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ANNA ESCHER DI STEFANO
IL MANICHEISMO
IN S. AGOSTINO
CEDAM - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI - PADOVA
19 6 0
PROPRIETÀ' LETTERARIA
© Copyright 1960 by Cedam - Padova
Stampato in Italia - Printed in Italy
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Tip. Artigiana di Aldo Palombi - Via Vinc. Sartori, 80 - Roma - Tel. 629.768
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Al Prof. Carmelo OttavIano,
che mi ha suggerito l'argo-
mento del presente lavoro, e
mi ha consigliato e guidato.
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148
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Capitolo Primo
LA VITA
Patricio non era certo un modello di virtù, specie dal punto
di vista cristiano. Era piuttosto, come diremmo oggi, un one-
st'uomo, con i suoi difetti e i suoi pregi. Dal suo mestiere di de-
curione era forse derivata la grande fede ch'egli aveva in se
stesso, dato che lo Stato, quando chiede del denaro, è sempre certo
di aver ragione. Patricio, però, aveva ragione di stimarsi: era
tollerante, onesto e competente tanto nel suo lavoro quanto nelle
delicate convenienze sociali. Come temperamento, può forse dirsi
ch'era un sanguigno : una fondamentale bonomia e indulgenza
verso le passioni di questo mondo, una certa generosità , anche,
non gli impedivano di avere dei paurosi scoppi d'ira, non appena
qualcuno avesse osato toccare il suo orgoglio, o avesse solo ten-
tato di contrastargli i piaceri ch'egli prediligeva. Ma, come ogni
passionale, non ci metteva molto a passare dalla furia più sel-
vaggia all'intenerimento e perfino al pianto.
Sua moglie Monica, invece, era profondamente cristiana. Dolce
per carattere, aveva trovato nella religione la sublimazione di
questa sua buona qualità , ed era un modello di madre di famiglia.
Non certo in lei doveva trovar ragione di contrasti il marito, la
cui joie de vivre non andava disgiunta da una notevole tolleranza,
tutta romana, verso le pratiche e le idee religiose altrui, finché
esse non lo incomodavano personalmente.
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Da questi due genitori, che ci fanno pensare ad una coppia
di sposi degna di un romanzo francese dell'Ottocento, nacque
Aurelio. La famiglia risiedeva allora a Tagaste, oggi Souk Abras,
nella Numidia, e in quella città il futuro filosofo nacque nel no-
vembre del 354.
Agostino fece i primi studi nella stessa cittadina, e con tale
successo, che il padre, conscio e orgoglioso dell'intelligenza del
8 ANNA ESCHER DI STEFANO
figlio, lo mandò in seguito a studiare grammatica a Madaura. Era
questa una vecchia città numida, colonia romana sin dal primo
secolo, che con l'allargarsi delle sue scuole e della rinomanza
del suo foro era andata arricchendosi e popolandosi. Quando
Agostino vi si recò, trovò una città dal tono evoluto, con in più
la mentalità universale romana, il suo lusso e la sua raffina-
tezza intellettuale, uniti in un piacevole contrasto con la fiera
e ardente anima numida. Non era certo un ambiente fatto per
invitare alla contemplazione, pratica questa per altro poco fami-
liare ai fattivi Romani. Più tardi convertito, Agostino si pentirÃ
copiosamente del periodo di sregolatezza vissuto in quella città .
La verità è che a Madaura egli si staccò, insensibilmente, dagli
insegnamenti materni, per vivere da giovane studente, fra una di-
scussione con amici e una passeggiata nei quartieri malfamati,
fra una bevuta e conseguente schiamazzo, e una cinica discussione
sui problemi più importanti. Egli aveva del resto tutto il diritto
di unirsi ai suoi amici : era solo uno studente e un uomo, che
nemmeno il legame formale del battesimo legava alla religione
della madre.
Inoltre, un po' come Dante, la sua pretesa sregolatezza non gli
impediva di appassionarsi alla letteratura classica; leggeva avi-
damente Terenzio, il dolce Tibullo, il romantico Catullo, il grande
Virgilio e l'acuto Orazio, sommo poeta e buon umorista.
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Terminati gli studi, tornò a Tagaste, cercando di continuare
a vivere come a Madaura, nei limiti consentiti dall'ambiente pro-
vinciale, e attendendo che suo padre trovasse il modo, e i fondi
necessari, per inviarlo a Cartagine, dove avrebbe studiato reto-
rica. Dopo un anno, finalmente, poté ripartire, e nella grande
città , a suo dire, la sua moralità toccò il fondo della perdizione (1).
(1) « Veni Carthaginem — scrive Agostino — et circumstrepebat me un-
dique sartago flagitiosorum amorum. Nondum amabam, et amare amabam,
et secretiore indigentia oderam me minus indigentem. Quaer°bam quod
amarem, amans amare, et oderam securitatem, et viam sine muscipulis.
Quoniam fames mihi erat intus ab interiore cibo teipso, Deus meus, et ea
fame non esuriebam; sed eram sine desiderio alimentorum incorruptibi-
lium : non quia plenus eis eram, sed quo inanior, eo fastidiosior. Et ideo non
bene valebat anima mea; et ulcerosa projicebat se foras miserabiliter scalpi
avida contactu sensibilium. Sed si non haberent animarci, non utique ama-
rentur. Amare et amari dulce mihi erat, magis si et amantis corpore frue-
rer» (Confessiones, l. III, cap. I, col 683, P.L., Migne, 32).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 9
Tuttavia non si deve esagerare la turpitudine di questi anni.
Agostino si sarà dato agli amorazzi di gioventù, sempre famelico
di piacere e sempre insoddisfatto, ma con tutto ciò non fu mai
un vizioso : e se cercava di imitare i compagni o si vantava delle
sue imprese, era solo perché, provinciale, era diventato un po'
snob e si sarebbe vergognato di pensarla diversamente.
Malgrado il suo snobismo, fu certamente il meno dissipato dei
suoi compagni. Mai riusci a perdersi completamente e a dimenti-
care del tutto se stesso e la sua dignità di uomo : « nam tu semper
aderas misericorditer saeviens, et amarissimis aspergens offensio-
nibus omnes illicitas jucunditates meas, ut ita quaererem sine
offensione jucundari; et ubi hoc possem non invenirem quid-
quam, praeter te, Domine, praeter te qui fingis dolorem in prae-
cepto, et percutis ut sanes, et occidis nos ne moriamur abs te » (2).
Ben presto si legò con amore sincero ad una donna, che gli rimase
accanto per dodici anni, e gli diede un figlio, Adeodato.
Il perché Agostino non abbia sposata questa donna sembra
debba attribuirsi alla modesta condizione di quest'ultima. Sia la
legge che l'opinione pubblica non gli consentivano infatti un ma-
trimonio legittimo, e, d'altra parte, ai suoi tempi il concubinato
non era considerato disonorevole. Questo non può meravigliare,
dato che l'ambiente ancora pagano, e immorale, pullulante di
sette e di superstizioni non forniva una distinzione universal-
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mente accettata tra bene, e male : donatisti, cattolici, manichei
pretendevano avere il monopolio della verità , con il solo risultato
di generare negli animi smarrimenti e dubbi (3).
Anche l'amicizia ebbe in quel periodo una parte molto im-
portante nella vita di Agostino; egli si legò d'affetto ad Alipio,
Nebridio, Onorato, i cui nomi ricorderà fino alla morte. Quel che
mi attaccava a loro, egli dirà nelle Confessioni (4) — era il piacere
di conversare e di ridere insieme, di usarci reciproche cortesie,
di leggere insieme, di discutere su qualche argomento, ma senza
odio, come se si ragionasse con se stessi, e di instaurare così un'ar-
(2) Ibid., l. II, cap. II, coli. 676-7.
(3) Il Portaliè nel suo articolo su Agostino nel Dictionnaire de théo-
logie catholique, col. 2269, non è d'accordo col Loofs (Realencyclopaide,
III édit., t. II, p. 268), il quale, a suo avviso, scusa troppo Agostino, dicendo
che nell'epoca in cui egli visse era la Chiesa stessa la quale permetteva
che un uomo tenesse presso di sé una concubina.
(4) S. Agostino, Confessiones ecc.. l. IV, cap. VIII, col. 699.
10 ANNA ESCHER DI STEFANO
monia in cui i contrasti rarissimamente sorgevano. L'amico amava
l'amico con tutto il suo cuore, desiderandone il ritorno, quan-
d'era assente, e godendo della sua presenza quando era presente.
In tal modo questa profonda amicizia, manifestata con il viso,
con la voce, con gli occhi e con mille carissime dimostrazioni,
era come fiamma ardente, nella cui luce tutte le nostre anime
erano riunite a formarne una sola.
Verso il diciannovesimo anno di età la lettura dell'Hortensius
di Cicerone gli aprì nuovi orizzonti. Esso, in fondo, non faceva
altro che dar voce e corpo all'indistinto ma prepotente desiderio
di verità che si agitava nella sua anima tanto nutrita di sensibile
intellettualità , prospettando una vita che non si esaurisse nel
breve cerchio dei piaceri materiali, ma che si slanciasse verso vi-
sioni più ampie e valori più universali.
In che consiste la felicità ? si chiede Cicerone nel suo libro;
l'argomento non era certo nuovo, ma bastò per precisare tutte le
aspirazioni confuse, contrastanti che si agitavano in Agostino.
Diceva Cicerone che la felicità si trova nella virtù e nella
sapienza, e l'eco che queste idee trovarono nell'animo di Agostino
ci dice quanto la sua coscienza morale fosse sensibile ai problemi
dello spirito (5). Ma la filosofia apriva inevitabilmente la strada
alla religione, in quanto il desiderio di giungere alla verità non
è mai semplicemente un'esigenza del cervello, ma anche e, soprat-
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tutto, del cuore. Il Pincherle scrive a questo proposito : « Può
darsi, è anzi probabile, che egli fosse irreligioso di fatto e tra-
scurasse ogni pratica di pietà ; ma il cristianesimo, in cui era stato
educato, guadagnava ogni giorno terreno» (6). Egli sentiva il
vuoto al di sotto della opulenta forma letteraria ciceroniana e
(5) « Quae nobis, inquit (Agostino, riportando le parole dell'Ortensio),
die noctques considerantibus, acuentibusque intelligenteam, quae est mentis
acies, caventibusque ne quando illa hebescat, id est, in philosophia viven-
tibus magna spes est, aut si hoc quod sentimus et sapimus mortale et
caducum est, jucundum nobis perfunctis muneribus humanis occasum, neque
molestam exstinctionem, et quasi quietem vitae fore: aut si, ut antiquis
philosophis hisque maximis longeque clarissimis placuit, aeternos animos
ac divinos habemus, sic existimandum est, quo magis hi fuerint semper in
suo cursu, id est, in ratione et investigandi cupiditate, et quo minus se
admiscuerint atque inplicuerint hominum vitiis et erroribus, hoc his faci-
liorem ascensum et reditum in coelum fore » (De Trinitate, l. XIV cap. XIX,
col. 1056; P.L., Migne, 42).
(6) Pincherle, S. Agostino, vescovo e teologo, Paris, 1930, p. 24.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 11
cominciò a cercare per i suoi problemi degli addentellati molto
più solidi di quello che lo scrittore romano poteva offrire. Il
Cristianesimo in cui era stato educato, continuava inconsapevol-
mente a lievitare nell'animo di Agostino, germinando in lui quella
insoddisfazione, che ancora non riusciva ad avere un nome, né,
tanto meno, una risposta : « Quoniam hoc nomen secundum mise-
ricordiam tuam, Domine, hoc nomen Salvatoris mei Filii tui, in
ipso adhuc lacte matris, tenerum cor meum praebiberat, et alte
retinebat; et quidquid sine hoc nomine fuisset, quamvis littera-
tum, et expolitum, et veridicum, non me totum rapiebat » (7).
Cominciò infatti a leggere la Bibbia : ma era ancora troppo
presto. Lo stile rozzo e disadorno lo deluse : la semplicità biblica
gli sembrò miseria in confronto all'eleganza stilistica delle pagine
di Cicerone (8).
Non avendo trovato ciò che cercava nelle S. Scritture, era
logico che cercasse altrove di soddisfare quella ricerca del vero,
che era ormai un bisogno della sua anima. Aderì pertanto ad una
setta che si diceva cristiana, ma che nello stesso tempo affermava
di poter spiegare tutto mediante la ragione, la setta dei Manichei.
Essa in quel periodo si andava sempre più affermando a Carta-
gine, ed era costituita da un miscuglio di elementi cristiani, e zo-
roastriani impostato sul dualismo iranico del dio del bene e del
dio del male, a giustificazione dei due aspetti della realtà . Essa,
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osserva il De Plinval, era una dottrina complessa, con la sua me-
tafisica, la sua cosmologia, i suoi libri sacri, i suoi riti e la sua
morale. Gli elementi su cui si basava erano la figura del Salva-
tore, di contro al Cristo; il Dio buono coeterno al Dio del male e
delle tenebre. Tutto l'universo risente di questo antagonismo : il
mondo pieno di luci e di ombre; i corpi che sono puri o impuri a
secondo delle particelle di luce che essi possono trattenere; le
anime dibattute tra il principio del bene e quello del male. La
(7) Confessiones ecc., l. II, cap. IV, col. 686.
(8) Dice infatti Agostino : t Et ecce video rem non compertam super-
bis, neque nudatam pueris; sed incessu humilem, successu excelsam et ve-
latane mysteriis: et non eram ego talis ut intrare in eam possem, aut in-
clinare cervicem ad ejus gressus. Non enim sicut modo loquor, ita sensi cum
attendi ad illam Scripturam: sed visa est mini indigna quam Tullianae
dignitati compararem. Tumor enim meus refugiabet modus ejus. Verumta-
men illa erat quae cresceret cum parvulis; ed ego dedignabar esse parvu-
lus, et turgidus fastu mihi grandis videbar » (Ibid., cap. V, col. 686).
12 ANNA ESCHER DI STEFANO
coreografia di questa dottrina era misteriosa e magica, oscura e
fantasiosa.
E' durante il periodo dell'influenza manichea che Agostino
scrive un trattato d'estetica, De pulchro et apto, in cui pone una
distinzione tra il bello e il conveniente, tra ciò che è bello in sé e
ciò che lo è in relazione alla sua applicazione. Per cui, commenta
il De Plinval, «on voit difficilement comment cette seconde don-
née pouvait se concilier avec la réalisme intrinsèque de la physi-
que manichéenne. Quoi qu'il en soit, fidele à la dialectique doctri-
nale, il établissait une distinction essentielle entre le principe
d'unité et celui de dualité : le premier, parfaitement vierge, source
de paix, de raison, de vertu; l'autre, principe de division et de
trouble, de sexualité et de discorde. Ainsi, d'un mouvement na-
turel, l'esthétique s'acheminait vers l'étique; cette démarche en-
core peu consciente se renouvellera plus tard, mais avec une effi-
cacité autrement puissante dans la pensée d'Augustin » (9).
Più tardi egli cercherà di giustificare questo suo traviamento :
« Est igitur mihi propositum ut probem tibi, si possem quod Mani-
chaei sacrilege ac temere invehantur in eos qui catholicae fidei
auctoritatem sequentes, antequam illud verum, quod pura mente
conspicitur, intueri queant, credendo praemuniuntur, et illumina-
turo praeparuntur Deo. Nosti enim, Honorate, non aliam ob cau-
sam nos in tales homines incidisse, nisi quod se dicebant, terribili
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auctoritate separata, mera et simplici ratione eos qui se audire vel-
lent introducturos ad Deum, et errore omni liberaturos. Quid enim
mea aliud cogebat, annos fere novem, spreta religione quae mihi
puerulo a parentibus insita erat, homines illos sequi ac diligenter
audire; nisi quod nos superstitione terreri et fidem nobis ante
rationem imperari dicerent, se autem nullum premere ad fidem,
nisi prius discussa et enodata ventate? » (10).
Ma l'adesione al manicheismo da parte di Agostino aveva an-
che una sua giustificazione psicologica. Quella corrente era la più
adatta a colpire la sua ardente fantasia, perché col suo dualismo
di potenze poteva ben spiegare i suoi travagli e i suoi dibattiti
interiori, rappresentando così un quietivo per la coscienza, dato
che offriva una scusa, per così dire razionale, alle sue deviazioni
dal bene. Inoltre essa non giudicava l'uomo responsabile delle sue
(9) G. De Plinval, La pensée de Saint Augustin, Bordas, 1954, p. 24.
(10) De utilitate crederteli, cap. I, col. 66; P.L., Migne, 42.
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IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 13
colpe, ma faceva risalire questa responsabilità ad un ente meta-
fisico : tant'è vero che Agostino, ricordando questo periodo, dice :
« Mihi videbatur non esse nos qui peccamus, sed nescio quam
aliam in nobis peccare naturam; et delectabat superbiam meam
extra culpam esse; et cum aliquid mali fecissem, non confiteri me
fecisse, ut sanares animam meam, quoniam peccabat tibi; sed
excusare eam amabam, et accusare nescio quid aliud, quod mecum
esset, et ego non essem. Verum autem totum ego eram, et adver-
sum me impietas mea me diviserat: et id erat peccatum insana-
bilius, quo me peccatorem non esse arbitrabar; et exsecrabilis
iniquitas te, Deus omnipotens, te in me ad perniciem meam, quam
mea te ad salutem malle superari» (11). Agostino dunque si acco-
sta ad manicheismo in quanto esso forniva una spiegazione del
male che travagliava l'universo, problema che sarà uno dei prin-
cipali sui quali si tormenterà il pensiero di Agostino (12).
Un altro motivo che spiega l'adesione di Agostino a quella
dottrina è la difficoltà , di cui egli ci parla nelle Confessioni, di
comprendere una sostanza altissimamente spirituale, quale è il
Dio cristiano: «Sed ego conabar ad te, et repellebar abs te, ut
saperem mortem, quoniam superbis resistis. Quid autem super-
bius, quam ut assererem mira dementia me id esse naturaliter
(11) Confessione*, l.v., cap. X, col. 714-5.
(12) « Et quaerebam unde malum, et male quaerebam... Ecce Deus, et
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ecce quae creavit Deus, et bonus est Deus, atque his validissime longissi-
meque praestantior; sed tamen bonus bona creavit, et ecce quomodo ambit
atque implet ea. Ubi ergo malum, et unde, qua huc irrepsit! Quae radix
ejus, et quod semen ejus? An omnino non est? Cur ergo timemus et ca
vemus quod non est? Aut si inaniter timemus, certe vel timor ipse malum
est, quo incassum stimulatur et excruciatur cor: et tanto gravius malum,
quanto non est quod timeamus et timemus. Idcirco aut est, malum quod
timemus, aut hoc malum est quia timemus. Unde est igitur, quoniam
Deus iecit haec omnia, bonus bona? Majus quidem et summum bonum
minora fecit bona, sed tamen et creans et creata bona sunt omnia. Unde
est malum? An unde fecit ea, materies aliqua mala erat, et formavit
atque ordinavit eam, sed reliquit aliquid in illa, quod in bonum non
converteret? Cur et hoc? An impotens erat totam vertere et commu-
tare, ut nihil mali remaneret, cum sit omnia potens? Postremo, cur inde
aliquid tacere voluit, ac non potius eadem omnipotentia fecit ut nulla esset
omnino? Aut vero existere poterat contra ejus voluntatem? Aut si aeterna
erat, cur tam diu per infinita retro spatia temporum, sic eam sivit esse,
ac tanto post placuit aliquid ex ea tacere?... ». (Confessiones, l. VII, cap. V,
coli. 736-7).
14 ANNA ESCHER DI STEFANO
quod tu es? Cum enim ego essem mutabilis, et eo mihi manifestimi
esset, quod ideo utique sapiens esse cupiebam, ut ex deteriore
melior fierem; malebam tamen etiam te opinari mutabilem, quam
me non hoc esse quod tu es. Itaque repellebar; et resistebas ven-
tosae cervici meae : et immaginabar formas corporeas, et caro
carnem accusabam, et spiritus ambulans nondum revertebar ad
te; et ambulando ambulabam in ea quae non sunt, neque in te,
neque in me, neque in corpore; neque mihi creabantur a veritate
tua, sed a mea vanitate fingebantur ex corpore : et dicebam par-
vulis fidelibus tuis, civibus meis, a quibus nesciens exsulabam;
dicebam illis garrulus et ineptus, Cur ergo errat anima quam fecit
Deus? Et mihi nolebam dici. Cur ergo errat Deus? Et conten-
debam magir incommutabilem tuam substantiam coactam errare,
quam meam mutabilem sponte deviasse, et poena errare confi-
tebar» (13).
Un altro motivo, infine, è costituito dalle contraddizioni che
Agostino trovava nelle Scritture; come egli stesso ci dice nel 51°
Discorso (14).
Il Portalié mette in evidenza anche motivi di ordine morale,
quale l'apparente austerità e la virtù che i Manichei sembravano
professare tanto rigorosamente. Tale austerità , però, ben presto
si mostrò ad Agostino in tutta la sua nuda ipocrisia, svelando il
fondo marcio che la sosteneva. Egli ben presto scoprì come nes-
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suno dei Manichei, soprattutto fra gli Eletti, si sarebbe potuto
salvare dall'accusa d'immoralità . Non pochi, egli dirà , furono tro-
vati tra il vino e le carni, non pochi a lavarsi nei bagni; alcuni
furono accusati d'aver sedotto donne altrui e a mettersi in evi-
denza in pubblico con atti osceni.
(13) Ibid., l. IV, cap. XV, coli. 703-4.
(14) Sermo, LI, cap. V, coli. 336-7: « Proferunt calumnias quas quidam,
et dicunt: Matthaeus certe evengelista est? Respondemur, ita, io ore, corde
devoto, in nulla omnino dubitantes: respondemus piane, Evangelista est
Matthaeus. Credis ei, inquiunt? Qui non respondeat, Credo, Quomodo de
murmure vestro pio insonuit? Ita, fratres, si secure creditis, non est und
erubescatis. Loquor vobis, aliquando deceptus, cum primo puer ad divinas
Scripturas ante vellem afferre acumen discutiendi, quam pietatem quae-
rendi : ego ipse contra me perversis moribus claudebam januam Domini
mei : cum pulsare deberem, ut aperiretur; addebam, ut clauderetur. Super-
bus enim audebam quaerere, quod nisi humilis non potest invenire. Quanto
vos beatiores estis modo! quam securi discitis, quam tuti, quicumque adhuc
parvuli estis in nido fldei, et spiritualem escam accipitis ».
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 15
Aderì alla setta per nove anni, nove intensi anni di studio,
durante i quali si dedicò non solo alla filosofia, ma anche alle
scienze naturali, e specialmente all'astronomia, per cercare un
fondamento scientifico che potesse sostituire i nebulosi e fanta-
siosi principi manichei.
Verso la fine del 374 Agostino ritorna a Tagaste, e vi apre
« bottega di parole », attorno a cui si riuniscono Onorato, Alipio,
Licenzio, e altri fedeli amici. Agostino cerca di propagare la fede
manichea, ma non si sa bene con quali risultati. La cosa certa
è che la madre, disperata, lo caccia di casa, non permettendo che
un manicheo viva sotto il suo tetto.
Tuttavia Agostino non fu mai un manicheo fervente, e, come
egli stesso ci avverte, ciò che soprattutto gli impedì di esserlo, fu
l'essersi accorto che la dottrina che egli seguiva si basava più
su argomenti critici contro la Chiesa, che su solide basi pro-
prie (15). Né la lucidissima mente di Agostino poteva acconten-
tarsi delle tesi pseudo-scientifiche dei Manichei, basate su un
confuso miscuglio di mito e scienza, di favola e realtà . Che cosa
può fare il vostro dio del male, il vostro principio tenebroso —
egli chiederà loro nelle Confessioni — contro Dio, se Dio non vuol
scendere in lotta con esso? Gli può forse nuocere? Ma in tal caso
Dio sarebbe violabile e corruttibile, e pertanto non lo si potrebbe
chiamare Dio. Allora non gli può nuocere? Ma in tal caso, perchè
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combatterlo? E inoltre come staccare da Dio una porzione della
Sua sostanza? Come unirla a nature a Lui avverse e da Lui non
create? Come fare d'una parte della Sua sostanza beata, un lembo
di miseria bisognosa d'un aiuto per il riscatto? E sarebbe questa
l'anima umana che il verbo di Dio, libero, puro, incorrotto e
nello stesso tempo corruttibile, in quanto staccato da una mede-
sima e unica sostanza, libererebbe dal suo stato di abominazione
e di schiavitù? Queste le domande che Nebridio, uno tra gli amici
più cari ad Agostino, rivolge ai Manichei. Domade, cui essi non
sapevano trovare risposta, in quanto venivano a mettere cruda-
mente in luce delle contraddizioni insite nello stesso nucleo cen-
trale della filosofia manichea, che così rivelava la sua intrinseca
insostenibilità .
Lo stesso problema del male, poi, che era stato uno dei prin-
cipali motivi per cui Agostino si era accostato alla setta mani-
US) Confessione*, l. VII, cap. II. col. 734.
16 ANNA ESCHER DI STEFANO
chea, credendo di trovare in essa risposta ai suoi assillanti perchè,
questo stesso problema veniva presentato dalla filosofia manichea
in maniera troppo semplicistica, perché Agostino potesse prestarvi
fede a lungo. Il male, che veniva sostanzializzato nel veleno dello
scorpione, era un'immagine troppo puerile e fantasiosa per adem-
piere al ruolo di quella razionalizzazione dei dogmi di cui la
setta tanto si vantava. Definizione, cui Agostino ribatteva : Se il
veleno fosse veramente un male essenziale, il primo ad esserne
avvelenato sarebbe lo scorpione che lo porta (16).
Tanto più che l'inconsistenza teoretica dei Manichei veniva
ad accoppiarsi ad una sregolatezza di costumi che faceva fremere
Agostino, il quale, proprio per sfuggire ad una vita da lui giudi-
cata indegna, aveva abbracciato la pensosa via della religione e
della filosofia. Li ho studiati per nove anni, egli dirà nel De Mori-
bus Ecclesiae et Manichaeorum, li ho ascoltati e nessuno degli
Eletti mi si è rivelato che non fosse sorpreso in peccato flagrante
o sospetto contro i precetti di Cristo o contro i precetti dei loro
stessi insegnamenti.
Neppure Fausto, il celebratissimo, l'ammiratissimo vescovo
manicheo, riuscì a chiarire i suoi dubbi, anzi i suoi colloqui con
lui riuscirono, semmai, a dargli ancora più la convinzione che la
verità fosse ben lungi dalla fonte cui egli si era rivolto. Agostino
lo trovò dapprima un uomo amabile e un gentile parlatore, ma la
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delusione non tardò a venire. Come potevano, egli si chiede (17),
spegnere la mia sete le tazze preziose dell'ornatissimo coppiere?
Di queste cose ormai le mie orecchie erano piene, né le giudicavo
migliori perché più eloquenti, né giudicavo saggio lo spirito di
costui, solo perché possedeva un volto composto e un elegante
parlare. Dal canto suo Fausto, sollecito del proprio interesse, si
guardava bene dall'avventurarsi in discussioni dalle quali non si
sarebbe potuto tirare fuori e dalle quali non sarebbe potuto fa-
cilmente tornare indietro (18). L'unica cosa positiva in Fausto
era la tranquilla accettazione e confessione della propria igno-
ranza. Né egli aveva pudore di confessarla, in quanto possedeva
perfetta coscienza dei limiti della propria preparazione. E non
(16) De moribus Ecclesiae catholicae, et de moribs Manichaeorum, l. II,
cap. VIII, col. 1350, P.L., Migne, 32.
(17) Confessiones, l. V, cap. VI. col. 710.
(18) Ibtd., cap. VII, col. 711.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 17
agiva come certi ciarlatani i quali pretendono convincere il pros-
simo senza dir nulla. Appunto per questo Agostino prese ad
amarlo, giacché giudicava più bella la modestia d'un animo, che
schiettamente si apre, che non le stesse cognizioni che desiderava
imparare (19). Tra Agostino e Fausto si intesse dunque un rap-
porto d'amicizia, che da parte di Agostino, però, non aveva per
base alcuna stima intellettuale. Svanito quindi l'ardore con cui si
era applicato allo studio delle dottrine dei Manichei, e perduta
la speranza di venirne a capo con l'aiuto di altri maestri, dal mo-
mento che il più famoso di tutti si era rivelato incapace di risol-
vere le numerose difficoltà che lo turbavano, tuttavia continua a
vivere con Fausto, in quanto ambedue erano uniti dallo stesso
amore per la letteratura. Leggeva in sua compagnia o quei passi
che Fausto desiderava rileggere, o quelli che Agostino riteneva
più adatti al proprio temperamento. Per il resto, ogni suo tenta-
tivo di progredire nella conoscenza degli elementi della dottrina
manichea, cadde del tutto (20).
Quest'amicizia a poco a poco si allentò, per rompersi del
tutto dopo alcuni anni, allorquando Fausto, che era stato in pro-
cinto d'essere condannato a morte dal proconsole africano, prese
la penna contro la Chiesa, vituperandone i principi fondamentali.
Allora Agostino, il quale nel frattempo aveva già ricevuto il bat-
tesimo cristiano, comporrà contro di lui un trattato, confutando il
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suo pensiero in 33 punti : « Noveram ipse hominem quemadmo-
dum eum commemoravi in libris Confessionum mearum. Hic
quoddam volumen edidit adversus rectam christianam fidem, et
catholicam veritatem. Quod cum venisset in manus nostras, lec-
tumque esset a fratribus; desideraverunt, et jure claritatis per
quam eis servimus flagitaverunt, ut ei responderemus. Hoc ag-
grediar nunc in nomine atque adjutorio Domini et Salvatoris no-
stri Jesu Christi, ut omnes qui haec legent, intelligant quam nihil
sit acutum ingenium et lingua expolita, nisi a Domino gressus
hominis dirigantur. Quod multis etiam tardioribus et inva-
lidioribus occulta aequitate divinae misericoridae praestitum est,
cum multi acerrimi et facundissimi, deserti adjutorio Dei, ad hoc
(19) Ibid.
(20) Ibid.
18 ANNA ESCHER DI STEFANO
velociter et pertinaciter currerent, ut a veritatis via longius
aberrarent » (21).
Tuttavia, malgrado la delusione subita, ancora qualcosa man-
cava alla sua conversione al cristianesimo. Gli era necessaria una
base sicura per prestare fede alle verità cristiane. E questa base
egli la trovò nell'autorità della Chiesa Cattolica (22). Vedremo
poi quanta importanza avrà il principio di autorità nello svolgi-
mento del suo pensiero. Il sacrificio dei martiri, la semplicità e in-
sieme la profondità delle Scritture, che ora egli vedeva con nuovi
occhi, lo conquistarono definitivamente al Cristianesimo. Le Epi-
stole di S. Paolo gli indicarono la via che cercava da tanto tempo,
e che non aveva trovato presso i grandi della letteratura pagana e
della filosofia. Egli osserva che nelle pagine così celebri di questi
grandi non aveva trovato nulla, poiché Dio aveva nascosto la ve-
rità ai sapienti e ai veggenti e l'aveva manifestata ai piccoli (23).
Ma questa verità ancora non si era rivelata a lui completa-
mente. Egli si accosta dunque a quei filosofi che maggiormente
erano rispondenti alla sua mutata spiritualità . Plotino, Porfirio,
Mario Vittorio e Manlio Teodoro accendono nel suo animo un
« incredibile incendium », rivelandogli il mondo sotto un nuovo
aspetto : la materia invece di rappresentare l'unico modo del
reale, gli si viene rivelando come solo una parte, un aspetto di
esso, lasciando in primo piano i valori spirituali, le idee eterne e
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assolute, riposte in Dio, dal cui grembo esse si riflettono nell'uni-
verso sensibile, nell'anima individuale.
Pertanto « l'antagonisme brutale des manichéens, la guerre
inexpiable du bien e du mal se résolvait en un tout harmonieux;
le mal, au lieu d'ètre la manifestation hideuse d'une essence per-
verse, n'avait plus qu'une existence relative, occasionnelle, et se
résotbait dans la perspective de l'ordre total. L'à me, dégagée des
fatalités physiques, se voyait redevenir libre, maitresse de sesdé-
(21) Contra Faustum Manichaeum, l. I, cap. I, col. 207, P.L., Migne, 42.
(22) Così Agostino commenta il suo bisogno di trovare appoggio nella
Chiesa : « Sed de me quid dicam, qui jam catholicus christianus eram? quae
nunc ubera, post longissimam sitim pene exhaustus atque aridus, tota avi-
ditate repetivi, eaque altius flens et gemens concussi et expressi, ut id
manaret quod mihi sic affecto ad recreationem satis esse posset, et ad
spem reducendam vitae ac salutis » (De utilitate credendi, cap. I, coli.
66-7).
(23) Confessiones, l. VII, cap. XXI, col. 1748.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 19
cisions faite pour répondre à sa vocation céleste, c'est-à -dire, en
d'autres termes à l'appel de ses origines » (24).
Questo, l'insegnamento che i platonici trasmettevano ad Ago-
stino, spazzando d'un sol colpo tutte le cristallizzazioni dei pre-
giudizi antichi, insegnamento che così commenta il De Plinval :
« Logique, harmonieuse, optimisye, elle elle répondait trop bien
à ses désirs intimes; il lui accorda aussitòt une adhésion fervente,
mais plus enthousiaste peut-ètre que réfléche. On comprend que
plus tard, de sang-froid, il ait voulu en vérifier les bases en cher-
chant particulièrement en quoi de tels principes demeuraient
valables, mème à l'encontre des Académiciens » (25). Tanto più
che egli aveva conosciuto solo parzialmente la dottrina cristiana,
e quindi, man mano che la sua conoscenza si approfondisce, la ve-
rità incominciava a farsi luce nel suo spirito.
L'adesione al platonismo rappresenta pertanto soltanto la fase
preparatoria della sua successiva conversione al cristianesimo, da
cui lo tengono ancora lontano anche delle ragioni di ordine inte-
riore, psicologico, dei conflitti intimi, delle preoccupazioni carnali,
delle reticenze, delle lotte, che gli impediscono di comprendere
pienamente l'altissima spiritualità cristiana, sebbene cominci di
già a sentirne la potente attrazione. Nei libri platonici egli aveva
infatti notato l'assenza dell'onnipotenza e della saggezza di Dio
ordinatore, e il concetto della redenzione ad opera di Cristo. Inol-
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tre l'influenza dottrinale si univa e si potenziava con l'influenza
emotiva suscitata dagli inni sacri, come possiamo desumere dalla
lettura delle Confessioni.
Così, quasi insensibilmente, il neoplatonismo lasciò il posto
al definitivo trionfo del Cristianesimo.
Nell'autunno del 380 Agostino lascia l'insegnamento e si pre-
para a ricevere il battesimo, ritirandosi in una villetta di Cassi-
ciaco, un ameno luogo della Cisalpina, ai confini della Liguria, in-
sieme alla madre Monica, al fratello Navigio, al figlio Adeodato,
ai cugini Lastidiano e Rustico, agli amici Alipio, Licenzio e Tri-
gezio. Qui egli compose le sue prime opere (26), che sono una te-
stimonianza del nuovo orientamento della sua spiritualità : il Con-
(24) De Plinval, op. cit., p. 29.
(25) Ibid.
(26) Nel 380-1 aveva però già composto, come abbiamo già detto, il De
pulcro et apto.
20 ANNA ESCHER DI STEFANO
tra Academicos (27), il De beata vita (28), il De Ordine (29), i So-
liloquia (30). I soggetti fondamentali in esse dibattuti erano prin-
cipalmente d'impostazione gnoseologica, tendenti a precisare se
lo scopo della filosofia fosse una investigatio o una inventio della
verità .
Ricevette il battesimo dalle mani di S. Ambrogio, nella notte
del sabato santo del 387.
Agostino ha ora una missione da compiere : la diffusione della
dottrina cristiana nella sua patria. Ed appunto per questo egli,
dopo la morte della madre, tornerà a Tagaste, dove, venduti i po-
(27) A proposito della genesi di quest'opera Agostino dice nelle Re-
tractationes : « Cum ergo reliquissem, vel quae adeptus fueram in cupi-
ditatibus hujus mundi, vel quae adipisci volebam, et me ad christianae vi-
tae otium contulissem; nondum baptizatus, contra Academicos vel de Aca-
demicis primum scripsi, ut argumenta eorum, quae multis ingerunt veri in-
veniendi desperationem, et prohibent cuiquam rei assentiri, et omnino
aliquid, tanquam manifestimi certumque sit, approbare sapientem, cum eis
omnia videantur obscura et incerta, ab animo meo, quia et me movebant,
quantis possem rationibus amoverem. Quod miserante atque adjuvante
Domino factum est» (Retractationum libri duo, l. I, cap. I, col. 585, P.L.,
Migne. 32).
(28) Contemporaneamente compone il De beata «ita, in cui prende
in esame il concetto di felicità , chiedendosi se essa possa risiedere nella
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soddisfazione dei sensi, o nell'appagamento dell'anima. Riguardo que-
st'opera S. Agostino dice : « Librum de Beata Vita, non post libros de
Academicis, sed inter illos ut scriberem, contigit. Ex occasione quippe ortus
est diei natalis mei, et tridui disputatione completus, sicut satis ipse in-
dicat. In quo libro constitit inter nos, qui simul quaerebamus, non esse
beatam vitam, nisi perfectam cognitionem Dei » (Retractations, l. I, cap. II,
col. 588).
(29) « Per idem tempus, inter illos qui de Academicis scripti sunt,
duos etiam libros de Ordine scripsi, in quibus magna questio versatur,
utrum omnia bona et mala divinae providentiae ordo contineat. Sed cum
rem viderem ad intelligendum difficilem, satis aegre ad eorum perceptio-
nem, cum quibus agebam, disputando posse perduri: de ordine studendi
loqui malui, quo a corporalibus ad incorporalia potest profici » (Retractio-
nes, l. I, cap. III, col. 588).
(30) « Inter haec scripsi etiam duo volumina secundum studium meum
et amorem, ratione indagandae veritatis, de his rebus quas maxime scire
cupiebam, me interrogans, mihique respondens, tanquam duo essemus, ratio
et ego, cum solus essem; unde hoc opus Soliloquia nominavi, sed imper-
fectum remansit; ita tamen ut in primo libro quaereretur, ut utcumque
appareret, qualis esse debeat qui vult percipere sapientiam, quae utique
non sensu corporis, sed mente percipitur; et quadam ratiocinatione in libri
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 21
chi beni che possedeva e distribuitone il ricavato ai poveri, visse
per circa tre anni, dedicandosi alla preghiera, e allo studio, in-
sieme ai suoi amici Alipio ed Evodio, e al figlio Adeodato (31).
La forza dell'adesione di S. Agostino al cristianesimo è soprat-
tutto visibile nelle Confessioni, le cui invocazioni a Dio sono
quanto di più suggestivamente potente la sua penna abbia scritto.
Signore — egli dice — hai spezzato le mie catene e a te of-
frirò un sacrificio di lode. Ti lodi il cuor mio, Ti lodi la mia lingua
e tutte le mie ossa dicano: O Signore, chi è simile a Te? Lo di-
cano e Tu rispondimi e dì alla mia anima : Sono io la tua salvezza.
Ah, quale ero stato mai in passato? Che cosa non ebbero di male
le mie azioni, e se non queste, le mie parole, e se non le parole, la
mia volontà ? Ma Tu, o Signore, buono e misericordioso, guardan-
domi nella profondità della mia morte, con la Tua destra sgom-
brasti dal fondo del mio cuore quella sentina di corruzione, poi-
ché non volli ciò che prima volevo e presi a volere ciò che Tu
vuoi. Dov'ero io stato mai nei luoghi trascorsi e da quali bas-
sezze, da quale profondità recondita traesti in un istante il mio
libero arbitrio, sicché sottoponesti il mio capo al tuo giogo soave
e le mie spalle al tuo peso leggero, o Gesù Cristo, o mio aiuto,
o mio Redentore? Quanto mi tornò subito soave la privazione di
ogni soavità dei vani piaceri; quei piaceri che prima temevo di
perdere e che allora godevo di abbandonare! Eri Tu, o vera e
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somma soavità , che li scacciavi da me; li scacciavi ed entravi Tu
al loro posto, Tu più dolce d'ogni voluttà , Tu il cui piacere non
è della carne e del sangue; Tu più chiaro d'ogni luce, più intimo
d'ogni segreto, più sublime d'ogni cuore a chi non si crede sublime
fine colligitur, ea quae vere sunt immortalia esse. In secundo autem, de
immortalitate animae diu res agitur. et non peragitur » (Reractationes, l. I,
cap. IV, col. 589). I Soliloqui contengono le più belle invocazioni di Ago-
stino a Dio : « Deus universitatis conditor, praesta mihi primum ut bene
te rogem. deinde ut me agam dignum quem exaudias, postremo ut liberes.
Deus per quem omnia, quae per se non essent, tendunt esse. Deus qui ne
id quidem quod se invicem perimit, perire dimittis. Deus qui de nihilo
mundum istum creasti, quem omnium oculi sentiunt pulcherrimum. Deus
qui malum non facis, et facis esse ne pessimum fiat.... Deus per quem
universitatis etiam cum sinistra parte perfecta est. Deus a quo dissonantia
usque in extremum nulla est, cum deteriora melioribus concinunt. Deus
quem amat omne quod potest amare, sive sciens, sive nesciens.... Te invoco,
Deus veritas, in quo et a quo et per quem vera sunt, quae vera sunt
omnia » (Soliloquiorum, l. I, cap. I, coli. 869-70; P.L., Migne, 32).
(31) Adeodato morirà da lì a non molto, nel 388, appena diciassettenne.
22 ANNA ESCHER DI STEFANO
in se stesso. Già l'animo mio si era liberato dalle mordenti brame
dell'ambizione e dell'avarizia e da quell'avvoltolarmi e cacciarmi
le unghia nella scabbia delle libidini e cantavo verso di Te, o
chiarezza mia e mia ricchezza, a Te, mia salvezza, Signor mio,
Dio mio (32).
Nel 391 Agostino viene ordinato prete. Egli si trovava ad Ip-
pona ed ascoltava una predica del vescovo Valerio, il quale illu-
strava la sua necessità di avere un coadiuvatore. La folla, rico-
nosciuto Agostino, lo trascina dinanzi al vescovo chiedendo, entu-
siasta, che egli fosse il prescelto.
Questa esaltazione popolare può sembrare strana, e si potrebbe
pensare che in realtà l'ordinazione sacerdotale di Agostino fosse
stata preparata. Ma non abbiamo alcun dato per affermarlo, e
d'altra parte le cronache ecclesiastiche del tempo recano più di
un esempio di ordinazione sacerdotale fatta senza alcuna regola,
ma solo per accondiscendere ai desideri di una folla entusiasta ed
acclamante.
Agostino si dedicò con molto zelo al nuovo compito, e, tra le
sue iniziative, forse la più importante fu quella della divulga-
zione del monachesimo.
Solo dopo quattro anni dall'ordinazione sacerdotale fu consa-
crato vescovo, ed alla morte di Valerio ne divenne il successore.
Riguardo l'anno esatto in cui cominciò l'episcopato di Ago-
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stino vi sono opinioni differenti; sebbene la maggior parte degli
studiosi consideri come anno di inizio il 395; altri, come il Guzzo,
pone questa data nel 396: ad ogni modo è accertato che nel 397
Agostino era sicuramente successo a Valerio.
E' durante i primi anni dell'episcopato che la polemica contro
gli eretici in genere e contro i Manichei in particolare raggiunge
il suo acme. Egli scrive una storia generale delle eresie, De Hae-
resibus. Contro i Manichei, scrive i due libri del De moribus Ec-
clesiae catholicae (33), il Liber de duabus animabus (34), gli Acta
(32) Confessiones, l. IX, cap. I, col. 763.
(33) « Jam baptizatus autem cum Romae essem, nec ferre tacitus pos-
senti Manichaeorum jactantiam de falsa et fallaci continentia vel abstinen-
tia, qua se ad imperitos decipiendos, veris Christianis, quibus comparandi
non sunt, insuper praferunt, scripsi duos libros; unum de Moribus Eccle-
siae Catholicae; alterum de Moribus Manichaeorum » (Retractationes, l. I,
cap. VII, coli. 591-2).
(34) « Scripsi adhuc presbyter contra Manichaeos de Duabus Anima-
bus, quarum dicunt unam partem Dei esse, alterarti de gente tenebrarum.
\
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 23
seu disputatio contra Fortunatum manichaeum (35), il Liber con-
tra Adimantum, manichaei discipulum (36), il Liber contra epi-
stola™, manichaei quam vocant « Fundamenti » (37), i tre li-
bri del De libero arbitrio (38), il Contra Faustum mani-
chaeum libri XXXIII (39), il De actis cum Felice manichaeo libri
quam non condiderit Deus, et quae sit Deo coeterna; et has ambas animas.
unam bonam, alterarti malam, in uno nomine esse deliranti istam sci-
licet malam, propriam carnis esse dicentes, quam carmem etiam dicunt
gentis esse tenebrarum : illam vero bonam, ex adventitia Dei parte, quae
cum tenebrarum gente conflixerit, atque utramque miscuerit: et omnia qui-
dem bona hominis illi bonae animae; omnia vero mala illi malae animae
tribuunt » (Retractationes, l. I, cap. XV, col. 608).
(35) « Eodem tempore presbyterii mei, contra Fortunatum quemdam
Manichaeorum presbyterum disputavi, qui plurimum temporis apud Hip-
ponem vixerat, seduxeratque tam multos, ut propter illos ibi eum delecta-
ret habitare. Quae disputatio nobis altercantibus excepta est a notariis, ve-
luti Gesta conficerentur; nam et diem habet. et consulem. Hanc in librum
memoriae mandandam conferre curavimum. Versatur ibi quaestio unde
sit malum ex libero voluntatis arbitrio; ilio autem naturam mali Deo
coaeternam persuadere moliente » (Retractationes, l. I, cap. XVI, col. 612).
(36) « Eodem tempore venerunt in manus meas quaedam disputationes
Adunanti, qui fuerat Manichaei discipulus. quas conscripsit adversus Le-
gem et Prophetas, velut contraria eis evangelica et apostolica Scripta de-
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monstrare conatus. Hiis ergo respondi, verba ejus ponens, eisque reddens
responsionem meam » (Retractationes, l. I, cap XXII, coli. 618-9).
(37) t Liber contra Epistolam Manichaei, quam vocant Fundamenti
principia ejus sola redarguit; sed in caeteris illius partibus annotationes
ubi videbatur, affixae sunt, quibus tota subvertitur, et quibus commo-
nerer, si quando contra totam scribere vacavisset » (Retractationes, l. II,
cap. II, col. 631).
(38) « Cum adhuc Romae demoraremur, voluimus disputando quaerere
unde sit malum. Et eo modo disputavimus, ut si possemus, id quod de hac
re divinae auctoritati subditi credebamus, etiam ad intelligentiam nostram,
quantum disserendo opitulante Deo agere possemus, ratio considerata et
tractata perduceret. Et quoniam constitit inter nos diligenter ratione di-
scussa, malum non exortum nisi ex libero voluntatis arbitrio; tres libri quos
eadem disputatio peperit, appellati sunt, de Libero Arbitrio » (Retracta-
tiones, l. I, cap. IX, col. 595).
(39) « Contra Faustum manichaeum blasphemantem Legem et Pro-
phetas, et eorum Deum, et incarnationem Christi; Scripturas autem Novi
Testamenti, quibus convincitur, falsatas esse dicentem, scripsi grande opus,
verbis ejus propositis reddens responsiones meas. Triginta et tres dispu-
tationes sunt; quas etiam libros cur non dixerim? Nam etsi sunt in eis
aliqui perbreves, tamen libri sunt. Unus vero eorum, ubi a nobis adversum
ejus criminationes, Patriarcharum vita defenditur, tantae prolixitatis est,
24 ANNA ESCHER DI STEFANO
duo (40), il Liber de natura boni cantra manicaeos (41), il Liber
contra Secundinum manichaeum (42), il De utilitate credendi (43),
il De Genesi contra Manichaeos (44).
Contro i Donatisti scrive il Psalmus contra partem Donati, il
Contra epistulam Parmeniani, il De baptismo contra donatistas,
il Contra litteras Petiliani, il Ad catholicos epistola contra donati-
stas, il Contra Cresconium grammaticum partis Donati, il Liber
de unico baphismo contra Petilianum, il Sermo ad Caesareensis
Ecclesiae plebem Emerito praesente habitus, il De Gestis cum
Emerito liber unus, il Breviculus Collationis cum Donatistis, il
quantae nullus fere librorum meorum » (Retractationes, l. II, cap. VII.
col. 632).
(40) « Contra manichaeum quemdam nomine Felicem, praesente po-
pulo, in ecclesia biduo disputavi. Hipponem quippe venerat, eumdem semi-
naturus errorem; unus enim erat ex doctoribus eorum, quamvis ineruditus
liberalibus litteris, sed tamen versutior Fortunato. Gesta sunt ecclesiastica,
sed inter meos libros computantur » (Retractationes, l. II, cap. VIII, col.
633).
(41 « Liber de Natura Boni adversus Manichaeos est, ubi ostenditur
naturam incommutabilem Deum esse ac summum bonum, atque ab ilio
esse caeteras naturas sive spirituales sive corporales, atque omnes in quan-
tum naturae sunt, bonas esse; et quid vel unde sit malum, et quanta mala
Manichaei ponant in natura boni, et quanta bona in natura mali, quas na-
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turas finxit error ipsorum » (Retractationes, l. II, cap. IX, col. 634).
(42) « Secundinus quidam, non ex eis quos Manichaei electos, sed ex
eis quos auditores vocant, quem ne facie quidem novefam, scripsit ad me
velut amicus, honorifice objurgans quod oppugnarem litteris illam haere-
sim, et admonens ne facerem, atque ad eam potius sectandam exhortans,
cum ejus defensione, et fldei catholicae reprehensione. Huic respondi; sed
quia in ejusdem opusculi capite non posui quis cui scriberet, non in epistolis
meis, sed in libris habetur » (Retractationes, l. II, cap. X, col. 634).
(43) « Jam vero apud Hipponem regium presbyter scripsi librum de
Utilitate credendi, ad amicum meum quem deceptum a Manichaeis, adhuc
eo errore noveram detineri, et irridere in catholicae fidei disciplina, quod
juberentur homines credere, non autem quid esset verum certissima ratione
docerentur » (Retractationes, l. I, cap. XIV, col. 605).
(44) « Jam vero in Africa constitutus, scripsi duos libros de Genesi con-
tra Manichaeos. Quamvis enim in superioribus libris quidquid disputavi,
unde ostenderem Deum summe bonum et immutabilem creatorem esse om-
nium mutabilium naturarum, nec ullam esse naturam malam sive sub-
stantiam, in quantum natura est atque substantia, adversus Manichaeos no-
stra invigilaret intentio; isti tamen duo libri apertissime adversus eos editi
sunt in defensionem veteris legis, quam vehementi studio vesani erroris
oppugnant » (Retractationes, l. I, cap. X, col. 599).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 25
Post Collationem ad Donatistas liber unus, il Contra Gaudentium
Donatistarum episcopum libri II, il Sermo de Rusticiano subdia-
cono a Donatistis rebaptizato et in diaconum ordinato, ecc.
Contro i Pelagiani scrive il De peccatorum meritis et remis-
sione, il De spiritu et littera, il De natura et gratia ad Timasium
et Jacobum contra Pelagium, il Liber de perfectione justitiae ho-
minis, il Liber de gestis Pelagii, il De gratia Christi et de peccato
originali, il De anima et ejus origine, il De nuptis et concupi-
scentia, il Contra duas epistulas pelagianorum, il Contra Julianum,
haeresis pelagianae defensorem, l'Opus imperfectum contra Julia-
num, il De gratia et libero arbitrio, il De correptione et gratia, il
Liber de praedestinatione sanctorum.
Contro gli Ariani : il Liber contra sermonem arianorum, la
Collatio cum Maximino arianorum episcopo, i Duo libri contra
eumdem Maximinum arianum, ecc.
Durante l'episcopato la vita di Agostino fu quanto mai labo-
riosa; i molteplici scritti ci attestano la sua attività , insieme alla
massima cura che egli ebbe sempre nell'adempiere al suo compito
di vescovo di Ippona.
Dopo la caduta di Roma, avvenuta nel 410 per mano dei Goti,
l'Africa accolse molti profughi, ed Agostino, oltre ad organizzare
i soccorsi, aiutò questi uomini con parole di fede e conforto, si
prodigò soprattutto al risollevamento degli spiriti, all'aiuto morale
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di cui questi uomini avevano grande bisogno.
La sua eccezionale attività di filosofo, di scrittore e di vescovo
si chiuse solo con la morte, avvenuta nell'agosto del 430.
Capitolo Secondo
LA DOTTRINA
La dottrina di Agostino risulta dall'incontro, nella sua spiri-
tualità , della filosofia greca con la visione cristiana della vita.
In essa i motivi più significativi e le aspirazioni più sentite della
grecità , uniti al meglio della speculazione patristica antecedente,
trovano il loro testamento spirituale, filtrati attraverso il calore
della sua personalissima visione della vita, in tal modo acqui-
stano tutta una loro coloritura particolare. Il pessimismo della
dottrina ellenica, il suo profondo senso dell'interiorità , la co-
scienza del dramma dell'esistenza imperniato sui rapporti tra in-
dividuo e individuo e tra individuo e Dio confluiscono nel suo
pensiero, costituendo la trama su cui la sua incessante ricerca
speculativa opera e costruisce.
Questi, dunque, i motivi da cui Agostino prende le mosse, ar-
ricchendoli di un significato e di una potenza mai prima rag-
giunti.
I problemi logici e gnoseologici, che nella speculazione greca
si erano conclusi in chiave scettica, tornano a presentarsi alla
mente di Agostino, riproponendo quelle domande, a cui ancora
non si era saputo dare una risposta : che cosa possiamo conoscere
e in qual modo? E' possibile giungere alla certezza?
Egli affronta per la prima volta questo problema nel Cantra
Academicos, libro che rimarrà fondamentale per la comprensione
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della sua indagine gnoseologica. La filosofia della Nuova Acca-
demia aveva negato la possibilità di giungere alla certezza : « er-
rat quisquis non solum rem falsam, sed etiam dubiam, quamvis
vera sit, approbat» (1). La sapienza, per il saggio, non consiste
nel possesso della verità , ma nella sua ricerca, giacché «videri
(1) Contra Academicos, l. III. cap. XIV, col. 951.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 27
posse sapienti probabilium rerum se consecutum esse sapien-
tiam » (2). Però Agostino ribatte che dalla stessa constatazione del
dubbio nasce come conseguenza inoppugnabile la verità sull'esi-
stenza dell'io. Né alcun argomento degli Accademici può aver
valore contro quest'affermazione, quand'anche si affermasse che
nessuno è nel vero e tutti sbagliano, giacché colui che sbaglia deve
pur esistere, in quanto, in caso contrario, non potrebbe sbagliare.
Dunque, se sbaglia esiste.
Questa constatazione è il primo baluardo contro la demoli-
trice critica scettica : se non vedi quello che io dico — ammonisce
Agostino (3) — o se dubiti che sia vero, vedi almeno che non du-
biti di dubitarne, e se è certo che ti trovi nel dubbio, cerca donde
sia certo. La coscienza dell'esistenza della verità , coscienza rive-
lataci dall'attestato del mio io, ci porta ad indagare l'origine di
questa verità e quale sia il suo fondamento. La sua sede non può
certo esser riposta nei sensi, in quanto questi possono darci delle
conoscenze probabili, ma non certe : « sunt enim qui ista omnia,
puae corporis sensu accipit animus, opinionem posse gignere confi-
tentur, scientiam vero negant » (4).
Il problema dell'importanza che Agostino attribuisce ai sensi
è uno tra i più dibattuti del pensiero del Santo. Alcuni, come il
Martin (5), diminuiscono l'importanza che la sensazione ha nel
sistema agostiniano. Altri, come ad es., il Kaelin (6), negano del
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tutto questa importanza. Altri invece, fra cui il Boyer (7), met-
tono l'accento proprio su di essa, poiché i sensi costituiscono un
elemento necessario all'intelletto nella scoperta della verità .
Al di sopra dei sensi vi è l'intelletto. Infatti la mente umana,
che giudica delle cose visibili, riconosce d'essere migliore di que-
ste cose stesse (8). Per cui l'intelletto, servendosi delle idee che
(2) Ibid., l. III. cap. III, col. 937.
(3) De vera religione, cap. XXXIX. col. 154.
(4) Cantra Academicos, l. III, cap. XI, col. 948.
(5) Jules Martin, S. Augustin, Paris, 1901, p. 273.
(6) Kaeun, Die Erkenntnisslehre des hi. Augustinus, Sarnen, 1920.
p. 40.
(7) Charles Boyer, Sant'Agostino, Bocca, Milano, p. 39.
(8) De diversis Quaestionibus, q. 45, n. I, col. 28, P.L., Migne, t. XL:
« Mens enim humana de visibilibus judicans, potest agnoscere omnibus
visibilibus se ipsam esse meliorem. Quae tamen cum etiam se propter de-
fectum profectumque in sapientia fatetur esse, mutabilem, invenit supra
se esse incommutabilem veritatem : atque ita adhaerens post ipsam, sicut
28 ANNA ESCHER DI STEFANO
in esso sono riposte, costituisce il metro valutativo delle cose, sia
in campo logico, sia gnoseologico, sia etico.
Sull'intelletto ha il predominio la volontà , che tra le varie
immagini mentali sceglie di volta in volta quelle corrispondenti
agli oggetti sensibili : « Detracta specie corporis quae corporaliter
sentiebatur remanet in memoria similitudo ejus, quo rursus vo-
luntas convertat aciem, ut inde formetur intrinsecus, sicut ex cor-
pore objecto sensibili sensus extrinsecus formabatur. Atque ita
fit illa trinitas ex memoria, et interna visione, et quas utrumque
copulat voluntate. Quae tria cum in unum coguntur, ab ipso coactu
cogitatio dicitur» (9).
L'autore di queste idee è l'uomo? Donde egli prende i predi-
cati che attribuisce ai diversi esseri quando li definisce esistenti,
buoni, belli, ecc.? Nessuna cosa egli potrebbe definire buona, se
già non sapesse cosa significhi bontà ; bello se non sapesse cosa
significhi bellezza, ecc., se già , insomma, non ne possedesse il con-
cetto. L'anima inoltre adopera principi logici, articolantisi tutti
attorno al principio di non-contraddizione (10), i principi della
dictum est, Adhaesit anima mea post te (Psal., LXI, 9); beata efficitur, intrin-
secus inveniens etiam omnium visibilium Creatorem atque Dominum; non
quaerens extrinsecus visibilia, quamvis coelestia: quae aut non inveniun-
tur, aut cum magno labore frustra inveniuntur, nisi ex eorum quae foris
sunt pulchritudine, in veni a tur arti f ex qui intus est, et prius in anima su-
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periores, deinde in corpore inferiores pulchritudines operatur » (De div.
Quaest., cap. XLV, coli. 28-9).
(9) De trin., l. XI, cap. III, col. 988.
(10) Contra Academicos, l. III, cap. X, col. 946: «Certum enim habeo,
aut unum esse mundum, aut non unum; et si non unum, aut finiti numeri,
aut infiniti. Istam sententiam Carneades falsae esse similem doceat. Item
scio mundum istum nostrum, aut natura corporum, aut aliqua providentia
sic esse dispositum; eumque aut semper fuisse et fore, aut coepisse esse mi-
nime desiturum; aut ortum ex tempore non habere, sed habiturum esse fi-
nem; aut et manere coepisse, et non perpetuo esse mansurum: et innu-
merabilia physica hoc modo novi. Vera enim ista sunt disjuncta, nec simi-
litudine aliqua falsi ea potest quisquam contundere. Sed assume aliquid, ait
Academicus. Nolo: nam hoc est dicere, Relinque quod scis, die quod ne-
scis. Sed pendet sententia. Melius certe pendet quam cadit: nempe plana
est; nempe jam potest aut falsa, aut vera nominari. Hanc ergo me scire dico.
Tu qui nec ad philosophiam pertinere ista negas, et eorum sciri nihil posse
asseris, ostende me ista nescire: die istas disjunctiones aut falsas esse,
aut aliquid commune habere cum falso, per quod discerni omnino non
possint ».
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 29
matematica (11) e possiede la certezza scaturiente dalla stessa esi-
stenza del dubbio. Giacché Agostino dice che chi capisce d'essere
in dubbio, ha almeno la certezza di star dubitando, e quindi è
certo del vero. Chiunque perciò dubita che esista la verità , ha in
sé il vero, e non v'è vero senza la verità . E' necessario dunque
che non dubiti più della verità colui che ha già per un motivo
qualsiasi dubitato. Dalla certezza di dubitare e pensare germina la
certezza di vivere, e di non dover emettere temerariamente giu-
dizio alcuno. L'intelletto infatti quando si volge a scrutare se
stesso, per scoprire la verità , comprende d'essere una mente che
esiste, vive ed intende. Quindi chi intende vive ed è. E così sa
di volere, come sa che non può volere chi non è e chi non vive.
Sa anche di ricordare, e insieme sa che nessuno potrebbe ricor-
dare, se non fosse e non vivesse. Due dunque di queste tre cose,
la memoria e l'intelligenza, contengono la notizia e la scienza di
molte cose, mentre con la volontà fruiamo o usiamo soltanto di
loro. Gli uomini dubitarono se principio della vita, della memoria,
della scienza, del volere, del pensiero, della scienza fosse l'aria,
il cervello, il sangue, gli atomi, però nessuno v'é che possa dubi-
tare di vivere, di ricordare, di intendere, di volere, di pensare e di
sapere. Poiché anche se dubita vive, se dubita ricorda, se dubita
vuol esser certo, se dubita, pensa, se dubita, sa di non sapere, se
dubita giudica di non dover temerariamente acconsentire. Quindi
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chi dubita sa che qualcosa esiste, perché se nulla fosse, di nulla
dubiterebbe (12).
Abbiamo detto dunque che queste verità sono riposte nel-
l'anima; come può essa averle create, se è soggetta all'errore? Il
ragionamento non può creare le verità eterne, ma può solo sco-
prirle. Quindi esse, prima d'essere scoperte, debbono esistere in
(11) Ibtd., col. 947: «Credo enim jam satis liquere quae per somnium
et dementiam falsa videantur, ea scilicet quae ad corporis sensus pertinenti
nam ter terna novem esse, et quadratimi intelligibilium numerorum, necesse
est vel genere humano stertente sit verum. Quanquam etiam pro Ipsis sensi-
bus multa posse dici video, quae ab Academicis reprehensa non invenimus.
Credo enim sensus non accusari. vel quod imaginationes falsa furentes pa-
tiuntur, vel quod falsa in somnis videmus. Si enim vera vigilantibus atque
sanis renuntiarunt; nihil ad eos. quid sibi animus dormientis insanientisque
confingat ».
(12) De trin., l. IX, cap. X, coli. 980-1.
30 ANNA ESCHER DI STEFANO
sé (13). Ed è per questo che anche gli empi hanno la capacità di
affissare lo sguardo sulle cose eterne, e sanno con ragione biasi-
mare o lodare la condotta degli uomini. Con quali regole esprime-
rebbero essi questi giudizi, se non con quelle secondo cui essi
sanno che ciascuno dovrebbe vivere, anche se poi, a conti fatti,
essi vivono in maniera diversa? E dove vedono queste regole? Non
certamente nella loro natura, dato che queste non si possono ve-
dere che con la mente; e si sa che le loro menti sono mutevoli,
mentre queste regole sono immutabili. Né possono essere state
coniate dalla loro mente, dato che la loro mente è ingiusta. Dove
sono scritte dunque queste regole, in base a cui anche l'empio
può giudicare cosa sia giusto o ingiusto? Dove sono scritte se non
nel libro di quella luce che si chiama verità , in cui riposa ogni
legge giusta, quella stessa che parla al cuore dell'uomo? (14).
Esiste dunque una verità inattaccabile dallo stesso dubbio
scettico, verità per mezzo di cui l'anima giudica, e che riposa nel
grembo di Dio. L'anima infatti è consapevole di non giudicare le
cose per mezzo di una norma che essa stessa ha creato, e riconosce
che la natura di quella verità a norma della quale giudica, e di
(13) De vera religione, l. I, cap. XXXIX, col. 155.
(14) De trin., l. XIV, cap. XV. Inoltre Agostino dice nel De magistro:
(cap. 11, col. 1216): a De universis autem quae intelligimus non loquentem
qui personat fores, sed intus ipsi menti praesidentem consulimus veritatem,
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verbis fortasse ut consulamus admoniti. Ille autem qui consulitur, docet, in
interiore nomine habitare dictus est Christus (Ephes., III, 16, 17), id est
incommutabilis Dei Virtus atque sempiterna Sapientia : quam quidem omnis
rationalis anima consulit, sed tantum cuique panditur, quantum capere
propter propriam, sive malam sive bonam, voluntatem potest ». Ibid., col.
1217: «Curii vero di iis agitur quae mente conspicimus, id est intellectu
atque ratione, ea quidem loquimur quae praesentia contuemur in illa in-
teriore luce veritatis, qua ipse qui dicitur homo interior illustratur et frui-
tur: sed tunc quoque noster auditor, si et ipse illa secreto ac simplici oculo
videt; novit quod dico sua contemplatione, non verbis meis. Ergo ne hunc
quidem doceo vera dicens, vera intuentem; docetur enim non verbis meis,
sed ipsis rebus, Deo intus pandente, manifestis: itaque de his etiam inter-
rogatus respondere posset ». Cfr. inoltre Rctract., l. I, cap. XII, col. 602;
l. I, cap. VIII, col. 594; Ep. 144, P.L., Migne, 33, coli. 590-1; Ep. 166, coli.
724-5; Serm. 23, cap. II, P.L., Migne. vol. 38, coli. 155-6; De peccatorum me-
ntis et remissione, l. I, cap. XXV, P.L., Migne, vol. 44, coli. 129-31; Sottl.,
l. I, cap. VIII, col. 877; De Genesi ad litteram, l. XII, cap. XXXI, De civ.
Dei, l. X, e. II, P.L., Migne, vol. XVI, col. 279; De Trin., l. XII, cap. XV.
col. 1011; Retr., l. I, e. VIII, col. 598.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 31
cui non può in nessun modo esser giudice, è superiore alla pro-
pria natura : questa verità è il sole interiore che risplende diret-
tamente nell'anima (15).
Nell'eterna verità , dunque, per la quale tutto è stato fatto, ve-
diamo la forma secondo la quale siamo, e per la quale noi retta-
mente operiamo; e, concepita la vera nozione delle cose, la rite-
niamo in noi come verbo, e parlando la generiamo interior-
mente (16).
Questa presenza, attraverso la grazia illuminante, di Dio in
noi è dunque il sottofondo mistico che costantemente accompagna
tutte le proposizioni del pensiero agostiniano.
Di questa teoria sono state date interpretazioni diverse.
Secondo una interpretazione panteistica, Dio sarebbe la ra-
gione universale, immanente delle cose. Interpretazione infon-
data, in quanto S. Agostino ha ripetutamente chiarito il suo pen-
siero in proposito. Nelle Ritrattazioni, ad es., dice : « Scripsi adhuc
presbyter contra Manichaeos de Duabus Animabus, quarum di-
cunt unam partem Dei esse, alteram de gente tenebrarum, quam
non condiderit Deus, et quae sit Deo coeterna; et has ambas ani-
mas, unam bonam, alteram malam, in uno homine esse delirant:
istam scilicet malam, propriam carnis esse dicentes, quam carnem
etiam dicunt gentis esse tenebrarum : illam vero bonam, ex adven-
titia Dei parte, quae cum tenebrarum gente conflixerit, atque
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utramque miscuerit : et omnia quidem bona hominis illi bonae
animae; omnia vero mala illi malae animae tribuunt. In hoc libro
illud quod dixi, Nullam esse qualemcumque vitam, quae non
eo ipso vita est, et in quantum omnino vita est, ad summum
vitae fonte-m principiumque pertineat (Cap. 1, n. 1), ita dixi, ut
tanquam creatura ad Creatorem pertinere intelligatur, non autem
de ilio esse tanquam pars ejus existimetur » (17). E sempre nelle
Ritrattazioni : « Hoc sane concusse retinendum esse non dubito,
Deum nobis non esse istum mundum, sive anima ejus ulla, sive
nulla sit. Quia si ulla est, ille qui eam fecit, est Deus noster: si
autem nulla est, nullorum Deus po test esse iste; quanto minus
noster? Esse tamen spiritualem vitalemque virtutem, etiam si non
sit animai, mundus; quae virtus in Angelis sanctis ad decorandum
(15) De vera religione, capp. XXXI e XXXIX.
(16) De trin., l. IX, cap. VII, col. 967.
(17) Retractationes, l. I, cap. XV. col. 608.
32 ANNA ESCHER DI STEFANO
atque administrandum mundum Deo servit, et a quibus non in-
telligitur; rectissime creditur. Angelorum autem sanctorum no-
mine, omnem sanctam creaturam spiritualem, in Dei secreto at-
que occulto ministerio constitutam nunc appellaverim; sed spi-
ritus angelicos sancta Scriptura nomine animarum significare non
solet» (18).
Vi è poi una interpretazione ontologistica, secondo la quale noi
conosceremmo immediatamente e intuitivamente in Dio le idee
eterne (19). Ma anche a questo proposito Agostino, sebbene a
volte alcune sue frasi potrebbero far indurre in errore (20), ha
chiaramente espresso il proprio pensiero.
Egli dice ad es., nel De trinitate : « Est etiam quo moveri ple-
rique solent, quia scriptum est, Et locutus est Dominus ad Moy-
senfacie ad faciem sicut quis loquitur ad amicum suum : cum
paulo post dicat idem Moyses, Si ergo inveni gratiam ante te,
ostendemihi temetipsum manifeste, ut videam te; ut sim inveniens
gratiam ante te, et ut sciam quia populus tuus est gens haec : et
paulo post iterum dixit Moyses ad dominum, Ostende mihi ma-
jestatem tuam. Quid est hoc in omnibus quae supra fiebant, Deus
videri per suam substantiam putabatur, unde a miseris creditus
est, sed per seipsum visibilis Filius Dei; et quod intraverat in ne-
bulam Moyses, ad hoc intrasse videbatur, ut oculis quidem populi
ostenderetur caligo nebulosa, ille autem intus verba Dei tanquam
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ejus faciem contemplatus audiret et quomodo dictum est, Locutus
(18) Ibid., cap. XI, col. 602.
(19) Non accettano questa interpretazione: M. Grabmann, Der pòttli-
che Grand menschlicher Wahreitserkenntniss nach Augustinus und Tho-
mas, Miinster in W., 1924; M. Blondel, Le XV centenaire de la mort de
S. Angustili, in Revue de Métaphysique et de Morale, 1930; G. Sestili,
Augustini phìlosophia pro existentia Dei, in Misceli., agosto, n. 2, 1931; R.
Jolivet, Dieu, soleil des esprits, Paris, 1934; A. Masnovo, L'ascesa verso
Dio in S. Agostino, Milano, 1931; E. Gilson, Introduction à l'étude du S.
Augustin, Paris, 1943.
(20) Agostino dice ad es. nelle Confessioni: «Et pervenit ad id quod
est, in ictu trepidantis aspectus. Tunc vero invisibilia tua. per ea quae
facta sunt, intellecta conspexi; sed aciem figere non evalui: et repercussa
infirmitate redditus solitis, non mecum ferebam nisi amantem memoriam,
et quasi olfacta desiderantem quae comedere nondum possem » (l. VII, cap.
XVII, col. 745). E altrove: «Noli quaerere quid sit veritas; statim enim se
opponent caligines imaginum corporalium et nubila phantasmatum, et per-
turbabunt serenitatem, quae primo ictu diluxit tibi, cum dicerem, Veritas »
(De Trin., l. VIII, cap. II, col. 949).
>
IL MANICHEISMO IN 8. AGOSTINO 33
est Dominus ad Moysen facie ad faciem sicut quis loquitur ad
amicum suum : et ecce idem dicit, Si inveni gratiam ante te,
ostende mihi temetipsum manifeste? Noverat utique quod corpo-
raliter videbat, et veram visionem Dei spiritualiter requirebat.
Quid est autem, Ostende mihi temetipsum manifeste, ut videam
set Moyses, utcumque ferendi essent stulti, qui putant per ea
te; nisi, ostende mihi substantiam tuam? Hoc autem si non dixis-
quae supra dieta vel gesta sunt, substantiam Dei oculis ejus fuisse
conspicuam : cum vero hic apertissime demonstretur, nec deside-
ranti hoc fuisse concessum; quis audeat dicere per similes formas,
quae huic quoque visibiliter apparuerant, non creaturam Deo ser-
vientem, sed hoc ipsum quod Deus est cuiusquam oculis apparuisse
mortalium? Et id quidem quod postea Dominus dicit ad Moysen,
non poteris videre faciem meam, et vivere : non enim videbit
homo faciem meam et vivet » (21).
(21) De trin., l. II, cap. XVI, coli. 862-3. E altrove: « Quem secundum
naturarci qua Deus est, nemo hominum vidit, nec videre potesti sed po-
terit aliquando, si ad illum numerum hominum pertinet, de quibus dictum
est, Beati mundo corde, quoniam, ipi Deum videbunt (Matth., v 8) ». (Con-
tra Maximinum, l. II, cap. XII, col. 768). E nel De ordine : « Haec autem
disciplina ipsa Dei lex est, quae apud eum flxa et inconcussa semper ma-
nens, in sapientes animas quasi transcribitur » (De ordine, l. II, cap. VIII,
col. 1006). E anche nei Soliloqui : « Te invoco. Deus veritas, in quo et a
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quo et per quem vera sunt, quae vera sunt omnia. Deus sapientia, in quo et a
quo et per quem sapiunt, quae sapiunt omnia. Deus vera et summa vita-
Deus intelligibilis lux, in quo et a quo et per quem intelligibili ter lucent,
quae intelligibiliter lucent omnia » (Soliloquia, l. I, cap. I, col. 870). Cfr.
anche De Trin. : « In illa aeterna ventate, ex qua temporalia facta sunt om-
nia formam secundum quam sumus, et secundum quam vel in nobis, vel in
corporibus vera et recta ratione aliquid operamur, visu mentis aspicimus:
atque inde conceptam rerum veracem notitiam, tanquam verbum apud nos
habemus, et dicendo intus gignimus » (De trin., l. DC, cap. VII, col. 967).
A proposito del valore da assegnare a questi passi, il Boyer osserva : « la
visione diretta è riservata per l'altra vita » : « tunc autem facie ad fa-
ciem ». L'importanza di questa testimonianza viene da ciò che mentre Ago-
stino vi ripete che vediamo in Dio le cose intelligibili (« lumen... in quo
videntur quae oculis carnalibus non videntur »), lo spiega egli stesso affer-
mando che in questa vita non vediamo Dio che attraverso le sue immagini
(« in speculo nisi imago non cernitur »). Per conseguenza, quando anche i
i testi agostiniani che parlano di visione di Dio in ogni conoscenza intel-
lettuale fossero più numerosi di quel che sono, si dovrebbero tutti inten-
dere secondo il senso accuratamente dichiarato qui dal loro autore » (op.
cit., p. 103).
34 ANNA ESCHER DI STEFANO
Riguardo a questa interpretazione il Gilson obbietta che, in-
nanzitutto, l'espressione « vedere le idee » in Dio è in Agostino
soltanto una metafora, di cui egli si serve per esprimere l'ine-
sprimibile, non intendendo certo dire che si può accedere alle ve-
rità mediante un rapporto corporeo: «mino quodam eodemque
incorporali modo adhaerere », per cui bisogna vedere in questo
rapporto soltanto la dipendenza ontologica dell'intelletto da Dio.
Inoltre se veramente noi potessimo vedere le idee in Dio, do-
vremmo avere analogamente la capacità di vedere Dio. Ora, è
troppo evidente, osserva il Gilson, che noi Dio non lo vediamo,
tant'è vero che cerchiamo faticosamente le prove della Sua esi-
stenza. A ciò si aggiunge che se noi conoscessimo le idee in Dio,
conosceremmo parimenti le cose materiali che di quelle idee sono
copie, senza aver bisogno di percepirle. Ora è un fatto evidente,
che l'illuminazione non ci dispensa dalla conoscenza sensibile,
necessaria perché noi possiamo accedere alla verità . Dunque, con-
clude il Gilson, vi deve essere collaborazione tra intelletto umano,
sensi corporei e illuminazione divina (22).
L'interpretazione tomistica, invece, rigetta la comunicazione
intuitiva, affermando che la nostra capacità di conoscere è un'im-
magine o partecipazione e riflesso della luce divina, per cui le
leggi della nostra ragione sono una similitudine di quelle della
divina verità . L'uomo non conosce dunque in maniera diretta le
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idee eterne, non è a contatto immediato con la luce della ragione
divina, ma conosce attraverso la naturale capacità conoscitiva
della sua mente, e la sua visione è mediata. Tesi, che in fondo è
quella del Grabmann, il quale rifiuta l'interpretazione dell'intui-
zione immediata, ed è invece del parere che l'individuo, oltre l'at-
tività naturale del suo intelletto e la luce che da esso deriva, ha
bisogno di un'altra luce, derivante direttamente da Dio, che dia
alla sua conoscenza il carattere di universalità e necessità . Il Ca-
pone-Braga è del parere che optare per queste interpretazioni sia
mal porre il problema, in quanto lo si vuol vedere attraverso dot-
trine posteriori, sviluppatesi in altro clima culturale. Egli è del
parere che per Agostino Dio, come unità degli intelligibili, sia
conosciuto e compreso dall'individuo, mentre l'essenza di Dio è
inconoscibile e ci si può elevare ad essa solo mediante l'eccezio-
nale stato dell'estasi. Il Boyer, invece, è del parere che la dottrina
(22) E. Gilson, op. cit., p. HO.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 35
cosiddetta tomistica non fu mai professata da Agostino, ma da
alcuni filosofi del XIII e XIV secolo. Egli dal canto suo pensa che
« la conoscenza umana, manifestatamele certa ed assoluta, non
può trovar la ragione di se stessa e dei suoi caratteri se non nelle
Idee eterne che sono la medesima essenza divina, la Luce immor-
tale, la Verità sussistente. Essa è dunque congiunta a questa vera
e prima Luce e ne riceve l'influsso, cioè l'illuminazione, la quale
non è soltanto un lume aggiunto ad un altro lume, ma è costi-
tutiva dell'intelletto stesso e per conseguenza è causa prima e
attuale di tutte le operazioni intellettive. In virtù di questa illu-
minazione interna, l'intelletto giudica il sensibile e tutte l'espe-
rienza umana, scoprendovi quella partecipazione alle idee divine
che pure si trova in ogni ente esistente fuori di Dio; e giudicando
nello stesso tempo che le perfezioni apprese con l'esperienza ed
anche la sua propria luce sono tali per partecipazione, risale a
Dio fonte dell'essere e della verità » (23). L'intelletto pertanto è
unito alla verità dal vincolo della partecipazione, e la sua visione
è effetto della divina illuminazione (24).
Anche il Portaliè rigetta la tesi scolastica, giudicandola in-
sufficiente : « si on s'en tenait là , il faudrait dire que saint Augu-
stin n'aurait jamais touché au problème de la connaissance, qui
parait cependant avoir été là préoccupation de sa vie entière.
Toutes ses rèponses se réduiraient à ceci: Nous savons, parce
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que tout savoir est une image des idées divines, et parce que Dieu
nous a donné l'intelligence pour savoir. Mais cela dit, tout le pro-
blème reste : en quoi consiste cette intelligence donnée par Dieu,
et comment arrive-t-elle, finie et créée, à percvoir la vérité éter-
nelle? Platon répond : réminiscence; Aristote et l'Ecole : effet de
l'abstraction; d'autres : idées innées dépòt mysterieux des vérités.
Mais Augustin n'aurait rien dit. Tout son livre Du maitre inté-
rieur consisterait à dire : « Dieu a créé notre raison » (25). Rimane
infine l'interpretazione, secondo cui Dio affida alla nostra anima le
verità eterne che ci permettono la conoscenza del mondo esterno.
Questa è la tesi del Portaliè, il quale afferma che l'anima nostra
non può pervenire alla verità intellettuale senza un influsso mi-
sterioso di Dio, che non consiste nel mostrarsi lui stesso a noi,
(23) Ch. Boyer, op. cit., pp. 122-3.
(24) Ibid.
(25) Portaliè, op. cit., coli. 2335-6.
36 ANNA ESCHER DI STEFANO
ma nel produrre nell'anima nostra come un'immagine di queste
verità che determina la nostra conoscenza. In linguaggio scola-
stico, cioè, la funzione che gli aristotelici attribuiscono all'intel-
letto agente, il sistema agostiniano lo attribuisce a Dio. Dio, cioè,
imprimerebbe nella nostra anima le verità eterne, permettendoci
così di conoscere. Le idee non sono innate, come negli angeli,
ma prodotte successivamente nell'anima, che verrebbe a cono-
scerle dentro di sé (26). Bisogna, però, avverte il Portalié, « e se
garder de confondre cette explication avec l'averroisme qui attri-
buait la connaissance elle-mème à une intelligence séparée.
D'après les Arabes, Dieu ou la rasion universelle supplée non seu-
lement l'intellectus agens, mais l'intellectus possibilis, et toute
la connaissance se ferait en moi sans moi » (27).
Il Gilson non è d'accordo con questa interpretazione, e ob-
bietta che il Portalié è in tal modo ritornato alle tesi di Guillaume
d'Auvergne e di R. Bacone (28). Nemmeno il Boyer è d'accordo
col Portalié, sostenendo che l'influenza dell'illuminazione sullo
spirito non si può concepire come una trasmissione di idee giÃ
fatte: E' verosimile, si chiede il Boyer, che un pensatore del
valore di Agostino, il quale ha detto ripetutamente che Dio ri-
spetta l'attività delle sue creature (29), abbia poi ammesso un tale
occasionalismo, per cui Dio, invece di dare all'intelletto la capa-
cità di formare le idee, ve le pone bell'e fatte? Tanto la lettera
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che lo spirito dei testi non si accordano con questa passività del-
l'intelletto creato. Vero è che Agostino parla spesso di verità im-
pressa nella mente, dice che l'intelletto è toccato dalla luce supe-
riore, che Dio è il nostro Sole, di immagine lasciata dal sigillo, ma
queste espressioni significano solo che la nostra conoscenza di-
pende principalmente dall'influsso divino, senza per questo ri-
chiedere che questo influsso sia immediato ed unico. Per cui, se-
condo il Boyer, il Portalié, dando la prova della sua argomenta-
zione, dimostra soltanto la falsità dell'interpretazione ontologi-
stica (30). Al che il Gilson, di rimando : « c'est parfaitement juste;
(26) Ibid.
(27) Ibid.
(28) E. Gilson, op. cit., p. 117.
(29) De civitate Dei, l. VII, cap. XXX, col. 220 : « Sic itaque admini-
strat omnia quae creavit, ut etiam ipsa proprios exercere et agere motus
sinat ».
(30) Ch. Boyer, op. cit., pp. 114-5.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 37
mais il n'en résulte pas du tout que l'illumination augustinienne
ait pour fin de produire un intellecte agent comme celui que le
thomisme nous accorde. L'homme augustinien a un intellect qui
produit ses concepts et regoit de Dieu leur vérité: ni intellecte
agent thomiste, ni Dieu intellect agent » (31). E conclude : « Saint
Augustin exclut de l'illumination divine tout concept d'origine
empirique dans un concept. Lorsqu'il cite des cas de notions qui
relévent de l'illumination divine, les premiers qui lui viennent Ã
la pensée sont: la justice, la casteté, la foi, la vérité, la charité,
la bonté, et autres du mème genre, qui portent sur de pours in-
telligibles. Là où l'intellect applique l'illumination divine à des
concepts sensibles, comme celui d'are, ou d'homme, ce n'est pas
pour en définir le type nécessaire, qu'aucune expérience sensible
ne saurait nous révéler. L'expérience, non l'illumination, nous ap-
prend ce qu'est un are, un homme; l'illumination, non l'expérience,
nous apprend ce qu'un are parfait ou un homme achevé doivent
ètre» (32).
Anche sulla presenza delle idee nell'anima si sono formulate
diverse ipotesi. E' stata messa avanti, fra le altre, un'interpreta-
zione basata sulla reminiscenza, che naturalmente mette in evi-
denza gli influssi che Agostino avrebbe ricevuto da Platone; remi-
niscenza che si porta dietro la preesistenza dell'anima. Ora, però,
in nessun testo di Agostino si trova espressa questa teoria. Se-
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condo il Gilson tuttavia, Agostino, pur non esprimendo decisa-
mente questa tesi, adopera nelle sue prime opere vocaboli come
oblio e reminiscenza con lo stesso significato che possedevano nella
dottrina platonica : « il donc très difficile de savoir si, à cette épo-
que, Augustin se ralliait a cette conception ou s'il employait déjÃ
ces termes au sens proprement augustinien d'une réminiscence
sans préesistence que nous aurons plus tard à definir » (33). Que-
sti addentellati, però, anche per il Gilson, sono da localizzarsi
soltanto nelle prime opere del Santo.
Sono stati anche studiati i probabili influssi di Aristotele su
Agostino, e ci si è chiesto se quest'ultimo ammetta un processo
epagogico che dal sensibile faccia scaturire, mediante l'astrazione,
le idee universali. Per il Gilson gli elementi delle due dottrine
(31) E. Gilson, op. cit., p. 117.
(32) Ibid., p. 123.
(33) Ibid., p. 94.
38 ANNA ESCHER DI STEFANO
sono troppo differenti perché possano instaurarsi dei parallelismi.
Giacché se è vero che tanto in Aristotele che in Agostino l'uomo
è incapace di avere alcuna idea delle cose materiali senza il soc-
corso delle sensazioni, è però pur vero che il concetto di sensa-
zione è molto diverso nei due sistemi. Essa per S. Agostino è
un'azione che l'anima esercita, per Aristotele è una passione che
subisce, e la diversità di questo punto di partenza porta come con-
seguenza una divergenza anche finale sul concetto stesso del pro-
cedimento di astrazione (34). Questa difficoltà di conciliare astra-
zione e illuminazione è stata messa chiaramente a punto dall'ec-
cellente opera del Gilson, il quale osserva come, per risolvere
questo problema siano state tentate tutte le vie: si è considerato
Dio come intelletto agente, si è soppresso l'intelletto agente a van-
taggio del solo intelletto possibile, si sono fusi i due intelletti,
identificando l'intelletto agente con la stessa illuminazione di-
vina (35). Soluzioni, «qui pourront toutes se réclamer d'Augustin
précisément parce qu'il n'a soutenu aucune d'elles » (36).
Ma a mio parere, nessuna di queste interpretazioni ha colto
il vero significato della teoria agostiniana, il cui substrato riposa
sulla mortalità naturale dell'anima, che diventa immortale solo
per l'intervento della Grazia divina, la quale la solleva al grado
soprannaturale e quindi la divinizza. Questa tesi è affermata dal-
l'Ottaviano, il quale giustamente osserva che l'anima, come tutti
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gli enti creati, è mutevole, cioé soggetta al divenire : quindi le
proprietà della necessità , universalità e immutabilità , che costi-
tuiscono la certezza e fondano la scienza, non appartengono in
proprio ad essa, cioè non sono sue proprietà né possono provenire
dall'oggetto esterno, anch'esso mutevole e in divenire (37). E' ne-
(34) « L'abstraction aristotélicienne est, par définition, une abstraction
à partir du sensible aristotélicien. or ce sensible implique à son tour l'exi-
stence d'un pian commun à l'à me et aux choses, qui permette aux choses
d'agir sur l'à me et de la modifier. L'à me sensitive aristotélicienne. en tant
précisément que sensitive, n'est pas supérieure au corps sensible en tant
que sensible, et c'est ce qui permet au corps d'agir sur l'Ã me en y introdui-
sant l'espèce dont l'à me tirerà l'intelligible par voie d'abstraction ». (Ibid.,
p. 113.
(35) Ibid., p. 117.
(36) Ibid.
(37) « Sed memento, cum transcendis, ratiocinantem animam te tran-
scendere. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur. Quo enim
pervenit omnis bonus ratiocinator. nisi ad veritatem? cum ad seipsam ve-
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 39
cessarlo dunque che l'anima si elevi al piano divino e acquisti in
tal modo ipso facto con l'immortalità i principi universali e ne-
cessari che fondano la scienza e che essa di suo non possiede. In
questa trasfigurazione metafisica risiede il significato della illumi-
nazione agostiniana; e nella dottrina della mortalità di diritto
dell'anima sta il residuo manicheo e scettico del pensiero di Ago-
stino. La capacità di fondare la scienza universale e necessaria è
il corrispettivo logico-gnoseologico della soprannaturalizzazione
dell'anima, e quindi della sua immortalità in sede metafisica. L'a-
nima, quindi, come dice l'Ottaviano, vede in Dio il pegno della sua
salvezza dall'abisso del nulla, la garanzia della sua immortalità o
eternità , l'oggetto della sua felicità . Da qui quel profondo eude-
monismo, quella profonda sete di felicità che caratterizza, come
ben mette in evidenza l'Ottaviano, tutta la filosofia di Agostino e
che costituisce la molla profonda della sua psicologia, per cui l'esi-
genza teoretica e l'esigenza pratica si saldano insieme e si com-
pletano sulla base di Dio illuminante e beatificante (38).
La teoria agostiniana, continua l'Ottaviano, cade però in un
circolo vizioso : fonte e garanzia della certezza è Dio, ma, ove si
voglia dimostrare in sede filosofica la sua esistenza, bisogna far
ritas non utique ratiocinando perveniat, sed quod ratiocinantes appetunt,
ipsa sit. Vide ibi convenientiam qua superior esse non possit, et ipse con-
veni cum ea. Confltere te non esse quod ipsa est: siquidem se ipsa non
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quaerit; tu autem ad ipsam quaerendo venisti, non locorum spatio, sed
mentis affectu, ut ipse interior homo cum suo inhabitatore. non infima
et carnali, sed summa et spirituali voluptate conveniat. Aut si non cernis
quae dico, et an vera sint dubitas. cerne saltem utrum te de iis dubitare
non dubites; et si certum est te esse dubitantem, quaere unde sit certum;
non illic tibi, non omnino solis hujus lumen occurret, sed lumen verum
quod illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum (Joan. I, 9)...
Deinde regulam ipsam quam vides, concipe hoc modo: Omnis qui se du-
bitantem intelligit, verum intelligit, et de hac re quam intelligit certus
est, de vero igitur certus est. Omnis igitur qui utrum sit veritas dubitat, in
seipso habet verum unde non dubitet; nec ullum verum nisi veritate ve-
rum est. Non itaque oportet eum de veritate dubitare, qui potuit unde-
cumque dubitare. Ubi videntur haec. ibi est lumen sine spatio locorum et
temporum, et sine ullo spatiorum talium phantasmate. Numquid ista ex
aliqua parte corrumpi possunt. etiamsi omnis ratiocinator intereat, aut
apud carnales inferos veterascat? Non enim ratiocinatio talia fecit, sed in-
venit. Ergo antequam inveniantur, in se manent, et cum inveniuntur nos
innovant » (De vera religione, cap. XXXIX, coli. 154-5).
(38) C. Ottaviano, Metafisica dell'Essere parziale, Rondinella, Napoli
1954, p. 60.
40 ANNA ESCHER DI STEFANO
appello ad una certezza come fondamento che la garantisca, piut-
tosto che esserne garantita. A meno di richiamarsi ad un'espe-
rienza immediata di Dio, presente in se stesso nella mente : Ago-
stino parla infatti di un contatto diretto di Dio con l'anima umana,
come caso particolare dell'onnipresenza di Dio alle cose. Ma ciò
ci conduce fuori della filosofia, nel pieno terreno della mistica (39).
Alla base del problema dell'illuminazione sta perciò un altro
grosso, combattutissimo problema, quello di Dio. Tutta l'uma-
nità , volontariamente o no, consapevole della sua parzialità e fi-
nitezza, anela al trascendente : Che potrò mai dire, si chiede Ago-
stino, O Signore Dio mio, se non ch'io ignoro donde sia qua ve-
nuto in questa vita, che non so chiamare se vita mortale, o morte
vitale? Dimmi, o Dio, dì a me supplicante, dì misericordioso a me
misero, se la mia infanzia succedette a qualche età già morta, o
se non fu preceduta che da quella che io vissi nelle viscere di
mia madre. Cosa mai vi fu prima di questa vita? Forse ch'io fui
in un altro luogo? Perché non ho nessuno che me lo dica, né mio
padre, né mia madre, né l'altrui esperienza, né la mia memoria.
Può forse qualcuno essere artefice della propria creazione? Ma
da quale altre fonte potrebbe derivare la nostra esistenza e la
nostra vita, se non da Te, in cui l'essere e il vivere si identificano,
essendo Tu l'Essere sommo e la Somma Vita? (40).
Tuttavia la voce interiore (41) non basta a dare una risposta
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soddisfacente alle esigenze dell'intelletto, che richiede prove logi-
camente e filosoficamente dimostrabili (42).
Queste, le prove che Agostino porta per dimostrare l'esistenza
di Dio:
a) La mutabilità e la contingenza delle cose create, per cui
è necessaria l'esistenza di un Essere superiore che dia loro la
vita (43).
(39) Ibid., p. 61.
(40) Ibid., p. 117.
(41) Confessiones, l. I, cap. VI, nn. 9-10, col. 664.
(42) Per Agostino la verità dell'esistenza di Dio è talmente evidente
che l'ateismo è impossibile : « Haec est enim vis verae divinitatis, ut crea-
turae rationali jam ratione utenti, non omnino ac penitus possit abscondi »
(In Johan. evang., e. 17, col. 106, P.L.. Migne, 32).
(43) A proposito della dimostrazione dell'esistenza di Dio, il Gilson
osserva : « Du point de vue de la philosophie moderne, la preuve de l'exi-
stence de Dieu est l'une des ambitions les plus hautes de la métaphysique;
nulle tà che n'est plus difficile, à tei point que certains l'estiment impossi-
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 41
b) L'ordine, la finalità e la bellezza dell'universo, che pre-
sumono l'esistenza di un Autore che possieda la perfezione di que-
sti attributi (44).
e) Il consenso del genere umano (45).
d) La necessità di una verità eterna e immutabile (46).
bile. Aux jeux, de Saint Augustin et de ceux quo s'insipreront plus tard de
se pensée, prouver l'existence de Dieu semble au contraire une tà che si
facile qu'il est à peine nécessaire de s'y mployer » (Gilson, op. cit. p. 11).
(44) «Ecce sunt coelum et terra: clamant quod facta sint; mutantur
enim atque variantur. Quidquid autem factum non est, et tamen est, non
est in eo quidquam quod ante non erat, quod est mutari atque variari.
Clamant etiam quod seipsa non fecerint: Ideo sumus, quia facta sumum;
non ergo eramus antequam essemus, ut fieri possemus a nobis. Et vox di-
centium est ipsa evidentia. Tu ergo, Domine, fecisti ea qui pulcher es, pul-
chra sunt enim; qui bonus es. bona sunt enim; qui es, sunt enim. Nec ita
pulchra sunt, nec ita bona sunt, nec ita sunt, sicut tu conditor eorum,
cui comparata, nec pulchra sunt, nec bona sunt, nec sunt. Scimus haec,
gratias tibi. Et scientia nostra scientiae tuae comparata, ignorantia est »
(Confessiones, l. II, cap. IV, col. 811). E sempre nelle Confessioni: «Inter-
rogavi terram. et dixit, Non sum; et quaecumque in eadem sunt, idem con-
fessa sunt. Interrogavi mare et abyssos, et reptilia animarum vivarum et
responderunt : Non sumus Deus tuus; quare super nos. Interrogavi auras
flabiles, et inquit universus aer cum incolis suis: Fallitur Anaximenes;
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non sum Deus. Interrogavi coelum, solem, nullam, stellas; neque nos su-
mus Deum quem quaeris, inquiunt. Et dixi omnibus iis quae circumstant
fores carnis meae: Dixistis mihi de Deo meo quod vos non estis, dicite
mini de ilio aliquid. Et exclamaverunt voce magna ; Ipse fecit nos » (Ibid.,
l. X, cap. VI, col. 783).
(45) « Tu itaque. Domine Deus meus, qui dedisti vitam infanti, et cor-
pus, quod ita ut videmus instruxisti sensibus. compegisti membris, figura
decorasti, proque ejus universitate atque incolumitate omnes conatus ani-
mantis insinuasti; jubes me laudare te in istis et confiteri tibi, et psallere
nomini tuo, Altissime (Psai., XCI, 2) : quia Deus es omnipotens et bonus,
etiamsi sola ista fecisses, quae nemo alius potest facere, nisi tu. une, a quo
est omnis modus; formosissime, qui formas omnia, et lege tua ordinas
omnia» (Zbtd., l. I, cap. VII, col. 666).
(46) L'uomo non può ignorare Dio e « si tale hoc hominum genus est,
non multos parturimus : quantum videtur occurrere cogitationibus nostris,
perpauci sunt; et difficile est ut incurramus in hominem qui dicat in corde
suo, non est Deus; tamen sic pauci sunt, ut inter multos timendo hoc dicere,
in corde suo dicant, quia ore dicere non audent. Non ergo multum est quod
jubemur tolerare; vix invenitur: harum hominum genus est qui dicant
in corde suo: non est Deus» (Enarr. in Psalm. 52, cap. II, col. 613, P.L.,
Migne, 36). Però, « exceptis enim paucis in quibus natura nimium depra-
vata est, universum genus humanum Deum mundi hujus fatetur auctorem.
42 ANNA ESCHER DI STEFANO
Dio, pertanto, è concepito come « causa sustinendi, ratio in-
telligendi, ordo vivendi» (47); in Lui si assommano tutte le per-
fezioni : Egli è la Bellezza, in quanto regola il bello; è la giusti-
zia, in quanto regola il giusto. In Lui concorrono l'infinità , l'im-
mutabilità (48), l'eternità (49). Tuttavia la nostra mente non è
capace di definire positivamente la natura divina : « Cum enim
dempsero de humana scientia mutabilitatem, et transitus quosdam
a cogitatione in cogitationem, cum recolimus, ut cernamus animo
quod in contuixtu ejus paulo ante non erat, atque ita de parte in
partem crebris recordationibus transilimus; unde etiam ex parte
dicit esse Apostolus nostram scientiam (I Cor. XIII, 9) : cum ergo
haec cuncta detraxero, et relinquero solam vivacitatem certae
In hoc ergo quod fecit hunc mundum coelo terraque conspicuum, et ante-
quam imbuerentur in fide Christi, notus omnibus gentibus Deus » (In Johan.
Evang., cap. XVII, col. 1910). Pertanto solo i puri di cuore e di mente sen-
tono in sé Dio : « IUud saltem tibi certum est, Deum esse. Etiam hoc non
contemplando, sed credendo inconcussum teneo. Si quis ergo illorum insi-
pientium, de quibus scriptum est: Dixit insipicns in corde suo, non est Deus
(Psai., 52; 1), hoc tibi diceret, nec vellet tecum credere quod credis, sed co-
gnoscere utrum vera credideris; relinqueresne hominem, an aliquo modo,
quod inconcussum tenes, persuadendum esse arbitrareris; praesertim si ille
non obluctari pervicaciter, sed studiose id vellet agnoscere? » (De lib. arb.,
l. II, cap. II, col. 1242).
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(47) « Itaque si rationalis vita secundum seipsam judicat, nulla jam
est natura praestantior. Sed quia clarum est eam esse mutabilem, quando
nunc perita, nunc imperita invenitur; tanto auem melius iudicat, quanto
est peritior, et tanto est peritior quanto alicujus artis vel disciplinae vel
sapientiae particeps est: ipsius artis natura quaerenda est... Nec jam
illud ambigendum est, incommutabilem naturarti, quae supra rationalem
animam sit, Deum esse; et ibi esse primam vitam et primam essentiam, ubi
est prima sapientia. Nam haec est illa incommutabilis veritas, quae lex
omnium artium recte dicitur, et ars omnipotentis artificis. Itaque cum se
anima sentiat nec corporum speciem motumque judicare secundum seip-
sam, simul oportet agnoscat praestare suam naturam ei naturae de qua
judicat, praestare utem sibi eam naturam, secundum quam judicat, et de
qua judicare nullo modo potest » (De vera religione, capp. XXX-XXXI,
coli. 145-47).
(48) De civit. Dei, l. VIII, cap. IV, col. 228.
(49) « Sed aliae quae dicuntur essentiae sive substantiae, capiunt acci-
dentia. quibus in eis fiat vel magna vel quantacumpue mutatio: Deo au-
tem aliquid ejusmodi accidere non potest; et ideo sola est incommutabilis
substantia vel essentia, qui Deus est, cui profectio ipsum esse, unde essentia
nominata est, maxime ac verissime competit. Quod enim mutatur, non
servat ipsum esse; et quod mutari potest etiamsi non mutetur, potest quod
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 43
atque inconcussae veritatis una atque aeterna contemplatione
veritatis una atque aeterna contemplatione cuncta lustrantis; imo
non relinquero, non enim habet hoc humana scientia, sed pro
veribius cogitavero; insinuatur mihi utcumque scientia Dei : quod
tamen nomen, ex eo quod sciendo aliquid non atet hominem, po-
tuit esse rei utrique commune » (50).
E quand'anche noi riuscissimo in certo qual modo a concepire
la Sua natura non sapremmo esprimerla : « Verius enim cogitatur
Deus quam dicitur, et verius est quam cogitatur » (51).
Al mondo delle cose finite, invece, appartengono le categorie
dello spazio e del tempo. Cos'è il tempo? si chiede Agostino; se
nessuno me lo domanda, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo do-
manda, non lo so più (52). Il tempo implica il concetto di durata,
e questa è definibile in termini di brevità e lunghezza, tuttavia
questi stessi termini non possono essere applicati alla nozione del
tempo, giacché questo, sia come presente, che come passato, che
come futuro non può dirsi né breve né lungo : come può dirsi
infatti breve o lungo ciò che non è più o ciò che non è ancora? (53).
fuerat non esse: ac per hoc illud solum quod non tantum non mutatur,
verum etiam mutari omnimo non potest, sine scrupulo occurrit quod ve-
rissime dicatur esse » (De trin., l. V. cap. III, col. 912).
(50) e Nec tu tempore tempora praecedis, alioquin non omnia tempora
praecederes. Sed praecedis omnia praeterita celsitudine semper praesentis ae-
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ternitatis; et superas omnia futura, quia illa futura sunt, et cum venerint,
praeterita erunt; tu autem idem ipse es, et anni tui non deficiunt (Psal.,
CL, 28). Anni tui nec eunt nec veniunt; isti autem nostri et eunt et veniunt,
ut omnes veniant. Anni tui omnes simul stant, quoniam stant; nec euntes
a venientibus excluduntur, quia non transeunt: isti antem nostri omnes
erunt, cum omnes non erunt. Anni tui dies unus; et dies tuus non quotidie,
sed hodie, quia hodiernus tuus non cedit crastino; neque.enim succedit
hesterno. Hodiernus tuus aeternitas; ideo eoaeternum genuisti, cui dixisti,
Ego hodie genui te (Psal. II, 7; Hebr. V. 5). Omnia tempora tu fecisti, et
ante omnia tempora tu es; nec aliquo tempore non erat tempus » (Confes-
sione*, l. XI, cap. XIII, col. 815).
(51) De divers. quaest., l. II. q. II, col. 140.
(52) De trin., l. VII, cap. IV. col. 939. E altrove : « Si comprehendis,
non est Deus » (Serm., cap. CXVII. col. 663); « Deus ineffabilis est, facilius
dicimus quid non sit quam quid sit » (In Ps., LXXXV, n. 12, col. 1090);
« Omnia possunt dici de Deo, et nihil digne dicitur de Deo » (In Evang. Joa.,
cap. XIII, col. 1495).
(53) t Quid enim est tempus? Quis hoc facile breviterque explicaverit?
Quia hoc, ad verbum de ilio proferendum, vel cogitatione comprehenderit?
Quid enim familiarius et notius in loquendo commemoramus quam tem-
44 ANNA ESCHER DI STEFANO
Ammettiamo, ad es., che si possa definire lungo il passato; ma
sorge una domanda : il passato fu lungo quando era già passato, o
quando era ancora presente : evidentemente quando era ancora
presente, in quanto « tunc enim poterat esse longum, quando erat
quod esset longum; praeteritum vero jam non erat; unde nec lon-
gum esse poterat quod omnino non erat. Non ergo dicamuc, Lon-
gum fuit praeteritum tempus; neque enim inveniemus quid fuerit
longum, quando, ex quo praeteritum est, non est. Sed dicamus,
Longum fuit illud praesens tempus quia, cum praesens esset, lon-
gum erat. Nondum enim praeterierat, ut non esset, et ideo erat
quod longum esse posset. Postea vero quam praeteriit simul et
longum esse destituii, quod esse destitii » (54). E il presente può
essere definito breve o lungo? Neanche esso, in quanto il presente
non è costituito né da un anno, né da un secondo, giacché « quid-
quid ejus avolavit, praeteritum est, quidquid ejus restate futu-
rum» (55), ma «quod in nullas jam vel in minutissimam mo-
mentorum partes dividi possit» (56), e precisamente in ciò che
« nullum habet spatium » (57) : e pertanto l'istante nella sua pun-
tualità non può dirsi né lungo né breve. Ma allora cos'è il tempo?
Non è un'estensione dei corpi, ma dell'animo, il quale giudica il
passato come memoria, il presente come visione, il futuro come
attesa : « Quod autem nunc liquet et claret, nec futura sunt nec
praeterita. Nec proprie diceretum, Tempora sunt tria, praesens
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de praeteritis, praesens de praesentibus, praesens de futuris. Sunt
enim in anima tria quaedam, et alibi ea non video: prasens de
praeteritis memoria, praesens de praesensibu contuitus, praesens
de futuris exspectatio » (58).
pus? Et intelligimus utique cum id loquimur, intelligimus etiam cum alio
loquente id audimus. Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio;
si quaerenti explicare velim, nescio » (Confessiones, l. XI, cap. XIV, col. 816).
(54) « Duo... illa tempora, praeteritum et futurum, quomodo sunt,
quando et praeteritum jam non est, et futurum nondum est? Praesens
autem si semper esset, praesens, nec in praeteritum transiret; jam non es-
set tempus, sed aeternitas. Si ergo praesens, ut tempus sit, idea fit quia
in praeteritum transit; quomodo et hoc esse dicimus, cui causa ut sit illa
est, quia non erit; ut scilicet non vere dicamus tempus esse, nisi quia ten-
dit non esse ». (Ibtd.).
(55) Ibtd., cap. XV, col. 816.
(56) Ibid., col. 817.
(57) Ibtd.
(58) Ibtd., cap. XX, col. 819. L'Ottaviano fa una critica acuta della
soluzione agostiniana : « La nozione di durata lunga o breve come stato
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 45
Il mondo fisico oltre a distendersi nelle forme dello spazio e
del tempo, presenta altre caratteristiche, fra le quali la più evi-
dente è quella di essere composta da materia e forma. La materia
è elemento amorfo, che ha bisogno del connubio necessario con
la forma per assumere un qualsiasi aspetto. Non che, mette in
guardia Agostino, la materia informe fosse nel tempo prima delle
cose formate, ma insieme fu concreato e ciò che fu fatto e ciò donde
fu fatto. In un primo tempo infatti Agostino confessa che non gli
riusciva di pensare di poter sottrarre una qualche reliquia di
forma dall'oggetto, onde poter arrivare all'informe; infatti gli sem-
brava più facile negare l'esistenza di ciò che posse privo di forma,
anziché pensare qualche cosa che fosse tra la forma e il nulla. Per
questo motivo Agostino cessò di interrogare il suo spirito, orien-
tato verso la corpulenza delle immagini, e fece invece attenzione
ai corpi stessi, considerandone attentamente quella mutabilità per
cui cessano di essere quello che prima erano per cominciare ad
essere quello che non erano. E in tal modo cominciò ad intrave-
dere come il trapasso da forma a forma avvenisse attraverso qual-
che cosa di informe, e non attraverso il nulla.
Però, a questo punto, un altro problema si affacciava alla
mente di Agostino: cos'è questa mutabilità delle cose, che ha la
d'animo lungo o breve, cioè come memoria lunga o breve, attenzione lunga
o breve, in ciascuna delle quali l'animo si distenda, implica una petitto
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principii, poiché la memoria lunga si compone di diversi momenti, i quali
a loro volta si dividono in passato che non è più (come stato d'animo che
fu), in presente inesteso e in futuro che non è ancora (come stato d'animo
che fu), in presente inesteso e in futuro che non è ancora (come stato
d'animo che sarà ). E così per l'attesa lunga, nonché per l'attenzione che
dura. Dice Agostino di quest'ultima : « Et quis negat praesens tempus
carere spatio, quia in puncto praeterit? Sed tamen " perdurat " attentio,
per guani pergat abesse quod aderit » (Ibid., cap. XXVIII, col. 824); ma
come può il presente durare, se durare implica una successione di istanti,
e quindi un rinnovato dividersi dell'attenzione o presente in passato pre-
sente e futuro, spostando all'infinito il problema? Se il presente è « un
punto », come Agostino stesso dice? In altri tempini. la durata rimane
inspiegata. Il problema di render ragione del mondo come possa darsi una
durata lunga o breve che non si divida subito in passato che non è più,
futuro che non è ancora e presente inestesso, cioè che non svanisca del
tutto come durata, è insoluto » (C. Ottaviano, Metafisica dell'essere par-
ziale, Rondinella, Napoli. 1954, pp. 430-1).
46 ANNA ESCHER DI STEFANO
capacità di ricevere tutte quelle forme in cui le cose si mutano;
questo quid è forse l'anima? o il corpo? o un aspetto dell'anima o
del corpo? E Agostino risponde che, se avesse potuto, avrebbe ri-
sposto che essa è niente e qualche cosa, cioè qualcosa che è e non
è allo stesso tempo. Questo quid non può avere esistenza auto-
noma, ma è sempre concreato con la forma.
La soluzione di Agostino evidentemente non regge, in quanto
questo « quid » dall'ibrida posizione tra l'essere e il nulla, la cui
realtà viene ad identificarsi con quella della forma, in che modo
può assolvere il ruolo di spiegare il mistero della mutevolezza delle
cose? Piuttosto, bisogna forse più giustamente pensare, che Ago-
stino non volesse offrire una soluzione, una spiegazione del pro-
blema, ma che le sue parole volessero essere soltanto un atto di
umiltà , un riconoscimento di questo mistero che avvolge le cose.
Secondo Agostino il mondo fu creato non nei sei giorni de-
scritti dal Genesi, ma in un solo istante (59). Il mondo così creato
(59) Agostino esclude l'interpretazione letterale della Genesi : « Hujus
autem aetatis quasi vespera, quae utinam nos non inveniat, si tamen
nondum coepit, illa est de qua Dominus dicit: Putas cum veniet Filma
hom. inveniet fidem super terram (Lue. XVIII, 8)? Post istam vesperam
fiet mane, cum ipse Dominus in claritate venturus est: tunc requiescent
cum Christo ab omnibus operibus suis ii quibus dictum est, Estote pe-
fecti, sìcut Pater vester qui in coelis est (Matt., V, 48). Tales enim faciunt
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opera bona valde. Post enim talia opera speranda est requies in die
septimo, qui vesperam non habet. Nullo ergo modo verbis dici potest
quemadmodum Deus fecerit, et condiderit coelum et terram et omnem
creaturam quam condidit: sed ista expositio per ordinem dierum sic in-
dicat tanquam historiam rerum factarum, ut praedicationem futurorum
maxime observet » (De Genes. cantra Manica., l. I, cap. XXIII, col. 193).
E altrove : « Quarto die luminaria facta sunt, de quibus dicitur, et sint in
diebus: quid ergo volunt tres dies transacti sint luminaribus? Aut cur ista
erunt in diebus, si etiam sint istis dies esse potuerunt? An quia evidentius
productio illa temporis et morarum intervallum motu istorum luminarium
distingui ab hominibus potest? An ista dierum et noctium enumeratio ad
distinctionem valet inter illam naturam quae facta non est, et eas quae
factae sunt: ut mane nominaretur propter earum speciem factarum; ve-
pera vero propter privationem? Quia quantum attinet ad illum a quo facta
sunt, speciosa atque formosa sunt: quantum autem in ipsis est, possunt
deficere, quia de nihilo facta sunt; et in quantum non deficiunt, non
est eorum materiae, quae ex nihilo est sed ejus qui summe est, et illa
facit esse in genere et ordine suo... Si dies istos consideres, quos ortus
solis occasusque distingui!, non iste quartus, sed fortasse primus est dies;
ut eo tempore putemus ortum esse solem, quo factus est, et donec cae-
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 47
non presentava però quella varietà e complessità con cui ora si di-
spiega sotto i nostri occhi, ma conteneva soltanto la distinzione
tra terra, cielo ed acqua; di tutto il resto c'erano soltanto le ra-
gioni seminali, che poi si sarebbero dispiegate attraverso i tempi,
secondo la loro specie : le cose erano contenute virtualmente nei
loro numeri, che poi si sarebbero risolti con la virtù del tempo,
come conviene a ciascuno. Come in un grano, dice Agostino (60),
si trova in modo invisibile tutto quanto poi sorgerà col tempo nel-
l'albero, così è da pensare che il mondo, allorché Dio creò insieme
tuttte le cose, ebbe in sé quanto fu fatto in lui e con lui, allorché
fu fatto il giorno : non solo il cielo col sole e la luna e gli astri,
la cui forma è permanente nel loro moto circolare, e la terra e gli
abissi, i cui moti sono vari, e di cui le parti inferiori sono legate
all'altra parte del mondo, ma anche quelle cose che l'acqua e la
terra produssero virtualmente e casualmente, prima che con la
durata dei tempi apparissero come le vediamo in quelle opere che
Dio compie fino ad oggi (61).
A questo proposito ben dice il Boyer : « Un evoluzionismo es-
senziale e profondo rimane in questa visione del mondo. L'origine
di ciascun vivente va ricercata al di là del primo individuo e al di
là del primo seme della sua specie. La ragione seminale è una
tera sidera fierent, occidisse. Sed qui intelligit et solem alibi esse, cum
apud nos nox est, et noctem alibi esse, cum sol apud nos est, dierum
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istorum enumerationem sublimius indagabit » (De Genesi ad litt., cap. XII,
col. 235; e cap. XIII, col. 237). E conclude: «Post eam conditionem a suis
operibus requievit, non condendo aliquid amplius » (De gen. ad litt., l. V,
cap. IV, col. 325).
(60) Ibid., l. V, cap. XXIII, col. 338.
((61) Il Boyer rileva che la nozione di ragione seminale a volte si av-
vicina a quella di un seme ordinario, mentre a volte richiede l'intervento
speciale di Dio per attuare lo scopo verso cui è indirizzata. Inoltre la ra-
gione seminale si applica non solo alla produzione di un ente, ma anche ai
diversi stati di un ente, anche completo e perfetto, relativamente ai suoi
stati seguenti, per cui non si tratta di un seme qualsiasi, ma di virtualitÃ
e causalità non solo attive, ma anche passive, in tal modo l'universo si in-
dirizza verso nuove forme, delle quali possiede già le cause (op. cit., p. 74).
Tuttavia il Boyer non pensa che ciò chiuda il sistema agostiniano in un
determinismo, in quanto i movimenti degli esseri liberi rimangono liberi, e
inoltre e solo determinato il corso ordinario delle cose, e Dio interviene
soltanto per inclinare certe cause a degli effetti, di cui è stata prevista la
possibilità , ma non predeterminata la produzione. (Ibid., pp. 74-5).
48 ANNA ESCHER DI STEFANO
causa più remota e più nascosta del seme. E' una disposizione e
una virtù inserita da Dio nelle cose, al primo momento della crea-
zione e tale da produrre, sotto l'influsso almeno conservativo e di-
rettivo di Dio e attraverso l'intreccio delle attività dell'ambiente,
in un tempo determinato, il primo seme o il primo individuo di
una delle specie che oggi osserviamo » (62). Però queste parole
del Boyer non debbono farci pensare che lo studioso propenda per
la teoria evoluzionistica, in senso strettamente scientifico. Infatti
il Boyer precisa : « Sarebbe illudersi il pretendere di trovare nei
testi agostiniani la concezione di Lamarck e di Darwin, e cioè
l'evoluzione delle specie. Una tale ipotesi non poteva neppure
venirgli in mente : egli ignorava l'immensità dei tempi trascor-
si sulla terra prima dei secoli della storia e non aveva a sua
disposizione altro che l'esperienza costante degli uomini che
vedono una specie nascere da un'altra. Ed è questa esperienza
che esprimeva col dire : « Da un grano di frumento non nasce una
fava » (63). Anche il Portaltè si pone questo problema : « S'il s'agit
d'évolution athée ou d'évolution matérialiste sans à me, la question
serati ridicule, tant le róle de Dieu et de l'à me est au centre de
toute la cosmogonie et anthropologie augustinienne. Mais il est
une évolution théiste qui a pu, non sans quelque apparence, se
réclamer du docteur d'Hippone. En niant si catégoriquement les
créations sucessives n'a-t-il pas admis que le créateur a doté la
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matière d'une puissance de différenciation et de transformation
graduelles qui constitue l'évolutionnisme?... Augustin n'a pas cru
possible la transformation; mais, affirmant la fixité des espèces, il
n'admet pas que " d'un mème principe primitif ou d'un mème ger-
me, puissent sortir diverses réalités " (Martin, Saint Augustin,
p. 314). Augustin exige, pour la formation de l'univers l'interven-
tion divine immédiate, distincte du concours. Sans doute Dieu ne
crée plus, pais son action directe est parfois nécessaire pour sup-
pléer à l'impuissance des énergies cosmiques, pour amener, au
moment voulu, tel ou tel germe à son plein dévéloppement » (64).
(62) Ch. Boyer, op. cit., p. 73.
(63) Ibid., p. 72.
(64) Portaliè, op. cit, coli. 2353-4. Tesi che si accorda con quanto
aveva già affermato il Martin : « Saint Augustin voit, dans l'univers actuel,
un développemeny ininterrompu, une perpétuelle réalisation de principes
primtifs; c'est par là qu'il explique la création d'Adam et la formation
d'Eve. Il a écrit aussi plus d'une phrase qui s'entendrait fort bien au sens
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 49
Anche l'uomo è stato creato in un solo istante, dapprima « caro
humana erat pulvis aut limus, sed tamen aliquid erat unde illa
fieret, quae nondum erat » (65). Ciò per quanto riguardava il corpo;
per quel che riguardava l'anima, il problema si presentava ben più
complesso ed arduo, in quanto l'anima non poteva essere stata
creata allo stato di ragione seminale, giacché ciò avrebbe compor-
tato il problema del dove porre questa ragione. Certo non nel
limo, in quanto l'anima non poteva avere per origine la materia.
Non rimaneva che lo spirito : ma qual'è la definizione di questo
spirito, che ha per compito di portare in sé il germe dell'anima?
La conclusione logica, data l'insostenibilità di questi tentativi, era
che l'anima non avesse per sede alcunché, né avesse alcuna pro-
venienza, ma venisse ad informare il corpo, una volta che questo
fosse stato creato da Dio. I numerosi passi mostrano quanto si sia
tormentato in proposito il pensiero di Agostino (66).
La spiritualità dell'anima per Agostino è dimostrata dalla spi-
ritualità delle sue idee e dalla conoscenza in genere, che ha la sua
sede nell'anima. Essa è immortale, sia per la sua spiritualità , sia
perchè viene concepita come sede della verità e quindi come la
verità è immutabile ed eterna (67). Le facoltà dell'anima sono tre :
«révolution. Mais, d'ailleurs, saint Augustin n'est Augustin n'est pas un
naturaliste. Il a meditò en philosophe sur la constitution de l'univers, et il
est arrivé à concevoir que l'influence toujours actuelle de l'action divine
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amène, au moment voulu, tei ou tei germe à son plein développement. Si
cela seul signifie évolution, saint Augustin a été évolutionnistè. Et au con-
traire, si évolution implique trasformation, c'est-à -dire si elle implique que
d'un mème principe primitif, ou d'un mème germe, peuvent sortir diverses
réalités, saint Augustin n'a pas cru possible un tei mode d'évolution » (J.
Martin, Saint Augustin, Alcan, Paris, 1907, pp. 313-4).
(65) De Genes. ad litt., l. VI, cap. XV.
(66) De Genes. ad litt., l. X; le Epistulae, CLXIII, n. 5-11, ad Afarcel-
linum; CLXIV, ad Ewodium, n. 20; CLXVI, ad Hieronymum; CXC, ad Opta-
tum; Cont. duas epist. Pel., l. III, n. 26; Cont. Julian., l. V, n. 17; Op. imperf.
cont. Julian., l. II, n. 178; l. IV, n. 104.
(67) Cfr. De quantitate animae, cap. XIII, col. 1047, e coli. 1065-8; De
immortalitate animae, cap. VI, col. 1025. L'immortalità dell'anima è inoltre
dimostrata dall'inesauribile desiderio che ha l'uomo d'essere felice : « Cum
ergo beati esse omnes homines velint si vere volunt, profecto et esse im-
mortales volunt: aliter enim beati esse non possent. Denique et de immor-
talitate interrogati, sicut et de beatitudine, omnes eam se velle respondent.
Sed qualiscumque beatitudo, quae potius vocetur quam sit, in hac vita
quaeritur, imo vero fingitur, dum immortalitas desperatur, sine qua vera
50 ANNA ESCHER DI STEFANO
la memoria, l'intelligenza e la volontà , differenti tra loro, ma co-
stituenti un'unità inseparabile. Agostino scrive : Io ricordo di
avere memoria, intelligenza e volontà ; intendo di intendere, di
volere e di ricordare; e voglio volere, ricordare ed intendere (68).
Esaminando poi l'uomo nella sua unità senza distinzione di
anima e di corpo, Agostino distingue l'uomo prima del peccato e
l'uomo dopo il peccato. L'uomo prima del peccato era dotato di
doni e privilegi straordinari; egli era esente da morte, aveva la
possibilità di «posse non mori», in contrapposizione al «non
posse mori » degli eletti; egli era esente dalle sofferenze corpo-
rali, dalla concupiscenza, inoltre aveva impressa in sé l'immagine
di Dio; era dotato della perfetta libertà , cioè di quella libertà che
tende naturalmente verso il bene, aveva cioè la facoltà di « posse
non peccare » in contrapposizione al « non posse peccare » degli
eletti.
L'uomo dopo il peccato perdette la somiglianza con Dio, la
libertà perfetta, in cambio della quale gli rimase il libero arbi-
trio; fu destinato alla morte e fu sottoposto alle tenebre dell'igno-
beatitudo esse non potest... Nemo autem male vult immortalitatem, si ejus
humana capax est Deo donante natura: cujus si non capax est, nec beati-
tunis capax est. Ut enim homo beate vivat, oportet ut vivat » (De trin.,
l. XIII, cap. VIII, coi. 1022). Cfr. anche De cìvit. Dei, l. XIV, cap. XXV,
col. 133: «Hoc enim natura expetit, nec plene ac perfecte beate erit, nisi
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adepta quod expetit ».
(68) Il Mancini (La psicologia di S. Agostino, Napoli 1919, p. 122), il
Marcos Del Rio (El compuesto umano, segun S. Agustin, Escoriai, 1931) il
P. Girolamo De Parigi (De unione animae cum corpore in doctrina s. Au-
gustine Acta hebdomadae augustinianae thomisticae, Taurini-Romae, 1931,
pp. 217-312) ammettono l'unione sostanziale dell'anima col corpo, tenendo
fede a quanto esplicitamente Agostino dice : « homo est substantia, ratio-
nalis constans anima et corpore » (De cura pro mortuis gerenda, cap. III,
P.L., Migne, XXX, col. 595), e così pure « non enim in mente homo et in
carne non homo » (Sermo CLIV, cap. X, col. 839). Il Martin invece ob-
bietta che non si può conciliare l'unione sostanziale dell'anima col corpo
col concetto che il corpo e l'anima possano reciprocamente agire l'uno sul-
l'altra. Il Boyer propende per questa interazione e unione sostanziale, met-
tendo soprattutto in evidenza la collaborazione dell'immagine sensibile nella
formazione delle idee; corpo e anima non sono due sostanze indipendenti e
complete, presa ognuna per sé: il corpo, è vero, con le sue concupiscenze,
è spesso un impedimento, però lo stato perfetto dell'uomo, conclude il
Boyer, non è la separazione dal corpo, ma è uno stato in cui il corpo perfe-
ziona l'uomo ed è l'elemento indispensabile per il conseguimento della sua
felicità (op. cit., pp. 145 e sgg.).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 51
ranza e dell'errore. Da questo abisso lo salvò Gesù Cristo, Dio e
Uomo allo stesso tempo; che espiò per lui i suoi peccati, renden-
dolo meritevole della grazia divina. La Grazia gli restituisce quel-
l'immagine divina che Dio aveva impresso nella sua anima; inol-
tre cancella il peccato originale e dà alle sue azioni quel merito
cui prima non aveva diritto.
Agostino difese il valore della Grazia soprattutto nella pole-
mica contro Pelagio, ed a questo proposito egli esaminò il pro-
blema della predestinazione. Il genere umano dopo il peccato ori-
ginale non è che massa dannata; esso è destinato alla perdizione.
Dio avrebbe potuto abbandonare l'uomo, volontariamente colpe-
voile, al proprio destino, ma invece la Sua infinita misericordia
fece sì che alcuni fossero liberati e diede a questi i mezzi neces-
sari per salvarsi. Il motivo che portò Dio alla liberazione soltanto
di alcuni tra gli uomini dalla massa damnata resta un mistero.
Questo problema ne faceva germinare un altro, non meno in-
teressante e complesso, quello del male. Come possono conciliarsi
gli aspetti negativi del reale con l'azione causatrice di Dio? Mani-
chei da una parte e Pelagiani dall'altra, si contendevano la solu-
zione del problema e gli scritti di Agostino hanno per costante
scopo la preoccupazione di dare una risposta tanto a se stesso
quanto agli eretici. Per Agostino il male non è una sostanza, come
per i Manichei, ma un concetto negativo, una privazione. Questa,
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nel campo etico, porta per conseguenza il peccato: quel movi-
mento di avversione, che riconosciamo essere il peccato, implica
una deficienza, che ha la sua origine dal nulla e non certo da
Dio (69). Dio, cioè, crea l'individuo libero, in possesso di una
facoltà discriminatrice tra bene e male, con la conseguente re-
sponsabilità morale che questa facoltà comporta. Quindi se l'indi-
viduo inclina verso il male, la colpa non deve ascriversi a Dio, ma
a lui stesso (70).
(69) De lib. arb., l. II, cap. XX, col. 1270.
(70) Agostino distingue il male in metafisico, fisico e morale. Il male
metafisico non esiste, perché altro non è che un « defectus boni »; il male
fisico viene giustificato col concetto dell'armonia universale, alla quale si
sacrifica la perfezione del particolare; il male morale, cioè il peccato, è
l'unico male realmente esistente; esso ha come sua origine la volontà li-
bera, che è causa del peccato non positivamente ma negativamente, giac-
ché il male è non essere.
52 ANNA ESCHER DI STEFANO
Il concorso della libera azione degli uomini costituisce la
Storia. Essa è fatta dagli uomini che sono, però, in certo qual
senso, strumenti di un disegno divino, che volge anche il male in
bene, per cui ogni cosa, ogni elemento, anche se per sé manche-
vole, viene a confluire nella grandiosa armonia del tutto: la cittÃ
terrena è la condizione dell'instaurarsi della città di Dio.
* * •
Il pensiero di Agostino come quello di tutti i grandi della
storia, è stato in maniera diversa valutato ed interpretato.
Per il Boyer il carattere particolare della filosofia agostiniana
è il suo continuo ricorrere a Dio, la costante preoccupazione di
dimostrare la necessità dell'esistenza di Dio per spiegare l'esi-
stenza, la natura, l'intelligibilità , il fine degli esseri dell'esperienza :
«E' certo un fatto impressionante che un ingegno così alto abbia
sentito con tanta forza attraverso il mondo sensibile come attra-
verso il mondo dell'anima l'esigenza di una suprema realtà , im-
mutabile, perfetta e fonte di ogni cosa. Raramente la dipendenza
del creato dal Creatore è stata percepita con tanta evidenza e con
tanta pienezza come dal vescovo d'Ippona. Se egli considera la
terra nella sua bellezza e nella sua fecondità , sente una voce che
dice : « io non mi sono fatta, m'ha fatta Iddio »; se egli cerca donde
viene la certezza e l'assolutezza, cioè la verità dei nostri giudizi,
scopre sopra di sé la luce della prima e sussistente Verità ; se vuole
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appagare il desiderio del cuore umano, non trova altro oggetto
che Dio, e per sostenere ed illuminare l'azione degli esseri razio-
nali non vede altro che la legge eterna che nella mente divina
tutto regge e tutto ordina » (71). Per il Boyer, il mezzo di cui Ago-
stino si serve per quest'ascesa a Dio è quello dell'introspezione
psicologica, e il fine è quello di instaurare una filosofia dell'azione,
in modo da raggiungere quella carità che ci fa desiderare e amare
Colui che poi vedremo e che ci darà la gioia della Verità . Per cui
teocentrismo, psicologismo e attivismo sono i tre caratteri che,
per il Boyer, danno all'agostinismo una figura originale. Il Martin,
invece, mette in evidenza tre caratteri della filosofia agostiniana,
il rapporto tra Dio e l'uomo, il ruolo che in essa occupa la diffe-
renza tra la conoscenza intellettuale e la conoscenza delle cose este-
(71) Ch. Boyer, op. cit., pp. 241-2.
--.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 53
riori, e il profondo senso del mistero. «Nous sommes faits pour
Dieu, et, dans quelque condition que nous puissons vivre, nous
cherchons quelque chose de plus parfait; notre destiné mortelle
ne nous suffit pas: cet enseignement paraitra toujours juste et
fera toujours une profonde impressione... Saint Augustin avait
vu que nous avons au moins deux modes de connaissance : la con-
naissance intellectuelle ou spéculative ou métapsysique, et la con-
naissance des choses exteérieures, la physique ou la science, n'a
aucun rapport nécessaire avec la connaissance intellectuelle.
C'était là une una constatation de très grande importance, que la
postérité a méconnue... Enfin, saint Augustin a eu, surtout, le
sens du mystère; il a su et il a dit qu'au delà des explications
doctrinales les plus justes, l'intelligence réclame quelque chose de
plus parfait et qu'elle ne peut jamais y parvenir » (72).
Il Gilson, di contro ai critici che tendono a negare al pensiero
di Agostino l'impronta filosofica, afferma : « L'objection fondamen-
tale qu'on lui oppose est d'ètre en contradiction avec la notion de
philosophie, mème chrétienne. Qui dit phil Sophie dit reche che
purement rationelle, c'est-à -dire fondée sur des principes qui ne
relèvent que de la seule raison; tel que nous venons de le décrice,
au contraire, l'augustinisme exige que la raison prenne son point
de départ dans la révélation. Dans la mesure où il exprime les
tendances profondes de la doctrine, le fameux Credo ut intelligam
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manifesterait cette confusion fondamentale, puisqu'il donne pour
une méthode philosophique ce qui est la méthode par excellence
de la théologie. C'est cette dernière science, en effet, qui part nor-
malement des données de la révélation pour en explorer le con-
tnu à l'aide de la raison; ma là mème, elle accepte consciemment
de se situer sur un pian différent de celui du philosophe et de ne
pas confondre son oeuvre avec la sienne; au • contraire, viciée
qu'elle est par cette confusion primitive des genres, la doctrine de
saint Augustin s'est disqualifiée une fois pour toutes comme phi-
losophie; d'un mot la notion mème de p/iilosophte augustinienne
impliquerait contradiction » (73). Inoltre il Gilson mette anch'egli
in evidenza il carattere dinamico di questa filosofia, che costante-
mente rifiuta di separare la speculazione dall'azione (74).
(72) J. Martin, op. cit., pp. 390-4.
(73) E. Gilson, op. cit., p. 317.
(74) E il Gilson precisa : « Non que l'on puisse parler d'un primat quel-
conque de l'action dans l'augustinisme; tout au contraire, nous avons vu
54 ANNA ESCHER DI STEFANO
Anche per il Portaliè la dottrina agostiniana è essenzialmente
teologica, e si accentra sul concetto di Dio. Non che lo studioso
neghi l'esistenza di una filosofia agostiniana, ma vuole solo met-
tere in evidenza come essa sia intimamente legata alla teologia :
« Il y a donc une philosophie de saint Augustin. Mais chez lui,,
elle est si intimement liée à la theologie, que l'on ne peut les sé-
parer. Augustin n'est pas un homme que l'on puisse couper en
deux. Il y a jamais eu pour lui qu'une vérité, et cette vérité il la
saisit, il l'embrasse de toute son à me, elle est pour lui comme une
émanation de Dieu et devient la loi de son ètre » (75). Il Portaliè
inoltre precisa che la dottrina di Agostino è essenzialmente catto-
lica, opposta al protestantesimo, per cui sono arbitrari i tenta-
tivi di alcuni studiosi, i quali fanno di Agostino un precursore
della Riforma; ma sono altrettanto arbitrari i tentativi di quegli
altri critici, che, al contrario, fanno di Agostino un fondatore del
cattolicesimo. Il Reuter ad es., oppure lo Schaff, o il Dorner, o
l'Harnack. Quest'ultimo ad es. afferma che Agostino ha esercitato
su tutta la vita interiore della Chiesa, vita religiosa e pensiero
religioso, una influenza assolutamente decisiva (76).
Il De Plinval, infine, vede nella filosofia agostiniana una nota
decisamente spiritualistica (77) : « La doctrine d'Augustin est spi-
que saint Augustin subordonne expressément l'action à la contemplation.
Ce qui est vrai, c'est d'abord que, comme l'homme tout entier doit partici-
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per à la recherche. Tout l'augustinisme est une ascension vers Dieu, et
heureux son ceux qui s'élèvent vers lui par la parole et les pensées, mais
bienheureux ceux dont ce sont la vie et les actes mémes qui chantent le
Cantique des Degrés : beati ergo qui factis et moribus cantant canticum gra-
duimi! Or la caractéristique de l'augustinisme sur ce point est précisément
qu'il refuse le titre de philosophie vraie à toute doctrine qui, montrant
ce qu'il faut faire, ne nous en donne pas la force. Dès lors, la sagesse chré-
tienne mérite seule le nom de philosophie, parce qu'elle seule permet aux
vues de la contemplation de se traduire concrètment en actions » (op. cit.,
p. 319).
(75) Portaliè, op, cit., col. 2322.
(76) Harnack, Das Wesen des Christentums, 1900, p. 154.
(77) Il De Pljnval altrettanto decisamente respinge ogni definizione
esistenziale : « Sans doute, sous l'influence d'une lecture trop exclusive
des Confessions, a-t-on parfois exagéré le caractère « existentiel » de la phi-
losophie d'Augustin. C'est à tort que l'on a cru devoir le primat dans sa
penseé au sentiment de l'inquiétude. Au rebours de ce qu'ont pensé Jas-
pers et les existentialistes de notre temps, pour qui la prise de conscience
de l'angoisse serait l'unique et ultime réponse d'une expérience de la vie.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 55
ritualiste. Au dessus du domaine limité auquel s'en tiennent le
positivisme, le marxisme, le « phénoménologisme », elle élève no-
tre esprit et le porte plus loi que la science; elle nous montre
quelque chose au delà de l'horizon, plus loin que les frontières
auxquelles s'arrète l'expérience matérielle. Elle nous rappelle que
les bases et les conditions du vrai relèvent d'un ordre supérieur
exempt de variations et de vicissitudes; que nos connaissances
positives sont précisément les «dérivées» de cette valeur immua-
ble et éternelle et que les principes de notre action les póles ma-
gnétiques du eBau et du Bien se trouvent dans une sphère sous-
traite aux débilités et aux contingences de la nature humaine; que
notre pensée n'a de valeur et de garantie qu'en la Pensée di-
vine» (78).
l'inquiétude augustinienne n'exprime d'un moment d'ailleurs singulièrement
émouvant, de la réaction de l'homme. Mais, quels que soient les tristesses
de la vie ou les pressentiments de l'au-delà , c'est plutòt le sentiment ou,
mieux le sens du bonheur qui reste en nous comme une notion indéstructi-
ble au fond de l'Ã me humaine: vestige possible d'une joie perdue, espoir
d'une joie future, regret au besoin, aspiration promesse, c'est le bonheur
qui fait tout le prix de la vie » (De Plinval, op. cit., p. 220).
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(78) Ibid., pp. 228-9.
Capitolo Terzo
IL MANICHEISMO
La storia dei secoli dall'XI al XIV è caratterizzata dal presen-
tarsi nel campo religioso, e, conseguentemente, politico e sociale,
del problemi degli scismi e delle variazioni dottrinali, che furono
denominate col termine di eresie; abbiamo, cioé, un fiorire di dot-
trine che, come dice il Michel nel Dictionnaire de théologie catho-
lique, si oppongono immediatamente, direttamente e contraddit-
toriamente alla verità rivelata da Dio e proposta come autentica
dalla Chiesa.
La prima di queste eresie è la gnosi, caratterizzata da infil-
trazioni interpretative orientali nell'ancor incerto insegnamento
cristiano. Essa, come dice il Buonaiuti, è « il tentativo grandioso
di tradurre l'annuncio della salvezza cristiana in termini di me-
tafisica, e di diluire l'entusiasmo rivoluzionario suscitato dalla
speranza della Parousia, nella visione astratta di un lentissimo
processo di reintegrazione, attraverso il quale si compie l'elezione
degli elementi spirituali dispersi nel mondo, in vista di un loro
completo riassorbimento nel Plèroma » ( 1).
La nostra conoscenza su questa deviazione dottrinale è molto
relativa, e ben lontana dall'essere esauriente, poiché gli scritti gno-
stici furono distrutti dalla Chiesa, e il nostro attuale unico mezzo
di informazione è data dalle notizie riportate nelle opere degli
scrittori antignostici: Franco, Ippolito, Filastrio, Epifanio, Teodo-
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reto, che costituiscono pertanto una fonte attendibile fino ad un
certo punto (2).
(1) Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, l. I, p. 98.
(2) A questo proposito, invece, il Duprè Theseider osserva : « Come
fonte d'informazione, certo, non sono molto soddisfacenti: soprattutto per-
ché non lavorano in modo sistematico, non citano le loro fonti, non ten-
gono separate tra loro le varie scuole e sette, non distinguono i vari periodi.
Ma non si deve misurarli con il metro moderno: le nostre esigenze eri-
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 57
La più importante eresia anteriore al Concilio di Nicea è,
però, il manicheismo, che per il Duprè Theseider non è neppure
un'eresia del cristianesimo, ma qualcosa di fondamentalmente
estraneo ad essa, seppure con molti elementi derivati (3). Egli è
del parere si tratti di una delle grandi religioni dell'antichità ,
come il buddismo e lo zoroastrismo, per cui la sua azione negativa
nei riguardi del Cristianesimo agì solo all'esterno e non come
lievito interiore. Secondo il De Beausobre, invece, i Manichei
hanno molti punti in contatto con le dottrine della maggior parte
dei padri della Chiesa, e mostrano delle affinità con gli errori delle
antiche sette, e i principi del loro sistema, e teologici e filosofici,
sono derivati dalla teologia e dalla filosofia orientale (4). Noi
siamo del parere che il De Beausobre accentui troppo la relazione
tra il manicheismo e il cristianesimo, soprattutto per quel che ri-
guarda le contraddizioni e gli errori riscontrabili nel manicheismo,
tuttavia è innegabile, contrariamente a quanto afferma il Duprè
Theseider, una evidente relazione e dipendenza.
La dottrina manichea sorse nella parte meridionale della Ba-
bilonia. Il Messina mette in evidenza come questa fosse un ter-
reno fecondo di concezioni religiose e il punto di incontro dei
popoli più diversi. Aramaici, persiani e giudei vivevano gli uni
accanto agli altri e la loro fiorente attività commerciale attirava
mercanti greci e indiani, romani e cinesi. C'erano i cultori degli
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astri, ma anche i seguaci di Zarathustra. I Giudei, attaccati alla
religione dell'Antico Testamento, vi avevano una potente e florida
colonia, che contava almeno sette secoli di esistenza, traendo la
stiche non rispondono alle consuetudini di quei tempi e del resto le stesse
critiche si possono muovere a testi ben più tardi e vicini a noi. Inoltre è
da tener presente che essi non sono storici né vogliono esserlo, ma sono
polemisti, apologeti : nel migliore dei casi non esporranno gli elementi sui
quali non si può facilmente discutere o addirittura quelli che si potrebbero
anche approvare, ma solo quei punti che si prestano alla polemica e alla
demolizione. Insomma il loro quadro della gnosi è deformato, si, ma non
volutamente e non in modo irriconoscibile, è incompleto, ma non ad arte.
Lo prova il fatto che recentemente è stato ritrovato un testo gnostico, e si
è visto che Ireneo in uno dei suoi capitoli lo aveva riassunto con suffi-
ciente esattezza » (E. Duprè Theseider, Introduzione alle eresie medievali,
Patron, Bologna, 1953, pp. 29-30).
(3) Duprè Theseider, op. cit., p. 39.
(4) De Beausobre, Histoire crittque de Manichée et du Manicheisme,
Bernard, Amsterdam, 1734, p. XVI.
58 ANNA ESCHER DI STEFANO
sua origine dai prigionieri deportati da Nabuchodonosor. Pullu-
lavano poi sette minori, come quella dei battisti, i quali cercavano
la salvezza nelle frequenti abluzioni. Né mancavano i cristiani,
che si erano rapidamente diffusi in Mesopotamia, da cui avevano
tratto origine gli gnostici, che avevano diluito il loro cristianesimo
in speculazioni fantasmagoriche, svuotando la dottrina di Cristo da
ogni contenuto storico (5).
In questo ambiente nacque Mani, verso l'anno 551 dell'era dei
Greci, cioé verso il 239, 240 dell'era cristiana, come testimonia la
Cronaca di Edessa di un autore dall'incerta nazionalità , forse
siriaco o mesopotamico (6). Tuttavia questa data non è accettata
da tutti i critici e le divergenze di opinione in proposito sono note-
voli. La maggior parte delle testimonianze antiche, e per conse-
guenza le interpretazioni moderne, sono invece d'accordo sulla na-
zionalità di Mani, che viene designata come persiana (7). Il suo
primo nome fu Corbicius; secondo gli Atti Latini, o Cubricus (8),
(5) Giuseppe Messina, Cristianesimo, Buddhismo, Manicheismo, Ruf-
folo, Roma, 1947, pp. 221-222.
(6) Il De Beausobre osserva che non ci sono ragioni molto forti per
considerare falsa la testimonianza della Cronaca d'Edessa, sebbene essa
sia in contraddizione con ciò che dicono gli Atti di Archelao, secondo cui
Mani avrebbe avuto più di sessant'anni allorquando Sapor lo fece mettere
in prigione. Sapor morì verso il 271-272, e allora non aveva che 32 o 33
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anni, quindi evidentemente, conclude il De Beausobre, Mani, se fosse ve-
ramente stato di senssant'anni, non poter essere nato verso il 240, ma tren-
t'anni prima. Ad ogni modo, osserva lo studioso francese, non ci sono mo-
tivi sufficienti per accettare questa anzicché l'interpretazione della Cronaca
di Edessa, tanto più che quest'ultima è confermata da quanto racconta
Severo d'Aschomin nella sua Historia Patriarcharum Alexandrinorum, che
ci dice come Archelao, in un incontro avuto con Mani verso il 375, aven-
dogli chiesto che età avesse, ebbme come risposta : trenta cinque anni. E ciò
confermerebbe la tesi della Cronaca d'Edessa.
(7) Il De Beausobre osserva : « Cela est certain, s'ils ont entendu par
là qu'il étoit né Sujet des Rois de Perse. Mais s'ils ont voulu dire, qu'il
étoit de la Province de Fars, ou de Perse, ou de celle de Caldèe, qui est
souvent confondue avec celle de Babylone, cela paroìt confirmé par les
Actes d'Arcélaus, où cet Evéque reproche à Manichèe de ne savoir que
son Caldaique : ce qui suppose qu'il Fa cru Caldéen » (op. cit., p. 66).
(8) Il De Beausobre suppone che tanto Corbicius quanto Cubricus
siano degli errori, e che queste due parole siano una corruzione di Carcu-
bius: «ni Corbicius, ni Cuubricus n'ont point un air Orientai; cependant,
si ce sont des noms de notre Hérésiarque, ils doivent ètre Caldéens. Babylo-
niens, puis qu'il étoit de ce Pays-là » (op. cit., p. 67).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 59
secondo gli Autori Greci, e Urbicus, secondo Agostino. Archelao ci
parla della vita di Mani, e per quanto riguarda la sua dottrina,
ci informa che egli non fu né il primo né il solo a costituirla. L'au-
tore e il capo della setta, secondo Archelao, fu un certo Schythien,
del tempo degli Apostoli, uno di quei numerosi apostati che, desi-
derando arrogarsi un primato, sostituirono nei loro scritti l'errore
alla verità . Questo innovatore introdusse due principi contrari,
che egli traeva, come tutti gli altri dualisti, da Pitagora, ammet-
tendo il loro antagonismo, e tutto ciò che da questo derivava.
Scythien era della razza dei Saraceni, e dopo aver sposato una
schiava dell'alta Tebaide, decise di andare ad abitare in Egitto,
venendo a contatto qui con la saggezza del suo popolo. Dalle te-
stimonianze lasciate da coloro che lo conobbero, sappiamo che
ebbe molto talento e ricchezza. Alla sua morte un suo discepolo,
Terebinthe, che aveva scritto per lui quattro libri, « I misteri », « I
principi », l'« Evangelo », il « Tesoro », raccoglie i suoi beni e fugge
in Babilonia. Qui si vanta d'essere in possesso di tutta la saggezza
degli Egiziani, cambia quindi il suo nome in Buddha, pretende
d'esser nato da una vergine, e d'esser stato nutrito da un angelo
sulle montagne. Nonostante le accuse di Parcus e Labdacus, che
lo tacciano di menzogna, egli sbandiera la sua dottrina su ciò che
era esistito prima dei tempi, parla della sfera, e dei due luminari,
della maniera in cui le anime lasciano i corpi e li riprendono, della
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guerra ingaggiata contro Dio, cercando in tal modo di farsi pas-
sare per un profeta, ma non riesce a farsi altri discepoli all'in-
fuori di una vecchia donna. Un mattino, essendo salito su un'alta
terrazza, si mette ad invocare alcuni nomi, conosciuti soltanto dai
sette eletti, per fare non si sa quale rito o sacrificio. Su ordine di
Dio, trasmesso ad uno Spirito, egli fu precipitato dalla sommitÃ
dell'edificio, e giacque inanime. Mossa da pietà , la vecchia lo
seppellisce, ma ben presto si rallegra della sua morte, sia perché
rimane padrona di tutti i suoi beni, sia perché vedeva di maloc-
chio i suoi artifici. Rimasta sola, prende con sé un servo, e preci-
samente un bambino di sette anni chiamato Corbicius (9), che essa
affranca e fa istruire. Cinque anni più tardi, essa muore, lascian-
(9) Il De Beausobre ritiene che anche la condizione di servo che Ar-
dei Greci calunniare gli eretici, presentandoli sotto le vesti meno accet-
chelao attribuisce a Mani sia sbagliata, e si basa sul fatto che era costume
tabile.
60 ANNA ESCHER DI STEFANO
dogli i suoi beni e, tra le altre cose, gli lascia i quattro libri scritti
da Scythien. Questi libri erano brevi, ed essi non contenevano che
poche righe. Corbicius seppellisce la sua padrona, poi, mettendo a
profitto l'eredità che gli aveva lasciata, va ad abitare al centro del
paese, nel quartiere del re di Persia. In seguito egli cambia nome
e si fa chiamare Mani (10).
(10) Si pensa che egli abbia preso il nome di Mani per l'affinità che
aveva con termine Maneis, significante furia, furore. Infatti S. Agostino
osserva che i Manichei derivavano da un persiano di nome Mani, sebbene
i suoi discepoli, quando la sua pazza dottrina cominciò ad essere predicata
in Greca, preferirono chiamarlo Manicheo, per evitare che il nome Mani
suonasse come pazzo (De haeres., n. 46, col. 34). Il De Beausobre osserva:
« Manichéeétant Assyrien, ou Chaldéen, on a cherché l'étymologie de son
nom dans la langue chaldaique. St. Epiphane l'a dérivé de Man, ou Mana.
qui veut dire dans cette Langue un Vase, un Instrument, un Habit. Il
semble qu'Archélaus fait allusion à cette signification du nom de Manès,
lorsq'il lui dit dans la Dispute de Cascar, Vous ètes un Vase, un Instru-
ment de l'Antechrist. Encore n'en ètes-vous pas un Instrument honorable.
mais un sale, un indigne Instrument. Il semble aussi que S. Ephrem ait eu
cette idée dans l'esprit, lorsq'il dit, que le Démon couvrit Manès de son
propre Vetement, afin de se servir de lui comme d'un Instrument, d'un
Ministre, qui lui appartenoit et de publier par sa bouche ses propre Ora-
cles » (op. cit., p. 70). Secondo Cirillo di Gerusalemme, invece, il termine
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Mani significherebbe discorso, eloquenza, ma non c'è alcuna prova che
attesti l'attendibilità di questa versione, tanto più che Mani, in una lettera
scritta a Marcello si lagna proprio d'esser privo d'eloquenza. Il sapiente
Pearson deriva Mani da Min, che significa eretico. Ma ribatte giustamente
de De Beausobre che questa interpretazione è errata per il semplice mo-
tivo che fu Mani stesso a scegliersi questo nome, e non è attendibile che
egli stesso si definisse eretico. Nemmeno attendibile secondo il De Beau-
sobre l'intrpretazione di Thomas Hyde, secondo cui Mani significherebbe
Pittore, giacché è vero non che il termine Mani significasse pittore, ma
che solo che quest'appellativo gli fosse stato concesso dai Persiani. L'unica
accettabile è invece per il De Beausobre l'interpretazione dell'arcivescovo
Usser, il quale aveva notato che Sulpicio Severo aveva chiamato Mane
un re d'Israele, termine che proviene da Manaem, il cui significato è Para-
cleto. Consolatore. Secondo Agostino, infine: «...et per dominum vestrum
Manichaeum; qui Manes lingua patria vocabatur; sed vos ut apud Graecos
nomen insaniae vitaretis, velut declinato et prolongato nomine, quasi fu-
sionem addidistis, ubi amplius laberemini. Sic enim mihi quidam vestrum
exposuit, cur appellatus sit Manichaeus, ut scilicet in graeca lingua tan-
quam manna fundere videretur; quia Graece fundi xéslv dicitur: ubi quid
egeritis nescio, nisi ut expressius vobis somniaretis insaniam. Neque enim
addidistis in parte priore nominis unam litteram, et agnosceretur manna;
sed addidistis in posteriore duas syllabas, non appellantes Mannichaeum,
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 61
Egli assimila soprattutto il contenuto dei quattro libri, recluta
tre discepoli, chiamati Thomas, Addas ed Hermas, che diventano
complici suoi, allorquando egli traduce i quattro libri e vi ag-
giunge numerose favole, simili ai racconti delle nonne. Egli mette
dunque su questi libri il suo proprio nome, dopo aver cancellato
quello del suo predecessore, come se essi fossero stati scritti sol-
tanto da lui. Dopo egli invia i suoi discepoli con gli scritti
nei principali luoghi della provincia, in tutti i villaggi e i paesi,
per conquistare adepti. Thomas volle andare in Egitto, e Addas
in Scitia. Solo Hermas preferì rimanere con lui... Al loro ritorno
i messaggeri raccontano al Maestro che ovunque fossero andati
si erano visti esecrare da tutti, e soprattutto dagli adoratori di
Cristo. Mani e i suoi discepoli, allora, procuratisi i libri dei Cri-
stiani, li fanno copiare e Mani quindi li studia per metterli al
servizio del suo dualismo. Egli critica certi dettagli, ne modifica
altri, e prende loro solamente il nome di Cristo, al quale egli af-
fetta di tenere, al fine di far cessare l'orrore e l'avversione che
provocavano in tutti i luoghi i suoi discepoli. Dopo egli invia que-
sti ultimi a predicare i loro errori così camuffati (11).
Questa dunque la presentazione della vita e della dottrina di
Mani secondo Archelao. L'Alfaric però obbietta che sebbene que-
sta narrazione sia stata ammessa senza riserva dalla maggior parte
degli autori cristiani, che hanno scritto contro i dogmi di Mani,
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sed Manichaeum; ut nihil aliud vobis tam prolixis et vanis sermonibus
suis nisi insaniam fundere sonaret. Saepissime juratis et per Paracletum,
non sane illud quem Christus discipulis promisit et nisi; sed per eum ipsum
ut latine nomen ejus interpreter, insanifusorem » (Contra Faustum mani-
chaeum, l. XIX, cap. XXII, col. 361). Agostino dice inoltre altrove : « Mani-
chaei a quodam Persa exstiterunt, qui vocabantur Manes : quamvis et
ipsum, cum ejus insana doctrina coepisset in Graecia praedicari. Mani-
chaeum discipuli ejus appellare maluerunt, devitantes nomen insaniae. Unde
quidam eorum quasi doctiores, et eo ipso mendaciores, geminata N littera.
Mannichaeum vocant, quasi manna fundentem » (De Haeresibus, cap. XLVI,
col. 34). Interpretazione seguita dai moderni, e soprattutto dal Tillemont.
Solo il De Beausobre osserva : « Je veux croire, que quelque ignorant de
Manichéen a dit à St. Augustin ce qu'il nous rapporte : Je ne doute pas
mème que ce mauvais mot ne fùt goùté des Latins, qui n'entendoient pas
la langue graeque. Mais les habiles Manichéens n'avoient garde d'avan-
cer une si ridicule étymologie. qui auroit été siflée par les Grecs, car il
eùt follu dire Manichéeus Mannichoos et non pas Manichaios » (op. cit.,
p. 74).
(11) Acta Archelai, 51-54.
62 ANNA ESCHER DI STEFANO
influenzando perfino gli autori moderni, tuttavia esso ad un esame
più attento si rivela inverosimile. Infatti se Scythien fosse vis-
suto al tempo degli apostoli, Terebinthe, avrebbe dovuto essere
più vecchio di Mani, che è presentato nel corso della stessa opera
come un contemporaneo di Probus. Ora egli muore mentre an-
cora viveva l'eretico, che già ha sette anni, quando la vedova lo
prende con sé.
Mani stesso non- ha potuto tradurre le opere che la sua pa-
drona aveva ereditato senza possedere aliJKno due lingue. Tut-
tavia, secondo l'opinione di Archelao, egli non avrebbe conosciuto
né il greco, né il latino, né l'egiziano, ma solamente il caldaico.
Inoltre i quattro libri di Schythien non sarebbero stati composti
che di poche righe : ma come un autore iniziato alla saggezza de-
gli Egiziani avrebbe potuto essere così poco prolisso? Tuttavia,
conclude l'Alfaric, « le recit des Acta n'en est pas moins instructif.
Il montre que dans le milieu où l'ouvrage a paru on connaissait
seulement quatre grands écrits de Mani. Et il nous fournit sur
cette tétrade d'utiles renseignements » (12).
Inoltre uno storico arabo An Nadim ci riferisce in termini ben
diversi la vita di Mani : Mani, egli dice, era figlio di Fouttak BÃ bak
ben Abi Barzà m e proveniva dalla famiglia degli Askanidi. Suo
padre, invece, era originario di Harmadà n. Da qui egli si reca in
Babilonia, e precisamente a Ctesifonte. In questo paese si trovava
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il tempio degli idoli. Un giorno dal fondo del santuario una voce
gli disse : « Fouttak, non mangiare carne, non bere vino, e tienti
lontano dalle donne ». Per tre giorni consecutivi la stessa voce
si fa sentire da lui in diverse riprese. Dopo averci riflettuto su,
Fouttak raggiunse le persone della contrada di Dastou Meisà n,
conosciute sotto il nome di Moughtasilas, coloro che si purificano.
Quando sua moglie fu incinta di Mani e l'ebbe partorito, ebbe
su di lui dei bei sogni, lo vide in dormiveglia come preso da qual-
cuno che lo portava in aria e lo riportava giù. L'assenza durava
a volte un giorno o due... Più tardi il padre di Mani, allontanan-
dosi, lo portò in un luogo dove aveva dei parenti. Malgrado la sua
giovinezza, Mani vi fece conoscere le sue saggie parole. Dopo
avere compiuto il suo dodicesimo anno, ricevette, secondo la sua
stessa testimonianza, delle rivelazioni dal Re del Paradiso della
(12) Prosper Alfaric, Les écritures manichéennes, Nourry, Paris,
1919, p. 7.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 63
Luce, cioé, secondo la sua stessa espressione, dal Dio Altissimo.
L'angelo che gliele portò, si chiamava Eltawam, ciò che vuol dire
in nabateeno « il compagno ». Questo angelo gli disse : abbandona
questa comunità . Non appartieni ai suoi adepti. Il tuo compito con-
siste nel regolare i costumi e raffrenare i piaceri. Ma, a causa della
tua giovinezza, il tempo non è ancora venuto per te di entrare in
scena. Quando Mani ebbe compiuto il suo ventiquattresimo anno,
l'angelo Eltawam tornò a lui e gli disse : Il tempo è ora venuto
per te di apparire in pubblico e di proclamare la tua propria dot-
trina. Le parole che l'angelo Eltawam gli indirizzò, sono le se-
guenti : Salute a te, Mani, dalla parte mia e da parte del Signore
che mi ha a te inviato e che ti ha scelto per il Suo messaggio. Egli
ti ordina di darti al tuo insegnamento, di annunciare la gioiosa
promessa della verità che viene da lui e di darti ad essa con tutto
lo zelo possibile. Mani, raccontano i suoi discepoli, fece la sua ap-
parizione pubblica il giorno dell'avvento e dell'incoronazione di
Sapor, figlio d'Ardaschìr. Era una domenica, il primo giorno del
Nisan, e il sole era nell'ariete. Aveva due compagni che cammi-
navano al suo seguito, e seguivano la sua dottrina. L'uno si chia-
mava Simeone e l'altro Zaccheo. Al suo ritorno, riprende An Na-
dim, spinse Filouz, il fratello di Sapor, figlio di Ardaschir, ad ac-
cettare la sua dottrina. Filouz fece dei passi per farlo incontrare
con suo fratello Sapor. Quando Mani entrò dal re, dicono ancora
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i suoi discepoli, portava sulle spalle come due lampade brillanti.
Sapor, scorgendolo, gli testimoniò un'altissima stima, e lo guardò
con una considerazione più grande. Si era ripromesso di arrestarlo
e ucciderlo. Ma quando se lo trovò dinanzi, fu intimidito, lo com-
plimentò, si informò dello scopo della sua visita, e gli manifestò
la sua intenzione di convertirsi. Mani gli chiese, fra le molte altre
cose, che in Persia e nelle altre parti del regno, i suoi discepoli
fossero rispettati e potessero andare dove volevano. Saper acce-
dette a tutte le sue richieste (13).
Una lettera scritta da Mani a Marcello è invece indicativa
per quanto riguarda una conoscenza più diretta della personalitÃ
dell'eretico (14). In essa egli si nomina apostolo di Gesù Cristo, e
(13) Fluegel, op. cit., p. 85.
(14) Secondo l'Alfaric l'Epistola a Marcello è stata senza dubbio fab-
bricata dall'autore degli Acta Archelai. Il suo destinatario è un personag-
gio irreale. Egli rassomiglia singolarmente ad un personaggio dallo stesso
64 ANNA ESCHER DI STEFANO
dice d'essere stato inviato da Dio per riformare il genere umano e
liberarlo dagli errori in cui era piombato. Infatti egli osserva
che gli uomini senza discernimento credono che il Bene e il Male
provengano da una medesima causa, ammettono un solo principio
di tutte le cose, non ammettono alcuna differenza tra la Luce e
le Tenebre, tra l'Uomo interiore e l'Uomo esteriore, ingiuriando
in tal modo la bontà di Dio, in quanto Dio stesso disse per bocca
di Matteo che un albero buono non può produrre dei frutti cattivi
e un albero cattivo dei frutti buoni. I cristiani, secondo Mani,
hanno fatto di Cristo il creatore di Satana e l'autore delle sue
malvagie azioni, e hanno abbassato il Cristo al ruolo di uomo,
facendo di lui il figlio di una donna chiamata Maria, nascendo dal
suo sangue e dalla sua carne, venendo al mondo con tutte le spor-
cizie che accompagnano la nascita (15). Mani inoltre rifiutava
l'apporto della Fede, definendola credulità , celebrando invece l'im-
portanza della ragione, con cui si può e si deve spiegare ogni cosa.
Questa caratteristica della dottrina manichea ci è attestata anche
da Agostino, il quale afferma che Mani pretendeva aver ricevuto
dallo Spirito Santo la scienza «de initio, de medio et de fine » (16),
nome che è apparso già negli Acta Petri. Egli era conosciuto da Mani a
causa della grande reputazione che si era acquistato in una circostanza
manifestamente leggendaria, riscattando 7700 prigionieri che erano stati
arrestati dalla guarnigione del paese, una notte in cui questa gente pre-
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gava in pieno campo. La lettera stessa è molto povera di idee. Essa non
fa che incominciare una conferenza teologica che non ha seguito; ed è
troppo intimamente legata al racconto degli Acta per non essere come essi
una pura finzione. Tuttavia alcune sue espressioni sono dello stile mani-
cheo più puro. Forse essa si è inspirata a qualche lettera autentica (Alfa-
ric, op. cit., p. 74).
(15) De actis cum Felice manich., l. I, cap. VI, col. 523.
(16) De utilitate credendi, cap. I, col. 66. Il frammento manicheo di
Touen houang ci precisa quali siano i tre principi di cui Agostino parla
nella disputa con Felice : « Nel momento anteriore non vi è ancora i cieli
e le terre, esistono solamente, divise l'una dall'altra, la Luce e l'Oscurità .
La natura della Luce è la saggezza, la natura dell'oscurità è la stupidità . In
tutto il loro movimento e in tutto il loro riposo, non v'è caso alcuno in cui
queste due potenze si scontrano. Nel momento mediano, l'Oscurità ha in-
vaso la Luce. Essa si dà libero corso per cacciarla. La Chiarezza viene,
entra nell'oscurità e si impiega tutt'intera a respingerla. Per la grande ca-
lamità , si ha il disgusto (che fa che ci si voglia) separare dal corpo; nella
dimora infiammata, si fa il voto per il quale si cerca di fuggire. Si stanca
il corpo per salvare la natura (luminosa). La santa dottrina è fortemente
stabilita. Se si facesse del falso il vero, chi oserebbe ascoltare gli ordini
IL MANICHEISMO IN V. AGOSTINO 65
e « terribili acuctoritate separata, et mera et simplici ratione, eos,
qui se audire vellent, introducturos ad Deum, et errore omni libe-
ra turos » (17).
Riguardo gli scritti di Mani, abbiamo una testimonianza di
Epifanio, per quanto non si sappia quanto attendibilità possano
presentare le sue parole. Egli ci dice che Mani ha pubblicato di-
versi libri, e in particolare, « I Misteri di Manicheo », « II Tesoro »,
« Il Piccolo Tesoro », l'« Astrologia ». Un'antica formula greca di
abiura ci parla di quattro scritti : « L'Evangelo vivente », il « Te-
soro della Vita », « I Misteri », e « La Pragmateia ton Panton »,
enumerazione questa che concorda con quella di Archelao. S. Ago-
stino nella sua disputa contro Felice ci parla di cinque autori, e
sembra con ciò non volesse intendere cinque autori diversi, ma
cinque diversi libri, che poi Timoteo di Costantinopoli, nel VI se-
colo segnalerà come « l'Evangelo vivente », « Il tesoro della vita »,
« I libri dei Misteri », « I principi » e il « Trattato dei Giganti ». Una
formula di abiura del tempo di Photius enumera l'Evangelo vi-
vente, il « Tesoro della vita », « I Misteri », il libro delle « Cose na-
scoste » e i « Memorabili ». E verso il 1000, infine, Birouni ci dÃ
un'ultima serie : « L'Evangelo », « Lo Shà pourakòn », il « Tesoro
della vivificazione », il « Libro dei Giganti », e i « Misteri ». An
Nadim, invece, ci parla dei « Misteri », dei « Giganti », dei « Pre-
cetti », di « Shà pourakà n », della « Vivificazione », di « Farakma-
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tija»; e una lacuna nel testo fa pensare che egli avesse enume-
rato una settima opera, che si pensa possa identificarsi con
l'« Evangelo ».
Di questi libri, a parte la notevole discordanza che si trova
nella loro enumerazione, la nostra conoscenza è limitata, in quanto
gli antichi cercarono di distruggere le testimonianze della dottrina
(ricevuti?). Bisogna ben discernere e cercare le cause che liberano. Nel
momento posteriore, l'istruzione e la conversione sono compiute. Il vero
e il falso sono ritornati ciascuno alla sua radice. La luce dal suo lato è
ritornata alla grande Luce, l'Oscurità all'Oscurità . I due Principi sono ri-
costituiti » (Chavannes e Pelliot, op. cit., pp. 114-116).
(17) Contra Faustum manich., 1. XIII, cap. XVII, col 293. E il De
Beausobre : « et quoiqu'elle ne fùt pas entendue en Occident avec un gran
soin, comme des Monumens précieux des travaux, et de la Foi de leurs
Péres. Mar la méme raison, des Chrétiens qui ne savoient pas l'Hébren,
gardoient néanmoins avec respect les Originaux du Vieux Testament » (op.
cit., p. 425).
66 ANNA ESCHER DI STEFANO
manichea. Si sa con certezza, però, che essi erano scritti in di-
verse lingue. Alcuni furono scritti in persiano, sia perché l'eresia
era nata in Persia, sia perché ce ne dà testimonianza Agostino :
« Itane persicis libris jubes me credere, qui Hebreis me discis non
credere? » (18). L'eresia, però, ben presto si propagò nelle Provin-
cie della Mesopotamia e della Siria, per cui molti libri manichei
furono scritti anche in siriaco. Per la stessa ragione si ebbe anche
una produzione in greco e in latino. S. Agostino ci dice però
d'aver visto solo un'opera di Adimante e l'Epistola del Fonda-
ili) E' molto probabile che Agostino alluda all'Epistola del Fonda-
mento allorquando nel De morìbus Manichaeorum osserva che fu proposto
agli eletti manichei di vivere secondo la lettera di Mani. Questo partico-
lare, dice l'Alfaric (op. cit., p. 55), spiegherebbe perché l'opera non sia
menzionata tra le prime raccolte degli scritti maggiori dell'eretico, in
quanto essa faceva parte del volume delle Epistole. Anzi per l'Alfaric essa
si identificherebbe con la settima delle Lettere di Mani, menzionate da
An Nadim, e che si intitolerebbe, « la grande Epistola a Fouttak ». Infatti
questo nome, che era quello del padre di Mani, appare in greco, nel testo
antimanicheo, sotto la forma di Patekios, che sembrerebbe corrispondere
a quel certo Patticius cui è indirizzata l'Epistula Fundamenti (Alfaric,
op. cit., p. 59). Secondo il Cumont, l'Epistula Fundamenti, è identificata
ordinariamente con "^ xSv xeqpaXaòojv gtgXos, nominata nella lista delle opere
manichee da Timoteo e dalla Formula d'abiura. Tuttavia il titolo che
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il Fihrist dà a quest'opera, « Libro dei precetti per gli uditori e precetti
per gli eletti », sembra indicare piuttosto un trattato esponente le regole
della vita morale e religiosa ad uso delle due classi di fedeli, gli uditori
e gli eletti. Inoltre essa non è, come l'epistola latina, una lettera indiriz-
zata ad un personaggio determinato, in risposta ad una questione precisa.
Al Cumont sembra invece probabile che essa occupi il primo posto nella
collezione sacra delle epistole di Mani, cui il Fihrist dà il titolo di
« Sendschreiben von den betden Principien », cioè della luce e delle te-
nebre (Cumont, Recherches sur le manichéisme, vol. I, Lamertin, Bruxel-
les, 1908, pp. 4-5). L'Epistula Fundamenti, come viene citata da Agostino,
mostra notevoli variazioni col testo siriaco tramandatoci da Teodoro. Il
Cumont osserva in proposito che l'Epistula ha subito « dans la version
dont se sert St. Augustin un véritable remaniement. Les noms barbares
ont été remplacés par de vagues « vertus » ou puissances, et les génies
cosmiques, vivant et agissant dans la grande épopèe de Mani, sont deve-
nus de pà les abstractions sans personnalité. Nous avons affaire sans doute
à une traduction latine édulcorée d'une traduction où déjà l'esprit philo-
sophique grec avait altréré la pensée religieuse du prophète babylonien et
le goù hellénique corrigé discrétement les écarts de son imagination orien-
tale» (Cumont, op. cit., p. 6).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 67
mento (19), di cui ci riporta numerosi brani, e anche l'inizio del
Tesoro di Mani, che però non riporta nel testo originale (20), seb-
bene ce ne tramandi molti passi (21). Agostino inoltre ci informa
che fu molto numerosa la produzione letteraria dei discepoli di
Mani, di Adimanto, Agapio, Fausto, ecc. Il De Beausobre è del
parere, però, che egli non la conoscesse in maniera diretta. Ciò
che per il critico conferma questa ipotesi è il fatto che egli non
cita queste opere nelle sue dispute. Se egli avesse letto i libri della
setta, li avrebbe allegati, per giustificare e confermare le accuse
che rivolgeva loro, mettendo in contraddizione gli autori l'uno con
l'altro, rilevando le assurdità che vi avrebbe scoperto : « en un
mot, il n'est pas possible qu'il n'eùt tiré de grands avantages des
Livres des Manichéens contra les Manichéens mèmes. Or ne l'a-
yant pas fait, c'est, à min gré, une preuve certaine qu'il ne les
avoit jamais lùs. Il n'est pas possible aussi qu'il n'y eùt trouvé
des réponses à ses Objections, ce qui l'auroit engagé à les refu-
ter» (22). Ciò viene confermato, secondo il De Beausobre, da
quanto Agostino dice nella polemica con Fausto : « Voi mi alle-
gherete forse qualche libro di Mani, in cui egli dice che Cristo
non è nato da una Vergine ». E ancora : « Voi mi allegherete forse
qualche altro libro che porta il nome di un Apostolo, in cui Si
dice che Cristo non è nato da Maria ». Questi « forse » fanno pen-
sare al De Beausobre che Agostino non avesse letto né i libri di
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Mani, né gli Apocrifi dei Manichei. La principale ragione, secondo
il critico, è da ricercare nel fatto che essendo questi libri scritti
in persiano, siriaco, greco, il nostro Agostino non era in grado
(19) Il De Beausobre spiega in tal modo questa mancanza di citazioni:
e Quoiqu'il ensoit S. Augustin ne connossoit guére les Livres de la Secte,
soit parce qui n'étant qu'Auditeur, les Elùs ne les lui communiquoient pas:
ou parce qu'étant jeure et ayant bien d'autres vues que de devenir Archè-
vèque des Manichéens d'Afrique, il négligeoit cette lecture. Plein d'esprit,
et d'ambition, appliqué à l'étude de la Litérature Romaine, qui pouvoit
seule lui acquérir une réputation et une fortune brillante, il n'étoit pas
d'humeur à lire des Ecrits obscurs, des Versions barbares faites sur du
Persan, ou sur du Syriaque pour connoitre à fond les Mysteres de la plù-
part des Livres des Manichéens, dont il ne nous reste presque que les ti-
tres » (De Beausobre, op. cit., p. 426).
(20) De natura boni, cap. XLJV; De Actis cum Felice manich., cap. I,
14, ecc.
(21) De Beausobre, op. cit., p. 436.
(22) Ibid., p. 437.
68 ANNA ESCHER DI STEFANO
di leggerli (23). Ma l'accusa del De Beausobre ci appare del tutto
infondata. Non si può accusare Agostino di non aver letta alcuna
opera manichea, sia perché egli ne cita spesso dei brani, molte
volte riportando addirittura testualmente il testo, sia perché egli
dimostra evidentemente di conoscere i principi e gli assunti della
dottrina manichea, come attestano le sue frequenti contesta-
zioni, e le sue precise accuse. Oltre tutto sarebbe stato ben strano
che Agostino in nove anni non avesse letto niente della fede che
professava.
In ogni caso dalla ricostruzione che ci è possibile fare delle
opere manichee, possiamo riscontrare che queste si avvalevano di
uno stile molto semplice, affinché, loro dicevano, la verità non si
mostrasse più avvolta dal miracolo o dall'immagine, ma potesse
esser vista faccia a faccia (24).
Le notizie che noi sappiamo sui manichei provengono dalle
citazioni e dalle informazioni lasciateci dai polemisti cristiani e
non cristiani, e da alcuni manoscritti manichei scoperti a Tour-
fan (25).
Alessandro di Lycopolis, alla fine del III secolo, nel suo vo-
lume «I dogmi dei Manichei» (26), ci dà alcune notizie interes-
(23) Ci riferisce Agostino : « Hoc enim quasi proprium atque praeci-
puum auctoris sui laudibus tribuunt, quod dicunt illa quae ab anti-
quis figurate in libris divina mysteria posita sunt. huic qui ultimus ven-
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turus erat, solvenda et demonstranda esse servata : et propterea post istum
jam neminem doctorem divinitus esse venturum, quia nihil iste per alle-
gorias et figuras dixerit, cum et antiquorum quae talia fuerant aperiret,
et sua enodate manifesteque monstraret » (Cantra epistulam manichei, cap.
XXIII, col. 189). E altrove : « Tu vero praecipue Manichaeum ob hoc prae-
dicas quod non ad talia dicenda, sed potius ad solvenda ultimus venerit:
ut et figuris antiquorum apertis, et suis narrationibus ac disputationibus
evidenti luce prolatis, nullo se occultaret aenigmate. Addis eam praesum-
ptionis huius causam quod videlicet antiqui, ut figuras hujusmodi vel vide-
rent, vel agerent, vel dicerent, sciebant istum postea venturum, per quem
cuncta manifestarentur : iste autem, qui sciret post se neminem ad futu-
rum, sententias suas nullis allegoricis ambagibus texeret » (Contra Fau-
stum, l. XV, cap. VI, coli. 308-9).
(24) Per la rassegna della bibliografia manicheo ho seguito le indica-
zioni fornite dall'ALfAric.
(25) P. G. XVIII, coli. 409-448, ed. Fr. Combefis, 1672, e Collezione
Teubner, Leipzig, 1895, ed A. Brinkmann.
(26) Acta Archelai, P. G., X, coli. 1405-1528. Ed. Zacagni, 1698, C.C.S.E.
Berlino, ed. Breeson. Di quest'opera l'Alfaric ci riferisce il contenuto:
« Son oeuvre constitue une sorte de drame théologique en quatre actes.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 69
santi sulle scritture antiche e nuove, e sul manicheismo, che egli
sembra conoscere in maniera precisa. Al IV secolo risalgono gli
Acta Archelai, il cui autore è incerto, e viene da alcuni identifi-
cato con un certo Hegemonius (27). Anche al IV secolo apparten-
gono le opere di Ephrem (28), un autore siriaco, che poté leggere
nella loro lingua originale le opere manichee, lasciandocene un
interessante resoconto. Anche due contemporanei di Ephrem, Ci-
rillo di Gerusalemme (29) e Serapione di Tmuis (30), ci sono
utili per la ricostruzione del pensiero manicheo. E così pure l'opera
di un vescovo, Trrus di Bostra (31), che inoltre ci riporta una
parte dell'opera di Serapione, creduta smarrita fino a poco tempo
fa. Abbiamo, quindi, sempre nel IV secolo, Epifanio, con un trat-
tato « Contro le Eresie », che però non rivela una conoscenza di-
retta, e quindi la sua importanza per noi è molto limitata. Lo
stesso si può dire per altri autori latini dello stesso periodo, come
Ilario, Ambrogio, Gerolamo, ecc. Fra questi spicca soltanto Vit-
torino, con il suo trattato « Contro i due Principi », ma la sua te-
stimonianza difetta di precisione.
D'abord un certain Turbo, disciple de Mani, est envoyé par lui à Kanshkar
en Mésopotamie, auprès de Marcellus, un chrétien influent qu'il a mission
de convertir et il lui expose la foi nouvelle. Sur la demande de Marcellus,
l'hérésiarque lui-méme va bientót le rejjoindre et il engagé une discussion
publique avec Archlaus, l'évèque du lieu, par qui ilest très vite confondu. Il
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s'enfuit alors jujsque dans le bourg de Diodore, où, sur la demande d'un
prètre du mème nom qui l'entend exposer ses erreurs, Archelaus vient ou-
vrir avec lui un nouveau tournoi, le réfute une seconde fois et l'obblige
à retourner en Perse. Enfin, l'évèque de Kashkar raconte la vie de Mani
et à cette occasion il fait l'histoire de ses écrits » (Alfaric, op. cit., p. 112).
(27) J. e E. Assemani, Sancti Ephrem opera omnia quae exstat graece,
syriace, latine, Roma. 1732-1746, 66 voli. Cfr. anche Th. J. Lamy, S. Ep-
fraem Hymni et Sermones Molines, 1882-1902; ed anche C. W. Mitcheix,
S. Ephraim's Prose, Londres, 1912.
(28) P.G., VI, coli. 20-35.
(29) P.G., XV, coli. 900-924.
(30) Trrus di Bostra, I, 31, e III, 120; Cfr. A. Brinkmann, Serapion
von Tmuis, in « Sitzungsberichte » dell'Accademia delle Scienze di Berlino,
1894, pp. 479-491; ed. Galland, Paris, 1779; ed. Migne, P.G., XVIII, coli.
1069-1264; ed. P.A. de Lagarde, Titi Bostreni, quae ex opere contra Mani-
chaeos edito in codice Hamburgensi servata sunt graece, Leipzig, 1859;
P.A. de Lagarde, Titi Bostreni contra Manichaeos libri quatuor syriace,
Leipzig, 1859).
(31) P.L., vol. XXXII, coli. 1345-1378.
70 ANNA ESCHER DI STEFANO
Di ben altra importanza è invece la testimonianza di Agostino,
che affronta i Manichei principalmente ne « I costumi dei Mani-
chei » (32), « Sulla Genesi contro i Manichei » (33), « Sulla vera
religione » (34), « Sull'utilità di credere » (35), « Sulle due anime
contro i Manichei » (36), « Contro Fortunato, monicheo » (37), « Con-
tro Adimanto, discepolo di Mani » (38), « Contro l'Epistola di Mani,
detta del Fondamento » (39), « Contro Fausto » (40), « Contro Fe-
lice » (41), « Sulla natura del bene contro i Manichei » (42), « Con-
tro Secondino manicheo » (43), e infine in molti capitoli delle
« Confessioni », in numerosi sermoni e in molti passi di altre sue
opere, che noi riporteremo alla fine del nostro lavoro.
Di una notevole importanza è anche l'opera di Evodio, amico
di Agostino, vissuto nel V secolo, che scrisse « Contro i Mani-
chei» (44), riportando numerose citazioni dell'Epistola del Fon-
damento e del Tesoro. Sulla scia di Agostino, ma con un atteggia-
mento molto meno originale è il papa Leone. Di qualche aiuto ci
sono le Formule latine d'abiura, che i Manichei convertiti dove-
vano recitare (45).
Molto meglio informato è Teodoro, vescovo di Cyr (46), con
il suo « Riassunto delle favole eretiche », la cui data di pubblica-
zione si colloca tra il 451 e il 458. L'Alfaric è del parere che egli
espone i principi del credo manicheo in maniera troppo precisa,
cosa che porta a pensare che egli abbia utilizzato un'opera della
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setta. Tuttavia egli non ne cita e non ne menziona espressamente
nessuna (47). Altri autori di minore importanza, appartenenti al
(32) P.L., vol. XXXIV, coli. 173-220.
(33) P.L., vol. XXXIV, coli. 121-172.
(34) P.L., vol. XLII, coli. 63-92.
(35) P.L., vol. XLII, coli. 93-112.
(36) P.L., vol. XLII, coli. 11-130.
(37) P.L., vol. XLII, coli. 129-172.
(38) P.L., vol. XLII, coli. 173-206.
(39) P.L., vol. XLII, coli. 207-518.
(40) P.L., vol. XLII, coli. 519-552.
(41) P.L., vol. XLII, coli. 551-572.
(42) P.L., vol. XLII, coll. 572-602.
(43) P.L., vol. XLII, coli. 1139-1153.
(44) P.L., XLII, coli. 1153-1156 (10 articoli); P.L., vol. LXV, coli. 23-30
(21 articoli).
(45) P.G., vol. LXXXIII, coli. 377-381.
(46) Alfaric, op. cit., pp. 166-7.
(47) P.G., vol. LXXXVI, coli. 20-24.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 71
VI secolo sono Severo d'Antiochia, Eustachio, Timoteo di Costan-
tinopoli (48).
Al VI secolo appartengono anche le Formule greche di abiura,
che, nonostante gli inevitabili travisamenti, ci danno delle utilis-
sime informazioni sulla setta (49).
Visse nel VII secolo l'anonimo della « Dottrina dei Padri sul-
l'incarnazione del Verbo », scritto tra il 662 e il 679, e che riporta
alcuni brani dell'Epistola di Mani. Abbiamo anche Anastasio (50),
che fa un raffronto tra la dottrina monofisita e quella manichea.
Nell'VIII secolo abbiamo Giovanni Damasceno, con il suo
« Dialogo contro i Manichei » (51), e una « Discussione di Gio-
vanni l'ortodosso con un manicheo », in cui non vi è però al
cuna citazione. Maggiore è invece l'importanza di Teodoro bar
Khòni (52), che ci parla della vita di Mani e ci tramanda una
raccolta di opinioni blasfeme sostenute dai manichei. Al IX secolo
appartiene Niceforo, patriarca di Costantinopoli, con «Contro
Eusebio » (53), « Contro Epifanide » (54) e « Contro gli Iconocla-
sti» (55), che ci riporta dei brani delle lettere di Mani. Abbiamo
infine Pietro di Sicilia, e Phottus (56).
Questi, gli autori che ci hanno tramandato il pensiero della
dottrina manichea. Ora, riunendo i frammenti sparsi nelle opere
di Agostino, e completandoli in quelle parti dove questi vengono
meno, con quelli attinti dalle opere degli altri polemisti, cer-
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chiamo ora di ricostruire la dottrina manichea.
(48) Cfr. quanto dice l'Alfaric : « Les grands écrìts de la secte pros-
crite s'y trouvent indiqués. Plusieurs méme y sont brièvement caractérisés.
Et les dogmes fondametaux du Manichéisme y sont aussi rappelés avec des
détails précis et suggestifs, qui semblent puisés à bonne source, malgré
les altérations que leur ont fait subir des copistes distraits et ignorants »
(op. cit., p. 118).
(49) P.G., vol. LXXXIX, 102, 106, 120, 192, 218, 253, 290, ecc.
(50) P.G., vol. XCIV, coli. 1503-1584.
(51) P.G., voi. XCVI, coli. 1319-1336.
(52) H. Pognon, Inscriptions Mandaites des coupes de Khonabir, Paris,
1819; F. Cumont, Recherches sur le Manichéisme, l. I, Bruxelles, 1908.
(53) Contro Eusebio, cap. 21, 4, 42, presso Pitra, Spicil. Solesm., I,
405-406, 433, 444.
(54) Contro Epifanide, cap. 21, 29, presso Pietra, op. cit., IV, pp. 359-360,
376, 378.
(55) Contro gli Iconoclasti, Bibl. nat., mss. greci, Fondo Coslin, 93,
fol. 215 r°.
(56) P.G., vol. dV, coli. 1305-1349.
72 ANNA ESCHER DI STEFANO
Agostino inizia la propria ricostruzione della cosmologia ma-
nichea con queste parole di Mani rivolte a Patticio : Ascolta in-
nanzi tutto quali cose fossero prima della creazione del mondo,
e in che modo sia pattuito il prezzo affinché tu possa conoscere la
natura delle luci e delle tenebre (57).
In origine, racconta Mani, vi furono due sostanze, divise tra
di loro. Teneva il regno della luce il Dio Padre, perpetuo nella
sua santa stirpe; magnifico nella virtù, vero per la sua stessa na-
tura, sempre felice nella sua propria eternità , e contenente in sé
la sapienza e i sensi vitali, per mezzo dei quali egli comprendeva
anche le dodici membra della luce, che sono le ricchezze affluenti
del suo regno. In ognuna delle sue membra sono nascosti mille
infiniti e immensi tesori. Lo stesso Padre, sovrano nella sua gloria,
e incomprensibile nella sua grandezza, possiede uniti a sé i beati
e gloriosi secoli, di cui non si può stimare né il numero, né l'esten-
sione. Poiché il Santo e illustre Padre e Genitore non mancava
di nulla; nel suo insigne regno non vi era niente di indigente o di
infermo. Parimenti questo splendidissimo regno fu fondato sopra
la lucida e beata terra, che da nessuno può esser mossa o di-
strutta (58).
Agostino, però, non ci informa quali siano le membra di Dio.
Noi invece ricaviamo la loro enumerazione da Teodoro bar
Khóni, vescovo di Kashkar, che ci informa come al di fuori del
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Padre si trovino cinque dimore : l'intelligenza, la ragione, il pen-
siero, la riflessione, la volontà (59).
(57) Al che Agostino obbietta : « Jam incredibilia et falsa omnino pro-
posuit. Quis enim credat ante constitutionem mundi ullum proelium fuisse
commissum? Et tamen si est credibile, modo nos non credere, sed cogno-
scere venimus. Nam qui dicit Persas et Scythas ante multos annos secum
bellasse, rem dicit eredibilem; meam tamen quam vel auditam vel lectam
possumus credere, non expertam comprehensamque cognoscere. Cum ergo
istum repudiarem, si tale aliquid diceret; non enim ea pomisit, quae coge-
ret credere, sed quae possem sine ulla ambiguitate cognoscere: quomodo
eum non repudiabo, quando non modo incerta dicit, sed etiam incredi-
bilia? Sed quid? si aliquibus rationibus ea perspicua et cognita faciet?
(Cantra epistulam manichaei, cap. XII. col. 182).
(58) Ibid.
(59) Il Cumont ci informa a proposito delle cinque dimore di Dio, che
il termine siriaco di cui si serve Mani aveva già prima di lui un duplice
significato. Esso stava ad indicare dimora, abitazione, ma anche veniva
usato per designare la gloria o la maestà divina; il termine, cioè, è passato
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 73
Ma in una parte di quell'illustre e santa terra, continua Ago-
stino, vi era la terra profonda delle tenebre, immensa nella sua
grandezza, nella quale abitavano i corpi ignei, generi pestiferi.
Qui infinite tenebre, emananti dalla stessa natura, con i propri
prodotti. Altrove acque velenose e torbide con i loro abitanti. Più
all'interno venti terribili e veementi con il loro principe e con i
loro padri. E poi nuovamente la regione ignea e corruttibile con
i suoi duci. Allo stesso modo vi era dentro la gente caliginosa e
piena di fumo, in cui abitava l'immane principe e capo di tutti,
avente attorno a sé innumerevoli principi, dei quali egli era la
mente e l'origine. Questi erano le cinque nature della terra pesti-
fera (60), le tenebre, l'acqua, i venti, il fuoco, il fumo (61).
da una significazione materiale ad una astratta : « plus loin ces " demer-
res " sont assimilées à des " mondes " ou des " siècles " ou des " éons ",
car le mot employé ('à lam) signifie tout cela... On doit donc regarder les
les cinq ' demeures " du Pére comme étant en méme temps ses cinq attri-
buts ou, pour emprunter ce terme à la philosophie greque, ses cinq hy-
postases : l'intelligence, la raison, la pensée, la réflexion, la volonté » (Cu-
mont, op. cit., pp. 9-10).
(60) Cantra epistulam manichaei, cap. XV, col. 184. Al che Agostino
obbietta : « Dicit enim, juxta unam partem ac latus; nec dicit quam par-
tem, vel quod latus, dextrum an sinistrum. Sed quodlibet eligant, illud
certe manifestum est, non dici unum latus, nisi ubi est et alterum latus.
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Ubi autem vel tria vel plura sunt latera, aut figurae ambitus intelligitur
undique terminatus, aut si ex aliqua parte in immensum patet. ex iis tamen
quae latera dicuntur, necesse est finiatur. Dicant ergo, ex alio latere, vel
ex aliis lateribus, quid adjungebatur terrae lucis, si ex uno latere erat
gens tenebrarum? Non dicunt: sed cum praemuntur ut dicant, infinita
dicunt esse alia latera terrae illius quam lucis vocant, id est, per infinita
spatia distendi, et nullo fine cohiberi. Nec intelligunt jam non esse latera.
quod quibusvis tardis ingeniis apertissimum est. Tunc enim essent latera,
si finibus suis terminarentur. Quid ad me, inquit, si non sint latera? Sed
cum diceres, juxta unam partem ac latus, aliam quoque partem sive par-
tes, et aliud latus sive latera cogebas intelligi » (Contra epistulam mani-
chaei, cap. XX, col. 187).
(61) Agostino infatti dice : « Ho parlato di queste cose affinché la smet-
tiate una buona volta di ripeterci che la terra nella sua immensa esten-
sione e profondità sia un male; un male la mente che erra per la terra.
un male i cinque antri degli elementi, uno pieno di tenebre, uno di acque,
uno di venti, un altro di fuoco, e un altro ancora di fumo; un male gli
animali nati in ciascuno di questi elementi: i serpenti nelle tenebre, i pesci
nelle acque, gli uccelli nei venti, i quadrupedi nel fuoco, i bipedi nel
fumo » (De moribus manichaeorum, l. II, cap. IX, col. 1351).
74 ANNA ESCHER DI STEFANO
Il Re delle tenebre, però, infrange i limiti del proprio regno
e progetta di salire verso il paese della luce, sconvolgendo così
l'ordine delle cose. Allora le cinque dimore divine ebbero paura.
Ma il Padre della grandezza, dopo aver riflettuto, pensò di non
inviare nessuno di esse alla guerra, poiché esse erano state create
per la tranquillità e la pace, ma di andare egli stesso alla guerra
contro il Dio delle tenebre (62). Evocò quindi la Madre di Vita, la
Madre di Vita evocò l'Uomo Primitivo e l'Uomo primitivo evocò
i suoi cinque figli, come un uomo che riveste l'armatura per il
combattimento. Un angelo chiamato Nahashbat lo precedeva te-
nendo nella mano la corona di vittoria. L'Uomo primitivo proiettò
dinanzi a sé la sua luce e vedendola il Re delle Tenebre rifletté
e disse : ciò che ho cercato lontano l'ho trovato accanto a me (63).
Si inizia così la lotta, e, poiché, dopo alterne vicende, alla fine la
vittoria stava per rimanere in mano al dio delle tenebre, l'uomo
primitivo si dette egli stesso come alimento con i suoi cinque figli
ai cinque figli delle tenebre, come un uomo che, avendo un ne-
mico, mescola in un pasticcio un veleno mortale e glielo dà . Quando
i figli delle tenebre li ebbero mangiati, l'intelligenza fu tolta ai
cinque dei risplendenti ed essi divennero, a causa del veleno dei
figli delle tenebre, simili ad un uomo morso da un cane arrab-
biato o da un serpente (64). Le cinque specie di demoni — dice un
(62) Teodoro, in Cumont, op. cit., pp. 13-14. E in Agostino: «Lucis
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vero beatissimae pater sciens labem magnam ac vastitatem, quae ex te-
nebris surgeret, adversum sua sancta impendere saecula, nisi aliquid exi-
mium ac praeclarum et virtute potens numen obponat, quo superet simul
ac destruat stirpem tenebrarum, qua extincta perpetua quies lucis incolis
pararetur » (De natura boni, cap. XLII, col. 565).
(63) Teodoro, in Cumont, op. cit., p. 18. Al che Agostino obbietta: A
chi la si vuol dare ad intendere che nel regno delle tenebre, privo d'ogni
luce, gli animali avessero la vista così ferma, così acuta, anzi così incre-
dibile, che in mezzo alle loro tenebre scorgessero la purissima luce dei re-
gni di Dio, tanto cara a voi e la mirassero e la contemplassero e se ne
compiacessero e l'amassero, laddove i nostri occhi dopo la mescolanza
della luce, dopo la mescolanza di Dio sono diventati così impotenti, che
nelle tenebre non vediamo nulla e non possiamo reggere alla vista del sole
e distolto lo sguardo, andiamo cercando gli oggetti che vedemao prima. (De
moribus manichaeorum, l. II, cap. IX, col. 1352).
(64) E in Agostino: « Aut projicite jam libros Manichaei, quibus te-
stibus credidistis lucem pugnasse cum tenebris, quae lux ipse Deus erat;
et ut posset ligare lux tenebras, prius esse lucem a tenebris devoratam,
et ligatam, et inquinatam, et dilaniatam: quam vos manducando recreatis.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 75
manoscritto manicheo ritrovato in Cina (65) — aderirono ai cin-
que corpi luminosi come la mosca che si attacca al miele, o come
l'uccello che è trattenuto dal vischio, o come il pesce che ha in-
ghiottito l'esca. Allora l'Uomo Primitivo, ripresa la ragione, indi-
rizzò a sette riprese una preghiera al Padre della Grandezza. Que-
sti evocò come seconda creazione l'Amico delle Luci, l'Amico delle
Luci evocò il Gran Ban, il Gran Ban evocò lo Spirito Vivente.
Questi fa sorgere dalla sua intelligenza l'Ornamento di Splendore,
dalla sua ragione il grande Re d'Onore, dal suo pensiero Adams-
Luce, dalla sua riflessione il Re di Gloria e dalla sua volontà il
Portatore.
Essi vanno nella terra delle tenebre e vi trovano l'Uomo Pri-
mitivo e i suoi figli. Allora lo Spirito Vivente lo chiama ad alta
voce e l'Uomo Primitivo riesce a sganciarsi dalle strettoie del
Re delle tenebre e si eleva insieme allo Spirito Vivente verso la
et solvitis, et purgatis, et sanatis, ut vobis merces retribuatur, ne cum illa
quae liberali non potuerit, in globo aeterno damnemini » (Contra Fau-
stum, l. XIII, cap. XVIII, col. 293). Ed egli inoltre dice: Al fine di imbri-
gliare e frenare la sostanza malvagia, sempre bollente di sommo furore,
una parte di Dio venne a mescolarsi con essa, e in tal modo dalle due na-
ture commiste insieme del bene e del male fucostruito il mondo. Se non
che la parte divina si purifica ogni giorno e si restituisce alle sue sedi, ma
esalando dalla terra e tendendo verso il cielo, si imbatte nei tronchi degli
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alberi, perché questi con le loro radici si sprofondano nella terra, e così
feconda e fa prosperare tutte le erbe e tutti gli alberi donde gli animali
prendono l'alimento, e se si accoppiano imprigionano nella carne questa
parte divina, la deviano dal suo corso e l'inceppano, gettandola in mezzo
agli errori e ai dolori (De moribus manichaeorum, l. II, cap. XV, col. 1361).
Il Cumont a proposito di questa mescolanza dell'intelligenza con la na-
tura demoniaca osserva : « Le symbolisme est ici transparent et la signi-
fication de ce mythe n'a pas échappé aux commentateur grecs. En toutes
choses se mélent les principes bienfiants sont retenus captifs dans l'épais-
seur de la matière impure comme l'à me humaine l'est dans sa prison cor-
porelle. Car le monde est un grand ètre animé et l'homme un microcosme:
l'esprimt domine parfois en nous la chair, mais plus souvent la corruption
qui l'entoure l'aveugle et le pervertit. De méme. l'à me divine de l'univers
a prétendu dompter les puissances ténébreuse et s'en faire obéir " comme
d'une bète sauvage qu'une parole magique fait coucher "; mais elle mème,
déchue de sa puissance, s'est souillée à leur contact, " comme s'infecte le
contenu d'un vase malpropre " » (op. cit., p. 19).
(65) Chavannes e Pelliot, Un traité manichéen retrouvé en Chine,
nov. die. 1911, (Paris), p. 515.
76 ANNA ESCHER DI STEFANO
Madre di Vita (66). Tuttavia i cinque elementi rimangono prigio-
nieri del mondo delle tenebre. Il manoscritto di Pechino definisce
questo mondo come la farmacia in cui i corpi luminosi guariscono,
e nello stesso tempo la prigione dove i demoni oscuri li incate-
nano (67).
Lo Spirito vivente ordina allora a tre dei suoi figli di ucci-
dere, togliere la pelle agli Arconti, figli delle Tenebre, e di por-
tarla alla Madre di Vita, la quale ricopre il cielo delle loro pelli,
e fa così undici cieli. Essi gettano i loro corpi sulla terra delle te-
nebre, fanno otto terre, e i cinque figli dello Spirito Vivente sono
iniziati ognuno al loro lavoro. E' l'Ornamento di Splendore che
trattiene i cinque dei risplendenti per le reni, e al di sotto delle
loro reni i cieli furono distesi (68). E' il Portatore che, inginoc-
chiato, sostiene le terre. Quando i cieli e le terre furono fatti,
il Gran Re d'Onore si sedette nel mezzo del cielo e montò la
guardia per custodire tutti (69).
(66) Il manoscritto di Pechino li denomina il Vento Puro e la Madre
Eccellente. Agostino, invece, nel ContraFaustum (l. XX, cap. IX, col. 375)
chiama lo Spirito Vivente, « Spiritus potens ». Lo Chavannes e il Pelliot
ci riferiscono che esso probabilmente era identificato dai Manichei con lo
Spirito Santo, in quanto viene nominato in una trinità dopo il padre della
luce e il figlio della luce. Che i Manichei abbiano riconosciuto la trinità ,
ci è attestato da Fausto, il quale dice : « Noi serviamo una sola e mede-
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sima divinità dotto il triplice appellativo di Padre onnipotente, di Cristo
suo Figlio e dello Spirito Santo » (Contra Faustum, l. XX, cap. II, col. 369).
E anche Fortunato osserva : « unam fidem sectantes hujus Trinitatis, Pa-
tris, Filii et Spiritus Sancti» (Contra Fortunat., disp. I, col. 114). Agostino
stesso riconosce che « nunquam dicere ausi sunt Manichaei Patrem, Filium
et Spiritus Sanctum, nisi unius esse substantiae (Opus imperf., l. V, cap.
XXX, col. 1468).
(67) Chavannes e Pelliot, art. cit., p. 515.
(68) La versione di Agostino è un po' diversa : « Illum enim dicis ca-
pita elementorum tenere, mundumque suspendere; istum autem genufixo,
scapulis validis subbajulare tantam molem, utique ne ille deficiat » (Son-
tra Faustum, l. XV, cap. V, col. 307).
(69) Teodoro, in Cumont, op. cit., p. 26. Agostino dice : « Et spiritum
potentem de captivis corporibus gentis tenebrarum, aut potius de mem-
bra dei vestri victis atque subjectis, mundum fabricantem; et splendite-
nentem, reliquias eorundem membrorum dei vestri habentem in manu,
et caetera omnia capta, oppressa, inquinata plangentem; et Atlantem ma-
ximum subter humeris suis cum eo ferentem, ne totum ille fatigatus abjiciat,
atque ita fabula vestra velut in tapete theatrico ad illius ultimi globi
catastolium pervenire non possit » (Contra Faustum, I. XX, cap. LX, col. 375).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 77
Allora lo Spirito Vivente scoprì le sue forme ai figli delle
Tenebre, purificò una certa quantità della luce che essi avevano
assorbita, togliendola ai cinque dei risplendenti, e fece il Sole, la
Luna, e oltre questi vascelli, le stelle (70). Lo Spirito Vivente fece
le ruote del Vento, dell'Acqua e del Fuoco (71); discese e le formò
al di sotto (della terra), accanto al Portatore. Il Re di Gloria pose
su di esse un letto (72), affinchè esse salissero su questi Arconti
che erano soggiogati sulle terre, e affinché esse servissero i
cinque dei risplendenti, temendo che questi potessero bruciare a
causa del veleno degli Arconti. Allora la Madre di Vita, l'Uomo
Primitivo e lo Spirito Vivente si misero a pregare e ad implo-
rare il Padre della Grandezza; il Padre della Grandezza li sentì e
creò come terza creazione il Messaggero. Il Messaggero evocò do-
dici vergini (73) con i loro vestiti, le loro corone e le loro abitu-
(70) Agostino ci informa che la luna è costituita da acqua buona e il
sole da fuoco buono (De haeres., XCVI, col. 35). « Sed Patrem quidem ipsum
lucerei incolere credimus summam ac principalem, quam Paulus alias inac-
cessibilem vocat (Tim. VI, 16): Filium vero in hac secunda ac visibili luce
consistere; qui quoniam sit et ipse geminus, ut eum Apostolus, novit, Chris-
tum dicens esse Dei virtutem et Dei sapientiam (I Cor., I, 24); virtutem
quidem ejus in sole habitare credimus, sapientiam vero in luna : necnon
et Spiritus sancti, qui est majestas tertia, aeris hunc omnem ambitum se-
denti fatemur ac diversiorium; cujus ex viribus ne spirituali profusione, ter-
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ram quoque concipientem, gignere patibilem Jesum, qui est vita ac salus
bominum, omni suspensus ex Ugno » (Contra Faustum, l. XX, cap. II,
col. 369).
(71) e Itane tu facie ad faciem vidisti regnantem regem sceptrigerum,
floreis coronis cinctum, et deorum agmina, et splenditenentem magnum,
sex vultus et ora ferentem, micantemque lumine; et alterum regem honoris,
Angelorum exercitibus circumdatum; et alterum adamantem heroam bel-
ligerum; dextra hastam tenentem, et sinistra clypeum; et alterum gloriosum
regem tres rotas impellentem, ignis, acquae, et venti » (Ibid., l. XV, cap. VI.
col. 309).
(72) Il vocabolo è di significato oscuro.
(73) Nel manoscritto ritrovato in Cina si parla di dodici grandi reami,
formati dai cinque elementi luminosi e dai cinque membri spirituali del-
l'Inviato della Luce, più Khróstag e Padvakhtag. (Chavannes e Pelliot,
art. cit., p. 543). In proposito Agostino dice : « Per quos etiam duodecim
membra luminis sui comprehendit regni videlicet proprii divitias affluen-
tes. In unoquoque autem membrorum ejus sunt recondita millia innumera-
bilia et immensorum thesaurorum » (testo di Mani, Contra epistulam Fun-
dam », cap. XIII, coli. 182-3). E nel Contra Faustum (l. XV, cap. V, col.
307-8 : « Sequeris enim cantando, et adjungis duodecim saecula floribus
78 ANNA ESCHER DI STEFANO
dini. La prima fu la Regalità , la seconda la Saggezza, la terza la
Vittoria, la quarta la Persuasione, la quinta la Purezza, la sesta
la Verità , la settima la Fede, l'ottava la Pazienza, la nona l'Onestà ,
la decima la Bontà , l'undicesima la Giustizia, la dodicesima la
Luce (74). Allorché il Messaggero venne verso questi vascelli, cioè
a dire il Sole e la Luna, incaricò tre servitori di farli camminare
e ben tosto essi giunsero in mezzo al cielo. Allora incaricò il
Grande Ban di costruire una terra nuova e le tre ruote da mon-
tare (75). Quando i tre vascelli si trovarono in mezzo al cielo, il
Messaggero, che era bello nelle sue forme, infiammò di concupi-
scenza gli Arconti di entrambi i sessi, mostrandosi a ciascuno di
loro come un bellissimo contrapposto del loro sesso (76).
Anche Agostino ci riporta un frammento manicheo che ri-
guarda la liberazione delle particelle di luce dalle tenebre. Questo
felice Padre, che ha i vascelli luminosi per residenza e per abi-
tazione, porta soccorso con la sua clemenza abituale alla sua so-
stanza vitale, per liberarla dai suoi legami empii, dalle sue dif-
ficoltà e dai suoi tormenti. Con un segnale invisibile egli trasfi-
gura quelle delle sue virtù che si trovano nella nave brillante e le
fa apparire alle potenze avverse che sono state poste nelle di-
verse regioni del cielo. Poiché queste ultime potenze hanno i due
sessi, maschio e femmina, egli ordina alle dette Virtù di apparire
l'una sotto forma di giovanotti completamente nudi alla opposta
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stirpe delle donne, le altre sotto forma di ragazze sprovviste di
ogni velo all'opposta stirpe dei maschi. Sa bene che tutte queste
potenze nemiche, in seguito alla loro concupiscenza mortale e del
tutto immonda, si lasceranno facilmente prendere e ridurre in
schiavitù dall'apparizione di queste forme meravigliose, e fini-
ranno così per lasciarsi andare. Voi non dovete ignorare infatti,
che questo felice padre è tutt'uno con queste stesse virtù, alle quali
dà di volta in volta, per un motivo ineluttabile, l'aspetto di gio-
vanotti e quello di ragazze. Le impiega come altrettanti strumenti
convestita, et canoribus plena, et in faciem patris flores suos jactantia.
Ubi et ipsos duodecim magnos quosdam deos profiteris, ternos per quatuor
tractus, quibus ille unus circumcingitur ».
(74) La enumerazione è pressocché identica nel manoscritto cinese.
(75) « Alius rotas ignium, ventorum, et aquarum in imo versat, alius in
coelo circumiens radiis suis, etiam de cloacis membra dei vestr^ colligit »
(Ibid., l. XX, cap. X, col. 376).
(76) Teodoro, in Cumon , op. cit., pp. 27-38.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 79
di combattimento che gli permettono di realizzare i suoi progetti.
Queste virtù divine, così drizzate dinanzi alla gente infernale e
abituate ad eseguire allegramente e facilmente il loro programma
nel momento stesso in cui l'hanno concepito, riempiono i navigli
luminosi. Non appena la ragione domanda loro di apparire ai ma-
schi, queste sante virtù si fanno vedere sotto l'aspetto di ragazze.
D'altra parte, quando esse arrivano dinanzi alle donne, abbando-
nando il loro aspetto di ragazze, si mostrano sotto l'aspetto di
giovanotti interamente nudi. Dinanzi a questa visione attraente,
le cattive Potenze raddoppiano d'ardore e di concupiscenza. Il le-
game dei loro pensieri detestabili si rilassa immediatamente
l'anima vivente che restava chiusa nelle loro membra, trovandosi
liberata sfugge e si mescola all'aria purissima. Essa vi si purifica
completamente. Poi essa sale sui navigli luminosi che sono stati
preparati per imbarcarla e condurla alla sua patria. Le scorie che
conservano la lordura della gente nemica scendono in piccole parti
col fuoco e il calore e si mescolano agli alberi, alle piante e a tutte
le sementi colorandosi di tinte diverse. Così sulla grande e bril-
lante nave, le figure dei giovanotti e delle ragazze appaiono alle
potenze contrarie stabilite nel cielo che hanno una natura ignea,
e in seguito a questa apparizione attraente, fanno rilasciare e scen-
dere sulla terra, con il calore, la porzione di vita che si trova nella
membra di ciascuno di esse» (77).
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Gli Arconti cominciarono nel loro desiderio a restituire quella
luce che avevano assorbita, togliendola ai cinque dei risplendenti.
Ma il peccato che si era mescolato assieme alla Luce negli Arconti
venne fuori contemporaneamente ad essa e nella stessa propor-
zione. Il Messaggero, nascondendo la propria apparenza, separò la
Luce dei cinque dei riplendenti e il peccato che era con essi. Il pec-
cato, uscito dagli Arconti, ricadde su di loro, ma essi non lo rice-
vettero, come un uomo che abbia orrore del proprio sputo. Allora
questo peccato cadde sulla terra, metà sulla parte umida, e metÃ
sulla parte secca. (La prima) si cambiò in una bestia orribile simile
al Re delle Tenebre. Adams-Luce fu inviato contro di essa, le
diede battaglia e la vinse. La capovolse sul dorso, la colpì al cuore
con la propria lanciia, spinse il proprio scudo sulla sua bocca, mise
uno dei suoi piedi sulle sue coscie e l'altro sul suo petto. Il pec-
(77) De natura boni, cap. XLIV, col. 568.
80 ANNA ESCHER DI STEFANO
cato, che era caduto sulla parte secca si mise a germinare sotto la
forma di cinque alberi (78).
Per quanto riguarda la Luce che, liberatasi dagli Arconti,
sale in parte pura al cielo, ed in parte resta macchiata, Agostino
dice : « Id vero, quod adversi generis maculas portat, per aestus
atque calores particulatim descendit atque arboribus ceterisque
inficitur... quod vero resederit, laxatum deducitur in terram per
frigora et cunctis terrae generibus admiscetur » (79).
Le figlie delle Tenebre erano gravide di loro propria natura.
In seguito alla bellezza delle forme del Messaggero che esse ave-
vano veduta, esse abortirono e i loro feti caddero sulla terra e
mangiarono i germogli degli alberi (80). Gli aborti tennero con-
siglio tra di loro e si ricordarono della forma del Messaggero che
essi avevano vista e dissero : dov'è la forma che noi abbiamo vista?
Ashaqloun, figlio del Re delle Tenebre, disse agli aborti : datemi
i vostri figli e le vostre figlie e io vi farò una forma come quella
che voi avete vista. Quelli glieli portarono e glieli diedero. Ma
egli mangiò i maschi e diede le femmine a Namrael, sua compa-
gna. Namrael e Ashaqloun si unirono insieme; Namrael concepì
(78) « Ubi nihilominus Manichei evertit errorem, qui et grana et her-
bas et omnes radices ac frutices gentem tenebrarum dicit creare, non
Deum; et in eis formis atque generibus rerum Deum potius credit alligari,
quam horum aliquid operari » (Contra Faustum, l. XXIV, cap. II, col. 475).
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(79) De natura boni, cap. XLIV, coli. 568-9.
(80) « ... In quibus erant etiam feminae aliquae praegnantes : quae, cum
caelum rotari coepisset, eamdem vertiginem ferre non valentes, conceptus
suos abortu excussisse; eosdemque abortivos fetus et masculos et feminas de
caelo in terram cecidisse, vixisse, crevisse, concubuisse, genuisse. Hinc
esse dicunt originerei carnium omnium, quae moventur in terra, in aqua,
in aere » (Contra Faustum, l. VI, cap. VIII, col. 235). Erano animali così
robusti di corpo, dice altrove Agostino, che i loro feti abortivi, dopo che di
questi, secondo la vostra setta, fu costruito il mondo,, quantunque caduti
in terra dal cielo, pure dite che non poterono morire (De morìbus Mani-
chaeorum, l. II, cap. IX, col. 1351). Essi, continua Agostino, quantunque
precipitati dal cielo in terra, poterono nondimeno vivere e generare e con-
giungere insieme, come quelli che ritenevano il primitivo potere ricevuto
nel concepimento prima che avvenisse la mescolanza del bene e del male.
Infatti negli animali nati dopo questa mescolanza voi riconoscete quelli che
ora vediamo debolissimi e facilmente cedevoli alla corruzione; ma chi può
più credere più oltre a queste aberrazioni, se non chi nulla vede, o, per non
so quale incredibile consuetudine e dimestichezza con voi, s'incaponisce
contro ogni peso di ragione! (Ibid., col. 1353).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 81
e partorì da Ashaqloun un figlio al quale diede il nome di
Adamo; concepì e partorì una figlia alla quale diede il nome di
Eva (81).
Gesù il Luminoso si accostò all'innocente Adamo e lo risvegliò
da un sonno di morte, in modo che egli fu liberato da molti spi-
riti. Come un uomo giusto, che trova un uomo posseduto da un
demonio terribile e che lo placa con la sua arte, così era Adamo
allorché questo amico lo trovò immerso in un sonno profondo : lo
risvegliò, lo fece muovere, lo tirò fuori dal sonno, scacciò il de-
mone seduttore e incatenò lontano da lui la possente Arconte fem-
mina. Allora Adamo si esaminò lui stesso e seppe chi era. Gesù
mostrò ad Adamo i padri residenti nelle altezze del cielo, e la
sua persona esposta a tutto, ai denti della pantera e ai denti del-
l'elefante, divorata dai voraci, inghiottita dagli ingordi, mangiata
dai cani, mescolata ed imprigionata in tutto ciò che esista, legata
al fetore delle tenebre. Gesù lo fece stare in piedi e lo fece cibare
all'albero della vita. Allora Adamo guardò e pianse. Alzò forte-
mente la voce come un leone ruggente, si strappò i capelli, si
batté il petto e disse : « Maledizione, maledizione al Creatore del
mio corpo, a colui che vi ha legato la mia anima, e ai ribelli che
mi hanno asservito » (82).
(81) Il ms. di Pechino ci informa dell'origine dei due sessi con altre
parole: «Quando il demone dell'odio, il maestro della cupidigia, vide ciò,
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ne concepì dei sentimenti di rabbia e di gelosia; fece allora le forme dei
due sessi, il maschio e la femmina, al fine di imitare i due grandi vascelli
luminosi, che sono il Sole e la Luna, di sconfiggere e di turbare la natura
luminosa, in modo che essa montasse sui battelli d'oscurità , che, condotta
da essi, entrasse negli inferi, che essa trasmigrasse nelle cinque condizioni
d'esistenza, che subisse tutte le sofferenze e che in definitiva le fosse dif-
ficile essere liberata » (Chavannes e Pelliot, art. cit., pp. 533-4).
(82) Teodoro, in Cumont, op. cit., pp. 39-49. Queste parole riassumono
la valutazione d'insieme dell'eresia manichea da parte di Agostino : « ... Et
alia innumerabilia pariter inepta et insana, nec pingendo aut sculpendo,
nec interpretando demonstratis : et ea, cum omnino nulla sint, creditis et
colitis; et insuper Christianis fide non ficta pias mentes mundantibus tan-
quam temere credulis insultatis. Ut enim multa non quaeram, quibus haec
ostendantur omnino non esse, quia subtilius sublimiusque tractare de mundi
fabrica, etsi mihi difficile non esset, certe nimis longum est; hoc dico :
si ista vera sunt. Dei substantia commutabilis est, corruptibilis, coinquinabi-
lis. Hoc autem credere, plenum est sacrilegae insaniae. Illa igitur omnia
vana sunt, falsa sunt, nulla sunt. Proinde vos Paganis istis, qui vulgo noti
sunt. et antiquitus fuerunt, et in reliquiis suis jam nunc erubescunt, pror-
82 ANNA ESCHER DI STEFANO
Con questo grido di dolore si conclude la descrizione mani-
chea. Ed è questa conclusione a rendere ancora più drammatica la
realtà dell'uomo, il quale sente di dover maledire per le proprie
miserie non il tentatore, il dio delle tenebre, ma Colui che nu-
trendolo con l'albero della vita, gli diede la possibilità di conoscere
la propria miseria, e Colui che, creandolo, legò la sua anima e
quanto vi era in lui del regno della luce alla miseria del corpo, e
alla materia, frutto degli osceni aborti delle Arcontesse genitrici
di male.
sus deteriores estis, quod illi colunt ea quae dii non sunt, vos autem omnino
quae non sunt » (Contra Faustum, l. XX, cap. IX, col. 375). Agostino critica
in ogni sua parte la dottrina manichea. I punti che egli confuta sono:
a) Il problema della priorità della fede sulla ragione.
b) Il problema del male.
e) Il problema della sostanza di Dio e della sua immutabilità e in-
corruttibilità .
d) Il problema della apostolicità di Mani e della sua identificazione
con lo Spirito Paracleto.
e) Il problema della verginità di Maria.
/) Il problema dell'umanità di Cristo.
g) Il problema della concordanza del Vecchio col Nuovo Testamento.
h) Il problema morale.
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Su questi punti si soffermerà la rimanente parte del nostro lavoro.
Capitolo Quarto
RAGIONE E FEDE
Per Agostino i mezzi che la divina Provvidenza offre al-
l'uomo per la comprensione delle cose, sono l'autorità e la ra-
gione.
L'autorità rappresenta la constatazione dell'impossibilità di
una conoscenza diretta di ogni cosa, e la necessità di usufruire a
volte della testimonianza altrui : « Sicut ergo de visibilibus quae
non videmus eis credimus qui viderunt... de invisibilibus, quae
haec a nostro sensu exteriore remota sunt, iis non oportet credere,
qui haec in illo incorporeo luminose disposita didicerunt vel ma-
nentia contuentur» (1). Essa da un punto di vista strettamente
razionale è insufficiente (2), ma ha bisogno dell'aiuto della ra-
gione. Per cui la ragione segue l'autorità basandosi su determinate
argomentazioni; e la verità , già conosciuta e chiara, diventa a sua
volta somma autorità .
Il modo con cui la divina Provvidenza si interessa ai singoli
uomini e all'intero genere umano ci è rivelato dalla storia e dalle
profezie; e la comprensione di essa e degli avvenimenti in cui
essa si manifesta, sia passati che futuri, si ha più mediante il
credere che l'intendere. Naturalmente tocca a noi discernere a
(1) De civ. Dei, l. XI, cap. III, col. 518.
(2) Cfr. De libero arb., l. I, cap. III, coli. 1224-5 : t Quid, si quispiam
nos exagitet, exagerans delectationes adulterii. et quaerens a nobis cur hoc
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malum et damnatione dignum judicemus; num ad auctoritatem legis con-
fugiendum censes hominibus, jam non tantum credere, sed intelligere cu-
pientibus? Nam et ego tecum credo, et inconcusse credo, omnibusque po-
pulis atque gentibus credendum esse clamo, malum esse adulterium: sed
nunc molimur id quod in fidem recepimus, etiam intelligendo scire ac te-
nere firmissimum. Considera itaque quantum potes, et renuntia mini, qua-
nam ratione adulterium malum esse, cognoveris ».
84 ANNA ESCHER DI STEFANO
quali uomini o a quali libri dobbiamo credere per seguire il vero
culto di Dio. La prima questione che si presenta è se si debba cre-
dere a coloro che ci invitano al culto di molti dei, oppure a quelli
che ci invitano al culto di un solo Dio. Naturalmente nessuno du-
biterà che si debba seguire coloro che ci invitano al culto di un
Dio solo, giacché così come nell'ordine naturale è maggiore l'au-
torità di uno solo, che tutto riporta all'unità , e tra gli uomini non
v'é alcuna potenza nella moltitudine, se questa non è consen-
ziente, così per la religione l'autorità di coloro che conducono
all'unità , deve essere più grande e deve godere di un credito mag-
giore. Posta questa differenza, ora si tratta di vedere a chi si
debba credere, prima di iniziare un ragionamento sulle cose di-
vine; giacché nessuna autorità umana può anteporsi alla ragione
di un'anima pura che è giunta alla chiara intelligenza della verità .
Ma l'orgoglio è un grosso impedimento per il raggiungimento di
questa verità , quell'orgoglio che crea gli eretici, gli scismatici, i
circoncisi secondo la carne, gli idolatri. Tuttavia anche costoro
hanno la loro funzione, giacché, se essi non ci fossero, la ricerca
della verità sarebbe più lenta (3).
Di quest'orgoglio si erano macchiati i Manichei. Mi imbattei,
dice Agostino, in uomini superbi, carnali, cialtroni, che avevano
nella loro parola i tranelli del diavolo e la composizione di un
certo vischio risultante dalle sillabe del nome di Dio e di Cristo
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Signore, e dello Spirito Paracleto nostro consolatore. Avevano
sempre in bocca questi nomi, ma essi non erano che voci, ché il
(3) De vera rei., cap. XXV, col. 142. A proposito dell'utilità che, nono-
stante tutto, rappresentano le eresie, cfr. anche : « Sed quoniam verissime
dictum est, Oportet multas haereses esse, ut probati manifesti fiant inter
vos (Cor., XI, 19); utamur etiam isto divinae providentiae beneficio. Ex his
enim hominibus haeretici fiunt, qui etiamsi essent in Ecclesia, nihilominus
errarent. Cum autem foris sunt, plurimum prosunt, non verum docendo,
quod nesciunt; sed ad verum quaerendum carnales, et ad verum aperien-
dum spirituales catholicos excitando. Sunt enim innumerabiles in Ecclesia
sancta Deo probati viri, sed manifesti non fiunt inter nos, quamdiu impe-
ritiae nostrae tenebris delectati dormire malumus, quam lucem veritatis
intueri. Quapropter multi, ut diem Dei videant et gaudeant, per haereticos
de sommo excitantur. Utamur ergo etiam haereticis non ut eorum appro-
bemus errores, sed ut catholicam disciplinam adversus eorum insidias as-
serentes, vigilantiores et cautiores simus, etiamsi eos ad salutem revocare
non possumus » (De vera rei., cap. VIII, col. 129). Cfr. anche Ibid., cap. VI,
coli. 127-8.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 85
loro cuore era ben lungi dal vero. Verità , verità , gridavano sem-
pre, ma in essi non ve ne era ombra (4).
E Agostino affronta il problema degli argomenti su cui ri-
posa la fede cattolica in contrapposizione alla fede manichea :
«multa sunt alia quae in ejus gremio me justissime teneant. Te-
net consensio populorum atque gentium : tenet auctoritas mira-
culis inchoata, spe nutrita, charitate aucta, vetustate, firmata :
tenet ab ipsa sede Petri apostoli, cui pascendas oves suas post
resurrectionem Dominus commendavit, usque ad praesentem
episcopatum successio sacerdotum : tenet postremo ipsum Catho-
licae nomen, quod non sine causa inter tam multas haereses sic
ista Ecclesia sola obtinuit, ut cum omnes haeretici se catholicos
dici velint, quaerenti tamen peregrino alicui, ubi ad Catholicam
conveniatur, nullus haereticorum vel basilicam suam vel domum
audeat ostendere. Ista ergo tot et tanta nominis christiani charis-
sima vincula recte hominem tenent credentem in catholica Eccle-
sia, etiamsi propter nostrae intelligentiae tarditatem vel vitae me-
ritum veritas nondum se apertissime ostendat. Apud vos autem,
ubi nihil horum est quod me invitet ac teneat, sola personat ve-
ritatis pollicitatio : quae quidem si tam manifesta monstratur, ut
in dubium venire non possit, praeponenda est omnibus illis rebus,
quibus in Catholica teneor; si autem tantummodo promittitur, et
non exhibetur, nemo me movebit ab ea fide quae animum meum
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tot et tantis nexibus christianae religioni astringit» (5).
La pretesa razionalità dei Manichei non era altro che orgo-
glio, le loro spiegazioni dell'universo nient'altro che fantasie. La
delusione per Agostino fu tanto più grande, in quanto egli si era
convertito al manicheismo proprio perché attratto dalla promessa
di poter arrivare mediante la sola ragione alla scoperta della Ve-
rità . La disillusione della scoperta lo fece arrivare alla conclu-
sione che, dato che la ragione non riesce ad assolvere il ruolo che
le è stato assegnato, bisogna farla precedere dall'autorità .
Agostino smise così di correre dietro a vane parvenze, alle
chimere spacciate per realtà , e a poco a poco dalle tenebre venne
fuori la luce : « Intravi, et vidi, qualicumque oculo animae meae
supra eumdem oculum animae meae supra mentem meam, lucem
incommutabilem, non hanc vulgarem et conspicuam omni carni :
(4) Conf., l. III, cap. VI, coli. 686-7.
(5) Contra epistulam Manichaei, cap. IV, col. 175.
86 ANNA ESCHER DI STEFANO
nec quasi ex eodem genere grandior erat, tanquam si ista multo
multoque clarius claresceret, totumque occuparet magnitudine. Non
hoc illa erat, sed aliud, aliud valde ab istis omnibus. Nec ita erat
supra mentem, sicut oleum super aquam, nec sicut coelum super
terram, sed superior, quia ipsa fecit me, et ego inferior, quia factus
sum ad ea. Qui novit veritatem, novit eam; et qui novit eam, novit
aeternitatem. Charitas novit eam... Et cum te primum cognovi, tu
assumpsisti me, ut viderem esse quod viderem, et nondum me esse
qui viderem. Et reverberasti infirmitatem aspectus mei, radians
in me vehementer, et contremui amore et horrore; et inveni longe
me esse a te in regione dissimilitudinis » (6).
E così «gradatim a corporibus ad sentientem per corpus ani-
mam; atque inde ad ejus interiorem vim, cui sensus corporis exte-
riora annuntiaret: et quousque possunt bestiae; atque inde rursus
ad ratiocinantem potentiam ad quam refertur iudicandum quod su-
mitur a sensibus corporis. Quae se quoque in me comperiens mu-
tabilem, erexit se ad intelligentiam suam; et abduxit cogitationem
a consuetudine, subtrahens se contradicentibus turbis phantasma-
tum, ut inveniret quo lumine aspergeretur, cum sine ulla dubi-
ta tione clamaret incommutabile praeferendum esse mutabili; unde
(6) Conf., l. VII, cap. X, col. 742. Questo passo è stato diversamente inter-
pretato : l'Harnack (op. ctt., p. 81) lo giudica uno dei più significativi tra quelli
che narrano la conversione di Agostino; lo Scheel (Die Anschauung Au-
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gustins iiber Chrìsti Person, p. 20) definisce il problema intimo che in esso
si agita, una visione interiore, mentre il Noerregaard (Augustins religiose
Gennembrud, p. 67) la definisce una visione estatica, e il Thimme (Augu-
stins geistige Entwicklung in den ersten Jahren nach seiner Bekehrung,
Berlin, 1908, p. 16), una « vereinzelter Anschauung ». Il Misch, (Gesch. der
Autobiographie, I, p. 431), invece non pensa si possa parlare di visione, e
così pure il Mausbach (in Theoi. Revue, 1923, p. 364): il Girgensohn (Der
seelische Aufbau des religiosen Erlebens, p. 630), e il Billicsch (in Theoi.
Studien d. eost. Leogesell, n. 30, 1929, p. 80); I'Eibl propende per un'intui-
zione di tipo platonico (Augustinus und die Patristik, p. 289), e PHessen
(Die unmittelbare Gotteserkenntnis nach dem hi. Augustinus, Padeborn,
1919, p. 82) parla di una conoscenza intuitiva di Dio; e il Galli, infine
(Saggio sull'analisi psicologica dell'atto di fede in S. Agostino, in S. Ago-
stino, Pubblicazione commemorativa del XV centenario della sua morte.
Vita e Pensiero, Milano, 1931, p. 189) crede che la luce di cui Agostino
parla sia l'illuminazione che si fa nella mente umana : « Egli qui parla di
luce in senso metaforico. Benché Agostino neghi di intendere in senso fi-
gurato la illuminazione, tuttavia egli se ne serve per opporsi al materia-
lismo manicheo che concepisce Dio come una luce corporea e sensibile ».
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 87
nosset ipsum incommutabile, quod nisi aliquo modo nosset, nullo
modo illud mutabili certo praeponeret. Et pervenit ad id quod
est, in ictu trepidantis aspectus » (7), per poter arrivare finalmente
alla conclusione : « si non potes intelligere, crede ut intelligas;
praecedit fides, sequitur intellectus, ergo noli quaerere intelligere,
ut credas, sed crede ut intelligas » (8).
Numerosi i passi in cui Agostino ci parla di questo processo
attraverso cui dai legami del senso si arriva alla fede, sostenuta
dall'intelligenza. Fin dalla sua prima opera, il Contra Academicos,
Agostino affronta questo problema : « Nulli autem dubium est ge-
mino pondere nos inpelli ad discendum, auctoritatis atque ratio-
nis. Mihi autem certum est nusquam prorsus a Christi auctori-
tate discedere : non enim reperio valentiorem. Quod autem subti-
lissima ratione persequendum est; ita enim jam sum affectus, ut
quid sit verum, non credendo solum, sed etiam intelligendo ap-
prehendere impatienter desiderem; apud Platonicos me interim
quod sacris nostris non repugnet reperturum esse confido » (9).
Il problema è affrontato più ampiamente nel De ordine. In que-
st'opera Agostino afferma che la via che l'uomo può seguire,
quando lo turba la oscurità delle cose, è duplice : da una parte ia
ragione, dall'altra l'autorità . La filosofia si basa sulla ragione, tut-
tavia essa non induce a disprezzare i misteri del reale, ma indica
la via per cercare di comprenderli, tentando di scoprire quale sia
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il primo principio di tutte le cose, l'intelletto e l'onnipotenza di
Dio, e il motivo per cui Egli, sebbene cosi grande, si sia degnato
di assumere e portare per noi un corpo della nostra stessa natura;
donde l'anima abbia origine, che cosa faccia quaggiù, come operi
lontano da Dio, sino a qual punto sia mortale, e in qual modo si
dimostri la sua immortalità l'ordine che regna nell'universo, ecc.
In che rapporto stanno l'autorità e la ragione? Nel tempo
viene prima l'autorità , ma nella realtà ha precedenza la ragione.
Ora, sebbene l'autorità dei buoni sembri essere più acconcia ad
una moltitudine inesperta e la ragione più adatta alle persone
colte, tuttavia, siccome nessun uomo diventa sapiente senza es-
sere stato prima ignorante, e nessun ignorante sa come egli si
debba presentare ai suoi insegnanti e con qual genere di vita
(7) Coni., l. VII, cap. XVII, col. 745.
(8) In Joann. Traci., cap. XXIX, col. 1630.
(9) Contra Academicos, l. III, cap. XX, col. 957.
88 ANNA ESCHER DI STEFANO
egli possa prepararsi alla scienza, ne consegue che a tutti quelli
che desiderano imparare quali sono i beni grandi e misteriosi, sol-
tanto l'autorità può dischiuderne le porte. Chiunque avrà seguito
i precetti di un'ottima vita, può imparare quanto ragionevoli siano
quelle cose che gli aveva prima accettato fideisticamente, senza
comprenderle, e cosa sia la stessa ragione, e quale il principio del-
l'universo. In questa vita solo pochi possono arrivare ad un tal
grado di conoscenza, e anche nell'altra vita nessuno può progre-
dire al di là di essa. Coloro che invece si accontentano della sola
autorità e costantemente si dedicano ai buoni costumi e perse-
guono retti desideri, e o sdegnano le discipline liberali, o non
possono essere istruiti in esse, non si possono chiamare veramente
beati finché vivono tra gli uomini, sebbene essi credano che ap-
pena avranno lasciato questo corpo, quanto più o meno bene si
comporteranno nella vita, tanto più o meno facilmente saranno
liberati.
L'autorità può essere sia divina, che umana; ma la vera, sicura
e somma autorità è la divina. Naturalmente non si debbono defi-
nire come segni dell'autorità divina le divinazioni o le profezie,
ma ciò che non solo trascende ogni umana facoltà indirizzata verso
i segni sensibili, ma guida lo stesso uomo e gli mostra fino a qual
punto essa si sia abbassata per lui; gli comanda inoltre di non farsi
trattenere dai sensi, ma di ascendere fino all'intelletto, dimo-
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strando ciò che essa possa fare quaggiù e il perché lo fa. Infatti
è necessario che l'autorità divina ci insegni coi fatti la sua po-
tenza, con l'umiltà la sua clemenza e coi precetti la sua natura;
tutte cose che ci sono trasmesse, in modo più profondo e solido
dalle sacre verità cui siamo iniziati, e in cui la vita dei buoni assai
facilmente si purifica, non per tortuosità di dispute, ma per l'au-
torità dei misteri. L'autorità umana, invece, molto spesso si in-
ganna, tuttavia hanno più probabilità di esser creduti coloro che
enunciano prove delle loro dottrine, e non vivono in modo di-
verso da come affermano nei loro insegnamenti. E costoro saranno
ancora più stimati se, avendo dei beni di fortuna, li usano sag-
giamente (10).
Il rapporto tra fede e ragione viene affrontato però in maniera
più ampia e decisa sopratutto nel De utilitate credendi.
(10) De ordine, l. II, cap. V e cap. IX. coli. 1001 e 1007.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 89
I Manichei, dice Agostino, inveiscono contro coloro che cer-
cano di arrivare alla comprensione della fede cattolica seguendo
innanzitutto l'autorità , anzicché la ragione. Mentre, invece, dal
canto loro promettono di mettere da parte il terrore dell'autoritÃ
e con la sola e semplice ragione liberare da ogni errore coloro che
li vogliono udire e così condurli fino a Dio, di eliminare cioè ogni
superstizione, facendo precedere la ragione alla fede. Però, ben
presto, nonostante la sicurezza con cui bandivano queste idee, essi
dimostrarono di essere molto più abili e loquaci nel confutare gli
altri, anzicché essere fermi e sicuri nella dimostrazione delle loro
idee (11). Inoltre, esser credente non significa esser credulo, giacché
mentre il primo presta fede per incapacità di distinguere il vero
dal falso, il secondo crede solo a ciò che presenta dei motivi di credi-
bilità . Tanto più che il credere è un fattore necessario della vita so-
ciale : l'amicizia, ad es., esige che l'amico creda all'amico, e anche
per i figli è necessario credere ai genitori : « nam quis insanus eum
culpandum putet, qui eis officia debita impenderit quos parentes
esse crediderit, etiamsi non essent? Quis contra non exterminan-
dum judicaverit; qui veros fortasse parentes minime dilexerit,
dum ne falsos diligat metuit? » (12). Gli esempi potrebbero essere
numerosissimi, e tutti varrebbero a dimostrare che non esisterebbe
più alcun vincolo nell'ambito della società umana, se si dovesse
credere solo a ciò che riusciamo a comprendere mediante la ra-
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gione. Anche colui che ci rivela la religione compie un atto di
fede; infatti, malgrado sia peggior cosa rivelare la religione ad
un indegno che credere a chi la rivela, pure colui che la trasmette
crede nella sincerità di intendimenti di chi ascolta. Ed allora, dice
Agostino : « nonne est aequius ut etiam tu credas mihi, cum tu be-
neficium, si aliquid veri teneo, sis accepturus, daturus ego? » (13).
Certo sarebbe meglio conoscere le verità supreme mediante la ra-
gione, dimostrarne razionalmente la validità e la fondatezza, ma
non tutti ne sono capaci : bisogna allora negare la religione a tutti
coloro che non sono forniti di un'intelligenza aperta? O non è piut-
tosto preferibile condurli gradatamente, passo per passo, fino al-
l'altezza della comprensione dei misteri? Ma nessuno potrà com-
prendere queste verità , se prima non crederà di esser capace di
(11) De utilitate credeneli, cap. II, col. 68.
(12) Ibìd., cap. XII, col. 84.
(13) Ibid., cap. X, col. 81.
90 ANNA ESCHER DI STEFANO
comprenderle. Del resto, anche a coloro che riescono a penetrare
con la ragione i misteri divini non nuocerà seguire la via di coloro
che hanno cominciato facendo precedere la fede alla ragione. Men-
tre, qualora non lo facessero, sarebbero di cattivo esempio per tutti
gli altri. Esortazione, questa, a quell'equilibrio di orgoglio e umiltÃ
cui deve improntarsi la vita. Non bisogna né scoraggiarsi, né ar-
dire troppo : non scoraggiarsi, per poter più facilmente riuscire,
non ardire troppo per non rimanere a mani vuote, dopo essersi
bruciate le ali.
Ma a questo punto sorge una difficoltà : lo stolto come può
conoscere ciò che è saggio? Lo stolto, infatti, è proprio colui che
non riconosce la saggezza, non la discerne, né la possiede. Infatti
per poter attraverso alcuni segni conoscere una realtà , bisogna
conoscere la realtà stessa, di cui quelli sono i segni: ma lo stolto
ignora la saggezza, giacché il suo occhio interiore non riesce a
penetrarla, e finché l'ignora, non può riconoscerla : « non potest.
quamdiu stultus est, quisquam certissima cognitione invenire sa-
pientem, cui obtemperando tanto stultitiae malo liberetur» (14).
Ma è Dio che, col suo aiuto, ci libera da questa immensa difficoltà ,
tanto più che se non si dovesse credere a nulla, non crederemmo
neppure che esista la religione, e quindi non la cercheremmo. Ma
se la cerchiamo, vuol dire che crediamo nella sua esistenza, per
cui è sempre su un atto di fede iniziale che costruiamo la nostra
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ricerca.
La religione, dice Agostino, cui dobbiamo credere, è quella
che presenta maggiori motivi di credibilità , e questa religione è
quella rivelata da Cristo; infatti essa si poggia sulla testimonianza
delle genti convertitesi ai misteri della Chiesa cattolica : « Cur
non igitur apud eos potissimum diligentissime requiram, quid
Christus praeceperit, quorum auctoritate commotus, Cristum ali-
quid utile praecepisse jam credidi? » (15).
E gli eretici hanno torto se affermano che non si deve cre-
dere neanche a Cristo, se prima non se ne è dimostrata la ragione :
«Nam id adversus nos pagani quidam dicunt, stulte quidem, sed
non sibi adversi, nec repugnantes. Hos vero quis ferat ad Christum
se pertinere profiteri, qui nisi apertissimam rationem stultis de
(14) Ibid., cap. XIII, col. 86.
(15) Ibid., cap. XIV, col. 87.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 91
Deo protulerint, nihil credendum esse contendunt? At ipsum vi-
demus quantum illa, cui et ipsis credunt, docet historia, nihil prius,
neque fortius, quam credi sibi voluisse : cum illi nondum essent
idonei, cum quibus ei res esset, ad divina percipienda secreta » ( 16).
Tanto più che la verità delle parole di Cristo ci è dimostrata
dai miracoli con cui Egli operò. Cristo coi miracoli si acquistò l'au-
torità , con l'autorità meritò la fede, con la fede radunò attorno
a sé la moltitudine dei fedeli, con l'appoggio di questa moltitudine
ottenne vetustà , e con la vetustà consolidò la religione, «quam
non solum haereticorum ineptissima novitas fraudibus agens, sed
nec gentium quidem veternosus error violenter adversans, aliqua
ex parte convelleret» (17).
La divina Provvidenza, conclude Agostino, servendosi dei va-
ticini dei Profeti, dell'umanità e della dottrina di Cristo, dei viaggi
degli Apostoli, delle accuse, delle croci, del sangue, della morte
dei Martiri, della vita ammirabile dei Santi, e in tutte queste cose,
secondo l'opportunità dei tempi, dei miracoli che accompagnano
lo splendore di così nobili imprese e virtù, ha saputo inculcare i
principi della fede alla massa ignorante, per cui non soltanto po-
chi dotti oggi disputano, ma la moltitudine degli uomini e delle
donne seguono i principi della temperanza, della castità , della libe-
ralità , e in una parola il disprezzo per questo mondo, e indicano
l'asilo in quella Chiesa che, nonostante lo schiamazzo di cui la cir-
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condano gli eretici, ha raggiunto il più alto grado di autorità , arri-
vando ad ottenere il consenso esplicito del genere umano (18).
E qui si innesta l'accanito dibattito sulla precedenza o no della
fede sulla ragione. Il Gilson giudica questo problema molto com-
plesso anche perché espresso con una terminologia imprecisa, per
cui esso, sebbene sia chiaro nelle sue tesi generali, tuttavia è
diffìcile da seguire nei suoi dettagli. Per il Gilson la ricerca ago-
stiniana dei rapporti tra ragione e fede comporta tre momenti :
preparazione alla fede per mezzo della ragione, atto di fede, intel-
ligenza del contenuto della fede. La ragione è la condizione della
stessa possibilità della fede; essa è l'elemento che ci rende crea-
ture fatte ad immagine e somiglianza di Dio, per cui disprezzare
(16) Ibid., col. 88.
(17) Ibid.
(18) Ibid., cap. XVII, col. 91.
92 ANNA ESCHER DI STEFANO
la ragione, equivale a disprezzare in noi la stessa immagine di-
vina (19).
Per il Gilson, la fede agostiniana, presa nella sua essenza è
nello stesso tempo adesione dello spirito alla verità soprannatu-
rale e abbandono dell'uomo alla grazia di Cristo. Elementi che
non possono separarsi, in quanto l'adesione dello spirito alla ve-
rità di Dio presuppone l'umiltà , ma l'umiltà presuppone a sua volta
un abbandono in Dio, che è nello stesso tempo un atto di fede, di
amore e di carità . Se dunque si considera la vita spirituale nella
sua concreta complessità , colui che aderisce a Dio per mezzo della
fede non sottomette semplicemente il suo spirito alla lettera delle
formule, ma piega la sua anima e il suo essere all'autorità di Cri-
sto, che ci dà l'esempio della saggezza e i mezzi per conquistarla.
Intesa così, per il Gilson la fede è purificatrice e illuminatrice.
Essa cerca, ma è l'intelletto che trova, per cui « intellectus merces
est fidei » (20). Però, siccome il fine della filosofia è il possesso
della saggezza beatificante, e la ragione da sola non è capace di
conquistarla è necessario che intervenga la fede. Qui, dunque,
conclude il Gilson, non si trova messa in questione l'esistenza
della ragion pura o la legittimità del suo operare, ma la sua capa-
cità di farci conoscere Dio e la beatitudine mediante le sue sole
risorse (21). Il Gilson, dunque, cerca di conciliare fede e ragione,
ed egli afferma che in Agostino, lungi dall'esservi la pretesa di
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accettare senza prove ciò che si tratta di provare, v'é invece la
costante preoccupazione di codificare i risultati della sua espe-
rienza personale; per cui la speculazione agostiniana non è che
una esplorazione razionale del contenuto della fede. Ma, conclude il
Gilson, il problema che maggiormente interessa non è stabilire una
linea di demarcazione tra ragione e fede. Per Agostino la questione
si pone tutt'intera nell'ambito della fede. Infatti, anche quando
Agostino parla di intelligenza, egli pensa sempre ai risultati d'una
attività razionale di cui la fede apre l'accesso, cioè egli pensa a
quell'unità indivisibile che è l'intelligenza della fede: «L'histoire
pure ne saurait aller plus loin. On peut regretter, en philosophie,
qu'Augustin n'ait pas posé le probleme autrement, mais c'est ainsi
qu'il a posé. Une philosophie qui veut ètre un vrai amour de la
(19) Gilson, op. cit., pp. 33-4.
(20) In Joan. Evang., cap. VI, col. 1630.
(21) Gilson, op. cit., p. 41.
IL MANICHEISMO IN 3. AGOSTINO 93
sagesse, doit partir de la foi, dont elle sera l'intelligence. Une re-
ligion qui se veut aissi parfaite que possible, doit tendre vers
l'intelligence à partir de la foi. Ainsi entendue, la vrai religion ne
fait qu'un avec la vraie philosophie, et, Ã son tour, la vraie phi-
losophie, ne fait qu'un avec la vraie religion. C'est là ce qu'Au-
gust en nomme " philosophie chrétienne ", c'est-à -dire, telle qu'il
l'entend, une contemplation rationnelle de la révélation chré-
tienne, et tout ce que nous allons étudier dans, son oeuvre, à com-
mences par sa théorie de la connaissance, relève ce cet ordre de
considérations » (22).
Da un angolo visuale diverso viene invece considerato il pro-
blema dal Galli, che osserva come Agostino giunge a conoscere
Dio, mediante un processo in cui la ragione ha un compito fon-
damentale e centrale. L'atto di fede ha cioè il suo fondamento in
un processo intellettuale : « Bisogna tener distinta la funzione
dell'intelligenza avanti l'atto di Fede e la sua funzione negli altri
momenti dell'atto stesso. L'intelligenza si porta sulle ragioni na-
turali che noi abbiamo per credere; e perciò si parla della ragione
naturale, mossa dalla grazia di Dio, ma senza lumi speciali. Dopo
l'atto di Fede invece l'intelligenza si porta sulla Fede stessa che
l'illumina e la trasforma generando quella conoscenza delle cose
soprannaturali alle quali Agostino dà il nome di sapientia. L'in-
telligenza che precede è di ordine naturale, l'intelligenza che segue
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è di ordine soprannaturale e divina » (23).
La tesi del Galli si inserisce in certo qual senso nella tesi del
Portaliè. Secondo lo studioso francese non si può parlare di una
priorità della fede sulla ragione, ma piuttosto di un'intelligenza
intima della verità rivelata, per cui è la ragione che precede e
accompagna l'adesione dello spirito. Per il Portaliè la ragione in-
nanzitutto deve mostrare non la verità intima delle affermazioni
della testimonianza, ma i titoli in base a cui si deve credere ad
essa (24). Quale non sarebbe stata, continua il Portaliè, lo stupore
(22) Ibid., pp. 46-7.
(23) Galli, op. cit., p. 191.
(24) Portaliè, op. cit., col. 2338. Vari passi delle opere di Agostino
sembrano confermare la tesi del Portaliè : « Attendant hic, et verba ista
perpendant, qui putant ex nobis esse fidei coeptum, ex Deo esse fidei sup-
plementum. Quis enim non videat, prius esse cogitare quam credere? Nul-
lus quippe credit aliquid, nisi prius cogitaverit esse credendum. Quamvis
enim raptim, quamvis celerrime credendi voluntatem quaedam cogitationes
94 ANNA ESCHER DI STEFANO
di Agostino, se gli si fosse detto che la fede deve fermare gli
occhi sulla testimonianza, sotto pena di diventare scienza! Se gli
si fosse parlato di una fede d'autorità , che desse il suo assenso
senza alcun motivo atto a provare il valore della testimonianza!
Come sarebbe infatti possibile per lo spirito umano accettare una
testimonianza senza motivo, senza un motivo conosciuto? Agostino
al contrario, lungi dall'aver paura della parola della scienza e
della visione, esige l'una e l'altra : « pourvu que l'objet en soit
seulement le témoignage » (25).
Quando invece il nostro sguardo si appunta verso il mistero,
allora la fede precede la ragione : « Dès que le témoignage divin
est connu, la raison s'arréte au seuil du mystère, sans retarder sa
foi jusqu'à ce qu'elle ait mieux compris le mystère? Elle n'at-
tendra mème pas, pour croire, qu'on ait résolu toutes les ques-
antevolent, moxque illa ita sequatur, ut quasi conjunctissima comitetur;
necesse est tamen ut omnia quae creduntur, praeveniente cogitatione cre-
dantur. Quanquam et ipsum credere, nihil aliud est, quam cum assensione
cogitare ». « Non enim omnis qui cogitat, credit; cum ideo cogitent pleri-
que, ne credant: sed cogitat omnis qui credit, et credendo cogitat, et co-
gitando credit » (De praedest. sanct., P.L. Migne, 44, cap. II, coli. 962-3). E
nel De vera relig. (cap. XXIV, col. 141): « Quamobrem ipsa quoque animae
medicina, quae divina providentia et ineffabili beneficentia geritur, gra-
datim distincteque pulcherrima est. Distribuitur enim in auctoritatem
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atque rationem. Auctoritas fidem flagitat, et rationi praeparat hominem.
Ratio ad intellectum eognitionemque perducit. Quanquam neque autori-
tatem ratio penitus deserit, cum consideratur cui sit credendum; et certe
summa est ipsius jam cognitae atque perspicuae veritatis auctoritas».
E nella Epistola CXX (P.L. Migne, cap. I, col. 453): « Absit, inquam, ut
ideo credamus, ne rationem accipiamus si ve quaeramus; cum etiam credere
non possemus nisi rationales animas haberemus, Ut ergo in quibusdam
rebus ad doctrinam salutarem pertinentibus, quas ratione nondum percipere
valemus, sed aliquando valebimus, fides praecedat rationem, qua cor mun-
detur, ut magnae rationis capiat et perferat lucem hoc utique rationis est.
Et ideo rationabiliter dictum est per prophetam: Nisi crediderts, non intel-
ligetis ».
(25) Portaliè, op. cit., col. 2339. Cfr., ad es., Epist. CXLVII (cap. III,
col. 600) : « Constat igitur nostra scientia ex visis rebus et creditis : sed in
iis quae vidimus vel videmus, nos ipsi testes sumus; in his autem quae cre-
dimus, aliis testibus movemur ad fidem, cum earum rerum quas nec vi-
disse nos recolimus, nec videmus dantur signa vel in vocibus, vel in litte-
ris, vel in quibusque documentis, quibus visis non visa credantur ».
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 95
tions. C'est après avoir era, que le fidèle cherchera les explica-
tions plus ou moins approximatives du dogme» (26).
In realtà , però, noi crediamo che sia una precedenza più appa-
rente che reale, in quanto anche nel caso del mistero la ragione
precede la fede, giudicando inconoscibile, appunto « un mistero »,
ciò su cui ha fatto convergere il suo sguardo. Noi non potremmo
parlare di mistero, cui la fede aderirebbe, se non l'avessimo valutato
tale, se cioè non avessimo già usato la nostra attività razioci-
nante, anche se, però, con una conclusione negativa. Quindi in ogni
caso la ragione precede la fede, sebbene a volte non riesca a chia-
rire in termini dimostrabili tutto ciò che viene a costituire l'oggetto
del suo studio.
(26) Portaliè, op. cit.. col. 2339. Cfr. De lib. arbit. (l. II, cap. II, col.
1243) : « Nisi enim aliud esset credere, et aliud intelligere, et primo cre-
dendum esset, quod magnum et divinum intelligere cuperemus, frustra pro-
pheta dixisset. Nisi credideritis, non intelligetis (Isai., VII, 9, sec. LXX). Ipse
quoque Dominus noster et dictis et factis ad credendum primo hortatus
est, quos ad salutem vocavit ». Enarratia in Psal. CXVIII, sermo XVIII, col.
1552 : « Propter hos igitur interiores oculos quorum caecitas est non in-
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telligere. ut aperiantur, et magis magisque serenentur ».
Capitolo Quinto
IL PROBLEMA DEL MALE
Agostino era passato attraverso il dualismo manicheo, che
partendo dal riconoscimento di un Dio del male, contrapposto ad
un Dio del bene, aveva fatto risalire al primo la spiegazione di
tutti gli elementi negativi del reale, credendo in tal modo di aver
risolto lo spinosissimo problema (1).
Agostino evidentemente non poteva acquetarsi alla soluzione
manichea, sia perché contrastante con i principi della religione
cristiana, sia perché, anche soltanto da un punto di vista stretta-
mente razionale, essa non poteva sostenersi, in quanto l'ammis-
sione di due potenze, ambedue infinite e onnipotenti, non era filo-
soficamente sostenibile. Era necessario pertanto la riduzione del
dualismo divino al monismo, il quale, però, non venisse a fare
tutt'uno con la realtà empirica, ma venisse contrapposta a questa
da un rapporto creazionistico. Dio non si identifica con le cose,
ma è il creatore delle cose, e tutto dipende da Lui : « nulla autem
res obtinet integritatem naturae suae, nisi in suo genere salva
sit » (2). Ma ciò veniva a riportare in primo piano il problema
dell'esistenza e del perché del male, della possibilità , cioè, di con-
ciliare da una parte Dio, che per sua essenza è, e non può non
(1) Agostino confessa che il problema circa l'origine del male lo ha
tormentato fin dalla giovinezza, e la speranza di risolverlo fu anzi il mo-
tivo principale che lo spinse ad entrare nella setta dei Manichei : « Eam
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quaestionem moves, quae me admodum adolescentem vehementer exercuit,
et fatigatum in haereticos impulit, atque dejecit. Quo casu ita sum afflictus,
et tantis obrutus acervis inanium fabularum, ut nisi mihi amor inveniendi
veri opem divinam impetravisset, emergere inde, atque in ipsam primam
quaerendi libertatem respirare non possem » (De libero arbitrio, l. I. cap.
II, col. 1224).
(2) De vera religione, cap. XVIII, col. 137.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 97
essere, somma bontà e perfezione, e la realtà delle cose finite,
parziali e contingenti : « Onde questo mio volere il male e non
volere il bene? si chiede infatti Agostino. Chi ha posto e seminato
in me questa piantagione di amarezza, se tutto quanto sono, è
stato creato dal mio Dio, che è soavissimo? » (3).
I Manichei avevano risolto il problema — come abbiamo giÃ
accennato — ammettendo l'esistenza di un Dio delle tenebre, dal
quale derivava tutto ciò che è male. Secondo i Manichei, infatti,
il male aveva una realtà propria che, in quanto tale, richiedeva una
sua causa e una sua spiegazione.
Ma Agostino comprendeva come la soluzione manichea fosse
ben lontana dalla verità ; egli riteneva per certo che non era vero
quanto affermavano i Manichei, verso i quali, anzi confessa di
aver sentito una estrema ripugnanza, poiché vedeva come nel cer-
care l'origine del male, essi si mostrassero pieni di malizia, pre-
ferendo pensare la sostanza divina come passibile di male, anzic-
ché la loro sostanza umana quale operatrice del male (4).
Ammettere il male come un principio realmente esistente,
come facevano i Manichei, voleva dire annullare la bontà divina.
Non rimaneva dunque che negare il male.
Che cosa è il male? I Manichei rispondevano dicendo che in
ogni genere di cose il male consiste nel contrario della loro na-
tura. Se non che, risponde Agostino, se teniam fermo questo prin-
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cipio, cade l'eresia manichea, poiché se il male è il contrario della
natura, segue necessariamente che nessuna natura è cattiva, men-
tre invece loro sostenevano che il male è una certa natura o so-
stanza (5).
Quanto si oppone alla natura, e tende a distruggerla, è suo ne-
mico. E poiché la natura, « nihil est aliud, quam id quod intelli-
gitur in suo genere aliquid esse. Itaque ut nos jam novo nomine
ab eo quod est esse, vocamus essentiam, quam plerumque substan-
tiam etiam nominamus » (6), il male è ciò che si oppone all'essere
e tende al non essere. Conseguentemente, essendo Dio l'autore di
tutte la natura e sostanza, non essendo il male una sostanza, non
(3) Confessiones, l. VII, cap. III, col. 735.
(4) lbid.
(5) Cfr. Contra Epistulam Manichaei, 3, 4.
(6) De moribus Ecclesiae catholicae et Manichaeorum, l. II, cap. II,
col. 1346.
98 ANNA ESCHER DI STEFANO
se ne può fare risalire a Lui l'origine. E infatti come potrebbe
essere che chi è la causa, per cui tutte le cose esistono, sia nel
tempo stesso la causa per cui non esistono, cioè manchino all'es-
sere e tendano al non-essere?
Inoltre i Manichei stessi cadono in contraddizione; infatti in
che modo quel loro popolo delle tenebre, che loro riconoscono come
male sommo, sarà contrario alla natura, quando loro stessi lo chia-
mano natura e sostanza? «Si enim contra se facit, ipsum esse sibi
adimit: quod si perfecerit, tunc demum perveniet ad summum
malum. Non autem perficiet, quia eam non modo esse, verum
etiam sempiternam esse vultis » (7). Quello che i Manichei defi-
niscono sostanza, non può dunque essere sommo male.
I Manichei, inoltre, possono essere confutati anche se inten-
dono per male tutto ciò che nuoce. Quello che nuoce priva di
qualche bene la cosa cui nuoce, perché se non la privasse di qual-
che bene, non le nuocerebbe affatto. Ma tra quella gente, che i
Manichei suppongono essere il sommo male e dove il bene in
nessun senso esiste, non è possibile nuocere a cosa alcuna. Se,
come i Manichei affermano, esistono due nature, il regno della
luce e il regno delle tenebre, e se affermano che il regno della
luce sia il regno di Dio, al quale attribuiscono una natura semplice,
in modo che in Lui non coesistano cose l'una inferiore all'altra,
per ciò stesso, essi sono costretti a confessare che questa natura,
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che loro affermano sia il sommo bene, è immutabile, incorrutti-
bile e inviolabile, cioè è ciò di cui nulla è più eccellente, e nulla
può nuocere a questa natura. Ma se nuocere nel significato ma-
nicheo significa privare di qualche bene, evidentemente appa re-
chiaro che non si può nuocere né al regno delle tenebre, dove
non esiste alcun bene, né al regno della luce, perché è inviolabile :
dunque a chi nuocerà quello che i Manichei chiamano male? (8).
Nell'ambito dell'insegnamento cattolico, invece, il bene sommo
è tale per sé, per natura ed essenza proprie, mentre il bene per
partecipazione è la creatura, la cui natura può subire privazioni,
e in questa privazione consiste appunto il male. Infatti la natura
che può essere privata con suo danno di qualche bene, non è il
sommo male, né il sommo bene, in quanto essa è buona non per
essenza, ma per partecipazione.
(7) Ibid.
(8) Ibid., cap. III, col. 1347.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 99
Né per male si può intendere la corruzione, in quanto essa è
sì, contraria alla natura delle cose, ma non esiste in se stessa, ma
nella sostanza che si corrompe, non essendo la corruzione una
sostanza. La cosa dunque che soggiace alla corruzione, non è un
male : tutto quello che si corrompe perde in integrità e perfezione;
la cosa dunque che non ha perfezione da perdere, non si può cor-
rompere, è solo un bene partecipato. Del pari, ciò che si corrompe,
in qualche modo si perverte, e ciò che si perverte esce dall'or-
dine; ma l'ordine è un bene, dunque quando si corrompe non è
privo di bene, e perciò può essere attaccato dalla corruzione. Di
modo che quella gente tenebrosa, se mancava di qualche bene,
nulla ha che la corruzione le possa togliere (9).
Quindi tutto ciò che si corrompe volge al non essere. Ma la
divina bontà non permette che le cose arrivino fino a questo segno,
e le ordina in maniera che siano disposte secondo una grada-
zione, a secondo la quantità di essere di cui manca. Per questo
anche le anime ragionevoli, nelle quali è potentissimo il libero
arbitrio, quando mancano, sono ordinate nei gradi inferiori della
creazione, ognuna nel posto che le compete.
Dunque non si reggono le favole dei Manichei sul bene e sul
male, la loro concezione del male che permea la terra in tutta la
sua immensa estensione e profondità , che incombe sulla mente,
che va errando per la terra; non si regge la loro concezione dei
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cinque elementi, uno pieno di tenebre, un altro di acque, un terzo
di venti, un quarto di fuoco, un quinto di fumo; degli animali nati
in ciascuno di questi elementi : le serpi nelle tenebre, i pesci nelle
acque, gli uccelli nei venti, i quadrupedi nel fuoco, i bipedi nel
fumo. Queste sono tutte vane e stolide favole, che nessuna ade-
renza hanno con la vera realtà (10).
Pertanto la natura, in quanto tale, per Agostino non è che
bene; se infatti noi togliamo ad essa tutto ciò che è spregevole,
rimarrà tutto ciò che è buono, ma se togliamo tutto ciò che è
buono, non ci rimane che il nulla (11). Quindi tutti gli esseri sono
buoni, perché Colui che li ha creati è sommamente buono; ma
(9) Ibid., cap. V, col. 1348.
(10) Ibid., l. II, cap. IX, col. 1351.
(11) Contra epistulam quam dicunt fundamenti, cap. XXXIII, col. 199,
P.L. Migne, 42
100 ANNA ESCHER DI STEFANO
siccome non sono, come il Creatore, sommamente buoni e immu-
tabili, il bene che in essi si trova è suscettibile di aumento o di
diminuzione (12). Questa diminuzione è la corruzione. Quindi,
replica Agostino, coloro che hanno gli occhi della mente aperti e
non sono né annebbiati né turbati da una dannosa mania di vana
vittoria, comprendono facilmente che ciò che si corrompe e muore
è un bene, quantunque la corruzione e la morte siano per sé un
male. Sono buone tutte le cose contro le quali la corruzione si
schiera e quelle cose contro le quali la corruzione si schiera
rimangono corrotte (13). Il male, dunque, non appartiene alle
cose, ma alla errata inclinazione con cui noi ci rivolgiamo alle
cose, cioè all'uso che facciamo della nostra volontà . Infatti il
primo vizio dell'anima ragionevole consiste nel far ciò che la
somma e intima volontà proibisce di fare. Fu questo il motivo
per cui Adamo fu espulso dal paradiso, e fu costretto a lasciare
le cose eterne per le temporali, l'abbondanza per la povertà , la
forza per la debolezza. Dunque, non il bene sostanziale per il male
sostanziale, giacché nessuna sostanza è un male, ma il bene eterno
per i beni temporali, il bene spirituale per i beni carnali, il bene
intellettuale per il bene sensibile, il bene sommo per il bene in-
fimo. L'anima dunque pecca quando ama beni di ordine inferiore,
per cui è il peccato in sé che è un male, non quella sostanza che
si ama peccando (14).
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Il male non è certo tale perché viene condannato dalla legge,
ma viene condannato dalla legge in quanto è male, tanto più che
la legge non ha una capacità valutativa infallibile, come dimostra
il fatto che essa a volte condanna uomini che hanno vissuto ret-
tamente, come la morte degli apostoli testimonia. Ciò avviene in
quanto si tratta di una legge temporale, la quale, anche se giusta,
(12) Enchirìdion, l. I, cap. XII, col. 237.
(13) De vera Religione, cap. XIX, col. 137.
(14) Ibid., cap. XX, col. 138: «Non ergo arbor illa malum est, quae in
medio paradiso piantata scribitur. sed divini praecepti transgressio. Quae
cum consequentem habet justam damnationem, contingit ex illa arbore,
quae contra vetitum facta est, dignoscentia boni et mali : quia cum suo
peccato anima fuerit implicata, luendo poenas, discit quid intersit inter
praeceptum quod custodire noluit, et peccatum quod fecit; atque hoc modo
malum, quod cavendo non didicit, discit sentiendo; et bonum quod non
obtemperando minus diligebat, ardentius diligit comparando » (Ibid., col.
138).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 101
tuttavia può essere rettamente mutata nel tempo. La legge su-
prema, invece, ha un potere infallibile, e infatti in base ad essa i
cattivi meritano d'essere miseri, ed i buoni beati. Essa, in base
a cui è giusto che tutto sia ordinatissimo, è una legge immutabile
ed eterna, perché nessuna violenza, nessun caso, nessuna defi-
cienza delle cose potranno mai far sì che non sia giusto che tutte
le cose non siano ordinatissime. Anche l'uomo è sottoposto alla
legge eterna, che gli comanda di non amare le cose temporali, ma
di dirigersi solo verso le eterne. Il non seguire la cose eterne dÃ
luogo appunto al male. Il male pertanto non è una sostanza, ma di-
pende dall'uso che noi facciamo del libero arbitrio della volontà .
A questo punto, però, una domanda si impone : se noi non
avessimo avuto il libero arbitrio, non avremmo potuto fare il
male; non sembra allora che, dato che Dio ci ha dato il libero
arbitrio, Egli possa essere considerato responsabile dei nostri pec-
cati? Agostino ribatte che per rispondere a questa domanda basta
considerare che Dio ha dato all'uomo il libero arbitrio affinché egli
se ne servisse per vivere rettamente. Giacché, dato che l'uomo non
avrebbe potuto agire rettamente se non volendo, era necessario
che egli possedesse una volontà libera. La punizione di Dio che
segue al peccato è appunto la punizione diretta all'uso malvagio
della libertà , adoperata per uno scopo diverso da quello per cui
essa era stata concessa. Ciò che invece non è fatto con la libera
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volontà non è né peccato, né opera meritoria. E perciò sarebbe
ingiusto tanto il castigo come il premio.
Però, se il libero arbitrio è stato dato per il bene, se la volontÃ
è stata data per agire rettamente, perché ci si indirizza al male?
Tutto quello che è lodevole nella natura delle cose, sia esso degno
di grande o di piccola lode, indubbiamente si deve riferire a Dio,
in quanto da Lui derivano tutti i beni, giacché tutte le cose che
sono, sia quelle che intendono e vivono e sono, sia quelle che vi-
ci 5) « Neque enim fidem putabarri Dei gratia praeveniri, ut per illam
nobis daretur quod posceremus utiliter; nisi quia credere non possemus,
si non praecederet praeconium veritatis : ut autem praedicato nobis Evan-
gelio consentiremus, nostrum esse proprium, et nobis ex nobis esse arbi-
trabar » (De praedistatione sanctorum, cap. III. col. 964). E arrivava così
alla conclusione che « nostrum est enim credere et velle, illius autem dare
credentibus et volentibus facultatem bene operandi per Spiritum sanctum,
per quem charitas diffunditur in cordibus nostris (Prop. 61), verum est
quidem, sed eadem regula, et utrumque ipsius est, quia ipse praeparat vo-
102 ANNA ESCHER DI STEFANO
vono e sono, vengono tutte da Dio. Tra questi beni è anche la libera
volontà (15). Così come Dio ci ha dato gli occhi per vedere e non
è colpa sua se noi li usiamo male, analogamente ci ha dato la
volontà perché la usassimo nel suo senso più giusto, ed è colpa no-
stra se non la usiamo rettamente. Si deve quindi piuttosto condan-
nare chi la usa male, anzicché affermare che Colui che ce l'ha data
non avrebbe dovuto darcela. Quindi : « voluntas adhaerens com-
muni atque incommutabili bono, impetrat prima et magna homi-
nis bona, cum ipsa sit medium quoddam bonum. Voluntas autem
aversa ab incommutabili et communi bono, et conversa ad pro-
prium bonum, aut ad exterius, aut ad inferius, peccat. Ad pro-
prium convertitur, cum suae potestà tis vult esse; ad exterius, cum
aliorum propria, vel quaecumque ad se non pertinent, cognoscere
studet; ad inferius, cum voluptatem corporis diligit: atque ita
homo superbus, et curiosus, et lascivus effectus, excipitur ab alia
vita, quae in comparatione superioris vitae mors est; quae tamen
regitur administratione divinae providentiae, quae congruis sedi-
bus ordinat omnia, et pro meritis sua cuique distribuit» (16).
Ora, se ogni bene proviene da Dio, e non vi è alcuna natura
che non sia da Dio, il male è un moto defettivo e ogni difetto è
una mancanza e un non-essere. Dunque nessuna cosa può piegare
la mente alla libidine, se non la volontà stessa. Dobbiamo con-
cludere che la ragione del moto con cui la volontà abbandona il
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bene immutabile per il mutabile, appartiene solo all'anima, che,
per conseguenza è colpevole. Infatti qualsiasi disciplina utile ci
insegna che se riproviamo e freniamo questo moto, indirizziamo
la nostra anima dai bene caduchi al bene eterno.
Però anche i peccatori hanno la loro ragion d'essere, in quanto
tutto quello che fa Dio è sempre dettato dalla legge del meglio, e
niente c'è che avrebbe potuto esser creato in maniera diversa da
quella che è: «Illud quoque moneo caveas, ne forte non dicas
quidem melius fuisse ut non essent, sed dicas aliter fieri eas de-
buisse. Quidquid enim tibi vera ratione melius occurrerit, scias
fecisse Deum tanquam honorum omnium conditorem. Non est
autem vera ratio, sed invida infirmitas, cum aliquid melius fa-
ciendum fuisse cogitaveris, jam nihil aliud inferius velie fieri,
luntatem; et utrumque nostrum, quia non fit nisi volentibus nobis » (Re-
tractationes, l. I, cap. XXVIII, coli. 621-2).
(16) De libero arbitrio, l. II, cap. XIX, col. 1269.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 103
tanquam si perspecto coelo, nolles terram factam esse; inique
omnino » (17).
Ma si potrebbe obbiettare : se la nostra miseria concorre alla
perfezione dell'universo, sarebbe mancato qualcosa a questa per-
fezione, se si fosse stati sempre beati. E dato che l'anima non
cade in miseria se non peccando, anche i nostri peccati sono neces-
sari alla perfezione dell'universo. Come può dunque Dio punire
giustamente quei peccati che, qualora mancassero, verrebbero a
portare come conseguenza un danno alla perfezione del creato?
A questa obbiezione Agostino risponde che alla perfezione del-
l'universo sono necessari non i peccati e le miserie, ma le ani-
me (18). Di modo ché è turpe il peccato volontario, ed è giusto
che venga punito per ristabilire l'ordine e il decoro dell'universo,
in modo che il disonore del peccato venga lavato dalla pena del
peccato.
La nostra ignoranza, causata in noi dal peccato di Adamo non
scusa la nostra tendenza al peccato. Si chiede : se Adamo ed Eva
peccarono, che abbiamo fatto noi miseri per nascere nell'oscuritÃ
dell'ignoranza? E Agostino risponde che a nessun uomo è vietato
chiedere utilmente ciò che inutilmente ignora, e di confessare in
tutta umilità la propria debolezza, perché chiedendo e confessando
lo soccorra Colui che non erra.
Dunque, anche se noi nasciamo ignoranti, impotenti e mortali,
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piacque a Dio che nella nascita dell'uomo apparisse la giustizia del
punitore e la misericordia del liberatore. L'anima non è colpevole
di ciò che ignora naturalmente, e che naturalmente non può cono-
scere, ma di quello che non ha cercato d'imparare, e di ciò che
rettamente avrebbe potuto fare secondo la facoltà datale (19).
(17) Ibid., l. III, cap. V, col. 1277.
(18) « Cum autem non peccantibus adest beatitudo, perfecta est uni-
versitas. Cum vero peccantibus adest miseria, nihilominus perfecta est
universitas. Quod autem ipsae non desunt animae, quas vel peccantes se-
quitus miseria, vel recte facientes beatitudo, semper naturis omnibus uni-
versitas plena atque perfecta est. Non enim peccatum et supplicium pec-
cati naturae sunt quaedam, sed affectionens naturarum, illa voluntaria, ista
poenalis. Sed voluntaria quae in peccato fit, turpis affectio est. Cui prop-
terea poenalis adhibetur, ut ordinet eam, ubi talem esse non turpe sit,
et decori universitatis congruere cogat, ut peccati dedecus emendet poena
peccati » (Ibid., l. III, cap. IX, col. 1284).
(19) « Si etiam nunc, si ignoranza veri et difficultas recti naturalis
est homini, unde incipiat in sapientiae quietisque beatitudinem surgere, nul-
104 ANNA ESCHER DI STEFANO
Le due conseguenze del peccato originale sono la concupi-
piscenza e l'ignoranza. Gli interpreti di Agostino discutono per sa-
pere se la concupiscenza sia peccato originale, o una conseguenza
di esso. Il Portaliè sostiene che ne è l'effetto. Se si confrontano i
testi, afferma il critico francese, si arriva alla conclusione che la
concupiscenza non è che uno degli effetti del peccato originale;
non si tratta di mettere avanti delle ipotesi, ma di tener conto di
tutti i testi e di armonizzarli. Agostino stesso ci avverte che la con-
cupiscenza è il peccato originale, come l'ignoranza o la stessa
morte, e ciò in virtù d'una metonimia che identifica gli effetti con
la causa. Tant'è vero che i più fedeli discepoli di Agostino del Me-
dio Evo definivano il peccato originale sia per mezzo dell'igno-
ranza, che per mezzo della concupiscenza. Inoltre, continua il Por-
taliè, Agostino ha sostenuto sempre con energia queste due as-
serzioni : 1) che la concupiscenza resta tutt'intera dopo il batte-
simo; 2) che tuttavia il peccato originale è totalmente cancellato.
E infatti protesta contro i Pelagiani che gli rimproverano di non
affermare questa distruzione. Ora, se il peccato originale non è
la concupiscenza, come potrebbe essere distrutto, se la concupi-
scenza rimane sempre la stessa? Si deve dunque concludere che la
concupiscenza non è il peccato, ma un annesso, un effetto del pec-
cato, anche se Agostino non ha in proposito adoperato una termi-
nologia molto esatta. E il Portaliè conclude: «si la non-imputa-
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tion de la concupiscence détruit absolument tout le péché, la con-
cupiscence restant, c'est que le péché consistait, non dans cette
concupiscence, mais dans l'imputation morale de cette concupi-
scence » (20).
Il Kors, invece, si chiede come il Portaliè sia potuto giun-
gere a questa conclusione, dato che Agostino sostiene e si esprime
nettamente in senso contrario (21). Il Gilson, al contrario, sostiene
che il Portaliè ha ragione : « Il y à cela une raison de principe : la
concupiscence est un désordre; si Dieua créé l'homme suujet à la
concupiscence, on ne voit plus de différence essentielle entre l'état
de nature voulu par Dieu et l'état de nature déchue. Il y a, en
lus hanc ex initio naturali recte arguit: sed si proficere noluerit, aut a
profectu retrorsum relabi voluerit, jure meritoque poenas luet » (Ibid.,
cap. XXII, col. 1303).
(20) Portaliè, op. cit., col 2395.
(21) J. Kors, cit. in Gilson, op. cit., p. 196.
^
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 105
outre, des textes formeles en ce sens, que J.-B. Kors aurait dù
discuter avant de condamner l'interprétation contraire... La con-
cupiscence è donc un dérèglement consécutif à l'orgueil de la vo-
lonté qui, lui, est le péché originel dans son essence » (22).
L'unico responsabile del peccato è l'uomo. Infatti, sebbene
Agostino pensi che tutto proceda da Dio, nega che egli possa es-
sere l'autore del male morale. Tuttavia sorge spontanea di nuovo
la domanda : se i peccati sono fatti dalle anime create da Dio, e se
le anime a loro volta sono state create da Dio, come mai Egli non
è responsabile d'aver creato delle anime capaci di peccare? Noi
sappiamo, dice Agostino, che tutte le cose sono possibili a Dio,
sia quelle che Egli compie con la sua sola volontà , sia quelle che
Egli stabilì di poter fare con la cooperazione della volontà delle
sue creature. E perciò anche quello che da Lui non è stato fatto, ha
nella potenza di Dio la causa per cui può esser fatto, e nella
sua sapienza la causa per cui non è stato fatto (23). Affermano i
Manichei che Dio ci viene in aiuto per i meriti di quella natura
buona che è in noi; e i Pelagiani, invece, per i meriti della nostra
buona volontà . I primi dicono : Dio deve questo alle opere dei suoi
membri, e gli altri dicono : Dio lo deve, alle virtù dei suoi servi.
E nell'un caso e nell'altro l'aiuto di Dio è qualcosa di dovuto, non
di gratuitamente concesso (24). A ciò Agostino ribatte che noi
siamo fatti, formati e creati per le opere buone che non facciamo
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noi, ma Dio (25). Ma come questa grazia opera, si chiede il Pel-
luzza? La grazia è efficace, agisce cioè infallibilmente sulla vo-
lontà dell'uomo, perché suscita in lui opportunamente il libero de-
terminarsi al bene con quel tesoro di benefici interiori ed esteriori
eh essa apporta e che sono d'altronde conosciuti da Dio come ef-
ficaci; oppure perché porta in se stessa un influsso tale della onni-
potenza divina, che fa piegare liberamente la volontà d'ogni crea-
tura ragionevole da quella parte che Dio vuole?
(22) E. Gilson, op. cifc, p. 196.
(23) De spiritu et littera, cap. V, col. 204.
(24) Contra duas epist. Pelag., LII, cap. XXII, col. 573.
(25) De grafia et libero arbitrio, cap. VIII. col. 893. La grazia non è
comune a tutti, « communis est omnibus natura, non gratia. Natura non
putetur gratia; sed et si putetur gratia. ideo putetur gratia quia et ipsa
gratis concessa est » (Sermo XXVI, cap. IV, coli. 172-3). Infatti la grazia
propriamente detta non è quella per cui mezzo è sorta tutta l'umana na-
tura, ma è una Grazia, per così dire, più grande, con cui Dio non ha
creato gli uomini, ma li ha reso suoi fedeli (Sermo XXVI. cap. V, col. 173).
106 ANNA ESCHER DI STEFANO
Agostino introduce in questo modo il problema : « La que-
stione del libero arbitrio è difficile a discernersi, in quanto, allor-
ché si difende il libero arbitrio, sembra si neghi la grazia di Dio,
e quando si proclama la grazia di Dio sembra si neghi il libero
arbitrio. Il problema fa perno su tre elementi : la possibilità , la
volontà , l'azione. Ora tanto la possibilità , la quale è nell'uomo an-
che quando non vuole e non opera il bene, quando la stessa vo-
lontà e azione cioè la nostra decisione a volere e ad operare il
bene, sono una grazia di Dio, talmente che senza di essa non è
possibile volere e operare il bene (26).
E nella Disputatio con Felice precisa : « ad confitendum ve-
rum de libero arbitrio, plus in eo voluit natura humana... quam
fabula sacrilega quam sibi ipse confixit» (27), cioè è la stessa
natura umana che ci attesta l'esistenza del libero arbitrio. Per
Agostino sapere ed esser libero sono proposizioni che si equival-
gono : tutto ciò che noi conosciamo con scienza, egli dice, lo cono-
sciamo per ragione, tuttavia anche la ragione è annoverata tra
le cose che noi conosciamo con essa. Infatti possiamo usare con
la libera volontà tutte le altre cose, ma possiamo usare anche la
libera volontà per se stessa : perché la volontà , quando usa le al-
tre cose, in certo modo usa anche se stessa, come la ragione, co-
noscendo le altre cose, conosce anche se stessa. E così pure la
memoria non solo comprende le cose che ricordiamo, ma anche
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ci permette di ricordare di avere una memoria. La volontà del-
l'uomo, dunque, aderendo al bene comune ed immutabile per-
mette all'uomo di conquistare i primi beni, pur essendo essa sol-
tanto un bene medio. La volontà , invece che non aderisce al bene
comune e immutabile, ma si rivolge al bene proprio, o esterno, o
inferiore, pecca (28).
Però, obbiettiamo noi, esser convinti d'essere liberi, non si-
gnifica spiegarne il perché. La convinzione soggettiva, cioè, non
ha niente a che fare con la esistenza reale e oggettiva di una cosa.
Se così non fosse, tutti i sogni di un visionario sarebbero realtà .
Il problema, insomma, si riduce in questi termini: la infalli-
bilità della grazia implica soltanto la prescienza divina o abolisce
(26) Francesco Pellxjzza, La causalità della grazia efficace nel pen-
siero di S. Agostino, in S. Agostino, Vita e Pensiero, Milano, 1931, p. 171.
(27) De gratia Christi, l. I, cap. XLVII, coli. 383-4.
(28) Disputatio cura Felice manichaeo, l. II, cap. III, col. 538.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 107
il libero arbitrio dell'uomo, per cui tutto verrebbe ad essere con-
dizionato da Dio?
Alcune frasi di Agostino convalidano la prima ipotesi, altre
frasi, l'altra. Ad es., Agostino dice : « Con la sua interna ed occulta,
ammirabile ed ineffabile potestà Dio opera nei cuori degli uomini
non solo le vere rivelazioni, ma anche la buona volontà » (29). E
altrove : « Siamo noi sì a volere, ma è Dio che opera in noi il
nostro volere : siamo noi ad operare, ma è Dio che opera in noi il
nostro operare, secondo la buona volontà . Tutto ciò è necessario
credere ed affermare; la religione e la verità ci inducono a que-
sta umile e sottomessa confessione e ad attribuire tutto a
Dio » (30). Infatti il Signore non disse che l'uomo avrebbe appreso
la sua via, o l'avrebbe tenuta, o avrebbe camminato per questa
via o un'altra espressione simile, dalla quale si sarebbe potuto in-
tendere che l'aiuto viene sì dato da Dio, ma soltanto a quell'uomo
che ha già la buona volontà , in maniera che l'uomo prevenga con
la sua volontà il beneficio col quale Dio dirige i suoi passi ad
apprendere, tenere o camminare nella sua via e meriti questo
dono di Dio per la sua volontà antecedente. Invece egli disse :
Dal Signore vengono diretti i passi dell'uomo e vorrà la sua via,
affinché con ciò intendessimo che la stessa buona volontà , con la
quale incominciamo a voler credere è un dono di Colui che per
prima cosa dirige i passi nostri affinché vogliamo. Non disse in-
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fatti la Scrittura « Dal Signore sono diretti i passi dell'uomo per-
ché volle la di lui via », ma disse : sono diretti e vorrà . E dunque
non perché volle sono diretti, ma perché sono diretti, volle (31).
In un altro passo, invece, Agostino dice : Dio, con gli incitamenti
della illuminazione della mente agisce a farci volere e credere sia
esternamente, con le esortazioni del Vangelo, i cui comandamenti
agiscono in qualche modo ammonendo la debolezza dell'uomo a
ricorrere con la fede alla grazia giustificante; sia internamente,
non essendo in potere dell'uomo quel che viene nella sua mente,
benché il consentire o il non consentire appartiene alla di lui
volontà . E poiché Dio agisce in tal maniera con la creatura ragio-
nevole perché essa crede in Lui, e non potendo d'altronde essa
credere cosa alcuna con libero assenso, se non ci sia l'esortazione
(29) De libero arbitrio, l. II, cap. XIX, col. 1268.
(30) De gratin Christi, l. I, cap. XXIV, col. 373.
(31) De spiritu et littera, cap. XXXIV, coli. 240.
108 ANNA ESCHER DI STEFANO
o la chiamata a cui credere, certamente Dio dà all'uomo lo stesso
voler credere, e in tutte quante le cose lo previene con la sua
misericordia. Il consentire poi alla chiamata di Dio o il non ac-
consentirvi, come si è detto, è proprio della volontà . La qual cosa
non solo, secondo Agostino, non infirma quel che si è detto, « che
cosa hai che non hai ricevuto? », ma anzi lo conferma. Infatti
l'anima non può ricevere o possedere questi doni di cui si parla,
se non acconsentendo. Ed appunto per questo quel che possiede
e quel che riceve è di Dio, sebbene ad essa appartenga l'atto del
ricevere e del possedere (32).
A questo proposito il Gilson pone un'obbiezione : Se la Gra-
zia precede le opere e i loro meriti, essa non è il risultato d'una
nostra acquisizione, ma il segno d'una elezione (33) : ma qual'è la
causa di questa elezione? Il problema è tanto più difficile a risol-
versi, osserva il Gilson, in quanto questa elezione implica una
scelta, e una scelta suppone dei motivi : ora possono questi motivi
essere forniti dalle creature? La gratuità della Grazia sembra
escludere la possibilità stessa d'una elezione. La sola maniera di
uscire dalla difficoltà è, secondo il Gilson, l'ammettere che l'ele-
zione divina non si fondi su una giustizia che l'uomo conosce, in
base alla quale non è l'elezione che precede la giustificazione, ma
è la giustificazione che precede l'elezione (34).
(32) De dono perseverantiae, cap. XIII, col. 1013.
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(33) Ep., 217, n. 3: «Si enim Deus miseretur, etiam volumus: ad
eamddem quippe misericordiam pertinet ut velimus. Deus enim est qui
operatur in nobis et velie et operari, pro bona voluntate. Nam si quae-
ramus utrum Dei donum sit voluntas bona, mirum si negare quisquam
audeat. At enim quia non praecedit voluntas bona vocationem, sed vocatio
bonam voluntatem, proterea vocanti Deo recte tribuitur quod bene volu-
mus, nobis vero tribui non potest quod voeamur » (De diversis quaest ad
Simplic, l. I, q. II, col. 118).
(34) De civit. Dei, l. V, cap. IX, coli. 150-1. « Neque enim ideo peccat
homo, quia Deus illum peccaturum esse praescivit: imo ideo non dubitatur
ipsum peccare, cum peccat quia ille, cujus praescientia falli non potest.
non fatum, non fortunam, non aliquid aliud, sed ipsum peccaturum esse
praescivit. Qui si nolit, utique non peccat: sed si peccare noluerit, etiam
hoc ille praescivit » (De civit. Dei, l. V, cap. X. col. 153). « Quid enim est
verius, quam praescisse Christum, qui et quando et quibus locis in eum
fuerant credituri? Sed utrum praedicato sibi Christo a se ipsis habituri
essent fidem, an Deo donante sumpturi, id est, utrum tantummodo eos
praescierit, an etiam praedestinaverit Deus, quaerere atque disserere tunc
necessarium non putavi. Proinde quod dixi, « Tunc voluisse hominibus ap-
N
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 109
Ma il problema così si sposta senza scomparire : qual'è infatti
il motivo di questa giustificazione? Né si può rispondere sia la
fede, in quando la fede è il cominciamento della Grazia, è già un
frutto di essa, e pertanto presuppone la giustificazione che le si
chiede di chiarire (35). Né si può giustificare con la prescienza di-
vina, che con la grazia ricompensa i buoni per le opere meritorie
che faranno, e punisce i cattivi; in quanto, precisa il Gilson, la
grazia è la sola causa responsabile dei meriti. E in tal caso, ag-
giungiamo noi, la grazia non sarebbe gratuita, ma meritata, giac-
ché la bontà delle azioni che l'uomo compie, determinerebbe l'ele-
zione. Può forse costituire una risposta la correlazione tra l'ap-
pello di Dio e l'adesione da parte della buona volontà dell'uomo?
Ma si arriverebbe alla conclusione che, se è vero che la buona vo-
lontà non potrebbe nulla senza la grazia, questa sarebbe condi-
parere Christum, et apud eos praedicari doctrinam suam, quando sciebat
et ubi sciebat esse qui in eum fuerant credituri : « potest etiam sic dici,
Tunc voluisse hominibus apparere Christum, et apud eos predicari doctri-
nam suam quando sciebat et ubi sciebat esse qui electi fuerant in ipso
ante mundi constitutionem » (De praedest. sanct., cap. IX, col. 974).
(35) « Haec est autem, ut de operum meritis nemo glorietur, de quibus
audebant Israelitae gloriari, quod datae sibi legi servissent, et ex hoc
evangelicam gratiam tanquam debitam meritis suis percepissent, quia legi
serviebant. Unde nolebant eamdem gratiam dari Gentibus, tanquam indi-
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gnis nisi Judaica sacramenta susciperent. Quae orta quaestio in Apostolo-
rum Actibus solvitur. Non enim intelligebant, quia eo ipso quo gratia est
evangelica operibus non debetur: alioquin gratia jam non est gratia (Rom.
XI, 6). Et multis locis hoc saepe testatur, fidei gratiam praeponens operi-
bus, non ut opera exstinguat. sed ut ostendat non esse opera praeceden-
tia gratiam, sed consequentia : ut scilicet non se quisque arbitretur ideo
percepisse gratiam, quia bene operatus est; sed bene operari non posse,
nisi per fidem perceperit gratiam. Incipit autem homo percipere gratiam,
ex quo incipit Deo credere vel interna vel externa admonitione motus ad
fidem» (De diversis quaest. ad Simpi., l. I, q. 2, col. 111).
(36) « Non ergo secundum electionem propositum Dei manet, sed ex
proposito electio: id est, non quia invenit Deus opera bona in hominibus
quae eligat, ideo manet propositum justificationis ipsius; sed quia illud
manet propositum justificationis ipsius; sed quia illud manet ut justificet
credentes, ideo invenit opera quae jam eligat ad regnum coelorum. Nam
nisi esset electio, non essent electi, nec recte diceretur; Quis accusabit ad-
versus electos Dei (Rom. VIII, 33)? Non tamen electio praecedit justifica-
tionem, sed electionem justificatio. Nemo enim eligitur, nisi jam distans
ab ilio qui rejicitur. Unde quod dictum est. Quia eligit nos Deus ante mundi
constitutionem (Ephes. I, 4); non video quomodo sit dictum, nisi praescien-
tia » (Ibid., col. 115).
110 ANNA ESCHER DI STEFANO
zionata dal consenso della nostra volontà (36). Il problema è dun-
que non soltanto quello di sapere perché l'elezione di Dio scel-
ga una o piuttosto un'altra creatura, ma anche di sapere perché
alcuni rispondono all'appello e altri no. A ciò per il Gilson, si
può rispondere solo in questo modo (37) : se Dio crea delle circo-
stanze in cui prevede che la nostra libera scelta si deciderà in
questa maniera anzicché in un'altra, Egli ottiene infallibilmen-
te da noi, senza modificare il nostro volere, quegli atti liberi che
la sua giustizia e la sua saggezza volevano ottenere, ma nello stes-
so tempo sottomette la nostra volontà all'influenza di quella gra-
zia alla quale Egli sa che la nostra volontà acconsentirà . In tal
modo la volontà , per il Gilson, non cessa d'esser libera. Quando
dunque Dio vuol salvare un'anima, gli è sufficiente scegliere sia
le circostanze esteriori in cui essa si troverà , sia le grazie alle
quali la sua volontà dovrà trovarsi sottomessa. Quanto agli altri
uomini, Dio potrebbe appellarli alla stessa maniera, ma non lo
fa, perché « bien qu'il y ait beaucoup d'appelés, peu sont élus »
(38). La grazia agostiniana, per il Gilson, può dunque essere irre-
(37) « Nemo enim credit, qui non vocatur. Misericors autem Deus vo-
cat, nullis hoc vel fidei meritis largiens; quia merita fidei sequuntur voca-
tionem potius, quam praecedunt. Quomodo, enim, credent, quem non au-
dierunt? et quomodo audient sine praedicante (Rom. X, 14)? Nisi ergo vo-
cando praecedat misericordia Dei, nec credere quisquam potest, ut ex hoc
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incipiat justificari, et accipere facultatem bene operandi. Ergo ante meri-
tum gratia » (Ibid.).
(38) « Illa etiam verba si diligenter attendas. Igitur non volentis ne-
que currentis, sed miserentis est Dei; non hoc Apostolus propterea tantum
dixisse videbitur, quod adjutorio Dei ad id quod volumus perveniamus; sed
etiam ex illa intentione qua et alio loco dicit, Cum timore et tremore ve-
stram ipsorum salutem operamini; Deus enim est qui operatur in vobis
et velie et operari, pro bona voluntate (Philipp. II, 12, 13). Ubi satis ostendit
etiam ipsam bonam voluntatem in nobis operante Deo fieri. Nam si prop-
terea solum dictum est, Non volentis neque currentis, sed miserentis est
Dei, quia voluntas hominis sola non sufficit ut juste recteque vivamus,
nisi adjuvemur misericordia Dei; potest et hoc modo dici, Igitur non mi-
serentis est Dei, sed volentis est hominis, quia misericordia Dei sola non
sufficit, nisi consensus nostrae voluntatis addatur » (Ibid., coli. 117-8). « Cum
procul dubio, si homo ejus aetatis est ut ratione jam utatur, non possit
credere, sperare, diligere, nisi velit, nec pervenire ad palmam supernae
vocationis Dei, nisi voluntate cucurrerit (Philipp. III, 14). Quomodo ergo
non volentis, neque currentis, sed miserentis est Dei, nisi quia et ipsa vo-
luntas, sicut scriptum est, a Domino praeparatur (Prov,, VIII, 35, sec LXX)?
Alioquin si propterea dictum est, Non volentis, neque currentis sed mise-
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 111
sistibile senza essere costrittiva, « car ou bien elle s'adapte au
libre choix de ceux qu'elle a décidé de sauver, ou bien, transfor-
mant du dedans la volonté à laquelle elle s'applique, elle la fait
se délecter librement de ce qui lui répugnerait sans elle. La pré-
destination divine n'est donc que la prévision infaillible de ses
oeuvres futures, par laquelle Dieu prépare lez circostances et les
grà ces salutaires à ses élusva (39). La predestinazione divina per
il Gilson, non è dunque che la previsione infallibile di quelle ope-
re future per mezzo delle quali Dio prepara le circostanze e le
grazie salutari ai suoi eletti (40).
Se dunque Dio salva alcuni e non altri, lo fa in nome d'una
equità i cui motivi ci sono sconosciuti (41). L'ultima parola di
rentis est Dei, quia ex utroque flt, id est, et voluntate hominis, et miseri-
cordia Dei, ut sic dictum accipiamus, Non volentis, neque currentis, sed
miserentis est Dei, tanquam diceretur, Non sufficit sola voluntas hominis,
si non sit etiam misericordia Dei: non ergo sufficit et sola misericordia
Dei, si non sit etiam volutas hominis » (Enchiridion, cap. XXXII, coli. 247-8).
(39) Gilson, op. cit., p. 202. Dice Agostino : « An forte illi qui hoc modo
vocati non consentiunt, possent alio modo vocati accomodare fidei volun-
tatem, ut et illud verum sit, Multi vocati, pauci electi; ut quamvis multi
uno modo vocati sint, tamen quia non omnes uno modo affecti sunt, illi soli
sequantur vocationem, qui et capiendae reperiuntur idonei... Ad alios autem
vocatio quidem pervenit; sed quia talis fuit qua moveri non possent, nec
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eam capere apti essent vocati quidem dici potuerunt, sed non electi; et non
jam similiter verum est: igitur non miserentis Dei, sed volentis atque
currentis est hominis: quoniam, non potest effectus misericordiae Dei
esse in hominis potestate, ut frustra ille misereatur, si homo nolit; quia si
vellet etiam ipsorum misereri, posset ita vocare, quomodo illis aptum esset,
ut et moverentur et intelligerent et sequerentur » (De divers. quaest. ad
Simplician., l. I, cap. II. col. 118).
(40) Gilson, op. cit., p. 202.
(41) « Haec est praedestinatio sanctorum, nihil aliud : praescientia sci-
licet, et praeparatio beneficiorum Dei, quibus certissime liberantur, qui-
cumque liberantur Caeteri autem ubi nisi in massa perditionis justo divino
judicio relinquuntur? ». Ubi Tyrii relieti sunt et Sidonii, qui etiam cre-
dere potuerunt, si mira Illa Christi signa vidissent? Sed quoniam ut crede-
rent non erat eis datur, etiam unde crederent est negatum. Ex quo apparet
habere quosdam in ipso ingenio divinum naturaliter munus intelligentiae,
quo moveantur ad fidem, si congrua suis mentibus vel audiant verba, vel
signa conspiciant: et tamen si Dei altiore judicio, a perditionis massa non
sunt gratiae praedestinatione discreti, nec ipsa eis adhibentur vel dieta di-
vina vel facta, per quae possent credere, si audirent utique talia vel vide-
rent » (De dono perseverantiae, cap. XIV, col. 1014).
112 ANNA ESCHER DI STEFANO
Agostino è dunque un'umile accettazione del mistero. Ma l'uo-
mo, dopo tutto ciò, può definirsi libero? Si può conciliare la no-
stra possibilità di peccare con la prescienza divina? Infatti se
Dio conosce che l'uomo peccherà , è necessario che l'uomo pecchi,
e quindi, se è necessario, non vi è libero arbitrio nel peccare, ma
piuttosto inevitabile e fissa necessità . Per cui, o si deve negare
che Dio conosca tute le azioni future, o si deve confessare che noi
pecchiamo necessariamente e non liberamente. Ma Agostino si ri-
bella alle conclusioni cui lo porta questa riflessione, e ribadisce
che nulla è in nostro potere quanto la nostra volontà . Infatti, così
come moriamo e invecchiamo necessariamente e non volontaria-
mente, e non siamo tanto folli da affermare che lo vogliamo con
la nostra volontà , alla stessa maniera, benché Dio conosca la no-
stra volontà futura, non segue che noi non vogliamo con la no-
stra volontà . Infatti, così come Dio non influisce sull'uomo, quan-
do si indirizza verso il bene, analogamente non influisce quando
egli commette il male : « ecce jam non nego ita necesse esse fieri
quaecumque praescivit Deus, et ita eum peccata nostra praescire,
ut manet tamen nobis voluntas libera, atque in nostra posita po-
testate » (42). Per cui, secondo Agostino, alla prescienza divina ap-
partiene il non ignorare nulla di tutto quello che sarà fatto, e
alla sua giustizia il punire il peccato fatto liberamente, in modo
che, come con la sua prescienza non costringe a farlo, così con il
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suo giudizio non permette che venga fatto impunemente.
Ma si può conciliare l'efficacia della grazia con la libertà ?
Per il Gilson niente impedisce che la grazia si applichi vit-
toriosamente alla volontà , senza alterarne la libertà . Si ammette
senza difficoltà , dice il Gilson, che l'uomo agisce liberamente al-
lorquando disprezza il dono divino della Grazia per gettarsi nel
peccato. Ma sarebbe un errore credere che l'esser soggiogati dai
(42) « Quapropter cum dando et accipiendo inter se hominum societas
connectatur, dentur autem et accipiantur vel debita vel non debita; quis
non videat iniquitatis argui neminem posse, qui quod sibi debetur, exegerit?
nec eum certe, qui quod ei debetur, donare voluerit? hoc autem non esse
in eorum qui debitores sunt, sed in ejus cui debetur arbitrio? Haec imago,
vel, ut supra dixi, vestigium negotiis hominum de fastigio summo aequi-
tatis impressum est. Sunt igitur omnes homines una quaedam massa pec-
cati, supplicium debens divinae summaeque justitiae, quod sive exigatur,
sive donetur, nulla est iniquitas » (De diversis quaest. ad Simpi., l. I, cap.
II, coli. 120-1).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 113
sensi abolisca in noi il libero arbitrio (43), di cui, anzi, esso è una
manifestazione. Il diletto del peccato che mi tenta non è una cosa
che si aggiunge alla mia volontà , per trarla verso il basso, ma è
la stessa spontaneità del mio pensiero che trascina la mia volontÃ
al male : Analogamente è libero il nostro tendere al bene, anzi so-
lo ora esso è veramente libero (44) : « Ce qu'il faut comprendre,
c'est qu'en agissant sur la volonté la grà ce ne respecte pas seule-
ment le libre arbitre, mais qu'elle lui confère encore la liberté.
La liberté (libertas) n'est en effet que le bon usage du libre arbi-
tre (liberum arbitrium); or, si la volonté reste toujours libre, au
sens de libre arbitre, elle n'est pas toujours bonne, et n'est par
conséquent pas toujours libre, au sens de liberté» (45).
La Grazia, pertanto, restaurando in noi l'amore di Dio, ci ren-
de il dominio del corpo e delle cose materiali. Essa, per il Gilson,
ben lontana dall'abolire la volontà , la libera rendendola
buona (46).
Anche il Portaliè pensa che libertà e grazia in Agostino non
siano in contraddizione tra loro. Prima di ogni decreto divino di
creare il mondo — dice il Portaliè — la scienza infinita di Dio
presenta a lei stessa tutte le grazie e le serie diverse di grazie
che egli può preparare per ogni anima con il consenso o il rifiuto
che seguirebbe in ogni circostanza, e ciò nei milioni e milioni di
combinazioni possibili. Il nostro mondo attuale, con tutta la sua
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storia da Adamo fino all'ultimo giudizio, non è che uno delle mi-
gliaia e dei milioni di mondi che Dio poteva realizzare. In mez-
(43) De libero arbitrio, l. III, cap. III, col. 1275).
(44) « Regnant ista bona si tantum delectant, ut ipsa teneant animum
in tentationibus ne in peccati consensionem ruat. Quod enim amplius nos
delectat, secundum id operemur necesse est: ut verbi gratia occurrit forma
speciosa feminae et movet ad delictationem fornicationis : sed si plus de-
lectat pulchritudo illa intima et sincera species castitatis, per gratiam quae
est in fide Christi, secundum hanc vivimus et secundum hanc operamur »
(Epist. ad Gai., XLIX, coli. 2140-1). « Manifestum est certe secundum id
nos vi ere quod sectati fuerimus; sectabimur autem quod dilexerimmus :
si tantunmdem utrumque diligitur, nihil horum sectabimur; sed aut timore,
aut inviti trahemur in alterutram partem » (Ibtd., LIV, col. 2142).
(45) « Ecce unde liberi, unde condelectamur legi Dei : libertas enim
delectat. Nam quamdiu timore facis quod justum est, non deus te de-
lectat. Quamdiu adhuc servus facis, te non delectat: delectet te, et liber
es » (In Joan. Evang., XLI, col. 1698).
(46) Gilson, op. cit., p. 212.
8
114 ANNA ESCHER DI STEFANO
zo a questi mondi ce ne sono alcuni dove tutti si salverebbero, de-
gli altri dove tutti si perderebbero e degli altri in cui dannati ed
eletti sono mescolati. Per ogni uomo in particolare vi è nel pen-
siero di Dio un numero illimitato di storie possibili, alcune, storie
di virtù e di salute, altre storie criminali di dannazione, e Dio sarÃ
libero, scegliendo tale mondo quale sede di grazia, di determina-
re la storia futura e il destino finale di ogni anima. Ecco la scien-
za che, secondo Agostino, precede e rischiara la scienza di Dio.
Questa scienza che gli presenta le diverse maniere per salvare
Giuda, non è la scienza della visione la quale non contempla che
le cose future, ma un'altra scienza, qualsiasi sia il nome che le
si vuole dare, il cui oggetto comprende le risposte condizionali di
ogni volontà ad ogni richiamo di Dio. Senza questa scienza non
si comprenderà né Agostino né la predestinazione (47). Inoltre la
grazia efficace opera sì infallibilmente, ma giammai per un im-
pulso irresistibile : sotto la sua azione la volontà resta padrona
di se stessa (48).
Però noi a queste conclusioni obbiettiamo : Se alla creatura
appartiene soltanto l'accipere e Yhabere, essa è passiva, non po-
tendo rifiutare la misericordia che Dio le accorda. Né la volontÃ
può ribellarsi ad essa, cioè può rifiutare il suo assenso, dato che
Agostino dice che è Dio stesso che condiziona nell'uomo lo stesso
voler credere. Se dunque l'uomo è costretto a credere, come può
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rifiutare la misericordia, dato che l'accettazione di essa è essen-
zialmente un atto di fede? In breve, siamo in pieno determinismo,
e, in tal modo la libertà e la moralità vengono a cadere del tutto.
Perché l'adesione spirituale sia meritoria è necessaria la libera ac-
cettazione dell'individuo. Com'è chiaro, questa libera accettazio-
ne non esiste se Dio con la sua illuminazione agisce sulla nostra
mente, determinando in essa il voler credere. Evidentemente la
reazione al razionalismo manicheo ha portato Agostino su un pia-
no troppo estremo, ben lontano dalla retta interpretazione della
dottrina cristiana. L'uomo dal cuore impuro non è colpevole di
esser tale, se « l'Onnipotente dirige nel cuore degli uomini il mo-
vimento della loro volontà , in modo tale che Colui che non sa
volere assolutamente nulla d'ingiusto opera per mezzo di essi quel-
lo che per loro mezzo vuole operare, in modo da inclinare le lo-
(47) Ibid., pp. 209-212.
(48) Portaliè, op. cit., col. 2399.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 115
ro volontà da quel lato che vuole, sia al bene per la sua miseri-
cordia, sia al male; e ciò secondo il giudizio suo, ora manifesto, ora
occulto, ma sempre giusto » (49).
Appunto perciò non siamo d'accordo con quanto afferma il
Pelluzza, secondo cui le parole di Agostino « non mirano ad af-
fermare che qualche volta, per giusto castigo di Dio, il peccatore
incorre in nuovi peccati, frutto e pena dei peccati precedenti » (50).
Che l'influsso divino ci sia, è chiaramente indicato dal fatto
che Agostino dice che è Dio stesso che si serve per un suo im-
perscrutabile disegno della volontà degli uomini, incanalandola o
verso il bene o verso il male. Se il volere o il non volere dipen-
dono da Colui che vuole o non vuole, e se anche di coloro che
fanno quello che Dio non vuole, Dio fa quel che vuole, se le uma-
ne volontà non possono opporre resistenza alla volontà di Dio da
cui dipende tutto ciò che sta in cielo e in terra (51), dove va a
finire il libero arbitrio? E torniamo a chiederci, è concepibile mo-
ralità senza libertà ? Evidentemente, no.
Dunque alla domanda se le parole di Agostino inchino pre-
scienza divina o determinismo, non si può rispondere che opta-
no per quest'ultimo : « Anche le nostre volontà vanno incluse nel-
l'ordine delle cause, il quale ordine è certo riguardo a Dio ed è
contenuto nella sua prescienza, giacché le umane volontà sono le
cause delle opere umane. E in tal caso Colui che prevede tutte le
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cause delle cose, non può certamente ignorare tra queste cause le
nostre volontà , che previde essere le cause delle opere nostre » (52).
Evidentemente non si tratta solo di prescienza, ma anche di
determinazione, dato che l'opera di Dio non si arresta ad una co-
(49) Ibid., col. 2388.
(50) De gratia et libero arbitrio, cap. XXI, col. 907 e 909.
(51) F. Pelluzza, op. cit., p. 174.
(52) De correptione et gratia, cap. XIV, coli. 942-3 : « Sic enim velie
seu nolle in volentis aut nolentis est potestate, ut divinam voluntatem non
impediat, nec superet potestatem. Etiam de his enim qui faciunt quae non
vult, facit ipse quae vult... Non est itaque dubitandum, voluntati Dei,
qui in coelo et in terra omnia quaecumque voluit fecit (Psai. CXXXIV, 6) ».
« Horum si quisquam perit, fallitur Deus : sed nemo eorum perit, quia
non fallitur Deus. Horum si quisquem perit, vitio humano vincitur Deus:
sed nemo eorum perit, quia nulla re vincitur Deus » (De correptione et
gratia, cap. VIII, col. 924).
116 ANNA ESCHER DI STEFANO
noscenza degli atteggiamenti umani, ma interviene per indiriz-
zarli.
Una conseguenza del problema del male è il problema ri-
guardante l'esistenza di due anime.
I Manichi, dopo aver notato che nell'uomo le forze del bene e
quelle del male spesso sono in contrasto, ne deducevano che due
sono le anime di cui egli g formato. Scrive Agostino nelle Confes-
sioni: Periscano dalla faccia tua, o Dio, come in realtà periscono,
quei millantatori e seduttori di anime, i quali, avendo notato nelle
nostre deliberazioni la presenza di due volontà , affermano l'esi-
stenza in noi di due anime di natura diversa, l'una buona, l'altra
cattiva. Essi sì che sono tristi, fin tanto che professano codeste tri-
sti idee. Mentre essi anche saranno buoni, se professeranno idee
conformi a verità e a questa assentiranno, così che ad essi possa
dire l'apostolo : foste un tempo tenebre, ma ora siete luce nel
Signore (53).
Anche in questo caso la polemica agostiniana, si basa preva-
lentemente su elementi psicologici : « Io quando stavo deliberan-
do di servire senz'altro al Signore Dio mio, come avevo disposto
da un pezzo, ero io che volevo, io che non volevo : ero proprio
io che né volevo pienamente, né rifiutavo pienamente. Perciò lot-
tavo con me stesso e mi straziavo da me stesso; e per quanto lo
strazio avvenisse contro la mia volontà , tuttavia esso non rive-
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lava la presenza di un'altra anima di natura diversa, sebbene un
castigo della anima mia. Dirò, anzi, che non io, ero la causa di
quello strazio, ma il peccato che abitava in me, in pena di un altro
peccato commesso più liberamente da Adamo, del quale ero un
figlio » (54).
Non di due anime distinte quindi si tratta, ma di diverse va-
lutazioni della volontà da cui l'anima è trascinata.
I Manichei portavano come prova della evidenza della loro
teoria, l'esempio di quell'uomo che è incerto se andare ad una
adunanza di manichei o a teatro; e vedevano in questa incertezza
la lotta tra l'anima buona, che desiderava andare alla riunione, e
l'anima cattiva che voleva invece trascinare l'uomo a teatro. Ma,
dice Agostino, questo, giudizio non è obbiettivo, poiché un cri-
stiano che si trovi a dare il suo parere su questo stesso esempio
(53) Confessiones, l. VIII, cap. X, col. 759.
(54) Ibtd.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 117
dirà che le anime che si combattono interiormente a quell'uomo
sono ambedue cattive: «Se uno di noi deliberi e fra due volontÃ
contrastanti sia in dubbio se avviarsi a teatro o alla nostra chie-
sa, non forse si troveranno anch'essi temporaneamente a rispon-
dere? Infatti o ammetteranno ciò che non vogliono fare, che la
volontà che mena alla nostra chiesa sia la buona, come accade in
coloro che, istruiti nei suoi ministeri vi si recano e vi si tratten-
gono, o dovranno pensare che in uno stesso uomo ci sono due na-
ture tristi e due anime tristi in lotta tra loro. E allora non sarÃ
vero quello che sogliono affermare, che l'una è buona e l'altra è
triste. Oppure si convertiranno alla verità e non negheranno che
quando uno delibera, un'anima sola è quella che fluttua tra vo-
lontà diverse » (55). Se fosse esatta la teoria manichea sulla esi-
stenza di due anime, queste anime non sarebbero più due, ma
molteplici. Infatti Mani, confondendo i due concetti di volontà e
anima, deve necessariamente affermare che in noi vi sono tante
anime quante volontà diverse : « Quando per esempio, uno deli-
beri se debba togliere la vita ad un uomo adoperando il veleno e
il ferro, se debba usurpare questo o quel fondo non suo, non po-
tendo usurparli entrambi, se i suoi quattrini debba spenderli con
prodigabilità , per comperarsi il piacere, o custodirli avaramente,
se debba recarsi al circo o al teatro, qualora nello stesso giorno si
dia spettacolo nell'uno e nell'altro; oppure (aggiungo un terzo caso)
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a rubare in casa altrui, avendo l'opportunità di farlo, oppure
(aggiungo un quarto caso) a commettere un adulterio, se n'ab-
bia il mezzo. Suppongo, naturalmente che tutte queste possibilitÃ
concorrano nel medesimo istante e tutte eccitino ugualmente il
desiderio, pur non potendosi effettuare tutte ad un tempo. In tale
condizione ben quattro volontà in lotta tra loro fanno strazio del-
l'anima : Ma, che dico quattro? Potrebbero essere anche più in
tanta abbondanza di cose che appetiscono. Non per questo i Ma-
nichei sogliono affermare l'esistenza di altrettante anime di so-
stanze diverse » (56). Lo stesso si potrebbe dire per le volontÃ
buone : « Domando, infatti loro se sia bene cercare il loro diletto
nella lettura dell'apostolo e nel canto raccolto di un salmo e nel
ragionare intorno al Vangelo. Alle singole domande risponderan-
no: sì. O allora? Se codeste cose mi attirino tutte quante ugual-
(55) Ibid.
(56) Ibid., col. 760.
118 ANNA ESCHER DI STEFANO
mente in una volta, non si avrà a dire che diverse volontà si divi-
dano il mio cuore, mentre delibero a qual partito debbo appi-
gliarmi? » (57).
Ma evidentemente la confutazione di Agostino non è valida
nei termini in cui egli l'ha espressa, in quanto i Manichei non han-
no detto che l'uomo possiede tante anime quante diverse valuta-
zioni questa ha, ma soltanto che in lui vi sono due anime, una del
bene e l'altra del male, che stanno a simboleggiare il bivio in cui
l'uomo si trova ogni qualvolta la voce del bene e la voce del male
chiamano contemporaneamente.
Piuttosto si potrebbe obbiettare ai Manichei, che, se si am-
mettesse la dualità delle anime, si verrebbe a perdere l'unitÃ
dell'uomo, intaccando conseguentemente la sua stessa possibilitÃ
di vivere e di agire.
I Manichei affrontano quindi il problema dell'origine di que-
ste due anime, e fanno risalire a Dio soltanto l'anima del bene.
Ma, obbietta Agostino, nessuna vita può esistere che sia estra-
nea a Dio, poiché Dio è la vita stessa. Quindi, quest'anima non
viene da Dio, non ha vita, e pertanto cessa di essere anima; o
vive, e allora Dio ne è l'autore ed essa non può appartenere alla
natura del male. Dice Agostino : « Si lux quae sensus percipitur
Deum habet auctorem, ut fatentur Manichaei, multo magis ani-
ma quae solo intellectu percipitur» (58). Se i Manichei ammet-
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tono che la luce fu creata da Dio, a maggior ragione devono am-
mettere che fu creata da Lui anche l'anima, poiché questa per
quanto possa esser partecipe della natura del male è sempre su-
periore per la sua spiritualità alla luce, che, percepiamo coi sensi :
«vitiosae animae quanquam damnandae quomo do huic luci quae
in genere suo laudanda est, antecellant » (59).
I Manichei portano a conferma della loro tesi il passo della
Scrittura che dice : « Vos propterea non auditis quia ex Deo non
estis; vos ex patre diabolo estis » (60). Ma è scritto anche : « Om-
nia per ipsum facta sunt et sine ipso factum est nihil » (61). Ma
anche in questo caso i Manichei cadono in errore di interpreta-
zione. Infatti « ex Deo non estis » si riferisce all'uomo peccatore,
(57) Ibid.
(58) De duabus animabus, cap. V, col. 96.
(59) Joan., VIII, 47 e 44.
(60) li., I, 3.
(61) De duabus animabus, cap. VII, col. 100.
-.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 119
in quanto Dio è vita, ma « vita in peccatis in comparatone justae
vitae mors appellata sit » (62), quindi l'uomo « vivus ex Deo... pec-
cator non ex Deo » (63).
A questo errore di interpretazione si aggiunge un altro errore
di valutazione, in quanto i Manichei affermano che l'anima cat-
tiva non fa il male di sua volontà , ma è costretta a farlo dalla sua
stessa natura. Ma l'anima che pecca senza il concorso della volon-
tà , l'anima che pecca anche quando non vuole peccare, in realtÃ
non pecca affatto. Il peccato è volontà di compiere il male, e se
questa volontà viene a mancare, il peccato non sussiste più. Per
cui dalla tesi manichea si giunge all'assurda conclusione che la
anima, cattiva, che è essenzialmente male, non pecca (64).
Nell'incertezza dell'anima che deve decidere se seguire il be-
ne o il male si deve vedere, conclude pertanto Agostino, non una
lotta tra due anime distinte, ma tra due volontà : E' la medesima
anima che vuole con volontà non integra e piena questo o quel-
lo, e prova uno strazio doloroso, mentre prepone quello in forza
della verità e non depone questo in forza della consuetudine (65).
(62) Ibid.
(63) L'insostenibilità di tale dottrina è stata rilevata anche dal Terzi:
« Questa dottrina è quanto mai assurda, perché la mescolanza di questi
due generi diversi di anime, appartenenti l'uno alla sostanza del Bene,
l'altro alla sostanza del male, presuppone la corruttibilità e violabilità della
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sostanza del sommo Bene e la possibilità di conoscere e il desiderio di pos-
sedere Dio da parte della sostanza del male... Anche l'utilità del penti-
mento, che da nessuno è messa in dubbio, prova che la dottrina manichea
delle due anime è assurda. Il pentimento presuppone che già si sia com-
piuto il male e che si abbia la buona volontà di operare bene. Ma finché
coi Manichei si pone l'origine del male in un'anima malvagia che sia
della stessa sostanza del male e si ammette che oltre quest'anima malva-
gia vi sia in noi un'anima buona, che sia della stessa sostanza di Dio, cioè
iDo stesso, bisogna negare qualsiasi possibilità di pentimento in noi. L'a-
nima malvagia che è della stessa sostanza del male non può pentirsi, per-
ché non può volere il bene; alla sua volta nemmeno l'anima buona, che
è Dio stesso perché la sostanza del bene o Dio non può volere il male »
(Terzi, op. cit., pp. 31-36).
Capitolo Sesto
IL PROBLEMA DELLA SOSTANZA DI DIO E
DELLA SUA IMMUTABILITA' ED INCOR-
RUTTIBILITA'
Il problema sulla natura di Dio è uno tra i più oscuri e con-
troversi della problematica manichea, e, in generale, di tutta la
storia del pensiero. In proposito il De Beausobre osserva che nien-
te vi è di più evidente dell'esistenza di Dio, e niente di più oscu-
ro della Sua natura. Tutti gli sforzi dello spirito umano non ser-
vono che a convincere dell'ignoranza dell'uomo su questo sog-
getto (1).
La natura di Dio, secondo Mani, è una Luce eterna, intelli-
gente, purissima; priva di qualsiasi ibrido miscuglio con la tene-
bra. Concezione, questa, che noi troviamo già in sistemi antece-
denti, come in quello di Zoroastro, o in quello dei filosofi del-
l'India o della Grecia, e anche presso i filosofi cristiani, che si
sono spesso compiaciuti di fare accostamenti tra Dio e la Luce.
Il problema investe la natura di questa Luce, se cioè si tratti
di una Luce spirituale o corporea, materiale o soprannaturale, cor-
ruttibile o incorruttibile. Un frammento manicheo dice che il Fi-
glio della Luce suprema fa vedere chiaramente quale sia la sua
(1) « Il n'y a rien de plus évident, que l'existence d'un Dieu, ni rien
de plus obscur que sa Nature. Tous les efforts de l'Esprit humain ne ser-
vent qu'a le convaincre de sa faiblesse et de son ignorance sur ce sujet :
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Elle fuit, pour ainsi dire, devant ceux qui la cherxhent, et lors qu'ils pen-
sent en approcher, elle s'enfonce dans une obscurité, où il est impossible
de la suivre. De là tant de diversité de sentints entre les plus habiles Philo-
sophes sur la Nature Divine: Les Chrétiens eux-mèmes ne furent point
d'accord là -dessus, la Revélation étant plus attentive à nous instruire des
Perfections de Dieu, que de son essence, parce que ce sont ces Perfections,
qui servent à régler notre obeissance, t notr cult » (M. De Beausobre, op.
ctt., pp. 465-6).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 121
essenza allorquando, chiedendo i Giudei di conoscerlo, Egli pas-
sò in mezzo a loro senza esser visto, poiché la forma materiale che
aveva preso in Lui la figura della carne, non poteva esser vista
né toccata. Se dunque il Figlio della Luce viene considerato im-
materiale, a maggior ragione sembrerebbe che questo attributo
debba esser dato al Padre.
Ora, cosa ci ha lasciato la testimonianza agostiniana su que-
sto argomento?
Agostino, ricordando il periodo del suo traviamento mani-
cheo, dice che allora gli sembrava turpe soprattutto credere che
Dio avesse figura di carne umana, e fosse limitato, come gli uo-
mini, dal contorno di membra corporee; e poiché quando voleva
pensare al suo Dio, soleva pensare ad una massa corporea, in
quanto gli pareva che nulla esistesse che non fosse tale, questo
era il più grave errore di cui egli si accusa (2). E confessa inol-
tre che in quel periodo egli non era in grado di distinguere e se-
parare il sensibile dall'intelligibile, il carnale dallo spirituale, poi-
ché non glielo consentiva né l'età , né la disciplina, né la consue-
tudine (3). Io ignoravo, dice Agostino, che Dio è spirito, che Egli
non ha membra in lungo e in largo, che il Suo essere non è rap-
presentato da una massa : poiché la massa della parte è minore
del tutto, e, posto che sia infinita, nella parte limitata da un de-
terminato spazio è minore, che là dove è infinita, e non può es-
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ser tutta dappertutto come lo Spirito, come Dio (4).
Per Agostino, dunque, il dio manicheo è una Luce materiale.
Interpretazione, questa, contestata dal De Beausobre, il quale os-
serva innanzitutto che non si tratta di un lume metaforico, ma di
un lume vero, che è contemplato nel cielo dagli spiriti immortali,
e che fu visto dagli Apostoli allorquando il Signore venne trasfi-
gurato in loro presenza : essi poterono vederlo, in quanto Dio
aveva dato ai loro occhi una proprietà soprannaturale : « tel est
le vrai sentiment de Manichée; mais il faut bien se donner le gar-
de de le taxer d'hérésie, à moins qu'on ne veuille envelopper dans
la mème accusation un grand nombre de Péres Grecs, qui ont crù,
(2) Confea., l. III, cap. VII, col. 688.
(3) Ibid.
(4) Ibid., col. 689.
122 ANNA ESCHER DI STEFANO
comme lui, que les disciples du Seigneur virent sa Divinité sur la
Montagne» (5).
In secondo luogo, quand'anche fosse vero che per Mani Dio
è una luce corporea, bisognerebbe tuttavia prendere questo con-
cetto nel suo significato filosofico : « L'Hérésiarque n'a jamais crù
que la Divinté pùt souffrir, quoiqu'elle se trouve dans des lieux
de souffrance, la Matiére n'ayant aucune action sur elle. Il est vrai
seulement qu'il a nié l'immensité substantielle de la Divinité, et
qu'il a crù la Nature Divine étendue et corporelle. C'est aussi
l'idée qu'en avoit. S. Augustin pendant son Manicheisme. Il la
croyoit repandue soit dans le Monde, soit hors due Monde, dans
des Espaces infinis, parce qu'il ne pouvoit concevoir une Substan-
ce, qui n'eùt ni lieu, ni extension. Pour bien juger de l'erreur de
Manichèe sur la nature de Dieu, il faut se transporter au tems où
il a vécu. Si on ne se place dans ce point de vue, quand on exa-
mine les opinions des Anciens, on ne sauroit en juger d'une ma-
niére équitable» (6). Tanto più che per ben giudicare dell'errore
dei Manichei sulla natura di Dio osserva il De Beausobre (7) bi-
sogna trasportarsi nel tempo in cui Mani è vissuto. Solo così si
potrà giudicare in maniera imparziale «on revèt un esprit de ri-
gueur pour les uns, qu'il faut aussitòt dépouiller pour les autres,
variations, dont je tà che de me préserver autant qu'il m'est pos-
sible» (8). Infatti per il De Beausobre gli stessi dottori cristiani
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(5) De Beausobre, op. cit., p. 470. Stabiliti questi fatti, osserva il De
Beausobre, tiriamone le conseguenze. In primo luogo, allorquando i Padri
della Chiesa hanno detto che Dio è una Luce incorporea, non hanno avan-
zato niente che Mani non avesse già detto. Ma l'« incorporeo » di cui par-
lano i Padri della Chiesa non esclude affatto la visibilità , né per conse-
guenza del tutto la corporeità . Vi sarebbe una contraddizione manifesta se
si dicesse che gli occhi corporei possono percepire un Essere puramente in-
telligibile, che non ha assolutamente alcuna estensione, e di cui per con-
seguenza l'occhio non può ricevere alcuna immagine. In secondo luogo i
Padri hanno riconosciuto che la Natura divina è invisibile agli occhi cor-
porei a meno che Dio non li fortifichi in maniera soprannaturale, e non li
elevi ad una perfezione che essi normalmente non posseggono. E ciò è
precisamente, per il De Beausobre, quello che anche Mani ha detto (De
Beausobre, op. cit., p. 472).
(6) De Beausabre, op. cit., p. 473.
(7) Ibid.
(8) Ibid.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 123
non sono affatto d'accordo sulla natura divina, e anzi molti di
loro, secondo lo studioso, credettero ad un Dio corporeo (9).
A questo punto, però, noi obbiettiamo che non si tratta di giu-
stificare o condannare la dottrina manichea, ma di comprenderne
i principi, per cui, quand'anche si potesse dimostrare che il con-
cetto della sostanza del dio manicheo era condiviso anche da fi-
losofi cristiani, ciò non verrebbe ad escluderne la corporeità , ed
è questo invece quello che a noi interessa precisare.
Agostino afferma nelle Confessioni : « io credevo, o Signore,
mio Dio e mia verità , che tu fossi un corpo lucente e immenso, ed
io una particella di quel corpo» (10), tesi materialistica, che, se-
condo Agostino, poteva senz'altro esser confutata da un argomen-
to di Nebridio, che chiede ai Manichei cosa avrebbe potuto fare
a Dio quella non so quale popolazione delle tenebre, che gli so-
gliono contrapporre da parte della massa contraria, se non Dio non
avesse voluto combattere con essa : Gli avrebbe forse nociuto? In
tal caso Egli sarebbe stato violabile e corruttibile. Non avrebbe
potuto nuocergli in nulla? E allora sarebbe venuto meno ogni
motivo di combattere e di combattere con esito tale che una por-
zione di Dio, anzi un Suo membro o germoglio della stessa Sua
sostanza, s'era mescolata alla potenze avverse e nature da Lui non
create, e per opera loro s'era corrotta e mutata in peggio, conver-
tendo la propria abitudine in miseria, tanto, da aver bisogno
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d'aiuto per poter esserne tratta fuori e purgata. Questa Sua por-
zione costituiva l'anima, alla cui schiavitù, contaminazione e cor-
ruzione doveva recar soccorso il Suo Verbo, libero, puro e incor-
rotto: anch'esso però corruttibile, perché procedente da un'unica
e medesima sostanza. E Nebridio conclude osservando che se i
Manichei avessero risposto che la sostanza divina era incorrutti-
bile, sarebbero risultate false ed esacrabili tutte le altre afferma-
zioni; se, invece, corruttibile, questa stessa affermazione si sareb-
be presentata senz'altro bugiarda o abominevole» (11).
Però, Agostino stesso ammette che quando si parla coi Mani-
chei bisogna intendersi di quale Dio si parla, poiché essi ammet-
(9) A questo proposito il De Beausobre cita le parole di Tertulliano, il
quale osserva : « Quis enim negabit, Deum esse corpus, et si Deus Spiritus
est? Spiritus etiam corpus sui generis, in sua effige » (Tertull., Adv.
Praz., cap. VII).
(10) Conf., l. IV, cap. XVI, col. 706.
(11) Conf., l. VII, cap. II. col. 734.
124 ANNA ESCHER DI STEFANO
tono l'esistenza di due divinità , l'una buona, l'altra cattiva : « quod
si dicitis colere vos et colendum arbitrari Deum a quo factus est
mundus, non tamen eum esse quem Veteris Testamenti commen-
dat auctoritas; impudenter facitis, qui alienum animum atque sen-
tentiam quam bene atque utiliter acceperimus, male interpretari
conamini, frustra omnino » (12). Solo che, come diremo in seguito,
bisogna precisare cosa i Manichei intendono quando parlano di
due diverse e opposte divinità .
Un'altra questione importante riguardo la sostanza di Dio
per i Manichei è se essa sia immanente rispetto al mondo, e
quindi identificantesi panteisticamente con esso, oppure trascen-
dente.
Il Martin è un sostenitore della tesi panteistica (13), e così
pure il Cumont. Quest'ultimo afferma : « la théologie manichéen-
ne, qui est un panthéisme dédoublé, concoit Dieu comme rem-
plissant ces espaces tout entiers: ils sont, comme dit le Fihrst,
ses « membres », ses parties, bien qu'ils soient aussi « en dehors
de lui ». Quoique ayant une existence distincte de lui, ils partici-
pent de sa substance» (14). E anche nella Disputa d'Archelao ri-
troviamo sostenuta la medesima tesi : « Se noi supponiamo, dice
questa, che non vi sia alcun punto che non sia pieno della divinità ,
quale posto resterà per collocarvi la creatura? Ove sarà il Fuoco?
dove saranno le tenebre? Li metteremo forse in Dio? Ciò è assur-
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do, poiché egli stesso ne sarebbe tormentato» (15). «Il mondo,
si aggiunge nella Disputa, è come un vaso: se la sostanza divina
riempie tutto questo vaso, come sarebbe possibile mettervi qual-
cosa di più, a meno che essa non sia già una parte di ciò che la
riempie? Ma dove si potrebbe mettere, se non vi è alcun luogo al
di fuori del vaso? » (16).
E sembra che anche Agostino sia stato dello stesso parere, da-
te le molteplici accuse che egli scaglia in proposito ai Manichei.
Agostino discute su quest'argomento soprattutto nell'Epistola
(12) De Moribus Ecci. et Manich., l. I, cap. X. col. 1317.
(13) J. Martin, op. cifc, p. 123 : « Il (Agostino) avait rencontré deux
ibis la doctrine de l'identification, chez les Manichéens d'abord, puis chez
les philosophes ».
(14) Franz Cumont, Le Manichéisme, vol. I, Lamertin, Bruxelles, 1908,
p. 9.
(15) Acta Disp. Arch., p. 66.
(16) Ibid.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 125
Fundamenti : « Ita autem fundata sunt ejusdem splendidissima
regna supra lucidam et beatam terram, ut a nullo unquam aut
moveri aut concuti possint » (17). E chiede se questa terra di
cui Mani parla fu fatta o generata da Dio o se è coeterna a Lui;
dopo molte tergiversazioni Felice, uno dei discepoli di Mani, si de-
cide per il terzo caso, affermando cioè che la terra è coeterna a
Dio; affermazione, che, insieme alla altre sullo stesso tenore, ha
dato adito alla supposizione dell'identità manichea della sostan-
za divina con quella del mondo. E che Agostino creda alla ve-
ridicità di quest'affermazione e alla sua reale rispondenza con i
principi professati dai Manichei, è dimostrato dal numerosi passi
in cui egli rimprovera loro questa concezione. Nel Cantra Fau-
stum; ad es., osserva che se l'anima fosse veramente la stessa so-
stanza di Dio, ne conseguirebbe che la sostanza di Dio si corrompe
e si viola. E altrove osserva che se Dio fosse l'anima del mondo,
non resterebbe niente che non fosse una parte di Lui, mentre è
evidente che quest'affermazione è empia e sacrilega, poiché calpe-
stando anche col piede qualche cosa, si calpesterebbe una parte di
Dio, e uccidendo un animale, si ucciderebbe una parte di Dio (18).
A parte il fatto (19) che è assurdo pensare che Dio possa tor-
mentare le sue stesse membra, condannandosi ad un patimento
eterno. Io vi domando, chiede infine Agostino ai Manichei (20),
donde provenga tutto l'universo. E voi non potete trovare alcuna
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risposta a meno che non si ammetta che esso sia stato creato dal
nulla. Ma se voi non volete ammettere che il Padre, per mezzo del
Figlio e dell'amore dello Spirito Santo ha creato dal nulla tutto
l'universo che è buono in se stesso, ma sempre inferiore al Crea-
tore ed infine, mutevole, voi siete costretti a profferire parole sa-
crileghe : Dio, direte voi, ha generato da se stesso qualche cosa
che non è uguale al Suo principio generatore, che può anzi essere
assoggettato alla vanità . Orbene se la cosa generata è uguale a
Dio, sono tanto Dio, che la creatura mutevoli, affermazione questa
evidentemente empia : « Si autem timueris dicere mutabilem
Deum, quia revera magna est et apertissima impietas; dixeris
etiam creaturam esse incommutabilem, ut eam parem facias
(17) Contra Epist. Fundamenti, cap. XIII, col. 183.
(18) Contra Fort, disp. I, col. 116.
(19) Contra Faustum, l. XXII, cap. VIII, col. 414.
(20) Contra Secundin., cap. VIII, col. 584.
126 ANNA ESCHER DI STEFANO
Creatori, et unius eiusdemque substantiae : rursus tibi tua epi-
stola respondebit» (21).
Ora, soprattutto quest'ultimo brano che abbiamo riportato ci
mostra ove riposa l'errore di Agostino. La riluttanza da parte ma-
nichea ad ammettere che il Padre abbia creato l'universo, non de-
ve farci concludere, come invece fa il Martin, per una elimina-
zione del rapporto creazionistico tra Dio e il mondo, e per una
identificazione dei due termini. I Manichei non volevano far ri-
salire a Dio la creazione del mondo per il semplice motivo che es-
si non credevano che dalla Luce purissima potesse derivare il
mondo delle tenebre, la cui origine era piuttosto da addebbitare
al Principio del male. Oltre tutto, lo stesso pessimismo, lo stesso
dramma che avvolge l'universo manicheo avrebbe dovuto mostra-
re l'inammissibilità di una sua identificazione col Dio del bene.
Infatti noi sappiamo dalla testimonianza di Teodoro bar Khóni
che il dio del male gettò i corpi degli Arconti sulla terra e con le
loro ossa formò le montagne, con la loro carne le terre. E abbiamo
visto che anche Agostino ci testimonia come «spiritum potentem
de captivis corporibus gentis tenebrarum... mundum fabrican-
tem» (22).
Dunque l'interpretazione pantestistica sostenuta da Agostino
e dai critici che lo seguono è del tutto insostenibile.
Agostino, dopo aver criticato la tesi manichea che il mondo
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sia della stessa sostanza di Dio, conclude prendendo partito con-
tro la tesi manichea di un Dio antropomorfico. Infatti è stolto
credere che Dio possa essere contenuto nello spazio, per immenso
che si supponga, ed è empio pensare che lui stesso o parte di Lui
si muova o passi da un luogo ad un altro. E così pure che qualche
parte della Sua sostanza o natura possa soffrire in qualche modo
cambiamento o conversione. E avviene purtroppo che ci sono dei
fanciulli che si rappresentano Dio in figura di uomo, tale imma-
ginandoselo realmente. Ma gli altri, al lume della propria ragione,
vedono che la maestà di Dio rimane immutabile e inviolabile non
solo rispetto al corpo umano, ma al di sopra dello stesso intel-
letto (23).
(21) Ibìd.
(22) Contra Faustum, l. XX, cap. IX, col. 375.
(23) De Moribus Eccles., l. I, cap. X, col. 1318.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 127
Ma l'accusa di antropomorfismo non si può rivolgere nemme-
no essa contro i Manichei. Tant'è vero che essi lanciano la stessa
accusa contro il Vecchio Testamento a proposito dell'uomo, fatto
secondo la dottrina cristiana, ad immagine e somiglianza di Dio.
Ed è inammissibile che essi accusassero i loro avversari di un er-
rore da loro stessi commesso.
Ma in che rapporto sta il mondo con Dio?
La difficoltà di una derivazione dell'universo, con il suo ba-
gaglio di male e di miserie, dal Bene supremo è vista anche da
Agostino.
Collocai, egli dice, al cospetto del mio spirito tutta quanta la
Tua creazione, tutto quanto possiamo vedere in essa come terra,
mare, aria, stelle, alberi, animali, mortali; e tutto quanto in essa
non vediamo, come il firmamento che è in alto e tutti gli angeli e
gli esseri suoi spirituali, ma come se fossero anche questi dei cor-
pi, collocati ognuno in un dato luogo, a secondo l'ordine creato
dalla mia immaginazione. E dicevo: Ecco la creazione di Dio. Dio
è buono e superiore di gran lunga alle cose da Lui create. E, buo-
no com'è, non ha potuto creare che cose buone. Ma allora donde è
il male e come si è insinuato nelle cose? Quale la sua radice, la
sua semenza? O piuttosto il male non esiste affatto? E allora per-
ché temiamo e scansiamo ciò che non esiste? Ché, se temiamo a
vuoto, il timore stesso è un male, che punge e tormenta senza un
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motivo il nostro cuore, anzi un male tanto più grave, in quanto
non esiste ragione di temere e tuttavia temiamo. Perciò o il male
che si teme esiste, o il fatto stesso del temere è un male. Donde
dunque il male, se Dio, buono, ha fatto tutte le cose buone? Egli,
bene maggiore, anzi bene sommo, ha creato, è vero, dei bene mi-
nori : tuttavia creatore e creature, sono buoni, Donde, dunque, il
male? Forse la materia con cui Dio creò le cose era in qualche
parte cattiva, ed egli, nel darle ordine e forma, vi lasciò una parte
che non convertì in buona? Perché questo? Forse era impotente a
cambiarla e a mutarla, egli che è onnipotente? Infine, perché di
quella materia volle egli creare qualche cosa, e non piuttosto,
con la stessa onnipotenza non la ridusse al nulla? Oppure avreb-
be quella potuto esistere contro la sua volontà ? O se esisteva ab
aeterno, perché durante gli infiniti secoli trascorsi la lasciò a
lungo in quello stato e dopo tanto tempo gli piacque creare di es-
sa qualche cosa? Piuttosto, se improvvisamente sorse in Lui la
128 ANNA ESCHER DI STEFANO
volontà di fare qualche cosa, avrebbe dovuto impiegarla per ri-
durre quella materia al nulla, in modo che esistesse Lui solo,
sommamente ed infinitamente buono. O se non era bene che Egli
buono, non costruisse e creasse nulla di buono, avrebbe dovuto
toglier via e ridurre al nulla quella materia ch'era cattiva e pre-
pararne della buona con cui formare l'universo. Perché, se non
avesse potuto far nulla di buono senza il concorso di quella ma-
teria da Lui creata, non sarebbe stato onnipotente (24).
Il mondo, infine, può avere due origini : o Dio l'ha creato dal
niente o lo ha fatto dalla propria sostanza. Ma ammettere questa
ultima ipotesi significherebbe ammettere che la sostanza divina
può subire cambiamenti, può diventare finita e soggetta a tutte le
alterazioni, e perfino alla distruzione : cosa evidentemente as-
surda. Dio non può cambiare, poiché se così fosse non potrebbe
che diventare sempre migliore, cosa impossibile, in quanto Dio è
già perfetto. Quindi non potendo ammettere questa seconda ipo-
tesi, e cioè che Dio abbia creato il mondo dalla propria sostanza, bi-
sognerà ammettere la prima, e cioè che Dio ha creato il mondo dal
nulla.
Scrive Agostino nel « Contra Secundinum Manìchaeum » :
« Quopropter cum abs te quaero, unde sit facta universa creatura,
quamvis in suagenera bona, creatore tamen inferior, atque illo in-
mutabili permanente ipsa mutabilis; non invenies quid respon-
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deas, nisi de nihilo factam esse fatearis » (25).
Dio è onnipotente, il che vuol dire che non ha bisogno di
alcun mezzo per creare ciò che vuole, quindi « omnia quae Deus
fecit per Verbum et Sapientiam suam de nihilo fecerit» (26). Tu
parlasti, dice Agostino nelle Confessioni, e il cielo e la terra fu-
rono fatti, Tu li facesti nella tua parola (27). Il mondo dunque è
stato creato dal nulla e non dalla sostanza divina, e la frase « facia-
mus hominem ad immaginem et similitudinem nostram » (28) si
deve intendere non nel senso che Dio sia formato della stessa so-
stanza materiale della quale è costituito l'uomo, ma nel senso che
l'uomo era stato creato prima del peccato simile a Dio; ma dopo
(24) Confes., l. VII, cap. V, col. 737.
(25) Contra Secundinum, cap. VIII, col. 584.
(26) Contra Fortunatum, disp. I, col. 117.
(27) Confes., l. XI, cap. V, col. 812.
(28) Gen.,-1. 6.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 129
il peccato di Adamo l'immagine di Dio nell'uomo si è deformata e
solo mediante la grazia egli ha potuto riacquistare la sua in-
tegrità .
Agostino, come prova della tesi che il mondo fu fatto dal
niente, oltre le dimostrazioni fatte, che mirano a soddisfare la ra-
gione, cita anche un passo del Vangelo, che sostenendo lo stesso
concetto, dà alla tesi di Agostino anche il consenso dell'autorità :
« Ipse iussit, et facta sunt; ipse mandavit, et constituta sunt » (29).
Dunque dal nulla Dio fece tutte le cose e non essendo queste
cose della stessa natura divina, Dio è puro spirito. Ma come con-
cepire allora la natura divina, si chiedono i Manichei? Agostino
risponde che di Dio niente altro si può dire, se non che Egli è.
Ed infatti Agostino non pretende spiegarci esattamente la natura
di Dio. Egli anzi sostiene che la maniera migliore di conoscerlo,
sia l'ammettere di non conoscerlo affatto. Possiamo solo con si-
curezza affermare che Dio non è qualcosa di sensibile. Egli è la
verità , e gli attributi che più gli si confanno sono quelli dell'infi-
nità , immutabilità ed eternità ; poiché Dio è la pienezza dell'essere
e per conseguenza in Lui non è concepibile alcun divenire o mu-
tamento (30).
(29) Psai., CXLVIII, 5.
(30) Secondo Agostino la ricerca di Dio non è possibile se non spro-
fondandosi nella propria interiorità ; non filosoficamente Agostino cerca
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Dio, ma attraverso un processo mistico. O, per essere più precisi, nella ri-
cerca agostiniana della sostanza divina convergono ad un tempo filosofia
e religione, ricerca speculative e fede. Agostino ha saputo conciliare la
trascendenza di Dio necessaria alla sua immutabilità e incorruttibilità ,
con la presenza di Dio in noi. Il Terzi, dopo aver parlato della soluzione
che Agostino dà a questo problema, dice : « Questa è la meravigliosa ri-
sposta data da un pensatore cristiano ai Manichei, che pensavano che la
sostanza divina fosse corrotta da una natura a cui si era mescolata... Ma
Agostino non nega che Dio sia intimo alle creature, perché superando il
materialismo manicheo, concepisce Dio come spirito. Perciò Dio è onni-
presente in tutte le creature e specialmente nella mente dell'uomo, la quale
è illumiinata da Dio Verità . Dio pensato come spirito è rispetto alla mente
umana Verità immutevole ed eterna. Ora Dio Verità è sì intimo alla mente
umana, ma la trascende, perché è quella luce eterna di Verità , la quale
rende possibile alla mente di giudicare le cose del mondo esterno rivela-
tele dalla percezione sensibile. Se la mente erra, l'errore è proprio della
mente umana, la quale è distratta dalle cose sensibili. Ma se la mente
e Dio fossero della stessa sostanza, come pensavano i Manichei, Dio sarebbe
soggetto ad errare e a peccare. Dio-Verità è sì presente nell'intelligenza
130 ANNA ESCHER DI STEFANO
La concezione di un Dio sommamente buono la ritroviamo
però, anche nei Manichei. Ed appunto una riconferma del fatto che
i Manichei non volessero far risalire la creazione del mondo a Dio,
o peggio, identificassero il mondo con Dio, la ritroviamo nella
loro concezione di un Dio delle tenebre, con cui essi salvavano
ad un tempo la perfezione divina e l'aderenza al reale. Nella
Epistilia Fundamenti Mani sostiene che i due regni del bene e
del male sono uniti in una loro parte : « juxta unam vero partem ac
latus » (31), e poi aggiunge che infiniti sono i lati del regno della
luce, i quali non posseggono confini. E questo ci dimostra, ancora
una volta, che Mani non intendeva identificare la finitezza, e dun-
que il mondo, con Dio.
A questo punto è necessario chiarire il problema sul rap-
porto che i Manichei ponevano tra Dio, luce purissima e le due
potenze del bene e del male.
I Manichei hanno adorato un solo Dio, o due dei, l'uno del
bene e l'altro del Male? Agostino affronta la questione nel Contro.
Faustum (32). Credete, in due dei o in uno solo? chiede egli al
maestro manicheo. Fausto risponde : non ve n'é che uno solo. E
Agostino ribatte : ma perché mai allora supponete due principi,
l'uno del bene e l'altro del male? E Fausto : è vero che noi suppo-
niamo due principi, ma questi fanno capo ad un solo Dio. Infatti
i due principi sono l'uno la materia, o demone, e l'altro la luce.
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Ma con ciò noi non vogliamo dualizzare la divinità . Ora se voi
pretendete che ciò comporti l'affermazione di due dei, voi per lo
stesso motivo, pretendete anche che un medico, che tratti della
salute o della malattia, tratti di due tipi di salute, o che un filo-
sofo, che discorra del bene o del male, dell'abbondanza e della
povertà , sostenga che vi siano due beni, o due abbondanze. Per-
tanto, come sarebbe assurdo designare ciò con due stessi nomi,
analogamente è assurdo assegnare il nome di Dio alla mate-
ria, che non ha niente in comune con Dio: «Nec diffiteor,
etiam interdum nos adversam naturam nuncupare Deum, sed non
hoc secundum nostram fidem, verum juxta praesemptum jam in
umana, ma non si identifica con essa, perché la trascende. Così pure Dio
è presente in tutte le creature, perché è la Vita della loro vita, ma è nello
stesso tempo, oltre tutto ciò in cui pure è presente » (Terzi, op. cit., p. 102).
(31) Contra Epìstulam Fundamenti, cap. XII.
(32) Contra Faustum, l. XXI, cap. I, col. 387.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 131
eam nomen, a cultoribus suis, qui eam imprudenter existimant
deum » (33). Però, nonostante questa difesa, Agostino insiste nel
dire che si è soliti udire parlare nelle dispute manichee di due
dei : « Duos quidem deos in vestris disputationibus solemus audire,
quod etsi primo negasti, tamen paulo post etiam ipse confessus
es, quasi rationem reddens cur hoc dicatis » (34).
Sembra però che in questa controversia la ragione stia dalla
parte di Fausto, sia perché egli esplicitamente afferma che la dot-
trina manichea si basa su un Dio unico, e non si vede per quale
motivo egli avrebbe dovuto mentire, né lo si può accusare di non
conoscere i principi basilari della setta di cui egli era uno dei
più apprezzati vescovi; sia perché i termini stessi del problema
sono una conferma delle sue parole. Infatti, mentre i Manichei de-
finiscono la natura divina infinitamente perfetta, felice, causa di
tutto il bene, definiscono al contrario la materia come imperfe-
zione, male, e miseria. I Manichei, come ben dice il De Beausobre,
non potevano certamente riunire sotto l'idea comune della divi-
nità due sostanze, di cui l'una ha tutte le perfezioni possibili e
l'altra tutte le imperfezioni opposte. Ciò che costituisce l'essenza
divina è l'unione delle perfezioni naturali e delle perfezioni mo-
rali. Mani invece non dà alla materia nessuna delle perfezioni
naturali delle divinità , e le rifiuta tutte quelle perfezioni morali,
senza di cui niente resta di Dio (35).
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Però Agostino obbietta che, poiché Mani attribuisce alla ma-
teria una esistenza di per sé, «ergo quod verus Deus facit, id est,
elementorum, corporum animalium qualitates et formas, ut cor-
pora, ut dementa, ut animalia sint, hoc vos dicitis nescio quem
alterum facere, quolibet eum nomine vocitetis recte dicimini er-
rore vestro deum alterum inducere » (36). A questa istanza di Ago-
stino il De Beausobre risponde che Agostino si è sbagliato pen-
sando che i Manichei attribuiscano a « io non so quale altro Dio »
il potere di convertire la materia in elementi. Essi credevano la
materia non solamente eterna, ma eternamente distinta in fuoco,
acqua, terra, aria, e la stessa necessità che le ha dato l'esistenza,
le aveva dato le modificazioni delle parti. Ben lungi gli antichi dal
(33) Ibid., col. 388.
(34) Ibid., cap. II, col. 389.
(35) De Beausobre, op. cit, p. 491.
(36) Contra Faustum, l. XXI, cap. IV, coli. 390-1.
132 ANNA ESCHER DI STEFANO
credere che la formazione dei corpi fosse un'operazione propria
della divinità , essi la credevano del tutto indegna, in quanto i
corpi rappresentavano la sede delle passioni, delle malattie e
della morte. Tant'è vero che Platone nel Timeo rappresenta il Dio
supremo come il creatore delle anime, mentre la funzione di dar
forma ai corpi mortali è affidata agli dei inferiori, suoi mini-
stri (37). Inoltre Agostino stesso ha creduto che gli angeli che ap-
paiono ai patriarchi si fossero rivestiti di corpi umani, di cui essi
furono l'anima per qualche tempo. E i Magi d'Egitto, assistiti dai
dèmoni, secondo Agostino, avevano formato rane e serpenti : i
Manichei non dicevano che il demone avesse creato il mondo, ma
lo credevano soltanto l'autore degli animali malvagi, di quelle
speci d'animali che gli antichi teologi immaginavano fossero stati
creati dopo il peccato, per punire il peccatore (38). E il De Beau-
sobre conclude che i Manichei avessero supposto una Potenza che
potesse dar vita e sentimento ad una materia morta e insensibile,
le avrebbero effettivamente attribuito un'operazione propria di
Dio. Ma essi non hanno dato alla potenza delle tenebre che il po-
tere di formare corpi d'animali, « et du reste il est certain, qu'il
n'a reconnu qu'un seul Dieu, qu'un seul Etre souverainement Par-
fait, quoiqu'il ait été assez aveugle, pour donne à la matiére par
soi-mème qui n'appartient qu'à Dieu» (39). Essi pertanto non
hanno mai servito più dei.
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Ma l'obbiezione del De Beausobre non regge. Infatti questa
natura di cui si serve il dio del male, o l'ha creata lui stesso, e
allora egli è evidentemente dio, con poteri eguali a quelli del
dio del bene. O è stata creata dal dio del bene. In questo caso o
essa è buona, e allora il demone è più potente del dio della Luce,
in quanto ha la capacità di mutare ciò che questi ha già stabi-
lito, volgendolo verso disegni opposti, sostituendo cioè al bene
primitivo il male. O invece questa natura è cattiva, e allora in
primo luogo si viene a contraddire uno dei capisaldi della dot-
trina manichea, che cioè dal dio del bene non possa provenire
altro che bene; in secondo luogo, si riproporrebbe conseguente-
mente il problema della concordanza tra questa materia cattiva
e Dio; e in terzo luogo verrebbe a scomparire la necessità della
(37) De Beausobre, op. cit., pp. 493-4.
(38) Ibid., p. 495.
(39) Ibid., p. 496.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 133
presenza del dio del male, in quanto ché la natura cattiva avrebbe
già una sua causa. Non rimane dunque che ammettere che que-
sta natura sia amorfa, e che il demone se ne serva per darle vita
e fare sorgere gli animali cattivi. Ma questa, come il De Beausobre
stesso l'ha definita, è un'operazione propria della divinità , ha dun-
que la potenza delle tenebre dei Manichei ed ha funzioni pretta-
mente divine. Non si tratta dunque di un solo dio, ma di due dei.
Inoltre per i Manichei, secondo l'interpretazione del De Beau-
sobre, il demone aveva la facoltà di dar vita solo agli animali
malvagi. Ma un animale non è un malvagio in sé, singolarmente
considerato, ma in relazione al punto di vista con cui lo si guarda.
Quindi allora è possibile pensare che ogni singolo animale, a se-
condo della differente valutazione, sia da un lato creatura della
luce e dall'altra creatura delle tenebre?
Inoltre si potrebbe obbiettare a Mani, che afferma che il dio
delle tenebre è « ingenitus et non creatus » (40), che solo Dio è
immortale e infinito, e che ammette due dei infiniti, è lo stesso
che negar loro l'infinità .
Ma quali attributi Mani ha dato al suo Dio, inteso come Luce
corpore e tenuissima?
Questa è la definizione che di Dio da Fausto : « Summum et
verum Deum, utrum sit finitus nec ne, si quaeritur de hoc boni et
mali contrarietas breviter poterit edocere; quandoquidem si non
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est Malum, profecto infinitus est Deus. Habet autem finem; si
malum est, non igitu rinfinitus est. Illic non esse mala incipiunt,
ubi honorum est finis » (41). Altri attributi che i Manichei danno
alla loro sostanza sono « beatus », « lucidus », « incorporeus », « spi-
ritualis », « illustris » et « sanctus ». Questo dunque è il dio per i
manichei « Pater in sua sancta stirpe perpetuus, in virtute magni-
ficus, natura ipsa verus, aeternitate propria semper exultans, con-
tinens apud se sapientiam et sensus vitales... in sua laude praeci-
puus... copulata habet sibi beata et gloriosa saecula neque numero,
neque prolixitate aestimanda, cum quibus idem Sanctus atque il-
lustris Pater et genitor degit, nullo in regnis ejus insignibus aut
indigente, aut ejusdem infirmo constituto. Ita autem fundata ejus
sunt splendidissima regna supra lucidam et beatam terram, ut a
nullo unquam aut moveri aut concuti possint» (42). Brano
(40) De Fide, cap. II, col. 114.
(41) Contra Fawtum, l. XXVI.
134 ANNA ESCHER DI STEFANO
che mostra come il dio manicheo abbia molte caratteristiche
cristiane, fra cui anche la onnipotenza. Infatti Fortunato dice
ad Agostino : « Dico quod nihil mali ex se proferat Deus
omnipotens, et quod quae sunt incorrupta maneant, uno ex
fonte inviolabili orta et genita» (43). Quindi sono false le
accuse mosse ai Manichei, tendenti a negare il carattere di
onnipotenza della loro divinità . Però questa accusa potrebbe
essere mossa da un lato diverso, e precisamente non negando
che i Manichei abbiano considerato il loro dio onnipotente,
ma facendo osservare che questa onnipotenza affermata dai ma-
nichei, è più verbale che reale, in quanto Dio non ha la capacitÃ
di assoggettare ai suoi voleri la malvagità della materia, quindi
la sua azione è definita, limitata dalla presenza del demone. Si
ripete in campo metafìsico quello che abbiamo notato in campo
gnoseologico, quando cioè i Manichei sono stati costretti ad affer-
mare la finitezza del concetto di Dio, che poneva i suoi limiti lÃ
dove aveva inizio la materia : Dio non poteva essere infinito se
c'era il male : « illic enim esse mala incipiunt, ubi honorum est
finis » (44). I Manichei avevano infatti affermato che una parte
di Dio era rimasta presa nel popolo delle tenebre e contaminata.
E Agostino risponde : Che cosa avrebbe potuto fare a te quella
non so quale popolazione delle tenebre, che ti sogliono contrap-
porre da parte della massa contraria, se tu non avessi voluto com-
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battere con essa? T'avrebbe nociuto? In tal caso tu saresti stato
violabile e corruttibile. Non ti avrebbe potuto nuocere in nulla?
(42) Cantra epist. Fundamenti, cap. XII, coli. 182-3.
(43) Contra Fortunat., disp. II, col. 121.
(44) Per il De Beausobre l'errore dei Manichei « seroit de mettre au
rang des choses impossibles une chose, qui ne le seroit pas; de trouver de
la contradiction, ou il n'y en a point. C'étoit là précisément Perreur des
Manichéens. Nous croyons que la Création de rien est possible: c'est-à -
dire, que nous croyons que Dieu peut faire exister des substances qui
n'existoient pas: qu'il n'a pas seulement la pouvoir de créer des modes
dans la substance: mais qu'il peut créer la substance mème. Malheurese-
ment les Manichéens étoient prévenus en iaveur de l'erreur générale, qui
avoit de tout temps régné dans le monde; c'est que la création de rien
est hors de3 choses possibles. E ayant une fois posé ce principe, ils ne
croyoient pas óter à Dieu un pouvoir réel, en niant qu'il pùt faire quel-
que chose de rien, parce que l'impossible n'est point objet de puissance.
Voilà la cause de leur erreur. Mais au reste la toute puissance de Dieu étoit
un article de leur créance » (op. ctt., p. 512).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 135
E allora veniva meno ogni motivo di combattere e di combattere
con esito tale che una tua porzione anzi un tuo membro o germo-
glio della tua stessa sostanza, s'era mescolata alle potenze avverse,
a nature da te non create, e per opera loro s'era corrotta e mutata
in peggio, convertendo la propria beatitudine in miseria, e aveva
bisogno d'aiuto per poter esserne tratta fuori e purgata... Con-
cludendo : se coloro affermavano che tu, cioè la tua sostanza,
per cui sei, era incorruttibile, risultavano false ed esecrabili tutte
le altre affermazioni; se invece, corruttibile, questa stessa affer-
mazione si presentava senz'altro bugiarda e abominevole (45). E
quest'osservazione di Agostino mette in piena luce il sottofondo
insostenibile della divinità manichea.
(45) Conf., 1- VII, cap. II, col. 734. Queste qualità negative erano non
un attributo che i Manichei davano alla loro divinità , ma una conseguenza
che Agostino ricavava dalla soluzione del problema del male dei Manichei.
Tant'è vero che, in nessun luogo, si trova una esplicita dichiarazione ma-
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nichea sulla corruttibilità di Dio, ma, anzi, solo dichiarazioni contrarie.
Capitolo Settimo
IL PROBLEMA DELLA APOSTOLICITA' DI
MANI E DELLA SUA IDENTIFICAZIONE
CON LO SPIRITO PARACLETO
Mani ha lasciato scritto che a tredici anni, il terzo del regno
di Ardaschir ebbe una rivelazione divina, rinnovatasi nel suo ven-
ticinquesimo anno di età . In seguito a ciò, abbandonò la sua pri-
mitiva fede, che lo aveva fatto aderire alla setta dei Moughtosilas,
facendosi profeta di una nuova dottrina. Egli — dice l'Alfaric —
si presentava come il Paracleto promesso dal Salvatore, come l'ul-
timo apostolo di Cristo, colui che doveva sostituire alla scienza
parziale e confusa dei tempi passati, la piena e serena visione
della verità divina (1).
Mani infatti crea tutta una sua gerarchia, dividendo i propri
fedeli in dodici apostoli, settantadue discepoli o vescovi, e poi
in preti, diaconi, e infine uditori. I fedeli, poi, complessivamente
sono distinti nelle due grandi categorie di eletti ed uditori (2).
Agostino ci informa che tutti i Manichei erano molto devoti e os-
sequenti verso il credo prestabilito dai loro libri sacri. Essi si
(1) Alfaric, op. cit., p. 21.
(2) Agostino ci informa sulla distinzione dei proseliti di Mani nel De
Haeres., XLVI : « Nam his duabus professionibus, hoc est Electorum et
Auditorum, Ecclesiam suam constare voluerunt» (col. 35). E più oltre
(Ibid., col. 38), con maggiore precisione : « Propter quod etiam ipse Mani-
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chaeus duodecim discipulos habuit, ad instar apostolici numeri, quem nu-
merum Manichaei hodieque custodiunt. Nam ex Electis suis habent duo-
decim, quos appellant magistros, et tertium decimum principem ipsorum:
episcopos autem septuaginta duos, qui ordinantur a magistris; et presbyteros,
qui ordinantur ab episcopis. Habent etiam episcopi diaconos. Jam caeteri
tantummodo Electi vocantur: sed mittuntur etiam ipsi qui videntur idonei,
ad hunc errorem, vel ubi est, sustentandum et augendum; vel, ubi non
est, etiam seminandum ».
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 137
riunivano tutte le domeniche per recitare le loro preghiere e
cantare i loro inni, e per studiare e comprendere i loro libri sacri,
che poi leggevano ai fedeli (3), spiegando loro i passi oscuri. Gli
eletti, che Agostino chiama catharistae (3), erano obbligati ad un
severo tenore di vita, per non inquinare la purezza della luce
che portavano in sé. Essi non dovevano bestemmiare, spergiu-
rare, mangiar carne, bere vino, far lavori manuali, usare denaro.
Non dovevano inoltre uccidere alcun uomo, alcuna bestia, né dan-
neggiare alcuna pianta (4). Dovevano astenersi dalla procreazione,
in quanto questa serve solo a perpetuare il regno delle tenebre (5).
Gli uditori, invece dovevano solo ubbidire alla morale comune,
o dei dieci comandamenti; era loro proibita l'idolatria, la menzo-
gna, l'avarizia, l'omicidio, l'adulterio, l'eterodossia, il dubbio in
materia religiosa, l'oblio delle preghiere liturgiche. Tolleranza
questa, che però, come i Manichei tenevano a sottolineare, era
(3) « Ac per hoc sequitur eos, ut sic eam etiam de semine humano,
quemadmodum de aliis seminibus quae in alimentis sumunt, debeant mandu-
cando purgare. Unde etiam Catharistate appellantur, quasi purgatores,
tanta eam purgantes diligentia ut se nec ab hac tam horrenda cibi turpi-
tudine abstineant » (Ibid., col. 36).
(4) « Nec vescuntur tamen camibus tanquam de mortuis vel occisis
fugerit divina substantia, tantumque ac tale inde remanserit, quod jam
dignum non sit in Electorum ventre purgari. Nec ova saltem sumunt, quasi
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et ipsa cum franguntur exspirent, nec oporteat ullis mortuis corporibus
vesci, et hoc solum vivat ex carne, quod farina, ne moriatur. excipitur. Sed
nec alimonia lactis utuntur quamvis de corpore animantis vivente mul-
geatur sive sugatur: non quia putant divinae substantiae nihil ibi esse
permixtum, sed quia sibi error ipsi non constat. Nam et vinum non bi-
bunt, dicentes vel esse principium tenebrarum : cum vescantur uvis : nec
musti aliquid, vel recentissimi, sorbent » (Ibid., coli. 36-7).
(5) « Quarum inter se pugnam et commixtionem, et boni a malo pur-
gationem, et boni quod purgari non poterit. cum malo in aeternam dam-
nationem, secundum sua dogmata asseverantes. multa fabulantur, quae
cuncta intexere huic operi nimis longum est. Ex his autem suis fabulis
vanis atque impiis coguntur dicere, animas bonas, quas censent ab ani-
marum malarum naturae scilicet contrariae commixtione liberandas. ejus
cujus Deus est esse naturae. Proinde mundum a natura Dei factum, confi-
tentur quidem, sed de commixtione boni et mali, quae facta est, quando
inter se utraque natura pugnavit. Ipsam vero boni a malo purgationem
ac liberationem, non solum per totum mundum et de omnibus ejus elemen-
tis virtutes Dei tacere dicunt, verum etiam Electos suos per alimenta quae
sumunt » (Ibid., col. 34-35).
138 ANNA ESCHER DI STEFANO
semplicemente provvisoria (6). Gli uditori inoltre dovevano ser-
vire gli eletti. Solo questi ultimi, dopo morti, si sarebbero ricon-
giunti alla luce, mentre gli altri avrebbero dovuto reincarnarsi
fino alla completa purificazione (7). Gli Eletti dunque sarebbero
saliti in cielo nella loro patria felice, le anime degli uditori sareb-
bero state condannate a passare da un corpo all'altro, e quelle dei
peccatori, schiave della materia, sarebbero state condannate a pre-
cipitare nell'inferno. Il giorno in cui tutti gli spiriti avessero
acquistata la loro piena libertà , e avessero raggiunto il loro sog-
giorno, il mondo sarebbe stato abbandonato dall'Ornamento di
Splendore che lo sostiene a Nord, e da Atlante, che a sud lo regge
sulle spalle (5). Le stelle quindi sarebbero cadute, e le montagne
sarebbero precipitate negli abissi tenebrosi dell'inferno (6). In tal
modo il Bene e il Male, ritornati al loro primitivo stato, sarebbero
rimasti separati da una barriera eterna (7).
« Quando la morte, dice Mani, si avvicina ad un Veridico,
l'Uomo Primitivo invia un Dio luminoso sotto la forma del sag-
gio Conduttore, il quale tre altri dei scortano con il vaso dell'ac-
qua, l'abito, le bende, la corona, il nimbo e che anche la Vergine
accompagna, simile all'anima di questo giusto. Contemporanea-
mente appare il Demonio della cupidigia e della concupiscenza,
insieme ad altri demoni. Appena il Veridico li scorge, chiama a
proprio soccorso gli Dei, che hanno l'aspetto del Saggio Condut-
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tore e i tre altri Dei. Questi gli si avvicinano. Non appena i De-
moni se ne accorgono, si voltano per fuggire. Quelli prendono il
Veridico, lo rivestono della corona, del nimbo e dell'abito, mettono
nella sua mano il vaso dell'acqua, e salgono con lui sulla Colonna
di Lode alla sfera della Luna, verso l'Uomo Primitivo e verso Nah-
(6) « Monent etiam eosdem Auditores suos, ut si vescuntur carnibus,
animalia non occidant, ne offendant prineipes tenebrarum in coelestibus
colligatos, a quibus omnem carnem dicunt originem ducere: et si utuntur
conjugibus, conceptum tamen generationemque devitent, ne divina sub-
stantia quae in eos per alimenta ingreditur, vinculis carneis ligetur in prole.
Sic quippe in omnem carnem, id est, per escas et potus venire animas cre-
dunt. Unde nuptias sine dubitatione condemnant et quantum in ipsis est,
prohibent» (Ibtd, col. 37).
(7) t Animas Auditorum suorum in Electos revolvi arbitrantur, aut fe-
liciore compendio in escas Electorum suorum, ut jam inde purgatae in nulla
corpora revertantur. Caetera autem animas et in pecora redire putant, et
in omnia quae radicibus flxa sunt atque aluntur in terra ». (Ibid.).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 139
naha, la Madre dei Viventi, fino al posto dove egli si trovava da
principio nel Paradiso della Luce. In questo tempo il suo corpo
resta giacente, in modo che il Sole, la Luna e gli Dei luminosi gli
tolgano le Forze, cioè a dire l'acqua, il fuoco, e il vento leggero;
così egli si eleva fino al Sole e diviene un Dio. Il resto del suo
corpo, non essendo ormai che Tenebre, è gettato nell'inferno.
Quando la morte si avvicina all'uomo militante, ben disposto per
la Religione e la Giustizia, che protegge l'una e l'altra, come i
Giusti, gli Dei già menzionati gli appaiono e così pure i Demoni.
Egli li chiama al proprio soccorso e cerca una mediazione propizia
in ricompensa delle buone opere che ha compiuto e della difesa
che ha dato alla Religione e ai Veridici. Anche lui viene liberato
dai Demoni. Ma egli resta nel mondo come un uomo che vede in
sogno degli spettri e che cade nell'immondizia e nel fango. Egli
resta in questo stato fino a che il suo spirito si sia liberato, e fino
a che egli pervenga all'appuntamento dei Veridici e rivesta
il loro abito dopo una lunga serie di sviamenti (8), Quando la
morte appare all'uomo peccatore, sul quale la Cupidigia e la Con-
cupiscenza hanno messo la mano, i Demoni gli si accostano, lo af-
ferrano, lo torturano e gli fanno vedere gli spettri. Anche gli dei
sono là , come l'abito menzionato. L'uomo peccatore crede che essi
siano venuti per salvarlo. Ma essi non sono lì che per prostrarlo
con i rimproveri, per fargli ricordare le sue azioni e convincerlo
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dell'errore che egli ha commesso trascurando di sostenere i Veri-
dici. Allora egli erra senza tregua nel mondo, afflitto dai tor-
menti, fino al giorno in cui questo stato cesserà ed egli sarà get-
(8) I Manichei negano la resurrezione della carne, in quanto ciò im-
plicherebbe un perpetuarsi della materia, fonte di male. Ammettono, però,
la trasmigrazione delle anime: argomento questo, dice il De Beausobre,
molto comune fra quei popoli la cui religione non riconosce l'immortalità :
f dogme très commun parmi les Nations, qui en ont reconnu l'Immorta-
lité. Il enseigna donc. qu'elles passent d'un Corps dans un autre, mais que
celles, qui sont pas purifiées par un certain nombre de révolutions sont li-
vrées aux Démons de l'Air, pour en ètre tormentées et domtées: Qu'après
cette rude pénitence, elles sont revoyées en d'autres Corps, comme dans
une nouvelle Ecole, jusqu'à qu'ayant acquis le degré de purification suf-
fisante, elles traversent la Région de la Matiére, et passent dans la Lune.
Lorsq'elle en est remplie, ce qui arrive quand toute sa surface est illu-
minée, elle s'en décharge entre les bras du soleil qui les remet à son tour
dans ce lieu, que les Manichéens appelloient la Colonne de la Gioire » (De
Beausobre, op. rit., p. XXXI).
140 ANNA ESCHER DI STEFANO
tato nell'inferno insieme a questo mondo. Tali sono, disse Mani,
le tre vie in base alle quali le anime degli uomini vengono sud-
divise. Una di esse conduce al Paradiso, ed è la via dei Veridici.
Un'altra va nel mondo e nei suoi terrori, ed è la via dei custodi
della religione e dei benefattori del Veridico. La terza conduce
all'inferno, ed è la via degli uomini peccatori » (9). Successiva-
mente, trattenendosi sulla sorte che attende i giusti, Mani, nel
brano che segue, ce li mostra trionfatori dei demoni e dei pec-
catori : « L'Uomo Primitivo viene allora, dice Mani, dal mondo
della Stella Polare, il Messaggero di Salute dall'Est, il Grande
Architetto dal Sud, lo Spirito Vivente dall'Ovest. Essi osservano il
nuovo edificio, che è il nuovo Paradiso. Contemporaneamente essi
girano attorno all'Inferno, e guardano nelle sue profondità . Al-
lora i Giusti vengono dal Paradiso verso questa Luce, per gettarsi
in essa. Essi si affrettano all'appuntamento degli dei e si affol-
lano attorno a questo inferno. Poi gettano i loro sguardi sui pec-
catori che si girano e si rigirano, errando qua e là e sprofondando
sempre più in questo Inferno, incapace di nuocere mai ai Veridici.
Quando i peccatori vedono i Veridici, intercedono presso di loro e
si gettano umilmente ai loro piedi. Ma quelli non rispondono se
non in termini d'accusa, che non giovano per nulla ai supplicanti.
I peccatori non ottengono altro che l'accrescimento del loro rim-
pianto, del loro dolore e della loro prostrazione. Tale sarà la loro
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sorte eterna » ( 10).
E altrove Mani, più particolareggiatamente profetizza ai pec-
catori: «Coloro che, per amore del mondo, si sono lasciati sviare
dalla loro prima via luminosa, che sono diventati nemici della
Santa Luce, che si sono armati apertamente per la rovina dei santi
elementi, che si sono sottomessi allo spirito del fuoco, che hanno,
inoltre, con le loro persecuzioni afflitta la santa chiesa e i suoi
Eletti, osservatori dei precetti celesti, saranno esclusi dalla bea-
titudine e dalla gloria del santo regno. Poiché essi si sono lasciati
dominare dal male, persevereranno in questa stessa radice del
male e si vedranno interdire la terra pacifica e le regioni immor-
tali. Ecco ciò che capiterà loro per essersi talmente attaccati alle
opere malvagie da essersi stornati dalla vita e dalla libertà della
(9) Fluegel, Mani, Seine Lehre und seine Schriften, Brockhaus, Leip-
zig, 1862; pp. 100-1.
(10) Fluegel, op. cit., pp. 101-2.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 141
santa Luce. Essi dunque non potranno essere ricevuti in questi
regni pacifici, ma saranno inchiodati su questo orribile globo al
quale, d'altra parte, è necessario dare una guardia. Così queste
anime aderiranno alle cose che avranno amato. Resteranno ab-
bandonate a questo globo tenebroso. E si saranno attirate questo
castigo con la loro colpa, non essendosi preoccupate di informarsi
sulla sorte che le attendeva e di evitarla allorquando se ne donava
loro l'occasione» (11).
Durante la vita, invece, il fedele, come An Nadim, uno sto-
rico arabo, ci informa, deve ubbidire oltre ai comandamenti che
abbiamo già esposto, anche al precetto delle quattro o sette pre-
ghiere. Il fedele, cioè, dopo essersi frizionato il corpo, rivolgendosi
verso la grande luce e prosternandosi, pronuncia queste parole :
« Benvenuta sia la nostra guida, il Paracleto, il Messaggero della
Luce; Benvenuti siano i suoi angeli e lodate siano le sue armi
luminose ». E dopo essersi di nuovo levato e inginocchiato, conti-
nua : « Glorioso e luminoso Mani, nostra guida, radice della no-
stra luce, ramo dell'onestà , il grande Albero, tu sei la nostra unica
salvezza ». E, prosternandosi per la terza volta : « Io mi prosterno
e lodo con cuore puro e lingua sincera il grande Dio, il padre
della Luce ». E dopo una quarta prostrazione : « Io lodo e invoco
tutti gli dei, tutti gli angeli luminosi, tutte le luci e tutti gli eser-
citi che sono davanti al grande Dio ». E prosternandosi per la
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quinta volta : « Io invoco e lodo gli eserciti e gli Dei luminosi, che,
con la loro saggezza, vincono sulle tenebre, le rigettano e le do-
mano ». E su questo tenore continuano le preghiere del fedele,
intercalate da prostrazioni (12).
Una convalida della coscienza profetica che Mani aveva della
propria missione non viene offerta soltanto dalla suesposta cata-
logazione delle ricompense e delle punizioni con le quali sarà re-
golata la vita ultraterrena, ma anche dalla necessità che Mani
sente di indicare quali testi dovranno essere ritenuti veridici e
quali invece apocrifi o interpolati. E' seguendo questo principio
informatore, che Mani rigetta il Vecchio Testamento, consideran-
dolo opera dell'uomo e non degno d'essere attribuito alla divinità ,
in quanto nessuno appiglio esso forniva alle sue rivelazioni, men-
tre accoglie gran parte del Nuovo Testamento, che attraverso una
(11) De fide cantra Manich., cap. V, coli. 1141-2.
(12) Alfaric, op. cit., p. 125.
142 ANNA ESCHER DI STEFANO
particolare interpretazione poteva offrire un appoggio dottrinale
ai capisaldi di quella che lui considerava la vera religione. E'
sempre in base ad uguale valutazione interpretativa che egli acco-
glie nel numero dei libri partecipanti alla verità opere di profeti
e filosofi soprattutto orientali. La strana predilezione di Mani per
l'Oriente non è dal suo punto di vista una valutazione arbitraria,
in quanto, seppure egli ammette per ogni popolo l'esistenza di
saggi e di filosofi e di profeti, tuttavia giudica vicini alla veritÃ
coloro che più si scostarono dalla dottrina giudaica, che aveva in
sé assai poco di verità , e che per quel poco che ne aveva, egli ri-
teneva fosse debitrice dei primi padri del genere umano, vissuti
in Oriente ed istruiti da angeli del Signore (13). Ma nessun testo
Mani accoglie come vero a priori, in quanto la sua verità sarÃ
confermabile solo dopo che venga confrontata con quella della
propria religione, e per ciò soltanto lui, illuminato dal Paracleto,
potrà dire di ogni testo quanto partecipi della verità .
Ma questa missione profetica che Mani si attribuisce, in che
modo deve essere valutata? In proposito abbiamo numerose e, a
(13) A questo proposito osserva il De Beausobre (op. cit., p. 252):
€ C'est qu'il recut la plùpart des Ecrits du Nouyeau Testament, ce n'étoit
néanmoins qu'autant qu'ils s'accordoient avec ses prétandues Révélation,
et avec sa fausse Science. Autrement il s'inscrivoit en faux contre nos
Evangiled, assurant qu'ils n'étoient point l'ouvrage des Disciples de J.
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Christ, ou qu'ils avoient été corrompus. Pour le Vieux Testament, il le
regordoit comme une compilation de Livres, composez par des Hébreux, et
pour les Hébreux seulement, remplis d'Ordonnances qui n'étoient pas di-
gnes de la Divinité, de fables et de superstitions Judaiques ». E altrove
osserva : « Manichèe, ayant nié l'inspiration et l'autorité des Prophètes
des Hébreux, s'anvisa de leur opposer d'autres Prophèted, dont les Orien-
taux prétendoient avoir les Livres. Il supposa donc, que Seth, Enoch, et
d'autres Patriarches, ayant été instruits par les bons Anges, avoient trans-
smis à tous leurs Descendans les Verites qu'ils en avoient apprises. Que
ces Instructions s'étoient conservées, soit dans des Livres qui subsistoient
encore, soit dans les Ecoles des Philosophes Orientaux, de qui tous les
autres avoient appris la sagesse: Manichèe supposa de plus que, la raison
divine éclairant tous les Esprits, qui ne mettent point d'obstacles à ses
lumiers, toutes les Nations avoient eu leurs Prophètes: Que l'Eglise chré-
tienne, étant composée de Gentils, elle devoit écouter ses propres prophètes,
et non ceux des Hébreux qui n'avoient pas été envoyez pour elle. Par-lÃ
il transferoit à des Prophètes inconnus l'autoriit', dont il dépouilloit les
véritables Prophètes, et cela parce qu'il trouvoit dans les premiere de quoi
confirmer ses fausses hypotheses et ses fables » (Ibid., p. XII).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 143
volte, anche discordanti testimonianze, sulle quali dobbiamo ba-
sarci per emettere il nostro giudizio. Già i discepoli stessi di Mani
si dividevano in due schiere. Una parte di essi afferma che egli
non disponeva del potere di fare miracoli e racconta che egli in-
segnava come il dono dei miracoli si sia ritirato dal mondo con il
Cristo e i suoi discepoli. L'altra parte sostiene che egli possedeva
questo dono e che il re Sapor cominciò a creder in lui per essere
stato insieme a lui elevato nelle regioni superiori ed esser rimasto
con lui nell'aria tra terra e cielo; in altri termini, per aver consta-
tato uno dei suoi miracoli. E' questa parte dei suoi discepoli che
aggiunge anche che egli aveva l'abitudine di sfuggire al proprio
ambiente per salirsene in cielo, dove restava alcuni giorni, ritor-
nando quindi tra i suoi (14).
Uno storico arabo, Ibn Al-Mourtadà , ci informa che Iazdan-
bacht affermava in un suo libro che il primo dei profeti era stato
Adamo, poi Seth, e quindi Noè; egli aggiungeva che Budda era
stato inviato in India, Zaratustra in Persia, Gesù in Occidente e
che infine era venuto Mani, il Paracleto, come guida dei giusti.
Gli Acta Archelai ci riferiscono che Mani, esponendo la sua
dottrina ai ventidue discepoli che lo avevano accompagnato a
Kaskhar, esordisce affermando d'essere il Paracleto promesso da
Gesù. Altrove Archelao identifica esplicitamente Mani con lo
Spirito Santo : « Nullus Haereticorum ausus est Deum se praedi-
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care, aut Christum, vel Paracletum, sicut iste, qui aliquando qui-
dem de Seculis disputat, aliquando de Sole, tanquam major fit
eorum. Omnis enim, qui de aliquo exponit, quomodo factus fit,
majorem se et antiquiorem ostendit esse, quam est ille de quo
dixit» (15). Al che il De Beausobre ribatte, che, per lo stesso mo-
tivo, si dovrebbe incolpare Mosè, solo perché egli ci parla della
creazione (16). Anche Eusebio (17), basandosi su una frase di
Mani, che afferma che sull'esempio di Cristo vuol scegliere due
discepoli di cui essere il Maestro, ci dice che Mani ha voluto con-
traffare Gesù e passare per lui, definendosi Paracleto, ovvero Spi-
rito Santo. Testimonianza confermata da Teodoro (18), e da Abul-
(14) K. Kessler, Mani, Forschungen iiber die manichà ische Religion,
Reimer, Berlin, 1889, pp. 322-3.
(15) Acta Disp. Arch., p. 66.
(16) De Beausobre, op. cit., p. 255.
(17) Eusebius, Historìa Ecci., l. I, cap. VII, p. 31.
(18) Teodoro, Haer. Fab., l. I, cap. ult.
144 ANNA ESCHER DI STEFANO
pharage (19); quest'ultimo dice che Mani «se ipsum Messiam
nominavit». E così pure due autori del IX° secolo Photius (20) e
Petrus Siculus (21), ci tramandano una formula greca in cui si
dice che Scytien era Dio Padre, Budda il figlio di Dio, e Mani lo
Spirito Santo e che i Greci avevano inserito questa frase nella
in cui si dice che Zoroastro, Budda e Cristo e Mani e il Sole non
erano che una sola ed unica persona. Il fatto che i Greci impo-
nessero ai Manichei di abiurare a questi principi potrebbe farci
pensare che essi fossero dei capisaldi della loro dottrina, però, se-
condo il De Beausobre questa supposizione sarebbe solo una grossa
ed evidente calunnia, tant'è vero che le frasi su cui essa si basa
non si trovano in alcun autore antico, ma sono appoggiate soltanto
dalla testimonianza dei Greci del Medio Evo e sono contrastanti
col dogma dei Manichei che riconosce Cristo per figlio unico di
Dio, che è ben lontano dal definire Zoroastro, riformatore della
loro religione, e che non dubita che Budda e Mani siano stati de-
gli uomini, e che il Sole non fosse una creatura, composta dal-
l'unione delle particelle di Luce che avevano conservato la loro
purezza (22). Inoltre il De Beausobre si chiede come sia possibile
che Mani avesse potuto operare questa identificazione di sé con
Cristo e lo Spirito Santo, se nel sistema manicheo questi due ter-
mini sono considerati distinti. Per cui rimane incomprensibile
come Mani avesse voluto farsi credere tanto l'uno che l'altro : « la
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verité est que dans le stile de quelque anciens Docteurs Ecclesia-
stique, qui ont vécu avant le Concile de Nicée, mais qui ne sont
point taxes d'Héresie, le Christ et le St. Esprit sont la méme Per-
sonne : et c'est-là ce qui a causé l'erreur d'Eusébe, de Théodoret,
de Suidas, et d'Abulpharage mème » (23). La spiegazione del De
Beausobre è molto ingegnosa, ma lascia perplessi, in quanto è per
lo meno piuttosto strano che questi autori rigettassero come una
accusa a Mani un principio da loro stessi professato, o professato
da autori della loro stessa fede. Piuttosto dobbiamo dire che la
sacrilega identificazione attribuita a Mani rimane ingiustificata in
quanto questi autori non allegano alcuna prova per convalidare
(19) Abulpharage, Dynast., p. 82.
(20) Photius, Contra Manich. repullul., l. I, p. 47.
(21) Petrus Siculus, Historia Manich., p. 22.
(22) De Beausobre, op. cit., p. 254.
(23) lbid., p. 255.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 145
ciò che dicono, né le scoperte recenti autorizzano noi a prendere
partito in loro favore in questa controversia.
Anche Agostino affronta specificatamente il problema e ci dÃ
numerosi particolari su questo argomento, informandoci che Mani
disse, riferendosi alla propria dottrina: «Ecco le parole salutari
che provengono dalla sorgente eterna e viva. Chiunque le intenda
e cominci a credervi scamperà per sempre alla morte e gioirà della
vita eterna e gloriosa » (24). E altrove in maniera più precisa
afferma che Mani diceva d'essere unito al Paracleto in unione per-
sonale. Tuttavia l'affermazione di Agostino ci sembra, in veritÃ
più dettata dal desiderio di difendere la propria fede, mettendo
per contrasto in cattiva luce l'avversario, che da una serena va-
lutazione. Infatti Fausto stesso dichiara che lo Spirito comunicato
agli Apostoli non poteva essere il Paracleto, in quanto esso non
aveva insegnato tutte le verità , conformemente alla promessa del
Signore, e che pertanto loro aspettavano il Paracleto. Questa pro-
messa trova invece la sua attuazione nella predicazione di Mani,
che era venuto ed aveva insegnato per mezzo della sua predica-
zione il principio, il medio e la fine di tutte le cose, cioè il pre-
sente, il passato, e l'avvenire. Tuttavia, nonostante il possesso di
questa scienza divina, Mani non viene giudicato un essere diverso
dagli altri, egli è sempre fatto di carne e di anima, ed è nato come
gli altri da un uomo e da una donna (25). Per cui non è
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valida la domanda di Agostino : « Si caro humana, si concu-
bitus viri, si uterus mulieris non potuit inquinare Spiritum
Sanctum, quomodo potuit uterus virginis inquinare Dei Sapien-
tiam? » (26). Tanto più che Mani in nessuna lettera si professa Pa-
racleto e Spirito Santo, ma soltanto Apostolo di Cristo, come
dimostrano le sue lettere a Menoch (27), la lettera del Fonda-
(24) Contra Epist. Manich., cap. XI, col. 181. La stessa citazione è ri-
portata nel De actis cum Felice Man., l. I, cap. I, col. 519.
(25) « Sed tamen quaero, cum Pater et Filius et Spiritus sanctus, vobis
etiam confitentibus, non dispari natura copulentur, cur hominem susceptum
a Spiritu sancto Manichaeum, non putatis turpe, natum ex utroque sexu
praedicare; hominem autem susceptum ab unigenita Sapientia Dei, natum
de virgine credere formidatis? » (Cantra Epist. manich., cap. VII, col. 177-8).
(26) Ibid.
(27) Contra Faustum, l. XIII, cap. IV, col. 283 : « Manichaeus enim
vester non fuit propheta venturi Christi: apostolum quippe ejus se dicit,
impudentissima quidem fallacia; nam constat non solum post Tertullia-
10
146 ANNA ESCHER DI STEFANO
mento (28), e quella scritta a Marcello (29). A questo proposito
Victor di Vita (30) racconta che, trovandosi tra i Manichei
d'Africa, fu trovato un individuo a nome Clementiano, un mo-
naco manicheo che aveva scritto sul femore : « Manichaeus, Disci-
pulus Christi Jesu ». E ciò conferma come i Manichei riconosces-
sero questo solo titolo al loro maestro. Infatti, osserva giustamente
il De Beausobre, sarebbe per lo meno strano che egli volesse dis-
simulare ai suoi discepoli ciò che voleva far credere a tutta la
terra (31). Tanto più che le uniche prove che noi abbiamo che at-
testino la identificazione di Mani col Paracleto sono le parole dei
suoi accusatori, ed evidentemente queste non bastano.
Agostino stesso non afferma sempre con la stessa decisione
questa identità . Abbiamo infatti le sue parole ad Onorato, un
manicheo, con cui egli lo accusa di aver voluto mettere nel nu-
mero degli apostoli Mani, e di aver creduto che lo Spirito Santo
fosse sceso tra loro per suo mezzo : « Tu sai, egli dice, che i Ma-
nichei cercando di far passare la persona del loro fondatore tra
il numero degli apostoli, dicono che per mezzo di lui è venuto a
noi lo Spirito Santo, che il Signore promise ai discepoli di man-
num, verum etiam post Cyprianum hanc eresiam exortam. Omnes tamen
ejus epistolae ita exordiuntur Manichaeus apostolus Jesu Christi. Huic vos
de Christo quare credidistis? Quem nam testem vobis sui apostolatus ad-
duxit? nomenque ipsum Christi, quod non scimus nisi in regno Judaeorum
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in sacerdotibus et regibus institutum. ut non solum ille aut ille bono. sed
universa ipsa gens totumque regnum propheta fieret Christi christianique
regni, cur iste invasit cur usurpavit, qui Prophetis Haebreis vos vetat
credere, ut vos falsi Christi fallaces discipulos falsus et fallax apostolus
laciat? ».
(28) « Quaero enim, cur epistolae hujus principium sit, Manichaeus
apostolus Jesu Christi; et non sit, Paracletus apostolus Jesu Christi. Si
autem missus a Christo Paracletus Manichaeum misit, cur lego, Manichaeus
apostolus Jesu Christi? et non potius, Manichaeus apostolus Paracleti? Si
dicis ipsum esse Christum, qui est etiam Spiritus Sanctus, contradicis ipsi
Scripturae, ubi Dominus ait. Et alium Paracletum mittam vobis (Joan,
XTV). Si autem Christi nomen ideo recte positum putas, non quia ipse est
Christus, qui et Paracletus, sed quia ejusdem sunt ambo substantiae; id
est, non quia unus est, sed quia unum sunt: poterat et Paulus dicere, Pau-
lus apostolus Dei Patris; quia dixit Dominus, Ego et Pater unum sumus
(Id., X, 30) ». (Contra Epist. Manich., cap. VI, col. 177).
(29) Acta disp., p. 6.
(30) Victor Di Vita, De per/. Vandai., l. II, p. 21.
(31) De Beausobre, op. cit., p. 265.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 147
dare » (32). Però con queste parole Agostino stesso dimostra come
i Manichei non identificassero Mani con lo Spirito Santo, ma
che lo considerassero soltanto un apostolo. Le stesse formule di
abiura del VI" secolo non accennano a questa identificazione :
« Quicumque adventum Spiritus Paracleti in Mane venisse cre-
dit » (33); e ancora : anatema a chiunque « credit Manem si ve Ma-
nichaeum, Sanctum habuisse Paracletum » (34); a chiunque « cre-
dit in eum spiritum Paracletum venisse credit » (35), in cui si
parla di una discesa del Paracleto o dello Spirito Santo in Mani,
ma non di una identificazione. Il De Beausobre non riesce per
questo motivo a capire come mai Agostino fosse su questo punto
in dubbio e non sapesse se « hunc Paracletum esse manichaeum,
vel in Manichaeo » (36) : « Or comment est ce que S. Augustin,
après neuf ans de Manichéisme, pouviut ètre en doute, si nos Hé-
rétiques croyent leur Maitre, une Personne divine, ou un homme
divinement inspiré? Peut-on s'imaginer, que ce Pére ignorà t, quelle
étoit leur véritable Créance sur un article qui étoit la base de
leur Hérésie? Un habile homme sera-t-il chrétien neuf ans, sans
savoir ce que les Chrétiens pensent de la Personne de J. Christ?
S'ils le croyent un simple homme, qui n'est Fils de Dieu que par
les dons miraculeux, que le St. Esprit lui a conférez : ou s'ils le
croyent une Personne divine qui a revètu la Nature humaine » (37).
Ma l'obbiezione di Agostino va più in là di quanto il De Beausobre
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non dica, in quanto Agostino, basandosi su quanto dice il Van-
gelo, contesta a Mani non soltanto la sua identificazione con lo
Spirito Santo; ma anche il titolo di apostolo. Infatti il nome di
Mani non è citato nel Vangelo tra gli apostoli e gli apostoli che
furono nominati posteriormente sono Mattia, che prese il posto
del traditore Giuda, colui che « postea Domini voce de coelo vo-
catus sit » (38), cioè Paolo. E siccome « scripturis credendum est...
quae robustissima auctoritate firmatae sunt » (39), Mani diceva
(32) De utilit. credendi, cap. III.
(33) M. Fabricius, Operae Hippolyti, vol. II, p. 202.
(34) Ibid., p. 203.
(35) Ibid.
(36) Cantra Faustum, l. XIII, cap. XVII, coi. 282.
(37) De Beausobre, op. cit., p. 267.
(38) De actis cum Felice man., l. I, cap. I, col. 519.
(39) Cantra epistulam manica., l. I, cap. IX, col. 180.
148 ANNA ESCHER DI STEFANO
arbitrariamente, secondo Agostino, tanto di essere lo Spirito Para-
cleto, quanto l'Apostolo di Cristo.
Di queste due accuse noi crediamo che solo la seconda sia
giusta, mentre crediamo la prima del tutto infondata, e gli stessi
tentennamenti di Agostino al riguardo ce ne danno la prova. La
seconda accusa è invece indubbiamente vera, in quanto è certo che
Mani si sia arrogato il titolo di Apostolo di Gesù Cristo e nessuna
testimonianza e, soprattutto la posizione eterodossa di Mani, pos-
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sono farcelo considerare come un messaggero della parola divina.
Capitolo Ottavo
IL PROBLEMA DELLA VERGINITA' DI MARIA
Gli Acta Archelai ci tramandano l'opinione di Mani riguardo
questo argomento. « Io mi guarderei bene, dice Mani, dall'ammet-
tere che nostro Signore sia disceso nelle parti genitali di una
donna. Egli stesso dichiara d'esser disceso dal seno del Padre» (1).
« Chiunque mi conosce, conosce colui che mi ha inviato » (2). « Io
non sono venuto a compiere la mia volontà , ma la volontà di colui
che mi ha inviato » (3). « Io non sono stato inviato » (4). E Mani
cita molte altre frasi analoghe, come testimonianza del fatto che
Cristo sia venuto tra noi, senza nascere come noi. Infatti egli cita
quel passo in cui Cristo, essendogli stato detto che sua madre e i
suoi fratelli lo aspettavano, rispose con tono di rimprovero : « Chi
è mia madre e chi sono i miei fratelli? ». Al che nel De Fide (5)
(1) Ioh., I, 18 e III, 13.
(2) Matt, X, 40; Lue, X, 16; Ioh., XIII, 20.
(3) Ioh., VI, 38.
(4) Matt., XV, 24.
(5) Quest'opera sembra non si possa attribuire ad Agostino, ma ad un
suo imitatore, forse a quell'Evodio di cui parla il titolo. Dice l'Admo-
nitio che fa da prefazione all'opera : « Augustino in ante editis tribuitur,
sed falso uti probant Bellarminus, Vindingus, et alii. Non enim recensetur
inter illius opuscula, nec in Retractationibus, nec in Possidii Indice. Stilus
quoque ab Augustiniano diversus est, ac debilior disputandi ratio. Sed
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Augustinum tamen imitari auctor studuit, ejusque non modo sensus, sed
ipsa interdum verba ex eo praesertim libro qui de Natura boni contra Ma-
nichaeos scriptus est, expressit. In antiquis codicibus reperitur proximo
loco post Augustini Tractatum de Fide et Symbolo, interjecta annotatione,
quae in Fossatensi annorum octingentorum codice sic habet: Explicit in
Christo Jesu Filio Dei Tractatus Aurelii Augustini episcopi de Fide catto-
lica, Incipit adversus Manichaeos : ubi spectata vocum interpunctione haud
facile definias an ille de Fide catholica Tractatus appellatur qui explicit,
an qui incipit. Atque inde factum putamus ut liber subsequens tribueretur
150 ANNA ESCHER DI STEFANO
si obbietta : « Ac eos potius in hunc affectum computavit, qui fa-
cerent voluntatem Padrem ejus? Quia exemplo suo jam docebat
negandos esse terrenos parentes propter Deum. Opera enim di-
vina facienti terremus affectus obstrepere non debebat. Nam si
propterea non habebat matrem, quia negavit matrem; nec Petrus
et caeteri apostoli habebant patres, quia monuit eos, dicens : « Et
patrem ne vocaveritis nobis super terram; unus est enim Pater
vester qui in coelis est (Id. XXIII, 9). Quod ergo eos monuit de
patre terreno hoc de matre prior fecit. Hoc ergo dicimus, Sapien-
tiam Dei suscipiendo hominem non esse coinquinatam; sed miseri-
corditer ob hominum salutem hominem suscepisse, ut fieret, sicut
Apostolus dicit, Mediator Dei et hominum homo Christus Jesus
(I Tim., II, 3) » (6).
Se voi volete che Maria sia stata la madre di Cristo, continua
Mani, dovete ammettere che essa gli ha dato dei fratelli. Li ha
avuti da Giuseppe o dallo Spirito Santo? Se essa li ha avuti dallo
Spirito Santo noi dobbiamo ammettere più Cristi. Se essa li ha
concepiti senza di Esso, bisogna, senza alcun dubbio, riconoscere
che dopo la venuta dello Spirito Santo e di quella di Gabriele,
questa Vergine castissima si sia unita a Giuseppe. Vedete come
sono differenti, egli continua, le parole di Gesù. A colui che gli
ha detto : « tua madre ti aspetta fuori », egli chiede : « chi è mia
madre? », mentre quando un altro gli dice : « Tu sei il Cristo,
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figlio del Dio vivente », egli lo dichiara felice e benedetto da
Dio (7). Se il secondo ha detto il vero, conclude Mani, il primo
Augustino, et de Fide inscriberetur. Verum isthaec inscriptio praecedenti
libro bene conveniebat, non subsequenti, et eam ad praecedentem perti-
nere indicant alii Mss. codices in quibus est accuratior interpunctio; maxime
vero vitustissimus Corbeiensis, cujus auctoritate hunc librum Evodii Uza-
lensis episcopi esse Sirmondus in Historia Praedestinatiana, cap. I, dicit.
Quippe ab illa quae praecedenti libro apponitur clausola. Explicit in Do-
mino Christo Filio Dei Tractatus Aureli! Augustini de Fide catholica, re-
lieto septem circiter versuum spatio vacuo, exhibetur seorsim in alterius
folii capite titulus subsequentis libri, hunc in modum : Incipit ejusdem
contra Manichaeos. Utrum ejusdem. utrum sancti Euvodii ignoratur. Cor-
beiensi codici consentit Colbertinus, aliique nonnulli manuscripti eamdem
de auctore Augustino et Evodio dubitationem praeferentes » (Admonitio
al De Fide contra Manichaeos, Evodio tributus, P.L., Migne, vol. XLII.
coli. 1139-40).
(6) De Fide contra Manichaeos, cap. XXV, col. 1146.
(7) Matth., XVI, 16.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 151
si è sbagliato, e l'errore ricade su colui che scrive. In realtà il fi-
glio di Dio è disceso tutto formato e si è completamente trasfor-
mato in uomo. Come dice Paolo, egli era « esteriormente simile ad
un uomo» (8). Dopo, quando ha voluto, ha dato a questa umanitÃ
la forma e l'aspetto del Sole. Se voi dite, dice Mani rivolgendosi
ai cristiani, che Cristo ebbe questa umanità solamente da Maria
e che Egli ha ricevuto lo Spirito nel battesimo, voi giudicate la
sua filiazione come acquisita, non come naturale... Inoltre, se voi
pensate che « simile ad un uomo » significhi uomo reale, biso-
gnerà allora che anche lo Spirito che è apparso « simile ad una
colomba» (9), non sia stato che una colomba normale (10)..
A queste affermazioni Agostino ribatte. E' necessario, quando
crediamo a qualche cosa materiale che abbiamo letta o udita,
senza averla mai vista, « fingat sibi aliquid animus in lineamentis
formisque corporum, sicut occurrerit cogitanti, quod aut verum non
sit, aut etiam si verum est, quod rarissime potest accidere : non hoc
tamen fide ut teneamus quidquam prodest, sed ad aliud aliquid
utile, quod per hoc insinuatur. Quis enim legentium vel audentium
quae scripsit apostolus Paulus, vel quae de illo scripta sunt, non
fingat animo et ipsius Apostoli faciem, et omnium quorum ibi no-
mina commemorantur? Et cum in tanta multitudine hominum
quibus illae Litterae notae sunt, alius aliter lineamenta figuram-
que illorum corporum cogitet, quis propinquius et similius cogi-
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tet, utique incertum est» (11). La fede, cioè, non ci impone di
credere quale siano la faccia o i lineamenti di coloro di cui le Scrit-
ture parlano, ma ci impone di credere soltanto che essi così hanno
vissuto per grazia di Dio, e hanno operato secondo il modo come
la Scrittura testimonia (12). Infatti noi non deduciamo le sem-
(8) Phil., II, 7.
(9) Matt., III, 16; Me, I, 10; Le, III, 22.
(10) Acta Archelai, p. 50.
(11) De trinitate, l. VIII, cap. IV, col. 951.
(12) Il posto principale che la fede occupa nell'adesione a questo pro-
blema è precisato nel Sermo CCXV : « Nativitatem itaque Dei ex Deo nec
cogitare poteris, nec narrare : credere tantum tibi permittitur, ut salvus
esse possis; sicut Apostolus dicit: Credere enim oportet qui ad Deum ac-
cedit, quia est, et quaerentibus eum mercedis redditor erit (Hcbr., XI, 6).
Si vero nativitatem ejus secundum carnem, quam pro nostra salute di-
gnatus accepit, scire desideras; audi. et crede natum de Spiritu sancto ex
Maria Virgine. Quanquam et hanc ipsam nativitatem ejus quis enarrabit?
Quis enim digne aestimare potest Deum propter homines nasci voluisse,
152 ANNA ESCHER DI STEFANO
bianze di Maria dalla verginità con cui essa, incorrotta nello stesso
parto, generò il figlio di Dio, ma soltanto che nostro Signore Gesù
Cristo sia nato da una vergine chiamata Maria (13). Che cosa sia
vergine, e nascere e il nome proprio non lo crediamo, ma lo sap-
piamo. Mentre se il viso di Maria sia proprio quello che imma-
giniamo allorché parliamo o ci ricordiamo di essa, non lo sap-
piamo affatto, né lo crediamo. Perciò è necessario : « forte talem
habebat faciem forte, non talem: forte autem de virgine natus
est Christus, nemo salva fide Christiana dixerit» (14).
I Manichei giudicano falso il dogma della verginità di Maria
anche basandosi su una frase delle Scritture, che definisce Cristo
«factum de muliere » (15). I Manichei osservano che, poiché non
è detto « ex virgine », ma « de muliere », evidentemente vien ne-
sine virili semine virginem concepisse, sine corruptione peperisse, et post
partum in integritate permansisse? Dominus enim noster Jesus Christus
uterum virginis dignatus intravit, membra feminae immaculatus implevit,
matrem sine corruptione fetavit, a se ipso formatus exivit, atque integra
genitrìcis viscera reservavit; ut eam de qua nasci dignatus est, et matris
honore perfunderet, et virginis sanctitate. Quis hoc cogitat? quis enarrat?
Ergo et hanc nativitatem ejus quis enarrabit? Cujus enim mens ad cogi-
tandum, cujus ad enuntiandum lingua sufficiat, non solum quod in prin-
cipio erat Verbum, non habens ullum principium; verum etiam quod Ver-
bum caro factum est, eligens virginem quam sibi faceret matrem, faciens
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matrem quam servaret et virginem... Tantum quippe Dei donum nec et-
tari possumus, quoniam sumus ad ejus enarrandam magnitudinem parvuli;
et tamen laudare compellimur, ne tacendo remaneamus ingrati. Sed Deo
gratias, quia id quod competenter non potest dici, potest fideliter credi »
(coli. 1073-4).
(13) Il concetto della verginità di Maria è enunciato anche nel De Ge-
nesi : « Renovari autem hominem per Jesum Christum Dominum nostrum,
cum ipsa ineffabilis ac incommutabilis Dei Sapientia plenum totum que
hominem suscipere dignata est, et nasci de Spiritu sancto et virgine
Maria» (cap. I, col. 221). E nel Sermo CLXXXVI: «Gaudeamus fratres:
laetentur et exultent gentes Istum diem nobis non sol iste visibilis, sed
Creator ipsius in visibilis consecravit; quando eum pro nobis visibilem
factum, a quo invisibili et ipsa creata est, visceribus fecundis et genitali-
bus integris Virgo Mater effundit. Concipiens virgo, pariens virgo, virgo
gravida, virgo feta, virgo perpetua. Quid miraris haec, o homo? Deum sic
nasci oportuit, quando esse dignatus est homo. Talem fecit illam, qui est
factus ex illa. Antequam enim fieret, erat: et quia omnipotens erat, fieri
potuit manens quod erat. Fecit sibi matrem, cum esset apud Patrem: et
cum fieret ex matre, mansit.
(14) Galat., IV, 4.
(15) De fide, contra Manichaeos, cap. XXV, col. 1145.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 153
gata la verginità . Affermazione cui l'autore del De Fide risponde
dicendo che essi non comprendono «quod consuete dictum est sit
secundum proprietatem linguae Scriptutatum, sicut de Eva dic-
tum est, Formavit eam in mulierem (Cren. II, 22) antequam vel
ostenderetur viro. Quamvis Maria non incongrue propter partum
dicitur mulier : virgo vero, quod virilem nescierit conventionem,
neque pariendo virginitas ejus corrupta sit. Quod autem Angelus
et Elisabeth dixerunt Mariae, Benedicta tu inter mulieres (Lue,
I, 42) : nulla quaestio est, quia revera benedictaest virgo inter
mulieres. Sed ne dicatis, Sicut Angeli apparuerunt, sic haberet
corpus, ne de femina nasceretur. Quod si vobis dicatur, Ubi legi-
stis Christum in carne venisse? Nonne dicturi estis, In Evangelio?
Respondetur ergo vobis, ibi striptum est, Christum natum de vir-
gine. Sed solita foeditate dicetis Scripturam falsam esse» (16).
Agostino affronta il problema soprattutto nell'« Opus imper-
fecti contra Julianum». Giuliano afferma: «Verum ut illi infen-
sus Iovianus arguitur, it vobis comparatus absolvitur. Quando
enim tibi vobis comparatus absolvitur. Quando enim tibi tantum
prudentium censura donabit, ut te cum Joviani merito compo-
nat? Ille quippe dixit boni esse necessitatem; tu, mali: ille ait
per mysteria homines ab errore cohiberi; tu vero, nec per gratiam
liberari : ille verginitatem Mariae partus conditione dissolvit; tu
tu ipsam Mariam diabulo nascendi conditione transcribis: ille
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meliora bonis aequat, id est, integritatem connubio; tu vero com-
mixtionem conjugii mobidam vocas, et castitatem foedissimae rei
collatione depretias : nec gradum inter haec addis; sed genus
omne commutas, non utique bono virginitatem, sed malo praefe-
rens » (17). Ma Agostino, rifiutando l'accusa di manicheismo che
Giuliano gli aveva lanciato, risponde : « non trascribimus diabolo
Mariam conditione nascendi; sed ideo, quia ipsa conditio solvi-
tur gratia renascendi » (18). Questa risposta è stata molto di-
scussa dai critici, e il Portaliè fa un paragone fra le due interpre-
tazioni possibili di questo testo. La prima viene formulata in que-
sti termini : « Noi non sottomettiamo Maria al demone per la legge
della nascita, e ciò perché la garanzia della rigenerazione l'ha
(16) Opus imperfectum contra Julianum, l. IV, cap. CXXII, col. 1417.
(17) Ibtd., col. 1418.
(18) Cit. in Portaliè, op. cit., p. 2375.
154 ANNA ESCHER DI STEFANO
preservata da questa triste legge » (19). Ammesso questo signifi-
cato, ne consegue che Maria non è mai stata schiava del demone,
e l'obbiezione di Giuliano cade. La seconda interpretazione in-
vece può essere riassunta in questi termini : « Noi non sottomet-
tiamo Maria al demone, perché nata nel peccato, secondo la legge
generale di tutta la nascita, essa ne è stata liberata dalla grazia
della rigenerazione » (20). In tal modo sparisce l'immacolata con-
cezione, ma nello stesso tempo, per il Portaliè, molte difficoltà :
« 1) La madre di Dio è messa assolutamente allo stesso livello di
tutti gli altri uomini, il cui peccato originale è stato concellato; non
c'è neppure una indicazione sul momento della sua giustificazione :
cosa diviene questa categoria a parte, accanto al Cristo nella dot-
trina di Agostino? 2) Inoltre, si attribuisce al grande Dottore una
contraddizione nella stessa frase : le parole non trascribimus, ne-
gano ogni schiavitù del demonio, mentre immediatamente dopo
gliela si accorda. Agostino direbbe letteralmente : « noi non sotto-
mettiamo Maria al demonio, e ciò perché essa è realmente la sua
schiava nascendo, ma più tardi essa è rigenerata ». Starà al lettore
decidere, conclude il Portaliè, se questa interpretazione sia verosi-
mile. D'altra parte sembra che Agostino faccia eccezione solo
per Gesù Cristo. Ma se si approfondisce meglio il suo pensiero, si
vede che Agostino tratta unicamente della trasmissione di diritto
del peccato originale, trasmissione che agisce su tutti coloro che
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discendono da Adamo per generazione naturale, e in questo senso
Cristo è il solo esente. Maria non è esente di diritto, ma di fatto,
in virtù della redenzione di Colui che è esente di diritto (21).
(19) Ibid.
(20) Ibid.
(21) « Excepta itaque sancta virgine Maria, de qua propter honorem
Domini nullam in Patre. Quomodo Deus esse desisteret, cum homo esse
coepit, qui genitrici suae praestitit ne desisteret virgo esse, cum peperit?
Proinde quod Verbum caro factum est, non Verbum in carnem pereundo
cessit; sed caro ad Verbum, ne ipsa periret, accessit : ut quemadmodum
homo est anima et caro, sic esset Christus Deus et homo. ... Denique qui
Filius Dei generanti est coaeternus semper ex Patre. idem filius hominis
esse coepit ex Virgine » (col. 999). E nell'Epistola CXXXV1I : « Ipsa enim
magnitudo virtutis ejus, quae nullas in angusto sentit angustias, uterum
virginalem, et per eamdem etiam corpus humanum, totumque omnino ho-
minem in melius mutandum, nullo modo in deterius mutata coaptavit;
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 155
L'opinione del Portaliè sembra trovare conferma in altre
espressioni del santo, che fanno proprio pensare che Agostino
avesse giudicato privo del peccato originale solo Cristo. Ad es., in
un brano del De natura et gratia (22), Agostino ha cura di preci-
sare la santità della vita della Vergine, sottolineandone l'assoluta
assenza di peccati, ma non fa alcun cenno alla santità della sua
nascita. Impressione, questa, confermata da un passo del De Ge-
nesi ad litteram (23), in cui Agostino dice chiaramente che Maria,
pur essendo stata concepita nel peccato, tuttavia generò senza
peccato. Evidentemente, se Agostino avesse giudicata anche Maria
priva del peccato originale, lo avrebbe a questo punto messo in
evidenza.
nomen humanitatis ab eo dignanter assumens, divinitatis ei largiter tri-
buens. Ipsa virtus per inviolatae matris virginea viscera, membra infantis
eduxit, quae postea per clausa ostia membra juvenis introduxit » (cap. II,
col. 519).
(22) De trinitate, l. VIII, cap. V, col. 952. Cfr. anche : « Excepta itaque
sancta virgine Maria, de qua propter honorem Domini nullam pror-
sus cum de peccatis agitur, haberi volo quaetionem : unde enim
scimus quid ei plus gratiae collatum fuerit ad vincendum omni ex parte
peccatum, quae concipere ac parere meruit. quem constat nullam ha-
buisse peccatum? hac ergo Virgine excepta. si omnes illos sanctos
et sanctas, cum hic viverent, congregare possemus et interrogare utrum
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essent sine peccato, quid fuisse responsuros putamus? utrum hoc quod
iste dicit, an quod Joannes apostolus? Rogo vos, quantalibet fuerint in
hoc corpore excellentia sanctitatis, si hoc interrogari potuissent, nonne una
voce clamassent. Si dixerimus quia peccatum non habemus, non ipsos de-
cipimus, et veritas in nobis non est? An illud humilius responderent for-
tasse, quam verius? Sed huic jam placet, et recte placet, « laudem humili-
tatis in parte non ponere falsitatis ». Itaque hoc si verum dicerent, habe-
rent peccatum; quod humiliter quia faterentur, veritas in eis essent: si
autem hoc mentirentur, nihilominus haberent peccatum, quia veritas in
eis non esset » (De natura et gratia, cap. XXXVI. col. 267).
(23) « Et quid incoinquinatius ilio utero Virginis, cujus caro etiamsi
de peccati propagine venit, non tamen de peccati propagine concepit: ut
ne ipsum quidem corpus : Christi ea lex severit in utero Mariae, quae in
membris posita corporis mortis. repugnat legi mentis? quam sancti patres
coniugati refrenantes, non quidem nisi quousque licebat in concubitum
relaxerunt; nec tamen tantummodo quousque licebat. ejus impetum pertu-
lerunt. Proinde corpus Christi quamvis ex carne feminae assumptum est,
quae de illa carnis peccati propagine cobcepta fuerat. tamen quia non sic
in ea conceptum est, quomodo fuerat illa concepta, nec ipsa caro peccati,
sed similitudo carnis peccati » (De Genesi ad litteram, l. X, cap. XVIII,
col. 122).
Capitolo Nono
IL PROBLEMA DELLA UMANITA' DI CRISTO
Io cercavo, dice Agostino (1), di procacciarmi la forza che mi
consentisse di godere di Dio. E non avrei potuto trovarla se non
mi fossi stretto al mediatore tra Dio e gli uomini, all'uomo Cristo
Gesù, che è Dio, al di sopra di tutte le cose create, benedetto nei
secoli, Colui che solo può dire di sé : io sono la via, la verità , e
la vita. Egli si fece carne, affinché noi riuscissimo a capire la sua
sapienza. Per ciò egli si costruì un'umile casa col nostro fango, per
guarire l'orgoglio e alimentare l'amore, in modo che, sospinti da
eccessiva fiducia in noi stessi, non avanzassimo troppo oltre, ma
piuttosto diventassimo deboli, vedendo debole davanti ai nostri piedi
la divinità , partecipe della nostra veste umana, e, spossati, ci la-
sciassimo cadere sopra di essa, ed essa, sorgendo, ci sollevasse. La
grandezza di quest'umiliazione non appartiene al libro di nessun
altro popolo, non ai libri degli epicurei, degli stoici, dei manichei,
dei platonici. Dovunque si incontrano anche ottimi precetti di
costume e di educazione, ma questa umiltà non si incontra. La
via dell'umilità viene solo da Cristo (2). Quella stessa umiltà in-
compresa dai pagani, i quali si chiedono come si possa onorare
un Dio che è nato, un Dio che fu crocifisso (3).
I Manichei, infatti, negavano anch'essi l'incarnazione reale di
Cristo, poiché secondo loro era impossibile che Dio potesse ri-
vestire il suo corpo col disonore della materia. E negavano per-
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tanto che Dio potesse liberarsi, e che potesse soffrire, che fosse
morto e resuscitato. Tutto ciò avvenne solo in apparenza, ma nella
sua essenza reale Cristo, dicono i Manichei, non fu mai uomo, ma
(1) Confess., l. VII, cap. XVIII, col. 745.
(2) Enarr. in Ps., XXXI, 18, col. 270.
(3) Ibid., XCIII, 15, col. 1203.
V
IL MANICHEISMO DJ S. AGOSTINO 157
solo Dio. Fausto cita a conferma di questa tesi passi dello stesso
Vangelo, che sarebbero contrastanti con la teoria dell'umanità di
Cristo. Ad es. : « Jesu Christi filii Dei » (4) : frase in cui il con-
cetto di Cristo, figlio di Dio, esclude, secondo Fausto, la sua uma-
nità , poiché i due concetti sono antitetici. « Beati pauperes spi-
ritu, beati mites, beati pacifici, beati puro corde, beati qui lugent,
beati qui esuriunt, beati qui persecutionem patiuntur propter ju-
stitiam » (5) : secondo Fausto questo passo dimostrerebbe che Dio
non è uomo : in quanto non è detto « beati cui confessi fuerint me
natum » (6). E ancora « Ite, docete omnes gentes, baptizantes eos
in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, et docentes eos ser-
vare omnia quae mandavi vobis» (7), anche in questo caso il
convalidamento della tesi manichea consiste nel fatto che non
leggiamo: «docentes eos quia sim natus » (8).
Per convalidare questa tesi i Manichei portano a testimo-
nianza anche le parole di S. Luca, che disse che lo Spirito Santo
discese su Gesù, sotto una forma corporea a somiglianza di co-
lomba. Analogamente Gesù prese la forma esteriore, concludono
i Manichei pur rimanendo Dio. Ma Archelao obbietta all'eresia
manichea: « risponde termi, Manichei; se voi dite che Cristo non
è nato da Maria, ma che egli è sembrato uomo, benché non lo fosse
in effetto e questo per mezzo della virtù che era in lui: ditemi,
su chi lo Spirito Santo discese come una colomba? Ditemi ancora
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chi è colui che fu battezzato da Giovanni? Poiché se egli era giÃ
perfetto, se egli era già il figlio di Dio, se egli era la virtù, lo
Spirito non poteva entrare in lui, come un regno non può entrare
in un altro regno » (9). E Mani a sua volta risponde : « Se voi dite
che colui che è nato da Maria è semplicemente un uomo, e che
egli ha ricevuto lo Spirito mediante il battesimo, se ne deduce che
egli è divenuto figlio di Dio progressivamente per accrescimento,
e non che egli lo fosse già per natura » (10).
(4) Marc, I, 1.
(5) Matth., V, 3-10.
(6) Contra Faustum, l. V, cap. III, col. 221.
(7) Matth., VII, 21.
(8) Contra Faustum, l. V, cap. III, col. 221.
(9) Acta Disput., p. 90.
(10) Acta Disp., p. 91.
158 ANNA ESCHER DI STEFANO
Agostino dal canto suo oppone ai passi citati da Fausto e che
in verità non erano gran ché di aiuto alla debolezza dei suoi
argomenti, altri passi che ben più chiaramente attestavano l'uma-
nità di Cristo, di quanto non facessero i primi per la tesi contra-
ria : « Amen, amen dico vobis quia venit hora et nunc est, quando
mortui audient vocem Filii Dei, et qui audierinent, vivent. Sicut
enim Pater habet vitam in semetipso, sic dedit et fìlio vitam ha-
bere in semetipso, et potestatem dedit ei judicium facere quia fi-
lius hominis est» (11). E Agostino aggiunge per sottolineare
quanto è detto nel Vangelo : « Dixit " vocem Filii Dei audient ", et
dixit, "quia filius hominis est"» (12).
A questi passi Agostino ne aggiunge altri che attestano la di-
vinità e l'umanità di Cristo : « Hic est Filius meus dilectus, in
quo mihi complacui » (13). «Ecce virgo accipiet in utero et pariet
filium, et vocabunt nomen ejus Emmanuel (14), quod est inter-
pretatum, nobiscum Deus» (15). «Cum autem venit plenitudo
temporis, misit Deus filium suum, factum ex muliere, factum sub
lege » ( 16). « Memor esto Christum Jesum resurrexisse a mortuis
ex semine David, secundum evangelium eum » (17). Agostino chia-
risce il suo pensiero sull'incarnazione del Verbo nell'Enchiridion,
in un capitolo contro gli Apollinaristi : « Perché è così che il
Verbo si è fatto carne; non nel senso che la divinità si sia tra-
sformata in carne, ma che si è rivestita di carne. Per la parola
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carne, intendiamo l'uomo. E' una metonimia per cui si prende la
parte per il tutto; ed è in questo senso che S. Paolo disse (18) :
dalle opere della legge, nessuna carne sarà giustificata dinanzi a
Dio» (19).
Infatti non è lecito dire che il Verbo, fattosi carne, abbia
preso soltanto una parte dell'umanità : « egli la prese perfetta, ma
esente da ogni macchia di peccato. L'incarnazione non era il risul-
tato dell'unione di due sessi e della concupiscenza carnale; non
(11) Joan., 25-27.
(12) Contra Faustum, l. V, cap. IV, col. 222.
(13) Matth., VII, 21.
(14) Jsai., XI, 10.
(15) Matth., I, 23.
(16) Galat., VI, 4.
(17) Tim., II, 8.
(18) Enchiridion, cap. XXXIII, col. 249.
(19) Rom., III, 20.
"
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 159
aveva contratto verun peccato che avesse bisogno di essere can-
cellato per mezzo della rigenerazione spirituale; ma era tale come
doveva essere concepita nel seno di una Vergine, non per la con-
cupiscenza, ma per la fede della madre... E così Gesù Cristo, Figlio
di Dio, è allo stesso tempo Dio e uomo. Dio, prima del tempo;
uomo, nel tempo. Dio, perché è il Verbo di Dio, ed il Verbo era
Dio; uomo, perché il corpo e l'anima ragionevole si sono uniti al
Verbo nell'unità di una sola persona. Come Dio, il Verbo e il Pa-
dre sono una cosa sola; come uomo, il Padre è maggiore di Lui.
Siccome era Figlio unico di Dio, non per grazia, ma per natura,
si è fatto Figlio dell'uomo, per essere pieno di grazia. In poche
parole : Dio e uomo fanno un solo Cristo. Ed è per questo che
essendo già in natura Dio, non considerò questa sua eguaglianza
con Dio come una rapina, ma abbassò se stesso, assumendo la
forma di schiavo, ma senza perdere o diminuire la sua natura di-
vina » (20).
Agostino confessa umilmente, con quella umiltà di cui Cristo
è stato il primo maestro, di non aver capito nemmeno lui, in un
primo tempo, l'arcano significato delle parole « il Verbo si fece
carne », di non aver compreso che Dio era sceso, uomo tra uomini,
per insegnare l'umiltà , guarire l'orgoglio, e alimentare l'amore.
Solo dopo aver molto meditato, aveva compreso che Cristo
aveva mangiato e bevuto, dormito e camminato, che si era ralle-
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grato e addolorato e aveva tenuto discorsi con anima e intelligenza
da uomo (21) : uomo, però, che rimaneva sempre Dio (22).
(20) Enchiridion, cap. XXXIV, col. 249.
(21) E invero, dice Agostino (Confess., l. XIX, cap. XIX), il muovere
o il non muovere le membra seconda la volontà e il provare e non
provare un sentimento e il manifestare, per mezzo di segni, concetti
pieni di senno o rimanere in silenzio : tutto questo è proprio di un'anima
e di un'intelligenza mutabile. Chè se poi questi atti tramandati sul suo
conto non fossero veri, anche tutto il resto pericolerebbe; investito dal
sonetto del mendacio, e in quegli scritti non rimarrebbe nessuna salvezza
di fede al genere umano. Ma dacché si tratta di fatti veri, io in Cristo ri-
conoscievo l'uomo interamente, non soltanto un corpo d'uomo, o una anima
senza intelligenza congiunta ad un corpo.
(22) « Homo verus, Deus verus. Deus et homo totus Christus : hoc est
catholica fides. Qui negat Deum Christum, photinianus est; qui negat ho-
minem Christum, manicaeus est; qui confitetur Deum aequalem Patri Chri-
stum et hominem verum... catholicus est » (Sermo, XCII, col. 573). « Nem-
pe ex quo esse homo coepit, non aliud coepit esse homo quam Dei Filius;
160 ANNA ESCHER DI STEFANO
L'uomo, infatti, si era reso figlio dell'ira, di quell'ira della
quale sta scritto : Tutti i nostri dì si dileguano e per il tuo sdegno
veniamo meno; i nostri anni come il ragno si travagliano (23). Di
quell'ira di cui Giobbe disse : L'uomo nato da donna breve tempo
vive, e dell'ira divina ripieno. Di quell'ira alla quale Nostro Si-
gnore alludeva quando disse : « Chi crede nel Figlouolo ha la
vita eterna; ma chi non crede al Figliuolo non vedrà la vita, ma
l'ira di Dio dimora su di lui » (24).
Come conseguenza del peccato originale, essendo gli uomini
avviluppati in quest'ira divina, aggravata ancora dalle colpe per-
sonali, tutti avevano bisogno di un Mediatore che li riconciliasse
con Dio, calmasse la sua ira con un sacrificio straordinario, del
quale tutti i membri della Legge antica erano solo come un'ombra.
E questo è appunto il significato delle parole dell'Apostolo : Giac-
ché, se essendo nemici, siamo stati riconciliati a Dio per la morte
di suo Figlio, tanto più, riconciliati, saremo salvati nella vita di
Lui (Rom., V, 10). Avevamo dunque bisogno di un Mediatore af-
finché egli ci riconciliasse con Dio e noi fossimo capaci di ricevere
lo Spirito Santo, e così da nemici che eravamo di Dio, diventas-
simo figli suoi, perché tutti coloro che sono guidati dallo Spirito
di Dio, sono figli di Dio (Rom., ViIl, 14) (25).
La dimostrazione della necessità di un Mediatore, dice Ago-
stino, richiederebbe un discorso assai lungo. A ciò si aggiunge
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che il linguaggio umano non potrebbe mai innalzarsi alla subli-
mità di questo mistero. Con quali parole infatti si potrebbe spie-
gare l'arcano significato di queste parole : « Il Verbo si fece carne
ed abitò fra noi» (Ioa., I, 14), e farci credere in Gesù Cristo,
Figlio unico di Dio Padre onnipotente, nato per opera dello Spi-
rito Santo dalla Vergine Maria? In quanto così il Verbo si è fatto
carne, non trasformandosi in carne, ma rivestendosi di carne (26).
Egli è rimasto uguale al Padre, essendo sempre un solo e mede-
simo Cristo. Ma, come Verbo, non è la stessa cosa che uomo. Verbo,
et hoc unicus, et propter Deum Verbum, quod ilio suscepto caro factum est,
utique Deus ut quemodum est una personna quilibet homo, anima scilicet
rationalis et caro, ita sit Christus una persona, Verbum et homo » (Ettcht-
rtdion, cap. XXXVI, col. 250).
(23) Ps., LXXXIX, 9.
(24) Enchiridion, cap. XXXIII, col. 248.
(25) Ibid., coli. 248-9.
(26) Ibid., cap. XXXIV, col. 249.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 161
è uguale al Padre; uomo, è inferiore a Lui. Il Figlio unico di
Dio è in sé la stessa persona del Figlio dell'uomo, è anche in sé
Figlio di Dio. Dio e uomo non sono due Cristi, non sono due figli
di Dio, ma un solo e unico Figlio di Dio. Come Dio, non ha prin-
cipio; come uomo ne ha avuto uno. Questo Verbo di Dio, questo
unico Figlio di Dio, questo Figlio dell'uomo, questo Dio e uomo
tutto insieme, è Gesù Cristo Signor Nostro (27).
E' in questo mistero, conclude Agostino, che la grazia di Dio
appare in tutta la sua grandezza ed evidenza. Infatti, che diritto
aveva la natura umana unita al Verbo, per meritar un sì sublime
onore, quello cioè di essere unita in modo sì meraviglioso al Fi-
glio di Dio in unità di Persona? Quale santa volontà , quali risolu-
zioni, quali opere buone avevano preceduto in quest'uomo, per
meritare di diventare una sola e medesima persona con Dio? Prima
di quest'unione divina, era forse già stato uomo, ed era forse per
i suoi meriti verso Dio che gli fu concessa una grazia sì ineffa-
bile? Ma, appena fatto uomo, era Figlio di Dio, Figlio unico di
Dio, Dio egli stesso per la sua identità col Verbo che è Dio, il
quale, assumendo la natura umana, si fece carne. E così, come
nell'uomo l'unione dell'anima ragionevole col corpo fa una sola
persona con una natura umana, così pure Cristo, cioè l'unione del
Verbo, coll'umanità , è una sola Persona. Ma in che modo la na-
tura umana ha potuto ricevere una gloria così grande, una gloria
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gratuita, in quanto non è stata preceduta da alcun merito, ma
soltanto opera della grazia di Dio, affinché gli uomini, conside-
rando con fede questo ineffabile sacrificio, comprendessero d'es-
sere stati giustificati dai loro peccati, in base a quella stessa grazia
che ha di Gesù Cristo un uomo esente da ogni peccato? Il mi-
stero di questa grazia è espresso nelle parole con le quali l'An-
gelo salutò Maria, annunciandole il divino parto: Io ti saluto, o
piena di grazia; e, poco dopo: Tu hai trovato grazia presso Dio
(Lue, I, 28-29). Se questa Vergine fu piena di grazia, se trovò gra-
zia presso Dio, fu perché doveva essere la Madre del suo Signore,
o meglio, del Signore di tutti gli uomini (28).
Certo Dio avrebbe potuto scegliere un altro mediatore (29)
tra sé e gli uomini, prendendolo non dal genere di Adamo, che col
(27) Ibid., cap. XXXV, coli. 249-50.
(28) ibid., XXXVI, col. 250.
(29) A proposito del ruolo di mediatore che Agostino attribuisce a
Cristo, il Portaliè osserva : « D'abord ce n'est point la personne du Verbe,
11
162 ANNA ESCHER DI STEFANO
suo peccato aveva imprigionato se stesso, ma giudicò fosse meglio
assumere il genere di colui che era stato vinto, per poter vincere
il nemico dello stesso genere umano. E volle che fosse concepito
da una vergine per mezzo dello spirito e non della carne, elimi-
nando qualsiasi desiderio sessuale. Per cui, la concupiscenza con
cui vengono concepiti tutti coloro che portano il peccato origi-
nale, non vi ebbe alcuna parte; e in tal modo la vergine, pur senza
giacere con un uomo, ma soltanto mediante la fede (30), fu fe-
condata, affinché colui che sarebbe nato dal grembo del primo
uomo, portasse con sé l'impronta del suo genere, ma non del pec-
cato originale. Cristo dunque nasceva non dal contagio del pec-
cato, ma per essere la medicina del peccato. Nasceva uomo, ma
senza alcuna macchia di peccato né presente, né futuro. In quanto,
sebbene la carnale concupiscenza dei genitali possa essere casta-
mente usata nel matrimonio, tuttavia ha in se stessa dei moti
involontari, che mostrano chiaramente come essa « vel nullam se
in paradiso ante peccatum esse potuisse, vel non talem fuisse si
fuit, ut aliquando resisteret voluntati » (31). L'uomo, invece, sente
oggi questa legge che ripugna alla ragione, e, mediante i suoi
allettamenti lo spinge all'accoppiamento, anche senza alcuna ra-
gione di procreazione, di modo che, se cede ad essa, si sazia, pec-
cando. Se invece non cede, si frena, non acconsentendo : e queste
due cose, evidentemente, non potevano esistere in paradiso prima
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del peccato. Allora l'onestà non produceva niente di indecoroso,
né la felicità era turbata. Era quindi necessario che non esistesse
mais la nature divine qu'il veut exclure du róle de médiateur. Comme le
mot Christus désigne la personne du Verbe subsistant en deux natures
absolument indépendantes l'une de l'autre, il se demande quelle est celle
des deux, humaine ou divine, qui peut et doit poser les actes de sati-
sfaction et d'expiation: or il est évident que ces actes ne sont point du
ressort de la nature divine. Mais la nature humaine à son tour n'agit point
sans étre comme informée par la personne du Verbe. C'est donc bien
l'Homme-Dieu qui apaise le Pére et nous sauve » (op. cit., col. 2367).
(30) Questa immensa fede di Maria viene ribadita anche nel Sermo
CCXV (col. 1074) : « Nam et ipsa beata Maria, quem credendo peperit,
credendo concepit. Cum enim promisso sibi Alio, quaesisset quemadmodum
fieret, quoniam virum non cognosceret; utique solus ei modus cognoscendi
atque pariendi notus erat, quem quidem ipsa experta non fuerat, sed ex
aliis feminis natura frequentate didicerat, ex viro scilicet et femina ho-
minem nasci ».
(31) De trin., l. III, cap. XVIII, col. 1032.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 163
questa concupiscenza carnale quando la vergine concepì il suo
bambino, in cui nulla fu trovato degno di morte, e che tuttavia fu
ucciso dall'autore della morte, che restò a sua volta vinto dal-
l'autore della vita. Il vincitore del primo Adamo, che teneva nel
suo pugno tutto il genere umano, doveva essere vinto dal secondo
Adamo, e lasciare il genere cristiano liberato dall'umano crimine
per mezzo di colui che non era nato dal crimine, benché fosse
dello stesso genere, affinché l'autore stesso dell'inganno fosse vinto
dal medesimo genere che aveva ingannato. E tutto ciò fu fatto non
perché l'uomo si levasse in superbia, ma perché « qui gloriatur,
in Domino glorietur ». Chi fu vinto era solamente uomo, e perciò
rimase sconfitto; ma chi vinse era uomo e Dio. E perciò il nato
dalla vergine vinse, poiché non era guidato da Dio, come gli altri
santi, ma era lo stesso Dio (32).
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(32) Ibid., l. XIII, cap. XVIII, coli. 1032-3.
Capitolo Decimo
IL PROBLEMA DELLA CONCORDANZA
DEL VECCHIO COL NUOVO TESTAMENTO
Agostino affronta infine il problema della difesa del cristia-
nesimo sul piano di una delle critiche più aspre che i Manichei
abbiamo ad esso rivolto : la critica alle Scritture.
Perché infierite con tanta ignoranza ed empietà , egli chiede
loro, perché tentate malvagiamente di corrompere con i vostri
ragionamenti le anime inesperte? L'Antico e il Nuovo Testamento
hanno un solo Dio. E se vorrete considerarli attentamente,
comprenderete come essi concordino in tutto. Ma poiché molte
cose sono scritte in forma umile, la più adatta e accessibile agli
spiriti semplici, e altre in maniera simbolica, in modo che gli
animi si esercitino nella ricerca del vero, e godano nella sua sco-
perta, allora voi abusate dei mirabili disegni dello Spirito Santo
per ingannare i vostri uditori, usando la grossolanità del vostro
cervello intossicato dal pasto velenoso di fantasmi corporei. Ma
ascoltatemi una buona volta e considerate senza ostinazione le
parole del profeta : Luminosa e incorruttibile è la sapienza, e ciò
si vede facilmente da quelli che l'amano, e si trova da quelli che
la cercano. Ella previene coloro che la bramano, affinchè si mostri
loro. Chi andrà in cerca di lei, non avrà da stancarsi, trovandola
assisa alla sua porta. Chi per amore di lei veglierà , sarà ben pre-
sto sicuro, perché ella va attorno cercando persone degne, e per le
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strade dolcemente si lascia vedere, e va loro incontro con ogni
sollecitudine. Poiché il suo vero principio è il desiderio della di-
sciplina. Il desiderio della disciplina è la dilezione; e la dilezione
e l'osservanza delle sue leggi è la purezza perfetta. E la purezza
avvicina a Dio. Così l'amore della sapienza conduce al regno di
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 165
Dio (1). E voi contro siffatte cose non cessate ancora di latrare?
E il fatto che esse siano così oscure e tutt'ora incomprese, non è
forse un segno evidente del loro alto e ineffabile contenuto? Vo-
glia Iddio che possiate comprendere quanto vi ho detto! Ridereste,
quanto meno, delle vostre storielle e dei vostri vani fantasmi, e
con infrenabile slancio, con sincero amore e con fede saldissima,
andreste tutti a rifugiarvi nel seno santissimo della Chiesa cat-
tolica (2).
I Manichei infatti sostenevano che nel Vecchio Testamento
fossero interposti passi, mediante i quali il Re delle Tenebre cer-
cava di oscurare la verità e di evitare l'elevazione dell'uomo, ov-
vero la liberazione della luce. Ciò permetteva ai seguaci di Mani
di considerare come falsi tutti quei passi che in qualche modo
smentissero le loro teorie. Essi miravano, da una parte alla critica
vera e propria di alcuni passi delle Sacre Scritture, e d'altra parte
a mettere in contrasto il Vecchio e il Nuovo Testamento, per di-
mostrare la falsità del primo.
Nel « De genesi contra Manichaeos » Agostino difende l'origi-
nalità delle S. Scritture verso per verso, e comincia dal primo :
« In principio creavit Deus coelum et terram » (3).
Dicono i Manichei : Se Dio in principio fece il cielo e la terra,
cosa faceva prima? Non implica questo una localizzazione e defi-
nizione nel tempo dell'infinito atto divino? La difficoltà , dice Ago-
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stino, è dovuta alla particolare forma mentis umana, che non può
concepire alcuna cosa, senza presupporre per ciò stesso, il tempo
in cui inquadrarla. Infatti l'espressione « in principio tempori-
bus» (4), con cui il Genesi designa la creazione del cielo e della
terra, non ci deve far pensare ad un inizio nel tempo, giacché il
tempo prima della creazione del mondo non esisteva affatto : « et
ideo antequam faceret tempora, non erant tempora» (5), ma piut-
(1) De moribus Ecclesiae catholicae et Manichaeorum, l. I, cap. XVII,
coli. 1324-5.
(2) Ibid.
(3) Gen., I, 1.
(4) De Genesi contra Manichaeos, l. I, cap. II, col. 174.
(5) Ibid. Cfr. anche : « Sed etsi in principio temporis Deum fecisse coe-
lum et terram credamus, debemus utique intelligere quod ante principium
temporis non erat tempus. Deus enim fecit et tempora: et ideo antequam.
faceret tempora, non erant tempora. Non ergo possumus dicere fuisse ali-
quod tempus quando Deus nondum aliquid fecerat. Quomodo enim erat
tempus quod Deus non fecerat, cum omnium temporum ipse sit fabricator?
166 ANNA ESCHER DI STEFANO
tosto ci deve orientare verso un'interpretazione simbolica. Cioè,
anziché dare a quel principium un significato temporale, è neces-
sario considerarlo come identico al Verbo, per mezzo di cui furono
fatte tutte le cose (6).
Proprio per negare il carattere della temporalità all'azione
creatrice di Dio, Agostino nega che questa si sia svolta in sei
giorni, affermando che le parole del Vecchio Testamento debbono
interpretarsi in senso simbolico (7). Dio creò la realtà in un solo
istante (8) e « fecit quae futura essent, ut non temporaliter faceret
temporalia, sed ab eo facta currurent tempora » (9).
Et si tempus cum coelo et terra esse coepit, non potest inveniri tempus quo
Deus nondum fecerat coelum et terram. Cum autem dicitur. Quid ei placuit
subito sic dicitur, quasi aliqua tempora transierint, quibus Deus nihil
operatus est. Non enim transire poterat tempus, quod nondum fecerat
Deus; quia non potest esse operator temporum, nisi qui est ante tem-
pora » (Ibid., coli. 174-5).
(6) « His respondemus, Deum in principio fecisse coelum et terram,
non in principio temporis, sed in Christo, cum Verbum esset apud Pa-
trem, per quod facta et in quo facta sunt omnia (Joan., I, 1, 3,) » (Ibid.,
col. 174).
(7) « Quanquam ergo sine productione temporis faciat Deus, cui su-
best posse cum volet; ipsae tamen naturae temporales motus suos tempo-
raliter peragunt. Ita ergo fortasse dictum est, Et facta est vespera, et
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factum est mane dies unus, sicut ratione prospicitur ita fieri debere aut
posse, non ita ut fit temporalibus tractatibus. Nam in ipsa ratione opera-
tionem contemplatus est in Spiritu Santo, quo dixit, Qui manet in aeter-
num creavit omnia simul (Eccl., XVIII, 1): sed commodissime in ilio libro,
quasi morarum per intervalla factarum a Deo, rerum digesta narratio est,
ut ipsa dispositio, quae ab infirmioribus animis contemplatione stabili vi-
deri non poterat, per hujusmodi ordinem sermonis exposita quasi istis ocu-
lis cerneretur » (De Genesi ad litteram, cap. VII, col. 231).
(8) « Neque enim et ipsa gradibus attingit, aut tanquam gressibus per-
venir Quapropter quam facilis ei efficacissimus motus est, tam facile Deus
condidit omnia; quoniam per illam sunt condita: ut hoc quod nunc vide-
mus temporalibus intervallis ea moveri ad peragenda quae suo cuique
generi competunt, ex illis insitis rationibus veniat, quas tanquam semina-
liter sparsit Deus in ictu condendi, cum dixit, et facta sunt; mandavit, et
creata sunt (Psai., XXXII, 9) ». (Ibid., l. IV. cap. XXXIII, coi. 318). E anche
« Imo vero et prius atque posterius per sex dies quae commemorata sunt
facta sunt, et simul omnia facta sunt; quia et haec Scriptura, quae per me-
moratos dies narrat opera Dei, et illa quae simul eum dicit fecisse omnia,
verax est; et utraque una est, quia uno Spiritu veritatis inspirante conscri-
pta est » (Ibid., cap. XXXIV, col. 319).
(9) Ibid., cap. XXXV, col. 320.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 167
«Terra autem erat invisibilis et incomposita » (10).
I Manichei osservano che Dio non poteva fare in principio il
cielo e la terra, dato che la terra era già invisibile e incomposita.
Poiché essi « volunt Scripturas divinas prius vituperare quam
nosse, etiam res apertissimas non intelligunt» (11).
Ora è chiaro, dice Agostino, che Dio fece sì il cielo e la terra,
ma questa, prima che Egli ne differenziasse le parti, si presen-
tava « invisibilis et incomposita », cioè in maniera del tutto in-
forme (12).
(10) De Genesi contra Manicheos, l. I, cap. III, col. 176.
(11) Ibid.
(12) « Ego vero, Domine, si totum confitear tibi ore meo et calamo meo,
quidquid de ista materia docuisti me, cujus antea nomen audiens et non in-
telligens narrantibus mihi eis qui non intelligerent, eam cum speciebus
innumeris et variis cobitabam; et idea non eam cogitabam; foedas et hor-
ribiles formas perturbatis ordinibus volvebat animus, sed formas tamen; et
informe appellabann, non quod careret forma, sed quod talem haberet, ut,
si appareret, insolitum et incongruum aversaretur sensus meus, et contur-
baretur infirmitas hominis. Verum autem illud quod cogitabam, non pri-
vatione omnis formae, sed comparatione formosiorum erat informe: et sua-
debat vera ratio, ut omnis formae qualescumque reliquias omnino detra-
herem, si vellem prorsus informe cogitare; et non poteram. Citius enim non
esse censebam, quod omni forma privaretur, quam cogitabam quiddam
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inter formatum et nihil, nec formatum nec nihil, informe prope nihil. Et
cessavit mens mea interrogare hinc spiritum meum plenum imaginibus
formatorum corporum, et eas pro arbitrio mutantem atque variantem; et
intendi in ipsa corpora, eorumque mutabilitatem altius inspexi, qua desi-
nunt esse quod fuerant, et incipiunt esse quod non erant; eumdemque tran-
situm de forma in formam per informe quiddam fieri suspicatus sum, non
per omnino nihil; sed nosse cupiebam. non suspicari. Et si totum tibi con-
fiteatur vox et stilus meus, quidquid de ista quaestione enodasti mihi, quis
legentium capere durabit? Nec ideo tamen cessabit cor meum dare tibi
honorem et canticum laudis de iis quae dictare non sufficit. Mutabilitas
enim rerum mutabilium ipsa capax est formarum omnium in quas mutan-
tur res mutabiles. Et haec quid est? Numquid animus? Numquid corpus?
numquid species animi vel corporis? Si dici posset, Nihil aliquid, et, Est
non est, hoc eam dicerem; et tamen jam utcumque erat, ut specie caperet
istas visibiles et compositas » (Confessiones, l. XII, cap. VI, coli. 827-8). E
altrove : « Et tamen hoc paene nihil, in quantum non omnino nihil erat... »
(Ibid., cap. XV, col. 834); « illud autem prope nihil erat, quoniam adhuc
omnino informe erat; jam tamen erat quod formari poterat » (Ibid., cap.
VIII, col. 829). A questo proposito il Gilson osserva : « Dieu a créé la
Terre, c'est-à -dire une matière absolument informe. Par ces mots, on ne
veut pas signifier que Dieu ait d'abord créé une matière pour la revétir
168 ANNA ESCHER DI STEFANO
La materia viene definita come cielo e terra, non perché que-
sti vi fossero già (13), — infatti è scritto che il cielo fu fatto
dopo — ma perché essi vi erano potenzialmente contenuti, «quasi
semen coeli et terrae, cum in confuso adhuc esset coeli et terrae
materia; sed quia certum erat inde futurum esse coelum et ter-
ram, jam et ipsa materia coelum et terra appellata est» (14).
Ma a questo punto noi obbiettiamo: che caratteri può avere
questa materia del tutto informe di cui parla Agostino? E' conce-
pibile un quid «prope nihil», che non possieda alcuna specifica-
zione? Se essa si differenzia dalla forma, deve pure avere, in quanto
materia, una sua determinazione, e allora non la si può certo con-
siderare amorfa (15).
reste dans le temps, puisque tout fut créé simultanément, mais elle la pré-
cède dans l'ordre de la causalité. La voix n'existe pas à part des mots
articulés, qui en sont pour ainsi dire la forme, et pourtant elle s'en distin-
gue et les sopporte; de méme, la matière créée par Dieu sous le nom de
Terre, sans ètre antérieure à ses formes dans le temps, les précède néan-
moins comme condition de leur subsistance. Ainsi complétement vide de
formes, elle ne saurait ètre le théà tre de ces variations distinctes sans le
quelles nous avons vu que le temps est impossibile; pas plus que le Ciel,
c'est-à -dire des Anges, la matière première ne relève donc de l'ordre du
temps; elle ne compte pas dans le nombre des jours de la création » (Gil-
son, op. cit, p. 258).
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(13) « Quemadmodum si semen arboris considerantes, dicamus ibi esse
radices, et robur et ramos, et fructus, et folia; non quia jam sunt, sed quia
inde futura sunt » (De Genesi contra Manichaeos, l. I, cap. VII, col. 178).
(14) IbW.
(15) A questo proposito dice I'Ottaviano: «Tanto più che l'opposi-
zione della materia prima e della forma sostanziale è opposizione di qua-
lità radicalmente eterogenee, in quanto funge come opposizione di materia
a spirito. Nella coppia materia-forma, cioè già nei componenti come tali del
sinolo, che cosa è la forma quale parte essenziale dell'ente materiale, a cui
la materia si oppone, se non spirito? E quindi la materia prima, se è ap-
punto materia e non spirito, ha una forma propria, la forma o qualità di
materia opposta alla forma o qualità di spirito... La materia informe,
quindi, intesa non come mostruosa confusione di varie forme, ma come ele-
mento privo del tutto di forme, diventa qualcosa tra il « fomatwn » e il
« nihil », cioè « nec formatum nec nihil », addirittura « prope nihil ». Ma il
prope nihil è il nulla. E se la si volesse riportare al concetto astratto di
mutabilitas come « capax formarum omnium, in quas mutantur res muta-
biles », sfumerebbe sempre come elemento reale (sia corporeo che spiri-
tuale), riducendosi ad un'astrazione contraddittoria, cioè ad un « nihil ali-
quid » o ad un « est non est » in ogni caso all'assurdo. Il concetto di un
elemento assolutamente informe nasce manifestamente da un inganno dei
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 169
Inoltre questa materia informe ha, per Agostino, in potenza
tutte le cose. Ma è concepibile la nozione di potenza? Essa era
già stata usata da Aristotele per risolvere il problema del divenire,
evitando cosi lo spinoso passaggio dal nulla all'essere : « Potens
enim est, quod primo potest, propterea quod contingit operari :
utputa aedifkativum, quod potest aedificare; et visivum, quod po-
test videre; et visibile, quod potest videri... Dico autem hoc, quod
eo quidem homine, qui actu jam est, et frumento, et vidente, prior
tempore est materia, et sperma, et visivum, quae potentia quidem
homo et frumentum et videns sunt, actu Vero nondum » (16). Ari-
stotele aveva anche posta la riduzione della potenza alla materia :
« Materia est potentia, quia progredì potest ad speciem : quum
vero actu, tunc in specie est » (17). Or qui, dice I'Ottaviano, si pone
il problema : ha senso parlare della potenza come di un modo
di essere intermedio tra l'atto o essere e il nulla o non essere? Il
principio del terzo escluso nega la possibilità di una via di mezzo
tra essere e non essere. E' infatti evidente, continua l'Ottaviano,
che la nozione di potenza è tratta, per l'aspetto fisico di essa dalla
fisica, per cui noi vediamo ad es. il legno diventare cenere; e per
l'aspetto attivo dalla biologia, per cui vediamo ad es. il seme di-
ventare pianta, o diciamo che l'energia del braccio solleva un
peso. Ambedue gli aspetti sono stati trasportati senz'altro in sede
metafisica, intendendo questi processi come passaggi dalla potenza
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all'atto : il legno diventa cenere, perché ha la potenza di diventare
cenere, ossia perché la cenere è in esso in potenza, ecc. Ora è
manifesto, dice l'Ottaviano, che una siffatta trasposizione si ri-
duce, in sostanza, ad una spiegazione del fenomeno con se stesso,
idem per idem : noi non sappiamo in quale modo e mercè quale
occulto processo metafisico il legno diventi cenere e il seme di-
venti pasta, ecc. Assumere il fatto per spiegazione significa non
dare una spiegazione del fatto. E' facile equivocare qui tra la
mera possibilità logica, per cui ciò che è era « possibile », con la
sensi e della fantasia, che nel progressivo acuirsi dell'intuizione sensibile
inducono a considerare ad un certo punto, venuta meno la capacità rap-
presentativa dell'immaginazione come amorfo e informe quanto in sé è an-
cora differenziato. L'assolutamente indifferenziato non è che il nulla » (C.
Ottaviano, Metafisica dell'essere parziale. Rondinella, Napoli, 1954. pp. 335
e 338).
(16) Aristotele, Metaph., XIII, cap. 8, 2-3, pp. 569-70.
(17) Ibid., VIII, cap. 8, 8, p. 570.
170 ANNA ESCHER DI STEFANO
possibilità reale, che determina il fenomeno all'atto di essere o
all'essere in atto, cioè con la spiegazione del fenomeno stesso. La
possibilità reale, la potenza è un duplicato inesistente della pos-
sibilità logica. In definitiva conclude l'Ottaviano, o la potenza è
essere, e allora è atto e non c'è movimento; o è non essere, e allora
non è affatto e non c'è movimento. Non si vede come essa possa
essere un modo di essere, anteriore all'essere o atto, cioè diverso
dall'essere o atto : diremo forse che l'essere è anteriore a se stesso
e l'atto anteriore all'atto? E dire che ciò che precede l'essere è un
modo di essere non significa nulla, perchè un modo di essere an-
teriore all'essere non è che il nulla (18).
«Et tenebrae erant super abyssum» (19).
Ma allora, dicono i Manichei, Dio prima che creasse la luce,
era nelle tenebre? Sono essi nelle tenebre dell'ignoranza, esclama
Agostino, poiché non comprendono la Luce nella quale Dio era
prima che facesse questa luce che noi percepiamo coi sensi : « et
ideo istum solem, quem pariter non solum cum bestiis majoribus,
sed etiam cum muscis et vermiculis cernimus, illi sic colunt ut
particulam dicant esse lucis illius in qua habitat Deus » (20). Essi
non intendono la diversità della luce divina, che è « lumen ve-
rum» e non illumina tutti gli uomini, ma soltanto «pura corda
eorum qui Deo credunt » (21) : Dio è luce, luce di verità ; quella
stessa luce che sentono nell'anima tutti coloro che hanno il dono
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della fede e «ab amore visibilem rerum et temporalium se ad
ejus praecepta implenda convertunt » (22). Però, tutti gli uomini,
se vogliono, possono possedere questa luce, poiché essa illumina
tutta l'umanità .
Inoltre Dio disse : E la luce sia; ma non perché le tenebre fos-
sero qualcosa, avessero una propria esistenza, in quanto esse sono
soltanto assenza di luce, così come il silenzio è assenza di ogni
suono, la nudità assenza di ogni vestimento, ecc. Per cui le do-
mande « dove erano queste tenebre sopra l'abisso, prima che Dio
facesse la luce? Chi le aveva create? o, se nessuno le aveva create,
(18) C. Ottaviano, op. ctt.. pp. 285-6.
(19) De Genesi contra Manichaeos, l. I, cap. III, col. 176.
(20) Ibid.
(21) Ibid.
(22) Ibid.
V
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 171
esse erano forse eterne? » sono sciocche e dipendono dalla corporea
visione che i Manichei hanno delle cose : « quia ipsi fabulis suis
decepti crediderunt gentem esse tenebrarum, in qua et corpora et
formas et animas in illis corporibus fuisse arbitrantur, ideo putant
quod tenebrae aliquid sint: et non intelligunt non sentiri tene-
bras, nisi quando non videmus, sicut non sentitur silentium, nisi
quando non audimus. Sicut autem silentium nihil est, sic et te-
nebrae nihil sunt. Sicut autem isti dicunt gentem tenebrarum
contra lucem Dei pugnasse; sic potest et alius similiter venus di-
cere, gentem silentiorum contra vocem Dei pugnasse. Sed illas va-
nitates modo non suscepimus refellere atque convincere » (23).
« Et Spiritus Dei superferebatur super aquam » (24).
I Manichei interpretano questo verso nel senso che l'acqua
contenesse lo spirito di Dio; essi « totum conantur perversa mente
pervertere, et excaecantur malitia sua » (25). Se ad es., noi di-
ciamo « superfertur sol super terram » (26), non vogliamo certo
intendere che la terra contenga il sole, ciò nonostante, dice Ago-
stino, non allo stesso modo « Spiritus Dei superferebatur super
aquam... sed alio modo quem pauci intelligunt... per potentiam in-
visibilis sublimitatis suae » (27). I Manichei obbiettano inoltre
come potesse esistere quest'acqua, dato che non è scritto che Dio
l'abbia creata. Ma Agostino osserva che dicendo che Dio creò il
cielo e la terra,.si vuole intendere che Egli creò tutto l'universo, e
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quindi anche l'acqua : « ideo autem nominibus visibilium rerum
haec appellata sunt, propter parvulorum infirmitatem, qui minus
idonei sunt invisibilia comprehendere » (28).
« Et dixit Deus, fiat lux. Et facta est lux. Et vidit Deus lucem
quia bona est» (29).
I Manichei ribattono : o Dio non conosceva la luce o non co-
nosceva il bene. E Agostino risponde : « Miseri homines, quibus
displicet, quod Deo placuerunt opera sua, cum videant etiam ho-
minem artificem, verbi gratia, lignarium fabrum, quamvis in com-
paratione sapientiae et potentiae Dei pene nullus sit, tamen tam
(23) Ibid., cap. IV, col. 177.
(24) Ibid., cap. V, col. 177.
(25) Ibid.
(26) Ibid.
(27) Ibid.
(28) Ibid., col. 178.
(29) Ibid., cap. IV, col. 176.
172 ANNA ESCHER DI STEFANO
diu lignum caedere atque tractare dolando, asciando, planando
vel tornando atque poliendo quosque ad artis regulas perducatur,
quantum potest, et placeat artifici suo. Numquid ergo quia placet
ei quod fecit, ideo non noverat bonum? Prorsus noverar intus
in animo, ubi ars ipsa pulchrior est, quam illa quae arte fabrican-
tur. Sed quod videt artifex intus in arte, hoc foris probat in opere,
et hoc est perfectum quod artifici suo placet. Vidit ergo Deus lu-
cevi quia bona est : quibus verbis non ostenditur eluxisse Deo in-
solitum bonum, sed placuisse perfectum» (30). A Dio, infatti,
niente può essere sconosciuto; Egli tutto conosce, ché se qualche
cosa ignorasse, non sarebbe Dio.
« Divisit Deus inter lucem et tenebras et vocavit Deus diem
lucem et tenebras vocavit noctem » (31).
Qui non vien detto, contrariamente a quanto pensano i Ma-
nichei, che Dio abbia fatto le tenebre. Infatti, le tenebre — come
abbiamo già detto — niente sono in sé, esse non esistono, come
non esiste il silenzio. Tuttavia, così come noi distinguiamo il
suono dal silenzio, allo stesso modo possiamo distinguere la luce
dalle tenebre. Il versetto pone in evidenza soltanto che Dio fece
una discriminazione tra la luce e le tenebre. E quindi l'accusa
manichea, cade.
« Facto est «esperà , et factum est mane dies unus » (32).
Dicono i Manichei : « Quasi a vespera dies coeperit » (33). Ma
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le due frasi indicano una successione di tempo, dice Agostino.
«Non intelligunt operationem illam qua lux facta est, et divisum
est inter lucem et tenebras, et vocata est lux dies, et tenebrae nox,
hanc ergo totum operationem non intelligunt ad diem pertinere :
post hanc autem operationem tanquam finito die facta est ve-
spera. Sed quia etiam : nox ad diem suum pertinet, non dicitur
transisse dies unus nisi etiam nocte transacta cum factum est
mane : sic deinceps reliqui dies computantur a mane usque in
mane» (34).
« Et dixit Deus, germinet terra herbam pabul, ferentem semen
secundum suum genus et similitudinem, et lignum fructiferum
(30) Ibid., cap. VIII, col. 179.
(31) Ibìd., cap. IX, col. 180.
(32) Ibid., cap. X, col. 180.
(33) Ibid.
(34) Ibid.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 173
faciens fructum, cujus semen sit in se secundum suam similitudi-
nem. Et sic est factum » (35).
Dio, dicono i Manichei, comandò all'erba e all'albero frutti-
fero di nascere dalla terra, ma chi comandò a tante erbe velenose
e spinose che danneggiano i pascoli, e a tanti alberi, che non pro-
ducono alcun frutto? (36).
I Manichei, insomma, presentano la solita domanda concer-
nente la conciliazione tra Dio, eminentemente buono e giusto,
creatore di tutte le cose, e le cose create, che non sempre sembrano
rispondere ad un canone di giustizia e perfezione.
Agostino supra questa obbiezione ricorrendo al peccato origi-
nale, in conseguenza del quale la terra fu maledetta; è da questa
maledizione che hanno origine le erbe velenose e gli alberi in-
fruttiferi (37).
« Et dixit Deus, fiant sidera in firmamento coeli, sic ut luceant
super terram, et dtvidant inter diem et noctem et sint in signa, et
in tempora, et in dies, et in annos, et sint in splendorem in fir-
mamento coeli, sic ut luceant super terram. Et sic est factum. Et
fecit Deus duo luminaria, majus et minus : luminare majus in in-
choationem noctis, et stellas. Et posuit Mas Deus in firmamento
(35) lbid., cap. XIII, col. 182.
(36) « Quid opus erat ut tam multa ammalia deus faceret, sive in
aquis, sive in terra, quae hominibus non sunt necessaria? multa etiam per-
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niciosa sunt et timenda. Sed cum ista dicunt non intelligunt quemadmodum
omnia pulchra sunt conditori et artifici suo qui omnibus utitur ad guber-
nationem universitatis, cui summa lege dominatur » (lbid., cap. XVI,
col. 185).
(37) e Herbae autem venenosae ad poenam, vel ad exercitationem mor-
talium creatae sunt; et hoc totum propter peccatum, quia mortales post
peccatum facti sumus. Per infrutuosas vero arbores insultatur hominibus,
ut intelligant quam sit erubescendum sine fructu honorum operum esse in
agrp Dei, hoc est in Ecclesia; et timeant ne deserat, eos Deus, quia et ipsi
in agris suis infructuosas arbores deserunt, nec aliquam culturam eis adhi-
bent. Ante peccatum ergo hominis non est scriptum, quod terra aliud pro-
tulerit nisi herbam pabuli et ligna fructuosa: post peccatum autem vide-
mus multa horrida et infructuosa de terra nasci, credo propter eam causam
quam diximus. Sic enim dicitur ad primum hominem postequam peccavit:
Maledicta erit terra tibt in omnibus operibus tuis; in tristitia et gemitu
edes ex ea omnibus diebus vitae tuae: Spinas et tribulos ejtciet libi, et
edes pabulum agri tui; in sudore vultus tui edes panem tuum, donec rever-
taris in terram, de qua sumptus es; quia terra et, et in terram ibis » (lbid.,
cap. XIII, col. 182).
174 ANNA ESCHER DI STEFANO
coeli, sic luceant super terram et praesint diei et noeti, et dividant
inter diem et noctem. Et vidit Deus quia bonum est. Et facta est
vespera, et factum est mane dies quartus » (38).
Se il sole, la luna e le stelle sono stati fatti il quarto giorno,
i primi tre giorni non esistevano, e quindi non esistevano neanche
il giorno e la notte.
A questa obbiezione Agostino risponde che gli astri non sono
che dei segni per riconoscere il giorno e distinguerlo dalla notte;
giorno e notte poi hanno una loro vita, a prescindere dalla luna,
dal sole o dalle stelle.
E lo stesso si può dire per la frase : « Et sint in signa et in
tempora». Infatti, secondo l'interpretazione manichea, i primi tre
giorni sarebbero stati senza tempo. Per Agostino, invece, le stelle
servono a distinguere i tempi e a permetterne agli uomini la co-
noscenza.
« Et dixit Deus, ejiciant aquae reptilia animarum vivorum et
volatilia volantia super terram sub firmamento coeli. Et sic factum
est. Et fecit Deus cetos magnos, et omnem animam animalium et
serpentium quae ejecerunt aquae secundum uniuscuiusque genus
et omne genus volatile pennatum secundum genus » (39).
E così dall'acqua provengono non soltanto gli animali che
vivono in essa, ma anche quelli che volano nello spazio; cosa per
i Manichei evidentemente contraddittoria (40). Ma questo spazio,
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ribatte Agostino, « cum aquis soleri deputari » (41). Infatti sulla
vetta dell'Olimpo, che per l'altitudine non è circondata da nubi,
né vi soffia il vento, si dice che non vi siano neanche uccelli, per
cui « non itaque immerito non solum pisces et caetera quae in
aquis sunt animalia, sed etiam aves de aquis natas esse, fedelissima
Scriptura commemorat; quia per istum aerem volare possunt, qui
de maris et terrae humoribus surgit» (42).
(38) Ibid., cap. XIV, coli. 182-3.
(39) Ibid., cap. XV, col. 184.
(40) « Hic solent reprehendere, quaerentes vel potius calumniantes,
quare animalia non solum ea quae in aquis vivunt, sed etiam ea quae in
aere volitant, et omnia pennata de aquis nata scriptum sit. Sed sciant
omnes quos haec movent, istum aerem nebulosum et humidum in' quo aves
volant, a doctissimis hominibus qui haec diligenter inquirunt, cum aquis
solere deputari » (Ibid.).
(41) Ibid.
(42) Ibid.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 175
Non si può certo definire scientifica la spiegazione di Agostino;
essa, però, non è in mala fede, dettata dallo specioso desiderio di
giustificare ancora una volta la Scrittura, ma è ingenuo frutto
della mentalità del suo tempo.
« Et dixit Deus : Faciamus hominem ad imaginem et similitu-
dinem nostram; et habeat potestatem piscium maris et volatilium
coeli, et omnium pecorum et ferarum et omnis terrae, et omnium
reptilium, quae super terram repunt » (43).
I Manichei ribattono vivacemente che questa frase è un in-
sulto alla grandezza di Dio, e chiedono se Dio abbia mani, e denti
e barba. Agostino risponde che la Scrittura si esprime in maniera
simbolica, « cum Deus insinuetur audientibus parvulis » (44). E
ciò viene detto non solo nel Vecchio Testamento, ma anche nel
Nuovo. La « similitudo » di cui parlano le Scritture non riguarda
il corpo, ma lo spirito, così come in base allo spirito l'uomo è su-
periore agli altri animali : appunto per questo non importa che
molte fiere riescano ad uccidere o a molestare l'uomo. A questo
punto, però, Agostino, invece di ribadire che si tratta di una supe-
riorità spirituale e non fisica, afferma che la similitudine di cui
parla la Scrittura non ha come secondo termine l'uomo nel suo
stato attuale, ma l'uomo prima del peccato originale, in seguito al
quale esso fu condannato alla morte, e perse quella perfezione
che rivelava la somiglianza con Dio : « Sed si damnatio ejus tan-
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tum valet, ut tam multis pecoribus imperet : quamvis enim a
multis feris propter fragilitatem corporis possi occidi, a nullis
tamen domari potest, cum ipse tam multas et prope omnes domet :
si ergo haec hominis damnatio tantum valet, quid de regno ejus
cogitandum est, quod ei renovato et liberato divina voce promit-
titur?» (45).
« Masculum et feminam fecit illos; et bene dixit eos Deus
dicens, crescite et multiplicamini, et generate et replete ter-
ram » (46).
La congiunzione si deve intendere in maniera spirituale o car-
nale? Prima del peccato, risponde Agostino, la congiunzione era
casta, dopo carnale.
(43) Ibid., cap. XVII, col. 186.
(44) Ibid.
(45) Ibid., cap. XVIII, col. 187.
(46) Ibid., cap. XIX, col. 187.
176 ANNA ESCHER DI STEFANO
-I
Quest'argomento della proibizione manichea del matrimonio
e della procreazione come fonte di male, lo ritroviamo nel « De
moribus Ecclesiae catholicae et Manìchaeorum » e nel « Contro,
Adimantum». In quest'opera Agostino riferisce che, secondo i
Manichei, sarebbe contraddittoria la frase del Vangelo « omnis qui
reliqueit domum, aut uxorem, aut parentes, aut fratres, aut filios
propter regnum coelorum, centies tantum accipiet in hoc tempore,
et in futuro saeculo possidebit vitam aeternam » (47), con ciò che
è scritto nella Genesi.
Ora è chiaro, risponde Agostino, che il Vecchio Testamento
non può affermare la dissolubilità del matrimonio; esso, retta-
mente inteso, vuol significare che l'uomo deve abbandonare la
moglie, i parenti ecc., solo nel caso che questo sia necessario per
il regno dei cieli. Ma non sempre lo è. Infatti, dice l'apostolo : « si
quis fidelis habet uxorem infedelem, et haec consentit habitare
cum illo, non dimittat eam » (48).
« Requies diei septimi per allegoria-m » (49).
I Manichei deridono la testimonianza del Vecchio Testamento,
secondo cui Dio, creato il cielo e la terra e fatte tutte le cose,
riposò il settimo giorno, santificandolo. E chihedono perché mai
Dio avesse bisogno di riposo : forse perché il lavoro dei giorni pre-
cedenti lo aveva stancato? E mettono quel versetto in correlazione
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con quest'altro del Nuovo Testamento : « Pater meus usque nunc
operatur» (Joan., V, 17), cercando di mostrare come essi si con-
traddicano. Ma i Manichei, ribatte Agostino, cadono nella stessa
visione materialistica di coloro cui Dio si rivoltò perché non os-
servavano il giorno di riposo, « illi enim carnaliter exsecrando,
et isti carnaliter observando, sabbatum non noverunt» (50). I
Manichei non comprendono come Dio abbia voluto dire che siamo
noi a dover usufruire del riposo, dopo aver compiuto il nostro la-
voro, santificando così il sabato.
Questa critica viene ripresa nel Contra Adimantum, in cui
Agostino aggiunge che la frase «in septimo requievit ab eisdem
omnibus operibus quae fecerat » (51) non si deve intendere nel
senso che Dio cessò del tutto la Sua opera, ma nel senso che non
(47) Matth., XIX, 29; Marc, X, 29-30; Lue. XVIII, 29-30.
(48) I Cor.,, VII, 12.
(49) De Genesi contra Manichaeros, l. I.
(50) Ibìd.
(51) Contra Adimantum, l. I, cap. II, col. 131.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 177
continuò la creazione, pur continuando la sua opera di « admi-
nistratio ».
E' scritto nella Genesi che Dio maledisse Caino fratricida e lo
condannò a lavorare la terra che gli avrebbe dato solo sterili frutti.
Dicono i Manichei che ciò è contrario al passo del Vangelo, in
cui è detto che il Signore parlò così ai suoi discepoli : « Nolite co-
gitare de crostino, non crastinus dies ipse cogitabit sibi. Respi-
cite volatilia coeli, quia non seminant, neque metunt, neque col-
ligunt in horrea » (52). Come se Caino, che merita quella pena, po-
tesse essere paragonato ai discepoli di Cristo, e come se dalla sua
colpa potesse derivarne una pena anche per essi.
« Sed non prius quod spirituale est, sed quod animale, sicut
scriptum est : Factus est primus Adam in animam viventem, no-
vissimus Adam in spiritum vivificantem » (53).
I Manichei osservano riguardo a questo passo che la natura
di Dio dovrebbe interpretarsi come mutevole « ne forte si proba-
retur his testimoniis animam factam esse, non deessent qui dice-
rent spiritum hominis non esse factum, et ipsum arbitrarentur
esse naturam Dei, et in ipsum dicerent partem Dei esse conver-
santi, cum illa insufflatio Dei facta est. Quod sana doctrina simili-
ter respuit, quia et ipse spiritus hominis cum aliquando errat, et
aliquando prudenter sapit, mutabilem se esse clamat: quod nullo
modo de natura Dei fas est credere. Non autem potest majus si-
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gnum esse superbiae, quam ut dicat se humana anima hoc esse
quod Deus est, cum adhuc sub tantis vitiorum et miseriarum moli-
bus gemat » (54).
« Propter hoc relinquet homo patrem et matrem, et adhae-
rébit uxori suae; et erunt duo in carne una» (55); « Ego autem dico
in Christo et in Ecclesia» (56); « Ego a patre exivi, et veni in hunc
mundum» (57).
Non che, naturalmente, Dio sia contenuto in alcun luogo, ma
soltanto che Egli si fece carne, e scese tra gli uomini. Cosa che non
porta un mutamento nella natura di Dio, ma soltanto implica l'as-
sunzione di una natura inferiore. Cristo non apparve in tutta
(52) Matth., VI. 34, 26.
(53) I Cor., XV, 44-46.
(54) De Genesi contra Manichaeos, l. II. cap. VIII, col. 202.
(55) Ibid., cap. XXIV, col. 215.
(56) Ibid.
(57) Ibid.
12
178 ANNA ESCHER DI STEFANO
quella dignità con la quale siede presso il Padre, in quanto il
cuore degli uomini non era abbastanza puro da esser degno di ve-
derlo.
Agostino confuta infine le tesi dei Manichei riguardo il male,
la prescienza divina, la necessità del peccato, concludendo che il
serpente di cui parla la profezia, è il veleno degli eretici, e non
già , come questi pensano, Cristo. Infatti nessuno ha mai promesso
con più iattanza dei Manichei la scienza del bene e del male (58),
iattanza che abbiamo visto rivelarsi nelle accuse rivolte al Vec-
chio Testamento.
Il « De Genesi contra Manichaeos » così si conclude e la cri-
tica rivolta alle interpretazioni manichee viene ripresa nel Con-
tra Adimantum (59), in cui ci occuperemo naturalmente solo di
quei passi che non coincidono con quelli del De Genesi contra
Manichaeos.
Sono in contrasto, secondo l'opinione manichea, i seguenti due
passi : « Honora patrem tuum et matrem tuam » (60). « Ibo pri-
mum ut sepeliam patrem meum; respondit : sine mortuos, mortuos
tuos sepeliant; tu autem veni, et annuntia regnum Dei» (61).
Il rispetto ai parenti, risponde Agostino, è un comandamento
di Dio, ciò nonostante quando questo è di impedimento al divino
amore, allora bisogna saper rinunziare anche agli affetti più cari,
per un amore che supera di gran lunga ogni cosa umana, e che
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ci eleva al di sopra della nostra stessa natura.
Nel Vecchio Testamento troviamo scritto : « Ego sum Deus
zelans, tribuens filiis tertiae et quartae generationis parentum pec-
cata qui me oderunt » (62); e nel Vangelo : « Non solum septies
peccanti fratri dimittanedum sed etiam septuagies septies » (63),
(58) « Sed nihil vehementius istos designat et notat, quam quod dicit
serpens : Non morte moriemini: sciebat enim Deus quoniam qua die ede-
ritis, aperientur oculi vestri. Sic enim isti credunt, quod serpens ille
Christus fuerit, et deum nescio quem gentis tenebrarum, sicuti affirmant,
illud praeceptum dedisse confingunt, tanquam invideret hominibus scien-
tiam boni et mali» (Ibid., cap. XXVI, col. 217).
(59) Adimanto era uno dei migliori discepoli di Mani, vissuto intorno
al 400, e autore di uno scritto polemico in cui si mettono in rilievo alcune
contraddizioni tra il Vecchio e il Nuovo Testamento: proprio a questo
scritto si riferisce l'opera di Agostino.
(60) Exod., XX, 5.
(61) Lue, IX, 59-60.
(62) Exod., XX, 5.
(63) Matth., XVIII, 22.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 179
frasi che, secondo i Manichei, si escludono a vicenda. Eppure, dice
Agostino, se io chiedessi loro quale Dio non punisce i propri ne-
mici, senza dubbio li vedrei turbarsi, giacché essi stessi sosten-
gono che Dio prepara un eterno carcere alla gente delle tenebre.
Dio, in quanto giustizia infinita deve condannare i peccatori. Ma
bisogna distinguere quali siano degni di condanna, dice Ago-
stino, « qui in eadem perversitate parentum perseverare volue-
runt» (64) ed anche «qui eum oderunt, non qui ei per poeniten-
tiam reconciliantur » (65). Cioè saranno condannati coloro che
persevereranno nei peccati dei padri e coloro che odieranno Dio,
non quelli che si pentiranno e per mezzo della penitenza potranno
di nuovo acquistare la grazia divina.
E' scritto nell'Antico Testamento : « Oculum per oculo, denterÃ
per dente » (66). I Manichei osservano che queste parole si appon-
gono allo spirito di tutta la predicazione di Gesù, che proclamava
l'abolizione della vendetta, e insegnava agli uomini la legge del-
l'amore : « Audistis quia dictum est antiquis, oculum pro oculo,
dentem pero dente; ego autem dico vobis, non resistere inalo; sed
si quis te percusserit in maxillam, praebe UH et alteram; et qui-
cumque voluerit tecum judicio contendere, et tunicam tuam au-
ferre, dimitte ilH et palliam » (67).
Agostino spiega la diversità di intendimenti delle due conce-
zioni togliendo alla prima frase quel valore assolutamente vendi-
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cativo che di solito le si attribuisce, e considerando la frase « ocu-
lum pro oculo, dentem prò dente » come una limitazione che Dio
diede all'uomo per frenare la sua sete di vendetta. Scrive Ago-
stino : « Nam quoniam primo carnales homines ardebant multo
amplius se vindicare, constitus est eis primus lenitatis gradus, et
injurias acceptae mensuram nullo modo dolor vindicantis exce-
deret» (68).
Abbiamo poi la seguente frase : « Ne adoraveritis deos alie-
nos » (69), che secondo i Manichei sarebbe contraria al concetto
di Dio come « Pater justus ». Agostino commenta questa loro opi-
nione con una sola frase, che basta però a farci sentire l'assur-
(64) Contra Adimantum, l. I, cap. VII, col. 138.
(65) Ibid.
(66) Earod., XXI, 24.
(67) Matth., V, 38^0.
(68) Contra Adimantum, l. I, cap. VIII, col. 139.
(69) Exod., XX, 5.
180 ANNA ESCHER DI STEFANO
dita dell'affermazione manichea : « Quasi non sit dicendus Deus
justus nisi nos deos alienos adorare permittat» (70).
« Non est manducandum sanguinem, quod anima sit carnis
sanguis » (71).
I Manichei oppongono questo passo a quello del Vangelo :
« Non esse timendos eos qui occidunt corpus, animae autem nocere
non possuntì> (72), e a quanto dice l'apostolo Paolo: a Quia caro
est sanguis regnum Dei non possidebunt » (73), e cioè che non si
debbono temere coloro che uccidono il corpo, giacché costoro non
possono nuocere all'anima. I Manichei pensano che se l'anima non
è che sangue (74), è falso ciò che è detto dal Vecchio Testamento
e dall'apostolo Paolo, poiché considerata esattamente la prima
frase, si dovrà ammettere sia che gli uomini possano nuocere al-
l'anima, sia che l'anima non potrà far parte del regno di Dio. A
questa calunnia bisogna rispondere — dice Agostino — chiedendo
ai Manichei di mostrare in qual luogo del Vecchio Testamento
sia scritto che l'anima sia sangue. In quanto se ciò non è detto
dell'anima umana, non riguarda noi sapere se l'anima della pecora
possa essere uccisa o possa possedere il regno dei cieli. L'errore
dei Manichei è ancora una volta errore di interpretazione; infatti
se dovessimo intendere letteralmente che il sangue è anima, ne
verrebbe come conseguenza che anche gli animali hanno un'anima;
e allora o consideriamo delitto uccidere e bastonare gli animali, o
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dobbiamo ammettere che non è delitto uccidere l'uomo e persino
gli stessi parenti. Questi sono gli assurdi cui porta l'interpretazione
letterale della frase : « non est manducandum sanguinem, quod
anima sit carnis sanguis ». Ma ad un più attento esame non sfug-
girà che la parola sangue è solo un segno per indicare l'anima;
uno di quei segni che spesso ricorrono nelle S. Scritture, come ad
es. dove è scritto : « Petra autem erat Christus » (75).
(70) Contra Adimantum, l. I, cap. XI, col. 142.
(71) Deut., XII, 23.
(72) Matth., X, 28.
(73) I Cor., XV, 50.
(74) « Si sanguis anima est, quomodo homines potestam in eam non
habent, cum de sanguine multa faciant, sive excipientes et canibus vo-
lucribusque in escam proponentes, sive effundentes, aut coeno lutoque mi-
scentes? Haec enim et alia innumerabilia sine difficultate homines de san-
guine possunt facere » (Contra Adimantum, l. I, cap. XII, col. 143).
(75) ld., X, 4.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 181
In quanto poi alla frase di Paolo, Agostino si preoccupa che
possa essere interpretata come contraria alla resurrezione dei
corpi; preoccupazione ingiustificata, poiché se in sé il corpo è cor-
ruttibile e mortale, dopo la resurrezione sarà incorruttibile e im-
mortale.
E' scritto nel Deuteronomio : « Saecundum desiderium animae
tuae occide, et manduca omnes camera, juxta voluptatem quarti
dedit tibi Dominus. Cave autem ne sanguine-m manduces; sed e/-
funde tanquam aquam super terram-h (76). Ed in altra parte è
scritto : « Ne graventur corda vestra cruditate, et vinolentia et
curis saecularibus » (77). E l'Apostolo dice : « Bonum est non man-
ducare carnem neque habere vinum » (78). E altrove : « Non po-
testis mensae Domini communicare, et mensae demoniarum » (79).
Il fine dei Manichei è di dimostrare falso il primo passo, poiché
è contraddittorio al loro precetto di non mangiare carni di ani-
mali; mentre secondo la loro interpretazione, il secondo conferme-
rebbe l'esattezza della loro proibizione. Ma ciò che si condanna
nel secondo passo non è contrario al primo; infatti l'immodera-
tezza che vi si disapprova non è quella « juxta voluptatem quam
dedit tibi Dominus » (80), che è « modestam atque natura-
lem » (81), ma l'« immoderatam verocitatem », che costituisce il
vizio. Inoltre l'Apostolo dice che non bisogna mangiare carne e
bere vino, non perché stimi ciò immondo, come invece dicono i
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Manichei, che negano che Dio sia il creatore di quelle cose, ma
« esse ab eis temperandum, cum per offensionem accipiuntur, id
est, cum aliquis infirmus putat sibi ab omnibus carnibus tempe-
randum, ne incidat in carnem immolatiam; et ideo eum qui man-
ducai potest arbitrari in honorem idolorum id facere, et ex eo
graviter offendi : cum ipsa immolatitia caro, si ex fide a nesciente
accipiatur, neminem maculet » (82).
« Si aure audieris vocem meam, et facies quaecumque prae-
cipio tibi; odero odientes te; et contristabo contristantes te; prae-
cedet te angelus meus, et adducet te ad Amorrhaeum, et Pherza-
(76) Deut, XII, 15-16.
(77) Lue, XXI, 34.
(78) Rom., XIV, 21.
(79) / Cor., X, 21.
(80) Contra Adimantum, l. I, cap. XIV, col. 149.
(81) Ibid.
(82) Ibid., col. 150.
182 ANNA ESCHER DI STEFANO
eum, et Chananaeum, et Jebusaeum, et Gergesoeum; et occidetis
illos. Deos eorum ne adoraveritis, neque feceritis opera ipsorum;
sed eversione evertite illos et delete eorum memoriam » (83).
I Manichei osservano che queste parole contrastano con quella
legge di amore, che viene sintetizzata nella frase del Vangelo :
« Ego autem dico vobis : Diligite inimicos vestros, benedicite iis
qui bovis maledicunt, et benefacite iis qui vos oderunt, et orate
pro iis qui vos persequuntur » (84). Ma i due passi sono solo ap-
parentemente contrastanti, giacché Dio disse sì che bisognava
amare tutti gli uomini, amici e nemici, ma non comandò di amare
i demoni e di adorarli.
«Si aure audierus vocem Domini Dei tui, benedictus es in
agro tuo, benedictus es in prato to, benedictus* fructus ventris tui,
et fructus terrae tuae, et geberationes jumentorum tuorum, et
armentum bonum tuorum, et grex ovium tuarum; benedictus es
in introitu tuo et egressu » (85). Quanto è scritto nel Deuteronomio
sembra ai Manichei contrario al passo seguente : « Si quis vult me
sequi, abneget semetipsum sibi, et tellate crucem suam, et sequa-
tur me. Quid enim prodest homini, si totum mundum lucretur,
animae autem suae detrimentum patiatur? Aut quam dabit homo
commutationem pro anima sua? » (86). Cristo disse che noi dob-
biamo abbandonare tutto per seguire Dio, poiché niente vi è nel
mondo che possa equiparare la beatitudine dell'anima; ma, dice
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Agostino, anche i premi temporali ci sono stati promessi e non
bisogna dimenticare che Cristo ha detto: «Nolite jurare neque
per coelum quia tronus eius est, neque per terram, quia scabellum
pedum meorum » (87), e quindi le cose terrestri non devono es-
sere considerate come indegne, poiché la terra è « scabellum pe-
dum » di Dio.
A questa spiegazione Agostino aggiunge che « ager, pra-
tum, ecc. » possono anche intendersi in senso spirituale; ed a mag-
gior ragione, in questo caso, l'obbiezione manichea non ha valore.
Sarebbero anche contraddittori i seguenti passi : « Ego sum
qui divitia do amicis meis, et paupertatem inimicis meis » (88),
(83) Exod., XXIII, 22-24.
(84) Matth., V, 44.
(85) Deut., XXVIII, 1-6.
(86) Matth., XVI, 24 e 26.
(87) Matth., V, 35.
(88) Contra Adimantum, cap. XIX. col. 163.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 183
e « beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum coelo-
rum » (89). Ma, dice Agostino, è anche scritto nel Vangelo « Beati
mites quoniam ipsi haereditate possidebunt terram » (90). E quindi
i « mites » che come tali possono chiamarsi amici di Dio, posse-
deranno la terra. A parte ciò quelle ricchezze di cui si parla nel
passo citato dai Manichei, non hanno significato di ricchezze tem-
porali, ma anzi queste ultime in diverse parti delle scritture sono
disprezzate. Agostino elenca a dimostrazione di quanto ha detto
diversi di questi passi: «melius est modicum justo, super divi-
tias peccatorum multas » (91); « bonum mihi lex oristui, super
millia auri etargenti » (92); « judicia Dei vera justificata in idip-
sum, desiderabilia super aurum et lapidem pretiosum mul-
tum» (93); «Beatus vir qui invenit sapientiam, et immortalis qui-
videt prudentiam. Melius est enim illam mercari quam auri et
argenti thesauros. Pretiosior est autem lapidibus optimis, non re-
sistit illi ullum malum; bene nata est omnibus appropinquanti-
bus ei, et eis qui considerant diligenter. Omne autem pretiosum
non est illi dignum » (94); « propter hoc optavi, et datus est mihi
sensus, et invocavi, et venit in me spiritus sapientiae. Et praeposui
illam regnis et sedibus, et honestatem nihil esse duxi ad compara-
tionem ipsius. Nec comparavi illi lapidem pretiosum : quoniam
omne aurum in comparatione illius arena est exigua, et tanquam
lutum aestimabitur argentum ad illam» (95).
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E' scritto : « Si ambulaveritis in lege, et praecepta mea custo-
dieritis; dabo pluvias tempore suo, et producet terra fructos suos,
et arbores poma, et vindemiae tuae messibus succedent, et satio
vindemiis; et saturabimini, et sedebitis in pace in terra vestra, et
dormietis, et non erit qui vos terreat : et perdam omnem belluam
ex terra vestra : et persequimini inimicos vestros, et cadent ante
vos in gladio : et insequentur quinque ex vobis centum, et centum
ex vobis persequentur decem milia, et concident inimici vestri
ante vos in gladio; et veniam, et benedicam vos, et multiplicabo
bos, et disponam vos. Manducabitis vetus quod inveteravit et proi-
(89) Matth., V, 3.
(90) Contra Adimantum, cap. XIX, l. I. col. 163.
(91) Psal., XXXVI, 16.
(92) Psal., CX, VII, 72.
(93) Psal., XVIII, 10.
(94) Prov., III, 13, 15.
(95) Sap., VII, 7, 9.
184 ANNA ESCHER DI STEFANO
cietis vetus ante novum » (96). I concetti espressi in questo passo
sarebbero contrari alle parole del Signore : « Nolite portare au-
rum, neque argentum, neque numnos in zonis vestris; non peram
in via, neque duas tunicas, neque calceame ta, neque virgani; di-
gnus est enim operarius mercede sua » (97). Ma tutto ciò che è
nominato nel primo passo deve essere inteso in senso spirituale,
non solo, ma il possedere ricchezze non costituisce una colpa, la
colpa consiste nell'amare le ricchezze e nel porre in esse le pro-
prie speranze, infatti l'apostolo Paolo dice, scrivendo a Timoteo :
« Divitibus hujus saeculi praecipe, non superbe sapere, neque spe-
rare in incerto divitiarum, sed in Deo vivo, qui prestat nobis omnia
abuntanter ad fruendum: Benefaciant; divites sint in operibus
bonis, facile tribuant, communicent, thesaurizent sibi fundamen-
tum bonus in futurum, ut apprehendant veram vitam » (98).
Sarebbero poi contrari i passi dove è detto : « De hominem
quem lapidari Deus jussit, qui sabbato inventus est ligna colli-
gere » (99), e « Dominus in Evangelio ubi hominis manum aridam
sanavit die sabbati » (100). Ma Dio fece opera divina e non umana,
né d'altra parte si può dire che «ab otio recessit qui jussit et
factum est» (101).
E' scritto presso Salomone : « Imitare formicam, et intuere
diligentiam ejus, quia ab aetatis tempore usque ab hiemen colli-
gitis sibi alimonios» (102). Questo passo contrasta con la frase:
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«Nolite cogitare de crastino» (103). Ma i Manichei non capiscono
che la frase deve essere intesa nel suo significato spirituale, e cioè
che non dobbiamo amare le cose temporali e che dobbiamo avere
fiducia nella provvidenza divina; ed essa non è in contrasto con
il detto di Salomone, poiché tale detto va inteso nel senso che
come la formica raccoglie in estate, perché possa cibarsi in in-
verno, allo stesso modo il cristiano deve nella tranquillità «quae
significat aestas» (104), fare provvista della parola di Dio, affinché
(96) Levit, XXVI, 3, 10.
(97) Matth., X, 9, 10.
(98) Ttm., VI, 17, 19.
(99) Num., XV, 35.
(100) Matth., XII, 10, 13.
(101) Contra Adimantum, l. I, cap. XXII, col. 167.
(102) Prov., VI, 6, 8.
(103) Matth., VI, 34.
(104) Contra Adimantum, l. I. cap. XXIV, col. 168.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 185
possa di questa vivere nella difficoltà e nelle tribolazioni, « quae
hiemis nomine significanti»: » (105).
Secondo Adimanto poi la frase : « Ego sum Deus qui facio
pacem, et constituo mala» (106), è contradditoria in se stessa, poi-
ché sono opposti i concetti espressi in «qui facio pacem et con-
tituo mala ». Ma in questa frase si deve vedere insieme la bontÃ
e la severità di Dio, bontà e severità che sono in Dio contempo-
raneamente in grado infinito e senza contraddizione. Anche l'apo-
stolo Paolo dice : « Vides ergo bonitatem et severitatem Dei; in
eos quidem qui ceciderunt severitatem; in te autem bonitatem, si
permanserit in bonitate: alioquin et tu excideris, et illi si non
permanserit in incredulitate, inserentur. Potens est enim Deus
iterum inserere illos» (107).
Abbiamo inoltre un ultimo punto controverso : « Maledictus
omnis qui in ligno pependerit» (108), e «si vis perfectum esse,
vende omnia quaecumque possides, et divide pauperibus, et tolle
crucem tuam, et sequere me» (109). I Manichei non sono stati
molto felici nella scelta di questi brani, infatti l'unico accenno
alla frase precedente potrebbe essere quel « tolle crucem tuam »
ed è chiaro il significato differente delle due frasi.
Nel De Moribus ecclesiae cathólicae et Manichaeorum tro-
viamo un passo che si può considerare la conclusione di Agostino
su questa polemica antimanichhea. Avrei potuto meglio discu-
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tere — egli dice — per singoli capi e dimostrare le cose che mi
sono scese nell'animo, a magnificare ed esaltare le quali, il più so-
vente mancano le parole; ma finché voi latrate, non è il caso di
farlo. Non fu detto invano: Non date ciò che è santo ai cani.
Non vi offendete. Anch'io mandai latrati e fui un cane, allorché
mi si trattava, e giustamente, non col cibo che istruisce, ma con
la sferza che batte. Se foste animati da quella carità , di cui ora
appunto si parla, o se pur lo sarete quando che sia nella misura
che richiede l'importanza che ha la verità di essere conosciuta :
siavi propizio Dio, e vi faccia vedere come la fede cristiana, che
conduce alle somme vette della sapienza e della verità , non si
(105) Ibid.
(106) Isaia, XLV, 7.
(107) Rom., XI, 22-23.
(108) Dcut., XXI, 23.
(109) Matth., XIX, 21.
186 ANNA ESCHER DI STEFANO
trova fra i Manichei, né in alcun altro luogo fuori della disciplina
cattolica. Questo infatti desidera l'Apostolo Paolo, quando dice :
A questo fine piego le mie ginocchia dinanzi al Padre del Signor
Nostro Gesù Cristo, da cui tutta la famiglia e in cielo e in terra
prende il nome, affinchè conceda a voi, secondo le ricchezze della
sua gloria, che siate fortificati per mezzo del suo spirito nell'uomo
interiore; che Cristo abiti nei vostri cuori per la fede, affinchè
voi radicati e fondati nella carità , possiate con tutti i santi com-
prendere qual'è l'altezza e la lunghezza e la larghezza e la pro-
fondità ; ed intendere anche la carità di Cristo che supera ogni
scienza, affinchè siate ripieni di tutta la pienezza di Dio (110).
Invita quindi i Manichei ad aprire gli occhi e ad osservare
l'armonia dei due Testamenti così nel rivelare come nell'inse-
gnare.. Anche il Vangelo spinge all'amore di Dio, quando dice :
«Domandate, cercate, picchiate»; e Paolo, quando scrive: «affin-
ché essendo voi radicati e fondati nella carità , possiate compren-
dere»; e il profeta quando attesta che la sapienza si può cono-
scere da coloro che l'amano e la cercano. Le due Scritture sono
d'accordo nell'indicare la salvezza dell'anima e la vita della beati-
tudine, e i Manichei, invece, non fanno che accanirsi contro di
esse (111).
E con questo accorato invito si chiude l'invocazione di Ago-
stino: «Brevi dicam quod sentio: audite doctos Ecclesiae catho-
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licae viros tanta pace animi, et eo voto quo vos ego audivi; nihil
opus erit novem annis quibus me ludificastis. Longe omnino,
longe breviore tempore quid intersit inter veritatem vanitatem-
que cernetis» (112).
(110) De moribus Ecclesiae catholicae et Manichaeorum, l. I, cap.
XVIII, col. 1325.
(Ili) Ibtd., col. 1325-6.
(112) Ibid. Cfr. inoltre: « Quamobrem adestote animis, Manichaei. si
qui forte illa superstitione ita tenemini, ut evadere aliquando possitis. Ade-
store, inquam, sine pertinacia sine studio resistendi: nam aliter vobis per-
niciosissimum est judicare: certe enim nemini dubium est, nec aversi vos
ita estis a vero, ut non intelligatis, si diligere Deum et proximum, bonum
est, quod negare nemo potest; quidquid in his duobus praeceptis pendet,
vituperari jure non posse. Quid ergo in iis pendeat, ridiculum est si a me
quaerendum esse putas; ipsum Christum audi, audi, inquam Christum, audi
Dei Sapientiam: In his, inquit, duobus praeceptis tota Lei pendet, et om-
nes Prophetae (Matt., XXII, 40). Quid hoc loco potest dicere impudentis-
sima pertinacia? Non hoc Christum dixisse? At in Evangelio verba ejus
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 187
In questo problema, forse meglio che in tutti gli altri che
Agostino affronta nel campo della critica al manicheismo, si ma-
nifestano le sue capacità critiche, poiché numerose sono le diffi-
coltà da superare. Nel De Genesi contra Manichaeorum e nel Can-
tra Adimantum si rispecchia inoltre la profonda conoscenza che
Agostino ha delle S. Scritture, che egli difende con il lume della
ragione e con quell'amore che egli mette in tutto ciò che riguarda
il suo Dio.
Molto lontano ci appare ora quel periodo della vita di Ago-
stino, in cui egli, leggendo la Bibbia, la considerò degna solo del
proprio disprezzo, giudicandola secondo i dettami delle teorie
grammaticali e letterarie di cui allora era imbevuto. Ben altra ma-
turità di spirito ha raggiunto ora Agostino, e gli scritti suoi di
questo periodo ne sono una prova.
iste conscripta sunt. Falsum esse scriptum? Quid hoc sacrilegio magis im-
piumi reperiri potest? quid ista voce impudentius? quid audacius? quid
sceleratius? Simulacrorum cultores, qui Christi etiam nomen oderunt, nun-
quam hoc adversus Scripturas illas ausi sunt dicere... » (Ibid., l. I, cap.
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XXIX, col. 1335).
Capitolo Undicesimo
IL PROBLEMA MORALE
Agostino si chiede : in che modo ho da cercati, o Signore?, e
vede come la ricerca di Dio si identifichi con la stessa ricerca della
felicità . Per cui la domanda si sposta : in che modo debbo cercare
la felicità ? Si deve cercare per mezzo della memoria, come se
essa fosse un bene posseduto e poi dimenticato? O come, si trat-
tasse di cosa ignota, sia per non averla conosciuta mai, sia per
averla dimenticata in maniera tale da non ricordare nemmeno di
averla mai conosciuta? (1). Tutti, senza dubbio, vogliono essere
felici; non v'é alcuno che non sia d'accordo con questa afferma-
zione (2). Per cui aspirare alla vita felice, volere la vita felice,
la vita felice bramare, rimpiangere, perseguire, è proprio di tutti
gli uomini, siano essi buoni o cattivi. E infatti chi è buono, per
questo è buono, per essere felice; e chi è cattivo, non sarebbe cat-
tivo se non sperasse di poter essere con ciò felice (3). Ma gli uomini
dove l'hanno conosciuta? Dove l'hanno vista? Indubbiamente gli
uomini la posseggono in qualche modo, se vi sono coloro che sono
felici perché l'hanno di già ; e coloro che non lo sono perché vi
sperano, mentre vi sono alcuni che non la posseggono né in effetto
né nelle speranze. Ma anche costoro, se si chiedesse loro se vo-
gliono essere felici, risponderebbero senza esitare di sì : cosa che
non potrebbe accadere se non ne possedessero già nella memoria
il concetto. Eppure con nessun senso del corpo, dice Agostino, ho
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io veduta o udita o odorata o gustata o toccata la mia gioia, ma
l'ho provata dentro nella mia anima quando ho gioito, e la sua
nozione è rimasta impressa nella mia memoria, talché sono in
(1) Confessioni, l. X, cap. XX, coli. 791-2.
(2) De morìbus Ecclesiae Catholicae et Afanich., l. I, cap. III, col. 1311.
(3) Sem., CL, cap. III, col. 809.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 189
grado di rievocarla, quando con un senso di repugnanza, quando
con un senso di rimpianto, secondo la diversità delle cose delle
quali mi ricordo d'aver gioito. Perché anche le cose turpi m'hanno
inondato, un tempo, di gioia, che ora, al ricordarmente, detesto e
maledico, mentre rievoco con desiderio quell'altra gioia di cui
mi hanno colmato le buone ed oneste, che non sono per avventura
più presenti. Anzi per questo il rievocare quella mia gioia passata
mi riesce triste (4).
Dove, dunque, e quando ho io provato la felicità , per ricordar-
mene e amarla e desiderarla? (5). Né questo desiderio di felicitÃ
è riservato a pochi eletti, anche se gli uomini sono in disaccordo
sul modo di essere felici. Soltanto l'empio non la conosce, egli
non sa cosa significhi gioire in Dio, di Dio e per Dio, che è l'unica
vera felicità (6). La verità dunque coincide col possesso di Dio :
il camino dell'uomo a Dio, iniziatosi con il colloquio dell'uomo con
la propria anima, culmina con il possesso della verità e della fe-
licità . E poiché Dio è verità immutabile, perpetuità stabile, incor-
ruttibile... quando vedremo faccia a faccia quello che ora ve-
diamo come attraverso uno specchio, in enigma, allora con ben
altro, ineffabilmente altro sentimento diremo: è vero... E perché
senza nessuna modestia e con perpetuo diletto vedremo il vero,
lo vedremo con evidenza certissima, accesi dall'amore della stessa
verità e ad essa stringendoci in dolce e casto amplesso, amplesso
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incorporeo, con tale voce anche lo loderemo... Or codesta vita dei
santi anche i loro corpi trasformati in stato celeste e angelico così
riempirà ... che da quella contemplazione... della verità nessuna
corruzione... li distrarrà (7).
E quando, dice Agostino, mi sarò stretto a te con tutto il mio
essere, non sentirò più da nessuna parte dolore e travaglio, e viva
sarà la mia vita, tutta quanta piena di te. Tu sollevi in alto colui
che riempi di te. Io invece, poiché non sono ancora pieno di te,
sono ora di peso a me stesso... Gioie di cui dovrei piangere contra-
stano dentro di me con dolori di cui dovrei gioire : né so da qual
parte stia la vittoria. Ahimé, abbi di me pietà , o Signore. Ma le tri-
(4) Confess., l. X, cap. XXI, coli. 792-3.
(5) Ibid.
(6) Ibid., cap. XXII, col. 793.
(7) Serra., CCCLXII, cap. XXVII.
190 ANNA ESCHER DI STEFANO
stezze contrastano dentro di me con gioie buone: né so da qual
parte stia la vittoria. Ahimé, abbi di me pietà , o Signore.
Ahimé! Ecco io non nascondo le mie piaghe. Tu sei il medico,
io sono il malato; tu sei misericordioso, io sono un infelice.
Non è forse tentazione la vita umana sopra la terra? Chi mai
vorrebbe molestie e difficoltà ? Tu vuoi che le si sopportino, non
che si amino. Nessuno ama ciò che sopporta, sebbene ami di sop-
portarlo. Per quanto, infatti, gioisca nel sopportare, tuttavia prefe-
rirebbe non aver nulla da sopportare.
Nell'avversità desidero la prosperità , nella prosperità pavento
l'avversità . C'è posto tra questi due estremi, dove la vita
umana non sia tentazione? Povere prosperità del mondo, per uno,
anzi per due versi insidiate : dal timore dell'avversità e dal cor-
rompersi della gioia. Misere avversità del mondo, rese più amare
per due, anzi per tre motivi : per il desiderio della prosperità , per
la durezza stessa dell'avversità e per il timore che questa abbia
il sopravvento sulla pazienza. Chi vorrà negare che la vita umana
sia una tentazione senza respiro alcuno? (8).
La moralità in tal modo viene a congiungersi con la metafi-
sica. Il mezzo che permette all'uomo di conoscere e possedere il
vero bene è la saggezza.
Anche la sapienza viene intesa dagli uomini in maniera di-
versa.
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Coloro che militano credono di essere sapienti, mentre quelli
che disprezzano la milizia e coltivano i campi, giudicano ciò sa-
piente; coloro che sono astuti nel far denaro credono di esser sa-
pienti, e chi disprezza le cose temporali, dirige la sua attenzione
verso lo studio di se stessi e di Dio, e crede che questo sia il solo
vero compito degno d'essere perseguito.
E così chi non vuol darsi a questo studio e si dedica a consul-
tare gli uomini per imparare il governo giusto delle cose umane,
si crede sapiente, e chi si dedica alle cure delle cose terrene e
divine, crede di tenere la palma della sapienza.
Le opinioni sono differenti, in quanto la maggior parte degli
uomini non percorre la via che conduce alla felicità , pur confes-
sando di voler giungere solamente ad essa. Essi desiderano il bene
e fuggono il male, ma seguono diverse opinioni perché ad ognuno
sembra buona la propria. Quindi in quanto tutti gli uomini desi-
(8) Confess., l. X, cap. XXVIII, coli. 795-6.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 191
derano una vita felice non errano, ma errano in quanto ognuno
sceglie una propria vita per arrivarci.
E quanto più si erra, tanto meno si sa, e tanto più si è lontani
dalla verità del sommo bene. Quindi come è certo che noi vo-
gliamo essere felici, così è ugualmente certo che vogliamo essere
sapienti, poiché senza sapienza nessuno è beato. Abbiamo detto
che noi desideriamo la felicità , in quanto ne possediamo già la
nozione, allo stesso modo sono concetti universali il bene e la sa-
pienza (9).
La luce della sapienza non è soggettiva, ma è una per tutti
coloro che sanno. Infatti, così come il vero che ognuno vede con la
propria mente è comune a tutti alla stessa maniera, tutti sono
d'accordo nel giudicare l'incorruttibile migliore del corruttibile,
l'eterno del temporale, l'inviolabile del violabile. Ora tutte queste
regole di virtù appartengono alla sapienza, giacché quanto più
uno si serve di loro per vivere, tanto più vive ed agisce sapiente-
mente. Dunque le regole della sapienza sono vere ed immutabili
come le regole dei numeri (10).
Ma la sapienza e il numero sono la medesima cosa, oppure
uno dei due è subordinato all'altro? La stessa Scrittura attesta
che essi sono la medesima cosa. I numeri, infatti, trascendono la
nostra mentre e posseggono una verità immutabile. Ma poiché po-
chi possono sapere, mentre gli stolti possono numerare, gli uomini
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ammirano la sapienza e disprezzano il numero.
I dotti e gli studiosi, invece, quanto sono lontani dalle mi-
serie della terra, tanto più contemplano il numero e la sapienza,
giudicandoli una sola verità , ed hanno caro tanto l'uno che l'altra
e fissando lo sguardo in questa trascendente verità , non solo di-
sprezzano l'oro e l'argento per i quali gli uomini lottano, ma arri-
vano anche a disprezzare se stessi.
La verità è una ed immutabile per tutti gli esseri; essa non si
può dire che sia mia e tua e di qualche altro uomo, ma appare a
tutti allo stesso modo come una luce segreta.
(9) Cfr. De vera relig., cap. XXXIX, coli. 154-5.
(10) Il numero regna ovunque sovrano. Infatti, se si guarda il cielo,
il mare, e tutte quelle cose che brillano sopra, o strisciano sotto o volano,
o nuotano, si vedrà che esse hanno forme in quanto hanno numeri: se
questi si togliessero loro, esse non sarebbero più nulla. Per cui esse in
tanto sono, in quanto sono numerate. Anche gli artisti si servono del nu-
mero per la creazione delle loro opere.
192 ANNA ESCHER DI STEFANO
Questa verità non può essere formazione della nostra mente,
né può essere uguale od inferiore ad essa, giacché se fosse infe-
riore, noi avremmo la facoltà di giudicarla e quindi non potremmo
servirci di essa per giudicare le altre cose. La prima caratteri-
stica della verità è dunque quella di essere indipendente dal no-
stro spirito. Né la verità potrebbe essere uguale alla nostra mente,
sennò sarebbe mutevole al pari di questa. Quindi, dato che non è
inferiore né uguale alla nostra ragione, non può che sserle su-
periore.
Chi riesce ad abbracciare la verità può definirsi beato. La vera
felicità , infatti, non consiste nell'appagamento dei sensi (11).
E poiché attraverso la verità si conosce e si possiede il Sommo
Bene, la verità si identifica con la Sapienza (12).
Colui che ha ricondotto tutte le sue conoscenze all'unità vera
e certa, comprende che è necessario non soltanto credere, ma an-
che contemplare e comprendere ciò che è divino. Colui, invece,
che è schiavo delle passioni ed aspira soltanto a cose effimere, o
che invece, anche fuggendo tutto ciò e vivendo castamente, non
sappia cos'è il nulla, la materia informe, ignora la natura del corpo,
lo spazio, il tempo, il movimento, l'eternità , l'esser né in un luogo
né in un altro, il non essere mai e l'essere sempre, costui, igno-
rando queste cose, non solo si smarrirà nelle discussioni intorno
a Dio, che si conosce meglio quando si sa di non conoscerlo, ma
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non saprà mai niente intorno alla sua stessa anima. Più facil-
(11) « Promiseram autem, si meministi, me Ubi demonstraturum esse
aliquid quod sit mente nostra atque ratione sublimius. Ecce tibi est ipsa
veritas: amplectere illam si potes, et fruere illa, et delectare in Domino
et dabit tibi petitiones cordis tui (Psal., XXXVI, 4). Quid enim petis am-
plius quam ut beatus sis? Et quid beutius eo qui fruitur inconcussa et in-
commutabili et excellentissima ventate? » (De libero arbitrio, l. II, cap.
XIII, col. 1260).
(12) De libero arbitrio, l. II, cap. XII, col. 1259: «Imo vero quoniam
in veritate cognoscitur et tenetur summum bonum, eaque veritas sapientia
est, cernamus in ea, teneamusque summum bonum, eoque perfruamur.
Beatus est quippe qui fruitur summo homo. Haec enim veritas ostendit
omnia bona, quae vera sunt, quae sibi pro suo captu intelligentes homines,
vel singula, vel plura eligunt, quibus fruantur. Sed quemadmodum illi qui
in luce solis eligunt quod libenter aspiciant, et eo aspectu laetificantur; in
quibus si qui forte fuerint vegetioribus sanisque et fortissimis oculis prae-
diti, nihil libentium quam ipsum solem contuentur, qui etiam caetera qui-
bus infirmiores oculi delectantur, illustrai » (Ibid., cap. XIII, col. 1260).
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 193
mente invece conoscerà queste cose chi abbia compreso i numeri
semplici e intelligibili.
Infatti (13) la misura stessa dell'ordine è unità nella veritÃ
eterna; questa misura non è estesa nello spazio, né è variabile nel
tempo, ma trascende ogni localizzazione spaziale e temporale.
Senza di essa l'estensione di una massa non si ridurrebbe all'unità ,
né l'estensione del tempo potrebbe essere sottratta alle deviazioni,
né potrebbe esistere alcuna cosa. Essa è l'unità , senza estensione,
né per il finito né per l'infinito, e non mutabile né per il finito
né per l'infinito, la sua ragion d'essere riposa nella verità suprema.
Poiché (14), l'uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio,
ha la possibilità di volgere lo sguardo verso la verità , a patto na-
turalmente che si sottragga al dominio dei sensi. Ma anche nella
stessa carne noi troviamo un monito che ci avvisa come si possa
riporre in essa la beatitudine della vita, e ciò non perchè la natura
del corpo sia un male, ma perché colui che potrebbe raggiungere
il proprio bene, si accententa dell'amore di un bene inferiore.
L'anima (15) dunque deve affissare il suo sguardo verso l'alto;
solo in questo modo realizzerà la sua moralità . Deve risalire cioè
dalle cose visibili alle invisibili, dalle temporali alle eterne e co-
struire la vita dell'uomo nuovo sulla vita dell'uomo vecchio. In
base al comportamento dell'uomo sulla terra è delineata la sorte
degli stolti e dei saggi (16). A chi fa cattivo uso dei preziosi doni
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della mente anzicchè indirizzarla verso la contemplazione e l'amore
delle cose spirituali, saranno riserbate le tenebre. Chi si compiace
della lotta, sarà lontano dalla pace e impigliato tra somme diffi-
coltà . Chi vuole aver sete e fame e sentire l'ardore della libidine
e stancarsi per mangiare e bere con piacere, unirsi carnalmente,
dormire, costui ama l'indifferenza che è il principio dei dolori più
grandi : costui sarà condannato a trovarsi là dove è pianto e stri-
dore di denti. Vi sono poi molti che amano tutti questi vizi in-
sieme, e che spendono la loro vita nelle contese, nei cibi, nelle
bevande, nei piaceri sensuali, nel sonno e nell'abbracciare con la
loro immaginazione tutti quei fantasmi che raccolgono con tale
(13) De vera religione, cap. XLIII, col. 159.
(14) Ibid., cap. XLIV, col. 159.
(15) Ibid., cap. LII, coli. 166-7.
(16) Ibid., cap. LIV, col. 169.
13
194 ANNA ESCHER DI STEFANO
genere di vita, nel fissare secondo le illusioni di queste regole
superstiziose e empie.
A costoro vengono legati mani e piedi e saranno condannati
alle tenebre. Chi invece usa i cinque sensi per credere alle opere
di Dio, per alimentare l'amore di Dio, e con l'azione e la contem-
plazione dare la pace alla propria natura e conoscere Dio, costui
entra nella gioia del Signore. Per cui chi si affida alle cose visibili,
non può avere un'intelligenza atta a contemplare l'Eterno, ma può
averla chi loda Dio come autore delle cose sensibili, e a Lui ne
dà prove con la fede, lui attende con la speranza, lui cerca con
la carità (17).
(17) Tra i doveri particolari interessa la nostra indagine soltanto la
dottrina di Agostino sul matrimonio e sulla guerra. Il primo argomento è
affrontato in vari luoghi, ma soprattutto nel De Moribus Ecclesiae et Ma-
nichaeorum. Egli si serve delle parole dell'Apostolo per esprimere il pro-
prio pensiero : « Tutto mi è permesso, ma non tutto conviene : tutto mi è
permesso, ma io di nessuna cosa sarò schiavo. Il cibo per il ventre, e il
ventre per i cibi; ma Dio distruggerà quello e questi. Il corpo non per la
fornicazione, sebbene per il Signore, e il Signore per il corpo. Ma Dio ri-
suscitò il Signore e con la sua possanza risusciterà noi. Non sapete che i
vostri corpi sono membra di Cristo? Togliendo dunque le membra di Cri-
sto, le farò sembra di meretrice? Non sapete voi che chi si congiunge con
una meretrice, diviene con essa un solo corpo? Perciò i due, sta detto, sa-
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ranno una sola carne. Ma chi è unito al Signore, è un solo spirito con lui.
Fuggite la fornicazione. Qualunque altro peccato che l'uomo commette, è
fuori del corpo; ma chi commette fornicazione pecca contro il proprio
corpo. Non sapete voi che le vostre membra sono tempio dello Spirito
Santo che abita in voi e che è stato dato a voi da Dio, e che non siete di
voi stessi? Giacché siete stati compratia caro prezzo, glorificate e portate
Dio nel vostro corpo. Di quello che poi voi mi avete scritto, è bene per
l'uomo non toccar donna; ma per evitare la fornicazione, abbia ognuno la
sua moglie, e ognuna il suo marito. Alla moglie renda il marito quello che
deve, e similmente la moglie al marito. La moglie non ha facoltà sul pro-
prio corpo, ma il marito; e similmente il marito non ha facoltà sul proprio
corpo, ma la moglie. Non vi defraudate l'un l'altro, se non forse di consenso
per qualche tempo, tanto per applicarvi all'orazione; e di nuovo tornate
a stare insieme, perché non vi tenti satana a causa della vostra inconti-
nenza. E questo io dico per concessione, non per comando. Per questo
bramo che tutti gli uomini stiano conme; ciascuno però ha il suo dono da
Dio, chi in un modo e chi in un altro ». (De Moribus Ecclesiae, l. I, cap.
XXVI, coli. 1343-4). E Agostino così commenta queste parole dell'Apostolo:
« Non vi pare che l'Apostolo abbia mostrato ai più forti qual'è il massimo,
e il più vicino a questo ai deboli? Poiché quando disse: Bramo che tutti
gli uomini siano come me, fece comprendere che il massimo fosse appunto
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 195
Queste tre virtù, coadiuvate dalla prudenza, dalla forza, dalla
temperanza e dalla giustizia, costituiscono la base della morale.
Lo spirito, una volta ricevute le prime impressioni « della
fede che opera per la carità », è capace di indirizzarsi verso una
vita santa e giungere così alla contemplazione della verità su-
prema, la cui ineffabile bellezza può essere compresa solo dai cuori
puri e perfetti (18).
L'unione delle tre virtù teologali è indissolubile. Infatti si può
credere quello che non si spera, ma come sperare quello che non
si crede? Chi è quel cristiano che non crede ai castighi riservati
agli empi? Eppure, lungo dallo sperarli, li teme e li fugge quando
ne sente la minaccia. E' timore e non speranza. Un poeta distinse
bene questi due casi, quando scrisse : « Lasciate al timore un rag-
gio di speranza. La Fede può avere per oggetto tanto il bene come
il male, perché si può credere al bene come al male; ma non per
questo si può dire che la fede sia cattiva. Essa ha per oggetto il
passato, il presente e il futuro. Infatti, crediamo che Gesù Cristo
non toccar donna. A questo massimo poi s'avvicina la castità coniugale,
che sottrae l'uomo alla devastatrice fornicazione. Significò forse per que-
sto che coloro che usano del matrimonio debbono essere infedeli? Tutt'al-
tro, in quanto, anzi, è santificato il marito infedele per la moglie fedele,
la moglie infedele per il marito fedele : altrimenti i vostri figliuoli sareb-
bero immonti, e ora son santi » (Ibid., col. 1344). E hanno torto i Manichei
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che affermano che il matrimonio è lecito ai catecumeni, e non lecito ai fe-
deli (Ibid.).
Il problema della guerra è invece affrontato da Agostino soprattutto
nel De «vitate Dei e nella Quaestio in Heptateuchum. Mentre i Manichei
rifiutavano la legittimità della guerra, accusando le Scritture di approvarla,
Agostino invece ne giustifica la necessità , giacché ogni popolo ha diritto
di defèndere contro l'oppressore la propria esistenza e la propria libertà .
Egli giustifica anche la guerra offensiva, a patto, però, che essa serva a
riparare una precedente offesa subita. Negli altri casi la guerra, simbolo
di sopraffazione e di ingiustizia e all'onore ce ne offre un luminoso esem-
pio. In ogni caso, però, nella guerra si deve evitare la ferocia, il piacere
di nuocere, la crudeltà della vendetta, ecc. Invece sono grandi e degni di
gloria quei guerrieri non solo coraggiosissimi, ma, e ciò cerita una lode
più grande, fedelissimi, i quali con le loro fatiche e i loro pericoli, con la
protezione e l'aiuto di Dio, trionfano di un nemico indomito, e danno la
piete alla repubblica e alle Provincie rappacificate. Ma più glorioso è
uccidere la guerra stessa con la parola che non gli uomini con il ferro e
conquistare o ottenere la pace con la pace, che non con la guerra (Epistola,
CCXXIX, n. 2, col. 1020).
(18) Enchiridion, cap. V, col. 233.
196 ANNA ESCHER DI STEFANO
sia morto, e ciò concerne il passato; crediamo che sia seduto alla
destra del Padre, e ciò riguarda il presente; crediamo che verrÃ
per giudicare i vivi e i morti, e ciò si applica al futuro. La nostra
fede si estende tanto alle cose nostre personali, quanto a ciò che
ci è estraneo. Così ciascuno di noi crede che è non è sempre esi-
stito e che ha avuto un principio, e lo stesso crede non solo degli
altri uomini suoi simili, ma anche di tutte le altre creature.
Al contrario, la speranza si estende soltanto alle cose buone
e future e che riguardano esclusivamente colui che spera. Dun-
que la fede e la speranza, avendo un oggetto che li distingue, deb-
bono essere denominate diversamente. Eppure queste due virtù
hanno un punto di convergenza comune : ambedue si riferiscono a
cose invisibili. Ecco perché nell'Epistola agli Ebrei, della quale
tanti illustri apologisti hanno invocata la testimonianza, la
Fede viene definita : Convincimento delle cose che non si vedono.
Eppure, quando un uomo dice di poter prestar fede ad un fatto
che ha potuto conoscere non da parole, da testimonianze o da prove
fornite da altri, ma dall'evidenza stessa delle cose che ha avuto
sotto i propri occhi, non lo si potrebbe rimproverare se si espri-
messe in questo modo, né gli si potrebbe dire : « tu hai visto, dun-
que non hai creduto», ciò che potrebbe fare concludere che sa-
rebbe contraddittorio dire che una cosa potrebbe essere creduta
senza che prima sia caduta sotto i sensi. Ma per noi la Fede ha
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un senso più preciso : noi ne conosciamo l'esistenza dalla testimo-
nianza delle divine Scritture.
L'Apostolo disse lo stesso della Speranza : Quando quel che
si spera, si vede, codesto non è più speranza; perché chi già vede
una cosa, che spera più? ma se speriamo quel che non vediamo,
allora aspettiamo con pazienza. Dunque, avendo la Fede nei beni
futuri, noi abbiamo la speranza. Ma essa si deve accoppiare anche
alla carità , se no, sarebbe inutile : la speranza è inseparabile dal-
l'amore. Infatti, come dice S. Giacomo: I demoni credono e tre-
mano. Hanno la fede, ma non hanno né speranza né amore; cre-
dendo, tremano di veder realizzato ciò che forma l'oggetto della
nostra speranza e del nostro amore. Ecco perché l'Apostolo ap-
prova ed esalta la Fede operante per mezzo dell'amore, e sotto
quest'aspetto, indissolubilmente unita alla speranza. Dunque
l'amore suppone la speranza, come questa suppone l'amore ed
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 197
ambedue sono inseparabili dalla fede (19). Quando si domanda
se qualcuno è buono, non si domanda cosa creda o speri, ma se
ama davvero; colui che ha per fine il bene, deve necessariamente
dirigere verso lo stesso fine la sua fede e la sua speranza. Chi non
ama, crede inutilmente, quand'anche fosse vero ciò che crede; an-
che la speranza sarebbe vana senza l'amore, quand'anche tendesse
verso i beni eterni. E' dunque necessario che nella sua fede e
nella sua speranza il cristiano abbia per oggetto ciò che può es-
sere accordato alla sua preghiera, cioé quelle cose che può amare.
Quantunque non si possa sperare davvero senza amare ciò che si
spera, a volte si può amare una cosa al cui possesso è impossibile
giungere. C'è chi spera la vita eterna come fine di tutte le proprie
aspirazioni, ma senza amare il bene senza del quale non si può
arrivare alla vita eterna. La fede cristiana tanto raccomandata
dall'Apostolo, quella fede cioè che opera per mezzo dell'amore,
quella fede che nel suo amore, domanda di possedere ciò che non
ha; che cerca per trovare, che piaccia affinché venga aperto; è que-
sta la fede che unita all'amore ottiene e adempie le prescrizioni
della legge. Perché senza il dono di Dio, cioè senza lo Spirito
Santo, che è carità nei nostri cuori, la legge, da sé sola, può ordi-
nare, ma non ci aiuta all'adempimento di ciò che comanda; la
legge può rendere prevaricatore colui che la trasgredisce perché
non c'è ignoranza che lo scusi, e perché le concupiscenze della
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carne signoreggiano ove manchi l'amore (20).
Dopo aver precisato cosa intenda Agostino per moralità , pas-
siamo a studiare le critiche che su questo piano egli muove ai Ma-
nichei. Egli incomincia con l'invitare a misurarsi con gli anacoreti
e i cenobiti cristiani, che non si sono limitati a lodare la più se-
vera castità , ma che l'hanno abbracciata è praticata con amore co-
stante. E a misurarsi in generale con tutti i vescovi, i sacerdoti, i
ministri dei sacramenti divini, la cui virtù è degna di grandissimo
elogio, in quanto essi l'hanno saputo conservare integra, pur vi-
vendo in mezzo a coloro di cui devono sopportare e sanare i vizi :
« con questi, o Manichei, misuratevi, se potete; questi, se ne avete
il coraggio, vilipendete senza mentire. Ai loro digiuni, paragonate
i vostri digiuni, alla castità la castità , al vestire il vestire, al vitto
il vitto, alla modestia, la modestia, alla carità la carità , e, ciò
(19) Ibid., cap. VIII, col. 235.
(20) Ibid., cap. CXVII, coli. 286-7.
198 ANNA ESCHER DI STEFANO
che più importa, alle loro leggi le vostre. Vedrete subito quale
distanza corra tra la loro ostentazione e la sincerità , tra la via
diritta e l'errore, tra la fede e la falsità , tra il vigore e la gon-
fiezza, tra la felicità e la miseria, tra l'unità e la scissura, tra le
lusinghe della superstizione e il porto della religione... Conosco
molti che adorano sepolcri e pitture; molti che con lusso sfacciato
si ubriacano sopra i morti e banchettano ai cadaveri, e seppelli-
scono se stessi sopra i sepolcri, e i loro eccessi del mangiare e del
bere vengono imputati alla religione. Molti che a parole hanno
rinunziato al mondo, e vogliono intanto essere schiacciati sotto
tutte le grandezze di questo mondo, e schiacciati, gioire. E nessuna
meraviglia che in tanta moltitudine di popoli non manchino al-
cuni, la cui vita licenziosa vi offra il pretesto di ingannare gli in-
cauti e alienarli dalla salute cattolica, laddove voi che potreste
essere contati all'incirca sulle dita, vi trovate in gravissimo im-
barazzo, quando vi si chiede se esista uno solo tra i vostri eletti
che pratichi le regole che difendete con irragionevole supersti-
zione (21).
La dottrina morale dei Manichei non aveva addentellati teo-
retici, non poneva in discussione problemi d'ordine speculativo,
non si chiedeva ad es. che ruolo potesse avere la volontà nell'adem-
pimento dell'azione, e fino a che punto essa non fosse condotta e
indirizzata dall'istinto. Essa si limitava ad una funzione precetti-
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stica, indicando una serie di comandi e divieti, sulla cui norma il
fedele manicheo doveva regolarsi. La base della morale manichea
poggiava sull'osservanza dei tre sigilli: quello della bocca, delle
mani e del senso. Ma non basta che l'uomo nella bocca, nelle mani
e nel senso sia casto e innocente, osserva Agostino, in quanto egli
potrebbe peccare con gli occhi, con l'udito o con l'odorato, po-
trebbe prendere qualcuno a calci, e magari ucciderlo : di che sarÃ
colpevole costui dato che non ha peccato con la bocca, né con le
mani, né col senso? Ma quando si parla di bocca, ribattono i Ma-
nichei, noi intediamo tutti i sensi che risiedono nel capo; quando
di mani, intendiamo riferirci ad ogni azione che l'uomo può com-
mettere; quando si parla di senso, alludiamo ad ogni piacere
sensuale. Ma Agostino non rimane convinto da questa osserva-
zione, e infatti dice: E le bestemmie a cosa appartengono, alla
bocca o alle mani? La bestemmia, infatti, è azione della lingua.
(21) De moribus Ecclesiae, cap. XXXIV, coli. 1341-2.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 199
Pertanto se tutte le azioni si comprendono in una sola specie,
perché l'azione dei piedi la includete nelle mani, e quella della
lingua la escludete? Forse perché la lingua significa qualche cosa
mediante le parole, volete considerarla disgiunta da quell'azione
cattiva non destinata a significare? Ma allora come definirete
colui che pecca significando alcunché per mezzo delle mani, cosa
che avviene ad es., quando scriviamo, ovvero accenniamo a gesti
sconvenienti? Così avrà peccato esclusivamente con le mani e
dunque il suo peccato non può essere imputato né alla bocca, né
alla lingua. Non vi accorgete come il desiderio di novità , insepa-
rabile dall'errore, vi afferra per la gola? Il vero è che in questi tre
sigilli, che voi esaltate come una classificazione di nuovo genere,
non riuscite a includere la purgazione di tutti i peccati (22).
A dire il vero, però, le obbiezioni di Agostino ci sembrano un
po' troppo formalistiche, in quanto egli cerca di mettere in evi-
denza come la classificazione manichea non possa sodisfare la pur-
gazione di tutti i peccati. Ma i Manichei con i tre segni non in-
tendevano catalogare soltanto quei peccati che venivano compiuti
dall'organo corrispondente, ma in generale qualsiasi atteggia-
mento moralmente riprovevole dell'individuo. Essi rappresenta-
vano soltanto un simbolo, che stesse ad indicare per il fedele il
divieto di cadere in qualsiasi peccato del senso. Per cui le obbie-
zioni di Agostino che cercano di cavillare sulla catalogazione, in
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relazione ad un sigillo o ad un altro, di un determinato peccato,
colgono soltanto la superfice di ciò che i Manichei intendevano
dire, ne imbarazzano soltanto l'espressione verbale, ma non sono
delle obbiezioni che riescono a scardinare alla base la loro dot-
trina morale. Le sue stesse accuse rivolte alla corruzione degli
eletti manichei, il rimpoverare loro d'indugiare nei bagni o di
abbandonarsi a passatempi riprovevoli sono fuor di luogo, in
quanto ché l'accettabilità di una dottrina non deve essere misurata
dal modo in cui i suoi fedeli la praticano, tanto più che egli stesso
ha detto che la Chiesa non deve essere vilipesa per il malcostume
dei cattivi cristiani. Per cui quell'ammonimento che egli loro ri-
volgeva, invitandoli a smetterla con un linguaggio denigrante la
Chiesa cattolica con la mira speciosa di condannare costumi di
(22) De moribus Manichaeorum, cap. X, col. 1353.
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uomini, che anch'essa condanna e si studia ogni giorno di correg-
gere come figli cattivi (23), potrebbe benissimo essere indirizzato
verso di lui. In realtà avremmo preferito che egli non si fosse fer-
mato alla critica al costume di singoli uomini, ma che fosse sceso a
scardinare più in profondità i precetti su cui questo costume si ba-
sava, mostrandone non l'inadempienza da parte dei suoi fedeli,
ma l'inconsistenza teoretica e la mancanza di basi speculative,
senza di cui nessuna morale, degna di questo nome, può erigersi.
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(23) De moribus Ecclesiae, cap. XXXIV, col. 1342.
CONCLUSIONE
Questo nostro lavoro si è proposto in primo luogo di rico-
struire la dottrina manichea, quale si è venuta enucleando dalle
opere di Agostino. Abbiamo infatti cercato di dare una sistema-
zione organica a tutte le citazioni riguardanti il manicheismo
sparse nelle opere di Agostino, integrandole qua e là , dove l'ap-
porto agostiniano risultava lacunoso, con il pensiero di altri po-
lemisti, onde presentare organicamente il corpo del sistema ma-
nicheo, ricostruendo la sua cosmogonia, la cui veste, come abbiamo
potuto vedere e come osserva il Cumont, è di una stravaganza
splendida, tra la gigantomachia e l'Apocalisse, e ricostruendo pa-
rimenti la sua morale, in cui l'austerità dei principi si abbina
stranamente alla scabrosità degli argomenti e dei miti. Appunto
per questo abbiamo aggiunto alla fine del lavoro una appendice
comprendente tutti i passi riguardanti il manicheismo, in modo
da possedere in una sintesi sistematica tutto il complesso del ma-
teriale offerto dalle opere agostiniane.
In secondo luogo abbiamo cercato di dare una valutazione del
pensiero di Agostino nei confronti del manicheismo, onde mettere
in luce fino a qual punto l'interpretazione agostiniana fosse ade-
rente allo spirito della dottrina manichea. La testimonianza di
Agostino infatti potrebbe essere tra le più attendibili, dato il lungo
periodo da lui trascorso come uditore della setta, in cui conobbe
direttamente e praticò i dogmi manichei. Il pericolo della testi-
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monianza agostiniana, pertanto, come mette in luce il De Beau-
sobre, non risiede in un travisamento dovuto al tempo trascorso
dai fatti di cui si parla, ma si annida in un altro motivo, cioè al
desiderio di difendere il pensiero cristiano, desiderio che potrebbe
portarlo, sia pure involontariamente, a deformare, a vedere sotto
una luce diversa, un angolo visuale spostato, i fatti. Questo ti-
more sembrerebbe trovare conferma nell'accusa che i Manichei gli
r
202 ANNA ESCHER DI STEFANO
lanciarono, rimproverandogli di aver presentato Mani come un
Annibale o un Mitridate.
Ora, è vera quest'insinuazione? E, in caso affermativo, fino a
qual punto? La risposta a questa domanda è quanto mai com-
plessa, perché se è certo che l'atteggiamento di Agostino è sempre
dettato dal più severo senso di imparzialità , a volte il suo ardore
polemico, l'amore per il suo Dio lo trascinano verso interpretazioni
inesatte. Appunto per questo noi non siamo d'accordo con quei
critici che fanno di Agostino un severo ricostruttore del Mani-
cheismo, né con coloro che gli negano del tutto l'attendibilità .
Agostino è troppo cristiano per poter freddamente e imparzial-
mente parlare a noi di una setta i cui principi disprezzava, tanto
più in quanto anch'egli aveva commesso l'errore di aderirvi, ma
è nello stesso tempo troppo buon cristiano per deformarli a ra-
gion veduta.
A questo proposito il De Beausobre chiede ad Agostino come
mai egli abbia potuto aderire ad una setta dove si insegnavano
delle cose abominevoli, come abbia potuto difendere questa setta
contro i cattolici. E non importa, osserva il De Beausobre, che egli
fosse un uditore e non un eletto, in quanto Agostino stesso ci
dice (1) che queste queste nefandezze si trovano nel VII libro del
Tesoro, nefandezze che i Manichei praticano, dicono, credono. Per
cui, il De Beausobre conclude : « St. Augustin ne les ignoroit donc
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pas quand il étoit Manichéen : et de là il s'ensuit, ou que ce Pére
a été depuis l'à ge de XIX ans jusqu'à XXVIII un homme sans rai-
son, sans conscience, sans discernement, capable d'entendre, de
lire, de croire les blasphèmes les plus injurieux à la Divinité: ou
que ces blasphèmes ne s'entendoient point, ne se croyoient point
parmi les Manichéens, et qu'ils ne se lisoient point dans le Livre
du Thréor, comme en effet ils n'y étoient pas » (2). Ma l'accusa
del De Beausobre è senza alcun fondamento, nel senso che egli
crede di prendere in fallo Agostino con delle parole che invece il
santo ha ripetutamente rivolto a se stesso. Agostino non ha mai
negato di considerare immorali e abominevoli i nove anni tra-
scorsi nella fede manichea : basti pensare alle Confessioni che co-
stituiscono tutto un atto di auto accusa. Quanto al fatto che nel
Tesoro non vi fosse contenuto ciò che Agostino dice, non abbiamo
(1) De natura boni, cap. XXXXIV.
(2) De Beausobre, op. cit., p. 236.
IL MANICHEISMO IN S. AGOSTINO 203
prove sufficienti per negarlo, e dunque fino a quando non si pre-
senteranno prove contrarie, la parola di Agostino rimane l'unica
valida e attendibile.
Per cui ad Agostino non si può rimproverare il suo atteggia-
mento generale, ma si possono muovere delle critiche per que-
stioni particolari, come ad es. quella riguardante la dualità delle
anime, l'interpretazione panteistica del dio manicheo, la identifi-
cazione di Mani con lo Spirito Paracleto, ecc., nelle quali cade in
inesattezze ed errori, sia di critica, che di ricostruzione storica.
Possiamo concludere dunque che la testimonianza di Agostino sul
Manicheismo è quasi sempre attendibile, eccetto alcuni travisa-
menti interpretativi, dovuti non alla mala fede, ma alla sua pas-
sionalità polemica e all'amore per la sua religione.
Ci siamo infine soffermati anche sui maggiori problemi del
sistema agostiniano, per mettere in luce fino a qual punto l'espe-
rienza manichea avesse lasciato in lui le sue tracce. Agostino in-
fatti è stato accusato di non essersi affatto distaccato dalla con-
cezione manichea. Da Giuliano d'Eclano che fra l'altro lo accusa
di traducianesimo, fino al Terzi, che afferma come nello svolgi-
mento agostiniano riaffiora il naturalismo primitivo della conce-
zione manichea (3) si è tentato di porre degli addentellati più o
meno forti tra Agostino e la suddetta eresia. Ma anche in questo
caso la posizione più giusta, secondo noi, non è quella estremista :
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non si può cioé fare di Agostino un manicheo, né d'altronde pre-
tendere che la sua esperienza presso la setta non facesse sentire la
sua influenza anche dopo che egli se ne distaccò. La filosofia di
Agostino, quale si viene delineando fin dagli scritti del 386 è
frutto di un ripensamento ortodossamente cattolico, anche se qua
e là affiorano delle infiltrazioni manichee, come ad es. nella dot-
trina dell'anima, nel problema del male, ecc.
Speriamo d'essere riusciti nell'intento di puntualizzare in ma-
niera precisa e chiara questi tre scopi, che ci siamo prefissi nella
redazione di questo nostro lavoro. Nel qual caso la nostra fatica,
almeno per noi, non sarà stata inutile (4).
(3) Terzi, op. cit., p. 87.
(4) Purtroppo non abbiamo potuto pubblicare, per motivi economici,
l'appendice contenente tutti i passi latini, riguardanti i Manichei, desunti
desunti dalle opere di Agostino. Essa sarà pertanto materia di una nostra
prossima pubblicazione.
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INDICE
Pagg.
Cap. I. - La vita 7-25
Cap. II. - La dottrina 26-55
Cap. III. - Il Manicheismo 56-82
Cap. IV. - Ragione e fede 83-95
Cap. V. - Il problema del Male 96-119
Cap. VI. - Il problema della sostanza di Dio e della
sua immutabilità ed incorruttibilità . . 120-135
Cap. VII. - Il problema della apostolicità di Mani e
sua identificazione con lo Spirito Paracleto 136-148
Cap. VIII. - Ii problema della Verginità di Maria . . 149-155
Cap. IX. - Il problema della umanità di Cristo . . 156-163
Cap. X. - Il problema della concordanza del Vecchio
col Nuovo Testamento 164-187
Cap. XI. - Il problema morale 188-200
Conclusione 201-203
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Bibliografia 204-218
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PUBBLICAZIONI
DELL'ISTITUTO UNIVERSITARIO DI MAGISTERO
DI CATANIA
Serie Filosofica: Saggi e Monografie
1. - Carmelo Librizzi, Lo spiritualismo religioso nell'Età del Risorgi-
mento italiano, 1955, pp. 300.
2. - Giuseppe Fichera, Il problema del cominciamene logico e la categoria
del divenire in Hegel e nei suoi critici, 1956, pp. 166.
3. - Pasquale Mazzarella, Il pensiero di G. Scoto Eriugena, Saggio inter-
pretativo, 1957, pp. 180.
4. - Domenico D'Orsi, Lo Spirito come Atto puro in G. Gentile, 1957,
pp. 446.
5. - Anna Escher Di Stefano, La filosofia di A. Schopenhauer, Saggio in-
terpretativo, 1958, pp. 206.
6. - Giuseppe Fichera, Validità della logica aristotelica, 1958, pp. 98.
7. - Giuseppe Fichera, Crisi e valori, e altri saggi, 1958, pp. 138.
8. - Matteo Iannizzotto, Saggio sulla filosofia di Coluccio Salutati, 1959,
pp. 150.
9. - Massimo Rocca, Le incertezze della scienza moderna, 1959, pp. 222.
10. - Luigi Ambrosi, La psicologia dell'immaginazione nella storia della
filosofia, 1959, pp. XII-426.
11. - Ermenegildo Bertola, San Bernardo e la teologia speculativa, 1959,
pp. 154.
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pp. 144.
15. - Salvatore Nicolosi, Il a De Provtdentia » di Sinesio di Cirene, 1959,
pp. 226.
16. - Carmelo Ottaviano, Critica dell'idealismo, 3* ediz., 1960, pp. 226.
17. - Carmelo Librizzi, La morale di Aristotele, 1960, pp. 106.
18. - Adriana Bertozzi, Saggi sul pensiero antico, 1960, pp. 80.
19. - Luciano Trudu, Saggi filosofici vari, 1960, pp. 100.
20. - Anna Escher Di Stefano, Il Manicheismo in S. Agostino, 1960, pp. 220.
Serie Filosofica: Testi e Documenti
1. - I Frammenti dei Presocratici, tradotti da Quintino Cataudella,
vol. 1°, Da Orfeo a Melisso, 1958, pp. 244.
Serie Filosofica: Testi e Traduzioni
1. - S. Anselmo d'Aosta, Il Proslogion, le Orazioni e le Meditazioni, Intro-
duzione e testo latino di F.S. Schmitt, trad. italiana di Giuseppe San-
dri, 1959, pp. 294.
CEDAM - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI - PADOVA
PUBBLICAZIONI
DELL'ISTITUTO UNIVERSITARIO DI MAGISTERO
DI CATANIA
Serie Letteraria: Saggi e Monografie
1. - Angelica Escher, Le favole simboliche di Goethe e di Novalis, 1956,
pp. 138.
2. - Francesco Corsaro, Sedulio poeta, 1956, pp. 282.
3. - Enrico Turolla, Poesia e poeti dell'antico mondo, Saggi critici, 1957,
pp. 348.
4. - Carlo Cordiè, Saggi e studi di letteratura francese, 1957, pp. 316.
5. - Angelo Morelli, Poesìa e critica poetica d'oltre Manica, 1958, pp. 128.
6. - Antonino Gandolfo, Benedetto Croce critico dei contemporanei, 1958,
pp. 104.
7. - Emilio Bodrero, Poesie e prose in Italiano di scrittori stranieri, 1958.
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8. - Salvatore Santangelo, Saggi danteschi, 1959, pp. 164.
9. - Gino Raya, Un secolo di bibliografia verghiana, 1960, pp. 266.
10. - Lylia Loce-Mandes, L'ideale educativo del Pascoli, 1960, pp. 94.
11. - Giulio Natali, Fronde Sparte, Saggi e Discorsi, 1960, pp. 268.
V
Serie Letteraria: Testi Critici
1. - AuRELn Augustini, Psalmus cantra Partem Donati, Intr., testo cri-
tico, trad. e note a cura di Rosario Anastasi, 1957, pp. 108.
CEDAM - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI - PADOVA
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EDIZIONI
CEDAM
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L. 1.900
f-