RUTH RENDELL IL MISTERO DELLA BRUGHIERA (Master Of The Moor, 1982) Per Nam e Maurice Romilly 1 Era il primo cadavere che...
42 downloads
1332 Views
618KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
RUTH RENDELL IL MISTERO DELLA BRUGHIERA (Master Of The Moor, 1982) Per Nam e Maurice Romilly 1 Era il primo cadavere che vedeva. All'inizio era rimasto impietrito, con il cuore che gli batteva all'impazzata, poi si era inginocchiato accanto alla ragazza morta. L'aveva osservata attentamente. Il viso aveva subito un'orrenda trasformazione: era gonfio e bluastro, gli occhi sporgenti sotto le palpebre. Che la ragazza fosse bionda si capiva dalle ciglia e dalle sopracciglia, non dai capelli, poiché qualcuno glieli aveva tagliati in modo da raparla. Giaceva supina sull'erba nello spazio compreso tra i due megaliti, precisamente tra il nono e il decimo, sul lato nord. Era mattino presto, circa le otto e mezzo; probabilmente il cadavere era rimasto lì tutta la notte. Splendeva il sole e da est soffiava un vento che sospingeva le nubi, spostandone velocemente le ombre sopra le colline basse e le rocce scoscese. Le pietre erette verticalmente proiettavano ombre parallele, simili ai denti del pettine di un gigante. Faceva molto freddo, il freddo pungente di un mattino d'aprile nel cuore dell'Inghilterra. La ragazza indossava un paio di jeans, un maglione e una giacca imbottita. Era snella, piuttosto alta e giovanissima. Lui aveva capito subito che era morta. Le sfiorò la fronte con la punta delle dita. Sembrava di marmo, come l'angelo sulla tomba di Tace nel cimitero di Chesney: era rigida e fredda proprio come la statua. Il suo primo impulso fu di prenderla in braccio e di portarla giù per la collina fino al paese. Era forte e avrebbe potuto farcela senza eccessiva fatica. Ma gli vennero in mente alcuni libri letti e film visti. Il cadavere doveva restare sul posto, in attesa dell'arrivo della polizia. Bisognava avvertirla. Che drammatico epilogo aveva avuto la sua tranquilla passeggiata nella brughiera! Era uscito di casa poco prima delle otto, dopo avere lasciato una tazza di tè sul comodino accanto a Lyn, era andato in paese e da lì aveva iniziato l'arrampicata su per la cresta rocciosa. Una normale passeggiata nella brughiera, come soleva fare due o tre volte la settimana da diversi anni. A che cosa pensava mentre camminava? Che cosa curiosa, pensava ai gatti! Gli era venuta l'idea di regalare un gattino a Lyn per il
suo compleanno. Soltanto quando aveva raggiunto il più grande dei dolmen, e si era soffermato ad ammirarlo per l'ennesima volta, aveva visto qualcosa per terra, una strana macchia di colore tra i verdi e i grigi. Una figura rossa e blu con la testa simile a quella di una bambola rotta. Dopo essere rimasto a lungo in ginocchio accanto al corpo della ragazza, finalmente si decise ad alzarsi. Aveva la curiosa sensazione di avere trattenuto il respiro per tutto quel tempo, benché ovviamente fosse impossibile. Gli occhi della ragazza avevano lo stesso colore turchese delle pietruzze con cui lui e Peter Naulls giocavano da ragazzi. Inspirò lunghe boccate dell'aria pura e gelida della brughiera. In alto nel cielo, sopra la sua testa, era visibile un falco, come sospeso nell'aria. Il vento aveva aperto una breccia tra le nuvole e lasciato scoperto un tratto d'azzurro. D'improvviso voltò le spalle al corpo e s'incamminò. Ripercorse la stessa strada che aveva fatto all'andata e uscì da un cancelletto a cui era appeso il cartello: DIPARTIMENTO DEI BENI PUBBLICI. MONUMENTO ANTICO. FOINMEN. Il falco si posò sul terreno, per poi alzarsi di nuovo in volo in un rapido battere d'ali. Da quelle parti, dove la gente definisce colline sia le alture sia le entrate alle miniere, i sentieri che si snodano lungo i versanti con frequenti curve a gomito, in realtà altro non sono che strettissime piste. Imboccò quella che scendeva giù da Chesney Fell. Camminava veloce e a grandi passi, ma senza fatica. Il suo corpo poteva essere paragonato a una robusta e solida macchina, che le lunghe camminate nella brughiera avevano reso ancora più forte. Indossava un eskimo sopra un maglione di lana con il collo fino al mento e un paio di jeans di velluto a coste, e calzava scarpe da montagna. Aveva ventinove anni, ma ne dimostrava qualcuno di meno, grazie ai folti capelli scuri e al colorito roseo. Mentre camminava, nell'aria fredda il suo respiro formava piccole nuvole di vapore. Quando raggiunse la strada, l'orologio del campanile di St Michael-inthe-Moor batté nove rintocchi. C'era in giro il furgone del lattaio, e la signora Southworth, la proprietaria della Hall, stava imbucando una lettera. Percorse un tratto di Jackley Road e, oltrepassato il piccolo parco e le case che fiancheggiavano la strada, raggiunse l'incrocio con Tace Way. Le case costruite dal Comune, di mattoni color caramello, disposte su due file a forma di ferro di cavallo, erano fiancheggiate da filari di cipressi che ne impedivano la vista dal paese. Tutt'intorno al villaggio si estendeva la brughiera, la cui migliore visuale si godeva proprio dalla sua casa, l'ultima
prima della curva. A una finestra del pianterreno, ancora in vestaglia, era affacciata la madre di Lyn. Lo salutò con la mano e lui rispose al saluto. Salutò allo stesso modo anche Kevin Simpson, che stava portando fuori la sua auto dal garage, e gli sorrise con naturalezza, come se niente fosse accaduto. Il vento che soffiava dalla brughiera piegava i cipressi come fili d'erba. Lyn udì i suoi passi nel vialetto laterale e andò ad aprirgli la porta posteriore. Si era già vestita, ma i capelli biondi erano ancora pettinati con due codini come la sera precedente. Sembrava una ragazzina cresciuta troppo in fretta. — Sei tornato presto — osservò. — Non sono andato lontano. Non puoi immaginare, cara, che cosa tremenda ho visto lassù. C'è una ragazza morta. Proprio in mezzo ai Foinmen. Per un breve istante a Lyn venne fatto di pensare che un altro uomo avrebbe dato la notizia alla moglie un po' meno bruscamente. — Hai detto che è morta, Stephen? — domandò in tono pacato. — Ha forse avuto un incidente? Scosse la testa. — Ha la faccia bluastra. E non ha più i capelli, qualcuno glieli ha tagliati. Da un po' di tempo a quella parte, quando qualcosa la turbava, Lyn cominciava a tremare. Per quanto si sforzasse di mantenere l'autocontrollo e benché apparentemente conservasse la calma, le tremavano le mani e a volte tutto il corpo. La madre diceva che era una questione di nervi, ma che motivo aveva di essere nervosa? Anche stavolta cominciò a tremare. — Oh, Stephen, no! — Terribile, vero? È stata assassinata. Strangolata, credo. Anzi, ne sono sicuro. Oh, Dio mio, adesso ti ho spaventato. — Non preoccuparti — lo tranquillizzò Lyn. — Telefoni alla polizia? — Certo. Immediatamente. Sono tornato indietro subito, più in fretta che potevo. — Oh, Stephen... Vicinissimi l'uno all'altra, si guardavano negli occhi. Lyn allargò le braccia, si strinse forte a lui. Non si sottrasse all'abbraccio, benché stare fermo gli costasse fatica. Era impaziente d'agire, voleva telefonare subito. Lyn lo lasciò andare. — Dove? — domandò il tizio che aveva risposto al telefono.
Stephen trovava assurdo che la gente del posto conoscesse così male la propria terra, quella campagna che si poteva considerare la loro eredità. I Simpson, per esempio, che non conoscevano i Foinmen meglio di quanto conoscessero Stonehenge, e persino suo padre, che si vantava di non avere più rimesso piede a Vangmoor negli ultimi vent'anni. — In mezzo ai Foinmen — tornò a ripetere — tra la nona e la decima pietra, sul lato nord. — Sarà meglio che ci accompagni sul posto, signor Whalby. Resti in casa. Passiamo noi a prenderla. Ma Stephen non era d'accordo. — Preferisco venirvi incontro. Vi aspetto a Chesney Green. Mentre era al telefono, era arrivata Joanne, la sorella di Lyn. Ossatura robusta, capelli biondo paglia, diciannove anni, già sposata da sei mesi. La sua voce era stridula, al contrario di Lyn che l'aveva dolce e piacevole. — Non credo proprio che mi faccia bene ascoltare certe storie orripilanti, nel mio stato. — Mi dispiace che tu abbia sentito — mormorò Lyn, premurosa. — Scherzavo, cara. Possibile che non te ne sia accorta? Vado subito a raccontarlo a Kevin. La mamma lo sa? Stephen uscì subito. Joanne e la madre, ferme sulla porta di casa loro, stavano chiacchierando. Tirò diritto. Tornato indietro fino al parco, si fermò ad aspettare sul lato della chiesa, in un punto riparato dal vento. Sotto il portico del cimitero, appena oltre la vecchia porta di quercia di St Michael, c'era la tomba di Tace, marmo bianco e bronzo nero, con l'angelo straziato di Giacometti, dalle ali che parevano lische di pesce. Stephen si appoggiò al cancello e rimase ad aspettare la polizia. Il campanile quadrato della chiesa era stato costruito con la locale pietra bruno-grigiastra chiamata "pietra dei Foinmen"; era la stessa pietra utilizzata per la costruzione di tutte le case e della stessa Chesney Hall. Il materiale era stato ricavato molti anni addietro da una profonda cava che si chiamava Knamber Hole. Dal punto in cui si trovava, si scorgeva Knamber Foin, un freddo cumulo di pietrisco che s'innalzava da una pianura grigia e fuligginosa, tra i rami spogli di diecimila giovani faggi. A sud-est il cielo era ingombro di nubi, mentre a nord-ovest splendeva il sole, che inondava con la sua luce smagliante le colline più alte. Uno stormo di uccelli sfrecciò alto nello spazio azzurro sopra il Big Allen. Il vento era come una lama che sfiorasse la pelle. Stephen vide apparire da lontano le auto della polizia; erano tre e procedevano in fila lungo la strada bianca che veniva da Hilderbridge. Quasi un piccolo esercito, quan-
to bastava a fargli capire che avevano preso sul serio le sue parole. Le auto si fermarono una dopo l'altra sulla strada che attraverso il parco portava dalla Hall alla chiesa. Due persone si erano già fermate a curiosare, la madre di Kevin Simpson e un vecchietto di cui Stephen ignorava il nome, entrambi avidi di novità in quel vuoto sabato d'aprile. — Da questa parte — disse alla polizia. — Dobbiamo salire su fino alla cresta rocciosa. Tra i poliziotti c'era un ispettore, un uomo massiccio all'incirca della sua età, con il fisico atletico, la faccia paonazza e i capelli rossicci, e un sergente un po' più giovane, alto e magro, capelli scuri, faccia da roditore. C'era poi un certo numero di agenti con funzioni diverse; uno di questi doveva trovarsi sulla scena del delitto prima che il corpo fosse toccato o spostato. Stephen li precedette lungo il sentiero che zigzagava su per la collina. Se fosse stato da solo, si sarebbe inerpicato su per i prati, ma lui era sicuramente più abituato di quei poliziotti alle camminate e alle arrampicate, e forse anche al freddo. Prima, mentre aspettavano d'incamminarsi, avevano tentato di scaldarsi battendo i piedi per terra e strofinandosi energicamente le mani. — È lei lo Stephen Whalby che scrive quegli articoli sulla natura per il giornale Echo? — gli domandò a un tratto l'ispettore. — Sì, per la rubrica La voce di Vangmoor. Sì, sì, sono io. — Nessuno gliel'aveva mai domandato, e Stephen ne fu compiaciuto. In paese lo conoscevano tutti, sapevano che teneva quella rubrica. — Lei è uno dei miei lettori abituali? — s'informò, pensando che così si sarebbe espresso un vero giornalista. — Quando mi capita, li leggo volentieri — rispose l'ispettore, che si chiamava Manciple. — Immagino che lei conosca la brughiera come il palmo della sua mano. — La conosco piuttosto bene — convenne Stephen. — Oserei dire che sono il più grande esperto vivente per quanto riguarda Vangmoor — aggiunse, non resistendo alla tentazione di vantarsi. Stephen aveva parlato con la massima serietà, eppure il sergente facciada-topo scoppiò in una risata gracchiante, decisamente sgradevole. Stephen pensò che non c'era niente da ridere, e strinse le labbra in un silenzio offeso. L'ispettore parve non accorgersi di nulla. — Sicuramente ora sta seguendo Bleakland alla televisione — riprese. — Dicono che Alfred Tace, l'autore di quei libri, conoscesse la brughiera in lungo e in largo. — Alfred Osborn Tace — lo corresse Stephen. E, dopo una breve esitazione: — Era mio nonno.
Stavolta sia l'ispettore sia il sergente rimasero colpiti dalla notizia. — Davvero? — domandò Manciple. — Allora, questa serie televisiva le starà facendo guadagnare un mucchio di quattrini — osservò il sergente. — Purtroppo no — replicò Stephen con un risolino amaro. — Era il nonno materno. — Sarebbe andato avanti con le spiegazioni, ma quei due avevano già smesso di ascoltarlo. Erano arrivati in cima alla collina, e sotto di loro si stendeva la piana dei Foinmen. Il vento distribuiva equamente le sue carezze all'erica, ai mirtilli, all'erba verde dei prati. Contro lo sfondo luminoso e mutevole del cielo si stagliavano le figure rigide e scure dei dolmen. — Guardate, da quella parte! — disse Stephen, puntando il dito. S'incamminarono senza fretta. Ora potevano vederla tutti, non c'era bisogno di correre. Il poliziotto che per primo doveva trovarsi sul luogo del delitto inciampò in una buca del terreno e per poco non cadde. Come se seguisse una sorta di rituale, ogni volta che andava a vedere i Foinmen, Stephen aveva l'abitudine di percorrere molto lentamente il viale che portava fino al Gigante, ma stavolta non era il caso. I poliziotti non si presero la briga di aprire il cancelletto, preferendo scavalcare con un salto la recinzione, per poi avviarsi verso il corpo della ragazza passando tra le pietre. Sulla sua fronte si era posato un piccolo insetto verde con le ali ripiegate. Per qualche istante rimasero tutti fermi a guardare il corpo in silenzio. — È proprio morta — disse infine Manciple, senza toccarla e senza neppure chinarsi su di lei. Si fece avanti uno degli uomini che Stephen aveva scambiato per un poliziotto in borghese, e osservò la ragazza. Il sergente lo chiamava dottore. — Certo che è morta — confermò il medico. — Un omicidio nella brughiera. Prima o poi doveva succedere anche qui. Si alzò una folata di vento e l'insetto fu spazzato via. Stephen trascorse quasi tutta la giornata al commissariato di Hilderbridge. Manciple si dileguò e Stephen fu interrogato dal sovrintendente capo, un certo Malm. Quale motivo l'aveva spinto a recarsi a Vangmoor la mattina presto? Non faceva troppo freddo, a quell'ora? Era già andato a vedere i Foinmen in precedenza? Decine di volte, forse anche centinaia? Ma allora, perché ci era andato anche quel mattino? Non riusciva a far entrare in testa a Malm che si potesse amare la brughiera e le lunghe passeggiate, né che ci si potesse abituare al freddo. Il sergente, che si chiamava Troth, tornò nell'ufficio e si mise a sedere vicino a Malm. Dopo un'oretta di quelle litanie, il sovrintendente cambiò sistema.
Volle sapere da Stephen se avesse incontrato qualcuno durante la sua passeggiata, e pretese il resoconto di tutto ciò che aveva visto. — Non ho incontrato anima viva. Mi capita di rado d'imbattermi in qualcuno. — Stephen decise di ricorrere all'ironia. — Ho visto una lepre e, dopo aver trovato il cadavere, un falco, o meglio un gheppio. — Capì dall' espressione che Malm cominciava a sospettare della sua salute mentale. — Non ho visto nulla — si affrettò a precisare — tranne ciò che vi ho detto. Dopodiché il sovrintendente riportò il discorso sul motivo che l'aveva indotto ad andare da quelle parti, e tornò a domandargli se non patisse il freddo. Non gli dissero il nome della ragazza, né da dove venisse. Le notizie le seppe dalla televisione, quando tornò a casa. Lyn trasalì, quando rincasò. — Questa è la ricompensa, quando si fa il proprio dovere di cittadino — osservò Stephen con una risatina forzata. — Si comportano come se pensassero che sia io l'assassino. — È impossibile, Stephen. Sarà il loro modo d'interrogare che ti dà quest'impressione. — Mi sento come svuotato, stanco come se avessi camminato per chilometri e chilometri nella brughiera. Sai, è la prima volta che vedo un morto. Non è una bella esperienza. Tu ne hai mai visto uno? — Mia nonna, la madre di mia madre. Sembrava che dormisse. Ti va di bere qualcosa, tesoro? Magari un tè caldo? La cena è pronta. Possiamo mangiare quando vuoi. — Accendiamo la televisione. Sta per iniziare Bleakland. Lyn portò il tè e poi la cena su due vassoi separati. Si sedette vicino al marito, gli prese la mano. Sullo schermo apparve Vangmoor così come lo vedevano dalla finestra, ma durante il periodo estivo, senza vento e con gli alberi pieni di foglie. Stephen aveva seguito alcune fasi della lavorazione del film, le scene girate nella valle di Allen. Gli fece una strana impressione vedere Lady Irene in abiti di epoca edoardiana, Alastair Thornill in giacca stile Norfolk, il Big Allen sullo sfondo e, finita la scena d'amore, al termine dell'episodio, vedere comparire sullo schermo, in apertura di telegiornale, la brughiera esattamente come gli era apparsa quel giorno. Sembrava quasi che la brughiera fosse l'unico mondo esistente, come se non ci fosse altro che brughiera. Il commentatore disse che la ragazza trovata morta si chiamava Marianne Price e aveva vent'anni. Era stata fermata e uccisa la sera precedente, mentre andava in bicicletta da Byss a Hilderbridge. Sullo schermo apparve
una sua foto. Viso rotondo con la fronte alta, occhi azzurri, naso corto e diritto, capelli biondi lucenti. Il nome di Stephen non fu pronunciato. La polizia stava cercando la bicicletta; il commentatore non accennò al fatto che le erano stati tagliati i capelli alla radice. Stephen spense il televisore, andò alla finestra, aprì le tende. La luna era quasi piena. La sagoma scura del Big Allen si stagliava nettamente sullo sfondo chiaro del cielo. — Quand'ero piccolo, mi piaceva fingere che la brughiera fosse mia, che fossi un giovane principe o comunque il figlio di un grosso proprietario terriero. È stato dopo che mia madre se n'è andata, che ho incominciato a fantasticare in questo modo. — Evidentemente avevi bisogno di qualcosa che ti fosse di conforto — commentò Lyn. Si strinse nelle spalle. — Sì, Freud e gli altri come lui probabilmente direbbero che mi lasciavo andare a queste fantasticherie per compensare la perdita di mia madre. Non lo so. Pensavo che la brughiera fosse di mia proprietà, che fosse il mio regno, e che avrei scelto il punto migliore per costruirvi la mia città, e il bosco più ricco di selvaggina per andarvi a caccia. Quanto al mio esercito, avrebbe marciato per Reeve's Way. Ci sarebbe stata una vera e propria incoronazione. La cerimonia si sarebbe svolta sotto i Foinmen, davanti all'Altare. Lyn non rise. Aveva sentito quella storia diverse volte, ma Stephen continuava a ripeterla, come se non si ricordasse di avergliela già raccontata. — Santo cielo! — esclamò il marito, alzando la voce. — Stento quasi a credere che qualcuno abbia potuto commettere un delitto proprio nella brughiera. A pensarci, mi ribolle il sangue. È un sacrilegio. — Non vorrei davvero che fosse capitato a me di trovare il cadavere — replicò Lyn in tono pacato. 2 Qualche domenica capitava che papi non andasse a pranzo da loro. Succedeva quando si sentiva particolarmente depresso, e in quelle occasioni preferiva starsene a casa. Il suo stato depressivo era una malattia vera e propria, non un semplice sentirsi giù di morale o irritabile. Durante queste crisi precipitava in abissi d'orrore a suo dire inimmaginabile. Poi, tra una crisi e l'altra, in uno stato d'euforia che in realtà non aveva affatto l'aria di essere tale, se ne veniva da Hilderbridge al volante del suo furgone. La depressione di cui aveva sofferto la settimana precedente l'aveva
squassato come una febbre, lasciandogli tracce scure sotto gli occhi. Indossava il suo abito migliore, quello grigio gessato, e aveva portato con sé il regalo di compleanno di Lyn, avvolto in pesante carta da pacco marrone. Non la baciò. Non baciava mai le donne, o meglio non baciava mai nessuno, ma soprattutto le donne preferiva tenerle a distanza. Lyn scartò il pacco. Era un tavolino rotondo di legno lucidissimo, con le gambe curve e il disegno intarsiato di una foglia di castagno con un grappolo di ricci. — È stupendo, papi. Sei molto caro con noi. — Attenti a non rovinarlo, appoggiandoci sopra tazze bollenti. — È un vero capolavoro! — esclamò Stephen. — Dell'inizio dell'epoca vittoriana, vero? — Successivo — puntualizzò il padre. — Dovresti vederlo a occhi chiusi, visto che questo è anche il tuo lavoro. La domenica pomeriggio arrivavano sempre anche i genitori di Lyn con Joanne e Kevin. Il signor Newman era un ometto tranquillo, alto la metà del padre di Stephen, e forse era la metà anche come peso. Lisciò l'intarsio con un dito. — Il nostro regalo non sarà certo all'altezza di questo. — Che discorsi! — esclamò la moglie. — Lyn sa già che le regaliamo un cardigan. Solo che dovrà aspettare fino a mercoledì. — Aveva portato con sé due quotidiani. Tutti avevano un giornale, tranne papi, che non leggeva mai niente. La signora Newman aveva il viso tondo, sano e colorito come quello di Joanne. — Strano — osservò. — In posti come questo, dove ci sono grandi spazi aperti, boschi, brughiera, parchi nazionali, capita spesso che venga ucciso qualcuno. C'è da stupirsi che finora qui non siano stati commessi altri delitti. — Perché usi il plurale, mamma? — domandò Joanne. — È stata uccisa soltanto una ragazza, che io sappia. — Finora. Una adesso, un'altra tra un paio di settimane, e si arriverà al punto che avremo paura a uscire di casa, almeno noi donne. L'assassino sarà uno di quegli psicotici... — Vuoi dire psicopatici. — Comunque si chiamino. Maniaci, si diceva una volta. — Che razza di chiacchierona, vero, Tom? — scherzò il signor Newman. Per tutta risposta, papi abbozzò un sorriso, restandosene seduto con le spalle curve. Benché fosse abituato alla gente, non era mai stato un tipo
socievole, e con il passare degli anni non era migliorato. Oggigiorno molti uomini sono alti quanto i loro padri o anche di più. Stephen era uno e ottantatré, eppure papi torreggiava su di lui. Riempiva completamente la poltrona, dove se ne stava seduto con le gambe ripiegate, simile a un ragno relegato in un angolo. Volle sapere come se l'era cavata Stephen con la polizia. — Sono il loro principale indiziato. È la verità, credimi. — Esagera — intervenne Lyn. — Mi piacerebbe sapere chi gliel'ha fatto fare di ficcarci il becco — osservò papi. — Dal momento che ho trovato il cadavere — replicò Stephen — non potevo fare a meno di avvertire la polizia. — Se fossi stato nei tuoi panni, avrei chiuso gli occhi e avrei proseguito per la mia strada. — Dio santo, parli proprio come loro! La gente stenta a credere che qualcuno possa amare la campagna. Eppure, è uno dei piaceri semplici della vita, e non dà fastidio a nessuno. Kevin ammiccò. — Io lo dico sempre, che Lyn ha una rivale pericolosa nella brughiera. Di nuovo papi abbozzò un sorriso. — Dopo quello che è successo, credo che d'ora in poi preferirai startene alla larga, Stephen — ipotizzò la signora Newman. — Non penso che ti vada a genio l'idea di trovarti a faccia a faccia con quel maniaco. Non mi piace affatto la tua sortita, Kevin. Meglio non scherzare su certe cose. Seduti sul divano, Joanne e Kevin si tenevano per mano. — Io la conoscevo quella ragazza, quella Marianne Price. Te l'ho detto, mamma? Dovevi conoscerla anche tu, Stephen. Lavorava come cassiera al Golden Chicken. — Adesso ha cambiato nome, Joanne. Si chiama Market Burger House. — Be', comunque si chiami... Lei va a mangiare lì, signor Whalby? — Chi, io? No, preferisco mangiare a casa mia. Stephen invece ci va. Lui è giovane. — Ecco, vedi, Stephen, come ti dicevo poco fa, devi averla conosciuta anche tu. L'avrai vista centinaia di volte. — Caspita, Joanne, come facevo a ricordarmela? Da viva, era sicuramente ben diversa da come l'ho vista io, con tutti i capelli tagliati. Joanne lanciò un urlo e istintivamente si portò le mani alla testa. Anche lei aveva i capelli biondi.
— E domani non sarà più lì alla cassa — disse la signora Newman. — Probabilmente per una forma di rispetto nei suoi confronti chiuderanno il locale. Mi ricordo, quando tu e tuo fratello eravate piccoli, Lyn, e Joanne non era ancora nata, che il vecchio signor Crane di Loomdale rimase ucciso in un incidente d'auto, e il negozio di materiale elettrico chiuse per due giorni. Tennero chiuso anche l'altro negozio di Byss. Invece, il giorno successivo il Market Burger House era aperto, come se nulla fosse accaduto. Stephen lo notò quando, dopo aver accompagnato Lyn a Mootwalk, parcheggiò l'automobile nella piazza del mercato. Quello era l'unico ristorante di Hilderbridge, forse anche delle Three Towns, che servisse la prima colazione. C'era infatti gente che mangiava, e qualcuno che si limitava a prendere il caffè. Alla cassa, al posto di Marianne Price, c'era una ragazza indiana con un sari blu. Stephen attraversò la piazza per andare in negozio. Papi viveva solo in una palazzina di tre piani di King Street, in un angusto appartamento riscaldato da una stufa a petrolio. La bottega era composta da un locale al pianterreno, più un altro soprastante. Sopra la porta a due battenti spiccava un'insegna di ferro verniciato di marrone, che recava a lettere d'oro la scritta: WHALBY & FIGLIO, RESTAURATORI DI MOBILI ANTICHI. La scritta era sbiadita e risultava illeggibile a chi si trovasse dall'altra parte della piazza, ma gli abitanti delle Three Towns sapevano chi erano i Whalby e non avevano bisogno del cartello. A memoria d'uomo, quella bottega era sempre stata occupata da un Whalby e figlio, e ai bei tempi papi si vantava di avere avuto per cliente Alfred Osborn Tace, e aggiungeva che i Whalby avevano avuto l'onore di rivestire i sedili delle sedie Hepplewhite di Chesney Hall. Dopo aver salutato il padre, Stephen salì di sopra per mettersi al lavoro. C'erano da rivestire i tre pezzi del salotto ritirato il venerdì precedente. Papi stava fumando. Teneva stretta tra le labbra sottili una di quelle piccole contorte sigarette che si confezionava da solo. Lo scheletro dei mobili era solido, decisamente migliore dello standard di oggigiorno. Stephen iniziò a strappare via il tessuto vecchio ormai lacero e a estrarre i punti metallici dal legno. Dal piano di sotto saliva il profumo del tabacco. Il padre fumava solo quand'era di buonumore, e in quelle occasioni faceva fuori quaranta o cinquanta sigarette al giorno, così finiva per beccarsi la tosse e aveva le dita tutte macchiate di tabacco. Papi sarebbe stato un uomo molto diverso, pensava Stephen, se la moglie non l'avesse praticamente distrutto. O forse era proprio perché era fatto in quel modo che la madre un giorno, mentre il
padre era al lavoro e lui a scuola, se n'era andata piantandoli in asso, dopo aver lasciato sul tavolo un messaggio e il resto dei soldi ricevuti per mandare avanti la casa per una settimana? All'epoca era troppo giovane per leggere il messaggio, ma ricordava ancora perfettamente la scena al suo ritorno da scuola. Sul tavolo, che gli arrivava appena alla spalla, all'altezza dei suoi occhi c'era il foglio di quaderno strappato, le tre banconote da una sterlina e la pila di monete. Papi non la nominava mai. Quando, parecchi anni addietro, Stephen aveva tentato di chiamarlo babbo o papà, perché ormai gli sembrava ridicolo continuare con quell'appellativo infantile, gli aveva gridato che lui era tutto ciò che gli restava al mondo, e non poteva quindi avere la cortesia di continuare a chiamarlo con l'unico nome che avesse un significato carino? A volte era capitato che all'improvviso l'abbracciasse con una tale forza da togliergli il fiato, accompagnando il gesto con parole smozzicate in cui esprimeva tutto il suo amore e la sua angoscia. Era soltanto così, in modo indiretto, che alludeva al suo stato di marito abbandonato, ora anche divorziato. Non c'erano foto della madre nella casa di King Street. Le poche che aveva visto, Stephen se l'era fatte mostrare dalla vecchia signora Naulls. Evidentemente la madre era stata battezzata con il nome della figlia di Lady Irene Nevil, protagonista del romanzo Wrenwood. Aveva preso da Tace il colore degli occhi, dei capelli e della carnagione. Era snella e aveva lunghi capelli biondo cenere. Ai Naulls non assomigliava affatto. Il vento si era placato e dal fiume salivano banchi di bianca foschia. Giunta al termine dell'acciottolato, Lyn imboccò il ponte di Old Town. Quel mattino l'acqua era limpida e argentea, mentre s'infrangeva con lievi gorgoglii contro le pietre marroni levigate dal tempo. Due cigni si lasciavano trasportare dalla corrente verso il centro del paese. Come sempre, Lyn era in anticipo rispetto all'ora in cui doveva iniziare il lavoro, perché papi esigeva che Stephen arrivasse in bottega alle nove. Avendo parecchio tempo a disposizione, s'incamminò lentamente verso Mootwalk, l'antico chiostro di fronte all'Hilder, lungo il quale si trovava una fila di negozi: un ottico, un parrucchiere da donna, una rivendita di vini e liquori, un negozio di jeans e maglioni, un giornalaio e un negozio di animali. Nella vetrina di Lorraine's vide un pullover verde chiaro che forse avrebbe potuto acquistare. Quella tinta verde giada le donava al viso. Alla vetrina del giornalaio era ancora appeso il cartello di un quotidiano della domenica. Diceva: "Giovane donna assassinata nella brughiera".
Per la strada passavano pochissime auto, e anche i pedoni erano pochi. C'era molto più traffico sul lato nord del fiume, dall'altra parte del paese, dove sorgeva lo stabilimento della Cartwright-Cageby's, che occupava il sessanta per cento delle forze lavorative di Hilderbridge. Da questa parte, la zona vecchia, c'era sempre molta più quiete, più silenzio. In lontananza s'intravedevano, offuscate dalla foschia, sullo sfondo di un cielo plumbeo, le cime delle colline che circondavano la brughiera. A una a una, a mano a mano che s'aprivano, cominciavano a illuminarsi le vetrine dei negozi di Mootwalk. Da quella del negozio di animali, un gatto fissava Lyn con occhi color champagne. Era chiuso in una gabbietta di ferro posta sopra una vaschetta di tartarughe, sotto un'altra gabbia che ospitava un gruppetto di conigli dagli orecchi pendenti. Sempre fissando Lyn, il gatto aprì la bocca in un muto miagolio. Lyn non nutriva molta simpatia per l'anziano proprietario del negozio. La guardava con interesse eccessivo, e una volta era uscito per chiederle se non le sarebbe piaciuto avere un cucciolo di cane, che la scaldasse quando andava a letto. Quel mattino non era in negozio. Lo sostituiva un tale all'incirca della sua età, intento a sistemare alcune scatole di mangime per i pesci in uno scaffale dietro il banco. Lyn spinse la porta ed entrò. — Stavo guardando il gatto che c'è in vetrina. Il giovane si avvicinò. — Bel colore, vero? — Veramente volevo un gattino rosso, e questo non lo è. — Questo è più sul color crema, vero? O bruno-rosato. E non si può nemmeno definirlo gattino, dal momento che è già quasi adulto. L'ha portato qui sabato una signora. Mi ha detto che partiva per l'Africa e mi ha chiesto se potevo tenerlo. Lyn si arrabbiò. — È inammissibile, che si possa lasciare il proprio gatto in un negozio, senza sapere in quali mani potrebbe capitare. Lei avrebbe fatto meglio a non prenderlo. — Oh, stia tranquilla, andrà a finire in buone mani, visto che sono io a decidere. Lyn lo guardò. Si era abituata a evitare di guardare gli uomini, cosa particolarmente facile in questo caso, trovandosi di fronte un tipo dall'aspetto insignificante, ossuto, non molto alto, con i capelli castani, non certo paragonabile alla bruna bellezza di Stephen. Ma che cosa le veniva in mente di paragonarlo al marito? — Lei è il nuovo proprietario? Che cos'è accaduto al signor Bale? — È all'ospedale, dove dev'essere operato d'ernia. Sono suo nipote, per
questo lo sostituisco in negozio. — Il gatto miagolò, stavolta facendo sentire la sua voce. Il giovane aprì la gabbietta e lo prese in braccio. — È un bel gatto sano, ed è già stato sterilizzato. Deve avere circa nove mesi. — Io volevo una femmina — disse Lyn. — Strano, c'è sempre qualcuno che vuole sbarazzarsi dei micini appena nati e poi, quando si decide di prenderne uno, in giro non se ne trovano. — Prenda questo, così lo salva da un destino peggiore della morte. Lyn prese in braccio il gatto. La bestiola era tesa, spaventata, e nel suo sguardo Lyn credette di leggere un misto di paura e di perplessità. Come soleva fare in ogni circostanza, la giovane donna prese immediatamente una decisione. — Lo prendo — disse. — Però non posso portarmelo via subito, sto andando al lavoro. Lavoro da Gillman's, l'ottico. Posso tornare all'una, quando smetto. Telefonò a Stephen. — Quanto vuole? — domandò il marito. — Sai una cosa: non gliel'ho chiesto. — Non importa, tesoro — disse Stephen. — Se vuoi prenderlo, fai pure. L'importante è che ti piaccia. Al termine della telefonata, tornò a lavorare alle sue poltrone. Papi non aveva fatto installare una derivazione al piano di sopra, preferendo chiamarlo a voce alta quando squillava il telefono. Faceva quasi sempre a modo suo in tutte le cose, aveva governato dispoticamente la vita di Stephen, gli aveva scelto Lyn per moglie, e in precedenza l'aveva tolto da una scuola per scaraventarlo in un'altra di suo gradimento, stroncando sul nascere ogni velleità del figlio in campo letterario. Stephen avrebbe preferito continuare gli studi, pur senza illudersi di potersi iscrivere a Oxford, a Cambridge o anche a Nottingham. Si sarebbe accontentato del College of Technology di Hilderbridge. Se si fosse messo contro il padre, con l'appoggio della scuola e dopo tante lotte combattute per ottenere che i tribunali potessero contrastare certe decisioni dei genitori, se insomma avesse lottato, sarebbe riuscito ad averla vinta. Ma Stephen non si era mai ribellato a papi. Aveva lasciato la scuola di buon grado, o quasi, contento di obbedire al padre, e in compenso aveva ricevuto in regalo prima una motocicletta di seconda mano, e l'anno successivo l'auto. Dopodiché si era messo di buona lena a imparare il mestiere dei Whalby, almeno in parte. Lui non sarebbe mai stato in grado di fare ciò che faceva papi, quegli stupendi lavori d'intaglio e quei delicatissimi intarsi, né di rendere il legno lucido come uno specchio. Tutte cose che il padre riusciva a ottenere con quelle sue manac-
ce che sembravano zampe di gorilla. La verità era che lui non ci metteva il cuore. Guidare il furgone e sostituire la tappezzeria delle poltrone era tutto ciò che sapeva fare. Aveva appena preso in mano la seconda poltrona, quando il padre lo chiamò di nuovo. — Che cosa c'è, papi? Ancora il telefono? — C'è qui una tizia del giornale. Vieni un po' a sentire che cosa vuole. Stephen si vergognò all'idea che quella donna, presumibilmente una giornalista del Three Towns Echo, l'avesse udito rivolgersi al padre con quell'appellativo ridicolo. Scese subito di sotto. Papi, intento a lucidare un mobile, descriveva con la mano, in cui stringeva il tampone imbevuto di lacca, una serie di figure a forma di otto sulla superficie già lucida di un tavolo di mogano. Voltava le spalle alla giornalista, una giovane donna in tuta di tessuto jeans e giacca di lana rosso vivo. In testa aveva un berretto calcato fin sulle orecchie. — Il signor Whalby? È lei il signor Stephen Whalby, che tiene la rubrica La voce di Vangmoor sul nostro giornale? Stephen aveva pensato di descrivere il ritrovamento del cadavere di Marianne Price nell'articolo di quella settimana. Doveva presentare l'articolo il giorno successivo, e quindi l'avrebbe scritto durante la notte. La giornalista però gli disse di non farne nulla. Il giornale preferiva invece pubblicare una sua intervista. Stephen ne fu deluso. Gli articoli che scriveva per il giornale gli offrivano l'unica possibilità che avesse di guadagnare qualcosa con un lavoro che fosse di suo gradimento, e stavolta sarebbe stato più piacevole del solito, poiché aveva l'opportunità di scrivere un pezzo di vero giornalismo, invece delle solite descrizioni naturalistiche. Purtroppo il pezzo non l'avrebbe scritto lui, ma quella giovane giornalista, che poteva avere al massimo ventidue o ventitré anni. Non gli avrebbe dato la minima soddisfazione descrivere la passeggiata, la macabra scoperta fatta, l'intervento della polizia in seguito alla sua segnalazione. La giovane donna prendeva appunti in scrittura rapida, non una vera e propria stenografia. — Non vedendola tornare a casa, venerdì sera — disse — i genitori hanno pensato che passasse la notte con il fidanzato, mentre il fidanzato pensava che fosse rimasta a casa con i genitori. — Non sono un po' troppo permissivi, quei genitori? — osservò Stephen. — Be', insomma, dopo tutto erano fidanzati. Dovevano sposarsi in giugno.
— Forse, se avessero aspettato a vivere insieme fino al giorno in cui si fossero sposati, adesso sarebbe ancora viva. — Mi sembra che lei sia un po' troppo severo, signor Whalby. Comunque, ormai è andata così. Anche se i genitori avessero denunciato la sua scomparsa venerdì sera, sarebbe morta ugualmente, non le pare? La giornalista cominciava a innervosirsi. Forse conduceva anche lei quel genere di vita, pensò Stephen. — Come si chiama il fidanzato? — s'informò. — Ian Stringer. Abita a Byss. — Avevo un compagno di scuola che si chiamava Ian Stringer. Chissà se si tratta della stessa persona? — Avrà all'incirca la sua età. — La giovane donna mise via il taccuino. — Vorremmo mandare un fotografo a scattarle qualche foto. Non ha niente in contrario? Verrebbe verso mezzogiorno. Stephen accettò, anche se l'arrivo di un altro estraneo non avrebbe certo migliorato l'umore del padre. Accompagnata la ragazza alla porta, chiuse con il catenaccio. — Sarà meglio che resti alla larga dalla brughiera, d'ora in poi — disse papi. — E che te ne vada a mangiare a casa tua. La ragazza che sostituiva Lyn nel pomeriggio entrò nello spogliatoio mentre la giovane donna stava infilandosi la giacca. — C'è un certo Nick Frazer che chiede di te. "La ragazza con i bei capelli", ha detto esattamente. — Rise. — Ti ha portato un gatto. Lyn arrossì per il complimento. Tirò fuori il foulard e stava per annodarlo intorno alla testa, ma poi pensò che fosse più saggio non accettare provocazioni, e si avvolse il foulard intorno al collo e ritornò nel negozio. Trovò Nick Frazer fermo vicino alla porta. Reggeva in mano una cesta, il cui coperchio era chiuso da listelli di vimini. — Ho pensato che le avrebbe fatto comodo la cesta, per portarsi a casa il gatto. Stupendi occhi color oro la fissavano attraverso una fessura del coperchio. — Molto gentile da parte sua — disse Lyn, alzando il coperchio. Il gatto non si mosse dalla cesta. Lyn accarezzò la pelliccia morbida e calda, e si accorse che la bestiola tremava. Proprio come me, pensò. Anche a lei capitava di tremare, qualche volta. — È spaventato — disse. — Vedrà che si troverà bene con lei. Mi restituirà la cesta, vero?
Dal modo in cui lo disse, sembrava che non gli interessasse tanto la cesta, quanto il fatto che lei gliela riportasse. Comunque, Lyn non poteva evitare di riportargliela. — Quanto le devo? — domandò. — Vorrei poterglielo regalare. Non ho dato nulla alla signora che me l'ha portato, ma devo dimostrare a zio Jim che qualcosa ho guadagnato. Mi dia due sterline. Lyn gliele diede, poi chiuse la cesta. — Abita lontano? — Non molto — rispose. Poi, bruscamente: — Arrivederci. L'autobus che da Hilderbridge andava a Jackley era per tre quarti vuoto. Lyn tirò fuori il gatto dalla cesta e lo tenne in braccio. "Ti chiamerò Peach", pensava. La bestiola aveva cessato di tremare, ma ancora non faceva le fusa. A Lyn venne fatto di pensare che stava tenendo il gatto come se fosse un bambino piccolo, e allora se lo mise in grembo. Arrivata alla fermata di St Michael-in-the-Moor, scese dall'autobus badando a non scuotere troppo la cesta. Mentre attraversava il parco, vide che intorno erano ferme diverse auto e furgoni della polizia. Appena oltre il cancello di Chesney Hall si trovava la palazzina dove aveva vissuto la nonna di Stephen. La polizia vi aveva installato temporaneamente il suo quartier generale. All'interno c'erano le luci accese, e si vedevano uomini in movimento. Sulla porta comparve un agente in divisa. Al cancello era affisso un grande cartello, su cui spiccava la foto di una ragazza non molto diversa da Lyn: stessa aria vulnerabile, stessa espressione dolce e malinconica, stessi capelli biondi lunghi fino alle spalle. Istintivamente Lyn si portò una mano alla testa. Quando si accorse del gesto che aveva fatto, arrossì di colpo all'idea che il poliziotto potesse averlo notato. Girò sui tacchi e, reggendo la cesta con la massima cura, s'incamminò in direzione di Tace Way. 3 Sono già comparsi i primi bombi, scrisse Stephen iniziando il quarto paragrafo, con un anticipo forse attribuibile all'inverno eccezionalmente mite appena giunto al termine. Pochi di questi insetti riusciranno a sfuggire ai becchi predatori dei pennuti di Vangmoor, occupati a sfamare i loro piccoli. Quest'anno ci auguriamo di vedere almeno aumentare il numero delle farfalle, in modo particolare di quel raro esemplare della famiglia Lycaenidae, cono-
sciuto comunemente con il nome di Blue Foinland. Aveva scritto abbastanza. La prossima settimana, concluse, parlerò delle passeggiate nella brughiera. Vi suggerirò un itinerario che ha come incantevole meta il sempre suggestivo Tower Foin. Il mattino seguente avrebbe fatto un salto alla redazione del giornale a consegnare l'articolo, prima di presentarsi all'inchiesta. L'espressione "sempre suggestivo" gli sembrava inadeguata. In realtà, intendeva dire che il complesso megalitico di Tower Foin aveva sempre esercitato una grande attrazione sui visitatori, affascinati dalla sua bellezza e maestosità. Non era facile esprimere il concetto in due parole. Tanto valeva lasciare le cose come stavano. Quando scriveva i suoi articoli sulla brughiera, non riusciva mai a trovare le parole adatte per far capire al lettore com'era realmente, e le sensazioni che gli procurava. La grandezza della brughiera, la sua selvaggia bellezza, la pace che vi regnava e il lento scorrere del tempo quando vi si era immersi, tutti concetti che non emergevano dalla sua prosa. Non sapeva spiegarsene la ragione, poiché scriveva con la massima concentrazione, e non aveva dubbi sul suo talento di scrittore. Sicuramente l'aveva ereditato da Tace, esattamente come alcune caratteristiche fisiche. Forse gli articoli non riuscivano bene perché non gli era congeniale quel modo di esprimersi semplice e colloquiale, da pettegolezzo di parrocchia. Sarebbe stato diverso se gli avessero consentito di raccontare la sua ultima esperienza nella brughiera, il ritrovamento del cadavere ai piedi dei Foinmen. Dopo aver fissato i fogli con un fermaglio, li infilò in una busta, poi rimise il coperchio alla macchina per scrivere, riordinò la pila di fogli extrastrong e ripose la carta carbone nella sua scatola. Rimise al suo posto sulla mensola il trattato sulle farfalle. Possedeva ormai più di trecento libri, tutti quanti su Vangmoor, la sua storia, la geologia, la geografia, la fauna; c'erano poi i vecchi testi di scuola e i romanzi d'avventura della sua infanzia. Questi ultimi, non sapeva neppure lui perché li custodisse, forse perché servivano a riempire la libreria. In bella vista c'erano i romanzi su Bleakland, come Quenild Manor, The Mountainside, Elizabeth Nevil, Wrenwood, Lady Irene, Last Loves. I volumi erano nell'edizione di lusso rilegata in pelle della International Collectors' Library, ma Stephen li aveva acquistati
anche nell'edizione economica uscita contemporaneamente alla serie televisiva. Il suo studio, che in origine doveva essere la stanza degli ospiti, aveva acquisito un'aria importante, dava l'impressione di appartenere a una persona dotta. A una parete era affissa una grande carta geografica di Vangmoor, a un'altra la stampa dell'unico dipinto di Constable che rappresentasse la brughiera, la chiesa di Loomlade con il Big Allen sullo sfondo. Il fermaporta e il fermacarte erano di pietra dei Foinmen levigata e lucidata. Il calendario era quello pubblicato per i lettori dal Moorland Views. In quel momento era aperto al mese di aprile, e per pura coincidenza la foto raffigurava i megaliti al tramonto. Su un tavolinetto rotondo che aveva lucidato papi c'era un busto di Tace. Sembrava di bronzo, se non lo si guardava troppo da vicino. In realtà era di cartapesta dipinta con grande cura. Stephen ricordava ancora la gioia che aveva provato quando, gironzolando per il mercato di Jackley, aveva visto quel busto su una bancarella. Era disposto a giurare, per quanto sciocco potesse sembrare, che era stato Tace con il suo sguardo ironico ad attirare la sua attenzione, e che le sue labbra si erano mosse per mormorargli le parole "Comprami!". Aveva pagato il busto soltanto una sterlina e mezzo, una miseria... Benché in casa ci fossero diversi oggetti di un certo pregio, fabbricati da papi con le sue stesse mani o da lui restaurati, in cuor suo Stephen apprezzava quel busto più di qualsiasi altra cosa. Quei nobili lineamenti, la fronte alta da intellettuale, il naso diritto, la bocca ben disegnata, erano così simili ai suoi, da fargli stentare a credere che gli altri non notassero la somiglianza. Chiusa la porta dello studio, percorse un tratto di corridoio ed entrò nella toilette. Lyn si era fatta il bagno ed era già andata a letto. Per terra, in una cesta accanto a lei, c'era il gatto che le aveva regalato per il suo compleanno. — Lo lascio dormire qui con noi finché non si sarà abituato. — Non m'importa, cara. Non mi dà nessun fastidio. — Stephen preferiva fare il bagno il mattino. Dopo essersi lavato le mani e la faccia, si pulì i denti usando l'apparecchio che aveva comperato con il denaro ricevuto da papi per Natale. Erano le undici passate e si sentiva stanco, ma non riusciva ad addormentarsi se prima non leggeva almeno qualche riga. In quel periodo stava rileggendo l'autobiografia di Tace, di cui l'autore aveva terminato solo il primo libro, essendo morto mentre descriveva gli eventi che si erano svolti nel corso del suo trentesimo anno di vita. Stephen lesse per un quarto d'ora e Lyn posò il suo libro, capovolto, per terra vicino al gatto.
Dopo aver infilato tra le pagine un segnalibro su cui era inciso il Tower Foin, Stephen spense la luce. — Buona notte, cara. — Buona notte, Stephen — rispose Lyn. — Sogni d'oro. Il patologo, un certo dottor Paul Fleisch, descrisse il modo in cui era morta Marianne Price usando termini astrusi come cricoide; in parole povere, significava che la giovane donna era stata strangolata. L'assassino l'aveva strozzata a mani nude. Stephen era stato chiamato per primo a dare la sua testimonianza. Non appena aveva iniziato a parlare, aveva smesso di sentirsi nervoso, e si era espresso con la massima calma. Al termine della sua testimonianza, era rimasto ad ascoltare con molto interesse ciò che avevano da dire gli altri. Aveva riconosciuto subito Ian Stringer, seduto vicino ai genitori della vittima. A scuola era stato un campione di rugby, ora era diventato un tipo grande e grosso. Dopo l'aggiornamento dell'inchiesta, fuori del tribunale, Stringer si era avvicinato a Stephen. — Non so se ti ricordi di me. Eravamo insieme alla Byss Comprehensive. Se non sbaglio, tu eri un anno avanti. Stephen annuì e strinse la mano tesa dell'ex compagno di scuola. — È solo che... be', volevo sapere... come ti è parsa quando... ho sentito dire che chi viene ucciso in quel modo, ha la faccia... — Dio mio, no, non era così. In realtà sembrava che dormisse. Stringer non credette alle sue parole, ma gli fu grato della sua gentilezza. S'incamminarono per High Street in direzione di Market Place, e qui giunti si separarono, Stephen per andare in negozio, Stringer per tornare alla Cartwright-Cageby's dove lavorava come caporeparto. Papi era fuori. Stava restaurando un soffitto antico al Jackley Manor, un vero capolavoro di rose intagliate nel legno. Stephen lavorò alle poltrone fino all'ora di pranzo. Dopo aver mangiato un panino imbottito alla Market Burger House, caricò sul furgone alcune piccole cose che doveva consegnare a domicilio e iniziò il suo giro. Prima di tutto doveva portare un parafuoco dell'inizio del diciannovesimo secolo a un cliente di Trinity Street. Vicino alla chiesa di Trinity, dove si erano sposati suo padre e sua madre, sorgeva la casa di riposo di Sunningdale. Stephen parcheggiò il furgone e consegnò il parafuoco al cliente. La direttrice della casa di riposo era una persona gentile, che non proibiva ai parenti di entrare a salutare i ricoverati, anche se non era orario di visita. Per il personale non rappresentava un grosso disturbo, dal
momento che erano in pochi ad approfittare di questa concessione. Helena Naulls era nel salottino, insieme con le altre dodici donne e i due uomini ricoverati. Anche nelle Three Towns, come altrove, gli uomini morivano e le donne sopravvivevano più a lungo. Il grande televisore a colori era acceso, ma soltanto un paio di persone seguiva il programma, destinato a un pubblico di bambini delle elementari. Una vecchietta lavorava a maglia, un vecchio era intento a leggere il Daily Mirror; tutti gli altri, compresa la signora Naulls, si limitavano a starsene seduti. Guardandola, Stephen dovette rammentare a se stesso, non essendo rimasta nella vecchietta la minima traccia dell'antica bellezza, che un tempo quella donna era stata l'amante di Alfred Osborn Tace. Florida da giovane, ormai era magra e avvizzita, con il viso scarno, lo sguardo sparuto, le labbra esangui. I capelli folti e candidi erano stati tagliati alla bell'e meglio dal parrucchiere dell'istituto. Quel giorno indossava un cardigan di lana grigia che non doveva essere il suo, infatti le andava decisamente stretto. Succedeva abbastanza spesso che per errore le ospiti della casa di riposo si scambiassero gli indumenti. Completavano l'abbigliamento una lunga gonna marrone, un paio di calze della stessa tinta raggrinzite intorno alle caviglie ancora esili e un paio di pantofole di feltro a scacchi blu. Da giovane, la signora Naulls era graziosa di viso e anche di corpo, e aveva un vitino da vespa. Lavorava come seconda cameriera a Chesney Hall, dove Arthur Naulls prestava servizio come aiuto-giardiniere. Avevano avuto diversi figli, e soltanto il primo non era di Arthur. La vecchietta era riuscita a farsi ricoverare a Sunningdale, perché suo figlio Stanley era consigliere comunale a Hilderbridge e aveva le conoscenze necessarie; altrimenti non avrebbe avuto nessuna speranza di vedere accettare la sua richiesta di ricovero, avendo una famiglia così numerosa, e considerato che chiunque dei familiari avrebbe potuto ospitarla. In realtà l'unica che si fosse dimostrata disposta ad accoglierla in casa era stata Lyn. Stephen però, quando la moglie gliel'aveva proposto, si era rifiutato di ospitarla, e ora sosteneva di non essersi preso in casa la nonna perché sarebbe stato ingiusto nei confronti di Lyn. Da ragazzo, si rivolgeva a lei chiamandola nonnina, ma quand'era diventato grande e aveva deciso di non chiamarla più con quel diminutivo, aveva avuto maggiore fortuna che con il padre. — Come stai, nonna? — domandò. Le aveva portato una scatola di caramelle alla gelatina di frutta, l'unica passione che le fosse rimasta. Helena Naulls prese la scatola con le mani malferme punteggiate di macchie marroni, e si soffermò a leggere la marca con espressione diffidente. — Come
vanno le cose? — Sempre allo stesso modo. — È venuto qualcuno a trovarti? La signora Naulls scosse la testa. — Non viene mai nessuno. — Strappò via il cellophane che avvolgeva la scatola. — Neanche un cane. — Oh, signora Naulls, non dica bugie! — esclamò la vecchietta seduta vicino a lei, quella che lavorava a maglia. — Suo figlio Leslie è stato qui ieri. — Non ho nessun figlio di nome Leslie, vero, Stanley? — domandò la signora Naulls, lasciando cadere per terra il cellophane. — Tuo figlio si chiama Leonard, e io sono Stephen. — L'infermiera la sgriderà — disse l'altra vecchietta. — Non si butta la roba per terra. La signora Naulls si ficcò in bocca una caramella rossa, poi una verde, guardandosi bene dall'offrirne. Masticava con espressione ebete ed estasiata insieme. Stephen non era mai riuscito a parlare con lei della sua relazione con il famoso romanziere. Aveva vent'anni passati, quando aveva saputo per la prima volta di quella storia, e all'epoca non aveva osato domandare particolari alla nonna. Ora che ne avrebbe avuto il coraggio, era troppo tardi. Comunque appena possibile cercava di portare il discorso su Tace. — Immagino che tu stia seguendo la serie televisiva Bleakland, vero nonna? — Come? — domandò la vecchietta, parlando con la bocca piena. — Alla televisione, il sabato sera. L'anziana signora che stava guardando la televisione si voltò verso di lui. — Io ne ho visto un episodio, quand'ero a casa di mia figlia — disse. — È stato bello. I costumi erano magnifici. — Non può continuare a vederli anche qui? — Ci mandano a letto presto — spiegò la tizia che lavorava a maglia. — Incominciamo a prepararci alle otto. — Peccato — insistette Stephen. — Sono sicuro che ti divertiresti a vederlo, nonna. — Come sta Rosemary, Keith? — s'informò la signora Naulls. — Se intendi Lyn, sta bene. E io sono Stephen. La guardò senza speranze. Ecco che cos'era diventata, un fagotto bianco che non riusciva neppure a ricordare i nomi dei parenti più stretti. Una volta Stephen aveva tentato di farsi dire qualcosa di più sulla sua relazione con Tace. Solo la nonna possedeva la chiave di un passato che lui voleva
assolutamente capire. Il carattere prepotente ereditato dal padre, come i capelli scuri e la statura, l'aveva portato a eccedere, tanto che l'aveva letteralmente aggredita. Ma era accaduto almeno quindici anni prima. Si alzò. — È ora che me ne vada. — Sei stato gentile a venirmi a trovare, caro — disse la signora Naulls come se a un tratto, quando ormai era troppo tardi, si fosse dissipato il velo di nebbia che le offuscava la mente e la parola. — Grazie delle caramelle. La vecchietta che lavorava a maglia gli fece un cenno di saluto. La nonna doveva essersi già addormentata prima ancora che lui uscisse dalla stanza, Stephen ne era certo. Aveva cominciato a piovere. Poco dopo pioveva così forte, pensò con rammarico, che si sarebbe visto costretto a rinunciare alla passeggiata serale nella brughiera. Si sentiva deluso e indignato come quando, da bambino, la pioggia o qualche altra calamità naturale gli impediva di fare un picnic. Era ormai la fine della settimana, quando Lyn si decise a restituire la cesta del gatto. C'erano dieci cartoncini di auguri sulla mensola del camino, ma siccome erano già lì da due giorni, ritenne opportuno toglierli. Due di quei cartoncini la facevano sentire vecchia, o meglio le davano l'impressione che gli anni passassero troppo in fretta. Il primo, quello di Joanne, diceva: "Complimenti, hai raggiunto un quarto di secolo!". Su quello di Stephen c'era scritto: "Alla mia cara moglie". Lyn si sentiva a disagio al pensiero di dover andare al negozio di animali. Nella sua mente Nick Frazer appariva come una versione ringiovanita dello zio, un giovane predatore al posto di uno vecchio. D'altra parte, se non fosse andata a restituirgli la cesta, probabilmente sarebbe venuto lui a riprendersela. Strano che non l'avesse già fatto. Seduto sul davanzale interno della finestra, Peach guardava le gocce d'acqua che scorrevano all'esterno del vetro e di tanto in tanto cercava di afferrarne una con la zampina, come se fossero insetti. Lyn lo accarezzò, dicendogli che sarebbe tornata all'ora di pranzo. All'una, quando arrivò Lyn, Nick Frazer stava chiudendo il negozio. La giovane donna lo trovò diverso da come se lo ricordava. Lui la guardò per qualche istante con aria assorta, stentando a riconoscerla, forse perché si era raccolta i capelli, legandoseli strettamente dietro la nuca, cosa che aveva fatto di proposito per assumere un'aria severa. Rimase sconcertata da quel viso serio e gradevole e dall'espressione franca dei suoi occhi scuri. Non pareva certo il tipo d'uomo capace di fare allusioni di cattivo gusto, o addirittura di farle la corte. Si limitò a prendere la cesta in silenzio, poi la
ringraziò e chiuse il negozio. Lyn fu così piacevolmente sorpresa dal suo sorriso cordiale, da amico di vecchia data, e dal suo sguardo aperto, che quando lui le disse che andava a mangiare qualcosa al Blue Lagoon e le domandò se volesse fargli compagnia, gli rispose di sì senza riflettere. S'incamminarono lungo il fiume. Aveva quasi smesso di piovere. Il Blue Lagoon era il vecchio Red Lion che aveva cambiato nome, chissà perché, e si trovava all'angolo tra Bankside e Trinity Street. Lyn si era già pentita di aver accettato l'invito. — Forse sarebbe meglio che tornassi a casa da Peach — osservò. Gli aveva già detto il nome del gatto. Nick Frazer sorrise. — Il bello di avere un gatto — disse — è proprio che si può lasciarlo solo in casa. Lyn si sedette a un tavolo, mentre lui andava a prendere la birra e il vassoio con il pranzo. Si tolse i guanti e si accorse di non avere la fede all'anulare. Se l'era sfilata dal dito quando si era lavata le mani, dopo la prima colazione, e doveva averla dimenticata sul lavabo. Era il genere di anello che bisognava togliersi per forza prima di lavarsi, una fascetta cesellata d'oro e platino che Stephen aveva fatto fare appositamente per lei, su consiglio di papi. A forza di toglierselo, le capitava abbastanza spesso di dimenticarsi di rimetterlo. Il fratello di Kevin, che si vantava d'intendersene di psicologia, sosteneva che non ci si poteva scordare una cosa del genere, e secondo lui questo significava che Lyn inconsciamente rifiutava la fede, quindi il vincolo del matrimonio. Nick riapparve con le birre e il cibo su un vassoio. — E Peach come va? — domandò. — Bene, mi pare. Adesso non trema più. — Lei invece sì. Era vero. A Lyn tremavano le mani, al punto che faceva fatica a reggere il bicchiere. Si sforzò di sorridere e nascose la mani in grembo. — È un fatto nervoso — si giustificò. Nick non fece commenti. Soltanto allora Lyn notò che lui l'osservava con interesse, e che l'aveva guardata in quel modo fin da quando si erano visti fuori del negozio. Era come se lei lo incuriosisse dal punto di vista umano. Ma quando iniziò a parlare, invece di portare il discorso su di lei, parlò di Peach. Le spiegò che cosa bisognava dargli da mangiare e disse che, pur essendo già stato vaccinato, occorreva fargli un'iniezione di richiamo quando avesse compiuto un anno e praticargli un'altra vaccinazione contro la parvovirosi.
— Come fa a sapere tutte queste cose, considerato che ha iniziato a lavorare nel negozio solo una settimana fa? — Il fatto è che sono un veterinario — le rispose con il suo sorriso accattivante. — Davvero? — Dai tempi dell'infanzia, avendo avuto una madre che lavorava come donna delle pulizie a Chesney Hall, e un padre che si guadagnava il pane alla Cartwright-Cageby's come semplice operaio, a Lyn era rimasto un complesso d'inferiorità, che la portava a provare una forma di rispetto misto a soggezione nei confronti dei professionisti. Ma il buonsenso l'indusse a fare la giusta considerazione. — Perché non fa il veterinario, allora? — Mi sono appena laureato — rispose, aggiungendo a mo' di giustificazione: — Ci vuole un mucchio di tempo. Ho un lavoro che mi aspetta a Londra, ma potrò iniziarlo solo ad agosto, quando andrà in pensione il veterinario di cui devo prendere il posto. Ecco perché ho accettato di fermarmi a Hilderbridge a dare una mano a zio Jim. — Abita sopra il negozio? — Probabilmente mio zio avrebbe preferito che mi sistemassi nel retrobottega, ma puzza un po' troppo di scimmie e di pappagalli, e così ho preferito trasferirmi nel suo appartamento. È carino, dovrebbe venire a vederlo. Era un invito che, se fosse stato fatto tre giorni prima, avrebbe giudicato impertinente, mentre ora le suonava come una semplice cortesia. Comunque preferì non rispondere. Temeva che lui le facesse qualche domanda personale, e per evitare che accadesse, lo prevenne invitandolo a parlarle della sua professione e delle sue speranze per il futuro. Nick rispose alla domanda. Stavano mangiando pane e formaggio. Ora a Lyn non tremavano più le mani. — Ma di me ho parlato abbastanza — disse Nick. — Adesso parliamo di lei. "Ho venticinque anni, mi sono sposata in chiesa e sto con mio marito da quattro anni, perciò dev'essere vero che sono sposata, non ho figli e non ne avrò mai, ma sto aspettando, aspettando non so neppure io cosa..." Era ciò che avrebbe dovuto rispondere. — Non c'è niente da dire — replicò. Non le sembrava il caso di raccontargli i fatti suoi. Fra due o tre settimane sarebbe tornato il signor Bale, e lei non avrebbe mai più rivisto Nick Frazer. — Adesso devo proprio andare. Mentre erano al ristorante, seduti in un angolo lontano dalla finestra, si
era messo a piovere forte, uno di quegli acquazzoni che inzuppano fino alle ossa in due minuti. Nick la fermò sulla porta, un attimo prima che uscisse. — Mi aspetta un momento? Torno subito. Tornò qualche istante dopo, con un ombrello a cui stava togliendo la fodera di plastica. — L'ha comperato apposta? — Dovevo pur avere un ombrello, per accompagnarla a casa. — Ma io abito a Chesney — disse Lyn. — Ci vado in autobus. — Per accompagnarla alla fermata dell'autobus, allora. Era una cosa che non aveva previsto, e Lyn fu presa in contropiede. Sotto l'ombrello erano costretti a camminare molto vicini, e dopo un po' lui le prese una mano e se la passò sotto il braccio. Era lo stesso gesto che aveva fatto Joseph Usher in The Mountainside, e Isabella Thornhill gli aveva mollato un ceffone, prima di correre via sotto la pioggia. Lyn si fece paonazza. Rimase aggrappata al braccio di Nick, con l'impressione che la vicinanza del suo corpo le trasmettesse un po' di calore. Lui parlava di Hilderbridge. Era la prima volta che veniva da quelle parti. Un giorno o l'altro gli sarebbe piaciuto fare un giro nella brughiera. Quest'affermazione le offriva uno spunto per rivelargli qualcosa di sé. "Mio marito, che è nipote di Alfred Osborn Tace, è considerato un'autorità per quanto riguarda Vangmoor." Non disse nulla di tutto ciò. In ogni caso, non le sarebbe stato facile parlare in quel momento. Trovava già abbastanza difficile riuscire a respirare normalmente, senza ricominciare a tremare, con le loro braccia allacciate e i loro corpi così vicini. La salvò l'arrivo dell'autobus. Stava scendendo giù per la discesa proprio nel momento in cui sbucavano in River Street. Per un'ora non ne sarebbero arrivati altri. — Il prossimo arriverà tra un'ora! — esclamò. — Sarebbe una cosa così terribile? — Oh sì, certo. Grazie per il pranzo, grazie mille. Arrivederci. Nick rimase fermo sul marciapiede, con un sorrisetto perplesso, facendo ruotare l'ombrello sotto la pioggia. Lyn aveva le guance in fiamme. Voltò le spalle al finestrino. L'autobus ripartì sotto la pioggia in direzione della brughiera. Era trascorsa una settimana, e solo il sabato successivo Stephen riuscì a tornare nella brughiera. Non c'era in giro anima viva, benché non fosse un giorno lavorativo e dopo tanti giorni di pioggia brillasse il sole. Due setti-
mane prima, quando faceva più freddo, aveva visto qualche gruppetto di escursionisti, un pescatore che veniva dall'Hilder, alcuni ciclisti sulla strada per Loomdale, un gruppo di campeggiatori con tende e coperte sulle spalle. Quel mattino Vangmoor era deserta. Impossibile non giungere alla conclusione che la gente stava alla larga a causa del delitto commesso nella brughiera. All'inizio questo pensiero non gli piacque. Significava che in quegli ultimi giorni la brughiera non era stata vista come un posto di rara bellezza, ma come il luogo dov'era stata assassinata una giovane donna. Poi, mentre attraversava la strada per Loomdale ed entrava nella Valle di Allen, le sue sensazioni subirono una trasformazione. La brughiera sembrava più sua, quand'era deserta, quasi potessero avverarsi le sue fantasie di ragazzo, e lui fosse il padrone di quella terra selvaggia. Il Big Allen, la cima più alta, spesso velata dalla foschia o appena visibile come una massa bluastra, quel mattino mostrava ogni crepaccio, ogni balza che ne segnava i versanti, ogni cespuglio di mirtilli piegato dal vento, ogni cespo d'erica. L'aria era limpida come può esserlo solo dopo un lungo periodo di pioggia. Il sentiero che zigzagava su per la collina appariva nitido fin dove giungeva lo sguardo, fiancheggiato dalle macchie violacee e verde argenteo dell'erica. Ora, negli avvallamenti del terreno oltre il sentiero, era visibile ciò che restava delle vecchie miniere. A Vangmoor non si estraeva più il piombo da un centinaio d'anni, ma le baracche dei macchinari e quelle delle turbine idrauliche, un tempo considerate orribili e ora cadute in rovina, avevano un loro fascino. Stephen iniziò l'arrampicata su per le pendici del Big Allen, poi si fermò a guardare verso ovest. In quel punto i megaliti erano nascosti alla visuale dalla massa di Ringer's Foin, con la sua cima rocciosa a forma di campana. Per vederli, bisognava salire ancora una sessantina di metri. L'Hilder però era perfettamente visibile, simile a un grosso filo di lamé, interrotto in un punto da alcuni sassi sistemati in modo da consentire il passaggio, in un altro punto da massicci pilastri di pietra, che in passato avevano sorretto un acquedotto costruito per rifornire d'acqua le baracche della miniera di Goughdale. L'acqua del fiume era agitata e scintillante, particolarmente lucente nei punti in cui rimbalzava sulle pietre, sollevando alti spruzzi. Sullo sfondo si vedeva Hilderbridge immersa nel sole, con i suoi tetti spioventi trasformati in superfici piane color argento, i campanili simili a spilli luccicanti, come case e campanili in miniatura lasciati cadere in mezzo ai prati e alla brughiera dal mastro argentiere che li aveva creati.
Sotto di lui, nel versante occidentale della collina, dov'erano rimaste le baracche di Goughdale, c'era un intrico di caverne, passaggi sotterranei e gallerie. Le ultime miniere erano state chiuse all'incirca all'epoca della nascita di Tace, e le entrate dei pozzi erano state chiuse o bloccate dalle frane. Stephen scese e tornò verso Loomdale. Un'ora dopo era di ritorno a Chesney, senza aver visto anima viva, a parte due bombi e una cornacchia. La casetta di Chesney Hall, provvisoriamente requisita dalla polizia, sembrava deserta. David Southworth, l'attuale proprietario, nipote della vedova di Tace, aveva fatto ristrutturare la casetta per ospitarvi la madre della moglie, ma da quando era morta l'anziana signora non vi abitava nessuno. Stephen si avvicinò alla finestra e guardò dentro. Non aveva più rimesso piede là da quando Helena Naulls aveva cambiato alloggio, alla morte del marito. La vecchia carta da parati, nasturzi nel soggiorno, mazzolini di fiori, righe e nodi d'amore in anticamera, era sparita e i muri erano stati tinteggiati di bianco. Sembrava non esistessero più angoli bui, né vecchie credenze, né mensole dove un ragazzino potesse frugare, alla ricerca di qualcosa che gli ricordasse la madre perduta. A una scrivania era seduto un tale intento a scrivere a macchina, un altro era in piedi davanti a uno schedario. Entrambi gli voltavano le spalle. Stephen si ritrasse subito, prima che potessero accorgersi della sua presenza, vedendo l'ombra proiettata dalla sua testa. S'incamminò verso casa, nella quiete del paese che a quell'ora appariva deserto. 4 Si era rotta la cinghia del ventilatore, e perciò Lyn si era presentata in ritardo al lavoro. Stephen aveva tentato di sistemarla alla meglio, ma inutilmente, e così aveva dovuto arrivare fino a Hilderbridge guidando a passo d'uomo, per evitare di surriscaldare il motore. Il signor Gillman si era visto costretto a badare da solo ai clienti. — È venuto a cercarti il giovanotto che lavora da Bale's — le comunicò. — Per l'esattezza ha chiesto della signorina Whalby, ma gli ho chiarito subito le idee. Lyn si tolse la giacca e andò a sedersi alla scrivania, dove aveva la macchina per scrivere e l'agenda degli appuntamenti. Entrarono due signore. Dopo averle pregate di attendere, portò qualche rivista da sfogliare. Si sentiva contrariata, anche se non ne avrebbe avuto motivo; infatti aveva già deciso che la prossima volta che l'avesse rivisto, avrebbe rivelato a Nick che era sposata, o almeno avrebbe fatto in modo che notasse la fede, che
quel giorno aveva avuto cura di mettersi al dito. Era convinta che Nick ci fosse rimasto male, quando il signor Gillman gli aveva detto che era sposata. Probabilmente se n'era andato senza una parola, si era rifugiato nel negozio di animali e vi era rimasto a rimuginare sulla delusione provata e sull'inganno di cui era stato vittima. Ma perché poi avrebbe dovuto reagire in quel modo? Forse non era andata affatto così. Non poteva certo domandarlo al signor Gillman, ma non era da escludere che Nick fosse scoppiato in una risata, quando aveva scoperto la verità. "Non sapevo che fosse sposata", poteva aver detto. Oppure: "Ah, è sposata? La mia solita fortuna". A pensarci bene, non era da escludere che si fosse sentito sollevato. Forse si era pentito di essersi sbilanciato troppo il venerdì precedente, quando si era precipitato a comperare l'ombrello e poi l'aveva presa a braccetto. Forse temeva che lei potesse fraintendere le sue premure, dandogli un peso eccessivo. Meglio convincersi che la verità era questa, e non pensarci più. — Il signor Gillman è pronto a riceverla — annunciò alla più anziana delle due clienti, accompagnandola alla porta dello studio. Non era pensabile che Nick si fosse sentito sollevato, quando aveva saputo che lei era sposata. Se era passato da Gillman, probabilmente l'aveva fatto per invitarla a uscire con lui. L'idea le balenò alla mente all'improvviso, e a un tratto si sentì felice. All'ora di pranzo, avrebbe potuto fare un salto al negozio di animali, chiedergli scusa e sistemare la faccenda. Ma aveva appena formulato l'idea, che subito la scartò. Era assurdo che lei dovesse chiedere scusa a un uomo per il fatto di essere sposata. Ma anche ammesso che facesse una cosa simile, poi che cosa sarebbe accaduto? Era sposata, e non poteva farci niente. Stephen esisteva e non poteva farlo sparire, non aveva la bacchetta magica. Del resto, a quale scopo? Semplicemente per andare al cinema con Nick Frazer? Non era vero che era sposata e che non poteva farci niente. In realtà avrebbe potuto liberarsi del marito in qualsiasi momento, in quei quattro anni di matrimonio. Sarebbe bastata una semplice parola, oltre alla prova che il matrimonio non era stato consumato. Ci aveva pensato diverse volte, ma in ogni occasione le era apparso il viso di Stephen, chiaro come se l'avesse avuto davvero davanti, il più vulnerabile che le fosse mai capitato di vedere, il volto di un bambino infelice e coraggioso. Il 30 aprile, il cielo rimase nuvoloso per quasi tutta la giornata, ma nel pomeriggio inoltrato, verso le cinque, spuntò il sole. Verso le sei e mezzo Stephen s'incamminò su per il sentiero che aveva percorso tre settimane prima, quando aveva accompagnato la polizia. Mai, da quand'era bambino,
era mancato all'annuale appuntamento con i dolmen in occasione della festa di Beltane. In realtà non c'era molto da vedere. Il 29 aprile e il 1° maggio, all'ora del tramonto, i raggi del sole non erano in posizione molto diversa da come apparivano la sera del 30, ma c'era un'antica tradizione legata a quel giorno particolare, che Stephen amava rispettare. I raggi, proprio mentre il disco rosso del sole calava dietro Ringer's Foin, erano puntati sul centro esatto dell'Altare. In tempi remoti, forse migliaia di anni addietro, qualcuno aveva inciso un carattere runico al centro della grande lastra di pietra denominata Altare, e i lievi segni rimasti indicavano che quella lettera dell'alfabeto aveva avuto la stessa forma dell'ombra proiettata dai dolmen. In occasione della festa di Beltane, gli antichi avevano sicuramente celebrato importanti cerimonie. A Stephen piaceva starsene a guardare i megaliti, immaginando di vedere i sacerdoti druidi aggirarsi tra i colossi di pietra per celebrare i sacri riti, e aspettare in silenzio che il sole compisse il suo viaggio. Non gli capitava spesso di assistere al fenomeno da solo. Di solito c'era altra gente. Una volta aveva persino incontrato una comitiva di turisti, che disturbavano la quiete di quei luoghi con le loro grida e lo loro risatine stupide, mentre arrancavano faticosamente su per la salita, dopo essere scesi dal pullman. Ma quando, in occasione di Beltane, il tempo era incerto, poteva essere sicuro di non trovare gente in giro. Benché quella fosse una serata eccezionale, con un tramonto splendido, non c'era anima viva. In quegli ultimi giorni la gente aveva cominciato a tornare nella brughiera, ma fortunatamente quella sera nessuno si era spinto fin lassù. Faceva meno freddo, rispetto all'ultima volta che era venuto, e anche in confronto all'anno precedente. Non c'era un alito di vento. I dolmen proiettavano le loro lunghe ombre, la cui forma ricordava quella di un'arpa, e si allungavano quasi impercettibilmente a mano a mano che il sole si abbassava. Grosse nuvole minacciose si erano raccolte dietro il Big Allen, ma a occidente il cielo era chiaro come l'interno di una conchiglia, di un tenero celeste pallido striato di rosa. Uno stormo di uccelli di ritorno dai paesi caldi passò alto nel cielo sopra Ringer's Foin. Parallelamente all'orizzonte si estendevano lunghi cirri, tra i quali faceva capolino il sole, creando una zona di un rosso acceso dai contorni ben definiti. Mancavano cinque minuti alle otto. Stephen non si sentiva affatto turbato al pensiero di aver rinvenuto il ca-
davere di Marianne Price proprio in quel punto. Era in pace con se stesso, come sempre gli accadeva quando si trovava nella brughiera, soprattutto al Big Allen. Sereno, senza preoccupazioni, all'unisono con la natura e con il passato. Come se niente di ciò che poteva accadere in quei luoghi potesse scalfire la sua tranquillità. I raggi del sole battevano sulla roccia, intensificando il giallo dei licheni, mentre il nudo granito assumeva una colorazione sempre più tendente al rosa. Stephen consultò l'orologio, e quando alzò la testa vide che il fascio di luce rossa stava per lambire il punto centrale dell'Altare, dov'era inciso il carattere runico. Per un attimo, come magicamente, esso risplendette in quella luce scarlatta. Le ombre dei megaliti avevano raggiunto la loro massima lunghezza, mentre il sole, sospeso là sopra, sembrava riposarsi prima del tuffo finale. Poi il disco rosato iniziò la discesa, scomparendo lentamente dietro la linea dell'orizzonte. A Chesney le campane di St Michaelin-the-Moor batterono le ore, sei, sette, otto rintocchi, e sull'ultima nota la luce cominciò a impallidire, le ombre dei dolmen sparirono e l'Altare divenne di nuovo una piatta lastra di pietra. L'appuntamento per il prossimo magico incontro del sole con il simbolo inciso nella pietra era tra un anno. Sparito il sole, si era levato il vento, che con il suo soffio leggero increspava la terra e piegava l'erica verso il suolo. Stephen iniziò la discesa e attraversò la strada di Hilderbridge poco più a sud di Chesney. La strada, che tagliava Vangmoor in due, a nord del paese incrociava quella che portava a Loomdale, e la zona risultava perciò suddivisa in quattro parti. Quella di sud-est era, a giudizio di Stephen, la meno suggestiva; ma non ci metteva piede da diverse settimane, e preferiva tenere sott'occhio tutta la zona. Era una landa desolata interrotta da tratti paludosi, dove sorgeva un'unica altura, il Knamber Foin che, visto da lontano, sembrava un cumulo di detriti. Più avanti, oltre la collina, il terreno diventava fertile e avevano inizio i campi coltivati, delimitati da muretti a secco. Stephen andò prima a Knamber Hole, dov'era stata trovata la bicicletta di Marianne Price. Non era rimasta traccia né della ricerca né del ritrovamento, almeno per quanto poteva vedere. Ormai stava scendendo la notte. Il paesaggio aveva perduto le sue tinte, per trasformarsi in una distesa grigia, su cui si ergevano le sagome nere dei cespugli e dei rari alberi striminziti. Il cielo, di un grigio più chiaro, era limpido nelle zone non invase dalle nuvole. Veramente non era esatto definirlo grigio. In realtà era un colore che non aveva nome, lucente come se il cielo fosse rischiarato dalla luna e dalle stelle che stavano dietro, in attesa di spuntare. Ma la luna fece capo-
lino da un'altra parte, attraverso una massa di nubi che incombeva sul limitare della brughiera, un disco rossastro che pareva il fantasma del sole. Era più grande rispetto al disco solare, e solcava veloce il cielo, facendosi sempre più luminoso e cambiando gradatamente di colore, finché illuminò il paesaggio sottostante di una luce gialla. Stephen fu contento di veder apparire la luna, essendosi lasciato alle spalle la strada e la cava e avendo ormai raggiunto la zona rocciosa ai piedi della collina. A questo punto decise di tornare indietro. Non sarebbe arrivato a casa prima delle undici, neanche facendo la scorciatoia, e di solito non rincasava mai così tardi. Lyn si sarebbe preoccupata. A nord-ovest, nell'angolo retto formato dall'intersezione delle due strade, si estendeva una pianura disseminata di alberi denominata Banks of Knamber. Vi crescevano migliaia di faggi, piccoli e fragili, poco più alti di un uomo. C'erano anche rovi e naturalmente gli immancabili mirtilli. Stephen impiegò circa mezz'ora ad arrivarvi, e da lì proseguì in direzione di Chesney. Alla luce della luna, che sembrava rendere il paesaggio fosforescente, più che illuminarlo, lo scenario rassomigliava a un pallido cielo disseminato di nubi nere. Di tanto in tanto la luna impallidiva ulteriormente, quando vi passavano davanti le nuvole. A un certo momento sparì del tutto, e benché il cielo fosse ancora abbastanza luminoso, la terra divenne molto scura, e in quella zona priva di sentieri divenne un problema proseguire nella giusta direzione. Fu quando tornò un filo di luce, che Stephen vide l'uomo. Era abbastanza distante da lui, non molto lontano dalla strada, e se ne stava perfettamente immobile, come se stesse guardando qualcosa o aspettando qualcuno. Non c'era motivo per cui quell'uomo non dovesse trovarsi fuori nella brughiera, in una bella serata di primavera, se non fosse stato che Stephen era abituato a non incontrare nessuno. L'uomo rimase fermo tra i piccoli faggi, esattamente nel punto in cui Stephen aveva intenzione di passare. Proseguì tranquillo per la sua strada. Benché dell'uomo non si distinguesse altro che la sagoma, Stephen era sicuro che stesse guardandolo, che seguisse sfacciatamente il suo procedere in quel paesaggio chiaro che ricordava la tundra. L'uomo non aveva con sé una torcia elettrica, o anche ammesso che l'avesse, non era accesa. Ciò significava che doveva conoscere bene la zona, forse bene quanto lui. Stephen provò un senso di risentimento. Pur non vedendolo in faccia, sentiva di avere davanti a sé un rivale, uno che vantava dei diritti sulla brughiera esattamente come lui. Stephen non aveva la minima idea di ciò che sarebbe accaduto, quando
lui e quell'individuo si sarebbero incontrati. Si trovavano già a meno di cento metri di distanza. Non aveva paura, benché fosse evidente che l'uomo stava aspettandolo, fermo al suo posto. Per sfidarlo, per dimostrargli che non aveva paura, si mise a correre verso di lui. L'altro continuò ad aspettarlo, come se a sua volta volesse sfidare Stephen, e quando finalmente si decise a muoversi, lo fece all'improvviso, con un balzo che ricordava un passo di danza. Stephen ebbe l'impressione di vederlo proseguire saltellando tra gli alberi. La luna si oscurò. Al buio, Stephen inciampò in una radice sporgente e cadde lungo disteso. Non si fece male, ma quando si rialzò, tremava di paura. Che fine aveva fatto lo sconosciuto: se n'era andato, oppure era rimasto in agguato dietro a un albero? Non ne aveva idea. Al momento, la visuale era di pochi metri. Stephen sapeva approssimativamente dove si trovava, almeno in teoria, e proseguì lentamente verso ovest, a volte soffermandosi e restando appoggiato per qualche istante al tronco di un faggio. A un certo momento gli parve di sentire qualcosa muoversi alla sua sinistra, un rumore di passi attutiti dall'erba. Rimase perfettamente immobile, tendendo le orecchie, ma non sentì più nulla. Poi, dopo un lasso di tempo che gli parve infinito, intuì di essere arrivato in prossimità della strada, e nello stesso momento percepì, o credette di percepire, un debole suono che pareva un sospiro. Era mezzanotte quando fu di ritorno in Tace Way. Lyn era a letto, ma non dormiva ancora. Scese a salutarlo, gli preparò una bevanda calda e gli tastò la fronte bruciante, madida di sudore. Era accaduto altre volte in passato che Stephen tornasse a casa in quelle condizioni, dopo essere rimasto fino a tardi nella brughiera. Il giorno successivo aveva la febbre e l'emicrania. Lyn lo lasciò a letto e prese l'auto per andare in ufficio, dopo avergli promesso che sarebbe rincasata presto per preparargli da mangiare. Tanta gentilezza, pensava, era dettata dal bisogno di sentirsi a posto con la coscienza, dal momento che il ricordo di Nick Frazer era diventato un'ossessione. Benché non l'avesse rivisto, il giovane era costantemente nei suoi pensieri. Immaginava di parlare con lui, di raccontargli la sua vita, le cose di tutti i giorni e i particolari più intimi. Invano rammentava a se stessa che era un estraneo, uno che probabilmente si era già dimenticato della sua esistenza. Ogni volta che fantasticava su di lui arrivava sempre alla stessa conclusione, l'assaliva la paura che se ne andasse da Hilderbridge senza sa-
lutarla, e che non l'avrebbe rivisto mai più. Al termine della mattinata lavorativa pensò, come ogni giorno, d'incamminarsi per Mootwalk e di spingersi fino a Bale's, così si sarebbe messa tranquilla una volta per tutte. Ma nemmeno stavolta si decise a farlo. Salì in macchina e andò a casa. Temeva che Nick la trattasse con freddezza, addirittura che fingesse di essersi dimenticato di lei. Stephen era seduto nel letto, con diversi libri su Vangmoor sparsi intorno. Lyn stese un tovagliolo su un vassoio e, seguendo l'impulso del momento, colse un piccolo giaggiolo, lo sistemò in un vaso e lo mise sul vassoio. Stephen aveva gli occhi lucidi e le guance in fiamme, ma sembrava migliorato rispetto alla sera prima. Mangiò tutto con molto appetito. — Senti, Lyn, ti ho mai raccontato di quando sono entrato in una delle vecchie miniere, da ragazzo? Scosse la testa. Parlare di Vangmoor l'annoiava. A volte lo trovava deprimente, e se ne andava senza ascoltare il resto del racconto. Dalla finestra della loro camera da letto, fortunatamente per Stephen, si vedeva la brughiera meglio che da qualsiasi altra casa di Tace Way. Le tende erano aperte al massimo, e guardando fuori non si scorgeva altro che il paesaggio verde-bruno e l'azzurro pallido del cielo. Lyn fece uno sforzo su se stessa. — Non è pericoloso? — domandò — I ragazzi non hanno paura. Avevamo sentito dire che si poteva entrare nella miniera di Goughdale, passando da un punto preciso del Big Allen. Infatti lo si trova scritto anche in uno dei romanzi di Bleakland, ma all'epoca non li avevo letti. Avevo dodici anni, quando mi sono messo alla ricerca del passaggio, con mio cugino Peter. — Peter Naulls? Stephen annuì. — Il figlio di zio Leonard. Abbiamo cominciato a cercare il punto d'accesso durante le vacanze estive. Procedevamo con metodo. Ogni giorno controllavamo una determinata zona, e alla fine la contrassegnavamo con dei bastoni. Abbiamo impiegato diverse settimane a trovare quello che cercavamo. — Fece una pausa. Quando aveva iniziato a parlare, aveva intenzione di raccontare a Lyn tutta la storia, ma ora che era arrivato al punto in cui avrebbe dovuto svelare dov'era l'accesso della miniera e ciò che era accaduto, si sentiva in imbarazzo. A papi aveva raccontato l'episodio, senza però fargli una descrizione esatta del luogo. Alla nonna non aveva detto niente, ed era sicuro che Peter non ne aveva parlato né con zio Leonard né con zia Midge. Che senso aveva svelare il segreto ora? — Abbiamo trovato il punto preciso, ma poi nella miniera non ci siamo entrati
— mentì. — Avevamo troppa paura. — Ah, certo — commentò Lyn. — Comunque ce l'abbiamo fatta, grazie alla nostra intraprendenza. Siamo stati bravi, vero? Anche papi la pensava in questo modo. Prima ci ha detto che abbiamo sprecato un mucchio di tempo inutilmente, poi ci ha regalato cinque sterline. — Tipico di papi — disse Lyn, sistemandogli il cuscino e portando via il vassoio. Inutile domandargli se dovesse chiudere le tende. Tra poco sarebbe sceso di sotto, le avrebbe assicurato che si sentiva bene e sarebbe andato a fare un'altra passeggiata nella brughiera. Lyn pensò di scrivere a Nick per spiegargli come stavano le cose. Spiegargli che cosa? Anche se avesse scritto la lettera, sapeva che non avrebbe avuto il coraggio d'imbucarla. — Vedi che ti sbagliavi, mamma, quando dicevi che dopo un paio di settimane ci sarebbe stato un altro omicidio — disse Joanne una domenica pomeriggio. — Di settimane ne sono già passate sei. — Che discorsi! — esclamò Kevin. — Meno male che non è accaduto, dovresti dire. — Be', certo. È naturale. Volevo semplicemente dire che di delitti non ce ne sono più stati. — È ancora presto per cantare vittoria — osservò la signora Newman. — Può darsi che l'assassino non sia ancora riuscito a mettere le mani su qualcun altro. Joanne lanciò un urlo. Era diventata grossa, e il bambino robusto. Le donne di casa avevano riso, mentre gli uomini, soprattutto papi, si erano sentiti imbarazzati, sentendole raccontare che muovendosi, o almeno così lei sosteneva, il bambino le aveva fatto cadere un piatto dal grembo. Stephen disse di avere visto una donna da sola nella brughiera, quel mattino. — Certe persone avrebbero bisogno di farsi dare una controllatina al cervello — osservò il signor Newman. — Spero solo che voi due ragazze abbiate il buonsenso di non mettervi piede. Papi, che giorno dopo giorno scivolava sempre più verso il suo periodo nero, diede il suo contributo alla conversazione. — Giusto, statevene a casa vostra. Joanne si alzò faticosamente in piedi. La pancia traballò, le caviglie erano terribilmente gonfie. — Io ci vado tutti ì giorni, su per le colline. Come una capra di montagna. Vero, Kevin? Scoppiarono tutti a ridere, compreso il signor Newman, che però lo fece
con un certo imbarazzo. Joanne andò a prendere altri biscotti, per non restare con la voglia. Stephen non era affatto loquace. La prima cosa che gli era venuta in mente, quel mattino appena sveglio, era stata che quel giorno, 25 maggio, era il compleanno di sua madre, e da quel momento non aveva pensato ad altro, come sempre in quella data. In qualche posto, dall'altra parte del globo, sua madre festeggiava il compleanno. Lei, con suo marito, Barnabas e Barbara. — Non mi hai detto niente sul conto del vecchio Bale, Lyn — disse la signora Newman. — Non sapevo che gli era venuto un attacco cardiaco, in seguito all'anestesia. Me l'ha detto la madre di Kevin. — Come facevo a dirtelo, se non lo sapevo neppure io? — Be', credevo che lo sapessi, visto che lavori a poca distanza dal suo negozio. Comunque, non è il caso di arrossire in quel modo. Non è poi così grave, che tu non me l'abbia detto. — Intendi dire che è morto? — domandò Lyn. — Ma no, non è morto. Però la madre di Kevin ha detto che il suo nome è ancora nella lista delle prognosi riservate. La conversazione, a cui non presero parte né Stephen né papi, si spostò sul vero significato dell'espressione "lista delle prognosi riservate". Questa lista esisteva realmente negli ospedali, oppure era solo un modo di dire? Stephen si chiedeva se anche papi sapesse che giorno era. Probabilmente sì, dato che non dimenticava mai nulla, grazie alla sua memoria di ferro. D'altra parte era impossibile intuire che cosa gli passasse per la mente, dietro quella fronte perennemente accigliata di chi ha sofferto e non ama la vita. Era stato nel corso di una riunione di famiglia, seppure molto diversa da quella che si svolgeva in quel momento in Tace Way, che Stephen aveva scoperto la verità riguardo alle sue origini. 5 Arthur e Helena Naulls avevano festeggiato le nozze d'oro nel mese di novembre, all'incirca all'epoca del ventunesimo compleanno di Stephen. Prima di allora, Stephen aveva sempre ignorato la data di quella ricorrenza. Del resto, chi poteva conoscerla, se non un esperto in alberi genealogici? Però aveva sempre saputo la data del compleanno della madre, e una volta alle scuole elementari l'insegnante gli aveva fatto preparare un biglietto d'auguri. Ricordava perfettamente il disegno, con una casa, un albero e un
sole con i raggi a stella. Tre settimane più tardi, la madre se n'era andata via con un camionista. Il suo compleanno cadeva il 25 maggio, e i suoi genitori si erano sposati in novembre, non necessariamente il novembre precedente. Il matrimonio era durato cinquant'anni, ma la madre ne aveva quarantanove o solo quarantotto? Non c'era nessuno a cui potesse domandarlo. A papi no di certo. Alla fine, si era deciso ad andare alla Chiesa della Holy Trinity per consultare i registri. Così aveva scoperto che anche i suoi genitori si erano sposati nel mese di maggio, precisamente il 27. Sui certificati di matrimonio non figurano le date di nascita, ma solo l'età, e così aveva appreso che all'epoca la madre aveva venticinque anni. Dunque, era nata nel 1926, e aveva ventisette anni quando lui era nato. Stephen era quasi certo che così non fosse. In realtà, doveva avere ventotto anni quando era nato, e trentaquattro quando se n'era andata di casa. Forse c'era stato un errore di trascrizione, poiché il compleanno e il giorno del matrimonio cadevano entrambi in maggio. Si era sempre soffermato a leggere con grande interesse le date segnate dietro le foto. Stranamente, anche lì figurava spesso il mese di maggio. Aveva tentato di farsi dire dalle zie l'esatta differenza d'età fra i genitori e tra la madre e zio Stanley. Le loro risposte erano state invariabilmente vaghe, cioè un paio d'anni, e tre o quattro anni. La verità era emersa all'improvviso, nel momento in cui non stava neppure cercandola. Quando aveva cercato il suo certificato di nascita per sposarsi, aveva trovato anche quello della madre, in un cassetto della casa di King Street. Effettivamente la data di nascita della madre, come risultava in chiesa, era sbagliata. Brenda era nata nel maggio del 1925, dunque era stata concepita nell'agosto precedente, quando Helena lavorava ancora come seconda cameriera a Chesney Hall. La rivelazione seguente era arrivata poco tempo dopo, attraverso una foto di Tace pubblicata in occasione di una recensione sul giornale. Gli era capitata sott'occhio poche settimane dopo il suo matrimonio, in un momento in cui Stephen si sentiva insicuro di sé e della vita stessa. La scoperta l'aveva rinfrancato. Guardando la foto di Tace, gli sembrava di vedere la propria immagine allo specchio. Non poteva essere altrimenti. In cuor suo aveva sempre sentito di non essere un discendente dei Naulls. La parentela con i Whalby era accettabile, dal momento che era una famiglia di onesti artigiani, stimati per la loro abilità. Ma l'idea di essere un Naulls, fatto della stessa pasta di zio Stanley,
capace solo di blaterare sciocchezze al Consiglio municipale, o dell'insulso zio Leonard, era intollerabile. Ma per fortuna non era così. Sua madre non era figlia di Arthur Naulls, ma era invece il frutto della passione esplosa un'estate tra una graziosa cameriera e uno dei maggiori romanzieri del ventesimo secolo. Tace aveva già moglie, perciò non aveva potuto sposare Helena. Ma non l'aveva abbandonata. Aveva invece predisposto il suo matrimonio con uno dei giardinieri, aveva fornito un alloggio alla coppia e aveva dato alla figlia il nome di una delle sue eroine più appassionate, Brenda Nevil di Wrenwood. Stephen non aveva mai pensato molto al sesso. Da ragazzo, quando gli era capitato di pensarci, come accade agli adolescenti, il suo corpo si era mantenuto distaccato dalla mente. In compenso aveva immaginato la madre, così fragile e bionda, mentre faceva l'amore prima con il padre e poi con il camionista. Dunque, non era l'aspetto sessuale della relazione di Helena che gli interessava, ma il lato sentimentale. Immaginava Helena, in una sera d'estate, recarsi all'appuntamento nel luogo convenuto, forse al Banks of Knamber, o, come Lady Irene e Alastair Thornhill, in una strada fuori mano come Reeve's Way, nella Valle di Allen, e Tace che l'aspettava nella luce dorata del crepuscolo. I figli dell'amore, aveva letto da qualche parte, sono più belli, più affascinanti e più favoriti dal destino rispetto a quelli nati nel matrimonio. Sua madre ne era stata e ne era forse tuttora la prova vivente. Aveva compensato la sua perdita come meglio aveva potuto, prima con un amico immaginario che aveva chiamato Jack, poi con la brughiera stessa; ma nel mese di maggio non poteva evitare di pensare a lei con tanta nostalgia. Dopo qualche settimana dal suo arrivo a Chesney, Peach iniziò le sue sortite. I suoi posti preferiti erano il tavolo di noce e il mobiletto di mogano che stavano sotto la finestra del pianerottolo. Vi restava sdraiato per ore, a guardare le cime e i pianori della brughiera. Era diventato grosso e robusto, e si comportava sempre da gatto adulto, come se la sua triste esperienza precedente l'avesse privato prematuramente della giovinezza. Però, quando era in braccio a Lyn, la sera, non disdegnava di esprimere la sua contentezza facendo le fusa. La prima escursione fuori casa lo portò non oltre il giardino. La volta successiva si allontanò. Due ore dopo, non vedendolo tornare, Lyn aveva pensato che avesse trovato la strada per tornare al negozio di Bale, e immaginò di dover andare a ri-
prenderselo. Così grazie al gatto avrebbe avuto la possibilità di rivedere Nick, proprio come accadeva nelle favole. Ma Peach non andò né al negozio di Bale, né nella sua precedente casa di Hilderbridge. Tornò verso sera, portando con sé un topo di campagna. La madre di Lyn era venuta a dirle che avevano trattenuto Joanne all'ospedale, avendole trovato la pressione alta con minaccia di eclampsia. Si era sottoposta a una visita di controllo al St Ebba's, dove avevano ritenuto opportuno ricoverarla. Quando la signora Newman vide il topo, benché fosse già morto, si rifugiò su una sedia della cucina e lanciò un urlo. Peach recuperò il dono che aveva depositato ai piedi di Lyn, e si sedette con il topo in bocca, emettendo fievoli brontolii di contrarietà. Stephen scrisse per il La voce di Vangmoor: Chi sostiene che la brughiera è povera di animali selvatici, dovrebbe venire a vedere le prede del mio gatto: topi di campagna, un toporagno e persino un topo d'acqua. Licenza poetica, si disse, dopo avere avuto un attimo d'esitazione sull'opportunità di citare il topo d'acqua. Anche la flora selvatica cresce in abbondanza. Durante la primavera, oltre alle infiorescenze rosate dei mirtilli e all'uva ursina, si possono ammirare alcune varietà di orchidea. La settimana scorsa, io stesso ho avuto la fortuna di vedere un bell'esemplare di Listera cordata e un altro di candida Ophirys, due varietà piuttosto rare dalle nostre parti, di questi tempi. I lettori del grande romanziere di Vangmoor, Alfred Osborn Tace (o i telespettatori, com'è più appropriato dire oggigiorno), ricorderanno la scena di Wrenwood in cui Brenda Nevil va alla ricerca di questa particolare varietà d'orchidea per comporre il suo bouquet nuziale. L'orchidea l'aveva vista davvero. Alcuni fiori erano sbocciati in un tratto di terreno umido tra il Big Allen e Mottle Foin, a poca distanza dal corso dell'Hilder. Stephen li aveva visti per caso, dopo essersi lasciato alle spalle il sentiero ed essersi inoltrato verso la zona paludosa. Il cielo era come lui lo preferiva, e come gli sembrava più adatto a sovrastare il paesaggio, cosparso di nuvole ammassate a forma di colonne, torri e bastioni, tanto che in alcuni punti le nubi sembravano tutt'altro che prive di consistenza, addirittura composte di materiale solido. Sulla superficie della brughiera spiccavano i boccioli dei fiori e le pianticelle più alte, e l'aria profumava di primavera. Le orchidee, fresche e intatte sullo sfondo
di un sasso, crescevano su un cuscino di muschio verde brillante, e le corolle bianco-crema emanavano un profumo delizioso. Stephen quasi non credeva ai suoi occhi. Tace, descrivendo l'orchidea nel suo romanzo, aveva anche precisato dove si poteva trovarla, e a distanza di pochi anni era stato estirpato ogni tubero e ogni pianta di quella varietà. Il punto dove l'aveva vista Stephen, non lontano dall'Hilder, si trovava parecchio a ovest rispetto a quello citato nel romanzo. Perciò Stephen aveva deciso di essere più saggio del nonno, e pur rivelando ai lettori la sua scoperta, aveva evitato di precisare la località. Non lo disse neppure a Lyn. La giovane donna amava i fiori e li piantava in giardino, ma Stephen aveva l'impressione che la brughiera la lasciasse indifferente. Quando lei l'invitò ad accompagnarla all'ospedale a trovare Joanne, rifiutò con il pretesto di voler terminare l'articolo. Così Lyn andò con Kevin. — Fai bene a non volere figli — disse Joanne, girando faticosamente la pancia enorme sotto le coperte. — Se dovessi cambiare idea, pensa a me. Sai, non è da escludere che mi trattengano in ospedale fino al momento del parto. — Non credo proprio — replicò Lyn. — Sono sempre a corto di letti. — Tua sorella può ringraziare se stessa — intervenne Kevin. — Per tutto questo tempo non ha fatto altro che ingozzarsi di cibo. Una volta tanto, Joanne non lo contraddisse. Trasse un sospiro. — Mi hanno detto che è tutto liquido. Il bambino non è poi tanto grosso. Sono diventata una specie di materassino gonfiabile. Se mi pungono con uno spillo, mi sgonfio. Peccato che non si possa fare. Lyn li lasciò soli. Il St Ebba's, ospedale famoso per il reparto maternità, sorgeva in fondo a North River Street, a poca distanza dall'Hilderbridge General; non avendo trovato posto al parcheggio, Lyn si era vista costretta a lasciare l'auto nei pressi dell'edificio che era stato un tempo l'ospizio per i poveri delle Three Towns. Erano quasi le otto di sera, c'era ancora luce, ma faceva piuttosto freddo, come accade spesso fino all'inizio di giugno. Gli alberi avevano riacquistato il loro fogliame, e in lontananza i raggi dorati del sole, che stava per calare dietro l'orizzonte della brughiera, creavano delicati giochi di luce tra la vegetazione. Lyn imboccò uno dei vialetti ghiaiosi che attraversavano il giardino del General Hospital. Aveva il sole di fronte e si fece schermo con la mano. Quel giorno si era lasciata i capelli sciolti. Indossava un abito di cotone a
righe bianche e blu e il cardigan che le aveva regalato la madre. Possedeva diverse paia di occhiali da sole, elargiti da Gillman che non era riuscito a venderli, ma quel giorno non ne aveva portato neanche un paio. Mentre camminava, vide un tizio magro, non molto alto, vestito in jeans e maglietta di cotone, che veniva verso di lei, diretto all'uscita principale di North River Street; ma il sole l'accecava e non lo riconobbe. Lui la vide e si fermò di colpo. Lyn socchiuse gli occhi, li riaprì. Quando vide che si trattava di Nick Frazer, le accadde una cosa curiosa. Si comportò come non avrebbe mai pensato di fare, senza riflettere. Agì d'impulso, come le suggerì l'istinto dopo settimane trascorse a interrogarsi e a pensare a lui con rimpianto. Gli corse tra le braccia. Lui la strinse a sé. Rimasero così abbracciati nel giardino dell'ospedale, come amanti felicemente ritrovati dopo una lunga lontananza. — Ho pensato a te ogni giorno, per tutto questo tempo — disse Nick. — Oh, lo so, lo so. — Non avevo dubbi sul motivo per cui non sei tornata, ed ero certo che anche tu sapessi perché non sono più venuto a cercarti. Ma era inevitabile che c'incontrassimo ancora. Ho persino sperato che il gatto riuscisse a tornare al negozio, per avere il pretesto di telefonarti. — Io avevo fantasticato sulla possibilità che tornasse alla casa della sua proprietaria precedente, e così ci saremmo incontrati per cercarlo. — Davvero? Ci avevo pensato anch'io. Siamo stati due pazzi, Lyn. Oh Lyn, Lyn, è la prima volta che ti chiamo per nome. Ma non immagini quante volte ho pronunciato il tuo nome, in tutto questo tempo. — Sono andata a trovare mia sorella — disse Lyn, sforzandosi di parlare con calma, benché si sentisse scombussolata e le tremassero le mani. — Adesso c'è con lei mio cognato, ma l'orario delle visite termina alle otto, e devo riaccompagnarlo a casa. È venuto con me in macchina. — Lasciagli l'auto e resta con me — disse Nick. — Non posso. — Erano sotto un cedro. Nick la prese ancora tra le braccia e la baciò, ma non appena ebbe aperto la bocca, lei si ritrasse. Al suo corpo stava accadendo qualcosa che la spaventava. — Adesso devo riaccompagnare Kevin a casa — disse, senza più riuscire a controllare la voce. — Magari possiamo vederci domani. — Andiamo a mangiare al Blue Lagoon? Lyn annuì. — Non vorrei lasciarti andare via. Sapessi come sono felice! Non è un sogno, vero? Non è che mi sono addormentato accanto al letto di zio Jim, e
ora sto sognando? Ma no, è impossibile, io non sogno mai. Domani il negozio chiude presto. Abbiamo tutto il pomeriggio per noi. Lyn gli sorrise, poi s'incamminò da sola verso il parcheggio. Kevin l'aspettava vicino all'auto, appoggiato al tettuccio, l'aria annoiata e una sigaretta in bocca. — Come ti è sembrata? — le domandò. Lyn non capì la domanda. Il cognato le sembrava uno sconosciuto. — Come hai detto? — domandò a sua volta. — Joanne. Ti ho chiesto come ti è sembrata. — A me sembra che stia bene, ma non sono un medico, come faccio a saperlo? Kevin salì in macchina faticosamente. Aveva le gambe troppo lunghe, mani e piedi enormi. Per la prima volta, Lyn si rese conto di non sentirsi a suo agio con gli uomini troppo alti, di averne persino un po' paura. Nick e lei erano proporzionati, quanto a statura. Appartenevano alla stessa razza. — Ti dispiace se passiamo a prendere Trev? Il fratello gemello di Kevin lavorava in una fabbrica di North Hilderbridge, e faceva ore e ore di straordinari. Aspettava in Jackley Road, davanti a un pub che si chiamava The Ostrich. Era identico a Kevin in tutto e per tutto, solo che lui si era fatto crescere i baffi. — Dove si è cacciato il vecchio Stephen, Lyn? — Dove vuoi che sia? — replicò Kevin. — Io l'ho sempre detto a Lyn, che suo marito ha la brughiera per amante. — Già, dà l'impressione di dover sfuggire a qualcosa. Possibile che non riesca proprio ad accettare la realtà? — La brughiera per lui è qualcosa di molto reale — tagliò corto Lyn, che non aveva voglia di discutere di Stephen. — O soffre di claustrofobia, o al contrario di agorafobia, che tenta di vincere andandosene sempre in giro. — Senti, non hai mai pensato di riprendere gli studi, visto che hai il pallino della psicologia? — domandò Lyn. Trevor prese la domanda sul serio. Disse che sarebbe stato perfettamente inutile mettersi a studiare una materia in cui era sufficiente la capacità d'intuizione, e aggiunse che guadagnava un bel po' di quattrini, facendo gli straordinari alla Batsby Ball Bearings. Lyn smise di ascoltarlo. Pensò a Nick, poi a Stephen. In fondo, che differenza faceva per il marito, se lei aveva una relazione con un altro uomo? Non lo privava di nulla, non gli toglieva niente che a lui interessasse possedere.
A Goughdale c'era un gregge al pascolo. Erano pecore dal vello scuro e dalle lunghe corna, della razza denominata Big Allen Black. Le tracce rimaste dell'antica miniera, come i vecchi argani e le pietre di confine, si ergevano nere nella pianura, sullo sfondo del sole che tramontava. Chissà se a distanza di diciassette anni sarebbe riuscito a trovare l'imboccatura del pozzo che portava giù alla miniera di Goughdale? Ricordava approssimativamente il posto: sul versante nord del Big Allen, ai piedi della collina, leggermente spostato sulla destra. In un punto dove gli spuntoni di roccia calcarea formavano una sorta di corona alla base dell'altura. La bocca del pozzo era stata denominata da Tace "Apsley Sough", benché la parola "sough" dalle loro parti stesse a indicare un fosso o un canale. Il romanziere l'aveva collocata a mezzo chilometro di distanza da dove si trovava realmente, segno che non l'aveva mai vista. Non poteva trattarsi né di un fosso né di un canale, dal momento che non vi era ragione di far calare dell'acqua nella miniera. Joseph Usher, l'eroe di Tace, si era nascosto nelle viscere della miniera, ma poi la fame e la sete l'avevano spinto a uscirne. Dopo che si era arreso alla polizia, era stato sottoposto a processo e giustiziato. Stephen proseguì attraverso la piccola valle in direzione della collina, lungo un sentiero che portava a ovest, dove si trovava la baracca del motore. Cominciava a fare piuttosto freddo, ora che se n'era andato il sole. Le pecore alzarono la testa e lo guardarono passare senza emettere un belato. Quel giorno d'agosto, quando aveva dodici anni, c'era bel tempo e faceva caldo. Peter Naulls e lui, mentre andavano in giro alla ricerca dell'imboccatura del pozzo, si erano abbronzati come se fossero reduci da una di quelle vacanze che non avevano mai fatto, sulle spiagge assolate della Spagna o dell'Italia. Alla fine Peter aveva letteralmente inciampato nell'imboccatura. Mentre correva durante un loro gioco, poiché non avevano trascorso tutte le vacanze cercando l'entrata della miniera, gli si era impigliato un piede in una radice ed era caduto. Era caduto lungo disteso sull'erba ancora tenera che copriva la brughiera, ma sotto di lui, proprio sotto i suoi occhi, seminascosta da uno spuntone di roccia a forma di fungo che sporgeva appena sopra la sua testa, aveva visto l'apertura che per un mese avevano cercato invano. Era balzato in piedi, alzando le braccia al cielo. — Eureka! — aveva gridato, avendo da poco studiato a scuola il principio d'Archimede.
Dov'era Peter ora? Gli zii e le zie probabilmente lo sapevano, ma Stephen non aveva più sentito parlare di lui, da quando a diciott'anni il cugino era partito per Londra per studiare all'università. Il fatto che Peter, che considerava inferiore a lui per intelligenza, avesse la possibilità di continuare gli studi, era stato un brutto colpo per Stephen. E il commento di papi, che eccezionalmente si degnava di riconoscere l'esistenza dei Naulls, non era valso a mitigare il suo risentimento. — Anche quando si sarà preso uno straccio di laurea, non riuscirà ugualmente a mandare avanti il negozio dei suoi. — In realtà, Peter non aveva mai avuto l'intenzione di continuare l'attività dei genitori, che gestivano un negozio di confezioni per uomo. Comunque, anche nella loro ricerca era stato Peter ad avere successo. Seppure per un caso fortuito, era stato lui a scoprire Apsley Sough. Era stato lui a gridare: — L'ho trovata! Il giorno successivo erano tornati sul posto, muniti di corde e di un manuale d'alpinisnio che avevano trovato alla biblioteca, dal quale speravano di apprendere la tecnica dei nodi. Papi avrebbe rinchiuso Stephen da qualche parte, se avesse immaginato quello che stavano combinando. Zio Leonard e zia Midge invece, com'era nel loro carattere, si sarebbero fatti venire una crisi di nervi. L'entrata della miniera non era verticale. In questo caso, forse non avrebbero avuto il coraggio di spingersi molto avanti. Era stata scavata a un'angolazione di circa trenta gradi, cosicché per tutto il tragitto fino alle viscere della miniera avevano avuto dove appoggiare i piedi, riuscendo praticamente a camminare fino alla meta, benché una simile descrizione dovesse essere considerata fortemente riduttiva rispetto a quella che era stata la grande avventura della loro infanzia. Dopo una lunga discesa, il budello si era leggermente allargato, e alla luce delle torce elettriche avevano potuto vedere l'interno della miniera. Si trovavano ora in una sorta di caverna, il cui soffitto era alto meno di due metri e mezzo. L'aria che vi si respirava sembrava abbastanza fresca. Però faceva freddo, soprattutto in confronto alla temperatura esterna, e c'era puzza di umidità e anche un lieve odore di metallo. Dopo aver acceso le candele che avevano portato con sé, avevano proseguito lungo un corridoio che partiva dal locale principale, guardandosi intorno in silenzio. A quanto ricordava, non avevano aperto bocca, mentre si trovavano all'interno della miniera. Si limitavano a osservare l'alto soffitto a volta sopra le loro teste e i tunnel che di tanto in tanto si biforcavano dal passaggio centrale. A un certo momento si erano trovati in un'ampia galleria, la cui via d'u-
scita era stata bloccata da una caduta di massi. A questo punto le fiammelle delle loro candele si erano spente. Non avevano notato nessuna differenza nell'aria che respiravano, eppure le candele si erano spente. Neanche in quel momento avevano aperto bocca. Erano rimasti perfettamente immobili nell'oscurità, finché Peter aveva acceso la sua torcia; poi erano tornati indietro, e si erano sentiti più tranquilli quando erano riusciti di nuovo ad accendere un fiammifero. Stephen era uscito per primo, sgambettando su per l'imboccatura della miniera, con tutto il peso del corpo sostenuto solo dalla corda. Si chiedeva che cosa sarebbe accaduto, e se sarebbero stati ritrovati vivi, nel caso in cui la corda si fosse sfilata dallo spuntone di roccia al quale l'avevano fissata. Non era spaventato, avendo il coraggio tipico dei ragazzi di quell'età, che si sentono immortali. Uscito alla luce del sole, era rimasto di sasso. Davanti a lui c'era un altro ragazzo. Fissava l'imboccatura del pozzo e la corda che penzolava nell'apertura. In simili circostanze, se fossero stati adulti, si sarebbero rivolti la parola. Ma i ragazzi no. Stephen non conosceva quel suo coetaneo, non sapeva che cosa ci facesse al Big Allen e non gli parlò. E il ragazzo sconosciuto, da parte sua, non rivolse la parola né a lui né a Peter. Rimase fermo a poca distanza da loro, dando calci ai sassi, poi s'incamminò senza fretta. Stephen ricordava ancora il caldo soffocante che aveva sentito in quel momento. Il cielo era di un azzurro accecante, l'aria tremula sulla superficie giallastra del terreno. Ora, al tramonto, l'aria era immobile e il cielo tendente al grigio. Stephen camminava sotto la cresta rocciosa, sforzandosi di ricordare il punto esatto dov'era caduto Peter. A un certo momento s'inginocchiò e si mise a frugare tra le piante d'erica, tanto era certo di aver trovato il punto giusto. Purtroppo si era sbagliato. Si era fatto troppo buio per continuare la ricerca, e faceva freddo. Tremava, quando riprese la strada di casa. 6 Avevano intenzione di andare a mangiare fuori, o almeno così pensava Nick. La invitò a salire con lui nel suo appartamento solo per prendere la giacca; dopodiché sarebbero usciti a mangiare, avrebbero parlato e poi si sarebbero fermati in qualche posto vicino al fiume. Era la prima giornata estiva davvero calda. Lyn precedette Nick su per le scale che portavano all'appartamento di suo zio. Erano locali grandi, arredati senza eccessivo buongusto, ma le finestre ad arco sembravano piene di cielo.
Non appena fu entrata, si voltò verso Nick. Magro com'era, sembrava un ragazzo, molto più giovane di quanto non fosse in realtà. La pettinatura ricordava quella dei monaci senza la tonsura. Aveva la carnagione scura e gli occhi color nocciola. Era rimasto con una mano sulla porta. Le tese l'altra. Lyn guardò le sue mani, belle e affusolate, e i polsi su cui spiccava una peluria chiara, e d'istinto alzò il viso verso di lui. Nick la baciò, accarezzandole i capelli e stringendola dapprima teneramente, poi più forte, e stavolta, quando aprì la bocca, Lyn non si ritrasse. Il cuore le batteva forte e le tremavano le mani, ma nel suo abbraccio, stretta al suo corpo, sentì pian piano svanire la paura, e fu assalita da una strana sensazione di debolezza. Quando Nick le mise le mani sui seni, emise un gemito. Il sole che si specchiava nel fiume proiettava riflessi danzanti sul soffitto e sul muro. Gli stessi giochi di luce disegnavano figure simili a merletti sul corpo di Lyn che si spogliava e su quello snello di Nick che l'aspettava. La giovane donna avvertiva una curiosa sensazione di languore, come se si fosse appena svegliata dal sonno. Nick le accarezzò dolcemente la pelle vellutata, le coprì la bocca con la sua, la penetrò. Non senza farle provare dolore. Lyn voltò la testa dall'altra parte, trattenendosi a stento dal gridare. Il suo corpo era teso come una corda di violino. Quando riaprì gli occhi e lo guardò, lesse sbigottimento nel suo sguardo. Nick rimase immobile dentro di lei e Lyn, per amor suo, fece ciò che aveva letto in qualche romanzo, alzò le gambe, inarcò la schiena, lo tenne stretto e lo baciò sulla bocca, e finalmente l'esperienza cominciò a piacerle. Almeno per quanto era possibile, essendo quella la prima volta. Gli sorrise e lo baciò, quando sentì il suo corpo in preda agli spasmi. Ora i riflessi del sole sembravano far tremare tutta quanta la stanza. Dalla strada provenne una risata di donna, dal fiume un cigno emise il suo grido aspro. — È la prima volta, vero? — domandò Nick, tenendola abbracciata. — Sì. — Non capisco. — Non ho mai capito nemmeno io — replicò — ma è così. I medici servono a qualcosa solo a patto che l'interessato voglia farsi curare. — Si sentiva vicina alle lacrime. Si sedette e si passò le braccia intorno alle ginocchia. I capelli le si raccolsero intorno come un mantello. Nick non disse altro. Se in quel momento avesse detto la frase sbagliata, pensò Lyn, la loro storia sarebbe finita lì. Era abituata a sentir pronunciare le frasi sbagliate, con una madre e una sorella che strillavano sempre, e Stephen che non ne
azzeccava mai una. Se Nick si fosse lasciato sfuggire una battuta sulla verginità, o sulla fortuna che gli era capitata, o sull'impotenza, oppure avesse detto che fare all'amore gli aveva messo appetito, lei si sarebbe rivestita e sarebbe corsa via, e tutto sarebbe finito. Si voltò a guardarlo, disperata, le guance rigate di lacrime. Nick parve non notarlo. Teneva gli occhi leggermente socchiusi e sorrideva. — Dormiamo un po' — propose, abbracciandola con dolcezza. Non le disse di amarla. — Credo che noi due finiremo per amarci, Lyn — mormorò invece. Dalle tasche sformate della giacca, quella che indossava la domenica, poiché era l'unico abito che avesse, papi trasse un anello d'argento con una pietra di quarzo giallo per Lyn e un coltello dal manico di madreperla per Stephen. Se loro due avevano dimenticato che il giorno successivo ricorreva il sesto anniversario del loro fidanzamento, papi con la sua memoria prodigiosa non l'aveva scordato. — Sono stato io a farvi conoscere — disse, mentre lo ringraziavano dei regali. — Se non fosse stato per me, forse non vi sareste nemmeno guardati due volte. Era vero. Praticamente era stato lui a decidere che si sposassero, pensava Lyn. Dopo che aveva lasciato la scuola, il suo primo impiego l'aveva trovato da Whalby's. Oltre a lavorare come impiegata, doveva ricevere i clienti, rispondere al telefono, preparare il tè. Il posto gliel'aveva trovato zio Bob, che poteva essere considerato un amico di papi, ammesso che quest'ultimo avesse amicizie. Lei era la prima e l'ultima ragazza che avesse assunto, e perciò Lyn pensava che fosse stato solo un pretesto per farle conoscere il figlio. Entrambi giovani e ingenui, si erano rivelati estremamente malleabili nelle sue mani esperte. Dopo avere esaminato il dono precedente, il tavolino di legno di castagno, alla ricerca di eventuali cerchi lasciati da bicchieri bagnati, bruciature di sigarette o tracce di polvere, papi si mise a gironzolare per la stanza per controllare le gambe degli altri mobili. Benché non l'avesse mai confessato apertamente, Lyn sapeva che cercava i segni delle unghie di Peach. Il gatto se ne stava spesso raggomitolato sul tavolino, ma non lasciava più tracce di quante ne avrebbe lasciate un cuscino di piuma o un animale di pezza. In quel momento si guardava intorno dal suo cestino, dove aveva il buonsenso di rincantucciarsi la domenica, quand'era in casa. Lyn s'infilò l'anello
al dito e disse che era proprio della misura giusta. — Ah, ormai la misura del tuo ditino la conosco a memoria — replicò papi, che in quanto a mancanza di tatto non aveva uguali. Più tardi arrivarono Trevor Simpson e Bob, lo zio di Lyn, seguito dal resto della famiglia. C'erano sedie appena sufficienti per tutti. Papi si rintanò in un angolo, dove rimase con le gambe piegate. Zio Bob disse che, a quanto ricordava, Thomas non aveva mai potuto soffrire i gatti, nemmeno da bambino. — Una lieve forma di zoofobia — sentenziò Trevor. — Senti, ragazzo — lo redarguì papi — ricordati bene che io non ho proprio niente in forma lieve. Joanne, grassa come sempre, uscita dall'ospedale il giorno prima, era intenta a divorare biscotti al cioccolato. — Se vai avanti così — la rimproverò Kevin — ti ricoverano di nuovo all'ospedale prima che sia finita la settimana. — Guarda che il mio problema non è quello che mangio, ma la ritenzione di liquido. Te l'avrò ripetuto mille volte. Ormai dovresti averlo capito. — Il cioccolato è veleno per i cavalli, lo sai? Contiene una sostanza che si chiama teo... teobromina, o qualcosa del genere. Pensa che dei cavalli da corsa sono morti per aver mangiato il cioccolato. — Vuoi dire che io e i cavalli abbiamo qualcosa in comune? — C'era una donna che abitava nelle villette della Hall, quando voi eravate piccole — intervenne la signora Newman — e aveva l'abitudine di dar da mangiare alla sua famiglia il cibo per i gatti. Quello delle lattine, intendo. A volte comperava anche quello per i cani. Diceva che le piaceva sia il sapore sia la consistenza. — No, grazie, Lyn — disse il padre — non voglio un altro panino imbottito. — Quando è nato il bambino — riprese la signora Newman — aveva sullo stomaco una voglia a forma di muso di gatto. — Nostro figlio ne avrà una a forma di tavoletta di cioccolato. — Questi fenomeni accadono davvero — convenne Trevor. — La voglia può essere una specie di marchio di fabbrica, o qualcosa di simile alle stimmate. Peach saltò in braccio a Lyn, dove rimase a fare le fusa, la coda penzoloni. Ogni tanto ne muoveva la punta. Papi fu il primo ad andarsene. Non era venuto con il furgone. Bob Newman gli offrì un passaggio, ma lui lo rifiutò, dicendo che avrebbe preso l'autobus. Joanne e la madre continuarono
tranquillamente a chiacchierare davanti al cancello, come se non avessero più occasione di vedersi chissà per quanto tempo. Lyn lavò i piatti, poi andò a prendere la falciatrice per tagliare l'erba. — Senti, cara — disse Stephen — vado a fare un giro per sgranchirmi le gambe. — Vuoi che venga con te? Capì immediatamente dalla sua espressione che non gli faceva piacere. — Non credo che ti divertiresti. Forse è meglio che resti a casa a riposarti, seduta comodamente in poltrona. Lyn si chiese se per caso stesse cercando di rimediare, se sperasse ancora in qualche sua reazione positiva. — Ho venticinque anni — disse, con il tono piatto che usava quando stava per perdere la pazienza. — Scusami, mi sono espresso male. Volevo soltanto dire che hai l'aria stanca. Perché non te ne vai da qualche parte? Puoi prendere l'auto. — Può darsi che lo faccia — rispose Lyn. Le venne in mente la frase pronunciata da Nick: "Credo che noi due finiremo per amarci". — Non ti dispiace se resto fuori fino a tardi? — domandò Stephen, ansioso di avere la sua approvazione. — No, certo. Come preferisci. Stephen s'incamminò allegramente, fischiettando. Tra le foglie dell'acero su cui si era appollaiato, quasi mimetizzandosi, Peach lo seguì con lo sguardo dei suoi occhi gialli. Imboccata la strada per Jackley, Stephen proseguì oltre gli incroci e raggiunse la Valle di Allen. C'era una luce chiara, il cielo era biancastro e così pure il sole, pallido e non troppo caldo. Però non c'era traccia di nubi. Sul ciglio della strada, a sinistra, era ferma un'auto che puntava verso nord. Stephen pensò che fosse uno strano posto per fermarsi, dato che ingombrava il traffico sulla strada principale, mentre una decina di metri più avanti c'era una stradina laterale, dove l'auto non avrebbe dato fastidio a nessuno. Era una piccola Volkswagen gialla. Non c'era traccia del proprietario. Il paesaggio circostante era desolato e ingombro di rovi. Stephen si aspettava di veder spuntare da un momento all'altro un cane dai cespugli, ma, tranne il lieve ronzio delle api, non si udiva il minimo rumore. Si lasciò alle spalle la strada principale e imboccò Reeve's Way, che proseguiva in direzione nord fino a Goughdale. Ancora nessuna traccia del proprietario dell'auto, benché intorno non vi fosse che pianura. La Volkswagen era ancora ferma dove l'aveva vista poco prima, un puntino giallo sulla strada ormai lontana. Poiché aveva proseguito in salita fino a quel
momento, aveva un'ottima visuale della brughiera; ma quando la strada iniziò bruscamente a scendere, in prossimità di Goughdale, non si vedeva altro se non ciò che era rimasto in superficie degli scavi della miniera, oltre naturalmente ai pendii del Big Allen. A Stephen occorsero due ore per trovare il foro d'entrata della miniera. La memoria l'aveva tradito. Ricordava che lui e Peter avevano legato la corda a uno spuntone di roccia, e questo cercava. Ma non c'erano rocce intorno alla miniera, solo terra ben levigata. Trovò l'unica sporgenza a cui si sarebbe potuto fissare una corda. Era un punto sulle pendici della collina, oltre la cresta rocciosa. Stephen vi si arrampicò, scrutando intorno con la massima attenzione, tastando con le mani. Ed ecco finalmente ciò che cercava, piuttosto lontano da dove pensava che fosse, in posizione diversa da quella che aveva in mente. Ma sicuramente era quello il punto, una fenditura ai piedi della collina, sotto uno spuntone di roccia. Si sdraiò per terra e guardò dentro. Si vedeva solo un budello che pareva l'accesso a una tana di coniglio, e più avanti soltanto il buio. C'era odore di terra. Stephen si alzò e tornò alla miniera, fermandosi a ogni baracca per controllare che non fossero rimasti aperti altri passaggi. Verificò la George Crane, la Duke of Kelsey, la Goughdale. L'aveva già fatto in precedenza, insieme con Peter, e anche da solo negli anni successivi, e adesso come allora non trovò nulla. Le miniere erano pericolose, non era pensabile che le lasciassero aperte, anche perché avrebbero potuto offrire rifugio a gente poco raccomandabile. Aveva trovato, o meglio riscoperto, l'unica via d'accesso a quel mondo sotterraneo, fatto di tunnel, di corridoi e di ampi locali, che costituiva l'altra faccia della brughiera. Il sole era tramontato e stava facendosi buio. Stephen avrebbe preferito tornare passando per la Valle di Allen e Foinmen's Plain, ma non aveva con sé una torcia e in cielo c'era un piccolo quarto di luna nuova. Quindi si avviò verso la strada per Jackley. Non c'era traffico in giro. Si stupì di vedere ancora la Volkswagen gialla sul ciglio della strada. Probabilmente il proprietario era un escursionista che amava fare lunghe passeggiate, oppure qualcuno che aveva fatto un picnic e poi si era addormentato sull'erba. Più tardi, oltrepassati gli incroci, mentre percorreva l'ultimo tratto di strada che portava a Chesney, gli venne in mente lo sconosciuto che aveva intravisto tra gli alberi. Guardò in direzione dei Banks of Knamber, che quella sera apparivano come la volta precedente, d'un grigio chiaro punteggiato di nuvolette nere. Ma quella sera non c'era nessuno tra gli alberi.
Il mattino successivo, andò a prendere il furgone a Hilderbridge e andò a Jackley passando per la strada più lunga, cioè attraverso Byss. Aveva una poltrona da consegnare, prima del salotto completo da portare a Jackley. L'ultima tappa l'avrebbe condotto in Trinity Road, a Hilderbridge; perciò fece un salto in un negozio di dolciumi a comperare una scatola di caramelle alla gelatina di frutta. Anche quel mattino il cielo era chiaro, velato dalla foschia, come in attesa dello spuntare del sole. La foschia dava alle colline un'aria di mistero. Le cime sembravano galleggiare sopra la terra. Stephen percorreva la strada principale, diretto verso sud, e mentre passava per Goughdale, gli venne in mente che la Volkswagen gialla forse era ancora lì. Infatti c'era. La intravide subito dopo la curva, prima di raggiungere gli incroci. Ma la Volkswagen non era l'unica auto ferma sul ciglio. C'era un'altra mezza dozzina di auto e un grosso furgone. Stephen rallentò. Due dei veicoli erano autocivette della polizia con le luci blu lampeggianti. Dietro la Volkswagen era fermo un tale con l'impermeabile, vicino a lui era accovacciato un altro, intento a guardare sotto l'auto. Stephen si fermò sull'altro lato della strada e scese dal furgone. Vide che in ogni auto della polizia c'era un uomo seduto al volante. Attraversò. — Non abbiamo bisogno di lei, grazie — disse il tizio dietro la Volkswagen. — Prosegua pure. È una questione che riguarda la polizia. Era il sergente Troth. Riconobbe Stephen nello stesso momento in cui era da lui riconosciuto, e si limitò a salutarlo con un cenno del capo, ma la sua espressione rimase accigliata. Il tizio accovacciato si alzò. Era l'ispettore Manciple. Fu lui a rivolgergli la parola. — Buongiorno. Il signor Whalby, vero? Stephen annuì. — Spero che non ci sia... che non ci sia un altro guaio. — In che senso? — domandò Troth, brusco. — Per dire la verità — intervenne Manciple — pare che sia scomparsa una giovane donna di Jackley. Una donna sposata. Questa è la sua auto. — E voi pensate... — Non pensiamo niente — tagliò corto Troth, con il suo marcato accento locale. Stephen notò che aveva la pelle deturpata dall'acne, come se fosse un adolescente, benché avesse passato da tempo quell'età. — Meglio evitare di trarre conclusioni affrettate. — In circostanze normali non daremmo molto peso alla cosa — osservò Manciple in tono pacato, come per mitigare quello troppo brusco del suo subalterno. Anche la sua espressione era conciliante, e parve a disagio
quando Troth gli voltò le spalle. — Purtroppo, in seguito al tragico ritrovamento da lei fatto nel mese di aprile, la situazione non è più la stessa. Abbiamo organizzato due squadre di ricerca. Una può vederla giù nella valle. Stephen risalì sul furgone e proseguì per Hilderbridge. A Sunningdale c'erano gli stessi vecchietti, seduti nello stesso ordine, intenti a guardare la televisione. Dallo schermo una bionda con gli occhiali insegnava ai telespettatori a fare i profiteroles. Un vecchio leggeva il Daily Mirror, mentre la solita amante dei lavori a maglia passava il tempo sferruzzando. Helena Naulls si era appisolata. Dormiva con la bocca aperta, mettendo in mostra una dentatura tutt'altro che perfetta. Indossava un abito di cotone rosa che probabilmente non era suo, ma dell'ospite più grassa dell'istituto, una vera montagna di carne. Anche la cicciona dormiva; d'altra parte nelle visite precedenti a Stephen non era mai capitato di vederla sveglia. La signora Naulls si svegliava con la stessa facilità con cui si addormentava. La vecchietta esperta di lavori a maglia le diede un colpetto sulla spalla. Helena si raddrizzò, aprì gli occhi. Stephen le diede un bacio. — Come va la vita, nonna? — Sempre uguale — rispose la vecchia. — Mi hai portato le mie caramelle? — Tu che ne dici? — Le pose la scatola in grembo. — Piano, non c'è fretta! — Helena si era messa ad armeggiare freneticamente con il cellophane. — Oggi ho voglia di mangiarne una anch'io. Ho una fame da lupo. Che ne dici di offrirne una anche alla signora? — La lasci stare — lo redarguì la sferruzzatrice. — Non la stuzzichi. — Leonard si diverte sempre a stuzzicarmi — disse Helena Naulls, ficcandosi in bocca una caramella rossa. — Suo padre ha fatto di tutto per togliergli il vizio, ma inutilmente. — Il lupo perde il pelo ma non il vizio, io lo dico sempre — commentò la sua vicina. — E Midge come sta, Peter? — Se intendi Lyn, sta bene, e io sono Stephen. — Abbassò la voce. — Sembra che sia stato commesso un altro omicidio nella brughiera. — Come hai detto? — domandò Helena, parlando con la bocca piena. — Qui siamo tutti un po' duri d'orecchio, giovanotto — intervenne l'altra vecchietta. — Un altro omicidio nella brughiera — ripeté Stephen, alzando la voce. Il vecchio posò il giornale, la grassona aprì gli occhi e subito li richiuse.
Helena Naulls rimase un attimo incerta tra una caramella rossa e una gialla, poi scelse quella gialla. — A pensarci, viene la pelle d'oca — disse la sferruzzatrice, sbarrando gli occhi. — Anche stavolta era una donna giovane? — Pare di sì. — Stephen balzò in piedi. — Faccio parte della squadra di ricerca. Stanno cercando il corpo. — Aveva preso una decisione improvvisa. In fondo, era esattamente ciò che avrebbe voluto fare, fin dal momento in cui aveva parlato con Manciple. Sarebbe andato da papi e gli avrebbe chiesto un giorno di permesso. Dopo tutto gli spettava, avendo lavorato un lunedì di festa per finire di rivestire il salotto Chippendale. — Hanno bisogno di uno come me, che conosca la brughiera da cima a fondo. — Il signor Tace — disse Helena Naulls, sorridendo beata — era uno che conosceva bene la brughiera. Lui l'amava. Era un uomo come ce ne sono pochi, uno su un milione. Arrivederci, Stephen. Porta i miei saluti a Lyn. Era spuntato il sole e la foschia stava diradandosi. Non c'era traccia della squadra di ricerca. Stephen teneva sempre in macchina un giubbotto e un paio di scarpe comode. Dopo aver parcheggiato l'auto a Loomdale, imboccò il sentiero che portava da Loomdale Foin al Big Allen, essendo quella la direzione che gli aveva indicato Manciple. Era da quelle parti che aveva visto l'orchidea bianca. Si spinse fino all'Hilder, nel punto in cui il corso d'acqua era sovrastato dai pilastri dell'acquedotto. Si scorgeva un lungo tratto del fiume, fino alle sorgenti di Pierce Foin. Il terreno era paludoso, disseminato di ciuffi di canne, e tra le piante d'erica s'intravedeva la nera torba. Vista da lontano, Goughdale sembrava deserta. Stephen attraversò il fiume, passando sopra i sassi, e intanto si chiedeva se fossero già andati a controllare alla miniera. Mottle Foin, l'unica collina su cui crescessero gli alberi, piccoli pini che formavano macchie scure sulle sue pendici, era la più alta dopo il Big Allen, e ora il suo versante nascondeva il tratto superiore dell'Hilder, Pierce Foin e Lustley Dale. Stephen dovette percorrere ancora tre chilometri abbondanti, prima che tornasse ad aprirsi la visuale, e soltanto allora riuscì a distinguere gli uomini in lontananza, che procedevano in fila disordinata lungo la riva destra del fiume. Dovevano essere quaranta o cinquanta. Un uomo solo era riuscito a tanto, a causa sua si erano spinti nella brughiera, lontano dalle loro case, dal loro lavoro. Aveva ucciso una ragazza, e ora che ne era scomparsa un'altra, erano venuti in tanti come se lui li avesse chiamati, come se fossero tutti
suoi schiavi. Stephen tornò ad attraversare il fiume, passando di nuovo sui sassi. Due o tre uomini si guardarono intorno, nessuno agitò il braccio per salutare. Poi un tale grande e grosso gli andò incontro. Era Ian Stringer. — Avete avuto fortuna? — s'informò Stephen. — E tu la chiami fortuna? — Santo cielo, sai bene che cosa intendo. Ho pensato di venire a darvi una mano. Sono uno che conosce bene la brughiera, sai? Stringer si strinse nelle spalle. La camicia azzurra aperta sul collo era bagnata di sudore sulla schiena e sotto le ascelle. — Vedi quel tizio là in fondo? Quello piccolo e scuro? È suo marito, Roger Morgan. Speriamo, benché ci siano poche probabilità, che la moglie si sia allontanata dall'auto per cogliere fiori selvatici. Le piacevano molto, dice il marito. Be', potrebbe aver perduto la strada, o essere svenuta o qualcosa del genere. — Se voleva cogliere i fiori, mi sembra strano che si sia spinta fin qui. — Ci sono due poliziotti con noi — continuò Stringer, indicandoli. — Sono loro che dirigono le operazioni. Stephen se l'era aspettata, una reazione del genere. Si unì al gruppo, mentre s'incamminava alla volta di Lustley Dale. — Com'era vestita? — domandò al marito. — Non lo so con certezza. — Appartenente alla classe media, doveva essere una persona istruita. — Camicetta rossa, se non sbaglio, e blue jeans. — Appariva molto stanco. — Stiamo cercandola da cinque giorni — disse un altro. — Era andata a trovare i suoi genitori a Hilderbridge, mentre io stavo con i miei a Jackley. — Morgan abbozzò un sorriso stentato. — Nessuno dei due andava d'accordo con i suoceri. — Abbiamo cominciato a cercarla vicino ai dolmen — disse Stringer, dopo che Morgan si fu allontanato. — Certo, è naturale. — Siamo in ballo... — consultò l'orologio che aveva al polso — da nove ore — calcolò. — Ci sono altre due squadre. Una è andata verso sud-est, l'altra dalle parti di Pertsey. A metà pomeriggio si trovavano alle pendici di Lustley Foin. Stephen non aveva appetito. Si sentiva rinvigorito dalla lunga camminata, ed eccitato per il semplice fatto di prender parte alle ricerche. Non gli capitava spesso di poter trascorrere una giornata intera nella brughiera. Mentre si arrampicava tra le rocce, frugando tra la vegetazione per guardare nelle fenditure del terreno, udì un ronzio sopra la testa, guardò in alto e vide un
elicottero. Era molto basso e volava in tondo, quasi sfiorando la cima del Big Allen. Stringer puntò il pollice in direzione di Morgan. — Quell'elicottero è di proprietà di un amico del suocero. Potrebbe tornare utile, se la ragazza si trova in una zona aperta. Un ramo colpì Stephen sul collo. Si toccò e si accorse di avere le dita sporche di sangue. Non aveva senso arrivare in cima alla collina, lì non l'avrebbero trovata di certo. Ripiegarono in ordine sparso verso l'imboccatura della valle chiamata Jackley Plain, e a quel punto Roger Morgan non ce la faceva più a proseguire. Non crollò completamente. Si lasciò cadere su un masso, prendendosi la testa tra le mani. Tra tutti i componenti della squadra, era quello da cui ci si sarebbe aspettati il maggior spirito di sacrificio, ma probabilmente era anche quello meno abituato allo sforzo fisico, e il più mingherlino. Stephen provò una punta di disprezzo. — Mi dispiace — si scusò Morgan. — Sono esausto. Non dormo dall'altro ieri. — Guardò Stephen, e stavolta parve riconoscerlo. — Lei è uno dei Whalby, vero? Lei e suo padre siete venuti a casa nostra a rivestire un divano. A Stephen non fece piacere quella rivelazione in pubblico. — Ah sì, a Jackley — confermò. — St Edmund's Avenue. Morgan annuì. — Sarà meglio rimettersi in cammino. — Resti seduto ancora un po' — gli consigliò un agente. — Poi la riporteremo sulla strada. Le nostre auto sono ferme a circa trecento metri di distanza l'una dall'altra, da Hilderbridge fino a Jackley. Stephen s'incamminò e altri lo seguirono. Non aveva nessuna intenzione di restare a consolare Morgan. Sopra le loro teste, l'elicottero compì un altro giro, proiettando sulla pianura un'ombra nera a forma di locusta. Rimasero ciascuno in contemplazione dell'altro. — Come sei bella! — esclamò Nick. — Anche tu. — Ti è piaciuto, vero? — Lo sai. Non dirmi che non l'avevi capito. — Arrossì. Non era abituata a parlare di quell'argomento. — Non immaginavo che potesse essere così bello. — Mi fa una strana impressione, sentirti parlare in questo modo. Certo che è una situazione davvero insolita, non trovi? Ti sento più mia, sapendo che non sei mai stata di altri uomini, e che il tuo non è un vero matrimonio.
Lyn annuì. — Anch'io ti sento mio. — Resta con me, Lyn. Non dico tutta la notte, so bene che non puoi, ma almeno ancora un po' di tempo. — No. — Lyn cominciò a rivestirsi, blue jeans e maglietta bianca. — Sono già le sette. Dovrei essere a casa già da un paio d'ore. — Non sei sua madre — protestò Nick, parlando con dolcezza per non offenderla. — Quanto a questo, non potrò mai essere madre di nessuno — mormorò Lyn, frugando nel letto alla ricerca del nastro che le legava i capelli. Nick la pettinò, poi volle metterle il nastro, ma non lo strinse abbastanza e Lyn se lo sistemò meglio. Dopo essersi rivestito, Nick l'accompagnò di sotto. Nella gabbietta che aveva ospitato Peach ora c'era un serpente arrotolato nella paglia. Nella semioscurità del negozio, Lyn si buttò tra le braccia di Nick e lo baciò. Lo spostamento d'aria fece vibrare la pelle del serpente. Lyn prese l'autobus delle 19.15. Era nervosa come una madre che teme di non arrivare a casa in tempo per dare da mangiare al figlio tornato da scuola. Sull'autobus, la gente parlava di un gran numero di auto della polizia ferme sulla strada. Qualcuno disse che era scomparsa una ragazza. Quando Lyn rincasò, Stephen non era ancora rientrato. Aveva l'impressione che la casa fosse rimasta vuota, da quando lei era uscita per andare da Nick. C'era soltanto Peach, che evidentemente era passato dalla porticina ricavata da Stephen nel pannello inferiore della porta di servizio. Il gatto, seduto su un mobile della cucina con le unghie retratte e la coda arrotolata intorno alle zampe, fissava la dispensa con aristocratica pazienza. Lyn gli diede da mangiare, si preparò una tazza di tè, tagliò un pezzetto di burro per il pane tostato, buttò due uova e un po' di formaggio grattugiato in un tegamino. Alle nove accese il televisore per guardare il telegiornale. La prima notizia era quella del ritrovamento del corpo di Ann Morgan. Il cadavere era stato trovato alle due del pomeriggio da una squadra che batteva la zona di Pertsey, nella parte nord-occidentale di Vangmoor, in una casupola di pietra dove in passato era custodito l'esplosivo della miniera Duke of Kelsey. La vittima era stata strangolata, poi l'assassino le aveva tagliato alla radice i lunghi capelli biondi. Lyn spense il televisore nello stesso momento in cui Stephen entrava dalla porta di servizio. 7
La polizia rilevò le impronte digitali a tutti gli uomini delle Three Towns al di sopra dei sedici anni e al di sotto dei sessanta, poi un tale in camice bianco prelevò dai loro pollici campioni di sangue, mentre Troth a mano a mano cancellava i nomi da un elenco. Guardò Stephen con la stessa espressione con cui aveva guardato il padre di Lyn e Trevor Simpson, cioè come se lo vedesse per la prima volta. Stephen non metteva piede lì dentro da anni. Da bambino aveva vissuto in quella casa metà della sua esistenza, perché dopo che sua madre se n'era andata era logico che a occuparsi di lui fosse Helena Naulls, benché il padre già all'epoca non sopportasse i Naulls, e da allora avesse continuato a detestarli sempre di più. Era stato un anno in collegio, poi l'avevano riportato a casa e gli avevano fatto frequentare la scuola elementare di Chesney, in modo che Helena potesse andare a prenderlo. Lo teneva con sé fino alle sei di sera, ora in cui papi andava a prelevarlo con il furgone. Da sempre, i Naulls si chiudevano come ricci, ogni volta che nominava la madre. Tranne Helena, che aveva l'abitudine di stuzzicarlo ogni volta che erano in argomento. Se era vero che zio Leonard la prendeva in giro, come sosteneva la vecchietta, evidentemente aveva preso da lei. — È lassù, sulla luna — diceva Helena in risposta alle sue domande. Oppure: — Forse si è trasferita al polo nord, con gli orsi polari. Quando Helena scendeva in negozio e Arthur Naulls si appisolava nella vecchia poltrona che inspiegabilmente puzzava di cane bagnato, Stephen andava alla ricerca di lettere, di foto, di indirizzi. Non trovava niente, non aveva mai trovato niente. Helena gli mostrava soltanto ciò che a suo giudizio poteva vedere, come foto di Brenda da giovane, o una ciocca di capelli biondi legati con un nastrino rosso. — Lei dov'è, nonna? — Ricordati sempre che la curiosità uccide il gatto — rispondeva Helena. Stephen si era lasciato prendere le impronte digitali e prelevare il sangue. Fu tutto molto impersonale, un semplice lavoro di routine. Sui muri, al posto della carta da parati con i nasturzi stampati sopra, c'erano tabelloni verdi e carte geografiche con spilli appuntati qua e là. A Stephen però sembrava di avvertire ancora l'odore caratteristico della casa, un misto di verdure cotte, cera per pavimenti e indumenti sporchi. Tornato fuori all'aperto, respirò un'aria decisamente migliore, che odorava di erba appena tagliata. Lyn era già andata a lavorare, aveva preso l'autobus un'ora prima. Ste-
phen l'aveva accompagnata alla fermata e le aveva fatto compagnia durante l'attesa. Nessuna donna si azzardava più ad andare in giro da sola nella brughiera o nei paesi, nemmeno in pieno giorno. Stephen vide l'auto della polizia ferma davanti a casa sua, un centinaio di metri prima di arrivare. A bordo c'erano Manciple, un giovanotto e l'autista. L'ispettore scese dall'auto, vedendolo comparire. Quel mattino aveva più che mai l'aria del cane bastonato. Rosso di carnagione, dava costantemente l'impressione di essere imbarazzato. — Vorremmo che lei venisse con noi al commissariato, signor Whalby — disse quasi in tono di scusa. — Per parlare. — Di che? — Della situazione. Della signorina Price, della signora Morgan. Le faremo le solite domande di routine, in via ufficiosa. Stephen non poté far altro che salire in macchina e andare con loro. Prese posto dietro, vicino al tizio giovane. Manciple osservò che era una magnifica giornata e che sarebbe stata calda. A parte questo, nessuno aprì bocca per il resto del tragitto fino a Hilderbridge. Stavolta lo fecero entrare in un altro locale al pianterreno, una stanza piccola e spoglia. C'era un tavolo di ferro e tre sedie, due panche, un calendario appeso al muro e una cartina stradale incorniciata sulla parete di fronte. Stephen fu lasciato solo ad aspettare per almeno mezz'ora, e a un certo momento aprì la porta e sbirciò fuori. Gli fece un certo effetto vedere un piantone seduto lì fuori, come un secondino in una prigione. Il sovrintendente capo Malm arrivò di buon passo, scusandosi del ritardo. Si era appena seduto di fronte a Stephen, quando arrivò anche Manciple, che occupò la terza sedia. Il locale cominciava a scaldarsi, poiché il sole batteva sulla finestra. Malm indossava un abito grigio, Manciple una giacca sportiva di pessima qualità. Stephen non gli aveva creduto, quando l'ispettore gli aveva detto che l'avrebbero interrogato in via ufficiosa, ma il tono di Malm era discorsivo, quando gli domandò a che ora fosse andato nella brughiera la domenica precedente, per quale motivo vi si fosse recato e a che ora fosse rincasato. Benché il tono fosse gentile, nella domanda era implicita una certa dose di scetticismo, come se il sovrintendente trovasse strano che Stephen amasse fare lunghe camminate nella brughiera. In quel momento capì che sospettavano di lui. Non l'avevano convocato per parlare di qualcun altro, ma perché sospettavano di lui. Quando era stata uccisa Marianne Price, aveva detto per scherzo alla sua famiglia di essere il principale indiziato. Ora
scopriva che era vero. — Non sono nemmeno andato da quelle parti. Sono arrivato fino a Goughdale. — E dove si trova questo posto? Manciple lo sapeva, Stephen ne era certo, ma l'ispettore non aprì bocca. Stephen rispose alla domanda, e Malm lo interrogò sulle miniere. Gli domandò se conoscesse la Duke of Kelsey e la vecchia polveriera. Rispose che conosceva la brughiera come le sue tasche, comprese le entrate alle miniere, i tunnel, i livelli superiori. Manciple lo fissava con quei suoi occhi azzurri, che stonavano con la faccia paonazza e i capelli rossicci. — Lei conosceva Ann Morgan — disse Malm. — L'ho vista una volta, alcuni mesi fa. — Non secondo la dichiarazione del signor Morgan, il quale sostiene che lei è andato a casa sua una prima volta nel mese di febbraio, e successivamente verso la fine di marzo. In quell'occasione lui non era in casa. Dal modo in cui lo disse, sembrava quasi che Stephen fosse andato a casa loro perché sapeva che il marito era assente. Stephen non rispose, limitandosi a dare un'alzata di spalle. Il sole che gli batteva sulla schiena lo faceva sudare, ma non invidiava il posto a Malm e a Manciple, che avevano il sole negli occhi. Manciple uscì dal locale, e poco dopo arrivò Troth in compagnia di un tale con un vassoio, su cui c'erano tre tazze di caffè e un piatto di biscotti. Troth disse qualcosa sottovoce a Malm, e i due poliziotti uscirono, lasciandolo solo. Stephen approfittò della loro assenza per togliersi la giacca, sistemarla sullo schienale della sedia e rimboccarsi le maniche della camicia. Troth ricomparve quasi subito, guardò le braccia di Stephen come se avesse fatto qualcosa di disgustoso, quasi come se si fosse messo nudo, e aprì la finestra. Tornò anche Malm, che riprese il suo posto. — La signora Morgan aveva una Volkswagen — disse. — Una piccola Volkswagen gialla, da lei lasciata sulla strada per Jackley. Ha visto l'auto, durante la sua passeggiata? — Sì. — E l'ha anche toccata. Ci sono le sue impronte digitali sulla portiera, dalla parte del volante. Malm fece un cenno a Troth, che continuò l'interrogatorio. Come aveva fatto a indurre Ann Morgan a fermare l'auto? Le aveva fatto segno di fermarsi, oppure si era fermata di sua iniziativa, avendolo riconosciuto? Benché avesse già intuito che sospettavano di lui, Stephen fu colpito da una ta-
le insolenza. Non s'aspettava che l'accusassero apertamente. — Non l'ho nemmeno vista — rispose. — Non sono stato io a fermarla. — Dunque, si è fermata lei, avendo riconosciuto la persona che le stava di fronte. — Si è fermata, e lei le ha rivolto la parola e ha aperto la portiera — disse Malm. — Nell'auto non c'era nessuno, quando ho aperto la portiera — protestò Stephen. — Lei generalmente se ne va in giro ad aprire le portiere delle auto, quando capita? Continuarono a lungo sullo stesso tono. Faceva un caldo soffocante, nonostante le finestre aperte. Stephen sentiva il sudore colargli sotto le ascelle. Il tizio di prima ricomparve con altro caffè e panini con formaggio e sottaceti. Stephen vide una zona d'ombra sul pavimento, dopo che il sole ebbe cambiato posizione, e pensò che non c'era ragione di non spostare il tavolo all'ombra, ma nessuno propose di farlo. Dopo che ebbero mangiato i panini imbottiti, Malm disse che forse Stephen aveva bisogno di sgranchirsi le gambe. Pensò che si riferisse alla necessità di andare in bagno, e così era. Quando tornò, Malm e Troth l'accompagnarono fuori e gli mostrarono un'auto, una Volkswagen dello stesso modello di quella gialla, solo che questa era verde. Vollero che gli mostrasse come aveva fatto ad aprire la portiera e che cos'aveva fatto in seguito. Stephen, sicuro di non essere creduto, sentiva che stavano forzandogli la mano. Tornati a sedersi al posto di prima, Malm spostò il discorso su Marianne Price. Certo, era una strana coincidenza che Stephen avesse avuto qualcosa a che fare con entrambi i cadaveri, avendo trovato prima il corpo di Marianne e poi l'auto di Ann Morgan. Stephen replicò che non era affatto strano, considerata la frequenza delle sue passeggiate nella brughiera. — Ho l'impressione che lei ci vada un po' troppo spesso — insinuò Malm. Stephen non se l'era mai cavata bene con i sottintesi, e non vi riuscì neanche in quell'occasione. Rimase seduto come un allocco, mentre Troth continuava a cianciare. Poi arrivò un tale che non aveva mai visto, un tizio magro e taciturno, che si fermò a guardarlo senza aprire bocca. Malm gli domandò che cosa l'avesse indotto a perdere un giorno di lavoro, per prendere parte alle ricerche. Che cosa c'entrava lui nella faccenda? Lo sapeva, che avrebbero trovato il corpo di Ann Morgan?
— Mi sono unito alla squadra perché conosco la brughiera — rispose. — Ho pensato che avrei potuto rendermi più utile di altri, che non hanno mai messo piede fuori da Hilderbridge. — "Perché la brughiera è mia, mi appartiene" sussurrava una vocina dentro di lui, "e voglio sapere che cosa succede nel mio territorio, ecco perché." — Va spesso a mangiare al Market Burger House? — Ci sono andato un paio di volte. — Dunque sapeva che Marianne Price lavorava lì? — Santo cielo, lo sapevano tutti, che lavorava lì! — Che cosa ne ha fatto dei suoi capelli? — domandò lo sconosciuto a bassa voce. Stephen balzò in piedi, rovesciando la sedia che cadde rumorosamente. — Se andiamo avanti così, voglio il mio avvocato! — Ne ha uno? — disse Malm, secco, ma anche lui sembrava pensare che l'altro avesse esagerato. Prima che potessero continuare, ricomparve Manciple. Il discorso tornò sulla Volkswagen, sull'ora in cui Stephen era uscito di casa ed era poi rincasato. Era sicuro di dare risposte identiche, ogni volta che ripetevano la stessa domanda a proposito di ciò che aveva fatto la domenica sera. Dopo che ebbe raccontato quattro volte la stessa storia, parvero rinunciare a estorcergli una confessione. Furono portate tre tazze di tè e un piatto di biscotti. Ora la stanza era completamente in ombra, ma faceva ancora un caldo soffocante. Stephen ripeté per la quinta volta di aver trovato l'auto con il finestrino semiaperto, di avere visto il foulard e il pullover, di avere aperto la portiera e di averla richiusa. Manciple gli domandò come si fosse fatto quel graffio al collo. — Mi ha colpito un ramo, mentre ero fuori con la squadra di ricerca — rispose Stephen, voltando la testa e abbassando il colletto della camicia perché potessero vedere meglio. — Oppure è stato graffiato da una donna — insinuò Malm. Stephen si strinse nelle spalle. Era ridicolo. Non parlarono più del graffio, ma di nuovo dell'auto. Alle cinque del pomeriggio gli dissero che per quel giorno era abbastanza. Poteva andarsene a casa, non l'avrebbero trattenuto. Se aveva la pazienza di aspettare cinque minuti, l'avrebbero accompagnato a casa in auto. Stephen rispose seccamente che non aveva importanza, non avrebbe aspettato, preferiva andarsene subito. — Io però starei alla larga dalla brughiera, se fossi nei suoi panni — osservò Malm. — Se proprio ci tiene a farsi undici o dodici chilometri a pie-
di, benché le abbiamo offerto un passaggio in macchina, faccia pure, ma resti sulla strada principale, e per un po' dimentichi la brughiera. Intesi? In piedi vicino alla scrivania dell'agente di turno c'era la ragazza che lavorava per il Three Towns Echo, la stessa che in aprile aveva intervistato Stephen. Stavolta sembrava diversa, più graziosa, con un abito estivo e un cardigan azzurro. Aveva sui capelli un foulard di chiffon bianco, verde e azzurro, annodato sul collo. Si avvicinò a Stephen mentre lui si avviava alla porta. — È lei che ha collaborato tutto il giorno con la polizia nel corso delle indagini preliminari? Stephen rise senza convinzione. — Mio Dio, sì, immagino di sì. — Ho già provveduto a telefonare alla PA per informarli di quanto accade. — Senta, posso sapere che cos'è questa PA, tradotto in parole povere? Parve incredula. — La Press Association. Credevo che lo sapessero tutti. La notizia comparirà su tutti i giornali nazionali: un uomo collabora con la polizia per risolvere il mistero dei due delitti nella brughiera. — Spero che non si faccia il mio nome. Scosse la testa. Uscirono insieme in strada. Faceva caldo e brillava il sole, il cielo era sereno. — Devono stare molto attenti a quello che fanno — disse la ragazza. — Lei potrebbe querelarli per diffamazione. — Esatto. — Le dispiacerebbe dirmi che genere di domande le hanno fatto? Era magnifico essere di nuovo all'aperto, sotto il sole. Là dentro si era sentito come in prigione, o come se dovesse uscire da quella stanza solo per essere trasferito in gattabuia. — Le offro la possibilità di pubblicare questa storia in esclusiva — disse alla giornalista. Erano arrivati in Market Square. Il Market Burger House era il posto più adatto per bere qualcosa di caldo e mangiare qualche dolce, ma Stephen aveva bevuto fin troppi tè e caffè e l'idea di mangiare altri dolciumi gli dava la nausea. Il Kelsey Arms stava aprendo proprio in quel momento. Stephen le aprì la porta del bar per farla passare. Si sentiva estremamente intraprendente. Nel locale c'erano già due clienti, un uomo e una donna, e nessun altro. Stephen andò a prendere due birre piccole, una per sé e una per la ragazza. Aveva scoperto che si chiamava Harriet Crozier. Lo lusingava il fatto che lei si ricordasse che era un esperto su Vangmoor, così come gli faceva piacere che avesse dimenticato che si guadagnava da vivere facendo il tap-
pezziere. Infatti fece riferimento soltanto agli articoli sulla natura che scriveva per il giornale. D'impulso, in un momento d'entusiasmo, le rivelò che Tace era suo nonno. — Posso scriverlo? — Oh Dio, meglio limitarsi a dire che sono un suo discendente — rispose, pensando che zio Stanley avrebbe sollevato un vespaio. Zio Stanley era un assiduo lettore del Three Towns Echo. A volte gli capitava di trovare notizie che lo riguardavano. — Scriva pure "discendente", e se vuole può aggiungere che ho ereditato da lui un po' del suo talento. — Le parlò delle due occasioni che gli erano capitate di vedere Ann Morgan, senza precisare il motivo, e concluse dicendo di essersi unito alla squadra di ricerca perché la sua coscienza l'aveva spinto a farlo. Harriet trascrisse tutto, usando un sistema di stenografia che si chiamava "scrittura rapida", ma che secondo Stephen consisteva semplicemente nell'omettere le vocali. Aveva bevuto in fretta la sua birra. A un tratto disse di avere caldo e di non sopportare più il foulard in testa, benché levarselo potesse essere rischioso, e se lo tolse. Aveva i capelli lunghi, biondi e folti quasi quanto quelli di Lyn. Le ricaddero sulle spalle, e lei li spinse indietro con la mano, poi rise, notando l'aria costernata di Stephen. Il viso era molto diverso da quello della moglie, i lineamenti più marcati, l'espressione meno ingenua, il naso cosparso di lentiggini, gli occhi verdi da gatto. — Non posso tenere la testa coperta per il resto dei miei giorni — si giustificò. Aveva in mano il bicchiere vuoto. Stephen non aveva nessuna intenzione di pagarle un'altra birra. Cominciava a sentirsi a disagio all'idea di trovarsi in un bar con una donna e di offrirle da bere, con il rischio di essere visto da qualcuno. Era una cosa che non gli era mai capitata in precedenza, e non gli sembrava giusto nei confronti di Lyn. — Adesso devo andare — annunciò. La ragazza parve sorpresa. — Aspetti, adesso offro io. — No, no, meglio di no. Mi aspetta una lunga camminata. Nonostante ciò che aveva detto, avrebbe potuto evitare la scarpinata se l'autobus delle 18.15 non fosse appena partito. S'incamminò di buona lena, ma era piuttosto noioso restare sulla strada principale. Che cosa significava l'avvertimento di Malm? Che non poteva più avventurarsi nella brughiera? Che diritto aveva la polizia d'impedire qualcosa a un innocente? Stephen provava lo stesso risentimento che poteva nutrire un uomo, se qualcuno
che ne avesse l'autorità gli avesse proibito di corteggiare la donna dei suoi sogni. Anche lui, come questo ipotetico uomo, era convinto che se avesse obbedito non sarebbe valsa la pena di vivere. Da quando sua madre se n'era andata, la brughiera era sempre stata per lui un rifugio sicuro, un regno, addirittura un amico più reale di qualsiasi essere umano. L'idea di starne lontano lo faceva star male. Doveva restare sulla strada. Ora alla sua sinistra c'erano i dolmen, alla sua destra i Banks of Knamber, ma lui non poteva andare né tra i megaliti né tra i faggi, era come se tra loro fosse stato eretto un muro invisibile. Colpa del tizio che aveva assassinato le due giovani donne, di quell'individuo che l'aveva derubato di Vangmoor per esserne lui il padrone. Era una bellissima serata, la temperatura ideale. In lontananza si scorgevano le colline che parevano sospese nel cielo, ma Stephen non si azzardava a distogliere lo sguardo dalla strada, come se avesse i paraocchi, o come se la strada fosse fiancheggiata da file di case che gli coprivano la visuale. Si fermò ad aspettare alla fermata di Knamber Hole e prese l'autobus delle 19.15. 8 Il giorno seguente Stephen dovette andare ancora al commissariato. Stavolta fu come una seduta dallo psicoterapeuta, o almeno come Stephen immaginava che fosse, con la differenza che gli psicoterapeuti erano tre e il paziente-vittima uno solo. Manciple non era presente. Al suo posto c'era un ispettore capo di nome Hook. Parlava quasi sempre lui. Ovviamente era stato chiamato perché era abituato a quel genere di cose, andava subito al sodo senza tanti complimenti e sapeva come far crollare il prossimo. Solo che non si può crollare e confessare la propria colpa, quando si è innocenti. Hook volle che Stephen gli raccontasse come viveva. Gli chiese di descrivere una sua giornata tipica. Che cosa ci trovava di tanto speciale nella brughiera, per tornarci in continuazione? Era vero che poteva percorrere da venti a trenta chilometri senza stancarsi? Da quanto tempo era sposato? Perché non aveva figli? — Non vedo che cosa c'entra. — Non mi dirà che si vergogna a rispondere a questa domanda? Non c'è niente da vergognarsi. Molta gente ritiene che siamo già in troppi e che perciò non è il caso di mettere al mondo figli.
— Allora, la stessa risposta vale anche per me. Hook disse di aver saputo che Stephen era nipote di Tace, il grande romanziere di Vangmoor. Com'era possibile, se Tace non aveva avuto figli? O forse aveva avuto un figlio illegittimo? Era questa la spiegazione? Alle dieci arrivò il caffè con i biscotti. Era un mattino di nebbia, e, con grande sollievo di Stephen, il sole era restio ad apparire. La stanza era fresca. C'era odore di disinfettante, probabilmente era stato aggiunto all'acqua per lavare i pavimenti. Troth aveva un foruncolo sul mento che gli dava fastidio. Non si grattava, ma lo toccava continuamente. Hook era alto e avrebbe potuto essere un bell'uomo, se non avesse avuto il naso schiacciato come quello dei pugili. Beveva in un modo strano, tenendo la tazza con tutt'e due le mani. A un tratto interruppe una serie di domande, per rivolgergliene un'altra che non c'entrava per niente. — L'uomo che cerchiamo è uno psicopatico, è d'accordo anche lei? — chiese, fissandolo negli occhi e puntandogli l'indice contro. — Uno che prende di mira le donne giovani e bionde, e le uccide in quel modo, senza un movente, a suo parere è uno psicopatico? — Suppongo di sì. — Un uomo apparentemente conformista, giovane e vigoroso, un uomo che ha bisogno di seguire una determinata routine, non potendo sopportare una vita diversa. Un uomo dotato di fantasia, forse anche con illusioni di grandezza, un uomo che nutre un interesse morboso per la morte. Ho descritto un certo tipo di psicopatico. Non ho forse descritto anche lei, signor Whalby? Stephen non replicò. Che cosa poteva dire? — È come se avessimo una fotocopia, e davanti a noi un uomo che vi corrisponde perfettamente. Questa almeno è la mia impressione. Non crede che qualsiasi eventuale osservatore condividerebbe la mia opinione? Il nostro uomo conosce Vangmoor alla perfezione, così bene da riuscire a orientarsi anche al buio. È forte, e grazie alla sua perfetta conoscenza della zona perfettamente in grado di trasportare il corpo per diversi chilometri nonostante l'oscurità. — Io non ho nessun interesse morboso per la morte — obiettò Stephen, commentando la frase con una risata che per fortuna suonò convincente. — Secondo lei, che cos'avrei dovuto fare, quando ho trovato il corpo di Marianne Price? Non dirvi niente? Tornarmene a casa come se niente fosse accaduto? — Le domande le facciamo noi, Whalby — tagliò corto Malm.
Stephen non aveva mai visto Troth sorridere o comunque assumere un'aria compiaciuta; ma ora, mentre sedeva un po' in disparte rispetto agli altri, che guardava con una certa deferenza, sulle sue labbra apparve un abbozzo di sorriso. Evidentemente ci prendeva gusto a veder tartassare un innocente. Fedele alla promessa, Malm lo tempestò con una serie di domande. Stavolta riguardavano l'aspetto fisico della brughiera. Fu mandato a chiamare Manciple, il più esperto sull'argomento. A Stephen sembrava di avere già descritto decine di volte il tragitto che aveva percorso, ma fu costretto a ripetere tutto daccapo. Poi la porta si aprì e apparve un tizio. Stephen non alzò nemmeno la testa, sicuro com'era che fosse arrivato da mangiare, ma non c'era nessun vassoio con i panini. Si trattava invece di una di quelle comunicazioni bisbigliate all'orecchio, simile a quella del giorno prima, che l'aveva trasformato di colpo in uno psicopatico e un assassino. Malm, Hook e Manciple lasciarono insieme la stanza. Stephen rimase solo con Troth. Quest'ultimo si comportò come se lui non esistesse. Fece una cosa che, secondo Stephen, nessun uomo avrebbe mai osato fare in presenza di qualcuno, a meno che non lo considerasse una perfetta nullità. Non c'erano specchi nella stanza, ma la carta stradale appesa al muro era dotata di cornice e vetro. Troth si alzò, guardò la propria immagine riflessa nel vetro e strizzò il foruncolo che gli deturpava il mento, lasciandosi sfuggire un lieve gemito di dolore. Dal foruncolo sprizzò fuori il sangue e una goccia finì sulla cornice. Stephen rimase seduto ad aspettare. Troth lo fece sentire profondamente a disagio, andando a piantarsi alle sue spalle, probabilmente per guardare fuori dalla finestra. Decise che, qualsiasi cosa fosse accaduta, anche se l'avessero tenuto chiuso lì dentro per ore, o addirittura tutto il giorno, non avrebbe rivolto la parola a Troth. Allungò le gambe e cercò di mettersi più comodo sulla sedia. Sentiva il corpo completamente rigido. Non potevano fargli niente, pensò. Evidentemente bluffavano. Non potevano incastrare un innocente. Dopo un lasso di tempo che gli parve di ore, ma in realtà era soltanto una ventina di minuti, ricomparve Hook. Era solo. Troth, tornato a sedersi al tavolo, si strofinava il mento con un fazzoletto sporco e macchiato di sangue. — Bene, signor Whalby. Può andare. Grazie della sua collaborazione. — Significa che per oggi abbiamo finito?
Hook aveva l'aria tutt'altro che contenta. Al contrario, appariva deluso. — No, con lei abbiamo finito completamente. — Perché? Che cos'è successo? È tutto quello che avete da dire, dopo che mi avete fatto il terzo grado per quasi due giorni? — Non le abbiamo fatto nessun terzo grado. — Potrebbe almeno dirmi per quale motivo mi lasciate andare. Troth rise di gusto. Stephen non capiva che cos'avesse da ridere. Era una risata che sembrava il gracchiare di una cornacchia. Se ne andò senza dare spiegazioni. Hook bofonchiò qualcosa, come per dire che avevano raccolto altre prove, ma Stephen non si prese la briga di ascoltarlo, era troppo arrabbiato. Se avesse incontrato Troth in quel momento, fuori in corridoio, gli avrebbe mollato un cazzotto, infischiandosene delle conseguenze. Ma di Troth non c'era traccia. Fu l'ispettore Manciple ad avvicinare Stephen, per dirgli che desiderava chiarire quel piccolo malinteso. Avevano appena ricevuto il risultato di una complessa analisi del sangue prelevato sotto le unghie di Ann Morgan. Stephen ripensò al graffio che si era fatto sul collo, e improvvisamente avvertì un prurito in quel punto, mentre Manciple continuava a parlare. Il sangue apparteneva al gruppo B, che non era quello di Stephen. Era un gruppo sanguigno poco comune, che solo il 6% della popolazione possedeva. Con l'ausilio di tecniche molto sofisticate, gli spiegò Manciple, si era ormai in grado di classificare il sangue con maggiore precisione, e un'ulteriore analisi aveva evidenziato, nel sangue prelevato sotto le unghie della vittima, caratteristiche che il sangue di Stephen non possedeva. — Peccato che non si sia potuto sapere prima — osservò Stephen. — Le confesso che ci sono rimasto molto male, sentendomi trattare come un criminale senza un motivo. Comunque era finita, se l'era cavata senza rendersi ridicolo ai loro occhi, e adesso era libero. Inoltre poteva star certo che non avrebbero ricominciato a prendersela con lui il giorno dopo, avendo ormai appurato che non era il loro uomo, che non poteva assolutamente esserlo. Si sentiva ancora più sollevato del giorno precedente, quando aveva lasciato il commissariato in compagnia di Harriet Crozier. Aveva l'impressione, per quanto ridicolo potesse sembrare, di essere lui il colpevole, come se fosse stato lui a uccidere quelle due giovani donne, e gioisse di essere riuscito a sfuggire alla giustizia. Il sole era spuntato e la giornata prometteva di essere calda. Le cime lontane delle colline apparivano inondate di sole, pur essendo velate dalla fo-
schia, e la brughiera era immersa in una luce dorata. Era libero di tornarci quando voleva, poteva camminare, arrampicarsi, fare quello che gli pareva. Entrò nel negozio di ferramenta in piazza, di fronte all'armeria Kelsey, e comperò della corda. Era un self-service e nel reparto elettricità erano esposte torce elettriche per campeggiatori. Stephen ne scelse una grande con il manico, e con una batteria la cui durata era garantita per diverse ore. Visto che vendevano sacchi di iuta in offerta speciale, ne comperò due, pensando che avrebbero potuto tornargli utili. Entrò poi nella libreria accanto per chiedere se avessero un manuale sulle miniere. Gli risposero che ce n'era uno, ma ne erano rimasti sprovvisti e gli domandarono se desiderasse ordinarlo. Stephen decise di farne a meno. Probabilmente non gli sarebbe servito. Se a dodici anni era riuscito a entrare nella miniera di Goughdale senza bisogno del libro, era segno che poteva farne a meno anche ora. Trovò papi in bottega, che fumava una sigaretta dopo l'altra. Aveva sostituito le ante di vetro a un mobiletto e ora, con la massima delicatezza e precisione, stava applicandovi la decorazione di legno. Era in un giorno di grazia, euforico come gli accadeva di rado, tanto da azzardare una spiritosaggine, cosa che capitava al massimo una volta all'anno. Guardò la corda acquistata da Stephen e scoppiò a ridere. — Non lo sai che hanno abolito l'impiccagione, nel nostro paese? Stephen rise di gusto. Il minimo che potesse fare, date le circostanze. — Eh no, papi, non è ancora arrivata la mia ultima ora. Sono lieto di comunicarti che mi hanno lasciato andare, avendo appurato senza ombra di dubbio la mia innocenza. — Lo credo bene. — Papi applicò sul vetro un velo di colla, sistemò un altro pezzetto della decorazione e guardò Stephen. — È venuta a cercarti quella specie di zia che ti ritrovi. — In vita sua, papi non aveva mai chiamato per nome i parenti acquisiti. — Quella che si fa chiamare signora Pettit. — Dal tono in cui lo disse, pareva quasi che si facesse chiamare in quel modo senza averne il diritto. — È venuta per dirti che tua nonna è stata ricoverata al General Hospital per un infarto. — Fece una pausa, si tolse dal dito una goccia di colla. — Mamma Naulls — disse. Poi, con rabbia: — Quella vecchia puttana! Quel poliziotto gli aveva praticamente dato dello psicopatico. Passata l'euforia, Stephen andava in collera ogni volta che gli venivano in mente gli insulti subiti. Per vendicarsi avrebbe voluto intraprendere un'azione le-
gale, per costringere quell'uomo a chiedergli pubblicamente scusa, ma aveva l'impressione che non avrebbe ottenuto lo scopo. Nel corso di un interrogatorio, all'interno del commissariato, i poliziotti potevano dire tutto quello che volevano e passarla liscia. Come avrebbero reagito, allora, se avessero potuto sapere che una volta aveva aggredito la nonna? Ora la sua vita era quasi giunta al termine. Probabilmente sarebbe morta in ospedale. Quanti anni aveva? Un'ottantina. A lui era sempre sembrata vecchia, vecchia come le colline. Anche ai tempi in cui l'assillava per avere notizie della madre. — Perché non mi dici dov'è? — Perché non voglio, ecco perché. Ormai si è rifatta una vita, ha avuto un figlio e una figlia, e non possiamo turbare la sua felicità. — Ma lei è sposata con... — Stava quasi per dire: — È sposata con noi. — No, non è più la moglie di tuo padre. Ha sposato il signor Evans e sono nati Barnabas e Barbara. — Non ci credo. — Anche se sei piccolo, non ti permetto di darmi della bugiarda, Stephen! Era davvero piccolo, le arrivava appena alla spalla. L'anno dopo era cresciuto quindici centimetri, e l'anno successivo... — Tra non molto sarai alto come me — diceva Arthur Naulls. — Anzi, molto più alto. — Se mi dai il suo indirizzo, potrò almeno scriverle. — Non te lo darò mai, Stephen. Non sarebbe giusto. Meglio mettere una pietra sul passato. Gli aveva voltato le spalle. In quel momento, era diventato una specie di animale, capace solo di seguire l'istinto senza ragionare. E lei, che cos'era diventata? Non sapeva spiegarselo neppure ora. Forse la quintessenza della donna. No, non era vero. In realtà, lui amava le donne della sua vita, amava Lyn, amava il ricordo della madre. Forse, in quel momento la nonna aveva impersonato il lato cattivo delle donne, o almeno di certe donne. Lui aveva visto solo una figura femminile, i capelli lunghi e morbidi... Non ricordava con esattezza ciò che era accaduto dopo. Sapeva solo di essere balzato in piedi e di averla presa per il collo... Capitava di rado che Stephen ripensasse all'incidente. Da allora, non si era più verificato niente di simile. Certo che la polizia, se l'avesse saputo, ci avrebbe ricamato sopra con la sua psicologia spicciola. L'interrogatorio aveva lasciato il segno, l'euforia non durò a lungo, e per diverse notti Ste-
phen dormì male, facendo brutti sogni, cosa che non gli capitava quasi mai. La madre di Ann Morgan apparve alla televisione, per rivolgere un appello a chi potesse fornire informazioni che consentissero d'identificare l'assassino. Doveva pur esserci qualcuno che lo conosceva, forse c'era un tale, un amico, un vicino di casa, che si comportava in modo strano. La madre supplicò chiunque fosse in grado di aiutarla di farsi avanti. Quella notte Stephen la sognò. Sognò che lui e la madre si trovavano sul viale che portava ai dolmen, e quella donna si rifiutava di dire alla polizia che all'ora del delitto loro due erano insieme al Kelsey Arms. Stephen le si era avventato contro, l'aveva presa per il collo e stava scrollandola, quando Lyn l'aveva svegliato, dicendogli che gridava e si agitava nel sonno. Non esisteva per lui cura migliore che andarsene nella brughiera. Aveva la corda, la torcia elettrica e un pacchetto di candele. Quel fine-settimana avrebbe tentato di entrare nelle viscere di Apsley Sough. Purtroppo il bel tempo durato tanto a lungo doveva finire proprio ora. Sabato piovve tutto il giorno, una di quelle piogge torrenziali così frequenti verso la metà dell'estate. Il giorno seguente, la brughiera era avvolta da una nebbia che pareva pioggia. Stephen rimase a casa a scrivere il suo articolo per la La voce di Vangmoor. Ora che è piena estate, nella zona di Foinland sono stati aperti al pubblico vari siti di notevole interesse. Gli storici giardini di Jackley Manor possono essere visitati ogni domenica, a partire da oggi fino al 30 settembre, tra le 14 e le 17. Inoltre, a causa delle numerose richieste che gli sono pervenute, il signor David Southworth apre per la prima volta al pubblico il suo parco e alcune stanze di Chesney Hall. Il giorno di apertura è il sabato, sempre dalle 14 alle 17. I visitatori avranno così la possibilità di vedere lo studio dove Tace scrisse le famose Chronicles of Bleakland, e se le mie informazioni sono esatte, anche la penna da lui usata... — Come mai Cenerentola non torna al suo focolare, questa sera? — domandò Nick. — Stephen è andato a trovare la nonna. Rincaserà tardi. — Peccato che tu non me l'abbia detto prima. Saremmo andati da qualche parte. Data la situazione, non potremo mai fare altro che questo... Lyn scoppiò in una risata, mettendosi seduta nel letto. — Non pretendo
di essere un'esperta in questo campo, ma credevo che questa fosse l'occupazione preferita da voi uomini. Nick si fece serio, le prese una mano, la strinse tra le sue. — Io vivo solo nella suburra del tuo facile piacere, vero? Lyn lo guardò senza capire. — È una citazione dal Giulio Cesare — le spiegò. — Porzia lo dice al marito, se non sbaglio, a Bruto. "Vivo io solo nella suburra del tuo facile piacere?" La stessa domanda la rivolgo a te. Credevo di poter significare qualcosa di più per te, Lyn. Credevo che tra noi due potesse nascere un sentimento profondo. Ecco un'altra frase che forse non ti saresti aspettata di sentire da un uomo. Il fatto è che non m'interessano le avventure galanti fini a se stesse. A Lyn batteva forte il cuore. Ora non aveva più voglia di ridere. — Ma quando torna tuo zio, te ne andrai via — osservò. — In agosto. — E a quel punto sarà tutto finito? Io corteggerò altre donne e tu andrai a letto con altri uomini? Non era il genere di discorso che si aspettava Lyn. Non sapeva neppure lei che cosa si aspettava. — Non lo farò — disse. — Non l'ho mai fatto prima. Neppure a me interessano le avventure. Nick si alzò, s'infilò la camicia e i jeans e andò in cucina, dove iniziò a preparare il caffè. Quando tornò, sedette sul letto accanto a lei, la prese tra le braccia e la strinse forte. Lyn si stupì delle sue parole. — Non andrai mai da sola nella brughiera, vero, Lyn? Voglio che tu me lo prometta. — Te lo prometto — disse Lyn. Senza la vecchina che sferruzzava sempre e il solito vecchio della casa di riposo che gli fornissero lo spunto e fungessero da spettatori, Stephen non sapeva che cosa dire alla nonna. Era l'ora delle visite al reparto Lady Clara Stillwood. La vecchietta, a letto, appariva più fragile e malconcia che a Sunningdale. In seguito al colpo apoplettico le era rimasta la bocca storta. La pelle si era sbiancata, sembrava diventata trasparente. Non appena vide Stephen, mosse una mano ed emise un suono inarticolato. Stephen posò la scatola delle caramelle sul copriletto bianco. Helena aveva una mano paralizzata. Benché non l'avesse mai amata, e con il passare del tempo avesse imparato a temerla e a odiarla, poi a provare un senso di colpa nei suoi confronti, Stephen rimase profondamente colpito, vedendola armeggiare con una mano sola per aprire il cellophane, mentre l'altra mano restava inerte sul letto, e la vecchia assumeva un'espressione contra-
riata. Stephen prese la scatola, l'aprì, le mise in bocca una caramella arancione e poi una verde, pulì il filo di saliva colorata che le usciva dall'angolo della bocca. — Come sta Midge, Leonard? — l'interrogò la signora Naulls, strascicando le parole. — Sono Stephen. Pareva non esserci altro da dire. Le mise in bocca una caramella rossa. Stavolta Helena riuscì a mangiarla senza far colare la saliva. Stephen rivide mentalmente la scena avvenuta tanti anni prima, quando l'aveva presa per il collo e scrollata come fa il predatore con la sua preda per spezzarle le vertebre della nuca. Helena si era difesa graffiandogli le mani per costringerlo a mollare la presa, e contemporaneamente aveva tentato di dire qualcosa. Lui aveva allentato la stretta soffocando a stento un singhiozzo e finalmente Helena gli aveva rivelato, con voce strozzata, l'indirizzo di Vancouver della madre. A quel punto, Stephen desiderava solo chiederle scusa, era disposto a inginocchiarsi davanti a lei, se necessario. Era emerso in quell'occasione il cattivo carattere, la violenza di papi, ma l'ira si era subito smorzata come un cerino. Helena si era alzata, cupa in volto per il risentimento, si era massaggiata il collo, sistemata l'abito e il grembiule. Poi si era aperta la porta della cucina. Arthur Naulls tornava in quel momento da una delle sue sedute in municipio. Senza proferire parola, Helena si era messa a preparare il tè. Non aveva parlato dell'incidente, non ne aveva mai detto niente a nessuno. Da allora, era passata una mezza vita. Stephen sentiva di detestarla ora non meno di quanto la odiasse all'epoca, eppure andava a trovarla più spesso di quanto facessero i suoi stessi figli, e in famiglia tutti pensavano che fosse buono con lei. Perché andava a trovarla, le teneva compagnia, le portava le caramelle, e avrebbe continuato a farlo fino al giorno della sua morte? Forse perché era l'unico legame con la madre che gli fosse rimasto, con la madre e con l'illustre nonno? Sperava ancora in una rivelazione dell'ultima ora, un messaggio dal Canada, un aneddoto su Tace? — Arthur non è venuto a trovarmi neanche una volta — si lamentò la signora Naulls. Stephen non se la sentì di rammentarle che il marito era morto otto anni prima. — In questo periodo non sta molto bene — disse, e in un certo senso era vero. Ma la vecchia si era già dimenticata del marito, del dolore provato alla sua morte, e fissava Stephen con occhi privi d'espressione. Le
diede un bacio, le mise in bocca un'altra caramella, le batté una mano sulla spalla. Mentre se ne andava, lei gli fece un cenno di saluto, come aveva fatto al suo arrivo. Per le scale Stephen incrociò zia Joan e zia Kay. Portavano dei lupini colti nell'orto dei Pettit e una bottiglia di aranciata. — Stephen è sempre stato buono con sua nonna — disse la signora Pettit. — Sul giornale c'è un lungo articolo su di te — l'informò la signora Bracebridge. — È stato carino da parte tua precisare che papà lavorava per il signor Tace. Doveva avere equivocato, dal momento che Stephen non aveva detto niente del genere. I Naulls della generazione precedente erano tutti semianalfabeti. Per associazione d'idee, gli venne in mente Peter. — Avete notizie di Peter? — Peter? — Sì, mio cugino, Peter Naulls. — Devi domandarlo a zio Leonard — rispose la signora Pettit. — A noi nessuno dice mai niente, vero, Kay? Ripresero a salire le scale in punta di piedi, bisbigliando tra loro. Appartenevano a quella categoria di donne che negli ospedali si comportano come se fossero in chiesa. Stephen salì in macchina e andò a casa per la strada più lunga, quella che passava per Byss e Loomdale. Aveva smesso di piovere, l'aria era tiepida ma satura d'umidità, il cielo disseminato di nuvolette dorate, così come dorata appariva la brughiera in lontananza. Ripensando alla nonna, a Stephen vennero in mente le lettere spedite da ragazzo alla signora Brenda Evans, Tobermory Park Road, Vancouver. Lettere che non avevano mai ricevuto risposta. Probabilmente la nonna gli aveva dato un indirizzo falso. Che differenza faceva, ormai? Non gliene importava più niente. Non era più un ragazzo. 9 Chesney Hall era una dimora della metà del diciottesimo secolo, con un portico centrale lungo quanto era alto l'edificio. Questo portico era sorretto da una doppia fila di colonne corinzie, e le finestre erano incassate in massicci conci di pietra. Su una targhetta in smalto blu spiccava la scritta: ALFRED OSBORN TACE, SCRITTORE, VISSE IN QUESTA CASA DAL 1883 AL 1949. Il pubblico doveva passare da un'entrata laterale. Dal primo locale, una sorta di piccola serra, furono introdotti quasi furtivamente,
o così almeno parve a Stephen, dapprima nello studio, poi nel salotto e infine nella biblioteca, ma tenuti rigorosamente lontano dalla parte privata della casa occupata dalla famiglia Southworth. Cominciava a pentirsi di essere venuto, ma d'altra parte sarebbe stato un peccato rinunciare all'opportunità che finalmente gli si offriva. Gli vennero in mente alcune storie che aveva sentito, a proposito di eredi spossessati o non riconosciuti, tornati alla casa ancestrale travestiti da umili domestici. Era così che si sentiva anche lui. Southworth era presente ma, come disse agli ospiti che si aggiravano con grande circospezione tra i mobili di giunco e i vasi di fiori, non sarebbe stato lui a fare gli onori di casa. Ad assolvere il compito c'era un ospite della famiglia, un professore d'inglese che insegnava in un'università americana. Rivolto al rettore di St Michael, Southworth aggiunse che il suo amico era considerato un'autorità mondiale su Alfred Osborn Tace. Il professore, un tipo con la barba, alto e magro, indossava un paio di jeans e una sorta di camice svolazzante simile a quello portato dai pittori del diciannovesimo secolo. Quando Stephen mise piede nello studio, lo trovò al centro del locale, attorniato dai visitatori, che probabilmente per la maggior parte non avevano mai sentito nominare Tace, prima che iniziasse la serie televisiva di Bleakland. Le dotte parole del professore, pronunciate con un marcato accento del Middle West, parevano spuntare da una massa di pelo castano striato di grigio, costituita dall'insieme di baffi, barba e capelli, che gli lasciavano scoperto soltanto il naso e la zona intorno agli occhi. I visitatori lo seguirono con aria grave, mentre li precedeva nel salotto. Seguire quel gregge di pecoroni era visto da Stephen come un affronto alla sua persona e al suo legame di parentela con Tace. Provava risentimento nei confronti del professore, della sua cultura, del suo entusiasmo, della sua apparente indifferenza nei riguardi dei visitatori, che sembrava non considerare come singoli individui. Eppure un paio di volte ebbe la tentazionee di avvicinarsi e, se fosse stato possibile interrompere quel fiume di parole, informarlo che lui era il nipote di Tace. Ma l'esimio professore, ne era certo, gli avrebbe domandato in quale università avesse compiuto gli studi, e questo naturalmente l'avrebbe messo in imbarazzo. Lyn si guardava intorno, ammirava i mobili, i quadri, le prime edizioni, ma Stephen intanto si sentiva sempre più a disagio. Considerava umiliante dover rispettare il suo turno nella fila, per poter vedere le foto nelle cornici d'argento, in cui si vedeva Tace con i genitori, Tace a Oxford, Tace in compagnia della moglie. Il salotto era spazioso, con il soffitto alto, le pare-
ti ricoperte da pannelli bianchi e verde mela, e tra le suppellettili figuravano le poltrone che, a detta di papi, erano state rivestite dai Whalby. Sopra il camino di marmo spiccava il ritratto dello scrittore, opera di John. In un armadietto con le ante di vetro erano custoditi i volumi dei suoi autori preferiti, Gibbon, Fielding, Defoe. Stephen aveva il cuore gonfio, al pensiero che tutto questo sarebbe potuto appartenere a lui. Se la legge nel 1920 fosse stata uguale a quella attuale, quasi sicuramente quella casa sarebbe stata sua. Proprio un paio di giorni prima aveva letto un articolo sull'Echo, che parlava di un tale morto senza lasciare testamento. Eppure la figlia illegittima, la cui madre all'epoca del parto aveva il marito vivente, aveva ereditato tutti i beni del padre. Pensando a queste cose, cupo in volto, alzò la testa dopo aver osservato una foto di Tace ritratto in compagnia di Lady Ottoline Morrell a Garsington, e incrociò lo sguardo di Harriet Crozier che, in piedi accanto al piano a coda, prendeva appunti su un taccuino. Quel giorno era vestita in modo diverso dal solito, in blue jeans e camicetta bianca, ma anche stavolta i capelli erano nascosti dal foulard a disegni bianchi, verdi e azzurri. — Sto cercando di mettere sulla carta le mie impressioni, per scrivere un pezzo in cui ricreare l'atmosfera dell'epoca, qualcosa che si ricolleghi alla serie televisiva. — Indicò una foto della signora Tace. — Era sua nonna? — domandò con una certa esitazione. — Mio Dio, no — rispose Stephen con un sorrisetto malizioso. — Il mio legame di parentela è meno ufficiale. — La giovane giornalista lo guardò perplessa. — Aveva una figlia illegittima — le spiegò. Harriet appariva confusa. Stephen si sarebbe dilungato sull'argomento, se proprio in quell'istante non avesse visto il signor Newman e Joanne dirigersi verso di lui. Stentò a riconoscere la sorella di Lyn. La forma a mongolfiera non era cambiata, sotto l'abito di cotone a fiori, ma il viso sembrava diverso, con i capelli corti e ricciuti. — Kevin dice che è meglio prendere provvedimenti subito, piuttosto che piangere poi. Quando capì che Joanne si riferiva ai capelli, Harriet Crozier reagì con una risatina nervosa. — Forse tanto valeva che se li tingesse di nero — commentò. — Le spiace se ricavo un pezzo da questa storia? Alludo al fatto che alcune donne delle Three Towns hanno pensato di mettersi al sicuro, tagliandosi i capelli e tingendoseli. Sono una giornalista. Potrei ricavarne un articolo abbastanza divertente. In un primo momento Joanne parve offesa, ma poi si calmò. Tornarono
tutti insieme in Tace Way. Lyn preparò il tè, mentre Harriet intervistava Joanne, che le disse la sua opinione arricchita da numerose "citazioni" della signora Newman. — E lei? — domandò poi a Lyn la giornalista. — Ha deciso di sfidare il mostro, tenendosi i capelli lunghi? — Esattamente come lei — ribatté Lyn in tono pacato. — Io me li copro con il foulard. Meglio evitare di andarsene in giro con i capelli al vento come Alice nel Paese delle Meraviglie. Benché vi fosse ancora qualche ora di luce, benché il sole fosse ancora alto nel cielo, Stephen accompagnò Harriet alla fermata dell'autobus. Da Chesney Hall se n'erano andati anche gli ultimi visitatori, e il professore, che evidentemente aveva accompagnato il gruppo fuori in strada, ora stava tornando verso la casa. — Ha appena pubblicato una biografia di suo nonno — disse Harriet. — Ma immagino che lo sappia già. S'intitola Muse of Fire, la Vita di Alfred Osborn Tace, di Irving J. Schuyler. Stephen non ne era al corrente, ma non era disposto ad ammetterlo. — Non l'ho ancora letto. — Ce ne hanno mandato una copia al giornale. Chissà a chi l'affibbieranno da leggere? Le interessa? Posso prestarglielo, se vuole, non appena sarà stato recensito. Per un attimo, Stephen aveva creduto che ne affidasse a lui la recensione. Quando capì che non era così, ci rimase male. — Penso che ne invieranno una copia anche a me — disse, affettando la massima disinvoltura. Era una sua impressione, o Harriet appariva delusa? Di colpo gli venne il sospetto di piacerle come uomo, e a quel pensiero provò un misto di paura e di disgusto. L'autobus arrivò dopo neanche cinque minuti d'attesa, e fu con grande sollievo che Stephen la vide salire a bordo. Era stata una giornata spiacevole, in cui si era sentito umiliato, irritato, turbato. D'altronde, ripensando alle settimane precedenti, aveva l'impressione che ultimamente la sua vita fosse cambiata in peggio, e che persino il suo matrimonio, tempo addietro così sereno, ne avesse in qualche modo risentito. Dopo aver riflettuto, giunse alla conclusione che le cose avevano cominciato ad andare storte in un giorno ben preciso del mese d'aprile, per l'esattezza quando aveva trovato il corpo di Marianne Price.
Su Vangmoor il giorno seguente era sospeso un velo di foschia, che forse era dovuta all'aumento della temperatura, ma che avrebbe anche potuto trasformarsi più tardi in pioggia. Stephen si era alzato ed era uscito di casa molto prima che Lyn si svegliasse. Indossava un pullover e un giubbotto, e portava in spalla lo zaino in cui aveva infilato la corda, la torcia nuova, due candele, un piattino e una scatola di fiammiferi. Oltre a questo aveva portato con sé due panini con il formaggio. Gli piaceva portarsi qualcosa da mangiare, nel corso delle sue passeggiate nella brughiera. Avevano preso l'abitudine di farlo ogni giorno, lui e Peter, nel periodo trascorso a cercare Apsley Sough. Trovò un posto comodo per sedersi a mangiare i panini, con la schiena appoggiata a una pietra conficcata verticalmente nel terreno così da assomigliare a una lapide. Ce n'erano molte di queste pietre disseminate intorno: in tempi remoti stavano a indicare la proprietà o il diritto di sfruttamento di un giacimento di piombo. Su quella particolare pietra era incisa la lettera K, che stava per Duke of Kelsey. Tra il punto in cui si trovava Stephen e la cresta rocciosa che delimitava il Big Allen, c'era una sorta di pista lastricata, simile al bordo di una piscina rotonda, ora invasa dalla vegetazione. All'interno di questo cerchio pascolava un gregge. Da ragazzi Stephen e Peter si erano chiesti spesso quale funzione potesse avere avuto in passato quel cerchio, che dava l'impressione di essere antico quanto i dolmen. Ora Stephen sapeva che era molto più recente, avendo diversi secoli di vita in meno, e ne conosceva anche la funzione. In passato lungo la circonferenza di quel cerchio girava in tondo un cavallo, che trascinava pesanti pietre allo scopo di frantumare la più fragile roccia sottostante e di staccarne così il piombo. S'incamminò verso la collina, non proprio malvolentieri, ma con un certo nervosismo, ora che era arrivato il momento d'introdursi di nuovo nella miniera. Alla sua destra c'erano due baracche semidiroccate, costruite proprio sopra i fori d'accesso alle miniere, un tempo utilizzate dai minatori per riporvi gli attrezzi. Una era ormai ridotta a un ammasso di macerie, ma l'altra, pur essendo priva di tetto, era ancora in piedi. Stephen era entrato diverse volte nelle due baracche, per accertarsi che i fori d'accesso fossero stati chiusi. Entrato in quella meglio conservata, conosciuta con il nome di George Crane Coe, posò lo zaino per terra, ne estrasse la corda arrotolata e se la mise sulla spalla, infilò le candele in tasca e prese la torcia. Stavolta non ebbe difficoltà a trovare l'entrata di Apsley Sough. Fissò saldamente la corda allo spuntone di roccia, esattamente come lui e Peter avevano fatto diciassette anni prima. Ma ora si sentiva molto meno entu-
siasta che in quell'occasione. A quanto ricordava, lui e Peter non pensavano ad altro che a entrare nella miniera, per tuffarsi nella grande avventura. Ora invece esitava, inebriato dal sole che gli scaldava il viso, attardandosi ad ammirare la piccola valle da lui descritta una volta come il punto più suggestivo di Vangmoor. Da lì si godeva una splendida vista di Blathe Foin, con la Torre che si ergeva maestosa alle sue spalle. Si guardava intorno come se quella fosse l'ultima volta, come se la terra in cui si proponeva di entrare stesse per inghiottirlo definitivamente. Con la corda e il necessario per farsi luce, non aveva nulla di cui temere. Non ne dubitava. In fondo, era stata una sciocchezza nascondere lo zaino, considerato che nella brughiera non c'era anima viva. Da quando si era lasciato Chesney alle spalle, non aveva incontrato nessuno, oltre al lattaio e al ragazzo che portava i giornali. Da quando era stato commesso il secondo omicidio, la brughiera era deserta. Tranne le poche tracce lasciate dall'uomo, appariva come doveva essere quando non esistevano ancora né gli esseri umani né gli animali, piena di pace e di silenzio, avvolta in un velo di foschia che la rendeva ancora più affascinante e misteriosa. Stephen scostò i cespugli che crescevano sopra l'apertura e guardò dentro. C'era odore di terra, e così buio che non si vedeva nulla. Afferrata la corda con tutt'e due le mani, cominciò a calarsi giù finché i suoi piedi non ebbero trovato un punto d'appoggio. Il tunnel aveva un diametro inferiore agli ottanta centimetri, era una specie di budello nella pancia della collina. Aveva già percorso un lungo tratto, quando accese la torcia. La luce che filtrava dall'imboccatura era diventata un puntino lontano che, dopo una curva del tunnel, era scomparso del tutto dalla visuale. Stephen era rimasto al buio. La torcia faceva una luce splendida, paragonabile quasi alla luce del giorno, ma un po' sinistra. Stranamente, ora che si trovava all'interno della miniera, Stephen non aveva paura. Al contrario, si sentiva eccitato come da ragazzo. Una delle differenze consisteva nel fatto che lui era cresciuto rispetto ad allora, e il grande stanzone in cui sbucava il tunnel, che ricordava essere alto circa due metri e mezzo, in realtà era poco più di un metro e ottanta, cioè appena quanto bastava perché ci si potesse stare in posizione eretta. Puntando la torcia verso il soffitto, esaminò la caverna, ormai priva delle sue ricchezze minerarie e costituita soltanto da roccia calcarea. Da lì partiva il tunnel che un tempo aveva percorso con Peter. Un po' più avanti avevano trovato l'aria cattiva. Il soffitto era talmente basso che ci si stava a malapena in piedi. I minatori probabilmente non avevano la sua statura.
Stephen dovette chinarsi per proseguire. Più avanti, l'aveva dimenticato, il tunnel ne incontrava un altro, formando con esso un angolo acuto. Aveva percorso una delle due estremità di una biforcazione e ora, tenendo alta la torcia davanti a sé, percorse il tratto di tunnel che poteva essere considerato l'impugnatura della biforcazione stessa. C'era un silenzio assoluto, esattamente come la volta precedente, ma essendo in quell'occasione in compagnia del cugino, non vi aveva fatto caso. Ora aveva l'impressione che non esistesse al mondo un silenzio paragonabile a quello. Fuori, nella brughiera, c'era pace, ma era tutt'un'altra cosa. Fuori soffiava e sibilava il vento, si udiva il canto degli uccelli e il monotono ronzio degli insetti, e ogni tanto capitava di sentir passare un aereo. Lì sotto invece c'era un silenzio di tomba. A impressionarlo non era tanto l'assenza di rumore, quanto la presenza di un silenzio quasi tangibile. Era come se fosse diventato completamente sordo. Rimase un attimo immobile, con le orecchie tese, ed ebbe l'impressione di udire i pensieri che gli passavano per la testa. In fondo al tunnel che si trovava alla sua sinistra c'era la galleria rimasta bloccata da una frana. Proseguì per un tratto in quella direzione. Era esattamente come allora, in quei diciassette anni non era cambiato nulla, o almeno questa era la sua impressione. E così sarebbe rimasta, immutata, per altri mille anni. Forse il mondo civilizzato sarebbe andato distrutto, la superficie della terra sarebbe cambiata e la brughiera sarebbe diventata un deserto, ma quel labirinto sotterraneo sarebbe rimasto sempre uguale e muto in eterno. Le loro candele si erano spente non lontano dal punto in cui si trovava in quel momento. Stephen ne accese una e spense la torcia, poi andò avanti, tenendo la candela sul piattino. C'era un tunnel in cui lui e Peter non erano entrati. Si staccava dalla galleria principale, in lieve discesa, e poco dopo Stephen notò che i pezzi di scisto di cui era composto il pavimento erano umidi. Più avanti si affondava in un centimetro d'acqua. Alzò la candela e vide che poco oltre si apriva una caverna. Spaziosa e alta com'era, doveva essere una grotta naturale. Non aveva pavimento. O almeno, ammesso che ci fosse, era stato sommerso dall'acqua, che appariva come un lago nero dalla superficie immobile. Stephen accese di nuovo la torcia, e restò in contemplazione di quella massa d'acqua scura e dell'enorme volta che la sovrastava. Non ricordava di aver mai visto in vita sua acqua stagnante in cui non crescesse vegetazione alcuna. Non c'era un ciuffo d'erba, né traccia di muschio, né foglie galleggianti sulla superficie
dell'acqua. Doveva essere arrivato nel punto denominato pozzo senza fondo. Ciò significava che si trovava all'interno della miniera George Crane, a parecchia distanza dal Big Allen. Tornato nel tunnel in pendenza, accese di nuovo la candela e quindi svoltò a sinistra, per poi raggiungere il tratto in cui era costretto a camminare curvo. Aveva percorso appena qualche metro, quando vide oscillare e poi spegnersi la fiammella della candela. Da ragazzo, non aveva notato quanto fosse pestilenziale l'aria. Lo notò ora. C'era un odore strano, come di zolfo misto a gas. Forse l'acqua, che da un centinaio d'anni non veniva più tolta con le pompe, combinata con qualche sostanza chimica produceva gas. Tornò sui suoi passi, dopo essersi messo in tasca la candela e aver acceso di nuovo la torcia. Si fermò ancora ad ascoltare il silenzio, turbato solo dai suoi passi, e a un tratto si accorse di sentirsi felice. Lo stato depressivo del giorno prima, quando gli era capitato di pensare che tutto era andato storto dal giorno in cui aveva trovato il corpo di Marianne Price, era completamente svanito per lasciare posto a una strana contentezza. Non sapeva neppure lui che cosa l'avesse indotto a scendere nella miniera. Forse l'aveva fatto solo per il gusto dell'avventura, o per vedere se fosse come se la ricordava. Comunque era stata una buona idea, considerato che ora si sentiva felice. In quel silenzio innaturale e senza tempo rimase ad assaporare la sua felicità. Gli venne fatto di pensare che se, per qualsiasi motivo, fosse restato per sempre lì sotto, non sarebbe più stato infelice, non avrebbe sofferto né subito umiliazioni. Trasse un sospiro che in quel silenzio echeggiò come un ruggito. Si rimise di nuovo in cammino, oltrepassò la caverna bloccata dalla frana e raggiunse la biforcazione. A questo punto si rese conto di non ricordare da quale delle due parti fosse venuto, da destra o da sinistra. I due tunnel apparivano identici, bassi e stretti, con le pareti segnate dalle punte dei picconi. Un tunnel l'avrebbe riportato indietro fino ad Apsley Sough, dove l'aspettava la corda per risalire in superficie; l'altro tunnel l'avrebbe condotto chissà dove nelle viscere del Big Allen. E se avesse imboccato quello sbagliato, si sarebbe accorto dell'errore in tempo per tornare indietro? A scuola aveva studiato la storia del labirinto di Cnosso e del Minotauro. Per essere sicuro di trovare l'uscita, Teseo aveva portato con sé un gomitolo di filo e l'aveva srotolato a mano a mano che camminava. Peccato che non gli fosse venuto in mente di fare altrettanto perché, pur non correndo il rischio d'imbattersi come Teseo in un mostro mezzo uomo e mezzo toro,
non sapeva proprio da che parte andare. Se avesse perduto la strada e quindi non fosse riuscito a trovare la corda per risalire, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di cercarlo là sotto. Se almeno avesse lasciato lo zaino nei paraggi, sarebbe stata un'indicazione che avrebbe potuto rivelarsi utile. Invece l'aveva deliberatamente nascosto nella George Crane Coe, a quasi mezzo chilometro di distanza. Si sentiva felice nella miniera, ma non voleva morirci dentro. Non era certo una bella prospettiva, quella di continuare a camminare fino a diventare esausto, senza più candele, senza più la batteria per la torcia, non avendo altra scelta che sdraiarsi al buio ad aspettare la morte. Puntando la luce della torcia alternativamente sull'uno e sull'altro tunnel, tentò di decidere quale dei due fosse meglio scegliere. Se avesse avuto una moneta, avrebbe fatto a testa o croce. Decise che sarebbe andato a destra se avesse trovato i fiammiferi nella tasca destra. Infilò la mano sinistra in tasca e scoprì che da quella parte c'era solo la candela e il piattino. Senza un attimo d'esitazione imboccò il tunnel di destra. Per un lungo tratto non ebbe modo di sapere se stesse andando o no in direzione di Apsley Sough. Le pareti del tunnel, a causa dei lavori di scavo risalenti a tre secoli prima, si presentavano molto irregolari. La stessa caratteristica era comune a tutti gli altri tunnel della miniera. Non ricordava se quello da lui percorso all'andata descrivesse la stessa curva larga che si snodava ora davanti a lui. Il guaio era che non ricordava niente di preciso. Comunque, poteva sempre tornare indietro. Tra non molto il tunnel, se era quello giusto, si sarebbe immesso in quel passaggio più stretto e leggermente più alto, attraverso il quale si era introdotto nella miniera. Infatti l'intravide alla luce della torcia, che però ne rischiarava solo un breve tratto. Proseguendo in quella direzione, vide che in fondo al tunnel si apriva una sorta di grande stanza. Per la verità non aveva avuto molta paura. Con le candele e la torcia a disposizione, con un po' di senso dell'orientamento (anche se poco prima aveva dubitato di averne), era assurdo pensare di potersi perdere o di restare intrappolato nella miniera. Giunto al termine del tunnel, alzò la torcia all'altezza degli occhi per cercare la corda, e vide che lo stanzone in cui si trovava non era quello giusto. Non era quella la caverna ai piedi di Apsley Sough. Ma non fu questo il motivo per cui si lasciò sfuggire un gridolino di stupore. Fino a quel momento aveva creduto che la miniera fosse rimasta
vuota, spoglia, immutata. Non era così. Qualcuno l'aveva preceduto, aveva trasformato la caverna in una sorta di camera da letto-nascondiglio-rifugio. Si guardò intorno, orientando il fascio di luce nelle varie direzioni, verso il pavimento, verso la parete più lontana. Lì dentro non c'era umidità né cattivo odore, l'aria era fresca. Dall'altra parte della stanza c'era stata una frana, che probabilmente ne aveva bloccato l'uscita. Per terra, su un telo di plastica, c'era un materassino gonfiabile, e sopra una borsa blu arrotolata. C'era anche un mucchietto d'indumenti, comprendente un giubbotto mimetico imbottito, un pullover simile a uno dei suoi, un paio di calzoni marroni di velluto a coste, e un altro paio di tweed logori e sporchi. Su una scatola di legno capovolta c'erano due candele, una quasi nuova, l'altra ridotta a un mozzicone, infilate in due bottiglie del latte. Oltre a questo, nella caverna c'erano molte altre cose. Stephen, che fino a quel momento era rimasto fermo all'entrata, guardandosi intorno, avanzò sui sacchi stesi per terra a mo' di tappeto e accese tutt'e due le candele. Facevano una luce strana, e la loro ombra proiettata sulle pareti sembrava enorme. Stephen continuò a guardarsi intorno incuriosito. Chiunque vivesse lì, o comunque vi si rifugiasse, si era fatto una buona provvista di cibo e bevande. In una scatola di cartone, che aveva contenuto in origine bottigliette di succo di frutta, c'era un pacchetto di biscotti, due confezioni di carne in scatola, un vasetto di cipolle sott'aceto e quattro lattine di birra ancora legate insieme dal sigillo di plastica. Stephen si accovacciò per terra per guardare il resto. In un'altra scatola trovò un piccolo bollitore e un apriscatole; in una borsa di plastica del latte in polvere, tè in bustine e qualche posata. Ma ancora non aveva visto tutto. Sotto uno spuntone della roccia, seminascosta, c'era un'altra scatola di cartone con i lembi ben chiusi a incastro. Stephen si chiese se contenesse pentole per cucinare, oppure altri indumenti. L'incuriosiva il fatto che questa scatola fosse stata chiusa con cura, mentre le altre erano state lasciate aperte. Provò a sollevarla. Era leggerissima. Dovevano esserci degli spifferi nella caverna, perché le fiammelle delle candelle guizzavano in continuazione. C'erano momenti in cui il riflesso della luce arrivava su fino al soffitto. Stephen aprì i lembi della scatola. Dentro, sopra una sorta d'imbottitura ricavata con carta velina rosa, c'erano alcuni piccoli oggetti femminili, come una forcina per i capelli, una matita per le sopracciglia, un braccialetto di plastica bianco e nero, una boccetta di profumo, un fazzoletto sgualcito con l'iniziale A, un fazzoletto di carta sporco di rossetto, una matita con un fiocchetto all'estremità. Gli oggetti
emanavano un odore polveroso, che ricordava quello della segatura. Era un odore strano, da sentire sotto terra. Sotto questi oggetti c'erano altri strati di carta velina rosa, e sotto la carta numerose ciocche di capelli chiari disposte in perfetto ordine e divise in due parti uguali. Erano due biondi diversi, uno chiarissimo, l'altro un po' più tendente al rosso. Ciascuna delle due parti, sistemata con grande cura, faceva pensare a un serpente arrotolato. 10 Dunque anche in quel labirinto abitava un Minotauro, un mostro mezzo uomo e mezzo animale. Le ombre delle candele oscillarono, le fiammelle guizzarono come per uno spostamento d'aria provocato dall'arrivo di qualcuno. Stephen trasalì, il cuore gli batté forte, ma non c'era nessuno lì dentro, non c'era altro che il letto, le provviste e gli oggetti contenuti nella scatola. Tornò a guardare le due masse distinte di capelli, allungò una mano con circospezione e li toccò, poi prese quelli più chiari. Chissà se erano appartenuti a Marianne Price o ad Ann Morgan? Non aveva modo di saperlo, così come non poteva sapere a quale delle due ragazze erano appartenuti gli oggetti trovati nella scatola, a parte il fazzoletto con l'iniziale. Quando, quasi a malincuore, ebbe rimesso i capelli al loro posto e richiuso la scatola, si guardò intorno alla ricerca del coltello o delle forbici usate da quell'uomo, ma non trovò nulla. A questo punto non poteva far altro che avvertire la polizia. Non speravano di certo in un simile colpo di fortuna. Stephen immaginò l'espressione di Malm, nel momento in cui l'avrebbe messo al corrente della sua scoperta. Ora anche Troth avrebbe dovuto trattarlo con il rispetto che meritava. Chissà se lo sconosciuto abitatore della caverna avrebbe capito che era entrato qualcuno? Stephen rimise la scatola al suo posto, così come gli sembrava di averla trovata, accese la torcia e spense le candele. Forse lo sconosciuto si sarebbe accorto che si erano accorciate, ma ormai non c'era più rimedio. Del resto era improbabile che si recasse alla caverna ogni giorno, o comunque più di due volte la settimana. Non era quella la sua casa. Gli serviva solo come nascondiglio, era un posto dove rifugiarsi per stare alla larga dai suoi simili. Ripercorso il tunnel fino alla biforcazione, Stephen prese l'altra strada. Pochi minuti dopo raggiunse il punto in cui penzolava la corda. Comin-
ciò a risalire, e spense la torcia non appena vide un po' di luce davanti a sé. Era spuntato il sole e la foschia si era diradata, mentre si trovava all'interno della miniera. La luce forte l'abbagliò. Rimase qualche istante sdraiato sull'erba, riparandosi gli occhi con le mani, finché non si fu riabituato alla luce. Mentre recuperava lo zaino dalla baracca, udì belare una pecora. Gli sembrava di essere rimasto mezza giornata nella miniera, ma quando consultò l'orologio, vide che era trascorsa appena un'ora. Erano soltanto le dieci. Quel giorno, come ogni domenica, papi andava a mangiare da loro. Meglio tornare subito a casa. Non avrebbe fatto in tempo ad andare al commissariato prima dell'arrivo di suo padre. Se ci fosse andato, l'avrebbero sicuramente trattenuto tutto il giorno, esigendo che rispondesse alle loro domande, che li accompagnasse alla miniera, che li portasse fino al nascondiglio segreto. Ripeté mentalmente le ultime due parole. Era una bella trovata. Perché non ci aveva pensato anche lui, a trovarsi un rifugio come quello? Provava una certa invidia nei confronti dello sconosciuto. Sarebbe stato meraviglioso, se avesse avuto anche lui un posto come quello nella brughiera. Nessuna pioggia l'avrebbe mai trattenuto dal rifugiarvisi, lì dentro non avrebbe avuto scocciature. Avrebbe potuto accamparvisi, portarsi da mangiare, stare nascosto nella sua tana come una volpe. Ormai era troppo tardi. Ci aveva già pensato un altro prima di lui. Si sarebbe presentato al commissariato dopo che papi e gli altri se ne fossero andati via. Avrebbe detto a Malm o a Manciple o a chiunque altro avesse trovato di essere sceso nella miniera nel pomeriggio e di essere andato subito lì. La sua scoperta avrebbe consentito alla polizia di mettere le mani quanto prima sull'assassino delle due ragazze. Dovevano esserci un'infinità d'indizi, tra gli indumenti, le provviste e l'attrezzatura varia. Sarebbe stato quasi come portarli a casa dell'assassino. Si chiese dove abitasse. Non era da escludere che lo conoscesse. Lui e Lyn conoscevano quasi tutti gli abitanti delle Three Towns, o personalmente, o di vista, o di fama. Poteva trattarsi di un nuovo venuto, arrivato magari in aprile, all'epoca del primo delitto, ma in questo caso com'era possibile che conoscesse la miniera? Forse, dopo che il colpevole fosse stato arrestato e la polizia avesse portato via tutta la sua roba dalla caverna, lui, Stephen, avrebbe potuto tornare nella miniera e usare il nascondiglio. Il furgone di papi era fermo davanti a casa. Era arrivato in anticipo. Mentre si lavava e s'infilava una camicia pulita, Stephen cercava di decidere se fosse il caso, durante il pranzo, di parlare alla famiglia della sua sco-
perta. O forse era meglio aspettare che se ne andassero tutti, e parlarne soltanto con Lyn? Non poteva andare al commissariato senza rivelare a Lyn il motivo che lo spingeva a farlo. A pranzo c'era arrosto d'agnello. La domenica, Lyn preparava sempre l'arrosto. Sia lui sia papi lo mangiavano volentieri. Stephen portò il discorso sull'assassino di Vangmoor e sulle due ragazze uccise, come preambolo alla notizia che intendeva dare, ma papi buttò sul piatto forchetta e coltello. — Non è proprio l'argomento adatto mentre si è a tavola! — esclamò, contrariato. Stephen pensò di raccontare brevemente l'accaduto a Lyn, mentre era in cucina, ma la moglie era troppo affaccendata a servire in tavola. Poi arrivarono i Newman, con Joanne, Kevin e Trevor. Stephen portò timidamente il discorso sulle miniere di piombo, tanto per vedere se gli avrebbe dato fastidio parlare di qualcosa che aveva tenuto per sé per molti anni. — Non parlarmi di gallerie sotterranee — l'interruppe la signora Newman. — Non l'ho mai potute sopportare. Quando eravamo a Londra, e voi ragazze eravate ancora piccole, non sono andata neppure una volta in metropolitana, vero, Lyn? Mia madre era come me. Una volta, quando stava da tua zia a Finchley, hanno dovuto prendere la metropolitana per andare a Londra. Solo che il primo tratto del percorso era in superficie, e quando il treno è partito, e la zia le ha detto che tra un minuto sarebbe andato sotto terra, mia madre ha tirato il cordone del campanello d'allarme. — Nei treni della metropolitana si tira una maniglia — la corresse Joanne. — Be', fa lo stesso. Hanno fermato subito il treno, e mia madre non ha più preso la metropolitana, ma quella volta le è andata male, si è trovata una bella multa da pagare. I particolari non me li ricordo bene, ma so che i soldi ha dovuto sborsarli. Anch'io non sopporto l'idea di stare sotto terra. — Invece c'è gente che ci va volentieri, nella metropolitana — intervenne Trevor. — E tutti sappiamo perché. — A me non piace — disse papi, aggrottando la fronte. A questo punto Trevor si buttò a capofitto in un lungo discorso, in cui parlava di ritorno all'utero materno e di rifiuto del fallo, e fu con un certo imbarazzo che si vide costretto a spiegare meglio i due concetti in presenza di papi e dei Newman. Stephen pensò che doveva andare al commissariato e non sapeva se fosse il caso di telefonare prima. Chissà se funzionari come Malm o Hook erano in servizio la domenica? Dopo che tutti se ne furono andati, alle sette passate, decise che ormai era troppo tardi per presen-
tarsi alla polizia. Con tutto il tempo che avrebbe impiegato ad arrivare e a spiegare com'erano andate le cose, poi a portarli fino alla miniera, sarebbero arrivati che era già buio. Tanto valeva rimandare al giorno dopo. Ma il mattino successivo gli sembrava già troppo tardi. Non avrebbe saputo quale giustificazione trovare per non essersi presentato prima. Capì in quel momento che non si sarebbe rivolto alla polizia, e che probabilmente non ne aveva avuto intenzione fin dall'inizio. Ora l'idea di spifferare tutto alla polizia gli sembrava addirittura ridicola. Come gli era venuta in mente una simile idea? Come avrebbe potuto rivelare a gente come Hook o Troth l'esistenza del nascondiglio segreto? Per il momento, ne era certo, soltanto lui e l'assassino sapevano della sua esistenza. Cominciò a sentirsi come se custodisse un segreto prezioso, e rivelarlo a qualcuno fosse una sorta di tradimento, non sapeva nemmeno lui nei confronti di chi. Inoltre, se avesse messo al corrente la polizia o anche soltanto la moglie, si sarebbe precluso la possibilità di tornarvi. Non avrebbe più messo piede nella miniera per anni, se non per sempre. Come misura di sicurezza, la polizia avrebbe bloccato l'entrata di Apsley Sough, chiudendola definitivamente con il cemento, come in passato avevano chiuso le aperture sotto le baracche e l'altra entrata di Knamber Foin. Non c'era dubbio che l'avrebbero fatto. Dopo ch'ebbe preso la decisione di tacere, Stephen si sentì sollevato. In fondo, che cos'avevano fatto di buono per lui, per meritare la sua collaborazione? Non avevano fatto altro che coprirlo d'insulti e dargli dello psicopatico. Quando fosse tornato alla miniera, ci sarebbe andato da solo. Entrata in camera, Lyn tolse il topo morto dal copriletto, afferrandolo con le mani protette da diversi strati di carta da cucina. Peach, che l'aveva accompagnata di sopra, camminando al suo fianco ed emettendo lievi miagolii, forse per annunciarle il regalo che le aveva fatto, rimase a osservarla a coda alzata e schiena inarcata mentre toglieva il topo. — Che cosa vuoi che ne faccia? — domandò Lyn. — Credi forse che me lo mangi? — Gettò il cadaverino di velluto nel gabinetto e tirò la corda. — Credevo che non ti saresti mai abbassato a prendertela con un povero topino come questo. Peach entrò nello studio di Stephen e saltò sul tavolo, vicino al busto di Tace. Stephen non voleva che il gatto entrasse nello studio. Lyn andò a prenderlo, ma si distrasse guardando il calendario pubblicato dall'Echo; nel mese di luglio appariva una foto dell'Hilder a Loomdale. I calendari, le da-
te, lo scorrere veloce del tempo erano diventati la sua ossessione. Per la terza o quarta volta nella giornata, contò i giorni che mancavano per arrivare al 24 giugno. Era più facile farlo con l'aiuto del calendario, e in un certo senso meno compromettente. Dieci giorni. Mentalmente ne aveva contati nove. Si era sbagliata. A meno che non si fosse sbagliata invece sulla data, 24 giugno, mentre in realtà era il primo di luglio. Non sarebbe stata la prima volta che ricordava il giorno sbagliato, con la differenza che in passato non aveva avuto importanza, che sbagliasse o facesse i conti giusti. Prese in braccio Peach. Aveva il pelo morbido, e benché si sentisse il calore emanato dal suo corpo, il pelo era fresco al tatto. Dimenticato l'incidente del topo, Peach cominciò a fare le fusa. Lyn tornò a contare i giorni, aiutandosi con il calendario, e decise che erano dieci, oppure tre. Più probabile dieci. Sentiva che nel suo corpo non stava accadendo nulla, come quando il periodo mestruale è ancora lontano. Scese al pianterreno con il gatto in braccio. Quel pomeriggio la temperatura era mite, c'era il sole ma il cielo era disseminato di nubi, e probabilmente sarebbe arrivata un'ondata di caldo. Ciononostante Lyn si mise un foulard in testa e spinse indietro i ciuffi di capelli ribelli in modo che non fossero visibili. Nel forno c'era un pollo e del riso per Stephen. Lyn predispose il timer in modo che il forno si accendesse alle cinque. Non avrebbe lasciato un messaggio, non lo faceva mai. Dopo quanto gli era accaduto da ragazzo, Stephen detestava i biglietti. Percorsa Tace Way e la strada principale del paese, attraversò il parco e si fermò davanti al cancello di St Michael ad aspettare l'autobus che veniva da Jackley. Pensava a come sarebbe stato spiacevole tornare da sola al buio, ma Nick non gliel'avrebbe permesso, l'avrebbe accompagnata con il furgone di Bale. Quando si trovava a Chesney da sola, aveva un po' paura anche in pieno giorno. A volte si chiedeva se l'assassino delle due ragazze sapesse chi aveva i capelli biondi e chi no: magari aveva già preso di mira le bionde da un pezzo, e in questo caso coprirsi la testa non faceva nessuna differenza. Ora però Lyn non era sola. Nel cortile della chiesa, vicino all'angelo che vegliava la tomba di Tace, c'era il professore americano, vestito in blue jeans, cappello di feltro a tesa larga e sandali del Dr Scholl. Arrivato in strada, si alzò il cappello e salutò Lyn, benché non la conoscesse. Salita a bordo dell'autobus, prese posto nella parte anteriore. Non vedeva l'ora d'incontrare Nick, anche se si erano visti quel mattino e la sera precedente. Eppure a volte, pensando a Stephen, le rincresceva di avere cono-
sciuto Nick. Provava gli stessi sentimenti contrastanti quando pensava a quei dieci giorni di ritardo: in certi momenti le pareva che aspettare un figlio da Nick fosse la fine del mondo, in altri sperava ardentemente che fosse vero. Il giorno dopo ebbe inizio il grande caldo. Ogni mattino presto Vangmoor era avvolta nella foschia, ma poi, quando spuntava il sole, il cielo era perfettamente sereno, d'un azzurro intenso senza neppure un cirro. Faceva un caldo terribile a Goughdale e nella Valle di Allen, e ogni giorno era peggio del precedente, finché, dopo un breve periodo in cui la temperatura calò leggermente senza però che piovesse, il caldo tornò più insopportabile di prima. Stephen andava ogni sera nella brughiera. Una volta presa la decisione di tenere per sé il segreto della miniera, i suoi sentimenti nei confronti dello sconosciuto che aveva scoperto il nascondiglio e si era organizzato per viverci subirono una trasformazione. Gli aveva fatto un grosso favore evitando di tradire il suo segreto, e di conseguenza tra loro due si era stabilito un rapporto quasi d'amicizia. Si era creato un legame, e così ora Stephen non aveva più paura di lui, né orrore. Arrivò al punto d'immaginare che potessero conoscersi, e che l'altro l'invitasse nel suo nascondiglio. Quando, dopo circa una settimana, si recò di nuovo alla caverna, la esaminò attentamente per vedere se ci fossero mutamenti, perché in questo caso significava che nel frattempo lo sconosciuto era tornato. Le candele erano esattamente come lui le aveva lasciate. Stavolta aveva portato con sé un righello. Misurò le candele per maggiore sicurezza. Una era lunga diciotto centimetri e mezzo, l'altra sei. Anche il letto era perfettamente uguale alla volta precedente. Dalle scatole non mancava nulla, né era stato aggiunto qualcosa. Anche il mucchio d'indumenti era rimasto intatto. I capelli biondi erano al loro posto, arrotolati come serpenti. Quella sera si trattenne a lungo sul versante del Big Allen, accovacciato tra l'erica, in attesa che arrivasse qualcuno. Nemmeno lui sapeva esattamente come si sarebbe comportato, se lo sconosciuto fosse apparso e si fosse calato nella miniera. Comunque non vide nessuno, né in quell'occasione né la sera successiva, benché fosse rimasto fin dopo il calare del sole e fosse stato costretto a tornare a casa al buio. Forse per colpa del nervosismo dovuto alla lunga attesa, o per il fatto di essersi esposto troppo al sole, considerato che era nella brughiera da mezzogiorno in poi, al ritorno gli venne di nuovo la febbre. Si svegliò nel cuo-
re della notte, con il pigiama madido di sudore. — Il padrone della brughiera! — aveva gridato nel sonno. — Il padrone della brughiera! La calura non accennava a diminuire. Un mercoledì pomeriggio, giorno in cui il negozio chiudeva presto, Lyn e Nick decisero di andarsene a zonzo per Vangmoor, in modo che lui potesse vedere la brughiera, e soprattutto i dolmen, l'Hilder e Bow Dale. Seduti sull'erba all'ombra dei megaliti, rimasero a contemplare il Big Allen e l'intera piana dei Foinmen. Dal punto in cui si trovavano si scorgevano persino i tetti di Hilderbridge luccicanti al sole. Non c'era in giro anima viva. La paura teneva lontano la gente dalla brughiera. — Erano anni che non venivo qui — disse Lyn — e probabilmente ne passeranno altrettanti prima che torni. Non mi sento tranquilla neanche in una bella giornata come questa. — È stupendo. — Come quel serpente che hai in vetrina, ma ciò non toglie che mi fa paura. — Non ti piace vivere qui? — Non è facile rispondere, dal momento che non ho mai provato a vivere altrove. Si girò dall'altra parte, voltandogli le spalle. Ora non aveva più dubbi. Quasi tre settimane di ritardo. Il mattino seguente sarebbe andata al St Ebba's per il test di gravidanza, e così avrebbe avuto il responso definitivo, ammesso che ve ne fosse bisogno. Il bambino sarebbe nato in febbraio, cioè sei mesi dopo il trasferimento di Nick. Non gli aveva detto di essere in stato interessante e probabilmente non l'avrebbe fatto neppure in seguito. Aveva in mente un piano ben preciso, per quanto riguardava Stephen, se stessa e il bambino. Nick le toccò la spalla, le fece voltare la testa, la baciò sulle labbra. — Adesso non ti tremano più le mani. — No. — Sei la persona più dolce che abbia mai conosciuto. — In realtà intendi dire che sono debole. — No, affatto. Sei dolce, e sai anche essere forte. Lyn, faremo qualcosa per cambiare la nostra situazione, non andremo avanti sempre così, senza parlare di matrimonio, senza parlare di quello che succederà il mese prossimo, quando dovrò andarmene. Guardami, Lyn. Lyn si alzò e gli tese la mano. Anche se c'era Nick con lei, la brughiera le faceva paura ugualmente. Quel silenzio, quella vastità, sembravano cela-
re uno spettatore nascosto. Le pareva quasi che i megaliti avessero occhi per vederla e sapessero distinguere il colore dei suoi capelli. Quando Nick la raggiunse e le passò un braccio intorno alle spalle, si strinse forte a lui. — In realtà tu odi questi posti, vero? — le domandò. — Non devi mai venire nella brughiera senza di me. — Io ci vivo — replicò Lyn, e in quel momento il sole sparì. Fu solo un istante, ma bastò a farla rabbrividire. "Mi è passata vicino la morte", pensò, ma non disse nulla per non impressionare Nick. Come i minatori di un tempo, Stephen cominciava ad abituarsi ad avanzare nei tunnel stretti e bassi. Si muoveva con maggiore sicurezza ma anche con maggiore prudenza, rispetto alla prima volta che era entrato. Aveva con sé una batteria di scorta, nel caso la prima si esaurisse. Dopo aver sofferto il caldo all'aperto, durante il tragitto per arrivare fin lì, ora sentiva con piacere il fresco della miniera. C'era odore di umidità e di acqua stagnante. Camminava con circospezione, attento a captare eventuali rumori. Avvertiva una sensazione strana, che non era paura, anche se la paura era in misura modesta una componente del suo stato d'animo. Era una sensazione provocata dall'adrenalina che gli scorreva nel sangue. Si era preparato psicologicamente a vedere una luce in fondo al tunnel, la luce delle due candele. Se l'avesse vista davvero, sarebbe tornato sui suoi passi, oppure avrebbe continuato ad avanzare verso lo sconosciuto? Stephen si sentiva fisicamente forte, in grado di difendersi da un'eventuale aggressione, ma pensava che non sarebbe stato necessario, perché lo sconosciuto non l'avrebbe assalito. Ormai tra loro due si era instaurato un rapporto che escludeva la possibilità di manifestazioni ostili. O almeno così gli pareva. Comunque non c'erano luci in fondo al tunnel. Stephen esaminò la caverna, puntando la torcia nelle varie direzioni. Il materasso che fungeva da letto era al suo posto, e per terra erano ancora ammucchiati il giubbotto e due paia di pantaloni, ma Stephen non era sicuro che non fossero stati spostati. Una cosa era certa, e cioè che il pullover era sparito. Guardò le candele, e neppure stavolta ebbe alcun dubbio. Non c'era bisogno di misurarle. La candela piccola era stata sostituita da una nuova, l'altra si era accorciata e ora non era più lunga del suo pollice. Lo sconosciuto era tornato nel nascondiglio. Aveva mangiato qualche biscotto prelevato dal pacchetto, bevuto una
lattina di birra e portato una mezza dozzina di giornali, tutti supplementi delle edizioni della domenica. Provò un senso di soddisfazione. Si sentiva anche un po' eccitato, ma soprattutto soddisfatto. Ora aveva la prova che lo sconosciuto tornava periodicamente nella caverna, non si era limitato a imboscarvisi quando ne aveva avuto bisogno. Rimise le provviste di cibo e le lattine di birra nella scatola, esattamente come le aveva trovate. A questo punto gli venne un'idea geniale. Avrebbe potuto lasciare un segno del suo passaggio, per far capire allo sconosciuto che aveva avuto visite. Poteva sostituire le candele usate con due nuove, per esempio, oppure lasciare qualcosa di suo, magari il temperino che aveva in tasca. Decise di non farne nulla. Per quanto coraggioso e intrepido fosse l'abitatore della caverna, avrebbe potuto spaventarsi, forse anche sospettare che stessero tendendogli una trappola. Avrebbe pensato subito alla polizia. Sarebbe stato stupido lasciargli credere che avesse tradito il suo segreto, mentre invece aveva fatto in modo da evitarlo. Almeno per il momento era meglio rispettare la sua privacy. Invece di andarsene, Stephen sedette sul materasso e rimase a godersi quel silenzio e quella pace. Mangiò un biscotto, uno solo. Spenta la torcia, accese una delle sue candele dopo averla messa sul piattino. Si sentiva calmo e rilassato nella caverna, benché esistesse la possibilità che da un momento all'altro arrivasse lo sconosciuto. Si sentiva al sicuro. Chiuse gli occhi, e si sforzò di ricordare quand'era stata l'ultima volta che aveva provato una simile sensazione di appagamento. Più di vent'anni prima. Quando tornò all'aperto, si accorse con stupore di essere rimasto molto tempo nella caverna. Il sole era tramontato e cominciava a far buio, anche se il cielo era ancora rischiarato da una luce rosata. L'orizzonte era segnato da lunghi cirri. Goughdale aveva un aspetto sinistro a quell'ora della giornata, a differenza dei dolmen, che avevano sempre un carattere di sacralità. I mucchi di sassi, lo scheletro dell'argano, la baracca diroccata, sagome nere sullo sfondo grigio del terreno, sembravano celare malintenzionati acquattati nell'ombra. E a quell'ora vi regnava un silenzio paragonabile a quello della miniera. Non vi era il minimo movimento. Persino le pecore erano state portate a pascolare altrove. Quella notte ci sarebbe stato soltanto uno spicchio di luna. Stephen pensò che fosse preferibile tornare a casa passando dalla strada, e s'incamminò verso est. Il cielo, diventato color porpora, stava riempiendosi di stelle. Era seccante che a casa ci fosse Lyn ad aspettarlo, altrimenti avrebbe potuto
accamparsi lì e aspettare una notte dopo l'altra che avvenisse l'incontro. Cominciava a essere stanco di Lyn e dei legami familiari, che lo costringevano a fare un lavoro tedioso e gli impedivano di allontanarsi dalla valle. Respirò a pieni polmoni l'aria profumata di quella serata d'estate e immaginò che, voltandosi, poteva capitargli di scorgere in lontananza una figura umana, visibile nonostante la scarsità della luce solo grazie al pullover bianco che indossava. Si voltò davvero a guardare, ma non c'era nessuno né sul versante del Big Allen né nella piccola valle. Quando, camminando tra i rovi, si voltò un'ultima volta per guardarsi alle spalle, ormai era troppo buio per poter vedere qualcosa. 11 I fari dell'auto illuminarono la stanza, disegnando due fasci di luce sul muro. Si udì tossicchiare un motore diesel, poi il rumore cessò, ma i fari rimasero accesi. Lyn, ancora sveglia, pensò subito alla polizia. Guardò l'orologio e vide che erano passate da poco le cinque, stava per spuntare l'alba. Le era venuta in mente la polizia a causa dei due omicidi e per il fatto che Stephen era stato interrogato. Si alzò, andò alla finestra. C'era un'autoambulanza ferma davanti al giardino dei Simpson. Poco dopo vide uscire la sorella. Camminava con i suoi piedi, aggrappata al braccio di Kevin, e scherzava con l'autista. Dovevano essere iniziate le doglie, pensò Lyn, toccandosi istintivamente la pancia piatta attraverso il tessuto leggero della camicia da notte. Stephen dormiva. Lyn seguì con lo sguardo l'ambulanza che voltava in fondo a Tace Way per dirigersi verso Hilderbridge. Iniziava a spuntare il sole, che tingeva di una luce dorata l'azzurro chiaro del cielo. Si prospettava un'altra giornata di caldo intenso. Tornò a letto e vi rimase un'oretta, pensando a Joanne e a se stessa. In febbraio, verso la metà del mese, forse all'alba come quel mattino, l'autoambulanza sarebbe venuta a prendere lei. Certo non poteva immaginare se stessa aggrappata al braccio del marito. Se mai, si vedeva al braccio di Nick. Si alzò dal letto, scese a preparare il tè e improvvisamente si sentì male. Stephen accolse la notizia di Joanne senza battere ciglio. — A proposito di ospedale, cara, dopo il lavoro probabilmente farò un salto dalla nonna. Quella povera vecchia l'ho sempre in mente. — Vuoi che venga con te?
Ma Stephen non voleva mai che l'accompagnasse, Lyn non sapeva perché. — Santo cielo, no, per te sarebbe una seccatura, soprattutto con questo caldo. Comunque non ti riconoscerebbe, cara. Ha una grande confusione in testa. — Come preferisci. Voleva che fosse a sua disposizione solo quando faceva comodo a lui. Capitava che la lasciasse sola per ore e ore, praticamente per giorni interi, ma lei doveva essere a casa ad aspettarlo al suo ritorno. Doveva essere il suo scoglio, il suo porto, doveva fargli da madre. Non aveva mai capito quest'aspetto di Stephen, finché non aveva conosciuto Nick. Forse le cose sarebbero cambiate, quando in casa ci fosse stato un bambino. Probabilmente Stephen sarebbe stato un buon padre, si sarebbe comportato bene con il bambino, in fondo era rimasto lui stesso un po' bambino. Era come se a un certo punto della sua infanzia, per certi aspetti, avesse smesso di crescere. Non certo il corpo, diventato alto e forte. Non il cervello, che aveva continuato a funzionare bene. Forse ciò che aveva cessato di crescere era quel qualcosa d'indefinibile di cui parla la Bibbia, ciò che i vecchi chiamano anima. Già da diversi giorni papi stava inesorabilmente scivolando giù per la china della depressione. La domenica precedente era andato a mangiare da loro, ma non aveva portato regali, aveva mangiato poco, si era relegato in un angolo, così indifferente a quanto accadeva intorno da non manifestare la sua disapprovazione neppure quando Peach si appollaiò sul tavolino di legno di castagno. Non aveva aperto bocca mentre c'erano i Newman e se n'era andato via presto. Capitava raramente che il suo stato depressivo gli impedisse di lavorare. Il lavoro, se non costituiva una cura né serviva a risollevargli un po' lo spirito, era pur sempre l'unica occupazione possibile per lui, almeno finché durava la crisi. Stavolta invece era rimasto completamente inattivo. Aveva un tavolo ovale da lucidare, ma dopo aver intinto il tampone nell'olio, non riusciva a decidersi a mettersi all'opera. Stephen lo trovò seduto, perfettamente immobile, con il tampone in mano, lo sguardo fisso nel nulla. Restava in quello stato per diversi giorni di fila, poi improvvisamente lo prendeva la frenesia di lavorare, di recuperare il tempo perduto, e a quel punto travolgeva Stephen con la sua esuberanza. Per non sentirsi in colpa, cominciava a elargire doni. Nel periodo che stava attraversando, depresso com'era, non l'avrebbe certamente rimproverato per tutti i giorni di lavoro
che aveva perduto in quegli ultimi tempi. Stephen sapeva che non era il caso di rivolgergli la parola e salì subito di sopra per mettersi al lavoro, visto che si erano accumulate molte poltrone da tappezzare. La bottega dei Whalby, quasi priva di finestre e situata in un angolo della piazza dove non batteva quasi mai il sole, era piacevolmente fresca. Papi se ne andò verso la metà del pomeriggio e Stephen, che non aveva smesso di lavorare neppure per andare a mangiare, decise di svignarsela anche lui. L'orario delle visite al General Hospital era dalle tre alle cinque del pomeriggio. Dopo aver fatto una capatina all'ospedale, sarebbe andato nella brughiera e vi sarebbe rimasto fino al tramonto. Si sarebbe nascosto nella baracca, come aveva fatto diverse volte le sere precedenti, e avrebbe aspettato, stavolta a costo di restare fino a mezzanotte, che arrivasse l'uomo della caverna. La luna, non più ridotta a un esile spicchio, avrebbe rischiarato la notte. Market Square era per metà in ombra, per metà assolata. Il sole bruciava sulla pelle, tanto era forte. Stephen non ricordava un caldo del genere, un agosto simile a quello, da quand'era ragazzo, l'anno in cui la madre se n'era andata ed era comparso Jack. C'era stata un'altra ondata di caldo torrido cinque anni più tardi, l'estate in cui lui e Peter avevano cercato Apsley Sough, ma sicuramente non era paragonabile a quella. L'auto era ferma al sole e il volante scottava. Per poterlo prendere in mano dovette servirsi del fazzoletto. Aprì tutti i finestrini e rimase qualche istante a guardare il cielo. Era infuocato, d'un azzurro chiarissimo. Quel caldo durava ormai da una ventina di giorni. In giro erano stati affissi cartelli che invitavano i cittadini a non sprecare l'acqua per innaffiare i giardini. Percorsa High Street, Stephen svoltò in North River Street e s'infilò nel parcheggio dell'ospedale. Fu solo mentre saliva le scale che si ricordò di non avere comperato le caramelle. Il negozio più vicino distava almeno un chilometro. Pazienza! Forse le caramelle gliel'aveva portate qualcun altro, ma era poco probabile, non gli risultava che qualcuno ci pensasse. Al reparto geriatrico, nessuna delle vecchiette era a letto. Se ne stavano sedute con la testa ciondoloni, le mani contorte dall'artrite, avvolte in scialli e coperte perché non pativano il caldo, ormai la pelle e le vene erano diventate impenetrabili. Le obbligavano ad alzarsi perché fossero costrette a fare un po' di moto e anche per evitare le piaghe da decubito. Le finestre erano spalancate, le tende aperte, e il caldo entrava liberamente nelle stanze, rendendole simili a fornaci.
Arrivato alla porta, Stephen vide che la nonna aveva già due visite. Zia Joan e probabilmente una sua amica. Tutto sommato, fu abbastanza contento di vederle, perché quand'era solo con la nonna non sapeva che cosa dirle. Inoltre c'era la storia delle caramelle. Non appena lo vide, la signora Pettit scattò in piedi. Lei, la sua amica e la nonna erano sedute verso il letto, ma soltanto la signora Pettit in posizione tale da poterlo vedere. Si alzò e gli lanciò uno sguardo terrorizzato. Strano che il suo apparire avesse provocato una simile reazione. D'altra parte, a Stephen non interessava un fico secco di come si comportavano i Naulls, né gli altri esseri umani, per essere esatti. Salutò la zia, poi si avvicinò alla nonna e la baciò. A differenza delle altre ricoverate, lei non aveva la testa ciondoloni. Le sembrava più vispa dell'ultima volta. Era china in avanti, con le mani sui braccioli della sedia, e nel suo sguardo c'era una tale malignità che Stephen istintivamente indietreggiò. Ai vecchi tempi, quando stavano ancora a Chesney Lodge, era capitato diverse volte che la nonna avesse quell'aria crudele, ma poi invecchiando si era un po' raddolcita. Prima di baciarla, si era scusato di non averle portato le caramelle, perciò si disse che doveva essere quello il motivo per cui la nonna ce l'aveva con lui. — Oh, santo cielo! — bisbigliava zia Joan alle sue spalle. Stephen si voltò. La sua amica, una donna sulla cinquantina, piuttosto grassa, con i capelli tinti d'un biondo sfacciato, ridacchiava come una scolaretta, coprendosi la bocca con il fazzoletto. Fino a quel momento Helena Naulls non aveva aperto bocca, era rimasta aggrappata alla sedia, scivolando sempre più in avanti. Ora pareva che cercasse di parlare, e in un primo momento mosse le labbra senza emettere alcun suono, ma poi riuscì nell'intento e pronunciò in tono malevolo una frase tipica dei Naulls. Nella loro famiglia avevano tutti la mania di fare indovinelli, invece di dire le cose chiaro e tondo. — Immagino che tu non sappia chi è questa signora — disse la nonna. La grassona smise di ridere e si coprì la bocca con la mano. Fu così che toccò alla signora Pettit dargli una spiegazione. — Mai e poi mai avremmo pensato di vederti comparire a quest'ora del pomeriggio, Stephen. Non immagini quanto sia rimasta meravigliata. Sai, ho saputo del loro arrivo soltanto quando ho ricevuto il cablogramma, e subito dopo è arrivata lei, insieme con Fred e Barbara. Be', naturalmente è voluta venire subito qui all'ospedale a trovare tua nonna, prima di ripartire per il giro del mondo, sabato prossimo. È per questo motivo che sono qui.
Vedi, non vorrei che tu pensassi che ti ho tenuto all'oscuro del loro arrivo, è solo che è accaduto tutto così in fretta... Non c'era bisogno che aggiungesse: — Vero, Brenda? — Stephen aveva già capito chi era quella donna. Era grassa come Helena qualche anno addietro, prima che la vecchiaia la rinsecchisse. Ora che si era tolta la mano dalla bocca, Stephen notò che somigliava alla nonna, con la differenza che lei era truccatissima. Indossava una giacca stretta e una gonna strana di tessuto damascato che terminava con un volant. Sotto le ascelle la giacca era bagnata di sudore. "Non ci credo", avrebbe voluto gridare, "non ci credo!" Ma fu come se qualcun altro parlasse per lui. — Dio mio! — esclamò. — Dio mio! Seguì un silenzio che parve interminabile. L'aria che entrava dalla finestra faceva svolazzare la tenda. Stephen sentì spuntare sulla fronte e sul labbro superiore gocce di sudore che gli facevano pizzicare la pelle. Fu Brenda Evans a rompere il silenzio. — Quanto tempo che non ci si vede! Joan Pettit sospirò forte, come se fino a quel momento avesse trattenuto il respiro. — Dimmi, Brenda, l'avresti riconosciuto? — È un po' cambiato. Helena scoppiò in una risata stridula. Dopo essersi spostata in avanti sulla sedia quanto era possibile senza correre il rischio di cadere, si alzò faticosamente in piedi e vi rimase, malferma sulle gambe. Era la prima volta in un anno che stava in piedi da sola, senza che nessuno la sorreggesse. Rideva ed era raggiante, come se avesse finalmente ottenuto ciò che più desiderava nella vita, e spostava in continuazione lo sguardo dall'uno all'altra. Un attimo dopo Stephen assistette a una scena che non avrebbe dimenticato per il resto dei suoi giorni, l'orrendo spettacolo di un essere umano colpito da un attacco apoplettico. La risata di Helena si trasformò di colpo in una sorta d'urto di vomito, il suo volto si contrasse in una smorfia. Pareva che qualcuno le avesse dato una martellata alle spalle. Alzò le braccia e cadde a terra con un tonfo. La signora Pettit balzò in piedi e lanciò un urlo. — Oh Dio, Dio! — gridò Brenda Evans, coprendosi la bocca con la mano. Una delle donne ricoverate chiamò l'infermiera, che arrivò di corsa. Stephen se ne andò via come un sonnambulo. Quella sera nacque Chantal Tanya Simpson e, a distanza di un'ora, morì Helena Beatrice Naulls. Lyn fu invitata a bere un bicchiere di champagne
al bar di fronte, in compagnia di Kevin e dei suoi genitori, ma rifiutò l'invito. Tornata a casa, aveva trovato Stephen in stato di choc, quasi incapace di parlare, benché a quell'ora Helena fosse ancora viva. Più tardi aveva telefonato Joan Pettit per informarli che era finita. Lyn gli aveva comunicato la notizia con molta dolcezza, ma lo stato d'animo di Stephen non era cambiato né in meglio né in peggio. Rimase seduta accanto a lui, stringendogli la mano con tanta forza da farsi male. Mai come quella sera Stephen aveva dimostrato di avere bisogno di lei. Era come se ricavasse da lei l'energia che gli occorreva per ricaricarsi. Rimase a lungo completamente muto, poi iniziò a parlarle della nonna, della vita dura che aveva condotto, soprattutto negli ultimi anni, e infine della brutta morte che aveva fatto. Lyn non l'aveva mai sentito parlare in quel modo di nessuno. Aveva creduto che non amasse eccessivamente la nonna e che andasse a farle visita perché era suo dovere, magari con la speranza di scoprire qualcosa di più a proposito della sua relazione con il nonno. Una tale dimostrazione d'affetto e di compassione era sorprendente da parte di Stephen. A un tratto Lyn cominciò a rendersi conto che in realtà non pensava affatto alla nonna, quando parlava di dispiaceri, di crudeltà, di abbandono. Stephen s'inginocchiò per terra, appoggiò la testa sul suo grembo e la strinse tra le braccia, come forse non aveva mai fatto prima di allora. Lyn sospirò. Gli accarezzò i capelli. Stava attraversando un periodo in cui il suo corpo e forse anche la sua mente subivano continue metamorfosi, e si sentiva meno disposta a essere di sostegno a Stephen. Semmai doveva essere una cosa reciproca, perché anche lei aveva bisogno di aiuto. A un tratto si fece più prepotente la tentazione di dirgli del bambino e di esporgli il suo programma per il futuro, e a fatica s'impose di tacere. Stephen era molto pallido e teneva gli occhi chiusi. Lyn immaginò il volto di Nick, sorridente e traboccante di gioia di vivere, esattamente l'opposto di quella specie di cadavere, e mentre china sul marito gli mormorava parole di conforto, le vennero le lacrime agli occhi. In occasione dei funerali, i Naulls facevano le cose in grande, senza badare a spese. Era così importante per loro essere sepolti o cremati in pompa magna, che alcuni componenti della famiglia risparmiavano per tutta la vita per mettere da parte i soldi del funerale. Dall'età di quattordici anni, quand'era stato assunto come apprendista giardiniere, Arthur Naulls aveva conservato l'abitudine di risparmiare un penny la settimana per questo sco-
po, anche se poi quand'era morto, come aveva osservato suo figlio Stanley, i soldi che aveva accantonato non erano stati affatto sufficienti a coprire le spese. Era stato stabilito che al funerale della moglie dovessero esserci quattro carrozze nere. I congiunti si sarebbero radunati davanti all'abitazione di zio Leonard e, a cerimonia avvenuta, avrebbero partecipato a un banchetto funebre con i Bracebridge. Quanto alla cerimonia vera e propria, si sarebbe svolta nella chiesa della Holy Trinity e sarebbe stata seguita da un servizio funebre celebrato nella cappella del crematorio di Byss. La nonna non avrebbe potuto scegliere una stagione più adatta per morire, per quanto riguardava la scelta dei fiori, aveva osservato la signora Pettit secondo il classico stile dei Naulls. Leonard Naulls, l'unico veramente ricco, viveva in un quartiere di Hilderbridge che si chiamava Callowford. Tutti gli altri avevano case modeste, la sua era la più grande e la più lussuosa. Stephen arrivò in anticipo. Aveva comperato un fascio di dalie e garofani rossi. Li lasciò in anticamera insieme agli altri fiori. Zia Midge gli diede un bacio e lo ringraziò di essere venuto, aggiungendo che era sempre stato buono con sua nonna, poi tornò di sopra per finire di prepararsi. Aveva già visto zio Leonard che passeggiava in giardino in compagnia della sorella Joan e del cognato Sidney Pettit, ai quali stava mostrando le aiuole fiorite. Anche mostrare ai parenti i fiori che crescevano in giardino era una mania tipica dei Naulls nelle occasioni solenni. Stephen notò che la foto del cugino Peter, da lui vista la volta precedente sul tavolo dell'anticamera, era sparita. Aprì la porta del soggiorno. Attraverso le porte-finestre di questo locale si vedeva il prato antistante la villa e le bordure fiorite. In piedi davanti a una finestra, intenta a guardare i parenti che passeggiavano in giardino, c'era Brenda Evans. Voltava le spalle alla porta ed era sola. Indossava una gonna nera a pieghe, un paio di calze nere con la riga, una delle quali molto storta, scarpe di cuoio nero con il tacco altissimo. Non si era ancora messa il cappello. Sul bracciolo della poltrona ce n'era uno piccolo di paglia nera, probabilmente acquistato per l'occasione. I capelli d'un biondo impossibile dovevano essere appena usciti dalle mani del parrucchiere. Erano lucidi e diritti, senza un filo fuori posto. Non aveva sentito la porta aprirsi. Stephen rimase fermo sulla soglia a guardarla, e la sua mente divenne un vulcano. Sullo schermo del suo cervello apparve una serie di immagini, come una pila di monete sul tavolo, le
sue stesse mani strette intorno a un collo femminile, lettere scritte su carta per via aerea imbucate nel parco di Chesney e destinate a non ricevere risposta. Davanti agli occhi di Stephen cadde una sorta di velo, che gl'impediva di vedere qualsiasi cosa non fosse quella figura femminile i cui contorni, in controluce, apparivano sfumati, e per effetto della luce violenta il verde del prato proiettato nella parte opposta dello spettro diventava rosso sangue. Stephen alzò le mani, le dita ricurve come artigli, pronto a balzarle addosso, quando lei udì il suo respiro e si voltò. — Ciao, Stephen. Sono contenta che tu sia venuto. Si portò una mano alla fronte, scoprì che era imperlata di sudore. Sentiva un martellamento alle tempie. — Dio, che caldo! — esclamò per giustificare il suo gesto. — Per fortuna — replicò Brenda Evans. — A me piace. Quando tornerò dall'Europa, noi due dobbiamo rivederci. Sono ansiosa di conoscere tua moglie. Si chiama Linda, vero? Mi dispiace, Stephen, ma non c'è stato un attimo di tempo, con la mamma che ha deciso di morire proprio adesso. Anche se in fondo è stato meglio così, visto che mi trovavo già sul posto e non c'è stato bisogno che partissi dall'altro capo del mondo. — Non c'era da sbagliarsi, dopo tanti anni era rimasta una Naulls. — Non volevano farle il funerale prima di lunedì, ma lo zio Stanley ha insistito, dicendo che io sono in partenza per Parigi, e così hanno anticipato. — Ti auguro di trascorrere una buona vacanza — disse come un automa. — Ce la meritiamo. Da ventidue anni a questa parte né io né Fred abbiamo messo piede fuori dal Canada. E ora, caro, dimmi come sta tuo padre. — Bene. È ancora in gamba. Fa sempre il suo solito lavoro. — E tu sei il suo braccio destro. Scommetto che ti sei reso indispensabile, vero? — Non saprei. — Rise. Ora che aveva cominciato, non riusciva più a fermarsi. Rideva sgangheratamente, tanto che gli doleva il petto e gli lacrimavano gli occhi. Si rendeva conto che Brenda lo guardava perplessa, ma proprio non riusciva a smettere. Alla fine corse fuori dalla stanza, andando a scontrarsi con zia Midge e i Bracebridge che stavano entrando. Si era coperto la faccia con il fazzoletto e tutti credettero che stesse piangendo. — Stephen è sempre stato molto affezionato alla nonna — disse la signora Bracebridge.
Più tardi, pensarono che fosse troppo sconvolto per andare a pranzo con loro. Stephen aveva deciso di tornare al lavoro nel pomeriggio, ma dopo che se ne fu andato dal crematorio ed ebbe raggiunto la piazza del mercato, passò oltre senza neppure rallentare. Finché la madre restava in città, non aveva voglia di affrontare papi, che forse aveva saputo del suo arrivo. Non riusciva a immaginare quale reazione avrebbe potuto avere, e comunque preferiva non pensarci. Dopo essersi cambiato d'abito, andò nella brughiera, cercando di camminare il più possibile all'ombra, mentre attraversava la Valle di Allen e proseguiva su per il versante orientale della collina. L'aria era pesante e satura d'umidità, non pioveva da ventiquattro giorni, ma benché il cielo fosse ancora azzurro, le nuvole in cielo promettevano pioggia. Era troppo presto perché potesse arrivare Jack. Con quel caldo e con quel cielo, probabilmente non sarebbe venuto. Perché l'aveva soprannominato Jack? Istintivamente aveva dato allo sconosciuto, l'assassino delle due ragazze, il padrone della caverna, il nome del suo amico immaginario. Non era un brutto nome, ma faceva pensare a Jack lo Squartatore, metteva quasi paura. Jack. Quando aveva ucciso Ann Morgan, era pieno giorno, ma la brughiera doveva essere deserta come ora. Per ripararsi dal sole, Stephen si rifugiò nella baracca George Crane e si sdraiò sull'erba asciutta. Col tempo la terra era diventata sabbiosa e scorreva tra le dita come il sale. A un tratto si udì il rombo di un tuono, che squassò la terra come un terremoto. Sdraiato per terra, Stephen continuò ad aspettare che arrivasse Jack. Qualcuno aveva comperato il pappagallo verde e i conigli. Nel negozio l'unico essere vivente, oltre a loro due, era il serpente. Il negozio era chiuso, la saracinesca abbassata. Nick era seduto sull'orlo del banco, Lyn sul sacco del granoturco. La fissava con aria assorta, e Lyn cominciò a chiedersi se per caso avesse intuito la verità. No, non era possibile. Nick era un veterinario, non un medico, e lei una donna, non una cagna. L'idea la fece sorridere. — Ti amo, Lyn — mormorò Nick. — Intendo tornare da te. Tornerò ogni fine-settimana, finché non ti avrò convinta a lasciarlo e a venire via con me. L'avrebbe fatto di certo, per una settimana, due, tre. Ma trecento chilometri di distanza erano tanti, e con tante distrazioni intorno Nick non avrebbe continuato a tornare per sempre. L'avrebbe dimenticata.
— Parto lunedì. Se cambi idea, chiamami. Sarò sempre vicino al telefono. — Non cambierò idea — replicò. — Andiamo a bere qualcosa, o a fare un'ultima passeggiata insieme? — Non sarà la nostra ultima passeggiata, non voglio sentire questa parola. Lyn, ti rendi conto che abbiamo appena cominciato a conoscerci? Si alzò. Era ancora snella come prima, ma le sembrava che il suo corpo fosse appesantito dal bambino. Uscirono sotto il sole, e mentre passavano davanti alla vetrina accadde una cosa spiacevole. Il serpente, che Lyn aveva sempre visto fermo al suo posto, disteso o arrotolato, improvvisamente alzò la parte anteriore del corpo, emise un sibilo e si avventò contro il vetro, facendo guizzare la lingua. Lyn fu percorsa da un tremito e istintivamente si aggrappò al braccio di Nick. 12 L'aria pesante, che minacciava un temporale imminente, si avvertiva anche in casa, non soltanto fuori. Lyn la percepì non appena si svegliò. Vide il cielo pieno di nuvole basse, sentì l'aria opprimente e si ricordò che la sera prima lei e Nick si erano salutati per l'ultima volta. Stephen, sdraiato al suo fianco, dormiva ancora. Sembrava molto giovane, nel sonno, e aveva l'aria triste. Faceva già molto caldo, benché il sole apparisse come una chiazza chiara in mezzo alle nuvole. Lyn si alzò, si fece il bagno, preparò il tè e ne portò una tazza a Stephen, che si mise a sedere sul letto. — Ti ringrazio molto, cara — le disse, ma aveva l'aria distante, preoccupata. Sembrava lontano mille miglia. Lyn avrebbe voluto potersi confidare con qualcuno, raccontare tutto e trovare chi sapesse consolarla. Con la madre non aveva mai avuto molta confidenza, Joanne era all'ospedale, e quindi restava solo Stephen. Stava bevendo il suo tè e guardava fuori dalla finestra, da cui si vedeva la brughiera riarsa e il cielo minaccioso. Lyn lo lasciò solo e scese di sotto, dove trovò Peach che strofinò la testa pelosa e morbida contro la sua gamba. Lo prese in braccio e continuò a camminare. Tra sei mesi avrebbe avuto il bambino, aveva almeno questa consolazione. Non avrebbe più sofferto di solitudine. Purtroppo però non riusciva a immaginare la settimana successiva senza Nick, la successiva e tutte le altre. Peach esprimeva la sua gioia facendo le fusa. Lo posò sul davanzale interno della finestra e si fermò a guardare il cielo.
Quante volte, pensava, Stephen era ricorso a lei per esserne confortato? L'ultima volta era stata dopo la morte della nonna. Sarebbe stato capace a sua volta di consolare lei? Lyn pensava di no, non gliel'aveva mai chiesto, non l'aveva mai messo alla prova. Ripensò al programma che aveva in mente e che doveva esporre a Stephen. Temeva che si sarebbe messo a gridare non appena gliel'avesse accennato, ma non poteva fare a meno di parlargliene. A un tratto si rese conto di non avere la minima idea di quale sarebbe stata la sua reazione. Lo sentì alzarsi e camminare di sopra. Mise il bollitore sul fuoco e preparò la tavola per la prima colazione. Le veniva un leggero senso di nausea, quando guardava il burro e la panna del latte. Negli ultimi giorni aveva rinunciato alla colazione. La nausea passò, e quando Stephen scese, la trovò seduta a tavola a bere il tè. Avrebbe voluto parlargli subito, aveva le parole sulla punta della lingua, ma rimandò ancora. Le era venuto in mente che da qualche settimana, forse da qualche mese, Stephen non le rivolgeva la parola durante la prima colazione, anzi non gliela rivolgeva mai. L'infelicità, la preoccupazione acuivano la sua sensibilità. Quando Stephen le disse che sarebbe andato nello studio a scrivere il suo pezzo per l'Echo, Lyn ebbe l'impressione di udire un nastro registrato, invece della sua viva voce. Lavò i piatti. Ogni tanto si appoggiava al lavello e chiudeva gli occhi. Le sfuggì una tazza di mano e si ruppe in tre pezzi, facendo quel che le parve un baccano infernale. Se andava alla porta, sentiva il ticchettio irregolare della macchina per scrivere. Rimase in ascolto. Stephen scriveva per qualche secondo, si fermava, riprendeva a scrivere. Provando mentalmente il discorso che gli avrebbe fatto, salì di sopra e rifece il letto. La macchina per scrivere era rimasta muta per un po'. Riprese a funzionare. Lyn sapeva che non sarebbe mai riuscita a fare un'azione drastica, un troncamento netto. Le sue mani avevano ricominciato a tremare come prima che conoscesse Nick. Dallo studio non proveniva più alcun rumore. Stava quasi per bussare, ma poi pensò che quell'uomo era suo marito e si diede della stupida. Seduto alla scrivania, Stephen rileggeva ciò che aveva scritto. Era un bell'uomo, forte e vigoroso. Lyn era convinta di non aver mai visto un uomo bello come lui. Stephen puntò su di lei lo sguardo dei suoi occhi d'un azzurro intenso, in quel momento assolutamente inespressivo. — Che cosa c'è, cara? — Devo dirti una cosa.
— Non può aspettare? Scosse la testa. Ormai stava per scoppiare. Sarebbe stato meglio sedersi, ma rimase in piedi, allungando una mano verso di lui. — Devo dirti una cosa — ripeté. — Ti ascolto. — Stephen, sono in stato interessante. Avrò un figlio. — Le parole le erano uscite di getto, lasciandola senza fiato. — In febbraio avrò un bambino. Quell'uomo, il padre, l'ho amato molto, lo amo ancora, ma non lo rivedrò più. Noi due insieme, io e te, non abbiamo mai... be', sai che cosa intendo. Ma possiamo allevare il bambino come se fosse nostro. Stephen si era fatto paonazzo, quasi violaceo. — Non ti dispiacerebbe avere un figlio, vero? — continuò. — Lo tratteresti come se fosse il nostro; in fondo noi due ci vogliamo bene, non è vero, Stephen? Le rispose con una voce da automa, come se non fosse la sua. — Mi stai prendendo in giro. — Sai bene che non lo farei. È tutto vero. Mi rincresce, se per te è uno choc. — Uno choc... — ripeté, alzandosi e avvicinandosi alla finestra, dove rimase voltandole le spalle. — Mi hai detto davvero quelle cose? Non sto sognando? — Stephen... — Lyn si avvicinò, gli posò una mano sul braccio. Lui la respinse con violenza. Si voltò. Ciò che disse era così spaventoso che Lyn ebbe voglia di urlare. Si trattenne, contorcendosi le mani. Stephen le aveva parlato con un tono che non aveva mai usato prima. Dal passato le arrivò un'altra voce, quella del fratello, che all'epoca aveva sei anni, quando la madre gli aveva annunciato che stava per nascere Joanne. Stephen aveva pronunciato le stesse parole, identiche e con la stessa rabbia. — Se mi porti un bambino in casa, lo uccido. Lyn si sforzò di controllarsi. — Stephen, ascoltami... — mormorò con la voce strozzata dall'emozione. — Lo uccido, mi hai sentito? — Il suo viso era ancora violaceo, la voce stridula. — Lo ucciderò, lo farò a pezzi, lo annegherò, lo calpesterò finché non sarà morto! Alzò la mano destra e la colpì con tutta la sua forza. Lyn barcollò e cadde all'indietro, lanciando un grido di dolore. Mentre cadeva, urtò il tavolino rotondo su cui troneggiava il busto di Tace. Sentì una fitta al fianco e alla schiena e gridò di nuovo, non solo per il
male ma soprattutto perché pensava al bambino. Con un gemito si mise seduta, circondandosi le spalle con le braccia. Stephen si era inginocchiato e aveva raccolto la testa di Tace. Quando vide l'incrinatura apparsa sul cranio di cartapesta, emise un mormorio di rammarico. Lyn ebbe un brivido. Si alzò, attenta a percepire le eventuali conseguenze della caduta, il fluire del sangue in mezzo alle gambe, ma non sentì nulla, o almeno non ancora. Il cuore le batteva da scoppiare. Stephen, rimasto in ginocchio, tentava di avvicinare le due parti di cartapesta, ma non vi riuscì, e quando un frammento si staccò, scosse la testa in segno di disperazione. Si voltò verso Lyn. — Hai rotto la mia statua! — l'accusò con lo stesso tono rabbioso e infantile di poco prima. Lyn lo guardò terrorizzata, si coprì il viso con le mani, corse fuori, si precipitò in camera e chiuse la porta a chiave. Il primo fulmine della giornata apparve nella casa di Tace Way, producendo lo stesso effetto di un fiammifero acceso e subito spento. Il rumore che lo seguì, il tuono, arrivò molti secondi più tardi, lontano. Il temporale non era ancora imminente, ma il cielo si era scolorito e le nubi erano diventate scure. Stephen rimase a lungo nel suo studio, assorto nel tentativo di riparare la testa di Tace. Non pensava ad altro che al sistema di chiudere l'incrinatura e d'inserire il frammento staccatosi, prima che l'incrinatura si allargasse e il guaio diventasse irrimediabile. La persona ideale a cui ricorrere in un simile frangente era papi. Stephen fece del suo meglio, servendosi dei due tipi di colla che aveva a disposizione, entrambi da utilizzare su superfici che non fossero di legno. Lungo i bordi dell'incrinatura, in alcuni punti, la cartapesta si era arricciata e sbriciolata. Dopo aver incollato insieme i due lembi, con un risultato abbastanza deludente, posò il busto su un foglio di carta che aveva sistemato sulla scrivania, nella speranza che il debole raggio di sole potesse asciugare in fretta la colla. Poi uscì di casa e si diresse verso la brughiera. Con quel caldo e il terreno così secco, non gli era parso il caso d'infilarsi gli scarponi e perciò si era tenuto i sandali. L'aria era piena d'elettricità. Era come se la natura fosse in attesa che si accendesse un fusibile per esplodere. I monoliti apparivano come sagome d'argento sullo sfondo del cielo, che nel frattempo si era scurito, assumendo un colore violaceo. Stephen percorse il viale a testa bassa, si fermò davanti all'Altare e si sdraiò a pancia in giù, premendo la bocca contro la terra profumata. Si udì
un tuono. Pareva provenire dalle viscere della terra. Anche dentro la sua testa rombava senza interruzione un tuono. Forse la sensazione dipendeva dal fatto che aveva picchiato Lyn. Pensò al bambino che era dentro di lei. L'immaginava come se avesse già sei anni, fosse forte e felice, e come se aspettasse il momento di uscire trionfalmente dalla gabbia che lo teneva prigioniero. L'idea era così sconvolgente da indurlo a pestare i pugni sulla pietra. Tornò a sdraiarsi con una calma che gli veniva dalla disperazione, premette di nuovo la bocca contro la terra tiepida, l'epidermide della brughiera. Il profumo dell'erba e della terra riusciva a dargli un po' di sollievo. Gli sarebbe piaciuto restarsene sdraiato lì per sempre, invece di tornarsene a casa. L'assalì un feroce desiderio di solitudine, la voglia di diventare una sorta di eremita come il padre, per sottrarsi alle torture degli aguzzini che infestano il mondo. Avrebbe voluto almeno trovare la casa vuota al suo ritorno, liberarsi una volta per tutte di Lyn, così come ora si era liberato di Helena e di Brenda. Sarebbe stato magnifico non doverla più rivedere. L'aria satura di elettricità sembrava farsi sempre più pesante e opprimente. La brughiera tratteneva il respiro in attesa del temporale. Il tuono rombava a ripetizione lungo il perimetro della brughiera, e Stephen rimase sdraiato ad ascoltare quell'altro tuono, meno forte ma più insistente, che gli rimbombava dentro la testa. La brughiera era per lui come un grande letto caldo, dove si sentiva protetto come sotto una coperta. La prima goccia di pioggia cadde sulla sua mano sinistra. Non fu seguita da uno scroscio d'acqua. Cadde ancora qualche goccia, poi cessò di colpo. Stephen posò la testa sul braccio ripiegato, con tanta voglia di dormire, ma il sonno non venne, benché restasse sdraiato a lungo, ad ascoltare il susseguirsi dei tuoni, quelli della natura e i suoi immaginali, finché a un tratto esplose sopra la sua testa una serie di rombi spaventosi, simili a una scarica di mitra. Quasi subito un fulmine illuminò il Big Allen, seguito di nuovo da un tuono. Si era fatto buio, mentre giaceva disteso a terra, buio come se stesse per annottare. Guardò l'orologio e si rese conto di essere rimasto tre ore nella brughiera, benché fossero soltanto le due e mezzo del pomeriggio. Era restio a tornare a casa, più restio che mai. E se Lyn fosse stata ancora lì, e gli si fosse aggrappata... Come i druidi del passato, o chiunque fosse stato a porre i megaliti in quel punto, Stephen mormorò una preghiera al Gigante, di non fargli trovare Lyn al suo ritorno a casa. Uno scroscio di pioggia si abbatté sul monolite, e l'acqua prese a sgocciolare lungo il gi-
gante di pietra. Se non fosse stato per il fulmine, nemmeno allora Stephen si sarebbe deciso ad andarsene. Cinque anni prima, durante un temporale, un pastore era stato ucciso da un fulmine nella piana di Bow Dale. Ora i lampi illuminavano a giorno la Valle di Allen. Stephen s'incamminò senza fretta in direzione del sentiero. Era a metà della discesa di Chesney Fell, quando iniziò a piovere a catinelle. Era come se il tuono avesse squarciato il cielo e lasciato via libera al diluvio. Stephen non poteva far altro che continuare a scendere, stavolta accelerando il passo, e lasciare che milioni di gocce di pioggia gli inzuppassero la camicia e i jeans. I capelli fradici gli erano ricaduti sulla fronte. Buttò indietro le ciocche con le dita sgocciolanti. Vide il fulmine abbattersi su un masso davanti a lui, con un rumore secco come un colpo di pistola, e il masso parve squassarsi tutto. Il temporale era proprio sopra la sua testa, simile a una battaglia che infuriasse nel cielo. Raggiunta la strada, si sentì più sicuro. Non avrebbe certo commesso l'imprudenza di ripararsi sotto un albero, e ormai era troppo tardi per cercare rifugio da qualche parte. Non c'era in giro nessuno, il paese era deserto. La pioggia cadeva come una cascata senza fine. A Tace Way, la gente aveva acceso le luci nelle case come se fosse sera. Dalle grondaie scendevano fiumi d'acqua. In casa sua c'era la luce spenta. Si fece coraggio e percorse l'ultimo tratto di corsa, oltrepassò la sua auto e si precipitò verso la porta di servizio. La trovò semplicemente accostata. Un angolo dello zerbino si era rivoltato e incastrato nella porta, impedendo al battente di chiudersi. Stephen sentiva il cuore battergli all'impazzata. Scalciò via i sandali, spinse il battente, entrò, attraversò la cucina a piedi nudi e si diresse alla porta del soggiorno. Si fermò di colpo. Nella penombra vide Lyn in piedi davanti alla finestra. Gli voltava le spalle, guardava la pioggia. I capelli biondi, che le arrivavano a metà della schiena, apparivano leggermente più scuri nella semioscurità. Luccicavano come metallo. Non l'aveva sentito entrare. Stephen s'irrigidì come un atleta all'inizio della corsa. A un tratto la visione della finestra, della figura femminile e dei capelli biondi si offuscò, i contorni divennero sfuocati, come se si trovasse di fronte a un miraggio. Rabbrividì. Una sorta di stupore lo accecava, fondeva il passato e il presente. Balzò avanti, correndo senza far rumore poiché era scalzo, afferrò Lyn per il collo, lo strinse tra le mani finché le dita s'incontrarono, esercitò una forte pressione.
Lyn emise un lamento che Stephen subito soffocò, aumentando la pressione delle dita. La giovane donna cadde in avanti, dapprima in una sorta d'inchino, poi in ginocchio, e infine si accasciò sul pavimento. Stephen fu trascinato a terra, le mani avvinghiate intorno al suo collo, e rimase sopra di lei in una posizione che non aveva mai assunto quando la moglie era viva. Restò così per qualche minuto. La forza con cui le stringeva il collo era tale da fargli pensare che la testa si sarebbe staccata dal corpo, quando avrebbe allentato la stretta. E quando finalmente ci provò, aveva le dita gonfie e i palmi delle mani segnati come quando si portano grossi pesi. Vestito dei suoi panni fradici, Stephen rotolò sul pavimento e cadde di colpo in un sonno profondo. 13 Il temporale era cessato e la pioggia cadeva senza far rumore. Fu il gatto a svegliare Stephen, strofinandosi contro la sua mano. Consultato l'orologio, scoprì di aver dormito un'ora e mezzo, senza che le sue facoltà mentali ne risentissero: infatti ricordava perfettamente ciò che era accaduto prima che si addormentasse. Allungò un braccio, evitando di voltarsi a guardare, e toccò un dito di Lyn. Era freddo. Peach, seduto sulla moquette tra lui e Lyn, si puliva il muso. Stephen si alzò, andò in cucina. La porta posteriore, rimasta aperta, ora era completamente spalancata. Chiunque avrebbe potuto entrare. Questo particolare l'indusse a pensare a ciò che poteva riservargli il futuro. Si versò un bicchiere d'acqua e lo bevve, poi chiuse la porta a chiave. Salì di sopra, si tolse gli indumenti ancora umidi, s'infilò un paio di jeans e una camicia pulita, poi andò nello studio a prendere uno dei sacchi che aveva comperato insieme con la corda e la torcia elettrica. La colla sulla testa di Tace non aveva tenuto. L'illustre personaggio, con un buco nella testa che sembrava una ferita di guerra, contemplava la brughiera dal centro della scrivania. Stephen portò il sacco al pianterreno. Dall'alto della libreria Peach, imperturbabile, lo scrutava con i suoi occhi gialli, muovendo lentamente la coda. Stephen lo trovava insopportabile. Rinchiuse il gatto in cucina e poi, evitando di guardare, poiché stavolta non l'attirava la vista di quel corpo privo di vita, a differenza di quello di Marianne Price, l'infilò nel sacco, che chiuse con lo spago. Erano le cinque, ma c'era meno buio di prima. Nelle case di fronte erano state spente tutte le luci. Mentre guardava fuori dalla finestra, vide l'auto di
Kevin imboccare Tace Way schizzando fango tutt'intorno. Lo vide scendere dall'auto, mentre la signora Newman scendeva dall'altra parte, poi li vide correre verso le rispettive case, con i baveri alzati per ripararsi dalla pioggia. Joanne e il bambino non erano ancora a casa. Meglio così, altrimenti gli sarebbe stato difficile giustificare l'assenza di Lyn. Sollevato il sacco, lo piazzò tra il muro e il divano, in modo che quest'ultimo ne impedisse la visuale. Poteva restare lì finché decideva sul da farsi. L'aggressione e il delitto non avevano fatto danni, se non a Lyn. Erano rimasti soltanto uno sgabello capovolto e un cuscino fuori posto. Rimise tutto in ordine, ripetendo più volte mentalmente la parola "delitto". Benché non gli sembrasse vero, aveva commesso un delitto, proprio come Jack. Ora erano pari. Allungata una mano oltre il divano, toccò il corpo attraverso il sacco per assicurarsi che fosse reale. Già, aveva davvero commesso un omicidio. Non gli restava che sbarazzarsi del corpo allo stesso modo di Jack, abbandonandolo da qualche parte nella brughiera. Questo delitto era esattamente come i due che l'avevano preceduto, con una donna giovane e bionda nel ruolo della vittima. Chi avrebbe mai sospettato che l'assassino era un altro? Anche se stavolta si trattava di sua moglie, non c'era motivo per cui la polizia sospettasse di lui. Non correva il rischio di essere sottoposto a un nuovo interrogatorio in quella stanzetta dove si moriva dal caldo. Manciple gli aveva detto che avevano escluso la sua colpevolezza, avendo appurato che il suo sangue era diverso da quello dell'assassino di Marianne Price e Ann Morgan. Stephen sedette su uno dei cuscini di velluto verde del divano, dietro il quale si trovava il corpo di Lyn, e cominciò a pensare al da farsi. Aveva lasciato l'auto nel vialetto, con il muso puntato in direzione della strada. Prima di caricare il sacco in macchina, era meglio aspettare che facesse buio. Marianne Price era rimasta tra i Foinmen, Ann Morgan nella baracca della miniera Duke of Kelsey. Avrebbe portato Lyn nella George Crane, oppure a Knamber Hole. Però poteva essere pericoloso trasportare il corpo su un terreno aperto come Goughdale, e in una notte senza luna, con la terra bagnata, diventava praticamente impossibile. Improvvisamente qualcuno bussò alla porta, facendolo trasalire. Si guardò intorno per controllare che fosse tutto in ordine. Quando entrò in cucina, il gatto sgattaiolò fuori. Attraverso il vetro della porta di servizio si di-
stingueva la sagoma della signora Newman. Che guaio sarebbe stato, se fosse entrata in casa mentre lui dormiva, quando ancora non aveva chiuso la porta a chiave, e avesse visto il corpo di Lyn che giaceva nel soggiorno! La suocera entrò, togliendosi il cappuccio di plastica che aveva in testa, e andò a scrollare l'ombrello nell'acquaio. — Non ricordo quand'è stata l'ultima volta che ho visto un temporale del genere. E tutti questi fulmini! Avevo una zia terrorizzata dai temporali. Figurati che arrivava al punto di coprire tutti gli specchi! In tempo di guerra avevano un rifugio, e quando la guerra è finita, ha chiesto al marito di tenerlo per mettersi al sicuro durante i temporali. Dov'è Lyn? — È andata a Hilderbridge prima che cambiasse il tempo, e probabilmente ha pensato che non fosse il caso di tornare sotto l'acqua. — Perché non ha preso l'auto? — domandò la signora Newman, senza attendere la risposta. — Sono venuta per avvertirti che domani non veniamo, Stephen. Joanne torna a casa domattina con Chantal. Kevin dice che tu e Lyn potete andare da loro domani sera. Gli farà sicuramente piacere vedervi. Tu non l'hai ancora vista la mia nipotina, vero? — Oh Dio, come mi dispiace! — esclamò Stephen, improvvisando. — Domani sera dobbiamo uscire. La signora Newman rimase di stucco. Non era mai capitato che lui e Lyn uscissero la domenica sera, e neanche i giorni feriali. — Per dire la verità, mio zio Stanley ci ha invitati ieri, quando ci siamo visti al funerale e, date le circostanze, non ho avuto il coraggio di rifiutare — si giustificò. La signora Newman non sembrava molto convinta, ma Stephen non poteva farci niente. A un tratto gli venne un'idea. Rimase ad ascoltarla con impazienza, mentre gli diceva che bisognava rimandare la visita e contava sulle dita le occasioni che si sarebbero presentate la settimana seguente. — Adesso prendo la macchina — annunciò, approfittando di un momento in cui la signora Newman riprendeva fiato — e vado in paese a cercare Lyn per portarla a casa. Può darsi che sia alla fermata dell'autobus di North River Street, ad aspettare quello delle sei e un quarto. — Era stupefacente come gli venivano le ispirazioni, in caso di necessità. — Già, farò così — disse — e intanto ne approfitto per portare da mio padre una scultura che si è rotta. — La signora Newman non si stupì della piega presa dalla conversazione, in un momento in cui si parlava di cose più serie. Del resto era una cattiva abitudine che aveva anche lei. — Se c'è qualcuno in grado di ripararla è proprio mio padre — concluse Stephen. La pioggia continuava a cadere, ma non era più torrenziale. Dopo che la
signora Newman se ne fu andata, chiuse a chiave la porta di servizio, scostò il divano dal muro e recuperò il sacco. Scoprì che non era troppo pesante per lui. Lyn non arrivava ai cinquanta chili. Nel soggiorno dei Newman si accese la luce. Era probabile che lo vedessero salire in macchina. Portò fuori il sacco, tenendolo diritto. Una volta gli era capitato di vedere un tale che caricava una statua in un furgone: era avvolta in un sacco proprio come quello che aveva usato per Lyn. L'infilò nel portabagagli, chiuse il portello e tornò in cucina a prendere le forbici e la torcia elettrica. A causa della pioggia e delle nuvole la luce era scarsa, ma doveva aspettare che scendesse la notte, per portare il corpo nella brughiera senza correre il rischio di essere visto. Mentre si allontanava al volante della sua auto, pensò che sarebbe stato costretto a restare fuori almeno quattro ore, senza mai scendere dalla macchina. Imboccò la strada che da Chesney andava verso nord, in direzione di Jackley. L'auto era una scocciatura, sarebbe stato preferibile non doversene servire, d'altra parte non avrebbe certo potuto uscire di casa e andarsene via a piedi con il sacco. Erano ormai le sei passate. Non toccava cibo da nove ore. Cominciava ad avere fame, ma non poteva fermarsi a mangiare qualcosa, essendo impensabile lasciare il cadavere incustodito in macchina. Si fermò invece all'ultimo distributore di benzina di Jackley, dove si fece dare l'equivalente di cinque sterline di carburante. Poi proseguì in direzione di Pertsey e infine si fermò definitivamente all'ombra di Tower Foin. Il tempo scorreva lentamente. Non aveva neppure comperato qualcosa da leggere. La pioggia che rigava il parabrezza riduceva molto la visibilità. A volte sulla strada passava qualche macchina con i fari accesi, spruzzando fiumi d'acqua tutt'intorno. Alle sette avviò di nuovo il motore, non perché sapesse dove andare, ma perché l'acqua arrivava ormai alle ruote. Con il genere di carico che aveva a bordo, gli sembrava più prudente non restare fermo in un posto. Il parcheggio vicino al municipio di Jackley non era allagato. Vi si fermò una mezz'ora. La pioggia diventava sempre meno fitta. Ora piovigginava appena. Stephen imboccò la strada per Hilderbridge, cercando di decidere dove gli convenisse scaricare il corpo, non appena si fosse fatto buio. Si trattava di evitare che l'auto potesse essere vista, mentre lui trovava il posto adatto per lasciare il cadavere, il genere di posto che avrebbe scelto Jack, se fosse stato nei suoi panni. Se avesse portato l'auto sulla mulattiera della Valle di Allen, qualcuno avrebbe potuto vederla dalla strada principa-
le che ora stava percorrendo. A parte il fatto che la mulattiera doveva essere allagata. Avrebbe potuto nascondere l'auto in una delle stradine nei dintorni di Loomdale, ma poi sarebbe stato praticamente impossibile scaricare il sacco senza che qualcuno potesse vederlo. Non restava che tentare ai Banks of Knamber, dove le betulle avrebbero potuto offrirgli la necessaria copertura. All'incrocio svoltò a sinistra sulla strada per Thirlton, ma prima ancora di fermare l'auto constatò che il suo piano era inattuabile. Il greto del fiume, con le sue migliaia di monticelli che, a detta della gente, anticamente erano tombe, era abbastanza asciutto, ma le depressioni tra i tumuli erano allagate. Dovunque avesse deciso di lasciare l'auto quella sera, doveva assolutamente essere una strada asfaltata. Attraversò Thirlton e infilò la strada della brughiera che passava per Bow Dale, sotto Knamber Foin. La strada non era molto frequentata, ma comunque percorribile. Assurdo sperare che non passasse nessun'altra auto quella sera, oltre la sua. Finalmente gli venne in mente un punto dove avrebbe potuto lasciare l'auto, un posto più sicuro di qualsiasi mulattiera o boschetto. Oltre agli scavi di Goughdale, l'altra miniera di Vangmoor, la Stoney Bow, si trovava nella Bow Dale, a est della collina. In superficie non erano rimaste tracce della miniera, se non l'entrata leggermente inclinata, che un tempo consentiva l'accesso ai cavalli. La strada passava proprio sopra quel punto, contrassegnato da tre lastre di pietra, su una delle quali era incisa la data 1819. I lastroni costituivano una sorta di muretto che correva lungo un breve tratto della strada. Stephen scese dall'auto, che aveva fermato sul dosso sopra i lastroni di pietra, e iniziò a scendere giù per il declivio. Poiché quel punto era situato in alto, quasi tutta l'acqua era defluita, non nella miniera, il cui ingresso era bloccato a circa tre metri dall'inizio del tunnel da una barriera di cemento, ma nel canale di scarico laterale. La terra era bagnata ma non inzuppata. Vide subito che era impossibile arrivare fin lì con l'auto, senza lasciare le tracce dei pneumatici nel fango. Non passavano altre auto. Aveva continuato a tener d'occhio la strada durante la discesa. Ora, mentre risaliva, teneva gli occhi fissi sul dosso e il breve rettilineo tra le due curve della strada. Non c'era in giro anima viva. Mancava ancora parecchio prima che cominciasse ad annottare, ma dal momento che non c'era nessuno, non occorreva aspettare la notte. Se non poteva raggiungere con l'auto l'ingresso della miniera, niente però gli impediva di lasciare lì il corpo.
L'unico rischio era che qualcuno potesse notare la sua auto e ricordarsene in seguito. Le lastre di pietra sotto la strada erano proprio il punto che Jack avrebbe scelto, se fosse stato lui e non Stephen l'autore di questo terzo delitto. I megaliti, la baracca per gli esplosivi, e ora l'ingresso della vecchia miniera, costituivano una sequenza logica molto verosimile. Ma se fosse passata un'auto mentre trasportava il corpo? Gli bastava qualche istante per sistemare la faccenda, e aveva tempo cinque minuti per controllare che la strada fosse libera. Non arrivava nessuno né da destra né da sinistra. Si vedevano solo le nubi e la striscia bianca della strada, perfettamente visibile come se ci fosse il sole. Nonostante tentasse di farsi coraggio con questi ragionamenti, si sentiva ugualmente nervoso, mentre apriva il portabagagli ed estraeva il sacco. La strada era ancora deserta. S'incamminò attraverso l'erba alta, per evitare di lasciare le sue orme, e iniziò la discesa camminando a grandi passi, con il sacco sulla spalla. Quando si trovò a poca distanza dall'ingresso della miniera, lanciò il sacco nell'apertura che precedeva il tunnel. Non c'era tempo di togliere il corpo dal sacco, né di fare quell'altra cosa essenziale per la buona riuscita del piano. Mentre risaliva, era ossessionato dall'idea di vedere spuntare sul dosso l'auto che non aveva visto sopraggiungere e che aveva impiegato solo un minuto e non cinque per arrivare fin lì. Invece andò tutto liscio. La strada era ancora deserta, ma poiché si avvicinava l'ora del crepuscolo, appariva meno nitida di prima. Incrociò la prima auto dieci minuti più tardi, mentre stava per raggiungere Thirlton. Il tizio al volante, intento a parlare con la persona che gli era seduta accanto, parve non notare neppure la sua auto. Nel municipio del paese doveva essere in corso un'assemblea o qualcosa del genere. Il parcheggio era pieno di auto e anche la strada. Stephen posteggiò a sua volta e si accinse a percorrere a piedi i sette od otto chilometri che lo separavano dalla vecchia miniera. Si lasciò subito alle spalle la strada principale, trovando più sicuri i sentieri che attraversavano la brughiera. Quella era la zona di Vangmoor che gli era meno familiare, ma avendo come punto di riferimento la cima del Knamber Foin non poteva sbagliare. Non c'era la luna, ma per quanto il cielo si facesse buio, la collina era sempre visibile, una macchia scura sullo sfondo più chiaro del cielo. Il silenzio era assoluto. In tutto il percorso vide solo due auto, riconoscibili per i fari che foravano l'oscurità, descrivendo archi di luce davanti a sé. Raggiunto l'ingresso della vecchia miniera, appena oltrepassato Bow Dale, accese la torcia. Il risultato non era entusiasmante, poiché aveva por-
tato con sé la torcia piccola, che forniva una luce piuttosto debole. In ogni modo sarebbe stata sufficiente per il suo scopo. Nell'altra tasca aveva le forbici. S'inginocchiò sulle schegge di scisto che costituivano la pavimentazione del tunnel, tagliò lo spago con cui aveva legato il sacco e sfilò il cadavere, che rimase voltato a faccia in giù. I capelli biondi illuminati dalla torcia formavano una macchia appena un po' più chiara del resto. Un'auto passò sul dosso. Stephen s'irrigidì. Spense subito la torcia e rimase in ginocchio al buio pesto. Ma l'auto non si fermò, non rallentò neppure. Ripensando alla conformazione della strada, paragonabile a un viadotto che passasse sopra la miniera, Stephen fu certo di non essere stato visto. Comunque non era una situazione piacevole. Dopo qualche istante accese di nuovo la torcia, prese le forbici e tagliò i capelli rasente al cuoio capelluto. Sentì passare un'altra auto sopra la sua testa, e le vibrazioni si ripercossero sul soffitto del tunnel. Arrotolati rapidamente i capelli in un'unica matassa, li posò in fondo al sacco e lo chiuse. 14 Il mattino seguente il tempo era incerto, il cielo grigio e l'aria immobile. Prima di uscire di casa, Stephen telefonò a papi per dirgli di non venire a pranzo perché Lyn non si sentiva bene, ma papi era entrato nella fase depressiva in cui viveva come se fosse sempre notte. Staccò il ricevitore senza rispondere. Stephen capì che aveva alzato la cornetta solo perché il telefono smise di squillare, poi avvertì il respiro all'altro capo del filo. — Papi? Sono Stephen. La voce, quando si fece sentire, era esile e remota. — Oggi non aspettatemi. Non vengo. — Va bene. Come preferisci, papi. — Veramente preferirei essere già morto. Peach, seduto su un mobiletto della cucina, fissava il frigo. Stephen si ricordò di non avergli dato da mangiare, la sera precedente. Aprì un barattolo di carne per gatti e Peach, senza abbandonare la sua aria calma e dignitosa, si mise a mangiare con appetito. Il gatto doveva andarsene, pensò Stephen. Meglio sopprimerlo, piuttosto che costringerlo di nuovo ad abituarsi a un nuovo padrone. Rimandò la soluzione del problema al giorno dopo. Tolse la matassa di capelli dal sacco e la mise in una tasca del giubbotto,
ma poi gli venne in mente che se per qualche ragione la polizia avesse perquisito la casa e i suoi indumenti, si sarebbe insospettita se le fosse capitato di trovare un capello biondo nella tasca. Perciò infilò i capelli in un sacchetto di plastica e mise il sacchetto nello zaino, insieme con la corda e la torcia grande. Kevin stava portando fuori l'auto dal garage per andare al St Ebba's a prendere Joanne e la bambina. Stephen aspettò che l'auto si allontanasse, prima di lasciare a sua volta Tace Way. La brughiera, come se con la pioggia avesse saziato la sua sete, pareva addormentata sotto la massa immobile delle nubi. Le strade erano asciutte, e anche la brughiera sembrava essersi asciugata, anche se di tanto in tanto a Stephen capitava d'infilare un piede in una pozzanghera. S'imbatté in un pescatore di ritorno dall'Hilder con attrezzatura e ombrello. In Reeve's Way c'erano due ragazzi con un pastore alsaziano. La gente cominciava ad azzardarsi a tornare a Vangmoor, ma l'indomani o il giorno successivo, dopo che fosse stato rinvenuto il corpo di Lyn, tutti avrebbero smesso di avventurarsi nella brughiera, stavolta per sempre. Sarebbe diventata una sorta di proprietà privata, che lui e Jack avrebbero condiviso. Il Big Allen era avvolto quasi per metà in un nuvolone bianco. La quiete era tale da far immaginare a Stephen che l'intero paesaggio trattenesse il respiro, in attesa che accadesse qualcosa. Un dramma, una tragedia, qualcosa di violento. Se si fosse alzato il vento, avrebbe fugato quest'impressione, ma l'aria era immobile e satura d'umidità. Era convinto di riuscire a calarsi nell'Apsley Sough senza l'ausilio della corda, ma la usò ugualmente per maggiore sicurezza. Faceva freddo nel tunnel e le pareti erano viscide. Arrivato in fondo, non si diresse verso la grotta di Jack, ma imboccò il passaggio che doveva portare sotto la baracca George Crane. Dopo la pioggia della notte precedente, gli sembrava che per terra ci fosse più acqua del solito. Aveva l'impressione di camminare in riva al mare, sulla battigia. Gli scarponi affondavano in quasi tre centimetri d'acqua. Quando fu vicino al punto sotto cui si trovava il laghetto sotterraneo, vide che lungo le pareti del passaggio scorrevano rivoli d'acqua. Non si spinse fino al lago. Si fermò nella grotta la cui uscita era stata bloccata da una frana e lì, sotto il cumulo di macerie, sotterrò il sacco. Si accorse di non respirare bene, e quando tentò di accendere una candela, la fiammella guizzò e subito si spense. Qualcosa nell'atmosfera, qualche sostanza portata dalla pioggia, toglieva ossigeno alla miniera. Più indietro l'aria tornava a essere respirabile. Stavolta non ebbe pro-
blemi con la candela. Giunto alla biforcazione, imboccò il tunnel di destra. Qui l'unico cambiamento prodotto dalla pioggia consisteva in un forte odore metallico, probabilmente dovuto alla presenza di piombo. Stephen si fermò all'ingresso della grotta di Jack, orientando la candela in modo da poter guardarsi intorno. Ciò che vide l'indusse a spegnere la candela e ad accendere la torcia. C'erano due candele nuove nelle bottiglie, e una terza infilata in un candeliere d'ottone. C'era anche una bottiglia di sidro, un boccale, una scatola di fiammiferi con sopra un fiammifero spento. Ma ciò che colpì maggiormente Stephen, facendogli trattenere per un istante il respiro, fu la vista del sacco a pelo sul materasso con la cerniera ancora aperta e l'impronta lasciata dalla testa di Jack sul cuscino. Evidentemente aveva trascorso lì la notte. Stephen entrò nella grotta. I biscotti e la carne in scatola erano stati mangiati, la birra bevuta. Mai come in quel momento aveva avvertito la recente presenza di Jack. Aveva l'impressione che se ne fosse andato pochi minuti prima del suo arrivo, forse mentre lui si trovava dall'altra parte della miniera, intento a sotterrare il sacco. Non era da escludere che si fossero incrociati, seppure percorrendo due tunnel diversi, senza vedersi e senza sentirsi. Stephen tremava per l'eccitazione. Fu costretto a sedersi per terra, sul tappeto fatto di sacchi, e a sforzarsi di respirare piano per calmarsi. Dopo un po' aprì la scatola segreta. Gli venne in mente che avrebbe dovuto portare un oggetto di Lyn, un fermacapelli, una spilla o magari l'anello che le aveva regalato papi, da mettere insieme agli oggetti appartenuti a Marianne Price e ad Ann Morgan. La cosa più importante però non l'aveva scordata. Con grande precauzione sfilò i capelli dal sacchetto di plastica. Come sfumatura di biondo, era una via di mezzo tra i capelli di Marianne e quelli di Ann, più tendenti al rosso. Li mise con gli altri e si sforzò d'immaginare quale sarebbe stata la reazione di Jack, quando avesse aperto la scatola e li avesse trovati. Certo, si sarebbe meravigliato, forse anche divertito tanto da scoppiare in una risata. Di una cosa Stephen era sicuro, e cioè che non si sarebbe spaventato. Richiusa la scatola, pensò di fare qualche altra cosa perché Jack si accorgesse della sua intrusione. Ma che cosa? Quale altro segnale o messaggio poteva lasciargli, che non guastassero l'ironia sottile del suo primo gesto? Tornato nel tunnel e raggiunta la biforcazione, svoltò a sinistra verso la grotta interrotta dalla frana, quasi aspettandosi di trovarsi a un tratto a fac-
cia a faccia con Jack. Tornò all'aperto con un senso di delusione, ripensando all'avventura di tanti anni prima, quando emergendo dal tunnel si era trovato davanti il viso lentigginoso del ragazzino sconosciuto. La delusione e la paura si acuirono a mano a mano che procedeva verso casa, come se avesse esaurito tutte le sue risorse sbarazzandosi del corpo di Lyn e nascondendone i capelli nella grotta di Jack. Era arrivato il momento di fare i conti con la realtà, di riflettere anziché di agire, per assicurarsi di non aver commesso errori. Ovviamente a Jack non era stato necessario riflettere sul da farsi. Lui si era limitato a uccidere, a tagliare i capelli alle ragazze e a nascondersi all'interno della miniera, in attesa di riprendere la sua vita di tutti i giorni. Ma Stephen aveva assassinato la moglie. Sua moglie era sparita e, come Ian Stringer e Roger Morgan prima di lui, doveva essere il primo a mettersi alla ricerca della sua compagna. Tentò d'immaginare se stesso non più nei panni dell'assassino, ma in quelli del marito la cui moglie era scomparsa. Ormai da oltre ventiquattr'ore. La sera precedente aveva detto alla madre che sarebbe andato a cercarla a Hilderbridge. Non avendola trovata, sarebbe stato logico avvertire qualcuno. Se non la polizia, almeno i genitori. Non gli era neanche passato per la mente. L'idea gli fece accapponare la pelle. Era l'una passata, quando arrivò a Chesney. Un uomo che viveva a Vangmoor, dove negli ultimi tre mesi erano state assassinate due giovani donne con i capelli lunghi e biondi, si sarebbe sicuramente chiesto se la moglie, avendo le stesse caratteristiche delle vittime precedenti, non avesse fatto la stessa fine. La cosa più naturale sarebbe stata quella di mettere al corrente i genitori della sua scomparsa, avvertire la polizia e iniziare subito le ricerche, già dalla sera precedente. Era stato troppo impegnato a fare altre cose per preoccuparsi del resto. Se fosse ricorso ora alla polizia, gli avrebbero domandato perché non si era fatto vivo prima. Sapendo il rischio che correva, dopo che aveva rinvenuto il cadavere della prima vittima ed era stato sottoposto a un pressante interrogatorio, perché aveva aspettato tutto quel tempo prima di rivolgersi a loro? Imboccata Tace Way, vide un gruppetto di persone radunate nel giardino dei Simpson. Ormai era troppo tardi per tornare indietro e fermarsi da qualche parte ad aspettare che entrassero tutti in casa. La signora Newman l'aveva visto arrivare e ora agitava il braccio per salutarlo. Stephen proseguì, con una domanda fissa che gli martellava la mente: che cos'avrebbe risposto, se gli avessero domandato dov'era Lyn? Che scusa poteva trovare?
— Eccoti qua, Stephen. Che fine ha fatto Lyn? — Non è in casa? — domandò a sua volta, quasi balbettando. — È tutta la mattina che non c'è. Avevo detto a Joanne di darle un colpo di telefono per invitarla a venire a vedere Chantal, e Joanne le ha telefonato, ma non ha risposto nessuno. Vero, Joanne? Così sono andata a vedere, pensando che potesse esserci un guasto al telefono, ma la casa era chiusa e Lyn non c'era. La cognata era seduta su una poltroncina di vimini che dovevano aver portato fuori apposta per lei. Aveva in braccio una bambina molto piccola, con il viso rosso bagnato di lacrime e di saliva. Gli occhi grandi e blu affondavano nelle orbite grinzose, la testa era coperta da una peluria rossiccia. Kevin chiacchierava con una coppia di vicini, mentre il fratello era intento a parlare con un'altra coppia che abitava in fondo a Tace Way, ma Stephen ebbe l'impressione che quando Joanne rispose alla domanda tutti tacessero di colpo per voltarsi a guardare lui. — Non mi risulta che Lyn sia mai uscita, la domenica mattina. Che cosa diavolo combina? Voglio dire, credo proprio che l'abbia fatto di proposito. Torno a casa con la bambina, e lei non si fa trovare, e per giunta la mamma mi ha detto che stasera dovete uscire. Stephen non rispose. Notò che a Joanne tremava il labbro inferiore. — Non sarà per caso invidia? Ho indovinato? È venuta una volta sola a trovarmi in ospedale, eppure lavora lì, neanche tanto distante. Che cosa crede, che non avrei dovuto mettere al mondo un figlio perché lei non ne ha? — Joanne! — la riprese dolcemente il padre. — Stai tranquilla, tesoro — disse Kevin. — Vedrai che Lyn verrà a trovarti non appena sarà di ritorno. Non è vero, Steve? Due dei vicini ritennero opportuno svignarsela. Joanne scoppiò in lacrime, e così anche la bambina cominciò a piangere. Joanne balzò in piedi e corse in casa. — Tipica nevrosi post-parto — diagnosticò Trevor. La signora Newman fissava Stephen, la testa inclinata da un lato. — Comunque, si può sapere dov'è Lyn? — Non lo so. — Be', quando torna fa' in modo che faccia un salto qui. Se Joanne si agita, finisce che ne risente l'allattamento. C'era una tizia che abitava dietro la chiesa, quando i miei figli erano ancora piccoli...
Ma Stephen non seppe mai che cos'era accaduto a quella donna, perché girò sui tacchi senza dire una parola, attraversò la strada e aprì il cancello di casa sua. Piantarli in asso a quel modo era stata una grossa stupidaggine, date le circostanze, e se ne rendeva conto perfettamente, ma se si fosse trattenuto ancora un po' la situazione poteva peggiorare. Aveva già cominciato a tremare e aveva l'impressione di essere rimasto senza voce. Andò a prendere un bicchiere d'acqua in cucina, lo bevve e si sforzò di respirare piano. Non vedendo arrivare Lyn nel corso del pomeriggio, era inevitabile che Joanne o la signora Newman si sarebbero presentate alla porta. Avrebbero insistito per sapere dov'era Lyn. Non aveva idea di ciò che avrebbe potuto rispondere. Siccome lui e Lyn bevevano di rado alcolici, ce n'era una scorta abbondante nella credenza di papi. Stephen trovò una bottiglia di whisky quasi piena e se ne versò una dose generosa. Non essendo abituato a bere, e avendo lo stomaco vuoto, il whisky gli andò subito alla testa. Sedette sul divano di velluto verde. Perché non era andato alla polizia la sera prima? Ormai era troppo tardi, da un momento all'altro poteva essere rinvenuto il cadavere di Lyn. Quando fosse accaduto, i Newman, i Simpson e gli altri vicini di casa che avevano assistito alla scena, si sarebbero ricordati di averlo visto tremare e tenere la bocca cucita, quando gli era stato domandato dov'era la moglie. La signora Newman avrebbe rammentato che la sera precedente le aveva comunicato la sua intenzione di passare a prenderla a Hilderbridge. Avrebbero dichiarato di averlo visto caricare in macchina un grosso sacco, troppo voluminoso per contenere il busto di Tace. Si prese la testa tra le mani. Cominciava ad avere una paura tremenda di essere scoperto. Il terrore lo fece balzare in piedi e camminare febbrilmente per la casa. Bevve dell'altro whisky. Ogni ora che passava, diventava sempre più arduo giustificare il fatto che non aveva denunciato la scomparsa di Lyn, e ogni ora che passava era sempre più probabile che trovassero il cadavere. Aveva dato l'impressione alla madre e alla sorella che Lyn avesse trascorso la notte a casa nel suo letto. Anche se non l'aveva detto, non faceva nessuna differenza. Sicuramente se ne sarebbero ricordati, quando Malm e Manciple e Troth li avrebbero interrogati in proposito. Con il passo incerto a causa del whisky bevuto, Stephen si trasferì barcollando nello studio e si lasciò cadere sulla sedia dietro la scrivania. Tace lo fissava con una sorta di triste ironia e un lampo di cinismo negli
occhi. Forse a dargli quest'impressione era la testa rotta e il riflesso del sole che ne illuminava il profilo. La sera precedente, occupato com'era a scimmiottare Jack, a imitarne ogni mossa, a fare di lui la sua guida e la sua copertura, aveva trascurato l'essenziale, commettendo l'errore di non denunciare la scomparsa di Lyn. Anche se non l'avesse fatto subito dopo che era tornato dalla miniera, anche se avesse aspettato fino alle undici, l'importante sarebbe stato parlarne. A questo punto, a che giovava che il suo gruppo sanguigno fosse diverso da quello dell'assassino delle due ragazze? Malm avrebbe avuto l'intuizione giusta, avrebbe capito subito che era stato lui a togliere di mezzo la moglie e poi ad armeggiare perché credessero che era stato l'altro a ucciderla. Ora Stephen tremava di paura. Si era sempre ritenuto forte e coraggioso, ma non ne era più molto convinto. Sconvolto com'era dalla paura, si mise a piagnucolare e a ripetere ad alta voce che non aveva nessuno a cui rivolgersi, nessuno che potesse aiutarlo. Per oltre vent'anni papi si era dimostrato inutile, da quel punto di vista. Pensò con amarezza e rancore alla nonna morta di recente e a quell'estranea grassa che ora girava per l'Europa a bordo di un pullman turistico. In passato, si era sempre rivolto a Lyn per avere amore e conforto, e ora l'aveva uccisa. Si buttò in ginocchio e posò la testa sul cuscino, illudendosi che fosse il grembo della moglie. 15 Benché lo terrorizzasse l'idea di ciò che poteva sentire, Stephen si costrinse ad accendere il televisore per ascoltare il telegiornale delle 17.45. Gli bastò sentire i titoli per capire che il corpo di Lyn non era ancora stato trovato. Ben pochi si sarebbero avventurati nella brughiera in una giornata come quella, pensò mentre guardava fuori, fermo davanti alla finestra proprio come Lyn. Aveva ricominciato a piovere e si era già fatto buio, per essere una sera d'agosto. Alle sette ascoltò un secondo telegiornale su un altro canale. Ancora nulla. Se non denunciava la scomparsa di Lyn, era probabile che passasse qualche settimana prima che trovassero il suo corpo. Per vederlo, bisognava spingersi fino all'imboccatura della miniera. In ogni caso, doveva trovare una spiegazione da dare ai genitori per giustificare la sua assenza. Nel corso del pomeriggio, dopo aver trovato la forza di scendere di sotto a bere dell'altro whisky, si era sdraiato sul letto e con la mente ottenebrata dall'al-
cool si era addormentato. Stavolta si era preoccupato di chiudere a chiave la porta di servizio, un'altra novità rispetto al solito. Dalla camera da letto aveva sentito la signora Newman scuotere la maniglia. Qualche minuto più tardi o lei o Joanne avevano suonato il campanello dell'ingresso. Il telefono era squillato due volte. Stephen se n'era rimasto tranquillamente a letto, pur sapendo che in questo modo non faceva altro che peggiorare la situazione. Aveva l'emicrania. Nonostante questo, non osava restare in casa, dopo aver detto alla suocera che quella sera lui e Lyn dovevano andare dallo zio Stanley. Indossò una camicia pulita e una giacca, per non insospettire chi lo teneva d'occhio dalla finestra di fronte, benché naturalmente non vi fosse modo di mostrare Lyn. In anticamera, mentre stava per uscire, udì un rumore in cucina e trasalì, trattenendosi a stento dal cacciare un urlo. Ma era soltanto Peach, che si era intrufolato in casa passando attraverso la sua porticina, e aveva lasciato le impronte delle zampe bagnate sulle piastrelle. Stephen salì in macchina e se ne andò, ben conscio di essere solo e di essere stato visto dai parenti della moglie. Quando si era allontanato da casa non aveva idea di dove andare, ma mentre attraversava il paese provò l'impulso irresistibile d'imboccare la strada che portava a Knamber Foin e alla miniera. Sarebbe stata una follia. In un prossimo futuro, chiunque si fosse trovato a percorrere quella strada, sarebbe stato interrogato sulle auto che aveva visto passare. Si sentiva attratto da quel posto, ossessionato dall'idea di vedere se il corpo si trovasse ancora dove l'aveva lasciato. Magari era meglio spingerlo più avanti nel tunnel, e coprirlo, se non addirittura cambiargli posto, portarlo da qualche altra parte. Arrivato a Thirlton, fermò l'auto nello stesso punto dove aveva posteggiato la sera precedente, nei pressi del municipio. Non intendeva cedere alla tentazione. Avrebbe resistito con tutte le sue forze, sarebbe rimasto seduto in macchina un'ora, forse anche due. Due ore dovevano essere sufficienti per una visita in casa di un parente. Sarebbe rimasto chiuso in macchina per tutto quel tempo, ad aspettare, poi sarebbe tornato a casa, avrebbe staccato il telefono e chiuso a chiave sia la porta principale sia quella di servizio. A motore spento, in macchina faceva freddo come d'inverno. Alla sua destra si estendeva la brughiera lavata dalla pioggia, che si fondeva con il cielo grigio senza che si vedesse il punto di congiunzione. Stephen pensò di scappare. Poteva chiudere la casa, prendere l'auto e andarsene altrove.
Aveva soldi in banca, circa cinquecento sterline sul conto corrente. Se avesse deciso in questo senso, avrebbe potuto recuperare il corpo, portarlo via con sé, trasferirsi al sud... Qualsiasi cosa era preferibile all'idea di dover rispondere alle domande dei parenti di Lyn. Non ci aveva mai pensato prima, e soltanto ora si rendeva conto di odiare quella gente. Erano come i Naulls, proprio identici. Una razza creata per tormentarlo. Che cos'avrebbe potuto rispondere, quando gli avrebbero chiesto di nuovo dov'era Lyn? Non poteva andarsene, non ce l'avrebbe fatta a lasciare quei luoghi. Non riusciva neppure a immaginare come sarebbe stata la sua vita senza la brughiera. Sarebbe stato come perdere un occhio o un braccio. Quella pioggia incessante lo esasperava. L'acqua che scendeva a rivoli giù per il parabrezza gli faceva provare un senso di claustrofobia, sensazione che non aveva mai avvertito all'interno della miniera, nella grotta di Jack. E se la madre di Lyn avesse telefonato a zio Stanley? Ne sarebbe stata capace. Si conoscevano da una vita, il padre di Lyn e Stanley Naulls erano stati compagni di scuola. Che cos'avrebbe detto al suo ritorno, se si fosse presentata la signora Newman a chiedergli di Lyn? "Non lo so, non la vedo da ieri mattina. Non so dove sia andata. Non è tornata da Hilderbridge." Stephen ripeteva mentalmente queste risposte assurde, e da quel miscuglio ne saltò fuori una che poteva sembrare verosimile. Gli venne in mente con molta chiarezza, pareva aspettare solo che lui l'acchiappasse al volo. Ripeté le parole ad alta voce: — Non so dove sia. Mi ha lasciato. Qualcosa gli aveva impedito di pensare agli avvenimenti del mattino precedente, una sorta d'amnesia che sicuramente quell'idiota di Trevor avrebbe definito blocco psicologico. Aveva cancellato quegli avvenimenti dalla sua memoria senza fatica e senza sforzo. Ora però si costrinse a ricordare ciò che gli aveva detto Lyn, che l'aveva spinto a picchiarla e che aveva provocato la rottura del busto di Tace. Non a ciò che l'aveva indotto a ucciderla, perché questa era stata una cosa completamente diversa, qualcosa d'indefinibile che sfuggiva a ogni analisi. Aveva picchiato Lyn perché lei l'aveva tradito. Dunque, doveva esserci un altro uomo. Fino a quel momento Stephen non vi aveva pensato. Che lei l'avesse ingannato, che avrebbe avuto un figlio e l'avrebbe portato a casa, questo era bastato a far scattare la molla in lui. Ora per la prima volta si sforzò di concentrarsi sulla figura dell'amante di Lyn. Non se ne intendeva di questo
genere di cose, era un argomento che non l'aveva mai interessato. Né aveva mai immaginato che un giorno avrebbe potuto riguardarlo. Certo, non aveva potuto fare a meno di notare che a volte i matrimoni si sfasciavano, che c'erano mariti che lasciavano la famiglia per andarsene con un'altra donna, e mogli che facevano altrettanto. Avrebbe potuto dire che questo era ciò che aveva fatto Lyn. Poteva raccontare alla madre che se n'era andata di casa per andare a vivere con un altro. In effetti, se lui non fosse intervenuto, forse sarebbe accaduto davvero. Quell'uomo esisteva realmente. Quando avrebbero trovato il corpo di Lyn, avrebbero pensato che quel mattino se n'era andata di casa con l'intenzione di raggiungere l'amante da qualche parte, per esempio a Hilderbridge, e avendo perduto l'autobus avesse accettato un passaggio da qualcuno. Stephen avviò il motore e azionò il tergicristallo. Attraverso il parabrezza pulito vide che il sole stava tramontando e tra le nuvole il cielo era tinto di rosso. Tanto valeva tornare a casa. Nessuno si sarebbe aspettato che lui andasse a trovare lo zio, quando la moglie l'aveva appena lasciato. Mentre innestava la retromarcia, provò mentalmente le frasi che avrebbe usato. Era un sollievo essere di nuovo a casa. Accese le luci, aprì tutte le tende e aspettò l'arrivo della signora Newman. Peach andò a strofinarglisi contro, forse nella speranza che lo prendesse in braccio come faceva Lyn. Stephen lo spinse via con il piede, senza fargli male. Sul tavolino c'era un libro, e così Peach non vi poteva salire. Si sistemò allora su un cuscino, da dove rimase a guardarlo con aria offesa. Aspettava Lyn, pensò Stephen. Che differenza faceva? Ormai aveva anche lui i giorni contati, anzi le ore. Erano appena le nove. Accese il televisore e trovò un canale che trasmetteva il telegiornale. Nessun accenno ai delitti di Vangmoor, il corpo di Lyn non era stato trovato. Stephen cominciò a chiedersi per quale motivo la signora Newman non si facesse viva. Si era sicuramente accorta che era tornato, e aveva voglia di vedere la figlia, tanto più che a quell'ora doveva essere in pena per lei. Gli venne l'idea di andare a casa sua per annunciarle che Lyn l'aveva lasciato, ma ripensandoci decise che era meglio non farne nulla. Sarebbe stata una stonatura che avrebbe dato nell'occhio. Si trasferì invece nello studio, dove si accinse a terminare l'articolo iniziato per La voce di Vangmoor. Aveva lasciato aperta la porta di servizio e spalancata quella dello studio, per poter sentire se qualcuno bussava o suonava il campanello. Dopo un po' uscì in corridoio e andò a guardare la casa di fronte dalla fi-
nestra della camera. Nella camera da letto dei Simpson c'era la luce accesa, mentre nel resto della casa c'era buio. Nel soggiorno dei Newman c'erano le tende chiuse, ma si vedeva ugualmente la luce all'interno e il chiarore azzurrognolo della televisione. Tornato nello studio, Stephen trovò difficile concentrarsi. Perché nel corso del pomeriggio avevano tentato tre o quattro volte di parlare con Lyn, e poi la sera avevano smesso di colpo? Che sospettassero già che l'aveva uccisa, e ora se ne stavano tranquilli a casa loro, dopo avere avvertito la polizia? Impossibile. Perché mai avrebbero dovuto sospettare di lui? Più probabile che si fossero offesi. Ma ora il loro silenzio, la loro assenza gli sembravano più inquietanti dell'idea di rispondere alle loro domande. Alle ventidue e venti in casa dei Newman si spensero le luci al pianterreno e si accesero invece quelle delle scale e della camera da letto. Stephen stava guardando fuori dalla finestra, con le luci accese alle sue spalle, quando a un tratto vide la signora Newman guardare a sua volta fuori dalla finestra della sua stanza. Per un attimo i loro sguardi s'incrociarono, poi la signora Newman chiuse le tende. Stephen ebbe la sensazione, a giudicare dall'espressione della suocera, che fosse in collera con lui e che l'avesse guardato con aria di riprovazione. Se ne andò a letto, ma non riusciva a prendere sonno. Ogni volta che stava per addormentarsi, si svegliava con un sussulto. Mentre se ne stava sdraiato al buio, puntini luminosi danzavano in continuazione davanti ai suoi occhi. Pensava a quanto sarebbe stato terribile se si fosse addormentato, per essere svegliato di colpo da qualcuno che bussava alla porta, si fosse trascinato giù dal letto per andare ad aprire e avesse visto un'auto della polizia davanti a casa sua, e ci fossero stati Manciple e Troth al cancello. Benché non riuscisse a dormire, non osava accendere la luce. Così come lui poteva vedere le luci accese in casa dei Newman e dei Simpson, anche loro avrebbero visto la sua. Preferiva restarsene acquattato nel buio. Se fosse stato possibile, si sarebbe lasciato volentieri inghiottire dalla terra. Alle prime ore del mattino, non riuscì più a resistere. Si alzò e si mise a gironzolare per la casa, si preparò il tè, tentò di leggere qualcosa e poi persino di terminare il suo articolo. Dopo il diluvio degli ultimi giorni, al riapparire del sole vedremo la brughiera rinverdire...
La colla sulla testa di Tace si era asciugata, non si vedeva più l'incrinatura. Aveva smesso di piovere, e all'alba il cielo assunse diverse tonalità di grigio. Stephen tornò a letto, ma neanche stavolta riuscì ad addormentarsi e alle otto si alzò di nuovo. Anche quel giorno, come gli era accaduto altre volte in passato, non sarebbe andato a lavorare. Si sentiva uno straccio. Se entro mezz'ora non fosse comparsa la signora Newman, sarebbe andato lui a casa sua. Si sforzò di ricordare se l'avesse mai fatto di sua iniziativa. Probabilmente no, ma in quella circostanza non poteva fare altrimenti. Era stato lasciato dalla moglie. Notizie di Lyn, avrebbe domandato? Abbiamo litigato e lei mi ha lasciato, se n'è andata con un altro di cui dice di essere innamorata. Era abbastanza verosimile? Gli venne un orribile sospetto. Se Lyn fosse stata viva, se davvero avesse deciso di lasciarlo, non ne avrebbe forse messo al corrente la madre? Non si sarebbe messa in contatto con lei? Il gatto lo fece spaventare, entrando improvvisamente dalla sua porticina con l'agilità di un animale da circo che salta nel cerchio di fuoco. Se al suo posto ci fosse stato un cane, avrebbe cercato Lyn apertamente, correndo da una parte all'altra della casa e fiutando dappertutto. Peach invece camminava impettito per la casa, con la coda eretta, muovendo appena la testa e facendo vibrare i baffi. Con un balzo salì sul davanzale interno della finestra, forse nella speranza di veder comparire la sua padrona. Alla signora Newman non sarebbe parso strano che la figlia se ne fosse andata di casa senza portare con sé il suo amato gatto? Erano le nove e non si era ancora visto nessuno. Stephen tentò di telefonare a papi per dirgli che non stava bene, che forse si era beccato l'influenza, ma non lo trovò in casa. Vide Kevin uscire per andare a lavorare, poi anche il signor Newman. Alle nove e un quarto Joanne apparve sulla porta di casa sua e spinse fuori una carrozzina nuova fiammante, che lasciò in giardino. Stephen s'infilò gli scarponi e il giubbotto con la cerniera. Mentre usciva di casa, vide spuntare la suocera nel suo giardino. Restò un attimo incerta sul primo gradino, guardando nella sua direzione. Ciò che accadde poi gli fece battere forte il cuore. Con un'alzata di spalle, la signora Newman girò sui tacchi e rientrò in casa. Stephen continuò per la sua strada. Uscì in strada, chiuse il cancello alle sue spalle, percorse Tace Way e proseguì verso il paese. Aveva un ronzio nella testa che gli impediva di riflettere in modo coerente e sentiva le gambe molli. Inciampò un paio di volte. Eppure, per quanto gli riuscisse difficile camminare in quel momento, pur essendo generalmente la sua attività
preferita, sentiva la necessità di spingersi lontano, fino a quel punto della brughiera dove aveva lasciato il corpo di Lyn. Proseguì faticosamente in direzione di Bow Dale e Knamber Foin. Oltrepassato l'incrocio, si lasciò alle spalle la strada e continuò il cammino tra le betulle, evitando sia di alzare gli occhi verso la collina, sia di guardare la valle circostante. Era all'incirca in quel punto che si era imbattuto in Jack per la prima e ultima volta, e gli aveva visto eseguire quella specie di danza per attirarlo verso di sé. Jack avrebbe saputo come comportarsi, se fosse stato nei suoi panni. Se solo si fosse lasciato vedere, se avesse smesso di nascondersi e si fosse unito a lui, se fosse diventato suo amico... "Cerca di comportarti con naturalezza" probabilmente era il consiglio che gli avrebbe dato, e che lui stesso aveva messo in pratica, dopo aver commesso i delitti e trascorso la notte nella miniera, per poi tornare alla sua vita di tutti i giorni come se nulla fosse accaduto. "Comportati come se fossi all'oscuro dell'accaduto." Doveva fingere che la moglie l'avesse lasciato davvero e se ne fosse andata chissà dove. Stephen guardò le foglie delle betulle che, anche quando non c'era un alito di vento, erano sempre leggermente tremule. Si appoggiò al ramo di un albero per riposarsi, non essendo possibile sedersi sulla terra bagnata. Le foglie chiare delle betulle e il suo viso pallido si riflettevano nelle pozze d'acqua disseminate un po' ovunque in mezzo all'erba. Fino a quel momento forse si era comportato in modo normale. Per uno come lui, era normale non precipitarsi a piangere tra le braccia dei parenti della moglie da cui era stato lasciato, normale mentire e rimandare il momento di confessare la verità. Facendo queste considerazioni, cominciò ad avere meno paura. Si sentiva più calmo, più innocente, più libero, cosa che gli accadeva sempre quando era nella brughiera. Anche la sera precedente, a Thirlton, la vista della brughiera gli aveva impedito di perdere la testa. Aggrappato all'albero, chiuse gli occhi e rimase a lungo in quella posizione, respirando l'aria profumata delle foglie e dell'erba umida. Mentre si allontanava dai Banks of Knamber per tornare sui suoi passi, riprese di nuovo a piovere. Era una pioggerella leggera, cadeva dalle migliaia di nuvolette bianche che punteggiavano il cielo come stelle. Stephen camminava senza fretta, alzando il viso verso la pioggia. Nessuno avrebbe sospettato di lui, benché fosse il marito di Lyn, poiché era evidente che anche questo delitto era opera di Jack. Come i corpi delle due vittime precedenti, anche quello di Lyn giaceva in un punto chiave della brughiera. Anche lei era stata strangolata e l'assassino l'aveva privata dei capelli. Inoltre
c'era la storia del gruppo sanguigno. Per quanto simili fossero lui e Jack, accomunati dall'amore per la brughiera, la solitudine, l'avventura, uomini forti capaci di sopportare i sacrifici, restava il fatto che non avevano lo stesso tipo di sangue. Avrebbero potuto essere fratelli, ma non gemelli. Quella piccola differenza nel loro sangue l'avrebbe salvato. Ora, pensava, sarebbe riuscito a dormire. Avrebbe mangiato qualcosa, poi se ne sarebbe andato a letto e avrebbe fatto una lunga dormita. Il mattino successivo, tranquillo e riposato, sarebbe tornato al lavoro. Forse il corpo di Lyn non sarebbe mai stato trovato, con il passare del tempo sarebbe rimasto solo un mucchietto d'ossa, che si sarebbero sbriciolate, fondendosi con la terra della brughiera. L'asfalto di Tace Way era lucido di pioggia, dagli alberi dei giardini scendevano gocce d'acqua molto più consistenti di quelle della pioggia. Davanti alla casa della signora Newman era fermo un furgone con la scritta Bale's sulla fiancata. Il nome del negozio degli animali rammentò a Stephen che doveva sopprimere Peach. Avrebbe provveduto l'indomani. Era una cosa piuttosto logica da fare, da parte di un marito abbandonato. Aveva letto da qualche parte, non sapeva se fosse finzione o realtà, che il padre di Elizabeth Barrett aveva ucciso, o deciso di uccidere, il cagnolino di Elizabeth, quando lei era scappata di casa con Robert Browning. Doveva comportarsi in modo normale. In questo caso, sopprimendo il gatto della moglie che l'aveva abbandonato. Entrò in casa, andò in cucina, ma stanco com'era non aveva voglia di mangiare. Ben presto la signora Newman, avendolo visto tornare, si sarebbe presentata a casa sua. Chiusa a chiave la porta di servizio, staccò il telefono, si tolse giubbotto e scarponi e salì di sopra. Si sdraiò sul letto, con la camicia e i jeans addosso, e s'infilò sotto le coperte. Rimase qualche istante tranquillo, ad ascoltare il lieve rumore della pioggia, poi si addormentò. Fu svegliato da un rumore al piano di sotto, non sapeva quanto tempo dopo. Pioveva ancora. Gli era parso di sentire chiudere una delle porte interne, e infatti ora udiva dei passi. Che si fosse dimenticato di chiudere la porta posteriore? Impossibile che la signora Newman salisse di sopra a cercarlo, eppure sentiva i passi sulle scale. Si mise seduto sul letto, e un istante dopo la porta si spalancò. Con un grido di terrore, balzò giù dal letto e indietreggiò fino al muro. Nella stanza era entrata Lyn, che lo fissava.
16 Stephen doveva avere i nervi a pezzi, pensò Lyn. Sembrava che avesse visto un fantasma. Si fermò a due passi dalla porta e gli parlò con dolcezza. — Mi dispiace di averti spaventato, Stephen. Sono tornata a prendere Peach e le mie cose. Stephen non rispose. Se ne stava fermo con le mani appoggiate al muro, come se sperasse che per un miracolo il muro si aprisse, permettendogli di svignarsela. — Ho visto l'automobile e ho capito che non eri andato a lavorare, ma pensavo che fossi nella brughiera. Non sarei entrata in questo modo, se avessi immaginato che eri in casa. Nemmeno stavolta Stephen parlò. Lyn ricominciò ad avere paura di lui. Aveva smesso di temerlo, perché le sembrava assurdo che quell'essere spaventato potesse essere pericoloso, e per questo aveva rifiutato l'offerta di Nick di accompagnarla a casa. Ma ora la paura era tornata. Si costrinse a muovere qualche passo avanti e a parlare con calma. — Non è giusto che me ne sia andata a quel modo, sabato scorso, approfittando del fatto che eri fuori. L'ho fatto perché ero spaventata. — Non gli rinfacciò di averla picchiata, ma istintivamente si portò una mano all'occhio sinistro, che recava ancora i segni del colpo subito. — Questi due giorni di lontananza — riprese — mi hanno fatto capire che sei contento di sbarazzarti di me. Non è vero, Stephen? Non hai più bisogno di una madre. Stephen si staccò dal muro e Lyn ebbe l'impulso d'indietreggiare. Ma lui non si avvicinò. Si lasciò cadere sul letto e voltò la testa dall'altra parte. A questo punto la giovane donna capì che non le avrebbe rivolto la parola. L'armadio che conteneva i suoi abiti si trovava proprio di fianco a Stephen. Lyn andò ad aprirlo e prese a caso un po' d'indumenti. Era sulle spine. Facendo di nuovo uno sforzo su se stessa, si voltò e tese una mano verso di lui, badando bene di non toccarlo. — Non vuoi parlare con me? Forse è l'ultima volta che ci vediamo, Stephen. In un'altra situazione, la sua reazione sarebbe stata comica. Attraversato il letto strisciando sulle ginocchia, Stephen si buttò giù dall'altra parte, corse fuori dalla stanza, si precipitò nel suo studio e chiuse la porta a chiave. Nick aveva insistito perché non sollevasse la valigie da sola. Lyn aveva riso, ma poi gliel'aveva promesso. Era sopravvissuta alla violenza di Ste-
phen, e nemmeno il bambino ne aveva risentito, e ora sarebbe andata a Londra con Nick. Se non si metteva a cantare di gioia, era solo per non ferire Stephen. Portò di sotto i suoi indumenti in più riprese, li sistemò nelle valigie. La madre la raggiunse quasi subito. — Ho capito che c'era qualcosa che non andava, quando mi ha detto che eravate invitati da suo zio Stanley. Stanley Naulls non vuole nessuno tra i piedi, ho detto a tuo padre, per paura di dover offrire qualcosa da bere o da mangiare. Lyn sorrise. — Ti ho telefonato diverse volte, ma evidentemente eri fuori in giardino e non sentivi. Immaginavo che ti saresti preoccupata, e ho tirato un sospiro di sollievo, quando finalmente questo pomeriggio sono riuscita a trovarti. Dopo aver portato fuori le valigie, la signora Newman le caricò nel furgone. — Non posso fare a meno di sentirmi un po' triste, Lyn. Non abbiamo mai avuto divorzi nella nostra famiglia. Peccato che tu l'abbia sposato, non è mai stato un vero marito per te. Quando voi tre eravate bambini, c'era un tale che abitava in una di quelle villette sulla strada per Thirlton... — Mamma — l'interruppe Lyn — vorrei che non serbassi rancore a Stephen, e che vi comportaste con lui come se fosse ancora mio marito. Joanne era in giardino, ferma accanto alla carrozzina. Lyn la raggiunse. Le due sorelle si baciarono, sentendosi un po' a disagio perché erano anni che non si scambiavano effusioni. — Sentirò la tua mancanza. Qui ci si annoia da morire. — Non parto per l'Australia — la consolò Lyn. — Non vado in capo al mondo. — È come se ci andassi. Oh, sapessi come ti invidio! Sei proprio fortunata. — Lo so — confermò Lyn. — Hai proprio ragione. Recuperò Peach, appollaiato sul ramo basso di un albero, e lo depositò sul sedile accanto al posto di guida. Il gatto rimase impettito a guardare fuori dal finestrino. Lyn eseguì l'inversione di marcia, agitò il braccio per salutare di nuovo la madre e la sorella. Vide la madre scoppiare in pianto e correre in casa ed ebbe un attimo di esitazione, poi schiacciò l'acceleratore e uscì da Tace Way. La strada che percorreva ora passava in mezzo alla brughiera. Si vedevano Chesney Fell e Foinmen's Plain sulla destra, i boschetti dei Banks of Knamber sulla sinistra. Non avrebbe più rivisto quei luoghi, se non occasionalmente se avesse deciso di tornarvi. Una volta, i primi tempi del matrimonio, mentre passeggiava con Stephen per Reeve's
Way, le era capitato di vedere la pelle di una vipera. Adesso aveva l'impressione che la brughiera fosse la sua pelle, e che se la fosse sfilata di dosso per poter cambiare ambiente e vita. Ben presto raggiunse Hilderbridge, percorse North River Street, superò il ponte in direzione di Mootwalk, dove avrebbe trovato Nick ad aspettarla; insieme avrebbero preso il treno che andava a sud. Il trauma subito aveva lasciato Stephen a pezzi. Sdraiato a faccia in giù sul pavimento dello studio, udiva i passi di Lyn che andava avanti e indietro per la casa, la sua voce e quella della madre; infine sentì chiudersi la porta d'ingresso. Adesso era certo di avere visto Lyn, non un fantasma né un'immagine creata dalla sua mente sconvolta dalla paura e dal senso di colpa. Sapeva che era stata Lyn a entrare in camera, perciò non poteva averla uccisa. Si alzò, uscì in corridoio, passò nella camera da letto e guardò fuori dalla finestra. Il furgone di Dale's era sparito. Nel prato dei Simpson c'era la carrozzina, ma Joanne e la madre erano rientrate in casa. Aveva smesso di piovere e tra le nuvole faceva capolino un pallido sole. Ricordava perfettamente gli avvenimenti di sabato pomeriggio. Tornato a casa, aveva visto Lyn davanti alla finestra, in jeans e maglietta bianca, i capelli sciolti sulle spalle, e senza motivo, senza neppure desiderarlo veramente, sopraffatto dall'impeto del momento, le era balzato addosso e l'aveva uccisa. Eppure poco prima l'aveva vista, aveva udito la sua voce. Gli stava dando di volta il cervello? La sua mente era forse troppo fragile per sopportare i recenti dispiaceri, come la morte di Helena, il tradimento di Lyn, l'improvvisa apparizione della madre? Era impazzito, e credeva di aver fatto cose che in realtà non aveva fatto? Eppure, ripensando al sabato precedente, ricordava perfettamente la sensazione provata mentre stringeva il collo di Lyn con tanta forza da staccarle la testa. Altri dettagli di quel giorno erano meno nitidi, come quando era uscito per sbarazzarsi del cadavere. Fino a mezz'ora prima avrebbe giurato di averlo nascosto, ma ora il ricordo era diventato confuso come un sogno delle prime ore del mattino. Non rammentava con chiarezza nessun particolare del delitto, se non il momento in cui l'aveva strangolata. Eppure anche quello doveva essere frutto della sua fantasia, nient'altro che un sogno... Hook gli aveva detto che s'immaginava le cose e che quindi doveva essere uno psicopatico. Be', ora almeno non si sarebbe visto costretto ad affrontare di nuovo quell'uomo. Non aveva ucciso Lyn. Non le aveva taglia-
to i capelli, non li aveva messi nel sacco, non aveva sotterrato il sacco nella miniera. Non aveva messo i suoi capelli insieme con quelli di Marianne Price e Ann Morgan nella scatola di Jack. Rivedendo Lyn, una delle cose che l'avevano maggiormente colpito erano proprio i capelli. Non sapeva se rallegrarsi o dispiacersi. Per un certo tempo si era illuso di essere all'altezza di Jack. Forse si era inventato tutto quanto perché corrispondeva ai suoi desideri. Voleva essere simile a Jack, e perciò aveva inventato quella storia. Sorrise. Ora doveva tornare alla realtà, prendere in mano le redini della vita, non permettere più che le emozioni avessero il sopravvento. Scese in cucina, preparò delle uova strapazzate e il caffè, tagliò due fette di pane. Forse aveva avuto quelle allucinazioni perché aveva digiunato per tutto quel tempo. Dopo che ebbe mangiato, si sentì molto meglio, con le idee chiare e perfettamente calmo. Ripensando alle sue fantasie, gli venne da ridere. Mentre saliva le scale, scoppiò in una risata fragorosa e lo sforzo gli provocò una fitta al fianco. Quando fu nello studio, stracciò il foglio sul quale la notte precedente aveva scritto quel penoso tentativo d'articolo e infilò un foglio nuovo nella macchina per scrivere. Ora che era morta Helena, per il resto dei suoi giorni non avrebbe più dovuto rivedere un Naulls. Bene, gliel'avrebbe fatta pagare a quei disgraziati, scrivendo l'articolo più pungente che fosse mai uscito dalla sua penna. Era una fortuna che il compleanno di Tace ricorresse proprio quella settimana, ciò gli offriva lo spunto per scrivere l'articolo. Il nonno materno di chi scrive, Alfred Osborn Tace, compirebbe novantott'anni questa settimana, se fosse ancora vivo. Il suo unico discendente festeggerà come ogni anno il genetliaco, celebrando la bellezza di Vangmoor, tanto amata da lui quanto dall'illustre nonno. Più precisamente, andandosene a fare un picnic nella brughiera per approfittare della prima bella giornata d'agosto... Stephen continuò a scrivere sullo stesso tono, parlando del suo rapporto di parentela con Tace e inventando un paio di aneddoti che, precisò, gli erano stati raccontati dalla nonna quand'era bambino. Non osò scrivere che si ricordava del nonno, né che il grande Tace l'aveva tenuto sulle ginocchia, poiché lo scrittore era morto tre anni prima della sua nascita. Terminato l'articolo, lo giudicò il migliore che avesse mai scritto. Infilò i fogli in una busta, vi appose l'indirizzo dell'Echo e uscì a imbucare.
Dalla chiesa di St Michael si godeva il panorama di Knamber Foin come da nessun altro punto del paese. Appoggiato al cancello, Stephen restò qualche istante a guardarsi attorno. Aveva davvero provato il tormento della paura, mentre stava seduto in macchina a Thirlton, e poi quando si era fermato sul dosso della strada, e più tardi quando se n'era andato a letto e non era riuscito a prendere sonno? O anche quello era soltanto un sogno? Aveva le idee terribilmente confuse. Stava alzandosi il vento. Le betulle dei Banks of Knamber tremavano come accarezzate da una mano invisibile. Pensò di prendere l'auto e di andare subito a controllare l'ingresso della miniera. Chissà, forse gli avvenimenti del sabato precedente erano reali, irreali invece quelli di oggi. Forse il corpo di Lyn era davvero dove lui l'aveva lasciato, mentre poche ore prima gli era semplicemente apparsa in sogno. Sciocchezze, disse a se stesso, dandosi mentalmente dello stupido. Tornato a casa, si mise a gironzolare per le stanze, pensando ai cambiamenti che avrebbe fatto ora che Lyn se n'era andata e lui aveva la casa tutta per sé. L'indomani avrebbe comperato un po' di provviste, riempito il frigo, avvertito il lattaio di dimezzare la quantità del latte, e si sarebbe ricordato di prendere del pane fresco. Per un po' si divertì a mettere in ordine la cucina, a cambiare posto a vari oggetti, a buttare nella pattumiera tutto ciò che era appartenuto al gatto. La replica dell'episodio di Elizabeth Nevil trasmesso il sabato precedente andava in onda alle diciannove e trenta. Stephen accese il televisore mentre trasmettevano la sigla musicale. L'episodio iniziava con la scena di Joseph Usher che scopriva Apsley Sough, durante una passeggiata a Goughdale con i suoi levrieri irlandesi. Era buffo pensare che né lo sceneggiatore né il regista e nemmeno Tace, in realtà, sapevano dove si trovasse Apsley Sough. Stephen rise di gusto, vedendo l'attore che impersonava Usher sbirciare in una buca a pochi passi dalla baracca George Crane. Una tana di coniglio, ecco cos'era quella buca. E quando mostrarono l'interno della caverna, si vedeva che era una scena ricostruita in studio e non presa dal vero. Stephen si chiese se anche Jack stesse guardando lo sceneggiato e se anche a lui venisse da ridere. Non vi furono altre scene girate nella brughiera, ma solo interni e i bellissimi costumi di cui avevano parlato con entusiasmo le vecchiette ricoverate a Sunningdale. Visto che lo sceneggiatore non si era attenuto fedelmente al testo di Tace, Stephen perse ogni interesse. Continuava a pensare al corpo nascosto nella miniera, quel corpo in realtà inesistente, che pure gli sembrava così
reale. Gli bastava chiudere gli occhi per vederlo, a faccia in giù e con i capelli biondi debolmente illuminati dalla luce della torcia. In ginocchio, aveva tagliato i capelli, ne aveva fatto una matassa e l'aveva infilata nello zaino. Il mattino successivo li aveva recuperati e li aveva ficcati nella tasca del giubbotto, ma se n'era subito pentito, nel timore che qualche capello potesse restare impigliato nella tasca. Era sicuro di aver compiuto questi gesti, il mattino precedente. Sicuro di avere messo i capelli in un sacchetto di plastica e di avere infilato il sacchetto nello zaino con la corda e la torcia, mentre aspettava che Kevin si allontanasse a bordo della sua auto per avere via libera. Spense il televisore e andò in anticamera, dov'era appeso il suo giubbotto. Lo portò in soggiorno, vicino alla finestra, ma c'era troppo poca luce e non ci vedeva bene. Si piazzò sotto il lampadario e rovesciò la tasca. Alla fodera era rimasto impigliato un capello biondo. Lo prese e lo buttò per terra, poi s'infilò il giubbotto, uscì e salì in macchina. Rimase qualche istante seduto a riflettere, con il cuore che batteva forte e le mani tremanti. Dovette fare uno sforzo su se stesso per controllarne il tremito, mentre si lasciava alle spalle Tace Way e proseguiva in direzione del paese. Il sole era tramontato e la brughiera era avvolta in una luce grigioazzurra. Non era ancora buio, solo gli automobilisti più prudenti avevano acceso i fari. Di traffico ce n'era pochissimo. Durante il tragitto fino a Thirlton, incrociò una sola auto. Il vento faceva ondeggiare le cime degli alberi che fiancheggiavano la strada. Nel cielo troneggiavano nuvoloni scuri, mentre a ovest il tramonto l'aveva lasciato solcato di strisce rosse. Mentre si avvicinava al punto che desiderava tanto rivedere, provava la sgradevole sensazione di avere il cuore in gola. Quel capello poteva essere finito accidentalmente nella tasca del giubbotto, che magari era rimasto appeso vicino alla giacca di Lyn, oppure si trovava in quella tasca dall'ultima volta che Lyn l'aveva lavato. Improvvisamente non se la sentiva di tornare all'ingresso della miniera, ma ciononostante schiacciava forte l'acceleratore, come se il piede si rifiutasse di obbedirgli. Uscito da Thirlton, imboccò la strada deserta che portava a Bow Dale, ma al termine di una curva, nel punto in cui iniziava il rettilineo, frenò di colpo, come se qualcuno gli avesse improvvisamente sbarrato la strada. All'altezza del dosso erano ferme alcune auto con i fari accesi, che illuminavano a giorno un tratto della brughiera. La scena ricordava quella di un incidente grave sull'autostrada, perché oltre alle luci dei fari erano visi-
bili anche quelle blu della polizia. A un tratto Stephen si sentì madido di sudore. Vedeva diverse persone aggirarsi tra le auto, sagome scure che diventavano più nitide quando passavano davanti ai fari. Rimase seduto perfettamente immobile, sudando freddo. Il motore si era imballato. Che cosa significavano quelle auto, quella gente, se Lyn era viva? L'aveva sentita parlare, l'aveva vista con i suoi occhi, capelli biondi e tutto il resto. Pensò di proseguire e andare a chiedere spiegazioni, ma scartò subito l'idea. In ogni modo ne sarebbe stato fisicamente incapace. Trasse un profondo respiro, e al secondo tentativo il motore si avviò. Il volante era bagnato di sudore. Dopo che ebbe invertito la marcia e si fu allontanato dalla luce e dal subbuglio che ferveva più avanti, accese i fari e ripercorse il tragitto in senso inverso, procedendo adagio, con i nervi tesi, le mani strette sul volante. A Thirlton lo superò un'auto della polizia. Alle ventidue c'era il telegiornale. Trascorse la mezz'ora d'attesa passeggiando nervosamente per la casa. E se non ne avessero parlato al telegiornale, né quella sera, né il giorno dopo, né mai? Possibile che avesse immaginato anche quella scena a Bow Dale, così come aveva immaginato di uccidere Lyn? S'inginocchiò per terra e si mise a strisciare sul pavimento, alla ricerca del capello che vi aveva lasciato cadere. Trovò invece una borsa di Lyn, marrone, scivolata giù da una sedia e finita contro il muro. Poi finalmente, dopo averlo cercato a lungo, trovò anche il capello. Lo esaminò, tenendolo stretto tra le dita. Apparteneva a Lyn ed era reale. O almeno così gli sembrava. Se fosse andato nella grotta di Jack ora, avrebbe trovato i capelli di Lyn nella scatola con quelli di Marianne e di Ann, oppure anche quello era frutto della sua fantasia? Se non vi fossero state notizie al telegiornale delle dieci, sarebbe andato a Goughdale e sarebbe entrato nella miniera a cercare il sacco e i capelli. Anche se era buio pesto e non c'era la luna, sarebbe andato ugualmente. Quando accese il televisore, sullo schermo apparve il viso della tizia che leggeva il telegiornale. Il suo orologio doveva essere indietro, e così non aveva sentito i titoli. Seduto sul divano, vide il Presidente degli Stati Uniti stringere la mano a un Primo ministro africano, poi alcuni sindacalisti che parlavano dello sciopero dei ferrovieri, quindi un servizio sulle ricerche in corso per trovare gli eventuali superstiti di un incidente aereo avvenuto in Turchia. Non avrebbero detto nulla di ciò che gli stava a cuore. Proprio nulla. Strinse i pugni, in preda alla collera.
Sullo schermo riapparve il viso della giornalista. Girò un foglio che stava sulla scrivania. — Questo pomeriggio — lesse con la sua voce flautata e il tono indifferente — è stato rinvenuto il corpo della terza vittima di Vangmoor, all'ingresso di una vecchia miniera abbandonata nei pressi di Thirlton. La vittima, una giornalista ventiquattrenne che scriveva su un giornale locale, si chiamava Harriet Jane Crozier... Stephen balzò in piedi e scoppiò in una tremenda risata. 17 Il libro era lì dal sabato precedente, a causa sua Peach aveva dovuto rinunciare a salire sul suo tavolino preferito, ma Stephen lo vedeva adesso per la prima volta. Muse of Fire, La Vita di Alfred Osborn Tace, di Irving J. Schuyler. Harriet Crozier era venuta per prestarglielo, come gli aveva promesso. Questo spiegava tutto. Lyn se n'era andata, lasciando aperta la porta di servizio, e più tardi era arrivata la giornalista con il libro. In casa non c'era nessuno, e intanto aveva cominciato a piovere. Non soltanto la porta non era chiusa a chiave, ma era anche leggermente scostata, e così Harriet aveva deciso di entrare per non bagnarsi. Lui l'aveva vista in piedi davanti alla finestra, in jeans e maglietta come spesso vestiva Lyn, l'abbigliamento preferito d'estate da migliaia di giovani donne, e non c'era da stupirsi che l'avesse scambiata per la moglie. E la borsa marrone che aveva trovato per terra non era di Lyn, ma di Harriet. Andò a prenderla e ne esaminò il contenuto. C'era il foulard bianco azzurro e verde piegato con cura, il taccuino per gli appunti, il portafoglio, una carta di credito, il libretto degli assegni, penne e matite in abbondanza, vari aggeggi per il trucco e monete sparse. Stephen non poté trattenersi dal ridere ancora. Certo che era una faccenda buffa davvero. Per quanto lo riguardava, per lui le cose non avrebbero potuto andar meglio. Prese il libro. Non vi era scritto nulla, niente stava a indicare che il libro era appartenuto alla giornalista dell'Echo. Enormemente sollevato, si portò il libro a letto e vi si addormentò sopra, e il mattino, quando si svegliò, lo trovò sul copriletto, ancora aperto al primo capitolo. Segno che aveva dormito sodo e non si era mosso durante il sonno. Era tardi, le nove passate. Gli sembrava assurda l'idea di andare a lavorare. Si preparò una colazione abbondante a base di uova, pancetta, pomodori, pane fritto, e aprì anche una scatola di salsicce. Era la prima volta che mangiava qualcosa di sostanzioso dopo tanti giorni. Quando si guardò allo
specchio, ebbe l'impressione di essere dimagrito. Aveva il viso incavato e la pelle tirata. Dopo colazione, e dopo che ebbe riordinato la cucina, perché anche se era rimasto solo non aveva intenzione di lasciarsi andare, salì nello studio, e siccome si sentiva calmo e rilassato, ora che aveva la certezza di non essere impazzito, riuscì a riparare senza alcuna difficoltà la testa di Tace. Mentre aspettava che si asciugasse la colla, sfilò tutti i libri dalle mensole, li spolverò e li rimise al loro posto. Diluviava ancora, e per vederci bisognava tenere la luce accesa. Nell'armadietto sotto il lavandino c'erano alcuni barattoli di vernice. Ne trovò uno ancora mezzo pieno di vernice grigio scura, quasi nera. Stese sul pavimento alcuni fogli di una vecchia copia dell'Echo, vi piazzò sopra il busto di Tace e passò la prima mano di vernice, prestando particolare attenzione lungo l'incrinatura della testa. Mentre era intento a verniciare, gli capitò di leggere il nome Harriet Crozier sopra un articolo in cui si diceva che le donne, per non correre rischi, si tagliavano i capelli e se li tingevano. Leggendolo, scoppiò di nuovo a ridere. Era quasi incredibile che avesse potuto commettere l'errore di scambiare Harriet per Lyn, ma quella sera c'era buio, proprio come in quel momento se non ci fosse stata la luce accesa. Del resto né in casa né nella miniera aveva mai guardato in faccia la sua vittima. Dopo che ebbe terminato di verniciare, andò a prendere l'aspirapolvere e pulì divano, sedie e moquette, poi spolverò dappertutto. All'una e mezzo cucinò le restanti salsicce con il formaggio, che mangiò con qualche fetta di pane tostato. Poi salì in macchina e andò sotto la pioggia fino a Hilderbridge a comperare qualcosa da mangiare. La città era piena di poliziotti, c'erano le loro auto dappertutto, e quando tornò indietro passando per Chesney, vide che nella palazzina occupata dalla polizia c'erano le luci accese, e intorno alla casa erano ferme altre autoradio. Si sentiva compiaciuto dell'aspetto lindo e ordinato della casa. Dalle cinque in poi guardò la televisione, e più tardi andò in cucina a prendere il pollo freddo, le patate fritte e l'insalata già pronta che aveva comperato per cena. Per il resto della serata continuò a mangiare senza interruzione tavolette di cioccolato, patatine e noccioline, guardando i vari telegiornali e saltando da un canale all'altro. C'era un'intervista a un vice sovrintendente della polizia della contea, interrotto bruscamente a causa del suo rifiuto di chiedere l'intervento di Scotland Yard, poi l'intervista a un certo Martin Smith, che dichiarò di essere uscito un paio di volte con Harriet Crozier.
Disse che non si sarebbe mai perdonato di non averla invitata a uscire, quel sabato sera, per andarsene invece a vedere la prima partita di calcio della stagione, che peraltro era stata rinviata per il maltempo. Stephen se ne andò a letto dopo mezzanotte. Trascorse il giorno seguente più o meno allo stesso modo, tranquillo e pacifico, con la differenza che non fece nessun lavoro di verniciatura, né dovette uscire a fare la spesa. Piovigginò per tutta la mattina, e a pomeriggio inoltrato il cielo si rasserenò. Fece una passeggiata fino a Ringer's Foin e, tornato a casa, passò il resto della serata guardando la televisione, mentre mangiava arrosto di maiale, pomodori, patatine e cioccolato. Erano anni, da quando era bambino, che non si abbuffava in quel modo. Il sovrintendente capo Malm, apparso sulla rete della BBC durante il telegiornale delle ventuno, dichiarò di essere sicuro che stavolta avrebbero identificato l'assassino di Vangmoor. Apparivano tutti molto ottimisti. Secondo loro, quella vicenda si sarebbe chiusa entro poche ore, pochi giorni al massimo. Il giorno successivo, dopo un'abbondante colazione, Stephen andò a lavorare. Per quanto l'umore di papi non fosse affatto migliorato, ciò non gli impedì di far la predica al figlio. Alzò la testa dal lavoro. — Finalmente ti sei deciso a tornare. Molto gentile da parte tua. Un altro di quegli stramaledetti virus, forse? — Purtroppo sì, papi. Mi dispiace. Si vede che non ho una bella cera, vero? — Già. Hai mai pensato a quale sarà il tuo futuro, se la ditta dovesse fallire? Hai notato la concorrenza che è spuntata fuori in questi ultimi tempi? Credi forse che possa continuare a farcela da solo, con una testa pazza come la mia? — Signore Iddio, papi, tu non sei affatto pazzo. Papi voltò la testa dall'altra parte, sputò sulla segatura. — Hai una moglie, tienilo a mente, e potrebbero nascere dei figli. Come camperai, quando la ditta sarà andata in malora? — Veramente — replicò Stephen — non ho una moglie. O almeno non più. — Abbozzò un sorriso stentato. — Mi ha piantato, ci siamo separati. Se n'è andata sabato. Il tavolo cigolò sotto il peso di papi, che vi si era appoggiato con i gomiti. Guardò Stephen con aria incredula. — Che cosa stai farneticando? — Mi hai sentito bene, papi. Lyn mi ha lasciato.
— Non ci credo! — Dovrai crederci per forza. Santo cielo, papi, non siamo la prima coppia che si divide. Riusciremo a sopravvivere, in un modo o nell'altro. — È la storia che si ripete — mormorò papi in tono amaro. — Le colpe dei padri che si ritorcono sui figli. Accadde prima che Stephen potesse accorgersene. Poco prima, fermo al fianco del padre, ne evitava lo sguardo, e un istante dopo si ritrovò abbracciato a lui, in una stretta soffocante, mentre papi mormorava parole di conforto, proprio come aveva fatto tanti anni prima, quando Brenda l'aveva lasciato. — Tale il padre, tale il figlio — farfugliò papi. — D'ora in poi saremo come una persona sola, una persona sola. Da quell'esperienza Stephen uscì più spaventato di quand'era bambino. Se non altro, all'epoca gli era sembrata una cosa naturale, almeno per un ragazzino. Ora invece era traumatizzante sentirsi stringere da quella specie di gorilla che, per sua stessa ammissione, non era sano di mente. Da bambino, non aveva protestato per non ferire la sensibilità del padre, e nel corso degli anni gliel'aveva data sempre vinta per il quieto vivere e anche per non offenderlo. Aveva sempre creduto di volergli bene. A un tratto invece si rese conto di odiarlo. Sopraffatto da quell'ondata d'odio, si sottrasse con violenza all'abbraccio, puntandogli i gomiti contro lo stomaco, inarcando la schiena, liberandosi così della stretta e facendo barcollare il padre, che lanciò un grido. Stephen corse di sopra, andò a ripararsi dietro la fila di sedie e poltrone e rimase fermo contro il muro, con le orecchie tese; ma dal piano di sotto non proveniva alcun rumore. Dopo un po' sgattaiolò fino alle scale e guardò giù. papi era seduto su una sedia Hepplewhite, con la testa appoggiata al tavolo e le mani sulla testa. Stephen tornò indietro in punta di piedi e riprese a lavorare sul divanetto da rivestire in velluto beige, che non aveva più toccato dal giovedì precedente. All'ora di pranzo scoprì che il padre se n'era già andato e uscì a sua volta. Stava attraversando la piazza, diretto al Market Burger House, quando si sentì toccare un braccio. Era Troth. — Oh no, adesso basta — Stephen si azzardò a protestare, pensando di poterselo permettere dal momento che Lyn era viva. — Non vorrete interrogarmi ancora? — Ma se non sa nemmeno che cosa voglio sapere da lei! — esclamò
Troth con il tono malizioso tipico delle persone stupide, che si ritengono più furbe dei loro interlocutori. — Non ho neanche parlato. Magari volevo semplicemente avvertirla che ha lasciato l'auto in divieto di sosta. — Una recrudescenza di acne rendeva ancora più disgustosa la sua vicinanza. — Poteva trattarsi di una cosa da niente — continuò. — Così almeno avrebbe pensato un uomo con la coscienza pulita. — Santo cielo, sono capace di leggere, e niente m'impedisce di guardare la televisione. Chiunque al mio posto avrebbe intuito che vuole parlare con me di quest'ultimo delitto. Che cos'aspettiamo? Muoviamoci, così finirà presto anche questa storia. Troth non aggiunse altro. Si trovavano a un centinaio di metri dal commissariato. Stavolta Stephen non fu introdotto nella stanza degli interrogatori, ma in un altro ufficio che conteneva una scrivania, alcune sedie e qualche armadietto. Dalla finestra si vedevano i tetti di Hilderbridge. Seduto alla scrivania c'era Manciple, in abito grigio e con la faccia tinta di rosso mattone dal sole della settimana precedente. Malm era in piedi davanti alla finestra. Aveva l'aria stanca e sembrava invecchiato dall'ultima volta. Nonostante ciò che aveva dichiarato per televisione, non pareva né fiducioso né ottimista. Manciple si scusò con Stephen per averlo convocato al commissariato. — Faremo in modo di trattenerla solo il minimo necessario, signor Whalby. Ma dobbiamo fare il nostro dovere, quindi sono certo che lei capirà. Stephen si strinse nelle spalle. Manciple lo fissava con uno sguardo che non gli piaceva, come se gli leggesse nel pensiero. Era forse l'espressione più intelligente che gli fosse capitato di vedere, da quando aveva iniziato a frequentare quei poliziotti. L'espressione di uno che la sa lunga. Stephen abbassò gli occhi. Fu Malm a prendere la parola per primo. — La sua auto è stata vista due volte a Thirlton durante il fine-settimana, signor Whalby. Sabato notte e domenica sera, tutt'e due le volte nei pressi del municipio. Vuole dirci come mai si trovava lì? All'inizio Stephen fu recalcitrante. Disse che non erano fatti loro. Com'era logico, replicarono che lo erano eccome, dal momento che c'era di mezzo un omicidio, e tornarono a ripetere la domanda. A questo punto non poteva rifiutarsi di rispondere. Disse di essersi recato a Thirlton proprio per andare al municipio, e quando gliene chiesero la ragione, rispose che c'era in programma un concerto, e per fortuna risultò che era vero.
Poi Manciple volle sapere se conosceva bene Harriet Crozier. — Ci siamo visti tre volte. — Quanto basta per avviare una relazione — osservò Malm. — Soprattutto di questi tempi. A Stephen venne da ridere a questa sortita. Era un'idea così assurda, così lontana dalla sua mente... Non riuscì a reprimere un sorrisetto. — Che ci trova di tanto divertente? — chiese Malm. — Non ho nessuna relazione con nessuna donna. Sono sempre stato fedele a mia moglie. La serietà della risposta ottenne l'effetto di zittire tutti per qualche istante. A quel punto Malm fece un'allusione al fatto che Thirlton si trovava a poca distanza dalla miniera abbandonata e Manciple, che parlò dopo di lui, fece a Stephen il resoconto dettagliato del modo in cui il corpo di Harriet era stato portato e lasciato all'ingresso della miniera. Descrisse con assoluta precisione ciò che Stephen aveva fatto, da quando aveva buttato il cadavere nel tunnel, dopo essersi assicurato che sulla strada non passassero auto, a quando aveva lasciato l'auto a Thirlton per tornare indietro a piedi a tagliare i capelli della vittima. Stephen cominciò a preoccuparsi. Per farsi passare la paura, si ripeteva continuamente che poteva star tranquillo, perché il gruppo sanguigno dell'assassino era diverso dal suo. — Immagino che lei non ricordi i brani musicali ascoltati al concerto — disse Manciple in tono gentile. Stephen non se ne intendeva di musica. L'affermazione di Manciple, perché di un'affermazione si trattava, benché esigesse una risposta, lo colse assolutamente impreparato, con una sorta di vuoto nella mente. Ma una risposta doveva trovarla. — Oh — mormorò, dopo una breve esitazione, pensando di non sbagliare nominando i compositori più famosi — Beethoven, Bach, tutta musica classica. I poliziotti non mutarono espressione, nessuno trovò niente da obiettare. Dopodiché lo lasciarono andare quasi subito. Senza una parola sulle loro intenzioni future, senza rassicurazioni e senza minacce. Uscendo in strada, si disse che era salvo grazie al suo gruppo sanguigno. Immaginava il suo sangue come una sorta di mantello scarlatto, un mantello magico che lo proteggeva. Era rimasto due ore al commissariato, e stavolta nessuno gli aveva portato il caffè, né biscotti, né panini imbottiti. Comunque ormai non aveva più appetito. Rimase un po' di tempo seduto in macchina, come la domenica sera, ma stavolta le strade erano piene di poliziotti, alcuni in divisa, altri in borghese ma ugualmente riconoscibili.
Stephen cominciò a temere d'insospettirli, restandosene seduto da solo nell'auto ferma al parcheggio. Papi se n'era andato. Stephen salì a lavorare, con ancor meno entusiasmo del solito. Su una poltrona da rivestire c'erano due bottiglie di vetro decorato al centro di un foglio di carta. Sul foglio c'erano scritte due parole: Da papi. Stephen sentì nascere dentro di sé una grande collera. I regali del padre gli avevano sempre procurato più imbarazzo che gioia. Ebbe l'istinto di rompere le bottiglie e di lasciare in giro i pezzi di vetro perché il padre li vedesse, al suo ritorno in bottega. Si trattenne per due motivi: primo, perché provava ancora una certa compassione nei confronti del padre, anche se venata di disprezzo; secondo, perché con il passare degli anni aveva imparato ad amare le cose belle e non se la sentiva di distruggerle. In ogni modo, la vista di quelle bottiglie e del foglio gli fecero prendere una decisione che aveva maturato dapprima mentre stava seduto in macchina, poi mentre attraversava la piazza e saliva le scale. Avrebbe smesso di lavorare nella bottega del padre. Era un lavoro che odiava, l'aveva sempre odiato, ma mai come in quel momento. Poteva trovarsi un altro lavoro, magari qualcosa che avesse attinenza con la brughiera. Se gli davano la possibilità di fare qualcos'altro, se lo lasciavano libero... Prese le bottiglie, le avvolse alla meglio in due fogli di giornale e, tenendole sotto il braccio, scese giù in strada. Chiusa a chiave la porta della bottega, si voltò a guardare verso la brughiera. Praticamente non c'era punto di Hilderbridge da cui non la si potesse vedere, e ora, mentre attraversava la piazza per raggiungere la sua auto, tra i negozi di Market Hill faceva capolino la cima azzurrognola di Hilder Foin. Stephen non metteva piede in chiesa da quando era bambino, ma ricordava ancora l'inizio di un salmo noto a tutti quanti. Lo ripeté a bassa voce. — "Alzerò gli occhi verso le colline, da cui mi giungerà soccorso..." Si era liberato dal vincolo del matrimonio e dal lavoro che detestava, e avrebbe dovuto essere contento, invece si sentiva a terra. Si aspettava che da un momento all'altro arrivasse la polizia per ricominciare a interrogarlo, o per portarlo al commissariato. Verso le sette squillò il telefono, ma era qualcuno che aveva sbagliato numero. L'incidente gli fece prendere un'altra decisione, per quanto riguardava la sua totale libertà d'azione. Si mise seduto e scrisse una lettera alla società telefonica per rinunciare al telefono. A che cosa gli serviva? A chi mai doveva telefonare? Dopo avere scrit-
to l'indirizzo sulla busta e applicato il francobollo, uscì per imbucare la lettera, anche se non sarebbe partita prima del mattino successivo. Chesney Hall era ancora invasa da un folto numero di poliziotti. A un tratto Stephen ebbe paura per Jack. Aveva tanta gente alle calcagna, che alla fine sarebbero riusciti a beccarlo, non poteva sfuggire. Come quand'era bambino, e viveva proprio in quella casa con la nonna, e i cani da caccia di Vangmoor si radunavano nel parco di Chesney. In quei momenti gli faceva pena la volpe, che non aveva speranza di salvezza, con tutti quei cani sulle sue tracce. Il mattino seguente, di nuovo nella brughiera, mentre attraversava la Valle di Allen in direzione di Reeve's Way, s'imbatté in alcuni uomini in jeans e maglietta, che gli dissero di essere della polizia e vollero sapere dove stava andando. Non ne riconobbe nessuno ma quando, malvolentieri, disse il suo nome, ebbe l'impressione che lo conoscessero, che il suo nome fosse loro familiare, e la cosa lo mise di malumore. Non sapeva per quale motivo si trovassero lì, né che cosa stessero cercando. Gli consigliarono di tornarsene a casa e lui rispose che l'avrebbe fatto perché non aveva voglia di discutere, ma quando fu certo che non potevano più vederlo, si diresse verso Pertsey e Tower Foin. Aveva bisogno della brughiera, non avrebbero potuto impedirgli anche stavolta di starne lontano. Esattamente novantotto anni prima era nato Tace. Era il giorno del suo compleanno. Pensando a lui, si chiese se fosse vero ciò che si diceva a proposito della reincarnazione. Chissà, forse lo spirito del nonno era entrato in lui. Rimase fuori tutto il giorno e passò il tempo camminando, sdraiandosi al sole, e quando cominciò a fare troppo caldo si rifugiò all'ombra della baracca per dormire al fresco. Arrivò a casa che era già sera. Davanti a casa sua era ferma un'auto della polizia. A bordo c'erano Manciple e Troth. 18 Manciple era seduto sul divano, mentre Troth andava avanti e indietro per la stanza, guardando ogni cosa con un'espressione che Stephen giudicava insolente. Prese in mano il coltello d'argento che gli aveva regalato papi e ne esaminò il marchio, poi scartò una delle due bottiglie avvolte nel foglio di giornale e vi batté sopra un dito per udirne il suono. Stephen si congratulò con se stesso per avere portato di sopra la borsa di Harriet Crozier.
Ignorava il motivo che li aveva spinti a venire. Non certo per arrestarlo, e nemmeno per portarlo al commissariato. Sembrava quasi che fossero lì per una semplice visita di cortesia, però non avevano accettato niente da bere, neppure tè o caffè. Parlava quasi sempre Manciple. Seduto con le gambe incrociate e un braccio allungato sullo schienale del divano, riferì a Stephen che il lunedì mattina Harriet non si era presentata alla redazione del giornale, e siccome aveva rivelato a Martin Smith che sabato pomeriggio avrebbe preso l'autobus che portava nella brughiera, avevano provveduto subito a organizzare una squadra di ricerca. Il suo corpo era stato rinvenuto lunedì pomeriggio alle quattro. C'era una cosa che a Martin Smith non aveva detto, ma che in compenso aveva confidato a un'amica, e cioè che nella brughiera abitava un tizio che le piaceva e che purtroppo era sposato. Manciple non parlava in tono d'accusa, ma in modo pacato, come se Stephen fosse un criminologo e quindi interessato a questo genere di cose. Troth intanto continuava a gironzolare per la stanza, osservando ogni oggetto con occhio da intenditore. A un certo momento Manciple lo pregò di uscire e di aspettarlo in macchina. Stephen pensò che Troth si sarebbe rifiutato. Posato a terra il tavolino che aveva sollevato per esaminarlo alla luce della finestra, si voltò verso Manciple e lo guardò con un sopracciglio alzato, poi si strinse nelle spalle. — Bene — replicò. — Certo. Se è questo che vuole... — Può andare da solo — disse Manciple, vedendo Stephen avviarsi verso la porta. Si udì sbattere forte quella dell'ingresso. Stephen era fermo al posto di Troth, con la finestra alle spalle. — Resti pure in piedi, se preferisce — continuò Manciple in tono comprensivo. — Non le ruberò più di cinque minuti. Stephen sedette sul bracciolo di una poltrona. — Conosce la musica d'apertura dello sceneggiato della serie Bleakland che danno alla televisione? — domandò Manciple. Ne canticchiò le prime note. — È Vivaldi — disse, leggendo un foglietto. — Un brano delle Quattro Stagioni. — Certo che la conosco, e lo so che è Vivaldi — ribatté Stephen, che non mancava mai di risentirsi se qualcuno metteva in dubbio la sua cultura. Ciò gli impedì di accorgersi della trappola. — L'hanno suonato al concerto di Thirlton, sabato sera. Strano che non se ne sia ricordato. Stephen arrossì e cominciò a sudare.
— Ancora più strano, considerato che lei si vanta di essere nipote di Tace, oltre che un suo ammiratore, e che a quanto vedo possiede un televisore. Si poteva pensare che forse andato a quel concerto soprattutto per ascoltare questa musica. Solo che lei non ci è andato affatto, vero, Whalby? È andato invece nella miniera, allo scopo di tagliare i capelli alla vittima. — Stephen trasalì, ma Manciple parve non accorgersene. — Intendo perquisire la sua casa, domattina presto. Ha niente da obiettare? — Perché mai dovrei aiutarvi? — Nessuno la obbliga a farlo, se non vuole. Posso procurarmi il mandato, ma sono certo che lei ci lascerà entrare ugualmente anche senza. E non tenti di svignarsela. Può essere una soluzione solo per chi ha molti quattrini e amici in posti lontani. Stephen scosse la testa senza parlare. Chiuse la porta a chiave, dopo che Manciple se ne fu andato. Per qualche istante aveva avuto paura, ma gli era passata subito. Non avevano prove contro di lui, non sarebbero riusciti a incriminarlo, quello era solo un tipico bluff della polizia. In ogni modo il mattino successivo sarebbero tornati di nuovo, e non era prudente tenere quel libro in casa. Splendeva il sole, e la luce disegnava strisce e rettangoli dorati sui muri e sulla moquette. Era una magnifica serata, anche sopra il Big Allen il cielo si era schiarito. Trovava buffa l'idea di scappare. Rise forte. Scappare, lui? Dove mai poteva andare? Come avrebbe potuto vivere lontano dalla brughiera? Quelli della polizia dimostravano di non essere affatto psicologi. S'infilò il giubbotto e mise il libro in una tasca interna. Tanto per cominciare, l'avrebbe portato via di casa, e poi avrebbe deciso come sbarazzarsene. Un tale lo seguì fino al paese, o comunque fece la sua stessa strada. Era un tizio giovane che Stephen non conosceva. Poteva darsi che fosse un poliziotto, ma forse no. Quando Stephen attraversò il parco e raggiunse il sagrato della chiesa, lo sconosciuto attraversò il parco a sua volta, salì in una macchina e se ne andò. C'era un'auto della polizia con tre agenti a bordo, ferma nella strada di fianco alla chiesa. Impossibile stabilire se fossero lì per lui oppure no. Comunque Stephen non si preoccupava. Aveva smesso quel pomeriggio di avere paura, ed era sicuro che non gli sarebbe più tornata. Ora si sentiva forte, invincibile. Era come quando si sogna di aver commesso un delitto e si ha la certezza di passarla liscia. Il libro era piuttosto ingombrante, un blocco rigido che gli premeva con-
tro il petto. Doveva sbarazzarsene e non sapeva come, ma non era ugualmente preoccupato, perché era certo di trovare il modo. Il posto migliore dove nasconderlo sarebbe stato la miniera, ma preferiva evitarlo per un senso di giustizia nei confronti di Jack. L'auto della polizia si mise in moto, invertì la marcia e iniziò a scendere giù per la collina in direzione di Hilderbridge. Stephen tornò nel parco, si fermò davanti alla buca delle lettere e finse d'impostarne una. L'aria della sera era umida, gli alberi intorno alla chiesa carichi di foglie d'un verde lucido. Nonostante il sole, si aveva l'impressione che il bel tempo non sarebbe durato a lungo. Manciple e Troth erano tornati alla base. Stephen imboccò la strada che portava a Chesney Fell e Foinmen's Plain. Avrebbe trovato da qualche parte un buco, una tana di coniglio, una cavità sotto un sasso, un posto qualsiasi dove nascondere il libro. Stava per raggiungere il cancello del municipio, quando vide arrivare un'auto che procedeva a passo d'uomo. L'auto si fermò davanti al cancello, la portiera si aprì e spuntò fuori il professor Schuyler, che subito s'incamminò verso la casa. Doveva essere tornato indietro perché si era dimenticato qualcosa. Sul sedile posteriore e sul pavimento dell'auto c'erano libri, cartellette, due borse in cattivo stato e un fascicolo di fogli tenuti insieme da un fermaglio. Stephen si guardò intorno per accertarsi che non lo vedesse nessuno, poi trasse velocemente il libro dalla tasca interna del giubbotto e lo gettò nell'auto insieme agli altri. Rise della trovata che aveva avuto, tanto più che aveva riconosciuto tra i volumi un altro libro scritto dal professore, la biografia di Ford Madox Ford. Sistemata la faccenda, Stephen proseguì per la sua strada e poco dopo si avviò a cuor leggero su per il sentiero che zigzagava intorno alla collina, dove sicuramente nessuno l'avrebbe seguito, perché nessuno aveva la sua forza, la sua potenza muscolare, e polmoni d'acciaio come i suoi. Si arrampicò con il sorriso sulle labbra, allargando le braccia come per cingere il cielo, la collina, la brughiera. "Alzerò gli occhi verso le colline..." Non esisteva ombra di prova contro di lui. La polizia sapeva soltanto che era andato due volte a Thirlton nel corso della settimana. Avrebbero fatto la figura degli stupidi, dopo aver perso tempo a perquisire la sua casa. Forse però avrebbe fatto bene a trovarsi un avvocato. No, sarebbero stati soldi sprecati, dato che non c'erano indizi. Al suo ritorno avrebbe controllato all'interno dell'auto. Chissà, forse vi era rimasto qualche capello e la polizia con qualche prova di laboratorio avrebbe potuto stabilire che non apparteneva a Lyn.
Quando quella storia si fosse conclusa, forse avrebbe venduto l'auto. A che cosa gli serviva, se non andava più a lavorare? La sua unica meta sarebbe stata la brughiera. Tenere l'auto senza averne bisogno sarebbe stato uno spreco di quattrini, come tenere un cavallo che nessuno cavalcasse. Arrivato in cima alla collina, si fermò a guardarsi intorno. I megaliti, nella loro curiosa processione ad andamento circolare, si stagliavano nitidi sullo sfondo rosato con pennellature dorate del cielo. Era uno spettacolo magnifico, da cui si sarebbe potuta ricavare una foto stupenda, un vero capolavoro da inserire nel calendario dell'Echo. Sopra la sua testa passò alto nel cielo uno stormo di uccelli, un centinaio di piccole virgole che si spostavano in perfetta formazione. Stephen avanzò verso il cancello. Gli parve di vedere qualcosa muoversi alle spalle del Gigante, ma quando guardò di nuovo non vide nulla. Mentre apriva il cancello, ebbe l'impressione di sentire odore di fumo. L'aria era greve di umidità. Poteva darsi che nel corso del pomeriggio qualcuno avesse fumato, e l'odore fosse rimasto nell'aria. S'incamminò tra i megaliti e avvertì di nuovo odore di fumo. Ora non aveva più la sensazione di essere solo. Si voltò di colpo per accertarsi che nessuno lo seguisse. Non c'era anima viva. Accecato dal sole, Stephen batté le palpebre, tornò a scrutare davanti a sé e finalmente vide un uomo spuntare fuori dall'ombra protettrice del Gigante, ora perfettamente visibile alla luce del sole. Era alto, con i capelli neri e la barba. Indossava calzoni scuri e una maglietta bianca o comunque chiara, che la luce tingeva di giallo. Stephen rimase perfettamente immobile. L'uomo si tolse la sigaretta di bocca, ma invece di schiacciarla sotto il piede, la spense con le dita e se la mise in tasca. Fatto questo, avanzò lungo il viale, all'ombra dei monoliti. Stephen trasse un sospiro e s'incamminò a sua volta, muovendo incontro a quella figura barbuta e dorata simile a una divinità nel tempio dei druidi. — Stephen! — si sentì chiamare con voce squillante. Faceva parte del rituale, della magia del momento, che quell'uomo alto e imponente, più alto di Ian Stringer e persino di papi, lo conoscesse e lo chiamasse per nome. Stephen non rispose, limitandosi a guardarlo mentre continuava ad avanzare verso di lui. — L'avevo immaginato, che eri tu. Evidentemente riconosco ancora il tuo passo, a distanza di tanti anni. — Lo sconosciuto si toccò la barba e i capelli ricciuti. — Non mi riconosci, vero, con tutto questo pelo? Sono Peter. Peter Naulls.
19 Seduti sull'Altare, assistettero al tramonto. Il sole appariva all'orizzonte come una sfera rosso fuoco, ma il cielo si tinse di rosso solo dopo che il sole scomparve. Peter si accese una sigaretta, conficcò il fiammifero nella terra. — Ho sognato spesso Vangmoor durante i miei viaggi — disse. — Succede a chi è nato qui. Ho girato mezzo mondo, quasi sempre a piedi o con l'autostop, ma più passava il tempo, più sentivo la nostalgia della brughiera. — Quanto tempo sei stato via? — Parecchio. Ho vissuto due anni a Katmandu, dove ne ho fatte di tutti i colori. Conoscevo un medico, e un giorno mi ha detto che avrei finito per lasciarci le penne, se continuavo a fare quella vita. Perciò sono tornato, e mi sono persino trovato un lavoro. — Qui? — s'informò Stephen. — A Londra, come barelliere in un ospedale. Cristo, Stephen, a volte mi dispiace di non avere imparato un mestiere come te. A che cosa diavolo mi serve la laurea? Stephen lo guardò, sbalordito. — Quando sei tornato da Katmandu? — Verso Natale. — Hanno tolto la tua foto, a casa di zio Leonard. L'ho notato l'ultima volta che sono stato lì. — Come se per loro fossi morto, vero? Non penserai che sia loro ospite, adesso che sono tornato. — Puoi venire a casa mia — disse Stephen. — Ma tu sei sposato, no? Stephen scosse energicamente la testa. — Vorrei che venissi da me. Ho una casa grande, con tante stanze vuote. Ogni volta che avrai voglia di venire da queste parti, posso ospitarti io. Peter gli lanciò una strana occhiata, con un sopracciglio alzato. — Ho già un posto dove stare. — Se vieni da me, non ti costerà nulla. Potresti andare e venire come ti pare, saresti più libero. Peter non fece commenti. — Ho un'amica a Loomlade, ci conosciamo fin da quando eravamo bambini. Sono venuto proprio per andare a trovarla. — Si alzò. — È meglio andare. Fra poco sarà buio, e mi aspetta una
bella scarpinata. — Ma ci vedremo presto, vero? — Certo. Perché no? Percorsero il viale camminando affiancati. Stephen gli domandò quando intendesse ripartire. Non prima di domenica, rispose il cugino. Stephen avrebbe voluto domandargli che tipo era la sua amica, e soprattutto se avesse i capelli lunghi e biondi, ma non ne ebbe il coraggio. Gli chiese invece come si chiamava. — Stella. Stella Crane. Il padre ha un negozio di materiale elettrico. Una volta, quand'eravamo ragazzi, siamo entrati a comperare una torcia elettrica. Te ne ricordi? Se ne ricordava eccome! Stephen si sentiva al settimo cielo, e tale era la sua gioia, che scoppiò in una risata fragorosa. — Che cosa c'è da ridere? — Peter lo guardò di nuovo con un'espressione strana, scrutandolo dalla testa ai piedi. — Sono così felice — replicò Stephen. — Così felice che ho voglia di ridere senza sapere perché. È bello rivederti, non me l'aspettavo. Ne avevo proprio bisogno. Non so se mi capisci. — Temo di no — rispose Peter, chiudendo il cancello. Arrivarono al bivio del sentiero. Da una parte si andava a Chesney, dall'altra a Foinmen's Plain. — Mi ha fatto piacere rivederti, Stephen — disse Peter con un certo imbarazzo. — Telefonami, prima di partire. Mi raccomando. Il numero è nell'elenco. — Certo, ti telefono, non mancherò. — Non perdiamoci di vista un'altra volta — riprese Stephen, tendendogli la mano, ma si era già fatto buio e forse per questo Peter non la vide e non gliela strinse. Stephen avrebbe voluto trattenerlo, ma non poteva impedirgli di andarsene per la sua strada. — Buona notte — mormorò. — Ci rivedremo, spero. Il cugino rise e s'allontanò. — Sai dove trovarmi. — La sua voce giunse chiara e nitida in quella serata senza un alito di vento. — Buona notte. — Si voltò e agitò un braccio in un cenno di saluto. Stephen rimase fermo a guardarlo finché non scomparve dalla visuale, cosa che richiese un bel po' di tempo, poiché a est di Ringer's Foin c'era un lungo tratto pianeggiante e la maglietta chiara di Peter spiccava nel buio. Non avevano parlato né della miniera né di Apsley Sough. Probabilmente perché non ve n'era motivo, pensò Stephen, oppure perché sarebbe stato
piuttosto imbarazzante, al loro primo incontro dopo tanti anni. Anzi, in realtà Peter vi aveva fatto riferimento, sia pure indirettamente, quando aveva detto che avevano comperato la torcia elettrica nel negozio di Crane. Era stato proprio quel giorno che avevano trovato l'entrata della miniera. Chissà, forse Peter aveva fatto bene a non accettare di essere suo ospite. L'ambiente chiuso di una casa non era l'habitat ideale per due persone come loro. Meglio incontrarsi lì, negli spazi aperti, dove entrambi si trovavano più a loro agio. Probabilmente Peter l'avrebbe chiamato il giorno dopo. Gli avrebbe telefonato, e avrebbero deciso di tornare insieme nella miniera. Più tardi riprese a piovere, una pioggerella leggera ma insistente. Stephen salì in camera, pensando che il mattino successivo sarebbe arrivata la polizia a perquisire la casa. In fondo al letto, sul copriletto ripiegato, c'era la borsa di Harriet Crozier. Ne rovesciò il contenuto sul lenzuolo. Erano tutti oggetti piccoli, il più ingombrante era il taccuino, non più di quindici centimetri per dieci. Stephen rifletté. Non poteva bruciare il contenuto della borsa, essendo la casa priva di caminetto, e buttarlo nella spazzatura sarebbe stata un'imprudenza. Era probabile che Lyn avesse incaricato la madre di spedirle il resto della sua roba, ma fino a quel momento la signora Newman non si era vista, e perciò in casa c'erano ancora parecchie cose che appartenevano a Lyn. Dopo una breve esitazione, Stephen mise la borsa di Harriet insieme con quelle di Lyn, il rossetto e il mascara nel cassetto con i cosmetici della moglie, e ficcò le monete nella tasca dei calzoni, dove aveva l'abitudine di tenere gli spiccioli. Niente gli impediva di ficcarsi in tasca anche il resto della roba, il mattino successivo. Avrebbero perquisito la casa, ma non sarebbero certo arrivati al punto di mettergli le mani addosso. Dormì tutta la notte, ma si svegliò presto e si alzò prima delle sette. La polizia, che doveva arrivare nelle prime ore del mattino, in realtà fece la sua comparsa alle otto e mezzo. Troth parve impressionato alla vista di Stephen che lavava i piatti, sembrandogli forse assurdo che un uomo colpevole di omicidio potesse aspettare tranquillamente l'arrivo della polizia riordinando la cucina. Di tanto in tanto, quando non c'era nessuno con lui, Stephen si batteva una mano sulle tasche e ridacchiava, sentendo attraverso il tessuto il portafoglio di Harriet, il suo taccuino, il libretto degli assegni e la carta di credito. Un paio d'ore più tardi, certo com'era che non avrebbero trovato nulla di compromettente, vedendo passare un poliziotto con i suoi vestiti in mano, non poté trattenersi dal ridere. Troth, grattandosi un foruncolo con l'unghia
del mignolo, gli domandò dove fosse la moglie. Stephen rispose che non lo sapeva, perché lei l'aveva lasciato. Troth lo guardò sbarrando gli occhi per lo stupore, e ancora una volta a Stephen venne da ridere. Era come se riuscisse a leggere nella mente del poliziotto, intuendone i pensieri. — Io non lo so — disse — ma mia suocera sì. Se vuole domandarglielo, basta che attraversi la strada. Troth apparve deluso, e stavolta Stephen scoppiò a ridere senza ritegno. Era piacevole constatare che Troth aveva smesso di trattarlo con disprezzo. Ora sembrava quasi che avesse paura di lui, o comunque un certo timore. Terminarono di perquisire la casa a mezzogiorno e mezzo, dopo avere sistemato ogni cosa quasi come l'avevano trovata. Troth se ne andò senza preannunciargli altre visite successive. Stephen lo vide entrare in casa della suocera, dove si trattenne una decina di minuti. Pioveva ancora, dopo che aveva piovuto tutta la notte e tutta la mattina. Stephen aveva l'impressione che la casa fosse stata profanata, la stessa impressione che, a quanto si dice, si prova dopo che in una casa sono entrati i ladri, ma non se la sentiva di mettersi a riordinare né di far funzionare l'aspirapolvere. Andò nel suo studio, dove compilò un'inserzione per vendere l'auto attraverso l'Echo. Infilò il foglio in una busta, ma non andò a imbucarla nel timore che Peter gli telefonasse e non lo trovasse in casa. Avrebbe sicuramente telefonato quel giorno o al massimo il successivo, dovendo ripartire la domenica per presentarsi al lavoro. E lui, Stephen, che lavoro avrebbe potuto fare? Ma era proprio necessario? Quel poco che guadagnava grazie agli articoli che scriveva per il giornale, gli sarebbe bastato per comperarsi da mangiare, e senza la moglie, senza l'auto, forse anche senza la casa... Per lui sarebbe iniziata una nuova vita, e quest'idea lo colmò d'entusiasmo. Prese un pezzo di cartone, vi scrisse sopra IN VENDITA, 1.200 STERLINE TRATTABILI e applicò il cartone al finestrino posteriore dell'auto con del nastro adesivo. Forse con questo sistema sarebbe riuscito a venderla prima che uscisse l'inserzione sul giornale. Nonostante la pioggia, non faceva freddo. Gli sarebbe piaciuto andarsene a zonzo per la brughiera, ma tornò in casa e mangiò qualcosa, pensando che la polizia doveva aver trovato capelli biondi dappertutto, sui suoi abiti, nel letto e nell'auto, ma aveva dovuto rassegnarsi all'idea che appartenevano a Lyn. Immaginò Troth comporre il numero telefonico che gli aveva dato la signora Newman, e domandare notizie di Lyn, con la certezza di
sentirsi rispondere dal suo interlocutore che non l'aveva mai sentita nominare, mentre invece stava parlando proprio con Lyn. Quest'idea lo fece sghignazzare. Certo che erano ben stupidi, i poliziotti. Nel pomeriggio smise di piovere e quando spuntò il sole dalla terra si alzarono nuvole di vapore. Stephen aprì le porte-finestre. Chi avrebbe badato al giardino, ora che Lyn se n'era andata? Una casa con giardino, pensò, era molto impegnativa, dava troppo da lavorare e non ne valeva la pena. Se entro le sette non avesse ricevuto la telefonata che aspettava, si sarebbe spinto fino a Loomlade a piedi oppure in macchina e avrebbe fatto una sorpresa a Peter. Seduto vicino alla finestra, mangiò un po' di noccioline tostate, bevendo del tè. Il telefono squillò alle quattro e mezzo. Rispose con la sua voce suadente, dando il suo numero di telefono. — Qui Stephen Whalby — aggiunse. Dall'altra parte del filo c'era papi. Stephen riagganciò senza parlare. Ora che aspettava la telefonata di Peter, il telefono gli serviva, ma poi potevano toglierglielo quando volevano. Non era altro che una scocciatura. Stava sbattendo delle uova per prepararsi una frittata, quando squillò il campanello. Dapprima pensò che fosse la polizia, ma quando guardò fuori dalla finestra vide che non c'era nessuna auto in strada. Decise che doveva trattarsi di Peter. Forse Stella Crane non aveva il telefono a casa, e per qualche motivo il cugino non aveva potuto usare quello del negozio. Mentre si avviava verso la porta per andare ad aprire, si sentiva felice come non lo era più stato, dal giorno in cui aveva mangiato un biscotto nella grotta di Jack, sentendosi perfettamente al sicuro. Il cuore gli batteva forte per l'eccitazione. Aprì la porta con un sorriso. L'uomo che gli stava di fronte, un tizio di mezza età che aveva in comune con Peter soltanto la barba, con grande delusione di Stephen era il professor Irving J. Schuyler. — Il signor Whalby? Stephen annuì. — Spero che voglia perdonarmi, se mi sono preso la libertà di presentarmi a casa sua. — La voce era gradevole e denotava la persona colta; si esprimeva con un forte accento americano. — Probabilmente immagina il motivo per cui sono venuto. Stephen pensò subito al libro che gli aveva infilato in macchina. Ciononostante non si spaventò. Dopotutto, il professore si era rivolto a lui e non
alla polizia. La signora Newman, affacciata alla finestra del pianterreno, sbirciava nella loro direzione. Stephen si umettò le labbra. — Si accomodi, prego. — Molto gentile da parte sua. — Il professore entrò in anticamera. Indossava una maglietta e aveva ai piedi i soliti sandali del Dr Scholl. Era entrato tenendo le mani allacciate dietro la schiena. Quando le riportò in avanti, Stephen vide che aveva in mano una grande busta marrone, che sicuramente conteneva il libro. — Chesney è proprio un paesetto delizioso — riprese il professore. — Mi ha fatto molto piacere essere ospitato dal signore e dalla signora Southworth, grazie ai quali ho potuto conoscere da vicino il dominio di Alfred Osborn Tace. Vangmoor è davvero un posto incantevole. Proprio come l'ha descritto Tace nei suoi romanzi. — Si sieda, prego — l'invitò Stephen. Schuyler si guardò intorno con aria d'approvazione. Quando vide il Big Allen attraverso la finestra, accentuò il sorriso e tese il braccio in quella direzione come per salutare un caro amico. — Prima che lei pensi che noi accademici americani passiamo la vita nell'ozio, signor Whalby, lasci che le spieghi che questa è la mia prima vacanza in sette anni. Un mese qui, uno a Haworth, un viaggetto ai laghi, e di nuovo qui nella casa dei miei ospiti. Ho trascorso una magnifica estate. Stephen lo guardò mentre estraeva il libro dalla busta e sentì le guance in fiamme. Il professore si mise il libro in grembo e rimase a contemplarlo con espressione assorta. — Bene, signor Whalby, forse è meglio che venga al dunque e non le rubi altro tempo. Come avrà certamente capito, m'interesso molto ad Alfred Osborn Tace. Lo insegno ai miei studenti, e ho scritto un paio di libri sulla sua vita e le sue opere. — Alzò il libro e lo sventolò un paio di volte. — Per esempio questo. Muse of Fire, il mio ultimo lavoro. Veramente non sapevo di averne una copia qui a Chesney, e l'ho trovato in macchina per caso. Vero è che noi del mestiere abbiamo la reputazione di essere degli inguaribili distratti. Stephen si sentì enormemente sollevato. Qualunque fosse il motivo che aveva spinto il professore a presentarsi a casa sua, la morte di Harriet Crozier non c'entrava affatto. — Mi è capitato di leggere un suo articolo sull'Echo che stamattina mi ha gentilmente procurato la mia cortese ospite. Un articolo davvero interessante, se posso esprimere un giudizio. Immagino che lei avrà già com-
preso il motivo di questo lungo preambolo. Stephen annuì. — Sì, certo. Si riferisce al fatto che Tace era mio nonno? — Esatto, signor Whalby. Le dirò francamente che la cosa mi affascina e m'incuriosisce. — Si mise a parlare del grande romanziere, soffermandosi sui fatti salienti della sua esistenza. Probabilmente, pur senza darsi importanza, si riteneva un'autorità per la sua conoscenza della vita e delle opere di Tace, eppure... — Purtroppo la mia parentela con il grande scrittore deriva da una sua distrazione sentimentale — disse Stephen. — Come ha detto? — Intendo dire che mia madre era figlia illegittima. — Capisco — mormorò il professore. — Una distrazione sentimentale. Devo dire che mi sorprende, considerato il grande moralismo di Tace, per non dire il suo puritanesimo. Le confesso che il mio eroe ne esce un po' sminuito, poiché non l'avrei mai sospettato d'ipocrisia. In realtà non era senza peccato come voleva far credere. Non posso più considerarlo un cavaliere senza macchia e senza paura. Potrebbe dirmi la data di nascita di sua madre? — È nata nel 1925, il venticinque maggio. — Sempre più intrigante, questa storia. Suo nonno ha trascorso l'estate e l'autunno precedenti tenendo una serie di conferenze negli Stati Uniti. Dovrò controllare le date. — Il professore scorse le pagine del libro, fermandosi all'undicesimo capitolo. — Ah, ecco, qui si parla appunto di quel periodo. Il giro ha avuto inizio nel giugno del 1924 e si è concluso trionfalmente per lui nel mese di novembre. Sua nonna era forse americana? Oppure Tace aveva portato con sé la sua compagna, in grande segreto, considerato che nessuno l'ha scoperto? Stephen non rispose. Prese il libro dalle mani di Schuyler e controllò le date, ma i numeri sembravano danzare sotto i suoi occhi. La questione era estremamente interessante per gli studenti, stava dicendo il professore. Sarebbe stato felice se in un prossimo futuro Stephen avesse potuto fornirgli notizie sul conto della nonna, e se possibile qualche aneddoto. Ne avrebbero parlato di nuovo, se non aveva niente in contrario. Se esistevano imprecisioni nella biografia del romanziere, bisognava correggerle. — Mi dispiace, ma ora devo uscire — disse Stephen bruscamente. — La prego di perdonarmi. — Certo — replicò Schuyler, alzandosi e profondendosi in scuse. — Le ho già fatto perdere troppo tempo. Le lascio il libro. Spero che possiamo
rivederci. Lei non immagina quanto mi ecciti l'idea di apprendere fatti nuovi sulla vita del grande romanziere, signor Whalby. Stephen l'accompagnò alla porta e tornò in soggiorno. La vista del libro sul tavolino, esattamente nella stessa posizione dov'era prima, lo fece scoppiare in una risata isterica. Non capiva proprio che cos'avesse da ridere, dal momento che pochi minuti prima aveva visto crollare un'altra delle sue grandi illusioni. Dopo un po' sedette sul divano e diede una scorsa alla parte che più gli interessava dell'undicesimo capitolo. Non riusciva ad accettare la realtà dei fatti, e aveva l'impressione che da quel giorno in poi avrebbe smesso di leggere. In passato si era entusiasmato alla lettura perché era convinto di essere il nipote di Tace e non di Arthur Naulls. Gli era venuta sete. Andò in cucina a prendere un bicchiere d'acqua e si soffermò a guardare le uova sbattute e il pane, senza spiegarsi il motivo per cui erano lì. Aveva forse intenzione di mangiare? Ora gliene era passata la voglia, esattamente come gli era passata la voglia di leggere. Salì di sopra. Non poteva uscire perché aspettava la telefonata di Peter. Il sole stava per tramontare nel cielo di un grigio cupo. Le giornate avevano già iniziato ad accorciarsi, tra poco sarebbe tornato l'autunno. Vide aprirsi la porta d'ingresso dei Newman, e poco dopo vide la suocera attraversare la strada, poi sentì suonare il campanello. Probabilmente era venuta a prendere la roba di Lyn. Ignorando il campanello, si trasferì nello studio, dove iniziò a scrivere una lettera indirizzata al Rural District Council di Hilderbridge, per comunicare che con la fine del mese intendeva lasciare libera la casa sita al numero 23 di Tace Way, a Chesney. Il campanello squillò di nuovo. Scese per andare ad aprire, pensando che comunque prima o poi avrebbe dovuto lasciar entrare la suocera. Ma invece della signora Newman si trovò di fronte Trevor Simpson, che voleva sapere se l'auto avesse qualche difetto, visto che l'aveva messa in vendita a un prezzo così basso. In altra occasione, la domanda l'avrebbe mandato su tutte le furie, ma quella sera restò indifferente. Si strinse nelle spalle. L'auto funzionava benissimo, non gli aveva mai dato problemi. — Il fatto è che me ne vado — disse. — Mi aspettano nuovi pascoli, dove potrò ricominciare tutto daccapo. Non ho motivo di restare qui. Lascio la casa e quindi anche l'auto. T'interessa? Trevor gli rispose di sì. Alzò il cofano, poi andò a sedersi al volante. Stephen non fece obiezioni, quando gli chiese se poteva fare un giro in
macchina, ma si rifiutò di accompagnarlo perché aspettava la telefonata di Peter. Quando Trevor tornò, Stephen aveva terminato di scrivere la lettera e l'aveva già infilata in una busta. Trevor disse che aveva deciso di acquistare l'auto. Gli avrebbe dato un assegno di cinquecento sterline e gli avrebbe portato il resto lunedì. — Va bene, non c'è fretta — lo rassicurò Stephen, cordiale. — L'auto è tua. Sta' tranquillo, non la vendo a nessun altro. Ormai l'affare è fatto. Trevor lo guardò con l'aria di chi la sa lunga. — Non puoi costruirti un'identità diversa dalla tua, Stephen — disse mentre se ne andava. — Non illuderti. Era già quasi buio. Per quella sera Peter non avrebbe telefonato, l'avrebbe fatto il giorno dopo. Stephen andò nello studio a prendere il busto di Tace e in soggiorno a ricuperare il libro che gli aveva lasciato il professore. Uscì in giardino. Il cielo era violetto. Aveva letto da qualche parte il motivo per cui le stelle non danno luce, ma non se ne ricordava più. Il cielo era disseminato di stelle, e in effetti non davano luce, sembravano puntolini luminosi su uno sfondo di velluto scuro. Aprì l'armadietto che Lyn aveva fatto mettere vicino alla porta di servizio per riporvi gli attrezzi da giardinaggio e ne trasse una pala. In quel punto probabilmente crescevano dei fiori. Non li distingueva, ma intravedeva una massa scura che ne tradiva la presenza. Conficcò la pala nella terra, a caso. La mente gli giocava degli strani tiri, perché quando alzò la testa, per un attimo ebbe l'impressione di vedere il viso di qualcuno che lo guardava dalla finestra della cucina. Distolse lo sguardo e riprese a scavare. Quando ebbe scavato una buca lunga un'ottantina di centimetri e profonda cinquanta, vi mise dentro il libro e il busto di Tace. Fatto questo, restò a lungo appoggiato alla pala, a fissare la buca; poi trasse dalle tasche dei calzoni i piccoli oggetti trovati nella borsa di Harriet Crozier e buttò il tutto dentro la buca, insieme con il libro e il busto di Tace. Infine ricoprì la buca di terra, come se dentro ci fosse una bara. Dopo avere pulito la pala, la ripose nell'armadietto e tornò in casa. Era sicuro di non avere lasciato accese le luci né in anticamera né di sopra. Non capì subito che cosa potesse essere accaduto mentre si trovava in giardino, ma se ne rese conto quando entrò in camera da letto. Le ante dell'armadio erano aperte e la roba di Lyn sparita. La signora Newman era venuta a prendersela. La borsa di Harriet Crozier era sparita insieme al resto. Stephen scoppiò
in una risata, immaginando l'espressione di Lyn quando avesse trovato la borsa di Harriet tra la sua roba. Si buttò sul letto e continuò a ridere, ma quando si toccò la guancia perché gli prudeva, la trovò bagnata di lacrime. 20 Negli ultimi giorni gli era capitato diverse volte di avvertire una strana sensazione, come se avesse il cervello bloccato da una fune. A un certo punto della serata o durante la notte, la corda si era spezzata di colpo, e in quel momento aveva ottenuto tutta la libertà che desiderava. Si aggirò per la casa, chiedendosi dove mettere tutti quei mobili. Li avrebbe dati a papi, che li avrebbe venduti, oppure poteva prenderseli Lyn. Non ce l'aveva più con lei. Scrisse un messaggio per papi e uno per Lyn e lasciò i due fogli sul tavolino. Mentre li guardava, gli venne da ridere. Sembrava che avesse intenzione di suicidarsi, invece d'iniziare una nuova vita. Peter non si era fatto sentire. Avrebbe sicuramente telefonato nel corso della giornata, ma Stephen era impaziente, non aveva voglia di aspettare. Forse era meglio che andasse a Loomlade a cercarlo. Solo che poteva esserci la ragazza con lui, e magari Peter preferiva che non sapesse certe cose. Tentò di ricostruire la sua conversazione con il cugino, sforzandosi soprattutto di ricordare ciò che gli aveva detto sul conto della ragazza. Gli tornarono alla mente due particolari che gli sembrarono significativi, ma a cui in un primo momento non aveva prestato attenzione. "Ho già un posto dove stare", e "Sai dove trovarmi". Che stupido era stato a non capire subito che cosa intendeva dire! Certo che Peter aveva un posto dove stare, un posto che lui conosceva bene. Praticamente il cugino gli aveva detto di raggiungerlo nella miniera. Domenica sarebbe tornato a Londra, quindi ora si trovava nella grotta di Jack, ad aspettarlo... Stephen si sentiva terribilmente eccitato, tanto da non riuscire più a contenersi. Per un attimo un'ombra offuscò la sua felicità, al pensiero che Peter il giorno precedente l'avesse aspettato invano nella grotta. Ma no, impossibile! Il giorno prima era venerdì, e probabilmente il cugino pensava che lui fosse al lavoro. Oggi, sabato, era il giorno ideale, non v'era dubbio. In quello stesso momento forse Peter stava attraversando la Valle di Allen, diretto ad Apsley Sough. Cominciò a sentirsi un po' meno felice, quando aggirandosi per la casa e guardandosi intorno, gli venne fatto di pensare che forse non avrebbe mai più rimesso piede là dentro. Decise di non perdere tempo andando in paese
a imbucare la lettera per disdire la casa. Tanto valeva lasciarla con i messaggi che aveva scritto per Lyn e per suo padre. Che cosa gli conveniva portare con sé? Un po' d'indumenti per cambiarsi, naturalmente, e una coperta per la notte. Di cibo ce n'era già a sufficienza nella grotta. In seguito, magari il lunedì dopo che Peter se n'era andato, sarebbe toccato a lui rifornirsi di provviste. Doveva acquistare un sacco a pelo e un materasso. Avrebbe reso la grotta più comoda e accogliente, in attesa del ritorno di Peter. L'ultima cosa che vide, in Tace Way, fu la carrozzina nel prato dei Simpson, e l'ultimo suono che udì fu il pianto del bambino. "Mi scuoto di dosso la polvere di questo posto noioso" pensò, trovando molto azzeccata la metafora. Era così compiaciuto, che di tanto in tanto batteva i piedi per terra mentre camminava, ripetendo mentalmente la frase. Mentre attraversava la strada per Jackley, alzò gli occhi verso le colline. Sulla schiena aveva lo zaino contenente la corda, la torcia grande, una scorta di candele e un po' d'indumenti. Sotto il braccio destro aveva la coperta arrotolata e legata con uno spago. Aveva deciso di farsi crescere la barba come Peter. Quel giorno si era rasato per l'ultima volta. Non c'era nessuno che lo seguisse. Era solo come sempre quando andava nella brughiera. Sulla strada alle sue spalle passò un'auto diretta a Jackley, poi dopo qualche istante un'altra che andava nella direzione opposta, verso Hilderbridge; ma a Vangmoor non c'erano strade, né andirivieni di gente. Era deserta e silenziosa e ora, sul finire dell'estate, non si udiva nemmeno il canto degli uccelli. Nella Valle di Allen gli capitò di vedere alcuni fiori di ginestra. La ginestra era una pianta strana. Benché l'epoca della fioritura fosse la primavera, si trovava sempre qualche fiore anche nel bel mezzo dell'inverno, magari uno soltanto. Avrebbe dovuto scriverlo in uno dei suoi articoli, ma ormai era troppo tardi. Non avrebbe più tenuto la rubrica sull'Echo, qualcun altro l'avrebbe sostituito, perché lui, pur essendo nella zona, avrebbe smesso di occuparsene. L'idea gli piacque. Sarebbe diventato una sorta di fuorilegge, un novello Robin Hood. Lui e Jack insieme avrebbero costituito una specie di banda, anche se ovviamente non se ne sarebbero andati in giro per la brughiera a derubare i passanti. La foschia che avvolgeva il paesaggio, e che all'alba aveva assunto riflessi dorati, a quell'ora avrebbe già dovuto sollevarsi, ma invece sembrava infittirsi, farsi più biancastra e più fredda come d'autunno. La collina appa-
riva come una sagoma indistinta al centro della valle, la baracca non si vedeva affatto. Quando apparve, i suoi contorni erano sfuocati. Fissata la corda allo spuntone di roccia, Stephen iniziò a scendere giù per Apsley Sough. Le pareti del tunnel erano umide e scivolose, e nella caverna in fondo non c'era acqua. Stephen si sentì sollevato. Nei giorni precedenti aveva temuto che la miniera potesse allagarsi. L'unica conseguenza della pioggia era stato l'acuirsi dell'odore di sostanze chimiche. Mentre avanzava nel tunnel, Stephen si chiedeva se Jack fosse già lì e se potesse udire i suoi passi attraverso la parete rocciosa. Faceva più freddo del solito, aveva la pelle d'oca. La gola stretta dall'emozione, Stephen si costrinse a procedere adagio, per dar modo a Jack di sentirlo arrivare. In prossimità dell'ingresso della grotta, il tunnel descriveva una lieve curva. Quando l'ebbe superata, Stephen vide che all'interno c'era buio. Ammesso che Jack fosse venuto, se n'era già andato via. A meno che non stesse aspettandolo al buio. Peter ignorava che l'aveva soprannominato Jack, e perciò doveva chiamarlo con il suo nome. — Peter! Peter! Sono Stephen! Nessuna risposta. Non era ancora venuto. Stephen fu colto dal dubbio che Jack potesse essersi spaventato, trovando i capelli di Harriet, e che avesse deciso di abbandonare la grotta. Non conosceva, non poteva conoscere l'identità di chi aveva ucciso la giornalista. Stephen alzò la torcia, si guardò intorno e vide che tutto era rimasto come prima: le scatole, la bottiglia di sidro, gli indumenti, il materasso, le candele nelle scatole e quella infilata nel candeliere. All'interno della grotta, si sentiva di nuovo felice. Dopo essersi seduto sul materasso, si coprì con la coperta e accese tutte le candele. Si sentiva come chi, dopo essere stato molte volte in visita a casa di un amico, ora vi si fosse trasferito e potesse quindi prendersi qualche libertà che prima non poteva permettersi. Accese la stufetta. Il bollitore era stato riempito d'acqua. Avrebbe impiegato un bel po' di tempo a bollire, ma almeno poteva prepararsi una tazza di tè. Nella scatola contenente i barattoli e i biscotti Jack aveva messo due pacchetti di sigarette. A Stephen parve che avessero lo stesso odore di quello che aveva avvertito presso il cancello dei megaliti. La stufetta emanava un po' di calore. Stephen mangiò qualche biscotto, mentre aspettava che l'acqua bollisse. C'era solo del latte in polvere da aggiungere al tè, ma non aveva importanza. Fare a meno di certe cose, arran-
giarsi, faceva parte del divertimento anche durante i picnic. Immaginò una lunga serie di picnic, che lui e Jack avrebbero fatto insieme, e il tè sarebbe parso più dolce perché occorreva tanto tempo per prepararlo, i biscotti più buoni perché resi più morbidi dall'umidità, e quando avessero avuto voglia di mangiare carne, c'era quella delle scatolette. La notte precedente aveva dormito male, dopo avere sotterrato il busto di Tace. Si sdraiò, si coprì meglio con la coperta e si addormentò. Quando si svegliò, guardò l'orologio e vide che era pomeriggio inoltrato. Nella miniera tutte le ore e le stagioni erano uguali, e così pure il silenzio. Si mise seduto. Si sentiva rigido e intirizzito. Rimase per un po' ad ascoltare il silenzio. Le candele si erano consumate parecchio, ma ce n'era una nuova nel candeliere, e ne aveva portate altre quattro con sé. Accese quella del candeliere, e guardandolo bene, ebbe l'impressione di averlo già visto da qualche parte. Già, a casa sua, quand'era bambino. Oppure in casa della nonna? Sì, era più probabile. Doveva essere appartenuto a Helena, poi era passato a zio Leonard e infine a Peter. Luccicava come oro, alla debole luce della candela. Erano le quattro passate. Jack sarebbe arrivato prima di sera, non avrebbe certo aspettato che facesse buio. Per passare il tempo, andò ad aprire la scatola segreta. Tutto era rimasto esattamente come prima, o almeno questa era la sua impressione. Significava forse che Jack non l'aveva più aperta e quindi non aveva visto i capelli di Harriet? Si sarebbero divertiti un mondo, lui e Jack insieme, nascosti lì dentro. Qualche volta sarebbero usciti dal loro covo come lupi per una battuta di caccia. Chiuse gli occhi e tentò d'immaginare se stesso e Jack come lupi grigi e forti, con una preda stretta nelle fauci. Forse la prima vittima sarebbe stata Stella Crane, dato che non sarebbe stato difficile attirarla nella tana dalla sua casa di Loomlade. L'idea lo fece ridere, anche se a questo punto batteva i denti per il freddo. L'orologio segnava le cinque. Si alzò e si mise a camminare per la grotta, strofinandosi le mani e battendo i piedi per scaldarsi. Sembrava che facesse sempre più freddo, ma non riaccese la stufetta nel timore di consumare troppo combustibile. Ne avrebbero avuto bisogno il mattino seguente per preparare il tè. Decise di fare due passi per sgranchirsi le gambe. Anche quest'idea lo fece ridere. Era comico pensare di fare una passeggiata nelle viscere della terra. Tornò indietro nel tunnel e, arrivato alla biforcazione, proseguì per un tratto verso il punto in cui sapeva che avrebbe trovato l'aria cattiva. Lì si accorse di avere sbagliato, pensando che la miniera
non si allagasse. Il fondo del tunnel, che le volte precedenti era soltanto umido, ora era coperto d'acqua. Il livello dell'acqua nel lago chiamato Pozzo senza Fondo si era alzato quasi al massimo, e se fosse traboccata e avesse raggiunto il tunnel, questo sarebbe diventato impraticabile. Stephen alzò la torcia per guardarsi intorno, ed emise un debole fischio a commento di ciò che vide. Impossibile stabilire la profondità dell'acqua, ma il rischio che sommergesse il tunnel era notevole. La superficie del lago non era immobile, ma increspata. L'acqua stava alzandosi ancora. Forse aveva ricominciato a piovere? Chissà, magari aveva piovuto anche mentre lui dormiva. Pensò che oltre la biforcazione il tunnel che portava alla grotta di Jack proseguiva in forte pendenza. L'acqua avrebbe impiegato un mucchio di tempo ad arrivare fin lì, e forse non ci sarebbe mai arrivata. Ogni volta che pioveva, poteva darsi che la miniera si allagasse in questo modo, ma che poi l'acqua defluisse gradatamente e fosse assorbita dalla brughiera. A un tratto il dubbio di essere in pericolo gli fece accapponare la pelle, ma più forte della paura era l'irritazione che provava al pensiero di vedere minacciata la sua felicità e quella di Jack. Era questo il motivo per cui non era venuto? Perché aveva piovuto troppo, come il giorno del temporale? Stephen pensò di salire all'aperto per vedere se pioveva. Fu a questo punto che la pila della sua torcia si esaurì. Naturalmente non era stato così imprevidente da non portarsene una di scorta. L'aveva nello zaino che aveva lasciato nella grotta di Jack. Forse era meglio prendere anche lo zaino e la coperta. Ma no, non ancora. Forse non si sarebbe rivelato necessario. Jack sarebbe venuto. Sicuro com'era di tornare alla grotta e dell'arrivo di Jack, lasciò la candela accesa nel candeliere. Tornato alla biforcazione, imboccò il tunnel che portava all'uscita. Lungo le pareti sgocciolava l'acqua, ma non fu questa la ragione per cui Stephen trasalì e si affrettò a tornare indietro più in fretta che poteva. La corda che aveva lasciato appesa allo spuntone di roccia era sparita. Stephen puntò altrove il fascio di luce della torcia, per avere l'impressione di chiudere gli occhi, poi tornò a puntarlo verso l'imboccatura della miniera. La corda non c'era davvero. Risalì verso la superficie, guardando verso l'alto, e una goccia d'acqua gli cadde sulla fronte. Pensò che doveva piovere forte, se l'acqua riusciva a filtrare nell'apertura. Possibile che fosse stata la pioggia a far scivolare giù la corda dallo spuntone di roccia? In ogni caso, la corda non poteva essere sparita, sarebbe caduta dentro la mi-
niera. No, qualcuno doveva averla tolta. Dopo le prime visite nella miniera, era diventato così agile da poter fare a meno della corda, e ora era arrivato il momento di dimostrarlo. Doveva tornare indietro a recuperare lo zaino? Certo che no. Non intendeva restare in superficie, voleva tornare nella grotta. La torcia comunque l'avrebbe portata con sé. Se la fissò al braccio. Il primo tratto fu incoraggiante. C'erano dei sassi che spuntavano dalle pareti e offrivano un ottimo punto d'appoggio, pur essendo bagnati dalla pioggia che colava all'interno. Ma dopo i primi due metri le pareti diventavano più levigate e la superficie più sdrucciolevole. Quando aveva pensato di potercela fare anche senza corda, non aveva fatto i conti con le conseguenze di un forte acquazzone. Appoggiò la schiena alla parete del tunnel, incapace di trovare un punto a cui aggrapparsi con le mani, e non osando muovere nel frattempo il piede destro. Quando si decise a farlo, si trovò tra le mani soltanto schisto e fango quasi liquido. Gli scivolarono i piedi e slittò verso il basso, graffiandosi il petto, le braccia e le mani. Riprovò una seconda volta, poi una terza, ma si slogò una caviglia e dovette rinunciare. Aveva i vestiti sporchi di fango, le mani che sanguinavano, e aveva rotto il vetro della torcia. Era stupido fare tutta quella fatica e lasciarsi prendere dal panico in quel modo, stupido rischiare di farsi del male, quando non c'era nessun pericolo di restare intrappolato nella miniera. Sarebbe arrivato Jack e sicuramente avrebbe avuto con sé una corda. Impugnando la torcia, che dava ancora una bella luce nonostante il vetro incrinato, Stephen tornò indietro lentamente. Nel momento in cui aveva raggiunto il punto più alto, prima di scivolare giù, gli era sembrato di udire un rumore cupo come quello del mare in tempesta. Là sotto invece regnava come sempre il silenzio assoluto. L'unico suono che udiva era quello dei suoi stessi passi. Si fermò di colpo e rimase perfettamente immobile, come impietrito. I passi si sentivano ancora. Erano appena percettibili, e a giudicare dalla direzione da cui proveniva il rumore, la persona che camminava doveva trovarsi a poca distanza dalla biforcazione, forse nel passaggio che portava alla grotta di Jack. Finalmente era arrivato. Stephen ignorava da che parte fosse venuto e in che modo fosse entrato nella miniera, ma comunque era arrivato e ora doveva aver raggiunto la grotta illuminata dalla candela, che lui aveva lasciato accesa. Se non fosse stato per la caviglia che gli doleva, Stephen si sarebbe messo a correre, tanto grande era la sua fretta di raggiungerlo. Ma
ora era sufficiente che appoggiasse il piede a terra per avvertire dolore. Proseguì zoppicando, ma il più velocemente possibile, verso la biforcazione, svoltò nel tunnel che portava alla grotta. Prima ancora di arrivare alla curva e di vedere la luce della candela, sentì odore di fumo di sigaretta. — Sto arrivando, Jack — gridò, precipitandosi all'entrata. L'uomo, chino sulla scatola che conteneva i capelli, gli voltava le spalle. La sua ombra gigantesca, proiettata sulla parete della grotta, sembrava quella di un mostro. Rimase a lungo fermo in quella posizione, come se fosse rimasto paralizzato. La torcia caduta di mano a Stephen si ruppe e si spense. L'uomo nella grotta di Jack era papi. C'era da dire tutto e niente. Entrambi restarono senza parole, poi Stephen si avvicinò al materasso e vi si lasciò cadere. Vide che papi indossava uno dei suoi pullover, che aveva lasciato nella loro casa di King Street quando si era sposato, e riconobbe anche il candeliere: faceva parte degli oggetti d'antiquariato in vendita nel negozio. Poco prima papi era chino sulla scatola dei capelli e ora, tenendo in mano quelli di Harriet Crozier, fissava Stephen con insistenza. Si tolse la sigaretta di bocca, la gettò a terra e la schiacciò sotto il piede. Il suo modo di fare quando era particolarmente di buon umore. Stephen si sforzò di parlare. — Sei stato tu a staccare la mia corda? — Sì. Non sapevo che era la tua. Non immaginavo che eri tu. Stephen rabbrividì. — Allora, tu come hai fatto a entrare nella miniera? — Come sempre, da Apsley Sough. — Ma Apsley Sough è dove c'era la mia corda. Papi diede un'alzata di spalle. — Molti anni fa, sei venuto a casa e mi hai detto di aver trovato l'entrata della miniera. Apsley Sough, mi hai detto. Così, quando ho avuto bisogno di un posto dove nascondermi, ho cercato una buca e l'ho trovata. Tutto qui. Dunque, c'erano due punti per entrare, e quindi anche per uscire. Stephen sentì una fitta alla gamba, che saliva dalla caviglia, ma non vi fece caso. Notò che papi era bagnato fino alla vita, come se si fosse immerso nell'acqua. — Me ne vado — disse. — Se mi dici da dove sei entrato, me ne vado via. Questo posto è tuo. Non tornerò più. Aveva l'impressione di essere giunto alla fine di qualcosa, forse alla fine della vita. Se avesse tentato di uscire da quella situazione, così come aveva
tentato di uscire dalla miniera, sarebbe scivolato giù e sarebbe andato a pezzi. Papi lanciò i capelli in aria. Luccicavano come la fiamma della candela. — Andiamo via insieme — disse, accendendo la sua lanterna. Stephen decise di lasciare perdere lo zaino e la coperta. Papi non aprì bocca finché non ebbero raggiunto la biforcazione. Stephen lo seguiva zoppicando. Il padre indicò un punto davanti a loro. — Bisogna andare da quella parte. Ti avverto che dovremo entrare nell'acqua. All'andata mi arrivava alla pancia. — C'è aria cattiva, da quella parte — osservò Stephen. — Non si riesce a tener acceso un fiammifero. — Davvero, ragazzo? Non ho mai fatto la prova. Comunque, ci sono passato un'infinità di volte, e sono ancora qua, vivo e vegeto. Per mia disgrazia. Cinque metri più avanti, l'acqua arrivava alle caviglie, poi diventava ancora più alta. Era gelida. Stephen sentì il dolore salire dalla caviglia alla gamba e quindi alla coscia. Quando l'acqua gli arrivò alla vita, la fiammella della candela cominciò a guizzare. Vedeva davanti a sé la schiena di papi, grande e possente come il dorso di un bue. Poi la candela si spense, e non vide più nulla. — Papi, non vedo niente — disse, come un bambino spaventato dal buio. — La mia candela si è spenta. Un'ondata di acqua nera gli lambì il petto, quando il padre si voltò. Dalla sua lanterna partiva un fascio di luce gialla. L'aria era puzzolente, sembrava di respirare metallo allo stato gassoso. Stephen tossì. — Diventa ancora più profonda? Il padre non rispose. Forse non lo sapeva neanche lui. Però Stephen capì dalla sua espressione che ora l'acqua era molto più alta di quando era entrato nella miniera. — Stephen, è meglio che vada avanti da solo — gli disse. — Sono più alto di te. Quando arrivo in cima, ti butto giù la corda, ragazzo. Stephen avrebbe voluto dirgli di sì, ma dalla gola invece della voce gli uscì un singhiozzo soffocato. — Resterò al buio — gemette. — Già, a questo non c'è rimedio. Fermo nell'acqua che gli arrivava alle spalle, Stephen vedeva la luce della lanterna allontanarsi sempre di più. Papi non sapeva nuotare, e lui nemmeno. La debole luce rischiarava appena l'esiguo spazio rimasto tra la superficie dell'acqua e quella concava del soffitto della caverna, sul quale si
proiettava l'ombra della testa del padre, scura come quella del busto di Tace. Più avanti c'era una curva, e la luce scomparve, lasciando Stephen completamente al buio. Rabbrividì. Aveva voglia di gridare, ma si limitò a gemere piano. Si voltò nella direzione da cui era venuto e ricominciò ad avanzare come un cieco nell'acqua alta. Il silenzio era totale, l'oscurità assoluta. Nello spazio di pochi secondi si era visto privare dei sensi principali. Gli restava il tatto, benché l'acqua gelida gli avesse intorpidito gli arti, e l'odorato, che gli permetteva di sentire lo sgradevole odore metallico di cui l'aria era satura. Continuò ad avanzare lentamente. Se solo fosse riuscito a vincere la paura che l'attanagliava, senza mettere i piedi in fallo, senza mettersi a gridare in quel buio silenzio, in fondo al percorso l'attendeva la salvezza. Forse la corda era già stata calata nell'apertura della miniera. Strinse i denti, nel tentativo di vincere la paura, e tentò d'immaginare se stesso nell'atto di afferrare la corda. In lontananza udì un rumore sordo come quello del tuono, simile a quello che aveva sentito mentre giaceva ai piedi dei megaliti, il giorno che aveva ucciso Harriet. Capì quasi subito che era franato un pezzo di roccia, da qualche parte all'interno della miniera. Mentre l'eco si spegneva lentamente, una sorta di sesto senso, forse acuito dal fatto che era rimasto privo degli altri, l'avvertì che quella frana costituiva per lui una minaccia, un pericolo. Istintivamente si appiattì contro la parete rocciosa, aggrappandosi con tutta la sua forza agli appigli che aveva trovato. Appena in tempo. Un'ondata d'acqua lo sommerse, e l'avrebbe travolto, se non avesse preso quei provvedimenti. Mentre era ancora sotto l'acqua, capì come doveva essere orribile morire annegati. Poi l'acqua si abbassò. Stephen alzò la testa e respirò l'aria puzzolente. Poco dopo fu investito da una seconda ondata. Questa, molto meno alta, trascinò verso di lui un oggetto pesante che gli sfiorò il viso. Allungò una mano per toccarlo, e capì subito che si trattava della lanterna di papi. Anche la seconda ondata passò, e Stephen riprese ad avanzare, tenendo una mano sulla parete e stringendo la lanterna nell'altra. Ora l'acqua gli arrivava alla vita, poi alle ginocchia, e infine diventò ancora più bassa, tanto da fargli avvertire di nuovo il dolore alla caviglia. Ormai quasi all'asciutto, raggiunse finalmente la biforcazione. Gettò via la lanterna e la sentì sbattere contro la roccia. Ora non aveva più senso imboccare il tunnel di sinistra, non c'era più alcuna speranza di salvezza. Sarebbe rimasto intrappolato nella miniera per
sempre. Si avviò verso la grotta di Jack, ma cadde in ginocchio e avanzò carponi come un animale, pensando che se non altro lì ci sarebbe stata luce, almeno per un certo tempo. Un'ora al massimo. Dopodiché sarebbe calata la notte, una notte per lui eterna. Il suo unico desiderio era di raggiungere quella luce. Vi si trascinò più in fretta che poteva. Sotto la pioggia implacabile, Goughdale appariva grigia e irreale come quando era avvolta dalla foschia. Un gruppo di uomini avanzava da Reeve's Way verso la baracca. Portavano corde, picconi e una scala. Visti in quello scenario, facevano pensare ai minatori di un tempo. In testa al gruppo c'erano Malm e Manciple. — Meno male — disse Malm — che ieri sera la suocera l'ha visto sotterrare quella roba. Manciple annuì. — Speriamo che ci dica chi è l'assassino delle prime due. — Ammesso che lo sappia. — Malm alzò il bavero del giaccone, tremando sotto la pioggia. Diede un calcio a un sasso. — E speriamo che lei abbia indovinato, e che sia davvero là sotto. — Sono pronto a scommettere. — Erano arrivati alla cresta rocciosa ai piedi del Big Allen. Manciple si fermò a guardare la pioggia che cadeva sui massi e scorreva giù per il versante della collina. — Anche se sono passati molti anni — disse con il suo tono piatto — sono sicuro di riuscire a trovare il punto giusto. — Aveva lo sguardo luminoso come se fosse davvero tornato bambino. — Ero un ragazzo, a quell'epoca. Stavo scorrazzando nella brughiera, quando a un certo momento ho visto una corda che scendeva in una buca, ho guardato giù e ho visto un ragazzo che saliva... Ah, ecco il punto, ed ecco la corda bell'e pronta per noi! — Scendete a prenderlo — disse Malm. FINE