «Sei...» «Ero sposato. Abbiamo divorziato tre anni fa.» «Ah...» Ne esplorò l’espressione con curiosità. «Claire è americana», disse Andrew. «Dopo il divorzio ha voluto tornare in patria e, poiché è lei che ne ha la custodia, ha portato con sé i ragazzi.» «E quindi a te è rimasto ben poco di loro.» «Già.» Per un attimo un velo di tristezza gli oscurò il volto, ma si riprese subito. Le porse un bicchiere. «Ecco. Beviamo a questo nostro rivederci.» Chiacchierarono per un po’, e Janet tacque accuratamente la ragione originaria del suo viaggio in Inghilterra. Aveva semplicemente avuto nostalgia di casa, dichiarò, e quindi aveva deciso di tornare sull’isola per qualche giorno. «Immagino che vorrai fare un salto anche a Cambridge?» domandò Andrew. «Non lo so. Forse. Non è detto.» Dopo un po’ andarono a cena in un ristorante cinese dove Andrew le raccontò del suo lavoro. Da giovane si era proposto di fare l’avvocato, poi però, completati gli studi e dopo un paio d’anni di praticantato, aveva piantato tutto e si era fatto assumere da Scotland Yard. A suo tempo lo aveva anche comunicato a Janet, con una lettera, e lei si era chiesta, sconcertata, che cosa mai potesse averlo indotto a cambiare idea. Non l’aveva mai capito e preferì non affrontare l’argomento neppure in quel momento. Non subito, almeno. Andrew era ispettore di polizia, ma Janet, dal modo in cui glielo disse, capì che era un’occupazione che non lo appagava. Non era soddisfatto né del grado di servizio né del lavoro che faceva. «Ho continuamente a che fare con delitti veramente orribili. Con persone che fanno cose schifose e dalla cui biografia si trae tuttavia l’impressione che non avrebbero mai potuto far altro che finire su una brutta strada. E alla fin fine ci si trova impotenti, infinitamente impotenti davanti a loro.» «Sei pentito di non aver dopo tutto preferito la strada dell’avvocatura? » chiese Janet. «Oggi rifaresti quello che hai fatto?» Andrew ci pensò su un poco, poi annuì. «Sì. Lo so, me ne lamento di continuo, però rifarei la stessa cosa.» Allungò una mano sopra il tavolo per stringere quella di lei. «Raccontami di te. Come stanno i tuoi ragazzi?» «Bene. Tutto a posto», assicurò Janet, nervosa. Andrew la osservò di sottecchi. «C’è qualcosa che non va.» «No, no. È tutto okay. Davvero.» «E... Phillip come sta?» Janet rispose senza guardarlo: «Non sa dove sono». «Non sa che sei in Inghilterra?... Sei scappata?» «Sa che sono in Inghilterra. Ma poi, una volta arrivata qui, non mi sono più fatta viva con lui. Probabilmente sta telefonando ai parenti per scoprire dove sono andata a cacciarmi.» «Vuoi...» Indovinò che cosa avrebbe voluto chiederle e l’interruppe. «No. Non voglio parlarne. Non adesso. Non so per quanto tempo rimarrò ancora in Inghilterra, forse un paio di giorni, forse un paio di
settimane. E nel frattempo non ho proprio voglia di pensare a casa.» «D’accordo. Credi che potremmo vederci ancora qualche volta, finché sarai qui?» «Certo. Quando vorrai e potrai.» Andrew rise. «Dietro di me ho tante di quelle sere passate a lavorare che mi sono veramente guadagnato queste ore in tua compagnia. »
Sabato 27 maggio 1995 Quel sabato Andrew l’accompagnò al party del compleanno di un collega suo amico. Nessuno la importunò con domande, la presero semplicemente per una nuova amica di Andrew e l’accolsero con grande cordialità. Ovviamente non mi si legge addosso che sono sposata, pensò Janet, e che ho piantato marito e figli. Chissà se mi troverebbero altrettanto simpatica se lo sapessero. Durante il party Janet ebbe l’opportunità di osservare Andrew da una certa distanza, mentre parlava con gli altri. Era uno dei più alti, e anche dei più magri. Era stato piuttosto magro anche prima, e da allora non era quasi cambiato. Probabilmente dipendeva dal suo nervosismo cronico, suppose Janet. Quasi sempre, quando parlava, uno dei suoi occhi si contraeva leggermente come per effetto di brevi spasmi, e l’espressione molto intenta del suo viso rivelava l’estrema attenzione nel cogliere tutto ciò che gli accadeva intorno. Un tempo, lei lo ricordava bene, era stata la bruciante ambizione a indurlo a non staccare la spina neppure per un secondo, e probabilmente nel frattempo non era cambiato nemmeno sotto questo aspetto. Janet aveva sedici anni quando si erano incontrati la prima volta, e Andrew ventisette. Lui stava studiando a Cambridge dove si era dato da fare per riuscire a laurearsi con il padre di Janet. La quale Janet aveva a momenti sospettato che si fosse messo con lei proprio per quella ragione, salvo poi cambiare rapidamente idea quando era saltato fuori che, qualsiasi cosa Andrew avesse pensato, aveva comunque sbagliato i calcoli, perché il professor Hamilton si era arrabbiato moltissimo quando aveva scoperto la loro relazione. Ciò nonostante, Andrew era rimasto con Janet e si era laureato con un altro professore. Era disposto a tutto pur di affermarsi, ma non a subire ricatti. Nonostante tutta la sua ambizione, si era imposto un chiaro limite al di là del quale non sarebbe mai stato disposto ad andare. Dopo il party, quando l’accompagnò all’albergo, Andrew le disse: «È stato bello averti con me, Janet. Negli ultimi tre anni mi sono sempre presentato da solo a feste di questo genere. Non ricordavo nemmeno quanto fosse divertente andarci in due.» «Perché ti sei separato da tua moglie?» gli chiese Janet improvvisamente. Sorpreso, Andrew rimase per un momento in silenzio. «Un anno e mezzo prima del divorzio mi ero imbarcato in una relazione. Ci avevo rinunciato relativamente presto, ma Claire non l’ha mai digerita. Alla fine dava i numeri se arrivavo a casa dieci minuti dopo l’ora che le avevo detto. A un certo punto non ha avuto più senso continuare », le rispose. Il sorriso di Janet fu amaro. «Sei sempre lo stesso di prima», dichiarò. Aprì lo sportello della macchina e uscì. «Rimani pure seduto», gli disse quando notò che stava a sua volta scendendo dall’automobile per congedarsi da lei: «oggi preferisco andare a letto senza il bacio della buonanotte.» Chiuse la portiera e corse letteralmente verso l’ingresso dell’albergo. Andrew scese ugualmente, ma rimase accanto alla macchina. «Domani è domenica », le gridò dietro: «potremmo andare in campagna!» Janet si voltò: «Vieni a prendermi alle dieci», rispose e sparì al di là della porta girevole.
Domenica 28 maggio 1995 Tina aveva immaginato che la serata con Mario e suo padre sarebbe stata un fiasco, e in effetti tutto sembrò andare storto fin dal primo momento. Già la preparazione della cena fu un fallimento. Tina era una cuoca davvero brava, ma quella domenica nulla sembrò volerle riuscire. La carne restò dura, la verdura aveva un sapore sciapo, e quando aggiunse altro condimento finì col salarla troppo. La prima portata, una minestra, le era venuta relativamente bene; in compenso bruciò leggermente il fondo dei tortini di fragola da offrire come dessert. Evitò a fatica di scoppiare a piangere: sarebbe stato il colmo se avesse concluso la serata con la faccia rigata di lacrime. Michael aveva apparecchiato la tavola in sala da pranzo, e per l’occasione aveva tirato fuori la porcellana migliore, i bicchieri più belli e le vecchie posate d’argento, eredità di Marietta. Tina aveva capito subito che non l’aveva certo fatto per rendere chissà che onore a Mario, ma solo per intimidirlo fin dall’inizio. Non ci teneva minimamente a far passare senza inconvenienti quel primo incontro con l’amico della figlia. Anzi. Di lì a poco era sparito nella sua stanza e quando era rientrato indossava un abito scuro, aveva spazzolato con cura i capelli grigi e sembrava un lord inglese. Neppure la regina avrebbe assunto un piglio più inaccostabile del suo, aveva pensato Tina rabbrividendo. Mario si presentò puntuale alle 19. Aveva aspettato in macchina, davanti a casa, per andare poi a suonare il campanello solo ai rintocchi della campana. Consegnò a Tina un mazzo di fiori e al padre di lei una bottiglia di vino. E capì fin dalla prima occhiata di non piacere a Michael. Durante la cena la conversazione si avviò solo a fatica. Qualunque argomento Tina o Mario affrontassero, Michael rispondeva a monosillabi, tanto da impedire un vero e proprio scambio di idee. Mario si innervosì al punto da far cadere rumorosamente per due volte la forchetta nel piatto. Nel bere gli andò di traverso qualcosa e dovette lottare per alcuni minuti con una fastidiosa tosse prima di riuscire di nuovo a parlare. Tina si accorse che le stava montando in corpo una rabbia furibonda. Quel vecchio e ottuso testone di suo padre! Non gli sarebbe costato niente andare un po’ incontro a Mario. Solo dopo la (piuttosto salata) portata principale, Michael si decise a fare una domanda a Mario: «Lei studia giurisprudenza?» Il sollievo di Mario fu addirittura commovente. «Sì. Secondo anno. » «Ah. Quali esami ha già dato?» «Eh... i due diritti penali. Poi diritto civile, prima parte, ma non so ancora se l’ho superato.» Michael sollevò le sopracciglia. «Non è poi tanto. Mi pare di capire che diritto costituzionale e diritto amministrativo non sono il suo forte.» «In effetti», ammise Mario, coraggiosamente. «Ma che importanza ha!» s’intromise Tina. «Papà, Mario non è mica venuto per sottoporsi a un esame anche qui!» «Non vedo proprio perché gli studi del giovanotto mi debbano essere indifferenti», rispose Michael, freddo. E poi, seccato, tornò a rivolgersi a Mario: «Ha già fatto il servizio militare?» Oddio, pensò Tina. «Io... no», rispose Mario, insicuro. La faccia di Michael sembrava una maschera di pietra: «Obiettore? » «Ho... ho prestato servizio civile in una casa di riposo...» «E secondo me è stata una bella scelta», si affrettò a intervenire Tina. «Lavare quei vecchi, dar loro da mangiare, aiutarli a girarsi nel letto... io non lo farei per tutto l’oro del mondo!» Si alzò. «Vado a prendere il dessert. Spero che vi sia avanzato un po’ di appetito! » Quando lei fu fuori dalla stanza, Michael domandò: «Se ho ben capito, lei ha intenzione di
mettersi in viaggio con mia figlia? Per raggiungere la Francia meridionale?» «Sì. I miei genitori lì possiedono una casa.» «Ah. E i suoi genitori approvano il progetto?» «Sì.» Mario evitò di dire che sua madre non ne sapeva assolutamente niente. Non avrebbe fatto una buona impressione se avesse raccontato che Janet era pressoché sparita in Inghilterra senza che la famiglia sapesse dove accidenti si fosse cacciata. «I miei genitori », proseguì invece, «sono contenti che qualcuno passi un po’ di tempo da quelle parti. Sono sei anni che non ci andiamo più. Un uomo del villaggio si occupa di tutto, ma non sarà certo male andare ogni tanto a vedere che cosa combina.» Michael si alzò, prese una piatta scatola di sigari da un tavolino d’angolo. «Lei è figlio unico?» «Sì», mentì Mario e arrossì. Per fortuna Michael non lo stava guardando. «Un sigaro?» E offrì la scatola al giovane. «Grazie.» Mario scosse energicamente la testa. «Non fumo.» Michael se ne accese uno senza commentare e senza far capire se calcolasse come un punto a favore di Mario il fatto di non essere un fumatore. Verosimilmente no, pensò Mario. Era depresso e si sentiva trattato ingiustamente. Lui non aveva contribuito con particolare entusiasmo al progetto di quella vacanza assieme a Tina. Aveva ceduto solo dopo settimane di insistenze da parte di lei, e ora quell’uomo si comportava come se lui avesse deciso di rapirgli la figlia, di deportarla e di farle chissà che cos’altro di orribile ancora. Ma perché Tina aveva un padre così difficile e intrattabile? Poi pensò che, dopo tutto, Tina era quella che era appunto perché aveva quel padre. Era lui il responsabile della palpabile aura d’innocenza che aveva tanto attirato Mario fin dal primo momento. Si era potuto innamorare di Tina perché era diversa dalle altre. Agli occhi di Mario era perfetta, ma l’esperienza gli aveva insegnato che, nella vita, non si poteva ottenere nulla senza pagare lo scotto. Nel caso di Tina lo scotto era quel vomitevole individuo che fumava il sigaro all’altro capo del tavolo. Quando Mario fu finalmente andato via, Tina aveva mal di testa e in bocca un saporaccio. Impilò i piatti sbattendoli rumorosamente l’uno sull’altro, li portò in cucina dove aveva già ammonticchiato le altre stoviglie e cominciò a riempire la lavastoviglie con gesti furiosi. Le si ruppe un bicchiere proprio nel momento in cui Michael si affacciò alla porta. «Ehi!» disse, sobbalzando. «Ma perché scaraventi così quella roba?» «Perché sono furibonda, ecco perché!» Tina stava recuperando con le punte delle dita, fra i cestelli, le schegge del bicchiere. «Sei stato impossibile, papà. L’hai ignorato, e le volte in cui non lo hai ignorato lo hai trattato come se fosse una cacca. Hai fatto di tutto per renderlo insicuro. Ed è stato penoso il modo in cui lo hai interrogato sui suoi studi!» «Avrò pure il diritto di sapere tutto sull’uomo che vuole andare in vacanza con una figlia appena maggiorenne!» «L’hai detto. Maggiorenne. Sono adulta. Possibile che tu non riesca ad avere fiducia in me? Papà, ti sei comportato come se avessi avuto davanti a te un testimone recalcitrante da spremere e da intimidire. Mario non è un delinquente. E tu dovresti poter rinunciare a essere il procuratore della repubblica almeno quando sei in casa tua!» Michael tacque per un po’. «Non mi piace», disse poi. «Non è a te che deve piacere», ribatté Tina. E subito dopo cacciò uno strillo: «Au!» L’indice della mano destra sanguinava. Tina lo aveva infilzato direttamente sulla punta affilata di una scheggia. A Michael bastarono due passi per esserle accanto: tirò fuori di tasca un fazzoletto e glielo avvolse attorno al dito. Ecco: lui ha sempre, sempre, un fazzoletto pulito sotto mano, pensò Tina, e scoppiò improvvisamente a piangere. Singhiozzava e continuò a singhiozzare, in preda a una disperazione che toccava il cuore, anche quando il padre la prese fra le braccia e se la strinse sul petto. Tremava e sussultava come il lume di una candela al vento e inondò la bianchissima camicia del padre con rivoli di mascara.
Nonostante quel momento stonato del sabato sera, Janet e Andrew avevano passato una bella domenica. Avevano prima raggiunto Windsor dove avevano girovagato per due ore fra gli ambienti del castello, poi erano andati a Henley, ad ammirare le incantevoli case lungo il Tamigi, concedendosi quindi una lunga passeggiata sulla riva del fiume. A un certo punto, nel pomeriggio, avevano mangiato sandwich in un pub. Per la cena scelsero una trattoria di campagna nei pressi di Newbury. Stava giungendo a termine un assolato giorno di maggio e si era alzato un vento fresco. Andrew si era seduto di fronte a Janet e la guardava negli occhi con un’espressione fra il tenero e il pensoso. «Oggi hai un aspetto particolarmente giovane», disse. «I capelli scompigliati dal vento e le guance rosse ti stanno molto bene.» «E tu ti sei abbronzato un po’. Un colorito che ti sta bene con i capelli grigi.» Lui rise ma la risata non cancellò la tensione che gli segnava il volto. Janet gli sfiorò un braccio. «C’è qualcosa che ti rode: è tutto il giorno che lo vedo. A che cosa stai pensando?» «Non è il luogo adatto per parlarne.» Andrew fece un cenno alla cameriera perché gli portasse il conto. «Un problema di lavoro.» «Mi interessa.» «È un caso che mi sta particolarmente a cuore... uno psicopatico che vorrei sapere dietro le sbarre per il resto della sua vita. L’avvocato chiederà probabilmente che sia dichiarato incapace di intendere e di volere, però io spero che l’accusa riesca a ottenere il massimo della pena.» Andrew si passò una mano sugli occhi e per un momento sembrò stanchissimo. «Non ho ancora imparato a tenere fuori da me queste storie.» «Che cosa ha fatto quel tale?» chiese Janet. «Vuoi proprio saperlo?» «Sì...» «Ha commesso quattro omicidi... O meglio: quattro sono quelli che ha confessato. Probabilmente sono di più. È uno che uccide solo donne giovani e attraenti.» Janet deglutì: «Le ha uccise come?» «Saltando loro addosso in un luogo isolato e trascinandole in un piccolo furgone. Quindi le ha portate nei pressi di Basildon, in una casa semidiroccata. Lui però viveva a Londra.» «Di chi è la casa?» «È un rudere. Il proprietario si è trasferito chissà dove. La si sarebbe dovuta demolire già da tempo, ma non so per quale ragione la questione si è trascinata per le lunghe e così è rimasta in piedi, a disfarsi da sola.» «Hai indagato tu sul caso?» Andrew annuì. «Continuavano a sparire donne dall’area di Londra. Senza lasciare traccia. Non avevano niente in comune in fatto di ambienti di vita, abitudini, eccetera, però, come dicevo, erano tutte molto giovani e vistosamente attraenti. Abbiamo seguito per mesi ogni minima traccia, abbiamo verificato tutte le possibili informazioni, anche quelle in apparenza più irrilevanti. Niente. Poi però una delle vittime gli è sfuggita.» «Da quella casa?» «Sì. In un certo senso si potrebbe dire che quel dannato ha avuto sfortuna. La donna era un’atleta, una maratoneta. È riuscita a divincolarsi e a fuggire, e lui non ce l’ha fatta a raggiungerla. Si è rivolta a noi e ci ha condotti in quella casa.» «E lì avete...?» Janet deglutì. «... trovato i cadaveri di quattro donne, sì. Inoltre una quantità enorme di materiale pornografico, montagne di riviste di quel genere, però anche aggeggi acquistati nei sexy shop, per lo più per pratiche sadomaso.»
«Che orrore», mormorò Janet. «Povere donne!» «Ecco il suo conto, sir», annunciò la cameriera e depose il foglietto sul tavolo. «Una giornata quasi estiva, oggi, vero?» «Speriamo che l’estate mantenga la promessa di questa primavera », rispose Andrew e tirò fuori i soldi. Janet, che lo stava osservando attentamente, per la prima volta quel giorno notò che il pullover blu che Andrew indossava era stato fatto a mano. Si scorgevano alcune irregolarità di confezione che però, tutto sommato, avevano un che di commovente. Janet si domandò chi potesse averglielo fatto. La moglie? Lasciarono la trattoria e tornarono verso la macchina. L’oscurità stava calando rapidamente. Quando furono seduti in auto, Janet chiese: «E ha ucciso le donne in quella casa?» Andrew avviò il motore, gli occhi fissi, concentrati sulla strada, come per tentare di non farsi coinvolgere troppo da ciò che stava dicendo: «Le ha torturate a morte. Io ho visto i cadaveri, però ti prego di risparmiarmi i dettagli. Poi le ha interrate alla meglio sotto il pavimento di un vecchio fienile accanto alla casa...» «Lo avete sorpreso in quella casa? Gli avete teso un agguato?» Andrew fece un brusco cenno di diniego. «No, troppo furbo per cascarci. Lì non si è più fatto vedere. Ma sulla base delle indicazioni della vittima che gli era sfuggita è stato fatto un identikit che è stato pubblicato dai giornali e trasmesso dalle televisioni. Ci è arrivata una telefonata anonima, probabilmente da qualche vicino di casa di Fred Corvey... è il nome dell’assassino. Quando ci siamo presentati, abbiamo trovato Corvey completamente ubriaco. Ha subito confessato ogni cosa.» «Sul serio?» «Quella sua prima confessione non sarebbe mai stata accolta come prova perché, come ho detto, era ubriaco quando l’ha fatta. Lo abbiamo interrogato di nuovo quando è tornato sobrio. Naturalmente gli abbiamo elencato i suoi diritti, gli abbiamo spiegato che poteva rifiutarsi di parlare ma che tutto quello che avrebbe detto avrebbe potuto essere usato contro di lui. Ha dichiarato di aver capito e ha nuovamente confessato, dicendosi colpevole di tutti i reati che gli abbiamo contestato. Però poi non ha aggiunto una sola altra parola.» «Lo hai interrogato ancora?» Andrew fece un gesto di rammarico. «Non ho potuto. Gli interrogatori di polizia si fanno proprio all’inizio di un’indagine. Una volta arrestati, non tocca più a noi sentire gli indiziati.» «In ogni caso hai la sua confessione!» «Sì. E l’ho anche denunciato, ma solo in base a ciò che ha detto. Spero che non sia stato un errore. Perché oltre alla confessione non ho niente.» «Ci sarà un processo?» «Finora si è svolta soltanto l’udienza preliminare, a conclusione della quale il giudice ha deciso che ci sarebbe stato anche un regolare dibattimento. La confessione è ovviamente un elemento di prova importante. Tuttavia la procedura inglese è diversa da quella tedesca. All’inizio del pubblico dibattimento si chiede all’imputato di dichiararsi colpevole o innocente. Se si dichiara colpevole, si può in pratica arrivare subito alla sentenza, senza farla precedere dall’istruttoria dibattimentale. Il che significa che, se Corvey si atterrà alla sua dichiarazione, tutto filerà liscio.» «E tu temi che possa non confermare la...?» «Ho un brutto presentimento.» «Tuttavia ha pur confessato, no?» insistette Janet. «È stato anche avvertito che la confessione poteva essere usata come prova contro di lui. E tu hai appena detto che si tratta di una prova importante. Non potrà dire semplicemente: ah ah, ho scherzato!» «No, non potrà cavarsela così. Secondo me. Ma ne ho già viste tante nei tribunali che... Forse sono solo troppo pessimista.» «C’è pur sempre quella donna che gli è sfuggita.»
«Temo che abbia paura del giorno in cui, prima o poi, lo rilasceranno. Certo è che, durante il confronto, ha fatto marcia indietro. Ha detto di non poterlo identificare con certezza.» «Ci saranno le sue impronte digitali in quella casa !» «No. Questo Corvey è maledettamente furbo. Ha sempre indossato i guanti. Le sole impronte digitali che abbiamo trovato sono alquelle delle vittime. C’erano orme nella polvere, le cui dimensioni corrispondevano al numero delle scarpe che porta Corvey, però non siamo riusciti a trovare da nessuna parte le scarpe dalla sagoma corrispondente alle impronte. Ovviamente ha avuto tutto il tempo per sbarazzarsene. È scomparso anche il suo furgoncino.» «Un furgoncino?» «Sì, vecchissimo. Lo ha fatto demolire il giorno prima dell’arresto. » «Mi pare che si possa parlare di una condotta ben più che sospetta! » «Certo. Io sono sicuro che è stato lui. Però l’avvocato difensore confuterà tutte le circostanze che l’accusa potrà addurre. Non è mica vietato far demolire una macchina.» «Dallo sfasciacarrozze devono aver lavorato proprio alla svelta.» «Suppongo che abbia pagato qualcuno. Ma quelli non hanno il coraggio di ammetterlo. A sentir loro è per puro caso che il veicolo di Corvey sia stato fatto a pezzi prima di altri.» «Mi sembra impossibile!» «A Basildon Corvey ha una vecchia zia che andava spesso a trovare. È abbastanza logico ritenere che, girando per quei paraggi, abbia scoperto la vecchia casa. Però una zia a Basildon non è un elemento di prova.» «Vi rimane l’identikit», l’incalzò Janet. «Varrà pure qualcosa!» «Poco. Non gli assomiglia nemmeno tanto. Sono sicuro che l’anonimo che ci ha telefonato avesse motivi suoi per ritenere che l’assassino fosse Corvey, ed è per questo che ritengo anche che sia un suo vicino. Evidentemente ha notato qualcosa di sospetto. Continuiamo a tentare di rintracciarlo. Però è come andare a sbattere contro un muro. Hanno tutti paura, e non mi meraviglia. Se Corvey ha fatto tutto quello che gli si contesta, allora non è un essere umano, ma un mostro.» «Avete trovato tracce di sperma?» «No. Quelle donne non sono state violentate. Riteniamo che l’assassino sia ricorso a pratiche di autoerotismo mentre le torturava, però è stato molto attento. Non abbiamo trovato tracce di sperma sul pavimento, sulle pareti, da nessuna parte.» Per un po’ rimasero in silenzio entrambi, poi Janet domandò improvvisamente e con impeto: «Ma perché gli uomini fanno certe cose alle donne?!» Sorpreso dalla violenza del tono, Andrew si voltò verso di lei. Nel frattempo si era fatto buio fitto, ma riuscì ugualmente a vedere che era pallida e tesa. «Che cosa vuoi dire?» «Perché ricavano piacere dal torturare le donne? Dall’umiliarle? Dall’ucciderle perfino nei casi estremi?» «Non lo so.» Stava di nuovo guardando la strada. «Non riesco a capacitarmene. Io non provo di sicuro quell’esigenza.» «Fatte alcune minime, quasi irrilevanti eccezioni, le donne non commettono quel genere di delitti. Sì, lo so, ci sono donne che uccidono uomini, ma allora la vittima è un ben determinato individuo e c’è un movente concreto: gelosia, avidità, paura di vedersi sottratti i figli... qualcosa di simile, insomma. Ma quante volte ti è capitato di imbatterti in donne che, per soddisfarsi sessualmente, sequestrano uomini a casaccio per poi andarli letteralmente a macellare in un qualche nascondiglio?» «Non mi sono mai trovato alle prese con un caso del genere. Però ho anche avuto a che fare con assassine che non hanno avuto molti riguardi per le loro vittime. Comunque hai ragione: i moventi, per spregevoli che fossero, avevano sempre una base concreta, entro certi limiti comprensibile.» «Quel... quel Fred Corvey... deve provare un odio profondo per le donne.» «L’odio per le donne, la misoginia, è... diciamo solo un secondo gradino, una seconda
componente. La psicologia parla in questi casi, in primo luogo, della profonda paura che l’omicida ha delle donne. È la paura il più delle volte la causa per cui un uomo riesce a eccitarsi sessualmente solo se la donna è in una posizione di inferiorità e lui può... diciamo usarla a sua discrezione.» Janet teneva gli occhi fissi sull’oscurità che scorreva oltre il parabrezza, e vedeva le ombre nere di cespugli e di alberi che sembravano passarle accanto a grande velocità. Rabbrividì. «Puoi accendere il riscaldamento?» domandò. Andrew azionò qualcosa sul cruscotto. «Temo di averti agitata», disse. «Non avrei dovuto raccontarti queste cose.» «Mi interessano. Perché un uomo diventa così? Così come quel Corvey, voglio dire? Perché, secondo te?» Lì per lì Andrew rispose con un’alzata di spalle, poi disse: «Non lo so. Non sono uno psicologo. Però credo che la causa iniziale, la causa scatenante per così dire, vada cercata nella prima infanzia». «Sì, sì, lo so, la colpa è sempre delle madri», disse Janet. La sua voce suonò improvvisamente stridula. «Lo dicono ogni volta in questi casi. Quando si ha a che fare con uomini completamente deviati, perversi, ecco che spuntano immancabilmente le madri e i loro errori !» Andrew le lanciò di nuovo una rapida occhiata. Era il tono della voce che lo sconcertava. «Santo cielo, Janet, ma perché ti agiti tanto ? E poi semplifichi troppo le cose. Perché dovrebbe essere sempre colpa delle madri? Ci sono anche i padri, gli insegnanti... o chissà che cos’altro ancora. Non si possono pronunciare giudizi così sommari.» «Hai ragione», ammise Janet, piano. Appoggiò la fronte contro il vetro freddo del finestrino. Non parlarono più fino a quando giunsero a Londra. Andrew non si diresse subito verso l’albergo, ma fermò la macchina davanti a casa sua. Spense motore e fari. «Non mi va di restare solo», disse, cauto. «Avresti voglia di bere ancora qualcosa su da me?» Janet esitò. «Andrew...» Sapeva che cosa sarebbe inevitabilmente accaduto se fosse salita da lui, e lo sapeva esattamente anche perché in quell’attimo non c’era altro che avrebbe altrettanto desiderato. O quasi. Un estremo brandello di lealtà nei confronti di Phillip la trattenne. Andrew le prese una mano. «Janet, immagino che non ci sia bisogno che te lo dica: mi piacerebbe fare l’amore con te. Ma tocca a te decidere. Non cambierà niente fra di noi se ci limiteremo a bere qualcosa, e poi ti riaccompagnerò in albergo. Okay?» «Okay», disse Janet e aprì lo sportello. Quel minuto di esitazione le sembrò sufficiente a titolo di salvaguardia del rispetto per suo marito. Ma per il resto della notte avrebbe dimenticato Phillip.
Domenica 4 giugno 1995 «L’idea di lasciare che Tina se ne vada così da sola per il mondo non mi garba affatto», disse Dana. Era seduta al tavolo della cucina nell’appartamento della madre e si ritoccava lo smalto sulle unghie delle mani. Karen Graph, la madre, era distesa supina, in un angolo della cucina, su un peloso tappeto di pelle di pecora. Teneva le braccia larghe e una gamba sollevata verticalmente. Accanto a lei, fissato sulla parete, c’era un foglio su cui erano disegnate le posizioni degli esercizi da fare per rassodare i tessuti e rafforzare la muscolatura. Karen era sempre in una fase in cui seguiva con fanatica determinazione qualche progetto. In quel periodo si dedicava con trasporto a un programma di ginnastica. A Dana era piaciuta di più la fase precedente: per alcune settimane la madre si era fissata nel voler diventare una cuoca raffinata, si era munita di ricettari e aveva portato in casa montagne di alimenti e ingredienti. Alcune cose le erano riuscite decisamente male, però era anche stata capace di ammannire alla figlia un paio di piatti veramente eccellenti. Coerente con le sue ormai inveterate abitudini, aveva smesso di occuparsi della culinaria da un giorno all’altro per gettarsi a capofitto nella fissazione successiva. Ora, durante i pasti, la ditta materna passava solo frutta secca e verdure crude, ma Dana assecondava la madre anche in questo. L’importante era che Karen investisse le sue energie in qualcosa, in qualunque cosa, perché negli intervalli tra qualcosa e l’altro soffriva di depressioni e, questo il risvolto peggiore, beveva troppo. «Dovresti essere contenta che intraprenda finalmente qualcosa di testa sua», disse Karen, rispondendo all’osservazione di Dana. La sua voce suonava un po’ forzata perché era da un bel po’ che teneva la gamba tesa in aria. «Non può mica starsene sempre attaccata ai pantaloni di papà per farsi proteggere da lui!» «No. Ed è per questo appunto che io, inizialmente, l’ho incoraggiata a fare questo viaggio. Per essere precisi è stata perfino una mia idea.» Dana allargò le dita e le sventolò per far asciugare lo smalto. «Però adesso, quando ci penso, ho un brutto presentimento.» «Quando hanno intenzione di partire quei due?» «Domattina presto.» «Piacerebbe anche a me fare un bel viaggio in Provenza», dichiarò Karen con un sospiro. «Tenta di farti affidare da un giornale l’incarico di un reportage sulla Francia», propose Dana. «O meglio: sulla Costa Azzurra. Un po’ di soldi, pochi, maledetti, e subito, non ci farebbero male.» «Lo so.» Karen abbassò con un sospiro di sollievo la gamba sul tappeto e rimase ferma per un momento prima di sollevare l’altra e protenderla per aria. «Ma sul momento il mercato ristagna. Nessuno che abbia del lavoro per me.» «Forse sarebbe il caso che tu ti presentassi con un aspetto un po’ più serio», propose Dana, prudente. Era convinta che Karen fosse a volte eccessivamente stravagante, anche nel vestire. Ogni direttore di giornale, lì per lì, nel vederla, non poteva non sobbalzare sulla sedia e ritrarsi di scatto. Secondo Dana era decisamente idiota giudicare il prossimo dall’aspetto esteriore, però sapeva anche che, in un modo o nell’altro, di fatto, tutti lo facevano, e che per avere successo bisognava quindi adattarsi al gusto dominante. Karen, con quei ciuffetti cortissimi color carota in testa, con la sua predilezione per i fuseaux dai colori vivaci e gli orecchini spropositati, non sarebbe mai riuscita a ottenere gli incarichi che desiderava e che pure sarebbe stata sicuramente capace di svolgere ottimamente. Tuttavia dirglielo in faccia avrebbe richiesto una estrema dose di abilità diplomatica, e Dana preferì aspettare un momento più opportuno per parlare. «Ma sì, prima o poi mi ridaranno qualcosa da scrivere», dichiarò Karen, allegra. Abbassò la gamba, si mise seduta e guardò la figlia. «Non fare quella faccia! È per via di Tina? Sei una lagna, sai?
Peggio di suo padre!» «Quel Mario non mi piace», disse Dana, pensierosa. «C’è un qualcosa in lui che proprio non mi va!» Karen si alzò, prese una mela da un cesto di frutta appoggiato accanto alla finestra e si sedette a sua volta al tavolo di cucina. A causa dello sforzo aveva un velo di sudore sulla fronte. «Sei gelosa, tesoruccio», osservò. «Non importa quanto tu abbia insistito con Tina perché imparasse a camminare da sola e acchiappasse un maschio... in realtà ti eri troppo abituata a essere sempre la sola persona con cui si confidava e ad averla quindi tutta solamente per te.» «Fesserie. L’hai detto tu: io l’ho sempre incoraggiata perché, finalmente... » «Lo so», l’interruppe Karen, «però non sapevi, appunto, quanto ti sarebbe scocciato se l’avesse fatto davvero. Adesso guardati dal dissuaderla. È ora che Tina non sia più condizionata, né da suo padre né da te !» «Forse hai ragione», borbottò Dana e pensò se non potesse essere proprio la gelosia a offuscare la sua obiettività nel giudicare Mario. Sì, le sembrò che ci fosse del vero in quello che sua madre aveva detto. Eppure... non riusciva a liberarsi di quella brutta sensazione. Giustificata o no che fosse, l’angustiava, la rendeva inquieta e nervosa. Nelle settimane successive lo sforzo di pensare ad altro le sarebbe costato parecchie energie.
«E Janet non ha più dato alcun segno di vita, dici?» chiese Maximilian, incredulo. Era seduto al sole sulla sabbia bianca e fine, e lasciava che le onde ancora fredde del Baltico gli accarezzassero i piedi nudi. Nulla turbava il silenzio pomeridiano nella piccola baia, a parte le grida di un paio di gabbiani che solcavano velocissimi l’azzurro del cielo sereno. Si sentivano anche, in lontananza, il rombo di un aereo e, più vicino, il ronzio delle api. Mario era seduto su un sasso. Indossava jeans e maglietta come il fratello ma, diversamente da lui, aveva calze e scarpe ai piedi. Era pallido e sembrava nervoso. «No, nessun segno di vita», confermò. «È come se fosse stata inghiottita dalla terra.» «Perché papà non vuole avvisare la polizia? Dopo tutto potrebbe esserle successo qualcosa.» Mario lasciò scorrere lo sguardo sull’acqua. Come sempre quando era al mare, era colto da una sensazione di pace e di calma. L’agitazione interiore che minacciava tanto spesso di sopraffarlo era attenuata dal mormorio delle onde e dall’odore di sale e alghe. «Papà non crede che le possa essere successo qualcosa», disse. Maximilian lo guardò sorpreso: «Come fa a essere così sicuro?» «Non ne abbiamo discusso. In ogni caso sembra sicuro. E io so a che cosa pensa.» «Ma come fai a...» Maximilian si interruppe e fece un profondo respiro. «Pensa a... Andrew Davies?» «Lo penso anch’io.» «Dopo tutti questi anni... ma ti pare davvero possibile?» «Quello che c’è fra quei due non è mai veramente finito. Non nelle loro teste. Janet ha continuato a struggersi per lui.» «E allora perché non è rimasta con lui!» sbottò Maximilian. Prese una manciata di sabbia e la scaraventò nell’acqua con un gesto di stizza. «Sarebbe stato duro per papà, ma almeno leale nei suoi confronti.» «Forse non lo ha fatto per noi. Oppure per proteggersi.» «Proteggersi? E da che cosa?» «Da Davies. Forse sapeva che le avrebbe fatto molto male se fosse rimasta con lui.» «Aveva motivi per pensarla così?» «Lui è un tipo... irrequieto. Imprevedibile...»
Maximilian guardò il fratello con espressione pensosa. «Lo ricordi così bene? Noi avevamo soltanto sei anni quando si sono lasciati. » «Ho visto sue fotografie anche in seguito», disse Mario. «Nella scrivania di Janet.» Maximilian rise. «Sei andato a curiosare fra le sue cose?» «Sì.» «Capisco. E hai trovato dell’altro? Lettere?» «Niente. Solo quelle due foto.» Maximilian annuì lentamente. D’un tratto chiese: «E tu parti domattina per Duverelle?» «Penso di mettermi in viaggio verso le sette.» «Mi piacerebbe sapere che cosa ci vai a fare così da solo», disse Maximilian. «Sarà una noia.» Mario si alzò, si infilò gli occhiali da sole e si passò una mano sui capelli scuri. «Forse è proprio questo che sto cercando: un po’ di solitudine», disse. Quant’è bello, pensò Maximilian. Gli accadeva spesso, come in quel momento, di dimenticare per qualche secondo, quando diventava subito consapevole dell’avvenenza fisica di Mario, di essere il suo gemello identico. Riusciva a vederlo con gli occhi ammirati di un estraneo, a perdersi nella regolarità di quei tratti del volto, nelle linee snelle e forti della sua figura. Erano rare, singolari sensazioni di distacco. Erano troppo uniti, profondamente fusi l’uno con l’altro, per consentire l’uscita da quell’unica anima e l’assunzione della veste dell’osservatore. Avevano parlato spesso della loro esistenza in quanto gemelli, di quella fatale comunanza che si sarebbe protratta per tutta la loro vita. La sentivano entrambi con la stessa intensità. Erano una persona sola. Mario e Maximilian, Maximilian e Mario. I nomi che avevano loro attribuito erano frutto del caso: avrebbero potuto benissimo invertirli quando erano nati. Anche i loro corpi erano in una certa misura frutto del caso: il corpo dell’uno si sarebbe potuto benissimo adattare a quello dell’altro. Quell’essere al mondo con due identità appariva loro una bizzarria, un capriccio della natura la quale si era divertita a corredare un’anima sola di due corpi, un segno della sprovveduta incomprensione da parte di genitori che avevano dato loro due nomi, anziché uno solo. Anche adesso che Maximilian riusciva per pochi istanti a guardare il fratello dall’inconsueta prospettiva di un estraneo, sapeva che si trattava di una sensazione che si sarebbe subito dissolta. Lo stava ancora pensando che – ecco! – Mario e lui tornavano a fondersi: e quella che stava guardando era la sua immagine riflessa, la sua bellezza quella che ammirava. Si alzò a sua volta e prese calze e scarpe. La sabbia gli aderiva ai piedi bagnati. «Torniamo in clinica», disse. «Ti rimane parecchia strada da fare per raggiungere Amburgo. E domani dovrai alzarti presto.» «Hai ragione», convenne Mario. Pestando nella sabbia, tornarono l’uno accanto all’altro verso la macchina di Mario. Il sole stava già calando verso la linea scura che un bosco d’abeti tracciava lungo l’orizzonte. Improvvisamente Maximilian si fermò e, come seguendo un’ispirazione, disse: «Tu mi stai nascondendo qualcosa, eh? È... non so, ma in qualche maniera lo sento...» Anche Mario si era fermato. Non rispose alla domanda del fratello. Gli occhiali da sole gli nascondevano gli occhi e così Maximilian non poté scorgevi la reazione alla sua affermazione.
«Davies», disse Phillip, «sì, Andrew Davies. A Londra. Come?» Ascoltò quello che gli stava dicendo l’interlocutore al telefono. «No, non conosco la strada. Però è a Chelsea. Sempre che abiti ancora lì.» In tutti quegli anni aveva trovato una sola lettera indirizzata da Davies a Janet: nella scrivania di lei, nella quale era andato meschinamente a frugare. Un’unica lettera, breve, limitata ai fatti. Davies le comunicava che lavorava ormai da anni per Scotland Yard e che si era trasferito a Londra. Nessun
giuramento d’amore, nessuna nostalgica evocazione. Phillip era ora tornato a cercare quella lettera per trarne l’indirizzo di Andrew, ma non l’aveva trovata. Poteva significare che Janet l’aveva con sé: e a che scopo, semmai, se non perché aveva lei stessa bisogno di quell’indirizzo? Era improvvisamente avvampato e aveva tentato di rammentare almeno il nome della strada. Non lo ricordava più, però gli era parso di aver letto quell’accenno a Chelsea. «Sì... sì, grazie, ora prendo nota...» Incastrò il ricevitore fra l’orecchio e la spalla e, reggendo con una mano il piccolo taccuino, scarabocchiò con l’altra il numero che gli stava dettando un operatore del servizio informazioni per l’estero. Poi riagganciò, fissò il foglietto e pensò se lo voleva veramente sapere... Staccò di nuovo il ricevitore, digitò il prefisso dell’Inghilterra, poi il numero di Andrew Davies. Mentre aspettava di sentire il segnale che l’avrebbe avvertito dello squillo all’altro capo della linea, si accorse che gli tremavano le mani e che gli si stavano formando goccioline di sudore sulla fronte. «È tutto a posto», si mormorò per calmarsi. Ecco, qualcuno a Londra aveva sollevato il ricevitore. «Hallo?» domandò una voce femminile. Era Janet. Phillip lasciò cadere il ricevitore come se gli avesse scottato le dita. Fissò l’apparecchio. L’aveva immaginato, ovviamente: in fondo non era affatto sorpreso. Eppure, nel sentire la voce di Janet, gli sembrava di essere stato colpito da una scossa elettrica. Quella voce familiare che rispondeva con la massima naturalezza dal telefono di un altro. Che vivesse in casa sua? Phillip raggiunse il soggiorno a passi lenti e pesanti, prese un bicchiere dalla credenza e si versò un cognac. Si era disintossicato dalla gelosia con tanta forza di volontà, l’aveva rimossa così bene nelle profondità dell’animo che la violenza con la quale ora l’assaliva lo sconvolse. Ma perché gli faceva ancora tanto male dopo tutti quegli anni? Si era da tempo rassegnato, o quanto meno aveva creduto di essersi rassegnato, al dato di fatto che i sentimenti di Janet per lui fossero di natura meramente amichevole. Gli voleva bene, lo considerava un compagno affidabile con il quale era più facile affrontare i piccoli ostacoli della vita d’ogni giorno che non da sola. Phillip, il padre dei suoi figli e, ogni tanto, una spalla alla quale appoggiarsi. In fondo era proprio un ruolo di merda quello che gli aveva attribuito. D’altra parte, pensò Phillip mentre beveva a piccoli sorsi il cognac e guardava intanto fuori dalla finestra la serata estiva, che cosa ho fatto per cambiare la mia situazione? Niente. Assolutamente niente. Mi sono adattato maledettamente bene alle cose così com’erano. Janet aveva diciotto anni quando l’aveva conosciuta. Era venuta a Monaco di Baviera, dall’Inghilterra, come ragazza alla pari. Per imparare la lingua, aveva detto. In realtà, come era emerso in seguito, il suo era stato un disperato tentativo di dimenticare Andrew Davies. Phillip era apparso, in questo senso, il soccorritore idoneo. Era ancora studente universitario, conduceva vita da scapolo, era gradevole d’aspetto e aveva tanti amici. Aveva portato Janet con sé dappertutto, si era preoccupato perché non si isolasse a rodersi l’animo e il cervello. Erano andati assieme ai party, al cinema e a teatro, avevano fatto escursioni in montagna e passato un’estate meravigliosa in casa di conoscenti nella Francia meridionale. Per tre quarti d’anno la loro relazione era rimasta puramente platonica benché Phillip si fosse nel frattempo perdutamente innamorato di lei. Quando era diventata finalmente la sua amante, si era accorto di quanta rassegnazione c’era da parte sua, e di quanta poca passione. Si era adattato, sperando nell’azione del tempo, e aveva aspettato un qualcosa che non si era poi mai verificato. In fondo lo sperava perfino adesso che aveva appena sentito il suo «Hallo!» dall’apparecchio di Davies. Avrebbe aspettato e sperato fin nella tomba. Rendendosi ridicolo. Sono proprio un perdente, si disse: ognuno può perdere, ma un autentico perdente è quello che non reagisce, che non si ribella neppure alla sconfitta. Che l’accetta come se facesse indissolubilmente parte di lui.
E probabilmente lo era. La sconfitta era una sorte assegnata al perdente fin dalla nascita, e lui lo sapeva. Per questo l’accettava e si adeguava al relativo ruolo. Rimase a lungo accanto alla finestra senza accorgersi che ormai, fuori, era notte: una calda, limpida notte di giugno, con le lucciole che danzavano sul prato. Solo quando sentì chiudersi la porta di casa sussultò e tornò alla realtà dai pensieri in cui era sprofondato. Mario entrò nella stanza. «Sei ancora sveglio?» chiese, stupito. «E perché te ne stai qui al buio?» Phillip si voltò. «Stavo pensando. Sei stato a trovare Maximilian? » «Sì, però mi sono concesso anche un giro in macchina, qui nei dintorni. È una notte bellissima.» «Non ci ho fatto molto caso», ammise Phillip. Irresoluto, girava il bicchiere vuoto fra le mani. «Hai già preparato i bagagli? Mi pare di aver capito che volete partire piuttosto presto domani.» «No. Li preparo adesso.» Non ha nessuna voglia di partire, pensò Phillip. Sapeva che avrebbe dovuto preoccuparsene, ma aveva troppi pensieri suoi ed era troppo stanco a causa dei problemi che lo assillavano. «Vado a dormire», disse, «ma tu svegliami, per favore, anche se dovesse essere molto presto quando partirai.» Stava per lasciare la stanza, ma Mario lo trattenne per un braccio. «Hai notizie di Janet?» «No», disse Phillip e uscì.
«Posso parlarle un attimo, professore?» chiese Maximilian. Aveva intercettato Echinger in corridoio, davanti al suo studio. Nella clinica c’era un gran silenzio perché quasi tutti dormivano già o si erano comunque ritirati nelle loro stanze. Echinger aveva fatto una lunga, tarda passeggiata serale e si era proposto di sedersi ancora un paio d’ore alla scrivania. Se la cavava con una quantità incredibilmente minima di sonno e suscitava in ogni collaboratore sensi di colpa perché in sua presenza ci si sentiva inevitabilmente degli irrecuperabili fannulloni. «Signor Beerbaum !» esclamò il professore, sorpreso. «Non è ancora a letto? Ho notato la sua assenza a cena, altrimenti le avrei comunicato subito una buona notizia.» Aprì la porta dello studio. «Si accomodi pure.» Maximilian entrò. Echinger andò a sedersi alla scrivania e scavò in un mucchio di carte. «Eccola!» Ne tirò fuori un doppio foglio. «È la conferma ufficiale da parte del tribunale di Flensburg. Il primo agosto di quest’anno cesserà il suo ricovero nella nostra clinica. » «Oh», si limitò a commentare Mario. Non sapeva dove mettere le mani, le infilò in tasca ma poi le estrasse subito di nuovo perché si sentiva uno scolaretto. «Si sieda, si sieda!» lo invitò Echinger. Maximilian si accomodò sulla sedia di fronte alla scrivania. Da quel punto della stanza, pensò, la prospettiva dell’ambiente risultava molto diversa, in un certo senso strana e singolare: e si sentì subito diverso anche nel suo rapporto con il professore. Durante le ore della terapia si erano sempre seduti in poltrona all’altro capo della stanza, anche se pure lì uno di fronte all’altro. L’imponente scrivania che adesso era con tutta la sua massa intimidatoria fra di loro lo fece sentire più piccolo. E sottomesso. «Non è contento?» chiese Echinger. «Voglio dire: lo sapevamo già, ma ora è per così dire una decisione irrevocabile.» «Ma certo. Certo che sono contento.» «Però ha anche un po’ di apprensione, vero? Ci sono novità sul fronte di suo padre?» «La Scozia posso dimenticarmela. Mia madre non si è fatta vedere e quelli non sono disposti a darle una seconda opportunità. Mio padre ha ovviamente parlato finché ha avuto fiato in corpo, ma non c’è stato niente da fare. Il posto è stato assegnato a un altro.»
«Ah. E questo le è di sollievo?» Maximilian alzò le spalle. «In un certo senso sì. Però continuo a non sapere che cosa ne sarà di me. Considerato il mio passato, non è che abbia chissà quali carte da giocare.» Echinger si chinò in avanti e guardò attentamente Maximilian. «Ne abbiamo già parlato tante di quelle volte...! Lei tende a vedere sempre tutto nero, a interpretare ogni cosa a suo sfavore. È del tutto normale nella sua situazione. È vissuto per sei anni dietro le spesse mura di una clinica, ed è naturale quindi che abbia paura di tornare nella vita. Però non chiuda gli occhi davanti alle cose che possono sicuramente darle speranza.» «Signor professore...» cominciò Maximilian, ma Echinger lo interruppe. «Non gliel’ho mai detto così direttamente, signor Beerbaum, ma lei è il paziente più intelligente che io abbia mai avuto. Lo ammetto, con tutto quello che ha alle spalle lei si deve tirar dietro una pesante ipoteca. Ma non è tutto. Il suo capitale è l’intelligenza, e quella non gliela potrà togliere nessuno.» «Ma è possibile che nessuno se ne accorga.» «Io sono dell’idea che ciò che è forte s’impone», disse Echinger, «ma non deve rendersi il processo troppo difficile opponendosi a se stesso, nel ring della vita, come il suo più accanito avversario. Non faccia di sé un complice di quelli che la avversano.» Ha un modo convincente di dire le cose, pensò Maximilian: le sue esortazioni sono vigorose e infondono coraggio. Poi, inaspettatamente, disse: «Mia madre è scomparsa». Echinger aggrottò la fronte: «Scomparsa?» «Non è tornata dall’Inghilterra. Né ha telefonato o altro.» «È possibile che le sia successo qualcosa? Suo padre ha fatto delle ricerche?» «No. Mio padre è convinto che non le sia successo niente. Lui e mio fratello sono sicuri che sia da Andrew Davies.» Dopo sei anni di terapia il professor Echinger conosceva ogni particolare della vita della famiglia Beerbaum. E quindi capì subito di chi si trattava. «Andrew Davies. È l’uomo che...» «Sì, è lui. Ed è molto probabile che Janet sia da lui. Ne è sempre stata... molto attratta. Può darsi che quando ha rimesso piede in Inghilterra l’abbiano sopraffatta i sentimenti di un tempo.» Echinger ci pensò e poi formulò una delle sue domande ricorrenti: «Che cosa di preciso prova all’idea che sua madre sia ora in compagnia di Andrew Davies?» Maximilian fece un cenno di diniego. «No, professore, questa non è una delle ore di terapia. Stavolta preferisco non rispondere alla domanda.» «Nessuno glielo impone, ovviamente», disse Echinger pacato. «Ho pensato solo che, avendomi appena comunicato la notizia che...» Maximilian si alzò. «Ho solo voluto dirglielo. Non discuterne con lei.» «È tardi, eppure deve aver aspettato a lungo davanti alla mia stanza. Ne ho dedotto che ne volesse parlare.» «Ci ho ripensato», dichiarò Maximilian. Si diresse verso la porta ma si fermò con la mano già sulla maniglia. «Credo di non voler sapere che cosa provo all’idea di mia madre con Andrew Davies, capisce? » «Perfettamente», rispose Echinger. Si alzò a sua volta e fissò Maximilian in attesa di una sua reazione. Il giovane aprì la porta, fece per andarsene, ma poi si voltò ancora. «Che cosa le dà la certezza che io sia sano, professore?» «Come dice?» «Il potermene andare via da qui dipende in primo luogo dalla sua perizia.» «No, dipende almeno in uguale misura dai responsi dei periti esterni, indipendenti, che sono
stati designati dal tribunale.» «Okay. Ma il suo giudizio, dopo sei anni, ha molto peso. Che cosa le dà tanta sicurezza?» «È molto semplice: è lei che me la dà.» «Però si assume una bella responsabilità, non le pare? E se si sbagliasse?» Non aspettò la risposta ma uscì nel corridoio e si chiuse piano la porta alle spalle. Echinger scosse il capo e tornò a sedersi. Conosceva quel genere di giochini in cui amavano impegnarsi i suoi pazienti. Un terapeuta induce alla provocazione: era qualcosa che scaturiva quasi necessariamente dal rapporto medico-malato. Nulla di cui dovesse preoccuparsi o addirittura arrabbiarsi. Maximilian Beerbaum andava incluso fra i casi di maggior successo della sua carriera. Nei primi due anni le depressioni di cui aveva sofferto lo avevano reso quasi inaccostabile e s’era temuto che potesse suicidarsi, al punto che lo avevano dovuto tenere costantemente sorvegliato. Ma poi era migliorato e aveva cominciato ad aprirsi. Lentamente, a piccoli passi, Echinger aveva guadagnato la sua fiducia e la disponibilità a collaborare. Oggi avrebbe messo la mano sul fuoco a sostegno della sua tesi che Maximilian era sano... Ma lo avrebbe poi fatto davvero? Con un sospiro prese un libro e lo aprì. Però non riuscì a concentrarsi.
Lunedì 5 giugno 1995 Dopo dieci ore di macchina si ribellò. «Oh insomma, Mario, ho fame! E sono stanca da morire. Non credi che sia venuto il momento di pensare a dove mangiare e a dove passare la notte?» Avevano attraversato la frontiera fra la Germania e la Francia nei pressi di quella Mühlhausen che i francesi chiamano Mulhouse e stavano dirigendosi verso il Rodano passando per la Borgogna. Erano le sette di una sera d’estate calda e luminosa. Ad Amburgo, quella mattina, pioveva, però a mano a mano che si erano spostati verso meridione il cielo si era schiarito sempre di più. Ora solo un paio di nuvolette rosate veleggiavano lungo l’orizzonte. «Vuoi mangiare in una città qualsiasi?» domandò Mario con un tono dal quale era facile arguire che la prospettiva non gli andava proprio. «Ma a quest’ora troveremmo tutto pieno.» «Anche le autostrade sono affollate.» In effetti stavano avanzando con parecchia difficoltà. «Inoltre io pensavo che fosse ovvio che ci saremmo fermati, anche per guardarci un po’ in giro.» «Non me lo avevi detto però.» «Perché lo davo per scontato. Un paio di soste per ammirare non so neanch’io che cosa... Non sapevo dove, perché non si poteva prevedere quanta strada saremmo riusciti a fare oggi, tuttavia...» Mario sospirò. Tina si voltò verso di lui e ne osservò il bel profilo regolare. Anche così, di lato, poteva desumere dall’aspetto quanto fosse stanco. Però stringeva le labbra con una specie di tesa determinazione e improvvisamente Tina fu presa da un vago sospetto. «Non vorrai mica per caso arrivare oggi ancora in riva al Mediterraneo? » «E perché no?» «Ma ci mancano almeno cinquecento chilometri! Ci metteremmo tutta la notte!» «Però guadagneremmo un giorno da passare lì.» «Ma dai! Un giorno! E ti pare il caso di dannarci così per un giorno?!» «Sei tu quella che ha voluto assolutamente andare in Provenza», dichiarò Mario, offeso, «e invece adesso rinunceresti a un giorno come se niente fosse!» «Io dico solo che non è il caso di continuare a correre come pazzi. Ti ci vorrà una settimana, poi, per riprenderti da questo viaggio! » «Me la caverò facilmente assai prima», sostenne Mario, e poi aggiunse: «Ma se proprio ci tieni...» Il tono tradiva un malumore tale che Tina si affrettò a fare marcia indietro: «No, nessuno ci obbliga. Era solo una proposta.» Mario la guardò. Sorrise e l’espressione del volto tornò calda e distesa. «Ora andremo a mangiare da qualche parte. Ti dispiacerebbe se cercassimo una trattoria non troppo distante dall’autostrada? Odio girare in macchina per città che non conosco.» E così capitarono alla fine in un modesto posto di ristoro, ma Tina aveva nel frattempo accumulato tanta di quella fame che non le importò. Da quando avevano fatto colazione ciascuno a casa propria si erano fermati una sola volta, all’altezza di Francoforte, e anche lì vicino a una stazione di servizio dove avevano mangiato un paio di tramezzini secchi con formaggio che sapeva di plastica. Quel posto di ristoro aveva se non altro un aspetto accogliente. E c’era, stranamente, poca gente. Tina e Mario si sedettero a un tavolo d’angolo e ordinarono entrambi lo stesso piatto di pasta. Tina lo accompagnò con un bicchiere di vino, Mario, dovendo guidare, solo con acqua minerale. I profumi che venivano dalla cucina erano decisamente appetitosi, mentre fuori i nitidi contorni del giorno stavano sfumando fra i veli dolci e grigioazzurri della sera. Tina fu presa da una rilassante sonnolenza. Osservò Mario e pensò che era bello averlo conosciuto e poter ora fare quel viaggio
assieme a lui. Allungò una mano sul tavolo per sfiorare la sua. «Sono contenta di questa vacanza», disse piano. Mario le trattenne le dita. «Sono contento anch’io!» Anche lui ora sembrava meno teso. Aveva le mani piacevolmente fresche. La cameriera portò da bere. Tina staccò per un momento lo sguardo dal volto di Mario e scorse un uomo seduto dietro di lui, un po’ spostato di lato. Indossava un maglioncino marrone a collo alto troppo stretto, e aveva i capelli unti. Fissava Tina senza mai distogliere gli occhi scuri, così stretti e socchiusi da sembrare quelli di un asiatico. Tina abbassò gli occhi ma continuò a sentire lo sguardo di quell’estraneo su di sé. Non poté fare a meno di sbirciarlo un’altra volta. Non si era mosso di un millimetro e continuava a fissarla. Sembrava che facesse la posta a una preda. «Mario», bisbigliò Tina, «aspetta un momento e poi voltati, ma senza farti notare. Là dietro c’è un tizio che mi sbarra gli occhi addosso come se non avesse mai visto una donna!» Ovviamente Mario non aspettò né si curò di non farsi notare. Si girò subito e in un modo che l’altro non poté non accorgersene. Ma l’estraneo non ne fu minimamente impressionato. Non staccò lo sguardo da Tina neppure per un istante. «Vuoi che andiamo a sederci in un altro posto?» chiese Mario. Tina rifiutò con un cenno. «Ma no, non dire sciocchezze. Però sembra un po’ matto, non ti pare?» «Io posso capirlo.» Mario sorrise: «Sei molto carina, Tina.» L’arrivo dei piatti che avevano ordinato le risparmiò la risposta. La pasta, coperta d’un sugo pronto a base di formaggio appena appena scaldato, non sapeva di molto, però Tina mangiò come se fosse stata sul punto di svenire dalla fame. Quando ebbe finito, si appoggiò all’indietro, sazia e soddisfatta, e domandò: «Quando credi che arriveremo? Domattina?» «Nel corso della notte», rispose Mario. «Ora potrai farti una bella dormita in macchina e quando ti sveglierai saremo già lì.» «Okay.» Tina non obiettò. Non era abituata all’alcol ed era bastato quel solo bicchiere di vino per renderla mite e arrendevole. Non le importava più che Mario volesse guidare senza sosta fino a Nizza. Non capiva nemmeno più come mai quell’eventualità potesse averla irritata. L’uomo dall’aspetto strano aveva mangiato un’insalata e bevuto birra, poi aveva poggiato il denaro contato accanto al piatto e si era alzato. Continuava a osservare Tina, ma lei distolse lo sguardo. Dopo che Mario ebbe pagato, Tina decise di andare alla toilette. Mario, intanto, sarebbe uscito a fare benzina. Per raggiungere la toilette per le signore, Tina scese due rampe di scale e percorse un lungo corridoio buio nel quale i suoi passi echeggiarono. Era in un sotterraneo rispetto al ristorante, ma a causa della pendenza del terreno le numerose e basse finestre, rivolte verso l’altro lato dell’edificio, erano appena al di sopra del livello del suolo. Non c’era nessuno. Perse un po’ di tempo davanti al lavabo, si pettinò con comodo e si passò sulle labbra il rossetto rosso scuro. Era stata Dana a convincerla a comprarlo. «Al tuo Mario devi lanciare segnali precisi», aveva detto, «con quella bocca rosa pallida che hai sempre non lo smuoverai mai!» L’effetto non era male, constatò Tina. Con le labbra più scure sembrava decisamente più matura e un po’ provocante. A suo padre non sarebbe piaciuta, ma era curiosa di osservare la reazione di Mario. Guardò in tutti i gabinetti finché trovò quello che le sembrò il più pulito. Sentì il rumore dei passi striscianti quando stava ancora cercando un posto su cui appoggiare o appendere la borsetta. Non capì subito da dove venivano. Poi però si rese conto che c’era qualcuno fuori dalle finestre, a cercare, a spiare, e che si fermava all’altezza d’ogni vetro. I passi si avvicinarono. Tina guardava
nella direzione da cui proveniva quel fruscio con gli occhi sbarrati e la bocca improvvisamente asciutta. D’un tratto, in corrispondenza di una delle finestre, apparve un’ombra. Di più non riuscì a vedere a causa dei vetri smerigliati, né quell’estraneo poteva vedere lei. Ma fu sicura che l’avesse localizzata. L’ombra si accucciò. Attraverso una fessura, proprio in corrispondenza del margine superiore scostato della finestra, Tina colse un ansito represso. Improvvisamente riuscì di nuovo a muoversi. Con dita tremanti cercò di sollevare il paletto che chiudeva la porta. Ma non si spostava, sembrava incastrato, oppure il nervosismo che l’aveva colta le faceva sbagliare qualcosa. Scosse la porta furiosamente, d’un tratto completamente in preda al panico. «Mario!» La voce le uscì stridula di gola. «Dove sei?» L’ombra addossata alla finestra si allontanò in fretta. Tina si impose di respirare lentamente e a fondo. Era insensato mettersi a gridare e a scuotere la porta come una matta. Tentò nuovamente di ruotare il paletto e stavolta la porta si aprì senza problemi. Si precipitò verso i lavandini e rischiò di sbattere contro una donna appena entrata che guardò stupita la ragazza la quale, sconvolta, le passò accanto precipitosamente. Fece i gradini a due alla volta, risalì di corsa le scale, poi si impose di rallentare e attraversò il ristorante più lentamente, finché fu fuori. Localizzò Mario non molto distante da lei, accanto alla colonnina del distributore di benzina, mentre stava rifornendo di carburante la macchina. «Mario, grazie a Dio, sei qui!» Gli si aggrappò a un braccio, agitata. Mario la guardò meravigliato. «E dove credevi che fossi?» Le scostò una ciocca di capelli dalla faccia. «Hai temuto che potessi proseguire senza di te?» «C’era un uomo alla finestra! Cercava di guardare dentro!» «Quale finestra?» «Una di quelle della toilette. Ansimava e cercava di guardare dentro!» «Vuoi che vada a vedere? Forse si aggira ancora da quelle parti.» «No. Se ne sarà certo andato. Ho urlato con tutto il fiato che avevo in corpo e così l’ho spaventato.» Di colpo Tina si sentì un po’ sciocca. Giù, nel sotterraneo, era stata presa dal terrore, ma là fuori c’era gente che andava e veniva, alcune persone erano accanto alle colonnine del distributore e riempivano i serbatoi delle loro auto, c’erano bambini che giocavano e due cani che si abbaiavano furiosamente. Dai prati veniva il frinire delle cicale. Perché si era agitata tanto? Per un guardone, uno che probabilmente si appostava sempre fuori dalle finestre dei gabinetti delle stazioni di servizio e spaventava le donne, pur essendo per il resto innocuo? «Forse era quell’individuo che ti fissava dentro il ristorante», ipotizzò Mario. Si guardò in giro. «Qui non lo vedo.» «Ah, lascia perdere. Non m’importa chi fosse. Mi sono spaventata, tutto qui. Rimettiamoci in viaggio.» Mario pagò, salirono in macchina e lentamente entrarono in autostrada. Tina stava decidendo di dimenticare lo sgradevole episodio quando Mario, all’improvviso, disse: «Ovviamente anche tu provochi un poco certe situazioni». Tina lo guardò. «Come, prego?» Mario non distolse gli occhi dalla strada. «Non ti avevo mai vista con una gonna tanto corta come quella di oggi.» Tina era sbalordita. «Scusa, sai! Ma siamo d’estate! Stiamo andando in vacanza! Che cosa c’è che non va in una corta gonna di jeans?» Finalmente lui la guardò e sorrise. «Ehi, piccola, non ti agitare tanto. Ho solo detto che...» «Hai detto che sono io a provocare certe situazioni. Hai cercato di addossare la colpa a me!» «E chi ha parlato di colpa? Però ci sono uomini per i quali una gonna corta è un invito. Questo volevo spiegarti.»
«Hai parlato di provocazione», insistette Tina, «e questo significa che dai a me almeno una parte della colpa.» Mario alzò gli occhi al cielo. «Ma chi l’ha mai detto?!... Va bene, d’accordo, forse mi sono espresso male.» «Puoi ben dirlo», commentò Tina, di malumore. Mario si zittì. Ma dopo un poco chiese: «Che cosa hai fatto alla tua bocca?» «Alla mia bocca?» Aveva completamente dimenticato il rossetto e non capì subito a che cosa Mario potesse alludere. Si toccò le labbra, incerta. «C’è su qualcosa?» La risposta di Mario venne accompagnata da un blando sorriso: «Il tuo rossetto è d’una tonalità un po’ troppo vistosa». «Oh... non ti piace?» «Mi sembra più bello quello che usi di solito. Ma forse sarebbe meglio se tu rinunciassi del tutto al trucco. Il tuo viso non ne ha bisogno. » «Ho voluto darmi un aspetto più adulto», spiegò Tina, esitante. Abbassò lo schermo antiabbagliante e si esaminò allo specchietto. In effetti la bocca era un po’ troppo vistosa. Tipico di Dana, suggerirle quel colore. Tirò fuori rapidamente un fazzoletto di carta e si pulì con energia. «Va meglio così?» domandò. Mario sollevò una mano e gliela passò brevemente e con molta tenerezza sulla guancia: «Sei bellissima, Tina. Hai il volto di un angelo». Il sorriso di Tina fu un po’ forzato. Guardava il panorama scorrere fuori dal finestrino: il paesaggio ondulato e boscoso della Borgogna, uno splendido tramonto. Si domandò come mai quel complimento non la lusingava. Dopo tutto Mario si era limitato a dire che gli piaceva di più senza trucco e l’aveva paragonata a un angelo. Perché si sentiva d’un tratto così a disagio? Come se avesse commesso un grave errore o si fosse comportata in un modo del tutto sconveniente...?
Stavano cenando, tranquillamente e con la silenziosa armonia di una coppia sposata da tempo. La tavola era imbandita con salmone, toast, varie insalate e un vino molto freddo. Il lettore di CD, nell’angolo, diffondeva musica a basso volume. Si coglieva anche, ma molto attenuato, il rumore del traffico di Londra. Andrew indossava il suo vecchio accappatoio blu, un indumento sdrucito che risaliva ancora ai tempi in cui era studente universitario. Aveva lasciato a Janet quello nuovo, di morbida spugna marrone. Lei aveva dovuto rigirare più volte le maniche e doveva stare attenta, quando si alzava e si muoveva, a non incespicare nell’orlo, però ci si sentiva a suo agio. L’accappatoio aveva l’odore di Andrew, del suo sapone, della sua schiuma da barba, del suo corpo. Andrew aveva proposto di lavarlo prima di darglielo, ma lei non aveva voluto. Le piaceva così com’era. Però una coppia sposata da tempo, pensò, non avrebbe probabilmente fatto l’amore un quarto d’ora prima di cena. I coniugi di lungo corso sarebbero stati entrambi troppo frustrati, lei dalle lunghe ore passate in casa, lui dalle arrabbiature sul lavoro. Janet, invece, non si era affatto annoiata. Aveva dormito a lungo, si era concessa una sostanziosa colazione, poi aveva raggiunto la Tate Gallery e nel pomeriggio, quando ne era uscita, aveva constatato con stupore di averci passato un bel po’ di ore. Aveva comprato l’occorrente per la cena ed era rientrata in casa poco meno di mezz’ora prima di Andrew. Quando era arrivato, si era accorta subito che era preoccupato. «Fred Corvey?» aveva domandato. Lui l’aveva baciata e aveva annuito: «Domani ci sarà l’udienza decisiva e io sono un po’ nervoso».
«Non dovresti affliggerti tanto.» Con un gesto rassegnato, Andrew si era passato una mano sugli occhi leggermente arrossati dalla stanchezza. «Hai ragione... E tu come hai passato la giornata?» Gli aveva raccontato d’essere stata al museo, poi avevano bevuto uno sherry ed erano andati a letto. Durante tutta quella settimana, da quando Janet viveva in casa di Andrew, avevano sempre cominciato così la serata. Negli anni passati accanto a Phillip, Janet aveva quasi dimenticato come fosse meraviglioso fare l’amore con Andrew. Probabilmente dipendeva dal fatto che Andrew l’attirava fisicamente molto più di Phillip. Inoltre Andrew, come amante, sapeva esprimere quel misto di tenerezza e di autorità con cui corrispondere con sicurezza istintiva ai desideri inespressi di Janet. Arrivava proprio fino a limite di ciò in cui Janet era disposta a seguirlo e sapeva evitare con abilità e riguardo di fare un passo di troppo. Era sempre stato così fra di loro, senza la necessità di affrontare una di quelle discussioni sulle rispettive esigenze sessuali che la facevano immancabilmente arrossire e che Phillip invece, dopo attenta e approfondita lettura di numerosi settimanali femminili, riteneva essenziali per una moderna, aperta ed equilibrata vita di coppia. «Ti piace quando...?» Fra le cose di Andrew che Janet apprezzava di più c’era anche questa: non le faceva mai domande di quel genere. Poi avevano apparecchiato insieme la tavola, senza dire una parola, d’umore tranquillo e appagato. Soltanto ora, d’un tratto, Andrew ruppe il silenzio: «Ma qual è la ragione precisa per cui sei venuta in Inghilterra?» Janet lo guardò quasi spaventata e si affrettò a bere un sorso di vino per guadagnare tempo. Poi chiese a sua volta: «Come mai mi vieni fuori proprio adesso con questa domanda?» «Non solo adesso. È da un bel po’ che ci stavo rimuginando, però ho anche capito che avresti preferito non parlarne. Solo che, nel frattempo...» Esitò. Janet non gli venne incontro e si limitò a continuare a guardarlo. Andrew sospirò. «Buon Dio, Janet, io non ti voglio inchiodare qui. Però penso anche a ciò che ne sarà di noi. Io...» sorrise, un sorriso disarmato, da adolescente, «comincio ad abituarmi molto alla tua presenza. Ogni giorno, nel tornare a casa, non vedo l’ora di vederti, di... E nello stesso tempo ho paura del momento in cui tutto questo finirà.» «Che bisogno hai di pensarci? Non puoi limitarti a vivere il presente e...» «No.» Depose il tovagliolo sul tavolo, si alzò e si avvicinò alla finestra. Si mise a fissare la notte, fuori, con le mani infilate nelle tasche dell’accappatoio. «Mi dispiace, ma quei tempi sono passati. Oggi ho bisogno di almeno un po’ di chiarezza sul futuro. Non sono più tanto giovane da poter vivere alla giornata e da non pensare a ciò che mi porterà il domani.» «Dovresti conoscermi abbastanza bene da sapere che non sparirò sicuramente senza dire una parola», disse Janet. Andrew si voltò. «Anche tuo marito, anche i tuoi figli si cullavano in questa certezza?» Janet impallidì. «Questo non è leale, Andrew», disse a bassa voce. «E ti sembra leale questo tenermi completamente all’oscuro?» chiese lui a sua volta. Per un po’ non parlarono, poi fu Janet ad alzarsi e a cominciare a sparecchiare. «Finora è stata una bella serata», dichiarò. Andrew le si avvicinò, le prese le mani. «Tenta almeno di capirmi. Mi piacerebbe sapere che cosa ti ha fatto piombare improvvisamente nella mia vita.» «Perché?» «Perché mi direbbe, forse, se vuoi tornare a stare con me oppure no.» «Non posso parlarne.» «Janet, riesco a figurarmi che tu voglia lasciare tuo marito. Voglio dire: sono cose che succedono. Ma i tuoi figli! Non è da te, ecco tutto!» «Non sono più bambini. Sono giovani uomini di ventiquattro anni.»
«Eppure...» Andrew scosse la testa. «Ripeto: non è da te. Avete litigato? C’è qualche grave problema di cui pensi di non riuscire a venire a capo?» «No!» Un’affermazione molto secca. Andrew la guardò. «Janet? Ne sei sicura?» Lei gli sottrasse le mani. «Non mi tratti come un’indiziata, signor ispettore», disse con impeto. «Non c’è nessun motivo per cui lei debba sottopormi a un interrogatorio.» «Non è questo che volevo. Volevo solo...» «Se non lo vuoi, perché lo fai allora?» Janet prese il vassoio e uscì dalla stanza. Andrew la sentì trafficare rumorosamente in cucina. Rifletté per un attimo sull’opportunità di seguirla e di tentare ancora una volta di riallacciare quel discorso, poi pensò che bastava sentirsi rispondere picche una volta sola. E a questo punto si arrabbiò anche lui. Qualunque fosse la ragione che l’aveva indotta a lasciare la Germania, non poteva essere così misteriosa da non potervi accennare se non altro per grandi linee. Uscì dal soggiorno, raggiunse il suo studio e sbatté la porta alle sue spalle. Se Janet voleva tenersi a distanza, eccola servita. Non si dissero più una parola per tutta la serata.
Erano passate da poco le dieci di sera quando squillò il campanello della casa di Michael Weiss. Michael, che si era appena addormentato davanti al televisore, si svegliò di soprassalto e impiegò un momento per riorientarsi. Poi guardò l’orologio. Chi mai poteva essere a quell’ora? Ebbe l’impressione che il suo cuore saltasse per la paura quando gli si affacciò alla mente l’idea che potesse essere successo qualcosa a Tina. Un incidente, ed ecco la polizia era venuta a comunicargli che... Si precipitò verso la porta di casa e la spalancò. Fuori c’era Dana con una bottiglia di vino in mano. «Qualcosa non va?» gli chiese, allarmata. «No... io... perché?» Michael fece un gran respiro e si sentì ridicolo. «La vedo pallidissimo», constatò Dana, «ed è per questo che ho pensato che forse...» «Temo di essermi addormentato davanti al televisore», ammise Michael. Un’ammissione imbarazzante, ma meno imbarazzante del dover confessare la quasi materna apprensione per la figlia. «Forse è per questo che sono pallido.» «Forse non è l’ora giusta per venire in visita», ammise Dana, «ma ho pensato che è la prima sera che lei è senza Tina e che potrebbe quindi sentirsi solo. Ecco perché sono venuta a vedere come sta e a bere un bicchiere in compagnia.» Sollevò e agitò la bottiglia. Michael la riconobbe: un vino a buon prezzo, di quelli venduti fra le offerte del giorno al supermercato. Però la preoccupazione di Dana lo commosse. Un simpatico tratto del suo carattere, si disse, anche se di solito non apprezzava molto quella ragazza. Lui aveva scarsa considerazione per le persone stravaganti, e Dana era decisamente stravagante. Anche in quella circostanza. Presentarsi a casa sua alle dieci di sera, senza preavviso, con una bottiglia di vino, e conciata come... come... Si impose di ignorarne gli stivaletti argentati, le gambe nude, la gonnellina elasticizzata che le copriva a malapena il sedere, esattamente come il top rosso che aveva l’aria di poter scoppiare da un momento all’altro. In cima al tutto, un bel volto giovane, allegro e intelligente, lunghi riccioli scuri e un sorriso fiducioso. Non poté fare a meno di farla accomodare. «Su, venga», disse. Dana entrò e, prima di chiudere la porta, Michael vide muoversi le tende della cucina nella casa di fronte. Bene, ora l’intero vicinato avrebbe potuto sfogarsi a spettegolare su quella singolare visita femminile che il signor procuratore accoglieva a un’ora così tarda... Seguì Dana in soggiorno, spense il televisore e prelevò due bicchieri dall’armadio. Dana stappò
la bottiglia con mani esperte e versò da bere. «Ecco», disse, «alla sua!» Il vino sapeva di detersivo, ma a Dana sembrò piacere moltissimo perché inalberò un’espressione addirittura beata. Si spaparanzò sul divano e la gonna, risalendo un altro po’, offrì allo sguardo gli slip neri con pizzo che indossava. Michael si schiarì la voce e si sforzò di trovare un argomento neutro con cui introdurre la conversazione. «Come sono andati gli esami?» s’informò. Dana buttò giù un’altra, abbondante sorsata. «La maturità? Bene. Non bene come a Tina, però lei è la più intelligente di noi due.» «Eh già, Tina...» disse Michael, pensieroso e preoccupato. «Chissà come starà ora.» «Neanche io posso fare a meno di pensare continuamente a lei», confessò Dana. Per un lungo e assurdo momento sembrarono entrambi, il magistrato della procura con i capelli grigi e la ragazza dall’abbigliamento eccitante, una preoccupata coppia di coniugi intenti a passare parte di una notte in bianco perché la figlia tardava a rientrare dalla discoteca. «Non dovrei preoccuparmi tanto», dichiarò Michael e bevve con prudenza un altro po’ di vino. Quella roba gli avrebbe fatto venire un formidabile mal di testa. «Sono in pensiero anch’io», disse Dana, «eppure sono stata io a incoraggiare sempre Tina perché si decidesse finalmente a...» Si morse le labbra. «A fare che cosa?» volle sapere Michael. «A staccare il cordone ombelicale che la lega a lei. Penso che sia troppo... troppo sorvegliata, capisce?» E tu lo sei molto palesemente troppo poco, pensò Michael. Che si guardò però bene dal dire ciò che pensava. «Tuttavia», continuò Dana, «che abbia scelto proprio quel Mario... » Michael la guardò attentamente: «Non le piace?» «Non particolarmente.» «Che cosa sa di lui?» Dana rispose con un’alzata di spalle prima che con le parole: «Sembra di buona famiglia... come direbbe lei». «Nelle cosiddette buone famiglie ne succedono a volte di tutti i colori», spiegò Michael. «Purtroppo non conosco la madre né il padre.» «È lei che si è ostinatamente rifiutato di avere qualsiasi forma di rapporto con la famiglia Beerbaum», gli ricordò Dana. «È già un miracolo che sia stato infine disposto a ricevere in casa almeno il povero Mario, e immagino che la serata sia stata un bel disastro.» «Vedo che è perfettamente informata.» «Non c’è nulla di cui Tina e io non parliamo.» Michael annuì piano. «Già, capisco. Sono anche certo che lei, di Tina, ne sa più di me.» Oh sì, pensò Dana, ci puoi scommettere! A voce alta disse: «Quel Mario mi fa una strana impressione, capisce ? Non saprei dire perché. È così e basta. Mia madre dice che sono gelosa. E potrebbe ovviamente essere anche il caso suo, signor Weiss. Siamo stati sempre abituati, lei e io, ad avere Tina tutta per noi.» Michael si passò una mano fra i capelli con un gesto stanco e si sforzò di bere un altro sorso della porcheria che Dana spacciava per vino. In quello che la ragazza diceva c’era sicuramente del vero. Quanto meno di se stesso sapeva di non essersi comportato con Mario in maniera obiettiva, senza pregiudizi. Ma che cosa aveva fatto quel giovane, in sostanza, per giustificare tutta quella diffidenza? «Ho perfino pensato se non sia il caso di mettermi in viaggio per raggiungere Tina e...» «Oh, ma non so se...» «Non mi farei notare, è chiaro. Mi limiterei a raggiungere la Francia meridionale, in autostop, a
prendere da qualche parte una stanza... così, per stare vicino a lei, semplicemente...» «Per amor del cielo, ma non gliel’ha mai detto nessuno quant’è pericoloso viaggiare in autostop?» Michael si sentì rabbrividire alla sola idea che quella ragazza in gonnellina corta e aderente e stivaletti dal tacco altissimo potesse piazzarsi sul bordo d’una strada con il pollice alzato. «Non lo faccia», l’ammonì severamente. «Non dimentichi le statistiche dei delitti. Ogni anno scompaiono non so più quante ragazze, senza lasciare traccia, dopo essersi abbandonate a questo genere d’avventura. Le violentano, le uccidono, e il più delle volte fanno tutt’e due le cose.» Dana, che ricorreva sempre all’autostop dall’età di dodici anni senza che la madre avesse mai minimamente tentato di dissuaderla, giudicò la reazione di Michael abbondantemente spropositata, ma le sembrò anche opportuno non intavolare una discussione sull’argomento. «Okay», disse per rabbonirlo, «non lo farò. Era solo un’idea... e forse neppure buona.» Michael prese la bottiglia, versò del vino a lei e a se stesso. Cominciava ad abituarsi a quella roba, anche perché nel frattempo non gli importava più che gli causasse o no il mal di testa. Non si sarebbe comunque più sentito bene fino a quando Tina non fosse tornata sana e salva.
Martedì 6 giugno 1995 Tina si svegliò quando si fermò la macchina. Aveva dormito per ore, fatto sogni confusi senza cogliere più nulla del lungo viaggio: il passaggio attraverso la bella valle del Rodano, il tragitto ricco di curve a sud del Luberon, il su e giù da rompicollo attraverso il Gran Canyon francese lungo il Verdon. Si destò di colpo e non capì subito dov’era. «Cosa succede?» domandò con voce assonnata. «Siamo arrivati», annunciò Mario, «ce l’abbiamo fatta!» La sua allegria sembrava forzata. Era a pezzi, allo stremo delle forze. Per un momento dubitò di riuscire ad avere ancora sufficienti energie per scendere e portare i bagagli in casa, anziché addormentarsi lì, sul volante. Tina si raddrizzò ed emise un lieve lamento. Aveva il corpo irrigidito, i muscoli rattrappiti e doloranti. Con una mano si massaggiò la nuca e poi ruotò lentamente le spalle. Gli spiriti vitali le si ridestarono lentamente. Spiò fuori, eccitata. «Siamo a Nizza?» «Nelle vicinanze. Casa nostra non è proprio a Nizza, te l’ho già detto.» Tina aprì la portiera e scese. Fu accolta da una notte buia. Solo quando si voltò, notò due o tre piccole luci in lontananza. Però avvertì subito l’intenso profumo della lavanda misto a quello del timo selvatico e della salvia che il vento leggero portava dai monti. Respirò a fondo l’aria tiepida della notte provenzale. Sopra di lei s’inarcava un cielo limpido e cosparso di stelle. «Che bellezza», disse. Mario uscì a sua volta dall’auto, faticosamente, e aprì il bagagliaio. «Su, aiutami a portar dentro questa roba!» Gli occhi di Tina si stavano abituando all’oscurità. Intravide una piccola casa, costruita con la pietra grigia e porosa di quella zona, in mezzo a un giardino inselvatichito. «È quella?» chiese. «Sì. Aspetta. Ti precedo per accendere la luce.» Raggiunsero la porta della casa lungo un sentiero lastricato, orlato di cespugli di rosmarino e cipressi. Mario l’aprì e pochi istanti dopo si illuminarono l’atrio e un breve corridoio. Tina approfittò del riflesso della luce per guardare l’orologio che aveva al polso. Mancava poco alle tre. Avevano viaggiato per quasi venti ore.
Adesso era nella piccola mansarda che Mario le aveva assegnato. Disfece la valigia e arrivò alla conclusione che, decisamente, c’era qualcosa che non andava. Dana si sarebbe strappata i capelli dalla rabbia. Lei non si sarebbe fatta mettere in disparte in quel modo. Ma che cosa poteva fare in una situazione del genere una ragazza come lei, non dotata dalla natura non solo di faccia tosta, ma neanche di una lingua sciolta e soprattutto tagliente? Mi restano ancora due settimane, pensò Tina nell’infilare la biancheria nel cassetto del comò, e prima o poi uscirà pure da quel suo guscio, forse... La casa, nei limiti in cui era riuscita a vederla, le piaceva. Arredamento semplice, rustico, molto legno, tende a fiorellini, vasi di fiori davanti alle piccole finestre. I fiori sembravano un po’ appassiti e mancavano evidentemente di una cura continua, però il francese cui era stata affidata la sorveglianza della casa si era dato da fare almeno nel senso che li aveva tenuti in vita. Mario gli aveva telefonato, prima della partenza, per annunciare la loro venuta. La casa era stata spolverata e bene arieggiata. Avevano portato dentro i bagagli, limitandosi per il momento ad ammonticchiarli nel corridoio, poi Mario le aveva fatto vedere il soggiorno e la cucina, entrambi al pianterreno, le tre piccole stanze e il bagno al primo piano. Quindi lo aveva seguito lungo una ripida scaletta fin nel sottotetto. Lassù c’era
soltanto una piccola camera dalle pareti inclinate con due finestrelle a lucernario, un letto, un comò e un paio di armadi a muro. Sopra il comò era appeso uno specchio dall’aspetto antico, davanti al quale troneggiavano un catino e una brocca di porcellana. Entrambi erano decorati con pallide roselline ed esibivano numerose e vistose crepe. «Avete delle cose graziose e preziose in questa casa», aveva constatato Tina, ammirata. «E ci stanno anche bene!» «La responsabilità è tutta di mia madre», era stata la risposta di Mario. «È lei che l’ha arredata. Le piace curiosare nei mercatini delle pulci, dove ha trovato fra le altre cose anche questo completo di porcellana. Si usava una volta per la toilette, prima dell’introduzione dell’acqua corrente.» «Sono proprio cose belle», aveva ripetuto Tina. Erano rimasti lì impalati, senza sapere di preciso che cosa fare, come comportarsi. «Già», aveva dichiarato infine Mario. «Adesso ti porto su la valigia. » «E la tua stanza dov’è?» aveva chiesto Tina nel tono più innocente che era riuscita a tirar fuori. «Proprio sotto la tua», aveva risposto Mario. E poi era sparito, aveva portato su la valigia, aveva domandato a Tina se aveva fame o sete. Alla sua risposta negativa le aveva alitato un bacio sulla fronte e augurato la buona notte. Lo aveva udito scendere le scale e poi aveva sentito lo scatto della serratura della porta di sotto che si chiudeva. Disfece completamente la valigia, indossò la camicia da notte e la vestaglia, prese lo spazzolino da denti e scese piano piano le scale. Si fermò per un momento davanti alla porta di Mario. Non sentì alcun rumore, né vide trapelare luce. Possibile che si fosse messo a dormire così presto? Forse non aveva neppure disfatto la valigia e si era buttato giù così com’era. Doveva essere stanchissimo dopo tante ore al volante. Entrò nel bagno, si lavò i denti e si spazzolò i capelli. Spense con cura tutte le luci prima di sparire di nuovo nella sua camera. Le lenzuola odoravano leggermente di lavanda. Era un bel posto, pensò: ci avrebbe passato sicuramente una simpatica vacanza. Si sentì fiduciosa quando affondò la testa nel morbido cuscino. L’ultima cosa che pensò fu: meno male che ho saputo impormi e indurlo a fare questo viaggio! Poi si addormentò in un istante.
A Janet la lite con Andrew era rimasta sullo stomaco. Soprattutto perché nel corso della notte si era resa conto che la colpa della discussione era stata tutta sua. Andrew aveva chiesto, a ragione, quali fossero i suoi progetti. E non era stato un delitto neppure quell’informarsi sui suoi figli, quel voler sapere se avesse dei problemi con loro. Era stata, semmai, solo una buona dimostrazione del fiuto che aveva nei rapporti con le persone, della sicurezza degli istinti con cui trovava gli altrui punti deboli. Una capacità di cui Janet si era già resa conto in passato, e che lui aveva certamente perfezionato in tutti quegli anni a Scotland Yard. Janet aveva finto di dormire quando lui era venuto a letto tardi, e poi aveva fatto lo stesso la mattina dopo quando Andrew si era alzato. Lo aveva udito andare in bagno, poi tornare in camera da letto per vestirsi, nei limiti del possibile, senza far rumore. Janet si era commossa per quella premura, per gli sforzi che stava facendo per non svegliarla, e per due volte era stata quasi sul punto di sedersi e di dirgli che le dispiaceva. Ma poi non era ugualmente riuscita a farlo ed era rimasta a letto fino a quando Andrew non aveva lasciato l’appartamento e aveva poi sentito l’avviarsi del motore della macchina in strada. Si alzò e pensò di essere un mostro: lo aveva fatto uscire, proprio quel giorno, senza neppure una parola di saluto. L’udienza del processo contro Fred Corvey sarebbe iniziata di lì a poco e lei sapeva benissimo che era un cruccio che lo tormentava. Fece colazione, si vestì e decise di raggiungere il tribunale per convincere Andrew a pranzare
insieme. L’udienza non si sarebbe certo protratta senza qualche interruzione. Lasciò l’appartamento verso le 10, raggiunse con la metropolitana St. Paul’s Cathedral e proseguì a piedi fino a Newgate Street, dove c’era l’Old Bailey, ovvero la Central Criminal Court. La giornata era calda e assolata, e Janet, all’idea dell’imminente riappacificazione con Andrew, si era sentita, almeno inizialmente, molto euforica. Poi però i suoi passi si fecero più lenti a mano a mano che si avvicinò al palazzo di giustizia. E d’un tratto ebbe paura. Avrebbe visto Fred Corvey. Un serial killer. Un uomo che odiava talmente le donne da ucciderle in modo crudele. Che cosa lo aveva fatto andar fuori di testa? E quando? Dove, in quale punto, c’era qualcosa che non funzionava nel suo cervello? Janet aveva davanti agli occhi l’immagine di innumerevoli rotelline dentate che si muovevano con uniforme precisione e si incastravano con altrettanta regolarità in modo da azionare e mantenere in funzione un grande e complicato meccanismo. Una sola di quelle rotelline aveva perduto il raccordo con le altre, e questo aveva causato uno scompiglio generale, diffondendo il caos in tutta l’apparecchiatura. Che cosa aveva smosso la rotellina? Una parola sbagliata, uno sguardo sbagliato? Maltrattamenti protrattisi per anni? Lo si sarebbe mai scoperto? O sarebbe stata prodotta una gran quantità di perizie psichiatriche sul conto di quel Fred Corvey, ognuna con una diversa teoria per spiegare quel caso? Janet aveva quasi deciso di rinunciare e di tornare sui suoi passi quando si accorse di avere ormai raggiunto il palazzo di giustizia, un edificio imponente, sormontato da una cupola sulla quale troneggiava una dorata Iustitia illuminata dal sole. E improvvisamente ebbe l’impressione che molte mani si protendessero verso di lei per attirarla. Varcò il portone e la prima cosa che vide fu una muta di giornalisti che, armati di telecamere e microfoni, intrattenevano il loro pubblico su Fred Corvey. «... una vicenda davvero sconvolgente...» «...ora la situazione si farà dannatamente critica...» «...ci vorranno i periti...» Si rivolse a un giovane che, seduto sul gradino della scalinata con una macchina fotografica accanto, mangiava una banana. «Mi scusi... dove si svolge l’udienza del processo contro Fred Corvey?» L’uomo s’infilò in bocca l’ultimo pezzo di banana e rispose masticando : «Su per le scale, terza porta a sinistra. Però l’udienza è stata sospesa mezz’ora fa.» «Come sta andando?» «Alla domanda se si dichiarava o no colpevole, Corvey ha risposto con un chiaro ‘non colpevole’. Il che ha disorientato tutti.» «Ma non è possibile! Non potrà cavarsela così!» L’uomo fece spallucce: «Dipende. Diciamo che a questo punto la pubblica accusa avrà qualche problema». «Ma aveva confessato. E lo ha fatto quando era perfettamente consapevole di quello che diceva.» «Lady, non le sto dicendo che è stato assolto. Tuttavia...» Non completò la frase e fece capire come stavano le cose: in bilico. Esito non prevedibile. Janet si sedette accanto a lui sullo scalino. Il giovane tirò fuori di tasca un’altra banana. «Ne vuole un po’?» «Grazie. Ho appena fatto colazione.» Quello sbucciò il frutto con amorosa circospezione. «A proposito : io sono Paul Fellowes del Nottingham Daily. È un giornale di provincia, ma del caso Corvey vogliono essere informati tutti e ovunque. Lei per chi scrive?» «Per nessuno. Io sono una... conoscente dell’ispettore Davies.» Janet decise, per non complicare le cose, di sottacere il suo cognome tedesco. «Mi chiamo Janet», disse soltanto. Paul la fissò con maggiore interesse. «Ehi!... Una conoscente di Davies? Di Davies il duro?» Janet aggrottò la fronte. «Cosa intende per ‘duro’?»
«Che è uno che non guarda tanto per il sottile quando si tratta di individui che vuole vedere assolutamente sotto chiave. È un inflessibile cacciatore di delinquenti. Per questo, anni fa, ha buttato la toga del giurista ed è diventato poliziotto. È divorato dall’ambizione. Quando è costretto a lasciarne andare uno, per lui è una tragedia personale.» Paul chiuse per un momento gli occhi e assaporò di gusto la seconda banana. «Dicono che Davies non guarda in faccia a nessuno, che cammina calpestando cadaveri. Però forse lo dicono solo quelli che lo invidiano.» «Ma certo», confermò Janet un po’ scossa. Davies il duro... «Se lei è una conoscente di Davies sarà sicuramente bene informata su questo caso, vero?» chiese Paul speranzoso. «Voglio dire: conosce qualche dettaglio che non sia stato già reso noto?» Si era svegliato in lui l’istinto del reporter e sperava di far bottino. Janet reagì con una smorfia di rammarico. «Temo di saperne meno di lei. Andrew me ne ha appena accennato.» «Peccato. Sarebbe stato bello se, per una volta almeno, il Nottingham Daily fosse potuto uscire con un’esclusiva.» «Non sono saltati fuori altri testimoni?» «No. C’è solo quella tizia, la quale però...» «... dice di non essere sicura, lo so. Corvey sembra proprio avere la fortuna dalla sua parte.» «E Davies un po’ di sfiga. Lui è sicuro di aver preso l’uomo giusto. Ma ora questa storia gli sta sfuggendo dalle mani come l’acqua. » «Corvey ha confessato», disse Janet, «e si è attenuto alla sua versione iniziale per settimane. Perché non dovrebbe bastare per inchiodarlo ?» «Lo inchioderanno, non tema. Tuttavia immagino che sosterrà di essere stato sconvolto, intimidito, confuso, di aver avuto un black out... Che so, ricorrerà a tutti gli espedienti e ai cavilli possibili... o, meglio, lo farà il suo avvocato.» In quel momento cominciò a scendere di corsa le scale una giovane bionda in jeans e annunciò: «Corvey sta arrivando! L’udienza è stata rinviata !» Bastò un attimo perché i giornalisti entrassero in agitazione. Anche Paul balzò subito in piedi, s’infilò frettolosamente mezza banana in tasca e cominciò a trafficare freneticamente attorno alla sua macchina fotografica. Anche gli altri accesero i registratori, fecero rapide prove di microfono, cambiarono nastri. Poi tutti si avventarono sulle scale lottando per conquistare le postazioni migliori. Janet si affrettò ad alzarsi per non rischiare di prendersi un calcio e si addossò al parapetto di marmo. Improvvisamente il cuore prese a batterle furiosamente. Da un momento all’altro quel Fred Corvey sarebbe passato proprio di lì, vicino a lei, a meno che non preferisse scansare i tanti giornalisti e, come era dopo tutto suo diritto, farsi condurre fuori con maggiore discrezione attraverso un’uscita laterale. Ma qualcosa le diceva che quello non aspettava altro che di godersi il momento di potersi esibire, che non si sarebbe fatto sfuggire per nulla al mondo l’incontro con i media e quindi la conferma della sua momentanea popolarità. Janet sentì che le tremavano le ginocchia al punto che le venne voglia di scappare, ma non riuscì a spostarsi di un passo perché quelli della stampa formavano un muro davanti a lei, e nessuno di loro avrebbe rischiato di perdere il posto duramente conquistato solo per farsi per un attimo da parte. Ed ecco già spuntare, anche in cima alle scalinata, curiosi e poliziotti, tanto che neppure da quella parte ci sarebbe stata una via di scampo. Janet dovette restare dov’era. Fred Corvey era ammanettato e incatenato al poliziotto alla sua sinistra. Sull’altro suo fianco incedevano in coppia i suoi due avvocati : sembravano molto soddisfatti ma si fermarono un attimo quando videro la folla in attesa. Corvey invece non si spaventò minimamente. Tirò su le spalle e protese il mento per sforzarsi di apparire sulle foto più alto e robusto di quanto non fosse. Indossava pantaloni color sabbia, scarpe marroni e una giacca blu su una T-shirt bianca. I capelli, d’un biondo scuro, avevano l’aria di non essere passati di recente per le mani di un neanche appena mediocre
barbiere, ma Corvey li aveva pettinati con cura, in modo da tenere scoperta la fronte, e li aveva inoltre letteralmente incollati con il gel. Per assurdo in un certo senso, sembrava proprio un mediocre, uno di quelli cui non si fa caso e di cui non si conserva memoria. Aveva le gambe corte ma il busto ben sviluppato tanto da apparire comunque di media statura. Sicuramente non praticava alcun genere di sport. Quando non badava a tenere dritte le spalle, si afflosciava nel vero senso della parola; era poi troppo magro e aveva un colorito pallido e malsano. Per un momento, come in un lampo, Janet pensò: e se davvero non avesse fatto niente di male? Sembra così inoffensivo. Possibile che quest’uomo abbia torturato e ucciso quattro donne? Corvey, godendosi la scena, si era fermato per qualche istante in cima alla scalinata e aveva fatto scorrere uno sguardo da conquistatore sulla folla. Ora stava scendendo pian piano. Gli innumerevoli flash lo illuminarono vividamente. Paul protese un microfono verso Corvey. «Mister Corvey», gridò, «come la mettiamo? Spera di essere assolto ?» Corvey non rispose: si limitò a sorridere. «Niente domande!» esclamò il poliziotto al suo fianco. «E fate largo! Levatevi dai piedi !» Corvey era arrivato all’altezza di Janet: si fermò di colpo, girò la testa e la guardò. Janet non riuscì a distogliere gli occhi e lo fissò a sua volta. Le si inaridì la bocca, non riusciva a deglutire, avvertiva un rombo nelle orecchie. Se in precedenza quell’uomo le era parso innocuo e insignificante, ora i suoi occhi la inorridirono. Marroni, cupi, spenti, senza un barlume di luce. Occhi d’una freddezza e di una inespressività totali. Non vi si leggeva un solo sentimento. Erano gli occhi di uno psicopatico. E Janet seppe in quel momento che era stato lui. Era responsabile di ognuno degli omicidi che gli avevano contestato e forse anche di un’altra dozzina. Non ebbe alcun dubbio. D’un tratto capì la rabbia impotente di Andrew e nello stesso tempo provò una profonda, dolorosa compassione per tutte le vittime di quell’uomo. Che cosa poteva provare una donna costretta a morire di una morte violenta e a guardare nello stesso tempo quegli occhi? Corvey sogghignò. Aveva istintivamente capito che cosa Janet stava pensando e provando, e notò anche che stava lottando contro un attacco di nausea. E questo gli piacque. Rese anche più piccante quel momento. Proseguì mentre uno dei suoi avvocati cercava di spingere da parte i microfoni protesi e dichiarava contemporaneamente, con voce nervosa, che in quella fase non c’era da aspettarsi alcun commento sul caso. Ovviamente i giornalisti formularono lo stesso le loro domande nella speranza di riuscire a catturare una risposta, o almeno una parola, e alla fine Corvey si decise, in effetti, ad aprire bocca, ma solo per dire che non avrebbe detto niente. La sua voce sorprese Janet. Se l’era figurata più stentata, in falsetto, perfino un po’ isterica. E invece era una voce calda, profonda e molto sonora. Una voce bella, di quelle che infondono fiducia. Janet pensò anche che, dopo tutto, non era il caso di meravigliarsene. Quell’uomo doveva pure avere qualcosa dentro di sé se tante donne erano cadute così facilmente nella sua trappola. Ecco che cos’era la sua esca. Quella voce costituiva un capitale. Suscitava simpatia e dissipava i sospetti sul nascere. La muta della stampa seguì Corvey all’aperto dove c’era un furgone in attesa. Improvvisamente Andrew spuntò accanto a Janet e la prese per un braccio. «Che cosa ci fai qui?» Era pallido e appariva molto stanco. Janet gli diede un bacio. «Ho voluto starti vicino», disse con semplicità. Lui sembrò rallegrarsene, ma l’espressione del volto non divenne meno tesa. «Ti va di venire a mangiare un boccone?» domandò. «Sì. Ma... Andrew, non lo hanno mica ancora assolto!» Andrew annuì. Sembrava depresso, sfinito. «Lo so. Però temo proprio che si arriverà a un’assoluzione e posso dirti che è proprio per questo che adesso mi sento così male.» Uscirono all’aperto. L’aria calda della luminosa giornata di giugno era gradevole dopo il freddo
cupo che regnava fra le vecchie mura del palazzo di giustizia. Mentre attraversavano la strada, Janet disse, ancora rabbrividendo: «Ho visto i suoi occhi. Adesso so che è stato lui». «Già», osservò Andrew, «però l’espressione degli occhi d’una persona non ha purtroppo valore di prova davanti al tribunale.» «Cosa pensi che farà se l’assolveranno?» «Nei primi tempi sarà molto prudente. Sono certo che lui sa che io non mi sono ancora dato per vinto.» «D’altra parte non potrai farlo sorvegliare giorno e notte, vero?» «Dubito che mi darebbero gli uomini necessari. Costerebbe troppo.» Avevano raggiunto una piccola trattoria italiana ed entrarono. Andrew era evidentemente conosciuto perché lo salutarono amichevolmente. Diedero loro un tavolo d’angolo dal quale potevano vedere l’intero locale. Mentre esaminavano il menù, entrò nel ristorante una donna anziana seguita da un giovane che sembrava oltremodo preoccupato e teso. La donna dava l’impressione di essere sprovveduta e impacciata; si fermò, come smarrita, e si notava che avrebbe preferito essere in un luogo diverso. «Guarda guarda», disse Andrew, piano, «quella è la signora Corvey. La madre di Fred!» Janet, che in un primo momento aveva fatto caso solo di sfuggita a quell’estranea, la guardò elettrizzata e registrò ogni particolare: la figura piccola e un po’ appesantita, i capelli bruni pettinati con cura, il vestito estivo a fiori che sembrava acquistato in un grande magazzino, la cui gonna aveva il bordo vistosamente irregolare. La signora Corvey aveva le gambe gonfie, evidentemente per ritenzione di liquidi, oltre che deturpate da grosse vene varicose. Indossava informi sandali ortopedici e si teneva aggrappata a un’enorme borsa di plastica. Sembrava proprio molto semplice e schietta, ma anche, almeno in quel momento, in uno stato quasi di shock. Nelle settimane precedenti doveva esserle crollato il mondo addosso. «Ha l’aspetto d’una bonaria e laboriosa donna delle pulizie, di quelle che devono sgobbare duramente in cambio dei pochi soldi che guadagnano», constatò Janet. «In effetti fa proprio la donna delle pulizie», confermò Andrew, «e con quei pochi soldi ha tirato su il figlio.» «Non c’è un padre?» «Sì, ma gravemente invalido a causa di un incidente sul lavoro. È da vent’anni su una sedia a rotelle, con una pensione minima.» Il giovane che accompagnava la signora Corvey e che, come Janet constatò, indossava un vestito di buon taglio e di ottima stoffa, si era messo a parlare con il cameriere. Rifiutò con un cenno del capo il tavolo che gli fu offerto. Era chiaro che voleva essere sistemato assieme alla donna in un posto più defilato, appartato. «In un certo senso lo capisco», mormorò Andrew. «Dopo essersi tolto di torno, non senza difficoltà, quelli della stampa, ora non vuole rischiare che qualcuno di loro la noti.» «Chi è quell’uomo?» «Un collaboratore di uno degli avvocati di Corvey. Evidentemente lo hanno incaricato di occuparsi di mistress Corvey.» «Non è un azzardo venire a mangiare qui, assieme a lei, in un posto così vicino al palazzo di giustizia?» «Semmai è una buona idea. Nessuno sospetterebbe che è qui.» Janet fissava la donna che ora vedeva di profilo. La signora Corvey non era minimamente a suo agio e guardava disorientata e infelice il menù. Poi, come se avesse sentito gli occhi puntati su di lei, si voltò improvvisamente. Guardò Janet e Janet ne sostenne lo sguardo. Fu un breve, muto dialogo. Mistress Corvey lesse nell’espressione di Janet comprensione e simpatia, Janet in quella di lei dolore e smarrimento. Poi anche il giovane che era con lei spostò gli occhi su di loro, riconobbe Andrew, reagì
arretrando minimamente il busto e poi salutò con un freddo cenno del capo. Bisbigliando spiegò alla signora Corvey chi era Andrew. Janet riuscì a leggergli sulle labbra le parole «Scotland Yard». Mistress Corvey si irrigidì subito. Scotland Yard? Era loro la colpa di tutto ciò che le era successo. Erano quelli che avevano fatto irruzione nella sua vita trasformandola in un inferno, che accusavano suo figlio, il suo caro Freddy, di cose orribili, di delitti inconcepibili... Si alzò talmente di furia da rischiare di rovesciare la sedia, e impugnò la borsa. Il giovane tentò di calmarla, di parlarle. Ma senza successo. La signora Corvey lasciò precipitosamente il ristorante e quello non poté far altro che correrle dietro. Il cameriere assistette perplesso alla scena. «È profondamente ferita», disse Janet. «Per essere sincero», dichiarò Andrew, «non ho molta simpatia per quella donna. Ha fornito al figlio, per l’ora in cui è stato commesso l’ultimo delitto, un alibi e sono convinto che è falso. Scommetterei che quella donna, in vita sua, non ha mai detto una parola non vera, ma adesso, per suo figlio, mente. Ucciderebbe anche per lui.» «Gli vuole molto bene, vero?» «Lo adora. Anche suo marito. Il cliché del criminale dall’infanzia tormentata e sofferta non si adatta minimamente a Fred Corvey. La famiglia era povera, ma lui ha avuto sempre tutto l’amore e le cure possibili.» Janet mise in disparte il menù. Non aveva più fame. Nonostante il tempo tiepido, aveva freddo e sapeva che si trattava di un freddo che le veniva da dentro.
Le vacanze insieme erano cominciate male e il primo giorno non sembrava voler rendere le cose più facili. Tina pensò che se ne sarebbe dovuta accorgere subito. Non era stato giusto da parte di Mario imporle un viaggio forzato senza soste. E ora aveva anche dovuto constatare che non era stato sincero con lei. Aveva dormito un sonno profondo e senza sogni, e si era svegliata solo verso le dieci del mattino. Ci aveva messo un momento per orientarsi. La pareti inclinate, la tappezzeria a fiori, quell’antiquato comò: no, non era la sua stanza di Amburgo... Dalle finestrelle entrava a fiotti una luce bianca, abbagliante. Era il sole caldo del meridione. Era subito scesa dal letto, si era avvicinata alla finestra, l’aveva aperta e si era affacciata sporgendosi. Faceva caldo, molto più di quanto avesse immaginato. L’aria asciutta aveva l’odore di erbe e fiori ignoti. Ma Tina non l’aveva apprezzata come avrebbe meritato, perché ciò che aveva visto l’aveva riempita di stupore: da nessuna parte neppure un minimo scorcio del Mediterraneo. Da nessuna parte le case e le strade di Nizza. Solo una selvatica e romantica solitudine, tanta erba secca e bruciata dal sole, anche costellata di rocce grigie, e poi campi di lavanda e prati in fiore punteggiati dal rosso dei papaveri. L’orizzonte era delimitato da un orlo di boschi. Il frinire delle cicale... e un bel tratto più in là due dozzine di case in mattoni grigi addossate alla collina. Si trovava in un minuscolo villaggio, in qualche parte della Provenza. Altro che periferia di Nizza, come aveva sostenuto Mario. Il quale Mario aveva preparato il tavolo della colazione sulla terrazza, all’ombra di alcuni mandorli. Quando aveva visto Tina era saltato per andare di corsa ad accendere il fornello della macchinetta del caffè. Era stato in paese prestissimo, le aveva detto, c’era il mercato e aveva comprato tutto ciò di cui avevano bisogno. «In paese, ah ah», brontolò a quel punto Tina, corrucciata, e si sedette. Sapeva che sarebbe stato poco opportuno mettersi a litigare fin dal primo mattino, ma sarebbe soffocata se avesse tenuto la bocca chiusa. «Quanto distiamo dal mare?» volle sapere. Mario si affrettò ad avvicinarle un bicchiere di succo d’arancia. Con un po’ di senso di colpa, Tina osservò che si era davvero dato molto da fare per preparare tutto nel modo più bello e accogliente.
Non le sembrò leale rinfacciargli qualcosa proprio in quel momento, ma la lealtà non era una cosa cui sarebbe riuscita ad attenersi. «Il mare», rispose Mario, «non è proprio qui vicino...» «Ah no? E dov’è allora?» «Come sarebbe a dire... dov’è?» «Quanto tempo occorre per raggiungerlo? A piedi?» «A piedi non è possibile. Ma ci andremo sicuramente in macchina. » Tina scostò ostentatamente la tazza, il piatto e il bicchiere. «In macchina?» domandò. «Dannazione, Mario, per quel che ne so io, Nizza è direttamente sul mare!» «Qui non siamo a Nizza.» «Da non credere! Prima di partire avevi detto tutt’altro!» «Ho detto: nei pressi di Nizza», si difese Mario in un tono vagamente lamentoso. «‘Alla periferia’ sono state le tue parole precise. Ma qui siamo... siamo in mezzo al nulla!» Mario appoggiò una mano sul braccio di Tina. «È così importante il posto in cui siamo?» Tina gli sottrasse il braccio. «Importante è che mi hai imbrogliata. E non mi va giù. Lo sapevi che volevo andare in un posto in cui ci fosse un po’ di movimento. E invece tu mi trascini qui, nel deserto. » «Non pensavo che tu fossi una di quelle ragazze che frequentano ogni giorno discoteche e taverne per mettersi in mostra davanti agli uomini.» «Se non lo pensavi avresti anche potuto dirmi subito la verità!» scappò a Tina. Mario si alzò per andare a prendere il caffè. Tina si appoggiò allo schienale della poltroncina di vimini intrecciato e laccato di bianco. Splendeva il sole e il posto era bello, veramente bello. Solo diverso da quello che si era aspettato. Forse non sarebbe stato il caso di mostrarsi subito così offesa. Ma troppe cose si erano combinate così come non le avrebbe volute: quel viaggio lunghissimo, poi le stanze da letto separate, ora la scoperta che Mario non le aveva detto la verità a proposito della località in cui si trovavano. Troppo in una volta sola, pensò, e chiuse gli occhi. Quando sentì squillare il telefono immaginò che fosse suo padre, ma era troppo stanca e frustrata per alzarsi e andare all’apparecchio. Il padre si sarebbe accorto subito, dal tono della sua voce, che qualcosa non andava, e avrebbe continuato a battere su quel chiodo. E invece lei, in quel momento, non aveva voglia di parlare. Quando Mario tornò, si limitò a bere un po’ di caffè e non toccò baguette, uova e marmellata di ciliegie. Fino a mezzogiorno rimasero insieme in silenzio ad ascoltare gli uccelli e i radi, lievi belati di un gregge di capre che stavano pascolando da qualche parte nelle vicinanze. Tina aspirò a fondo il profumo che il vento portava fin lì dai campi.
Michael era seduto nel suo ufficio, alla Procura di Stato, e sapeva benissimo che era sciocco agitarsi solo perché laggiù, a Duverelle, nessuno rispondeva al telefono. Probabilmente Tina e Mario non erano neppure arrivati. Avevano pernottato chissà dove, dormito a lungo, fatto una bella colazione e forse erano andati a guardare qualcosa che ne valesse la pena. Probabilmente sarebbero arrivati solo in serata nella casa delle loro vacanze. Guardò l’orologio. Mancavano pochi minuti alle 15. Si rese conto di essere nervoso e si innervosì anche di più. Aveva troppi altri problemi in sospeso per potersi permettere di pensare continuamente a sua figlia. Sulla scrivania erano ammucchiate pile di fascicoli. Quella mattina aveva perduto un processo importante, o quanto meno il tribunale aveva inflitto a un imputato una pena talmente inferiore a quella che aveva chiesto lui da non poter considerare quella sentenza se non come una sconfitta. Aveva chiamato la prima volta la Francia meridionale durante una pausa del dibattimento: invano.
Santo cielo, è proprio ora che Tina stacchi il cordone ombelicale che la lega a me, pensò anche lui: è più che ora. La paura che provo per lei non è normale. Prima del suo ritorno sarò ridotto a un fascio di nervi. Aprì un fascicolo, tentò di concentrarsi, ma poi ne distolse di nuovo gli occhi per fissare il telefono. Non riuscì a resistere, impugnò la cornetta e digitò ancora una volta quel numero della Provenza. Nessuna reazione. Con improvvisa determinazione, Michael premette due dita sulla forcella e poi chiamò Dana. Ce ne volle prima che dall’altro capo della linea qualcuno rispondesse. «Sì?» brontolò una voce addormentata e scontrosa. «Mi scusi», disse Michael, «sto cercando Dana... Dana...» Non ricordava proprio quale fosse il suo cognome. «Insomma, vorrei parlare con Dana», ripeté infine, risoluto ma sentendosi un idiota. «Io sono Karen», rispose la voce rauca, «la madre di Dana.» E sbadigliò rumorosamente. «Mi perdoni, evidentemente l’ho svegliata», balbettò Michael. Ma erano le tre del pomeriggio! Per la miseria, come mai quella donna dormiva a quell’ora?! «Okay, okay, lei non poteva saperlo. Attualmente sono senza lavoro e così non mi rimane altro da fare che dormire troppo.» «Eh... mi spiace... voglio dire, d’averla svegliata.» Mi sembra di essere uno scolaretto balbettante, pensò furioso, e dire che non c’era assolutamente nessun motivo per perdere le staffe. Poi si rese conto di non essersi neppure presentato. «Sono Michael Weiss», dichiarò, «il padre di Tina». Altro sbadiglio dall’altra parte. «Il signor procuratore», disse Karen con una punta d’ironia nella voce. «Ma che onore!» È un altro mondo, tutto qui, pensò lui. Non ha lavoro, dorme tutto il giorno, e probabilmente pensa che sono un borghese meschino e reazionario. E invece io sono un magistrato della Procura di Stato, non faccio altro nella vita che il mio dovere e secondo me questa donna è solo un’oca sinistrorsa. Se le nostre figlie non fossero amiche, ci terremmo accuratamente alla larga l’uno dall’altra e viceversa. «Posso parlare con Dana?» chiese. «Per essere sincera non ho la benché minima idea di dove sia», rispose Karen. Ora sembrava un po’ più sveglia, anche se il tono della voce era quello di una che alle spalle aveva notti piene di alcol e sigarette. «Posso esserle d’aiuto?» «No, il fatto è che...» Michael si sentiva sempre più ridicolo. «Dana è venuta a trovarmi ieri sera», disse infine, «e abbiamo parlato di Mario Beerbaum. Sa, è il giovanotto che...» Da Karen venne un lieve lamento. «Sì, sì, so chi è. Fin troppo. Dana non fa che parlare di lui. Ha detto anche a lei che le fa una strana impressione?» «Qualcosa del genere, sì.» «Non si lasci influenzare. Dana si è cacciata in testa che... Ah! Non so che cosa di preciso. Suppongo che sullo sfondo ci sia della gelosia. Ora Tina non appartiene più soltanto a lei e così...!» «Sì, mi ha riferito questa sua teoria. Però è anche possibile che non sia motivata dalla gelosia, ma da un sano istinto da prendere decisamente sul serio.» «Comincio a credere, signor procuratore, che lei si sia costruito, molto semplicemente, un gran problema attorno al banale fatto che sua figlia se la sta spassando da qualche parte della Francia meridionale con quel tizio, ed è lo stesso problema di Dana. Siete vissuti entrambi con la sensazione che Tina non sarebbe mai diventata adulta, e ora siete spaventati di fronte alla constatazione che d’un tratto sta tentando di diventarlo. E così vi mettete a sparare sul povero Mario che è sicuramente un giovane innamorato del tutto normale il quale non immagina minimamente quale agitazione ha suscitato», replicò un po’ seccata Karen. «Forse ha ragione.»
«Certo che ce l’ho. Se lo lasci dire: fra non molto potrà riabbracciare la sua Tina e non capirà più come mai si era innervosito tanto. Vuole che la faccia chiamare da Dana?» «No, grazie, non è necessario. Avrei voluto riparlare con lei di Mario, ma non avrebbe senso.» «Dimentichi sua figlia, si distenda al sole e si goda una bella e pigra giornata», gli suggerì Karen. Michael cercò di ricordare a quando risaliva la sua ultima «pigra giornata», ma non riuscì a rammentarsene. Ma per questa donna, pensò, è sicuramente una sperimentata panacea. Ad alta voce disse: «Mi scusi il disturbo, la prego, e...» gli venne in mente di aggiungere all’improvviso, «tolga di testa a sua figlia l’idea di mettersi a correre dietro a Tina in autostop. Era questo che si proponeva di fare ieri sera.» «Oddio, sarebbe sicuramente l’ultima cosa che Tina e Mario potrebbero desiderare in questo momento.» «Io sono preoccupato anche per Dana. Quello che pensava di fare è troppo pericoloso. Ogni anno ne accadono...» Karen non lo lasciò finire: «Dana è cresciuta abbastanza per sapere che cosa fare. Però la ringrazio per il suggerimento.» Il suo tono faceva chiaramente capire che giudicava Michael un borghesuccio fifone e anche un ficcanaso. Cominciava a darle sui nervi. Questo procuratore, pensò Karen, è esattamente il tipo capace di mettermi alle calcagna l’ufficio per la tutela dei giovani accusandomi di trascurare i doveri di sorveglianza o qualcosa di simile. Meno male che Dana ha diciotto anni! Un’età che non consente più nemmeno a un procuratore rompiscatole di metterci becco... Dopo che entrambi ebbero chiuso, piuttosto gelidamente, la conversazione, Michael non riuscì a trattenersi dal formare di nuovo quel numero francese che ormai conosceva a memoria. Anche stavolta non rispose nessuno.
Erano ore che camminava in tondo e poi da una parete all’altra della sua stanza; erano ore che si affacciava alla finestra a guardare fuori ; ore che raggiungeva la porta per aprirla e per tentare di sfuggire ai pensieri che minacciavano di soffocarlo, ma poi la ritraeva di volta in volta dalla maniglia perché sapeva che non c’era modo di sottrarsi alle immagini che aveva in testa. Maximilian vedeva Janet fra le braccia di Andrew Davies. Da quando suo fratello aveva espresso il sospetto che Janet fosse andata a stare da Davies, Maximilian sapeva che era vero. Lo sapeva perché sentiva ciò che legava tanto indissolubilmente quei due, sua madre e quell’uomo: lo aveva captato con tutte le sue antenne prima ancora di poter capire di che cosa potesse trattarsi in sostanza. Da bambino non aveva la benché minima idea di che cosa potessero essere l’attrazione fisica, la passione, la soggezione sessuale, eppure si era ugualmente reso conto dell’ossessivo bisogno che sua madre aveva di Andrew Davies. Ora, dopo che quelle immagini erano sempre di più impallidite dentro di lui, dopo che le aveva sepolte in fondo alla sua psiche nella speranza che potessero un giorno essere davvero del tutto cancellate dall’oblio, ora erano tornate a galla, vivissime, e lui le fissava come se non fosse passato neppure un giorno da allora. Rivide la stanza nella penombra. Le finestre erano chiuse – discreta concessione al pudore di possibili ascoltatori involontari –, ma poiché erano rimaste aperte tutto il giorno l’ambiente era ancora pieno della fresca, quasi fredda aria di pioggia. Nel ricordo c’era sempre quell’odore di pioggia, benché non potesse esser piovuto sempre quando Janet e Andrew si incontravano. Ma il passato aveva leggi tutte sue, in base alle quali metteva radici nella memoria, e non erano leggi sempre tenute ad attenersi all’esatta corrispondenza con la realtà. Era piovuto, dunque c’era odore di muschio umido, di foglie e cortecce bagnate. Le persiane non erano state accostate, ma erano state tirate le tende. Qualche volta, ricordava, c’erano anche un paio di candele accese.
Andrew Davies era grande, più grande di Phillip e, pur essendo magro, sicuramente più pesante di lui. Come faceva la delicata Janet a resistere sotto quel peso? Tanto più che lui non stava mica fermo. Prima le si addossava tutto, affondava il volto fra i lunghi capelli di lei, sparsi sul cuscino, però i suoi fianchi si sollevavano e si abbassavano mentre Janet gemeva lievemente. Dunque quell’uomo le faceva del male. Perché lei non si difendeva? Il bambino piccolo aveva cominciato a tremare, e anche oggi, dopo tanti anni, tremava al ricordo. Lei sussurrava parole il cui significato allora gli era sfuggito, ma che adesso capiva e gli facevano avvampare le guance dalla vergogna. Parole che sollecitavano Andrew Davies a cavalcarla con più impeto, con maggiore velocità, senza riguardo, più di quanto già non facesse. Davies aveva sollevato il busto puntando le mani sul cuscino, e ora si muoveva su di lei con una violenza tale da far sbattere rumorosamente l’uno contro l’altro i due corpi. Janet gli piantava le dita nelle braccia, invocava alternativamente Andrew e Dio, oppure si limitava a gemere come un animale moribondo, ed era stato esattamente questo che il bambino aveva pensato: che Andrew stesse uccidendo Janet, e che lui avrebbe dovuto accorrere, che avrebbe dovuto aiutarla. Ma aveva le gambe paralizzate dalla paura e dall’orrore, i palmi delle mani bagnati dal sudore mentre i battiti del cuore sembravano volergli schiantare il petto. Janet aveva gridato, forte, e Andrew si era sollevato su di lei, fermandosi in una posa simile a quella di un uccello predatore che avesse appena ucciso un animaletto, salvo poi abbassarsi e giacere su di lei. Quei due erano rimasti lì, avvinti l’uno all’altra, mentre nelle orecchie del bambino il rimbombo era talmente violento da non consentirgli di sentire il loro respiro affannato e da convincerlo quindi che fossero morti entrambi. E ogni volta, nel momento in cui Janet cacciava quel grido terribile, lui se la faceva sotto. E così, a tutto il resto, si aggiungeva anche la vergogna bruciante per quell’incidente che lo faceva precipitare di nuovo all’età di quel neonato che non era più da tempo. Inizialmente aveva nascosto la sua biancheria bagnata, però Janet cominciava poi immancabilmente a cercarla, la trovava oppure lo assillava fino a quando lui rivelava il nascondiglio segreto. E lei, come poi insisteva nel dire, non era arrabbiata con lui per quello che gli era successo, ma perché aveva tentato di nasconderlo. «Non hai proprio nessuna fiducia in me? E rispondi, no! Che ti piglia ?» Ma quello era stato il periodo dell’afasia, del mutismo. Non aveva saputo esprimere a parole quel che gli succedeva dentro. Non era stato capace di articolare la sua vergogna e neppure la sua paura. Non riusciva a parlare di quell’uomo grande e grosso cui Janet continuava a permettere di farle del male, né dell’orrore che provava quando pensava di vederli morire entrambi fra spaventose sofferenze. «Non è riuscito a parlarne neppure con suo padre?» gli aveva chiesto un giorno il professor Echinger. Ci aveva pensato a lungo. No, allora non gli si era mai affacciata nella mente la possibilità di parlarne con Phillip. «No. Non potevo. Non riuscivo a parlare, in un senso quasi fisico, quando si trattava di quella cosa.» «Sua madre, in sostanza, non aveva adottato precauzioni. Avrebbe pur dovuto temere che lei e suo fratello, sia pure per caso e senza malizia, la tradiste.» Quello era un altro aspetto sconvolgente. «Non sembrava affatto temere una cosa del genere. Più tardi ho perfino pensato che...» «... che suo padre lo sapesse?» «Sì», aveva risposto Maximilian, cupo, «lui lo sapeva. E lo accettava. » Che Phillip avesse saputo ogni dettaglio di ciò che quei due facevano quando lui non c’era? Ogni variante dell’amore fisico si era dipanata sotto gli occhi sbarrati dallo spavento del bambino che stava rannicchiato accanto alla porta socchiusa per seguire quell’estatico aggrovigliarsi nel letto dei suoi genitori, con il fiato caldo del fratello sul collo, avendone nell’orecchio l’ansito spaventato, sentendo il totale irrigidirsi del piccolo corpo. Ma perché, si era chiesto anni dopo, Janet non aveva chiuso bene la porta? Gli era venuta in mente una sola possibile spiegazione: per loro. Aveva voluto
rimanere in grado di sentire i bambini se l’avessero chiamata. E invece si era comportata in un modo per cui non l’avrebbero mai più invocata. Un giorno aveva provato perfino sollievo, cioè quando li aveva visti per la prima volta in posizioni invertite. Finalmente, finalmente Janet si vendicava di tutte le umiliazioni che le erano state inflitte. Come lo spettatore di un incontro di boxe che applaude e incita quello dei due pugili che appare perdente nel momento in cui, inaspettatamente, si rialza e mette l’avversario in serie difficoltà, anche lui avrebbe voluto lanciare a Janet grida di trionfante incitamento. Però a un certo punto aveva capito che anche così tutto finiva fra grida, gemiti e quell’afflosciarsi dell’una addosso all’altro. Infine aveva quasi maggiormente temuto quella posizione, perché rendeva sua madre, in aggiunta a tutto il resto, anche senza dignità. Fino ad allora era stata solo vittima, così invece diventava lei stessa parte attiva, e perciò anche ripugnante, repellente. Era brutta con quella faccia stravolta e lucida di sudore, con quei seni che le ballonzolavano. Non era la mamma che conosceva. La mamma indossava bei vestiti e i suoi capelli, accuratamente pettinati, splendevano alla luce. Aveva un buon odore e aveva il più dolce dei sorrisi, la sera si sedeva sul bordo del letto dei figli, li abbracciava e dava loro la sensazione di proteggerli da tutti i mali del mondo, di appartenere soltanto a loro; unica nel suo modo d’essere, nel suo essere immacolata, non sfiorata se non da ciò che al mondo fosse senza macchia. Invece così aveva distrutto radicalmente la loro illusione e, non molto tempo dopo la scoperta della relazione che la madre aveva con Andrew Davies, i figli avevano cominciato a chiamarla «Janet», senza volersene più distogliere nonostante tutte le sue lacrime e i suoi rimproveri. Durante quel suo aggirarsi a caso per la stanza era arrivato di nuovo accanto alla finestra e guardò fuori. Erano le dieci di sera, ma l’oscurità non era ancora scesa del tutto. Non gli piacevano particolarmente quelle chiare notti di mezza estate, lassù, proprio a ridosso del confine con la Scandinavia. Lo inquietavano con la loro luce, le loro voci, la loro insonnia. Amava le silenziose, nere notti invernali in cui spiccava in cielo un astro freddo, o in cui l’oscurità e la neve si allargavano come un manto protettore sulle ferite e sulle paure. Chissà com’era in quel momento la notte nella Francia meridionale ? Sicuramente più buia di lassù, d’un nero vellutato. Si sentiva così vicino al fratello. Era sempre stato così, durante tutta l’infanzia trascorsa insieme ma poi anche negli anni della separazione. Forse, assai semplicemente, non c’era niente che potesse dividerli davvero: fin da quel tempo lontano in cui avevano cominciato a vivere stretti l’uno all’altro nel corpo di Janet. Qualche volta, di notte, Maximilian sentiva il battito del cuore di Mario anche se Mario era lontano, chissà dove, e poteva desumere dalla regolarità, dal ritmo di quei battiti, se il fratello dormiva tranquillo, se lo tormentavano brutti sogni o se si rigirava sveglio nel letto. Poi non era mai andato a verificare l’esattezza della percezione, ma qualche volta, l’indomani, si erano visti oppure sentiti per telefono, e Maximilian non si era mai sorpreso nel sentire e vedere confermate le sue sensazioni. «Non ho chiuso occhio stanotte, forse è dipeso dalla luna piena, ma non sono riuscito a dormire neppure per un minuto...» «Lo so.» Anche in quel momento Mario non dormiva. Forse era ancora troppo presto, la sera era ancora giovane, però Maximilian sapeva, sentiva che Mario non avrebbe trovato pace per tutta la notte. Anche Mario, esattamente come lui, stava vedendo Janet nelle braccia di Andrew, e quell’immagine gli toglieva il sonno. Ma forse c’era anche dell’altro a togliergli la tranquillità. Maximilian era sicuro che Mario non era solo. Lo aveva sentito fin dall’inizio che il fratello gli sottaceva qualcosa quando gli aveva raccontato del suo imminente viaggio in Provenza. L’aveva desunto dall’espressione dei suoi occhi, dal tono della voce. Le differenze erano soltanto minime, ma nella vicendevole percezione di ciò che accadeva all’altro i due fratelli erano come due sensibilissimi sismografi. Non disponeva dell’ultima, risolutiva prova, però Maximilian era sicuro che Mario fosse in
compagnia di una ragazza. Riusciva a figurarsela: graziosa, fine. Delicati tratti del volto. Lunghi capelli biondi. Un po’ come la giovane Janet in quell’irradiare vulnerabilità e innocenza. Però al di là della facciata, quasi non ravvisabile alla prima occhiata, l’indomabile fame di vita, l’ottimistica disponibilità ad assaggiarne anche i frutti proibiti. Così erano, tutte. Lui lo sapeva. Ma Mario, suo fratello, lo sapeva? E, se no, quando se ne sarebbe accorto? Aprì di scatto la porta che dava sul corridoio, soggiacendo ora alla speranza di poter dopo tutto fermare in qualche modo il corso della sua fantasia. Forse era pazzo. Forse non poteva più da tempo fidarsi delle sue sensazioni. Gli somministravano medicinali, psicofarmaci : per «metterlo tranquillo», dicevano. Odiava quelle pillole. Si posavano come un pesante velo sul suo animo, lo annebbiavano, gli consentivano di continuare a cogliere tutto come prima, ma come se le cose avvenissero dietro un sipario che gli impediva di stare in contatto con le sue sensazioni, con i suoi sentimenti. Era come essere separati da se stessi, e certe volte si era sentito quasi impazzire. Allora gli avevano fatto delle iniezioni, ed era andata anche peggio. D’altra parte, senza i medicinali, cominciava già dopo poco tempo a tremare in modo irrefrenabile. Si domandò quante persone entravano nelle cliniche psichiatriche più sane di quando ne uscivano grazie alle pillole. Aveva passato notti intere in preda allo sforzo disperato di penetrare attraverso la nebbia fino alle origini della propria inquietudine, e quello che aveva colto, sentito, non lo avrebbe augurato al peggior nemico. Il corridoio era al buio perché non c’erano finestre. Era accesa solo la luce azzurra d’emergenza. Apparentemente dormivano tutti. Alle nove di sera venivano distribuiti i sonniferi a chi ne aveva bisogno o li desiderava, e per lo più, dopo quell’ora, subentravano silenzio e pace in tutto l’edificio. Echinger era sicuramente ancora intento al lavoro, e forse anche qualcuno dei medici in servizio. Chi non era di turno nei giorni successivi o non abitava nella clinica erano già andati a casa. Maximilian guardò il suo orologio. Le dieci e mezzo. La sua irrequietudine crebbe. Ma non poteva andarsene da quella zona isolata, appartata, lontana dal mondo, almeno non di notte. Sapeva dell’esistenza di una fermata dell’autobus, a circa tre chilometri da lì, ma a quell’ora non c’era più servizio di corriera. La prossima sarebbe passata l’indomani mattina, alle 7. Allora sarebbe potuto salire a bordo, avrebbe attraversato tutti i villaggi della zona fino a Niebüll, dove avrebbe preso il treno per Amburgo. Tornò nella sua stanza, si chiuse la porta alle spalle. Con mani tremanti aprì un cassetto dell’armadio, scavò sotto la biancheria impilata. Da quando era libero di muoversi fuori dalla clinica gli davano dei soldi, molto pochi a dire il vero, e doveva rendere conto di come li spendeva. Tuttavia nel corso dell’ultimo anno era riuscito a mettere da parte, un po’ alla volta, duecento marchi. Spesso si era fatto dare il denaro per andare al caffè, ma poi aveva pagato suo fratello oppure era stato lui a rinunciarvi. Per le condizioni vigenti in quella clinica, disponeva di un vero e proprio capitale. E c’era dell’altro, qualcosa che rappresentava un tesoro ben maggiore di tutto il denaro: un passaporto. Un passaporto scaduto, sì, però dalla fotografia lo guardava la sua faccia. Il documento era intestato a Mario Beerbaum. Glielo aveva portato in clinica il fratello. Non sapeva quando di preciso, nell’arco delle ultime ore, fosse maturato in lui il piano di raggiungere Duverelle. In sostanza non era neppure un piano, né lui ci aveva rimuginato su. Stava seguendo un impulso, una voce che lo chiamava. La generica, confusa agitazione che lo aveva assillato tutto il giorno tormentandolo con quelle vecchie immagini aveva ceduto alla chiara consapevolezza di ciò che doveva fare. Senza tener conto delle conseguenze: conseguenze che, lo sapeva, sarebbero state gravi e pesanti. Il suo rilascio era previsto per i primi di agosto, ma da quel momento lo separavano ancora quasi otto settimane. Se fosse fuggito in quel momento, avrebbe rischiato tutto. Echinger era tenuto a denunciare subito la sua sparizione, altrimenti sarebbe incorso in sanzioni che, alla peggio, potevano perfino costargli la licenza. Avrebbe rinviato il più possibile il momento di farlo, ma c’erano troppe persone nella clinica che avrebbero saputo, capito, e quindi a un certo punto non avrebbe più
potuto evitare di denunciarlo. Da quel momento lo avrebbero cercato con mandato di cattura, e lui avrebbe probabilmente potuto dimenticarsi della possibilità di essere dimesso in agosto. Eppure l’avrebbe fatto lo stesso. Doveva farlo. Si sedette accanto alla finestra ad aspettare il mattino.
Mercoledì 7 giugno 1995 Quando Tina si svegliò era ancora buio e, quando accese la luce sul comodino e guardò la sveglia, constatò che erano le 3 del mattino. Si domandò che cosa potesse averla svegliata. Poi l’udì: da qualche parte della casa proveniva musica, a basso volume, sì, eppure doveva esserle ugualmente penetrata nel sonno. Era una musica drammatica, sconvolgente, di quelle che ti penetrano nella pelle, anche da lontano. In quella notte provenzale faceva un effetto spiazzante e tormentoso insieme. Si alzò, indossò l’accappatoio e lasciò la stanza. Scese lentamente le scale. Si fermò davanti alla porta di Mario. Aveva pensato che la musica provenisse da lì e invece si rese conto che il suono veniva da basso, dal soggiorno. Esitante, scese l’ulteriore rampa di scale. La porta del soggiorno era solo appoggiata e una striscia di luce si protendeva nel corridoio. Ora la musica risuonava più forte. «Mario?» domandò Tina. Nessuna risposta. Aprì la porta. Mario era alla finestra, le voltava le spalle e guardava fuori, nella notte. Era completamente vestito: jeans, T-shirt, calze e scarpe. Aveva acceso solo un lume a stelo che immergeva la stanza in una luce soffusa. La musica, insinuante, invadente, veniva da un lettore di CD. Improvvisamente Tina rabbrividì. «Mario», disse di nuovo, ma lui continuò a ignorarla, a non sentirla. Si schiarì la voce: «Mario!» Lui si girò di scatto. Vide che era pallido in volto e gli occhi le sembrarono più scuri del solito. Le sopracciglia risaltavano fortemente sulla pelle diafana. «Che ci fai qui?» chiese lui dopo un momento di stupito silenzio. «Lo chiedo a te! Sono le tre di notte. Non ti sei messo a dormire ?» Mario abbassò gli occhi su se stesso, come se avesse bisogno degli indumenti che indossava per ricordare. «No», disse poi, «ma io vado spesso a letto tardi perché stento a addormentarmi.» «Le tre di notte mi sembrano un po’ troppo tardi, però.» Mario non seppe che cosa rispondere. Si avvicinò al lettore di CD e lo spense. Il silenzio giunse improvviso, tale da risultare quasi angoscioso. Mario si passò una mano sui capelli. Sembrava esausto, come se fosse reduce da una grande fatica. «Ne soffro da anni», disse in tono di scusa, «di insonnia, voglio dire. In attesa del sonno devo pur fare qualcosa, e così ascolto musica. Mi dispiace di averti svegliata.» «Non hai bisogno di scusarti. È solo che... voglio dire, hai mai cercato di scoprire da che cosa dipende? Alla tua età non è mica normale non riuscire a dormire.» «Be’, io... penso di essere un tipo nervoso, ecco tutto.» Stava svicolando, mostrava chiaramente che quella conversazione non gli garbava minimamente. Tina ebbe l’impressione di dargli fastidio. Sembrava un animale messo alle strette. Decise di non approfondire. «Va bene. Io in ogni caso torno a dormire», disse in tono leggero e intanto pensò: mio Dio, ma che aspetto miserabile ha! Così teso, così triste. Fu assalita da sensi di colpa: si era mostrata seccata tutto il giorno, fredda fino a sera. Ora gli sfiorò cautamente un braccio. «È bello questo posto, sai?» disse. «Un po’ isolato ma bello. Ero arrabbiata perché mi ero figurata tutt’altro, però adesso è tutto okay. Dico davvero.» Mario sorrise. «Sono contento di sentirtelo dire, Tina.» Erano vicinissimi: Mario pallido e vulnerabile, Tina molto giovane e timida. Eppure fu lei ad alzare la mano e a passargliela sulla guancia, ad affondargli le dita fra i capelli. «Mario», disse, piano. Era la prima volta in vita sua che s’imbatteva nella sensazione di voler essere così vicina a un uomo, e cominciò a capire che cosa significava desiderarlo... con l’anima, il corpo, i pensieri, struggendosi per lui.
«Dopo che l’avrai fatto la prima volta», le aveva sempre predetto Dana, «non smetterai più.» Evidentemente aveva ragione. Non esisteva una sensazione d’uguale intensità. Negli occhi di Mario lesse qualcosa della stessa fiamma che ardeva dentro di lei, e seppe che lui, qualunque cosa fosse accaduta prima, qualunque cosa potesse accadere dopo, sentiva in quel momento come lei che non sarebbe riuscito a sottrarsi a quel sentimento, a quel desiderio. Si baciarono senza quella distaccata castità che prima si era alzata come un muro fra di loro. Le mani di Mario si insinuarono sotto l’accappatoio di Tina. Lei indossava solo gli slip e una maglietta, troppo corta, tanto da lasciare nudo il ventre e quando le dita di Mario lo sfiorarono rabbrividì. Quasi senza rendersi conto di ciò che faceva, Tina sfilò a Mario la maglietta. La sua pelle era calda e asciutta, e sapeva un poco del sapone al cedro che c’era in bagno. Il cuore gli batteva martellando furiosamente nel petto. Attirò Tina accanto a sé sul pavimento, continuando a baciarla e ad accarezzarla, dimostrando senza pudore l’intenso desiderio che aveva di lei. Quando il peso di lui le calò addosso e sentì il respiro di Mario a stretto contatto con la sua faccia, pensò: non sarà mai più così bello, mai più in vita mia sarò... E proprio in quel momento Mario si staccò, si sollevò su di lei e la fissò. Nei suoi occhi c’erano spavento e repulsione. Lei seppe subito che non si sarebbe mai più imbattuta in uno sguardo simile: mai più nessuno l’avrebbe guardata dall’alto in basso con una tale espressione di disgusto, con così tanto disprezzo, con quella smorfia di nausea sulla bocca. Mario si rotolò da parte e rimase disteso accanto a lei, supino e ansimante. Tina non riusciva a capire che cosa fosse accaduto. Non avevano pronunciato una sola parola, e quindi non poteva aver detto qualcosa di sbagliato. Che cosa era andato storto allora? Si sedette, abbassò la maglietta, si avvolse più strettamente nell’accappatoio, si riordinò i capelli con le dita. Guardò Mario che, con gli occhi sbarrati, fissava il soffitto e si sforzava di respirare di nuovo più piano. «Mario», disse, e non osò toccarlo. «Mario... che cosa succede? » Lui non rispose. La domanda di Tina divenne più insistente: «Mario... che ti piglia improvvisamente?» Il suo sguardo si spostò dal punto immaginario sul soffitto che aveva fissato fino a quel momento e si poggiò su Tina. Nei suoi occhi scuri non c’erano più tenerezza né desiderio. Solo ira. Una furia feroce, pericolosa. «Che cosa è successo?! E sul serio me lo chiedi? Ma lo sai che cosa stava quasi per succedere?» «Sì, lo so.» Era sconcertata. «Certo che lo so.» «Ah. E non ti turba nemmeno un po’, eh?» Ora anche lui si sedette. Il busto nudo era lucido di sudore. Gli occhi gli scintillavano. «Ti sarebbe piaciuto un sacco, eh?» «Mario... io ti amo. Io ho sempre pensato che...» «Che cosa? Che cosa pensavi?» «Ho sempre pensato che facesse parte dell’amore l’essere...» Ora era talmente spaventata e disorientata che si mise spasmodicamente alla ricerca di una perifrasi discreta di ciò che, detto fuori dai denti, avrebbe forse solo scatenato ulteriormente la rabbia di Mario, «... l’essere... molto vicini...» Mario la guardava con impaziente attenzione: «Quanto avresti voluto essermi vicina?» Tina aveva l’impressione che una sola parola storta avrebbe causato un’esplosione. «Io volevo solo... volevo soltanto...» «Tu volevi sedurmi! E ci sei quasi riuscita. Da chi hai imparato a farlo così bene? Da quella tua amica Dana, da quella...» sputò letteralmente la frase, «poco di buono?» Tina si irrigidì. Il suo disorientamento stava lentamente cedendo a una violenta arrabbiatura. Ma che cosa si era messo in testa quello ? E come osava offendere Dana? «Non voglio sentirti parlare così di lei», disse fredda. «Se l’è fatta con ogni maschio di Amburgo e dintorni», affermò Mario, sprezzante, «e lo sanno tutti.»
«Sono solo affari suoi.» «Evidentemente no. Evidentemente è un qualcosa che si è ripercosso anche su di te ed è quindi anche affar mio.» Tina si alzò, pallida di rabbia. «Tu non sei normale!» Anche Mario si tirò su da terra. «Avrei dovuto saperlo», dichiarò. «Che cosa?» «Che non sei diversa da tutte le altre. Neanche un po’.» «Ti dispiacerebbe svelarmi che cosa intendi dire con ciò?» «D’aspetto sembri un angelo. Ma è un’illusione. Fin dall’inizio non hai mirato ad altro che ad avere una breve avventura con me. Ecco perché hai assolutamente voluto fare questo viaggio. Miravi a qualcosa di ben preciso.» Ora il tono della sua voce era amareggiato, deluso. Ma è assurdo, pensò Tina. Aveva l’impressione di vivere in un sogno grottesco, in uno specchio deformante della realtà. Si sentì improvvisamente stanca, triste e... inerme. «Mario, credo che, per adesso, parlarne ancora non porterebbe a niente», disse. «Dormiamoci su e vedremo domani se sarà il caso di continuare questa vacanza. Io... io, ora come ora, sono troppo confusa.» Lui rimase zitto, limitandosi a guardarla con un’espressione da... cane bastonato. Ma anche inorridito e sconvolto. Infine alzò una mano, le prese una delle lunghe ciocche di capelli e lasciò che gli scivolasse lentamente fra le dita. «Io ti amo davvero molto, Christina», disse, piano. A Tina fece una strana, insolita impressione quel sentirsi chiamare col suo nome per esteso. «Tu sei l’immagine che conservavo in me.» Tina non capì che cosa intendesse dire. «Come?» «La musica», disse, «è quella musica.» «È una frase di quel brano musicale che stavi ascoltando?» Era confusa, sconcertata. «Tu sei l’immagine che conservavo in me... Che cosa significa?» Non le rispose, ma si voltò e lasciò la stanza. Udì i suoi passi sulle scale poi, al piano superiore, la porta della sua stanza chiusa con molta determinazione. Tina impiegò cinque minuti per riprendersi tanto da poter a sua volta risalire nella sua stanza e mettersi a letto. Non riuscì più a riprendere sonno fino al mattino. «Posso disturbarla un attimo, professore?» Il dottor Rosenberg, uno dei collaboratori di Echinger, si era affacciato alla porta dello studio del suo superiore. Il professor Echinger era seduto alla scrivania. Sbirciò distrattamente sopra il bordo degli occhiali da lettura. «Sì? Cosa c’è?» «Forse non significa niente, ma...» Ora Rosenberg entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. «Maximilian Beerbaum è sparito. Senza avvisare nessuno.» Echinger, che in un primo momento era apparso desideroso solo di porre rapidamente fine a quella poco gradita interruzione, si fece da un momento all’altro attentissimo. «Da quando?» «Ha disertato la colazione e da allora nessuno ha più avuto occasione di vederlo.» Echinger, come accadeva il più delle volte, non aveva partecipato alla colazione comune ma aveva lavorato per conto suo, sin dal primo mattino. Aggrottò la fronte. «Gli è mai capitato di saltare la colazione negli altri giorni?» «Sì. Ma oggi, subito dopo, era in programma un’ora di conversazione di gruppo alla quale avrebbe dovuto partecipare. A quella non è mai mancato. Oggi è stata la prima volta.» «Ha guardato nella sua stanza?» Rosenberg annuì. «Certo. Lì non c’è.» Echinger consultò l’orologio. «Alle 11 Beerbaum dovrebbe venire qui da me, per un’ora. Forse,
nell’attesa, ha preferito andare a passeggio e ha dimenticato l’altro impegno. In tal caso dovrebbe rientrare prima delle undici... perché l’appuntamento con me è una di quelle cose che non dimenticherebbe di sicuro.» «Non si era neppure mai dimenticato di avvertirci prima di uscire », gli fece notare Rosenberg, «se non altro perché sa quali possono essere le conseguenze.» I due uomini si guardarono. «Se non dovesse presentarsi qui da me», disse infine Echinger, «andremo a dare un’occhiata alle sue cose. Per vedere se manca qualcosa.» «In ogni caso, semmai, dovremmo denunciare il fatto oggi», disse Rosenberg. Echinger si alzò, gettò la penna a sfera sul ripiano della scrivania. «Non riesco a immaginare che possa aver tagliato la corda! Sarebbe una pazzia! Uscirà fra nemmeno otto settimane. Che cosa sono mai otto settimane? Dio sa se poteva aspettare!» «Negli ultimi giorni l’ho visto molto teso. C’era qualcosa che lo turbava.» «La madre», borbottò Echinger, «la madre se ne è andata, a Londra, probabilmente dall’ex amante. E suo fratello ha raggiunto in macchina la Provenza: da solo, a sentir lui.» Rosenberg conosceva con precisione il caso Beerbaum. «Fattori piuttosto critici», commentò. «Ammesso e non concesso che se ne sia andato...» Echinger pensava a voce alta, «lo avrebbe fatto per andare dove?» «Dalla madre?» «Non saprei dire perché, ma non credo.» «Potrebbe essersi proposto di farla tornare da suo padre.» Echinger scosse il capo. «Sono sei anni che mi occupo di lui. Dovrei ingannarmi molto se...» «Che cosa?» «Non credo che s’immischierebbe nelle faccende dei suoi genitori. La madre non ha più quella capitale importanza che aveva una volta per lui. Non sarebbe certo entusiasta se si fosse messa di nuovo con quell’Andrew Davies, però non si intrometterebbe.» «Hmm.» Rosenberg era dell’idea che ci fossero cose, come quella appunto, che non si potevano mai valutare con precisione. «È lei il suo medico», disse comunque, «e quindi può giudicare meglio di me.» Echinger uscì da dietro la scrivania, si avvicinò alla finestra parzialmente aperta. Inconsueta per quell’ora, si avvertiva già, fuori, un’afa opprimente. Sicuramente ci sarebbe stato un temporale quel pomeriggio. «Fra suo fratello e lui», disse lentamente, «c’è un forte quanto insolito legame.» «Non troppo insolito... sono gemelli.» «Già, quello dei gemelli è un fenomeno singolare, vero? Quel misterioso rapporto che sussiste fra di loro, invisibile, che non si interrompe mai... Lo riscontriamo spesso, ma nel caso Beerbaum sembra essere estremamente intenso. Quei due dialogano costantemente fra di loro, al di là dei chilometri e dei mesi che li separano. Conoscono i sentimenti e i pensieri dell’altro. Sanno tutto delle rispettive paure, sogni e speranze. A volte è come se fossero una persona sola.» «Una differenza fondamentale c’è», rammentò Rosenberg: «Maximilian è malato, Mario no.» «Sì», ammise Echinger, «la differenza fra di loro è questa.» Si staccò dalla finestra e guardò Rosenberg. «Faremo come abbiamo detto. Aspetteremo fino alle 11. Poi perquisiremo la sua stanza.» «E la polizia?» «Più tardi», disse Echinger, seccato. «Non mettiamo il carro davanti ai buoi. Se non sarà rientrato entro sera...» Non completò la frase. Rosenberg lo sapeva: se il caso Beerbaum si fosse concluso con un fallimento, per il professor Echinger sarebbe stata una sconfitta personale. L’esperto psicanalista non si sarebbe mai perdonato di aver interpretato in modo errato lo stato mentale di quel
giovane.
«Dana? Sei tu?» La voce di Karen suonò strana, rauca e faticosa. Veniva dal soggiorno. Dana, che aveva appena finito di fare la doccia e indossava soltanto un grande asciugamano avvolto attorno al corpo, si fermò nel corridoio. Avrebbe giurato che la madre, a quell’ora, era ancora addormentata. Aprì la porta del soggiorno. «Mami? Sei già sveglia?» Karen era stesa sul divano e si vedeva che non era neppure stata a letto. Indossava una vecchia e macchiata tuta blu e calzini di lana color rosso fuoco. I capelli, tagliati quasi a spazzola, erano schiacciati e in disordine, la faccia pallida era gonfia e vecchia. Accanto a lei, sul pavimento, c’erano parecchie bottiglie e bicchieri, e nella stanza aleggiava un penetrante puzzo di alcol. «Oh mami, ma era proprio necessario?!» chiese Dana, rassegnata. Reggendosi l’asciugamano davanti al petto, si avvicinò alla finestra e l’aprì. Il chiasso della metropoli entrò a fiotti assieme all’aria estiva satura di gas di scarico oltre che umida e pesante. Karen si portò una mano sulla fronte e si lamentò, piano. «Ho un terribile mal di testa... hai un’aspirina?» «Devi aver ingurgitato un’enormità di robaccia ieri sera», constatò Dana. Uscì, raggiunse la sua stanza, indossò la vestaglia, poi andò in cucina e gettò un’aspirina effervescente in un bicchiere d’acqua minerale. Le settimane di dieta salutare a base di carote e tè verde oltre che di esercizi fisici avevano ceduto il passo, brutalmente, a una fase di depressione. Karen, il pomeriggio precedente, aveva improvvisamente scaraventato in un angolo i libri con i suggerimenti ginnici, aveva raggiunto il più vicino supermercato dal quale era tornata con montagne di generi alimentari e una ragguardevole provvista di liquori. Quindi si era cucinato un abbondante pasto a conclusione del quale si era messa a bere a più non posso. Dana ci era abituata, ormai. Quando precipitava nello stato in cui vedeva tutto nero era capace di bere fino all’incoscienza. Portò il bicchiere alla madre e l’aiutò a sedersi, sorretta da una pila di cuscini. Karen aveva le labbra livide. Mostrava dieci anni più dei suoi quaranta. «Bella merda, eh, trovare di mattina la propria madre così conciata ?» borbottò. «Cosa è successo ieri sera?» s’informò Dana. «Avevi in programma una serata di tutto riposo!» Lei era tornata dalla discoteca a tarda notte e aveva raggiunto la sua stanza in punta di piedi, convinta che tutto fosse a posto. «Non stavo bene», dichiarò Karen. Bevve a piccoli sorsi l’acqua con il medicinale. «Ero così sola...» «Mi dispiace. Non sapevo che...» «Non è mica colpa tua. Nessuno ti obbliga a stare in casa per tener compagnia alla vecchia madre.» «Non sei vecchia, mami!» «Ma guardami!» si lamentò Karen, e in cuor suo Dana le diede ragione. Quanto meno stava invecchiando a grandi passi. E non dipendeva solo dai postumi della sbornia di quella mattina. All’origine delle rughe in faccia, spesso profonde, e della bocca tremula e cascante c’erano molti anni di continue frustrazioni e troppe ore in solitudine. Era naufragata professionalmente, non aveva un partner e a ben guardare neppure amici. Eppure in qualche strano modo, pensò Dana, riesce a cavarsela ugualmente. Si chinò su di lei e le diede un rapido bacio sulla guancia. «Sei okay», disse, «davvero!» «Sono una frana», rispose Karen, spietata. «Non ho un lavoro, non ho un compagno e sono in arretrato con l’affitto.» «Di quanto?»
«Due mesi. Ieri mi è arrivata una raccomandata dal proprietario. Minaccia lo sfratto.» «In giugno devono esserti arrivati i soldi di papà.» «Mi sono serviti per pagare alcuni debiti, e il resto se ne è andato in roba da bere e da mangiare.» Dana sollevò alcune bottiglie che erano accanto al divano e lesse le etichette. «Questa è brodaglia abbastanza cara», constatò. «Ecco una voce su cui si potrebbe risparmiare! Dico sul serio.» «Non posso negarmi sempre tutto. Ogni tanto uno ha bisogno di un po’ di gioia dalla vita.» «Che gioia sarà mai, se dopo ti ritrovi ridotta come adesso», disse Dana. Andò a sedersi in poltrona e appoggiò i piedi sul tavolino. Le unghie delle dita dei piedi erano d’un color arancio luminoso. «Devi riprendere a lavorare, mami. Non solo per i soldi. Sarebbe importante anche per te.» «Nessuno mi vuole.» «Perché non sei disposta a fare nemmeno la più piccola concessione. Ecco perché! Ma guarda come ti conci! Tu...» «Ah! Dunque vorresti vedermi con la permanente, il completino di maglia e la collanina di perle al collo?» «Cazzate! Ma non è detto che debbano essere sempre colori squillanti quelli in cui ti avvolgi. Senza contare che... non me ne volere, sai, ma si vede da cento passi di distanza che gli stracci che indossi vengono da quei cesti di roba venduta un tanto al chilo. Capisco benissimo che ogni caporedattore faccia un salto indietro quando ti presenti!» «Perché sono tutti cacasotto superficiali in tre pezzi a righine.» «Devi in qualche modo adattarti a loro se vuoi che ti paghino, mami !» «E allora vuol dire che ho tirato su una piccola leccaculo», dichiarò Karen in tono aggressivo. Dana reagì con un’alzata di spalle. «Forse sono soltanto un po’ più furba di te. Io non voglio finire col vivere alla giornata come fai tu, senza sapere mai come pagherò l’affitto. E c’è dell’altro. Tu potresti anche permetterti l’assurdo modo in cui ti apparecchi se fossi, in compenso, una giornalista davvero in gamba, di quelle che...» «Ah... ora mi si contestano anche le relative capacità professionali ?» «Non parlo di come scrivi. È il tuo modo di lavorare che non va. Mai che tu abbia consegnato un articolo al momento giusto. Non ti sei mai attenuta agli impegni e agli appuntamenti. Il tuo lavoro consiste per lo più nel perdere gli aerei, lasciar attendere per ore, nei foyer degli alberghi, le persone che devi intervistare, passare delle ore a far niente là dove di volta in volta alloggi, mentre gli altri, fuori, fanno ricerche per i loro reportage che consegnano poi puntualmente per la composizione in tipografia. Non c’è giornale che possa permettersi una come te, mami!» «Vedo che ti sei calata straordinariamente bene nel cliché teutonico. Affidabilità, puntualità, ordine! No, di te non ci si deve preoccupare. Farai una carriera liscia come l’olio. Bada però, mentre ti arrampichi, di non scivolare sulla bava che coli!» Dana si alzò. «Mami: oggi, tanto per non cambiare, sputi fiele», disse, «eppure sai benissimo di avere torto. Sai benissimo che, quando mi vedono, tutti si scandalizzano e sparlano di me. Però io me ne frego. Sei tu, tu, la vera rammollita di casa, la lagnosa, la pseudoadattata. Vuoi vivere come ti aggrada, non vuoi attenerti a nessuna regola o convenzione, e pensi che sia straordinario da parte tua, salvo poi piombare nella disperazione e affogare nelle lacrime quando devi fare i conti con le sgradevoli conseguenze. E quindi le tue giustificazioni non sono affatto convincenti. Il modo in cui ti comporti non impressiona nessuno.» «Hai finito?» chiese Karen, fredda. Però era una freddezza affettata, Dana se ne accorse subito. Forse era stata troppo dura, forse aveva parlato eccessivamente senza peli sulla lingua nel dire a mami che cosa pensava di lei. Una mami che, in quello stato, non era nella condizione di affrontare una discussione su questioni di principio. «Mi dispiace», disse, «non volevo ferirti.»
«Ti fai influenzare troppo dai tuoi amici», sentenziò Karen. Il volto stava riacquistando un po’ di colore, però era ancora messa assai male. «Sei stata evidentemente contagiata dalle massime di quel tuo raffinato signor procuratore.» «Tu non conosci che il bianco o il nero. Se una non è proprio come te, allora è subito una povera borghesuccia e una conformista. Non ammetti le vie di mezzo !» «Meno male che almeno tu sai vedere le gradazioni.» Dana sospirò. Quel giorno non c’era proprio verso di ragionare con Karen. Ogni scambio di idee si sarebbe trasformato in una battaglia verbale. Quando la madre decideva di litigare, non c’era scampo. «Starò via per qualche giorno», annunciò. Karen la guardò senza particolare interesse. «Ah sì?» «Vado nel meridione della Francia.» «Oh!» Karen sogghignò e, per la prima volta quel mattino, sembrò un po’ meno vecchia e sciupata. «Allora non sai proprio starne lontano! La povera Tina ha bisogno della sua bambinaia, che la voglia oppure no!» «Cazzate. Non vado a fare la bambinaia. Né infastidirò quei due. Se li vedrò, accadrà solo di tanto in tanto, e per spassarcela.» «Il signor procuratore mi ha già detto che cosa ti frulla per il capo. Era preoccupato. Non vuole che io ti permetta di viaggiare in autostop. Ne succedono di troppe, dice.» Dana tornò a esibirsi in un’alzata di spalle. «Le sue intenzioni sono buone. Però a me non è mai successo niente. Senza contare che non avrei i soldi per pagarmi il treno.» Karen appoggiò il bicchiere vuoto sul pavimento, tornò a distendersi e chiuse gli occhi. «Ho l’impressione che la testa debba scoppiarmi da un momento all’altro», borbottò. «Quando intendi partire? » «In giornata. Intanto vado a vestirmi.» Si diresse verso la porta e si fermò: «Posso lasciarti sola, mami?» Karen sembrava morta, la faccia ridotta a un pallido straccio, gli occhi serrati. Le labbra si mossero solo lentamente: «Ma certo, tesoro. Mi arrangerò. Vai dove vuoi». Dana esitò ancora un momento e poi lasciò la stanza. La coscienza le rimordeva, ma anni di esperienza le avevano insegnato che non poteva essere d’aiuto alla madre. In qualche modo Karen doveva rimettersi in piedi con le sue forze.
Era solo un’impressione sua, o quella ragazza era davvero tanto disordinata ? Erano a Duverelle da appena un giorno e mezzo, ma in casa c’era già il caos. Due paia di scarpe abbandonate in corridoio che invitavano addirittura a incespicarci. In bagno le sue cose – cosmetici acquistati in chissà quale body-shop – erano accatastate davanti allo specchio occupando tutta la mensola. Non riappendeva mai al gancio gli asciugamani dopo averli usati ma li abbandonava appallottolati dove capitava. In cucina, quando si preparava un panino, lasciava coltello e piatto sul tavolo, e a volte si dimenticava perfino di riporre il burro in frigorifero. Una delle sue T-shirt era sul divano in soggiorno e un pullover di lana aveva passato la notte in terrazza, su una sedia a sdraio, dove la mattina dopo l’aveva trovato umido di rugiada. E io che ero convinto che fosse così meticolosamente ordinata, pensò Mario. Si domandò come mai la scoperta che era invece trasandata lo facesse tanto infuriare. Non era mai stato un fanatico dell’ordine, e quindi perché quell’improvviso cambiamento? Però quello che gli faceva paura era il pensiero che, in verità, lui stava solo cercando una scusa, un pretesto per potersi imbufalire. Aveva bisogno di una valvola di sfogo, di un’opportunità per esplodere, di aria da respirare. Provava una violenta aggressività verso di lei. Doveva liberarsene, altrimenti l’avrebbe soffocato.
L’immagine che si era fatto di lei si era infranta la notte prima, dopo che era già stata incrinata da numerose crepe. Che cosa aveva visto in lei? Una creatura da favola, una fata celestiale, un angelo? L’aveva collocata su un piedistallo che non le si addiceva affatto. Se ne era accorto già durante il viaggio: la gonnellina corta, quel rossetto di tonalità indecente. Lo aveva nauseato il modo in cui gli uomini la guardavano. E poi, la notte precedente! Lei gli si sarebbe data quando e come avesse voluto. Senza pudore, senza ritrosia. Era quello che Tina aveva sempre voluto, fin dall’inizio? Era per quello che aveva voluto assolutamente fare quel viaggio? No – si passò entrambe le mani sulla fronte, come se potesse in quel modo scacciare i pensieri che lo torturavano –, non doveva pensare il peggio di lei. Si era mostrata debole, la notte precedente, esattamente come aveva rischiato anche lui di cedere alla debolezza. La colpa non era solo di Tina. Si sforzò di pensare ad altro, raccolse gli indumenti che lei aveva sparso in giro e preparò una lista di cose che dovevano andare a comprare. Diede acqua ai fiori e tolse dal lavandino, in bagno, i capelli che lei ci aveva lasciato. La sua rabbia sfumò con la stessa rapidità con cui era venuta, però sapeva che non era affatto cessata. Poteva riaccendersi da un momento all’altro, e affiorare in lui con un impeto irrefrenabile. Uscì, passando per la cucina, sulla terrazza posteriore. Lì, all’ombra, la temperatura era più fresca che sul davanti. Il pavimento a mattonelle della cucina si estendeva fino a fuori, dando come l’impressione di inoltrarsi in un’altra stanza, più ariosa. Tutt’attorno c’erano orci di terracotta in cui erano piantati fiori variopinti, e negli interstizi fra le mattonelle si erano formate strisce di muschio. Nonostante i due grandi ciliegi che tenevano lontani i raggi del sole, il termometro appeso alla parete della casa indicava 28 gradi. Tina era sulla sedia a sdraio con addosso il ridicolo nulla d’un bikini. Mario si sforzò di non abbassare lo sguardo al di sotto del mento di lei. Stava leggendo, con un’espressione tesa e concentrata. Sussultò quando Mario le si fermò improvvisamente accanto. Lui sorrise e lei si rilassò un poco. «Cosa stai leggendo?» chiese. Tina chiuse il libro per fargli vedere la copertina. «Sita», lesse, «di Kate Millet.» Non conosceva quel libro ma sapeva chi era l’autrice. Si chiese che cosa potesse interessare Tina d’una femminista lesbica. Tina mise il libro in disparte. «È una storia opprimente», disse, «su una complicata e dolorosa relazione sentimentale fra due donne. » «Ah.» Ebbe l’impressione che lei si aspettasse un qualche intelligente commento da parte sua, ma non gliene venne in mente nessuno e così si limitò a un breve quanto significativo silenzio. Poi propose: «Accompagnami in paese a fare la spesa. Ci occorre qualcosa per cena». «Okay. Dammi il tempo di mettermi qualcosa.» E si alzò. Non mi vuole provocare, pensò lui, indossa quel minuscolo affare a fiori perché tutte le donne qui portano qualcosa di analogo. Non ha mai pensato all’effetto che fa. Come se avesse indovinato quello che avveniva dietro la sua fronte, Tina incrociò improvvisamente le braccia sul petto. L’imbarazzo le arrossì le guance. «Non ho ancora chiamato mio padre. Sarà certo molto preoccupato.» «Gli hai detto che gli avresti telefonato?» «Non ne abbiamo parlato. Ma l’abbiamo dato per scontato.» Spostò lo sguardo sul muro della casa fino alla finestra del piccolo studio al primo piano dove c’era il telefono. «Strano che non chiami lui, vero?» «Non ci chiamerà nessuno. Non vogliono disturbarci.» «Non saprei che cosa dirgli. Probabilmente si accorgerebbe che sono depressa.» Mario sapeva che quello era un segnale. Avrebbe dovuto coglierlo al volo e chiedere: perché sei depressa, Tina? Sarebbe stata una buona occasione per parlare di ciò che era successo quella notte. Avrebbe potuto spiegare che cosa gli era passato per la mente. Forse lei l’avrebbe capito. Ma gli
mancarono il coraggio e la forza d’affrontare un colloquio di quel genere. E quindi si limitò a dire: «Vestiti, Tina. Dobbiamo andare». Gli lanciò un’occhiata in cui si leggevano irritazione e dolore insieme, ma lui non reagì. E allora lei si voltò ed entrò in casa.
Come potevano essere lunghe le ore di una giornata quando non si aveva niente da fare! Bere e mangiare non erano cose che richiedessero molto tempo, e neppure riassettare un po’ una casa tenuta perfettamente in ordine da un’affidabile donna delle pulizie. Pioveva a dirotto e quindi non c’era neppure la possibilità di andare a rifugiarsi in giardino. Sarei dovuto andare a sedermi in ufficio, pensò Phillip, tanto più che lì ho del lavoro che si sta accumulando. Si era arreso invece, aveva constatato che non sarebbe mai riuscito a farcela da solo, ossia a sbrigare entro le scadenze tutto quel che sarebbe occorso sbrigare. La sua segretaria era partita già prima di Pentecoste per due settimane di ferie nelle Canarie e uno dei suoi due collaboratori si era dato malato proprio quella mattina. Janet, solo adesso si era accorto fino a che punto facessero capo a lei tutte le questioni dell’ufficio, era ancora a Londra, vale a dire a letto con Andrew Davies. Lo studente che lavorava precariamente da loro ammazzava il tempo girandosi i pollici perché nessuno gli dava le disposizioni necessarie, e il secondo collaboratore non faceva altro che lamentarsi dell’eccessivo carico di lavoro che gravava su di lui. Alla fine Phillip li aveva mandati a casa tutti e due, dicendo che si sarebbe fatto venire qualche idea per risolvere meglio i loro problemi di organizzazione. Sapeva benissimo che non gli sarebbe venuto in mente nulla e che, lasciando le cose come stavano, limitandosi a tenere accesa in ufficio la segreteria telefonica e abbandonandosi per il resto a una totale inazione, non avrebbe che peggiorato la situazione. Tuttavia non si sentiva nella condizione adatta per affrontare risolutamente il problema. Si era impadronita di lui una paralizzante letargia che si accentuava di ora in ora. Riusciva solo a stare seduto in poltrona a fissare il muro e ad analizzare la sua situazione in preda a una incessante e tormentosa ossessione. Era solo. Aveva perduto Janet. Anche se fosse tornata, non sarebbero mai più riusciti a vivere in un modo anche solo relativamente normale, non dopo quella seconda volta. Mario andava per la sua strada. Maximilian forse avrebbe potuto essere la sua ultima risorsa, ma non lo voleva perché, di fatto, sarebbe stato solo una palla al piede. Nel silenzio il ticchettio dell’orologio era molto rumoroso. Phillip si alzò, andò in cucina, mise su l’acqua per il caffè. Niente moglie, niente figli da far sedere a tavola per tenergli compagnia. Si sentiva miserabilmente solo e, poiché aveva sempre considerato la solitudine, con alterigia, la necessaria conseguenza dei propri errori nei rapporti con gli altri, era afflitto ora anche da un mucchio di confusi e disordinati sensi di colpa. La parola «fallito» gli martellava il cervello mentre fissava fuori dalla finestra la giornata grigia e aspettava che l’acqua si mettesse a bollire. Ogni tanto gli balenava nella mente un’idea audace e sbrigativa: salire sul primo aereo per Londra, raggiungere l’abitazione di Davies e andare a riprendersi Janet, semplicemente. Forse quella prova di forza l’avrebbe impressionata, destando in lei perfino quei sentimenti che non aveva mai provato per lui. Era evidente che era disposta ad assecondare gli uomini capaci di prendersi quello che volevano senza perdersi in chiacchiere inutili. «Sono venuto a prenderti, Janet.» Oppure, più aggressivo: «Deciditi. Se è lui che vuoi, facciamola finita, ma ti giuro che il divorzio sarà una faccenda talmente sporca che dovrai chiederti se lui ne sarà valsa veramente la pena». E se fosse ricorso al metodo Andrew Davies? Prendere Janet per un braccio e trascinarla letteralmente fuori dall’abitazione... «Sei mia moglie e ti consiglio di non dimenticartene mai più!» Phillip sospirò, rassegnato, quando capì che non avrebbe fatto nulla di tutto ciò. Non era il suo
genere, e lui non era quel tipo d’uomo: sarebbe apparso ridicolo, tutt’altro che convincente. Nel momento decisivo non lo avrebbe soccorso nemmeno la rabbia per dargli la forza necessaria. Non avrebbe provato altro che un senso di terribile, penoso imbarazzo... e sarebbe stato il peggior modo per affrontare e impressionare una donna come Janet e un individuo come Andrew Davies. L’acqua cominciò a bollire e contemporaneamente squillò il telefono. Per un momento Phillip valutò se non fosse il caso di continuare a prepararsi il caffè, imperterrito, e di lasciare che entrasse in funzione anche lì la segreteria telefonica, ma improvvisamente pensò che potesse essere Janet, che avesse deciso di parlargli. Si precipitò in soggiorno. «Sì?» pronunciò con il fiato corto. «Weiss», disse una voce fredda e molto distaccata. A Phillip quel cognome non diceva niente. «Sì?» ripeté. «Sono il padre di Christina Weiss.» «Oh... signor Weiss, buon giorno. Non sapevo...» «Signor Beerbaum, la faccio breve: sono molto preoccupato», disse Michael. «Mia figlia non dà segni di vita. Quei due dovrebbero essere ormai giunti a destinazione. Continuo a tentare di raggiungerli, ma non risponde nessuno.» C’era un tono di biasimo nella voce, come se ritenesse Phillip responsabile dello stato delle cose. «Può darsi che in effetti non siano ancora arrivati», ammise Phillip, «forse hanno interrotto il viaggio per una sosta più prolungata. Per vedersi con calma una città, una qualche zona.» «E allora perché Christina non mi chiama?» E come vuoi che faccia a saperlo, pensò Phillip, un po’ seccato. A voce alta disse però, in un tono che avrebbe voluto tranquillizzare l’interlocutore: «Sono giovani e innamorati, signor Weiss. È verosimile che, sul momento, i genitori siano l’ultima cosa alla quale vogliano pensare.» «Sarebbe una novità per mia figlia», insistette Michael, e fra le sue parole risuonava, inespresso, un rimprovero: non può che dipendere dal cattivo influsso di Mario! Stupido presuntuoso, pensò Phillip. Non rispose e si limitò ad aspettare. Infine Michael proseguì: «Io ero contrario a questo viaggio fin dall’inizio. Ma non c’è stato verso di farlo capire a Christina». «Tornerà da lei sana e salva, vedrà.» «E allora vuol dire che lei è più ottimista di me. In ogni caso le sarei grato se, qualora quei due dovessero farsi vivi con lei, li informasse del mio desiderio di sentire mia figlia. Per favore.» «Lo farò volentieri», disse Phillip, ora adeguandosi al tono riservato e risentito di Michael. I due uomini si congedarono in modo cortese ma freddo e, quando riagganciò, Phillip pensò: spero proprio che Mario non sposi quella ragazza. Un suocero così non glielo auguro davvero ! Era appena tornato in cucina che il telefono riprese a suonare. Per tutta quella squallida, desolante, triste giornata non aveva interrotto il silenzio angoscioso neppure con uno squillo, tacendo ostinatamente. E ora non si zittiva più. Phillip pensava alle disarmonie della vita quando alzò di nuovo la cornetta e pronunciò il suo solito «Sì?» Stavolta, all’altro capo della linea, c’era il professor Echinger. Gli comunicava che Maximilian era sparito dall’ora di colazione senza lasciare tracce. Non gli rimaneva ormai altra scelta che quella d’informare la polizia.
Andrew aveva fatto nell’arco dell’ultimo anno tanti di quegli straordinari che il suo superiore, il sovrintendente Brown, acconsentì con sollievo quando gli chiese un giorno di libertà. «Ma certo che le spetta, Davies. Lei si è dannato su quella storia di Corvey.» «Senza successo.» «Oh no! Lei ha preso l’uomo giusto. Lo sanno tutti. Non è colpa sua se mancano le prove per incastrarlo. Per ora.»
«È un caso mio, capo, e non è stato risolto in modo soddisfacente. Dopodomani la giuria potrebbe assolvere Fred Corvey per insufficienza di prove. Se sarà così, avrò mancato il mio obiettivo, e non ci sono scuse che tengano.» «Non sia così spietato con se stesso. Crede che non sia capitato anche a noi di dover assistere a denti stretti mentre un delinquente finalmente catturato lasciava da uomo libero l’aula del tribunale... solo perché mancavano un paio di maledette prove? Cielo, Davies! È una pillola amara che ognuno di noi deve ingoiare almeno un paio di volte nella carriera.» «Secondo le nostre leggi non gli si potranno contestare una seconda volta gli stessi delitti. Sono quattro omicidi e lui se la caverà. Ciò che mi fa impazzire è che io avrei dovuto immaginare che avrebbe ritrattato la confessione. Avrei dovuto saperlo! Questo caso non era ancora maturo al punto da poter essere portato in aula. Non avrei nemmeno dovuto arrestare Corvey. Avrei dovuto continuare a farlo sorvegliare e...» «Avrei, avrei, avrei!... E la pianti! In questo modo non fa altro che amareggiarsi l’esistenza!» Brown poggiò per un attimo la mano sul braccio di Andrew: un breve, amichevole gesto di solidarietà. «Avrà la sua occasione per rifarsi. Corvey è come un drogato. Non importa per quanto tempo, adesso, si guarderà bene dal compromettersi : ma prima o poi tornerà a farlo perché deve farlo. E la fortuna non sarà sempre dalla sua parte.» «Ora come ora sembra proprio che la sorte lo stia favorendo.» «Ora come ora. Ma non per sempre. Il vento girerà.» Brown esaminò Andrew con attenzione. Davies era depresso e insoddisfatto, ed era normale, considerata la sua situazione. Eppure sembrava più arrabbiato e frustrato di altri suoi uomini che avevano fatto la stessa esperienza. Ne era stato ferito profondamente, e la ferita gli faceva male. Perché se la prendeva tanto? Compassione per le vittime, passate e future? Rabbia per essersi imbattuto nel rovescio d’una di per sé splendida medaglia, quella di un corretto e incorruttibile sistema giudiziario? O quella che gli bruciava era la bruciante sconfitta patita dal suo orgoglio, dalla sua ambizione? Brown era un buon conoscitore degli uomini e, sulla base di tutto ciò che sapeva sul conto di Andrew Davies, era a quest’ultima ipotesi che attribuiva in cuor suo la preferenza. Davies non riusciva a digerire un insuccesso, ed era il suo personale handicap, quello che gli impediva di fare una più rapida e liscia carriera a Scotland Yard. Ambiva a diventare come minimo sovrintendente capo, posto che gli avrebbe assicurato la massima stima e forse perfino un titolo nobiliare. Tutti a Scotland Yard sapevano che era un eccellente funzionario di polizia, eppure non c’era nessuno che l’avrebbe protetto e favorito per profonda convinzione e di tutto cuore. C’erano stati incidenti di percorso in seguito ai quali era divenuto evidente che Davies poteva perdere il controllo quando doveva incassare una perdita. Le cose non erano mai precipitate, ma non c’era nessuno che non avesse l’oscura sensazione che Davies, prima o poi, si sarebbe cacciato per sua colpa in un tragico pasticcio. «Impieghi bene la sua giornata libera, si faccia venire in mente qualcosa di rilassante», disse Brown. «Dimentichi Fred Corvey e si diverta.» Andrew sorrise, ma la tensione che gli si leggeva in volto diceva in maniera chiara che attualmente gli era assolutamente impossibile non pensare a Corvey. Quando arrivò a casa, trovò l’appartamento vuoto. Sul tavolo di cucina c’era un biglietto con cui Janet gli comunicava di essere uscita «per sbrigare alcune cose». Andrew continuò a tenere il biglietto in mano quando si spostò in soggiorno per versarsi un whisky. Pensò a Janet mentre, accanto alla finestra, beveva lentamente il liquore e si abbandonava all’effetto rilassante dell’alcol. Da giovane aveva associato Janet a concetti come primavera, prati verdi, acqua limpida. Era, allora, quando l’aveva conosciuta, una ragazza di una ingenuità e una innocenza irresistibili: sorvegliata e protetta dal padre come un tesoro, senza essere mai venuta neppure minimamente in contatto con le disillusioni e con il male che la vita a volte riserva. Si era fidata di lui incondizionatamente, esattamente come si fidava di tutti e di tutto. Quando infine era riuscito a togliersi il padre dai piedi al punto da poter rimanere solo
con lei, avevano fatto l’amore e a lui era parso di commettere un sacrilegio, di aver profanato qualcosa che non era destinato né a lui né a nessun altro. Nello stesso tempo l’abbandono di lei, la sua tenerezza, la devozione profonda che gli aveva dimostrato erano stati tali che si era cullato nella certezza che non avrebbe mai perso quella ragazza, qualsiasi cosa fosse successa. Anche quando si era accorto di quanto soffrisse a causa delle numerose scappatelle che lui si concedeva in compagnia di colleghe particolarmente attraenti, non aveva mai temuto che potesse trarne le conseguenze e quindi abbandonarlo. Non a quell’età, a sedici e diciassette anni appena. Quando poi, diciottenne, era improvvisamente sparita in Germania, quella ribellione lo aveva colto completamente di sorpresa. E aveva reagito sbalordito quando, nel raggiungerla più di un anno dopo, l’aveva trovata sposata, con una fede al dito e nel pancione gemelli di sette mesi. Aveva constatato in lei una nuova determinazione, la sua ingenuità era svanita del tutto cedendo il posto a una ritrosia prudente, un po’ diffidente. Ma anche se la vita le aveva inferto quel primo, duro colpo Janet aveva conservato la sua naturalezza, il calore, la cordiale simpatia per il prossimo. La differenza, a volte difficile da cogliere, era questa: credeva ancora nel bene, ma non era più credulona. Il suo carattere era cambiato esattamente di questa lieve sfumatura, rendendola però ancora più affascinante di prima. Ora però... Ruotò il bicchiere fra le mani, osservò pensieroso il liquido ambrato, i cubetti di ghiaccio quasi sciolti. Ora c’era sempre un’espressione tormentata a oscurarle il volto. Andrew aveva talmente a che fare con persone alle prese con situazioni fuori dalla norma e aveva una tale confidenza con tutti gli immaginabili abissi della cosiddetta società civilizzata da non poter fare a meno di inquadrare ciò che scorgeva in Janet al di là e al di fuori delle naturali frustrazioni d’un matrimonio insoddisfacente. Per deprimenti e scialbi che fossero stati gli anni passati in compagnia di Phillip, non sarebbero di per sé bastati per insinuarle quel particolare dolore negli occhi. Da qualche parte, nella sua vita, doveva esserci stato uno stacco, una cesura più profonda e tremenda. D’altra parte si era già accorto che sarebbe stato inutile e insensato tentare di penetrarle nell’animo. Non avrebbe rivelato nulla prima di deciderlo lei stessa, di sua volontà. Sentì la chiave di lei girare nella serratura della porta di casa e le andò incontro, le tolse di mano le borse con gli acquisti e la baciò su una guancia. «Cominciavo già a sentirmi solo», disse, «non sono più abituato a entrare in una casa vuota.» Janet sorrise. «Mi sono accorta che non avevamo nulla per cena e così ho fatto un salto a comprare qualcosa.» Andrew, spiandoci all’interno, portò i sacchetti in cucina. «È roba che si potrebbe mettere nel congelatore?» Janet lo raggiunse. «Volendo, sì, credo. Hai intenzione di invitarmi a cena fuori?» «Voglio che tu prepari una borsa con l’occorrente per una notte e per un giorno. E che tu venga poi a sederti in macchina lasciando a me il compito di provvedere al resto.» Janet era sorpresa: «Ma...» «Mi sono fatto dare una giornata di libertà. E mi piacerebbe andarcene da qualche parte. Il fatto è che...» Esitò, ma poi proseguì ugualmente, a voce più bassa: «Dopodomani assolveranno quel Fred Corvey. Credo di aver bisogno di rimettermi in sesto e di preparami al colpo».
Partirono un’ora dopo, incontro a una sera luminosa e tiepida. Il traffico che soffocava Londra dopo la chiusura degli uffici si era già esaurito e si poteva quindi procedere con relativa rapidità. Leggendo i cartelli stradali, Janet capì ben presto dove erano diretti. «East Anglia», disse. «Vuoi raggiungere Cambridge?» «È da un’eternità che non la vedo. Ti va?» «Purché non si vada a trovare parenti!» Andrew fece cenno di no. «Ora che abbiamo un’inattesa giornata tutta per noi non la sciuperò
certo per andare a trascorrerla, con una tazza di tè in mano, sui divani polverosi di chissà quali zie. No, ho pensato di andare a rivedere alcuni luoghi della nostra gioventù. » «Della nostra lontana gioventù... !» Le lanciò sorridendo un’occhiata di sbieco. «Strano che tu lo dica. Proprio oggi ho la sensazione che non sia poi passato tanto di quel tempo. Mi sembra ieri quando ci incontravamo per i nostri appuntamenti clandestini in qualche appartato luogo del campus e tutto ci sembrava così eccitante e misterioso.» Janet evitò di guardarlo. Tenne gli occhi fissi sul panorama che scorreva fuori dal parabrezza: case, campi, prati. L’ondeggiante erba alta di giugno si piegava sotto il venticello della sera e scintillava con rossi riflessi alla luce radente del sole. Non è solo per lui che mi sento così, pensava. Questa è anche la mia terra. Sono a casa. Sul suo volto si diffuse un largo, giovanile sorriso. E non fu un pensiero partorito dal momento a farglielo fare. Il momento si limitò a destare un pensiero rimasto per lungo tempo sopito. «Voglio rimanere qui», disse. Per una frazione di secondo l’automobile sbandò, poi Andrew ne riprese subito il controllo. «Rimanere qui?» «In Inghilterra in ogni caso. Da te se mi vuoi.» Continuava a non guardarlo. «Chiederò il divorzio a Phillip.»
Dana aveva avuto fortuna. Ad Amburgo aveva trovato un passaggio sulla macchina di una giovane che l’avrebbe portata fino a Friburgo. Le aveva raccontato di essere una studentessa e che era reduce da una visita ai genitori che vivevano in una fattoria dello Schleswig-Holstein. A Dana rammentò Karen perché aveva anche lei corti capelli rossi e indossava roba abbastanza dozzinale. Si chiamava Patricia e studiava germanistica. «E tu sei diretta nella Francia meridionale?» chiese. «Tutto il tragitto in autostop? Pensi di farcela?» «In autostop ho raggiunto perfino la Costa del Sol», dichiarò Dana, «e un sacco di altri posti. Finora sono sempre arrivata dove mi ero proposta di andare.» «Un po’ pericoloso, direi», commentò Patricia, «specialmente se...» Lanciò una rapida occhiata a Dana e non completò la frase. Dana sospirò: «Se che cosa?» «Be’, non prendertela, ma vistosetta come sei rischi di avere dei problemi.» Dana abbassò lo sguardo su se stessa. Indossava le solite cose d’una calda giornata d’estate: una minigonna nera, una maglietta color pisello con la scritta MONTE CARLO sul petto, un paio di sottili braccialetti dorati che ballonzolavano attorno a entrambi i polsi, grandi orecchini di foggia creola, sandali neri corredati di tacchi relativamente bassi rispetto alle sue abitudini. Quando era partita stava giusto cominciando a piovere e quindi si era messa sulle spalle anche una giacca di jeans. Poi però la giornata si era fatta sempre più assolata e si era quindi sbarazzata di quell’indumento. «Non mi sembra di essere provocante», disse. Patricia sorrise con indulgenza. «Okay, il mio è solo un punto di vista. Voglio dire: sai come sono fatti gli uomini. Mostra loro qualcosa delle tue gambe o del petto, ed eccoli già a sostenere che non vedevi l’ora di essere violentata.» «Non è un problema mio. Io mi metto quello che più mi garba.» Patricia non insistette. Raccontò un po’ dei suoi studi e della nostalgia di casa che l’affliggeva di continuo. In serata, quando erano ormai poco prima di Friburgo, domandò: «Dove pensi di pernottare ?» «Spero di trovare presto qualcuno che mi pigli su, così dormirò in macchina.»
«Hai tanta fretta? Il mio appartamentino è piccolissimo, sai, però potrei offrirti un divano abbastanza comodo. In ogni caso è migliore del sedile accanto a quello del guidatore.» Dana valutò per un momento l’eventualità di accettare l’offerta. L’idea di una tranquilla cenetta, di quattro chiacchiere con quella giovane simpatica, e soprattutto del letto le sembrò estremamente allettante. Ma poi le tornò in mente Tina. Sapeva che chiunque si sarebbe messo a ridere se avesse parlato delle sue sensazioni: a momenti aveva addirittura l’impressione che Tina protendesse le braccia verso di lei, le sembrava di avvertire un pericolo che si stava sempre più avvicinando. Temeva che... No! Si vietò di pensare oltre. Era ridicolo. Stava diventando una nevrotica. Uno psicologo avrebbe scoperto nel suo rapporto con Tina un groviglio estremamente complicato di dipendenza, meccanismi di compensazione e proiezioni. Si era aggrappata a quell’amica perché non aveva il padre e sua madre era piuttosto labile, e ora stava cominciando a dare i numeri per il timore di perdere quell’unico appiglio... Per un analista sarebbe stata una pacchia. Ma, per pazze che fossero le idee che le frullavano in testa, non ce l’aveva fatta a ignorare l’urgenza con cui l’assillavano. E d’un tratto le sembrò escluso di poter lasciar passare un’intera notte senza fare niente. «È proprio gentile da parte tua, Patricia», disse, «ma ci sono delle precise ragioni che mi impongono di affrettarmi il più possibile. È meglio che mi scarichi in una stazione di servizio, di quelle in cui sostano anche i camionisti. Fra di loro c’è sempre da trovare qualcosa.» «Immagino che tu sappia quello che fai», commentò Patricia. Poco dopo lasciò l’autostrada dirigendosi verso un’area di servizio con tanto di ristorante. Gli autotreni fermi si scorgevano già da lontano. «È esattamente quello che cercavo», constatò Dana, soddisfatta. «Qui posso mangiare qualcosa e attaccar bottone con un paio di persone. Troverò sicuramente qualcuno che va nella mia direzione. » Patricia la guardò con aria piuttosto infelice, incerta fra l’opportunità di metterla di nuovo sull’avviso e la preoccupazione di sembrare una specie di governante iperprudente e fuori moda. Infine si limitò a dire: «Bada bene a te stessa, mi raccomando». «Ma certo. E mille grazie per lo strappo. Finora è andata meglio e più velocemente di quanto avessi sperato.» Dana scese e recuperò lo zaino dal sedile posteriore della macchina. «Stammi bene!» Chiuse lo sportello, fece un altro segno di saluto a Patricia e si diresse verso il ristorante. I riccioli scuri ondeggiavano al vento, i braccialetti tintinnavano. Patricia la seguì attraverso lo specchietto retrovisore. Ma che bella ragazza, pensò: attraente, giovane, ottimista ! Ingranò la marcia e proseguì il suo viaggio. Per tutta la sera non riuscì però a liberarsi da una sensazione di ansia.
Maximilian era nel frattempo arrivato a Francoforte, in un modo più convenzionale rispetto a quello di Dana, cioè in treno. Ma da lì anche lui avrebbe dovuto proseguire il viaggio con l’autostop, perché i suoi soldi erano quasi finiti. Quelli che gli restavano sarebbero bastati solo per bere e mangiare. Aveva raggiunto la metropoli sul Meno di pomeriggio, piuttosto stanco a causa di tutto ciò che si era già messo alle spalle quel giorno. Per non perdere il primo autobus del mattino, si era alzato prestissimo ed era uscito di soppiatto dalla clinica. Il che non era difficile se di notte non si era chiusi a chiave nelle stanze – cosa che nel suo caso non avveniva più da un anno – e si aveva dimestichezza con l’edificio. Servirsi dell’ingresso principale non sarebbe stato possibile, perché lì c’era, anche durante tutta la notte, nel suo sgabuzzino, un portiere che leggeva il giornale. Tuttavia si poteva scendere in cantina lungo la scala posteriore. La maggior parte delle finestre, laggiù, era munita di sbarre, ma in un ripostiglio appartato solo un’esile maglia metallica dava l’illusione della sicurezza. Era bastato un unico calcio per sfondarla. Rimuovere, al di là della rete metallica, la grata che copriva un lucernario non era stato un gran problema: gli era bastato lavorare di cacciavite e sollevarla. Per fortuna quell’uscita non dava sul settore di sicurezza delimitato dall’alta staccionata del parco, là dove
prendevano il sole i pazienti della sezione chiusa, ma sulla parte liberamente accessibile. Poi, proprio in fondo al complesso della clinica, non aveva dovuto far altro che superare un vecchio muro di pietra che però non costituiva un grande ostacolo. Una persona che praticasse una qualsiasi attività sportiva lo poteva sormontare in meno di tre minuti. Maximilian, negli ultimi tre anni di soggiorno in clinica, si era approfittato di tutte le possibilità che c’erano per allenarsi fisicamente, ed era quindi in forma. Non avevano costituito per lui apprezzabili difficoltà né l’evasione vera e propria dalla clinica né la marcia di tre chilometri fino alla più vicina fermata dell’autobus. Sapeva che dalla clinica non lo avrebbero visto. Indossava una T-shirt azzurra fresca di bucato, jeans puliti, scarpe da ginnastica e la sua giacca di pelle, un po’ consunta e «vissuta» proprio come voleva la moda del momento. Il barbiere era venuto in clinica appena due settimane prima e quindi aveva i capelli perfettamente tagliati. Non si era potuto radere perché nessun paziente, a scanso di tentativi di suicidio, aveva libero accesso ai rasoi, ma l’ombra grigia che gli copriva il mento e le guance non era tale da renderlo subito sospetto. La maggior parte dei giovani si aggirava in modo ben più trasandato. L’alba che stava schiarendo il cielo era luminosa e fresca, e l’aria era pura e frizzante. Si era sentito benissimo quando aveva raggiunto, in mezzo a quel nulla, la fermata dell’autobus che consisteva di un’insegna, una tettoia di plastica e una panchina. Aveva già trovato in attesa un numero sorprendentemente elevato di persone, per lo più pendolari provenienti dalle fattorie dei dintorni che dovevano presentarsi negli stabilimenti per il primo turno di lavoro. Nessuno aveva fatto caso a lui. Evidentemente non si accorgevano che il cuore gli batteva in gola e che un lieve tremito gli percorreva tutto il corpo. Dopo tanti anni, quella era stata la prima volta che si era mosso veramente da uomo libero. Le ore in cui aveva lasciato la clinica per fare escursioni non potevano essere considerate una specie di forma di addestramento in previsione di quel momento, perché si era sempre sentito regolamentato e quindi sorvegliato. Quanto meno come ombra, il professor Echinger era sempre stato al suo fianco. Gli orari ai quali si era dovuto attenere sia nell’uscire che nel rientrare nella clinica gli erano stati in un certo senso di sostegno. Quel giorno invece si stava buttando nel vuoto, era come saltare da un’alta torre nel nulla, e non sapeva come se la sarebbe cavata. Salire sull’autobus, pagare il biglietto, partire... tutte le prove che lo aspettavano gli avevano causato una gran paura, ed era stato perfino tentato dall’idea di fare dietrofront e tornare in clinica, anziché correre dietro a una chimera, rischiando un crollo nervoso e rinunciando alla possibilità di essere ufficialmente dimesso in agosto. Ma, mentre ci stava ancora pensando, ecco che era arrivato l’autobus, aveva rallentato per fermarsi nella piazzola, e Maximilian si era trovato accanto al conducente al quale si era sentito dire: «Niebüll, solo andata, per favore». Il tono della sua voce era stato rauco e stentato, ma nessuno sembrava che ci avesse fatto caso. Quando l’autobus si era rimesso in movimento, Maximilian, con le ginocchia molli, era piombato a sedere su un posto vicino alla porta. Accanto a lui era seduta una donna che leggeva un giornale. Non lo aveva degnato di un’occhiata quando si era accomodato accanto a lei. Nessuno lo aveva notato, nessuno lo aveva fissato. Nessuno aveva sospettato che era appena evaso da una clinica psichiatrica. Era una persona normale, in mezzo a tante altre persone normali. Quel giorno tutto era filato liscio. Era arrivato in tempo per salire sul treno per Amburgo e, da lì, aveva preso il successivo, diretto verso sud. Avrebbe potuto proseguire il viaggio in treno fino a Innsbruck, ma lo avrebbe portato troppo lontano dal suo tragitto, e quindi, anche per riorientarsi e fare bene i suoi calcoli, era sceso a Francoforte. Gli erano rimasti solo cinquanta marchi e gli era parso opportuno non dissipare quella modesta scorta di denaro per qualche chilometro di treno in più. In un baracchino comprò salsiccia al curry con patate fritte e una lattina di Coca-Cola. Non aveva avuto fame per tutta la giornata, ma poi, da un momento all’altro, aveva avvertito il buco nello stomaco oltre alla necessità di lavarsi un po’, stanco e insicuro com’era. Per un verso poteva vantare alcuni punti in attivo: la fuga riuscita, i circa settecento chilometri superati senza incontrare difficoltà e senza perdere il controllo dei nervi, e il non aver dato nell’occhio a nessuno. Per l’altro le difficoltà
vere dovevano ancora venire: passare la frontiera con la Francia con un passaporto scaduto, affrontare il resto del viaggio ricorrendo all’autostop, sapendo che il professor Echinger avrebbe denunciato la sua scomparsa al più tardi l’indomani mattina. Il che significava che sarebbe stato probabilmente spiccato contro di lui un mandato di cattura che non gli avrebbe sicuramente facilitato le cose. E quando fosse finalmente arrivato a Duverelle... che cosa avrebbe trovato? Suo fratello in compagnia di una ragazza, oppure anche solo, felice e soddisfatto, e poi però anche sbalordito nel trovarselo improvvisamente accanto. Come spiegargli, senza ferirlo, che cosa lo aveva indotto a intraprendere quell’assurdo viaggio con il quale si stava giocando la possibilità di ridiventare un uomo libero a tutti gli effetti? Dirgli di quella voce interiore che gli aveva prospettato un confuso pericolo...? Chi l’avrebbe mai capito? Alla fin fine neppure lui stesso. Mentre beveva, rifletté sul momento in cui si sarebbe fatta sentire, e con quali effetti, la mancanza delle pillole che giornalmente gli somministravano. Dalla distribuzione delle medicine avvenuta la sera prima non aveva più assunto quei farmaci ai quali il suo organismo era abituato da anni e che regolavano, in tutte le sfumature, anche il suo umore. Già adesso notò che il lieve tremore delle mani si era accentuato nelle ultime ore. Poteva solo sperare di raggiungere la sua meta prima di trasformarsi in un fascio sussultante come una foglia al vento. La fame era stata precariamente placata. Decise di riposare per un paio d’ore su una delle panchine della stazione, per raggiungere poi una delle strade di uscita dalla città dove avrebbe alzato il pollice in cerca di un passaggio. Si era appena seduto che la testa gli si reclinò di lato e il sonno lo sopraffece in meno di un minuto. In sogno vide il fratello gemello che lo guardava con occhi grandi e sofferenti. E così passarono delle ore.
Giovedì 8 giugno 1995 Tina passò sveglia buona parte della notte a spiare il lieve rumore del vento fra i rami degli alberi. Il suo respiro era superficiale a causa del gran caldo che gravava sulla mansarda. Infine si impose di approfondire, ma di approfondire veramente e per la prima volta in modo radicale, il pensiero che continuava a frullarle in testa da alcuni giorni: in Mario qualcosa non andava. Per tutto quel tempo aveva cercato di trovare spiegazioni razionali del suo comportamento. Quel viaggio forzato, senza soste, da Amburgo fino alla Provenza: che fosse davvero da considerare un’insolita stranezza? Forse non gli piaceva fermarsi, forse aveva solo desiderato arrivare senza attardarsi a guardare a destra e a manca. Era stato un viaggio scomodo, faticoso, ma non da psicopatico. Le aveva mentito, o quanto meno, per usare un’espressione più moderata, l’aveva ingannata a proposito della posizione di quella casa. E va bene, d’altra parte Mario ci teneva a venire lì e aveva probabilmente temuto che lei lo potesse ostacolare se avesse appreso che non si sarebbe trattato di quella vacanza balneare che aveva desiderato. E quindi aveva manipolato un po’ i fatti. Anziché alla periferia di Nizza si trovavano d’un bel tratto a nord di Grasse, vicino alle montagne, in un villaggio minuscolo in cui la vita scorreva pigra sotto il sole estivo, con quella piazza del mercato in cui sedevano, all’ombra, solo alcuni vecchi veterani con i baschi in testa e l’immancabile Gauloises fra le labbra, nella quale i turisti si vedevano semmai solo e raramente di passaggio, dove greggi di capre e di pecore brucavano sui pendii e piccole lucertole dormivano fra le rocce bianche. Certo, il posto aveva i suoi pregi estetici, tuttavia, secondo Tina, lui glielo avrebbe dovuto dire francamente. Continuava ad avercela con Mario perché l’aveva presa in giro, imbrogliata, ma non poteva derivarne indizi di chissà che allarmanti perversioni. Le stanze da letto separate...? E perché non doveva essere contenta che non si fosse rivelato un ossesso sfrenato e un fissato? Come poteva sapere che a lei sarebbe piaciuto dividere il letto con lui? Evidentemente Mario voleva dimostrare di non essere impaziente, di non volerla travolgere, e questo, semmai, testimoniava a favore e non contro di lui. Dopo i fatti della notte precedente i suoi dubbi si erano accentuati, ma aveva continuato ugualmente a tentare di dissiparli ricorrendo a una gran quantità di argomentazioni apparentemente razionali. E se Mario avesse avuto paura del padre di Tina? O paura, forse, di un legame che non voleva di quella intensità? E se per una ragione qualsiasi fosse spaventato dalla sessualità? Un uomo ancora così giovane non aveva forse il diritto di avere quel timore? Ma, per quanto tutte queste spiegazioni si potessero convincentemente applicare ad altri casi, in quello di Mario Tina sentiva che stava cercando solo delle scuse, dei pretesti. Insomma, Mario emanava qualcosa di strano, di angosciante. Che dipendesse dai suoi occhi, dalla voce? Lui era sempre inafferrabile, ma ossessivamente presente. Quella notte, sveglia ad ascoltare la musica che risuonava esilissima sotto di lei e quei passi irrequieti che si muovevano da un capo all’altro del soggiorno, Tina confessò a se stessa di aver paura di Mario. Strano che ad Amburgo non avesse notato niente. Anche se ora, a posteriori, capì che la rigida compostezza di lui l’aveva sicuramente infastidita. Era sempre sembrato che non riuscisse a tenere fra sé e lei una distanza sufficiente. Sono un’oca talmente incapace, pensò furiosa, da non essere semplicemente in grado di classificarlo! Dana aveva sostenuto che Mario non era normale, però era stato proprio questo giudizio dell’amica a rafforzare in Tina l’opinione che Mario fosse invece particolarmente normale. Sapeva che tipi squinternati frequentava Dana, e quindi le era parso un buon segno che Mario non le piacesse. Dana... Raramente Tina aveva sentito tanto la mancanza dell’amica come quella notte. Avrebbe
dato di tutto pur di poterle parlare in quel momento. Di sentire la sua risata spensierata, di vederne gli occhi dal vivace scintillio... «Mandalo al diavolo», le avrebbe detto, «a quel ragazzo manca qualche rotella e non tocca a te risolvere i suoi problemi. E quindi levatelo di torno e cercatene uno migliore !» Tina pensò se non fosse il caso, per togliersi i dubbi che l’attanagliavano, di telefonare a Dana. Il lato positivo dell’eccentrico modo di vivere di Dana e di sua madre era che si poteva telefonare a casa loro a qualsiasi ora del giorno e della notte senza timore di imbattersi in reazioni di stizza o di incomprensione. Le probabilità di strappare Karen da un sonno profondo erano uguali di giorno come di notte, e lei non si arrabbiava mai. E Dana era talmente permeata dalla disponibilità a trovare sempre e comunque avvincente ed eccitante la vita che lo squillo del telefono in un’ora non consueta avrebbe suscitato in lei solo curiosità, ne avrebbe destato lo spirito avventuroso e non avrebbe mai provocato uno scatto di malumore. Tina si alzò, piano, indossò l’accappatoio e attraversò la stanza a piedi nudi. A ben guardare non ci sarebbe stata nessuna ragione per muoversi con tanta circospezione. Mario era in soggiorno e ascoltava musica. Non si sarebbe nemmeno accorto di lei e dei suoi spostamenti. Però Tina non voleva rischiare. Se fosse spuntato all’improvviso avrebbe sempre potuto dirgli che stava andando in bagno. Certo, se l’avesse sorpresa a telefonare, la ricerca di una giustificazione sarebbe stata più difficile. Che dirgli di una persona con la quale stava parlando fra la mezzanotte e l’una? Un bel niente devo dirgli, pensò, caparbia, io posso telefonare a chi mi pare e quando mi pare. Scese pian piano le scale. Alcuni gradini scricchiolarono e lei trattenne il fiato, ma nulla si mosse: la musica e quell’andare su e giù di Mario in soggiorno erano gli unici rumori che rompevano il silenzio della notte. Arrivò al primo piano senza inconvenienti. Il telefono che Mario le aveva mostrato all’arrivo era in un piccolo studio proprio accanto al bagno. Suo padre, le aveva spiegato Mario, si era sistemato in quella stanzetta per poter continuare a lavorare indisturbato anche in vacanza, perché era il tipo d’uomo che non riusciva mai a staccarsi veramente dall’ufficio. Tina si rammentò improvvisamente che Mario aveva aggiunto, a quel proposito, anche un’osservazione strana: «I maniaci del lavoro si servono del lavoro per sfuggire a se stessi o a qualche altra verità. Mio padre si sottrae in questo modo al pericolo di dover vedere il mondo così com’è, e alla necessità di accettarlo». Era troppo stanca in quel momento per pensarci, ma si domandò ugualmente che cosa volesse dire Mario di preciso. Si fermò per qualche istante in cima alle scale che scendevano verso il pianterreno, tese l’orecchio ma non colse nulla di cambiato. Sgusciò rapidamente nel piccolo studio, si chiuse la porta alle spalle e ci si addossò, tirando un sospiro di sollievo. Poi vide la scrivania e faticò nel reprimere un’esclamazione di stupore e spavento. Il telefono era sparito. Guardò in giro per la stanza. Ricordava perfettamente che l’apparecchio era sulla scrivania, certo Mario poteva averlo usato e quindi appoggiato da qualche altra parte. Non lo trovò però in nessun angolo, in nessun altro posto, nemmeno sullo scaffale o sull’armadio : assurdamente guardò perfino lì sopra. Infine le venne l’idea di verificare se almeno il cavo fosse ancora fissato alla parete. Scoprì la presa dietro la scrivania, ma non c’era attaccato niente. Un principio di panico cominciò ad affiorarle in corpo e si diffuse fino a farle venire la pelle d’oca. Si conficcò le unghie della mano destra nella base del pollice e il forte dolore le bloccò subito l’isteria a cui stava per cedere. Controllati, si intimò, non sei mica in un film dell’orrore. Nessuno ha tentato di assassinarti. Il telefono non è al suo posto, ecco tutto, maledizione! Forse, pensò, c’era un secondo attacco in casa, al piano di sotto per esempio, e Mario aveva portato giù l’apparecchio. Ma perché? Non le venne in mente nessun motivo convincente per cui non
avrebbe dovuto telefonare da lì, in quella stanza. A meno che non avesse voluto impedire assolutamente che lei lo ascoltasse. Se si fosse messo a telefonare quando lei era già a letto, il rischio che lei riuscisse a cogliere qualcosa dal pianterreno era indubbiamente minore rispetto al primo piano. Ma quali segreti poteva mai volerle nascondere ? Lasciò la stanza con la stessa prudenza con cui era entrata. Da sotto si sentivano ancora la musica e il lieve rumore dei passi di Mario. Per nessuna ragione al mondo sarebbe scesa adesso per chiedergli del telefono. Ma se l’indomani mattina non le avesse dato una spiegazione convincente avrebbe raccattato la sua roba e sarebbe partita, senza farsi dissuadere da nessuna sua preghiera. Quando stava per risalire pian piano verso la sua camera, passò accanto alla porta di quella di Mario e arrestò istintivamente il passo. Benché avesse veramente paura, fu letteralmente travolta dalla curiosità di gettarci un’occhiata. Era inverosimile che Mario potesse spuntare proprio in quel momento. Abbassò con prudenza la maniglia. Sul comodino era accesa la luce ma il letto era intatto. Forse Mario non ci aveva trascorso neppure un attimo da quando erano arrivati. Sulla poltrona accanto alla finestra c’era, appallottolata, una coperta di lana che faceva supporre che avesse fatto lì, seduto, le sue poche ore di sonno. Per il resto nella camera non c’era altro d’insolito. Tina si domandò che cosa si fosse aspettata. Prove di qualche anormalità? D’un tratto vide, appoggiata alla lampada del comodino, una fotografia, e si avvicinò, incuriosita. Che tenesse accanto al letto la sua foto? Non aveva conosciuto Janet, esattamente come non conosceva Phillip. Non aveva ben capito come mai Mario non avesse voluto presentarla ai suoi, e perché più in generale le avesse taciuto tutto sul conto dei suoi genitori, una reticenza che Dana aveva giudicato estremamente sospetta. Però aveva rispettato la sua decisione di non rivelare ancora a nessuno il rapporto che li legava. «Non voglio sentire i loro commenti e non voglio rispondere alle loro domande. Preferisco tenere te e la nostra relazione solo per me. Voglio che la nostra storia sia mia almeno per un po’ di tempo.» Lei l’aveva giudicato un sentimento molto romantico e non aveva insistito. Ciò nonostante capì subito che la donna nella fotografia era la madre di Mario. Era un ritratto in bianco e nero. Janet doveva aver avuto vent’anni e dai vestiti e dalla pettinatura si capiva che la foto era stata scattata verso fine anni sessanta. Aveva i capelli raccolti in un alto chignon, accuratamente scostati dal volto. Chiari com’erano, costituivano un avvincente contrasto con le lunghe ciglia nere che avrebbero potuto essere anche finte. Janet indossava orecchini di perle, un collana di due file di perle e un abito estivo a scacchi, senza maniche e con la scollatura quadrata. Una spilla a forma di fiore, anche questa decorata con perle, era fissata proprio sotto la spalla e completava un insieme molto elegante. Il sorriso era solo accennato, probabilmente una concessione fatta al fotografo, perché lo sguardo dei suoi occhi era triste. Un volto sensibile, un po’ malinconico. Una donna complicata. Con cautela, Tina ricollocò la fotografia accanto alla lampada. Doveva risalire a quando Mario non era ancora nato. Perché si portava dietro proprio quella foto e non una più recente? E come mai aveva quel posto privilegiato accanto al suo letto? Tina avvertì un piccolo morso di gelosia, misto a sospetto. Anche lei era affezionata a suo padre, ma non teneva il suo ritratto sul comodino. Lasciò la stanza e chiuse la porta. Non avrebbe saputo dire se fosse solo una sua impressione, ma le sembrò che il suono della musica proveniente da sotto si fosse fatto più forte. Fu presa dal panico all’idea che avesse alzato il volume per poter salire le scale senza farsi sentire. Si girò di scatto, ma il corridoio alle sue spalle era buio e silenzioso. Poi sentì di nuovo, tra la musica, anche il rumore dei passi di Mario. Non era venuto su di soppiatto. Ciò nonostante risalì le scale precipitosamente, più presto che poté, si chiuse la porta alle spalle e girò la chiave nella toppa. Passò il resto della notte a letto, con gli occhi sbarrati, senza riuscire a riposare né tanto meno a dormire. Verso mattino l’istinto le disse che doveva partire, andarsene da lì, non appena avesse potuto, e poco importava che le venisse chiarita o no la storia del telefono.
Doveva levare le tende, e presto.
Phillip aveva deciso di chiudere l’ufficio per il resto della settimana, di dare ai due collaboratori che gli erano rimasti una breve vacanza pagata e di rintanarsi. Era a casa quando, a metà mattina, si presentarono due poliziotti in borghese per chiedere di Maximilian. Phillip li aspettava dalla sera prima, cioè da quando gli era arrivata la telefonata del professor Echinger, e perciò non ne fu sorpreso. Il tono della voce di Echinger gli era sembrato addirittura disperato : «Non riesco a capirlo. Gli mancavano meno di otto settimane al rilascio definitivo! Qui da noi non era successo nulla che potesse giustificare la fuga. Era bene ambientato, sembrava sentirsi a suo agio...» Una situazione penosa per te, pensò Phillip, e anche una bella batosta, eh? Provava una certa dose di maligna soddisfazione perché Echinger non gli era mai stato simpatico. Se fosse stato sincero, avrebbe ammesso che il professore non avrebbe potuto far niente per sottrarsi a questa forma di rigetto della sua persona; l’antipatia dipendeva semplicemente dal fatto che, quale terapeuta di Maximilian, era informato fin nei minimi particolari su ogni evento accaduto in famiglia. Phillip si sentiva quindi in una posizione d’inferiorità, messo a nudo, in un certo qual modo anche umiliato. Che cosa poteva pensare Echinger di un marito che aveva sopportato per sei anni la relazione intima di sua moglie con un altro uomo? Ai suoi occhi non poteva apparire altro che un fesso, anche se, durante la terapia, non avrebbe certo mai usato quell’espressione con Maximilian. Per Phillip era una sensazione insopportabile che qualcuno di cui non sapeva praticamente niente potesse invece leggere in lui come in un libro aperto. «Le circostanze della sua sparizione sono molto misteriose», aveva spiegato Echinger. «Maximilian aveva il permesso di lasciare la clinica in qualsiasi momento, a patto di avvisare. Avrebbe quindi potuto approfittare facilmente di una delle sue escursioni per tagliare la corda. E invece, come abbiamo accertato nel frattempo, se l’è svignata passando per la finestra di una cantina e attraverso un lucernario ! Mi domando perché.» Neppure Phillip se lo spiegava, e si chiedeva invece in cuor suo come mai in quella clinica ci fossero finestre e lucernari attraverso i quali si poteva fuggire. Echinger aveva esitato un momento e poi aveva proseguito, cauto e con un certo, evidente imbarazzo: «Maximilian mi ha riferito che sua madre non è rientrata dall’Inghilterra. Sembrava proprio turbato a causa di questa faccenda. Ritiene possibile che tenti di rintracciare e di far tornare in Germania sua moglie?» Per un secondo Phillip fu colto da una rabbia micidiale e quasi odiò Janet perché lo aveva cacciato in quella situazione. Echinger sapeva benissimo che cosa Janet faceva in Inghilterra, sapeva che si era di nuovo rifugiata fra le braccia dell’amante, nel letto di quell’individuo maledetto che sapeva soddisfarla in modo folle e sfrenato: evidentemente, pensava Phillip, che quando si trattava di Janet e Andrew usava spesso nella sua mente un linguaggio scurrile, sua moglie non sapeva resistere alla tentazione di farsi di tanto in tanto scopare brutalmente. «Ovviamente non lo posso escludere», aveva detto Phillip, prudente, «però per farlo avrebbe bisogno di un passaporto.» «Giusto. Non ha documenti. E quindi dovrebbe riuscirgli difficile lasciare il continente.» Phillip non aveva commentato ed Echinger gli aveva spiegato in modo minuzioso le ragioni per cui non poteva fare a meno di avvisare la polizia. «Forse ho già esitato troppo. Ma cerchi di capire: anch’io sono esposto alle pressioni dei miei collaboratori.» «Ma certo», era stata la fredda risposta di Phillip. Poi era di nuovo ammutolito fino a quando il professore si era congedato con voce velata. Dopo quella telefonata Phillip si era sentito un po’ turbato, ma aveva anche provato, nel ripensarci, un certo sollievo. Avrebbero riacciuffato Maximilian e per qualche mese almeno il ragazzo
sarebbe finito dietro le mura di una clinica. In quel modo, se non altro per il momento, si sarebbe risolto il problema di cosa farne di lui. Dai funzionari della polizia apprese quello che era considerato un possibile altro movente dell’evasione notturna del ragazzo. «Abbiamo trovato testimoni i quali hanno confermato che è salito sul primo autobus del mattino diretto a Niebüll, e che a Niebüll ha preso l’espresso per Amburgo. Poi le sue tracce si perdono. Era evidentemente importante per lui prendere quell’autobus all’alba, per questo ha lasciato la clinica di notte», gli spiegarono. «Tutto questo è molto misterioso», borbottò Phillip. I due uomini lo stavano scrutando attentamente: «Non è per caso venuto qui da lei?» «No. Non è venuto né si è fatto vivo in qualsiasi altra maniera.» «La procura ha emesso contro di lui un mandato di cattura. Si renderebbe penalmente responsabile anche lei se...» «Lo so. Ma vi sto dicendo la verità.» Il funzionario più anziano, che stava sostenendo la conversazione, annuì. «Sua moglie è attualmente in Inghilterra?» volle sapere. Vedo che Echinger ti ha informato bene, pensò Phillip. Ad alta voce disse: «Sì. Ma dove sia di preciso non so». «È piuttosto inconsueto...» «Ma non proibito.» «No. Lei ha anche un altro figlio. È vero che è all’estero anche lui? Potrebbe darsi che Maximilian voglia raggiungerlo?» Phillip sapeva che gli avrebbero fatto quella domanda e per buona parte della notte aveva riflettuto e valutato se potesse arrischiarsi di dire, in proposito, solo una mezza verità. Se avesse fornito l’indirizzo della casa in Provenza, la polizia si sarebbe presentata anche lì. In tal caso quella ragazza, Christina, avrebbe appreso dell’esistenza di Maximilian e probabilmente anche dell’episodio per cui era stato recluso in una clinica psichiatrica. Lei, a sua volta, l’avrebbe riferito a quel suo sgradevole padre, e Dio solo sa fin dove si sarebbe poi ulteriormente diffusa la notizia. Tutti gli sforzi intrapresi da Phillip per non far sapere a nessuno di Maximilian si sarebbero rivelati vani. Sussisteva comunque il pericolo che Maximilian si presentasse effettivamente a Duverelle spaventando la povera Tina. In tal caso sarebbe saltato fuori tutto. Se avesse evitato di dire alla polizia ciò che sapeva, si poteva però garantire una sia pur minima probabilità che Tina non scoprisse la verità. Certo, era possibile che Echinger sapesse dell’esistenza della casa per le vacanze e che avesse già informato la polizia... ma non lo riteneva verosimile. Echinger, in quanto medico, era tenuto al riserbo e forse era già andato oltre il lecito con le informazioni che aveva fornito. Quindi, per il momento, si limitò a dire, cauto: «Mi sembra molto improbabile che...» «L’altro suo figlio... dov’è andato?» Dunque non sapevano niente. Evidentemente non sapevano neppure dell’esistenza di Tina, oppure gli stavano tendendo una trappola raffinata. Phillip decise di correre il rischio. «Voleva andare in Francia. Girare per il paese e fermarsi là dove gli sarebbe piaciuto. Per questo ho detto che è molto improbabile che...» «Sì, sì, capisco.» Nessun sospetto, nessuna diffidenza nella voce del poliziotto. Per la prima volta intervenne anche l’altro funzionario, il più giovane. «Se Maximilian dovesse farsi vivo con lei, lo consigli di costituirsi subito. Per il suo bene.» «Certo», promise Phillip. Accompagnò i due alla porta e, dopo poco, sentì con sollievo l’avviarsi dell’auto. Aveva i nervi tesi e d’un tratto lo assalì la premonizione che tutta quella storia non potesse che finire male, spaventosamente male. Il risentimento che provava per Janet tornò a farsi acuto, violento come la sera prima: dopo tutto è anche un problema suo, maledizione ! Lei se la svigna e mi lascia solo nei guai! pensò.
Se le avesse telefonato per dirle che Maximilian era fuggito dalla clinica ne sarebbe rimasta più che sconvolta. Nulla, allora, l’avrebbe più trattenuta in Inghilterra, nemmeno la ginnastica che faceva nel letto con Andrew Davies. Sorretto dalla soddisfazione di poter in qualche modo fargliela pagare, Phillip si affrettò a raggiungere il telefono. Sul momento si sentiva forte abbastanza da riuscire a sopportare la voce di Davies, il suo rivale. Digitò il numero e aspettò. Fece squillare il telefono a lungo per due volte, ma non gli rispose nessuno. Capì che erano usciti. Niente di strano, dopo tutto era una mattina qualunque. Eppure si sentì di colpo assalito da una forte agitazione e da un’inquietudine angosciante.
Doveva essere forse il primo mattino quando Mario si ritirò nella sua stanza. Quando Tina scese verso le nove infatti il soggiorno era vuoto. Sul lettore di CD era ancora acceso il lumino rosso che indicava la posizione di stand by. Tina aveva estratto il CD e aveva visto che si trattava della Valchiria di Wagner. Sul tavolino accanto al divano c’era una bottiglia d’acqua minerale vuota e, vicino alla bottiglia, rovesciata, una fotografia formato Polaroid. La prese e la girò. Si rese conto, sorpresa, che si trattava di una sua istantanea che Mario aveva scattato in marzo durante una passeggiata lungo l’argine dell’Elba. Se ne ricordava perfettamente : era stata una delle poche giornate tiepide e primaverili di un mese altrimenti freddo e accompagnato da continue piogge e venti. Era riuscita a convincere Mario ad accompagnarla in campagna con la macchina. Era successo poco prima che lui se ne comprasse una tutta sua. In quell’occasione si era fatto prestare l’auto dal padre, al quale aveva raccontato di voler fare una gita con un amico. Pur sforzandosi di essere comprensiva, Tina non aveva potuto evitare di sentire una fitta dentro di sé constatando, ancora una volta, che Mario aveva evitato di parlare di lei. Sul sedile posteriore dell’autovettura paterna avevano scoperto una Polaroid. Avevano consumato tutta la pellicola scattandosi buffe foto, facendosi reciprocamente le linguacce o gli occhi storti. Quella che in quel momento aveva trovato sul tavolino era l’unica in cui lei non avesse fatto smorfie. Mario l’aveva ritratta mentre, le mani affondate nelle tasche della giacca a vento rossa, stava in piedi in mezzo a un prato con alle spalle un paesaggio ancora tutto invernale. L’erba corta e bruciata dal gelo era costellata di mucchietti di terra scavati dalle talpe e nell’inquadratura c’erano anche i rami nudi di un albero proteso nel cielo azzurro solcato da un delicato velo di nuvole. Gli unici segni di allegria erano la svolazzante sciarpa azzurra che Tina portava al collo e il suo sorriso. Un sorriso radioso addirittura, divertito, pieno di felicità e di gioia di vivere. Ricordava di essere stata molto innamorata quel giorno. E durante il rientro in città – anche di questo si ricordò – lei gli aveva parlato la prima volta di come sarebbe stato bello fare un viaggio insieme. Dove? In una località qualsiasi, dove ci fossero il sole e la possibilità di divertirsi. Aveva chiacchierato, fatto progetti e non si era accorta di quanto Mario prestava poca attenzione a quello che lei gli diceva. Ora soltanto, a posteriori, realizzò che, di fatto, aveva reagito con un terrorizzato mutismo. Improvvisamente seppe che il suo amore per Mario stava per finire, anzi, che era ormai in procinto di lasciarlo. Era stato un amore che aveva conferito alla vita di Tina una forza appassionata, liberatoria, che l’aveva resa per la prima volta capace di ribellarsi al padre e di ignorarne i desideri. Un amore che non aveva avuto altro scopo, forse, se non proprio quello di affrancarla dal padre. Aveva già notato che il telefono non era neppure nel soggiorno, ma ciò non le aveva provocato il panico e lo sconvolgimento della notte prima. Di giorno tutto aveva un aspetto diverso. La stanza dava un’impressione di pacifica tranquillità con quelle pareti grezze intonacate di bianco, il pavimento di mattonelle in terracotta, il tappeto di lana tessuto a mano, gli acquarelli luminosi e coloratissimi appesi sopra il divano. Era stata sua madre a dipingere quei quadri, le aveva detto Mario: riprendevano elementi dei paesaggi circostanti, villaggi semideserti in mezzo ai monti, capre al pascolo, un isolato capanno di pietre in una qualche parte del Grand Canyon du Verdon, la folla vivace in un mercato di
campagna. Il giardino, fuori, ancora umido di rugiada, era profumato e pieno di fiori. Anche quella sarebbe stata una giornata calda. Non c’era una nuvola in cielo e il vento che aveva smosso i cipressi si era ammutolito. Era difficile figurarsi che il mistral, il vento che nasceva in Siberia, potesse arrivare fin lì a sradicare alberi e a portare piogge torrenziali. Alla chiara luce del giorno i pensieri cupi della notte persero quanto avevano avuto d’allarmante. Tina non se la sentì più di vedere in Mario un pericoloso psicopatico. Era evidente che c’era in lui qualcosa che non andava, qualcosa abbastanza grave da impedirgli di dormire la notte, da farlo camminare su e giù, senza requie, per ore e ore. Ma questo non bastava per farne un individuo pericoloso. Era afflitto da pensieri tormentosi, forse causati da una delusione. Istintivamente Tina si rese conto che era lei che lo deludeva. Non che fosse consapevole d’una qualche colpa, di avergli fatto credere di sé qualcosa che non c’era, ma era probabile che fosse stato lui a vedere in lei qualcosa che si era poi rivelato inesistente, ingannevole. «Tu sei l’immagine che conservavo in me», le aveva detto. Il guaio era che lui, evidentemente, non voleva o non se la sentiva di parlarne. Raggiunse la cucina, mise su l’acqua e verso il caffè nel filtro. Ora si sentiva molto tranquilla, più ragionevole. Gli avrebbe spiegato che non erano fatti per stare insieme, che era meglio lasciarsi in tempo. Potevano restare amici e continuare anche a vedersi di tanto in tanto... Quando finalmente Mario scese era quasi mezzogiorno. Tina, che si era data da fare in giardino dove aveva strappato le erbacce e reciso i fiori appassiti, si era poi rifugiata nella veranda posteriore per sottrarsi al caldo insopportabile e stava sfogliando una rivista di moda francese seduta su una sdraio. Sussultò di paura quando Mario le spuntò improvvisamente accanto. «Non ti ho sentito scendere», esclamò. «Mi dispiace di averti spaventata», disse Mario. Era molto pallido e aveva delle occhiaie scure. Si passò una mano sulla faccia con un gesto stanco. «Mi sono addormentato.» «E te ne meravigli? Sei stato in piedi quasi tutta la notte.» Forse Mario si stupì nel sapere che Tina ne era al corrente, ma non lo diede a vedere. Si limitò ad annuire. «Ero troppo nervoso per andare a letto.» Si sedette su una delle sedie da giardino. Sulla Tshirt bianca spiccava la frase, stampata in lettere nere ormai sbiadite, BORN TO DIE, nato per morire. I suoi jeans avevano sotto il ginocchio sinistro uno strappo sfilacciato attraverso il quale si intravedeva un lembo di pelle abbronzata. Sembrava molto rilassato, molto giovane... e nello stesso tempo molto fragile perché estremamente stanco. E Tina sperimentò per la prima volta sulla propria pelle come umori e sentimenti per una persona potessero cambiare rapidamente: addio a tutti i ragionamenti che aveva fatto! Mario era di nuovo il suo Mario, il bel ragazzo dai capelli scuri e dagli occhi dolci e malinconici. Perderlo le avrebbe spezzato il cuore. Mise da parte la rivista, allungò una mano e gli sfiorò un braccio. «Mario», disse, piano, «che cosa succede?» La fissò. Nel suo sguardo sembrava esserci una disperata richiesta di comprensione. «Tina, io...» Aveva un’aria infelice e parve sul punto di sputare fuori tutto quello che l’angosciava, proprio tutto... ma poi, all’ultimo momento, si frenò. Nei suoi occhi qualcosa si spense. E Tina capì che, qualsiasi cosa avesse detto in quel momento, sarebbe stata solo parte della verità. «Sono anni che mi nutro di pillole», disse. Lo sguardo si era distolto da Tina ed era ora rivolto verso il giardino, su un cespuglio d’oleandro. La frase che aveva detto era suonata stranamente artificiosa. E Tina capì che non era evidentemente abituato a fare confessioni. «Pillole?» chiese. Il pallore del volto si accentuò. «Tranquillanti, eccitanti... a seconda, per lo più li alterno. Ho cominciato a prenderli ai tempi dell’esame di maturità. Ero quasi impazzito per la paura e quindi studiavo come un ossesso. Per tenermi sveglio prendevo un sacco di stimolanti. E, per riuscire ogni tanto a dormire, prendevo anche i sonniferi. E poi i tranquillanti prima degli esami. E poi... ma sì...»
Fece un gesto di sconforto. Tina chiese, cauta: «E dopo la maturità?» «Ho continuato a trovarmi alle prese con situazioni in cui credevo di aver bisogno di prenderne ancora. Durante il periodo del servizio civile, poi ai tempi dei primi studi all’università. Seminari, relazioni... il peggio è che quella roba ti rende sempre più debole. Alla fine ne hai bisogno anche in circostanze di cui non avresti mai detto che potessero causarti problemi...» Deglutì, abbassò gli occhi sulle mani che teneva intrecciate in grembo. «Ci sono state delle volte in cui ho dovuto prendere tranquillanti solo per riuscire a entrare in un centro commerciale», proseguì. «Stare in mezzo a tutta quella gente mi faceva paura, capisci?» Tina si alzò dalla sedia a sdraio, si rannicchiò accanto a Mario, gli prese le mani. Era molto scossa. «Mario, perché non me ne hai mai parlato? Voglio dire: ci amiamo, no? E quando ci si ama si discutono i propri problemi.» «Non ho voluto angustiarti. Sei così giovane.» La guardò con tenerezza. Tina aggrottò la fronte: «Ma non giovane al punto che non si possa parlare con me!» «Ma sì, certo. È stato sciocco da parte mia.» Mario fece un profondo respiro. «Ho deciso di rinunciare definitivamente a quella roba, a cominciare da questo viaggio. Ho smesso di prenderne da un giorno all’altro. Però sto male, capisci? Non riesco a dormire, sono terribilmente agitato... e qualche volta sono preso da crisi di panico.» Si sarebbe dovuta sentire colpita, commossa, forse addirittura turbata. E invece, anche con sua intima vergogna, il sentimento che provava era tutt’altro. Avvertiva un profondo sollievo, si sentiva liberata dal peso di pensieri disorientanti, paurosi. D’un tratto tutte le tessere del mosaico si erano composte in un’immagine chiara. L’imprevedibilità di Mario, quella sua febbrile inquietudine durante le notti, quella strana reazione quando l’aveva raggiunto in soggiorno, l’altra sera... Ora capiva anche le camere da letto separate: aveva tentato di nasconderle lo stato in cui si trovava. E diventava anche spiegabile quel viaggio senza soste da Amburgo fin lì. A casa si era sentito relativamente al sicuro, e anche lì, in quella casa per le ferie con la quale aveva confidenza fin dalla prima infanzia. Ma durante il viaggio, durante lo spostamento da un rifugio all’altro, le sue fobie si erano insinuate in lui, lo avevano inseguito. Tina riusciva a figurarsi che per uno come lui fosse estremamente difficile aggirarsi per una città sconosciuta o pernottare in un albergo. Lo guardò. «Sono contenta che tu me l’abbia detto. Insieme ce la faremo, Mario, vedrai.» Si sentiva euforica, allegra, forte. Lui aveva bisogno del suo aiuto e lei sentiva in sé una disponibilità appassionata ad aiutarlo. Non sarebbe stata più la ragazzina che papà proteggeva dalle asperità della vita e della realtà. Quando sarebbe tornata, sarebbe stata una donna diversa. Si alzò: «Devi mangiare qualcosa. Vado a vedere cosa abbiamo », disse. Mario sollevò verso di lei il viso madido di sudore. Era il caldo cocente a ridurlo in quel modo, oppure era stata quella conversazione a sconvolgerlo? «Grazie», disse piano. Tina si diresse verso la cucina. Sulla porta le venne in mente una cosa e si girò verso di lui: «Mario, stavo quasi per dimenticarmene. Che fine ha fatto il telefono?»
Michael stava pensando se si sarebbe reso troppo ridicolo presentandosi improvvisamente a Duverelle. Se laggiù tutto fosse stato a posto, Tina avrebbe reagito molto risentita e forse non gli avrebbe perdonato a lungo il suo immischiarsi nei fatti suoi. Che motivi c’erano, d’altra parte, perché tutto non fosse a posto... Ma allora perché accidenti non rispondeva al telefono? Il giorno prima si era portato a casa un mucchio di fascicoli con il proposito di sbrigarne finalmente un bel po’ nella pace del suo studio. Di fatto era riuscito a fare ben poco, perché anziché
concentrarsi su quei casi aveva passato l’intera mattinata a cercare di raggiungere la figlia. L’aveva chiamata ogni cinque minuti e aveva pensato che quegli squilli continui prima o poi avrebbero fatto impazzire abbastanza quei due da costringerli a sollevare il ricevitore... anche se avessero deciso di interrompere ogni contatto con il mondo esterno. Poi era stato colto dal sospetto di chiamare un numero sbagliato, e aveva tentato di raggiungere Phillip Beerbaum per verificare. Ma anche lì nessuno aveva risposto. Quindi, attraverso l’ufficio informazioni per l’estero, era riuscito infine ad accertare che il numero che stava componendo era proprio quello giusto. Dopo di che si era sentito decisamente a terra, perché non riusciva a spiegarsi in alcun modo quel silenzio in Provenza. Fu quello il momento in cui cominciò a maturare la decisione di andare a raggiungere i due ragazzi. Mentre stava mentalmente soppesando tutte le possibilità e valutando le ipotizzabili conseguenze, suonò il telefono. Poiché ci era seduto accanto, rispose immediatamente. «Sì?» chiese con il fiato corto. Gli rispose la risata rauca di una donna. «Scommetto che sta aspettando una chiamata di sua figlia! Purtroppo sono solo Karen. Karen Graph.» L’impossibile madre di Dana! Si sentì colto in fallo e se ne irritò. Non aveva alcun bisogno di provare imbarazzo davanti a una donna come quella. Forse esagerava con le sue preoccupazioni per Tina, ma la cosa non doveva minimamente riguardare Karen. «Buon giorno», disse con formale distacco. «Ha notizie di Tina?» chiese Karen. Michael sospettò subito che quella fosse solo una provocazione. «Perché lo vuole sapere?» chiese diffidente. Karen rise di nuovo. «Perché mi incuriosisce, ecco tutto. Se ci tiene a saperlo, lei e Dana mi avete proprio contagiato con tutte quelle riserve sul conto del povero Mario.» «Non si è fatta viva», ammise Michael, stanco. E poiché all’improvviso non gli importò più di farci chissà che brutta figura aggiunse : «Chiamo ogni cinque minuti, in pratica. Ma non risponde nessuno». «Dana si è messa in viaggio ieri. Ha deciso di recitare fino in fondo la parte della bambinaia di Tina.» «Con l’autostop? Voglio dire, è...» «Ovvio. Non si sarebbe potuta permettere una soluzione diversa. » «Non ho altro da aggiungere a questo proposito. La giudico una inaudita leggerezza, ma questo lei già lo sa.» Karen ignorò l’osservazione. «Ho pensato invece che noi due potremmo tentare di scoprire insieme un paio di cose sul conto di quel Mario !» Oddio, pensò Michael, questa vuol giocare ai detective! «Ho saputo da Dana che la famiglia di Mario si è trasferita sei anni fa da Monaco di Baviera ad Amburgo», proseguì Karen. «Non le sembra strano?» Michael rispose di non trovarci nulla di strano. «Hanno uno studio di consulenza fiscale», insistette Karen, «e quindi è da supporre che l’avessero già a Monaco. Per quale ragione hanno corso il rischio di cominciare da capo all’altra estremità della Germania?» «Possono esserci state mille ragioni. Forse lo studio di Monaco non andava tanto bene e...» «Adesso va benissimo. Perché non avrebbe dovuto andare bene prima? Questo Phillip Beerbaum mi sembra una banderuola.» «Può darsi che abbia voluto cambiare clima. Qualcuno della famiglia potrebbe aver sopportato male quello di Monaco...» «Sarebbe facile accertarlo», dichiarò Karen.
Michael provò un senso di profonda avversione. Gli ripugnava l’idea di mettersi a ficcare il naso nella vita privata d’altre persone. Si sentiva uno stupido. D’altronde l’inquietudine lo tormentava, aveva una paura quasi travolgente che potesse essere successo qualcosa alla sua bambina. «Potremmo andare a Monaco. Andarci in volo voglio dire, e fare delle ricerche», si offrì Karen. «A Monaco ho un buon amico che dispone di contatti veramente eccellenti.» «Non potrebbe telefonargli?» «È meglio lavorare sul posto. Forse potremmo farcela a trovare un volo ancora oggi pomeriggio.» «Non saprei...» dichiarò Michael, colto di sorpresa. Era evidente che Karen aveva già progettato tutto nei particolari. E, come emerse subito dopo, aveva urgente bisogno di lui per realizzare il suo piano. Dopo aver girato a lungo attorno all’argomento, gli spiegò che non era in grado di pagarsi né il volo né l’albergo. «Se lei fosse disposto a darmi una mano... io poi la rimborserei un po’ alla volta», disse. Michael non si fece illusioni. Non avrebbe rivisto un soldo, ma non era quello il problema. Semplicemente, quello che lei gli proponeva di fare non gli andava. Era contro la sua natura. Odiava certe cose. Erano l’espressione di un’altra, diversa mentalità con la quale lui non voleva aver nulla a che fare. D’altra parte... Era la prima volta in vita sua che si trovava in preda a una paura tale da indurlo a buttare a mare i suoi principi e a decidersi di fare qualcosa che, in altre circostanze, non avrebbe fatto a nessun prezzo. Si accordò dunque con quella Karen Graph che gli era profondamente sospetta: sarebbero saliti insieme su un aereo diretto a Monaco. Poi chiamò il suo ufficio e giustificò la sua assenza durante il resto della giornata nonché durante il giorno successivo adducendo gravi problemi familiari. Almeno questa, si disse per consolarsi, non era una bugia.
Cambridge non era cambiata in tutti quegli anni. Del resto, pensò Janet, era da presumere che non sarebbe cambiata mai. Fra le imponenti costruzioni dei college e sui prati accuratamente tagliati dei vasti parchi si coglieva il respiro di una società elitaria consapevole delle sue tradizioni, custode di antichi valori e di una grande storia. Molti studenti indossavano toghe nere e si muovevano frettolosamente sull’acciottolato dei viottoli come strani relitti di un’epoca passata. Quello era un mondo a sé, e Janet, che per tanto tempo era stata di casa in quel mondo, provò commozione e stupore di fronte all’immutabilità delle cose. La sera prima avevano cenato in un pub che avevano frequentato spesso anche un tempo e dove si erano letteralmente lasciati prendere e travolgere dalla nostalgia. Vi avevano contribuito l’oscurità fuori dalle finestre, le candele accese sui tavoli e l’odore del locale, esattamente come quello di una volta. La luce del giorno, invece, vanificava, con il suo chiarore, ogni ulteriore tentativo di abbellire e edulcorare il passato sfumandolo. Quando quel pomeriggio passeggiarono lentamente per il parco del St. John’s College, si fotografarono l’un l’altra davanti al Bridge of Sighs e assistettero mentre gli studenti calavano nelle acque del Cam le loro imbarcazioni, Janet guardò al passato con amarezza, e pensò che, tutto sommato, l’idea di Andrew di andare lì non era stata particolarmente felice. Il periodo che aveva trascorso a Cambridge quando era ragazza non era stato certo dei migliori, altrimenti, appena diciottenne, non sarebbe letteralmente fuggita a rotta di collo per recarsi all’estero. I due anni precedenti erano stati una continua successione di sentimenti contrastanti: momenti meravigliosi, romantici e indimenticabili, tipici del primo amore, ma poi anche fasi di dolore e tormento quando aveva dovuto più volte constatare di non essere l’unica donna nella vita di Andrew. A partire da un certo punto non si era più trovata bene con lui nemmeno nei momenti migliori perché le si era volatilizzata la fiducia e non era più riuscita a sentirsi sicura. Aveva ripetutamente tentato di porre
fine a quella relazione, ma poi ci era regolarmente ricaduta ogni volta che Andrew l’aveva stretta fra le braccia, sorridendo e giurando di migliorare, finalmente. Un giorno aveva capito che una sola città, un solo paese sarebbero stati troppo stretti per contenerli entrambi. La piccola Janet Hamilton, tanto timida e tanto protetta da non avere avuto in precedenza neppure il coraggio di raggiungere Londra da sola, aveva lasciato da un giorno all’altro l’isola e la famiglia e si era trasferita in un paese di cui non capiva la lingua e dove non conosceva anima viva. Quando ripensava all’angosciosa solitudine dei primi mesi, si domandava come fosse riuscita a resistere. Forse perché non aveva avuto nessun’altra scelta. Ora, venticinque anni dopo, quel dolore era solo un ricordo. Mentre percorreva quelle strade familiari accanto all’uomo dai capelli grigi che aveva donato luce e calore alla sua vita, ma anche freddezza e disperazione, le cicatrici ricominciarono a farsi sentire, a bruciare. Tante sofferenze, pensò Janet, tanta solitudine, tanti sensi di colpa... per poi ritrovarsi lì, insieme, a passeggiare in una giornata assolata per i parchi di Cambridge come se non fosse passata nemmeno un’ora da quando erano giovani. Osservò Andrew di lato. Era immerso nei suoi pensieri... pensieri cupi, sembrava, perché aveva la fronte aggrottata e l’espressione del volto tradiva tensione e insoddisfazione. Stava sicuramente arrovellandosi per quel Fred Corvey. Gli toccò un braccio. «Siamo venuti fin qui perché tu la smettessi di pensare a lui.» Andrew sussultò: era stato davvero lontano con la mente. «Scusa », disse. Poi la guardò: «E tu invece pensavi al passato, vero?» Come le era accaduto spesso, si stupì anche quella volta della sensibilità con cui lui intuiva ciò che passava per la testa altrui. «Sì», confermò, «a un lontano passato.» Negli occhi di Andrew si accese di colpo un’espressione di rammarico, di pentimento. Strinse la mano di Janet e disse: «Ti ho trattata proprio male, allora. Sono stato incosciente e crudele. È un miracolo che tu mi dia ancora retta». «Eri giovane. E le donne ti rendevano la vita molto facile.» Andrew scosse il capo. «Non è una giustificazione. Tutt’al più una spiegazione.» Janet fece spallucce. «Sia come sia. In ogni caso è passata un’eternità. » «Però ti fa ancora male, vero?» «Sì. Ma devo trovare il modo di scuotermelo di dosso. Io...» fece un profondo respiro, «... non voglio che il risentimento si impadronisca di me. Che mi avveleni, come immagino abbia avvelenato tua moglie prima del divorzio. Non voglio che influenzi quello che ora c’è fra di noi. Ah, smettiamola di parlarne!» Spostò l’attenzione sul sentiero ombroso che stavano percorrendo. «Com’è bello qui. Il giorno che avremo di nuovo un po’ di tempo per noi, potremmo risalire la costa fino a Norfolk, fino al mare. Forse sarebbe anche più bello di tornare qui a Cambridge.» Non riesce proprio a scuoterselo di dosso, pensò Andrew. Per quanto ci provi, non ce la farà mai a liberarsene del tutto. Si adeguò in ogni caso al desiderio di lei di accantonare quell’argomento : «Se tu dovessi davvero restare in Inghilterra, non ti parrà strano dopo tanti anni di Germania?» le disse quindi. «Non sono mai riuscita ad acclimatarmi in Germania. Anche se non ci facevo molto caso... Ero sposata, dovevo allevare i figli, Phillip e io abbiamo messo su insieme quello studio... c’era poco tempo per abbandonarsi alla nostalgia e alla frustrazione. Però da quando sono di nuovo qui, da quella prima sera in non so più che antichissimo pub nel Kent, mi è chiaro che è questo il mio posto. L’aria, la gente, la lingua... sono parti di me stessa, sono io. Non mi spiego come sia potuta stare lontana per così tanto tempo.» Si fermò e negli occhi le si riaccese un po’ di quella luminosità che Andrew conosceva dai tempi passati e di cui aveva sentito la mancanza da quando era tornata. «Finalmente sono di nuovo a casa. Qualunque cosa possa accadere, non mi sentirò mai più spaesata, estranea.» Riprese a camminare. «Sono decisa a cercarmi un lavoro, Andrew. Penso che potrei chiedere di essere assunta da una scuola
di lingue, come insegnante di tedesco. E di francese, perché lo conosco molto bene. Non sarebbe un impiego da buttare via, almeno per cominciare, non ti sembra?» Si fermò di nuovo e guardò Andrew con un’espressione piena di speranza. Lui si voltò verso di lei: «Mi sposeresti?» domandò. «Cosa?» «Una volta divorziata... l’hai detto tu di voler divorziare da tuo marito... mi sposeresti?» Un gruppo di giovani allegri e schiamazzanti si stava dirigendo verso di loro. Si fecero da parte sul bordo della stradina per farli passare. Quella domanda avrebbe potuto essere formulata, in quello stesso luogo, in una giornata estiva altrettanto assolata, già venticinque anni prima. Il ritardo d’un quarto di secolo era importante? Janet non volle rifletterci, e accantonò ogni pensiero sulle conseguenze che potevano esserci dal fatto che entrambi avevano percorso nel frattempo altre strade. «Penso», disse con una voce un po’ stridula, ma sforzandosi di dirlo con il maggior distacco possibile, «penso che potrei farlo.»
Sembrava una giornata stregata. Tutto era cominciato bene, tutto pareva continuare ad andar bene. L’intero tratto da Amburgo e Friburgo con un solo passaggio, per di più in compagnia di una giovane simpatica: il viaggio non avrebbe potuto essere più piacevole. Ma, dopo, si era arenata e sembrava che qualunque cosa congiurasse contro di lei. La sera prima, nell’area di servizio in cui l’aveva lasciata Patricia, Dana aveva trovato presto un camionista diretto a Marsiglia e disposto a darle uno strappo. L’uomo però aveva voluto cenare e si era quindi fatto buio prima di partire. Durante la notte, circa quindici chilometri dopo la frontiera francese, entrambi avevano sentito uno strano rumore sordo e strisciante, la cui causa si era rivelata sotto forma di una gomma a terra. Dana aveva l’impressione di aver aiutato per ore il camionista a cambiare lo pneumatico, e per tutto il tempo quello se l’era presa con lei, dicendo che sbagliava tutto e che non era capace di fare niente. L’umore del camionista era peggiorato di minuto in minuto, tanto che alla fine Dana non aveva più avuto voglia di farsi insultare ancora. Si era ribellata ed era bastato un attimo perché si mettessero a litigare violentemente: una lite al termine della quale il conducente si era rifiutato di prenderla ancora a bordo, si era arrampicato furibondo nella cabina di guida ed era partito imprecando. Dana era rimasta inchiodata in un tratto di strada in aperta campagna, di notte, con le mani sporche di olio e una grossa macchia nera sul naso. Era evidentemente una strada poco battuta. Nel corso delle tre ore successive erano passate solo cinque automobili, e soltanto una si era fermata. Il conducente si era tuttavia rivelato talmente sbronzo e incapace di dire altro che un paio di versacci balbettanti, che a Dana, nonostante tutto, era parso opportuno non correre il rischio di salire a bordo. Aveva continuato a camminare nella notte, a pensare al divano che Patricia le aveva offerto e a imprecare fra i denti. Se non altro la temperatura era rimasta gradevole e non pioveva, tuttavia si era sentita assalire sempre più dalla stanchezza. A un certo punto si era rannicchiata nell’erba a ridosso del tronco di un acero e si era appisolata per un paio d’ore. Era stata svegliata dall’insistente e penetrante cinguettio mattutino degli uccelli e dalla sgradevole umidità dei suoi indumenti, intrisi di rugiada. Con gli arti irrigiditi, aveva ripreso a muoversi lentamente lungo il margine della strada. Il traffico si era fatto via via più vivace, ma soprattutto per il transito di automobili dirette in senso opposto al suo. Finalmente si era fermato un uomo dai capelli grigi che l’aveva accompagnata con il suo camioncino fino al villaggio più vicino, un paesino della Borgogna di un paio di case e qualche fattoria. C’era anche una piccola osteria dove Dana ordinò la colazione a una cameriera brontolona che aveva dormito male: caffelatte tiepido e due croissant stantii. Mentre stava fumando una sigaretta, era cominciato a piovere. In un attimo il villaggio era apparso ancora più squallido e abbandonato di prima. Non si era visto più nessuno, a parte un gatto nero che aveva attraversato lentamente la strada... e per di
più da sinistra a destra. Dana aveva pagato ed era uscita dall’osteria. Il cielo era nuvoloso e la pioggia continuava a cadere, ma faceva ugualmente caldo. Sperando nella buona sorte, Dana si era messa a camminare lungo lo stradone, uscendo ben presto fuori dall’abitato. Ogni tanto passava una macchina e, quando una si era finalmente fermata, era già intrisa d’acqua come una spugna e con l’umore sotto ai tacchi. Aveva avuto bisogno di un po’ di tempo prima di accorgersi che l’uomo che infine l’aveva fatta salire doveva avere qualcosa che non andava. Non che ci fosse qualcosa di strano o di preoccupante che subito saltasse agli occhi. La sua caratteristica più appariscente era... l’inappariscenza. Poco meno di quarant’anni, viso lungo e magro, leggermente abbronzato, labbra troppo marcate e naso aquilino, aveva radi capelli d’un biondo smorto pettinati all’indietro e troppo lunghi, tanto da sporgere oltre la nuca. Le spesse lenti degli occhiali rendevano gli occhi più grandi del normale, ma quell’evidente difetto della vista, chiaramente rilevabile, era anche l’unico segno che un osservatore avrebbe potuto conservare nella memoria. Indossava jeans e un pullover a girocollo scuro. La sua macchina era una vecchia Peugeot color bianco sporco con targa francese. Per un bel tratto di strada non aveva pronunciato parola, a parte la domanda che aveva subito fatto quando si era fermato: «Dov’è diretta?» Le si era rivolto in un tedesco quasi privo d’accento. Dana gli aveva menzionato la sua meta e lui si era messo a ridere. «Fin laggiù non la potrò accompagnare. Però per un bel tratto di strada sì.» A quel punto si era voltato verso di lei e l’aveva guardata: «Che tempaccio, eh?» La pioggia era diventata più insistente e i tergicristalli della macchina si muovevano da un lato all’altro del parabrezza a grande velocità. La strada attraversava estesi vigneti i cui viticci erano piegati dalla violenza della pioggia. «Già», aveva confermato Dana, «davvero orribile. E dire che stamattina sembrava proprio che sarebbe stata una bella giornata.» «Il tempo cambia spesso più velocemente di quanto ci si aspetti », aveva commentato l’uomo. Lo sguardo di lui era sceso fin sulle ginocchia nude di Dana e si era bloccato lì: «Si è bagnata parecchio !» Dana aveva resistito all’istintiva voglia di abbassare di più l’orlo della gonna. «Be’, per fortuna si è fermato lei», aveva dichiarato, un po’ in apprensione. «Verissimo. Che fortuna.» Aveva riportato lo sguardo sulla strada, ma solo per poco. Quindi aveva ripreso a osservare la ragazza, soffermandosi questa volta sul seno. Dana si era resa conto che, con la maglietta bagnata, doveva essere più eccitante che se non avesse avuto addosso nulla. Resistette alla tentazione di incrociare le braccia sul petto e cominciò a sentirsi molto a disagio. «Lei parla molto bene il tedesco», gli aveva detto, «benché sia un francese, se non sbaglio.» «Sono un orfano. Sono cresciuto in casa di vari genitori adottivi. Una delle famiglie abitava vicino a Strasburgo. Ed erano tedeschi.» «Io vengo da Amburgo.» «Allora ne ha fatta di strada.» Si era di nuovo girato verso di lei, ma per poco. «E i suoi genitori che ne dicono?» «Di che cosa?» «Di questo suo viaggiare in autostop. Può essere pericoloso.» «So badare a me stessa», era stata la risposta di Dana che si era sforzata di imprimere fiducia e sicurezza al tono della sua voce. L’uomo le lanciò allora una lunga e strana occhiata. «Ah sì?» chiese, poi sembrò volersi finalmente concentrare solo sulla strada. Nulla, si era detta Dana per tranquillizzarsi, ha solo un modo strano di guardare, forse dipende dagli occhiali.
Le era più volte capitato, durante i suoi viaggi in autostop, che gli uomini che la prendevano a bordo divenissero allusivi, che intavolassero discorsi indecenti o manifestassero del tutto apertamente i loro apprezzamenti. Tuttavia non si era mai sentita minacciata, era sempre rimasta padrona delle situazioni, aveva anche flirtato con alcuni che le erano sembrati simpatici, oppure aveva finto di essere talmente ingenua da indurli a smettere di provocare. Tuttavia, nemmeno per un minuto, si era sentita fortemente a disagio nell’auto di un estraneo. Adesso, per la prima volta, venne assalita da una sensazione estremamente allarmante. Si disse che dipendeva dal fosco quadro che Michael le aveva fatto del viaggiare in compagnia di sconosciuti. E, forse, anche dalla pioggia e dalla stanchezza. Dopo un quarto d’ora quell’individuo ruppe improvvisamente di nuovo il silenzio. «Lei è una ragazza proprio carina», dichiarò. Dana, che si era appisolata un po’ con la testa appoggiata al finestrino, si svegliò di colpo: «Cosa?» «Le sto dicendo che lei è una ragazza proprio carina», ripeté, «e immagino che lo sappia.» «Oggi devo avere un aspetto orribile», rispose Dana nella vaga speranza di indurlo a condividere il suo punto di vista. «Sono spettinata, il trucco è sfatto e ho addosso roba bagnata e stropicciata.» Continuando a tenere d’occhio la strada, lui allungò il braccio destro all’indietro mettendosi a scavare fra alcuni sacchetti di plastica depositati sul sedile posteriore. Da uno di loro prelevò un pettine che gettò subito in grembo a Dana con atteggiamento aggressivo. «Ecco. Per te», disse. Il pettine era di plastica color nocciola. Gli mancavano diversi denti e fra quelli rimasti erano appiccicati un paio di capelli. Questo tizio non pretenderà sul serio che io... pensò Dana. «Sa, io...» cominciò a spiegare, ma l’uomo la interruppe bruscamente. «Pettinati! Non mi piace farmi vedere assieme a una donna trasandata. Sembri proprio trascurata.» Dana gettò il pettine sul pavimento della macchina e disse: «Si fermi, per favore. Voglio scendere». L’uomo aumentò leggermente la velocità. «Credi forse che io ti permetta di andare in giro così conciata? Sciatta come sei?» chiese, sprezzante. E poi: «Ripeto, pettinati come si deve!» «E io voglio che lei fermi subito la macchina!» Mentre pronunciava queste parole, Dana tentò di valutare la situazione. L’automobile correva troppo per poter semplicemente saltare giù. Inoltre la zona era deserta da far paura. Era da un bel po’ che non avevano incrociato altri veicoli. Alberi le cui cime sparivano fra le nuvole basse, vigneti a vista d’occhio, pioggia battente. Neanche una fattoria nei dintorni, o anche solo un capanno in cui si potesse sperare d’incontrare un essere umano. Merda, pensò Dana. Era tutto degenerato così in fretta... Aveva intuito l’imminenza di guai, ma i suoi timori si erano basati solo su alcune delle insistenti occhiate del conducente. Poi quell’uomo, di colpo, aveva rinunciato a ogni sforzo per conservare un’apparenza di normalità ed era diventato aggressivo, brutale, imprevedibilmente ostile: forse era mentalmente tarato. «Ti ho ordinato qualcosa, se non sbaglio», insistette. La guardò. Gli occhi ingranditi dalle lenti erano febbrilmente accesi. «Sistemati come si deve!» «Io non accetto ordini da lei, mi ha capito?» Dana aveva sempre considerato l’attacco la miglior difesa, e non era una ragazza facilmente impressionabile. Alzò il tono della voce imprimendole un piglio autoritario. «Le ho detto di fermarsi e di farmi scendere, altrimenti le assicuro che si troverà alle prese con un sacco di problemi! » Il tono risoluto sconcertò l’uomo soltanto per un momento. «Non posso farti scendere qui.
Come immagini di poter proseguire? » «Sono affari miei, non suoi. Voglio scendere: immediatamente !» «Sei piuttosto scortese, sai? Vieni a sederti tutta gocciolante nella mia macchina, pretendi un passaggio e ora mi diventi anche sfacciata ! Da non credere!» Dana non aveva intenzione di discutere. «Voglio scendere, punto e basta», ripeté. L’uomo frenò così bruscamente da far sbandare la macchina sull’asfalto bagnato. Accostò a destra e gridò: «Fuori di qui! Sparisci! Sei orrenda, lo sai? Hai le tette cadenti! Te l’aveva mai detto nessuno ?» Dana scese, aggrappata al suo zaino. La pioggia la investì con violenza, inzuppandola in pochi secondi. L’aria le sembrò notevolmente più fresca di quel mattino. Pur tremando, raddrizzò la schiena. Era in una situazione difficile, ma si sentiva sollevata. Anche a costo di dover camminare per ore sotto l’acqua, l’importante era non essere più seduta accanto a quello psicopatico. L’uomo dalle lenti spesse ripartì facendo stridere le gomme e sbandando di nuovo. Dana si avvolse nella mantellina di plastica che tuttavia la proteggeva solo in modo insufficiente e si issò lo zaino sulle spalle. Prima o poi sarebbe pur passato qualcuno in quella zona abbandonata da Dio e, a meno che non si fosse trattato di una persona del tutto senza cuore, non se la sarebbe sentita di abbandonarla lì in quello stato. Camminò per dieci minuti quando sentì il rumore di un motore e, trascinata da improvviso entusiasmo, si disse: sono fortunata! Poi però si rese conto che il rumore le veniva incontro anziché sopraggiungerle alle spalle, e questo significava che la macchina in questione stava viaggiando nella direzione opposta alla sua. Ma non era poi tanto grave. Sarebbe potuta tornare fino al villaggio, da dove forse poteva proseguire in autobus fino alla città più vicina. E lì, in caso di necessità, attingendo alla riserva di denaro di cui ancora disponeva, avrebbe anche potuto prendere un treno fino a Nizza. Si spostò sull’altro lato della strada e, speranzosa, alzò la mano col pollice proteso. L’automobile si stava avvicinando a una velocità eccessiva. Una vecchia Peugeot color bianco sporco. Solo quando fu piuttosto vicina Dana capì, spaventandosi immediatamente, che si trattava dello stesso veicolo dal quale era appena scesa. Al volante c’era l’uomo dai grandi occhi. Aveva la faccia stravolta dalla rabbia. La preda era lì, a portata di mano, non doveva farsela sfuggire. Inoltre quella sciattona lo aveva offeso! Lo aveva trattato come se fosse stato l’ultima delle merde, si era opposta ai suoi ordini... Aveva dato uno strattone al volante ed era tornato indietro come un indemoniato. Un indemoniato... Dana si voltò e cominciò a correre, più in fretta che poté, consapevole che ne andava della sua pelle. Quella sera, per la prima volta, le cose andarono così come sarebbero dovute andare fin dall’inizio. Avevano raggiunto in macchina, per cenare, una piccola località nei pressi di Grasse, muovendosi incontro a un tramonto fiammeggiante, accarezzati attraverso i finestrini aperti da un’aria profumata di lavanda e morbida come il velluto. Il paesaggio, d’una selvaggia bellezza, rese Tina conciliante e disposta a guardare con meno risentimento alla rabbia e all’inquietudine dei giorni e delle notti passate, al fatto di essere così distanti dal mare, a... be’, non c’era altro, in fondo. Solo sciocchezze che non meritavano neppure di essere elencate. Da quando Mario aveva fatto la sua confessione, tutto era cambiato. Gli inquietanti particolari si erano combinati in un quadro logico e rassicurante. Mario la portò in un ristorante in cui – spiegò – spesso era stato in passato assieme ai genitori. C’era la possibilità di sedersi accanto a semplici tavoli di legno in un giardino circondato da un basso muretto di pietre. Fra gli alberi da frutto e i cipressi erano tesi lunghi cavi con lampioncini. Fuori, sulla strada, passeggiavano i turisti in short e maglietta, con le macchine fotografiche ballonzolanti sulla pancia e un cono di gelato in mano. I bambini strillavano e ridevano, e in mezzo alla confusione delle
voci si coglievano anche brandelli di frasi tedesche. Dalla cucina veniva profumo di pane appena sfornato e aglio, di carni arrostite e salvia. Mario aveva ordinato mezzo litro di vino rosso che il taverniere servì loro in una bella e vecchia caraffa assieme a una brocca d’acqua fresca, a un cestino di fette di baguette e a un piattino con un cremoso formaggio alle erbe. Rilassata, Tina fece un profondo respiro. «È bellissimo qui!» Bevve un sorso di vino. «Quello che verrà adesso sarà per noi proprio un bel periodo, lo so.» Mario sorrideva. Sembrava calmo quella sera, constatò Tina, e aveva un aspetto più meridionale che mai. Si adattava perfettamente a quella zona. Negli ultimi due giorni la pelle gli si era leggermente abbronzata e, con quei capelli neri, gli occhi scuri e la camicia bianca con le maniche arrotolate indossata con noncuranza, sembrava proprio un giovane francese. Perfino Dana dovrebbe ammettere che ha veramente un bell’aspetto, pensò Tina, fiera. Il modo in cui aveva spiegato la sparizione del telefono le era apparso strano ma, da quando sapeva che soffriva a causa dell’astinenza dai medicinali abituato a prendere, ogni sua stranezza era diventata relativa. Le persone in questo stato, si disse Tina, agiscono in base a una logica tutta loro. Le contraddizioni, le sfasature ne facevano inevitabilmente parte. Aveva avuto paura – questa la spiegazione di Mario – che sua madre potesse raggiungerlo. Quel primo mattino, quando il telefono aveva squillato in continuazione e Tina era convinta che fosse suo padre che cercava di mettersi in contatto con lei, lui aveva invece pensato che potesse trattarsi di sua madre. «Mia madre è in Inghilterra, capisci? Può darsi che sia riuscita in qualche modo a sapere che sono qui e che ora cerchi di chiarire tutto. » Lei aveva chiesto, confusa: «In Inghilterra? E che cosa ci fa lì? Che cosa dovrebbe chiarire?» Sul suo volto era passata un’ombra. «Mi... mi riesce difficile parlarne. Non me ne volere, ti prego. Ti spiegherò tutto, ma a suo tempo.» Il telefono, aveva aggiunto, era nell’armadio, in soggiorno, e Tina era ovviamente padrona di riallacciarlo alla rete e di telefonare a chi voleva. «Ma io non ho bisogno di telefonare! Mi sono solo meravigliata che...» Aveva riflettuto a lungo su quale potesse essere il problema che Mario aveva con la madre. Da un lato ne teneva le fotografia sul comodino, dall’altro staccava il telefono dalla presa per paura che potesse raggiungerlo. Inoltre non le aveva mai voluto raccontare del rapporto che c’era fra lui e Tina... Una persona, si disse, non diventa dipendente dai medicinali per nulla. Forse la causa del suo male risaliva all’infanzia, alla madre. Tina aveva ripensato alla fotografia e all’impressione che ne aveva dedotto, guardandola, ossia che quella donna doveva essere un tipo complicato. «Dammi tempo», l’aveva pregata Mario. E lei si era sentita molto adulta nel corrispondere disciplinatamente a quel desiderio. Ma certo! Avrebbe aspettato fin quando avesse deciso lui di confidarsi. Portarono da mangiare e ci si avventarono entrambi con appetito. Tina si concentrò sull’arrosto d’agnello. Il vino le conferiva una gradevole leggerezza. «E dopo che cosa facciamo?» chiese. Mario la guardò, sorpreso: «Dopo cena?» «Sì. È ancora presto.» Lui guardò l’orologio che aveva al polso. «Ma sono quasi le nove! » «Che ti dicevo? È presto. O vuoi che rientriamo subito a casa?» Evidentemente gli stava guastando la cena, perché Mario depose le posate, si tamponò le labbra con il tovagliolo e bevve sospirando un sorso di vino. L’espressione del viso si era quasi inavvertibilmente oscurata. Attorno alla sua bocca bella e morbida, una smorfia rivelava il suo fastidio. «Se per caso... se hai paura che...» cominciò Tina, cauta. Lui la interruppe bruscamente: «Ma di che cosa diavolo dovrei aver paura?»
«Di questo luogo. Della gente. Hai detto che qualche volta persino entrare in un centro commerciale è un problema per te, così ho pensato che...» Ancora una volta non la lasciò finire: «Piantala, Tina, non cominciare a recitare la parte dell’infermiera, ti prego. Io mi innervosisco quando una si comporta come se fosse Madre Teresa!» «Ma io...» «Santo cielo, prova a lasciarmi un po’ in pace, eh?» Tina si zittì, offesa, e scostò a sua volta il piatto. Mario aveva preso un pezzo di pane dal cestino e lo stava sbriciolando fra le dita. «Potremmo fare due passi in paese», propose infine lui. «Se ci tieni», rispose lei, rigida. Mario fece un cenno al taverniere. Sembrava teso. Tina sapeva che la serata, ormai, si era messa male. Aveva l’impressione che qualcuno avesse azionato un interruttore e spento la luce, e che per una qualche ragione si trattasse di una procedura irreversibile. Non riusciva a capire che cosa avesse fatto arrabbiare Mario. Le sembrò uno di quegli ipersensibili, capricciosi teen-ager alle prese con i problemi dell’età più difficile e con i quali bisogna pesare ogni parola con il bilancino. Anche tacere poteva essere un errore. Michael non si spiegava ancora come Karen Graph fosse riuscita a indurlo a raggiungere Monaco. Si erano incontrati davanti al chiosco delle informazioni dell’aeroporto di Amburgo, tenendo arrotolata sotto il braccio, come segno di reciproco riconoscimento, una copia dell’Hamburger Abendblatt . Nel vederla, Michael constatò che le sue peggiori previsioni erano superate dalla realtà. Quella donna era orrenda. Indossava leggerissimi pantaloni estivi verde pisello dai bordi arrotolati all’insù e un’aderente T-shirt gialla su cui era stampato il simbolo del movimento femminista, il cerchio con la croce. Al collo portava una sottile striscia di pelle sulla quale erano infilate alcune perline colorate : una specie di gioiello indiano, pensò Michael, seccato. I piedi nudi di Karen erano infilati in scarpette da ginnastica piuttosto sporche. Portava appesa alla spalla un’enorme borsa nera sotto il cui peso sembrava sempre sul punto di crollare. Sul braccio reggeva una giacca impermeabile di un verde neon. Ma la cosa peggiore, secondo Michael, erano i capelli: cortissimi e tinti di un rosso ruggine a chiazze, tanto da ricordare un prato dopo un incendio. E come mai la pelle di quella donna aveva un colorito così pallido e malsano? Michael pensò alla Dana abbronzata dalle lampade di un solarium. Era sempre un po’ troppo apparecchiata per i suoi gusti e sicuramente non era il suo tipo, ma se non altro Dana sapeva scegliere i colori e, quanto meno, sembrava pulita. Dentro di sé Michael si diede dell’idiota totale per essersi fatto imbarcare in quell’avventura. Karen, nel vederlo, inalberò un ghigno ironico. «Lei è proprio come me l’aspettavo! Indossa sempre giacca e cravatta?» «Quando mi sembra opportuno», rispose Michael e lei reagì con una risatina come se le avesse raccontato una barzelletta. Decisero entrambi di non consegnare il bagaglio ma di portarselo a bordo, e Michael insistette perché Karen gli affidasse la sua informe borsa. Era stranamente pesante e si domandò che cosa potesse averci cacciato dentro. Lei indovinò quello che gli passava per la testa: «Per fissare eventuali conversazioni o dichiarazioni mi sono portata dietro il mio registratore che purtroppo è vecchissimo e quindi enorme». «Pensa proprio di averne bisogno?» «Nessun buon giornalista fa ricerche senza un registratore. Quello mio piccolo, a nastro, non funziona più, dannazione, e così non mi è rimasto che il mostro.» Al controllo dei bagagli a mano furono fermati per una lunga verifica, perché il registratore era stato ovviamente notato e uno specialista l’aveva prima smontato e poi rimontato per accertarsi che non avesse un’anima esplosiva. L’irritazione di Michael crebbe in progressione. Quando infine si sedettero
in aereo, lei sprofondò subito nella lettura del giornale. Si fece riempire due volte la tazza del caffè e gli sembrò di ottimo umore. Michael invece, indispettito, guardava fuori dal finestrino continuando a ripetersi: Oh, se non fossi stato così scemo, così ingenuo, così fesso! O se almeno non avessi anche tanta paura. Poco prima di uscire di casa aveva infatti tentato ancora una volta di raggiungere telefonicamente Duverelle, e di nuovo nessuno aveva risposto. «Le girano le scatole, vero?» si informò Karen poco prima dell’atterraggio a Monaco. Michael non vide ragione per contestarlo. «Sì. Non so perché mi sono fatto convincere a intraprendere questo viaggio. Non riusciremo comunque a scovare nulla, e inoltre sono contrario per principio al cacciare il naso nelle faccende private altrui!» «Io ho invece la sensazione che qualcosa troveremo», replicò Karen. Michael sospirò. «Probabilmente si tratta di una pacifica famiglia con un figlio altrettanto pacifico e innocuo. Faremo bene a non raccontare a nessuno quello che stiamo facendo. Rischieremmo altrimenti di farci una figura ridicola e vergognosa.» «Ah sì? Così, improvvisamente? Posso ricordarle che è stato lei a cominciare a definire Mario un soggetto sospetto? È lei che me lo ha cacciato in testa!» Michael non poté non ammetterlo. Karen continuò: «E se non troveremo niente, be’, se non altro avremo fatto un bel saltino a Monaco! Scommetto che è un’eternità che lei non viaggia». «Non c’è stata ragione di farlo.» «Lei conduce una vita molto disciplinata, eh?» Il tono provocante irritò Michael: «Se intende dire che ho un’occupazione stabile oltre che regolare e che non dormo fino al pomeriggio, allora ha ragione». «Eillallà!» reagì Karen. «Le ho pestato un piedino? Vogliamo fare pace?» «Non mi sento in guerra», fu la gelida risposta di Michael. Aveva prenotato due stanze al Königshof, dove arrivarono alle sette di sera. Karen dichiarò di avere una fame spaventosa e che, se le era consentito di esprimere un desiderio, non le sarebbe dispiaciuto cenare al Bayrischer Hof. «Sempre che non lo consideri troppo caro!» precisò. «Io purtroppo non ho spiccioli. Tutt’al più riuscirei a pagarle un aperitivo.» «Lei è mia ospite, non si preoccupi.» «Okay. Vado a darmi una rinfrescatina e a cambiarmi. Fra venti minuti?» «Sì», rispose Michael, pregando in cuor suo che non si presentasse agghindata anche peggio. Quando infine ricomparve nel foyer, in ritardo, ma non troppo, tirò un sospiro di sollievo. Non che fosse elegante e ovviamente i capelli erano rimasti quelli che erano, ma se non altro aveva un aspetto più decoroso. Indossava una gonnellina a pieghe color crema e un pullover grigio senza maniche. Il gioiello indiano era sparito e aveva fatto posto a una lunga e fine collanina d’argento. Dalle orecchie le pendevano orecchini in tono e anch’essi in argento. Ai piedi aveva sandali neri con una rosellina sulla punta. Gli somministrò un sorriso radioso e, senza chiederglielo, lo prese sottobraccio. «È un’eternità che non uscivo più a cena!» esclamò. «E men che meno con un maschio!» «Anch’io... è da tempo che non mi concedevo una cena fuori di casa», rispose Michael. E sorrise anche lui. «E men che meno con una femmina.» «Ho fatto un rapido squillo a Peter. Un mio amico di Monaco. Forse più tardi farà un salto qui e così potremo spiegargli qual è il nostro problema.» Benché non avessero prenotato, al Trader Vic’s diedero loro un tavolo e Karen si tuffò subito nella lista delle vivande: la sua faccia sembrava quella di un bambino davanti all’albero di Natale. Michael ammise con se stesso, anche se con riluttanza, che quella donna poteva avere anche qualche lato buono. Soltanto, sembrava non essere mai cresciuta e appariva incapace di una vita ordinata. Improvvisamente le braccia sottili, la cui magrezza adesso risaltava in particolar modo nel pullover
senza maniche, lo intenerirono. «Dana si è fatta viva da quando è partita?» chiese a quel punto. Karen scosse il capo. «No. Ma di solito non lo facciamo mai fra di noi. Io non mi preoccupo per mia figlia come lei per la sua.» «Secondo me non sarebbe esagerato vietare l’autostop a una ragazzina. » «Può darsi. Però è sicuramente esagerato stare alle costole di una ragazzina come fa lei. Non lo dico con cattiveria, capisce? È che... è un modo di comportarsi non più adatto ai nostri tempi, capisce? » «Può darsi», ammise lui, usando le sue stesse parole. Il cameriere portò gli aperitivi e prese nota dell’ordinazione. «Da quanto è vedovo?» si informò Karen quando si fu allontanato. «Da sedici anni.» «Non ha mai pensato di risposarsi?» Invece di risponderle, domandò a sua volta: «E lei? Mi pare di aver capito che anche lei è divorziata da un bel po’». «Io non sono mai stata sposata. Dana è una figlia illegittima, come si diceva una volta. Frutto di un incidente di percorso. Di una catastrofe, come ho pensato inizialmente.» Notò l’espressione del viso di Michael e rise: «So che cosa ha appena pensato: ‘Tipico. Esattamente quello che ci si può aspettare da una così! Una figlia illegittima e per di più per distrazione!’ Rientra nel quadro, eh?» «Non mi stupisce troppo.» «A lei non sarebbe mai successo, eh? Scommetterei che Tina è stata programmata al minuto. Lei è il tipo che non perde il controllo nemmeno a letto.» «Ritengo di no.» «Il padre di Dana paga tuttora per il suo mantenimento. Ogni mese, anche se io non gliel’ho mai chiesto. D’altra parte è uno che guadagna mica male. Voglio dire: non gli nuoce. No davvero. I soldi che mi dà sono la nostra salvezza. Il più delle volte ci tengono giusto a galla.» «Perché non lavora?» «Oh... buona domanda! Già, perché no? Perché non riesco a trovarne, ecco la merdosissima verità!» «Si è data da fare?» «Ovvio. Però ho una cattiva reputazione nel mio ambiente. Dana ha ragione. Sono inaffidabile. Trascurata. Mai puntuale, priva del senso del dovere. Inoltre vado in giro come uno spaventapasseri.» «Sono cose rimediabili», dichiarò Michael cauto. Lei lo fissò: «Che cosa?» «Be’, quello che ha appena detto. La puntualità e l’affidabilità si possono imparare.» «Facile a dirsi. Per lei non sono state certo un problema. Scommetto che discende da una famiglia di ufficiali. Papà generale o quanto meno colonnello, eh?» «Scommessa perduta.» Sorrise. «Mio padre era un pastore protestante. » «Da non credere!» Fece cadere nel bicchiere la cannuccia che stringeva fra le labbra. «Anche il mio!» «Ma davvero? Allora abbiamo almeno una cosa in comune.» «Se consideriamo noi due, la conclusione è che avere un pastore per padre è in ogni caso un problema», dichiarò Karen. «La nostra evoluzione è stata piuttosto estremista, direi, anche se in direzioni opposte. Secondo me...» Si interruppe quando si avvicinò al loro tavolo un uomo barbuto sulla cinquantina scarsa infilato in un pullover fatto a mano. Altro superstite del Sessantotto, pensò Michael, sconsolato. Karen cacciò un urlo, balzò in piedi e gettò le braccia al collo dell’amico. «Peter!» Lo coprì di baci e poi si girò verso Michael. «Questo è Peter! Un mio ex collega. Abbiamo vissuto insieme un periodo maledettamente bello.»
Michael si alzò per cortesia e porse la mano a Peter. Per un attimo gli dispiacque l’interruzione della conversazione. Incredibile, gli sarebbe piaciuto saperne di più di lei.
Non ci teneva affatto ad andare in discoteca. Gliel’aveva soltanto indicata quando erano usciti dal ristorante. Lui era ancora sprofondato in un silenzio rabbioso. Nell’attraversare la strada in direzione della macchina parcheggiata, Tina aveva notato l’edificio basso e senza finestre con la scintillante insegna «Discothèque». Dall’ingresso proveniva una musica rintronante. Un paio di ragazzi si aggiravano fumando nei pressi della porta mentre due ragazzine in fuseaux e tacchi a spillo osservavano l’andirivieni sedute sul bordo di un marciapiede. «Ma guarda, qui c’è perfino una disco!» aveva detto Tina. Mario l’aveva presa per il braccio, con una stretta un po’ troppo energica per essere solo amorevole. «Vieni, entriamo...» «Non dobbiamo mica...» «E invece sì. Sei tu quella che voleva andare da qualche parte. L’hai detto tu. O mi sbaglio? L’hai detto, sì o no?» «Era solo una proposta. Ma solo se anche tu...» Non l’ascoltò più, ma tornò sull’altro lato della strada tirandosi dietro Tina e puntando direttamente sulla discoteca. In realtà era poco più di un capannone, piccolo, soffocante e dal soffitto basso. Con un paio di semplici effetti di luce era stata delimitata una specie di pista da ballo sulla quale un’orda di giovani sudati stava saltellando. L’aria era così pesante da poterla tagliare con il coltello. La musica era trasmessa a un livello tale che non era quasi possibile scambiare parola. Mario quasi sospinse Tina su una sedia, poi raggiunse il bar e tornò poco dopo con due bicchieri alti in cui c’erano un liquido color verde veleno, una cannuccia e una palma di carta. «Che roba è?» chiese Tina. Non l’aveva capita: «Cosa?» Lei ripeté la domanda. Mario dovette gridare la risposta: «Non lo so! Ho solo chiesto qualcosa di forte e mi hanno dato questi». Bastò un primo sorso perché un fiotto di calore le si diffondesse per tutte le membra. Quella roba era talmente forte che Tina temette di ubriacarsi prima ancora di finire di berla. «Buon Dio», disse spaventata, «ma qui ci deve essere un’enormità di rum ad alta gradazione !» Mario vuotò il suo bicchiere in un sorso solo e, secondo Tina, in modo aggressivo. Aveva messo palma e cannuccia da parte e si era versato il coktail direttamente in bocca. Poi aveva puntato lo sguardo su di lei. Nei suoi occhi si era acceso uno scintillio malvagio. «Be’?» domandò. «Ti diverti?» Tina rispose con un’alzata di spalle: «Il posto non è un granché ». «Non è un granché? Come sarebbe a dire? Sei stata tu a voler venire qui! Vuoi ballare?» «Io non volevo venire qui. Ho solo detto che...» Mario balzò in piedi, la tirò su dalla sedia e corse letteralmente con lei fino alla pista da ballo. Lì l’aria era anche più pesante e c’era un penetrante puzzo di sudore. Mario sembrò non accorgersene, o quanto meno non se ne infastidì. Cominciò a ballare in maniera selvaggia, concitata, muovendosi stranamente a scatti. È un po’ sbronzo, pensò Tina. Non è il caso di stupirsi, visto il modo in cui ha buttato giù quella roba. Cominciò a ballare anche lei, ma badando nei primi minuti un po’ troppo ai movimenti che faceva e accorgendosi quindi di quanto dovesse sembrare rigida e goffa. Tuttavia, un po’ alla volta, i suoi muscoli si distesero, smise di pensare alle braccia e alle gambe, si abbandonò al ritmo, tentò di non controllare più i suoi movimenti e si lasciò trascinare dalla musica. Era facilissimo. E bellissimo.
Chiuse gli occhi. La vita poteva essere semplice se si evitava di sorvegliarsi ogni minuto. Poteva essere semplice e leggera anche in un capannone senza finestre, soffocante, scosso dalla musica, nella Francia meridionale: e forse lì anche più che altrove. Era quella la sensazione di cui Dana aveva così bisogno, tanto da indurla a cercarla ininterrottamente, in cui si tuffava ogni volta che se ne offriva l’occasione? Leggerezza e oblio. Un modo fragoroso per accantonare tutti i pensieri angosciosi. Per alcuni secondi si sentì molto vicina a Dana. Direttamente, sorprendentemente vicina. Tina sbarrò gli occhi e si bloccò. Era come se Dana avesse allungato una mano verso di lei... Si trovò davanti un francese, alto e scuro di capelli. Le sorrideva. Rispose al sorriso senza neppure rendersene conto. E poi tutto andò molto in fretta. Di colpo si vide accanto un Mario cui la rabbia aveva trasformato il bel volto dolce in una maschera grottesca. Si scagliò contro quel francese sconosciuto e gli mollò un cazzotto in faccia prima ancora che quello potesse capire che cosa stava succedendo. Il ragazzo cadde a terra. Tutti quelli che stavano ballando si scostarono. Mario si avventò sul giovane disteso sul pavimento e cominciò a prenderlo a pugni senza pietà, colpendolo a casaccio. Quando l’altro cominciò finalmente a difendersi perdeva già sangue dalla bocca e dal naso, e si torceva dal dolore. La terribile scena era illuminata in modo spettrale dalla luce colorata riflessa dalla sfera a specchi che ruotava sulla pista da ballo. «Finiscila!» urlò Tina. «Per amor del cielo, Mario, smettila!» Tentò di strapparlo dalla sua vittima, ma lui vi si era avvinghiato come un cane rabbioso e non sembrava nemmeno accorgersi dei suoi sforzi. Il francese aveva ormai rinunciato a difendersi e tentava solo di proteggersi dai colpi spietati di Mario muovendo debolmente braccia e mani. «Aiutatelo!» gridò Tina. Era stata una cosa talmente rapida che la gente attorno pareva non aver ancora ben capito che cosa stesse succedendo. Nessuno che si muovesse. «Aiutatelo, maledizione! Aiutatelo!» Stava per scoppiare a piangere. «Lo ucciderà!» Benché nessuno la capisse, la sua evidente disperazione scosse quelli che si erano fino a quel momento limitati a guardare. Tre robusti ragazzoni riuscirono a sollevare e a mettere in piedi Mario, il quale continuava a sbracciarsi. Poi, improvvisamente, si bloccò e non fece altri tentativi d’infierire ulteriormente sul ragazzo. Il respiro ansimante, la faccia lucida di sudore e una ciocca di capelli che gli pendeva bassa sulla fronte gli conferivano un aspetto selvaggio e pericoloso. Sembrava che se la fosse cavata senza un graffio. «Ma sei pazzo?» gli strillò Tina. Era fuori di sé dallo spavento e dall’indignazione. «Perché l’hai fatto?» Il giovane rimasto per terra aveva gli occhi chiusi, non emetteva neppure un lamento e non si muoveva. Evidentemente era svenuto. Aveva la faccia sporca di sangue. Gli altri gli si fecero attorno, qualcuno tentò di soccorrerlo, perfino il barista dall’aria semiaddormentata uscì dal bancone. Nessuno pensò invece di far cessare la musica e quell’illuminazione intermittente. Ritmi scatenati continuavano a inondare il basso capannone. Mario fissava Tina. «Sai benissimo perché l’ho fatto. Lo sai!» «Tu sei pazzo !» Mario l’afferrò per un braccio. «Ora vieni via! Forse la smetterai di farti sorridere dagli estranei. Ma ti rendi conto dell’aspetto che hai? Di come li provochi? Di come ti offri nel vero senso della parola?» Per la prima volta Tina ebbe veramente paura di lui: una paura autentica, incontrollabile, assai prossima al panico. Guardò in giro in cerca di aiuto, ma nessuno badava a lei e a Mario perché erano tutti intorno al ragazzo steso sul pavimento. Qualcuno gridò qualcosa in francese e a Tina sembrò di capire che volessero far chiamare un medico. Il barista sparì in uno sgabuzzino in cui c’era senza dubbio il telefono. Mario, trascinandosi dietro la riluttante Tina, si diresse risoluto verso l’uscita. «Non puoi andartene così!» Tina si sforzò inutilmente di trattenerlo. «Hai quasi ammazzato
quel poveretto! Se adesso fuggirai ti verranno a cercare per metterti dentro!» Le sue parole non lo smossero e lei ebbe la terribile sensazione che la sua frettolosa uscita non avesse minimamente a che fare con l’eventuale timore di essere chiamato a rispondere dell’accaduto. Sembrava non essersi reso conto di aver commesso qualcosa di ingiusto, di illecito. Ai suoi occhi si era limitato a fare quello che occorreva fare in quella situazione, e ora era evidente che non voleva altro che allontanare al più presto Tina da quel luogo di perdizione. Tutto questo non si può giustificare con la storia delle pillole, pensò Tina, anzi, nulla lo può giustificare. «Mario, cerca di ragionare! Non puoi scappare. Io non ti seguirò! » Piantò i piedi in terra come un mulo riluttante, ma aveva sottovalutato la sua forza e la sua perdurante disponibilità a ricorrere alla violenza. Con uno strattone brutale la trascinò all’aperto, verso l’oscurità della notte di giugno che stava lentamente calando. Là fuori nessuno si era accorto di ciò che era accaduto nella discoteca e quindi neanche lì qualcuno accennò a volerli trattenere. Tina fu sfiorata da un paio di occhiate indifferenti gettate da chi non si sentì in dovere di intervenire benché Mario la trascinasse via palesemente contro la sua volontà. Erano fatti loro, forse una storia di gelosia, cose in cui era meglio non immischiarsi... Si sarebbero mossi, forse, solo se Tina si fosse messa a urlare. Più tardi quella notte si sarebbe chiesta con disperazione perché non lo aveva fatto: gridare con tutto il fiato che aveva in corpo. Ma le era parsa una follia, una stupidaggine, una forma di isteria. In un certo senso, il ritegno le era stato dettato anche dall’educazione che aveva ricevuto. Non ci si fa notare per strada in quel modo così sgradevole. Non si grida come una lavandaia e non si sciorinano in pubblico i propri problemi. E poi, alla fin fine: a che cosa sarebbe servito? Non aveva soldi con sé e il passaporto era rimasto a casa dei Beerbaum. Sarebbe comunque dovuta risalire sulla macchina di Mario. Raggiunta l’auto, lui la spinse brutalmente sul sedile anteriore sbattendole lo sportello in faccia. A Tina sembrò di sentire in lontananza la sirena di un’ambulanza. Con un gemito, si nascose il viso fra le mani. Mario le piombò letteralmente sul sedile accanto e per tre volte non riuscì a inserire la chiave d’avviamento perché lo stava facendo con troppa violenza. Subito dopo il motore si accese e lui lo portò su di giri facendolo urlare. «Spicciati, allaccia la cintura!» le intimò Mario. Tina la fissò con mani tremanti. «Saremmo dovuti restare lì», disse, «almeno per vedere se potevamo essergli di aiuto.» «Aiutare chi? Quel bastardo? Quel porco che continuava a fissarti come se tu fossi una puttana?» La macchina, con un balzo, uscì in retromarcia dal parcheggio. Mario inserì, grattando, la prima e fece stridere gli pneumatici. È pazzo. Malato. Completamente fuori di testa. Uscirono dalla località a velocità eccessiva. Se qualcuno avesse attraversato la strada, Mario non avrebbe avuto il tempo per frenare. Ma non c’era nessuno, nemmeno un poliziotto. Stavano comportandosi come automobilisti ubriachi e criminali, ma nessuno li fermò. Sparirono indisturbati nella notte.
Stavano risalendo gli ultimi gradini prima della porta dell’appartamento quando sentirono squillare il telefono. Andrew aprì la serratura il più rapidamente possibile e corse in soggiorno, ma proprio mentre stava per allungare la mano verso il ricevitore l’apparecchio ammutolì. «Troppo tardi», disse. Janet lo aveva seguito ed entrò a sua volta nella stanza. Guardò l’orologio che aveva al polso. «Sono le dieci e mezzo di sera! Chi potrebbe chiamare ancora a quest’ora?» Andrew rispose con un’alzata di spalle. «E chi lo sa. Si rifarà vivo, se ci tiene.»
Sarebbero voluti rientrare da Cambridge molto prima, ma a una mezz’ora di strada da Londra si era verificato un incidente e così si erano trovati imbottigliati per un’eternità in un ingorgo. Erano entrambi piuttosto stanchi quando erano finalmente arrivati. «Hai voglia di bere ancora qualcosa?» chiese Andrew. Janet scosse il capo. «Credo di aver solo voglia di dormire. Sono stanca morta.» «Ma certo. Ti raggiungo subito.» Janet andò in camera da letto, si spogliò, e lasciò i vestiti in disordine dove se li era tolti. In bagno, mentre si lavava i denti, s’imbatté in se stessa riflessa dallo specchio, e si stupì dell’improvviso pallore che le si era diffuso sulle guance. Sapeva perché di colpo si sentiva così male, ma non aveva pensato che glielo si potesse leggere in faccia. Un istinto le diceva che era stato Phillip a fare quell’inutile telefonata. Sospettava di sicuro che lei fosse andata a stare da Andrew e non gli era certo costato molta fatica rintracciare il numero. Avrebbe richiamato e prima o poi lei avrebbe pur dovuto affrontarlo. Phillip meritava almeno un civile scambio di parole, una spiegazione, una giustificazione. E un’informazione su quali fossero i suoi progetti per il futuro. Doveva dirgli che voleva il divorzio. Dopo venticinque anni. Fu improvvisamente presa da un crampo allo stomaco e temette di dover rigettare. Riuscì a evitarlo respirando a fondo e poggiandosi entrambe le mani, in un gesto di rassicurazione, sul ventre. Tornò in camera da letto, si stese e spense la luce. La stanchezza era però svanita lasciando il posto a una nervosa inquietudine. Continuò a girarsi e a rigirarsi, infine riaccese la luce e guardò l’orologio. Le undici e un quarto. Ma dove si era cacciato Andrew? Si alzò e, così com’era, scalza, in slip e maglietta bianca, raggiunse il soggiorno. «Andrew?» Buio e silenzio. Anche in cucina non c’era nessuno. Janet attraversò il corridoio e aprì piano la porta che introduceva allo studio. Era seduto alla scrivania, davanti a un fascicolo di cui fissava una pagina come se stesse aspettando una rivelazione. Non si accorse di Janet. Lei poteva scorgerne il profilo illuminato dalla lampada della scrivania e notò quanto fosse teso. Teneva le labbra serrate. A quel punto lui avvertì evidentemente la corrente d’aria perché guardò verso la porta. Sulla fronte era apparsa una profonda ruga verticale. «Janet! Pensavo che dormissi già.» Il tono normale della voce non corrispondeva all’espressione corrucciata. Solo lentamente gli si spianarono i tratti del volto. «Non riesco a dormire», disse lei in tono lamentoso. Si avvicinò di più, guardò il fascicolo. «E questo che cos’è?» «Ah!» Andrew lo chiuse con un gesto risoluto. «Il caso Corvey. È il mio problema stasera.» Si alzò, sfiorò con un dito la guancia di Janet. «E il tuo qual è?» chiese piano. «Phillip.» Andrew non se ne stupì. Annuì, comprensivo. «Il fatto è... che non c’è niente che io gli possa rinfacciare. Assolutamente niente», disse Janet. In paradossale contraddizione con ciò che stava dicendo, il tono della sua voce era quasi disperato. «Non mi ha mai fatto niente di male. Per certi aspetti mi ha... mi ha trattata meglio di te.» «Capisco.» «Eppure non c’è niente che mi leghi a lui. Nemmeno i nostri figli, ormai. È così ingiusto!» «Oh, Janet! Quando mai sono giusti i nostri sentimenti? Non sei mica una santa!» Scosse il capo e, al di là di Andrew, guardò la notte fuori dalla finestra. «Sarà spaventosamente difficile», disse, piano. «Sarà spaventosamente difficile anche vivere con un funzionario di Scotland Yard che è colto da depressione quando si accorge che stanno per liberare un delinquente», disse Andrew. «Sei sicura di volerlo fare?»
«Sicura come lo era già prima.» Il tono della voce risultò soffocato perché Andrew l’aveva improvvisamente attratta a sé. Aveva il volto affondato nel pullover di cotone che lui aveva indossato in macchina per proteggersi dal fresco della sera. Sentì le sue mani scivolarle sotto la maglietta, assecondando la linea della vita, i fianchi. La staccò un po’ da sé e le accarezzò i seni. Lei gemette, piano. Le mani le strinsero più forte il petto, in un gesto d’invito. «A che cosa pensi?» le bisbigliò all’orecchio. «A te.» Era vero. Bastava che lui la toccasse perché dimenticasse Phillip da un attimo all’altro. Sollevò la testa, dischiuse le labbra e accolse in bocca la sua lingua. Il guaio, con Andrew, era che in fondo lui non aveva nemmeno il bisogno di sfiorarla per metterla in quello stato di eccitazione. Bastavano il suo sguardo, la sua voce, a volte solo un’immagine, un odore, uno stato d’animo che glielo ricordassero. Era sempre stato così negli ultimi, lunghi diciotto anni in cui era stata senza di lui. Un dopobarba il cui profumo la sfiorasse di passaggio e avesse almeno una somiglianza con quello della marca che lui usava, una voce che pervenisse anche solo fuggevolmente al suo orecchio e che assomigliasse alla sua... ed eccola già in preda al desiderio di averlo subito vicino, di fare subito l’amore con lui. Era l’unico uomo con cui le capitava di sognare di far sesso in un buio angolo di strada, per esempio, o in una stanza appartata durante un party turbolento. Un sesso culminante in biancheria strappata e graffi, fatto con trasporto, con impeto, in modo incontrollato, un sesso corredato d’un risvolto anche violento. Mai che desiderasse farlo con altri uomini anche se li trovava attraenti, e men che meno con Phillip, che si impegnava con lo zelo instancabile di uno scolaro diligente per migliorare le sue capacità di amante perfetto. Una volta, ed era stata un’esperienza di cui, per tacito accordo, non avevano più fatto parola negli anni successivi, dopo aver letto un articolo sui presunti, reconditi desideri masochisti delle donne, Phillip aveva inscenato un assalto notturno a Janet, si era precipitato su di lei emettendo i grugniti ansanti di una bestia selvaggia scatenata, e lei non era riuscita a impedirsi di cedere alle risate. Phillip ne era stato profondamente offeso. «Facciamolo normalmente», gli aveva detto quando era riuscita di nuovo a parlare, ma lui, per varie settimane, non era stato in grado di far sesso né in modo normale né in modo stravagante. Andrew riuscì in qualche modo a sbarazzarsi dei vestiti senza smettere intanto di accarezzare Janet, di sfiorarla con le labbra. La sospinse sul divano accostato alla parete più lunga dello studio, vicino alla porta. Risaliva ancora ai tempi in cui lui era studente e all’epoca ci avevano fatto l’amore per ore. Janet sentì il rumore della stoffa che si strappava. Andrew le aveva lacerato gli slip e poi si era calato su e dentro di lei senza che il suo corpo, fin troppo disponibile, opponesse la benché minima resistenza. Gemette e disse una gran quantità di parole del cui senso più tardi neppure più si ricordò, e anche lui, con voce insinuante, le disse cose di cui, dopo, non avrebbe saputo più nulla. Nel corpo le esplose un fuoco tra le cui fiamme svanì ogni pensiero, ogni percezione al di fuori di quella stanza, al di fuori di quell’uomo. Solo molto dopo, quando fu di nuovo in grado di ragionare lucidamente, si ricordò che era stata la sua confessione dei sensi di colpa che provava verso Phillip a scatenare Andrew. E lui, alla risaputa e sperimentata maniera, si era nuovamente e velocemente impadronito della sua preda.
Maximilian sapeva che avrebbe dovuto essere grato alla sorte benevola. Gli sembrava quasi inverosimile di essere riuscito a raggiungere, così facilmente e senza contrattempi, la Francia meridionale. A Francoforte aveva ottenuto un passaggio da un automobilista che lo aveva scarrozzato fino a Karlsruhe dove, in un’area di servizio, si era imbattuto in una classe di liceali tedeschi diretti ad Avignone per una gita scolastica di due settimane. Dopo qualche iniziale esitazione, le due insegnanti che li accompagnavano gli avevano permesso di unirsi a loro. Non avrebbe potuto superare la frontiera più semplicemente e con minori complicazioni che in mezzo al pigia pigia di quei trenta liceali diciottenni che erano sì più giovani di lui ma non ne avevano se non minimamente l’aria. Poiché
temeva che fosse già stato spiccato un mandato di cattura contro di lui, aveva affrontato quel momento del viaggio con parecchia ansia, anche se il confine franco-tedesco era una di quelle frontiere interne all’Europa dove si facevano controlli solo a campione. E invece non c’erano state difficoltà. Una delle insegnanti aveva raccolto i passaporti, compreso il suo, e li aveva consegnati al funzionario di polizia, il quale aveva guardato fuggevolmente un paio di quei documenti, li aveva restituiti e, con un cenno, aveva fatto proseguire l’autobus. Un momento critico c’era stato quando l’insegnante li aveva chiamati a uno a uno per nome per restituir loro man mano i passaporti. «Mario Beerbaum!» Si era bloccata, aveva guardato meglio. «Il suo passaporto è scaduto!» Maximilian le aveva letto la diffidenza in faccia. E si era quindi imposto di essere molto convincente. «Oddio, allora mi sono portato dietro quello sbagliato!» Si era alzato e, barcollando un po’ lungo lo stretto corridoio fra le file dei sedili, l’aveva raggiunta in cima all’autobus. L’insegnante gli aveva consegnato il documento con qualche esitazione. Era giovane, carina e aveva lunghi capelli rossi. «Succede quando uno non si sbarazza subito di certe cose!» Le sorrise. Sapeva che le donne si scioglievano davanti ai suoi sorrisi. «Spero che non mi facciano difficoltà al rientro!» «Ormai non controllano quasi più nessuno», aveva risposto lei. La diffidenza era sparita dai suoi occhi. Maximilian era troppo spigliato, giovane e candido d’aspetto. E troppo bello. Vide che lo trovava attraente e che la sua bellezza aveva dissipato quel breve momento di incertezza. Era sempre stato così, per entrambi i fratelli. Li avevano immancabilmente trovati simpatici grazie al loro aspetto, si erano fidati di loro, non avevano minimamente dubitato di avere a che fare con giovani gradevoli, addirittura amabili. Maximilian se ne era spesso meravigliato. Come se la bellezza esteriore potesse essere equiparata all’integrità, al comportamento leale e corretto! La gente viveva in base a cliché. Si aspettava il demonio nelle sembianze del demonio, l’angelo nelle sembianze dell’angelo. Non capiva che indossare maschere era un’abitudine e una tendenza diffusa. Da quel momento in poi non c’erano più stati problemi. Ovviamente l’ospite estraneo suscitò l’interesse dei liceali. Si chiamava Mario, era studente di giurisprudenza al secondo anno, e rispondeva alle domande sulla sua persona senza cadere in contraddizioni. Quando avevano raggiunto Avignone era notte e non c’erano più autobus che potessero condurlo a Grasse. Maximilian sapeva dov’era la fermata di quel bus perché una volta, tanti anni prima, aveva raggiunto Avignone in treno, assieme a Janet, e poi erano rientrati a Grasse in autobus. Quanti anni avrà avuto allora? Dodici o tredici, gli sembrava di ricordare. Allora si erano preoccupati perché marinava la scuola, e Janet aveva deciso di dedicarsi per un paio di settimane soltanto a lui per scoprire le cause di quella sua condotta riottosa. Ovviamente non era servito a nulla. Le insistenti, comprensive domande di lei gli erano parse solamente seccanti e per il resto si era sentito solo divorare dalla nostalgia del fratello rimasto a casa con Phillip. Dopo nemmeno dieci giorni, Janet aveva interrotto con rassegnazione quella vacanza e deciso di rientrare a Monaco. Se si era offesa, Janet non lo aveva dato a vedere, semmai si era ritratta in se stessa ancora più di prima. Maximilian accertò che avrebbe potuto raggiungere Grasse in autobus, e proseguire quindi per Duverelle solo alle cinque e mezzo dell’indomani mattina. Cercò un bistrot e riuscì a farsi servire un pasto caldo nonostante l’ora tarda. Avignone era piena di turisti e nessuno fece caso al giovane dai capelli scuri cui tremavano leggermente le mani. Si era accorto che il suo organismo reagiva sempre più fortemente all’improvvisa sottrazione dei medicinali, e pregò in cuor suo che la situazione non peggiorasse. Alla stazione delle corriere si sedette su una panchina e cercò di dormire. La notte era tiepida; grazie alla temperatura gradevole e al cibo che aveva messo in corpo poco prima, Maximilian si sentì ora più disteso. Lo angosciava solo quel tremito. Ma ormai era così vicino a suo fratello... Il giorno dopo si sarebbe potuto sincerare che tutto fosse a posto, e poi sarebbe andato a costituirsi... Quello che sarebbe successo... Mah! Forse avrebbe potuto... A questo punto però i suoi pensieri si confusero, la
testa gli si reclinò sul petto, le fatiche degli ultimi giorni lo sopraffecero, e da un momento all’altro scivolò in un sonno profondo.
Avevano viaggiato per ore nella notte, a tutta velocità, spostandosi a caso, superando pericolosamente tutti i limiti. Mario non badava affatto a dove stava andando, di tanto in tanto lanciava la macchina su stradine provinciali e tratturi di campagna sui quali la vettura balzava di buca in buca, dando la sensazione che le sospensioni dovessero rompersi da un momento all’altro. Poi, di colpo, in piena velocità, pigiava sul pedale del freno, scagliando lui e Tina contro le cinture di sicurezza con una violenza tale da far mancare il fiato. Quindi ruotava il volante e tornava lungo la strada appena percorsa, imprimendo alla vettura una velocità micidiale. Se avesse perduto per un solo attimo il controllo della macchina, ci avrebbero inevitabilmente rimesso la pelle entrambi. Inizialmente Tina aveva gridato, lo aveva implorato di andare più piano, aveva chiesto con insistenza una spiegazione, aveva pianto. Ma Mario era parso irraggiungibile. Non aveva risposto, non aveva reagito. Aveva continuato a tenere gli occhi puntati sul buio della notte, con un’espressione delirante, sconvolta, che aveva fatto rabbrividire Tina. A un certo punto lei aveva smesso di parlargli, aveva affondato la faccia fra le mani e pregato in cuor suo che non venisse loro incontro nessuno, perché in quel caso la collisione sarebbe stata inevitabile. Poi però, dopo essersi sentita male all’idea di ciò che sarebbe potuto succedere se nessuno avesse fermato quel pazzo al volante, aveva sperato d’imbattersi in qualcuno, possibilmente una pattuglia della polizia. Quando Mario aveva nuovamente frenato di colpo, lei aveva alzato la testa e lo sguardo nella speranza che si fosse fermato perché qualcuno gli aveva sbarrato la strada. E invece, in lungo e in largo, non aveva visto nessuno. Erano fermi su una stretta stradina in ripida salita. Alla loro destra una parete rocciosa, alla sinistra un profondo burrone. Tina si accorse terrorizzata che Mario si era diretto verso le montagne, e che si trovavano adesso nel Grand Canyon du Verdon pieno di precipizi e di pericolose stradine serpeggianti. «Oddio!» mormorò. Mario fissava il cruscotto. «Non abbiamo più molta benzina», disse. Furono le prime parole che pronunciò dopo ore e, considerata la follia di cui era preda, il realismo dell’affermazione produsse un effetto spaventoso. «Cerchiamo un distributore», disse Tina sforzandosi di imprimere alla voce un tono tranquillo. Sarebbe potuta fuggire se si fossero fermati accanto a una pompa di benzina. Avrebbero trovato gente, o quanto meno un benzinaio. Gli avrebbe chiesto aiuto. «Torniamo a valle e cerchiamo un distributore», propose. Mario le lanciò un’occhiata cupa. «Mi guarderò bene dal farlo.» Tornò a immergersi, lo si capiva dall’espressione, in chissà quali aggrovigliati pensieri. Il motore era ancora acceso. «Spegni almeno il motore», lo pregò Tina, esitante. «Così continuiamo solo a sciupare benzina!» Sembrò non averla neppure sentita. Tina valutò l’eventualità di aprire la portiera, saltare fuori dalla macchina e fuggire. Non aveva idea di dove si trovassero di preciso, ma se avesse continuato a correre in discesa prima o poi si sarebbe imbattuta in qualcuno. Ma ce l’avrebbe fatta? Mario era più robusto, probabilmente anche più veloce e, in preda a quella furia che sembrava divorarlo, anche più forte e determinato del solito. E non più capace di controllarsi. Forse l’avrebbe uccisa di botte se l’avesse raggiunta. Non doveva fare nulla che potesse esasperarne l’ira. «So benissimo dove stiamo andando», disse Mario di colpo. Il tono della sua voce era perfettamente normale. Chiunque li avesse visti in quel momento avrebbe pensato a una qualsiasi, giovane coppietta intenta a programmare insieme il pomeriggio della successiva domenica. «E cioè?» chiese Tina. Si sforzò di imprimere anche lei una cadenza normale alla voce, ma non
ebbe l’impressione di riuscirvi. Nell’ascoltarsi le sembrava di parlare come se avesse la bocca piena di ovatta. Lui non rispose ma ripartì. Sembrava in effetti sapere con precisione dove voleva andare, e anche il miglior modo per arrivarci, perché guidava con la sicurezza di un nottambulo lungo quelle stradine tortuose. Per fortuna aveva ridotto la velocità. Sembrava che la consapevolezza di aver trovato una meta per quel vagabondare notturno avesse dissipato la crisi e che fosse subentrata in lui una certa pace interiore. Anche il volto si fece più disteso. Svoltò in una stretta stradina di campagna che saliva con notevole pendenza. L’automobile continuava a sobbalzare per quanto Mario tentasse di scansare e compensare le maggiori asperità del terreno. Tina guardava spasmodicamente fuori dai finestrini in cerca di un qualsiasi punto di riferimento che le consentisse di capire dove si trovavano. Certamente non sulla via di casa. Continuavano invece a inoltrarsi sempre di più fra i monti. Chissà dove mi sta trascinando, pensò ormai quasi in preda al panico. In quale luogo appartato e abbandonato da Dio. «Mario...» La sua voce era stridula. Lui si voltò a guardarla. Sembrava che avesse gli occhi vuoti. «Sì?» «Mario, dove stiamo andando?» «A casa nostra.» «A casa... Intendi dire che stiamo rientrando nella casa delle vacanze? » D’un tratto le sembrò il luogo più desiderabile del mondo. Lì avevano dei vicini. Avrebbe potuto gridare e l’avrebbero sentita. Non sarebbe stata più così sciocca da tenere la bocca chiusa. Avrebbe strillato così forte da infrangere i vetri. Forse... quella era una scorciatoia, anche se strana? Tuttavia era consapevole anche lei di abbandonarsi a speranze assurde. Mario le lanciò una lunga, insolita occhiata. «Non è quella casa nostra.» «E dov’è allora?» Non le rispose e lei fece un altro tentativo. «Tornerò volentieri a casa... nostra, Mario. Però tutta la mia roba è ancora nella casa delle vacanze, anche... lo spazzolino da denti per esempio... Non potremmo farci un salto a prendere le nostre cose? Non... non ci metteremmo tanto...» Oh, buon Dio, speriamo che si convinca, pensò. Mario continuò a non rispondere. La sua espressione si fece improvvisamente tesa, come se stesse ascoltando qualcosa. «Senti?» le chiese. Lì per lì Tina non capì a che cosa stesse alludendo, ma poi percepì lievi sussulti e crepitii provenienti dal motore e subito dopo fu chiaro: la macchina produsse ancora un paio di abbaianti, strozzati rumori, procedette a balzelloni per qualche metro e poi si fermò di colpo. Il serbatoio era vuoto. Tina non esitò neppure un istante. Spalancò la portiera dalla sua parte e balzò fuori nell’oscurità. Corse in discesa, nella direzione dalla quale erano venuti. Sapeva che, in lungo e in largo, non c’erano abitazioni o fattorie, ma se fosse riuscita a mettere una distanza sufficiente fra sé e Mario l’oscurità le sarebbe forse stata d’aiuto. Si sarebbe potuta nascondere nella notte, per così dire, ma per riuscirvi doveva toglierselo dalle calcagna. Era fortemente ostacolata e frenata dai sandali leggeri, la peggiore calzatura immaginabile per un terreno pieno di detriti come quello. Scivolò e incespicò, cadde due volte riuscendo tuttavia ogni volta a rimettersi sia pure faticosamente in piedi. Udì Mario gridare alle sue spalle: «Fermati! Fermati subito!» Accelerò ulteriormente la corsa. Sentiva il cuore martellarle in petto e il sangue rombarle nelle orecchie. Poi, d’un tratto, perse di nuovo l’equilibrio, il piede destro le si piegò e un dolore lancinante le risalì la gamba. Cadde a terra con un grido. Non si accorse di avere le braccia e le gambe escoriate e sanguinanti. Si appallottolò come un
riccio, pur sapendo di essere perduta. Lui la raggiunse in pochi secondi e la strattonò per farla alzare. Le mani le stringevano le braccia come tenaglie. Tina gridò di nuovo. «Il mio piede! Non riesco a reggermi, Mario! Lasciami!» Il dolore alla caviglia scagliava dardi infuocati lungo la gamba. Lui se ne infischiò. Continuando a tenerla ferma con la sinistra e preso lo slancio, la colpì ripetutamente in faccia con la mano destra. «Guardati dallo scappare un’altra volta, piccola e miserabile puttanella! Ti ammazzo se ci riprovi, te lo giuro: ti ammazzo!» Con il braccio libero Tina tentò di proteggersi la faccia dai colpi, ma era una difesa vana di fronte alla furia di Mario. Temeva anche di svenire da un momento all’altro a causa del dolore. Doveva quanto meno essersi storta, o forse addirittura fratturata, la caviglia. Singhiozzò, pianse e sentì intanto le guance scaldarsi e bruciare come fuoco. «No, Mario, no!» Smise di sorreggerla e lei si accasciò a terra, tornando in posizione fetale. Lo sentì ansimare, ma se non altro aveva cessato di picchiarla. «Alzati!» La voce sembrava venire da lontano. «Abbiamo ancora un bel tratto di strada da fare!» «Non posso», mormorò con la bocca quasi affondata nella polvere della strada, e quindi troppo piano perché Mario potesse sentirla. Sentì le mani di lui che le si posavano sulle spalle, strillò di nuovo, istintivamente, e si raggomitolò anche più di prima. «Non ti faccio niente», disse lui. Stavolta la tirò su con molta cautela, la rimise in piedi. Lei spostò immediatamente il peso sulla gamba sana mentre il dolore le faceva salire altre lacrime agli occhi. «Credo di aver bisogno di un medico», disse. Mario le scostò i lunghi capelli scomposti e le accarezzò lievemente la faccia in fiamme. «Per questo?» «No. Il mio piede. Quando sono caduta... me lo sono sicuramente rotto...» Si chinò e le palpeggiò con prudenza il malleolo nudo. Lei abbassò lo sguardo sul suo capo chino. Se quello fosse stato un film, o se più semplicemente lei fosse stata forte e determinata, ora lei avrebbe fatto cadere l’inseguitore dandogli un forte colpo sulla nuca, mettendolo fuori combattimento. Ma con che cosa? A mani nude? Era al di là delle sue possibilità, e non solo di quelle fisiche, e lei ne era consapevole. Aveva già tentato di fare il massimo di cui era capace: aveva colto l’occasione che per un attimo le si era offerta per fuggire e aveva fallito. Ora non poteva far altro che tentare di rabbonirlo mostrandosi docile. Mario si rialzò. «Non credo che tu abbia qualcosa di rotto», disse, «ma hai una brutta distorsione. Pensi di poter riprendere a camminare appoggiandoti a me?» «Non so... Non potrei aspettarti in macchina mentre vai in cerca di aiuto?» Si sforzò di dare l’impressione di non avere minimamente l’intenzione di tentare di nuovo la fuga, ma di essere sul serio preoccupata solo per il piede dolorante. Vide subito la sua espressione incupirsi. «No», disse, «rimarremo insieme. Dobbiamo andare a casa, capisci? » «Ma mi fa tremendamente male, Mario! Anch’io vorrei tornare a casa con te, ma prima dovremmo sentire un medico, credo che...» «No!» Lo disse in un tono secco e deciso. «Provvederò io al tuo piede. Ma prima dobbiamo fare ancora un tratto di strada e tu ce la farai... Che bisogno avevi di scappare? Non ti sarebbe successo niente!» La preoccupazione che aveva per un momento manifestato era già svanita. Sembrava piuttosto arrabbiato, sicuro di se stesso, e una sola parola sbagliata avrebbe potuto farlo esplodere pericolosamente. Era di nuovo diventato un avversario imprevedibile che avrebbe potuto perdere il
controllo da un istante all’altro. Tina gli poggiò il braccio destro attorno al collo e lui le mise il suo sinistro attorno alla vita. Così sorretta riusciva a muoversi, sia pure a fatica, benché il dolore fosse ancora insistente e l’idea di una lunga salita su un terreno sassoso la facesse rabbrividire. Nel panico, si chiese che cosa si sarebbe rivelato per «casa nostra» e che cosa Mario avesse intenzione di fare di lei.
Venerdì 9 giugno 1995 La mattina prometteva una calda giornata senza nuvole. Erano passate da poco le otto quando Maximilian scese dall’autobus a Duverelle, e già a quell’ora il termometro segnava 27 gradi. A oriente il sole si stava arrampicando sull’orizzonte sotto forma di un disco dal chiarore abbacinante. Un colpo di vento sollevò polvere dalla strada, trascinando con sé un intenso odore di rosmarino. Camminò lentamente fra le poche, piccole e bianche case, e attraversò la piazza del mercato sulla quale i contadini dei dintorni stavano già montando i loro banchetti in attesa dei primi clienti. Nell’aria c’era profumo di pane appena sfornato e di aromi provenzali. Non aveva fretta perché adesso, quasi alla meta, era sempre più incerto sul da fare. E se Mario avesse avuto una ragazza con sé? Se sì, non le aveva di certo raccontato dell’esistenza di un fratello gemello. E quindi avrebbe suscitato un enorme scompiglio se si fosse presentato all’improvviso. No, non poteva piombare in casa e annunciare semplicemente: «Ehilà, sono io!» Suo fratello si sarebbe spaventato e forse anche arrabbiato, e la ragazza, sempre che ci fosse, avrebbe avuto la più grande sorpresa della sua vita. Inoltre non aveva certo un aspetto rassicurante, anzi; uno dei contadini stava schierando vecchi mobili da vendere e Maximilian poté vedersi per un attimo in uno specchio dalla cornice argentata. Ne fu piuttosto scoraggiato. Aveva la faccia invasa dalle ombre grigie d’una barba di tre giorni e gli occhi rossi per la stanchezza. Sembrava sporco e sciupato, affamato ed esausto. Quando tirò le mani fuori dalle tasche della giacca di pelle fu subito evidente che tremavano molto. «Sembro un evaso», si disse, ma solo quando ci pensò meglio si rese conto che, in un certo senso, lo era davvero. Quando arrivò alla casa dove aveva trascorso tanti giorni di vacanza fu colto da una sensazione di malinconia ma nello stesso tempo di pace. La costruzione in pietre grigie che pareva sognare all’ombra degli alti ciliegi gli era familiare fin dalla prima infanzia. Era fatta per accogliere ferie in famiglia lontano dalle preoccupazioni d’ogni giorno e dai problemi, per trascorrervi serene, lunghe e calde giornate d’estate. Le grigliate in giardino la sera, le tranquille passeggiate fra i campi di lavanda, le ore da trascorrere sognando distesi sui prati pieni di papaveri, le lunghe conversazioni e le risate spensierate. Era un po’ l’emblema di ciò che avrebbe potuto essere, di ciò che avrebbe potuto costituire la loro vita. Di tutto ciò che avevano perduto. Si esibiva pacifica e come assopita al sole del mattino che si rispecchiava scintillante nei vetri delle piccole finestre rivolte a est. Il giardino bagnato di rugiada sembrava un’oasi in fiore. Nella veranda anteriore c’erano due sedie a sdraio su cui erano poggiati ancora i cuscini d’una volta, a strisce gialle e blu; dallo schienale di una delle due pendeva una T-shirt azzurra. Un’immagine di vacanze allegre e spensierate. Nulla che indicasse l’esistenza del benché minimo problema. Eppure la sensazione di paura e angoscia che aveva indotto Maximilian ad affrontare quel viaggio si accentuò di colpo. Si guardò in giro in cerca di un elemento, di una prova che potesse dar corpo alle sue apprensioni, che dicesse che qualcosa non andava. E, nel farlo, constatò con sorpresa che, nella stradina d’accesso alla casa, non era parcheggiata nessuna macchina. Camminò attorno alla casa per verificare se Mario non avesse per caso lasciato la vettura in un altro posto, ma non riuscì a localizzare l’auto da nessuna parte. Se ne stupì parecchio perché era convinto che il fratello avesse affrontato quel viaggio in macchina. Che avesse improvvisamente deciso di optare per il treno? Maximilian scosse la testa. Soffrivano entrambi un po’ di claustrofobia e quindi non viaggiavano volentieri in treno. Mario anche meno di lui. No, volontariamente non lo avrebbe fatto. E, quindi, come mai l’automobile non c’era a quell’ora? E se Mario l’avesse presa per raggiungere il villaggio? Una scelta assurda per un tragitto così breve, ma non si poteva mai sapere. Forse si era accorto che mancava qualcosa per colazione. Se così stavano le cose, sarebbe dovuto
rientrare da un momento all’altro. Ma perché non riusciva a convincersi di quest’ipotesi? Scostò con esitazione il basso cancello del giardino. Fra le irregolari lastre di pietra che conducevano alla porta di casa crescevano le erbacce. L’uomo che la famiglia pagava perché badasse alla casa non doveva essersi dato troppo da fare. Ma chi se ne sarebbe potuto risentire, chi avrebbe dovuto rimproverarlo? Era tempo ormai che nessuno della famiglia si era più fatto vedere da quelle parti! Attraverso la finestrella accanto alla porta di casa, spiò nel corridoio. Sul guardaroba erano appese due giacche a vento leggere, e un paio di scarpe, chiaramente femminili, erano state abbandonate sotto il tavolino. Dunque aveva ragione. Suo fratello non era solo. Aveva con sé una ragazza. Tenendosi a ridosso del muro girò attorno all’angolo della casa in direzione della finestra del soggiorno e guardò dentro anche da lì. Un paio di settimanali sul divano, un bicchiere vuoto sul televisore. Sul tappeto, appallottolata, la carta di un cioccolatino. Quelle tracce di disordine dicevano dell’esistenza della ragazza perché Mario non avrebbe mai lasciato una carta per terra e un bicchiere sporco in soggiorno. Era bene o male che la ragazza fosse disordinata? Ma se non altro quegli oggetti sparsi conferivano alla scena un gradevole tocco di normalità. Aspetterò, decise Maximilian, è ancora molto presto: aspetterò semplicemente che succeda qualcosa. Scelse un posto in giardino dietro alcuni rigogliosi cespugli di rosmarino. Lì non lo avrebbe scoperto nessuno, però gli sarebbe bastato allungare la testa oltre l’arbusto per vedere la casa. Era difficile che potesse sfuggirgli qualsiasi movimento. Si distese nell’erba ancora umida di rugiada. Sentiva nelle ossa il peso della notte passata sulla panchina ad Avignone. Avrebbe voluto restare disteso nel prato solo per poco, ma si addormentò quasi da un momento all’altro. «Peter scoprirà in men che non si dica dove i Beerbaum abitavano a suo tempo qui a Monaco», dichiarò Karen, «così poi noi potremo andare a sentire i vicini. Mi ha chiesto se doveva fare altre ricerche, ma gli ho spiegato che le avremmo fatte noi. Dobbiamo pur giustificare ai nostri occhi questo viaggio, dico bene?» Era seduta con Michael nella sala della colazione dell’albergo ed era andata a prelevare dal buffet tutto quello su cui era riuscita a mettere le mani. L’intero tavolo era ingombro di piatti e scodelle. Sembrava decisa a provare ogni genere di müsli, frutta, ricotta, pane, e a non tralasciare nessun formaggio, nessun salame e nessuna marmellata. Michael, che aveva preso un panino, un uovo sodo e due fette di formaggio, si avvicinò il più possibile piatto e tazza per lasciarle maggior spazio. Tipico, si disse: è e rimarrà una sfacciata senza scrupoli. Con un gesto d’invito, Karen indicò il tavolo del buffet: «Guardi che può andare anche lei a prendersi tutto ciò che vuole. Non vorrà mica ridursi a mordicchiare quel misero pezzetto di pane?» «Di mattina non ho molto appetito.» «Neanch’io, di solito. Ma quando vedo un buffet come questo impazzisco!» Gli occhi le brillavano di felicità mentre passava in rassegna i suoi tesori e valutava da dove cominciare. Come sempre quando assumeva quel piglio da bambina entusiasta, l’irritazione di Michael si dissolveva. Quella donna aveva qualcosa che lo commuoveva. Perfino quella mattina, nonostante si fosse conciata in modo orrendo e gli stesse facendo fare una figuraccia a causa del saccheggio del buffet. Non gli erano sfuggiti i bisbigli e i sogghigni degli altri ospiti attorno. A lei evidentemente sì, oppure non gliene importava niente. Michael si chiese, di sfuggita, se dovesse ammirare o disprezzare l’assoluta indifferenza che dimostrava per le opinioni altrui. Karen si cacciò in bocca una spropositata cucchiaiata di ricotta semiliquida e di pesche sciroppate, e roteò gli occhi: «Divino! Vuol provare?» Tuffò di nuovo il cucchiaio nella mistura e lo allungò a Michael.
Il quale arretrò. «Grazie, non ora.» Lei lo esaminò attentamente. Sembrava stanco, frustrato e tormentato dalle preoccupazioni. «Ha cercato di nuovo di raggiungere Tina?» gli chiese. «Ieri sera ancora. E poi stamattina. A ore impossibili, il che le dice il livello della mia apprensione. Normalmente mi mozzerei la lingua con un morso piuttosto di svegliare il prossimo con gli squilli del telefono.» Sospirò e si aspettò un commento sarcastico ma, con sua sorpresa, Karen non approfittò dell’occasione. «Già», si limitò a dire, «considerate le sue abitudini, lei sta facendo davvero un mucchio di cose strane. Il solo fatto di essere qui con me a Monaco... è estremamente fuori dell’ordinario, eh?» «Sì. E non posso dire di sentirmi molto bene.» Lei allungò una mano sul tavolo per sfiorargli un braccio. «Ehi, signor procuratore! Non stiamo facendo niente di illecito!» «Curiosiamo. Frughiamo. Spiamo. Ficchiamo il naso nelle faccende altrui. Lei è una giornalista e sicuramente ha una mentalità diversa. Ma io provo un’estrema riluttanza a...» «Lei è in ansia per sua figlia. E sospetta di quel Mario.» Michael scostò il piatto del millimetro di spazio ancora disponibile. Non aveva più voglia di mangiare. «Karen, non so che dirle», dichiarò stanco, «forse mi sono solo montato la testa. O me la sono fatta montare. Io... io sono stato per troppo tempo solo con Tina. Il fatto di essere seduto qui a giocare ai detective è la conseguenza della mia gelosia e dell’ininterrotta sorveglianza cui sottopongo mia figlia. Mi sento ridicolo.» «E perché nessuno risponde al telefono?» «Forse Tina sa che sono io che la chiamo, e questo la scoccia.» Con un gesto risoluto Karen decapitò un uovo e lo irrorò con una spropositata quantità di sale. «Ci andrò io da sola a parlare con i vicini», dichiarò. «Lei non ce la farebbe e finirebbe anche con lo spaventare quella gente. Resti qui. Si piazzi nel bar dell’albergo. Chissà, forse potrebbe anche conoscere qualche personcina graziosa. » L’occhiata che lui le gettò la costrinse ad abbassare gli occhi, imbarazzata. «Pardon», si limitò a dire. Lo raggiunse quando stava per aprire la portiera della macchina. Andrew la guardò sorpreso. «Non avevamo deciso che saresti rimasta qui?» domandò. Janet fece un energico cenno di diniego. Aveva i capelli ancora bagnati dalla doccia. In quello stato e alla luce del mattino sembravano proprio una cascata di argento appena lucidato. «Tu avevi deciso che sarei rimasta qui.» «Eri d’accordo.» «Ho cambiato idea.» Andrew la esaminò da capo a piedi. «Complimenti», commentò, «quando vuoi, sai essere svelta come un fulmine.» Tre minuti prima, quando si era congedato da lei sulla porta di casa, Janet aveva ancora l’accappatoio addosso. Ora indossava i jeans e una maglietta non stirata che aveva infilato alla meno peggio nei pantaloni e dietro le fuoriusciva. Sulle spalle, un pullover di lana grigia di cui aveva annodato le maniche sul petto. Aveva i piedi nudi infilati in un paio di sandali da sera neri con fibbia dorata, evidentemente il primo paio di scarpe che, nella fretta, le era capitato sotto mano. Il volto non truccato sotto i capelli bagnati era molto giovanile. Invece della borsetta, aveva preso al volo rossetto, mascara ed eyeliner che esibiva ora a Andrew sulla mano aperta, con un gesto trionfante: «Il resto lo farò qui in macchina. Ho con me tutto l’occorrente!» Capitolò. Non avrebbe voluto averla accanto, per nessuna ragione, quando, nelle ore successive, avrebbe dovuto incassare un’amara e dolorosa sconfitta. Ora invece pensò che lei sapeva comunque già in che stato d’animo si trovava, e che poteva quindi ammainare il suo stupido orgoglio. Il giorno prima,
a Cambridge, le aveva chiesto se volesse diventare sua moglie, ovvero l’aveva pregata di essere parte della sua vita. Alla lunga non avrebbe potuto e neanche voluto nasconderle neppure quell’aspetto della sua esistenza, fatto di bruciante ambizione e di profondo, doloroso risentimento quando qualcosa gli andava storto. Come se avesse intuito che cosa gli passava per la testa, Janet disse: «Voglio conoscere tutto di te, Andrew. Non solo i tuoi lati gradevoli e poco complicati». Lui fece il giro della macchina, aprì la portiera dalla parte di lei e la scostò per farla salire. Sarebbero apparsi come una coppia piuttosto buffa nell’aula del tribunale: lui in abito scuro e cravatta, lei con la maglietta spiegazzata e quei sandali decisamente inadatti ai piedi. L’idea lo fece sorridere e i suoi tratti si distesero. «Spero», disse, «che l’incontro con i miei lati in ombra non ti spaventi troppo.» Lei rise e lo baciò. E in quel momento giudicò del tutto escluso che ci potesse essere qualcosa in lui in grado di spaventarla.
Il cespuglio di rosmarino aveva garantito parecchie ore di ombra, ma nel frattempo il sole aveva continuato a salire in cielo e ora era allo zenit, da dove spediva in terra raggi verticali e cocenti. Maximilian si svegliò a causa del gran caldo. Si fregò gli occhi e guardò l’ora. Le dodici e mezzo. Come aveva potuto dormire tanto a lungo? Irritato con se stesso, avanzò a quattro gambe fino all’angolo della siepe e guardò verso la casa. Era nello stesso stato di quella mattina: silenziosa e... abbandonata? Sulla veranda non era cambiato niente e nessuno aveva aperto una finestra. Nel vialetto d’accesso continuavano a non esserci macchine. Si alzò e fece una smorfia perché dopo tutto quel tempo passato disteso sul duro terreno gli facevano male le articolazioni. Attraversò il giardino con decisione, ora ben visibile a chiunque avesse guardato fuori da una finestra. Ormai era però sicuro che non ci fosse nessuno in casa e che durante le ore che aveva imperdonabilmente trascorso immerso in un sonno profondo nessuno fosse venuto e nessuno se ne fosse di nuovo andato. La casa era vuota, lo era stata per tutta la notte e forse anche da più tempo. Però suo fratello e quella ragazza non avevano scelto una meta diversa per il loro viaggio: erano quanto meno stati lì. E dovunque se ne fossero andati ci erano andati con il proposito di tornare. Mario non avrebbe mai lasciato i cuscini e la maglietta all’aperto. Ad altri non sarebbe forse bastato come prova dell’intenzione di tornare, però Maximilan, che conosceva suo fratello come nessun altro, non dubitò minimamente dell’esattezza della sua supposizione. Quei due erano usciti per poi tornare. Perché non lo avevano fatto? La porta della terrazza si aprì non appena la sfiorò. L’avevano solo accostata, e non era stato tirato il catenaccio. Forse per disattenzione, ma in quel villaggio era una disattenzione che ci si poteva permettere. Per quel che lui ne sapeva, nessuno aveva mai forzato serrature né rubato qualcosa. Attraversò il soggiorno, andò a gettare un’occhiata in cucina. Era abbastanza in ordine, ma le stoviglie lavate erano state messe solo a sgocciolare e non riposte nell’armadio. Anche nella piccola veranda posteriore, quella all’ombra, c’erano sedie a sdraio e su una era poggiato un libro aperto. Maximilian uscì dalla cucina e salì lentamente le scale scricchiolanti fino al primo piano. In bagno scoprì subito una serie di utensili femminili: una spazzola morbida, una borsetta con gli oggetti per il trucco, una crema per la pelle, un latte detergente. Cose che una donna non avrebbe lasciato lì se avesse deciso di stare fuori la notte. Anche gli spazzolini da denti erano infilati nel bicchiere. Maximilian aggrottò la fronte. Ispezionò la stanza di Mario e osservò la fotografia di Janet sul comodino. Negli armadi tutto era in ordine perfetto. Pullover e T-shirt erano ben piegati e impilati, i pantaloni appesi con cura alle grucce. Sembrava che nel letto non avesse mai dormito nessuno.
Guardò anche nelle altre stanze, non trovò alcuna traccia lasciata dalla ragazza e salì quindi fino al sottotetto. Dunque Mario aveva acquartierato alla maggior distanza possibile quella tentazione ambulante. Si sentì piuttosto indiscreto mentre guardava negli armadi e nei cassetti. La giovane signora ci aveva gettato dentro tutto alla rinfusa. La valigia era sotto il tavolo. La targhetta con l’indirizzo, fissata alla maniglia, rivelò a Maximilian il nome della proprietaria: Christina Weiss. In ogni caso, neppure lì c’era un segno che facesse pensare a una partenza. Profondamente inquieto, ridiscese le scale. Quando passò accanto alla porta aperta dello studio si bloccò, stupito. Prima non ci aveva fatto caso e invece ora gli era subito saltato all’occhio: il telefono non era al suo posto. Né era altrove in quella stanza. Qualcuno lo aveva staccato dalla presa e poi... chissà, forse nascosto, forse distrutto. In ogni caso il collegamento di quella casa con il mondo esterno era stato interrotto. Maximilian si sedette sul gradino superiore. La sua preoccupazione si accentuò, divenne un’ansia lacerante. Affondò la testa fra le mani e pensò che doveva assolutamente scoprire dove Mario era andato a cacciarsi con quella Christina, ed ebbe precisa la sensazione di aver ben poco tempo a disposizione per farlo.
Il problema con quel vecchio era che parlava troppo. E che gli riusciva difficile venire al dunque. Era stato felicissimo raccontare a Karen tutta la storia della sua vita – «Due guerre ho sul groppone, s’immagini!» – e lei aveva dovuto ripetutamente tentare di riportarlo, con cautela, allo scopo della sua visita. «Mi aveva detto di sapere qualcosa dei Beerbaum...» Aveva trovato presto la casa in cui avevano abitato i Beerbaum, nel quartiere di Nymphenburg: una villa imponente sulle cui mura si arrampicava l’edera. Ma quando aveva suonato il campanello le aveva aperto la porta una ragazzina la quale le aveva comunicato che i suoi genitori non erano in casa e che lei non poteva far entrare nessuno. Nella casa accanto, sulla sinistra, aveva sorpreso una giovane donna con i capelli in disordine e la faccia arrossata, intenta, evidentemente, a fare le pulizie: lo si desumeva anche dal piumino per la polvere che impugnava e dal suo pessimo umore. «Non ho tempo, non compro niente, la saluto!» E le aveva sbattuto la porta in faccia prima ancora che Karen avesse potuto anche solo presentarsi. Ebbe fortuna nella casa sulla destra. L’uomo vecchissimo che aveva aperto la porta allo squillo del campanello aveva negli occhi lo scintillio speranzoso che un visitatore a sorpresa accende in una persona che vive da sola. Karen capì fin dalla prima occhiata quanto fosse derelitto e fra quanto monotono grigiore passasse le sue giornate. Se avesse saputo qualcosa dei Beerbaum, glielo avrebbe raccontato con piacere: lentamente, dettagliatamente, assaporando le parole, badando a rinviare il più possibile il momento in cui lei lo avrebbe lasciato di nuovo solo. Ascoltarlo sarebbe stata una rottura di scatole, ma se non altro l’uomo avrebbe parlato. Gli disse il suo nome, gli spiegò di essere una giornalista e, come aveva supposto, lui non le chiese una tessera di riconoscimento o un biglietto da visita. L’accompagnò subito in un salotto arredato con vecchi mobili pesanti e pieno di libri allineati un po’ dappertutto, le offrì una sedia e le domandò se volesse caffè o tè. «No, grazie. Ho appena fatto colazione. Signor Frank», aveva letto il suo nome sulla targhetta del campanello, «vorrei che mi parlasse della famiglia Beerbaum. Abitavano qui accanto. Suppongo che li abbia conosciuti.» «Cara signora», dichiarò Albrecht Frank tutto fiero, «io abito in questa casa dal 1938. Ne ho visti andare a venire parecchi in questa strada, e naturalmente anche i Beerbaum. Allora è venuta qui», abbassò il tono della voce, «per quella storia?» Dunque c’era una storia. Una storia a tal punto eccitante da indurre un vecchio a bisbigliare?
Karen sapeva bene che quello avrebbe potuto ammannirle anche solo pettegolezzi di vicinato: il signor Beerbaum faceva le corna alla moglie oppure Mario era stato bocciato a scuola. Tuttavia il segugio giornalistico che era in lei aveva rizzato le orecchie. Nascondendo la sua totale ignoranza dei possibili fatti o misfatti, e ben sapendo, contemporaneamente, di usare parole dolci come il miele per il palato di uno come quel Frank, disse: «Voglio proprio sapere tutto fin dall’inizio». «E io so tutto», si affrettò a precisare il vecchio, «però non vorrei che lei credesse che sto a spiare gli estranei, che origlio alle porte... D’altra parte l’una o l’altra cosa si viene comunque a sapere sempre, e quando si è soli come lo sono io allora i vicini diventano anche più importanti. Mia moglie è morta verso la fine degli anni Settanta, e da allora vivo qui, in solitudine. I figli si sono sposati e stanno negli Stati Uniti. Non ho dunque molte occasioni di vederli, anche se loro, ovviamente...» «Capisco perfettamente come lei debba aver visto e sentito parecchio», lo interruppe Karen con circospezione, «perché è una di quelle cose che in un quartiere residenziale come questo sono addirittura inevitabili.» «Quei ragazzi mi piacevano», spiegò Albrecht, «anche se ovviamente non riuscivo a distinguerli. Ma quei due...» «Un momento!» Karen si rizzò sulla sedia e gli elargì uno sguardo pieno di comprensione. «Ragazzi? Stiamo parlando dei Beerbaum, vero?» Sperò che il vecchio non fosse un po’ svanito. Quello annuì: «Certo. Hanno due figli. Mario e Maximilian. Gemelli. Perfettamente identici. Credo che solo la madre fosse capace di distinguerli». «Mi scusi», dichiarò Karen, disorientata, «evidentemente il mio caporedattore mi ha informata male. Pensavo che avessero un figlio solo: Mario.» «Ragazza mia, il suo capo vuole evidentemente verificare se lei è capace di arrivarci da sola alla verità. Ha avuto fortuna di essersi imbattuta in me. Io conosco l’intera storia. Nei dettagli.» Che Dana si fosse dimenticata di menzionare il fratello? Karen lo riteneva improbabile. Perché non si trattava di un fratello qualunque, ma di un gemello identico. Dana aveva parlato spesso di Mario e avrebbe quanto meno accennato a quel Maximilian se avesse saputo della sua esistenza. E quindi anche Tina doveva ignorare quel particolare. Ma perché Mario nascondeva il fratello? «C’era qualcosa che non andava in quella famiglia?» domandò, quasi a caso. Albrecht Frank ridacchiò: «Può ben dirlo. C’era proprio qualcosa che non andava. Anche se lì per lì si poteva pensare di avere a che fare con una famiglia esemplare. Lui era consulente fiscale e lei lavorava in ufficio con lui. Deve avergli dato una robusta mano nel metter su lo studio. Una donna intelligente. E anche carina.» Sbatté gli occhi. «Se ne è accorto perfino un vecchietto come me!» «Si poteva pensare di avere a che fare con una famiglia esemplare, però...» «Be’, andavano d’accordo. Gente simpatica. Poi sono venuti i gemelli. Vispi e sani tutti e due. Sembrava tutto a posto. Poi però è spuntato lui...» Albrecht aveva abbassato di nuovo il tono della voce. «Lui chi?» «Janet, e cioè Janet Beerbaum, la madre, ha avuto per sei anni una relazione con un altro uomo. È cominciata poco dopo la nascita dei bambini.» «Però!» «Lo sapeva tutta la strada. Voglio dire: non si sono dati particolarmente da fare per tenere nascosta la loro storia. Lui veniva quasi ogni giorno. Meno che nei weekend quando era in casa anche il marito. Ma negli altri giorni... sempre verso mezzogiorno. Evidentemente durante una pausa di lavoro.» «E lei è certo che...?» «Che fosse il suo amante? Ma la prego, non si poteva non vederlo! Qualche volta li ho osservati, ma per puro caso, sia chiaro, mentre lei lo accoglieva sulla porta di casa. Insomma, in un modo in cui non si saluta un conoscente o un parente. Se una donna saluta un uomo in quel modo allora vuol dire che lo ama.»
Li hai osservati per caso, eh? pensò Karen. Ti sarai fatto venire il torcicollo pur di non perderti nulla. Sei proprio il tipo cui niente sfugge di tutto un quartiere. «Qualche volta li ho visti anche quando lui se ne andava. E lei, a quel punto, era in vestaglia. Insomma, mi pare che...» «Una situazione inequivocabile, capisco.» «Sei anni è durata la relazione», spiegò Albrecht con evidente soddisfazione. «Si figuri! E sempre con i figli in casa. All’inizio erano ancora neonati in fasce, ma in seguito devono aver sicuramente capito qualcosa anche loro. Tutti, qui nei dintorni, lo disapprovavano vivamente.» Karen lo guardò pensierosa. «Sei anni. Tutto il quartiere lo sapeva. Mi sembra strano che non sia arrivato qualcosa anche alle orecchie del marito.» Albrecht confermò: «Non è possibile che lui non sapesse. Qui lo sapevano tutti... Non posso affermarlo con certezza, ma se vuole conoscere il mio parere, ecco: lui sapeva. Lo ha saputo durante tutti quegli anni.» «Ma...» «Lo so, nessuno riusciva a capacitarsene. Evidentemente non ha fatto nulla per... Certo, non sappiamo di che cosa parlassero marito e moglie.» Era una lacuna che lo rattristava. «Ma poiché quei due hanno continuato a incontrarsi... evidentemente l’altro, cioè il marito, si era per lo meno rassegnato.» «Chi era quell’uomo? L’amante?» Albrecht si esibì in un’alzata di spalle. «Non lo so di preciso. Gli ho rivolto un paio di volte la parola per strada. Ma mi capiva male. Era un inglese. Anche la signora Beerbaum, di nascita, è un’inglese. Forse lo conosceva da prima. Un amore giovanile...» «Ne succedevano di cotte e di crude, insomma, dietro la facciata borghese», osservò Karen. Albrecht annuì. «Eccome. Una volta gli ho chiesto... all’inglese, voglio dire... dove lavorava. Se ho capito bene era un giurista alle dipendenze dell’ufficio legale di non so bene quale azienda britannica... forse una banca. Non rammento.» «E dopo sei anni la relazione è finita?» «Da un giorno all’altro. Almeno questa è stata l’impressione. Lui non è più venuto. Forse è tornato in Inghilterra. Non saprei dirle se il signor Beerbaum avesse finalmente alzato la voce o se l’altro si fosse stufato di essere solo un amante. Forse ha chiesto a Janet di decidere, di scegliere. E io sospetto che lei abbia deciso di restare con il marito per via dei figli. Deve sapere che amava moltissimo i figli, li adorava addirittura. Ha certo voluto conservare loro la famiglia. » I figli. Karen continuava a rompersi la testa per cercare di capire come mai nessuno avesse evidentemente saputo dell’esistenza di un fratello gemello. C’era qualcosa che non andava: lo sentiva. Però non riusciva a combinare le tessere del puzzle. Janet Beerbaum aveva ingannato il marito per anni. E il marito si era rassegnato. Cornuto e contento. Non proprio un bell’ambiente sano, quello in cui Mario era cresciuto. Però, di concreto... «E poi che cosa è successo?» domandò. «Janet ha dato per parecchio tempo l’impressione di essere molto depressa. Io ho avuto la sensazione che non riuscisse a digerire quella separazione. Ma per il resto... sembrava proprio che tutto fosse tornato normale.» «Sembrava? Tutto normale?» Albrecht alzò le mani per fare un gesto con cui sottolineare quello che si apprestava a dire: «Come si fa a sapere d’una famiglia così? Davano proprio l’idea della normalità... Dica, è certa di non volere un caffè? O un tè?» «Grazie. No davvero.» «D’estate partivano sempre per la Francia meridionale. Avevano una casetta laggiù. E intanto i gemelli sono cresciuti. Bei ragazzi, simpatici. Non come i giovani d’oggi. Sa cosa voglio dire... Quelli
che scorrazzano sui motorini, bevono, fumano, capaci solo di passare da una ragazza all’altra... No, no, i Beerbaum non erano così. Uno dei due ha avuto, per un breve periodo, problemi a scuola... pare che la marinasse... ma anche lì la faccenda si è sistemata.» Sai proprio tutto, pensò Karen. «Già», disse Albrecht, e il tono della voce tradì il dispiacere, «lo so, lei è delusa. Ritiene che si sarebbe dovuto intuire, prevedere qualcosa, no? Una qualunque cosa che facesse pensare a... E invece niente. Assolutamente niente.» Karen corrugò la fronte. «Intuire? Che cosa? Che cosa si sarebbe dovuto intuire?» Ora fu Albrecht a fissare stupito lei. «Ma non è venuta per quella storia?» «Io...» e lo gratificò di un sorrisetto nervoso, «insomma sembra proprio che il mio caporedattore abbia voluto mettermi alla prova... Non so proprio di che cosa stiamo parlando.» Chiunque, a quel punto, sarebbe diventato diffidente. Ma, anche se Albrecht Frank avesse sospettato che quella giornalista così assolutamente ignara fosse davvero un po’ troppo stravagante, a quel punto non avrebbe più potuto fare marcia indietro. Aveva aperto le cateratte, e nessuno avrebbe potuto arrestare la cascata delle sue parole. «Santo cielo», disse, «io pensavo che lei lo sapesse. Che fosse venuta qui per questo. Per quella ragazza...» «Una ragazza?» Albrecht tornò a bisbigliare: «Sono io che l’ho trovata, allora. Di là, nella loro casa. Distesa in una pozza di sangue. Con segni di strangolamento sul collo... Ho proprio pensato che fosse morta. Ed era sicuramente ciò che lui avrebbe voluto. Maximilian, capisce? Lo ha anche ammesso, in seguito. Durante una fredda notte di sei anni fa ha tentato di uccidere quella ragazza.»
Era seduta nel taxi che la stava riportando in albergo e aveva la sensazione che qualcuno le avesse dato una martellata in fronte. Era come stordita. Ciò che aveva appreso durante quell’ultima ora... era troppo per riuscire a digerirlo facilmente. Prima quel sentirsi dire di un fratello gemello di cui nessuno aveva finora sentito parlare, per vederselo poi subito dopo trasformare in un assassino... in un quasi assassino! Quella ragazza si era salvata. Però era rimasta per settimane in un coma dal quale si era svegliata ridotta a un vegetale o quasi. Condannata a vivere in un eterno stato di obnubilamento mentale, a una vita su una sedia a rotelle, all’assoluta impotenza. «Allora tutti hanno pensato che sarebbe stato meglio se fosse morta», le aveva spiegato Albrecht. Mario e Maximilian avevano diciotto anni quando era successo il fattaccio. Erano alla vigilia dell’esame di maturità. Maximilian si era da poco legato d’amicizia con una ragazza, una giovane molto carina dai lunghi capelli biondi. «Aveva l’aspetto che Janet Beerbaum deve aver avuto da giovane. D’altra parte sono molti i ragazzi che, in certe loro scelte, si orientano sul modello della madre, vero?» aveva spiegato Albrecht. Una ragazza carina con i lunghi capelli biondi. Come Tina. Era successo nel 1989. Albrecht rammentava ancora bene il freddo gelido di quella serata di marzo. «Sembrava che la primavera non volesse più venire...» Quel giorno aveva telefonato alla figlia, negli Stati Uniti, e Karen lo aveva a fatica dissuaso dal raccontare tutto sulle vicissitudini di quella donna. Janet e Phillip Beerbaum erano partiti per un viaggio di due giorni, ossia per partecipare a un congresso di consulenti fiscali, e avevano portato Mario con loro. «Anche lui, dopo la maturità, si sarebbe voluto occupare di questioni fiscali. Credo che si proponesse di lavorare un giorno nello studio dei genitori.» Maximilian era rimasto a casa da solo. Albrecht era stato da lui, nel pomeriggio, per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa. Però Maximilian gli aveva detto che si stava arrangiando benissimo da
solo. Gli era apparso pallido. Del resto, poco prima dell’esame di maturità, era logico che passasse molte ore seduto alla scrivania. «Credo che non aspettasse la ragazza, quella sua amica. A me in ogni caso è sembrato assai poco contento. È venuta di sera, sul tardi. Era già buio. Io stavo giusto guardando fuori dalla finestra, per caso...» Per la polizia, aveva pensato Karen, un tipo come quel Frank era una manna. Un vecchio annoiato che non fa che occuparsi dei fatti degli altri. Il testimone ideale. «Avevo sentito i Grünberg litigare. Allora vivevano qui dirimpetto. Litigavano sempre perché lui aveva un’amante... Insomma io stavo giusto guardando fuori, per caso, quando ho visto quella giovane suonare il campanello dei Beerbaum. Le assicuro... era una serata d’un freddo polare. Può darsi che nevicasse perfino un poco. Eppure lei si aggirava in minigonna. Calze velate e scarpe con i tacchi alti. Vestita diversamente dal solito, capisce? Non l’avevo mai vista così. Evidentemente aveva saputo che Maximilian aveva la casa a disposizione. E probabilmente aveva pensato di approfittare della situazione per... Ah, ho pensato, il gatto è a spasso e i topi ballano! Non si dice così? Quella voleva... Diciamo che la ragazza, se vuol sapere il mio parere, aveva intenzione di trattenersi fino alla mattina dopo, ecco tutto. Capisce che cosa intendo dire?» Karen aveva assicurato di capirlo benissimo. Albrecht le aveva raccontato di come Maximilian le avesse aperto la porta. Con una faccia piuttosto scura. Gli era sembrato addirittura che esitasse a farla entrare. Ma non aveva potuto far altro, con quel freddo e quel buio. Era venuta per lui, gli sorrideva... E infine erano spariti in casa. «Io guardavo la tivù e mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato era quasi mezzanotte. Lì per lì ho pensato di essere stato svegliato dalla televisione, però stavano trasmettendo un film muto... e poi ho sentito la musica. Musica forte, rintronante. Troppo forte, specialmente a quell’ora. Non sono riuscito a spiegarmela, nessuno dei dintorni era mai stato così irriguardoso. Ho capito che veniva dalla casa dei Beerbaum e così mi sono alzato e mi sono avvicinato alla finestra.» Quello che aveva visto lo aveva sorpreso. La casa dei Beerbaum era illuminata a giorno, le luci erano accese in tutte le stanze. Tutte le finestre del primo piano erano spalancate. Una musica fortissima martellava le orecchie nella notte. Un’opera di Wagner, come era stato accertato in seguito. «Una cosa sinistra, le assicuro. E ho pensato: c’è qualcosa che non va. Qualcosa mi ha detto che sarebbe stato meglio se fossi andato a dare un’occhiata, ma sul momento non me la sono sentita. Ho temuto di rendermi ridicolo. Quei ragazzi stavano esagerando, va bene, ma se mi fossi presentato... D’altra parte non riesco a perdonarmi, ancora oggi, di non aver seguito nonostante tutto il mio istinto. Perché a un certo punto ho capito che c’era proprio qualcosa che non quadrava in quel Maximilian. Era stupefacente il modo in cui aveva trattato quella ragazza, in un modo a dir poco... casto. E adesso un’orgia con tutta quella musica? Mi è sembrato assurdo.» Era andato a dormire. La camera da letto dava sull’altro lato della casa e così si era addormentato nonostante la musica. La mattina dopo si era ricordato subito della sera precedente ed era andato a guardare fuori dalla finestra. La musica era ammutolita, ma le luci erano ancora tutte accese e le finestre spalancate. «Ho deciso di andare a vedere che cosa stava succedendo. Avrei detto che andavo a comprare il pane fresco e che se volevano ne avrei portato anche a loro. Ma quando sono arrivato ho trovato la porta di casa spalancata e nessuno ha reagito alle mie scampanellate, ai miei richiami. E così sono entrato...» Al pianterreno non aveva scoperto nulla di strano. Nel soggiorno era acceso il lumino rosso del lettore di CD e aveva quindi capito che l’apparecchio non era stato spento. Il CD era arrivato alla fine e l’indicatore del volume era posizionato sul massimo. Albrecht aveva salito le scale, con cautela. Sopra aveva trovato un disordine indescrivibile. «I quadri erano stati letteralmente strappati dalle pareti. I vasi di fiori erano rovesciati, i libri sparsi per
terra. Sembrava che ci fosse stata una battaglia, una lotta all’ultimo sangue.» Esitando, era passato da una stanza all’altra, nel frattempo anche in preda alla paura d’imbattersi in chissà che cosa. Aveva capito che lo aspettava qualcosa di spaventoso. Infine l’aveva trovata. Nella stanza di Maximilian, come aveva appreso in seguito. La ragazza era distesa sul pavimento, pallidissima in volto, gli occhi chiusi. Attorno alla testa la moquette chiara era intrisa di sangue. Segni bluastri le sconciavano la gola. Sembrava morta. «Sono impietrito. Stavo lì e non sapevo che cosa fare. Una situazione inconcepibile... terribile. E poi, improvvisamente, mi sono accorto che respirava. Molto debolmente, ma respirava. Mi sono precipitato sul telefono e ho chiamato il pronto soccorso.» «Ed era stato... Maximilian?» aveva chiesto Karen con la voce incrinata. Albrecht aveva annuito. «Si è costituito alla polizia due giorni dopo. L’aveva strangolata. Durante la lotta la ragazza era caduta e aveva picchiato la testa contro lo spigolo della scrivania. Ecco spiegata quella brutta ferita e tutto quel sangue. Maximilian si era convinto che fosse morta e l’aveva lasciata lì.» «Mio Dio!... E adesso... è in prigione?» Albrecht fece un energico cenno di diniego. «Un perito lo ha dichiarato incapace di intendere e volere. Psichicamente malato. Adesso, per quel che ne so, è rinchiuso in una clinica, sempre sorvegliato. Da qualche parte nella Germania settentrionale. E la famiglia si è trasferita ad Amburgo, mi pare. Non riuscivano più a guardare in faccia la gente di qui. E posso capirli...» Un tentato omicidio. Una clinica psichiatrica. Una ragazza totalmente invalida, condannata all’assistenza per tutta la vita. Un gemello di cui la famiglia non parlava. Un amante della madre. Un padre che aveva tollerato la situazione in silenzio. Il caos dietro la facciata borghese... Karen era seduta nel taxi e questi brandelli di pensieri le ruotavano per la testa. Una storia tremenda, da riferire subito a Michael. Come avrebbe reagito nell’apprendere che la figlia era in viaggio con un uomo il cui fratello malato di mente aveva tentato di uccidere una ragazza e che era ora rinchiuso in una clinica psichiatrica? Giunta davanti all’hotel, pagò e scese dal taxi. Localizzò subito Michael nel foyer. Lui si alzò e le si fece incontro, inalberando un’espressione di disapprovazione... Ma per che cosa? Per i suoi fuseaux giallo fosforo, il pullover giallo canarino e le scarpe rosse? Oggi non sarà l’unico shock per te, pensò. Eccolo in piedi davanti a lei. «E allora?» chiese. Karen sospirò. «Credo di avere scoperto qualcosa», disse.
Poco prima del rientro della giuria che avrebbe reso noto il verdetto, Fred Corvey divenne piuttosto nervoso. Janet lo poteva osservare quasi di profilo, seduta com’era dietro di lui ma un po’ scostata di lato, e si accorse così dell’accentuarsi del suo pallore. Continuava ad agitarsi sulla sedia. Un comportamento in netto contrasto con quello che aveva esibito in precedenza, quando aveva ostentato uno spocchioso autocompiacimento, gelida arroganza e, addirittura, la ripugnante sicurezza di farla franca. Il pubblico ministero si era battuto con coraggio e aveva cercato di trarre il meglio dai pochi e insufficienti indizi contro Corvey. Aveva continuato a insistere sull’improvvisa scomparsa del furgone, che era stato rottamato troppo presto, in un modo eccessivamente rapido, dando così ampio vantaggio all’imputato e quindi sottraendolo alla giustizia come potenziale elemento di prova. Aveva messo duramente alle strette l’addetto dell’impianto di sfasciacarrozze che a suo tempo lo aveva preso in consegna, e aveva insistito perché testimoniasse sotto giuramento. Gli aveva rinfacciato di essersi fatto dare dei soldi da Corvey per far sparire immediatamente il veicolo, ma il giovane – un insolente dalla faccia di bronzo, che era sembrato freddo fin nell’animo – aveva energicamente respinto l’accusa. Non lo avevano corrotto, assolutamente. Era del tutto casuale che la vettura fosse stata subito sfasciata.
Quando il pubblico ministero lo aveva avvertito che rischiava un’incriminazione per falsa testimonianza se ciò che aveva detto fosse risultato infondato, si era limitato a rispondere con un’alzata di spalle. Il pubblico ministero aveva inoltre rilevato la circostanza che Corvey era stato spesso a Basildon, dalla zia, e aveva fatto sfilare uno per uno, a rendere le loro dichiarazioni, i numerosi testimoni in grado di confermare la sua presenza in quella località. Quelle visite, almeno in parte, erano coincise con i periodi in cui erano scomparse le donne uccise. A suo carico si era addotto anche il fatto che il luogo dei delitti era nelle vicinanze di quella cittadina. Corvey aveva avuto quindi tutte le opportunità, durante giri d’ispezione, di scoprire il vecchio edificio abbandonato e di assicurarsi che non fosse frequentato da nessuno. Ovviamente il principale elemento d’accusa era rimasta la confessione: resa spontaneamente da Corvey in presenza di diversi poliziotti, dopo che gli erano stati illustrati i suoi diritti e in particolare quello che avrebbe potuto rifiutarsi di parlare. Che la giuria valutasse attentamente, aveva ancora detto il rappresentante dell’accusa, quale credibilità attribuire alla dichiarazione di Corvey di essersi improvvisamente ricordato, soltanto all’inizio del dibattimento in aula, di essere stato sotto pressione, completamente sconvolto, tanto da aver detto in stato confusionale cose della cui importanza non si era potuto rendere adeguatamente conto. Il pubblico ministero era stato brillante, insomma, ma l’avvocato di Corvey non era stato da meno nel dichiarare addirittura ridicolo ciò che era addebitato al suo assistito «perché si vuole a ogni costo presentare un colpevole all’opinione pubblica, e a finire dietro le sbarre sarebbe un innocente». Gli assi nella manica della difesa erano stati due periti giudiziari che, indipendentemente l’uno dall’altro, si erano occupati per alcune ore di Corvey nelle due giornate precedenti. Entrambi avevano fatto notare di non aver avuto tempo a sufficienza per eseguire analisi approfondite, però avevano attestato all’imputato una non comune labilità nervosa, una paura estrema delle persone rivestite di autorità, una considerazione di se stesso estremamente bassa e comunque stravolta, la tendenza a reagire come sotto shock in situazioni percepite come allarmanti, e di essere talora soggetto perfino a fasi di «obnubilamento mentale». Avevano infine sostenuto di non aver rilevato nell’imputato sintomi di perversione sessuale e una particolare inclinazione alla violenza. Il dottor Harold, il più anziano dei due, aveva dichiarato tranquillamente: «Se mi si chiedesse se ritengo Fred Corvey capace di commettere i delitti che gli sono addebitati, esprimerei qualche dubbio. Se mi si chiedesse invece se ritengo possibile che durante l’interrogatorio da parte di funzionari di polizia egli abbia reso una confessione falsa, risponderei che non lo si può assolutamente escludere.» Corvey aveva fatto una faccia come se toccasse a lui il compito di reggere il peso del mondo. Quando il giudice aveva riassunto i termini del dibattimento, tornando a illustrare sinteticamente i più importanti argomenti dell’accusa e della difesa, Corvey si era girato e aveva rivolto a Andrew un sorrisetto, squadrando poi Janet con un’espressione vagamente sprezzante. E Janet era stata di nuovo invasa da quel senso di orrore che si era insinuato in lei al loro primo incontro. Aveva stretto la mano di Andrew e lui aveva risposto con gratitudine alla pressione. Janet scorse anche la madre di Corvey nell’aula del tribunale. Si era agghindata, nel senso che indossava un abito di seta dai grandi motivi a fiori gialli e turchesi e, per tenere in ordine i capelli, si era fatta fare la permanente da un parrucchiere evidentemente non molto capace. Era rossa in volto come un gambero e tremava di paura. Accanto a lei era seduto il giovane che a suo tempo l’aveva accompagnata al ristorante. Le parlava cercando di tenerla tranquilla, ma era evidente che stava fallendo il suo scopo. Quella donna, si rese conto Janet, era allo stremo delle forze. Un verdetto di condanna le avrebbe spezzato il cuore. Corvey faceva la faccia di uno che si illudeva di aver messo fuori combattimento l’intero sistema giudiziario britannico con la sua personale astuzia. Nell’osservarlo, Janet riuscì a capire fin troppo bene quello che passava per la mente e per il cuore di Andrew. Rabbia per l’ingiustizia che
molto probabilmente sarebbe stato costretto a subire senza poterci far nulla; risentimento nei confronti di un sistema scarsamente in grado di proteggere le vittime dei crimini; dolore per la consapevolezza che altre donne innocenti ci avrebbero rimesso la pelle prima di poter sbattere Corvey in galera sulla base di prove inoppugnabili. Lei sapeva che, pur senza dire una parola, Andrew stava promettendo a Corvey che lo avrebbe sbattuto in galera anche se sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua. Fu colta da un’inquietante sensazione mentre osservava gli sguardi roventi che sembravano scambiarsi quei due uomini. Da parte di Andrew percepiva un odio d’una intensità tale da angosciarla. All’esterno non si notava nulla, perché come sempre lui si controllava. Forse era un po’ più pallido del solito, ma di questo solo chi lo conosceva molto bene poteva accorgersene. Tuttavia nell’intimo doveva essere divorato da un fuoco devastante, dalle fiamme di un’ambizione mortale e dall’allarmante incapacità di incassare sconfitte. Per la prima volta da quando lo conosceva, Janet arrivò in fondo all’animo di Andrew. Fu una percezione di pochi istanti durante la quale le sembrarono palpabili le energie distruttive che aveva in corpo, e se ne spaventò. Ma poi quel momento di una indimostrabile intuizione si dissolse, e la sua attenzione tornò a rivolgersi alla sala, alle persone, e poi ancora al volto familiare di Andrew. Improvvisamente si sentì sciocca. Aveva un’infelice tendenza a vedere fantasmi e sicuramente avrebbe fatto bene a richiamarsi all’ordine più spesso. La giuria che si era ritirata per deliberare tornò in aula dopo un tempo talmente breve da suscitare sconcerto. Gli spettatori, ognuno dei quali, fatta eccezione forse per la sola signora Corvey, era convinto della colpevolezza dell’imputato, ebbero se non altro la soddisfazione di vedere Fred Corvey ancora una volta agitato e spaurito. Pur convinto com’era di spuntarla, si rese anche conto che avrebbero potuto... Ma ecco già la giuria annunciare l’assoluzione per insufficienza di prove dall’accusa di quadruplice omicidio. L’anziana signora Corvey cacciò un urlo, il rossore delle sue guance si accentuò e scoppiò in un pianto dirotto. L’avvocato di Corvey si alzò e strinse la mano al suo assistito. Janet poggiò una mano sulla gamba di Andrew. «Non è detta l’ultima parola», gli bisbigliò. «La prossima volta vincerai tu.» La bocca di lui era ridotta a una striscia sottile. Si alzò e per un lungo momento il suo sguardo e quello di Corvey si incrociarono nuovamente. Sul viso dell’imputato – ormai ex imputato – stavano dilagando i segni di una trionfale soddisfazione che sparirono però repentinamente sotto gli occhi spietati, implacabili di Andrew. Corvey distolse immediatamente l’attenzione. Sua madre si era fatta largo fino a lui e ora lo stava abbracciando. Il corpo massiccio sussultava per i singhiozzi. «Vieni», disse Andrew rivolto a Janet, «andiamocene. Per il momento qui non c’è più niente da fare.» Lasciarono l’aula. Fuori era in attesa una schiera di cronisti già raggiunti ormai dalla notizia dell’assoluzione. Una brunetta in completo grigio con pantaloni piazzò il microfono sotto il naso di Andrew. «Ispettore Davies!» Evidentemente era bene informata sui principali personaggi della drammatica vicenda. «È lei che ha arrestato Fred Corvey. Che cosa prova in questo momento?» Solo allora Janet si accorse che qualcuno stava puntando su di loro un riflettore dalla luce violentissima e qualcun altro una telecamera accesa. Andrew la tenne per mano mentre rispondeva. «Dopo la revoca della confessione, l’accusa si è trovata ad avere in mano solo materiale insufficiente», disse, «e, per quanto questa assoluzione possa essere amara per i miei colleghi e per me, si basa in ogni caso sul principio giuridico che attribuisce all’accusa l’onere della prova e su quello altrettanto importante dell’in dubio pro reo. Perfino in momenti come questo ritengo che il nostro sistema sia comunque il migliore di tutti.» La cronista stava per formulare un’altra domanda, ma Andrew fece segno di no per far capire che non intendeva rilasciare altre dichiarazioni. Tirandosi dietro Janet, si fece largo in mezzo alla ressa
dei giornalisti. Furono investiti da alcuni flash mentre i reporter, rivolti a Andrew, continuavano a urlare domande. Lui non rispose né aspettò. Si fermò solo quando furono arrivati in strada. «Sei stato molto corretto», lo lodò Janet con sincera ammirazione, «lucido e distaccato. Pensi davvero ciò che hai detto a quella giornalista?» Andrew annuì. «È esattamente quello che penso. A livello razionale. Lei però mi ha chiesto che cosa provo e quindi, onestamente, la mia risposta avrebbe dovuto essere diversa.» Sorrise e il suo volto stanco si schiarì. «Ciò che veramente provo è questo: avrei voluto che al momento dell’arresto di Corvey si fosse creata una situazione tale da richiedere l’uso delle armi e che lo si fosse reso inoffensivo per sempre.» «Ti capisco», disse Janet. E poi aggiunse, cauta: «Ti è mai capitato di sparare a qualcuno?» «No. Mai.» Andrew stava per aprire la portiera della macchina ma si bloccò e si voltò improvvisamente verso di lei. Le prese il viso fra le mani e le dita affondarono nei suoi capelli scomposti. «È stato un bene che tu sia venuta, Janet», disse. Il tono della voce era un po’ affannato. «Quando eravamo nell’aula mi sono accorto che cosa significa averti al mio fianco. Anche e specialmente in circostanze come questa. Janet, ti prego, vedi di ottenere il divorzio, più presto che puoi. E poi sposami. Sono proprio uno scemo. Avrei dovuto...» «Che cosa?» chiese Janet piano. «Avrei dovuto accorgermi venticinque anni fa di non volere che te.» Non ricordava d’averlo mai visto così aperto e sincero. Ne fu profondamente colpita. Alzò le mani, le posò sulle sue che racchiudevano ancora il suo viso. «Andiamo a casa», disse. Inizialmente si era sentito sballottato fra il desiderio di parlare con Janet e la paura dell’estrema tensione nervosa che quella conversazione avrebbe comportato. Quando l’aveva chiamata la prima volta in casa di Andrew Davis ed era stata proprio lei a rispondergli, aveva subito interrotto la comunicazione. Da allora, fra ogni nuovo tentativo di mettersi in contatto con lei c’erano stati intervalli sempre più lunghi, e quando non gli aveva risposto nessuno si era sentito inquieto, frustrato, ma anche, in un angolo del suo animo, sollevato. Quel venerdì Phillip ci riprovò ogni mezz’ora e nel farlo non si sentì più incerto e lacerato come prima. Voleva parlare con Janet. Non aveva più voglia di aspettare passivamente, di subire la situazione, di attendere che lei si degnasse di dargli una spiegazione. Non riteneva giusto, inoltre, di doversi sorbire da solo la vicenda di Maximilian. La polizia si era ripresentata di primo mattino a chiedergli se non avesse avuto altre informazioni. Piuttosto seccamente aveva risposto che, se fosse successo, si sarebbe fatto vivo lui. Poi, ad abundantiam, aveva telefonato al professor Echinger manifestandogli le sue preoccupazioni. E in quella circostanza Phillip aveva di nuovo provato e sofferto la sensazione di essere considerato un debole dal professore. Da quando era sposato con Janet e viveva di fatto in preda a una continua sarabanda emotiva, solo allora provò rabbia, vera rabbia, e non solo irritazione, dispetto o il furore di un secondo. Una rabbia che stava montando lentamente ma un po’ alla volta, e che doveva farsi largo attraverso innumerevoli strati di equanimità, ragionevolezza, rimozione, acquistando via via sempre più forza. Alla fine, l’intuiva, ci sarebbe stata un’esplosione e il desiderio non più contenibile di prendere Janet a grosse sberle fino a quando, singhiozzando, non gli avesse chiesto perdono. Mai lo aveva desiderato, e quell’idea non gli si era affacciata alla mente neppure nei suoi sogni più truci, per questo ora si sentiva estremamente disorientato. Erano le 15 quando finalmente qualcuno a Londra si degnò di sollevare il ricevitore. «Pronto?» chiese una voce maschile. Phillip deglutì. Gli ci vollero due secondi per controllarsi e poi chiese: «Mister Davies?» «Sì, sono Andrew Davies.» «E io Phillip Beerbaum. Posso parlare con mia moglie, per favore? »
Con soddisfazione di Phillip, stavolta fu Davies a restare scombussolato. Dopo una breve pausa disse in tono molto formale: «Un attimo, prego!» La voce di Janet suonò soffocata. «Phillip? Siamo rientrati appena un minuto fa.» «Ho più volte tentato di raggiungerti.» «Mi dispiace.» Si schiarì la voce. La sua rabbia era quasi misteriosamente svanita nel pronunciare quelle poche frasi. Tentò di ricuperarne i miseri resti perché sentiva che, al di là della rabbia, non gli restava che una desolante tristezza alla quale non voleva arrendersi. «Avresti potuto chiamare anche tu, no? Voglio dire... ti sembra serio questo squagliartela in Inghilterra per poi renderti irreperibile? » «No, naturalmente. Io...» «Poteva esserti successo qualcosa. Ma riesci a capire almeno quanto mi sono preoccupato per te?» Non era vero, aveva immaginato subito che fosse assieme a Davies, ma non era necessario che lei lo sapesse. Gli stava finalmente tornando a galla un po’ di stizza. Maledizione, lo aveva trattato come uno straccio! Il ritmo del suo respiro accelerò. «Dopo venticinque anni», disse, «ti saresti dovuta sentire quanto meno debitrice di una spiegazione!» «Non sono partita con l’intenzione di rimanere, Phillip. Ti prego di credermi. Non mi ero proposta di... venire a trovare Andrew. » «Però avevi già deciso di far saltare quell’appuntamento in Scozia. » Lei sospirò piano. «No. Nemmeno questo avevo in animo di fare. Però ero sull’orlo della disperazione. Sono stata, lo sai, sin dall’inizio contraria alla soluzione della Scozia...» «Avevamo concordato che...» «Mi ero rassegnata. E non è la stessa cosa.» «Se lo dici tu...» commentò in modo vago. L’irritazione per quel non essersi presentata all’appuntamento con mister Grant era del resto ormai lontanissima. Che importanza poteva avere rispetto al fatto ben più drammatico di aver perduto Janet e di essere ora davanti alle macerie della propria vita? «Lasciamo perdere. La Scozia, voglio dire. Più importante è...» esitò un poco, «più importante è sapere che cosa ti proponi di fare ora.» «Non è così semplice. E men che meno dirlo per telefono. Dobbiamo vederci.» «Ah!... Ti ricordo che non dipende da me se ora possiamo comunicare solo per telefono. Sei tu che sei scappata, non io!» «Capisco che tu ce l’abbia con me, Phillip. Ma ciò non toglie che dobbiamo parlare, assolutamente.» Che situazione terribile e volgare, pensò, stanco. Lei è lì, in casa del suo amante, e vuole parlarmi probabilmente per dirmi di aver scelto lui. Ma, se anche così non fosse, non riusciremmo più a ricomporre i cocci. «Janet», disse, sconsolato. Dalla voce di lei desunse che quel dialogo la stava sconvolgendo. «Mi sono comportata in modo piuttosto sleale», ammise. «Ti prego di scusarmi!» Scusarla... quante volte ancora? Forse le cose sarebbero andate diversamente se non l’avesse perdonata già una volta. Se avesse insistito per ottenere la separazione e si fosse risparmiato tutti quegli anni di bugie e di falsa armonia... per dover alla fin fine ugualmente sopportare il dolore di perderla. Se non altro non si sarebbe dovuto dare del vigliacco da solo. Sarebbe riuscito a sopportare meglio la sensazione di trovarsi nei panni di un triste perdente, debole e indifeso. «Parleremo di tutto», disse, «di ciò che è stato e dell’avvenire. Soprattutto dell’avvenire.» Janet non reagì. Sta male, pensò Phillip, sa che mi sta facendo soffrire e questo la tormenta.
Non è mai stata crudele. Non si diverte a ferire il prossimo. «Intanto qui ci sono altri guai», disse. Poté sembrarle un’osservazione buttata lì per inciso, e invece era esattamente calcolata. Quello che si proponeva di dirle avrebbe impresso una bella scossa al suo allegro nido d’amore. «Maximilian è fuggito dalla clinica.» L’effetto non mancò, e ne fu soddisfatto. Per un lungo momento di spavento Janet rimase zitta, e solo dopo disse sbalordita: «Cosa? » «Te l’ho detto. La polizia è già stata qui due volte. Echinger non fa che telefonare, allarmatissimo. Maximilian è evaso due notti fa, attraverso una finestra della cantina.» «Ma non è possibile!» «Credi che ti stia raccontando favole? È stato spiccato mandato di cattura contro di lui.» Il tono della voce di Janet era incrinato dallo spavento. «Ma... ma perché? In agosto lo avrebbero dimesso!» «Non ho idea del perché abbia commesso questa sciocchezza. Echinger è fuori di sé. Essendo il terapeuta coinvolto in questa storia, la fuga per lui è un pugno nello stomaco.» «Non capisco proprio...» «Forse Max vuole raggiungere Mario.» «Mario?» «Già, nemmeno questo sai. Mario è nella Francia meridionale. In quella nostra casa per le vacanze.» Janet sembrò del tutto sconcertata: «Ma che ci è andato a fare laggiù?» «Ad amoreggiare. Ha conosciuto una ragazza e così quei due...» Si interruppe nel cogliere dall’altro capo della linea un rumore strano, una specie di sospiro, ma così tormentato, così pieno di paura da suonare come un grido soffocato. «Janet? Cosa c’è?» chiese, spaventato. Sembrò riprendersi solo faticosamente fino al punto da riuscire di nuovo a parlare: «E tu lo hai lasciato andare, così, semplicemente? Con una ragazza? Tu hai...» «Janet, ti prego: come avrei potuto impedirglielo? Ha ventiquattro anni. E anche la ragazza è maggiorenne, se è questo che ti preoccupa. » «Dove l’ha conosciuta? E quando?» «Già da tempo, mi pare. Ma non so dove e come. Non mi ha spiegato come mai non me ne aveva parlato prima, ma suppongo che abbia pensato che noi ci saremmo automaticamente innervositi. A causa... di quella storia di allora, di Maximilian.» «O Dio!» «Janet. Mario è sano. Non puoi trarre conclusioni sull’uno desumendole dall’altro!» Quell’episodio l’aveva allora tremendamente sconvolta, e lui lo sapeva. Anche lui ne era stato colpito, ovviamente, ma in modo diverso. Era rimasto scioccato dall’idea che una cosa del genere fosse potuta accadere nella sua famiglia, e aveva creduto di non poter mai più guardare negli occhi nessuno. Sempre lui era stato quello che aveva insistito perché se ne andassero da Monaco e si spostassero nel settentrione della Germania, dove nessuno li conosceva e dove nessuno sapeva. Il suo stato d’animo era tornato sereno ed equilibrato solo quando quel cominciare da capo aveva avuto successo e quando aveva saputo Maximilian al sicuro dietro le mura di quella clinica. Il suo equilibrio psichico si stabilizzava sempre quando riusciva a rimuovere le cose, i pensieri che lo turbavano. Fino a quando, a un certo punto, l’edificio non minacciava di crollare rovinosamente, fino a quando non lo raggiungeva quello che si era sforzato di tenere lontano... Janet, di solito campionessa del mondo di fuga, quella volta non era riuscita a sottrarsi alle sue responsabilità. Né era mai stata capace di prendere le distanze da Maximilian e da ciò che aveva fatto. L’opinione del prossimo le era indifferente, e quindi non aveva tratto la benché minima consolazione da ciò che Phillip aveva intrapreso per mascherare perfettamente le cose. Si era tormentata giorno dopo
giorno, anno dopo anno, ci si era arrovellata e aveva cercato di scoprire con quasi masochistico impegno quale fosse la sua parte di colpa in ciò che era accaduto. E adesso era presa dal panico all’idea che anche Mario... «Dico davvero, non è il caso che ti angosci, Janet», disse Phillip per tranquillizzarla. «Mi rifarò viva io», esclamò Janet precipitosamente, e interruppe la comunicazione.
Nel taxi, mentre rientravano dall’aeroporto, Michael disse due volte che avrebbe preferito recarsi subito dai Beerbaum. Ogni volta Karen gli aveva messo una mano sul braccio per calmarlo. «Prima telefoneremo. Non possiamo piombare così in casa di quella gente.» «Mia figlia...» «Sua figlia è nella Francia meridionale con quello sano dei due gemelli. E l’altro è chiuso in una clinica e quindi reso inoffensivo.» Da quando Karen gli aveva riferito le scoperte che aveva fatto, avevano scambiato i ruoli. Ora era Karen ad apparire riflessiva e prudente. Michael invece era quasi fuori di sé dall’ansia e non sapeva o quasi quali passi fare. In un primo momento avrebbe voluto raggiungere subito Nizza, in aereo, ma gli era stato comunicato che quel giorno non c’erano più voli verso quella destinazione. Poi avrebbe voluto rivolgersi alla polizia, ma Karen gli aveva spiegato che non sarebbe servito a niente. «Cosa vuole che facciano? Dare la caccia a Mario perché è fratello di uno che ha commesso un crimine? Arrestare la famiglia per averci nascosto l’esistenza del figlio venuto male? Non è un comportamento perseguibile, signor procuratore! » Infine Michael si era fatto convincere a rientrare ad Amburgo. «Parleremo con i Beerbaum», aveva detto Karen, «intimeremo loro di dirci la verità e dovranno aiutarci a metterci in contatto con Mario e Tina. Forse, laggiù in Francia, c’è qualcuno fra i vicini che può andare a vedere dove si sono cacciati quei due e dir loro che telefonino.» «Giusto, ma allora perché non andiamo subito dai Beerbaum?» Lei gli lanciò un’occhiata come se fosse un bambino capriccioso. «Prima gli telefoneremo. Anzi, prima gli telefonerò io. Lei, nello stato in cui è, non riuscirebbe a far altro che rompere le uova nel paniere.» Può darsi che abbia ragione, pensò Michael mentre erano in taxi per le vie di Amburgo. Io perderei le staffe, piglierei quel Beerbaum per il petto, lo scuoterei... Interruppe il corso dei pensieri sentendosi coperto di sudore. Si passò una mano sulla fronte e guardò fuori dal finestrino. Una giornata grigia, nuvolosa, troppo fredda per quella stagione. Gli vennero in mente i giorni caldi, soffocanti, gravidi di elettricità e di temporali ma profumati di fiori delle estati della sua infanzia. La vecchia casa parrocchiale, scomoda, poco pratica, costruita in campagna secondo criteri balordi, aveva però un magnifico giardino pieno di alberi da frutto, di siepi lussureggianti e di tranquilli, inopinati posticini in cui rifugiarsi per sognare. Ci aveva giocato qualche volta, ma non spesso. Suo padre non approvava che i figli si divertissero. «Fate qualcosa di utile e non sottraete il vostro tempo al padreterno! » era uno dei suoi detti preferiti. A Paula, la figlia, quella mentalità era entrata nel sangue. Quando mai aveva fatto qualcosa di non utile. Lei? E lui? Era forse diverso? Fece un profondo sospiro. Karen lo guardò: «Ma di che cosa ha tanta paura?» «Quel fratello... è uno psicopatico. E se anche l’altro...» «... lo fosse? Michael, lei sta attribuendo a un’intera famiglia le colpe di uno solo. Questa è roba da popoli barbari e da nazisti! Perché crede che...» «Non lo credo. Ma potrebbe essere che...» «Non è logico.»
«Eppure...» insistette lui. Si sentiva malissimo. Di che cosa ha tanta paura, gli aveva chiesto Karen. Santo cielo, stava quasi per arrabbiarsi sul serio. La sua unica figlia, la sua bambina, tutto quello che aveva, era in pericolo di vita. O quanto meno, tentò di correggersi in fretta, sospetto che sia in pericolo di vita. Ma per me è come se lo fosse, e mi fa stare male. È un inferno. Il taxi si fermò davanti alla casa in cui abitava Karen. «Venga su da me», gli intimò lei. «Per prima cosa si berrà un cognacchino e io intanto chiamerò i Beerbaum. Okay?» La seguì passivamente sulle scale fino all’appartamento, senza quasi avvertire il peso della borsa di Karen. Non si accorse neppure del cattivo odore che c’era in quella casa, della tappezzeria che si sfogliava, dell’umidità di cui erano intrise le pareti. Karen aprì con difficoltà la porta dell’appartamento. «Troverà un po’ di disordine. Non ci faccia caso.» Fece lo slalom fra scarpe da ginnastica abbandonate, vecchi periodici, tazze da tè sporche. In soggiorno era stata allestita una specie di stireria, sul divano c’era un mucchio di indumenti spiegazzati. «Mi dispiace», disse Karen, «quando mi è venuta l’idea di recarci a Monaco stavo giusto per mettermi a stirare.» Fiutò l’aria. «Tanfo di chiuso, eh? Ora apro la finestra. Si sieda, si sieda...» Michael appoggiò la borsa di lei in un angolo e si sedette sull’unica sedia che non fosse ingombra di pullover e pantaloni. Karen portò due bicchieri e una bottiglia di cognac. «Vedrà che la tirerà su.» Versò da bere, gli allungò il bicchiere e vuotò il suo in un sol sorso. «Ora telefono ai Beerbaum.» Michael assaggiò il suo cognac e osservò Karen che tirava fuori le Pagine Gialle da sotto il divano – strano posto per tenere un elenco telefonico, pensò – e si metteva a sfogliarle. «Consulenze fiscali...» borbottò e poi, trionfante: «Beerbaum, Phillip. Eccolo!» Digitò in fretta il numero. Mentre aspettava che qualcuno le rispondesse, aggrottò improvvisamente la fronte. «Che strano», disse, «quel vecchio con il quale ho parlato ha detto che Mario avrebbe voluto diventare consulente fiscale come il padre. Però ora studia giurisprudenza. Non mi pare che quadri. O no?» «Può aver cambiato idea», dichiarò Michael. Karen fece una smorfia. «La segreteria telefonica! Merda!» Riagganciò il ricevitore e si accinse a tuffarsi di nuovo sotto il divano. «Ora proverò a rintracciarlo a casa.» «Saremmo dovuti andarci subito!» disse Michael e si alzò. «Secondo me...» cominciò Karen, ma fu interrotta dal campanello di casa. Si tirò su e sparì in anticamera. Michael la sentì azionare il pulsante dell’apriportone. Poi rientrò: «Sono proprio curiosa di sapere chi è! Il nostro citofono non funziona, sa? E così è sempre una sorpresa scoprire chi sale le scale.» Il successo delle ricerche eseguite a Monaco, per quanto pauroso potesse apparire a Michael il risultato, l’aveva rinfrancata. Lo aveva registrato come una conferma delle sue capacità giornalistiche, la prima da anni. Indossava tuttora l’orribile mise gialla di Monaco, rispetto alla quale i capelli tinti di rosso spiccavano in modo decisamente oltraggioso. Però, in faccia, sembrava più giovane del giorno prima. Sprizzava energia, dava l’impressione di essere più ottimista, più sicura di sé. In seguito lui si sarebbe ricordato spesso di essersi fortemente irritato nel vedersela lì davanti sorridente in quel soggiorno trasandato. Era seccato perché Karen sembrava considerare una avvincente avventura ciò che invece aveva precipitato lui in uno stato di angosciante inquietudine. Però non avrebbe mai dimenticato come l’aveva vista in quel momento: vivace, fiduciosa; sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe vista così. Neanche cinque minuti dopo, sbuffanti per le scale fatte a piedi, si erano presentati nell’appartamento due funzionari di polizia piuttosto stanchi e infastiditi perché, come poi risultò, avevano già tentato più volte di rintracciare Karen. Con la maggior cautela possibile le comunicarono che in Francia, in prossimità del confine nei pressi di Mühlhausen, era stato trovato il cadavere di una
giovane. Secondo i documenti che aveva addosso si trattava di Dana Graph, domiciliata proprio lì. Si dichiararono profondamente dispiaciuti di dover comunicare una notizia così terribile.
Dopo averlo cercato per un’ora in tutta la casa, Maximilian trovò infine il telefono nell’armadio del soggiorno. Non avrebbe saputo dire nemmeno lui perché lo avesse fatto e che cosa si fosse ripromesso dalla caccia all’apparecchio sparito. Era difficile che potesse offrirgli la soluzione del rebus che stava cercando di sbrogliare. Forse sperava vagamente che il telefono risultasse rotto, e offrisse così una spiegazione valida del motivo per cui era stato staccato e messo in disparte. Sennonché, quando nello studio allacciò l’apparecchio alla linea, constatò che funzionava perfettamente. Il segnale di linea libera risuonò chiaro e preciso. Maximilian formò un numero a caso e dopo pochi squilli gli rispose una voce femminile. Riattaccò. Bene, il telefono era dunque a posto. Mario l’aveva perciò intenzionalmente nascosto perché quella Christina non potesse mettersi in contatto con il mondo esterno e perché, forse soprattutto, non fosse raggiungibile. Non aveva che da chiudere gli occhi e concentrarsi, e riusciva a provare quello che provava Mario, poteva pensare come lui, sentire come lui. Christina lo aveva deluso. La delusione era cominciata in un momento qualunque del loro viaggio ed era diventata poi sempre più forte e dolorosa. Ed era venuto l’istante a partire dal quale la ragazza non avrebbe potuto far altro che commettere errori, qualunque cosa avesse fatto e comunque si fosse comportata. Mario, da quell’attimo in poi, si era messo a spiare gli errori di Christina, aveva cercato come un ossesso le prove della sua inadeguatezza. Ai suoi occhi, la colpa di quella squallida condotta era del mondo. Del mondo malvagio, guasto, peccaminoso. Christina doveva perciò essere sottratta al mondo, nascosta... Maximilian rifletté. Qual era la prima cosa da fare? Eliminare il telefono. Ma di per sé non sarebbe bastata. Christina è giovane, sveglia, comunicativa, vivace. Vuole uscire. Non si lascia rinchiudere. Constata l’esistenza di altre persone, di altri uomini. Ride, guarda, flirta perfino. Ogni singola occhiata che getta a un altro uomo, ogni civetteria, ogni accendersi dello sguardo, ogni consapevole gesto di scostarsi i capelli – lunghi e biondi: sarebbe stato disposto a scommettere di tutto che erano lunghi e biondi – addolorano Mario come una coltellata. La tortura diventa insopportabile. Cerca di occultare quello che accade dentro di lui, ma è proprio questo tentativo ad aumentare smisuratamente la tensione interiore. Non resiste più, non fa altro che pensare a come neutralizzare in un qualche modo ciò che lo tormenta tanto: il mondo. Maximilian tornò ad aggirarsi per la casa, gli occhi quasi spasmodicamente socchiusi, tentando di riallacciare il misterioso legame interiore che era sempre esistito fra i due fratelli. Dove sei andato con lei? Dove? Si fermò nel soggiorno, proprio davanti alla parete alla quale erano appesi gli acquarelli di Janet. Lo sguardo si fermò su uno di quei dipinti. Erba alta, inclinata, scomposta dal vento. Rocce calcaree. Un cielo di vetro, il sole nascosto dietro una nuvola da dove lo si poteva intuire intento a gettar luce sulla campagna. Boschi scuri. Sotto i cedri, seminascosto, un rifugio di pietra, quasi in un mondo a parte, con quelle piccole finestrelle e la porta bassa. Non un sentiero che conduca fin lì, niente che... Interruppe quell’elucubrare. Il rifugio! La sua quasi palpabile solitudine. Angosciosamente fuori dal mondo. Che cosa aveva detto Janet di quel capanno quando lo avevano scoperto durante una passeggiata fatta insieme, tutti e quattro, e che da allora era diventata la romantica meta delle loro escursioni? «Qui la vita è così lontana...» Uscì di casa correndo. Andrew riaprì bocca poco prima dell’atterraggio a Nizza. Era rimasto zitto durante tutto il volo, fatta eccezione per il «Sì, grazie» detto alla hostess che gli aveva chiesto se volesse del caffè. Il resto
del tempo l’aveva passato immerso nel Times, dando tuttavia l’impressione di non leggere, ma di pensare ad altro. Aveva usato il giornale come un muro con cui tenere il mondo alla larga. «Non capisco perché tu abbia tenuto tutto questo per te!» disse all’improvviso. Janet, che stava guardando fuori dal finestrino, si voltò verso di lui. Durante le ultime ore si era sempre più ritratta in se stessa. Era pallida e aveva i lineamenti tesi. «Non potevo parlarne», rispose. «È appunto questo che non capisco. Siamo pure stati così vicini nelle ultime settimane. Mi sono chiesto quando me lo avresti detto. Ancor prima di sposarci? Dopo? Mai?» «Non lo so... sarebbe stato così importante?» Ripiegò il giornale, spazientito. «Sì! Soprattutto perché ti angoscia ininterrottamente. Per quanto tempo avresti voluto tenermi ancora all’oscuro dell’ansia che ti rode? Diamine, Janet, io mi ero pure reso conto che c’era qualcosa che non andava!» Janet fece un profondo sospiro ma non rispose. «Dopo tutto non è mica una sciocchezza qualunque», disse Andrew. «Tuo figlio ha tentato di uccidere una donna che è sopravvissuta solo per caso. Ora è rinchiuso in una clinica psichiatrica. E adesso capisco certe domande che mi hai fatto a proposito di Fred Corvey. Quel tuo chiedermi della madre, di come e che cosa avesse sbagliato nell’educarlo... Mi ha meravigliato la tua insistita curiosità, l’agitazione che l’argomento ti provocava. Ora soltanto mi è chiaro fino a che punto, in quei momenti, tu devi esserti... identificata... » «È un peso tale», disse lei piano. Andrew le prese una mano. «Ma che cosa ti impaurisce tanto?» chiese. «Maximilian è evaso, e va bene. Secondo te tenterà di raggiungere Mario e quella ragazza. Però non lo sai con certezza. Sai invece... che fra poche settimane l’avrebbero comunque dimesso. Il che significa che i periti lo ritengono guarito, e puoi pure fidarti un po’ di loro! Forse è tutt’altra la ragione per cui è scappato...» La hostess si era fermata accanto a loro. «Dovete allacciare le cinture. Stiamo per atterrare!» Per qualche istante si dedicarono solo a quell’incombenza. «Janet», riprese poi Andrew, evitando di guardarla, «è per caso di altra natura l’apprensione che ti rode? La paura che Mario possa avere la stessa inclinazione del fratello gemello... una tendenza che finora non si è manifestata, tanto che non è stato necessario sottoporre a terapia anche lui? E se Maximilian nutrisse lo stesso timore e fosse per ciò appunto accorso in aiuto di quella ragazza?» Le labbra di Janet rimasero sigillate. Andrew la guardò. «Esiste qualche ragione, un episodio che possa aver suscitato in te questo sospetto? Qualcosa che soltanto tu e Maximilian conoscete? Un elemento, un fattore che vi induca a credere che Mario sia... pericoloso?» «Andrew, io...» «Janet!» Il tono della sua voce si fece insistente. «Vuoi capire che se le cose stanno così non avresti mai dovuto tenerle per te? Dannazione, immagino che tu abbia voluto proteggerlo, però...!» Negli occhi di lei comparve un’espressione rabbiosa. «Stai lavorando di fantasia! Non la puoi smettere finalmente di sottopormi a questo interrogatorio?» «No, non posso!» Andrew non si sforzò più, ora, di nascondere la sua irritazione. «Maledizione! Non ti pare di aver preteso un po’ troppo da me in queste ultime ore? Ti telefona tuo marito e quasi mi crolli accanto al telefono. Poi vengo a sapere di quella spaventosa tragedia accaduta nella tua famiglia. Quindi ti metti a urlare di dover immediatamente volare a Nizza a scanso di chissà quale disgrazia. E se io mi azzardo a farti qualche domanda tu insorgi e mi accusi di sottoporti a un interrogatorio. Ma chi credi che io sia? Un funzionario di Scotland Yard che vuole tenderti una trappola? O l’uomo che hai detto di essere disposta a sposare?» «Non saresti dovuto venire con me.» Andrew si zittì. Non la riconosceva quasi più. Mai l’aveva vista così scostante, così aggressiva.
Scossa fin nell’intimo. Anch’io avrei tutte le ragioni di sentirmi scosso, pensò, seccato. Anche il mio mondo è piuttosto scombussolato e sto solo tentando di riprendermi. Quando l’aereo fu atterrato e loro uscirono sulla scaletta per scendere, accarezzati dal vento dolce e profumato che veniva dall’interno del paese, Andrew fu assalito da un senso di angoscia. Quella sarebbe potuta diventare, qualche tempo dopo, la meta del loro viaggio di nozze. Ebbe invece improvvisa la sensazione che vi sarebbero stati entrambi messi duramente alla prova.
Phillip rimuginò per tutto il pomeriggio sulla reazione di Janet al telefono. Gli era parsa fuori di sé dallo spavento. E precisamente, come capì nel ricostruire la conversazione, non tanto perché Maximilian era scappato dalla clinica, ma perché Mario era partito per una vacanza in compagnia di quella ragazza. Sembrava seriamente temere una ripetizione della tragedia. Senza saperlo, Phillip fece la stessa riflessione di Andrew: c’erano ragioni per temere che anche Mario fosse malato? E se Janet l’avesse saputo ma non l’avesse mai detto a nessuno? A parte questa vicenda, la conversazione lo aveva agitato anche perché l’istinto gli diceva che Janet, in cuor suo, aveva già deciso di chiedere la separazione. Evidentemente per lei il problema si riduceva ormai solo alla necessità di prospettargli la fine del loro matrimonio con un certo riguardo. Non voleva più fargli del male, pur sapendo che la sua scelta lo avrebbe profondamente ferito... D’altra parte il controllo della situazione gli era sfuggito di mano ormai da tanto tempo. Avrebbe dovuto metterla alla porta diciotto anni prima, dopo quei sei anni di relazione con Davies, quando, a causa dei bambini ancora piccoli, non era riuscita a decidere da sola di rompere i ponti; quando Andrew Davies le era forse apparso poco affidabile, tanto da rinunciare a compromettere per lui la loro vita di famiglia. E lui, Phillip, scemo totale, l’aveva riaccolta nel rifugio sicuro delle sue braccia. Sottraendosi ogni libertà di scelta. O meglio... qualcosa ancora gli restava. Nessuna possibilità più di modificare lo stato delle cose, però tuttora la possibilità di tentare una fuga in avanti. Di precedere Janet di un passo. Era il tardo pomeriggio di venerdì ormai, e quindi non avrebbe potuto fare più nulla in giornata, però lunedì mattina sarebbe andato dall’avvocato e avrebbe inoltrato lui la richiesta di divorzio. L’idea lo confortò. Non lo rese più felice, ma gli iniettò una dose di adrenalina che avrebbe alleviato almeno provvisoriamente, per breve tempo, il peso fisico della sua depressione. Avrebbe telefonato subito all’avvocato, il quale non lo avrebbe molto probabilmente rappresentato in quella circostanza perché non era un matrimonialista specializzato in divorzi ed era inoltre amico di Janet, ma avrebbe potuto suggerirgli un buon nome. Non che mirasse a uscire bene dalla causa, non gli importava affatto di dover dare a Janet la metà dei beni materiali di cui disponeva o forse anche di più. Gli importava soprattutto di poter finalmente tornare a guardarsi allo specchio la mattina senza vergognarsi. Stava ancora cercando il numero dell’avvocato quando squillò il telefono. Aveva quasi sperato che fosse Janet e invece sentì la voce di un uomo che gli sembrò vagamente nota. Una voce che suscitava l’impressione d’una singolare mescolanza di profondissima stanchezza e di quasi disperata agitazione. «Sono Michael Weiss. Ho tentato di raggiungerla in ufficio, ma mi ha risposto la segreteria telefonica...» Phillip, che non sapeva niente della professione di Michael, si chiese come mai quell’uomo assumesse sempre un tono da accusatore. Ebbe di nuovo la sensazione di doversi giustificare. «Il mio ufficio è temporaneamente chiuso», disse. «Sono alle prese con un grave problema, signor Beerbaum. Non riesco a raggiungere mia figlia.»
Quell’uomo doveva essere un nevrastenico! Non c’era da stupirsi che sua figlia non gli rispondesse al telefono. «Signor Weiss, io...» «Signor Beerbaum, non intendo nasconderle di essere rientrato due ore fa da Monaco di Baviera...» Un’affermazione di disarmante innocuità, ma nella testa di Phillip squillarono segnali di allarme. Gli si inumidì la pelle e avvertì un brivido lungo la spina dorsale. «E allora?» chiese. «Ho raccolto certe informazioni.» Michael non sembrava minimamente imbarazzato nel dover ammettere di aver spiato nei fatti degli altri. «Mario non è il suo unico figlio, signor Beerbaum. Ha un fratello gemello. Un fratello attualmente rinchiuso in una clinica psichiatrica per tentato omicidio. E io non riesco a parlare con mia figlia!» Il tono della voce di Michael era diventato molto forte. Phillip, benché spaventatissimo e quasi paralizzato, intuì quasi meccanicamente ciò che sconvolgeva Weiss: se un fratello... allora forse anche l’altro... E un’altra cosa gli passò fulmineamente per la testa. Lui non può sapere in quale clinica è rinchiuso Maximilian. E quindi non può sapere che Maximilian è sparito. Né c’è modo che possa apprenderlo. Altrimenti, nello stato d’animo in cui si trova, sarebbe capacissimo di scatenare il panico in tutto il paese. «Signor Beerbaum», la voce di Michael si era abbassata, ma l’intonazione era diventata anche più pericolosa, «se fosse dipeso solo da me, a quest’ora sarei già in volo per Nizza, ma non posso muovermi. È stata uccisa una ragazza. Dana Graph, la migliore amica di Tina. Non posso lasciare sola la madre, per ora.» Per un lungo, spaventoso momento Phillip temette davvero che quel delitto potesse essere messo in qualche modo in relazione con la scomparsa di Maximilian, che fosse da addebitare a suo figlio, e dentro di lui si materializzò la visione di una orribile scia di sangue lasciata in tutta Europa da un Maximilian in preda a furia omicida. «Come... voglio dire... chi...» «Non sappiamo ancora niente di preciso. Il corpo è stato trovato nei pressi della frontiera francese, non lontano da Mühlhausen, o da Mulhouse se preferisce. È stata assassinata, violentata.» Anche se assurdamente, l’accenno a quello stupro che per la vittima doveva aver costituito una tortura aggiuntiva fu accolto con sollievo da Phillip. Se così stavano le cose, Maximilian non c’entrava. Lui non violentava, lo stupro era qualcosa che, secondo il professor Echinger, non rientrava nel suo quadro clinico. Maximilian era solo – solo! – capace di uccidere. Si rilassò un poco. «Mi dispiace molto», disse. E gli dispiaceva davvero, naturalmente. Ma aveva maledettamente tanti problemi suoi che... «Mi ascolti bene», disse Michael senza reagire all’espressione di rammarico del suo interlocutore, «altrimenti lei si troverà a dover affrontare più rogne di quelle che è in grado di sopportare. Io sono molto preoccupato e voglio poter comunicare con mia figlia. Voglio sentire la sua voce e deve assicurarmi di stare bene. Mi è del tutto indifferente che cosa lei vorrà fare a questo punto e come intende ottenerlo, ma veda di mettersi immediatamente in contatto con suo figlio e gli dica che Tina mi chiami subito. Subito! Mi ha capito?» «Io...» «Io dovrò restare ancora per un paio d’ore con la signora Graph. E quindi prenda una matita e un pezzo di carta, e si segni il numero che le detterò e al quale mi si potrà raggiungere.» «Io credo che lei debba innanzi tutto cambiare il tono con il quale mi si sta rivolgendo», disse Phillip che cominciava lentamente a riprendersi da quello paralizzante spavento. La voce di Michael e il suo tono furono quelli di un uomo che una situazione estrema aveva indotto a gettare a mare il senso della misura e le convenzioni, che se ne sbatteva altamente dello stile
forbito, della cortesia e della correttezza. Gli stava venendo a galla qualcosa di cui non aveva nemmeno immaginato l’esistenza. «Signor Beerbaum, io devo poter parlare questa sera con mia figlia e, le ripeto, non mi importa come riuscirà a ottenere quello che le chiedo. Lei si è dato molto da fare per ricostruirsi una vita e per nascondere al suo ambiente ogni indizio dell’esistenza di un secondo figlio. Ebbene, io le giuro che tutta Amburgo verrà a conoscenza di questa storia e che dovunque lei possa poi andare a stare io provvederò perché lo si sappia anche lì. E perciò, se intende continuare a vivere in pace, usi tutte le leve di cui dispone per mettermi in contatto con Tina!» «Questo è un ricatto», disse Phillip. Michael non rispose ma non era difficile desumere dal suo silenzio una ferrea determinazione. «Come immagina che io possa raggiungere quei due?» continuò Phillip, nervoso. Un rivoletto di sudore gli stava colando lungo la schiena. Si sentiva incalzato, messo alle strette, come un animale in trappola. «Conoscerà pure qualcuno del vicinato, lì in Francia. Lo chiami, gli dica che cerchi quei due e che dica loro di farsi vivi. Escogiti ciò che vuole. E adesso vada a prendere qualcosa per annotarsi il numero che le detterò.» Sconfitto, Phillip si affrettò ad andare a prendere carta e matita. Michael gli dettò il numero e poi interruppe la comunicazione senza salutare.
Maximilian non sapeva quante ore fossero passate dal momento in cui si era avviato per raggiungere il rifugio sui monti. Nella cantina della casa per le vacanze aveva trovato una bicicletta, ne aveva gonfiato le gomme piuttosto flosce, poi era salito in sella e aveva cominciato a pedalare. Sotto il sole cocente del pomeriggio aveva percorso lo stradone provinciale, prima con impeto, poi più lentamente quando si era reso conto che non sarebbe riuscito a mantenere quella velocità. Stupidamente, si era dimenticato di portarsi dietro una bottiglia d’acqua, e in quel deserto non c’era la possibilità di andare a comprare qualcosa da bere. Quando venne il tramonto cominciò a sentirsi un po’ meglio, ma la sete continuò a tormentarlo. Inoltre il tratturo che stava percorrendo si faceva a volte talmente ripido da costringerlo a scendere e a spingere la bicicletta a mano. Il crepuscolo cedette il passo a un’oscurità sempre più accentuata. Sapeva di essere in strada ormai da molte ore, ma non era affatto certo di star percorrendo quella giusta. Le estati in cui avevano più volte raggiunto il capanno durante le loro vacanze risalivano a molto tempo prima. Ogni volta che arrivava a un bivio esitava prima di scegliere la direzione da seguire. Supponeva che ci fosse una scorciatoia più rapida per raggiungere il rifugio, ma temeva, se si fosse messo a cercarla, di smarrirsi del tutto. Era meglio non allontanarsi da quella strada di campagna. Lo ricordava abbastanza bene: avevano viaggiato ogni volta per una mezz’ora in macchina, e poi avevano fatto una ventina di minuti a piedi dal punto in cui non sarebbe più stato possibile proseguire con l’auto. Non avrebbe mai immaginato che, senza la macchina, quel tragitto potesse risultare tanto lungo. Attirò la sua attenzione un sentiero sassoso che, diramandosi dalla stradina tutta curve, risaliva la montagna. Ormai faceva già parecchio buio e il paesaggio attorno gli sembrò sinistro oltre che sconosciuto, ricordava però che verso la fine di quelle loro scampagnate si erano sempre inoltrati lungo un sentiero come quello e che lo avevano seguito fino al punto in cui era cessato del tutto per confondersi con il terreno brullo. Sì, il tragitto giusto poteva essere proprio quello. Si fermò. Da qualche minuto non aveva potuto far altro che sospingere la bicicletta. Aveva la lingua attaccata al palato asciutto. Avrebbe dato un patrimonio per un sorso d’acqua. Gli facevano male le gambe ed era stanco da morire. Andò a depositare l’ormai inutile bicicletta dietro a una quercia, per terra. Dopo un quarto d’ora di faticosissima arrampicata resa più difficoltosa dall’oscurità, si imbatté nella macchina di Mario,
vuota e abbandonata, con le portiere spalancate, la chiave nel quadro dell’accensione e – come constatò dopo aver fatto alcuni tentativi di metterla in moto – senza una sola goccia di benzina nel serbatoio.
Era già buio quando Andrew e Janet raggiunsero Duverelle. Avevano noleggiato una macchina all’aeroporto di Nizza ed erano subito partiti, sbagliando però due volte strada. A Janet il contrattempo aveva fatto perdere ogni controllo, si era messa a urlare sostenendo di essere certa che quella era la via giusta e di non capire come mai non avevano ancora raggiunto il villaggio. A un certo punto Andrew, che era al volante, aveva accostato l’automobile al margine della strada, spento il motore e guardato Janet severamente. «Janet, vedi di calmarti. Ora raggiungeremo il più vicino centro abitato, ci informeremo sulla strada da seguire, e poi faremo in modo di raggiungere Duverelle e di capire che cosa sta succedendo. Ora smettila però di strillare perché non ha senso presentarsi sconvolti da tuo figlio.» Janet non aveva più detto una parola. Quando finalmente arrivarono, lei scese subito, sempre in silenzio, e corse verso la casa, dove scostò il cigolante cancello del giardino. Anche Andrew uscì dalla macchina e la seguì. Rami fioriti gli sfiorarono la faccia mentre percorreva il breve viottolo. Dall’oscurità emersero i muri di una casa che sembrava assopita in mezzo alla lussureggiante vegetazione. Che bel posto, pensò Andrew. Janet stava bussando con violenza alla porta di casa. «Non sento alcun rumore», disse. Andrew alzò lo sguardo verso le finestre buie. «Forse non ci sono. Forse sono usciti. È possibile, non ti pare? Sono...» guardò il quadrante fosforescente dell’orologio che aveva al polso «...le dieci e mezzo. Per due giovani non è ancora l’ora di mettersi a dormire.» Janet sembrò non dargli ascolto. Scuoteva la maniglia della porta. «Dobbiamo trovare il modo di entrare!» esclamò. «Non hai la chiave?» «Certo che no. Però deve averne una l’uomo incaricato di tenere in ordine la casa. Anche a costo di buttarlo fuori dal letto...» Smise di tentare di aprire la porta. «Forse c’è una finestra aperta.» Andrew la seguì nel giardino. Sulla terrazza videro i cuscini sulle sedie e la T-shirt abbandonata. Dall’interno della casa vennero gli squilli del telefono. Janet sobbalzò: «Il telefono! Qualcuno sta chiamando! Io...» «Janet, non c’è niente di drammatico. Non ti agitare in questo modo!» Quasi per caso provò ad abbassare la maniglia della porta del terrazzo che, con sua sorpresa, cedette e si aprì. Janet lo precedette subito in casa, attraversò di corsa il soggiorno, salì le scale due gradini alla volta e raggiunse il piccolo studio. Il telefono era sul pavimento e continuava a squillare. Janet staccò il ricevitore con furia: «Pronto?» disse col fiato corto. Dall’altro capo della linea un breve, irritato silenzio. Poi risuonò la voce di Phillip: «Con chi parlo?» «Oh, Phillip, sono io, Janet. Io...» «Ma che cosa ci fai a...?» «Siamo venuti qui subito, in volo. Hai notizie?» «Dei ragazzi no. Il padre della ragazza che è con Mario sta dando i numeri. Sono giorni che tenta inutilmente di raggiungere telefonicamente la figlia. Ha dichiarato che, se nel corso di questa serata non troverò modo di fargli sentire la figlia al telefono, farà uno scandalo e rivelerà tutto!» Phillip sembrava disperato. «Ha scoperto non so come la storia di Maximilian. Sa ogni cosa. Anche che ho
cercato di nascondere che... Oh Dio, Janet, quell’uomo può rovinarmi! » «Non è questo l’importante adesso», dichiarò lei. Poi abbassò il tono della voce e proseguì, ancora affannata: «Dobbiamo trovare quei due!» «Mario e Maximilian?» «Mario e quella ragazza. Qui in casa non ci sono.» «C’è qualche segno della loro presenza?» «La porta che dà sul giardino era aperta. E fuori, sulle sedie, ci sono i cuscini.» «Forse sono usciti», disse ora anche Phillip, proprio come aveva prima ipotizzato Andrew. «Non lo so. Ma ho un brutto presentimento.» «Forse la cosa migliore da fare è aspettare un paio d’ore per vedere se torneranno. Io però, nel frattempo, come potrò tenere a bada quel padre isterico?» «Per ora lui non può fare proprio niente. Non può mica mettersi a camminare per le strade di Amburgo e raccontare a quelli che incontra che cosa sa!» «E se si rivolgesse alla stampa? Sarebbe una storia sensazionale! » «Probabilmente sono solo minacce a vuoto...» «Janet, maledizione, non banalizzare questa situazione! Tu non gli hai parlato. Quell’individuo sta per perdere la testa. Forse a te non importa più che cosa ne sarà di me, ma non ho intenzione di farmi distruggere quello che ho costruito. Devo parlare con Mario e...» «Credi che io abbia una bacchetta magica?» sibilò Janet infuriata. Per un paio di secondi tacquero entrambi, poi Phillip disse calmo: «Senti, Janet, tu... voi avrete certo una macchina, vero? Ti dispiacerebbe se... Voglio dire, è possibile che siano in uno dei ristoranti che frequentavamo allora. Non ti costerebbe troppo andare a verificare. Io ho paura che...» «Tu hai paura per te», disse Janet e riagganciò. Andrew si affacciò alla porta della stanza. «In bagno ci sono alcuni oggetti che possono appartenere solo a una donna. Penso proprio che fossero qui.» Janet si alzò, risoluta. «Vieni con me? Vorrei andare a verificare in alcuni posti in cui potrebbero essere andati.» E lasciò lo studio senza attendere la risposta.
Tina aveva l’impressione che quell’incubo non dovesse finire mai. Da quante ore era già in quel capanno? Dodici? Ventiquattro? O anche di più? Aveva completamente perduto il senso del tempo. Alternava la disperata e martellante ricerca di una via d’uscita da quella situazione a una totale apatia durante la quale se ne stava rincantucciata come un animale in trappola ormai rassegnato a morire. Il dolore pulsante che si irradiava dalla caviglia della gamba destra si estendeva ormai a tutto il corpo. Lanciava fitte lancinanti alle costole, alle spalle, alle braccia, alle mani. A momenti le rendeva difficoltoso il respiro. Le volte che, esausta com’era, si addormentava per pochi attimi, provvedeva il dolore a risvegliarla in fretta. Era accovacciata in un angolo, sopra un tappeto, sulle spalle una polverosa coperta che sapeva di muffa. Mario l’aveva prelevata da un armadio e gliela aveva data. Tremava in continuazione benché facesse caldo. Doveva dipendere dai dolori, forse aveva anche la febbre. A un certo punto di quelle ore senza fine si era lamentata della sete e Mario si era alzato, aveva preso un secchio di lamiera e aveva lasciato il rifugio senza dire una parola. Tina lo aveva guardato uscire e gli occhi le si erano riempiti di lacrime di rabbia e di delusione nel rendersi conto di non poter approfittare della sua assenza per fuggire. Non sarebbe riuscita ad allontanarsi di dieci metri. La sera prima aveva percorso quel tratturo solo perché Mario l’aveva sostenuta, spinta e tirata. Tentare di ripercorrerlo da sola sarebbe stato insensato. Riuscì se non altro a tirarsi su un poco e a trascinarsi fino a una delle due finestre, dove si issò
aggrappandosi al davanzale. Quando erano arrivati, di notte, non aveva fatto caso ai dintorni a causa dell’oscurità e perché era completamente assorbita dalla paura e dal dolore. Guardò fuori e socchiuse gli occhi per difendersi dalla luce accecante. Quello che vide la depresse ancora più profondamente. Mario l’aveva trascinata in un posto dimenticato da Dio, un deserto di rocce, erbe basse e brune, monti e boschi. Sembrava che nei paraggi non ci fosse altra costruzione, neppure un capanno come quello in cui si trovava. Uno stretto sentiero fra le rocce risaliva ulteriormente la china fra i monti. Era possibile che di tanto in tanto transitasse qualche viandante, ma sicuramente non spesso. E men che meno con quel caldo micidiale che lei, a causa della febbre, non poteva avvertire direttamente anche perché quel rifugio in pietre conservava all’interno un po’ di frescura, ma che poteva desumere dalla luce tremolante che c’era all’esterno e dall’assoluta immobilità dei rami e dell’erba secca. Si trascinò verso il posto in cui era prima e, per alcuni minuti, fu punita per la sua audacia da un aumento della sofferenza fino a un livello insopportabile. Si stupì di se stessa nel constatare di non piangere ininterrottamente. Per tutta la sua vita aveva cominciato subito a frignare per ogni sciocchezza. Ora che si trovava per la prima volta in una situazione veramente disperata, i suoi occhi restavano asciutti. Finalmente Mario tornò con un secchio pieno d’acqua che, suppose Tina, aveva attinto da un torrente. Riempì un boccale con un mestolo, glielo porse e lei bevve a lunghi, assetati sorsi. L’acqua, pulita e fresca, aveva un sapore sorprendentemente buono. La confortò al punto che riuscì a dormire per mezz’ora un sonno senza sogni. Più tardi la situazione le apparve anche peggiore: era calata di nuovo la notte e si trovavano ancora in quel misero capanno ad aspettare cosa Tina non sapeva e, all’apparenza, neppure Mario. Si era seduto su una panca di legno accanto al tavolo – tutto in quel rifugio era di legno: i mobili grossolani, il pavimento, i pilastri che sostenevano il tetto –, teneva la testa poggiata sulle mani e fissava il vuoto. Puzzava di sudore in modo penetrante. Tina si mosse perché le si era addormentato il piede sinistro, e nel farlo gemette di dolore. Aveva la caviglia destra gonfia: la pelle era tesa e lucida. «Mario», disse. Dopo una fase di rassegnazione erano tornati a manifestarsi in lei il desiderio di sopravvivere e lo spirito combattivo, forse evocati dall’improvvisa impennata del dolore. «Mario... prima o poi avremo bisogno di qualcosa da mangiare.» Non che, sul momento, lo ritenesse particolarmente importante benché avesse un buco nello stomaco. Ma doveva dire qualcosa, doveva strapparlo a quel silenzio. O aveva intenzione di restare seduto lì finché fossero morti entrambi? «Mario, devo farmi vedere da un medico. Il mio piede è messo piuttosto male. Credo di avere la febbre.» Lui continuava a fissare il vuoto e basta. «Mario», disse ancora, piano ma con insistenza, «si può sapere che cosa stiamo aspettando?» Ecco, finalmente lui staccò la testa dalla fossa delle mani e la guardò. Il vuoto che vide in quegli occhi, l’assoluta mancanza di espressività, la terrorizzò. «Vedremo che cosa succederà», si limitò a dire. «Moriremo di fame», disse Tina, «creperemo!» Parole dal suono terribile e irreale, eppure Tina, nel momento stesso in cui le pronunciò, seppe che coglievano il nocciolo della questione. Sarebbero morti. Era questo che Mario aspettava. «Oh Dio!» mormorò. Un barlume di tenerezza accese lo sguardo di Mario, rendendolo per un attimo più umano. «Non permetterei mai che sia doloroso per te, Tina. Non voglio che tu soffra. E non soffrirai.» «Ma io soffro già, Mario. È doloroso già ora. E non voglio morire! » Lui la guardò con dolcezza, quasi con compassione. «Sarà per te la soluzione migliore, credimi. Non c’è altra via per salvarsi. Ci ho pensato, sul serio, e non c’è.» È pazzo, pensò Tina, inorridita, ma veramente pazzo. «Perché?» chiese piano. «Se solo potessi
capire perché.» Lo sguardo di Mario tornò a cercare il vuoto. Pochi secondi, e sarebbe precipitato di nuovo in quello stato di apatica inafferrabilità. «Mario», si affrettò quindi a dire Tina, «ho bisogno di altra acqua. Devo farmi impacchi freddi alla caviglia, altrimenti impazzirò dal dolore. Non potresti andare a prendere dell’acqua?» Mario sobbalzò. «Cosa?» «Ti sto chiedendo di andare a prendere dell’acqua! Ho bisogno di acqua!» La volta precedente era rimasto fuori neanche un quarto d’ora. Tina era decisa a giocarsi il tutto per tutto. Non aveva più nulla da perdere, perché lui l’avrebbe uccisa, ormai ne era fermamente persuasa. Aveva letto la pura follia nei suoi occhi: implorare, elemosinare sarebbe stato inutile, esattamente come appellarsi alla sua ragione. Non avrebbe avuto senso dirgli che sarebbe finito in prigione o in manicomio, perché era evidente che non aveva paura di finire così. A prescindere dal fatto che probabilmente aveva deciso di morire assieme a lei. Tina sapeva che era pressoché escluso che un tentativo di fuga potesse avere successo, ma ne andava della sua vita, e quindi qualcosa doveva pur provare a fare. Con quella caviglia ferita non avrebbe percorso molta strada prima che lui s’accorgesse della fuga, e allora si sarebbe subito affrettato a battere i dintorni per rintracciarla. Aveva una sola, piccolissima probabilità di farcela, e dipendeva dall’oscurità. Il buio le avrebbe garantito un po’ di protezione, e quindi, almeno inizialmente, la possibilità di nascondersi; successivamente si sarebbe accinta lentamente alla discesa. Il rischio stava nel fatto che lui l’avrebbe verosimilmente subito rintracciata e che, in preda all’ira, l’avrebbe forse strangolata o uccisa di botte. Ma allora sarebbe stata se non altro una fine rapida e non avrebbe più dovuto aspettarla per ore e giorni prigioniera di quel rifugio. «Mario», ripeté, «il secchio è quasi vuoto. Abbiamo bisogno di altra acqua!» Le diede retta, si alzò, prese il secchio e sparì nella notte. Tina si trascinò attraverso la stanza, un centimetro dopo l’altro. Si mordeva le labbra per non gemere. Si spostava carponi, badando a tenere distesa e a muovere poco la gamba che le faceva male. Eppure, per due volte, ebbe la sensazione di essere sul punto di svenire per la sofferenza. Ma doveva resistere, doveva arrivare almeno fino alla porta, doveva uscire all’aperto, al riparo dell’oscurità... Ancora un metro, ancora mezzo metro... Non cedere adesso, si intimò, non pensare al dolore, non... La porta si aprì di colpo e sulla soglia c’era Mario.
Levò gli occhi sbarrati su di lui, terrorizzata. Era accovacciata a terra mentre lui troneggiava come un gigante su di lei, minaccioso, avendo alle spalle quel buio della notte che ormai non le serviva più. Era alla sua mercé, era sola. E sarebbe morta. «Non volevo scappare», gemette, «dico sul serio. Io... io dovevo solo uscire un momento, capisci, non posso mica farla qui, nel rifugio... Ti prego, non mi guardare così!» Le si inginocchiò accanto, le strinse le braccia con entrambe le mani. La guardava in modo strano, insistente. «Non abbia paura», disse. «Non le farò niente. La smetta di tremare, la prego!» «Io... io...» tentò di dire Tina, ma non riuscì a spiccicare altra parola. Lui teneva le mani tuttora strette attorno alle sue bracca. Mani calde, mani forti. «Dobbiamo andarcene di qui», disse. Si alzò, tentò di tirare su anche lei e trasalì al suo grido. La guardò, disorientato: «Ma cosa c’è?» Poiché ormai sapeva che era pazzo, Tina non si stupì nemmeno di quelle parole. «La gamba», mormorò, «mi fa terribilmente male. Credo proprio di essermi fratturata la caviglia.» Era pallida come un cencio, aveva le labbra grigie. Le si accucciò di nuovo accanto sul pavimento. «Lei sicuramente si stupirà, purtroppo però non
c’è tempo per spiegarglielo meglio: io non sono quello che lei pensa. Sono il fratello gemello. Suppongo che non sapesse nulla della mia esistenza...» È schizofrenico, pensò Tina, lo avrebbero dovuto rinchiudere da tempo in un manicomio. Poi notò che le mani del giovane tremavano violentemente. «Certo», disse per cercare di calmarlo, «capisco.» Lui sospirò. «Lei non mi crede. Non so che indumenti indossi oggi mio fratello, ma suppongo che non siano uguali ai miei, vero?» Tina aggrottò la fronte. Non ci aveva fatto caso subito, ma ora l’osservò: i jeans di Mario erano di un blu più chiaro e inoltre portava una camicia bianca. Come mai indossava ora improvvisamente una maglietta azzurra e piuttosto sporca? Emise un gemito: «Ho paura che sto perdendo la ragione», mormorò. L’uomo che sembrava Mario e che si spacciava per suo fratello la guardò con compassione. «Le prometto che le spiegherò tutto. Adesso però dobbiamo fare in modo di allontanarci da qui. Mio fratello è pericoloso. Crede che riuscirà a camminare se la sorreggerò? » Tina annuì, rassegnata alla sua sorte perché, anche se non ci capiva più niente, anche se forse era da tempo impazzita anche lei, non poteva comunque far altro che adattarsi a ciò che le stava accadendo. Si alzò con molta prudenza, eppure rischiò ugualmente di svenire per il dolore, o forse anche per la fame. Lottò faticosamente per mantenersi in equilibrio. Ma quando vide emergere dall’oscurità, sulla soglia della porta che era dietro l’uomo che sosteneva di essere il fratello gemello di Mario, quell’uomo che lei conosceva come Mario, le cedettero i nervi: urlò, si accasciò a terra e continuò a gridare. Cadde in un modo così scomposto che il dolore che la tormentava divenne più forte di prima e le permise di abbandonarsi alla protezione buia e consolante del deliquio.
Dopo aver dato inutilmente un’occhiata anche a un decimo ristorante, Andrew dichiarò di non riuscire a immaginare che quella ricerca potesse ancora fruttare qualcosa. «Manca poco a mezzanotte. Quei due saranno di nuovo a casa da tempo. Janet, non possiamo passare al setaccio l’intero paese!» Si erano fermati all’uscita di una cittadina per riflettere sul da farsi. Janet aveva rintracciato un ristorante all’aperto in cui erano stati qualche volta in passato. Ma nel frattempo ci lavorava tutt’altra gente che non poteva ricordarsi di lei né della sua famiglia, e quindi non era stata in grado di dire se Mario fosse stato lì o no. Avevano raccontato loro che nella discoteca che sorgeva un tratto di strada più in basso un giovane era morto la sera prima durante una rissa, e Janet era impietrita per lo spavento. Ma quelli l’avevano poi anche subito tranquillizzata: il giovane morto era un francese, uno che abitava lì in città. Quello che lo aveva ucciso era fuggito: «Non penso che abbia qualcosa a che fare con l’uomo che lei sta cercando, vero?» No, aveva risposto Janet, non c’entrava affatto. Benché avessero da anni smesso di fumare con alterna costanza, avevano ugualmente comprato un pacchetto di sigarette e ora, seduti in macchina, la stavano in silenzio riempiendo di fumo. Andrew si era nel frattempo convinto che Janet sapesse dell’esistenza di un turbamento mentale di Mario, altrimenti tutto quel suo panico non sarebbe stato spiegabile. Doveva continuamente sforzarsi di non manifestare l’irritazione che provava. Maledizione, come aveva potuto essere così incosciente e irresponsabile? Trascinarsi dietro, presumibilmente per anni, un segreto dirompente, tenere la bocca chiusa per malinteso amore materno, purché non succedesse niente di male al suo ragazzo d’oro... Istintivamente gli venne da pensare alla signor Corvey, madre di Fred, che aveva mentito per suo figlio senza battere ciglio. Non aveva capito lei e ora non capiva nemmeno Janet. Il ricordo di Corvey gli fece affiorare in corpo una nuova ondata di rabbia. Con un movimento brusco abbassò il finestrino e gettò la sigaretta in strada. Poi riavviò il motore. «Ora torniamo in quella casa a guardare che non siano lì», decise, e Janet sobbalzò nel sentire la
durezza della sua voce. In casa non c’era nessuno: era vuota e silenziosa come quando l’avevano lasciata. Pochi minuti dopo il loro arrivo, squillò di nuovo il telefono. Era ancora Phillip, che ci stava provando ormai già da mezz’ora. Sembrava allo stremo delle sue energie. «Avete scoperto qualcosa?», domandò subito. «No», rispose Janet, «e a questo punto non saprei dove andare a cercarli ancora.» In quell’attimo nella mente di Phillip si affacciò un’idea. «Quel rifugio», esclamò, «pensi che sia possibile che...» «Santo cielo», disse Janet, «perché non ci ho pensato prima?! Il rifugio! Ora ci andiamo subito!» Stava già per riagganciare, ma la voce di lui la trattenne. «Janet! Che cosa sai di Mario? Che cosa è successo? Perché...» «In un altro momento», lo interruppe, e abbassò il ricevitore. Cinque minuti dopo lei e Andrew erano di nuovo nella macchina che filava a tutta velocità nella notte.
Sabato 10 giugno 1995 Quando Tina riprese conoscenza non ebbe per alcuni penosi momenti idea di che cosa fosse successo e di dove si trovasse. Le faceva male la gamba, ma non capì subito quale ne fosse la ragione. Aprì gli occhi, vide sopra di sé le travi di legno che sostenevano il tetto e tutto le tornò in mente. Si tirò un po’ su a fatica. Era notte, faceva ancora buio, ma nel capanno ardeva un lume a petrolio che diffondeva una luce fioca. Tina era distesa sulla sua coperta. Qualcuno – Mario? – le aveva avvolto la caviglia in uno straccio freddo e bagnato. Ebbe l’impressione che le attenuasse un poco il dolore. «Mario?» chiese a bassa voce. «È sveglia?» fu la risposta che ebbe. Ora soltanto notò che Mario – oppure il suo gemello o chiunque altri fosse – era seduto sul pavimento, accanto al tavolo, e constatò che aveva entrambe le mani legate a una gamba del tavolo. Inoltre gli era colato dal naso al mento, passando per le labbra, un rivolo ormai mezzo incrostato di sangue. La palpebra dell’occhio sinistro appariva gonfia. Lo fissò come per sincerarsi di non essere vittima di un’allucinazione. La sua ragione si sforzava di attribuire un senso a ciò che vedeva e di trarne una conseguenza logica. Se quell’uomo era in effetti legato, e se poteva escludere con una certa sicurezza d’essere stata lei a legarlo, allora in quel rifugio c’era davvero una terza persona. Un fratello gemello? «Sì», disse ora rispondendo alla domanda dell’uomo. «Grazie a Dio. Pensavo già che non si sarebbe più svegliata. Deve essere stato un bel colpo, per lei, eh? Come sta la gamba?» «Mi fa male. Ma se non la muovo è un dolore sopportabile.» «Siamo in una situazione un po’ critica. È da mezz’ora che sto cercando di liberarmi di questi legacci, ma finora sono riuscito solo a farmi sanguinare le mani e basta.» «È stato suo fratello a ridurla così?» Il ragazzo annuì. «Mi ha steso. Mi ha sorpreso alle spalle e mi sono trovato sul pavimento prima ancora di capire che cosa stava succedendo. Non avrei mai pensato che potesse trattarmi in una maniera così brutale.» Tina ripensò alla sera in discoteca. Da allora sapeva quanto Mario potesse essere brutale. «Ho paura», disse. Lui stava violentemente strattonando le corde che lo legavano. «Temo che non si allenteranno», mormorò. «Le ha annodate un’infinità di volte.» «Dov’è adesso? Se ne è andato e ci ha abbandonati al nostro destino? » Il giovane scosse il capo. «Penso proprio di no. Tornerà. E, dannazione, sarebbe bello se nel frattempo noi riuscissimo ad allontanarci da qui.» «Mi ha fatto un impacco freddo attorno alla caviglia», disse Tina. «È stato lui, vero? Non può volermi fare chissà che male, altrimenti non si occuperebbe della mia gamba!» Il tono della voce era stato implorante. Aveva afferrato un lembo di speranza e si augurava di tutto cuore che reggesse. D’altra parte sapeva bene che non aveva senso sperare. Mario era pazzo, le sue azioni non erano misurabili con i criteri della logica. Era capacissimo di occuparsi amorevolmente della sua ferita e di torcerle il collo un attimo dopo. Non ottenne risposta alla sua domanda e capì che anche il fratello di Mario non si faceva illusioni. Nella sua voce risuonò un singhiozzo soffocato quando domandò: «Lei come si chiama?» La guardò soppesandola. «Maximilian», disse poi. «Maximilian... che cos’ha suo fratello? È malato di mente, vero? Mi ha raccontato che era drogato dai medicinali che prendeva e che si stava disintossicando. Lì per lì mi ha tranquillizzato. Ma
non è questo che... Non può essere la causa di tutto!» «Non è mai stato intossicato dalle medicine», dichiarò Maximilian. «Probabilmente gli è venuta in mente questa spiegazione perché sa bene che io sono invece un pillole-dipendente. Io ne sono stato rimpinzato al punto che non so quasi resistere senza. Se non avessi le mani legate, le vedrebbe tremare follemente.» «Ma perché non mi ha mai detto di avere un fratello gemello?» «Perché il fatto che ne esistono due di noi è il segreto meglio conservato della nostra famiglia. Mio padre ha provveduto affinché non se ne parlasse mai.» «E perché no?» Si accorse che le stava di nuovo montando in corpo la paura. «E per quale motivo l’hanno rimpinzata di pillole? » «È una lunga storia. Ma saprà tutto, glielo prometto. Per il momento dobbiamo sbrigarci a pensare a come tirarci fuori da questa situazione. Crede di potersi muovere tanto da avvicinarsi a me per tentare di sciogliere i nodi che mi legano?» «E se arrivasse?» «Non abbiamo niente da perdere. La prego: ci provi!» Tina strisciò verso di lui. Un paio di volte ebbe l’impressione di sentire rumore di passi e si bloccò, spaventata, ma Maximilian insistette: «Non è niente! Su, si spicci!» Lo raggiunse e si rese conto, data la minima distanza fra loro, che la somiglianza con Mario era talmente perfetta da sconcertarla anche più di prima. Non sarebbe mai riuscita a distinguere quei due. Soltanto gli occhi... erano diversi. Quelli di Maximilian erano come gli occhi di Mario prima che cominciasse a cambiare in quel modo pauroso. Non erano fissi e vuoti. Erano vivi e caldi, pieni di paura. «Presto!» la sollecitò ancora. «Non riuscirò a sbrigarmi tanto in fretta», disse Tina. «Diamine, ma quanti nodi ha fatto? Stia fermo!» Cominciò a muovere le dita attorno ai nodi, si spezzò subito due unghie, imprecò sottovoce ma continuò. Maximilian sentiva il suo respiro ansimante proprio accanto all’orecchio. «Deve aver perso la testa quando lei ha cominciato a comportarsi con lui per quella che è: una donna», disse. «Io lo sapevo che sarebbe successo. Ho immaginato che si fosse messo in viaggio con una ragazza e quindi ho tentato subito di raggiungerlo.» «Perché non ha avvisato la polizia?» «Perché è mio fratello.» Il primo nodo cedette e lei riuscì a scioglierlo. «E uno», disse. «Okay. E ora avanti con il prossimo!» «Ma che cosa può aver visto in me all’inizio se non... una donna? » «Un angelo. Un essere ultraterreno. La creatura che aveva sempre cercato.» «‘Tu sei l’immagine che conservavo in me’...!» «L’ha detto lui?» «Sì. Ma non sapevo come spiegarmelo. O meglio... ho pensato che avesse visto qualcosa in me, una promessa che però io non ho poi mantenuto. Ma... era tutto così confuso... Quindi mi ha raccontato la storia delle pillole e ho pensato che fosse quella la spiegazione di tutto.» «È una citazione di Wagner. Dalla Valchiria. Ascoltava Wagner, vero?» «Spesso. Soprattutto di notte.» Il giovane sospirò. «Perché non è fuggita subito? O non le è parso abbastanza strano? Un ragazzo che ascolta Wagner per notti intere? » Anche il secondo nodo si sciolse. «Avrei voluto andarmene», spiegò Tina, «perché mi ha fatto paura. Ma pensavo che forse dipendesse da me... Ho così poca esperienza con gli uomini, capisce? Nessuna, per essere sincera. Non ho esperienza di niente. E così ho continuato a pensare: forse sono io
che reagisco in modo esagerato. Forse l’anormale sono io. Forse mi sto montando la testa... Ahi!» «Cosa c’è?» «Questa corda è ruvida. Mi sanguinano le dita!» «Non si fermi!» Tina strinse i denti, si pulì il sangue sulla gonna, continuò a cercare di districare i nodi. «È fissato con la musica di Wagner», spiegò Maximilian, «perché nelle sue opere ci si imbatte spesso nel motivo dell’amore puro, al di sopra e al di là di ogni sessualità. Dell’amore che trionfa su ogni... come dire?... su ogni impudicizia e porta al riscatto e alla liberazione. Ecco che cosa cercava.» «È pazzo!» «È malato. È un uomo disperato. So che cosa sente perché conosco ogni moto del suo animo. Cerca qualcosa che non può trovare. Ne soffrirà per tutta la vita.» «Lo si sarebbe dovuto rinchiudere!» Maximilian non obiettò. E a un tratto Tina intuì la verità. La consapevolezza si impadronì di lei da un momento all’altro, così chiara da non lasciare margine a dubbi. «Oh no!» mormorò e abbassò le mani. «Anche lei! Tutti e due! Lei era ricoverato in un istituto, vero? Per questo lei non esisteva e non si doveva parlare di lei. Per questo le hanno somministrato quelle pillole. E per questo sa con tanta precisione che cosa succede dentro Mario.» Si scostò. «Che cosa ha fatto per finire dentro? Deve essere stato qualcosa di orribile!» Il giovane strattonò di nuovo, con disperazione, i legacci. «Io sono sano. Mi creda, la prego! È vero, ero in una... clinica. Ma mi avrebbero dimesso fra non molto. Per amor del cielo, Christina... lei si chiama Christina, vero?... non sia sciocca! Dobbiamo andarcene di qui!» «Io non la slego. Non posso slegarla!» Arretrò un altro po’. «Christina, senza di me non ce la farà mai ad andarsene di qui. La sua slogatura è troppo grave. Mi sleghi, e le giuro che la porterò al sicuro!» La fissò e lesse nei suoi occhi la profonda diffidenza dettata dalla paura. Pieno di rabbia e di apprensione le gridò: «Maledizione, ci ammazzerà! Ucciderà lei per essersi rivelata un’illusione, e ucciderà me perché è convinto che io lo abbia tradito. È questo che vuole? Vuole morire?» Tina fece cenno di no con la testa. Maximilian diede un altro strattone alla corda senza accorgersi che la pelle escoriata dei polsi stava sanguinando. «E allora mi aiuti! Più presto che può! Mi aiuti!» Come ipnotizzata, Tina riprese a tentare di sciogliere i nodi. Lui chiuse gli occhi, disperato. Tutto procedeva così piano, così lentamente... E intanto non poteva far altro che aspettare, che pazientare senza riuscire a intervenire. Sentiva, capiva che quella ragazza lavorava con metà delle determinazione che ci sarebbe voluta, che aveva paura, che esitava, che non sapeva se stava facendo la cosa giusta. E poi, mentre tentava con gli occhi chiusi di rilassarsi al punto che il tremito non prendesse il sopravvento, percepì improvvisamente quell’odore. Lì per lì gli sembrò, o meglio sperò di essersi ingannato, ma quando si fece sempre più intenso non poté illudersi oltre. Era puzzo di fumo. E quando aprì gli occhi vide che nell’altro angolo del rifugio, dove una parete di legno lo separava da una vicina tettoia, anche quella di legno, un fumo sottile stava penetrando dagli interstizi fra le assi. «Fuoco», disse. «Christina, si affretti! Mio fratello ha dato fuoco alla baracca.» Inizialmente temette che lei impietrisse dallo spavento, e invece trasalì soltanto brevemente e poi tornò a lavorare con raddoppiata energia. «Ci sono quasi», mormorò. La porta del capanno si spalancò di colpo e sulla soglia comparve Mario. Aveva la faccia pallidissima e gli occhi accesi da una folle euforia. Tina si fermò subito e scivolò un po’ più lontano da Maximilian. Mario non sembrò tuttavia accorgersi di ciò che succedeva. La bocca gli si distorse in un crudele sorriso. «Tina», disse con tenerezza. Entrò nel rifugio e si diresse verso di lei senza badare al fratello.
«Tina!» Si inginocchiò davanti alla ragazza, le scostò con dolcezza una ciocca di capelli dal viso. «Come sei bella!» bisbigliò. «Sei meravigliosa!» Il fumo penetrava con sempre maggiore intensità nel capanno. Non mancava molto ormai, e poi si sarebbero incendiati i pilastri di sostegno, le travi del soffitto, l’arredamento di legno. Tina tossì. «Mario, vorrei vivere!» disse piano. Lui scosse la testa e sorrise quasi con allegria. «È meglio così, credimi. Sarà una liberazione. Le fiamme ti purificheranno.» Tina tossì più volte. Il fumo le bruciava gli occhi. Maximilian non disse una parola perché non voleva assolutamente attirare su di sé l’attenzione del fratello. Stava lavorando furiosamente sui legacci. Tina ce l’aveva quasi fatta, ormai non restava che un nodo. «Perché vuoi porre fine al tuo sogno, Mario?» disse Tina. «Sono io il tuo sogno. Dacci un’opportunità.» Sì,pensò Maximilian, parlagli. Distrailo. Mario scosse di nuovo il capo, stavolta con espressione piena di rammarico. «Mi hai deluso. Ma non è colpa tua. È qualcosa che è in te. È in tutte le donne. Me ne sono accorto già durante il viaggio... quando ti ho osservata attraverso la finestra di quel sotterraneo. Ho visto con quale piacere esibivi il tuo corpo!» Tina avvertì la nausea salirle in corpo. «Eri tu allora», mormorò, «l’uomo alla finestra...» Benché non avesse più alcuna importanza, la scoperta la spaventò profondamente. Dunque era da allora che stava già smarrendo la ragione. E lei che si era sentita così al sicuro... «Fra poco sarà tutto finito», la consolò Mario con dolcezza. Il fumo aveva ormai riempito l’intero ambiente. Si sentiva, fuori, lo scoppiettio delle fiamme. Non pioveva più dalla metà di aprile e quindi il fuoco trovava ricco alimento. «Sarà un sacrificio e una liberazione. Un grande momento!» Era radioso, illuminato da una gioia profonda. Proprio in quell’attimo cedette l’ultimo nodo del legaccio che tratteneva i polsi di Maximilian. La corda cadde per terra. Era libero. Non esitò un istante. Saltò in piedi, sollevò le braccia e calò con tutta la forza i pugni sulla nuca di Mario, il quale cadde come un albero tagliato e rimase a terra, immobile. «Presto», gridò Maximilian, «fuori di qui!» Nel frattempo il rifugio bruciava ormai come una torcia. Nel piccolo ambiente si era accumulato tanto di quel fumo che non si vedevano quasi più le finestre, le pareti, i mobili. Tossendo e ansimando, Maximilian si aprì a tentoni una strada verso l’uscita, trascinando dietro di sé Tina che piangeva dal dolore. Non avrebbe saputo dire come riuscì a trovare la porta. La spalancò e annaspò in cerca d’aria come una persona sul punto di annegare. Più che aggrappata, Tina si era appesa alle sue braccia. Avrebbe voluto spingerla via, intimarle di continuare a strisciare da sola perché lui doveva rientrare e salvare dalle fiamme il fratello, ma poi si rese conto che era impensabile che Tina, ormai del tutto priva di energie, potesse far da sola anche soltanto cinque passi. Doveva trascinare lei lontana dalla zona del pericolo prima di potersi dedicare al fratello. Dietro di loro le fiamme si levavano alte nel cielo notturno. Parti del tetto crollarono fragorosamente. Tina, che non riusciva quasi più a sopportare il dolore e senza saper bene che cosa stesse facendo, cercò di sottrarsi a Maximilian con uno strattone. E poi tutto precipitò. Da qualche parte risuonò, stridulo, il grido pieno di paura di una donna: «Mario!» E neanche un secondo dopo si sentì un colpo d’arma da fuoco, quasi impercettibile sullo sfondo fragoroso dell’incendio. Fu come se qualcuno avesse stappato una bottiglia di spumante. Maximilian si afflosciò sulle ginocchia e poi, come al rallentatore, cadde in avanti, proprio sulla gamba ferita di Tina.
Le sfuggì ancora un breve gemito prima di svenire per la seconda volta quella notte. Solo più tardi si sarebbe ricordata di aver guardato direttamente in faccia l’estraneo che aveva sparato, e di aver visto nei suoi occhi odio e una truce soddisfazione.
Le immagini e le impressioni di quella notte rimasero incise per sempre, con un grande nitore, nella memoria di Janet. I molti elicotteri che ruotavano in cielo, la polizia, i vigili del fuoco, i medici e gli infermieri. Chi li aveva avvisati? Non poteva essere stato che Andrew il quale era tornato indietro di corsa, percorrendo a rotta di collo il ripido tratturo per andare a chiamare, con il telefono in dotazione all’automobile noleggiata, la polizia e fornirle una sia pur approssimativa descrizione dei luoghi benché ci fossero già le fiamme, visibili anche da lontano, a indicare la strada. Nel frattempo Janet, seduta nell’erba davanti al capanno in fiamme, aveva retto fra le braccia il figlio morente. Come attraverso una nebbia rammentava anche una colluttazione che si era svolta, poco prima, fra lei e Andrew quando si era resa conto che l’altro suo figlio poteva essere all’interno del rifugio: «Lasciami! Devo andare a prenderlo! Devo entrare!» «Non è possibile, Janet! Non ha senso! Sta bruciando tutto!» L’aveva scossa, l’aveva tenuta stretta fino a farle male, scansando i pugni e i calci con i quali lei aveva tentato di liberarsi. Aveva sentito proprio accanto all’orecchio il respiro ansimante di lui, e sullo sfondo il tremendo boato delle fiamme, il fragore del rifugio che stava crollando. E poi, da un momento all’altro, la sua resistenza era cessata e si era abbandonata inerte e senza più ribellarsi alle braccia di Andrew, il quale aveva poi atteso qualche attimo per essere sicuro che non riprendesse a dibattersi. Lei non si era più mossa. Andrew l’aveva fatta sedere nell’erba e le aveva messo in mano un fazzoletto dicendole di premerlo più forte che poteva su una ferita dalla quale usciva a fiotti il sangue. Realizzò solo dopo un paio di minuti che non era il corpo suo ma quello del figlio che lottava con la morte: e che, anzi, aveva ormai perduto la lotta. Un po’ più in là aveva notato distesa nell’erba la ragazza bionda, poi l’aveva anche vista rinvenire, alzarsi e guardarsi attorno con occhi esterrefatti, sbarrati dallo spavento. Il fuoco stava illuminando la notte a giorno, gettando in cielo un riflesso rosso come la brace. Le due donne, sole con le fiamme e la morte, si erano guardate senza dire una parola. Più tardi, in mezzo a tutta la gente accorsa, dopo che Tina era stata caricata su un elicottero distesa su una barella, quando avevano portato via il morto con un panno poggiato sul volto, e gli aerei antincendio avevano cominciato a ruotare sopra il fuoco e le fiamme erano diventate più piccole sotto i getti d’acqua, la mente di Janet aveva ripreso a funzionare e, per la prima volta da quando aveva implorato di poter entrare nel rifugio, riuscì a parlare. «Non mi avevi detto di avere un’arma con te», disse a Andrew. Andrew, nel suo francese lento ma corretto, aveva parlato con alcuni funzionari di polizia, aveva fornito loro le prime, sommarie informazioni ed esibito la sua tessera di Scotland Yard. Ora si era di nuovo rivolto a Janet che era ancora seduta nello stesso posto di prima, con il grembo, le braccia e le gambe sporche del sangue di suo figlio. Un infermiere le aveva messo una coperta sulle spalle e un bicchiere di plastica con caffè caldo in mano. Anche Andrew aveva uno di quei bicchieri. Danno il caffè anche agli assassini! pensò Janet. Andrew si accovacciò accanto a lei e la guardò preoccupato. «Io sono un funzionario di polizia», disse rispondendo ora alla sua domanda, «e dunque ho sempre un’arma con me.» «Qui non eri in servizio.» «Però sapevo che la situazione sarebbe potuta diventare pericolosa. E quindi...» Lasciò in sospeso la frase. Era chiaramente padrone di sé, controllato, ma Janet poté leggergli negli occhi quanto in realtà fosse costernato e turbato. Aveva sparato a una persona disarmata senza valutare bene la criticità della situazione. Chissà come giudica la polizia un simile comportamento, si chiese Janet. Tale da stroncare una
carriera oppure lo giustificano dicendo che può capitare a chiunque? Aveva freddo. Andrew la prese per un braccio. «Vieni, ti accompagno alla macchina. Un funzionario verrà con noi. Vogliono verbalizzare le nostre dichiarazioni.» Janet scostò la sua mano. «Non mi toccare, per favore!» Si alzò in piedi da sola, barcollando e rovesciando, senza accorgersene, metà del caffè. Anche Andrew si rialzò. Improvvisamente sembrava più vecchio, con la faccia cascante, avvilito. «Janet.» Allungò di nuovo la mano verso di lei ma la ritrasse subito, incerto. «Janet, mi dispiace terribilmente. Vorrei che non fosse accaduto. Ho visto un uomo e ho visto quella ragazza che si dibatteva... ho pensato che volesse prenderla in ostaggio, farle del male... » Alzò le mani in un gesto di sconforto. «I nervi non mi hanno retto. Sapevo che era successo qualcosa, che giudicavi Mario molto pericoloso e così, quando hai chiamato il suo nome...» Lei lo stava fissando. Dalla gola le uscì un suono gorgogliante. In un primo momento Andrew pensò che fosse un singhiozzo, ma poi capì, inorridito, che rideva... una risata isterica. «Janet!» l’implorò. Era sotto shock, in procinto di cedere anche lei a un crollo nervoso. «Lui non era pericoloso», disse, «non era affatto pericoloso. Quello pericoloso dei due è morto bruciato nel rifugio. Quello al quale hai sparato, quello che hai ucciso, era innocente. Era buono.» «Ma allora...» In Andrew si fece largo un tremendo sospetto. «Ma allora è Mario quello che è morto tra le fiamme. E io... io ho sparato a Maximilian, a quello che era guarito, a quello che tu dici innocente. Ho ucciso Maximilian...» La constatazione lo centrò come un pugno. Impallidì, si fece letteralmente del colore del gesso quando si rese conto del tragico errore che il suo gesto aveva causato e con il quale Janet sarebbe dovuta convivere per sempre. «Sei tu che li hai scambiati! Mio Dio, Janet, tu hai gridato il nome sbagliato! » Il sorriso di Janet fu mesto. «No», disse, «sei tu che ti sbagli nel credere che avrei potuto scambiare i miei figli. Ho chiamato Mario. È Mario quello che tu hai ucciso. Mario che non aveva mai fatto del male a nessuno.» Negli occhi di Andrew si accese un barlume di comprensione... e di rinnovato spavento. «Ho interpretato tutto alla rovescia, dunque. Tu non hai mai avuto paura per Mario. Noi ci siamo messi alla ricerca pazza di lui e della ragazza solo perché volevi trovarli prima che li trovasse Maximilian. Per non so quale ragione sapevi che non era ancora guarito benché i medici ne fossero convinti, e tu...» «Io sapevo che non poteva guarire.» Lo guardava con un’espressione seria e tranquilla. «Cerca di capire, lui non poteva recuperare la salute mentale, e io ne ero consapevole. Perché, vedi, era da tanto tempo che non era più in clinica, da anni ormai.» Si voltò e si allontanò lentamente.
«Non possiamo proteggerli», disse Michael, «non per sempre. E non ha niente a che vedere con la colpa. Guardi me: io mi sono dannato per anni nel tentativo di conservare Tina come nella bambagia, di tenerla alla larga dal male, eppure la disgrazia stava per succedere lo stesso. È qualcosa che ha a che fare con...» esitò a pronunciare la parola, una parola alla quale ricorreva solo raramente e che gli sembrava abusata e sconveniente, «è qualcosa che ha a che fare con il destino», disse infine ugualmente. «Lei mi aveva avvisata. Ha avvertito e ammonito anche Dana. E noi? Ci siamo limitate a burlarci di lei», mormorò Karen. Era troppo esausta per riuscire a parlare più forte. Aveva la voce roca come se fosse raffreddata. «La smetta con questa storia, per favore», la pregò Michael. «Che senso ha tormentarsi così? Nessuno avrebbe potuto impedire a Dana di fare quello che voleva. Non io e neppure lei, neanche se ci avesse provato.» «Ma se glielo avessi proibito fin dall’inizio...» Le prese la mano e gliela strinse. Aveva le dita di ghiaccio. «No, la prego! Non importa quello
che avrebbe potuto o dovuto fare, perché sarebbe potuto succedere lo stesso. Non possiamo rinchiudere i nostri figli, capisce?» Era sabato mattina, fuori si stava svegliando una giornata limpida e calda, ma l’aria che entrava dalla finestra nella stanza era ancora fresca. Karen era seduta sul divano con le gambe unite, raggomitolata in una posizione quasi fetale. Indossava ancora gli stessi indumenti gialli del giorno prima. Il trucco degli occhi le si era sfatto, formando aloni nerastri che le conferivano un aspetto anche peggiore di quello che avrebbe in ogni caso avuto quella mattina. Aveva pianto per tutta la sera, aveva parlato e poi pianto di nuovo, fino al momento in cui si era fatta quasi passivamente accompagnare da Michael in camera da letto, dove si era stesa. Lui si era messo alla ricerca di un sonnifero, aveva rovistato in tutti i cassetti e gli armadi del bagno e della cucina, e si era infine imbattuto nella scatola di un forte tranquillante il cui bugiardino sosteneva che poteva essere di grande aiuto nei casi di insonnia. Gliene aveva fatto buttare giù due compresse e Karen le aveva accettate senza reagire, ma quando lui si era accinto a uscire dalla stanza si era subito sollevata sul letto: «Non vada via, la prego! Non vada via!» L’aveva rassicurata con un gesto prima ancora che con le parole: «Non mi muoverò di qui. Rimarrò in soggiorno, okay? Potrà chiamarmi quando vorrà, in qualsiasi momento.» Quando, un’ora dopo, era tornato per darle un’occhiata, l’aveva trovata profondamente addormentata. In faccia le tracce tinte di scuro delle lacrime si erano asciugate. Aveva la bocca leggermente aperta e sembrava una bambina piccola, molto sola e molto vulnerabile. Michael aveva passato la notte davanti al televisore saltabeccando da un programma all’altro senza nemmeno capire bene ciò che vedeva, ma era talmente preso dalla sua agitazione interiore che non l’avrebbe sopportata senza le voci che venivano dall’apparecchio. Quando il telefono si era messo a squillare erano le quattro e mezzo del mattino. Il suo cuore aveva cominciato a battere così furiosamente che aveva temuto di essere folgorato da un infarto prima ancora di poter sollevare il ricevitore. La sua voce era risuonata come se avesse avuto uno gnocco in gola. «Pronto?» aveva risposto. Era Tina. Sembrava così vicina! Pareva che chiamasse da una cabina telefonica dietro l’angolo. Invece, aveva raccontato, era a Nizza, in un ospedale. «All’ospedale? Per amor del cielo! Che cosa ti è successo?» «Sono caduta, ho la caviglia destra rotta. Nient’altro. Janet Beerbaum mi ha detto che ti avrei trovato lì. Come mai sei lì da lei? E in piena notte poi!» In effetti doveva essere stato parecchio disorientante per lei trovare il padre alle quattro e mezzo del mattino nell’appartamento di Karen e Dana. Michael, per il momento, preferì non dirle niente di Dana, e perciò sviò il discorso. «Ero tremendamente preoccupato per te. Tutti noi lo eravamo. Non me la sono sentita di restare solo e così...» Non aveva aggiunto altro, ma a Tina la spiegazione era sembrata sufficiente. Gli aveva a sua volta raccontato una concitata e confusa storia alla quale Michael, nel sentire parlare di un gemello, non aveva reagito con stupore perché ormai conosceva già alcuni fatti. Lo aveva invece sconcertato l’informazione secondo cui erano finiti in Provenza entrambi i fratelli – ma uno dei due non era rinchiuso in una clinica? – e che era sopraggiunta anche la madre di Mario, per di più in compagnia di un funzionario di Scotland Yard. Che ci fa Scotland Yard in Provenza? si era chiesto, meravigliato. Prima o poi qualcuno avrebbe dovuto spiegargli meglio l’intera faccenda. «Tina, cara, non appena potrò verrò a prenderti», aveva detto, però Tina aveva assicurato che fra non molto sarebbe potuta rientrare a casa anche da sola. Non doveva che parlare con il medico che l’aveva curata e con il funzionario che l’aveva interrogata. «Ti richiamerò prestissimo», aveva promesso, «ma ora stanno per finire le monete e...» Ed ecco già un tintinnio risuonare nell’apparecchio e la conversazione era stata interrotta.
Michael era rimasto ancora per un po’ in piedi in mezzo alla stanza, accanto al telefono, e si era abbandonato alla gioiosa sensazione di un traboccante sollievo. Si era anche vergognato di quel sentirsi infinitamente meglio mentre nella stanza accanto dormiva una donna la cui figlia era stata assassinata, ma non era riuscito a contenere l’ondata di gratitudine e di felicità che lo aveva pervaso. Infine si era abbandonato seduto sul divano e aveva affondato il viso fra le mani. Era rimasto in quella posizione fino a quando non aveva sentito i lenti e pesanti passi di Karen che andava in bagno. Erano le sei e mezzo. Allora si alzò, si spostò in cucina e mise su l’acqua per il caffè. Quando poi tornarono a sedersi in soggiorno, Karen era ancora un po’ confusa dalle compresse, ma già di nuovo impietosamente alle prese con il suo dolore. Michael le aveva riferito, con cautela, di Tina. La reazione di lei era stata d’una generosità e d’una nobiltà d’animo che non si era aspettato. «Sono contenta, sul serio. Grazie al cielo. È bello sapere che almeno Tina sta bene.» Poi riprese a rimproverarsi, a torturarsi. Infine ingoiò un’altra compressa di tranquillante dopo aver gemuto: «Non lo sopporto, Michael: non lo sopporto!» Si riappisolò mentre Michael riordinava un po’ la stanza, per accingersi quindi ad affrontare la montagna di stoviglie che da giorni attendevano di essere lavate. Quando si svegliò, Karen stava molto male: lamentava nausea e mal di testa. «Deve assolutamente mangiare qualcosa», stabilì Michael. Lei gli chiese un’altra compressa, ma lui esitò a dargliela. «Non mi meraviglio che stia male con tutte queste pasticche prese a stomaco vuoto!» «Non me la sento di mangiare.» In frigorifero aveva scoperto solo del latte andato a male e un paio di uova che potevano essere lì da tempi immemorabili. Quando si offrì di andare a comprare qualcosa, Karen reagì quasi con panico: «No! Non mi lasci sola! La scongiuro, non mi lasci sola!» Poi schizzò su, corse in bagno e riuscì a raggiungere appena in tempo la tazza del gabinetto. Rannicchiata sulle piastrelle, vomitò tremando e quasi soffocando, più e più volte. Michael, che l’aveva subito seguita, le sorreggeva ora la testa e le parlava per cercare di calmarla. Poi si inginocchiò anche lui accanto a lei e la prese fra le braccia. Attorno a loro puzzo di vomito e di sudore. Karen affondò il volto nella spalla di Michael, scossa dal pianto. «È colpa mia», mormorava fra un singhiozzo e l’altro, «è colpa mia...» Michael la scostò un poco e la guardò, molto serio e con insistenza. Ne scrutò la faccia pallida, brutta, coronata da quei rossi capelli corti. Tirò fuori di tasca un fazzoletto e le pulì con premura la bocca mentre diceva: «Karen, ora stia a sentire me. Anch’io stanotte sono rimasto seduto di là a rimuginare sulla colpa, esattamente come lei. Karen, io ho protetto, sorvegliato e tenuto lontano dal mondo mia figlia in perfetta buona fede e con le migliori intenzioni. Ma alla fin fine che cosa ho fatto di lei? Una giovane donna così ingenua, così inesperta, così sprovveduta da non accorgersi minimamente che in quel Mario c’era qualcosa che non andava!» Abbassò il fazzoletto. Karen piangeva ancora un poco, ma dall’espressione dei suoi occhi desunse che lo stava ascoltando. «Non ho capito bene tutto quello che Tina mi ha detto stamane al telefono», proseguì, «ma è evidente che si era messa nelle mani di uno psicopatico. Dannazione!... Forse sarebbe stato molto meglio se avesse avuto già prima un amico, o anche più d’uno, perché allora avrebbe saputo di più della vita e delle persone, e avrebbe riconosciuto i segni sospetti. Capisce, Karen? Io ho solo avuto un’enorme fortuna. Se così non fosse, ora mi sentirei crollare io sotto il peso della colpa.» «Ma...» «Dana si è accorta di qualcosa, giusto? È stata la prima a dire che Mario le sembrava strano, inquietante. E lo ha potuto dire grazie a qualcosa che lei le aveva dato, Karen: esperienza e capacità di cogliere la realtà. Era molto meglio preparata ad affrontare la vita di Tina, però ha avuto sfortuna. Certo, è stata un po’ avventata. Ma che fine ha fatto Tina con tutta la sua prudenza? Karen», e qui la
sua voce assunse un’intonazione quasi disperata, «possibile che non capisca? Ora non ha senso mettersi a scavare in cerca di una colpa. Non importa più quello che abbiamo o non abbiamo fatto, perché arriva sempre il momento a partire dal quale non siamo più responsabili di ciò che avviene. Non possiamo più esserlo. La vita segue leggi molto più complesse e contraddittorie di quelle in cui cerchiamo di imbrigliarla.» Gli sembrò di cogliere sul volto di lei una prima, minima, quasi inavvertibile traccia di consolazione. L’attirò di nuovo fra le sue braccia e la lasciò piangere. Non sapeva ancora che, mentre era inginocchiato lì, sulle fredde piastrelle d’un bagno puzzolente, stava nascendo dentro di lui, timidamente, con esitazione, una persona nuova: un uomo capace di sentire, provare compassione, sopportare le diversità, di essere indulgente e tenero. Capace di riaprirsi alla vita. Era già pomeriggio inoltrato quando Phillip riuscì a imporsi di telefonare al professor Echinger per informarlo della morte di Maximilian. Qualcuno, pensò, alla fin fine deve pur farlo. Come poi risultò, la polizia aveva tuttavia già raccontato a Echinger che cosa era successo, lasciandolo scosso e inorridito. «Gli hanno sparato, mi è stato detto. Ma è vero? Non riesco quasi a crederci, capisce?» «È vero. Un funzionario di polizia lo ha ucciso con un colpo di pistola perché ha supposto che stesse per prendere in ostaggio una giovane», spiegò Phillip. Tacque il fatto che il funzionario di polizia in questione era l’amante di sua moglie; non c’era ragione d’affrontare quell’argomento anche con il professore. Echinger era compreso in quella parte della sua vita che considerava ora conclusa e che intendeva dimenticare il più presto possibile. «È tremendo, veramente tremendo», commentò Echinger. Sembrava sinceramente colpito. Chissà fino a che punto è forte il legame che si instaura fra il terapeuta e un suo paziente, si chiese Phillip. Nel corso di sei anni di quotidiane conversazioni... deve necessariamente stabilirsi un rapporto molto intenso, particolare. «Forse sa già che anche l’altro mio figlio...» continuò Phillip. «Sì, lo so. Una tragedia. La prego di credermi se le dico che in questi giorni mi sento pienamente partecipe del dolore suo e di quello di sua moglie. Non... non riesco a pensare ad altro.» Il professore ammutolì, ma poi aggiunse, molto piano: «Mi dispiace, mi dispiace moltissimo». Il tono della voce era quello di uno che si giustificava, e per un lungo momento Phillip si chiese per che cosa il medico si sentisse in obbligo di giustificarsi. Poi rammentò che Echinger si sentiva responsabile della fuga di Maximilian: e probabilmente non tanto per l’inadeguatezza delle misure di sicurezza nella clinica perché, non essendo soggetto a particolari limitazioni, Maximilian sarebbe potuto sparire comunque, quanto per il fatto che il paziente aveva semplicemente tagliato la corda anziché rivolgersi al terapeuta. Un vero e proprio schiaffo, dopo sei anni di sforzi per istituire un rapporto di fiducia. Phillip lo constatò con una certa soddisfazione. «Quel che mi appare francamente inconcepibile è che in Mario si sia improvvisamente potuto manifestare lo stesso quadro clinico del fratello», proseguì Echinger, «e cioè che entrambi...» Non completò la frase, però Phillip riuscì letteralmente a sentire come, all’altro capo della linea, il professore scuoteva la testa, profondamente stupito. Poiché non aveva la benché minima voglia di discutere «il caso Mario» con il professore, si limitò a commentare: «Già, chi l’avrebbe detto!» Poi riagganciò dopo un saluto appena borbottato e senza attendere la risposta. Chiuso. Finito. Si era tolto dallo stomaco il peso costituito da quell’atto di dovuta cortesia, ma ora basta. Mai più psichiatri, mai più Echinger, mai più quella clinica. Mai più logoranti discussioni con Janet in lacrime: «È colpa mia se al ragazzo è capitata questa cosa. Perché l’ho deluso. Chissà che cosa i bambini pensavano che io fossi. E invece si sono trovati ad assistere mentre io e Andrew...» Ma aveva mai pensato, sua moglie, quanto gli costava quel parlarne con lei? Quel doverla anche tranquillizzare? «Janet, anche Echinger dice che non importa ciò che Maximilian può aver visto, e che sono tanti i motivi che devono concorrere per far insorgere quel genere di malattia...» «Ha tentato di uccidere quella ragazza nel momento in cui gli si è palesata come una donna!
Non può che essere qualcosa di connesso con me. Dipende sempre dalla madre se... E io ho...» A volte, quando insisteva con quella litania, quando rievocava ossessivamente ciò che aveva fatto in passato, Phillip avrebbe tanto voluto urlarle: «Sì, forse la colpa è tua! Forse lo ha davvero reso malato quel dover assistere giorno dopo giorno alle acrobazie oscene di sua madre con quell’Andrew Davies, con quel portento dell’arte amatoria! Ma io sono stufo di sentirlo ripetere, maledizione! Sono stufo di ascoltarti quando ti dilani per i figli! Ma hai mai pensato, sia pure una sola volta, che cosa hai fatto a me?» Ma non glielo aveva mai detto. Non ho voluto agitarla, sconvolgerla anche di più, si diceva per giustificarsi. In realtà gli sarebbe risultato insopportabile confessare a lei e a se stesso la propria sofferenza, la ferita che gli aveva inferto. Perché nel momento in cui avesse chiamato quella sofferenza per nome sarebbe diventata realtà. Allora non si sarebbe mai più potuto comportare come se non ci fosse. Avrebbe dovuto essere mezzo impazzito di dolore, lo sapeva. Aveva perduto di colpo i suoi figli, i suoi due unici figli, e li aveva perduti in un modo particolarmente crudele, spaventoso. Morto bruciato l’uno, ucciso con un colpo di pistola l’altro. La maggior parte dei padri non sarebbero riusciti a superare una simile batosta per tutta la vita. Se la sarebbero presa con il destino, con Dio e con il mondo. Si sarebbero messi a bere, si sarebbero rovinati l’esistenza o sarebbero caduti in depressione. Senza però mai sentirsi sollevati. Phillip, ancora una volta, respirò a fondo. Sì, certo che era triste per i suoi figli. Quello che era successo gli appariva orribile e incredibile. Però – per quanto fosse vergognoso – si sentiva anche liberato. Liberato da un peso insopportabile, da un passato che gli aveva addossato un onere sempre eccessivo. Liberato da quel continuo almanaccare attorno alla sua colpa e al suo fallimento. Ora aveva perduto quasi tutto, sua moglie e i suoi figli. Gli erano stati sottratti con un taglio netto. Era un’espressione che continuava a martellargli in testa. Un taglio netto. Liberato da un taglio netto. E cominciò a piangere, piano.
Mercoledì 14 giugno 1995 «Non ti avrei mai ritenuta capace di fare una cosa simile», disse Andrew e poi, ancora incredulo, ribadì il concetto: «Mai, mai avrei pensato che tu potessi fare una cosa simile!» La cenere gli cadde dalla sigaretta sulla tovaglia; si era dimenticato di scuoterla. Se ne infischiò, esattamente come non gli importava più d’essere venuto ormai definitivamente meno all’impegno a suo tempo assunto con se stesso di smettere di fumare. Da un paio d’ore fumava una sigaretta dopo l’altra. E Janet faceva lo stesso. Erano seduti in una caffetteria dell’aeroporto di Nizza, bevevano caffè nero e acqua minerale, fumavano e si allontanavano ogni minuto di più l’uno dall’altra. Fuori, a causa della calura di mezzogiorno, l’aria tremolava sulle piste. All’interno dell’aeroporto c’era un vivace viavai. Stava cominciando l’alta stagione delle vacanze ed erano in arrivo fiumi di turisti pronti a riversarsi sulle spiagge e negli alberghi della Costa Azzurra. Vistosamente folta era la percentuale di donne che viaggiavano da sole. Arrivate con enormi quantità di bagagli, indossavano abiti eleganti ed esibivano l’attraente tintarella di cui si erano già provviste nei saloni di bellezza. Con occhiali da sole dalle fogge più raffinate conferivano alle loro facce tese una patina di mondanità. Avevano investito e continuavano a investire tutti i mezzi di cui disponevano nella speranza di un paio di settimane brillanti e piene di glamour, nell’illusione di essere parte del gran mondo e nel loro sogno massimo, quello di un incontro romantico che si protraesse ben oltre la parentesi balneare, capace di affrancarle dal monotono grigiore d’una vita dietro una scrivania o il bancone di un negozio. Tuttavia Andrew e Janet non facevano caso alla gente che avevano attorno, alla confusione delle voci, alle risate e ai passi affrettati. Non ascoltavano gli annunci dei voli, le informazioni, i nomi delle persone convocate a questa o quell’altra uscita. Erano come su un’isola, separati dal resto del mondo, ma non erano vicini né solidali come solitamente lo sono gli isolani. Fra di loro si stava estendendo un intero mare di incomprensione, smarrimento e crescente ostilità. Janet non aveva reagito all’affermazione di Andrew, di non aver mai pensato che lei potesse fare una cosa simile. Né tentò ora di farsi capire: non fornì spiegazioni né addusse motivazioni di alcun genere. Sembrava aspettare che lui ci arrivasse da solo, ma anche se non ci fosse arrivato non gliene sarebbe importato un bel niente. «Quando arriverà tuo marito?» chiese Andrew. «A che ora di preciso, voglio dire.» «Alle tre meno un quarto.» «Ah.» Andrew si ripromise di raggiungere il suo gate non oltre le due e mezzo. Il volo per Londra sarebbe decollato soltanto alle quattro, ma non sentiva la benché minima necessità di imbattersi in Phillip. Phillip arrivava a Nizza per provvedere assieme a Janet al disbrigo delle pratiche per la vendita della casa di Duverelle. Dopo di che i due sarebbero tornati ad Amburgo assieme ai resti dei figli morti. E poi... quel che sarebbe successo poi non lo sapeva nessuno. Non Janet, non Andrew e di sicuro neppure Phillip. Non era il momento in cui uno di loro potesse mettersi a fare programmi per l’avvenire. Andrew bevve un sorso del caffè che si era raffreddato e si accese un’altra sigaretta. Osservò Janet. Sembrava distante, irrigidita, tutta chiusa in se stessa. Il suo volto era bianco come un lenzuolo. Aveva unito con un elastico, sulla nuca, i capelli arruffati e non spazzolati. Si era tolta gli occhiali da sole e li aveva appoggiati accanto a sé sul tavolo: gli occhi sembravano secchi e accesi come quelli d’una persona in preda alla febbre. Andrew sapeva che non gli avrebbe mai perdonato di averle ucciso un figlio con quel colpo di pistola. Né gli avrebbe mai riconosciuto alcuna attenuante. Non avrebbe mai ammesso che egli avesse potuto interpretare male una situazione e quindi reagire nell’unico modo che gli era parso logico.
Sembrava che si fossero definitivamente esaurite in lei tutte le energie con le quali gli si era aggrappata anche da giovane, per quanto lui l’avesse ferita e trattata in modo offensivo. Non c’era più in lei alcuna disponibilità a capire e a perdonare. Si domandò se, da questo punto di vista, lui non fosse fatto, dopo tutto, esattamente come lei. Capire e perdonare...? Non riusciva a comprendere il modo in cui si era comportata e, molto probabilmente, neppure lui sarebbe stato disposto a scusarla anche solo minimamente. Era rimasto profondamente scioccato nell’ascoltarne la confessione: anche se lei non avrebbe mai definito «confessione» la spiegazione che gli aveva dato, ma solo la semplice descrizione di una condotta logica che ognuno avrebbe dovuto accettare. Dopo quella sua misteriosa affermazione, fatta lassù, fra i monti, di notte, davanti al rifugio in fiamme, Andrew era stato colto da una cupa premonizione, ovvero dalla vaga intuizione di una verità troppo sconvolgente per consentirle di penetrare veramente a fondo nella sua razionalità. Erano stati dalla polizia, li avevano interrogati, avevano fornito spiegazioni per ore e ore, e per tutto quel tempo Andrew aveva saputo benissimo che Janet non stava dicendo la verità ai funzionari. Quando infine li avevano lasciati andare, erano entrambi stanchi morti e contemporaneamente così sovreccitati da sapere che non era il caso di pensare a dormire. Era stato loro consentito di alloggiare nella casa di Duverelle nella quale gli uomini della squadra scientifica avevano ormai rilevato tutto quel che c’era da rilevare. Si erano seduti nel soggiorno, tremanti di freddo, turbati, sconvolti, depressi, e a un certo punto Andrew le aveva chiesto che cosa avesse inteso dire con quella frase...: che erano anni che Maximilian non era più in clinica...
Non avrebbe dimenticato mai più quel soggiorno, compresa la fotografia di famiglia incorniciata sullo scaffale: Janet, Phillip e i gemelli. Né, fuori dalle finestre, quella notte che si stava lentamente schiarendo. Né la figura raggomitolata di Janet sul divano, la sua faccia pallida e stanca. «Avevamo riposto tante speranze nella clinica, nella terapia. Era evidente che Maximilian era malato, psichicamente malato, e ci era caduto un peso dal cuore quando il giudice aveva deciso di non mandarlo in prigione. Sapevamo che il carcere l’avrebbe schiantato. E così, come ti ho detto, abbiamo riposto tutte le nostre speranze, le nostre illusioni nel professore e in quella bella vecchia casa in mezzo a uno splendido paesaggio naturale... Quando dico ‘noi’ mi riferisco a Mario e a me. Phillip si era da tempo estraniato da tutta la faccenda. È un campione della rimozione, lui. Ce ne siamo accorti anche noi due, a suo tempo: ricordi? Aveva rimosso anche quella volta tutto ciò che aveva fatto brutale irruzione nella nostra vita, e si è accinto a ricomporne i cocci, a creare per noi un’esistenza senza passato. Ci siamo dovuti trasferire ad Amburgo dove abbiamo cominciato da capo. Mi ci è voluta tutta la forza di persuasione di cui disponevo per evitare che Maximilian fosse lasciato nella Germania meridionale. Phillip ha accettato solo obtorto collo la clinica nello Schleswig-Holstein.» Si era fermata, il suo sguardo si era spostato su una delle fotografie di famiglia, vi si era soffermato per un istante e poi era scivolato via: non per guardare Andrew, ma per fissare un punto immaginario alle sue spalle, sulla parete. «Mario e io siamo andati a trovarlo ogni volta che ci è stato permesso », aveva proseguito. «Stava molto male. Sembrava depresso, sprofondato nella disperazione. Soffriva la mancanza del fratello, di lui soprattutto, ma anche di me, di suo padre, della nostra casa. È stato terribile dover stare lì a guardare mentre lui affondava letteralmente nel dolore. Non scorgeva più una luce, da nessuna parte. Non sapeva nemmeno lui che cosa lo avesse preso quando aveva tentato di uccidere quella ragazza. Lei, quella sera, deve aver cercato di sedurlo e lui non l’aveva sopportato. Ha continuato a ripetere di aver pensato che lei fosse diversa. Non riusciva a capacitarsi del fatto che lo si stesse sostanzialmente punendo con quel ricovero in una clinica. Considerava se stesso la vittima, non lei. E questo lo aveva precipitato nella disperazione. Si riteneva incompreso e trattato ingiustamente. Ovviamente ne abbiamo
parlato con il professore. Lui ci ha tranquillizzati dicendo che, all’inizio, quella era una condizione del tutto normale, che molti lì per lì precipitavano come in un buco nero... Sennonché lui, poi, non è migliorato affatto. È peggiorato, anzi. E ha cominciato a parlare sempre più spesso di suicidio.» «Capisco», aveva detto Andrew. In quella fase, diversamente da quello che sarebbe successo dopo, aveva ancora avvertito la necessità, o quanto meno l’opportunità di essere comprensivo con lei. «Dopo due anni la situazione era diventata così grave da convincermi che avrebbe presto fatto sul serio con quei suoi propositi di suicidio. Lo sentivo. Non sarebbe riuscito a sopravvivere nemmeno per altri sei mesi in quella clinica. Il professore stava affrontando il problema con grande serietà, ma non condivideva la mia paura. Ritengo che considerasse escluso che nella sua clinica qualcuno potesse suicidarsi. Le misure di sicurezza che avevano adottato erano perfette e, quando Echinger mi chiedeva come, secondo me, Maximilian avrebbe potuto farlo, non sapevo dargli una risposta. Però io ero e sono convinta che una persona decisa a farla finita trova in ogni luogo del mondo un modo per togliersi la vita. E Maximilian era deciso. Assolutamente deciso.» Janet aveva fatto una pausa. Andrew aveva affondato la faccia fra le mani. Sapeva che cosa sarebbe venuto ora. «Mario e io non riuscivamo a pensare ad altro. Naturalmente abbiamo parlato spesso anche di che cosa potesse aver causato la misoginia da cui Maximilian era affetto. Il professore ha sempre evitato di alludere a mie possibili colpe, però Mario mi ha raccontato che lui e suo fratello, allora... ci stavano a guardare, Andrew, e Mario ha insistito nel dire che è stato terribile per loro, un inferno. Lui si ricordava perfettamente di ogni particolare. Però ha anche aggiunto che Maximilian invece, quando cercava di parlarne con lui, non ricordava quasi più niente. Doveva averlo rimosso, e forse si è ammalato proprio per questo. Io...» «Ma è assurdo, Janet. Qualunque cosa quei due possano aver visto... voglio dire...» Andrew si era sentito aggredito e di conseguenza era irritato. E comunque, non si erano mica avventati a coltellate l’uno contro l’altra, no? «Milioni di bambini vedono scene simili», aveva infine detto, «e sono persuaso che il professore ti ha anche spiegato che...» «Che sono centinaia le tessere che possono comporre il mosaico di una malattia, sì. Perfino certe... lesioni innate. Però io sono convinta di essere stata, sicuramente, una di quelle tessere. La maggior parte della colpa era mia. E io... io non potevo rassegnarmi a vederlo morire.» Aveva fatto un profondo sospiro. «Avevamo paura. Ogni volta che squillava il telefono, Mario e io sussultavamo insieme. Temevamo sempre che... E sentivamo che sarebbe potuto accadere da un momento all’altro. Mario lo sentiva anche più di me. Quei due erano sempre così vicini...! Ognuno di loro sapeva che cosa avveniva nell’animo dell’altro.» Andrew aveva annuito: «E vi siete convinti che vi fosse una sola via d’uscita». «Sì: doveva andarsene di lì», aveva confermato Janet. «E...» «E l’unica possibilità era che quei due si scambiassero il posto, il ruolo, chiamalo come ti pare. Non sarebbe stato difficile, perché, a parte me, nessuno riusciva a distinguerli. E così Mario è rimasto in clinica e Maximilian è venuto via con me.» «Stento a crederci», aveva obiettato Andrew. «Voglio dire che, a parte ogni altra considerazione, non riesco a convincermi che un fratello possa fare una cosa simile per l’altro. Farsi rinchiudere per anni in una clinica psichiatrica...» «Nessuno che non li conoscesse può capirlo. Erano un essere solo , avevano una sola identità. Una parte di loro doveva rimanere nella clinica, ed era indifferente quale parte si sarebbe assunta quell’onere. In sostanza non hanno fatto altro che scambiarsi i nomi. Mario è diventato Maximilian, e Maximilian era Mario. Nomi che, comunque, erano sempre stati per loro qualcosa di casuale, di arbitrario. » Andrew aveva scosso il capo. «Non sminuire l’accaduto, Janet, non banalizzarlo. Un solo
essere...! Il fatto è che non erano un essere solo. Uno dei due era gravemente malato e pericoloso, l’altro era sano. Uno aveva rischiato di perdere definitivamente la testa in quella clinica, l’altro evidentemente è riuscito a resisterci. Sono... erano due persone diverse, chiaramente distinte. Tutto il resto sono sciocchezze.» La reazione di Janet? Un’alzata di spalle. Andrew aveva sospirato. «Ma non vi sorvegliavano durante le visite, quando parlavate fra di voi?» «Inizialmente c’era sempre un infermiere. Ma quando le condizioni di Maximilian peggiorarono Echinger ha ritenuto più opportuno lasciarci soli. Quando eravamo soli, soli fra di noi, Maximilian parlava di più, si apriva, e per il professore era importante che lo facesse. Evidentemente non si sognava neppure che...» «No.» Andrew si era alzato, si avvicinò alla finestra e aveva guardato, fuori, la notte il cui buio si stava già schiarendo all’orizzonte. «No, nessuna persona normale se lo sarebbe neppure sognato. Ma, mio Dio», si era voltato per guardare bene in faccia Janet, «com’è è possibile che nessuno se ne sia accorto? Il terapeuta? Tuo marito?» «Mario... ovvero Maximilian, come si è da quel momento chiamato... ha recitato molto bene la sua parte. Non è stato difficile per lui, perché aveva patito anche lui le sofferenze tormentose del fratello. Sapeva che cosa aveva indotto Maximilian a commettere quello che aveva commesso, sapeva che cosa gli era passato per la testa in quel momento e poi, dopo, che cosa aveva dovuto sopportare in clinica. Si è calato in lui, è diventato lui il paziente depresso che parlava di suicidio. Il suo miglioramento è stato lentissimo. Echinger ne era straordinariamente fiero e insisteva nel dire di averlo sempre previsto.» «E... Phillip?» Era stata la prima volta che, quel giorno, Andrew aveva pronunciato il nome del rivale. «Si era già troppo staccato da noi tutti. I figli, anche quello sano, erano diventati una zavorra per lui. Non si è più occupato del figlio che aveva in casa al punto da poter notare qualcosa di strano. E Maximilian, che da allora si è chiamato Mario, non era un depresso cronico. Aveva sofferto di una insopportabile, disperante nostalgia, e così, quando è tornato a casa, è migliorato di colpo.» «Migliorato abbastanza da poter vivere la vita di Mario?» «Mario aveva appena finito di prestare servizio civile e si era iscritto all’università, alla facoltà di economia aziendale. Avrebbe voluto, professionalmente, seguire le orme di Phillip. E questo è stato un piccolo problema, perché Maximilian aveva invece sempre voluto studiare giurisprudenza. Allora ha dichiarato di non essere più sicuro del fatto suo e ha rinviato di un semestre l’inizio degli studi. È stato un periodo di cui ha avuto bisogno anche per altre ragioni, per esempio per riadattarsi alla libertà, e per disintossicarsi dai medicinali. In quelle cliniche ne somministrano a chili! Passati i sei mesi, ha detto di averci ripensato, di voler studiare legge e infatti si è iscritto alla facoltà di giurisprudenza. Phillip che, come ti ho già detto, si era interiormente staccato dai figli, non ha obiettato.» «È davvero incredibile», era stato il commento di Andrew: «Non aveva neppure dato l’esame di maturità!» «Ha presentato il diploma di suo fratello. E non aveva lacune vistose perché ormai stava per concludere anche lui gli studi di scuola media superiore quando... è successa quella cosa.» Quando è successa quella cosa. Andrew, di fronte a Janet, pallida e stanca, quasi accasciata, raggomitolata sul divano ma ancora incapace di guardare in faccia la realtà, era stato assalito da un accesso di rabbia violenta. Janet annacquava la verità! Dopo tutti quegli anni, dopo tutto quello che era successo, continuava a non riuscire a dire la verità, ci girava attorno, cercava e trovava parole per sminuire la sostanza dei fatti. «Quella cosa è stato un tentativo di omicidio», aveva detto fuor dai denti e, con soddisfazione, l’aveva vista sussultare. «La verità è che tuo figlio voleva uccidere quella giovane, la quale è
sopravvissuta per puro caso.» «Era malato. Era...» «Esattamente. Era malato. E tu come ti sei comportata? Hai fatto uscire un uomo malato, imprevedibile, pericoloso, dalla clinica psichiatrica in cui i giudici avevano con buone ragioni disposto che fosse rinchiuso. Gli hai permesso di muoversi liberamente fra la gente come una bomba a orologeria. Per l’amor del cielo, come hai potuto avere così scarso senso di responsabilità?» «Non era pericoloso e non era imprevedibile. Non voleva far niente di male. Voleva solo...» Andrew le si era avvicinato e Janet si era accorta che avrebbe voluto afferrarla, scuoterla, e che si stava controllando solo a stento. «Piantala, Janet! Finiscila una volta per tutte di tentare di ingannare te stessa e gli altri. Quel povero, caro, malato ragazzo che non voleva far del male a nessuno ha riallacciato a tua insaputa una relazione con un’altra ragazza. È stato abbastanza furbo e accorto da nasconderlo a te e a tuo marito per settimane. È stato abbastanza perfido da approfittare della tua assenza per affrontare quel viaggio, quella vacanza di cui sapeva benissimo che tu non gliel’avresti mai consentita. Ma tu cosa credevi? Che avesse superato in una qualche miracolosa maniera le sue morbose inclinazioni?» Janet si era sottratta al suo sguardo. E Andrew aveva avuto l’improvvisa sensazione di essere privato da un momento all’altro di tutte le sue energie, che gli fluissero fuori dal corpo lasciandosi dietro un guscio vuoto ed esausto. E aveva abbassato le braccia. «Sai qual è la cosa che capisco meno di tutte?» le aveva chiesto. «Non capisco come tu, dopo tutto quello che era successo, dopo tutto quello che avevi combinato, abbia potuto dileguarti in Inghilterra e trastullarti con l’idea di rimanerci per sempre...» Anche stavolta lei non aveva replicato. Non gli aveva dato quella risposta che lui comunque già conosceva: quando le cose si mettevano male, Janet scappava. Si era sempre comportata così. Quando non ne poteva più, levava le tende e spariva. Il più lontano possibile. In un altro paese, in un’altra vita. Abbandonava una persona, una situazione, con la stessa determinazione radicale, assoluta con la quale si era prima dedicata a quella persona, a quella situazione. Era l’unico modo in cui era capace di affrontare la vita. «Non ti capisco», aveva ripetuto, «proprio non ti capisco.» Lei, di nuovo, non aveva parlato, non aveva reagito. E Andrew si era reso conto per la prima volta che da quel momento le sarebbe stato del tutto indifferente che lui la capisse o no.
Per un bel po’ di tempo avevano seguito ognuno i propri pensieri e Andrew non aveva più guardato l’orologio. Ora, d’un tratto, constatò che l’aereo di Phillip sarebbe atterrato da un minuto all’altro. Tirò fuori di tasca alcune monete e le lasciò sul tavolo. «Devo andare», disse: «Tuo marito sta per arrivare.» Janet annuì. Lui si alzò e, in piedi, guardò quel volto come impietrito. Gli sembrò che nessuna cosa al mondo potesse essergli più irraggiungibile di lei. Allungò una mano come per accarezzarle una guancia, ma poi non lo fece e tornò a riabbassarla. Non ne avevano minimamente parlato, ma Andrew sapeva perché lei era così inflessibile e perché lo sarebbe rimasta. Conosceva la sentenza di condanna che aveva pronunciato contro di lui. Non credeva che lui avesse sparato al figlio d’impulso, in un momento di panico e di fatale travisamento della situazione. Era convinta che lui avesse saldato un conto, che si fosse vendicato su suo figlio della sconfitta subita nel caso Fred Corvey, di quel disastroso momento in cui Corvey aveva lasciato l’aula del tribunale da uomo libero. Questa volta aveva raggirato la giustizia, aveva provveduto in modo che non potesse più intervenire. Era stato del resto proprio lui ad ammetterlo con Janet: «Avrei voluto che si fosse creata una situazione tale da richiedere l’uso delle armi e che si fosse reso Corvey inoffensivo per sempre». Era il suo più intimo desiderio e stavolta lo aveva esaudito. Adesso, però, a cose fatte, non
si sentiva meglio. Solo vuoto e solo. Si strinsero le mani come due amici, poi Andrew attraversò a passi lenti il locale. Quello, lo sapeva, era stato un addio per sempre. Non l’avrebbe mai più rivista. Varcò la soglia e non poté trattenersi dal guardare indietro ancora una volta. Janet si stava giusto alzando. La vide mettersi gli occhiali da sole e cercare qualcosa nella borsetta, forse un rossetto o un pettine... Ecco, aveva trovato quello che voleva: era una fotografia. Pur senza poterlo vedere e verificare da quella distanza, Andrew sapeva chi stava guardando in quell’immagine. E non avrebbe mai dimenticato il dolce sorriso con cui Janet fissava i suoi figli. Mario e Maximilian. Maximilian e Mario. Forse, adesso, quei due erano diventati davvero un essere solo e avevano trovato la loro pace. Si incamminò lentamente.