GILLES SALVINI IL MAGISTER
Romanzo Traduzione di Lamberto Gramisch TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A., Mil...
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GILLES SALVINI IL MAGISTER
Romanzo Traduzione di Lamberto Gramisch TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A., Milano www.tealibri.it © Gilles Salvini, 2006 © 2006 TEA S.p.A., Milano Titolo originale: Le Magister Prima edizione TEADUE novembre 2006
Anche se andassi per la valle dell’ombra della morte, non temerei male alcuno, perché tu sei con me. Il tuo vincastro e il tuo bastone sono il mio conforto. Salmo 23
Prologo
Anno del Signore 1165, ducato di Aquitania Il cavaliere si drizzò in arcione senza interrompere il passo cadenzato del corsiero. Dopo giorni di viaggio la schiena gli doleva e il tonfo sordo degli zoccoli sul terreno, unito al tintinnio dei finimenti e dell’equipaggiamento che si portava appresso, gli aveva creato un tale senso di stanchezza e oppressione da annebbiargli la mente. Eppure non si sbagliava. Con la brezza leggera che spirava dal bosco poco distante giungeva anche l’aroma di carne cucinata alla brace. Se tendeva le orecchie era in grado di udire rumori nuovi, differenti, suoni umani che annunciavano la presenza di una locanda o, comunque, di un punto di ristoro. Il suo viso si distese in un’espressione di sollievo. Lupo di Pietravecchia era un bel giovane alto, con i capelli biondi e il viso abbronzato dominato da un naso pronunciato che aveva ereditato dal padre, signore di una piccola e ormai decaduta casata nobiliare veneta. Aveva affrontato un lungo viaggio, accettando durezze e pericoli, affascinato dal mestiere delle armi. Portava con sé tutti i suoi averi: le armi, appunto, i vestiti e una borsa ben fornita senza potersi definire pingue, il necessario per la sopravvivenza di un cavaliere. Viaggiava leggero alternandosi in sella ai suoi due cavalli, il corsiero nero da torneo, un animale veloce e nervoso al quale teneva moltissimo, e lo stallone dai garretti potenti, scuro, con i fianchi larghi, il collo robusto e la schiena sufficientemente solida da reggere il peso del bagaglio nei trasferimenti e quello del suo padrone rivestito del pesante usbergo sul campo di battaglia. Da quando era giunto in quella regione della Francia sud-occidentale, al confine con i Pirenei, costeggiando la Garonna, Lupo aveva deciso d’indossare soltanto una lunga giubba di cuoio trapuntato: una misera protezione in caso di scontro armato, ma il calore di quella tarda primavera e la relativa sicurezza dei domini della regina Eleonora lo inducevano alla fiducia. Dirigendosi verso la locanda - ora divenuta più evidente grazie a un filo di fumo che s’alzava oltre gli alberi - Lupo avvertì un brivido di eccitazione insieme al sollievo causato dalla prospettiva di un pasto caldo e di un po’ di riposo. La sua meta, la Grande Mischia di Campagne du Temple, era ancora lontana, ma c’era una ragione, un motivo segreto, che lo aveva spinto a deviare dalla strada maestra e a cercare proprio quella particolare locanda tra i boschi. Aveva un appuntamento, per una questione delicata. La costruzione un tempo doveva essere stata imponente. Non un castello, ma certo un complesso che aveva compreso alloggiamenti e stalle, un mulino e persino un accenno di mura, ora completamente diroccate e coperte da una fitta vegetazione. L’edificio principale pareva quello meglio conservato, costruito intorno a un grande camino in pietra serrato da un tetto di travi ricoperto di pelli sulle quali l’acqua scivolava durante i frequenti temporali che spazzavano la regione. Lupo si avvicinò alla radura che ospitava la locanda attraverso un sentiero nel bosco, prestando appena attenzione al gorgogliare di un corso d’acqua poco distante.
Udì delle voci rincorrersi ed echeggiare nella spianata. « Un cavaliere, arriva un cavaliere! » « Attenti bambini, in casa. » « Forse un bandito... » « Silenzio. Vediamo chi è. » Mentre si trovava ancora a una certa distanza Lupo riuscì a udire l’intersecarsi di tali richiami concitati riconoscendo toni di bambini, di uomini e donne sospettosi e infine una voce più austera, l’oste, uomo di certo abituato a fronteggiare i forestieri e al quale importava soprattutto valutare se questi portassero grane o pezzi d’argento. Arrivato a dieci passi dall’edificio Lupo tirò appena le redini e serrò le ginocchia per fermare il cavallo. Con uno sguardo rapido ma attento valutò il posto: una locanda, rifugio del viandante, in una regione relativamente tranquilla e disabitata; pochi avventori seduti ai tavoli disposti all’esterno. Nessuno sembrava armato e, di certo, non c’erano cavalieri. C’era qualcosa, però, che suggeriva inquietudine. Forse l’aggrovigliarsi dei rami degli alberi che assediavano la costruzione, o i ciuffi di vegetazione che spuntavano dalle crepe tra i resti delle mura. Indizi impalpabili inducevano Lupo a credere che quel posto non fosse esattamente ciò che pretendeva di apparire. E, da quell’intuizione, si convinse di essere giunto nel luogo che stava cercando. Era ancora in tempo a tirarsi indietro? Scacciò un brivido che lo scosse sin sotto la giubba imbottita. Il crocifisso di ferro appeso al petto gli trasmise una sensazione di gelo, un ammonimento, ma Lupo era un cavaliere e un giovane intraprendente, quindi decise di proseguire. Per il momento era stanco e affamato e i suoi cavalli avevano bisogno di acqua e riposo. « È un cavaliere », esclamò una bimba dal viso sporco di fuliggine ma con gli occhi vispi, sorridenti. Lupo rispose con un cenno e smontò di sella. Fu un movimento rapido e sicuro, studiato per non tradire dolore o stanchezza. Al di fuori della corta daga veneziana, in quel momento non portava altre armi. « Sì, sono un cavaliere in viaggio », disse non appena un ragazzo, forse il fratello della bimba, gli venne incontro con un’espressione di benvenuto. « Posso pagare un pasto per me e biada e acqua per i miei cavalli. » «Sarà un privilegio potermene occupare per un soldo, messere », si offrì il ragazzo tendendo la mano per raccogliere le briglie. « Le stalle sono qui dietro. » «Vediamole», disse Lupo, memore di suo padre, che gli aveva insegnato che un cavaliere, prima di tutto, si prende cura dei suoi animali. Mentre muoveva i primi passi sul terreno, la schiena e le gambe erano irrigidite ma la veste ampia gli consentiva di mascherare la difficoltà. I destrieri erano coperti di schiuma; voleva assicurarsi che fossero trattati bene. In più quell’intervallo di tempo gli avrebbe permesso di studiare il posto e la gente che lo frequentava. Consegnò le briglie al ragazzo che tornò a sorridere. «Come desiderate, messere. Volete intanto che mia sorella porti i vostri ordini in cucina? » Lupo lasciò vagare lo sguardo dal giovane alla piccola, sino alla soglia della locanda dove identificò il capofamiglia, l’oste, un omaccione con i baffi grigi e le
braccia conserte. Si studiarono in silenzio. « Una zuppa di cereali, vino e carne arrosto, forse del formaggio », rispose il cavaliere rivolgendosi poi alla ragazzina. « Ce l’avete tutto questo? » « Se voi avete il denaro per pagarlo », ribatté lei che doveva aver appreso bene dal padre come si curano gli affari. Divertito, Lupo le fece saltare tra le dita un soldo che la piccola afferrò al volo prima di correre in cucina. Dalla soglia l’oste assentì e tornò alle sue faccende. «Venite, le nostre stalle sono pulite e ricche di biada. Il pozzo ci fornisce acqua fresca per cavalli e uomini assetati », riprese il ragazzo. Lupo non rispose ma seguì il volonteroso giovinetto accarezzando i dorsi dei due animali accaldati. In quel modo ebbe l’opportunità di lanciare uno sguardo agli avventori. Una famiglia occupava un tavolo, schiamazzando e ridendo. Nomadi che non si allontanavano dal carro che avevano posizionato a poca distanza, da loro provenivano le occhiate più insistenti al nuovo venuto. Una coppia di viaggiatori con vesti modeste e bisacce gonfie, probabilmente mercanti, lo degnarono appena di uno sguardo, forse chiedendosi se avrebbero potuto tentarlo con una partita a dadi. A un tavolo discosto dagli altri sedeva un uomo intabarrato in una sorta di saio. Non era un monaco, però; un eremita o qualcos’altro, giudicò Lupo. I lineamenti grossolani bruciati dal sole, i capelli sporchi arricciati in strane trecce che ricadevano ai lati del viso fondendosi con la barba ispida, l’uomo era quasi immobile. Rigirava tra le dita una specie di rosario di legno scuro e teneva gli occhi fissi su Lupo. I loro sguardi s’incrociarono per qualche istante. Forse era lui il contatto? Ci sarebbe stato tempo per scoprirlo. Il ragazzo aveva ragione. Gli stallaggi, sotto una tettoia, erano ordinati e ben tenuti. Divisi in cubicoli, disponevano di un abbeveratoio e di alcuni cavalletti. I muli che trainavano il carro dei nomadi erano impastoiati a coppie, magri e spelacchiati. Il capofamiglia non si curava del loro benessere, e faceva male, giudicò Lupo. Intuendo che desiderasse accudire per primo i propri animali, il giovane si tenne in disparte mentre il cavaliere scioglieva le cinghie, liberando i due destrieri dal peso delle selle e del bagaglio. Posizionò tutto sui cavalletti, fingendo di non dare importanza allo scudo, alla spada lunga e alle altre armi che componevano la sua ricchezza. « Tu pensa a dar loro da mangiare e bere, asciugali ma non ti preoccupare della striglia, a quella baderò io dopo », disse gettando un soldo al ragazzo che si profuse in ringraziamenti. « Certamente, messere, sono magnifici animali. » Lo so, pensò il giovane, erano tutto ciò che restava delle ricchezze dei Pietravecchia e avevano affrontato viaggi e avventure insieme a lui. Tenendo con sé una bisaccia che si passò sopra la spalla, Lupo tornò alla locanda e prese posto all’estremità del tavolo occupato da quello strano personaggio che vestiva come un monaco ma che soltanto un occhio distratto avrebbe potuto identificare come tale. La ragazzina arrivò subito con il vino e del pane bianco. I due mercanti parlottavano, mentre il misterioso viandante consumava lentamente il suo pasto, tradendo solo di tanto in tanto la curiosità con sguardi furtivi. L’aria della radura era ferma, come in attesa. Decisamente era quello il luogo di cui gli avevano parlato, ma Lupo sentiva la necessità di stare in
guardia e non affrettare i tempi. Avvertiva anche un certo timore. Si stava incamminando per una di quelle strade dalle quali è difficile tornare indietro. Cibo e vino erano una benedizione. Dopo giorni trascorsi a masticare la provvista di gallette e carne secca, sostituita qualche rara volta da un coniglio o un uccello rosolati su uno spiedo, un pasto cucinato con cura rifocillava l’anima e il corpo. Lupo aveva posato con noncuranza la bisaccia sul tavolaccio lasciando i lacci aperti. Una mossa deliberata per lasciar intravedere la piccola scatola di legno scuro, screziato di venature rossastre, che aveva portato come segno di riconoscimento. Sul coperchio era incisa una rosa. La scritta in latino Sub rosa aveva un particolare significato: indicava, infatti, qualcosa celato sotto il vincolo del segreto. Era una delle conoscenze apprese sin dall’inizio della sua ricerca. Lupo proseguì il suo pranzo incurante degli altri, abituandosi gradualmente ai rumori di quel posto apparentemente innocuo. Eppure sentiva su di sé lo sguardo del misterioso personaggio che, dall’altro lato del tavolo, mangiava la sua zuppa aiutandosi con un cucchiaio di legno mentre, con l’altra mano, rigirava il suo rosario. No, non era un monaco, anche se non si poteva escludere che facesse parte di qualche ordine. Chiunque fosse, doveva essere un uomo attento o, più probabilmente, sapeva cogliere gl’indizi che gli venivano forniti. Studiò in silenzio il cavaliere, lasciò che si saziasse con la zuppa e l’arrosto, diresse un solo sguardo all’oggetto che spuntava dalla bisaccia - ma con quale acutezza! - e rimase in silenzio. In attesa. Lupo mangiò anche il formaggio e accettò una pera dalla figlia dell’oste, ricambiandola con un sorriso. Nell’aia starnazzavano le galline. I due mercanti del tavolo vicino avevano coinvolto il capofamiglia e i figli più grandi della comunità dei nomadi in una partita a dadi e, adesso che l’attenzione generale si era spostata dal cavaliere al gioco, lo sconosciuto decise di compiere la sua mossa. « Siete cavaliere, vero? » La voce era rauca ma amichevole, come se uscisse con sforzo da una caverna per manifestare un interesse del quale non tutti erano degni. «Dove siete diretto, se non sono indiscreto? » Lupo si aspettava la domanda ma trasalì ugualmente, diede un ultimo morso poi gettò via il torsolo della pera. «Alla Grande Mischia di Campagne du Temple, pare ci siano buone occasioni. » Lo sconosciuto sembrò ragionarci sopra per un po’, in silenzio. Poi sporse il labbro in avanti e parve ricordarsi di avere anche un boccale, oltre la ciotola. Lo spinse verso Lupo con la mano che teneva il rosario, deliberatamente. I chicchi produssero un rumore sordo, urtando appena la scatola intarsiata. « Me ne offrite un goccio? Così brinderò alla vostra fortuna. » Lupo gli riempì il boccale dalla brocca e rifornì il proprio. Fu in quel momento che i loro occhi s’incontrarono direttamente per la prima volta e il giovane ebbe la certezza che il contatto che gli avevano indicato era proprio di fronte a lui. «La fortuna si conquista in arcione», rispose, «ma accetto volentieri il vostro augurio. » L’altro bevve, atteggiò il viso in una smorfia e si asciugò le labbra con il dorso della mano. Poi tornò a posare il boccale spingendo il rosario ancor più vicino alla scatola
intarsiata. « E anche in altri modi, credetemi. Ma Campagne du Temple è lontana, avete compiuto un largo giro. » « Avevo le mie ragioni. » Un cenno grave di assenso. « E da dove venite, se mi è permesso chiederlo? » « Da Tours, avevo affari da trattare laggiù. » « Affari? E di qual genere? Un cavaliere mercante? Sarebbe la prima volta. » Lupo decise di non indugiare. « Cercavo notizie, di quelle che non è semplice ottenere. » Sfiorò l’intarsio della rosa come per caso. «E che costano care. M’hanno consigliato di passare da queste lande. » «Saggia decisione», borbottò lo strano personaggio ritraendo la mano e rincantucciandosi al suo posto. «Ma siate prudente, è una zona solitaria e la regina Eleonora, ora che sogna grandi conquiste, spesso dimentica che è frequentata da banditi. Soprattutto gente con le orecchie lunghe. Però non avete viaggiato a vuoto, se è questo che v’interessa. Terminate il pasto, poi badate ai vostri cavalli, ne hanno bisogno. » Pronunciate queste parole l’eremita, o chiunque fosse, tacque, concentrato soltanto su quel rosario che faceva girare senza alcuna devozione. Lupo bevve ancora. Il suo tempo celava segreti. La Chiesa, il potere, gli ordini cavallereschi. Dietro la facciata esisteva ancora un universo cupo, di tradizioni antiche e barbare che sopravvivevano e prosperavano. Quando aveva iniziato la sua ricerca, mesi prima, e aveva deciso di partecipare alla Grande Mischia e tentare la fortuna, Lupo aveva varcato una soglia e trattando nei vicoli bui con parole sussurrate si era messo sulle tracce di una antica sapienza che molti definivano superstizione blasfema. A volte se ne vergognava perché era stato allevato come un buon cristiano e suo padre gli aveva imposto le armi nel nome di Nostro Signore. Il suo scopo era farsi notare dai baroni e raggiungere la Terrasanta, dove si sarebbe conquistato quell’angolo di fortuna che gli era stato negato in Europa. Ma per farlo la strada era tortuosa. Lupo non sapeva perché, ma la rosa, sin dai tempi dei Romani e in tutto il periodo successivo, era rimasta il simbolo segreto di chi nasconde una verità. A Tours aveva parlato con una vecchia che gli aveva venduto la scatola intarsiata indirizzandolo proprio in quella regione. La promessa era d’incontrare un secondo grano di quel rosario che lo avrebbe portato alla meta. Ripensava a tutto questo, e non senza timore e scrupoli giacché un buon cristiano, un cavaliere per di più, avrebbe visto soltanto l’opera del Diavolo in tutto ciò. Eppure, quando sentì che il misterioso personaggio lo raggiungeva alle stalle, continuò ad accudire i cavalli senza timore o sospetto. La daga era al suo fianco, ma non credeva che sarebbe stato necessario sfoderarla. «Magnifici animali, davvero», osservò l’eremita con una più marcata sfumatura di simpatia. « Dovete essere un cavaliere di rango. » « Lupo di Pietravecchia », si presentò il giovane voltandosi. « Vengo dalle montagne del Veneto. Non so se il mio rango sia elevato, ma mio padre mi ha insegnato a maneggiare la spada con onore. Ed è quello che faccio. » Una luce divertita passò nello sguardo dell’altro. « Eppure avete compiuto un lungo viaggio da Tours sino a qui e affrontato chissà quali altre peripezie per procurarvi quella scatola intarsiata e incontrare me. »
C’era qualcosa nel tono dell’osservazione, una domanda inespressa, che non piacque al cavaliere. « Ho le mie ragioni. E voi chi siete? » «Oh, orgoglioso, anche... Il mio nome non importa, sono un viandante, proprio come voi, e raccolgo e diffondo la conoscenza. Visto che avete il simbolo significa che avete pagato il prezzo e il boccale di vino che m’avete offerto m’è sufficiente. Per il resto, be’... ammetto che sono fatti vostri. Vi sta bene così? » Sfida. Gliela si leggeva nello sguardo. Era disarmato e non era certo un uomo d’azione, eppure Lupo si rese conto che non era intimidito. Non da lui, almeno, e, ancora una volta, seppe che era quello il suo peccato. Sospirò. « Sì, signore. E perdonate il modo brusco, lo avete detto voi stesso che sono luoghi pericolosi. » « Ma voi siete in grado di difendervi, lo so », rispose l’altro con un cenno d’incoraggiamento. « Lo intuisco più di quanto voi lo diate a vedere. Perché, permettete, la vostra mente è confusa. Non è forse per questo che siete venuto a cercare delle risposte? » « Forse », rispose Lupo con prudenza passando la striglia sulla schiena dello stallone che lasciò sfuggire un verso soddisfatto. L’eremita socchiuse le palpebre pesanti, assorto. «Bene, basta convenevoli. Meno tempo perdiamo, meglio sarà. Cosa cercate? » Ecco, era venuto il momento di mostrare apertamente il suo gioco. Lupo si guardò rapidamente intorno e, di nuovo, ebbe l’impressione che la locanda non fosse che uno strato di stucco passato su qualcosa di più antico, nascosto dalla vegetazione. «Cerco un albero, un vecchio albero sacro della congregazione di Wicca. M’hanno informato che in questa regione ve ne sono ancora alcuni, sebbene nascosti, che gli uomini del vescovo di Tours non sono riusciti a bruciare. » La religione degli alberi era antica, radicata nelle menti del popolo da molto prima che i principi franchi scegliessero la Croce per convenienza e politica. L’eremita rimase impassibile. « Un cavaliere cristiano cerca un albero, e per rivolgergli chissà quali richieste blasfeme. La lussuria di una donna? L’invincibilità in arcione? Denaro? » « Non sono questioni che vi riguardano. Lo conoscete o no, quest’albero? » «Un giovane deciso, a suo modo», ridacchiò lo strambo personaggio. «E suppongo non vogliate farvi paladino di qualche strana impresa per bruciarlo in onore del nuovo dio... » Lupo cominciava a credere di aver sbagliato, si sentiva in precario equilibrio su una lastra di ghiaccio che si sgretolava sotto i suoi piedi. « No, non sono qui per appiccare fiamme. Ma ciò che voglio chiedere non vi deve importare. » « Già, e a chi importa, del resto? Gli uomini vogliono sempre le stesse cose: l’amore, il potere, la ricchezza e se un dio non le concede, allora ne pregano un altro, oppure cercano di prendersele con la spada. » L’uomo s’interruppe indirizzando uno sguardo malizioso al giovane. « E magari, per buona misura, fanno tutte e tre le cose. Be’, non ha importanza, voi volete sapere dov’è l’albero e io ve lo dirò. Proseguite verso oriente per due giorni, sino a quando non troverete i segni della congrega. È una regione ancora più desolata, niente locande né ripari, soltanto sussurri nel bosco e latrati di lupi. »
« Quali segni? » « I simboli delle seguaci di Wicca, che il vescovo accusa di accoppiarsi con il Diavolo e i suoi servi... la gente dice che hanno corna e piedi caprini, benché nessuno li abbia mai visti. Vivono nei boschi, accarezzano lascivamente l’erba e biascicano strane parole. Alcune buone, altre cattive. Quando vedrete l’albero lo riconoscerete. È nascosto e in piena vista al tempo stesso. Se vorrete trovarlo, lui si farà riconoscere, fidatevi di me. Riempite bene le vostre bisacce e passate la pietra sul filo della spada perché ne avrete bisogno. È un tempo triste, questo in cui viviamo, e nulla è come si presenta. » Lupo sentiva che il colloquio era giunto al termine. Non credeva che il messaggero gli avrebbe chiesto altro ma, adesso che aveva ottenuto la sua indicazione, era pronto a pagare ancora. L’altro lo intuì e gli rivolse un cenno di diniego, piuttosto lo esortò a seguirlo poco distante dalle stalle. Al di fuori del frinire degli uccelli ogni rumore era cessato. Nuovamente Lupo provò la sensazione di trovarsi tra le vestigia di qualcosa di più antico che l’erba aveva celato e non era sopravvissuto. Di colpo, senza necessità di spiegazioni, comprese la verità. Tutto il complesso della locanda era sorto sulle rovine di una chiesa. O forse un monastero o addirittura un’abbazia. Ma di quel luogo di culto erano rimaste soltanto vecchie pietre incrostate di licheni. Nulla è come si presenta, ripensò. «Ricordatevi sempre questo », aggiunse l’uomo scostando uno strato di vegetazione spinosa da una roccia. Lupo si chinò aguzzando lo sguardo. Una scritta, scolpita su un muro. Molto, molto tempo prima. Suo padre aveva insistito perché apprendesse i rudimenti del latino e non gli fu difficile tradurla. nemo innocens est, nessuno è innocente. La frase lo colpì, come se fosse stata incisa proprio per lui da un ignoto scalpellino che aveva previsto quel giorno. Anelava ad altre spiegazioni ma, quando si rivolse al messaggero, questi era sparito. E, cosa ancor più inquietante, quando chiese di lui alla locanda tutti negarono persino di averlo visto. Ma adesso Lupo conosceva la strada per il vecchio albero. Finì di accudire i suoi cavalli, pagò ciò che doveva e riprese il cammino, ansioso di arrivare a destinazione. La pioggia aveva rallentato la sua andatura costringendolo a trovare riparo presso il capanno di un traghettatore. Due giorni di viaggio erano diventati cinque e, spingendosi sempre più a oriente, Lupo si era convinto di aver varcato una soglia arcana, impalpabile, che gl’ispirava un vago timore. Eppure proseguiva, sempre solo, sempre tormentato dal dubbio sull’opportunità di quella mossa, a volte persino insicuro che l’incontro con il misterioso messaggero fosse avvenuto realmente. Ma il desiderio di realizzare il suo proposito rimaneva saldo. Non apparteneva a una casata importante e, forse, non era neppure un cavaliere abile quanto avrebbe voluto, ma possedeva una cocciutaggine e una fermezza d’intenti che trovavano pochi rivali. Così, tra fango e scrosci d’acqua, Lupo di Pietravecchia aveva proseguito, inseguendo segnali quasi indistinguibili ma che, nelle ultime ore, erano diventati sempre più evidenti, almeno ai suoi sensi. La regione del ducato di Aquitania che stava attraversando era stata per anni una terra di conquista per i Mori. Dopo Poitiers i cavalieri di Carlo Magno ne avevano ripreso possesso ma, con il trascorrere dei decenni, si era trasformata in una terra di nessuno dove antiche superstizioni si
fondevano con le tracce lasciate dai predoni musulmani e i loro ancor più feroci nemici Franchi. La Chiesa vi esercitava un dominio soltanto di parola. Era la terra del lupo, del vento che scuoteva i rami secchi come dita di strega che, la notte, graffiavano la luna. Un posto magico. Come gli era stato predetto, Lupo si rese conto di essere penetrato nel territorio della congregazione di Wicca. Dai tempi immemorabili in cui orde di cavalieri indoeuropei si erano spinti sino all’Ibernia, oltre il mare, dilagando nelle Gallie e fino in Spagna, gli adoratori dei boschi avevano disteso un manto di credenze che neppure la Chiesa era stata in grado di sradicare. La congrega di Wicca, la chiamavano. Si parlava dei suoi sortilegi nei bivacchi, la sera, per spaventare i bambini. Anche se la croce di Cristo aveva gettato la sua ombra su principi e re, i contadini sapevano che esisteva e, nelle notti senza luna, bisbigliavano i suoi rituali. Nell’aria umida di quei boschi s’agitavano presenze antiche, minacciose anche per un giovane coperto di maglia di ferro. Lupo procedeva, il desiderio di ottenere ciò che cercava era un fuoco così ardente da cancellare ogni timore. All’alba del sesto giorno si era rimesso in marcia sotto un cielo scuro, cosparso di nuvole plumbee. Aveva cavalcato per decine di miglia all’interno di un bosco, non tanto fitto da essere impenetrabile ma chiazzato di macchie di luce e pozze d’ombra che parevano evocare una creatura vivente che pulsasse intorno a lui. Lupo aveva deciso d’indossare sopra la giubba imbottita l’usbergo corto, una cotta di anelli di metallo più pratica di quella adoperata abitualmente in combattimento ma che gli avrebbe garantito almeno una protezione sulle braccia e al petto. Era una zona solitaria e il silenzio era costantemente rotto da fruscii inspiegabili. La sensazione di essere spiato, anche soltanto da qualche animale, era opprimente. Ormai, sospirò, doveva essere nelle vicinanze del grande albero sacro. Aveva letto, molto tempo prima, nel De correctione rusticorum che un santo aveva dato alle fiamme numerosi alberi sacri, accompagnato da cavalieri con corazze d’argento e ali d’angelo ma là, in quella foresta, non credeva che neppure un santo ispirato da Dio avrebbe voluto spingersi. Forse era la strada destinata soltanto a un uomo disperato che inseguiva un sogno. Un improvviso agitarsi di fronde alla sua destra lo costrinse a irrigidirsi sulle staffe, arrestando il cavallo mentre la mano nuda correva all’impugnatura dalla spada. Di fronte ai suoi occhi uno stormo enorme di corvi si alzò in volo. Così, senza motivo, lanciando versi di sfida, agitando le ali con uno schioccare di becchi e un protendersi minaccioso di artigli. Lupo si fermò, ipnotizzato, a osservare gli uccelli neri: due, forse trecento che si erano alzati dai rami di un albero oscurando il ciclo. Il frastuono dello stormo spaventato si protrasse per quasi un minuto durante il quale Lupo fu costretto a richiamare ogni briciolo di coraggio per non fuggire a sua volta, poi la verità gli fu evidente, proprio come gli era stato preannunciato. Il grande albero sacro era là, di fronte a lui. Doveva averlo avuto nel suo campo visivo per almeno un’ora tanto era grande eppure, senza quell’impiegabile fuga di corvi, lo avrebbe superato senza accorgersene. Stava al centro della foresta, Lupo ne era sicuro. Un nodoso tronco d’albero che pareva un fascio di altri tronchi, radici piegate dal tempo e da una forza che aveva generato il resto del bosco. Era una vestigia del mondo antico, invaso ma non
scomparso quando Roma aveva spinto le sue legioni sino a quelle terre. Un albero guerriero alimentatesi di pietà e malvagità, di offerte, implorazioni e sacrifici. La corteccia era così rugosa e solcata da profondi tagli da evocare un’immagine di sofferenza, eppure il fusto, le decine di rami che s’intrecciavano fitti, quelle misteriose protuberanze sulle quali giocava la luce trasmettevano un messaggio. L’albero era un sopravvissuto. Racchiudeva dentro di sé magia e saggezza. Forse persino le risposte che il giovane cercava e che, se lo avesse avvicinato correttamente, gli avrebbe concesso di trovare. Lupo arrestò i suoi cavalli a pochi passi dal mastodontico tronco e in quel momento ebbe la certezza di aver raggiunto la sua meta. Con quella sicurezza rammentò che ogni cosa ha un prezzo: era disposto a pagare quello che gli sarebbe stato richiesto? Assicurò le briglie dei cavalli a un ramo non molto distante. Stranamente i due animali sembravano tranquilli benché avessero mostrato segni di nervosismo per tutto il pomeriggio. Il bosco circostante era immerso in una sorta di calma innaturale, ma non minacciosa. Lupo prese la bisaccia e tornò a rivolgere la sua attenzione all’albero. Era uno scherzo dell’immaginazione oppure gli pareva davvero di ravvisare i tratti di un volto che lo invitava a confrontarsi con la saggezza di un mondo che, lentamente, stava cedendo il passo? Non stava commettendo un peccato imperdonabile che gli avrebbe dannato l’anima per sempre? Non conosceva invocazioni o preghiere, ma era certo che l’albero sacro sapesse, senza neppure bisogno di esprimerli, quali fossero i suoi desideri. L’onore, la gloria, l’amore così disperatamente agognato. Per un istante il viso di Costanza, il suo sorriso, le promesse d’amore gli attraversarono la mente. S’inginocchiò con la consapevolezza che nulla avrebbe potuto impedirgli di tentare l’impensabile pur di realizzare il suo desiderio. Dalla sacca estrasse la scatola di legno scolpito. Con un gesto pieno di cautela ne sollevò il coperchio deponendo tra le foglie il suo contenuto. Radice di mandragola, colta sotto l’albero degl’impiccati, per la passione. Poi, dalla bisaccia, sfilò il moncone di spada di suo nonno. Oltre l’impugnatura a croce restavano solo pochi pollici di lama che la ruggine non aveva potuto intaccare. Era ancora un’arma formidabile, benché semidistrutta. Lo spirito guerriero. La piantò nel terreno sentendola affondare, senza resistenza, anzi ebbe l’impressione che la terra e le radici dell’albero accettassero compiaciute la sua offerta. E ora mancava il pezzo più importante, quello che lo spaventava di più. Chiedendo perdono al santo protettore del suo villaggio Lupo sfilò dal collo il crocifisso di metallo che aveva ricevuto da suo padre la notte della consegna delle armi, il momento supremo nel quale era diventato cavaliere. Lasciò cadere il crocifisso sull’impugnatura della spada udendo tintinnare il metallo contro la lama. Ecco, aveva completato la sua offerta, prostrato di fronte a una divinità dimenticata, rinnegando persino la sua religione pur di ottenere quello che voleva. Era in ginocchio, umile, era venuto da lontano per venerare l’albero sacro. Cos’altro poteva fare? «Ti prego, ti prego... guida la mia mano, appaga il mio cuore, stendi ai miei piedi quel tappeto che la mia casa non ha mai avuto », sussurrò con la voce simile a un gemito, pieno di vergogna. Cosa avrebbe pensato suo padre se lo avesse visto in quel momento?
Sommesso, continuo, molto più vicino di quanto sarebbe stato prudente, udì il ringhio di un animale. Dominando la paura si volse e lo vide. Tra i cespugli a fianco del grande albero, un lupo. Il pelo scuro e lucido, gli occhi vivi, iniettati di sangue, ringhiava, mostrava le zanne ma non sembrava minaccioso, tanto che neppure i cavalli parevano intimoriti. Per un lungo istante il giovane mantenne gli occhi in quelli della fiera, udì il suo respiro caldo arrivare sino a lui e rammentò il suo nome. Un nome che non gli era stato dato a caso. Sì, perché anche suo padre, così saldo nella sua fede cristiana, indulgeva a volte in credenze più antiche. Il lupo era il suo simbolo, lo spirito che avrebbe seguito nel corso della sua esistenza. Lo stemma della sua famiglia era un lupo che emergeva da un vecchio torrione e quell’animale, apparso là vicino all’albero, non poteva esserci arrivato per avventura. Colto da una vertigine il cavaliere socchiuse le palpebre e, quando le riaprì, l’animale era svanito; persino il grande albero sacro aveva assunto un aspetto molto più normale, un tronco di grandi dimensioni in una foresta senza confini. Smarrito, Lupo si alzò, dimentico delle sue offerte. Si era ingannato? Aveva inseguito un desiderio folle? Aveva peccato contro il suo Dio?
Capitolo 1 Anno del Signore 1176, Meteore, regione di Kalampaka Il mulo arrancava sul sentiero che s’inerpicava tra massi e ciuffi d’erba affioranti. Gheorghis faceva del suo meglio per tenersi alla sella, ma gli zoccoli del povero animale scivolavano sul pietrisco provocando continui scossoni che rischiavano di mandare a gambe per aria il giovane religioso. La salita, poi, era resa ancora più dura dal tracciato del sentiero, tortuoso come una serpe. Nessuno aveva provveduto alla manutenzione di quella via tra i monti, in uno sperduto téma ai confini dell’impero bizantino, una landa di foreste e montagne, scarsamente abitata, considerata troppo improduttiva per dedicarvi attenzione. Con le mani strette alle redini e al pomolo di legno, le ginocchia serrate sui fianchi dell’animale, Gheorghis ansimava lasciando sfuggire dalle labbra nuvolette di condensa. L’arrivo dell’autunno aveva abbassato la temperatura, Il freddo pungeva le mani e il volto del viaggiatore, s’insinuava nella sua veste scura, gli metteva addosso una sensazione di angoscia che andava a unirsi ai suoi personali tormenti. Mentre il mulo completava una curva per superare un blocco di pietra che sbarrava la strada, Gheorghis si guardò in giro. Era un luogo desolato, dominato da alti picchi che si ergevano come se fossero sospesi tra cielo e terra, abbandonati da antiche divinità come un monito. Tutt’intorno si estendevano ampie e scure foreste, manti d’alberi scossi dal vento autunnale. Neppure un’abitazione in vista. Gheorghis calcolava di dover trascorrere ancora una notte sotto le stelle prima di far ritorno a Korekainé, il paese del quale era stato nominato decano rurale poco più di un anno prima. Il primo incarico... accudire le anime di quel villaggio tra le Meteore, portando la fede e la parola di Dio a uomini rozzi e indifesi che altrimenti sarebbero ricaduti nelle trappole del paganesimo, della superstizione che ancora gravava su quelle regioni. Gheorghis aveva accettato l’incarico con passione ed entusiasmo. Era stato proprio il suo fervore a metterlo sulla strada di quella verità che, sulle prime, gli era parsa una degna prova cui Dio lo aveva sottoposto. Aveva scoperto tracce di un passato dimenticato, o che forse tutti volevano soltanto scordare. Ma si era trattato di un fatto così orribile da non poter essere ignorato. Il caso che lo aveva portato a quella scoperta non poteva essere altro che un segno del Signore. Gheorghis si era messo in cammino per informare il vicearcidiacono della comunità più vicina e ricevere da lui consiglio e aiuto. Ma il viaggio verso la costa, inizialmente previsto di dieci giorni, si era trasformato in una prova di resistenza alla pioggia, al fango e al gelo lunga più di venti. Ancora una volta Gheorghis aveva accettato tutto, certo che, giunto al cospetto di un più anziano e devoto confratello, un superiore della Chiesa di Bisanzio - l’autorità più vicina al Patriarca che il giovane religioso potesse immaginare -, avrebbe ricevuto conforto e suggerimenti. Ma sulla costa non aveva trovato né l’uno né gli altri. Una ciotola di zuppa, sì, ma scarsa attenzione. Un’espressione quasi annoiata, velata dal rimprovero di aver
lasciato così a lungo la sua comunità. Gheorghis aveva cercato di spiegare, di far presente quali fossero i fatti in cui era incappato. Aveva insistito sulla necessità d’intervenire con strumenti adeguati, d’investigare perché fosse fatta chiarezza, per il bene del suo gregge di anime. Il vicearcidiacono, i cavalieri che amministravano la giustizia e mantenevano l’ordine, avevano altre preoccupazioni. L’impero che aveva riconquistato quelle zone con tanto vigore solo pochi anni prima, riportando i vessilli di Bisanzio sulle terre che Bulgari, Magiari e Slavi avevano cercato nel corso dei secoli di accaparrarsi, doveva fronteggiare nuove minacce, molto più serie di quelle paventate da Gheorghis. Il giovane religioso diede uno strattone alle redini, con rabbia, senza rendersene neppure conto. L’indignazione alimentata dai giorni di viaggio solitario cresceva dentro di lui. Possibile che il vicearcidiacono non si fosse reso conto che là, tra quelle sperdute montagne, era la fede stessa a essere in pericolo, che erano le anime del suo gregge ad avere necessità di soccorso? No. Sulla costa tutti guardavano il mare con trepidazione, timorosi di scorgere navi normanne o di pirati dalmati e veneziani decisi a razziare i loro beni materiali, i tributi che avrebbero dovuto riempire le loro tasche e quelle dell’imperatore. Ecco, si disse il giovane religioso, ignorando il bruciore delle vesciche che la prolungata cavalcata gli aveva procurato sulle cosce. I beni materiali, la prospettiva di perdere privilegi, di essere puniti se l’imperatore avesse perso anche soltanto una delle sue città sulla costa. Quello importava... A chi poteva interessare ciò che avveniva tra le montagne? Il vento freddo gli aveva riempito gli occhi di lacrime. Ma forse... forse anche quella era una prova del Signore. Dio voleva che fosse un giovane decano a salvare quelle anime e ad affrontare la minaccia che gravava sulla regione. D’un tratto Gheorghis si sentì pieno d’orgoglio ma anche di paura. Così, incerto tra i due sentimenti, decise che per quel giorno aveva percorso anche troppa strada. Il sole stava tramontando, scure nuvole s’inseguivano tra i picchi distendendo ombre minacciose sui boschi. Non avrebbe potuto raggiungere il paese sino al giorno successivo, pensò fermando il mulo e scendendo di sella vicino a un torrente che gorgogliava tra le rocce. E, forse, non aveva fretta di farlo. L’euforia che lo aveva preso pochi istanti prima, quando si era sentito investito di una missione divina, aveva lasciato spazio ad altri più foschi pensieri. La verità era che provava timore alla sola prospettiva di ritornare in quel luogo. Scoprire segreti sepolti, peccati antichi poteva essere pericoloso. Con una sensazione palpabile d’inquietudine si ritrovò a pensare al suo gregge. Volti, voci e nomi gli attraversarono la mente, rapidi, inquietanti, illuminati da una nuova luce. Scavare poteva significare svelare il Male più profondo. Quello che non dovrebbe mai essere portato alla luce. Quello che nasce nell’animo umano. Un improvviso battito d’ali lo fece sussultare. Gheorghis si voltò di scatto. La mano corse all’impugnatura del coltello che portava alla cintura. Non era neppure un’arma, un utensile da lavoro, piuttosto, adatto per tagliare il pane, e poi lui non avrebbe saputo servirsene.
Si sentì perduto. Finalmente i suoi occhi identificarono la fonte di quel rumore. Uno stormo di uccelli grigi che si alzavano da una macchia disturbati da qualcosa, forse un animale. Si allontanarono nel cielo sempre più scuro. Il vento rinforzava agitando la tunica del giovane religioso. Gheorghis si strinse nelle spalle preparandosi a impastoiare le zampe anteriori del mulo perché non fuggisse. L’animale era affaticato. Gheorghis lo liberò dalla sella che lasciò cadere pesantemente al suolo: persino quel tonfo lo inquietò. Viaggiare da solo lo aveva turbato. No, non c’era nessuno. Quella terra era così povera e desolata che neppure i briganti si scomodavano per venirvi a caccia. Lui, poi, era una preda ben misera. Cosa poteva avere di prezioso un povero decano rurale di ritorno al suo villaggio? La sua vita. E i suoi segreti. Gheorghis allontanò con rabbia quei pensieri. Ma nuovi rumori, fruscii del vento, arbusti scossi dalla brezza, piccoli animali che calpestavano il sottobosco continuavano a tormentarlo. I suoi occhi esaminarono la natura selvaggia che lo circondava, pieni d’ansia. Forse, forse... c’era qualcos’altro. Gheorghis si pentì immediatamente. S’inginocchiò come scosso da un improvviso fervore, giunse le mani così forte da sbiancare le dita e chiuse gli occhi. Cercava il conforto di Dio. Il coraggio che viene dalla fede, dalla preghiera. E così, a capo chino, le ginocchia sui sassi aguzzi, il corpo infreddolito, morì senza neppure accorgersi del pericolo che gli arrivava alle spalle.
Capitolo 2 Il calore del fuoco bruciava la pelle. A ogni colpo di martello, dal metallo rovente, nel buio, schizzavano scintille. Era una lotta tra il forgiatore e il blocco di metallo ripiegato decine, centinaia di volte, immerso poi nell’acqua gelida e ripassato sulla brace sino a diventare di nuovo incandescente per essere colpito con abilità ma anche con furia dall’uomo che, a torso nudo, le mani protette da spessi guanti di pelle, lavorava la materia grezza. Sulle braccia muscolose, coperte di fuliggine e sudore, i lapilli infuocati lasciavano scie rosse, dolorose. Ma rivoltare la sbarra per poterla battere meglio, respirare il calore della fornace, la polvere, erano un rito. La stessa oscurità, lacerata soltanto dalle braci, contribuiva ad annullare il mondo, isolando il forgiatore dall’universo che lo circondava. Con vigore, con rabbia, con disperazione, avrebbe piegato la materia. Il risultato della battaglia più dura, quella contro i suoi peccati, invece, non era scontato. E tale consapevolezza faceva montare la furia dentro di lui, raddoppiava la potenza dei suoi colpi e lo rendeva impassibile al fragore del metallo sul metallo, al crepitare del fuoco, strappandogli versi gutturali come un guerriero al centro della mischia che può soltanto continuare a battersi. Alla fine, esausto, il forgiatore calò l’ultimo colpo traendone un suono cupo che riempì il vano della sua officina e rimbombò nel suo petto. Gettò via il martello e sottrasse la striscia di metallo temprato dalle braci cacciandola con energia nel secchio d’acqua fredda. Per un solo istante, mentre l’acqua sfrigolava liberando una nuvoletta di vapore, i demoni tacquero. Lupo di Pietravecchia uscì ansante dalla sua officina. Era sudato, spossato molto più da quella lotta interiore che s’imponeva ogni giorno che dal lavoro fisico. Si sfilò i guanti e, incurante dell’aria fresca sulla pelle, raggiunse il pozzo. Riempì un secchio, lo issò sino al bordo di pietra e se lo rovesciò sul capo e sulle spalle in una cascata che lo liberò dalla sporcizia. Infine, mentre il cuore riprendeva a battere a un ritmo più regolare, si concesse di bere in poche sorsate ciò che restava in fondo al secchio che poi posò con un gesto che appariva lento, misurato, rispetto alla frenesia di poco prima. Lupo si guardò intorno, assaporando la solitudine che si era scelto. Lo sguardo seguì i contorni delle Meteore, i boschi, gli anfratti di roccia dove s’aprivano caverne inesplorate. Nel cielo il sole lottava con le nuvole. La brezza fresca faceva accapponare la pelle. Era in quelle occasioni, al termine di ore di lavoro alla forgia, che Lupo di Pietravecchia dimenticava chi era e assaporava brevi momenti di libertà. Era soddisfatto, il bel viso con il grande naso diritto che dominava gli zigomi alti era disteso in un sorriso. La lama era quasi pronta. Un capolavoro creato non per uccidere ma per il semplice e impagabile gusto di plasmare la materia e trovare sfogo alla sua energia. Adesso, mentre si avviava verso la capanna per recuperare abiti puliti e la sua cappa, avrebbe potuto riposare il corpo e addestrare la mente. Forse, se
la luce gli avesse concesso ancora qualche ora e il tremito alle mani provocato da tanto sforzo si fosse calmato, avrebbe potuto completare ancora una pagina della trascrizione dell’Hexameron, i Sei Giorni della Creazione di Giovanni Esarca, un codice cui teneva moltissimo e che non si stancava mai di perfezionare con disegni miniati e bella grafia. Era la sua vita, il suo mondo ristretto dove sperava di trovare, se non serenità, almeno pace. Stava per entrare nella capanna che costituiva l’edificio principale del suo piccolo campo, costruito sul terrapieno a metà della strada che portava al picco dal quale sarebbe stato impossibile proseguire, quando si fermò di colpo. No. Non si era ingannato. Qualcuno stava salendo lungo il sentiero. Cavalli. Due, uno carico e l’altro montato. Procedevano lenti ma sicuri e presto sarebbero arrivati in vista del luogo che era diventato il suo rifugio. Lupo guardò verso l’imboccatura del sentiero ancora deserta. Non erano villici della regione, di quelli che ogni tanto venivano a barattare polli e coperte con una delle sue molteplici abilità. No, l’uomo a cavallo era un guerriero. Un nemico forse. Animato da rinnovata energia Lupo si liberò di ciò che restava del suo abito da lavoro, indossò una tunica e uscì portandosi sino all’imboccatura del sentiero. Niente armi; la sua imponenza fisica, lo sguardo di un uomo che, in tempi lontani, aveva affrontato ogni genere di lotta sarebbero stati sufficienti. In quel momento la sua anima si placava. Quello era l’eremo che si era scelto. Nessuno sarebbe venuto a violarlo. Con i piedi ben piantati sul terreno, incrociò le braccia sul petto e si mise in attesa mentre l’aria si riempiva del rumore degli zoccoli. Il visitatore - difficile credere che qualcuno potesse capitare lassù per caso - non tentava di nascondere il suo arrivo. E questo escludeva che fosse un brigante. Ma c’erano uomini sciocchi, a quel tempo come in ogni epoca, tanto arroganti da non temere neppure di essere uditi quando portano violenza. Lupo respirava lentamente, gli occhi stretti a fessura, i muscoli ancora gonfi per lo sforzo sostenuto. Un cavaliere. Montava un destriere da combattimento equipaggiato con un’alta sella di legno e aveva caricato tutto ciò che possedeva sul secondo animale, un cavallo da tiro, dal passo pesante e i fianchi larghi. Sopra la cotta di maglia indossava una semplice tunica che, su una spalla, portava ricamato il simbolo della Croce, segno che aveva combattuto in Terrasanta alla ricerca di quel Regno dei Cieli costato tante vite negli ultimi cento anni. Al fianco portava un’unica arma, una spada diritta, di buona fattura, forse forgiata in Renania, giudicò Lupo che, per abitudine, aveva imparato a valutare i pericoli dallo stato delle armi dei nuovi venuti. Lo scudo di legno, del modello chiamato « ad aquilone », la lancia e un fagotto che custodiva varie altre armi da pugno erano assicurati insieme alle provviste e alle coperte sul dorso del secondo animale. Il cavaliere veniva in pace e si sentiva sicuro di sé. Il semplice elmo a calotta era legato al pomolo e sbatteva contro i finimenti. Il visitatore diede un tiro di redini per rallentare la marcia del suo stallone. Entrambi
gli animali erano coperti di schiuma biancastra, la salita era stata lunga e faticosa. Di certo non era là per caso, ma scorgere la figura di Lupo al limitare del sentiero provocò ugualmente sorpresa nel cavaliere. E così fu per Lupo. Dai rumori s’era aspettato un uomo d’arme ma quel viso, con i capelli color della stoppa, il naso grosso, il pizzo e i baffi mal tagliati, di certo non si sarebbe immaginato di vederlo. Bastò una reciproca occhiata per riconoscersi, anche dopo tanto tempo. Entrambi furono colti da quel senso del destino che, a volte, pare l’unico modo per spiegare fatti e coincidenze senz’altra logica. Il cavaliere s’irrigidì, fermò i suoi destrieri e fissò Lupo con aria severa ricevendone a sua volta un’occhiata dura. Nella mente di entrambi passarono immagini rapidissime, sulla pelle avvertirono il calore di un deserto lontano, clangore d’armi e urla di feriti e moribondi. Tempi trascorsi... « Aymar d’Andry », disse Lupo, la voce che raschiava nella gola, le labbra appena atteggiate a un sorriso. «Soltanto Aymar», replicò l’altro. «Il mio titolo non ha mai avuto valore. Non ero il primogenito e poi non sono mai andato a genio né a mio padre né a mio fratello. Sono stato troppi anni in Terrasanta, comunque. Soltanto Aymar, quindi. » « Tutti ci siamo stati troppo, in quel posto. » Lupo si avvicinò al cavaliere e tese una mano per accarezzare il collo umido dello stallone. «Non avevi uno scudiere una volta? » L’altro strinse le labbra, poi gli occhi sfavillarono di una luce scaltra. « È scappato con i pochi denari che mi restavano, ad Ascalona, un anno fa. Faccio da solo. Dovevo immaginarlo che eri tu quello che i villici chiamano il Magister. » « E hai fatto tutta questa strada per scoprirlo? » « Ho sentito che da queste parti vive un uomo saggio e ho bisogno di consigli. Sono nuovo della regione. Sul sentiero ho visto una grotta con i resti di un fuoco, ma non ho scorto nessuno. » Lupo crollò il capo con condiscendenza. «La caverna di Habras, credo sia un discepolo del vecchio Barnaba che viveva da queste partì... tanti anni fa. Una volta c’erano molti eremiti suoi allievi. Oggi dev’essere rimasto soltanto il vecchio », si sfiorò la tempia con l’indice. « Non c’è sempre con la testa, ma è un brav’uomo. » Aymar inarcò le sopracciglia. « Non del genere di cui ho bisogno. Io cerco il Magister e sono contento che sia tu, quel saggio. Posso ricevere ospitalità, o questo tuo eremo è vietato agli altri esseri umani? » « No, se si fermano il tempo di una zuppa... » fece Lupo sulla difensiva. Lasciò che il cavaliere valutasse i ristretti confini del suo mondo: la capanna dove viveva, il piccolo orto, il recinto dove razzolavano i polli, la fucina. Non c’era spazio per molta gente da quelle parti e Aymar sembrò comprenderlo. Un cavaliere scese di sella con uno sferragliare di maglie metalliche. «Una zuppa e qualche parola... in ricordo dei vecchi tempi, Lupo. Solo questo. » «Allora sei il benvenuto, troverai acqua e riparo per i tuoi cavalli. Accomodati. »
Capitolo 3 Lupo posò due ciotole fumanti di zuppa di legumi sul I tavolaccio di legno. Mangiavano all’aperto, il giorno era ancora giovane e, sebbene fosse fresca, l’aria era sopportabile. Insieme alla zuppa c’erano una brocca di vino resinato, un taglio di formaggio duro di capra e qualche fetta di pane di segale. Aymar si era levato l’usbergo e l’aveva appoggiato su un cavalletto vicino al fagotto con le sue armi. Appariva invecchiato, stanco del viaggio, a tratti rugginoso nei movimenti. Assaggiò una cucchiaiata di zuppa apprezzandone il gusto insaporito di erbe e rivolse al suo ospite un’occhiata compiaciuta, mentre spaziava con gli occhi come se volesse valutare il campo. « Ti sei sistemato bene, vedo », commentò. Lupo prese posto di fronte a lui e fece onore al cibo dopo aver accennato a un segno della croce, un gesto che suscitò una smorfia divertita nel visitatore. « Ah, già », fece questi e si esibì in un ringraziamento a Dio con un movimento che parve esagerato, quasi un dileggio. La croce cucita sulla sua tunica era lacera e scolorita. Si guardarono in silenzio per un poco, entrambi prigionieri dei loro ricordi. « Quanto tempo... » sussurrò Aymar. «Una vita», ribadì a bassa voce Lupo. Aveva molte domande ma le trattenne. Era il suo visitatore che moriva dal desiderio di parlare. «Mi ricordo la prima volta che ci siamo incontrati... in quella mischia in Aquitania... dov’era? » v «Campagne du Temple, vicino ai Pirenei...» rispose cupo il Magister. « Ah, sì... fu una vera battaglia. Be’, tutti i tornei lo sono, alla fine. Ricordo che tu fosti l’ultimo a restare in piedi. Vincemmo, e poi partimmo per la Terrasanta con Goffredo il Normanno. E in Terrasanta siamo rimasti... parecchio. Che avventure... » Aymar si toccò in successione la punta del gomito, il costato, la fronte segnata da una cicatrice, poi batté la mano sopra il ginocchio destro. « Tripoli, Gerusalemme, il deserto di Megiddo, il Kerak... certo che me ne sono rimasti, di segni. Ad altri è andata peggio. Molti giacciono ancora a imbiancare la sabbia con le loro ossa... Non ti manca mai quella vita? » Mi manca Costanza, pensò Lupo, ma non disse nulla. Ingollò ancora una cucchiaiata di zuppa aspettando la domanda successiva, inevitabile. « Cos’hai fatto negli ultimi anni? » chiese infine Aymar. « Ho viaggiato. » « E sei finito qui? » « Un buon posto, come hai detto tu. La gente ci viene di rado. Contadini, pastori, per la maggior parte. Ho imparato a lavorare il metallo. Faccio buone pentole e altri utensili. E so riaggiustare le ossa quando occorre. Mi portano qualche pollo », avvicinò il formaggio e il pane, « scambiamo farina e latte. Io non disturbo loro, loro non disturbano me. Un buon accordo. » Aymar annuì intingendo una fetta di pane nella zuppa. « Non lo metto in dubbio; se uno vuoi star fuori dal mondo... mmh, e mi sembra che tu voglia proprio questo. Magister... è così che ti chiamano, sei un uomo di conoscenza... »
Lupo sembrava infastidito e non si diede la pena di nasconderlo. « Chi non sa nulla si convince che chi sa qualcosa conosca tutto. È facile attribuire un titolo. » Si rese conto del tono brusco delle sue parole e tentò di sorridere al vecchio compagno d’arme. In fin dei conti gli faceva piacere vederlo. Avevano affrontato la guerra per sostenere la Croce a Gerusalemme, e fatto molte altre cose che aveva deciso di lasciarsi alle spalle. Ma il legame c’era, ancora saldo, quantomeno nei cuori. « E tu? » Aymar accettò quella sorta di resa levando il boccale di vino come per brindare. Lupo lo imitò ma inumidì appena le labbra. « Ho combattuto. Non so far altro, lo sai. Un po’ dappertutto nei regni cristiani. Ma adesso... Ognuno per sé. Niente più ideali. Alcuni si alleano con i Saraceni, altri tramano con gli Assassini. I Templari derubano tutte le carovane che passano, il re di Tiberiade stringe patti con i mercanti infedeli... » picchiò due dita sulla croce cucita sulla tunica. « Di questa si sono dimenticati tutti. Così ho viaggiato, qualcuno che ha bisogno di una spada c’è sempre. A Bisanzio e più lontano, in questa terra. Sono passato per il villaggio qui vicino, Korekainé, un po’ di tempo fa. C’era agitazione... » « Davvero? » domandò Lupo più per cortesia che per vero interesse. Aymar bevve e addentò un boccone di formaggio; parlava con la bocca piena, eccitato. « Già. Di cavalieri ne hanno visti pochi. Hanno una specie di strateia, di milizia, però sono soltanto prepotenti incapaci di combinare qualcosa di buono. L’eghemon li usa per tenere calmo il paese, ma se c’è un problema non sanno da che parte girarsi. » Lupo si appoggiò con i gomiti sul tavolo intrecciando le dita. Non desiderava far conversazione ma sentiva, inevitabile, arrivare il momento che avrebbe indotto il suo antico compagno a parlare del motivo che l’aveva spinto fin lassù. Aymar aveva uno scopo e non se ne sarebbe andato prima di aver ottenuto qualcosa. Lupo sospirò e infine chiese: «E quindi, c’è un problema? » Un lampo soddisfatto passò negli occhi del cavaliere, che scostò la ciotola come per far piazza pulita dei convenevoli. « Sì, pare che una strega stia infestando la zona. I villici hanno chiesto a me di trovarla. Anche se l’eghemon e la sua cosiddetta milizia non sembravano troppo d’accordo, hanno dovuto cedere. La gente ha veramente paura. Quel demonio ha già fatto una vittima. » Lupo serrò le labbra e si lasciò sfuggire un sospiro. «Una strega? E tu ci credi? »
Capitolo 4 Per qualche istante Aymar rimase in silenzio a fissare Lupo. Erano trascorsi anni, entrambi lo sapevano e, in quel duello di sguardi, ciascuno cercava d’immaginare che uomo fosse diventato l’antico compagno d’arme. Per entrambi la risposta era difficile. Aymar si decise per primo ad accennare un sorriso. « Non sono poi così ignorante... Lupo, tu hai... viaggiato, come hai detto tu stesso. Verso oriente a quanto mi hanno riferito, anche se adesso ti ritrovo in questa strana terra. Ma anch’io ho percorso qualche sentiero distante dalle vie principali. Chi non crede nelle streghe? In questa parte del mondo, più a nord tra Bulgari e Slavi, le chiamano strigai e, cristiani o pagani, tutti hanno paura dell’occhio del Male. » Lupo si limitava ad ascoltare, la mente altrove e lo sguardo fisso. «Ma siamo anche uomini d’arme», proseguì Aymar, «e abbiamo combattuto per la Santa Croce, sotto le mura di Gerusalemme. Tu stesso eri con me quando quello stregone germanico che guidava i pellegrini verso il Sepolcro fu bruciato dai Cavalieri del Tempio perché accusato di aver stretto un patto con il Diavolo. » « Quel giorno Satana guardava da un’altra parte, perché quel poveraccio bruciò maledicendo tutti e implorando pietà. Non aveva commesso nulla di male », sentenziò Lupo. Aymar scosse la testa. «No, e neppure quella megera armena che tutti accusavano di essere una strega. Era abile, però... » Lupo sogghignò con lui. « Sì, quel trucco con cui estraeva le viscere dalla bocca metteva paura alla gente... » «Ricordi, vedo... un budello di pecora stretto tra i dentino, io non ho mai visto nessuno colpire un suo simile con un maleficio o inaridirgli i campi... e neppure convincere una dama ad amarlo con una polvere, se lei non lo voleva. Ma questa gente ha paura. Ha visto dei segni... e un poveraccio è morto in maniera orribile. Per questo hanno pregato me di cercare la strega e liberarli. » « E tu che facevi da queste parti? » Aymar si posò una mano sul petto. «Io? Be’, non ho avuto molta fortuna ultimamente. Ho cercato ingaggi o signori che volessero darmi un tetto e una cena in cambio di protezione, ma non ne ho trovati. Per la verità, lo sai, ho un brutto carattere...» Lupo annuì. « Hai ucciso qualcuno? » Aymar si strinse nelle spalle. « Nel regno degli Ungheresi... brutta gente, vendicativa... altro che streghe... m’hanno inseguito per un mese e ho dovuto valicare le montagne. Ero senza denaro quando sono arrivato a Korekainé, perciò, strega o meno, ho accettato. Ma devo guardarmi le spalle. C’è un assassino nei boschi, questo è vero, tuttavia in paese non hanno visto di buon occhio il mio arrivo. C’è un tale, Merkos, che comanda la strateia. Non hanno trovato traccia della strega, ma di certo non vedono l’ora di liberarsi di me. » Lupo indirizzò uno sguardo triste al suo vecchio compagno. Un mercenario in fuga, ecco come s’era ridotto. Un tempo era stato un crociato e un valoroso cavaliere.
Come lui. Aymar sembrò intuire il suo pensiero e ne colse l’imbarazzo. Abbozzò un sorriso, poi si guardò in giro. «Non hai cavalli? Quel meraviglioso stallone... » « È morto in Anatolia. Si spezzò una zampa in un fosso mentre seguivo un sentiero tra le montagne », rispose Lupo. « Da allora non ne ho più voluti. Cammino molto, mi libera la mente. Se proprio sono costretto, vado a dorso di mulo: tra questi monti è più pratico. Però non mi allontano molto spesso. » « E sono venuto a disturbarti... sì, lo vedo. Ma che fai qui, preghi? » Lupo non rispose, ma l’espressione invitava a non proseguire su quell’argomento. « Neanche una spada, eh? » « Mi limito a forgiarne una, ogni tanto. Non ne ho bisogno e poi abbiamo visto guerre a sufficienza. Ma non è per questo che sei venuto fin qui, vero? » II tono della frase era stato brusco, aggressivo, ma Aymar non parve farci caso. «Certo non pensavo d’incontrare te, quando mi hanno parlato di questo misterioso Magister, l’uomo che forgia il metallo e ricopia pergamene, ho pensato... se qui c’è veramente una strega, lui forse ne sa qualcosa, potrebbe aiutarmi. Mi sono sbagliato? » Lupo evitò di nuovo di rispondere. Indirizzò uno sguardo vivace ad Aymar, si alzò e sparì nella sua capanna. Era un atteggiamento che aveva appreso dal suo maestro. Sospettava che in parte fosse una tattica per mettere a disagio il discepolo impertinente e chi, come Aymar, veniva a domandare aiuto senza che ce ne fosse necessità. Gli consentiva anche di riflettere senza tradirsi con le emozioni. E poi aveva trattato con troppa ruvidezza il suo visitatore, dopotutto era uno dei pochissimi compagni sopravvissuti. Forse proprio perché non gli era stato troppo vicino. Era venuto il momento di mostrare un po’ di calore per l’amico. Tornò da Aymar con una brocca di terracotta affusolata, chiusa con un tappo. La posò tra loro insieme a due coppette di stagno. La stappò e versò per entrambi. « Cos’è? » domandò il cavaliere, incuriosito. Per tutta risposta Lupo ingollò la sua razione d’un fiato, stimolando Aymar a fare altrettanto. Un’offerta di tregua, se non d’amicizia. Avevano bevuto insieme a Edessa l’ultima volta, se non ricordava male, e il distillato riscaldò entrambi illudendoli di essere ancora giovani. « Una bevanda a base di anice », rispose Lupo infine. « Un altro dei miei baratti. C’è un uomo che lo distilla in paese. Ha voluto una serie di questi bicchieri in metallo. Un buono scambio. » « E un ottimo nettare per la gola e lo spirito », aggiunse Aymar riempiendosi il bicchiere un’altra volta. Lupo tornò a intrecciare le dita e osservò nuovamente Aymar: strano a dirsi, avrebbe voluto abbracciarlo. «La gente dice il vero anche se non capisce realmente... negli anni ho imparato a nutrire lo spirito ricopiando vecchi codici... » « Come i monaci? » Lupo non raccolse e agitò la mano nel vuoto. « Più o meno. Un po’ di tempo fa mi capitò di leggere una copia mal ridotta del Canon episcopi di Reginone di Prum,
arcivescovo di Treviri. Me l’aveva venduta un mercante veneziano, era ridotta malissimo e incompleta, tuttavia era interessante. Raccoglieva brani di un capitolare carolingio. Si parlava di streghe. Raccontava che c’erano, nei boschi italici, donne seguaci di Diana, Sorelle della Luna, che stavano in paludi e luoghi umidi. » « Ed è valido anche qui? » « Chi può dirlo, amico mio? So soltanto che, secondo quel testo, esistono donne che possono passare attraverso i muri, emettono urla stridule nelle notti senza luna e cavalcano strani animali per volare sopra i pozzi che vogliono prosciugare... ma chi può sapere se sia vero? Io non le ho mai viste. » « E i buoni cristiani credono in queste cose? » Lupo serrò le palpebre per un istante, la mascella irrigidita. « Non so se sono un buon cristiano. Me lo sono chiesto, e forse ho ucciso troppe volte... Chi ha scritto quel capitolare, evidentemente, pensava che fossero consigli utili. » « Per cacciare le streghe? » lo incalzò Aymar. Lupo tornò a sospirare, perché sapeva cosa sarebbe accaduto. « Sì, se vuoi trovare la tua strega, sempre che esista, cerca nei posti umidi, dove il fiume scorre verso valle. » « Verrai con me? » Un lungo istante di silenzio. « No. » Costernato, Aymar scosse il capo. «Non sei neppure un po’ curioso? » Lupo si alzò e gli voltò le spalle. Fece due passi pensando che, se non avesse ricevuto visite, avrebbe potuto dedicarsi alle sue attività cercando la pace. Con un’espressione tesa si girò verso l’ospite. « Resta per la notte se vuoi. Ma domani parti da solo. Non mi interessano queste cose. » Aymar comprese quanto fosse inutile insistere. L’espressione di rammarico durò solo il tempo di versarsi un’altra dose di anice. « II mio usbergo s’è inumidito e gli anelli sono rigidi. Hai un po’ d’aceto da prestarmi? La sabbia la porto sempre con me. » « Sì, avrai tutto il necessario. » Quella notte Lupo dormì male. Fece un solo sogno, ma fu un’esperienza dolorosamente simile alla realtà e difficile da interrompere. Vide Costanza, sua moglie. Era sul letto di morte. Pallida, consunta per le sofferenze della peste. Il viso, però, era rimasto magnifico: i lineamenti fini, le ossa sottili. Era avvolta in un sudario di lino immacolato. Lui tornò a riaccendere le fiamme che se l’erano portata via e si chiese, ancora una volta, se non fosse stato il suo peccato a causare anche quella morte e a tenerlo in vita per espiare. La mattina successiva, quando si destò di buonora, Lupo s’accorse che il suo ospite era già sveglio ed era uscito dalla capanna. In un cesto trovò due frutti tra i pochi che restavano in buono stato della sua scorta. Era il momento di approvvigionarsi. Non quel giorno, comunque. Vestito delle sole brache andò al pozzo e si bagnò con l’acqua gelida. La frustata umida sulla pelle, rapida e vivificante, gl’infuse energia. Tornò nella capanna, si rivestì e prese i due frutti. Raggiunse Aymar e gliene lanciò uno. Il cavaliere l’afferrò al volo, addentandolo con gusto.
Lupo si fermò a osservare il panno che Aymar aveva aperto sul terreno. Armi d’ogni genere, alcune arrugginite, altre in buono stato. Per uccidere a distanza e a contatto. Con abilità l’amico stava terminando di lucidare la sua cotta di maglia strofinando i settantamila anelli che la componevano con la sabbia e l’aceto perché fosse flessibile e pulita in modo da proteggerlo senza ostacolare i movimenti. Rimasero in silenzio ad ascoltare i rumori della montagna, poi il cavaliere terminò il suo lavoro, indossò l’usbergo, raccolse le sue armi e le caricò sul cavallo da tiro. Solo allora si voltò verso Lupo e gli tese la mano con un sorriso. « Allora, un’altra volta? » Lupo gli serrò la mano e lo attirò a sé. « Un’altra volta, Aymar. Il Signore sia con te. »
Capitolo 5 Lavorò alla forgia per buona parte della giornata, dimenticandosi di tutto. O cercando di farlo. Quando s’interruppe per consumare un rapido pasto a base di uova e formaggio, Lupo aveva terminato l’opera cui si era dedicato negli ultimi giorni. Dopo averla raffreddata nell’acqua, trasse la lunga lama a due fili, munita di punta a ogni estremità. Misurava circa un braccio e mezzo ed era così affilata che doveva reggerla con estrema attenzione, tenendola in un panno per non tagliarsi. Andò a recuperare una sorta di manopola di legno cava che aveva intagliato tempo prima e vi infilò la lama. Quando la singolare impugnatura raggiunse la tacca al centro, Lupo premette le dita nei fori disposti nell’intarsio. Perfetta, pensò mentre le dita si muovevano come su un flauto. La spada scivolava e si bloccava a seconda di come veniva ruotata e del modo in cui si posavano le dita. Nessun rozzo guerriero avrebbe tratto giovamento da un’arma simile. Lupo ne aveva visto il progetto da un artigiano di Damasco e per anni aveva pensato di migliorarlo. Uno strumento micidiale, ma creato non per uccidere impunemente: se non se ne comprendeva il segreto equilibrio sarebbe stato facile ferirsi gravemente invece di arrecare danno agli altri. Era l’unico genere di lama che fosse disposto a forgiare in quel momento. Provò a maneggiarla, poi, soddisfatto, l’avvolse in un telo di canapa e la ripose in un angolo buio della sua officina. Si sentiva appagato, tranquillo, lontano dai pensieri che di solito lo tormentavano e anche da quelli suggeriti dalla ricomparsa di Aymar. Faceva freddo. Avvolto nella lunga tunica si spinse fino al limitare del terrapieno assaporando la solitudine, la visione dei picchi delle Meteore simili ai denti di un drago ucciso secoli prima. I rumori della natura desolata avevano l’effetto di un canto di pace, erano un sollievo. Un uomo più devoto avrebbe ringraziato il Signore, lui non osava. Un improvviso malessere lo scosse costringendolo a irrigidirsi. Costanza... e tutti gli altri... Morti per destino o per punizione. Solo lui era rimasto in vita a piangerli. Era quello il suo castigo? Gli anni delle armi e quelli dello studio non erano stati sufficienti per trovare una risposta. E più disperatamente la cercava, più gli sfuggiva. Così, si era rinchiuso in se stesso, lassù, isolato da tutto e da tutti. L’aria fredda gli riempì gli occhi di lacrime. Rientrò al coperto. Ancora una volta doveva tornare a immergersi nella sua attività. Ricopiare, miniare, apprendere la saggezza riproducendola sulla pergamena. Piccoli gesti che lo assorbivano e cancellavano i ricordi. Era la vita che aveva scelto. Quella notte, prima di addormentarsi, maledisse Aymar, il passato e le sue richieste di aiuto. Non riuscì a prendere sonno e, curiosamente, cominciò a fantasticare sulla strega che infestava la regione. Un’altra anima tormentata, impaurita forse, che la gente braccava per il solo fatto che era diversa.
Capitolo 6 Regno di Serbia Nella notte il ciclo aveva scaricato voluminosi fiocchi di neve che avevano ricoperto boschi, campi e sentieri. L’aria gelida del mattino condensava il respiro in nuvolette che si sfaldavano nel vento. L’intera regione aveva cambiato aspetto e persino i dirupi più oscuri parevano rischiarati da quella coltre candida che copriva tutto come un sudario. I tre cavalieri avevano galoppato dalle prime luci dell’alba, dopo aver lasciato il riparo di una capanna abbandonata dove si erano fermati la notte. Emersero dalla nebbia del mattino stagliandosi contro il bianco della neve. I possenti stalloni da combattimento bardati di tessuto pesante, i musi coperti da una maschera di metallo brunito, procedevano sicuri, sollevando spruzzi di nevischio. I tre cavalieri indossavano cotte di maglia di ferro sopra le quali bianche tuniche sventolavano alla brezza. Sul petto era ricamata una grande T nera, simbolo del loro ordine guerriero. Venivano da un lontano castello del regno di Bradislao I, in Boemia, ma rispondevano soltanto agli ordini del Sacro Consiglio della Croce di Ferro, al culmine del quale stava il Dominus Verbi, discendente del maestro fondatore e interprete della parola di Dio. Monaci guerrieri, celavano il volto dietro caschi conici nei quali solo un’apertura a forma di croce permetteva di vedere all’esterno. L’ordine era stato consacrato nel 1165, con la missione di difendere i pellegrini diretti ai regni cristiani di Terrasanta ma anche di combattere le ancora numerose tribù pagane che scorrazzavano ai confini del Sacro romano impero sino alla Livonia, nelle gelide terre del Nord. Persino i legittimi sovrani di Boemia si guardavano dall’imporre ordini ai cavalieri della Croce di Ferro, e gli stessi Templari e gli Ospedalieri, quando li incrociavano sulle strade dei pellegrini, evitavano di fermarsi troppo a lungo o di suscitare argomenti di discussione. Erano santi guerrieri, silenziosi, determinati e non si spostavano mai senza una ragione precisa. Ritti in sella, i calzari rinforzati ben inseriti nelle staffe, gli speroni che sfioravano i fianchi dei loro animali, i tre cavalieri dominavano le asperità del terreno innevato con semplici comandi impartiti appoggiando le redini sul collo delle loro cavalcature. Gli scudi rettangolari assicurati alla schiena, le lunghe spade diritte al fianco, procedevano lentamente ma con assoluta determinazione: pareva che la natura impervia delle montagne serbe si stesse facendo da parte per lasciarli avanzare. Cavalcarono per ore finché non scorsero una scia di fumo levarsi oltre una curva del sentiero, presso una strettoia all’imboccatura di una valle. Non cambiarono la velocità della loro marcia e procedettero fino in vista di una casupola di pietre a secco con un tetto di tronchi e paglia pressata irrigidita dal ghiaccio. Un posto di blocco dei soldati del re di Serbia, e da poco vassallo di Bisanzio, Stefano Nemaja, che aveva creato così un cuscino tra i Bulgari e il Sacro romano impero che premeva dall’Ungheria verso la penisola balcanica.
Al contrario dei cavalieri i cinque soldati di guardia avevano un aspetto miserando. Usberghi rugginosi, tuniche strappate, soltanto una picca con il vessillo del loro re li qualificava come soldati distinguendoli da briganti di strada. Ma quel giorno mancava il vento e il drappo con i blasoni dei Nemaja pendeva attorcigliato all’asta. Nonostante ciò l’uomo al comando del posto di blocco sentì il dovere di porsi in mezzo al sentiero. « State pronti, arriva qualcuno », ordinò ai suoi uomini. Non estrasse la spada, ma posò sul pomolo la mano protetta da un giro di fasce a mo’ di guanto. Gli giungevano rumori nervosi. Interrotti mentre consumavano una zuppa appena riscaldata, i soldati serbi raccolsero le loro armi, provando disagio al tocco freddo del metallo. Non era un giorno in cui cercare la morte. La visione dei cavalieri li fece vacillare ancor di più: circondati da nubi di nevischio i tre non sembravano volersi fermare, intenzionati a travolgere tutto ciò che si poneva sul loro cammino. Deglutendo a forza il comandante si piantò bene sulle gambe e alzò la sinistra. « Fermatevi, in nome del re di Serbia. Siete sul territorio del casato Nemaja. » Ancora qualche centinaio di passi e i tre cavalieri sarebbero piombati sul drappello. Sul terreno diventato più solido e sgombro gli zoccoli degli stalloni producevano un lugubre rimbombo. Le mani dei soldati erano strette sulle picche, il sudore colava lungo il viso gelando, gli sguardi erano smarriti. Infine, senza preavviso, il più avanzato dei tre cavalieri sollevò un braccio strattonando le redini della sua cavalcatura, n morso strappò un verso doloroso allo stallone che si puntò sulle zampe, imitato dagli altri due. Per un lungo momento i cavalieri rimasero immobili di fronte alla fragile barriera di armati. Nessuno osava parlare. Il capo dei monaci guerrieri scese di sella con un movimento straordinariamente agile. Il peso dell’armatura produsse un tonfo minaccioso. Il cavaliere compì qualche passo verso il capoposto e soltanto allora sciolse le cinghie che assicuravano il casco e sollevò l’elmo. Un viso scolpito nel ghiacciò, i capelli radi, una fine barba che non riusciva a celare il segno di una cicatrice sulla guancia. Il cavaliere diresse un’occhiata al campo, notò la pentola fumante sopra il fuoco, sembrò valutare divertito l’entità della guardia, poi rivolse una smorfia al comandante. « Mi chiamo Domash Tartu della marca di Premysl. Sono cavaliere dell’ordine della Croce di Ferro. Con i miei compagni sono diretto a sud per un incarico importante. Nel nome del Signore vi chiediamo il diritto di passaggio e una ciotola di cibo caldo. » Nessuna minaccia. Parole sussurrate, se non gentili almeno rispettose. Ma gli occhi... il capoposto comprese subito che quei tre cavalieri si sarebbero presi con le armi ciò che chiedevano se avessero notato anche una semplice esitazione. « II Signore sia lodato. Potete passare, ma prima, vi prego, rifocillatevi e riposate i vostri cavalli. Siate i benvenuti. » Domash Tartu serrò le labbra e assentì liberando con un sospiro un drago d’acciaio.
Capitolo 7 Meteore Lupo aveva un rituale che ripeteva almeno una volta al giorno, da anni. Un esercizio fisico che gli permetteva di mantenersi in forze e conservare l’abilità nel combattimento, della quale un tempo era stato fiero. Anche se aveva giurato di non servirsi più della spada, i suoi pellegrinaggi gli avevano più volte dimostrato che viveva ancora in tempi pericolosi. Per sé aveva intagliato un particolare bastone da viaggiatore, un’asta ricavata dal legno di quercia rossa levigato con la pialla e ricoperto alle estremità da guardie di metallo che lui stesso aveva forgiato. Ne aveva appreso il maneggio da un santone a Kenya, in Anatolia, e vi aveva profuso tutta la sua abilità di spadaccino. Il bastone era un’arma che consentiva di tenere a distanza il nemico, disarmarlo anche, ma che permetteva di risparmiargli la vita. Nel periodo in cui aveva cercato la gloria delle armi in Terrasanta, Lupo aveva imparato un’altra dura lezione. Per dote naturale, protezione di Dio o del Diavolo, possedeva la capacità innata di uscire vincitore da ogni confronto. Era stato ferito molte volte, in alcune occasioni gravemente, ma si era sempre ristabilito. Aveva peccato e la sua pena era stata ricevere ciò che, da giovane, aveva così disperatamente chiesto dove non avrebbe dovuto. La gloria, l’invincibilità... A costo di restare solo sul campo di battaglia. Com’era capitato in quel lontano torneo che Aymar aveva rievocato pochi giorni prima. Ma proprio la ricomparsa di Aymar e tutti i pensieri che aveva risvegliato dentro di lui avevano insinuato un’irrequietezza che si sposava con ricordi a volte insopportabili di Costanza. In quei momenti ritirarsi in cima a un picco per praticare l’arte del bastone era l’unico rimedio. Lupo si muoveva animato da un’energia feroce, ancor più rovente del fuoco della sua fucina. Spostandosi nello spazio ristretto della roccia a precipizio, parava, colpiva, schivava ingaggiando un duello immaginario con un avversario che, nella sua mente, aveva il suo stesso volto. Ed era sempre una lotta senza esclusione di colpi. Si protraeva per ore, a volte, mentre in altre occasioni erano sufficienti pochi minuti, un paio di stoccate nel vuoto finché l’asta non vibrava sibilando e le dita diventavano bianche sull’impugnatura. Quel giorno Lupo aveva praticato a lungo, astraendosi nella fatica, ma la mente viaggiava sino a un tempo lontano, in una terra arroventata e coperta di polvere. Finalmente la stanchezza aveva avuto ragione della sua furia e lo aveva lasciato senza fiato, le membra doloranti e la testa vuota. A poco a poco il pensiero della solitudine cui si era costretto s’insinuò nella sua mente: quel luogo che aveva scelto per il suo eremitaggio cominciava a sembrargli angusto, soffocante. Stava tornando al campo quando vide un gruppo di uomini che procedevano lungo il sentiero tortuoso che saliva dal bosco. Non potevano essere diretti che da lui, ma non avevano un’aria minacciosa. Anzi,
Lupo aveva imparato a riconoscere atteggiamenti e persone dall’incedere e il gruppo gli apparve familiare e certo non aggressivo. Erano abitanti di Korekainé; riconobbe il falegname, due pastori e un contadino di nome Xander, che era il più alto di tutti ed era stato scartato dalla milizia solo perché aveva un brutto carattere e non accettava ordini da nessuno. Erano tutti brava gente, che portava avanti un’esistenza grama. Ignoranti ma sinceri, venivano a scambiare qualche oggetto con una pentola forgiata in maniera più resistente, il vomere di un aratro, a volte persino un consiglio. Lupo per un verso li invidiava, ma sapeva di essere diverso. Erano stati loro che per primi lo avevano chiamato Magister. Di solito, però, venivano da soli, sapendo che Lupo non amava la confusione e incontrare tre persone in una volta già lo infastidiva. Quel giorno erano in quattro. Doveva essere per un motivo grave. Il Magister si fermò all’angolo del sentiero appoggiandosi al bastone e bevve una sorsata d’acqua fresca dalla borraccia. Si sentiva esausto e non voleva ospiti, non in quei giorni. Era convinto di aver già commesso un errore permettendo ad Aymar di fermarsi una notte e portare cattivi ricordi. Ma l’amicizia era diventata mercé così rara per lui... « Buona giornata, signori », salutò con una cordialità che la presa sul bastone rendeva più severa. « A cosa devo la vostra visita? Perché cercate me, non è vero? » Fu il contadino, quello grosso di nome Xander, a parlare per tutti. « Sì, MaMagister, e perdonateci, nel nome del Signore, se veniamo a disturbare la vostra quiete, ma si tratta di una questione di grande importanza... » Lupo li osservò. Erano stanchi, camminare in salita non faceva parte delle loro abitudini. C’era, poi, nello sguardo di tutti una luce spaventata che lo incuriosì, soprattutto perché aveva giudicato Xander capace di tener testa a un esercito da solo. Ma non era un esercito che li intimoriva. « Parlate pure liberamente », disse Lupo senza tuttavia invitarli a proseguire. « Da quasi un mese una maledizione grava sul nostro villaggio... abbiamo fatto di tutto, ma ormai un’ombra nera ci minaccia. » Lupo aggrottò la fronte e rimase in silenzio. Fu uno dei pastori a proseguire. «Una strega, Magister... una femmina del Diavolo si aggira tra queste montagne e s’accanisce contro di noi, poveri peccatori. » « Ma non abbiamo fatto niente per meritare un simile castigo, Magister, niente, lo giuriamo», aggiunse l’altro pastore che parlava sputacchiando, i denti guasti e un labbro gonfio per una febbre. « Una strega? Io non ho visto nessuno. » «Voi siete un sant’uomo », disse il falegname, ma Lupo lo interruppe con un cenno. Prima che potesse aggiungere alcunché Xander compì un passo avanti. Fu il gesto risoluto di chi chiedeva attenzione. Un uomo grande e possente ma seriamente spaventato. « Quel demonio ha già ucciso due volte. Ha lasciato il suo marchio sul giovane decano del villaggio, Gheorghis, forse lo ricordate... » «No, Xander, come sapete non vengo al vostro villaggio. Preferisco la solitudine e coloro che come voi vengono a scambiare le loro cose con le mie non fanno parte del clero. Mi dispiace, però, per quel giovane. Com’è successo? »
« Padre Gheorghis era stato lontano, per una cosa importante... non so cosa... ed era molto preoccupato. Doveva andare dal vicearcidiacono, verso la costa, a chiedere consiglio. Lo abbiamo trovato morto in un torrente a meno di un giorno di cammino dal villaggio. » « Sarà caduto dal mulo », ipotizzò Lupo, sapendo che non sarebbe stato così semplice liberarsi di loro. Un agitarsi di mani e di teste confermò la sua convinzione. «No, no... Magister... è la stessa cosa che ha detto Merkos all’inizio, ma tutti abbiamo visto... » «Visto cosa?» « II marchio che quel demone gli ha lasciato... il bacio della strega... No, tutti sono convinti che il povero prete sia stato colpito dal Maligno. » « E la vostra strateia non ha cercato di catturare questa... strega? » « Nulla, non hanno trovato nulla. Ma lei è qui. » Lupo represse un brivido e serrò il bastone. «Avete detto che ha ucciso due volte? » II gruppetto si consultò con lo sguardo, poi fu di nuovo Xander a parlare. « Sì. Giorni fa è passato un cavaliere dal nostro villaggio, un crociato che è stato al Santo Sepolcro. Gli abbiamo chiesto di aiutarci, anche se alcune persone in paese non volevano affidare a uno straniero quell’incarico... Anche lui è stato ucciso: lo abbiamo trovato ai pozzi, marchiato dalla strega. » «Magister », si fece avanti il falegname, un ometto piccolo con la barba ispida. « Solo voi potete aiutarci. Presto nessuno andrà più nei campi. I mercanti di passaggio cambieranno percorso rifiutando le nostre merci. Tutti hanno paura adesso che la strega ha ucciso anche il cavaliere. » Lupo era rimasto immobile, il viso sbiancato come se i foschi pensieri risvegliati in quei giorni avessero trovato un’ulteriore conferma. Un altro amico... «Aspettatemi qui. Vado a prendere il necessario, poi mi guiderete a vedere il corpo del cavaliere. Immagino che il prete sia già stato sepolto. » « Bruciato », ansimò il pastore col labbro gonfio. «Bruciato come tutte le vittime del Maligno. Questo lo sappiamo: chi è toccato dal Diavolo deve bruciare, subito, o la sua anima sarà perduta...» Lupo non gli rispose neppure. Sapeva che nessuno avrebbe osato seguirlo nella sua abitazione. Si voltò e a grandi passi, picchiando la punta del bastone sul pietrisco, si avviò alla capanna.
Capitolo 8 Aveva deciso in fretta, tanto da stupirsene. Nella capanna si era cambiato gli abiti fradici di sudore, indossando una tunica e una cappa e raccogliendo in una bisaccia il necessario per un’assenza prolungata. Afferrato il bastone era tornato rapidamente verso il punto in cui lo aspettavano. Prima di lasciare il suo eremo, però, aveva chiuso sia l’officina che l’abitazione, serrando i battenti, riponendo scalpelli, pennelli, limette e gli altri strumenti. Aveva infine abbassato rudimentali tendaggi di pelle conciata. Se fosse piovuto l’acqua sarebbe scivolata via lungo appositi canaletti che lui stesso aveva scavato. Anche quelle attività rappresentavano un modo per non pensare alla morte di un altro amico, al malessere che i ricordi avevano portato dentro di lui. E la prospettiva di allontanarsi dal suo eremo - seppur di poco e per breve tempo - gli parve naturale come se non avesse altra scelta. Gli passò rapidamente nella testa il pensiero che, forse, la decisione era stata presa ancor prima che si presentasse una giustificazione. Mentre avanzava risolutamente verso i paesani, cercò d’indirizzare la mente verso ciò che ricordava del Canon episcopi che aveva portato con sé a proposito della stregoneria. Esistevano realmente donne che stringevano patti con il Diavolo? I quattro sembrarono sollevati di vederlo tornare così in fretta. La cappa con il cappuccio alzato e il lungo bastone rendevano ancor più autorevole il suo aspetto. Gli si strinsero intorno, convinti che la sua forza fosse sufficiente a proteggerli. Qualunque cosa fosse accaduta, erano davvero spaventati. « Andiamo », li esortò, « mostratemi il corpo del cavaliere. » Fu Xander a prendere la guida del gruppo dirigendosi a valle, ma toccò al falegname accostarsi a Lupo per riferirgli i particolari. « II prete lo hanno ritrovato per caso dei pastori che portavano ad abbeverare le capre. Era riverso nel torrente da alcuni giorni. » «E l’assassino ha lasciato delle tracce?» domandò Lupo cercando di mantenere un tono neutro. Non voleva usare il termine « strega » finché non fosse stato sicuro che i timori dei valligiani avevano qualche fondamento. L’uomo con la barba ispida assentì. «Sì, i segni erano tutt’intorno. Sulla corteccia di un albero, sulla pietra, graffiati con le unghie sul terreno... » « Quali segni? » Il falegname agitò la mano davanti a sé come per cancellare la visione che la memoria evocava. «I segni del Maligno - aste e cerchi, uniti a formare simboli che nessuno può comprendere... » Lupo trattenne una smorfia. « E da cosa si capisce che sono segni del Maligno? » « Tutti li conoscono... quando qualcuno si ammala per causa dell’occhio del Male, quando i campi s’inaridiscono e le bestie muoiono senza motivo... sempre... sempre ci sono quei segni. Nessuno sa cosa significano, ma la loro stessa presenza è la prova che la zona è infestata. » Lupo proseguì la marcia senza fare commenti. Leggende, immaginazione, superstizioni. Eppure se vicino al cadavere erano stati trovati dei segni significava che qualcuno aveva voluto lasciare un messaggio. Che era stato evidentemente
compreso. Si voltò verso il falegname. «Mi avete parlato anche di un marchio... » «Il bacio della strega... sì, Magister, e quello non può essere confuso. Con niente altro. Ha sfigurato il povero Gheorghis... e anche il cavaliere, vedrete voi stesso... » Una fitta. Lupo represse il dolore e proseguì: « Ditemi, il cavaliere... quello a cui avete chiesto di liberarvi dalla strega, si chiamava Aymar? » «Sì», biascicò il pastore con il labbro gonfio. «Aymar, un crociato, un valente guerriero... gli avevamo anche parlato di voi... perché potesse chiedere aiuto alla vostra conoscenza. » « L’ho visto, infatti », replicò torvo Lupo e nessuno osò porre altre domande al riguardo. Per un poco seguirono Xander senza parlare, consapevoli dei rumori del bosco. Il bacio della strega... un’altra superstizione di cui Lupo era al corrente. Ne aveva letto su un manoscritto acquistato in un mercato bulgaro, sulla via delle Meteore. Anche tra i pagani si temevano le streghe. Il cosiddetto «bacio» era una ferita orrenda che si credeva potesse essere lasciata solo dalla lascivia di una donna congiuntasi con il Diavolo. Penetrava nel collo, all’attaccatura del cranio, e usciva tra il naso e la bocca sulla mascella, sfigurando il volto. I Bulgari e i Kazari condividevano con i Peceneghi la credenza che fosse in quel modo osceno che le streghe divoravano l’anima della loro vittima, frugando nel suo cranio con la lingua biforcuta. Tutti ne avevano sentito parlare ma nessuno l’aveva mai visto. Fino a quel momento almeno. Mentre giungevano al fondo del sentiero, Lupo voltò il capo indirizzando uno sguardo distratto a una fenditura scura nella roccia a qualche centinaio di passi. Il vecchio eremita, Habras, viveva rintanato in quel buco, ma non sembrava nei paraggi. Di solito al passaggio della gente usciva urlando per spaventare gl’ingenui e indurii a lasciarlo in pace. Strano tipo Habras, forse lui sapeva qualcosa... Si ripromise di andargli a parlare, quando lui stesso si fosse fatto un’idea più precisa. Certo, c’erano due morti. Il prete e Aymar, e per sorprendere quest’ultimo chi aveva agito, strega o assassino che fosse, doveva aver posseduto grande abilità e forza. Lupo conosceva i pozzi di cui gli avevano parlato i contadini. L’acqua era meno limpida di quella della sorgente montana da cui lui stesso attingeva, ma era considerata passabile per uomini e animali. Si trovavano non molto lontano dal villaggio, in una zona desolata, erano larghi e bassi, protetti da muri a secco e, poco distante, qualcuno aveva eretto una baracca di canne perché il viaggiatore potesse trovare riparo quando pioveva. Mentre ormai erano in vista dei pozzi, Lupo si chiese se anche quella circostanza non fosse una prova, una sfida concepita per lui, per punirlo del suo peccato. C’era un filo sottile che forse univa quelle morti e gli eventi che avevano mutato la sua vita... Stizzito, picchiò il bastone con forza tale da far sussultare i suoi accompagnatori che, ignorando ciò che gli passava per la mente, lo guardarono incuriositi. Stava per tranquillizzarli quando qualcosa attirò la sua attenzione. Benché colpito, Lupo decise di proseguire la marcia e non allarmare i villici. A qualche centinaio di passi sulla sua destra, tra la vegetazione che copriva un dosso, c’era qualcuno.
Capitolo 9 Non era facile vederlo, ma Lupo possedeva l’occhio attento del viandante in terre desolate. Nella forma celata tra la ragnatela di luci e ombre del sottobosco, però, non individuò un nemico in agguato. Piuttosto un osservatore curioso. Mentre camminava, colse una sagoma, gli parve di scorgere persino il colore rosso acceso di una capigliatura, il riflesso del sole sulla pelle chiara. Ma poteva trattarsi di un bagliore sulle foglie e sulla roccia. La strega, se pure esisteva, era là. Volgendo rapidamente lo sguardo qualche passo dopo non vide nulla. Il sottobosco sembrava pacifico, indisturbato. La scena che lo aspettava ai pozzi, invece, non aveva nulla di rassicurante. Era evidente che il gruppetto capitanato da Xander e venuto a chiedere il suo aiuto aveva lasciato sul luogo una più folta compagine che cominciò a invocare Dio e a ringraziarlo per aver concesso loro l’aiuto del Magister. Alcuni Lupo li conosceva di vista, altri no, ma era chiaro che tutti loro sapevano dell’uomo solitario che lavorava il metallo e ricopiava codici, dispensando a volte saggi consigli. Si chiese se, invece, non avesse fatto bene in quei mesi a viversene nascosto. Lathe biosas, dicevano i Greci. Vivi nascosto per non attirare l’invidia di dei e uomini ed evitare i guai. Un poco distaccati dal gruppo, vicino alla capanna, individuò due ceffi che si sarebbero potuti definire uomini d’arme. La milizia di Merkos, mercenari con i quali l’eghemon e i notabili del luogo dovevano mantenere l’ordine in nome dell’imperatore e del patriarca. Quelli che non erano riusciti a trovare traccia della strega dopo il primo omicidio e che avevano accolto con malagrazia l’intervento di Aymar. Lupo li osservò: panciuti e male armati, non c’era da stupirsi che non avessero combinato nulla. Uno portava un guanto di metallo senza curarsi della sua manutenzione, l’altro uno spallaccio che, così sistemato in bella vista, pieno di punte e ammaccature, poteva forse incutere timore ai valligiani, ma sarebbe stato inutile in un combattimento. Ricambiarono lo sguardo del Magister senza nascondere il fastidio per il suo arrivo e rimasero a fissarlo mentre attraversava la piccola folla di contadini ai quali Xander stava spiegando quanto fosse stato benevolo ad accettare la loro richiesta. Lupo ne approfittò per volgersi ancora una volta verso il sottobosco. Per un istante gli parve di cogliere un movimento, quindi tornò a concentrarsi sul pozzo. Era evidente che il corpo era stato ritrovato al margine della riserva d’acqua. Forse Aymar aveva seguito il suo consiglio di cercare nei luoghi umidi, o si era fermato solo per abbeverare i cavalli, ma qualcuno lo aveva sorpreso alle spalle. Sulle pietre era sparsa una gran quantità di sangue, ormai secco. Macchie scure sulla roccia e sul terreno. Il corpo era stato spostato, ma Lupo notò subito i segni. Come gli aveva riferito il falegname, erano troppo evidenti per poter essere scambiati per qualcos’altro. Un messaggio, dunque, composto da asticelle di legno e piccoli cerchi di pietre disposti secondo un ordine sconosciuto. Ma il significato non importava, erano un avvertimento. Se prestarvi fede o meno dipendeva da chi lo avesse trovato, tuttavia la morte del cavaliere era di per sé una ragione sufficiente per considerare tutto ciò come una
fonte di pericolo. Lupo si guardò in giro e, per quel poco che permetteva la piccola folla, tentò di farsi un’idea di cosa fosse accaduto. Il pozzo si trovava in una zona di terreno duro e, dopo il tempo trascorso e con tutta la gente che era passata di là, era impossibile distinguere una traccia precisa. « Dove sono finiti i cavalli? » domandò drizzandosi di scatto. « Quando Aymar è passato dal mio rifugio aveva due cavalli. Dove sono? » « Nessuno li ha presi », s’affrettò a dichiarare Xander a nome di tutti. «Non avremmo osato. Sono... scomparsi... forse la strega li ha divorati.. » « Non vedo né sangue né carcasse... » « Sono fuggiti... sicuro. Fuggiti », disse il pastore con il labbro deformato. « Chissà dove sono adesso... » Già, pensò Lupo. Svaniti nel nulla... Probabile che ormai fossero nella pancia di chi li aveva rintracciati per primo. Fissò il pastore con severità. « Come vi chiamate? » « Kristos, Magister... figlio di Yannis e... » « Bene, Kristos: così avete trovato voi il corpo? » domandò seguendo un’intuizione. Nello sguardo dell’uomo passò un lampo di smarrimento. Lupo lo vide calcolare rapidamente cosa gli convenisse dire, poi il pastore assentì. «Sì, Magister. Io medesimo, mentre portavo il mio gregge a pascolare, ma vi giuro che i cavalli non c’erano più e... » Lupo lo interruppe alzando la mano. «Bene, allora mostratemi dove avete deposto il cadavere. » « Per di qua, Magister, nella capanna. » In effetti dal rifugio si diffondeva un fetore che Lupo conosceva bene. L’odore di un corpo ormai in decomposizione. « Chi ha bruciato il prete? » domandò. «Il cavaliere. Non essendoci altro apostolo di Dio, a lui spettava, lui che era un crociato. » E a me toccherà dar fuoco ai resti di Aymar, pensò Lupo. Ancora un passo e si trovò di fronte ai due soldati. Un rapido scambio di occhiate nervose, poi uno dei due gli fece cenno di entrare con un gesto cerimonioso che celava malamente il dileggio. Lupo lo ignorò ed entrò nella capanna riparandosi il viso con un lembo della cappa. « Luce », ordinò avvicinandosi al tavolo dove il corpo giaceva disteso sul ventre. In breve arrivò il falegname con una torcia crepitante che illuminò l’antro. Lupo serrò le labbra e s’impose l’impassibilità. Ricordava il suo maestro, in Oriente. Avevano esaminato molti corpi e ancor di più ne aveva visti lui stesso in Terrasanta. I cadaveri sono tutti uguali. Amici e nemici. Fagotti cui è stato rubato qualcosa, vittime di un’offesa che colpisce qualsiasi altro uomo li osservi. Quello disteso sul tavolaccio era proprio Aymar. La cotta di maglia da poco lucidata, la runica con la croce cucita alla meno peggio. Difficile distinguere i lineamenti perché il corpo andava decomponendosi. Intorno all’orrenda ferita, che aveva deformato il viso quasi sbuzzando il capo dal tronco, si aggiravano nugoli d’insetti. Uno spettacolo da scuotere lo stomaco a chiunque. Forse non era opera del Diavolo ma era pur sempre orribile e, per il momento, al Magister non poteva rivelare di più. Si rivolse al falegname e impartì gli ordini. «
Allestiremo la pira qui dentro. Bruceremo la capanna. Sia fatto immediatamente, questi poveri resti sono rimasti all’aria troppo a lungo. Non toccate nulla. » « Sì, Magister. » Lupo uscì appoggiandosi al bastone. Respirò l’aria aperta ad ampie boccate. Solo allora si accorse che era sopraggiunto un altro gruppetto di persone. Stavano in sella a muli possenti, le cavalcature più adatte a quelle montagne. Un paio erano armigeri del tutto simili ai due che montavano la guardia, Il terzo, quello che scese di sella e si avvicinò al Magister, aveva un aspetto più imponente. Sopra il corpetto di cuoio bollito portava una corta maglia di anelli e sembrava equipaggiato meglio degli altri. Il viso era sfatto dal grasso e dalla sporcizia, ma gli occhi rivelavano, se non intelligenza, almeno furbizia. «Sono Merkos, capo della strateia del villaggio», si presentò con durezza. « A quanto pare voi siete il Magister, quello di cui tutti questi zotici parlano così bene. Vedremo di cosa sarete capace... mi dicono che cercherete la strega. » « Se di una strega si tratta... » « Che intendete dire? » Lupo intercettò lo sguardo implorante di Xander a pochi passi di distanza. «Allora, Magister, ci aiuterete a liberare le nostre terre? » C’era una tale disperazione in quella domanda che, se pure avesse avuto dei dubbi, quelle parole li avrebbero cacciati. E poi come avrebbe potuto lasciare quella povera gente in balia di un nemico invisibile con l’unica difesa di Merkos e dei suoi soldatacci? Tornò a fissare il capo della strateia e lo trapassò con un’occhiata. « Sì, farò ciò che posso. » II mercenario serrò le labbra in una smorfia. «Allora sarà meglio che veniate a conoscere Ivo Drjangic, anche lui è ansioso d’incontrarvi. » Era un ordine più che un invito, ma Lupo non si lasciò intimorire. « A suo tempo. » «Ci vorrà molto qui?» domandò Merkos mentre già il falegname stava dando disposizioni perché si raccogliessero fascine per allestire la pira funebre. « Quello che sarà necessario. » « Lo conoscevate questo gran cavaliere? » A Lupo non piacque il tono di Merkos e lo dimostrò serrando la mano sul bastone mentre gli rispondeva. « Sì, il suo nome era Aymar d’Andry. Abbiamo combattuto in Terrasanta, molto tempo fa. Era un cavaliere d’onore e la sua morte sarà vendicata. » Non disse altro. Si allontanò di qualche passo, desiderava stare da solo fino a quando fosse venuto il momento di dar fuoco alla pira. Lo sguardo frugò ancora nella boscaglia, ma non scorse nulla. La misteriosa figura rimasta a spiarli aveva visto ciò che voleva ed era scomparsa. Forse aveva già scelto quella che sarebbe stata la sua prossima vittima. O forse no.
Capitolo 10 La cenere dispersa nell’aria bruciava la gola. Il verso dei corvi risuonava nelle orecchie di Lupo, che non H trovava sollievo. Incendiare la pira improvvisata gli era costato più di ogni altra cosa negli ultimi anni. Eppure era un compito che spettava a lui, perché era stato un cavaliere e, nonostante tutto, voleva credersi un buon cristiano. E quei villici rimasti senza il giovane prete, in una terra aspra e minacciata da superstizioni, vedevano in lui una guida spirituale, non soltanto colui che avrebbe portato alla luce la verità. L’incarico che, alla cremazione di Gheorghis, probabilmente Aymar aveva accettato con il suo abituale cinismo, gravava come un peso insopportabile su Lupo. A quanti cadaveri di persone amate aveva dato fuoco? Per quanti aveva recitato preghiere con la segreta vergogna di non esserne degno? Eppure là, su quelle montagne ostili, sotto gli sguardi diffidenti dei soldatacci di Merkos, parte dell’antico orgoglio del crociato tornava ad animarlo. Soprattutto avvertiva una responsabilità. Doveva far luce sulla morte del suo antico compagno, per rispetto del passato e di se stesso. Costanza sarebbe stata fiera della sua decisione. Quel pensiero gli strappò un gesto d’irritazione che i contadini scambiarono per la determinazione del guerriero di Dio schierato contro il Diavolo. Nel suo tormento, tuttavia, Lupo si convinceva sempre di più che il Diavolo non c’entrasse nulla. Mentre Xander, Kristos e gli altri preparavano le fascine intorno alla capanna, lui aveva trovato il tempo per copiare su un rotolo di pergamena, con un mozzicone di carbone, alcuni dei misteriosi segni del linguaggio della strega. Voleva confrontarli con quanto scritto nel Canon episcopi, per il momento l’unico strumento che poteva aiutarlo nella sua ricerca. Dubitava che nel vecchio codice carolingio, o meglio nella parte che era sopravvissuta ai secoli, vi fossero indicazioni per leggere quei segni, ma valeva sempre la pena di tentare. La cerimonia della cremazione era durata quasi sino al calare del sole. Le fascine coperte di pece avevano preso subito, avvampando rumorosamente, ma il fuoco aveva impiegato tempo per distruggere la capanna. Lupo non aveva voluto conservare nulla di Aymar: un cavaliere randagio come lui sarebbe morto con le sue armi, il probabile furto di ciò che era rimasto sui suoi cavalli era un’umiliazione sufficiente. E così, a lungo, il fuoco aveva divorato ogni cosa. Senza aggiungere una parola a quanto aveva declamato in latino come ultimo saluto, il Magister aveva fatto cenno agli uomini di essere pronto a mettersi in marcia. « Abbiamo un mulo in più, signore », aveva offerto Merkos con un ghigno canzonatorio. «Volete approfittarne? Sarete stanco... » Lupo aveva serrato le mascelle. «Sono abituato a camminare per giorni», aveva risposto. «Non perdiamo altro tempo. Voglio arrivare a Korekainé prima di notte.» E aveva aperto la via impugnando il bastone con fermezza. Procedere a piedi, a una certa distanza dagli altri, lasciava a Lupo il tempo per riflettere e piangere il compagno morto. Non scorse alcuna traccia della figura femminile che gli era parso d’intravedere nel sottobosco, ma forse, come ogni altra
cosa in quella storia, era frutto dell’immaginazione. L’aria via via più fredda della sera gli fece bene. Prima di ogni cosa gli chiarì le idee su un punto fondamentale: quale che fosse la ragione di quelle morti così orribili, nella sua indagine avrebbe dovuto tenere a mente che solo i villici avevano richiesto il suo aiuto. Gli altri, Merkos e i suoi armigeri e, soprattutto, coloro che nel paese contavano veramente, non lo volevano. La ragione poteva essere la semplice diffidenza verso lo straniero sapiente ma c’era qualcos’altro, di più oscuro. Una minaccia che anche Aymar aveva intuito ma probabilmente sottovalutato. Era possibile che gli sgherri di Merkos lo avessero sorpreso e ucciso inscenando quel macabro ritrovamento? Se si fosse trattato solo del prete, Lupo avrebbe potuto crederlo, ma Aymar... Aymar era un cavaliere, rotto a ogni inganno e tranello, difficile sorprenderlo. E perché poi? Tutto, forse, si riconduceva al viaggio che il religioso aveva intrapreso mesi prima. Cosa lo aveva spinto a partire? E se tutte quelle ipotesi fossero state errate, si tornava alla superstizione, al bacio della strega e agli strani simboli lasciati per incutere timore. Erano domande sulle quali occorreva ragionare con la mente libera da affanni, si disse Lupo. Molto tempo prima, il suo maestro gli aveva insegnato a procedere a quel modo, secondo logica, ed era così che intendeva agire. Per il momento, però, c’erano altri problemi più pratici da affrontare. La marcia per raggiungere Korekainé, consumata in silenzio tra il tintinnare dei finimenti, i colpi di tosse e lo scricchiolare delle pietre, si era protratta a lungo e il sole era scomparso dietro le colline quando ancora mancava un buon tratto per arrivare in vista delle prime capanne. Xander e il falegname avevano fatto accendere alcune torce ma l’andatura era rallentata: il buio stava esercitando la sua suggestione sugli uomini di Merkos. In quanto a lui, era abituato all’oscurità e al silenzio, anzi li preferiva. Alla luce della torcia che il pastore reggeva davanti a lui Lupo intravide il paese. Vi era passato una volta, forse due, molto tempo prima e lo ricordava esattamente come lo vedeva. Un piccolo borgo cresciuto senza un ordine preciso, con un grappolo di case arroccato su una collinetta intorno a un edificio in pietra che pareva una chiesa. Stalle e alcune abitazioni discoste, qualcuna fiancheggiata da piccoli orti, altre radunate intorno a un pozzo. Non si vedevano luci, salvo rare eccezioni. Erano luoghi in cui si viveva secondo l’ordine del Signore, rammentò Lupo, regolandosi con il sorgere e il calare del sole. Aveva visto città e palazzi dove si sfidavano tali usanze, accendendo centinaia di candele. Ma la cera costava e lì di certo si usavano candele di grasso o persino di pacciame di legno che diffondevano troppo fumo e poca luce. Vicino al pozzo, tuttavia, era stato eretto un palo in cima al quale ardeva un fuoco greco che sfavillava come l’occhio di un ciclope. Un’indicazione per alcuni, un segno minaccioso per altri. Nella pozza di luce che calava Lupo riconobbe una casa più grande delle altre accanto a un altro edificio a due piani, in mattoni, con un tetto ben costruito e un aspetto solido, di certo una locanda. Benché si presentasse come un paesello
dimenticato da Dio, Korekainé lottava tenacemente per diventare qualcosa di più, per accrescere la sua ricchezza. Questa sembrava per il momento concentrarsi presso alcuni edifici che, di certo, appartenevano agl’individui più intraprendenti e che, con scaltrezza, sapevano sfruttare uomini e situazioni a loro vantaggio. « Siamo arrivati, Magister », sussurrò Xander. « Qui troverete da dormire e ripararvi, ma », il villico si guardò in giro e abbassò la voce, « siate accorto. Merkos lo avete visto, ma lui prende solo ordini. » Si scostò notando il capo della milizia che, spingendo il suo mulo, si era portato a fianco del Magister. «Bel posto, vero, Korekainé? Scommetto che stavate più comodo nel vostro eremo... » « Chi lo sa? » replicò Lupo. « Prenderò alloggio dove stava il cavaliere. » «Nel letto di un morto? Bene: o siete pazzo o vi fate beffe dei segni del destino... » « Forse nessuna delle due cose, Merkos... in ogni caso conoscevo Aymar abbastanza per sapere che non avrebbe accettato di dormire sulla paglia con i maiali e ciò mi basta. » Di fronte a quella risposta carica di sfida, Merkos assunse un’espressione incerta. Prima che potesse decidere se sentirsi insultato o liquidare la battuta come una stravaganza del Magister una voce lo interruppe. « Per il momento sì, immagino. Ma cosa vorrete per risolvere il mistero della morte del vostro compagno e liberarci dalla strega? » Lupo distinse due figure sulla porta della locanda. Evidentemente era atteso e l’avvertimento di Xander rischiava di trovare subito conferma. Fece un passo verso l’edificio lasciando che uno dei pastori portasse una torcia tra lui e la figura che era scesa lungo i pochi gradini di legno. Era un uomo anziano. Le rughe del volto si confondevano con una barba ben curata che gli ornava la linea della mascella. Niente baffi, all’uso greco della costa, la testa coperta da uno zucchetto di tessuto scuro. Indossava una tunica non elegante ma più decorosa dei vestiti laceri dei villici. Non era un uomo abituato a lavorare nei campi. Lupo poteva immaginarne l’identità. « Ho accettato la richiesta degli abitanti del villaggio quando ho saputo che era morto un cavaliere che, in passato, mi fu amico. Chiedo solo vitto e alloggio... poi si vedrà. Ma prima che risponda ad altre domande vorrei conoscere il vostro nome, signore. » Le parole erano state pronunciate senza tono di minaccia eppure erano risuonate forti, sicure. E l’uomo con la barba non era abituato a vedere di fronte a sé qualcuno che non fosse quantomeno in soggezione. « Sono Ivo Drjangic, eghemon di Korekainé », rispose irritato. « Possiedo molte cose in questo piccolo villaggio e ne controllo altrettante. Tutto ciò che faccio è per il bene della comunità. Non sono stato io a chiedere il vostro intervento né quello del cavaliere, ma poiché gli uomini di Merkos non sono riusciti a... catturare la strega ho accettato le preghiere di chi mi parla di voi come di un uomo saggio. Presentatevi a vostra volta, voi che vi fate chiamare Magister. Poi discuteremo di vitto, alloggio e compenso. » La sfida tra lo straniero e l’uomo che si riteneva signore di quel luogo, per quanto
piccolo e desolato, era lanciata. Di gente simile Lupo ne aveva conosciuta molta. Sapeva come affrontare l’arroganza dei potenti, grandi o piccoli. « Qualcuno ha voluto conferirmi il titolo che dite », rispose fermo, « forse a ragione, forse a torto. Sono Lupo di Pietravecchia. So leggere e far di conto, nella mia vita ho viaggiato e visto uomini potenti e anime semplici in numero sufficiente per sapere che, di fronte a Dio e alla morte, siamo tutti uguali. Perciò vi chiedo: posso contare su un riparo per la notte? »
Capitolo 11 Di fronte a Drjangic Lupo fu certo che, se l’eghemon avesse avuto scelta, non solo non gli avrebbe offerto ospitalità ma l’avrebbe fatto cacciare dai suoi sgherri. La presenza stessa del Magister era un’intrusione nella sua autorità, un piccolo regno che non erano certo le superstizioni e i delitti compiuti tra i boschi a scuotere. Lupo era pronto e Drjangic lo comprese scambiando con lui un lungo sguardo. Lo osservò come si fa con un cavallo da comprare o un nemico troppo forte da poter essere affrontato a viso aperto. « Certo, Magister, lasciate che io stesso vi chiami così. Intuisco che, oltre che uomo d’arme, siete anche un erudito e io, a volte, mi trovo solo tra questa gente ignorante... Non so se riuscirete dove il vostro sventurato predecessore ha fallito, ma di certo avrete un tetto sotto cui ripararvi e... » «Sicuro», esclamò una voce stridula, «a mie spese, nella mia locanda... come quell’altro... a portare sciagura su tutti noi. » Lupo non distolse gli occhi da quelli di Drjangic ma colse il movimento sulla soglia della locanda. La seconda figura era uscita dall’ombra. E certo non per dargli il benvenuto. L’eghemon si limitò a stirare le labbra in una parvenza di sorriso. « E dove altro potrebbe andare, Rada... e poi ha chiesto la stanza del cavaliere. Sei fortunata, nessuno vorrebbe la stanza di un morto. » Lupo lasciò che la figura avvolta in un ampio scialle che nell’oscurità si confondeva con i lunghi capelli neri avanzasse verso di lui. Rada era un nome che parlava delle montagne oltre il confine con il regno di Serbia e di luoghi più distanti ancora, Il viso di una donna feroce, per nulla contenta che le s’imponesse un ospite. Raggiunse i due uomini e protese il viso ossuto verso il forestiero. « Suppongo che vogliate anche mangiare... » « Sarebbe gradito, signora », rispose Lupo con un sorriso. « Credetemi, non vi arrecherò fastidio. » La donna parve colpita dal tono pacato e cortese. Nei suoi occhi scuri vibrava sempre una luce di ostilità, ma si limitò ad assentire. «Non che abbia altra scelta, comunque», sussurrò, scoccando un rapidissimo sguardo a Drjangic. «Venite dentro dunque, la notte è fredda. Ho un bicchiere di vino caldo e una pagnotta. Stanotte non posso darvi altro. » Drjangic parve soddisfatto. Si rivolse alla piccola folla ancora adunata: «Adesso ritiratevi... se avete così paura delle streghe sarà meglio che restiate nelle vostre case. Domani i campi vi aspettano e stanotte potete andare a letto con la certezza che il vostro eghemon pensa a voi. Abbiamo un Magister che veglia sulla nostra sicurezza ». Le ultime parole sembravano di scherno, ma Lupo non vi fece caso. Si voltò appena per indirizzare un’occhiata rassicurante a Xander ma, a causa della semioscurità, non comprese se i paesani avevano capito che stava dalla loro parte. Erano gli unici alleati che aveva a Korekainé, si disse mentre entrava nella locanda. Era chiaro che, chi per un verso, chi per l’altro, tutti nel villaggio obbedivano agli ordini di Drjangic. Rada lo
temeva e sicuramente contadini e pastori dipendevano da lui. Era un posto troppo piccolo per avere un vero e proprio signore e la Chiesa ormai l’aveva abbandonato, ma Drjangic comandava su tutti loro. Un equilibrio difficile in cui il Magister veniva a inserirsi. Lui e la strega. Occorreva procedere con prudenza. Nella grande stanza al pianterreno della locanda c’era un’unica fonte di luce e di calore, un grande camino in pietra che Rada stessa aveva attizzato quando erano entrati. A una prima occhiata la locanda sembrò a Lupo un’abitazione costruita con cura, su più piani, con scale, corridoi e passaggi. Di certo confermava l’idea che Korekainé fosse un punto di passaggio dei mercanti e dei viaggiatori che transitavano nella regione diretti alla costa. Un’istituzione da cui si traeva guadagno, quindi. Lupo aveva frequentato corti bizantine, banchetti di re cristiani di Terrasanta e tende di sceicchi a sufficienza per saper distinguere l’odore del veleno, o almeno era sfuggito alla morte in un numero tale di occasioni da credersi un esperto. Il vino caldo che gli fu offerto sembrava innocuo, anzi alla seconda sorsata gli parve pure di buona qualità, con quel gusto resinato che lasciava una traccia mentre scendeva in gola. Il pane grezzo e la fetta di formaggio erano appena sufficienti a placare la fame suscitata dalla lunga camminata, ma Lupo immaginò che fosse più di quanto i contadini venuti a cercarlo potessero ottenere al ritorno nelle loro casupole. Non era venuto per banchettare. Il riflesso del fuoco giocava con i visi di Drjangic e di Rada seduti al tavolo vicino. L’eghemon bevve a sua volta versando dalla brocca fumante che Rada aveva portato. Sembrò intuire le preoccupazioni del Magister e fece mostra di gradire il vino. Si asciugò le labbra con un fazzoletto di tessuto scuro e sorrise. « Ottimo, vero? Viene da Ragusa », spiegò come se volesse comunicare molto di più di quella semplice verità. « Sono io che provvedo ai rifornimenti di questo villaggio, sapete? » Lupo bevve ancora ma non rispose. Drjangic voleva mettere bene in chiaro che il paese dipendeva da lui. « In realtà, quando sono arrivato qui dalla costa non c’era praticamente nulla. Capanne di pastori, qualche contadino che viveva isolato. Lentamente il paese ha cominciato a formarsi... intorno a me. » « E come mai un mercante ingegnoso e intraprendente ha scelto di portare qui le sue attività? » domandò Lupo senza guardarlo in faccia. Preferiva studiare Rada. L’eghemon gracchiò più che rispondere e versò altro vino. « Perché qui le autorità di Bisanzio non vengono a mettere il naso. Lo vedete anche voi, è una regione desolata, dimenticata... ma non povera, questo no. Quel poco di benessere che se ne ricava è frutto dell’impegno di chi vi lavora... e di chi sa mantenere l’ordine. » Lupo si appoggiò allo schienale della sedia. Il vino e la stanchezza lo facevano scivolare in uno stato di rilassamento che conciliava il sonno. Nel camino il fuoco crepitava mandando strani bagliori sui volti dei suoi ospiti. Rada, da giovane, doveva essere stata una bellezza ammaliante. Ora restava solo un viso dominato dagli zigomi alti che non riuscivano ad affossare sotto le sopracciglia folte gli occhi luminosi, diffidenti. I lunghi capelli appena mossi da un’increspatura
naturale le scendevano ribelli lungo le spalle. Una ciocca grigiastra sul lato sinistro le conferiva un aspetto ancora più enigmatico. Non staccava gli occhi da Lupo, come se volesse scavarne l’anima alla ricerca di un segreto. Le parole di Drjangic, invece, le scivolavano addosso come acqua sulla pietra. Sapeva già quelle cose. L’eghemon ci teneva a far capire che il fulcro della vita laggiù era lui e solo lui. Non avrebbe permesso né a streghe né a cavalieri e tantomeno a eremiti di scalzarlo. Finalmente Lupo lo guardò negli occhi. « E adesso che il prete è morto, siete ancora più isolati», disse, consapevole del rapidissimo sguardo che i suoi ospiti si scambiarono. « Quando manderanno un sostituto? » Drjangic sembrò ignorare l’occhiata della locandiera, liquidandone con un’espressione spavalda l’apprensione. « Quando qualcuno avrà il coraggio di tornare dal vicearcidiacono a raccontargli cosa è capitato. » «Potrebbe essere una buona idea... magari scopriremmo cosa aveva di tanto importante da riferire il decano. » «Dite? Noto che ormai parlate al plurale come se faceste parte di questa comunità... » Il silenzio si protrasse a lungo, rotto solo dallo schiocco di un ceppo che cadeva nel fuoco. « Ma nessuno osa più affrontare i sentieri da solo », riprese Drjangic. «Tutti hanno paura della strega... anche il vostro amico, il cavaliere, è morto, lo avete ben visto. » Lupo protese il braccio, afferrò il bastone appoggiato al tavolo e si alzò. Fu un gesto brusco, improvviso, che fece sobbalzare Rada ma non l’eghemon. Era un altro dei suoi piccoli trucchi per cogliere di sorpresa chi parlava con lui. Così aveva scoperto che Drjangic non si spaventava facilmente e che Rada, al contrario, era tesa come un filo sulla conocchia. « Lo vedremo, sono appena arrivato... domani vorrei guardare tra le cose del prete, chissà che non trovi qualcosa d’interessante. » «Vedo che avete già un’idea», osservò Drjangic, le mani conserte. « Pensate che la strega e la morte del povero Gheorghis abbiano un legame... » Lupo sorrise ma, al riflesso del fuoco, la sua risultò un’espressione quasi minacciosa. «Vorrei capire cosa ha spinto il decano a fare tutta quella strada. E voi non trovate strano che la strega... se pure si tratta di una strega, abbia cominciato a colpire proprio al suo ritorno, come per nascondere qualcosa? » « Dubitate che sia una strega? » scattò Rada. Negli occhi le passò il riflesso delle fiamme e forse qualcos’altro. « Avete visto il marchio e i segni... il Male non ha bisogno di essere evocato per manifestarsi... » « Forse era invidioso della vostra buona fortuna », replicò il Magister, accennando con un gesto della mano alla stanza che li ospitava. La locanda era uno degli edifici più ricchi del paese, era evidente. Provò soddisfazione nel cogliere sgomento sul viso della donna, almeno quella freccia era andata a segno. Drjangic, invece, era rimasto silenzioso, con la mano sul boccale. « Siete un uomo intelligente, Magister. Appena arrivato vi ponete domande alle quali mostrate di aver già trovato una risposta. »
« Questo, mastro Drjangic, non è segno d’intelligenza », replicò Lupo. «Per il momento le risposte, quelle che la mia mente formula a caso, non m’interessano. Preferisco porre domande... » e osservare le reazioni che suscitano, ma questo lo tenne per sé. « E ora è venuto il momento di riposare. Rada, volete indicarmi la mia stanza... o meglio quella che occupava il povero Aymar? » La locandiera si trattenne a fatica dal chiedere il permesso all’eghemon. Anche lei non era padrona in casa sua, nonostante l’iniziale protesta. Drjangic l’aveva detto: lui approvvigionava Korekainé, ne garantiva l’ordine, quindi tutti gli dovevano qualcosa. Mentre Rada andava ad accendere una fumosa candela di grasso per fargli strada, Lupo si accomiatò dal mercante. « Forse verrò a farvi qualche altra domanda, domani... » «Sarete il benvenuto, Magister. Ma ricordatevi che io di streghe e magie non so e non voglio sapere nulla. Il mio mondo sono gli affari. Comunque, prima ci libererete da questo pericolo e prima potremo riprendere la nostra vita normale, meglio sarà per tutti », disse l’eghemon avviandosi alla porta. Solo allora Lupo si accorse che uno dei ceffi che componevano la strateia di Merkos, quello con il guanto rugginoso, aveva aspettato il mercante davanti alla porta e si preparava a scortarlo. Credesse o meno alla strega, Drjangic era un uomo prudente. «Allora? È notte fonda e anch’io sono stanca, volete salire o no? » domandò bruscamente Rada che brandiva la candela come un’arma. Lupo avrebbe voluto rivolgerle altre domande, adesso che era sola, ma pensò che fosse meglio rimandare, ci sarebbero state altre occasioni. Salirono per una scala di legno che cigolava a ogni passo. La candela faceva poca luce ma spandeva un fumo acre e fastidioso.
Capitolo 12 Regno di Serbia Varcare i tre passi che si aprivano la strada come una ferita nel fianco di un orso era stato faticoso. Neve, vento e ghiaccio avevano rallentato la marcia e per un lungo tratto i tre cavalieri della Croce di Ferro erano stati costretti a smontare, tirando i loro destrieri per le redini. Ma né uomini né animali avevano esitato. Scalando la montagna, arrancando sotto la neve, protetti da panni di cuoio imbottito avevano mantenuto l’ordine di marcia chiusi nelle corazze, lo stemma sempre visibile come un marchio a fuoco sulle tuniche e nei loro occhi. Finalmente avevano potuto riprendere il cammino più spediti, affrontando una discesa lungo un ghiaione sino a un sentiero che li aveva portati a galoppare in un tratto di terreno relativamente piatto. Era un luogo desolato, privo di segnali di vita al di fuori di qualche raro passaggio di uccelli al limitare del bosco millenario che saliva sino al punto marcato dalle nevi. Cavalcarono in silenzio per circa un paio d’ore e raggiunsero i resti di quella che era stata una chiesa. Solo lo scheletro del campanile resisteva, il resto della costruzione era ridotto a cumuli di mattoni che parevano essere stati il bersaglio di una catapulta. Il tempo e la natura avevano fatto il resto. Tra gli anfratti cresceva una vegetazione dal colore livido; insinuante, s’arrampicava aggrappandosi a ogni asperità. La pietra si confondeva con le radici creando una scultura inquietante, un essere vivo fatto di materia inerte e vegetale al tempo stesso. Ciò che restava di una croce di pietra ricordava che, molto tempo prima, Dio era passato da quelle lande, ma poi se n’era andato. « Qui », la voce di Tartu sibilò attraverso l’elmo mentre alzava il braccio fermando il cavallo schiumante. I suoi compagni si arrestarono dandosi immediatamente da fare. I tre cavalieri della Croce di Ferro erano veterani. Difficoltà e clima impietoso non li avevano fermati in tante campagne e non lo avrebbero fatto neppure nel corso della missione che il Dominus Verbi aveva affidato loro. Una luce rovente li guidava. Mentre Domash Tartu liberava il viso sudato dall’elmo, uno dei suoi compagni si affrettò a raccogliere legna per il fuoco e a trovare un punto riparato per i giacigli, Il sole era appena tramontato immergendoli in un’atmosfera fosca che presto sarebbe diventata completamente buia. Era circa l’ora in cui Lupo aveva lasciato la pira funebre di Aymar. Tra quelle montagne lupi e altri pericoli aspettavano solo il calare delle tenebre per farsi arditi. Il vento agitava le tuniche bianche dei cavalieri. Il terzo guerriero scese pesantemente dalla sua cavalcatura e radunò gli animali per impastoiarli. Quando ebbe finito levò il casco a sua volta e si avvicinò a Tartu. Questi scrutava le montagne sempre più buie, appoggiato ai resti di un muro. « Non manca molto, una settimana forse », osservò calcolando il cammino con l’occhio di chi è abituato a spostarsi in armi e rapidamente. « Se non si mette a piovere », commentò brusco il suo compagno. Era più alto e più
magro di Tartu e il lungo viso affilato, ornato da una barba nerissima impreziosita da sottili trecce, esprimeva tensione. «Verrà la pioggia... e ci bagnerà. Nient’altro », ribatté Tartu. « Dubiti, Tamask? » Il cavaliere proveniente dalle pianure sarmate stirò le labbra in una smorfia. « No, dubitare non fa parte delle abitudini della nostra regola. Mi chiedo soltanto quanto tempo ancora dovremo aspettare prima di poter svolgere il compito che ci è stato affidato. » Questo Tartu poteva comprenderlo. Ogni giorno di ritardo significava la possibilità di un insuccesso. «Vieni, mangiamo qualcosa e riposiamo. Partiremo al primo sole. »
Capitolo 13 Meteore I galli emisero i loro richiami mattutini in concerto, come a un segnale stabilito. Lupo, abituato a riposare nella solitudine del suo eremo, si destò di soprassalto. Per un istante si rizzò tra le coperte infastidito, quindi ricordò dove si trovava e perché. Non perse tempo a chiedersi se avesse commesso un errore. Ormai aveva scelto e il suo maestro gli aveva insegnato che il modo migliore per non essere tormentati da dubbi pericolosi è non ascoltarli. Si alzò di scatto. Come sempre dormiva nudo. Gettò via la coperta e si guardò in giro. Dagli scuri sgangherati della finestra filtrava la luce dell’alba. S’infilò brache e calzoni e aprì i battenti. L’aria fredda del mattino lo sferzò svegliandolo completamente. Lasciò vagare lo sguardo per Korekainé notando, una volta di più, la totale assenza di uno schema nella sua costruzione. Solo intorno alla locanda e all’abitazione dell’eghemon sembravano essere state erette alcune case di miglior fattura, qualche bottega. Per il resto baracche e capanne sorgevano come funghi, disordinate, tra campi e prati incolti. La nebbia nascondeva le alture e s’insinuava tra i vicoletti ancora coperti di brina. Non sarebbe stato difficile credere alla presenza del Maligno. Cos’aveva indotto il giovane decano a spingersi sino alla costa? Cosa aveva ottenuto? Qualcosa che l’aveva condannato a morte? Lupo era convinto che la ragione di quei decessi così orrendi si trovasse nel perché di quel viaggio ma, per il momento, non aveva molte strade da seguire. La stanza dove aveva alloggiato il suo amico era poco più di una cella da monaco e non vi era rimasto alcunché di quanto era appartenuto al cavaliere. Non che Lupo avesse sperato di trovare appunti o indizi significativi, ma era evidente che tutte le cose di Aymar erano state fatte sparire. Come i cavalli. Bene, avrebbe dovuto seguire un’altra pista. Ma prima aveva bisogno del contatto con l’acqua fredda. Lupo non tralasciava mai di lavarsi, abitudine poco in uso in Occidente ma, come aveva appreso dai suoi viaggi, ritenuta dai medici arabi necessaria a ogni ora del giorno. S’infilò un camicione e lasciò la camera. Nella sala al pianterreno non c’era nessuno. Nel camino le ceneri erano ancora calde. Rada gli aveva ruvidamente spiegato che dietro la locanda, nel campo, c’era una specie di lavatoio. Lupo uscì nella nebbia dirigendovisi a grandi passi. Per tutta la notte aveva udito scricchiolii del legno, in alcuni casi gli era parso di udire passi, voci sommesse, ma poteva trattarsi della sua immaginazione. Dopotutto era abituato alla solitudine e trovarsi dopo tanto tempo in un centro abitato, benché piccolo, aveva irritato i suoi sensi facendogli sentire anche ciò che non esisteva. Raggiunse il lavatoio, però, con la netta sensazione di essere spiato. Occhi dietro finestre socchiuse, un ragazzino che sgusciò via dietro uno steccato quando si voltò. E qualcos’altro. Ostilità, timore e speranza mescolati insieme. Riusciva a coglierli anche se non vedeva nessuno. Udì dei passi, resi pesanti dal fango, che si allontanavano oltre un angolo, ma non poté rendersi conto di chi si trattava. Korekainé aveva i suoi segreti, i suoi equilibri e
lui, come Aymar, era venuto a turbarli. Gli venne in mente che forse anche il decano rurale aveva infranto quell’equilibrio. Doveva essere arrivato da poco in paese, ma chi c’era stato prima di lui? Decise che, quella mattina, per prima cosa avrebbe visitato l’alloggio del prete. Là forse poteva trovare delle tracce. Oppure, come aveva detto, porre domande che, anche senza risposta, gli avrebbero rivelato qualcosa. Si levò il camicione restando con i muscoli segnati dalle cicatrici esposti alla vista di chi lo spiava. Aveva ancora il corpo di un guerriero. Bene. Che guardassero i muscoli e i segni delle battaglie, mentre lui usava un’arma più sottile e affilata per trovare l’assassino del suo amico. Una strega? Immerse il torso nell’acqua gelata e ne ricevette una scossa vivificante. No, né i suoi demoni né quelli della fantasia dei contadini l’avrebbero ingannato. A Korekainé si celava un mistero e quelle morti, per quanto orrende e inspiegabili, dovevano avere le stesse ragioni di tutte quelle che aveva visto. Avidità, rancore, paura.
Capitolo 14 Di ritorno dal lavatoio Lupo si rese conto immediatamente di alcune cose. Considerato il relativo isolamento di Korekainé, la locanda era attrezzata per gestire un notevole traffico, soprattutto di mercanti sulla via della costa. Sebbene al momento solo la sua e altre due stanze fossero occupate, durante il giorno, nella sala principale, c’era un grande affollamento di gente che veniva a consumare una zuppa calda o a bere un bicchiere di vino resinato. Un po’ per rifocillarsi lungo la strada dei campi o delle botteghe prima di una giornata di fatiche, un po’ perché quello era uno dei centri di ritrovo del luogo e, Lupo ne era sicuro, a una certa ora era anche possibile trovare compagnia femminile a poco prezzo, almeno a giudicare dal tavolaccio al quale erano sedute diverse donne dai visi provati, ancora lontane dal momento in cui avrebbero preso servizio. Meretrici che esercitavano in una casupola dietro la locanda. Tutto questo gire d’affari probabilmente andava a rimpinguare le casse di Drjangic e ciò confermava l’impressione che tutto il paese fosse soggetto, per un verso o per l’altro, alla sua autorità. Lupo salì nella sua camera, indossò la tunica pesante, prese il bastone e la sacca dov’era custodito il Canon episcopi. Scese poi nella sala principale dove il camino era stato già riattizzato e il calore era gradevole. Si sedette a un tavolo libero e isolato e si guardò in giro. Vide quattro uomini che l’abbigliamento e il modo di parlare identificavano come stranieri. Mercanti di passaggio che si rimpinzavano in previsione di una lunga marcia. C’erano poi tre soldatacci di Merkos, che finsero di non notarlo ma, tra un rutto e una sorsata, gl’indirizzarono sguardi poco amichevoli. Il Magister notò alcuni artigiani, tra i quali riconobbe il falegname. Seduto in un angolo distante, consumava una minestra a grandi cucchiaiate, di fretta, come se la sosta fosse una tappa obbligata ma che non intendeva protrarre più del necessario. Quasi per caso incrociò lo sguardo del Magister e assentì. Gli occhi parvero indicargli qualcosa, all’esterno. Lupo si massaggiò il mento annuendo. Aveva capito. Il falegname voleva parlargli ed era venuto alla locanda solo per avere l’opportunità d’incontrarlo casualmente. «Avete sognato demoni e streghe?» chiese bruscamente Rada, posando una ciotola di latte caldo e un pezzo di pane di fronte al suo ospite forzato. Con la luce del giorno la sua bellezza non del tutto sfiorita ma segnata da una vita aspra diventava più evidente. Come del resto altre cose. « No, ho riposato tranquillamente », rispose Lupo. Non era del tutto vero, ma questi erano affari suoi. Fissò la locandiera con durezza. « E voi? Perché avete paura? Di cosa avete paura?» Rada si guardò intorno senza muovere il capo, quindi si protese verso di lui, aggressiva. « E quale indizio, nella vostra infinita sapienza, vi suggerisce una cosa del genere? Qui sono in casa mia, non temo nessuno. » Lupo sorrise, portò alle labbra la ciotola di latte, bevve una sorsata e disse: « Allora siete abituata a sobbalzare a ogni fruscio, Rada... e questo parlare di demoni e streghe... se siete così sicura della vostra casa, dovreste sentirvi tranquilla. »
La donna non batté ciglio. « II vostro amico è morto. Il prete è stato ucciso... la strega c’è. » Le parole uscivano secche come colpi di sasso contro un muro. « II Male, se lo s’invoca, presto arriva. State attento. » « Si direbbe che ne sappiate qualcosa. » Rada impallidì. Un istante solo, perché in seguito tornò a infiammarsi. « Fate ciò per cui siete venuto, Magister, cacciate la strega e datele fuoco. Poi andatevene. Non è posto per voi, questo. » Senza dargli possibilità di replica si voltò e si allontanò verso un altro tavolo dov’era richiesta la sua attenzione. Aveva a servizio tre o quattro ragazze prese dai campi, tra le quali spiccava una bimbetta dallo sguardo più sveglio delle altre. Irritata, la locandiera sollecitò tutte perché gli ordini fossero smaltiti in fretta. Era ovvio che incuteva timore alle sue sottoposte. Korekainé era, come tutti i paesi, un luogo dove ogni cosa funzionava in base a una catena di potere formata da anelli deboli e forti. In cima stava Drjangic, ma di certo Rada occupava una posizione di rilievo. Lupo terminò la colazione sbocconcellando il pane e immergendolo nel latte. Si accorse che i tre armati seguivano Rada con lo sguardo. Il falegname era scomparso. Aspettò di aver terminato, poi raccolse il bastone e uscì. Non poté fare a meno di notare che l’ostilità degli uomini di Merkos si mescolava con la diffidenza degli altri avventori. Non aveva molti alleati a Korekainé. La sensazione di essere accompagnato da sguardi timorosi lo seguì all’esterno. La nebbia si stava alzando scacciata da un sole pallido e l’aria del paese gli portava odori forti, che venivano a sovrapporsi a quelli ai quali aveva fatto l’abitudine nel suo eremo. Era la vita vera, piena di sgradevolezze e insidie. Un mondo da cui era fuggito. Ma adesso che c’era tornato non aveva intenzione di lasciarlo finché non si fosse fatto un’idea precisa di quel che stava accadendo a Korekainé. Perché, di qualunque cosa si trattasse, non si era esaurita con la morte delle prime due vittime, e un’intuizione gli suggeriva che presto sarebbe strisciata anche per le viuzze del borgo. Come aveva immaginato il falegname si era appostato all’angolo tra due baracche, in attesa. Bastò uno scambio di sguardi per intendersi. « Spero vi siate riscaldato », disse il Magister avvicinandosi. L’altro si strinse nelle spalle. Indossava una lurida giubba tagliata rozzamente e, sul viso, i peli erano così ispidi e mal curati da sembrare la saggina di una scopa. «Perdonate, Magister, ma volevo parlarvi. » «Questo l’avevo capito. Ditemi, prima di tutto, come vi chiamate e da quanto vivete qui. » L’altro sembrò colpito dal modo diretto in cui veniva interrogato. «Sono Vargo... ho esercitato il mestiere che mi ha insegnato mio padre e mio nonno prima di lui. Sono qui da... » si grattò la barba rumorosamente, « penso sei, sette mesi. Ho moglie e due figli... prima vivevamo in un altro villaggio più a valle, ma c’erano già troppi artigiani. Poi mi hanno parlato di questo posto... nuovo, dove potevano esserci opportunità di guadagno e, così mi sono spostato. » « Dalla vostra espressione direi che siete pentito. » Vargo si guardò in giro. «Pentito no... ma... sì, è vero, Korekainé è un villaggio giovane, piccolo e con buone prospettive. Non so se l’avete notato, ma si trova sul
crocevia di diverse strade e spesso passano mercanti che, dalla costa, s’inoltrano nel territorio. Se solo le autorità si accorgono che è un buon punto per fermarsi e scambiare merci manderanno qualcuno a interessarsi di più di quello che succede. E sarà un bene per tutti. » Lupo preferì lasciarlo parlare: era evidente che Vargo aveva qualcosa da dire e non vedeva l’ora. « Per il momento tutto quello che hanno fatto è stato nominare quel giovane decano... un anno fa... ma qui... be’, lo avete ben visto, voi che siete un uomo intelligente. Qui ogni scambio, ogni commercio porta soldi nelle tasche di Ivo Drjangic... tutti dobbiamo pagare una specie di decima. » «Altrimenti, immagino che se ne occupi la strafela...» azzardò Lupo. Vargo serrò le mascelle e assentì. «Ecco... avete compreso. Soldataglia, banditi di strada, questo sono. E l’unica volta che avrebbero potuto rendersi utili... non sono stati capaci di catturare quella maledetta strega... » Lupo sorrise. Non c’era da meravigliarsi. Se la strega era la figura che aveva appena intravisto la sera prima aggirarsi tra la boscaglia, gli uomini di Merkos non avrebbero certo potuto rintracciarla. « Questo conferma la mia impressione, tuttavia non chiarisce il mistero di questi delitti. Dunque anche voi, come Drjangic, siete dell’idea che la presenza della strega danneggi il paese, che la gente abbia paura... » «Sì, naturalmente... chi si azzarda più? Gli stessi pastori hanno timore ad andare in giro e vedrete che, tra poco, anche i mercanti che si spostano su queste strade cominceranno a evitarci... Una maledizione... » « Le maledizioni di solito hanno un’origine. Avete qualche idea in proposito? » Lo sguardo del falegname si fece vacuo. Scosse il capo. Poi s’avvide che i soldati erano usciti dalla locanda e si affrettò a prendere commiato. «Non so nulla. Sono qui da poco. Ma state in guardia, Magisteri » Non era il primo che lo avvertiva ma, per sua natura, Lupo era incline ad accettare le sfide. Non fece nulla per trattenere Vargo ma rimase al suo posto; si assicurò che gli uomini di Merkos lo vedessero bene, quindi si avviò verso la chiesa. Era un edificio in mattoni e non sembrava molto antico. Qualche anno però, a giudicare dallo stato delle mura, ce l’aveva. Lupo si era già fatto un’idea sulla situazione creatasi nel villaggio; adesso voleva scoprire le ragioni dell’improvviso viaggio del decano.
Capitolo 15 Il portone di legno massiccio era inchiavardato come quello di una fortezza. Lupo provò a scuoterlo, picchiò anche contro il battente nodoso e annerito ma senza alcun risultato. La casa di Dio era chiusa. Alla partenza per il suo misterioso viaggio il decano rurale aveva pensato di proteggere i pochi beni della sua chiesa dall’avidità dei ladri, lasciando le anime senza neppure un luogo dove riunirsi a pregare. Con un sospiro Lupo si scostò dall’edificio e fissò i muri scuri quasi con astio. « Volete entrare, Magister? » chiese una voce alle sue spalle. Si voltò trovandosi di fronte una donna di età indefinibile, con il viso privato di ogni avvenenza dalla vita all’aria aperta, ma lo sguardo limpido. Indossava un abito di tessuto grezzo, incolore, e un grembiule. Dalla sua espressione Lupo comprese che quella donna doveva aver pregato anche in assenza del giovane prete e ciò, in qualche modo, lo confortò. « Sì, vorrei dare un’occhiata tra le cose di padre Gheorghis, ma... » La donna sorrise. « Mi chiamo Elena », si presentò, « e vendo frutta in quella baracca all’angolo. Sarò lieta di regalarvi di che ricavare un pasto. Sono felice che abbiate accettato l’incarico. In questo posto ognuno bada ai suoi affari e nessuno pensa alla casa di Dio... » « In effetti », domandò Lupo indicando il battente serrato, « dove vi ritrovate a pregare? » « Chi lo fa col cuore non ha bisogno di un luogo specifico », rispose secca lei, « ma la guida del decano ci sarebbe stata utile. In questo momento nessuno ha preso le sue funzioni e forse... » « No », rispose deciso Lupo. « Sono molte cose, ma non un prete. Non aspettatevi da me ciò che non posso darvi. Ma se volete che liberi questa zona dalle ombre che vi si addensano, farò del mio meglio. » Elena sembrò riflettere su quelle parole, poi fece spallucce e riprese: « Allora venite, forse riusciremo a entrare nell’abitazione di padre Gheorghis, qui dietro. Ma sarà chiusa anche quella... » Seguendo la donna Lupo svoltò un angolo accorgendosi che alla chiesetta era stata annessa più di recente una bassa costruzione di mattoni con un tetto di paglia. Si trattava dell’abitazione del prete ed era provvista anche di un rudimentale camino. Non sembrava essere stata realizzata con grande perizia, anzi, suggeriva un’impressione di scarsa stabilità: una di quelle casupole che una forte tempesta di vento e pioggia può scoperchiare. Quando giunsero alla porticina, Elena e il Magister ebbero una sorpresa. « II battente... » balbettò la donna. Lupo si avvicinò appoggiando la mano alla porta di legno che si aprì scricchiolando. « È stato forzato », disse chinandosi per esaminare il chiavistello che si presentava tutt’altro che solido. « Qualcuno è passato per di qua e nessuno se ne è accorto. » La donna lo fissava, indecifrabile. «A nessuno interessa», disse guardando nel
vuoto. «A qualcuno sì», ribatté il Magister. «Bene, visto che la porta è aperta, meglio così... ma ditemi, ho sentito che il giovane decano era stato assegnato qui da circa un anno... chi occupava il suo posto prima? Chi officiava in questa chiesa? » La donna sporse il labbro inferiore assumendo un’espressione ottusa. « Non lo so... mi sono trasferita qui da circa otto mesi, con i miei figli... prima vivevamo più a valle, ma mio marito si è ammalato di febbri l’anno scorso e ha smesso di coltivare la terra. Qui compro la mia frutta dai contadini, devo versare solo una piccola provvigione a Drjangic per poter esercitare la mia attività, ma ne ricavo di che vivere... non so altro. » Lupo era contrariato. Ovunque cercasse, si trovava davanti a un muro: tutti sembravano essere arrivati a Korekainé da poco e ignoravano ciò che era successo prima. L’unico fatto chiaro a ognuno era che, per poter sopravvivere nel villaggio, si pagava una provvigione a Drjangic, cosa che lui stesso non aveva nascosto. Prima o poi avrebbe dovuto parlargli seriamente. Per il momento aveva un altro obiettivo. Cercò di rassicurare la donna con un sorriso. « Vi ringrazio, ma ora vorrei dare un’occhiata dentro. Poi devo andare dove hanno ritrovato il cadavere. Verrò da voi per quella frutta, ma insisto per pagarla. Preparatemi di che sfamarmi per la giornata, credo che oggi camminerò a lungo. » Senza aspettare risposta aprì completamente il battente ed entrò. Voleva eseguire da solo la sua perquisizione. Aprendo gli scuri di legno vide la donna che si allontanava. Nessun’altra anima in giro. Qualcuno era venuto a frugare tra le cose di Gheorghis, era evidente. La sua misera cella era a soqquadro, persino il pagliericcio dove dormiva era stato ribaltato senza che l’intruso si fosse curato di rimettere le cose in ordine. Come se sapesse che il prete non avrebbe più potuto protestare.... L’intrusione doveva essere avvenuta dopo la sua morte. Magari di notte, per non attirare l’attenzione, ma dopo la sua morte. Poteva essere stato Aymar? No, si rispose da solo il Magister, il suo amico era un tipo deciso: avrebbe piuttosto abbattuto il portale della chiesa... Chissà perché non lo aveva fatto? L’ispezione durò poco. Non c’era nulla al di fuori di una Bibbia in greco e un paio di altri testi canonici che Lupo sfogliò senza trovare niente d’interessante. Più soddisfazione gli diede l’osservazione dell’opera dell’intruso. Ricerche frenetiche che, a quanto pareva, non avevano portato a nulla. Attraverso una porticina si accedeva alla chiesa. Nel buio rischiarato solo da un pallido riflesso Lupo entrò in un ambiente freddo e inospitale. La chiesa gli parve fredda, ostile, un luogo abbandonato dove non ci si curava più delle anime. Lo specchio di quel paese. Accese una candela per fare un po’ di luce. Strano. L’intruso aveva lasciato tutto al suo posto. Il tabernacolo e la croce di metallo sull’altare che, se pure non era preziosa, avrebbe potuto fruttare qualcosa, erano stati lasciati intatti. Coperti di polvere, per la verità. La persona che s’era infilata là dentro aveva cercato qualcosa nella stanza del prete, non in chiesa. Documenti, oggetti, tracce che rivelassero ciò che aveva spinto Gheorghis a lasciare
il suo posto per chiedere consiglio. Un vecchio segreto forse. Ma quale rapporto c’era con la strega? Si sforzò di rendere un po’ di decoro all’alloggio messo a soqquadro. Nel compiere quei gesti cercò a sua volta senza sapere bene cosa, ma nulla attirò la sua attenzione. Forse il segreto di Gheorghis era scomparso con lui. E allora perché uccidere anche Aymar? Uscì dalla chiesa accostando la porta della cella. Passandovi accanto distrattamente non si notava che era stata forzata. Un lavoro abile. Ragionando su quei deboli indizi, il Magister si avviò verso la tappa successiva: le stalle dove sicuramente Aymar aveva lasciato i suoi cavalli per il tempo in cui era rimasto in paese. Forse là avrebbe potuto raccogliere qualche altra notizia: gli stallieri sono gente loquace, a volte. Le stalle avevano il medesimo odore da Gerusalemme a Payns. Lupo ricordava che da ragazzo, nella tenuta di famiglia, aveva accudito i cavalli. Conservava dentro di sé suoni e odori, il soffiare nervoso degli animali, il battito degli zoccoli sulla paglia. Erano sensazioni rassicuranti, dopotutto. Ricordi di una vita passata, sbiadita nella memoria e perciò rimpianta. L’edificio riservato alla cura degli animali era lungo. Dall’aspetto pareva ben curato ed era evidente che sia gli uomini di Merkos che gli occasionali viandanti potevano lasciarvi muli e cavalli certi che sarebbero stati ben accuditi. Aymar doveva aver apprezzato tale sistemazione. Il Magister si avvicinò prendendo la via più lunga e facilmente riconoscibile perché la sua visita non sembrasse l’esplorazione di un ficcanaso. Si fermò di fronte all’edificio e osservò due soldati della milizia che ne uscivano tirandosi dietro muli dai garretti possenti. I due finsero di non notarlo, ma era evidente il contrario. Lupo colse alcune parole a mezza voce mentre si allontanavano. Espressioni confuse ma di certo non amichevoli: difficile dire se li infastidisse di più la presenza dello straniero o quella della strega. Poco dopo emersero dalle stalle i mercanti che aveva intravisto alla locanda. Carichi di materiale e ben coperti, avevano evidentemente fretta di allontanarsi. Lupo li salutò ricevendone una risposta cordiale. Azzardò allora qualche domanda più specifica e scoprì che erano diretti sulla costa e che, saltuariamente, passavano da quelle lande. « Certo, Korekainé è un ottimo punto di ristoro. Sulla strada ci sono ben pochi ripari e tutti maledettamente freddi», disse quello che sembrava il capo del gruppo, un omaccione con l’orecchino e la barba riccia. « Ma ormai dovremo scegliere un’altra via. » « E perché? » L’uomo sembrò stupito. « Non lo sapete? C’è una strega da queste parti... un fatto inaudito. Ha ucciso due uomini, tra cui un povero prete... » « Inaudito? » ripeté il Magister. Il mercante montò in sella al suo mulo. « Sì, non è molto che faccio questo lavoro. Un paio d’anni, non di più. Ho visto crescere questo villaggio, proprio grazie al passaggio di noi viaggiatori. Ma adesso, se le strade non sono più sicure... » diede di
sprone e partì ad andatura sostenuta, seguito immediatamente dai compagni, come se il Diavolo stesso fosse sulle loro tracce. L’attenzione del Magister si spostò, allora, sull’uomo che li aveva accompagnati all’uscita delle stalle. Era magro a tal punto che le giunture spiccavano come nodi nel legno sotto la camicia verde scuro. IL viso allungato ricordava quello di un topo campagnolo o di una donnola, la pelle era segnata da qualche malattia contratta in gioventù. Non appena s’avvide del Magister si affrettò a sorridere, accennando a una specie d’inchino. Se c’era qualcosa di derisorio nel suo modo di agire, era ben celato da una cortesia che si sforzava di apparire sincera. «Voi dovete essere l’uomo che ci libererà dalla strega... quello che i contadini chiamano il Magister... » «Lupo di Pietravecchia», replicò lui avvicinandoglisi in modo da poterlo guardare negli occhi, sempre un buon metodo per giudicare una persona. Nonostante tutta quella benevolenza esibita, l’uomo non gli ispirava simpatia. « Sono Lajos, insieme a mio fratello Zarko accudisco i cavalli e procuro muli a tutti coloro che ne hanno necessità. Ma voi non cavalcate, mi dicono... » Le voci giravano in fretta. Non c’era dubbio che i due stallieri fossero legati a Drjangic, la loro sembrava l’impresa più florida del paese. «Non più, ma di animali me ne intendo. A quanto vedo qui le cavalcature sono ben curate e me ne compiaccio. Detesto chi maltratta gli animali. » II sorriso di Lajos si allargò ancor di più mentre chinava il capo da un lato con un’espressione adulatoria. «Oh, si vede che ve ne intendete, Magister... e sono d’accordo con voi, chi si comporta male con gli animali è un vigliacco e anche con gli uomini non potrà far di meglio. » «II cavaliere ci ha onorato affidandoci i suoi destrieri», disse una voce dall’interno della stalla. Un istante dopo emerse Zarko che, al contrario del fratello, esibiva una pancia che tendeva la camicia sopra le brache. Aveva il volto rubizzo e i capelli ricci di un colore rossastro. « Siate il benvenuto anche voi... non ci avete per caso ripensato? Desiderate un cavallo, o un mulo forse, più adatto per gli spostamenti tra queste montagne? » « Mi fido delle mie gambe », replicò il Magister, « ma vorrei notizie sugli animali del mio sfortunato amico, il cavaliere Aymar... » Un silenzio prolungato scandito dai rumori del villaggio. I due fratelli si guardarono, poi fu Zarko a parlare, stringendosi nelle spalle. « C’è poco da dire. Erano due splendidi esemplari, dovete averli visti anche voi. Uno stallone da battaglia e un animale da tiro, adatto a trasportare carichi pesanti per lunghe tratte. Animali degni di un grande cavaliere, per quanto... forse il vostro amico aveva subito qualche rovescio di fortuna. » « Dite? » « Be’, sì, in effetti noi ce ne intendiamo », Zarko posò una mano sulla spalla del fratello strappandogli un sorriso. «I suoi cavalli erano di pregio ma entrambi in età avanzata e non accuditi con la dovuta cura. Uno aveva un ferro ritorto e l’altro era tormentato da grosse zecche. »
«Suppongo che per un giusto prezzo abbiate provveduto... » «... Per un giusto prezzo, naturalmente », confermò Lajos, ma il fratello gli diede di gomito come per farlo tacere. « Come nuovi », disse con un sorriso pacioso, « a parte l’età. Per il periodo in cui il cavaliere si è fermato al villaggio i suoi animali sono stati trattati come quelli di un re. » Lupo sorrise appena guardandosi in giro. In quella regione, di come venivano accuditi gli animali di un re dovevano avere solo un’idea vaga. « E quanto si è trattenuto in città? » chiese calcando la voce sull’ultima parola. Zarko, che pareva il più sveglio dei due, colse l’ironia dell’allusione e sorrise a sua volta. «Una settimana, forse dieci giorni. Poi, una mattina, è venuto qui e ha pagato. Ha preso i due animali, vi ha caricato sopra le sue armi e i viveri ed è partito. » «Così... se n’è andato portandosi via entrambi i cavalli?» Zarko assentì con vigore. « Certo, venite voi stesso a controllare, vi mostrerò dove li tenevamo. » Lupo seguì i due fratelli con la fastidiosa impressione di trovarsi appiccicate addosso due mosche. Come aveva immaginato, l’ambiente era decoroso e i posti riservati ai cavalli di Aymar apparivano ripuliti di fresco, persino la paglia era stata sostituita. Nulla da scoprire, là dentro. « E vi ha detto dove sarebbe andato? » domandò il Magister, nascondendo la delusione per quella pista senza risultati. « Sicuramente sui monti a caccia della strega... chi poteva fermarla se non un uomo così coraggioso? Oh, scusate, certo voi farete di meglio... » II Magister era irritato. Così, Aymar aveva terminato le sue ricerche al villaggio e aveva deciso di proseguirle tra le valli intorno alle Meteore. I segreti di Korekainé erano serrati in un pugno di falsità che non gli sarebbe stato facile far schiudere. « Vedremo... e vi ha pagato quanto vi doveva? » Lajos assentì. «Sì, sì certo... per la verità erano denari di mastro Drjangic, parte del suo compenso, e una fetta di quanto abbiamo ricevuto l’abbiamo quindi passata al nostro eghemon. Se non fosse per lui non faremmo affari. Lui ci procura il contatto con i contadini che mietono il fieno e ci segnala ai viaggiatori che hanno bisogno di assistenza. » « Scommetto che badate anche ai cavalli della milizia. » «Quello è un servizio che offriamo senza ricompensa... tutti vogliono essere sicuri a Korekainé », spiegò Zarko. Il cerchio si chiudeva. Lupo fece per uscire. « Ma adesso c’è la strega e Merkos non sembra in grado di catturarla... un problema per tutti. » «Un problema che risolveremo in fretta, anche senza di voi o di altri cavalieri », tuonò una voce da un angolo buio. Merkos in persona era arrivato ed era evidente che gli ultimi scambi di battute non gli erano piaciuti. Era uno di quegli uomini che suggerivano a Lupo l’irresistibile tentazione di provocarli. Decise però che fosse più prudente non farlo. «Vedremo... intanto vi ringrazio, signori. Oggi ho appreso cose interessanti su questo luogo e credo che Aymar avesse ragione a cercare la strega fuori del villaggio.
» «Perché, pensavate di trovarla qui?» si lasciò sfuggire Zarko con un’espressione celata dalla semioscurità. « Chi lo sa? » replicò sibillino il Magister. Nuovamente il suo atteggiamento irritò Merkos, che sì mosse esagerando i movimenti e con un gran sferragliare d’armi. «Volete andare a caccia del Maligno? Bene, l’eghemon mi ha ordinato di fornirvi l’aiuto necessario... se volete una scorta verrò io stesso e se avete ripensato a quel mulo... » Lupo uscì alzando una mano. «No, niente cavalcature o scorte. Voglio vedere il luogo dove è stato trovato il prete. Non sarà difficile individuarlo. » «No, no, Magister», fece accomodante Lajos, indicando un punto oltre una collina. « Proseguite in quella direzione per mezza giornata. Troverete un torrente. È là che lo hanno rinvenuto... ma non credo sia rimasto nulla al di fuori di quei maledetti segni... » Proprio quelli voleva vedere Lupo, ma non disse nulla. Salutò tutti e si allontanò per raggiungere la baracca di Elena. Voleva controllare alcune cose e, soprattutto, stare un po’ da solo a ragionare. Per i suoi gusti era stato sin troppo in mezzo alla gente dal giorno prima. Camminare un po’ in silenzio gli avrebbe liberato la testa.
Capitolo 16 Eccoli. Nessuno aveva osato toccarli, solo il maltempo ne aveva parzialmente mutato la posizione. I segni della stregoneria costellavano ancora la scena del primo delitto. Lupo si chinò vicino al torrente per vedere meglio. Aveva avuto tempo di riflettere durante la marcia che aveva occupato buona parte del giorno, un cammino tra pendici scoscese fiancheggiate da boschi scuri. Appena uscito da Korekainé aveva potuto rendersi conto che, nonostante tutto, i contadini stavano mettendo a frutto gli orti, anche se con tecniche rudimentali, spesso arandoli senza l’aiuto di alcun animale ma con costanza. Poco oltre aveva visto i pascoli, qualche baracca desolata. All’orizzonte aveva scorto le greggi di capre e pecore. Uno dei pastori doveva averlo riconosciuto perché gli aveva rivolto un cenno con il braccio. Probabilmente si era trattato di Kristos, l’uomo con il labbro deformato. Aveva avuto la tentazione di avvicinarlo e chiedergli cosa ne fosse stato dei cavalli di Aymar, ma il pastore aveva già giurato di non saperne nulla e se anche se li era presi per macellarli non era il caso di farsi un altro nemico. Eppure, tra le cose del cavaliere, poteva esserci un indizio importante. Riprendendo il viaggio aveva deciso che ci sarebbe stato tempo per seguire quella pista. In quel momento Lupo aveva avvertito soltanto il desiderio di ritrovare il punto dove si era consumata la prima tragedia. Non aveva dovuto affrontare troppe difficoltà per rintracciare il luogo ma il cammino, anche per chi come lui era abituato a spostarsi a piedi, si era dimostrato lungo e lo aveva costretto a diverse fermate. Durante una di queste aveva consumato due frutti e un po’ del formaggio che Elena gli aveva preparato. Seduto su un tronco, Lupo l’aveva sbocconcellato, approfittando della sosta per consultare il Canon episcopi sulle streghe. E adesso, di fronte ai segni tracciati sulla roccia, incisi nella corteccia di un tronco e sul terreno con pietre aguzze, poteva ricavarne qualcosa. Già ai tempi in cui era stato composto il Canon, l’epoca di Carlo Magno, re dei Franchi, la credenza nelle streghe e nella possibilità che uomini o donne potessero ottenere poteri straordinari stringendo patti con il Diavolo era fortemente radicata nella popolazione delle campagne. Il Magister sapeva - dolorosamente - che tale convinzione era diffusa anche tra i popoli cristiani e che molti non consideravano le vecchie pratiche manifestazione di un Male assoluto. Pozioni, sortilegi, rimedi di erbe, benedizioni ricavate dall’adorazione di vecchi alberi sarebbero stati ancora difficili da sradicare. H popolo faceva differenza tra tali pratiche e la stregoneria che consisteva nel gettare vere e proprie « fatture » di morte e malattie grazie a unioni sacrileghe con demoni. Ma la Chiesa non ammetteva distinzioni. Chiunque si allontanasse dalla dottrina com’era stata divulgata a Roma, e anche a Bisanzio, commetteva peccato mortale. Alcuni vescovi avevano combattuto tali credenze andando a cercarle dove si nascondevano, più spesso dove non c’erano affatto. Altri avevano tentato di studiarle, ma non essendoci testi scritti tutto il sapere raccolto si basava su racconti. Non c’era una ragione precisa per cui le streghe dovessero frequentare i luoghi umidi, veniva dato per scontato. E ciò, per il Magister, era privo di senso. Ogni cosa deve avere una
ragione, aveva detto il suo maestro, ed era una regola cui cercava di attenersi. La stessa mancanza di chiarezza in materia rendeva difficile capire il senso dei misteriosi simboli che erano attribuiti alle streghe dai tempi carolingi. Era una lingua perduta. Tuttavia, comparando gli schizzi che aveva tracciato vicino al punto in cui era stato ucciso Aymar con quelli rinvenuti presso il torrente dove avevano ritrovato Gheorghis e quel poco che era riportato sul codice, il Magister riuscì a trarre una conclusione. Chiunque avesse lasciato quei segni conosceva superficialmente il linguaggio della stregoneria. A sufficienza per riprodurre i più comuni che identificavano la minaccia ma non significavano null’altro. Forse se avesse avuto a disposizione un testo più completo avrebbe potuto trame maggiori indicazioni, ma già un’idea cominciava a farsi strada nella sua mente. Gheorghis era stato ucciso perché aveva scoperto qualcosa appartenente al passato. Qualcosa che il suo assassino probabilmente aveva sottratto lasciando poi impronte e segnali al solo scopo di diffondere l’idea spaventosa della presenza di una strega nella regione. E l’omicidio di Aymar aveva rafforzato tale timore che ormai serpeggiava in tutta la zona. Il famoso «bacio» poteva non essere la ferita lasciata dal morso demoniaco e dalla lingua blasfema di una meretrice del Diavolo. In merito, Lupo aveva una sua idea. Richiuse il volume e la pergamena dove aveva ricopiato i segni che aveva trovato sul luogo del delitto. No, una vera strega avrebbe lasciato un messaggio preciso. Invece Lupo aveva l’impressione che si trattasse di una messinscena... Si guardò in giro cogliendo il sibilo del vento tra le rocce. Nulla. Eppure... sì, anche in quel momento si sentiva spiato. La misteriosa figura che credeva di aver scorto il giorno in cui aveva esaminato il corpo di Aymar? O qualcun altro? Compì qualche passo avvicinandosi al torrente. Reggendosi al bastone s’inginocchiò cercando d’immaginare gli ultimi istanti di vita di Gheorghis. I contadini gli avevano detto di averlo trovato come se la strega lo avesse colpito alle spalle mentre pregava... il maltempo aveva confuso le impronte sul terreno, ma se si era fermato a invocare la protezione di Dio Gheorghis doveva aver almeno legato il suo mulo che, come i cavalli di Aymar, era scomparso. Un fruscio... Qualcosa che scivolava sulla pietra. Lupo respirò a fondo, dominando il soffio della paura, poi si alzò improvvisamente compiendo un arco nel vuoto con il bastone. Niente. Solo rocce, ciuffi d’erba e, poco distante, gli alberi, Il gorgogliare del torrente sembrava prendersi gioco di lui. Irritato con se stesso per essere diventato una preda così facile della suggestione, Lupo frugò il terreno e, poco dopo, trovò ciò che cercava. I resti delle pastoie applicate alle zampe anteriori del mulo. Le raccolse osservando i margini recisi di netto. Unghie di strega? O un coltello affilato? Di sicuro l’assassino di Gheorghis
aveva portato via il mulo e il suo carico. E non certo per mangiarselo. Forse nelle sacche di quella sella c’era ciò che Gheorghis aveva voluto mostrare al vicearcidiacono. Qualsiasi cosa avesse scoperto, non aveva ottenuto grandi risultati. Se i suoi superiori avessero davvero temuto un’incursione del Diavolo avrebbero mandato dalla costa soldati, forse un altro prete, più autorevole. Invece il decano era tornato solo. Ma qualcuno poteva aver ritenuto le sue scoperte un pericolo. Sì, quella cominciava a essere una spiegazione possibile. Cosa aveva scoperto? Un segreto nel passato del paese. Lupo avrebbe parlato con Drjangic, visto che tutti gli altri parevano essere arrivati là dopo di lui. Forse la risposta stava proprio in quella direzione. Naturalmente il prete che aveva amministrato la comunità prima che diventasse un insediamento doveva averne saputo qualcosa, ma anche lui era svanito. Motivo in più per chiedere spiegazioni a Drjangic, anzi per esigerle. Era anche interesse suo, dopotutto. Mentre macinava quei pensieri, Lupo aveva preso la via del ritorno. Era quasi buio e difficilmente sarebbe arrivato al villaggio prima che calassero le tenebre. Decise di trascorrere la notte all’aperto. Non gli sarebbe stato difficile trovare un riparo. Il fragore lo colse impreparato, sul margine del sentiero che costeggiava una pietraia. L’antica abilità lo soccorse senza neppure che la mente dovesse formulare una reazione. Piantò il bastone sul terreno e ruotò su se stesso, pronto a difendersi. Ma ancora una volta intorno a lui c’erano solo le sue fantasie. Tuttavia il rumore persisteva e presto capì di cosa si trattava. Lungo il versante della collina alcuni macigni si erano smossi creando una frana che trascinava verso il sentiero le pietre del ghiaione. Era uno spettacolo impressionante vedere le rocce biancastre che si agitavano come animate, rotolando verso il basso con grande frastuono. Arretrò rapidamente, lasciando che la frana gli passasse accanto rovinando sul sentiero in un gran polverone. Durò pochi minuti, ma il Magister ebbe la netta sensazione che non fosse stato un sommovimento naturale. Forse qualcuno aveva cercato di seppellirlo sotto quei massi, alcuni dei quali, adesso che la polvere si depositava, si dimostrarono di dimensioni tali da poterlo uccidere. O forse chi aveva creato quella piccola slavina aveva voluto solo spaventarlo. Un corvo gracchiò volando via dalla cima del colle. Attese ancora qualche minuto, poi riprese il cammino alla ricerca di un riparo per la notte. Avrebbe dormito con un occhio solo. Strega o assassino, l’omicida ormai doveva averlo individuato e di certo lo considerava un pericolo. Forse, senza saperlo, Lupo doveva aver sfiorato ciò che il misterioso personaggio cercava. La caccia non era ancora finita, e lo dimostrava la sommaria perquisizione nell’alloggio del decano. Qualunque cosa volesse, il suo assassino non l’aveva ancora trovata. E questo, per il Magister, poteva rivelarsi un vantaggio o un pericolo.
Capitolo 17 Aveva trascorso la notte al freddo, in una gola riparata in cui era riuscito a malapena ad accendere un fuoco. Eppure il sibilare del vento tra le fenditure di roccia gli aveva permesso di ragionare e riassumere i fatti, di collegarli con i personaggi di quella nuova avventura. Si svegliò di buon mattino con le idee più chiare e un piano d’azione. Sebbene avesse tenuto le orecchie tese e dormito mantenendo uno stato di vigilanza mentale, come aveva imparato a fare in Terrasanta, non aveva colto segnali di pericolo. Se la frana che quasi lo aveva travolto il giorno prima era stata provocata da qualcuno con l’intenzione di eliminarlo, aveva pensato bene di non venirlo a disturbare durante la notte. Il pensiero di Costanza e il fastidioso pungolo del rimorso s’erano ancora una volta insinuati nei suoi pensieri, alle prime ore del giorno, ma Lupo li aveva tenuti a bada entrambi, come se tra quei tormentosi assilli e la sua mente fosse calata una parete di ghiaccio. Era una novità, forse determinata da quella situazione in cui era stato trascinato dal desiderio di far luce sulla morte di un amico. Come spesso faceva in casi simili il Magister decise di non perdersi troppo a ragionare. Prese il suo bastone e s’incamminò verso Korekainé. Era venuto il momento di chiedere spiegazioni a Ivo Drjangic. Sulla strada del ritorno udì i belati di un gregge. Calcolò che non si trovava lontano dai pozzi dov’era stato rinvenuto Aymar; nelle sue esplorazioni il giorno precedente aveva compiuto un largo giro intorno al paese, proprio come doveva aver fatto il cavaliere prima d’incontrare la morte. Rivedere il punto dov’era stato assassinato non gli sarebbe stato utile, così Lupo decise di far visita al pastore che aveva scoperto il cadavere. Come già sapeva si trattava di Kristos, l’uomo con il labbro divorato dalla febbre. Anche lui riconobbe il Magister non appena lo vide profilarsi sulla collinetta che dominava il suo recinto. Il pastore e la sua famiglia vivevano in una baracca di fango e canne con un rudimentale camino di pietra. «Salute, Magister», biascicò il pastore. «Posso offrivi la mia ospitalità? Non è molto, ma... » « Certamente una ciotola di latte caldo sarà gradita, ma desidero per pagare », rispose Lupo. Mentre si avvicinava aveva visto uscire dalla capanna una donna ancora giovane ma dal fisico sfatto, che gli abiti senza forma non aiutavano a rendere più aggraziato. Insieme a lei c’erano almeno sei bambini di varie età. Alcuni sembravano vispi; due però avevano lo stesso sguardo vacuo del padre e Lupo pensò che soffrissero di qualche malattia ereditaria. «Venite, venite, Magister... la mia casa è la vostra », lo invitò Kristos. Un invito che serrò il cuore a Lupo. La capanna dove viveva la famiglia di pastori era piccola, puzzolente e fredda nonostante il camino. Si sedettero a un tavolaccio circondati dagli sguardi curiosi dei bambini. Uno di essi colpì particolarmente il
Magister per via di una macchia bianca nell’occhio. « Non l’aveva quando è nato », disse tristemente il padre, « forse anche questa è una maledizione... » Lupo accarezzò la testa del bambino. Aveva già visto quel genere di malattia in Oriente e sapeva che non aveva nulla a che fare con le streghe. Si guardò in giro e, rapidamente, si rese conto con vergogna di aver sospettato erroneamente del pastore. I cavalli di Aymar e le loro selle non erano finiti là dentro. E se anche fosse stato? Quella famiglia avrebbe avuto bisogno di mangiarne cento, di cavalli, per sostentarsi decorosamente. Trasse dalla sacca uno dei frutti che gli erano avanzati dalla provvista di Elena e lo mise tra le mani del bambino. Si rivolse al padre. « Uno tutti i giorni, per ciascuno dei vostri figli », disse senza fornire altre spiegazioni. Kristos scosse il capo, costernato. «Magister, il mio gregge mi concede appena di che vivere... figurarsi comprare la frutta... quella devo rubarla. Ma devo stare attento, se mi scoprono gli uomini di Merkos sono bastonate o peggio... » II Magister terminò il latte e posò rumorosamente la ciotola sul tavolo. « Gli uomini di Merkos fanno la guardia ai frutteti?» Kristos rispose con un sorriso mite. «Solo a quelli di proprietà dell’eghemon e dei suoi amici. Gli stallieri... gli appezzamenti migliori se li sono presi loro e li fanno lavorare dai poveracci. E quelli che non hanno venduto o che pascolano le loro greggi liberamente, come me, devono cedere sempre qualcosa a Drjangic e ai fratelli... Viene Merkos stesso a incassare. Per mantenere il paese e i dintorni liberi dai briganti... » «Ma non dalle streghe...» aggiunse amaramente Lupo. Non c’era bisogno di risposta. Già si era fatto un’idea di come andassero le cose in quel posto e la situazione gli piaceva sempre meno. Gettò un pezzo d’argento sulla tavola. «La frutta », disse con un tono che gelò i ringraziamenti in gola al pastore. Ancora un poco e avrebbe pagato lui per l’incarico che gli avevano affidato, pensò mentre salutava la famiglia e riprendeva il cammino. Era importante stringere una certa complicità, se non proprio amicizia, con i contadini. Si era convinto che, quando avesse svelato cosa si nascondeva dietro quelle morti misteriose, avrebbe scoperchiato anche una giara di vermi che Drjangic e i suoi amici avevano interesse a lasciare chiusa. Forse la spiegazione stava tutta lì. All’ingresso del paese, quando vi arrivò dopo mezzogiorno, Lupo incrociò la milizia al completo. «Ah, Magister, siete ancora vivo...» lo canzonò Merkos con il suo usbergo rugginoso e il viso rubicondo. « Stavamo per venire a recuperare il vostro cadavere... » «Lo immagino... non prima però di aver riscosso tributi dai contadini... Disgraziatamente sono ancora vivo, potete tornare ai vostri compiti più importanti. » Merkos s’irrigidì sulla sella. La mano scivolò allo spadone appeso al fianco, ma l’immobilità del Magister gli consigliò di non spingersi oltre. « Che cosa volete insinuare? » Lupo sorrise. Sfidare gli arroganti era un piccolo piacere rimastogli dai tempi in cui
era stato un cavaliere. «Nulla, Merkos... state attenti, piuttosto. La strega che gira qua intorno non se ne è ancora andata. » L’uomo impallidì. Alle sue spalle Lupo colse sguardi sgomenti. « L’avete vista? » II Magister scosse la testa. « No, ma ho avuto l’impressione che, se davvero esiste, rimarrà qui finché non avrà avuto ciò che è venuta a cercare. » Merkos faticò a mantenere fermo il suo animale, difficile dire chi fosse più nervoso tra i due. « E voi avete capito cosa vuole? » «Non ancora, Merkos, non ancora. Forse dopo che avrò parlato con Drjangic potrò farmi un’idea. Buon lavoro. » Senza più degnarlo di uno sguardo riprese a camminare diretto all’abitazione dell’eghemon. « Eccolo che arriva. E io che quasi mi ero illusa che fosse crepato anche lui... » Ivo Drjangic sfilò dalle labbra il cannello della pipa ad acqua che gorgogliava ai suoi piedi. Un piccolo vizio che aveva acquisito a Bisanzio molti anni prima e che gli distendeva i nervi. Anche Rada, accanto alla finestra, ne avrebbe avuto bisogno. Invece se ne stava là a scrutare, da uno spiraglio dei pesanti tendaggi, tesa come una corda d’arco. La luce del primo pomeriggio rendeva giustizia alla sua bellezza che, in quel gioco di riflessi, tra gli spigoli naturali del viso ossuto, conservava ancora intatto il suo fascino. Il mercante la raggiunse ma non si accostò alle tende. Sapeva già a chi si riferiva la locandiera. «Non ci contare troppo, è un uomo astuto... e prudente. » Lei scosse i capelli ritraendosi dalla finestra. La ciocca chiara parve sfuggire dal resto della capigliatura ricadendole davanti a un occhio. « Ci porterà sfortuna... » « Non sono stato io a chiamarlo. » « Ma è qui che sta venendo. Secondo te con chi vuole parlare e di cosa? » Era davvero sconvolta, pensò Drjangic. « A questi contadini bisognava pur concedere qualcosa. La morte del prete e quella del cavaliere li hanno spaventati. Visto che il prode Merkos non è stato in grado di risolvere il problema, ho dovuto acconsentire... certo che vuoi parlare con me, e con chi altri dovrebbe? Qui io sono il paese. » Rada gli scoccò uno sguardo risentito. «E cosa gli dirai?» Il mercante serrò le labbra in un sorriso senza abbassare lo sguardo. « Tutto e niente. Come sempre. » «Già», replicò lei con una sorta di ringhio. «Come sempre. E secondo te, come mai Merkos non è riuscito a risolvere il problema? » Tra i due passò una ventata gelida. Drjangic rimase immobile, stranamente minaccioso nella sua mancanza di aggressività. « Forse perché c’è davvero una strega, tu che ne pensi? » Rada arretrò di qualche passo, si sistemò lo scialle che aveva lasciato su una panca poi rispose a denti stretti. « Io non penso nulla... salvo il fatto che forse questa storia della strega è solo uno strumento... di qualcuno che se ne serve per i suoi scopi. » Un pallido sorriso passò sulle labbra del mercante. « Dunque un pensiero ce l’hai. E forse non del tutto sciocco, mia cara Rada. Magari pericoloso... » « Che cosa vuoi dire? » lo sfidò lei.
«Che sarà meglio lasciare il passato dove si trova... tra la cenere. Ci penserò io a tener buono il Magister... Spero che non scovi nulla e se ne vada presto, visto che non c’è da contare che tutte queste storie di stregoneria lo spaventino. Tu adesso vai, passa dal retro... » « Certo, non ci tengo a esser vista qui dentro », rispose Rada sputando quasi le parole. Mentre si allontanava nell’oscurità della casa Drjangic tornò alla sua pipa ad acqua e ne aspirò una boccata. Ormai non tirava più e la sua mente era in subbuglio.
Capitolo 18 Anche se aveva rinunciato da tempo alla disciplina delle armi, Lupo ne aveva conservato alcune abitudini. Mai entrare in un potenziale campo di battaglia senza conoscerlo. Anche se nel caso della visita al mercante si trattava di duellare a parole, una ricognizione s’imponeva. Così, invece di bussare subito alla porta principale, compì un giro intorno alla casa, come se vagabondasse senza meta. Osservò il paese che, a quell’ora, pareva quasi addormentato. Si fermò persino a bere a una fonte, accogliendo con piacere i raggi tiepidi del sole dopo una giornata trascorsa al freddo. Mentre si chinava i suoi occhi colsero una figuretta che sgattaiolava via dalla porta posteriore della casa dell’eghemon. Non c’era da sbagliarsi, si trattava di Rada, che, troppo presa dalla fretta di allontanarsi, non si era guardata intorno. La locandiera raggiunse la sua abitazione e s’infilò in un portoncino: un’ombra dai fluenti capelli scuri, furtiva. Lupo sorrise. Ogni istante apprendeva qualcosa di più. Era il momento di far visita al mercante. Crimine o stregoneria, quell’avventura cominciava a piacergli. C’era qualcosa di stimolante nel ventaglio di personaggi disposti di fronte a lui come un mucchio di tessere di mosaico che ancora dovevano trovare il loro posto. A volte, pensò, l’aria sembra diventare più densa e imbriglia i contendenti in una ragnatela di tensione. Ci si studia, si tenta di nascondere la verità dietro una maschera e non sempre ci si riesce. Proprio come in quel momento in cui, seduto di fronte a Drjangic, il Magister stava per impegnarsi in un confronto dal quale sperava di trarre indicazioni utili per proseguire la sua indagine. Il mercante lo aveva accolto con un sorriso cordiale che non arrivava agli occhi. « Dunque, Magister, che idea vi siete fatto del nostro paese e delle minacce che incombono sulla sua prosperità? » chiese dopo un po’, scegliendo di fare lui stesso la mossa d’apertura. Lupo cercò di mettersi comodo sulla sedia con lo schienale rigido che gli era stata offerta. In un angolo della stanza, in un braciere, ardeva incenso profumato che ricordava terre lontane, più calde. «La prosperità, a Korekainé, ha diverse facce», rispose. « Per la maggior parte sorridono a voi, Drjangic. » « In verità ho saputo organizzarmi », rispose l’eghemon senza cogliere l’ironia del tono, « è una terra difficile e può portare ricchezza solo a chi la sa sfruttare, ma è necessario imporre delle regole. Finché l’amministrazione del téma non penserà d’inviare qualcuno per prendersi cura di questo posto tocca a chi ha più iniziativa imporre un ordine, senza il quale tutto è perduto. Questa storia della strega, per esempio, se non riusciamo a risolverla in fretta i contadini non andranno più ad arare i campi, i pastori lasceranno le greggi a morire di fame negli ovili... » «E i vostri uomini non potranno riscuotere tributi», lo stuzzicò Lupo. Parlò senza alzare la voce, con tono disinvolto, casuale, ma lo sguardo penetrava come uno stiletto. « Pensate di offendermi? »
«Non mi permetterei, ma sarebbe impossibile ignorare quanto avete fatto in fretta a sostituirvi al governo di Bisanzio nella riscossione delle imposte... ma, anche in questo, vi è una logica, devo ammetterlo. » Drjangic tossì serrando il pugno di fronte alle labbra. «Mi fa piacere che ne conveniate. Dunque, cosa volete chiedermi? Vi siete guardato in giro e di certo vi siete fatto un’idea della situazione e di quale sia il pericolo. Perché, lo ripeto, se la gente comincia ad avere paura della strega, il paese muore. E questo non sarà un bene per nessuno, lo capite, vero? » Lupo si alzò e fece un paio di passi per la stanza. Trovava fastidioso rimanere seduto di fronte all’eghemon. Inoltre la sua stazza lo aiutava a imporsi. « Sì, ma, se volete la mia opinione, non c’è nessuna strega. » «No? E chi ha ucciso quei due disgraziati... perdonate, so che il cavaliere Aymar era vostro amico... » « In un altro tempo », sussurrò rapidamente Lupo, poi la voce si fece più salda. « Credo invece che abbiamo un assassino da queste parti. Abbastanza astuto da celare il suo operato con una messinscena, ma non così abile da sostenerla sino in fondo. » II mercante si rabbuiò portando una mano a sorreggere il mento. La fronte era solcata da rughe come crepe in una vecchia corteccia. Non doveva essere la prima volta che un’idea del genere gli attraversava la mente, ma era evidente che voleva saperne di più prima di esprimersi. «Cosa ve lo fa pensare? » « I segni, il bacio della strega... sotterfugi per suscitare paura. Quei simboli appartengono a una lingua che nessuno ha mai decifrato esattamente ma che, in alcune sue espressioni, è nota alla Chiesa, Il codice che ho con me ne riporta degli esempi ed esaminando ciò che ho visto posso affermare che si tratta di segni generici. Certo, parlano di stregoneria ma non dicono nulla di più. Sono stati composti per l’unico scopo di essere visti e identificati come tracce del Maligno. » « E... quelle orrende ferite... » Lupo si strinse nelle spalle. « In tanti anni di guerra in Terrasanta ne ho viste di peggiori... e persino di simili. E mai erano state provocate da una strega. Un altro trucco per terrorizzare la gente... o inviare un messaggio. » Questa volta fu Drjangic ad alzarsi. Raggiunse una madia dalla quale trasse una brocca e due coppe di metallo. Versò da bere per entrambi poi, come per suggellare una tregua, ne tese una al suo ospite. Ma gli occhi rimasero fissi e freddi. « Un messaggio? » Lupo si concesse il tempo di bere un sorso di vino resinato, lasciando il suo interlocutore a domandarsi cosa avesse in mente. Lo aveva incuriosito, forse Drjangic si sarebbe scoperto, spinto dall’interesse di capire cosa sapeva il Magister. «Esattamente. Vedete, io credo che quel giovane prete, Gheorghis, avesse scoperto qualcosa... un segreto legato al passato, e che ne fosse rimasto così sconvolto da voler informare il suo superiore. Non sappiamo cosa gli abbia risposto il vicearcidiacono, ma possiamo immaginarlo. Se i suoi capi avessero ritenuto importante ciò che Gheorghis aveva riferito, non sarebbe tornato da solo. Ma non sappiamo con esattezza né cosa avesse scoperto né quali conseguenze possa aver avuto il suo viaggio. E non lo sa neppure il nostro assassino... »
Vicino a Lupo Drjangic, sebbene più piccolo e curvo, teneva testa in quel duello di mezze rivelazioni. Portò la coppa alle labbra ma si limitò a inumidirle. « Proseguite, ascoltarvi è un piacere... qui non capita spesso di parlare con persone così acute. » Lupo lo gelò con una risposta immediata. «Eppure almeno una persona acuta qui esiste. » « L’assassino? » ribatté saldo nella voce il mercante. Lupo abbassò le palpebre annuendo. «Supponiamo che Gheorghis abbia scoperto qualcosa nel passato di questo posto... un segreto pericoloso... o forse persino prezioso per qualcuno che, invece, vuoi tenere tutto nascosto. Questa persona non può correre il rischio che le voci girino o che le scoperte di Gheorghis vengano divulgate. Allora lo uccide e quale miglior sotterfugio per evitare ogni altra ricerca che inscenare il maleficio di una strega? » « Sì, ha un senso... ma la gente è terrorizzata. » « Tanto », continuò Lupo, « da chiedere aiuto a un cavaliere di passaggio, un crociato, anche contro la volontà delle persone che, come voi, ritengono di essere gli unici in diritto di decidere per Korekainé... Ma anche il cavaliere muore con il marchio della strega. E questo è il messaggio: non fate domande, non andate a cercare dove nessuno deve guardare. Mi chiedo: perché? E chi altro sa di questo segreto? » Drjangic scoppiò in una risata feroce, gli occhi sfavillanti. «Oh, adesso capisco... quelle allusioni alla mia posizione, ai tributi e adesso questo... Non penserete per caso che ci sia io dietro a tutto ciò? Vi ho ben fatto capire che questa faccenda della strega mi danneggia e basta. Non ho antichi segreti da nascondere. Ho costruito una piccola fortuna qui, lo ammetto, e con i miei metodi, ma non c’è nulla di misterioso. Giro in queste lande da moltissimo tempo. Ho visto luoghi sulle montagne, in pianura, sulla costa. Questo è il punto che ho ritenuto più adatto per erigere la mia città, e l’ho scelto a ragion veduta. Nessun segreto. Unicamente la mia iniziativa, che può essere solo danneggiata da questo mistero. » « Sì », replicò il Magister. « Ma quali disastri potrebbe scatenare la rivelazione di quello che Gheorghis ha scoperto? » Spazientito, Drjangic agitò una mano di fronte a sé come se volesse scacciare un insetto fastidioso. « Vi assicuro, Magister, che siete sulla pista sbagliata se sospettate di me. » « Non ho detto questo. » « Ma lo avete sottinteso », il tono si era lievemente alzato e rievocava l’immagine di un uomo abituato a comandare, « e non crediate che sia stupido. Sì, è vero, io e i miei amici, Merkos e i fratelli Lajos e Zarko, abbiamo organizzato questo posto e riteniamo corretto guadagnarci qualcosa. Che voi lo riteniate giusto o no, non sono fatti vostri. Non sono fatti che riguardino uno straniero. Per questo eravamo contrari all’idea che un cavaliere errante venisse a mettere il naso e magari a spargere malcontento e sospetto nel paese. Non so se, come dite, la strega sia un’invenzione o si tratti di qualche folle che ha deciso di seminare il terrore per motivi suoi. Merkos non è un soldato di prim’ordine, lo avete ben visto. Ma avrà la meglio, prima o poi. E senza necessità di suscitare strane idee nella testa della gente, come state facendo voi
senza raggiungere risultati, oltretutto. » Lupo dondolò il capo con un gesto che aveva appreso in Oriente e concesse mentalmente al suo antagonista di aver replicato con la necessaria fermezza e, soprattutto, di non essersi lasciato sfuggire nulla. « Sono arrivato da due giorni... abbiate pazienza, Drjangic. Non sono qui per appropriarmi del vostro... potere, se è questo che temete. Vorrei risolvere questo mistero, quanto voi. E ricordate: non vi ho mosso alcuna accusa. Sto solo cercando indizi. » « E allora ditemi perché siete qui. Cosa pensate che possa rivelarvi di utile, se non mi sospettate? » Non ho detto neppure questo, pensò il Magister, ma lasciò la frase nella luce del suo sguardo, sfidando in silenzio il mercante prima di parlare di nuovo. « Ecco, voi siete stato uno dei fondatori di questo posto... » « È vero. » « E ho notato che la chiesa è un edificio più vecchio di quasi tutti gli altri in paese. Del resto nessuno di coloro con cui ho parlato è qui da più di otto mesi. Forse allora voi potete fornirmi un utile indizio. » Come se volesse fisicamente porre uno spazio tra sé e il Magister il mercante tornò alla madia per richiuderla. « Parlate », lo esortò bruscamente. « Forse voi conoscevate il religioso che era qui prima di padre Gheorghis. Dovevano averlo mandato ad amministrare le anime. Ho provato a cercare nella chiesa ma non ho trovato nessuna traccia. » Il viso di Drjangic si aprì in un sorriso che era quasi una sfida. « Ah, non lo sapevate? Quando arrivai qua e decisi di stabilirmi nella regione, la chiesa esisteva già. Non da molto forse, ma era già in piedi. Ed era padre Habras ad amministrare la parola di Dio per i viandanti e i pastori. » « Habras l’eremita? » II mercante annuì con aria saputa, felice di avere acquisito un piccolo vantaggio. « Proprio lui. » « Credevo fosse un discepolo di Barnaba... » « Oh, no... sono passati molti, molti anni dai tempi di Barnaba e non credo esistano più suoi seguaci. No, Habras era un prete della Chiesa del patriarca di Bisanzio. Ma la solitudine, le privazioni... Era... è un uomo strambo. Parla da solo. Dopo qualche tempo, quando il paese cominciava a formarsi, non è più voluto restare a svolgere il suo compito e si è rifugiato in quella caverna. Forse ancor prima che arrivaste voi su quel monte. Sapete, qui il tempo sembra scorrere più lentamente... Ovviamente non si poteva lasciare questo gregge senza una guida. Fui io stesso, nell’interesse di tutti, a scrivere al vicearcidiacono che, nella sua illuminata saggezza, ci inviò padre Gheorghis. Ma, evidentemente, questo è un posto difficile per chi deve prendersi cura delle anime e anche lui... Be’, credo che questo suo viaggio, queste sue scoperte... » Silenzio. Lupo rimase in attesa di altre rivelazioni ma ricevette solo una risata canzonatoria, « Ebbene? » chiese stizzito. Il mercante tornò a sedersi, di nuovo padrone della situazione. « Credo che non
esistano segreti se non nella fantasia di chi li vuole vedere. Personalmente bado agli affari, cose concrete, e non ci capisco molto di quelli che parlano con Dio... ma ritengo che, forse in un modo differente, anche Gheorghis sia, come dire... fuggito un po’ con la mente. È facile qui... » « E i delitti? » Drjangic inarcò un sopracciglio. « Ma è per questo che la gente ha così fiducia in voi, Magister. Voi siete istruito, acuto, formulate ipotesi e magari anche accuse... trovatelo voi il responsabile di tutto questo. A proposito, converrete con me che questo luogo, senza la guida di un prete, può diventare preda della superstizione. Perché non ci pensate voi, a dir messa? Dopotutto avete detto di aver viaggiato, di essere stato in Terrasanta... » Lupo si sentì avvampare, carico di una rabbia sorda. Per qualche istante faticò a contenerla. Infine ci riuscì, ma era diventato pallidissimo ed era certo che il mercante l’avesse notato. « No », disse scuotendo il capo. « Sono qui per prendere un assassino. Ed è ciò che farò. Vi ringrazio, mastro Drjangic, questa conversazione mi è stata molto utile. » « Sempre a vostra disposizione », rispose l’eghemon mentre Lupo se ne andava. Quel colloquio, benché illuminante, non era terminato come il Magister aveva sperato. Drjangic aveva toccato, senza saperlo, un punto dolente e lui... lui aveva quasi perso il controllo. Si sentì esausto. Si avviò verso la locanda che già era buio. Avrebbe ingollato qualcosa e si sarebbe ritirato. Era stata una giornata difficile.
Capitolo 19 Nel corso dei pochi giorni passati da quando aveva lasciato il suo eremo, Lupo aveva notato che la temperatura si era improvvisamente abbassata. O forse era solo un’impressione che la brusca conclusione del suo colloquio con Drjangic gli aveva lasciato come una cattiva nuova, arrivata senza preavviso. La zuppa di cereali che Rada gli aveva servito di malagrazia gli era stata di qualche conforto e certamente una notte al riparo era gradita. Nonostante ciò Lupo non riusciva a prendere sonno. Si agitava sul pagliericcio continuando a pensare alla beffarda proposta dell’eghemon. Prendere lui il posto del prete del villaggio? Come avrebbe potuto? Lui, che neppure osava tenere un crocifisso nella sua casa... Lui che si era macchiato di un peccato che ancora lo perseguitava e che aveva segnato così profondamente la sua esistenza. Si mise a sedere, madido di sudore, la mente improvvisamente lucida nel buio della sua camera. Ma quale peccato? L’idea lo folgorò. E se per tutti quegli anni la convinzione che lo aveva perseguitato spingendolo a muoversi senza posa, a cercare di capire e di espiare, fosse stata solo una fantasia creata dalla sua mente? Come la presenza della strega... Si sentì debole e ignorante nonostante tutta la sua erudizione, vittima di una superstizione che aveva travolto il debole muro della sua fede. Si rivestì in fretta. Aveva bisogno di aria, della sensazione del gelo dell’acqua sulla pelle, anche se ciò avrebbe potuto procurargli un malanno. Ignorò ogni prudenza. Non riusciva più a stare dentro quelle mura, prigioniero delle sue ossessioni. Uscì dalla camera. Voleva raggiungere il lavatoio nel campo dietro la locanda. Fuggire... Stava arrivando al limitare del pianerottolo, in prossimità della scala che portava al piano di sotto, quando rammentò che, per uscire di notte, avrebbe dovuto svegliare Rada e chiederle la chiave. Non sapeva neppure dove la donna dormisse e, di colpo, non gli parve una buona idea. Si fermò al buio e s’impose una serie di respiri profondi, Il sudore freddo causato dall’eccitazione gli lambiva la schiena. Fu in quel momento che colse una presenza, nella sala ormai vuota della locanda. Voci che sussurravano. Due. Incuriosito, si acquattò vicino al ballatoio e, mentre il cuore riprendeva a pulsare a un ritmo regolare, strizzò gli occhi e tese le orecchie. Di sotto filtrava una debolissima luce dalle braci del grande camino. Sufficiente, dopo un po’, per distinguere due figure, ma non per identificarle. Bisbigliavano come cospiratori timorosi. Ombre diafane a metà tra spiriti e veri esseri umani. Ma non era un sogno e quei brusii erano voci reali. « Nessuno deve capire... » «... tranello...» « Coprire... coprire tutto... » «Ho paura...» « Parlerò io con... »
Erano solo brandelli di una conversazione e il Magister non poté comprendere di più. L’umidità provocò un improvviso schiocco in una trave. Il legno faceva udire la sua voce, potente come quella di un morto disturbato da empietà, e, per le coscienze dei due personaggi, fu sufficiente. 11 Magister colse uno scalpiccio, qualche grugnito ancora, poi scorse qualcuno che s’infilava nella fessura della porta affrettandosi a uscire. I cardini cigolarono, la chiave girò nella toppa e, per il tempo di un respiro, Lupo vide un fioco riflesso della brace su una guancia. Rada, sì, lei aveva parlato, aveva scambiato preoccupate parole con il suo visitatore, la persona cui aveva schiuso la via d’uscita. Trattenendo il respiro Lupo rientrò nella sua camera. II turbamento lasciato dall’incontro con Drjangic era sparito. Quel nuovo mistero aveva scacciato ogni altro pensiero. Prima di coricarsi pregò Dio, ringraziandolo. Avrebbe voluto chiedergli perdono, ancora una volta, ma decise di non farlo. Forse era davvero Dio che gl’indicava la strada, una nuova via che richiedeva concentrazione e null’altro. Si levò di buonora, praticò le sue abluzioni e tornò alla locanda. Rada lo aspettava con una ciotola di latte. Non disse nulla ma, per una volta, sembrò meno ruvida. « Avete dormito bene al coperto, Magister? » domandò. « E voi? » Silenzio. In fondo alla sala Lupo vide passare rapidamente la più piccola delle serve, il capo chino e una ramazza in mano. Sapeva quando non era il caso di farsi notare dalla padrona. Dopo qualche attimo d’imbarazzo la locandiera si sedette. Non c’era ancora molta gente e, soprattutto, non erano in vista gli uomini di Merkos. « Nessuno dorme più tranquillo dopo quello che è successo. Avete scoperto qualcosa? » « Credevo che il vostro amico, l’eghemon, vi tenesse informata. » Una smorfia di disprezzo passò sulle labbra della donna. 121 «Amico? Drjangic, kyrios Drjangic, non è amico di nessuno. Dovreste averlo capito. » Lupo bevve il latte caldo con calma, osservandola. Sì, Rada aveva paura. Ma di cosa? O meglio: di chi? « Anche voi dovete versargli un tributo, come tutti qui? » « Be’, allora qualcosa l’avete compresa », ribatté lei. « Certo, e in varie forme... per esempio io vi fornisco alloggio e vitto e non ho avuto molto da discutere in merito. Benché... ecco... siate un ospite meno ingombrante di quanto pensassi. » Lupo le rivolse un’occhiata accompagnata da un’ombra di sorriso. La paura spinge anche i più orgogliosi a cercare alleanze. Rada s’irrigidì come se si fosse accorta d’essersi tradita e aggiunse stridula: «In ogni caso Drjangic mi ha ordinato di darvi alloggio. Lo sapete ». « Ciò significa che gli preme che si trovi la strega... » Rada assunse un’espressione incerta, si protese come se volesse dire qualcosa, poi si ritrasse a braccia conserte sulla difensiva. « Tutti lo sperano, non credete? »
« Già. Ditemi... ho saputo che, prima di Gheorghis, era il vecchio Habras a officiare qui. Lo conoscevate, prima che si ritirasse sulla montagna? » Rada scosse la chioma con un gesto che le fece cadere la ciocca di capelli chiari davanti agli occhi. La rimise a posto. « No, prego Dio Nostro Signore ma non vado d’accordo con i preti. Né quelli nuovi né quelli vecchi. Sono una donna senza marito, una peccatrice, dicono... Non ero nelle sue grazie ma che importa? Quello è proprio matto. » Lupo assentì, poi si alzò borbottando tra sé. «E chi lo sa? Vorrei fargli visita. Potreste prepararmi qualche provvista? Starò via poco...» « Sì, sì, certo... ma state attento, Magister, là fuori c’è qualcosa che non capisco né voglio capire, e può essere pericoloso. » « Gentile da parte vostra preoccuparvi. Starò attento. » Poco dopo il Magister lasciava nuovamente il villaggio dopo essersi fermato ad acquistare qualche frutto da Elena. Camminare in quelle lande era faticoso, ma riteneva importante parlare con il vecchio eremita. L’idea non era piaciuta a Rada, non si poteva spiegare altrimenti quel goffo tentativo di metterlo in guardia, un gesto che mal nascondeva la volontà di spaventarlo. La notte prima l’aveva sentita sussurrare di segreti che dovevano rimanere inviolati. Il problema non era tanto sapere di cosa si trattasse, quanto di chi volesse portarli alla luce e chi, invece, fosse disposto a tutto pur di celarli. Lupo stava elaborando un’idea, differente da quella che aveva seguito il giorno precedente. Ma prima doveva raccogliere altri elementi e, per farlo, voleva parlare con il vecchio Habras. Stava ancora riflettendo quando giunse presso un piccolo campo. Gli venne incontro un uomo, una vanga appoggiata sulla spalla. Era Xander, quella specie di gigante che per primo era venuto a cercare il suo aiuto. « Buongiorno, Magister... cercavate me? » Lupo scosse il capo. « No, ero sulla strada per raggiungere la caverna del vecchio Habras... a proposito, lo sapevate che, prima di Gheorghis, era lui il prete di Korekainé? » Gli occhi vacui di Xander furono una risposta sufficiente. Infatti il contadino gli confermò di aver sempre vissuto fuori dal paese e che, solo quando questo aveva cominciato ad assumere una certa consistenza vi si era recato per vendere il suo raccolto; ecco perché, come molti altri, non sapeva nulla delle sue origini. Lui aveva visto solo il giovane Gheorghis, prima che la strega lo uccidesse. La paura che traspariva dai suoi occhi, ancora una volta, era autentica. « Be’, visto che ho ancora parecchia strada da compiere mi fermerò alla vostra capanna », disse infine il Magister accettando l’offerta di consumare il pasto con Xander. « Sarà un onore per me e la mia famiglia », dichiarò il contadino illuminandosi. « E per me condividere il vostro desco. Ma lasciatemi vedere un po’ quella vanga. Fui io a forgiarne la lama, tempo fa, e direi che ha bisogno di essere affilata. Lo farò con piacere, così mi guadagnerò il pasto. » La caverna di Habras era vuota e non da poco tempo. Lupo vi arrivò che quasi era
già notte e, dopo aver chiamato diverse volte l’eremita, si decise ad avventurarsi al suo interno. Stringeva il bastone con una mano e una fiaccola accesa con l’altra. Era consapevole che non si entra senza cautele nella dimora di un uomo che ha scelto di vivere in solitudine e forse ha la mente sconvolta da qualche suo personale fantasma. Matto o spaventato, Habras aveva deciso di fuggire dalla sua chiesa e di certo non gradiva visite. Avrebbe potuto reagire malamente e il Magister era preparato. Per tutta la strada si era convinto che l’eremita qualcosa doveva sapere di quei segreti che angosciavano gli abitanti di Korekainé. «Habras... non voglio farvi del male... vengo in pace...» Chiamò numerose volte, ma la sua voce riverberò tra le pareti della grotta senza ricevere risposta. Neppure un rumore, una traccia di vita. L’aria era umida e non conservava neppure l’odore acre che Lupo si era aspettato dal rifugio di un vecchio solitario. I resti del fuoco parlavano da soli. Cenere vecchia e in gran parte dispersa dalle correnti d’aria. C’erano i residui di un pagliericcio, una vecchia coperta e nient’altro. Non un crocifisso, né un testo sacro. Habras aveva lasciato la fede al villaggio e adesso aveva abbandonato anche quel riparo. Per un poco Lupo perlustrò la zona, temendo quasi di rinvenire un altro cadavere. Ma la strega, o l’assassino, non erano passati di là. Il buio stava calando e non era il caso di rimettersi a camminare per un sentiero accidentato. Lupo riaccese il fuoco nella caverna e consumò quel poco che gli restava nella bisaccia. Di certo qualcuno avrebbe potuto notare il fumo o scorgere il riflesso della fiamma se fosse passato da quelle parti. Si appoggiò alla parete di roccia, con il bastone tra le ginocchia e gli occhi aperti; non era il caso di dormire. Nel corso della giornata aveva inseguito molte ipotesi e la sparizione del vecchio eremita lo induceva alla prudenza. Era un altro mistero che poteva anche non essere collegato con la strega. Magari il vecchio era finito in un burrone e il suo corpo non sarebbe stato ritrovato per molto tempo. No, si disse, Habras non era scomparso a causa di un incidente. Non si sarebbe portato via tutto, altrimenti. Era scappato, invece, o aveva deciso di rendersi irreperibile anche per quei pochi che sapevano qualcosa della sua vita precedente e dei segreti che la sua mente annebbiata poteva aver conservato. Forse era fuggito perché sapeva che il suo nascondiglio era noto a tutti e che avrebbe fatto bene a non lasciarsi sorprendere. Con quei pensieri il Magister si preparò a un’altra notte all’addiaccio. Di dormire avrebbe avuto tempo in seguito. Doveva stare in guardia e attento. Sarebbe stata una notte fredda.
Capitolo 20 Nessun demone era venuto a tormentarlo e nessuno aveva cercato di ucciderlo. Durante la veglia Lupo aveva udito animali spostarsi nei dintorni, ma nessun segnale di pericolo. Con le membra irrigidite dal gelo e la mente vagamente annebbiata dalla stanchezza decise di lasciare la caverna al mattino. Habras non era tornato e nulla lasciava intendere che l’avrebbe fatto presto. Non era distante dal suo rifugio e, per un momento, fu tentato di passarvi, poi decise di tornare verso Korekainé. Camminando si riscaldò, e un pallido sole lo aiutò a riaversi dalle privazioni imposte dalla notte. Raggiunse un fiumiciattolo che scendeva a valle. Sorrise ricordando che era proprio accanto all’acqua che le streghe venivano a nascondersi secondo la tradizione. Ma chi poteva stabilire da dove fosse sorta tale diceria? Si guardò in giro comunque e, rassicurato, si spogliò per immergersi nell’acqua fredda. Poi, vestito delle sole brache, eseguì alcune rapide combinazioni di attacco e difesa con il bastone. In breve sentì il suo corpo rinascere e la mente schiarirsi. Spostò i piedi sulla ghiaia e roteò i fianchi mentre colpiva con un fendente un immaginario avversario. Arrestò di colpo il gesto per cambiare posizione, la punta del bastone in direzione del bosco. Questa volta non si era ingannato. Qualcuno, vedendolo così assorto nei suoi esercizi, si era avvicinato. Non appena il Magister aveva reagito, però, la figura era tornata all’immobilità confondendosi con la natura aspra. Mantenne la guardia ma distese il volto in un sorriso. « Bravo », disse a mezza voce. Chiunque lo spiasse era in gamba. Niente odori o rumori rivelatori. Di certo non era uno dei soldatacci di Merkos e ciò era già un sollievo. Essere sorvegliato da uomini dappoco lo innervosiva stimolandolo a reagire con violenza quando invece era necessaria la freddezza. Mentre si rivestiva, certo che il suo osservatore si fosse allontanato, arrivò alla conclusione che, chiunque fosse, non aveva intenzione di ucciderlo. Se era così abile, avrebbe avuto occasione di sorprenderlo. Com’era successo per Aymar e il prete, forse era ancora il suo maledetto destino. Sopravvivere dove gli altri morivano. Con quel pensiero in testa Lupo riprese la marcia, rabbuiato, e raggiunse Korekainé quando già il sole stava scomparendo. Sulla soglia della locanda trovò un crocchio di persone: riconobbe Rada, Merkos, Vargo e altri visi noti tra i quali Lajos lo stalliere. Nuovamente lesse la paura sui loro volti ma, in quell’occasione, riconobbe pure un sentimento di ostilità, anche tra coloro che avrebbero dovuto essere suoi amici. «Che cosa succede?» domandò. «Non ditemi che ancora una volta, non vedendomi rientrare, avete immaginato che fossi morto... » «E chi lo sa? Andate, sparite, ritornate...» sibilò Merkos. « Magari siete voi la causa
di tanti problemi. » Silenzio. Con preoccupazione il Magister notò che neppure quelli che avevano chiesto il suo aiuto protestavano. Lajos stava a braccia conserte, appoggiato a un muro, e sorrideva ma senza simpatia. Lupo si fece largo tra la piccola folla cercando Rada che, tra tutti, gli pareva quella meno soggetta a lasciarsi trascinare. Era spaventata, certo, ma mostrava un cipiglio nervoso che tradiva soprattutto rabbia. Un’emozione che anche lui cominciava a condividere. « Allora, Rada, che succede? » «Ditemelo voi, Magister», replicò la locandiera a testa alta. « Venite a vedere cos’ho trovato. » Gli fece cenno di entrare nella locanda e richiuse la porta alle loro spalle, rumorosamente. Lasciando fuori chiunque altro. Era ovvio che in quel momento fremeva d’indignazione più che di paura. Lupo aspettò che manifestasse da sola la causa di quello stato d’animo. « Quando ho accettato di ospitarvi l’ho fatto perché Drjangic me lo ha ordinato... » «Questo me l’avete detto, ma avete anche ammesso che non vi ho arrecato grande disturbo... sinora. » Rada era già sulla scala. Si voltò di scatto. «Ma questa è sempre la mia casa e non mi piace che qualcuno entri o esca senza il mio permesso. » « Se alludete a me... » « No, non alludo a voi... Magister, seguitemi... » Lupo si affrettò a obbedire, sinceramente incuriosito. Giunsero sul ballatoio e, in pochi passi, arrivarono alla porta della sua camera. Le narici del Magister avevano già colto un odore acre, ributtante, e alla luce di una delle finestre riconobbe la fonte da cui proveniva quel fetore. In effetti Rada e gli altri avevano qualche ragione di essere spaventati. Il corvo sventrato e inchiodato alla sua porta non era solo uno spettacolo rivoltante ma anche un segno della presenza del Maligno riconosciuto da tutti. «A quanto pare qualcuno ha cercato d’intimorirmi, inviandomi un messaggio », osservò Lupo. « Ma vi posso assicurare che non è stata una strega... piuttosto qualcuno che vuole che io interrompa le mie ricerche. Una persona che ha segreti da mantenere. » Se aveva creduto d’indurre Rada a scoprirsi con quella frase, Lupo non rimase deluso. In quel momento non c’era solo risentimento sul viso della locandiera ma anche il desiderio di parlare, di svuotarsi l’animo. « Un avvertimento per voi, dite? No, Magister, questo è un avvertimento per me che vi ospito. A qualcuno non aggrada e ha pensato di farmelo capire inchiodando questo animale alla vostra porta. Là fuori pensano tutti a un maleficio, ma io non mi faccio ingannare tanto facilmente. » « No? » «No», ripeté lei a denti stretti. «Avevate ragione... ne so qualcosa di stregoneria. Vecchie storie raccontate la notte da mia madre e dalla madre di mia madre. Conosco il modo di proteggere la mia casa da influenze malvagie. Credetemi, so perfettamente che questa non è opera di una strega e non chiedetemi perché. »
« Cosa dovrei domandarvi, allora? » riprese Lupo quasi divertito di fronte a una tale ammissione. Rada non negava di avere conoscenza del mondo arcano, forse era lei stessa una strega... e, spinta dalla furia, poteva lasciarsi sfuggire qualcos’altro d’interessante. La donna comprese il suo ragionamento e non vacillò. Si protese verso Lupo e sussurrò: « Qualcuno, un essere umano e non uno spirito o uno stregone, si è introdotto nella mia casa per lasciarvi questo regalo. Lo ha fatto per spaventare voi ma, soprattutto, per intimorire me ». « E ci è riuscito? » Lei abbassò lo sguardo e sospirò. « Certo », sibilò. « Cosa facciamo? » domandò poi con una sfumatura d’angoscia. Lupo strappò via il corvo sventrato serrandolo nella mano. « Rispondiamo come non si aspettano che facciamo. Invece di fuggire attacchiamo. Organizziamo una battuta... seriamente. Io stesso la guiderò. Per trovare la strega. Facciamo vedere che accettiamo la sfida, scuotiamo le fronde. Qualcosa cadrà sul terreno. Liberiamoci di questo furbo assassino. Siete con me, Rada? » « Sì », rispose prontamente la locandiera, ma sulla sincerità di una simile alleanza Lupo non avrebbe saputo pronunciarsi. Per il momento, tuttavia, erano dalla stessa parte.
Capitolo 21 Regno di Serbia Il monastero di Stagirca dominava un colle aspro che s’innalzava come un bastione al limitare di una muraglia naturale formata da folti boschi e pendii scoscesi intorno a un territorio relativamente pianeggiante. Anche di notte le fiaccole montate su alti pali e i bracieri inseriti nella torre vecchia sullo strapiombo illuminavano il terreno circostante consentendo ai monaci di controllare un tratto della strada. A valle scorreva il fiume Bora Vina che, più a sud, andava a congiungersi con un più vasto corso d’acqua che segnava il confine con il téma bizantino. I monaci avevano costruito una serie d’ingegnosi canali dai quali ricavavano acqua sufficiente per i loro orti. Era la comunità più grande e organizzata ai confini dei possedimenti dei Nemaja e una tappa obbligata che portava verso il meridione. I tre cavalieri della Croce di Ferro vi giunsero al tramonto. « Abbiamo visitatori », annunciò uno dei monaci alla torre. Il suo confratello, appena arrivato, si avvicinò al bastione che sporgeva direttamente dalla roccia. Il fuoco di un braciere si agitava nel vento. Dalla loro posizione i due monaci riuscivano a scorgere la strada che attraversava i fienili e gli orti. Erano tempi brutti e i briganti non erano rari in quella regione. I monaci non erano dei combattenti ma sapevano individuare rapidamente un pericolo e provvedere a ritirarsi nel monastero al quale era quasi impossibile accedere per il sentiero. Da una torre di legno sull’altro lato del bastione veniva calato un cesto azionato attraverso pesanti funi e una carrucola di legno, un espediente che già qualche mese prima li aveva salvati dall’incursione di una banda di predoni tessali, che si erano limitati a razziare i campi ma non erano stati in grado di fare vittime tra i monaci. Nonostante ciò i due religiosi osservarono i cavalieri che si avvicinavano con una certa apprensione. Ricostruire ciò che veniva distrutto dai briganti era una prova del Signore alla quale non desideravano sottoporsi troppo spesso. «Non sembrano animati da cattive intenzioni», disse uno dei due. L’altro si protese, aguzzò la vista e, finalmente, scorse con maggiore chiarezza le sagome degli uomini a cavallo. «No, portano le insegne dell’ordine della Croce di Ferro... sono cavalieri dì Cristo. » Per qualche istante i due monaci rimasero silenziosi, avvolti dal sibilare del vento mescolato con il crepitio delle fiamme. Lo scalpitare dei cavalli arrivava in cima al torrione grazie alla particolare conformazione della valle. « Dovremo dar loro rifugio per la notte», commentò semplicemente il più anziano dei due. L’altro serrò appena le labbra ma non manifestò i suoi pensieri. Non ce n’era bisogno. In tutta quella parte del mondo era noto il fervore dei cavalieri della Croce di Ferro. Difendevano la purezza della dottrina, cacciavano eretici e infedeli con crudeltà spesso eccessiva, anche se nessuno osava rimproverarli per questo. I monaci di Stagirca seguivano la loro regola pregando e lavorando senza neppure pensare alla violenza come veicolo della volontà di Dio. Una visita dei cavalieri della Croce di Ferro non giungeva come un evento gradito. Nonostante ciò il più anziano esortò il
compagno. « Corri a dare una voce all’abate. Penserò io ad avvisare i confratelli di sotto. » E. monaco più giovane limitò la sua risposta a un inchino e sparì nell’ombra attraverso una stretta porta nel torrione. Ai piedi del massiccio che ospitava il complesso religioso i monaci avevano costruito una stalla davanti alla quale era stata eretta una specie di porta di legno robusto. Oltrepassato quel punto si usciva dalla valle attraverso un valico stretto che, grazie a un ponte di pietra, superava il fiume. Mentre si avvicinavano ai pali sormontati dalle fiaccole, i tre cavalieri udirono il suono di una campana. Erano consapevoli di essere stati visti. Domash Tartu tirò sulle redini sollevando la mano destra per indicare ai suoi compagni di rallentare la marcia. Gli stalloni risposero immediatamente ai comandi e, gradualmente, ridussero il passo sino ad arrivare trotterellando al portale di legno. Due monaci con il saio grezzo e il cappuccio alzato vennero incontro ai cavalieri reggendo torce di resina che diffondevano un fumo profumato e illuminavano la notte di riflessi arancioni. «Il Signore sia lodato, cavalieri», disse il guardiano, un uomo anziano con la barba grigia e ispida che aveva visto molta violenza nella sua vita e, tra tutti i monaci di Stagirca, era uno dei pochi a essere in grado di fronteggiare con fermezza uomini armati, qualsiasi fossero le loro intenzioni. « Sempre sia lodato », fu la risposta distorta dal casco del primo tra i cavalieri. Gli stalloni erano coperti di schiuma biancastra, frementi. Era ovvio che venivano da lontano e la marcia era stata dura e disagevole. « Chiediamo ospitalità per la notte, siamo diretti a sud, nei possedimenti dell’impero dei greci », aggiunse poi il cavaliere in testa al gruppo. Il solo fatto che si fosse servito del termine « greci » per indicare i bizantini tradiva una sfumatura di disprezzo che il monaco colse immediatamente. Quei tre uomini d’arme avevano una missione, uno scopo che li aveva costretti a lasciare le loro terre a nord. Non venivano per pregare, piuttosto per difendere, in qualche maniera violenta, la parola di Dio e nulla li avrebbe fermati. « Saremo felici di condividere con voi il poco che abbiamo e di accudire i vostri cavalli perché possiate ripartire nel pieno delle forze », replicò il monaco. E in fretta, pensò. Di certo Tartu ne colse il tono perché scese di sella con un movimento deciso, come se si preparasse a un duello invece che a salutare un fratello nella fede. I suoi compagni lo imitarono silenziosamente. Il vecchio monaco impartì alcuni ordini in dialetto locale a due religiosi più giovani che vennero a prendere le redini degli animali per portarli alla stalla. « Venite, l’abate vi da il suo benvenuto. Sarete in tempo per assistere al termine dell’officio della sera, potrete rifocillarvi e riposare. » Domash Tartu non si levò l’elmo, restando un’immagine indefinita e minacciosa di fronte all’anziano monaco. « I nostri cavalli restano qui sotto? » « Sì, saranno accuditi con ogni cura e faremo loro buona guardia. Potrete anche lasciare il resto del vostro bagaglio e... »
Tartu si avvicinò di un passo al monaco. Lo stivale protetto da un gambale di metallo pestò la fanghiglia, ricavandone un rumore che suonava come una minaccia. « Come certamente saprete, apparteniamo a un ordine militare. Non lasciamo mai le nostre armi. » Non c’erano regole al riguardo a Stagirca anche se di certo l’abate avrebbe preferito non avere ospiti armati, ma l’anziano monaco comprese che non era il caso di opporsi. «Naturalmente, seguitemi. » I tre cavalieri furono condotti sino a un gabbiotto dentro il quale era già pronto un cesto rinforzato con assi di legno, cuoio e piastre di metallo. Mostrando un’incredibile agilità nonostante l’armatura da guerra, Tartu e i suoi compagni vi salirono. Un rintocco di campana e, dall’alto, alcuni monaci cominciarono ad azionare il meccanismo di carrucole. Dal basso l’anziano religioso rimase con il braccio teso, la torcia serrata in pugno, a osservare il cesto che trasportava i tre lungo la roccia sino al punto d’arrivo. Il sentiero che conduceva al monastero era ripido, stretto e, dopo il tramonto, completamente privo d’illuminazione. Avventurarvisi sarebbe stato pericoloso anche per il più agguerrito dei ladri. Durante le ore notturne il monastero era virtualmente isolato se non per quel cesto che saliva sfiorando i denti di roccia. Con l’oscurità che impediva la visuale, era un’esperienza spaventosa. Il vento fischiava tra gli anfratti, facendo vibrare lo strano mezzo di trasporto. Eppure i tre cavalieri restavano immobili, come se tutto ciò non li sfiorasse neppure. La salita si protrasse per una ventina di minuti e si rivelò faticosa. Il cesto aveva raggiunto un peso che sfiorava il limite e un paio di volte i monaci alla carrucola furono costretti a rallentare sino quasi a fermarsi, esausti. Finalmente i tre cavalieri raggiunsero il casotto di legno sul bastione e vi misero piede. Trovarono ad attenderli una piccola delegazione di monaci con una fiaccola. « Siate i benvenuti in questo rifugio del Signore », li salutò quello che sembrava il superiore, un uomo magro, calvo, con un occhio rovinato da una brutta infezione che lo aveva reso bianco. « Ringraziate l’abate per la sua ospitalità », venne la voce cavernosa di Tartu da sotto l’elmo. « Seguitemi, l’abate vi attende. » I cavalieri s’incunearono dietro ai monaci in uno stretto passaggio di pietra, solo parzialmente rivelato dal riflesso della torcia, ed ebbero accesso a un chiostro interno delimitato da colonne di pietra grezza, attraversato il quale si entrava nella chiesa. Nell’aria notturna risuonavano domande e risposte in greco, una litania che, seppure solo recitata, aveva la solennità di un cantico. Un penetrante odore d’incenso si accompagnava a un fumo azzurrognolo che si muoveva come animato di vita propria al centro della chiesa. Tartu e i suoi compagni passarono tra due file di alti banchi di legno occupati da una ventina di monaci che, imperturbabili, proseguivano le loro orazioni. In fondo alla sala, tra due bracieri, era visibile un sepolcro scolpito nella roccia dedicato al patrono dell’ordine. Era in quel punto che l’edificio rivelava tutto l’ingegno di chi l’aveva costruito. Dalla cupola ottagonale che sormontava il sepolcro pendeva un
grande contenitore di metallo nel quale ardevano incensi e altre essenze. Sei giovani novizi erano destinati al servizio imposto dall’abate. Durante le funzioni il luogo ove riposava il patrono doveva essere costantemente avvolto da effluvi profumati, così i giovani monaci tendevano un sistema di funi che agitava l’enorme aspersorio sopra la sala. Rispettosamente Tartu e i suoi compagni s’inginocchiarono davanti alla tomba del patrono. Lo fecero senza levarsi il casco però, da guerrieri più che da uomini di fede. Chinarono il capo, posarono le ginocchia sulla pietra e si segnarono, quindi seguirono la loro guida attraverso uno stretto corridoio sino a un refettorio riscaldato da un camino. Poco dopo vennero raggiunti dall’abate accompagnato da tre confratelli. L’abate era un uomo ancora vigoroso, dai lineamenti nobili e dalla candida barba curata. « Benvenuti nella nostra dimora. Sedetevi e dividete il nostro pasto nel nome di Dio. » Solo allora Tartu portò la mano guantata a sciogliere i ganci che fermavano il casco alla parte superiore dell’armatura. Liberò il viso brutale e altrettanto fecero Tamask e il terzo guerriero, quello che non parlava mai. « Ringrazio Nostro Signore, abate, per avervi trovati sulla nostra strada », disse il capo dei cavalieri. « Abbiamo affrontato un lungo viaggio e ci aspetta ancora molta strada. Mi chiamo Domash Tarru e questi sono i miei confratelli Gor Tamask e Manfred Koob. Siamo solo di passaggio, ma desidereremmo avere notizie sulla strada che ci aspetta. » L’abate fece ricorso a tutta la sua forza d’animo per mantenersi impassibile. I tre cavalieri avevano l’aspetto di brutali guerrieri più che di uomini di Cristo, nonostante le parole riverenti e cortesi di Tartu. Quello con il capo simile a un Icone, adorno di trecce e ninnoli, doveva essere di origine sarmata e il terzo... Mio Signore, pensò l’abate osservando il cavaliere calvo con gli occhi piccoli e il mento prognato come quello di una bestia... aveva l’aspetto di un boia. « Certo, accomodatevi e ditemi... dove siete diretti? » Tartu posò rumorosamente l’elmo sulla tavola. Si sedette mentre i novizi si affrettavano a portare ciotole di zuppa, formaggio e pane scuro oltre a brocche di vino per i tre ospiti. Prima di rispondere si segnò, imitato dai suoi compagni. Ancora una volta un gesto secco, marziale più che devoto. «A un villaggio chiamato Korekainé nella regione delle Meteore », rispose infine Tartu. L’abate si sedette a sua volta, come ipnotizzato dalla croce sul pettorale del guerriero. « Ne ho sentito parlare, molto vagamente... un luogo sperduto... » « Appunto », replicò cupo Tartu, « un posto dove la parola di Dio è stata dimenticata e forse abiurata. In quel paese ci porta la nostra missione e dobbiamo raggiungerlo il più in fretta possibile. » C’era una sfumatura cupa in quell’asserzione, che confermò all’abate i suoi sospetti. I cavalieri della Croce di Ferro venivano a punire, non a divulgare la parola di Dio. Pregò che la notte trascorresse in fretta e i tre guerrieri lasciassero presto la valle. « Credo, allora, che dovrete attraversare il fiume. C’è un traghetto per i mercanti, non
potete sbagliare: si può raggiungerlo seguendo il sentiero che attraversa il passo. Se non piove ci arriverete in meno di un giorno. » Tartu assentì. Levò il guanto rivelando una mano possente, callosa. Si versò da bere mentre, attraverso la porta della sala, giungeva l’eco dei cantici della sera.
Capitolo 22 Meteore Avevano impiegato tre giorni per organizzarsi, ma finalmente i preparativi sembravano ultimati e la battuta di caccia alla strega stava per cominciare. Era sera e in molti si erano riuniti nella locanda che in quel periodo aveva aumentato i suoi affari. Benché vino e cibo fossero stati consumati in quantità e nelle casse della locandiera fosse entrato parecchio denaro, Lupo l’aveva scorta più volte cupa e tesa, come se tutto quell’agitarsi, lucidare armi e forconi e proferire minacce non la convincesse e la paura la tenesse ancora saldamente prigioniera. Il Magister, invece, era persuaso che affidare a ciascuno un compito, preparare e suddividere vettovaglie e armi di fortuna, caricare muli e asini avesse raggiunto almeno il primo degli scopi che si era prefisso: tenere impegnate le menti e allontanare dagli animi il timore superstizioso. Gli erano capitate esperienze simili in Terrasanta, quando organizzare i crociati contro un esercito invisibile di Saraceni aveva trasformato la paura in determinazione. A volte avevano vinto, altre, nonostante tutto, perso. Ma in ogni battaglia scendere in campo intimoriti non ha mai aiutato nessuno a sopravvivere, men che mai a vincere. «Siamo pronti, direi», esclamò soddisfatto Zarko, lo stalliere, che, tra tutti, era quello che aveva concluso gli affari migliori. Assieme al fratello aveva armato un piccolo esercito diviso in sei squadre, cinque delle quali avrebbero perlustrato i dintorni seguendo i confini tracciati da Lupo su un’approssimativa mappa della regione, n sesto gruppo, di cui facevano parte uno dei soldati di Merkos e alcuni artigiani tra i quali Vargo, sarebbe rimasto a presidiare il paese con ronde regolari durante il giorno e fiaccole accese per tutta la notte. L’idea che la strega avesse potuto infiltrarsi nel villaggio e appendere il macabro avvertimento nella locanda aveva spaventato molti. Certuni avevano persino cominciato a mormorare che la presenza stessa di Lupo portava male. Questi era certo che tali voci fossero state ispirate dal vero responsabile dei delitti, ma lo tenne per sé, limitandosi a lanciare sguardi divertiti a coloro che riteneva possibili sospetti. Dopotutto il vero scopo di quella battuta era proprio spingere l’assassino a venire allo scoperto. « Certo, Zarko », replicò mentre le conversazioni si azzittivano e il suo esercito traeva coraggio dalla circostanza di essere in gruppo. « Domani mattina cominceremo il nostro giro. È importante che nessuno si muova da solo e che tutti, benché armati, siano molto prudenti; per questa ragione ho voluto i corni: chiunque dovesse trovare traccia della strega dovrà avvertire gli altri. » « Storie », tuonò Merkos, « se mi capita a tiro non esiterò a tranciarle la testa con la spada... » Lupo sorrise e bevve un goccio di vino. «Allora spero che l’abbiate affilata quanto basta, Merkos. Abbiamo a che fare con un nemico astuto e abile e il vostro armamento non è in grado di competere... quanto al braccio...» Non terminò la frase, preferendo osservare l’occhiata di fuoco che Drjangic scoccò al suo sgherro, costretto a controllarsi. In città era davvero Drjangic a impartire gli ordini ma, curiosamente,
durante tutti i preparativi della battuta, il mercante di Ragusa se n’era rimasto in silenzio, in disparte. Merkos inghiottì l’umiliazione con un sorso di vino che per metà rovesciò sul mento, poi picchiò il boccale sul tavolo. « E quanto credete che durerà questa caccia, Magister? » «Un giorno o una settimana», replicò serio Lupo, lo sguardo privo di animosità questa volta. «Di notte», proseguì pacato, «accenderemo bivacchi in cima ai colli, lontano dai corsi d’acqua e ben visibili. Non voglio che perdiamo il contatto. » « Un vero stratega, Magister, non ne dubitavo... » intervenne Drjangic. « Posso permettermi una domanda? » Lupo sospirò e aprì la mano con il palmo rivolto verso l’alto invitandolo a esprimersi. Drjangic aveva scelto quel momento non a caso. « Una volta che avrete... localizzato e accerchiato la strega, e non dubito che accadrà grazie alla vostra abilità, Magister, che ne farete? La brucerete? La ucciderete voi stesso? Oppure nel vostro codice ci sono indicazioni per eseguire un esorcismo? » Lupo rimase di pietra. Di nuovo si toccava un argomento che lo rodeva dall’interno. Abbassò le palpebre solo per un istante, poi fissò il mercante. « Come vi ho detto, non sono un religioso e non intendo comportarmi come tale. Sono convinto che la nostra strega sia un furbo assassino con uno scopo preciso. Quando l’avremo scovato lo vedrete tutti. Quindi la questione non si pone. » C’era nella sua voce una tale determinazione che persino l’eghemon esitò a replicare. La porta della locanda si spalancò di colpo. Era Xander che era stato lasciato di vedetta. « Magister », esclamò trafelato, gli occhi sbarrati, « venite a vedere: un prodigio del Maligno, qui fuori! » Era così terrorizzato che Lupo temette che il bastione faticosamente costruito in quei giorni nell’animo dei paesani si sgretolasse. Imponendosi la calma raccolse il suo bastone e si fece largo tra la piccola folla. Seguì il contadino all’esterno. Era già quasi buio, ma la sera aveva qualcosa di differente. In cima a uno dei colli a oriente del paese, verso i pozzi dov’era stato rinvenuto il cadavere di Aymar, ardeva un fuoco. Le fiamme arricciate come barbe di demoni crepitavano lontane, salendo sinuose nel buio e disegnando forme irridenti che immediatamente mutavano per diventare ancor più spaventose. « Un fuoco », disse Lupo con fermezza. «O un prodigio del Maligno?» insinuò Drjangic al suo fianco, evidentemente deciso a proseguire la discussione lasciata in sospeso. Lupo avvertì gli sguardi esitanti della piccola folla intorno a sé. « Una sfida, direi. Chiunque può accendere un fuoco. La nostra strega, o chiunque abbia ucciso quei poveretti, ci ha visto. E vuoi farci sapere che ci sta aspettando. Bene, andremo a prenderlo. » II Magister s’interruppe per un istante, poi volse lo sguardo in direzione della vecchia chiesa: « Come ho detto non sono un prete, ma questa chiesa è rimasta troppo a lungo sbarrata. Apriamo i battenti e invochiamo la protezione del Signore. Che sia una notte di veglia perché domani ci aspetta una giornata difficile ».
L’ordine impartito con autorità tacitò tutti e rincuorò gli spiriti. Sulla collina il falò continuava a bruciare, il riposo non era concesso a tutti. C’erano anime tormentate a Korekainé, alcune più di altre. Lajos, lo stalliere, sgusciò tra le case, infilandosi nella nebbia notturna. Saltellava da un punto all’altro della strada, le mani serrate alla pergamena che qualcuno aveva scritto per lui. Era ignorante, Lajos, non sapeva far di conto e neppure leggere o scrivere. Ma si rendeva conto quando un consiglio era assennato. Perciò aveva accondisceso alla richiesta che gli era stata fatta. Portare un messaggio alla strega o all’assassino. Un’offerta di pace. Prima che l’orrore li travolgesse tutti. A lui che era un uomo era affidato un compito da uomini. Correre un rischio. E benché avesse timore anche del suono del suo cuore, obbedì all’ordine perché sapeva che non c’era altra soluzione. Raggiunse il bosco poi, con le orecchie tese e il cuore in gola, inchiodò la pergamena con il messaggio al primo albero che incontrò. Non si pose l’interrogativo se potesse essere trovato o no dal destinatario: nella sua mente costui era in ogni luogo. Dato l’ultimo colpo di martello si voltò di scatto. La foresta respirava intorno a lui. Forse il Maligno era là, a guardarlo... Quel solo pensiero gli infuse energia. Lajos partì di corsa verso il paese. Se ancora avesse creduto in Dio l’avrebbe pregato di mettergli le ali e nascondere il suo corpo. La croce che Elena gli aveva cucito sulla manica della tunica da pellegrino pesava come un’incudine. La notte trascorsa in meditazione e preghiera era forse servita ai suoi compagni, ma per Lupo di Pietravecchia si era rivelata un supplizio. Alla fine aveva messo a tacere i suoi rovelli con una silenziosa invocazione al Signore, chiedendo forza e risolutezza. Poi si era chiuso di nuovo nella meditazione, concentrandosi sulla respirazione nel tentativo di svuotare la mente da paure e rimorsi e fidando nel perdono di Dio. La mattina successiva, consumato un rapido pasto accompagnato da bevande calde e corroboranti, il gruppo si mise in movimento dividendosi secondo le indicazioni del Magister. Il falò in cima alla collina aveva bruciato per buona parte della notte, ormai ne restava solo una sottile scia di fumo grigio. Prodigio o inganno, Merkos aveva deciso di puntare con il suo gruppo in quel luogo. Lupo non si era opposto. Come compagni aveva scelto solo contadini e pastori, avendo cura di selezionare quelli che gli sembravano i marciatori meno abili. Nonostante quanto aveva ordinato voleva stare da solo anche se, all’uscita del villaggio, doveva mostrarsi ligio alle regole. Notò, sulla porta della locanda, Drjangic e Rada che fissavano quello strano esercito di cacciatori di streghe. Gli sarebbe piaciuto sapere cosa dicevano, ma, in un modo o nell’altro, era certo che l’avrebbe scoperto presto. « Pensi che servirà? » Rada si voltò di scatto verso l’eghemon. « A cosa? » II mercante si strinse nelle spalle. « A scacciare il malocchio dalla regione... a che altro? » « Forse non c’è nessun malocchio sul paese », ribatté lei a denti stretti.
« Cominci a pensarla anche tu come il Magister, Rada? » « E se anche fosse? » II mercante fece un paio di passi sul tavolato dinanzi alla locanda, assorto. « Potrebbe essere pericoloso. Pensa cosa potrebbe scoprire se insistesse con le sue ricerche sul passato, spinto dalla convinzione che la strega non esiste... » « Non dirmi che tu ci credi, Ivo. » « Io? Io non credo a nulla. So soltanto che due poveracci sono morti, nient’altro. È la gente che ha cominciato a blaterare di streghe e malefici, aizzata chissà da chi... Magari è stato qualche brigante... » « E il corvo... il fuoco sulla collina? » n mercante scese in strada con l’evidente intenzione di tornare alla sua abitazione. «E tu cosa pensi, Rada, tu che sai tutto sul Maligno? C’è veramente una strega a Korekainé? » La locandiera pareva scolpita nel ghiaccio. Paura e rabbia avvampavano dietro gli occhi velati da una patina opaca, oltre la quale si potevano appena intuire emozioni roventi. « Io credo che ci sia qualcuno che vuoi farci paura, il perché non lo so. Magari il Magister potrebbe scoprirlo... » Difficile stabilire se fosse una minaccia o una semplice constatazione. Drjangic non sembrò curarsene. Si passò un dito tra la barba ben curata. « Come dicevo, Rada, la tua fiducia in questo Magister è bizzarra, dopotutto. E anche pericolosa... » E senza darle la possibilità di rispondere si allontanò.
Capitolo 23
Dopo tre ore di marcia sul terreno dissestato non era stato difficile seminare i componenti del suo gruppo. Lupo sapeva di contravvenire a un ordine che egli stesso aveva impartito, ma le continue domande dei suoi occasionali compagni di battuta e la consapevolezza che tutta quella messinscena non avrebbe portato a nulla lo avevano spinto a derogare alle sue stesse indicazioni. Dopo aver controllato la posizione degli altri drappelli, aveva accelerato il passo per una mezzora finché non era stato certo che i suoi pochi seguaci non fossero sfiniti. Lavorare nei campi e marciare come un plotone armato richiedevano un diverso allenamento. Impietosito da volti sudati e respiri ansanti, Lupo aveva concesso a tutti una sosta. Trovata una posizione favorevole in cima a un dosso, dove nessuno avrebbe potuto coglierli di sorpresa, il Magister aveva lasciato che i suoi compagni consumassero un po’ di cibo, sapendo che quel periodo di riposo avrebbe permesso loro di recuperare le forze, ma, nello stesso tempo, avrebbe ridotto la loro attenzione. Così la protesta, quando si era alzato dichiarando di voler compiere un giro nella zona circostante, era stata solo formale. Del resto Lupo non aveva intenzione di lasciare sole per molto le sue « pecorelle ». Il tempo di riflettere e vedere se il suo stratagemma aveva sortito qualche effetto. Magari attirare il misterioso nemico allo scoperto. Merkos, come nelle previsioni, si era diretto a spada sguainata nella direzione in cui la notte prima era divampato il falò. Lupo era certo che si trattasse di una falsa pista. Aveva bisogno di trovarsi solo, come qualche giorno prima, con il vantaggio che tutta quella folla infervorata e pronta a catturare la strega avrebbe costituito un problema per il suo avversario e forse lo avrebbe indotto a qualche imprudenza. Tuttavia, sbucando oltre una gola serrata tra due lastre di pietra coperte di licheni, si trovò di fronte a qualcosa d’inaspettato. Il vecchio albero dominava il sentiero. Gigantesco, ancorato al terreno da radici nodose che s’aggrappavano alle rocce e all’erba come dita, aveva un tronco coperto da una corteccia ruvida e irregolare sulla quale si notavano le unghiate di un animale selvatico. Fronde e rami s’intrecciavano come in un’opera d’arte scolpita da un maestro intagliatore. Quel maestoso albero pareva davvero un’opera d’arte, una cattedrale più antica di qualunque edificio di culto eretto dall’uomo in quei luoghi, munito di arcate frondose, sorretto da pilastri di legno scuro e ricco di nodosità sporgenti. Il ricordo di un tempo e di un culto antico che, secoli prima, aveva dominato quelle e altre ancor più lontane regioni. Era un albero sacro, di quelli adorati dai pagani. Il simbolo di una religione arcana nata dallo stupore di uomini incolti e selvaggi di fronte ai fenomeni della natura. Eppure là, tra quelle montagne, reclamava ancora rispetto e imponeva devozione. Lupo vacillò, vinto ancora una volta da vecchi fantasmi. Piantò il bastone nel terreno serrandolo sino a procurarsi un’escoriazione alla mano. I discorsi provocatori di Drjangic, i suoi stessi demoni lo rendevano vulnerabile. Perché era stato proprio di fronte a un albero così, «vivo» in un modo che sarebbe
stato blasfemo solo cercare di spiegare, che la fede di Lupo di Pietravecchia, cavaliere d’avventure, giovane cristiano animato dagli ideali delle chansons e, soprattutto, desideroso di fama, amore e ricchezza, aveva vacillato e ceduto. Senza fiato, chiuse gli occhi tornando a poco più di dieci anni prima in terra d’Aquitania. Era stato un virgulto oscillante tra entusiasmo e insicurezza, allora. Aveva dubitato di sé e, spinto dalla bramosia di gloria che solo l’inesperienza della vita vera può accendere nel cuore di un ragazzo, aveva ceduto. E le conseguenze di quel gesto lo avevano perseguitato per tutta la sua esistenza. Uno scampanellio misterioso, innaturale in quelle lande, lo costrinse a riaprire gli occhi e tornare al presente. Fu un istante terrificante in cui la vista rimase annebbiata mentre l’aria fredda bruciava nelle narici e in gola. Si mosse impugnando il bastone con la punta protesa verso la macchia da cui emergeva l’albero. E questo, di fronte a lui, ritornò a essere ciò che era sempre stato. Una pianta centenaria, cresciuta tra asprezze e temporali ma null’altro che legno, radici e foglie. Quel suono cristallino e insistente tornò a farsi sentire. Era sopra di lui, intorno, gli martellava i timpani. « Chi è? » gridò. Nella mente invocò il suo Dio, pregandolo ancora una volta di perdonarlo e d’infondergli la forza per affrontare ciò che lo minacciava. Di nuovo quel suono, più vicino, distinto. E non veniva dall’albero... certo che no. I fantasmi di quel giorno non avevano niente a che fare con i suoi vecchi spettri. Forse non erano neppure fantasmi. Con un gesto misurato, da soldato di Cristo, il Magister ruotò la punta del bastone assumendo una nuova posizione. Fronteggiava una pozza d’ombra proiettata da alti arbusti su una roccia scheggiata. Lo scampanellio improvvisamente cessò lasciando spazio al silenzio della montagna e la figura emerse dall’oscurità della macchia. Una donna. Difficile attribuirle un’età precisa ma doveva essere giovane. Venti primavere, non di più. Era la stessa figura che Lupo credeva di aver scorto il giorno in cui avevano recuperato il cadavere di Aymar. Magra, pallida, i lunghi capelli color del fuoco che scendevano a boccoli, incorniciando un volto se non bello almeno attraente: ossa sporgenti come spigoli, il naso diritto, le labbra vermiglie che risaltavano ancor di più nel pallore della pelle. Gli occhi, sormontati da lunghe sopracciglia, possedevano una luminosità naturale che paralizzava con la promessa di prodigi oscuri. La ragazza compì un passo in avanti scavalcando una radice e ponendosi in piena vista perché Lupo potesse osservarla a suo agio. Era scalza e dallo spacco del vestito di tessuto grezzo e scuro spuntava un ginocchio quasi bianco, dal quale s’allungava una gamba cinta da una catenella d’argento. Lo scampanellio era venuto da lì, ma non accidentalmente. La misteriosa creatura aveva appositamente provocato quel suono per attirare l’attenzione del Magister. Avanzò ancora, senza paura, portandosi a distanza ravvicinata. Solo un tratto di bastone li divideva, ma lei non pareva temere nulla. Né mostrava di possedere armi.
Alzò le mani sul cui dorso s’inseguivano intrecci di disegni floreali tracciati con xina vernice rossa che Lupo aveva visto usare in Oriente. Non disse nulla, limitandosi a guardarlo con aria di sfida. « Sei tu la strega? » domandò il Magister mentre, rapidissima, gli passava per la mente l’immagine del corpo sfigurato del suo antico compagno d’arme. « Mi chiamo Makya », replicò lei con un tono acuto, che feriva le orecchie. « Sì, forse alcuni di quei valligiani direbbero che sono una strega. Conosco erbe e filtri d’amore... e altre cose meno innocenti. » Si passò una mano sul collo, mostrando lascivamente un lembo di pelle scoperta tra i seni. Lupo protese il capo, la presa sempre salda sull’arma, e notò sulla pelle un simbolo color indaco marchiato a fuoco, simile a una falce. « La Luna », sussurrò. « Tu fai parte della Sorellanza della Luna. » Makya inarcò un sopracciglio e gli concesse un sorriso. « Se hai sentito parlare di noi, allora sai che non siamo assassine e non adoriamo demoni. Tantomeno ci accoppiamo con loro, nonostante ciò che asseriscono i preti. Seguiamo solo una via differente, antica. Soprattutto cerchiamo giustizia. » Lupo si decise, e non senza sforzo, a cambiare la posizione del suo bastone, tenendolo con una sola mano, in verticale. « Giustizia? » « Per i crimini commessi qui, in queste terre. I segreti che tutti vogliono mantenere tali. » « Di cosa stai parlando? » « Di ciò che aveva scoperto il giovane prete, di quello che ha fatto impazzire il vecchio e che ha provocato la morte di due uomini, tra cui un cavaliere. » «Tu...?» Lei non si scompose di fronte al tono aggressivo di Lupo. « Io no. Hai la mia parola, e se cercherai ancora te ne renderai conto. Dopo di che starà a te scegliere. Ti consiglierei di andartene, ma non lo farai. » « E come puoi dirlo con certezza? » Un nuovo sorriso, più enigmatico ma meno sfrontato. « Perché ti ho visto tremare di fronte a quell’albero, perché sei un uomo complicato. Ti ho spiato in questi giorni. » « Dunque eri tu... » «A seguirti? Sì, ma non ho cercato di travolgerti con una frana, né ho fatto nulla di male a te o a nessun altro... per il momento. » « Non mi piacciono i tuoi enigmi! » Lupo protese una mano ma non terminò il movimento. Le dita rimasero aperte nel vuoto, come se qualcosa dentro di lui gl’imponesse di non toccare la ragazza. Lei notò quel gesto abbozzato e dovette trame qualche conclusione perché sorrise di nuovo, beffarda. «Sappi che sono qui per una ragione importante. Cerco qualcosa che appartiene alla Sorellanza e per cui è stato versato sangue innocente... tempo fa e anche oggi. Puoi cercare di comprendere, ma non provare a fermarmi... non ostacolarmi. » Questa volta niente avrebbe impedito al Magister d’interrogare la giovane donna con ogni mezzo necessario. Era scoccata in lui una scintilla così potente da non poter essere soffocata. Ma una serie di rumori, voci e richiami lo costrinsero a volgersi.
« Magister? Dove siete? » echeggiò una voce. Uno dei contadini aveva terminato di rifocillarsi e, notando la sua assenza, doveva aver istigato gli altri a mettersi sulle sue tracce. Dovevano essere appena oltre la gola. Restò solo un istante indeciso sul da farsi. Volse il capo verso lo sperone di pietra che celava il passaggio: ancora non si vedeva nessuno, ma i suoi compagni di caccia dovevano essere vicini. Tornò a cercare Makya... la ragazza era già sparita nel folto d’alberi. Ancora una volta nell’aria tintinnò il suo campanello, come una risata di scherno. Poi il Magister si trovò solo di fronte al grande albero. I valligiani sopraggiungevano e dovette ricomporsi. Decise in un istante di non rivelare nulla di quell’incontro. Almeno finché non ne avesse chiarito il significato,
Capitolo 24 Sbucarono come un’orda, anche se non erano che una decina. Brandivano maldestramente forconi e impugnavano vanghe, ma nei loro occhi c’era la risolutezza che nasce dal timore. In un’altra occasione Lupo avrebbe riso di tale foga, ma restò impassibile. «Magister», disse Eurides, un contadino con le braccia troppo lunghe rispetto alle gambe arcuate. «Cosa succede, siete scomparso e voi stesso avete detto che... » « Lo so ciò che ho detto, amico mio. Come vedete ho con me un corno... se ci fosse stato pericolo vi avrei chiamati. » « Ma », fece il contadino poco convinto, « ci è sembrato di sentire... un rumore strano... » Lupo si avvicinò all’uomo e gli pose la mano sulla spalla con autorità. « In questi casi, Eurides, è importante saper distinguere tra ciò che ci sembra e ciò che è realmente: cos’avete sentito? Sapreste descriverlo? » Un’ombra d’incerta inquietudine passò negli occhi del contadino. La mano del Magister sulla spalla lo intimidiva, pensare non doveva essere la sua qualità migliore. Aggrottò la fronte, poi, con un sospiro, scosse la testa. «Mah... non saprei... una risata, parole. » Lupo mantenne le dita salde sulla spalla dell’uomo, quindi si voltò verso il bosco indicandolo con il bastone. « Sono i rumori della natura, il vento tra le frasche. Qui non c’è nulla. Ho controllato io stesso. » Per alcuni istanti il gruppo rimase immobile di fronte all’albero centenario che si fondeva ora con il bosco circostante. Sassi, vegetazione, aria che sibilava tra le fronde. Eppure era un universo che esercitava una potente suggestione sulle menti degli uomini. «Dunque voi non credete nella strega, Magister?» azzardò Eurides dopo aver deglutito per farsi coraggio e formulare la domanda che turbinava nella mente di tutti i suoi compagni. Una domanda sagace, Lupo doveva ammetterlo. « No », disse confermando la sua decisione di tenere per sé ciò che aveva appena visto, « io credo che ci sia qualcuno che si prende gioco di noi... in maniera crudele ma per uno scopo personale. » Prima che altre domande potessero agitare il gruppo, il Magister ordinò di riprendere la marcia. Per tutto il giorno batterono la zona. A un tratto furono persino richiamati dal suono del corno di uno degli altri gruppi comandato da uno sgherro di Merkos. Un falso allarme ma non per questo meno pericoloso. Andando a frugare in ogni anfratto delle pendici delle Meteore gli uomini avevano risvegliato un’orsa che si era precipitata fuori della sua tana, sbavante, inferocita, per difendere i suoi piccoli. Quella sorta di battaglia terminata con una fuga precipitosa dei cacciatori di fronte al reale pericolo costituito dall’animale riuscì in qualche modo ad allontanare le menti dall’idea del maleficio incombente. I due gruppi si ricongiunsero accampandosi per la notte su un’altura. Furono scambiati segnali con gli altri, ma della strega nessuna traccia.
Lupo sbocconcellò qualcosa, poi trovò un posto relativamente asciutto e comodo e si avvolse nella sua tunica, il bastone a portata di mano. Le voci dei suoi compagni gli arrivavano a fatica, affievolite. La mente era altrove. C’erano, per la verità, due cose che lo turbavano. Una riguardava ciò che Makya aveva rivelato relativamente al motivo che l’aveva spinta da quelle parti. Recuperare qualcosa, un oggetto prezioso o magico che apparteneva a quella Sorellanza di cui si favoleggiava in tutto il Centro Europa ma della quale nessuno aveva notizie precise. Makya aveva parlato di recuperare... quindi qualcosa era stato sottratto e, secondo le sue parole, del sangue era stato versato in passato e anche in quei giorni. La giovane aveva ammesso la sua presenza nella regione, dichiarando persino di aver seguito Lupo ma di non aver tentato nulla contro di lui. Quindi la sua ipotesi che ci fosse un assassino che cercava di farsi passare per la strega prendeva sempre più corpo. Ma più in là, anche volendosi fidare delle parole di Makya, il Magister non poteva spingersi. Poi c’era la stessa Makya. Il suo viso gli tornava alla mente, con una vivezza di particolari come se lo avesse di fronte. Riusciva persino a evocare esattamente il suono della sua voce, come quello scampanellio che si era tanto affannato ad allontanare dalle menti dei suoi ingenui compagni. Perché? Era un incantamento? Un trucco per assoggettarlo alla sua volontà, per dominarlo? Per quale ragione? E perché lui? Con un gesto di stizza che nel buio sfuggì ai suoi compagni, Lupo si spostò nel giaciglio cercando una posizione più confortevole. No, lo sentiva. Non era preda di nessun maleficio. Era sempre lui, un cavaliere maledetto da se stesso ma libero nelle sue scelte. E allora? La verità gli balzò alla mente mentre già il sonno stava per avere la meglio sulla sua resistenza. Dopo molto tempo, tra quella gente e forse proprio perché aveva ripreso il contatto con persone autentiche, Lupo si sentiva solo. E, tra tutti, Makya era la persona che trovava più affine, sebbene per un motivo che ancora non era in grado di spiegare. Ammettere quel pensiero non fu facile, ma quando l’ebbe accettato si sentì sommergere da un’ondata di calore e spossatezza che lo accompagnò dolcemente sino al giorno successivo. L’indomani trascorse senza eventi se non un lungo procedere di colle in colle, sempre in mezzo a una natura silenziosa ma popolata da presenze impalpabili. Lupo e il suo gruppo tornarono persino alla caverna di Habras senza trovarvi segni di vita. E neppure di morte. H vecchio eremita, l’antico prete di Korekainé che qualcosa aveva spinto su un sentiero di solitaria follia, pareva svanito. Nel primo pomeriggio del terzo giorno tutti i gruppi, dopo un fitto scambio di segnali, si riunirono sulla collina dove era arso il fuoco che solo poco tempo prima aveva riempito tutti di timore superstizioso. Merkos arrivò per primo. Lupo lo trovò accanto alle radici carbonizzate di un albero
solitario che qualcuno aveva cosparso di pece e poi dato alle fiamme, creando quell’effetto che aveva spaventato tutti. Il soldato compì un gesto che esprimeva tutta la sua frustrazione. Quando vide il Magister piantò con un movimento esasperato la sua scure nel tronco annerito, liberando una pioggia di fuliggine. La lama penetrò facilmente con un rumore sordo. « Non sono trucchi da strega questi », grugnì Merkos scoccando un’occhiata a Lupo, come volesse sfidarlo a dire la sua. Il Magister si avvicinò, cosciente degli sguardi di tutti su di sé. «No», disse semplicemente, poi si voltò guardando verso il villaggio. Nella bruma pomeridiana Korekainé s’intravedeva appena, come un luogo sospeso tra due mondi, né reale né fantastico. «E la strega non c’è... non in questi boschi/ li abbiamo battuti palmo a palmo », insisté Merkos. Lupo, in verità, aveva colto movimenti furtivi vicino a loro durante la caccia e si era convinto che si trattasse sempre di Makya. Aveva sperato persino di rivederla ma non era avvenuto, così aveva deciso di mantenere il silenzio. « Per una volta avete ragione, Merkos. Sono convinto che il nostro nemico, l’assassino, sia laggiù », e indicò il villaggio. Il viso del soldato si contrasse in una smorfia. « Cosa volete insinuare? » « Che non è il Maligno che cerchiamo, ma una mente abile e malvagia che gioca con la superstizione. E che il Male che ha colpito questo luogo ha origine qui e non altrove. Nel suo passato. Ne sapete nulla voi, Merkos? » Fu questione di un istante. Un accenno di trasalimento che l’espressione brutale aiutò a celare. Ma Lupo si convinse che anche lui, come tutti coloro che parevano essere arrivati per primi nel villaggio, sapeva qualcosa. Solo che non sarebbe stato facile cavarglielo di bocca. Drjangic, Rada, il vecchio Habras, Merkos e forse anche Lajos e Zarko... in sei conoscevano il segreto. Qualcosa che il giovane Gheorghis aveva scoperto per caso, che lo aveva spaventato e che gli era poi costato la vita. E probabilmente era stato così anche per Aymar. E poi c’era Makya. Lei sapeva. Quantomeno conosceva particolari che Lupo ignorava. Prima che avesse l’opportunità di porre a Merkos la domanda che gli bruciava sulle labbra, quella che gli avrebbe permesso di collegare Habras alla storia del villaggio, udirono un corno. Veniva dalla guardia che avevano lasciato a presidiare il villaggio. n suono riverberò tra le colline al sole calante. Arrivava da uno dei pozzi cittadini, poco dietro il grande fienile del mugnaio. « Presto, andiamo », ordinò Lupo decidendo di rimandare a un momento più propizio ulteriori pressioni sul soldato. Dall’insistenza di quel suono che arriva disperato alle loro orecchie, aveva un pessimo presentimento. E Merkos parve condividere i suoi timori perché recuperò l’ascia e rivolse un cenno imperioso ai suoi uomini.
Corsero lungo un sentiero appena segnato. Lupo serrava il bastone, l’occhio attento alle alture circostanti. Nonostante l’affanno e la sensazione di urgenza che lo spingevano a muoversi più rapidamente degli altri, raggiungendo la testa del gruppo, era consapevole di essere spiato. Giunse per primo sul posto da cui era arrivato il segnale e vide immediatamente uno dei guardiani, circondato da una piccola folla di paesani vecchi e troppo deboli per partecipare alla caccia alla strega. Una caccia inutile perché, proprio come aveva detto Lupo poco prima, il pericolo non si era mai allontanato da Korekainé. Lajos lo stalliere giaceva a pochi metri dal pozzo. Era disteso sul ventre, la mano ancora rattrappita sul secchio che era venuto a riempire. Mentre rallentava la sua corsa Lupo avvertì l’odore del sangue fresco e vide la macchia scura che s’allargava intorno al corpo impregnando il terreno. Che fosse Lajos non c’erano dubbi, a giudicare dalla corporatura e dai vestiti. Ma il bacio della strega aveva sfigurato anche lui, aprendogli uno squarcio che dalla nuca si era fatto strada sino alla parte anteriore del cranio, trasformata in una maschera oscena.
Capitolo 25 Lajos era stato sorpreso da un assassino abile e pronto a cogliere l’occasione propizia. Il sangue non si era ancora rappreso e colava sul terreno duro dove non restavano tracce. Era stato vibrato un unico colpo e sul corpo dello sventurato non si notavano altri segni di lotta. Un’azione decisa e non un assalto bestiale di una creatura demoniaca. Lupo era chino sul corpo e analizzava ogni particolare che il cadavere poteva suggerirgli. Era stata un’azione azzardata, forse, ma l’assassino aveva dimostrato sangue freddo. Quanto alla ferita che aveva ucciso Lajos, Lupo stava cogliendo - era la prima volta che aveva l’occasione di osservare una vittima appena uccisa - una traccia che gli suggeriva un ragionamento nuovo. Fu costretto però a interrompersi quando avvertì un trambusto intorno a sé. Non si trattava solo del sopraggiungere degli esasperati e spaventati cacciatori di streghe che per tre giorni avevano inutilmente battuto la zona. No, anche chino sul corpo di Lajos, Lupo coglieva alle sue spalle un turbinio di emozioni tradito da grugniti, frasi sommesse, quel genere di pericolose avvisaglie che aveva imparato a riconoscere quando la folla si raduna e si fa coraggio. « Lui... è colpa sua se il Male si è abbattuto su di noi! » Era la voce di Zarko, il fratello dell’ultima vittima. Uno di quelli che, probabilmente, conoscevano la verità ma facevano di tutto per celarla. E magari avrebbero trovato in Lupo un comodo capro espiatorio. Il Magister si alzò serrando il bastone. Si voltò senza assumere atteggiamenti minacciosi ma con lo sguardo attento del guerriero. Intorno a lui si era chiuso un cerchio. Le espressioni sconvolte che aveva notato quando era stato ritrovato il corvo adesso si erano caricate d’ira e di rimprovero, e anche coloro che avevano creduto in lui dubitavano. La sensazione di essere veramente solo lo percosse come un pugno ma riuscì a non vacillare. Zarko dominava la piccola folla, il viso deformato da violente emozioni. « Non abbiamo trovato traccia della strega... ma il Male ha colpito di nuovo. Mi ha portato via mio fratello che non aveva colpe né segreti... Ed è successo tutto da quando quest’uomo, questo Magister, è arrivato qui! » La voce fremeva di rancore mescolato a paura. Di certo Zarko non sapeva nulla della morte del fratello, la sua indignazione, peraltro comprensibile, nasceva dal dolore. «Ma il prete e il cavaliere sono morti prima...» azzardò Xander. A Lupo parve che la gente quasi prendesse le distanze dal grosso contadino come per rinnegare la sua opinione. Zarko, invece, gli si avvicinò minaccioso. « E chi ci assicura che non li abbia uccisi lui? Il Magister, l’uomo che forgia il metallo da solo sulle montagne... che conosce i libri e magari adora il Diavolo. » Ci fu un sussulto tra la folla, come un’onda di piena che infrange una barriera e poi si ritira per caricare di nuovo con una violenza inarrestabile. Drjangic osservava la scena in silenzio, una mano sul mento e l’atteggiamento di
chi sa che non ha bisogno d’intervenire quando altri fanno il suo gioco. «Già, spiegateci un poco cosa fate tutto solo su quella montagna », incalzò Merkos. « Cosa studiate... cosa cercate? » « La logica che i filosofi greci ci hanno insegnato nell’interpretare i fatti, a volte », replicò Lupo con voce ferma. « Eravamo insieme su quel colle, e non potevo certo correre qui a uccidere Lajos poco fa. E con cosa? Con un bastone? O pensate che sia io ad aver lasciato il bacio della strega? » Il tono secco colse impreparato lo sgherro, ma Zarko non era altrettanto disposto a cedere. Con gli occhi velati raggiunse il Magister minacciandolo con il pugno serrato. «Forse avete un complice, o forse non c’entrate veramente, ma con la vostra presenza avete attirato il Male sul paese... Prima la strega colpiva solo sui sentieri e adesso... adesso è qui, nelle nostre case, e voi, colpevole o no... non potete allontanarla. Forse se vi lapidassimo gettandovi ai corvi, gli spiriti del Male...» « Basta! » tuonò una voce inaspettata. « Voi tutti, vigliacchi, mi fate schifo. Prima siete corsi a chiedere aiuto a quest’uomo e adesso siete pronti a sacrificarlo come se ciò potesse bastare a placare il Maligno. E vi chiedo, cosa ne sapete voi del Maligno per dire cosa può placarlo o cosa, invece, lo spinge a essere più ardito? » Lupo stesso era rimasto sorpreso: mai si sarebbe aspettato che Rada prendesse le sue partì. Eppure la locandiera, i capelli sciolti sulle spalle, si era staccata dal gruppo per mettersi di fronte a Lupo, anzi tra lui e Zarko, quasi volesse proteggerlo. «E tu lo sai, Rada?» chiese Drjangic con voce pacata ma venata di un’ironia così pungente che la locandiera stessa rabbrividì. La donna sbatté le palpebre. « La paura, ecco cosa alimenta il Male, in ogni luogo e in ogni tempo. » E quella era la spiegazione di cui Lupo aveva bisogno per comprendere il suo atteggiamento e la sua natura, che andava ben più in là di quella di una semplice locandiera. Nei brevi istanti di silenzio che seguirono la situazione tornò normale. L’onda di collera che quasi aveva spinto i contadini contro il Magister si placò per lasciar spazio a una costernata disperazione. Persino Zarko sembrava essersi calmato. Si era inginocchiato e chiamava piano il fratello morto, come svuotato di ogni energia. «Prepariamo una pira e ricomponiamo i resti di Lajos», disse il Magister cogliendo l’occasione d’imporre nuovamente la sua autorità. Doveva stare attento. Era finito in una trappola e l’aveva scampata per poco. L’assassino, chiunque fosse, lo aveva portato esattamente dove voleva che lui si trovasse. Un’altra piccola spinta e la furia dei paesani si sarebbe rivolta contro di lui. Lentamente, con le spalle basse e lo sguardo vuoto, gli uomini si diedero da fare per eseguire il suo ordine. Rada non si era mossa di un passo. Si rassettò lo scialle e fece per allontanarsi. « Dobbiamo parlare », sussurrò a voce così bassa che solo il Magister fu in grado di udirla.
Capitolo 26 Ancora una volta era toccato a Lupo dar fuoco alle fascine radunate dagli abitanti di Korekainé vicino al pozzo. La solennità di quel rito concepito per scongiurare il Maligno e purificare la vittima dal contatto con il suo assassino ebbe il potere di restituire al Magister parte dell’autorità perduta in quei giorni di caccia inutile culminati in quella specie di sfida davanti al cadavere di Lajos. Al tempo stesso aveva avuto l’opportunità di chiudersi in un silenzio pieno di contegno e di esaminare ciò che i fatti gli dicevano. Una volta ancora la strega - o chiunque volesse farsi passare per essa - aveva ucciso e, di sicuro, lo aveva fatto per uno scopo. Secondo la tradizione la morte era avvenuta presso un deposito d’acqua e ciò confermava le leggende ma, in questa occasione, l’assassino non aveva avuto il tempo di tracciare i segni magici che Lupo aveva rinvenuto sulla scena dei precedenti delitti e che sapeva essere un mero sotterfugio per terrorizzare i contadini. Forse l’assassino non aveva avuto tempo o, più probabilmente, non aveva voluto forzare la fortuna. Per incutere timore bastava la morte di Lajos e l’orrenda ferita che lo aveva marchiato. La morte di uno dei pochi che forse conoscevano gli antichi segreti di Korekainé poteva avere due scopi. Eliminare chi era al corrente di tali misteri e avvertire gli altri. Lupo si era convinto, ricollegando parole e allusioni del suo singolare incontro con Makya, che quel « qualcosa » cui aveva accennato la giovane fosse un amuleto o un cimelio antico, probabilmente il vero obiettivo di tutto ciò. E ora l’assassino stava dicendo a quei pochi che sapevano la verità: Sono qui e vi ucciderò tutti in un modo orribile se non mi darete ciò che voglio. Makya aveva ammonito il Magister a non mettersi sulla sua strada ma, al tempo stesso, aveva anche affermato di non essere stata lei a far scorrere il sangue, e Lupo le credeva. Mentre il fumo denso e acre della pira funebre si alzava sfilacciato dal vento decise che era giunto il momento di scoprire il segreto di Korekainé. E c’era una sola persona, un unico anello debole che poteva tirare per ottenere un risultato. Del resto era stata la stessa Rada che, schierandosi dalla sua parte, aveva mostrato il fianco e tradito la necessità di aprirsi con lui. Al termine della cerimonia la gente si disperse. Imbruniva e tutti parevano aver perduto l’animosità di poco prima, vinti dal timore e dal freddo, desiderosi solo di rientrare nel relativo rifugio delle proprie case. Zarko, il fratello dello stalliere ucciso, si avvicinò alla pira fumante con un’urna d’argento e una specie di grosso cucchiaio di legno. Rivolse uno sguardo mesto a Lupo. « Perdonatemi, Magister, le mie parole erano dettate dalla rabbia e dal dolore... Ho il permesso di raccogliere le ceneri di mio fratello? È tutto ciò che mi resta della mia famiglia sin dai tempi in cui giungemmo qui da Gostivar. » Lupo assentì. Era sorprendente constatare come fosse mutato lo spirito di quell’uomo in poco tempo.
« Certo, Zarko, ho compreso la ragione della vostra rabbia e non ve ne voglio. Vi dimostrate un bravo cristiano a occuparvi dei resti di vostro fratello. » «Non credete che il Maligno possa averlo contaminato dannando la sua anima? » Lupo compì un passo verso il villaggio poi scosse la testa. «Ormai le fiamme hanno purificato ogni cosa. In quanto alla sua anima la sua salvezza dipende da ciò che ha compiuto da vivo e sta a Nostro Signore giudicarlo. Ma ditemi, quando arrivaste qui, Korekainé esisteva già? » Tanto valeva tentare anche in quella direzione. Ma Zarko sembrò irrigidirsi, contrasse il viso e cominciò a raccogliere le ceneri. «S-sì, Magister... c’era la vecchia chiesa... e l’eghemon aveva appena aperto il suo posto di scambi. Noi fummo tra i primi a vedere la possibilità di rifornire mercanti di passaggio e contadini di animali e foraggio... Era un tempo differente. Oggi è calata una grande maledizione su questo luogo. Possa il Signore illuminarvi affinché troviate una soluzione. » Un agnellino, pensò Lupo con un moto di rabbia. O forse una maschera per bloccare ogni ulteriore domanda sul passato del paese. Gli posò una mano sulla spalla. « Compite il vostro dovere cristiano, Zarko, poi rientrate in casa. Questo luogo non è sicuro. » L’altro assentì, poi riprese il suo macabro lavoro borbottando in una lingua che assomigliava al greco delle preghiere più che esserlo realmente. Nella locanda ardeva il fuoco ma dal camino arrivava solo un relativo calore e la luce era bassa. Non c’era alcuna traccia della servetta che Lupo aveva visto spesso aiutare la padrona ad accudire i clienti. Quando entrò nella sala principale non si stupì di trovarla vuota. Nessuno aveva desiderio di bere o divertirsi quella notte. «Un bicchiere di vino aromatico riscaldato, Magister?» domandò Rada da dietro il bancone. Intorno a lei le tenebre s’inseguivano sino al piano superiore materializzando figure minacciose. «Ve ne sarò grato, Rada, e ancora devo ringraziarvi per essere intervenuta oggi. Per un momento ho temuto che avrebbero messo me, su quella pira. » La donna scivolò da dietro il bancone con due boccali fumanti e lo raggiunse al tavolo, Il freddo e la scarsa illuminazione l’avevano come rinsecchita, esaltando unicamente la luminosità degli occhi. « Oh, lo avrebbero fatto, e qualcuno forse desidera liberarsi di voi. » Lupo abbozzò un sorriso sperando che lei lo interpretasse come una manifestazione di spavalderia. « E voi sapete di chi si tratta? » Rada si aggiustò la ciocca bianca sfuggita sugli occhi dalla chioma. « Da quando hanno lasciato il corvo inchiodato sulla vostra porta la gente ha paura di venire qui. » « Quindi dovreste essere contenta se mi cacciano o se mi uccidono. Del resto questo mi pareva il vostro stato d’animo sin da principio... eppure vi siete schierata con me. Per quale motivo? » « E credete che, se pure ve ne andaste o, peggio ancora, se foste ritenuto colpevole di trafficare con il Maligno, la mia situazione migliorerebbe? Drjangic mi ha imposto di tenervi qui e adesso, qualunque cosa accada... se la paura spinge gli uomini ad accendere roghi, il fuoco si propaga in fretta. Questa casa è considerata maledetta, lo vedete bene. Nessuno ci viene più a bere volentieri. Se quei poveri idioti terrorizzati
se la fossero presa con voi, io vi avrei seguito. Ma adesso si sono calmati. Hanno bisogno di una guida. » Lupo si riscaldò con una sorsata di vino riflettendo su quanto aveva appena udito. « Drjangic vi ha imposto la mia presenza... credete che potrebbe desiderare anche che io cada in disgrazia? » Gli occhi di Rada sfavillarono per un istante, « Di certo non vi ama... ma io non ho detto nulla. » « Davvero? A me sembra che ogni vostro atteggiamento sia più che esplicito. Avete ammesso di saperne di più degli altri sul Maligno e nessuno vi ha contraddetto... adesso insinuate che Drjangic potrebbe aver spinto la collera della gente contro di me... e contro di voi... » Rada sembrò come attraversata da una saetta. Afferrò il polso di Lupo facendogli quasi rovesciare il boccale. « Badate bene, Magister, io non ho detto nulla. Non attribuitemi parole che non ho pronunciato. Qui nessuno insinua nulla contro Drjangic, nulla, capite? » Lupo le posò fermamente la mano sulle dita costringendola a calmarsi. « D’accordo, ma non negate di sapere qualcosa di queste... stregonerie? » « Non m’indurrete a confessare di essere una strega », sibilò Rada, « non lo sono. Non sono io ad aver portato la morte a Korekainé. » « Non ho detto questo. » Lei sospirò. Il buio premeva su di loro e Lupo si sentiva certo di aver aperto una piccola breccia. Rada, infatti, distolse lo sguardo per un attimo, poi bevve un po’ di vino come per darsi coraggio e tornò a rivolgersi a lui. « Io so quello che sanno tutte le donne. Raccolgo erbe, a volte sento le voci dei boschi, cose imparate dalle vecchie. Niente altro, l’ho già detto, dovreste ricordarvene. » «Se la vostra memoria è così salda allora saprete anche spiegarmi qualcosa sulle origini di Korekainé, perché credo che, qualunque sia la causa di questo maleficio, se così vogliamo insistere a chiamarlo, si annidi nel passato. Ditemi, è stato Drjangic a fondare il paese? » Lei resistette per il tempo di un’altra sorsata. « In pratica sì, prima era solo un ammasso di abitazioni disordinate. Lui ha portato i fratelli Lajos e Zarko, ha chiesto a me di gestire questo locale che ha pagato con i suoi soldi, ha organizzato la stateia di Merkos. » « E questo è interessante. Venivate tutti da Ragusa? » «No... io ho conosciuto Drjangic molto tempo fa a Matejice... Mi guadagnavo da vivere in posti come questo, ma vi chiedo di non domandare ulteriori particolari. » Lupo aveva frequentato postriboli e meretrici a sufficienza in Terrasanta e anche in altri luoghi per non comprendere l’orgoglio di una donna che, con sofferenza e fatica, ha cambiato la sua condizione. Annuì cercando di comunicarle fiducia, ma trovò ancora timore. «E Merkos? Un soldato di qualche genere... » fu colto da un pensiero. « Che voi sappiate, Drjangic è stato ufficiale di qualche esercito? » « No, lui ha sempre rifornito i soldati. Di armi, di cavalli, di... donne. » Non c’era bisogno di aggiungere altro, Il mercante aveva scoperto quel punto di passaggio e vi aveva organizzato una comunità riproducendo ciò che aveva fatto sulla costa. Tutti
erano legati, in un modo o nell’altro, a lui. E tutto ciò rafforzava un’idea che lentamente ma con sicurezza s’era fatta strada nella mente del Magister. Gli omicidi erano stati commessi con un’arma, ormai Lupo ne era sicuro. L’aveva compreso esaminando quell’ultima ferita e poteva asserire che non era il bacio della strega a sfigurare le vittime, ma un oggetto che lui stesso aveva visto sui campi di battaglia. Un’arma usata da mani avvezze a quel genere di esercizio. Mani di soldato. Di loro volontà o comandate da un padrone. « E dove stanno Merkos e i suoi uomini, abitualmente? » Rada gesticolò nel vuoto, indicando qualcosa oltre i muri della locanda. « In un casolare dietro le stalle. A volte ci portano le ragazze che vengono qui. Vivono come animali... Non sono veri soldati, non più. Sono briganti che Drjangic usa come sgherri. » « E Habras, il vecchio prete, quello che è impazzito e ha forse sconvolto la mente del giovane Gheorghis? Qual è la sua storia? Mi ha sorpreso scoprire che quel vecchio eremita una volta era un uomo di Dio. » La donna trangugiò il resto del suo vino con una smorfia e ruttò sonoramente. «Un uomo di Dio? Ma di quale Dio? Habras era... malvagio, depravato e... » « Rada, sapete che è scomparso? Da quando è iniziata questa vicenda è sparito dalla sua grotta e non v’è traccia di lui. L’ho cercato io stesso, e anche con l’aiuto degli altri in questi giorni... » Lei si ritrasse sulla panca. Adesso la paura era ancora più evidente. Era chiaro che un sospetto l’aveva attraversata. « Come? Habras scomparso? E dove può essere andato? » « Non ne ho idea, ma... voi state pensando che potrebbe essere lui l’assassino? » Rada si alzò di scatto, arretrando di un passo. Si guardò intorno ma non vide che tenebre. «Habras», ripeté con la mente rivolta a tempi lontani. «Vecchio, perfido pazzo... ma voi, Magister, insistete a dire che non esiste nessuna strega, voi cercate un assassino in carne e ossa, vero? » « Sì, è così, ne sono certo. Ma molti particolari mi sfuggono. E voi potete aiutarmi, Rada. Lo so che avete paura di qualcosa. Vi ho sentito, l’altra notte... » « Cosa? Cosa avete sentito? » « Parlavate nel buio con qualcuno che è sgattaiolato via di qui... sussurri, timori, la necessità di mantenere un segreto. Ma se non mi aiutate saranno proprio quei segreti a uccidervi. Sì, mi avete capito. Se nessuno parla il colpevole potrà continuare ad agire indisturbato. Cosa mi si nasconde, Rada? Aiutatemi per il vostro bene... » Ecco, l’aveva spinta sino al limite. Ed era stata lei a far sì che la incalzasse sin là, glielo si leggeva negli occhi anche se il terrore la paralizzava. Per un istante la donna vacillò, incerta se compiere o meno quel passo e tuttavia in qualche modo rassegnata, desiderosa di liberarsi... Uno schiocco, un cigolare del legno, forse un roditore o magari qualcosa di più sinistro la bloccarono. Nel silenzio della locanda anche Lupo lo udì perfettamente. Veniva dal piano di sopra. Nello stesso punto in cui lui, notti prima, aveva spiato in silenzio quello
scambio di battute clandestino forse si celava qualcuno. Quale che fosse la spiegazione Rada udì quel rumore e l’incantesimo si ruppe, la paura tornò a prendere il sopravvento. «Non ho nulla da dirvi, Magister. Voi vaneggiate di complotti e dialoghi segreti... Non ero io la persona che avete sentito... non ero io », aveva alzato il tono della voce come per farsi udire nel buio dall’ignoto visitatore. «Non so nulla. E adesso basta, mi avete indotta a parlare con il vino, ma non otterrete nulla da me. Nulla. Voi siete tutti uguali. Uomini malvagi... depravati... » Lupo non rimase ad attendere oltre, n bastone in pugno, sfidò l’oscurità e salì sino al piano superiore. Ma quando arrivò sul ballatoio che portava alle camere non trovò nulla, neppure la traccia di un piccolo topo. Si voltò sporgendosi sul parapetto e si accorse che, di sotto, Rada era sparita e restava solo un tenue fuoco a sfavillare nell’ombra. Aveva perso una possibilità. La donna era troppo spaventata, non si sarebbe presentata un’altra occasione così favorevole. Doveva rivolgersi altrove.
Capitolo 27 Lupo era sgusciato via dalla locanda alle prime luci, come un ladro. Dopo il concitato colloquio della notte precedente voleva che Rada avesse tempo per riflettere. Quella donna aveva paura e il Magister era 1 certo che a spaventarla non fossero solo superstizioni. La locandiera doveva saperne di più su quella storia, forse aveva intuito persino chi fosse l’assassino e la ragione delle sue messinscene. Meditare un po’ e rendersi conto di correre un pericolo mortale magari l’avrebbero convinta a confidarsi con lui. Lupo aveva gettato un’esca e aveva intenzione di lasciare che le cose seguissero il loro corso. Aveva altre piste da battere, anche se, gli doleva ammetterlo, lo stratagemma della caccia alla strega aveva avuto come unico risultato un altro delitto, cosa di cui non andava certo fiero. D’altra parte, mentre si allontanava a passo svelto dal nucleo principale del paese, era anche persuaso che l’assassino seguisse un suo piano e che, probabilmente, avrebbe continuato a uccidere per rendere ancor più chiaro il suo messaggio a chi doveva recepirlo. Nella nebbia umida del mattino il Magister si voltò solo quando si trovò su un rilievo a qualche centinaio di passi dal paese. Nell’aria piovigginosa, tetra, percepiva ormai palpabile la paura come se tutta Korekainé ne fosse avviluppata. Una era la domanda che lo tormentava maggiormente: perché si era scatenato tutto così all’improvviso? Qual era stato l’evento catalizzatore della follia omicida? Per scoprirlo, visto che a Korekainé regnava un’intimorita cortina di silenzio, non poteva che battere due piste: cercare di rintracciare Habras per interrogarlo e tentare un nuovo approccio con Makya. Il pensiero di rivedere la strana fanciulla della Sorellanza della Luna lo turbò. Di nuovo se ne chiese la ragione e, se pure una risposta gli passò nella mente, la cacciò indispettito. Cominciò a vagare per la campagna circostante, fermandosi presso la capanna di Kristos, che gli offrì latte e un tozzo di pane scuro. Anche il pastore non si curava più di celare la paura mista a diffidenza. Da salvatore il Magister era diventato un elemento estraneo, sospetto. Se non avesse individuato rapidamente una soluzione al mistero rischiava di trovarsi in una posizione difficile. E questo, probabilmente, era ciò che il suo misterioso avversario voleva per avere campo libero e sbarazzarsi di lui. Riprese a battere i sentieri intorno alla grotta dell’eremita. Habras sembrava essere stato risucchiato da qualche sortilegio. Di certo non era morto, non là intorno, altrimenti corvi e animali predatori avrebbero rivelato la presenza del cadavere. E ciò lo poneva tra i sospetti, anche se il Magister era indotto a non ritenerlo il colpevole di quegli omicidi. Piuttosto era possibile che l’eremita, avvertito il pericolo, avesse cercato di nascondersi. Dopo diversi giorni di permanenza nella zona e tutte le perlustrazioni effettuate, Lupo cominciava a orientarsi, a riconoscere rocce, asperità e alberi che rendevano più familiare il suo cammino. Eppure, al di fuori della sensazione di essere spiato che non
lo lasciava mai, non era in grado di sorprendere nessun osservatore. Fu verso metà giornata, appena superato un bosco di querce, che Lupo udì una serie d’imprecazioni, voci di uomini brutali e lamenti di donna accompagnati da tonfi sordi che venivano dal basso. Attirato e incuriosito, accelerò il passo sorreggendosi col bastone. In breve arrivò al limitare del bosco dove scorse una pista sterrata che, proveniente dalla costa, fiancheggiava gli alberi e procedeva verso Korekainé. In parte era il percorso che doveva aver compiuto il giovane religioso prima di essere sorpreso dal suo assassino. Per un antico impulso di cavaliere Lupo accelerò il passo e salì su un masso che spuntava tra l’erba. Da quel punto riusciva a vedere con chiarezza cosa stava accadendo a pochi passi di distanza. Un grande carro coperto trainato da quattro muli era fermo in mezzo al sentiero. Dai colori sgargianti dei drappi tesi sul cassone e dai lunghi pali che spuntavano dal retro del veicolo, Lupo intuì che si trattava di una famiglia di artisti girovaghi. Guitti, saltimbanchi che passavano periodicamente da un paese all’altro spingendosi dai castelli sino alle cittadine della costa. Tutta la cristianità ne era percorsa, e costituivano l’unico diversivo per gente abituata a esistenze dure e monotone. Il gruppo, che appariva composto da un capofamiglia, tre ragazzi di varie età, una donna più anziana con un bimbo in fasce e due ragazzine, aveva trovato sulla sua strada due uomini di Merkos. Lupo riconobbe subito lo sgherro con il guanto di metallo. « Sporchi vagabondi... vi era stato detto di non passare più da queste parti... » Il capofamiglia, con una guancia arrossata e la camicia strappata sulla spalla, cercò d’implorare pietà. « Ma è l’unica strada verso l’interno... Noi non volevamo, non saremmo passati per Korekainé, proprio come ci avevate ordinato... » Lupo scese dal masso e si avvicinò. «E allora perché siete qui? Questa è la strada per Korekainé. » « Pietà, signore, pagheremo per passare, lasceremo la pista e non ci vedranno neppure al villaggio... » disse uno dei ragazzi, forse un figlio del vecchio. «Pagherete certo, in denaro... e magari anche le vostre sorelle verseranno un tributo, ma sicuramente il paese non lo vedrete neppure da lontano », blaterò l’altro soldato protendendo una mano verso una delle due fanciulle. Un altro ragazzo tentò d’intromettersi, il viso rosso di rabbia, la mano chiusa a pugno, ma ricevette un manrovescio che lo scaraventò contro il fianco del carro. Tra le urla delle donne il giovane ruzzolò sul terreno a malapena cosciente. Lupo aveva visto simili scene di violenza in quantità. Per scatenare la ferocia di un soldato contro un essere indifeso bastava un semplice gesto di reazione. E le conseguenze potevano essere irreparabili. E poi c’era questa novità, il divieto imposto chissà da chi di avvicinarsi al villaggio. Voleva saperne di più. In un paio di balzi arrivò al sentiero. Sulle prime i due soldati non s’accorsero di lui, anzi a notarlo parve essere solo il più giovane dei ragazzi, uno scricciolo con i capelli corti e ricci, il viso rosato come una pesca e lo sguardo sfavillante d’odio. Lupo vi lesse distintamente la sorpresa e la speranza, e qualcosa di
tale nuova emozione dovette filtrare sino ai cervelli annebbiati dei due soldati. « Cosa diavolo... » esclamò quello con il guanto di metallo. « Ecco, invocate il Diavolo e sperate che v’aiuti... » «Il Magister?» ringhiò l’altro. «Che fate qui... nessuno v’ha chiamato. » « Non ho bisogno di essere convocato quando vedo un sopruso, soldato. » «Bene», ribatté con rinnovata energia l’uomo sputando per terra. « È già troppo tempo che state qui in giro come un corvo del malaugurio, facciamola finita subito. » « Non prima che m’abbiate spiegato chi vi ha ordinato di tenere lontana questa gente. » Le parole di Lupo ebbero l’effetto di confondere i due scherani di Merkos, che si consultarono per un istante con gli occhi come per trovare conferma di un ordine ricevuto in precedenza. Poi, con versi animaleschi, si prepararono a caricare il Magister. Lupo di Pietravecchia aveva impiegato quei pochi istanti per assestare la sua posizione ponendosi in vantaggio. Sentiva su di sé lo sguardo della famiglia di guitti, coglieva la loro speranza, soprattutto nel ragazzine che per primo lo aveva notato. Un flusso di emozioni che credeva sopite lo investì. Il retaggio della sua esistenza di cavaliere prese il sopravvento. Di fronte alla carica disordinata dei due soldati si mosse poco e con precisione. Allungò il bastone protendendolo in avanti tra le gambe del primo degli avversari. La punta rinforzata picchiò contro un ginocchio, poi scivolò tra i piedi già instabili sul terreno. Bastò un movimento coordinato d’anca e di braccia, come il gesto di un rematore, per scaraventare a terra l’uomo. Ma quello con il guanto di metallo incombeva, mulinando l’avambraccio ferrato come una mazza. Lupo schivò con un rapido spostamento. Lasciò il bastone con una mano e serrò le dita intorno al gomito del soldato che si sentì prima trascinato in avanti e quindi gettato sulla direzione opposta. Spinto dal suo stesso slancio e dal peso della sua arma rotolò a terra: a Lupo bastò un tocco della punta del bastone per mandarlo disteso sui sassi, la bocca piena di polvere. I due soldati, gementi e furiosi, si soccorsero l’un l’altro. L’estremità rinforzata del bastone premeva contro di loro. «Allora, chi vi ha ordinato d’impedire l’accesso al paese agli stranieri? » li incalzò Lupo. «Voi... voi non sapete nulla...» esclamò l’uomo colpito al ginocchio. Rapidissimo aiutò il compagno a rimettersi in piedi e, senza aggiungere altro, i due si misero a correre a rotta di collo giù per il pendio. Quello con il guanto perse la sua arma che rotolò rumorosamente tra le pietre. Lupo decise di non inseguirli. Non era quello il modo per ottenere risposte. Raccolse il guanto di metallo ammaccato. Un’arma decisamente inutile eppure, di per sé, già una risposta. Era impossibile che quella marmaglia così male equipaggiata e peggio addestrata avesse avuto la scaltrezza e la capacità di eliminare Aymar, un cavaliere valente e sopravvissuto a mille imboscate. « Grazie, signore... se non foste arrivato voi... » Era la voce del capofamiglia del piccolo clan di girovaghi. Lupo si ricompose - era
appena sudato - e ritrovò il sorriso dopo molto tempo. Stranieri come lui. Si sentiva meglio tra quella gente che in paese. « La volontà di Dio mi ha portato sulla vostra strada al momento opportuno... » Notò un’ombra passare negli occhi di tutti. « Dio? Da molto tempo ha lasciato questa regione. Siamo stati costretti a transitarvi, ma l’agguato di quei banditi era il meno che potessimo aspettarci », replicò il vecchio. « Ma vi prego, permettete che dividiamo con voi la nostra povera cena. E quasi sera e fa freddo. Raggiungeremo un dosso qui vicino e accenderemo un fuoco. Rimanete con noi. Potremo ricambiare la vostra generosità e... » « E io sarò con voi, nel caso quella gente decidesse di tornare », concluse Lupo. « Mi sembra uno scambio giusto, tanto più che ci sono alcune domande che vorrei porvi. » « Sì, certo, tutto ciò che volete... » « Come vi hanno chiamato? » disse il ragazzine con voce acuta, sorprendendo gli altri. La donna con il bambino in braccio abbozzò un gesto per farlo tacere ma non lo portò a termine. Adesso che lo osservava meglio, Lupo si accorse che il giovinetto sembrava differente dagli altri. Più chiaro di pelle e, sì, c’era qualcosa d’indefinibile nello sguardo, nelle lunghe ciglia che mettevano in risalto gli occhi intelligenti. Non faceva parte della famiglia. E, indovinò Lupo, era differente anche per altri motivi, benché cercasse di celarlo. « Magister, ma non è un titolo che mi piace, mio giovane amico. Sono Lupo di Pietravecchia e, come voi tutti, sono straniero tra queste montagne. Tu come ti chiami? » Il giovinetto si fece avanti, privo di quel timore reverenziale che tutti gli altri mostravano. « Sono Imue e questa brava gente mi ha accolto sotto la loro tenda. Siamo artisti, saltimbanchi di tutti i luoghi e di nessuno. Siate il benvenuto. » « Sarà per me un onore », rispose il Magister. Sì, decisamente Imue, o qualunque fosse il suo vero nome, era diverso dagli altri. Prima di tutto era una femmina, anche se indossava brache e abiti maschili, e poi la s’intuiva dotata di quella sfrontata intelligenza che possiede solo chi ha grandemente rischiato ed è sopravvissuto. Sarebbe stato interessante parlare con quella gente.
Capitolo 28 Sul fuoco arrostiva un agnello cosparso di erbe. Il vino era fumante e trasmetteva una sensazione che dal palto si estendeva al resto del corpo. Il piccolo nucleo di saltimbanchi aveva trovato rifugio per la notte a ‘una certa distanza dal luogo ove s’era svolto il confronto con la soldataglia di Merkos. Lupo li aveva guidati fuori del sentiero ma presto s’era accorto che Ljubco, il capofamiglia, conosceva quei luoghi meglio di lui. Tra un folto d’alberi e il crinale roccioso di un rilievo i girovaghi avevano fermato il carro, impastoiato gli animali e allestito un piccolo banchetto in onore del Magister. Le ragazze si erano esibite in qualche gioco di abilità con palle e nastri e il più vigoroso figlio di Ljubco aveva insistito per sfidarlo a una prova di forza, le mani serrate a piegare il braccio, ma aveva ceduto in fretta. « Grazie a voi abbiamo evitato un guaio serio », commentò il capofamiglia mentre il giovane si massaggiava il braccio e le donne si davano da fare per servire una cena saporita. « Quella è gente pericolosa... » « A volte più per se stessa che per gli altri... » commentò il Magister. Era una serata piacevole, benché fredda. Da molto tempo non aveva la sensazione di trovarsi in compagnia di persone sinceramente amichevoli, non spaventate e ossequiose come i valligiani. E quella impressione di calore umano, così lontana dalle sue abitudini, gli fece piacere. Avvertiva gli occhi d’Imue sempre su di sé, a studiarlo di nascosto, mentre cercavano di comunicargli qualcosa, un messaggio segreto che escludeva tutti gli altri. Era ovvio che Imue non faceva parte integrante del gruppo e c’era qualcosa nel suo passato che lottava per emergere. Per qualche strana ragione sembrava che la presenza del Magister avesse stimolato tale desiderio. « Vi vedo assorto, signore », azzardò Ljubco con uno sguardo pungente anche attraverso il riflesso indistinto del falò. «Per la verità stavo pensando a quegli uomini, la milizia di Korekainé », replicò Lupo dirottando il discorso verso la direzione che desiderava. « Li conosco, e mi è sembrato d’intuire che non fosse la prima volta che avevate a che fare con loro. Eppure siete passati di qui. Forse voi potete rispondere alla domanda per la quale non ho trovato soddisfazione poco fa. » Ljubco si stiracchiò e portò alle labbra una coppa di vino. Nell’intrico di rughe che emergevano dalla barba salendo sino alla fronte si leggevano anni di notti all’addiaccio e difficoltà affrontate con fermezza. «Siamo artisti di strada... ci muoviamo da una fiera all’altra, da queste regioni sino al mare, e poi in tutta la Bulgaria e nei territori dell’impero di Roma. Viaggiare è difficile e lento, a volte passano anni prima che si ritorni in un posto. Ma ho la memoria lunga. Ricordo ogni città, ogni borgo dove ci siamo esibiti. Portiamo un po’ d’allegria, ma quando lo spettacolo finisce ci guardano con sospetto. Non sapete quante volte siamo stati derubati dello stesso compenso ricevuto per il nostro... lavoro. Sì, lavoro, anche se preti e contadini non lo considerano tale. Le mie figlie sono state accusate di essere meretrici e streghe... » Lupo non lo interruppe. Singolare che il vecchio artista parlasse di stregoneria
proprio in quel momento, ma forse era solo un caso. «Erano diversi anni che non ci spingevamo così a sud. L’ultima volta fu quello stesso Merkos a intimarci di non transitare più di qua... ma io credevo che fosse trascorso un tempo sufficiente per calmare gli animi. Del resto la nostra strada attraversa questa regione e, per raggiungere la meta, di qui dobbiamo passare. » Lupo cercò una posizione più comoda, protendendosi verso il vecchio. « Merkos ve lo ha ordinato? E perché? » Ljubco agitò la mano davanti a sé con un mezzo sogghigno. « Merkos è solo un mercenario cacciato dall’esercito imperiale... non è in grado di prendere decisioni da solo, peggio dei suoi sgherri. No, l’ordine veniva da Ivo Drjangic, il mercante che comanda veramente a Korekainé... e che dominava su ciò che c’era prima e che adesso non si può nominare. » Questa era davvero una sorpresa. Lupo tentò di non dimostrarlo, ma lo sfavillio nello sguardo lo tradì. Ljubco, da buon cantastorie, sapeva quando l’attenzione del pubblico è agganciata. Versò da bere per entrambi, n resto del nucleo famigliare tratteneva il fiato. «Dunque, Ljubco... volete ringraziarmi tenendomi sulle spine », fece divertito Lupo accettando quel gioco. Sentiva incollati su di sé gli occhi di Imue mentre toccava la coppa del vecchio saltimbanco. « Mi piace raccontare le storie con i tempi corretti », soggiunse Ljubco, « e voi mi sembrate un uomo che sa ascoltare... nonostante la curiosità. » II Magister gli concesse di proseguire il suo spettacolo. Gli era simpatico quell’anziano vagabondo che adorava sentirsi al centro dell’attenzione oggi come quando era stato giovane e agile come i suoi figli. « Molto tempo fa, dieci anni credo, passai di qui. Ero appena sposato e avevo solo due figli. Entrambi sono morti, adesso. Uno se lo portò via la peste e l’altro fu ucciso a nord, non ricordo neppure dove... Questa era una buona terra... c’era un villaggio esteso di cui adesso nessuno ricorda o vuole rammentare nulla. » Dieci anni, pensò il Magister, sufficienti a cancellare la memoria di tutto. O forse solo in parte. Dov’era stato lui dieci armi prima? A mordere sabbia infuocata in nome di Dio, probabilmente... « H villaggio si chiamava Melapolis, la città nera, e si trovava », Ljubco si grattò la testa come se cercasse nei meandri della mente, « sì, più a nord di Korekainé, uno, due giorni di cammino. Era un centro ben avviato e, ci crediate o no, era lo stesso Ivo Drjangic a dirigere tutto, il commercio, la legge... Lui, Merkos, i due fratelli stallieri, la locandiera e il prete. » « Habras? » Il vecchio annuì. «Certo, Habras... decano rurale del patriarca di Bisanzio. Ma un giorno avevano scoperto un maleficio; una strega fu bruciata nella piazza principale e morì gettando maledizioni. E la maledizione venne, Magister... neanche sei mesi dopo il rogo la peste si abbatté su Melapolis e la popolazione fu decimata, e i sopravvissuti dispersi ai quattro venti come la cenere dopo che tutto venne arso... da quel giorno la regione è rimasta così desolata, un crocchio di case qui, una capanna di pastori poco più in là, contadini più a valle. Finché al mio successivo passaggio,
tempo dopo, scoprii che era nato Korekainé e che gli stessi individui che avevano comandato facendo affari nel borgo maledetto si erano riuniti e avevano fondato un paese nuovo. E non avevano alcuna intenzione che qualcuno ricordasse a loro o a chiunque altro la maledizione di quello vecchio. Per questo c’imposero, a noi che sapevamo... a me per la verità, di non passare più da queste terre...» Lupo restò ad ascoltare il crepitare del fuoco. Pensieroso. Così quello era il segreto. E forse l’origine di tutto, n sangue versato cui aveva alluso Makya doveva essere quello della strega... ma perché tutto era ricominciato proprio adesso, dopo tanto tempo? La risposta arrivò con un brivido di freddo. Il giovane prete... pensò, lui ha scoperto qualcosa, forse un vecchio scritto di quel pazzo di Habras e ne è rimasto così spaventato da sentire il bisogno di avvertire il vicearcidiacono... così la notizia si è sparsa e qualcuno ha pensato di creare la leggenda della strega assassina per uno scopo: impadronirsi di ciò che Makya cerca, un oggetto prezioso, o forse magico, che apparteneva alla vecchia strega. « Cosa c’è, Magister, ho detto qualcosa che vi ha turbato? » Lupo posò la mano sulla spalla del vecchio. «No, amico mio, in verità avete gettato luce nell’ombra. Ma ci sono ancora troppe zone scure. E io ho bisogno di risposte dirette. » Trasse dalla sua sacca il guanto arrugginito che aveva sottratto a uno dei soldati di Merkos. « Ma so dove cercarle, adesso, quelle risposte. » « Non stanotte spero. » « No, questa notte vi terrò compagnia se avete una coperta per me. Domani, però, non esitate, mettetevi in viaggio verso la vostra destinazione, evitate le strade e gli uomini. E scordatevi di tutto questo. » « Perché, Magister? » La domanda, inattesa, veniva da Imue che ancora una volta nessuno era riuscito a far tacere. Il Magister sorrise alla giovinetta che si nascondeva sotto vesti da ragazzo. Ognuno aveva i suoi segreti e, al tempo stesso, era ansioso di svelare quelli degli altri. « Perché, Imue, questa è ancora una terra maledetta e v’incombe un pericolo che voi non meritate di dover affrontare. Sono cose che riguardano me. Ma adesso riposiamo, l’ora è tarda e oggi abbiamo avuto tutti emozioni più che a sufficienza. » Con riluttanza Imue piegò il capo e aiutò le donne a gettare i resti del pasto. Da uno sguardo sfuggente che gli diresse, Lupo comprese che quella strana creatura non si sarebbe accontentata di ordini e vaghe risposte. Un po’ gli assomigliava, pensò con un sorriso.
Capitolo 29 Al confine del regno di Serbia Aveva piovuto con selvaggia intensità negli ultimi giorni di viaggio come se il Diavolo o una forza ancora più grande si fosse accanita sui tre cavalieri della Croce di Ferro per rallentarne il cammino, una volta lasciato il monastero. Procedendo su un sentiero trasformato in pantano, costretti a cercare riparo quando il cielo aveva scaricato con maggior violenza i suoi rovesci di pioggia, Domash Tartu e i suoi due confratelli erano avanzati lungo la strada strappandola palmo a palmo, con fatica. Gli zoccoli dei cavalli erano affondati nel terreno molle. Nitriti, colpi di sperone, imprecazioni. Ma alla fine i tre cavalieri avevano raggiunto il traghetto sulla Tèleutaya Drina, l’ultimo fiume che, all’imbrunire, ricordava un serpente d’argento scosso tra le rocce da raffiche di vento e acqua gelata. Il traghetto, un cassone di legno assicurato alle due rive da robuste cime, era ancorato alla baracca che sorgeva sul loro lato del corso d’acqua. Dagli scuri di una finestra filtrava il bagliore del fuoco di un camino. « Siamo arrivati, finalmente », osservò Gor Tamask, la voce distorta dal casco e incerta nella tempesta. « Non basta », replicò Domash Tartu scendendo da cavallo. « Abbiamo già perso troppo tempo. Temo che qualcuno possa essere arrivato a Korekainé prima di noi... e voi sapete quali sono gli ordini del Dominus. Dobbiamo recuperare la Mano prima che qualche seguace del Diavolo o uno stregone possa farlo al posto nostro. » Tamask era sceso a sua volta. Tratteneva la cavalcatura ansante con una mano. «Ne sono convinto, ma credi sia prudente attraversare il fiume di notte? » Tartu volse il capo. Impossibile scorgere i suoi occhi, ma dalla croce che s’apriva nel metallo arrivò una risposta cupa. «Non m’importa della prudenza, questa notte varcheremo il fiume e usciremo dal regno dei Nemaja. » Tamask si guardò in giro. « Spero che ci sia qualcuno disposto a correre il rischio. » Tartu non si diede neppure la pena di replicare. Anche Manfred Koob era smontato e lo aveva affiancato per bussare con la mano guantata di ferro sul battente della baracca. Attesero pochi istanti sotto la pioggia, poi la porta si schiuse. Un uomo dall’aria vigorosa, i capelli ispidi sul viso arrossato dal fumo, strabuzzò gli occhi. «Signori... cavalieri... è un’ora tarda... non aspettavamo più nessun viaggiatore... ma entrate, riparatevi. » Tartu lasciò che la porta s’aprisse ancora di qualche dito poi la spalancò del tutto. Entrò nella baracca valutando immediatamente l’ambiente. Poco più di un rifugio con pagliericci per la notte, un tavolo e un camino da cui venivano fuoco e fumo. Oltre al traghettatore c’era una donna con due bambini. «Non siamo qui per riposarci, né per cercare rifugio...» disse levandosi l’elmo. Il viso segnato dalle cicatrici a volte incuteva ancor più soggezione del casco da combattimento. « Quanto manca per Korekainé? » Visibilmente colpito, il traghettatore arretrò di un paio di passi. «Korekainé... è nel
territorio dell’impero di Bisanzio. » « Questo lo so, la mia domanda era un’altra », insisté Tartu. «Ma... un paio di giorni di cavallo in queste condizioni di tempo. Se domani smette di piovere e la corrente diminuisce potrete muovervi... » « Noi dobbiamo passare questa notte. » « Oh, no... no, cavaliere... non è possibile, n fiume è gonfio e scalpita come una giumenta impazzita. E poi è buio. Le funi potrebbero non reggere e... » Tartu trasse dalla bisaccia un sacchetto di pezzi d’argento e lo gettò sulle assi del pavimento. « Dobbiamo passare stanotte. Subito. » n traghettatore degnò appena di uno sguardo il sacchetto ai suoi piedi. Era evidente la tentazione di accettare ma era un esperto nel suo lavoro e conosceva i rischi. «No, mio signore », rispose chiamando a raccolta tutto il suo coraggio. « Non rischierò la mia vita neppure per mille pezzi d’argento. Potremmo affogare tutti... e se morissi chi penserebbe a mia moglie e ai miei figli? » Tartu sospirò, il viso pareva addolorato, una maschera tragica. « Dunque non sareste in grado di portarci di là dal fiume questa notte? » « No, signore, neppure se volessi... » Tartu abbassò appena le palpebre. «Peccato, perché in questo caso non ci servite... E la volontà del nostro Dominus è che giungiamo a destinazione il più presto possibile... » «Ma, signore...» «Opporsi all’ordine del Dominus significa mettersi sulla via del peccato... » L’uomo impallidì, non comprendeva. Alzò le mani e poi le giunse in preghiera, implorando Tartu. Inutile, perché i tre cavalieri s’intendevano senza bisogno di parlare e sapevano che la loro regola imponeva decisione. Manfred Koob sguainò la spada con un clangore che rimbombò nella baracca coprendo persino la pioggia sul tetto. Eseguì un unico movimento fluido tagliando trasversalmente il corpo del traghettatore che rotolò sul terreno con un gemito. Poi si mosse per completare l’opera. «Non preoccupatevi per la vostra famiglia, vi seguirà. Non ignoriamo la misericordia », disse Tartu ripulendosi la barba da uno schizzo di sangue. « Tamask, penseremo noi a manovrare questo maledetto traghetto. Affronteremo il rischio. Non possiamo tardare oltre. »
Capitolo 30 Meteore Nel corso della notte Lupo di Pietravecchia aveva appreso molte cose. Non solo il nome di Ljubco ma anche quello di tutta la sua famiglia, i loro viaggi, le difficoltà che gli ambulanti incontrano per strada. Aveva stretto amicizia con i figli più grandi, scambiato calorosi sorrisi con le donne e accarezzato il piccolo dandogli la sua benedizione. Si trattava dell’augurio di un laico, certo, ma furono parole pronunciate con sincerità che fecero bene a Lupo forse più che al bimbo. Quanto alla strana ragazzina che si nascondeva sotto le vesti di un fanciullo, però, tutto era rimasto nel mistero racchiuso nelle occhiate intense che Lupo avvertiva su di sé. Di Imue non aveva scoperto nulla se non che, adesso, faceva parte integrante del gruppo di saltimbanchi e che, per un tacito patto, gli altri componenti della compagnia rispettavano il suo travestimento. Sul fatto che fosse una fanciulla non c’erano dubbi, ma tutti le rivolgevano la parola come se fosse un ragazzo e anche il Magister decise di rispettare tale decisione. La mattina seguente cominciò a piovere. Il vento trascinava da nord nuvole scure che non aspettavano che una saetta per scaricarsi. La via per tornare a Korekainé era lunga e Lupo sperava di poter evitare almeno in parte il temporale. Consumò una colazione abbondante che insistette per pagare con un coltello di ferro che aveva con sé. «Mi sono fatto un’idea di dove sorgesse il vecchio villaggio, Melapolis », disse sollevando il cappuccio mentre cadevano le prime gocce di pioggia. «Credo che andrò a dare un’occhiata, uno di questi giorni. » « Volete proprio sfidare il Maligno, Magister? » Lupo lanciò all’uomo uno sguardo d’intesa. «Voi avete vissuto a lungo e in ogni luogo e sapete quanto me che non v’è nulla di soprannaturale in questa storia. » Fece tintinnare il guanto di metallo. « Voglio risposte e non mi piace che mi si prenda per il naso... né che si uccidano i miei amici impunemente. Un cavaliere che un tempo fu mio compagno in Terrasanta ha perso la vita per svelare questo mistero e ho tutta l’intenzione di scoprire chi è stato e perché. Quanto a voi, seguite il mio consiglio. Partite adesso, anche sotto la pioggia, ed evitate i sentieri battuti. Marciate svelti e senza fermarvi. Dovrete sostenere qualche fatica in più ma viaggerete sicuri. Lontano da... spettri e tagliagole. » Ljubco assentì e gli tese la mano. Fu una stretta franca, più di qualunque segno di amicizia o stima Lupo avesse ricevuto al villaggio. Mentre s’avviava per il sentiero la pioggia aveva cominciato a cadere con violenza. Lupo era già zuppo dopo cinquanta passi ma non era una sensazione spiacevole. Il profumo dell’erba diventava più penetrante e persino l’aria perdeva quell’odore di paura e maleficio che aveva avuto nei giorni precedenti. Si guardò in giro ma non scorse nulla. Gli passò per la mente che anche Makya faceva parte, come lui, dei vagabondi, dei senza meta e ciò, nonostante tutto, li avvicinava. Che strano pensiero... Era molto tempo che una donna non veniva a intrufolarsi tra i
ricordi dolorosi di Costanza e non sapeva se fosse un buon segno o no. Ma, come molte cose nella vita, decise che andava accettato per ciò che era e che il tempo gli avrebbe permesso di comprenderne il significato. Solo allora si accorse che, in cima al colle appena superato, seminascosta dal velame della pioggia, c’era una figuretta che lo guardava fisso. Imue. Appena si accorse di essere stata vista alzò la mano in segno di saluto. « Magister, portatemi con voi. » Incuriosito Lupo si avvicinò alla fanciulla. «Perché? Non stai bene con Ljubco e gli altri? » Imue scosse il capo. « No, non è per questo. Sono come una famiglia per me. Ma non sono la mia famiglia. » Lupo colse una nota stridente in quell’affermazione, una sfumatura che faceva male sentire nella voce di una persona così giovane. « Neppure io lo sono », disse semplicemente. «È vero, ma voi... sapete molte cose. E siete libero da ogni legame. Posso imparare molto da voi... e voi da me. » Parole enigmatiche che strapparono un sorriso al Magister. Se ne pentì subito scorgendo l’espressione delusa sul volto della ragazzina. « Non oggi, Imue », rispose infine. « Sto affrontando un avversario pericoloso e non sono abituato a farmi carico della sicurezza di altri... Mi dispiace, ma non è una responsabilità che sono disposto ad accettare. » Nonostante la pioggia Lupo arrivò quasi a convincersi che il suo rifiuto avesse suscitato le lacrime negli occhi di Imue. Poi, di colpo, l’espressione della ragazzina, si fece assente, lo sguardo perso verso l’orizzonte. «Pazienza, Magister, non voglio imporvi ciò che non volete... » « Imue, aspetta... » Ma lei gli aveva già voltato le spalle. Compì qualche balzo di corsa, quindi si girò nuovamente e accennò a un saluto. Lupo rispose, ma non poté essere certo che Imue avesse notato il suo gesto. La ragazzina che si travestiva da fanciullo scomparve di corsa per raggiungere il resto della famiglia già in movimento. Il Magister respirò a fondo, con un nodo al petto. Troppi chiedevano il suo aiuto e ne restavano delusi. Non era in grado di proteggere tutti. Forse nessuno. Riprese la marcia, reggendosi al bastone, mentre nella sacca il guanto metallico produceva un tintinnio sinistro a ogni passo. All’esterno il temporale produceva fragori come una battaglia al culmine della carneficina. Nel camino le fiamme crepitavano arricciandosi in figure indistinte che esplodevano in cascate di lapilli. Un ciocco si spaccò cadendo nella brace, ma gli avventori della locanda non se ne accorsero neppure. Ivo Drjangic sedeva di fronte a una coppa di vino come al timone di una nave in balia della tempesta. Rada, Merkos e Zarko s’aspettavano qualcosa da lui, ordini forse, magari una rassicurazione. « Ma vi rendete conto, kyrios Drjangic? » tuonò Merkos con la voce alterata dal vino. «Ha malmenato i miei uomini e adesso forse sa tutto... ha parlato con quei guitti
e... » II mercante sollevò una mano aprendo le dita con un movimento spaventosamente lento. « Merkos, sei un uomo d’arme, rugginoso devo ammettere, ma sempre un uomo d’arme. E così quelli che hai scelto. Piagnucolare come una donna non ti si addice. Quindi finiscila. » E mantenne lo sguardo fisso su un punto, rivolgendosi a tutti e a nessuno al tempo stesso. « Quanto a ciò che il Magister può aver appreso da quegli ambulanti... credo che sia già stato informato di troppe cose qui... a Korekainé. » Una sfida silenziosa. Drjangic aspettò che qualcuno si tradisse ma vide sguardi imbelli, sfuggenti, capi chini sul tavolo. Nessuna reazione. Tuttavia il messaggio era andato a bersaglio come una freccia ben calibrata. « Lo capite che dobbiamo stare uniti? » sussurrò con un tono meno minaccioso. « Quell’uomo è una seccatura ma, finora, ha semplicemente girato in tondo. Troppo tempo è passato, nulla può riemergere. » « E i delitti allora? » osò intervenire Zarko. « II mio povero fratello assassinato qui, in paese. Lui che è sempre stato... » Forse il mercante aveva una replica pronta ma non ebbe modo di pronunciarla. Il portone della locanda si spalancò di scatto. Una folata di vento freddo s’accompagnò a uno schizzo di pioggia. Sulla soglia era apparsa una figura alta, incappucciata, con un lungo bastone. Il Magister si fece avanti a passi pesanti, incurante del freddo e dell’umidità che l’avevano accompagnato con i cattivi pensieri su tutta la strada del ritorno. Se la strega avesse voluto sorprenderlo lungo il cammino non avrebbe avuto difficoltà. Non lo aveva fatto. E ciò significava che non aveva interesse a ucciderlo oppure non era nella possibilità di colpire. Fu Merkos il primo a riprendersi. « Voi », esclamò alzandosi, «sono stanco delle vostre prepotenze... avete assalito i miei uomini senza ragione e adesso... » Fece per estrarre la spada, ma l’altro lo prevenne gettando sul tavolo della locanda il guanto ammaccato che aveva recuperato. L’oggetto rugginoso produsse un rumore simile a un ghigno irridente. «E allora sceglietevi uomini più lesti», sussurrò il Magister a un soffio dal suo viso. « Ho combattuto cento battaglie e subito mille agguati, sono una carogna, Merkos... volete mettervi contro di me? » Il viso del soldato perse colore, la volontà del mercenario lottò per mantenere un’apparenza di solidità, ma fu sufficiente uno sguardo per comprendere che il Magister non mentiva. Merkos si ritrasse senza fiatare. Con la coda dell’occhio Lupo scorse Rada che indietreggiava nel buio, scivolando lungo le pareti della sala per andare a chiudere la porta. Prima che avesse occasione di farlo, il Magister si portò di fronte a Drjangic, separato solo dal tavolo sul quale aveva gettato il guanto. « Ieri ho impedito a due dei banditi che chiamate milizia di accanirsi contro una famiglia di girovaghi... qualcuno aveva ordinato loro di impedire a quei saltimbanchi di ripassare di qui. Voi... » L’eghemon sostenne il suo sguardo. « Certo, sono stato io. Viviamo un momento
difficile che neppure voi siete in grado di controllare... o forse avete trovato il modo di eliminare la strega che infesta la nostra comunità? Meno vagabondi e stranieri si aggirano in questo paese, meglio sarà per tutti. » « Lodevole misura di sicurezza ma che non autorizza questi tagliaborse ad aggredire i viandanti... » «Forse avete ragione. Merkos e i suoi uomini mancano della disciplina che voi, evidentemente, avete così bene appreso in Terrasanta... ma sono l’unica forza di cui possiamo disporre... » «Per mantenere i segreti», incalzò Lupo senza lasciarsi toccare dai commenti del mercante. «Perché questa è la vera ragione che vi spinge a isolare Korekainé, a celare ogni ricordo del passato. Devo parlarvi, Drjangic, da solo... Mi avete mentito sin dal principio. » « E voi non solo non avete alcuna autorità per impormi di parlare ma neanche quella per minacciarmi. » II Magister eseguì il movimento senza sforzo, così rapido che nessuno fu in grado di reagire. Picchiò il bastone sul tavolaccio producendo una vibrazione di tale intensità che il guanto di ferro rotolò via cadendo a terra con un rumore agghiacciante. «Voi adesso mi spiegherete tutto. Mi racconterete del villaggio chiamato Melapolis e della strega che vi fu bruciata... mi spiegherete perché di quel villaggio dopo dieci anni non rimane traccia e perché voi, voi tutti, volete che sia così. » Lupo s’interruppe un istante senza distogliere gli occhi dall’eghemon ma consapevole delle presenze atterrite degli altri. « E poi mi parlerete di questo famoso oggetto che tutti vogliono e che sospetto sia ciò che ha scatenato questa strage. » Per la prima volta da quando lo aveva incontrato Ivo Drjangic mostrò un segno di cedimento. Non fu palese, solo un rapido sguardo intorno a sé. Poi si riprese e tornò a fissare il Magister con una riacquisita sicurezza. « Questo non possono avervelo raccontato quegli straccioni... » «No», si limitò a dire Lupo, certo di aver colto nel segno. Il mercante sospirò unendo le mani davanti a sé poi, inaspettatamente, sorrise e si rivolse agli altri. « Per favore, amici miei, lasciatemi solo con lui. Dobbiamo discutere e, lo ammetto, ha diritto a una spiegazione. Gli animi si sono troppo accalorati e sarà opportuno che il colloquio si svolga solo tra noi. Adesso, Magister, vi prego. Vi aspetterò qui con una ciotola di brodo caldo che certamente Rada vi farà trovare. Cambiatevi d’abito, asciugatevi, la vostra salute è troppo preziosa. Quando scenderete saremo solo noi due. Potremo parlare... da uomini civili e non come cani arrabbiati. Scoprirete che per tutto c’è una spiegazione. » Lupo comprese che non aveva altro modo per ottenere risposte. Avrebbe voluto affrontare tutti insieme ma, se pure gli era concesso scoprire qualcosa del passato, doveva farlo secondo le regole di Drjangic. Dopotutto questi incuteva una tale soggezione agli altri che, se anche fossero stati presenti, non avrebbero aperto bocca. « D’accordo », disse ritirando la sua arma. « II tempo d’indossare una tunica asciutta. »
Capitolo 31 Quando tornò nella sala principale della locanda Lupo trovò solo il mercante ad attenderlo al tavolo. Rada aveva provveduto a servire due ciotole di brodo accompagnandole con un taglio di formaggio e del pane, ma non era il momento per cenare e questo il Magister e Drjangic lo sapevano bene. Fuori tuonava ancora e il bagliore del camino ritagliava sulla scena ombre dure, riflettendo una luce bronzea sul guanto metallico lasciato dov’era stato gettato. Rada era scomparsa, anche se Lupo era certo che fosse acquattata da qualche parte ad ascoltare ciò che si sarebbero detti. Ignorando il brodo fumante il Magister si sedette di fronte al mercante. Era trascorso del tempo dal loro ultimo colloquio, molte verità erano emerse ed era stato versato del sangue ma, più di ogni altra cosa, Lupo era convinto che tra loro fosse cambiato il rapporto di forze. Non era più l’ignaro forestiero, in quei giorni aveva imparato a conoscere Korekainé e inoltre aveva appreso alcune cose che rendevano meno spavaldo l’eghemon. Stava a lui giocare al meglio le sue carte, fingendo di sapere più di quanto in realtà conoscesse. Aveva notato che un particolare aveva inquietato Drjangic più di ogni altra cosa e quello era il punto di forza con cui voleva scardinare la fortezza di reticenza che il mercante aveva così accuratamente costruito. Drjangic sembrava esserne consapevole. Nei tratti del viso traspariva per la prima volta un’emozione che si sarebbe potuta interpretare come timore. Rimasero a studiarsi per un po’, quindi Lupo sorrise in maniera provocatoria. «Vi ascolto, mastro Drjangic... e questa volta voglio la verità... » A disagio, il mercante intrecciò le dita come rami secchi sul punto di spezzarsi e sollevò lo sguardo dal ripiano del tavolo. «Mi chiedo quanta ne sappiate già, di questa verità... » «So della Città Nera che esisteva dieci anni fa, poco distante da qui, e della strega che vi fu bruciata », disse Lupo. « So quanto caparbiamente voi e i vostri amici ne abbiate celato il ricordo ricostruendo il paese qui: un villaggio popolato da gente ignara di tutto... Mi sfugge un particolare, però: se la Città Nera era maledetta e fu abbandonata, perché venire a ricostruire così vicino? » Gli angoli della bocca del mercante si sollevarono appena. « Melapolis non fu abbandonata: fu distrutta, bruciata, rasa al suolo... destinata all’oblio perché così doveva essere. » « Una ragione in più per starne lontani, a meno che non sia rimasto qualcosa... qui in giro. Qualcosa di prezioso che tutti vogliono, al punto di correre il rischio di affrontare l’ira di una strega arsa sul rogo. » II mercante irrigidì i muscoli del collo, appena per un istante. « E voi Magister, nella vostra illuminata sapienza, credete che questo oggetto di cui avete in qualche modo sentito parlare sia la causa degli omicidi? » « È una spiegazione, kyrios. Perché non mi raccontate tutto dall’inizio? » «Potrei chiedervi quale ragione avrei di farlo, ma certamente mi rispondereste che è interesse comune risolvere il mistero, oppure v’imporreste con la violenza, so che ne
siete capace. » Lupo aveva appoggiato il bastone in un angolo, non lontano dalla sua mano, ma sapeva che non era necessario. Rimase immobile, lasciando filo al mercante. «Melapolis, la Città Nera», cominciò questi. «Immagino che il solo nome evochi nella vostra fantasia... nella vostra mente, scusatemi, so che siete un seguace della logica e vi attenete ai fatti... un passato oscuro in cui la magia gioca un ruolo fondamentale. » « Mi è balenato per la mente, infatti. » « Be’, scordatevi di tutto ciò. Qui il tempo trascorre lentamente e speravo che di Melapolis nessuno si rammentasse, ma molti anni fa non era un villaggio dedito a culti oscuri e riti satanici, un ritrovo di peccatori, se è a questo che avete pensato. No, nulla di tutto questo. Il nome viene dal luogo in cui fu fondata. Molto, molto tempo prima del mio arrivo. Melapolis sorgeva in una vallata tra lastroni di roccia nera lasciata da un antico vulcano spento. Un aspetto singolare, ma anche un’ottima dislocazione per un villaggio circondato da terre fertili grazie al vulcano che vi aveva lasciato il suo fuoco. Era un posto ideale per costruire una fortuna. Fuori delle principali rotte al punto da non attirare troppo l’attenzione degli amministratori imperiali, ma comodo per chi si recava sulla costa. Io, i fratelli Lajos e Zarko, Rada e Merkos vi arrivammo da luoghi diversi... insieme ad altri. Il prete Habras... sì, anche lui faceva parte di quella comunità un tempo felice e, forse, fu lui la sua rovina. » « Davvero? » Drjangic si concesse una cucchiaiata di brodo, come per darsi coraggio. « Quell’uomo è sempre stato un fanatico. Parlava con Dio e io diffido degli uomini che dicono di parlare con Dio, voi no? » « In Terrasanta ne ho incontrati molti. Gente che affermava di parlare con il Dio dei cristiani e con quello dei Saraceni... ma non ho mai sentito Dio rispondere alle loro parole... e neppure alle mie. Credo, per la verità, che Dio non parli molto spesso agli uomini, semmai ai loro cuori. Penso che su questo siamo d’accordo: se un uomo dice di parlare con Dio, può diventare pericoloso. Habras era pericoloso? » «Suppongo di sì, anche se non aveva motivo di rancore verso nessuno. Nella nostra vallata la prosperità sorrideva a tutti, anche al più umile dei pastori. Non come adesso. Ma dove c’è prosperità s’aggira sempre un’ombra. C’era una donna, Antigona. Conosceva rimedi naturali, preparava decotti, un po’ come fanno le vecchie in tutti i paesi. Al prete non piaceva e forse aveva qualche ragione, poiché scoprimmo che, di notte, Antigona si accoppiava con il Diavolo e praticava riti alla luce della Luna. » Lupo non mostrò reazioni. L’immagine di Makya gli tornò alla mente, ma tenne per sé quel segreto. « L’avete vista praticare simili oscenità? » Drjangic si permise un sorriso. « No, e da quando c’è bisogno di vedere una strega all’opera per condannarla? Trovammo idoli di argilla nascosti dietro le case di chi si ammalava, poi Habras, nel suo sacro fervore, la fece incatenare e la torturò tirandole le ossa e soffocandola nell’acqua e aceto finché non confessò. Era una strega, della Sorellanza della Luna. Voi che siete un uomo di esperienza ne avrete avuto notizia, no? »
C’era una sfumatura di sfida nelle parole del mercante che indusse Lupo a stare in guardia. Con quel racconto Drjangic fingeva di rivelargli dei segreti, in realtà voleva sapere qualcosa. E lui aveva già un’idea su cosa il mercante volesse scoprire. « Ne ho sentito parlare », rispose senza compromettersi. «Habras sembrava un indemoniato lui stesso, ma erano sempre le voci di Dio a guidarlo, diceva. E noi gli credemmo. Le prove erano inconfutabili e quella donna confessò ogni cosa, ogni nefando crimine con il Maligno. Finì sul rogo, con i capelli rasati, il corpo lacerato di piaghe e le unghie strappate. Ci maledisse tutti, dal primo all’ultimo... sento ancora la sua voce in notti come questa. » S’interruppe un istante, forse sperando che un tuono rendesse più drammatica la sua storia, ma il ritmico rumore della pioggia, monotono più che tragico, accompagnava la sua rievocazione. « Meno di sei mesi dopo la sventura si abbatté su di noi. Un mercante proveniente da Salonicco si fermò al villaggio. Era malato, portava la peste che, in pochi giorni, dilagò insinuandosi come acqua sporca in ogni pertugio. La maggior parte della popolazione morì. Insieme decidemmo di bruciare Melapolis e di abbandonarla. Era la maledizione della strega, la sua vendetta. » « Ne eravate davvero convinti? » Questa volta Drjangic bevve quasi tutto il suo brodo e anche Lupo ne prese un cucchiaio e masticò un pezzo di pane. «Sì, lo credevamo tutti. Del resto», riprese il mercante, « che importava? Il villaggio era distrutto, non restava nulla dell’antica prosperità. Lo abbandonammo. I pochi superstiti si dileguarono e restammo solo noi. » « E il caso ha voluto che proprio voi e tutte le persone più importanti del paese distrutto vi ritrovaste qui, dieci anni dopo, a fondarne uno nuovo. » « Sì, una nuova opportunità... e, sebbene la zona sia meno ricca, vidi una possibilità qui a Korekainé, ve l’ho già detto. Ma non dieci anni dopo, non io almeno. Ho sempre ritenuto questo luogo un buon posto per condurre affari. Ho girato, viaggiato, studiato, finché non ho intravisto in Korekainé, vicina alla vecchia Melapolis, un’opportunità... » Lupo lo inchiodò con lo sguardo. « Un’opportunità, certo. Ma per cosa? » II mercante posò rumorosamente il cucchiaio di legno. Improvvisamente aveva smesso di piovere. Erano avvolti nel silenzio più totale. I due uomini si sfidarono con gli occhi. «Voi avete sentito parlare... della Mano... la Mano del Potere », disse Drjangic senza che il Magister dovesse insistere. Finalmente aveva abboccato all’amo che gli aveva lanciato. Lupo replicò con un impercettibile cenno del capo e il mercante, evidentemente, vi lesse una conferma e proseguì. « La Mano del Potere è un potente amuleto delle streghe, solo le Sorelle della Luna ne conoscono il segreto... ma può portare morte... o ricchezza. Nonostante le torture, Antigona non rivelò mai dove l’aveva nascosto. Habras le martoriò mani e piedi ma riuscì solo a farle dire che ne era in possesso. Era la prova definitiva della sua colpevolezza... ma non riuscimmo, non riuscì a cavarle altro. La Mano è rimasta un segreto, un potentissimo segreto nascosto in queste plaghe. » « Ed è per ritrovare la Mano che siete tornati qui e avete costruito il villaggio... »
« Non lo so... io sono venuto qui per fare affari. Delle intenzioni degli altri non so dirvi. Però posso assicurarvi che per qualcuno quel talismano aveva un grande valore. Era la via per un potere occulto e, forse avete ragione, potrebbe essere la causa di tutto questo. » « Spiegatevi meglio. » Il mercante sorrise. « Perché, invece, non mi rivelate chi ve ne ha parlato? » Ecco la domanda rimasta sulle labbra di Drjangic sino a quel momento. Lupo restò in silenzio, certo che chiunque avesse indicato come la sua fonte avrebbe avuto i giorni contati. « Forse », rispose invece, « il pio Habras era rimasto così ossessionato nella ricerca del Diavolo da restarne soggiogato... l’ho già visto succedere. Magari ha continuato a cercare quel talismano per distruggerlo... o per servirsene. Forse ne ha scritto da qualche parte prima che la sua follia lo trascinasse in quella caverna dalla quale è scomparso e il giovane prete ha appreso questa storia. Magari, colto da sacro terrore, Gheorghis ha voluto parlarne al vicearcidiacono e qualcuno gli ha chiuso la bocca. » « È questa la vostra ipotesi? » « Sì. Io non credo alle streghe... non più di quanto ci crediate voi, penso. » II mercante allargò le braccia ma non fece commenti. «Sono convinto che questi omicidi siano solo un mezzo per terrorizzare, per lanciare un messaggio a qualcuno, a colui che l’assassino, chiunque sia, ritiene in possesso della Mano del Potere. E inscenando morti orrende che colpiscono chiunque possa direttamente o indirettamente essere venuto a contatto con il segreto intende spingere il ladro a uscire allo scoperto. » « II ladro? » Lupo si alzò di scatto, l’espressione irata. « Sì, il ladro... ecco come credo siano andate le cose, Drjangic. Dieci anni fa, per caso forse, voi tutti scopriste che questa Antigona era una fattucchiera, magari praticava qualche rito innocuo ed efficace solo per chi vi credeva. Però sapevate che possedeva un amuleto, la Mano del Potere, un oggetto prezioso, si creda alla magia oppure no. Pensate quanto potrebbero pagare a Roma o a Bisanzio per averlo. Per questo torturaste quella donna, ma lei non cedette. Oppure qualcuno di voi riuscì a scoprire il nascondiglio della Mano e se ne impadronì; per questa ragione siete tornati qui, avete fondato un paese e, ciascuno per suo conto, state ancora cercando di trovare la Mano. » «Ma la peste...» « La peste è la peste: è la Morte che bussa, la Morte che ride delle miserie degli uomini», disse cupo il Magister. «Viene quando Dio ha deciso e non è la maledizione di una donna torturata, assassinata e bruciata a provocarla. » « Ne siete certo? » « Sì », rispose Lupo per convincere prima di tutto se stesso. Costanza, strappata al suo abbraccio per i suoi peccati. No, no... « Uno di voi, forse, conosce il segreto, magari è in possesso di quel talismano, ma altri lo stanno ancora cercando. » « E da tutto questo cosa deducete? » Lupo si placò, lasciando al ragionamento il compito di scacciare i ricordi dolorosi. «A questo punto comincio a convincermi che tutto nasca dalla follia di Habras. Lui
per primo, mi dite, scoprì la strega e forse l’esistenza dell’amuleto. Lui cercò d’impadronirsene senza riuscirci, finché la bramosia del possesso non gli offuscò la mente e lo spinse sulle montagne. Forse, dopo mesi trascorsi a cercare inutilmente, ha pensato che uno di voi avesse effettivamente il talismano. Ed ecco che Gheorghis viene a sapere di Melapolis e chiede aiuto al vicearcidiacono, senza ottenere grande attenzione. Ma questo Habras non lo sa, deve coprire ogni traccia. Così scompare dalla sua caverna, comincia ad aggirarsi per queste colline... uccide con un’arma che riproduce il bacio della strega. Elimina il giovane prete, poi è costretto a uccidere anche Aymar, ingaggiato dai vostri compaesani, e a quel punto perde la ragione, o prosegue nel suo piano. Uccide ancora, uno per uno, tutti quelli che possono sapere, perché è convinto che uno di voi abbia il talismano. » Drjangic rimase in silenzio, ragionando tra sé, traendo le sue conclusioni. « E voi siete convinto davvero che uno di noi abbia quell’amuleto? » Lupo si avvicinò a una finestra. Dall’esterno proveniva un freddo inquietante che s’accompagnava a un buio nero come l’anima dell’assassino. « Chi lo sa? Forse sì. Ma ho intenzione di andare io stesso alle rovine di Melapolis per vederci più chiaro. Partirò domani e voi mi indicherete la strada. È il momento di farla finita. » «Forse Habras sarà là ad aspettarvi», insinuò il mercante. «Forse...» La colpevolezza del vecchio eremita scomparso era un’ipotesi credibile, ma non l’unica. Per il momento, però, era la sola che volesse condividere con Drjangic. « E sia », disse questi, « adesso sapete tutto. E concordo con le vostre deduzioni. Fate ciò che avete deciso, ma sbrigatevi. Forse non mi crederete, ma non ho nessun desiderio di diventare la prossima vittima. » « Lo immagino. » « Proprio non volete dirmi chi vi ha parlato della Mano? » Era l’ultimo colpo di quel duello che Lupo intendeva chiudere per quella notte. Sorrise. « No. Sono convinto che, meno se ne sa di quel talismano maledetto, meno saranno le vittime... non siete d’accordo? » II mercante rimase chiuso in un mutismo ostinato e offeso. Ormai il fuoco si stava spegnendo e presto il buio avrebbe inghiottito anche loro. Era tempo di riposare.
Capitolo 32 La mattina successiva Lupo trovò ad aspettarlo una sorpresa. Nella sala principale della locanda c’era già qualche avventore, venuto a riscaldarsi sulla via del lavoro, ma Rada sembrava scomparsa. Al suo ‘ posto c’era la ragazzetta che aveva intravisto nei giorni precedenti malvestita e sofferente, e che gli servì una ciotola di latte caldo e due biscotti secchi senza osare guardarlo negli occhi. « Non c’è la tua padrona? » domandò il Magister ottenendo soltanto un affrettato cenno di diniego. Due manovali chiamarono la piccola cameriera cui, in quel momento, era affidata l’intera sala, impedendole di dare risposte più esaurienti. Se pure avesse potuto. Lupo mangiò con calma, quindi prese il suo bastone e la bisaccia e sollevò il cappuccio con un gesto risoluto che non sfuggì ai presenti. Attraversò la locanda sfidando sguardi diffidenti e timorosi. All’esterno l’aria pungeva ma, quantomeno, non pioveva più. Decise allora di compiere un altro tentativo per confermare l’ipotesi che cominciava a prender forma nella sua mente. Attraversò il paese semideserto rendendosi conto, e non per la prima volta, di quanto fosse piccolo e disordinato nella sua disposizione, un borgo modesto per il quale nessuno provava realmente interesse. Ricostruito a poca distanza dalla Città Nera al solo scopo di recuperarne il segreto... Le stalle emanavano il penetrante odore degli animali e del fieno ma non si vedeva in giro un’anima, e persino il camino della piccola bottega dei due era spento. « Mastro Zarko », chiamò Lupo a gran voce. « Dove siete? » Alle sue orecchie arrivò poco più di uno scalpiccio, ma poteva anche essere il vento che s’infiltrava da una fessura. Aveva pensato di avvicinare lo stalliere fingendo di aver ripensato all’offerta di un mulo per affrontare il tragitto che lo separava dalle rovine di Melapolis. In quel modo aveva immaginato di poter rivolgere a Zarko qualche domanda per confermare o smentire ciò che Drjangic gli aveva raccontato. Speranza destinata ad andare delusa, si disse. Avrebbe potuto rivolgersi a Merkos e alla sua strateia ma Lupo era sicuro che, da quelli, avrebbe potuto ricavare soltanto un’altra occasione di scontro. Inoltre aveva le membra intirizzite e preferì riscaldarsi con la marcia piuttosto che con un combattimento dall’esito incerto. La crociata in Terrasanta gli aveva insegnato a non battersi mai senza un vero motivo. Di morti, sul suo cammino, ce n’erano stati già troppi... Si era allontanato di poco dal borgo quando udì il rumore confuso di passi affrettati. Si volse e intravide Elena che, rossa in viso per l’affanno e l’aria gelata, gli rivolse un sorriso mesto. « Magister », disse, « di nuovo in viaggio? Non volete qualche frutto? » Fu toccato da quel pensiero e ringraziò la donna che insistette per non essere pagata. Mentre infilava i frutti nella bisaccia si accorse che Elena tremava e ansimava, e non solo a causa del freddo e della breve corsa. « Che cosa avete, Elena? »
«Cattivi pensieri... quando vi ho visto allontanarvi nella nebbia... ho avuto paura che ci abbandonaste e che aveste rinunciato a proteggerci. » Le posò una mano sulla spalla. « E come vi è venuta in testa quest’idea? » « Oh, lo sapete... Quando siete arrivato tutti speravano che in pochi giorni avreste messo fine alla maledizione, ma adesso... molti, anche tra coloro che hanno invocato il vostro aiuto, dubitano, hanno paura e le voci circolano... » Questo era interessante. « Quali voci, Elena? » La donna sembrò voler fuggire senza dare risposta, ma la mano di Lupo la trattenne. Infine, respirando a fondo per farsi coraggio, Elena rispose: «Voci messe in giro tra la gente, parole sussurrate dagli uomini quando hanno bevuto troppo, dicono che voi siete... che portate sfortuna e che tutto questo è a causa vostra. E il fatto di esser stato difeso da quella megera di Rada non vi ha aiutato. Ha messo più paura a tutti, e nelle menti di alcuni ha rafforzato l’idea che tra voi e il Maligno ci sia un patto... » Il Magister scosse il capo sorridendo: Drjangic era più abile di quanto avesse immaginato. Il modo migliore per uccidere un lupo è avvelenare il pozzo a cui beve, ed era esattamente ciò che stava accadendo. « Ma voi non credete a queste voci, vero? » La donna scosse vigorosamente il capo. «No, Magister, io ho fiducia in voi; per questo dovete proteggerci. Vi prego, non ve ne andate. » «No, Elena, ho promesso di restare finché il mistero non verrà risolto e così sarà. Ma ditemi: voi ne sapete nulla di un vecchio borgo chiamato Melapolis? » Lo sguardo della donna si fece vitreo e Lupo colse sul suo viso lo sforzo di cercare qualcosa nella mente. «No, signore... mai sentito. » Certo, riflette il Magister, altrimenti Drjangic non avrebbe permesso che questa donna lo avvicinasse. « Allora andate in pace, tornate al vostro lavoro e pregate. Non correte alcun rischio. La strega non verrà a cercarvi, questo ve lo assicuro. » Nonostante ciò, quando la donna gli ebbe baciato la mano ringraziandolo a mezza voce, Lupo rimase a guardarla tornare al villaggio. Si sentiva solo, in un ambiente ostile che l’umidità rendeva ancor più inospitale. Riprese il cammino, marciare verso le rovine del vecchio villaggio gli avrebbe permesso di riordinare le idee. Per prima cosa doveva ammettere che parte di ciò che Drjangic gli aveva rivelato aveva un senso. La Mano del Potere non era una fantasia. Gliene aveva parlato persino il suo maestro, in Terrasanta, molto tempo prima, Lupo non ricordava esattamente... Le leggende riguardanti oggetti dotati di valore mistico erano numerose. E se il clero invitava schiere di fedeli a prostrarsi davanti alle sante reliquie, allo stesso modo i seguaci della stregoneria veneravano, seppure molto più nascostamente, i propri simboli e attribuivano loro un potere. Di nuovo l’immagine della sua giovanile debolezza di fronte all’albero magico tornò a insinuarsi nei suoi pensieri, ma questa volta, accelerando il passo e concentrando la mente, riuscì ad allontanarla. La Mano del Potere, secondo le credenze, era un arto reciso e mummificato di una strega potente, in grado di assicurare prosperità e ricchezza ma anche di diffondere malocchio e disgrazie. Lupo ne aveva vista una rappresentazione in un manoscritto, a
Goreme: una mano che reggeva una sorta di scettro. Era riportata in un vecchio testo musulmano, perché anche gl’islamici ne temevano gli effetti nefasti, certi che fossero legati alla credenza dei djinn, i demoni delle sabbie. Ma quella era solo la parte orientale delle leggende e Lupo era convinto di dover cercare tra le credenze europee. Forse il Canon episcopi ne parlava. Camminava già da diverso tempo quando decise di fermarsi e consultare il testo mentre consumava uno dei frutti regalatigli da Elena. La regione era di una disperante desolazione, coperta di rocce che affioravano tra la vegetazione bassa sino alle alture coperte da boschi aggrovigliati e oscuri. Di tanto in tanto Lupo credeva di individuare resti di costruzioni diroccate da anni. Edifici che un tempo avevano fornito riparo per la notte ai mercanti troppo distanti dal centro abitato. Ma ormai la vegetazione s’era impadronita dei brandelli di muro trasformando l’opera dell’uomo in un ammasso di pietre che sarebbe stato arduo distinguere dalle formazioni naturali. Le vestigia della passata ricchezza di Melapolis si perdevano nel tempo. Il suo nemico, si trattasse di una strega o di quel folle di Habras, adesso sapeva che il Magister non era una vittima. Aveva stabilito una distanza che non sarebbe stato facile colmare. La lettura del Canon episcopi non gli fornì ulteriori elementi. Della Mano si parlava una volta sola ma, al di fuori della nozione che si trattava di un potente simulacro del Diavolo, non si diceva altro. Forse, pensò Lupo, non c’era realmente altro da aggiungere: tutte quelle morti, la messinscena dei delitti e le tragedie ancora più antiche erano avvenute unicamente per un oggetto senza valore per chi non ne era soggiogato e che, forse, neppure esisteva. Però qualcuno aveva ucciso e torturato per impossessarsene e Lupo dubitava che l’autore di quella macchinazione volesse semplicemente distruggere un oggetto del Maligno. No, l’assassino, diventato schiavo dell’ossessione, voleva il potere. Il potere che quel talismano prometteva alle anime distorte. Il mattino successivo, dopo una notte tesa, frusciante di sibili sospetti ma senza pericoli reali, Lupo giunse nel luogo migliore per svelare il mistero. Lastroni di roccia scura e lucida emergevano dalla vegetazione rinsecchita dal freddo. Le montagne incombevano ed era facile individuare la sagoma del vecchio vulcano coperta dalle nuvole. Il posto era tetro ma ideale per un villaggio, se non ci si lasciava intimorire dai bizzarri spuntoni di roccia che laceravano la terra come unghie di un mostro pronto a emergere. La vallata era sufficientemente ampia da permettere un insediamento, c’erano ancora i segni di antichi canali e poco distante scorreva un tratto di fiume che formava un piccolo lago. Procedendo a passi cauti il Magister riuscì a scorgere, sepolti tra la vegetazione, i resti di quelli che dieci anni prima dovevano essere stati muri portanti. Si potevano immaginare case, officine, locande. Un luogo che un tempo era stato prospero, baciato dalla ricchezza dei campi che la lava del vulcano aveva reso fertili e la vicinanza dell’acqua facilmente coltivabili.
Ma adesso era tutto finito. Restava il sibilo dell’aria che grattava le rocce e increspava le acque. Lupo si accostò al lago trovando tra la sua superficie livida e la colata del ferro fuso della sua officina una strana similitudine. Acqua... Ed era vicino all’acqua che colpivano, per qualche ignoto motivo, le streghe. Vere o reali che fossero. Là, dunque, avrebbe aspettato. Lo scampanellio non si fece attendere e gli strappò un sorriso. Lupo non fece il gesto di volgersi o di difendersi. Tenne lo sguardo fisso nel riflesso del lago e riconobbe il viso di Makya che gli sorrideva a sua volta. No, non era lei l’assassina. Non avrebbe annunciato il suo arrivo con quel suono, altrimenti. Però adesso Lupo conosceva parte dei suoi segreti. E non se ne sarebbe andato senza conoscere la sua versione dei fatti.
Capitolo 33 Quel sorriso beffardo riflesso nell’acqua colpì Lupo in profondità, suscitandogli di nuovo l’impressione che tra lui e Makya vi fosse un’affinità la cui natura ancora gli sfuggiva. Nonostante tutto era felice di rivederla, anche se si rendeva conto che dimostrarlo avrebbe potuto essere pericoloso. Di certo non la temeva. Si drizzò in piedi e si voltò con il bastone in mano, ma senza gesti difensivi. Makya avanzò leggera tra le pietre che cingevano lo specchio d’acqua. La capigliatura rossa contrastava con la sinistra monocromia del luogo. «Magister... » disse come saluto. « Conosci questo nome? » Lei dondolò il capo lasciando che una brezza leggera le scompigliasse i capelli. Lupo si accorse per la prima volta che c’era qualcosa di studiatamente seducente in tutto il suo atteggiamento. La vide sorridere, come per sfidarlo. « Ho sentito quegli uomini che ti chiamavano così, pochi giorni fa... » «Ah, sì, quando sei scomparsa tanto rapidamente...» Lupo trovava naturale rivolgersi alla giovane con tono familiare, come non avrebbe fatto con nessuno del villaggio. E lei sembrava compiacersi di tale parvenza di intimità. «Hai sentito la mia mancanza?» sussurrò, suadente come una promessa pagana d’invincibilità. Ecco cosa lo spaventava e lo attirava tanto! Makya era un ricordo vivente della sua debolezza. « Non dire sciocchezze », replicò duro. « Avrei voluto soltanto parlarti più a lungo... di questa storia sai molto di più di quanto mi hai rivelato. » Makya arretrò, leggiadra, come se stesse danzando. La cavigliera scampanellò appena. « Che vuoi, Magister? Avevi organizzato una battuta per cacciare la strega e io ero la preda... dovevo lasciare che i tuoi bifolchi m’inforcassero? » Si era ristabilita tra loro una certa distanza, eppure Lupo si avvicinò di un passo. «Continui a chiamarmi con quel nome... Non lo gradisco, io non sono maestro di nulla, per la verità, se non di esperienze di vita poco piacevoli. » « Posso fare di meglio, se credi... » « E come? » « Dammi la mano e vedrai... Sei un guerriero e armato anche, ti prometto che non ti ucciderò e neppure proverò a sedurti, se è questo che temi. » Di ciò Lupo non era del tutto convinto. Esitò, cercando di leggere nel profondo dello sguardo di Makya, ma gli fu impossibile. Non avvertì, però, segnali di pericolo. Alla fine le porse la destra suscitando un altro brevissimo sorriso. Le dita di Makya erano fredde, eppure, quando gli prese la mano tra le sue, passando la punta dell’indice sul suo palmo, avvertì un formicolio piacevole. « Lupo, così ti chiami. Tuo padre ha scelto per te il nome di un animale nobile delle montagne di un luogo lontano da qui, un luogo che hai lasciato molto tempo fa... » « Impressionante... ma potresti aver sentito il mio nome, tu che t’infili dappertutto, anche tra i vicoli del paese ad appendere corvi sulla porta della mia stanza... » Makya rise, cristallina come il rumore del ruscello vicino. «Non faccio simili cose, e nessuna delle mie Sorelle oserebbe mai... E non mi avvicino neppure al villaggio, se
è per questo. » « No? » Lei trattenne la sua mano tra le dita, serrandola appena. « No, e se qualcuno ti ha appeso un corvo alla porta lo ha fatto per spaventarti e convincerti ad andartene... ma questo tu lo sai, come sai anche che non sono stata io. » « Forse, ma ciò non toglie che il mio nome potresti averlo sentito. Quanto al resto che hai detto di me... sono deduzioni che chiunque abbia un poco di sale in testa potrebbe trarre. » «Puoi pensare ciò che vuoi, ma io so chi sei... lo sento. Un uomo che ha in sé una grande... solitudine, un uomo che ha peccato e sofferto e... » « Basta! » Lupo ritrasse la mano con un gesto brusco di cui si pentì, ma rimase comunque impressionato dalla fermezza di Makya. Si guardarono senza parlare, girandosi intorno a piccoli passi, come in una danza. « Hanno ucciso un altro uomo. » « Non sono stata io. » «Di questo comincio a convincermi... Non possiedo le tue doti, non so leggere oltre l’apparenza delle cose, ma ho appreso a ragionare e, ponendo le domande corrette, ho scoperto alcuni particolari che confermano le tue parole. No, non credo che tu sia una strega assassina. » Makya sbuffò, le mani sui fianchi. « Me ne compiaccio, Lupo, almeno non dovrò temere che tu mi dia fuoco. Allora perché non parlare apertamente, forse ne trarremo qualcosa di utile entrambi. » « Un’offerta di pace? » « Se tu non hai paura di me... » H Magister sorrise chiedendosi quanto realmente quella giovane selvaggia riuscisse a leggere nei suoi pensieri. In segno di tregua andò a sedersi su un masso vicino al lago. Inserì la punta del bastone nell’acqua provocando una serie di cerchi concentrici che s’allargò lentamente. « Perché l’acqua? » chiese. La domanda sembrò cogliere realmente di sorpresa Makya, che lo raggiunse. Con un movimento aggraziato la giovane si chinò come per accarezzare il lago con le dita. « Cosa vuoi sapere sull’acqua? » « Un testo che ho letto, un libro antico che parla di streghe, raccomanda di guardarsi dall’acqua e, per la verità, i delitti a Korekainé sono sempre avvenuti nei pressi di qualche corso d’acqua, di un pozzo o di un... lago. » « Ciò dimostra solo che chi ha scritto quel testo, di certo uno dei vostri vescovi che pensano di sapere tutto, e colui che si è macchiato di questi delitti attribuendoli a una strega... be’, costoro non sanno nulla. Né della Sorellanza né degli antichi riti della natura. » « Mi aveva sfiorato l’idea... Se vuoi saperlo, ho scoperto vicino ai primi due cadaveri, quelli del mio compagno Aymar e del giovane prete, i segni della lingua delle streghe. » « Davvero? E sei stato in grado di leggerli? »
« Non completamente, ma consultando quel testo che disprezzi ho capito che si trattava di semplici segni. Non significano nulla e, come le ferite che i contadini chiamano il bacio della strega, sono frutto della mente malata di un uomo, o di una donna, che vuoi mettere paura ad altri evocando antiche maledizioni... come quella della strega che è morta qui, sul rogo di Melapolis... » Gettare le reti e attendere, come dicono i pescatori, anche in quel caso risultò una tattica efficace. Makya, senza curarsi del freddo, entrò nel lago sino alle caviglie prima di voltarsi verso di lui con un viso carico di rabbia. Quindi gli fece una boccaccia mostrando una piccola lingua rosata, di certo non un’arma del Diavolo... « Dicerie, superstizioni... La strega che è morta qui, dici? Bene, te la racconterò io una storia su Antigona, la strega della Città Nera... ma prima guardami, cosa vedi? » Lupo si protese dal masso. « Vedo una giovane donna riflessa nel lago che si beccherà un’infreddatura se non esce subito. » Lei sorrise, nonostante tutto. « II riflesso. L’acqua non deforma, non manipola, questo è il nostro spirito, la via della Sorellanza della Luna. Guardare nelle acque che riflettono ogni cosa senza trattenere né aggiungere nulla: questo è il motivo per cui noi, le figlie di Daen la Cacciatrice, abbiamo un particolare rapporto di affinità con le acque. Purezza, verità... ma altri hanno voluto vedere il peccato dove non c’era che naturalezza. Se dovessi uccidere qualcuno, non lo farei mai accanto a un corso d’acqua. » «Perché tu sei qui per uccidere qualcuno, vero?» domandò serio il Magister. Makya non rispose. Si limitò a fissarlo, cupa, a sua volta prigioniera di un passato da scordare. Uscì dall’acqua. « Sì », sussurrò rauca a un passo dal Magister. « Sono venuta per vendicare Antigona. »
Capitolo 34 Lo aveva trascinato tirandolo per la mano e lui l’aveva lasciata fare, sorpreso di se stesso. Era così diverso tutto ciò che gli capitava in quei giorni che intuiva significati arcani dietro ogni singolo, piccolo evento che osservava con gli occhi meravigliati di un fanciullo. Persino la valle, dominata dai lastroni di lava scura e dai ciuffi di vegetazione cresciuti tra le macerie, non riusciva ad allontanare dalla sua mente il pensiero che, al di là della missione che aveva accettato di compiere, ci fosse un significato più direttamente legato alla sua vita. Makya aveva scelto un dosso dal quale si dominava con lo sguardo l’avvallamento che aveva ospitato la Città Nera e, complice l’aria fresca e una schiarita improvvisa, era possibile scorgere le vestigia di quella che un tempo era stata una comunità ricca. « Cosa sai della Sorellanza? » domandò quando si fu calmata, seduta con la schiena appoggiata a un vecchio tronco dalla corteccia coperta da ciuffi di muschio. « Molto tempo fa, in Asia Minore, avevo un maestro, un uomo saggio che mi aprì la mente agli insegnamenti di ebrei e infedeli adoratori di Maometto anche se ero cristiano. Era un uomo saggio e praticava la tolleranza. Per me, che ero un guerriero, fu... molto importante apprendere da lui. » « E quel maestro ti parlò della Sorellanza? » « Me ne accennò e, nei miei viaggi successivi, ne sentii parlare ancora. Ma erano nozioni confuse. Si sa che esiste, e che molte donne di vari luoghi e varie fedi ne seguono segretamente gl’insegnamenti... » «È vero. Veniamo dalla notte dei tempi, dal fiume Sind con le carovane, ma durante il viaggio abbiamo appreso. Parlando il linguaggio segreto della natura, incontrando altre donne come noi, provenienti da luoghi lontani, nelle yurte e presso i tumuli, nei boschi e alle sorgenti. Ci accusano di essere streghe solo perché non capiscono. Come sai, ciò che è ignoto ispira paura e la paura... » «... è la spinta più forte alla violenza », concluse Lupo, « lo so. Oggi gli stessi che hanno chiesto il mio aiuto cominciano a guardarmi con sospetto e ostilità. » « Sei certo che qualcuno non li spinga contro di te? » «L’ho pensato, anzi ne sono convinto. Giorni fa ho incontrato una famiglia di saltimbanchi che mi ha parlato di questo luogo e della strega che vi fu bruciata. In paese, quei pochi che sanno non hanno negato, ma non mi fido di ciò che ho udito. » «E fai bene!» Ansimava, piena di rabbia. Lupo la lasciò respirare perché riprendesse il controllo. Era davvero bellissima. «E allora raccontami la tua versione. » «Antigona era una Sorella della Luna, molto potente; veniva dal nord, da quelle pianure che oggi chiamate regno di Ungheria. Fu la mia maestra prima di venire qui, al sud. Era una guaritrice, conosceva le erbe e possedeva un potente amuleto. » « La Mano del Potere? » Makya socchiuse gli occhi. « E tu che ne sai? » « Quello che Drjangic, l’eghemon di Korekainé, uno degli uomini che vivevano nel villaggio e arsero Antigona accusandola di stregoneria, mi ha raccontato. Avevo sentito parlare del suo potere, ma non so di cosa si tratti realmente, né se davvero
abbia un potere... ho capito solo che la morte di Antigona ha a che fare con questo talismano e che qualcuno voleva impossessarsene ma non c’è riuscito. » S’interruppe, volgendo lo sguardo sulla vallata come se volesse frugare tra i resti di Melapolis. « Sono convinto che tutti gli orrori di questi giorni siano in qualche modo collegati proprio con la Mano. Tu sei venuta a cercarla, non è così? » « Sì, la Mano del Potere è una reliquia della Sorellanza, ciò che resta di una grande sacerdotessa d’Oriente. Dicono che sia una chiave, una delle chiavi per svelare un segreto. Ma a me non è dato di saperne di più... e neppure a te. » Seguì una pausa di silenzio. « Antigona ne aveva il possesso, ma non spiegò mai né a me né a nessun’altra allieva quale reale potere avesse. Per noi è sacra e non deve cadere in mani empie. Non so se è davvero perduta o se qualcuno l’ha trafugata, tradendo i suoi stessi compagni di congiura. » « Una congiura? » «Sì, Antigona era benvoluta da tutti... aiutava la gente e non faceva nulla per attirare l’attenzione su di sé. » «Forse la notizia di questo amuleto è trapelata... tutti mi dicono che quel prete, Habras, lo stesso che è sparito e che credo sappia su questi delitti più di quanto s’immagini, era diventato quasi folle a causa di tale simulacro. Fu lui ad accusare Antigona e a portarla sul rogo... » Makya sorrise, lo sguardo irato e triste al tempo stesso. « Certo, Habras, un pazzo, un invasato come solo i preti possono diventarlo. E adesso che è scomparso sembra facile attribuire a lui la colpa di tutto. Fu lui a torturare Antigona e a darle fuoco... ma non avrebbe scoperto da solo la sua identità e, di certo, neppure che possedeva la Mano del Potere. » Lupo si alzò, trascinato dai suoi stessi ragionamenti. Puntò un dito verso Makya ricordando una frase pronunciata poco prima. «Tu hai parlato di allieve... una eri tu, ma ce n’era un’altra, vero? Fu lei a tradire Antigona... » « Sì, credo di sì. Non può essere diversamente », confermò Makya. « Io non posso saperlo, non ero presente ma so che Antigona aveva con sé un’apprendista. Il suo nome era Rada, ma lei si è lasciata lusingare dalle promesse degli altri. Ha denunciato Antigona al prete sapendo che questi l’avrebbe torturata e, forse, in quel modo lei e i suoi complici avrebbero scoperto dove era nascosta la Mano del Potere. » « I suoi complici? » La giovane donna sollevò l’angolo delle labbra in una smorfia. « Occorre che te lo dica più chiaramente? Drjangic, Habras, i fratelli Lajos e Zarko e quella specie di soldato... » « Merkos... Ma come hai saputo tutto questo? » Lei scosse i capelli con un gesto orgoglioso. «Ci siamo informate, abbiamo raccolto voci nel corso degli anni - dieci anni in cui sono cresciuta e sono stata preparata a venire qui, per fare giustizia. Tutto ciò che sta accadendo oggi ha una radice antica. Antigona la ricordo appena, avevo poco più di undici primavere quando lasciò le nostre terre, a nord, con la sua nuova discepola. Fui molto gelosa quel giorno. Ho aspettato a lungo per avere il privilegio di vendicarla e recuperare la Mano, non mi sono mossa avventatamente, ho ascoltato le voci del vento, le parole sussurrate nei
bivacchi. Prima di arrivare a Korekainé avevo già ristretto la mia ricerca a queste persone. » «Ma nessuno ha mai trovato la Mano... oppure sì, qualcuno all’insaputa degli altri ci è riuscito. E adesso, quando tutto è riemerso alla luce nel momento in cui il giovane prete ha trovato... non so, magari qualche traccia scritta da Habras, i suoi commenti durante l’interrogatorio della strega... e ha involontariamente riacceso l’interesse per quanto era avvenuto anni fa... qualcuno ha cominciato a uccidere, inventandosi i delitti della strega per costringere la persona che possiede realmente la Mano a venire allo scoperto. » « Può essere una spiegazione. » « Certo. Gheorghis e Aymar sono state vittime accidentali... sacrificate per mettere paura alla gente e, al tempo stesso, mantenere il segreto all’interno dei confini di Korekainé, ma è troppo tardi. Io so, tu sei qui, quei saltimbanchi hanno conservato la memoria di quanto è successo, anche se in maniera parziale, e il vecchio Habras è scomparso... » « E tu sei convinto che possa essere lui l’assassino? » Lupo incrociò le mani sul petto sorreggendosi il mento. «Potrebbe essere... ma non ne sono più così sicuro. Lajos è morto, al villaggio. Qualcuno ha frugato tra le cose del prete senza trovare nulla. Hanno cercato di spaventarmi, forse di eliminarmi con quella frana e poi ho l’impressione che Rada e qualcun altro comincino ad avere paura. Forse era Lajos che ho sentito complottare una notte con lei. » « Di cosa parlavano? » « Bisbigliavano, li ho sentiti per caso parlare di un segreto, di certo alludevano a quanto è capitato qui. Forse pensavano di aver identificato il traditore... Poi Lajos è morto e Rada non ha più detto una parola. Però mi ha difeso quando gli altri erano pronti a rivolgere la loro paura contro di me. » « E questo cosa ti suggerisce, Magister? » domandò Makya alzandosi con un tono di sfida. « L’ipotesi più probabile è che dietro a tutto questo ci sia Drjangic... ma chissà se è lui l’assassino o se, invece, possiede la Mano e, come gli altri, è soltanto oggetto d’intimidazione. » Makya preferì non commentare. Rimase ad ascoltare il vento, lo sguardo lontano. « Sei tu l’ago della bilancia, Lupo. Tu hai portato scompiglio. Ogni possibilità ha un suo fondamento. Non credo che Habras sia l’assassino, ma chi può entrare nella mente di un folle che vive in una grotta? » Lupo sorrise suscitando uno sguardo incuriosito nella giovane. « Che cos’hai? » « Io vivo in una grotta, quasi. » « Ma tu non sei pazzo! » No, non ancora, pensò Lupo, ma il calore della risposta di Makya gli fece piacere. «Non ce lo vedo Habras aggirarsi per il paese... » disse infine. «No, mi sto convincendo che il vero artefice di tutto questo sia uno degli altri quattro sopravvissuti... A proposito, cosa sai della peste e delle maledizioni che Antigona lanciò dal rogo? » Makya s’incupì. Quando riprese a parlare guardava a terra e la sua voce era
diventata poco più di un sibilo. «Come reagiresti tu se ti avessero torturato per giorni e ti bruciassero vivo? Non malediresti i tuoi assassini? » «Sì.» « E la peste è una compagna abituale della vita in questo tempo... credo che l’epidemia sia capitata molto a proposito. Distruggere questo luogo, consegnarlo all’oblio in modo che la persona che ha sottratto la Mano o che ancora la cerca potesse coprire tutto. » Lupo rifletteva. Habras. Drjangic. Zarko. Rada. Merkos, che forse era meno stupido di quanto appariva. Ed era ormai certo che le ferite che avevano sfigurato i cadaveri fossero provocate da un’arma, un’arma particolare che solo un esperto poteva impiegare. Metterli uno contro l’altro, questa era la soluzione. n tocco della mano di Makya lo colse di sorpresa. Si ritrovò a guardarla negli occhi con smarrimento. « Cos’hai intenzione di fare? » « Rada ha paura, è stata a un passo dal cedere e poi si è ritratta. Ma è lei l’anello debole della catena e da lei intendo cominciare. » « Vuoi parlarle di me? » «Chi lo sa? Potrebbe anche infonderle ancor più timore di quanto ne abbia, spingerla a cercare la mia protezione e confidarsi. » « Comunque vada la ucciderò ugualmente », replicò secca Makya. « Perché non l’hai già fatto? » « Perché lei è stata solo uno strumento. Non sono mai riuscita a sorprenderla sola, per confrontarmi con lei. Ma sono anche convinta che non è lei ad avere la Mano... no, Rada è una piccola mente, capace solo di ordire tradimenti... » Lupo sospirò. Se pure fosse riuscito a convincere Rada a confidarsi con lui, quali che fossero le sue colpe, non avrebbe potuto permettere che Makya la uccidesse. E un confronto con la Sorella della Luna era l’ultima cosa che si augurava. «Tornerò a Korekainé, voglio passare all’attacco», disse. « Ma noi dobbiamo restare in contatto. » « Come? » « Sono diversi giorni che non salgo alla mia dimora, su per la strada delle Meteore. Ci vedremo là. Troverò un pretesto per tornarci e tu non avrai difficoltà a raggiungerla, così vedrai che non è una grotta come il rifugio di quel pazzo di Habras. » Lei sorrise poi aggrottò la fronte, colta da un pensiero. « Io non l’ho vista, la caverna di Habras... se cercavi di mettermi alla prova. » Lupo chinò il capo ammettendo di essere stato scoperto nel suo piccolo sotterfugio. Poi proseguì il ragionamento. « Ricorda che c’è un assassino molto ben protetto, uno che si Sposta abilmente tra questi monti. » Makya tornò a rivolgere la sua attenzione alla vallata che lentamente scivolava nel buio. « Lo so, ne ho sentito la presenza. Chiunque sia è molto abile e determinato. Sta’ in guardia, Lupo, adesso lui sa che sei vicino. Anche tu puoi diventare un bersaglio. »
Capitolo 35 Non aveva voluto trascorrere la notte tra le rovine della Città Nera e, incamminandosi il giorno successivo alla volta di Korekainé, Lupo si chiese se non si fosse lasciato troppo influenzare dai racconti e dalla presenza stessa di Makya. Quel luogo, però, portava con sé l’ombra della disperazione e non solo di quella della strega torturata e giustiziata. La sofferenza causata dall’epidemia che aveva distrutto Melapolis era rimasta incisa su quelle lastre di pietra scura, persino in quel lago che, secondo le parole di Makya, rifletteva senza trattenere. Il ricordo di una sofferenza che riportava Lupo ai suoi rovelli. Costanza era morta di peste e, per quanto lui si opponesse a quel pensiero, continuava a ritenere di essere sopravvissuto per colpa di una maledizione. Voleva lasciarsi quelle rovine alle spalle. L’immagine di Makya, il suono della sua voce lo accompagnarono nelle ore notturne e anche durante il cammino: forse era rimasto per troppo tempo solo con i suoi incubi. Fu per quella ragione che, sulle prime, non si accorse della figuretta che correva nella sua direzione. Non mancava molto per raggiungere gli ormai familiari dintorni del villaggio. Quasi per caso, scrutando il sentiero di fronte a sé, vide nel verde smorto dell’altipiano una chiazza di colore più chiaro. Si fermò e riportò la sua attenzione al presente, aggrappandosi al bastone come un marinaio a una sartia. Sì, una macchia, una cuffia di colore bianco sporco che risaltava, e sotto la cuffia l’esile corpo di una ragazzina avvolto in una veste larga e cenciosa. Impiegò pochi attimi a riconoscere la sguattera che aveva visto alla locanda, quella che non osava neppure rivolgergli la parola. Sembrava così piccola e spaventata mentre correva per il sentiero. Prese a correre a sua volta, saltando con sicurezza da un appoggio all’altro, il bastone serrato. La sensazione che ci fosse qualcuno in agguato nei dintorni non lo abbandonava mai. A quel punto anche la ragazzina lo aveva visto e riconosciuto. Si fermò di scatto, ansimante, le gote rosse per lo sforzo. Lupo la raggiunse. «Magister», esclamò lei sorprendendolo con una voce acuta. « Cercavo proprio voi... » «Mi fa piacere, bambina... ma non occorre che ti affanni per fare più in fretta, o che tu cada rompendoti una caviglia. Non è un bel posto questo. » «Io... lo so...» Il Magister attese che si riprendesse, le offrì persino un po’ d’acqua dalla sua borraccia. La bimba bevve avidamente. Sembrava aver perso ogni soggezione nei suoi confronti, « Come ti chiami? » « Sono Yariah, figlia di Cyril... ma i miei genitori sono morti tempo fa. Lavoro per la padrona Rada. » «Questo lo so, Yariah. E sono contento che oggi tu mi guardi negli occhi e risponda alle mie domande, ma credo che sia stata la tua padrona a permetterti di farlo, vero? » La bimba sbarrò gli occhi come se la deduzione del Magister fosse un segno di
chissà quale potere, quindi annuì vigorosamente. « La padrona Rada mi ha mandato a cercarvi. » « Tutta sola? E proprio per questa strada? » « Lei... lei ha detto che vi avrei trovato seguendo questo sentiero... io non mi sono mai spinta così distante dal villaggio. » Il Magister decise che tanto coraggio andava premiato. Dalla sacca trasse un frutto e l’offrì alla piccola. «Puoi mangiarlo mentre mi spieghi... non ti farà male, è buono. » Evidentemente la fame ebbe ragione del timore, perché Yariah si gettò sul frutto sgranocchiandolo come un piccolo animale affamato. Lupo intanto sospirò. Rada sapeva dove cercarlo, sebbene fosse sparita dalla circolazione. «E per quale ragione la tua padrona ti ha mandato per un sentiero solitario a cercarmi? » Masticando rumorosamente Yariah gli scoccò un’occhiata luminosa. « La padrona ha detto che mi avreste protetto... » « Mi compiaccio di tanta fiducia... » «... ma ha detto anche che era più prudente per voi non tornare in paese. » Lupo si chinò all’altezza del viso della bimba. «Davvero? E per quale ragione? » «Ieri sono arrivati tre cavalieri. Uomini di ferro, con grandi croci nere ricamate sulla tunica. Uomini dal viso terribile. Si sono fermati alla locanda e hanno l’aria di cercare qualcuno. » Una novità interessante, si disse Lupo. Guerrieri in armatura... Cavalieri della Croce di Ferro. Un ordine militare simile ai Templari e agli Ospedalieri, ma circondato da una fama sinistra di fanatismo e violenza. Quella non era una rotta seguita abitualmente dai crociati per recarsi in Terrasanta. Forse le notizie divulgate dal giovane Gheorghis durante il suo viaggio in cerca di aiuto avevano raggiunto anche il Dominus della Croce di Ferro. «La tua padrona ha ragione», assentì Lupo, «meglio che non mi faccia vedere... ma cos’hanno detto gli altri? » «Non lo so... ma la padrona era molto spaventata. Mi ha mandato da voi quando ancora tutti dormivano. Con un messaggio... » « Bene, adesso me lo hai riferito. Ne terrò conto ma devo accompagnarti almeno alle soglie del paese, non posso... » La piccola lo tirò per una manica con insistenza. «Ascoltatemi, Magister. La padrona dice non solo che non dovete venire in paese... ma anche che vuole incontrarvi. Ha cose importanti da riferirvi. Vi aspetta al vecchio ponte di pietra, sull’antica strada che porta a Korekainé. Vi ci posso accompagnare io. » Rada, dunque, si era decisa. « D’accordo, Yariah, andremo dalla tua padrona. Ma prima mangia un altro frutto e bevi ancora un po’. Sei esausta e fradicia di sudore. » Trasse dalla sana uno straccio asciutto, le sfilò la cuffietta e le deterse la fronte sulla quale si erano appiccicati i capelli umidi. «Sì, Magister», replicò la ragazzina. Probabilmente era il primo gesto gentile che qualcuno le rivolgesse da molto tempo. Camminarono più di due ore sotto una pioggerella fine che s’infilava dappertutto.
Lupo seguiva la ragazzina e sentiva montare la curiosità: quella storia stava per imboccare un nuovo sentiero che l’avrebbe portata a una conclusione. L’arrivo dei tre cavalieri lo preoccupava, sicuramente, ma ancor di più era colpito dalla decisione di Rada di passare dalla sua parte. O forse era una delle tante trappole in cui era incappato dall’inizio di quella vicenda. C’era qualcuno deciso a colpire anche lui alle spalle vicino al ponte di pietra dell’antica strada? Tutto sarebbe stato perfetto per un’imboscata e la successiva messinscena. La bambina inviata ad attirarlo con la promessa di rivelazioni, il ponte che scorreva sulle acque, adeguato scenario per un altro delitto della strega... Avrebbero rinvenuto anche lui con il volto squarciato, circondato da segni oscuri privi di reale significato. Il vero colpevole gli avrebbe chiuso definitivamente la bocca, sigillando il suo segreto. La superstizione avrebbe trionfato. Forse con la sua morte anche i cavalieri della Croce di Ferro avrebbero desistito... Sì, poteva anche essere... ma non sarebbe andata così, decise Lupo avvicinandosi alla struttura a tre archi del vecchio ponte di pietra. Avvertì subito il sentore della morte. Ma non si trattava della sua. Anche Yariah se ne accorse e cominciò a gridare come un’ossessa portandosi le mani al viso. Lupo accelerò, ormai indifferente a ogni pericolo. Il suo sguardo era fisso sul fiumiciattolo che gorgogliava sotto i pilastri sbrecciati. L’acqua era rossa di sangue e il corpo riverso in avanti, disteso in una posizione oscena, con la veste sollevata. Rada. Lupo costrinse la piccola a restare lontana, la cullò finché i singulti non si furono placati, vincendo la sua stessa curiosità. Si guardò in giro senza notare nulla. Non una traccia sui sassi del torrente ma, immancabili, i segni della stregoneria circondavano il corpo: rametti e pietre lasciati appositamente perché qualcuno li trovasse. Incurante della pioggia e del freddo intenso dell’acqua, si chinò sul cadavere e lo voltò con cautela. H bacio della strega, la ferita che l’assassino aveva inferto per sconciare la sua vittima ed evocare terrore, era una firma facilmente riconoscibile. Rada era stata sorpresa alle spalle, come gli altri, e l’arma che l’aveva uccisa era penetrata con estrema brutalità nella nuca fuoriuscendo sotto la mascella e sfigurandola. La chioma chiazzata dalla ciocca grigia, però, non permetteva errori. Rada la locandiera, l’allieva delle Sorelle della Luna, la traditrice che per meschinità o cupidigia aveva venduto la sua maestra, era morta. L’idea che la vendetta di Makya, in un modo o nell’altro, stesse avvicinandosi al compimento s’insinuò nella mente del Magister; ma quello scempio non era opera sua, e forse neppure dell’ignoto assassino che sino a quel momento aveva colpito intorno a Korekainé. « È stata la strega? » domandò Yariah da una certa distanza. « No », rispose Lupo, sorreggendo il corpo di Rada per sottrarlo alle acque. « Non è stata la strega. » Depose il cadavere supino sul terreno. La lacerazione era orribile e i bordi della ferita gonfi e bluastri, ma negli occhi di Rada, intatti, era rimasta una luce
accusatrice. Lupo controllò a stento la rabbia. La verità non avrebbe potuto fare più male della menzogna alla piccola. «Non c’è nessuna strega. Questa ferita è stata prodotta con un’arma, forse un vomere... » «Un... aratro?» « Chi lo sa? Di certo è stata inferta in maniera imperfetta. Ti posso assicurare che neppure le altre vittime sono state dilaniate dalla lingua di un demone, ma questa è l’opera di un uomo e anche poco abile. Guarda qui, sul collo. Questi segni. Rada non è stata sorpresa e uccisa qui. Qualcuno deve aver intuito la sua intenzione di parlare con me. L’ha seguita e le ha spezzato il collo, poi l’ha colpita con un attrezzo acuminato per simulare il bacio della strega e l’ha portata qui... ma non è stata una strega a uccidere la tua padrona. È stato un uomo, qualcuno che vive a Korekainé. » Comprese che la piccola stava per cedere. Come rimproverarla? Lupo la strinse a sé e la lasciò di nuovo piangere finché non si fu calmata. Poi le parlò seriamente. «Yariah, ho bisogno del tuo aiuto. » « Voi, Magister? » « Sì e anche la tua padrona... » « Ma lei è morta... » « E non vogliamo che sia accaduto invano, vero Yariah? » La bambina scosse il capo. Sarebbe diventata una donna forte, se solo fosse sopravvissuta. «Ascoltami, allora. Seguirò il consiglio che mi è stato dato e non passerò per il villaggio. Tu invece devi correre a Korekainé e dire a tutti che eri andata a cercare la padrona e che l’hai trovata così. Non parlare di me e se tutti accusano la strega tu ripeti soltanto che è così che hai trovato il cadavere. Se poi qualcuno incolpa me, tu non sai nulla. Conferma solo che hai trovato così la tua padrona, non aggiungere altro. Capito? » Yariah annuì, con una serietà toccante. « Scoprirò chi è stato, ma posso riuscirci solo se mi aiuti. Lo farai? » Con la decisione dei bambini messi di fronte a un fatto tragico Yariah annuì ancora, piena di risolutezza. Lanciò un rapidissimo sguardo al cadavere poi abbracciò il Magister. «Vi prego, fate che tutto questo finisca », gli sussurrò all’orecchio. Poi corse via in direzione di Korekainé. Lupo la osservò sino a quando non scomparve all’orizzonte. Non spostò più il corpo, un chiaro segno per l’assassino che il suo sotterfugio non era servito, poi cancellò le sue impronte tra i sassi della riva e s’incamminò verso la strada per il suo eremo. Chissà se Makya sarebbe venuta realmente a fargli visita... C’erano ancora molte cose di cui parlare.
Capitolo 36 La sensazione di essere spiato si fece più acuta e Lupo accelerò il passo. Era difficile prestare attenzione ai segnali che gli venivano dall’ambiente circostante e al tempo stesso riordinare le idee, ma era necessario. Gli avvenimenti sarebbero precipitati, ne era convinto, e bisognava agire. Attendere risultati dopo aver gettato le reti era ormai inutile, la morte di Rada lo dimostrava. Qualcuno si stava innervosendo e, questa volta, non si trattava della strega o dell’assassino che aveva già colpito in precedenza. Più proseguiva nel cammino più Lupo si convinceva che era stato il timore di eventuali rivelazioni su quanto era accaduto a Melapolis a causare l’omicidio di Rada, e forse anche di Lajos. E un altro dilemma aveva cominciato a farsi strada nella mente del Magister. Makya aveva detto di non essere stata lei a provocare la frana che lo aveva quasi travolto, giorni prima. Era stato l’assassino che si celava dietro lo spauracchio della strega? E allora perché non cercare di uccidere anche lui come gli altri? Quella frana, per la verità, sembrava più un avvertimento che un tentativo di omicidio fallito. n Magister interruppe bruscamente i suoi ragionamenti. Si voltò, pronto a reagire, gli occhi stretti, il respiro sotto controllo. Un corvo gracchiò in lontananza e, qualche istante dopo, dal folto del bosco Lupo vide levarsi un uccello nero che volò via infastidito da chissà cosa. Null’altro, soltanto la nebbia del tardo pomeriggio che stava confondendo i contorni di ogni cosa. Nonostante ciò era sicuro di aver colto un movimento. Era forse Habras? Prete infuocato dalla luce di Dio, eremita senza senno, figura opportunamente scomparsa e perfetto capro espiatorio? Makya? O uno dei due assassini che, per qualche ragione, preferiva tenersi a distanza invece di aggredirlo direttamente? Trascorsero diversi minuti. Lupo sentiva il sudore corrergli lungo la schiena e una sorta di vertigine divorargli la mente. Era stanco, intirizzito e affamato. Allargò le spalle nella speranza di assumere un’aria minacciosa che tenesse a distanza il suo osservatore, quindi riprese il cammino. Quando giunse in cima al sentiero che portava al terrapieno dove si trovava il suo rifugio, Lupo si rese conto che, prima di ogni altra cosa, doveva provvedere ad alcune necessità di carattere pratico. Soprattutto adesso che erano comparsi sulla scena, e di certo non per caso, anche i cavalieri dell’ordine della Croce di Ferro. Le piogge dei giorni precedenti non avevano creato danni: quando aveva eretto il suo rifugio aveva impiegato tutta l’abilità appresa durante i suoi viaggi. Fu costretto a far scolare l’acqua da un canaletto che s’era intasato, ma sia l’alloggio che la fucina erano in ordine. Per prima cosa riaccese il fuoco nell’officina per riscaldarsi e preparare il congegno che aveva in mente. Non poteva negare di essere affamato. Considerato che le sue riserve di cibo si limitavano ad alcune erbe secche che gli avrebbero consentito al massimo di
prepararsi una zuppa, per una volta Lupo lasciò il suo bastone e si armò di un arco magiaro di grande potenza composto da bracci di legno e corno ricurvo e di alcune frecce con la punta di selce che aveva tenuto per ricordo in una faretra sciita. Poteva contare su non più di un’ora di luce, così si mosse rapidamente, scese lungo il sentiero e, con mille accortezze, si avvicinò a uno stagno dove gli animali andavano all’abbeverata serale. Avendo cura di appostarsi controvento riuscì a sorprendere una capra di montagna. L’abbatté con un tiro preciso. La caccia non era stata uno dei suoi passatempi preferiti neppure quando era cavaliere, ma la sopravvivenza era un’arte coltivata negli anni. Con la preda sulle spalle Lupo tornò al suo rifugio. Macellò l’animale e finalmente fu in grado di concedersi un pasto corroborante. Era ormai notte quando eseguì un esame del campo. Qualche stella rischiarava appena la zona, ma per chi non fosse stato esperto di quei sentieri salire sino al suo rifugio poteva rivelarsi una trappola mortale. Il Magister non sapeva quali fossero state le reazioni al ritrovamento del corpo di Rada. Di certo, se anche a qualcuno fosse venuto in mente di accusare lui, non sarebbero venuti a cercarlo di notte. Neppure i tre cavalieri. Non aveva comunque molto tempo a disposizione. Rinvigorito, Lupo entrò nella fucina e si diede da fare per buona parte della notte, trovando nella fatica del lavoro manuale una tranquillità che lo aiutò a riflettere con ordine, come aveva appreso dal suo maestro. Terminò di forgiare sei grandi punte di freccia quando il sole era ancora lontano. Immerse il metallo nell’acqua gelida per temprarlo e decise di potersi concedere un breve riposo. Quando si fosse svegliato le punte sarebbero state pronte e avrebbe potuto predisporre meccanismi di difesa efficaci per il suo rifugio. Si accorse che il pensiero di essere «condannato» a sopravvivere non era così saldo da allontanare un salutare timore e lo considerò un buon segno. Si assopì rapidamente, esausto. Si destò naturalmente alle prime luci, colpito da un vento freddo. Il contatto ancor più deciso con l’acqua del pozzo gli snebbiò completamente il cervello. Indossò una tunica pulita e controllò che le frecce forgiate nella notte avessero preso la consistenza definitiva. Un maestro d’arme avrebbe preteso più tempo ma lui doveva affrettarsi. Legò con una correggia le punte a lunghe aste di legno prese da una fascina e inserì gli impennaggi nella parte posteriore. Si alzò con le sei lunghe frecce serrate in una mano. Adesso avrebbe pensato a preparare una semplice ma efficace difesa per il suo rifugio. Considerato che la via per raggiungerlo era una sola e la strada era tortuosa il Magister, molto tempo prima, aveva già provveduto a sistemare una trappola in grado di difenderlo da un’aggressione. Tra tutte le cose che si era portato dietro dalla Terrasanta aveva conservato uno «scorpione», una grande ballista usata negli assedi che aveva modificato e ridotto. Si trovava incastrata tra uno sperone di roccia e due tronchi all’imboccatura del sentiero, praticamente invisibile. Ne sostituì il budello con una corda nuova, posizionò le sei frecce e tirò la manovella che tendeva il
gigantesco arco. Tutto era mantenuto in tensione da una fune che il Magister tese al massimo assicurandone l’estremità a una radice affiorante oltre il sentiero. Coprì la fune nel punto in cui attraversava la strada con pietre e arbusti in modo da mimetizzarla. Soddisfatto, recuperò il bastone e decise di scendere di nuovo a valle. Ora che si era coperto le spalle doveva tornare in azione, provocare e osservare, perché rimanendo chiuso nel suo eremo non sarebbe arrivato a nulla. Un pensiero si fece strada in un angolo della sua mente: quanto era cambiata la sua vita in un tempo così breve... e, stranamente, tutto quello sconvolgimento gli aveva alleviato il peso che da troppi anni gravava sul suo spirito. L’azione, come diceva il suo maestro, sconfigge il pensiero maligno che avvelena l’anima. Tale fiduciosa predisposizione si offuscò quando, sul sentiero che lo portava a Korekainé, Lupo avvertì un odore penetrante che già conosceva. Fumo, misto a un sentore dolciastro, nauseante. Ancora non vedeva nulla ma, nel giro di pochi istanti, individuò alcuni uccelli neri che giravano in circolo intorno a una collinetta oltre la quale si levava un refolo scuro. Il Magister accelerò il passo, serrando il bastone a due mani. Sentiva dentro di sé montare una rabbia tale da spingerlo a cercare la lotta come una liberazione dall’angoscia. Ma oltre la collina non c’erano nemici da affrontare né streghe da esorcizzare. Solo morte e rovine.
Capitolo 37 Vittime innocenti. Corpi distesi tra l’erba impregnata di sangue. Carri sfasciati. Assi annerite da un fuoco appiccato senza misericordia a cose e persone. Quante volte aveva visto i segni della crudeltà dell’uomo, la furia dei guerrieri contro gli inermi? Rimase per un lungo momento sul baratro dei ricordi, di nuovo in Terrasanta, testimone di massacri inutili e ingiustificabili perpetrati da crociati e Saraceni, tutti colpevoli, tutti maledetti. «Ljubco!» esclamò come ridestandosi, non appena riconobbe una delle figure accasciate tra le rovine del campo dei saltimbanchi. In pochi balzi raggiunse il carro più grande, n capofamiglia era stato legato ai raggi di una ruota e torturato con il fuoco e con il ferro. Infine lo avevano sgozzato. Forse per strappargli segreti che non conosceva, forse per assicurarsi che non parlasse più con nessuno. Con la gola serrata il Magister si chinò sul cadavere del vecchio artista di strada e gli chiuse le palpebre restituendogli almeno una parvenza di dignità. Ljubco era morto soffrendo e con lui anche gli altri componenti del suo piccolo clan. Giacevano scompostamente, macellati come animali. Avevano tentato di seguire il suo consiglio, attraversando la regione lontano dalla strada principale, ma qualcuno li aveva trovati. Forse la pioggia o il peso del loro stesso convoglio li aveva rallentati, lasciandoli prede indifese di veloci assassini. Lupi sotto forma di esseri umani, bestie venute per punire chi aveva parlato. La ferocia con cui si erano accaniti sulla piccola comunità dimostrava che avevano agito con uno scopo preciso: volevano sapere cosa i guitti avessero rivelato e a chi. Il Magister si sentì sommergere da una sensazione di colpevolezza ancor più forte della furia vendicatrice che la sua anima di antico guerriero gli suggeriva. Quella gente era morta per causa sua. Li aveva salvati una volta ma, nella sua ansia di svelare quel mistero che sembrava sfidarlo personalmente, aveva scordato la prima regola di un cavaliere: proteggere gli innocenti. Avrebbe dovuto accompagnarli incolumi ai confini della regione prima di compiere ogni altra mossa. Gli uomini di Merkos non avrebbero osato tornare a colpirli se fosse stato con loro. Invece erano morti. E lui era vivo, ancora una volta. Cadde in ginocchio, la mente che vacillava. Improvvisamente interruppe la catena di pensieri che lo stava trascinando in un gorgo dal quale non sarebbe uscito. Deglutì a forza. Si rialzò, cominciò a frugare tra i resti del campo distrutto. Ljubco. I figli, le donne, persino il bambino. Tutti morti e... Imue... dov’era Imue? Travolto dalla speranza, il Magister riprese a cercare febbrilmente. Gli occhi scandagliavano le tracce nell’erba umida. « Imue! » urlò sino a irritarsi la gola. « Imue! » La ragazzina che si nascondeva sotto abiti maschili non c’era. Si era allontanata dal campo oppure... un pensiero ancor più angoscioso balenò nella mente di Lupo. L’avevano presa, sequestrata per torturarla e interrogarla altrove. Perché?
Stava per mettersi a correre verso il paese, per fare chiarezza a qualsiasi costo, quando il monotono sibilare del vento tra le macerie sembrò acquietarsi per un istante. E, nel silenzio, il Magister udì un singulto. Di nuovo si guardò in giro con crescente agitazione sino a quando non individuò la fonte di quel richiamo. Si ripeteva come una litania, era una richiesta di aiuto. «Lupo...» « Imue! » chiamò ancora, e di nuovo tornò a cogliere quel lamento penetrante che invocava il suo nome. Veniva da un anfratto seminascosto tra cespugli e massi. Lo raggiunse ansimando per l’eccitazione. Era sempre più forte, più distinto. Un lamento continuo, un’affermazione caparbia di volontà di sopravvivenza. Lupo smosse le frasche, gettò il bastone e si protese lacerandosi gli avambracci con le spine. Istintivamente ringraziò il Signore che gli aveva concesso quella possibilità, il dono insperato di uscire da un campo di morte insieme a un altro essere umano. La ragazzina era là sotto, rannicchiata, coperta di tagli, sconvolta, ma viva. «Vieni, Imue, sono io... Lupo. » Sulle prime la piccola si ritrasse e il gemito divenne una stridula invocazione di pietà, poi qualcosa nello sguardo sfavillò. «Lupo... Magister... sono incastrata... aiuto», disse protendendo le braccia sanguinanti. Estrarre la ragazzina dal buco dove s’era nascosta non fu cosa semplice. Spuntoni di pietra e rovi la trattenevano come denti di una tagliola, ma con pazienza e caparbietà, parlandole con dolcezza, Lupo l’afferrò per le ascelle, quindi, un palmo alla volta, riuscì a tirarla fuori. Il momento più delicato si presentò quando fu necessario districare una caviglia imprigionata. Vide il suo viso farsi più pallido per il dolore ma la ragazzina serrò i denti e resistette. Alla fine Imue fu libera, e Lupo l’abbracciò forte, senza vergognarsi di piangere. Le pulì alla meglio il volto incrostato di fango, tamponò una delle ferite più estese. La piccola rabbrividì, tentò di parlare ma non poté far altro che abbracciare di nuovo il suo salvatore. Bruciava di febbre. Il Magister decise in fretta. Non poteva fare più nulla per Ljubco e la sua piccola tribù, ma aveva la possibilità di salvare ancora una vita anche se ciò significava lasciare ai corvi i cadaveri degli altri. Si caricò Imue sulla spalla e tornò rapidamente verso il suo rifugio. Avrebbe trascinato i responsabili di quello scempio a dare loro stessi sepoltura ai saltimbanchi. Avrebbero implorato pur di farlo. Al sicuro nel suo eremo, Lupo pulì le ferite di Imue e le fasciò la caviglia dolente. Poi, senza pensarci troppo, la spogliò degli abiti laceri rivelando ciò che già sapeva, e cioè che era una fanciulla all’alba della sua adolescenza. Il corpo magro, i capelli tagliati come quelli di un fanciullo non potevano nascondere oltre il suo segreto. Lupo la medicò con impacchi di erbe e l’avvolse in una delle sue coperte. Sul fuoco mise una pentola di acqua in cui sciolse bacche e quel poco che aveva per prepararle una zuppa, utilizzando alcuni pezzi di carne secca e salata rimasti tra le sue provviste. Imue si era calmata ma la febbre a tratti le produceva spasmi incontrollabili. « Lupo... Sapevo che sareste venuto... »
« Bevi, piccola », la incoraggiò il Magister portandole alle labbra la tazza fumante. Imue riprese colore, poi si adagiò sul giaciglio. « Non abbandonatemi... ho freddo... » Toccato da quella nuova responsabilità, il Magister si diede da fare per trovarle un’altra coperta. Imue emise una sorta di strillo quando lo vide allontanarsi per un poco. Lupo coprì il corpo della ragazzina cacciando furiosamente dalla mente il ricordo di Costanza, così simile negli ultimi giorni di sofferenza. Imue non sembrava ancora in grado di parlare in maniera coerente e raccontargli come si fosse salvata e in che modo fosse avvenuto l’assalto. Oltre a ciò Lupo aveva bisogno di procurarsi cibo e medicamenti. Non poteva vegliarla ma, al momento, l’unico stimolo che sembrava scuoterla dal suo torpore era proprio il terrore di essere abbandonata. Il Magister le rivolse un cenno rassicurante, poi, più in fretta che poté, andò alla sua officina e tornò con un oggetto avvolto in un panno. Notò uno sfavillio negli occhi di Imue quando si tornò a chinare sul suo giaciglio mostrandole la strana spada con l’impugnatura al centro che aveva forgiato poco prima della visita di Aymar. « Ecco, Imue », disse posando la lama sul giaciglio, « questa ti proteggerà. È una spada particolare. L’ho forgiata io stesso. Devo andare a cercare cibo ed erbe perché tu possa rimetterti. Tienila qui, ha un poco del mio spirito. Puoi parlarle se vuoi. Ma non muoverti da qui. Ci sono difese intorno a questa dimora che solo io conosco. Farò in fretta. » «No...» Le posò una mano sulla fronte bollente. «Ti prego, Imue, devi avere fiducia in me », disse con la voce strozzata. Quante persone avevano ceduto a quella promessa e avevano pagato. In qualche modo lei sembrò comprendere il bisogno disperato dell’uomo di ottenere la sua fiducia. Abbassò un paio di volte le palpebre e sorrise in quel modo triste e struggente che hanno i malati gravi. Si agitò ancora un po’, madida di sudore, poi il respiro divenne più regolare e si assopì. Lupo la osservò. Che cosa doveva fare? Muoversi certo, ma in quale direzione? Nel suo rifugio Imue era sufficientemente al sicuro. Nessuno sarebbe venuto a cercarla. Doveva trovare cibo, latte, forse, e formaggio... aveva già un’idea di dove procurarseli, e poi c’erano quelle bacche medicinali che crescevano ai limiti del bosco, verso Korekainé. Doveva raccoglierne altre, giacché la sua riserva era terminata. Si assicurò che la ragazzina fosse ben avvolta nelle coperte, poi raccolse il bastone e si avviò verso la valle. Inconfessato, però, il desiderio di vendetta saliva dentro di lui come una marea oscura. E, benché avesse giurato di non lasciarsi mai più prendere da quella furia, Lupo non fece nulla per arginarla. Era convinto che quella barbarie di cui aveva scoperto le tracce fosse opera di Merkos e dei suoi soldatacci. Fare giustizia gli avrebbe forse consentito anche di trovare una risposta. Ma non intendeva muoversi prima di aver valutato bene la situazione. Avrebbe agito con cautela, ma prima doveva provvedere a Imue.
Capitolo 38 La pira funebre era stata eretta al centro del paese, di fronte alla chiesa i cui battenti erano stati riaperti. La luce di Dio, il fuoco purificatore era tornato ad ardere a Korekainé, accompagnato da voci terrificanti quanto i demoni che volevano scacciare. Domash Tartu, il viso deturpato dalle cicatrici, aveva recitato un oscuro rituale latino che nessuno dei paesani aveva compreso, ma il corpo straziato di Rada era stato bruciato di fronte a tutti. Un avvertimento. La presenza dei tre cavalieri dell’ordine della Croce di Ferro, i destrieri maestosi, le armature e i simboli stessi della loro congregazione creavano una barriera contro il Maligno e tutti, innocenti e colpevoli, dovevano prenderne atto. Ma era un bastione che proteggeva il villaggio dal maleficio e al tempo stesso lo teneva imprigionato in una nuova morsa di terrore. Il potere di Dio poteva essere spaventoso quanto quello del Diavolo. Il fuoco crepitava ancora, arricciandosi nel vento e diffondendo in tutto il paese un odore greve al quale nessuno era in grado di sfuggire. Tartu, terminato il suo rito, chiuse il pesante volume da cui aveva tratto le parole che invocavano la punizione di Dio contro ogni forma di empietà e lo passò a Tamask. « Per troppo tempo questa terra è stata preda della superstizione », disse a voce alta il capo dei cavalieri. « Non appena le ceneri saranno disperse, Tamask, celebrerai una messa nella chiesa. Tutti vi assisteranno. » Che si trattasse di un territorio formalmente sottoposto agli uffici del rito greco non importava; la potenza fisica e spirituale dei cavalieri non ammetteva replica e, tra i presenti, molti sentivano la necessità di udire parole sacre, anche se non ne comprendevano il significato. Tartu passò in rassegna i visi consunti, abbruttiti dall’indigenza e dalla paura. Sembrava davvero che il Male si fosse impossessato del paese e che Dio l’avesse abbandonato. Ma ora le cose stavano per cambiare. Da anni l’ordine della Croce di Ferro combatteva spietate battaglie in ogni luogo opponendosi anche con le spade alla miscredenza. Tartu sapeva quanto spesso ciò diventasse una necessità cui adempiere senza rimorsi. Il Male non ha pietà di chi vacilla e l’ordine era stato concepito proprio per forgiare sacerdoti in arme, impenetrabili come le loro corazze. A Korekainé la presenza del Diavolo era palpabile, una sfida che Tartu sapeva riconoscere. Non ne era spaventato. Aveva una missione e mai si sarebbe concesso pace prima di averla portata a termine. Il suo spirito bruciava come il fuoco della pira che aveva dissolto i resti di Rada. Che fosse una maledizione o un dono poco importava, conduceva quella vita da tanti anni ormai che ogni alternativa gli era diventata indifferente. Era contento di essere arrivato finalmente a destinazione, pronto a eseguire l’incarico che il Dominus Verbi gli aveva affidato. C’erano poi alcuni aspetti pratici che richiedevano la sua attenzione. A gran parte di essi stava provvedendo Manfred Koob che, con quel suo aspetto feroce, non aveva bisogno di troppe parole per farsi comprendere e obbedire. In quel momento stava
tornando dalle stalle: a capo scoperto fendeva la folla che, lentamente, rientrava alle proprie case per prepararsi alla messa. « I cavalli sono al loro posto », annunciò con una smorfia che, nella limitata varietà delle sue espressioni, manifestava soddisfazione. « Saranno trattati come conviene. » Tartu annuì. «Allora va’ a prepararti per la funzione. Indossa la tunica più scura, quella con la cappa e la croce ricamata sul petto, queste... bestie devono capire chi comanda qui. » Koob non amava parlare, preferiva ricevere ordini e trasmettere i propri con pochi gesti; tuttavia era evidente che nei suoi occhi bruciava una domanda. Tartu lo conosceva da anni e sapeva intuire i suoi pensieri. «Ti stai domandando se realmente il Maligno si annidi da queste partì, magari nelle viuzze di questo villaggio di porcai e zappaterra? » Koob assentì, né preoccupato né impaurito, semplicemente curioso di sapere contro chi avrebbero dovuto battersi. Tartu gli posò una mano sulla spalla. «No, io vedo solo peccati di uomini dappoco. Cupidigia, assassinio, tradimento. Troveremo ciò che siamo venuti a cercare... ma nessuna pietà. E vigiliamo, qui sono in atto giochi di potere meschini, ma più sono piccoli e luridi, più i peccatori si fanno arditi. Non abbassare mai la guardia. » Koob fece un cenno e riprese il suo cammino. Tartu entrò nella locanda dove i tre cavalieri avevano preso alloggio. La piccola Yariah stava trafficando intorno a un pentolone aiutata da altre due giovani reclutate a forza per mandare avanti la cucina dopo la morte di Rada. Seduto in un angolo, Drjangic si scaldava alla brace del camino. «Cercavo proprio voi», esordì Tartu, raggiungendolo con passi pesanti. « Davvero? » C’era un vago tono di sfida nella voce dell’eghemon. Tartu si lasciò cadere sullo sgabello di fronte al mercante. Indicò l’ambiente circostante. «Adesso che quella donna è morta, sarà opportuno che voi, che qui dirigete ogni cosa, vi occupiate di rendere confortevole questo posto: chiamate altra gente per lavorarci... » Drjangic accennò alle ragazze che aiutavano Yariah. « Qualcosa ho già fatto, ne convocherò altre se volete, per pulire le stanze e preparare il cibo... ma ero convinto che, dopo i segni del Maligno che si sono manifestati intorno a questo luogo, voleste bruciarlo come avete fatto con il cadavere di Rada. » Tartu non rispose. Sondò con lo sguardo il mercante, restituendogli la sfida implicita nel suo atteggiamento. Dopo qualche istante sussultò ridendo senza emettere suoni, con un effetto terrificante. « Non c’è nessun demone in azione qui in giro e voi lo sapete. » « Perché dite così? Voi stesso avete officiato il rito della purificazione... » Tartu lo fissò negli occhi. «Credetemi, ho visto il Male molte volte da quando ho preso gli ordini. Io so che non c’è nessuna strega qui a Korekainé. Abbiamo bruciato questa poveraccia perché la gente è terrorizzata... da settimane senza un prete, anche se greco... ogni genere di credenza pagana può aver ripreso potere. Questo è il solo e unico male che dobbiamo estirpare. » « Ma i delitti, i segni... »
« L’opera di un assassino che gioca con l’ignoranza della gente. Un assassino che si è servito della parola di Dio per i suoi scopi e che noi troveremo. » II mercante s’irrigidì. « Sono le stesse parole del Magister... ma lui è scomparso e... » Tartu si concesse un sorriso. «Ah, sì, me ne hanno parlato. Il saggio, l’eremita, l’antico guerriero che ha cercato la strega senza trovarla. Prima o poi parlerò anche con lui. State tranquillo che, quando avremo finito, non ci saranno ombre su questa terra. » «Ma se siete convinto che non sia opera del Diavolo, perché siete venuti da tanto lontano? » Il viso di Tartu rimase così immobile da suscitare timore anche in Drjangic, che non era uomo da spaventarsi con facilità. Il cavaliere lo guardò con gli occhi di chi sa già tutto. « Oh, ma se guardate dentro la vostra anima, lo sapete perché siamo qui, Drjangic. Lo sapete bene. » Si alzò di scatto appoggiando la mano sul pomo della spada. « II Male ha molte sembianze e il fatto che non ci siano streghe... streghe vive e in grado di lanciare malefici, qui a Korekainé, non significa che non esista in altre forme più subdole. E noi siamo qui per stanare il serpente e mozzargli il capo. La storia della maledizione di Melapolis, e di tutto ciò che la riguarda, ha viaggiato lungo le strade dei mercanti, dei vagabondi, a dispetto di ogni tentativo di tenerla segreta. Il nostro ordine ha mille orecchie. Sappiamo della Mano del Potere e, allo stesso modo, ci è giunta voce di un giovane prete greco sconvolto da quanto aveva scoperto. E arrivando qui cosa troviamo? Che quel religioso è morto, e non da solo... C’è un mistero da chiarire, un’ombra che minaccia il Regno di Dio e noi abbiamo preso le armi per riportare la luce dove regna l’ombra. Non abbiamo mai fallito », disse passandosi quasi per caso la mano sulla cicatrice che gli deturpava il viso. «Riflettete su queste parole. Fatelo mentre ascoltate la messa. La parola di Dio pronunciata da uomini dall’anima di ferro temprato è il miglior rimedio contro i sotterfugi del Diavolo. » Drjangic rimase diritto sul suo sgabello a osservare il cavaliere che usciva dalla locanda. Nell’aria l’acre odore della pira stagnava, opprimente.
Capitolo 39 « Magister, Magister! » La voce arrivò rotolando tra i dossi del terrapieno che conduceva a Korekainé. Lupo si fermò aguzzando la vista. Usciva da un folto d’alberi nel quale aveva raccolto le bacche necessarie per curare Imue. Udì di nuovo il suo nome, come invocato dal nulla, poi nella foschia distinse una figura che correva nella sua direzione. Aveva imparato a riconoscere gli uomini dal modo in cui si muovevano e avrebbe voluto sorridere ravvisando Kristos, il pastore con il labbro deturpato dalle febbri che gli aveva dimostrato amicizia sin dal primo giorno. Ma il ricordo della strage che aveva scoperto gli impediva qualsiasi buona predisposizione. Ciò nonostante si mostrò apertamente lasciando che il pastore si avvicinasse. « Magister, stavo cercando proprio voi. » « Spero allora che non vi siate portato dietro cattive compagnie... » Sul viso di Kristos si materializzò un’improvvisa perplessità. « No, nessuno mi ha seguito, Magister, ma cosa volete dire?» « Gli sgherri di Merkos sono qua in giro? Li avete visti? » II pastore scosse il capo come un bovino infastidito dalle mosche. «Quei prepotenti... no, sono corsi a nascondersi come tutti... » Lupo intuiva una grande agitazione nel pastore. Lo fece sedere e gli offrì dell’acqua dalla sua borraccia: era evidente che l’uomo aveva dato fondo a tutte le sue energie per raggiungerlo e doveva avere una ragione precisa. Lasciò che riprendesse fiato. «Perché mi chiedete degli uomini di Merkos?» domandò Kristos. « Poco distante da qui ho trovato i resti di una carovana di saltimbanchi che, poco tempo fa, avevo difeso dalle angherie di quei banditi... Purtroppo erano tutti morti e credo sia stata opera loro. » « Saltimbanchi? Non ne so nulla, ma da quando siete partito sono avvenute altre disgrazie. Rada è stata uccisa. Dalla strega, vicino al ponte di pietra... e non solo, in città sono arrivati dei monaci guerrieri. Terribili... parlano con voce di fuoco, recitano riti in una lingua che non capisco... Hanno bruciato il corpo di Rada in mezzo al paese, poi hanno costretto tutti ad assistere a una messa, ma nessuno ha compreso nulla delle loro parole. » I cavalieri dell’ordine della Croce di Ferro, come aveva detto Yariah. « Almeno la chiesa è stata riaperta... » commentò Lupo, ma lo sguardo di Kristos gli comunicò che ben pochi in paese ne avevano tratto conforto. « Quelli sono uomini feroci. Non come il cavaliere Aymar o come voi, dovreste vedere i loro visi... e agitano il crocifisso con la stessa dimestichezza della spada. Hanno detto che riporteranno la luce di Dio in questa regione, ma io... non so... » « E la morte di Rada? Sono sicuri che sia stata la strega? » « E chi altri volete che sia stato? L’ha trovata Yariah, la sua servetta... ma aveva il marchio, il bacio della strega, e poi c’erano i segni del Maligno. Nessuno può dubitarne. » E nessuno, almeno in apparenza, ha mostrato sorpresa che il cadavere sia stato ritrovato in posizione differente da come l’assassino l’aveva lasciato, pensò Lupo.
Si sentì afferrare dalla mano callosa di Kristos. «Magister, voi però non dovete venire in paese. » « E per quale ragione? » «I cavalieri... vogliono parlare con tutti. Hanno messo paura persino a Drjangic... Quanto a Merkos e ai suoi uomini, se erano loro a preoccuparvi, sappiate che si sono nascosti come conigli nella baracca che serve loro da rifugio, vicino ai granai. Questi monaci guerrieri sono soldati veri... » « E vogliono parlare con me... » Kristos appariva imbarazzato. « Sì, le voci corrono, lo sapete. E quando hanno sentito di un uomo di saggezza che ha cercato la strega ed è sparito... stanno interrogando tutti e Dio perdoni chi nasconde loro qualcosa... » « Allora sarà meglio che mi presenti spontaneamente. Chi fugge ha sempre qualcosa da nascondere e io non voglio che pensino una cosa del genere... » Tanta determinazione andava oltre le capacità di comprensione di Kristos. « Signore, Magister, quelli sono capaci di uccidervi... » « Lo vedremo », replicò Lupo. Rendendosi conto di avergli mostrato un lato di sé che abitualmente cercava di mascherare il Magister gli sorrise. « E sia, verrò in paese, ma non stanotte. Con la luce del giorno tutti ragionano meglio. Vedrete che non ho nulla da temere. Se sono uomini di fede capiranno, e forse io comprenderò cosa cercano. In ogni caso vi ringrazio per essere corso sin qui per avvertirmi. » «Magister... da quando tutta questa disgraziata vicenda è cominciata... voglio che sappiate che molti di noi, la povera gente di Korekainé che prega il Signore ed è rimasta senza guida, noi, ecco... noi abbiamo fede in voi. Voi solo e non quei guerrieri potete riportare serenità nel nostro paese. » « Me lo auguro, Kristos, e sappiate che non è mia intenzione abbandonarvi. E vi ringrazio per la vostra fiducia e sollecitudine. Adesso, però, siete in grado di rendermi un servizio. » « Io? » « Sì, sono affamato e ho lasciato troppo a lungo il mio rifugio. Ho bisogno di latte fresco, formaggi e carne tenera... pagherò per tutto, ma ne ho necessità adesso, prima che cali la notte e, come giustamente mi avete detto, non è prudente che mi faccia vedere... Potete aiutarmi? » II viso di Kristos s’illuminò. Quando tornò al suo rifugio era ormai calato il buio. Con accortezza superò la trappola che lui stesso aveva predisposto e si accertò che lo « scorpione » fosse in posizione e la corda tesa. Imue era ancora scossa dalla febbre. La lama era poggiata sul giaciglio, illuminata da un debole riflesso del fuoco, come se vegliasse su di lei. Lupo mise subito a bollire l’acqua necessaria per il decotto e schiacciò le bacche. Dal suo tavolo sorvegliava la ragazzina madida di sudore che si agitava debolmente tra le coperte. Quando la pozione fu pronta si avvicinò al letto. Sollevò delicatamente il capo di Imue avvicinando la ciotola alle sue labbra. Lei sembrò riprendersi. Stralunò gli occhi ancora velati ma lo riconobbe. « Magister... siete tornato? »
« Certo, ne dubitavi? » E dal suo sguardo triste comprese che il timore di essere abbandonata era stato reale. Lupo avvertì una fitta: molti si aspettavano aiuto da lui, gli abitanti di Korekainé volevano essere liberati dalla strega, Imue protetta. Eppure, in qualche modo, sapevano cogliere dentro di lui la parte più oscura, temevano che li avrebbe abbandonati. Forse, anche loro, riuscivano a leggere la macchia nella sua anima. « Bevi, Imue, questo farà abbassare la febbre... Domani potrai mangiare e riposarti. Nessuno verrà a cercarti qui. » La ragazzina finì la bevanda poi si adagiò sul giaciglio, la fronte imperlata, n Magister gliela deterse con un panno umido. Le mani di Imue si contrassero sui suoi polsi, delirava. « Tranquilla, non succederà nulla... » « Uomini... uomini di ferro... » gridò, tendendo i muscoli in uno spasmo. « Come? Cosa hai detto? » Non fu possibile cavarle altro. Lupo vegliò a lungo, finché il decotto non sembrò aver effetto e la piccola si addormentò. Il Magister si sentiva sfinito, il peso di quella nuova responsabilità lo angosciava. Uomini di ferro? Il giorno successivo giunse senza che fosse riuscito a riposare. Brevi momenti di oblio, interrotti dal pensiero di doversi preoccupare per l’incolumità di Imue e dai molti interrogativi ancora senza risposta. Nonostante ciò il Magister si sentiva rinfrancato. Aveva esaminato la ragazzina e con sollievo non aveva riscontrato danni gravi. Qualche escoriazione ma neppure una frattura, n decotto, poi, aveva operato un piccolo miracolo e quando il sole venne a lambire l’eremo, Imue mostrava già un colorito vivido sulle gote. La febbre si era abbassata e persino la paura seguita all’esperienza sconvolgente pareva aver lasciato spazio a nuove sensazioni. Consumò latte, frutta e un pezzo di carne arrostita con una voracità che il Magister giudicò un buon segno. Nonostante ciò, Imue appariva ancora preoccupata. Portava il cibo alla bocca divorandolo come un piccolo predatore, ma gli occhi non si fermavano un solo istante. Finalmente si decise, asciugandosi le labbra con la manica del camicione che Lupo le aveva messo indosso la notte prima. « Magister, me li avete dati voi questi abiti? » domandò con voce sicura. « Sì, non sono granché, ma ti terranno al caldo. » « E avete medicato le mie ferite? » Lupo annuì, incoraggiandola con un sorriso a proseguire. « Avete visto il mio corpo? » « Non hai nulla da temere, né di cui preoccuparti », rispose il Magister fissandola negli occhi. « Non sono un medico, ma ho accudito un numero sufficiente di malati per non impressionarmi quando vedo il corpo di una giovane donna. Per la verità sono io a essere turbato. » Imue sgranò gli occhi. «Certo», continuò Lupo, alzandosi per versare altro latte. « Non capita tutti i giorni di vedere ferite come quelle che hai sulla schiena. Cicatrici vecchie... mi domando
cosa le abbia provocate e cosa tu abbia dovuto sopportare per portarti addosso un simile fardello. » Imue assunse una posizione difensiva, i muscoli delle spalle e del collo tesi. « Non avete ferite voi? » La sfrontatezza della domanda colpì il Magister. « Sì, molte, e posso raccontarti ogni battaglia in cui le ho ricevute... ma tu non farai lo stesso, vero? » Imue serrò le labbra senza abbassare lo sguardo. Si sfidarono in silenzio, poi Lupo versò il latte fumante per entrambi. Sollevò la sua ciotola, picchiandone il bordo contro quella di lei. Solo allora la ragazza accennò a rilassarsi, con un sorriso di complicità. « Ma le tue non sono cicatrici di spada o di mazza, sono i segni di un carnefice... e non credo che te li sia procurati nella famiglia di Ljubco. » Imue bevve deglutendo rumorosamente. Gli occhi si velarono appena ma rimase coraggiosamente eretta. Lupo intuì che quello non era il momento di porre altre domande. Imue era esausta, ferita nel corpo e nell’anima, ma faceva parte di quella ristretta cerchia di persone che è difficile spezzare. Qualità che la rendevano interessante agli occhi del Magister, che si accorse di desiderare la sua fiducia con intensità. Perciò non insistette. Bevvero in silenzio come per suggellare una tacita tregua. Alla fine fu proprio Imue che si decise a parlare. «Sono tutti morti. » « Sì, vorrei poterti dire che non è così, ma sono morti. Se li consideravi una famiglia, devi accettare l’idea che ne sei stata privata. » « Lo so », replicò caparbiamente lei. « Li ho visti morire, li ho sentiti implorare pietà. Mi sono salvata solo perché la mia abilità mi è venuta in aiuto quasi senza che lo volessi. » « Che cosa vuoi dire? » « Nei mesi in cui Ljubco mi ha accolto nella sua famiglia ho lavorato. Sono come un ragno, dicevano. Mi infilo in tutti i buchi, posso scomparire e nessuno se ne accorge. Negli spettacoli la gente applaudiva. Quando sono arrivati quegli uomini... sono fuggita, neanche me ne sono resa conto. Ho cominciato a correre e mi sono infilata in un buco nel terreno. Poi sono rimasta bloccata, ma nessuno mi ha visto. Altrimenti sarei morta. » Lupo rimase colpito dal modo freddo in cui Imue riassumeva i fatti. Una reazione coraggiosa. Le lacrime sarebbero venute in seguito, quando la mente avrebbe compreso davvero ciò che era avvenuto. «Vedo che oggi sei decisamente più incline a parlare rispetto al nostro primo incontro. Come mai? » «Ho perso la mia famiglia... quella che per un poco lo è stata, lo avete detto voi. Devo abituarmi. In realtà sono abituata da molto tempo. Le persone che mi stanno vicine muoiono in fretta. Adesso vi ho trovato, Magister, mi terrete con voi? » Le ultime frasi toccarono così profondamente Lupo da impedirgli di rispondere subito. Lo colpì l’idea che anche Imue potesse essere perseguitata dalla medesima paura. Il silenzio era rotto soltanto dai rumori del camino.
« Questa notte », disse il Magister evitando di rispondere all’ultima domanda, «hai parlato, nel delirio hai raccontato di uomini di ferro, cosa significa? » «Uomini di ferro, null’altro. Cavalieri. Ci hanno assalito e massacrato, torturando con il fuoco Ljubco per sapere qualcosa. Gridava troppo forte, non so cosa volessero. » Adesso le lacrime scendevano libere sulle guance di Imue, il corpo sussultava e Lupo si sentì un vigliacco per averla costretta a rievocare la tragedia. Ma le sue parole stravolgevano ogni sua precedente deduzione. «Uomini di ferro? Cavalieri?» ripeté. «Non sono stati i soldatacci del villaggio? Quelli che vi hanno assalito l’altro giorno? » Imue si asciugò il naso e cercò di reprimere le lacrime. « Non avete sentito ciò che ho detto? Cavalieri, o credete che i guerrieri in armatura e con il segno della Croce non possano commettere omicidi? Sono venuti con possenti destrieri, armature e tuniche con una grande croce nera. Loro hanno massacrato Ljubco e la sua famiglia. Mi aiuterete a vendicarli? » II desiderio di vendetta traspariva in maniera così evidente da cancellare l’immagine della bambina ferita e ancora sofferente. Lupo vide per la prima volta Imue per ciò che era. Una sopravvissuta, come lui. Ma forse anche più determinata, convinta ancora che l’uomo possa prendere in mano il proprio destino. Un pensiero che lui aveva abbandonato molto tempo prima. E le richieste della ragazza lo riempirono di vergogna. «Sì», rispose, «faremo giustizia, Imue. Insieme. È venuto il momento. »
Capitolo 40 Aveva osservato Imue riprendere le forze per buona parte della mattina, compiacendosi di vederla muovere passi veloci tra la fucina e la sua abitazione, interessata a tutto. Diffidente eppure animata da una innata curiosità, alternava momenti di loquacità a lunghe pause di silenzio, come rispettosa di quel rifugio dove si sentiva ospite. Si stavano studiando a vicenda, valutando se fosse opportuno affrontare insieme un’avventura. Il Magister aveva necessità dell’aiuto di Imue quanto la ragazzina della sua protezione. In particolare la giovinetta trovava affascinante la strana spada che Lupo le aveva lasciato accanto la notte precedente. Ne serrava l’impugnatura miniando qualche colpo, ma poiché la lama era libera di scivolare all’interno dell’impugnatura cava spesso le sfuggiva nella direzione opposta. « Che razza di lama è questa? » domandò dopo alcuni inutili tentativi. «L’ho chiamata Vento e Acqua», rispose Lupo. «Un maestro forgiatore armeno me ne mostrò il progetto a Damasco, molto tempo fa. » « Mi sembra un’arma sciocca... » « Sciocchi sono gli uomini che la utilizzano per distruggere senza pensare. » Imue fissò con disprezzo quella lama sfuggente che non riusciva a padroneggiare. «Be’, allora voi sarete certamente più saggio di me, visto che l’avete forgiata. » « Io ho promesso di non brandire più una lama. Non chiedermi il motivo. » « E allora... perché questa? » « Perché lavorare il metallo pulisce la mente; e poi ero convinto che, prima o poi, avrei trovato qualcuno a cui regalarla, qualcuno che avrebbe imparato a servirsene senza farsi dominare dal desiderio di distruzione... » Imue serrava l’impugnatura cercando di mantenere la lama in equilibrio. «Ancora troppa passione», l’ammonì il Magister. «Sai suonare il flauto? » « Certo, è una delle prime cose che s’imparano se si viaggia a lungo su un carro e non c’è nulla da fare. » « Bene, allora guarda sull’impugnatura, ci sono dei fori come quelli di un flauto. Il principio è lo stesso che usi per trasformare il fiato in musica. Premili e la lama resterà ferma, ma non è facile: devi capire quando, dove e come premere... Apprenderai con l’esercizio. » Un lampo di comprensione s’accese negli occhi di Imue che resse l’arma con una nuova determinazione appoggiando appena le punte delle dita nei fori dell’impugnatura. Poi mosse il polso, quindi il braccio. La spada rimase fissa per qualche fendente, quindi tornò a sfuggirle. La ragazzina la fissò con caparbia contrarietà, infine incontrò lo sguardo del Magister. «Non oggi», disse cogliendo al volo il suo pensiero. « No. Adesso dobbiamo andare. I cavalieri hanno torturato Ljubco e la sua famiglia e non dubito che siano riusciti a cavarne ciò che volevano, quindi sanno della Mano e della maledizione di Melapolis. Forse verranno a cercare me per scoprire cosa so io, perciò è il momento che li affronti. »
« Volete ucciderli », sibilò Imue. « No, voglio sapere la verità. Voglio parlare con loro, guardarli in faccia... ma non temere: ci sarà giustizia per Ljubco e la sua famiglia. » « Non avete paura che vi ammazzino? » « No », rispose Lupo alzandosi. « Però conto di attirare su di me la loro attenzione. E, mentre accadrà tutto questo, ho bisogno di te. Dici che sai intrufolarti dappertutto... » « È così. Mettetemi alla prova. » « Niente rischi inutili, ma ho idea che, mentre io affronterò i cavalieri, gli altri si raduneranno per complottare. Voglio che tu diventi le mie orecchie e i miei occhi. Mi serve sapere cosa dicono e, soprattutto, voglio che tu cerchi un oggetto. » « La Mano del Potere? » « No, no. Cerco un’arma. Si chiama "becco di corvo", è una mazza da guerra e può provocare ferite atroci: sono convinto che sia quello lo strumento che l’assassino ha usato per simulare il bacio della strega. Se si trova dove penso, avremo un indizio per identificare l’omicida. » « E se non c’è? » II Magister assunse un’espressione divertita. «Allora significa che dovrò cercare da qualche altra parte, ma almeno avremo escluso un sospetto. Vieni adesso, dobbiamo lasciare questo posto e raggiungere Korekainé. Prima di farmi vedere, voglio osservare un po’ i cavalieri, e anche gli altri, senza che loro vedano me. » Stavano scendendo lungo il sentiero che dal rifugio del Magister portava al villaggio. « Ora c’è qualcosa che voglio mostrarti », disse lui rallentando il passo. Erano in prossimità della trappola con lo « scorpione ». Anche da vicino, era praticamente impossibile scorgere la fune che Lupo aveva occultato. « Che cos’è? » domandò Imue. Il Magister stava per rivelarle il suo trabocchetto quando gli occhi colsero qualcosa di nuovo nella disposizione di foglie e pietre che lui stesso aveva deposto. Sì, era possibile che il vento avesse spostato qualcosa ma... « Ti mostro quanto possa essere stupido uno come me, che la gente chiama Magister e che, di tanto in tanto, crede anche di essere astuto », disse Lupo, chinandosi e raccogliendo un capo della fune che era stata recisa. «Vedi, quando sono tornato qui, ho predisposto una trappola che avrebbe sorpreso chiunque avesse voluto avvicinarsi alla mia casa di nascosto. Ti ho raccomandato di non muoverti perché anche tu avresti potuto azionare per sbaglio lo "scorpione". » Imue lo guardò senza capire. Il Magister si rizzò in piedi e si allontanò di un passo sospingendo la ragazzina. Quando fu certo che fossero entrambi fuori portata diede un secco strattone alla fune che, sebbene tagliata, fece scattare la salva di frecce che partì schioccando. Un istante dopo le aste spuntavano dal terreno conficcate per tutta la punta. Imue aprì le labbra per dire qualcosa, ma rimase a fissare il Magister, sorpresa di vederlo così turbato. « Cosa significa? » «Che sono uno sciocco, come ti dicevo», replicò lui. « Qualcuno più astuto di me è
venuto sin qui a spiarmi. Ha riconosciuto H trabocchetto e ha tagliato la corda perché io la trovassi. » « E perché? Avrebbe potuto ucciderci entrambi... » «Forse, ma non l’ha fatto. Ha soltanto voluto avvertirmi... avvertire tutti e due, adesso che hai deciso di aiutarmi. » Imue si chinò per estrarre una delle frecce dal terreno. Una volta che ci fu riuscita ne saggiò la punta con il pollice e osservò: « Qualcuno vuole che rinunciamo, che ce ne andiamo. Non credo siano stati i cavalieri... » « E neppure l’assassino », terminò cupo il Magister. « Cosa facciamo? » la domanda era stata posta con una tale impertinenza che Lupo si sentì quasi offeso. Prese dalle mani della ragazzina il dardo e ne spezzò la canna gettandola via. « Ci muoviamo, e in fretta. » Raggiunti i dintorni di Korekainé, il Magister e Imue trovarono un buon punto di osservazione tra le pendici di una collinetta rocciosa. Per diverse ore studiarono l’apparente calma del piccolo borgo, scorsero persino i tre cavalieri allontanarsi e far ritorno a Korekainé. I monaci guerrieri lasciarono i cavalli alle stalle e si ritirarono brevemente nella locanda. Infine entrarono in chiesa. Imbruniva ed era tempo per le funzioni. Il particolare che, tuttavia, colpì maggiormente il Magister fu che, terminata la funzione, Drjangic, Merkos e Lajos si ritrovassero nelle baracche dove alloggiava la soldataglia. Durante il giorno i componenti della strateia si erano tenuti opportunamente fuori vista. Come molti altri, del resto. Nessuno ci teneva a incrociare i cavalieri. « È là che devo andare? » domandò Imue dopo ore in cui era rimasta silenziosa, a osservare ogni dettaglio e senza tradire emozioni. Lupo annuì. « Adesso mi presenterò ai cavalieri. Sono certo di poterli fronteggiare senza violenza. Se hanno appreso qualcosa da Ljubco, sanno che sono estraneo a questa vicenda e non posso avere la Mano. Almeno è ciò che spero, ma ho argomenti per convincerli. » « E io? » « Oh, tu dovrai dare prova reale della tua abilità. Devi intrufolarti in quella baracca e sentire ciò che si dicono quei tre. Stai attenta agli altri soldati... e cerca... » «II "becco di corvo"», terminò lei impertinente, «ho capito. Ma anch’io ho bisogno di qualcosa. » Lupo la guardò incuriosito e Imue puntò il dito verso la zona pianeggiante che dominavano dal colle. Illuminato dagli ultimi raggi di un sole autunnale il gregge di Kristos stava rientrando lentamente all’ovile. Anche a quella distanza erano riconoscibili la sagoma del pastore, il suo cane magro e il grosso capro con le corna ritorte, in testa al gregge. Il Magister comprese immediatamente ciò che Imue aveva in testa. « Certo, ti aiuterebbe ad avvicinarti con maggiore facilità », disse, « ma come possiamo... » « Prendiamo ciò che ci serve », rispose lei con semplicità. «Rubare a un povero pastore... no, ma credo di poterlo convincere a vendermi una pelle di animale, ne ho vista una nella sua capanna che farà al caso tuo. »
Imue non sembrava del tutto convinta, soprattutto di dover rinunciare a prendere senza domandare, come le era sembrato più logico. «Vi fidate di quell’uomo?» domandò infine. « Come penso di potermi fidare di te. » «Forse avete ragione, ma se proprio volete pagare... andate da solo. Io vi aspetterò al coperto. Qui non succede mai nulla e chissà cosa potrebbe fantasticare quel villano se mi vedesse con voi, o a chi potrebbe riferirlo domani. » Era un particolare a cui Lupo non aveva pensato. Doveva ancora abituarsi a muoversi e ad agire con quella strana discepola appresso. Un po’ si sentiva responsabile, ed era confortato da quella nuova presenza. Ma era anche confusamente intimorito, e doveva ammettere che alcune sue osservazioni, benché rivolte con arroganza, erano giuste. « Allora sbrighiamoci. Non voglio tardare oltre. »
Capitolo 41 Non doveva deluderlo. Imue aveva corso troppo da un bivacco all’altro, nella notte, per sfuggire le ombre che erano calate sulla sua esistenza per non comprendere quando le veniva concessa una possibilità. La figura del Magister era diventata, nel giro di pochi giorni, un importante punto di riferimento nei suoi pensieri. Lui avrebbe potuto aiutarla, proteggerla e insegnarle molto più di quanto non avessero fatto il povero Ljubco e la sua famiglia di girovaghi. Tutto ciò il Magister ancora non lo immaginava, ma la ragazzina era convinta che l’arte di cogliere le opportunità fosse una virtù che andava coltivata con ogni sacrificio. Perciò era determinata a portare a termine a qualsiasi costo l’incarico che le era stato affidato. Aveva sperato che il Magister tornasse dalla sua visita al pastore con qualcosa di meglio di una vecchia pelle di cane selvatico. Ma, adattandosi, Imue riuscì a trarre una reale utilità da quel suo travestimento. Muovendosi a quattro zampe, strisciando tra i cespugli sino alla baracca dei soldati di Merkos, arrivò a una distanza di qualche passo, sufficiente per scorgere il riflesso di un focolare che ardeva oltre le travi sconnesse. Doveva avvicinarsi di più. Strisciando sul terreno, immaginando se stessa come un cane randagio, la ragazzina si accostò ulteriormente e fu in grado di trovare una spaccatura tra le assi cui appoggiare l’occhio. All’interno distinse gli sgherri di Merkos che stavano in un angolo a giocare con i dadi. Più vicini al fuoco, invece, Drjangic, Zarko e il capo della milizia stavano dividendosi una brocca di vino e parevano assorti in una discussione. Imue respirò a fondo. In quel momento era diventata tutt’uno con la pelle dell’animale che indossava. I sensi allerta, pronta a cogliere ogni indicazione utile. La porta della locanda s’aprì di scatto. Lupo fu raggiunto da odori ormai familiari. Cibo cotto alla brace, zuppe fumanti, l’aroma del vino riscaldato nelle brocche. La sua comparsa ebbe l’effetto desiderato. All’unico tavolo occupato le conversazioni cessarono di colpo e Yariah, che stava arrivando dalla cucina con un vassoio di carni arrostite, si bloccò con gli occhi sbarrati, sul punto di cadere. Prima ancora di rivolgere la sua attenzione ai tre uomini d’arme, il Magister si rivolse proprio a lei. « Non temere, piccola, sono affamato e questa è una locanda. Sono sicuro che i cavalieri saranno così caritatevoli da dividere con me la loro cena. Del resto posso pagare, quindi posa pure quel vassoio e porta altro vino e un boccale. » Le ultime parole e lo sguardo che le accompagnava dicevano chiaramente che sarebbe stato meglio per tutti se Yariah, terminato il suo compito, fosse sparita dalla circolazione. Cosa che la piccola si affrettò a fare raccogliendo il pezzo d’argento che Lupo le lanciò. Durante tutto quell’intervallo di tempo, il nuovo arrivato e i tre monaci guerrieri ebbero modo di studiarsi senza proferire parola. Pochi istanti, comunque, scanditi dai rumori della servetta che cercava di adempiere al suo compito il più rapidamente possibile. Il Magister si avvicinò al tavolo, eretto, il bastone saldamente in pugno, senza
mostrare timore. Orgoglioso, nonostante tutto, di ogni sua ferita. Quegli uomini vivevano di violenza e rispettavano solo la forza. Umana o divina che fosse. Era il loro linguaggio e soltanto quello avrebbero compreso. Dei tre, il Magister immaginò che quello con il viso segnato da cicatrici irregolari, addossato alla parete, fosse il capo. Il sarmata con la barba intrecciata e il brutale gigante con la mascella prognata erano solo esecutori. Tutti e tre indossavano corpetti di cuoio e la tunica bianca con la croce a T del loro ordine. Benché al fianco avessero corte spade per il combattimento ravvicinato, non erano equipaggiati per uno scontro. Di sicuro non aspettavano quella visita. « Siate il benvenuto al nostro tavolo, purché accettiate il cibo nel nome del Signore. » « Sia lodato », disse semplicemente il Magister, sfiorando con la sinistra la croce che gli avevano cucito sulla tunica durante la caccia alla strega. « Mi chiamo Lupo di Pietravecchia, vivo da qualche tempo in queste lande ma vengo dalla Terrasanta. Conosco e rispetto il vostro ordine, anche se mi sorprende trovarvi qui. » « Sono Domash Tartu », si presentò il capo, « e i miei confratelli Gor Tamask e Manfred Koob mi accompagnano in una missione affidataci dal nostro Dominus. Anche noi siamo sorpresi di trovare un cavaliere in una regione così sperduta e lontana dai miscredenti. Il vostro dovere non dovrebbe portarvi a Gerusalemme? » Lupo fronteggiò Tartu, il bastone ritto come l’asta di una lancia. « Non sono più cavaliere. Ho rinunciato alla violenza per la conoscenza e la preghiera. Il mio dovere verso Dio l’ho già compiuto e non devo risponderne. » Tartu considerò la risposta accigliato, poi sorrise in quel modo sinistro che gli consentivano le cicatrici. « II dovere verso Dio non si esaurisce mai... Ma noi non siamo qui per giudicare la condotta di un cavaliere che ha versato il suo sangue in Terrasanta, perciò sedetevi al nostro tavolo. Seguite preghiera e conoscenza? Abbiamo sentito parlare di un saggio che chiamano il Magister, siete voi per caso? » « Questo è il nome che mi hanno dato alcuni valligiani, ma non me ne servo con piacere. Maestro è chi ha raggiunto la verità, non chi la cerca. Si addice al rettore di un ordine come il vostro, non a me, che vivo in eremitaggio. » Tartu sollevò un boccale inumidendosi appena le labbra. « E cosa cercate qui, a Korekainé? » « La verità e la giustizia. I contadini mi hanno chiesto di aiutarli a trovare l’assassino di un prete e di un cavaliere che prima di me aveva accettato l’incarico. » « Un cavaliere, eh? » domandò Tartu inclinando il capo. « Un amico, un vecchio compagno della Terrasanta. » «Ed è morto...» «Forse perché cercava nella direzione sbagliata. Era convinto di dover stanare una strega. » «E invece?» Lupo bevve un sorso di vino caldo, quindi posò il boccale con un gesto secco. «Non ci sono streghe qui a Korekainé, soltanto volgari assassini. » Tale era stata la veemenza della risposta che persino Tartu sembrò colpito. Era stata lanciata una sfida.
Capitolo 42 « Quelli ci ammazzano tutti. » La voce di Zarko lo stalliere si confondeva con il crepitare delle fiamme. Il viso era un inseguirsi di zone d’ombra, espressione di un timore a stento contenuto. Dal suo punto di osservazione Imue lo studiava, trattenendo il respiro. Drjangic, invece, sembrava più sicuro. « Se avessero voluto lo avrebbero già fatto », disse senza dar peso ai timori dell’altro. «No, stanno ancora cercando. » « Cosa? » domandò Merkos. Il mercante gli rivolse un mezzo sorriso. «Non lo immagini? Non sono arrivati qui per caso ed è evidente che sono al corrente di molte cose. Stanno cercando la Mano del Potere. » Per qualche istante le parole di Drjangic furono seguite solo dai rumori del fuoco. « Sanno della Città Nera e di quanto è capitato dieci anni fa. L’unica spiegazione possibile è che quell’idiota di padre Gheorghis, nella fretta di cercare l’aiuto del vicearcidiacono, ne abbia parlato con una persona di troppo. La voce è circolata e l’ordine della Croce di Ferro ha fiutato la possibilità di mandare qui i suoi mastini. » « Ma nessuno l’ha mai trovata, non sappiamo neppure se esiste... » Le parole di Zarko caddero in un pozzo d’indifferenza. Drjangic si versò da bere da una brocca, Merkos si mosse a disagio sul suo sgabello. « Chi lo sa? » disse infine il mercante. « Tutto questo - i delitti della strega potrebbe essere una messinscena, come sostiene il Magister. Opera di qualcuno che possiede già o che vuole la Mano. Non sappiamo neppure cosa sia accaduto ad Habras e, nonostante ciò che asseriva, qualcosa della Mano lui doveva sapere. Ricordate? Fu l’unico a restare accanto ad Antigona, a torturarla per sapere dov’era quel talismano. » « Ma quella megera ha sempre giurato di non sapere nulla. Habras riferì che quel particolare non lo rivelò mai. » « Già, la parola di una strega. E chissà cosa passava per la mente di Rada... » « E adesso cosa significa questo? » domandò Zarko irritato. «Rada era colpevole, più degli altri. Fu lei a parlare della Mano e a denunciare Antigona. E forse aveva qualcosa da nascondere, qualcosa che non ci ha mai detto. Be’, comunque adesso è morta e non potrà più parlare con nessuno. » Di scatto Merkos si alzò e sguainò una sorta di pugnale muovendosi con una tale agitazione da attirare l’attenzione anche dei suoi compagni. « Cosa succede? » domandò uno di loro. Imue si sentì gelare scorgendo il mercenario che, arma alla mano, muoveva un passo proprio nella sua direzione. «Non lo so », sussurrò Merkos, « sento qualcosa... » «I cavalieri? Sono venuti a spiarci?» domandò lo stalliere in piena agitazione. «No», replicò il soldato facendo cenno ai suoi uomini di non muoversi. Si spostò provocando uno scricchiolio nel pavimento d’assi. Annusò l’aria, ma gli giunse solo un odore selvatico. «Un cane randagio, probabilmente», disse cercando di rassicurare soprattutto se
stesso. Poi si voltò verso Drjangic. « Adesso abbiamo un problema in più. Abbiamo paura persino a casa nostra e non certo per colpa di quella strega, vera o falsa che sia. Non vedete? L’arrivo di quei tre cavalieri ha cambiato gli equilibri. La fanno da padroni, e sono molto più pericolosi di quell’altro matto, che va in giro a bastonare i miei uomini a tradimento. » « Bisognerebbe sistemare anche quello... » si limitò a suggerire Drjangic. «Prima i cavalieri. Ascoltatemi, Drjangic, e anche tu, Zarko. Possiamo sorprenderli e chiudere loro la bocca. Non sono nelle loro lande, neanche dovrebbero stare qui, nelle terre di Bisanzio. » «Adesso sei diventato un difensore dell’impero, Merkos? » II soldato rinfoderò la lama e fronteggiò il mercante. «No, solo del mio paese, del posto che abbiamo ricostruito insieme per prosperare come un tempo. » « E cosa ti fa pensare di essere in grado di farlo? » Merkos sbuffò, evidentemente cominciava a stancarsi anche del mercante. « Domani hanno detto di voler effettuare una perlustrazione qui intorno. Cercare la strega, dicono; io credo invece che vogliano andare ai resti di Melapolis... Ritireranno i cavalli di buon mattino alla stalla di Zarko. Li sorprenderemo quando ancora non sono pronti. Io e i miei, con tutte le nostre armi, possiamo sopraffarli. E tolti di mezzo loro elimineremo pure il Magister, maledetto anche lui. » «E poi?» lo sfidò Drjangic, senza opporsi né avallare l’idea. « Chiariremo questa faccenda della strega. Anch’io comincio a pensare che non ci sia nulla di sovrannaturale. Se volete la mia opinione è quel pazzo di Habras. Ci sta uccidendo tutti, uno a uno... perché vuole la Mano e sa che chi ce l’ha alla fine resterà solo e dovrà cedergliela. » « Interessante ragionamento, Merkos », commentò il mercante. « Mi compiaccio e, alla fine, hai la mia benedizione per eliminare i cavalieri. Poi si vedrà. Quantomeno avremo ristabilito la situazione com’era prima che a quegli zotici venisse in mente di chiedere aiuto a un cavaliere errante... » Zarko, che se ne era stato in silenzio sino a quel momento, si alzò per prendere la parola. « E sia, alle stalle vi aiuterò io stesso. Ma se siete così sicuri che la strega non esiste, perché quel marchio...» «Il bacio della strega?» sbottò il soldato. «Chi ci assicura che sia davvero frutto del tocco blasfemo del Male e non la ferita di un’arma o di un vomere piantato nella nuca delle vittime... Chi l’ha vista da vicino? Qualcuno ha cominciato a gridare alla strega e subito tutti hanno fatto eco evocando il Maligno. E l’assassino ha avuto buon gioco. Quel pazzo di Habras, ve lo dico io.., » Seduto di fronte a Domash Tartu, Lupo era cosciente dei movimenti degli altri due cavalieri. In particolare avvertiva il nervosismo di Koob, che continuava a spostarsi in modo da potersi alzare per estrarre la corta spada assicurata alla cinta. Ma l’attenzione del Magister era concentrata sull’espressione del capo. « Assassini, dite? » fece Tartu. «Sì, gente senza onore, poco più che briganti. Pochi giorni fa hanno assalito una famiglia di artisti girovaghi trucidandoli senza pietà. » Questa volta la mano di Manfred Koob si posò sull’elsa della spada producendo un
cigolio che Lupo udì distintamente. « Non ne so nulla », rispose con noncuranza Tartu. « Qui ci sono stati altri delitti dei quali incolpano una strega... ma potreste aver ragione, si potrebbe sospettare dell’opera di un uomo. » « E cosa ve lo fa credere? » « Avete visto i cadaveri? » « Solo tre », replicò il Magister senza cadere nel tranello. « Di quanti avete notizia? » «Almeno quattro. Quel cavaliere vostro compagno, il giovane prete, uno degli stallieri e la padrona di questa locanda... davvero non sapevate che era morta? » «No, e me ne dispiace, di certo aveva molte cose da raccontare... » « Ne sono sicuro », sibilò Tartu. « Ne ho bruciato il cadavere per soddisfare la paura di questa gente. Ma anch’io ho visto la mia parte di cadaveri, e ho ucciso in molte occasioni come certo avrete immaginato... » «Per la gloria del Signore...» commentò sarcastico Lupo. «Per difendere la regola», replicò con veemenza Tartu. «Ed è per questo che siamo venuti e non ci fermeremo di fronte a nulla. In questa regione è scesa un’ombra, si chiama superstizione, ignoranza. Tutto è legato a un talismano, un oggetto privo di valore in sé ma che, in mani sbagliate, potrebbe riportare in vita culti pagani. E qualcuno lo vuole. Perciò ha ucciso la donna. » « Per essere appena arrivato siete acuto. Io stesso ero giunto alla medesima conclusione », disse calmo il Magister. « E da che cosa l’avete capito? » «Be’, voi stesso asserite che Rada non è stata uccisa da chissà quale demoniaco sortilegio. Per quel che ne so, anche le altre vittime hanno il collo spezzato e sono state sfigurate dall’assassino che ha disseminato i dintorni di simboli astnisi e simulato quella ferita... Il bacio della strega: la lingua di un demone che arde le carni e rende irriconoscibili le vittime. Avete mai visto un simile osceno prodigio? Io no, e anch’io ho assistito alla mia parte di uccisioni. Una messinscena. » Tartu scoccò un’occhiata ai suoi compagni. «Un uomo acuto ed esperto, peccato non facciate parte del nostro ordine. Sapete, molte volte gli assassini si muovono sui luoghi dei delitti per controllare di non aver lasciato tracce e voi ne sapete molto di questa storia. Non mi siete sembrato sorpreso quando vi ho parlato dell’amuleto. » « La Mano del Potere? » lo sfidò Lupo. «Ne ho sentito parlare e, del resto, conosco la leggenda della Città Nera e della maledizione che l’ha colpita. Me ne parlarono spontaneamente proprio quei saltimbanchi di cui dite di non sapere nulla... » « Eh, già... ve ne hanno parlato spontaneamente. Vi rendete conto di una cosa? La vostra e la nostra posizione potrebbero venire a contrasto. Cosa volete realmente? » « Giustizia », ringhiò Lupo. « E voi? Come sapete della Mano? Perché siete venuti proprio qui e adesso a cercarla? » Tartu si concesse un intero boccale prima di rispondere. Intanto i suoi due compagni stavano tesi, in silenzio, in attesa di un semplice cenno. «Vedete, quel prete che hanno ucciso ha parlato con il vicearcidiacono e con molti altri. Cercava aiuto, sostegno, conforto spirituale. Forse ha siglato la sua stessa
condanna lasciandosi sfuggire parole inopportune. E le parole viaggiano più veloci di quello che la gente crede: il nostro Dominus Verbi stava cercando quella Mano malefica per distruggerla insieme al ricordo della leggenda della Città Nera. È una ricerca iniziata molti anni fa. Sapevamo che Melapolis doveva trovarsi in queste regioni, ma non avevamo indizi certi. Poi ci è stata riferita quella voce. E così siamo partiti. Per riportare la luce di Dio in questa valle oscurata dalla superstizione. E lo faremo a ogni costo. Non mettetevi sulla nostra strada, Magister. » Sarebbe bastata un’occhiata sbagliata. Ma non era tempo. « So che le parole di un cavaliere dell’ordine della Croce di Ferro non devono essere intese alla leggera... Per la verità, molti anni fa ho incontrato due vostri confratelli a Tiberiade. Erano possenti e aggressivi come voi, e come voi convinti di essere nel giusto. » « E cosa ne è stato? » II Magister terminò il suo vino, prese un tozzo di pane e lo sbocconcellò senza distogliere lo sguardo da Tartu. «Sono morti », rispose, quindi appoggiò la mano sul ripiano ripiegando tutte le dita al di fuori dell’indice e del medio diretti verso il cavaliere. Domash Tartu, inflessibile Custode della Spada dell’ordine della Croce di Ferro, riconobbe il gesto e ricordò una storia ascoltata tempo prima. Suo malgrado rabbrividì. Rimase impassibile ma i suoi compagni, ignari di quel gesto che non erano in condizione di vedere, non ricevettero l’esortazione implicita che si aspettavano. « Non ho intenzione di attraversarvi la strada questa notte », disse serio Lupo, recuperando il bastone. « II mio compito, alla fine, si è esaurito. Mi avevano chiesto di cercare una strega ma voi convenite con me che non esiste. Non sono interessato a talismani e simboli di potere arcano o temporale che sia. Voi siete qui a garantire la luce di Dio; me ne vado, quindi. Mi contenterò di cercare gli assassini di una povera famiglia di girovaghi che non aveva colpe. » « Vi auguro di riuscirci. » « Potrebbe anche succedere », rispose Lupo e, in pochi passi, si allontanò. Quando fu trascorsa una manciata di minuti di silenzio fu Tamask a interrogare il suo confratello. « Perché? Perché non ci hai dato l’ordine? » Domash Tartu incrociò le dita come se volesse pregare, ma nel suo sguardo c’era una luce fosca. «Perché ho ricordato una storia che mi è stata riferita, la leggenda di un cavaliere maledetto destinato a rimanere in piedi dopo ogni scontro, la vicenda dei nostri due confratelli morti a Tiberiade dopo averlo sfidato. Questo Magister potrebbe essere quell’uomo. Dice di non volere la Mano e gli credo. Quindi limitiamoci a fare ciò per cui siamo venuti. » Non rimase neppure a considerare l’espressione incuriosita dei suoi confratelli. Si alzò dirigendosi verso gli alloggi. « Muoviamoci, domani mattina andremo a cercare tra le rovine di Melapolis, sono certo che qualcosa ne ricaveremo. » Imue aveva ascoltato a sufficienza. Prima di lasciarlo, aveva stabilito con il Magister di ritrovarsi presso la collina dell’albero bruciato, un luogo facilmente riconoscibile e non molto distante da Korekainé. Non appena fu al coperto tra la bassa vegetazione del sottobosco gettò via la pelle di cane e si avviò orientandosi con
la luce delle stelle. Era abituata a camminare sul terreno difficile e la collina non era distante; nonostante ciò si sentì avviluppare da una sensazione d’innaturale timore. Sulle prime pensò che si trattasse della suggestione ispirata dalla scena appena svoltasi davanti ai suoi occhi, poi, però, a mano a mano che procedeva, comprese che la causa era differente. Si fermò di scatto, riparandosi dietro un tronco. Silenzio. Intorno a lei soltanto il vento. Dal terreno umido saliva una nebbia lattiginosa che pareva brillare al riflesso lunare. Imue tese le orecchie. Sì, nel bosco c’era qualcuno che, accortosi di essere stato individuato, si era a sua volta fermato. Era la stessa misteriosa presenza che era venuta a spiarli sfidando il Magister e recidendo la fune della trappola? Dopo un intervallo di tempo scandito da respiri appena accennati, decise, come sempre, rapidamente e cominciò a correre. Non si guardò più indietro sapendo che, se l’avesse fatto, non avrebbe avuto il coraggio di riprendere la fuga e, probabilmente, sarebbe morta. «Ne sei certa?» Gli occhi di Lupo tradivano un reale timore per la sicurezza della ragazzina che lui stesso aveva spinto ad aiutarlo. « Sì, c’era qualcuno nel bosco. E non si trattava di un animale. » « Però non ti ha assalito? » « No, e credo... se avesse voluto avrebbe potuto farlo. » Come il nostro visitatore notturno, pensò il Magister, che aveva ascoltato con attenzione il resoconto di Imue. «No, non ho visto armi del tipo che mi avete descritto», aveva affermato la ragazzina. Poi aveva riferito l’osservazione di Merkos e la sua convinzione che il bacio fosse una messinscena. Allo stesso modo Lupo aveva ascoltato con interesse le reazioni alla morte di Rada. Difficile stabilirlo, ma forse uno dei tre uomini ne sapeva di più. E, particolare più importante, i tre cavalieri erano considerati la minaccia peggiore. « Troviamo un riparo adesso », disse guardandosi nuovamente intorno nel buio alla ricerca di un segnale rivelatore che non venne. « Sono certo che domani accadranno cose interessanti. »
Capitolo 43 « Andiamo ad affrontarli? » Lupo s’irrigidì mordendosi la lingua per non rispondere. Non era abituato ad avere intorno ragazzine piene d’energia e capaci di così repentini cambiamenti d’umore. Imue aveva tremato come un giunco al vento mentre riferiva della sensazione provata nell’attraversamento del bosco e, adesso, era già pronta a dar battaglia, anche senza armi. Il Magister ritrovò l’equilibrio necessario per una risposta adeguata solo quando ebbe relegato in un angolo della mente l’interrogativo di come avrebbe potuto essere la sua vita se Costanza gli avesse dato degli eredi. Avrebbero avuto più o meno l’età di Imue... «No, voglio vedere cosa succede», rispose mentre continuava a controllare la radura a ridosso delle rocce che avevano scelto come accampamento notturno. Parlavano immersi nel buio, ma il riflesso delle stelle non impediva all’uno di scorgere le espressioni dell’altra. « Dovremmo stare a guardare? Domani si prepara un massacro... » « Credo di sì, ma non è una buona ragione per parteciparvi. Non si può dire che l’arrivo di quei tre cavalieri abbia migliorato le cose, questo tentativo di Merkos potrebbe sbloccare una situazione di stallo... » s’interruppe abbracciando l’oscurità circostante con uno sguardo attento. «C’è troppa gente che spia e aspetta in questa landa. Forse succederà qualcosa di definitivo che costringerà il nostro assassino a muoversi. O lui o la persona che sa dove si trova la Mano. » «Non capisco...» « Mi fa piacere che ci siano cose che hai coscienza d’ignorare, Imue. Da quel che ho scoperto consultando i miei testi, l’altra notte mentre ti agitavi in preda alla febbre, la Mano del Potere può portare fortuna al suo possessore anche con la sua sola presenza. Ammettiamo che Drjangic, Zarko o Merkos siano riusciti a venirne in possesso all’insaputa degli altri. Secondo le leggende sarebbe sufficiente che la tenessero celata non molto distante dal luogo in cui vivono per ottenerne il favore... » « Ma voi non credete a questi poteri? » Lupo restò in silenzio per un istante, pensando all’albero magico e a Makya. «No, ma, a volte, accadono eventi inspiegabili. Ho molto studiato tutto questo senza mai riuscire a capire quale fosse la verità. » «Per questo avete lasciato le armi e siete diventato un... Magister? » Dalla bocca degl’innocenti arrivano le domande più insidiose. « Sì, e, come vedi, non ho risolto nulla. Quantomeno, in questi anni ho imparato l’arte della prudenza. Passiamo la notte qui, poi vediamo cosa succede. » « Ma gli uomini di Merkos moriranno... » «Forse sì... ma uno scontro non è deciso finché non si deposita la polvere dell’ultima schermaglia. In ogni caso, se anche uccidono uno solo di quei cavalieri sarà un lavoro risparmiato... Si fingono uomini di Dio ma sono assassini, ne ho già visti tanti accecati da quella che credono una missione divina. E tra loro e i soldati di Merkos non v’è differenza, salvo che per l’abilità in battaglia. » Imue gli restituì uno sguardo fermo. « Sì, è vero, se non foste giunto voi a salvarci,
forse Ljubco e gli altri sarebbero morti per mano di quei banditi. E anch’io. Se si uccidono a vicenda sarà meglio per tutti. » Nuovamente Lupo rimase colpito dalla sua freddezza. Ma quello non era il momento di porre domande, bensì di riposare. Alla luce fioca del mattino s’accompagnarono rumori di risveglio, lontane eco provenienti dai casolari intorno al centro di Korekainé. Il villaggio, però, sembrava non dare segni di vita. Uscendo dalla chiesa dove s’era fermato a recitare una preghiera, Domash Tartu notò che anche le poche anime che si era abituato a vedere alle prime luci dell’alba si erano dileguate. O quel giorno avevano tutti una gran voglia di lavorare oppure si preparava qualcosa. I suoi due compagni erano già alle stalle. Decisa la spedizione a Melapolis, Tamask si era curato di preparare una sacca con provviste sufficienti per un paio di giorni. Stava caricando il mulo mentre Koob era occupato a sellare i destrieri. « Tamask, accertati che la riserva d’acqua sia sufficiente », ordinò Tartu interrompendo la discussione tra il suo confratello e lo stalliere. Zarko arretrò di un passo, con deferenza. « C’è qualcos’altro che posso fare per voi? Un altro mulo magari? Dovete percorrere una lunga strada? » Tartu gli sorrise. «Non preoccupatevi, saremo di ritorno presto. Non abbiamo intenzione di andarcene e gli animali che abbiamo ci sono sufficienti. Siamo diretti alla Città Nera. » Mentre i tre destrieri uscivano sbuffando trattenuti da Manfred Koob, Domash Tartu osservò con attenzione la reazione dello stalliere. Zarko continuava a sorridere, ma l’allusione a Melapolis aveva comunque prodotto qualche effetto. « La Città Nera... non esiste più... fu distrutta dalla peste. » «II castigo di Dio, senza dubbio, per punire i peccatori. Non ci siete mai stato? » « No... non so neppure dove si trovi... non so nulla. » Tartu si strinse nelle spalle e scambiò uno sguardo con Koob. Anche questi aveva indossato l’usbergo lungo sopra la tunica di cuoio trapuntato. Immacolate, le vesti con l’emblema dell’ordine vibravano appena alla brezza mattutina. I tre destrieri erano altrettanto imponenti, con le armi appese alle selle, scudi e caschi pronti a essere calzati. Tamask aveva con sé quattro bisacce che si portava in spalla. Raggiunse i pozzi ricordando che proprio in quel punto Lajos era stato sorpreso dal suo assassino. Si fidava del giudizio del suo confratello maggiore. Se Tartu asseriva che i delitti non erano opera di una strega doveva per forza aver ragione. Nondimeno era meglio essere prudenti. Legò le bisacce aperte alla fune del paiolo e cominciò a calare. Inspirò l’aria fredda del mattino. Strano. Dopo i richiami dei galli il paese era caduto in una specie di strano letargo, come in attesa di qualcosa. L’operazione di rifornimento non durò a lungo e presto, avvertendo il peso delle bisacce ormai colme, Tamask cominciò a issare la fune una mano dopo l’altra. Compiva quei gesti con la disinvoltura del guerriero che ha vissuto innumerevoli albe, simili in ogni dettaglio. Di colpo lasciò la presa allargando le dita. Il peso delle bisacce trascinò il paiolo verso il fondo del pozzo ma il cavaliere fu rapido a scansarsi. Era bastato un piede
posato su uno sterpo, l’accenno di uno scricchiolio. « Muori, maledetto! » Tamask evitò l’affondo sferrato con la lancia contro la sua schiena. Riconobbe uno dei miliziani di Merkos, rimasto al riparo finché non lo aveva giudicato troppo impegnato per reagire. « Tradimento! » urlò il cavaliere mentre la mano già correva alla spada corta che estrasse con facilità. «Tartu! Manfredi Ci attaccano. » Al viso stravolto del soldato si aggiunse un grido di rabbia per la sorpresa mancata, avvisati i compagni, Tamask si concentrò sulle sue azioni. La spada corta picchiò di piatto sull’asta della lancia spezzandola come se non avesse consistenza. Il soldato rimase con il moncone in pugno, gli occhi sbarrati per lo stupore. Tamask aveva già compiuto un mezzo giro su se stesso sfoderando con l’altro braccio il martello da guerra, poco più lungo di un piede ma con la testa rinforzata da un doppio anello metallico. Colpì due volte caricando tutto il colpo con la spalla. Il martello percosse il miliziano sfondandogli il cranio da cui sprizzò uno zampillo di sangue cremisi. Un uomo giaceva tra la paglia, sventrato dalla spada di Koob. Intorno a loro i cavalli si agitavano, intralciati dalle loro stesse protezioni che cigolavano non ancora perfettamente allacciate per il combattimento. Spada e mazza ferrata in pugno, Manfred Koob si spostava tra gli animali, cauto. Sentiva l’odore del sangue. Era stato sufficiente il primo grido di Tamask per spingerlo a reagire d’istinto. L’agguato era scattato ma, come un’onda sconnessa, aveva trovato un muro a fronteggiarlo. Anche Tartu doveva aver già ucciso almeno uno dei suoi aggressori. Uno dei cavalli sbuffò, scalciando a vuoto con le zampe posteriori. Serrando gli occhi a fessura Koob vide un paio di gambe umane che si spostavano scompostamente oltre il ventre di uno degli stalloni. Aggirò l’ostacolo e si trovò di fronte a un altro degli sgherri di Merkos. Brandiva uno scudo tondo poco più grande di una manopola e una spada troppo pesante. Parò la finta che Koob effettuò con la lama più lunga ma fu lento a contrattaccare. La mazza ferrata sibilò nel vuoto rimbalzando tra la spalla e il cranio dell’aggressore che lanciò un gemito strozzato, tentando persino d’implorare pietà. Ma fu inutile. Koob lo finì. Poi, coperto di schizzi di sangue non suo, si voltò. I cavalli si agitavano ma erano abituati alla confusione della battaglia e, riconosciuta la sagoma del cavaliere, unico rimasto in piedi, allargarono il cerchio. «Di là, Manfredi » ordinò Tartu indicandogli qualcosa oltre le stalle. Anche Domash aveva mietuto a piene mani dal campo del dolore, ma gli era sfuggita la preda più ambita. Merkos, l’ideatore dell’agguato, aveva mandato avanti i suoi, deciso a unirsi al massacro se questo avesse dato esito positivo. In meno di un minuto tutti i suoi uomini erano morti. Zarko era fuggito e Merkos aveva compreso di non avere scelta. « Prendilo, Manfred, lo voglio vivo. » Koob faticava a tenere a mente persino le risposte più comuni dei riti dell’ordine, ma era abilissimo a cacciare animali e uomini in fuga. Cominciò a correre con le braccia distanti dal corpo, le armi in pugno. Nonostante il peso dell’usbergo, la
sensazione di braccare un uomo lo riempiva di un piacere selvaggio. Superato il limitare del paese accelerò, pestando i piedi nel fango. Merkos, gettate le armi, correva disordinatamente verso una macchia d’alberi. Il mercenario aveva l’impressione che il cuore gli si fosse gonfiato nel petto. Correndo nel sottobosco tentava di strapparsi via parti dell’armatura, ma gli spallacci che lo appesantivano sembravano saldamente serrati. Non lo avrebbero protetto dalla furia dei cavalieri e, alla fine, lo avrebbero perduto. Imprecò, maledisse se stesso, i suoi compagni inetti, i cavalieri e tutte le sciagure che s’erano abbattute sul villaggio. Affrontò un declivio coperto di foglie marce. Scivolò, batté il labbro contro un sasso. La bocca gli si riempì di sangue. Con le lacrime agli occhi, il respiro ridotto a un fischio, riprese a salire, aggrappandosi con le mani alle radici. Dietro di sé udiva solo lo scalpiccio regolare e sempre più vicino del suo inseguitore. Bestemmiò. Le mani guantate s’avvinghiarono a una roccia che spuntava da un ammasso di foglie. Era giunto in cima alla salita, nonostante tutto. Si guardò in giro. Alberi, in ogni direzione. Dove poteva nascondersi? Dove? Il colpo che lo uccise arrivò improvviso e sibilante. Manfred Koob assaporava già il piacere dello scontro fisico. Non avrebbe ucciso quel ridicolo soldato degno soltanto di guardare i porci. Ma gli avrebbe fatto del male. Tanto che, quando Tartu gli avesse posto le sue domande, quella caricatura di guerriero avrebbe implorato di poter parlare. Giunto ai piedi del dosso appena superato da Merkos, il cavaliere non si arrestò neppure per prendere slancio. Anzi la fatica, il peso stesso delle armi e dell’usbergo lo caricavano, infondendogli energia... Vide il corpo rotolare giù per la collinetta. Una palla di carne, vesti lacere, brandelli d’armatura rugginosa avvolti in un turbinio di foglie umide. Sangue, una lunga scia che dall’alto seguì il corpo sino ai piedi di Manfred. Il cavaliere si era fermato di colpo, ansimante. Notò subito l’orrenda lacerazione sulla nuca di Merkos. Il bacio della strega... Manfred colse un frusciare di foglie in cima al dosso. Un uomo più saggio o superstizioso sarebbe fuggito. Uno più pazzo avrebbe proseguito. Vergognandosi di se stesso Koob, invece, rimase immobile, le armi pronte ma incapace di affrontare la minaccia. Un ramo spezzato, forse un tranello che invitava ad avventurarsi in un territorio oscuro, poi più nulla. Manfred cacciò un urlo bestiale. Una sfida a mostrarsi per un combattimento faccia a faccia. Questo lo avrebbe accettato. Ma non ottenne risposta. Tartu e Tamask lo trovarono pochi istanti dopo, immobile, a un passo dal cadavere sfigurato. « Magister, Magisteri » Lupo e Imue stavano raggiungendo il villaggio quando udirono la voce. E con essa arrivava anche un odore nuovo, inconfondibile, Il lezzo della paglia bruciata. Xander comparve correndo in maniera scomposta, le braccia che annaspavano. Non fece caso a Imue; sconvolto com’era, si gettò in avanti incespicando. Il Magister lo
aiutò a risollevarsi. «Xander, amico mio, cosa succede?» domandò, immaginando che l’agguato ai cavalieri fosse scattato prima del previsto. Il corpulento contadino era in preda al panico. Succhiò l’aria diverse volte prima di riuscire a parlare ancora. « Magister... gli uomini di Merkos... hanno aggredito i cavalieri, alle stalle. » Siamo arrivati tardi, si disse rabbioso Lupo. « E cosa è accaduto?» « Sono impazziti... tutti... » «Come? Chi?» « I cavalieri con la Croce di Ferro... li hanno massacrati tutti. Merkos e i suoi uomini. Poi hanno cominciato a battere ogni casa. Cercano Drjangic e Zarko, ma non li trovano. Hanno dato fuoco alle stalle e l’incendio sta propagandosi al villaggio. Qualcuno ha cercato di fermarli, di spegnere le fiamme con l’acqua del pozzo, ma loro... » II contadino ebbe un singulto. «Sono pazzi... portano la Croce, ma sono peggiori dei demoni cui dicono di voler dare la caccia. Vargo, Elena... li hanno trucidati... » Lupo gli serrò le braccia, terreo. «Uccisi senza pietà, Magister, solo perché volevano spegnere le fiamme... vi prego, vi scongiuro: aiutateci voi! » Una vertigine. Lupo di Pietravecchia l’aveva attesa da giorni. Dal momento in cui aveva trovato i corpi massacrati dei saltimbanchi. L’incontro con i tre cavalieri, la sera prima, aveva riportato alla memoria tempi che avrebbe voluto dimenticare. Ma il suo destino era sempre là, ad aspettarlo. E adesso che sangue innocente era già sgorgato non poteva permettersi di fuggire ancora. Si rizzò in piedi fissando l’uomo con intensità. «Amico mio, tornate subito al villaggio e radunate tutti. Dite ai vostri compaesani di stare lontani dal fuoco e dalle stalle finché io non vi chiamerò. » Xander annuì senza comprendere, terrorizzato. «Questo fanciullo verrà con voi», aggiunse il Magister rivolgendo a Imue un’occhiata che tagliava corto a ogni replica. « Non c’è tempo da perdere. » La ragazza notò appena che il Magister aveva tenuto fede alla promessa implicita di non rivelare la sua identità, ma non riuscì a impedirsi un’esclamazione: «Ma voi siete solo e armato di un semplice bastone! » Lupo si era già avviato verso il villaggio, una cappa invisibile sul cuore. « Sarà sufficiente », rispose carico d’ira. Non si voltò neppure per accertarsi che Imue e Xander gli obbedissero.
Capitolo 44 A ogni passo Lupo si era preparato all’inevitabile. Ogni suo gesto scandiva il ritorno a un tempo lontano che, per caso o per maledizione, aveva deciso di non lasciarlo in pace. Quando arrivò alle stalle aveva il viso disteso, le membra rilassate, le dita salde ma pronte a cambiare posizione sul bastone da combattimento. Persino l’odio che in quel momento avrebbe dovuto bruciare dentro di lui aveva lasciato spazio a una lucidità che traspariva dallo sguardo. La costruzione ardeva avviluppata da nuvole di fumo nero. Sul terreno i corpi d’innocenti e colpevoli, uniti dalla morte in una composizione ripugnante. Secchi d’acqua rovesciati, pozze di sangue. I cadaveri degli sgherri di Merkos giacevano accanto ai contadini che invano avevano tentato di arginare le fiamme. Riconobbe Elena, accartocciata come un sacco di stracci, e anche Vargo, con la gola tagliata. Ma c’erano altri dei quali non ricordava il nome che avevano pagato caro l’intervento per bloccare l’incendio. La tettoia di una rimessa vicino alle stalle aveva già cominciato a bruciare. Era necessario intervenire in fretta ma i cavalieri, ormai posseduti da una misteriosa follia, lo avrebbero impedito. «Ti avevo detto di non attraversarci la strada! » sibilò Domash Tartu, a capo scoperto, non appena riconobbe la sagoma del Magister. Questi si fermò a una ventina di passi dai tre monaci guerrieri vedendoli per ciò che erano. Assassini che si nascondevano dietro un emblema sacro. «Non sono qui per attraversarvi la strada. Sono qui per punirvi. Per aver massacrato Ljubco e la sua famiglia, per la gente di questo villaggio e per la vostra arroganza contro Dio stesso di cui disonorate il nome. » Tartu non rispose neppure, il viso trasformato in quello di una belva. Fu Tamask, che a cavallo agitava una torcia, a muoversi per primo. Con un urlo scagliò via la fiaccola che finì sul tetto della rimessa alimentando le fiamme, poi strattonò il suo stallone inducendolo a compiere un giro su se stesso mentre estraeva la pesante spada a due tagli che alzò in verticale verso il ciclo. « Deus vult! » gridò spronando l’animale mentre abbassava la punta al livello degli occhi come una lancia. Dio lo vuole! Quante volte Lupo aveva sentito quella bestemmia prima di un massacro? Forse i suoi avversati si aspettavano che fosse intimorito dalla carica, forse no. Non importava. Per pochi istanti il mondo s’annullò nel fragore degli zoccoli. Tamask chinò il capo spingendo avanti la spada, come se potesse colpire Lupo ancor prima di venire a contatto. Le dita del Magister si assestarono sulla presa. Rette appena le ginocchia, contrasse i muscoli delle cosce, visualizzò un punto preciso. Tamask emise un grido privo di senso, in cui rabbia e paura si fondevano. Era un guerriero esperto. Non servì a nulla. Lupo rimase immobile sino a qualche istante prima dello scontro, poi caricò il bastone al fianco attirandolo vicino al petto mentre sollevava il piede avanzato.
Quando tornò a posarlo protese le braccia in avanti dandosi spinta con le anche e le spalle. La punta rinforzata di metallo del bastone centrò la gola di Tamask sfiorando la spada. Il cavaliere fu sbalzato di sella e cadde al suolo con un tonfo di ferraglia, gli occhi sbarrati e il collo rotto. Lupo ruotò i polsi recuperando il bastone per tornare in guardia. Lasciò che lo stallone gli passasse a un soffio senza toccarlo, inondandolo di polvere. Da bestia qual era Manfred Koob si slanciò all’attacco. «Ti uccido, cane rognoso, ti uccido! » II Magister si ricompose. Con un rapido movimento di lato si portò su una linea angolata. Il bastone ruotò tra le sue mani compiendo un arco nel vuoto prima di abbattersi sul polso del cavaliere. L’usbergo in qualche modo protesse Koob, ma la botta fu così violenta da costringerlo a lasciare la spada lunga. Quando si affronta un serpente, per prima cosa gli si strappano i denti. Era un insegnamento di suo padre, impartitegli quando aveva brandito per la prima volta una spada d’addestramento. Lupo parò un colpo mantenendo il bastone in verticale accanto al braccio lungo il fianco, poi pestò l’estremità inferiore sulla caviglia di Koob che urlò di dolore. Cambiò rapidamente la presa sul bastone e si torse piegando le ginocchia mentre la parte rinforzata dell’arma eseguiva un’ellisse perfetta nel vuoto prima di cozzare contro la tempia di Koob. JQ. monaco guerriero strabuzzò gli occhi con un’espressione di stupore mentre perdeva il controllo dei suoi movimenti e crollava tra paglia e fango, morto ancor prima che gli spasmi dell’agonia cessassero. « Mi fai paura, Lupo di Pietravecchia. » La voce di Tartu, questa volta, arrivava distorta da sotto il casco. Il cavaliere avanzava a piedi, lo scudo nella sinistra e la spada nella destra. « E io adoro avere paura. Sei proprio tu quello di cui raccontano... quello che nessuno riesce a sconfiggere? » Lupo era cosciente di trovarsi di fronte al più pericoloso dei suoi avversari che, per giunta, era meglio protetto e armato. Si mise in guardia e respirò. Domash Tartu non urlò, non corse e neppure si lanciò in un attacco sconsiderato. Si avvicinò a piccoli passi, bilanciandosi con attenzione, calcolando ogni possibile reazione del suo nemico. Picchiò un piede per terra e alzò il braccio armato eseguendo un mulinello per acquistare potenza. Lupo scartò, prima da una parte poi dall’altra. Parò il fendente di spada ponendo il bastone obliquamente per far scivolare la lama. L’impatto fu durissimo e il Magister avvertì sulle spalle tutto il peso dell’armatura di Tartu. Questi, però, era coperto di ferro, una protezione ma anche un impaccio. Quanti assalti poteva sferrare prima di stancarsi? Più volte Tartu cercò di spezzare il bastone di Lupo, che però riuscì sempre a deviare il filo della spada con una delle parti rivestite di metallo. Il respiro dei due avversari divenne rauco. Lupo saltò con le ginocchia al petto evitando un colpo basso e circolare che avrebbe azzoppato un guerriero in armatura. Atterrò picchiando con tutta la forza il bastone dall’alto verso il basso. Lo scudo di legno si scheggiò con uno schiocco.
Tartu, sorpreso, indietreggiò cercando la distanza migliore per caricare di nuovo, ma fu lento, Il lungo combattimento sostenuto contro gli uomini di Merkos cominciava a farsi sentire. Lupo invece udiva solo un ronzio, la sensazione del proprio sangue che scorreva rapido come un fiume. Colpì in rapida successione per tre volte l’elmo di Tartu. Frastornato, il cavaliere si mosse in modo sconnesso, menando fendenti a vuoto. Lupo indietreggiò, tornò ad avanzare e vibrò un colpo orizzontale che fece saltare le cerniere del casco dell’avversario. A nudo il viso di Tartu era una maschera di sofferenza, perdeva sangue dalle orecchie. Inaspettatamente scagliò ciò che restava del suo scudo contro il nemico. Raggiunto fortunosamente al petto Lupo barcollò, per un istante senza fiato. Stava per incespicare e quell’attimo di debolezza infuse coraggio al suo avversario che, con uno sforzo evidente, caricò un colpo verticale. Con un grido Lupo scivolò sul fianco riacquistando l’equilibrio. Menò un gran colpo con il bastone. L’impatto della sezione più pesantemente rivestita di metallo fu fragoroso. Dall’usbergo di Tartu gli anelli spezzati schizzarono via, incapaci di fermare la botta. Domash Tartu, Custode della Spada dell’ordine della Croce di Ferro, rimase pietrificato nell’atto di colpire. Portò a termine il movimento ma la lama incontrò solo il vuoto e si conficcò nel fango, quindi le dita lasciarono l’elsa e il monaco guerriero crollò. Finita. Come sempre. Lupo tremava ma s’impose di assumere una posizione salda, padrone di sé come gli altri si aspettavano di vederlo. Erano trascorsi molti, molti anni dall’ultima volta in cui aveva ingaggiato un combattimento a morte. Eppure sembrava passato un istante, il tempo d’un respiro da quando aveva pregato l’albero sacro invocando poteri che gli erano stati concessi in cambio della sua anima. O forse era tutta un’illusione e lui, come sempre, era rimasto in piedi solo per fortuna o per abilità. Quel giorno volle semplicemente credere che Dio avesse letto nei cuori dei contendenti e avesse emesso il suo giudizio. Poi udì le grida. Esclamazioni, rumori scomposti. I paesani erano accorsi e, terminato lo scontro, avevano compreso che toccava a loro muoversi per spegnere le fiamme. Con un gesto carico di autorità Lupo piantò nel terreno il suo bastone e cercò Xander. « Formate una catena di secchi da qui ai pozzi! Possiamo ancora fermare l’incendio », ordinò. La caotica disposizione delle abitazioni di Korekainé li aveva aiutati, ma il vento levatesi durante la mattina rese impossibile salvare le stalle e la rimessa. Lupo riuscì a organizzare gli uomini in modo da portare in salvo muli e cavalli, che furono sistemati alla meglio in una baracca vicino ai pozzi. I corpi furono recuperati e separati. Coloro che avevano perso la vita lottando contro l’incendio furono sepolti nel piccolo cimitero sulla collina dietro la chiesa. Per le loro anime il Magister invitò tutti a levare una preghiera; in mancanza di un vero prete non poteva fare altro. La
gente lo aveva visto per ciò che era: un portatore di morte non molto diverso da coloro che aveva punito. Nessuno avrebbe osato chiedergli di più per i defunti. I cavalieri e gli uomini di Merkos, invece, furono gettati in una fossa comune cosparsa di pece e data alle fiamme. Al Magister non era sfuggito che Merkos era morto con il marchio della strega, ma in nessun luogo aveva trovato tra le armi dei miliziani o dei cavalieri un ferro che potesse causare una ferita del genere. Quel particolare lo rattristò, e quando tutto il villaggio si riunì nella locanda alla ricerca di un po’ di calore e conforto Lupo aveva ancora un’espressione torva. «E adesso cosa succederà, Magister?» domandò Xander, uno dei pochi che osava rivolgergli domande in maniera diretta. « Siamo alla fine », annunciò Lupo tetro. « So cosa pensate. La maledizione, il bacio della strega, tutte le disgrazie e le morti che si sono abbattute su questo villaggio... Io so, anche se mi sfugge ancora qualche particolare, che non è opera del Diavolo. Non c’è nessuna strega da queste parti. Solo uno scaltro assassino. Nessuno di voi ha mai sentito parlare di Melapolis, la Città Nera? » Guardò il semicerchio di visi scuri e carichi d’ansia che lo circondava. Dieci anni, troppo tempo perché qualcuno potesse ricordare. Almeno se non aveva preso parte a quella tragedia. E, tra questi, sembravano essere rimasti solo Drjangic e Zarko. Ma, dopo lo scontro con i cavalieri, entrambi erano scomparsi. Zarko, lo stalliere superstite che aveva contribuito a organizzare l’agguato, era comprensibilmente sparito. Già era molto se i tre monaci guerrieri non avevano ucciso anche lui. Ma il mercante si era volatilizzato. Una volta terminata la cerimonia della sepoltura Lupo e Imue avevano eseguito una perquisizione nella sua abitazione. Nulla. Nessun testo di magia nera. Nessun’arma sospetta. Solo alcune pergamene nascoste in cui erano annotate delle cifre. La sua improvvisa sparizione era comunque sospetta. O forse spiegava molte cose. « E chi è quel fanciullo? » domandò qualcuno. Lupo si alzò di scatto, innervosito. Posò una mano sulla spalla di Imue. Non gl’importava chi gli avesse rivolto la domanda. « II suo nome è Imue, viaggiava con la famiglia di saltimbanchi che i cavalieri hanno trucidato qualche giorno fa. Questo è il volto degli uomini che si sono presentati a voi dicendo di portare la luce di Dio. La verità è che loro, come l’assassino che vi ha terrorizzato, cercavano un oggetto. Qualcosa di cui voi non avete memoria. Quanto a Imue, è sotto la mia protezione. Nessuno osi toccarlo. » Un silenzio timoroso confermò al Magister che, ancora una volta, era il linguaggio della forza quello che la gente ascoltava con maggior facilità. Tutti ricordavano ciò che era accaduto di fronte alle stalle in fiamme e di certo lo avrebbero rammentato a lungo. « Bene, ora ritiratevi. Come vi ho detto, non dovete temere. Adesso so cosa è successo. Entro pochi giorni il colpevole di questi crimini sarà punito e la vostra vita tornerà quella di prima, se solo lo vorrete. » Senza discutere, gli abitanti del villaggio cominciarono ad allontanarsi. Presto Lupo e Imue restarono soli nel locale. Yariah aveva provveduto a far preparare qualcosa di
caldo per entrambi. Sembrava aver assunto il ruolo di padrona della locanda e, nonostante la giovanissima età, si vedeva che aveva appreso da Rada come farsi obbedire dalle altre servette. Scoccò solo un’occhiata curiosa verso Imue ma sgusciò via prima che il Magister fosse costretto a ordinarle di sparire. «Almeno questa notte dormiremo all’asciutto», fece Lupo. Notò che la ragazzina aveva un’espressione sollevata, quasi fiera di essere stata presa sotto la sua protezione. « Davvero adesso sapete cosa è successo? » « Ho dei fondati sospetti. Ma a questa gente bisogna fornire certezze. Credo che la risposta a questo mistero dovremo andare a cercarla a Melapolis, non stanotte però. » « Non vi ho ringraziato... » Gli occhi del Magister si velarono di un’ombra ammonitrice. « Non ringraziare mai nessuno per aver spento un’altra vita, anche se è quella di un criminale. Oggi bisognava combattere, ma cerco di allontanare dalla mente ciò che è successo. Tu farai bene a fare altrettanto, se vuoi imparare qualcosa. » La frase aveva un significato molto più profondo di quanto le parole lasciassero intendere. Erano arrivati a una svolta. Lupo aveva compiuto una parte non facile del cammino, ora toccava a Imue capire e decidere. Alle labbra della giovinetta si affacciarono con naturalezza altre domande, poi un lampo di comprensione le attraversò lo sguardo. Lupo l’aveva protetta e le aveva offerto conoscenza e per lui era stato difficile. Non era il momento di mostrarsi impazienti. «Sì, Magister. »
Capitolo 45 Bussavano. Colpi secchi e frenetici. Lupo si svegliò dal sonno leggero che gli aveva concesso qualche ora di riposo dopo il combattimento. Era ancora notte ma alla porta avevano fretta. Indossate rapidamente le brache, il Magister afferrò il bastone e aprì il battente, cauto. Si ritrovò dinanzi il viso stravolto di Xander appena rischiarato dalla candela di sego che Yariah teneva in mano. « Perdonatemi, Magister », disse subito la ragazzina, « ma quest’uomo ha insistito per vedervi, si è precipitato qui come un folle e... » « Va tutto bene, Yariah », replicò Lupo rivolgendo al contadino uno sguardo per rassicurarlo. « Calmatevi, amico mio, siete stremato. Cosa è accaduto? Venite qui. Yariah, vai a prendere una brocca d’acqua per il mio ospite, ti prego. » La ragazzina, ormai calata nella sua nuova funzione di locandiera, annuì e se ne andò. Lupo fece accomodare nella sua stanza il visitatore. Accese una delle poche candele di cera che aveva portato con sé insieme al bagaglio e, finalmente, fu in grado di dedicare la sua attenzione a Xander. « Dunque, deve essere veramente importante per correre sin qui nel pieno della notte. » II contadino era fradicio di sudore. Rispose con un vigoroso cenno della testa. «Sì. Stavo tornando al mio casolare quando mi è comparso davanti Zarko lo stalliere. Era lacero e pieno di tagli, lo sguardo di un folle. In preda al panico. » « Interessante. Dov’è? » Xander riprese un’altra volta fiato e attese che Yariah, che aveva fatto ritorno straordinariamente in fretta, posasse una brocca e un boccale sul tavolo. Bastò un’occhiata del Magister per indurla a ritirarsi. Nel frattempo il contadino aveva bevuto almeno due boccali d’acqua. Era sfinito. «Zarko mi ha pregato di venire da voi con un messaggio. Vuole incontrarvi. Dice di avere notizie di grande importanza per voi. Che lo ricompenserete... e lo proteggerete. » « Non lo avrete portato a casa vostra, spero... » «No, no», disse il contadino scuotendo il capo. «C’è la mia famiglia e non voglio che nessuno sia coinvolto in questa storia. Voi parlate di assassini e sicuramente avete ragione, ma qui tutto puzza di stregoneria... No, si è nascosto e ha tracciato una mappa perché possiate trovarlo », disse traendo dalla casacca un brandello di tela. Il Magister lo dispiegò sul tavolo e notò segni tracciati in maniera grossolana con una punta di carbone. Era chiaro che Zarko non sapeva scrivere, ma da alcuni schizzi di riferimento - il vecchio ponte, i pozzi, il massiccio delle Meteore - si poteva intuire un percorso. Il particolare più straordinario era che, oltre la grotta di Habras, Lupo riusciva a individuare la direzione. Zarko gli aveva fissato un appuntamento nei pressi della Città Nera. « Conosci questo luogo? » domandò al contadino che, dopo essersi rigirato la mappa tra le mani, ammise di non essersi mai spinto tanto in là. « Può darsi che sia una baracca per i viandanti », azzardò suscitando un’occhiata incuriosita del Magister. « Sì, Zarko e Lajos ne conoscevano diverse. Ripari in cui i mercanti in viaggio
verso il nord o la costa possono lasciare i loro animali, trovare acqua. Alcuni li avevano costruiti loro stessi. » Certo, pensò il Magister. Rifugi per viaggiatori: perché non avrebbero dovuto essercene nei pressi di Melapolis? Come aveva fatto a non pensarci? «Avete detto che vuole vedermi per comunicarmi notizie importanti? » «Sì, ha affermato che Drjangic ha ucciso Rada... eppure io l’ho vista, aveva il marchio... » il contadino s’interruppe ricordando che lo stesso Magister aveva assicurato che non v’era nessuna strega. «Bene, Xander», disse Lupo richiudendo la mappa. «Adesso tornatevene dalla vostra famiglia e chiudetevi dentro. Non abbiate timore, nessuno vi farà nulla sulla via di casa, ormai. » Incerto per qualche istante, il contadino chinò il capo. Lupo era già sul ballatoio. Con sua sorpresa scoprì che Imue non dormiva. La trovò che si esercitava con la sua spada. «Vieni, dobbiamo metterci in marcia prima del previsto», le disse. Lasciato il sentiero, procedettero con la fioca luce che preannunciava il giorno, a passo spedito ma sempre attenti. «Dunque potrebbe essere stato Drjangic?» domandò Imue che faticava a tenere il passo del Magister. «A uccidere Rada sicuramente, forse anche Lajos e ciò spiegherebbe come l’assassino abbia potuto muoversi nel villaggio con tanta dimestichezza... e anche inchiodarmi quel corvo sulla porta. » « Ma gli altri omicidi? » « Questo è da vedersi », replicò il Magister. « Escludiamo i tre cavalieri, loro sono venuti qui alla ricerca di quel talismano. Non c’entrano con questa vicenda, come Makya... » « Makya? E chi è? » Lupo sospirò. La presenza di Imue con le sue domande aveva imposto un ritmo differente alle sue ricerche. Eppure, mentre spiegava chi era la misteriosa adepta della Sorellanza, parlare con la ragazzina lo aiutava a chiarirsi le idee. Imue rimase ad ascoltare il racconto del Magister come se si trattasse di una favola. Era evidente che trovava affascinante l’idea di una confraternita di donne, ne ricavava un’immagine di forza. « Dunque, anche quella... Makya sarebbe innocente? » « Non posso esserne sicuro. Anche lei era sulle tracce della Mano del Potere e, certo, potrebbe aver deciso di vendicare la sua consorella, ma di sicuro non l’ha fatto con il bacio della strega... quella è un’arma. » « Che non si trova », puntualizzò la ragazzina. « Prima o poi scoveremo anche quella e chi se ne serve. » « Ma allora ce l’avete un’idea. » « Io ho sempre un’idea, che sia giusta o sbagliata è un altro conto. Dunque, dieci anni fa, nel villaggio di Melapolis, Rada tradisce la consorella Antigona e la consegna ad Habras e ai suoi compari: Drjangic, i due stallieri e Merkos il soldato. Tutti vogliono il talismano portafortuna, ma Antigona muore sul rogo lanciando maledizioni senza aver rivelato nulla. Forse invece così vuoi far credere uno dei suoi
carnefici che, all’insaputa degli altri, ha trovato e nascosto l’amuleto. Poi arriva la peste e il villaggio viene distrutto e dimenticato. Ma la persona che ha sottratto la Mano ne è ancora in possesso. La tiene celata, lentamente ricostituisce le sue attività in questa terra, fidando nel potere che la Mano diffonde su tutta la zona. E, a poco a poco, Korekainé prende vita. » «Allora state pensando a Drjangic. In fin dei conti è lui ad aver ricostruito il paese e ad aver ordinato ai suoi soldati di tener lontani quelli come Ljubco. » «Sì, forse. Ma potrebbe essere stato anche qualcun altro che sospetta che la Mano sia ancora qui e allora comincia a colpire simulando la presenza del Maligno perché il possessore del talismano si scopra. Nel frattempo Rada e Lajos si fanno prendere dal panico, loro non sanno nulla dei delitti, vogliono semplicemente che l’assassino sia fermato. E Drjangic chiude loro la bocca... » «Vedete, quindi è tutto spiegato, Zarko ce lo confermerà... » 288 Il cielo era quasi chiaro, e i due avevano raggiunto la zona di roccia vulcanica che segnava i confini dell’antica Melapolis. « Può darsi. Tuttavia Drjangic potrebbe averli eliminati solo per coprire i legami con il passato. E Habras è veramente impazzito per il rimorso? Dov’è finito? » domandò Lupo senza che la ragazzina fosse in grado di formulare una risposta. Con la punta del bastone il Magister indicò un ammasso di pietre che una volta avevano costituito il muro portante di una struttura. Così, coperta di rampicanti, non c’era da meravigliarsi che non l’avesse vista nella precedente esplorazione. « Ci siamo », disse consultando la mappa rudimentale che Zarko aveva tracciato per lui. Affrontarono cauti la collinetta dominata dalle rovine. L’aria gelida e la poca luce creavano un’atmosfera che avrebbe intimorito un esercito. C’era desolazione in quella landa che i fiumi di lava del vulcano avevano devastato regalandole poi un’insolita fertilità. Ma la fortuna di Melapolis era durata per breve tempo. La peste era venuta a distruggere tutto e anche adesso c’era qualcosa di sinistro che invitava ad allontanarsi, II Magister arrivò in cima alla collinetta, avvolta dalla nebbia. «Zarko», chiamò, «sono io, Lupo di Pietravecchia,» La sua voce riecheggiò senza ricevere risposta. Imponendo a Imue di restare alle sue spalle, il Magister raggiunse i resti della stalla. Oltre lo scheletro dell’ingresso lo attendeva uno spettacolo che ormai era diventato consueto. Disteso sul ventre Zarko giaceva in una pozza di sangue, il cranio trapassato da una ferita recente. Anche nel suo caso la morte era arrivata improvvisa, con consumata abilità era stato vibrato un solo colpo che lo aveva sfigurato. Questa volta, però, l’assassino non si era curato neppure della messinscena. Niente corsi d’acqua nelle vicinanze a eccezione del pozzo sbrecciato o segni magici lasciati per spaventare gl’ingenui. Era stata un’esecuzione, Imue respirava affannosamente. «Il bacio della strega...» « No », rispose torvo Lupo, che questa volta esaminò attentamente la ferita. «Come sospettavo, questa lacerazione è netta. Si tratta di un "becco di corvo", maneggiato
con sicurezza. Un’arma potente, da guerra. » Imue provò un brivido alle parole del Magister, in cui coglieva una sfumatura irata. Lupo si alzò di scatto. Qualsiasi cosa Zarko avesse da comunicargli era stata cancellata con la sua vita. Ormai del gruppo originario dei carnefici della strega non ne restavano molti. «Andiamo, Melapolis è vicina, sono certo che vi troveremo la soluzione. » Imue stava per replicare quando il Magister tese un braccio e la bloccò. Tornò a inginocchiarsi studiando il terreno. Scorse una traccia. Una parziale impronta di zoccolo. Un mulo o un cavallo, impossibile stabilirlo. Adesso, però, Lupo sapeva dove erano finiti gli animali scomparsi e dov’erano stati celati: proprio in quell’edificio semidistrutto vicino alla Città Nera, protetti ma anche in grado di aiutare il misterioso assassino a spostarsi velocemente.
Capitolo 46 Pericoli e rovesci della fortuna erano stati costantemente dal fianco di Ivo Drjangic per tutta la sua esistenza, come erano stati compagni inaffidabili in imprese rischiose e criminali. Mai come in quella notte di marcia, però, ne aveva sentito il peso. Non appena era stato chiaro che l’agguato predisposto da Merkos si sarebbe risolto in un fallimento, Drjangic aveva preso la sua decisione. Con un mulo, sottratto mentre i tre cavalieri stavano ancora a domandarsi dove fosse finito lo stalliere, il mercante aveva lasciato Korekainé. Aveva una sola meta e aveva viaggiato per tutto il giorno e la notte successiva pur di raggiungerla. Nonostante la cavalcatura, la scarsa dimestichezza con gli spostamenti lo aveva rallentato. Ma, in quelle ore gelide, Drjangic non s’era fermato mai. Tutto aveva funzionato secondo i suoi piani per molti anni, sin da quando era riuscito, lui solo insieme a quel pazzo di Habras, a impadronirsi della Mano del Potere. Ricordava ancora il viso sofferente di Antigona quando finalmente aveva confessato dove nascondeva l’amuleto. Ma gli altri non dovevano saperlo. Era un segreto che il mercante e il prete invasato avevano condiviso. Poi Habras aveva cominciato a dubitare, quando la peste si era abbattuta sul villaggio, ed era scivolato verso la follia un giorno dopo l’altro. Per di più era stato così sciocco non solo da andare a nascondersi in una grotta come un eremita, ma anche da lasciare incustodito un resoconto del processo alla strega che il giovane Gheorghis aveva casualmente rinvenuto. Per fortuna non aveva scritto dove si trovava il talismano... Neppure le rassicurazioni di Drjangic che la peste non era un segno della sventura erano riuscite a placare la follia di Habras. Forse era stato troppo vicino alle carni di Antigona, arroventate dai ferri. A nulla era valso spiegargli che la peste aveva risparmiato tutti loro e quindi il talismano aveva, almeno in quel caso, funzionato. Habras si era chiuso, era diventato come una bestia feroce e malata che cerca rifugio nella solitudine. Lui invece aveva mantenuto intatta la fiducia nella potenza dell’amuleto. Lo aveva lasciato nascosto nella terra permettendo al suo fluido di scorrere in profondità sino a quando non era venuto il momento di costruire un altro villaggio, non grande come Melapolis all’inizio. Lo sarebbe diventato in seguito, con l’intensificarsi dei viaggi dei mercanti, e lui ne sarebbe stato l’artefice. E avrebbe provveduto anche ai suoi compagni. In seguito, a causa della stupidità di Habras e dell’ingenuo desiderio di Gheorghis di trovare protezione nel vicearcidiacono, erano iniziate le sventure. Le morti misteriose, l’arrivo di Aymar, del Magister, dei cavalieri e di tutti quelli che erano venuti a mettere il naso nei suoi affari e che, alla fine, avrebbero scoperto la verità. Era stato costretto a uccidere Rada. Quella pazza si era fatta prendere dal panico e forse aveva trasmesso i suoi timori anche a qualcun altro. Ma adesso, finalmente in vista della Città Nera, Drjangic non si soffermava su simili dettagli. Li aveva battuti rutti, mettendoli uno contro l’altro e agendo in fretta, senza risparmiarsi. Era ancora fermamente convinto del potere della Mano. Altrimenti perché tutti si sarebbero accaniti così per venirne in possesso? Semplicemente il destino voleva che il talismano non dovesse più rimanere in quel
luogo. Forse c’erano modi di servirsene che ancora non conosceva. Aveva deciso. L’avrebbe recuperato e sarebbe sparito. Per ricominciare altrove. Il mercante trasse dalla soma del mulo la vanga che aveva portato con sé. Aveva sete, era affamato, ma non si sarebbe dato pace finché non avesse recuperato la Mano e non fosse stato lontano da quel luogo. Ricordava esattamente dov’era sepolta. Era là da più di dieci anni, in cima a una collina dalla quale spuntavano lastre di liscia roccia nera. C’era una sorta di triangolo delimitato dai bordi di tre rocce, una zona di terreno molle quasi nascosta dove nessuno sarebbe mai andato a cercare. Drjangic sferrò il primo colpo di vanga con un’energia di cui non si credeva capace. Chiunque fossero i suoi nemici lui li avrebbe battuti sul tempo. Sarebbe stato là prima che... Il suono, acuto, così innaturale tra quelle montagne, lo congelò a metà del movimento. Uno scampanellio. La prima volta il mercante credette di essersi ingannato e fece per riprendere il lavoro, ma al secondo tintinnio si voltò. E la vide. « Scava, assassino, strappa alla terra quello per cui hai ucciso, ingannato e torturato. Sono qui, sono venuta a vederti morire. » Makya. « Tracce », disse Imue china sul terreno erboso ancora umido. « Credete sia lo stesso animale che abbiamo visto alla stalla? » Lupo si accucciò accanto a Imue. I segni degli zoccoli erano troppo marcati, evidenti e recenti. Scosse il capo. «No, sono zoccoli di un unico mulo guidato da un cavaliere non esperto: questa è la cavalcatura di Drjangic. » « Ma allora non è lui? » Lupo sembrò non aver udito l’osservazione della ragazzina. Di nuovo lasciò correre lo sguardo sulle bizzarre formazioni di roccia che emergevano tra i campi. Quello era il luogo dove tutto era iniziato e dove, adesso, tutto si sarebbe concluso. «No, non è lui l’assassino», sussurrò consapevole di presenze invisibili, celate negli anfratti del terreno. Poi udirono lo scampanellio e le voci. Imue serrava la sua spada, ma aveva il viso contratto dalla paura. Il Magister le pose una mano sulla spalla. « Andiamo, abbiamo aspettato anche troppo. »
Capitolo 47 « Lurida strega, così sei stata tu... a massacrarli uno per uno... » « No, io non ho ucciso nessuno. » Lupo emerse dal sentiero producendo uno scricchiolio sotto i calzari volontariamente, ma solo all’ultimo istante. Si erano avvicinati con cautela e, del resto, il mercante e la Sorella della Luna erano stati troppo occupati per accorgersi di loro. Adesso, però, il Magister lesse disappunto e sorpresa sui volti di entrambi. «Davvero?» domandò accostandosi alla fossa che Drjangic aveva appena terminato di scavare. Makya si riprese in un istante. « No, Lupo di Pietravecchia, lo sai. Io non mento. Sono venuta qui per cercare giustizia e riprendere ciò che è stato rubato alla Sorellanza. » Approfittando di quel momento di distrazione Drjangic sollevò la pala nel tentativo di colpirla. «Attenti! » esclamò Imue. Ma il Magister non aveva bisogno di richiami. Mosse appena il bastone la cui punta ricoperta di metallo intercettò la vanga a mezz’aria. Non fu necessario più di un piccolo sforzo. L’arma improvvisata cadde dalle mani di Drjangic rotolando via. Lo stesso mercante scivolò sul terreno. Non era un guerriero. Il Magister gli riservò uno sguardo carico di scherno. «Ecco come vi ha aiutato la Mano del Potere, siete caduto in una trappola. Di certo non siete un combattente... magari uccidere alle spalle, di questo siete capace, vero? » Drjangic era carponi, il viso sporco di terra, gli occhi che scagliavano lampi di furore. La Mano era là, in fondo alla fossa, ma non l’avrebbe aiutato. «Ho dovuto... ho dovuto uccidere Rada: si era fatta prendere dal panico, avrebbe parlato, dovevo chiuderle la bocca.» Il Magister reclinò il capo e osservò la reazione sprezzante di Makya. «Meritava di morire, lei come gli altri... una traditrice della Sorellanza... » Lupo si chinò sul bordo della fossa. Il piccolo scrigno di metallo avvolto in un panno lacero era lì, coperto ancora di polvere. « E allora riprendi ciò per cui sei venuta, se pensi che ne valga la pena », disse e la giovane donna non si fece pregare. Con uno scatto si chinò e sollevò il piccolo contenitore. Lo liberò dal drappo mostrando una sorta di blasfemo tabernacolo istoriato d’iscrizioni che il tempo aveva in parte cancellato. Febbrilmente Makya l’aprì portando alla luce il suo contenuto. La Mano del Potere, un arto mummificato e rinsecchito, chiuso su una pietra levigata, scura e screziata di venature biancastre. Una sorta di scettro. «Per questo avete torturato e bruciato sul rogo Antigona?» domandò il Magister incredulo. «Un arto mozzato e conservato come la reliquia di un santo? » « Sciocco, voi non potete capire », inveì Drjangic. « La Mano possiede una potenza che non è di questo mondo. Apparteneva a Draghixa di Malven, la prima delle Sorelle, veniva da molto lontano. Può portare ricchezza e potere anche stando in quel buco dov’è rimasta per anni. » Il Magister si rimise in piedi e abbracciò con lo sguardo la desolazione dei resti di Melapolis. « Ricchezza? Potere? Non vedo altro che rovine e morte... e poi ancora morte. Dunque, Rada tradì la sua consorella sapendo che era custode della Mano.
Sperava di dividerne il potere con voi, i fratelli Lajos e Zarko, Merkos e Habras, il prete... ma qualcosa non funzionò. » « Oh sì », fece Drjangic, « funzionò eccome. Prima di morire Antigona parlò a me e ad Habras e ci rivelò il nascondiglio, il luogo da dove la Mano avrebbe continuato a sprigionare il suo potere. Quella stessa notte la dissotterrammo, ma in seguito decidemmo di lasciarla dov’era. H solo fatto di averla vista e toccata faceva di noi i suoi padroni. » « E agli altri non diceste nulla? » « No », rispose Drjangic sprezzante. « Perché avremmo dovuto? Loro ci erano utili e certo avrebbero beneficiato del potere, ma questo era nostro, solo nostro. » « E la peste, la maledizione... » Sul viso del mercante passò uno sguardo divertito. « L’avete detto voi stesso, la peste non ha padroni. Doveva arrivare e arrivò. Ma fu meglio così. Dopo la morte di Antigona la gente cominciava ad aver paura di aver sfidato un potere troppo grande. E alcuni ancora cercavano, volevano sapere dove fosse la Mano. Alla fine la distruzione di Melapolis fu una fortuna. E noi, noi non eravamo rimasti vivi? Non era segno del potere della Mano? » « No », fece Lupo duramente, « solo un caso o forse il disegno di Dio che voleva la vostra punizione in un altro momento. Sono passati dieci anni e voi siete rimasti nella zona, avete costruito un nuovo paese credendo, almeno voi e Habras, di essere ancora protetti dalla Mano, ma il vecchio prete ha cominciato a sentire il rimorso. Si è isolato come un eremita e ha lasciato uno scritto, probabilmente incompleto e incoerente, ma che il povero Gheorghis ha intuito nascondere un crimine. Il vostro. Nel tentativo di cercare un aiuto spirituale per affrontare quanto aveva scoperto ha scatenato un’ondata di cupidigia che ha portato a tutto questo. Certo, Rada si è spaventata, ha cercato la mia protezione e voi l’avete uccisa simulando il delitto della strega. Ma solo quello, perché gli altri recano un’impronta più sicura, meno affrettata. Rivelano un freddo calcolo. » « Ma se non è stata lei », fece il mercante indicando Makya, « chi altri... » «Un astuto assassino. Qualcuno che non sapeva dove si trovasse la Mano perché nel resoconto di Habras, evidentemente, non era detto. Non credo volesse neppure ricordare dov’era nascosta. Ritengo che in quel documento che Gheorghis ha portato al vicearcidiacono fosse confessato solo il male perpetrato contro Antigona, altrimenti il giovane prete avrebbe recuperato e portato lui stesso il talismano ai suoi superiori. Qualcuno ha avuto notizia di tutto questo. Una persona che forse cercava la Mano da tempo, anch’egli convinto del suo effettivo potere, come i cavalieri dell’ordine della Croce di Ferro. Un uomo che è venuto qui e ha cercato di colpire voi, uccidendovi a cominciare dai più innocui... ma la sua vera intenzione era di portarci qui. Spaventare chi realmente conosceva il nascondiglio della Mano in modo che facesse esattamente questo. Cercare di riprendersela e fuggire.» «Ma chi?» Il Magister respirò a fondo: era venuto il momento. Lo sentiva anche se aveva pregato che non fosse così. «Vieni avanti Aymar, la tua caccia è finita. » Un tramestio tra i cespugli, poi una figura comparve. Indossava un corpetto
trapuntato e teneva in pugno la sua arma: un «becco di corvo» con la punta acuminata, simile a una falce. Al fianco aveva spada e pugnale. « Hai compreso finalmente, Lupo, amico mio. E io che speravo di convincerti a lasciar perdere e ad abbandonare questa ricerca. Adesso dovrò ucciderti, come tutti. » Lupo osservò il compagno che aveva creduto morto, guardandolo senza rimprovero né comprensione. «Davvero volevi risparmiarmi? Allora perché venire a chiedere il mio aiuto? » Aymar scosse la testa. « All’inizio sì, ho pensato che mi sarebbe stata utile una vittima in più. Un altro delitto della strega per stanare il padrone della Mano. Non sapevo neppure che fossi tu il Magister, e quando l’ho scoperto ormai il mio piano era in esecuzione. Prima il giovane prete del quale mi era giunta voce sulla costa. Pensa: la morte di un saggio avrebbe terrorizzato questi assassini costringendoli a venire allo scoperto e a precipitarsi a recuperare il talismano. Avevo già ucciso quel vecchio pazzo di Habras... Hai ragione, la sua mente era così sconvolta dal rimorso che aveva persino cancellato dalla memoria questo nascondiglio. Così, quando tu hai rifiutato, ho seguito una nuova strada... » « E hai sostituito il suo corpo camuffandolo con i tuoi abiti. La ferita del "becco di corvo" aveva sfigurato il viso e l’armatura, la tunica hanno ingannato anche me... » « Sì, ero convinto ormai di averli in pugno. Per anni ho raccolto notizie sulle superstizioni, sul linguaggio delle streghe. Ho pensato che bastasse poco per spaventare qualche contadino. Però il tuo coinvolgimento mi ha sorpreso. Inizialmente avevo deciso di ucciderti, ma poi, sai, dopo tanto tempo, uno ripensa alle vecchie avventure. Ho cercato di spaventarti... la frana, il corvo. » «Allora eri tu...» Il viso di Aymar rivelava una scaltra malvagità, priva di furore. «Abbiamo viaggiato molto entrambi e molto abbiamo appreso. Posso muovermi come un’ombra senza che nessuno mi veda. L’ho appreso dai Gatti di Candia, la confraternita dei ladri sull’isola di Cipro. Ho cercato di attirarti fuori del villaggio... Poi c’era l’uomo con cui la locandiera si era confidata, Lajos. Rada che aveva compreso e voleva parlare con te... volevano trattare, sai? Mi lasciarono persino un messaggio e Lajos propose d’incontrarmi vicino al pozzo, nei pressi del paese. Ma io non avevo nulla da contrattare. L’ho ucciso senza neppure che se ne accorgesse. Tanto avevo compreso che solo Drjangic sapeva dove si trovava la Mano. Era l’unico sufficientemente scaltro. Ma dovevo costringerlo a fuggire, a venire qui perché era prudente e affrontarlo in casa, circondato dagli uomini di Merkos, sarebbe stato troppo difficile anche per me... Soprattutto quando sono arrivati i cavalieri, ladri anche loro. E tu, Lupo, amico mio, mi hai aiutato liberandomi di quei tre monaci guerrieri e instillando la paura in questo mercante. Così adesso sono qui a raccogliere il frutto di tante fatiche, di tante notti passate all’addiaccio. » Lupo, nonostante tutto, sorrise. « I cavalli, il mulo del prete... non potevi abbandonarli,vero? Li hai portati qui. Dovevo aspettarmelo. » «Un cavaliere si prende sempre cura dei suoi animali. L’hai dimenticato? Sì, certo, tu ormai non porti neppure la spada e non hai cavalli, come potresti capire? E poi, come mi sarei allontanato da qui una volta recuperata la Mano? Qualche arma potevo
lasciarla, ma i cavalli mai! Tu, tutto ciò non puoi comprenderlo, non sei più un cavaliere. » «Un cavaliere serve la verità, serve Dio e non commette omicidio se non è la necessità a imperlo », replicò Lupo con fervore. « Non hai forse ucciso quei tre, giù al villaggio? » «Le vite dei contadini erano minacciate, erano assassini... » « Certo e tu, Magister, con la tua sapienza, la tua fede, tu che sei invincibile sul campo di battaglia ma hai perso tutto... tu puoi giudicare chi vive e chi muore. Bene, ti dirò una cosa: anch’io ho combattuto, duramente. Ho appreso, ho pregato e ho scoperto che non c’è Dio, non c’è nulla d’importante se non la propria sopravvivenza. » « E così hai riposto la tua fede nella Mano del Potere? » Aymar sostenne lo sguardo del Magister. « Sì, perché è la conoscenza antica, la più potente. Dio non mi ha dato nulla. Adesso voglio vedere cosa mi darà la Mano. È mia... » « La Mano appartiene alla Sorellanza! » sbottò Makya. Con una risata demente Aymar sollevò il «becco di corvo ». Ormai niente poteva fermarlo. Li avrebbe uccisi tutti e se ne sarebbe andato con il suo tesoro.
Capitolo 48 Il movimento fu così rapido che Lupo se ne accorse appena. Makya non tentò di evitare il colpo. Rimase salda come un muro di scudi in una battaglia campale. Solo all’ultimo istante sollevò la mano destra a palmo in su avvicinandola alle labbra. Distese le dita e soffiò. La polvere rossa investì Aymar come una folata di vento. Il bruciore doveva essere atroce perché il cavaliere lasciò cadere immediatamente la sua arma e si portò entrambe le mani al viso. Urlava in maniera così disperata che persino il Magister si sentì rabbrividire. Makya lo fronteggiava immobile. Aymar cadde in ginocchio urlando, implorando pietà, emettendo versi senza senso. Qualunque fosse la natura della polvere rossa l’effetto fu immediato e terribile. Sul viso di Aymar cominciarono a scorrere rivoli scarlatti che gli imbrattarono la barba e il corpetto. « Non vedo più, non vedo... quella strega mi ha colpito con un sortilegio. Oh, Dio, perdonami, aiutami. » Ma per il peccatore Dio non aveva risposte. «Magister! » esclamò Imue accertasi di un movimento improvviso. Lupo si volse ma non fu in grado di fare nulla per fermare Drjangic che, approfittando di quella imprevista diversione, si era scagliato contro Makya e le aveva strappato lo scrigno con destrezza. Per contrastare Aymar la giovane donna aveva allentato la vigilanza e fu scaraventata a terra da una spinta violenta. Ridendo come un folle Drjangic cominciò a correre, saltellando tra un masso e l’altro. « Fermo! » gridò il Magister, gettandosi all’inseguimento. La pietra nera era scivolosa, i lastroni rendevano difficile la corsa, ma Drjangic sembrava aver ripreso forza come se aver finalmente preso possesso della Mano lo avesse riempito di nuove energie. Compì due balzi, saltò da un lastrone all’altro, ma poi mise un piede in fallo. Forse fu la fretta, forse il destino o più semplicemente il caso, ma il mercante rotolò in avanti. Picchiò il mento, le mani lasciarono la presa sullo scrigno e il suo corpo rimbalzò contro la roccia. Una, due, tre volte con grida strozzate e movimenti disarticolati finché non arrivò a picchiare la nuca con un colpo sordo, più forte degli altri. Lupo e Imue lo raggiunsero qualche istante dopo. Ivo Drjangic aveva incontrato il suo destino proprio là dove aveva manovrato i suoi compagni, mandando sul rogo una donna che forse aveva commesso il solo peccato di saper scegliere le erbe migliori per dar sollievo ai sofferenti. Era morto, e il talismano che tutti volevano con tanta ferocia era rotolato tra due pietre, inutile e insozzato di terra. Con la veste gonfiata dal vento e i capelli scarmigliati, Makya recuperò la Mano, poi si alzò e sputò sul cadavere. « Non sono venuta qui per uccidere. La giustizia degli arcani ha agito per me. Antigona è vendicata, la stessa avidità dei suoi assassini li ha fatti soccombere. »
« E tutto per quella mano mummificata? » domandò Lupo. Lei si strinse al petto l’amuleto. «Non credi che questo sia il suo potere? » « Io non credo a nulla. Ho visto solo cani rabbiosi che si azzannavano per un frammento d’ossa. Hai avuto ciò che cercavi, Makya, vattene adesso. » Lei lo fissò a lungo come se volesse dire qualcosa, poi gli rivolse un sorriso che, sorprendentemente, tornò a turbarlo. «Lupo, Lupo... tu ancora non sai. Ma è meglio così, forse. Ci rivedremo. E tu, ragazzina, stagli vicino. Ha bisogno di te quanto tu di lui. » Pronunciò quelle ultime parole con una pacatezza che contrastava con la furia di poco prima. Si voltò e cominciò a camminare verso le montagne, i capelli al vento e lo scrigno serrato al petto. «Ma come ha capito...» mormorò Imue ancora convinta che il suo travestimento in abiti maschili fosse in grado d’ingannare chiunque. Il Magister non sapeva cosa rispondere. Non era la prima volta che il contatto con la Sorella della Luna lo turbava. Posò una mano sulla spalla di Imue. Da poco lontano giungevano ancora le grida strazianti di Aymar. Il vecchio compagno d’arme, l’uomo che aveva perduto la fede ma che in qualche modo aveva sperato di ritrovare una ragione di vita, era finito. Prostrato, si trascinava, devastato dalla polvere che gli aveva corroso gli occhi e trasformato il volto in una maschera di sangue. «Uccidimi, Lupo, aiuta il tuo vecchio compagno a lasciare questo mondo con dignità. » L’implorazione scivolò come acqua sulla pietra. « No, Aymar. Ognuno di noi può scegliere. Tu hai preso la tua decisione. Il cavaliere che era mio amico è morto, per quel che mi riguarda, ai pozzi, molti giorni fa. Adesso vedo solo un assassino, punito per i suoi crimini. Non sarò io a uccidere un povero menomato. Lascia che siano queste montagne a decidere il futuro. » Senza aggiungere una parola il Magister guidò Imue sul sentiero che portava alla vecchia stalla. Per un poco udirono ancora le maledizioni di Aymar, le sue suppliche, poi il vento le confuse con lontani ululati. « Che cosa facciamo adesso? » domandò la ragazzina. «Recuperiamo i cavalli e li portiamo al mio rifugio. Dobbiamo prepararci. Per un viaggio. » Non furono costretti a faticare molto. Qualche decina di minuti dopo si imbattevano nei cavalli di Aymar che, convinto di essere ormai giunto alla fine delle sue ricerche, li aveva impastoiati nei pressi di un ruscello. Lupo li accarezzò, ritrovando la passione di un tempo per quei nobili animali. Così il Magister, la ragazzina e i due destrieri ripresero il cammino. Dopo qualche miglio recuperarono anche il mulo di Drjangic che, sbandato, stava pascolando su un dosso. Intorno a loro solo la natura selvaggia. Makya era scomparsa e ormai anche Aymar, con i suoi peccati, era già nulla più che un ricordo.
Capitolo 49 Non furono necessarie parole. Quando fecero ritorno all’eremo di Lupo la vicenda che si era appena conclusa aveva tracciato nelle loro menti una mappa nella quale ogni fatto aveva trovato la sua collocazione. Ciò che Imue non era venuta a sapere aveva trovato nell’immaginazione della giovinetta una sua spiegazione e il Magister le fu grato per il fatto di non porre interrogativi o sollevare dubbi che lo avrebbero turbato ancor di più. Aveva perso un amico quel giorno e la consapevolezza di ciò che comportava, la fine di un legame che risaliva ai tempi della Terrasanta, era ancor più penosa. Ma era stato anche un giorno di rivelazioni definitive. Piccoli segni che gli avevano schiuso una porta. Sino alla visita di Aymar la sua esistenza era rimasta sigillata tra gli angusti confini che andavano dalla sua capanna all’officina dove forgiava spade che non avrebbe mai usato. Lo stesso lavoro sui codici non era altro che una fuga. E ciò che era avvenuto in quei giorni, il suo coinvolgimento nella soluzione di quei delitti, gli aveva rivelato qualcosa che per lunghi mesi era stato davanti a lui, celato appena da un velo. Lupo di Pietravecchia, il Magister, non era un cavaliere, non era uno studioso ma neppure un eremita. Se davvero esisteva una volontà divina che misteriosamente cercava di colpirlo per quello che lui riteneva un peccato, non avrebbe risolto nulla isolandosi dal mondo. Non era questo che gli aveva insegnato suo padre, né certamente ciò che aveva voluto il suo maestro. Forse l’avrà accettato la responsabilità di prendersi cura di quella giovinetta dai molti segreti lo aveva finalmente indotto a comprendere. «Pania rei», disse. «Tutto scorre, come in un fiume. Lo diceva un saggio di questa parte del mondo. Ma tale saggezza raccolta in due parole è valida per ogni luogo del Creato. » Silenziosa, Imue lo aveva aiutato a raccogliere le sue cose più preziose, utensili e pergamene, oggetti di lavoro, qualche abito e poco altro e a caricarli sui cavalli. « State per lasciare questo rifugio, Magister? » « Stiamo, Imue, stiamo: ce ne andiamo tutti e due. Ho promesso che ti avrei preso con me, anche se non so veramente quanto abbia da insegnarti. Di certo avere un compagno di viaggio potrà solo aiutarmi. » Sul viso della ragazzina passò l’ombra di un sorriso. «E voi sarete di aiuto a me. Non volete passare per Korekainé? » Lupo sembrò riflettere sull’opportunità di tornare al villaggio. Sarebbe servito a qualcosa spiegare ai paesani quale malvagia macchinazione si era svolta tra le loro case? Li avrebbe aiutati a dar forza alla loro comunità? «No», rispose, «l’esistenza di quella gente non è più minacciata. Non ci sono più cavalieri, streghe o avidi assassini. Se Korekainé scomparirà o prospererà sarà il futuro a deciderlo, la caparbietà dei suoi abitanti, forse la fortuna o la volontà del Signore. La verità su quello che è accaduto non li riguarda. E non riguarda neppure noi, ormai. »
« Dove siamo diretti? » Lupo sorrise. Avrebbe dovuto fare l’abitudine alle domande di Imue. Del resto è dando risposte che un maestro impara dall’allievo, non standosene da solo a meditare. Indicò il sole che, timidamente, andava a nascondersi oltre i rilievi coperti di fitti boschi secolari. « Inizieremo la nostra marcia in quella direzione. Vieni, ho una storia da raccontarti e vorrei sentire la tua opinione. » Imue lo seguì incamminandosi al suo fianco con il cuore gonfio di gioia, perché essere messa a parte di un ricordo di Lupo significava essere accettata nel suo mondo. Essere parte di una famiglia. « Sì, Magister », rispose semplicemente.
Fotocomposizione: Nuovo Gruppo Grafico s.r.l. - Milano Finito di stampare nel mese di novembre 2006 per conto della TEA S.p.A. dal Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche - Bergamo Printed in Italy TEADUE Periodico settimanale del 8.11.2006 Direttore responsabile: Stefano Mauri Registrazione del Tribunale di Milano n. 565 del 10.7.1989