IL MEGLIO DI WEIRD TALES VOLUME 14° LA FINESTRA VERDE e altri racconti (1988) a cura di GIANNI PILO INDICE LA FINESTRA V...
34 downloads
768 Views
482KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
IL MEGLIO DI WEIRD TALES VOLUME 14° LA FINESTRA VERDE e altri racconti (1988) a cura di GIANNI PILO INDICE LA FINESTRA VERDE di Mary Elizabeth Counselman MAGISMI di E. Crosby Michel UNA SCARNA FIGURA CON I GUANTI di August Derleth I TRE CHE USCIRONO DALLA TOMBA di Edmond Hamilton CANDELE di Dorothy Quick IL MANTELLO DI MESSER LANDO di August W. Derleth TETRA FANTASTICHERIA Robert Nelson IL COBRA REALE di Joseph O. Kesserling RITORNO DALLA MORTE di Leonid Andreyeff IL GIRO DEL MONDO di Katherine Yates IL CARRO DEI MORTI di Greye La Spina Mary Elizabeth Counselman LA FINESTRA VERDE È una di quelle vecchie case stile coloniale con grandi colonne scanalate davanti e la cucina unita alla casa da un lungo porticato. Ce n'è una mezza dozzina così a Stuartsboro ma, se stai passando da queste parti e se lo chiedi a qualcuno dei nostri pigri concittadini, ti manderanno tranquillamente alla «casa con la finestra verde». Ossia, tutti tranne me... Non mi avvicinerei a quel posto per nessuna ragione al mondo. Non tornerò mai lì... MAI. Non c'è niente da vedere. Il bel vecchio parco si è inselvatichito, e l'acqua non zampilla più nella grande fontana intonacata di bianco sul prato; è piena di acqua piovana stagnante e probabilmente, in questa stagione, è soffocata dalle ultime foglie d'autunno che cadono dalle gigantesche querce che stanno davanti alla casa come sentinelle. Per di più le finestre sono state chiuse con delle assi inchiodate: anche quella stranamente opaca sulla sinistra sopra la porta con la lunetta. Spe-
cialmente quella.... Ci sono dei lunghi chiodi nelle pesanti tavole che la nascondono altrimenti, insiste la zia Millicent, i turisti di passaggio sciamerebbero dentro con martelli e strapperebbero via le assi per dare una sbirciatina a quel vetro. Il turista americano è un animale predatore; farebbe a pezzetti la Venere di Milo per portarsi a casa un souvenir da far vedere ai parenti. Molte volte i vetri sono stati rotti da curiosi o da aspiranti investigatori del soprannaturale, che smaniano per sottoporre quello strano vetro verde a un test di laboratorio. Mi piacerebbe proprio vedere le loro facce quando lo tirano fuori trionfalmente dalla tasca o dalla borsa, appena tornati a casa, tutti contenti di avere una storia da raccontare ai vicini. Perché, qualunque sia la causa che fa annebbiare il vetro di quella particolare finestra della vecchia casa dei Dickerson, sparisce una mezz'oretta dopo che i vetri sono stati tolti dalla cornice. Il perché non lo so. Jeb, Mark ed io, da bambini, li abbiamo raschiati con lamette da barba, li abbiamo guardati coi nostri piccoli microscopi, e li abbiamo spalmati con ogni tipo di acido. Ma la schiuma verde - perché è proprio quello che sembra; una schifosa schiuma grigio verdastra sulla superficie di uno stagno - sembra che sia DENTRO il vetro, sotto la superficie. Non so dirvi quante volte i vetri opachi e scoloriti sono stati sostituiti con vetri normali, soltanto per oscurarsi di nuovo al tramonto del giorno seguente. Ma non è questa la sua attrattiva principale: «la finestra verde» è considerata una finestra profetica, un'apertura sul futuro, o meglio uno specchio per il domani. La storia è questa: quando il mio bis-bisnonno Dickerson più di un secolo fa cadde da cavallo e giacque morente in quella stanza, mandò a prendere una vecchia schiava negra raggrinzita che passava per essere una strega. La piantagione era gravata da debiti, e sembra che il vecchio fosse preoccupato per il benessere della moglie e dei figlioletti. Disteso là nel suo letto di broccato con la spina dorsale rotta, supplicò la vecchia donna voodoo di mostrargli il futuro, per aiutare la sua vedova a fare i suoi programmi. La storia dice che la donna lo accontentò, usando la finestra come una specie di "schermo psichico", Tutti i demoni che si affollano intorno ai moribondi, li aveva convocati in quel luogo: ed era il loro fetido alito, spiegò, che appannava i vetri della finestra. Ma c'era una sola Magia Nera nel suo potere; far diventare quell'opaca finestra uno specchio nel quale si potesse vedere l'oscuro riflesso della camera nella quale il suo padrone
stava morendo. Un riflesso della stanza, non proprio come era in quel momento, ma come sarebbe apparsa in una data imprecisa del futuro, quando un'altra persona sarebbe morta in quella casa. L'immagine di quella vecchia strega biascicante, della vedova singhiozzante che abbracciava i suoi due bambini terrorizzati davanti a quella finestra che si andava oscurando, è rimasta sempre vivida nella mia mente. Per tutta la vita, naturalmente, ho sentito raccontare in famiglia la storia delle sue profezie: ma la vecchia casa è diventata ormai un "elefante bianco" oppressa dalle tasse e malridotta. Mia madre ha sposato uno della Virginia e se ne è andata, ma non avrebbe mai e poi mai ceduto la sua parte di proprietà al padre di Mark o alla madre di Jeb, mio zio e mia zia. La madre di Jeb ha sposato un avvocato del posto e si è trasferita dall'altra parte della città, ma Mark e suo padre hanno sempre vissuto nella vecchia casa, vendendo parte della terra quando il vecchio ebbe un colpo. Posso aggiungere che fu una bella delusione che la sua morte sia avvenuta in ospedale: sono sicura che metà della popolazione di Stuartsboro avesse organizzato di fare una capatina al momento della sua dipartita. Nessuno era morto in casa da ben settantadue anni, e sono convinta che la gente, risentita, ci accusasse di organizzare la cosa proprio per ripicca. In realtà, nessuno della nostra generazione credeva nel voodoo. Ne sorridevamo come si sorride ad altre favole come Babbo Natale o la Befana. Mark, Jeb ed io - Figli della Grande Depressione e della Seconda Guerra Mondiale - eravamo dell'idea di non credere a ciò che non si poteva vedere né toccare. Jeb sostituì il padre nell'esercizio della stentata professione legale a Stuartsboro, con la quale si arrangiava a mantenere se stesso e la madre vedova. Mark vendette sempre più terra ed entrò nell'Aeronautica: tornò con una graziosa sposina, una rossa con un viso sbarazzino e allegro e un accento di Brooklin da tagliare col coltello. Formavano una coppia così innamorata, allegra e divertente, che incominciai ad andare a trovare loro, o Jeb, tutte le estati quando, a giugno, il mio lavoro di insegnante finiva. Mark era piccolo, arrogante, con l'aspetto pigro e affascinante di un nobile spagnolo. Jeb era alto, ossuto, allegro con una certa bellezza ereditata da zia Millicent, rovinata però dagli occhiali che portava. Quando ero ragazzina, mi ero trastullata con l'idea di sposare uno dei due, se non fossero stati miei primi cugini. Ogni tanto avevamo finto di essere fratelli. Dopo l'arrivo di Sherry però, con le sue allegre risate e la sua illimitata
energia, dovetti mettermi in secondo piano e lasciarle la palma di «amica del cuore». Mark adorava la sua testolina rossa, e si annoiava e agitava, finché non l'aveva vicino. Era facilmente intuibile poi, che Jeb era innamorato di lei, nel suo modo tranquillo e goffo. Mi dispiaceva per lui, perché era lampante che Sherry aveva occhi solo per il marito. La proprietà si era ormai ridotta al parco attorno alla casa, appena un acro. Tante piccole case erano sorte tutt'intorno come funghi, e la casa sembrava una dignitosa vecchia dama che si raccoglie la gonna per non farsi importunare dai bambini. Mark mise su un'azienda immobiliare, e fallì; costruì un «drive-in» fuori città e dovette venderlo in perdita, trovò altri due lavori e li perse. Allora la famiglia - specialmente Jeb ed io - cominciò a preoccuparsi perché beveva. Ormai beveva tutto il giorno, ridacchiando per tutta la casa con addosso una vecchia vestaglia, e in mano un bicchiere tintinnante di whisky e ghiaccio. C'impegnammo tutti per rimetterlo in sesto: Jeb ed io facevamo un salto più volte al giorno per tirarlo fuori dai suoi momenti di malinconia, e Sherry non fu mai più vivace e piacevole. Ho spesso notato l'espressione addolorata di Jeb quando Sherry si sedeva in braccio a Mark gettandogli le braccia attorno al collo e baciandolo con quell'infantile abbandono che era la sua grande attrattiva. S'inventava cose per farlo divertire girando per casa, piccoli giochi per distogliergli la mente dai suoi fallimenti, piccoli giochi per cercare di tirarlo fuori dalla sua disperazione. Un pomeriggio, quando capitammo lì, Sherry aveva pulito la soffitta e aveva trovato una vecchia lettera infilata in un lucernaio. Era scurita dal tempo, striata dalla pioggia e quasi illeggibile, ma Sherry aveva decifrato la stentata scrittura antica, e si era seduta sul bracciolo della poltrona di Mark, leggendo ad alta voce. «Liz, Jeb: si tratta della finestra verde» ci disse appena entrammo. «Qualche vostro parente, qua dietro... è firmato Lucy: c'è una macchia vedete? Non è finita: stava certamente scrivendo a qualcuno, e ha rovesciato l'inchiostro sulla lettera. Poi il lucernaio tintinnava, e lei stessa o la cameriera hanno messo il foglio nell'interstizio per fermarlo...» «Detective», rise Mark agitando il dito verso di lei «ha capito tutto... Jeb», ridacchiò. «Lucy era la zia Lucy Dickerson, la sorella zitella del nonno. Non aveva tutte le rotelle a posto, e mi ricordo che il nonno lo di-
ceva: e questa lettera lo prova!» «C'è qualcosa che riguarda la finestra?» Domandai, divertita dall'eccitazione di Sherry. «Che cosa diceva la vecchietta? Leggi!» «Bene, incomincia a metà di una frase», disse Sherry con aria importante. «Deve essere la seconda pagina della lettera, o qualcosa del genere. Ringrazia qualcuno per i fiori mandati al funerale, mi sembra "bella corona", inizia: c'erano tanti bei fiori, e la povera Ellen sembrava così naturale distesa nella bara...» Mark, Jeb ed io scoppiammo a ridere in coro. «Questo è classico di zia Lucy», affermò Jeb con un cenno del capo. «Andava sempre al funerale di qualcuno: le piaceva piangere, così non se ne faceva scappare uno! Cos'altro dice?» Sherry fece una smorfia: «Va bene! Ridete! Salterò un paio di frasi dove racconta che cosa disse il pastore di... Allen? No, è Ellen...» «Era la nonna», le disse Mark. «Morì di cancro, povera cara vecchietta... Ditemi!», sbottò, improvvisamente interessato. «È STATA l'ultima persona a morire in questa casa, non è vero? Zia Lucy l'ha curata per anni. Cara vecchia zitella: viveva per la famiglia; non ha mai avuto una vita sua.» Jeb ed io annuimmo: Sherry stava di nuovo esaminando attentamente il frammento scolorito, cercando di interpretare le parole in quell'inchiostro sbiadito. «...Mia cara, cosa ho visto nella finestra! Non lo immagineresti mai... qualcosa, qualcosa è macchiato... Era un Orientale.» Riuscì a decifrare un'altra frase o due. «Stava seduto là nella poltrona di papà, con un turbante in testa - sempre che fosse un uomo, cara Marta - e...» Ridemmo di nuovo fragorosamente. «Cara vecchia zia Lucy», gridò Mark. «Non era all'incirca il periodo in cui si parlava del Pericolo Giallo? Quando tutti pensavano che i cinesi avrebbero invaso il paese? E le ragazze andavano in giro leggendo le liriche d'amore indiane?» Jeb sorrise annuendo. «Immagino che zia Lucy s'ispirasse a quelle poesie, quando ha piazzato un Rajah nel nostro salotto! C'era stato così poco romanticismo nella sua vita...» Sherry gli lanciò un'occhiata acuta che non seppi interpretare. «Zia Lucy non è l'unica» borbottò enigmaticamente. «Non volete nemmeno sentire il resto? C'è tutta la storia di un ladro che entra per rubare il tesoro del Rajah, e l'Orientale gli spara. Ha visto tutto nella finestra, dice la lettera. C'è un
cappello calato sul viso del ladro. Quando l'Orientale riconosce chi ha colpito, cade singhiozzando sul corpo del giovane. Forse è suo fratello dice la zia, o suo figlio...» «Mamma mia che storia stantia!» Jeb si strinse il naso con aria espressiva. «Mamma diceva che la zia Lucy leggeva sempre romanzi d'appendice... e posso ben crederlo.» Sherry ci diede un'occhiata disgustata, gettò la lettera appallottolata nel camino, e si girò verso di noi, rivolgendo la maggior parte della sua rabbia su Mark. «Va bene è una stupidaggine, siamo d'accordo, ma potremmo FAR FINTA, no? Voi tre siete così... indisponenti! Mark è sempre mezzo ubriaco, e non andiamo mai in nessun posto! Non ho mai un vestito nuovo o... o...» I suoi begli occhi scuri si riempirono di lacrime. «O nient'altro che non sia l'orgoglio della famiglia!» Mark impallidì distogliendo gli occhi da noi. Non mi veniva in mente niente da dire, ma Jeb, con ammirevole tatto, saltò su. «È vero» disse con dolcezza, «stiamo diventando dei pigroni. Proprio per questo Liz ed io siamo venuti stamattina, per convincervi a venire al ballo dei Lindsay al "Country Club". Noi...» «Non andremo», sbraitò Mark. «Sally Lindsay mi guaisce nelle orecchie, e Joe ci rifila quella sciacquatura di piatti di cocktails come fosse champagne...!» Sherry lo guardò con scintille di collera negli occhi. Strinse le labbra, lottando per controllarsi, poi scoppiò. «Può darsi che tu non ci vada... ma io sì! Mi accompagnerà Jeb, e Liz può andare con quel noioso di Joe Kimball che cerca sempre di farle la corte. Per quanto lei sia troppo in gamba! Il matrimonio è... un pantano! Perlomeno il nostro lo è!... Vieni Liz», si girò e uscì maestosamente dalla stanza per correre di sopra. «Prenderò qualcosa per venire da Jeb con te. Mark può starsene qui seduto e ANNEGARE nel suo pessimo whisky. Io passerò la notte da zia Millicent!» Tornò giù di corsa con una camicetta di tulle color lavanda, una gonna e i sandali dorati, e si diresse impettita verso la macchina senza aggiungere una parola. Jeb ed io mormorammo qualcosa a nostro cugino, ma lui stava già tracannando il suo whisky a grandi sorsate, con le labbra sbiancate dalla rabbia, e non rispose. Seguimmo Sherry in macchina e ce ne andammo, senza la minima critica per lei, sperando solo che Mark ritrovasse la sua strada e tornasse ad essere quello di una volta.
Andando da zia Millicent, Sherry cominciò a pentirsi, ma lo nascose chiacchierando della lettera che aveva trovato in soffitta. «Un sovrano orientale!», rise. «Col turbante in testa ed un vestito a fiori! Ha veramente sognato tutto, non è vero? Per quanto non sia poi così assurdo... In ogni modo la finestra non ha predetto la data. Era il 7 dicembre 1941...?» Ci accordammo al suo umore e iniziammo a prenderci in giro circa un'ipotetica invasione Giapponese di Stuartsboro, che avrebbe forse potuto avvenire nel 1941, ma che in realtà non avvenne. A mezzogiorno telefonai di nascosto a Mark, ma, quando rispose, mi diede l'impressione di essere completamente ubriaco. Sospirando riappesi, e continuai i nostri progetti per il ballo. Mi ero però dimenticata di dire a Sherry che si trattava di un ballo mascherato. Ci rimase male, perché a casa aveva un delizioso vestito da Pierrot, ma Sherry non sarebbe tornata a casa per quello, così le promisi di procurarle un costume, anche se avessi dovuto imprestarle il mio equipaggiamento da "Bella Colombina", ereditato dalla nonna, completo di parrucca e crinolina. Intanto Mark se ne stava imbronciato nel grande salotto freddo, tenendo in mano a rovescio un libro giallo, e con una caraffa mezza vuota di whisky sul pavimento accanto a lui. Era in pigiama e vestaglia come al solito, e aveva una barba di due giorni sul viso gonfio; aveva anche un terribile mal di capo, e si era legato sulla testa una borsa del ghiaccio. Avrei potuto dipingerlo, quando gli telefonai: una figura tragicomica, che teneva il broncio nella semi oscurità. Se ne stava là facendo finta di leggere finché il sole non fosse tramontato dietro le colline Blue Ridge. Poi, borbottando cose che sperava di aver detto, cadde in un sonno da alcolizzato. A mezzanotte si svegliò di scatto con la testa che gli pulsava. La fioca luce che veniva da una lampada nella hall illuminava appena la stanza dal soffitto alto. Mark udì un leggero raschiare sulla destra: qualcuno stava spiando dalla finestra che dava sul giardino, cercando di forzarla e cercando di entrare. Vertiginosamente, col cuore che gli martellava, Mark scivolò dalla poltrona e si diresse verso la stanza dove suo padre teneva una collezione di pistole e coltelli. La sua mano annaspante trovò un'arma, un'automatica corta: Mark non si ricordava se fosse o no carica, ma pensò che poteva
sempre spaventare il malfattore. Attese immobile nella semi oscurità, gli occhi incollati a quella finestra al di là della stanza. Vicino a lui, chiusa come sempre, la finestra verde, la profetica finestra verde, baluginava debolmente come uno specchio opaco. La finestra si sollevò lentamente. Una figura in pantaloni stazzonati e camicia bianca rattoppata, si innalzò furtivamente arrampicandosi sul pergolato esterno; l'intruso aveva un cappello di Tweed calcato in testa fino agli occhi e un coltello fra i denti. Il coltello che era stato usato per forzare la finestra, dava alla parte inferiore del suo viso un aspetto distorto e malvagio. Mark prese la mira attentamente e schiacciò il grilletto. Nessuno fu più spaventato di lui nell'udire la deflagrante esplosione che scosse la stanza, riempiendola con l'odore acre di cordite. L'intruso urlò - un alto grido acuto di angoscia e di dolore - poi cadde in avanti sopra una sedia, rovesciandola. Mark accese immediatamente la luce, mirando sempre all'intruso, ma un grido affannoso lo fermò. «Mark non sparare: sono io! Ho dimenticato la chiave! Pensavo che tu fossi a letto.» Allora Mark urlò, gettandosi in ginocchio accanto alla figura immobile distesa supina sul tappeto. Era Sherry... con un vecchio paio di pantaloni di Jeb, una mia camicia e un cappello preso a prestito da qualcuno: era il costume da "Ladro di Bowery" che aveva indossato al ballo mascherato. Piangendo, Mark la raccolse fra le braccia. Si dondolava avanti e indietro cantandole una ninna nanna, mentre il sangue bagnava la sua vestaglia. E la finestra verde incominciò a risplendere con un fulgore ultraterreno, rispecchiando la stanza come era successo tante volte prima, secondo il racconto dei miei genitori e dei miei nonni. Un quadro iniziò a prendere forma nella sua cornice scura, come un film confuso. Mio cugino Mark alzò la testa, tenendo la moglie morta fra le braccia, e guardò il disegno del futuro svelato in quei vetri verdi. Il giorno prima del funerale, Jeb lasciò improvvisamente Stuartsboro. Nemmeno zia Millicent poté spiegare la sua brusca partenza, che seguiva la decisione di associarsi ad uno studio legale di New York. Io me ne stavo là vicino a Mark come un'affettuosa sorella che fa coraggio ad un fratello in lutto. Sembrava stordito e vago: più di una volta durante tutto il rito religioso lo colsi a fissarmi, e c'era un profondo sbalordimento nel suo sguardo acuto, uno sguardo d'orrore che trascendeva anche ciò che io pensavo dovesse sentire. Era soltanto la sua grande sensazione di perdita?
«Mark caro», gli sussurrai, «sta su. Io sono ancora qui.» Stavamo tornando dal cimitero dopo la sepoltura della graziosa adorabile Sherry. Alle mie parole, Mark ruppe improvvisamente il suo composto silenzio. «Liz», disse calmo. «Ho l'impressione che lei stesse scappando via con Jeb, quella notte dopo il ballo. Credo che lui la stesse aspettando... È tornata indietro per i vestiti, probabilmente, anche se ho lasciato credere a Jeb che era per fare la pace con me... ma non era così. Vedi lo so: ho perso Sherry non per la sua morte», disse malinconicamente, «ma molto tempo prima, a causa di Jeb. Non lo hai mai sospettato?» Lo fissai stupefatta. «Sherry? Sapevo che lui era innamorato di LEI ma... che cosa ti ha dato l'idea che lei... Caspita, Sherry ti adorava!» «No», il sorriso di Mark si distorse. «Non mi adorava», disse tristemente, «Mi raccontò più di un anno fa che mi aveva sposato per interesse: sai, uno di quei matrimoni di guerra. Se Jeb l'avesse voluta, mi avrebbe lasciato molto tempo fa... ma io ho giocato sulla comprensione di lui, e mi sono lasciato andare solo per tenermela vicino. Jeb ha resistito per lealtà verso di me fino alla notte del ballo, ci scommetto. Si disprezza per questo pasticcio, ma naturalmente avrei dovuto lasciargliela molto tempo fa. Bene...» Raddrizzò le spalle con uno sforzo. «È tutto è finito ora. Credo che tornerò nell'Esercito. E, Liz...», esitò in uno strano modo. «Sarebbe meglio per te vendere la vecchia casa. Non dobbiamo mai tornare là, noi tre. Ho detto a Jeb che, se lo faremo, ci sarà una tragedia. Perché ho visto un DELITTO nella finestra verde quella notte...» Spalancai gli occhi. «Mark!» Gli presi la mano fra le mie: egli fissava stranamente le nostre dita intrecciate. «Gli hai detto QUESTO? Nessuna meraviglia che se ne sia andato così all'improvviso. Deve aver pensato che tu intendevi che l'avresti ucciso, o che lui avrebbe ucciso te!... Oh Mark», sospirai «noi tre siamo cresciuti insieme, siamo stati così vicini! Non potrei sopportare questa città senza voi due. Guarda un po'», risi. «Stai per caso spingendomi a sposare Joe Kimball e andare nell'Idaho con lui? Nossignore! Non voglio farlo! Starò qui con zia Millicent e diventerò una vecchia zitella solitaria come zia Lucy, senza te e Jeb attorno... Mark: mi vergogno a confessarlo, ma mi sono piuttosto risentita che Sherry si sia intromessa e mi abbia soffiato tutti e due i miei... i miei spasimanti! Così ora, per piacere, vorrei avervi indietro. Con un po' di lavoro d'equipe, potrem-
mo trasformare la vecchia casa in un albergo per turisti: potremmo chiamarlo "I tre cugini"...» Mark non rispose al mio tentativo di buttare la cosa in ridere. I suoi occhi scuri stavano ancora scrutando il mio viso con quell'espressione perplessa. Scosse la testa lentamente e picchiettò sulla mia mano. «No, dobbiamo chiuderla. Non dobbiamo... Non dobbiamo nemmeno aprirla, mai Liz... Come ci si conosce poco veramente!», mormorò. «Io non so niente di Jeb, o lui di me, o tutt'e due noi di... Solo la finestra verde SA veramente...» Si passò una mano tremante sulla fronte. «Mi domando... Se fossi stato messo sull'avviso da quella lettera, avrei potuto impedire l'incidente a Sherry? Che cosa ne pensi...? Liz, se non ci avvicineremo mai più alla vecchia casa noi tre assieme, come potrà succedere la cosa che ho visto...?» Rabbrividii al particolare sguardo di terrore sul viso di mio cugino. La macchina si era fermata di fronte alla vecchia casa dei Dickerson, costruita dal nostro bis-bisnonno quasi due secoli fa. La tenebrosa finestra verde ci fissava come un occhio cieco, un occhio che non vedeva il presente ma il futuro, il futuro incredibile, come quello strano scherzo del fato che aveva indotto Mark a sparare alla sua adorata moglie, e Jeb ad andarsene per sempre dalla sua città. «Mark», domandai: «Che cosa hai visto nella finestra, la notte che la povera Sherry...? Mark: se n'è andata ora, e tu e Jeb dovete perdonarvi l'un l'altro! Noi tre dobbiamo sostenerci a vicenda, come facevamo da bambini. Il sangue non è acqua, Mark, e...» Mio cugino mi guardò e, tutt'a un tratto, si mise a ridere aspramente. «Sangue?», disse in modo strano. «Ecco che cosa ho visto, Liz! Sangue dappertutto nella stanza, quella stanza scura dentro la finestra, cioè il nostro salotto come apparirà... non so quando... il mese prossimo, l'anno prossimo, non lo so. Jeb ed io eravamo distesi sul pavimento, tagliati a pezzi. E qualcuno ci sovrastava con... un'ascia... ancora vibrante... ecco cos'ho visto.» Fremetti e nascosi il viso contro la sua spalla. «Oh Mark! Che orrore! Ma non potrà mai succedere, naturalmente,» risi nervosa, «Jeb se n'è andato, e tu te ne andrai la prossima settimana... Hai... hai visto chi era? Voglio dire, hai visto la faccia? Somigliava a qualcuno che conosciamo?» «Sì». Mio cugino tenne stretta la mia mano per un attimo, poi disse calmo: «Sì, ho visto la faccia, Liz: eri tu.»
(The Green Window) E. Crosby Michel I MAGISMI Per circa cinquecento anni quasi tutte le stravaganze dell'uomo o della natura sono state attribuite alla stregoneria. Il fuoco, il diluvio, la tempesta o la pestilenza hanno prodotto un'immediata ridda di roghi e torture di streghe nei quali esse venivano accusate e giudicate colpevoli di mangiare bambini, togliere il latte alle mucche, distruggere i raccolti, causare la dispepsia o una nuova epidemia di peste. Ad Edimburgo, in Scozia, c'è la casa di un famoso stregone. Deteneva la carica di Maggiore nel Corpo di Guardia della Città. Nel 1649 divenne tristemente noto per le torture che inflisse ai monarchici che caddero nelle sue mani. Rappresentò un caso raro nella sua professione in quanto usava le preghiere per inviare i suoi sortilegi all'estero. Portava uno strano bastone che assomigliava ad una verga, e fu spesso notato che, quando non aveva il bastone, le sue preghiere diventavano più pie e quasi sincere. Questo fatto portò alla sua scoperta e fu impiccato. Ma, prima che venisse issata la forca, confessò crimini orribili e malignamente proclamò a gran voce che le sue confessioni non erano che una piccola parte dell'orrore che aveva seminato. Sebbene di regola gli stregoni siano stati viaggiatori, ci sono stati anche quelli le cui attività erano concentrate all'interno di una cella o di una grotta, ben lontane dalle abitazioni degli uomini. A questi possono essere attribuite la maggior parte delle pozioni e delle formule magiche usate da quelli che andavano in giro per il mondo. Il loro compito era quello di scrutare nella Magia Nera ed escogitare i modi in cui potevano essere lanciati gli incantesimi. Si davano nelle mani del diavolo anima e corpo, e gli attrezzi del loro mestiere erano ossa umane, capelli, sangue, reliquie dei Druidi, ratti, serpenti, rane e ragni. Da questi orribili ingredienti venivano fuori liquidi e polverine che, se usati da mani esperte, provocavano cose orribili e inaudite. August Derleth UNA SCARNA FIGURA CON I GUANTI
Ad una prima occhiata, Corbin Bellaman ti potrebbe sembrare un vecchio contrabbandiere, con il corpo ormai logorato da una vita dissoluta. Ma, a ben guardarlo, capiresti che si tratta di una persona benevola ed innocua, dall'aspetto decisamente umano. In realtà, Bellaman non aveva una reputazione immacolata. Negli ultimi cinquant'anni, era stato un avvocato abile e ricercato ma, da almeno venti, era il difensore processuale di ricettatori, ladruncoli, assassini, scippatori e semplici personaggi stravaganti, come ad esempio Alonzo Potter. Dopo anni di successi, Alonzo Potter fu la causa del rovescio di fortuna del capace avvocato. Tuttavia, in quei giorni, Bellaman non poteva sospettare nulla. Non vi erano problemi di alcun genere, tra lui ed Alonzo, almeno sino a quando Potter era ancora in vita: fu da morto che le cose cambiarono. Alonzo Potter era uno dei pochi clienti di Bellaman che non fosse un imbroglione. O almeno, nessuno era a conoscenza di crimini commessi da lui. Una volta aveva scritto dei libri che divulgavano notizie sui segreti della Magia Nera, della Negromanzia, della Stregoneria ed altre cose simili. Molti di questi, erano stati pubblicamente messi al rogo da fanatici religiosi, ma tutto ciò non faceva di Alonzo Potter un criminale. Quando Bellaman conobbe questo strano cliente, Potter era già molto anziano. Il suo volto era solcato da rughe profonde e camminava sorreggendosi ad un bastone. La cosa curiosa è che era sempre in compagnia di uno strano individuo, un tizio alto e barcollante che stava sempre dietro o accanto a lui. Sembrava un mendicante, teneva la testa piegata da un lato e non parlava mai con nessuno. Forse, a lungo andare, ciò avrebbe stupito qualcuno, se non fosse stato per il fatto che Potter usciva molto di rado dalla sua casa. Viveva tranquillamente nei sobborghi di Soho, nonostante girassero strane voci che parlavano di bizzarri avvenimenti che si svolgevano nella sua abitazione. Alla sua morte, nominò Bellaman suo curatore testamentario. La questione riguardava il lascito di cinquantamila sterline a favore di Clarice Tregardis, una vecchia fiamma di Potter. Nonostante tutti i rapporti che aveva avuto con la malavita, Bellaman non aveva mai visto cinquantamila sterline tutte in una volta ed era enormemente eccitato al pensiero di dover maneggiare tutto quel denaro. Tuttavia, sino a che non conobbe Clarice Tregardis, non gli passò per la mente di appropriarsi di quella discreta fortuna...
In effetti, credeva che la beneficiaria non fosse altro che la solita ballerina dal passato ambiguo, ma dalla notevole avvenenza. Però, quando la mandò a chiamare, si presentò a lui una simpatica vecchietta, che non riusciva neanche ad immaginare il motivo per cui era stata convocata. Addirittura si ricordava di Potter solo come di uno sfortunato corteggiatore. «Devo essere sincera, signor Bellaman, era proprio un bel ragazzo! Per molto tempo siamo stati buoni amici, anzi intimi! Ma poi... tempo ed eventi. Signor Bellaman, lei sa come vanno a finire queste cose.» «Signorina Tregardis, l'ho mandata a chiamare per dirle che il signor Potter le ha lasciato in eredità tutto il suo denaro.» Disse Bellaman. «Oh cielo! È incredibile! Ha sempre avuto l'abitudine di fare cose strane! Mi ha lasciato molto?» La domanda venne formulata proprio nell'attimo in cui a Bellaman venne in mente di impossessarsi di una parte di quel denaro. Inizialmente aveva pensato di chiedere un cospicuo onorario per le sue funzioni di curatore testamentario, ma ora si rendeva conto che Clarice Tregardis non conosceva assolutamente la rilevanza della somma che Potter le aveva lasciato in eredità. Inoltre, visto che lei si trovava in condizioni finanziarie decisamente scarse, sarebbe stata soddisfatta di incassare una cifra qualunque. Una ballerina avrebbe subito alzato la voce, chiedendo di esaminare i documenti relativi all'atto notorio, ma, questa vecchia signora, sarebbe stata sicuramente felice di affidare alle mani di Bellaman ogni trafila burocratica ed avrebbe accettato, senza problemi, qualunque somma lui le avesse consegnato. «Signorina Tregardis, l'esatto ammontare della cifra non è stato ancora calcolato ma, malgrado le deduzioni dovute alla tassa di successione, credo che lei, con il denaro rimasto, potrà vivere senza problemi per un certo periodo di tempo.» Bellaman pensò che questo era il modo migliore in cui potesse presentarle l'intera questione. «Oh, davvero?» disse la vecchietta al colmo della felicità. «Allora può darsi che riuscirò a comprarmi un cappotto nuovo e qualche vestito. Forse potrò persino riammobiliare la mia camera. Sì, forse lo potrò fare!» «Penso, che ci riuscirà» concordò Bellaman. Ormai era riuscito a convincerla, e non avrebbe dovuto darle neanche una percentuale alta. «Volete curarvi voi degli aspetti legali della questione, o preferite che me ne occupi io stesso?»
«Oh, se Alonzo ha avuto fiducia in lei, sono sicura che potrò averne anch'io.» Disse lei ingenuamente; quindi se ne andò. Bellaman non avrebbe mai potuto immaginare che tutto si sarebbe svolto senza alcuna complicazione. Si mise subito al lavoro. Intendeva prendere ogni possibile precauzione. Poteva esserci qualche parente della vecchia signora intenzionato a ficcare il naso nella faccenda. Così, prevedendo una simile eventualità, decise di falsificare una fattura relativa a spese mediche sostenute dalla signorina Tregardis. Ovviamente la cifra presente sulla fattura corrispondeva alla somma di denaro che lui si intascava. Avrebbe quindi mostrato il prezioso documento, a chiunque ne avesse fatto richiesta. Pensò anche alla possibilità di una fuga rapida con l'intera somma ma, in questo caso, sarebbe stato ricercato dagli scagnozzi dell'ufficio per il pagamento della tassa di successione. Inoltre lui stava bene dov'era e non c'era assolutamente la necessità di abbandonare abitudini ed affari che gli provenivano, in massima parte, dalle zone più malfamate di Londra: Whitechapel, Linchouse, Soho e Wapping lungo il Tamigi. Cominciò sottraendo una somma modesta, mille sterline, con le quali giocò alle corse. Infatti pensò che, se avesse vinto molto denaro, non sarebbe stato più necessario sottrarne altro dal gruzzolo di Potter. Il gioco era la vera debolezza di Bellaman; avrebbe potuto essere già ricco con il suo lavoro, se non avesse insistito nel giocare il doppio o il triplo di quanto guadagnasse, con il risultato che viveva sempre negli stenti. Perse le mille sterline. Inoltre alle corse, fece un incontro sconvolgente. Non appena effettuata la giocata, ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse dato un leggero colpo su una spalla e, voltandosi, non vide nessuno di sua conoscenza. Poi scorse in piedi a poca distanza da lui, un signore alto e magro, che indossava un cappello duro, non dissimile da quello che portava Alonzo Potter. Anzi, guardando meglio, si accorse che era la persona stessa a ricordargli il ricco defunto. Distolse lo sguardo da lui, cercando di ricordare dove l'avesse mai visto. Poi, improvvisamente, gli tornò alla mente quella figura misteriosa: era l'accompagnatore silenzioso di Potter, scomparso il giorno in cui Alonzo era morto. Guardò di nuovo nella direzione dove si trovava quello strano tipo, ma non c'era più. Quell'incontro non fu certamente piacevole, non tanto per il fatto in sé, quanto per la vergogna che provava, in un barlume
di coscienza, dopo aver perso il denaro. Prima di prelevare altre sterline dai fondi dell'eredità, decise di condurre un'inchiesta per scoprire chi fosse l'accompagnatore di Potter. Doveva sapere se lui conosceva Clarice Tregardis e quindi se, in seguito, avrebbe potuto informarla sul reale valore del lascito. Dedicò tutta la settimana seguente a questo improbo compito, servendosi di tutti gli informatori della malavita di sua conoscenza. Ma, alla fine, non aveva più informazioni di quando aveva iniziato: non c'era persona che sapesse qualcosa sull'accompagnatore di Potter, se non che non era mai stato sentito profferire una parola e che, inoltre, nessuno l'aveva mai visto in volto. L'unico indizio sicuro era che indossava sempre un paio di guanti. Sembrava una persona sgradevole, emaciata, e si trascinava dietro al signor Potter come un cane segue il suo padrone. Comunque tutti dissero di non averlo più visto dal giorno della morte di Potter. Mentre la mancanza di indizi infastidì Bellaman, l'unanime opinione che l'uomo fosse scomparso, lo rassicurò. Decise così di dichiarare chiuso l'incidente, convincendosi che probabilmente aveva scambiato qualcun'altro per il cadaverico accompagnatore del signor Potter. Trascorse un'altra settimana, quindi si recò di nuovo alle corse. Questa volta prelevò duemila sterline, ormai preso da quel malefico vortice del gioco che ti fa credere che si possa recuperare il denaro perso, con un solo colpo di fortuna; e la convinzione è che, per quanto si perda, la vincita straordinaria, prima o poi, debba arrivare, per una matematica legge delle probabilità. Ma non era ancora giunto il momento, per Bellaman, di avere fortuna, e chissà quando mai sarebbe arrivato. Non perse solo le duemila sterline di Potter, ma anche cento delle sue. Inoltre, tornando al suo studio, percepì la strana sensazione di essere seguito. Naturalmente, essendo responsabile di quel peccatuccio, immaginò di essere pedinato ed osservato dalla Polizia; così cominciò a fissare tutti quelli che, secondo lui, avevano la faccia da piedipiatti. Ma subito si sentì ridicolo per quel pensiero assurdo e tornò a guardare normalmente la strada di fronte a sé. E fu così che vide ancora una volta quell'uomo magro, con le braccia dondolanti e con le mani nascoste da un paio di guanti. Camminava trascinandosi lentamente ed ignorando tutto ciò che lo circondava.
Bellaman fermò il primo passante che gli venne a tiro e, presolo delicatamente per le braccia, gli disse: «Mi scusi. Sto aspettando un amico ed ho perso gli occhiali. È un tipo alto, magro, indossa dei guanti e sulla testa porta un cappello che praticamente impedisce di vederlo in volto. Mi è sembrato di sentirlo parlare poco più avanti. C'è qualcuno sul marciapiede che corrisponda a questa descrizione?» Il passante scrutò con attenzione il circondario, quindi fissò Bellaman, ritenendolo forse ubriaco e assicurandogli comunque che non c'era in vista nessuno che corrispondesse alla descrizione che aveva appena fatto. La fronte di Bellaman era madida di sudore freddo. Si diresse velocemente verso il proprio studio e subito cercò, tra le sue carte, il testamento di Potter. Si era improvvisamente ricordato di avervi letto qualcosa circa il misterioso personaggio. Infatti lesse. «... e per quanto riguarda Simeon Brown, che è stato il mio costante compagno per numerosi anni, dovrà considerarsi libero dalla servitù che io ho su di lui, quando saranno scaduti i termini di questa.» Era tutto, niente di più. Dopo averlo letto almeno una dozzina di volte, Bellaman si sentì più disorientato che mai. Nessuna delle cose che aveva letto poteva avere un senso. Che schiavitù? Potter, ormai morto, come poteva condizionare la 'libertà' di Simeon Brown, quello scarno figuro con i guanti che gli era apparso in quei modi così curiosi? No, era tutto così incredibile. Con un vago senso di disagio, l'avvocato si mise a compilare gli incartamenti necessari per evadere la pratica di Clarice Tregardis. Dopo aver fatto trascorrere un tempo che ritenne adeguato, pagò la tassa di successione: si trattava di una tassa veramente assurda. Quindi preparò un assegno di mille sterline da inviare alla signorina Tregardis, convinto che, con tale cifra, sarebbe stata più che soddisfatta. Probabilmente non aveva mai posseduto tanto. Si era ormai convinto che Simeon Brown non potesse arrecargli più alcun danno. Da quando l'aveva intravisto su quel marciapiede nei pressi dello studio, Bellaman non ne aveva saputo più nulla. L'avido avvocato, non aveva assolutamente collegato quelle apparizioni, con il denaro che aveva trafugato entrambe le volte al defunto signor Potter. Comunque, si mise a spulciare i numerosi incartamenti di Potter che erano presenti nel suo archivio. C'erano anche bozze dei suoi libri, e Bellaman presto si convinse che Potter doveva essere stato un tipo davvero eccentrico. I suoi libri erano diretti a persone con una mentalità da Medio
Evo, quando ancora si aveva paura di streghe e maghi, mentre incantesimi, magie e pozioni, erano all'ordine del giorno. Curioso, come vecchi reclusi, uomini e donne si recavano da lui per farsi predire il futuro, per riunirsi in sedute spiritiche e per chissà quali altre diavolerie. Comunque non vi era cenno delle ultimissime attività del signor Potter. Nella sua modestia, doveva essere stato un buon stregone, anzi buonissimo. Sapeva come modificare gli incantesimi più potenti per utilizzarli a suo piacimento. Aveva lasciato molti scritti pieni di queste formule, ma erano quasi tutti in lingua latina, così Bellaman non si prese la briga di tradurli. Comunque, fu tra di loro che trovò l'indirizzo di Simeon Brown: trentasette, duecentotredici Upper Leshaway. Almeno adesso sembrava che esistesse. Comunque Bellaman non era sicuro di aver ben interpretato la scrittura piccola, veloce ed incerta di Alonzo Potter. E fu per questo che si trovò su di una pista falsa. Quando si recò all'indirizzo di duecentotredici Upper Leshaway, non vide una casa, bensì l'entrata posteriore di un cimitero. Tornò quindi ad esaminare gli scritti. Forse poteva trattarsi di Latterby Lane o di Leshly Street: sì, poteva essere una di queste. Entrambe erano molto distanti dal suo studio, e Bellaman era restio a recarvisi. Prima di appropriarsi definitivamente dell'ingente somma, fece una nota accurata delle sue scoperte e, temendo di aver commesso qualche errore, decise di incontrarsi con tre suoi vecchi amici, due dei quali erano una specie di guaritori e avevano conosciuto il defunto Potter. Con una freddezza che meravigliò lui stesso, Bellaman raccontò loro gli strani incontri avvenuti con Simeon Brown, naturalmente senza fare il benché minimo accenno al denaro. Peter Benfield, il più vecchio, disse che quel Brown poteva essere lo stesso Brown con cui Potter aveva avuto dei guai molti anni prima. «No, Sin è morto da molto tempo,» disse Pearson. Benfield abbozzò uno strano sorriso e si girò verso Bellaman. «Lo sai che tu potresti aver incontrato il familiare di Potter?» Gli altri pensarono che Benfield si stesse prendendo gioco dell'avvocato. Non avevano il minimo dubbio e così, anche loro sbatterono le palpebre, affermando che Bellaman era sicuramente perseguitato dal familiare di Potter. Colpito da queste parole, Bellaman chiese loro di spiegargli di che cosa si trattasse. «Oh,» disse Benfield, «un familiare è come un servo magico, chiamato da chissà quale altro luogo o dimensione che ha, come unico scopo, quello
di obbedire ad ogni comando del Mago che lo ha evocato. Tutto questo grazie ad un incantesimo che il Mago impone su di lui... ovviamente se tu credi a queste cose!» «Un fantasma?» insistette Bellaman cercando di non mostrare ai suoi amici il suo stato di tensione. «Non credo che si possa definire esattamente un fantasma,» disse Benfield. «Ma... ecco, diciamo che si tratta di uno scheletro, di un diavoletto senza corpo.» Aveva detto queste cose con tono gioviale, rispetto al disagio che attanagliava Bellaman, così l'avvocato non riuscì a capire se Benfield stesse scherzando oppure no. Invece di riuscire a trovare la soluzione del problema, Bellaman era sempre più perplesso. Ciò infastidiva un uomo del suo calibro, anche perché doveva comunque portare a termine il suo diabolico piano, pur se forse sarebbe stato meglio apportarvi delle modifiche che lo mettessero al riparo da sgradevoli sorprese. La tassa di successione era stata regolarmente pagata. Come si era proposto, aveva diligentemente preparato la parcella falsa del dottore e l'aveva inserita nella cartella che conteneva i suoi documenti più importanti. Ora, chiunque avesse perquisito lo studio, avrebbe facilmente ritrovato la preziosa ricevuta. Dall'ufficio postale, aveva spedito l'assegno di mille sterline per Clarice Tregardis e, quella stessa sera, decise di partire per Paddington: da lì avrebbe raggiunto Aldershot. Traversata la Manica, si sarebbero perse le tracce. A quel punto poteva restare in Francia o recarsi in Svizzera. Ahimè! Si sentì come un topo che fugge davanti ad un ferocissimo gatto! Bellaman era appena uscito dal suo ufficio, quando ebbe di nuovo quell'opprimente sensazione di essere pedinato. Cercò di occupare la mente ripetendo più volte a se stesso il suo piano. Solo quando passò sotto un lampione, si rese conto di un suono che sembrava provenire da dietro le sue spalle. Più che di un rumore di passi vero e proprio, sembrava si trattasse di un continuo trascinìo di piedi. Si girò per vedere chi ci fosse. Era quella scarna figura con i guanti! Bellaman fu preso da una violenta sensazione di panico. Non aveva creduto, neanche per un istante, a quello che avevano detto Benfield e Pearson ma, indiscutibilmente, vi era qualcosa di strano sulla comparsa, proprio in quel momento, del compagno del vecchio Potter. Bellaman toccò freneticamente il denaro che stava portando in un porta-
foglio robusto in una tasca della giacca; lo cercò con le mani, sino a che non sentì quell'involucro gonfio ed ingombrante. Si rassicurò, e subito la sua mente gli suggerì che l'unica cosa da fare, era cercare di fuggire dall'accompagnatore di Potter. Di fronte a lui, vide un vicolo scuro che conduceva ad una via fortemente illuminata, dove egli avrebbe potuto prendere la metropolitana che l'avrebbe portato alla stazione di Praed. Era molto breve e, sparendo nel suo budello scuro, avrebbe sicuramente fatto perdere le sue tracce all'inseguitore. Quindi, nel momento che ritenne più opportuno, attraversò la strada e, protetto dall'ombra dei palazzi, si gettò abilmente nel vicolo. Se solo avesse ragionato con maggiore freddezza, ci avrebbe pensato due volte, prima di fare quello che aveva fatto. Ma, evidentemente, le sue capacità di preveggenza, erano limitate. Quando sentì il fruscio dietro di sé, riuscì solo a meravigliarsi che il tipo lo avesse visto entrare nel vicolo. Era perfettamente conscio del fatto che i passi del suo inseguitore si stavano avvicinando rapidamente, ma poi, improvvisamente, si accorse che lo strano tipo era già su di lui. Come era possibile? Si girò sussultando, e guardò alle sue spalle. Malgrado l'oscurità del vicolo, vide due braccia magrissime, dalle mani guantate, che si stavano gettando su di lui. Gli apparve il volto orribile di una creatura avvizzita, uno sguardo cieco lo fulminò, con una luminescenza infernale ed una bocca senza labbra sbavò parossisticamente su di lui. Bellaman non ebbe nemmeno il tempo di gridare. La mattina dopo, Clarice Tregardis ricevette il suo assegno da mille sterline. Nella cassetta della posta, trovò anche un portafoglio decisamente gonfio, il cui contenuto, sommato all'assegno, ridava alla signorina Tregardis, l'intera somma che le aveva lasciato Alonzo Potter, escluse ovviamente le tasse di successione. La scomparsa di Bellaman suscitò molto interesse nell'opinione pubblica. La Polizia perquisì la casa dell'avvocato e trovò un indirizzo che lui si era appuntato su di un pezzo di carta per cui andarono ad investigare. Non potevano neppure lontanamente immaginare che quell'indirizzo li conducesse al cimitero di Upper Leshaway, e si recarono direttamente al lotto trentasette, quello che era inspiegabilmente segnato sul foglio. Al lotto trentasette, trovarono la tomba di un certo Simeon Brown. Era
evidente che il sepolcro era stato manomesso di recente, così fu emessa un'ordinanza di riesumazione. La fossa conteneva il cadavere di Corbin Bellaman. Era stato strangolato e quindi brutalmente gettato tra i resti di Simeon Brown, il cui corpo, ormai in avanzato stato di decomposizione, già mostrava parzialmente il suo scheletro. Il cadavere era quello di un uomo magro e sottile e le sue dita, coperte da un paio di guanti neri, erano stranamente strette intorno al collo di Bellaman. Per Scotland Yard si trattò di un caso decisamente disgustoso. Vennero formulate le ipotesi più fantasiose, inerenti lo scioccante atto di vandalismo che aveva accompagnato l'assassinio di Corbin Bellaman, e si affermò che l'intera faccenda sarebbe stata presto chiarita dai massimi dirigenti di quell'ufficio anche aldilà delle mura dell'inviolabile rifugio del mistero. Ma, ovviamente, non sarebbe stato così. (A Thin Gentleman With Gloves) Edmond Hamilton I TRE CHE USCIRONO DALLA TOMBA 1 «Howard Clay è tomato? È impossibile... Howard Clay è morto sei mesi fa!» Peter Todd, Investigatore di Contea del Distretto di Castletown, quasi urlò queste parole al telefono. Jerry Farley, il giovane cronista che stava girovagando nell'ufficio di Todd, saltò a fianco dell'investigatore. Aveva sentito nel ricevitore una voce eccitata di donna. «Saremo lì in dieci minuti, Mrs. Clay!», rispose Todd. Mise giù con forza il ricevitore e si voltò verso il cronista. «C'è una notizia per te, Farley! Howard Clay è morto e sepolto da sei mesi, e sua moglie dice che cinque minuti fa passeggiava per casa con il Dottor Charles Curtlin... vivo!» «Non è una notizia... è solo un titolo!», urlò Farley, dirigendosi verso la porta. «Andiamo, Todd, cosa ti trattiene?» In poco meno di dieci minuti, la potente auto decappottabile di Todd, guidata dal suo dipendente, Jackson, sfrecciava per il quartiere commerciale di Castletown soffocato dal traffico ed attraverso i sobborghi ad ovest,
ombreggiati dagli alberi. L'auto si fermò di fronte ad una grande casa di mattoni mal costruita con un ampio parco. Un piccolo gruppo di uomini e donne eccitati si era raccolto sul marciapiedi, sbirciando nella casa e parlando concitatamente. Un poliziotto vestito di blu stava accorrendo per disperderli, e così Todd ordinò a Jackson di rimanere in strada per lo stesso motivo. Poi, insieme a Farley, si avvicinò alla pretenziosa entrata del palazzo di mattoni. Todd stava allungando la mano verso il campanello quando la porta fu spalancata. Una donna dai capelli scuri, di mezza età, il cui volto era mortalmente pallido, quasi li strattonò nell'ingresso. «Grazie a Dio è arrivato, Mr. Todd!», gridò. «I domestici sono andati tutti via. Sono fuggiti per lo spavento appena lo hanno visto.» «Quando hanno visto chi, Mrs. Clay?», chiese Todd con chiarezza. «Mio marito... Howard Clay! Passeggiava per casa con il Dottor Curtlin non più di venti minuti fa! Sono svenuta quando l'ho visto e, quando sono rinvenuta, ho trovato che mi avevano distesa su un divano ed erano andati in biblioteca... Da allora, il mio primo pensiero è stato di chiamare aiuto, ed ho chiamato lei!» «Howard Clay vivo?», disse Todd incredulo. «Sicuramente sarà stata un'allucinazione: è passato mezzo anno da quando Clay morì e fu sepolto, con mezza città al suo funerale.» «Lo so!», si alzò la sua voce. «Ero con lui quando è morto... ma ora è vivo.» «È proprio così Mrs. Todd.» Tutti si voltarono. Due uomini erano arrivati nell'ingresso dietro di loro da una stanza attigua. Uno di loro era alto e dai capelli scuri, con vivi occhi neri ed un volto forte. Ma era l'altro, l'uomo che aveva parlato, che aveva folgorato Todd e Farley. Era basso e tarchiato, con capelli grigi. Il suo volto plumbeo era mortalmente bianco come se il sangue fosse stato tirato via. Restituiva i loro sguardi quietamente e, sia l'investigatore che il cronista, lo riconobbero nel primo momento di sbalordimento. «Santo Cielo... Howard Clay!», esclamò Todd. «Howard Clay... vivo... vivo!», si sentì soffocare Farley. «Proprio così.» Ripeté Clay. «Posso chiedere perché siete venuti, gentili signori?» Todd ne fu impressionato. «Perché siamo venuti? Siamo venuti a vedere cosa sta succedendo, Clay! Si supponeva che lei fosse morto sei mesi fa!»
«Io sono morto sei mesi fa,» disse Clay con calma. «Che cosa?», gridò Todd. «Intende dire...» «Intendo dire che sei mesi fa morii e fui sepolto, e rimasi morto nella mia tomba fin quando, ieri, sono stato riportato in vita!» «Riportato in vita? Da chi?» «Dal qui presente Dottor Curtlin. Ricordo di esser morto e, tra questo ed il momento in cui mi sono svegliato ieri sera nel laboratorio di Curtlin, nella mia mente non c'è nulla, solo tenebra.» Todd fissava, sbalordito, l'uno e l'altro. Curtlin sorrise. «Non guardi con tanto stupore, Todd,» disse. «Ogni grande scoperta del passato è sembrata tanto incredibile a quelli che ne hanno sentito parlare per primi, quanto questa sembra a lei.» La mente di Farley era di nuovo al lavoro. «Dottor Curtlin, ora ricordo,» esclamò. «Lei è il medico che ha sollevato scalpore tra i medici due anni fa con l'affermazione di poter ricostruire e riattivare le cellule della vita disgregate, con una nuova combinazione di raggi.» Lo interruppe la voce della donna che era dietro di lui. «Allora tu eri morto, Howard!», gridò. «Sapevo che tu lo eri... lo sapevo...» Il viso di Clay si addolcì. «Io ero morto, ma ora sono vivo, Helen,» disse. «Avrei voluto risparmiarti questo shock, se avessi potuto.» Fece un passo verso di lei. «Non ti avvicinare!», urlò. «Non puoi essere vivo se tu stesso dici di essere stato morto! Ti ho seguito fino alla tomba ed ora... oh Dio, ora sei tornato!» «Helen, sono vivo!» Insisteva Clay disperatamente. «Morii, ma sono stato portato indietro alla vita proprio come un uomo privo di sensi può essere riportato alla coscienza!» «Io so solo che moristi e fosti sepolto!», gridò. «Non voglio stare qui con te. Ora lascerò questa casa!» «Helen, non significo per te nulla più di questo?» si difese Clay. «I venti anni che abbiamo vissuto insieme non hanno più alcun significato?» «Ho vissuto quegli anni con un uomo vivo,» disse incerta. «Non posso... non posso vivere con un morto.» Si voltò e a passo malfermo uscì dall'ingresso. Il viso di Clay era pieno d'angoscia quando si voltò verso gli altri. «Clay, fuori la verità,» esortò Todd. «Lei si è finto morto ed è scomparso per qualche motivo, ed ora sta tentando di spiegarlo con questa folle storia di Curtlin.»
«È così folle, Todd?», domandò Curtlin. «La vita è una pura e semplice attività chimica in certe sostanze organiche... è folle pensare che, quando quell'attività si ferma, può essere riattivata?» Todd lo ignorò. «Lei aveva alcune ragioni per sparire, Clay», insisté. «Non mi disse qualche tempo prima della sua supposta morte che era infelice per alcune minacce che aveva ricevuto?» «Le parlai di questo, ma mi sbagliavo,» Clay disse cupamente. «È tutto come le ho detto: sono morto in questa casa, e non ho saputo nulla fin quando mi sono svegliato nel laboratorio di Curtlin.» Todd si voltò verso l'altro. «Curtlin, pensa a che cosa porterà questa sua storia quando trapelerà? Milioni di persone ci crederanno... crederanno che lei realmente può portare un uomo indietro dalla morte! Persone intelligenti sapranno che è un falso, ma masse di ignoranti vi riporranno la loro piena fiducia e si scatenerà tra di loro un'ondata terrificante di superstizioni fanatismo e follia.» «Non mi interessa affatto l'opinione degli intelligenti o degli ignoranti,» rispose con calma Curtlin. «Sto dando a questo mio esperimento una verifica completa e, quando lo avrò fatto, è mia intenzione smettere... ma non prima di allora.» «Così entrambi ribadite questa storia?», disse Todd. «Non accadrà, Clay... prima o poi la verità verrà a galla!» «Non c'è più nulla da portare a galla,» disse Clay con stanchezza. «Le ho detto la verità... ora per favore andate via, tutti e due.» Todd si voltò disorientato, e Farley lo seguì fuori nella luce del sole di un tardo autunno. La folla per strada era aumentata nonostante gli sforzi di Jackson e del poliziotto che guardavano sgomenti verso la casa. Pochi sembravano volersi avvicinare alla casa dell'uomo che era tornato dalla morte, ma un'ondata di voci eccitate si sentì quando Todd e Farley apparvero. Todd non vi prestò attenzione se non per ordinare al poliziotto di mantenere la sua posizione davanti alla casa. A bassa voce ordinò a Jackson di rimanere e di tener d'occhio discretamente Clay, poi lui e Farley salirono in auto. Ma Todd si fermò mentre stava per avviare l'auto. La porta dell'abitazione di Clay era aperta, ed Helen Clay stava scendendo per il sentiero, con una piccola valigia in mano. Si muoveva come in un sogno, il viso privo di colore: gli spettatori sussurranti le fecero rapidamente strada quando si avviò verso il taxi che era appena sopraggiunto.
Todd e Farley intravidero il viso mortalmente bianco di Clay che scrutava dalla finestra il taxi che andava via. Svanì in un momento, e Todd si allontanò. Quando, poco dopo, raggiunsero l'ufficio in pietra grigia, nell'edificio della Contea, Todd e Farley corsero insieme ai telefoni. Durante i minuti che seguirono, Farley versò un torrente di notizie nell'orecchio di un impaziente capocronista. Venne a sapere che già le voci più disparate riguardanti il ritorno dalla morte di Clay e la parte che aveva in questo Curtlin percorrevano la città. Quando terminò la comunicazione, trovò che anche Todd aveva finito e stava fissando il muro con sopracciglia aggrottate. «Questo affare è incredibile, Farley,» disse Todd. «Ho parlato con Helm, il medico che curò Clay e firmò il suo certificato di morte, e con Morton, l'impresario di pompe funebri che pensò alla sua sepoltura.» «Che cosa hanno detto?», chiese il cronista rapidamente. «Helm ha detto che Clay morì quasi subito per un colpo al cuore e che non c'era il minimo dubbio sulla sua morte: il suo cuore si fermò, i polmoni si sgonfiarono e sopravvenne il rigor mortis. Ha detto che poteva giurare che Clay non fosse in condizioni catalettiche o di trance, ma che fosse morto stecchito. Morton ha detto le stesse cose: preparò personalmente Clay per la sepoltura, ed ha giurato che era morto.» «Buon Dio!», esclamò Farley. «Allora Curtlin lo ha riportato in vita... un uomo morto da mesi!». «No!», disse Todd con violenza. «Clay è vivo e questo significa che non è mai morto!». «Ma Helm e Morton sono uomini dal carattere irreprensibile: tutti e due conoscevano Clay, e tu dici che hanno giurato che era morto. Sua moglie dice che era morto, e ora non può credere che sia vivo, e Clay stesso lo afferma.» «Non crederò mai che Curtlin o altri possano portare un morto in vita!», asserì Todd. «C'è qualcosa dietro... Questa storia fantastica di Curtlin che resuscita i morti, è solo un pretesto per nascondere i veri fatti a proposito della sparizione e del ritorno di Clay.» «Ma perché Clay avrebbe voluto sparire? Non aveva preoccupazioni finanziarie, essendo milionario per ben due o tre volte. Non si era impegolato con nessuna donna, perché hai visto come era devoto alla moglie.» «Gli hai sentito affermare di avermi parlato prima della sua supposta morte di minacce che gli erano state fatte!», rammentò Todd. «Ha qualcosa a che fare con questo... vorrei proprio sapere che cosa.»
«Vuoi dire che Clay finse di morire per sfuggire a qualche pericolo? Non lo credo! Non importa quali ragioni potesse avere avuto: sua moglie, Helm e Morton, tutti giurano che era veramente morto, ed è impossibile che sia tutto un complotto. Per non parlare di Curtlin! Curtlin è uno dei migliori medici di questa parte del paese! Ha un record in una mezza dozzina di occupazioni: è un brillante biologo, un brillante batteriologo, un brillante chirurgo plastico e non so che altro. Difficilmente Curtlin si presterebbe ad un complotto come quello al quale tu sembri credere.» «Allora tu pensi che Curtlin abbia preso dalla tomba il corpo morto da sei mesi di Clay e lo abbia riportato alla vita?», chiese Todd incredulo. «Penso proprio questo, ed è quello che penserà la città, la nazione ed il mondo, quando questa notizia si diffonderà,» affermò Farley. «Todd, la tua esperienza criminale ti ha guastato: non stai lottando contro un intrigo insignificante, ma contro una scoperta scientifica che fa epoca. Riportare un morto in vita... per questo il nome di Curtlin risuonerà per tutto il mondo in pochi giorni!» Todd si alzò. «Puoi aver ragione ma, mentre il suo nome risuona, io vado a seguire questo caso nel mio modo distorto ed insignificante. E vado per prima cosa a scoprire se c'era realmente un corpo sepolto nella bara di Howard Clay e se Curtlin ha preso quel corpo.» L'investigatore accennò di sì. «La cripta dei Clay è a Greenview, proprio al confine della città.» Il crepuscolo autunnale stava offuscandosi quando" Todd e Farley raggiunsero il cimitero. Si trovava su un lungo pendio proprio oltre la periferia, una foresta di bianche pietre e steli che si mostravano pallidamente al crepuscolo. Nella luce estiva del sole il luogo sarebbe sembrato tranquillo, ma col freddo e l'oscurità della notte che cresceva, era opprimente. I due guidavano per le bianche strade piene di curve, verso il villino attiguo del custode del cimitero. Quando raggiunsero la piccola casa di pietra, bussarono a lungo prima che la porta si aprisse. Un magro uomo anziano con un'espressione preoccupata, stava di fronte a loro, e Farley pensò che fosse impallidito nel riconoscerli. «Sei tu Binns, il guardiano, vero?», chiese Todd quando entrarono. «Sì sono io, Mr. Todd.» L'uomo sembrava fare uno sforzo per restare calmo. «Quando ho sentito le novità dalla città, ho pensato che vi sareste presentati presto.» «Hai sentito del ritorno di Howard Clay?», chiese Todd aspramente.
«Allora sai perché sono qui?» «Lo so, e posso anche dirvi subito la verità. Non c'è nessun corpo nella bara di Howard Clay e non c'era stato per gli ultimi quattro mesi!» «Continua,» disse truce Todd. «Sì, signore. Quattro mesi fa mi sono svegliato quasi a mezzanotte per un suono che proveniva dal cimitero. Mi sono vestito rapidamente e sono uscito con la mia torcia elettrica, appena in tempo per vedere un camion che correva senza luci buttarsi fuori dal cimitero e scappar via. Ero allarmato, ed iniziai immediatamente un'ispezione per vedere che cosa fosse accaduto. «Trovai che la cripta dei Clay era stata scassinata e che la bara di Howard Clay era vuota. Ma trovai anche altro! Altre due cripte private erano state scassinate: quelle dei Barton e dei Kingley! E anche queste bare di Willis Barton e di Stephen Kingley erano vuote! «I tre corpi che erano stati presi erano quelli dei più ricchi ed importanti uomini morti nell'ultimo anno! A causa di questo sapevo che, se avessi riferito l'accaduto, avrei perso il lavoro subito, così non parlai nella speranza che il furto non sarebbe stato scoperto. Ora, il ritorno di Howard Clay ha portato tutto alla luce, ma io sto dicendo tutta la verità. Chiunque prese il corpo di Clay prese anche quello di Barton e di Kingley.» 2 «Anche i corpi di Barton e di Kingley sono spariti!» Farley rimase a bocca aperta. «Todd, questo vuol dire...» «Vuol dire complicazioni,» disse Todd con viso truce. «Binns, non hai nessun indizio su chi possa aver commesso questo furto?» «Per nulla, signore... ho appena lanciato uno sguardo al camion, e questo è tutto,» rispose il guardiano. «Ma in città si dice che il Dottor Curtlin ha ammesso di aver preso il corpo di Clay e di averlo riportato in vita. Questo significa che deve esser stato lui a prendere anche i corpi di Burton e Kingley.» «Che sia lui o no,» disse Todd, «dovrà essere provato. Binns: tra non molto ci sarà una folla di cronisti e di curiosi qui che ti chiederà della bara di Howard Clay. Dì loro tutto quello che hai detto a noi, tranne quel che riguarda Burton e Kingley. Non lasciar sapere ad alcuno che sono stati portati via altri corpi oltre quello nella bara di Clay.» «Non lo farò,» promise l'altro. «Direte per me una buona parola con il
direttore del cimitero?» «Se farai come ti abbiamo chiesto,» acconsentì Todd. «Voglio usare il telefono per un momento, e poi io e Farley andremo via.» Quando Todd terminò la sua breve telefonata e raggiunse Farley in auto, era caduta la notte. Accese le luci e rimase in silenzio mentre si avviava fuori guidando per i tortuosi viali del cimitero. «Bene,» disse infine Farley, «questo deve averti convinto che avevi torto su Curtlin e Clay, Todd.» «Perché?», si oppose l'investigatore. «Mi aspettavo che la bara di Howard Clay fosse stata derubata.» «Ma non ti aspettavi che anche i corpi di Barton e di Kingley fossero scomparsi! Quel fatto da solo mostra che questo non era un puro e semplice complotto per nascondere la sparizione di Clay, poiché in quel caso, perché questi altri due corpi sarebbero stati presi?» «Perché pensi siano stati presi?», chiese Todd. «Penso che li abbia presi Curtlin per sottoporli al suo processo,» affermò Farley di colpo, «e che con questo processo abbia già riportato il primo dei tre, Howard Clay, in vita! Curtlin stesso disse che intendeva fare un completo esame del suo processo e poi abbandonarlo, ed io penso che voleva dire che avrebbe riportato in vita anche Barton e Kingley.» «Howard Clay, Willis Barton e Stephen Kingley,» rimuginò l'investigatore. «Perché Curtlin ha scelto questi tre per i suoi esperimenti, se tu hai ragione? Erano tutti morti nell'ultimo anno, o si suppone fossero morti, erano tutti ricchi, milionari e più, ed erano tutti di mezza età. C'è qualcosa dietro questi fatti... qualcosa che mi sfugge.» «Todd, ti stai inseguendo la coda!», dichiarò Farley. «Guarda i fatti. Curtlin annunciò due anni fa che stava lavorando ad un processo per ristabilire nelle cellule morte e deteriorate l'attività chimica della vita. Biologi e medici che sentirono il suo discorso sull'argomento dissero che l'idea era ardita ma non impossibile. Deve aver lavorato sul processo fin da allora, ed infine lo ha perfezionato. «Per provarlo, prese qui tre corpi dal cimitero. Scelse i corpi di cittadini facoltosi ed importanti perché, essendo noti, non c'erano dubbi sulla loro morte e, se li avesse riportati in vita, non ci sarebbe stato nessuno a piangere il fatto che non erano mai morti. Curtlin riportò in vita il primo di loro, Howard Clay, ed abbastanza naturalmente parlò subito del suo esperimento e del suo successo. Questi sono semplici fatti, Todd, ma poiché sono troppo allarmanti perché tu li accetti, ci costruisci su intrighi e complotti
strampalati dei quali non hai neanche una briciola di prova reale!» Todd sorrise. «Non dico che sbagli, Farley, ma smentisco che Curtlin o altri medici possano fare miracoli.» «Che farai, allora... dirai a Clay che lui è realmente morto e bisogna che torni al cimitero?» «No, sarebbe difficile,» rispose l'investigatore. «Farley, mi hai seguito in molti casi ed hai nascosto al tuo giornale parte di ciò che avevi appreso, quando te l'ho chiesto, non è vero?» «Sì e so la tua intenzione,» disse Farley. «Vuoi che taccia di Barton e Kingley.» «Di questo e di quel che faremo.» «Che cosa faremo?» «Andremo a guardare in casa e nei laboratori del Dottor Charles Curtlin,» gli disse Todd. «Todd, è un affare rischioso, senza un mandato di perquisizione!» «Non troppo rischioso: la telefonata che ho fatto prima era a Jackson. Sta ancora sorvegliando la casa dei Clay e dice che Curtlin è ancora lì. Questo ci lascia liberi, poiché non credo che Curtlin abbia dei domestici in giro di notte.» «Sarà fatica sprecata,» predisse Farley, «aggirarci intorno alla casa di Curtlin mentre altri cronisti stanno procurandosi interviste con lui. Ma sono con te, e darò a quel lupo del caporedattore non più di quanto tu mi dici.» «Bene, allora... la casa di Curtlin è nel Distretto Nord,» gli disse Todd. «Casa, ufficio e laboratori insieme. Saremo lì in dieci minuti.» Da allora in poi rimasero in silenzio, mentre Todd guidava attraverso i quartieri esterni della città. Seguì la maggiore oscurità delle arterie di traffico minori, evitando i viali cerchiati di luce nei quali i fari dorati di molte auto avanzavano verso il centro della città in un torrente splendente. Potevano sentire gli strilloni urlare le ultimissime mentre attraversavano queste vie più affollate, e le voci eccitate di uomini che quella notte avevano un solo argomento di conversazione. Presto entrarono in quel quartiere di case vecchio stile, per la maggior parte circondate da ampi giardini. Todd si fermò accanto ad un marciapiede nell'oscurità tra due lampioni, e lui e Farley uscirono dall'auto senza una parola. L'investigatore fece subito strada dalla via ampia ad un vicolo oscuro che correva parallelo a questa, un po' più in là.
L'oscurità era imperscrutabile per il cronista, ma Todd sembrava conoscere la via. Seguirono per alcuni minuti il vicolo non lastricato, passando tra due file di case situate tutte ad una distanza di una trentina di metri, visibili solo per le finestre illuminate. Allora Todd fece un gesto di avvertimento, dirigendosi oltre la bassa costruzione di un garage e verso una grande casa di pietra completamente buia. Anche questa era circondata da un ampio appezzamento di terreno, ed i due attraversarono un sorbo ed un piccolo giardino, e rimasero accanto al muro senza muoversi, in ascolto. Non c'era nessun suono che arrivasse da dentro e fuori la casa, e lo spirito di Farley si sollevò. Aveva temuto che la notizia straordinaria della quale Curtlin era il centro, avrebbe portato orde di curiosi alla casa, ma era evidente che le notizie del lavoro che Curtlin aveva portato avanti erano state sufficienti a far sì che il luogo fosse evitato di notte. Todd sembrava soddisfatto che la via fosse libera, perciò proseguì nuovamente. Si fermò ad una finestra del seminterrato e si acquattò. Era bloccata, ma Todd lavorò su di essa con un piccolo strumento scintillante. Ci fu un rumore di acciaio reciso, poi spalancò delicatamente la finestra e saltò silenziosamente nel buio interno. Il suo viso apparve come una macchia bianca nella buia finestra: la sua mano chiamava senza parole. Farley saltò giù dietro di lui, ma Todd trattenne e fermò il cronista. Rimasero lì in ascolto. Non arrivava nessun suono dalla casa sopra di loro. Todd si mosse e poi dalla sua torcia tascabile brillò un piccolo raggio di luce attraverso l'oscurità. Questo svelò il fatto che stavano nei locali della caldaia. Todd localizzò la porta e, attraverso questa, passarono in un piccolo ingresso. Dall'altra parte di questo ingresso, li fronteggiava una porta di acciaio, ed accanto a loro una rampa di scale portava al piano superiore. Todd indicò la porta. «Deve essere il laboratorio,» sussurrò. «È tutto quello che voglio vedere stanotte. Non abbiamo tempo per visitare tutta la casa.» «Questa porta è chiusa,» comunicò Farley tentando di aprirla. «Fatti da parte,» disse l'investigatore, «e vedremo quanto è chiusa bene.» Aveva preso dalla sua tasca un mazzo di chiavi universali, ed in silenzio e con rapidità le provava nella serratura della porta d'acciaio. In ultimo ci fu uno scatto di benvenuto e la porta si spalancò. Fecero alcuni passi dentro, poi il raggio di Todd lampeggiò. Non c'erano finestre; così si girò e trovò l'interruttore accanto alla porta, ed accese la
luce. Inondata di luce, la stanza si rivelò loro un largo e lungo laboratorio. Le mura ed i pavimenti erano di calcestruzzo, mancavano le finestre, ma c'erano tubi di areazione. Conteneva un sorprendente schieramento di macchinari e strumenti. Todd e Farley videro un grande generatore ed una serie di trasformatori lungo ogni Iato della stanza. Un cumulo di lampadine, resistenze e misuratori, erano collegati a quelli ed ad una serie di strumenti rivestiti di nero dall'apparenza sconosciuta. Cavi accuratamente isolati in reticelle sospese portavano la maggior parte dei fili elettrici. Questi cavi sembravano condurre ad un altro strumento sconosciuto sospeso al soffitto, una cosa oblunga simile ad un grosso proiettile rettangolare con una spessa lente di quarzo o di vetro opaco puntata verso il basso. Proprio al di sotto, stava un tavolo di metallo lungo due metri, alzato su supporti isolati. Accanto a questo c'era un tavolo più largo e, su di esso, due lunghi oggetti avvolti in bianche lenzuola. Todd e Farley li raggiunsero insieme, e piegarono indietro le coperte. Il cronista balzò indietro per quel che videro i suoi occhi. C'erano due corpi, i corpi di due uomini di mezza età. Erano morti da qualche tempo: il tempo aveva già fatto i suoi danni sui corpi, ma i loro visi erano chiari ed inconfondibili. «William Barton e Stephen Kingley!», esclamò Farley. «È stato Curtlin a prendere tutti e tre i corpi, allora, di sicuro!» «Prevedevo di trovarli qui,» disse Todd, impassibile. «Ma questo prova per certo che avevo ragione!», disse il cronista. «Curtlin prese i corpi dei tre: ha già riportato in vita quello di Clay e non c'è dubbio che farà la stessa cosa con quelli di Barton e Kingley.» «Questo almeno prova che Curtlin ha rubato quelle tre bare,» disse Todd, con voce aspra. «Con Clay vivo non potevo accusarlo di aver preso il corpo di Clay, ma così è diverso... questo mi da il capo d'accusa per il quale trattenere Curtlin.» «Sicuramente non arresterai Curtlin con l'accusa si furto di tombe!», esclamò Farley. «Perché, Todd, saresti sopraffatto dal ridicolo e dall'indignazione! Non c'è dubbio che Curtlin ha violato la legge prendendo i tre corpi, ma il riportarne uno in vita è una cosa così stupenda che non può essere accusato.» «Sarà trattenuto fin quando non si farà luce su questo affare,» rispose Todd. «Otterrò un mandato di cattura per domani mattina.»
«Fai a modo tuo, allora,» disse Farley. «Vedrai che stai facendo un terribile errore.» Todd non diede altra risposta che lo scatto della luce che si spegneva, e fece di nuovo strada nell'ingresso, richiudendo la porta. Si arrampicarono fuori dalla finestra per la quale erano entrati, ed in pochi minuti raggiunsero inosservati l'auto e si diressero in città. Trovarono che la notizia sensazionale del pomeriggio aveva prodotto un'eccitazione senza precedenti. I nomi di Curtlin e Clay erano sulle labbra di tutti, e l'affermazione di Curtlin era dibattuta da gruppi di persone ad ogni angolo. Perché i cittadini di Castletown erano di diversa opinione al riguardo. La metà di loro, inclusi quelli che avevano avuto la possibilità di vedere Clay, asserivano che Curtlin aveva compiuto la più grande scoperta nella storia. Clay era vivo: dibattevano sul fatto che non c'era possibilità di dubbio su questo, e neanche sul fatto che Clay era stato morto. Facevano notare che l'idea di Curtlin era stata ritenuta possibile dai medici quando l'aveva proposta due anni prima. Ogni minimo indizio appoggiava il fatto che aveva realizzato l'incredibile e che aveva riportato in vita un uomo che era rimasto morto nella sua tomba per mesi. Altri irridevano alla possibilità di una tale cosa. Non potevano negare che Clay fosse vivo, ma negavano che fosse stato mai morto. Asserivano che qualcun altro fosse morto e sepolto al suo posto. Si era venuto a sapere che poco dopo il tramonto era stato fatto un esame alla cripta dei Clay al cimitero e che, come era previsto, la bara di Clay era vuota. Ma questo non provava, come asserivano i dubbiosi, che prima ci fosse stato il corpo di Clay ad occupare la bara. La città indugiava con ansioso interesse sulla questione se Clay fosse stato o no morto. Helm, il medico, e Morton, l'impresario di pompe funebri, ai quali Todd aveva parlato precedentemente, sentirono la necessità di fare una deposizione giurata in conseguenza del fatto che si erano occupati del corpo di Howard Clay dopo la morte e che era indiscutibilmente morto. Poiché sia Helm che Morton erano uomini dall'indubbia integrità, le loro dichiarazioni aggiungevano combustibile alla fiamma. Inoltre Curtlin, più che Clay, era il centro dell'attenzione. Clay stesso aveva ricevuto solo un gruppo di vecchi amici e di cronisti. Poiché evitava, per paura, lo scoppio della pubblicità nella quale si era trovato, e aveva ripetuto la sua dichiarazione per la quale non aveva saputo nulla dal momen-
to della morte fin quando non si era svegliato nel laboratorio di Curtlin. Oltre a questo, non voleva dire altro della sua esperienza, ma Curtlin era più comunicativo. Curtlin asserì con calma che aveva realmente riportato in vita il cadavere di Clay attraverso un processo di raggi che aveva annunciato due anni prima, ma che non intendeva divulgare i particolari di quel processo. Aggiunse che non era nel suo progetto provare una resurrezione generale dalla morte, poiché riteneva che il processo fosse inutile su persone morte da più di otto o nove mesi. In ogni caso, ripeté, la sua intenzione era di fare una completa verifica del processo e poi di abbandonarlo per sempre. In quella dichiarazione di Curtlin, Farley leggeva la conferma ai suoi pensieri. «È proprio come ti ho detto,» disse a Todd quando lo sentirono. «Curtlin sta continuando, e proverà la cosa sugli altri due corpi e poi lascerà perdere.» «Perché dovrebbe lasciar perdere se è un vero successo?», chiese Todd scettico. «Perché sa cosa farebbe il mondo se continuasse, o se lasciasse pubblicare il processo. Pensa ad un mondo in cui i morti potessero essere riportati in vita a piacimento! Un mondo in cui i cadaveri potessero rivivere, probabilmente volta dopo volta! La paura... la paura della morte... è la molla principale della civilizzazione, e Curtlin sa che, se pubblica il suo processo, la molla si rompe!» Todd scosse la testa. «Farley, ho visto un mucchio di cose assurde accadere o sembrare accadere nella mia vita, ma sotto ognuna di loro ho trovato un gioco disonesto. Curtlin ne ha uno, anche se non so cosa sia. Ma quando domani mattina avrò il mandato di cattura e lo porterò dentro, vedrai che prima o poi se lo farà uscire.» «Hai torto, Todd... non sai quanto hai torto,» disse Farley. «Sarò qui domani mattina perché, quando arresterai Curtlin, la storia dei corpi di Barton e Kingley verrà fuori.» Con questo Farley lo lasciò e raggiunse le sue stanze, stanco per la giornata eccitante. Sistemò la sveglia di buon'ora e si coricò cadendo immediatamente in un sonno profondo. Si svegliò la mattina dopo e si sbrigò a vestirsi e a fare colazione onde poter partire subito per l'edificio grigio della Contea. Quando si avvicinò, notò che, intorno ad esso, si erano formati gruppi nella folla mattutina che parlavano con eccitazione. Nel chiedersi se Todd avesse arrestato già Curtlin, Farley cominciò a correre. Ebbe un sospiro di sollievo quando vide
Todd e Jackson uscire rapidamente dall'edificio. «Todd!», esclamò quando li raggiunse. «State andando a prendere Curtlin?» «È tutto sospeso, Farley,» rispose Todd. «È successo qualcosa!» «Che cosa?» «Ricordi di aver visto la scorsa notte il corpo di Willis Barton lì nel laboratorio di Curtlin?» «Sì ma che cosa è successo? Si sono accorti della mancanza del corpo di Barton al cimitero?» «Molto di più,» disse Todd con voce sinistra. «Quindici minuti fa Willis Barton passeggiava per casa... vivo!» 3 «Barton vivo!», urlò Farley. «Buon Dio, Todd, questa è la prova assoluta della dichiarazione di Curtlin! Abbiamo visto il corpo di Barton lì con i nostri occhi... un corpo che era morto da mesi!» «È la prova che c'è molto più da scoprire di quanto pensassi,» disse Todd. «Sali in auto, Farley. Ora andremo a vedere Barton. Qualunque tipo di opera del diavolo sia, andrò fino in fondo.» «Sei pazzo!», esclamò Farley quando l'auto balzò in avanti. «Se non credi ancora a questo, stai combattendo ciò che tu stesso sai essere la verità!» «Vedremo,» disse Todd brevemente. «C'è ancora qualcosa che devo veder chiarita... ancora qualcosa.» L'auto stava correndo verso ovest attraverso la città nel sole del mattino, evitando completamente le file dei pendolari diretti in città, mentre Jackson guidava a velocità sostenuta attraverso la periferia. «Come hai avuto la notizia del ritorno di Willis Barton?», chiese Farley tenendo il cappello contro l'impeto del vento. «Il custode di casa Barton ha chiamato,» disse Todd. «Ha detto che è arrivata un'auto con Barton ed il Dottor Curtlin. Sono entrati in casa e poi Curtlin ne è uscito ed è andato via. Il custode aveva sentito del ritorno di Clay dalla morte e, quando ha visto Willis Barton fare la stessa cosa, si è spaventato e mi ha chiamato immediatamente.» «Grazie a Dio, la famiglia di Barton è in Europa!», disse Farley. «Lo shock del ritorno avrebbe potuto uccidere la moglie e le fighe quasi come Mrs. Clay.»
«Per che cosa si crederebbe sia morto Barton?», chiese Todd mentre facevano una curva su due ruote. «Apoplessia, circa sei mesi fa,» rispose il cronista. «Ma non lo si crederebbe, Todd... era davvero morto! Dannazione, uomo, la scorsa notte abbiamo visto con i nostri occhi il suo corpo! Curtlin la scorsa notte deve essere tornato a casa e ha messo in atto il suo processo, riportando in vita Barton proprio come aveva fatto con Clay! Questo ribadisce che la dichiarazione di Curtlin è esatta!» Todd non rispose, poiché Jackson stava fermando l'auto ad un cancello di ferro fiancheggiato da grandi colonne di pietra, dalle quali su ogni lato si stendeva un lungo muro di pietra. All'interno del cancello ed accanto alla casa del custode, c'era di guardia un uomo anziano segnato dalle intemperie. Li fissò, poi spalancò il cancello. «È lei, Mr. Todd. Non dovrei aprire ad alcuno senza il permesso della casa, ma lei può andare.» «Giusto,» disse Todd. «Ce ne prenderemo noi la responsabilità.» «Non ce n'è bisogno per quanto mi riguarda,» disse l'altro. «Partirò da qui oggi stesso: un posto dove i morti ritornano vivi, non è un posto per me.» L'auto balzò attraverso il cancello e giù per il lungo viale bordato di alberi verso l'enorme villa bianca visibile più avanti. Si fermarono davanti all'ingresso principale del grande edificio, e Todd e Farley salirono velocemente alla porta. Avevano suonato per un minuto prima che la porta si aprisse ed un alto uomo dall'aspetto aggressivo li affrontasse. Todd e Farley rimasero senza parole dallo spavento. Pensavano che un domestico avrebbe risposto alla porta, ma questo era l'uomo che erano venuti a vedere. Lo fissavano incapaci di credere ai loro occhi. L'alta figura dalle ossa grosse, dai capelli grigio ferro, dal viso con la mascella forte... era l'uomo che avevano visto morto e in decomposizione nel laboratorio di Curtlin! Ma ora era vivo davanti a loro! Solo il suo viso era ancora mortalmente bianco, come quello di Clay. «Willis Barton!», esclamò Todd quasi a se stesso. «Willis Barton, vivo, adesso!» «Mr. Todd, questa è un'intrusione!» Barton sbraitò con rabbia. «Non avevo dato nessun ordine di lasciarla passare.» «Mio Dio, Barton!» sbottò Farley. «Ci pensa che lei era morto, ed è stato riportato in vita... il secondo uomo in due giorni?»
Le parole del cronista sembrarono scatenare la furia di Barton. «Che importa se ero morto? Ora sono vivo e dovrò essere trattato come un uomo vivo e non come una curiosità da museo!» «Calma, Barton,» disse Todd bruscamente. «Ho alcune domande da farle e, vivo o morto, è soggetto alla legge.» «Allora, chiedete e sbrigatevi,» tagliò corto Barton. «Non sono nello stato d'animo di subire un interrogatorio.» «La sua morte in questa casa è stata comunicata sette mesi fa. Ci può dire dove è stato da allora?» «Naturalmente no! Non ricordo assolutamente nulla dal momento in cui sono morto fino a quando mi sono svegliato un'ora fa nel laboratorio di Curtlin.» «Le ha detto Curtlin che aveva riportato in vita anche Clay?» «Me lo ha detto... sì. Ancora adesso difficilmente riesco a credere a qualcosa del genere, la mia mente è così confusa.» «Conosceva bene Curtlin prima della sua... ehm... morte?», continuò Todd. «Non bene,» disse Barton aggrottando le sopracciglia. «Avevo sentito parlare di lui, e lo conoscevo di fama per alcuni suoi lavori.» «Ancora una domanda,» disse Todd. «Circa nove mesi fa una mezza dozzina di importanti uomini della città mi dissero di aver ricevuto misteriose e piuttosto allarmanti minacce. Clay era uno di questi, e lei Barton, un altro. Queste vaghe minacce di cui mi parlò allora non avevano nulla a che fare con la sua supposta morte e resurrezione?» «Assolutamente no!» Barton si infiammò. «Le minacce di cui le parlai erano semplicemente lettere bizzarre: non avevano nulla a che fare con questo, ed io non intendo più rispondere alle vostre domande. Non ho mai violato la legge e non voglio essere trattato come un sospetto criminale.» «Mr. Barton, ancora un minuto!», lo trattenne Farley. «Mi potrebbe fare una breve dichiarazione per pubblicare le sue sensazioni da morto e poi da vivo? Sarebbe di ampio interesse mondiale.» «Non posso,» rispose brevemente Barton. «Ho promesso al Dottor Curtlin di non dare alcuna informazione che possa in qualche modo rivelare i particolari del suo processo. Gentili signori, vi auguro buona giornata.» Fu sbattuta la porta, e Todd e Farley si guardarono l'un l'altro, poi si girarono verso l'auto. Da li Jackson era stato spettatore della loro intervista e, quando entrarono in auto, la sua voce era eccitata.
«Willis Barton, giusto? Era lui? Questo sicuramente sconvolgerà la città!» «Sconvolgerà il mondo, vorrai dire,» esclamò Farley, mentre la loro auto stava correndo giù per il viale. «Ora sto cominciando a vedere perché Curtlin è così contrario a lasciar conoscere a qualcuno il suo processo.» «Anche io penso di cominciare a capire il perché,» disse Todd. Farley si voltò verso di lui. «Todd, sei completamente pazzo se sei ancora scettico sulla dichiarazione di Curtlin! Abbiamo visto Willis Barton la scorsa notte morto lì nel laboratorio... morto da mesi. Abbiamo visto ora Willis Barton vivo davanti a noi! In nome del buon senso, cosa vuoi di più?» «Voglio che una cosa sia spiegata,» disse Todd. «Solo una cosa.» «Buon Dio, guardate qui davanti!», interruppe Jackson. «Sembra come se mezza città fosse già qui.» Si erano avvicinati ai cancelli e potevano vedere che una folla di centinaia di persone eccitate si era radunata fuori ed aumentava rapidamente. Il custode stava facendo del suo meglio per tenerli fuori ma, mentre lui guardava i cancelli, giornalisti e cameramen avevano saltato il muro da un'altra parte. Un drappello di poliziotti era appena sopraggiunto sbucando dalle auto, e tentava di disperdere la folla. Il cancello si aprì per lasciar uscire la loro auto e, quando passarono, altri nella folla riuscirono a scivolare dentro. Quando furono di nuovo sulla strada e mentre Jackson guidava verso la città, Farley guardò dietro. «Sicuramente Barton avrà da fare con i giornalisti per le prossime ore,» disse. «Si riverseranno in città da ogni punto cardinale.» «C'era da aspettarselo,» disse Todd. «E la faccenda ancora non si è propagata... Quando accadrà, qui ci sarà l'inferno.» «Questa città è stata messa sulla cartina con un'esplosione, d'accordo,» convenne Farley. «Todd, spero che ormai tu sia convinto che non si tratta di nessun intrigo criminale.» «Sono convinto che tu ne sei convinto,» rispose Todd secco. «Andrò a vedere Curtlin, ora. Vieni con me?» «Sempre con te... da ora in poi ogni parola di Curtlin è una notizia. Probabilmente ci saranno più cronisti lì che da Barton.» Farley trovò la conferma alle sue previsioni quando un po' più tardi raggiunsero l'abitazione di Curtlin. Quando arrivarono alla grande casa, videro che la folla stipava la strada, parecchie volte più numerosa di quella che
avevamo lasciato da Barton. La folla era evidentemente in uno stato di estrema eccitazione e poliziotti vestiti di blu tentavano invano di disperderla. Il distintivo di Todd fece passare lui ed il cronista attraverso i poliziotti, ed entrarono. Era il primo sguardo dell'interno vero e proprio della casa, poiché nella loro visita con scasso della notte precedente si erano limitati al laboratorio sottostante. Il piano terra accoglieva gli uffici ed una piccola clinica, e queste stanze erano piene di parecchie dozzine di giornalisti, cameramen e poliziotti eccitati. Tutti spingevano verso Curtlin, la cui alta figura sporgeva in un angolo, al centro dell'attenzione. Curtlin stava rispondendo, tranquillamente e con ponderazione, ad un fuoco di fila di domande di cronisti agitati. «No, mi rifiuto assolutamente di permettere un'ispezione del mio laboratorio,» diceva per chiudere l'argomento. «Avevo detto che il mio processo non sarebbe stato divulgato, ed intendo sia così.» «Ma, Dottor Curtlin!» si difese uno dei giornalisti. «Lei non può trattare così il pubblico dei lettori... abbiamo una fotografia di Clay e Barton, una sua, e una del cimitero... tutto quello che ci occorre è una del laboratorio nel quale li ha riportati in vita.» «Non ho il minimo interesse per il pubblico dei lettori,» rispose Curtlin. «Sto portando avanti un esperimento scientifico, e questo non ha nulla a che fare con il pubblico.» Todd era arrivato, spingendo attraverso la calca intorno a Curtlin. «Forse non le dispiacerebbe rispondere a due o tre mie domande?», chiese. Curtlin lo riconobbe. «Mr. Todd, lo scettico rappresentante della legge e dell'ordine!», disse sfidandolo con i suoi occhi neri. «Che cosa vorrebbe sapere?» «Vorrei sapere, se questo non pregiudica nulla, quanto tempo impiega il suo processo di rinascita.» «Non ho alcuna obiezione a parlarle di ciò. Dopo che le preparazioni preliminari sono fatte, il processo con i raggi in se stesso richiede solo una trentina di minuti.» «Ci può dire quando ha cominciato ad usare il processo sul corpo di Willis Barton?» «Più o meno alle quattro di questa mattina. Dopo averlo riportato in vita gli ci è voluto un po' per abituarsi a quel che era successo e poi l'ho portato a casa.» Se Todd era deluso il suo volto non lo dimostrava. Cambiò la sua linea
di condotta. «Curtlin, lei ammetterà, penso, di essere uno di quelli che quattro mesi fa presero dal cimitero i corpi di Howard Clay e di Willis Barton. Lei sa allora che fu preso anche il corpo di Stephen Kingley?» «Sì,» disse con calma Curtlin. «L'ho preso io stesso, ed ora il corpo di Kingley è giù nel mio laboratorio.» La sua risposta creò scalpore tra i giornalisti che si erano affollati più vicino per sentire. «Che cosa? Vuol dire che porterà in vita anche Kingley, Dottor Curtlin?», gridò uno di loro. «Voglio dire proprio questo», rispose Curtlin. «Non intendevo annunciarlo ancora, ma se la domanda di Todd lo ha rivelato, non ho obiezioni da fare. Quattro mesi fa ho deliberatamente infranto la legge portando via dal cimitero i tre corpi di Howard Clay, Willis Barton e Stephen Kingley. Sentivo di essere giustificato in questo dalla tremenda importanza del lavoro che intendevo portare avanti con loro.» «Un momento, Dottore,» interruppe un giornalista dal viso piuttosto marcato. «È noto che lei non è un uomo ricco... scelse i corpi di tre uomini facoltosi con l'idea di farsi pagare da ognuno un ampio compenso per averli riportati in vita?» «Assolutamente no!», tagliò corto Curtlin. «Scelsi Clay, Barton e Kingley perché era al di fuori di ogni dubbio che fossero morti e, se il mio esperimento avesse avuto successo, non si sarebbe potuto dire che i soggetti non erano mai morti. Portai i tre corpi qui, e per quattro mesi sono rimasti nel mio laboratorio, mentre io lavoravo per rendere possibile il processo di ricostruzione e riattivazione dei tessuti umani. «Infine ebbi successo, ma solo pochi giorni fa. Preparai il corpo di Clay e, usando il processo su di lui, ieri lo riportai in vita. Poiché sembravano esserci dubbi da parte di molti sulla realtà del mio risultato, stamattina presto ho usato il processo sul cadavere di Barton ed è stato possibile resuscitare anche lui. «Era ed è mia intenzione provare il processo, infine, sul terzo corpo, quello di Kingley, ed allora ritenere il mio esperimento concluso ed abbandonarlo per sempre, rompere le mie apparecchiature e bruciare i miei appunti. Poiché, come ho detto, e come fermamente credo, il riportare in vita è importante e di gran valore come risultato di laboratorio ma altererebbe la civiltà se cadesse nelle mani dell'umanità. Per questa ragione concluderò l'esperimento con Kingley e sono deciso a non lavorare in seguito
mai più ad esso.» «Ma allora, quando riporterà Kingley in vita?», chiese Farley. La folla attendeva con ansia la risposta. «Vedo che non sarò lasciato solo fino a che non ho finito,» disse Curtlin. «Bene, ho già fatto le preparazioni chimiche preliminari al corpo di Kingley... Inizierò il processo di raggi non dopo le undici, e lui sarà vivo per mezzogiorno.» Ci fu un eccitato brusio di voci. «Ma ci permetterà di esser lì?» supplicò qualcuno. «Ci permetterà di vedere prima il corpo di Kingley?» «Solo ad alcune condizioni,» rispose Curtlin bruscamente. «In primo luogo, nessuno deve entrare nel mio laboratorio durante il processo, o prima, o dopo. Voglio che la protezione della polizia sia raddoppiata per essere sicuro di ciò. Potete aspettare in queste stanze, comunque, mentre il processo ha luogo. «In secondo luogo, non ho alcuna obiezione nel farvi vedere ed esaminare il corpo morto di Kingley prima che io inizi il processo. Ma io lo porterò alle undici in queste stanze per voi, e voi l'osserverete qui prima che lo riporti in laboratorio. Non ho alcuna obiezione e rispondere ad ogni dubbio che possiate avere, ma ho deciso che per nessuna ragione qualcuno sarà testimone del mio processo o dei miei strumenti.» «Santo Cielo!», gridò qualcuno. «Che storia!» «Todd... hai sentito!», esclamò Farley. «Questa è la prova pubblica finale della cosa!» Il viso di Todd era saldo. «Per il momento,» Curtlin diceva, «devo chiedere a tutti voi di andar via, perché ho molto lavoro da fare. Potete tornare alle undici, ma fino ad allora sarà inutile tentare di superare la polizia alla quale ho chiesto di controllare il posto. Ora, per favore, andatevene, gentili signori.» «Una ultima domanda!», urlò un cronista. «Saranno qui Clay e Barton, gli uomini che ha già riportato in vita, quando resusciterete Kingley?» «Non ho alcun dubbio che ci saranno,» disse Curtlin, «entrambi hanno naturalmente un alto interesse per il mio lavoro. Basta con le domande, ora... per favore, andate.» Quando la calca eccitata si riversò nella strada ingorgata, Farley afferrò il braccio di Todd. «Todd, questa è la fine di ogni perplessità! Sarai qui alle undici quando lo farà?» «Sarò qui,» rispose Todd. «E vedremo quel che accadrà.»
Sia Farley che Todd avevano la prova che la nuova dichiarazione di Curtlin avrebbe lasciato libero sfogo nelle seguenti ore ad un'eccitazione selvaggia ed incontrollabile. La città di Castletown era in fermento, si accentrava intorno a quella grande casa vecchio stile, sorvegliata su ogni lato dai poliziotti vestiti di blu, che avevano appena lasciato. Farley si affrettò attraverso le strade rumorose nelle quali tutte le normali attività si erano interrotte, per trovare negli uffici del suo giornale una scena di grande eccitazione. Le ultime notizie gli erano state letteralmente strappate e mandate in macchina. I cavi della telescrivente, che era collegata ad un esteso sistema di attrezzature di informazioni del mondo, erano sotto tensione per le chiamate ad altri ed altri fatti ancora su questo evento sbalorditivo. I nomi di Curtlin, Clay, Barton e Kingley stavano girando il mondo attraverso il telegrafo, il telefono e le parole scritte. Ogni treno che entrava a Castletown scaricava nuovi gruppi di giornalisti, fotografi e scrittori particolari. Altri ne portavano aeroplani provenienti da città lontane. Quando Farley tornò alla casa di Curtlin un'ora prima dell'appuntamento delle undici, trovò una scena di caos. La strada, per interi isolati, era piena di gente dalla voce rauca, attraverso la quale poté farsi strada spingendo. Raggiunse la casa e trovò che la doppia fila di poliziotti teneva inesorabilmente fuori la folla tumultuante dei cronisti e dei cittadini. Farley, spingendosi in avanti, vide che la casa non presentava alcun segno di vita. Non c'era traccia di Curtlin, ma apprese da un giornalista che era apparso per un istante da una finestra in basso. Apprese anche che, tranne per i poliziotti che controllavano da tutti i lati, Curtlin lavorava apparentemente solo nella casa, senza rischiare la presenza di alcun aiuto o domestico. Quando le undici si avvicinarono, la folla divenne più densa e più grande, quasi ingovernabile. Farley, mentre lottava attraverso la calca, vide Todd con il viso ancora fisso e grave. L'investigatore lo vide e si fece strada verso di lui. Ci fu un improvviso boato di voci eccitate quando Clay e Barton arrivarono, quasi nello stesso momento. Ognuno era protetto da una scorta di una mezza dozzina di poliziotti che aprivano loro la strada attraverso la folla tumultuante. Sia Clay che Barton erano storditi dalla scena che si apriva intorno a loro, i volti mortalmente bianchi si guardavano in giro con disperazione. Il passaggio attraverso la folla di questi due uomini, che tutti sapevano essere stati morti, creava una sensazione tremenda, e a questo punto Todd raggiunse Farley.
«È quasi l'ora!», disse Farley all'investigatore superando il boato delle voci. «Helm ed una mezza dozzina di medici sono tra questa gente per assicurarsi che Kingley è morto: bene!» «Ed i parenti di Kingley?», chiese Todd. «Non c'è nessuno. Era scapolo, con alcuni cugini, ma vivono troppo lontani per essere qui. Ma guarda... ora c'è Curtlin!» La porta della casa si aprì ed emerse sulla veranda Curtlin in camice bianco da laboratorio. Un altro boato di eccitazione si diffuse nell'aria, ma Curtlin non vi prestò attenzione: parlava concitatamente con il capitano di polizia davanti alla casa. Clay e Barton passarono e raggiunsero Curtlin sulla veranda, apparendo mezzo storditi. I tre entrarono in casa e la folla tumultuante avanzò irresistibile. Todd e Farley erano in prima fila ed erano stati fatti passare rapidamente dai poliziotti. Questi lottavano per tenere indietro quella tremenda orda di curiosi per lasciar passare il numero limitato di poliziotti e cronisti che Curtlin aveva indicato. Questi si affrettarono e, in poco più di un minuto, Todd e Farley trovarono le stanze piene di persone eccitate. Clay e Barton, storditi, si appoggiavano ad un muro, mentre Curtlin era al centro della sua clinica accanto ad un tavolo d'acciaio con ruote che sosteneva una lunga figura avvolta in un lenzuolo bianco. Questa vista, come i neri occhi autoritari di Curtlin, portarono la stanza al silenzio. «Ecco accanto a me il corpo di Stephen Kingley,» disse la voce incisiva, «e dispongo che un numero limitato di voi accerti che Kingley è realmente morto. Ma non ci dovranno essere affollamenti e disordini, o sarete mandati via da queste stanze.» Un alto uomo dinoccolato, avanzò. «Penso che non abbia obiezioni se dò uno sguardo?», chiese. «Assolutamente no, Dottor Helm,» disse Curtlin prontamente. «Giacché ho visto anche i Dottori Braun e Leonard qui, se lo vogliono, possono guardare anche loro. Tutti voi siete medici competenti e tutti conoscevate Kingley di vista.» Si avvicinò e scoprì il lenzuolo bianco che copriva la figura sul tavolo con ruote. Un sospiro involontario si alzò quando apparve il corpo di Kingley con tutta la sua evidenza di morte e decomposizione. Si riversò nella stanza un pungente odore di forti e sconosciuti prodotti chimici. «Kingley, giusto,» disse Helm dopo uno sguardo al viso bianco come la morte; Braun e Leonard fecero cenno di sì. Si piegarono sul corpo e poi
Helm si drizzò. «Non c'è bisogno di un esame, Dottor Curtlin,» disse. «Penso che ognuno in questa stanza può vedere che Kingley è morto e lo è da mesi.» «Morto, giusto,» disse il Dottor Leonard sollevandosi. «Se ricordo bene, un colpo al cuore anche in questo caso?» «Sì,» disse Curtlin. «Siete tutti convinti che Kingley è morto? Mr Todd... le piacerebbe porre fine ai suoi dubbi?» Si sollevò una risata alla sfida beffarda di Curtlin, ma Todd si mosse verso il tavolo. «Se non le spiace, lo farò,» disse con calma fissando il corpo davanti a lui. Quando indietreggiò, Curtlin coprì il corpo con il lenzuolo. «Ora vado a riportare il corpo giù in laboratorio ed a sottoporlo al processo di raggi,» dichiarò. «Quando avrò finito saprete, ma, mentre lavoro, i sorveglianti eviteranno che qualcuno possa entrare al piano inferiore.» Helm e Leonard avanzarono per afferrare il bordo del tavolo, ma Curtlin li spinse con decisione indietro. «Due poliziotti mi aiuteranno a portare questo giù,» disse loro. Fece segno a due poliziotti che afferrarono il leggero tavolo di acciaio alle due estremità ed avanzarono con esso lungo le scale che portavano giù. Curtlin li seguì quando lasciarono il tavolo in fondo alle scale, ed in un momento ripresero il loro posto di guardia con gli altri alla porta delle scale. In quel momento si udì lo scatto di una porta d'acciaio che si apriva e poi si chiudeva, e scoppiò di nuovo nelle stanze una tempesta di voci eccitate. «Todd, tu hai visto con i tuoi occhi!», disse Farley. «Era Kingley, morto! Proprio come lo vedemmo la scorsa notte nel laboratorio!» «Era Kingley ed era morto, sì,» rispose Todd. «Dovrai crederci questa volta... dovrai!» «Cosa starà facendo laggiù?», chiese un cronista accanto a loro con voce impaurita. «Ascoltate!» Un ronzio costante stava diventando udibile dal basso, e cresceva rapidamente fino a diventare un rumoroso lamento, come una grande dinamo. Presto si aggiunse un intenso suono fisso. «Lo sta facendo!», mormorò un altro. «Sta riportando in vita quel cadavere! Mio Dio, siamo tutti pazzi?» «Che ne pensa, Mr. Clay?», chiese qualcuno ad uno dei due uomini dal viso smorto che stava accanto al muro. «Ci può dare, lei o Barton, una vaga idea della natura generica del processo di Curtlin?»
«Non so nulla... nulla!», disse Clay con le mani tremanti. «Ascoltate quelli che sono fuori!», esclamò Farley. «Diventeranno pazzi lì fuori, ad aspettare notizie!» Il monotono boato delle voci provenienti da fuori era udibile al di sopra dei lamenti e dei brusii che venivano da giù. Passarono i minuti. Farley trovò che le sue mani tremavano ma il viso di Todd era immobile. «Curtlin dice che distruggerà la sua apparecchiatura non appena avrà finito,» qualcun altro diceva. «Dio salvi l'umanità se non lo farà!» «È troppo tardi,» rispose un altro. «Prima o poi, otterranno da lui in qualche modo il segreto del processo.» «Ascoltate!», esclamò un cronista. «Laggiù i suoni sono cessati!» Il lamento ed il ronzio improvvisamente si erano fermati, poi di colpo iniziarono di nuovo. In quel momento... «Si sono fermati di nuovo! Ora non riesco a sentire nulla da laggiù!» Farley vide che Helm era accanto a lui, e il viso del dottore era madido di sudore. «Perché, in nome di Dio, non la finisce se può?», chiedeva Helm. «Non posso più rimanere...» Si fermò, e la stanza cadde in un silenzio di tomba. Dal basso arrivava una vaga serie di rumori irriconoscibili. In quel momento arrivò lo scatto della porta che si apriva, ed il suono strascicato di passi lenti, al piano di sotto, per le scale. Farley sentì la pelle accapponarsi quando con Todd e tutti gli altri guardò verso la porta che come un magnete attirava i loro sguardi. I passi si avvicinavano lentamente, più forti, ed i sorveglianti alla porta si fecero da parte. La porta si aprì. Videro Curtlin salire da questa, rosso in viso, mentre sosteneva una figura insicura avvolta in un lenzuolo bianco. E quella figura... Quel viso bianco come la morte che era apparso pochi minuti prima a loro da un corpo morto sul tavolo... quell'uomo... «Dio mio, è Kingley... Kingley!», gridò Helm, con voce irriconoscibile, «Kingley... vivo...» «Todd... Todd, lo ha fatto!», urlò Farley. La stanza era in una baraonda selvaggia. «Vi avevo detto che l'avrei fatto!», la voce di Curtlin ardeva di trionfo. «Ho riportato indietro il terzo... dalla tomba!» «La tomba?», disse Kingley, gli occhi fissi, la voce impastata. «Ma io non ero... non ero senza dubbio...» «Morto, ed io vi ho restituito alla vita!», gridò Curtlin. «C'è ancora qual-
cuno di voi che non ci crede?» sfidò con fierezza. «Todd, crede ancora che è un imbroglio? Vuole chiedere a Kingley se era morto o no?» «Sì, vorrei chiedergli qualcosa!», la voce di Todd sembrò sferrare una pugnalata. «Su, allora!», gridò Curtlin. Todd si avvicinò all'uomo barcollante coperto dal bianco lenzuolo. «Kingley, le voglio porre solo una domanda. Lei è una tra le parecchie persone di questa città che nove mesi fa mi disse di essere stato minacciato. Queste minacce avevano qualcosa a che fare con tutto ciò?» La spessa lingua di Kingley si sforzò di pronunciare le parole «No, no, Todd... ho scoperto più tardi che le minacce delle quali avevo parlato non significavano nulla. Ma morii... dicono che sono morto...» «Ecco la sua risposta, Todd», gridò Curtlin. «La stessa risposta che le diedero Clay e Barton, e questa dovrebbe mandare in frantumi le sue infantili teorie di intrighi!» «Al contrario!», disse Todd. «Queste tre risposte di Clay Barton e Kingley sono tutte le prove di cui ho bisogno!» «Prove di che cosa?», gridò Curtlin. «Prove che queste tre persone non sono assolutamente Clay e Barton e Kingley! Non una di loro mi aveva mai parlato di alcuna minaccia e questi tre, ricordando qualcosa che non mi avevano mai detto, provano di non essere Clay, Barton e Kingley! «Clay e Barton e Kingley morirono proprio come tutti pensano e questi tre uomini sono i loro sosia... sosia preparati dalla chirurgia plastica di Curtlin! No, non farlo Curtlin...» Curtlin fu svelto, ma prima che la sua pistola fosse più di metà fuori, Todd sparò due volte dalla sua tasca. Curtlin oscillò, una macchia rossa spuntò sul suo camice bianco, e cadde al suolo. La gente nella stanza affollata rimase pietrificata, paralizzata. Todd si inginocchiò accanto a Curtlin. Un rivolo di sangue ed un sorriso tirato erano sulle labbra del medico. Il suo respirare divenne un rantolo soffocato. «Ha vinto, Todd... l'avevo sottovalutata. Non sia... troppo duro con gli altri tre... ero io l'anima della cosa. Troverà... i corpi dei veri Clay, Barton e Kingley nascosti nel laboratorio... li nascondevo uno alla volta quando portavo fuori i loro sosia. Che scherzo... per me... che questo finisca... con... la mia... morte...» La sua testa cadde indietro. Todd si raddrizzò per guardare i tre uomini
dal viso bianco che tutti avevano creduto Clay, Barton e Kingley. «Voi tre dovete affrontare le accuse di complicità e forse più,» disse, e si voltò verso il capitano di polizia. «Portali fuori, dall'uscita di servizio, prima che la folla venga a sapere la verità.» «Ma Todd...!» Farley si sentiva soffocare. «Come possono essere dei sosia se tutti li abbiamo riconosciuti... i loro amici e le famiglie li hanno riconosciuti... come Clay, Barton e Kingley?» «È abbastanza semplice,» disse Todd, a Farley ed agli uomini affascinati intorno a loro. «Curtlin era relativamente povero: tutti sapevamo questo ed abbiamo fatto commenti. Era un brillante chirurgo plastico, come tu stesso mi hai detto, Farley, e come tale poteva rimodellare visi viventi a volontà. Decise di usare il suo potere nella chirurgia plastica per diventare milionario. «Iniziò il suo complotto due anni fa con quel discorso sulla possibilità di riattivare la vita nei tessuti morti attraverso un processo di raggi. Poi aspettò la sua occasione. Arrivò all'incirca sei o otto mesi fa, quando tre dei più ricchi uomini della città, tutti milionari, morirono. Erano Howard Clay, Willis Barton e Stephen Kingley. «Curtlin conosceva di vista tutti e tre, e cominciò dopo la loro morte a cercare tre complici senza scrupoli che assomigliassero a Clay, Barton e Kingley nei lineamenti immutabili dell'altezza, della forma del capo, della figura, dei capelli e del colore degli occhi. Dove si procurò i suoi tre complici, non lo sapremo fin quando non confesseranno, ma probabilmente furono abbastanza ben disposti quando mostrò loro quale enorme ricompensa avrebbero ottenuto. «Li portò in questa casa sconosciuta a tutti, e probabilmente con il loro aiuto rubò al cimitero i corpi di Clay, di Barton e di Kingley. Poi cominciarono quattro mesi di arduo lavoro per lui, per rimodellare i visi viventi dei suoi complici nelle copie esatte dei visi di quei tre uomini morti. Deve aver usato tutta la sua arte come chirurgo plastico, nel lavorare pazientemente con muscoli, ossa e tessuto, nell'alterare espressioni lavorando su muscoli di supporto, nel cambiare la forma del naso e delle orecchie, nel lasciar cicatrizzare il suo lavoro e poi ricominciando. Poco a poco in quei quattro mesi ricostruì nei visi di quei tre le copie dei visi dei tre uomini morti, usando quei visi morti come modelli! «Pochi giorni fa finì il suo lavoro. I suoi tre complici erano secondo ogni apparenza le copie esatte nel viso e nella figura dei tre uomini morti. Senza dubbio Curtlin aveva dato loro dei manoscritti dei tre morti per far pratica
di copia della scrittura e li fece allenare a parlare con la stessa voce di Clay, Barton e Kingley. Aveva fornito loro anche di un bagaglio di particolareggiate informazioni sulla vita e gli amici dei tre uomini morti in modo che in ogni particolare potessero passare per quelli. «L'unico particolare che non poteva prevedere era il bianco mortale dei loro visi dopo che l'intervento plastico si era rimarginato, ma che trovava posto nel progetto di Curtlin abbastanza bene, poiché quel biancore sembrava naturale in un uomo tornato dalla morte. Curtlin era del tutto pronto, dunque, a mettere in atto il suo progetto. «Questo progetto non era altro che installare i suoi tre complici sotto l'identità di Clay, Barton e Kingley dopo aver spiegato che aveva fatto risorgere loro dalla morte! Questo avrebbe reso i tre padroni dei milioni dei tre morti, e Curtlin da parte sua per il potere che aveva su questi, sarebbe stato padrone di tutti e tre. Era un progetto incredibilmente coraggioso, ma aveva ogni possibilità di successo. Anche se molti potevano non credere che aveva realmente resuscitato i tre morti, non avrebbero chiesto se i tre erano realmente Clay, Barton e Kingley. Avrebbero semplicemente pensato al caso in cui Clay, Barton e Kingley non fossero proprio mai morti. «Iniziò con Clay. Nascose il corpo di Clay come disse e poi portò lo pseudo-Clay in casa di quest'ultimo. Perfino sua moglie pensò che fosse Clay, e poiché sapeva che suo marito era realmente morto, ne fu terrorizzata a morte. Lei ci chiamò, e benché fossi confuso dalla vista di Clay vivo, pensai di porgli quella domanda sulle minacce delle quali mi aveva formalmente raccontato. Se avesse risposto di non ricordare alcun avvenimento simile, sarebbe stato Clay, ma se fingeva di ricordare, non sarebbe stato Clay ma un impostore. Finse di ricordare, ed io seppi che per quanto avesse l'immagine di Clay, l'uomo davanti a me non era Clay. «Tuttavia riuscivo ancora a crederci difficilmente. Io e Farley apprendemmo che anche i corpi di Barton e Kingley erano stati presi dal cimitero, e quando la scorsa notte penetrammo nel laboratorio di Curtlin vi trovammo quei corpi, con quegli elaborati apparecchi che aveva falsificato in caso qualcuno fosse entrato nel laboratorio. Lo pseudo-Barton e lo pseudoKingley erano probabilmente lì nascosti nel piano superiore della casa. Il corpo di Clay non era visibile perché, come disse, era stato nascosto dopo la prima apparizione dello pseudo-Clay. «Questa mattina è arrivata la notizia del ritorno alla vita di Barton e noi siamo andati a vederlo. Misi alla prova anche lui. Sotto tutte le apparenze era Barton, ma quando gli parlai delle minacce delle quali gli dissi mi ave-
va parlato prima della morte, anche lui, finse di ricordare ed io seppi che anche lui era un impostore. Iniziai allora a capire il gioco di Curtlin, e lo aspettai per la messinscena del ritorno anche di Kingley. «Lo fece, qui, ed io aspettai di mettere alla prova Kingley, l'ultimo dei tre, con la stessa domanda. Avete visto che anche lui fingeva di ricordare qualcosa che il vero Kingley non aveva mai detto, e questa era la prova che erano tutti e tre impostori, per cui affrontai Curtlin con questo. Vide che aveva perso il gioco e, in un pazzesco accesso di odio tirò fuori la pistola nel tentativo di uccidermi, ma egli stesso fu ucciso. «Questo è tutto. Se quelle prove non mi avessero mostrato che quei tre immaginari uomini resuscitati erano degli impostori, la dichiarazione di Curtlin sarebbe stata presa per vera. Tutti voi avete visto il corpo morto di Kingley e poi avete visto portar su lo pseudo-Kingley che era stato nascosto nel laboratorio. E Curtlin non avrebbe mai avuto bisogno di ripetere la sua immaginaria conquista, perché aveva bisogno solo di addurre una giustificazione come quella che continuare sarebbe stata la distruzione della civiltà. Qualsiasi argomento ci fosse, nessuno mai si sarebbe chiesto se questi tre complici erano o no Clay, Barton e Kingley. Giocava per milioni... giocava brillantemente... ma si perde, anche quando si è i più brillanti, se si gioca dal lato sbagliato del tavolo.» «Allora era tutta una finzione... e ci ha preso in giro!», urlò un giornalista, mezzo stupefatto. «Ma questa è una storia tanto grande come se fosse vera!» «Un po' di spazio, lì», urlarono altri. «Lasciatemi un telefono, potete?» Dopo un momento tutti stavano lottando per uscire dalla porta, e allora un boato crescente di voci disse che la folla fuori aveva appreso la verità. Farley si affiancò a Todd, ancora stupito. «Todd, quando penso che eravamo caduti tutti dritti nell'inganno di Curtlin e poi ti sgridavamo perché non ci credevi...» «Scordalo, Farley,» raccomandò l'altro. «È metà e metà... non volevo nasconderla a te ma non volevo che Curtlin sapesse che mi stavo avvicinando alla verità.» «E pensare che Clay, Barton e Kingley sono rimasti morti, ed in questa casa, dopotutto!», si meravigliò il cronista. Todd accennò di sì con gravità. «Troveremo i loro corpi nascosti laggiù nel laboratorio, e le loro famiglie potranno dar loro un altro funerale, o no, come riterranno più idoneo. Morti dal principio alla fine... sì, erano loro i veri tre uomini usciti dalla tomba, e stanno per tornarci per sempre.»
(The Three From The Tomb) Dorothy Quick CANDELE Portate candele rosse e candele bianche Per far luce al mio Signore, il Re, stanotte: Candele rosse per il valore del suo cuore sincero Che ardono per lui che governa la terra; Candele bianche per la sua anima, E non permettete mai che la loro luce si affievolisca; Candele bianche e candele rosse Per guidarlo verso il letto nuziale. Portate candele blu e candele verdi Per far luce alla mia bella Signora, la Regina: Candele blu per i suoi occhi fiduciosi E per la fede che in loro è racchiusa; Candele verdi per le terre che lei porta in dote, E che vanno ad unirsi a quelle del suo Signore e Sovrano, il Re; Candele blu e candele verdi Per illuminare la stanza della Regina. Candele rosse, verdi, bianche e blu Tutte che bruciano di luce costante. Bianco il corpo di lei, rossa la sua bocca, Verdi le sue terre, al nord e al sud; Rossa la passione dei baci di lui, Bianca l'arrendevolezza di lei; Blu i tendaggi della stanza della Regina, Blu il destino che incombe. Bianco il chiarore della luna dove lei giace, Blu il terrore nei suoi occhi; Rosso il sangue sulle mani del RE... Belle e sconfinate erano le sue verdi terre. Accendete candele lunghe e candele bianche
Per far sì che l'anima della Regina voli più veloce. Portate candele lunghe e candele nere Per far luce al Re sulla via del ritorno. (Candles) August W. Derleth IL MANTELLO DI MESSER LANDO Il cavaliere incappucciato si arrestò davanti a una figura scura che stava rannicchiata contro il muro nero di un edificio addossato al vicolo. Si protese in avanti e guardò giù. Sebbene le strade di Roma fossero illuminate dalla pallida luce della luna, l'uomo nel vicolo era totalmente immerso nell'oscurità. Tuttavia il cavaliere vide che si trattava di un vecchio, perché si riusciva a intravedere la sua barba. «Sai cavalcare, vecchio?» Il vecchio alzò lo sguardo verso il cavaliere con aria interrogativa, e osservò attentamente il suo superbo cavallo e le ricche bardature che ornavano sia il cavaliere che il destriero. «Come fate a sapere che sono stanco, Messere?», chiese a sua volta. «Vi ho visto affannato, e ho notato che i vostri passi diventavano sempre più stanchi. Montate», aggiunse con impazienza, «volete cavalcare, o no?» «Verrò a cavallo.» Il vecchio puntò il piede nella staffa e afferrò la forte mano che era stata allungata verso il basso per aiutarlo a salire sulla parte posteriore del cavallo, dietro al cavaliere. «Avevo intenzione di fare una passeggiata, stasera,» mormorò il vecchio, «ma ora me ne pento. Le mie ossa sono fuori uso.» Il cavallo fece un balzo in avanti e, mentre il cavaliere era per metà col volto rivolto verso il vecchio, il cappuccio gli cadde all'indietro, mostrando alla luce della luna un volto giovane e avvenente, contrassegnato sia dalla forza che dalla crudeltà, e con la bocca che era allo stesso tempo abituata al comando, brutale e sensuale. Gli occhi acuti del vecchio videro e riconobbero quel volto. «Non è pericoloso per Vostra Altezza cavalcare solo per le strade di Roma, di notte?», chiese con voce suadente. «Ah... voi mi conoscete?» «Voi siete il Principe-Cardinale Cesare Borgia. Sono pochi a non cono-
scervi,» replicò il vecchio. «E voi non avete paura, come ne hanno gli altri?» Per un attimo la sorpresa brillò negli occhi del cavaliere. Il vecchio si strinse nelle spalle. «Non nutro fiducia in voi, ma neanche vi temo,» disse. «Ben detto, vecchio. Il tuo coraggio smentisce le tue ossa. Chi sei?» «Sono Lando, di professione sarto, di fama Mago.» «Ho sentito parlare di te.» «Siete gentile, Vostra Eminenza, ma forse si trattava di qualcun'altro.» Sbirciò oltre le spalle del cavaliere e aggiunse: «Smonto in quel vicolo che ci sta proprio di fronte, se non vi dispiace.» «Per uno della tua età, te la fai in strani quartieri, vecchio. Certo che questa è un'ora insolita per svolgere la tua attività.» «Vero,» fu d'accordo Messer Lando, «ma non per l'arte di cui godo fama.» Messer Landò scese da cavallo e rimase lì fermo per un momento prima di dire: «Un'imprecazione per le mie ossa. E la mia gratitudine per la vostra gentilezza, Vostra Magnificenza. Ne conserverò vivo il ricordo nella mia memoria.» «Non capita spesso che io sia gentile,» disse il Cardinale-Principe Borgia con voce gelida. «A maggior ragione questa gentilezza verrà ancora più scrupolosamente tenuta a mente,» replicò il vecchio niente affatto turbato. «Buona notte.» Si girò e fu subito inghiottito dall'oscurità oltre la luce della gibbosa luna. Cesare Borgia fece tintinnare la sua bardatura con aria perplessa e, assorto nei suoi pensieri, ripartì sotto i raggi della luna. Messer Lando nel frattempo continuò per la sua strada passando di porta in porta, finché alla fine arrivò a un enorme casamento, sul retro del quale era accesa una lanterna verde. Sotto la lanterna c'era una losca figura. Il vecchio si fece avanti scrutando attentamente e poi lo salutò. «Sono qui,» disse. «Per sua Magnificenza?», chiese l'altro. «Per lui.» «Allora entra.» Si girò, spalancò la porta dietro di lui e fece strada attraverso la casa. Messer Lando gli stava alle calcagna. Passarono per un lungo corridoio di pietra, umido e freddo, salirono per una rampa di scale, ed arrivarono ad
un altro passaggio. Ne percorsero la metà e, alla fine, si fermarono davanti ad una grande porta, dove la guida si inchinò e tornò indietro. Messer Lando bussò gentilmente alla porta. «Avanti,» invitò una voce da dietro i pannelli. Messer Lando apri la porta ed entrò nella stanza. Seduto ad un tavolo, che si trovava proprio dall'altro lato della stanza, c'era un uomo di mezza età, con le guance paffute e i lunghi mustacchi che descrivevano una curva intorno alla bocca. Era vestito con una veste nera lunga ed ampia, e al suo collo pendeva una catena d'oro con una croce adorna di pietre preziose. Il Duca di Solento, perché di lui si trattava, girava la croce tra le dita inanellate. Il Mago avanzò nella stanza, inchinandosi umilmente, ed arrivò fin quasi al pesante tavolo dove, avendo incrociato lo sguardo del Duca, si fermò ed attese ossequiosamente. «Messer Lando,» disse allora il Duca. «Sono venuto, Vostra Altezza.» «Nessuno vi ha visto?» «Nessuno.» Per un attimo nella grande sala riccamente drappeggiata, cadde il silenzio, e il Mago fissò con preoccupata perplessità il volto del Duca di Solento. Al suono della voce del Duca, qualcosa si era agitato nella memoria del vecchio, che si ricordò di un incidente accaduto a Firenze. Un lampo si accese nei suoi occhi stanchi. All'improvviso prese la parola. «Non ho idea di cosa possiate desiderare da me,» disse astutamente, «ma ammiro Vostra Altezza da lungo tempo, e avrei sempre desiderato potervi fare un mantello filato in oro. Mi manca solo la vostra autorizzazione.» Il Duca di Solento scrutò il vecchio e poi fece un ampio sorriso. «Le lusinghe mi piacciono,» ammise mellifluamente. «Avete il mio permesso. Ma ora veniamo a ciò che ho in mente. Mi è stato detto che voi intessete mirabili mantelli... mantelli di tale bellezza che diventano come il fuoco per chi li indossa.» «Vostra Altezza dice bene,» disse il Mago chinando la testa. «I mantelli a cui voi vi riferite sono così belli che chi li indossa li può portare solo una volta, e non è più capace di indossarli una seconda volta tanta è la potenza del loro incantesimo.» «Il fuoco distrugge,» osservò il Duca acutamente. «Come il fuoco, la stoffa dei miei mantelli magici distrugge la carne,»
sussurrò il vecchio. «Voi mi avete capito bene, Messer Lando. Sembra che io abbia un nemico desideroso di darmi battaglia. Egli è potente. Se dovesse decidere di esercitare il suo potere io verrei ucciso e tutti i miei beni confiscati.» «Il suo nome?» «Non è necessario che voi lo sappiate.» «Non avete bisogno di dirmelo. Si tratta di Cesare Borgia, il Cardinale Principe Borgia.» Il Duca di Solento trasalì davanti alla calma affermazione del Mago. «Siete davvero uno stregone, Messer Lando.» Il Mago sorrise a fior di labbra, comprendendo che il Duca di Solento era uno sciocco, perché a Roma c'era un solo uomo che aveva il potere di fare ciò che lui aveva detto, e il suo nome non era un segreto. «Ditemi: entro quanto tempo potrò avere questo mantello?» «Quando la clessidra avrà fatto il suo corso per ventiquattro volte, il mantello sarà nelle vostre mani. Ma non sarebbe meglio se il mantello per il Borgia fosse consegnato da me, in modo tale che nessun sospetto possa ricadere su di voi?» «Ben detto, Messer Lando. Faremo come voi dite.» Il Duca prese da una tasca un sacchetto pieno di ducati e lo fece cadere sul tavolo. Messer Lando si avvicinò e prese il sacchetto. «Aspetterò la notizia della morte di Borgia,» disse il Duca di Solento con una beffarda voce di trionfo. «Anch'io sarò in attesa, Vostra Altezza.» «Andate adesso, così come siete venuto.» Il Mago si accomiatò e uscì dalla stanza con un profondo inchino, passò attraverso il corridoio al piano inferiore, e da lì di nuovo nella silenziosa oscurità del vicolo alle spalle del Palazzo Solento. Le sue labbra erano ancora atteggiate nel loro lieve, ironico sorriso, e i suoi pensieri erano ancora presi da quell'uomo che aveva appena conosciuto, ma non come Duca di Solento, bensì come capitano di ventura a Firenze alcuni anni prima. Era destino, rifletté, che nella vecchiaia dovesse di nuovo imbattersi in quell'uomo. Camminò celermente, senza prestare attenzione alle ossa che gli dolevano, e in breve arrivò al luogo segreto che aveva eletto a sua dimora. Sorpassò le stanze più esterne, andò oltre la stanza dove aveva preparato tante orribili pozioni, e passò ancora in un'altra stanza debolmente illuminata da
fiamme di colore bluastro che salivano da un piccolo braciere; una stanza il cui aspetto aveva un'aria incredibilmente minacciosa. Il Mago si tolse il mantello e lo lasciò cadere sul pavimento. Poi si mise davanti ad un congegno che nessun altro occhio umano aveva mai visto tranne il suo, e sopra quella bizzarra cosa che aveva solo una vaga somiglianza con un telaio, Messer Lando si accinse a tessere due mantelli, uno dei quali filato in oro. E, mentre lavorava, pronunciava formule magiche e parlava alle tenebre, che gli rispondevano con lingue di fiamme violette odorose di zolfo, che la mente umana aveva da lungo tempo collegato alle Potenze delle Tenebre. Meditò anche a lungo sulla spietata crudeltà del capitano, che era ora diventato Duca di Solento, ricordandosi dell'agonia del soldato, l'amico del Mago, che era stato ucciso per ordine del capitano. E, ricordandosi della gentilezza di Cesare Borgia, sorrise. Lavorò fino all'alba, e poi lavorò per tutto il giorno. Comunque, nella stanza non entrava la luce del sole, in quanto era priva di finestre. E, mentre lavorava, due mantelli presero vita dalle sue dita. Solo dopo che di nuovo cadde la notte sulla sua umile abitazione, Messer Lando smise di lavorare: i due mantelli erano pronti. Poi si sedette e scrisse un messaggio per il Duca di Solento. Mise tutta la sua arte magica in parole di melliflua adulazione, implorando il Duca di accettare quel mantello filato in oro che Sua Altezza aveva permesso a lui, Messer Lando, di tessergli. Dopo aver fiorito il tutto con le più artificiose delle parole, Messer Lando chiamò i lacchè. Ad uno diede il messaggio e il meraviglioso mantello tessuto in oro. All'altro diede il suo secondo mantello, un triste mantello color rosso spento e con una strana fodera intessuta con fili neri e color argento. Dopodiché, le uniche cose di cui provava desiderio erano il cibo e il sonno e, con uno strano, lieve sorriso che aleggiava sulle sue labbra sottili, si accinse a procurarsi entrambi. Si svegliò e si vestì con febbrile impazienza. Si affacciò alle strade di Roma insieme al sole, quando in circolazione c'erano solo alcuni bottegai mattinieri. Passò di vicolo in vicolo e di strada in strada, il suo percorso essendo esattamente lo stesso che aveva fatto la notte precedente. Era arrivato a Palazzo Solento. L'attività frenetica che animava il palazzo del Duca di Solento riuscì particolarmente gradita ai suoi occhi. Sorrise soddisfatto, avvicinò un valletto
e chiese, «Qual'è la causa di tutto questo trambusto? Se non ti dispiace dirlo ad un vecchio curioso.» Il valletto si fermò. «Il Duca di Solento è morto, e qui è tutto sottosopra. L'abbiamo trovato proprio ora sui gradini dove si era trascinato nella sua agonia.» «È morto a causa di una caduta?» All'improvviso il valletto abbassò la voce e, dopo aver dato un'occhiata intorno, scosse la testa. «No Messere. C'è una sacrilega bizzarria nella sua morte. Ha indossato un mantello nuovo ieri sera e, quando ha tentato di toglierselo di dosso, non ci è riuscito, e ad un certo punto della notte si è lanciato dalla finestra sulle scale. Ed ora... quando hanno cercato di sfilargli quel mantello, hanno visto che gli aveva mangiato la carne, i fili della stoffa erano come viticci di un rampicante che avevano bruciato in profondità la sua carne!» Improvvisamente fu lanciato un grido ed i lacchè si dispersero come paglia al vento. Un gruppo di cavalieri armati di tutto punto aveva fatto irruzione nella piazza davanti al palazzo, ed ora si stava sparpagliando intorno all'edificio per circondarlo. Alla loro testa cavalcava il Cardinale, Principe Cesare Borgia, e sulle spalle, rilucente sotto i raggi del primo sole, portava il mantello rosso intessutogli da Messer Lando. Il Mago sorrise compiaciuto. Perché, quando il vento fece girare il mantello sulle spalle di Borgia, il mago vide le scure lettere intessute da lui che spiccavano chiaramente, come delle sottili sbarre, sulla fodera del mantello. E, sebbene non riuscisse a leggere ciò che vi era scritto, sapeva che il Borgia le aveva lette, e si ricordava cosa vi aveva scritto: «È stato un piacere per Messer Lando ricambiare una cortesia ricevuta e vendicare un antico torto. Andate ed impadronitevi delle proprietà di Solento, perché lui trama contro la vostra vita.» (A Cloack From Messer Lando) Robert Nelson TETRA FANTASTICHERIA Rose nere spuntano all'improvviso nel cielo, Canne d'organo cantano senza senso sotto il mare. Le chiassose teste di uomini folli volano E si fracassano con oscuro clangore,
Mentre le note trasportano verso un colore più cupo E le foglie frullano selvagge e festose Attraverso lo sconnesso cervello del pazzo organista. Nel sepolcro in disordine, Gli occhi di una donna morta si sforzano di muoversi, Ella si arrischia a ridere, ma tutto è vano. Mani a tre dita dipingono un lungo fregio Con il sangue nero di diavoli sconfitti, Che ondeggiano e uccidono la brezza della musica Nelle loro pazze e agonizzanti baldorie. Ora fluidi di ebano cominciano a scorrere E uomini di cera a sciogliersi; Neri dischi di pietra rotolano verso il basso; Dal cuore dell'organo, in lente spirali Esalano i profumi più corrotti e scadenti Per soffocare i ruscelli della conoscenza del demone. Teschi volati via da cadaveri dalla carnagione bruna baciano E addentano l'anima dell'organista, Che non smette mai di rintoccare e rotolare, Come una campana all'interno di questo tetro abisso. Piante e fiori mortiferi si contorcono nei grembi Di mondi appassiti distanti dal mattino, E mirra ammuffita esala dalle tombe Vorticando in astri immensi e abbandonati. Soli scuri su acque rumoreggianti dilatano Le magniloquenti note in atroce frastuono, E spiriti tenebrosi si librano in volo dall'inferno Per agitare i loro pesanti sudari Sulla faccia del feroce suonatore, e svelano Nella sua bocca gioielli color nero lucente, e tessono Fili, sottili tra i suoi capelli; Fitti riccioli corvini si avvinghiano alla sua gola, E i suoi occhi non brillano più di cupidigia. Come da una torre alta nei cieli, La tastiera risveglia una paura ancora più misteriosa,
Le sue dita spasmodiche e febbrili diventano gelide; Egli versa una lacrima, una lacrima di uomo morto: E la tetra fantasticheria continua. (Thoughts) Joseph O. Kesselring IL COBRA REALE A Kiochow ho aperto gli occhi nella nera, buia cella di una giunca sacra da funerale, ed ho visto vitrei e freddi occhi a mandorla luccicare dal nulla ed ammiccare in modo insopportabile. A Johor ho allungato la mano nella fetida ed assoluta oscurità di una fossa, ed ho toccato una cosa fredda, bagnata e molle che si muoveva. In Africa ho visto una piccola, morbida mano, bianca come l'avorio, nascere dal ventre di un nero uomo Upoto, stremato dagli effetti di un incantesimo, sollevarsi, raggiungere la gola del negro, fermarsi e poi scomparire, affondando di nuovo nel corpo d'ebano. E quell'uomo morì strangolato! Queste ed altre cose ugualmente incredibili ed orribili ho visto e toccato in uno stato di assoluta sobrietà e mai febbricitante. Tali cose, ripeto, ho sperimentato, ma non ho mai provato un terrore ed un ribrezzo così spaventosi come quelli che provai quella notte a Giava, quando vidi l'uomo che si faceva chiamare Wharton. «Io sono Wharton,» aveva risposto, stridulo, alla mia roca domanda. Mentre lo guardavo, sudavo e tremavo tutto, come se avessi avuto la febbre tropicale. Quell'essere, quella creatura che se ne stava curva sul piccolo molo sul fetido fiume Salo, non poteva essere Wharton! Non poteva essere un uomo! Dio!... Mi si accapponò la pelle... Sembrava un ragno!... Un mostruoso, grosso ragno!... Travestito da uomo! La spettrale luce della luna malese brillò su di lui... o su di esso. Aveva il ventre rotondo: enormemente, assurdamente, disgustosamente rotondo. Sotto quell'orribile rigonfiamento c'erano le gambe, lunghe, arcuate e sottili dalla coscia fino al piede. Sopra il rigonfiamento si allungava lo stretto torace che si assottigliava in alto in un paio di spalle ancora più strette. Dalle spalle pendevano rigide le braccia scarne che terminavano, da una parte, con una mano ossuta e curva ad uncino, e dall'altra (era difficile credere ai miei occhi), con una lama! Quella creatura, priva della
mano sinistra, aveva una larga lama di coltello attaccata al moncherino! Quella lama luccicava gelida. Al di sopra delle strette spalle, in cima ad un collo fine come un bocchino di pipa, c'era un teschio pelato e lucido. Le labbra pendenti si staccavano dai denti lunghi e storti, le guance erano buche nere: era un teschio vero e proprio. E gli occhi! Dio, che occhi! Erano scavati nel cranio, il bianco grande come due mezze corone, le pupille minuscole come due teste di spillo e nere, scintillanti e pungenti. Continuai a fissare quegli occhi puntati su di me a non più di un metro e mezzo di distanza come ipnotizzato. Io ero in piedi in una canoa; ai miei piedi sedeva un ragazzo, un indigeno dagli occhi sporgenti, che manteneva la canoa attraccata al molo. Il piroscafo mensile era partito da una settimana, così, alla foce del Salo, avevo preso a nolo il ragazzo, e c'erano voluti cinque fiorini per convincerlo a traghettarmi, visto che era, allora incomprensibilmente, restio a farlo. Aveva gli occhi puntati sull'uomo a riva, ed era terrorizzato. L'uomo a riva secondo una comunicazione ricevuta dieci giorni prima a Singapore dal Quartier Generale americano, era Robert Wharton, direttore della piantagione di caucciù Surabaya, di proprietà della Società per cui lavoravo, la United. Questa comunicazione mi informava di un calo del 50% della produzione di Surabaya negli ultimi due mesi. Il deficit non era stato sufficientemente giustificato dal direttore, che aveva spedito lettere vaghe, adducendo come scuse la febbre e le rivolte dei "coolie". Quella stessa comunicazione mi aveva incaricato di indagare. Partito immediatamente da Singapore, ero sbarcato a Batavia (era il mio primo viaggio a sud della penisola malese), poi a Samarang, e da lì, con una nave che trasportava grano, ero arrivato al fiume Salo. Per tutto il viaggio a sud e ad est, avevo sentito crescere dentro di me un cattivo presentimento. Ora che mi stava davanti quell'uomo che diceva di chiamarsi Wharton, quel presentimento raggiunse l'acme. In quel momento mi tornò in mente la conversazione, le chiacchiere di due piantatori che avevo ascoltato di sfuggita a bordo del battello per Batavia. Allora quei due mi avevano disturbato, perché stavo leggendo, ma ora... Cos'è che si erano detti?... Qualcosa su... sui serpenti! Ecco cosa! Ma anche qualcos'altro... Alla vista di quell'essere orrendo davanti a me, qualcosa in fondo alla mia mente si andava risvegliando... qualcosa... Mi scossi. Per alcuni secondi avevo continuato a fissare quegli occhi minuscoli e neri. Ora la creatura rideva, emettendo un suono basso e sordo.
Mentre rideva dondolava da una parte all'altra del suo ventre ripugnante. In quel suono e in quei gesti vi era della volgarità, una volgarità animalesca. Smisi di guardare, ma non riuscii a trattenere un'esclamazione. Lui cessò di dondolare, ma continuò a ridere. «Ha!» disse, con una debole traccia di accento latino. «Il mio senso dell'umorismo la disturba, vero?... O sono i miei occhi?» La sua risata si fece più forte, poi cessò di colpo. Mi indicò con la scintillante lama alla fine del braccio. «Che vuole?», disse brusco. «Cosa è venuto a fare fin qui?» La mia prima risposta fu quella di aggrapparmi al molo e di scendere dalla canoa. La creatura reagì puntandomi il coltello contro il petto. Allora risposi dicendogli il mio nome, Peter Garr, e lo scopo delle mie indagini. «Ho i documenti di riconoscimento,» proseguii, «e, a partire da domani mattina presto, controllerò i registri, il lavoro, gli alberi. Ma ora,» continuai «ora, se non mi toghe quel coltello dal petto, glielo strappo dal braccio e lo getto insieme a lei nel fiume.» Queste ultime parole le dissi perché, nel momento in cui avevo accennato ai documenti, le pendule labbra della creatura si erano scostate dai denti, il suo corpo si era fatto ancora più curvo, e la pressione del coltello sul mio ventre era aumentata notevolmente. Quando lo minacciai, lo guardai fisso negli occhi così come lui faceva con me, ed i suoi occhi piccoli come teste di spillo si mossero e mi si levarono di dosso, il braccio- coltello s'abbassò, quindi il volto disumano si torse in un ghigno che voleva certo significare un sorriso. «Mille scuse!», disse stridulo, facendo un inchino. «Vorrà scusare un errore di giudizio! Benvenuto!» Ridacchiò di nuovo, e io, di nuovo, non potei trattenere un brivido. «Sembra che lei abbia freddo,» sogghignò. «Venga, venga! Dov'è la mia ospitalità? Un ospite, l'ambasciatore della potente Società United, ed io lo lascio al freddo tropicale di Giava! Davvero imperdonabile! Sì, davvero! Io ed i miei bambini la metteremo a suo agio fin quando non tornerà dall'interno il mio vice, Mr. Jackson, e lei potrà cominciare le sue indagini. Venga, mi segua!» Dopo quell'invito si liberò dalla mia stretta, si girò e, con un'andatura che somigliava più allo strisciare di un ragno che ad un passo, si mosse dal molo. Gettai al ragazzo della canoa un altro fiorino, lo lasciai andare, e seguii il
mio strano ospite. Mentre camminavo, pensavo alle sue parole. Mi aveva parlato dei suoi bambini. C'era qualcosa di spaventoso, qualcosa di disgustoso, al pensiero che quella mostruosità potesse avere dei figli. Me li immaginai: tre, sei, una dozzina di minuscoli sosia della creatura che mi stava davanti, con i ventri gonfi e simili a ragni. Mi si accapponò la pelle. Camminava velocemente e mi trovavo ora a tre metri e mezzo da lui. Pensavo alle altre cose che mi aveva detto. Aveva accennato al suo vice, che al momento era assente e che dovevo aspettare. Niente affatto, pensavo, non ho intenzione di aspettare nessuno. Questo vice... Jackson lo aveva chiamato. Sapevo che c'era un vice, ma qualcosa non mi quadrava. Cosa poteva essere? Santo cielo! Ecco cos'era! Il nome del vice non era Jackson, era Johnson! Gli assegni firmati da lui erano passati per l'ufficio di Singapore, ed io lo sapevo... I miei pensieri s'interruppero di colpo. Ero a due metri dietro Wharton. A cinque metri a destra e a sinistra cresceva una lussureggiante vegetazione. Ci fu un suono. Mi piegai di scatto sulle ginocchia. Una frazione di secondo, ed un kriss malese sfrecciò nell'aria, lì dove era stata la mia testa. Scintillando e sibilando, andò a finire tra le piante alla mia sinistra. Solo l'esperienza mi aveva salvato. Conoscevo il suono di un kriss in volo. Balzai in piedi ed avanzai con la pistola in mano. Spinsi l'arma contro la schiena di Wharton. «Fa' valere la tua autorità!», lo avvisai. «Un altro tiro come quello, e ti ficco del piombo in corpo!» L'uomo dagli occhi di spillo si voltò, mostrandosi molto sorpreso. «Eh!», domandò. «C'è qualcosa che non va?» «Sa maledettamente bene cos'è che non va!», risposi. «Solo un attimo prima o dopo, e quel kriss avrebbe spaccato in due, come una zucca, la mia testa!» «Un Kriss?» L'uomo dal grande ventre era incredulo. «Qualcuno ha lanciato un kriss? Dio mio! Contro di lei! Oh Dio, oh Dio! Le chiedo scusa! Dev'essere stato George. George è nervoso. Gli parlerò.» Si girò. «George!» chiamò e, parlando in malese (che capivo e parlavo un po'), ordinò a qualcuno che non vedevo di venir fuori. Ci fu un rumore nella boscaglia, un movimento. Guardai sbalordito. Dall'ombra uscì alla luminosa luce della luna il più grande e nero negro che avessi mai visto. Era coperto solo da un perizoma. Trottò verso Wharton come un cane gigantesco. «George,» gli disse l'uomo-ragno, «hai lanciato tu il kriss contro questo
signore?» L'enorme negro annuì e sogghignò, come se si fosse divertito a fare un innocuo scherzetto. «Saja, tuan. Sì, signore,» rispose. «Perché hai lanciato il kriss, George?», gli chiese Wharton. Il negro rispose che aveva pensato che fossi un nemico che voleva assalire il suo padrone alle spalle. Non ci credetti minimamente, ma Wharton lo ammonì ridacchiando malignamente e lo lasciò andare. Alzai la pistola e lasciai perdere. Decisi, comunque, che non mi sarei fatto prendere di nuovo alla sprovvista. In quel posto e in quella gente c'era qualcosa che decisamente non andava, qualcosa di malsano, di morboso, ed ero deciso a scoprire che cosa fosse. La mia opinione del posto e della gente si rafforzò molto alcuni minuti dopo. Subito dopo una curva lungo la strada si profilò immediatamente davanti a noi la casa della piantagione, come un fantasma nella luce argentata. (A destra della casa c'era una fila di baracche basse e sgangherate, che in seguito seppi erano i depositi del lattice ed i magazzini. Il quartiere dei "coolie" si trovava ad oltre cinquecento metri dal limite inferiore della giungla). Mentre ci avvicinavamo, vidi un gruppo di ragazzi indigeni che se ne stavano tranquilli ed in silenzio davanti alla casa. Erano una mezza dozzina. Quella loro assoluta immobilità mi sembrava strana. Erano ragazzi malesi: un malese rimane ragazzo fino a cinquant'anni, ed i ragazzi malesi sono per natura tremendamente rumorosi. Wharton si fermò, e il suo braccio-coltello si irrigidì. «Che succede?», chiese in un malese stridulo. Poi capii la ragione della loro immobilità. Quegli indigeni sembrarono agitarsi, indietreggiare e fuggire da quel tuan simile ad un ragno, senza che in realtà si muovessero affatto. Dietro il loro silenzio c'era paura, un'infinita e vile paura. Balbettando, uno di loro parlò. «I cobra, tuan,» disse con voce tremante, e spinse in avanti una cesta. Ciò che accadde pochi minuti dopo confermò l'idea che a prima vista mi ero fatto del direttore della piantagione, che Wharton, cioè, era impazzito. Ridacchiando gutturalmente, con gli occhi che gli luccicavano, si trascinò in avanti e si inginocchiò vicino alla cesta. Era questa un canestro basso, rotondo, dal fondo largo che si restringeva molto in cima. Wharton scostò il coperchio e guardò dentro. «Tre!», esultò. «Tre grosse bellezze! Bene, bene! Chi le ha catturate?»
Due ragazzi risposero. «Splendido, splendido!», disse battendo loro la schiena con la mano scheletrica. «Sarete ricompensati!» Girò il capo e mi fece segno. Gli andai incontro malvolentieri. Appena mi avvicinai, uscì sibilando dal cesto la cattiva testa di un cobra incappucciato. Gli indigeni si tirarono indietro. Rabbrividii. Wharton scoppiò a ridere selvaggiamente e si piegò sul serpente. «Venga, venga!», mi incitò. «Non abbia paura: non c'è nessun pericolo. Venga a vedere tre dei miei bambini, tre dei miei bambini deliziosi e birichini. Ne ho altri, molti altri; li vedrà dopo. Venga!» Quelle parole terribili mi lasciarono allibito. Ecco cosa aveva voluto dire quando si era riferito ai "suoi bambini"! I suoi bambini erano serpenti! Cobra dal mortale veleno! Wharton era malato! Un malato pericoloso! Col suo braccio-coltello cacciò dentro nella cesta il rettile. Rimise il coperchio ed alzò gli occhi a spillo verso di me. «Così lei mi crede pazzo, eh?» ridacchiò, poi scoppiò a ridere sfrenatamente. «No,» continuò subito dopo, «si sbaglia. Originale, ma non pazzo. Non io. Ma ora,» si raddrizzò, «forse, le devo una spiegazione. Questo,» ed allungò il braccio-coltello, «questo, una volta, era una mano, una bella mano. Un cobra la morse e fui costretto a tagliarla. Fst! Così, recisa con un kriss!» Sospirò. «Era una bella mano. Da allora studio le bellezze dalla testa incappucciata. Le conosco bene. Le educo e le punisco come un vero genitore.» Rise. «Sì, le punisco. Ne ho dozzine ora che aspettano di essere educate... e punite! Ma, sa,» e si piegò più vicino alla cesta, come per aumentare l'intimità, «quella bellezza che mi baciò la mano, quel cobra, non era come questi. No, no! Non era un comune cobra, come questi! Era un cobra reale, un esemplare mostruoso, lungo quattro metri! Era l'unico cobra reale che abbia mai visto. Ma io spero. È successo molti anni fa, ma spero ancora! Ci sono cinquanta fiorini per il ragazzo che me ne porta uno così! Ed il tempo è vicino, il tempo è vicino! Ne hanno visti due poco lontano da qui!» Il suo viso, infiammato dall'eccitazione, era ora vicino al mio. Il suo respiro era ripugnante. Il mio disgusto era giunto al colmo. Mi allontanai e rabbrividii. Smise di parlare di colpo e mi fissò con sguardo assassino: solo per un attimo, però, poi i suoi odiosi tratti del volto si torsero in un sorriso. «Ha di nuovo freddo, Mr. Garr?», sogghignò. «Ha bisogno di riposare... sì... di riposare a lungo. L'accompagnerò nella sua stanza.» Si voltò verso gli indigeni dagli occhi rotondi ed ordinò loro di mettere a
letto i due serpenti insieme ai loro "fratelli e sorelle" e di portargli l'altro. Mi disse: «Mi segua, Mr. Garr,» e si trascinò verso casa. Io lo seguii con il mio bagaglio. La camera assegnatami dava sul grande soggiorno e sembrava abbastanza confortevole e sicura. Le due finestre erano chiuse da solide imposte e la porta aveva un chiavistello interno, che chiusi quando entrai. Mi sentii sufficientemente al sicuro e ne fui contento, perché era molto tardi ed ero stanco morto. Mi spogliai subito, spensi la luce ed andai a letto. Mi accorsi quasi subito che nella porta della stanza da letto c'era una sottile fessura, da cui filtrava la luce della stanza accanto. Ciò mi disturbò. Se la luce era ancora accesa, allora Wharton doveva essere ancora sveglio. Perché quel pazzo furioso non se ne andava a letto? Rimasi in ascolto e, dopo poco, lo sentii muovere nella stanza illuminata. Più volte presi sonno, ma ogni volta venni svegliato di botto dalla luce della fessura che mi arrivava dritto negli occhi. Rimasi sdraiato così per un'ora, con gli occhi pesanti di sonno, ed io che non riuscivo a dormire, sapendo che quel pazzo era ancora in giro. Alla fine, nauseato, decisi di fumare. Mi misi a sedere sul letto, i piedi sul pavimento. Raggiunsi la cordicella della luce, poi m'irrigidii. Per alcuni minuti nella stanza accanto c'era stato profondo silenzio. Ora, da dietro alla porta, veniva un nuovo suono, come di sibilo. Era il sibilo di un cobra! Al mondo ci sono pochi suoni più agghiaccianti di quello. Subito dopo il sibilo, un altro suono attraversò la porta: il riso basso e bestiale di Wharton! Non sono un codardo, ma in quel riso dopo il sibilo c'era qualcosa di così morboso, di così ripugnante, che cominciai a sudare per tutto il corpo. Che diavolo stava combinando quel fanatico? Di nuovo il sibilo ancora più forte; e la risata disumana di Wharton che sembrava andare a tempo con i sibili. Poiché non ce la facevo più a rimanere lì senza sapere, balzai in piedi, senza far rumore mi avvicinai alla porta e guardai attraverso la fessura. Ciò che vidi era talmente spaventoso, che mi si drizzarono i capelli. Lì, al centro della grande stanza ben illuminata, c'era il ragno umano, inginocchiato, col braccio-coltello steso in avanti, che si dondolava sui fianchi del suo ventre disgustoso e rideva con quella sua risata che sembrava risuonare dentro un teschio vuoto. Dritto, a due metri da lui, sollevato da un metro da terra, sibilava orribilmente uno schifoso cobra, con la testa schiacciata e cattiva che oscillava da un lato all'altro di fronte a Wharton, la lingua nera
e biforcuta che usciva fuori a scatti, i piccoli occhi che guardavano fissi. Disgustato, rimasi a guardare come paralizzato accanto alla porta. Un attimo, e rimasi senza fiato. Wharton si alzava! Dondolando si avvicinava al rettile! Quell'uomo era più pazzo di quanto credessi! Passo dopo passo, sempre più vicino! Un metro e mezzo. Un metro: ora si sarebbe fermato! A novanta centimetri il rettile l'avrebbe aggredito! No! Più vicino. Novanta centimetri. Il serpente non aggrediva ancora, Settantacinque centimetri. Sessanta centimetri. Il volto di Wharton dondolava a sessanta centimetri dal più velenoso dei serpente. Era un suicidio! Un morso di un cobra sul viso è la fine! Pensai alla pistola. Quel pensiero si dileguò, lo stupore ne prese il posto. Stavo assistendo ad un miracolo. Il volto di Wharton non si era accostato oltre al serpente, era rimasto a sessanta centimetri, ma non perché Wharton avesse smesso di strisciare in avanti: il cobra indietreggiava! Sempre di più, oscillando, oscillando, sibilando, e l'odioso uomo-ragno lo seguiva. Sempre più indietro. Stavo assistendo ad uno spettacolo forse mai visto prima da essere umano. Il cobra era ipnotizzato! Wharton stava educando uno dei suoi bambini! Andavano sempre più indietro. Vidi gli occhi di Wharton. Sembravano girare, turbinare come minuscole trottole nere. Indietro. Il sudore mi bagnò le ascelle. Indietro. Si stavano avvicinando al muro. Il coltello di Wharton era a soli cinque centimetri dalla gola del serpente. Indietro. Arrivato al muro, il serpente avrebbe colpito di sicuro. Indietro. Quindici centimetri, otto centimetri, tre centimetri. Il serpente arrivò al muro e non colpì! Il coltello si fece ancora più vicino. Vidi che gli toccò la gola. Il resto accadde velocemente. Con un diabolico grido di piacere, Wharton affondò il coltello nella gola del serpente ed inchiodò al muro l'orrido animale che si torceva, si dibatteva, sibilava. Profondamente disgustato mi allontanai dalla porta. Wharton aveva "punito" uno dei suoi bambini. Stravolto tornai a letto e sperai ardentemente che ciò a cui avevo assistito fosse l'ultimo atto del raccapricciante spettacolo notturno; e per alcuni minuti, forse trenta, sembrò che fosse così. Tutti i rumori nell'altra stanza erano cessati e la fessura aveva smesso di brillare. Caddi in un sonno profondo ma vigile. All'improvviso, però, mi svegliai di soprassalto. L'acuto urlo in falsetto di un uomo ruppe il silenzio della notte, disturbando ancora una volta la quiete. Non era il grido di un uomo che veniva strangolato, era un grido di paura folle. Non ne potei più, ed imprecai. «Una donna "coolie",» pensai,
«che si è svegliata nel cuore della notte ed ha trovato il suo uomo accoltellato al suo fianco.» Mi girai dalla parte opposta e decisi di far finta di nulla, qualunque cosa fosse successa. Ma non mi fu possibile. Le grida continuarono e sembrava che si avvicinassero sempre di più alla casa. Ora sembravano dei lamenti. Quando furono vicine, si unì loro un coro di altre voci, basse, eccitate, che farfugliavano in malese. Mi alzai dal letto, m'infilai pantaloni e pantofole e andai alla porta. Dei passi risuonarono nella veranda. Qualcuno bussò incerto alla porta d'ingresso. Sentii sempre più forte il passo strascicato di Wharton che attraversava la grande stanza attigua alla mia, sentii aprire la porta. «Che significa questo, brutti porci?», gridò stridulo. Gli rispose una voce terrorizzata, lamentosa. Afferrai abbastanza per sapere che un ragazzo era stato morso da un serpente. Tirai il chiavistello, aprii la porta ed uscii nella stanza. Era buio, ma riuscii a vedere il gruppo alla porta. Sentii meglio il gemito del ragazzo. «Salvi Moko, tuan,» supplicava il ragazzo nella sua lingua. «Per favore, salvi Moko! Allah la protegga, tuan, per favore, salvi Moko!» «Va' all'inferno!», gridò Wharton brutalmente. «Tirarmi giù dal letto a quest'ora! Salvati da solo! Tagliati la mano come ho fatto io, brutto porco! Andate via, maiali, andate via tutti!» Ma l'indigeno terrorizzato continuò a gemere. «No-tuan! Per favore, tuan! Moko diventerà nero e morirà! Per favore tuan! Solo tuan besar può salvare Moko! Era un cobra reale, tuan! Moko diventerà nero e...» A quelle parole Wharton balzò indietro e premette l'interruttore della luce. Si era trasfigurato. Aveva il volto acceso da una diabolica gioia. Tirò dentro il ragazzo. «Era cosa?», chiese con voce stridula. «Un cobra reale? Dove, dove? Presto!» Prese la mano destra del ragazzo e con quella gli strinse forte il polso sinistro. «Vicino al deposito dei sacchi, tuan nel boschetto numero quattro! Per favore, tuan, fa molto male!» Ma Wharton non ascoltava. Andò di corsa nell'angolo della stanza, prese una canna di bambù lunga tre metri con un grosso cappio in punta, e gridò: «I miei calzoni e gli stivali, presto, brutti porci!» Glieli portarono. Dopo pochi secondi li aveva già addosso. Si avviò alla porta. Il ragazzo urlava. Mi feci avanti. «Un momento!» dissi all'improvviso. «Non vorrà mica lasciar morire quel ragazzo!»
Wharton si voltò. Prima non mi aveva visto. Rise sfrenatamente. «Il ragazzo vada all'inferno!» gridò, e si trascinò in fretta fuori. Mi diedi subito da fare. Doveva esserci del siero in casa, ma se c'era, non sapevo dove, né avevo tempo di cercarlo. Il veleno era rimasto nella mano del ragazzo quasi cinque minuti, ed il veleno del cobra spesso uccide in quindici minuti. Fortunatamente, però, la mano che stringeva il polso aveva fatto passare poco veleno nel braccio. Diedi ordine a due indigeni di mettere a bollire dell'acqua, col mio fazzoletto ed un bastone improvvisai un laccio emostatico, poi dissi al ragazzo di non stringere più e gli applicai il laccio. Il serpente aveva morso su un lato del palmo della mano. Quando vidi i segni dei denti, pensai che il ragazzo aveva detto la verità affermando che si trattava di un cobra reale. I due buchi distavano sette centimetri l'uno dall'altro: solo un serpente di tre metri e mezzo con una testa gigantesca poteva averli fatti. Con la lama più tagliente del mio coltellino incisi due volte la mano del ragazzo, lì dove era stato morso. Feci due incisioni lunghe e profonde, ed il sangue zampillò. Il ragazzo, urlò, naturalmente, ma sapevo che l'unica possibilità di salvezza era quella di far uscire dalla mano tutto il sangue. Fatto ciò, tolsi il laccio e dissi al ragazzo di immergere la mano nell'acqua bollente e di tenerla lì. Soffriva terribilmente, ma obbedì senza esitare. Terminai il trattamento con un'applicazione di iodio che portavo sempre nella mia borsa, gli bendai la mano con i panni più puliti che riuscii a trovare e gli ordinai di mettersi a letto e di rimanere tranquillo per dieci ore. Il ragazzo mi mandò le migliori benedizioni di Allah e se ne andò, seguito da tutti gli altri. Il mio pronto soccorso era durato più di mezz'ora. Si sentivano ancora le voci del gruppo, quando Wharton tornò. L'uomo era fuori di se per l'eccitazione febbrile, borbottava e ridacchiava. Nella mano destra aveva la canna di bambù e, appoggiata su un fianco, la cesta rotonda dalla stretta imboccatura. La cesta sembrava pesante. Entrato nella stanza, posò a terra la cesta e, ignorandomi, tirò dall'angolo uno scatolo quadrato, ciascun lato del quale misurava un metro. Lo scatolo era chiuso da un coperchio a cerniera fermato da un forte gancio. Una faccia del cubo era chiusa da una rete metallica fitta e sottile. Wharton trascinò lo scatolo al centro della stanza accanto alla cesta, aprì il gancio, sollevò di un quarto il coperchio e lo mantenne con il piede. Si chinò, prese la cesta, la alzò sull'apertura dello scatolo, e la rovesciò. Con la mano-coltello
raggiunse il coperchio della cesta e lo aprì. Qualcosa di molle e pesante cadde nello scatolo. Il coperchio sbatté giù ed il gancio scattò. Wharton balzò indietro, s'inginocchiò e cominciò a ridere sfrenatamente davanti alla rete. «Mr. Garr,» gridò, «lei mi ha portato fortuna! E che fortuna! Venga, Mr. Garr, venga a vedere! Venga a vedere il mio ultimo bambino, il più bello ed il più grande che ho! Il bambino dei miei sogni!» Sapevo cosa avrei visto, ma mi feci avanti lo stesso. Era un cobra, naturalmente, ma che cobra. Era veramente un cobra reale! Avvolto com'era nello scatolo, l'enorme testa eretta che toccava il coperchio, non riuscii a vedere quanto misurava esattamente ma, a giudicare dalla grossezza del suo corpo, spesso quanto un polpaccio di un uomo, non era lungo meno di tre metri e mezzo. Il serpente e l'uomo rannicchiato davanti ad esso erano uno spettacolo disgustoso. Una rapida occhiata mi soddisfò completamente. «È proprio un bambino,» dissi, e mi voltai dall'altra parte. «Spero però che non lo lascerà dentro casa di notte.» Wharton sembrò meravigliarsi. «Non lasciarlo in casa?», fece stridulo, lanciandomi un'occhiataccia. «Mettere fuori questa bellezza e rischiare di perderla dopo tutti questi anni? Dev'essere pazzo!» «Forse,» ribattei, sforzandomi di ridacchiare, «ma è il suo bambino, e non il mio; i miei sentimenti nei suoi confronti non sono, perciò, esattamente paterni. E poi, visto che lei ha intenzione di educare e punire la sua prole, lo metta fuori sino al mattino e mi faccia dormire un po', che ne dice?» I piccoli occhi neri dell'uomo-ragno penetrarono freddi nei miei e le sue labbra si piegarono in un sorriso. «Dormire!», ripeté. «Così lei vuole dormire, Mr. Garr. Bene, i desideri di un ospite sono ordini. Non sarà più disturbato... stanotte.» E appena mi avviai alla porta della mia camera: «Non stanotte, Mr. Garr,» mormorò. Quelle parole allusive risuonarono vere, perché entrai nella mia stanza, mi tolsi calzoni e pantofole, m'infilai a letto e dormii sette ore di fila. Erano quasi le dieci quando mi svegliai la mattina dopo. Appena uscii dalla camera mi salutò un ragazzo che aspettava accanto ad un tavolo dov'era servita una colazione. Era stata preparata per me per ordine del tuan besar, il gran signore. Lo scatolo del cobra ora era in un angolo della stanza.
«Dov'è tuan Wharton?», chiesi, mettendomi a sedere. Il ragazzo lanciò uno sguardo furtivo a destra e a sinistra poi mormorò: «Tida taue, tuan, non so nulla, signore.» Si comportava come gli indigeni della sera prima. Ciò mi irritò. Dissi: «Di cosa avete paura, tu e gli altri ragazzi? Vi comportate tutti come se foste ad un passo dalla fossa. Che cosa c'è che non va qui, eh?» Il ragazzo si tirò indietro tremando. Era la personificazione della paura allo stato puro quando mormorò ripetutamente: «Tida taue, tuan! Tida taue, tuan!» Era chiaro che era spaventato a morte, come tutti quelli che avevo incontrato in quel posto. Ovviamente non riuscii a cavargli di bocca nessuna informazione; terminai così la colazione in silenzio. Poi accesi la pipa, uscii in veranda, scesi gli scalini e feci il giro della casa. Mentre mi avvicinavo al retro sentii un rumore metallico, come di affilatura. Un attimo dopo scorsi George, il gigantesco negro che, seduto all'ombra della casa, stava affilando con cura un kriss con una pietra liscia. Lo salutai in malese. Non mi rispose a parole ma, alzando lo sguardo, mi fece un sorriso che gli arrivava alle orecchie. Mi colpì il fatto che era l'unico uomo della piantagione, dopo Wharton, che non era contagiato dal virus della paura. Era ancora più grande di quanto ricordassi. Era alto almeno due metri e venti e doveva pesare centoventi chili. C'era un che di ironico nel sorriso che mi aveva lanciato, dal momento che era impegnato ad affilare probabilmente proprio l'arma che aveva scagliato contro la mia testa la sera prima. Sorrisi. «Stai per fare la barba a qualcuno?», chiesi. «O forse per tagliargli i capelli?» Il suo sorriso, dato che non poteva farsi ancora più intenso, si allungò. Annuì energicamente. «Bene,» continuai, «ma sta' attento a non farti scappare di mano il rasoio. Se ti scappa un'altra volta,» tamburellai sulla fondina della pistola, «non te lo perdonerò di nuovo!» Il negro buttò indietro la testa e scoppiò a ridere forte. In quel momento vidi Wharton. Era uscito dai magazzini e si dirigeva verso casa. Lo salutai e mi avvicinai. Fui di poche parole: «Buon giorno! Se non le dispiace, oggi comincio con i registri. Non ha controllato i miei documenti, e se vuole...» «Mio caro Mr. Garr,» mi interruppe stizzito, «le ho detto che deve rimandare le sue indagini sino al ritorno del mio vice. Sono troppo occupato per...»
«Sciocchezze!», scattai. «Lei è il direttore! Perché dovrei aspettare il suo vice?» Le sue labbra si allungarono in un sorriso che per un attimo nascose il luccichio dei suoi denti. «Saranno pure sciocchezze,» rispose, «ma per ficcare il naso negli affari altrui dovrà aspettare lo stesso fino al ritorno di Mr. Jackson.» Si voltò, ma lo fermai afferrandolo per un braccio ossuto. «Un momento!», dissi. «Come mai, Wharton, chiama il suo vice Jackson, se il suo nome, invece, è Johnson?» Stizzito, si girò di scatto verso di me. Alzò il braccio-coltello e lo portò indietro. Con una mossa veloce afferrai il braccio, lo torsi e glielo appoggiai sullo stomaco. Con i suoi minuscoli occhi a spillo mi lanciò un'occhiata assassina. Poi sbollì e si rilassò. Il volto cadaverico si torse in un ghigno. «Eh?», disse. «Oh!... Johnson... sì, certo, Johnson. Mi si è imbrogliata la lingua, Mr. Garr. Johnson, Jackson, Johnson... che differenza fa, Mr. Garr?» Si tirò via da me e se ne andò ridacchiando. Costretto ad accontentarmi di quanto potevo scoprire da solo, passai il resto del giorno a girare per la piantagione. L'apparente normalità del lavoro mi meravigliò. Indigeni e "coolie", sebbene scontrosi, silenziosi e segnati tutti da quella paura che mi aveva lasciato perplesso, sembravano tutti impegnati a svolgere il loro duro lavoro. Non riuscivo a spiegarmi affatto il calo della produzione. Verso sera, mentre nel buio del rapido crepuscolo ritornavo a casa da un'ispezione agli alberi, che sembravano in un eccellente stato di produzione, un indigeno che passava di lì mi salutò con dolcezza. Quando gli fui più vicino, riconobbi il ragazzo che era stato morso dal serpente. Mi fermai per sapere come stava. Come m'aspettavo era stato male tutto il giorno, ma ora si sentiva molto meglio. Alla luce di una piccola pila che avevo l'abitudine di portare con me, esaminai la mano e gli assicurai che era fuori pericolo. Per quanto caratterizzati da quella furtività a cui mi stavo abituando, i ripetuti ringraziamenti del ragazzo sembravano sinceri. Mi venne in mente che potevo sapere qualcosa da lui. «Moko,» domandai nel suo dialetto, «c'è qualcosa di cui hai paura?» I gesti e le parole di Moko si contraddicevano a vicenda. «No, tuan!», rispose con voce terrificata. «Su Moko,» insistei delicatamente. «Non hai paura di me vero? Sai che
sono tuo amico. So che c'è qualcosa che ti spaventa, dimmi, cos'è. È tuan Wharton?» A quelle parole l'espressione del volto di Moko cambiò. C'era paura, ma anche qualcos'altro: odio. Con gli occhi che gli brillavano mi venne più vicino. «No tuan!», bisbigliò piano. «No! Moko vuol bene a tuan Wharton! Ma l'uomo dal grande ventre, il padre dei cobra, non è tuan Wharton! È Spider Horrosek! È Spider Horrosek, tuan!» Spider Horrosek! Quel nome mi ricordava qualcosa. Spider Horrosek! I piantatori a bordo del battello per Batavia! Per Dio! Quello era il nome che loro avevano pronunciato! Spider Horrosek, un pazzo con una sola mano, con un incredibile potere sui serpenti. Ma Wharton allora, dov'era? E Johnson? Quel demonio li aveva... Mi voltai verso il ragazzo, ma quello se n'era andato. Era quasi buio, ora. La scura, cupa notte tropicale sembrava avvolgermi e soffocarmi. Povero Wharton... e Johnson... erano morti senz'altro. Quel demonio li aveva... Ma un momento! Quelle lettere spedite dalla piantagione... Era la calligrafia di Wharton! Certo, potevano esser false, ma... Bene, c'era solo un modo per scoprirlo; solo un uomo sapeva se Wharton era morto o vivo, dov'era: Horrosek! Ero deciso a farmi dire la verità, o gli avrei tagliato la gola col suo sporco coltello. Lo trovai inginocchiato davanti alla gabbia del cobra reale. Aveva fatto arrabbiare il gigantesco rettile ed ora si divertiva a ridere come uno stupido a vederlo scagliarsi inutilmente contro la rete metallica. «Salve, Mr. Garr!», disse. «Venga a vedere il mio bel birichino! Come gli piacerebbe baciarmi! È... Oh!... Lei sembra un po' turbato, Mr. Garr. Spero...» «Si alzi!», dissi secco. «Svelto, se non vuole che la tiri su io!» Si sollevò. Mi avvicinai. «Mi stia a sentire, Mr. Spider Horrosek: sono stufo e le dò trenta secondi di tempo per rispondere ad una domanda. Trenta secondi e, se lei non sarà chiaro, le dò la mia parola che le squarcio la gola da un orecchio all'altro con quello sporco, disgustoso coltello che ha alla fine del braccio! Mi dica: dov'è Wharton?» Il pallido volto dell'uomo si fece scuro. I denti digrignarono, i neri occhi rotearono: la pazzia contrariata esplodeva incontenibile. Wharton doveva aver concentrato tutto il potere della sua volontà in quello sguardo folle ed
ipnotico, poiché sentii uno strano e sottile formicolio dentro di me. I suoi poteri, però, erano insufficienti e, per dargliene una prova, afferrai il braccio-coltello, lo piegai e glielo portai alla gola «Dov'è Wharton?», ripetei. Fece un chiaro sforzo per calmarsi. Abbassò gli occhi. Rise in quel modo sordo e disumano. «E così, Mr. Garr, lei mi ha scoperto,» mormorò. «Bene! Ho tardato troppo ad ucciderla. Che peccato! Ma,» sospirò, «si gioca per vincere non è vero Mr. Garr? Se mi lascia libero la porterò da Mr. Wharton, che stamattina era vivo e vegeto.» «Avanti!» dissi, ed estrassi la pistola puntandogliela nella schiena. «E niente trucchi!» Uscimmo ed arrivammo al principale deposito di lattice. Entrammo, ed Horrosek, senza che glielo ordinassi, premé un interruttore della luce. La stanza buia si inondò di una luce accecante. Attraversammo la stanza, la pistola puntata ancora alla schiena, e giungemmo ad un'altra porta. Di nuovo senza aspettare il mio ordine accese la luce. Attraversammo anche quella stanza ed arrivammo ad un'altra porta. Mentre l'apriva Horrosek si voltò verso di me e mi disse: «L'interruttore di questa stanza è sul muro di fronte, Mr. Garr. Se la sente si passare al buio in mia compagnia?» I miei occhi si erano abituati alla luce, l'oscurità era totale. Per tutta risposta, comunque afferrai all'altezza del polso il braccio-coltello e spinsi più forte la pistola contro la sua spina dorsale. «Avanti!» dissi. Nel buio della stanza non vedevo assolutamente nulla. Ci muovemmo. Tre passi, cinque passi, dieci passi. La stanza doveva essere lunga quindici passi, pensai. Dodici passi, quindici passi, dovevamo esserci. Stavo per parlare, ma... Come colpita da un proiettile, la pistola mi volò via di mano. Con l'impeto di una tigre qualcosa mi aggredì dall'alto e di fianco: qualcosa di massiccio e di vivo. Nello stesso istante due braccia, lunghe come proboscidi di elefante, mi strinsero e mi scaraventarono in avanti. Pensando di andare a sfracellarmi contro il muro, mi irrigidii e allungai le braccia. Andai a finire, invece contro un pavimento di cemento, e mi si scorticarono gambe, braccia e viso. Quando, alla fine, mi sollevai da terra, una pesante porta sbatté e un colpo di spranga fece tremare l'edificio. Stordito e sanguinante, udii il riso gutturale e stridulo di Spider Horrosek.
«Si gioca per vincere. Mr. Garr!», gracchiò. «La lascio al divertimento dei miei bambini!» Balzai a sedere. Strofinai e scossi il capo per cercare di riprendermi. Era stato di sicuro il negro gigantesco, George: mi aveva assalito e scaraventato attraverso una porta in un'altra stanza. Probabilmente si era appeso ad una trave del soffitto ed aveva aspettato, abituandosi al buio, che passassi di lì per saltarmi addosso. Ma dove mi trovavo? Poi mi ricordai delle parole di Horrosek e rabbrividii: «La lascio al divertimento dei miei bambini!», aveva detto. I suoi 'bambini'! I serpenti! I cobra! Balzai in piedi. Dio! Mi aveva gettato in una tana di serpenti? L'oscurità era totale. Pensai alla mia piccola pila, sottile e tondeggiante come una penna stilografica. La presi, pregando che non si fosse rotta; le mie preghiere furono esaudite. Il suo raggio bianco tagliò l'oscurità e ed illuminò quattro pareti di tavole, una porta massiccia, un soffitto di tavole ed un pavimento di cemento. Non si vedeva nessun serpente. Tirai un sospiro di sollievo e spensi la luce. Il mio sollievo, però, ebbe vita breve. Sentii un rumore, qualcosa che strusciava vicino alla mia mano. Udii la risata di Horrosek: proveniva da dietro la parete di destra. Accesi la pila. Vidi l'asse più alta della parete di fronte spostarsi a poco a poco verso la parete destra e scomparire del tutto. Poi cominciò a spostarsi quella di sotto, si spostò sempre di più, finché non sparì. Apparve un altro compartimento vuoto. Le assi erano prima otto; se ne spostò un'altra ancora. Sentii un suono terribilmente familiare, un sibilo. Ad una ad una vidi le assi spostarsi mentre, terrorizzato ed impotente, mi schiacciavo contro l'angolo di destra. Rimasero solo due assi, larghe ciascuna trenta centimetri. Guardai al di sopra di esse e rimasi senza fiato. Dieci, quindici, venti o più teste di cobra, schiacciate ed erette, guardavano fisse su di me. Un'altra tavola si mosse; scomparve anche l'ultima. Disarmato ed inerme ero chiuso in una stanza con una gran quantità di mortali serpenti! Il riso di Horrosek si spense. Vidi strisciare in avanti un cobra... poi un altro... un altro ancora... una dozzina. .. sempre più vicini. Trattenni il fiato. Si fermarono a tre metri di fronte a me: tenevano sollevate le loro teste disgustose e fissavano, fissavano con quei loro occhi piccoli ed immobili. All'improvviso capii che li aveva attratti la luce. Avrei dovuto spegnerla?
Al solo pensiero rabbrividii. Qualsiasi cosa era preferibile all'incertezza dell'oscurità. Feci una prova e mossi la pila. Le piatte, crudeli teste seguirono la luce. Bene! I serpenti vedevano solo la luce, e non me, che stavo dietro. Forse... Mi fermai. Avevo sentito bussare contro le assi della parete a cui ero appoggiato con la mano sinistra. Bussai anch'io. A quel rumore le teste schiacciate si girarono un po'. Sentii una debole voce dall'altra parte della parete: «Salve, laggiù!» Era rischioso, ma risposi. I serpenti, vigili, oscillarono e sibilarono nervosamente. Poi la voce chiese: «Chi è lei?» «Peter Garr, di Singapore,» risposi, «e lei?» «Wharton!», fu la risposta. Wharton? Wharton era davvero vivo, imprigionato nella stanza accanto alla mia! La sua voce risuonò di nuovo. «Ha liberato i serpenti?» «Sì!», risposi. Udii un debole «Maledetto!», e poi «Ascolti! Riesce ad arrivare all'asse più alta di questa parete?» Provai. «Sì!», risposi. «Bene! Se tasta con la mano, arriva ad una piccola apertura: se riesce ad infilarvi le dita può tirar via la tavola. Io non posso aiutarla, non ci arrivo.» Mi allungai a più di due metri da terra, ma ci arrivai a stento. Sentii l'apertura, una fessura larga poco più di un centimetro tra il soffitto e l'ultima tavola. Persi ogni speranza. Come potevo infilare le mie grosse dita in una fessura così stretta? I miei movimenti avevano agitato i serpenti che, sibilando, si erano avvicinati di trenta centimetri. Mi prese la disperazione. Dovevo infilare le dita in quella fessura, a costo di scorticarmi la pelle delle ossa. Ma un momento: prima era meglio che... Mi chinai e posai la pila sul pavimento. I piccoli occhi seguirono la luce. Con un'energica spinta feci rotolare la pila lontano, proprio nell'angolo opposto. I serpenti la seguirono strisciando. Stavo rischiando il tutto per tutto: se la pila avesse deviato ed il raggio di luce avesse puntato su di me... Mi allungai di nuovo verso il soffitto, tastai la fessura. In un punto, a settanta centimetri dalla parete opposta, entrò dentro la prima falange del dito medio. Spinsi con tutta la forza che avevo. Il legno mi entrava nella carne. Spinsi più forte. Le dita passarono fino alla seconda nocca. Ma l'asse era spessa cinque centimetri. Sudavo: provando fitte lan-
cinanti allo stomaco, spinsi la mano disperatamente. Dentro... Dentro... All'improvviso il legno cedette e le dita passarono tutte. Piegai le dita e spinsi. Era come spingere contro rigido acciaio. La tavola era bloccata ad una estremità da un robusto fermo di legno. Lanciai uno sguardo ai cobra. Il rumore che inevitabilmente facevo li attraeva. Schioccando le lingue, si allontanavano dalla luce e si avvicinavano a me. Spinsi furiosamente, ma la mia posizione allungata non mi permetteva di far leva. Mi resi conto improvvisamente che non avrei mai potuto disincagliare quell'asse con una sola mano. Allungai anche l'altra. Strinsi i denti e spinsi le dita nella fessura. Agonizzando. L'apertura qui era più stretta. Dentro, sempre più dentro. Stavo per svenire, quando la carne cedette e le dita passarono. Mi arrampicai sul muro puntando contro i piedi e, con tutta la mia forza, diedi uno strattone. Il legno sfrigolò. Il robusto fermo alla fine dell'asse cedette. La tavola venne fuori di sedici centimetri. Con la coda dell'occhio vidi alcuni cobra uscire dalla luce e venire sotto di me, nel buio. Liberai la mano sinistra e la ficcai sotto l'asse, mentre con la destra spingevo furiosamente. Ci fu un forte rumore di schegge, poi l'asse si disincagliò, mi volò sulla testa e cadde pesantemente a terra. Terrorizzato a morte, immaginandomi dozzine di denti velenosi di cobra che affondavano nella mia carne, mi arrampicai in fretta, passai attraverso l'apertura e caddi sul pavimento dell'altra stanza, esausto come mai in vita mia. Passarono alcuni minuti, poi parlai. Spiegai subito a Wharton chi ero e che cosa ero venuto a fare alla piantagione. Lui mi raccontò ciò che gli era successo. Due mesi prima, una notte, Spider Horrosek ed il grande negro, George, erano arrivati alla piantagione. Era la stagione delle piogge e loro erano affamati e senza un rifugio, così Wharton li aveva ospitati e nutriti per quattro giorni. Probabilmente era stato il fatto che la piantagione fosse così isolata a far maturare in Wharton il piano. L'uomo-ragno aveva cominciato uccidendo Johnson, il vice direttore. «Povero diavolo!», esclamò Wharton. «Lo rinchiuse nella stessa stanza dov'era lei poco fa con una mezza dozzina di cobra. Deve aver fatto una fine orribile.» Poi Horrosek, aiutato dal negro, con un pretesto aveva portato Wharton nella cella dove ci trovavamo in quel momento, lo aveva chiuso dentro e, insinuando fra gli indigeni ed i "coolie" la paura della morte uccidendo alcuni di loro spietatamente, aveva preso possesso del posto.
«Mi fa quasi morire di fame,» continuò Wharton, «mi tiene in vita solo perché devo scrivere le lettere ai capi, per nascondere la verità. È totalmente pazzo, naturalmente, ma il suo piano è maledettamente intelligente e preciso. Sottraendo solo la metà, o giù di lì, della produzione, per due mesi è riuscito a tenere lontano le ricerche; poi, quando i capi cominceranno ad insospettirsi, mi ucciderà, prenderà l'incasso dell'intera produzione e se ne andrà tranquillamente. Furbo, eh?» Dovevo convenire. «E sembra,» aggiunsi, «che il suo piano stia funzionando magnificamente, almeno per quanto ci riguarda.» Wharton sospirò. «Sì, rimarremo qui finché non ci farà uscire lui, glielo posso assicurare. Ho perlustrato questa stanza migliaia di volte da quando sono qui, e non c'è nessuna via d'uscita, all'infuori della tana dei cobra. Il pavimento è di cemento e le tavole delle pareti e del soffitto sono spesse cinque centimetri. Ho provato tante volte a sfondare la parete di fronte, perché dall'altra parte c'è l'aria aperta, ma...» La sua voce debole tradì lo scoraggiamento. Non potevo vederlo in faccia, naturalmente, ma dalla voce mi sembrava piuttosto mal ridotto. E c'era poco da meravigliarsi, visto che stava in quel terribile buco da due mesi. Rimanemmo seduti a terra in quella stanza buia in tetro silenzio per delle ore, o così ci sembrò. Provavo atroci dolori alle mani ed ero convinto che Horrosek ci avrebbe uccisi entrambi appena mi avesse scoperto lì. Era orribile essere stipati là e morire come due topi in trappola. Ci doveva essere per forza un modo, uno stratagemma per... Di colpo, senza apparente motivo, mi ricordai un volto: quello di Shifty Morgan, un vagabondo americano, che un tempo era stato grande amico mio. Mi ritornò in mente ciò che mi aveva detto: «Peter, vecchio mio, non riescono a rinchiudermi in uno dei loro buchi perché non c'è nessuna prigione della contea che sia un po' più solida. Fanno il pavimento di cemento spesso, i muri di cemento ancora più spesso, ma poi, gli sciocchi, non fanno altro che appoggiarvi sopra il tetto. Basta dare una spallata che si solleva di sicuro.» Mi diedi uno schiaffo sulla coscia e balzai in piedi. «Wharton,» dissi, «ha costruito lei questo edificio?» «Eh? Certo; cioè, io l'ho fatto costruire.» «Come si mantiene il tetto?» «Il tetto? Beh, come si mantengono di solito i tetti?» «Lo immaginavo! Ascolti! C'è in questa cella uno scatolo, qualcosa di robusto su cui potrei salire?»
«Certo, c'è uno scatolo laggiù nell'angolo. Me lo ha dato Horrosek per metterci sopra la mia razione. Penso che sia abbastanza forte. Che cosa vuole farci?» Non risposi. Brancolai nel buio fino all'angolo, trovai lo scatolo, lo portai dalla parte opposta, ci salii sopra, misi le spalle sotto al soffitto e spinsi. Evviva! Il buon vecchio Shifty Morgan aveva ragione! Il soffitto aveva ceduto un po'. Puntai meglio i piedi e spinsi di nuovo con più forza. Quando sentì i chiodi scricchiolare, Wharton si alzò in piedi. Tre tavole del tetto si erano sollevate di cinque centimetri. Dalla fessura potevo vedere le stelle. Spinsi ancora. Il tetto si sollevò all'altezza del sottile strato di lamiera, poi, con uno stridio metallico, si staccò del tutto. Dovevo far presto. Quel frastuono avrebbe potuto resuscitare un morto! Sollevai di nuovo. Tre tavole si staccarono dalla parete e caddero rumorosamente a terra. Le spinsi di lato, vi salii sopra, scavalcai con la gamba destra, poi mi voltai per vedere Wharton. Rimasi di ghiaccio. Sotto di me, alla mia destra, qualcuno ridacchiava sommessamente, pesantemente. Mi torsi. Lì, a tre metri dal muro, nero ed enorme nella luce della luna, c'era il negro, George. Sul perizoma aveva una cintura, dove teneva infilati un kriss ed una pistola, la mia. Appena lo guardai si slacciò la cintura, se la tolse e la gettò indietro con kriss e pistola, a sei metri da lui. Come un grosso scimmione, ridendo allegramente, si fece avanti. «Scendi giù, tuan,» ridacchiò in stretto malese. «Scendi giù, così George ti strapperà la pelle di dosso con le sue mani e la ridurrà in brandelli!» Era la fine pensai. Potevo lottare con un uomo, ero abbastanza robusto, ma quello non era un uomo, era un gorilla! Al confronto ero un gracile peso mosca, malgrado i miei novanta chili. Beh, sarebbe stato meglio che soffrire e morire per il morso velenoso di un cobra, e forse... All'improvviso passai la gamba sinistra dall'altra parte e mi lanciai. Caddi a trenta centimetri davanti a lui, leggermente più avanti a destra. Con tutta la mia forza mi scagliai contro di lui e gli mollai un destro proprio nello stomaco. Avevo visto uomini di un quintale cadere per un colpo meno potente. Il negro, invece, si limitò a fermarsi e continuò a ridacchiare. Il suo stomaco sembrava di cemento. Veniva avanti con le braccia all'infuori, le mani aperte. Feci un passo indietro e lo colpii con un sinistro alla mascella. Avanzava curvo, dondolando. Aveva le braccia aperte. Indietreggiai e lo colpii, lo colpii forte. Le mie mani scorticate lo macchiaro-
no di sangue. Lui rideva soltanto ed avanzava, le grosse braccia tese per afferrarmi. Ero a settanta centimetri dal muro. Dovevo liberarmi di quelle mani a tutti i costi! Gli affondai un terribile destro nello stomaco. Il colpo fu volutamente basso. Era in gioco la mia vita. Il negro grugnì, grugnì e ridacchiò. Si lanciò di scatto su di me. Lo scansai buttandomi a sinistra. Una mano mi afferrò una spalla, me la strinse. Mi contorsi e mi dibattei disperatamente, mi liberai dalla sua stretta, ma mezzo soprabito gli rimase in mano. Con un salto gli fui di spalle, e gli sganciai un tremendo sinistro nei reni. Si voltò. Non riuscivo a far cessare quella risata! Mi venne di nuovo addosso. Era più svelto ora e più rannicchiato. Era più difficile colpire. Due volte la mia mano sinistra colpì il suo cranio d'acciaio. Mi si indolenzì il braccio. Indietreggiai. Indietro, ancora più indietro. La risata dell'animale africano mi stava addosso. Lo avevo colpito centinaia di volte con pugni micidiali, e lui si divertiva! Indietreggiai. Le braccia non ce la facevano più, non mi sentivo più la mano sinistra. Continuando ad indietreggiare, feci il giro e cercai di raggiungere il kriss e la pistola. Lui intuì la mia mossa, caricò e mi costrinse ad allontanarmi. Indietreggiai. Fui di nuovo vicino al muro. Mi riusciva difficile respirare. Il sudore mi colava dalla fronte sugli occhi. Alzai la mano per asciugarmi. In quel momento il negro mi saltò addosso, questa volta con la testa alzata, le braccia, prima chiuse in difesa, tutte allargate. Mi rannicchiai e, con un salto all'indietro, lo scansai. Andai a finire contro il muro. Una mano mi raggiunse all'altezza del petto e mi afferrò i vestiti. Mi dimenai. La mano non mollava. Con una forza tremenda mi tirò su, poi un braccio nero e grande mi circondò e mi sbatté contro il torace puzzolente ed unto. Una mano mi afferrò la spalla e la strinse forte. Lottai furiosamente colpendo selvaggiamente quel corpo gigantesco. Le braccia strinsero sempre di più, la mano affondò ancora di più nella spalla, mentre la risata continuava incessante. Il negro mi avrebbe spezzato le ossa ridendo! Le sue dita erano punte d'acciaio incandescenti nella mia spalla; le mie costole, schiacciate contro la schiena, erano spilli roventi. Sentii ruggire. Due occhi fiammeggianti mi accecarono. Tirai calci furiosi, i miei grossi stivali colpirono carne ed ossa. Udii un vago gemito. Caddi di spalle e la morsa sul petto e sulla spalla si allentò di colpo. Caddi di spalle contro il muro. Un attimo, e la mente cominciò a schiarirsi. Guardai avanti. Con la vista annebbiata vidi, ad un metro e mezzo da me, il negro. Non ghignava e non rideva più. Digrignava i denti e mi guardava minaccioso.
Poi si accasciò e si strofinò le gambe. Lo avevo colpito agli stinchi. Non era completamente invulnerabile, allora! Quella scoperta mi diede forza. Forse quel bruto aveva altri punti deboli. Sicuro di morire, avevo lottato disperatamente, senza riflettere. Respirai profondamente e ricominciai a muovere spalla e braccio intorpiditi. La mente mi si schiariva rapidamente e le idee si succedevano una dietro l'altra. Dove avrei potuto fargli male? Le mascelle ed il corpo erano d'acciaio, mi sarei rotto le mani. Prenderlo a calci nelle tibie significava solo ritardare la mia morte. Avrei potuto colpirlo alla gola, ma il collo era troppo... Il collo! Dietro al collo! Mi ricordai delle parole di Sawtell (Sawtell, l'istruttore di ju-jutsu): «Basta un tocco, Garr, perché se bene assestato, il collo deve spezzarsi!» Il coniglio! Il colpo del coniglio! Il grande negro caricava: la testa abbassata, ringhiava come un babbuino furioso. Non rideva più adesso: voleva uccidermi velocemente. La mia respirazione di quindici secondi mi aveva ossigenato il cervello. Aspettai una frazione di secondo, poi mi piegai di scatto e schivai il colpo torcendomi su un fianco. Alzai la mano e l'aprii. Il negro colpì il muro. Avevo il suo collo sotto di me. Ora! Con un colpo netto e rapido lo colpii col dorso della mano aperta proprio alla nuca. Si sentì un rumore sordo. Balzai indietro. Il colpo mi aveva quasi spezzato il polso, Un attimo e, orrore, il negro si raddrizzò. Buon Dio! Se non ero riuscito a fargli male in quel modo, ero... Guardai sbalordito. Il negro si era voltato verso di me e mi guardava con un orribile ghigno di stupore. Barcollava. La testa massiccia gli penzolava sulle spalle. Sembrava che cercasse di metterla diritta. All'improvviso capii: gli avevo spezzato il collo. Vidi i suoi occhi luccicare alla luce della luna. Dalla bocca aperta gorgogliò l'ultima risata. Le gambe gli si piegarono: come un grosso bue stramazzò a terra, morto. Ringraziai in silenzio Dio. Avevo un terribile bisogno di riposare. Mi sentivo nauseato e sfinito; avevo dolori per tutto il corpo. Ma con Horrosek ancora da sistemare, non c'era tempo da perdere. Per prima cosa m'impossessai del kriss e della pistola. Misi nel fodero la pistola e mi diressi al capannone, da Wharton. Mentre lottavo, il poveraccio era rimasto nella prigione senza che potessi far niente. Farlo arrampicare ed uscire di lì fu una faticaccia, perché lui era quasi del tutto privo di forze, ed io ero stremato. Alla fine, però, ci riuscii, gli diedi il kriss e ci avviammo verso la casa. Pensavo che Horrosek confidasse pienamente nel suo gigantesco guardiano negro e che non si aspet-
tasse di vederci. Avevo ragione. Mentre ci avvicinavamo alla casa, vidi l'uomo-ragno oziare davanti alla veranda. Nello stesso momento anche lui si accorse di noi: ci guardò sbalordito, si voltò, salì di corsa gli scalini della veranda ed entrò in casa. Sentii il chiavistello sbattere forte. Un momento prima, però, era accaduto qualcos'altro. Ci stavamo avvicinando di lato alla casa quando, mentre Horrosek entrava nel grande soggiorno, avevo visto una figura scura e quasi nuda scivolare fuori dalla finestra sul retro del soggiorno. La finestra si era chiusa un attimo prima che il chiavistello della porta sbattesse. La figura era rimasta vicino alla finestra, forse a sbirciare nella stanza. Wharton ed io ci dirigemmo alla porta: eravamo forse a venti metri da essa. Bussai «Non hai scampo, Horrosek!», gridai. «È meglio che t'arrendi, se non vuoi morire!» Non mi rispose. Stavo per parlare di nuovo, quando sentii la risata bassa e gutturale di Horrosek. Mi fece ricordare l'orrido spettacolo dell'"educazione e punizione" a cui avevo assistito. Quella risata fu la sua unica risposta. La risata continuava, sempre più forte. Cosa diavolo stava combinando quel folle? Wharton suggerì di andare alla finestra del retro, puntargli contro la pistola, e costringerlo ad uscire. Alla finestra trovammo un ragazzo indigeno, il ragazzo che avevo visto sgattaiolare fuori. Era Moko, il giovane morso dal serpente. Gli ordinai di andare via, tirai fuori la pistola e mi avvicinai alla finestra. Rimasi a guardare inorridito. Con il viso rivolto verso di me, Horrosek si era inginocchiato a tre metri e mezzo dalla parete di fronte, rideva e si dondolava. Ad un metro da lui, proprio fra me ed il folle, il gigantesco cobra reale dondolava a tempo con lui, con la testa schiacciata ed incappucciata sollevata ad un metro e mezzo da terra. Capii subito che il ragazzo, Moko, aveva liberato il serpente. Rimasi a guardare per alcuni minuti. Aspettando che il serpente indietreggiasse verso di me per sparargli addosso senza colpire Horrosek. La risata dell'uomo-ragno continuava a crescere. Poi cominciai a sudare freddo di colpo. Il cobra non indietreggiava! Horrosek indietreggiava! Lentamente, lentamente, passo dopo passo, fino alla parete! Il cobra dondolava, sibilava, avanzava! L'uomo-ragno che prima si trovava a tre metri e mezzo dalla parete, ora era solo ad un metro e mezzo da essa! E rideva, rideva sempre più forte. La
risata stava diventando uno strillo. Un metro! Non potevo far nulla! Non potevo sparare sul serpente senza colpire Horrosek. Sempre più vicino alla parete. Novanta centimetri! Sessanta centimetri! Vedevo i minuscoli occhi neri dell'uomo roteare terrorizzati. Ancora più vicino. Trenta centimetri! Più vicino! Horrosek era con le spalle al muro. Urlò. Non dimenticherò mai quanto avvenne subito dopo. A volte, di notte, mi sveglio tutto sudato, con quell'urlo infernale nelle orecchie e con quella terribile scena davanti agli occhi: il mostruoso cobra reale mordeva, mordeva, mordeva la testa di Spider Horrosek. Tre volte il serpente affondò i denti velenosi nel viso dell'uomo. Ed il morso di cobra sul viso è la fine! Non si può stringere il collo con un laccio emostatico! C'era una sola cosa da fare e, poiché non avevo il coraggio di farla di persona, trovai un'alternativa. Diedi la pistola a Moko, che non mi aveva obbedito ed era rimasto. «Prima il tuan, Moko» dissi. Che questa mia precisazione fosse superflua lo dimostrarono l'avidità ed il ghigno con cui quel piccolo diavolo afferrò la mia pistola. (King Cobra) Leonid Andreyeff RITORNO DALLA MORTE I Quando Lazzaro uscì dal sepolcro dove per tre giorni e tre notti era rimasto sotto il dominio enigmatico della morte e fece ritorno alla sua abitazione, per un certo tempo nessuno notò in lui quelle cose sinistre per le quali il suo nome divenne col tempo sinonimo di terrore. Allietati dalla vista di colui che era stato risuscitato da morte, i suoi cari lo accolsero festosamente e, per soddisfare il loro bisogno di servirlo, si prodigarono in mille premure per i suoi cibi, le sue bevande e il suo abbigliamento. Lo vestirono in gran pompa e quando, come uno sposo in abito da cerimonia, Lazzaro sedette di nuovo a tavola fra loro e mangiò e bevve, essi piansero di affettuosa commozione. Quindi andarono a chiamare i vicini affinché venissero a festeggiare colui che era miracolosamente risorto da morte ed essi vennero e parteciparono alla gioia degli ospiti. Da città e villaggi lontani giunsero forestieri chiamati dalla notizia e adorarono il miracolo con paro-
le commosse, e la casa di Marta e Maria diventò un luogo di pellegrinaggio. Tutto ciò che di nuovo si notava sul volto e nei gesti di Lazzaro era considerato la conseguenza di una grave malattia e delle violente emozioni subite. Il processo di corruzione della carne iniziatosi dopo il trapasso era stato soltanto arrestato dal potere miracoloso, ma i suoi effetti erano rimasti, chiari e visibili; e ciò che la morte aveva fatto sul volto e sul corpo di Lazzaro era come un disegno appena abbozzato da un artista, visto attraverso un vetro sottile. Sulle tempie, sotto gli occhi e nella depressione delle guance di Lazzaro c'era una sfumatura bluastra, cadaverica; bluastre erano anche le dita affusolate e, intorno alle unghie, che si erano allungate dopo la morte, il blu era diventato violaceo, quasi nero. Le labbra tumefatte presentavano qua e là delle lacerazioni rossicce e lucide come fossero coperte d'un velo di mica trasparente. Il corpo s'era ingrossato, assumendo proporzioni mostruose e in varie parti mostrava dei rigonfiamenti impressionanti in cui si avvertiva la presenza dei liquidi fetidi della decomposizione. L'odore forte e nauseabondo di cui era impregnato il sudario di Lazzaro e, sembrava, anche il suo corpo, in breve tempo scomparve, le chiazze bluastre sul volto e sulle mani impallidirono e le lacerazioni sulle labbra a poco a poco si richiusero, sebbene le cicatrici non sparissero mai del tutto. Ecco come appariva quando, risorto, ritornò, fra la gente; ma a quelli che lo avevano visto nella bara la sua faccia sembrava naturale. Oltre al cambiamento di aspetto, pareva che anche il carattere di Lazzaro avesse subito una trasformazione, ma nessuno vi aveva fatto caso. Prima di morire, Lazzaro era sempre stato un giovane allegro e spensierato ed era proprio per questa natura vivace, gaia e priva di malizia che il Maestro gli si era tanto affezionato. Ma ora Lazzaro era diventato serio e taciturno, non scherzava più, non rideva e non partecipava all'allegria degli altri, e le rare parole che diceva erano le più semplici, le più comuni e necessarie, parole inespressive e insignificanti, poco dissimili dai suoni inarticolati coi quali gli animali manifestano il dolore e il piacere, la fame e la sete. Erano le stesse parole che si dicono sempre, tutta la vita, eppure non facevano capire che cosa rallegra o affligge l'animo. Così, con la faccia di un cadavere che per tre giorni era rimasto in balia della morte, cupo e taciturno, già paurosamente trasformato, ma ancora sconosciuto nella sua nuova individualità, egli sedette alla tavola fra parenti e amici, con indosso una sontuosa veste scarlatta luccicante d'oro. Onda-
te di giubilo si levarono intorno a lui e grida e parole festose animarono l'atmosfera; sguardi traboccanti di tenerezza si posarono sul suo volto, freddo della freschezza del sepolcro, e la mano calda e morbida di un amico accarezzò la sua mano gonfia e bluastra, mentre i musicanti, con tube, cetre, arpa e timpano, allietavano la riunione. II Uno degli invitati incautamente sollevò il velo: con una parola sconsiderata ruppe l'incanto e mise a nudo la realtà in tutta la sua crudezza. Prima ancora che il pensiero avesse preso forma nella sua mente, disse in un sorriso: «Perché non ci racconti che cosa è successo là?» Tutti ammutolirono, sorpresi da quella domanda. Fu come se solo allora si rendessero conto che Lazzaro era morto per tre giorni, e lo guardarono ansiosi e trepidanti, in attesa di una sua risposta. Ma Lazzaro non parlò. «Non ce lo vuoi dire?», riprese l'invitato. «È tanto terribile là?» E di nuovo il pensiero venne dopo le parole. Non fosse stato così, non avrebbe mai fatto quella domanda che adesso gli opprimeva il cuore con la sua insopportabile crudeltà. Un senso di disagio si diffuse fra i convitati che attesero pieni di timore la parola di Lazzaro, ma egli abbassò gli occhi e non disse nulla. In quel momento, come fosse stata la prima volta, i presenti videro Lazzaro qual era: notarono il colore bluastro del suo volto e la sua repellente obesità, e tutti gli sguardi si appuntarono sulla mano violacea che teneva abbandonata sulla tavola, come se da quella dovesse venire la risposta che attendevano. I musicanti stavano ancora suonando, ma ora il silenzio raggiunse anche loro: le tube tacquero, le voci sonore del timpano e dell'arpa si spensero, e la cetra, come se le corde si fossero spezzate, mandò un ultimo suono tremulo, triste. Poi fu tutto silenzio. «Non ce lo vuoi dire?», ripeté l'ospite incapace di frenare la lingua. Ma la domanda rimase senza risposta. Infine Lazzaro si scosse dalla sua abulia e tutti si sentirono sollevati. Alzò gli occhi, ed ecco! volse intorno lo sguardo stanco e pieno di orrore, e li guardò... Lazzaro, colui che era resuscitato da morte. Erano passati tre giorni da quando Lazzaro aveva lasciato il sepolcro. Da allora molti avevano sperimentato l'influsso malefico del suo sguardo, ma né quelli che erano stati annientati, né quelli che avevano trovato la forza di reagire, opponendo a esso le forze primigenie della vita che è misteriosa
quanto la morte, seppero mai spiegare l'orrore che spirava dal fondo delle sue pupille nere. Lazzaro guardava le persone tranquillamente, senza proporsi di nascondere nulla, ma anche senza l'intenzione di dire alcunché: guardava con freddo distacco, come uno che sia indifferente a tutto ciò che lo circonda. Molte persone distratte gli passarono accanto senza notarlo, e solo più tardi appresero, con meraviglia e terrore, chi era quell'uomo robusto che passeggiava mesto per le strade, quasi sfiorando i passanti con la sua veste sontuosa. Il sole non cessava di splendere quando guardava la gente, le fontane non smettevano di mormorare e il cielo rimaneva azzurro e terso; ma l'uomo che subiva la malia del suo sguardo enigmatico non udiva più il mormorio delle fontane e non vedeva più il cielo sul suo capo. Talvolta piangeva amaramente, talvolta si strappava i capelli e come in delirio invocava aiuto; ma più spesso cadeva in uno stato di profonda apatia e cominciava a morire, e per anni languiva pallido, muto, inerte, sino alla fine inevitabile, come un albero che inaridisce e si secca in un terreno pietroso. E di quelli che guardavano Lazzaro, chi più piangeva e si disperava, talvolta riusciva a salvarsi dal maleficio e a ricuperare la gioia di vivere; gli altri mai. «Dunque non ci vuoi proprio dire che cos'hai visto là?», ripeté l'uomo, ma con voce atona e stanca, come se la sua curiosità si fosse spenta. Allora un'ombra cupa di tedio mortale scese sugli occhi di Lazzaro, e un'uguale ombra di tedio mortale coprì come polvere le facce degli invitati, i quali si guardarono l'un l'altro stupiti, come se non capissero per quale motivo si erano riuniti a quella tavola imbandita. Tutti pensarono che fosse tempo di tornare a casa, ma non riuscirono a vincere la stanchezza e il torpore delle membra, e così rimasero seduti ai loro posti, l'uno accanto all'altro, eppure separati da un abisso di indifferenza, chiusi in se stessi, assenti, come focherelli isolati in un campo buio. I musicanti, che erano pagati per suonare, ripresero i loro strumenti e tentarono di rianimare la festa con le loro melodie, ora gaie, ora soffuse di lieve malinconia, ma i convitati li guardarono sorpresi: già non sapevano più perché fosse necessario, o utile, che quegli uomini si affannassero a pizzicare corde e a soffiare aria nelle tube per produrre dei rumori tanto molesti. «Che brutta musica!», disse qualcuno. I suonatori si offesero e se ne andarono. Gli invitati a uno a uno li seguirono, poiché era già notte; ma appena si furono allontanati nell'oscurità
tranquilla e silenziosa e cominciarono a respirare liberamente, d'improvviso comparve dinanzi a ciascuno di loro l'immagine di Lazzaro in un alone di luce abbagliante: la faccia bluastra di un cadavere, il sudario splendente e lo sguardo freddo nel quale si leggeva un orrore ignoto. Come pietrificati, essi ristettero immobili avvolti dalle tenebre, ma nel buio rifulgeva ancora di più la visione soprannaturale di colui che per tre giorni era stato morto; tre volte il sole era sorto e tramontato, ma Lazzaro era morto. E adesso era di nuovo fra loro e li toccava e li guardava, e attraverso le pupille nere, come attraverso cristalli anneriti, egli fissava l'inconoscibile aldilà. III Nessuno aveva cura di Lazzaro, poiché non gli erano rimasti né parenti né amici, e il grande deserto che circondava la città santa giungeva sulla soglia della sua casa, vi entrava, si stendeva sul suo letto come una moglie e spegneva il fuoco. Nessuno aveva cura di Lazzaro. Una dopo l'altra le sue sorelle, Marta e Maria, lo avevano abbandonato. Per un certo tempo Marta era stata riluttante a lasciarlo solo, poiché sapeva che nessuno avrebbe avuto pietà di lui e gli avrebbe dato da mangiare: piangeva e pregava ma, una notte che il vento fischiava nel deserto e i cipressi si piegavano sibilando sopra il tetto della casa, si vestì senza far rumore e in tutta segretezza se ne andò. Lazzaro probabilmente sentì la porta sbattere contro lo stipite sotto le raffiche del vento, ma non si alzò per andare a vedere chi lo abbandonava. Per tutta la notte i cipressi sibilarono sul suo capo e la porta sbatté, lasciando entrare in casa il freddo deserto avido, ma Lazzaro non si mosse. La gente evitava Lazzaro come fosse un lebbroso, e fu anche proposto di legargli al collo una campana, come si faceva coi lebbrosi, per avvertire del suo passaggio; ma qualcuno osservò, impallidendo, che sarebbe stato terribile se di notte la campana di Lazzaro avesse svegliato i dormienti, così la proposta venne scartata. E siccome Lazzaro non aveva cura di se stesso, di sicuro sarebbe morto di fame se i suoi vicini non avessero provveduto a nutrirlo, per timore di qualche pericolo che avvertivano solo vagamente. Chi portava a Lazzaro da mangiare erano i bambini, i quali non lo temevano malgrado la sua bruttezza, né lo beffeggiavano o sfogavano su di lui la loro ingenua crudeltà come son soliti fare i bambini coi disgraziati e gli infelici. Essi lo tratta-
vano con indifferenza, e Lazzaro rispondeva con la stessa freddezza e non desiderava accarezzare loro i riccioli neri o guardarli negli occhi innocenti. Abbandonata alle ingiurie del tempo e del deserto, la sua casa stava andando in rovina, e già da un pezzo le sue capre erano andate a vivere nei pascoli vicini come animali selvatici. La sua bella veste scarlatta ricamata d'oro era logora e stracciata: non se l'era più tolta dal giorno felice in cui l'aveva indossata per il banchetto in suo onore, e da allora s'era consumata e stinta e i cani randagi e i rovi del deserto gliel'avevano ridotta a brandelli. Di giorno, quando il sole impietoso arroventava il deserto e perfino gli scorpioni cercavano rifugio sotto le pietre e fremevano dalla voglia di pungere, egli sedeva immobile sotto i raggi cocenti; la faccia bluastra incorniciata dalla barba cespugliosa era spesso rivolta verso il sole. Quando ancora la gente gli parlava, una volta gli era stato chiesto: «Povero Lazzaro, ti piace star lì seduto a guardare il sole?» E lui aveva risposto: «Si, mi piace.» Tanto intenso era stato il freddo del sepolcro, e tanto fitto il buio, che non c'era sulla terra calore sufficiente a riscaldare la sua anima gelata, e non c'era luce bastante a illuminare le tenebre dei suoi occhi. Questo fu ciò che pensarono quelli che parlarono con Lazzaro, e con un sospiro lo lasciarono. E quando il disco infuocato si abbassava sull'orizzonte, Lazzaro s'incamminava nella direzione del sole come se volesse raggiungerlo. Camminava sempre diritto verso l'astro che tramontava e quelli che tentavano di seguirlo per vedere che cosa faceva di notte nel deserto, ricordavano per tutta la vita di aver visto l'ombra di un uomo alto e robusto sullo sfondo di un enorme disco rosso. Poi la notte li inseguì coi suoi orrori, e così essi non seppero mai che cosa facesse Lazzaro nel deserto dopo il tramonto del sole, ma la visione della figura nera sullo sfondo rosso rimase impressa nella loro mente per sempre. Come l'animale con un bruscolo in un occhio si strofina il muso con le zampe, essi continuarono a stropicciarsi gli occhi per scacciare quell'immagine, ma ciò che Lazzaro aveva lasciato loro era indelebile, e solo la morte avrebbe potuto cancellarlo. Molte persone che abitavano lontano dalla città santa e che non avevano mai visto Lazzaro e sapevano di lui soltanto per sentito dire, prese da viva curiosità, che è più forte della paura e si alimenta di questa, andavano a vederlo e, beffeggiandosi di ciò che si raccontava, conversavano con lui che se ne stava seduto al sole. Frattanto l'aspetto di Lazzaro era cambiato in meglio e non era più tanto impressionante. Appena lo vedevano, questi
curiosi, pensavano quant'era stupida la gente della città santa; ma quando, terminato il breve colloquio, essi riprendevano la via del ritorno, l'espressione del loro volto era tale che quelli che li incontravano per strada li riconoscevano subito e dicevano: «Guarda, ecco un altro imbecille che si è lasciato guardare da Lazzaro»; e scotevano il capo in segno di deplorazione e alzavano le braccia al cielo. Intrepidi guerrieri, coperti d'armi scintillanti, giovani felici e sorridenti, ricchi mercanti con grosse borse di monete sonanti, tutti andavano a vedere Lazzaro, e preti superbi appoggiavano il loro pastorale alla sua porta; ma quando se ne tornavano a casa, apparivano tutti stranamente cambiati: la stessa ombra terribile era scesa su di loro, dando un aspetto nuovo al vecchio mondo familiare. Quelli che avevano ancora voglia di parlare, espressero così le loro impressioni: «Tutte le cose tangibili e visibili si svuotavano e diventavano leggere e trasparenti, simili a ombre chiare nelle tenebre della notte; «Perché né il sole, né la luna o le stelle, disperdevano l'oscurità intensa che riempie il cosmo e che avvolgeva la terra come un immenso velo nero e quasi l'abbracciava come una madre; «Penetrava i corpi, tutti, il ferro e la pietra, e le particelle di materia, perdendo il loro legame, si separavano; e penetrava nel profondo delle particelle, e così queste si dividevano in particelle più piccole; «Perché quel gran vuoto che racchiude il cosmo non era occupato da cose visibili, né dal sole, né dalla luna o dalle stelle e imperava sull'universo, penetrando dovunque e disgregando corpi e particelle; «Nel vuoto, alberi cavi stendevano le loro radici cave nell'aria minacciando di cadere; templi, palazzi e case erano cavi e gli uomini si muovevano senza posa, ma erano leggeri e immateriali, simili ad ombre; «Perché non esisteva più tempo, e il principio di ogni cosa coincideva quasi con la sua fine: un fabbricato era ancora in costruzione e i muratori stavano ancora martellando, che già nel vuoto si vedevano le rovine al suo posto; l'uomo stava nascendo, e già ardevano i ceri intorno al suo letto di morte, e un attimo dopo il vuoto aveva preso il posto dell'uomo e dei ceri. «E, avvolto dal vuoto e dalle tenebre, l'uomo tremava, vinto dalla disperazione di fronte all'orrore dell'infinito.» Così parlavano gli uomini che avevano ancora voglia di parlare. Ma certo molto di più avrebbero potuto dire quelli che non desideravano parlare e che morivano in silenzio.
IV A quei tempi viveva a Roma un insigne scultore. In marmo e in bronzo, egli creava statue di Dei e di uomini di tale plasticità e bellezza che la gente li chiamava immortali. Ma lui non era soddisfatto, e affermava che esisteva qualcosa di ancor più bello che non poteva riprodurre col marmo o col bronzo. «Non ho ancora raccolto lo scintillio della luna né mi sono impregnato di sole», soleva dire, «e non c'è anima nei miei marmi, né vita nei miei bronzi.» E quando nelle notti di luna passeggiava per le strade, attraversando le ombre nere dei cipressi, e la sua tunica bianca riluceva al chiaro di luna, quelli che lo incontravano ridevano simpaticamente e gli chiedevano: «Hai intenzione di raccogliere il raggio della luna, Aurelio? Perché allora non ti sei portato i canestri?» Ed egli rispondeva, ridendo e indicando gli occhi: «Ecco i canestri dove raccolgo il raggio della luna e lo splendore del sole.» E così era: la luna scintillava nei suoi occhi e il sole li riempiva di fulgore. Ma egli non poteva tradurre in marmo o in bronzo quelle meraviglie, e in ciò stava la tragedia della sua vita. Aurelio discendeva da un'antica famiglia patrizia, aveva una buona moglie e dei figli, ed era anche abbastanza ricco. Appena venne a conoscenza della storia di Lazzaro attraverso le confuse notizie che giungevano a Roma, si consultò con sua moglie e i suoi amici e quindi intraprese il lungo viaggio verso la Giudea per vedere colui che era miracolosamente risorto da morte. Si sentiva piuttosto stanco in quei giorni e sperava che il viaggio lo riscuotesse da quella specie di torpore. Ciò che si diceva di Lazzaro non lo preoccupava: aveva meditato a lungo sulla morte, non gli piaceva, ma non era neppure d'accordo con quelli che la confondevano con la vita. «In questo mondo ci sono vita e bellezza», pensava lui; «di là c'è la morte, l'ignoto; e un uomo non può far di meglio che godere la vita e la bellezza del creato.» Nutriva anche un ambizioso desiderio di riuscire a convincere Lazzaro della giustezza della sua opinione e di recuperare la sua anima alla vita com'era stato ricuperato il suo corpo. Ciò sembrava tanto più facile in quanto le voci, confuse e discordanti, non davano l'idea precisa della personalità di Lazzaro e lascia-
vano intravedere solo vagamente la terribile verità. Lazzaro si era appena alzato dalla pietra sui cui sedeva per seguire il sole che tramontava, quando un ricco romano, accompagnato da uno schiavo armato, lo chiamò con voce possente: «Lazzaro!» E Lazzaro vide un uomo dal volto fiero, illuminato di gloria, abbigliato con ricche vesti e pietre preziose che sfavillavano al sole. La luce rossa conferiva alla testa del romano l'aspetto di un lucido bronzo: Lazzaro notò anche questo. Quindi, ubbidiente, ritornò al suo posto e abbassò gli occhi stanchi. «Si, sei brutto, mio povero Lazzaro», disse tranquillo il romano, giocherellando con la sua catena d'oro; «sei perfino ripugnante, mio povero amico; e la morte non è stata in ozio con te quando sei caduto così sventatamente nelle sue mani. Però sei bene in carne, e come diceva il grande Cesare, le persona grasse sono di temperamento pacifico; a dire il vero non capisco perché gli uomini ti temano. Permettimi di passare la notte in casa tua: è ormai tardi e non ho dove alloggiare.» Nessuno aveva mai chiesto ospitalità a Lazzaro. «Io non ho letto,» rispose lui. «Sono una specie di soldato io, e posso dormire anche seduto», disse il romano. «Accenderemo un fuoco e staremo bene lo stesso.» «Io non ho fuoco.» «Allora discorreremo nel buio, come due amici. Spero che almeno troverai una bottiglia di vino.» «Non ho vino.» Il romano rise. «Adesso capisco perché sei così tetro e non ami la tua seconda vita. Niente vino! Bene, allora faremo senza vino: ci sono parole che fanno girare la testa più del Falerno.» Con un cenno lo scultore congedò lo schiavo e rimasero soli lui e Lazzaro. Poi riprese a parlare, ma era come se col sole se ne fosse andata anche la vita; e a poco a poco diventarono pallidi e deboli, come se vacillassero sulle gambe malferme, oppressi dal peso del tedio e della disperazione. E profondi abissi si aprirono fra i mondi come segni premonitori delle tenebre e del gran vuoto. «Ora io sono il tuo ospite e tu non puoi essere scortese con me, Lazzaro», disse il romano. «L'ospitalità è un dovere sacro anche per quelli che per tre giorni furono morti. Tre giorni, mi è stato detto, sei rimasto nel sepolcro. Dev'essere freddo là... da ciò forse deriva la tua cattiva abitudine di
fare a meno del fuoco e del vino. Quanto a me, amo il fuoco; annotta così rapidamente qui... Le linee della tua fronte e delle sopracciglia sono molto, molto interessanti; fanno pensare alla rovina di strani palazzi, sepolti dalla cenere dopo un terremoto. Ma perché indossi una veste così bizzarra e brutta? Ho visto degli sposi nel tuo paese, vestiti allo stesso modo... non sono buffi?... E orribili anche... Ma sei uno sposo tu?» Il sole era già scomparso e un'ombra nera, mostruosa, si levò a Oriente e si precipitò verso di loro, rombando, come se giganteschi piedi nudi corressero sulla sabbia, e una raffica di vento li investì facendoli rabbrividire. «Nel buio sembri ancora più grosso, Lazzaro, come se tu fossi cresciuto in questi ultimi momenti. Ti nutri di oscurità, Lazzaro? Io gradirei un po' di fuoco... almeno un fuocherello. Mi sento gelare, la notte fa un freddo feroce qui da voi. Non fosse così buio, direi che mi stai guardando, Lazzaro. Si, mi sembra proprio che tu mi stia... Perbacco, tu mi stai guardando, lo sento... ma ecco che sorridi.» Venne la notte e riempì l'aria di fitte tenebre. «Che bellezza sarà quando si leverà di nuovo il sole domani... io sono un grande scultore, sai; così dicono i miei amici. Creo. Sì, questo è il termine... ma ho bisogno della luce del giorno. Io dò vita al freddo marmo, fondo sul fuoco, bronzo sonoro... sul fuoco vivo... Perché mi tocchi con le mani?» «Vieni», disse Lazzaro. «Sei mio ospite.» Andarono a casa di Lazzaro e una lunga notte avvolse la terra. La mattina dopo lo schiavo, vedendo che il padrone non arrivava, andò a cercarlo e quando lo trovò il sole era già alto sull'orizzonte. Lazzaro e lo scultore sedevano in silenzio l'uno accanto all'altro sotto i raggi fieri del sole e guardavano verso l'alto. Lo schiavo scoppiò in lacrime e gridò: «Mio padrone, che cosa ti è accaduto, mio padrone?» Quello stesso giorno lo scultore ripartì per Roma. Durante il viaggio rimase pensieroso e taciturno: osservava attento quanto lo circondava, gli uomini, la nave e il mare, come se cercasse di fissare nella mente qualcosa. In alto mare si scatenò una furiosa mareggiata e, per tutta la sua durata, Aurelio se ne stette sul ponte a guardare i marosi che si gonfiavano e poi si frangevano contro la nave con un rumore cupo e pauroso. A casa i suoi amici furono colpiti dal cambiamento che notarono in lui, ma Aurelio li tranquillizzò dicendo in tono significativo: «L'ho trovato.» E senza cambiarsi gli indumenti impolverati che aveva indossati durante il viaggio, si rimise subito al lavoro e il marmo ubbidiente risuonò sotto i
colpi del suo martello. Lavorò di gran lena per giorni e giorni senza lasciar entrare nessuno finché, una mattina, annunziò che la sua opera era terminata e ordinò che venissero chiamati i suoi amici, critici severi e intenditori d'arte. E per riceverli indossò una splendida toga listata d'oro e di porpora. Gli amici si guardarono interdetti, e sul loro volto passò un'ombra di profonda tristezza. Era qualcosa di mostruoso, privo, allo sguardo, di qualsiasi forma consueta, ma non senza qualche vago accenno a una figura umana. Sopra un esile ramo contorto, o meglio, su una pessima rappresentazione di un ramo, era appoggiata di sghimbescio una massa senza volto incredibilmente difforme, un inconcepibile mucchio di frammenti che parevano volersi staccare l'uno dall'altro; e come per caso, sotto una protuberanza selvaggiamente spaccata, era cesellata con impareggiabile maestria una farfalla, tutta levità e delicatezza, con le ali aeree e trasparenti che parevano fremere per un impotente desiderio di spiccare il volo. «Come mai quella meravigliosa farfalla, Aurelio?», azzardò qualcuno. Ma occorreva dire la verità, e uno dei suoi amici più intimi disse senza esitazione: «È brutto, mio povero amico. Bisogna distruggerlo. Dammi subito il martello.» E con due colpi decisi fece a pezzi quell'uomo mostruoso, lasciando intatta soltanto la delicata farfalla. Da quel momento Aurelio guardò il marmo, il bronzo e le belle statue che lo avevano reso famoso con la più assoluta indifferenza e non creò più niente. Nell'intento di ridestare in lui la passione per la sua arte e di ridare nuova vita alla sua anima spenta, gli amici lo condussero a vedere le opere di altri insigni artisti, ma neppure la vista delle più mirabili creazioni riuscì a scuoterlo dal suo stato di torpore spirituale. E soltanto dopo aver ascoltato interminabili dissertazioni sulla bellezza, ritorceva svogliatamente: «Ma tutto questo è menzogna.» Di giorno, quando splendeva il sole, si ritirava nel suo magnifico giardino e si sedeva col capo scoperto esposto ai raggi del sole. Farfalle bianche e rosse gli svolazzavano intorno; dalla bocca storta di un satiro ubriaco zampillava un getto di acqua che si riversava in una stupenda vasca di marmo, ma Aurelio, insensibile a tutto, sedeva immobile e muto, come l'immagine riflessa di colui che laggiù, al margine del deserto pietroso, sedeva sotto la sferza implacabile del sole. V
Avvenne allora che il grande, il divino Augusto, decidesse di mandare a chiamare Lazzaro. I messaggeri imperiali lo rivestirono come uno sposo il giorno delle nozze, quasi che il tempo avesse decretato che egli rimanesse fino alla morte lo sposo di una fanciulla sconosciuta, e anch'essi vestiti a festa lo seguirono come fosse davvero un corteo nuziale, mentre alcuni precedevano la schiera strombettando per chiedere alla folla di fare largo ai messaggeri dell'Imperatore. Ma il passaggio di Lazzaro non ebbe spettatori: la gente maledì il nome infausto di colui che era miracolosamente risorto da morte e scappò non appena ebbe notizia del suo avvicinarsi, e solo il deserto rispose con la sua eco languida alla voce squillante delle trombe di ottone. Quindi Lazzaro s'imbarcò alla volta di Roma e la sua fu la nave più splendida e più funerea che mai si specchiasse nelle acque azzurre del Mediterraneo. C'erano molti viaggiatori a bordo ma la nave era come una tomba e il mare, disperato, singhiozzava sotto la prora slanciata e ardita. Tutto solo Lazzaro sedeva sotto il sole, silenzioso, ascoltando il mormorio del mare, e dall'altro lato del ponte sedevano i marinai e i messaggeri, un gruppo di ombre stanche ed afflitte. Se la nave fosse stata colta da una tempesta e il vento avesse lacerato le belle vele rosse, la nave sarebbe probabilmente naufragata, poiché nessuno di quelli che erano a bordo aveva né la forza né la volontà di lottare per salvarsi. Con uno sforzo disperato forse qualche marinaio si sarebbe affacciato al parapetto a scrutare l'azzurra immensità nella speranza di vedere le spalle rosate di una naiade guizzare nel cavo di un'onda, o un allegro centauro ubriaco fendere la spuma con gli zoccoli. Ma il mare era muto e deserto. Con assoluta indifferenza Lazzaro mise piede nella città eterna, come se la sua grandiosità, la magnificenza dei suoi palazzi costruiti da giganti, tutta la raffinatezza e lo splendore dei suoi costumi non fossero che l'eco del vento sulle sabbie mobili del deserto. Le bighe sfrecciavano per le vie dove gruppi di uomini belli e forti passeggiavano maestosi, fieri della loro civiltà e della città che essi avevano edificato; l'aria risuonava di canti, di risa argentine di donne e del mormorio di fontane; filosofi ubriachi arringavano coloro che avevano la compiacenza di ascoltarli e dovunque era vita, gioia e benessere; e in mezzo a questo ardore di vivere si muoveva pigro e insensibile un uomo grande e grosso che seminava sul suo cammino disgusto e disperazione e un senso tormentoso di stanchezza. Chi osa essere triste a Roma, si domandavano indignati i cittadini, e si rabbuiavano in
volto. Nel giro di due giorni l'intera città sapeva già tutto di colui che era risuscitato dalla morte e lo schivava con diffidenza. Ma non mancarono persone audaci che vollero mettere alla prova la propria forza e Lazzaro ubbidì alle loro chiamate. Occupato negli affari di stato, l'Imperatore fu costretto a rinviare più volte l'incontro con Lazzaro, e per sette giorni colui che era miracolosamente risorto da morte si recò in visita da altri romani. Un giorno Lazzaro fu ricevuto da un ricco epicureo che lo accolse con allegre risate: «Bevi, Lazzaro, bevi!» gli gridò. «Chissà quanto si divertirebbe l'Imperatore a vederti ubriaco!» Donne mezzo nude e ubriache risero giulive, e petali di rose caddero sulle mani bluastre di Lazzaro. Ma poi l'epicureo guardò negli occhi dell'ospite, e la sua allegria si spense per sempre. Non bevve mai più per il resto della sua vita, eppure visse eternamente ubriaco; ma invece dei sogni rosei che procura il vino, gli tennero compagnia visioni spaventose e incubi angosciosi, unico alimento del suo spirito devastato. E quindi Lazzaro fu ricevuto da un giovane che lo accolse insieme alla sua innamorata. Si amavano ed erano bellissimi nella loro passione amorosa e, abbracciato alla sua donna, il giovane disse con una punta di rammarico: «Guarda, Lazzaro, e partecipa alla nostra gioia. C'è qualcosa di più forte dell'amore?» E Lazzaro guardò. E per il resto della loro vita i due giovani continuarono ad amarsi, ma la loro passione divenne malinconica e senza gioia, come quei cipressi che si nutrono di cadaveri putrefatti e le loro vette nere nelle placide sere estive cercano invano di toccare il cielo. Gettati dalle forze ignote della vita nelle braccia l'uno dell'altra, essi unirono lacrime e baci, voluttà e dolori, schiavi ubbidienti della vita e servi pazienti del nulla. Sempre uniti e sempre divisi, essi continuarono a brillare come scintille e come scintille a perdersi nelle tenebre sconfinate. E infine Lazzaro fu ricevuto da un orgoglioso saggio il quale gli disse: «Io ho conosciuto già tutti gli orrori che hai da rivelare. C'è qualcosa con cui mi puoi far paura?» Ma poco dopo il saggio comprese che la conoscenza dell'orrore era lungi dall'essere l'orrore stesso, e che l'idea della morte non era la morte. E comprese che la saggezza e la follia sono uguali di fronte all'infinito, giacché l'infinito non le conosce. E svanì così la linea di confine tra sapienza e ignoranza, verità e falsità, cima e fondo, e il pensiero informe rimase sospeso nel vuoto. Allora il saggio si prese la testa grigia fra le mani e in preda a
frenesia gridò: «Non posso pensare! Non posso pensare!» In questo modo, sotto lo sguardo indifferente di colui che era miracolosamente risorto da morte, periva tutto ciò che afferma la vita, il suo significato, il suo bene e il suo male. E qualcuno espresse il timore che fosse pericoloso permettergli di vedere l'Imperatore: che sarebbe stato meglio ucciderlo e seppellirlo in segreto e dire all'Imperatore che era improvvisamente sparito, nessuno sapeva dove. Erano già state affilate le spade e giovani solleciti del pubblico bene si preparavano a sopprimerlo quando l'Imperatore ordinò che Lazzaro venisse condotto da lui l'indomani mattina, mandando così in fumo il loro piano crudele. Ma se non c'era modo di liberarsi di Lazzaro, era almeno possibile attenuare le terribili impressioni che produceva il suo volto. Animati da questo intento, i suoi custodi chiamarono abili pittori, barbieri e altri artisti che per tutta la notte si diedero da fare per modificare la testa di Lazzaro. Gli spuntarono la barba incolta e l'arricciarono, dandole un aspetto decente; per mezzo di cosmetici e belletti nascosero la sfumatura cadaverica del volto e delle mani; colmarono con creme e sostanze plastiche le rughe ripugnanti della sofferenza, e sul viso liscio e paffuto mani esperte dipinsero con sottili pennelli le linee della bonomia e della giovialità. Lazzaro si sottopose al trattamento con la consueta, immutabile indifferenza, e nel giro di alcune ore i suoi truccatori lo trasformarono in un bel vecchione mite, bonario e sorridente, nonno felice di numerosa discendenza. Sembrava che sulle sua labbra indugiasse il sorriso con cui poco prima aveva raccontato una storiella buffa e che tutta l'espressione del suo volto si riflettesse quella serenità di spirito che è compagna della vecchiaia. Ma nessuno osò cambiargli le vesti da sposo, e nessuno gli poté cambiare gli occhi, quei due paurosi vetri neri attraverso i quali l'ignoto aldilà guardava gli uomini. VI La magnificenza del palazzo imperiale non produsse alcuna emozione sull'insensibile Lazzaro; fu come se egli non vedesse alcuna differenza tra la casa in rovina, al margine del deserto, e il solido e grandioso palazzo di pietra, e vi entrò con la più assoluta indifferenza. I pavimenti di marmo sotto i suoi piedi diventavano simili alla sabbia del deserto e la moltitudine di uomini fieri e riccamente vestiti che fecero ala al suo passaggio, divennero come aria sotto i suoi occhi. Nessuno osò guardare Lazzaro in faccia,
per timore di cadere sotto l'influenza malefica del suo sguardo, e solo quando il rumore dei suoi passi si fu allontanato, gli uomini di corte alzarono il capo e con timida curiosità osservarono la figura massiccia che procedeva lenta verso il centro del palazzo imperiale. Se fosse passata la morte in persona non avrebbe suscitato maggior timore: poiché fino allora soltanto i morti conoscevano la morte e i vivi conoscevano solo la vita, e non c'era ponte fra esse. Ma quest'uomo fuori del comune, benché vivo, conosceva la morte, e terribile e funesta era la sua conoscenza. «Oh, noi infelici!» pensarono gli uomini di corte; «si prenderà la vita del nostro divino Augusto»; e maledirono Lazzaro che s'addentrava sempre più nel cuore del palazzo. L'Imperatore già sapeva chi era Lazzaro e si preparò ad accoglierlo; ma era un uomo coraggioso e conscio della propria forza indomabile e non volle invocare aiuto umano per il suo fatale duello con colui che era miracolosamente risorto: così lo volle ricevere da solo. «Non alzare gli occhi su di me, Lazzaro», ordinò. «Ho sentito dire che la tua faccia è come quella della Medusa e che pietrifica chiunque tu guardi. Ora, io voglio vederti e parlare con te, prima di diventare di pietra», aggiunse in un tono di regale giocosità, non del tutto privo di timore. Avvicinatosi a Lazzaro esaminò attentamente il suo volto e le strane vesti da sposo, ma per quanto fosse un acuto osservatore, fu ingannato dal suo aspetto pacifico. «Dunque, non sembri terribile, vecchio. Ma peggio per noi se l'orrore può assumere quest'apparenza mite e rassicurante. E ora discorriamo.» Augusto si sedette e, interrogando Lazzaro con gli occhi oltre che con le parole, iniziò così la conversazione: «Perché non mi hai salutato quando sei entrato?» Lazzaro rispose apatico: «Non sapevo che fosse necessario.» «Sei cristiano?» «No.» Augusto fece un cenno di approvazione. «Molto bene. Non mi piacciono i cristiani: scuotono l'albero della vita prima che abbia fruttificato e disperdono al vento i suoi fiori profumati. Ma chi sei tu?» Con visibile sforzo Lazzaro rispose: «Io sono morto». «Questo l'ho saputo. Ma chi sei adesso?» Lazzaro tacque per un poco, e infine ripeté in tono stanco e tediato: «Sono uno che è morto».
«Ascoltami, straniero» cominciò l'Imperatore, preparandosi a esporre un pensiero che gli era venuto in mente fin dall'inizio, «il mio regno è il regno della vita, e il mio popolo è un popolo di vivi e non di morti. Tu sei di troppo qui. Io non so chi tu sia e che cosa tu abbia visto là; ma, se menti, io condanno la menzogna, e se dici il vero, io odio la tua verità. Nel mio petto sento palpitare la vita; ho membra forti e vigorose, e i miei pensieri spaziano nel cielo come aquile superbe. E dentro i confini del mio dominio, sotto la protezione di leggi emanate da me, la gente vive, lavora e sta allegra. Non senti il grido di battaglia, la sfida che gli uomini lanciano al futuro?» Come in preghiera, Augusto protese le braccia e in tono solenne esclamò: «Che tu sia lodata ed esaltata, o vita divina!» Lazzaro non disse nulla e con crescente gravità l'Imperatore proseguì: «Tu non sei gradito qui, misero avanzo strappato dai denti della morte; tu ispiri tristezza e disgusto per la vita; come un bruco nei campi, guardi avidamente la spiga della vita e vomiti la bava della disperazione e del dolore. La tua verità è come una spada arrugginita nelle mani di un assassino a tradimento, e come tale sarai giustiziato. Ma prima lascia che ti guardi negli occhi. Forse soltanto sui deboli hanno influenza perniciosa, mentre negli animi forti e coraggiosi essi svegliano sete di lotta e vittoria; e allora sarai ricompensato, non giustiziato. Dunque, guardami Lazzaro.» Da principio Augusto ebbe l'impressione che lo fissasse un amico, tanto era mite, calmo e affascinante lo sguardo di Lazzaro. Non prometteva orrori, ma dolce riposo, e l'infinito parve all'Imperatore una tenera amante, un'affettuosa sorella, una madre. Ma l'abbraccio si faceva sempre più forte e la bocca avida di baci già impediva all'Imperatore di respirare liberamente, e il bel corpo morbido assunse la rigidezza del ferro e lo chiuse come in una morsa, e zanne ignote, feroci, afferrarono il suo cuore e adagio, crudelmente, vi si conficcarono. «Fa male», disse il divino Augusto impallidendo. «Ma guardami pure, Lazzaro, guardami.» Fu come se i battenti di un portone sempre serrato si schiudessero a poco a poco e attraverso l'interstizio si riversasse dentro l'orrore infinito. Come due ombre entrarono nel vuoto sconfinato e nell'oscurità impenetrabile, estinsero il sole, gli tolsero la terra da sotto i piedi e il tetto da sopra il capo. Il cuore gelido non doleva più. Il tempo di fermò e il principio di ogni cosa si avvicinò paurosamente alla sua fine. Il trono di Augusto appena eretto crollò e in breve dov'erano il
trono e il palazzo non ci fu che vuoto. Roma rovinò al suolo senza rumore e al suo posto sorse un'altra città e anche questa fu inghiottita dal vuoto. Come giganti immaginari città, nazioni e intere regioni crollarono e scomparvero nel vuoto tenebroso, e con assoluta indifferenza le fauci nere dell'infinito le divorarono. «Basta!» ordinò l'Imperatore. Ma nella sua voce si avvertiva già una nota di apatia, le sue mani caddero inerti e nella vana lotta contro l'oscurità che lo assaliva, i suoi occhi fieri lampeggiarono, poi si chiusero. «Mi hai portato via la vita, Lazzaro», disse con voce smorta e fievole. E queste parole disperate lo salvarono. Ricordò il suo popolo di cui egli era destinato a essere guida e protezione, e un dolore acuto, salutare, gli trafisse il cuore morente. È condannato a perire», pensò. «Ombre serene nell'oscurità dell'infinito», disse tra sé con un senso di orrore. «Fragili corpi con sangue che bolle e un cuore che conosce il dolore e anche la gioia immensa», e a questo pensiero lo pervase una struggente tenerezza. Così, riflettendo e tentennando fra i due poli della vita e della morte, ritornò gradatamente alla vita, e nelle sue sofferenze e nelle sue gioie trovò un riparo contro le tenebre e il vuoto e l'orrore dell'infinito. «No, non mi hai ucciso, Lazzaro», disse con voce ferma, «ma io ti toglierò la vita. Va' via.» Quella sera il divino Augusto mangiò e bevve con particolare piacere. A tratti la sua mano sollevata rimaneva sospesa nell'aria e gli occhi scintillanti perdevano espressione. Era l'onda dell'orrore che montava ai suoi piedi. Sconfitto, ma non disfatto, sempre in attesa della sua ora, quell'orrore rimase accanto al letto dell'Imperatore come un'ombra nera per tutta la vita: dominava di notte, ma di giorno cedeva ai dolori e alle gioie della vita. Il giorno seguente Lazzaro venne accecato dal boia con un ferro arroventato e poi fu rimandato nella sua terra. Il divino Augusto non osò farlo uccidere. Lazzaro ritornò nel deserto e la landa desolata lo accolse con sibilanti raffiche di vento e con la sferza del sole impietoso. Egli riprese a sedere sulla sua pietra, la barba cespugliosa levata verso l'alto e i due buchi che aveva al posto degli occhi parevano guardare il cielo con muto terrore. La vita ferveva rumorosa nella città santa, ma intorno a lui non c'era che deserto e silenzio. Nessuno si avvicinò mai al luogo dove viveva colui che era miracolosamente risorto da morte e già da tempo i suoi vicini avevano
abbandonato le loro case. Spinta dal ferro rovente nella profondità del cranio, la sua conoscenza vi era rimasta nascosta in agguato; e come se uscisse da un agguato, immergeva i suoi mille occhi nell'uomo, e nessuno ebbe più il coraggio di guardare Lazzaro. E la sera, quando il sole come un gran disco rosso si abbassava sull'orizzonte, il cieco Lazzaro si alzava dalla sua pietra e con passo lento e incerto lo seguiva. Di tanto in tanto inciampava in una pietra e cadeva, poi si drizzava e riprendeva a camminare, e sullo sfondo rosso del tramonto la sua figura nera con le braccia aperte formava una specie di mostruosa croce. Ma una volta, all'ora del tramonto, s'incamminò verso occidente e non fece più ritorno. Così, sembra, si chiuse la seconda vita di colui che per tre giorni era rimasto sotto il dominio misterioso della morte ed era miracolosamente risorto. (Lazarus) Katherine Yates IL GIRO DEL MONDO La donna stava infilando semi scarlatti di wili-wili per farne una collana. L'uomo rigirava delle stampe fotografiche in un cestino e di tanto in tanto esprimeva un giudizio superficiale e di scarso interesse. I rami spioventi dell'albero hau facevano schermo al riverbero del sole del tardo pomeriggio e le foglie fruscianti si stagliavano scure contro l'orizzonte azzurro sfumato di rosso dal quale avanzavano lunghe linee di spuma bianca che rotolavano dolcemente sulla spiaggia, quasi ai piedi dell'albero hau, e poi si ritiravano silenziose sotto la cresta ricciuta che sopraggiungeva. Quattro o cinque bimbetti hawaiani si erano radunati sotto il piccolo pontile dove, tra risa e spruzzi, si erano liberati delle gonnelle e dei pagliaccetti, e ora stavano sguazzando allegri nell'acqua chiara, attenti a tenersi fuori dal campo visivo dell'ufficio dell'albergo. L'uomo continuava a rivoltare le sue stampe con gesti lenti e svogliati. D'un tratto si fermò e, quasi senza fiato per lo stupore, si chinò per guardare da vicino una fotografia. «Dove l'hai presa questa?» domandò, girandosi in fretta verso la donna. Lei alzò lo sguardo dalle sue perle rosse. «L'ho presa io», disse lei con noncuranza. «No, no, voglio dire questa qui!» e le gettò in faccia la foto.
«Ma sì, ho capito», fece lei, quasi seccata. «Ho detto che l'ho presa io... l'ho scattata io.» «Non è possibile.» Gli occhi increduli dell'uomo fissarono la donna, quindi la foto, poi di nuovo la donna. Lei accennò di sì col capo. «L'ho fatta io», disse. «Quando l'hai presa?» chiese lui, brusco. «Quando? Oh, tre settimane fa, più o meno, la mattina che partirono.» Legò il filo della lunga collana di semi, poi se la girò strettamente tre volte intorno al collo bianco: tre righe rosse come tre sfregi insanguinati. L'uomo de si fece più vicino. «Qui? Erano qui?» «Sì. Guarda: hanno posato sotto quella palma da cocco laggiù, quella col rampicante che penzola.» L'uomo si voltò a guardare la palma e le foghe ondeggianti del gigantesco rampicante, e con le dita sfiorò le stesse fronde che pendevano sulla testa dei due turisti. Il suo viso esprimeva soltanto incredulità. Si rivolse di nuovo alla donna, cercando si dominare il proprio turbamento. «Come si chiamavano!», chiese. La donna fece per parlare, poi s'arrestò. «È strano», disse dopo un momento. «Ero sicurissima di ricordare il loro nome; stavo per dirlo, e poi...» con una risatina, «tra un minuto mi tornerà in mente. Aspetta. Si chiamavano... Vediamo. Un nome che comincia per 'A'. No... Sì... sì, credo che cominciasse per 'A'. È buffo, ma adesso non riesco a ricordarlo. Be', te lo dirò appena mi verrà in mente. Non c'è mica fretta, no?» «Sì, c'è fretta invece, molta fretta!», disse lui con veemenza. «Devo sapere il nome.» La donna alzò la testa. «Allora dovrai andare a chiederlo in ufficio. Non me lo ricordo. Ma che motivo c'è di scaldarsi tanto per sapere chi sono?» La donna non era abituata a condividere l'interesse di nessuno, meno che mai quello di un semplice fotografo. L'uomo si alzò, posò il cestino delle foto sulla sedia a sdraio e s'incamminò attraverso il prato in direzione dell'ingresso dell'albergo. La donna lo guardò allontanarsi, poi lanciò un'occhiata al cestino delle stampe. Dopo un momento si alzò a sua volta, posò la scatola dei semi sulla propria sedia e seguì l'uomo in albergo. Lo trovò al boureau che farfugliava tutto agitato. Il calmo, efficientissimo impiegato cinese, non riusciva a ricordare le persone che l'uomo cercava di descrivere. «C'è un tale andirivieni qui», spiegò, scuotendo il capo e allargando le mani in segno di disapprovazione.
L'uomo riprese a farfugliare e la donna, avvicinandosi alla scrivania, mise la foto sotto gli occhi dell'impiegato. «Come si chiamavano, ah Fat?», chiese. «Eh... Ah, sì!» Fece l'impiegato, sorridendo. «Ma certo, erano i signori... perbacco...» e batté con impazienza la matita sulla scrivania; «erano i signori... Un momento, è qui sul registro. Vennero verso... vediamo... verso la metà di marzo. Ve... dia... mo...» cominciò a voltare le pagine e a scorrere le colonne di nomi. L'uomo era nervosissimo; la donna corrugò la fronte, pensosa, prendendosi la collana di semi rossi sulle labbra. «È strano», disse l'impiegato; «non trovo il loro nome. Se lo vedessi lo riconoscerei», e girò i fogli indietro per ripetere l'operazione. «Mi domando con quale piroscafo siano arrivati.» «Venivano dall'Oriente», disse la donna. «Già allora arrivarono col... col...» e scorse la lista dei piroscafi provenienti dall'Oriente giunti nel mese di marzo. «Devono essere venuti con il Corea.» Poi riprese a sfogliare il registro: «Questi sono i viaggiatori arrivati col Corea: Foster, Martin, Cudahy, Abercombie... Beh, che nome è questo?» disse, avvicinando il viso alla pagina, «non riesco a decifrare la scrittura.» La donna si curvò per leggere. «Tourtillotte. No, non erano loro; ricordo i Tourtillotte.» Le dita dell'impiegato cominciarono a percorrere le colonne di nomi, ma inutilmente. Allora chiamò il primo fattorino. «Ming, come si chiamavano questi signori?» chiese, porgendogli la fotografia. «Non lo ricordo», rispose il ragazzo, scuotendo la testa. L'uomo si voltò verso il fattorino. «Pensaci; tenta di ricordare.» Fece tintinnare le monete nella tasca e subito il giovane cinese prese un'espressione concentrata... uno sforzo inutile, era evidente. «Che camera avevano?», chiese l'impiegato. Di nuovo il ragazzo scosse la testa. «Mi pare che stessero al secondo piano... no, al terzo... al numero trecentododici credo. Non lo so.» «Te li ricordi, no?» chiese la donna con impazienza. «Oh, sì, certo! Non ricordo il numero della stanza. Credo che fosse al terzo piano.» L'uomo si girò di nuovo verso l'impiegato, arrabbiato. «Dov'è il direttore?» domandò. Un attimo dopo il direttore giunse sorridendo dal suo ufficio privato. La
donna, contagiata dall'ansia dell'uomo, gli porse la fotografia. «Non mi riesce assolutamente di ricordare il nome di queste persone», disse. «Chi erano?» Il direttore prese la foto e annuì in segno di riconoscimento. «Ah, sì, erano i signori... beh, è proprio buffo. Ah, Fat, come si chiamavano questi due?» Il tranquillo impiegato sorrise e scosse il capo, con un leggero moto di protesta delle mani gialle. Il direttore schioccò le dita. «Oh, son sicuro di sapere il loro nome; solo che in questo momento mi sfugge»; e anche lui prese a sfogliare il registro. «Venivano dall'Oriente e si fermarono qui tre o quattro settimane... Ma certo, se ne sono andati poco tempo fa. Beh, non è strano che non riesca a ricordare come si chiamavano! Loro li ricordo. La donna aveva una cicatrice bianca sul collo. Una donna un po' singolare, all'antica, ma anche graziosa nel suo genere. Dobbiamo aver passato quel nome almeno una dozzina di volte, e io ero certo di ricordarmelo alla prima occhiata.» L'uomo si voltò e guardò la donna in modo strano; poi si girò di nuovo verso la scrivania, irritato. «Nessuno di voi riesce a ricordare il loro nome, né a trovarlo sui registri dell'albergo, e se ne sono andati appena da tre settimane!», disse con esasperata incredulità. Il direttore cominciò a parlare, ma la donna l'interruppe: «Ma nemmeno io riesco a ricordarlo, e non ho tante cosa da pensare e da fare quante ne hanno loro.» La faccia dell'uomo non mutò espressione: era pallida, terrea quasi, e i suoi occhi erano stranamente cupi. Si voltò verso la donna e la prese per un braccio. «Lasciamo perdere», disse con voce tesa. «Torniamo sotto l'albero hau». Appena seduta, la donna riprese a giocherellare coi semi di wili-wili: li raccoglieva con le mani bianche e li lasciava cadere come grosse gocce rosse in una piega dell'abito bianco, con un lieve ticchettio. L'uomo mezzo disteso sulla sedia a sdraio, gli occhi smarriti nel vuoto oltre l'orizzonte azzurro e rosso, li protesse con una mano dal luccichio delle grosse gocce. Dopo un lungo silenzio parlò, e la sua voce aveva ripreso il tono consueto. «Raccontami di quei due», disse alla donna. Lei sollevò un'altra manciata di semi e li lasciò cadere tra le dita in un lento sgocciolio. «Non c'è molto da dire», rispose; «solo che erano persone strane. Venivano dall'Oriente, come ho detto; avevano fatto il giro del mondo e arrivarono qui verso la metà di marzo. Andavano a vedere tutto
quello che c'è da vedere e facevano tutto quello che fanno i turisti: andarono alle Haleiwa per due o tre giorni e a Hauula per vedere il vulcano e la gola sacra, poi partirono, come fanno tutti.» «In che senso erano persone strane?», chiese l'uomo. «Beh... erano come dire... erano due Rip Van Winkle,» disse lei. «È il solo modo in cui riesco a descriverli. Avevano dormito per vent'anni.» «Vent'anni...», ripeté l'uomo brusco. «Sì, esattamente vent'anni. Lo so perché lei era vestita come mia zia all'epoca del suo matrimonio: siamo nel 1924 e mia zia si sposò giusto vent'anni fa. Per sentimentalismo ha conservato tutto il suo corredo, e una volta ci lasciò prendere alcuni vestiti per una festa in abiti d'altri tempi... erano proprio come i vestiti di quella donna: le stesse maniche a sbuffo con guarnizioni di pizzo pieghettato al gomito, le gonne increspate alla vita e le giacchette a bolero, e portava i capelli pettinati in bande ondulate come la zia nella foto del matrimonio. Aveva un vestito minuto e dolce e parlava con una vocetta morbida e sottile e anche delle cose da nulla parevano tanto importanti per lei. Ricordo che aveva delle macchie su una spalla dell'abito da viaggio... qui, si vedono nella foto... la collana di garofani non le copre del tutto, e non volle mandarlo in lavanderia per paura che glielo rovinassero: disse che doveva aspettare a tornare a casa per toglierle con uno smacchiatore speciale di cui le aveva dato la ricetta sua nonna. E quelle macchie la preoccupavano tanto che continuava a passarci sopra il fazzoletto come se potesse pulirle con quello.» L'uomo cambiò posizione sulla sedia; la donna riprese a giocherellare coi semi e a farli cadere a uno a uno nella fontanella che aveva formato nella gonna dell'abito. L'uomo li guardò con espressione attonita, poi si coprì gli occhi con una mano. «Continua», disse. «Non era più giovane... sui trentaquattro o trentacinque anni, direi; malgrado questo aveva il viso fresco e grazioso, e tuttavia aveva sempre un'espressione di...» «Di attesa!», disse l'uomo. «Sì», confermò la donna, «esatto, aveva sempre una espressione di attesa... paziente... non ansiosa... come se aspettare fosse diventata un'abitudine. Credo che non ci sia altro da dire. Le rivolgevo la parola di tanto in tanto e lei era sempre pronta a parlare, nel suo modo sommesso e un po' buffo e, quando era in imbarazzo, cominciava a tormentare con le piccole mani una collana di corallo: una collana antiquata e piuttosto brutta, con al centro un curioso pendente di scaglie di corallo sovrapposte. Doveva esse-
re vecchissima. Disse che l'aveva avuta da sua nonna.» «Le hai parlato spesso?», chiese l'uomo. «Di che cosa parlava?» «Oh, non ricordo. Era il tipo di donna che non dice niente che valga la pena di ricordare. Si parlava e basta.» «E lui?» La donna lanciò in aria una manciata di semi che ricaddero sulla gonna. «Un uomo della stessa epoca», disse lei. «Vent'anni fa. Portava i baffi spioventi e i capelli a spazzola lisci come lo zio quando si sposò. E aveva i pantaloni troppo corti e troppo stretti, e le scarpe appuntite e certe cravatte... proprio buffe.» «Ti dissero di dove erano, dove abitavano?» «Oh, non lo ricordo. Non so se l'abbiano mai detto... ma credo che fosse una cittadina del Middle West... nell'Ohio, o nell'Illinois... non lo so.» L'uomo non disse nulla e non si mosse. La donna cominciò a fare dei disegni coi semi sull'abito bianco dov'era teso sopra le ginocchia. Le onde lambivano dolcemente la spiaggia e si ritiravano silenziose. I bambini se n'erano andati da sotto il pontile e le ombre delle palme da cocco erano lunghe e quasi immobili. Fu la donna che riprese a parlare. «Ebbene?» disse. L'uomo tacque ancora per alcuni minuti, poi, senza sollevare la mano dagli occhi, cominciò. «Abitavano nella mia città. Lui era mio zio, il fratello di mia madre. Suo padre era proprietario di una modesta libreria... vendeva libri, quadri e articoli di peluche... tu sai il genere.» La donna accennò di sì col capo, come trasportata dai ricordi. «Quando suo padre mori, prese le redini del negozio; aveva sedici anni allora. Due anni dopo morì sua madre e restò solo: l'unico rimasto della famiglia. Aveva sempre avuto intenzione si sposare Jennie: era la sua fidanzatina fin da quando erano bambini. Quando aveva otto anni, suo zio tornò da un lungo viaggio intorno al mondo e il bambino ascoltava pieno di ammirazione e d'interesse i suoi racconti avventurosi. Una volta lo zio notò l'espressione intenta dei suoi occhi grandi, se lo mise fra le ginocchia, e gli domandò che cosa voleva fare da grande. 'Sposare Jennie e fare il giro del mondo per il viaggio di nozze', rispose lui. «E da quel momento questo diventò lo scopo della sua vita. Lui e Jennie parlarono del viaggio per anni con entusiasmo e con assoluta fiducia; perché sapevano che l'avrebbero fatto, quando Joseph fosse diventato uomo. Nessuno lo chiamò mai Joe; era troppo serio. Era mio zio Joseph.
«Quando il negozio fu tutto suo, cominciò a mettere da parte ogni centesimo che riusciva a risparmiare in vista del viaggio, perché lui e Jennie avevano deciso che non si sarebbero sposati fino a quando non avessero messo insieme abbastanza denaro per fare il giro del mondo. «Ci vuole tempo a mettere da parte molti quattrini con una libreria in una cittadina di provincia, ma loro non si scoraggiarono mai. Jennie faceva degli oggettini di ceramica decorati a mano che vendeva per Natale e dei lavoretti di pirografia, poi dava lezioni di pittura all'acquarello: insegnava ai bambini a dipingere vaporosi alberi verdi, onde bianche e spumeggianti, rocce grige, evanescenti, pecore e mucche che parevano di legno e persone da arca di Noè. Ho qualcuno dei suoi acquerelli a casa.» La donna raccolse tutti i semi in una piega della gonna. «E allora?», disse. «Intanto continuavano a studiare le carte geografiche, a preparare itinerari e a leggere racconti di viaggi per poter iniziare nel modo migliore la loro occasione. Andò avanti così per molti anni: anni buoni in cui il gruzzolo alla banca ingrossava; e anni cattivi in cui per via delle inondazioni, degli incendi, della necessità di riparare o rifare il tetto il piccolo deposito calava. A trent'anni Jennie cominciò a prepararsi il corredo da sposa. Pensavano che fosse questione d'un paio d'anni ancora; e io andavo da lei e la guardavo cucire raffinati vestiti di lana leggera e di seta per l'estate. Faceva tutto da sé... arricciava le maniche con diverse filze successive in modo da formare degli sbuffi, increspava le gonne alla vita e metteva delle frappette arricciate o pieghettate tutt'intorno alle spalle per guarnizione.» La donna smise di giocare con le perle di semi e si piegò in avanti. «E poi?» «Beh, non si trattò di due anni, ma di cinque. Lo zio si ammalò e stette a letto per tre mesi: dovette assumere un commesso per il negozio e pagare il medico e... insomma ci vollero altri cinque anni. Io aiutai Jennie a scegliere l'alpaca grigio per l'abito da viaggio. Avevo quattordici anni allora: adesso ne ho trentaquattro; e lei e mio zio Joseph erano i miei migliori amici. Avevo passato tante ore con loro a consultare carte geografiche e guide ferroviarie e marittime, a aiutare Jennie a scegliere le stoffe dell'abito per quel meraviglioso viaggio... vestito da matrimonio e da viaggio insieme... oh, fu uno onore straordinario per me.» «E partirono, poi?» «Si sposarono una mattina di maggio; lo zio Joseph mi diede quella mattina l'orologio del nonno e io li salutai sulla porta della chiesa... ero troppo
emozionato per accompagnarli alla stazione, così me ne andai a casa di corsa e mi nascosi nell'orto... e rimasi lì ancora a lungo dopo che sentii fischiare il treno al passaggio a livello. Doveva essere passata qualche ora quando sentii arrivare un cavallo al gran galoppo per la strada e mi sedetti sull'erba.» Il sole stava calando dietro i monti Waianae e il tramonto con i suoi meravigliosi colori tingeva l'acqua e il cielo di arancione e di cremisi, mentre sfumature arancione e cremisi coloravano l'abito bianco e il volto della donna. «L'uomo a cavallo disse che il treno era stato coinvolto in un disastro ferroviario; che alcuni vagoni erano andati a fuoco e che era stato disposto l'invio di un treno per i soccorsi. «Mi precipitai alla stazione e balzai sul treno che stava partendo. Non c'era tempo per fermare e farmi scendere.» Fece una pausa. «C'era stata una collisione con un treno merci. Tutti i vagoni erano stati distrutti dalle fiamme meno uno, il vagone passeggeri, che era deragliato. I passeggeri che erano stati estratti dalla carrozza quasi schiacciata dall'urto, erano distesi sull'erba ai lati della massicciata. Trovai mio zio Joseph con la schiena appoggiata a una grossa pietra e Jennie mezzo distesa e mezzo appoggiata allo zio. Aveva tre ferite sanguinanti sul collo e gli occhi ormai senza espressione... e tuttavia cercava di pulire delle macchie sulla spalla dell'abito grigio... movimenti meccanici, mutili.» Il sole era scomparso e la prima luce crepuscolare dava risalto al rosso vivo dei fiori di ibisco dietro l'albero hau e alla collana rossa intorno al collo bianco della donna e ai semi rossi raccolti in una piega dell'abito bianco. L'uomo li guardò come ammaliato. «Continuò a strofinare ancora un poco dopo che arrivai: pietosi movimenti senza effetto e senza senso... poi... poi si fermò.» «Voi dire che morì?» chiese la donna con voce un po' sforzata. «Sì, morì allora.» «E il marito?» «Lo zio Joseph era appoggiato alla pietra, respirava a malapena e guardava Jennie... non faceva che guardarla. Quando la mano di lei non si mosse più, alzò gli occhi e mi guardò; non mi aveva ancora guardato, però si era accorto di me. Parlò solo una volta prima di spirare.» La donna si chinò più vicino a lui e la collana di semi ciondolò sul davanti. «E che disse?» «Disse, con un sorriso tenero e muovendo una mano sulla guancia di
Jennie come se volesse accarezzarla... disse, 'Non... non è la fine... dovrò... dovrò ricominciare tutto daccapo da qualche parte... da qualche parte... ma... riuscirò a portare Jennie a fare il giro del mondo'.» La donna rabbrividì. L'uomo tirò fuori dalla tasca l'orologio e aprì il coperchio della cassa. «Questa fotografia fu scattata durante il tragitto verso la stazione il giorno del matrimonio», disse. «Il fotografo la diede a me, per ricordo.» Lei prese in mano l'orologio e lo espose all'ultimo bagliore del sole. La collana le si posò sulla mano e lui la scostò con un gesto brusco. Dopo aver guardato la foto la donna appoggiò l'orologio sul bracciolo della sedia, si girò e lanciò un rapido sguardo alle ombre che si addensavano attorno al tronco contorto dell'albero hau e lungo la battigia. «Andiamo dentro», disse, col fiato sospeso, «andiamo dentro dove c'è luce.» (Under the Hau Tree) Greye La Spina IL CARRO DEI MORTI 1. «Qualcuno sta scrivendo col gesso sulla porta d'ingresso». Chi parlava si diresse dalla terrazza nella biblioteca attraverso la portafinestra aperta. Lord Melverson si alzò dalla sua poltrona imbottita con un'esclamazione involontaria di spaventato sgomento. «Stanno scrivendo col gesso sulla porta?», fece eco, con un indubbio tremore nella voce controllata. Il suo viso aristocratico, vecchio e ben rasato, sembrò pallido nella tenue luce delle candele schermate. «Oh, niente che possa danneggiare l'intaglio. Forse mi sono sbagliato... Sta calando il crepuscolo... ma mi sembra che sia una grande croce rossa, fatta col gesso in alto, nel pannello superiore della porta. Sa... il pannello della Grande Peste.» «Buon Dio!», esclamò debolmente l'uomo più vecchio. Il giovane Dinsmore incontrò gli occhi ansiosi del suo futuro suocero con un viso che tradiva la sua meraviglia. Non poteva fare a meno di stupirsi per il modo in cui era stata recepita una cosa che, ad un esame superficiale, sembrava una sciocchezza.
In verità, per la bellissima porta intagliata che con rinforzi di ferro battuto proteggeva l'ingresso alla Melverson Abbey, valeva la pena di un eccesso di cure. La mal celata preoccupazione di Lord Melverson sarebbe stata comprensibile se qualche turista avesse inciso le sue iniziali su quel mirabile esempio di intaglio. Ma fare tanto chiasso per un po' di gesso rosso che un cameriere avrebbe potuto spolverare in un attimo senza il minimo danno al pannello... Kenneth si sentiva leggermente superiore al padre di Arline, che provava una tale ansietà. Lord Melverson si appoggiò con una mano al tavolo della libreria. «C'era... hai notato... nient'altro... oltre la croce?» «Diamine, non credo che ci fosse nient'altro. Ma, naturalmente, non ho fatto alcuna particolare attenzione. Non avevo idea che lei fosse così... interessato,» replicò il giovane americano. «Penso che andrò fuori a dare un'occhiata per conto mio. Puoi aver immaginato di aver visto qualcosa, nella luce del crepuscolo», mormorò tra sé Lord Melverson. «Posso venire?», chiese Dinsmore, vagamente seccato per il turbamento del suo ospite generalmente imperturbabile. Lord Melverson annuì. «Penso che dovrai sentire tutta la storia, prima o poi, in ogni modo,» accondiscese, mentre gli faceva strada. Queste parole fecero battere follemente il cuore di Kenneth. Non voleva dire che una cosa; il padre di Arline non era contrario al suo corteggiamento. Quanto ad Arline, nessuno poteva essere sicuro di una civetta come lei. Eppure... il giovane americano avrebbe potuto giurare che nei suoi occhi c'era qualcosa di più che della semplice gentilezza il giorno che aveva sorriso per confermare l'invito di suo padre a Melverson Abbey. Era stata quella vaga promessa che aveva portato Kenneth Dinsmore da New York all'Inghilterra.. Un momento dopo l'americano stava fissando, con occhi attenti che registravano un ulteriore stupore, la famosa porta intagliata che costituiva l'entrata principale dell'Abbazia. Avrebbe potuto giurare che nessuno si era potuto avvicinare a quella porta senza essere visto dalle finestre della biblioteca; eppure, nel breve lasso di tempo fra la prima e la seconda osservazione del pannello, era stata fatta un'aggiunta ai segni col gesso. I pannelli di Melverson sono molto conosciuti negli annali degli intagli storici. C'è un largo pannello in basso che descrive il Grande Incendio di
Londra. Sopra questo ci sono sei mezzi riquadri che descrivono importanti avvenimenti della storia londinese. E, proprio in cima, c'è un largo pannello che mostra una strada di Londra durante la Grande Peste del 1664. Questo pannello fa vedere, su entrambi i lati di una stretta strada, delle case vuote e spalancate, con grandi croci sulle porte. Davanti ad una in primo piano, vi è un rozzo carro di legno trainato da un cavallo scarno e guidato da un individuo cupo con un viso sfrontato. Questo carro porta un macabro peso; è riempito con alte pile di cadaveri. Il conteggio del numero dei cadaveri nel carro varia in modo bizzarro: le più antiche descrizioni del pannello danno un numero più piccolo di quelle più tarde, un argomento questo molto discusso dai conoscitori di intagli antichi. L'insieme del bassorilievo assomiglia molto al famoso quadro di Hogarth di una scena simile. Kenneth si fermò davanti a quella grande porta fissando una iscrizione tracciata col gesso bianco attraverso la ruvida superficie delle figure intagliate nel pannello superiore. «Dio abbia misericordia di noi!» lesse. Che cosa significava? Chi aveva fatto in modo di tracciare, non visto, quelle parole di disperata supplica sulla vecchia porta? E, improvvisamente, le congetture del giovane furono bruscamente disturbate. Lord Melverson barcollò allontanandosi dalla grande porta come un ubriaco, mentre un lamento usciva a stento dalle sue labbra aride. Il vecchio Signore aveva portato le mani al viso, coprendosi gli occhi come per escludere una visione orrida e sgradita. «Kenneth, tu hai saputo tutta la storia! Questo è uno dei tuoi gesti sconsiderati! Dimmi che è così ragazzo! Dimmi che la tua mano ha tracciato queste parole fatali!» L'intensa gravità e l'ansietà del vecchio nobile Signore, avevano suscitato la simpatia di Dinsmore, ma dovette negare la pietosa accusa. «Mi dispiace, Sir, ma ho trovato la croce rossa proprio come le ho detto. Quanto alla scritta sotto, devo ammettere...» «Ah! Allora l'hai messa tu là? L'hai fatto tu, allora? Dio ti ringrazio! Dio di ringrazio!» «No, no, non avevo finito di parlare. Stavo solo pensando come sia possibile che qualcuno sia scivolato vicino a noi e abbia scritto questo, senza farsi vedere. Sono sicuro,» disse sconcertato, «che non c'era nient'altro che la croce rossa quando le ho parlato prima, Sir.» «Allora non hai sentito... nessuno ti ha raccontato della vecchia leggenda? La storia della Maledizione dei Melverson?»
«Questa è la prima volta che la sento, glielo assicuro.» «E tu neghi decisamente di avere scritto questo, per scherzo?» «Via, Sir, non è da lei accusarmi di un tiro mancino così sciocco,» rimbeccò Kenneth, un po' indignato. «Perdonami, ragazzo. Non... non avrei dovuto dire quelle cose ma... sono... agitato. Vorresti dirmi...», la sua voce divenne più tesa... «Guarda da vicino, per amor di Dio, Kenneth!... quanti cadaveri ci sono nel carro?» Dinsmore non poté fare a meno di gettare un'occhiata acuta al suo futuro suocero, che ora se ne stava in piedi col volto girato, riparandosi gli occhi con una mano, come se non osasse guardare da solo ciò che aveva chiesto ad un altro, con una voce così piena di orrore e raccapriccio. Allora l'Americano si fermò più vicino alla porta ed esaminò il pannello più alto da vicino, mentre il tenue crepuscolo calava su di lui. «Ci sono undici cadaveri», disse alla fine. «Kenneth! Guarda bene! Dalla tua risposta dipende molto di più di quanto tu non possa renderti conto. Sei sicuro che siano solo undici?» «Ce ne sono solo undici, Sir. Ne sono sicuro.» «Non sbagliare per carità!» «Certamente la mia vista non si è seriamente indebolita da questa mattina, quando ho messo nel carniere la mia parte di selvaggina», rise il giovane, nel vano tentativo di allontanare la cupa depressione che sembrava sopraffarlo per la sola vicinanza dell'altro. «Grazie a Dio! Allora c'è ancora tempo,» mormorò interrompendolo il proprietario dell'Abbazia, mentre tirava un profondo sospiro di sollievo, rabbrividendo. «Torniamo a casa, ragazzo mio.» La sua voce aveva perso quell'usuale tono ironico e aveva acquistato una gravità insolita per lui. Kenneth aggrottò le sopracciglia vedendo Lord Melverson che camminava trascinando i piedi. Si poteva quasi pensare che il vecchio Signore fosse stato colpito fisicamente da un potente shock. Appena arrivati nella libreria, Lord Melverson si gettò sulla sedia più vicina, mentre il suo respiro si accorciava in forzati singhiozzi. Senza parole, indicò il cordone del campanello che pendeva dal muro, e che non poteva raggiungere. Kenneth tirò il cordone. Dopo un momento, nel quale il giovane versò frettolosamente un bicchiere d'acqua porgendolo al suo ospite, il maggiordomo entrò nella stanza. Alla vista del suo amato padrone in tali condizioni di penoso collasso, il
vecchio servitore fu stimolato all'azione. Si precipitò attraverso la stanza alla scrivania, aprì un cassetto, prese una bottiglia, ruppe una compressa nella mano, e tornò di volata. Somministrò la medicina al suo padrone, che inghiottì l'acqua portata da Kenneth, con un grato sorriso che includeva il suo ospite e il servitore. Jenning scosse la testa tristemente e strinse le labbra, mentre Lord Melverson esausto si appoggiava indietro sulla sedia, col viso grigiastro, e le palpebre abbassate sugli occhi affaticati. Kenneth toccò il braccio del vecchio servitore per attirare la sua attenzione, si picchiettò la parte sinistra del petto, e alzò le sopracciglia interrogativamente. La risposta fu un cenno affermativo. Attacco di cuore! Provocato dall'agitazione del vecchio gentiluomo per via di un segno col gesso sulla sua porta d'ingresso! C'era un mistero da qualche parte, e la sola idea stimolò la sua curiosità. E non aveva detto Lord Melverson: «Dovrai sapere, prima o poi?» Sapere che cosa? Quale strano mistero si celava sotto la croce rossa e la preghiera scritta col gesso sul grande portale di Casa Melverson? 2 Lord Melverson si agitò un po' e parlò con fatica. «Manda uno degli uomini fuori a pulire il pannello superiore della porta d'ingresso, Jenning», ordinò con voce piatta. Jenning alzò una mano a coprire una smorfia d'orrore e a soffocare un'esclamazione. Gli occhi di un azzurro pallido scrutarono il padrone da sotto le sopracciglia chiare, mentre lo guardava con grande incredulità. «Non sarà la Croce Rossa, Signore? Oh no, non può essere la Croce Rossa?», balbettò. Il palpito di affetto nella vecchia voce incrinata, diceva quanto contasse il padrone per il vecchio servitore della famiglia. «Sembra una croce, tracciata col gesso rosso», ammise Lord Melverson chiaramente riluttante, alzando gli occhi smorti verso quelli che lo fissavano con costernazione. «Oh signore, non la Croce Rossa! E... c'era anche l'avvertimento! Sì? L'ha contati? Quanti erano?» In quelle domande completamente strane e incomprensibili, risuonava un terribile presentimento e una certa riluttanza. Kenneth sentì che il sangue gli si congelava nelle vene per l'orribile mistero di quel fatto inesplica-
bile. Lord Melverson e il suo servitore si scambiarono un'occhiata significativa che non sfuggì all'attenzione del giovane Americano. La risposta alla domanda di Jenning fu misteriosa ma non più della domanda. «Gli stessi di prima, Jenning. Questo è tutto... fino ad ora.» La curiosità di Kenneth si accese di nuovo. Che cosa voleva dire? Poteva Jenning aver chiesto quanti cadaveri c'erano in quel carro? Potevano essercene solo undici, naturalmente. Come avrebbero potuto essercene di più, o di meno, dato che l'intagliatore del legno ne aveva fatti undici per l'eternità?. Il vecchio servitore uscì dalla stanza, trascinando lentamente un piede dopo l'altro, come se improvvisamente fosse diventato più vecchio di quanto dichiarassero i capelli precocemente incanutiti. Nella sua capace poltrona, aprendo e chiudendo le dita nervosamente sul lucido cuoio che la ricopriva, Lord Melverson stava disteso, affaticato, con gli occhi sgranati che fissavano, senza vederla, la parete della biblioteca coi suoi grandi quadri a olio degli antenati Melverson. «Kenneth!» Lord Melverson cercò gli occhi del suo ospite con un'espressione di scusa sul viso che dolorosamente cercava di esprimere, al di sopra della cupa e pesante atmosfera di orrore nella quale il vecchio nobiluomo sembrava immerso. «Presumo che tu ti sia stupito per tutta questa confusione a seguito di un segno fatto col gesso sulla mia porta. Mi... mi fa pensare a... a una vecchia tradizione familiare... e mi ha un po' disturbato.» «C'è solo una cosa che voglio chiederti, ragazzo mio, Arline non deve sapere che ho avuto questo leggero collasso cardiaco. Gliel'ho tenuto nascosto per anni, e non voglio che si preoccupi per me. E, Kenneth, Arline non ha mai saputo della leggenda di famiglia. Non dirle niente della croce... dei segni col gesso sulla mia porta.» La sua voce era intensa e grave. «Ho la tua parola, ragazzo mio? Grazie. Un giorno ti racconterò tutta la storia.» «Ha niente a che fare con quei pittoreschi versi in lettere dorate a rilievo sopra il camino della sala da pranzo?», domandò Kenneth. Li citò: «Il primogenito dei Melverson morirà; La figlia dei Melverson sposerà in grigio; I Melverson devono subire la Maledizione dei Melverson; O la Melverson Abbey resterà senza padroni;»
«Sembrano versi piuttosto scadenti, non è vero ragazzo? Follie? Forse sì... forse no. D'altronde io sono il secondogenito, mio fratello Guy è morto prima della maggiore età.» «Coincidenze, non crede Sir?» Lord Melverson fece un sorriso sforzato, con un'incredibile stanchezza nei suoi occhi. «Forse. Ma una catena di coincidenze. Allora tu... tu non pensi che ci sia nulla, non è vero, Kenneth? Sposeresti la figlia di una famiglia che ha una tale Maledizione, sapendo che fa parte della sua dote? Sapendo che tuo figlio deve morire prima della maggiore età?» L'Americano rise a cuor leggero. «Non penso di dover rispondere a una domanda così piena di presupposti, Sir. Non posso ammettere questa possibilità. Sono troppo realistico, lo vede.» «Ma lo faresti?», disse in modo persistente e ostinato. «Non credo una sola parola di tutto ciò», rispose Kenneth con solido buon senso. «È solo un'altra di quelle folli superstizioni dalle quali la gente ha permesso di farsi influenzare da tempo immemorabile. Mi rifiuto di crederci.» Kenneth lo immaginò, oppure Lord Melverson aveva avuto un profondo sospiro di sollievo accuratamente represso? «Non vale quasi la pena andare contro le vecchie tradizioni, non è vero?», chiese ansiosamente. «Comunque tu non ci crederesti. E probabilmente è solo una superstizione, come dici tu. Suona di nuovo il campanello per Jenning, vuoi? O... vuoi darmi il braccio, ragazzo mio? Io... mi sento un po' traballante. Penso proprio che il letto sia il posto migliore per me. 3 Kenneth, dopo che ebbe accompagnato Lord Melverson a letto e dopo che gli ebbe dato la buona notte, tirò fuori la pipa e si sedette vicino alla finestra a fumare. Domani, decise, avrebbe tentato la fortuna; se solo avesse potuto portare Arline in un posto dove poter stare soli! Piccola strega, faceva sempre in modo che ci fosse qualcuno attorno! Domani avrebbe saputo dalla sua viva voce se doveva tornare da solo in America o no. L'orologio suonò la mezzanotte. Seguendo il suo ritmo, una voce echeggiò nella notte silenziosa, una voce rauca, dissonante, sgradevole. Le parole erano incomprensibili, e seguite da un'aspra risata che chiaramente non
esprimeva allegria, perché il suono gli fece scrollare le spalle, in un istintivo tentativo di togliere di dosso il lugubre effetto di quella risata. «Simpatica musica» osservò tra sé, affacciandosi alla finestra. Delle ruote iniziarono a cigolare e a scricchiolare vicino all'Abbazia. La luna piena con la sua luce chiara illuminava lo spazio proprio sotto la finestra di Kenneth. Poteva distinguere ogni singolo oggetto, o perlomeno così gli sembrava, come in piena luce del giorno. Ascoltò e guardò, mentre si sentiva in preda ad una strana tensione. Era come se stesse aspettando qualcosa di terribile che doveva accadere; qualche pericolo sconosciuto che lo minacciava vagamente, ma non per questo meno orribile. Il rumore delle ruote crebbe. Poi si udì un cauto suono stridente dalla finestra della camera più vicina. Kenneth decise che era la camera di Lord Melverson. Il suo ospite, sentendo l'orribile risata che era stata lugubremente lanciata attraverso l'aria mite della notte, aveva tolto la zanzariera della finestra, per vedere meglio il visitatore notturno dal brutto ridacchiare. Lo scricchiolio delle ruote aumentò. E allora là, nella piena luce della luna, apparve un rozzo carro trainato da una scarno cavallo pezzato e condotto da un individuo curvo che tirò le redini appena il carro fu sotto le finestre di Lord Melverson. Dall'ombra della sua stanza, Kenneth guardava tutto, con gli occhi spalancati. C'era qualcosa di intollerabilmente spaventoso nello strano cavallo e nel suo conduttore ingobbito, qualcosa che gli faceva allargare i denti e drizzare i capelli sulla testa. Non voleva guardare, ma qualcosa lo costringeva e ne fu obbligato. Con un rapido movimento della testa, il guidatore del carro volse un viso diabolico ai raggi della luna mostrando degli occhi luccicanti che brillavano con una terribile, intensa malignità. Le sottili labbra incurvate si separarono. Il grido che Kenneth aveva udito qualche minuto prima risuonò, o meglio stridette nelle orecchie dell'Americano. Questa volta le parole erano più chiare. Più chiare alle orecchie, non per il significato... perché, che senso potevano avere, rifletté appena le udì. «Portate fuori i vostri morti! Portate fuori i vostri morti!» Un gemito soffocato. Questo era Lord Melverson, pensò Kenneth, aguzzando gli occhi per osservare la strana scena là sotto. Perché improvvisamente due figure, che portavano in mezzo a loro un fardello, uscirono dalle ombre del muro dell'Abbazia. Essi lo avvicinarono al carro e, con uno sforzo, lo sollevarono per gettarlo negligentemente sul
macabro contenuto di quell'orrendo carro... contenuto che ora Kenneth notava per la prima volta con occhi sbarrati e con un formicolio sulla pelle. Appena il volto bianco del cadavere giacque rivolto alla luna, un terribile grido echeggiò dall'appartamento di Lord Melverson, un grido di angoscia e di disperazione. Perché la luce della luna metteva in risalto i lineamenti di quel morto così indifferentemente buttato sulla agghiacciante pila. «Oh, Albert, Albert, figlio mio, figlio mio!» Kenneth si sporse dalla finestra e sbirciò verso quella del suo ospite. Dal davanzale si protendevano due mani... fra di esse giocava la bianca testa del vecchio Signore. Era svenuto? Oppure aveva avuto un altro attacco di cuore? Il conduttore del carro, giù nella strada, ridacchiò malignamente, e diede uno strattone alle redini del cavallo. Per tutta risposta lo scarno cavallo pezzato partì pazientemente, e il carro lentamente uscì dal campo visivo, con le ruote che scricchiolavano sul fondo stradale. E, non appena fu fuori vista, fra le profonde ombre a est vicino al parco fitto di alberi, quella rauca risata giunse di nuovo alle orecchie dell'Americano, facendolo fremere per l'orrore che promanava da quell'individuo detestabile. L'influenza ipnotica di quello sguardo maligno aveva bloccato Kenneth sul posto tanto che, per un momento, non poté andare ad assistere Lord Melverson. Ma, quando raggiunse la sua porta, si accorse che qualcuno l'aveva preceduto. Jenning stava già entrando nella stanza del suo ospite. Si ritirò senza essere visto. Forse era meglio aspettare di essere chiamato. Poteva essere benissimo che il dramma a cui aveva assistito non fosse per i suoi occhi e le sue orecchie. Dopotutto, aveva visto o udito veramente qualcosa? O era stato vittima di un incubo, che lo aveva alla fine svegliato? Kenneth si strinse nelle spalle. L'avrebbe saputo l'indomani mattina. A meno che non piovesse nel frattempo, le ruote del carro avrebbero lasciato il loro segno sulla ghiaia. Se non aveva sognato, avrebbe trovato i solchi fatti da quelle larghe ruote antiquate. Tuttavia non riuscì a dormire, finché non sentì che Jenning usciva dalla stanza del suo padrone. Aprendo con cautela la porta, gli chiese come stava Lord Melverson. Il vecchio servitore gli lanciò un'occhiata sospettosa. «L'ho sentito gridare», spiegò Kenneth, vedendo che il vecchio era reticente nel dargli delle spiegazioni spontaneamente. «Spero che non sia niente di serio?»
«Niente», rispose Jenning in modo controllato. Ma Dinsmore avrebbe giurato che vi erano delle lacrime che brillavano" negli occhi di un pallido azzurro del vecchio servitore, e che la vecchia bocca era stretta come per trattenere uno scoppio di potente emozione. Arline Melverson, con un viso un po' rannuvolato, riferì che il padre aveva dormito poco la notte scorsa, e che avrebbe fatto colazione nella sua stanza. Lei stessa era scesa vestita da cavallo, e si degnò di dare la gradita informazione di aver ordinato un cavallo sellato per Kenneth, se avesse voluto cavalcare con lei. Malgrado il suo desiderio di rimanere solo con lei, l'americano sentì che avrebbe dovuto rimanere all'Abbazia, dove avrebbe potuto essere utile a Lord Melverson. Ma il desiderio fu più forte dell'intuizione e, dopo colazione, andò ad indossare i suoi indumenti da cavallerizzo. «Credo di sognare», pensò tornando all'Abbazia per il pranzo, spingendo il suo cavallo contro quello di Arline quando aveva felicemente raggiunto la meta di toccarle la mano ogni tanto. «Solo che questo sogno non è un incubo.» Istintivamente il suo sguardo cercò la strada inghiaiata dove il carro dei morti della notte scorsa sotto i suoi occhi, aveva fatto girare le sue pesanti ruote. La strada era liscia e senza solchi. Dopotutto, allora, aveva solo sognato, ed era stato certamente svegliato dal grido di Lord Melverson, quando il vecchio Signore si era sentito male. Il sogno era stato così vivido che Kenneth non poteva quasi credere ai suoi occhi quando vide la strada liscia, ma la sua recente felicità presto cacciò via la perplessità. Appena i due giovani smontarono da cavallo davanti alla porta, Jenning apparve sulla soglia. Il volto segnato del vecchio si voltò con terrore alla sua padroncina. Mosse le labbra come se volesse parlare, ma non ci riuscì. I suoi occhi cercarono quelli dell'uomo in una muta supplica. «Che cos'è successo, Jenning?» «Mister Albert, Mr. Dinsmore! Il primogenito di Milord...» «Che c'è», fece eco Arline. «Mio fratello è qui?» «Non posso dirlo a lei. Signore», il maggiordomo implorò Kenneth. «La porti da Lord Melverson, la prego. Glielo dirà meglio di quanto possa fare io.» Kenneth non accompagnò Arline dal padre. La ragazza volò attraverso la grande hall come fosse stata pungolata da mille timori. Kenneth si volse a Jenning con una domanda negli occhi. Nel viso del vecchio le lacrime scesero liberamente dagli occhi. Si tor-
mentava nervosamente le mani nodose. «È precipitato, signore... Qualcosa si è rotto nel suo aereo. È morto la scorsa notte, signore, poco dopo la mezzanotte. Il telegramma è giunto stamattina, appena lei e Miss Arline siete usciti.» Kenneth, disorientato, con una mano alla fronte, girava senza meta per quella casa di dolore. Albert Melverson era caduto col suo aereo, ed era morto la notte prima. Quel sogno, quell'incubo era stato forse un avvertimento? Era forse stato così vivo nell'immaginazione di Lord Melverson che la scena era stata riprodotta telepaticamente sotto gli occhi dell'americano? Malgrado ne fosse disorientato e disturbato oltre ogni dire, Kenneth si rese conto che la questione doveva rimanere in sospeso finché Lord Melverson non l'avesse spiegata di sua volontà. Nel frattempo ci sarebbe stata Arline da consolare: il suo tesoro che aveva appena perduto il suo adorato e unico fratello. 4 Erano appena trascorsi due mesi dalla morte di Albert, quando Lord Melverson affrontò l'argomento del matrimonio della figlia. «È così, ragazzo mio, sono ormai vecchio e non sono stato bene recentemente. Vorrei sapere che Arline è in buone mani, Kenneth», e, così dicendo posò familiarmente una mano sulla spalla del giovane. Kenneth ne fu profondamente commosso. «Grazie Sir, le prometto che farò di tutto per farla felice». «So che lo farai. Voglio che tu parli ad Arline per un matrimonio al più presto. Dille che voglio vederla sposata prima... prima di doverla lasciare. Ho una ragione molto importante, che non posso dirti, ragazzo mio, perché Arline si sposi presto. Voglio vivere abbastanza per vedere il mio nipotino sulle sue ginocchia, ragazzo mio. E, a meno che voi due non vi sposiate presto, non avrò il potere di evitare... cioè non sarò capace di fare per voi due qualcosa che ho in mente da tempo. E d'importanza vitale che vi sposiate presto, Kenneth. Non posso dire di più.» «Non c'è bisogno che dica di più. Parlerò oggi stesso con Arline. Lei capisce, Sir, che il mio unico motivo per non insistere con lei di affrettare il matrimonio è stato il vostro recente lutto.» «Naturalmente. Ma Arline è troppo giovane, troppo vivace per permettere che una tale perdita pesi permanentemente su di lei. Penso che con te cederà, specialmente se le dici chiaramente che io voglio che sia così.»
Kenneth, pensieroso, cercò Arline. Le parole di Lord Melverson lo avevano dolorosamente impressionato. C'era dell'altro dietro a quelle parole, c'era molto di più, pensò, non poteva ancora chiedere spiegazioni. Ma l'intensità della richiesta di Lord Melverson lo rese più sicuro quando domandò ad Arline di stabilire una data più prossima per il loro matrimonio. «Io sono pronta, se papà non lo considera poco rispettoso per la memoria di Albert. Lo sai, caro, che in ogni modo volevo sposarmi presto. E penso che Albert sarà più felice di sapere che non ho lasciato che la sua morte fosse un impedimento per me. Lo capisci vero? D'altra parte, io sento che lui è qui con noi nell'Abbazia, con papà e me. «Ma c'è una cosa, caro, sulla quale io voglio insistere. Penso troppo a mio fratello per lasciare il mezzo lutto che mio padre mi ha permesso di portare al posto del nero opprimente. Così, se vuoi sposarmi presto, caro, avrai una sposa in grigio.» Nella mente di Kenneth lampeggiò uno dei versi della maledizione dei Melverson «La figlia dei Melverson sposerà in grigio.» Poteva esserci qualcosa di vero, dopotutto? Il senso comune rispose sdegnosamente: No! Quattro mesi dopo che Albert Melverson era precipitato e morto, sua sorella Arline, vestita di grigio come una dolce colomba, mise la sua mano in quella di Kenneth Dinsmore, e Lord Melverson, con le labbra contratte mentre lottava per mantenere la sua compostezza, accompagnò la figlia all'altare. La luna di miele, lunga molti mesi, portò i giovani sia in America sia nel Continente, dato che lo sposo non stava nella pelle per il desiderio di presentare la giovane bella moglie alla sua famiglia. Poi, accondiscendendo al desiderio di Lord Melverson, la coppia di sposi ritornò alla Melverson Abbey, perché il loro futuro iniziasse sotto le vecchie mura. 5 Il piccolo Albert divenne l'occhio destro di suo nonno. Il vecchio gentiluomo passò le ore a sorvegliare la culla nei primi mesi di vita di suo nipote, poi di nuovo altre ore guidando affettuosamente i primi passi del piccolo. Ma sempre, sotto l'apparente felicità della famiglia, si celava un'ombra nera. Jenning, coi suoi occhi chiari pieni di austerità, lanciava sempre in
segreto occhiate spaventose al pannello sulla porta. Kenneth incominciò quasi ad odiare il povero vecchio solamente perché sapeva che Jenning credeva ciecamente alla Maledizione della famiglia. «Accidenti a quell'uomo! Ce l'attirerà addosso a furia di pensarci», brontolò il giovane padre guardando dalla finestra della stanza della prima colazione dove aveva consumato un pasto tardivo. Il piccolo Albert, camminando con passi incerti e con esagerata precauzione dalle braccia della madre a quelle del nonno, guardò per caso in su. Vide suo padre, rise, e strillò di gioia. Dinsmore agitò la mano. «Vai, giovanotto, sarai un grande camminatore, un giorno», disse divertito. Lord Melverson si guardò attorno, con un sorriso soddisfatto sul viso. Chiaramente condivideva in pieno i sentimenti di suo genero. Come al solito, entrò la figura vestita di nero, il classico tipo da presentimenti: Jenning... Venne proprio nel piccolo gruppo felice, cercando con gli occhi quelli del vecchio nobiluomo. «Milord? Vorrebbe dare un'occhiata...», balbettò Jenning, andando con gli occhi vaganti dal giovane padre alla giovane madre, e poi di nuovo al nonno, come in una mortale incertezza. Lord Melverson si alzò lentamente e con precauzione dalla posizione chinata a lato di una grande sedia di vimini. Fece cenno silenziosamente a Jenning di precederlo. Il vecchio maggiordomo ritornò sui suoi passi, col padrone che lo seguiva da presso. Sparirono dietro l'angolo dell'edificio. «E ora cosa diavolo stanno facendo?», si domandò Kenneth. Aggrottò le sopracciglia. C'era stato qualcosa di vagamente sospetto nell'aria di Melverson. «Ho una mezza idea di seguirli.» «Kenneth!» L'urlo uscì dalla gola di Arline come un grido d'agonia. Kenneth si girò velocemente, ma troppo tardi per poter fare qualcosa. Il bambino, traballando fuori dalle braccia della madre, aveva sbagliato un passo, era scivolato e caduto e aveva battuto la tenera e piccola testa contro l'angolo di granito del bordo della terrazza. E anche allora Kenneth non capì che cosa tutto questo significasse. Fu soltanto a tarda notte che all'improvviso capì che la Maledizione dei Melverson non era una sciocca tradizione, ma un terribile maleficio che gravava sulla felicità dei Melverson, anche dei rami secondari. Aveva lasciato Arline sotto l'influenza di un sonnifero. I suoi nervi ave-
vano ceduto dopo la tensione del giorno, e la consapevolezza che il suo bambino avrebbe potuto non sopravvivere alla nottata. Una competente infermiera e un abile medico si prendevano cura del bambino. Degli specialisti stavano arrivando da Londra con un treno speciale: Kenneth sentiva che la sua presenza nella stanza sarebbe stata più d'impaccio che d'aiuto. Scese nella biblioteca dove suo suocero sedeva fermo, in silenzio, con un'espressione stranamente fissa di grande determinazione sul vecchio volto. Lord Melverson aveva tirato fuori dalla tasca un fazzoletto. E allora Kenneth improvvisamente seppe ciò che prima aveva solo immaginato. Perché il sottile tessuto del fazzoletto del vecchio signore era striato di rosso, quel rosso che, come ben sapeva il giovane padre, doveva essere stato spolverato dal pannello superiore della grande porta proprio quella mattina. Il bimbo, il primogenito di Kenneth, era condannato. «Perché non me l'ha detto? Me l'ha tenuto nascosto», Kenneth accusò amaramente il padre della moglie. «Pensavo di farlo per il tuo bene, Kenneth», si difese l'uomo più vecchio tristemente. «Ma se lei me l'avesse detto, non l'avrei lasciato solo nemmeno un attimo. Sarei stato dietro a lui per salvarlo, quando è caduto.» «Lo sai che, se non fosse caduto, qualcosa d'altro gli sarebbe successo, qualcosa di imprevedibile.» «Oh, si, lo so: ora, quando è troppo tardi. Il mio Piccolino! Il nostro primo nato! Il primogenito dei Melverson!», disse violentemente. «Perché non mi ha detto che la Maledizione dei Melverson avrebbe seguito anche mia moglie? Che si sarebbe abbattuta sul mio bambino primogenito?» «E questo ti avrebbe impedito di sposare Arline?», domandò il padre di Arline, molto dolcemente. «Lo sai che non te l'avrebbe impedito, Kenneth. Una volta ho provato a sottoporti la questione della profezia, ma tu hai risposto che rifiutavi di considerare anche la più piccola possibilità. Che cosa potevo fare? Ti confesso che ho sofferto, pensando che avrei dovuto insistere con te perché tu leggessi i documenti di famiglia prima di sposare Arline... poi avresti potuto decidere da te. «Arline lo sa?» «No, l'ho protetta da questa cosa, Kenneth.» «Non posso perdonarla per non avermi fatto sapere. Il saperlo avrebbe potuto salvare la vita di Albert. Se Arline anche l'avesse saputo...» «Perché avrei dovuto dirle qualcosa che avrebbe gettato un'ombra sulla
sua giovane vita, Kenneth? Mi stai rimproverando perché ho tentato di farla felice?» «Oh, papà, non volevo rimproverarla. Mi dispiace. Deve capire che sono mezzo matto per il dispiacere di ciò che sta succedendo, non solo per il piccolo, ma anche per Arline. Oh, se ci fosse un modo per salvarlo! Come benedirei la persona che mi dicesse come salvarlo!» Lord Melverson, ancora con quello strano bagliore negli occhi, si alzò lentamente in piedi. «C'è un modo, credo» disse. «Ma non fare molto affidamento su ciò che potrebbe essere solo una mia speranza infondata. Da un po' di tempo ho un'idea che metterò in pratica questa notte, Kenneth. Ci ho pensato su da quando ho capito di averti ingannato nel non andare a fondo sulla realtà della Maledizione dei Melverson. Se la mia idea è buona, il piccolo Albert è salvo. E non solo lui, perché avrò interrotto la Maledizione, rendendola impotente per sempre. I suoi occhi infervorati brillarono. «C'è qualcosa che posso fare?», implorò il giovane padre. «Niente. A meno che, forse, tu voglia leggere il manoscritto che sta nel cassetto della mia scrivania. Racconta perché noi Melverson siamo stati maledetti fin dai giorni della Grande Peste del 1664. «Appena prima della mezzanotte, trovati nella camera del piccolo Albert. Se non starà meglio quando l'orologio batterà le dodici, Kenneth... guarda, allora il mio piano avrà fallito. Ma avrò fatto tutto quello che potevo; avrò dato tutto ciò che è in mio potere di dare, nel tentativo di cancellare il male che senza volere vi ho fatto.» Kenneth strinse la mano che gli tendeva. «Sei stato un buon marito per la mia bambina, Kenneth, ragazzo. L'hai resa felice. E... se dovesse capitarmi qualcosa, vuoi dire ad Arline che sono pienamente soddisfatto, se il nostro piccolo guarisce? Non voglio inutili rimpianti.» Questo sottolineò Lord Melverson enfaticamente mentre lasciava la mano di Kenneth e si girava per lasciare la stanza. 6 Kenneth, rimasto solo, andò alla scrivania di suo suocero e tirò fuori il manoscritto, macchiato e ingiallito. Sedendosi su una sedia davanti alla scrivania, stese davanti a sé i fogli antichi ed esaminò attentamente la storia della Maledizione dei Melverson. Pensò che poteva distogliergli la
mente dalla tragedia che stava giungendo ad una conclusione nella silenziosa stanza al piano di sopra. Nel lontano 1664, l'allora Lord Melverson s'innamorò follemente della figlia di un orafo. Era figlia unica, tanto bella quanto buona, e amava ardentemente il giovane nobile festaiolo. Ma un Melverson di Melverson Abbey, anche se poteva amare, non poteva però sposare una ragazza del popolo. Charles Melverson supplicò la bella ragazza di fuggire con lui senza la benedizione della Chiesa. Ma la damigella, essendo di animo superbo, chiamò il padre e gli raccontò tutto. Poi volse le belle spalle indifferenti al suo meravigliato e dispiaciuto corteggiatore e lo lasciò, mentre l'orafo rideva furbescamente in faccia all'aspirante seduttore. Un Melverson non era tipo da lasciare finire una simile questione tranquillamente, in modo speciale dato che era profondamente innamorato della ragazza. Mandò lettere supplichevoli minacciando di uccidersi. Tentò di entrare con la forza in casa di lei. Alla fine l'incontrò di giorno mentre tornava dalla chiesa, la rapì e volò con lei sul suo veloce destriero. E allora lei rimase ostinata nel suo rifiuto, malgrado l'amore per lui divorasse il suo cuore ferito. Dovette accettarlo, ma continuò a rifiutargli il favore di rivolgergli una sola parola. Disperando di vincere la sua resistenza con modi gentili, Charles Melverson si decise per una azione sleale. Era il terribile inverno 1664/5. La Morte Nera, spazzando Londra e le campagne, aveva avuto un terribile tributo di vite umane. Centinaia di cadaveri erano ogni giorno buttati senza pietà in fosse comuni da uomini incalliti che sfidavano l'orrore della peste per la grossa paga che veniva offerta a coloro che facevano gli scavatori di tombe. E, nello stesso momento in cui Melverson aveva preso la sua malvagia decisione, l'orafo camminava vacillando sul terreno dell'Abbazia, dopo una lunga ricerca della figlia rapita, per cadere proprio sotto la finestra dove la ragazza aveva ceduto l'ultima resistenza della sua virtù. I servi all'esterno gridavano uno all'altro di stare attenti all'uomo colpito dalla peste. Le loro grida turbarono la ragazza. Guardò giù e vide suo padre morente, che soffriva per gli ultimi spasmi della terribile pestilenza. Freddamente e orgogliosamente, la ragazza chiese la libertà di scendere dal padre morente. Melverson rifiutò; in un lampo di intuito seppe che cosa avrebbe fatto una volta liberata. Si sarebbe gettata disperatamente accanto all'uomo morente; avrebbe tenuto il suo corpo annerito contro il gio-
vane caldo petto; avrebbe deliberatamente bevuto il suo respiro appesantito dalla peste con le sue dolci, fresche labbra. Alzando gli occhi vitrei, l'orafo vide la figlia, che sembrava afferrata caldamente nelle braccia del suo amante. Come avrebbe potuto sapere che la sua lotta disperata era stata vana! Col suo ultimo respiro maledì i Melverson, le radici e i rami, alzando le mani scolorite all'incandescente cielo color ottone, che incombeva su di lui. Poi: «E possa il demone della peste concedere che io ritorni finché un Melverson respira, per portar via il suo figlio primogenito!» Urlò. Quindi, con un rantolo, morì. E poi, grazie allo strano cuore della donna, Charles Melverson vinse inaspettatamente ciò che pensava perduto per sempre, perché non dovette imporre la sua volontà alla fanciulla orfana e addolorata. La figlia dell'orafo volse a lui i limpidi occhi che avevano pianto per lui ed anche per il padre. «Sarebbe troppo chiederti di sopportare da solo ciò che mio padre ha invocato sulla tua casa», gli disse, con inattesa gentilezza. «Ti avrebbe perdonato se avesse saputo che ero al sicuro con te. Ti devo chiedere, allora di prendere tutto ciò che ho da darti, se così facendo pensi che l'ombra della Maledizione sarà più leggera... per te, almeno.» Commosso nel profondo del cuore Charles Melverson aprì le braccia, s'inginocchiò ai suoi piedi, le baciò le mani, e giurò che, finché non fosse uscita dalla chiesa come sua moglie legalmente sposata, non avrebbe né mangiato né dormito. Ma... la Maledizione rimase. Attraverso i secoli aveva adempiuto al suo demoniaco incarico, e sembrava che nessuno avesse trovato il modo di eluderla. Sulle ultime pagine del vecchio manoscritto erano annotate, in differenti calligrafie, le date delle morti di un Melverson dopo l'altro e, dopo ognuna, la terribile annotazione chiarificatrice: "Figlio primogenito. Morto prima della maggiore età". E, ultimo di tutti, nella calligrafia di Lord Melverson era scritto il nome di quell'Albert dal quale il figlio di Kenneth Dinsmore aveva preso il nome. Un altro Albert doveva forse seguire il primo così presto? 7 Kenneth gettò i fogli macchiati di nuovo nel cassetto, e li escluse dalla vista. C'era in loro qualcosa di sinistro. Gli sembrava che le sue mani fossero state contaminate dal contatto con i fogli. Poi guardò l'orologio. Era sul punto di battere la mezzanotte. Si ricordò della richiesta di Lord Mel-
verson, e corse veloce di sopra nella camera del suo figlioletto morente. Arline era già al capezzale del bambino; si era svegliata e non le era stato negato di stargli vicino. L'infermiera e il medico stavano nell'ombra, con le facce che mostravano chiaramente che il caso era senza speranza. Sul suo piccolo cuscino, il povero bambino respirava con brevi, dolorosi rantoli, i piccoli pugni stretti contro il petto. In pochi corti minuti, pensò Kenneth, si sarebbe decisa la morte o la vita del suo primogenito. E sarebbe stata la morte, se Lord Melverson non avesse scoperto come distruggere la potenza della Maledizione dei Melverson. Diviso fra la moglie e il figlio, il giovane padre non osava sperare, per paura che la sua speranza potesse essere infranta. Quanto ad Arline, vide che i suoi occhi erano già pieni di disperazione; aveva già in anticipo dato per morto il suo bambino, il piccolo, il suo primo nato. Che cos'era? Il suono di pesanti ruote cerchiate che facevano scricchiolare la ghiaia della strada; il richiamo di una voce che derideva, che fece stringere i denti a Kenneth con furia impotente. Andò furtivamente alla finestra e guardò fuori. Dopotutto non si poteva pretendere che stesse accanto al letto, osservando il suo figlioletto morire. E doveva sapere se aveva sognato o no, se l'aveva veramente visto la notte prima della morte di Albert Melverson. Venendo fuori dall'ombra degli alberi avvolti nel buio, rintronava il carro dei morti col suo conducente curvo. I capelli di Kenneth gli si drizzarono in testa con una sensazione di formicolio sulla cute. Si voltò per dare uno sguardo nella stanza. No, non stava sognando; non aveva mai sognato prima; era reale... reale come una cosa così spettrale poteva essere. Veniva sù, sù. E allora l'odioso conducente alzò la sua maligna faccia alla luce della luna. Il suo sguardo di sfida incontrò l'intenso sguardo del giovane padre con un sorriso dileggiante e trionfante, un sorriso di odio soddisfatto. Le labbra sottili si aprirono, e il loro grido stridente cadde ancora una volta sul pesante silenzio della notte. «Portate fuori i vostri morti!» Appena quel grido sinistro giunse alla sue orecchie, Kenneth Dinsmore, udì un altro suono; era l'acuta esplosione di una pistola. Dalla finestra sgranò gli occhi. Era inutile tornare accanto al letto del bambino. Quegli spettrali becchini non sarebbero emersi dalle ombre ora, portando con loro il corpo minuto del suo primo bambino? Vennero, ma sembrava che portassero un pesante fardello. Non era la minuta sagoma di un bambino, quello che gettarono con una ripugnante ri-
sata sopra il carro dei morti. «Kenneth! Vieni!» Era la voce di Arline, con un tono sommesso ma elettrizzato di ringraziamento che fece correre rapidamente Kenneth dalla finestra al suo fianco, dimenticando tutto. «Guarda! Sta respirando più facilmente. Dottore guardi! Mi dica, non le sembra migliorato?» Il dottore e l'infermiera si scambiarono occhiate disorientate e incredule. Era chiaro che nessuno dei due aveva udito o visto niente che fosse fuori dell'ordinario, quella notte, ma l'improvviso cambiamento in meglio del bambino li aveva entrambi meravigliati. «Lo considero una specie di piccolo miracolo» si pronunciò il medico dopo un breve esame del bambino addormentato. «Signora, il suo bambino vivrà. Mi congratulo con entrambi.» «Oh! devo dirlo a papà, Kenneth: sarà così felice! Caro papà!» La fredda mano dell'assoluta certezza strinse il cuore di Kenneth. «Se non mi capiterà niente», aveva detto Lord Melverson. Che cosa era stato quel colpo di pistola? Che cosa significava quel corpo che i sinistri becchini avevano gettato sul carro dei morti? Si udì un leggero battere alla porta. L'infermiera aprì, poi si girò e fece un cenno a Kenneth. Era Jenning, che non aveva vergogna delle lacrime che rotolavano giù per le sue guance rugose. Soffocò un singhiozzo. «Se ne è andato, Mr. Dinsmore. Le comunichi la notizia con calma, Signore... Ma è il suo orgoglio che hanno portato via nel maledetto carro dei morti, grazie a lui... Ho tentato di fermarlo Signore, mi perdoni. Gli volevo bene! Ma voleva fare il sacrificio; diceva che valeva la pena di tentare! E così... l'ha... fatto. Ma... ha interrotto la Maledizione, Signore, ha interrotto la Maledizione! (The Dead Wagon) FINE