RICHARD LAYMON IL LUNA PARK DELL’ORRORE (Funland, 1989) Il trolling, la caccia ai barboni e ai vagabondi, è diffuso in d...
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RICHARD LAYMON IL LUNA PARK DELL’ORRORE (Funland, 1989) Il trolling, la caccia ai barboni e ai vagabondi, è diffuso in diverse zone della California. Boleta Bay e Funland sono invece fittizi. Personaggi ed eventi della storia sono frutto dell'immaginazione dell'autore. Questo libro è dedicato a Ann Laymon e Kelly Ann Laymon, mia moglie e mia figlia, le mie compagne di viaggio, le mie migliori amiche. Con tanto amore 1 Emerse dalle ombre accanto al portico chiuso e venne avanti verso Tanya. Sembrava qualcosa strisciato fuori dalla tomba di un film di zombie: la faccia grigia sotto il chiaro di luna con due buchi per occhi, la testa piegata di lato, i piedi strascicanti, gli abiti a brandelli svolazzanti al vento. Tanya si fermò. Incrociò le braccia sul petto. Nonostante il vento freddo che soffiava dall'oceano, stava abbastanza calda con il camiciotto felpato. Ma ora cominciò a sentirsi accapponare la pelle, aveva un cerchio alla testa e sentiva che i capelli le si drizzavano. L'uomo si fece più vicino. Non era uno zombie, Tanya lo sapeva. Gli zombie non sono reali, non esistono. Questo era un troll. Uno di quei parassiti senza tetto che piombavano su chiunque si avventurasse sul viale o sulla spiaggia. La feccia più degenerata e puzzolente della terra. Il troll, ormai a pochi passi da Tanya, tese la mano. Lei fece un passo indietro, sospettando che altri potessero apparire all'improvviso, e girò la testa. Non ne vide nessun altro. Sapeva, però, che stavano osservando la scena. I troll: due, tre, forse dieci. Sbirciavano vicino ai chioschi, dietro gli angoli, magari la guardavano
con un sogghigno attraverso le fessure dei baracconi di legno. «Puoi darmi due soldi, cara?» Ora Tanya vedeva i suoi occhi. Lacrimosi e arrossati al chiaro di luna. E i denti, scoperti in un timido sogghigno. Qualcuno gli mancava. Il vento non era abbastanza forte da soffiar via il puzzo nauseante che l'uomo emanava. «Okay», disse Tanya. Abbassò la borsa a tracolla contro il fianco, l'aprì e tirò fuori il borsellino. «Non puoi darmi un dollaro, tesoro?» Lui piegò la testa e si grattò il mento irsuto. «Non mangio da tre giorni.» «Vediamo che cos'ho», rispose lei. Le tremava la voce. Aprì il borsellino. «Che cosa fai qui?» continuò lui. «Non è un posto sicuro, sai? Ci sono dei tipi strani da queste parti.» «L'ho notato», convenne Tanya. «Bella ragazzina. Ai tipi strani piacciono le ragazzine.» Invece delle monete Tanya prese un cartoncino bianco dalla borsetta e lo cacciò nella mano tesa del troll. «Che cos'è?» chiese lui accigliato. «Sai leggere?» «Che cos'è questa roba?» «Un messaggio per te.» Lui stracciò il cartoncino e ne lasciò cadere i pezzi. Il vento li disperse. «Voglio tre o quattro dollari. Su, coraggio.» Tese di nuovo la mano. «Forza, dammeli!» Tanya spostò la borsa dietro di sé, fuori portata. «Ciò che diceva il biglietto, brutto analfabeta, era: 'Caro troll, saluti dal Great Big Billy Goat Gruff'.» «E che merda è?» Tanya si lanciò verso di lui. Il troll barcollò all'indietro. Lei gli agguantò il davanti della giacca incrostato di sporcizia, mise una gamba dietro le sue e lo spinse giù. L'uomo cadde sulle assi del marciapiede. Il respiro gli uscì in un singulto mentre lei gli calpestava il ventre. Rotolò sul fianco gemendo. Tanya infilò due dita nella scollatura del camiciotto felpato, tirò fuori il fischietto e, allontanandosi dal barbone che si torceva a terra, emise un rapido fischio. La baracca della biglietteria era più lontana di quanto avesse previsto. Se
le fosse capitato qualche guaio... Ma loro balzarono fuori dal nascondiglio accanto alla baracca e corsero verso di lei. Nate, Samson, Randy, Shiner, Cowboy, Karen, Heather e Liz. La squadra. Guardandoli, Tanya si sentì orgogliosa. Sorrise e agitò il pugno in aria. Gli altri risposero con lo stesso gesto; qualcuno, doveva essere Cowboy, lanciò un grido. Nate lo zittì tirandogli il braccio. Tanya si girò verso il barbone. Lui stava carponi e cercava di allontanarsi strisciando. La ragazza gli saltò addosso e lo colpì con la scarpa, poi gli torse la caviglia sul legno. Lui lanciò un grido e si afflosciò. Tanya gli tenne inchiodato il piede e aspettò. Dapprima sentì solo il fruscio del vento, il suono distante delle onde sulla riva. Poi lo scalpiccio della squadra che si avvicinava. Dopo qualche secondo, lei e il troll furono circondati. Nate le diede una pacca sul sedere. «Com'è andata?» «Nessuna fatica.» Tanya levò il piede dalla caviglia del barbone che sparì sotto un mucchio di corpi accucciati o inginocchiati. Tanya indietreggiò e si mise a guardare. «Lasciatemi andare!» piagnucolò il troll. «Lasciatemi andare!» Gli altri continuarono a tempestarlo di colpi. Tanya si voltò per scrutare il viale. Nessuno in vista. Se altri troll stavano osservando la scena (e lei ne era sicura), non avevano interesse a venire in soccorso del compagno. «No! Per favore!» Tanya guardò il troll. Karen gli aveva afferrato uno dei risvolti dei pantaloni, Heather l'altro. Tirarono, e i pantaloni scesero sulle gambe pallide e ossute. «Tiriamolo su», decise Nate. L'uomo nudo, afferrato ai polsi e alle caviglie, fu sollevato dall'assito. Si dibatteva e si piegava, dondolando la testa. «Lasciatemi stare!» gridava. Tanya allargò la giacca del barbone e, trattenendo il respiro, vi gettò sopra le scarpe e gli indumenti incrostati di sporcizia. Spinse da parte il fagotto e seguì il troll che si dibatteva come un disperato mentre lo portavano accanto a un lampione. La luce, come tutte le luci di Funland, il paese dei divertimenti, era stata spenta un'ora dopo la chiusura. Cowboy si fece scivolare un rotolo di corda dalla spalla, tenendo un'estremità. Lanciò sull'asta del lampione l'altra estremità e l'afferrò.
«No!» urlò il troll mentre Cowboy gli metteva il cappio al collo. «Per favore! Non ho fatto niente!» «Non ha fatto niente», lo scimmiottò Liz. «Tiriamolo su», propose Samson. «Appendetelo bene in alto», aggiunse Karen. «No!» strillò il barbone scuotendo ripetutamente la testa, ma Cowboy gli strinse il cappio intorno al collo. «Così ti allunghi il collo e voli.» «Smettiamola di perder tempo», intervenne Tanya. «Su, sbrigatevi!» Lasciò cadere il fagotto degli abiti, afferrò un'estremità della fune e tirò puntando i piedi. Il troll lanciò un urlo. Quando ricadde, il suo corpo rimbalzò sulle assi del marciapiede. Tanya gli si avvicinò. «Vuoi morire?» gli chiese. L'uomo nudo rispose con un singulto. «Sei disgustoso», continuò Tanya. «Un rifiuto, un mucchio di escrementi.» «Vale a dire un sacco di merda», precisò Liz. «Non vogliamo che la tua maledetta razza vada strisciando qui attorno, mescolandosi con noi. Non avete niente da fare qui e noi siamo stufi. Mi capisci?» Lui balbettò come un bambino terrorizzato. «Sollevatelo!» gridò Tanya. Il troll salì verso la cima del lampione, le mani aggrappate al cappio, la schiena inarcata, le gambe svolazzanti. «Basta così», disse Nate. Il barbone ricadde a terra, i suoi talloni rimbalzarono sul legno. Con un ginocchio si colpì al mento e la testa gli ricadde indietro. Giacque a gambe larghe e, singhiozzando, si allentò il cappio sul collo. «La prossima volta ti ammazziamo, figlio di buona donna!» lo avvertì Tanya, «Perciò ti conviene filare alla svelta.» I ragazzi issarono di nuovo il troll lasciandolo penzolare sopra il fagotto che Tanya aveva spinto verso di lui. La ragazza prese l'accendino dalla borsetta e diede fuoco al fagotto. Gli stracci divennero una palla di fuoco. Al riverbero rossastro la faccia scavata del troll appariva spettrale sul corpo dondolante. Il fagotto in fiamme rotolò sotto di lui. Con un grido l'uomo si afferrò la testa come se cercasse di sedersi. «Siete pazzi?» urlò Nate, scaraventando lontano con una pedata il fagot-
to in fiamme. Gli abiti volarono nell'aria, brandelli di indumenti si sparpagliarono al vento. «Accidenti, che cosa cercavi di fare?» chiese Nate rivolgendosi a Tanya. «Sembrava morto.» «Gesù!» «Avremmo potuto avere un bell'arrosto...» commentò Liz. «Avremmo potuto avere una bella accusa di omicidio. Dio santo! Su, andiamocene di qui.» Lasciarono il troll che barcollava sulla passeggiata illuminata dalla luna e si allontanarono. 2 «Oh, oh! Belle gambe.» Dave gettò un'occhiata in direzione della voce e vide che usciva da un calzino verde sulla mano di una mendicante. Seguitò a camminare. Se Joan aveva sentito il commento sulle sue gambe, fece finta di niente, proprio come di solito ignorava gli sguardi di approvazione, le osservazioni e i fischi di ammirazione che di regola si attirava durante il giro di pattuglia sul viale. «Ha ragione», disse Joan. «Hai proprio delle splendide gambe.» Dave si fermò. Guardò indietro verso la vecchia mendicante. Sedeva su una panchina a gambe incrociate, teneva la faccia bruna girata e fissava una giovane coppia che passava. I due accelerarono il passo senza guardarla. Nonostante il caldo, la vecchia aveva addosso una coperta che le copriva la testa come un cappuccio e le drappeggiava le spalle. Sotto la coperta si vedeva una maglietta sporca piena di buchi. Sulla panchina c'era un piatto giallo di plastica con alcune monete. «Coraggio», suggerì Joan. «Dalle un dollaro. Ha fatto un complimento alle tue gambe, no?» «Alle tue», ribattè Dave. «Che cosa ha detto?» «Non lo so, e non me ne importa. È una povera pazza.» Dave tornò indietro fino al punto in cui c'era la mendicante. Lei lo guardò attraverso le ciocche di capelli grigi che le penzolavano sugli occhi, poi abbassò lo sguardo. Ma il calzino infilato sulle dita, che dava l'idea di un pupazzo, si girò verso di lui. «Gambe da poliziotto, oggi qui, domani là. Gambe da poliziotto con ab-
bronzatura al Coppertone», biascicò il calzino pupazzo. Poi, di colpo, il pupazzo pizzicò la coscia di Dave e fece per infilarsi verso l'inguine. «Enoch è morto. Ammazzato.» Dave si tirò indietro di colpo. Il calzino gli agguantò l'orlo degli slip, perse la presa. «Maledizione!» sbottò Dave. Joan scoppiò a ridere. Dave si allontanò di corsa senza guardare la vecchia. «Tecnica d'interrogatorio di prima classe!» commentò Joan senza smettere di ridere. «Ha cercato di infilarmi la mano sotto i pantaloni!» «Cercava la tua pistola.» Dave non poté fare a meno di rabbrividire. «Dovremmo portarla dentro per aggressione a un agente?» «Lascia perdere, amico. Ridici sopra.» Lui sentiva ancora quel dannato calzino. Si sfregò la coscia con la mano. «Io non mi sarei avvicinata tanto», riprese Joan, «tranne che per ammanettarla. E avrei portato i guanti. Magari una maschera antigas. Quella gente ti risucchia. Dovremmo liberarci di loro, fino all'ultimo.» «Allora entra nella banda dei cacciatori di troll.» «Detto fra noi, preferirei arruolarmi con loro, piuttosto che incontrare i troll per caso. Ma adesso vado a prendermi un hot dog. Ne vuoi uno anche tu?» Dave si guardò la mano. Non sembrava sporca, ma si era sfregato la coscia dove il calzino lo aveva toccato. Però aveva fame. Erano di pattuglia a piedi fin da quando il parco dei divertimenti aveva aperto alle dieci, circa tre ore prima. «Sì, prendimene uno. Io vado a lavarmi.» «Usa un bel po' di sapone. È difficile togliere le impronte di un troll.» «Spiritosa. Piantala, Joan!» Dave lasciò la sua socia in fila davanti al chiosco degli hot dog e si diresse verso la toilette degli uomini più vicina. Funland disponeva di due toilette, ognuna vicino alle due estremità della passeggiata. Questa era la sesta visita che Dave faceva nel reparto uomini. Quando erano di pattuglia, i due agenti facevano regolari fermate: Dave ispezionava la toilette degli uomini, Joan quella delle donne. Spesso vi trovavano persone di ogni specie. Dave entrò nel reparto uomini con la solita cautela. La toilette sembrava deserta, c'era solo un ragazzino di circa dieci anni. La porta di un camerino era chiusa. Dave si abbas-
sò e guardò sotto. Vide soltanto un paio di piedi coperti dai jeans. Quando si rialzò notò il ragazzino che lo osservava. «Ti sei divertito, oggi?» gli chiese Dave avvicinandosi al lavabo. «Le pistole bazooka sono fantastiche.» Dave sorrise. «Piacciono anche a me. Fanno saltare in aria le palle da tennis.» Prese un asciugamano di carta, lo inumidì e cominciò a sfregarsi la gamba. «È vera la pistola che porti?» chiese il ragazzo. «Una Smith & Wesson calibro 38.» «Sei un poliziotto?» «Naturale, non ti sembra? Mi hai preso per uno che va in giro a sudare per il caldo?» Il ragazzo sorrise e puntò il dito al distintivo blu che spiccava sulla maglietta di Dave. «E quella sarebbe una divisa? La porti sempre?» «Solo quando sono di pattuglia nel parco e quando fa caldo. Altrimenti indossiamo la solita divisa blu della polizia.» «Buffo.» Dave era abituato a simili commenti. Il suo berretto blu somigliava a un berretto da baseball. I calzoncini corti erano dello stesso colore, come i calzini e le scarpe. Il cinturone alla vita, completo di pistola, radio e manette, dimostrava chiaramente che era un agente di polizia. «Bella divisa, però», ammise il ragazzino dopo una lunga ispezione. Poi si lavò le mani e se le asciugò. «Anch'io farò il poliziotto.» «Magnifico. Chissà che un giorno non ci ritroveremo.» «No. Io vengo da Los Angeles e mi arruolerò in quel dipartimento.» Il ragazzino se ne andò e Dave si lavò a sua volta le mani, sorridendo nel ricordare il consiglio di Joan, e cioè di usare parecchio sapone. Il suo sorriso svanì quando ripensò alla vecchia mendicante. Devi cercare di mostrarti civile con quelle persone... Gloria ne va pazza. Dovrei presentarle la strega con il pupazzo, pensò. Sono esseri umani, Dave. Allora perché non si comportano come tali? Fantastico, si disse Dave. Sto discutendo con Gloria che non è nemmeno qui. Se lei avesse la metà del fascino di Joan... Lascia stare. Si asciugò le mani e uscì alla luce del sole. Trovò Joan seduta a un tavolo rotondo all'estremità del viale. Aveva un hot dog infilzato su uno stec-
chino e una lattina di Coca-Cola. Sul tavolo c'erano altri due panini e un sacchetto di patatine, con una Coca-Cola più grande. Dave sedette di fronte alla collega. «Vuoi farmi ingrassare?» le chiese. «Devi crescere, non si può vivere di piselli e formaggio.» «Dovresti vedere che cosa mi ha dato da mangiare lei, ieri sera.» «Vuoi farmi perdere l'appetito?» borbottò Joan, attaccando il suo hot dog. Osservandola, Dave si sentì l'acquolina in bocca. Prese a mangiare il panino e con un sospiro disse: «Questo sì che è vero cibo!» «Che delizia ti ha preparato Gloria, ieri sera?» «Verdura fritta.» «Ma che cos'era?» Con un sorriso malizioso negli occhi, Joan inghiottì un grosso boccone. «Germi di bambù, funghi e piselli. Il tutto condito con salsa di soia», spiegò Dave. «I funghi non sono cattivi», fu il commento di Joan. «Però andrebbero meglio come contorno di una bistecca.» «Per favore, non parlare di bistecche.» «Senti», riprese Joan. «Quella vecchia mendicante ha fatto certe allusioni come se ieri sera i cacciatori di troll avessero colpito di nuovo. Ha parlato di un certo Enoch.» «Già», convenne Dave. «Io non credo che i 'troller' uccidano.» «Non ancora», ammise Dave. «Comunque, non lo sappiamo.» «Non ce li vedo a uccidere qualcuno», ragionò Joan. «Un conto è dar la caccia ai vagabondi, ma l'omicidio è un'altra cosa.» «Il passo non è poi così lungo. Guarda com'è cominciata: prima acchiappavano i vagabondi e li cacciavano dalla città. Ora, però, le cose si sono complicate.» «È vero, sono passati agli scherzi crudeli», convenne Joan. «E a qualche pestaggio. Prima o poi finiranno con l'ammazzare qualcuno.» «Non credo che si arriverà a tanto», disse Joan, agitando la cannuccia nella Coca-Cola. «Qualche sera fa hanno legato quel vagabondo. Non lo avrebbero fatto se avessero già cominciato a uccidere i troll e a liberarsi dei loro corpi.» Consumato il pasto, Joan raccolse le carte e le lattine e gettò il tutto nel
bidone dei rifiuti. Il sedile le aveva lasciato due segni rossi dietro le gambe. Dave si ritrovò a fare un confronto fra la sua collega e Gloria. Joan era più alta, aveva carne e muscoli dove Gloria era piatta. La pelle di Joan era luminosa, quella di Gloria pallida e opaca. Joan irradiava sicurezza e forza, mentre Gloria sembrava animata solo da energia nervosa. «Hai in mente di restartene seduto lì a sognare a occhi aperti?» chiese Joan. «Uh, uh. Divagavo.» Dave si alzò e ripresero il loro giro. Ma lui seguitò a fare confronti fra Joan e Gloria. «Agente?» Un'occhiata e Dave capì che i quattro uomini che sogghignavano a Joan erano marinai. Non indossavano la divisa, ma i capelli tagliati corti e i visi infantili li tradivano. Davano l'impressione che si divertissero un mondo. «Desiderate?» chiese Joan. «Possiamo scattarle una foto? Una sola, okay? Con ciascuno di noi. Ci farebbe proprio un favore. Che ne dice, eh? Sappiamo che è in servizio, ma ci imbarchiamo fra un paio di giorni per il Golfo Persico e...» «Perché no?» disse lei. Dave non poteva crederci. Senza essere imbarazzata né seccata, Joan lasciò che quello che sembrava il capo del gruppetto si mettesse in posa accanto a lei. I marinai, felici e contenti, si fecero fotografare a turno abbracciati a Joan e infine si congedarono con mille ringraziamenti. «Buon viaggio, ragazzi», augurò lei agitando la mano. Loro si allontanarono ringraziando di nuovo, e Joan aprì una custodia di pelle nel cinturone. Tirò fuori gli occhiali da sole e li inforcò prima di rivolgersi a Dave. «Bravi ragazzi.» «Li hai fatti felici», osservò Dave. «Ora muoviamoci. Dobbiamo mantenere l'ordine.» 3 Jeremy Wayne scendeva la collina sulla sua velocissima Schwinn, sorridendo nel vento, con la camicia aperta che gli svolazzava dietro. Si sentiva libero ed eccitato. Stava per andare a Funland. C'era stato la sera prima, dopo aver aiutato a schiodare le casse nella nuova casa, ma era in compagnia di sua madre. «Un'occhiata veloce», ave-
va detto lei. Avevano passeggiato sul viale senza fermarsi a nessun chiosco. «Ci sarà tempo in seguito», aveva dichiarato la mamma. Vale a dire adesso, pensava Jeremy. Svoltò, lasciandosi dietro il quartiere residenziale. Pedalò davanti a una fila di motel, negozi di souvenir, mercati e bar. Le auto nelle strade erano quasi sempre occupate da ragazzi, con le radio che andavano a tutto volume. Le persone sui marciapiedi indossavano abiti da spiaggia. Troppo bello per crederci. Lui era stato contento di trasferirsi da Bakersfield. Questo posto era favoloso, un luogo di vacanze. E sarebbe vissuto lì, a un paio di chilometri da Funland e dalla spiaggia. Giugno non era ancora finito; lo aspettava tutta l'estate, giorni interminabili in cui avrebbe fatto tutto ciò che gli piaceva: esplorare il parco dei divertimenti, sdraiarsi sulla spiaggia, guardare le ragazze. Incredibile. Pedalò lungo il grande parcheggio. Ormai non si vedevano più edifici e Jeremy poteva scorgere la lunga distesa di Funland. Vide l'arco del cancello principale con la faccia sogghignante di un clown posta in cima. Ai lati dell'entrata si vedevano le pareti dei retro dei chioschi e degli stand. Le montagne russe, il salto con il paracadute, gli scivoli, il mammut, la ruota di Ferris. Jeremy sapeva che non era Disneyland o la Montagna Magica. Lui era stato nei migliori parchi di divertimenti e Funland di Boleta Bay era piccolissimo al confronto. Piccolo e primitivo. Ma era suo. E, cosa più stimolante, non era commerciale come gli altri posti. Qui poteva accadere di tutto. Il ragazzo provò una grande eccitazione mentre scendeva dalla bici all'inizio del parcheggio. Assicurò il veicolo con la catena alla rastrelliera e si diresse verso il cancello principale. Entrò subito. Ecco un altro pregio di questo luogo, pensò. Non si doveva pagare per entrare. Certo, se uno si fermava ai chioschi o agli stand qualcosa doveva pur spendere, ma l'ingresso era gratuito. Proseguì e cominciò a vedere subito dei tipi poco raccomandabili. Un tale dal viso emaciato, con un cappello di paglia da cowboy tutto schiacciato come se vi fosse passato sopra un cavallo. Fra le labbra gli pendeva una sigaretta spenta e dava l'impressione di non essersi sbarbato da tre o quattro giorni. Poi un grassone barbuto vestito da ciclista, con un paio di jeans
stracciati, senza camicia, con un giubbotto senza maniche e un tatuaggio sul braccio. Con lui c'era una donna magra, vestita allo stesso modo. Di certo questa non era la folla che si vedeva a Disneyland. C'erano anche persone dall'aspetto pulito, tipi perbene, ma per la maggior parte erano tutti individui con vecchi jeans sdruciti e camicie sudice. Jeremy si accorse che l'eccitazione si stava trasformando in disagio. Quella non era Disneyland. Poteva succedere di tutto. Desiderò di non essere venuto a Funland. La sera prima era andato tutto bene, ma era con sua madre. Accidenti, pensò Jeremy, non sono più un bamboccio che non sa andare in giro senza la mamma. Ho sedici anni! Non sarebbe successo niente, pensò. «Ehi, amico.» Jeremy si fermò di botto quando un mendicante gli si parò davanti e gli sorrise con i denti anneriti. «Ehi, amico, dammi qualche spicciolo. Hai l'aria di un bravo ragazzo, eh?» Il barbone tese la mano sudicia. «Solo un quarto di dollaro, aiutami.» Jeremy rabbrividì. «Non ho monete, mi dispiace», borbottò. «Allora dammi un dollaro, ragazzo.» La mano tesa del vagabondo si alzò e si abbassò. «Sei un bravo ragazzo, no? E io non mangio da...» «Fila via, cane rognoso!» Jeremy sobbalzò e barcollò all'indietro mentre qualcuno gli passava davanti per percuotere il barbone con un cappello da cowboy. «Fila via! Via!» Il vagabondo, coprendosi la testa con le mani, si affrettò ad allontanarsi. Il ragazzo, che sembrava della stessa età di Jeremy o un po' più vecchio, corrugò la fronte e spolverò il cappello. «Adesso troverò i pidocchi sul mio cappello», mugugnò. «Mi dispiace.», disse Jeremy. «È così che bisogna trattare i rifiuti.» Il ragazzo si piantò il cappello in testa e piegò la tesa con le mani. Poi sorrise e allungò la mano a Jeremy. «Mi chiamo Gibson, George Gibson. Gli amici mi chiamano Cowboy.» Jeremy gli strinse la mano. «Io sono Jeremy Wayne.» «Ehi, Wayne come il 'Duke', l'attore!» «Grazie per avermi liberato da quel barbone.» «Non c'è di che, Duke. Posso chiamarti Duke? Jeremy è troppo pomposo. Come George, del resto. Odio questo nome. Sei qui con qualcuno?» Jeremy esitò. Il ragazzo gli sembrava cordiale, ma forse mirava a qual-
che cosa. Forse era d'accordo con il vagabondo e quello era soltanto un trucco per spillargli quattrini. «Senti, se sei in compagnia della tua ragazza, basta che tu lo dica.» «Sono solo», rispose Jeremy. Cowboy gli diede una pacca sul braccio. «Accidenti, anch'io. Ti accompagno a fare un giro. Hai l'aria di uno in cerca di un amico.» «Non lo so. Io...» «Andiamo!» Cowboy riprese a camminare, i suoi stivali battevano sulla passerella di legno. Jeremy si mise al suo fianco. Perché no? si disse. Questo qui sembra a posto, chiede solo che si diventi amici... «Da dove vieni, Duke?» «Be', adesso abito qui. Ci siamo appena trasferiti.» «Ah, sì? E dove?» «Qui a Boleta Bay.» «Ho capito, ma dove esattamente?» Perché vuoi sapere il mio indirizzo? «Non lo so», mentì Jeremy. «A pochi isolati, su una collina.» «Io abito a Lilac Lane, la via dei lillà. Strano nome per una strada, eh?» Jeremy sapeva dov'era la via, si trovava a un isolato a nord di Poppy. Quel ragazzo era un suo vicino di casa. «La nostra casa è a Poppy.» «Che mi venga un accidente!» esclamò Cowboy mollando un'altra pacca sul braccio di Jeremy. «Che classe fai?» «Il primo anno.» «Anch'io!» «Il mondo è piccolo», concluse Jeremy. «Speravo proprio di trovare qualcuno che mi facesse i compiti di scuola.» «Non attacca. Senti, hai mai assaggiato una cialda al gelato di cioccolata?» Jeremy scosse la testa. «Vieni! Offro io.» Al chiosco Cowboy prese un fascio di banconote dai jeans e ordinò due Super Waffle. Tre dollari e cinquanta l'uno. «Be', grazie», disse Jeremy mentre Cowboy gli allungava un cono al cioccolato e maraschino. «Non si deve circolare a stomaco vuoto, Duke», sentenziò Cowboy. «Dove andiamo?» «Alla vasca.» Proseguirono e Jeremy si sentì più sicuro. Ora Jeremy non temeva più di
essere importunato dai vagabondi. C'era un nuovo amico con lui. Cowboy salutò alcuni amici, fra cui dei ragazzi davanti ai videogame. Sembrava conoscere un sacco di gente, comprese parecchie ragazze. «Ehi, guarda là!» gridò improvvisamente Cowboy, risvegliando Jeremy dalle sue riflessioni. Una ragazza gli sorrise e agitò la mano in segno di saluto attraverso le sbarre di una gabbia. Sedeva su una stretta piattaforma, dondolando le gambe. Sotto c'era una vasca piena d'acqua con una parete di vetro davanti. Mentre la ragazza salutava, una pallina colpì il centro del bersaglio, la piattaforma s'inclinò e lei cadde in acqua. Jeremy la vide scendere verso il fondo in un turbinio di bollicine. L'acqua le sollevò la maglietta fino al ventre e i lunghi capelli neri sopra la testa. Toccò il fondo della vasca e agitò il pugno in direzione del cliente che aveva centrato il bersaglio. Poi, con l'acqua che le scivolava intorno alle spalle, andò a guado fino a una scaletta di metallo di fianco alla vasca e si arrampicò. Le sue gambe bagnate luccicavano. Jeremy notò il bordo delle mutandine sotto gli short. Aveva la camicia incollata al dorso, i capelli gocciolanti le scendevano fra le scapole. Allontanandosi dalla scaletta, la ragazza riprese posto sulla sua piattaforma. Cowboy le presentò Jeremy. «Il mio amico Duke. È appena arrivato, ci siamo conosciuti poco fa.» «Piacere, Duke», disse la ragazza. «Piacere.» Cowboy cominciò a lanciare le palline e la ragazza cadde di nuovo in acqua. Cowboy sorrise. «È l'unico modo per lavarla. Non fa mai il bagno.» «Fa' provare a Duke», suggerì la ragazza dopo essere risalita. Cowboy offrì all'amico l'ultima pallina. «Non fa niente», disse Jeremy. «Lanciala tu.» «Su, non farti pregare», gridò Lizzie. Così si chiamava la ragazza. Con un sospiro, Jeremy consegnò il cono gelato a Cowboy e prese la pallina. È il principio della fine, pensava. Farò una figuraccia. Colpì il bersaglio ma la pallina rimbalzò via. Lizzie non cadde in acqua. «Dovevi tirare più forte», disse Cowboy con un sorriso. «Riprova.» E fece per prendere i soldi. «No, no», replicò Jeremy. «Un'altra volta. Oggi sono piuttosto stanco.
Ho spostato i mobili, ho schiodato le casse.» «Cowboy!» gridò Lizzie attraverso le sbarre. «Eh?» «Ti dispiace portare un messaggio a Tanya?» «Figurati.» «Dille di Janet. Voglio portare anche lei stasera. Chiedile se è d'accordo. Dopo, dammi un colpo di telefono e fammelo sapere.» «Va bene. Addio. E sta' attenta che non ti si raggrinziscano le tette.» Lei parve fulminarlo con gli occhi. «Muoviamoci, Duke», suggerì Cowboy. I due ragazzi si allontanarono e Jeremy offrì a sua volta un cono al nuovo amico. Attraversarono lo spiazzo e scesero gli scalini di cemento verso la spiaggia. 4 «C'è qualcuno che sa suonare il banjo», disse Dave. La musica si sentiva appena in mezzo al frastuono dei baracconi, le voci e le risate della gente, i colpi dei bazooka. Sembrava venire da qualche parte, più avanti. Dave vide una cerchia di spettatori quasi in fondo alla passerella di legno. «Andiamo a vedere.» «Un trucco per interrogare i troll», precisò Joan. Dall'ora di pranzo avevano avvicinato in tutto sette vagabondi. Nessuno aveva ammesso di conoscere un uomo di nome Enoch. Quando avevano domandato se la sera prima fosse successo qualcosa di strano, uno aveva risposto di aver visto una navicella spaziale del pianeta Mogo con una creatura simile a una lucertola, della grandezza di un uomo, con un tubo in gola che succhiava il contenuto del suo stomaco. Un altro aveva detto di esser stato afferrato da un paio di albini che avevano cercato di trascinarlo sotto la passerella. Una donna aveva raccontato che era stata visitata dalla Madonna che le aveva dato una pietra grigia dicendole che dentro c'era un brillante. Mentre raccontava la sua storia, la donna rosicchiava il sasso come se fosse una noce che si proponeva di rompere con i denti. Un altro uomo aveva borbottato parole incoerenti, un altro ancora aveva fissato i due poliziotti, mormorando qualcosa a proposito di assassini. Soltanto uno era apparso abbastanza razionale e aveva dichiarato di aver dormito tranquillamente fra le dune.
Joan aveva continuato a sospirare e a rovesciare gli occhi al cielo. Aveva spiegato a Dave che sarebbe stata solo una perdita di tempo interrogare i barboni del parco dei divertimenti. Ma non era stata una totale perdita di tempo. Dave sentì che il pubblico applaudiva il suonatore di banjo. Soltanto due persone si allontanarono, gli altri restarono; alcuni si fecero avanti, probabilmente per gettare una moneta al suonatore. Mentre Dave e Joan si avvicinavano, sentirono le note della canzone When the Saints Go Marching In. Joan rimase al fianco del collega mentre lui cercava di aprirsi un varco nella folla, in modo da poter vedere lo spettacolo. Due barboni, notando le divise della polizia, si staccarono dal cerchio e se la filarono. Dave e Joan occuparono i loro posti. La musica veniva dal banjo di una ragazza che non dimostrava più di diciotto anni. Stava eretta come se fosse sull'attenti, il peso del corpo su una gamba, l'altra gamba in avanti batteva il tempo mentre suonava. Il banjo sembrava pesante, più grande di quelli che Dave aveva visto, con un robusto rivestimento esterno di metallo. Le pendeva sul ventre da una cinghia colorata. La custodia dello strumento, aperta davanti alla ragazza, era piena di monete e banconote. Accanto alla custodia c'era uno zaino. La musica finì, il pubblico applaudì calorosamente. La ragazza chinò la testa e abbassò le braccia lungo i fianchi. Sebbene tenesse la testa china, Dave la sentì mormorare dei ringraziamenti a chi le offriva il suo contributo. Sembrava timida come una bambina di sei anni su un palcoscenico a una recita scolastica. Quando alzò la testa fissò un bambino che stava accanto a Dave e cominciò a suonare: Puff, il Drago Magico. «Veramente brava», sussurrò Joan. «È vero.» Per tutta la durata della canzone la ragazza tenne la punta della lingua protesa dall'angolo della bocca. A Dave parve molto giovane e vulnerabile. Lo zaino indicava che era una vagabonda. Dave osservò le persone raccolte attorno alla ragazza, cercando di individuare qualcuno che l'accompagnasse. Nessuno gli parve un compagno o un parente. Probabilmente lei girava sola. E dormiva all'aperto. Prima o poi, una vittima sicura.
A distanza poteva essere scambiata per un maschio. Aveva i capelli cortissimi e biondi, un corpo minuto con i seni che si vedevano appena quando appoggiava il banjo sullo stomaco. Era stata fortunata a essere sopravvissuta a Boleta Bay, pensò Dave. Portava scarpe chiuse fino alle caviglie e un paio di jeans sbiaditi, con uno strappo da cui si vedeva la pelle di una coscia. Le maniche della camicia azzurra erano state tagliate, al collo una collanina di minuscole conchiglie bianche le arrivava sul petto. Portava grandi orecchini e una fascia rossa intorno alla testa. Una tenuta che i ragazzi adottavano per giocare ai pirati. O forse quella di una hippie. Spesso gli adolescenti di Boleta Bay si vestivano come troll. E agivano di conseguenza. Questa ragazza va in cerca di guai, pensò Dave, mentre la musica finiva. Mentre il pubblico applaudiva, lui si fece avanti con altri spettatori e lasciò cadere una banconota da cinque dollari nella custodia del banjo. Lei lo ringraziò. Dave le si fermò davanti. La ragazza lo guardò con occhi sereni. «Agente?» «Dove hai imparato a suonare così?» «Da mio padre.» «Sei bravissima.» «Grazie. C'è qualche problema?» «Ho notato che hai uno zaino. Hai intenzione di dormire all'aperto?» «Credevo che fosse permesso. È illegale?» «Esiste un'ordinanza locale, ma di solito chiudiamo un occhio. Sei con un'amica?» Lei scosse leggermente la testa. I suoi occhi non si distolsero neppure per un attimo da quelli di Dave. «Lasciala in pace», gridò qualcuno da dietro. «Maledetti piedipiatti!» aggiunse un'altra voce. «Lei non fa male a nessuno.» «Perché non arrestate qualcun altro?» La ragazza alzò una mano per far finire le proteste. «Voglio solo avvertirti», riprese Dave, «che da qualche tempo abbiamo dei guai con dei ragazzi che di notte aggrediscono la gente. Danno la caccia ai vagabondi e ai barboni. Non è sicuro accamparsi in questa zona. Non vorrei che quei ragazzacci ti saltassero addosso. Loro...» «Piantala di tormentarla!» «Per favore!» gridò lei guardando verso la folla. «Non mi tormenta af-
fatto. Fra un minuto riprendo a suonare.» «Grazie», disse Dave. «Ci sono tanti motel qui vicino. Dovresti andare in un motel. Puoi permetterti la spesa? Qualcuno costa solo trentacinque, quaranta dollari per notte. E c'è un ostello per la gioventù in Clancy Street. Dev'essere a buon mercato.» «Non so...» La ragazza abbassò gli occhi. «Ci penserò, agente. Apprezzo la sua...» «Dave. Chiamami Dave.» «Io sono Robin.» «Robin.» Bel nome, le stava a pennello. «Ho la sensazione che non ascolterai il mio consiglio.» Lei si strinse nelle spalle. Dave tirò fuori di nuovo il portafoglio. Estrasse una banconota da venti dollari e gliela allungò. «Prendi questi, okay? E trovati una stanza per la notte.» Robin gli strinse le dita sul dorso della mano e la scostò gentilmente. «Non posso. Grazie, comunque. Di cuore. Sono troppi soldi, mi hai già dato cinque dollari. Ti ho visto. Ma non accetto l'elemosina da nessuno. Okay?» «Non voglio che incappi in qualche banda di mascalzoni.» Negli occhi azzurri di lei lesse un lampo di paura. «Starò attenta», promise la ragazza. A casa mia, pensò improvvisamente Dave. Potrebbe venire a casa mia. Non fare l'idiota. Lei penserà che voglia fotterla. «Decidi tu», riprese. «Se non vuoi andare in una stanza cercati almeno un nascondiglio, magari fra le dune, lontano dalla spiaggia, dove nessuno ti noterà. E non avvicinarti al parco dei divertimenti dopo l'ora di chiusura. Di solito colpiscono in quella zona.» «Starò lontana», promise lei. «Mi troverò un buon posticino per nascondermi.» Sorrise prima di aggiungere: «Lo faccio sempre. Mio padre mi ha insegnato a non comportarmi da sciocca». «Bene. Allora buona fortuna, Robin.» Lei allungò la mano e gliela posò sul braccio. «Grazie», disse. Dave fece per allontanarsi. Qualcuno fra il pubblico lo fulminò con gli occhi. Alle sue spalle, Robin disse: «Questa canzone è dedicata all'agente Dave». Joan lo guardò con aria interrogativa. «Che cosa dovevi dirle?» chiese. Prima che lui potesse rispondere, il banjo riprese a suonare. Dave si girò.
Lei lo guardava, dall'angolo della bocca spuntava la punta della lingua. 5 «Dove andiamo?» volle sapere Jeremy. «Da Tanya», rispose Cowboy. «Che ne pensi di Liz?» «La conosci bene?» «Vuoi scherzare? È la mia ragazza.» «La tua ragazza?!» «Sicuro, Duke.» «Niente male. Ha una sorella, per caso?» «No. Però ha una cugina. Janet. Forse la conoscerai stasera. Lei e alcuni miei amici. Se vuoi lo dico a Tanya e sentiamo se è d'accordo.» Camminavano a zigzag sulla sabbia, facendosi strada fra i bagnanti che prendevano il sole, allungati sui teli o sulle stuoie. Soprattutto ragazze. Alcune supine, senza niente addosso tranne i costumi ridottissimi, la pelle lucida per l'olio abbronzante. Altre a faccia in giù, la schiena scoperta, il top del bikini slacciato. Qualcuna leggeva un libro o una rivista, altre chiacchieravano con gli amici, altre ancora dormivano. C'erano poi ragazze che flirtavano con il boyfriend come se fossero soli sulla spiaggia. Cowboy rivolse un largo sorriso a Jeremy. «Benvenuto a Boleta Bay.» «Mi piace questo posto.» «Se ti piace adesso, aspetta di vedere Tanya», ridacchiò Cowboy e riprese a camminare. «Chi è questa Tanya?» volle sapere Jeremy. «La ragazza di Nate. Aspetta e vedrai. Ci sono dei ragazzi che hanno cercato di annegarsi solo per essere salvati da lei.» «Uh? Sei innamorato di lei?» «Trovamene uno che non lo sia. Conosco perfino delle ragazze che vanno pazze per Tanya.» «Ma lei è la ragazza di Nate, hai detto.» «Eh, già, accidenti a lui. Ricordo che volevo ucciderlo perché lei fosse libera, ma Nate è il mio miglior amico.» «Neppure Liz avrebbe approvato», osservò Jeremy. «Be', tanto non succederà. L'unico modo per avere un'occasione con Tanya sarebbe quella di crescere di qualche centimetro e cambiar faccia.» «Potresti drogarla.» «Drogarla?» Cowboy si levò il cappello e lo sbattè sul braccio di Je-
remy. «Che cosa credi, che sia un depravato? Cristo!» Jeremy era raggiante. Il suo consiglio di drogare Tanya aveva fatto centro. «Non vedo l'ora di conoscerla», continuò Jeremy. «Eccola.» Con il fondo del suo cono gelato Cowboy indicò la baracca dei bagnini a breve distanza da lì. Era una palafitta dipinta di bianco, con una scaletta di legno che portava a un ponte sul lato dell'oceano. Una ragazza stava in piedi sul ponte, le braccia sulla ringhiera. «È lei?» chiese Jeremy. «Indovinato.» Si avvicinarono. Lei teneva la testa leggermente girata, in modo da non lasciar vedere la faccia. Nondimeno sembrava fantastica. Jeremy notò che era molto alta, le lunghe gambe, nude e abbronzate, erano forti e affusolate. Indossava un paio di calzoncini corti rossi e una maglietta bianca. Né i pantaloncini né la maglietta le aderivano al corpo, ma si notavano ugualmente le curve. I suoi capelli, raccolti a coda di cavallo, luccicavano come oro. «Ehi, Tanya!» gridò Cowboy dai piedi della scaletta. Lei girò la testa e guardò giù. Portava degli occhiali da sole che le nascondevano gli occhi. Jeremy vide che il viso era splendido come il corpo. Magnifico, semplicemente. Zigomi alti, naso diritto, la pelle così abbronzata che i denti sembravano bianchissimi. Bocca larga, labbra carnose e sensuali. «Ciao, Cowboy», gridò Tanya. La sua voce era bassa e chiara. «Sempre d'accordo per stanotte?» chiese Cowboy. Lei girò leggermente la testa verso Jeremy. A lui parve di sciogliersi in un liquido caldo. Avrebbe voluto vederle gli occhi. «Non preoccuparti di Duke. È fidato. Anzi, mi ha chiesto lui di venire. Gli ho detto che avrei dovuto avere la tua approvazione. Liz vuole sapere se può portare sua cugina.» «No.» Jeremy sentì un nodo alla gola. Avrebbe dovuto immaginarselo, sembrava troppo facile. Lei ha capito che sono un timido, un incapace. Cristo! si disse. Tanya si scostò dalla ringhiera, si avvicinò all'ultimo gradino della scaletta e guardò Cowboy accigliata. «È una questione privata. Nessun abitante di altre città. Tu e Liz dovreste saperlo.»
«Be', ma Duke abita qui. Si è appena trasferito.» Lei si tolse gli occhiali e guardò Jeremy. L'azzurro dei suoi occhi era simile al cielo del pomeriggio. Studiò attentamente Jeremy. Lui si sentì piegare le gambe. «Niente mocciosi», disse Tanya. Quelle parole gli raggelarono la mente. «Ehi!» gridò qualcuno a Tanya. Era lui, Jeremy. «Vai a farti fottere!» Era sempre lui. Aveva ancora in mano il cono gelato con un po' di vaniglia e cioccolato sul fondo. Jeremy lo lanciò. Il cono colpì la coscia dorata di Tanya, il gelato prese a gocciolare. Jeremy sbatté le palpebre. Non poteva credere a ciò che aveva fatto. «Gesù, Duke!» sentì mormorare Cowboy. Pensò di scappar via. Invece rimase impalato con le mani lungo i fianchi. Tanya gli agguantò il davanti della camicia e lo sollevò sulle punte dei piedi, fissandolo negli occhi. «Piccolo verme», sibilò. «Vai a farti fottere, sorella», ripetè Jeremy. E di nuovo non riuscì a credere di aver parlato così. Adesso mi uccide, pensò. Lei, invece, gli sfilò la camicia dalle spalle e gliela cacciò in mano. «Pulisci», ordinò. «Eh?» «Mi hai sentito benissimo.» La ragazza lo afferrò per le spalle e lo costrinse a inginocchiarsi. Jeremy guardò gli short gocciolanti, il gelato che scivolava giù per la coscia. Cominciò a pulire dal ginocchio, asciugando il gelato con la camicia. Sentiva i suoi muscoli sodi. Lui aveva la bocca arida e il cuore gli batteva forte. Si fermò all'orlo dei calzoncini e rigirò la camicia per trovare un punto asciutto, poi asciugò il davanti degli short. «Non hai ancora finito.» «Eh?» «Finisci di pulire.» Lui avvolse un lembo della camicia intorno alle dita e infilò la mano dentro i calzoncini. La stoffa si inumidì. Oh, Dio, così vicino... Non farlo, accidenti.
Jeremy tirò via la mano. Piegò indietro la testa e guardò su. «Che dici?» chiese lei. Lui si strinse nelle spalle. «Che dici?» «Grazie infinite», borbottò Jeremy. «Uau!» Il commento venne da Cowboy. «Alzati!» Jeremy si alzò. Tanya increspò le labbra in un sorriso. «Stanotte all'una. Sotto il clown.» «Vuol dire che posso venire?» «Sì, certo.» Gli occhi azzurri di lei avevano un'espressione vagamente divertita. «Cowboy, spiegagli le regole. E di' a Liz di lasciare a casa sua cugina, o di non venire neppure lei.» 6 I MOSTRI FRA NOI di Gloria Weston Il suo nome è Harrison Bentley. Gli amici lo chiamano Bents. Altri lo definiscono un troll. Alcune sere fa è stato picchiato, spogliato degli abiti e legato con una fune sui binari delle montagne russe a Funland. Sulla fronte aveva incollato un biglietto. Sopra c'era scritto: «Tanti saluti dal Great Big Billy Goat Gruff». Il poveraccio per poco non è stato investito da un vagoncino: per fortuna è stato scoperto in tempo ed è stata evitata una tragedia. L'uomo è stato portato al pronto soccorso dell'ospedale. Aveva numerose contusioni e abrasioni, una spalla slogata, due costole e il naso rotti. Le ferite potranno rimarginarsi con il tempo. Ma è improbabile che il tempo cicatrizzi le ferite più profonde: l'umiliazione di esser stato denudato e brutalizzato, il terrore d'essere scagliato fuori dai binari delle montagne russe. Sono ferite che non si cicatrizzeranno mai. Harrison Bentley è stato colpito per sempre. Perché? Noi sappiamo perché, brava gente di Boleta Bay. Tutti noi sappiamo
perché. Lui ha commesso un crimine ed è stato debitamente punito. Quale tremendo crimine ha commesso quest'uomo? Noi tutti conosciamo la risposta. Era colpevole di essere senza casa. Era un «troll». Non è la prima vittima dei delinquenti che scorrazzano per la nostra città, specialmente sulla spiaggia e sulla passerella del parco dei divertimenti. È solo la più recente. Le autorità locali sono a conoscenza di almeno venti casi in cui i vagabondi sono stati assaliti da vigilantes minorenni. I primi attacchi, cominciati la scorsa estate, erano miti a confronto della brutalità con cui è stato torturato Bentley. Allora le vittime venivano legate, imbavagliate e trascinate fuori città. Con l'avvertimento di non rimettere piede a Boleta Bay. Ben presto, tuttavia, i vagabondi hanno subito pestaggi selvaggi e sono stati abbandonati dove cadevano, nei vicoli, nel viale di Funland, sulla spiaggia. Sempre con il biglietto della banda Great Big Billy Goat Gruff. Quattro settimane fa un appassionato di jogging ha trovato una mendicante, conosciuta solo come Mary la Pazza, ammanettata a una ringhiera del viale. Come tanti prima di lei, Mary era stata bastonata. E derubata. Ogni centimetro del suo corpo era cosparso di vernice verde. Biff, la vittima successiva, è stato dipinto a strisce rosse e gialle. A Lucy hanno incollato le natiche su una panchina del viale, la ciotola di plastica che usava per raccogliere l'elemosina era incollata alla sua faccia. James è stato piantato su un cavallo della giostra, le mani legate dietro la schiena, un cappio intorno al collo. Harrison è stato legato ai binari dell'ottovolante. Ma non finirà con lui. La nostra banda di barbari colpirà ancora, commetterà altre atrocità, imperverserà con sempre maggior crudeltà sui senzatetto della nostra città. E noi siamo da biasimare. Siamo i loro compiici. Temiamo i barboni e gli sbandati che sembrano essere dovunque, sempre con la mano tesa a chiedere qualche soldo. Li consideriamo portatori di terribili malattie, gente che sparge il contagio con la sola presenza. E infatti un male lo diffondono. Questo male si chiama colpevolezza. Senso di colpa. Noi abbiamo case, famiglie, cibo, vestiti e innumerevoli oggetti di lusso.
Loro non hanno niente. Li detestiamo perché ci ricordano questo fatto. E vorremmo mandarli via. Anche i cacciatori di troll vogliono mandarli via, perché i troller, cioè i nostri ragazzi, reagiscono a quei barboni come reagiamo noi adulti: con paura e violenza. Così hanno inventato lo sport del «trolling». Naturalmente le nostre autorità hanno denunciato le loro attività fin dal principio. Ma molti di noi erano soddisfatti. Finalmente si faceva qualcosa per il problema dei barboni. Non abbiamo condannato gli atti di violenza compiuti contro i troll, anzi li abbiamo applauditi. Con il nostro atteggiamento cinico, con la nostra approvazione, diretta o indiretta, ci siamo comportati come membri della banda. Mi chiedo: festeggeremo anche quando un vagabondo giacerà morto sul viale, assassinato dai nostri figli? Ne dubito. Però ne avremo l'occasione. Domani, la settimana prossima o il mese prossimo, loro «uccideranno». Per noi. Un troll morirà. Un mendicante, un vagabondo, uno sbandato. Un poveraccio che balbetta parole incomprensibili, vestito di stracci e che puzza di immondizia. E può darsi che qualcuno di noi penserà che il mondo migliori, con quel troll morto. Ma gli assassini saremo voi e io. E la vittima, non illudiamoci, non sarà un troll. Non un troll, ma un essere umano, un uomo o una donna che lungo il cammino ha perso la fortuna, condannato per nascita a una vita grama o intrappolato nella rete spietata degli stupefacenti. Una persona, non un troll. Una persona. Un tempo un bambino amato dalla madre e dal padre, un bambino che cercava di star sveglio la vigilia di Natale, sperando di vedere Babbo Natale. Una ragazza che correva sui pattini o un ragazzo che scoppiava di felicità quando gli regalarono la prima bicicletta. Un bambino che amava Funland con i suoi hot dog e lo zucchero filato, con le sue arcate, i chioschi dei giochi e l'ottovolante. Questo è il nostro troll. Questa è la nostra vittima.
Lui, o lei, morirà sul viale illuminato dalla luna, una sera, con un biglietto attaccato al corpo con su scritto: «Tanti saluti dal Great Big Billy Goat Gruff». Sarebbe più giusto che sul biglietto ci fosse scritto: «Tanti saluti dal Great Big Billy Goat Gruff e dai cittadini di Boleta Bay». Dave spiegò l'Evening Post e gettò il giornale sul tavolino. Si portò alle labbra il boccale di birra e bevve un sorso. «Allora, che ne pensi?» chiese Gloria. Era seduta accanto a lui sul divano, una gamba piegata, un braccio sul cuscino. Guardò Dave con aria interrogativa, aspettando il responso sul suo articolo. «Bel lavoro», disse lui. «Non ne sei convinto.» «Di certo dovrebbe agitare le acque.» «Questa era l'idea. È una vergogna ciò che sta succedendo in questa città. Bisogna fare qualcosa.» «Sono d'accordo.» Dave finì la birra e posò il boccale. «Perché non facciamo un salto da Wharf Rat?» «Non cambiare discorso.» «Mi sta venendo fame», protestò Dave. «Che cosa pensi realmente del mio articolo?» Dave sospirò. Perché non continuare e chiudere la questione? Dirle ciò che lei si aspettava di sentirsi dire. «Non sarebbe meglio discuterne a stomaco pieno?» azzardò lui. «Lo sapevo», disse lei. «Sei uno st...» «Devi proprio usare quel linguaggio?» Ora Gloria sembrava veramente soddisfatta. «Perché, Joan non lo usa?» «È diverso.» «In che senso?» «Credevo che tu volessi discutere dei barboni.» «Ci arriveremo. Di' un po': perché a Joan è permesso usare quel linguaggio e a me no? Forse perché è 'una dei nostri'?» «Senti, stasera hai la luna storta.» «Joan parlava come un marinaio al barbecue, la settimana scorsa, e tu non hai detto bah.» «Non critico i miei ospiti.» «Ma lei può parlare a quel modo.» «Non rompere.»
«Perché io non posso dire st...?» «Detto da te suona incredibilmente falso e infantile. Come una scolaretta che cerca di impressionare i genitori.» Lei arrossì e aprì la bocca. «Bastardo!» sibilò. Dave sapeva di aver esagerato. Gloria non voleva essere umiliata. «Scusami», disse Dave mettendole una mano sul braccio. Lei scostò il braccio. «L'hai voluto tu», precisò Dave. «Va' all'inferno. Oh, scusami tanto.» Gloria si alzò dal divano e si avviò verso la porta. «Gloria!» Lei aprì la porta. «Andiamo, lascia perdere e vieni al Wharf Rat.» Gloria lo guardò. Aveva gli occhi rossi. «Ehi, non volevo offenderti, scherzavo», protestò Dave. «Certo, certo. Buon appetito.» Se ne andò sbattendo la porta. Joan fece scorrere la lampo sul davanti del vestito bianco di tela e si guardò allo specchio della camera da letto. Si vedeva una buona porzione di gambe. Era il suo primo abito nuovo da quando le minigonne erano tornate di moda. Doveva abituarcisi. «Bel vestito», disse Debbie dalla porta. Joan guardò sua sorella. «Pensi che sia troppo corto?» «Secondo me è fantastico», rispose Debbie avanzando nella stanza. «Qualche volta me lo presti?» «Certo.» Debbie non era alta come Joan, ma probabilmente l'abito le sarebbe andato bene. Difficile credere che fosse cresciuta tanto, di recente. E un po' triste anche. «Che c'è?» «Non vorrei che qualcuno dei tuoi amici ne approfittasse.» «Non dire scemenze», la rimproverò Joan. «I tuoi boyfriend non approfittano mai di te?» «Dovresti saperlo. Li vedi quanto me.» «Hai bisogno di qualcuno che ti sorvegli.» «'Tu' ne hai bisogno.» Silenzio per un secondo.
«Esci di nuovo con 'lui'?» volle sapere Debbie. «Sarà qui da un minuto all'altro.» «Fatti tuoi.» «Esatto. Harold è okay.» «Eh, eh. È perfetto. Perché non lo sposi?» «Non me l'ha chiesto», replicò Joan. Debbie sbarrò gli occhi. «Ma non lo sposeresti, vero? Voglio dire, se te lo chiedesse, lo manderesti a quel paese, giusto?» «Credo che sarei un po' più diplomatica.» «Ma non lo sposeresti?» «Ne dubito.» «Be', meno male che non sei completamente scema.» «Grazie!» «Lui non vale niente. Detto fra noi, non capisco perché tu esca con quello lì.» «Harold è una brava persona.» «Potresti trovare di meglio.» «Sì? E chi ti ha detto di farmi da madre?» sbottò Joan. Il sorriso svanì dalla faccia di Debbie. «Scusami», disse Joan. La sorella scrollò le spalle, ma era impallidita e per un momento i suoi occhi parvero furibondi. «Dove ti porta il signor Meraviglia?» «Al cinema. All'università c'è il Festival del cinema estivo.» «Eccitante.» «Dopo può darsi che andremo in qualche altro posto. Sarò a casa per mezzanotte, altrimenti ti telefono.» «Non rinunciare alla sua compagnia per colpa mia.» «Ti piacerebbe venire con noi?» suggerì Joan. «Non me lo sogno neppure. Gesù, qualcosa non va in quell'individuo.» Suonò il campanello della porta. «Arnvederci», salutò Joan. «A mezzanotte.» «Sì, e divertiti.» Joan prese la borsetta dal letto e si affrettò nel corridoio. Aprì la porta d'ingresso. Harold stava in piedi sul portico. Le guardò il viso, quasi per avere la conferma che era proprio lei, poi puntò gli occhi sul petto, come al solito. Non che trovasse il suo petto particolarmente speciale; solo che sembrava non riuscisse a guardarla in viso. «Come sta il mio poliziotto preferito?»
«Mi sento un po' troppo sfacciata, vestita così.» Lui sorrise e annuì. «Pronta?» «Sì.» Joan chiuse la porta, gli si avvicinò e gli prese la mano. Lui la strinse leggermente. «Credo che il film di stasera ti piacerà», disse Harold mentre si avviavano verso la sua Volvo. «Vuol dire che non ha i sottotitoli?» «È il Macbeth di Polanski», spiegò Harold. «Ah, sì? Credevo che l'autore fosse Shakespeare.» «Sei terribile.» Lui le aprì la portiera. Mentre saliva in macchina, Joan lo osservò. Se ne stava lì impalato e non aveva sbirciato le sue gambe nemmeno una volta. Tipico. Ma lei aveva sperato che il vestito nuovo destasse un certo interesse. Harold si mise al volante. «Che ne pensi del mio abito nuovo?» chiese Joan. «Grazioso», disse lui e accese il motore. «Senti, perché non saltiamo il cinema?» propose lei. «Ma è un classico!» Harold si allontanò dal marciapiede. «L'ho già visto. Non regge a confronto con la versione di Orson Welles. L'unica innovazione sono le ragazze che ballano quasi nude. È per questo che ci tieni tanto a vederlo?» «Non essere sciocca!» «Andiamo al parco dei divertimenti?» Lui la guardò inorridito. «Ci sei mai stato?» insistè Joan. «Una volta e ti assicuro che mi è bastato.» «Andiamoci! Sarà divertente.» «Joan, tu pattugli il parco dei divertimenti tutti i giorni. Sei fuori di testa?» «Che cosa credi che faccia quando sono in servizio, che giri sulla ruota di Ferris o che mi diverta sulle montagne russe? Lo sai che cosa ho fatto, oggi? Ho ispezionato le toilette una dozzina di volte e ho ascoltato un branco di svitati che parlavano di dischi volanti e di apparizioni della Madonna.» «È un luogo pericoloso.» «Ma noi siamo due leoni...» «E sporco. Quel parco è sporco e tu indossi un vestito nuovo... bianco,
per giunta. Te lo rovineresti dopo un minuto.» «Oh, senti, io ne ho abbastanza dei film d'arte. Su, andiamo a Funland. Ti prego. Ti compero lo zucchero filato.» «Non lo sopporto.» «Okay, non fa niente. Andiamo pure a vedere il Macbeth. Vuol dire che a Funland ci andrò una sera che sei impegnato. Chissà che non incontri un bel marinaio.» Harold si diresse a Funland. 7 Si avviarono sul viale del parco dei divertimenti. Joan non c'era più stata di sera dall'estate scorsa. Sembrava più animato con il buio: gli stand e i chioschi erano illuminati da lampadine multicolori. Nell'aria il familiare odore dello zucchero filato. Se soltanto Harold entrasse nello spirito del luogo! pensò. «Che cosa vuoi fare?» chiese Joan al suo cavaliere. «Suppongo che sia troppo tardi per il Macbeth.» «Deve pur esserci qualcosa qui che ti piace. La giostra?» «No, grazie. Ma tu vai pure, se ti fa piacere.» Joan scrollò le spalle. «Dopo, magari.» Proseguirono e lei rivide la mendicante con il calzino pupazzo. La vecchia donna non si era mossa per tutto il giorno e faceva parlare il pupazzo con i malcapitati che le passavano vicino. Joan fu tentata di spingere Harold verso di lei. Ricordò come il pupazzo avesse pizzicato la gamba di Dave e scoppiò a ridere. «Che c'è?» chiese Harold. «Quella è una delle mie barbone preferite», spiegò lei indicando la donna. Harold guardò. «Non mi sembra particolarmente divertente.» «Il suo pupazzo ha pizzicato la gamba di Dave.» «Hai letto l'articolo di Gloria sul trolling?» «Sì. È andata giù forte.» «A me sembra che abbia scritto un buon pezzo.» «Dovrebbe scendere dal suo piedistallo. Compiici, ci ha chiamati. Balle. Siamo 'tutti' colpevoli?» Joan indicò l'ottovolante. «Dave e io abbiamo rischiato l'osso del collo ad arrampicarci su quella maledetta montagna russa
per salvare quel poveraccio di cui lei va blaterando. Gloria lo sapeva, ma non ne ha fatto cenno nel suo sermone. Il suo scopo è quello di far apparire l'intera città, e i poliziotti come se fossero favorevoli alla caccia ai troll. Non so come potrà guardare in faccia Dave dopo aver scritto quella robaccia.» Lanciò un'occhiata ad Harold. Lui sembrava mortificato di aver nominato l'articolo di Gloria. Si mescolarono tra la folla e proseguirono. A un certo punto Joan strinse il braccio di Harold. «Scusa un minuto», disse e agitò l'altro braccio in un gesto di saluto. «Ehi, Jim, Beth!» Due agenti si avvicinarono alla coppia. Jim guardò le gambe di Joan. «Non ne hai abbastanza di questo posto durante il giorno?» chiese Beth. «Dave non mi lascia salire sull'Hurricane», rispose Joan. «Arrampicarti lassù? Sì, però...» osservò Jim. Joan presentò i colleghi ad Harold. Lui strinse la mano ai due agenti. «Vacci piano con lei, Harry», disse Jim. «È fragile?» «È cintura nera.» «E spesso colpisco», aggiunse ridendo Joan. «Non lasciarti ammanettare al letto», continuò Jim. «Una volta inerme, ecco che salta fuori la cinghia.» «Parli per esperienza personale?» chiese Harold. «Nei suoi sogni», disse Joan. Beth diede un colpetto a Jim con il gomito. «Andiamo, Casanova. Lieta di averti conosciuto, Harold.» Jim e Beth si allontanarono chiacchierando animatamente. Era probabile che parlassero di lei e del suo accompagnatore, pensò Joan. Be', se non altro Jim ci provava. Magari bisognava impedirgli di essere troppo intraprendente, ma ci provava. Davanti alla ruota di Ferris, Joan si mise in coda e tirò fuori il portafoglio per prendere i biglietti. «Se credi di trascinarmi su quell'aggeggio infernale...» borbottò Harold. «Tutti soffrono di vertigini.» «E lo dici proprio tu, che hai scalato l'Hurricane!» «Ero spaventata, ma l'ho fatto. Perché dovevo farlo. E tu salirai sulla ruota per la stessa ragione.» Quando raggiunsero la casa di Joan, Harold accostò al marciapiede,
spense il motore e si girò verso di lei. «Entro con te», disse. Alla fioca luce del lampione, Joan notò il sorriso nervoso sulla sua faccia. «Potremmo... guadagnare il tempo perduto...» Patetico, pensò lei. «Non stasera», rispose. «Non mi sento molto bene.» «Joan, ti prego.» «Ti telefonerò», promise lei battendogli la mano sul ginocchio. Poi aprì la portiera. «Non lasciamoci così, ti prego», insistè lui. Joan scese dall'auto, chiuse la portiera e imboccò a passo rapido il vialetto di casa. 8 Robin si svegliò. Non poteva credere che il film fosse finito. Era entrata nel cinematografo un po' tardi e aveva perso l'inizio del nuovo film di James Bond, perciò aveva aspettato l'intervallo per recuperare la prima parte. E invece si era addormentata e aveva dormito per tutto lo spettacolo. Ora le luci del locale erano accese e gli spettatori stavano uscendo. Robin era contenta che nessuno l'avesse disturbata. Aveva un braccio ancora infilato nella cinghia dello zaino, la custodia del banjo era in posizione verticale sul pavimento, appoggiata fra le gambe. Spostò la custodia, si alzò e si mise lo zaino sulla schiena. Poi prese lo strumento e si diresse verso il corridoio deserto. Mentre stava per uscire si fermò alla toilette. Non c'era nessuno quando vi entrò. Si diede una rinfrescata alla faccia e si lavò i denti. Anche nell'atrio non c'era nessuno. Stavano per chiudere il locale. Robin aprì la porta a vetri con la spalla e uscì. Il vento era freddo: sbatteva sulle braccia nude, penetrava nel davanti della camicia. Con un brivido percorse a passo rapido un tratto di marciapiede finché raggiunse l'ingresso di un negozio buio. Qui aprì lo zaino, tirò fuori una giacca a vento di nylon, l'indossò e se l'abbottonò. Da una tasca laterale dello zaino prese poi un coltello infilato nel fodero e lo fece scivolare nella tasca posteriore dei jeans. Si rimise lo zaino in spalla, raccolse la custodia del banjo e tornò sulla strada. Si fermò al centro. Non si vedevano auto. Ce n'era soltanto qualcuna parcheggiata lungo i marciapiedi. Più avanti, vicino all'angolo, un uomo portava a spasso il suo cane. Per il resto, niente. Le luci del cinematografo
erano spente, tutti i negozi e i ristoranti erano chiusi. Robin attraversò la strada e proseguì verso il parco dei divertimenti. Strano che fosse tutto chiuso, pensò. Non era poi così tardi. Doveva essere passata da poco mezzanotte. Questo voleva dire che anche Funland era chiuso. Ebbe un attimo di paura, e non seppe perché. Poi si ricordò l'avvertimento del poliziotto a proposito di una banda di ragazzi. Che ci provino a mettermi le mani addosso e assaggeranno il coltello, pensò. Era il coltello da caccia di suo padre. L'aveva salvata parecchie volte. Di solito bastava tirarlo fuori per evitare guai. Aveva colpito una volta sola. Era successo alla stazione dei pullman, a San Francisco. Un tale era entrato nella toilette mentre lei si stava rinfrescando, poco prima dell'alba; l'aveva sbattuta contro il muro, le aveva strappato la camicetta e aveva cercato di abbassarle i jeans. Lei gli aveva piantato il coltello fra le costole. L'uomo aveva strillato: «Guarda che cosa mi hai fatto!» Poi era caduto in ginocchio. Sebbene la giacca a vento la tenesse calda, Robin sentì freddo ricordando quella notte. Era come riviverla. Rivisse la sorpresa quando l'uomo l'aveva afferrata, il terrore quando le aveva strappato gli abiti, rivide il coltello penetrare nella carne di lui e rammentò lo smarrimento dopo essere fuggita. «Non avresti dovuto provarci», aveva detto Robin all'uomo, prima di correre via. Spesso si era chiesta se fosse morto. Se lo chiese anche ora, e il freddo che sentiva dentro divenne gelo. Era stata legittima difesa, si ripetè. Se era morto, peggio per lui. Probabilmente aveva violentato altre donne. Morto non avrebbe più fatto male a nessuno. Perciò lei aveva fatto un favore al mondo. Ma Robin sperava che fosse vissuto. Non lo aveva colpito al cuore, probabilmente solo vicino a un polmone. Attraversò un'altra strada. Qui la via non era costeggiata di alberi, era illuminata da lampioni al neon sui pali di metallo. Non si vedevano più negozi, ristoranti, panetterie e librerie. Sull'altro lato della strada c'era una stazione di servizio, un magazzino di pezzi di ricambio per auto e il bar dove Robin aveva mangiato un panino e bevuto un caffè prima di andare al cinema. Tutto chiuso, ora. Il negozio di pezzi di ricambio aveva un cancel-
lo di ferro all'ingresso. All'isolato successivo cominciò a vedere i vagabondi. Uno era sdraiato sulla panca sotto la pensilina di una fermata d'autobus. Uri altro stava rannicchiato nell'ingresso buio di un negozio di televisori. Robin passò la custodia con il banjo nella mano sinistra, liberando la destra per prendere il coltello, in caso di pericolo. Nessuno dei vagabondi si mosse o parlò, mentre lei passava. Prima di raggiungere l'incrocio sentì un leggero tintinnio di metallo e capì che veniva da un carrello per la spesa. Ancora lontano. Lei accelerò il passo. Svoltò l'angolo di un negozio di liquori chiuso, sbirciò a destra e vide una vecchia donna ricurva che spingeva il carrello verso di lei. «Vieni qui, principessa!» Robin corse nella strada. «Vieni! Ti faccio un buon prezzo. Non andartene!» Robin non si voltò indietro. Si precipitò sull'altro marciapiede e, guardando da sopra la spalla, vide la donna del carrello fermarsi a un cestino dei rifiuti per chinarsi e guardar dentro. Robin ansimava e il cuore le batteva forte. Sono così striscianti, pensò. Alcuni, come la vecchia, non sembravano esseri umani. Somigliavano più a creature di un altro pianeta. In agguato nel buio, balbettavano frasi incomprensibili, pronti a saltarti addosso se abbassavi la guardia. Non lasciarti impressionare, si disse. Sono solo persone, non fantasmi. Ne vide un altro. Sebbene fosse sul lato opposto della via, Robin sentì un brivido lungo la spina dorsale. Stava in piedi immobile, la schiena rivolta alla vetrina di un negozio, le braccia lungo i fianchi. Indossava un giaccone nero che gli arrivava alle ginocchia. Le gambe sotto l'orlo del giaccone erano nude, così pure la testa calva. E sembrava che la fissasse. È ridicolo, si disse lei. Non posso nemmeno vedere i suoi occhi. Solo due buchi neri. Ma sentiva il suo sguardo che la faceva rabbrividire. Immaginò che a un tratto lui avrebbe attraversato la strada per afferrarla e portarla in qualche luogo nascosto. Dio, stanotte sono perseguitata dai fantasmi! Robin proseguì di qualche passo e girò la testa a guardarlo. Quanti ce n'erano! La città sembrava infestata. Non c'era da meravigliarsi che i ragazzi facessero dei guai. Loro aveva-
no paura. Perciò si erano riuniti in una banda e andavano a caccia dei troll. Chi poteva biasimarli? Se questo posto pullula di vagabondi, pensava Robin, chissà la spiaggia. Forse doveva seguire il consiglio di Dave e andare in un motel. Ma forse andava bene anche la spiaggia. Se i ragazzi avevano fatto irruzione nel parco dei divertimenti e sulla spiaggia, probabilmente i barboni si erano dispersi. All'angolo Robin aspettò, mentre un'auto si avvicinava lentamente da destra. Aveva una luce sul tetto. Era un'auto della polizia. Lei guardò indietro. Il vagabondo era sempre là che la fissava. Ma non più davanti alla vetrina. Era più vicino, ora. La macchina di pattuglia si fermò. «Vorrei parlarti», disse una voce maschile dal finestrino del posto di guida. Lei scese dal marciapiede e si portò in mezzo alla strada; poi si chinò leggermente e sbirciò nell'interno dell'auto. Dentro c'erano due poliziotti in divisa. Avevano pressappoco la sua età. Tutti e due con i baffi, quello sul sedile dei passeggeri teneva in mano un bicchiere di cartone. Bevve un sorso. Persone reali. Ma poliziotti, e potevano significare guai in vista. Dave era stato gentile, però. «Agenti?» disse Robin. «È tardi per girare nelle strade», osservò l'agente alla guida. «Sono appena uscita dal cinema.» «Hai visto James Bond?» intervenne l'altro poliziotto. «Bello, eh?» «Non era Sean Connery», precisò Robin. «Chi era?» «Dove sei diretta?» volle sapere quello alla guida. «Alla spiaggia.» «Non è un'idea grandiosa.» «Lo so. Mi hanno avvertita. Conoscete un agente di nome Dave?» «Carson? Certo. Ti ha detto del trolling?» Robin annuì. «Sali, ti diamo un passaggio.» «Grazie.» Sebbene le battesse il cuore, Robin aprì la portiera posteriore, gettò lo zaino sul sedile e salì in macchina. Si posò il banjo in grembo e chiuse la portiera.
Quei due sembravano abbastanza gentili, ma chi poteva dirlo? In macchina Robin era alla loro mercé. Ma non si discute con i piedipiatti, si fa come dicono. Era una lezione che lei aveva imparato presto. L'auto svoltò l'angolo. «Vi sono molto grata», disse lei. «Tutti quei barboni mi rendevano nervosa.» «Molti di loro sono troppo 'cotti' per creare guai seri», spiegò l'autista. L'altro poliziotto si girò per guardarla. «È dei ragazzi che devi preoccuparti», disse. «Sono già stata aggredita dai barboni, qualche volta», replicò Robin. «È da un pezzo che vivi sulla strada?» «Da un paio d'anni.» «Non è un bel modo di vivere», commentò il poliziotto. «A me piace. Ho davanti la vita intera per stabilirmi definitivamente in un luogo.» «Qualche bastardo la pensa diversamente e ti farà del male.» «I tuoi sanno dove ti trovi?» s'informò l'altro agente. «Mio padre è morto, e mia madre è troppo occupata», rispose Robin. «Sei una suonatrice ambulante?» «Suono nel parco dei divertimenti. Per questa settimana.» «Hai intenzione di fermarti qui una settimana?» chiese l'autista. «È bello, là sulla spiaggia. Non so, dipende.» La radio gracchiò e uno dei due agenti rispose: «Dieci quattro, arriviamo». L'auto accostò al marciapiede. «Spiacenti, ma dobbiamo lasciarti qui.» Robin aprì la portiera. «Grazie per il passaggio», disse e, dopo aver preso lo zaino, scese. «Sta' attenta!» Lei chiuse la portiera. La luce sul tetto prese a lampeggiare e l'auto di pattuglia si allontanò velocemente. All'angolo c'era un motel con un'insegna al neon azzurra, qualche auto era parcheggiata davanti alle camere numerate. Sull'altro lato della strada si apriva un minimarket che non solo era aperto, ma anche affollato. Un uomo entrò. Alcuni ragazzi stavano radunati attorno a un camioncino all'estremità del parcheggio, alcuni seduti sul cofano e sui parafanghi, altri in piedi fumavano e ridevano bevendo bibite con i bicchieri di cartone, mentre la musica usciva a tutto spiano dalla radio del veicolo.
Robin si chiese perché fossero fuori a quell'ora. Chissà se erano troller, cacciatori di troll. Ma non aveva paura. Svoltò l'angolo. Più avanti, a due soli isolati, c'era l'ingresso di Funland. La luna illuminava la faccia del clown all'entrata. Robin si avviò in quella direzione, passando davanti ai motel che si allineavano sui due lati del viale, ai negozi ancora aperti, ai bar affollati di gente che andava e veniva. Quando vide un baffuto barbone seduto sul marciapiede con la schiena appoggiata al muro, non provò nessuna paura. «Mi dai qualche soldo per una tazza di caffè?» Robin prese una banconota da un dollaro dalla tasca dei jeans e gliela diede, ritirò la mano perché lui non la toccasse. «Dio ti benedica», mormorò l'uomo. Robin si allontanò. Poi guardò dietro. L'uomo era ancora seduto contro il muro. In lontananza i ragazzi stavano ancora raggruppati attorno al furgoncino. Robin attraversò una via e proseguì lungo il parcheggio di Funland. Forse dovrei tornare indietro, si disse. Andare in un motel. Solo per stanotte. So badare a me stessa, concluse dentro di sé. Attraversò la strada e salì i gradini di cemento. La faccia del clown l'accolse con un sorriso. 9 Jeremy era sdraiato sul letto. Guardò la sveglia. Venti all'una. Non aveva dormito per niente, la sua mente era rivolta al parco dei divertimenti, a Cowboy e Tanya, a ciò che lo aspettava quella notte. Sudava. Finalmente scese dal letto. Sistemò i due cuscini e li coprì con una coperta per far pensare a sua madre che il letto non era vuoto e vi aggiunse il pigiama. In ginocchio pescò sotto il letto il mucchio degli indumenti che aveva preparato per l'avventura di quella notte. Cowboy gli aveva raccomandato di indossare qualcosa di scuro, avvertendolo che sarebbe stato freddo, e gli aveva suggerito di portarsi un coltello, in caso di guai. Jeremy intuiva che i ragazzi non avevano in mente niente di buono. Non si sguscia di casa per andare a Funland all'una di notte solo per chiacchierare...
Avrebbe voluto chiedere di più a Cowboy, ma temeva che l'amico pensasse che lui aveva paura. Sgusciò fuori dalla sua camera, uscì sul portico e prese la bicicletta. Il quartiere era illuminato dai lampioni e dalla luna. Prese a pedalare seguendo le strade secondarie e si chiese se Tanya fosse già a Funland. Chissà quali erano i suoi piani. Qualsiasi cosa lo eccitava. Perfino il vandalismo. Quella era la sua occasione migliore per dimostrare che non era un moccioso. L'unica cosa che non poteva accettare era l'idea di un'orgia. Stava ancora pensando a queste cose quando, con sorpresa, si accorse di essere arrivato di fianco a Funland. Vide un barbone disteso fra i cespugli, ma più avanti, vicino all'ingresso, non c'era nessuno. Forse sono il primo, pensò Jeremy. Oppure si sono radunati fuori dalla vista. Sistemò la bicicletta nella rastrelliera e si avviò a piedi verso l'arco. Salì la scala e sotto la faccia del clown scrutò nel buio. Vedeva il chiosco dei biglietti e il parco, ma non c'era nessuno. Guardò l'orologio. L'una era passata da due minuti. Proseguì. Passò davanti alla biglietteria e si fermò in mezzo al viale guardandosi attorno. Così aveva una chiara visuale di Funland. Nessuno in vista. Dove sono? Lì non c'erano, questo era certo. Forse gli avevano giocato un tiro. Jeremy aspettò, ma non apparve nessuno. Si appoggiò al chiosco della biglietteria. In lontananza un gabbiano mandò il suo grido. Avrebbe dovuto capirlo che era troppo bello per essere vero. Probabilmente la burla era stata un'idea di Tanya. Jeremy si lasciò cadere a terra e sollevò le ginocchia. Oppure l'appuntamento era stato annullato per una ragione qualsiasi e loro non avevano potuto avvertirlo. Nessuno sapeva dove abitava. Cowboy sapeva che viveva in un certo quartiere, ma non conosceva il suo indirizzo. E il telefono non era ancora stato installato. Può anche darsi che siano in ritardo, pensò. Ma certo! A un tratto sentì un rumore di passi. Eccoli! Balzò in piedi e girò attorno alla biglietteria, sorridendo e alzando la mano in un gesto di saluto. La ragazza, a pochi passi da lui, si fermò spaventata.
Portava uno zaino in spalla e la custodia di uno strumento musicale che doveva essere un banjo. Il suo viso era una chiazza pallida nell'oscurità. Ma non era così piccola da poter essere Liz, né così alta come Tanya. «Scusa se ti ho spaventata», disse Jeremy. Lei girò la testa, guardò ai lati, poi sbirciò dietro. «Gli altri non sono ancora arrivati.» La ragazza guardò Jeremy. «Dunque sei uno di 'loro'?» Non aveva detto: sei uno di 'noi'. Lui si sentì un po' sciocco. Avrebbe dovuto capirlo dallo zaino e dal banjo. Lei non era un'abitante di lì. Era una campeggiatrice o una girovaga. «Dipende da chi intendi per 'loro'», disse Jeremy, chiedendosi che cosa sapesse la ragazza. «I troller.» Lui si strinse nelle spalle. «Non so. Chi sono i troller?» Di nuovo la ragazza si guardò alle spalle. Poi camminò direttamente verso Jeremy. «Togliti di mezzo, ragazzo!» Non era una timida richiesta, era un ordine. Jeremy si fece da parte. Lei gli passò davanti, guardò a destra e a sinistra, ma non dietro e proseguì fino a un tratto scoperto fra le ringhiere. Poi si voltò e infine scese gli scalini verso la spiaggia. «Sgualdrina», masticò Jeremy. Togliti di mezzo, ragazzo! Che problema aveva per parlare a quel modo? Una mano battè sulla spalla di Jeremy e lui si girò di scatto. «Ti sono piombato addosso come un indiano», rise Cowboy. «Mi hai fatto prendere una paura...» «Fortuna che ero solo io. Devi stare in guardia, sei solo qui. Quei fottuti ti mangeranno per colazione.» «Dove sono gli altri?» «A casa, credo.» «Che succede?» «Hanno annullato la riunione per stanotte.» Avevo ragione, pensò Jeremy. Dunque non era uno scherzo, loro non mi sfottono. «Come mai?» chiese. «Quel dannato articolo sul Post. L'hai letto?» Jeremy scosse la testa. «Una baldracca d'una giornalista ha scritto un articolo su di noi. Allora
Nate ha pensato che poteva essere pericoloso trovarci stanotte. Hai visto dei poliziotti qua intorno?» «No.» Jeremy stava per raccontargli della ragazza, ma ci ripensò. «Be', a me non sembrava un problema, ma Nate preferisce agire con prudenza. Ha avuto paura che avessero circondato il posto, magari una bella messinscena per arrestarci. Perciò ha avvertito Tanya e le ha detto di sospendere la riunione.» «Non lo sapevo», disse Jeremy. «Perché credi che sia qui, Duke? Non potevo farti aspettare tutta la notte, no?» «Grazie!» «Sarei venuto prima, ma sai come succede.» «Certo, certo», convenne Jeremy. «Meglio tardi che mai.» «Non avrai mica creduto che ti avevamo dimenticato?» «No, ho immaginato che fosse successo qualcosa di simile.» «Andiamocene, prima che ci aggrediscano», suggerì Cowboy. «Chi dovrebbe aggredirci?» volle sapere Jeremy. «I troll, amico.» Jeremy ricordò che la ragazza gli aveva chiesto se era un cacciatore di troll. «Che cos'è questa storia dei troll?» «Lo sai chi sono, no?» «Gli sbandati che vivono sotto i ponti?» «Bravo, Duke. Sotto i ponti, nei parchi dei divertimenti, sulla spiaggia, dappertutto. Sono come gli scarafaggi. Si nascondono nei punti più oscuri, poi strisciano fuori per assalirti.» «Ma questa è roba da fiabe!» «Perché, io sarei una fatina?» rise Cowboy. Scesero gli scalini di cemento e Jeremy indicò la sua bici legata con la catena. «Non stiamo parlando dei troll delle fiabe», riprese Cowboy. «Stiamo parlando di vagabondi, di sbandati, di esseri molesti, come quel tale che ti ha chiesto l'elemosina, prima che arrivassi io a salvarti.» «Era un troll?» «Eccome!» Jeremy si fermò accanto alla bicicletta e frugò nella tasca dei pantaloni per cercare la chiave del lucchetto. Non c'erano altre bici nella rastrelliera. «Come sei venuto qui?» «A piedi. Anche tu dovresti venire a piedi, la prossima volta.»
La prossima volta! «Quando sarà?» chiese Jeremy, cercando di nascondere la sua eccitazione. «Chi lo sa? Tanya ci verrebbe ogni notte, se Nate non la tenesse a freno. Probabilmente sarà per domani.» «Conta su di me, intesi?» «Puoi scommetterci, Duke.» Con un sorriso Jeremy si accucciò per aprire il lucchetto. «Lascia perdere la bici», gli suggerì Cowboy. «Non si sa mai se dobbiamo filare alla svelta. E così perderesti la bici.» «La prossima volta verrò a piedi», dichiarò Jeremy, togliendo la catena. Poi sollevò la bicicletta dalla rastrelliera. «Potremmo trovarci e venir giù insieme.» «Scusa, amico, ma tu non sei Liz.» «Okay, d'accordo.» S'incamminarono a fianco a fianco, Jeremy spingendo la bicicletta. «Che cosa fate, comunque, quando vi riunite qui?» chiese Jeremy. «Ci divertiamo.» «Siete... cacciatori di troll?» «Indovinato, Duke. Loro sono i troll e noi i troller.» «E che cosa fate? Andate a caccia di loro?» «A pesca è più esatto. Noi prepariamo l'esca. Di solito è Tanya. Uno di loro salta fuori e abbocca, e allora noi tiriamo su il pesce. Dopo di che ci divertiamo con lui. O lei.» «Li picchiate o altro?» «Altro, sì.» Cowboy voltò la faccia verso l'amico. La tesa del cappello gli nascondeva gli occhi, ma la sua bocca era una linea sottile. «Non ti garba?» «A me? Sì.» L'altro sorrise. «Immaginavo che la pensassi, così, Duke. Ho visto l'espressione della tua faccia quando quel barbone ti chiedeva i soldi. Stavi per strappargli il cuore.» «Ehi, io non...» «Sicuro, amico, eri terrorizzato, per questo volevi azzannarlo.» Jeremy sorrise. «Davvero?» «Davvero. Ed è ciò che proviamo noi tutti. Quelle carogne ti fanno venire la pelle d'oca e non hanno nessun diritto di mescolarsi con noi. Dovrebbero farci il favore di strisciare in una buca e crepare.»
«Ma non lo fanno», osservò Jeremy. «Già, non lo fanno. Quello che fanno è strisciar fuori dalle loro tane e assalirti. 'Mi dai un soldo, amico?' disse Cowboy con voce piagnucolosa. 'Non mangio da una settimana... Mi dai due dollari?' Tu capisci che il verme ti toccherà, se non gli allunghi le monete.» Proprio così, pensò Jeremy. È esattamente così. «Sai che cosa gli dico io?» chiese Cowboy. «Va' a farti fottere.» «Io dico: niente soldi, troll. Capisci che cosa vuol dire niente soldi?» «Che lui non otterrà un centesimo da te.» «Vuol dire molto di più, Duke. Molto di più. Niente soldi.» 10 «Baxter.» «Eh? Che cosa?» «Svegliati.» Lui aprì gli occhi con un gemito. La stanza del motel era buia. Baxter giaceva sul fianco, il corpo caldo di Kim rannicchiato contro la schiena. «Che cosa c'è?» borbottò. «Alziamoci», sussurrò lei solleticandogli la nuca con il respiro. «Che cosa? Ma è notte fonda!» «Sono le tre passate da poco», disse lei. «Gesù!» «Alziamoci e usciamo, okay?» «Uscire?» «Giù alla spiaggia. Sarà tutta per noi.» «Tu sei fuori di testa.» «Sarà bello.» «Lascia perdere.» «Ti prego.» Lei gli sfiorò la nuca con le labbra, la sua mano prese ad accarezzarlo. «Sarà così romantico. Guarderemo sorgere il sole.» «È la costa sbagliata», borbottò lui. «Be', ma prima o poi sorgerà. Okay? Qualcosa che ricorderemo per sempre. Guardare sorgere il sole, la nostra prima mattina insieme.» «Non è la prima mattina.» «La prima come marito e moglie. Voglio che sia speciale.» «Ma geleremo!»
«Ci porteremo una coperta. Per favore! Non ti farò pentire, vedrai.» «Sì?» «Sì», rispose Kim. «Allora, che ne dici?» «Dobbiamo essere matti.» «Ti piacerà, vedrai.» Il materasso si piegò quando Kim scese dal letto. La luce si accese all'improvviso, colpendogli gli occhi. Baxter li chiuse. E sentì volar via le coperte, rimanendo nudo e infreddolito. «Cristo!» «Su, su», lo spronò Kim afferrandogli le caviglie per trascinare le gambe verso il bordo del letto. «L'ultimo a vestirsi è un uovo marcio», lo stuzzicò lei. «Be', considerami pure un uovo marcio.» Lui sedette sul letto e rimase a guardarla mentre saltellava verso la valigia aperta. Farà un freddo cane sulla spiaggia, pensava Baxter, ma sarà bello. Ha ragione lei, qualcosa da ricordare. Kim infilò un paio di pantaloni felpati e prese dalla valigia un camiciotto grigio, pure felpato. Poi si girò. «Hai intenzione di restartene seduto lì?» «Ammiro il panorama.» Kim andò in bagno e Baxter si mise la tuta. Era uguale a quella della ragazza, ma non così vecchia. Lui l'aveva comperata dopo che Kim si era trasferita a casa sua. Stava calzando le scarpe quando lei uscì dal bagno. Baxter vi entrò a sua volta e si lavò i denti. Sulla mensola vicino al lavabo c'era una bottiglietta di plastica d'olio abbronzante. Baxter la prese e se la mise nella tasca del giubbotto. Rientrato in camera, prese la chiave della stanza con la targhetta che portava il nome e l'indirizzo del motel. Aprì la porta e uscirono. La strada davanti al motel era bene illuminata, ma non passavano auto. Il parcheggio del supermarket aperto tutta la notte era deserto. «Bello, no?» chiese Kim, mettendogli un braccio intorno alla vita. «Siamo le uniche persone al mondo.» «Sicuro, dormono tutti.» «Noi dormiremo sulla spiaggia.» Scesero gli scalini fino al parcheggio. Il vento soffiava forte e Baxter cominciò a rabbrividire. «Povero ragazzo», disse Kim e, fermandosi all'angolo, aprì la coperta che aveva portato con sé per drappeggiarla sulle spalle di tutti e due. Così andava meglio.
Passarono davanti a un barbone che dormiva rannicchiato contro il muro di un magazzino. «Vedi che non siamo le uniche persone al mondo?» osservò Baxter. «Pover'uomo!» «Sicuro. Lui non ha te.» «Noi siamo fortunati, te ne rendi conto? Voglio dire, non sarebbe terribile vivere a quel modo? Senza nessuno che ti vuole bene, senza un posto per ripararsi la notte!» «Potremmo offrirgli la nostra camera, mentre siamo fuori.» Lei gli mollò una pacca sul sedere. «Non c'è niente da ridere. È semplicemente terribile. Vorrei fare qualcosa per lui.» «Non ho portato il portafoglio e la coperta non ci appartiene. Potresti regalargli i tuoi abiti. Mi piacerebbe.» «Sei disgustoso», commentò Kim, mollandogli un'altra pacca. Attraversarono la strada e proseguirono lungo il parcheggio di Funland. C'erano ancora alcune auto. Baxter si chiese se qualcuno era in macchina. Così tardi? Improbabile. Nessuno sta fuori alle tre di notte. Solo noi. E qualche barbone ubriaco. Forse qualche pattuglia della polizia. Che ridere se veniamo fermati dai poliziotti! Attraversarono una strada, scesero le scale e si avventurarono fra le ombre sotto l'arco di Funland. Sotto si stendeva la spiaggia deserta. Lui non voleva scendere laggiù. «Non mi piace tanto l'idea, sai», borbottò. «Ma guarda!» «Perché non torniamo al motel?» «Hop!» disse Kim. E, strappandogli di dosso la coperta, cominciò a scendere la scaletta che portava alla spiaggia. «Maledizione, Kim!» Anche Baxter cominciò a scendere la scala. Senza affrettarsi. Osservando Kim, scese l'ultimo scalino e cominciò a camminare sulla sabbia soffice verso la ragazza. «Vieni qui», disse. Lei sorrise e si drappeggiò la coperta sulle spalle. «Che cosa mi "dai?» «Un bacio.» «Che altro?» «Kim, smettila. Dico sul serio. Questo posto mi dà i brividi.» Lei si mise a saltellare sulla sabbia e gli gridò di rimando: «Fifone!» Ma si rende conto? Rendersi conto di che cosa? Siamo soli qui, non c'è
nessuno. Kim si diverte, sono io ad avere dei problemi. Baxter, però, notò con apprensione che lei si avvicinava troppo alla zona sotto il parco dei divertimenti, dove tutto era ombra. Kim lo guardò. «Prendi!» gridò e si sfilò il camiciotto per lanciarlo in aria. Il vento fece turbinare l'indumento, lo gettò verso la zona d'ombra. Baxter lo acchiappò per una manica e lo raccolse dalla sabbia. Mosse ancora qualche passo di corsa, poi gli venne un'idea e si fermò. «Arnvederci, Kim. Divertiti a tornare a piedi al motel, così mezza nuda.» Lei si fermò. Si voltò e mise le mani sui fianchi. Ansimava, i suoi seni si sollevavano e ricadevano. Il resto della sua pelle era scuro, mentre i seni sembravano di crema. Baxter la fissò, lei sostenne il suo sguardo. «Non credo che andrai da nessuna parte», disse Kim. La spiaggia sembrava minacciosa e Baxter aveva la sensazione che mille occhi li osservassero dalla zona buia sotto il passaggio di legno. Ma Kim aveva ragione, ora non aveva più fretta di fuggire. Kim era nuda fino alla cintola, esposta e vulnerabile. Baxter la desiderava. La voleva lì, subito. Le mani sui fianchi, lei prese ad avanzare. Baxter gettò un'occhiata alla buia foresta ed ebbe l'impressione che centinaia di dita gelide lo sfiorassero. Kim si fermò a pochi passi da lui. «Devi essere intirizzita.» «No. Mi piace il freddo.» «Togliti il resto», ordinò lui. La vide sorridere al chiaro di luna. «Vuoi dire che non hai più paura?» Poi, tenendosi in equilibrio su un piede, si levò la scarpa e un calzino, ripetendo l'operazione con l'altro piede. «Io mi sento audace, tu no?» Lui si limitò ad annuire, mentre la paura tornava a stringergli la gola. Lei stava per portare la coperta nella zona d'ombra. «Non lì», disse lui. «Mettiamola qui al chiaro di luna.» «E se viene qualcuno?» gli fece notare Kim. «Là è più intimo.» «Voglio vederti.» Sistemarono la coperta e vi si adagiarono. Nudi. Baxter si ricordò della bottiglietta di olio abbronzante e cominciò a spalmarle il liquido su tutto il corpo. Poi cominciò ad accarezzarla. Kim gemeva e quando lui prese a sfregarla con i pollici, lei si lasciò sfuggire un suono strozzato.
Non poteva averle fatto male, pensò Baxter. Kim gli scivolò via. «Bax!» urlò la ragazza. Lui guardò su. L'ombra la divorava come succhiandola. No, non era l'ombra. Due vaghe forme curve trascinavano Kim per i polsi. «No!» urlò Baxter. Lei era già sparita fino alla cintola. Sotto la luna dimenava il ventre e scalciava. Baxter le afferrò una caviglia. La strinse con tutte e due le mani. Ma non riuscì a fermarla perché le gambe erano cosparse di olio abbronzante. Lui venne trascinato insieme con Kim, le ginocchia sollevate dalla coperta. «Fermi!» gridò. «Che cosa...» La voce gli morì in gola. Dietro i due assalitori, nell'oscurità, ce n'erano altri. Sciamavano fuori da dietro i pali di legno. Quanti erano, otto, dieci? Baxter lasciò andare il piede di Kim. «Non lasciarmi!» gridò lei. Baxter si rialzò barcollando. Rimase immobile, sapendo che aveva il tempo di scappare, poi con un urlo di disperazione si tuffò nel buio. Si slanciò contro i due che trascinavano Kim e si abbattè su di loro. Gridò a Kim di fuggire. Braccia ossute lo abbracciarono, dita adunche gli graffiarono la pelle. Uno gli affondò i denti sul braccio e su una coscia. Baxter emise un grido per il dolore improvviso e cercò di rialzarsi, ma le «cose» lo stringevano, lo mordevano. Il loro odore era terribile. «Alzati, Bax! Presto!» «Corri!» gridò lui. Accidenti, perché Kim non era fuggita? Non aveva visto gli altri? Dov'erano gli altri? si chiese. Gli sarebbero dovuti piombare addosso, ormai. Affondò il pugno in una delle forme maleodoranti sotto di lui. Stavolta aveva fatto centro. L'uomo gemette, si piegò e lo mollò. Allora Baxter piantò il gomito nello stomaco dell'altro. All'improvviso fu libero. Sulle mani e sulle ginocchia sgusciò sotto i loro corpi piegati. Alzò la testa e vide Kim. Lei aveva trovato un pezzo di legno, stava in piedi nell'ombra fra Baxter e il branco ripugnante agitando il legno con aria feroce. Nessuno del bran-
co sembrava abbastanza coraggioso da attaccare e rischiare un colpo. Baxter fissò la ragazza, attonito, orgoglioso e impaurito. Barcollando si alzò in piedi. E colse un movimento in alto alla sua sinistra. Girò la testa in tempo per vedere una vecchia strega balzar giù dal parapetto del viale. La donna veleggiò verso il basso, le braccia in fuori come le ali di un gigantesco pipistrello. Anche Kim la vide. Tentò di balzare indietro, ma la vecchia strega le piombò sopra facendola cadere sulla sabbia. Il branco silenzioso partì all'attacco. Baxter lo affrontò. 11 Mag e Charlie risalirono da sotto il viale e si diressero verso la scala. «Non è leale», disse Charlie. «Non è giusto.» «Piantala», disse Mag. «Non ho visto niente!» Lei gli prese il braccio. Lui si liberò con uno strattone. «Ho perso lo spettacolo.» «Non fa niente, ci divertiremo per conto nostro», lo consolò Mag facendo dondolare la chiave del motel. «Voglio partecipare al divertimento.» «Be', non puoi.» «Non è giusto.» Salirono le scale. Mentre attraversavano la passerella, Charlie sentì un grido soffocato. Sapeva che veniva dalla «Casa dei divertimenti». Senza di lui. Mag prese dalla tasca una bottiglia e gliela offrì. Lui gliela strappò di mano. Un paio di sorsate e si sentì meglio. Al motel, Mag aprì la porta della stanza 210 ed entrarono. Charlie chiuse la porta, Mag fece scattare l'interruttore sul muro e una lampada si accese accanto al letto. Lui rimase vicino alla porta, mentre Mag girava per la camera. La ragazza trovò una bottiglia di vino nel cestino della carta, la capovolse facendosi gocciolare in bocca quanto era rimasto. Sul cassettone c'era un pacchetto di Salems. Prese una sigaretta, se la mise fra le labbra e l'accese con un fiammifero. Razziarono ciò che trovarono nella stanza e riempirono due valigie. Nel-
la tasca di un paio di pantaloni da uomo, Charlie trovò un portafoglio con dentro alcune banconote da venti e da dieci dollari. Rimase indeciso, ma alla fine concluse che era meglio non correre rischi. Rimise il portafoglio nella tasca dei pantaloni. In un'altra tasca trovò un portachiavi. Quello lo tenne in mano. Poi mise i pantaloni nella valigia. Mag aveva riempito l'altra valigia con gli indumenti da donna e alcuni anelli e orecchini. Prese dalla valigia un paio di calzini bianchi, se li mise e calzò un paio di scarpe da tennis. Nell'armadio trovò anche una giacca a vento di nylon. Si cambiò e cacciò i suoi indumenti nella valigia. «Hai preso le chiavi?» s'informò. Charlie le mostrò il portachiavi. Lei glielo strappò di mano. Chiusero le valigie e Mag si avviò verso la porta. Charlie sollevò le valigie e la seguì fuori. Il cielo era più chiaro, ma il sole non sarebbe apparso per un po'. Lui si guardò attorno e non vide nessuno. La strada davanti al motel era deserta, nel parcheggio c'erano una decina di auto. Mag lo precedette, lui la seguì a fatica con le pesanti valigie. Lei aveva già trovato la macchina che si adattava alla chiave. Era una BMW blu. Aprì il bagagliaio mentre Charlie attraversava il parcheggio. Lui sistemò le valigie nel bagagliaio. Mag, al volante, si chinò per aprirgli la portiera dei passeggeri. Lui salì. L'auto sapeva di nuovo. Il motore si accese, Mag ingranò la retromarcia, poi puntò verso l'uscita. «Che ne dici di fare una corsa?» chiese Mag imboccando la strada. «Io voglio tornare indietro», disse Charlie. «È troppo tardi ormai per lo spettacolo.» Forse no, pensò lui. «Non m'importa.» La donna disse qualcosa che lui non riuscì ad afferrare. Ma prese la direzione di Funland, procedendo in mezzo alla via e ignorando i semafori. Si fermò con una brusca frenata che lo scaraventò contro il cruscotto. «Prendi la roba», ordinò lei. Gli diede le chiavi e Charlie aprì il bagagliaio per tirar giù le valigie. Poi si chinò verso il finestrino e le restituì le chiavi. «Che cosa hai intenzione di fare?» s'informò. Mag sogghignò. «Faccio una corsa. Non preoccuparti, stupido, la lascerò a una certa distanza.» L'auto ripartì con uno stridio di pneumatici. Charlie sollevò le valigie e le trascinò su per la scalinata.
Si chiese quanto fosse durato il divertimento. Parecchio tempo, concluse. Ormai tutto doveva essere finito. Ma non si poteva mai sapere. Qualche volta durava abbastanza a lungo. Charlie accelerò il passo. 12 Robin sgusciò fuori dal sacco a pelo. Il mattino era grigio di nebbia. Con un brivido sedette sul sacco di nylon, frugò nello zaino, prese alcuni indumenti puliti, i jeans e la maglietta senza maniche. Lasciò scorrere lo sguardo sulle cime delle dune che circondavano il suo accampamento. Non vide nessuno e la sabbia ammucchiata era abbastanza alta da nasconderla. Rapidamente tirò fuori le banconote piegate dalle mutandine che indossava e le .infilò nella tasca anteriore dei jeans. Poi si levò la maglietta e le mutandine con cui aveva dormito e indossò gli indumenti che aveva preso dallo zaino. Aveva usato la giacca a vento come guanciale. La raccolse scoprendo il coltello che giaceva sotto il cuscino. Una volta indossata la giacca a vento smise di rabbrividire. Fece scivolare il coltello in una tasca laterale dello zaino. Si mise le scarpe, si alzò e salì il pendio sabbioso. Dalla cima aveva una chiara visuale delle dune ondulate e cosparse d'erba, nonché della spiaggia piatta che si stendeva fino all'oceano. I gabbiani volteggiavano nell'aria grigia. Un uomo correva lungo la riva con un cane nero al fianco. Più giù, nel tratto vicino a Funland, un tale dava la caccia a un improbabile tesoro con un metal detector. In mare, gli appassionati di surf si rincorrevano sulle loro tavole. L'attenzione di Robin si spostò dai surfer quando notò qualcuno che scendeva le scale del parco dei divertimenti: una donna con una maglietta bianca, i calzoncini rossi e una borsa che faceva dondolare al suo fianco. Era parecchio lontana. Era stata bene nel suo piccolo campo fra le dune, pensò Robin. Ora c'era l'alta marea, le onde arrivavano oltre lo steccato della spiaggia pubblica. «Ecco una bella ragazza.» Robin si girò di scatto. L'uomo stava sulla cresta della duna, dietro il suo campo. Grasso e vecchio, indossava abiti lisi e reggeva un bastone in ma-
no. Un vagabondo. Lei si chiese da quanto tempo la stesse osservando. Forse l'aveva spiata mentre si vestiva? «Professor E. A. Poppinsack», si presentò l'uomo sollevando leggermente il cappello, una bombetta di un marrone sbiadito, con alcune piume rosse infilate ai lati. Lui era calvo, ma aveva folti baffi con le punte arricciate. Indossava una giacca sdrucita con le frange che ondeggiavano al vento e pantaloni a scacchi che sembravano più adatti a un giocatore di golf. «Buongiorno, cara. Hai un po' di tè?» Robin scosse la testa. «Mi dispiace, non ne ho.» «Ma io sì. Vuoi farmi compagnia? Sediamoci e raccontiamoci le tristi storie sulla morte dei re.» Senza aspettare una risposta, l'uomo si girò e scese il pendio. Teneva alto il suo bastone. Strano individuo, pensò Robin. Ma le piaceva il lampo allegro e bonario nei suoi occhi, e poi sembrava innocuo. Incuriosita, lo seguì sulle dune. L'accampamento del professore era direttamente dietro il suo, in una depressione circondata da alti mucchi di sabbia. «Benvenuta nel mio castello», disse Poppinsack. Le indicò il sacco a pelo arrotolato e Robin sedette. Il vecchio si accucciò davanti a un pentolino d'acqua che bolliva su un fornelletto a propano e aggiunse altra acqua da una borraccia. «Tutti i comfort di una casa», osservò Robin. «Giusto, ma senza lo svantaggio di un'ipoteca, delle tasse e dell'assicurazione.» L'uomo prese due bustine di tè dalla tasca rigonfia della giacca, spense la fiamma del fornelletto e lasciò cadere nell'acqua le bustine. «Come ti chiami?» chiese sedendosi. «Robin.» «Ah, la piccola Robin. E che cosa fai? Io scrivo e leggo.» «Anch'io scrivo qualche poesia», rispose Robin. «Canzoni.» Gli occhi di Poppinsack si accesero. «Un menestrello?» Si battè la mano sulle ginocchia sollevando la polvere dai pantaloni a scacchi. «Siamo parenti, allora. Cantami una canzone.» Robin si strinse nelle spalle. «Non ho qui il mio banjo.» «Va' a prenderlo, dunque, e guadagnati il tuo tè con una canzone.» «Perché no?» Lei si alzò e scese il pendio fino al suo campo. Rimase colpita nel constatare com'erano vicini i due rifugi. Si chiese se Poppinsack si fosse accorto della sua presenza durante la notte. Meno male che non era rimasta completamente sola. Se i troller l'avessero scoperta, chissà se Poppinsack sarebbe accorso in suo aiuto, magari brandendo il bastone.
Con il banjo in mano, Robin risalì fino al «castello» del professore. Tirò fuori lo strumento e sedette sul sacco a pelo arrotolato. «Eri tu quella che ho sentito cantare ieri?» chiese Poppinsack. «Può darsi. Suonavo nel parco dei divertimenti.» «E io faccio giochi di parole sulla riva.» «Giochi di parole?» «Beowulf, Tennessee Williams, Mickey Spillane. Sono contento di averti conosciuta. E adesso cantami una canzone.» «Ne sto componendo una nuova. Proviamola.» Robin pizzicò le corde del banjo e cominciò a cantare. Quando ebbe finito, Poppinsack applaudì. «Bravo, piccolo menestrello. Ora beviamo il tè.» L'uomo si alzò, frugò nel suo sacco e dopo qualche secondo tirò fuori un guanto e due tazze di plastica. Con la mano guantata versò il tè in una delle due tazze e la porse a Robin. Odorava come se si fosse immerso nell'acqua di Colonia, ma sotto il profumo dolciastro emanava cattivo odore. I capillari s'intrecciavano numerosi sulle sue guance paffute, il naso carnoso era così violaceo che ricordava a Robin una grossa fragola marcia. Poppinsack era molto meglio a distanza, pensò lei. «Ti piacerebbe un po' di crema?» chiese lui. «Ne hai?» «Nemmeno una goccia. Vuoi un po' di rum?» disse il professore e prese dalla tasca della giacca una borraccia di plastica. «No. Grazie lo stesso.» Lui riempì una tazza per sé, vi aggiunse un po' di rum e tornò al suo posto sul pendio della duna. Robin esaminò il suo tè. Per fortuna non vi galleggiava nulla. Bevve un sorso e disse: «Buono!» Poppinsack bevve dalla sua tazza, sospirò e fece schioccare le labbra. «Dimmi, piccolo menestrello, quale maledizione ti ha spinta su questa spiaggia desolata?» «Vado in giro per il mondo.» «Scappi da che cosa o da chi?» Robin scosse la testa. «Che cosa ti fa credere che scappi?» «I tuoi occhi.» «Tu sei matto.» «Ho visto tante cose in cielo e in terra. Ho visto tante cose all'inferno. Come posso essere matto, dunque?» «Edgar Allan Poe, giusto?»
«Pietosamente riveduto e corretto. Che storia ha il tuo cuore da raccontare?» Robin non vedeva nessun motivo per nascondere la verità a Poppinsack. «Mio padre è morto, mia madre aveva un fidanzato che mi prestava attenzioni eccessive. Ho scelto la strada. Fine della storia.» «E come te la sei cavata sulla strada?» «Sto ancora camminando», rispose Robin. «Raccontami la tua storia, ora.» «Per dirla in poche parole, sono un vagabondo istruito.» «Sei davvero un professore?» «Ho smesso di esercitare la professione. Così è assai più piacevole che gettare perle ai maiali.» «Perciò hai rinunciato all'insegnamento e adesso leggi per tutto il tempo?» Poppinsack annuì e bevve un altro po' di tè. «Da quanto tempo sei a Boleta Bay?» chiese Robin. «Da sempre e da un giorno.» «Non hai paura dei troller?» Lui la guardò e sollevò le folte sopracciglia. «E tu non hai paura dei troll?» «Noi siamo troll, non è così? Voglio dire, i ragazzi potrebbero pensarlo.» «C'è modo e modo di essere troll», decretò Poppinsack. «Ci sono quelli innocui e quelli che non lo sono. Potrei raccontarti certe storie di follia che ti gelerebbero il sangue.» Robin fece una smorfia. «Stai cercando di spaventarmi o che altro?» «Tu sei un menestrello», replicò lui con voce chiara. «Sei una signora. Ma sotto sotto sei una bambina e non conosci la vita.» «Forse la conosco più di quanto immagini. Ho girato un po' il mondo. «E sei stata la spia di Dio alla Corte dei dannati?» «Non capisco», mormorò Robin. «Vattene da qui. Prendi il tuo zaino, fai l'autostop e vai a Frisco o a Los Angeles, salta su un pullman per Palookaville.» E, con voce improvvisamente priva di retorica, il professore aggiunse: «Via da questa città, Robin. Se rimani, potresti sparire». Lei lo fissò. «Tutti conoscevano la piccola Robin, ma nessuno sa dov'è andata.» «Adesso mi stai spaventando realmente», osservò Robin.
«Il pettirosso che oggi vola sarà un anatroccolo morto domani.» «Ma se qui è così pericoloso», chiese lei, «perché tu ci stai?» «Già, perché? Perché forse le belle ragazze mi cantano canzoni», rispose Poppinsack, finendo di bere il tè. «Addio.» Robin annuì. «È un congedo?» chiese. «Ho apprezzato molto la tua compagnia. Segui il mio consiglio e va' via.» «Credo che lo farò», convenne lei. «Questo posto mi dà i brividi e tu sei la quarta persona che mi suggerisce di andarmene.» Bevve le ultime gocce di tè, posò la tazza e chiuse la custodia del banjo. «Grazie per il tè», aggiunse alzandosi. «Grazie a te per la canzone.» Con un cenno di saluto, Robin si girò e scese la duna, allontanandosi dall'accampamento di Poppinsack. Nel bar, due isolati a destra del viale, Robin consumò la prima colazione, a base di uova strapazzate, salsicce e pane tostato. Mentre mangiava ripensava allo strano vecchio e ai suoi avvertimenti. I troll. Sparizioni. La Corte dei dannati. Ma lui poteva aver parlato a quel modo per indurla ad andarsene. Forse credeva che lei volesse invadere il suo territorio. Oppure gli piaceva spaventare la gente. Lui stesso sembrava un po' spaventato. Quando ebbe finito di mangiare, Robin prese il conto dal tavolo. La colazione costava quattro dollari e ottanta centesimi. Tirò fuori il rotolo di banconote dalla tasca dei jeans e l'aprì. Poi spalancò la bocca e sentì una morsa allo stomaco. Tornò a guardare il fascio di banconote. Erano tutte da un dollaro. Ieri, dopo essere uscita dalla banca, ne aveva sei da venti dollari e una da dieci. Era stata derubata? Impossibile. Aveva sempre tenuto il denaro nel taschino dei jeans, che erano stretti e aderenti. Nessuno avrebbe potuto sfilare le banconote e sostituirle senza che lei se ne accorgesse. Dopo essere uscita dal cinema aveva dato una banconota a un vagabondo. Poi il denaro era rimasto nella tasca finché lei si era levata i jeans.
Quella mattina il fascio di banconote era dove lei lo aveva lasciato, ricordava di averlo sfilato dalle mutandine per rimetterlo nei jeans. Più tardi non aveva avvicinato nessuno tranne Poppinsack. E lui non l'aveva toccata. Non poteva aver effettuato lo scambio. Eppure qualcuno l'aveva fatto. Mentre dormiva! pensò. Fra la sera prima al cinema e la colazione al bar qualcuno le aveva preso il denaro, sostituito le banconote da venti dollari e restituito il fascio. Nonostante il caldo nel ristorante, Robin aveva i brividi. Con gli occhi della mente vedeva Poppinsack in ginocchio accanto a lei nel buio che apriva il suo sacco a pelo, magari dopo aver frugato nelle scarpe e nello zaino. Immaginò le mani del vecchio che la toccavano mentre era addormentata, non solo per cercare il denaro, ma anche per accarezzarla. Poi una mano si era infilata nelle mutandine per prendere le banconote. E per toccarla. Sporco bastardo. E mi ha offerto il tè, e io ho cantato per lui. Per lui che aveva il mio denaro e sapeva che cosa mi aveva fatto. Robin sentiva bruciarle la faccia. Le batteva il cuore e tremava. Mi ha derubata e mi ha toccata mentre dormivo, poi ha finto di essere mio amico. I suoi suggerimenti di lasciare la città... Sperava che me ne andassi prima di scoprire che cosa aveva fatto. Robin si alzò, mise lo zaino in spalla, raccolse il banjo e andò alla cassa. Dopo aver pagato il conto le restavano soltanto sette dollari. Uscì dal bar. Ora non potrei partire anche se volessi, pensò. Sette dollari erano niente. Senza soldi, sarebbe stata troppo vulnerabile sulla strada. Umiliata e furibonda, si avviò verso il parco dei divertimenti. Funland non aveva ancora aperto, ma gli addetti si stavano preparando ad accogliere la folla. Giù sulla spiaggia, gli uomini della manutenzione ripulivano la sabbia dai detriti. Alcuni barboni frugavano fra i rifiuti. Ma Poppinsack non c'era. Parecchi jogger correvano lungo la riva. Nessuno prendeva il sole, anche perché il cielo era nuvoloso. Spariti gli appassionati di surf. La ragazza della baracca dei bagnini, però, era al suo posto. Indossava pantaloncini
rossi e una maglia bianca. Era la stessa che Robin aveva visto prima. Pochi attimi prima che Poppinsack la sorprendesse. Robin proseguì. Cominciò ad arrampicarsi fra le dune. In una depressione nascosta sistemò il banjo sulla sabbia e calò lo zaino dalle spalle. Poi prese il coltello dallo zaino e lo infilò nella tasca posteriore dei jeans. Trovò il punto dove aveva dormito la sera prima, dove Poppinsack l'aveva derubata e... toccata. Da lì sapeva dove trovarlo. Salì in cima a una duna e sfilò il coltello dal fodero. Ma lui era sparito. Tutto ciò che rimaneva erano due bustine di tè vuote abbandonate sulla sabbia. 13 Jeremy scese la scala fino alla spiaggia. Verso mezzogiorno era spuntato il sole e parecchie ragazze stavano sdraiate sulla sabbia ad abbronzarsi, ma non mostravano nessun interesse per lui. I suoi occhi si spostarono verso la stazione dei bagnini. Lei era laggiù. Tanya. Anche a quella distanza la riconobbe per l'altezza e per le curve, per le gambe abbronzate e per i capelli d'oro. Il vederla gli causò una fitta di dolore. Avrebbe voluto correre da lei, prenderla fra le braccia e baciarla, sentire il suo corpo premuto contro il proprio. Posso sempre andare a salutarla, si disse. Dirle che l'altra notte ero qui e che Cowboy è venuto ad avvertirmi che la riunione era rimandata. Ma non si mosse. Che razza di moccioso, pensò stringendo i denti. Se soltanto la conoscessi meglio. Chissà, forse dopo aver fatto una di quelle escursioni fra i troll. Risalì le scale. Cowboy gli aveva dato appuntamento per il pomeriggio, ma non aveva precisato l'ora. Jeremy cercò di localizzare l'amico. Sospettava che Cowboy fosse da qualche parte lungo il lato sud del viale. I baracconi e le attrazioni di maggior spicco si trovavano laggiù. Ma Jeremy non aveva ancora visitato il lato nord. Aveva tutto il pomeriggio per trovare Cowboy, perciò si avviò in quella direzione.
La gente che incontrava sembrava la stessa del giorno prima: coppie e famiglie al completo, gruppi di ragazzi. Probabilmente in vacanza. Il giorno prima, quando ancora non conosceva Cowboy, Jeremy si era sentito intimidito da quell'assortimento di individui. Ora non più. Non si sentiva solo, sapeva di avere degli amici nelle vicinanze. Non solo Cowboy, ma anche Liz nella sua vasca, Tanya là sulla spiaggia, e perfino quegli adolescenti che gironzolavano nel parco. A un tratto sentì la musica distante di un banjo. Oltre un padiglione. Veniva dallo strumento di quella smorfiosa che la sera prima lo aveva umiliato? Seguitò a camminare e la musica si fece più distinta. Più avanti, un gruppo di spettatori circondava la musicante. Lei suonava e cantava. Brava. E anche carina. Aveva le braccia nude e la camicia azzurra sbottonata lasciava intravedere una striscia del petto. La canzone finì, il pubblico applaudì e qualcuno si fece avanti per gettare qualche moneta nella custodia del banjo. Jeremy era pronto ad acquattarsi se lei avesse guardato nella sua direzione, ma la ragazza tenne la testa china e gli occhi bassi. Quando sollevò la testa lui sgusciò dietro un uomo alto. «E ora una canzone che ho composto io stessa», annunciò lei. «Si potrebbe definire un inno contro la guerra... o forse no.» Cominciò a suonare e a cantare accompagnandosi con il banjo. È l'incendio più vasto del mondo. Il fuoco è dovunque, nei nostri capelli, sui nostri abiti... Disgustoso, pensò Jeremy. Ma il pubblico sembrava divertirsi. Lui, però, ne aveva abbastanza. Si allontanò e tornò indietro. A un tratto si accorse che una donna poliziotto lo fissava. Con lei c'era un uomo. Tutti e due indossavano magliette bianche, berretti e calzoncini corti blu. Se non fosse stato per i cinturoni, Jeremy non avrebbe immaginato che erano agenti di polizia. La donna annuì all'uomo che le stava di fianco, senza tuttavia distogliere gli occhi da Jeremy. Fingendo un atteggiamento indifferente, lui girò la testa. Adesso mi ferma, pensò. Gli bruciava la faccia e gli batteva forte il cuore. Dentro tremava.
Non ho fatto niente! Lei lo sorpassò. Jeremy tirò un sospiro. Lasciò passare qualche secondo, poi guardò da sopra la spalla. La donna parlava con l'altro poliziotto. Stupida. Perché mi avrà guardato a quel modo? Carina, però, per essere una poliziotta. Somigliava molto a Tanya, i capelli sotto il berretto avevano lo stesso colore dorato. «Ehi, amico!» Jeremy si voltò e sorrise. «Accidenti, arrivi sempre di soppiatto.» «Ammiravi la polizia locale?» «Lei ha un bel posteriore», dichiarò Jeremy e cominciò a seguire Cowboy. «Ha tutto bello, Duke.» «La conosci?» «Agente Delaney. Sembra okay. È qui da un paio di settimane.» «Ma è una vera poliziotta?» chiese Jeremy. «Come no? Questo è un parco pubblico, pattugliato dal dipartimento di polizia di Boleta Bay, e non da una compagnia privata di vigilantes.» «Non c'è neppure un guardiano notturno?» «No. Solo la polizia locale. Questo facilita le cose a noi. Basta che mettiamo qualcuno di guardia che ci avverte se arriva un'auto di pattuglia. Il che non avviene tanto spesso. I poliziotti trascorrono la maggior parte del loro tempo al negozio delle frittelle.» «Sicché non vi hanno mai acciuffato?» «Non si sono mai avvicinati tanto», rispose Cowboy. «Ehi, guarda lì.» Cowboy si fermò e indicò alla sua destra la folla che lasciava la zona cintata davanti alla giostra gigante. In una gabbia si dondolava una ragazza sottile aggrappata al braccio del suo ragazzo, come se fosse troppo stordita per stare in piedi da sola. Jeremy calcolò che fossero tutti e due sulla ventina. Lei indossava un paio di short di jeans, tagliati così corti che sembrava non avessero gambe. La maglietta era abbastanza lunga da coprirle i seni, ma si sollevava in continuazione. Aveva un aspetto che colpiva, però. I capelli, tinti di bianco, si drizzavano in ogni direzione, portava orecchini di piume rosse, aveva sulle labbra un rossetto argentato e masticava gomma. Il suo ragazzo sembrava un duro, con gli stivali da motociclista e i jeans sbiaditi. Alla cintura, il fodero con un coltello. Era senza camicia, abbron-
zato e muscoloso. Sul petto aveva un tatuaggio che raffigurava un pugnale con avvolto intorno un serpente. Dal lobo di un orecchio pendeva qualcosa che somigliava vagamente a un paio di manette in miniatura. Fuori dal recinto della giostra i due si voltarono per aspettare un'altra coppia. Lui era un tipo magro e sparuto, aveva i capelli tagliati alla Mohawk, tinti di un rosso acceso. Portava una striscia di ottone al collo e un'altra sul braccio. Orecchini di ottone. Era nudo fino alla cintola e indossava pantaloni neri di pelle. Non aveva tatuaggi, ma Jeremy notò che portava un coltello come il suo amico. La ragazza al suo fianco aveva la testa rapata. Le sottili sopracciglia rivolte all'insù ricordavano a Jeremy Ming lo Spietato. Aveva seni troppo larghi per la corporatura esile. La maglietta ondeggiava a ogni passo. Indossava una minigonna nera di pelle e stivali neri fino al ginocchio. Il gruppetto svoltò a sinistra e Cowboy si affrettò a seguirli. Si fermarono davanti alla «Casa dei mostri» di Jasper Dunn. Un vecchio cadaverico e ossuto stava in piedi su un palco accanto all'ingresso e sogghignò. «Entrate, amici. Venite a vedere le straordinarie meraviglie della Casa di Jasper. Da questa parte, prego. Venite a vedere il bambino a due teste, l'orango del Borneo, la mummia Ram Cho-tep e altre stranezze mai viste. Entrate, prego.» «Scommetto che è una truffa», disse Mohawk agli amici, abbastanza forte da farsi sentire da Jasper. «Una volta sono entrato in un baraccone come questo, e c'erano solo fotografie.» «Vi assicuro che la mia mostra è autentica. Nei tempi passati ogni specie era presente in carne e ossa. Ora ne sono rimasti pochi. Ma se credete potrete ammirare una collezione di fotografie appena entrerete nella Casa di Jasper.» «Che cosa vi avevo detto?» sghignazzò Mohawk. «Fottute fotografie.» «Entriamo», propose la ragazza tatuata. «Tu che ne dici?» chiese rivolta alla sua amica. L'altra si strinse nelle spalle, la maglietta si sollevò lasciando intravedere il lato di un seno. «Io ho fame.» «Prendiamo un po' di patatine», suggerì l'amica. «Okay», tagliò corto il ragazzo con il tatuaggio. Prese alcuni biglietti dalla lasca e soggiunse: «Vieni, Jingles». Afferrò la sua ragazza per un braccio e si avviò verso la scaletta. Anche Mohawk prese qualche biglietto.
«E voi due?» chiese Jasper rivolgendo gli occhi acquosi verso Jeremy e Cowboy. «Veniamo», disse Cowboy. Jeremy sentì freddo allo stomaco. «Non so...» mormorò. «Fifa?» gli chiese Cowboy. Non sono un fifone, si disse lui. «Non ho il denaro», replicò. «Non c'è problema», lo rassicurò l'amico. «Io ne ho molto.» Jeremy avrebbe voluto guardare Jingles in minigonna mentre saliva la scaletta, ma lei era già in cima. Le vedeva solo la schiena menlre seguiva il suo ragazzo olire la porta. La ragazza con la gonna di pelle stava ancora salendo, ma Mohawk bloccava la visuale. Jeremy, però, era più preoccupato di entrare nella Casa dei mostri. E anche impaurito. Jasper gli dava i brividi. Non voleva vedere le cose mostruose nell'interno. Ma non poteva lasciar credere a Cowboy che era un fifone. Salì la scaletta dietro all'amico che consegnò i biglietti all'uomo dall'aspetto sepolcrale. 14 Ecco, pensò Jeremy, era già brutto trovarsi qui con quei quattro balordi, e adesso ci mancava quel cadavere vivente! Jasper lo aveva seguito oltre la porta. Probabilmente il vecchio voleva assicurarsi che nessuno gli guastasse la sua preziosa collezione. La porta si chiuse, tagliando fuori la luce esterna. Jeremy s'era aspettato di vedere una specie di sala da museo; invece si trovò in un corridoio. L'unica luce veniva dalle lampadine sistemate sotto le fotografie che si allineavano sulle pareti. Jingles e i suoi amici si erano fermati davanti alla prima foto. Jasper superò il gruppetto e andò a mettersi in fondo al corridoio. «Meno male», commentò Cowboy togliendosi il cappello e sfiorando con i bordi la spalla di Mohawk. «Togliti di mezzo», gli ordinò Mohawk. «Mi scusi tanto, signor sbruffone.» Jeremy emise un gemito. «Vuoi prenderle, ragazzo?» Cowboy aprì la bocca, Jeremy gli diede un colpetto con il gomito. La ragazza rapata mise un braccio intorno alla vita di Mohawk e disse: «Andiamo, Woody. Non mescolarti con dei mocciosi».
Si girarono e Jeremy trattenne l'amico per un braccio. «Lasciali andare», sussurrò. «Hai sentito come ci ha chiamato quella lì?» «Sono pericolosi.» «Non mi fanno paura.» Jeremy notò che gli altri avevano proseguito nel corridoio. Non si fermarono a guardare le foto, evidentemente cercavano altro. Nonostante i suggerimenti di Jeremy di lasciare andare i quattro punk, Cowboy volle seguirli. Si ritrovarono tutti in un altro corridoio. Le due coppie stavano davanti alla prima vetrina. Jasper era dietro di loro, quasi invisibile tranne la faccia spettrale. «Aspettiamo», sussurrò Jeremy. «Non essere ridicolo», disse Cowboy e avanzò verso il gruppo senza affrettarsi. Jingles e i suoi amici si erano spostati davanti a una mummia illuminata da un riflettore ai suoi piedi. «Quello non è Karloff», commentò Cowboy dirigendosi verso la mummia. Non somigliava a nessuna mummia che Jeremy aveva visto nei film dell'orrore o nei musei. In quel corridoio c'èrano altre due vetrine. I quattro punk dovevano averle già ammirate perché stavano svoltando l'angolo. «Le pollastrelle se ne vanno», annunciò Jeremy. «Be', sbrighiamoci allora.» Cowboy si allontanò dalla vetrina che stava osservando. Jeremy lo seguì. Prima di svoltare l'angolo gettò un'occhiata alla vetrina dove troneggiava un ragno gigantesco. Appena girata la parete si fermò di botto. Aveva calcolato che i punk fossero ormai a metà corridoio e invece si trovavano davanti alla prima vetrina. La rarità era in una gabbia. Come la mummia, era sorretta da cinghie di cuoio. «Quello non è un orango calvo del Borneo», decretò il punk tatuato. «Perché, ne hai mai visto uno?» chiese Jingles. «Ho visto gli oranghi allo zoo, e quello non gli somiglia.» Neppure a Jeremy sembrava un orango. Così pelato. Sembrava piuttosto un animale preistorico. Sebbene fosse alto e muscoloso, il tessuto della sua carne dava l'impressione d'essere soffice e flaccido. Non portava addosso niente tranne una specie di perizoma, con un'e-
norme sacca nera. «Che cos'è questo 'coso', insomma?» chiese il Tatuato girando la testa verso Jasper, che li aveva seguiti. «Mi avete detto di restarmene fuori dai piedi e io obbedisco», replicò il vecchio. «Io credo che sia tuo padre, sbruffone.» Jeremy si sentì gelare. Il punk si girò di scatto. I suoi occhi sembravano schizzar fuori dalle orbite, aveva la bocca spalancata e ansava. E stava immobile come una statua. Poi la sua mano si mosse verso il coltello appeso alla cintura. Slacciò il lembo del fodero e tirò fuori un coltello a serramanico. «Oh, oh», disse Cowboy. Il ragazzo sogghignò, si toccò il cappello, poi girò sui tacchi e corse dietro l'angolo. Jeremy lo seguì di corsa. «Prendiamoli!» sentì gridare Woody. Cowboy spalancò la porta, la luce del sole colpì gli occhi di Jeremy. Guardando di traverso vide Cowboy scavalcare la ringhiera di legno e cadere sull'assito. Lo imitò. Gli si piegarono le gambe e le ginocchia colpirono il legno. Con una smorfia strisciò avanti e cercò di rialzarsi. Qualcuno gli atterrò sulla schiena, facendolo ricadere. Si sentì afferrare per i capelli. Si sentì tirare indietro la testa e allora capì che Woody stava per tagliargli la gola. Invece il punk gli piegò la testa verso il basso e gli fece sbattere la fronte sulle assi. «Ehi, verme! Lui non ha fatto niente», disse una voce. La voce di Cowboy. Woody si sollevò dalla schiena di Jeremy dopo aver premuto forte le ginocchia su di lui. Jeremy si mise carponi. Sollevando la testa vide i quattro punk davanti a sé. Avevano circondato Cowboy che non tentava neppure di scappare. Se ne stava là impalato, girandosi lentamente e sogghignando verso ciascuno di loro. Woody e il Tatuato impugnavano i coltelli. E sorridevano a loro volta. Alcuni spettatori avevano formato un semicerchio intorno al gruppo. Sembravano eccitati, ansiosi di vedere che cosa sarebbe successo. Credevano forse che fosse uno spettacolo? «L'ultima volta che ho visto degli str... come voi», disse Cowboy guardando da Jingles a Woody, «è stato prima di tirare la catena del cesso.»
Idiota! pensò Jeremy. Il Tatuato scattò di fianco. Cowboy si portò fuori dalla sua portata, ma il coltello gli tagliò l'avambraccio. «Ehi, faccia di topo...» Woody lo caricò da dietro. Jeremy si slanciò avanti. Si tuffò e afferrò Woody per una caviglia. L'altro cadde piatto e allora intervenne Jingles calpestando il braccio di Jeremy. Lui lanciò un urlo. La ragazza sollevò lo stivale per colpire di nuovo e Jeremy cominciò a rotolare. Lei pure rotolò. Si fermò solo quando il ragazzo rimase supino e allora gli affondò lo stivale nel ventre. Per un istante, mentre il piede si abbatteva su di lui, Jeremy si accorse di godere di una vista meravigliosa sotto la maglietta della ragazza. Proprio il panorama che aveva sperato di ammirare. Fantastico, pensò. Poi il suo corpo esplose di dolore e gli mancò il respiro. 15 Più avanti, un vagabondo colpì la donna in piedi davanti a lui. Il minuscolo registratore le volò via dalla mano. L'apparecchio cadde e per poco non colpì in faccia un passante. Mentre la donna si precipitava a raccogliere il registratore, Dave vide che si trattava di Gloria. «Giornalista in missione», disse Joan. «Cristo», masticò Dave. Joan prese lo sfollagente appeso al cinturone e si diresse verso il vagabondo. Dave corse verso Gloria. Lei raccolse il registratore e l'avvicinò all'orecchio per sentire se si era rotto qualcosa. «Gloria!» Lei girò di scatto la testa. Per un istante parve sorpresa, disorientata. Poi sorrise. «Oh, sei tu!» «Sì, sono io.» Dave non riuscì a nascondere che era scocciato. «Che cosa diavolo fai?» «Cercavo di fare un'intervista, ma...» «No, per favore! No!» «Piantala!» Joan spinse il barbone più vicino a Gloria. Gli occhi acquosi dell'uomo avevano uno sguardo terrorizzato. Gloria sospirò e scosse la testa. «Non fargli male, lascialo stare. Non ha fatto niente. Io... ho sconfinato nel suo territorio.» Guardò il barbone e
soggiunse: «Mi dispiace tanto, non intendevo procurarti dei guai». «Lascialo andare», disse Dave alla collega. «Va' a fare un giretto», suggerì Joan al vagabondo, e riappese lo sfollagente al cinturone. L'altro si allontanò, mugugnando fra sé. «Scusatemi, voi due», disse Gloria. Joan scrollò le spalle e sorrise. «Non c'è problema. Stai bene?» «Sì, sto bene. Non intendevo causare guai. Cercavo di ottenere la 'loro' versione sul fenomeno del trolling. Chiaro che non si fidano di me.» «Sono tutti pazzi», spiegò Joan. «Perché non cerchi una storia diversa?» suggerì Dave. «Non otterrai mai delle risposte dirette da...» «Polizia!» Dave piroettò lontano da Gloria. Un ragazzino di circa dodici anni fendeva la folla di corsa. Si girò e puntò il dito dietro le spalle. «Polizia!» gridò di nuovo. «Una rissa. Coltelli!» Rallentò mentre si avvicinava agli agenti. «Qualcuno resterà ucciso! Laggiù, alla Casa dei mostri!» Dave prese la radio dal cinturone e premette un tasto. «Chiediamo rinforzi. A Funland, davanti alla baracca di Dunn. Per precauzione mandate un'ambulanza.» Poi spense la radio e seguì Joan. Lei era già balzata oltre il ragazzino. Dave si mise nella sua scia, ma non riuscì a raggiungerla. Non gli andava l'idea che Joan piombasse per prima in una rissa. Non sapevano com'era la situazione, nessuno dei due. Il ragazzino aveva detto che c'erano dei coltelli, al plurale. Quanti? Dave avrebbe voluto saperne di più. «Aspetta!» gridò a Joan. Lei non si fermò. «Maledizione!» borbottò Dave. Joan sparì nella folla. *** Il gruppo di spettatori che Joan vide davanti alla Casa di Jasper le ricordò il pubblico della ragazza del banjo. Solo che qui erano più numerosi. Alcuni scappavano, altri non stavano fermi ad ascoltare, ma saltellavano e gridavano. Joan smise di correre e si fece strada tra la folla. «Permesso. Polizia. Spostatevi. Polizia. Muovetevi!» Qualcuno si rifiutò di muoversi, non vo-
leva perdersi lo spettacolo. Lei emerse davanti alla folla. «Polizia!» gridò correndo avanti e cercando di capire che cosa stesse accadendo. «Fermi!» Un ragazzo con la faccia insanguinata stava chino per sferrare una ginocchiata allo stomaco di una ragazza. Lei era nuda, tranne che per i jeans cortissimi. La ginocchiata la sollevò da terra. Una seconda ragazza, in minigonna di pelle e con il top stracciato si rialzò per caricare il ragazzo. Lo sollevò da terra e tutti e tre caddero, l'uno sull'altro. Joan si precipitò verso di loro. «Polizia!» gridò. Quello in cima al mucchio, un punk con i capelli rossi alla Mohawk, si alzò di colpo e si rivolse all'agente. Nella mano destra stringeva un coltello, nella sinistra un orecchio mozzato. Dietro di lui, un ragazzino stava disteso a gambe larghe sull'assito, stringendosi un lato della testa. Un altro individuo, evidentemente il complice di Mohawk, spinse la vittima da parte e fece per alzarsi. «Fermi, voi due!» ordinò Joan. Con la coda dell'occhio colse un movimento, guardò a sinistra e vide le due ragazze che fuggivano. Aveva creduto che fossero vittime del ragazzino, ma si era sbagliata. La folla si aprì per lasciarle passare. Il ragazzino si mise seduto e con una maglietta bianca si asciugò il sangue sulla faccia. Joan tornò a rivolgere la sua attenzione ai due ragazzi a torso nudo. Entrambi avevano un coltello. I due si scambiarono un'occhiata. «Gettate le armi!» Quello che era rimasto sotto la vittima scosse la testa. Lo stesso fece quello con l'orecchio in mano. «Gettate le armi. Subito!» Era la voce di Dave. Veniva dietro di lei. Il punk con i capelli alla Mohawk si cacciò l'orecchio mozzo in bocca. Cominciò a masticare e Joan pensò: Non potranno riattaccarglielo! L'orecchio volò fuori dalla bocca e andò a sbattere dolcemente contro il seno destro di Joan, un istante dopo che il suo piede era affondato nello stomaco del punk. L'orecchio rimase appeso alla sua maglietta. Lei lo prese con la mano libera e, con la punta della scarpa, colpì il ragazzo al mento. Sangue e frammenti di denti gli uscirono dalla bocca. Il coltello volò tra la folla alle sue spalle. Poi il ragazzo si accasciò a terra e rimase immobile. Il suo amico fece una piroetta. Uno degli spettatori non fece in tempo a togliersi di mezzo e ricevette una coltellata nello stomaco. Di corsa il tep-
pista fendette la folla che si aprì. Mentre Dave partiva all'inseguimento, Joan si accovacciò accanto al ragazzo che si torceva sul marciapiede di legno. «Ho qui il tuo orecchio», gli disse. «Te lo riattaccheranno e sarai bello come prima.» Almeno, così sperava. Il ragazzino aveva parecchie ferite. Joan sentì le sirene. «Fra un minuto arriverà l'ambulanza. Cerca di resistere.» «Non credo di avere molte possibilità», mormorò il ragazzo. Joan si spostò per andare a inginocchiarsi accanto all'uomo che era stato accoltellato. Era cosciente, serrava le mani sulla ferita e cercava di rialzarsi. Lei gli posò la mano sulle sue e gliele strinse gentilmente. «Andrà tutto bene. Tenga le mani premute sulla ferita, sta arrivando l'ambulanza.» Joan tornò presso il ragazzo con l'orecchio mozzato e gli prestò i primi soccorsi, in attesa dell'ambulanza. Dave volteggiò sopra la ringhiera e si lasciò cadere sulla spiaggia. Appena toccò la sabbia ruzzolò in avanti. Rotolò sulla spalla, si rialzò di fronte all'oceano, ma non vide il punk correre via. Fece in tempo a vederlo mentre si slanciava da sotto la passerella di legno. Non in tempo per evitare il coltello. Dave si girò di fianco e la lama lo colpì di striscio. Lui non sentì dolore, ma qualcosa di caldo appena sopra le costole. Afferrò l'aggressore per il polso. Cori l'altra mano lo colpì dietro il gomito. Sentì uno schiocco. Il punk urlò e lasciò cadere il coltello. Dave lo scaraventò sulla sabbia e, inginocchiandosi, gli spinse il braccio rotto dietro la schiena. L'altro urlò di nuovo, ma non oppose resistenza. In due secondi Dave lo ammanettò. Jingles sedeva con la schiena contro un palo sotto il passaggio. Aveva un gran male allo stomaco per la ginocchiata di quel moccioso. «Quanto tempo è passato?» chiese Lorna. «Chi lo sa? Un'ora?» Forse di più, pensò Jingles. Sembravano secoli da quando aveva sentito le sirene. «Forse un paio d'ore», soggiunse. «Scommetto che i piedipiatti se ne sono andati, ormai», osservò Lorna. «E con questo?» «Forse dovremmo andare anche noi.» «Oh, certo! Nel caso tu non l'abbia notato, mi manca qualcosa. Quel fot-
tuto moccioso!» «Che cosa dobbiamo fare?» «Non lo so.» Jingles si alzò in piedi e si scrollò dal sedere la sabbia umida. Guardandosi attorno, sbirciò fra la buia foresta di pali. Qualche sprazzo della spiaggia assolata. «Tu non andresti a cercarmi un top?» «Che cosa vuoi, che rubi il bikini a qualcuno?» «O un asciugamano.» «Facile dirlo. Poi i piedipiatti mi arrestano e tu rimani qui con le tette al vento.» Jingles si tirò indietro e guardò l'amica. «Hai del denaro?» «Ho lasciato la borsetta nell'auto.» «Anch'io. Accidenti. E pensare che quei negozi sono pieni di mercé. Che ne diresti di andare su a prendermi qualcosa?» «Ma guardami!» Lei indicò il davanti del top stracciato. «Dove vado a prenderti qualcosa, così conciata?» Jingles scosse la testa. Si vedeva benissimo il seno sotto la stoffa del top dell'amica e la gonna non nascondeva più niente. Troppo corta. «Non devi andare da nessuna parte», spiegò Jingles. «Devi indossare un indumento. Prendi una camicetta, l'indossi e crederanno che sia tua.» «Scordatelo. Guardami. Credi che possa realmente entrare in un negozio e portar via qualcosa?» «Suppongo di no», ammise Jingles. Lorna aveva ragione, avrebbe dato subito nell'occhio, anche perché aveva un labbro gonfio; la sua testa rapata e gli abiti da cui si intravedeva il corpo completamente nudo l'avrebbero tradita. «Allora perché non vai alla macchina?» suggerì Jingles. «Woody l'ha chiusa a chiave.» «Rompi un finestrino.» «Mi ucciderebbe.» «Lui non può uccidere nessuno. Probabilmente è in galera. Perciò rompi il finestrino, prendi la borsetta e vai a comperarmi...» «Non sono mica pazza. Forzare un'auto in pieno giorno?» «Ci vado io.» «Facile dirlo.» «Dammi la tua maglietta. Vado a rubare qualcosa.» «No, grazie. Lasciarmi qui sola? Se ti prendono, ci resto io in braghe di tela.» «Non preoccuparti, non ti lascio sola. Inventeremo qualcosa.»
«Ascolta», disse Lorna. «Aspettiamo finché sarà buio, eh? Poi saltiamo addosso al primo che passa e gli prendiamo qualcosa che tu possa indossare. Ti sembra una buona idea?» «Ma ci vorranno ore!» «Hai un'idea migliore?» Jingles scosse la testa. «Credo di no.» Rimasero sedute ad aspettare, con la schiena contro il palo, cercando di tenersi nascoste a chiunque passasse nelle vicinanze e guardasse sotto. Dopo un po', Lorna si allungò sulla sabbia, incrociò le braccia sotto la testa e chiuse gli occhi. Jingles voltò gli occhi verso la costruzione vicina. Probabilmente faceva parte della Casa di Jasper, poiché sorgeva proprio accanto alla Casa dei mostri ed era alta due piani. In mezzo al muro c'erano alcune assi incrociate. Jingles immaginò che le assi coprissero un buco nel muro. Qualche barbone, probabilmente, era penetrato nella costruzione, sperando di trovar riparo nella casa abbandonata, e le assi erano state messe per tener lontano i vagabondi. Con il buio, pensò, questo posto sarà affollato di barboni. Prima del calar del sole cadde la nebbia. Ora Jingles non vedeva più il muro. E faceva freddo. Guardò attraverso la luce fioca le sbarre di legno incrociate alla base della casa. Se avesse potuto staccare qualche asse... Probabilmente là dentro faceva caldo. Aspettare laggiù al caldo. Jingles si sollevò e si avvicinò a Lorna per svegliarla. Lorna rotolò sul fianco. «Dio, che freddo!» «Vieni.» «Che cosa?» «Vieni a vedere.» Lorna seguì l'amica fino al tratto sbarrato delle fondamenta. «Che cosa facciamo?» «Credo che possiamo entrare.» «Balle.» «Preferisci gelare?» Jingles infilò le dita sotto il bordo di un'asse e tirò. Aveva creduto che le assi fossero inchiodate.
Invece l'intero incrocio venne avanti. È una porta! Oltre l'apertura c'era un buio totale. Ma Jingles sentì uscire del calore. «Non mi piace», borbottò Lorna. Neppure a me, pensò Jingles. Una vera porta. Segreta, Ma il caldo era meraviglioso. «Fa caldo, vieni», disse. Jingles entrò nel buio, Lorna la seguì. Jingles chiuse la porta. Il calore le penetrava nella pelle. «È magnifico, eh?» Poi sentì le mani sopra di lei. 16 Dopo aver fatto la doccia, Dave rimosse la fasciatura inzuppata che gli avevano applicato al Pronto Soccorso. Il taglio, appena sotto il capezzolo sinistro, era stato ricucito con una fila di punti. Per fortuna il coltello non era penetrato nel tessuto muscolare. Ma se avesse tardato a spostarsi... Cambiò la fasciatura, si pettinò e infilò una vestaglia. Poi andò in cucina a cercare una birra. Stava per aprire il frigorifero quando suonò il campanello. Lui non si aspettava che Gloria venisse a trovarlo. Aveva notato l'espressione della sua faccia quando Joan era salita con lui sull'ambulanza. Al Pronto Soccorso non s'era fatta vedere. Ma evidentemente ora aveva deciso di fargli una visitina, se non altro per intervistarlo per il Post. Poliziotto spezza un braccio a un minorenne. Bastava dirle che non aveva voglia di discutere e pregarla di tornare in un altro momento. Dave aprì la porta. «Ciao, tigre.» Il sorriso di Dave svanì. «Ti ho portato le medicine», annunciò Joan e sollevò una bottiglia di champagne dal sacchetto di carta che teneva contro il petto. Dentro il sacchetto c'era un'altra bottiglia. «Entra», la invitò Dave. Lei alzò le spalle. «Volevo solo lasciarti queste. Non ho l'abitudine di piombare in casa della gente.»
«Allora rompi l'abitudine.» Lui le fece segno di entrare e chiuse la porta. «Siediti, mettiti comoda. Vado a vestirmi.» «Non preoccuparti per me», replicò lei in tono leggero, ma il suo viso arrossì. «Faccio subito.» Dave si affrettò in camera da letto, infilò gli slip e un paio di pantaloni di fustagno, una camicia a scacchi, calzò dei mocassini e tornò di corsa in soggiorno. Joan era china sul tavolino e stava disponendo le bottiglie sopra il sacchetto appiattito. Gli sorrise, si drizzò e si sfregò le mani sulla gonna. Era molto corta. Faceva parte di un abito con una lampo sul davanti. La lampo non era tirata su fino al collo. Le maniche erano arrotolate fino ai gomiti. «Sei elegante, mi piace il tuo vestito», osservò Dave. «Devi vedere Harold, più tardi?» «Ne dubito. Ho pensato di far colpo su di te.» «Ci sei riuscita.» Lei rise. «Dunque, missione compiuta.» Seguì Dave in cucina e gli chiese: «Come ti senti? Hai una brutta ferita, sai?» «Non è così brutta», disse lui. Non aveva finito di dirlo che sentì una fitta di dolore mentre alzava il braccio per prendere i bicchieri dalla credenza. Si lasciò sfuggire una smorfia. Joan gli mise la mano sulla spalla. «Sta' attento, amico.» «Mi chiedo come staranno gli altri.» «Ho appena fatto un salto all'ospedale.» Joan gli prese i bicchieri dalla mano e tornò in soggiorno. «Per Willis ci sono stati dei problemi, ma se la caverà. Pensano di aver salvato l'orecchio del ragazzo. È un po' mutilato, ma gliel'hanno riattaccato.» «Grazie al tuo intervento tempestivo», disse Dave in tono ammirato. «Lo hai distrutto con i tuoi colpi, quell'individuo.» Lei non lo guardò in faccia. «È quanto pensano anche i medici.» «Stai scherzando?» «Non ha ancora ripreso conoscenza.» «Ma si riprenderà?» «Non lo sanno.» «Gesù!» Dave si abbassò con cautela sul divano, si appoggiò allo schienale e osservò Joan che staccava la stagnola a una delle due bottiglie. «Il tappo non
è di plastica», notò lui. «Dev'essere roba buona.» «Il migliore.» Joan tolse il cappuccio dal tappo e lo lasciò cadere sul tavolo. Poi cominciò a girare il turacciolo. Il tappo andò a cadere su una sedia a dondolo. Joan riempì i bicchieri, ne prese uno per sé e andò a sedersi accanto a lui. «Ai riflessi pronti e alle fughe difficili», brindò. «Prosit.» Fecero tintinnare i bicchieri e bevvero. «Davvero squisito», approvò Dave. «Be', non capita tutti i giorni di acciuffare due delinquenti armati di coltello. Bisogna festeggiare.» «Giusto! Come sta il mio punk?» «Il suo braccio sarà come nuovo per quando uscirà di prigione. Può darsi fra dieci anni... sempre che Willis non muoia.» «Non è un minorenne?» Joan corrugò la fronte. «Ha diciannove anni.» «Perfetto. E il suo amico?» «Stessa età. Non che importi molto, tanto non gli faranno il processo», replicò Joan. «Guarirà.» Joan si strinse nelle spalle e, con un sorriso forzato, bevve un altro sorso di champagne. «Si chiama Woodrow. Ci crederesti? Woodrow Abernathy. Un nome così e lui circola con un piumino rosso in testa come nei film comici. L'hai visto quando s'è cacciato in bocca l'orecchio di quel ragazzino?» Dave annuì. Osservava gli occhi della sua collega. Occhi solitamente sicuri, qualche volta divertiti. Ora sembravano confusi e un po' spaventati. «Voglio dire, se Woodrow aveva fame, poteva mangiarsi un hot dog.» «Tu hai agito come dovevi», disse Dave battendole una mano sulla coscia. La sua pelle gli mandò un calore improvviso. «Quel verme sapeva che cosa faceva, voleva distruggere l'orecchio.» «È stato proprio il mio primo calcio a fare il lavoro.» «Ma lui era sempre armato.» «Avrei potuto portargli via il coltello. Non dovevo demolirlo.» Joan finì lo champagne e tornò a riempirsi il bicchiere. Riempì anche quello di Dave. «Non avrei dovuto farlo», mormorò. «Probabilmente guarirà. Se non guarisce, vuol dire che avrai salvato una vita. La sua prossima vittima... o vittime.»
«Già, continuo a ripetermelo. Balle.» «È la prima volta che colpisci qualcuno?» «L'anno scorso ho rotto la clavicola a un tale. Lo avevo bloccato per eccesso di velocità e lui mi aveva mollato un pugno.» «Una volta ho ucciso un uomo», confessò Dave. «Ero ancora nella polizia di Los Angeles. Uno spacciatore di droga. Lui aveva spianato un Mac 10 contro di me.» «Gesù!» «Sono potenti armi automatiche, quelle. Quando però è rimasto senza munizioni, gli ho piantato quattro pallottole nel petto.» «Gesù!» ripetè Joan. «È stato un caso di legittima difesa, non ti pare?» «Direi di sì.» «Dopo di che sono finito qui, in questa cittadina», riprese Dave. «Immaginavo che fosse tranquilla. E di solito lo è. E tu come sei approdata a Boleta Bay?» «La mia famiglia ha traslocato. Mia madre ha sposato un poeta che si era trasferito e non vedeva l'ora di tornare.» «Questa è una città schizofrenica», decretò Dave. «L'hai notato anche tu?» «Sicuro. E tuo padre?» «È caduto in Vietnam, sul delta del Mekong. Era su una motovedetta di pattuglia, imbarcato come cannoniere.» Joan bevve un altro po' di champagne. «A ogni modo, siccome mamma aveva questa relazione con il suo poeta, ci siamo trasferiti qui. È stato tre anni fa. Io ho cominciato a frequentare un corso universitario per bibliotecaria...» «Tu, bibliotecaria?» «Perché, ti stupisce?» «Difficile immaginarti in quella veste. E come mai una futura bibliotecaria è finita poliziotta?» «Mamma e il suo poeta sono spariti all'improvviso. Io cercavo lavoro e durante le ricerche ho conosciuto dei poliziotti. Beth Lanier e io andavamo d'accordo. È stata lei a mettermi l'idea in testa. Il resto lo conosci.» «Ehi, come mai non sapevo tutto questo?» chiese Dave. «Non me l'hai mai domandato.» Sorridendo, Joan gli prese il bicchiere vuoto e lo posò sul tavolo con il suo. Poi cominciò ad aprire la seconda bottiglia. «Io ero già qui quando ti sei arruolata», osservò Dave. «Nessuno mi ha
mai parlato della sparizione di tua madre.» «Probabilmente c'è un sacco di altre cose che non sai.» Joan sturò la bottiglia. A differenza dell'altra, sputò un getto di schiuma innaffiandola completamente. «Oh, mi dispiace!» «Non c'è problema.» Lei si sfregò la coscia bagnata, allargò le gambe e guardò l'imbottitura del divano. «Non mi pare di aver fatto danni al divano», mormorò. Dave guardò, ma non l'imbottitura. Lui vide soltanto l'interno delle cosce ed ebbe la rapida visione di un paio di mutandine rosa. Provò un attimo di desiderio e girò la testa. «Non preoccuparti per il divano», disse con voce leggermente tremante. «Ora vado a prenderti dei tovaglioli di carta per asciugarti.» «Grazie. Mi dispiace!» Lui si alzò con una smorfia per la fitta che sentì alla ferita e andò in cucina a prendere i tovaglioli di carta. Quando rientrò in soggiorno, Joan era in piedi. Lo guardò con una smorfia di disgusto. Il davanti dell'abito era tutto macchiato e bagnato, la stoffa aveva assunto un colore grigiastro. Prese i tovaglioli e si mise in ginocchio per asciugare la superficie del tavolino. Era una nuova immagine di Joan, notò Dave. Imbarazzata, mortificata e vulnerabile. Bella e forte come sempre, ma turbata. Lei si rialzò e chiese: «Dov'è il cestino?» Dave girò intorno al tavolino e le prese la carta bagnata. La gettò sul tavolo. Poi le mise le mani sulle spalle e la guardò negli occhi. Lei scosse la testa. «Sarà meglio che vada.» Lui non disse niente. L'attirò a sé e Joan lo abbracciò. La sua guancia morbida scivolò contro quella di lui. Dave sentiva il suo respiro all'orecchio e sussurrò: «Sei più alta di me». Lei rise, i suoi seni si mossero dolcemente contro il petto di Dave. Lui le mise una mano fra i folti capelli, le girò la testa e premette la bocca sulle sue labbra socchiuse. Suonò il campanello della porta e Joan si ritrasse con un sobbalzo. Guardò Dave con occhi interrogativi. Lui scosse la testa. Il campanello suonò di nuovo. «Gloria?» bisbigliò lei. «Non lo so.»
«C'è un'uscita posteriore?» «Lascia perdere. Siediti e preparati un drink.» «Mio Dio, Dave!» «Non voglio che sgusci fuori come una ladra.» «Non dovrei essere qui.» «Sì, invece. Siediti e rilassati.» Con una smorfia lei si chinò sul tavolo, prese il suo bicchiere e andò a sedersi sulla sedia a dondolo. Dave andò ad aprire. E si costrinse a sorridere. «Come stai?» s'informò Gloria dopo aver gettato un'occhiata al petto di lui. «Non male.» Lei entrò, si appoggiò a lui, gli cinse il collo con le braccia e inclinò la testa per farsi baciare. Dave non aveva nessuna voglia di baciarla. E non gli piaceva il modo con cui si aggrappava. Si chiese se Joan stesse osservando la scena. Probabilmente no, pensò. Probabilmente era seduta sulla sedia a dondolo e teneva gli occhi voltati in un'altra direzione, desiderando di sprofondare. Baciò Gloria sulla bocca. Le sue labbra erano fredde e rigide, ma si socchiusero per far guizzare la lingua. Dave si tirò indietro. Lei lo guardò sorpresa, seccata. «Che diavolo...» «C'è Joan», disse lui, e Gloria serrò le labbra. «Vieni, entra.» «Oh.» Gloria increspò le labbra in un sorrisetto e gli passò davanti. Joan si alzò dalla sedia. «Ho fatto una scappata per portare certe medicine al nostro eroe», spiegò con un sorriso che sembrava una smorfia. E sollevò il bicchiere semicolmo di champagne. «Molto gentile da parte tua», commentò Gloria. Dave notò che Joan aveva sollevato la lampo del vestito di qualche centimetro. Le chiazze umide sulla stoffa non erano ancora sparite, ma sembravano più pallide. «Vado a prendere un altro bicchiere», disse Dave. «Siete sicuri che non disturbo?» chiese Gloria. Joan scosse la testa, Dave si precipitò in cucina e, con la mano sinistra, prese un bicchiere dalla credenza. Quando tornò in soggiorno, Gloria era seduta sul divano. Dove prima sedeva Joan.
La giornalista sedeva rigida, le mani allacciate in grembo, gli occhi che sfrecciavano da Joan a Dave. Lui non voleva pensare a ciò che Gloria doveva provare in quel momento. Portò il bicchiere sul tavolino e sollevò la bottiglia di champagne. «Solo un goccio», lo avvertì Gloria. «E poi, vedo che non ne è rimasto molto.» «Ci abbiamo dato dentro sodo», sorrise Dave, sperando di attenuare la tensione. Gloria inarcò un sopracciglio. Lui le riempì il bicchiere a metà. Poi si rivolse a Joan con la bottiglia. Lei fece segno di no con la testa. «Per me no, grazie. Ora dovrei proprio andare a casa.» «Oh, non andartene per causa mia», disse Gloria. «Debbie e io di solito mangiamo a quest'ora.» Joan si alzò. «Domani ti prendi una giornata di permesso, Dave?» «No, vengo al lavoro.» «Impossibile tener fermo un bravo agente», fu il commento di Gloria. Dave posò la bottiglia e accompagnò Joan alla porta. «Grazie della visita», disse. «La tua medicina mi è stata di grande aiuto.» Uscì sul portico con lei, ma lasciò la porta aperta. «Scusami se ti ho messo nei guai», sussurrò Joan. «Nessun guaio.» «Io non ci scommetterei.» Lui avrebbe voluto prenderla fra le braccia, ma non si mosse. «Non prendertela.» «Neanche tu.» Lui rimase a guardarla mentre si avviava verso l'auto. Poi, con un sospiro, rientrò in casa e chiuse la porta. «Avete fatto un party?» disse Gloria. «Abbiamo avuto tutti e due una giornata intensa.» «E vi siete consolati a vicenda?» Lui si chinò sul tavolo e si riempì il bicchiere. Poi se lo portò alla sedia a dondolo. «Bravo. Mantieni le distanze.» «Sei di pessimo umore, vedo», replicò Dave. «Dovrei essere felice di entrare e trovare qui Joan, mezza discinta?» «Che cosa avrei dovuto fare, sentiamo?» protestò Dave. «Mandarla via?» «E rinunciare al piacere della sua compagnia? Giammai!» «Lei non è venuta per mettermi in croce.» «Io, invece, credo di averti messo davvero in croce. Ho notato l'abito che
indossava. Le ho letto l'imbarazzo negli occhi. E nei tuoi. Che cosa stavate facendo prima che facessi la mia apparizione inaspettata? Altro che bere, immagino.» «Non esagerare, Gloria.» «Oh, ti ho punto sul debole?» «Oggi sono stato accoltellato e non ho proprio voglia delle tue scenate.» «Lei non ti ha baciato per farti passare il dolore?» «Insomma, che cosa ti prende?» «A me?» Gloria alzò le sopracciglia. «Sei diventata una vera peste. Tutto a un tratto, nelle ultime due settimane, ti comporti come se il tuo scopo principale sia quello di darmi dei dispiaceri. E adesso questa storia di Joan. Sono stufo.» «E io sono stufa di lei. Non ti è mai passato per la mente che potrei esser stufa? Non ti basta trascorrere otto ore al giorno con la tua ragazza dai capelli d'oro, devi impormela tutto il tempo! Joan ha detto questo, Joan ha fatto quello. L'hai invitata perfino a quel maledetto barbecue per non essere privato della sua presenza il tuo giorno di libertà!» «Calmati!» «Lo sai quante volte siamo andati a letto insieme da quando lei è apparsa sulla scena?» Dave non rispose e bevve un sorso di champagne. «Nemmeno una volta! Non una volta!» «Be'...» «Tutto il tuo tempo per lei, non è così? Rispondi!» «Ora dovresti proprio andartene.» «Tu e quella là siete stati...» «Piantala!» Lui balzò in piedi e le indicò la porta. «Fuori! Ne ho abbastanza.» Anche Gloria balzò in piedi e lo fulminò con lo sguardo. «Oh, molto astuto. Bravo!» Impettita, si avviò alla porta. «Arrivederci, Gloria», sibilò lei senza voltarsi indietro. «Ta, ta, ta. Mi sono divertito con te, è ora di farti da parte. Tu non puoi competere con la bionda amazzone. Ta, ta, ta. Fuori dai piedi adesso, fa' la brava ragazza.» «Aspetta», disse Dave. Non voleva che si fermasse, voleva che se ne andasse, ma non così. Non doveva finire a quel modo. Lei aprì la porta. «Gloria!»
Lei si fermò e si girò. «Il porco ha parlato? È mortificato, spiacente? E che cos'ha da dire, il porco?» Lascia perdere, pensò lui. E invece disse: «Crepa!» Il viso di Gloria sbiancò. Lei si voltò di scatto e si allontanò, lasciando la porta spalancata. Mi ha chiamato porco. L'ardente riformista radicale mi ha lanciato l'insulto finale, il suo epiteto più offensivo, ricordo degli anni Sessanta, quando lei era una bambina e gli hippie predicavano la pace, bruciavano le bandiere e sputavano ai poliziotti. Dio, pensò Dave, l'ho proprio offesa. All'inferno, concluse fra sé, vuotando il bicchiere. Sentì l'auto allontanarsi. Tornò al tavolo e si riempì il bicchiere. Poi sedette sul divano. E continuò a pensare a Joan. 17 Invece di smettere alle sei, come aveva fatto il giorno prima, Robin si concesse un breve intervallo. Mangiò un hot dog, poi si sistemò sopra la scala principale che conduceva alla spiaggia e riprese a suonare e cantare. A Funland era rimasta poca gente dopo che era calata la nebbia, e ancor meno sembrava disposta a fermarsi per ascoltare la musica. Lei aveva un gran freddo, nonostante la giacca a vento. Mentre suonava per due o tre spettatori, la sua mente vagava. Sognava un po' di calore, magari un motel con un buon bagno caldo. Per tutto il giorno aveva tenuto gli occhi aperti nella speranza di vedere il vecchio grassone con la sua bombetta piumata. Certo che Poppinsack doveva stare all'erta, pensando che Robin non avesse ascoltato il suo consiglio di lasciare la città. Oppure era andato a far baldoria. Con centoventi dollari poteva comperarsi un'infinità di libri e di liquori. Lei sperava di prenderlo per farsi ridare i suoi soldi. Ma lui riusciva a sfuggirle. Maledetto! «Non provarci!» gridò all'improvviso. Un barbone era sbucato accanto alla custodia del banjo e aveva afferrato una banconota da un dollaro. «Ehi!» Fece un passo verso di lui, ma il vagabondo cominciò a correre, con il sudicio cappotto svolazzante. Robin rimase immobile, divisa tra l'impulso a inseguirlo e il timore di abbandonare anche per pochi minuti le proprie cose.
Il vagabondo cercò di superare un tale che veniva dalla passeggiata. L'uomo sollevò un braccio e colpì il vagabondo che cadde supino. L'altro gli calpestò il polso, si chinò e raccolse la banconota. Quando alzò il piede dal polso, il barbone si affrettò a correre via, sgusciò sotto la ringhiera e sparì dalla vista. L'uomo venne verso di lei reggendo la banconota da un dollaro e sorridendo. Robin vide che era giovane, forse diciotto anni. Indossava i jeans e una camicia a scacchi. Aveva i capelli tagliati corti e un aspetto atletico e pulito. «Ecco qua», le disse consegnandole la banconota. «Grazie.» Robin cacciò il dollaro nella tasca della giacca a vento. «Ma non dovevi prenderti tanto disturbo.» «Nessun disturbo. È sempre un piacere dare una lezione a chi deruba una donna.» «Mi chiamo Robin», disse lei e gli tese la mano. «Nate», si presentò lui e le strinse la mano. «Come vanno gli affari?» s'informò Nate. «A gonfie vele», rispose lei e con il braccio indicò un pubblico invisibile. «È sempre così quando c'è la nebbia.» «Ti ho sentita suonare», riprese Nate. «Sei bravissima con il banjo. Mai sentito nessuno suonare così.» Robin sorrise e si strinse nelle spalle. «Anzi, sono in debito.» Lui prese il portafoglio dalla tasca posteriore. «No, ti prego. Hai punito quel vagabondo...» «Insisto.» Nate tirò fuori una banconota da venti dollari. «Non essere ridicolo!» «Prendili, per favore. E cantami una canzone.» Robin si fece avanti di due passi e attaccò una filastrocca che parlava di due bambine, Kelly e Katie, e di un gattino che si chiamava Clew. Quando la canzone finì, Nate battè le mani. «Ehi, era fantastica!» «Un po' infantile, forse...» «L'hai scritta tu?» «Sì, ne scrivo tante. Questa è per i bambini, nel caso non l'avessi capito.» «Ora devo andare, ma mi piacerebbe sentire il seguito.» «Sarò da queste parti anche domani», disse Robin. «Bene. Non scappare, eh?» Nate si chinò per lasciar cadere la banconota
piegata nella custodia del banjo. «Grazie», disse lei. «È stato veramente un piacere conoscerti. Arrivederci a domani, intesi?» «Arrivederci. E grazie per l'aiuto.» «Ciao.» «Ciao.» Lui agitò la mano in segno di saluto, si girò e si diresse verso il cancello principale. Poppinsack sbirciò l'orologio dietro il banco del bar. «Oggi si è già confuso nel domani ed è già diventato ieri. Una bella giornata.» Inclinò il bicchiere di scotch verso l'orologio, ammiccò e scolò il liquore. Poi scese dallo sgabello, chiuse lo zaino e si diresse barcollando verso la porta della taverna per uscire. Inspirò profondamente l'aria fresca della sera e sospirò. Si aggiustò la cinghia dello zaino sulla spalla, spinse indietro la bombetta con l'impugnatura del bastone e proseguì per la sua strada. La nebbia era così fitta che non riusciva a vedere Funland. Sapeva, però, che era proprio davanti a lui. E sapeva che era tutto chiuso per la notte. Ebbe un brivido di paura. «Poppinsack ha fatto bisboccia fino a tardi», brontolò a voce alta. «Dove sei piccola Robin? Ti ringrazio per la bella serata che mi hai regalato... Vuoi che stanotte ci scontriamo in un combattimento mortale? Allora preparati ad assaggiare il mio bastone...» Ma mentre passava davanti al Lighthouse Bar ne uscì un uomo. Poppinsack si fermò e si girò verso la porta. Vide le luci fioche all'interno, l'aria piena di fumo, le bottiglie allineate sulla parete. Sentì ridere, parlare, la voce di una donna che usciva dal jukebox e allora decise di entrare nel bar. Robin sedeva sul sacco a pelo arrotolato e aspettava Poppinsack ai piedi del pendio sabbioso dove lui si era accampato la notte precedente. Lui, probabilmente, era troppo furbo per tornare, concluse Robin. Ma io gli ho detto che lasciavo la città, crederà che sia partita. E se non viene? Gelava e tremava. Non vedeva l'ora di essere al caldo nel suo sacco a pelo. Ma se si fosse addormentata?
Si alzò in piedi e salì il pendio. Giunta in cima frugò la zona con gli occhi. La nebbia era così fitta che non riusciva a vedere l'oceano. Capiva che doveva cercare Poppinsack nelle vicinanze, ma non si vedeva a un palmo di distanza. Guardandosi attorno, cominciò ad aver paura che qualcuno saltasse fuori dalla nebbia. Forse non Poppinsack, ma quei balordi che chiamavano troll. Adesso non si vedevano, ma se stava lì ancora un po' l'avrebbero notata. Ridiscese il pendio di corsa e si lasciò cadere sul sacco a pelo. Era ridicolo, seguitava a ripetersi. Non c'è nessuno. Raccolse la sua roba e, dirigendosi a nord, arrivò al recinto che delimitava il confine della spiaggia pubblica. Lo seguì. La sabbia divenne umida e compatta sotto le sue scarpe. E poi vide l'oceano buio. C'era bassa marea, perciò non si bagnò i piedi quando emerse da dietro il recinto. Ora si trovava sulla proprietà privata e Robin ebbe l'impressione di essere ormai fuori dalla portata dei troll... e dei troller, anche se questi ultimi non costituivano una preoccupazione. Dopo tutto, i cacciatori di troll erano esseri umani, non dei pazzi. Proseguì in direzione della casa, che presto apparve nella nebbia. Tutte le finestre erano scure. Una casa su palafitte. Accovacciata accanto alle scale del portico, scrutò l'area buia fra i pali. Sembrava un posto accogliente per passarvi la notte. Però quella era una vera e propria intrusione. Sgusciare di notte sotto una casa privata. Robin concluse che non gliene importava. Le interessava solo un posticino nascosto dove dormire al sicuro. Si mise in ginocchio e prese a strisciare nell'oscurità, trascinandosi dietro il banjo. 18 Jeremy si fermò sotto la faccia ghignante del clown. Non vedeva nessuno e niente, tranne l'oscurità profonda sotto il tetto dell'ingresso di Funland, meno ancora sul passaggio più avanti. Guardò l'orologio: mancavano due minuti all'una. Era in anticipo. Pensava che Cowboy fosse ancora in ospedale. Si sentiva un po' nervoso
all'idea di incontrare gli altri senza l'appoggio morale di Cowboy, ma il desiderio di stare con Tanya lo aveva spinto a venire ugualmente. Mentre passava davanti alla biglietteria, una mano gli agguantò la spalla e lo costrinse a fare una piroetta. Un tipo robusto gli afferrò il davanti del giubbotto e lo sollevò sulle punte dei piedi. «Tutto a posto», disse la voce di Tanya. Il tipo robusto lo mise giù. Da un lato della biglietteria sbucò una ragazza, seguita da un gruppetto di coetanei. Lei indossava una tuta nera e teneva la faccia in ombra, ma Jeremy capì dalla statura e dai capelli chiari che era Tanya. «Non pensavo che saresti venuto», disse lei. «E io non sapevo se dovevo venire», replicò Jeremy, sperando che la sua voce non risuonasse così debole. «Ero qui la notte scorsa e... Avete saputo della rissa, di me e Cowboy?» «L'abbiamo saputo.» «Io l'ho visto stasera», disse Liz, mettendosi al fianco di Tanya. «Come sta?» «Gli hanno riattaccato l'orecchio. Può darsi che esca dall'ospedale domani stesso.» «Magnifico!» «Ha detto che tu hai avuto fegato.» «Sicuro, ti sei comportato bene», aggiunse una ragazza che Jeremy non riconobbe. Lui si sentì arrossire. «Be', ho cercato di aiutare.» «Avrei voluto esserci», dichiarò il tipo robusto. «Li avrei ammazzati, quei fottuti!» «Uno dei poliziotti per poco non l'ha fatto.» L'informazione venne dalla ragazza che Jeremy non conosceva. Lei si fece avanti tra Tanya e Liz e gli tese la mano. «Lieta di conoscerti, Jeremy. Io sono Shiner.» «Piacere», disse Jeremy stringendole la mano. Lei sembrava esile con la giacca a vento e i jeans. Aveva i capelli chiari e, sebbene non riuscisse a vederla bene al buio, lui ebbe l'impressione che fosse carina, e forse più giovane di Tanya. Lei si tirò indietro e un tale che stava in piedi vicino a Tanya gli tese la mano. «Sono Nate», disse. «Salve», Jeremy gli strinse la mano. Una mano forte e asciutta. Ricordò che Cowboy gli aveva detto che Nate era il ragazzo di Tanya. «Benvenuto a bordo», aggiunse Nate.
«Io sono Samuel», si presentò il gigante che aveva agguantato Jeremy dietro la biglietteria. Indossava un giubbotto con una enorme B sul petto. Probabilmente un emblema universitario. «Puoi chiamarmi Samson», aggiunse il gigante. «E tu puoi chiamarmi Duke, se vuoi», replicò Jeremy piegando le dita appena riuscì a liberare la mano. «Cowboy mi chiama così.» Un ragazzino smilzo ed esile con gli occhiali sbucò di lato. «Tanto piacere. Io sono Randy. Puoi chiamarmi Randy», suggerì con un sorriso. «O Sandy», precisò Liz. «Devi scusare Elizabeth, Duke. Lei si risente con chiunque abbia un quoziente d'intelligenza superiore al suo, che è pressappoco sullo stesso livello di quello di un'ostrica.» «Lasciatemi passare», disse una voce femminile. La ragazza si fece strada fra gli altri. Aveva un viso rotondo, capelli neri e indossava una tuta aderente che dava risalto alle forme robuste. «Io sono Heather», tubò stringendo la mano di Jeremy. «Ciao.» Lei si fece più vicina e gli si strusciò contro. Il suo alito sapeva di cipolla. «Ehi, come sei carino!» Lui le sorrise. «Ci siamo presentati tutti tranne Karen», osservò Tanya e guardò sopra la spalla. «Vieni a conoscere Duke.» «Sì, sì.» Tanya si fece da parte per lasciar passare una brunetta. Aveva un berretto in testa, intorno al collo una sciarpa di seta; indossava una tuta simile a quella di Heather, ma il suo corpo era più snello e sodo. «Salve», salutò Jeremy. «Dio, non so dirti come sono felice di conoscerti!» Il suo sarcasmo provocò a Jeremy una sensazione sgradevole. «Niente di personale», spiegò Randy. «Karen profonde un aperto disprezzo per ogni creatura di genere maschile.» «Il che ti esclude», intervenne Liz. «Un'altra osservazione acuta della cretina.» «Adesso ci conosci tutti», disse Tanya. «Immagino che Cowboy ti avrà spiegato che cosa facciamo qui.» «Date la caccia ai troll?» «Risolvi sempre così i tuoi problemi?» chiese Karen. «No. Ma penso che i troll siano una calamità.»
«Che cosa ti hanno fatto?» volle sapere Nate. Jeremy scrollò le spalle. «Niente in particolare, mi pare.» «Allora perché vuoi aiutarci a cacciarli via?» Jeremy non poteva spiegare che non aveva niente contro i barboni e che voleva semplicemente far parte della banda per stare vicino a Tanya. Con voce piena di rabbia disse: «Li odio. Sono dappertutto e scocciano la gente. Sono sporchi e puzzano. E si comportano come pazzi. Sono dei vermi, dovrebbero essere buttati via con le immondizie. Quando mi chiedono soldi, vorrei prenderli a calci». «Accidenti!» esclamò Samson battendogli la mano sulla spalla. «Avanti», lo incitò Liz. «Sono striscianti e disgustosi», dichiarò la ragazza che si chiamava Shiner. «Ma c'è di più. Sono perfidi. Ecco perché veniamo qui tutte le notti. Attaccano le persone, le fanno sparire.» Alcuni annuirono. Jeremy ebbe un brivido. «Fanno sparire le persone?» chiese, cercando di mantenere ferma la voce, ma senza successo. «Però non l'abbiamo visto fare con i nostri occhi», azzardò Heather. «È una nostra supposizione», spiegò Randy. «A nostro avviso i troll sono i responsabili.» «Sono loro, sicuro», disse Shiner. «Hanno preso mia sorella. Era uscita a fare una passeggiata sulla spiaggia, una sera, ed è... svanita. L'hanno presa loro.» «Non lo sappiamo con certezza», intervenne Nate. «Non sappiamo che cosa sia capitato alla sorella di Shiner o agli altri. Ma la gente sparisce senza lasciar traccia. Suppongo che succeda dovunque, solo che qui capita troppo spesso.» «Capita anche ai nostri troll», soggiunse Samson. «Quelli che inchiodiamo. Molti non li rivediamo più.» «Abbiamo il sospetto», riprese Nate, «che altri troll arrivino dopo che noi ce ne siamo andati.» «E che facciano pulizia per noi», ridacchiò Liz. «Cristo!» mormorò Jeremy. Samson piegò la testa. «Se non li ammanettiamo a qualche cosa o se non li incolliamo in qualche posto dove nessuno possa trovarli, spariscono come il vento.» «Che... che cosa ne fanno i troll di loro?» «Li mangiano», ridacchiò di nuovo Liz.
«Non lo sappiamo», disse Nate. Jeremy gemette. «Non devi farti coinvolgere, se non vuoi», lo rassicurò Nate. «Non c'è niente da aver paura», replicò Heather. «Non ci hanno mai preso.» «Ma devi conoscere la situazione», riprese Nate. «Ciò che facciamo è grave. Se stai con noi, diventerai un complice agli occhi della legge. Qualsiasi cosa uno di noi faccia a un troll, saremo tutti colpevoli perché presenti. Lo capisci questo?» «Certo», rispose Jeremy. «Finora i piedipiatti non ci hanno toccato, ma potrebbe cambiare, la fortuna potrebbe voltarci le spalle. Prima o poi qualcuno di noi potrebbe cantare. Magari tu.» «Se fai la spia, veniamo a prenderti», dichiarò Liz. «Io non faccio la spia.» «Sei sempre dell'idea di unirti a noi?» insistè Nate. «Sì, certo.» «Okay», tagliò corto Tanya. «Procediamo all'iniziazione.» Iniziazione? Jeremy si accorse che il cuore gli batteva forte. «Stanotte», riprese Tanya, «tu fai da esca. Noi aspettiamo qui e tu vai su e giù finché ti aggredisce un troll.» Infilò la mano nella tasca del giubbotto e prese un biglietto, che consegnò a Jeremy. «Devi dargli questo.» «O darle, se è una donna», precisò Randy. Jeremy avvicinò il cartoncino agli occhi. Il messaggio era scritto a lettere cubitali. CARO TROLL, SALUTI DAL GREAT BIG BILLY GOAT GRUFF. Nonostante il disagio che provava, un sorriso gli increspò le labbra. «Chiaro», commentò. «È il nostro biglietto da visita», spiegò Tanya. «Molti di quei vermi non sanno leggere», disse Samson. «Noi pensiamo che sia un tocco raffinato, comunque.» «Sì, mi piace.» Jeremy fece scivolare il biglietto nella tasca del giubbotto. «Dunque, lo do al troll, e poi che cosa faccio?» «Ci fai un segnale.» Tanya prese da sotto il giubbotto un fischietto e glielo diede. «Basta un breve fischio.» Lui chiuse la mano sul fischietto. Era caldo. Il calore di Tanya. «Tutto quello che dovrai fare è impedire al troll di scappare finché arriviamo noi», continuò Tanya.
Lui annuì e fece scivolare la catenella con il fischietto sotto il giubbotto. «Altre domande?» «Eh?» «Sei pronto?» «Da che parte vado?» «Dove vuoi.» Jeremy si girò verso l'estremità sud di Funland, poiché era la zona che conosceva meglio. Una mano gli battè sulla spalla, un'altra gli mollò una pacca sul sedere, ma lui non si voltò. Qualche voce sommessa gli augurò buona fortuna. Proseguì da solo. Si toccò il davanti del giubbotto e premette il fischietto contro la pelle. Era come toccare i seni di Tanya, si disse. Levò il fischietto da sotto la camicia e se lo portò alle labbra. Era come toccare la bocca di lei. Sempre più impaurito, guardò sopra la spalla e vide solo la passerella buia, con la ringhiera di ferro da una parte e un baraccone dall'altra. Si fermò e tese le orecchie. La notte sembrava stranamente quieta, come se la nebbia attutisse ogni suono. Accelerò il passo. Il fischietto sembrava incollato alle sue labbra. Lo lasciò ricadere e si leccò le labbra. A sinistra vide la piattaforma e l'ingresso della Casa dei mostri di Jasper. Era lì che era avvenuta la rissa, pensò. La cosa gli dava un senso di orgoglio e di piacere. Valeva la pena beccarsi tanti pugni. Aveva aiutato Cowboy e aveva strappato la maglietta a una di quelle due baldracche. Ma ora, con quel buio e con quel silenzio, la rissa passava in secondo piano. Gli parve di sentire un fruscio. Dove, dietro? Si girò di scatto, frugando con gli occhi nella nebbia. Tornò a infilarsi il fischietto fra le labbra e con l'altra mano batté contro la tasca dei pantaloni per sentire il rigonfiamento del suo coltello a serramanico. Chissà se avrebbe dovuto usarlo. Poi si ricordò del biglietto. Allungò la mano per prenderlo. Una forma confusa, più scura della nebbia, veniva correndo verso di lui. Improvvisamente si fermò. «Sei tu, Jeremy?» chiese una voce. La voce di una ragazza. «Sì. E tu chi sei?» «Shiner», disse lei. La ragazza avanzò verso di lui. Jeremy vide i capelli chiari, la chiazza
pallida del suo viso, la giacca a vento scura e i jeans. Tirò un profondo sospiro e respirò lentamente. Lei gli strinse il braccio. «Torna indietro. Ce n'è uno che sta arrivando.» «Un troll?» «Sì. Presto, dobbiamo bloccarlo.» 19 Smisero di correre e Jeremy si lasciò guidare dalla mano di Shiner. Si appiattirono con la schiena contro la parete di un negozio. Mentre lui cercava di riprendere fiato, vide Samson accosciato dietro la biglietteria. Heather stava in piedi alle sue spalle. Nate e Liz erano contro il muro dall'altra parte dell'ingresso. Dov'erano gli altri? E Tanya? Con la coda dell'occhio Jeremy colse un movimento e capì che qualcuno era in attesa sul tetto piatto della biglietteria. Vedeva solo una curva, ma immaginò che doveva essere Tanya. Gli altri erano in vista, tranne Randy e Karen. Mentre guardava la figura sul tetto, sentì una voce maschile, rauca. Il troll? Dal suono doveva essere vicino. «Chi ha ucciso la piccola Robin?» canticchiava. «Chi l'ha distrutta? Sono stato io, il mio nome è Poppinsack. Io. All'inferno. In questo regno vicino al mare. E le nuvole si sono abbassate sulla sua tomba.» Shiner, senza mollare la mano di Jeremy, si spostò di qualche centimetro tenendosi contro il muro. Lui la seguì. Sporgendosi in avanti, vide un uomo che barcollava verso l'oscurità sotto l'arco. Era un vecchio grassone con uno strano cappello piumato e una giacca con le frange. In una mano reggeva un bastone da passeggio e portava uno zaino rigonfio sulla schiena. «Per caso... per avventura...» proclamò l'uomo rivolgendosi al muro. A Jeremy ricordava un attore ubriaco con una voce profonda come quella di Richard Burton che aveva visto nell'Amleto al corso d'inglese, l'anno prima. Poi sentì il rumore di uno spruzzo. Il vecchio orinava proprio all'ingresso, a non più di quattro metri dal punto dove si nascondevano Nate e Liz. Il vecchio troll si scostò dal muro e, barcollando, attraversò l'ingresso del parco dei divertimenti, dirigendosi verso il luogo in cui erano in attesa
Jeremy e Shiner. «Oh, oh! Questa è una notte ideale per salire a bordo. Sono un antico marinaio, sono un albatro. E ogni...» Tanya saltò dal tetto della biglietteria. Jeremy sentì il rumore delle suole di gomma sulle spalle del troll. Poi un grugnito di sorpresa e di dolore. Le ginocchia del vecchio si piegarono, cadde in avanti. Tanya saltò giù dalle sue spalle. Atterrò e barcollò un momento prima di riprendere l'equilibrio. Quando si voltò, il barbone era lungo disteso a faccia in giù. «Andiamo», sussurrò Shiner tirando Jeremy per mano. Sempre al suo fianco, lui si precipitò verso il vagabondo caduto. Shiner gli sferrò due calci. Jeremy lo colpì al fianco con una scarpata. Poi arrivarono gli altri. Samson fece volar via lo zaino e lo girarono. Il vecchio sembrava troppo intontito per lottare. Lo afferrarono per le braccia e per le caviglie, lo tirarono. Heather gli calpestò il ventre. Randy, che aveva raccolto il bastone, lo colpì con quello sul petto. E per poco non colpì la testa di Liz. Con un suono strozzato, il barbone liberò la mano dalla stretta di Shiner; chiuse il pugno e colpì la ragazza al petto. Lei barcollò all'indietro. Jeremy gli agguantò il polso. La mano si aprì e lui strinse il dito medio piegandolo all'indietro finché si ruppe. Il troll lanciò un urlo. Liz gli piantò una gomitata nel petto, appena sotto la gola, Karen gli diede un calcio all'inguine. La testa del vecchio si rialzò. Samson lo tempestò di pugni fra gli occhi e gli mollò la testa, che rimbalzò sul legno. Il barbone si afflosciò. «Okay», disse Tanya. «Basta così. Tiriamolo su.» Jeremy aiutò gli altri. Il vecchio sembrava pesare una tonnellata, ma quando lo sollevarono dall'assito, Samson gli mise una spalla sotto l'ascella e lo sorresse. «Ce la fai?» chiese Nate. «Non c'è problema», rispose Samson. «Dove lo portiamo?» «Seguitemi», disse Tanya. Nate sollevò lo zaino. «Che cosa c'è qua dentro, mattoni?» Tanya aprì la strada, con Nate da una parte e Karen dall'altra. Samson camminava dietro, con il vagabondo che gli dondolava sulla schiena. Shiner si mise al fianco di Jeremy. «Stai bene?» le chiese lui. «Sì.»
«Ti ha picchiata, ma io gli ho rotto un dito.» «Bravo.» Svoltarono a sinistra. Randy camminava reggendo il bastone e con la bombetta in testa. Come una testa tagliata infilzata su un palo, pensò Jeremy. Qualcuno gli diede una pacca. Lui si voltò e vide Heather. «Ti piace finora?» chiese lei. Jeremy si strinse nelle spalle, non sapeva che cosa dire. Si sentiva un po' spaventato e un po' colpevole, ma era anche molto eccitato. «Abbastanza», farfugliò. «Adesso che succede?» chiese poi a Shiner. «Decide Tanya», rispose lei. Heather mise un braccio attorno alla schiena di Jeremy. Lui era decisamente scocciato. Certo, Tanya era troppo per lui, ma Shiner gli piaceva e sembrava che non avesse un ragazzo. Ora quella Heather era davvero un po' troppo invadente. Shiner accelerò il passo lasciandolo solo con Heather che gli fece scivolare la mano nella tasca posteriore dei pantaloni. «Che bel calduccio», tubò. «Peccato che Cowboy non possa assistere al divertimento», osservò Jeremy. «Cowboy è un somaro.» «È il mio miglior amico», precisò Jeremy. Improvvisamente il troll cominciò ad agitarsi. Con la mano sana prese a martellare di pugni la schiena di Samson. Il gigante si chinò e lo sbattè giù. Il barbone crollò sull'assito. Prima che avesse il tempo di muoversi, i ragazzi lo circondarono. Jeremy, liberatosi da Heather, gli calpestò il polso con la scarpa. «Non fategli male», ordinò Tanya. «Fatelo solo venire avanti.» «Lo tengo», disse Samson. Afferrò uno dei folti baffi a manubrio del barbone e cominciò a tirare. Gemendo e ansimando, il vecchio si rialzò in piedi. Samson camminava accanto a lui, tenendolo per il baffo. «Quaggiù.» Tanya si affrettò avanti e Randy la seguì di corsa, con la bombetta che gli ballonzolava sulla testa. I due sparirono nella nebbia. Anche Nate e Karen svanirono. Jeremy sentì il cigolio di un cancello che si apriva. «Dove vai?» chiese Samson. «Alla ruota di Ferris», rispose Tanya.
«Uau!» L'esclamazione veniva da Heather, appena dietro Jeremy. Lui si affrettò a raggiungere Shiner. «Che cosa succede?» le chiese. «Adesso lo scopriremo.» Samson e il troll, con Liz che camminava dietro il vagabondo, svoltarono verso uno dei bassi recinti che circondavano ogni giostra. Attraversarono il cancello aperto. La ruota di Ferris, dietro il cancello, era quasi completamente nascosta dalla nebbia. Jeremy poteva vedere solo la parte anteriore: alcune navicelle e le curve delle ruote che le univano. Avvicinandosi con Shiner, Jeremy vide anche la piattaforma più elevata. La navicella più bassa era là, dove s'era fermata alla fine dell'ultimo giro. Forme indistinte stavano vicino alla piattaforma. Vide Samson trascinare il troll su per i pochi gradini e Liz che si affrettava dietro di loro. Shiner rimase al fianco di Jeremy quando salirono sulla piattaforma. «Ci siamo tutti?» s'informò Tanya. «Chi non c'è parli», suggerì Randy. «Divertente», sghignazzò Liz. «Okay», concluse Tanya. «Svestiamo questo bastardo.» Samson, in piedi davanti al troll, lo teneva sollevato sulle punte dei piedi trascinandolo per il baffo. Liz, Janet, Heather e Shiner cominciarono a spogliarlo. Lui saltellava e frignava, ma non oppose una vera resistenza. Tanya osservava come un caposquadra, le braccia incrociate sul petto, e annuiva approvando. Il troll rimase con i mutandoni lunghi. Jeremy era sorpreso. Pensava che nessuno portasse ancora quei mutandoni, tranne gli attori nei film comici. Heather e Liz glieli sfilarono. Jeremy non poteva crederci. Si sentiva turbato e imbarazzato. «Basta», intervenne Nate. «Sbrighiamoci», incalzò Tanya. «Non abbiamo piazzato nessuno a fare la guardia, perciò sarà meglio finirla e andarcene.» Tese la mano a Randy che prese dalla tasca qualcosa che tintinnava. Jeremy vide che si trattava di un paio di manette. «Metto in moto questo aggeggio», annunciò Nate e si allontanò. Il troll fu guidato fino alla ruota e costretto a sedersi. La navicella prese a dondolare sotto il suo peso, ma la piattaforma la fermò. Quasi si rendesse improvvisamente conto che il pestaggio e l'umiliazione di essere spogliato erano stati i preliminari di un fatto più grave, il troll si mise a gridare selvaggiamente. Scalciava e si torceva agitando le braccia
in direzione dei ragazzi che tentavano di tenerlo giù. Tanya gli mollò un calcio nel ventre. Lui rimase senza fiato e scivolò contro il bordo del sedile della navicella. Tanya agganciò la sbarra metallica di sicurezza. Si accese un motore e Jeremy sentì la piattaforma vibrare sotto i piedi. Attonito, mormorò: «La ruota va?» «I parenti di Nate sono i proprietari della giostra», spiegò Liz. Tanya finì di sistemare il troll e si fece da parte. Lui era ancora appoggiato all'indietro contro il sedile, con le grasse gambe pelose che spuntavano fuori, le mani penzoloni sotto la sbarra di sicurezza, trattenute dalla catenella delle manette. «Attenti», avvertì Tanya. Jeremy e gli altri si spostarono da una parte. «Okay, Nate.» Nate spinse avanti una leva. La ruota diede uno strattone e cominciò a girare lentamente. Mentre la navicella si muoveva all'indietro, dondolava sotto il peso del troll. Lui scivolò via dal poggiapiedi e lanciò un grido sentendo le manette tirare ai polsi. «No!» strillava. «Vi supplico!» Dopo un secondo penzolava all'ingiù, tutto il peso sorretto dalle manette e dalla sbarra di sicurezza. La ruota lo portò più in alto, poi gemette e si fermò con un leggero strattone che fece sobbalzare il poveraccio, il quale prese a ondeggiare lassù, a qualche metro dal suolo. «Mandalo più su», ordinò Tanya. «È abbastanza alto», replicò Nate. «È pesante, qualcosa potrebbe cedere.» «Fatemi scendere! Per favore. Me ne andrò da questa città, farò tutto ciò che volete. Vi prego!» «Fagli fare il giro», ordinò Tanya. «Non credo che dovremmo...» protestò Nate. «Oh, insomma, fagli fare il giro! È un fottuto troll!» Nate scosse la testa. E continuò a scuoterla quando Tanya avanzò verso di lui. «Allora ci penso io.» «Tanya...» disse Nate, ma non tentò neppure di fermarla. Lei spinse più avanti la leva. Con uno strattone che strappò un urlo al troll, la ruota cominciò a girare.
Il barbone, nudo e scalciante, volò su, come succhiato dalla nebbia, senza smettere di urlare. Continuò a gridare anche quando Jeremy non lo vide più. Tanya tirò indietro la leva. La ruota si fermò. «Dio!» esclamò Shiner. «Dev'essere vicino alla cima.» «Un bel posticino dove passare la notte», decretò Tanya. «Tiriamolo giù», suggerì Nate. «Ci penso io.» «D'accordo», acconsentì Tanya. «Ma domattina. Ora chiudi.» «Ma non possiamo...» Il troll non aveva mai smesso di gridare, le sue grida si fecero più acute. Jeremy tremava e aveva la pelle d'oca. Poi un tonfo. Le grida cessarono. Un altro tonfo. «Oh, Gesù!» mormorò Nate. E attraverso la nebbia il troll precipitò, rimbalzando sulle aste delle navicelle, svolazzando e volteggiando come un acrobata impazzito. 20 La piattaforma tremò quando il corpo vi si schiantò. Nessuno disse una parola. Tutto era silenzio, tranne che per il ronzio della ruota. Jeremy fissò il corpo. Giaceva a pochi passi da lui, con la faccia in su, fra due navicelle. La faccia era nera di sangue, il naso schiacciato. Una gamba piegata di lato, come se fosse stata disarticolata, l'altra saliva diritta dal ginocchio. Le mani, ancora ammanettate, poggiavano sul ventre. Uno spuntone di osso usciva dall'avambraccio sinistro. Jeremy distolse gli occhi dal cadavere e guardò il gruppo. Tutti stavano immobili come statue. Poi Liz si portò una mano alla bocca. Lui si chiese se stesse per vomitare. Ma la ragazza cominciò a emettere strani suoni e allora Jeremy capì che rideva. Dopo un attimo, lei emise un grido soffocato. «Dio, che cosa abbiamo fatto!» mormorò Shiner. «È caduto da solo», disse Heather. Nate si staccò dagli altri e spense il motore. «Non perdete la testa», ordinò Tanya.
«Che cosa è successo?» borbottò Randy. «Evidentemente la sbarra di sicurezza non era abbastanza forte da sorreggerlo», spiegò lei. «Lo abbiamo ucciso», disse Randy. «Brillante deduzione», fu il commento di Liz. «Sentite», disse Tanya, «l'importante è non lasciarsi prendere dal panico. Dobbiamo liberarci di lui e ripulire. Nessuno deve sapere che cosa è successo. Liz, Karen, Heather, voi ripulite il sangue. Prendete un secchio e uno straccio. Jeremy, riunisci la roba di quel tale e gettala sotto l'assito. Shiner, aiutalo. Samson, tu dammi una mano con il corpo. Nate, va' a prendere la tua tavola da surf. Lo portiamo fuori e lo scarichiamo.» «E io?» chiese Randy. «Tu puoi restare con me», gli disse Tanya. Si tirò su le maniche della tuta e si accucciò sotto il bordo esterno della ruota. Samson la imitò. Una mano strinse il braccio di Jeremy, Era Shiner. «Raduniamo la sua roba», suggerì lei. Jeremy distolse lo sguardo da Tanya e Samson che cercavano di ricomporre il cadavere e cominciò a raccogliere gli abiti del troll. Nate corse via, giù per le scale. Poi se ne andarono anche Liz, Karen e Heather. «Non ho mai pensato che potesse accadere qualcosa di simile», bisbigliò Shiner. «È un po' grossa», convenne Jeremy. «Dio!» Lui raccolse le scarpe e i calzini del troll e quando rialzò la testa vide Samson e Tanya sollevare il corpo del barbone oltre la ringhiera dietro la ruota. Lo lasciarono cadere dalla parte della spiaggia. Poi Samson raccolse lo zaino, lo sollevò e seguì Tanya giù per la scaletta. «Mi pare che abbiamo preso tutto», osservò Shiner. Scesero dalla piattaforma con Randy e attraversarono il cancello aperto. Tanya e Samson stavano scavalcando la ringhiera del viale. Quando Jeremy raggiunse la ringhiera li vide camminare sulla spiaggia. Dopo pochi passi la nebbia li inghiottì. Lo zaino rigonfio giaceva sulla sabbia proprio sotto Jeremy. Lui aprì le braccia e lasciò cadere gli indumenti che aveva raccolto. Shiner saltò per prima, seguita da Randy e da Jeremy. Lui cadde male sulla sabbia e con un ginocchio si colpì il mento, provando un forte dolore.
Mentre si metteva seduto, Shiner allungò un braccio per dargli la mano. Lui la prese e si rialzò. «Okay?» chiese lei. Jeremy annuì passandosi la lingua sui denti. Credeva di esserseli rotti, ma non era così. «Dovevi rotolare», gli spiegò Shiner. «Già, hai ragione.» «Se non avete più bisogno della mia assistenza, io raggiungo Tanya», si intromise Randy. «Vai pure», suggerì Shiner. Il ragazzo sparì fra la nebbia. Jeremy e Shiner cominciarono a raccogliere gli indumenti del troll che avevano gettato dalla ringhiera. Shiner si fermò vicino a un palo e gettò nel buio la giacca e i pantaloni del vagabondo. «Non sarebbe meglio portarli là sotto? E magari sparpagliarli?» domandò Jeremy. «No, basta che li getti. Probabilmente là ci sono i troll.» «Gesù!» «Anzi, sarà meglio non rimanere troppo a lungo da queste parti.» Jeremy lanciò le scarpe e la camicia, poi indietreggiò. «Credi che qualcuno abbia visto ciò che è successo?» «Vuoi dire qualche troll? Può darsi. Stanno sempre nascosti qua attorno. Scommetto che sanno tutto quello che succede.» Shiner raccolse i mutandoni, il bastone e il cappello con le piume. Jeremy prese lo zaino. «Parleranno?» chiese. «Non c'è pericolo.» Si fermarono sotto il bordo dell'assito e Shiner gettò la roba del troll nell'oscurità. Fu poi la volta dello zaino, che atterrò nel buio con un tintinnio di bottiglie. «Qualche troll sarà contento di trovare tutta quella roba», osservò Jeremy. «Ben detto.» La voce profonda risuonò dal buio davanti a lui. Jeremy s'irrigidì, Shiner gli afferrò il braccio. Lui avrebbe voluto alzare i tacchi e scappare, ma lei lo tenne fermo e prese a indietreggiare lentamente. La ragazza respirava forte. «Adesso sei contento di non essere andato là sotto?» gli chiese dopo pa-
recchi passi. «Dio!» «Te l'ho detto, si nascondono dappertutto.» «Bastardi.» «A me vengono gli incubi, se penso che potrebbero acciuffarmi. È la cosa peggiore che riesco a immaginare, mi credi?» «Io ho un coltello», si vantò Jeremy. «Io pure. E un fischietto.» Lui si ricordò di avere ancora il fischietto di Tanya appeso al collo. «Ti conviene procurarti un fischietto tuo», suggerì Shiner. «E fischiare come un pazzo, se ti trovi nei guai. E non venire qui senza gli altri.» «Me lo ricorderò.» «Credo che il pericolo sia passato.» Shiner gli lasciò andare il braccio e si girò. Jeremy la imitò, poi guardò indietro. Lo spazio buio sotto la passerella era una vaga chiazza attraverso la nebbia. Cercò di individuare la ruota di Ferris, ma non la vide. «Scommetto che non hai mai immaginato di partecipare a un'impresa simile», osservò Shiner. «Quel barbone...» Jeremy s'interruppe e scosse la testa. «Peccato davvero. Mi fa star male, ci credi? Voglio dire, era un barbone, ma pur sempre...» Shiner gli si appoggiò al fianco e lui le mise un braccio intorno alla vita. «È stato terribile.» «Sì!» Continuarono a camminare. Lui non vedeva niente davanti a sé, tranne sabbia e nebbia. «Spero che non venga trascinato a riva», disse Shiner. «Sarebbe terribile se riapparisse mentre c'è gente sulla spiaggia.» Dal rumore della risacca Jeremy calcolò che dovevano essere vicini alla riva. Ma ancora non vedeva l'acqua, e neppure Tanya e gli altri. «Nate lo porta fuori su una tavola da surf?» chiese Jeremy. «Credo di sì.» «Deve andare a casa a prendere la tavola?» «No, la tiene in una rimessa sotto il porticato. Qualche volta, la mattina, fa un po' di surf prima che Funland apra.» «È il ragazzo di Tanya, vero?» «Sì.» Jeremy si accorse che ora la sabbia era più dura e compatta. La spiaggia
era leggermente in pendenza. Qua e là era cosparsa di mucchi di alghe che sembravano strane creature con i tentacoli. «Gli altri devono essere laggiù», disse indicando un punto a sinistra. Shiner girò la testa da quella parte. Poi guardò di nuovo avanti. La sua mano premeva sul fianco di Jeremy, perciò lui la strinse più vicino. «Dovremmo andare anche noi», disse lei. «Sì.» Ma Shiner non si mosse e neppure Jeremy. Si accorse che il cuore gli batteva forte. Chissà che cosa avrebbe detto Shiner se l'avesse baciata. Abbandonò l'idea e si chiese a che cosa stesse pensando la sua compagna. Forse lei desiderava che la baciasse. Ma certo. E se invece a lei non importava? Il solito fifone. Poi gli venne in mente che era molto strano... desiderare di baciare una ragazza quando solo pochi minuti prima aveva visto morire il troll. Avrebbe dovuto sentirsi colpevole. Non l'ho ucciso io, pensò. L'intera faccenda era stata un'idea di Tanya, era stata lei ad ammanettare il vagabondo alla ruota e a farlo salire. «Ora dovremmo sentirli», osservò Shiner. «Proviamo a cercarli?» suggerì lui. «Vuoi?» Jeremy si strinse nelle spalle. Lui voleva restare lì. E anche questo era strano. Era Tanya la ragazza di cui andava pazzo, non Shiner. In quel momento avrebbe potuto essere con Tanya, guardarla, sentire la sua voce. E invece pensava a Shiner. «Credo che dovremmo smettere di dare la caccia ai troll», osservò Shiner. «Davvero?» «Non lo so. Uccidere una persona così... Odio i troll, ma ammazzarli...» «Se ti ritiri, quando ti rivedo?» Le parole gli uscirono di bocca prima di pensarci. Lei girò il viso verso Jeremy. «Perché non mi dai il tuo numero di telefono?» Lui si sentì battere forte il cuore. «Io... Ci hanno appena messo il telefono, non so il numero. Ma se mi dai il tuo...»
«Non posso», replicò Shiner. «Non mi è permesso ricevere telefonate dai ragazzi.» «Eh?» «Mia madre... è fatta a modo suo. Pensa che sia troppo giovane per avere un boyfriend.» «Quanti anni hai?» «Sedici.» «Come me.» «Potremmo incontrarci da qualche parte», suggerì lei. «Certo.» Lui respirava appena. «Sarebbe fantastico.» «Che ne diresti di vederci qui alla spiaggia domani pomeriggio? Per mezzogiorno non ci sarà più la nebbia. Facciamo all'una? Potremmo trovarci laggiù, accanto alla baracca dei bagnini.» «Perfetto!» Doveva baciarla. Stava per farlo, quando vide qualcuno avanzare sulla spiaggia. Si fermarono di botto. Nate. A piedi nudi, con una muta. E una tavola sotto il braccio. Lui si girò e si fermò a pochi passi, piegando la testa. «Dove sono gli altri?» chiese. «Laggiù», disse Shiner indicando un punto più avanti. Nate fece per allontanarsi. «Voi non venite?» «Sì.» Shiner si scostò da Jeremy, tutti e due ripresero a camminare dietro Nate. «Tanya!» chiamò quest'ultimo. «Sono qui.» La voce di Tanya risuonò lontana, ma proprio davanti a loro. Shiner prese la mano di Jeremy. Il suo calore gli risalì per tutto il braccio. Davanti a Nate stavano tre figure indistinte, con il cadavere del troll ai loro piedi. Le manette erano state tolte. Shiner non lasciò la mano di Jeremy nemmeno quando raggiunsero il gruppo. E lui ne fu contento. Aveva l'impressione che loro due fossero diventati una coppia. «Ti ha visto qualcuno?» chiese Tanya a Nate, mentre lui posava la tavola accanto al cadavere. «No. Forse qualche troll, ma io non ne ho visti.» «Questo è un barbone su cui gli altri non metteranno le mani», sentenziò
Samson. Lui e Nate si accosciarono accanto al corpo e lo fecero rotolare sulla tavola. «Scivolerà via se non lo leghiamo», disse Nate. «Non ho potuto trovare una fune. Qualcuno di voi ha la cintura?» «Sì», rispose Samson. «Però, non basta per legare lui e la tavola.» «Ce ne vogliono almeno due.» «Io ne ho una», disse Jeremy. «Io pure», aggiunse Shiner. «Ce le riportate indietro?» s'informò la ragazza consegnando a Nate la cintura. «Ci proverò.» «Sai, è un regalo di mia sorella.» Sua sorella. Quella che era scomparsa. Che avevano preso i troll. Jeremy provò una punta di dispiacere per lei. Nate agganciò le cinture di Jeremy e di Samson e le fece passare sotto la tavola. Assicurò il cadavere stringendo le cinture sulla sua schiena. Poi usò quella di Shiner per legare le caviglie alla tavola. «Okay, siamo pronti», annunciò. «Non ancora», lo fermò Tanya, avvicinandosi a Jeremy. «Dammi il biglietto», gli disse. Lui era confuso. Quale biglietto? Poi si ricordò. Frugò in tasca e le consegnò il cartoncino. Tanya gli sorrise. «Tieni anche il fischietto», soggiunse Jeremy, lasciandoglielo cadere nella mano. La ragazza si portò davanti alla tavola e si accovacciò. Girò la testa del troll, gli aprì la bocca, cacciò dentro il biglietto e gliela richiuse. «Non so se è una buona idea», osservò Nate. Tanya lasciò il cartoncino dov'era e si rialzò. «Lui sarà cibo per pesci», disse. «E, comunque, nessuno potrà leggerlo dopo che sarà rimasto in acqua per pochi minuti.» Nate scrollò le spalle. «All'inferno», borbottò. Lui e Samson sollevarono la tavola dalla sabbia e la portarono verso la riva come se fosse una barella. Gli altri li seguirono. Jeremy vide il bordo schiumoso dell'acqua che veniva verso di lui, ma seguitò a camminare. L'acqua gli inzuppò le scarpe e i calzini.
Vide l'oceano, onde nere increspate di bianco che rotolavano nella sua direzione. Immaginò il troll che affogava, tutto solo nell'acqua nera, e si sentì gelare. Ma è morto, si disse. Non sentirà niente. Non capirà niente. Ma la terribile sensazione di gelo continuava. Tutti si fermarono, tranne Samson e Nate. Randy si avvicinò a Tanya, Shiner serrò le dita sulla mano di Jeremy. I due ragazzi proseguirono a guado con il loro carico. Poi deposero la tavola nell'acqua alta fino alle ginocchia. Mentre Samson si affrettava a tornare indietro, Nate spinse più avanti la tavola. Un'ondata si infranse sulla testa e sulla schiena del morto. Subito dopo, Jeremy vide Nate dietro la tavola, che spingeva davanti a sé. Shiner gli si aggrappò al collo e nascose la faccia sulla sua spalla. Quando guardò di nuovo l'oceano, vide soltanto le onde e la nebbia. 21 Dopo l'appello, Dave sedette alla sua scrivania per preparare il rapporto sull'incidente del giorno prima a Funland. Rivisse ogni momento mentre batteva i tasti della macchina per scrivere. E quando descrisse la mossa decisiva di Joan contro il punk armato di coltello, i suoi pensieri andarono all'altra Joan, quella che sembrava così angosciata per aver colpito un ragazzo. Era stato bello tenere Joan fra le braccia e baciarla. La scrivania di lei era posta di lato alla sua. Dave la guardò. Lei stava appoggiata allo schienale della sedia girevole e parlava al telefono, le gambe allungate davanti a sé. Come Dave, portava la giacca della divisa sopra l'uniforme estiva. La giacca non era allacciata e sotto si vedevano i seni che tendevano la stoffa della maglietta. Mentre lui la guardava, Joan si drizzò sulla sedia e posò la cornetta del telefono. Poi si girò verso di lui. «Woodrow Abernathy ha ripreso conoscenza due ore fa», gli disse. «Mi fa piacere.» Dave era contento per lei, non per Woodrow. Non voleva che Joan vivesse con il rimorso di aver distrutto un verme. Lei sorrise e scosse la testa, poi lasciò cadere le mani in grembo. Dave continuò a redigere il suo rapporto, ma di tanto in tanto il suo sguardo si spostava su di lei. Avrebbe voluto avvicinarsi, ma nello stanzone della polizia non erano soli.
Finalmente Joan si drizzò e lo guardò. «Sei pronto, socio?» gli chiese con un sorriso. «Ho quasi finito.» «Io vado un momento al bagno. Ci vediamo in macchina.» Quando lui raggiunse l'auto di pattuglia, Joan era già seduta al volante. Dave salì. Lei uscì dal parcheggio e si diresse verso Funland. «Sarai sollevata dopo la buona notizia», osservò lui. Joan annuì. «E tu come stai? Come va la ferita?» «Non male. A proposito, grazie per la medicazione.» Lei fece una smorfia. «Sai, mi dispiace veramente per quella faccenda.» «Per che cosa?» «Per Gloria.» «Il mio unico rimpianto è che Gloria sia capitata proprio in quel momento.» Joan imboccò il parcheggio di Funland. Spense il motore e guardò Dave negli occhi. Robin vide alcune facce familiari tra il pubblico. Ma non la faccia di Nate. Dov'era Nate? Aveva detto che si sarebbero rivisti quel giorno. Lei lo aspettava dal mattino, ora si avvicinava mezzogiorno. Forse era occupato. Mentre suonava e si chiedeva dove fosse Nate, Robin notò che Dave, il poliziotto, e la sua collega si erano uniti al pubblico. Si fermavano sempre dopo il primo giro d'ispezione. Dave non le aveva più rivolto la parola, ma la salutava sempre e le sorrideva ogni volta che si faceva vedere. Il giorno prima lei era stata tentata di raccontargli di Poppinsack. Dave sembrava una persona a modo. Ma le avrebbe chiesto come era avvenuto il furto e lei si sentiva imbarazzata all'idea di spiegargli che il professore le aveva rubato i soldi prendendoli dalle mutandine. Forse avrebbe potuto confidarsi con la donna poliziotto. A Robin era simpatica, e parlare con una donna le sarebbe stato più facile. Ci pensò mentre suonava. E si chiese se ne valeva la pena. Ormai Poppinsack aveva probabilmente speso la maggior parte del denaro, e poi non lo si vedeva più in giro. Quando finì il suo numero, Dave le si avvicinò, la salutò con un cenno del capo e lasciò cadere una banconota piegata nella custodia del banjo. Poi le sorrise e si allontanò con la donna poliziotto.
Stava finendo la canzone successiva, quando vide Nate in fondo al gruppo. Aspettò che gli applausi cessassero, poi annunciò un breve intervallo. Il pubblico si fece avanti per mettere il denaro nella custodia. Nate rimase. Si fece più vicino. «Ehi», la salutò Robin. «Ieri sera te ne sei andato lasciandomi venti dollari. Non dovevi farlo, sai.» «Non sapevo che farmene.» «Be', allora lascia che ti offra il pranzo.» «Devo tornare alle giostre», spiegò lui. «Ho lasciato Hector al mio posto, ma non mi fido.» A Robin suonò come una scusa. «Okay», disse stringendosi nelle spalle e sperando che lui non notasse il suo disappunto. «Sono venuto solo per salutarti e vedere come te la passi.» Lei si sforzò di sorridere. «Credevo che volessi sentire il resto della filastrocca.» «Un'altra volta, forse», disse Nate. «Quando vuoi.» «Devo andare.» Lui rimase là impalato a guardarla. Sembrava così diverso dal ragazzo forte e deciso che Robin aveva conosciuto la sera prima. «Ti senti bene?» gli chiese lei, mettendo da parte il disappunto. «Certo.» Lei gli premette la mano aperta sulla fronte. La sua pelle era liscia, ma scottava. «Credo che tu abbia un po' di febbre», decretò Robin, abbassando la mano. Lui le rivolse un sorriso stanco. «Che cosa sei, un'infermiera?» «Solo un'amica.» Piccola Robin. Accidenti, Poppinsack. «Noi ragazze abbiamo un termometro nelle mani. Ti conviene andare a casa, prendere un paio d'aspirine e riposarti.» Il sorriso di lui si allargò. «Riposare senz'altro. Non ho dormito molto la notte passata.» «Nemmeno io», disse Robin ricordando le ore insonni sotto la casa sulla spiaggia. «Dove hai dormito?» chiese Nate. «Sulla spiaggia.» Lui corrugò la fronte e scosse la testa. «Non avresti dovuto.» «Lo so. I troll, i troller.»
«Non è sicuro», insistè lui accigliato. «Me ne sono accorta.» «Qualcuno ti ha dato fastidio?» «Due notti fa sono stata derubata durante il sonno. E poi c'è stato quel vagabondo, ieri sera. A proposito, grazie di nuovo.» «Dovresti star lontana dalla spiaggia, Robin.» «Mi piace l'aria fresca.» «Con i soldi che ti ho dato, saresti potuta andare a dormire in un motel.» Lei scrollò le spalle. «Risparmio per comperarmi una BMW.» «C'è poco da scherzare.» «Con venti dollari posso offrirmi una buona colazione per una settimana. Preferisco mangiare, piuttosto che cercarmi un tetto per ripararmi la testa.» «Non voglio che ti capiti qualcosa di brutto.» «So badare a me stessa.» «Che osservazione idiota.» Robin s'irrigidì. Nate scosse la testa e chiuse un attimo gli occhi. «Scusami. Non avrei dovuto... Mi dispiace.» «Non importa.» «Ora devo proprio andare. Ci vediamo.» Nate si allontanò. Lei rimase a guardarlo finché sparì tra la folla. E intanto si chiese che cosa aveva Nate. Non sembrava ammalato, ma depresso o turbato. Colpa sua? Improbabile. Lui aveva una gran fretta di andarsene. Aveva pensato a Nate per tutta la notte, mentre stava rannicchiata sotto la casa sulla spiaggia. Eppure la sera prima lui era diverso. Un senso di tristezza si abbattè su di lei. Era sulla strada da tanto tempo, aveva gustato la libertà, senza preoccuparsi di essere sola e aspettando con serenità ogni nuovo giorno. Un'avventura meravigliosa. Che l'aveva portata lì. E ora si rendeva conto che poteva anche fermarsi. Nate avrebbe potuto rappresentare ciò che cercava. Ma non era così. Rimase immobile, con un senso di solitudine gelida e immensa come l'oceano.
«Sto diventando un caso tipico di affamata», dichiarò Joan. Durante i giri di pattuglia con Dave nel parco dei divertimenti, Joan aveva assaggiato di tutto nei vari baracconi. Hamburger, hot dog, frutti di mare, pesce e patatine fritte, cibo messicano, cinese e greco. «Che cos'era quella roba in padella con i pezzetti di agnello che galleggiavano nella salsa?» «Il gyros?» «Sì. È buono?» «È una specie di pasticcio. Ma non vorrei che ti sbrodolassi...» «Va' a farti fottere.» «In qualsiasi momento.» «Non illuderti, socio.» Stavano attraversando l'ingresso principale. «Perché non ci leviamo la giacca?» suggerì Joan. «Tu va' avanti e ordina. Ci vediamo al chiosco.» «Che cosa vuoi da bere?» «Mi piacerebbe una birra, ma prenderò una Coca-Cola o una Pepsi.» «Vuoi le cipolle?» chiese Dave togliendosi la giacca. «No, grazie.» Joan si allontanò per andare a mettere le giacche nell'auto. Le sistemò nel bagagliaio, lo chiuse e si affrettò a tornare attraversando il parcheggio. Respirava profondamente assaporando il vento profumato dell'oceano. Si sentiva leggera e forte, piena di vita. Poi vide le due mendicanti sedute sugli scalini di cemento. E non si sentì più felice e contenta. Rimase senza fiato, con il cuore che martellava. Sentiva lo stomaco stretto in una gelida morsa. I muscoli delle gambe sembravano sul punto di cedere. Una delle due mendicanti era Gloria. Mio Dio, pensò Joan. Il fatto di perdere Dave doveva averla ridotta uno straccio. A un tratto Joan si accorse che la donna era camuffata. Allora non si era data al vagabondaggio per il dolore. Aveva scritto quell'articolo sul fenomeno del trolling, due giorni prima, e solo ieri stava cercando di intervistare i barboni nel parco dei divertimenti. Ora s'era spinta più in là e si era vestita come una di loro. Il travestimento era riuscito bene. I suoi capelli, di solito neri e ben pettinati, erano una massa arruffata e striata di grigio. Indossava un camiciot-
to grigio pieno di buchi, probabilmente fatti con le forbici, pensò Joan. Sotto i buchi si intravedeva una maglietta. La gonna era uno straccio a fiori, i calzettoni rossi fino al ginocchio erano tutti sbrindellati. Invece delle scarpe portava ai piedi due sacchetti da drogheria legati alle caviglie con lo spago. Finora Gloria non aveva visto Joan. Teneva la testa girata verso il soggetto della sua intervista, una vecchia donna grassa con un berretto e un soprabito. Le ginocchia della donna erano nude sotto l'orlo del soprabito. Ai piedi calzava grandi stivali militari. Parlando, la vecchia agitava le mani e rovesciava gli occhi. Gloria annuiva. Joan fece un passo verso le due donne. Poi si voltò e salì gli scalini. Non devo interferire, si ripetè. Al diavolo. Gloria è una ragazza adulta. Ma sapeva che l'avrebbe detto a Dave. 22 Jeremy uscì dal bagno e corse in cucina. Sua madre stava in ginocchio, occupata a mettere un foglio di carta adesiva sul fondo della credenza. Lui guardò l'orologio. Dieci minuti all'una. Avrebbe già dovuto essere per strada. La mamma mise fuori la testa dalla credenza e lo guardò accigliata. «Stai bene, caro? Non fai che correre al bagno ogni cinque minuti.» Un'esagerazione, pensò Jeremy, ma era già andato al gabinetto tre volte nell'ultima ora. «Devo aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male», disse. «Se continui a mangiare porcherie a Funland...» Di nuovo i crampi. Stringendo i denti, Jeremy si precipitò nel bagno. Tirò giù i pantaloni della tuta e si lasciò cadere sul water. Giusto in tempo. Accidenti, pensò, adesso sarò proprio in ritardo. Tornò in cucina. L'orologio segnava due minuti all'una. «Posso prendere la macchina?» chiese a sua madre. «Ho un appuntamento dal parrucchiere per le due», rispose lei. «Ti accompagno alla spiaggia, se vuoi. Ma nelle tue condizioni sarebbe meglio che tu non uscissi.» «Devo andare. Ho un appuntamento, e arriverò in ritardo se devo andarci con la bicicletta.»
«Va bene. Va' a preparare l'auto, sarò pronta fra un minuto.» «Grazie.» Jeremy aspettò in macchina, seduto accanto al posto di guida. E di nuovo quei maledetti crampi, con l'aggiunta della pelle d'oca. Sono i nervi, pensò. Non è possibile che torni in bagno. Finirà appena sarò alla spiaggia. La mamma salì al volante, ingranò la retromarcia sul viale. «Sei sicuro di star bene?» chiese. «Sì!» «Forse non è qualcosa che hai mangiato», riprese lei. «Può darsi che sia l'effetto di ciò che è successo ieri.» Jeremy sapeva che la mamma si riferiva alla rissa. «Sì, forse è per questo che sono un po' nervoso», confessò lui. «Devi stare più attento. A quanto pare circolano dei tipi poco raccomandabili in quella zona. Del resto l'hai visto, no?» «Sì.» «E non credo che Cowboy sia una buona compagnia.» «Se non lo conosci neppure.» «Secondo te, la rissa sarebbe avvenuta se fossi stato solo?» «È probabile», mentì lui. «A ogni modo oggi non vedo Cowboy. Credo che sia ancora in ospedale.» «Allora con chi hai appuntamento?» «Con una ragazza.» La mamma girò la testa, sorrise e parve sorpresa e contenta. «Non sapevo che incontrassi le ragazze.» «È un'amica di Cowboy. Molto carina e simpatica», si affrettò a soggiungere Jeremy. «Ti piacerebbe.» «Come si chiama?» «Shiner.» «È tanto che la conosci?» «Da ieri.» Jeremy si accorse di non avere più i crampi. «Ha la tua età?» «Sì. Credo di sì.» Raggiunsero il viale ai piedi della collina e la mamma si fermò al semaforo rosso. «È carina?» Lui stava per dire che l'aveva vista solo al buio, ma si trattenne. «Sì, abbastanza.» «Bene, mi fa piacere. È ora che tu conosca una brava ragazza. Mi piace-
rebbe vederla. Magari potresti invitarla a cena una di queste sere.» «Mamma, la conosco appena.» Scattò il verde, l'auto proseguì, poi svoltò a sinistra verso Funland. «C'è qualcosa che non mi hai detto, Jeremy. La tua Shiner non è...» «No.» «Non sarà una vagabonda o una delinquente?» «Te l'ho detto, ti piacerebbe.» «Allora perché non vuoi invitarla a cena?» «Non è che non voglio. Ci siamo appena conosciuti, non posso invitarla, così di colpo. Sarebbe strano.» «Se hai paura che non possa avere la mia approvazione...» «Non è questo. Gesù!» La mamma gli scoccò un'occhiata penetrante. «Se ti vergogni di questa ragazza al punto che non vuoi farla conoscere a tua madre, allora c'è qualcosa che non va e farai bene a pensarci due volte prima di impegolarti con lei. Siamo in questa città solo da pochi giorni, e sei già riuscito a cacciarti nei guai. Non sono tanto sicura che i tuoi nuovi amici siano persone con cui fare amicizia.» «Sono ragazzi normali.» «Con degli strani soprannomi. Non sarai entrato a far parte di qualche banda, eh?» «No. È ridicolo.» «Vorrei conoscere questa Shiner.» «Okay, okay. Le chiederò se vuol venire, un giorno o l'altro.» «La voglio conoscere oggi.» L'auto rallentò mentre si avvicinava all'ingresso del parcheggio. «Puoi lasciarmi là davanti», disse Jeremy. «Vengo con te a conoscere questa ragazza.» «Vuoi dire adesso?» La mamma fece segno di sì con la testa, entrò nel parcheggio e prese un biglietto dall'uomo accanto al chiosco. «Mamma, no! Accidenti! Rovinerai ogni cosa!» «Hai soltanto sedici anni. Non voglio che ti ritrovi impegolato con qualche baldracca o criminale.» «Ma non è così! Maledizione!» «Non usare quel linguaggio con me, figliolo. Sono tua madre, non uno di quei teppistelli che chiami amici.» Sistemò l'auto in una corsia del parcheggio e soggiunse: «Andiamo».
Jeremy scosse la testa. «Non puoi venire con me.» «Non dirmi che cosa posso o non posso fare.» «Allora non scendo.» «Benissimo. Ti riporto a casa.» «Mamma, ti prego!» Lei lo fissò e il suo viso si addolcì. «Voglio soltanto il tuo bene, caro.» «Shiner è a posto», riprese lui, e sembrava sul punto di piangere. «È una brava ragazza, non è una baldracca né altro.» «Vorrei conoscerla per assicurarmi con i miei occhi. Ho insegnato a scuola per tanto tempo e so distinguere in un secondo una brava ragazza da una poco di buono.» «La inviterò, okay? Ma non venire sulla spiaggia con me, ti prego. Mi rovineresti ogni cosa. Questi ragazzi mi tengono in considerazione, non mi trattano come un moccioso o un cocco di mamma come quelli di Bakersfield. Se mi accompagni come un bamboccio di quattro anni, perderò la faccia. Per favore, non rovinarmi!» La mamma annuì e gli fece una carezza sulla guancia. «Voglio solo che non ti capiti nulla di brutto.» «Lo so. Ma fidati di me, okay?» Jeremy scese dall'auto e salutò sua madre agitando la mano. Proseguì verso la scaletta e scese di corsa gli scalini, dirigendosi verso la baracca dei bagnini. Continuò a camminare, ma di tanto in tanto girava la testa verso la ruota di Ferris, che troneggiava alle sue spalle. Le navicelle della giostra erano rosse e ben visibili nel cielo pallido. Rivedeva il troll che cadeva. Quel povero corpo sulla piattaforma sotto la ruota. Non è stata colpa mia, si disse. Si avvicinò alla baracca dei bagnini. Vide qualcuno sulla piattaforma, ma non era Tanya. Era un uomo in calzoncini da bagno rossi. Jeremy provò un certo disappunto. Non sono venuto qui per vedere Tanya, concluse. Ma capiva che non era vero. Era venuto lì per stare con Shiner, ma sperava che Tanya fosse sulla piattaforma. Giusto per guardarla, osservare i suoi capelli d'oro sotto il sole, il suo corpo slanciato. «Jeremy?» La voce era di una ragazza inginocchiata su una coperta che agitava il braccio nella sua direzione. La coperta era allargata sulla sabbia proprio di fianco alla baracca dei bagnini.
Shiner somigliava solo vagamente alla ragazza della notte precedente. Al buio lui non era riuscito a vedere i suoi capelli biondi e i suoi bellissimi occhi azzurri. Il suo sorriso metteva in mostra i denti bianchissimi. «Che ti prende?» chiese lei. Jeremy si rese conto di essersi fermato. Stava in piedi come un idiota, come se fosse in procinto di tuffarsi da tre o quattro metri. Imbarazzato, scosse la testa e proseguì fino all'orlo della coperta. «Siediti, rimani per un po'», lo invitò lei. Lui si lasciò cadere sulle ginocchia. Gli batteva il cuore, non riusciva a capacitarsi che quella era la ragazza della notte precedente, quella che stava al suo fianco mentre gettavano gli indumenti del troll sotto il tavolato, che si era appoggiata a lui mentre camminavano sulla spiaggia e che gli si era aggrappata al collo quando avevano portato il morto nell'oceano. «Qualcosa non va?» chiese Shiner senza sorridere. «Sei... così bella!» Il sorriso riapparve, un po' timido e imbarazzato, mentre il bel viso arrossiva. «Non esagerare», disse lei. «Ma grazie.» Battè la coperta davanti a sé e tornò a invitarlo... «Vieni, siediti!» gli disse, tirandosi indietro per fargli posto. Poi si mise seduta e incrociò le gambe. Jeremy le sedette di fronte. «Credevo che non ti saresti fatto vedere», osservò Shiner. «Mi dispiace, ma ho avuto difficoltà a uscire di casa.» «Nessun problema. Io sono arrivata da pochi minuti.» Lei increspò leggermente il labbro superiore. «Non è stato facile tornare qui dopo quello che è successo.» «Capisco che cosa vuoi dire.» «Non hai caldo con la camicia?» chiese lei. «Sì.» Jeremy prese gli occhiali da sole dal taschino e li inforcò. Poi si levò la camicia, l'arrotolò badando che non cadessero le chiavi e il portafoglio e la depose sulla coperta. «Così va meglio», dichiarò. Con gli occhiali da sole si concesse di dare un'occhiata al resto del corpo di Shiner. «Ti tormenta?» Lei indossava un costume intero, non un bikini. «Che cosa?» Non molto scollato, con le spalline che le coprivano le spalle. «Il troll.»
Il costume era nero e aderente. «Sì, mi tormenta un sacco», confessò lui. Le tirava sui seni, che erano a forma di cono. «Io continuo a vederlo... a vedere ogni cosa... È un incubo», disse lei. «Ma è realmente accaduto, non è vero?» «Noi non possiamo farci niente», replicò Jeremy, continuando l'ispezione del costume nero. «Passerà con il tempo.» «Lo spero.» Jeremy alzò gli occhi al viso. «Mi dispiace che quel poveraccio sia rimasto ucciso, ma sono terribilmente contento di averti conosciuto.» «Anch'io sono contenta», replicò lei e, chinandosi avanti, gli posò una mano sul ginocchio. «Vuoi un po' di abbronzante?» «Sì, okay.» Lei girò le gambe dalla parte di Jeremy e si distese sul fianco. Poi si appoggiò al gomito e frugò in una sacca di tela. Tirò fuori una boccetta di plastica e gliela diede. Lui si spalmò l'olio e quando ebbe finito restituì la boccetta. Poi si adagiò al suo fianco, di fronte a lei. «Devi proprio portare gli occhiali?» chiese Shiner. «Preferirei vedere i tuoi occhi.» Lui si allarmò. Shiner si era accorta della sua ispezione? Si tolse gli occhiali. Lei sorrise. «Hai dei begli occhi.» «Grazie. Anche tu.» Rimasero a guardarsi negli occhi per un bel po'. Quelli di Shiner erano così azzurri che anche il bianco aveva lo stesso colore delle pupille. Era strano guardarsi a quel modo. Bello, ma strano. A lui non era mai capitato prima. E stentava a credere che la ragazza fosse la stessa che aveva preso a calci il troll, la notte precedente. Avrebbe voluto sapere a che cosa stava pensando. Forse si aspetta che la baci. Lui era sicuro che prima o poi si sarebbero baciati. «Vorrei proprio che non ci fosse tanta gente attorno», disse Shiner. 23 «Anch'io», disse Jeremy. «Perché?» volle sapere lei.
Lui sorrise. «Ehi, non è leale. Sei stata tu a dire che volevi che fossimo soli.» «Ma tu hai convenuto.» «Be', certo.» «Che cosa faresti, se non ci fosse nessuno?» «E tu, che cosa faresti?» Shiner allungò la mano e gli sfregò la guancia. «Mi piacerebbe baciarti», confessò. «Lo pensi anche tu, vero?» «Sì.» Lei si girò sullo stomaco, si sostenne sui gomiti e lo guardò. «Non con tanta gente intorno, però. Ecco perché vorrei che fossimo soli. Dovrebbe essere una questione privata, capisci?» «Sicuro.» «Secondo me è disgustoso vedere certe persone che lo fanno sulla spiaggia in pieno giorno, davanti a tutti. Non hanno nessun pudore.» «O rispetto di se stessi», aggiunse Jeremy, fissando la schiena di Shiner. Chissà se lei gli avrebbe chiesto di ungerle la schiena. «Da dove ti sei trasferito?» «Da Bakersfield.» «Avevi una ragazza?» «Non esattamente.» «Che cosa vuol dire 'non esattamente'?» «Che non frequentavo nessuna in particolare. Solo qualche ragazza della mia scuola.» «Nella mia scuola non ci sono ragazzi.» «Davvero?» «Io vado al Sant'Anna. È una scuola femminile.» «Perciò non hai mai avuto il ragazzo?» Lei sorrise e alzò una spalla. «Ne ho avuto qualcuno. Nessuno di cui m'importasse in modo particolare, però. E non li vedevo spesso, con la madre che mi ritrovo. Lei ha un modo tutto suo per far scappare i ragazzi.» «Somiglia a mia madre.» Shiner si rotolò e allacciò le mani sotto la testa. «Le madri sono così protettive», osservò lei socchiudendo gli occhi per il sole. «Ah, sì, questo è vero. Figurati che la mia mi ha fatto il terzo grado quando le ho detto che dovevo incontrare una ragazza sulla spiaggia.» «Probabilmente non avresti dovuto dirglielo.»
«Lo so. È stato uno sbaglio. Adesso vuole conoscerti.» «Ah, sì? Ha paura che ti corrompa?» «Già.» Shiner alzò una mano per ripararsi gli occhi dal sole e lo guardò. «Forse ha ragione.» «Me lo auguro.» Lei rise. «Se vuoi farti corrompere dovrai cercarne un'altra. Heather, per esempio.» «Concedimi un'altra alternativa.» Lei abbassò la mano e chiuse gli occhi. «Conoscerò tua madre, se lo desideri», disse tenendo gli occhi chiusi. «Non sei obbligata.» «No, ma se questo ti faciliterà le cose...» «Okay, e io conoscerò la tua», promise Jeremy. «Lascia perdere la mia. Sarebbe l'ultima volta che ti vedo.» «Non sarà così terribile.» «Credimi.» Shiner si girò sul fianco. «E per stasera?» «Ehi, non penserai sul serio...» «Ci troviamo a casa di Tanya alle otto. Sei invitato.» «Non scherzi?» «Questo è il suo giorno di libertà. Mi ha pregato di dirtelo. Dovremmo esserci tutti. Noi troller.» «Una riunione?» «Non lo so. È la prima volta. Deve avere a che fare con quello che è successo stanotte.» «Gesù!» «Dovrebbe essere interessante, no?» «Direi di sì.» «A ogni modo, io ci vado con la macchina, perciò posso darti un passaggio. Vengo a prenderti, così conosco tua madre. Giusto per tranquillizzarla.» «Sarebbe fantastico!» «Credi che ti lascerà venire?» «Certo. Quando ti avrà conosciuto, lei... Tu le piacerai e sarà felicissima di farmi uscire con te. Ma come la mettiamo con tua mamma?» «Non c'è problema. Inventerò una storia, le dirò che una compagna di scuola dà una festa. Ci crederà. Crede a tutto ciò che le dico. È severa da farmi impazzire, ma si fida di me.»
Shiner tacque, Jeremy rimase sdraiato accanto a lei. Il sole scottava e una leggera brezza gli accarezzava la pelle. Si sentiva eccitato all'idea di andare in macchina con Shiner. Forse non lo avrebbe accompagnato direttamente a casa, dopo la riunione. Forse si sarebbe fermata in qualche posticino buio e isolato. E magari avrebbero fatto qualcosa di più che baciarsi. *** Robin non riusciva a scuoter via quel senso di freddo che la dominava da quando Nate se n'era andato. Continuò a suonare il banjo e a cantare, ma dentro stava male. Come la nostalgia di casa. Passerà, si disse. Quando era andata via da casa, due anni prima, aveva passato un difficile periodo a causa della nostalgia. Ma non era arrivata subito. All'inizio aveva provato solo rabbia per Paul e per sua madre che se l'era preso a vivere con lei, e paura di essere fermata e rimandata a casa. Poi si era fatta sentire la nostalgia. Era ottobre, lei attraversava una piccola città al buio. Un vento gelido sollevava le foglie morte. Ai lati della strada la luce brillava alle finestre delle case. Si era sentita terribilmente sola, senza affetti, senza la speranza di tornare nella sua casa così accogliente e serena. Un tale le aveva dato un passaggio, e a un certo punto aveva fermato l'auto in un campo. Robin si era difesa con i pugni, era scesa ed era scappata. Fine della nostalgia di casa. Decise di concedersi un intervallo. Dopo che il pubblico si fu sparpagliato, Robin raccolse il denaro dalla custodia del banjo, vi mise lo strumento e portò lo zaino e la custodia su una panchina. Si mise il denaro in grembo e lo contò. Aveva un totale di sessantatré dollari. Prese un calzino di cotone dallo zaino e lo riempì con gli spiccioli, poi piegò le banconote e le infilò in una tasca dei jeans. Non aveva un orologio, ma calcolò di avere ancora il tempo di andare in una banca a cambiare le monete. Poi sarebbe andata al terminal di un pullman e avrebbe acquistato un biglietto per andarsene da quella città. Non c'era motivo di fermarsi lì, si disse. Aveva abbastanza denaro per
mantenersi per un po', anche spendendo la metà per il biglietto. Nate non rappresentava un motivo per restare. E sarebbe stato opportuno allontanarsi da quel covo di barboni e di ladri, nonché di troller, prima che le capitasse qualche guaio serio. Si chinò e mise il calzino pieno di monete nella tasca laterale dello zaino. Qualcuno sedette sulla panchina. Lei alzò gli occhi per vedere chi fosse. Nate. Sorrideva. Non sembrava più stanco e nervoso. «Come va?» chiese lui. «Bene.» «Scusami per prima. Non dovevo parlarti a quel modo.» «Non ci pensare.» Robin sentì battere forte il cuore. «Ero preoccupato per te, ecco perché sono stato sgarbato. Vedi, io so che cosa può capitare alla gente in questo posto. Non voglio che ti facciano del male. E dormire sulla spiaggia...» Non devi più preoccuparti, pensò lei. Me ne vado da Boleta Bay. Per sempre. E non ti rivedrò più. Lui la guardava accigliato. Poi serrò le labbra e scosse la testa. «Non vorrei che ti facessi un'idea sbagliata», disse finalmente. «Riguardo a che cosa?» «Voglio che tu prenda questa.» Pescò nella tasca dei pantaloni e tirò fuori una chiave attaccata a una targhetta di plastica verde. Mise la chiave nella mano di Robin. Lei rigirò la targhetta. Sopra vi erano incise le parole Wayfarer's Inn e un indirizzo. Con il numero della stanza. «Niente discussioni», riprese Nate. «La stanza è già pagata. Sapevo che non sarebbe servito a niente darti il denaro e pregarti di usarlo per un motel. Tu avresti risparmiato i soldi per la colazione.» Robin sentì un nodo alla gola. «Non devi preoccuparti», continuò Nate. «Non ho nessuna intenzione di venirci anch'io. Diavolo, non so neppure il numero della camera. Voglio solo che tu sia al sicuro.» Lei gli prese la mano e gliela strinse. «Sei molto... buono», disse con voce tremante. «Non avresti dovuto farlo, ma...» «La userai, vero? La stanza, voglio dire.» «Okay. Ma lascia che me la paghi.» «Assolutamente no.»
«Ora ho un po' di denaro, sai», Robin rise, ma i suoi occhi erano umidi. «Stavo per andare a comperare un biglietto del pullman, ma adesso credo che rimarrò.» «Stavi per partire?» Lui sembrava sbigottito e le serrò la mano. «Be', sì, ma... Non posso partire ora. Non con una camera di un motel che mi aspetta.» «Volevi proprio andartene? Io credevo che ti saresti fermata da queste parti.» Lei tirò su con il naso e si strinse nelle spalle. «Ora devo tornare alla giostra. Mi prometti che userai la stanza?» «Prometto.» «Magnifico.» «Però devi lasciarmela pagare. Non puoi spendere tanto denaro per me. Santo cielo, lavori tutto il giorno...» «La giostra è di proprietà della mia famiglia», spiegò Nate con un sorriso. «Possiede l'Hurricane, la ruota di Ferris e il resto. Detto fra noi, siamo maledettamente ricchi. Io guido un Trans AM e vivo in una casa di dodici locali, con piscina e campo da tennis. Posso permettermi di offrirti la stanza, sta' tranquilla.» «Mi hai convinto», dichiarò Robin guardando la chiave. «Accetto. Grazie.» «Il piacere è tutto mio.» Lui liberò la mano e si alzò dalla panchina. «Ci vediamo domani, okay?» «Non prima?» «Guarda che non c'è nessun trucco, Robin. Te l'ho detto, non ho neppure guardato il numero della camera.» «Ti credo.» «Spero che starai comoda», disse lui e si voltò. «È la 240», gli gridò Robin. «Stanza 240.» Nate la guardò da sopra la spalla con gli occhi spalancati. «Nel caso tu voglia controllare se ci sono», aggiunse Robin. «Non lo so, non lo so.» E scuotendo la testa Nate si allontanò rapidamente. «Sarà meglio che ti svegli o ti scotterai.» Jeremy aprì gli occhi. Shiner si appoggiava al gomito e gli sorrideva. «Accidenti, mi sono addormentato», disse lui. Si sentiva caldo e pesante. «Eri distrutto. Non hai dormito la notte scorsa?»
«Un sacco.» Shiner rise. «Girati, che ti metto un po' d'olio sulla schiena.» Jeremy si affrettò a seguire il consiglio e si mise sullo stomaco, il mento appoggiato sulle braccia incrociate. «A che ora sei tornato a casa?» volle sapere lei. «Verso le tre.» «Anch'io.» Lui si contorse quando un rivolo d'olio gli scese sulla schiena. Poi sentì le mani di Shiner che scivolavano sulla pelle mentre gli spalmava l'abbronzante. «Secondo te quanto tempo è rimasto là fuori, Nate?» chiese lei, massaggiandogli la schiena con le mani unte. «Non saprei.» «Io cominciavo a pensare che fosse annegato. Dio, che paura mentre lo aspettavamo.» «Eh, sì.» Jeremy ricordava di aver avuto una fifa tremenda quando finalmente aveva visto Nate tornare indietro. Per un momento aveva creduto che fosse il troll a venire verso la riva fra la nebbia. Le mani di Shiner scivolarono lungo i suoi fianchi. «Io ero contenta di essere con te.» «Io pure.» Lui sentiva l'olio scivolargli sulla parte posteriore delle gambe. «Ti dispiace mettermi un po' d'olio sulla schiena?» domandò Shiner a un tratto. «No, certo.» Lei tirò giù le spalline del costume. Jeremy cominciò a spalmare l'olio sulla schiena con tutte e due le mani. La pelle di Shiner era calda e morbida. Come asciugare il gelato dai pantaloncini di Tanya. Non pensarci! Finì l'operazione sulla schiena e si chiese se avrebbe osato ripeterla sulle gambe. No, non poteva. «Sei tornata a casa sola?» le domandò inginocchiandosi accanto alle gambe di lei. «Sì, non abito molto lontano.» Jeremy cominciò a farle gocciolare l'olio sulle gambe e cercò di non pensare a ciò che stava facendo. «Mi sarebbe piaciuto accompagnarti a casa», disse con voce tremante.
«Così avresti saputo dove abito.» «E che male c'è?» Velocemente le spalmò l'olio sui polpacci. «Non voglio che nessuno dei troller sappia dove abito», spiegò Shiner. «E neppure il mio vero nome.» Jeremy interruppe l'operazione olio. Finito, grazie al cielo. Mise il tappo sulla boccetta, si adagiò sulla schiena e sollevò le ginocchia. «Perché vuoi che nessuno lo sappia?» chiese. «Nel caso qualcosa andasse storto. Uno di noi potrebbe essere fermato dalla polizia. Non è ancora successo, ma non è da escludere. Non ci credo quando uno giura di non parlare. I piedipiatti sono capaci di promettere mari e monti se fai dei nomi, e la tentazione è forte. In poco tempo riuscirebbero ad acciuffare tutti. Tranne me.» «Perciò nessuno dei troller sa chi sei in realtà?» «Nemmeno dove abito. Così nessuno può denunciarmi. E ti dico una cosa: dopo quanto è successo ieri notte, sono ben contenta di non essermi lasciata sfuggire una parola.» «Già», commentò Jeremy. Si sentiva vagamente mortificato perché Shiner non si fidava di lui, ma capiva il suo punto di vista. «Avrei dovuto fare la stessa cosa», confessò. «Qualcuno sa chi sei?» «Ho detto a Cowboy il mio cognome e dove abito.» «Be', se è per questo non preoccuparti. Lo avrebbe saputo ugualmente. Per me è diverso, perché frequento un'altra scuola. Nessuno dei troller è iscritto al Sant'Anna. Frequentano tutti scuole statali. Anche tu andrai in una scuola statale in settembre, non è vero?» «Sì.» «Dunque loro sapranno chi sei quando comincerà la scuola. Non avresti potuto restare anonimo comunque.» «Un bel guaio», borbottò Jeremy. «Non perdere il sonno per questo. Nessuno è stato preso finora e poi ho l'impressione che la caccia ai troll sia finita.» «Davvero?» «Scommetto che la riunione di stasera è stata indetta per questo. Voglio dire, nessuno di noi pensava che qualcuno ci rimettesse la pelle. Così cambia tutto. Credo che Nate abbia convinto Tanya a sciogliere il gruppo.» Jeremy provò un improvviso senso di vuoto, come se gli avessero detto che tutti i suoi amici stavano per andarsene da quella città. «Io so che ho chiuso», disse Shiner.
«Ma ci vedremo ancora, vero?» «Lo spero. Non vedo un motivo per non vederci, e tu?» «No, Gesù! Io vorrei vederti sempre.» Mentre pronunciava quelle parole Jeremy provò un senso di colpa. Come se tradisse qualcuno. Chi? Tanya? Cowboy? Il gruppo dei troller? O la stessa Shiner? 24 Joan strinse i manubri della sbarra e sollevò il peso. Su e giù. Forse avrebbe dovuto chiamare Dave, dopo aver terminato gli esercizi. Sollevò la sbarra e l'abbassò lentamente. Ora basta, era stanca. Si trasferì sulla stuoia e cominciò a saltellare, agitando le braccia, scalciando, saltando. Qualcuno bussò alla porta. Era Debbie, che la guardava con un sorrisetto ironico. Indossava un paio di jeans bianchi e una camicetta azzurra che s'intonava con il colore dei suoi occhi. Il suo viso era leggermente arrossato dopo un pomeriggio sulla spiaggia. I capelli biondi le incorniciavano dolcemente il volto. «Sei fantastica», approvò Joan. «Li farai svenire tutti quanti.» «Se ce ne sarà qualcuno», fece Debbie arricciando il naso. «Conosci Jessica. Con lei sarà una fortuna se troverò un ragazzo disposto a guardarmi.» «Be', divertiti comunque. E cerca di essere a casa per mezzanotte.» «Se è una pizza, tornerò molto prima. Tu vedi Dave, stasera?» «Non lo so.» «Potresti invitarlo mentre fai i tuoi esercizi. Chissà come sarebbe contento...» «Scusa, non farai tardi?» Debbie rise. «Quando me lo fai conoscere?» «Che cosa pretendi? Non sono ancora uscita con lui.» «Mi piacerebbe vedere che tipo è.» «Se sei tanto ansiosa di conoscerlo, vieni al parco dei divertimenti quando siamo di pattuglia, domani.» «No, grazie.» «Che cos'hai improvvisamente contro Funland? Prima ci andavi a tutte le ore.» «Questo succedeva prima che la Grande Sorella cominciasse a compiere i suoi giri d'ispezione.» Joan sorrise. «Ti rovino la piazza?»
«Può darsi.» «Be', mi dispiace, ma il lavoro è lavoro.» «Quando ti assegneranno a un'altra sezione?» «Chi lo sa? Ma sta' tranquilla, non ci rimarrò per sempre.» «Tutta l'estate, però.» «Se hai tanta nostalgia di quel posto, vacci durante i miei giorni di riposo. O qualche sera, sempre con le amiche, s'intende.» «Be', vado o farò tardi», disse Debbie. «Ciao. Non fare niente che io non farei.» «Uffa!» Debbie agitò la mano e uscì. Joan sedette sul pavimento e continuò i suoi esercizi finché sentì la macchina allontanarsi. Poi andò nella sua camera. Sedette sul bordo del letto e si mise il telefono sulle ginocchia. Che idiozia sentirsi così ansiosa all'idea di chiamare Dave, si disse. Fissò l'apparecchio. Cristo, non sono mica una ragazzina! Tirò un profondo sospiro, sollevò la cornetta e compose il numero. Lasciò squillare il telefono otto volte prima di riappendere. Okay, lui non era in casa. Questo non voleva dire che fosse da Gloria. E se anche fosse stato da lei, che cosa importava? Paura che facessero pace? Nemmeno per sogno! Che cosa ti rende così sicura? Diavolo, solo pochi giorni fa andavano d'amore e d'accordo. E a lui interessa ancora, altrimenti non sarebbe stato così sconvolto quando gli hai detto del travestimento di quella sgualdrina. Era sconvolto per la mia stessa ragione: perché si sentiva responsabile, pensò. Joan aveva suggerito di non pranzare e di andare a cercare Gloria, ma Dave non aveva voluto. Nessuno dei due aveva gustato il pranzo, però. Quando avevano finito di mangiare si erano diretti all'ingresso di Funland. Joan aveva aspettato accanto alla biglietteria, mentre Dave scendeva gli scalini. Lui era tornato dopo un minuto e le aveva riferito che Gloria non c'era più. Avevano ripreso il loro giro di pattuglia, aspettandosi di incontrarla nel viale. Durante il pomeriggio avevano incontrato otto o dieci vagabondi, ma non avevano individuato Gloria. Alla fine del giro, Dave aveva detto che avrebbe fatto un salto a casa di Gloria per avvertirla di star lontana da Funland. Non sembrava entusiasta all'idea, ma tutti e due sapevano che era necessario.
Era colpa loro. Qualcuno doveva convincerla e il compito spettava a Dave. Joan fissò il telefono chiedendosi se doveva riprovare a chiamare. Forse Dave era sotto la doccia. Rimise l'apparecchio sul tavolino da notte e si alzò. Andò in bagno e chiuse la porta. Stava per aprire il rubinetto della doccia quando suonò il campanello. Sentì la pelle d'oca in tutto il corpo. Il campanello suonò di nuovo. Lei fece una smorfia e si drizzò. Che tempismo, pensò. E io sono qui nuda. Il campanello tornò a suonare. Debbie? si chiese Joan. Forse ha avuto un guasto alla macchina, oppure... Stupida, Debbie ha la chiave di casa. Forse è Dave. Non aveva risposto al telefono perché stava venendo qui. Si rimise la tuta e corse alla porta. Guardò dallo spioncino. Harold. All'inferno. Aprì la porta e s'incollò un sorriso sulla faccia. Lui la guardò un attimo prima di abbassare gli occhi, come al solito. «Scusami, forse sono arrivato in un momento inopportuno.» «No. Ehm... Ho appena finito i miei esercizi. Entra.» Joan si fece da parte. Lui entrò e chiuse la porta. «Avrei dovuto telefonare prima, ma...» S'interruppe a metà frase. «Non fa niente. Vuoi bere qualcosa?» «Un po' di vino bianco, se c'è.» «Certo. Vieni.» Lei si diresse verso la cucina e Harold la seguì. Non doveva venire, si disse. Non aveva ricevuto il messaggio, l'altra sera? Evidentemente no. Eppure lei gli aveva fatto capire chiaro e tondo che non intendeva più uscire con lui né frequentarlo. Joan prese dalla credenza una bottiglia di vino Zinfandel. «Non è abbastanza fresco», disse. «Vuoi un po' di ghiaccio?» «Solo un cubetto.» Joan gli diede la bottiglia. Lui andò al cassetto dove lei teneva il cava-
tappi. Era stato lì tre volte a cena, perciò sapeva dove trovarlo. Debbie, dopo la prima cena, aveva decretato: «Harold è un fesso. Perché perdi il tuo tempo con lui?» «È simpatico», aveva obiettato Joan. «Lascialo perdere e trovati un vero uomo. Sei un poliziotto, li conosci i veri uomini», aveva tagliato corto Debbie. Joan posò due bicchieri sul banco. In uno lasciò cadere un cubetto di ghiaccio. Harold trafficava con il tappo. Mentre lo osservava, lei ripensò a quando aveva sturato la bottiglia di champagne, a casa di Dave. Se in questo momento fossi là... Ma Dave non c'è. Se la sta sbrogliando con Gloria e io devo sbrogliarmela con Harold. Harold riempì i bicchieri e diede a Joan quello senza ghiaccio. «Spero che non ti scocci se sono capitato così all'improvviso», borbottò lui. «No, figurati. Solo che sono in disordine.» «Sei bellissima. Come sempre.» «Grazie», mormorò Joan. Harold sedette sul divano e lei prese posto vicino. Non c'era ragione per non sedersi vicini, concluse Joan. Avevano trascorso serate intere seduti su quel divano, a bere brandy e a chiacchierare. Qualche volta lui le aveva perfino tenuto la mano. «Avevo in mente di telefonarti», disse lei. Harold annuì. Bevve un sorso di vino e fissò il bicchiere. «Posso capire. E posso immaginare che cosa avevi da dirmi. Ogni volta che squillava il telefono credevo che fossi tu. Sono stato... male tutto il giorno.» «Mi dispiace», mormorò lei. «Senti, Harold, mi sei simpatico, davvero, e sono stata bene con te.» «Sei stata bene. Per me quei momenti erano visioni di paradiso. Ecco perché non ho mai voluto arrischiare di...» S'interruppe scuotendo la testa. «Di fare qualche mossa?» suggerì lei. «Avrei voluto», confessò Harold. «Desideravo tanto baciarti, stringerti. Ho sognato di...» Lo interruppe lo squillo del telefono. Il cuore di Joan diede un tuffo. Doveva essere Dave. Il telefono suonò di nuovo. «Non rispondi?» chiese Harold.
«No», disse lei e gli posò gentilmente una mano sul ginocchio. Il telefono mandò altri sette squilli. Harold si mise a piangere. Posò il bicchiere sul tavolino e girò la faccia dall'altra parte. Joan gli accarezzò la schiena. «So che è finita», disse lui con voce soffocata. «Tu cercavi un... un tipo alla Rhet Butler, e io non sono nessuno. Un povero tonto, ecco che cosa sono.» «Su, andiamo. Tutto si sistemerà.» «Non credo.» «Possiamo sempre vederci, Harold. Continueremo a essere amici. È inutile pensare a come avrebbe potuto essere e non è stato.» Lui tirò su con il naso e si asciugò gli occhi. «La settimana prossima andremo al cinema», promise Joan. «No, non potrei. Dio, non voglio la tua pietà.» «Be', allora va' all'inferno.» Harold girò la testa di scatto. Aveva gli occhi arrossati e umidi, le guance bagnate di lacrime. La guardò in faccia e scoppiò a ridere. «O accetti la mia pietà o salti il fosso, gonzo.» Lui rise di nuovo. Il telefono riprese a squillare. «Stavolta rispondo. Cogli l'occasione per calmarti.» Lui rimase sul divano. Joan corse in cucina e sollevò la cornetta. «Pronto.» «Ehi, ciao, sono io.» «Ciao», disse lei e si sentì invadere da un calore delizioso. «Com'è andata?» «Non è andata. Sono passato da casa sua ma lei non c'era. Anzi, ci sono andato due volte, una prima di cena e una dopo.» «Pensi che sia ancora in giro a fare i suoi giochetti?» «Non mi sorprenderebbe. Adesso vado al parco dei divertimenti e la cerco, ma ci vorrà un po' di tempo. Volevo solo parlare con te, prima, per dirti come si mette.» «Cominciavo a preoccuparmi. Ehi, perché non mi porti con te?» «Credo che peggioreremmo le cose, se ci vede insieme, e...» «Lo so, capisco», lo interruppe Joan. «Tu stai bene?» «Sì, ma mi manchi.» «Ti manco?»
«No, sono stufa della tua faccia. Certo che mi manchi. Pensavo di vederci, stasera. Ti ho chiamato poco fa.» «Anch'io ti ho chiamato.» «Già, ho immaginato che fossi tu, ma non potevo rispondere. Se pensi davvero che Gloria si comporti da matta se ci vede insieme...» «Ah, lascia che faccia quello che vuole. Passo a prenderti. Fra dieci minuti?» «Facciamo mezz'ora. Devo fare la doccia.» «Non puoi aspettare finché arrivo?» «A più tardi», troncò Joan e riappese. Tornò in soggiorno e si fermò allo spigolo del tavolo. Harold sedeva impettito. Non piangeva più. «Come va?» gli chiese. «Puoi immaginarlo.» «Allora vieni a prendermi per andare al cinema, la settimana prossima?» Lui le rivolse un pallido sorriso. «E un invito ad alzare i tacchi?» «Temo di sì. Devo prepararmi per uscire. Era Dave al telefono. Abbiamo un caso d'emergenza.» Harold annuì e scolò il bicchiere. Si alzò, Joan gli prese la mano e insieme si diressero alla porta. «Il film?» chiese lei. «Non lo so.» «Facciamo un tentativo e vediamo come va. A meno che, naturalmente, tu non mi molli per qualcuna più carina e affascinante di me.» «Se è per questo mi hai già sganciato tu.» Harold aprì la porta. Joan gli prese un braccio per impedirgli di andarsene. Lo costrinse a voltarsi. Lui non sembrava più tormentato; sembrava solo rassegnato, sconfitto e un po' imbambolato. «Vorrei che tutto si risolvesse nel migliore dei modi», mormorò lei. «Tu ci hai provato.» Lui liberò il braccio e uscì. Joan chiuse la porta e vi si appoggiò. Era contenta che fosse finita. Si sentiva da cani. Harold aveva perso e non avrebbe accettato il premio di consolazione dell'amicizia. Finita. E lei ne era contenta. Non era molto diverso dal prendere a calci Woodrow Abernathy. Provò una sensazione di sollievo e di gioia per aver chiuso la faccenda, per aver portato a termine una situazione difficile. Ma nel suo intimo si sentiva colpevole.
25 «Lieta di averla conosciuta, signora Wayne.» «Anch'io sono contenta di averti conosciuta, Shiner.» «Devo essere a casa prima di mezzanotte, perciò riaccompagnerò Jeremy verso le undici e mezzo. Va bene?» «Bene, bene. Divertitevi, ragazzi.» Jeremy aprì la porta. Mentre Shiner usciva, lui sorrise a sua madre. Lei ricambiò con una smorfia che voleva dire: come hai fatto ad agganciare una ragazza «così»? Appena la porta si chiuse, Jeremy prese Shiner per mano. «L'hai conquistata!» «Naturale!» «Era pronta a detestarti.» «È simpatica, mi piace.» Raggiunsero il marciapiede. Shiner aprì la portiera dei passeggeri e girò intorno all'auto. «Certo che stasera sei molto carina», osservò lui mentre la ragazza si metteva al volante. «Grazie. Anche tu.» Jeremy avrebbe voluto che indossasse un vestito, ma lei appariva terribilmente elegante con i jeans bianchi. Anche la sua camicetta era molto chic. Shiner avviò il motore e l'auto si allontanò dal marciapiede. «Stavo pensando...» disse dopo un secondo. «Non c'è nessuna legge che ci obbliga ad andare da Tanya. Sarà una pizza, sai. Si farà un gran parlare di quel tale. Potremmo fare qualcos'altro, magari andare al cinema o fare un giro a Funland.» «Non vuoi andarci?» chiese Jeremy. «Se proprio ci tieni a saperlo, dicevo solo che non siamo obbligati.» L'idea di andare al cinema o a Funland con Shiner lo allettava. Nello stesso tempo non voleva mancare al party di Tanya. «Sono piuttosto curioso, ti dirò», confessò Jeremy. «Okay, allora andiamo. Non c'è problema.» «Sei sicura?» «Era solo un'idea. Certo, andiamo. Tanya ci vuole tutti presenti.» «Hai paura?»
«Paura no. Sono solo un po' nervosa. Non so, ho il presentimento che dopo ci pentiremo di esserci andati.» «Allora facciamone a meno», concluse lui, sentendosi un eroe pronto a sacrificarsi. «No. Tu ci tieni e io non so ancora se mi va di andarci o no. Magari sarà fantastico.» «Andiamoci per un po'», suggerì Jeremy. «Giusto per fare atto di presenza e vediamo che cosa succede. Se non ci divertiamo, ce ne andiamo.» «Sono d'accordo», approvò Shiner. Jeremy si accomodò sul sedile. Il resto della corsa fu favoloso. Lui si sentiva nervoso e insieme eccitato. Era solo in macchina con Shiner, la sua ragazza, una ragazza bellissima. E andavano a un party. Da Tanya. Che era una forza della natura. Tutto questo capitava proprio a lui. Quando si destò dal suo sogno a occhi aperti, Jeremy notò che si trovavano in una via di un quartiere residenziale che non aveva mai visto. «Dove siamo?» volle sapere. «Potremmo dire dall'altra parte della barricata.» «Eh?» «Ci stiamo dirigendo verso il lato nord della città. Dove abitano i ricchi.» «Tanya abita lì?» ' «Certo. Lei è ricca. Suo padre fa il chiroterapeuta e la sua matrigna l'avvocato.» «Se sono così ricchi, perché lei lavora?» Shiner sterzò in uno stretto viale che saliva verso una collina piena d'alberi. «Be', non ha bisogno di lavorare, ma le piace. Del resto, che cosa fa? La bagnina. Se ne sta sulla spiaggia tutto il giorno a farsi ammirare da chi la guarda. Di tanto in tanto recita la parte dell'eroina.» «Parli come se non ti fosse simpatica», osservò Jeremy. «Anzi, mi piace. Anche se non l'adoro come gli altri.» Shiner si fermò a un incrocio e prese una cartina stradale dal taschino della camicetta. Era una mappa tracciata a penna. Lei la studiò per un momento, poi svoltò a sinistra e proseguì lentamente lungo la strada. Jeremy non vedeva case. Solo boschi e di tanto in tanto un viale al cui imbocco era posta una cassetta per le lettere. Le case dovevano essere nascoste fra gli alberi, sopra la strada serpeggiante. «Come hai conosciuto Tanya?» chiese lui. «Non frequenti la stessa
scuola, e lei abita... Abiti anche tu da queste parti?» «Diavolo, no. Io vivo... vicino al tuo quartiere. L'ho conosciuta dando la caccia ai troller. Tutti in città parlavano di loro e della loro banda. Ho cominciato a uscire tardi la notte e presto li ho trovati. Ho spiegato che volevo unirmi a loro e perché.» «Per via di tua sorella?» «Esatto. Loro mi hanno sottoposta al rituale dell'iniziazione e da allora sono sempre rimasta.» «Sempre con gli stessi ragazzi?» Shiner annuì. «Per la maggior parte. Alcuni di loro si sono trasferiti e Randy non c'era ancora. Lui è entrato a far parte della compagnia dopo che Tanya lo ha salvato dall'acqua. Stava per morire e lei gli ha fatto la respirazione a bocca a bocca. Quando si è svegliato, ha creduto di esser morto e di trovarsi in paradiso. Da allora è diventato uno degli adoratori di Tanya.» Shiner si fermò. Sbirciò attraverso il parabrezza e controllò di nuovo la mappa. «Okay, qui siamo ad Avion. La casa di Tanya dovrebbe trovarsi al terzo viale.» Il terzo viale era a sinistra. Shiner ingranò la marcia e cominciò a salire lentamente. Jeremy rimase incantato quando in cima al viale apparve una villa che somigliava alla casa di una piantagione del Sud, completa di veranda e colonne bianche. La cima della collina doveva esser stata spianata per far posto alla villa, ai tre garage e al parco. Il viale girava intorno a un grande prato e conduceva a una zona pavimentata, a destra del garage. C'erano già altre cinque auto parcheggiate. Shiner parcheggiò accanto a una jeep che aveva una bandiera dei Confederati sull'antenna della radio. Scesero, si avviarono verso la veranda e Shiner prese la mano di Jeremy. La mano di lei era sudata. È proprio nervosa per questa riunione, notò Jeremy. Perché? Che cosa pensa che possa accadere? In cima alla scalinata lui suonò il campanello. Dall'interno venivano le note di My Old Kentucky Home. «Sono sudisti?» chiese Jeremy. «E chi lo sa? Tanya non lo è. Ha vissuto sempre qui.» La porta si aprì. «Ehi, Duke, Shiner!» Cowboy mollò una pacca sulla spalla di Jeremy. «È un pezzo che non ci vediamo, socio.» Il lato destro della sua testa era
nascosto sotto una vistosa fasciatura. Portava il suo vecchio Stetson e aveva qualche cerotto anche sulle braccia. «Entrate, entrate!» Mentre i due nuovi arrivati lo seguivano, Cowboy osservò: «Ho saputo che avete liquidato un troll, ieri notte. Peccato non esserci stato!» «Come stai?» gli chiese Shiner. «Potrei star meglio.» Cowboy guidò i due amici giù per una scalinata in un'immensa sala con le pareti a pannelli, un grande tappeto, un tavolo da biliardo e un bar in fondo. C'erano tutti i troller. Jeremy vide subito Tanya. Era china sul tavolo da biliardo, pronta a tirare un colpo. Era scalza, indossava pantaloncini corti bianchi e una camicia con i lembi così lunghi da coprirle gli short. Karen, in piedi accanto a Nate all'altro lato del tavolo, lanciava occhiate furtive. Tanya mandò la biglia nella buca e agitò il pugno in aria. Nate scosse la testa. Evidentemente aveva vinto Tanya. Randy, a un angolo del tavolo, salutò con un cenno della mano i due nuovi arrivati. Tanya posò la stecca sul tavolo da biliardo, si voltò e sorrise. «Sono contenta che siate venuti», disse andando incontro ai due. Qualcuno diede una pacca sul sedere a Jeremy. Lui si voltò a guardare e cercò di sorridere quando vide gli occhi porcini di Heather. «Come te la passi, Duke?» chiese lei. Jeremy si strinse nelle spalle. Samson, dietro Heather, gli strizzò l'occhio e sollevò il bicchiere colmo di un liquido rosso. Liz, al suo fianco, reggeva un bicchiere con la stessa bibita. Heather si sfregò contro il fianco di Jeremy. «Perché non prendi un po' di ponce e ti unisci alla compagnia?» suggerì. «Che cosa festeggiamo?» intervenne Shiner, passando un bràccio attorno alla vita di Jeremy, come per far capire a Heather che lui non era disponibile. «Chiamiamola una veglia», disse Tanya. «Un omaggio al buon troll.» «Solo che il buon troll è morto», aggiunse Cowboy. «Porca miseria, che rabbia non esserci stato!» Tutti risero, tranne Shiner e Nate. «Propongo che tutti prendiate una bibita per brindare alla memoria del buon troll», suggerì Tanya. Si diresse verso il bar, andò dietro il banco e levò il tappo di una botti-
glia di rum. «Yu, yu!» strillò Heather. Tanya versò parte del contenuto della bottiglia in un contenitore di vetro per i ponce. Il liquore si mescolò con il liquido rossastro. La ragazza agitò il tutto. Dopo aver servito gli amici, Tanya alzò il suo bicchiere. «A colui che ha fatto il grande tuffo», brindò. «E che è diventato cibo per i pesci.» «Io non brindo», borbottò Nate. «Per tirarsi su, no?» replicò Tanya. «Lui era un fottuto troll.» «Era un essere umano e noi l'abbiamo ucciso.» «Non l'abbiamo ucciso, è stato un incidente.» «Un fortunato incidente», aggiunse Liz. «E io non c'ero!» masticò Cowboy. «Lo abbiamo assassinato», disse Nate. Tanya lo fissò. Sembrava contrariata, delusa. «È stato un incidente. Lui si sarebbe salvato se non fosse stato così grasso. E se la 'tua' ruota avesse robuste sbarre di sicurezza.» «Credi che non lo sappia?» bisbigliò lui. «Okay», riprese Tanya. «Eravamo usciti per inchiodare un troll e l'abbiamo inchiodato. Per combinazione è morto. Piangere e frignare non lo riporterà in vita...» «E chi vuole riportarlo in vita?» sghignazzò Liz. «Perciò divertiamoci, va bene? Non vi ho chiesto di venire qui per piangerci sopra. La mia idea era di bere, scherzare fra noi e gettarci questa storia alle spalle. Sappiamo tutti che cosa è successo e nessuno di noi è felice per quanto è avvenuto.» «Parla per te», disse Liz. «Per me è stato grandioso. Un troll in meno. Dovremmo eliminarli tutti.» Con un largo sorriso, Cowboy le arruffò i capelli. Lei gli sorrise e gli cinse la vita con il braccio. «Io la penso come Liz», dichiarò Samson. «Via tutti. Meglio morti.» Nate gli diede un'occhiata penetrante, poi tornò a guardare Tanya. «Bisogna smetterla. Avremmo dovuto smettere da un pezzo. La situazione ci sta sfuggendo di mano. Qualcosa di simile è destinato a succedere...» «Parli come quel ridicolo articolo sul giornale.» «Quell'articolo diceva la verità! Lo abbiamo dimostrato la notte scorsa, no? E non venirmi a raccontare la balla che non sei felice perché è successo! Eri felicissima che il vecchio fosse caduto. Come martedì notte, quan-
do hai cercato di bruciare quell'altro poveraccio.» «Avremmo potuto avere un bell'arrostino», osservò Cowboy. «Siete tutti pazzi?» «È la guerra, amico», decretò Samson. «Ma che cosa vi hanno fatto?» chiese Nate. «Mi fanno schifo.» «Fantastico. Ti fanno schifo, perciò li ammazzi?» «Imbecille, quello è stato un incidente e tu lo sai.» «E tu ci sei dentro perché ti ci ho trascinato io», tuonò Nate. «Lo stesso vale per te, Cowboy. Ricordate? Volevo che mi aiutaste per ciò che loro avevano fatto a Tanya. Voi non avete mai avuto niente contro i troll. Sono stato io a convincervi. Ora è il momento di smetterla. Li abbiamo ripagati cento volte. Per Tanya e per la sorella di Shiner.» Nate spostò lo sguardo incupito sulle facce degli altri troller e lo fermò su Randy. «Tu, che cos'hai contro di loro? Niente. Sei solo infatuato di Tanya. Vale la pena di uccidere per questo? La stessa cosa vale per te, Karen.» L'altra rispose con una smorfia. «Che cosa ti hanno fatto i troll, Heather?» riprese Nate. «Stai con noi giusto per la compagnia. Bella compagnia! Dimagrisci di qualche chilo e buttati nel mondo.» Heather serrò le labbra e sbattè le palpebre. Nate fissò Jeremy negli occhi. «Non so quale sia la tua storia. Davvero odi i troll? Vuoi ammazzarli? Oppure questo è per te solo una specie di club mondano come per Heather?» Jeremy, rosso in faccia, non osò fiatare. «Una maledetta guerra, eh?» sibilò Nate guardando Samson. «Hai detto la tua», intervenne Tanya. La sua voce risuonò calma, ma dura. «Ora vattene da casa mia.» «Sciogli la banda», insistè lui. «Tu sei l'unica che può farlo. Di' loro che è finita.» «È finita fra me e te.» «Su questo sono d'accordo.» Per un momento lei parve sbigottita. Come se si fosse aspettata che lui le chiedesse perdono. Jeremy aveva l'impressione che Tanya non volesse perdere il suo ragazzo. Lei increspò le labbra in una smorfia. «Vattene!» «La tua è un'ossessione, Tanya. Non trascinarli con te.» «Fuori!»
Lui posò il bicchiere sul banco del bar. «Me ne vado. Qualcuno viene con me? Samson? Cowboy?» «Io no», rispose Samson. «Mi dispiace, amico. Sto con Tanya. Dobbiamo ripulire il posto. Smetterò di dare la caccia ai troll quando di giorno potrò camminare tranquillamente senza che qualche verme puzzolente mi chieda due soldi.» «Stessa cosa», disse Cowboy. «Finora non è cambiato niente. Non mi va l'idea di perderti come amico e spero che non si arrivi a tanto, ma abbiamo un compito da svolgere.» Nate seguitò a scuotere la testa mentre ascoltava i due amici. Quando ebbero finito, si guardò attorno. «State commettendo tutti un grosso errore. Lei vi sta trasformando in una banda di delinquenti.» Poi si avviò verso la scala. Solo. «E non pensarci nemmeno di andare alla polizia», lo avvertì Tanya. Lui si fermò e guardò indietro. «Non do più la caccia ai troll», disse, «ma non faccio la spia contro gli amici.» Prese a salire la scala e sparì. «Sporco bastardo», mormorò Tanya. «Comunque non abbiamo bisogno di lui.» Con mano tremante alzò il bicchiere. «Niente più troll», brindò. «Niente più elemosine», aggiunse Cowboy. Si strinsero tutti attorno a Tanya e fecero toccare i bicchieri. 26 Robin sedeva sul letto nella camera del motel, con due cuscini dietro la schiena e guardava la televisione mentre aspettava Nate. Esisteva la possibilità, lo sapeva, che lui non venisse per niente. Quando le aveva consegnato la chiave, l'aveva rassicurata che non le avrebbe fatto visita. Lei gli aveva creduto. Ma il fatto di dirgli il numero della stanza rappresentava un chiaro invito. Lui era sembrato sorpreso e confuso. Per quello che lei ne sapeva, Nate poteva avere una ragazza fissa. E forse in quel momento si trovava con lei. Oppure lavorava sotto l'arco, con le giostre. Però Nate era il padrone delle giostre, poteva benissimo mettere qualcun altro al suo posto, o addirittura chiudere presto. Lo aspettava da quando era arrivata al motel. Era scesa nella lavanderia e aveva lavato gli indumenti sporchi con la lavatrice, poi era tornata di corsa in camera e aveva fatto la doccia. Tutto
di gran carriera per timore che Nate bussasse alla porta e non la trovasse. Si era asciugata in fretta, pettinata i capelli davanti allo specchio del comò e aveva indossato il vestito nuovo, che, per la verità, somigliava più a una camicia da notte che a un abito. Allora aveva preso una cintura dallo zaino e il vestito aveva cambiato forma. Al collo la sua collana di conchiglie bianche risaltava in modo sorprendente sulla pelle abbronzata. Nate, dove sei? Robin vide che alla televisione cominciava un nuovo programma e si accorse che era trascorsa un'ora da quando aveva finito di vestirsi. Scese dal letto e andò alla finestra. Poi scostò la tendina e guardò fuori. Era calata la notte. Dovevano essere le nove, calcolò. Pensò di andare a Funland. Si vedeva entrare sotto l'arco, avvicinarsi a Nate e chiedergli di cambiare una banconota. Dapprima lui non la riconosceva. Poi diceva: «Non riesco a crederci. Sei proprio tu?» Ma forse lui non sarebbe stato contento di vederla. Forse lei si era illusa. Invece di sorridere, lui poteva accigliarsi e dire: «Che cosa ci fai qui?» Verrà, si disse Robin. E a non più di due metri di distanza, lui passò davanti alla finestra e Robin si chiese se l'immaginazione non le giocasse dei brutti scherzi. Nate si avvicinò allo schermo della porta. Un sorriso gli piegava le labbra. «Immagino che sia questa la stanza.» «Credo proprio di sì.» Lei si affrettò ad aprire la porta. Lui rimase immobile sul balcone e la fissò. «Sei... molto carina.» «Grazie. Entra.» Nate sbirciò nella stanza alle spalle di lei. «Forse... forse sarebbe meglio fare due passi. È bello fuori.» Lei provò uno strano miscuglio di delusione e di sollievo. «Sì, certo. Un minuto solo.» Lui aspettò, mentre Robin si metteva dei calzini bianchi e le scarpe da tennis. «Com'è la stanza?» «Bellissima. Mi piace. Specialmente la vasca da bagno.» Robin prese dal cassettone la chiave, uscì sul balcone e chiuse la porta. Poi si girò verso Nate. «Non ho tasche», disse. Lui prese la chiave e se la mise nella tasca della camicia di camoscio che portava come una giacca sopra la maglietta. «Non perderla», si raccomandò Robin. «Farò del mio meglio», promise lui sorridendo.
Si avviarono a fianco a fianco lungo la balconata. Non c'era nebbia, ma la notte era fresca e tirava una leggera brezza. Robin, con il suo vestitino, rabbrividì. Pensò di rientrare in camera a prendersi qualcosa di più pesante, ma non voleva sciupare il suo aspetto indossando una giacca a vento o un giubbotto. Scesero la scaletta e attraversarono il parcheggio del motel. «Dove andiamo?» volle sapere lei. «In qualsiasi posto tranne Funland», rispose Nate. «Bene.» Sul marciapiede voltarono le spalle al parco dei divertimenti. La strada era illuminata e le auto vi sfrecciavano numerose. Intorno c'era tanta gente che entrava e usciva dai negozi. «Hai chiuso presto?» chiese Robin. «No, mi sono fatto sostituire da mio cognato. Dove vorresti andare? Hai fame?» «Non adesso.» «Che ne dici di andare al cinema?» «Per me va bene anche se passeggiamo. Magari potremmo tirarci fuori dalla confusione e trovare un posto più tranquillo.» «Ottima idea!» Erano a metà di un isolato quando un vagabondo svoltò l'angolo barcollando. Venne verso di loro a piccoli passi malfermi, scuotendo i pugni e farfugliando parole incomprensibili con voce rabbiosa. «Perché non attraversiamo qui?» suggerì Nate. «Bene!» Lui sorrise e le prese la mano. Aspettarono un varco nel traffico e finalmente attraversarono. Quando raggiunsero il marciapiede di fronte, lui non le lasciò la mano. «Comincio a esser stufa di quella gente», dichiarò Robin. «Tutti sono stufi di loro.» «Forse i troller hanno ragione.» Nate non fece commenti. All'angolo la guidò verso destra. La strada era leggermenté in salita, ma non troppo. Si avvicinava una macchina solitària. Tutte le altre auto in vista erano parcheggiate lungo i marciapiedi e sui viali. Le case erano piccole e raggnippate. L'unica persona nella via era una donna che portava a spasso il suo cane. «Qui va molto meglio», osservò Robin.
«È una bella cittadina, vero? Ci sono tante cose da vedere.» «La parte bassa è abbastanza caratteristica.» «Sì, con gli artisti, i poeti e cose del genere. E la gente ricca ama quell'atmosfera.» Lui la guardò e aggiunse: «Tu sei una poetessa». «Non di quel genere.» «Be', hai della stoffa. Almeno da quello che ho sentito. Ma anche questo è un buon posto per... le persone creative. Ci sono tanti negozi di libri e l'università. Bar e caffè dove si può star seduti tutto il giorno a scrivere. Io penso che Funland sia fantastica. Selvaggia, pittoresca e volgare.» «Lavori per l'Azienda di soggiorno?» «No, voglio dire che Funland è una cosa a sé. Boleta Bay non è tutta... marcia. Ha anche dei lati positivi.» «Stai cercando di dirmi che non dovrei partire?» «Sì!» Robin sentì un improvviso calore alla bocca dello stomaco. Gli strinse forte la mano. «Devi andare da qualche parte?» riprese Nate. «Voglio dire, sei sulla strada per Hollywood?» Lei rise. «Improbabile. Io sono solo una ragazza menestrello.» Piccola Robin. Stavolta l'eco della voce di Poppinsack fu più debole. «Se non hai una destinazione precisa», continuò Nate, «perché non ti fermi per un po'?» «Vorrei poterlo fare.» Percorsero una via deserta. Nate la guidò verso un vialetto che attraversava un parco rischiarato da pochi lampioni. Sotto ciascun lampione c'era una panchina. Erano tutte vuote. «Dove sono tutti i troll?» chiese Robin. «C'è in giro una pattuglia. I poliziotti scoraggiano il vagabondaggio.» «Una specie di versione di troller legali?» «Non proprio. Loro sono bravi cittadini. Da quanto mi risulta i cacciatori di troll non sono meglio dei criminali. Ecco perché non voglio che tu dorma sulla spiaggia. È là che i troller vanno a caccia. Il parco dei divertimenti, la spiaggia. So che tu non sei una troll...» «Grazie tante.» Nate si fermò e le prese anche l'altra mano. Poi la fissò negli occhi. Era accigliato. «C'è poco da scherzare. Quelli fanno del male alle persone, potrebbero farti del male se ti trovassero da quelle parti di notte.»
«Che cosa dovrei fare?» replicò Robin. Avrebbe voluto che il suo cuore rallentasse i battiti. E invece no. Cercò di tener ferma la voce e riprese: «Mi chiedi di non partire. Allo stesso tempo mi dici che potrei essere aggredita dai troller, se mi fermo. So già che i barboni sono pericolosi. Perciò so che è un rischio dormire sulla spiaggia, ma non puoi pagarmi la stanza ogni notte». «Troveremo un posto dove tu potrai abitare.» «Ci vuole denaro. Io sono a corto di denaro. E non ti permetto di pagare.» «Ti darò un lavoro, ti metteremo sul libro paga.» «Non so, Nate. Io... La mia musica è importante per me. Sono io, capisci? Se avessi un vero lavoro...» «Un lavoro che ti permetta di fare quello che fai ora. Non più sulle strade, ma davanti alle concessioni che ha la mia famiglia, nel parco dei divertimenti. Magari sotto l'arco.» Lui sorrise. «Così posso sentirti. E vederti. Vicino all'Hurricane o alla ruota di Ferris, per esempio. Pagamento a ore. Diciamo, per cominciare, sette dollari l'ora, più quello che ti offre il pubblico.» «E mi terrei le mance?» chiese lei. «Che cosa credi, che voglia farti l'elemosina?» sorrise Nate. «Spero di no. Ma non capisco come tu possa pagare qualcuno per far passare il tempo ai tuoi clienti che si mettono in coda per salire sulle giostre.» «Alla chiusura, tu consegni una percentuale del tuo incasso. Diciamo il quaranta per cento. E ti tieni il sessanta, oltre la paga.» «Ma è troppo, Nate!» «Diavolo, è un modo per sfruttare le pubbliche relazioni. Una volta passata parola, non mi sorprenderei se la gente cominciasse a venire a Funland per sentirti.» «Non sono così brava.» «E invece sì. E potremmo arrivare a organizzare dei concerti veri e propri.» Robin scosse la testa e sorrise. «Hai delle idee grandiose, amico.» «Non sai quanto sei brava. E non è solo la tua musica, ma c'è di più. Sei tu. Ho osservato il tuo pubblico. Quelle persone... s'innamorano di te.» Improvvisamente Robin si chiese se per caso Nate non intendesse dirle che si era innamorato di lei. «Affare fatto?» volle sapere lui.
«Si può sempre provare», rispose Robin e stranamente fu colta da un brivido. Lui le strinse tutte e due le mani. «Magnifico», fu il suo commento. «Magnifico.» «Non spezzarmi le mani, baciami piuttosto.» Sulla faccia di lui affiorò un'espressione di sorpresa e di confusione, come quando gli aveva detto il numero della stanza. Le lasciò andare le mani e alzò le braccia. Lei vi si rannicchiò. Il suo corpo era caldo e solido. Come una casa. Quando si baciarono lei ebbe l'impressione di sciogliersi. 27 «Eccola», disse Dave quando vide la Volkswagen di Gloria. Avevano percorso su e giù le corsie del parcheggio e avevano visto una dozzina di Volkswagen, ma quella era la sua. Dave riconobbe il numero di targa e gli adesivi sul cofano. No al Vietnam in Nicaragua e Una bomba nucleare può rovinarti tutta la giornata. «Sicuro, dev'essere qui», disse Joan. Dave trovò un posto libero e parcheggiò. Prima di scendere dall'auto prese la torcia elettrica sotto il sedile. «Cominciamo dal parco dei divertimenti?» chiese Joan. «Forse è meglio. Bel modo di passare il nostro tempo libero, però!» «Già, io avrei di meglio da fare, se proprio vuoi saperlo.» «I tuoi programmi includono anche il sottoscritto?» «Può darsi.» Dave fece scivolare il braccio sotto il dietro della giacca aperta di lei. Mentre camminavano verso l'ingresso del parcheggio, muoveva lentamente la mano su e giù sul suo fianco. Sentiva il calore di Joan sotto la camicetta. E ogni volta che le sfiorava il fianco sentiva il calcio della calibro 38 appesa alla cintura. «Che cosa diciamo a Jim e Beth?» chiese Joan. «Salve, ragazzi.» «Guarda che li incontriamo di certo. Beth non è un problema, ma Jim fiuterà qualcosa. Se si fa l'idea che noi due stiamo insieme, lo saprà tutto il dipartimento. I capi verranno a saperlo e uno di noi due potrebbe essere trasferito.» «Ci comporteremo da bravi ragazzi innocenti.»
Joan gli mollò una pacca sul sedere. «Ce la fai a tenere a posto le mani?» «Certo. Non è un problema.» Lei gli scostò la mano. «Allora comincia a esercitarti.» Attraversarono il tavolato. Dave guardò alle due estremità, scrutò il pendio erboso davanti a Funland. C'erano altre coppie nelle vicinanze, dirette all'ingresso. Da quella distanza vide che qualcuno giaceva sull'erba vicino al muro del vecchio padiglione in fondo al viale. Sembrava un mucchio di stracci. «Laggiù», disse Dave. Joan annuì. «Andiamo a vedere.» Mentre si avvicinavano alla figura distesa, Dave notò che aveva la barba. Doveva averla notata anche Joan. «A meno che Gloria non abbia fatto una cura di ormoni, quello non è lei», disse. «Giriamo da questa parte, comunque. Se torniamo all'ingresso principale perderemo tempo.» «Speriamo che quel poveraccio dorma.» Non dormiva. Il vagabondo si alzò e scese il breve pendio per bloccarli. Il lampione vicino illuminò gli occhi dell'uomo, uno sguardo selvaggio e maniacale che a Dave ricordò Charles Manson. «Aiutate un poveretto in disgrazia.» Non era una supplica, era una richiesta. «Stiamo cercando...» disse Dave. Joan gli afferrò il braccio e lo trascinò giù dal marciapiede. «State cercando Dio?» farfugliò l'uomo. «Sono io! Datemi un dollaro.» «Fila via!» gli gridò Joan da sopra la spalla, trascinando Dave accanto a sé. «Fottiti, baldracca. Eh? Perché ti impicci, baldracca?» Dave liberò il braccio e si lanciò verso l'uomo. «Certo che ti do qualcosa, sporco...» «Dammi un dollaro! Altrimenti ti faccio il malocchio.» «Dave!» Dave si sentì prendere il braccio da dietro. In mano stringeva la torcia di metallo. «Non farlo!» gridò Joan. «Vieni via. Andiamo.» Lui si lasciò trascinare via dal marciapiede, senza distogliere gli occhi dal barbone. L'altro prese a saltellare urlando: «Crepa!» E, congiungendo le dita davanti alla bocca sdentata, balbettò: «Maledizione di morte! Maledizione di morte. Va' a farti fottere!»
Seguitò a saltellare agitando le braccia. Appena svoltato l'angolo del padiglione non lo sentirono più. Joan si appoggiò al muro e scosse la testa. «Stai bene?» le chiese Dave. «Io? Eri tu che stavi per spaccargli la testa.» «Sì, ho perso il controllo per un secondo.» «Eccome. Gesù!» Lei si staccò dal muro, gli appoggiò i polsi sulle spalle e gli accarezzò la nuca. «Ti ringrazio per la tua galanteria, amico, ma non hai bisogno di difendere il mio onore. Me ne infischio di come mi chiama un troll.» «Io no.» «Sporco maschilista.» «Esatto!» Il massaggio sul collo e sulla nuca gli allentò la tensione. «Adesso hai attirato su di noi la maledizione di morte.» «Bastardo», borbottò Dave. «Devo tornare indietro e dargli un dollaro perché ce la tolga?» «Dagliene cinque. Non si sa mai.» Dave fece per tornare indietro, ma Joan gli si aggrappò al collo. «Dove vai?» «Oh!» Lui capì che stava scherzando. La stretta di Joan sul collo si allentò, lei ricominciò a massaggiarlo. Lui abbassò la testa, chiudendo gli occhi. «D'ora in poi», disse lei con voce pacata, «teniamoci a debita distanza da qualsiasi troll che incontriamo. È inutile chiedere a loro se hanno visto Gloria, tanto non ci direbbero niente. E potremmo far saltare la sua copertura.» «Okay, osservazione sensata.» «Inoltre i troll mi mettono una fifa boia.» Dave sollevò la testa divertito dal suo linguaggio e sorrise, ma rimase colpito dalla sua ammissione di aver paura. Le mise le mani sui fianchi e disse: «Forse farei meglio a farmi togliere il malocchio». «Maschilista e superstizioso.» Joan attirò la sua testa verso di sé e lo baciò delicatamente sulla bocca. Lui sentiva i suoi seni premuti contro il petto. Le cinse la vita con le braccia e assaporò il calore della sua bocca. «Sarà meglio cercare Gloria», sussurrò lei. «Perché non lasciamo perdere? Andiamocene da questo posto e...»
«Sarebbe bello.» «Sono fatti suoi, in fin dei conti. Se le va di giocare la parte della grande reporter, perché dobbiamo impedirglielo?» «Continua a parlare. Chissà che non ti convinca.» «Maledizione!» «Cerchiamola ancora per un'ora», propose Joan. «Dopo andremo a casa mia: che la troviamo o no. Non dobbiamo fermarla. E neppure metterla in guardia. Dobbiamo solo fare un tentativo.» «Lei conosce i pericoli», disse Dave. «Ma la nostra coscienza non troverà pace, se le capita qualcosa.» «Okay, dedichiamole un'ora.» Lui si sciolse dalle braccia di Joan e guardò l'orologio. «Sono le nove e quaranta, ora.» «Funland chiude alle undici. Aspettiamo la chiusura.» «A che ora finisce il party di Debbie?» «Dovrebbe rientrare a mezzanotte.» «Un bel guaio.» Joan lo guardò negli occhi. «Lo so, ma è solo per una sera. Dopo avremo finito con Gloria.» «Sicuro. Andiamo, giusto per non aver nulla da rimproverarci.» Salirono una scalinata di cemento all'angolo del padiglione. Quel tratto non era affollato. Durante gli ultimi giorni c'era sempre una piccola folla ad ascoltare la ragazza del banjo. Dave cercò di ricordare il nome. Dove? No, Robin. Una brava ragazza. Si chiese dove fosse. Quello non era un luogo per una ragazza sola. Con tanti pazzi in giro, come il bastardo del malocchio. E con i troller in agguato. «Dobbiamo controllare anche là dentro?» chiese Joan indicando la porta del padiglione. «Solo un'occhiata», disse Dave. Entrarono. Il padiglione non era particolarmente affollato. Lui non vide nessun mendicante e nemmeno Gloria. «Hai fame?» chiese a Joan. «No», rispose lei. «Ma tu vai pure a prendere qualcosa, se vuoi.» Lui scosse la testa. «Potremo fare uno spuntino a casa mia», suggerì Joan. «Okay.» Uscirono dal padiglione e s'imbatterono subito in Jim e Beth. Beth guardò la coppia con occhi sbarrati, Jim arricciò la faccia in una smorfia che era per metà sogghigno e per metà sorriso.
Trenta secondi, pensò Dave. Bastavano trenta secondi e non ci avrebbero visto. «Bene, bene, che mi venga un accidente», disse Jim. «Salve, giovani amanti.» «Non saltare a conclusioni avventate», lo ammonì Dave, e subito si pentì della frase idiota. «Stiamo cercando Gloria Weston», spiegò Joan. «Avete in mente un ménage a tre?» Jim sapeva che Dave filava con Gloria. Lo sapevano tutti. Tutti ci scherzavano su quella relazione: il poliziotto e la giornalista piantagrane. «Perché non aspettate che smontiamo di servizio?» suggerì Jim. «Così facciamo un bel quintetto.» «Cerca di ragionare per un minuto», intervenne Joan. «Ascolta: la Weston si è travestita per vedere come vivono i troll.» «Tipico. E qual è il problema?» «Non è consigliabile», osservò Dave. «L'hai vista?» chiese Joan al collega. «Non guardo i barboni, mi fanno perdere l'appetito.» «Sarebbe possibile riconoscerla?» chiese Beth. «Ha cambiato il suo aspetto?» «I capelli», spiegò Joan. «Indossa un maglione grigio, gonna rosso fuoco e calzettoni rossi. Sporchi e consunti. E ha dei sacchetti per la spesa ai piedi. Probabilmente ne ha uno anche in mano.» «Porta dei sacchetti ai piedi?» ripetè Beth. «L'ultimo grido della moda dei troll», disse Joan. «Ci si è proprio buttata anima e corpo in questa avventura.» «Non l'avete vista?» «Ne dubito. Avremmo notato i sacchetti. Che cosa volete che facciamo, se la troviamo?» «Non possiamo arrestarla», intervenne Jim. «Lei si metterà a urlare... e la faccenda apparirà su quel suo straccio di giornale.» «Tenetela d'occhio», suggerì Dave. «Noi pure ci guarderemo attorno. Ci vediamo prima dell'ora di chiusura. Il fatto è che temo abbia in mente di passare la notte qui. Quella non fa mai le cose a metà. È decisa a scoprire com'è la vita di un troll.» «Se vuoi il mio parere, non sono affari nostri», dichiarò Jim. «Potrebbe avere dei guai», osservò Beth. «E sarebbe un peccato?» Jim incrociò gli occhi di Dave. «Scusa, amico.
So che avevi una storia con lei ma, santo cielo, la tua Gloria ci mette in croce ogni volta che si siede alla macchina per scrivere. Hai letto quella porcheria sui troller?» «Anche a me non è piaciuto l'articolo.» «Perciò se proprio vuole unirsi a quei rifiuti, lasciala fare. Vedrai che se passa un po' di tempo con loro cambierà idea. Questo è certo. Anzi, potrebbe invocare le esecuzioni in massa, dopo.» Beth sembrava profondamente turbata. Si strinse nelle spalle e guardò Dave. «Non vorrei che le capitasse qualcosa.» «Gloria non sa in che cosa si sta imbarcando», osservò Joan. «Vogliamo solo avvertirla.» «Terremo gli occhi aperti», promise Beth. «Grazie!» «Sì», aggiunse Dave. «Grazie infinite.» Mentre passava davanti a Jim, il collega gli strizzò l'occhio e bisbigliò: «Sei maledettamente fortunato. Se vuoi un consiglio, lascia perdere la Weston». Dave scosse la testa e continuò a camminare. «Non è andata tanto male», osservò Joan. «Vedremo.» Davanti a loro c'era la scaletta che scendeva alla spiaggia. Dave fu improvvisamente contento di aver incontrato Jim e Beth. «Forse potremmo accelerare le cose visto che possiamo tralasciare in parte la ricerca. Se si trova dove passano loro, la vedranno.» Scesero la scaletta di cemento. Joan si fermò quando raggiunse la sabbia. «Da dove cominciamo?» «Non saprei.» Dave scrutò la spiaggia. Era illuminata in pieno dal chiaro di luna. C'erano chiazze buie qua e là che sembravano persone avvolte nelle coperte. Molte erano coppie, alcune sedute, altre sdraiate. Dave vide un uomo solitario che correva lungo la riva. Un cane trotterellava davanti a lui. Dalla direzione opposta venivano tre persone. Joan indicò le persone avvolte nelle coperte. «Vuoi che controlliamo?» chiese Dave. «Preferisco cercare Gloria.» «Appunto.» «Sarei sorpresa di trovarla all'aperto», continuò Joan. «È più probabile che la incontriamo dove ci sono i troll.» «Qua attorno non c'è molto da vedere», osservò Dave. Joan puntò il pollice alle sue spalle.
«Lo so», disse Dave. «Lo so che lo sai.» «Non vuoi andare là sotto, vero?» «Abbiamo scelta?» «Certo.» «Senti, stai cercando Gloria o fai solo finta di cercarla?» «Spiritosa!» Joan gli prese la mano. «Andiamo a controllare, prima che perda il coraggio.» Proseguirono, passarono davanti alla scala ed entrarono nell'oscurità sotto il tavolato. Dave accese la torcia. Il suo fascio di luce squarciava il buio. Alcune ombre sotto i pilastri si spostarono barcollando alla luce improvvisa. Un'ombra sfrecciò da dietro un pilastro. Joan strinse forte la mano di Dave. Non si poteva dire se l'ombra fosse di un uomo o di una donna. Ma poi videro che indossava pantaloni scuri e un soprabito e capirono che non si trattava di Gloria. «Santo cielo!» mormorò Joan. «Sei sicura di voler continuare?» «Se ce la fai tu, posso farcela anch'io.» «Io sono un po' in pensiero per la mia mano.» «Scusa.» Joan allentò la stretta. Rimasero immobili mentre Dave illuminava la zona davanti a loro con la torcia. «Sembrerebbe tutto normale», disse. «Probabilmente molti sono più indietro.» Lui puntò il fascio di luce alla sua sinistra. Vide una donna dalla faccia sporca che lo sbirciava da un palo. Dietro la donna, altre ombre. Si sentì venire la pelle d'oca. Si affrettò ad abbassare la torcia. «Cristo!» mormorò Joan. «Dobbiamo stanarli?» «No!» «Dov'è finito il tuo coraggio?» «Ci sono dei limiti.» «Mi fa piacere saperlo.» «Prova a chiamarla.» «Gloria?» gridò Dave. «Gloria, sei lì?» Cinque o sei voci, alcune basse altre stridule ripeterono il grido. «Glo-
ria? Eh, eh! Glooooria?» Dave si lasciò sfuggire un gemito. Corse avanti, tenendo Joan per mano, scansando i pali che ostruivano il passaggio. Le voci seguitarono a chiamare Gloria. Voci divertite. A sinistra, da un mucchio di coperte, saltò fuori un tipo sparuto. Joan balzò da un lato, sbattè contro un palo e rimbalzò contro Dave. «Ehi...» frignò il troll. «Avreste due soldi per un povero soldato abbandonato dalla fortuna?» Dave gettò un braccio attorno alle spalle di Joan e la guidò fuori. Il chiaro di luna li inondò. Non si fermarono finché furono sulla spiaggia. Joan abbracciò Dave convulsamente. Ansimava, il suo respiro alitava caldo sull'orecchio di lui. «Stai bene?» le chiese Dave. Lei gli sfiorò la guancia mentre annuiva. «Ti sei fatta male?» «Non molto. Solo una botta alla spalla.» «Non dovevamo andare là sotto.» «Dio, quella gente!» «Troll.» «E se Gloria è là?» «Fatti suoi.» «Accidenti !» «Non torniamo laggiù», disse Dave. «Non m'importa di quello che pensi.» «Andiamo.» «No.» «A casa mia.» «Sei sicura?» «Voglio andarmene da qui. Subito.» Ma Joan seguitò a stare aggrappata a lui e non si mosse. «Siamo due pollastri, vero?» disse lei dopo un po'. «Polli del Kentucky.» «Non è che loro potessero farci del male. Noi siamo armati.» «E tu sei imbattibile.» «Avremmo potuto sterminarli.» «D'altra parte, chi può dire che non fossero armati anche loro?» «Che pensierino piacevole.» «Dicevi sul serio, prima?» chiese Dave. «A proposito di andarcene.»
«Sicuro. Andiamo.» 28 «Direi di andare», suggerì Shiner. «È ancora presto.» La voce di Jeremy risuonò leggermente soffocata. Colpa del liquore, pensò. Shiner gli strinse il braccio e lo scosse gentilmente. «Vieni. Qui sono tutti sbronzi, te compreso.» «Io sto benone», dichiarò Jeremy. «Perché non restiamo ancora un po'?» «Se proprio ci tieni. Ma solo pochi minuti, okay?» Lui guardò il bicchiere che teneva in mano e vide che era vuoto. Non andò a riempirlo perché Shiner avrebbe disapprovato. Lei non si divertiva, si vedeva. E poi aveva bevuto solo Pepsi. «Vuoi ballare?» offrì Jeremy. «Non ne ho voglia, ho ballato abbastanza. E poi continuano a suonare quella roba!» «Sono i Beastie Boys.» «Orribile.» Solo Karen ballava ancora. Due minuti prima era rimasta in reggiseno e mutandine. Si dimenava e si contorceva, scuotendo i capelli, la pelle lucida di sudore. E teneva gli occhi fissi su Tanya. Tanya non sembrava minimamente interessata. Fissava il suo bicchiere e non prestava attenzione a Karen. Anche lei aveva ballato, poco prima, con un bicchiere di ponce in mano. Ora stava sdraiata sul divano, i piedi nudi sul tavolino, un braccio penzoloni verso il pavimento. Randy, allungato sul divano, teneva la testa sul grembo di lei. Dormiva. Jeremy pensò che sarebbe stato bello essere al posto di Randy. Ma sveglio. «Sei pronto, adesso?» chiese Shiner. «Che ore sono?» s'informò Jeremy. «Le dieci e un quarto. Tu stesso hai detto che potevamo andar via presto. E comunque non succede niente.» «Ancora un paio di minuti?» «Ma che cosa aspetti? Credi che Karen si tolga il resto?» «Non mi piace nemmeno», protestò Jeremy. «Ma ti piace guardarla. Personalmente trovo lo spettacolo ripugnante. Hai capito che cosa sta facendo, vero?»
«Balla.» «Cerca di far colpo su Tanya.» «Tanya non è una lesbica.» «Oh, te ne intendi?» «Era la ragazza di Nate.» «Già, ma Nate è fuori scena e lei è profondamente depressa. Chissà che Karen non abbia fortuna.» «No!» «Allora uno dei ragazzi avrà fortuna.» Shiner lo guardò sollevando le sopracciglia. «Forse tu. È quello che speri?» Lui si sentì arrossire. «No!» «Sicuro?» «Parola!» Shiner socchiuse gli occhi. «Allora dimostralo. Andiamo via subito.» Oh, Dio, pensò Jeremy. Che cosa faccio? E se le dico di no? Questa potrebbe essere la mia grande occasione. «Okay», disse a voce alta. «Possiamo andare.» Shiner serrò le labbra. Lo guardò negli occhi e annuì. «Bene», approvò e gli strinse dolcemente la mano. «Prima, però, devo andare in bagno.» «Non c'è da meravigliarsi.» Shiner sorrise. «Ma dovrai aspettare che esca Heather. Così ti resta un po' di tempo per ammirare Karen.» Lui si scostò dalla parete a pannelli. La porta del bagno era chiusa. Finalmente Heather uscì dal bagno. Ma il bagno venne subito occupato da un'altra persona. «Probabilmente c'è un altro bagno di sopra», suggerì Shiner. «Vado a chiederlo a Tanya.» Tanya gli sorrise appena lo vide vicino al divano. «Ehi, Duke. Come va?» «Benissimo. Stavo per...» «Vieni qui, siediti.» La ragazza levò i piedi dal tavolino e posò il bicchiere. Poi prese la mano di Jeremy e lo attirò sul divano accanto a lei. «Ti diverti?» «Sì. È fantastico.» «Bene, bene.» Lei gli passò il braccio attorno alle spalle. «Sei un bravo ragazzo, Duke. Proprio un bravo ragazzo. Sai che cosa mi piace in te?» Lui scosse la testa, e il solo movimento gli diede un capogiro. «Tu sei leale. Lealtà e coraggio, ecco le tue doti.» Gli sfregò una spalla e annuì.
«Io non volevo che quel tale morisse. E tu, volevi vederlo morire?» «No.» «Naturale. Tu, però, non ti sei messo a frignare e a lamentarti. Nossignore. Tu hai fedeltà e coraggio.» «Grazie», farfugliò Jeremy. «Sei un vero amico. Siamo 'tutti' veri amici. Siamo una famiglia, sai?» «Lo so.» «Spazzeremo via quei fottuti troll.» «Giusto.» Lei si girò. La sua gamba premeva contro quella di Jeremy. Lo attirò sul petto e lo baciò. Tanya mi sta baciando, si disse Jeremy. Non poteva crederci. Chissà se Shiner guardava. Non gliene importava. Aveva sognato questo momento dalla prima volta che l'aveva vista, e ora accadeva realmente. Le sue labbra erano calde e morbide, i suoi seni gli premevano sul petto. Poi lei scostò la faccia. Non può essere già finito. Guardandolo negli occhi, Tanya gli strinse la gamba. «Vieni con me», disse. Imbambolato, lui si alzò dal divano. Tanya depose la testa di Randy sul cuscino e si alzò a sua volta. La ragazza si diresse verso le scale. Shiner non era più accanto alla parete. Jeremy si guardò intorno. Era sparita. Se n'era proprio andata? Non importa. Oh, Dio, e adesso dove andiamo? Lontano dagli altri, da qualche parte dove possiamo essere soli. Che succederà? Lo faremo? Lui aveva la bocca arida e il cuore gli martellava impazzito mentre saliva le scale dietro Tanya. In cima, lei gli prese la mano. «Dove andiamo?» volle sapere Jeremy. «In camera mia», rispose Tanya. Lui rimase senza fiato e la seguì fino al secondo piano. Entrarono in una stanza. Jeremy rimase in piedi nella più ampia camera da letto che avesse mai visto. Il folto tappeto era di un azzurro pallido, il
copriletto e le tende erano rosa. La camera di Tanya. Dove lei dormiva, si vestiva, si pettinava. Tanya si avvicinò allo scrittoio, prese qualcosa dal cassetto e lo nascose dietro la schiena mentre si riavvicinava a Jeremy. Si fermò davanti a lui che si era seduto sul bordo del letto. «Dammi la mano», ordinò lei. Lui tese la mano. Tanya lasciò cadere sul suo palmo un rasoio a doppia lama. «Tienilo così per ora», disse Tanya. Poi s'inginocchiò e gli mise le mani sulle cosce. «Dimmi perché ti sei aggregato a noi.» «Per... per dar la caccia ai troll.» «Perché?» «Mi ha invitato Cowboy.» «È tutto?» Jeremy si strinse nelle spalle. «Suppongo che in parte sia accaduto perché volevo farmi degli amici. Specialmente te», aggiunse, tutto sudato. «Specialmente me. Lo so. Tutti per me.» Tranne Shiner, pensò lui. Ma ormai Shiner ne era fuori. «I troll mi hanno fatto tanto male», riprese Tanya. «Per questo diamo loro la caccia. È così che è cominciato. Li perseguitiamo per vendetta. L'altra notte hai ottenuto vendetta anche tu. Per amor mio.» Jeremy annuì. Lei si alzò e prese a sbottonarsi l'ampia camicia. Non può essere, pensò Jeremy. Non ci credo. Quando la camicia fu completamente sbottonata, lei l'aprì. Jeremy si sentì soffocare, non riusciva neppure a pensare. «Guarda che cosa mi hanno fatto», disse Tanya lasciando cadere la camicia sul pavimento. Ora stava di fronte a lui con i soli calzoncini bianchi. Era completamente abbronzata, anche i seni sodi e provocanti. La cicatrice iniziava dalla curva del seno, sul capezzolo sinistro. Era larga un dito, di un rosa pallido. Costeggiava l'ombelico e spariva sotto la cintura degli short. Tanya si sfilò anche i calzoncini. «Con un frammento di una bottiglia di vino», spiegò. Jeremy annuì. Aveva l'impressione che le parole giungessero da grande distanza. Non riusciva a distogliere gli occhi da lei. Si sentiva intontito dalla sua nudità, addolorato nel vedere la brutta cicatrice e stupito che Tanya gli si mostrasse nuda nell'intimità della sua stanza.
«Dio!» mormorò. «È stato uno di loro.» Lei si toccò la cicatrice, il suo dito risalì dalla vita al seno. «E intanto mi violentava. Gli altri due mi tenevano. Lui puzzava di vino e di immondizia. Finito lui, è stata la volta degli altri due. Alla fine mi hanno orinato addosso. Sulla faccia...» Tanya si mise in ginocchio e allungò il braccio sotto il letto, da cui prese un paio di asciugamani da bagno. Li allargò sul tappeto ai piedi di Jeremy. «Tagliati la mano.» Jeremy annuì. Aveva ancora la mente annebbiata per la storia che Tanya gli aveva raccontato. Fece scattare la lama del rasoio con la sinistra e la premette sul palmo della destra. Il sangue zampillò e lui strinse la mano per fermarlo. Tanya gli prese il rasoio e lo premette di fianco alla cicatrice. Sollevò la mano sanguinante di Jeremy e la mise sopra la propria ferita. Il sangue schizzò copioso, gocciolando sull'asciugamano. «Il tuo sangue è in me», sussurrò Tanya. Ansimava e si muoveva leggermente contro la mano di lui. «Il mio sangue è in te. Tu sei il mio... amante di sangue. Dillo!» Jeremy ripetè le parole. Poi Tanya si portò la mano alla bocca e succhiò il sangue, impiastricciandosi il viso. «Il tuo sangue e il mio», bisbigliò. Gli lasciò andare la mano e gli mise il rasoio sul palmo. «Tienilo per ricordo.» «Non me ne scorderò mai.» «Lo so.» Jeremy prese un fazzoletto dalla tasca, vi avvolse il rasoio e vi chiuse attorno le dita, premendo la stoffa sulla ferita. «Va' a casa, ora», disse Tanya in tono gentile. «Ci vediamo domani.» Lui aveva la gola serrata. Doveva andarsene? Liquidato. Messo alla porta. Non poteva finire così. «Ma non facciamo...» balbettò all'improvviso. Lei gli sfiorò le labbra con la punta di un dito. «Dovrai darmi una prova, prima.» «Come?» «C'è tempo. E dovrai dimostrare lealtà e coraggio.» «Non stanotte?» «No. Ma presto, forse.»
Arrivato alla porta, Jeremy si fermò e si voltò a guardarla. Lei stava in piedi sugli asciugamani, nuda e imbrattata di sangue. «Ti amo», disse lui. «Ti amo anch'io, Jeremy.» La lasciò in quella posizione, nuda accanto al letto. Quando giunse in fondo alle scale, sentì un suono di voci e di risate. Si chiese se non dovesse riunirsi alla compagnia. Non ne aveva nessuna voglia. E Tanya gli aveva detto di andare a casa. Non gli aveva detto di tornare con gli altri troller. Fuori l'aria odorava di pini, la notte non era particolarmente fredda, ma Jeremy rabbrividì. Teneva ancora in mano il fazzoletto con il rasoio. Si sentiva così strano. Intontito, confuso, deluso, svuotato. A pezzi, insomma. Ma allo stesso tempo soddisfatto. Ma, mentre camminava, lo assalì un profondo desiderio di raggiungere la sua casa e nascondersi sotto le coperte. E restare lontano da Funland, da Tanya e da tutti i troller. 29 Gloria si svegliò sul sedile posteriore della Volkswagen. Quando guardò fuori dal finestrino, vide che il parcheggio era deserto, c'erano solo altre tre o quattro auto. Dunque Funland era chiuso per la notte. Con un leggero tremore allo stomaco, che era eccitazione e paura insieme, Gloria sollevò il sacchetto da droghiere. Spinse avanti il sedile, aprì la portiera e scese. Poi chiuse a chiave la portiera. Infine si diresse verso l'ingresso principale del parco dei divertimenti. La sua giornata non aveva avuto l'esito positivo che sperava. Aveva avvicinato numerosi derelitti, ma quasi tutti l'avevano cacciata via borbottando imprecazioni e gridando come pazzi. Alcuni sembravano arrabbiati, altri spaventati. In tutto il giorno era riuscita a ottenere tre interviste con altrettanti miserabili: Mosby, Dink e una donna che si era rifiutata di dire il suo nome. Aveva registrato le conversazioni sul miniregistratore che teneva sotto il giubbotto. Dunque finora le cose erano andate piuttosto maluccio. Ma lei era sicura
di trovare nuovi soggetti a quell'ora di notte. Sulla passerella o sulla spiaggia. Per ottenere un'intervista che le avrebbe permesso di scrivere un altro articolo strappalacrime. A quell'ora poteva incontrare anche i troller. Lei aveva una pistola nel sacchetto, qualora cercassero di aggredirla. Una volta riconosciutala, forse anche i troller le avrebbero raccontato la loro versione della storia. Sarebbe piaciuta a Dave? Sporco bastardo! Che cosa avrò trovato in lui di tanto eccezionale? Avrei dovuto capirlo che era soltanto un porco maschilista. Reazionario, per giunta. Avrebbe voluto avere il coraggio di mostrarsi a Dave. Per tutto il giorno aveva giocato con l'idea di andare nel parco e affrontarlo. Lui sarebbe rimasto scioccato. «Hai perso la ragione? Non sai che è pericoloso?» Lei avrebbe risposto con una smorfia: «Adesso hai la tua sgualdrina bionda, la tua amazzone». Ma la sgualdrina bionda sarebbe stata con lui. Gloria aveva capito che avrebbe sofferto troppo nel vederli insieme, perciò era rimasta lontana. All'inferno Dave. Se ne pentirà. Una grande macchia scura si staccò dalle ombre attraverso la passerella. E prese a correre verso Gloria. Lei balzò in piedi dal suo nascondiglio vicino all'ingresso del luna park e il sacchetto cadde a terra, come la coperta e la pistola. Che sbattè e rimbalzò sull'assito. La figura nera aveva una faccia bianca e un grande giaccone che svolazzava. Tendeva le braccia verso di lei come in un film dell'orrore. «Lasciami stare!» gridò Gloria, balzando a destra e mettendosi a correre. Alle sue spalle risuonarono dei passi. Subito lei si pentì di aver preso quella direzione. Avrebbe dovuto scavalcare la ringhiera e saltare sulla spiaggia. O svoltare a sinistra, cercare di evitare il troll e sbucare sulla strada. Ora stava correndo verso l'estremità meridionale dell'immenso tavolato. I passi del troll non sembravano avvicinarsi. Lei arrischiò un'occhiata dietro. Lui era ancora lontano. Sembrava un gigante. Ma non era veloce. Gloria, però, non si illuse e il terrore non si placò. Mentre accelerava il passo si accorse di emettere strani suoni acuti. Se mi prende, mi fa a pezzi.
È assurdo, si disse. Non sono una bambina e lui non è un gigante omicida. Questo non è un incubo. Mi violenta e mi ammazza. Guardò di nuovo dietro. Ora il troll era anche più lontano. Ce la farò, si disse. Se non inciampo. E se non ci sono gli altri che aspettano nei loro nascondigli, più avanti. Dio, avrebbe voluto che arrivassero i troller! Più avanti, sulla destra, si ergeva la grande giostra. Gloria si chiese se avrebbe dovuto dirigersi da quella parte. E se non fosse riuscita a scavalcare il recinto? Appena si fosse fermata, il troll l'avrebbe raggiunta. No, meglio di no, decise. Continua a correre. E cerca un recinto. Appena sei sulla spiaggia... Improvvisamente apparve una luce da una porta sulla destra. Non era a livello dell'assito, ma in cima a una piattaforma rialzata. La Casa di Dunn. La Casa dei mostri. L'alta figura cadaverica di Jasper Dunn si stagliò sulla porta illuminata. Portava il cappello a cilindro e il frac. Alzò il bastone e lo rigirò. «Quassù», urlò. «Presto!» Gloria corse verso di lui. Non aveva mai immaginato che sarebbe stata contenta di vedere Jasper Dunn. Meglio lui di quello che mi corre dietro. Salì ansando la scaletta di legno. «Presto, presto», incalzò Jasper. «Qui sarà al sicuro.» Lui si scostò e Gloria si tuffò attraverso la porta. Quando si voltò e fece per fuggire, Jasper le piantò la punta del bastone nel ventre. Lei si piegò e cadde in ginocchio. Dietro di lei i troll bisbigliavano e sghignazzavano. «Le facciamo vedere la Casa?» domandò Jasper. I troll applaudirono battendo le mani. Che cosa mi poteva capitare di peggio?... A un tratto, Gloria capì che cosa stava per scoprire. 30 Dave premette il pulsante della sveglia e sbattè le palpebre, confuso per
un momento finché si ricordò di aver messo la sveglia mezz'ora prima del solito: voleva avere il tempo di recarsi a casa di Gloria prima di andare al lavoro. Bella scocciatura! Ma il peggio era stato la sera prima, quando aveva trascinato Joan sulla spiaggia, sotto i piloni di Funland. Quando erano tornati a casa, avevano controllato la botta alla spalla: le aveva lasciato un brutto livido. Dave chiuse gli occhi e ripensò alla sera prima. L'aveva baciata, poi le aveva sfilato la camicetta. Lei aveva risposto con ardore al bacio e lui le aveva sganciato il reggiseno. Joan sembrava scatenata. Affamata di baci. Era stato allora che avevano sentito il tonfo di una portiera che si chiudeva. Joan aveva staccato la bocca dalla sua e lo aveva fissato negli occhi. Si era completamente irrigidita. «È Debbie», aveva bisbigliato. Dopo qualche secondo si era sentito il rumore di una chiave nella serratura. Durante i minuti che Debbie aveva impiegato a entrare dalla porta della cucina e a raggiungere il soggiorno, Dave e Joan si erano sciolti dall'abbraccio e si erano seduti sul divano. Lontani l'uno dall'altra. Joan si era asciugata la bocca, Dave aveva fatto in tempo a prendere la Guida TV. Quando la ragazza era entrata, lui aveva alzato la testa. Sebbene Debbie non fosse identica a Joan, la somiglianzà era notevole. Joan doveva essere così a sedici anni, aveva pensato Dave. Si era alzato mentre lei si avvicinava. «Sei tornata presto», aveva osservato Joan. «La festa era noiosa», aveva risposto Debbie con una smorfia che voleva essere un sorriso. Poi aveva guardato Dave e gli aveva teso la mano. «Sono Dave», si era presentato lui stringendole la mano. «L'ho immaginato. Lieta di conoscerti.» «Nel caso non l'avessi capito», aveva aggiunto Joan, «questa è mia sorella Debbie.» «Ciao, Debbie.» «Ho interrotto qualcosa?» aveva chiesto la ragazza. «Stavamo solo chiacchierando», aveva detto Joan. «Oh, l'avevo capito.» «Non c'erano ragazzi alla festa?» Debbie cambiò espressione. Il suo viso si era contratto e lei era sembrata
sul punto di ribattere. Poi aveva abbassato gli occhi che si erano riempiti di lacrime e aveva stretto le labbra. Joan appariva turbata. «Debbie! Mio Dio, che cosa...» Scuotendo vigorosamente la testa, Debbie era uscita di corsa dal soggiorno. Joan era balzata in piedi. «Scusami, vado a vedere che cosa le è successo.» «Io me ne vado.» «Non c'è bisogno che te ne vada.» «Sì, invece. Occupati di Debbie. Ci vediamo domattina.» «Accidenti!» «Già.» Lui l'aveva attirata a sé e l'aveva baciata. Joan si era affrettata verso il corridoio. Dave sbirciò la sveglia sul comodino. Si buttò giù dal letto, strinse i denti per il freddo del mattino e andò in bagno. Si chiese se Joan aveva avuto il tempo di riagganciarsi il reggiseno mentre andava nella camera di Debbie. La ragazza aveva scelto un momento poco opportuno per tornare a casa. Povera bambina, però. Si vedeva che era sconvolta. Mezz'ora più tardi, con i capelli ancora umidi per la doccia, Dave si affrettò verso la sua auto. Gettò la giacca sul sedile passeggeri e ingranò la retromarcia. Si sentiva bene. Fra poco avrebbe rivisto Joan. Forse sarebbero potuti stare insieme quella notte, senza essere interrotti. E l'indomani sarebbe stato il loro giorno libero. Doveva pensare qualcosa. Svoltò l'angolo verso la casa di Gloria e un pensiero, come un'ombra, oscurò il suo buonumore. Speriamo che ci sia, pensò. Non aveva nessuna voglia di passare un'altra giornata a preoccuparsi di Gloria. Sul viale davanti alla casa c'era la Volkswagen. Meno male, pensò Dave. Scese dall'auto e corse alla porta. Premette il campanello. Maledizione, muoviti ad aprire! Rimase in ascolto dei passi, ma non successe niente. Dove s'è cacciata?
Dave tempestò la porta con il pugno. «Gloria!» gridò. «Vieni ad aprire. Dobbiamo parlare.» Lei non aprì. Dave aveva la chiave. La cercò in mezzo alle altre del portachiavi e aprì la porta. Cacciò dentro la testa. Il soggiorno sembrava vuoto. Nella casa c'era una strana immobilità. Non c'è, pensò Dave. Ma continuò a chiamarla. «Gloria? Sto entrando.» Spalancò la porta ed entrò. «Gloria?» chiamò di nuovo. Lei aveva il sonno pesante e si chiudeva sempre a chiave nella camera da letto. Dave si avviò lungo il corridoio. La porta del bagno era aperta e Gloria non c'era. Proseguì verso la camera. L'uscio non era chiuso, il letto era sfatto. Chiaro che Gloria vi aveva passato la notte. Lui avanzò di quattro passi e frugò la stanza con gli occhi. Sulla sedia accanto all'anta dell'armadio c'era un mucchio di abiti. In cima al mucchio c'era un camiciotto felpato grigio. Dal punto in cui si trovava, Dave vide che era pieno di buchi. Un lembo di stoffa rossa spuntava sul sedile della sedia. Dei calzettoni rossi penzolavano sul pavimento. Pieni di buchi, come il camiciotto. Quelli erano gli abiti che Joan aveva descritto a Dave il giorno prima. Lui si avvicinò alla sedia. Gloria doveva essere veramente distrutta la notte precedente, troppo stanca per metter via gli indumenti. Dave raccolse il camiciotto. Si chiese come avesse fatto Gloria a insudiciarlo a quel modo. Probabilmente lo aveva sfregato sul terriccio del giardino. Lo gettò sul letto e sollevò dalla sedia una maglietta bianca. Era tutta sporca. La gettò da parte con il camiciotto e prese la gonna. Gloria non aveva mai avuto una gonna del genere, evidentemente l'aveva presa al magazzino dell'Esercito della Salvezza o da qualche straccivendolo. Mancava il bottone in vita e la lampo. Come se la gonna fosse stata aperta. Da Gloria o da qualcun altro. Dave corrugò la fronte e sentì una morsa allo stomaco. Forse la gonna era già strappata, pensò Dave, e lei ci ha messo una spilla per tenerla chiusa. Si chinò per cercare il bottone, ma non lo trovò. Guardò sul comodino. Niente.
È ridicolo, si disse. Sentirsi sconvolto per uno stupido bottone. Poteva averlo perso al parco dei divertimenti. O sulla spiaggia. Poteva essere dovunque, quel dannato bottone. Sulla sedia era rimasto un paio di mutandine nere. Le raccolse. Lui le aveva viste addosso a Gloria, o forse era un paio simile. Guardò le mutandine accigliato. Come mai non erano stracciate? Erano mutandine comuni come se ne portano sotto abiti comuni. Evidentemente Gloria non aveva spinto il suo travestimento fino al punto da stracciare le mutande per apparire una vera mendicante. Vestita come una barbona, tranne che per gli slip sexy. Dave lasciò cadere l'indumento sulla sedia e allora capì. Come mai le mutandine stavano in fondo al mucchio? Sfilati i calzettoni, era logico sfilare anche gli slip. Dave riusciva a trovare una sola spiegazione: gli abiti erano stati presi da un'altra parte e poi portati lì e messi sulla sedia. Un momento. Non giungere a conclusioni affrettate. Probabilmente Gloria si è tolta le mutandine in bagno, ha fatto una doccia e le ha riportate lei stessa sulla sedia. Andò in bagno e cercò il bottone della gonna. Non lo trovò. Non vuol dire niente, pensò. Aprì l'armadietto dei medicinali. Lo spazzolino da denti stava in un bicchiere di plastica. Era asciutto. Dunque quel mattino Gloria non s'era lavata i denti. Si avvicinò alla vasca da bagno. Il fondo sembrava asciutto. E l'asciugamano sulla bacchetta non era neppure vagamente umido. Troppe cose non quadravano. Lei «doveva» essere rientrata la notte scorsa. La sua auto era nel viale. Dave uscì dal bagno. Gli batteva il cuore e si sentiva teso. Ispezionò tutta la casa in cerca di Gloria. Cercava il suo corpo? No. Andiamo, stai cedendo all'immaginazione, si disse. Frugò in ogni stanza, negli armadi, dietro i mobili dovunque ci fosse abbastanza spazio da nascondere una persona. E intanto la sua mente registrava ogni dettaglio che potesse dimostrare che Gloria era tornata a casa viva e vegeta. Sul tavolo della sala da pranzo trovò le chiavi e la borsa. Gli otto dollari nel portafoglio lo convinsero che non c'era stata nessuna rapina. Ma la presenza della borsa non gli diceva nulla di più. Probabilmente Gloria non l'a-
veva presa con sé. Joan aveva detto che portava semplicemente un sacchetto per la spesa. In cucina, piegati e attaccati a un attaccapanni di plastica, trovò altri sacchetti. Ma nessun cestino per la carta straccia conteneva sacchetti usati. Mancavano quelli che Gloria aveva ai piedi e quello che reggeva in mano. Vado a controllare l'auto, decise. Dave si chiese se la vettura fosse chiusa a chiave. E a un tratto si ricordò di aver visto le chiavi sul tavolo della sala da pranzo. C'erano le chiavi. Ma non Gloria. E la casa era chiusa. Prese il mazzo di chiavi e uscì. Sbirciò dai finestrini laterali della Volkswagen. Sul pavimento, dietro il sedile dei passeggeri, c'era un sacchetto di carta pieno zeppo. Dave aprì la portiera del posto di guida, sedette e si mise il sacchetto sulle ginocchia. Non conteneva niente tranne la vecchia coperta che Gloria teneva solitamente nel bagagliaio della macchina. Dov'era il registratore? Gloria non andava mai da nessuna parte senza l'apparecchio. Guardò nel cassettino del cruscotto. Niente. Forse è in casa e non l'ho notato. Ma un'altra cosa non quadrava. Dave tese le braccia e afferrò il volante, allungò le gambe finché toccò i pedali. Il volante e i pedali si adattavano alla sua statura, ma non a quella di Gloria. Qualcuno aveva aggiustato la posizione del sedile per allungare le gambe. Qualcuno della statura di Dave era stata l'ultima persona a guidare l'auto di Gloria. Chiuse gli occhi, si allungò sul sedile ed emise un gemito. 31 Robin si svegliò al trillo del telefono. Vide il soffitto sopra di lei e capì di essere in un letto invece che nel suo sacco a pelo. Si ricordò dove si trovava. Sapeva anche chi stava chiamando. Rotolò sullo stomaco, si appoggiò al gomito e sollevò la cornetta. «Pronto?» «Questa è la sveglia telefonica.»
«Ehi, capo!» Lei si mise il cuscino sotto il petto. «Hai dormito bene?» «Non troppo. Ed è tutta colpa tua.» «Colpa mia?» Lui parve perplesso e divertito. «Com'è possibile? Ho scelto male il motel? Troppo rumoroso? Oppure il letto era scomodo? Ti ho riportato a casa presto e me ne sono andato via subito...» «Ecco il punto. Sei rimasto.» «Eh?» Robin sollevò leggermente il corpo per sentire il caldo tepore del cuscino. «Non riuscivo a liberarmi di te. Mi hai tenuto sveglia quasi tutta la notte.» «Mi sarebbe piaciuto esser lì.» «Anche a me sarebbe piaciuto che tu ci fossi.» Seguì una lunga pausa. «Ci sei?» chiese Robin. «Scusami. Stavo pizzicandomi.» «Oh! Non farlo.» «Accidenti, mi sembra di essere drogato!» «Non sei drogato, sei un tesoro.» «Davvero?» «Davvero!» «Avrei voluto sapere come la pensavi.» «Lo sapevi, non è così?» «Suppongo di sì. Ma non volevo che tu pensassi... che avevo in mente di restare. Trovarti la stanza, assumerti alle giostre... Avresti potuto pensare che facessi tutto questo per portarti a letto.» «Cosa che volevamo entrambi.» Le giunse una calda risata soffocata. Robin poteva quasi sentire il respiro di Nate. «Facciamo ancora in tempo per la colazione?» suggerì lui. «Certo. Io sono pronta. Fra quanto pensi di arrivare?» «Dieci minuti, se mi sbrigo.» «Allora sbrigati.» Robin riappese e scivolò giù dal letto. L'aria fredda del mattino le fece venire la pelle d'oca. Andò in bagno e si lavò. Le sarebbe piaciuto fare un bagno caldo, ma non importava. Fra poco sarebbe arrivato Nate. Quando lui se n'era andato, la sera prima, Robin si era sentita svuotata. Era stato come se le avesse portato via il cuore. Sorrise al suo viso riflesso nello specchio, si asciugò la faccia e tornò in
camera a vestirsi. Decise di indossare l'abito nuovo. Anche per essere più elegante per il suo nuovo impiego. Aveva appena finito di annodare la fascia sul fianco quando sentì i passi sul balcone. Poi un colpo alla porta. «Un minuto!» gridò. Davanti allo specchio si pettinò i capelli e infine corse ad aprire. Nate entrò nella stanza. Fu tra le braccia di Robin. Lei si strinse forte a lui, le loro bocche si unirono. Erano di nuovo insieme! Robin si tirò leggermente indietro, lo guardò negli occhi e sussurrò: «Mi sei mancato». «Tu mi sei mancata di più.» «Non è vero.» «Sì che è vero.» «Sì!» Lui rise. Robin sentì il suo alito sulle labbra. Le mani di lui presero ad accarezzarle dolcemente la schiena, poi l'attirarono a sé. Robin si piegò all'indietro. «Non ho ancora radunato la mia roba.» «C'è tempo. La stanza deve essere libera alle undici e sono appena le otto. Magari vuoi riposare un poco, dopo colazione.» «Ah, ah!» Aveva il tempo di fare un bagno, dopo tutto. «A che ora devo cominciare a guadagnarmi da vivere?» «Quando sei pronta. Basta che vieni sotto l'arco. C'è uno stanzino dove puoi lasciare la tua roba.» «Bene.» «Allora, sei pronta per la colazione?» «Muoio di fame.» «Perfetto.» Lei lo baciò di nuovo, poi lo lasciò andare un momento per prendere la borsa e la chiave della stanza. Camminarono sul balcone tenendosi per mano. La giornata era limpida, ma un venticello freddo fece rabbrividire Robin mentre attraversarono il parcheggio. Poi il calore del sole fece sparire il freddo. Nate le aprì la portiera di una Trans Am rossa. «Allora non scherzavi quando hai detto di essere ricco», osservò Robin. «No.» «C'è un bel localino dall'altra parte della strada.»
Nate sorrise e chiuse la portiera. «Dimenticavo che sei un'esperta di colazioni!» Attraversarono la via ed entrarono nel locale. Presero posto l'uno di fronte all'altra in un séparé vicino alla vetrina. Una cameriera riempì le tazze. Robin bevve un sorso di caffè, fissando Nate negli occhi. «Non so da quando non mi sentivo così bene», osservò. «Dovresti dormire più spesso nei motel.» «Non è solo il motel. È tutto. Ma in particolare sei tu.» Nate arrossì. «Non credo di essere così meraviglioso.» «Hai l'abitudine di picchiare le vecchie signore?» «Peggio», disse lui con un sorriso, e Robin notò uno sguardo cupo nei suoi occhi. «Ti senti bene?» «Ho fame.» Nate prese il menu e lo studiò. Robin fece altrettanto. «Che cosa mi consigli?» chiese lui. «Sei un'esperta in colazioni.» «Prima di tutto uova strapazzate.» «Dovevo immaginarmelo. E le uova devono essere ben cotte.» «Esatto.» Apparve la cameriera a prendere le ordinazioni. Quando si fu allontanata, Nate guardò fuori dalla vetrina. «È una splendida giornata», osservò Robin. «Già.» Lui la guardò. «Peccato che dobbiamo lavorare.» «Per me sta bene.» «Possiamo smettere alle cinque. Mi farò sostituire da Hector.» «Tuo cugino? Mi pareva di aver capito che non ti fidassi di lui.» «Be', in caso d'emergenza...» «Quale emergenza?» «Devo star solo con te. Se no, diventerò pazzo.» Robin provò una profonda sensazione di calore. Allungò il braccio e gli prese la mano. «Pensavo di andare a casa mia», spiegò lui. «Cuocerò due bistecche sul barbecue e potremo nuotare in piscina.» «Fantastico.» «Hai alluso al fatto di star solo con me. Dove sono i tuoi genitori?» s'informò Robin dopo un secondo. «In questo momento sono a San Francisco. Non torneranno fino a mercoledì prossimo.»
«Mercoledì?» Il cuore di Robin cominciò a battere forte. «Puoi fermarti fino ad allora, se vuoi.» «Dio!» mormorò lei. Tremava. Insieme con l'eccitazione e la speranza, provava un nervosismo terribile. Succede troppo presto. «Non sei obbligata», riprese Nate. «Voglio dire, non voglio costringerti. Abbiamo un paio di camere per gli ospiti. Se invece preferisci restare in un motel, possiamo trovare...» «Sono solo un po' confusa, tutto qui», lo interruppe lei. «Be', non decidere subito. Però verrai a mangiare le bistecche, vero? Vedrai tu, al momento opportuno.» «Okay, conta su di me per la cena. E... per il resto, vedremo.» Tornò la cameriera con i piatti. Robin fissò il suo. «Qualcosa non va?» chiese Nate. «Non sono sicura di voler mangiare.» «Mi dispiace. Senti, se ti preoccupi per stasera...» Lui scosse la testa e corrugò la fronte. «Non intendevo turbarti. Dopo aver mangiato ti riaccompagno al motel e ti registro per altre due notti. Domani è il mio giorno libero, andremo alla ricerca di un appartamento. Okay? Sei sempre decisa a fermarti, vero? Non... non ti ho spaventata? Accidenti, parlo troppo. Guarda che non volevo...» Nate tacque e parve perplesso. «Che c'è di tanto divertente?» «Tu.» «Io?» «Ti agiti, parli a razzo.» «Non so più quel che faccio.» «Se vuoi il mio parere, te la cavi benissimo.» «Sì?» «Sì!» «Non voglio che pensi che sto tentando di...» Con un sorriso, Robin alzò una mano: «Zitto e mangia». Lui scrollò le spalle e sembrava che stesse per ricominciare a parlare, ma si trattenne e cominciò a mangiare. Robin lo imitò. Faceva fatica a inghiottire tanto le batteva il cuore e aveva la gola stretta, ma si aiutò a ingoiare il cibo con il caffè. Nate sembrava contento. «Ti è tornato l'appetito?» «Sembra di sì. Merito del tuo discorso.» Nate finì la colazione in silenzio. Seguitava a guardare Robin e tentava
di sorridere. Lei capiva che non era solo deluso, ma anche imbarazzato. Lo seguì mentre si recava a pagare il conto. Lui le aprì la porta. Fuori lei gli prese la mano. «Su, sta' allegro», disse. «Non è poi la fine del mondo.» «Lo so. Mi dispiace.» Aspettarono sul marciapiede, poi attraversarono la strada di corsa. «Ci saranno altre volte», disse Robin. «Sicuro!» «Non voglio passare la giornata a chiedermi che cosa succederà stanotte. Mi capisci?» «Certo.» «Non riuscirei a suonare né a cantare.» Si fermarono nel parcheggio. «Vado su in ufficio a...» «Entra per un minuto. Devo darti una cosa», lo interruppe lei. «Okay.» Salirono la scaletta e percorsero il balcone. Robin prese la chiave dalla borsetta. La punta della chiave scivolò sulla serratura. «Sei nervosa», osservò Nate. «Colpa tua.» Finalmente la chiave entrò. Lei aprì la porta. Nate la seguì nella stanza e non si accorse che Robin appendeva il cartello NON DISTURBARE sulla maniglia esterna prima di chiudere l'uscio. Lui si girò. Dall'espressione del suo viso, Robin vide che non sospettava nulla. Lei lo abbracciò e lo guardò negli occhi. Vi lesse solo confusione. «Quelle altre volte», disse Robin con voce tremante. «Ecco, questa è la prima.» «Eh?» «Mi sarei tormentata tutto il giorno ad aspettare stasera.» Nate appariva scioccato. «Stai scherzando», bisbigliò. «Tu credi?» Lui si lasciò sfuggire un gemito. Strinse Robin forte al petto e lei gli cercò le labbra. 32 «Niente da fare?» chiese Joan quando Dave tornò dall'ufficio del loro capo. «Ha convenuto che era strano, ma pensa sia presto per aprire un'indagi-
ne. Se Gloria non riappare per domani...» «La solita storia delle ventiquattr'ore!» borbottò Joan. «È successa la stessa cosa quando è scomparsa mia madre.» «Non ne hai saputo più niente?» Scuotendo la testa, Joan prese la giacca dalla sedia della sua scrivania e l'appese su una spalla. «Ho fatto qualche telefonata. Al giornale non hanno sue notizie da ieri mattina. Nessuno con le caratteristiche di Gloria è stato ricoverato in ospedale. O all'obitorio.» «È già qualcosa.» Uscirono per dirigersi all'auto di pattuglia. Joan gettò la giacca nel bagagliaio, poi salì al posto dei passeggeri. Faceva caldo in macchina. Lei abbassò il finestrino. Dave si mise al volante e uscì dal parcheggio. «Doveva essere qualcuno che non voleva orientare i sospetti su Funland o sulla zona della spiaggia», disse Joan. «Altrimenti perché la messinscena?» Dave annuì. «Si son presi un sacco di disturbo per far apparire come se lei fosse rientrata, la notte scorsa.» «Mica tanto facile.» «Ma neanche difficile. Il parcheggio era deserto dopo la chiusura e dalla chiave loro hanno capito che lei aveva una Volkswagen. Sul libretto di circolazione risulta l'indirizzo.» «Doveva essere qualcuno molto furbo», commentò Joan. «E qualcuno che conosce la città. Non ce lo vedo un barbone a ideare un trucco simile. I troll sono tutti tocchi nel cervello.» «Forse non tutti.» «Tutti quelli che ho visto. Potrebbero essere i troller, invece.» «O una terza banda di cui non siamo a conoscenza. Magari si è imbattuta in un vero killer. Ti ricordi il caso Gunderson, nel 1982?» «È possibile», ammise Joan. «Ma io sono pronta a scommettere sulla banda Great Big Billy Goat Gruff. Probabilmente le sono saltati addosso credendola un troll.» «Ma lei avrebbe detto chi era veramente.» «Dir loro chi era? Gloria non è una stupida. Se quelli avessero saputo di avere fra le mani Gloria Weston, sarebbe stato un brutto affare.» «Peggio se avessero pensato di avere fra le mani un troll.» Dave scosse la testa. «A un tratto si trovano davanti una vittima lucida, qualcuno che può denunciarli, testimoniare contro di loro.» «Ucciderla? Dave, quelli sono solo dei ragazzi. Un conto è pestare qual-
che barbone e abbandonarlo, un altro conto è uccidere.» Dave svoltò nel parcheggio di Funland. «Senti», gli disse Joan. «Qui parliamo del 'peggiore dei casi'. Ci sono altre spiegazioni. Potrebbe aver incontrato qualcuno, ieri sera. Un vecchio amico. Lui l'ha accompagnata a casa, lei si è cambiata ed è ripartita con lui.» «Lasciando in casa le chiavi e la borsetta?» «Hai detto che aveva una chiave di riserva.» «Spero che tu abbia ragione», disse Dave. «Ma questa teoria ha troppe falle.» «Potrebbe esserci una spiegazione anche per questo.» Dave parcheggiò l'auto e spense il motore. Guardò Joan. «Lo so», mormorò lei. «Maledizione, noi abbiamo cercato di avvertirla.» «Sì, è vero. Ma avremmo dovuto insistere.» «Non sapevamo che potesse accadere una cosa simile.» «Avremmo dovuto guardare meglio. Potevamo fermarla.» «Lei ci avrebbe detto di andare all'inferno», borbottò Dave. Scesero dalla macchina. Joan avrebe voluto che fossero soli per abbracciarlo. «Chiunque sia stato, lo prenderemo, Dave. Lo inchioderemo, lui... o loro. Scopriremo che cosa hanno fatto a Gloria.» «Sì? E come?» «Stanotte torniamo qui dopo l'ora di chiusura. Io mi travestirò.» «Usarti come esca? Assolutamente no.» «Dobbiamo farlo. E tu lo sai.» Jeremy sedeva al tavolo di cucina e divorava le sue uova al bacon. «Sembri un morto di fame», osservò sua madre. Lui annuì e si cacciò in bocca un'altra forchettata di uova. Non gli era mai capitato di avere i postumi di una sbornia prima di allora. E aveva sempre sentito dire che le persone nelle sue condizioni provavano ripugnanza al solo pensiero del cibo. Lui, invece, si sentiva affamato. «Dovrei proprio punirti, sai.» Lui alzò gli occhi a guardare la mamma. Bastò quel semplice movimento a trasformare il sordo dolore alla testa in una fitta lancinante. «Ti ho detto che mi dispiace. Gesù, che cosa devo fare? Non è colpa mia se Shiner stava male.» «E di chi è la colpa se sei tornato a casa ubriaco?»
«Non sapevo che il ponce fosse alcolico.» «Ma guarda!» «Ti dico che non lo sapevo. E poi lo bevevano tutti.» «Se tutti saltano dalla finestra...» «Lo so, lo so. Dio, ti ho chiesto scusa. Non c'è bisogno di mettermi in croce!» «Non parlare a quel modo.» Jeremy si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Li sentiva bruciare sotto le palpebre pesanti. «Ho imparato la lezione», mormorò. «Mi sento malissimo. Prometto che non berrò più. Ma, per favore, non punirmi tenendomi in casa tutto il giorno. Devo vedere Shiner sulla spiaggia.» «A proposito di Shiner. Mi ha tratto in inganno. Io pensavo che fosse una brava ragazza.» Jeremy aprì gli occhi e corrugò la fronte. «Lo è.» «A me sembra poco corretto andare a una festa e ubriacarsi. Tanto più che lei aveva la responsabilità di riaccompagnarti a casa. Non ci sono scuse. E tu avresti dovuto pensarci prima di salire in macchina con una che...» «Mamma, lei non ha bevuto. Ha preso solo una Pepsi.» «E dovrei crederti?» «È la verità. Non ha bevuto alcolici.» «Allora sapeva che il ponce è alcolico?» «No, solo che non le piace il ponce...» Nonostante il dolore alla testa, Jeremy ebbe un'idea. «Ora mi ricordo, ha detto di essere diabetica. Ecco perché non ha bevuto il ponce.» «Mmm.» Lui non sapeva se sua madre avesse creduto alla storiella. E a un tratto si chiese perché cercasse tanto di difendere Shiner. Diavolo, lei lo aveva piantato in asso! Con buona ragione. Forse avrebbero potuto far pace. Se l'avesse rivista. Ma la cosa più importante era che Shiner costituiva il suo pretesto per andare alla spiaggia, quel mattino. Doveva convincere sua madre, altrimenti lo avrebbe tenuto in casa. Se non fosse potuto andare alla spiaggia e vedere Tanya... «Shiner ha capito che il ponce era molto alcolico e mi ha avvertito», disse. «Allora ho smesso di bere quella roba.» «Be', forse sono stata un po' eccessiva nel mio giudizio», ammise la mamma.
«Le sei simpatica, sai. Mi ha confessato che avrebbe voluto che sua madre ti somigliasse.» «Davvero?» La mamma parve sorpresa e compiaciuta. «Mamma, Shiner mi sta aspettando. Crederà che l'abbia presa in giro.» «Ci sono i telefoni.» «Non so il numero. E lei non figura nell'elenco. L'anno scorso ha ricevuto molte telefonate moleste e... Ti prego! Shiner ha preparato un picnic sulla spiaggia e mi aspetterà senza sapere che cosa mi è capitato.» «Avresti dovuto pensarci prima.» «Giusto!» esplose Jeremy. «Benissimo!» Posò coltello e forchetta e sua madre sbattè le palpebre come se fosse stata schiaffeggiata. «Starò in casa per sempre. Rovina pure la mia vita. La prima volta che mi faccio un'amica, arrivi tu a guastare tutto. Se mi odi tanto, perché non mi spari?» Spinse indietro la sedia e uscì di corsa dalla cucina. «Jeremy!» gridò sua madre. «All'inferno!» Lui corse nella sua camera e si gettò sul letto. Sentiva scoppiargli la testa, era come se delle lame acuminate gli si fossero conficcate nel cervello. Passarono alcuni minuti prima che sentisse i passi della mamma. Lei entrò e sedette sul letto. «Se è tanto importante per te», disse lei accarezzandogli la schiena, «vai pure al tuo picnic. Ho avuto anch'io la tua età e capisco certe cose.» «Scusami, non avrei dovuto gridare e comportarmi come un pazzo.» La mamma rise e gli diede una pacca affettuosa sul sedere. «Grazie, mamma», disse Jeremy mentre lei si dirigeva verso la porta. «Anche se abbiamo i nostri problemi, lo sai che ti voglio bene.» «Lo so», disse Jeremy. «Anch'io ti voglio bene.» «Allora sbrigati. Non vorrai far aspettare Shiner.» Lui baciò dolcemente Robin sulla bocca. «Vorrei poter restare», sussurrò. «Anch'io. Ma non devi far tardi.» «E abbiamo stasera. E domani, e il giorno dopo.» «Ti stancherai di me.» «Non mi stancherò mai.» Nate la baciò di nuovo sulla bocca, si tirò indietro leggermente e le sfiorò il mento e il collo con le labbra. Poi si mise in ginocchio e la guardò con sorpresa e tristezza insieme. Robin allacciò le mani dietro la testa, sollevò le ginocchia e le premette
contro i fianchi di lui. «Non ho mai provato niente di simile per una ragazza», disse lui. Le accarezzò le cosce e soggiunse: «E tu?» «Credo di essermi innamorata di te. Non per... ciò che abbiamo fatto. Ero innamorata di te anche prima.» «Anch'io. E adesso lo sono di più.» Lui le appoggiò le mani sulle ginocchia. «Dio, come vorrei restare...» «Vengo con te.» «No, rimani e fai il bagno», sorrise Nate. «Ne hai bisogno.» Poi scese dal letto. Robin rotolò sul fianco e lo osservò mentre si chinava per raccogliere gli abiti. Il suo corpo era asciutto e muscoloso, la pelle abbronzata, tranne che sotto gli slip. Mentre lui infilava i jeans, Robin si alzò dal letto. Sedette sul bordo, i piedi sul tappeto, e continuò a guardarlo mentre si metteva i calzini e le scarpe da tennis. Che strano essere nuda mentre lui era vestito. Lei si alzò e Nate le mise le mani sui fianchi. «Ci vediamo fra un'oretta. Vieni alle giostre quando sei pronta.» «Farò presto. Sento già la tua mancanza.» Lei lo abbracciò, lo tenne stretto a sé e lo baciò. Jeremy pedalava vicino al marciapiede, badando a non stancarsi troppo a causa del mal di testa. Considerò l'idea di mangiarsi un cono gelato appena arrivato a Funland. Chissà che non gli passasse quel maledetto bruciore allo stomaco. La sua mente rivedeva la camera da letto di Tanya. Le immagini turbinavano dandogli la sensazione che la testa gli esplodesse. Sbandò con la bici e un clacson suonò inferocito. Qualcuno gridò: «Imbecille!» e il copertone anteriore della bici sfregò il bordo del marciapiede. Chiuse gli occhi e si tenne la testa. Le immagini di Tanya non se ne andavano dalla sua mente. Ebbe l'impressione di svenire. La spiaggia, si disse Jeremy. Devo raggiungere la spiaggia. Il dolore alla testa diminuì. Lui prese dal taschino della camicia un tubetto d'aspirine e ingoiò tre pastiglie. Gli parve che si fossero conficcate nel petto, prese così, senz'acqua. Devo bere, pensò. Si guardò attorno e vide un distributore di bibite di fianco all'ufficio del
motel, poco più avanti. Scese lentamente dalla bici, la sollevò sul marciapiede e la spinse verso il distributore. Un movimento sul balcone del secondo piano attirò la sua attenzione. Un uomo stava uscendo da una stanza. Qualcuno di familiare... L'uomo era girato. Si fermò sulla porta, evidentemente stava parlando con qualcuno all'interno. Poi alzò la mano in un gesto di saluto, chiuse la porta e prese a camminare sul balcone. Jeremy lo riconobbe. Era Nate. Jeremy tornò indietro fino all'angolo e sbirciò dietro la porta chiusa del motel. Che diavolo ci faceva Nate in quel motel? Alle dieci di un sabato mattina. Doveva esser stato con una ragazza. Tanya? Non poteva essere. Vide un bar proprio di fronte al motel. Se avesse trovato un tavolino vicino alla vetrina, avrebbe potuto sorvegliare la porta della stanza e vedere chi ne usciva. Senza contare che finalmente poteva bere per mandar giù le aspirine. Spinse la bici fino al bar. 33 La Pepsi lo aiutò a mandar giù le aspirine. Jeremy cominciava a sentirsi meglio. Inoltre gli faceva bene restare seduto per un po'. Nel locale c'erano parecchi tavoli vuoti. Finora nessuno era uscito dalla camera del motel. Ma Nate non poteva esser stato in camera da solo. Prima di andarsene si era attardato sulla porta come se parlasse con qualcuno. Doveva esserci una ragazza, là dentro. Ma non Tanya. I due si erano lasciati definitivamente l'altra sera, quando Nate aveva abbandonato la festa. Che si fossero riappacificati? Jeremy si chiese se dovesse ordinare un'altra bibita. Cercò con lo sguardo la cameriera, ma lei stava ripulendo un tavolo e gli voltava la schiena. Tornò a guardar fuori dalla vetrina. La porta della camera si aprì, una ragazza uscì sul balcone. Una ragazza sottile con un abito azzurro. Con i capelli biondi, corti come quelli di un
ragazzo. Sebbene Jeremy fosse troppo lontano per vederla in faccia, i capelli biondi la tradirono. Come lo zaino e la custodia di uno strumento. La ragazza del banjo! pensò. La sgualdrina che lo aveva trattato male mercoledì sera al parco dei divertimenti, poco prima che arrivasse Cowboy. E che il giorno dopo aveva rivisto e sentito cantare quella stupida canzone sulla guerra. La osservò mentre camminava sul balcone. Si muoveva con scioltezza, sembrava terribilmente felice e contenta. Felice, pensò Jeremy. Si è fatta fottere da Nate. Aspetta che lo sappia Tanya, si disse. La ragazza scese le scale, lo zaino le rimbalzava sulla schiena a ogni passo. Jeremy tirò fuori il portafoglio. Lasciò sul tavolo la mancia per la cameriera, prese il conto e andò a pagare alla cassa. Voltandosi per un attimo, vide la ragazza entrare nell'ufficio del motel. Probabilmente per lasciare la chiave o per firmare il registro per un'altra notte. Jeremy uscì, slegò la catena della bici e vide la ragazza uscire dall'ufficio. Lei prese a camminare in direzione di Funland. Naturale! Jeremy attraversò la strada, montò in bicicletta e cominciò a seguire la ragazza. Ben poco le mancava per essere una troll, concluse lui. Ecco perché Nate se l'era presa tanto con i compagni, la sera prima. Vide la ragazza salire la scala principale di Funland. Continuò a osservarla mentre sistemava la bici nella rastrelliera, ma la perse di vista quando lei attraversò l'ingresso. Sul tavolato trovò una gran folla. Era sabato e lui non aveva mai visto il posto così affollato. Si cacciò in mezzo alla calca cercando la ragazza, poi rinunciò. Non fa niente, si disse. L'avrebbe trovata più tardi. Fra poco lei si sarebbe messa a suonare il banjo, sarebbe bastato seguire la musica. La cosa principale era avvertire Tanya di quanto aveva visto. Anche la spiaggia era affollata. Jeremy si fece strada tra teli e asciugamani stesi al sole, sedie a sdraio e qualche ombrellone. Numerosi bambini scorrazzavano ridendo sulla sabbia. Jeremy osservò attentamente le donne, mentre passava. Dopo un po' si sentì la gola arida e di nuovo il dolore alla testa prese a tormentarlo. Si costrinse a non guardare i corpi seminudi stesi al sole.
A un tratto vide una ragazza bionda con un costume nero. Shiner? Il cuore diede un balzo, la testa gli girò. Che cosa faccio? Le parlo. Le chiedo scusa. Forse non è troppo tardi. Lei sollevò la testa e Jeremy vide la faccia. Non era Shiner. Grazie a Dio, pensò. Si sentiva deluso. Tu non volevi che fosse Shiner, si ripetè. Presto avrò Tanya. E quasi mia. Guardò su verso la baracca dei bagnini. Sulla piattaforma c'era un uomo in calzoncini rossi. Jeremy battè i pugni sulle gambe. Devo dire a Tanya di Nate. Con la testa che gli rimbombava si lasciò cadere sulle ginocchia. Si sfilò la camicia e la allargò davanti a sé. Poi si distese piegando le braccia sotto la faccia. Vado a casa, pensò. Torno a casa e le telefono. Oppure la chiamo da un telefono pubblico nel parco dei divertimenti. La sabbia calda gli dava una sensazione gradevole, il sole gli accarezzava la schiena. Più tardi. Ci vado più tardi. «Accidenti, ma questo è Duke!» La voce sembrava giungere da lontano. Qualcosa di soffice si abbattè sulla schiena di Jeremy. Con un gemito lui rotolò sul fianco e guardò su. Era Cowboy. «Ciao!» salutò. Sebbene si sentisse fiacco, il dolore alla testa era sparito. Chissà quanto tempo aveva dormito. Cowboy allargò un asciugamano sulla sabbia e sedette a gambe incrociate di fronte all'amico. Portava in testa il suo vecchio Stetson e indossava uno slip da bagno. Un lato della testa era completamente incerottato, ma aveva sei o sette tagli anche sulle braccia, sul petto e sul ventre. «Come va?» s'informò. «Okay, mi pare.» «Io ho ancora i postumi della sbornia.» «Anch'io», confessò Jeremy. «Ora, però, va meglio.» «Com'è che non ti sei fermato, ieri sera?» «Colpa di Shiner», spiegò Jeremy. «Lei doveva rientrare presto.» «Non le avrai parlato del trattamento, vero?»
Jeremy si sentì arrossire. «Trattamento?» «Il tuo patto di sangue.» Dunque Cowboy sapeva. Cercando di non apparire turbato, Jeremy rispose: «No, non l'ho detto a Shiner». «Bravo! È una cosa solo fra i ragazzi e Tanya. E Karen. Le altre ragazze non sanno niente.» «Dunque l'ha fatto con tutti i ragazzi?» volle sapere Jeremy. «Certo. E con Karen.» Jeremy annuì lentamente. Si sentiva tradito, defraudato. Credeva che Tanya avesse tenuto il rituale con lui perché lo considerava speciale. Forse c'era un errore, forse Cowboy parlava di un'altra cosa. «Sicché anche tu hai stretto il patto di sangue», riprese. «Com'è andata?» «Amico, se ci penso...» «Voglio dire, lei che cosa ha fatto?» Cowboy soffiò fra le labbra. «È stato strano, amico. Tu non ci crederesti.» «Sì che ci credo.» «Ero a casa solo. Un sabato sera dell'estate scorsa i miei erano andati a un party. Me ne stavo nello studio a vedere La casa. Tu l'hai visto?» «Sì, ma parlami di Tanya.» «Okay, me ne sto al buio a guardare il film e mi sento un po' nervoso. Era passato solo un mese da quando Tanya era uscita dall'ospedale. Noi avevamo cominciato a uscire la sera per cercare quei tre delinquenti che l'avevano conciata a quel modo. Lei, Nate, Samson e io. Il fatto era apparso perfino sui giornali.» Jeremy tornò ad annuire. «Sicché stavi guardando La casa. E dopo che cosa è successo?» «Ecco, dovevo andare in bagno, perciò fermo il videoregistratore e vado al gabinetto. Sto per tirare la catena quando sento aprire la tenda della doccia. Mi volto con una fifa tremenda in corpo ed ecco Tanya. In piedi nello stanzino della doccia, nuda, con un coltello da macellaio.» «Un coltello da macellaio?» «Così mi è sembrato. Ho creduto che volesse pugnalarmi.» «Cristo!» mormorò Jeremy. «Solo che lei non fa una mossa e non dice una parola. Mi guarda negli occhi e comincia a far scivolare la punta del coltello lungo la sua cicatrice. Si limitava a sfiorare la cicatrice, capisci? Non così forte da tagliarsi. Accidenti. Hai mai visto fare una cosa simile?»
«No», confessò Jeremy. «Tutta abbronzata e...» «Va' avanti. E poi che cosa è successo?» «Okay. Dopo aver fatto quella cosa con il coltello, finalmente dice: 'Devono pagare. Mi aiuterai a fargliela pagare?' Io le ricordo che non avevamo trovato quei tre che l'avevano sfregiata, e lei dice: 'I troll sono tutti uguali. Se non ci sono quei tre ne troveremo altri tre. Sono tutti cattivi. Devono pagare!'» Jeremy annuì. «E com'è finita?» «Mi ha tagliato la mano.» Cowboy mostrò all'amico una minuscola cicatrice sul palmo della mano destra. «Ha fatto la stessa cosa con me», disse Jeremy. «E poi? Ci sei stato? L'hai fatto?» Cowboy sbarrò gli occhi. «E tu?» «No.» L'altro parve sollevato. «Neppure io. Ma lei mi ha lasciato capire che prima o poi lo avremmo fatto, se mi fossi schierato con lei per dare la caccia ai troll. Non so se parlasse sul serio. Non è ancora successo.» «Non pensi che sia una balla?» «Chissà. Io aspetto. Forse non mi sono mostrato ancora all'altezza.» «Con gli altri ragazzi l'ha fatto?» volle sapere Jeremy. «Con Nate. Ma credo che lo facessero già prima, perciò non c'entra con il patto di sangue. So soltanto che con gli altri ha seguito lo stesso rituale.» «Forse non l'ha fatto per via di Nate.» Cowboy sogghignò. «Questa sì che è un'idea. Forse sta arrivando il nostro turno.» «Ora che Nate è fuori dai piedi.» «Quello deve avere le pigne in testa a scaricarla a quel modo. Ci siamo dati tutti da fare per vendicare Tanya, e adesso lui si tira indietro solo per aver ammazzato un maledetto troll.» «Già», approvò Jeremy. Ma lui conosceva un segreto. Nessuno può dire a Tanya la storia della ragazza del banjo. Tranne me, pensò. «Ci vediamo stanotte?» chiese a Cowboy. «Puoi giurarci, Duke. Stessa ora, stesso luogo.» Troppo tempo da aspettare. Troppo. Devo dirglielo subito.
34 «Guarda chi si vede», disse Joan. Non sembrava molto contenta di vedere i ragazzi. Dave stava al suo fianco quando attraversarono il tavolato verso i due. Entrambi i ragazzi avevano un sacchetto di pop corn e masticavano di gusto camminando e parlando. Joan si fermò davanti a loro. Dapprima parvero sorpresi, poi sorrisero nervosamente. «Come va, ragazzi?» chiese lei. «Io sono ancora tutto d'un pezzo», replicò il ragazzo con il cappello da cowboy. Aveva una fasciatura su un orecchio. Indossava un costume da bagno assai ridotto e non aveva la camicia, come se volesse mostrare le ferite che aveva. I tagli sembravano infiammati, come quello di Dave. «Voglio ringraziarla», disse il ragazzo a Joan. Sbirciò Dave e soggiunse: «Anche lei. Me la sono proprio vista brutta». «Sono contenta che ti siamo stati d'aiuto», disse Joan. «Come va l'orecchio?» s'informò Dave cercando di ricordare il nome del ragazzo. «Be', me l'hanno riattaccato.» «L'ha sistemato per le feste, quel tale», osservò l'altro ragazzo. Lui sembrava in buona forma, tranne l'ombra di un livido sulla fronte. «Dico sul serio. Quel calcione al mento, sembrava... un goal su un campo di calcio.» Joan arrossì. Dave sapeva che non era certo per orgoglio. «Sono contenta che abbia funzionato», disse lei. «Che fine hanno fatto quei due sbruffoni?» s'informò il ragazzo con l'orecchio fasciato. «Sono entrambi in arresto», rispose Dave. «Uno è ancora in ospedale.» «Speriamo sia quello che mi ha staccato l'orecchio.» «Proprio lui», confermò Dave. «L'avrei scommesso», dichiarò Jeremy guardando Joan con rispetto. «Credevo che morisse, da come lo ha sistemato. Una gran mossa.» «Non c'è niente di cui vantarsi.» Joan si rivolse all'altro ragazzo e lo fissò. «Sono contenta che non ti sia andata peggio, ma andavi in cerca di guai e li hai avuti. Hai procurato ferite a un sacco di gente, compreso un innocente spettatore e il mio collega. Perciò attento, amico. Tu va' ancora in cerca di guai e io ti soffio sul collo. Intesi?» «Sì, signora», mormorò il ragazzo con aria colpevole. Dave sospettava che fingesse. «Mi scusi tanto.»
Joan sbirciò Dave. «Andiamo.» Lui si mise al suo fianco mentre Joan si allontanava a passo rapido. «Due teste di rapa», mormorò lei. «Be', hanno avuto quel che si meritavano. A che ora vengo a prenderti, verso le sei?» «Facciamo le sette. Prima vorrei fare un bagno e mettere a punto il mio travestimento.» Il travestimento. Non avevano più parlato del piano di Joan dal mattino. Dave aveva sperato che l'idea svanisse, ma sapeva che quando Joan si metteva in testa una cosa... Tutta colpa del suo buon cuore. Al punto di correre dei rischi per cercare Gloria. Cuore e coraggio. «Mettiamo i giubbotti antiproiettile», suggerì lui. Joan lo guardò divertita. «Chi ci sparerà?» «Dico sul serio.» «Anch'io. Il giubbotto mi deforma e noi non abbiamo ragione di credere che i troller vadano in giro con le pistole.» «Ma con i coltelli sì.» Lei annuì. «Okay, metteremo i giubbotti.» «Come ti vestirai?» volle sapere Dave. «Oltre il giubbotto antiproiettile? Non lo so.» «Non avrai un armadio pieno di stracci, per caso?» «Non proprio.» «Potrei fare un salto a casa di Gloria e prendere la sua roba.» L'espressione allegra e divertita sul viso di Joan svanì. «Non mi andrebbe bene.» «Ma almeno i calzettoni...» «Dio santo, non ho nessuna intenzione di mettermi i calzettoni di Gloria. Sono suoi. E sono stati toccati da... dal verme che glieli ha sfilati.» Le parole di Joan gli evocarono immagini di Gloria che si dibatteva e gridava mentre qualcuno le strappava gli abiti. «Inoltre», aggiunse Joan, «se indossassi i suoi vestiti, potrei distruggere qualche prova.» «Giusto!» Le prove. Capelli. Forse sangue. Dave non aveva notato niente di tutto questo, ma bisognava lasciar fare agli esperti. «Ti senti bene?»
«Stavo pensando alle prove.» «Mi dispiace. Non avrei dovuto parlarne.» «No, hai ragione tu. Ho già commesso un errore a toccare quella roba.» «Peccato che non possa sentirla con lo stereo», disse Cowboy, mettendo la mano dietro l'orecchio fasciato. «È brava, vero?» La ragazza del banjo stava in piedi davanti alla lunga coda di fronte all'Hurricane e batteva il tempo con il piede mentre suonava The RockIsland Line. Vestita a quel modo non aveva proprio l'aspetto di una barbona. Indossava un abito elegante che metteva in mostra le gambe affusolate e il banjo le tendeva la stoffa sui seni. Però non è Tanya, pensava Jeremy. Come poteva un tipo come Nate preferire quella lì a Tanya? Non aveva senso. Devo dirlo a Tanya. Ci mancava Cowboy che era apparso nel momento meno opportuno. Il banjo tacque. Cowboy battè le mani, come gli altri che aspettavano in fila il loro turno per salire sulla giostra e altri ancora che si erano fermati ad ascoltare. Poi lei riprese a suonare e stavolta anche a cantare. Jeremy sentì una mano sulla spalla. «Aspettami», disse Cowboy. «Devo andare al gabinetto.» «Ci vediamo più tardi.» Vide Cowboy che si faceva strada lentamente tra la folla e si affrettò nella direzione opposta. Finalmente! Calcolò che Cowboy avrebbe finito quando lui sarebbe arrivato al telefono a gettoni vicino all'ingresso principale. Non saprà dove cercarmi, però, si disse. Con le mani tremanti prese l'elenco telefonico attaccato all'apparecchio con una catenella. Ashland. Erano solo tre gli Ashland. Jeremy compose il numero di Ronald Ashland, chiroterapeuta. Forse Tanya non è in casa. Quasi ci sperava. Che cosa sto facendo ? Amanti di sangue. Lealtà. Devi dimostrarlo. La desideri, no? «Pronto?» Una voce femminile. «Salve. Sei Tanya?»
«Un momento. La chiamo.» Doveva essere la madre. Lei è in casa, pensò. Jeremy si guardò attorno. Finora nessun segno di Cowboy. Sbrigati, Tanya, sbrigati! disse dentro di sé. «Viene subito», annunciò la voce della madre. «Ho preso la comunicazione, mamma.» La voce di Tanya. Jeremy sentì lo scatto dell'altro apparecchio telefonico. «Salve», disse Jeremy. Il cuore gli batteva forte. E la testa gli pulsava per il dolore. «Sono Jeremy. Duke.» «Come va? Hai saputo che ci troviamo stanotte?» «Sì, me l'ha detto Cowboy.» «Ci sarai, vero?» «Certo. Senti, devo dirti una cosa. Si tratta di Nate.» «Sporco bastardo.» «Sicuro. Il fatto è che l'ho visto stamattina. Era in un motel. Con una ragazza.» Tanya non parlò. «Mi dispiace»,.riprese Jeremy dopo qualche secondo. «Ho pensato di dirtelo.» Tanya borbottò qualcosa. «Come? Non ho capito.» «Chi era lei?» «Non conosco il suo nome. È la ragazza che suona il banjo nel parco dei divertimenti. Forse l'avrai notata. Magra magra, con i capelli biondi come un ragazzo. Avrà diciotto o vent'anni, credo. Suona per guadagnarsi da vivere. In questo momento è qui, vicino all'Hurricane.» «Sì, l'ho già vista in giro.» «Bene, Nate era nella camera di un motel con lei. Non so se vi hanno passato la notte, ma lui ne è uscito stamattina verso le dieci. Ero da quelle parti quando l'ho visto. Lui però non mi ha notato. Ho aspettato in un bar per un'ora e ho sorvegliato la stanza per vedere chi fosse con lui: era la ragazza che suona il banjo. È uscita e io l'ho seguita fin qui a Funland. Perciò può darsi che lui si sia comportato in modo così strano, ieri sera, proprio per causa sua...» «La teneva nascosta in un motel.» «Già.» «Lurido verme!» «Hai ragione», approvò Jeremy. «Cristo, dev'essere pazzo a scaricare te
per una maledetta troll! Lei non è minimamente carina come te. Nessuna lo è.» «Grazie. Sei un bravo ragazzo.» A lui parve che il cuore si fermasse. Nonostante il feroce mal di testa si sentì pieno di orgoglio e di speranza. «Ho pensato che dovevi saperlo. Voglio dire, dopo ieri sera... siamo amanti di sangue.» «Esatto. Hai fatto bene a dirmelo. Te ne sono grata.» Tanya rimase di nuovo silenziosa. Mi è grata, pensò. Vuol dire che le ho mostrato la mia fedeltà? Dio! «Cowboy è con te?» chiese Tanya dopo un po'. «Non adesso. L'ho lasciato per venire a telefonarti.» «È al corrente di questa cosa?» «No, non l'ho detto a nessuno. Ho creduto che nessuno dovesse saperlo tranne te. Voglio dire, è una questione personale e...» «Va bene. Non dirlo a nessuno. È un nostro segreto, fra me e te. Hai detto che lei si trova ancora a Funland?» «Sì. Sta cantando le sue stupide canzoni.» «Okay. Vuoi farmi un favore?» «Certo. Qualsiasi cosa.» «Tienila d'occhio. Seguila, se puoi. Voglio sapere dove possiamo metterle sopra le mani stanotte.» «Non ho una macchina.» «Okay, fa' come meglio puoi. E dammi un colpo di telefono appena scopri qualcosa.» «Lo farò.» «Bravo ragazzo. Più tardi staremo insieme. Solo tu e io.» 35 Fu un pomeriggio interminabile. Robin tentava di perdersi nella musica per non pensare a Nate, soprattutto quando doveva concentrarsi sulle parole delle canzoni. Di tanto in tanto faceva qualche intervallo per correre da lui, ma erano brevi pause perché non voleva che Nate pensasse che volesse approfittare della situazione. Il più bello era stato l'intervallo per il pranzo. Avevano comperato tranci di pizza e Pepsi a un chiosco e avevano mangiato nello stanzino sul retro. «La mia casa fuori casa», aveva spiegato lui e Robin gli aveva fatto notare
che somigliava più a un magazzino di articoli sportivi. Al centro della stanzetta c'era una scrivania con sopra alcune carte, ma negli angoli erano accatastati palloni, scarpe da podista, un frisbee, costumi da bagno, mute, tute. Contro una parete c'era una tavola da surf. «M'insegnerai qualche volta?» aveva chiesto Robin. Per un attimo gli occhi di Nate erano parsi incupiti e lei si era chiesta se non avesse avuto qualche brutta esperienza con il surf. Forse un amico annegato. Ma poi lui aveva annuito addentando la pizza. «Certo. Ti trasformerò in una vera ragazza della California», le disse quando ebbe buttato giù il boccone. Finì di suonare e di cantare fra gli applausi. Il pubblico si diradò. «Sei stata fantastica», disse Nate. «È andata abbastanza bene», ammise Robin accovacciandosi per raccogliere il denaro dalla custodia del banjo. «Ma le cinque non arrivano mai.» «Lo stesso per me.» Lei diede a Nate monete e banconote e mise via lo strumento. Si avviarono verso l'arco. Nello stanzino sul retro contarono il denaro. Quarantotto dollari e cinquanta. «Mica male», commentò Nate. Divisero i soldi, lui le diede la sua parte e le consegnò anche un assegno. «Che cos'è?» chiese lei. «L'acconto di una settimana sul tuo stipendio.» «Non devi...» «Se non li vuoi...» «Be', non ho detto questo.» Lui rise e la baciò. «Pronta?» «E un pezzo che sono pronta.» Nate l'aiutò a mettere il sacco sulla schiena e prese il banjo. Uscirono attraverso l'arco pieno di rumori. Jeremy si girò di scatto, si appoggiò alla ringhiera e guardò verso la spiaggia quando loro emersero dall'arco. Aspettò qualche secondo, poi si guardò attorno. Dapprima non li vide, poi li scorse mentre camminavano tra la folla. Gli voltavano la schiena. Lui li seguì accelerando il passo, per paura di perderli. Aveva aspettato per ore e ore. Cowboy non era tornato e lui si era tenuto a debita distanza dalla ragazza. Aveva vagato nel luna park senza mai perdere di vista la giostra. La ragazza aveva fatto qualche intervallo e dalla ruota Hurricane era passata a quella di Ferris.
Era ancora lì quando era apparso Nate. Poi lei aveva raccolto il denaro, aveva chiuso lo strumento nella custodia e si era allontanata con lui. Jeremy li aveva seguiti fino all'arco e li aveva visti sparire sul retro. Erano riapparsi dopo dieci minuti: Nate reggeva il banjo, la ragazza con lo zaino sulle spalle. Li seguì oltre la biglietteria principale. Dalla cima delle scale li osservò mentre entravano nel parcheggio. Salirono sulla macchina sportiva di Nate. L'auto uscì lentamente dallo spiazzo e si diresse a est. Jeremy si precipitò al telefono e compose il numero di Tanya. Il telefono squillò una volta sola. «Pronto?» «Tanya, sono io, Jeremy.» «Aspettavo la tua telefonata. Che cosa succede?» «Se ne sono appena andati. Con la macchina di Nate. È un'auto sportiva rossa?» «La sgualdrina era con lui?» «Sì. Non so dove fossero diretti, ma...» «Credo di saperlo io. Me ne accerterò, comunque. Sei stato bravissimo, Duke. Adesso vai a casa?» «Sì, certo.» «Ti chiamerò verso le nove. Stanotte staremo insieme. Solo tu e io. Prima di dare la caccia ai troll.» «Okay, fantastico!» Tanya riappese. Jeremy fissò il telefono. Aveva la gola secca e il suo cuore sembrava impazzito. Oh, Dio, ce l'ho fatta! Solo tu e io, si ripetè più volte. Ancor prima di imboccare la stretta strada fra le colline, le case sembravano grandi e lussuose. Robin immaginò che più su, dove la stava conducendo Nate, dovevano essere favolose. Non era un fattore positivo. La sua famiglia non era stata povera. I suoi genitori lavoravano entrambi e le cose andavano bene. Ma non erano mai stati ricchi. Neppure benestanti. «Che cos'hai?» chiese Nate. «Mi sento... un po' fuori posto.» «Non capisco.» «Tu vivi quassù in una grande casa, possiedi un'auto che deve costare quanto mio padre guadagnava in un anno.»
«Che cosa c'entra tutto questo?» Robin si strinse nelle spalle. «Non lo so. Forse sarebbe meglio che ti presentassi con una debuttante.» Lui rise. «Be', per ora mi basti tu.» «Che cosa succede se i tuoi genitori vengono a sapere di noi due?» «Lo sapranno mercoledì», replicò Nate. «Ti presenterò a loro.» «Magnifico. Chissà come saranno contenti di sapere che ti sei messo con una musicante da strada.» «Diremo che sei una debuttante.» «Bravo!» «Li farai restare di sasso, Robin.» «Sicuro. Per arresto cardiaco. Il loro figlio e la vagabonda.» «Tu non sei una vagabonda, sei un'impiegata. E non lo eri neppure prima di essere un'impiegata. Sei un'artista, una poetessa e una musicista. I miei ti adoreranno.» «Ne dubito.» Nate accostò al ciglio della strada e si fermò. La via era deserta, ombreggiata dagli alberi. Più avanti, a sinistra, c'era una cassetta per le lettere e il cancello d'ingresso che si apriva su un viale, ma non si vedevano case. Lui spense il motore e tirò il freno a mano. Poi si girò verso Robin e le mise una mano dietro la nuca. «Solo perché la mia famiglia è ricca non significa che siamo gente cattiva.» «Lo so, ma...» «Nessuno ti tratterà male, specialmente i miei genitori. A loro interessa soltanto che tu sia una persona perbene, e tu lo sei. Ti ameranno, come me. Be', non esattamente così.» «Me lo auguro.» «Non diremo loro che ti sei fermata da noi. Voglio dire, i miei sono molto tolleranti, ma sono pur sempre dei genitori. Salterebbero fino al soffitto se sapessero che hai dormito a casa nostra.» «Ah, sì?» sorrise Robin. «Lo sai per esperienza?» «Ecco, mi hanno sorpreso un paio di volte a fare qualcosa che non dovevo fare.» «Sorpreso in casa con una ragazza?» «Una volta o due. Nessuna però era alloggiata stabilmente. Sei tu la prima. La prima in molti sensi.» «Per esempio?» «La mia prima suonatrice di banjo.»
«Mascalzone!» «E sei la prima di cui mi sono innamorato.» «Davvero?» fece Robin con un nodo alla gola. «Davvero.» Lui l'attirò a sé. Robin si girò sul sedile e si fece più vicina. Mentre si baciavano, Nate le accarezzava la testa e con l'altra mano le toccò un seno. Lei gemette. «Ti amo tanto», sussurrò Robin. «Mi ameresti di più se fossi povero?» «È probabile.» «Adesso, chi è il mascalzone?» «Vorrei che ci fossimo conosciuti tanto tempo fa», confessò lei e rabbrividì quando lui le accarezzò il seno. «Io pure. Sarebbe stato... diverso.» «Ma io ho l'impressione di averti sempre conosciuto. Ha senso, questo?» «No!» Lei gli rise sulla bocca e lo baciò di nuovo. «Sì che ha senso.» «Se lo dici tu. Sei un'esperta di colazioni.» «Che cosa c'entrano le colazioni?» «Per me ha senso.» «Mi prendi in giro?» chiese Robin. «Sicuro.» Nate la baciò sulla punta del naso. «Sei pronta a ripartire?» «Andiamo.» Nate riportò l'auto sulla strada. Poco dopo aver compiuto una curva, la strada si divideva. Sul viottolo a sinistra era ferma una Triumph bianca. La ragazza al posto di guida era una bionda con gli occhiali da sole. Nate sbirciò verso la macchina e improvvisamente s'irrigidì. Accelerò, sterzò e imboccò la strada a destra. «Ehi, oh!» disse Robin. Nate le sorrise e scosse la testa, tenendo d'occhio lo specchietto retrovisore. «Chi era, quella, la tua ragazza?» «Ex ragazza.» «Lei lo sa?» «Sicuro. Ci siamo lasciati, è tutto finito.» Nate tornò a guardare lo specchietto. Robin si girò sul sedile e sbirciò dal lunotto. La strada dietro di loro era deserta. «È finita, ma non completamente. Sbaglio?» «Che cosa vuoi dire?»
«Se hai paura che ci segua...» «Non si sa mai con quella là. Fa le cose più assurde, qualche volta.» «Una donna sedotta è abbandonata con accertata tendenza alla pazzia. Fantastico!» «Non preoccuparti.» «Perché no? Tu sei preoccupato.» Nate sbirciò di nuovo lo specchietto, poi sterzò e imboccò un viale. Il motore ruggì mentre la vettura si arrampicava sul ripido pendio. Il vialetto serpeggiante era bordeggiato da fitti alberi che permettevano al sole di apparire solo a chiazze. Robin non vedeva nessuna casa. «L'hai scaricata per causa mia?» chiese dopo un secondo. «C'erano altre questioni, ma... sì, credo che tu c'entri nella faccenda.» «Lei lo sa?» «Adesso lo sa, immagino.» «Magnifico!» Superarono la cima del pendio. Direttamente davanti a loro, dietro un prato ombreggiato da parecchi alberi, si ergeva una casa di legno che ricordava a Robin gli chalet per sciatori che aveva visto durante i suoi viaggi. Una grande casa con il tetto inclinato, un portico coperto e alti balconi. «Bella», commentò. «Mi vien voglia di cantare uno jodel.» «Canta!» «Non voglio rovinarti le orecchie.» Seguirono il viale che costeggiava il prato. Nate azionò il telecomando e la porta di un garage prese a sollevarsi. Era uno dei tre più vicino alla villa. L'auto entrò nel garage e Nate spense il motore. Poi sfilò la chiave dell'accensione e si voltò verso Robin. «Eccoci qui», annunciò con voce sommessa. Sorrideva, ma si vedeva che era nervoso. Robin si accorse improvvisamente di tremare. «Possiamo entrare», suggerì Nate. «Penso di sì.» Lei scese. Le tremavano le gambe. Chiuse la portiera e fissò il tetto della macchina. Nate le rivolse di nuovo un sorriso nervoso, poi si chinò per prendere il banjo e lo zaino. Robin girò attorno all'auto. «Ti pare una cosa ben fatta?» chiese. «Vuoi dire venire qui?» Lui chiuse la portiera. «Mi sento un po' nervoso.» «Perché hai visto la tua ragazza?» «Ex ragazza. No, non è quello.» Nate posò il banjo e lo zaino e premette un bottone sulla parete. La saracinesca del garage si chiuse e lui aprì con la
chiave una porta che dava nella casa. Robin raccolse il banjo, lo seguì e si ritrovò in un'ampia cucina. Nate chiuse la porta, posò lo zaino sul pavimento di mattonelle rosse e lei sistemò lo strumento accanto al sacco. Lo abbracciò e, piegando indietro la testa, lo guardò negli occhi. «Tremi», osservò lui. «Anche tu. Allora, perché sei così nervoso?» «Credo che sia il fatto di essere qui con te.» «Hai paura che ci scoprano?» «No. Sei tu.» «Ti rendo nervoso?» domandò Robin. «Sì.» «Bene. Anche tu mi rendi nervosa. Non ha senso, ti pare? Dopo il motel...» «Forse abbiamo paura di sciupare tutto.» «Può darsi.» «Ci tengo tanto a te, Robin. Se sbaglio e ti perdo...» «Ti amo. E continuerò ad amarti anche se sbagli. Basta che non fai bruciare le bistecche, a cena.» 36 «Che cosa ne pensi?» chiese Joan. Debbie, seduta al tavolo della cucina, alzò gli occhi dalla pizza che Joan aveva portato a casa per cena. Smise di masticare e sbarrò gli occhi. Joan si fece più vicina, si fermò e si girò, con i gesti di una modella su una passerella a una sfilata di moda. Era rimasta mezz'ora nella sua camera a preparare il travestimento: scarpe da tennis bucate che usava quando lavorava in giardino, vecchi pantaloni di una tuta sbiadita, una felpa grigia troppo larga e un vecchio berretto verde fatto a maglia. Per maggior effetto aveva macchiato gli abiti con il lucido da scarpe, aveva bucato un ginocchio dei pantaloni con le forbici e aveva legato una fascia rossa intorno al ginocchio destro. Poi s'era gettata sulle spalle una vecchia coperta, rialzandola sulla testa come un cappuccio. Dopo un'attenta ispezione allo specchio, aveva concluso che la sua faccia non andava. Troppo liscia e pulita, con gli occhi troppo svegli. Ma l'abbigliamento andava alla perfezione. Perciò era andata in cucina a farsi vedere da Debbie.
«Che cosa succede?» chiese Debbie a bocca piena. «C'è una festa in maschera?» «Sto bene?» «Accidenti! Somigli a un troll!» «Grazie!» «Non vorrai uscire sul serio conciata a quel modo!» «Non pensi che Dave mi troverà affascinante?» «Fammi capire. Che cosa vuoi fare?» s'informò Debbie. «Vado a fare la mendicante.» Joan appoggiò la coperta sulla sedia, si levò il berretto e si avvicinò alla credenza dove teneva i liquori. «Farò da esca.» «Sei impazzita? Che cosa vuoi dire?» Debbie sembrava sconvolta. Joan aprì l'anta della credenza e tirò fuori una bottiglia di bourbon. «Tutto a posto», dichiarò. «Ci sarà Dave con me. Andiamo a Funland dopo l'ora di chiusura.» «Perché?» «Andiamo ad acciuffare alcuni troller. Almeno lo speriamo.» Joan svitò il tappo della bottiglia, versò un po' di bourbon nella mano e se la passò sul davanti della felpa. «Conosci Gloria Weston?» «No», rispose Debbie. «Scriveva per il Post. Qualche giorno fa ha scritto un articolo sui troller.» Joan bevve un sorso di bourbon, poi rimise il tappo alla bottiglia. «L'altra sera Gloria si è travestita da troll per ottenere uno scoop per il giornale ed è scomparsa.» «Oh, Cristo!» Debbie sembrava scioccata come se avesse visto un verme sulla pizza che stava portandosi alla bocca. «Noi crediamo che l'abbiano presa i troller», spiegò Joan. «Perciò vai fuori a...» «A vedere se ci provano anche con me.» «Joany, non puoi!» Joany. Debbie non chiamava così sua sorella da anni. «Ehi, andrà tutto bene.» Joan si avvicinò alla ragazzina e le accarezzò la testa. Debbie alzò gli occhi, la sua faccia era rossa e angosciata. «Non mi succederà niente, tesoro. Te lo prometto.» «Sì, me lo prometti. Scommetto che anche la mamma non pensava che le sarebbe capitato qualcosa.» Joan sospirò. Non avrebbe dovuto rivelare i suoi piani a Debbie. «Ci sarà anche Dave. Se non siamo in grado di tenere a bada un branco
di teppistelli...» «E i troll?» farfugliò Debbie. «Se non sono stati i ragazzi a prendere quella giornalista? Se sono stati i troll e ti aggrediscono? Funland pullula di troll. Se ti prendono e...» «Primo: non credo che i troll costituiscano un problema.» «Hanno portato via la mamma!» «Lo pensi tu. Non sappiamo che cosa è capitato alla mamma. Probabilmente non lo sapremo mai. Ma ti assicuro che nessun troll mi metterà addosso le mani. Non gli permetterò di avvicinarsi abbastanza.» «Sì, certo», convenne Debbie. «Dave e io saremo armati. Non m'importa chi, ragazzi o troll... ma nessuno fa lo spiritoso con una pistola puntata alla faccia.» «E se non hai abbastanza proiettili?» «Ti preoccupi troppo.» Joan accarezzò i capelli della sorellina. «E poi, io sono un'arma micidiale dalla testa ai piedi.» «Non è divertente.» Debbie cominciò a piangere. Joan si accovacciò accanto alla sedia e le accarezzò una guancia. «Su, andiamo. Niente lacrime.» «Tu sei tutto ciò che ho.» «Sarò molto prudente. Non posso promettere che non succeda niente, però. Diavolo, in questo momento potrebbe schiantarsi un aereo sulla casa e schiacciarci tutte e due. Non si può prevedere tutto. Si può essere prudenti, ma bisogna fare ciò che deve esser fatto. Stasera devo andare.» «Perché?» «È colpa mia se Gloria è scomparsa. Era la ragazza di Dave. Si è travestita e si è fatta incastrare per causa nostra: era sconvolta e non ragionava.» Debbie tirò su con il naso e ammiccò. «Dave l'ha scaricata?» «Esatto. Perciò glielo dobbiamo, capisci?» «No. Se lei ha commesso una stupidaggine è un suo problema.» «È anche un problema nostro. Ora sarà meglio che faccia il bagno e mi prepari, altrimenti arriverò tardi da Dave.» «Ti piacerebbe se 'io' andassi a Funland in piena notte?» «Non mi piacerebbe, tesoro. Naturale. E non mi aspetto che tu sia contenta che ci vada. Ma non ho l'abitudine di avere dei segreti con te. Non lo vorresti neppure tu, no?» «No!» «Devi avere coraggio e pazienza. Il mio lavoro qualche volta diventa pe-
ricoloso, ma anch'io sono una ragazza abbastanza pericolosa. Adesso finisci la tua pizza prima che si raffreddi.» Joan si rialzò, prese dalla sedia il berretto e la coperta e andò nella sua camera. Dalla finestra del soggiorno, Dave vide l'auto di Joan fermarsi vicino al marciapiede. Si affrettò ad aprire la porta. Joan salì il vialetto con un sacchetto di carta fra le braccia. L'ultima volta che era stata a casa sua portava un sacchetto dello stesso genere. Con lo champagne. Dave, tuttavia, immaginò che questo contenesse il travestimento. Lei era bellissima. I capelli dorati luccicavano al sole del tramonto. Joan indossava il suo abito bianco, lo stesso che aveva il giorno in cui era venuta a portargli le «medicine». Le sue gambe nude erano abbronzate, affusolate e forti. «Come sta il mio uomo?» chiese salendo gli scalini dell'ingresso. «Okay, mi pare.» «Non ne sembri molto sicuro.» Lui si fece indietro per lasciarla passare. Lei entrò e Dave chiuse la porta. Lei posò il pacco e gli mise le braccia intorno al collo. Si baciarono. Dave la tenne stretta, sentiva il calore e la morbidezza del suo corpo. La pressione gli faceva dolere la ferita, ma non allentò la stretta. Non voglio perderla, si ripeteva. Assolutamente. Lei staccò la bocca dalle labbra di lui e appoggiò la guancia contro la sua faccia. «Stai bene?» gli chiese. «Sì!» Lui allentò la stretta e la tenne gentilmente. «Solo che non sono eccessivamente entusiasta della nostra piccola missione.» «Non richiederà molto tempo.» «Seguito a ripetermelo.» «Cinque ore.» «E magari ci sarà una chiamata dal governatore.» «Allora sei proprio giù di corda.» Joan lo guardò negli occhi. «Hai preso i giubbotti?» Lei gli cercò di nuovo la bocca. Lui le accarezzò la schiena, le sollevò il vestito e fece scivolare le mani sotto l'orlo delle mutandine, sfiorandole la pelle nuda. Lo stomaco di Joan brontolò. Lei rise sommessamente. «Ce la fai a cucinare sul barbecue i salsicciotti che ho portato?» «Eh, eh!» «Hai acceso il fuoco?»
«Non ancora.» «Allora accendilo», ordinò lei. Joan si scostò e si lisciò il vestito. «Potremo riprendere più tardi. Credi che ricorderai l'indirizzo di casa tua?» «Non lo so.» «Te lo ricorderò io. Ho una memoria di ferro.» «Come l'appetito, immagino.» Andarono in cucina. Dave prese alcune lattine di birra dal frigorifero e ne diede una a Joan. Lei sedette su uno sgabello e sorseggiò la birra mentre lui accendeva il grill. «Ci vorrà un po'», annunciò Dave. «Hai bisogno d'aiuto?» «No. Dobbiamo solo aspettare. Vuoi mangiare qualcosa, intanto?» Lei scosse la testa. «Devo badare alla linea.» «Che cos'ha che non va la tua linea?» chiese lui, mettendosi a sedere di fronte a lei. «Finora tutto bene», rispose Joan. «Ma sai come succede. Una comincia a lasciarsi andare appena aggancia l'uomo giusto.» Lui sentì un gran calore. «Io sono l'uomo giusto?» «Credo proprio di sì.» «Vuoi dire che mi hai agganciato?» «Certo», convenne lei con un sorrisetto malizioso e un lampo negli occhi. «Tu che rie dici?» «È probabile.» Lei sollevò la birra, chiudendo gli occhi al riflesso del sole sulla lattina. Dave osservò la sua gola mentre inghiottiva. Joan posò la lattina su un vassoio accanto alla sedia, poi allungò le gambe e allacciò le mani dietro la testa. «È bello», mormorò. «Che cosa?» «Essere qui. La luce del sole, la birra, il profumo del barbecue. Tu. E sapere che nessuno verrà a guastare tutto.» «Finora non siamo stati fortunati.» «Sono contenta che tu abbia avuto modo di conoscere Debbie.» «È una bella ragazzina.» «Le sei simpatico, sai?» «Ci conosciamo appena.» «Lei fa presto a giudicare una persona. È sempre supercritica sugli uo-
mini che frequento. Tu sei il primo ad aver superato l'esame.» «È una ragazzina di buon gusto.» «Capisce subito chi è un perdente. Io no. Io somiglio più a nostra madre. Lei aveva un debole per le persone sprovvedute con gli occhi tristi. Nella sua vita precedente doveva essere un cane bassotto.» Joan aprì gli occhi e corrugò la fronte. «Credo si tratti di un eccessivo istinto materno. Capace di coinvolgerti con individui che sono rimasti... più bambini che uomini. Questo non è un bene. Ho visto quello che è capitato a mia madre. Lei voleva un cavaliere con l'armatura luccicante, ma alla fine s'è trovata a mani vuote. O, meglio, è finita con un lacchè. Non voglio che capiti a me.» Dave si alzò e l'abbracciò. «Tu sei fatta di un'altra pasta, sei una ragazza forte e decisa. Solo che qualche volta... Per esempio; quella volta che sei salita su quella maledetta ruota Hurricane per tirare giù quel poveraccio che i troller avevano legato lassù. Oppure quando sei intervenuta nella rissa di quei ragazzi... O quando sei così decisa ad andare a Funland stanotte... Joan, io non voglio perderti.» «Stai dicendo che ho più fegato che cervello?» «Non voglio discutere del tuo cervello, ma un po' di prudenza non farebbe male.» «Sei dolce», mormorò lei. «Non lo sopporterei se ti capitasse qualcosa. Ti amo.» «Mi ami?» ripetè lei. «Sì!» «Anch'io ti amo.» «Gli eroi non durano a lungo, Joan. Io voglio che tu duri per sempre. Devi restare con me finché saremo vecchi.» «Per appoggiarci l'uno all'altra», sussurrò lei. «Giusto.» «Mi piace l'idea.» 37 Quando suonò il telefono, Jeremy balzò dal divano e disse: «Rispondo io». Sua madre alzò per un attimo gli occhi dal libro, annuì e riprese a leggere. Lui sapeva che era presto per la telefonata di Tanya. Lo sapeva senza neppur guardare l'orologio. Il tempo era trascorso con una lentezza este-
nuante per tutto il pomeriggio e la serata. I minuti erano scivolati via mentre aspettava a Funland che la ragazza del banjo raggiungesse Nate. Dopo la sua seconda telefonata a Tanya e la sua promessa di richiamarlo alle nove per concordare quando vedersi più tardi, gli era sembrato che il tempo trascorresse anche più lentamente. Ora mancava una buona mezz'ora alle nove. Staccò la cornetta dal telefono a muro in cucina. «Ehi, Tanya.» «Magnifico!» Non era la voce di Tanya. «Shiner?» «Spiacente di deluderti.» «No, figurati.» Lui si sentiva bruciare la faccia. «È che... Tanya mi aveva detto che mi avrebbe chiamato per stanotte. Sai, per il trolling.» Shiner rimase silenziosa per alcuni secondi. «È per stanotte?» «Be', non lo so. Lei mi deve telefonare.» «Immagino che hai intenzione di andare.» «Non ho ancora deciso.» Jeremy si accorse che gli dispiaceva di mentirle. «Davvero?» «E tu?» volle sapere lui. «Assolutamente no. Te l'ho detto, ho chiuso. E penso che dovresti chiudere anche tu.» «Ci ho ripensato.» «Nate ha fatto bene a ritirarsi. Tutti noi dovremmo smettere, ma nessuno vuole ascoltarmi. Tranne te, forse. T'importa ancora di me?» «Certamente.» «Sinceramente?» «Sì!» «Che mi dici di Tanya?» volle sapere Shiner. «Non c'è niente.» «Ho visto che ti baciava.» «Be', era sbronza. E io pure. Non significava niente. Quella sera lei ha baciato tutti, dopo che te ne sei andata. Penso perché era contenta che non l'abbiamo abbandonata come Nate.» «Non dirmi che non ti è piaciuto.» «Avrei voluto che fossi tu», farfugliò Jeremy. Altra pausa. Poi Shiner disse: «Non ne sono sicura...» «Te l'assicuro. Lei non è... il mio tipo. È strana, capisci?»
«Questo potevo dirtelo anch'io.» «Avrei voluto stare con te, dopo il party.» «Anch'io lo desideravo. Finché l'hai baciata.» «Lei ha baciato me. Non è stata colpa mia.» «Mi ha fatto male, sai. Voglio dire, so che lei è splendida e tutti i ragazzi sono ai suoi piedi... per non parlare di Karen. Ma credevo... pensavo che noi due...» «Fra noi c'è qualcosa. Mi piaci, te lo giuro. Quando ho scoperto che te n'eri andata, ci sono rimasto malissimo. Sono andato via subito dopo. Senza di te mi sentivo fuori posto. E a un tratto maledettamente solo.» «Mi dispiace», mormorò Shiner. «No, dispiace più a me. Ho combinato un pasticcio.» «Come sei tornato a casa?» «A piedi.» «Oh, no! A piedi? Ma sono chilometri! Io credevo che qualcuno ti avrebbe dato un passaggio.» «Dopo che te ne sei andata, non avevo voglia di rimanere con gli altri della compagnia.» «Devi aver impiegato tutta la notte a rientrare.» «Solo un paio di ore.» «Dio, come mi dispiace. Sapevo di non dover andarmene a quel modo, ma ero sconvolta.» «Possiamo rivederci?» «Perché credi che ti abbia chiamato, somarone?» A lui parve di vedere il sorriso di Shiner, mentre lo diceva. Il radioso sorriso della bella e dolce Shiner. «Mia madre è fuori», riprese lei. «Sono qui tutta sola. Lei non tornerà per un bel po'. Non ti piacerebbe venire qui?» «Sarebbe fantastico!» Tanya, pensò. Fra poco avrebbe chiamato Tanya. Jeremy se n'era scordato. Eppure quella telefonata promessa era stata un'ossessione per tutto il giorno. «Bene», stava dicendo Shiner. «Ti do l'indirizzo. Hai una matita e...» «Aspetta. Non posso venire. Mi piacerebbe, ma mia madre è qui e non posso sgusciar via.» «Ma non c'è bisogno di sgusciar via. Basta dire a tua madre che vai a fare una corsa in bicicletta o qualcosa del genere. Non è poi così tardi. Mi fa-
rebbe tanto piacere vederti.» Jeremy sospirò. Lei è sola, pensava. Gesù, potremmo farlo. Anche lei lo desidera, altrimenti non mi avrebbe invitato ad andare, con sua madre fuori casa. Non avrebbe arrischiato. Si vede proprio che mi vuole. Ma Tanya... «Non posso», disse. «La mamma non mi lascerebbe uscire. Mi ha chiuso in casa per via dell'altra notte. Sono rientrato tardi e ha capito che avevo bevuto. Perciò niente da fare.» «Non vieni da me, ma vai a dare la caccia ai troll.» «A quell'ora mia madre dormirà. E poi ho detto che 'potrei' andarci, non ho detto che ci vado.» «Loro ci sono andati, dopo il party?» s'informò Shiner. «Non credo. Io sono tornato direttamente a casa. Perché?» «Niente», mormorò lei. Rimase silenziosa per un momento, prima di aggiungere: «Senti, se puoi sgusciar fuori più tardi per il trolling, potresti venire qui, invece. Mia madre starà fuori fino a tardi. Che ne dici?» Accidenti. Poteva perdere la caccia ai troll, non gliene importava, ma l'incontro con Tanya... «Pensa a una buona scusa», suggerì Shiner. «Ehi, sta' a sentire.» «Se preferisci stare con Tanya, perché non lo ammetti?» «Non è questo.» «Io ne sono sicura.» «Mi prenderebbero per un pulcino, se non andassi.» «Non ho nessuna intenzione di pregarti, Jeremy. Decidi tu. Chi scegli, me o Tanya?» «Non è leale!» «Okay, mi hai dato la risposta. Addio.» «Shiner!» Lei tolse la comunicazione. «Maledizione!» Jeremy sbattè la cornetta sulla forcella. Corse in bagno, chiuse la porta a chiave e si appoggiò all'uscio. Digrignando i denti, battè i pugni sulle gambe e scivolò a terra. Accidenti a lei. Non è leale, si disse. Che vada all'inferno, se è questo che vuole. Però... potevo andare a casa sua. Si immaginò seduto su un divano con Shiner, con le luci soffuse nella
stanza. Gli sembrava di sentire il suo corpo fra le braccia, la sua bocca morbida e calda. Sarebbe stato meraviglioso. Non è troppo tardi, pensò. Se la richiamo... Allora perderei l'appuntamento con Tanya. Chiama Shiner. Va' da lei, stanotte. Quando Tanya telefona, basta dirle... Jeremy sentì dei passi nel corridoio. Poi un colpo alla porta. «Caro, ti vogliono al telefono.» Gli balzò il cuore in petto. Strisciò lontano dall'uscio prima di rispondere. «Vengo subito.» Tirò la catena del water, si rialzò e tornò alla porta. Sua madre lo guardò leggermente accigliata. «Tutto a posto?» «Sì, certo. Chi è al telefono? Shiner?» «Non me l'ha detto.» «Deve essere lei. Mi aveva detto che richiamava.» Mentre si affrettava verso la cucina, la mamma disse: «Non fare programmi senza dirmelo. Sei sempre in castigo, giovanotto!» «Sì, lo so.» Ma prima di entrare in cucina Jeremy si girò per assicurarsi che sua madre andasse in soggiorno. Afferrò la cornetta del telefono. «Pronto?» «Sono io.» Era Tanya. Lui provò una punta di delusione. Poi il battito del suo cuore accelerò. «Un secondo», disse. «Hai preso la comunicazione?» chiese la voce di sua madre dall'altro telefono. «Sì, grazie.» Lei riappese. «Okay», disse Jeremy. «Adesso non sente.» «Puoi uscire più tardi?» chiese Tanya. «Verso mezzanotte?» «Mezzanotte?» «Saremo solo tu e io. Gli altri li vedremo più tardi.» Lui si sentì mozzare il respiro. Riuscì solo a balbettare: «Sì». «Prendiamo la mia auto. Mi fermerò davanti a casa tua.» «Okay.» «Stai bene? Sembri un po' strano.» «Solo eccitato», rispose lui. «Anch'io. Non vedo l'ora. A mezzanotte.»
«D'accordo.» «Arrivederci dunque, Duke.» «Arrivederci.» Jeremy riappese, si voltò e guardò l'orologio a muro. Dieci minuti alle nove. Tre ore e dieci minuti da far passare. Un'eternità. Era tutto sudato, ma tremava. Strinse i denti per frenare il tremito, si portò le braccia al petto. Farò una doccia, pensò. Una doccia calda. Mi aiuterà a passare il tempo. È poi voglio essere pulito e ordinato per lei. Si avviò con passo malfermo verso il bagno. Nella sua mente si sovrapponevano le immagini della cicatrice di Tanya, dei suoi seni nudi, del sorriso di Shiner. E poi il rasoio, Shiner sulla spiaggia, il sangue sulle labbra di Tanya. 38 Robin sedeva a gambe incrociate sul divano, un asciugamano piegato sotto di lei per non bagnare l'imbottitura con gli slip del bikini umido. Suonava il banjo e cantava per Nate. Lui stava seduto sul pavimento, lo sguardo sognante sul viso rivolto verso di lei. Aveva i capelli bagnati dopo la nuotata. Sembravano dorati al riflesso del caminetto alle sue spalle. Il vino nel bicchiere appoggiato sul ginocchio brillava come un rubino. Lui non beveva mentre Robin cantava. Il mio compagno si chiama Nate. Per me è favoloso. È dolce e sexy dalla punta dei piedi alla zucca... Quanto amo il mio Nate! Lui rise scuotendo la testa, posò il bicchiere sul tappeto e battè le mani. «Fantastica. Che cos'è una zucca?» «La cima della tua testa.» Lui si arruffò i capelli. «Sexy, eh? Anche le punte dei miei piedi?» «Ti prendi gioco della mia canzone?» «Adoro la tua canzone.» «So che è un po' sciocca», disse lei. «Quasi tutte le mie canzoni lo sono.
Il banjo non è uno strumento serio. È allegro e spensierato.» «Come te.» «È così che mi vedi?» chiese Robin. «Solo in parte. Ti vedo in un sacco di modi differenti. Seria, triste, innocente, piena di speranza, timorosa... ma anche coraggiosa. Devi essere terribilmente coraggiosa per vivere sulla strada come facevi prima.» «Quella era semplice disperazione.» «Ho l'impressione di non sapere tante cose di te. Vorrei sapere tutto.» «Sono una ragazza semplice che ama il banjo, le colazioni sostanziose e i bagni caldi.» «Bagni caldi?» Lui finì di bere il suo vino. «Scommetto che ti piacerebbe fare il bagno nella piscina termale.» «Ehi, sarebbe fantastico!» «Ci vorrà un po' prima che l'acqua si scaldi», l'avvertì Nate alzandosi. «Vuoi aspettare qui mentre l'apro?» «Prendo volentieri una boccata d'aria fresca.» Lui prese la bottiglia di vino e guardò Robin che si alzava, avvolgendosi l'asciugamano intorno alle spalle. Attraversarono delle porte scorrevoli e Robin rabbrividì per il freddo improvviso della sera. «Buttati in piscina. Presto!» le gridò Nate prendendole di mano il bicchiere. Lei entrò nell'acqua. Era fredda, ma più calda dell'aria. Vide Nate vicino al recinto, chino su un apparecchio pieno di manopole. «Come fai a resistere?» gli chiese lei. «Forza di volontà.» «Lascia perdere la volontà e buttati.» Nate si avvicinò e lei si rannicchiò contro il suo petto. «Tremi», disse lui. «Come mai tu non tremi?» «Sono un uomo di ferro, io. Sei nervosa o hai solo freddo?» «Solo freddo. È un pezzo che non mi sento nervosa, ormai. Questo succedeva secoli fa.» «Non abbiamo sciupato niente», commentò Nate. «E tu non hai bruciato le bistecche.» «Per fortuna mia.» Così abbracciati faceva meno freddo, ma di tanto in tanto Robin tremava.
«Potevamo aspettare in casa», disse lui. «Ora sto meglio.» «Pensa all'acqua calda che scende nella piscina termale.» «Quanto ci vorrà?» «Probabilmente è già calda.» «Allora che diavolo ci facciamo qui fermi?» «Ci baciamo.» «Non è vero.» «Sì che è vero.» Le catturò la bocca. Le sue labbra erano fredde, dapprima, ma la sua lingua era calda. Nate rafforzò la stretta delle braccia e cominciò a camminare all'indietro. Robin gli si aggrappava con le braccia e con le cosce. L'acqua scivolava sopra di lei, ricadeva giù. Al muretto che chiudeva il tratto della piscina termale, Nate si fermò. Robin si immerse nell'acqua tiepida, allungò le gambe e si lasciò sfuggire un gemito di piacere. Nate andò a prendere i bicchieri e sedette di fronte a Robin. «Chi è la più bella del reame?» canticchiò lei. Lui le sfregò una gamba con il piede. «La più bella è Robin. La piccola Robin.» Piccola Robin. Poppinsack. «Un vagabondo mi ha chiamato così», disse lei. L'acqua era molto calda ora. «Piccola Robin.» «Chi era?» «Un tipo buffo. Dapprima mi piaceva. Poppinsack. Ci sapeva fare con le parole. Mi ricordava uno di quei medici all'antica che si vedono nei film di cowboy. Quelli che curavano i pazienti da un carro. Dovevi vederlo, con la sua giacca a frange e le piume sulla bombetta.» Il piede di Nate scivolò via dalla gamba di lei. «Un vero personaggio. Mi piaceva e lui mi ha derubata.» «Derubata?» «Sì. Mentre dormivo sulla spiaggia. 'Prima' che ci conoscessimo e che lui mi offrisse il tè. Si mostrava così gentile e cordiale con me sapendo ciò che aveva fatto.» Nate scosse lentamente la testa. Robin aveva sepolto nel suo intimo quel furto, come un segreto di cui vergognarsi. Confidarsi con Nate le faceva bene. Doveva raccontargli il resto.
«Tenevo il denaro nelle mutandine», riprese a dire. «Dormivo e lui me lo ha preso. Dio sa... che altro ha fatto con le mani. E dopo mi ha chiamato 'Piccola Robin'.» Nate borbottò qualcosa che si perse nel gorgoglio dell'acqua. «Che cosa?» «Niente.» «Volevo uccidere quel verme.» «Io l'ho fatto.» «Scusa?» disse Robin sicura di non aver capito bene. «L'ho ucciso.» Lei lo fissò sbigottita. Posò il bicchiere e gli si avvicinò per inginocchiarsi fra le sue gambe nell'acqua calda che gorgogliava. «Un vecchio con i baffi spioventi», disse Nate. «Sì.» «L'ho ucciso giovedì notte.» «Non ci credo», replicò Robin. Ma ci credeva. Nate era troppo serio per scherzare. «Come?» chiese. «Avrai sentito parlare dei troller.» «Tu sei un troller?» «Lo ero, ora non più. Dopo quanto è successo al vecchio... Mi sono nauseato. È stato terribile, ed è stata colpa mia. Loro non potevano mettere in moto la ruota di Ferris senza di me. Io avevo la chiave. Non sapevamo che sarebbe caduto, ma...» «Come è successo?» «Lo avevamo ammanettato alla sbarra di sicurezza di una navicella e lo abbiamo mandato su. La sbarra non ha retto. Lui è caduto. Dalla cima, urlando disperatamente. Poi ho messo il corpo sulla mia tavola da surf, l'ho legato e l'ho gettato in mare.» «Dio!» mormorò Robin. «È accaduto la sera che ti ho conosciuto.» Lei si ricordò di aver aspettato Poppinsack, quella sera. Lo aveva aspettato nella nebbia con il coltello in mano, pronta a colpire; poi aveva avuto paura e si era rifugiata sotto la casa. «Io rivolevo indietro il mio denaro e lo aspettavo fra le dune.» «Be', noi lo abbiamo ucciso.» «Avrei potuto ucciderlo anch'io, se si fosse fatto vedere. Avevo un coltello. Volevo ferirlo, fargliela pagare.» «Perlomeno... c'è una compensazione, sapendo ciò che ti ha fatto. Forse
se lo meritava. Però mi sento male, quando ci penso.» «Capisco», mormorò Robin. «Mi dispiace.» «Che cosa pensi, ora? Hai fatto l'amore con un assassino.» Lei gli sfregò dolcemente le gambe. Aveva un nodo alla gola. «È stato un incidente.» «Be', sì, un incidente. Era troppo pesante per la sbarra di sicurezza. Ma noi lo abbiamo mandato su, capisci? Era un troll e noi lo abbiamo ammazzato. Gli altri sembravano contenti che fosse caduto. Sono sicuro che Tanya ne era felice. Lei è assetata di sangue da quando abbiamo messo insieme la banda Billy Goat Gruff. E ultimamente è peggiorata.» «La ragazza ferma all'incrocio?» chiese Robin. «Sì. Non posso biasimarla, alcuni troll l'hanno violentata. Odia tanto i troll. Li odio anch'io per ciò che le hanno fatto. Lei era innocente, felice... Non aveva mai dato fastidio a nessuno.» «Tu l'amavi, vero?» chiese Robin. Nate esitò. Le mise le mani sulle spalle e rispose: «Un tempo l'amavo. Prima che la prendessero i troll. Loro hanno ucciso la parte di Tanya che amavo». «Mi dispiace», sussurrò Robin. «Adesso lei è piena di odio. Le interessa solo inchiodare i troll.» Nate scosse la testa. «Abbiamo ottenuto vendetta per lei, ma Tanya non è sazia. Anzi, la sua ossessione peggiora di giorno in giorno. Ora che ne ha ucciso uno... Non voglio pensare a che cosa faranno al prossimo. Ma almeno io non parteciperò. Avrei voluto ritirarmi prima di arrivare a uccidere. Non l'ho fatto e ora sono un assassino.» Le sue mani accarezzarono la testa di Robin. «Dovevo dirtelo. Meglio perderti subito che più tardi.» «Non mi perdi», disse lei. «Ma mi hai ascoltato? Io sono...» «Una volta ho ucciso un uomo.» «No!» Le dita di Nate si contrassero sulla testa di lei. «Sì. Credo di averlo ucciso, a ogni modo. Seguito a ripetermi che forse è vissuto. Me lo ripeto ogni giorno. Ma in realtà non ci credo. Gli ho conficcato il mio coltello nel petto. Forse non è morto, ma è più probabile che lo sia.» Con un gemito, Nate l'attirò a sé. Robin si mise cavalcioni sulle sue ginocchia. Lui l'abbracciò forte forte. «Gesù!» le mormorò all'orecchio. «Robin. Robin!» «Lui mi ha aggredita.» E, con voce incrinata, soggiunse: «Mi sono dife-
sa, ma non per questo mi sento meglio». «Dio! Mi dispiace tanto.» «Siamo una bella coppia, eh?» Nate cominciò a tremare. Piangeva. La teneva stretta e il suo corpo era scosso dai singhiozzi. Anche Robin piangeva. Lambiti dall'acqua gorgogliante, si tennero abbracciati e piansero. 39 Alle undici, sua madre mise da parte il libro e cominciò a guardare il telegiornale. «Vado a letto», annunciò Jeremy. La mamma parve sorpresa. «Non guardi il film?» «No», rispose lui. «E poi non mi piacciono le repliche estive. Senza contare che sono veramente stanco.» Lei inarcò le sopracciglia. «Me l'immagino. L'altra sera sei rientrato all'una.» «Già.» Lui la baciò, le augurò la buonanotte e andò nella sua camera. Chiuse la porta, radunò gli abiti che avrebbe indossato più tardi. Fece scivolare il coltello nella tasca anteriore dei pantaloni e dal cassetto della scrivania prese il rasoio di Tanya. Tienilo per ricordare. Era ancora avvolto nel fazzoletto. La stoffa bianca era macchiata di sangue scuro. Mise anche il rasoio nella tasca dei pantaloni. Poi fece un fagotto degli indumenti e lo spinse sotto il letto per nasconderlo. Gettò la vestaglia sulla sedia, spense la luce e s'infilò sotto le coperte. Il quadrante luminoso della sveglia sul comodino indicava le undici e un quarto. Mezz'ora ancora, prima di vestirsi e sgusciar fuori da casa. I minuti scivolavano via. La sua mente era popolata di immagini febbrili. Tanya e Shiner. I loro visi, i loro corpi, le loro voci. Shiner e Tanya. E altri ricordi. Il troll che precipitava dalla ruota di Ferris. La Casa dei mostri di Jasper. La rissa. Karen che ballava al party in reggiseno e mutandine. Le voci dei troll sotto il tavolato di Funland. Di nuovo Shiner. E Tanya. La desiderava da morire e si sentiva colpevole di aver scelto lei invece di Shiner. Il rumore di passi nel corridoio riportò Jeremy alla realtà. Sentì chiudersi
una porta, scorrere l'acqua nel bagno e finalmente i passi di sua madre che andava nella sua camera. Le undici e trentacinque. Aspettò che passassero i minuti, la mente era occupata a trovare il modo di squagliarsela, anche se di tanto in tanto riaffiorava il pensiero di Tanya. A un quarto alle dodici rotolò silenziosamente dal letto. Cacciò il pigiama e la vestaglia sotto le coperte, s'inginocchiò accanto al letto e prese gli abiti che vi aveva nascosto. Si vestì seduto sul tappeto. Strisciò fino alla porta e l'aprì. Il corridoio era immerso nel buio, anche davanti alla camera di sua madre. Alla porta d'ingresso fece scorrere lentamente la catena e l'abbassò. Poi aprì l'uscio e lo richiuse senza far rumore. La strada era illuminata dai lampioni. Alcune auto erano parcheggiate lungo i marciapiedi. Una di quelle poteva essere la macchina di Tanya. Jeremy sapeva che era presto, però. Forse lei non era ancora arrivata. Scese gli scalini. Se lei non viene, decise, potrei andare da Shiner. Accidenti, non so neppure l'indirizzo. Sull'altro lato della strada si accesero i fari di un'auto ferma al marciapiede, poi si spensero. Il cuore di Jeremy sussultò. Accelerò il passo. Guardò indietro verso la sua casa e per un attimo desiderò di vedere la luce alle finestre, la porta spalancata e sua madre che correva fuori gridando: «Che cosa credi di fare, giovanotto?» La casa invece era buia. Scese nella strada. Un braccio sporse, agitandosi, dal finestrino aperto dell'auto che aveva lampeggiato. Lui rispose al saluto. Si precipitò verso la macchina e notò che era una vecchia Ford. La portiera dei passeggeri si aprì mentre Jeremy si avvicinava, ma l'interno rimase buio. Lui si fermò accanto alla portiera e si accucciò per sbirciare dentro. Tanya era in ombra, ma la riconobbe immediatamente. Salì e richiuse la portiera. «Salve», lo salutò Tanya. Jeremy si girò verso di lei. Nell'auto, sebbene i finestrini fossero abbassati, si sentiva odore di benzina e di sigarette. E un altro profumo simile al muschio, un profumo che gli faceva pensare alle notti nella giungla. Il profumo di Tanya. Lei si girò a guardarlo in faccia. Indossava una felpa scura e pantaloni
felpati. Prese la mano di Jeremy, quella con il taglio del rasoio, e scostò la felpa dal petto. Guidò la mano di Jeremy sotto la stoffa, su fino al seno nudo. Poi gli mise le braccia intorno al collo, si chinò verso di lui e lo baciò. La sua bocca parve inghiottirlo. Lei gemeva mentre Jeremy le accarezzava il seno. Era così incredibilmente liscio, con il capezzolo turgido. Lui seguitò a toccario mentre la lingua di Tanya guizzava fra le sue labbra. A un tratto Jeremy si ritrovò in mano il fischietto che lei teneva appeso al collo. Lo strinse fra le dita, non trovando il coraggio di toccare l'altro seno. La bocca di Tanya si staccò dalla sua. «Ora dobbiamo andare», sussurrò lei. «Più tardi. Avremo tempo più tardi. Per tutto.» Jeremy annuì. Tirò fuori la mano dalla felpa. Lei lo baciò dolcemente, poi prese qualcosa dalla tasca del giubbotto. «Questi sono per te», disse. Jeremy sollevò il pacchetto fino al parabrezza. «Sono guanti da chirurgo», spiegò Tanya. «È meglio non lasciare impronte digitali.» Tirò fuori un altro pacchetto identico, l'aprì e si infilò i guariti. «Dobbiamo metterceli subito?» chiese lui. Voleva avere le mani nude per toccarla. «L'auto scotta», disse lei. «Oh!» fece lui con una stretta allo stomaco. «Vuoi dire che l'hai rubata?» «Naturalmente!» Lui gettò un'occhiata all'accensione. Non c'era la chiave, ma il motore era acceso. «Gesù!» fu il suo commento. Lei tornò a girarsi sul sedile, allentò il freno a mano, ingranò la marcia e si allontanò dal marciapiede. «Dopo lasceremo la macchina a Funland», disse. «Non preoccuparti, i proprietari la riavranno indietro. Ma non possiamo usare un'auto da cui potrebbero risalire a me.» «Ma che cosa facciamo?» volle sapere Jeremy. «Cerchiamo un troll», spiegò lei. «E io so dove trovare il troll ideale per stanotte.» «Davvero? Dove?» «A casa di Nate.» Robin si appoggiò sul gomito e guardò Nate. Sembrava sereno come un
bambino. Dormiva a gambe larghe, il suo petto si sollevava e si abbassava con lunghi respiri regolari. Robin gli appoggiò una mano sul petto. Sebbene la sua pelle sembrasse dorata e calda al lume di candela, era fredda al tatto. Si scostò da lui con cautela e scese dal letto. Si avviò verso il comò e spense le candele. Poi tornò presso il comodino dalla parte di Nate e spense anche la candela che c'era sopra. Raccolse le coperte che erano scivolate sul pavimento mentre facevano l'amore e coprì Nate. Finalmente tornò a infilarsi sotto le coperte. Lui emise un suono soffocato. Stava facendo un brutto sogno. Robin gli accarezzò il petto sperando che si distraesse dalle brutte immagini che forse gli affollavano la mente. Nate continuò a dormire. Robin rimase in ascolto, pronta a svegliarlo nel caso singhiozzasse di nuovo. Sognava la caduta di Poppinsack? Se soltanto avesse potuto aiutarlo! pensò. Ma lui era destinato a vivere con quel rimorso. Aveva il suo fardello e Robin il proprio. Grazie a Dio ci siamo confidati a vicenda, pensò lei. Mentre la sua mente riandava ai ricordi più recenti, Robin si addormentò. Tanya spense i fari. L'oscurità avvolgeva la strada. Lei svoltò in uno stretto viale che saliva come un sentiero grigio attraverso i boschi. Tanya cambiò marcia, ma non accelerò, evidentemente per impedire che il rombo del motore denunciasse il loro arrivo. «Sei sicura che siano qui?» sussurrò Jeremy. «Ci sono, ci sono», rispose Tanya. «E avrei dovuto esserci io.» «Eh?» «Avevamo programmato ogni cosa. I suoi sono via fino a mercoledì e io dovevo stare con lui.» «Perbacco!» «Sporco bastardo!» «Lui dev'essere pazzo a scaricare te per quella ragazza.» «Sicuro, ha commesso un grosso errore. Se ne accorgerà presto.» Raggiunsero la cima del pendio. La casa dietro il prato era una forma buia con i tetti spioventi. Tutte le luci erano spente. Il chiaro di luna si rifletteva su alcune finestre. Una casa che dava l'impressione di essere disabitata.
Jeremy sperò che fosse disabitata. Si sentiva male per la paura. Lui doveva assistere Tanya a qualsiasi costo, ma sarebbe stato meraviglioso se fossero entrati e non avessero trovato nessuno. Si sfregò le mani sudate sui pantaloni, ma portava i guanti e il disagio non cessò. Andrà tutto bene, si disse. Lei aveva detto che si sarebbe occupata di Nate, Jeremy doveva pensare solo alla ragazza. Non era un problema. Ne aveva sistemate due di ragazze, durante la rissa alla Casa di Jasper. Anzi, gli sarebbe piaciuto picchiare la ragazza del banjo. Ma io non voglio picchiare quella ragazza, pensò. Non lo voglio affatto. Tremava di paura e di desiderio. L'auto si fermò davanti al portico della casa. Tanya tirò il freno a mano. Il motore ronzava in sordina mentre lei apriva la portiera e scendeva. Jeremy stava per dirle di spegnere il motore, ma poi si ricordò che non c'era la chiave. Scese anche lui. Con le gambe tremanti si portò davanti alla macchina mentre Tanya prendeva qualcosa dal sedile posteriore. Poi venne verso Jeremy reggendo un sacchetto di carta. «Che cos'è quello?» volle sapere lui. «Materiale. Vedrai.» Lui la seguì su per gli scalini del portico fino alla porta d'ingresso. Tanya aprì con una chiave che teneva in tasca. Meno male che non dobbiamo forzare la serratura, pensò Jeremy. Tanya spinse la porta. Dentro era buio. Jeremy sentiva soltanto il battito del suo cuore. Tanya si accosciò per posare il sacchetto sul pavimento. Quando vi mise dentro la mano, risuonò un leggero rumore metallico. Alla pallida luce che entrava dalle finestre, Jeremy vide che la ragazza gli porgeva qualcosa. Un paio di manette. Un secondo paio lo tenne per sé. Poi tirò fuori dal sacchetto un martello che passò a Jeremy. Lui si sentì mozzare il fiato. Una morsa gli serrò lo stomaco, mentre gelide dita sembravano affondare nella sua schiena. Tanya prese un'accetta dal sacchetto e si drizzò, lasciando il sacchetto sul pavimento. Jeremy bisbigliò con voce soffocata: «Li ammazziamo?» «No, che divertimento sarebbe?»
«Allora che cosa facciamo?» «La ragazza verrà con noi, Nate no. Su, andiamo!» Rabbrividendo e con le gambe molli, lui seguì Tanya fino a una scala. Salirono lentamente. Ogni volta che uno scalino scricchiolava, Jeremy s'irrigidiva. Inghiottì forte. La scala sembrava interminabile. Potrei essere da Shiner in questo momento, pensava Jeremy. Dio, perché non ci sono andato? Manette. Un martello. Un'accetta. Lui si vedeva scendere precipitosamente la scala e scappare dalla casa, da Tanya e dalla follia che lo aspettava nel giro di pochi minuti. Lei era tre scalini davanti a lui, appena visibile nella penombra. Jeremy sapeva che era nuda sotto la tuta. E sapeva che non sarebbe scappato. Lei lo aspettò in cima alle scale. «Non fare niente finché non te lo dico io», lo avvertì. Jeremy annuì, si cacciò le manette in tasca. A fianco a fianco percorsero il corridoio. Tanya si fermò alla porta aperta di un bagno, sbirciò dentro. Per un lungo momento non si mosse. Poi premette la punta dell'accetta contro la schiena di Jeremy e lo spinse avanti. Lui entrò nella stanza. Al chiarore della luna che filtrava dalle finestre vide un letto. Le coperte erano sollevate. Sono loro, pensò. Tanya aveva ragione, sono qui. E se ha mentito quando ha detto che non vuole ucciderli? Che cosa faccio qui? Tanya chiuse la porta. Diede un colpetto al braccio di Jeremy con l'accetta e gliela mise in mano. Perché non la tiene lei? Vuole le mani libere, concluse Jeremy osservandola mentre sgusciava attraverso la stanza, non verso il letto, ma verso un cassettone di fianco al muro. Tanya prese una sedia e tornò indietro. Posò silenziosamente la sedia sul tappeto davanti alla porta, l'inclinò all'indietro e la spinse sotto la maniglia. La sedia avrebbe impedito a chiunque di entrare nella stanza, ma Jeremy capì che aveva uno scopo diverso: impedire una rapida fuga. Tanya gli prese l'accetta, la passò nella mano sinistra, con l'altra mano gli prese il polso e lo guidò fino ai piedi del letto. Da lì lui poteva sentire il respiro delle persone sotto le coperte.
Tanya avanzò lungo il lato sinistro del letto. Si chinò sulla forma addormentata e impugnò l'accetta con la mano destra. Jeremy vide l'ascia alzarsi. E abbattersi. No! Gli parve di sentire il tonfo rintronare nella testa. Un respiro affannoso e le coperte sull'altro lato del letto si sollevarono. «Prendila!» ordinò Tanya. La ragazza era nuda, con una mano tentava di spingere da parte le coperte e di liberare le gambe per mettersi seduta. Jeremy si tuffò verso di lei e la fece ricadere. Il materasso la fece sobbalzare contro di lui. Robin si contorse. Lui le inchiodò una mano, ma l'altra mano della ragazza era libera e Jeremy non poteva usare la sua per bloccargliela perché con quella stringeva il martello. Le unghie della ragazza gli lacerarono la guancia. Lui mollò il martello e le afferrò il polso. Lei riuscì con la forza della disperazione a spingerlo da parte. Jeremy cadde sul pavimento a schiena in giù. Robin gli balzò addosso, gli diede un morso al mento e Jeremy gridò mollandole i polsi. Poi le sferrò un pugno in faccia. In uno spasimo di dolore, Jeremy le afferrò i corti capelli sopra le orecchie e le girò la testa, rotolando con lei nel tentativo di tirarla giù dal letto. Lei gli sferrò una ginocchiata allo stomaco. Jeremy emise un suono strozzato, si piegò in due tenendosi il ventre. La stanza si riempì di luce. La ragazza si era rialzata in piedi e sembrava pronta a scattare, la testa girata verso l'altro lato del letto. «Non muovere un dito», l'avvertì Tanya. Anche Jeremy si alzò in piedi. Ansando e stringendosi il mento, vide Tanya che fissava la ragazza. Tanya era china sul corpo immobile di Nate, l'accetta in posa per un altro colpo. Alla luce della lampada sul comodino notò che la faccia di Nate era piena di sangue che spillava da un taglio sulla fronte. Tanya non lo aveva colpito con il lato affilato dell'ascia. «Prendi i suoi vestiti, Duke. Lei deve avere un aspetto decente.» Jeremy raccolse il martello e si avvicinò alla ragazza. Lei non si era mossa da quando Tanya aveva acceso la lampada. Non si voltò a guardare Jeremy. «Metti le mani sulla testa», ordinò lui. Robin si drizzò, sollevò le braccia e allacciò le dita sopra la testa. Jeremy le guardò la schiena, la pelle liscia e abbronzata, le natiche più
chiare, le gambe affusolate. Spostò la mano dal mento; il guanto di gomma era viscido di sangue. Fece scorrere le due punte del martello sulla schiena della ragazza. Lei emise un suono strozzato e s'irrigidì. Jeremy sbirciò Tanya. Lei annuì con un sorrisetto. Jeremy si piantò davanti alla ragazza. Lei lo fissò negli occhi. Occhi spaventati e mortificati, ma carichi di disgusto. Lui le imbrattò il mento e le guance con il proprio sangue. Poi la prese a schiaffi, facendole girare la testa. Ma Robin seguitò a fissarlo. Tuttavia, non resistè quando Jeremy cominciò ad accarezzare e a pizzicare il suo corpo nudo. E quando lui le conficcò le punte del martello nel ventre, lei si piegò e cadde in ginocchio. Il respiro le usciva in un sibilo. Lui le sferrò una ginocchiata in bocca che le chiuse le mascelle e le piegò indietro la testa. La ragazza crollò sul pavimento a gambe larghe. «Basta così», disse Tanya. «Stiamo perdendo tempo.» Mentre Jeremy cercava gli abiti della ragazza, Tanya ammanettò uno dei polsi di Nate alla testata del letto. Jeremy trovò lo zaino della ragazza nell'armadio. Prese un paio di jeans e una camicia sbiadita e li gettò a Robin che li indossò lentamente, tremando dalla testa ai piedi. Prima che riuscisse ad abbottonarsi la camicia, lui la sollevò in piedi per i capelli e le ammanettò i polsi dietro la schiena. Poi si sfilò la cintura dei pantaloni, fece un cappio e l'infilò sopra la testa della ragazza. Tanya afferrò le chiavi di Nate dal cassettone e se le mise nella tasca della felpa, poi spense la luce. «Okay», disse. «Quando usciamo, ricordami di rompere una finestra per far sembrare che da lì è entrato qualcuno.» «Bene», disse Jeremy. Tenendo la cintura come un guinzaglio, trascinò la ragazza nel corridoio buio. 40 Il letto traballò leggermente svegliando Dave. Attraverso le palpebre abbassate vide la luce. Era mattina? si chiese. Joan gli aveva fatto mettere la sveglia sulla mezzanotte, ma forse lui non l'aveva sentita. Sperò che fosse mattina.
Qualcosa di morbido sedette su di lui. Si contorse sotto il peso e aprì gli occhi. Joan stava a cavalcioni su di lui, le mani sul materasso. I suoi seni gli sfioravano il petto. Poi li sentì sulla pelle. Lei lo baciò. Dave fece scivolare lentamente le mani su e giù sulla schiena nuda. Joan staccò le labbra dalla sua bocca. «È ora di alzarsi, tesoro.» «Capito», borbottò lui. Lei lo baciò di nuovo. «Dobbiamo andare.» «Lo temevo. Che ore sono?» «Mezzanotte e mezzo.» «Che è successo alla suoneria?» «L'ho bloccata. Ero già sveglia.» «Non potevi dormire?» chiese lui. «Non volevo dormire. Mi sembrava una perdita di tempo. Molto meglio stare sveglia a guardarti.» «Guardona!» «Hai afferrato il concetto, amico.» «Dovevi svegliarmi.» «Mi dispiaceva. Hai avuto una serata intensa, avevi bisogno di dormire. Ecco perché non ti ho svegliato prima.» Joan lo baciò ancora una volta. «Okay, alziamoci.» Lei si rialzò, portandosi via il peso e il calore. Dave si mise seduto e si tirò la coperta fino alla vita. Rimase a guardare Joan che s'infilava le mutandine e una maglietta. «Lo spettacolo è finito», annunciò lei. «Puoi vestirti adesso.» Invece lui continuò a osservarla mentre indossava uno dei giubbotti antiproiettile che lui aveva preso alla stazione di polizia quel pomeriggio. Lei se lo assicurò con le cinghie. Poi si accucciò accanto al sacchetto e tirò fuori una fondina applicata a una cinghia da allacciare alla spalla. Vi infilò la sua pistola calibro 38, sotto l'ascella sinistra. Alla caviglia destra un'altra fondina più piccola con un'arma semiautomatica. Dal sacchetto venne fuori un'altra custodia. Dave scosse la testa. Stavolta si trattava di un pugnale in un fodero che Joan assicurò sul fianco destro. «Dio santo!» esclamò Dave. «Dove hai visto tutta quella roba, sulla rivista Soldato di ventura?» «Come hai fatto a indovinare?» «C'è altro? Non hai anche un bazooka, per caso?» Joan tirò fuori un paio di pantaloni felpati che avevano l'aria di esser sta-
ti macchiati con il lucido da scarpe. Dave si alzò dal letto. Prese dal comò un paio di slip e dei calzini puliti e se li mise, mentre lei copriva il suo arsenale con un vecchio giubbotto felpato. Il camiciotto aveva dei buchi da cui si intravedeva il giubbotto antiproiettile. Gli strappi dei pantaloni mostravano una gamba nuda. «Il mio Rambo sexy», disse Dave, quando Joan infilò una maglietta per evitare che il giubbotto sfregasse contro la pelle. Poi indossò i jeans, il giubbotto e le scarpe da ginnastica. Infine andò all'armadio a prendere le armi: una pistola calibro 380 in una fondina che applicò alla cintura sulla destra, e una Beretta 9 mm con la fondina da inserire in un'imbracatura da allacciare alla spalla. «Nemmeno tu viaggi leggero», osservò Joan indicando la Beretta. «Dobbiamo essere in grado di fermare un esercito», replicò Dave. «Debbie pensa che potrebbe esserci questa possibilità.» «Gliel'hai detto?» Dave indossò una camicia di flanella a scacchi e osservò la collega che si legava una fascia rossa sulla coscia. «Quella a che cosa serve?» «Per lo stile. Sì, gliel'ho detto, a Debbie. Probabilmente avrei dovuto tacere, ma non mi piace nasconderle qualcosa. Lei non era entusiasta, ha paura che non torni.» Le sue parole provocarono una morsa allo stomaco di Dave. «Non posso biasimarla.» «Si preoccupa più dei troll che dei ragazzi. È tuttora convinta che c'entrino con la scomparsa della mamma.» Joan portò i calzini e un vecchio paio di scarpe da ginnastica al letto. «Maledizione!» borbottò, non riuscendo a piegarsi per via del giubbotto antiproiettile e delle varie fondine. «Lascia fare a me», disse Dave. «Il mio cavaliere. Così sollecito!» Lui s'inginocchiò e le infilò i calzini. «Ci sai fare», commentò Joan arruffandogli i capelli. «Puoi diventare il balio dei nostri figli.» Dave alzò la testa e le sorrise. «I nostri figli?» «O non ne vuoi?» «Certo che ne voglio.» «Quanti?» «Quanti ne vuoi tu», dichiarò lui e a un tratto desiderò che lei non avesse nominato i bambini, che non avesse alluso al futuro. Un futuro che poteva non esistere. La notte che vedeva davanti a sé gli appariva un muro nero e
lui temeva che non ci fosse nulla oltre il muro. Ridicolo, si disse. Ma c'era Gloria. Gloria era sola. E non era armata. Ecco la differenza. Finì di legare i lacci delle scarpe e accarezzò le cosce di Joan attraverso la stoffa dei pantaloni. «Forse mentre siamo per strada dovremmo controllare la casa di Gloria», suggerì. «A che scopo? Lei non c'è, lo sappiamo tutti e due.» «Non c'è niente di male a controllare una volta di più. Ci vorranno solo pochi minuti.» Gli occhi di Joan s'incupirono. «Non voglio tornare là.» «Puoi aspettarmi in macchina», disse Dave. Erano stati laggiù anche dopo pranzo, Joan era entrata con lui e l'esperienza l'aveva sconvolta. Aveva ispezionato la casa stringendo forte la mano di Dave, la casa di una donna che probabilmente era stata assassinata la sera prima, il cui corpo doveva essere stato scaricato in qualche luogo solitario, dove gli assassini speravano non fosse mai trovato. «Allora farò una telefonata, invece di andarci», decise Dave. «Come vuoi.» Lui andò al telefono sul comodino da notte e compose il numero di Gloria. Dopo tre squilli una voce rispose. «Pronto. Qui Gloria.» Il cuore di Dave diede un balzo. «Gloria?» ripetè. Vide che Joan girava la testa di scatto, con un'espressione di sbigottimento sulla faccia. «Sono momentaneamente assente, ma se volete lasciare un messaggio...» «All'inferno!» masticò Dave. «È la segreteria telefonica.» Probabilmente aveva lasciato dei messaggi su quel dannato apparecchio centinaia di volte. Come poteva essersi lasciato ingannare? Sul viso di Joan apparve un'espressione di disappunto. «...vi richiamerò appena possibile.» Certo, pensò Dave. Certo che richiamerai. La segreteria telefonica tacque e scattò il segnale per il messaggio. Dave ricordò come Gloria si scocciava quando riappendevano. E quante volte lei aveva risposto dopo aver capito che era lui. «Sono Dave», disse. Joan increspò le labbra. Aveva un'espressione angosciata. «Se ci sei, per amor del cielo prendi il telefono!»
Ascoltò i suoni distanti e ovattati. «Gloria? Sono Dave. Sei lì?» Sto parlando con una donna morta, pensò. Riappese. Joan gli si avvicinò e lo abbracciò. «Potremmo chiudere la questione», mormorò lui, tenendola stretta a sé. Sentiva il giubbotto e le armi, ma sentiva anche il calore delle sue gambe e la sua guancia morbida. «Se ti perdo a causa di tutto questo...» «Siamo responsabili di una morte.» «È quanto volevo sentirti dire.» «Non è ancora finita», gli ricordò Joan e si ritrasse. Lui la osservò mentre infilava la mano nel sacchetto di carta per tirar fuori un berretto fatto a maglia che si mise in testa e da cui spuntava solo la frangia di capelli biondi. «Come sto?» volle sapere lei. «Sei splendida.» Joan sollevò il sacchetto dove era rimasto qualcosa. «Allora hai anche un bazooka?» chiese Dave. «Solo una vecchia coperta», rispose Joan. «Per far che cosa?» «Per maggior stile.» In soggiorno, Dave aspettò che lei aprisse la borsetta. Joan tirò fuori il distintivo dalla sua custodia di pelle. «Non devo dimenticare questo. Tu ce l'hai il tuo?» Dave battè sul portafoglio. Joan sollevò la felpa e agganciò il distintivo alla cinghia della fondina allacciata alla spalla. Poi uscirono. Dave chiuse a chiave la porta d'ingresso, pescò la chiavetta dell'accensione della macchina e, a fianco di Joan, s'incamminò verso il viale dove aveva lasciato l'auto. La macchina aveva le gomme a terra. «Porco diavolo!» borbottò. Girò intorno alla macchina. Tutti e quattro i pneumatici erano sgonfi. Notò che Joan si dirigeva verso la sua. Poi si voltò a guardarlo. «Anche i miei», disse. «Stai scherzando?» Lui la raggiunse. Anche l'auto di Joan, parcheggiata al bordo del marciapiede, aveva le quattro ruote a terra. «Si direbbe che qualcuno abbia deciso di sabotare la nostra missione»,
osservò Joan. «Ma è pazzesco. Probabilmente qualche ragazzo...» «Una ragazza in particolare: mia sorella.» «Debbie? Pensi che sia stata lei?» «Per forza. Non può essere una semplice coincidenza. Dio, deve essere più sconvolta di quanto immaginassi.» «Sa dove abito?» «Sei nell'elenco telefonico, socio. Ha cercato l'indirizzo ed è venuta fin qui a fare il lavoretto.» «Be', è stata in gamba.» «Piccola strega. Aspetta che le metta le mani addosso.» Dave cercò di cancellare il sorriso dalla propria faccia, ma non vi riuscì. «È una ragazzina che ha del fegato. Una dote di famiglia.» «La strangolerò.» «Lo ha fatto perché ti vuol bene.» «Sì, lo so. Ma stavolta gliele suono, piccola vipera.» Dave scoppiò a ridere. «Ridi, ridi. Bravo.» Joan si accovacciò accanto a uno dei pneumatici anteriori. «Non è squarciato, spero», disse Dave. «Debbie non si sarebbe spinta a tanto. Probabilmente si è limitata a sgonfiarlo.» Joan sfregò le mani su un lato del pneumatico. Poi si rialzò e si sfregò la faccia. «Vedo che sei distrutta dal dolore», osservò Dave. Lei abbassò le mani. La fronte, le guance e il mento erano neri di terriccio e di unto. «Lo so. Lo stile. Questo significa che andiamo ugualmente?» chiese. «Io vado.» «Magnifico!» masticò Dave. «Devo rientrare e chiamare un taxi?» «Andiamo a piedi, non è poi tanto lontano.» «D'accordo. Aspetta un minuto, voglio prendere la torcia elettrica.» Dave tornò presso la sua auto sentendosi stranamente allegro. Niente avrebbe fermato Joan, ma quei pneumatici a terra avrebbero di certo rallentato le sue mosse. Una camminata fino alla spiaggia richiedeva almeno mezz'ora. Grazie, Debbie. Grazie infinite. Ti sono grato per questo. Le offrirò un cono gelato, pensò Dave, e sogghignò. Aprì la sua macchina, prese la torcia da sotto il sedile del posto di guida e tornò verso Joan. «Andiamo con calma», l'avvertì. «E speriamo di non
slogarci una caviglia.» 41 «Come va lì dietro?» chiese Tanya sbirciando sopra la spalla. «Bene», riferì Jeremy. La sua stessa voce gli sembrava strana, un po' velata, ma chiara. «Proprio bene.» La ragazza era distesa sul sedile posteriore, inchiodata giù dal peso del ragazzo sulla pancia. Jeremy rimbalzava su di lei e sentiva il suo respiro strozzato. La cosa gli procurava un immenso piacere. Passarono sotto un lampione. La sua luce illuminò per un attimo il petto nudo della ragazza. Lui si levò i guanti e riprese a pizzicarla. Però Jeremy si sentiva truffato. Avrebbe potuto essere fantastico, seduto là dietro su quella sgualdrina. Lei aveva i polsi stretti nelle manette dietro la schiena, la camicia aperta. Era alla sua mercé. La schiaffeggiò. Lei fece una smorfia. Jeremy tornò a schiaffeggiarla. «Mi hai rovinato, sgualdrina!» «Lo spero», mormorò la ragazza. Lui la fece gridare per il dolore. «Sta' calmo», lo ammonì Tanya. «Ma hai visto che cosa mi ha fatto? Come ci torno a casa con una faccia così? Che cosa dico a mia madre?» «Non preoccuparti.» «Dio, non posso andare a casa.» Jeremy si toccò la carne lacerata del mento. Bastò toccare la ferita per sentire le lacrime agli occhi. «Penseremo qualcosa», lo consolò Tanya. «Tutti sapranno che ho partecipato a questa impresa. Tutti mi guarderanno.» «Ci penserò io», promise Tanya. «Non c'è niente da preoccuparsi.» «Facile a dirlo, non è la tua faccia.» «Duke, ci siamo dentro tutti e due. Va tutto bene. Domattina ti accompagnerò a casa tua e dirò a tua madre che sei stato assalito da un cane sulla spiaggia. Sono una bagnina di salvataggio, mi crederà.» Sì, poteva funzionare. Lui si sentì un po' meglio. Avrebbe dovuto inventare una storia a sua madre per spiegarle perché era uscito di casa senza dirglielo, ma lei non si sarebbe mostrata troppo severa. «E Nate?» chiese Jeremy. «È morto stecchito.»
La ragazza prigioniera emise un orribile suono strozzato. Cominciò a torcersi e a dibattersi sotto il peso di Jeremy. Lui le mollò un pugno appena sotto la cassa toracica. La ragazza si sollevò mentre il suo respiro esplodeva. Poi scivolò di nuovo sul sedile respirando affannosamente. «E lei non sarà più in grado di parlare», aggiunse Tanya. «A questo provvederemo noi.» «Provvederò 'io'», precisò Jeremy e, girandosi sul busto, prese a picchiare la ragazza. Lei sobbalzava e si dibatteva, rabbrividiva per il dolore e lui capì che avrebbe urlato se avesse avuto abbastanza fiato in gola. «Non ancora, santo cielo! Non vogliamo privare gli altri del divertimento», protestò Tanya. «Non la uccido.» Jeremy abbassò gli occhi sulla ragazza. La testa della poveretta si piegava da una parte all'altra, le labbra tirate sui denti scoperti. «Ti sto uccidendo?» le chiese lui. «Eh? No! forse ti faccio un po' male, ma solo un po'. Beccati questo. Come ti senti?» L'auto si fermò. «Okay», disse Tanya. «Siamo arrivati.» Scese e aprì la portiera vicino alla testa della ragazza. Allungò dentro le braccia e l'afferrò sotto le ascelle. Jeremy si sollevò e rimase a guardare mentre Tanya la trascinava fuori. Poi scese anche lui. Chiuse la portiera senza far rumore. La ragazza giaceva supina, Tanya a cavalcioni sul corpo snello le abbottonava la camicia. «Prendila per le gambe», gli ordinò. La ragazza scalciò cercando di colpirlo, ma lui le tenne le gambe allargate contro i propri fianchi. Tanya la sollevò per le spalle. Insieme la portarono su per le scale. Passarono sotto il clown sogghignante e illuminato dalla luna e all'ingresso le ombre si chiusero su di loro. Una chiazza pallida emerse da dietro la biglietteria. Jeremy rimase impietrito. Sentì che la ragazza liberava le gambe dalla sua stretta, mentre Tanya avanzava ancora di un passo. Poi anche Tanya si fermò. «Sono io.» . No! Shiner, in piedi nel buio, era vestita di qualcosa di bianco che sembrava luccicare. Teneva le braccia incrociate sul petto. La brezza dell'oceano le agitava i capelli. Lei non sa che cosa ho fatto, pensò Jeremy. Ma la sua presenza era come una luce abbagliante. Che cosa ho fatto? Oh, Dio. Che cosa ho fatto?
«Gli altri sono già qui?» s'informò Tanya. Shiner scosse la testa. «Ci siamo procurati il troll per la festa di stanotte», disse Tanya. «Vedo. Jeremy, lasciala andare e vieni con me.» «Che razza di storia è questa?» sbottò Tanya. «Tu non impicciarti», la zittì Shiner, avanzando verso Jeremy. «Ti caccerai in un grosso guaio, se rimani.» «Se non gradisci, vattene pure», le disse Tanya. «Piantala. Jeremy.» Shiner gli mise la mano sulla spalla. «Che cosa hai fatto alla faccia?» «Abbiamo avuto dei problemi con questa qui», borbottò lui. «Gesù!» Jeremy mollò le gambe della ragazza che si mise a scalciare. Tanya la scaraventò a terra a faccia in giù e le piantò un piede sulla schiena per tenerla ferma. «Ti fa male?» chiese Shiner. «Sì, parecchio.» «Mi dispiace. Ma non sarebbe successo se fossi venuto da me, stasera. So di non essere... eccitante come Tanya. So che la desideri. Diavolo, sei un uomo. Chi non la vorrebbe? Il fatto è che Tanya ti rovinerà. Guarda che cosa ti è capitato.» «Dille di andarsene», intervenne Tanya. «Ha ragione», convenne Jeremy. «Vattene.» «Non vado da nessuna parte. A meno che tu non venga con me.» «Io non vengo», dichiarò lui. «Ehi!» chiamò Cowboy. «Tutti pronti per prendere a calci qualche troll?» «Ne abbiamo qui una», lo informò Tanya. Cowboy e Liz si avvicinarono. «Accidenti!» «È una trolletta», commentò Liz. «Abbiamo anche un traditore», li informò Tanya. «Sì?» «Shiner.» «No!» esclamò Cowboy. «Che ti prende piccola Shiner? Non vorrai abbandonarci, eh?» «Sei diventata una fifona?» aggiunse Liz. Cowboy si fece più vicino, Shiner mollò la spalla di Jeremy per affrontarlo.
Il mio grande amico, pensò Jeremy. Provava un immenso senso di sollievo e di gratitudine. Come quando Cowboy lo aveva salvato dal mendicante che lo importunava. «Dimmi che non è così», continuò Cowboy, preoccupato. «Ho chiuso con il trolling», rispose Shiner. «Mi prendi in giro, giusto? I troll sono i luridi vermi che hanno fatto sparire tua sorella!» «Salve, amici», disse Randy. «Ne avete già preso uno?» «Shiner vuole ritirarsi», lo informò Liz, disgustata. «Davvero?» «Che cosa ci fa quella macchina là davanti?» Era sopraggiunto anche Samson. «Con quella, Duke e io abbiamo trasportato la troll», spiegò Tanya. «Ma il motore è acceso.» «Non importa.» «Ehi, ma chi abbiamo qui? Una ragazza? Bene, bene.» «A lei penseremo fra un minuto», decise Tanya. «Prima Duke deve allontanare la maledetta traditrice.» «Non è una traditrice», intervenne Cowboy. «È solo sconvolta.» E, rivolto a Shiner: «Qual è il problema? Sei turbata per quel tale che è caduto?» «Anche. Tutto ci sfugge di mano, Cowboy. Guarda che cosa ha fatto questa ragazza a Jeremy.» Cowboy guardò l'amico. «Dio santissimo! È stata questa sgualdrina?» «Mi ha morso», spiegò Jeremy con voce tremante. «E mi ha graffiato.» Liz e Randy si fecero più vicini per guardare. Samson non si mosse. Stava inginocchiato accanto alla ragazza e la rigirava. Randy si spinse gli occhiali sul naso, guardò la faccia di Jeremy e mormorò: «Gesù!» «Deve morire», decretò Liz. Questi sono i miei amici, pensava Jeremy. Sono tutti dalla mia parte. Tranne Shiner. All'inferno Shiner. Non ho bisogno di lei. Heather apparve all'improvviso e spinse da parte Randy. La sua faccia pallida e grassoccia si fece molto vicina e Jeremy sentì il suo alito che sapeva di cipolla. «Povero Duke», disse abbracciandolo. I suoi seni e il suo ventre tremolavano come gelatina. Shiner la spinse via.
«Noi ce ne andiamo», annunciò. «Vieni, Jeremy.» «No!» La voce di lui risuonò forte e chiara. Ora c'erano i suoi amici. Tanti amici. Tutti dalla sua parte. «Non vengo. Se non ti garba, peggio per te.» Lei gli tirò la spalla del giubbotto. Poi qualcuno agganciò un braccio attorno alla gola di Shiner e la tirò indietro. Lei alzò le mani di colpo e afferrò la testa dell'aggressore piegandosi. Il corpo dietro di lei volò scalciando e si abbattè sul tavolato ai suoi piedi. Shiner indietreggiò di qualche passo, le mani aperte pronte a colpire. Nessuno si mosse. Karen giaceva lunga distesa dove Shiner l'aveva scaraventata. «Adesso state fermi e ascoltatemi», disse Shiner. «Nate aveva ragione. Ci siamo spinti troppo lontano. Ma io non sono qui per impedirvi di dare la caccia ai troll. Li odio quanto voi, continuo a odiarli. Mi hanno portato via mia madre.» «Tua sorella», la corresse Cowboy. «No, mia madre. Non ho più una madre grazie ai troll. Ma ho una sorella e alcuni di voi la conoscono. Il mio vero nome è Deborah Delaney, mia sorella è Joan Delaney, il poliziotto che da qualche settimana è di pattuglia a Funland.» Cowboy si portò una mano alla testa fasciata. «Sicuro», confermò Shiner. «È quella che ti ha salvato l'orecchio.» «Tua sorella è un poliziotto?» farfugliò Tanya. «Sapevo che non mi avreste accettata, se ve lo avessi detto. Ma ora non vado più a caccia di troll. Sono venuta qui per avvertirvi. Stanotte Joan sarà a Funland, travestita da mendicante. Lei e il suo collega. Vengono per acciuffarvi. Ho sgonfiato i pneumatici delle loro auto, ma credo che questo non li fermerà. Potrebbero arrivare da un momento all'altro. Voi siete i miei amici, specialmente tu, Jeremy, ma anche gli altri. Non voglio che Joan vi arresti. E non voglio che lei si faccia male nel tentativo di fermarvi. Perciò vi prego, smettetela. Almeno per stanotte. Andatevene prima che sia troppo tardi.» Shiner stava là in piedi, respirando faticosamente, girando la testa dall'uno all'altro. Tanya avanzò verso di lei. Shiner s'irrigidì e tornò ad alzare le mani. Karen, in ginocchio, borbottò: «Ammazzala». «Silenzio!» tuonò Tanya. Poi tese la mano a Shiner. «Grazie per l'avver-
timento, Debbie. Sei una brava ragazza, anche se hai una sorella poliziotto.» Shiner prese la mano. Tanya attirò a sé la ragazza e l'abbracciò. Jeremy non credeva ai suoi occhi. Si era aspettato che Tanya prendesse l'altra a calci. Le due ragazze si separarono e Tanya si rivolse a Jeremy. «Va' pure con lei, se vuoi. Nessuno se la prenderà con te... con voi.» «Non posso», disse lui. Non dopo ciò che abbiamo fatto, pensò. E non con una faccia così conciata. «Rimango con te», aggiunse. «Bravo ragazzo. Bene, troller, avete sentito ciò che ha detto Debbie. Stanno arrivando i poliziotti. Dobbiamo sbrigarci. Randy, tu resta di guardia. Se vedi arrivare qualcuno soffia il fischietto e scappa. Forza, ragazzi!» Strinse il braccio di Shiner e si affrettò verso la ragazza ammanettata. Gli altri la raggiunsero. Shiner si avvicinò a Jeremy. «Mi dispiace», disse lui. «Anche a me. Certo che, se fossi un uomo, anch'io andrei dietro a Tanya. Siamo sempre amici?» «Sicuro. Se mi vuoi per amico», aggiunse Jeremy con voce tremante. «Lo voglio.» «Magnifico. E grazie per averci avvertito.» «Ehi, a che servono gli amici?» Lui avrebbe voluto abbracciarla, ma tenne le braccia lungo i fianchi. Sapeva che non l'avrebbe abbracciata mai più. Si era allontanato da quella parte del mondo in cui le ragazze davano appuntamento ai ragazzi, si abbracciavano e si baciavano. Un mondo dove lui e Shiner avrebbero potuto abitare insieme. Ma ora era perduto. Per sempre. Jeremy distolse gli occhi da Shiner e osservò Samson sollevare la ragazza ammanettata. La tirò su da terra agguantandola per il davanti della camicia, la fece volteggiare e la sollevò sopra la testa. Samson aprì il corteo. Gli altri lo seguirono, tranne Randy. «Immagino che non vorrai perderti lo spettacolo», disse Shiner. Jeremy scosse la testa. «Allora andiamo.» «Ma tu...»
«Te l'ho detto: non me ne vado senza di te. Se tu rimani, rimango anch'io. Qualcuno deve pure tenerti d'occhio.» Si affrettarono a raggiungere il gruppo. Il corteo si muoveva rapidamente sull'assito illuminato dalla luna. Tanya corse al cancelletto del recinto che circondava la ruota di Ferris. L'aprì per Samson e salì sulla piattaforma di legno. Samson abbassò la ragazza e la tenne in piedi mentre Tanya si metteva dietro di lei. Jeremy sentì uno scatto metallico e capì che Tanya apriva una delle due manette. «Come fai a mettere in moto la ruota?» chiese Samson. «Ho preso la chiave di Nate.» «Cribbio!» esclamò Cowboy. «Lasciala andare.» Samson mollò il davanti della camicia della ragazza. Lei barcollò all'indietro e Tanya fu lesta a sorreggerla. Poi le sbottonò la camicia e gliela strappò di dosso. «Perfetto», approvò Samson. «Tirale giù i pantaloni.» Samson eseguì. Tanya, con le braccia attorno alla ragazza, la sollevò leggermente per permettere a Samson di sfilarle i jeans. «Chi vuole divertirsi?» «E i poliziotti?» osservò Samson. «Lascia perdere i piedipiatti. Chi vuole fotterla?» «Non so», borbottò Samson accarezzando i seni della ragazza. «Non mi dispiacerebbe, ma è una troll, capisci? Non vorrei beccarmi qualche malattia.» Liz afferrò il braccio di Cowboy. «Penso di no», mormorò lui. «Jeremy?» Il suo cuore batteva forte. No, con Shiner che guardava. «Io no», disse. «Branco di mammolette.» Tanya sollevò un ginocchio. La ragazza sobbalzò quando il ginocchio la colpì sul sedere. Tanya la scaraventò sulla piattaforma e quando Robin cadde sulle ginocchia le inchiodò le mani. «Avanti, coraggio!» Karen si fece avanti e strisciò sopra la ragazza gemendo, accarezzandola, pizzicandola. «Non vorrai partecipare...» sussurrò Shiner a Jeremy.
Io voglio farlo, pensava lui odiandola perché era lì. La ragazza morse Karen alla cima della testa. Con un gemito l'altra si tenne la testa. Poi tempestò di pugni la faccia della ragazza finché Samson la trascinò via. «Mandiamola su e finiamola», disse Samson. «Fra poco arrivano i piedipiatti.» «Sì, sì, okay.» Tanya e Samson trascinarono la ragazza fino alla navicella. Tanya l'appoggiò contro il sedile, con le natiche sul poggiapiedi. Abbassò la sbarra di sicurezza, vi agganciò la catenella delle manette e chiuse il bracciale vuoto intorno al polso della ragazza. «Se cade anche lei...» mormorò Shiner. «Un altro bravo troll», disse Liz. «Su, fatele fare un giro!» «Mandala su!» aggiunse Cowboy. Tanya prese un cartoncino dalla tasca della felpa. «Saluti dal Great Big Billy Goat Gruff», disse. Poi pescò nella tasca una scatoletta di plastica, l'aprì e tenne alto uno spillo perché tutti lo vedessero. Infilò lo spillo nel mezzo del cartoncino e lo conficcò nella carne della ragazza, sopra il seno sinistro. «Dio!» mormorò Shiner. Liz rise. Tanya corse ai comandi. Dopo qualche secondo il motore rombò facendo vibrare la piattaforma. La ruota cominciò a muoversi trascinando i talloni nudi della ragazza sulle assi mentre lei procedeva all'indietro. La navicella s'inclinava sotto di lei. La ragazza emise un grido, il suo peso era sorretto solo dai polsi ammanettati. La ruota acquistò velocità, portando presto la ragazza in cima. Mentre era lassù, Tanya fermò la ruota. La ragazza s'irrigidì. Urlò. Jeremy si aspettava che le braccia si staccassero dalle ascelle e immaginava il torso nudo precipitare nella notte. Ma non successe niente. Lei rimase lassù, penzoloni, il corpo pallido sospeso davanti alla navicella dondolante. I troller sulla piattaforma guardavano su. «Santissimo Iddio!» bofonchiò Cowboy. «Maledizione, ma non cade?» chiese Liz. Il motore tacque. Jeremy, improvvisamente allarmato, corse da Tanya. «È viva», bisbigliò. «Non possiamo lasciarla viva. Cristo, racconterà...» «Non preoccuparti. Le manette sono allentate. Mi sorprende che non sia già caduta. Avrebbe dovuto precipitare quando la ruota si è fermata. Si ve-
de che ha stretto i pugni.» «E se non cade?» «Cadrà. Non le do neppure dieci minuti.» «Sei sicura?» «Te l'ho detto, ci sono dentro anch'io in questa storia. Farà un bel tuffo.» Tanya passò davanti a Jeremy. Lui la seguì e raggiunsero gli altri. Tutti stavano con il naso all'aria. La navicella aveva smesso di dondolare. La ragazza pendeva giù, con il sedere contro il bordo del poggiapiedi. Sembrava svenuta. Se è svenuta, pensava Jeremy, perché non è ancora precipitata? Forse le manette non erano allentate come aveva affermato Tanya. «Okay, andiamo via», decise Tanya. Si affrettarono giù per gli scalini della piattaforma e uscirono dal cancelletto. In piedi, al centro della strada pavimentata di legno, Jeremy tornò a guardar su. Da lì aveva un'ottima visuale della ragazza. Era incredibilmente in alto. Se fosse caduta sarebbe morta sul colpo. Non si muoveva, la testa ciondoloni. Ma lui non riusciva a vedere se i suoi polsi erano serrati per tener strette le manette. Un lampo abbagliante colpì improvvisamente i suoi occhi. Heather gridò: «Maledizione!» Jeremy voltò la testa di scatto. A pochi passi da lui c'era un troll gigantesco con una macchina fotografica. Il lampo si ripetè. «Prendetelo!» gridò Tanya. Caricarono il troll. Lui fece una piroetta, la macchina fotografica appesa alla cinghia, e scavalcò il parapetto. Atterrò sulla spiaggia e sparì. «Prendetelo!» ripetè Tanya. Lei fu la prima a raggiungere il parapetto. Lo scavalcò. Samson si girò e saltò. Cowboy si tuffò con il cappello in testa. Karen e Liz si arrampicarono sul parapetto mentre Heather vi passava sotto. Anche Jeremy cominciò ad arrampicarsi. Shiner lo trattenne per il dietro del giubbotto. «Non andare», lo pregò. «Ma quel tipo ha scattato una foto!» «Ci penseranno gli altri!» Lui le scostò la mano e si mise a cavalcioni sulla sbarra della ringhiera. «Ti prego! Maledizione, ti prego!» Lui scosse la testa e saltò. Gli si piegarono le gambe e rotolò sulla sabbia. Mentre si tirava su, Shiner atterrò accanto a lui. «Lasciami in pace!» sbraitò Jeremy.
«Vengo con te!» «Non ho bisogno di te!» Ma lei rimase al suo fianco mentre lui seguiva gli altri nel buio sotto l'assito. «Dov'è?» Era la voce di Tanya. «Oh, Dio, non possiamo perderlo», disse Karen. «Lo prenderemo», disse Cowboy. «E lo inchioderemo.» «Balleremo sulla sua faccia», disse Liz. «Cristo, com'è buio qua sotto», aggiunse Samson. «Silenzio!» ordinò Tanya. «Forse possiamo sentirlo.» A sinistra una chiazza di luce tremolante apparve nel buio. «Laggiù, laggiù!» «Cristo, una porta!» La grossa sagoma del troll rimase inquadrata nella porta mentre l'uomo si chinava per entrare. Poi sparì, ma la luce rimase. I ragazzi corsero avanti, zigzagando fra i robusti pali che sostenevano l'assito. La prima figura che Jeremy vide profilarsi contro la luce fu quella di Tanya. Lei non esitò un istante. Si precipitò dentro. Gli altri la seguirono. Mentre Jeremy entrava dall'apertura, sentì lontano il debole suono di un fischietto. «È Randy», bisbigliò Shiner dietro di lui. «È arrivata Joan.» Jeremy credette che sarebbe corsa via per raggiungere sua sorella. Invece Shiner gli mise una mano sulla schiena ed entrò. «Ci sono i piedipiatti», annunciò Jeremy. «Randy ha appena usato il fischietto.» «Non ci troveranno», replicò Tanya. «Chiudi la porta.» Shiner chiuse l'uscio. Si trovavano in una stanzetta illuminata da candele infilate su dei portalampade incassati nel muro. La porta alle loro spalle si apriva nella parete di cemento. A sinistra c'era un'altra porta. Davanti a loro una scala. Cowboy cercò di aprire la seconda porta. «Chiusa a chiave», riferì. «Dove diavolo siamo?» chiese Heather a voce bassa. «Sembra un seminterrato», osservò Samson. «Brillante deduzione», borbottò Liz. «Giusto», disse una voce aspra dall'alto. «Benvenuti nella Casa dei divertimenti di Jasper.» Tanya prese un coltello dalla tasca della felpa.
Samson, Karen e Cowboy fecero lo stesso. «Pronti?» sussurrò Tanya. Scrutò il gruppo, gli occhi che brillavano al lume di candela, poi si girò e cominciò a salire la scala. 42 Robin teneva gli occhi chiusi per il dolore e la paura, ma li riaprì quando all'improvviso sentì delle grida. Le forme dei troller, sotto, presero a correre. Le si strinse lo stomaco. Dio, era così in alto! Un lampo di luce abbagliante illuminò le figure che correvano. Il flash proveniva da un omone davanti a loro che a un tratto corse verso il parapetto, lo scavalcò e sparì dalla vista. Anche i ragazzi scavalcarono la ringhiera. Mi lasciano quassù? si chiese Robin. Hanno finito di torturarmi? No, non hanno finito. Torneranno. Devono uccidermi. Sono una testimone. Oh, Dio! Nate! Morto stecchito. L'hanno assassinato. Tanya lo ha assassinato. Ma perché l'ha ammanettato al letto? Forse ha mentito a quel ragazzo... Come si chiamava?... Duke, lo aveva chiamato lei. Perché ammanettare Nate al letto, se era morto? Forse è vivo. Se riesco a scendere da qui, posso chiedere aiuto. Se non scendo, torneranno e mi ammazzeranno. Tanya o Duke lo faranno. Tutto ciò che dovevano fare era mettere in moto la ruota e fermarla di nuovo. E probabilmente lei sarebbe volata giù. L'ultima fermata per poco non l'aveva fatta precipitare. Era come essere tirata giù a capofitto da un gigante. I bordi d'acciaio delle manette le facevano molto male; Robin teneva i pugni chiusi da quando l'avevano mandata su. Se avesse tenuto le mani aperte era sicura che i bracciali avrebbero ceduto. La fine di Robin. Anche ora i pugni erano tutto ciò che le impediva di cadere.
Non voglio precipitare. Il torpore cominciava a sostituire il dolore alle mani. Sentiva il sangue colare sulle braccia e sui fianchi. La brezza dell'oceano raffreddava il sangue e le ferite sulla schiena. Se svieni è finita, si disse Robin. Sapeva di aver perso sangue dal naso e dalla bocca, ma ormai il sangue s'era raggrumato. Ora ne colava solo un filo dal seno sinistro, dov'era conficcato lo spillo. Robin piegò la testa all'ingiù, ma non arrivò allo spillo. A un certo punto vide sotto di lei tre figure indistinte che camminavano sul tavolato. Venivano da tre direzioni diverse, come se ciascuna di loro avesse notato la navicella con la figura sospesa nel vuoto. Una si fermò direttamente sotto di lei. La sua testa pelata luccicava sotto la luna. Quando guardò su, vide che aveva un occhio coperto da una benda. L'uomo spalancò la bocca. Robin sentì la pelle d'oca dappertutto e strinse le gambe. Mentre il troll con un occhio solo la guardava, un altro passò il cancelletto. Il terzo lo seguì dentro il recinto, sotto la ruota. Robin singulto debolmente. Sentì il rumore della risacca. E sentì un fischio lontano. «Che cosa è stato?» chiese Dave. «Sembrava un fischietto della polizia», osservò Joan. «Da dove veniva?» Lei scosse la testa. «Non lo so. Sembrava venire dal parco dei divertimenti.» «Forse il proprietario di quell'auto...» Joan corrugò la fronte. «Qualcuno potrebbe essere nei guai», disse e si mise a correre. Dave scattò e la raggiunse. Insieme percorsero il marciapiede lungo il parcheggio. Se qualcuno è nei guai, pensava Dave, può darsi che arriviamo troppo tardi. Jeremy mise il piede sul pianerottolo. Dobbiamo essere a pianterreno, calcolò. C'era una porta. Tanya cercò di girare la maniglia, fece segno di no con la testa e prese a salire la successiva rampa di scale. Samson si mise al suo fianco; Karen veniva dopo, seguita da Cowboy e Liz.
«Non mi piace», sussurrò Heather. Era dietro Jeremy e si aggrappava all'orlo del suo giubbotto. «Se non sbaglio 'dovevamo' inseguire quel tipo con la macchina fotografica», disse Shiner. Jeremy fece una smorfia e subito le ferite sulla faccia gli diedero una fitta. Avrebbe voluto che Shiner non l'avesse detto. Era già brutto trovarsi in quel posto, senza doversi preoccupare del fatto che forse vi erano stati attirati di proposito. Ricordò come appariva tetro e sinistro l'edificio visto dal luna park. Ed era proprio attaccato alla Casa dei mostri di Jasper. Ripensò a ciò che aveva visto là dentro. La Casa dei mostri faceva parte dell'edificio in cui si trovavano. E magari vi si poteva entrare da lì. Al pianerottolo successivo la scala finiva. I ragazzi davanti a Jeremy si fermarono. Lui salì l'ultimo gradino. Dietro il gruppo vide un corridoio buio. «Come vorrei avere una torcia», sussurrò Samson. Tanya si avvicinò al muro e sollevò l'unica candela dal portalampada di ferro battuto. S'incamminò lentamente e gli altri la seguirono. Shiner, aggrappata al braccio sinistro di Jeremy, si strinse contro il suo fianco e si mise al passo. Tanya emise un suono soffocato. «Gesù!» e si scostò dal muro quando una mano sfrecciò verso di lei. «Due soldi, bambola?» Dall'altra parete una mano portò via il cappello dalla testa di Cowboy. «Merda!» ringhiò lui. Si riprese il cappello e inciampò contro Liz. «Gesù!» strillò Liz. Jeremy sentì che lo stomaco gli si contraeva. Davanti a lui i troll erano «dentro i muri», le facce premute contro le aperture sbarrate, le braccia tese, le mani che cercavano di agguantare i ragazzi mentre passavano. Ridevano, sogghignavano, gridavano. «Due soldi! Datemi due soldi!» «Vieni qui, dolcezza!» «Divertiamoci, divertiamoci!» «Siete nostri, ora!» «Morti. Siete tutti morti!» Heather urlò. Jeremy si voltò di scatto. Una vecchia senza denti, con le braccia fuori dalle sbarre, teneva Heather per la manica della tuta. Jeremy le mollò un colpo. La vecchia strillò e lasciò andare la presa. Heather, senza smettere di gridare, si allontanò e corse verso la scala. Scese gli scalini e
sparì dalla vista. «Seguiamola!» gli disse Shiner all'orecchio. «No!» replicò Jeremy. «Vai tu, se vuoi. Io resto con Tanya.» «Idiota!» Lui seguì gli altri. Al riflesso tremulo della candela di Tanya vide i compagni affrettarsi in fila indiana lungo il corridoio, mentre i troll allungavano le braccia attraverso le sbarre. Una mano gli agguantò una spalla e lui trattenne il respiro prima di accorgersi che era solo Shiner. Il corridoio sprofondò nel buio. La candela di Tanya s'era spenta. «Una porta!» La voce di Tanya risuonò sopra le grida dei troll. Allungando le mani nel buio Jeremy toccò della stoffa. Il giubbotto di Cowboy? «Sono io», disse e strinse la stoffa. «Venite!» chiamò Tanya. «Presto, presto!» Jeremy perse la presa sul giubbotto di Cowboy, la sua spalla sbattè contro qualcosa. Lo stipite di una porta? Mosse un passo avanti. Il suo piede affondò in una sostanza soffice e molleggiata. «Che roba è questa?» chiese la voce di Samson. «Un pavimento di gommapiuma», disse Liz. «Fa parte della Casa dei divertimenti.» «Bel divertimento!» «Voglio uscire di qui!» frignò Karen. «L'ultimo chiuda la porta», ordinò Tanya. Jeremy sentì le mani di Shiner che si staccavano da lui. «Chiusa», annunciò lei. Le voci dei troll divennero un sordo mormorio. «Okay», disse Tanya. «Ci siamo tutti?» «Heather è scappata», riferì Jeremy. «L'unica intelligente», commentò Cowboy. «Andiamo via di qui», supplicò Karen. «È come se ci stessero aspettando», disse Samson. «Io propongo di squagliarcela.» «Sicuro», convenne Liz. «Dobbiamo farci dare la macchina fotografica da quel tale.» «Per che cosa?» ribattè Samson. «Ha scattato delle foto di alcuni ragazzi nel luna park. E con questo? Non provano niente. Qui è un casino!» «Non ne vale la pena», aggiunse Cowboy. Seguì un profondo silenzio. Jeremy sentiva solo il battito del suo cuore e il respiro dei compagni.
Tutti attorno a lui. Shiner era al suo fianco e pensò che gli altri fossero più avanti. Ma quei sospiri sembravano venire da ogni parte. L'aria, calda e umida, puzzava. «Okay», disse Tanya. «Torneremo indietro per la via da dove siamo venuti e ce ne andremo.» Shiner tenne stretto il braccio di Jeremy e si mosse dietro di lui. Jeremy sentì un rumore metallico. Le dita di Shiner rafforzarono la stretta. «La porta è chiusa a chiave», bisbigliò. «Cristo!» «Credo che non siamo soli», disse Liz con la voce stridula per il panico. Qualcosa di morbido e di bagnato sbattè sul dorso della mano di Jeremy. La mano destra. Quella che teneva il coltello contro la gamba. Qualcosa che leccava come un cane. «Aaa!» Lui alzò la mano. La stanza buia esplose in un carosello di grida d'allarme, di imprecazioni, di strilli acuti. La mano di Shiner si staccò dal suo braccio. Jeremy si voltò a cercarla. Qualcuno gli teneva una gamba cercando di farlo cadere. Barcollò, tentò di restare in piedi, ma affondò nella gommapiuma e cadde. L'aggressore gli strisciò sulle gambe. Un puzzo tremendo gli riempì le narici. La camicia di Jeremy si lacerò sul davanti. Una faccia premette contro di lui, una faccia con il naso umido, le labbra aride, la lingua viscida. Lui afferrò una manciata di capelli unti, scostò la faccia e abbassò il coltello. La lama era penetrata in qualche parte della schiena dell'altro, pensò Jeremy. L'aggressore lanciò un urlo, s'irrigidì e si contorse, rotolando via da Jeremy, ma strappandogli il coltello. Jeremy si mise seduto e fissò il buio davanti a sé. Intorno, si sentivano suoni e grida soffocate di rissa. Via dal pavimento, pensò. È il posto peggiore. Si mise in ginocchio. Qualcuno gli cadde sulla schiena scaraventandolo avanti. Lui scalciò per liberare le gambe. Una mano gli afferrò il mento ferito e cercò di spingerlo via. Mentre il dolore gli provocava una fitta tremenda, una voce davanti a lui disse: «Jeremy!» La mano si spostò dal mento alla spalla e lo attirò più vicino. Shiner lo abbracciò. Tenendosi stretti si rialzarono barcollando. Mossero qualche passo incerto e andarono a sbattere contro la gomma di una parete.
Su un lato apparve una striscia verticale di luce. Una luce fioca e giallognola. A un tratto, la striscia si allargò. «Una porta!» sussurrò Shiner. Oltre la porta un corridoio illuminato dal lume di una candela. Qualcuno si slanciò verso l'uscio per fuggire. «Andiamo!» ansimò Jeremy. Reggendosi a vicenda corsero verso la porta. Davanti a loro c'erano vaghe forme di corpi che si dibattevano sul pavimento, altre in ginocchio, qualcuna in piedi. Jeremy e Shiner saltarono. Alcune mani li afferrarono e loro si liberarono scalciando e correndo. Una forma emerse a fianco di Shiner, lei colpì il troll con il gomito, scaraventandolo all'indietro. Una forma scura bloccava la porta. Jeremy vi si lanciò contro. Alcune mani lo afferrarono per il giubbotto, lo spinsero avanti e lo mandarono nel corridoio illuminato. Tanya lo afferrò. Voltandosi a cercare Shiner, vide che Samson la trascinava fuori dalla stanza buia. Cowboy stava appoggiato alla parete, Liz singhiozzava sul suo petto. La porta si chiuse con un tonfo. Samson provò la maniglia, poi sferrò una spallata all'uscio. Non cedette. Lui riprovò. «Per amor del cielo, non farlo!» gridò Tanya. «Karen non è uscita.» Samson, con un piede, diede un gran colpo alla porta che non si aprì. Lui si girò e si appoggiò contro lo stipite, scuotendo la testa. La sua faccia era contorta da un'espressione di orrore. Shiner si portò una mano alla bocca. Fissò Jeremy con occhi sbarrati e colmi di terrore. Respirava affannosamente. La sua camicetta bianca era aperta fino al ventre, da una parte le penzolava sulla spalla. C'era un'impronta insanguinata sul suo reggiseno bianco. Jeremy le si avvicinò. Le rimise delicatamente la camicia sulla spalla nuda e gliela abbottonò. Poi l'abbracciò. Lei ansimava e tremava. «Va tutto bene», le disse lui. «Calmati!» Confusamente, si chiese perché non fosse andato da Shiner invece che da Tanya. «Povera Karen», mormorò Shiner. «Occupiamoci di noi», intervenne Tanya alle spalle di Jeremy. Shiner si strinse contro di lui. Poi si staccarono e lei gli prese la mano.
Cowboy e Liz stavano ancora abbracciati. Lui aveva perso il cappello, ma aveva il suo coltello. La lama era sporca di sangue come la mano con la quale stringeva la schiena di Liz, mentre con l'altra le accarezzava i capelli. Lei aveva perso una scarpa. Tranne che per i capelli arruffati, Samson aveva l'aria di non essere stato toccato. Ma il ragazzo teneva le braccia strette sul petto e Jeremy si accorse che tremava. Non riusciva a vedere se aveva ancora il suo coltello. Tanya teneva il pugnale al suo fianco, stretto nella mano destra. La manica della felpa era inzuppata di sangue fino al gomito. Il davanti del camiciotto, scuro e bagnato, le si incollava sui seni. Anche i pantaloni della tuta erano inzuppati di sangue dalla cintura alle ginocchia. Aveva un angolo della bocca increspato all'insù. «Non preoccuparti, Duke. Non è sangue mio. Solo questo», aggiunse toccandosi una ferita sullo zigomo sinistro. La guancia era insanguinata. Lui le si avvicinò e tirò fuori dalla tasca un fazzoletto piegato. Levò il rasoio, lo lasciò cadere nel taschino della camicia e diede il fazzoletto a Tanya. «Grazie», mormorò lei premendolo sulla ferita. «Sai una cosa, Duke? Ora hai una buona scusa per la tua faccia. Puoi dire a tua madre che i troll ci hanno aggredito!» «Se mai la rivedrò», disse lui. «Sta' tranquillo, la rivedrai.» E, guardando gli altri, Tanya soggiunse: «Usciremo tutti di qui. Chiaro?» Solo Samson rispose: «Sì, certo!» «Sbrighiamoci!» Tanya aspettò che gli altri si radunassero attorno a lei. Shiner riprese la mano di Jeremy. La sua bocca tremava ma si sforzò di sorridere. Negli occhi affiorava il terrore. Tanya prese il comando. Quel settore del corridoio non aveva aperture sbarrate sulle pareti. Nessun segno dei troll. Finché le scarpe di Jeremy sfregarono una grata di metallo sul pavimento. Lui guardò giù e vide una faccia indistinta. Balzò via dalla grata e avvertì: «Sono sotto di noi!» Samson, che stava sopra una grata simile, saltò avanti. Jeremy guardò dietro. Cowboy sorreggeva Liz. Avanzò sulla grata e pestò forte con gli stivali. Jeremy e Shiner proseguirono nel corridoio. Sotto la griglia successiva apparvero due facce. I troll li osservarono in silenzio mentre camminavano
evitando di passar sopra la grata. Jeremy sentì Cowboy, rimasto indietro, che saltellava sulla griglia. «Mi venga un accidente se non comincio a...» Un colpo assordante rimbombò nelle orecchie di Jeremy. Si voltò credendo di vedere Cowboy cadere, con Liz fra le braccia. E invece Cowboy era ancora in piedi, mentre Liz cadeva. Il ragazzo puntava il coltello contro qualcosa che saettava giù verso di lui. Un uomo nudo e robusto, con la schiena pelosa e il cranio pelato, dondolava all'ingiù come un pendolo da una botola nel soffitto. Aveva delle funi attorno alle caviglie e una mannaia da macellaio in ciascuna mano. «Uiii!» gridò volando verso Cowboy. Lui balzò indietro. Le mannaie balenarono, cercando di colpire Liz. Ma lei si era appiattita sul pavimento. Le lame sferzarono l'aria sopra di lei, mancando la ragazza di pochi centimetri. L'uomo partì allora all'attacco di Cowboy. Cowboy si lanciò verso di lui e tornò a tirarsi indietro. Il corpo dell'altro si contorse trattenuto dalle funi alle caviglie e sbattè contro il muro. Una mannaia si conficcò nella parete, l'altra cadde sul pavimento. Cowboy la raccolse mentre l'uomo dondolava verso il basso sopra Liz, orinandole addosso. E sopra Jeremy e Shiner, volteggiando. Cowboy lo colpì alla gola con il coltello. Poi afferrò di nuovo la mannaia che aveva lasciato cadere e lo colpì al ventre. Dalla ferita uscirono gli intestini attorcigliati come serpenti. Jeremy si piegò in due e vomitò. Qualcuno dalla grata gridò: «Uhh!» Quando si drizzò, Cowboy stava aiutando Liz a rialzarsi. Il corpo dell'uomo penzolava in mezzo al corridoio, dondolando e rivoltandosi. Jeremy non si soffermò a guardarlo. Cowboy e Liz proseguirono. Cowboy teneva una mannaia nella mano, il coltello nell'altra. Liz reggeva la seconda mannaia. Cowboy sogghignava. Aveva i denti e gli occhi bianchi, tutto il resto era rosso. «Lo hai proprio sistemato», osservò Jeremy. «Ho massacrato quel figlio di puttana, eh? Non cercherà più elemosine.» «Credevo che ci sareste rimasti secchi», disse Samson. «State bene?» s'informò Tanya. La sua voce veniva da dietro le spalle di Jeremy. «Farei volentieri un bagno», replicò Cowboy.
Liz rise e gli diede un colpetto sul petto. Il sangue sprizzò dalla camicia come polvere rossa. «Okay», decise Tanya. «Andiamo avanti. Tenete gli occhi aperti, Dio sa che cos'altro ci aspetta.» Ripresero a camminare. Jeremy calpestava le grate senza esitare, tutti calpestavano le grate. Come se dopo quanto era successo non si preoccupassero più dei troll sotto di loro. Invece tenevano d'occhio il soffitto. E le pareti. Giunsero in fondo al corridoio. A destra c'era una porta chiusa, a sinistra un'apertura buia. Tanya prese una candela dal muro, s'inginocchiò davanti all'apertura e si chinò in avanti. La candela e la sua testa svanirono per un momento. Poi lei si rialzò. «Non saprei...» «Che cos'è?» «Uno scivolo.» «Uno scivolo?» ripetè Samson. «Questa è una stramaledetta Casa dei divertimenti», gli ricordò Liz. «Dove va?» «Verso il basso», riferì Tanya. «Non ho potuto vedere bene, ma dovrebbe portarci giù al pianterreno.» «Già», commentò Samson. «E ad altri che ci aspettano laggiù.» «Meglio che restare qui.» «Perché non proviamo ad aprire la porta?» suggerì Shiner. «Buona idea», approvò Liz. «Prova tu.» «No», intervenne Jeremy. «Proverò a uscire attraverso lo scivolo», decise Tanya. «Non farlo», le disse Jeremy. «Allora che cosa dovremmo fare, restare qui? Dammi l'accetta, Cowboy.» Lui le tese l'ascia. Samson gliela prese. «Vado giù prima io», annunciò. «Voi aspettate qui finché non vi chiamo.» Tanya lo baciò sulla bocca. Jeremy si aspettava di provare una punta di gelosia, ma non fu così. Poveraccio, pensò, si merita un bacio. «Bravo ragazzo», disse Tanya. «Ti sono grata.» Samson le rivolse un pallido sorriso. Poi si voltò e sedette sul pavimento. Infilò le gambe nell'apertura. Tanya gli diede la candela. «Probabilmente si spegnerà», disse lui, ma la prese ugualmente. Si strinse la mannaia al
petto, si spinse avanti e sparì dalla vista. Tanya si inginocchiò e scrutò nell'apertura. «Tenetevi pronti», avvertì gli altri. «Lui avrà bisogno di noi.» A un tratto un urlo salì dall'apertura. Non un grido di paura, ma di agonia. «Samson!» chiamò Tanya. «Oh, Dio!» gemette Samson. «Oh, Gesù! Ahh!» «Che cosa succede?» chiese Tanya. «Sono... sono... Dio, che male!» «Dobbiamo scendere?» «No, no! Per amor del cielo, no!» «Proviamo ad aprire la porta», suggerì Shiner. Strinse un attimo il braccio di Cowboy e si precipitò dall'altra parte del corridoio. «Aspetta!» le gridò Jeremy. Lei spalancò la porta e si tirò indietro di colpo. Fece una piroetta disperata, mentre il troll balzava fuori. Un uomo dalla faccia grigia e grifagna, con un barbone nero. Afferrò il dietro della camicetta di Shiner e sollevò la ragazza da terra. Jeremy corse in suo aiuto. Lei stava cadendo all'indietro, gli occhi sbarrati, le mani che cercavano di afferrare quelle di Jeremy. La mannaia lanciata da Liz sfiorò appena la testa dell'uomo, mancandolo. Jeremy riuscì ad afferrare le dita di Shiner, ma gli sfuggirono quasi subito. Lui gridò: «No!» mentre lei veniva trascinata nella stanza oltre la porta. L'uscio colpì Jeremy al braccio, poi si chiuse con un tonfo. Un istante prima che lui si slanciasse contro la porta, Jeremy sentì tirare un chiavistello. Girò freneticamente la maniglia, la tirò con forza urlando: «No! Lasciatela andare. Fatela uscire, bastardi!» Tempestò la porta di pugni e di calci. L'uscio rimase chiuso. Lui cadde in ginocchio e pianse. 43 Qualche secondo dopo aver sentito il lontano suono del fischietto, Robin vide un ragazzo correre sull'assito. Doveva esser quello che gli altri avevano lasciato di guardia per sorvegliare l'arrivo dei poliziotti. Per questo si era sentito il fischio! Sta arrivando la polizia, pensò. Devo solo resistere. Loro mi tireranno giù.
Ma non sanno che sono quassù. Il ragazzo si era allontanato. Si fermò in mezzo alla strada, girò in cerchio, probabilmente chiedendosi da che parte fossero andati i suoi amici. Sembrava un bambino perso in un supermarket che cercasse la mamma. Se lui avesse gridato, lei non avrebbe potuto sentirlo. Poi il ragazzo prese a scendere le scale che portavano alla spiaggia, dopo di che Robin non lo vide più. Tornò a guardar giù. Nessun segno dei tre troll. Ma sapeva che dovevano essere da qualche parte. Probabilmente sulla piattaforma della ruota, ma lei non riusciva a vederli. A un tratto uno dei bracciali di metallo scivolò sulla mano sinistra, sfregandole la nocca del pollice. Lei si sentì gelare. Con uno sforzo sovrumano piegò le braccia ai gomiti e si tirò su. Il bordo del poggiapiedi le sfregò contro la schiena, in basso, le manette le penetrarono nella carne. Con un gemito soffocato spinse su le gambe, come se tentasse di salire gli scalini di una scala senza pioli. La navicella dondolò. Le girava la testa e le sanguinavano i polsi, ma riuscì ad afferrare la sbarra di sicurezza con la mano sinistra. Torcendosi e sudando si issò sul sedile. La navicella dondolava come se cercasse di sbatterla giù. Poi rallentò il movimento. Robin abbassò le braccia e unì le gambe. Rimase seduta sul sedile per qualche minuto, rabbrividendo e cercando di riprendere fiato. Mio Dio, ce l'ho fatta! pensava. Con il pollice e l'indice della mano destra staccò dal petto lo spillo con il cartoncino che volò via nel buio della notte. Appena si sentì meglio, Robin abbassò la mano in grembo e si liberò delle manette. Piegò più volte le mani intorpidite. Il sangue riprese a circolare. Un soffio di vento freddo l'investì all'improvviso. Stringendo i denti incrociò le mani sul petto nudo e strinse le gambe. A un tratto si ricordò dei tre troll. La paura le serrò lo stomaco. Non possono prendermi, seguitava a ripetersi. Forse stanno nascosti finché i poliziotti... I poliziotti! Robin si sporse avanti e afferrò la sbarra di sicurezza. La zona vicino all'ingresso di Funland era deserta. Scrutò il viale pavimentato ad assi di legno. Sembravano grigie sotto la luna.
Forse il fischio del ragazzo era stato un falso allarme. Oppure aveva visto i poliziotti, ma quelli erano diretti altrove. Ma senza dubbio stavano arrivando. Non aveva finito di pensarlo che una figura scura emerse dall'ombra dell'ingresso. Robin trattenne il respiro. Quello non era un poliziotto, era una maledetta troll. Camminava strascicando i piedi. Era curva come una vecchia strega, avvolta in una coperta che le copriva la testa. Un momento! La ragazza che aveva avvertito gli altri... aveva dichiarato che sua sorella, un'agente, si sarebbe travestita da troll. Eccola! Robin si sporse più che poté dalla sbarra di sicurezza, mise fuori un braccio e lo agitò gridando. In mezzo alla strada, Joan si voltò lentamente. Nessuno. Dove diavolo sono? si chiese. Qualcuno doveva pur esserci. C'era stato quel fischio. E l'auto parcheggiata davanti a Funland con il motore acceso. Una macchina rubata, chiaro. Forse dalle stesse persone che avevano preso Gloria. Ma dov'erano adesso? E dov'era la loro vittima? Devono essere qui attorno. Perlomeno non possono filarsela con l'auto. Mentre Dave trascriveva il numero di targa, Joan aveva staccato i fili dell'accensione con il coltello, aveva rialzato i finestrini e chiuso le portiere. Tornò a voltarsi e scosse la testa. «Il posto sembra deserto», disse. Una forma si profilò illuminata dal riflesso del parcheggio di fianco alla biglietteria. «Che cosa vuoi fare?» chiese Dave. «Devono essere da qualche parte.» «Vuoi che venga lì con te?» «Salterebbe la copertura.» «Se hanno già preso qualcuno, può darsi che non ci provino con te.» Vero. E il fischietto doveva averlo soffiato una sentinella per avvertire gli amici che stava arrivando gente. Quelli potevano essersi rifugiati sulla spiaggia o sparpagliati fra le baracche di Funland.
«Resta vicino e non perdermi di vista», disse Joan. «Ora proseguo per vedere se li scovo...» «Dietro di te!» Joan fece una piroetta. Due pallide figure risalivano di corsa la scala della spiaggia. Le loro mani erano vuote. Un ragazzo e una ragazza. Non sono pericolosi, pensò Joan. Lui era un ragazzino smilzo, portava gli occhiali che luccicavano al chiaro di luna. Dal collo gli pendeva un fischietto attaccato a una catenella. La ragazza aveva una faccia rotonda come una palla da bowling. Indossava una tuta che non riusciva a nascondere i rotoli di grasso. Potevano essere dei troller? Ma potevano avere degli amici nelle vicinanze che osservavano e aspettavano di saltar fuori. Joan mollò la pistola che teneva sotto la giubba e tirò fuori la mano tesa con il palmo all'insù. Tanto vale recitare la parte, pensò. Speriamo che non si accorgano di Dave. I due ragazzi si fermarono a pochi passi da lei e si guardarono. Erano tutti e due senza fiato. «Che ne dite di darmi due soldi?» gracchiò Joan. «Non mangio da...» «Credo che abbiamo bisogno d'aiuto, agente», la interruppe il ragazzo. Agente? «Sta succedendo una cosa terribile», balbettò la ragazza, «lo sono scappata, sono uscita e non so quello che succede, ma è terribile. I troll nei muri. Dovete venire!» «Dave!» chiamò Joan da sopra la spalla. Lui si fece avanti. Impugnava la Beretta, la canna sollevata all'altezza della testa. «Mi hanno riconosciuta. Dicono che ci sono dei guai.» «Perquisiscili», disse Dave. «Mani sopra la testa, ragazzi, e allacciate le dita.» «Non abbiamo fatto niente», protestò il ragazzo, ma eseguì le istruzioni. Come la ragazza. «Che cosa fate qui?» «Niente.» «Sarà meglio lasciarli parlare», propose Joan e, togliendosi la coperta, si
portò dietro il ragazzo e cominciò a perquisirlo. «Sta succedendo qualcosa.» «Gli altri...» farfugliò la ragazza. «Siamo entrati in un sotterraneo... e...» «Parliamo della notte scorsa», tagliò corto Dave. «Parlateci della mendicante che avete preso l'altra notte!» Joan tastò un grosso rigonfiamento nella tasca destra del ragazzo. «Qui c'è qualcosa.» «Non abbiamo fatto niente l'altra notte», disse il ragazzo. «Se perdete tempo a farci il terzo grado per qualche stupida...» Joan gli cacciò la mano in tasca. «Ehi, non avete un mandato di perquisizione. Ho i miei diritti!» «Tu hai solo il diritto di chiudere il becco», lo ammonì Joan. «Per favore!» frignò la ragazza. «I nostri amici!» «I vostri amici sono dei troller», replicò Dave. «Se si sono cacciati in qualche pasticcio, peggio per loro. Parliamo dell'altra notte.» Joan tirò fuori un coltello dalla tasca del ragazzo. Premette un bottone sul manico e la lama scattò. «Bravo», fece lei, e passò il coltello a Dave. Lui vi diede un'occhiata e se lo mise nella tasca dei jeans. «Voialtri ragazzi siete nei pasticci», disse dopo un secondo. «Ora voglio che mi diciate tutto ciò che sapete di una donna che voi e i vostri amici avete aggredito qui nel luna park.» Finito di perquisire il ragazzo, Joan passò alla ragazza. «Non eravamo qui l'altra notte», ripetè il ragazzo. «Non capisco di che cosa parla.» La ragazza cominciò a singhiozzare. «Saranno uccisi. Saranno tutti uccisi! Lo so!» «Lei è pulita», annunciò Joan. «Okay. Lui lo accusiamo di possesso di armi improprie.» Joan si portò davanti ai ragazzi. «Dove sono gli altri?» domandò. «Vogliono rovinarmi! Non dirglielo», sbraitò il ragazzo. «Devo dirglielo. È stato terribile. Tu non c'eri, non immagini come è stato spaventoso.» Il ragazzo aveva un'espressione indecisa. «Non ti arresteranno, Randy. Non possono. Se ti arrestano, allora devono arrestare anche sua sorella e...» Il cuore di Joan diede un balzo. «La sorella di chi?» «La sua», rispose il ragazzo. «Shiner», precisò la ragazza.
«Debbie», la corresse il ragazzo. Joan si sentì gelare. «Gesù Cristo!» mormorò Dave. Debbie... una troller. No, impossibile! I troll nei muri. «Indicaci dove sono», disse Joan. «No!» Il ragazzo afferrò la manica della sua compagna e fissò Joan. «Prima deve prometterci che non...» Joan gli mollò un ceffone. Il colpo gli fece piegare la testa da una parte. Gli occhiali volarono via. «Muoviti!» gridò Joan alla ragazza. Lei si voltò e corse verso la scala, con Joan alle calcagna. «Andrà tutto bene», disse Dave. «No!» gridò Robin. «Tornate indietro!» Ma loro non sentirono. Non avevano sentito le sue grida, non avevano neppure sbirciato nella sua direzione. Era troppo in alto perché la sua voce li raggiungesse nel rumore del vento e della risacca. Aggrappata al bordo della navicella osservò la ragazza grassa scendere di corsa la scaletta della spiaggia, seguita da una donna e da un uomo. Il ragazzo si chinò, raccolse gli occhiali e rimase immobile per un po' come se non sapesse che cosa fare, poi corse a raggiungere gli altri. Tutti e quattro sparirono sotto l'assito. Robin gemette. Tornò a sporgersi dalla navicella e guardò giù. La piattaforma accanto alla ruota era deserta. Dov'erano andati i troll? Girò la testa e li vide. Sulla ruota. Si arrampicavano sui montanti. 44 «Non salverai certo Shiner, se piangi», disse Tanya, aiutando Jeremy a rialzarsi. Tra le lacrime lui vide Cowboy avvicinarsi alla porta, girare la maniglia e scuotere la testa. «Dobbiamo andare avanti», riprese Tanya, accarezzandogli il petto con le mani. «Lei era venuta per causa mia.»
«Lei era una troller, come tutti noi. Ha corso i suoi rischi mese dopo mese, prima che tu apparissi sulla scena.» «Non possiamo fare qualcosa?» «Probabilmente a quest'ora è già morta», osservò Cowboy. «Devi essere coraggioso», riprese Tanya. «Per me. Sei il mio soldato, il mio amante.» Attirò dolcemente Jeremy verso di sé e sollevò il davanti insanguinato della felpa. Sebbene fossero presenti Cowboy e Liz, nessuno dei due disse una parola. Tanya sfregò i seni contro di lui. Erano un po' viscidi per il sangue che aveva inzuppato il camiciotto, ma morbidi e lisci. Sbagliato, pensò Jeremy. Non dovrebbe farlo... dopo quanto è successo a Shiner. Lei se n'è andata... non ho potuto salvarla... «Sei il mio amante coraggioso», sussurrò Tanya. Jeremy prese in mano un seno e lo accarezzò. «Sì», disse lei. «Sono viva. Sono tua. Quando saremo fuori di qui mi avrai.» Jeremy tirò su con il naso e annuì. Tanya si tirò indietro, abbassò la felpa e si voltò verso l'apertura nella parete. Si accovacciò e chiamò: «Samson?» Non venne nessuna risposta. Jeremy aveva notato che Samson non aveva fatto sentire la sua voce dal momento in cui Shiner aveva aperto la porta e... Rivide tutto nella mente: l'orribile troll, lo sguardo supplichevole di Shiner, la mannaia che volava, l'uscio che si chiudeva. Dio! Jeremy sperò che fosse morta. «Samson dev'essere arrivato in fondo», osservò Cowboy. «Questa è la nostra unica via d'uscita», gli ricordò Tanya. «Vado giù», decise Jeremy. Si asciugò gli occhi e aggiunse: «Vado giù per primo». Tanya annuì. «Bravo ragazzo!» «Proviamo a farlo scendere», suggerì Liz. «Tenendolo per i piedi, capisci?» «Bene», approvò Tanya. «Scendi a testa in giù, io ti terrò per i piedi e ti seguirò. Tu, Liz, attaccati ai miei piedi.» «Io farò da ancora», si offrì Cowboy. Tanya diede a Jeremy il suo coltello. Poi staccò una candela dal muro e gli consegnò anche quella. Reggendo la candela e il coltello davanti a sé, Jeremy si allungò sul pavimento e strisciò avanti. Lo scivolo di metallo luccicava al riflesso della candela. C'erano pareti di legno ai lati e un soffitto pure di legno sopra la rampa. Più avanti, buio totale. Aguzzò gli occhi, ma non vide nulla nell'o-
scurità. «Riesci a vederlo?» chiese Tanya. «No! Non vedo un accidente.» Jeremy strisciò in avanti appoggiandosi ai gomiti e al petto, poi il suo ventre trovò la fredda superficie. Sentì le mani di Tanya sulle caviglie. Dopo qualche secondo era disteso sullo scivolo per tutta la lunghezza del suo corpo. Per alcuni secondi non si mosse. Poi prese a scivolare verso il basso. «Vedi niente?» chiese Tanya. «Non ancora.» «Ci sono anch'io», disse Liz. Jeremy scivolò sempre più giù. Al pallido chiarore della candela vide la testa e le spalle di Samson. «Lo vedo! Samson? Samson?» L'altro non rispose e non si mosse. «Sembra che si sia fermato qui.» «E morto?» s'informò Tanya. «Non lo so. Credo di sì.» «Sai dire che cosa gli è successo?» «Eh, eh.» Jeremy tese in avanti le braccia. I suoi pugni spinsero le spalle di Samson. Il corpo si scosse leggermente, ma non scivolò via. «È bloccato», annunciò Jeremy. «Non puoi superarlo?» «Non lo so. Forse è meglio che mi lasci andare i piedi.» Sentì che Tanya lo lasciava. Sollevò la testa. Samson aveva gli occhi e la bocca aperti, le braccia sollevate dai gomiti, le dita allungate come se fosse morto graffiando il buio. «Fa' qualcosa», disse Tanya. «Okay.» Jeremy sollevò i pugni e scivolò finché con la gola toccò la testa e le spalle del ragazzo morto. Poi, tenendo alta la candela, esaminò il corpo. Non vide ferite. Ma Samson era a gambe larghe e, sotto, lo scivolo luccicava di sangue. Non lontano dai piedi di Samson lo scivolo finiva. «Vedo il fondo», annunciò Jeremy. «Che cosa è successo a Samson?» «Dovevano esserci dei coltelli o qualcosa di simile sotto di lui. Credo che siano nello scivolo.» «Gesù!» mormorò Tanya. «Okay, gli passo sopra.»
Jeremy si sollevò, si cacciò fra i denti il coltello di Tanya per liberare la mano destra e riprese a muoversi in avanti sul cadavere. La testa si girò sotto il suo petto. Il corpo scivolò di qualche centimetro e lui sentì un gocciolio. Quando il cadavere si fermò, esaminò lo scivolo per assicurarsi che non ci fossero lame od oggetti acuminati. Arrivò in fondo e rimase in ascolto. Non sentiva niente tranne il suo cuore che batteva forte. Se i troll lo stavano aspettando, dovevano stare molto quieti. Con la candela davanti a sé, si trascinò avanti. Il pavimento era duro sotto la sua faccia. Sollevò la testa e la girò da parte a parte. Al lume della candela vide un tratto di corridoio. Nessun troll. Si scostò dallo scivolo e si rialzò completamente. Frugò nel buio con gli occhi alla luce della candela, poi tornò a voltarsi verso lo scivolo. «Okay, sono giù», riferì con voce tremante. «Non vedo nessuno.» «Vengo», disse Tanya. «Sbrigati!» «Laggiù», indicò la ragazza. Dave proiettò il fascio di luce della torcia oltre un palo. Si vedeva il muro di cemento delle fondamenta di un edificio. Il muro era pieno di graffiti. «Più a destra», suggerì la ragazza. Lui spostò la lampadina. Il fascio di luce trovò un incrocio di assi. «È una porta, si apre. Loro sono entrati là. È la Casa dei divertimenti. Stavamo inseguendo un tale.» Dave passò davanti a Joan e si precipitò verso il muro. Infilò la torcia sotto il braccio e tastò le assi che cedettero. Si chinò nell'apertura. Vide uno spazio ristretto. Candele accese sui muri, una scala che saliva. «Sono saliti sulla scala?» chiese da sopra la spalla. «Sì», rispose dal buio la voce della ragazza. «Siamo saliti tutti. Ma io ho avuto paura e sono scappata. Con tutti quei troll!» «Va bene», intervenne Joan. «Voi due potete andare. Tornate a casa.» «Non mi arresta?» chiese il ragazzo. «No! Andate a casa.» «Gesù! Grazie.» «Mi dispiace di averti colpito, scusami. E adesso andate!» Dopo qualche secondo, Dave vide la vaga forma di Joan che correva verso di lui. Lei si delineò sotto la luce delle candele, prese la pistola da sotto il maglione. I suoi occhi erano carichi di paura. E di rabbia.
«La troveremo», cercò di rassicurarla Dave. «Puoi scommetterci», replicò Joan e lo sorpassò. «Fermati!» sbottò Dave. Lei si fermò e si guardò attorno. «Vado avanti io», decise Dave. «Tu resta incollata a me.» Joan annuì. Con la torcia in una mano e la pistola nell'altra, Dave salì la scala a tre scalini per volta. Al primo pianerottolo coprì Joan che provava ad aprire la porta. Era chiusa a chiave. Salirono la scala fino al secondo piano. Davanti a Dave c'era un corridoio buio. Lui frugò fra le ombre con la lampadina. Non c'era nessuno. Ma si sentì gelare il sangue quando vide le aperture sbarrate lungo i muri. I troll nei muri. Però non vide i troll. Joan gli premette la schiena. «Non fermarti», bisbigliò lei. Lui avanzò, passando il fascio di luce da parete a parete. Le facce si alzarono dietro le sbarre. Sporche facce sogghignanti di uomini e donne. Joan emise un suono soffocato. Lungo il corridoio, più avanti, alcune braccia si tesero come i tentacoli di una bestia immonda. Dave corse avanti, con Joan alle calcagna. La torcia illuminò una porta davanti a lui. Robin stava inginocchiata sul sedile della navicella, stringendo lo schienale con tutte e due le mani. Guardò attraverso il labirinto di fili e di cavi, di lampadine spente e vide i tre troll che si arrampicavano lentamente sulla ruota di Ferris. «Bella, bella...» chiamò quello più vicino. Era a pochi metri da lei e saliva un montante che lo avrebbe condotto alla navicella più alta. Una volta lassù, sarebbe stato in grado di raggiungerla lungo la ruota esterna. Era un uomo magro, con la faccia grigia, calvo, tranne una frangia di capelli attorno alle orecchie. Indossava un giaccone scuro e pantaloni che sembravano troppo grandi per lui. «Adesso ti prendo!» gridò con voce chioccia. «Non scappare, bella!» L'uomo si lasciò sfuggire una risata come se avesse detto una battuta scherzosa. «La prendo prima io», disse l'uomo sotto di lui. Quello con la benda sul-
l'occhio. Il terzo troll era più giù degli altri due, evidentemente si arrampicava con maggior cautela. Sembrava una minaccia lontana. Questi due mi prenderanno prima che qualcuno arrivi quassù, pensò Robin. Quello con i vestiti troppo larghi afferrò il bordo della navicella. Voltò la faccia verso di lei e sogghignò. «Ohh, ecco la mia...» Lanciò un urlo quando il troll con la benda sull'occhio gli girò uno dei risvolti dei pantaloni, piegandolo all'indietro. Lui scalciò e si contorse per un momento, poi perse la presa e precipitò. Robin trattenne il respiro mentre lo guardava cadere nel chiaro di luna. Il troll atterrò a testa in giù sulla piattaforma. La ruota vibrò per il tonfo. L'uomo con un occhio solo si arrampicò di fianco alla navicella più alta. Invece di salirvi, si mise a cavalcioni su una trave d'acciaio e prese ad avanzare verso Robin. *** Sul pavimento ai piedi dello scivolo, Jeremy trovò un'altra candela. Doveva averla lasciata cadere Samson. Usò la sua candela per accendere il mozzicone. La luce parve raddoppiarsi attorno a lui. Vide la mannaia da macellaio. Doveva essere volata via dal fondo dello scivolo e giaceva in mezzo al corridoio. Reggendo le candele con la mano sinistra, si chinò e raccolse la mannaia, poi tornò indietro. Tanya strisciò fuori. Si spinse avanti sul pavimento aiutandosi con le mani. Aveva i pantaloni della tuta strappati sulle ginocchia, le natiche e il dietro delle gambe nudi. Si lasciò cadere sul pavimento, rotolò sulla schiena e vi rimase ansando. Jeremy si sentì mancare il respiro. «Guardate là», bisbigliò qualcuno. «Yum, yum, yum...» Jeremy provò una morsa allo stomaco, Tanya si tirò su i pantaloni alla cintola e si drizzò. «Uau...» «Vi divertite, ragazzi?» Jeremy sollevò la candela e guardò su. Le grate nel soffitto. Le facce premevano sulle sbarre di metallo.
«Fottuti troll!» sbottò Tanya. Un filo di saliva le cadde sulla testa. Lei se l'asciugò con la manica insanguinata, afferrò il braccio di Jeremy e lo spinse contro il muro, per non restare sotto le grate. «Li ammazzerò tutti», bisbigliò lui. Le sue parole scatenarono risate e insulti dal soffitto. Mentre aspettavano, porse il coltello e una delle due candele a Tanya. Liz strisciò fuori dall'apertura, si rialzò e li raggiunse. «Un'altra pollastrella!» «Carina.» «Sbrigati, Cowboy!», gridò Liz. «Cowboy?» ridacchiò un troll. «Hanno anche un cowboy.» «Spogliatevi, bambine. Avanti, siate gentili.» «Crepa!» ringhiò Liz. «Crepa tu.» Finalmente uscì anche Cowboy. Ma non con la testa, come gli altri. Apparvero prima i suoi stivali. Strisciava all'indietro trascinando Samson. Il corpo robusto del ragazzo morto cadde dallo scivolo scaraventando Cowboy sul pavimento. Il dietro dei pantaloni di Samson era strappato e coperto di sangue. Un pezzo di carne gli pendeva da una coscia. Lacerata da una lama. Cowboy si allontanò e Tanya si accucciò accanto a Samson. «Due grosse lame di coltello che spuntavano dallo scivolo», disse Cowboy. Parlava a voce alta per farsi sentire sopra il vociare e lo sghignazzare dei troll. «Non ho potuto far altro che staccare i coltelli. Uno gli era penetrato nell'intestino.» «Deve avergli tagliato la femorale», disse Tanya. «Ecco perché è morto così presto. Non si dura più di un minuto, quando si recide.» «Dev'essere stato un minuto tremendo», osservò Cowboy. Tanya battè sulla schiena di Samson, poi si rialzò. «Okay, andiamo.» «Io non lo lascio qui», dichiarò Cowboy. «Ma è pazzesco!» protestò Liz. «È troppo pesante da trasportare», osservò Tanya. «Saremo fortunati a uscire noi, non possiamo farcela con un cadavere.» «Ho detto che non lascio qui Samuel. Era mio amico. Che cosa credete che gli faranno questi maledetti troll, quando ce ne saremo andati?» «È morto», gli ricordò Liz. «Non gliene importa più niente.» «Be', a me importa.»
Girò il corpo, gli prese una mano e lo mise seduto. Jeremy si accucciò dietro la schiena di Samson e lo sollevò. Tirarono su il cadavere dal pavimento; Cowboy si piegò e se lo caricò in spalla. «Riesci a reggerlo?» chiese Tanya. «Sì!» Liz si mise al fianco del suo ragazzo, Jeremy riprese a camminare con Tanya. Teneva la mannaia nella mano destra e la candela davanti a sé, aguzzando gli occhi per guardare nel corridoio. I troll rimasero silenziosi dietro di loro. Sembrava che non ci fossero aperture nel pavimento o nei muri, in quel tratto, ma Jeremy si aspettava che la minaccia potesse apparire in qualsiasi momento. Con Cowboy che portava il cadavere di Samson e gli altri dispersi, aveva l'impressione di essere diventato il protettore del gruppo. Davanti a lui il corridoio parve improvvisamente rotondo. «Vado a dare un'occhiata», sussurrò e si allontanò da Tanya a grandi passi. Si fermò davanti a un congegno che sembrava un enorme cilindro inclinato sul fianco. Un cilindro di legno. Le pareti interne erano irte di chiodi che luccicavano al riflesso della candela. Jeremy spinse il bordo con il piede. Il cilindro prese a girare lentamente. «Davvero ingegnoso», disse Tanya al suo fianco. «Non possiamo passare da qui», ragionò Jeremy. Liz apparve dall'altra parte, vicino a lui, e sbirciò il cilindro che ruotava. «Maledetti, questo dannato posto è pieno di trucchi! Come facciamo a passare da lì? Quell'aggeggio ci farà a pezzi.» «Passeremo», decise Tanya. «Cowboy, trascina qui Samuel.» 45 Dave spalancò la porta. Frugò la stanza con la torcia e ciò che vide gli suscitò un immediato impulso di fuggire da quel luogo. Ma sapeva che non potevano andarsene senza Debbie. Entrò. «Polizia!» gridò. «Gettate le armi. Tutti contro il muro!» Anche Joan entrò. «Dio santo!» mormorò. La porta si richiuse. A spalla a spalla agitarono le pistole avanti e indietro mentre il potente
fascio di luce della torcia lacerava l'oscurità. I troll si spostarono sul lato destro della stanza, un paio di loro lasciò cadere i coltelli sul pavimento di gommapiuma. Per la maggior parte indossavano poco o nulla. Tutti erano inzuppati di sangue. Quattro corpi rimasero sul pavimento. Due uomini, due donne. Nudi e mutilati. Orbite prive di occhi, gole squarciate, un uomo con il petto spellato. Dave fissò i troll allineati contro il muro. «Ma chi siete?» sussurrò. Una vecchia sghignazzò e, sollevando una mano dal fianco, disse: «Chi siete voi! Chi siete?» Parlando, muoveva il calzino che incappucciava due dita. Dave le puntò la pistola al viso. «Un colpo in testa», cantilenò il pupazzo. «Fa male al cervello.» «Silenzio!» Joan avanzò. Si fermò accanto a uno dei corpi di donna sul pavimento. Dave lo illuminò con la torcia. Era giovane e sottile. Le gambe avevano una piega strana, come se un paio di troll avessero giocato al tiro alla fune. Non era rimasto molto dei seni. E neppure del viso. «Non è Debbie», mormorò Joan. Come può dirlo? si chiese Dave. Notò che l'altro corpo mutilato non poteva essere Debbie. La ragazza era troppo grassa. Joan scavalcò il corpo, poi si girò e indietreggiò fino alla porta all'altra estremità della stanza. «Andiamo», disse. Dave inquadrò i troll al muro con la sua lampada. «Che ne facciamo di questi?» «Non m'importa. Lasciali stare.» «Dopo ciò che hanno fatto?» «Non m'importa. Io voglio Debbie.» Dave cominciò ad attraversare la stanza e puntò la torcia sui troll. Joan aspettò che le fosse vicino, poi aprì la porta. «Se qualcuno ci segue è morto», avvertì Dave. Seguì Joan oltre l'uscio, poi lo chiuse e provò la maniglia. Chiuso a chiave. Indietreggiò, la pistola pronta a sparare nel caso la porta si fosse riaperta. Jeremy, accucciato, posò la mannaia sul pavimento e afferrò uno dei
grossi chiodi d'acciaio per tener fermo il cilindro il più possibile mentre Tanya strisciava dentro. Dall'altra parte Cowboy e Liz facevano lo stesso, ma i loro sforzi non erano sufficienti a impedire che il cilindro dondolasse leggermente mentre Tanya si faceva strada sul corpo di Samson. Lei era quasi fuori, ormai. Si fermò, si abbassò contro Samson e, baciandolo sulle labbra, sussurrò: «Grazie, Samuel». Adesso lo chiamano tutti Samuel, pensò Jeremy. Tanya si rialzò. Uscirono uno per uno e, quando furono tutti fuori, il cilindro dondolava leggermente, ma il corpo di Samson non si mosse. Robin premette il corpo tremante contro lo schienale del sedile e osservò il troll che avanzava lentamente tenendosi aggrappato al bordo della ruota. L'aveva quasi raggiunta. Lei pregò che cadesse. Ora l'uomo con un occhio solo si trovava alla lunghezza di un braccio da lei. «Non avvicinarti», disse Robin. «Ti sbatto giù!» «Tremo dalla paura!» Lei si spostò sul sedile, lontano dall'uomo, méntre la mano sinistra del troll afferrava il bordo. Lui si sporse e la navicella dondolò sotto il suo peso. Ma, prima che potesse issarsi avanti, Robin gli afferrò il polso e gli staccò le dita dal sedile. Poi, con l'altra mano, afferrò il bracciale che giaceva accanto ai suoi piedi e, facendolo volare con la catenella, colpì l'uomo alla guancia. L'impatto piegò la testa del troll, che lanciò un grido di dolore. Robin si mise in ginocchio e, con tutta la sua forza, staccò la mano dell'uomo, lasciandolo andare. Lui agitò la mano nell'aria in cerca di un appiglio. Si teneva solo con la mano destra, torcendosi e scalciando quando Robin gli staccò le dita dal bordo. Precipitò in linea verticale urlando: «Nooooo!» Joan si era sentita disgustata e spaventata nella stanza buia, ma non era niente a confronto di ciò che vedeva ora. Un uomo appeso per i piedi in mezzo al corridoio. Che li aspettava. Si fermò e fissò l'uomo. Che cosa ci fa lì? L'uomo non si muoveva.
«Che cosa c'è?» chiese Dave, che continuava a camminare all'indietro per tener d'occhio la porta. «Guarda tu stesso», lo invitò Joan. Lui si girò. «Gesù!» Joan aspettò che Dave fosse al suo fianco e proseguì. Lui tenne lontano il fascio di luce dal corpo penzolante e la precedette. Joan si affrettò a seguirlo. Un paio di volte sentì risuonare le grate di metallo sotto le scarpe. Si ricordò le storie che circolavano sul conto di Jasper Dunn che nella sua Casa dei divertimenti si divertiva a guardare sotto le sottane delle donne. Quando arrivò alla grata successiva guardò giù e vide la chiazza indistinta di una faccia. Emise un suono soffocato. Dave girò la testa di scatto. «Niente», disse lei. «Andiamo avanti.» Vide altre facce. Che spettacolo! Dave si fermò. Era giunto in fondo al corridoio. Sulla destra c'era una porta chiusa. A sinistra un'apertura nella parete. Si avvicinò all'apertura, si inginocchiò e proiettò la luce della torcia all'interno. «Cristo!» mormorò. «Che cosa c'è?» «È uno scivolo.» Joan si accosciò accanto a lui e guardò sopra la sua spalla. Quasi in fondo allo scivolo si vedevano spuntare alcune lame rivolte verso l'alto, come se dei coltelli fossero stati conficcati nel metallo della rampa. La parte più bassa dello scivolo era macchiata di sangue. «Qualcuno è sceso dallo scivolo», sussurrò Dave. Joan gli strinse le spalle. Non è stata Debbie. Non Debbie! «Gli altri devono aver seguito una strada diversa», osservò. «Non lo so. Dopo il primo ragazzo, gli altri potrebbero aver superato i coltelli.» «Strisciando su di lui?» O lei. «Sì.» «Dio santo!» Lui le passò la torcia. Joan rimase al centro del corridoio, la mano sinistra al fianco con la lampada puntata sulla porta, il braccio destro teso, il dito piegato sul grilletto della pistola. Dave si mise in posizione a destra dell'uscio, la pistola sollevata, con la
bocca dell'arma vicino allo stipite. Con la mano sinistra girò la maniglia e tirò. La porta rimase chiusa. Lui guardò Joan e scosse la testa. «Perché non spariamo alla serratura?» suggerì lei. «Se è chiusa a chiave, vuol dire che i ragazzi non sono passati di qui.» «Forse hanno chiuso loro.» Un chiavistello prese a scorrere. Dave s'irrigidì, il cuore di Joan diede un balzo. Lui spalancò la porta. «Fermi!» gridò Joan. La «cosa» insanguinata in ginocchio sulla porta sorrise. «Non sparare, Joanie.» «Non potremmo farlo uscire di qui anche se volessimo», disse Tanya. «E non lo vogliamo», aggiunse Liz. «Non mi va l'idea di lasciarlo in pasto ai troll», borbottò Cowboy. «Abbiamo lasciato anche Shiner», gli ricordò Jeremy. «E Karen», aggiunse Tanya. «Non preoccuparti, troveremo il modo di riprenderceli. Telefoneremo alla polizia o qualcosa di simile. Ma prima dobbiamo uscire di qui tutti d'un pezzo.» «Sì, lo penso anch'io.» «Vuoi questa?» chiese Jeremy all'amico offrendogli la mannaia. «Tienila, io ho il mio coltello.» Cowboy si voltò e disse: «Addio, Samuel». Ripresero a camminare nel corridoio, Tanya e Jeremy davanti, Cowboy e Liz subito dietro. Si fermarono davanti a una doppia porta. «Maledizione», mormorò Tanya. Jeremy sferrò un calcio a una delle due porte. Si spalancò e lui si tirò indietro vedendo qualcuno nella stanza illuminata dalle candele: un ragazzino ossuto, sporco di sangue, che reggeva una candela. Quando la porta sbattè indietro, capì che il ragazzo era lui stesso. Spalancò la porta e la tenne aperta. Vide la sua immagine riflessa. La stanza, tre volte più grande del corridoio, era tappezzata di specchi. Le candele sul pavimento ricordavano a Jeremy i chiodi nel cilindro. Gli specchi circostanti sembravano moltiplicarsi e riempivano la stanza di lin-
gue di fuoco. Nessuno specchio sul soffitto. Lassù c'erano solo grate. Per gli spettatori. Davanti a sé, riflesso nello specchio, Jeremy vide solo se stesso e le candele, nessun troll in agguato. Varcò la soglia della porta. Mentre gli altri entravano, lui si portò sotto la grata più vicina e vide sopra di sé una faccia sporca e barbuta. «Ehi, ragazzo. Come mai non sei ancora morto?» «Fottiti», replicò Jeremy. «Sei un bamboccio arrogante, eh?» Jeremy sollevò in alto la candela, si alzò sulle punte dei piedi. La fiammella si proiettò fra le sbarre di metallo. Il troll urlò quando la barba prese fuoco. «Ah, ah!» sghignazzò Jeremy. «Ben fatto, Duke.» Lui osservò il troll che si sollevava sulle ginocchia e si batteva la barba incendiata, ma le fiamme salirono alla faccia, raggiungendo la massa arruffata dei capelli. Dopo pochi secondi la sua testa era una palla di fuoco. «Va bene così, verme?» gridò Cowboy. Jeremy abbassò lo sguardo sugli specchi davanti a lui. Cowboy, Liz e Tanya tenevano tutti in alto le candele e saltavano per lambire con il fuoco le facce attraverso le grate. «È tutto okay, ora.» Lei stava in ginocchio e abbracciava piangendo sua sorella. Debbie, aggrappata a Joan, singhiozzava. Dave sentì un nodo alla gola e gli occhi si riempirono di lacrime. Ce l'abbiamo fatta, pensava. L'abbiamo trovala in tempo. Anche se solo Dio sa che cosa ha passato. Prese la torcia dal pavimento e, scivolando dietro la schiena di Debbie, entrò nella stanza che era grande come un armadio, non di più. Non si vedevano vie d'uscita tranne l'unica porta. Nel mezzo giaceva un uomo morto. Accanto a una gamba c'era la camicia di Debbie inzuppata di sangue, nella mano destra il reggiseno della ragazza. Dave proiettò il fascio di luce sulla faccia del morto. Sebbene la barba e i capelli fossero imbrattati di sangue, lo riconobbe. Era l'uomo che aveva lancialo la maledizione a lui e Joan. Il troll con gli occhi di Charles Manson. Aveva il collo quasi staccalo dalla lama di una mannaia che era ancora
conficcata nel taglio. Dave si voltò. Joan teneva la faccia premuta sulla guancia della ragazza, gli occhi chiusi. Debbie aveva la schiena e le natiche cosparse di unghiate. Le mutandine, strappate da una parte, le penzolavano alle ginocchia. I jeans erano abbassati fino alle caviglie. Lui si appoggiò al muro e chiuse gli occhi. Doveva esser stata tremenda la lotta nella stanza buia, e Debbie aveva vinto. Che ragazzina coraggiosa! Doveva essersi difesa con le unghie e con i denti prima di finire l'uomo con la mannaia. «Dobbiamo... dobbiamo aiutare gli altri», disse Debbie. «All'inferno gli altri», fu la secca risposta di Joan. «Ma sono i miei amici!» Dave guardò le due donne. Joan stava aiutando la sorella a rialzarsi. Lui distolse gli occhi quando Debbie si chinò per strappar via quanto restava delle mutandine. «Dove ti ha ferita?» domandò Joan. «Non importa.» «Ti ha...» «Non mi ha violentata.» Debbie tirò su con il naso. «Non riesco a credere di essere ancora viva.» «Nemmeno io», replicò Joan. «Quando vi ho sentito parlare...» La voce di Debbie s'incrinò. «Va tutto bene», la rassicurò Joan. «Dave, quell'uomo là dentro è morto?» «Non l'hai visto?» chiese lui. Debbie slava togliendosi la felpa. Joan rimosse dalla spalla la fondina e il pugnale; poi si levò il giubbotto antiproiettile. La sua maglietta bianca sembrava incollata alla pelle. Bianca. Per fortuna, pensò Dave; negli ultimi pochi minuti aveva cominciato a credere che il rosso fosse il colore naturale delle cose. Joan allacciò il giubbotto sul dorso di sua sorella e le diede il suo maglione. La ragazza si asciugò la faccia con l'indumento, poi lo indossò dalla testa mentre Joan si affrettava a riallacciare il cinturone della fondina. Porse a Debbie la piccola pistola che portava stretta alla caviglia. Debbie le passò davanti dirigendosi verso lo scivolo. «Aspetta!» «Lo so. C'è qualcosa che non va, laggiù.» Dave puntò la torcia nella stanza. «Gesù Cristo!» mormorò Joan.
Tutti e due s'irrigidirono sentendo qualcuno gridare. Dopo qualche secondo l'aria si riempì di grida e di risate. Sembravano provenire dal fondo del corridoio. Dave girò la testa e vide il fumo levarsi attraverso una grata del pavimento. Fumo e riflesso di fuoco. «Che cosa diavolo succede?» chiese Joan. «Sarà meglio che ci sbrighiamo a uscire di qui», rispose lui. Debbie prese la mano di Joan. Dave si mise in ginocchio e proiettò la luce della lampadina nello scivolo. «Torniamo indietro da dove siamo venuti», suggerì Joan. «Non possiamo!» protestò Debbie. «I miei amici sono laggiù! Dobbiamo salvarli.» «Credo che possiamo scendere dallo scivolo», concluse Dave. 46 «Una bella lezione», ansimò Tanya. «Spero solo che questo posto bruci», disse Liz. «Non finché non saremo usciti di qui», le ricordò Cowboy. Con una candela in una mano e il coltello nell'altra, il ragazzo entrò nel labirinto degli specchi. Liz lo raggiunse di corsa. Jeremy, vicino a Tanya, si diresse verso l'apertura nella parete. I troll, dal soffitto, gridavano ancora. Vorrei ammazzarli tutti. E radere al suolo questo maledetto posto. I due davanti a loro sparivano e riapparivano in mezzo agli specchi. «Fermatevi, non perdiamoci», ordinò Tanya. «Va bene!» Jeremy tese il braccio e toccò la schiena di Liz. «Ehi, sta' attento con la candela», protestò lei. «Scusami.» «Guardate che cosa ho trovato», disse Cowboy. Jeremy si scostò da una parte per vedere oltre la testa di Liz. Cowboy stava davanti a lui ed era chino. Il coltello stretto fra i denti, la candela in una mano, con l'altra teneva una macchina fotografica con il flash. «Fantastico», commentò Tanya. «È di marca. E una Minolta.» «E chi se ne frega», disse Liz. «Tira fuori la pellicola.» «Io me la tengo», dichiarò Cowboy, e passò la cinghia sopra la testa.
«Tienila pure, se vuoi, ma tira subito fuori la pellicola», gli disse Tanya. «Non possiamo perderla.» «Okay.» Cowboy abbassò la testa e guardò la macchina fotografica. «Attento! Dietro di te!» gridò Tanya. Liz lanciò un urlo. Cowboy, colto di sorpresa, si voltò di scatto e prese il coltello dalla bocca, mentre un troll gigantesco appariva fra gli specchi facendo volteggiare un'ascia. Spaccò in due la testa di Cowboy che cadde a terra con le gambe avanti. Il troll liberò l'ascia e fece per risollevarla. Liz corse ad accucciarsi accanto al suo ragazzo. «No!» gridò Tanya. Il troll mosse un passo verso Liz. Jeremy scagliò la mannaia. La lama si conficcò nel petto del troll che gridò, ma non cadde. Teneva la mannaia ancora conficcata nel petto quando fece volteggiare l'ascia. La testa di Liz si staccò dal collo, rimbalzò contro uno specchio e rotolò. Il troll aveva ancora l'ascia alzata, pronto a colpire. Tanya si lanciò contro di lui nel tentativo di staccare la mannaia dal petto del gigante. La mannaia cadde a terra con un sordo rumore metallico. Poi Jeremy vide il coltello di Tanya alla gola del troll. L'uomo cadde all'indietro contro gli specchi, fracassandoli. Tutte le candele si erano spente tranne quella di Jeremy. Ma la fiammella era moltiplicata dagli specchi e riempiva la scena di un pallido bagliore rossastro. Vide Tanya estrarre il suo coltello dalla gola del troll. Poi la voce di lei ordinò: «Vieni a prendere l'ascia, può servirci». Jeremy annuì. Mosse un passo avanti, sbirciò Liz e Cowboy, poi il troll morto. Tanya aveva lasciato l'ascia sulla faccia. Scivolò sul pavimento viscido, la candela si spense. Il buio calò sui suoi occhi come una cortina nera. Cadde sui corpi dei suoi amici morti. Dave, Joan e Debbie riuscirono a venir giù dallo scivolo come avevano fatto gli altri poco prima. Quando finalmente si furono rialzati tutti e tre, Dave porse il proprio giubbotto a Joan. Lei scosse la testa. «Indossalo tu.» «Voglio che lo indossi tu.»
«Be', io preferisco che lo porti tu.» «Io vorrei che tu non indossassi niente, bambola», disse una voce dal soffitto. «Vieni, bellezza, fammi vedere...» «Bastardo!» sbottò Debbie e puntò la pistola alla grata, ma non sparò. Scuotendo la testa abbassò l'arma. «Ehi, dolcezza...» disse il troll. «Bambole, bambole, bambole», aggiunse un altro. «Dove sono gli altri?» gridò Debbie al soffitto. «Dove sono i miei amici?» I troll risero. «Andiamo», disse Joan, esplorando le pareti con la torcia ed esaminando il buio del corridoio a sinistra. Poi prese quella direzione. «Bye, bye, bellezze.» «Ci vediamo all'inferno.» Dave diede un colpetto a Debbie che cominciò a correre. Lui si affrettò dietro la ragazza. Le due sorelle stavano accovacciate accanto al bordo del cilindro. Dave si avvicinò mentre Debbie mormorava: «Gesù, no!» Aveva visto Samson. «Uno dei tuoi amici?» le chiese Joan. «Samson.» «Si direbbe che l'hanno usato come ponte», osservò Dave. Debbie si portò la mano alla bocca tenendola piegata sul lato e gridò attraverso il cilindro: «Ehi! Jeremy! Ehi voi! Sono Shiner, mi sentite?» Nessuna risposta. «Vado avanti io», decise Dave. Superarono il cilindro come avevano fatto gli altri. Robin, inginocchiata sul sedile, le mani strette sullo schienale, osservava il troll che si arrampicava sulla trave della navicella. La stessa strada usata dall'altro. Bene! Si sarebbe liberata anche di questo, si disse. Il troll era più robusto dell'altro. Aveva testa rotonda, quasi senza collo, spalle dalle dimensioni di prosciutti, occhi piccoli e ravvicinati. Bocca minuscola, una semplice linea. Sembra proprio un maiale, pensò Robin. Ma in un certo senso somigliava anche a un bambino con un corpo da adulto.
Portava un berretto con la visiera all'insù e non aveva un filo di barba. «Torna indietro», disse lei. «Non voglio ucciderti.» Il troll abbassò la testa e si mise a cavalcioni sulla trave. «Va' via, ti prego!» lo supplicò Robin. Lui guardò giù e strinse la trave fra le braccia. Ha paura, pensò Robin. Paura di cadere. «Se ti do un colpo e precipiti, volerai in mille pezzi.» Lui cominciò a piangere sommessamente. Oh, no, pensò Jeremy. Abbiamo scordato la macchina fotografica. Era rimasta appesa al collo di Cowboy, con dentro la pellicola. Decise di non dirlo a Tanya. Lei, magari, avrebbe insistito per tornare indietro a prenderla. Ormai la pellicola non importava più. Quasi tutti i ragazzi fotografati erano morti. Siamo rimasti soltanto noi due. E Heather. Fortunata, Heather. Lei è scappata prima che accadesse il peggio. Jeremy si voltò e vide una luce tremolante. «Bene», sussurrò Tanya. La luce era un riflesso. L'ascia conficcata nello specchio. Quando Jeremy tornò a voltarsi, notò che la luce era più forte. Al posto dello specchio apparve improvvisamente, alla sua sinistra, un corridoio con le candele sulle pareti. Jeremy uscì dal labirinto e tirò un profondo sospiro. «Ce l'abbiamo fatta», bisbigliò Tanya, fermandosi accanto a lui. Lungo il lato sinistro del corridoio c'erano alcune finestre sbarrate come nel corridoio sovrastante. Nessun troll dietro le sbarre. «Dove diavolo è andato il nostro pubblico?» disse Tanya. «Forse sono fuggiti, spaventati dal fuoco.» «Non ne sarei tanto sicura.» A metà del corridoio, a destra, c'era una porta. E un'altra in fondo. «Che cosa facciamo?» chiese Jeremy. Tanya non rispose. Guardava da un uscio all'altro e corrugava la fronte. «Quella in fondo», suggerì Jeremy indicando la porta più lontana. «Potrebbe essere quella che da sulla scala.» «In questo caso puoi scommettere che troveremo una brutta sorpresa.» «Be', certo non ci permetteranno di allontanarci tanto facilmente.» «Ci faremo strada a colpi d'ascia.»
«Sì!» «Non giocheremo più secondo le loro regole», aggiunse Tanya. «Abbiamo l'ascia, ci difenderemo.» Mosse qualche passo avanti e tastò la parete con la punta del coltello. «Dietro il muro c'è probabilmente una specie di stanza. Basta entrare e praticare un buco nel muro. Chissà che non usciamo direttamente nel luna park.» «Speriamo.» Tanya si spostò di fianco. Jeremy sollevò l'ascia sopra la testa e la fece cadere con tutte le sue forze. La lama pesante penetrò nel muro. Quando la liberò, una grossa scheggia di legno cadde sul pavimento. Avvicinò l'occhio alla fessura. Dall'altra parte c'era un buio assoluto. Indietreggiò di due passi e sferrò un altro colpo d'ascia. Stava per liberarla e ripetere l'operazione, quando uno strattone improvviso gli tolse il manico dalle mani. «Gesù...» ansimò. «Sarà meglio...» Fecero entrambi un balzo quando un pezzo di muro volò verso di loro. Nell'istante in cui Jeremy comprese che cosa stava accadendo, l'ascia sparì nell'apertura. Ora l'hanno presa. E ci assaliranno. Sentì la risata di un pazzo. Era lui che rideva. Tanya gli tirò il braccio e insieme corsero nel corridoio. Corsero finché il pavimento cedette sotto i loro piedi. Poi, affiancati, caddero nel baratro buio del basamento della Casa dei divertimenti. 47 Alla vista dei tre cadaveri nel labirinto degli specchi, Debbie vomitò. Quando si drizzò singhiozzava. «Due sono ragazzi», disse Dave. «Una è una ragazza e l'altro è quello della rissa.» «Quello dell'orecchio?» chiese Joan. «Sicuro.» Ecco, pensava Joan, gli ho salvato l'orecchio e lui si è fatto spaccare la testa.
Debbie si voltò e si sfregò gli occhi. «È Cowboy», spiegò. «E lei è Liz. Dio!» E chiuse gli occhi. «È rimasto qualcuno?» le domandò Joan. «Sì. Jeremy e Tanya. Soltanto loro.» Debbie affondò la faccia nella spalla di sua sorella e l'abbracciò forte. «Jeremy è mio amico, Joanie. Ho cercato di fermarlo. Non voglio che muoia.» «Okay», disse Dave. «Cerchiamo di concludere questa cosa orribile, in fretta.» Impugnò la pistola e gridò: «Chiunque mi sente, si butti a terra! Sparo». Stando ai piedi del gigantesco troll morto, si mise la torcia fra le gambe, mirò allo specchio davanti a sé e sparò. Debbie sobbalzò e si cacciò le dita nelle orecchie. Anche Joan si coprì le orecchie. Dave continuò a sparare, la Beretta ruggiva, le pareti di specchi esplodevano davanti a lui. Dopo aver disintegrato un pannello, vi proiettò il fascio di luce della torcia. Poi riprese a sparare nel corridoio dietro il labirinto. Pochi passi più avanti apparve la fiammella di una candela. La zona illuminata si allargò, mentre Dave seguitava a sparare abbattendo altri specchi. Dopo tredici colpi lasciò cadere il caricatore nel palmo della mano e ricaricò la pistola, spingendo un colpo in canna. Joan e Debbie girarono cautamente attorno ai corpi dei morti e andarono a mettersi accanto a Dave. Joan notò il mucchio di specchi infranti e poi un corridoio illuminato. C'erano dei corpi distesi sul pavimento. Dave si sfregò la bocca con la mano tremante. «Dio!» mormorò. «Li avevo avvertiti di buttarsi giù.» «Andiamo», suggerì Joan prendendo la torcia, e si avviò attraverso i mucchi di specchi rotti. Il vetro scricchiolava sotto le sue scarpe. «State attenti, là dietro!» avvertì. Procedeva lentamente. Di tanto in tanto, camminando attraverso un pannello, abbatteva con la canna della pistola schegge di vetro ancora attaccate all'intelaiatura. Sentiva Dave e Debbie subito dietro di sé che calpestavano i vetri infranti. Davanti, alcune figure nel corridoio cominciarono a muoversi. Rotolavano, strisciavano, si rialzavano. Tre corpi rimasero a terra. Quelli che si rialzarono non erano ragazzi, vide Joan. E non sembravano neppure troll.
Un brivido di gelo le serpeggiò nella schiena. Si ricordò che Jasper Dunn un tempo era il proprietario di una Casa degli orrori. Era stato costretto a chiuderla dopo che alcuni dei suoi mostri si erano liberati e avevano aggredito i visitatori della Casa. Aveva chiuso, ma evidentemente si era tenuto i suoi mostri. Offrendo loro un rifugio nell'edificio abbandonato. Dietro Joan, Dave gemette. Una mano la trattenne per la maglietta, cercando di tirarla indietro. Con voce bassa e tremante, Debbie disse: «Voglio tornare indietro. Ti prego, Joanie. Torniamo indietro». Mentre precipitava nel buio, Jeremy si aspettava che la sua caduta si concludesse con uno schianto. Invece atterrò su qualcosa di molleggiato. Una rete? Sprofondò e poi si sentì risollevare. Le corde tese vibrarono, quando lui cercò di liberare braccia e gambe. Le maglie sembravano attaccaticce. Gli si incollavano addosso. Sentì Tanya che respirava a fatica. Alla sua destra, non lontano. Anche lei si dibatteva nella rete. «Stai bene?» bisbigliò Jeremy. «Che roba è questa?» Davanti a Jeremy, a sinistra, si aprì una porta. Doveva essere l'uscio ai piedi delle scale. Forse la strada per uscire. Entrò qualcuno reggendo una lampada al kerosene. Jeremy socchiuse gli occhi alla luce improvvisa. Vide un uomo alto, dall'aspetto spettrale, con un cappello a cilindro e la marsina: Jasper Dunn. I troll si riversarono dalla porta dietro Dunn, si affollarono sulla piccola balconata su cui il proprietario della Casa degli orrori stava in piedi. Erano stranamente silenziosi. Quando Jeremy adattò la vista alla luce, vide dell'altro. E gli parve di vedere la fine. Le corde appiccicose che li tenevano intrappolati erano i fili di una ragnatela che si allargava attraverso il basamento dell'edificio. Una ragnatela di ragno. Penzoloni sulla ragnatela, sospesi a qualche metro sopra la sabbia, c'erano i resti di persone che erano avvolte nel tessuto grigio e setoso. Tanya gridò. Lui girò la testa.
La vide torcersi e dibattersi. Vide il ragno che correva velocemente sulla cima della ragnatela. Un ragno simile a quello che aveva visto nella Casa dei mostri. Ma molto più grosso. Il Giganticus di Jasper. A Jeremy parve di risentire la voce di Cowboy. Scoperto nella giungla della Nuova Zelanda. Quello nella vetrina doveva essere il figlio di questo. «No!» urlò Tanya. «Nooo!» La ragnatela dondolò e si abbassò sotto il peso della gigantesca bestia nera. Aveva gli occhi gialli, la bocca simile a un'immensa piaga, i denti gocciolavano. La cosa nera ballava sulla ragnatela. E su Tanya. La bocca del ragno soffocò il suo grido. Jeremy vide i denti affondare nel viso della ragazza. Il suo corpo s'irrigidì, si torse nello spasimo. Jeremy si voltò dall'altra parte, liberando il braccio destro dalla manica intrappolata del giubbotto. Frugò nella tasca della camicia cercando il rasoio che vi aveva nascosto. Un rapido taglio sulla gola. Forse poteva morire prima che il ragno arrivasse a lui. La tasca della camicia era vuota. Aveva perso il rasoio. Jeremy sentì gli spari mentre le gambe del ragno si avviluppavano attorno a Tanya, avvolgendola come un amante mostruoso. *** Robin sentì gli spari. Guardò da sopra la spalla, ma non vide niente tranne il parco dei divertimenti deserto sotto la luna. Il rumore smorzato della sparatoria suggeriva che i colpi provenivano da sotto l'assito o da qualche baracca di Funland. Dopo qualche secondo cessarono. Ora gli unici suoni erano il battito del suo cuore, il fruscio del vento e il piagnucolare del troll. Lei voltò la testa. Il troll era lontano qualche centimetro, aggrappato alla trave. Era venuto così vicino e aveva perso il coraggio.
Paralizzato improvvisamente dalla paura. Robin non voleva che cadesse. Il troll alzò la testa quando lei cominciò a cantare. L'altra notte ho scalato una montagna per vedere tutto ciò che potevo, per ammirare la luna così lucente e le stelle nel mare di mezzanotte. Il troll si drizzò e la fissò. Camminando attraverso gli specchi fracassati, Dave vide abbastanza per capire che nel corridoio c'erano i resti della mostra degli orrori di Jasper Dunn. Aveva sentito raccontare delle storie in proposito e aveva visto le loro fotografie nella galleria della Casa dei mostri. Si credeva che fossero andati dispersi e avessero lasciato la città dopo che l'edificio era stato chiuso. Sei anni prima. Pochi mesi prima che lui arrivasse da Los Angeles. Per tutto quel tempo i mostri erano vissuti nella Casa dei divertimenti. Quelli che non erano stati colpiti dai suoi proiettili stavano in piedi nel corridoio, pochi metri oltre gli specchi rotti. Immobili e attenti. Dave non voleva che Joan fosse la prima a uscire dal labirinto e si trovasse di fronte alla folla di mostri. Si affrettò a passarle davanti. Sul pavimento, con la gola squarciata da un proiettile, giaceva la Donna cane. Accanto a lei si contorceva per il dolore un uomo senza camicia con un braccio scuro in mezzo al petto. Julian, l'uomo con tre braccia. La sua piccola mano scura premeva la ferita vicino alla spalla sinistra. La Bella Wilma giaceva vicino a lui, nuda tranne che per i calzoncini del bikini di pelle di leopardo. Teneva una mano incollata sulla coscia sanguinante. L'altro braccio premuto sui due seni normali; il terzo seno era scoperto, pallido e sudato, sotto il polso. Solo la Donna cane era morta, pensò Dave. Poteva andar peggio. Emerse dall'ultimo pannello di specchio rotto e puntò la pistola ad Antonio Lingua di Serpente. «Getta l'ascia», ordinò. La lingua del mostro scivolò dalla bocca e asciugò le lacrime sotto gli occhi.
«Non voglio spararti», disse Dave. «Getta l'ascia», ordinò Joan mettendosi di fianco a lui e prendendo la mira. La Donna con due teste girò le facce verso l'uomo. Poi allungò il braccio e gli battè un colpetto sulla spalla. Lui la guardò, ritrasse la lingua ed emise un sibilo. Una testa della donna annuì, la faccia dell'altra sorrise gentilmente. Lui lasciò cadere l'ascia sul pavimento. «Mi dispiace», disse Dave. «Mi dispiace di aver sparato. Non volevo ferire nessuno di voi.» Abbassò la pistola, ma la tenne in mano. Dubitava che quei poveretti tentassero un assalto. Sembravano confusi, impauriti. Negli occhi di alcuni di loro lesse qualcosa di simile alla speranza. La Donna con due teste indicò un'apertura che qualcuno aveva praticato nel muro del corridoio. «Vi tireremo fuori di qui», disse Joan. Poi si inginocchiò per avvolgere la sua fascia rossa attorno alla gamba ferita di Wilma. «E Jeremy?» chiese Debbie con voce supplichevole. «Dobbiamo trovarlo.» «Lo troveremo, sta' tranquilla!» Joan guardò gli altri. «Due ragazzi», riprese. «Un ragazzo e una ragazza. Li avete visti? Sapete dove sono?» Alcune mani indicarono il corridoio. Dave vide una porta a destra e un'altra in fondo. Ma fra il punto in cui si trovava e l'estremità del corridoio c'era un quadrato buio dove avrebbe dovuto esserci il pavimento. Una botola? Debbie scattò. Scavalcò il corpo della Donna cane e si slanciò attraverso il gruppo. «No!» gridò Joan. Dave corse dietro di lei. Debbie si era quasi liberata dei mostri di Jasper, quando una mano sfrecciò e le afferrò la caviglia. Lei mandò un grido; cadde, scivolò. Dave l'agguantò per il collo, tenendola giù mentre lei cercava di rialzarsi. Un uomo calvo sollevò la testa con un triste sorriso. Non aveva gambe, ma aveva due braccia muscolose e con una mano teneva saldamente la caviglia di Debbie. «Grazie», disse Dave.
L'altro ammiccò. Joan gli battè la spalla, lo scavalcò e andò ad accucciarsi accanto a Debbie. «Sciocca bambina», mormorò. «Resta sempre appiccicata a noi e non...» Debbie emise un suono strozzato e s'irrigidì. Alle loro spalle si levarono grida e grugniti. Dave girò la testa. I mostri di Jasper sembravano impazziti, alcuni indicavano il fondo del corridoio, altri correvano verso il buco nel muro, cercando di rifugiarsi dietro i cumuli di specchi rotti. «Dave!» La voce di Joan. Un sussurro. «Dave?» Lui la guardò. Gli occhi sbarrati di lei lo fissarono per un istante, poi guardarono in un'altra direzione. Verso l'estremità del corridoio. Dave seguì il suo sguardo. E vide delle mostruose zampe nere ondeggiare al lume di candela. Grattando sul legno del pavimento, un ragno gigantesco si arrampicava dal buio sotto la botola. Sulla schiena cavalcava Jasper Dunn, il cilindro in testa, una pistola in ciascuna mano. Non può essere! Dave ebbe l'impressione di ricevere un colpo al ventre. Aprì la bocca e osservò il ragno mostruoso che correva verso di lui. Non può succedere! Dave si rialzò sulle gambe tremanti tirando su Debbie. «Vai», disse. La sua voce risuonò lontana. «Corri!» Lei rimase in piedi accanto a lui, impietrita. Joan si alzò in piedi, estraendo la pistola con un lento movimento, mentre Dave sollevava la Beretta e Jasper puntava le sue pistole nella loro direzione. I colpi della sparatoria rimbombarono nel corridoio. I proiettili fischiarono vicinissimi alla faccia di Dave. Il cilindro volò via dalla testa di Jasper. Debbie volò all'indietro. Un occhio del ragno esplose in una nebbia rossa. Un proiettile colpì il polso destro di Jasper che lasciò cadere la pistola. Nello stesso momento un altro lo prese in faccia. Gli portò via una guancia e mezzo mento. Ma lui rimase in bilico sul ragno, continuando a sparare con l'altra pistola. La bestia era a meno di due metri. Sarebbe piombata su di loro in pochi
istanti. Dave concentrò gli spari sul ragno. Un proiettile gli graffiò il braccio, ma lui rimase fermo, premendo il grilletto. Una delle zampe anteriori del ragno si spezzò. Joan corse avanti. «No!» gridò lui. Il ragno parve incespicare. Il suo addome si trascinava sul pavimento, ma continuava ad avvicinarsi, i palpi che puntavano su Dave come pinze. L'ultimo colpo della Beretta gli fece esplodere un altro occhio. Mentre prendeva l'altra pistola, vide Joan, con il coltello in mano, saltare sopra due zampe del ragno. Non aveva più la sua pistola, doveva essere scarica. Jasper mirò alla faccia di lei. Dave impugnò la pistola calibro 38, ma sollevare il braccio era così faticoso... così faticoso... Sentì cadere l'arma di Jasper. Un tonfo sordo. Dave riuscì a sollevare la pistola, ma aspettò a sparare temendo di colpire Joan che si era lanciata contro il fianco del ragno, appena dietro Jasper. Lei fece una piroetta sulla bestia. Jasper si contorse e la colpì con il gomito. Joan gli agganciò un braccio sotto il mento devastato, lo tirò all'indietro e con la mano destra gli piantò il pugnale nel petto. Poi estrasse la lama dalla ferita e lo colpì al fianco. Lui cadde a testa in giù fra le zampe del ragno. Proprio mentre le pinze agguantavano Dave. Lo strinsero sotto le ginocchia. Come può essere ancora vivo? Sparò, facendo entrare una pallottola dopo l'altra nella testa del mostro, mentre la bestia gli stringeva le gambe e lui cadeva all'indietro. Sparava a vuoto quando sentì Joan gridare. Con la schiena toccò il pavimento. Sollevandosi sui gomiti, Dave vide Joan ancora sulla schiena del ragno. Lei gli piantò i1 coltello nella schiena. Le pinze si serrarono attorno alle gambe di Dave, che si sentì trascinare verso l'immonda bestia. A questo punto intervenne prontamente Antonio Lingua di Serpente con un'ascia. Calò la lama tagliente e spaccò in due la testa del ragno. Le pinze allentarono la stretta, Dave liberò le gambe e strisciò all'indietro, mentre Antonio colpiva di nuovo con l'ascia. Dave rotolò sul fianco, a faccia a faccia con Debbie. Mise un braccio at-
torno alle spalle della ragazza, la faccia di lei premuta sul collo. «Il proiettile si è conficcato nel giubbotto?» bisbigliò lui. Si accorse che lei annuiva. Robin continuò a cantare mentre il troll si faceva sempre più vicino. Poi s'interruppe e gli tese il braccio. Lui afferrò la mano e si arrampicò sul sedile. Tremando e ansando sedette accanto a lei. Con una mano serrava il bordo della navicella, con l'altra teneva la mano di Robin contro la gamba. «Tutto a posto», disse Robin. «Sei salvo.» Lui s'irrigidì quando gli spari ricominciarono. Robin guardò giù. I colpi provenivano dall'interno della Casa dei mostri di Jasper o dall'edificio vicino, fra la ruota di Ferris e l'ingresso principale. L'ultima volta erano risuonati in rapida successione. Il troll le lasciò la mano, le mise un braccio attorno alle spalle e attirò Robin contro il corpo tremante. È solo spaventato, pensò Robin. Lei si voltò a guardarlo. «Era la polizia», spiegò. «Fra poco saranno qui.» Lo spero, aggiunse mentalmente. Lui le mise l'altra mano sulla coscia. «Morbida», disse. Lei gli afferrò il polso. «Non farlo», sussurrò. «Ti prego.» «Tu piaci a Denny», disse lui. «Allora non farlo.» Il troll levò la mano dalla gamba e il braccio dalle spalle. Prese a trafficare con i bottoni del suo impermeabile sporco e stracciato. «Denny, no.» Lui aprì l'impermeabile. Indossava una maglietta senza maniche e pantaloni laceri. Poi si sfilò l'impermeabile e lo posò sulle spalle di Robin. Lei si sentì stringere la gola. Lui l'aiutò a infilarlo e lo abbottonò. Quando ebbe finito, Robin si appoggiò a lui. «Grazie, Denny», disse. «Tu piaci a Robin.» Lui tornò a metterle il braccio attorno alle spalle. «Canti?» le chiese. «Certo.»
48 Lei stava cantando Amazing Grace. Denny la teneva stretta e faceva dondolare leggermente la navicella. Stavolta la canzone era dedicata a Nate. Cantava e le lacrime le scendevano copiose sulle guance. Denny la guardò e piegò la testa. Poi si levò il berretto e glielo mise sui capelli corti. Sopra la propria voce tremante Robin sentì un tonfo. Lei tacque. Giù, a sinistra, una stecca di legno volò via dalla facciata della Casa di Jasper e cadde sull'assito. Dall'apertura apparve il pallido raggio di una torcia elettrica. I colpi continuarono, altre stecche volarono via. Presto l'apertura ebbe le dimensioni di una porta. Alcune persone emersero dall'apertura. Denny puntò il dito e cominciò a ridere. Robin non credeva ai suoi occhi. Giù, una donna sembrava avere due teste. Un uomo stringeva un terzo braccio che gli spuntava dal petto. Un altro uomo, uno dei poliziotti che Robin aveva già visto, emerse dall'apertura nella parete portando un uomo senza gambe. Denny si battè una mano sulla gamba e indicò un uomo che aiutava una donna a passare attraverso l'apertura. La donna era vestita solo di un paio di slip e sembrava avere tre seni. Poi uscì una ragazza con una torcia, si girò verso la porta e proiettò il fascio di luce per illuminare il percorso a un'altra donna che reggeva un corpo inerte. Robin si sentì stringere lo stomaco vedendo il ragazzo fra le braccia della donna. Era troppo lontana per vedergli la faccia, ma lo riconobbe. Dai capelli scuri e dagli abiti, dalla ferita che aveva sul mento. Quel bastardo di Duke. Morto? Dov'è Tanya? si chiese. Dove sono gli altri? La donna si accucciò, depose il corpo di Duke davanti al baraccone. Mentre stava per sollevare il ragazzo, lui le afferrò improvvisamente il davanti della maglietta e cercò di sollevarsi. La donna cadde in ginocchio. Duke le urlò qualcosa sulla faccia. Denny gridò impaurito e rabbrividì. Robin gli batté la gamba per calmarlo e osservò la donna che staccava le mani di Duke dalla maglietta e le inchiodava sull'assito. Sempre urlando, il
ragazzo si contorse scalciando. La ragazza diede la sua torcia al poliziotto, afferrò le gambe di Duke e aiutò a tenerlo giù. Robin si levò il berretto e lo mise sulla testa di Denny. «È ora di avvertirli che siamo qui», disse. «A Denny piace qui.» «Be', immagino che ci siano posti peggiori», replicò lei. La navicella dondolò quando i due si appoggiarono alla sbarra di sicurezza. Robin gridò: «Aiuto! Quassù!» Denny le fece eco: «Aiuto! Quassù!» Di sotto, alcune teste si voltarono in su. 49 «Siete pronti per il gran finale?» gridò Maxwell il Magnifico. La folla applaudì. «Ho bisogno di una coraggiosa e bella volontaria.» L'acrobata indicò qualcuno in terza fila. «Lei. È l'ideale.» Mentre la giovane donna si alzava dal suo posto e si faceva strada fra gli spettatori, gli uomini del pubblico fischiarono la loro approvazione. «Oh, Dio!» esclamò Joan. «È Debs!» strillò Kerry e saltò in grembo a Dave. «Che cosa fa?» «Guarda e lo vedrai», rispose Dave. «Perché non si alza anche Steve?» «Perché Maxwell preferisce una donna.» «Ma lui rimane solo!» «Sono stati loro a volersi sedere in disparte», spiegò Joan alla sua bimba di quattro anni. La folla scoppiò in una risata fragorosa quando Maxwell il Magnifico tentò di montare sulla bici a una ruota aggrappandosi a Debbie. Alla fine rimase sull'alto sellino e compì il giro del palcoscenico. Debbie si voltò per andarsene, ma l'acrobata disse: «Aspetti, aspetti! Non se la cava così facilmente!» L'assistente di Maxwell apparve con tre torce accese. Lui ne diede una a Debbie. Una per volta, Debbie lanciò le tre torce a Maxwell. La terza volò alta. L'acrobata si inclinò con il corpo all'indietro sul sellino e riuscì ad afferrar-
la. Poi ringraziò Debbie e le propose di incontrarlo dopo lo spettacolo. Lei scosse la testa facendo volare da parte a parte i lunghi capelli biondi. Poi si voltò e, con un cenno di saluto al pubblico, scese la scaletta di corsa. Kerry si chinò di lato e tirò la manica della camicia di Joan. «Mammina, perché non sali anche tu?» «No, grazie, tesoro.» «Sarebbe divertente.» «Non credo che Maxwell abbia bisogno di un'altra aiutante, per il momento», spiegò Joan. «Che cos'è un aiutante?» «Qualcuno che aiuta.» Maxwell finì il suo numero, balzò dal monociclo e s'inchinò. Le luci si spensero, il pubblico tacque. Dave sentì la musica lontana, le voci, le risate nel luna park. E il rombo dell'Hurricane. «Adesso tocca a Robin?» sussurrò Kerry. «Credo di sì», rispose Dave. «Canterà la Terra dei gattini?» «Ti ha promesso che l'avrebbe cantata.» «Speriamo che non se ne scordi.» Nell'oscurità, una voce rimbombò all'altoparlante. «Signore e signori, l'Anfiteatro di Funland è lieto di presentarvi un'attrazione speciale.» Dave sentì un mormorio impaziente fra il pubblico. «Forse avrete sentito le sue canzoni alla radio, o forse l'avrete vista nello special Dolly Parton il mese scorso.» Andiamo avanti, pensò Dave. «Ecco a voi la nostra stella di Boleta Bay, la regina del banjo di Funland: miss Robin Travis!» Il pubblico applaudì con entusiasmo mentre le luci si accendevano sul palcoscenico. Robin stava immobile davanti all'orchestra e sorrideva. Indossava un costume che Dave non le aveva mai visto prima: una giacca di camoscio con le frange, camicetta bianca, una corta gonna di pelle che mostrava le gambe nude fino agli stivali bianchi. Robin gettò un'occhiata all'orchestra. I tamburi rullarono sopra il brusio della folla che applaudiva. Lei si girò. Il piede destro batteva il tempo con i tamburi. Alle prime note del banjo calò il silenzio fra il pubblico. Una melodia ritmata riempì la notte. Un ruggito si levò dagli spettatori che riconobbero la canzone Gyps Girl.
Sono la zingara del banjo, ho vagato per il mondo. Sono la zingara del banjo e vi offro una canzone. È il canto della montagna, è il canto del deserto, è il canto del mare battuto dal vento. È il canto della prateria, il canto dei boschi, appartiene a voi e a me. Kerry saltò sulle ginocchia di Dave e lui la sentì cantare sottovoce la melodia di Robin. Joan gli passò il braccio dietro la schiena. «La prossima è una canzone speciale per me», annunciò Robin a metà spettacolo. «L'ho cantata per una persona che si chiama Nate, la sera in cui ci siamo conosciuti. Si vede che gli è piaciuta, perché mi ha sposato. Perciò questa canzone è dedicata a lui, e a un'amica speciale, Kerry Carson, la figlia dei miei due poliziotti preferiti.» Poi cominciò a cantare. Kelly e Kerry partirono un giorno per la Terra dei Gattini... Kerry si girò verso suo padre. «Sono io!» strillò. «Sono io quella della canzone!» Dopo l'ultima canzone e l'ovazione del pubblico in piedi, Robin suonò e cantò altre tre canzoni. Poi il palcoscenico si oscurò. Dopo pochi secondi, quando le luci si riaccesero, lei e l'orchestra erano sparite. Dave, Kerry e Joan aspettarono che la folla diradasse. Joan piegò la vecchia coperta che aveva usato per coprire i sedili della gradinata. Dave prese Kerry per mano e tutti e tre cominciarono a scendere. Debbie e Steve li aspettavano davanti all'ingresso dell'anfiteatro. I baracconi avevano già chiuso per la notte, le luci multicolori erano spente, ma i lampioni lungo il parapetto illuminavano la strada agli spettatori del concerto che stavano andando via. Funland sembrava stranamente quieta.
«Mi fai l'autografo?» chiese Debbie a Kerry. «Eh?» «Be', ormai sei una celebrità, no?» «Tutte e due», intervenne Joan. «Non me lo ricordare. Non mi sono mai sentita così imbarazzata in vita mia. Avrei voluto scomparire quando l'acrobata mi ha agguantata a quel modo.» «Non sarebbe potuto salire sul suo monociclo, senza il tuo aiuto», rise Dave. Debbie gli mollò un pugno sulla spalla. «Andiamo, ragazzi!» disse Joan. Debbie prese la mano di Steve. «A ogni modo ci vediamo dopo, okay?» «Dove andate?» volle sapere Joan. «A mangiare la pizza da Pete. Domani Steve deve tornare a casa e abbiamo pensato... di approfittare di ogni minuto.» «Posso andare anch'io?» domandò Kerry. «No, non puoi», rispose sua madre. «Perchééééé?» «Perché è tardi. Dovresti essere a letto da un pezzo.» «Non ho sonno.» «Gli rovineresti la festa», spiegò Dave. «Non è vero.» «Per me va bene, se vuole venire con noi», disse Steve. «Certo», aggiunse Debbie, accarezzando i capelli della bambina. «Questa è una serata speciale per lei. Non vorrete guastargliela.» Dave e Joan si scambiarono un'occhiata. Poi Joan si strinse nelle spalle. «Se insistete...» «La riportiamo a casa fra un'ora», promise Steve. «Forse dovremmo andare anche noi», suggerì Dave. Kerry guardò suo padre e dichiarò: «Ci guastereste la serata». «Va bene», tagliò corto Joan. «Io farò una passeggiata sulla spiaggia.» Dave captò lo sguardo nei suoi occhi. «Io pure.» Rimasero a guardare la piccola Kerry che si allontanava con Debbie e Steve. «Due innamorati e un anatroccolo», commentò Joan. «Kerry si divertirà un mondo.» Dave guardò su e giù nel viale. Sembrava deserto. Abbracciò sua moglie, l'attirò a sé e la baciò sulla bocca. In quel mo-
mento si spensero i lampioni. «Scendiamo alla spiaggia», propose lei senza staccare le labbra. Si avviarono camminando vicini, Joan appoggiandosi al fianco di lui. In fondo alla scaletta si fermarono mentre lei spiegava la coperta. La spiaggia era inondata dal chiaro di luna. L'oceano appariva nero, tranne che per la cresta spumeggiante delle onde che correvano verso la riva. «Vieni sotto la coperta?» offrì lei. «Puoi scommetterci.» Si drappeggiarono la coperta sulle spalle, chiudendola sul davanti. «Bello e piacevole», commentò Joan. «E intimo», aggiunse Dave, infilando la mano sotto il maglione per accarezzarle la schiena. «Temi qualche interferenza?» lo stuzzicò lei. «Non si sa mai.» Joan guardò dietro, verso il buio sotto l'assito. Dave la sentì irrigidirsi. Girò la testa di scatto. Non vide nessuno. «Fifone», sorrise lei e gli infilò la mano nella tasca posteriore dei pantaloni. «Andiamo.» Lui la trascinò avanti, ansioso di mettere una certa distanza fra loro e la zona buia che si stendeva sotto il parco dei divertimenti. Probabilmente c'erano dei derelitti, là sotto, pensò Dave. Boleta Bay ne ospitava tuttora. Non tanti, però. Non quanti ve n'erano quella notte, tanto tempo fa. I troll erano fuggiti dalla Casa dei divertimenti prima che la polizia setacciasse il posto nelle prime ore del mattino. A mezzogiorno non si trovava un troll vicino al luna park o sulla spiaggia. Molti erano stati notati sulle strade che conducevano fuori città. Qualcuno che non era scappato era caduto vittima dei cittadini furibondi. Erano stati picchiati, condotti in periferia e perfino assassinati. Nelle settimane che seguirono, erano stati rinvenuti i corpi di quattordici barboni nei vicoli, sotto Funland, nei boschi. Tutti i cadaveri tranne tre portavano addosso un cartoncino con la scritta: «Saluti dal Great Big Billy Goat Gruff e Compagni». I killer non erano mai stati presi. Ben presto non un troll circolava entro i confini di Boleta Bay. La Casa dei mostri e la succursale di Jasper erano state demolite quell'inverno. Al loro posto era stato eretto l'anfiteatro, che era stato inaugurato
con il matrimonio di Robin e Nate, in giugno. A Dave il matrimonio era sembrato un esorcismo, una cerimonia purificatrice che bandiva i residui del male dal luogo che aveva visto tanto orrore. Quell'estate, alcuni vagabondi e mendicanti ricominciarono ad apparire in città. Gli abitanti non fecero loro alcun male. Sembravano diversi da quelli che avevano infestato la zona ai tempi della Casa di Jasper. In un certo senso, sembravano meno minacciosi. Meno minacciosi, ma la vista di uno di loro non mancava mai di ricordare a Dave quella famosa notte, suscitandogli brividi di gelo. Joan aveva la stessa reazione. Quando raggiunsero la riva, lei si voltò indietro per assicurarsi che non fossero seguiti. «Libera la costa?» chiese Dave. «Sembra di sì.» Joan sollevò la coperta e Dave la strinse a sé. Le alzò il maglione per carezzarle i seni e Joan gemette sommessamente: «Cerchiamo un posto dove allargare la coperta». «Qui all'aperto?» Lei scrutò la spiaggia, poi indicò la baracca dei bagnini, a pochi metri di distanza. «Là sotto è buio», osservò. Dave le baciò i seni e abbassò il maglione. Avvolti nella coperta, proseguirono sulla sabbia battuta verso la zona buia. «Farà freddo», osservò Dave. «Spetta a te scaldarmi.» «Bene, ci proverò.» «E io ricambierò il fav...» Una forma scura si levò davanti alla baracca sopraelevata. Joan si strinse a Dave, la mano serrata sul fianco di lui. La forma illuminata dalla luna si lasciò cadere sulla sabbia, inciampò, cadde in ginocchio. Poi si rialzò e prese a camminare verso di loro. «Cristo!» borbottò Joan. Era un uomo. Un troll. La selvaggia massa di capelli e la barba brillavano come neve sotto la luna. Indossava un giaccone che era troppo grande per il suo corpo ossuto. I risvolti dei pantaloni laceri erano arrotolati, le caviglie nude. Una delle due scarpe da tennis non aveva lacci e gli ballava sotto il piede. L'uomo tese la mano.
«Andiamocene», disse Dave. «Mi date un quarto di dollaro?» La voce era brusca e squillante. Una voce troppo giovane per un troll dai capelli bianchi. «Un quarto, eh? Che ne dite, gente?» «Dagli qualcosa, Dave.» La mano di Dave tremava quando tirò fuori il portafoglio. Si sentiva male, spaventato e furioso che quel maledetto intruso gli guastasse la festa. Ma provava anche pena per quell'individuo. Prese una banconota da cinque dollari e la diede al troll badando a non toccare la sua mano sudicia. «Dio vi benedica tutti e due!» Il troll corse via e si arrampicò sulla scaletta di legno della baracca dei bagnini. Dave e Joan si affrettarono a tornare verso la scala che dalla spiaggia conduceva al luna park. Dave sentiva tremare Joan contro di lui. «Sarebbe stato così bello...» borbottò. «Sarà più bello nel nostro letto.» *** Cinque dollari. Cinque bigliettoni. Dio li benedica, pensò. Si chiese chi fossero. Gli sembravano dei visi familiari. Forse li aveva visti da qualche parte. Ecco, forse la donna era un'infermiera. Cercò di immaginarsela vestita di bianco, mentre, sorridendo, gli dava le pillole. Si cacciò la banconota nel taschino della camicia. Poi si mise in ginocchio e guardò le assi della piattaforma. Sapeva che i ragni erano là. Solo che non riusciva a vederli. Troppo buio, anche con la luna. Dalla tasca del giaccone prese una bomboletta insetticida e spruzzò la schiuma biancastra. Avanti e indietro, su e giù. «Siete sistemati», masticò. «Sicuro, non arriverete al vecchio Duke.» Quando ebbe la certezza di essere al sicuro, rimise in tasca la bomboletta e tirò fuori una bottiglia di vino rosso. L'alzò alla luna e la scosse. C'era ancora qualche sorsata. Svitò il tappo e cominciò a bere. FINE