Presentazione Cresciuto in una comunità ebrea ortodossa nello stato di New York, fra mille divieti e sotto la costante ...
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Presentazione Cresciuto in una comunità ebrea ortodossa nello stato di New York, fra mille divieti e sotto la costante minaccia di un Dio vendicativo, Shalom Auslander ha fatto di tutto per affrancarsi da quell’ambiente, eppure si ritrova, anche da adulto, a lottare per scrollarsi di dosso la sua ossessione. Perché lui crede, e non può fare a meno di credere, in un Dio personale. È convinto che Dio ce l’abbia «personalmente» con lui: dai tempi delle prime disastrose esperienze con le ragazze, ai due anni trascorsi in una scuola religiosa di Gerusalemme per adolescenti ebrei irrequieti, fino ai mille traslochi insieme alla moglie alla ricerca della loro personale Terra Promessa, l’autore ripercorre le tappe di un percorso di formazione a ostacoli. Shalom Auslander ha scritto un memoir esilarante e dissacrante, il ritratto irresistibile di una famiglia e di una comunità, la storia di una ribellione (quasi) impossibile.
Shalom Auslander è nato e cresciuto a Monsey, New York. Ha scritto per le testate «New Yorker», «Esquire» e «New York Times Magazine» e collabora regolarmente alla trasmissione radiofonica This American Life. Guanda ha pubblicato A Dio spiacendo.
LE FENICI NARRATIVA
Titolo originale Foreskin's Lament
Nel libro sono stati modificati i nomi e le descrizioni di alcuni luoghi e delle persone citate.
Fotografie: Vincent Oliver/Getty Images; Nick Daly/Getty Images; Holly Harris/Getty Images; Daly & Newton/Getty Images; Mario Tama/Getty Images; Bert Loewenherz/Getty Images.
Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabottolo
Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it www.infinitestorie.it ISBN 978-88-6088-174-8
Copyright © 2007 by Shalom Auslander All rights reserved included the right of reproduction in whole or in part in any form. This edition published by arrangement with Riverhead Books, a member of Penguin Group (USA) Inc. ©2009 Ugo Guanda Editore S.p.A., Viale Solferino 28, Parma Gruppo editoriale Mauri Spagnol www.guanda.it
Prima edizione digitale 2011 Realizzato da Editype s.r.l. Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
4. E Dio disse a Mosè: «Ecco il paese che io ti ho promesso, ma tu non vi entrerai. Tiè». 5. E Mosè morì. DEUTERONOMIO
1 Quando ero bambino, genitori e insegnanti mi parlavano di un uomo che era molto potente. Mi dicevano che poteva distruggere il mondo intero. Mi dicevano che poteva sollevare le montagne. Mi dicevano che poteva dividere il mare. Era importante mantenerlo di buonumore. Quando obbedivamo a quanto ci aveva comandato, gli piacevamo. Gli piacevamo talmente tanto che uccideva quelli a cui non piacevamo. Ma quando non obbedivamo a quanto ci aveva comandato, non gli piacevamo. Ci odiava. Certi giorni ci odiava talmente tanto che ci uccideva. A volte invece lasciava che altri ci uccidessero. Questi giorni noi li chiamiamo «giorni di festa». Per Purim, ci ricordiamo di quando cercarono di ucciderci i persiani. Per Pesach ci ricordiamo di quando cercarono di ucciderci gli egiziani. Per Chanukkah, ci ricordiamo di quando cercarono di ucciderci i greci. «Sia Egli benedetto» pregavamo. Per crudeli che fossero queste punizioni, non erano niente in confronto alle punizioni che ci elargiva Lui in persona. Allora arrivavano carestie. Arrivavano diluvi. Arrivava furibonda la vendetta. Hitler avrà pure sterminato gli ebrei, ma questo signore ha inondato il mondo. Ecco la canzoncina su di lui che cantavamo all’asilo:
Dio è qui Dio è lì Dio è ovunque In ogni dì
Poi, merenda e un sonnellino agitato. Sono stato allevato come un vitello nella cittadina ebreo-ortodossa di Monsey, nello stato di New York, dove era proibito mangiare insieme vitello e latticini. Se avevi mangiato vitello, ti era proibito mangiare latticini per sei ore. Se avevi mangiato latticini, ti era proibito mangiare vitello per tre ore. Era proibito mangiare maiale sempre, o per lo meno fino all’arrivo del Messia. Solo allora, ci aveva insegnato il rabbino Napier in quarta, i malvagi sarebbero stati puniti, i morti sarebbero resuscitati, e i maiali sarebbero diventati kosher. «E vai!» dissi dando il cinque al mio miglior amico, Dov. «Dovresti riservare questo entusiasmo» disse il rabbino Napier, sbirciando con disgusto al di sopra degli spessi occhiali cerchiati di corno «per il Giorno del Giudizio.» Gli abitanti di Monsey erano terrorizzati da Dio, e mi insegnarono a essere anch’io terrorizzato da Lui. Mi raccontarono di una donna di nome Sara che aveva ridacchiato, e perciò Lui l’aveva resa sterile. Di un uomo di nome Giobbe che era triste e aveva chiesto: «Perché?» e allora Dio era sceso sulla terra, e afferrando Giobbe per la collottola aveva ululato: «Ma chi cazzo ti credi di essere?» Di un uomo di nome Mosè che era fuggito dall’Egitto e aveva vagato nel deserto per quarant’anni in cerca di una Terra Promessa, e che Dio aveva ucciso proprio prima che la raggiungesse – come cadere di faccia sulla linea del traguardo – perché Mosè una volta, quarant’anni prima, aveva peccato. Il suo delitto? Aver percosso una roccia. E così all’inizio dell’autunno, quando le foglie soffocavano, cambiavano colore e cadevano morte, gli abitanti di Monsey si riunivano nelle sinagoghe della città e si domandavano, a voce alta e all’unisono, in che modo Dio li avrebbe uccisi. Chi vivrà e chi morirà, pregavano. Chi al tempo predestinato e chi prima del tempo. Chi con l’acqua e chi col fuoco, chi con la spada, chi con le belve, chi
per carestia, chi per la sete, chi per la tempesta, chi per la peste, chi per strangolamento e chi per lapidazione. Poi, pranzo e un sonnellino agitato.
È lunedì mattina, sei settimane dopo che io e mia moglie abbiamo saputo che lei è incinta del nostro primo figlio, e io sono fermo a un semaforo. Il piccolo non ha alcuna probabilità di farcela. È un trucco. Io questo Dio lo conosco, lo so come funziona. Mia moglie abortirà, oppure il bambino morirà durante il parto, oppure mia moglie morirà durante il parto, oppure moriranno tutti e due durante il parto, oppure nessuno dei due morirà e io penserò di averla scampata, e poi mentre li riporterò a casa in macchina dall’ospedale avremo uno scontro frontale con un automobilista ubriaco, e moriranno tutti e due, mia moglie e mio figlio, al pronto soccorso proprio di fronte alla stanza dove ci trovavamo solo pochi minuti prima, felici, vivi e pieni di speranze. Sarebbe proprio da Lui.
Gli insegnanti della mia gioventù non ci sono più, i genitori sono vecchi e non siamo più in buoni rapporti. Il tizio di cui mi parlavano, però, è ancora in circolazione. Non me lo scrollo di dosso. Ho letto Spinoza. Ho letto Nietzsche. Ho letto il «National Lampoon». Non è servito. Vivo con Lui ogni giorno e lo scruto: è ancora arrabbiato, ancora vendicativo, ancora – eternamente – incazzato. «L’uomo fa piani» dicevano i miei genitori «e Dio se la ride.» «Quando meno te l’aspetti» ammonivano i miei insegnanti «aspettatelo.» E io così faccio. Per tutta la giornata, un festival di film dell’orrore senza fine si dipana nella mia mente, il mio Grand Guignol privato. Non c’è un’ora che passi senza qualche raccapricciante, orripilante fantasia di morte, angoscia e tormento. Mentre cammino per la strada, mentre riempio il carrello al supermercato, mentre faccio il pieno di benzina. Amici che muoiono, persone care che vengono assassinate, cani e gatti di casa investiti da un camion della nettezza urbana e uccisi.
Più avanti, dopo l’incrocio dove la strada gira bruscamente a destra, le macchine rallentano, e mentre scompaiono dietro la curva le luci dei freni lampeggiano. Un incidente, immagino, e immagino di passarci davanti. Testa di cazzo, apostrofo il conducente, come ti è venuto in mente di accelerare proprio qui?... e a quel punto riconosco la macchina. È una Nissan nera. Sembra quella di Orli... E poi vedo mia moglie al volante, schiacciata, insanguinata, la testa riversa, la lingua di fuori. È morta. Riesco a provocarmi le lacrime, in questo modo. Se sono in uno stato di particolare schifo verso me stesso posso arrivare, come un fotografo della Reuters, ad appoggiarle un giocattolo sul grembo grondante sangue, o anche un coloratissimo pacco-regalo sul cruscotto, proprio nel punto esatto in cui la sua testa lo ha fracassato. Esterno-giorno, più tardi. Sono seduto sul guardrail, inconsolabile. «Lei è ancora giovane» dice un poliziotto. «Ha tutta la vita davanti.» «Era incinta» sussurro. Primo piano sulla faccia dell’incallito poliziotto. Le ha viste tutte, ma questa... Una lacrima gli scende lungo la guancia. THE END. Il nostro bambino non ancora nato è la nuovissima star dei miei show dell’orrore. Ad appena sei settimane dal suo concepimento è già stato deforme, squilibrato, malato, abortito, è
stato scambiato per un tumore e bombardato di radiazioni, è stato spiaccicato, sbatacchiato, impalato durante un atto sessuale sconsiderato e troppo tardivo, ed è stato stracotto quando Orli si è addormentata nel bagno bollente. «Sei sicura che l’acqua vada bene?» le ho chiesto mentre si immergeva nella vasca con un sospiro. «Mi sembra un tantino calda.» «Sparisci» ha detto lei. Ho passato il dito sulla condensa che si era formata sul vetro della doccia. «Non devi rendere le cose facili a Lui» ho detto. «SPARISCI!» Quando ero ragazzino, mi dicevano che quando fossi morto e andato in Cielo, gli angeli mi avrebbero portato in un grande museo pieno di quadri che non avevo mai visto prima, i quadri che sarebbero stati creati con tutto lo sperma artistico che avevo sprecato in vita mia. Poi gli angeli mi avrebbero portato in un’immensa biblioteca piena di libri che non avevo mai letto, i libri che sarebbero stati scritti con tutto il prolifico sperma che avevo sprecato in vita mia. Poi gli angeli mi avrebbero portato in un’enorme casa di preghiera con centinaia di migliaia di ebrei che pregavano e studiavano, gli ebrei che sarebbero nati se io non li avessi uccisi, sprecati, asciugati con un calzino sporco nel corso del ripugnante disastro della mia spregevole esistenza (ci sono grosso modo cinquanta milioni di spermatozoi in ogni eiaculazione. Fa più o meno nove Olocausti a ogni sega. Quando mi dissero questa cosa, stavo per entrare nella pubertà, o la pubertà stava per entrare in me, e commettevo genocidio, in media, tre o quattro volte al giorno). Mi dissero che quando fossi morto e andato in Cielo, sarei stato bollito vivo in gigantesche tinozze riempite con tutto il seme che avevo sprecato in vita mia. Mi dissero che quando fossi morto e andato in Cielo, tutte le anime di tutto lo sperma che avevo sprecato in vita mia mi avrebbero dato la caccia per l’eternità attraverso il firmamento. Non è necessario essere rabbini, per giocare a questo gioco – forza, provateci! – tutto quello che vi serve è terrore, istinto sanguinario e una vena ironica macabra e violenta. Ecco la mia: temo che Dio metta tutti gli spermatozoi sani, perfetti e di talento nelle prime eiaculazioni della vita di un uomo – futuro premio per chi ha esercitato il controllo sulle sue rivoltanti intenzioni – e che poi, man mano che gli anni passano e lui eiacula ancora e ancora (e ancora, e ancora, e ancora), la qualità dello sperma crolli. Quando è il momento, ormai restano solo gli scarti: quelli con gli occhi storti, quelli coi denti sporgenti, quelli con la mandibola in fuori, oppure in dentro, quelli coi piedi piatti, quelli con le dita palmate, gli idioti, gli infingardi, i criminali, i ritardati, i fessi, i deficienti, i bastardi. Sarebbe proprio da Lui. Ero nel mio ufficio a lavorare su uno dei miei saggi, quando Orli venne a darmi la notizia. «Sono incinta!» gridò. Ci baciammo, piangemmo, ci abbracciammo stretti stretti. Lei, suppongo, immaginando fiocchi rosa, ninnenanne e scarpine da neonato, mentre io mi vedevo inginocchiato a singhiozzare davanti a un letto nella sala parto di un ospedale, madre e figlio morti. «È raro che succeda» avrebbe detto l’infermiera, sfilandosi i guanti insanguinati e buttandoli nella pattumiera. Mi batte sulla spalla, e io alzo lo sguardo. I nostri occhi si incontrano. Lei arriccia il naso. «Presto avremo bisogno della stanza, caro» dice. Le storie su cui stavo lavorando parlavano della mia vita sotto il pugno di un dio violento e belligerante; un dio che si è svegliato millenni fa dal lato sbagliato del firmamento e non gli è ancora passata. Titolo provvisorio: Dio cammina accanto a me puntandomi una calibro .45 nelle costole. Avevo già scritto più di trecentocinquanta pagine. «Usciamo, stasera» disse Orli. «Dobbiamo festeggiare.» Ci baciammo, ci abbracciammo, piangemmo un altro po’, e non appena Orli fu uscita mi sedetti al computer, sospirai e trascinai tutte le trecentocinquanta pagine dei miei saggi nel cestino del computer. «Sei sicuro» mi chiese il computer «di voler spostare gli elementi nel cestino? Questo ne comporterà l’eliminazione permanente.»
Ero sicuro. Meglio non provocarLo. Sono stato sulla scacchiera di Dio abbastanza a lungo da sapere che ogni mossa in avanti, ogni piccola buona notizia – Successo! Matrimonio! Figlio! – è soltanto un «trucco divino», una finta, un falso, una trappola. Sembra che io mi stia facendo strada sulla scacchiera, ma in men che non si dica Dio dà scacco matto e la società che mi aveva assunto fallisce, la moglie muore, il figlio neonato soffoca nel sonno. Il «pick-and-roll» di Dio. Il bluff a poker del Signore. «Dio è qui. Dio è lì. Dio è ovunque in ogni dì.» «Dammi retta» dice il Topo A, «quel cazzo di formaggio è una trappola.» «Ma la pianti?» mugola il Topo B. «Quanto sei pessim... zac!» Mi domando se avere un figlio non significhi cadere nella loro trappola – di Dio, della mia famiglia, di Abramo, di Isacco, di Giuseppe – quella di continuare il ciclo, di mettere un altro ragazzino sull’altare sacrificale. Crescete e moltiplicatevi, dice il Signore, e poi ci penso io. Il semaforo è ancora rosso, e la mia mente vaga. Vaga nel cimitero, passeggia nell’obitorio, girovaga per Bergen-Belsen. C’è qualcosa che non va nel bambino. C’è qualcosa proprio ora, in questo preciso momento, mentre sono fermo qui a questo semaforo a rigirare il pelo di un sopracciglio fuori posto e a tormentare la fodera di gomma del volante, proprio ora qualcosa del mio bambino non ancora nato non si sta sviluppando correttamente: un qualcosa non sta ricevendo abbastanza di chissacchè, un chissacchè non sta ricevendo abbastanza di qualcosa, qualche cellula non si divide, qualche altra cellula si divide troppo. Giorni fa, ho ricominciato a lavorare alle storie su Dio. Sto forzando la mano alla fortuna, lo so. Ma se questo bambino, chissà come, vivrà, voglio che lui o lei sappia da dove vengo; perché non gli ho (o non le ho) insegnato quello che hanno insegnato a me; perché – per dirla con le parole di mia madre in una delle sue ultime e-mail – ho abbandonato il mio popolo. Lo so, Dio sa che cosa ho scritto finora, e so che Lui sa che ci sta facendo la figura dello stronzo. Lui sa anche che andando avanti non potrò che peggiorare le cose, e sta facendo tutto ciò che è in suo potere per impedirmi di finire. Uccidendomi? Troppo banale. Ammazzando il bambino per cui sto scrivendo il libro? Sarebbe proprio da Lui. Io immagino che in Cielo, zona centro, ci sia un alto palazzo nero – tonnellate di acciaio e cemento, molto stile corporation, con una piazzola per fumatori davanti all’ingresso e una caffetteria al terzo piano – un palazzo in cui Dio ha stabilito il quartier generale universale del Suo «Dipartimento di Castigazione Ironica» e cioè il posto dove inventano proprio questo genere di spassoso intreccio. Qui è dove vanno gli scrittori quando muoiono: romanzieri, poeti, sceneggiatori di sitcom, autori di varietà. Un tavolo di ferro e una sedia dura in un minuscolo cubicolo del DCI, dove ogni storia umana ha bisogno del suo finale unico e irripetibile, ma dove ogni finale è placidamente lo stesso: orribile. La donna al volante dietro di me si appoggia al clacson. Il semaforo è diventato verde. Guido fino alla curva dove le macchine hanno rallentato a causa di un fanatico del jogging che arranca sul ciglio della strada. Niente incidente, niente moglie morta. Non ancora; comunque, non oggi. Lo supero, sollevato per un momento. Ma solo per un momento, prima di immaginare che il corridore sia il mio amico Roy e non appena io imboccherò la prossima strada, Roy, subito dietro di me, verrà investito da un furgone e ucciso. Un furgone per le consegne. Un furgone per le consegne diretto a casa di Roy. Per consegnargli – aspettate – le sue riviste pornografiche. Ah-ah, rideranno al DCI, così impara! Qualcuno riceverà un aumento. Nella caffetteria ci sarà una torta. Se per caso vi ho conosciuto e mi siete piaciuti un po’, vi immagino morti, decapitati, smembrati. «Ti stai autopunendo» dice Ike. Ike è il mio psichiatra. «Lo so» rispondo io. «Non hai fatto niente di male» dice lui. «Lo so» rispondo io. Ike dice qualche altra cosa, ma non lo ascolto più. Sto immaginando una telefonata di sua moglie
in singhiozzi. «Ike è morto» dice. «Lo so» rispondo io. E so anche come: orribilmente.
2 Il rabbino Kahn entrò nella nostra classe di terza elementare, appese all’attaccapanni il suo lungo cappotto nero, si tolse il grande cappello nero e diede a ogni scolaro un piccolo libretto nero intitolato Guida alle Benedizioni. Avevamo una settimana di tempo, ci disse, per prepararci all’annuale gara di benedizioni della Yeshiva di Spring Valley. Il mio cuore fece un balzo. Era proprio quello di cui mia madre aveva bisogno: la mia vittoria alla gara di benedizioni le avrebbe fatto dimenticare tutti i guai di casa nostra. Avere per figlio un talmid chuchum, uno studente saggio, era davvero la soddisfazione massima. Suo fratello era un rabbino rispettato, e se suo marito non era riuscito a diventarlo, forse ci sarebbe riuscito suo figlio. La Guida alle Benedizioni era composta da settanta pagine in cui erano elencati centinaia di cibi diversi, divisi in diversi capitoli: Zuppe, Pane, Pesce, Dolci. La sfogliai, rendendomi conto a poco a poco dell’entità della sfida che avevo davanti, e mi ritrovai rapidamente affamato. Falafel? Aringhe? Melanzane alla parmigiana? Mi ero trovato proprio il compito giusto.
Il venerdì pomeriggio la yeshiva chiudeva prima, così noi potevamo correre tutti a casa ad aiutare i nostri genitori a prepararsi per Shabbos, lo Shabbat. Il rabbino Kahn ci aveva detto che i Saggi ci dicono che la Torah ci dice che i preparativi per lo Shabbat sono importanti quanto lo Shabbat stesso. Nel mio caso i preparativi consistevano per lo più nel cercare per tutta casa il vino kosher e buttarlo nel water. Era un lavoro ingrato che non confessavo a nessuno. La rabbia e la frustrazione di mio padre quando non aveva il suo Manischewitz Concord Grape erano spaventose, ma erano sempre meglio della sua rabbia da ubriaco quando lo beveva. Ispezionavo la dispensa, ispezionavo il garage, ispezionavo l’armadio di mio padre. Ma avevo solo otto anni, e c’era sempre una bottiglia di Kedem nascosta in qualche posto dove io non avevo pensato di guardare. Quella sera mio padre, ubriaco grazie a una bottiglia di Chablis che si era salvata, afferrò mio fratello maggiore per la collottola e lo trascinò via dalla tavola dello Shabbat. Lo trascinò fino alle scale che portavano alla nostra camera da letto nel seminterrato e sbatté la porta. Perfino le posate fecero un salto. «Chi vuole l’ultimo kneydl?» chiese mia madre. «Ne ho fatto qualcuno in più.» Quando mio fratello tornò a tavola, gli usciva il sangue dal naso. Mia madre gli portò una lattina di aranciata congelata da mettersi sulla nuca, cosa che avrebbe dovuto in qualche modo arrestare il sanguinamento. Il rabbino Kahn ci aveva insegnato che è proibito scongelare l’aranciata gelata di Shabbat, perché trasformare un cibo solido in liquido è considerato cucinare, e cucinare è considerato un lavoro, e perfino il Signore si astenne dal lavoro di Shabbat. Delle trentanove categorie di lavoro che sono proibite di Shabbat, cucinare è la categoria numero 7. Ecco perché non è permesso accendere la luce: l’elettricità fa brillare il filamento della lampadina, il che è considerato bruciare, il che è considerato lavorare (categoria 37). Mio padre tornò a tavola e cantò con voce da ubriaco qualche canto dello Shabbat, farfugliando e
battendo pesantemente il pugno sul tavolo. Io sedevo con la testa incassata nelle spalle, disegnando con aria assente dei cerchi sulla condensa che si formava sulla caraffa d’argento per l’acqua. Mio padre mi colpì sulla mano. «Shabbos!» urlò (scrivere: categoria 5). Alla fine barcollò fino alla sua camera e si addormentò russando forte, mentre noi sedevamo in sala da pranzo, piluccando depressi il cibo. Il lunedì mattina seguente, mentre eravamo impegnati a studiare i nostri libri delle Benedizioni, qualcuno bussò alla porta della classe del rabbino Kahn, e il rabbino Goldfinger, il direttore della yeshiva, entrò solennemente. Ci alzammo tutti in piedi. I due rabbini conferirono a bassa voce per un momento prima di farci cenno di sedere. Dopo qualche pensierosa lisciata alla sua lunga barba nera, il rabbino Goldfinger sospirò profondamente e ci informò che la notte prima il padre del nostro compagno di classe Avrumi Gruenembaum aveva avuto un infarto ed era morto. Certi ragazzini hanno tutte le fortune. «Benedetto sia il Giudice di Verità» disse il rabbino Kahn annuendo col capo. «Benedetto sia il Giudice di Verità» rispondemmo tutti annuendo col capo. Mi chiedevo che cosa potesse aver fatto Mister Gruenembaum per meritare la morte. Si era prostrato davanti agli idoli? Aveva camminato per quattro passi senza indossare la yarmulke? Di qualunque cosa si trattasse, doveva essere parecchio grave. Mentre si girava per andarsene, il rabbino Goldfinger si fermò e agitando severamente un dito ricordò a tutti noi che i Saggi ci dicono che la Torah ci dice che fino all’età di tredici anni tutti i peccati di un ragazzo ricadono su suo padre. Mi girai a guardare la sedia vuota di Avrumi. Avrumi era un ragazzino grassoccio coi denti alquanto disastrati e l’alito cattivo, ma a un tratto mi nacque dentro un gran rispetto per lui. Di qualunque cosa si trattasse, doveva essere parecchio grave. Con fiero cipiglio, il rabbino Goldfinger consigliò a tutti quanti noi di chiedere perdono a Hashem, il Santo, sia Egli benedetto, affinché non decidesse di uccidere anche i nostri padri. Il mio cuore sobbalzò. «Benedetto sia Hashem» disse lui. «Benedetto sia Hashem» rispondemmo noi. Benedetto sia Hashem, giusto. Tutt’a un tratto avevo due modi per migliorare le cose: potevo vincere la gara di benedizioni per mia madre, e potevo peccare così tanto che Hashem avrebbe dovuto uccidere mio padre. Coraggioso, Avrumi Gruenembaum. Magari aveva acceso la luce una sera di Shabbat. Magari aveva bevuto latte dopo aver mangiato carne. Magari si era toccato. Quella sera, prima di andare a letto, mangiai una coscia di pollo, la buttai giù con un po’ di latte, mi toccai e accesi e spensi più volte la luce in camera da letto. «Se rompi quella lampadina, ti spezzo le dita» urlò mio padre. Sarebbe stata una settimana molto piena.
La gara di benedizioni funzionava come una gara di ortografia. Esistono sei benedizioni di base per il cibo: hamotzei, la benedizione per il pane; mezonos, la benedizione per il frumento; hagofen, la benedizione per il vino o il succo d’uva; ha-eitz, la benedizione per le cose che crescono sugli alberi; ho-adamah, la benedizione per le cose che crescono sulla terra; e shehakol, la benedizione per tutto il resto. Bagel? Hamotzei. Farina d’avena? Mezonos. Pesce marinato? Shehakol, la benedizione per tutto il resto. Ma questa era la parte facile. Le cose diventavano molto più complicate quando uno cominciava
a mescolare i cibi. Certi cibi sono superiori ad altri, e se combinati con cibi subordinati, sono i cibi superiori a ottenere la benedizione. A peggiorare le cose, certe benedizioni sono superiori ad altre, e uno deve sapere quale benedizione recitare per prima. È qui che si distingue un uomo da un goy. Spaghetti con polpette? Mezonos, la benedizione per il frumento, seguita da shehakol, la benedizione per tutto il resto. Cereali col latte? Shehakol per il latte, seguita da mezonos per il frumento che c’è nei cereali. «Twix», la barretta di cioccolata con dentro il biscotto croccante? Domanda-trabocchetto: «Twix» non è kosher. Naturalmente per una barretta kosher con frutta, noci o altro ripieno, la benedizione dipende dal perché uno la mangia. Se la mangi perché ti piace in particolare il ripieno, devi recitare la benedizione appropriata per quel ripieno. Se invece la mangi tanto per la cioccolata che per il ripieno, allora devi recitare prima una shehakol per la cioccolata, e a seguire la benedizione appropriata per il ripieno. Teologicamente parlando, per una barretta di cioccolata non ne vale la pena.
Passai la settimana seguente a peccare e benedire, a benedire e peccare, alternativamente pregando Dio e sfidandolo, per quanto lo potesse sfidare uno di otto anni. Lunedì mattina mi ingozzai: mangiai una tazza di cereali (mezonos), una fetta di pane tostato, (hamotzei), un bicchiere di succo, (shehakol), mezza mela (ha-eitz) e un paio di vecchie patatine fritte che avevo trovato in fondo al frigorifero (ho-adamah). Un pasto, cinque benedizioni. Martedì mi toccai. Inoltre spezzai il pane senza prima lavarmi solennemente le mani, e quella sera, prima di addormentarmi, mi sedetti sul bordo del letto e recitai con cura «merda», «cazzo» e «culo» una dozzina di volte ciascuno. Mio padre bussò arrabbiato alla porta della mia camera da letto. «Spegni la luce» abbaiò. Sorrisi. Sia per te che per me, bello. Mercoledì rubai cinque dollari a mia madre e non recitai nessuna benedizione per il cartoccio di dolciumi che mi ci ero comprato. (Una barretta Charleston, che è treyf, ossia non kosher, tanto per cominciare, e poi un Chunky, che sarebbe stato una shehakol, se non fosse stato un tentativo di uccidere mio padre. Un Chunky con l’uva passa sarebbe stato shehakol, poi ha-eitz.) Giovedì non mi misi gli tzitzis. Il rabbino Kahn notò che non mi pendevano le frange ai lati e mi afferrò per un orecchio trascinandomi davanti alla classe. «Parla ai figli di Israele» citò a voce alta dalla Torah mentre mi sculacciava violentemente «e di’ loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti!» Quel pomeriggio, dopo aver mancato di rispetto ai miei vecchi non portando fuori la spazzatura come mia madre mi aveva chiesto di fare, nonché profanato un libro di preghiere portandolo in bagno, mi toccai – due volte – e implorai silenziosamente Dio di mettere i miei peccati, solo per questa volta, sul conto del rabbino Kahn. La mattina dopo c’era la gara di benedizioni celesti, e io non riuscii quasi a dormire. Corn flakes? Ho-adamah. Knish di patate? Mezonos. Tisana alle erbe? Sarà come erbe? O come bevanda? Cazzo. Merda. Culo. Troia. Mi giravo e rigiravo, benedivo e imprecavo e alla fine caddi in un sonno agitato.
Dopo una settimana a casa, Avrumi Gruenembaum tornò guarda caso a scuola proprio in tempo per la gara di benedizioni. Feci uno sforzo per non chinarmi verso di lui e chiedergli come avesse fatto. «Psss, Avrumi. È stata l’aragosta? Hai mangiato l’aragosta? Col bacon? Forza, dai, a me lo puoi dire.»
Il rabbino Kahn ci disse che i Saggi ci dicono che la Torah ci dice che quando Abramo morì, Dio consolò Isacco, così come è scritto nella Genesi 25,11: «Dopo la morte di Abramo, Dio benedisse Isacco». Da questo impariamo che è una grandissima mitzvah, o buona azione, consolare gli afflitti. Il rabbino Kahn ci ordinò di metterci tutti in fila davanti al banco di Avrumi per stringergli la mano e recitare la formula tradizionale per il lutto: «Possa Dio consolarti tra coloro che sono in lutto a Sion e a Gerusalemme». Avendo solo otto anni, io non ero ancora molto pratico del sistema di scambio di Dio, però mi venne in mente che, insieme ai miei peccati, mio padre poteva anche beccarsi tutte le mie buone azioni. Non avevo intenzione di correre rischi. «Possa Dio consolarti tra coloro che sono in lutto a Sion e a Gerusalemme» disse Dov ad Avrumi. «Possa Dio consolarti tra coloro che sono in lutto a Sion e a Gerusalemme» disse Motty ad Avrumi. «Come va?» dissi io ad Avrumi. «Che jella.» Il rabbino Kahn mi strinse la pelle del braccio tra pollice e indice e cominciò a torcerla. «Ahi!» urlai io. «Shmendrik!» borbottò lui. Idiota. Dopo che l’ultimo dei ragazzi ebbe chiesto a Dio di consolare Avrumi tra coloro che sono in lutto a Sion e a Gerusalemme, il rabbino Kahn sollevò alta la mano sulla testa e la fece ricadere con un boato sulla sua scrivania. Tremarono perfino i libri di preghiere. Cominciò la gara di benedizioni. Ci mettemmo in fila in fondo all’aula, tirandoci nervosamente gli tzitzis e attorcigliandoci i peyis, i riccioli. Le regole erano semplici: dicevi la benedizione giusta e restavi in piedi per il round successivo. Dicevi la benedizione sbagliata e tornavi a sedere al tuo posto. Il vincitore dell’anno prima, Yukisiel Zalman Yehuda Schneck, stava accanto a me. Appoggiato bello tranquillo alla parete, si scaccolava il naso con nonchalance. Quel ragazzo era di ghiaccio. «Auslander, Shalom!» chiamò il rabbino Kahn. Io feci un passo avanti. «Mela!» urlò lui. «Mela!» gridai io. «Ha-eitz!» «Giusto» disse il rabbino Kahn. La gara di benedizioni cominciava in modo facile. A Dov Becker toccò il tonno (shehakol, la benedizione per tutto il resto), ad Ari Mashinsky il pane azzimo (hamotzei, la benedizione per il pane), e Yisroel Tuchman si arenò sul kugel, che secondo lui era ho-adamah, la benedizione per il cibo che viene dalla terra, mentre in realtà era mezonos, la benedizione per il frumento. Altri tre ragazzi rimasero fregati dal porridge; il borscht con panna acida ne fece secchi altri due, e alla fine del primo round quasi un terzo degli scolari erano già tornati al loro posto. Secondo round. «Auslander, Shalom!» chiamò a voce alta il rabbino Kahn. Feci un passo avanti. «Zuppa di funghi e orzo!» urlò lui. Zuppa di funghi e orzo, zuppa di funghi e orzo. Maledizione. Lo sapevo che avrei dovuto studiare meglio il capitolo sulle zuppe. Avevo sprecato mezza settimana sui primi piatti. Era ho-adamah per i funghi, che venivano dalla terra, oppure era mezonos per l’orzo? Poteva essere shehakol, la benedizione per tutto il resto, per via del liquido? Non aveva detto niente dei crostini... e se c’erano pure i crostini? «Zuppa di funghi e orzo!» urlai io. «Mezonos!» Il rabbino Kahn mi fulminò con lo sguardo, tirandosi la barba, mentre i suoi occhi diventavano due sottili, iraconde fessure. «E... ehm... shehakol?» aggiunsi. Il rabbino Kahn diede un pugno sulla scrivania, a confermare che avevo indovinato. Aveva
un’espressione di trionfo, come se solo il suo sarcasmo e le sue velate minacce fossero artefici del mio successo. Lo strudel di mele fece fuori Dov Becker, Yoel Levine e Mordechai Pomerantz. Il mio amico Motty Greenbaum si bloccò sul cheesecake, e io capii dall’espressione della sua faccia che non sapeva che pesci pigliare. Saggiamente diede due risposte, una per la crosta e una per il ripieno, e in qualche modo riuscì a restare in vita. Era difficile credere che fossimo solo al secondo round. «Gruenembaum, Avrumi!» urlò il rabbino Kahn. Avrumi fece un passo avanti. Io sorrisi a Motty. Avrumi poteva aver ucciso suo padre, ma a parte questo non era molto intelligente. Era già fortunato a essere arrivato al secondo round. «Bagel!» urlò il rabbino Kahn. Bagel? Guardai Motty incredulo. Stava scherzando? Bagel? «Bagel!» gridò Avrumi. «Hamotzei!» Era proprio una presa per il culo. «Giusto!» urlò il rabbino Kahn. «Molto bene!» Ephraim Greenblat, Avrumi Epstein e Yehosua Frankel vennero fatti fuori tutti dal cholent, zuppa con orzo e grossi pezzi di carne, mentre il pâté di fegato sulla challah, con una foglia di lattuga e un pezzetto di oliva, ne eliminò altri quattro, tra cui Motty. E così rimanemmo in tre: giusto Yukisiel Zalman Yehuda Schneck, Avrumi Gruenembaum e il sottoscritto. Cominciò il terzo round. «Auslander, Shalom!» urlò il rabbino Kahn. Io feci un passo avanti. «Gelato!» gridò il rabbino Kahn. «Nel cono!» Gelato nel cono, gelato nel cono. Il gelato lo sapevo, ma perché ci doveva aggiungere il cono? La benedizione era diversa, se il gelato era nel cono? E comunque il cono di che cosa era fatto? Era come una torta? Come un wafer? «Gelato nel cono!» sbraitò il rabbino Kahn. «Ehm... un cono normale o un cono di cialda?» «Cialda!» gridò lui. «Cialda, naturalmente. Un cono di cialda!» Il gelato è subordinato al cono? Il cono è subordinato al gelato? La maggior parte delle calorie vengono dal gelato, quindi forse il cono è subordinato al gelato. Le calorie contano? Però, ecco, se si tratta di un cono di cialda, magari quello che desideri veramente è la cialda, e allora il gelato è subordinato al cono. Signore Iddio, e c’erano anche i confettini? «GELATO NEL CONO!» urlò di nuovo il rabbino Kahn. «Gelato nel cono!» gridai io. «Nessuna benedizione!» Tutta la classe si girò verso di me. Ripensando bene a tutto l’episodio, il rabbino Kahn non mi aveva proprio lasciato scelta. «Nessuna benedizione?» disse il rabbino Kahn. «Perché nessuna benedizione?» «Perché» spiegai torcendo i miei lunghi tzitzis bianchi, «perché... perché in aula c’è odore di cacca.» Ci fu un lungo silenzio. Motty ridacchiò, e altri lo imitarono. Dopo un po’ tutta la classe riecheggiava di risate. Il rabbino Kahn si alzò lentamente in piedi, puntellandosi sulla cattedra coi poderosi pugni. Poteva essere una scappatoia, ma tecnicamente avevo ragione. Il rabbino Kahn in persona ci aveva detto che i nostri Saggi ci dicono che la Torah ci dice che ci sono tre situazioni in cui è assolutamente proibito recitare una benedizione: 1) se si ha di fronte un maschio di oltre nove anni i cui genitali siano scoperti, 2) se si ha di fronte una femmina di oltre tre anni i cui genitali siano scoperti, e 3) in presenza di feci. Francamente, viste le altre due opzioni, penso di aver scelto la risposta meno offensiva.
Per essere un uomo corpulento, il rabbino Kahn si muoveva piuttosto rapido. «È vero» dissi mentre avanzava sparato verso di me. «La Torah dice che...» Mi afferrò con violenza per un braccio, praticamente sollevandomi da terra, e mi trascinò verso la porta, continuando per tutto il tempo a urlare in yiddish. «Ma c’è odore di cacca!» strillai io. «Nell’aula c’è odore di cacca! Aspetti! In aula c’è una ragazza nuda! C’è una ragazza nuda...!» La porta venne sbattuta dietro di me. Mi ritrovai in corridoio, e massaggiandomi il braccio indolenzito cominciai a piangere. Avevo perso la gara di benedizioni, non ero un grande rabbino e mio padre non era ancora morto. Mi riavvicinai in punta di piedi alla porta dell’aula e ascoltai attentamente. Dopo due minuti, Yukisiel Zalman Yehuda Schneck cadde vittima della matzoh brei con sciroppo d’acero, e rimase in gara solo Avrumi Gruenembaum. «Mele!» gridò il rabbino Kahn. «Mele!» rispose Avrumi. «Ha-eitz!» «Mazel tov!» gridò il rabbino Kahn. «Mazel tov!» Una presa per il culo totale.
Quella sera mangiammo il tradizionale gefilte fish del venerdì (shehakol) con una fettina di carota (ho-adamah). Mio padre era di nuovo ubriaco, biascicava le parole dei canti dello Shabbat e batteva pesantemente i pugni sulla tavola. Mia madre andò in cucina e portò la zuppa. Quando mio fratello disse che non ne voleva, mio padre gli diede uno sberlone e gli versò la zuppa di pollo bollente in faccia e sulle gambe. Mia madre portò mio fratello in bagno e si sedette con lui sul bordo della vasca premendogli sulle guance un asciugamano bagnato nell’acqua fredda. Io tornai in sala da pranzo a pulire il pavimento dalla zuppa di pollo. La zuppa di pollo è shehakol, anche se viene cucinata con le verdure, perché il sapore del pollo è quello predominante. Il rabbino Kahn ci aveva detto che i Saggi ci dicono che la Torah ci dice che il Santo, sia Egli benedetto, mandò agli egiziani le dieci piaghe per insegnarci che Egli concede al popolo molte occasioni di pentimento, e solo allora, se il popolo continua a peccare, lo punisce con la morte. Scesi in camera mia, percorsi quattro passi senza la yarmulke in testa, mi toccai, accesi e spensi più volte la luce e mi addormentai.
3 Arrivato all’età di otto anni, avevo già imparato dodici nomi diversi per chiamare Dio, senza contare Quello che non deve mai essere pronunciato. Dunque, c’erano Hashem, El, Adonai, Colui che è pieno di misericordia, Colui che è facile all’ira, lo Spirito Santo, la Presenza Divina, la Roccia, il Salvatore, il Guardiano del Mondo e Colui che fu, Colui che era, che è e che sempre sarà quello che è. Un giorno il rabbino Kahn ci stava insegnando la storia di Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden e si riferì a Dio come a «Nostro Padre che è nei Cieli». Io rabbrividii. Ce n’era un altro? In Cielo? Quello era Dio? Se ne andava in giro in mutande? Quanto era grosso il suo pugno? Grosso come un’automobile? Grosso come una casa? Com’era essere presi a pugni da una casa? Se qualcuno ti colpisce con un pugno grosso come una casa, probabilmente muori, giusto? Insomma, se Dio si ubriacava... Il rabbino Kahn stava dietro la cattedra, in una mano un Chumash, o Pentateuco, l’altra mano a torcere la barba con solennità. «E Dio» disse il rabbino Kahn «era molto arrabbiato.» Chiuse gli occhi, battendo lentamente il pugno sul piano della cattedra mentre scuoteva la testa con disappunto. Nessuno si mosse. Nessuno parlò. Nessuno osò neppure fiatare. «ADAMO!» urlò a un tratto il rabbino Kahn. Tutti fecero un salto. Il rabbino Kahn si alzò in punta di piedi e levò il braccio sopra la testa, con l’indice puntato verso il cielo, oltre il soffitto incombente. «Tu... hai... PECCATO!» Yukisiel si fece piccolo sulla sedia e cominciò a scaccolarsi. Avrumi si arricciava nervosamente i peyis. Io mi strappai un capello dalla cima della testa. Il rabbino Kahn aprì piano gli occhi. «FUORI!» urlò indicando all’improvviso le finestre. «FUORI DI QUI!» Shmuel cominciò ad alzarsi. Così pure Yoel. La nostra aula si trovava al secondo piano. «TUTTI E DUE!» continuò. «FUORI dal mio Giardino dell’Eden!» Il rabbino Kahn mi fissò. Fissava tutti. Il suo dito, che ancora indicava le finestre, tremava di rabbia furente. Io mi strappai un altro capello dalla testa. L’unica cosa che mancava erano le mutande.
Sono seduto in un caffè di Woodstock, New York, e cerco – nonostante il grande impegno della Jihad islamica – di lavorare. Non posso fare a meno di notare che ogni volta che comincio a fare qualche progresso con le mie storie su Dio, aumentano gli attacchi contro Israele, così mi sento colpevole e smetto. Dio mi sta mostrando che cosa succederà se Lo faccio incazzare e se quindi Egli dovesse decidere ancora una volta di lasciare che i nostri nemici ci distruggano? I miei rabbini mi hanno insegnato che è sbagliato dire che Dio causò l’Olocausto, che nel 1938 Egli aveva semplicemente la testa girata da un’altra parte. Guardava altrove. Come? Eh? Genoci... sul serio? Cazzo, ero in bagno. Non un assassino, solo un complice. I titoli dei giornali erano un’implicita minaccia? Sono io il prossimo? I miei insegnanti mi hanno detto che per un ebreo è un peccato punibile dall’alto con la morte mettere in imbarazzo il popolo ebraico, come temo facciano queste storie. Ma inspiro profondamente e mi ricordo che Aaron Spelling se la passa alla grande, e se non costituisce motivo di imbarazzo per il popolo ebraico lui, allora non so proprio chi lo sia.
«E allora Aaron?» dico a Dio. «Prenditela un po’ con Aaron.» Per il Popolo del Libro le parole, in quanto materia di cui i libri sono fatti, hanno un peso. Le parole hanno conseguenze. In principio fu la Parola, e la Parola era il nome del Signore, e così la seconda parola che inventarono, immediatamente dopo la Parola, fu Santa, la parola che descriveva la prima parola che a quel punto ci era proibito pronunciare, anche se essendoci in totale due sole parole, in effetti si tagliava a metà l’intera lingua. Presto vennero le espressioni «non puoi» e «non devi» e «lapidare» e «uccidere» e poi un sacco di altre parole che hai l’obbligo di dire in caso avessi pronunciato la prima Parola: parole di pentimento, scusa, e promesse di non pronunciare mai più quella Parola invano, quant’è vera la Parola. Le parole hanno un peso. «A me sembra narcisismo» dice il mio amico Craig a proposito del mio rapporto con Dio. «Ti consideri troppo importante.» Io immagino noi due legati e imbavagliati in una cantina buia, mentre un criminale mascherato mi punta una pistola alla testa. Tremo, sono nel panico, sull’orlo del pianto. «Sta per uccidermi» bisbiglio. «Gesù» sbuffa Craig. «Sei proprio pieno di te.» In quel momento ci trovavamo in un bar di Manhattan, e io ero preoccupato che Dio potesse ucciderlo mentre tornava a Brooklyn, solo a causa di questa conversazione con me. «Non dovremmo discutere di certe cose qui» dissi. Lui rise scuotendo la testa. «Ma tu pensi davvero che Dio non abbia niente di meglio da fare che rompere i coglioni alla gente?» Il televisore del bar era sintonizzato sulla CNN. C’erano bombardamenti su Israele, uccisioni a Gaza, assassinii nel Darfur. Gli sciiti ammazzavano i sunniti, gli afghani ammazzavano i pakistani, i janjaweed ammazzavano tutti quanti. C’erano ondate di caldo sulla costa occidentale, alluvioni su quella orientale. C’erano terremoti, tsunami, uragani, tornado, valanghe, malattie vecchie e malattie nuove. C’erano sindromi e unindromi e palindromi e cazzindromi. «Sì» gli risposi. «Lo penso.» Ultimamente, la persona a cui credevo rompesse maggiormente i coglioni ero io. Ero nervoso per la nascita imminente, pieno di dubbi su come avrei allevato questo figlio, e terrorizzato che l’immissione di questo bambino nella nostra vita avrebbe in qualche modo re-immesso insieme con lui o con lei le famiglie da cui con tanta fatica avevamo preso le distanze, distanze che avevo appena cominciato a guadagnare, distanze che mi avevano salvato la vita e il matrimonio. Ero meno volubile, meno irritabile. Scrivevo. Ero migliorato come marito e stavo per diventare padre, e temevo che questa fosse la battuta a effetto di Dio: con le pareti del nostro mondo diventate ora più forti, con un tetto solido e sicuro sopra le nostre teste, decidevamo di aprire la porta a un figlio, ed ecco che in questa apertura i ratti e i parassiti del mio passato potevano intrufolarsi, nascondersi nei muri e nelle travi, e far crollare la casa in men che non si dica. «Un bambino» avevo detto a Ike una settimana dopo aver saputo della gravidanza. «E allora?» «E allora lo vorranno vedere.» «La tua responsabilità è verso tuo figlio» disse lui. «E allora che faccio? Gli dico di no e basta?» «Gli dici di no e basta.» «Non sono sicuro di riuscire a essere stronzo fino a questo punto.» «Sono convinto di sì.» «Sei proprio un amico.» Qualche giorno dopo, incontrai una vecchia conoscenza di Monsey. Gli dissi che aspettavamo un
bambino. Lui aveva avuto un figlio da poco, così gli confidai le preoccupazioni sulla mia famiglia. Il giorno dopo mi mandò un’e-mail dicendo che dovevo accettare i miei genitori. Che dovevo rendermi conto che questo bambino non era solo mio figlio, ma era anche loro nipote. Che ci sarebbero state feste e compleanni, e che dovevo accettare il fatto di non poterli tagliare fuori dalla mia vita. «No» risposi. E tagliai fuori lui dalla mia vita. Al bar stamattina regna una quiete idilliaca. È presto, gli unici svegli a quest’ora sono i muratori, i giardinieri e gli scrittori. Forse è il silenzio, forse è l’espresso doppio biologico Zanzibar, ma credo di aver finalmente trovato il tema che collega tutte le storie disparate che sto scrivendo: in pratica sono storie che parlano del desiderio di un uomo di... All’improvviso ne vedo quattro – quattro tette – che vengono verso di me. Ho alzato lo sguardo solo per un momento, ed eccole lì: due donne stanno attraversando Tinker Street, dirigendosi verso il caffè. Sono esattamente il mio tipo, nel senso che sono quasi nude e portano tacchi alti; top bianchi attillati tutte e due, una indossa una gonna corta verde svolazzante, l’altra una gonna lunga bianca, trasparente nel sole che sorge lento dietro di lei, malizioso, celestiale complice del guardone. Non so chi abbia inventato i tacchi, ma mentre quelle due camminano verso di me, mi domando se sia morto e quale punizione Dio possa aver escogitato per lui. L’avrà costretto a camminare con le scarpe alte per l’eternità? Legato a un palo e fatto picchiare con tacchi a spillo di quindici centimetri da tutte le anime furibonde a cui la sua malvagia invenzione aveva impedito di nascere? O magari – uno special del DCI – l’avrà fatto vivere in un mondo in cui tutte le donne indossavano solo ballerine? Forse è stato rispedito indietro sotto forma di tacco di scarpa? Forse è uno dei tacchi di queste due? Una delle donne è sottile e bionda, l’altra è robusta e nera. Eccolo, il mio Dio. Ecco El, ecco Shaddai, ecco il Guardiano del Mondo. Ecco Lui, che non corre rischi e copre l’intera area delle mie incalcolabili perversioni. Le due fluttuano sulla strada: si dimenano, ondeggiano, dondolano, oscillano, un migliaio di movimenti irresistibili a ogni irresistibile passo. Le scaccerebbero da Gerusalemme, queste due. In Afghanistan verrebbero trucidate, in Iran impiccate. Il prezzo della libertà è l’eterno titillamento. Non sono neanche di Woodstock. Questa è una piccola città, io vivo qui da più di dieci anni e non ho mai visto nessuna delle due prima d’ora. È come se si fossero materializzate, stile Star Trek, in mezzo alla strada. Come se il capitano Kirk avesse dato un festino sull’Enterprise e un paio di spogliarelliste in cerca del bagno fossero finite per sbaglio sotto il raggio del teletrasporto. Adesso sono nel bar. La bionda mi guarda mordicchiandosi il labbro inferiore. La nera sorride passandomi accanto. Riporto lo sguardo sul computer. Dove ero rimasto? Non stavo...? Come era...? Credevo di aver risolto. Si parlava di Dio? No, mi sembra strano. Chi ha voglia di leggere cose su Dio? La bionda mi sta sorridendo? Cristo Onnipotente, la nera è proprio sexy. Dove... dove ero rimasto? Ecco, questo è il tipo di Dio con cui devo vedermela.
4 Un sabato sera, poco dopo la gara di benedizioni, il rabbino Blonsky telefonò a mio padre e gli chiese se fosse disposto a costruire una nuova arca santa per la sinagoga. «Colui che contribuisce alla costruzione di una sinagoga» disse convinto il rabbino Blonsky «è come se avesse salvato tutto il popolo ebraico.» La mattina dopo fui svegliato all’alba dal lamento straziante quanto familiare della sega elettrica di mio padre. Il garage era attaccato alla mia camera da letto. «Testa di cazzo» sentii che diceva mio padre. Stava parlando con l’arca. Il rabbino Blonsky era il rabbino della nostra sinagoga, una congregazione di circa cinquanta famiglie che aveva sede in un cottage riadattato su Carlton Road. Il rabbino Blonsky aveva quarant’anni, e si preoccupava un sacco per il popolo ebraico. Io avevo nove anni, ed era il popolo ebraico di casa mia che mi preoccupava un sacco. Un’arca santa non avrebbe aiutato nessuno di noi.
Ormai era già da un po’ di tempo che mi preoccupavo. Due anni prima, quando avevo sette anni, mi ero preoccupato talmente tanto che avevo fatto Nixon. Mio padre aveva aggredito mio fratello col tavolo della sala da pranzo, intrappolandolo nell’angolo e spingendogli il tavolo contro lo stomaco fino a impedirgli di respirare. «Ti prego» aveva detto mia madre. Il rabbino Kragoff ci aveva insegnato che quando Dio disse a Noè che stava per arrivare una terribile tempesta e gli ordinò di costruire l’Arca, Noè rifiutò. «Perché dovrei salvare tutti?» chiese Noè. Allora Dio prese da parte Noè e gli mostrò quant’erano diventate malvagie le genti della sua generazione, avevano dimenticato Dio e si erano lasciate riempire il cuore dall’odio, e allora Noè si rese conto che se non li avesse salvati lui non li avrebbe salvati nessuno. Che è il motivo per cui io cominciai a fare Nixon. Anche i membri della mia famiglia avevano conosciuto terribili tempeste, e l’odio aveva riempito i loro cuori. E dopo aver visto mio padre tentare di uccidere mio fratello col tavolo di Shabbos, mi assunsi il ruolo di barometro familiare, il Noè di Arrowhead Lane numero 7, perennemente impegnato a testare l’atmosfera per registrare eventuali segni di tensione e pericolo. Casa nostra era un centro-uragani a due piani in periferia, e quando le nuvole sulla nostra sala da pranzo erano gonfie di bile e i venti di battibecchi soffiavano da una parte all’altra del tavolo – «Continua così» ringhiava mio padre a mio fratello, coi pugni stretti ai lati del piatto, «e vedrai cosa ti succede» – io saltavo giù dalla mia sedia e mi mettevo a un capo del tavolo. Su il sipario. «Gib a kik» diceva allora mia madre a mio padre. Da’ un’occhiata. Allora io mi giravo, mi mettevo di fronte alla mia famiglia, allargavo le braccia e subito le ritraevo dando forma a una versione personalizzata del Pensatore, la mano destra infilata sotto il gomito sinistro, la sinistra ripiegata sotto il mento. Camminavo fino all’altro capo del tavolo, a sguardo basso, spalle curve, scuotendo la testa e dicendo: «Non sono un ladro, non sono un ladro». «Ma che diamine è?» esclamava mia madre con una risata carica di disperazione. «Sta facendo Richard Nixon» diceva mio fratello. «E che cosa ne sa di Richard Nixon?» Non sapevo niente di Richard Nixon, avevo visto un uomo fare così in televisione qualche giorno prima. Si chiamava Dan Aykroyd. Non sapevo chi fosse neanche lui, ma sapevo che tutti avevano riso.
Credevo di fare Dan Aykroyd. Mio padre faceva del suo meglio per restare arrabbiato, ma dopo un altro po’ di Nixon su e giù per il tavolo, sorrideva, la tempesta passava e il cielo cominciava a schiarirsi. A quel punto a tavola ridevano tutti, e nessuno riusciva a ricordarsi perché fossero stati a un passo dall’uccidersi a vicenda. «Meshugener, pazzo d’un ragazzino» borbottava mio padre. «Chi vuole ancora del pollo?» chiedeva mia madre «Non sono un ladro» dicevo io. «Non sono un ladro.» Nixon piace a tutti.
Era successo qualcosa. Ricordavo un tempo – sembrava tanto tempo prima – in cui io e mio padre giocavamo a fare la lotta prima di andare a dormire. D’inverno, mentre la neve turbinava per strada e il vento spezzava i rami degli alberi, lui si imbacuccava e arrancava fuori per versare acqua sulla collina in modo da farci trovare la mattina una pista ghiacciata per il nostro slittino. All’annuncio che le scuole sarebbero rimaste chiuse, noi ci precipitavamo fuori tra grida di goia per giocare nella neve, e i nostri slittini erano già lì ad aspettarci, davanti alla porta. Quando arrivava la primavera e tornavano gli uccelli e sbocciavano i fiori, mio padre mi insegnava a nuotare, e qualche volta mi faceva guidare il suo tosaerba, e nelle giornate veramente buone – le migliori di tutte – andavamo nel suo garage, ci chiudevamo dentro e ci mettevamo insieme a costruire. Mio padre sapeva costruire qualunque cosa. Tavoli, librerie, scale, stanze – stanze! – un’intera stanza, usando solo un martello, una sega e poche altre cose che rimediava nelle sue incursioni settimanali da Rickel’s, un centro fai-da-te. Nel nostro tinello, mise le luci dentro il soffitto. Non sul soffitto – dentro il soffitto. Come si fa a mettere le luci dentro un soffitto? Costruì una terrazza, e l’estate dopo costruì delle pareti intorno alla terrazza, così la terrazza diventò una stanza, e l’estate dopo costruì un’altra terrazza fuori della stanza che aveva ricavato dalla terrazza che aveva costruito prima. E le cose che costruiva erano perfette, ed erano bellissime. I bordi erano netti e le giunture tenevano bene, non c’era mai una fessura o una crepa o uno sbaglio. Il mio rabbino mi diceva che avevo un yiddishen kop, una testa ebraica, il che significava che ero intelligente (avere un goyishen kop, cioè una testa goy, significava che uno era stupido). Però, testa ebraica o no, io non riuscivo mai a capire come facesse mio padre a sapere esattamente dove tagliare, quale tavola usare o come farle combaciare tutte alla perfezione, come se lo volessero loro, come se tavole, colla e chiodi stessero proprio aspettando che lui li mettesse nell’ordine giusto. Noi eravamo Leviti, discendenti della tribù di Levi: nei tempi antichi, eravamo artigiani, operai, costruttori. I Leviti trasportavano il Tabernacolo ovunque viaggiassero gli israeliti. Montavano il Tabernacolo all’arrivo e lo smontavano prima di partire. Alcuni Saggi dicevano che i Leviti non costruivano il Tabernacolo con le mani, ma con il fiato, con le parole, che a un levita bastava recitare una serie di parole sacre segrete e le pareti e le tende e le porte si assemblavano da sole. Ma io decisi, mentre lo guardavo costruire – le mani forti, gli occhi attenti, la lingua che spuntava dall’angolo della bocca mentre misurava dove tagliare con la sega – che solo i Leviti pigri, i Leviti inesperti, insomma gli scarti, avrebbero potuto abbassarsi a usare delle stupide parole magiche. Costruimmo un tavolo per mia madre, una libreria per la sala da pranzo. Un’estate costruimmo insieme una terrazza – la terrazza fuori della stanza che prima era una terrazza – noi due da soli. La sera, soddisfatti, le mani piagate, le dita piene di schegge di legno, arrostivamo del pollo, mettevamo il sale sulle pannocchie di granturco e parlavamo del nostro prossimo progetto. Alla fine dell’estate, quando avevamo completato tutte le balaustre e la tinta si era asciugata sulla scalinata perfetta, gli feci un poster: 100 COSE CHE PUOI FARE A PARTE FUMARE. Temevo che stesse per morire. Era sovrappeso e aveva i capelli grigi, e io volevo fermare il tempo, e fare in modo che vivesse per sempre.
Adesso, solo pochi anni dopo, temevo che potesse verificarsi proprio questo. Era successo qualcosa. «Che cosa è successo?» chiesi a mia madre. «Che tu non debba mai conoscere il dolore per la perdita di un figlio» disse mia madre. Stava parlando di Jeffie. Jeffie era loro figlio. Aveva due anni quando morì per una malattia il cui nome, come quello di Hitler, veniva pronunciato di rado. Accadde molto prima che io nascessi, prima che nascesse perfino mia sorella maggiore. Sulla parete in corridoio c’era una fotografia di Jeffie seduto con mio fratello su una panchina bianca come quelle del parco. Alle loro spalle c’erano finti alberi bianchi e alcuni fiori gialli. Jeffie rideva. Aveva i capelli ricci come i miei. «Testa di cazzo» dicevo io a Jeffie quando la mia famiglia litigava. «Guarda che cosa hai combinato.»
Un vecchio morì. «Che tristezza» dissero tutti senza troppa tristezza. L’uomo era ricchissimo e aveva lasciato alla sinagoga una grossa somma di denaro. Il rabbino Blonsky si comprò una sedia di pelle nuova, il cucinino ebbe un frigorifero nuovo col freezer e la congregazione una Torah nuova di zecca. Le Torah sono scritte a mano, ci vogliono mesi per finirle e migliaia di dollari per comprarle. La congregazione ne aveva già due, ma erano vecchie. Una delle due aveva un odore strano, ma nessuno lo diceva mai perché era sopravvissuta all’Olocausto. (Un sabato mattina, non essendo riuscito a squagliarmela, fui chiamato al bimah, al pulpito, per aiutare a chiudere la Torah dopo che il cantore l’aveva sollevata affinché tutti nella sinagoga la vedessero. Questo significava riavvolgere la pergamena intorno alle spolette, bloccarla con un fermaglio elastico, coprirla con la fodera di velluto e baciarla prima di tornare in fretta al mio posto. «Sono così fiera di te» disse mia madre dopo la fine della celebrazione. «Quella Torah ha un odore strano.» «Quella Torah è sopravvissuta all’Olocausto.» «E allora?» «E allora abbi un po’ di rispetto.» «Puzza.» «Mi piacerebbe vedere che odore avresti tu dopo un Olocausto.») Le Torah erano custodite nella parte anteriore della sinagoga, all’interno dell’arca santa, il posto più sacro della sinagoga, il posto dove lo Spirito Santo di Dio dimora durante le preghiere. Purtroppo, come aveva spiegato il rabbino Blonsky a mio padre quella sera al telefono, nell’attuale arca santa della sinagoga c’era spazio per due sole Torah, quindi, insieme alla Torah nuova di zecca, la sinagoga aveva bisogno anche di un’arca santa nuova di zecca. «Costi accessori» aveva scherzato il rabbino Blonsky. E ne aveva bisogno, aggiunse – costruita, dipinta e installata – nel giro di tre settimane.
Aspettai che la sega ricominciasse a gemere, e a quel punto sgattaiolai fuori dal letto cercando di non fare rumore. Oltre che per l’abilità artigianale, i Leviti sono conosciuti per la loro rabbia. Lo stesso Levi tendeva a esplodere in attacchi di rabbia e violenza così terrificanti che suo padre Giacobbe rifiutò di nominarlo suo erede. Aveva tentato di uccidere suo fratello Giuseppe. Aveva massacrato l’intero popolo eveo. Dopo il peccato del vitello d’oro, proprio i Leviti furono scelti da Mosè per attaccare
l’accampamento e uccidere tutti gli idolatri. E i Leviti fecero come Mosè aveva comandato, e quel giorno circa tremila persone morirono. «Pezzo di merda» ringhiò mio padre mentre passavo in punta di piedi davanti alla porta del garage. Stava parlando al martello. Mio padre costruiva ancora delle cose, e le cose che costruiva erano ancora belle e perfette, ma le costruiva con sempre meno pazienza e sempre più furia. Adesso il legno sembrava terrorizzato da lui, teso come il bestiame prima di venire macellato. Le tavole che una volta gli si arrendevano, ora facevano resistenza, e il pavimento del garage era disseminato dei loro miseri resti, un massacro di acero e pino. Era successo qualcosa. «Che cosa è successo?» avevo chiesto a mia madre. «Le sue sorelle» aveva detto lei. «Sono state molto cattive con lui, quando era piccolo.» Arrancai su per le scale fino alla cucina, dove il resto della mia famiglia stava facendo colazione, sapendo che mia madre mi avrebbe chiesto di passare la giornata ad aiutare mio padre. Forse se lo avesse visto dare un colpo a un chiodo ostinato con la parte tagliente di un martello da carpentiere ci avrebbe pensato due volte. Agli Evei era andata bene. La trovai al tavolo con mio fratello e mia sorella, e feci di tutto per non incrociare il suo sguardo, sedendomi di fronte a lei e facendo finta di leggere il retro della scatola dei cereali, esattamente come tutti facevamo finta di non sentire mio padre che di sotto attaccava imprecando un altro sfortunato pezzo di legname. «Che cos’è una testa di cazzo?» chiese mio fratello. «Attento a come parli» disse mia madre. «Merda!» Mio fratello sorrise. «Be’, guarda un po’» disse mia madre, fingendo di leggere il giornale locale. «Da Caldor c’è una svendita di biancheria.» «Cristo d’un Dio!» «A dieci e novantanove» continuò lei. «È un buon prezzo.» Io cercai di dare il mio contributo. «Diciassette vitamine e minerali essenziali» lessi a voce alta dalla scatola di corn flakes. «Sono una cifra. Cioè, non sono solo una cifra di vitamine e minerali per una colazione a base di cereali, ma sono un sacco di vitamine e minerali da considerare essenziali, non so se mi spiego, e ti fanno pensare a quanto siamo fragili...» «Cazzo!» Mia sorella non disse proprio niente. Mio fratello si comportava inesorabilmente da Levita con lei, e se lei diceva o faceva qualcosa, la tormentava fino a farla piangere. Il silenzio diventò il suo Nixon. Anziché parlare mangiava, e mio fratello per questo la sfotteva e le diceva che era grassa. «Perché devo stare seduto di fronte a lei?» chiedeva. «Fa schifo.» «Figlio di una puttana troia!» «Tiamina e niacina» dissi io. «Francamente sarebbe già un affare se ce ne fosse solo una...» «Perché non vai ad aiutare tuo padre?» mi chiese mia madre. «Ah-ah» sghignazzò mio fratello, dandomi un colpetto all’orecchio con l’indice. «Smettila» disse mia madre. «Non è così cattivo.» Dal garage arrivavano rumori terrificanti di distruzione: martelli che battevano sui chiodi, assi di pino che si spezzavano, pesanti pezzi di quercia che venivano scaraventati sul pavimento e maledetti. Un Olocausto del legname. «Mai più» mugolò l’acero. «Mai più.» «Allora aiutalo tu» disse mio fratello a mia madre. «Che cosa ne so io di come si costruisce?» rispose lei. «E poi, lo fai tu il bucato?»
«Lo faccio io il bucato» mi offrii. «Io adoro fare il bucato.» «Testa di cazzo!» «Non mi piace come pieghi gli asciugamani» disse lei. «Perché non vai ad aiutare tuo padre?» «Ma sta per arrivare Ephraim» dissi io. «Può venire domenica prossima» disse mia madre. «Certo» disse mio fratello colpendomi di nuovo l’orecchio. «Ephraim può venire domenica prossima.» A un tratto provai dispiacere per mio padre. Mi chiesi che cosa si prova se nessuno della tua famiglia ti vuole aiutare a costruire un’arca santa. Se bisticciano fra loro su chi deve passare del tempo con te. Se in segreto si augurano che ti sfugga una mano mentre stai mettendo il legno sotto la sega, e che tu finisca sotto la lama e venga tagliato in un miliardo di pezzi. Maledizione, pensai. «Okay» dissi. «Ah-ah» sghignazzò mio fratello. «Bravo» disse mia madre.
Alla fine, perfino Nixon aveva smesso di funzionare. «Ma io non la voglio, quella stupida zuppa» diceva mio fratello. «Mangia quello che ti dà tua madre» borbottava mio padre. «Per favore» diceva mia madre a mio fratello. «Assaggiane almeno un po’.» «Dalla alla cicciona» diceva mio fratello indicando mia sorella. «La mangi tu» grugniva mio padre. «Se no te la spalmo addosso.» Io saltavo giù dalla sedia, allargavo le braccia e subito le rimettevo giù. Su il sipario. «Non sono un ladro» dicevo. «Non sono...» «Rimetti il culo sulla sedia» ringhiava mio padre. Avevo bisogno di nuovo materiale. Vidi un altro tizio, nello show con Dan Aykroyd. Si chiamava Steve, e aveva una freccia in testa. «Sono pazzo e selvaggio» diceva. «Pazzo e selvaaaaggio!» Ridevano tutti. Io non capivo. E poi, anche se avessi capito come mai aveva una freccia in testa, portare un’arma alla nostra tavola di Shabbat non mi sembrava affatto una buona idea. Ero già abbastanza preoccupato per il coltello da challah. Così rovesciavo tutto. Una tazza di vino. Una bibita. La brocca dell’acqua. La bottiglia del borscht. «Attento a quella boccaccia che hai» diceva mio padre a mio fratello. «Senti chi parla» rispondeva mio fratello. «Per favore» implorava mia madre. «Oops!» urlavo io, rovesciando il mio bicchiere. Mia madre si precipitava a prendere gli asciugamani di carta. Mio padre faceva un salto per salvare i libri di preghiera. Mia sorella si tuffava sul piatto del kugel. Ognuno faceva qualcosa – e quel qualcosa poteva anche essere inveire contro di me – ma nessuno litigava. Furono mesi di disastri. Piatti di pesce marinato. Vassoi di pollo. Piatti di kugel di pasta, piatti di kugel di patate, piatti di kugel di cipolle. Ciotole di tzimmis di carote. Per un breve periodo funzionò meglio di Nixon. «La tovaglia è macchiata» borbottava mio padre. «Il kugel è rovinato» si lamentava mia madre.
Nessuno sanguina, pensavo io. Il rabbino Napier ci aveva detto che a Noè gli ci vollero centoventi anni per costruire la sua arca, e che durante tutto quel tempo non faceva che ripetere al popolo che stava arrivando il diluvio, e che Dio era arrabbiato, ma quelli non si pentivano, e non cambiavano le loro abitudini. «Certa gente non può proprio essere salvata» disse Noè. Mia madre cominciò a tenere tutti i piatti lontani da me. Niente tazze, niente scodelle, niente calici. Perfino il mio piatto era di carta. «Sbadato» diceva lei. Certa gente non può proprio essere salvata. Finii di fare colazione ed entrai nel garage proprio mentre mio padre buttava l’ennesimo pezzo di legno nel mucchio di scarti nell’angolo. «Figlio di una...» disse mio padre. Parlava alla sua tenaglia. Si rimise la yarmulke in cima alla testa e si asciugò con un possente avambraccio la fronte furiosamente aggrottata. «Dammi la squadra da falegname» disse senza voltarsi. «Oggi.» Una squadra da falegname è un righello ad angolo retto con il bordo rialzato. Si usa per misurare e segnare le linee di rifinitura sul legno. Io non sapevo che cosa fosse una testa di cazzo. «A che cosa serve un piede di porco?» chiesi. Era la mia nuova tattica, adesso che il mio accesso ai liquidi era limitato e rovesciare qualcosa non funzionava più: domande a caso sulla lavorazione del legno, sincronizzate con precisione per ottenere la massima distrazione emotiva. Dio tendeva ad andare su tutte le furie quando nella Torah il popolo gli faceva delle domande, ma io speravo che le cose sarebbero state diverse col padre mio sulla Terra. «Per spaccartelo sulla testa» disse. «E adesso dammi la squadra.» Niente, non era Nixon. «Rovinata» disse, buttando un altro cadavere di legno sul pavimento. Le tavole rovinate erano quelle incurvate e quindi inutilizzabili. Si infilò la camicia, prese le sigarette e si riaggiustò la yarmulke sui capelli. «NOI ANDIAMO DA RICKEL’S!» urlò a mia madre. «Andiamo» borbottò poi a me. Lo seguii sul vialetto d’ingresso, lanciando un’ultima occhiata speranzosa verso casa. Al piano di sopra, dalla finestra della sua camera da letto, mia madre mi salutò con la mano. «Vai» mosse le labbra in silenzio. «Vai.» Mio fratello stava dietro di lei, mi indicava col dito e rideva. A un tratto provai dispiacere per mio padre. Mi chiesi che cosa si prova quando nessuno dei tuoi figli vuole venire da Rickel’s con te. Quando tua moglie li deve implorare di darti una mano. Quando loro si augurano che tu salga in macchina per andare da Rickel’s e non torni mai più. Maledizione, pensai. E salii in macchina con lui.
«Muovi il culo!» urlò mio padre, appoggiandosi sul clacson. «Il semaforo è verde, idiota!» Io mi feci piccolo sul sedile e tentai di comunicare psichicamente con gli altri conducenti, facendo tutti gli sforzi possibili per scusare per via telepatica il comportamento di mio padre. Che non dobbiate mai conoscere il dolore di perdere un figlio, dicevo loro col pensiero. «Scegli una corsia, rimbambito!» urlò mio padre. «Testa di cazzo!» «Accelera, nonnetto!»
«È vecchio» dissi io. «E più vecchio non ci diventa» disse mio padre, «se non si leva dalla mia corsia, maledizione!» «Che cos’è un giunto ad angolo retto?» «Non è il momento.» Dieci minuti più tardi eravamo nel reparto legname di Rickel’s e mio padre fischiettando sceglieva da uno scaffale d’acciaio grandi pannelli di compensato, tavole standard da due metri e profili lunghi e sottili in quercia che ispezionava attentamente prima di destinarli al nostro carrello. Era strano pensare che questo mucchio di legno grezzo privo di santità fosse un’arca santa; sembrava proprio legno normale. Eppure nel giro di poche settimane questo mucchio sarebbe stato nella nostra sinagoga, e tutti avrebbero dovuto alzarsi in piedi quando veniva tirata la tenda di velluto (tre dollari e ventinove al metro), e avrebbero dovuto pregare quando si aprivano le porte di quercia rossa (sei dollari e cinquanta al metro quadro), e alla fine del servizio avrebbero dovuto cantare al richiudersi delle porte sui loro pesanti cardini di bronzo decorativi (otto dollari e novantanove una confezione da due, incluse le viti). Ma da dove viene la santità?, mi domandavo. E se fossimo arrivati dieci minuti più tardi e qualcuno avesse già portato via quelle tavole? Se le avessero usate per costruirci una cuccia per il cane, una casetta sull’albero, un gabinetto nel cortile? E se fossimo arrivati troppo presto, e queste fossero state le tavole di un gabinetto? Era per questo che Dio aveva mandato quel vecchio che guidava così lento davanti a noi? E se le tavole dell’arca santa fossero state in fondo al mucchio? Sentii mio padre ridere. Era una cosa che non sentivo più da tantissimo tempo. «Be’, sì» stava scherzando con un impiegato di Rickel’s. «Immagino che se sono tutte storte...» «... allora forse sono quelle dritte che hanno un problema» disse Mike, il vicedirettore del reparto legname di Rickel’s. «Guarda» disse mio padre parlando a mezza bocca (era il suo modo di dire battute – alla chetichella, come se non dovesse, come se fosse peccato), «se tu avessi dei prezzi all’altezza delle stronzate che dici...» Continuarono tutti e due a ridere. A un tratto provai dispiacere per mio padre. Era diverso da tutti gli altri padri. Non era un rabbino come quello di Ephraim, di Shlomo, di Akiva, di Yechezkel, di Yoel, di Motty, di Dovid o di Shimon, né un dottore come quello di Ari, di Hillel, di Avi, dell’altro Avi, di Chaim o di Mordechai. Quando veniva a prendermi alla yeshiva, aspettava in macchina in fondo al parcheggio, da solo, lontano dagli altri padri che stavano a conversare sui gradini della scuola. Di Shabbat, quando finiva il servizio e mia madre si fermava fuori dalla sinagoga a chiacchierare con le sue amiche e con i vicini, mio padre se ne stava da solo, sul lato della strada in fondo al vialetto d’ingresso, ad aspettare con le mani in tasca, cantando i tradizionali canti yiddish per lo Shabbat di cui non conosceva le parole. «Yum, bum, biddy-biddy bum» cantava. La quiete yiddish prima della tempesta. «Non sono un ladro» dicevo io. «Falla finita. Va’ a dire a tua madre che ce ne andiamo.» Io attraversavo trotterellando il parcheggio e tornavo alla sinagoga, dove mia madre sorrideva e annuiva, e aspettavo lì con lei, nascosto tra la folla, finché mio padre si stancava di aspettare e cominciava a incamminarsi da solo. Allora provavo dispiacere per lui. Mi chiedevo cosa si prova quando nessuno della tua famiglia vuole tornare a casa con te dalla sinagoga. Quando in realtà gli altri aspettano che tu te ne vada per poter tornare a casa senza di te. Quando sperano in silenzio che questo sia lo Shabbat in cui verrai investito da una macchina mentre torni a casa dalla sinagoga, almeno la cosa finisce lì. Maledizione, pensavo, e mi scapicollavo per raggiungerlo. Mio padre e Mike, il vicedirettore del reparto legname di Rickel’s, risero e scherzarono per altri dieci minuti prima che ce ne andassimo. Mentre imboccavamo la Route 59, una Ford Pinto grigia che aveva sul tetto un’insegna di Domino Pizza si infilò nella nostra corsia tagliandoci la strada. Mio padre
non disse una parola.
Non che Avrumi Mendlowitz ce l’avesse con me personalmente. È solo che non mi aveva ancora strizzato le palle. «Prima o poi ti becco» disse a pranzo. Tutti risero. Avrumi era in quarta con me. Era grosso per la sua età, e sarebbe stato grosso anche per uno di ventidue anni. Tutti i giorni, quando la yeshiva terminava e scendevamo per andare a prendere il pulmino della scuola, Avrumi aspettava in fondo alla scalinata e, individuata la vittima del giorno, afferrava il ragazzo, lo buttava per terra, gli infilava una mano tra le gambe e gli strizzava le palle. Questo rendeva difficile denunciarlo, e Avrumi lo sapeva. Come si fa a dire «palle» a un rabbino? «Avrumi va in giro a picchiare la gente» dissi al rabbino Goldfinger. Era lunedì pomeriggio, e Avrumi aveva inseguito me e i miei irresistibili testicoli giù per le scale, nell’atrio e fino al portone d’ingresso prima di rinunciare a causa della massiccia presenza rabbinica. «Chi è che ha picchiato?» sospirò il rabbino Goldfinger, e io mi sentii sollevato. La sua esasperazione sembrava indicare che avesse già sentito questa lamentela da altri. «Tutti» dissi. «Io non vedo nessuno con l’aria di essere stato picchiato.» «Be’, non è proprio picchiare...» Il rabbino mi guardò dall’alto in basso. Dietro gli occhiali neri cerchiati di corno e la lunga barba nera c’era un paio di occhi caldi e sensibili sotto sopracciglia folte ed espressive. Mi mise le mani sulle spalle, mi girò in direzione del pulmino della scuola che aspettava, mi diede una spinta e mi disse che se non volevo vedermela brutta dovevo smetterla di cercare di mettere nei guai gli altri. Stupido d’un rabbino Goldfinger.
«Il rabbino Goldfinger aveva ragione» disse Ephraim la domenica pomeriggio seguente. «Non dovresti fare la spia. È maldicenza. Mio padre mi ha detto che se fai della maldicenza, quando muori Dio ti impicca per la lingua finché non ti si strappa e muori.» Eravamo in camera mia, a giocare col Lego. Accanto a noi, nel garage, il lavoro sull’arca santa proseguiva. Io e Ephraim ci contendevamo il titolo di primo della classe, naturalmente senza considerare Yermiyahu Weider, che però aveva una memoria fotografica e quindi in realtà non contava. Quando Ephraim non prendeva il voto più alto della classe, si preoccupava. Agitava nervosamente le dita. Il padre di Ephraim era un rabbino. Era un uomo alto, con un gran cappello nero e una lunga barba nera. «Un novantasei?» lo avevo sentito dire a Ephraim un giorno dopo la yeshiva. Aveva scrollato le spalle con disappunto e restituito il compito al figlio. Ephraim agitava le dita. «Bastardo» disse mio padre. Era nel garage, parlava con la squadra da falegname. «Non è maldicenza» dissi a Ephraim, «se è la verità.» «Ma non era la verità» disse Ephraim. «Tu gli hai detto che andava in giro a picchiare.» «Strizza le palle alla gente» dissi. «L’altra settimana l’ha fatto a te.» «Ma non sono botte» disse Ephraim. Era passata una settimana dall’inizio del progetto per l’arca santa, e più la scadenza si avvicinava, più la pazienza di mio padre diminuiva e i suoi scatti d’ira erano sempre più esplosivi. «Chi ha toccato quello stramaledetto termostato?» sbraitava. «Chi ha preso i miei morsetti? Qui
mancano dei biscotti! Quei biscotti erano per Shabbos!» «Faceva male?» chiesi a Ephraim. «Cosa?» «Avrumi» dissi. «Testa di cazzo» disse mio padre «Come mai tuo padre dice parolacce?» chiese Ephraim. «Non lo so» dissi io. «Mio padre dice che i Saggi dicono che nivul peh fa morire i bambini ebrei.» Nivul peh vuol dire usare parolacce. Letteralmente nivul peh significa «bocca schifosa». «E allora?» risposi. «Lo sapevo. Certo che lo sapevo.» In realtà non lo avevo mai saputo. Mio padre lo sapeva? Avevo un padre dalla bocca schifosa e un fratello morto. Era difficile negare i fatti. «E allora non lo dovrebbe fare.» «E allora?» «E allora non lo dovrebbe fare.» «E allora?» «E allora non lo dovrebbe...» «Shalom!» chiamò mio padre. «Vieni qui.» Maledizione, pensai. Probabilmente avrei potuto prendere voti migliori di Ephraim, se mi fossi messo davvero sotto, ma in fatto di genealogia familiare lui mi batteva alla grande. Io potevo anche essere un Levita, ma Ephraim era un Cohen, un sacerdote, una scala reale dal punto di vista genealogico, perché i Cohanim erano i soli che se la intendevano con Dio più dei Leviti. E poi, il padre di Ephraim era un rabbino, come erano rabbini tutti e due i suoi nonni. Antenati tostissimi. Il mio, di antenato, era nel garage accanto, che urlava oscenità agli attrezzi; potevo già dirmi fortunato se aveva in testa una yarmulke. «Andiamo» dissi a Ephraim. Ephraim appariva spaventato. «Non è niente» dissi. Ephraim agitò nervosamente le dita. «Tieni alta l’estremità di questa tavola» disse mio padre. La buona notizia era che mio padre aveva in testa la yarmulke. La brutta notizia era che non aveva addosso la camicia. Io sono in grado di capire che tipo di lavoro sta facendo mio padre dal suo grado di svestimento: può dedicarsi a lavori leggeri – pareti in cartongesso, verniciatura – tenendo addosso sia yarmulke che camicia fino alla fine. Per lavori di rifinitura del legno – piallare, lucidare, bloccare, incollare – è probabile che a metà lavoro si levi la camicia. Se il lavoro diventa pesante – cornici, intelaiature, progettazione – sparisce anche la yarmulke. Oltre i trentacinque gradi, rimane in short e sandali e noi tutti speriamo che limiti le sue attività al cortile dietro casa. Ephraim agitò le dita e si diresse imbarazzato verso l’angolo più remoto del garage. I peli sul petto di mio padre erano coperti di segatura, e la pancia sporgeva pesante sopra la consunta cintura nera. Io ero stato a casa di Ephraim decine di volte e non avevo mai visto suo padre senza camicia. Non l’avevo mai visto neanche senza giacca. Una volta aveva una scarpa slacciata, ma quello fu un incidente, e appena se la fu riallacciata mi disse quello che dicono i Saggi di colui che è così assorto nelle parole della Torah da rinunciare al proprio aspetto. Era qualcosa di positivo. «Come mai non inviti mai qui i tuoi amici?» mi chiedeva qualche volta mia madre. «Sei proprio un solitario.» Mio padre si tirò su i pantaloni e si spazzolò via la segatura dal petto. Io mi appoggiai un’estremità della tavola sulla testa per portarla a livello del piano della sega, e mio padre accese il motore. Ephraim, non abituato al rumore della sega, rimase sul vialetto con le dita nelle orecchie.
«Piano!» urlava mio padre sopra quello stridio. «Più in alto! Così! Piano!» Mio padre sogghignava in una nuvola di segatura; la sega vibrava, la tavola tremava. Maligne schegge di legno mi si conficcarono nelle mani mentre tentavo di controllare le brusche oscillazioni che sapevo avrebbero bruciato i bordi della tavola. Quando finalmente la tavola passò attraverso la lama, mio padre si tolse gli occhiali di protezione e spense il motore della sega. Ephraim si tolse le dita dalle orecchie. Mio padre girò la tavola da un lato e ispezionò i segni neri e curvi che la marcavano. «Figlia di puttana» disse. Ephraim si tappò di nuovo le orecchie. «Che cos’è una fresatrice?» chiesi. «Non è il momento» disse mio padre. Tornammo dentro ed Ephraim telefonò a sua madre. Portammo in cortile il mio pupazzo Steve Austin e ci mettemmo ad aspettarla. «E quello chi è?» chiese Ephraim. «Steve Austin» dissi io. L’uomo da sei milioni di dollari era il mio telefilm preferito. Avevo richiesto l’autografo di Steve Austin settimane prima, ma ancora non mi era arrivato. «Non dovresti guardare la tv» disse Ephraim. «Mio padre dice che è uno strumento dell’inclinazione malvagia.» «Lo so» dissi. «Come mai tuo padre ha tanti attrezzi?» chiese Ephraim. «Costruisce cose» dissi io. «Perché?» «Perché gli piace.» «Perché?» «Non lo so» dissi io. «È fico.» «No, per niente.» «Sì, invece.» «Mio padre dice che tutto quello che sottrae tempo al servizio di Dio è sbagliato» disse Ephraim. «Sta costruendo un’arca santa, razza di deficiente.» Questo lo zittì per un po’, fino a quando mio padre non uscì senza yarmulke. Era una buona notizia per quanto riguardava il progetto – significava che era passato al lavoro pesante dell’intelaiatura – ma una brutta notizia per me. «Come mai tuo padre non porta la yarmulke?» chiese Ephraim. «Non lo so» dissi io. «Mio padre dice che se fai quattro passi senza yarmulke, è come dire che non hai timore di Dio.» «Lo so.» «E allora come mai lui non la porta?» «Non lo so.» «Ha timore di Dio?» «Non lo so.» «Dovrebbe.» «Lo so.» Il mio sangue levita cominciò a ribollire. «Perché dice parolacce?» «Non lo so.» «Non dovrebbe.» «Lo so.» Che testa di cazzo.
Il fratello di mia madre era un famoso rabbino. Si chiamava zio Nathan. Anche l’altro fratello era un famoso rabbino. Si chiamava zio Mendel. Zio Nathan abitava a New York, e zio Mendel abitava a Los Angeles. Avevano tutti e due la barbetta a punta. Scrivevano tutti e due libri, zio Nathan era anche un professore. Qualche volta si riferiva a se stesso come al Rabbino Professore e qualche volta invece come al Professore Rabbino. Zio Mendel non era un professore, però era il rabbino di una grandissima sinagoga di Los Angeles. «Lo sai chi frequenta la mia sinagoga?» chiedeva quando veniva a trovarci. «Alan Alda.» «Uau!» diceva mia madre. Io non sapevo chi fosse Alan Alda. «Quello della televisione» aggiungeva lei. «Lo conosci, adori quello show.» «Un donatore generoso» diceva mio zio. Quando mancava una sola domenica alla fine dell’arca, mia madre decise che saremmo andati a trovare zio Nathan a Manhattan. Mio padre strombazzava a più non posso con il clacson e urlava alle altre macchine. «Razza di idiota!» inveiva. «Stronzo!» «Guardate che faccia di merda, per favore! Ma lo vedete che faccia di merda?» «Come si fa il cartongesso?» chiesi io. «La odio, questa stramaledetta città» borbottò mio padre. «Ma una pialla ha la stessa funzione di una fresatrice? Perché se è così, allora uno come fa a sapere quale...» «Non è il momento» disse lui. Io non mi sentivo mai a mio agio nell’appartamento di mio zio, e neanche mio padre, almeno così mi sembrava. Zio Nathan di recente era stato nominato presidente di una delle più grandi yeshivot del paese. Davanti al suo palazzo c’era un uomo che ti apriva la porta. Nell’atrio un altro uomo ti chiedeva il nome e poi telefonava di sopra e diceva: «Ci sono qui gli Auslander... Benissimo». E nell’ascensore d’epoca c’era un uomo che chiudeva i cancelli di ferro e azionava una grossa leva che faceva andare su e giù l’ascensore. Mio zio aveva una cameriera, una limousine e un autista. Erano tutti e tre neri. Il suo appartamento era su tre piani, tutti in marmo. Niente Rickel’s, lì. «Si chiama triplex!» ci disse mia madre, mentre salivamo con l’ascensore nell’appartamento dello zio. Il levita dentro di me cominciò ad agitarsi. E dov’era tutta questa meraviglia, insomma? Okay, era un rabbino. Okay, il padre di Ephraim era un rabbino. E con questo? Ma poi in realtà che avevano mai fatto, insomma? L’unica cosa che avevo visto fare a mio zio era stringere mani. Mio padre costruiva cose. Costruiva terrazze. L’uomo dell’ascensore ci sorrise. «Non ho mai visto l’interno di un triplex» disse mia madre a mio padre. «E tu?» «Yum, bum, biddy-biddy bum» disse lui. Mia zia ci accolse sulla porta. «Sapete chi ci abita lì?» sussurrò, indicando col dito la porta di fronte. «Harrison Ford.» «Uau!» disse mia madre. «Il divo del cinema?» Mia zia annuì. «Luke Skywalker» disse. Era Han Solo. «L’hai visto quel film?» mi chiese mia madre.
Mi chiesi se Harrison Ford accogliesse gli ospiti sulla porta. Lo sai chi ci abita lì, Chewbecca? Un rabbino. «No» mentii. «Ma certo che l’hai visto» disse mia madre. Scrollai le spalle. Mia zia ci invitò in cucina a mangiare qualcosa. «Però!» disse mia madre. «Ci entrerebbero tre delle nostre cucine qui, non è vero, Shal?» Mia madre restò con mia zia nella cucina «tre-cucine» mentre io trotterellai dietro a mio padre nel salotto. Le pareti scure erano foderate di scaffali pieni di libri. Nell’angolo c’era un pianoforte a coda che nessuno aveva mai suonato, e sul tavolo, di fronte al divano (sofà, sussurrò mia madre), c’era una pila di libri che nessuno aveva mai letto. Erano tutti su Israele. Uno era un libro d’arte. Si intitolava Arte d’Israele. Mio padre si sedette sul divano, intrecciò le mani dietro la nuca e ostentò un’aria rilassata che non convinceva assolutamente nessuno. «Yum, bum, biddy-biddy bum» disse. Dopo quelle che sembrarono ore, la porta dello studio di mio zio si aprì e apparve un uomo con vestito e cappello nero. Mio zio lo seguiva, dandogli pacche sulle spalle e porgendogli il cappotto. Fumavano tutti e due il sigaro, e nel foyer si strinsero la mano. Mio padre si alzò, si sistemò la cravatta e si rinfilò la camicia nei pantaloni, ma mio zio prese l’uomo per un braccio, lo fece voltare e lo fece passare davanti a noi conducendolo alla porta d’ingresso, dove si fermarono ancora a stringersi la mano prima che l’uomo uscisse. Mio padre si afferrò un polso dietro la schiena, si diresse verso una libreria e guardò attentamente Gli insegnamenti del rabbino Soloveitchik come se quella fosse la sola ragione per cui si era alzato. «Yum, bum, biddy-biddy bum» disse. Alle spalle di mio padre, mio fratello lo indicò e rise in silenzio. «Un donatore generoso» disse mio zio a mia madre entrando in salotto. Strinse la mano a mio padre. Strinse la mano a mio fratello. Strinse la mano a me. Si sedette. «Allora» disse a mio padre, «che novità mi racconti?» Io aspettai che qualcuno nominasse l’arca. «Che novità ti raccontiamo noi?» Mia madre rise. Poi, con aria d’importanza: «Dimmi, Nathan, come vanno le cose alla yeshiva?» «Be’» cominciò mio zio. Ci volle un bel po’ di tempo prima che finisse. E i Leviti fecero come Mosè aveva comandato, e quel giorno circa tremila del popolo morirono. Provai dispiacere per mio padre. Mi domandai come ci si sente a essere eccezionali in qualcosa che nessuno trova poi così eccezionale. A essere bravo con le mani in un mondo che giudica le persone dalla testa. A essere un creatore in un mondo che si inginocchia davanti a cavillatori, mendicanti e stringitori di mani. Cominciavo ad avere voglia anch’io di mandare un diluvio sulla Terra. Me ne volevo andare. Volevo andare da Rickel’s. «Lo sapete chi c’era qui ieri?» disse mio zio. «Herman Wouk.» Testa di cazzo. «Lo scrittore?» chiese mia madre. Erano quasi le undici quando finalmente ce ne andammo, e parecchio dopo mezzanotte quando rientrammo a Monsey. Mio padre aprì il garage, si tolse la camicia e si rimise a lavorare. «È proprio speciale» disse mia madre mentre entravamo in casa. Io annuii. «E che appartamento!» continuò lei. «No, dico, ti rendi conto?»
La settimana dopo mio padre andò alla sinagoga senza di me e installò l’arca che lo avevo aiutato a costruire. Proprio quel giorno, Avrumi Mendlowitz mi prese per le palle. Avevo la guardia abbassata. Essere in competizione ogni giorno con Ephraim in classe, correre a casa per vedere se Steve Austin aveva risposto alla mia lettera, tirare fuori di continuo domande di falegnameria per impedire che mio padre ammazzasse mio fratello e lavorare fino a tardi all’arca santa – scartavetrare, lucidare, incollare, inchiodare – be’, un cedimento può anche capitare. La scadenza per l’arca santa era venerdì, e più il giorno si avvicinava, più mio padre peggiorava. Lunedì sera buttò mio fratello fuori di casa e gli disse di non tornare mai più. Mia madre intervenne dicendo: «Per favore!» ma mio fratello prese il suo zaino e fuggì dalla porta sul retro. Mia madre uscì a cercarlo in macchina per ore. Io camminavo su e giù per il corridoio, preoccupato, e guardavo la fotografia di Jeff. «Testa di cazzo» dissi. Mercoledì sera mio padre non riusciva a trovare il martello da tappezziere. «Quel buono a nulla di tuo fratello viene qui» disse a denti stretti, «e prende, prende, prende.» Si tirò su le maniche e si avviò verso casa. «Prende, prende, prende» ringhiò. «Come si fa la carta vetrata?» gli gridai dietro. «Che cos’è un punzone? Devo usare la colla o la resina?» «Beccato!» disse Avrumi. Era la fine della giornata, avevo la mente occupata con Steve Austin e i morsetti, e senza pensarci imboccai lo scalone con tutti gli altri. Avrumi mi aspettava in fondo. Mi buttò per terra e mi montò sopra. Il suo alito sapeva di polpette di pesce e di latte, e grugnì mentre mi metteva una mano tra le gambe e strizzava. «Testa di cazzo» dissi io. Restarono tutti senza fiato. «Bocca schifosa!» urlò Avrumi in tono accusatorio, puntandomi contro l’indice della mano sinistra. «Bocca schifosa! Bocca schifosa! Sarai impiccato per la lingua!» Con la mano destra continuava a stritolarmi le palle.
Quando tornai a casa, le porte del garage erano aperte. L’arca era sparita. «Dov’è l’arca?» chiesi a mia madre. «Come faccio a saperlo?» disse lei. «Dov’è papà?» chiesi. «Ah, giusto» disse lei. «Ha portato l’arca in sinagoga.» «Ah.» «Qualcosa non va?» Alzai le spalle. «È successo qualcosa a scuola?» Alzai le spalle. «Ho qualcosa che ti metterà di buonumore.» Mi porse una larga busta bianca. Era indirizzata «Al Mio Più Grande Ammiratore». Aprii la busta strappandola, e tirai fuori una grande fotografia di Steve Austin. In fondo alla foto c’era scritto qualcosa a mano. A Sharon con affetto, Lee Majors, diceva. «Chi è Sharon?» chiesi a mia madre. Lei alzò le spalle.
«E chi è Lee Majors?» chiesi. Lei alzò le spalle. «Probabilmente hanno capito male il nome» disse. «Quale nome?» chiesi io. «Sharon o Lee Majors?» «Sharon. Lee Majors è l’attore.» «Quale attore?» «L’attore che fa Steve Come-diavolo-si-chiama.» «Ma io non volevo la firma di un attore. Volevo la firma di Steve Austin!» «Per favore» disse mia madre.
Il venerdì pomeriggio, prima che la yeshiva chiudesse per il fine settimana, i corridoi si riempivano di studenti. Un mare in tempesta di camicie bianche e pantaloni neri, mentre ci dirigevamo tutti verso la sinagoga per la lezione settimanale del rabbino Goldfinger, il nostro preside, sull’importanza dello Shabbat. Quel venerdì, mentre ci incamminavamo verso la sinagoga, la porta dell’ufficio del rabbino Goldfinger era aperta, un evento raro, e ci fermammo a guardare dentro. Il rabbino Goldfinger era seduto dietro la sua scrivania, e aveva davanti Avrumi e un gigante dalla folta barba con indosso un abito blu scuro e un cappello di feltro grigio a tesa larga in testa. «Il padre di Avrumi» mormorò qualcuno. Avrumi aveva pianto. Il rabbino Goldfinger stava parlando, ma noi non riuscivamo a sentire che cosa dicesse. Vide che lo guardavamo, ma non chiuse la porta. Continuò a parlare al padre di Avrumi che scuoteva la testa e si stropicciava gli occhi con pollice e indice della mano finché all’improvviso sollevò il braccio e colpì il didietro di Avrumi con tale forza che Avrumi venne scaraventato all’angolo estremo della scrivania del rabbino Goldfinger. Avrumi ruotò su se stesso tenendosi il didietro con le mani, e si accorse di noi che guardavamo dalla porta. Cercò di fare una faccia buffa, ma il padre alzò la mano sulla sua testa come per colpirlo ancora, e Avrumi si tirò indietro. Il rabbino Goldfinger si attorcigliò la barba con aria solenne e fissò lo sguardo su di noi che guardavamo dalla soglia. «Niente aveiras?» ci urlò il rabbino Goldfinger. «Nessuno di voi ha delle aveiras?» Ci girammo e ce ne andammo. Aveiras sono i peccati.
L’arca era magnifica. Mio padre l’aveva disegnata in modo che quando le porte erano aperte non ci fosse nessuna asta nel centro a disturbare la vista dei sacri rotoli. Sulla sommità, in ebraico, con lettere alte e dorate, mio padre aveva inciso il passo biblico SAPPI DAVANTI A CHI TI TROVI e quelle lettere d’oro catturavano e riflettevano le luci tremolanti del ner tamid, la candela eterna, che pende, sempre accesa, al di sopra del podio del cantore. Una tenda di velluto blu scuro, bordata d’oro e d’argento, ornava la parte anteriore dell’arca, e al centro, dove le due metà della tenda si congiungevano, c’erano due leoni d’oro accanto alle due tavole dei Dieci Comandamenti. Ancora non mi sembrava sacra. Avevo paura per mio padre, ero preoccupato che qualcuno scoprisse che non era sacra e lo obbligasse a ricominciare da capo. «Ehi» gli avrebbero urlato, «questo è solo un pezzo di legno!» Ma era bellissima, e occupava tutta la parete, e faceva sembrare il rabbino Blonsky, seduto lì accanto sulla sua nuova sedia di cuoio, un bambino, un ragazzino che gioca a travestirsi con gli abiti di un vecchio saggio. Quel giorno mio padre cantò più forte di quanto lo avessi mai sentito cantare prima. Scherzò col professor Kaplan. Rise col professor Becker. Strinse la mano, vigorosamente, al professor Malinowitz.
Sembrava felice, come da Rickel’s, sebbene stesse molto attento a non dire battute da falegnameria. Finalmente arrivò il momento della lettura della Torah, e tutta la congregazione si alzò in piedi. Sulla sinagoga calò il silenzio, mentre lo Spirito Santo di Dio scendeva nell’arca che mio padre aveva costruito. Il cantore gettò indietro la testa e cantò le benedizioni sulla Torah. «Amen» disse la congregazione. Poi il cantore si avvicinò all’arca e scostò la pesante tenda di velluto. Tutti pregavano a voce alta, cantando e dando il benvenuto alla nuova Torah e all’arca santa nella quale era collocata. Il cantore si avvicinò alle porte, afferrò la maniglia e tirò. Niente. Tirò di nuovo. Niente. Tirò una terza volta, più forte, così forte che lo scialle da preghiera gli scivolò dalle spalle e dovette tenersi la yarmulke con l’altra mano. Il rabbino Blonsky arrivò di corsa e tentò anche lui la sorte, ma la porta rifiutò di aprirsi. Reggendosi la yarmulke con una mano, tentò ancora con l’altra, con più forza. L’arca si inclinò leggermente in avanti. «Ehi!» gridarono alcuni uomini della prima fila, spostandosi indietro per schivare il pericolo. Il rabbino Blonsky si girò verso la congregazione e si strinse nelle spalle, prima di alzare una mano sopra alla testa girandola a destra e a sinistra come per aprire una serratura. Ha una chiave, questa maledetta cosa?, mimò. La gente cominciò a ridere. La faccia di mio padre diventò rossa, e lui fece cenno al rabbino Blonsky di tirare la porta dall’alto. Per offrire una vista senza ostacoli della Torah, non ci poteva essere un’asta centrale, e poiché non ci poteva essere un’asta centrale, la chiusura doveva essere in cima alle porte. Il rabbino Blonsky vide mio padre gesticolare, ma pensò che gli volesse dire che la chiave era sopra l’arca, e cominciò a tastare sopra l’arca in cerca della chiave inesistente di una serratura inesistente. Il professor Frankel rise. Il professor Eisenberg scosse le spalle e rise. Mio padre continuava a indicare a gesti di aprire le porte dall’alto, mentre mio fratello mi dava di gomito roteando gli occhi. Finalmente il cantore allungò una mano, tirò all’angolo e la porta si spalancò. Alcune persone applaudirono. «Mazel Tov» urlò il signor Pomerantz. Testa di cazzo, pensai io. Il cantore ricominciò a cantare, si aggiustò lo scialle da preghiera sulle spalle e spalancò la seconda porta dell’arca. Si potevano vedere davvero tutti i rotoli. Quando il servizio terminò, mio padre, anziché dirigersi verso il parcheggio, lontano dalla folla, si fermò con tutti gli altri della congregazione davanti alle porte d’ingresso. Io restai con lui, in attesa che mia madre si decidesse a uscire. Mio padre stava a testa alta, con le mani dietro la schiena. Sembrava orgoglioso. Augurò buon Shabbos ad alcuni dei nostri vicini che, dopo la sorpresa iniziale, ricambiarono i saluti e se ne andarono, senza dire una sola parola sull’arca. Poco dopo apparve mia madre, con la sua vecchia amica, la signora Pleeter. «Non ti puoi neanche immaginare» diceva mia madre «la quantità di lavoro.» La signora Pleeter annuì, mentre tutte e due si avvicinavano. «Devi essere molto orgoglioso» mi disse. Io infilai le mani in tasca e alzai le spalle. Mio padre fece lo stesso. La signora Pleeter si chinò ad aggiustarmi la cravatta. «Be’, dovresti» disse. «Hai uno zio molto famoso, lo sai?» Mia madre era raggiante. «Veramente» disse, correggendo la signora Pleeter, «ha due zii molto famosi.» «Yum, bum, biddy-biddy bum» disse mio padre.
I Becker dissero «Gut Shabbos» e così pure i Baum e i Frankel, ma nessuno aveva ancora accennato all’arca. Finalmente si avvicinò il signor Pomerantz, strinse la mano a mio padre e disse: «Bel lavoro, c’è voluto un po’?» Mio padre sorrise e scosse le spalle. «Nisht geferlach» disse in yiddish. Non c’è male. «Le porte» continuò il signor Pomerantz con un sorriso. «Forse i bordi hanno bisogno di uno shtickl di levigatura?» Anche mio padre sorrise. «Ti levigherei i tuoi, di bordi» disse tra i denti. La signora Borgen uscì, baciò mia madre su una guancia e disse quanto le era piaciuto il libro di mio zio. Il libro si chiamava Un letto di rose, era una guida al matrimonio felice. «Yum, bum, biddy-biddy bum» disse mio padre. Cominciò ad avviarsi sul viale della sinagoga. «Se ne va» dissi io a mia madre. «Di tutti i libri di mio fratello» stava dicendo mia madre alla signora Borgen, «quello è senz’altro il mio preferito.» «Se ne va...» «Okay» disse mia madre, battendomi sulla spalla. «Vai, vai.» Maledizione, pensai. Camminammo per parecchio tempo senza dire una parola. «Quale rabbino è così stupido da non saper aprire una porta?» dissi io alla fine. «Attento a come parli» disse lui. «Che cosa ho detto?» «Tu sta’ attento.» «La quercia è più robusta dell’acero?» Per il resto della strada restammo in silenzio. Era successo qualcosa. O forse non era successo niente. Forse sembra tutto meglio, quando hai quattro anni. Il Levita dentro di me alzò le spalle e se ne fregò.
Lunedì mattina, Avrumi era un ragazzo diverso. In classe seguì attentamente la lezione, e anche se non sempre sapeva la risposta, almeno non lanciava pallottole di carta masticata e non faceva disegnini sui bordi del Talmud. Fuori della classe, però, sembrava sconfitto. Passeggiava da solo per i corridoi, con la testa bassa e le mani in tasca. A pranzo, se ne rimase in disparte. Dopo, ci fu un test a sorpresa sulla Bibbia. Ephraim prese novantotto e io novantasei. Dato che avevamo avuto i due voti più alti, il rabbino Napier ci disse di distribuire i test a tutti gli altri. Dando ad Avrumi il suo, notai che era arrivato solo a sessantotto. A un tratto provai dispiacere per Avrumi. Forse si vergognava del suo scarso risultato. Forse l’unica cosa che tutti gli avessero mai riconosciuto erano la sua forza e la sua mole. Forse aggrediva i ragazzi in fondo alla scala perché questo era tutto ciò che gli altri si aspettavano da lui. Fermai Avrumi mentre andavamo verso il pulmino. «Era un test difficile» dissi. Avrumi mi guardò e si fece scivolare lo zaino dalla spalla. «Voglio dire, perfino Yermiyahu ha preso solo novantadue» dissi. «E lui ha una memoria fotografica...» Avrumi mi gettò per terra, mi montò sopra e mi strizzò le palle. «Sìììììì...» grugnì. Il suo alito pesante mi riempiva le narici, la sua faccia era a pochi centimetri dalla mia. «Sììììììì...»
Il rabbino Napier ci aveva detto che, dopo aver costruito l’arca, tutto quello che Noè avrebbe dovuto fare era pregare per le popolazioni del mondo – una volta sola – e Dio avrebbe salvato tutti. Ma Noè non pregò. Forse si era stancato di cercare di salvarli. Forse li voleva guardare mentre annegavano tutti. Ora la Terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza... E Dio disse a Noè: «È venuta per me la fine di ogni uomo perché la terra per causa loro è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra». Io stavo lì sdraiato, inchiodato a terra sotto la mole ottusa e borbottante di Avrumi che continuava la sua aggressione, e guardai in su – oltre la sua guancia pallida, oltre i suoi peyis unti, oltre la sua yarmulke bordò e argento, oltre il tetto piatto e grigio dell’edificio in mattoni della yeshiva, su fino al cielo che stava scurendo, dove nuvole grosse e pesanti si accumulavano e facevano scrocchiare le nocche, dandosi pugni sul palmo, in attesa. Stava per piovere, o almeno ci sperai.
5 Se questa barzelletta l’avete già sentita, fermatemi. «Qualcosa non va» disse Orli. Potevo sentirlo attraverso il telefono, che aveva pianto. «Che cosa?» chiesi. «Che cosa c’è?» Sentivo che cercava di prendere fiato. Era nel panico. Io invece, una roccia. «CHE COSA C’È? Di già? Cazzo, che cosa? Orli, che succede, che cos’è, non mi puoi chiamare incinta di tre mesi piangendo e non... CHE COSA C’È?» Erano arrivati i risultati dei test, mi disse. C’era qualcosa che non andava nel bambino. «Brutto stronzo bastardo» dissi a Dio. «Sei veramente uno stronzo bastardo.» Io credo in un Dio personale: ogni cosa che io faccio, Lui la prende personalmente. Le cose non succedono per caso. «Dio parla a tutti, ogni giorno» dicevano i miei insegnanti. «Ma tu devi ascoltare.» «Perché proprio io?» esclamava mia madre mentre pagava le bollette o preparava la cena o comprava i vestiti o usciva dal dentista. «Devo aver fatto qualcosa» diceva. «Io non so che cosa, ma qualcosa devo aver fatto.» Una volta ho conosciuto un rabbino che era nato con una leggera forma di paralisi cerebrale. Aveva la gamba destra bloccata al ginocchio, il braccio sinistro bloccato e piegato al gomito. Era duro d’orecchi. Stava perdendo la vista. La sua casa era bruciata in un incendio. Il suo primogenito si ammalò e morì. «Dio mi sta dicendo qualcosa» ripeteva sempre con un sorriso. «Mi sta dicendo che avrò una grossa ricompensa nella vita futura.» C’è una vecchia barzelletta su un cane sordo, cieco da un occhio e zoppo che finisce esattamente nello stesso modo: Il suo nome è Fortunato. A volte mi chiedo se lui, il rabbino – e anche io – non soffriamo di una forma metafisica della sindrome di Stoccolma. Tenuti prigionieri da Costui per migliaia di anni, ora Lo lodiamo, Lo difendiamo, Lo scusiamo, qualche volta uccidiamo per Lui, un esercito di teenager in deliquio che giurano fedeltà al loro Charles Manson celeste. Il mio rapporto con Dio è stato un ciclo senza fine non del famoso «fede seguita dal dubbio», ma di «pacificazione seguita da rivolta»; di «conciliazione seguita da indifferenza»; di «ti prego, ti prego, ti prego, seguita da vaffanculo, ’fanculo, rottinculo». Io non rispetto lo Shabbat, non prego tre volte al giorno, non aspetto sei ore tra la carne e il latte. Le persone che mi hanno cresciuto direbbero che non sono religioso. Si sbagliano. Quello che non sono è osservante. Ma sono dolorosamente, rovinosamente, incurabilmente, miserabilmente religioso e ultimamente ho notato, sbalordito e sconvolto, che in giro per il mondo sempre più persone sembrano trovare Dio, ognuna di loro più piena di odio e più assetata di sangue del vicino, mentre io sto facendo del mio meglio per perderLo. E sto miserevolmente fallendo. Io credo in Dio. È un vero problema, per me. Ho pochissima simpatia per i vitelli. Secondo il sito NoVeal.org, «i vitellini vengono tolti alle madri e con una catena al collo vengono stipati in casse larghe appena sessanta centimetri. Non possono girarsi, distendere le zampe e nemmeno sdraiarsi comodamente». Come in una yeshiva, o in una madrasa, o in una scuola cattolica. Tranne per la parte «tolti alle loro madri», beati quei vitellini. Mia madre mi metteva nel box e mi faceva capire chiaramente che il suo amore era condizionato dal fatto che restassi o meno in quel box. Tra l’altro, nessuno sta fuori della cassa del vitello a dirgli che in cielo c’è una sorta di Vacca Onnipotente, e che la
Vacca Onnipotente comanda al vitello di restare in quel box, e che per di più il box in cui si ritrova confinato è un regalo – un regalo della Vacca Onnipotente, perché i vitelli sono il bestiame preferito della Vacca, e se per caso il vitello si sogna di andarsene dal box o di mettere in discussione il box, o anche di lamentarsi del box, be’, sono Vacche sue. Ultimamente sto attraversando una fase di mini-rivolta. Faccio il mio lavoro e scrivo le mie storie dopo aver temporaneamente sospeso ogni attenzione nei confronti di Dio e del Suo Dipartimento di Castigazione Ironica. Stamattina mi sono seduto nel mio ufficio con in mano una tazza di caffè, pieno di risentimento. Ciucciamelo, o Signore, ho pensato mentre avviavo il mio portatile. Fa’ del Tuo peggio. E poi Orli ha chiamato. «Quali test?» le ho chiesto. «Chi ti ha chiamato, di che cosa stai... Quali test?» Si chiamano test per l’alfa-fetoproteina, e combinati con altri test ti dicono quante probabilità ci sono che il tuo bambino abbia la sindrome di Down. L’infermiera aveva chiamato quella mattina, subito dopo che io ero uscito, e le aveva detto che le probabilità che il nostro bambino avesse la sindrome Down erano una su venti. Normalmente sono una su 270. Orli piangeva. «Non capisco» dissi io. C’è qualcuno che fa questo lavoro? Qualcuno che si sveglia, si lava i denti, prende un caffè e poi passa la giornata a telefonare in giro per dire alla gente che i loro bambini non ancora nati hanno la sindrome Down? Al telefono? Ma che razza di lavoro del cazzo è? Come si fa a ottenere un lavoro così? Si strappano le zampe a un ragno e lo si butta in una tazza? Non male. Abbiamo particolarmente apprezzato il fatto che gli hai lasciato l’ultima zampa, così lui si è illuso di potercela fare. Bel colpo. Puoi cominciare lunedì. Non capivo. «Non capisco.» Calmati. Adesso cerca di calmarti. E magari si sono sbagliati, e adesso vengo a casa, ma tu stai piangendo, no va tutto bene, sarò a casa tra pochi minuti, e che cosa facciamo, ho detto CALMATI!, e non mi urlare, e scusami e ti amo e ti amo e ti amo e andrà tutto bene. Sei uno stronzo, Dio. Vaffanculo, brutto stronzo bastardo. Mi misi il cappotto, presi le chiavi, infilai il portatile nella borsa, corsi fuori dall’ufficio, salii sul mio gippone, chiusi la portiera, misi in moto, tirai fuori il portatile dalla borsa, cancellai tutte le storie su Dio a cui stavo lavorando («Sei sicuro?» chiese il computer. «Vuoi eliminare i file definitivamente?» Sì, ero sicuro), chiusi il portatile, lo misi nella borsa, ingranai la marcia, e partii a tavoletta.
La madre di Orli è egiziana, il padre è di Bukhara. La loro casa è a Londra, ma per la maggior parte dell’anno risiedono nel sedicesimo secolo. Orli ha con loro un rapporto cordiale, ma certo non li chiamerà per un consiglio, medico o di altro genere. Il telefono squillerebbe nella loro cucina, il padre tenterebbe di rispondere al tostapane, e la madre se ne starebbe accigliata sulla soglia. «Sindome?» chiederebbe il padre. «Ma che cos’è una sindome?» «Sindrome!» urlerebbe Orli al telefono. «Sindrome! La sindrome di Down!» «Sì, ho capito. Ma chi è Dan?» In quanto a me, mia madre ha un figlio che si chiama Shalom e che lei adora, ma non è me o, più precisamente, io non sono lui. Lui è sposato, ha molti figli e abita accanto a lei, in una comunità yiddish come si deve, e rispetta lo Shabbat, che naturalmente chiama Shabbos, e la chiama prima dello Shabbos per augurarle Gut Shabbos, e si incontrano in sinagoga di Shabbos e tornano a casa insieme di Shabbos, e dopo lo Shabbos lui le telefona per augurarle una buona settimana, che lui chiama gut voch, e tutta la miriade di condizioni dell’amore di lei sono beatamente soddisfatte. È rimasta vittima di un errore
cosmico all’atto dell’acquisto, e ha passato tutti gli anni da quando io ho osato diventare me stesso a cercare lo scontrino. «Questo» dice mentre si cerca nelle tasche e fruga nel cappotto «non è quello che ho comprato.» Non potendo chiedere chiarimenti a nessuno, ci rivolgemmo a Google. Ecco la battuta finale: «Ops!» disse l’infermiera. Un errore. Dopo alcune notti insonni, Orli ci arrivò da sola, basandosi su alcune informazioni che aveva trovato su Internet: il test alfa-feto è basato sull’età del feto, e nel nostro caso qualcuno aveva sbagliato a scrivere la data del concepimento. Qualcuno si era dimenticato di riportare l’uno. Le nostre possibilità di avere un bambino con la sindrome di Down in realtà erano una su 776. Questa è buona, Dio. «Che cosa hanno detto?» chiesi io. «Hanno detto che ho ragione.» «Hanno chiesto scusa?» «No. Shalom...» «Era la stessa?» chiesi «La stessa cosa?» «La stessa infermiera che ti ha chiamato per dirti che era Down?» «Che cosa cambia?» «Che cosa cambia?» «Che cosa cambia?» «Devo sapere quante infermiere devo uccidere, ecco che cosa cambia. Sono una o due?» Mi figurai l’assistente del medico, con i capelli blu, incastrata dietro la sua scrivania, circondata da troll di pezza, palle di neve e tazze da caffè macchiate di rossetto, che conta i giorni dal concepimento sulle nocche del suo piccolo pugno grassoccio. Trenta giorni ha novembre, con april, maggio... no, un momento... Trenta giorni... Aspetta un po’, scusa... E poi ci abbracciammo, ci tenemmo stretti stretti e restammo così per un po’, fino a quando i cani non cominciarono a ululare, e allora li portammo sulla montagna per una passeggiata. «Come sta venendo il libro?» chiese Orli. «Non tanto bene» dissi io. Ho pochissima simpatia per i vitelli.
6 Cominciò tutto con uno Slim Jim. Avevo nove anni. Era una domenica pomeriggio di giugno, e io ero alla piscina comunale di Ramapo con mia madre e la sua solita borsa di frutta calda, shnitzel freddi, biscotti kosher, e una copia della «Jewish Press». La piscina era la mia evasione, un rettangolo fresco, azzurro, libero da rabbini, con due rettangoli più piccoli alle due estremità, uno con l’acqua bassa e l’altro con l’acqua alta. Lì ci si poteva rilassare, levarsi gli tzitzis, ficcare la yarmulke negli infradito e dimenticarsi di Dio per un po’. I ragazzi si tuffavano a bomba dal trampolino, urlando a squarciagola durante il salto. Le ragazze facevano la verticale sott’acqua, con le gambe che luccicavano al sole mentre le loro amiche strillavano e le incitavano. I ragazzini neri giocavano a pallacanestro, i ragazzini bianchi giocavano col frisbee, e gli ultraortodossi stavano a casa. Nuotare, a meno che maschi e femmine non fossero separati, era proibito, ma questa era una delle poche concessioni dei miei genitori alla loro felicità in questo mondo a scapito della loro eterna ricompensa in quello a venire. Qualcuno che io chiamavo Kevin urlò: «Marco!»; qualcuno che io chiamavo Johnny urlò: «Polo!»; e un tizio alto e magro, coi capelli biondi fin sulle spalle – io lo chiamai Vinnie – venne verso di noi con una ragazza che io chiamai Tiffany. Era più alta di Vinnie, con i capelli ancora più lunghi e più biondi. Aveva un costume da bagno minuscolo, giusto un paio di piccole yarmulkes bianche legate sui seni e un triangolino bianco e scintillante come uno hamentash infilato tra le gambe. Il braccio di Vinnie era appoggiato sulle spalle di Tiffany; la mano di Tiffany era infilata nella tasca posteriore dei jeans tagliati al ginocchio di lui. Mentre camminavano verso di noi, i capelli in cima alle loro teste saltellavano su e giù, e dopo che ci ebbero superato, i capelli sul retro delle loro teste saltellavano a destra e a sinistra. Sembravano capelli felici. Anche loro sembravano felici. Vinnie portava una lunga collana d’argento, scarpe da basket senza lacci e una maglietta con la scritta VERGINE DI FERRO sul davanti. Dietro, una donna nuda leccava una lunga spada luccicante. Io portavo i capelli corti. Ai piedi avevo dei mocassini. Sulla mia maglietta c’era scritto VOGLIAMO IL MESSIA SUBITO. «Un feiner mentch» mormorò sarcastica mia madre mentre si allontanavano. Un bel giovanotto. Quel giorno l’aria era ferma, e io mi contorcevo sulla sedia a sdraio, scomodo, cercando di sfuggire al furioso, implacabile sguardo del sole. All’improvviso, dal nulla sorse una brezza, e con la brezza arrivò qualcosa di dolce e pungente, impuro e fantastico allo stesso tempo, qualcosa che fece fremere le mie narici e mi fece venire l’acquolina in bocca. Mi alzai e sollevai il naso in aria, cercando di seguire quell’aroma fino alla fonte da cui proveniva, e fu allora che una seconda brezza si unì alla prima. Insieme mi riempirono le narici dell’irresistibile odore di carne treyf che stavano arrostendo allo Snack Bar dall’altro lato della piscina. «Mi daresti un dollaro?» chiesi a mia madre. «Ci sono delle mele nella mia borsa» mi rispose da dietro la sua «Jewish Press». «L’OLP promette altri attacchi» annunciava il titolo. «Ma io voglio una bibita.» Lei fece un sospiro, mi diede il portafogli e mi disse che potevo prendere un dollaro. Io ne presi due e scappai via. «Yarmulke!» urlò lei. Corsi indietro, afferrai la yarmulke che mia madre mi porgeva, la infilai nella cintura del mio costume da bagno e mi affrettai a raggiungere Vinn e Tiff allo Snack Bar. «Prendo una Coca» dissi all’uomo dietro il banco.
«Nient’altro?» Vinnie era accanto a me, e stava caricando il suo hot dog di crauti e cetriolini tagliati fini. Lo fissai a bocca aperta mentre gettava indietro i capelli, aprendosi un varco verso la bocca, e addentava il maiale. Era come se non avesse mai sentito parlare del Levitico 11,7. «Che ti prende, ragazzino?» chiese Vinnie. «Non hai mai visto un tizio mangiare un hot dog?» È che non avevo mai visto un tizio mangiare carne di maiale. «Be’, ragazzino?» chiese l’uomo dello Snack Bar. «Allora che cosa prendi?» Quando il rabbino Shimon bar Yochai si nascondeva dai romani in una grotta, Dio gli parlò e il rabbino Shimon bar Yochai scrisse ogni cosa che Dio gli disse. Il libro che contiene le cose che Dio gli disse si chiama Zohar ed è uno dei libri più sacri di tutto l’ebraismo. Ecco quello che il rabbino Shimon bar Yochai disse che Dio gli aveva detto a proposito di chi mangia cibi non kosher: Dio lo detesta in questo mondo e lo torturerà in quello a venire. «Non ho tutta la giornata» disse l’uomo dello Snack Bar. «Nient’altro?» «Uno di quelli» dissi indicando verso un secchio di plastica bianca appoggiato sul bordo del bancone. «Uno Slim Jim?» chiese lui. Annuii. Il mio cuore batteva all’impazzata mentre l’uomo dello Snack Bar si allungava e tirava fuori uno Slim Jim dal secchio. Io avevo già visto gli Slim Jim nel negozio di alimentari e li avevo ammirati da lontano. Ma ti rendi conto?, avevo pensato. Un bastoncino di carne! La carne kosher è molto complicata. Gli animali che non hanno l’unghia divisa sono proibiti. Gli animali che non ruminano sono proibiti. Se gli animali non vengono macellati in un modo molto specifico, sono proibiti. Qualcuno deve verificare che l’animale sia stato macellato in un modo molto specifico, e sulla confezione ci deve essere una scritta che dice: «Questa carne è stata macellata in un modo molto specifico». Se la confezione non riporta la scritta, è proibita. Un bastoncino. Di carne! Ogni volta che vuoi, ovunque vuoi. Mi dia quel fumetto, una bottiglia di latte e un bastoncino di carne. Che vita. «Con formaggio o senza?» chiese l’uomo dello Snack Bar. Che problema c’era, alla fine? Con il loro involucro rosso brillante e giallo, gli Slim Jim sembravano più una caramella che un cibo proibito. Ma Dio le aveva mai viste queste cose? Come faceva a prendersela tanto per una caramella? Avrebbe torturato un bambino per una caramella? Non avevo mica ordinato un hot dog. Non ero del tutto pazzo. Gli hot dog erano come la zona con l’acqua profonda di una piscina non kosher. Io stavo cercando di evitare che Dio mi detestasse seriamente in questo mondo, e speravo che cominciando dalla zona con l’acqua bassa, cioè con uno Slim Jim, forse gli sarei stato solo vagamente antipatico, o avrebbe in genere preferito la compagnia di qualcun altro. «Be’?» chiese l’uomo dello Snack Bar. Treyf era più di una parola per indicare un cibo proibito. Treyf significava che qualcuno o qualcosa era disgustoso, vile, impuro, immorale, perverso, ripugnante. Andare al cinema era treyf, guardare la televisione era treyf. New York era treyf. Woody Allen era treyf. Il mio amico Tzvi aveva un fratello più grande che non portava la yarmulke e usciva con una ragazza non ebrea. Il fratello di Tzvi era molto treyf. Ma niente – niente – era più treyf che mangiare treyf. «Forza, ragazzino» disse l’uomo dello Snack Bar. «Con formaggio o senza?» Non era peccato comprarlo e basta, giusto? Lo potevo sempre buttare via. Mica lo dovevo mangiare per forza. Cioè, se solo comprare una cosa che potrebbe essere usata per commettere un peccato è in sé un peccato, allora probabilmente uno non si può comprare una macchina perché magari la guida di Shabbat, giusto? Ma il rabbino Kahn aveva una macchina. I miei genitori avevano due macchine. Il rabbino Shimon bar Yochai probabilmente aveva una macchina.
«Col formaggio, allora» disse l’uomo dello Snack Bar. Mangiare carne non kosher era già abbastanza grave. Se l’avessi mangiata insieme a formaggio non kosher, Dio non mi avrebbe mai fatto uscire vivo dalla piscina. Mi avrebbe fatto battere la testa sul trampolino. Mi avrebbe fatto venire un crampo mentre nuotavo dove non si tocca, che avessi o meno aspettato un’ora prima di fare il bagno. Si deve aspettare di più, dopo aver mangiato cose treyf? Me lo chiesi. O magari il corpo neanche lo considerava cibo, e quindi non avrei dovuto aspettare per niente? Che vita. In un modo o nell’altro, Lui avrebbe trovato il modo di farmi annegare. Poi avrebbe fatto annegare mia madre. Forse lei era già morta. «Senza formaggio» dissi. «La prego, per favore, senza.» Ma che stavo facendo? Che cosa mi prendeva? Perché non potevo essere come gli altri ragazzi? I miei amici erano tutti kosher. La mia scuola era kosher. Mio fratello e mia sorella erano kosher. Andavamo nei ristoranti kosher. Facevamo la spesa nei negozi kosher. Il nostro dentifricio era kosher. Il nostro sapone era kosher. Il nostro detersivo per i piatti era kosher. Avevamo lavandini separati, uno per la carne e uno per i latticini. Avevamo piatti separati per carne e latticini, pentole separate per carne e latticini, utensili separati per carne e latticini. Se per caso un utensile per latticini sfiorava appena un utensile per la carne, mia madre urlava e si precipitava in salotto dove li seppelliva tutti e due nella cassetta delle piante sul davanzale. Solo l’estremità dei manici spuntava dal terriccio, e lì sarebbero rimasti, con quei manici a suscitare vergogna, fino a qualche giorno più tardi, quando sarebbero – chissà come – ridiventati kosher. Stavo per oltrepassare un confine che nessuna persona di mia conoscenza aveva mai oltrepassato, un confine che il rabbino Shimon bar Yochai aveva detto che Dio aveva detto che non doveva mai essere oltrepassato. «Colui che mangia cibi proibiti» disse Dio al rabbino Shimon bar Yochai «non potrà mai essere purificato.» Una volta che vai allo Snack Bar, non puoi più tornare indietro. La bocca mi si seccò. Mi tremavano le mani. Guardai Vinnie per avere un po’ di conforto nell’ora del bisogno, ma lui era troppo impegnato a offrire il suo hot dog a Tiffany. Lei ne prese un morso, masticò, e non morì sul colpo – anzi, sorrise, con la senape che le colava sul mento per andare a finire sul crocifisso che portava al collo. Vinnie si avvicinò e la leccò. Cazzo. «Me ne dia due» dissi all’uomo dello Snack Bar. «Due, bene» disse lui. Era l’effetto valanga. Tra un momento mi sarei ritrovato col naso affondato in una scodella di chili, con un piatto di Super Nachos accanto. «Due e settantacinque» disse l’uomo dello Snack Bar. Mi alzai in punta di piedi e gli diedi i soldi di mia madre, infrangendo in un’unica mossa il cuore di lei, la legge e seimila anni di tradizione. «Mancano settantacinque centesimi» disse lui. Questo era Dio. Questo era Dio in persona che interveniva in mio favore, dandomi un’ultima possibilità di tirarmi indietro dall’orlo del... «Lasci perdere la Coca» dissi. Agguantai i miei Slim Jim e mi sedetti a un tavolo da picnic lì accanto. Ne aprii uno e me lo tenni vicino al naso, inalando profondamente come avevo visto fare a mio nonno quando apriva un nuovo barattolo di aringhe. Allora ecco com’è, pensai. Ecco com’è, essere uno di loro – quelli che ci passano accanto in macchina mentre andiamo a piedi alla sinagoga il sabato. Quelli che guardano la tv il venerdì sera, quelli che possono mangiare bastoncini di carne, che si godono libertà tipo piscina di Ramapo ogni benedetto giorno della loro vita da non-Eletti. Chiusi gli occhi, feci un respiro profondo, e mi infilai in bocca quanto più Slim Jim potevo, attorcigliandomelo in bocca come un tubo da giardino al gusto di maiale, spingendo gli ultimi centimetri rosso-bruni con la punta delle mie dita impure e tremanti, mentre tentavo invano di strizzare le labbra.
«Fame?» chiese Vinnie. Alzai le spalle e cercai di sorridere, ma avevo gli occhi pieni di lacrime mentre le narici mi si riempivano del fetore di mille scrofe affumicate al forno. Non riuscivo a respirare. Un denso liquido marrone mi colò fuori dall’angolo della bocca e strisciò piano piano fino al mento. Sgocciolò sulla mia maglietta e atterrò con un orrendo spiaccichio sulla M della parola MESSIA. Vinnie sorrise. Tiffany sobbalzò. Il mio stomaco ebbe un sussulto. Corsi al più vicino cestino dei rifiuti, bidone di metallo nero brulicante di api, mosche e puzza, e mi lanciai oltre il bordo. «Puah!» sentii gemere Tiffany. «Che schifo, ragazzino.» Vespe gialle, mandate da Dio a punirmi, mi circondarono la testa, ma io restai appeso lì ancora per qualche minuto, cercando di riprendere fiato e sperando che alla fine tutti avrebbero guardato da un’altra parte. Quando alla fine mi raddrizzai, Tiff e Vinn mi stavano fissando. Sorrisi e cercai di fare l’indifferente, incrociando le braccia sul petto e appoggiandomi con disinvoltura al bidone. Dentro i miei pantaloncini qualcosa si mosse. La yarmulke sbucò fuori e cadde per terra. Tiffany alzò gli occhi al cielo. Vinnie sorrise e annuì. «Fifa» disse scuotendo la testa con l’aria di chi la sa lunga. «Con la fifa non c’è niente da fare.» Una settimana dopo tornai allo Snack Bar, e ci tornai ancora parecchie volte nel corso dell’estate. Slim Jim normali, Slim Jim piccanti, Slim Jim al formaggio. Un pomeriggio quasi disastroso ci andai con mia sorella maggiore, che voleva una Coca e un pacchetto di noccioline. «Jimmy?» chiese l’uomo dello Snack Bar. «Chi è Jimmy?» chiese lei. «E io che ne so?» risposi. Vivevo nel costante terrore di essere scoperto. I miei amici della yeshiva non avrebbero mai capito. Sarei stato già fortunato se avessero continuato a rivolgermi la parola. Se i loro genitori avessero scoperto che ero treyf, avrebbero proibito ai figli di essere miei amici. Il mio rabbino avrebbe pregato perché fossi perdonato. Mio padre mi avrebbe buttato fuori di casa. E mia madre? Mia madre mi avrebbe sepolto sottoterra finché non fossi ridiventato kosher. Investii la mia paghetta in barrette al cioccolato Three Musketeers che divorai nascosto in cima a un pino nel bosco dietro casa. Nascosi dei Mallow Cups, i cioccolatini al marshmallow, nel cassetto dei calzini. Nascosi i nachos al formaggio nel cassetto della biancheria. Andai in bicicletta fino al supermercato vicino, comprai un paio di merendine Moon Pie e tornai indietro. Feci tutta la strada col terrore di essere investito da una macchina e di morire, così mia madre me le avrebbe trovate in tasca. Sarebbe stato proprio da Lui. Tentai di convincermi che si trattava solo di una fase. Posso smettere in qualsiasi momento. Tentai di togliermelo dalla mente, tentai di ingozzarmi di challah e di kasha, ma senza risultato. Al supermercato, trotterellavo dietro mia madre per corridoi e corridoi di alimenti senza pinne, senza squame, con l’unghia divisa, tra scaffali e scaffali di cose fatte di maiale, di grasso di maiale, di gelatina, cercando di convincerla come meglio potevo che erano cibi kosher. «E i cereali Franken Berry, allora?» chiedevo. «Non sono kosher.» «Ma c’è il kappa.» «Kappa non è kosher. Ci dev’essere un OK oppure un OU.» «E un TM? Franken Berry ha un TM.» «TM è solo il simbolo del marchio di fabbrica.» «E un OC?»
«Quello è il simbolo del copyright.» «E i cereali Lucky Charms li possiamo prendere?» «No.» «Perché?» «Sono treyf» diceva lei. «Ma che cos’hanno di treyf?» «C’è dentro il marshmallow.» «Sul serio? Uau! Dove?» «Quei pezzettini» diceva lei, «sono di marshmallow.» «I cuoricini rosa?» «Sì, esatto, i cuoricini rosa.» «Allora non mangio i cuoricini rosa. Li possiamo comprare se io non mangio i cuoricini rosa? Mangio soltanto le lune gialle, okay?» «Smettila di infastidirmi. Anche le lune gialle sono di marshmallow.» «Anche le lune gialle sono di marshmallow? Ma sei sicura? Scusa, e i quadrifogli verdi? Secondo me ti sbagli sui cuoricini rosa, mamma...» Lei non si smuoveva. Al momento di creare l’uomo, Dio gli piazzò dentro due inclinazioni, una buona, l’altra malvagia. Si è detto pochissimo dell’inclinazione buona, ma l’inclinazione malvagia è notoria: è il serpente nel Giardino dell’Eden, è Lot che si spoglia nudo davanti alle sue figlie, è il visitatore che incoraggia Sara a ridere, è l’uomo in mezzo a una folla di israeliti terrorizzati che urla: «Costruiamo un vitello d’oro». È colui che fa i film di Hollywood e la musica rock, la televisione il venerdì sera e i Nabisco con doppio ripieno, è colui che fa splendere il sole fuori quando tu devi stare dentro a studiare la Torah, è colui che fa diventare le foglie di bellissimi colori per attirarti fuori dalla sinagoga nel Giorno dell’Espiazione. È un istigatore, un truffatore, uno che da millenni rimesta la merda. E adesso temevo che l’inclinazione malvagia, come uno squalo bianco nelle acque torbide e impure della mia anima, sentisse odore di sangue. Cominciai a rubare. Rubai Twix. Rubai Mars. Quando sentii dire che la parte liquida dentro le gomme da masticare Freshen Up era fatta di gelatina, ne rubai un pacco da sei al supermercato e passai la notte seduto sul pavimento del bagno a succhiare il succo da tutti e quarantadue i pezzi, buttando via la gomma. Davo ancora il tormento a mia madre per i Franken Berry e i Lucky Charms – se avessi smesso di colpo, sarebbe diventata sospettosa – e quando il mio incessante rompere le scatole per ottenere cereali da colazione biblicamente proibiti diventò insopportabile, lei cominciò ad andare al supermercato senza di me. Io aspettavo che lei uscisse, chiudevo la porta della mia stanza, mi sedevo a gambe incrociate davanti al cassetto della biancheria, e quando lei tornava a casa mi ero rovinato l’appetito per cena. Buon Dio, pensavo tra me e me con la bocca piena di gomme da masticare Chuckles e Jelly Belly rubate, ma che cosa mi prende? Ero malato. Ero morboso. Ero un criminale. Ero un sodomita, un amoreo, un ittita, un sineo, un gebuseo. Ero Caino. Ero Esaù. Ero la moglie di Lot. Mi chiesi perché mai Dio ci mettesse tanto a punirmi, a gettarmi sotto un autobus con le tasche piene di Slim Jim, a farmi venire un attacco di cuore nel bel mezzo di una merendina Moon Pie. E quando credevo che Lui lo stesse facendo – quando sentivo un dolore lancinante al petto (attacco di cuore), o una fitta acuta alla testa (aneurisma cerebrale) – correvo in bagno e mi ficcavo le dita in gola, tentando di rigurgitare i peccati che avevo già inghiottito, sussultando in preda ai conati e sperando che quella sera Dio si sentisse Incline al Perdono Totale, o almeno Incline al Perdono Parziale, o magari soltanto Vagamente Assolutorio. Dopodiché tornavo nella mia stanza, mi prendevo a pugni nello stomaco e cominciavo a dondolarmi avanti e indietro sul bordo del letto, abbracciato a una busta di patatine Doodles che disperatamente, disperatamente non volevo mangiare.
7 Nell’estate prima che cominciassi la quinta, i miei genitori decisero di trasferirmi dalla ultraortodossa Yeshiva of Spring Valley alla normalmente ortodossa Torah Academy, a pochi passi da casa nostra. La Yeshiva di Spring Valley, pur essendo sempre stata un’istituzione religiosa, negli ultimi tempi aveva cominciato, insieme al resto della comunità, ad alzare costantemente e vertiginosamente il tiro. I cappelli grigi erano diventati cappelli neri, i pizzetti accuratamente spuntati erano diventati barbe accuratamente non spuntate, e materie secolari quali matematica e scienze – da sempre l’ultimo dei pensieri – adesso erano il pensiero che veniva dopo l’ultimo dei pensieri, ammesso che venisse. Io ero nervoso. I miei rabbini alla Yeshiva of Spring Valley mi avevano detto che sarei stato il futuro grande rabbino del popolo ebraico. Mi avevano detto che sarei stato un leader della mia generazione. Io mi sentivo come Abramo, in cammino verso una terra sconosciuta piena di tentazioni e di peccato. «Tu sei come Abramo» mi disse il rabbino Goldfinger quando seppe che me ne andavo, «in cammino verso una terra sconosciuta piena di tentazioni e di peccato.» E che terra sconosciuta era! Invece dei lunghi pastrani neri che indossavano i miei precedenti rabbini, i miei nuovi rabbini portavano normali abiti neri. Invece dei cappelli di feltro nero, alcuni di loro avevano cappelli di feltro grigio. Alcuni non portavano affatto il cappello. Uno di loro non aveva nemmeno la barba. Eppure si trattava della stessa religione, della stessa Torah, delle stesse leggi e costumi. Dio li avrebbe castigati tutti. Morti, pensavo tra me. Sono tutti morti. I ragazzi portavano yarmulkes non regolamentari di maglia dai colori vivaci anziché enormi yarmulkes di velluto nero, e invece di lasciar pendere fuori dai pantaloni gli tzitzis, come Dio ci aveva comandato, li infilavano dentro. Alcuni avevano il gel sui capelli. E c’erano le ragazze. Ragazze basse, ragazze alte, ragazze bionde, ragazze brune. C’erano Dine e Lise e Fayes, oh mamma! Ragazze coi fiocchi tra i capelli, ragazze che profumavano come fiori e come saponette, ragazze con le gonne che danzavano quando loro correvano e che facevano fru-fru-fru quando camminavano nei corridoi, e che salivano su per le cosce quando salivano le scale. Minuscole creature coperte di pelo mi scorrazzavano dentro la pancia durante l’ora di matematica (l’ora di matematica!), che era quando – sotto i quattro occhi attenti e cerchiati di corno del rabbino Lehnsherr – maschi e femmine facevano lezione insieme. Metà dei maschi andava nella classe delle femmine e metà delle femmine veniva nella classe dei maschi, e allora la stanza odorava come un prato, come mille prati, come mille prati inondati di una sottile, consolatoria nebbia di lacca per capelli Aqua Net. E io aspiravo profondamente mentre mi passavano accanto, e i tacchi delle loro scarpe nere e lucide facevano risuonare una musica delicata, clacchete-clacchete-clacchete, sulle dure mattonelle del pavimento. «Questi grafi sono in fase?» chiese un giorno il rabbino Lehnsherr indicando la lavagna. «Come? In Fayes?» chiese Ari. Tutti risero. Pensai che stavo per vomitare. Ero seduto a testa bassa, come mi avevano consigliato i rabbini della mia vecchia yeshiva, cercando di pensare alla Torah, anche se le piccole creature dentro la mia pancia si rotolavano sui loro dorsi pelosi e calciavano l’aria con i loro piccoli piedi muniti di artigli. Spacciati, pensavo. Dal primo all’ultimo. Alla fine della prima settimana, mi domandai se in fondo i miei vecchi rabbini non avessero
ragione, se io non fossi davvero il futuro grande leader del popolo ebraico. Sarebbero certamente stati orgogliosi di me. Potevo anche essere uno straniero in una terra sconosciuta, ma finora avevo resistito alla libidinosa tentazione a cui Re Davide in persona – così come Lot e Amnon e Achab e Zimri e Sansone e Lemach – non era stato capace di resistere. Poi, una domenica pomeriggio, stavo giocando nel bosco dietro casa mia quando scoprii una pila di riviste pornografiche dietro un grosso masso lungo Carlton Road. Raccolsi un bastoncino da terra e ne toccai una, sussultando quando si aprì sulla fotografia di una signora cinese nuda sdraiata sulla schiena. Aveva le gambe spalancate. Aveva un dito nella vagina. Ecco che cosa c’era scritto sotto la fotografia: Leccate il mio vasetto di miele. I Saggi ci dicono che la Torah ci dice che ogni giorno Dio ci mette alla prova. Qualche volta la prova è un trancio di pizza non kosher. Qualche volta la prova è una maldicenza. E qualche volta la prova è una rivista intitolata «Shaved Orientals». Buttai via il bastoncino e scappai.
Deena Seigman soffiava, quando rideva. Aveva il naso troppo grosso e gli occhi un tantino troppo ravvicinati, ma erano begli occhi, ed era un bel naso, e quando era seduta davanti a me durante la breve, troppo breve lezione di matematica, io fissavo bramoso i suoi ricci capelli castani e speravo di poter morire e tornare in vita, anche solo per un momento, reincarnandomi nel suo luccicante fermaglio rosso. Spesso fingevo di essere stanco, mettevo la testa sul banco e stendevo il braccio in modo che quando lei si appoggiava allo schienale della sedia i suoi capelli sfioravano il dorso della mia mano, e allora chiudevo gli occhi e mi imprimevo quella sensazione nella mente, un peccaminoso fiore secco la cui bellezza era conservata per l’eternità. Lei allora si spazientiva, si ravviava i capelli dietro le spalle e si spostava in avanti. «Auslander» urlava il rabbino Lehnsherr, «tirati su!» Il rabbino Lehnsherr si piazzava di fronte alla classe e indicava i diversi oggetti che aveva disegnato sulla lavagna: trapezi, rombi, ellissi. Io riuscivo a pensare a un oggetto solo: un vasetto di miele. I miei genitori lavoravano fino al tardo pomeriggio, e grazie all’orario più corto della mia nuova yeshiva, adesso passavo più tempo a casa da solo di quanto ne avessi mai passato prima. Cercavo di tenermi occupato, cercavo di distogliere il pensiero da Deena e dai vasetti di miele e dalla Pietra della Pornografia che mi aspettava in fondo al bosco. Certi giorni raccoglievo le foglie. Certi giorni facevo il bucato. Un giorno, in fondo al cesto della biancheria sporca, trovai un paio di collant marroni di mia madre. E il Signore mise Abramo alla prova. Li appoggiai sul pavimento e li riempii con il resto della biancheria sporca: calzini, magliette, asciugamani. Quando le gambe furono piene, presi del nastro isolante nel garage di mio padre, lo usai per chiudere bene il punto vita e portai tutto in camera mia. Era pesante. Una gamba era più grassa dell’altra, e la gamba magra era più lunga di quella grassa. Le buttai sul mio letto, mi asciugai la fronte e mi ci sedetti accanto. Le incrociai. Le riaprii. Nell’armadio dei cappotti in cima alle scale trovai un paio di scarpe di mia madre col tacco alto, mi precipitai in camera mia e gliele misi. A lei. Ai suoi piedi. Mentre stavo lentamente allargando quelle gambe, cercando di riprodurre la posa dell’orientale rasata della rivista, sentii la macchina di mio padre nel vialetto. In preda al panico, cercai freneticamente di strappare il nastro isolante dal collant. Pensai di seppellirla – seppellire le gambe – in fondo al mio armadio, ma non avrei sopportato l’umiliazione di
essere scoperto. Più lottavo col nastro isolante, più quello sembrava stringere; l’unica speranza era di riuscire a rosicchiarlo. Avevo la cintura del collant imbottito di mia madre tra i denti, quando sentii sbattere la portiera della macchina di mio padre, e pochi minuti dopo aprirsi la porta d’ingresso. «Shalom» chiamò seccamente. Io continuai a rosicchiare. La combinazione morsi-saliva stava allentando il nastro isolante, e alla fine riuscii a strapparlo. «Shalom!» chiamò lui di nuovo. «Sì» risposi io, tirando fuori la biancheria dal collant più in fretta che potevo. Lui cominciò a scendere le scale. Io tenevo le gambe sottosopra, scuotendole, facendole oscillare violentemente su e giù, e infilavo le mani fino in fondo per acchiappare tutto quello che potevo. Mio padre apparve nel vano della porta proprio mentre stavo tirando fuori dei calzini dal piede della gamba sinistra. Sul pavimento erano sparpagliati federe sporche, camicie e calzini. Il mio letto era coperto di lenzuola sporche, asciugamani umidi e biancheria assortita. E nel mezzo di tutto questo c’ero io, con un braccio infilato nella gamba del collant di mia madre. «Ma che diavolo stai facendo?» chiese lui. «Il bucato...» «Stai facendo il bucato?» «Perché no?» Strinse gli occhi ed esaminò la stanza, in cerca di indizi. Vide il rotolo di nastro isolante sulla mia scrivania e lo prese in mano. «Che cosa ti ho detto sul fatto di entrare nel mio garage?» chiese. Il garage era assolutamente off limits, così come il capanno, l’armadio nel sottoscala, la soffitta e la camera da letto dei miei. «Se ti ci becco un’altra volta» disse, «ti spezzo quelle maledette mani.» Uscì e tornò di sopra. Io presi tutta la biancheria e la rimisi nel cesto. Mia madre arrivò a casa dopo qualche minuto e mi chiese di aiutarla in cucina prima di mettermi a fare i compiti. Mancavano solo un paio di settimane a Rosh ha-Shanà, il Capodanno ebraico, e a mia madre piace cucinare tutto per tempo. Mi tolsi gli abiti della scuola, mi cambiai e la raggiunsi in cucina, grato di ogni pur breve distrazione dai vasetti di miele che un altro lavoro potesse fornirmi. Sfortunatamente, a simboleggiare un felice anno nuovo, parecchi piatti di Rosh ha-Shanà prevedono il miele. «Passami quel vasetto di miele» diceva mia madre. «Dov’è il vasetto del miele?» «Quanto miele ci hai messo in quel vasetto?» «Devi proprio sbattere quel vasetto?» «Torno subito» dissi. Andai di sotto, sgattaiolai dalla porta posteriore e corsi nel bosco fino alla Pietra della Pornografia. Le riviste che avevo trovato qualche giorno prima erano sparite, ma dietro un altro masso lì vicino scoprii una pila di riviste nuove. Era la mano di Dio, e io lo sapevo. Se poteva parlare a Mosè da un cespuglio che era in fiamme ma non bruciava mai, ci voleva tanto a immaginare che potesse parlare a me da una pila di pornografia che non si esauriva mai? Portai a casa le riviste, le nascosi sotto il letto e quando ebbi finito di aiutare mia madre nei preparativi per il Giorno del Giudizio, mi sedetti sul pavimento in camera mia e le studiai come fossero la Torah. Una delle riviste si chiamava «Juggs», una si chiamava «Forum» e una si chiamava «Oui», che io pronunciai Aui, che sembrava quasi Avi, che era l’abbreviazione di Avraham, che era il nome ebraico di Abramo, nostro progenitore. Il rabbino Napier ci aveva detto che Dio mise alla prova Abramo ordinandogli di sacrificare il figlio Isacco sulla cima del monte Moriah. Abramo condusse Isacco sulla vetta e lo fece distendere su una pietra, con gli alberi dietro di loro, il cielo sopra, e nella mano di Abramo un coltello affilato che sollevò sul collo del figlio. «Ehi, ehi, ehi!» disse Dio. «Vacci piano, killer.» «Tale era la grandezza di Abramo» aveva detto il rabbino Napier.
La pornografia era il mio Isacco, e avevo fallito. Qualche giorno dopo, tornai a casa e di nuovo non c’era nessuno. Portai fuori le riviste, sul vialetto asfaltato dietro casa, le appoggiai per terra, le cosparsi di liquido infiammabile, e appiccai il fuoco: un sacrificio espiatorio hardcore V.M. 18 offerto al Signore. «Io distruggerò l’empia città di Sodoma» disse Dio ad Abramo. «E se io vi trovassi cinquanta giusti?» chiese Abramo. «Distruggerai i giusti insieme agli empi?» Dio disse che non lo avrebbe fatto. «E se ne trovo quarantacinque?» chiese Abramo. «Sì, va bene...» «Quaranta?» «Certo, quaranta. Okay.» Sperai che Dio fosse ancora disponibile a mercanteggiare un po’. Mi coprii la faccia con le mani, strinsi forte gli occhi e mi dondolai avanti e indietro davanti al fuoco. «Ti prego» implorai Dio. «Mettimi di nuovo alla prova. Doppio o niente.»
Deena non mi filava per niente. Diventai dolorosamente consapevole dei miei vestiti. Tutti i ragazzi fichi portavano pullover con piccoli animali sul petto: coccodrilli, tigri, un piccolo uomo su un piccolo cavallo, pronto a spaccare la sua piccola faccia cavallina con la piccola mazza sollevata. Portavano tutti scarpe da barca, anche se pochi erano mai saliti su una barca, e qualcuno aveva deciso, senza dirmelo, che le camicie di velluto erano «in». Io maledicevo le mie camicie non di velluto, odiavo i miei pullover senza animaletti, detestavo le mie scarpe non da barca. Perfino la mia yarmulke era sbagliata. Tutti i ragazzi fichi avevano yarmulkes piccole, colorate, lavorate all’uncinetto, grandi la metà della mia, con disegni elaborati: righe, spirali, o il logo dei New York Yankees, e i loro nomi ricamati proprio sul bordo. E io invece stavo lì con un’enorme yarmulke di velluto nero: niente righe, niente spirali, niente stemmi. Tanto valeva che girassi con addosso uno stramaledetto tallis. Un giorno tornai a casa, andai nel garage di mio padre e fissai la mia yarmulke alla morsa, sul banco da lavoro. Dal pannello degli attrezzi presi il punteruolo e, tenendo fermo l’orlo della yarmulke, feci una dozzina di buchi nella fodera. Infilai le dita nei buchi e tirai, strappando la fodera da una parte e dall’altra finché non fu a brandelli e l’orlo non cominciò a disfarsi. «Ma che diavolo le è successo?» chiese mia madre quando tornò a casa. «È volata via» dissi io. «Stavo andando in bicicletta.» «Su cosa è volata?» chiese lei. «Un tagliaerba?» «È meglio che andiamo» dissi io. Andammo in macchina al negozio di articoli ebraici dove, in fondo a un cesto pieno di yarmulkes con disegni geometrici generici, alcuni con la stella di Davide, e uno con la scritta SHABBOS, SHABBOS, SHABBOS lungo il bordo («No» dissi a mia madre prima che lei me la potesse consigliare), la trovai: una yarmulke di maglia azzurro sgargiante con scritto il mio nome. Il mio nome significa «pace» quindi si trova parecchio nei negozi di articoli ebraici: su coperte per challah, borse per i tallis, menorot, piatti da seder, ombrelli, portachiavi. Io però presi anche questo come un altro segno mandato da Dio: «Supera la mia prova» disse il Signore, «e Deena sarà tua». «Affare fatto» dissi a Dio. «Ho bruciato la roba porno, hai visto.» Tornammo a casa e io mi chiusi a chiave in bagno a provarmi la mia nuova yarmulke davanti allo specchio a figura intera sul retro della porta: profilo sinistro, profilo destro, mani nelle tasche anteriori, mani nelle tasche posteriori, braccia incrociate sul petto. Provai posizioni diverse: provai a mettermela un po’ in avanti, proprio sopra l’attaccatura dei capelli, come la lampada sull’elmetto dei minatori. Provai a spostarla più indietro. La feci scivolare di nuovo in avanti e la spinsi con noncuranza da una parte.
Caspita, stava bene in tutte le posizioni. Era una yarmulke coi controfiocchi. Deena non avrebbe avuto scampo. Vasetto di miele, pensai. «Mi chiedo» disse l’inclinazione malvagia, «se hai lasciato qualche rivista sotto la cassettiera...» Mi misi a quattro zampe e cercai sotto la mia cassettiera. Tutte sparite. «Magari ne ha qualcuna tuo fratello?» chiese l’inclinazione. Controllai sotto la cassettiera di mio fratello, ma neanche lì c’era niente. Controllai sotto il suo letto e controllai nel suo armadio e controllai nella sua scrivania. Niente. «Dietro i suoi libri» disse l’inclinazione malvagia. Salii sul letto di mio fratello, frugai dietro i suoi libri e tirai fuori una rivista in carta patinata a colori. Si chiamava «Puritan», e il mio cuore peccaminoso cominciò ad accelerare. Dove l’aveva presa mio fratello una rivista sporca? Era a conoscenza della Pietra della Pornografia? Cosa più importante di tutte: cosa significava «sborra» e perché la donna sulla copertina voleva che gliela sparassi tutta sulla faccia? Quella notte, parecchio dopo che io e mio fratello ci eravamo addormentati, mio padre aprì con un calcio la porta della nostra stanza. Facemmo un salto tutti e due. Lui accese di colpo la luce, noi ci riparammo gli occhi, e lui volle sapere chi di noi due era stato nel suo garage. In una mano tremante di rabbia brandiva il punteruolo che avevo usato nel pomeriggio per massacrare la mia yarmulke e lo puntava verso di noi. «Se becco uno di voi due nel mio garage un’altra volta» grugnì, «vi spezzo quelle maledette braccia.» Si voltò, sbatté la porta e risalì pesantemente le scale. Mio fratello mi diede un pugno sul braccio e io cercai di dargliene uno a mia volta ma lo mancai, lui mi colpì ancora, e poi tutti e due sgattaiolammo di soppiatto fuori dalla nostra camera, e in mutande arrivammo in punta di piedi fino alle scale, dove ci mettemmo a ballare in cerchio, con le braccia alzate e il dito medio puntato verso nostro padre, finché non ci venne freddo e allora tornammo a letto di corsa, ci infilammo sotto le coperte e tentammo di dormire. Il giorno dopo, tornai a casa e di nuovo la trovai deserta. Portai fuori le riviste di mio fratello, le inzuppai di liquido infiammabile e diedi fuoco al tutto. «E se ne trovo trenta?» chiese Abramo a Dio. «Se non distruggerai Sodoma per quaranta giusti, la distruggerai per trenta?» Dio sospirò. «No» disse. «Trenta mi sembra...» «Venti?» «Va bene, venti.» «Facciamo quindici» disse Abramo. Mi coprii la faccia con le mani, strinsi forte gli occhi e mi dondolai avanti e indietro davanti al fuoco. «Ti prego» implorai Dio. «Due su tre.»
«Deena vuole invitarci a casa sua questo Shabbos» disse Ari. Ari e Deena sono amici per la pelle. Ari ha una testa enorme – mi fa pensare alla caricatura di un politico – e una bocca piena di gancetti metallici e di elastici. Deena gli ha fatto tre yarmulkes all’uncinetto, ma erano solo yarmulkes da amici, non da fidanzati. Ari era anche amico di Dov ed Eli e di un altro Ari, e Deena era amica di Lisa, di Nava e di un’altra Deena, e tutti i sabato pomeriggio, Ari e Dov
ed Eli e l’altro Ari e Lisa e Nava e Drorit e l’altra Deena andavano a casa di Deena a chiacchierare delle loro pettinature e dei ridicoli vestiti dei loro compagni di classe. In parte perché mi dispiaceva per Ari – uno dei suoi soprannomi era Testone –, ma soprattutto perché sapevo che era amico di Deena, avevo fatto uno sforzo particolare per diventare suo amico, e avevo passato le prime settimane alla mia nuova yeshiva ridendo alle sue stupide battute e ingozzandolo di biscotti svizzeri al cioccolato Stella D’Oro. Ari aveva un debole per i biscotti svizzeri al cioccolato Stella D’Oro. Un altro suo soprannome era Stella. «Allora ci vuoi venire?» chiese Stella. La casa di Deena era a una buona ora di cammino da casa mia. «Certo» dissi con noncuranza, sistemandomi sulla testa la nuova yarmulke. «È una a posto.» «Lo so» disse Testone. Abbassò la voce e mi sussurrò all’orecchio: «Sto cercando di farla mettere con Dov!» Ari fece un largo sorriso, il suo capoccione dondolava su e giù con entusiasmo. Annuii insieme a lui, anche se la mia anima si rabbuiava. Il cioccolato svizzero colava come sangue dal suo apparecchio per i denti, e briciole sparse di biscotto si aggrappavano disperatamente all’orlo delle sue fauci spalancate mentre Dio tendeva la mano verso il mio petto, mi lacerava la carne e mi strappava il cuore ancora pulsante.
Ci pensai tutto il giorno, e continuai a pensarci mentre tornavo a casa da scuola, quel giorno. Non c’era una logica. Io avrei capito se Dio avesse voluto punirmi la settimana prima o quella prima ancora. A quell’epoca casa nostra era infestata dalla pornografia; casa nostra era stata un covo di empietà, un nido di impurità, una villetta a schiera del male. Secondo i Saggi, sprecare il seme era un delitto peggiore dell’omicidio, quindi avrei capito se Dio mi avesse punito per essere andato in giro per casa – se così si può dire – con una pistola. Ma ieri sera ho bruciato tutto, fino all’ultima pagina: perché mai Lui avrebbe dovuto punirmi adesso, dopo che avevo purificato la mia anima e pulito a fondo la mia casa? A meno che – mi resi conto bloccandomi di colpo all’inizio di Pine Road – a meno che ci fosse ancora roba pornografica in casa. Mi misi a correre. Era venerdì pomeriggio, e avevo almeno un paio d’ore prima che qualcuno rientrasse. Controllai in fretta ogni centimetro della nostra stanza: sopra l’armadio e in fondo all’armadio, sopra la cassettiera e sotto la cassettiera, sotto i letti, sotto i materassi, sotto le scrivanie, sotto i comodini. Controllai in bagno: nell’armadietto delle medicine, dietro l’armadietto delle medicine, in fondo al cesto della biancheria sporca, sotto il cesto della biancheria sporca. Alla fine controllai nella lavanderia. Sotto la lavatrice c’era una rivista intitolata «Swank» che avevo nascosto io in precedenza e di cui mi ero dimenticato, e sotto l’asciugatrice c’era una copia di «Juggs», anche quella mia. Ma trovai una «Leg Show» dietro lo scaldabagno e un «Nugget» dietro la macchina da cucire, e io prima non avevo mai visto nessuna delle due. Sulla copertina di «Nugget» un uomo stava urinando su una signora nuda. Lei sembrava gradire, il che mi fece sentire leggermente meglio rispetto a me stesso, ma considerevolmente peggio rispetto alla mia famiglia. Di chi erano quelle riviste? Di mio fratello? Di mio padre? Per l’esattezza, chi voleva pisciare su chi? Portai fuori le riviste, le inondai di liquido infiammabile e appiccai il fuoco. Non avevo tempo di pregare. «Tre su cinque» urlai a Dio mentre mi precipitavo di nuovo in casa. «Tre su cinque!» Corsi in garage, presi un cacciavite dal pannello degli attrezzi e mi diressi al piano di sopra. Non si poteva negare che, grazie a «Leg Show» e «Nugget», nonché a un certo fascino personale, Dov partiva con un bel vantaggio su di me nella conquista della mano di Deena. Ma la corsa non era ancora finita, pensai mentre sfrecciavo su per le scale. Se dovevo usare il gel, che Dio mi perdoni, avrei usato il gel! La porta della camera da letto dei miei genitori era chiusa a chiave, come sempre. Tornai sulla
veranda, trascinai una sedia fino alla finestra del loro bagno, infilai la punta del cacciavite sotto la cornice dell’imposta e la feci saltare. Muovendomi rapido, socchiusi la finestra, strisciai sotto la tapparella e raggiunsi il lavandino del bagno, feci una capriola e atterrai sul pavimento. Riabbassai la tapparella, chiusi la finestra e aprii l’armadietto sopra al lavandino. C’erano gel volumizzante, gel tenuta extra, gel strutturante extra, e gel strutturante extra e tenuta extra. Un «nonnulla»? Quanto era un nonnulla? Afferrai il contenitore con extra tutto, aprii la porta del bagno, e mi stavo dirigendo verso la camera da letto dei miei quando notai qualcosa sotto l’angolo del materasso di mio padre. «Avanti» disse l’inclinazione malvagia. «Hai tutto il tempo.» La rivista si chiamava «Penthouse». C’era un’altra rivista sul suo comodino, per lo più di storielle sporche, che si chiamava «Variations». Mi domandai quante prove avesse fallito mio padre. A quale prova era adesso, la decima? La ventesima? Come lo stava punendo Dio? Con me? Con un figlio peccatore? Avrei avuto anch’io un figlio peccatore? Nel suo cassetto, sotto le camicie, trovai un libro intitolato 101 Posizioni Sessuali, e immaginai rapidamente Deena in tutte e centouno prima di aprire la porta della stanza dei miei e precipitarmi fuori. «E lei?» chiese l’inclinazione malvagia. Mi fermai e mi girai. Stava parlando di mia madre. «Non essere ridicolo» risposi. Mia madre proveniva da una eminentissima famiglia di rabbini. Suo fratello era rabbino, e anche l’altro fratello era rabbino. I suoi zii erano rabbini, e suo nonno era rabbino. Due dei suoi nipoti erano rabbini, e due delle sue nipoti avevano sposato dei rabbini. In corridoio, sulla parete di fronte alla camera dei miei, erano appese vecchie foto sbiadite dei suoi antenati con indosso lunghi cappotti neri e grandi cappelli neri. «Fa’ come ti pare» disse l’inclinazione malvagia. «Ma Deena non è niente male. Io lo dico così per dire. Personalmente, se fossi in te, non rischierei.» Controllai nel comodino di mia madre. Controllai sotto il suo materasso. Controllai nel suo armadio e controllai nella sua toeletta. Sotto il suo letto, trovai una scatolina rosa. Dentro la scatolina rosa c’era un bastoncino bianco con un disco alla base. Quando girai il disco, il bastoncino cominciò a ronzare e a vibrare. C’erano anche delle fodere color carne una diversa dall’altra da infilare sul vibratore: una aveva tante piccole protuberanze, una aveva tante creste per tutta la lunghezza, e una era fatta a forma di pene, solo molto più grande. Curioso di vedere che cosa si provasse ad avere un pene così, mi sdraiai sul letto di mia madre, mi tirai giù i pantaloni e infilai il mio piccolo pene dentro il gigantesco pene di plastica. Era molto liscio. Dopo qualche minuto, capii tutto quello che avevo visto su quei giornali. Seppi che cosa sembrava dolore ma non lo era, e seppi quello che vuol dire la Torah quando dice che un uomo conosce una donna, e seppi che il conoscersi non c’entrava proprio niente. Guardai il seme che era schizzato sul mio ventre e mi venne voglia di piangere. Se mi ci erano voluti quattro mesi per capire come farlo uscire, mi ci sarebbe voluto almeno il doppio per capire come rimetterlo dentro, e io non ce l’avevo tutto quel tempo. Dal loro trespolo sulla parete fuori della camera da letto, i miei sbiaditi antenati mi guardavano in cagnesco, disgustati e delusi. «È per questo» brontolarono «che siamo morti nell’Olocausto?» Mi ripulii e portai tutto fuori – «Penthouse», «Variations», il libro di mio padre sulle posizioni sessuali, e la scatola di peni di mia madre – e diedi fuoco a tutto quanto. Alla fine, Abramo aveva mercanteggiato con Dio fino a scendere a dieci: se lui fosse riuscito a trovare dieci giusti a Sodoma, Dio avrebbe risparmiato la città. Abramo cercò e cercò, ma non riuscì a trovarne neanche uno. Io non stavo avendo fortuna migliore. Mi coprii la faccia con le mani e dondolai avanti e indietro davanti al fuoco.
«Tre su sette» implorai il Signore. «Ti prego, ti prego, ti prego, tre su sette.» Quella notte, quando eravamo già addormentati da un pezzo, mio padre aprì con un calcio la porta della nostra stanza, e noi due facemmo un salto. Lui stava lì in mutande, respirava forte dal naso, e pretendeva di sapere chi di noi era stato nella sua camera da letto. «Chi di voi è il ganif che ci è entrato?» ringhiò a denti stretti. Un ganif è un ladro. Aveva bevuto. Si reggeva in piedi appoggiandosi alla maniglia della porta. «Non so di cosa stai parlando» disse mio fratello. «In piedi» disse mio padre. Nessuno di noi si mosse. «Perché?» chiese mio fratello. Mio padre sferrò un pugno alla porta, spaccando il legno. Cominciarono a tremarmi le mani. «In piedi!» Scendemmo dal letto e ci stringemmo l’uno all’altro mentre mio padre ci faceva marciare fino alla veranda, dove ci fece mettere spalla contro spalla in mutande, tremanti nell’aria gelida. «Resterete qui tutta la notte» disse. Restammo lì per un tempo lunghissimo. Io pensavo a Deena, che dormiva chissà dove nel suo caldo letto a fiori, e a Dov, con un sorrisone stampato sulla faccia, che dormiva chissà dove per conto suo. Se mai Dio avesse deciso di distruggere questa nostra Sodoma, speravo che lo facesse adesso. Sentii socchiudersi la porta della stanza dei miei genitori, e il rumore leggero dei passi di mia madre che si dirigevano verso l’atrio. Si arrestarono in cima alle scale. «Adesso basta» disse. «Vattene a letto» disse mio padre. Lei restò lì ancora un momento. «Vattene a letto!» urlò lui, e lei obbedì. Dopo quelle che sembrarono ore, lui si alzò, venne verso di noi e si chinò in modo che la sua faccia fosse proprio davanti alle nostre. «Se vi becco un’altra volta in camera mia» disse, «vi spezzo quelle maledette braccia.» Mio fratello mi guardò roteando gli occhi, e mio padre lo colpì in faccia col dorso della mano. Mio fratello si coprì la faccia con le mani. Vedevo che stava cercando di non piangere, ma gli occhi gli si riempirono di lacrime. Lo stesso successe a me, e quando alzai lo sguardo verso mio padre, anche i suoi occhi erano pieni di lacrime. Si girò e arrancò su per le scale. Che cosa aveva in mente Dio? Che cosa ci stava combinando? Ci faceva a pezzi, ci aizzava l’uno contro l’altro, padre contro figlio, fratello contro fratello? Quando sentii i passi pesanti di mio padre nell’ingresso e la porta della sua stanza chiudersi finalmente dietro di lui, andai in punta di piedi fino alle scale dove feci il dito con tutte e due le mani – uno per mio padre e uno per Dio – e poi cominciai a ballare in cerchio sperando che mio fratello si unisse a me, però lui fece giusto un salto sul pavimento, diede un pugno all’aria e se ne tornò a letto. Dopo un po’ mi venne freddo, ma sentivo mio fratello singhiozzare, così aspettai un po’ prima di rientrare in camera. «Be’?» mi rivolsi col pensiero a Dio mentre mi infilavo sotto le coperte. «Sei contento adesso? Sei contento adesso, grandissimo stronzo idiota?»
Non era contento. La camminata fino a casa di Deena fu difficoltosa. Era una giornata insolitamente calda, e io ero mezzo addormentato per via dell’interrogatorio della notte prima. Percorsi tutta Carlton Road, passai la sinagoga, attraversai il cortile della casa dei Gartenberg, passai l’altra sinagoga, fino ad arrivare a Briarcliff Lane. Quando arrivai lì, il gel a tenuta extra e anti-arricciatura stava ormai colandomi sulla fronte e macchiandomi il colletto della camicia, che avevo lavato e stirato per l’occasione. Cercai di togliere il gel dalla camicia col rovescio della cravatta, ma non servì a niente. Tenuta extra un cazzo.
Ari aprì la porta. Eli, l’altro Ari, Lisa, Nava, Drorit e l’altra Deena erano tutti in veranda. Dov e Deena erano andati a fare una passeggiata. «Ah» dissi io. Quando tornarono, Dov sorrideva. Aveva chiesto a Deena di diventare la sua ragazza e Deena aveva accettato. L’altro Ari diede il cinque a Dov, e Drorit chiese a Deena di che colore gli avrebbe fatto la yarmulke. Io rimasi ancora un po’, prima di annunciare che per tornare a casa dovevo fare un bel po’ di strada, ed era meglio che mi muovessi. Mentre mi trascinavo per il vialetto di Deena, con le mani sprofondate nelle tasche e il gel che lentamente tornava a indurirsi formando un casco a tenuta extra sulla mia testa, mi venne in mente che forse non era il mio padre in Terra ad assomigliare al mio Padre in Cielo, quanto piuttosto il mio Padre in Cielo ad assomigliare al mio padre in Terra. Che forse se Dio ti sottoponeva a una prova che secondo Lui potevi superare, poi si incazzava di brutto se fallivi – non perché avevi fallito, ma perché non Gli piace sbagliarsi. E forse quando Dio si incazzava di brutto, scendeva le scale fino alla Terra, apriva con un calcio la porta del tuo mondo e minacciava di spezzarti quelle maledette braccia. O quel maledetto cuore. O qualunque cosa su cui riuscisse a mettere le Sue maledette mani. «Shalom!» urlò qualcuno. Mi fermai e mi voltai. Era Deena. Saltellava correndo verso di me, con la gonna che danzava e si sollevava fino ai fianchi, e per un attimo pensai: Forse... Mi raggiunse, potevo sentire i suoi capelli caldi e soffici sulla faccia, e il suo alito ancora più caldo e più soffice all’orecchio. Per un momento pensai che forse dovevo girarmi e baciarla. «A Lisa piaci un sacco!» mi sussurrò. Lisa era la migliore amica di Deena. Aveva i capelli neri e dei cerchi scuri sotto gli occhi. Bel colpo, Dio. «Anche a me piace lei» dissi a Deena. I peccatori non possono tanto scegliere. Fantastico! gridò Deena, e tornò di corsa a casa per dare la notizia a Lisa.
8 Ho trentacinque anni e sono disgustoso. Nere, bianche, orientali, nane. Tette grosse, tette piccole, tette vere, tette finte. Dominazione, umiliazione, fisting, felching. Eterosessuali, omosessuali, bisessuali, transessuali. C’è qualcosa che non va, in me. Forse mi sono beccato una malattia. Forse esiste una pillola che potrei prendere. Libiditro. Depravex. Flaccidia. Penso a cose disgustose mentre vado in ufficio. Penso a cose disgustose mentre sono in ufficio. Penso a cose disgustose mentre torno a casa dall’ufficio. Vado alla deriva in un mare di culi. Culi sul marciapiedi davanti a me, culi che mi si strusciano contro in metropolitana, che mi sfiorano negli ascensori, che mi passano davanti nei corridoi. Qui non si tratta di una «ossessione sessuale come riflesso della paura della morte» alla Philip Roth. Qui non si tratta del mio essere fisico che anela a un’illuminazione più alta. Nella mia degenerazione non c’è nessun messaggio esistenziale superiore. Questo non è il Teatro di Shabbat, è il Privé di Shalom. Io sono volgare. Sono schifoso. Sono depravato. C’è sadomasochismo sulla linea F direzione uptown, c’è sodomia sulla linea R direzione downtown. C’è un’orgia immaginaria sull’autobus che taglia in due Manhattan percorrendo tutta la Quarantaduesima Strada. I consigli di amministrazione diventano orge. Una intervistata nervosa diventa una prigioniera schiava del sesso. Una presentazione fatta da una dirigente donna diventa uno strip-tease, una lap-dance, un pompino sotto l’austero tavolo di noce (agevolato, diciamo così, dall’austero tavolo di noce). Faccio schifo. Ecco la parte migliore: «Cosa c’è?» chiede Orli. «Niente.» «Non ti va?» «Figurati.» Imbarazzo. «Ti dispiace se ci provo?» chiede lei. Finisce rapidamente. «Sei dotata» dico io. Lei ride e si stacca da me. Io faccio dondolare le gambe giù dal letto. Le persiane sono aperte e posso vedere la luna, le stelle, e dietro il buio cielo notturno, dove Dio siede sulla Sua veranda, ridendo di me. Ride e ride e continua a ridere. «Tutti questi anni di sperma sprecato senza una donna» dice ai Suoi compari che Lo circondano, «e adesso che ne ha una non riesce a venire!» Abramo ride e dà una pacca sulla spalla a Dio. Bel colpo, Dio. Scuoto la testa. «Io non capisco» dico. «Si direbbe che sono stato abusato sessualmente.» «Sei stato abusato teologicamente» dice Orli. «È molto peggio.» Parlando dei suoi desideri sessuali, il poeta Max Jacob scrisse: «Se il cielo osserva i miei pentimenti, mi perdonerà dei piaceri che sa non dipendere dalla mia volontà». Qualche anno dopo, il Cielo uccise Max in un campo di concentramento tedesco. Questa è l’espressione che stiamo usando ultimamente: abuso teologico. Si riferisce ad adulti conosciuti o sconosciuti alle loro vittime minorenni, a cui raccontano che un Lunatico governa il mondo, che li spia, che aspetta che infrangano una regola.
Dio è qui, Dio è lì, Dio è ovunque In ogni dì!
Quindi sta’ in guardia, ragazzino. Altre opzioni possibili sono: «spiritualmente palpeggiato», «religiosamente molestato» e «inappropriatamente toccato da un angelo». Così adesso diamo la colpa a Dio, vero? Non ce la fai a venire, e chissà come è colpa di Dio?? Sì!
9 Il rabbino Blowfeld ci fece attraversare in silenzio il corridoio fino all’auditorium, in fondo alla scuola. Nessuno parlò mentre ci sedevamo ai nostri posti. Sul palco di fronte all’entrata, c’erano due bandiere israeliane ai lati di un grande schermo. Sullo schermo c’era un’allegra ragazzina che era morta. Si chiamava Anna Frank. Passammo la mattinata a guardare film terrificanti e documentari dalle immagini forti. Alcune delle ragazze piangevano. In una scena, un soldato nazista usava una scavatrice per gettare cadaveri in un autocarro col cassone ribaltabile. Mentre la benna raccoglieva e sollevava, il cadavere di una donna in cima al mucchio scivolò giù da un lato. Le sue braccia sembravano salutare mentre rotolava. La testa, come un fardello pesante, le si era infossata tra le spalle. Rimbalzò, cadde e atterrò in un mucchio scomposto. Tra le gambe, bene in vista, un cespuglio scuro di pelo pubico. Diedi un’occhiata a Eli, e Eli diede un’occhiata a me, poi distogliemmo rapidamente lo sguardo. Era la prima ragazza ebrea nuda che vedessi. Avevo undici anni. Lei era morta. Era il Giorno della Memoria dell’Olocausto. «La Torah ci dice» disse il rabbino Blowfeld «che Dio passò sopra le case degli ebrei, la notte in cui mandò agli egiziani la decima e ultima piaga.» «Perché doveva ’passare sopra’ le loro case?» chiese il rabbino Blowfeld. «Perché gli ebrei» rispose il rabbino Blowfeld «abitavano in un quartiere egiziano.» Si stavano integrando. «La stessa cosa» disse girandosi a guardare Anna Frank. «La stessa cosa.»
Quando arrivai a casa, la sala da pranzo era diventata il salotto. Il salotto era diventato la sala da pranzo. «Be’?» chiese mia madre. Era nell’angolo della sala da pranzo che una volta era il salotto, una mano sul fianco, l’altra sotto il mento, teneva un occhio strizzato mentre con l’altro sogguardava la nuova sistemazione. Ogni stanza di casa nostra contiene almeno un cesto per i giornali, e ogni cesto è pieno zeppo di riviste di arredamento con le orecchie. «Better Homes and Gardens», «Traditional Home», «Dream Houses». C’era una rivista intitolata «Kitchen». C’era una rivista intitolata «Baths». C’era una rivista intitolata «Kitchen and Baths». «Se tu non spendessi tutti i miei soldi in riviste» diceva mio padre a mia madre, «forse ci potremmo permettere di fare qualcosa, qua dentro.» «Che cosa ne dici?» mi chiese lei. Si spostò, e con un movimento fluido ed esercitato, la mano sul fianco andò al mento, la mano al mento andò sul fianco, chiuse l’occhio con cui sogguardava e sogguardò con l’occhio che prima era chiuso. Questa è, tentava di capire, una «casa e giardino migliore» o una «casa e giardino peggiore»? Di solito concludeva che era solo la stessa vecchia stramaledetta casa e giardino, e arruolandomi come aiutante rimetteva ogni cosa dov’era prima. «Mi piace» dissi. Esaminò ancora un momento prima di arrendersi. «A tuo padre farà schifo» disse. «Aiutami a rimettere tutto a posto prima che torni a casa.» Spostammo il divano contro il muro e stavamo trascinando il tavolo in sala da pranzo quando suonò il telefono e mia madre andò in cucina a rispondere. «Pronto? Oh, ciao, Leslie.»
Finii di spingere il tavolo al suo posto, e mi girai verso la finestra del salotto giusto in tempo per vedere Lince Rivera che passava correndo. «Sì» sentii che diceva mia madre. «Sì, mi è giunta la voce.» Abitavamo in una strada senza uscita che si chiamava Arrowhead Lane; la nostra casa era in fondo, alla fine della strada. Arrowhead Lane era sul confine occidentale di Monsey – secondo l’ufficio postale era a Suffern – e la nostra era una delle poche vie della zona a non essere a predominanza ebrea. C’erano due famiglie ebree – noi e i Baum – una famiglia polacca, i Petrulo («nazisti buoni a nulla»), due famiglie irlandesi, i Kilduff e i Delaney («classici antisemiti»), e una famiglia italiana, i Selerno. E poi all’inizio della strada, nella casa gialla a due piani con una Pontiac scassata nel vialetto e il cartello davanti con la scritta STRADA SENZA USCITA, c’era una famiglia di neri. I Rivera. Lince aveva diciotto anni. Suo fratello Leon aveva un anno più di me, suo fratello Lionel un anno di meno. «Oh, per carità. E lei come la sta prendendo?» Lince era una podista, una star dell’atletica nel suo liceo, e andava a correre quasi tutti i giorni. Io non l’avevo mai notata davvero. Adesso però non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Coi suoi pantaloncini aderenti e il top ancora più aderente, sembrava fatta di pietra dura. Mia madre rientrò nella stanza e schioccò le dita per attirare la mia attenzione. Mi voltai. Lei indicò il telefono. «Il padre della signora Pleeter» mosse le labbra senza emettere suoni. Si passò l’indice sulla gola. «Benedetto sia il Giudice di Verità» disse in ebraico al telefono tornando tristemente in cucina con passo strascicato. «Benedetto sia il Giudice di Verità.» Lince era arrivata in fondo alla via e stava tornando indietro per la salita. Per quanto fossi rimasto basito vedendola correre verso di me, rimasi ancora più pietrificato vedendola allontanarsi correndo. Aveva muscoli dove non avevo mai saputo ci potessero essere dei muscoli: sulle cosce, sulle spalle, sulla schiena. Le donne intorno a me non avevano muscoli. Avevano borse della spesa, preoccupazioni, fardelli, e sottili vene blu da sfinimento che serpeggiavano sul dietro delle loro robuste e pallide gambe. I loro corpi sembravano puntare verso terra, i loro seni, le loro schiene, perfino i loro sederi erano ingobbiti, tutto il loro corpo apparentemente pronto a iniziare l’inesorabile discesa verso la tomba. Ogni parte di Lince puntava dritta in aria, spavalda, viva. Mia madre tornò in salotto, la faccia lunga e tirata mentre componeva un numero al telefono. Emise un gemito sedendosi sul divano. «Ciao, Sally» disse al telefono. «Ho brutte notizie.» Quando guardai di nuovo verso la finestra, Lince era sparita. Il giorno dopo accompagnai mia madre ai grandi magazzini Caldor, sulla Route 59. Lei andò a comprare un biglietto di condoglianze per la signora Pleeter, e io andai a sfogliare il libro del film Porky. Lei finì prima di me e ci incontrammo nel reparto libri. Non riusciva a decidersi tra «Sei nei nostri pensieri in questo momento di bisogno» e «Ti siamo vicini nel tuo dolore». «Be’?» chiese. Io non risposi. Ero proprio nel mezzo del capitolo «Un buco nella parete della doccia» e le ragazze del liceo stavano cominciando a spogliarsi. Che vita. «Ora basta» mi disse togliendomi il libro dalle mani. «È quasi Shabbos.» Come sarà qui, di sabato? mi domandai. Non mi piace lo Shabbat. Non mi piacciono i pasti, non mi piacciono le regole, non mi piacciono i vestiti. Non mi piacciono i pantaloni eleganti, le camicie eleganti e la giacca, e non mi piace sentirmi la cravatta intorno al collo. Non mi piace come mi stanno le scarpe né il modo in cui scivolano sul pavimento, né il rumore che fanno per strada mentre vado alla sinagoga. Non mi piace fare tutta quella strada a piedi per andare alla sinagoga. Non mi piace la sinagoga. Non mi piace stare separato dalle donne, e non mi piace dover stare con gli uomini. Non mi piace stare lì per ore alla mercé del cantore
mentre fuori splende il sole, gli uccelli cantano e il mondo intero si gode la giornata. Non mi piace pensare: Sta’ zitto, sta’ zitto, insomma vuoi stare zitto? Quando rientrammo, nascosi la bicicletta nell’erba alta del campo dietro casa. Quella sera, quando cominciò lo Shabbat, mio fratello fece arrabbiare mio padre, mio padre diede uno schiaffo a mio fratello, mia madre urlò contro mio padre, mia sorella corse in camera sua piangendo, mia madre uscì a fare un giro e io pulii la tavola dello Shabbat e misi via il pollo. Il rabbino Blowfeld ci aveva detto che ogni venerdì sera Dio manda due angeli sulla terra a ogni famiglia ebrea, a sbirciare dalle finestre per vedere come stanno trascorrendo lo Shabbat. Se la famiglia sta cantando i canti dello Shabbat e tutti sono felici e onorano lo Shabbat, gli angeli si scambiano un’occhiata, sorridono e dicono: «Ci vediamo il prossimo Shabbat». E se guardando dalle finestre vedono la famiglia che litiga, che non canta i canti dello Shabbat e che non onora lo Shabbat? «Ci vediamo il prossimo Shabbat» dicono. Il sabato, dopo i riti mattutini, pranzavamo mentre mia madre ci aggiornava su chi era malato. «La suocera di Sally Fried» disse «non ha affatto un bell’aspetto.» «Ho visto Toby. Stanno facendo di tutto... Prendi un po’ di challah... Non possono fare niente.» «Helen stava bene.» Aspettate, adesso arriva. «Per una che ha il cancro, voglio dire.» ’Fanculo! pensai. Me ne vado da Caldor. Dopo il dolce e le ultime notizie sulla prostata ingrossata del signor Rosner, andai in camera mia, mi misi le scarpe da ginnastica e uscii in silenzio dalla porta sul retro. Trovai la mia bicicletta nel campo, la spinsi nell’erba fino a Spook Rock Road, balzai in sella e pedalai su per Spook Rock fino a Airmont Road. Girai a destra e pedalai per tre chilometri fino alla Route 59, dove svoltai di nuovo a sinistra e pedalai finché non arrivai da Caldor. Appoggiai la bicicletta su un lato dell’edificio e stavo per entrare quando l’uomo davanti a me fece un passo sullo zerbino di gomma nera provocando così l’apertura della porta. Restai lì per un po’. Sapevo che sarebbe stata una violazione dello Shabbat se fossi salito sullo zerbino provocando l’apertura della porta, ma sarebbe stata una violazione se qualcun altro fosse salito sullo zerbino e io lo avessi seguito? «Scusa» disse un uomo mentre mi passava accanto dandomi uno spintone. Ovviamente, anche andare in bicicletta era proibito di Shabbat, ma l’elettricità non c’entrava, e poi in quale altro modo sarei potuto arrivare lì? «Brutto posto per startene fermo, ragazzino» disse un altro cliente passandomi accanto. Di fianco alla porta automatica c’era una porta di ferro, ma sopra c’era scritto EMERGENZA. E se fossi passato di lì e qualche allarme si fosse messo a suonare? Per di più, da Caldor c’era l’aria condizionata. Anche se fossi passato dall’uscita di emergenza, aprire quella porta non avrebbe fatto entrare aria calda facendo partire i condizionatori? E se qualcosa che indossavo avesse fatto scattare chissà quale allarme? Le violazioni non intenzionali dello Shabbat erano punite meno severamente di quelle intenzionali? E se Dio avesse deciso di punirmi perché ero andato in bicicletta? Mi avrebbe ucciso? Avrebbe ucciso la mia famiglia? Li stava uccidendo in quel momento? Non avevo appena sentito la sirena dei pompieri? Stavano andando a casa mia? Erano tutti morti? Saltai di nuovo in sella e pedalai fino a casa più in fretta che potevo. Gettai la bicicletta nel campo e attraversai di corsa il bosco, sollevato per un attimo nel non vedere né fuoco né pompieri intorno a casa nostra, finché non mi resi conto che poteva essere tutta una messinscena e che magari dentro erano tutti morti: un omicidio, una fuga di gas, va’ a sapere. Mi intrufolai quatto quatto in casa dalla porta posteriore, mi tolsi le scarpe da ginnastica e andai di sopra, promettendo mentalmente a Dio che non avrei mai più violato lo Shabbat.
«Khuchuuuuuungnk» disse mio padre. Si era addormentato sul pavimento del salotto e russava forte. Mia madre stava rannicchiata sul divano a leggere «House Beautiful». «Dove sei stato?» mi chiese. «A casa di Dov.» Sfogliando le pagine della rivista, scosse la testa con tristezza. «È bello sognare» sospirò. «Wheeeze-gchuk» disse mio padre. Andai in cucina, preparai una tazza di tè, mi sedetti accanto a mia madre e guardai fuori. Lince passò di corsa. «Uau!» sussurrai. «Parlo sul serio» disse mia madre. «Lo sai quanto costa un solarium come questo?» «Vado a fare un giro» dissi io. Lince stava riprendendo fiato nel suo vialetto, quando le passai di fianco. Aveva una mano appoggiata sulla macchina e con l’altra si afferrava il piede e stirava le gambe da purosangue e girava il collo lungo e possente. Io passai sforzandomi di non avere l’aria di uno che sbircia, e girando a sinistra imboccai Carlton Road, ritrovandomi così su un lato di casa sua. Da lì potevo guardare oltre il giardino e vederla attraverso gli alberi. La porta si spalancò e io feci un salto. Era Leon, il fratello di Lince, con alcuni amici. Leon aveva un anno più di me. Una volta giocavamo insieme – io, Leon, e il fratello più piccolo – nei boschi dietro casa. Poi ce ne stavamo in camera di Leon a leggere i fumetti. «Ne vuoi uno?» chiese Lionel un venerdì pomeriggio porgendomi un Twinkie. «Shellum non lo può mangiare, idiota» disse Leon. «Perché?» «Lui è kosher.» «E allora?» Leon scosse la testa. «Shellum» mi chiese Leon, «il Twinkie è kosher?» Scossi la testa. «Non fa niente» dissi. «Visto?» disse Leon strappando il mio Twinkie di mano a Lionel. «Stupido.» «Cavolo» disse Lionel. «Tu non mangi mai un Twinkie?» Alzai le spalle. «Può darsi che un giorno diventino kosher» dissi. «Dopo la venuta del messia.» «Che roba è il messia?» chiese Lionel. «La fine del mondo» dissi io. Leon diede un morso al mio Twinkie. «Cavolo» disse tra sé. Poi guardò Lionel. «Non credo che noi abbiamo roba kosher, vero?» «Non lo so» disse Lionel. Guardò me. «Ce l’abbiamo?» Alzai le spalle. «Avete delle mele?» «Sì, ce le abbiamo le mele» disse Leon. «Le mele sono kosher» dissi io. «Ne vuoi una?» chiese Leon. «Ma va’.» Leon si alzò e mi portò una mela. «Grazie» dissi io. «Mi posso provare il tuo cappelletto?» chiese Lionel.
Leon lo guardò storto facendo no con la testa. «Ma certo» dissi io. Lionel se lo provò, ma aveva una pettinatura afro e la yarmulke gli rimase in bilico in cima alla testa. Leon aveva le treccine strette strette, e a lui stava meglio. Si alzò lentamente e provò a camminare, facendo passetti leggeri come se avesse un libro in equilibrio sulla testa. «Cavolo» disse. Questo era successo qualche anno prima. Ultimamente, da quando Leon aveva cominciato il liceo, non parlavamo più molto. La nostra amicizia era come appassita, mentre nuovi amici entravano nel nostro mondo: amici suoi che si domandavano perché lui parlasse con me, e amici miei che si domandavano perché io parlassi con lui. I ciao diventarono cenni con la mano. I cenni con la mano diventarono cenni con la testa. Mentre si avviava verso il vialetto di casa sua quel sabato pomeriggio, Leon mi vide passare. Io accennai un saluto con la mano. Lui accennò un saluto con la testa. Uno dei suoi amici sorrise. L’altro amico rise e gli diede un colpo sul braccio. Andarono tutti e tre in garage. Io arrivai fino a Pine Road, girai, mi fermai alla Pietra della Pornografia (niente), e tornai verso casa. Non mi piace lo Shabbat. Le sere di sabato non sono tanto meglio. «Benedetto sei Tu» preghiamo alla conclusione dello Shabbat, «che separi il sacro dal profano.» Mio fratello durante la settimana dormiva in collegio e veniva a casa solo per il weekend. Il sabato sera, quando se ne andava, la libertà della settimana che stava per iniziare si faceva sentire, e lui era più polemico del solito con mio padre. Se Dio avesse voluto davvero impressionarmi, avrebbe separato mio padre e mio fratello. Quella sera arrivarono quasi alle botte. Stavano naso contro naso nel corridoio davanti alla cucina. «Ah, sul serio?» disse mio fratello. «Sì, sul serio!» disse mio padre. «Sul serio sul serio?» «Sul serio sul serio!» Gli antenati di mia madre guardavano impotenti dalle loro fotografie. Puah, dicevano. Prima che finisse la serata, mio padre aveva buttato nella stufa la divisa da karate nuova di zecca di mio fratello e l’aveva bruciata. «Lo Shabbat» disse il rabbino Blowfeld il lunedì mattina «è come una sposa. È come un dono» aggiunse. «È come un patto solenne.» Il rabbino Blowfeld si attorcigliò la barba e per un attimo guardò pensoso il pavimento, prima di rialzare lo sguardo sulla classe. «A cosa possiamo paragonare lo Shabbat?» ci chiese. A una punizione? A una maledizione? A una barzelletta oscena? «A un fiore delicato?» azzardai. Il rabbino Blowfeld si attorcigliò la barba e per un attimo guardò pensoso il pavimento prima di rialzare lo sguardo. «Sì» disse. «A un fiore delicato.» Stronzo. Poi ci disse che i Saggi dicono che osservare lo Shabbat è come osservare tutti i seicentotredici comandamenti della Torah, ma che violare lo Shabbat è come violare tutti i seicentotredici comandamenti. Stupidi Saggi. Vorrei vederli chiusi in casa con la mia famiglia per ventiquattr’ore. Sai che dono.
Mercoledì andammo al centro commerciale. Il centro commerciale Nanuet – con i suoi quattro cinema multisala, due negozi di elettronica, tre negozi di musica rock e una sfilza di cibi non kosher – era una Sodoma a due piani, completamente autosufficiente, con le facciate in mattoni rossi. Le madri andavano da Bamberger a comprare abiti sfacciati, i padri andavano da Sears a comprare attrezzi che non avevano niente a che fare con lo studio della Torah. I ragazzi più grandi stavano fuori, davanti all’entrata principale, a fumare sigarette e sputare per terra. «Ehi, coso» diceva uno. «Ehi, coso» rispondeva un altro. «’Fanculo questo» diceva il primo. «’Fanculo quello» rispondeva il suo amico. Io volevo vivere lì. Dentro, i ragazzini più piccoli cercavano di infilarsi da Spencer Gifts, dove vendevano cuscini parlanti, poster di ragazze sedute su macchine sportive con addosso jeans aderenti e camicette aperte, e penne con le foto di ragazze in bikini, bikini che cadevano quando uno capovolgeva la penna. La gente veniva al centro commerciale Nanuet da tutta la contea di Rockland. I ragazzi bianchi indossavano magliette con le scritte OZZY e DEEP PURPLE e si riunivano in sala giochi, dove facevano a botte. «Piantatela» diceva la guardia giurata. I ragazzi neri arrivavano al centro commerciale in bicicletta e si riunivano nel parcheggio, dove ascoltavano musica a tutto volume dai loro enormi stereo portatili. «Abbassate» diceva la guardia giurata. I ragazzi bianchi chiamavano gli stereo «scatoloni dei negri». I ragazzi neri chiamavano i ragazzi bianchi «bianchi di merda». Tutti quanti ridevano quando passavano i chassidim. Come sarà qui il sabato?, mi chiedevo. Mia madre andò da Bamberger, e ci accordammo per ritrovarci alla libreria Walden entro un’ora. Mi infilai da Spencer e provai uno dei cuscini parlanti, poi andai sul retro a guardare i poster con le ragazze in maglietta che si facevano la doccia usando un tubo da giardino. Dopodiché andai alla libreria Walden dove mi sedetti sul pavimento con una pila di libri di medicina: Gray’s Anatomy, Come si diventa chirurgo, Guida completa del sistema scheletrico. Ero ormai ossessionato dall’anatomia. Se Dio mi avesse ucciso con una malattia, forse potevo capire come curarla. UN GRAMMO DI PREVENZIONE, diceva un cartello nello studio del dottor Zisman, VALE QUANTO UN CHILO DI CURE. Mi piacevano, questi tassi di cambio. Dopo un po’, mia madre mi batté sulla spalla. Aveva in mano un libro. The Jewish Way in Death and Mourning, sulla morte e il lutto. «Per la signora Pleeter» mi spiegò. «Per tirarla un po’ su.» Come sarà qui il sabato?, mi chiesi.
«Chunngkh» disse mio padre. Era il pomeriggio dello Shabbat – pomeriggio da sposa, pomeriggio da patto solenne, pomeriggio da dono – e io stavo accasciato a faccia in giù sul tavolo della cucina, fissando, al di là di una scatola di torta al caffè Entenmann, l’orologio elettronico giallino sopra al piano di cottura, dall’altra parte della stanza. Segnava le 13.59 da ore, mi sembrava. Alla fine, la prima metà del nove iniziò la sua esasperante, lenta caduta in avanti, un suicidio al rallentatore dalla cima del più alto edificio di Orologiolandia, e dopo un po’ atterrò di testa nel suo ultimo luogo di riposo. Sbadigliai. La sedia emise un gemito.
Il frigorifero si lamentò. Erano le ore 14.00. Mio padre era sdraiato sul pavimento del salotto e russava sonoramente. La sezione fumetti del quotidiano locale era intrappolata sotto di lui. Il mago Wiz sussultò, non ce l’avrebbe fatta. Beetle Bailey era morto da un pezzo. Il Sergente pure. «Ragazzino» disse Dagoberto, «vai a chiamare... aiuto...» «Khcuhngzk» disse mio padre. Mia madre se ne stava acciambellata sul divano con una tazza di tè e una copia della «Jewish Press». «Dieci soldati israeliani uccisi in Libano» lesse a voce alta. «Diciotto anni. Dei bambini.» Avrebbe preferito leggere «Romantic Homes» o anche «Great Kitchens», ma la tentazione di spostare un divano o di cambiare posto al buffet sarebbe stata troppo forte. Era proibito cambiare posto ai mobili durante lo Shabbat. Era proibito guardare la tv, era proibito scrivere, era proibito disegnare, era proibito colorare. Era proibito giocare coi trenini perché andavano a elettricità. Era proibito giocare col Lego, perché era considerato costruire. Era proibito giocare col pongo perché se lo premevi contro un giornale poteva assorbire un po’ d’inchiostro, e quindi era considerato stampare. Era consentito esclusivamente mangiare, dormire e leggere, ma per quanti libri prendessi alla biblioteca il venerdì pomeriggio, il venerdì sera li avevo finiti tutti, e il sabato pomeriggio stavo accasciato sul tavolo da cucina a leggere per la millesima volta le scritte sulla scatola di ciambelle Entenmann. La storia delle Entenmann, il prezzo al chilo delle Entenmann, gli ingredienti delle Entenmann. Sapevo più io sulle ciambelle Entenmann che la maggior parte degli Entenmann stessi. «Un altro cimitero profanato in Germania» sentii mia madre leggere. «Sei milioni non sono bastati.» Mi domandai cosa si provasse a essere un Entenmann. Probabilmente casa loro profumava di biscotti. Il sabato mattina, noi Entenmann saltavamo giù dal letto e correvamo in cucina, dove passavamo tutta la mattina intingendo le ciambelle in enormi recipienti di densa glassa al cioccolato fatta con grasso vegetale parzialmente idrogenato, zucchero, farina di frumento, farina di orzo maltato, ferro, niacina, mononitrato di tiamina, riboflavina, acido folico, acqua, cacao, latte scremato, sciroppo di mais al fruttosio, destrosio e polisorbato 60. «Chazah» sentii dire a mio padre. Maiale. «Non mangiare tutti i biscotti al cioccolato.» «Ne ho presi solo due» disse mio fratello. Era a tavola nella stanza da pranzo. «Ne hai presi più di due.» Mio fratello doveva avere riso o fatto una smorfia. Sentii mio padre alzarsi e dirigersi con passo pesante in sala da pranzo. «C’è qualcosa da ridere?» lo sentii chiedere. Silenzio per un momento. «Teppista.» «Chi vuole riempire le brioche?» cantilenava la signora Entenmann. «Io!» gridavamo tutti insieme, e ci precipitavamo da lei. Mio padre entrò con passo pesante in cucina e si versò una tazza di tè. «Cosa stai facendo con quelle?» chiese guardando la scatola di ciambelle Entenmann. «Stai fleishig!» Significava che avevo mangiato carne da poco, e mi era proibito mangiare qualunque cosa contenente latticini. «Sto leggendo la scatola.» «Leggi un’altra scatola» disse lui togliendomela e appoggiandola sul frigorifero. Aprii la dispensa e tirai fuori il Nesquick, su cui c’era scritta la storia della cioccolata. Quella l’avevo letta ventimila volte. «Nel 1492 la regina Isabella e il re Ferdinando...»
Mio fratello attraversò la cucina con un biscotto al cioccolato in mano. Si fermò sulla porta, diede un morso esagerato, fece un ghigno rivolto a mio padre e se ne andò. Mio padre, che stava tagliando una mela al bancone, digrignò i denti e col coltello fece il gesto di pugnalare. Scorsi gli angeli fuori della finestra della cucina. «Allora ci vediamo il prossimo Shabbat» disse un angelo. «Così sia» disse l’altro. «Andate a fare in culo» dissi io a tutti e due. Quello alto scrisse qualcosa sul suo taccuino, quello basso mi mostrò il medio, e volarono via. Io andai di sotto e mi fermai sulla porta d’ingresso a guardare Lince che passava correndo. Fece il giro dei vialetti, e si diresse di nuovo verso la strada principale. Andai in camera mia, presi il mio portafoglio (proibito), tirai fuori dei soldi (proibito), mentii a mia madre dicendo che andavo a casa di Ari (proibito) e uscii. ’Fanculo tutto, pensai. Io me ne vado al centro commerciale.
Era sabato pomeriggio e la sinagoga era vuota. Erano tutti a casa a smaltire il pranzo dello Shabbat e a difendere i biscotti al cioccolato dai propri figli. «Pronto» mormorai da un telefono a gettoni, «vorrei un taxi.» «Parli forte, signora» disse la voce del servizio taxi. «Ho detto che vorrei un taxi.» «Dove deve andare?» «Al centro commerciale Nanuet.» «Dove?» «Al centro commerciale Nanuet.» «E adesso dove si trova?» «Carlton Road» mormorai. «Tra cinque minuti, signora.» Una cosa era usare il telefono a gettoni di Shabbat – i medici lo facevano di continuo. Ma salire su una macchina? Andare al centro commerciale? La faccenda era piuttosto seria. «Violare lo Shabbat» sentii dire alla voce del rabbino Blowfeld «è come violare tutti i seicentotredici comandamenti.» Mosè aveva commesso un unico peccato in vita sua, e a causa di questo peccato Dio lo aveva ucciso prima che potesse raggiungere la Terra Promessa. Un peccato. Sara aveva riso – anzi, ridacchiato – e, sapendo che un giorno lo avrebbe fatto, Dio l’aveva resa sterile. Mentre me ne stavo nel vestibolo della sinagoga ad aspettare il taxi, mi chiesi come mi avrebbe punito Dio per seicentotredici peccati. Mi avrebbe reso sterile? C’era una Terra Promessa che non avrei mai raggiunto? Forse mi aveva già punito e io non lo sapevo. Forse aveva ucciso la mia famiglia. Forse aveva bruciato casa mia mentre io andavo lì. Non avevo sentito le sirene, un attimo prima? Gli assassini erano entrati in casa dopo che io ero uscito? Erano in casa mia in quel momento? Forse in quel preciso momento stavano tenendo in ostaggio la mia famiglia, minacciando tutti con le pistole alla testa, e forse Dio stava aspettando di vedere che cosa avrei fatto io. Se mi fossi mosso adesso, Lui avrebbe fatto sparire i malviventi. Ma non appena fossi salito in taxi, avrebbe... Feci un salto quando il tassista suonò il clacson. Afferrai la mia borsa, corsi fuori, mi gettai sul sedile posteriore e chiusi violentemente la portiera dietro di me. Bam, seicentotredici peccati. «Centro commerciale Nanuet?» chiese l’autista. «Ssst!» dissi io, imponendogli il silenzio con l’indice tendendo l’orecchio verso eventuali spari. No. Niente.
«Sì» dissi, «centro commerciale Nanuet.» Ed eccomi seduto sul sedile dietro di un taxi un pomeriggio di Shabbat, senza neanche sapere bene perché andavo al centro commerciale – forse speravo di trovare qualcosa, forse speravo di sfuggire a qualcosa, forse volevo solo sapere che potevo andarci se avessi voluto, se avessi dovuto – violando contemporaneamente il quarto comandamento, la sposa, il dono, il patto solenne e il fiore delicato. E pensai nuovamente a Mosè. Un peccato, e patatrac! Io ne avevo già accumulati seicentotredici, e la giornata non era ancora finita. La stessa paura che mi aveva attanagliato fuori del negozio di Caldor qualche settimana prima mi posò la mano gelida e ossuta sulla spalla, e mi attirò a sé. Mi accasciai sul sedile, guardai fuori dal finestrino, e mi misi a fare dei calcoli spirituali. Okay. Inutile negarlo: stare in macchina durante lo Shabbat era una grossa violazione. E tu non stai solo andando in macchina... ti stai integrando. Stai portando avanti quello che Hitler ha cominciato. Quando ero piccolo, andavo a piedi alla sinagoga insieme a mio padre. Mio padre urlava contro le macchine. «Rallenta!» strillava, mettendosi in mezzo alla strada e agitando le braccia sopra la testa. «Ammazza un ebreo, così sarai contento!» Quelli dovevano sterzare bruscamente per evitare di investirlo e ci guardavano dal finestrino come se fossimo personaggi della tv. Oppure alieni. «Ahnta-Semitin» borbottava in yiddish. Antisemiti. Mi domandai che impressione dovevamo fare alle persone in quelle macchine, che erano fuori per la classica gita del sabato mattina lungo le tortuose strade di campagna della contea di Rockland e pensavano a tutte le luci che avrebbero acceso e spento, a tutta la televisione che avrebbero guardato, a tutti i maiali che avrebbero mangiato, quando tutto a un tratto eccoli lì – eccoci lì: uomini con vestiti neri e cappelli di feltro; donne con lunghi abiti eleganti e centrini di pizzo bianco in testa; ragazzini in abito blu, camicia bianca e papalina colorata; ragazzine in abiti eleganti e scarpe lucide; a gruppetti di due, qualche volta di tre, alcuni degli uomini avvolti in lunghi lenzuoli bianchi con delle cordicelle bianche che pendono dagli angoli, altri in vestaglie nere con la cintura e cappelli rotondi di pelliccia sulle teste accuratamente rasate, e uno di loro, un pazzo con la barba argentea e una faccia paonazza di rabbia, che salta in mezzo alla strada agitando le braccia e urlando qualcosa a proposito di uccidere gli ebrei. L’autista accelerò a tutto gas mentre risalivamo Carlton Road, e le gomme stridettero mentre uscivamo dal parcheggio della sinagoga. Sembrava che avesse una gran fretta. Seicentotredici di debito. Potevo pregare tre volte al giorno, tutti i giorni, per i prossimi sette mesi e ancora non mi sarei messo in pari. E chi lo sapeva quando Lui avrebbe deciso di venire a riscuotere? Passammo accanto a una famiglia ebrea – un uomo e i suoi due figli – che camminavano su un lato della strada, e io mi lasciai scivolare ancora più giù sul sedile, osservandoli mentre li superavamo. Allora ecco che impressione facciamo, pensai. Mi aggrappai alla maniglia mentre l’autista con una curva stretta imboccava College Road. Ci fu uno stridio di gomme mentre sfrecciava in direzione della Route 59. Volavamo. Andavamo a ottanta dove il limite era quaranta, gesticolando, strombazzando, passando sui marciapiedi. «In ritardo per la sinagoga?» chiesi al tassista. «Ah-ah. Sul serio, non c’è fretta.» Forse era un angelo. Forse era Elia. Dio aveva mandato Elia a darmi una lezione? «Dagli qualcosa su cui riflettere» gli aveva ordinato Dio. Elia sghignazzò come un folle, passandosi l’indice sulla gola. Dio alzò le spalle. «Vediamo come va» gli aveva detto. Elia piombò a tutta velocità dietro a una vecchia che guidava un cinqueporte argento spento, col fumo nero che ruttava dal tubo di scarico arrugginito. Si attaccò al clacson e lampeggiò coi fari, prima di spingere sull’acceleratore tagliando il traffico in senso contrario per superarla. La vecchia ci guardò disgustata. Elia suonò il clacson e le mostrò il dito medio. Probabilmente non era Elia, allora.
Rientrammo bruscamente nella nostra corsia un attimo prima di fare un frontale con un furgone blu. Mi chiedevo quanti Shabbat avesse violato il mio autista, e come mai Dio non lo avesse ancora ucciso. E chissà se avrebbe di nuovo violato lo Shabbat la prossima settimana, e se lo avrei violato anch’io... quando a un tratto mi ricordai che il rabbino Blowfeld diceva che i Saggi dicevano che non solo violare lo Shabbat è come violare tutti i seicentotredici comandamenti, ma che osservare lo Shabbat è come osservare tutti i seicentotredici comandamenti. E allora ci arrivai: se violavo lo Shabbat questo weekend ma lo osservavo il prossimo weekend, non sarei più o meno andato in pari, trasgressionalmente parlando? Sorrisi. Altroché, se sarei andato in pari! Ridacchiai. Non si trattava di una mera scappatoia: era un’autorizzazione a violare. Un weekend di «osservanza» dopo ogni weekend di «violazione» ed ero spiritualmente libero da debiti. I Saggi? Degli idioti! Ci stavamo avvicinando alla Route 59, l’autostrada a quattro corsie che porta a Nanuet, quando l’autista accelerò e io venni scaraventato all’indietro contro il sedile. Non aveva mica intenzione di passare il semaforo, vero? Era già diventato giallo... Potevo osservare per tutto gennaio, e violare per tutto febbraio! Osservare in inverno e violare in estate! Shalom e la sua spettacolare violazione estiva ratificata dai Saggi! Semaforo rosso, ora. Le macchine arrivano lentamente all’incrocio. Un autobus... «Il semaforo!» urlai. Cavolo, potrei perfino aprire un piccolo «Libretto di risparmio dei comandamenti»: infilare alcuni weekend di «osservanza» tutti di seguito, costruirmi un piccolo gruzzolo di comandamenti. Un fondo per i giorni difficili. Ancora più veloce. Strombazzate di clacson. L’autobus... «Il semaforo!» urlai ancora. «IL SEMAFORO!» Stavo per morire. Cazzo, quello era Elia! Chiusi gli occhi e pregai... La morte. Ma certo! Morire era la chiave di volta di tutto il mio piano visionario: se morivo dopo un weekend di «osservanza» avevo pagato tutti i debiti, stavo messo bene. Ma se morivo dopo un weekend di «violazione» – che avessi o meno pianificato di «osservare» lo Shabbat seguente – morivo con tutti e seicentotredici i peccati. Debito scaduto. «Ma avrei osservato il prossimo weekend» implorai. Dio alzò le spalle e sospirò. «Capisco» disse, «ma qui stiamo cercando di mandare avanti la baracca...» Il rumore dei clacson svanì. Aprii gli occhi e mi tirai su. Eravamo passati – passati! – e prendevamo d’assalto la Route 59 accelerando di nuovo, schizzando qua e là, infilandoci ovunque. Non era un’autorizzazione, dopotutto, era un trucco. Nella migliore delle ipotesi era un gioco d’azzardo, nella peggiore una sfida. Una sfida lanciata da Dio. Fatevi sotto, amici, tentate la fortuna. Violate questo Shabbat e sperate che io vi lasci vivere fino a osservare il prossimo. Chi si sente fortunato? Vediamo un po’: tu, figliolo? Dico a te, che sei su un taxi in un pomeriggio di Shabbos. Tentare la fortuna? Fossi matto! Con questo Dio? Con Mister Vendetta? Mister Diluvio Universale? Mister Olocausto? «Scendo qui» urlai all’autista. Ho riflettuto ancora su Mosè, e ho capito che cosa mi dà fastidio, in tutta questa maledetta storia. Non è solo che Dio gli ha rovinato il sogno della sua vita a causa di un unico, pidocchioso peccato, anche se in effetti questo sarebbe stato già abbastanza orribile; è che Lui lo sapeva. Dio lo sapeva che non avrebbe mai fatto entrare Mosè nella Terra Promessa – così come sapeva che un giorno Sara avrebbe riso – eppure lo ha comunque lasciato vagare nel deserto come un imbecille per quarant’anni a cercarla. «Fuochino, fuochino, fuochino. Fuoco!» Dio adora questo giochino. Era il giochino che aveva pensato
per me? Il ragazzino sale su un taxi per andare al centro commerciale di Shabbat, commette seicentotredici peccati, calcola che può rimediare osservando lo Shabbat la settimana dopo, e Dio lo uccide – patatrac! – un incidente a catena, uno scontro frontale – quello stesso giorno, sul taxi, addirittura prima che arrivi a destinazione? «Certo che sarebbe proprio divertente» sento dire a Dio. «Scendo qui» urlo di nuovo. Il tassista si gira verso di me. «Come?» chiede. «Semaforo rosso» dico io. «Come?» «SEMAFORO ROSSO!» Inchiodiamo a metà dell’incrocio. Eravamo vicini, potevo già vedere il tetto del centro commerciale Nanuet ergersi in lontananza come le fotografie che avevo visto del Monte del Tempio di Gerusalemme, solo che invece di avere sul tetto una yarmulke dorata, questa Terra Promessa aveva sopra un gigantesco dinosauro gonfiabile viola con un cappello da banchiere in testa e un grosso sigaro in bocca. La scritta sulla sua pancia diceva: VENITE, RISPARMI PREISTORICI!. Volevo davvero vivere lì. «Qui va bene» dissi. «Sicuro?» Scesi, chiusi la portiera e salutai con la mano. «Sicuro. Qui va bene.» Andai da Spencer a provare i cuscini parlanti. Andai sul retro del negozio a guardare i poster delle ragazze in pantaloncini corti sedute su macchine sportive bianche. Rubai un pacchetto di «Cacca di Cane che sembra vera», e una delle penne con la donna nuda all’interno. Dopodiché andai alla libreria Walden, dove mi sedetti per terra con il Manuale di consultazione del medico: Guida alle malattie infettive. Pensai di rubare una copia di «House & Garden» per mia madre, ma non ci stavo con la testa. Ero preoccupato. E se la punizione di Dio per i peccati fosse stata immediata? Se non avesse aspettato che uno rimediasse? Se lei fosse stata già morta? Mi precipitai fuori e saltai su uno dei taxi in attesa. «Carlton Road» dissi all’autista. Sul marciapiedi davanti al centro commerciale c’erano due ragazzi grandi. Fumavano sigarette e sputavano a turno per terra. «’Fanculo questo» disse uno. «’Fanculo quello» disse l’altro. «Piantatela» disse la guardia giurata. BLACK SABBATH, c’era scritto sulle loro magliette. «Divertente» dissi io a Dio. Quando passammo davanti alla sinagoga, erano già quasi le cinque, e la gente cominciava a uscire di casa per andare alle funzioni del pomeriggio. Mi lasciai scivolare più giù sul sedile, terrorizzato che qualcuno potesse vedermi, e dissi all’autista di proseguire, di superare la sinagoga e arrivare fino a una zona tranquilla verso la fine di Carlton Road. Immaginai che incrociassimo mio padre diretto alla sinagoga, e lo immaginai buttarsi davanti al taxi agitando le braccia e urlando all’autista di rallentare, e immaginai Dio che distraeva il tassista in modo che lo centrassimo in pieno. E io lì, con le sirene delle macchine della polizia che si avvicinavano, nella macchina che aveva investito e ucciso mio padre nel pomeriggio di Shabbat. «Certo che sarebbe proprio divertente» sentii dire a Dio. «Va bene qui» dissi all’autista. «Qui?»
«Sì, sì. Va bene qui.» Scesi dal taxi, mi fermai alla Pietra della Pornografia (niente), e mi diressi verso casa. Leon era nel suo garage con gli amici. Uno di loro impugnava la pistola giocattolo di Leon. Leon si girò e mi vide. Feci un mezzo cenno con la testa. Lui distolse lo sguardo. Uno dei suoi amici si mise il berretto da baseball al contrario, alzò la pistola e me la puntò contro. «Bang» disse. I suoi amici risero. «Benedetto» il rabbino Blowfeld aveva citato da Numeri 23,9, «è il popolo che dimora solo, e tra le nazioni non si annovera.» Voi provate a dimorare in mezzo a loro – indossate i loro abiti, andate nei loro centri commerciali, concupite le loro sorelle maggiori – e bam! Olocausto. «Ecco ’Cappelletto’» disse il ragazzo tra i denti. Leon gli strappò di mano la pistola e gli diede una spinta. Andò verso la porta del garage. Fece un mezzo cenno con la testa. Io distolsi lo sguardo. Dietro di me, sentii la porta del garage che si chiudeva. «Dove sei stato?» chiese mio padre quando entrai a casa, mentre si infilava la giacca e si sistemava la cravatta. «A casa di Ari» mentii. Mia madre era in soggiorno, con il nuovo numero di «House Beautiful». «Oh, mamma mia» disse. «Questa sì che è una cucina.» I suoi genitori erano stati poveri. Lei voleva diventare medico, ma suo padre aveva preso i soldi che aveva messo da parte per mandarla all’università e li aveva usati per pagare gli studi rabbinici del figlio maggiore. Subito dopo che mia madre ebbe sposato mio padre, suo padre morì. Lasciò tutti i suoi soldi – milioni, mi fu detto – in beneficenza. Questa non era la vita che lei aveva in mente, e io mi chiesi se non fosse per questo che pensava così tanto alla morte e all’arredamento. Da qualche parte, chissà dove, c’era una casa migliore con sopra il nome di mia madre, o in mancanza di questo, una lapide. Io correvo al centro commerciale, lei cambiava posto ai divani. Sperai che pascoli più verdi e giardini migliori fossero in serbo per entrambi da qualche parte, ma mi rattristò il pensiero che probabilmente non sarebbero stati gli stessi giardini né gli stessi pascoli. «I lucernari sono carini» dissi. «Non in questa vita» sospirò lei. In fondo alle scale trovai mio fratello, il quale disse che non voleva andare alle funzioni del pomeriggio, e mio padre disse: «Alza il culo e muoviti!» e mio fratello disse di no, e mio padre disse: «Non farmi venire giù», e mio fratello disse: «Non mi interessa quello che fai», e mio padre disse: «Con te faccio i conti più tardi», e poi disse a me di seguirlo e io così feci. Camminai accanto a mio padre su per la strada che avevo appena percorso in discesa. All’angolo, passammo davanti agli angeli dello Shabbat seduti per terra accanto al cartello STRADA SENZA USCITA. Facevano a turno a tirare sassi nella fogna lì accanto. «Ciao» disse il primo angelo. «Ciao» dissi io. «Come butta?» chiese il secondo angelo. «Tu che ne dici?» dissi io. «Allora al prossimo Shabbat?» chiese il primo angelo. «E così sia» dissi io. «Detesto lo Shabbat» disse il secondo angelo. «Dillo a me!» dissi io. Arrivammo alla sinagoga proprio mentre la congregazione cominciava lo Shemoneh Esreh, la preghiera principale della funzione. Consiste di diciotto benedizioni separate, e viene recitata in silenzio, in piedi, da ciascun membro della congregazione. Io presi un libro di preghiere dallo scaffale, unii i piedi e cominciai a pregare. Dopo ci fu un altro noioso discorso del rabbino Blonsky, poi altre preghiere,
seguite da un altro Shemoneh Esreh. Sarebbero state quasi quaranta preghiere prima che lo Shabbat finisse, ma la cosa mi andava benissimo. Dovevo scontare seicentotredici peccati, e mancavano sei lunghi giorni al prossimo Shabbat. Sempre che Mister Olocausto non mi beccasse prima.
10 Mentre l’ostetrica si infilava i guanti di gomma e strofinava il gel sul ventre di Orli, Orli sorrise e mi prese la mano. Sorrisi, gliela strinsi forte e pensai alla prima volta che Dio tentò di uccidere Mosè. «Sentirà un po’ di freddo» disse l’ostetrica. Mosè e sua moglie Zippora stavano facendo una passeggiata col figlio Gershom, quando un gigantesco serpente inghiottì Mosè, dalla testa fino alla cintola. «Quello è il bambino?» chiese Orli, la voce ridotta a un sussurro, gli occhi fissi sul monitor. «Sì, esatto» disse l’ostetrica. Il serpente lasciò subito Mosè, solo per inghiottirlo di nuovo, questa volta partendo dai piedi. Proprio come aveva fatto in precedenza, il serpente si fermò alla cintola di Mosè. «Lo volete sapere?» chiese l’ostetrica con un largo sorriso. Orli mi guardò e alzò le spalle. Io le alzai a mia volta. «Okay» disse lei. Non ci volle molto a Zippora per capire che Mosè veniva aggredito perché non avevano circonciso il figlio. Afferrò immediatamente una pietra focaia, tagliò il prepuzio di suo figlio, e il serpente lasciò libero suo marito. «È un maschio» disse l’ostetrica. Orli mi sorrise. «Un che cosa?» dissi. «Un maschio» disse l’ostetrica. «Ne è sicura?» chiesi allungandomi sopra Orli per guardare meglio nel monitor. «Oh, sicurissima.» «Sembra una femmina» dissi io. «Mi stai schiacciando la pancia» mi disse Orli. «Lo faccio da dieci anni» disse l’ostetrica. «È un maschio.» «Dove?» chiesi. «Io non vedo niente.» «Mi stai SCHIACCIANDO la PANCIA» disse Orli. «Scusa.» L’ostetrica indicò una macchietta bianca e sfocata sullo schermo. «Maschio» disse con autorevolezza. «Posso far venire il dottore, se volete un altro parere.» «Non fa niente» disse Orli. L’ostetrica spinse via il monitor e si tirò su. «Volevate una femmina, vero?» chiese, porgendo a Orli della carta per togliersi il gel dalla pancia. «I maschi sono più facili.» «Può darsi» dissi io. «Ma alle femmine non bisogna tagliare niente.» Era proprio ciò che avevo paventato. Se non avessi saputo per certo che Dio è uno stronzo che passa il tempo a inventare modi esilaranti per fregarmi, forse avrei perfino pregato per avere una femmina. Ma sapevo che, se lo avessi fatto, Lui mi avrebbe sicuramente mandato un maschio. Avrei potuto tentare una mossa di psicologia al contrario: pregare per un maschio per avere una femmina, ma ero più che sicuro che Lui se ne sarebbe accorto, e allora mi avrebbe mandato due maschi, gemelli, tanto per fregarmi. E tutti avrebbero detto: «Oh, che benedizione!» e sono sicuro che lo sarebbero stati, ma io solo avrei saputo la verità, la malevolenza con cui, benedizione o no, erano state combinate le loro x e le loro y e allora mi sarei incazzato di brutto e avrei deciso di non circoncidere nessuno dei due, tanto per fare un dispetto al Figlio di Puttana, ma Lui avrebbe sentito i miei pensieri e smascherato i miei piani, e li avrebbe fatti nascere siamesi, uniti – ah-ah! – per il prepuzio, così non avrei potuto far altro che
tagliarglielo. E nascosto all’interno della punizione, naturalmente, uno di quei significati sottintesi e ammonitori che Lui tanto ama: Onora il Mio patto solenne con Abramo o sta’ tranquillo che i tuoi figli si pisceranno addosso l’un l’altro per tutti i giorni della loro vita, oppure: Se tu non li legherai a Me, io li legherò l’uno all’altro. Una situazione che, adesso che ci penso, sarebbe stata perfetta – non che pisciassero uno addosso all’altro, ma che fossero uniti per il prepuzio, perché allora non avrei avuto altra scelta che circonciderli. Cavolo, probabilmente l’avrebbero fatto direttamente lì all’ospedale, così per lo meno io non sarei stato costretto a prendere nessuna decisione. L’ostetrica raccolse le sue carte e si diresse verso la porta. «Se può essere d’aiuto» disse, «non sentono niente, così piccoli.» «Grazie» dissi io, «non è d’aiuto.» «Lo so» disse lei.
«Bene» dissi a Craig la mattina dopo. «Me l’ha fatta di nuovo.» «Chi?» «Chi?! Dio, ecco Chi!» Craig era alla sua scrivania. Io mi ero buttato in un angolo del divano, nel punto più lontano del suo ufficio. «Non si stufa mai di te, vero?» chiese Craig. «Cos’è, questa volta?» «Prepuzio» dissi. «Ehi!» disse Craig. «Congratulazioni!» Craig ha due maschi e le loro foto campeggiano sulla sua scrivania, il suo portatile, il suo iPod e il suo cellulare. Mi chinai in avanti e mi passai le mani nei capelli. «Un maschio, cazzo» dissi. «Ti rendi conto, vero» disse Craig, «che c’è gente in giro che non può avere figli e che sarebbe felice di qualunque cosa?» «È questo il problema» risposi. «Uno deve NON volere una cosa, perché Dio gliela conceda.» Craig tornò al suo computer. Io continuai a insistere, facendo notare che è perfettamente logico: la gente che vuole figli non riesce ad averne, la gente che non li vuole li ha senza neanche provarci. La gente che vuole maschi ha femmine, la gente che vuole femmine ha maschi, la gente che vuole un figlio solo ha dei gemelli, la gente che vuole i gemelli ha un parto trigemino. Se questa non è la prova dell’esistenza di un Dio tutt’altro che benevolo, io non so proprio cosa sia. «Hai la copia di quella campagna per la radio?» chiese Craig. Mi passai le mani nei capelli. «Adesso ho pure questa stramaledetta cosa del prepuzio.» «Il cliente la vuole per oggi pomeriggio.» Guardai il soffitto. «Prepuzio» dissi a Dio. «Bel colpo.» Craig è un bravo ragazzo, ma è stato cresciuto nell’Ebraismo Riformato. Teologicamente parlando, io ho più cose in comune con un cristiano. «Ma se ti vuole davvero rompere le palle» chiese Craig, «perché non ti uccide e basta?» Sghignazzai scuotendo la testa. «Uccidere alla lunga diventa noioso» dissi. «Un paio di diluvi e sei a posto. Perché uccidere quando puoi torturare lentamente?» «Non ci avevo pensato.» «Ecco perché Lui continua a fare il cecchino del cazzo.»
«Con te» disse Craig. «Sì, con me. Anche con te, solo che tu non te ne accorgi.» Un account manager entrò nell’ufficio di Craig; Craig era desiderato al piano di sopra dal direttore creativo, un piccolo uomo con un grosso sigaro. Craig guardò il soffitto. «Bel colpo» disse a Dio. Tornai nel mio ufficio e setacciai il web in cerca di risposte. Appresi che la circoncisione è un rituale barbaro. Appresi che quelli che dicono che la circoncisione è un rituale barbaro sono antisemiti. Appresi che quelli che dicono che quelli che dicono che la circoncisione è un rituale barbaro sono antisemiti non fanno che perpetuare un’antica forma di abuso sui bambini. Appresi che alla fine degli anni Ottanta, quando cominciò la grande ondata migratoria degli ebrei sovietici verso Israele, un giornale israeliano scrisse che la prima cosa che chiesero decine di migliaia di loro, giovani e vecchi, fu di farsi circoncidere, mettendosi in fila in tutta la Terra Promessa tipo catena di montaggio, per sottoporsi il più presto possibile alla procedura. «Lei crede in Dio?» chiese il giornalista a un vecchio che stava aspettando il suo turno. «No» rispose quello. «Sono ateo.» Il giornalista restò sorpreso. «Allora perché si fa circoncidere?» chiese. L’uomo, ricacciando indietro le lacrime, rispose con fierezza. «Perché senza la circoncisione» disse «è impossibile essere ebreo.» Telefonò Orli. «Cosa stai facendo?» chiese. «Sono in rete» dissi. «Sto indagando sul prepuzio.» «Che cosa hai scoperto?» «Un vecchio russo l’ha fatto.» «Perché?» «Perché altrimenti è impossibile essere ebreo. È d’aiuto?» «Grazie» disse lei. «Non è d’aiuto.» «Lo so.»
Io e la mia famiglia siamo come l’olio e l’acqua, se è vero che l’olio rende l’acqua depressa, arrabbiata e incline al suicidio. Così io e Orli decidemmo di rivolgerci a una doula, un’esperta che ci aiutasse nella preparazione al parto. Si chiamava Mary, e venne qualche giorno dopo, un pomeriggio, per fare conoscenza. «Non parliamo con le nostre famiglie» dissi. «È triste» disse Mary. «Meno triste di quando ci parlavamo» dissi. Mary ci diede consigli su medici e ostetriche e integratori alimentari; sull’amniotomia e la sua relazione col prolasso del cordone ombelicale; sul sovrautilizzo dell’epidurale e sul sottoutilizzo del massaggio perineale per evitare inutili episiotomie; sugli svantaggi della litotomia e sui vantaggi dello yoga prenatale. Ci consigliò di usare la consolida maggiore per le emorroidi, di mangiare verdure biologiche anziché non biologiche, di bere tè al lampone anziché tè nero, di prendere vitamine prenatali generiche anziché le più costose vitamine prenatali di marca, e ci raccomandò il vicino centro nascite di Rhinebeck anziché l’ospedale locale di Kingston. «Lei come la pensa sulla circoncisione?» chiesi. Mary fece un passo indietro e alzò le mani. «Quella è proprio una decisione vostra» disse.
Quando Mary se ne andò, io e Orli uscimmo a fare una camminata. Ci siamo trasferiti nella nostra casa tra i boschi della contea di Ulster circa dieci anni fa. La proprietà è situata a ridosso di quasi mille acri di foresta protetta, e di rado passa un giorno senza che facciamo la nostra camminata per i ripidi sentieri abbandonati dei boscaioli e i ruscelli sassosi e riarsi che partono proprio davanti a casa. Parliamo del nostro lavoro, delle nostre speranze, delle nostre paure. Risolviamo liti, ci chiediamo scusa se abbiamo sbagliato, ci riavviciniamo se qualcosa in qualche modo ci ha allontanati. Gli alberi devono essere stufi marci di noi. «Eccolo che riattacca col discorso ’madre’» dice l’acero. «Io mi ricordo» dice la vecchia quercia burbera «di quando erano strafatti e venivano qui a scopare.» «Be’, e allora l’Olocausto?» chiesi a Orli quel pomeriggio. Orli sospirò. «Che c’entra l’Olocausto?» Mentre camminavamo lungo un vecchio sentiero che si inerpica sulla montagna, le raccontai la storia che avevo sentito tante volte nella mia infanzia, la storia della vecchia ebrea nel campo di concentramento che circoncise un neonato subito prima che morisse per mano dei nazisti. Una sera terribile, le SS avevano annunciato che la mattina dopo avrebbero ucciso tutti i neonati del campo. La vecchia cominciò a piangere e a singhiozzare, e si gettò ai piedi di un soldato nazista che passava, implorandolo di darle il coltello che portava alla cintura. Il nazista sorrise, pensando che la vecchia ebrea si volesse uccidere, e le porse il coltello. La vecchia cadde in ginocchio e aprì il fagotto di stracci che aveva in braccio. Dentro c’era un maschietto nato da poco, e prima che il nazista potesse fermarla, si chinò sul piccolo e lo circoncise. «Tu ci hai dato un bambino» urlò forte a Dio, «e noi ti restituiamo un ebreo.» Era autunno, e alla stagione della caccia mancava ancora qualche settimana. In lontananza, qualcuno sparò un colpo di fucile, e l’eco rimbalzò sulle colline e tra le valli. «E dopo che cosa è successo?» chiese Orli. «Non lo so. Li ammazzarono, immagino.» Camminammo ancora un po’. I raggi del sole filtravano attraverso i pini alti e scuri. Un altro sparo. I cervi cercarono i loro passaporti; gli orsi implorarono di potersi nascondere nella soffitta dei vicini. «Non so che cosa fare» dissi. «Da un lato è pazzesco, è una mutilazione. Dall’altro lato, forse lui dovrebbe avere un legame col suo passato. Da un altro lato, ho paura che se non lo facciamo Dio lo uccida. E da un altro lato ancora, mi sento colpevole a non circonciderlo, quando così tanti ebrei nella storia sono morti per difendere la possibilità di farlo. Insomma, non so più dove cazzo girarmi, con tutti questi lati!» «Non uccidevano bambini tutti i giorni?» chiese Orli. «Come?» «Era l’Olocausto» disse lei. «Uccidevano bambini tutti i giorni. Non è che dicessero: Okay, oggi ammazziamo i bambini.» Un altro sparo, questa volta più vicino. Suppongo che in effetti uccidessero bambini tutti i giorni, ma le spiegai che forse non era quello il punto. Il punto era l’importanza di questa tradizione per il popolo ebraico. Però tradizione non è solo un altro termine per quell’inerzia particolarmente religiosa, ipocrita, non pensante, che spinge tante persone a estremi a cui forse non sarebbero arrivate se si fossero fermate sul serio a riflettere, a soppesare, a esaminare? Era già abbastanza insidioso, mi lamentai, cercare di definire la mia fede, ma qui mi veniva chiesto di definire la fede di qualcun altro, un qualcun altro che ancora non aveva nemmeno sviluppato i genitali, per non parlare di una filosofia della religione. Voglio dire, e se... «Come faceva a sapere come si fa una circoncisione?» chiese Orli.
«Chi?» «La vecchia.» «Non lo so. Non sarà tanto difficile.» «Non sarà tanto difficile?» Le origini di Orli sono una combinazione di Medio Oriente e di Russia: il risultato è affascinante dal punto di vista fisico, ma frustrante da quello argomentativo. L’interrogatorio implacabile ce l’ha nel sangue. «Mi dispiace» continuò, «ma mi riesce difficile credere che questo nazista abbia dato il suo coltello a una prigioniera ebrea. Un coltello è un’arma. E lei come ha... voglio dire, non è che uno lo taglia e via.» «Era l’Olocausto, tesoro.» Lei diede un calcio a un sasso lungo il sentiero. «Lo so che era l’Olocausto. Solo che non vedo come ammassare la gente in un campo di concentramento a un tratto faccia diventare tutti mohels [sono quelli che praticano le circoncisioni], tutto qui. Se mi rinchiudi ad Auschwitz, non è che mi trasformo in un chirurgo, cazzo.» Fu un momento di tensione. Eravamo in conflitto sul prepuzio, nervosi per il bambino, e terrorizzati che la comparsa del bambino potesse in qualche modo implicare la ricomparsa nella nostra vita delle famiglie da cui ci eravamo allontanati dopo tanto tempo e fatica. Il sole stava per tramontare e io richiamai i cani, preoccupato che laggiù qualcuno si stesse prendendo un anticipo della stagione della caccia. Harley e Duke sono dei Rhodesian Ridgeback, e senza i loro giubbotti di sicurezza arancione somigliano parecchio a dei cervi. Se potessi procurarmi uno di quei giubbotti per proteggerci da Dio, non dovrei nemmeno preoccuparmi della circoncisione di nostro figlio. «Mi dispiace» disse Orli. Ci prendemmo per mano, e cominciammo a scendere verso casa. «Non fa niente.» «Quella storia sembra una stronzata, tutto qui.» Le misi un braccio intorno alle spalle, mentre incespicavamo sul sentiero. Vorrei che fosse stata lì. Vorrei che fosse stata lì quando il rabbino Kahn mi fregò nella gara di benedizioni. Vorrei che fosse stata lì quando scoprii la Pietra della Pornografia. Vorrei che fosse stata lì, nell’auditorium, il Giorno della Memoria dell’Olocausto, a guardarmi dopo che il rabbino Blowfeld ebbe raccontato la storia della vecchia e del prepuzio, e che avesse alzato gli occhi al cielo e mormorato sottovoce la parola stronzata. Ecco perché so di amarla. Ecco perché so di voler stare con lei per sempre. Ed ecco perché so che Dio la ucciderà. Tirai fuori dalla tasca uno spinello e feci un tiro. «Credevo che avessi smesso» disse lei. Alzai le spalle.
Io non sollecitavo pareri sul prepuzio, ma mi venivano offerti. Non ci voleva molto. «Sai già il sesso?» «È un maschio.» E partivano. Il nostro amico del quartiere chic di Brooklyn Heights era a favore della circoncisione «per, come dire, motivi estetici», mentre il mio avvocato, che è gay, raccomandava, se avessimo avuto anche il più
vago sospetto che nostro figlio fosse omosessuale, di lasciare stare quello stramaledetto coso al suo posto. «Sono molto apprezzati, nel mio giro» disse. Per lo meno qualcuno pensava al bambino. Una settimana dopo mi ritrovai di nuovo nell’ufficio di Craig, seduto di fronte a Patricia, una art director ex ortodossa, attualmente buddista, macrobiotica, filopalestinese, attivista per i diritti degli animali. «Non ci posso credere che tu possa solo prendere in considerazione una cosa del genere» disse. «Perché non gli tagli un dito o non gli affetti il naso? Pugnalalo, accoltellalo, tutto per Dio. Di questo stiamo parlando, giusto?» Cominciavo a sentirmi anch’io un po’ come un prepuzio. «Perché non lo prendi a pugni in faccia?» suggerì lei, mentre riuniva le sue carte in un mucchio rabbioso e si apprestava ad andarsene. «Aspetta otto giorni, invita tutta la famiglia, tira fuori vino e dolci, e poi prendilo a pugni in faccia, cazzo!» Proprio come un prepuzio. Reciso dal mio passato, incerto sul mio futuro, insanguinato, pestato, buttato via. Mi chiesi se esistesse un posto dove i prepuzi possono andare, un posto in cui possono vivere insieme in pace, amati, voluti, una nazione di prepuzi, fatta dai prepuzi, per i prepuzi. Patricia uscì sbattendo la porta. Craig venne a sedersi sulla sedia di fronte a me. «Sta’ a sentire» disse. Fece un respiro profondo e mi disse che, per quanto lo riguardava, crescere era già abbastanza difficile, e che l’unico motivo per cui aveva fatto circoncidere i suoi figli era che così un giorno non si sarebbero chiesti perché erano diversi dal loro papà. «E questo» disse «mi è sembrato un motivo piuttosto importante.» Annuii. Mi piaceva questo punto di vista così altruistico, ma sospirai scuotendo la testa. Il fatto era, dissi a Craig, che se davvero volevo placare le insicurezze di mio figlio rendendo il suo pene simile al mio, non sarebbe bastato circonciderlo. Avrei dovuto radergli le palle e regalargli un piercing sul pisello. Craig mi guardò un momento, prima di controllare l’orologio. «Ho un appuntamento alle dieci» disse.
11 Gli anni trascorsi dallo Snack Bar erano stati pieni di segreti e vergogna. Vinnie aveva avuto ragione – non potevo combattere la fifa. Non potevo combattere neanche i formaggini Polly-O o i croccantini al cioccolato Charleston. A nove anni, sopraffatto dall’inclinazione malvagia nella zona gastronomia del centro commerciale Nanuet, avevo dato il primo morso a una pizza non kosher. A dieci anni, ci davo dentro a tutto spiano coi marshmallow. Sappiamo tutti qual è il passo successivo, e un anno dopo lo feci: formaggio alla griglia. «Un peccato» dicevano i Saggi di benedetta memoria «porta a un altro peccato» e io presi il loro avvertimento alla lettera. Alla fine delle elementari, quando gli altri ragazzi volevano diventare medici o avvocati, io volevo diventare uno Shark. Avevo appena visto West Side Story in televisione, ed ero innamorato di una ragazza di nome Maria. Maria non era ebrea, ma si copriva i capelli e portava gonne alla caviglia. Forse poteva bastare, chissà. «Signore? Signore, mi scusi ma devo chiedere a suo figlio di vuotarsi le tasche.» Ero con mio padre nel parcheggio di Caldor, e avevo appena rubato la cassetta con la colonna sonora di West Side Story. La guardia giurata allungò la mano, aspettando che gliela consegnassi. Mio padre mi rivolse uno sguardo che era tutt’altro che sorpreso. «Ma perché?» chiesi. «Per favore, figliolo» disse la guardia giurata. Mi infilai una mano in tasca e gli consegnai la cassetta. «Ma perché?» chiesi. «Ganif» mormorò mio padre. Ladro. «Ma perché?» urlò mia madre quando arrivammo a casa. Non lo sapevo. Sapevo che lei urlava anche quando non rubavo – urlava quando faceva i conti, urlava quando le chiedevo dei vestiti nuovi, urlava quando i miei fratelli le chiedevano la paghetta. «Una cassetta? Perché vuoi sprecare i soldi che ci guadagniamo duramente per una narishkayt [stupidaggine] del genere? Lo sai quanto ci mette tuo padre a guadagnare una somma del genere? Credi che i soldi crescano sugli alberi? Voi figli mi farete finire all’ospizio dei poveri.» Avevo pensato che la catena di grandi magazzini Caldor non avrebbe risentito granché della perdita di una cassetta musicale ogni tanto, mentre comprarne solo una avrebbe probabilmente ucciso mia madre. Quella sera pianse per un tempo infinito. «Mi dispiace» dissi. «Vattene» disse lei. «Non ti posso guardare. Vai a riflettere su quello che hai fatto.» Andai in camera mia, mi sedetti sul bordo del letto, e seguii il suo consiglio. Mi domandai: «Ma come cavolo ha fatto la guardia giurata a beccarmi?» Avevo già rubato prima. Twix, Moon Pie, Three Musketeers, ed era facile: prendevi la cosa che volevi, giravi per un po’, prendevi altre cose strada facendo, ne mettevi giù qualcuna, ne prendevi qualcun’altra, ti mettevi in tasca quella che volevi, posavi tutto il resto, uscivi. Come cavolo aveva fatto a beccarmi, quel tizio? Ci pensai, ci pensai e ci ripensai, e mentre pensavo mi facevo girare il berretto da baseball sulla punta del dito – lo stesso berretto da baseball che portavo quella sera da Caldor – e fu allora che ci arrivai. «Possibile?» mi chiesi. Qualche giorno dopo tornai da Caldor, il berretto da baseball al sicuro nell’armadio in camera mia, e in testa la yarmulke più grossa che fossi riuscito a trovare, piazzata bene in vista sul davanti della testa. Gli tzitzis bianchi mi penzolavano vistosamente dai pantaloni. Cinque minuti più tardi, la cassetta con la colonna sonora di West Side Story era di nuovo nella tasca sinistra della mia giacca, mentre un
libro degli Hardy Boys era ficcato nella destra. La stessa guardia che mi aveva beccato qualche sera prima stava di nuovo piantata davanti alla porta. «’Sera» dissi avvicinandomi a lui. Aveva una mano sulla pistola, l’altra sulla radio, gli occhi fissi su una coppia di adolescenti neri che si dirigevano verso il reparto di elettronica. «’Sera» disse senza voltarsi verso di me. Uno Shark? Ero meglio di uno Shark. Ero invisibile. Vagai tra negozi e centri commerciali, raramente visto, mai sospettato, un angelo con le tasche strapiene, uno spirito, presunto innocente, con Bee Gees’ Greatest Hits infilata nella parte anteriore dei pantaloni. Avevo pensato che mettendomi un berretto da baseball mi sarei mescolato agli altri, ma ora scoprivo che indossando una papalina diventavo invisibile. La yarmulke mi faceva sparire, e insieme a me, dall’inizio della terza elementare fino all’entrata nel liceo, sparirono album, fumetti, parti di bicicletta, una cornice alta settanta centimetri in occasione dell’anniversario di nozze dei miei genitori, radio, mangiacassette portatili, razzi giocattolo, lanciarazzi giocattolo e quei pacchettini da tre Ritz con la fetta di formaggio arancione non kosher. A quattordici anni entrai alla Metropolitan Talmudical Academy, tra la Centottantunesima Strada e Amsterdam Avenue, a New York. Il campus della yeshiva era una fortezza lunga cinque isolati, larga due, protetta dal servizio di sicurezza Brinks, situata al centro di quella comunità infestata dal crimine e flagellata dalla droga vicino alla punta dell’isola di Manhattan chiamata Washington Heights. In questo ghetto arrivavamo a centinaia: dalla contea di Rockland, dal Queens, da Staten Island, dal New Jersey e da Long Island. Arrivavamo indossando camicie di Ralph Lauren e jeans Girbaud. Arrivavamo indossando felpe Champion e Nike Air Jordan. Arrivavamo indossando scarponcini Timberland e giubbotti di pelle Avirex. Credevo che gli abitanti di Monsey fossero ricchi, finché non incontrai gli abitanti di Westchester. Credevo che gli abitanti di Westchester fossero ricchi, finché non vidi gli abitanti di Woodmere. Credevo che gli abitanti di Woodmere fossero ricchi, finché non vidi gli abitanti di Englewood. Ma come possono diventare ancora più ricchi?, mi domandavo. Poi vidi gli abitanti di Great Neck. Ormai mi rifornivo ai grandi magazzini Caldor da quasi sei anni, e facevo del mio meglio per restare un fedele non-cliente. Continuai a derubarli per tutto il primo anno di liceo, ma una volta raggiunta la seconda dovetti affrontare il fatto che Caldor non era proprio in grado di soddisfare i bisogni di un taccheggiatore più adulto e sofisticato. Trovai la yarmulke di mio padre per le grandi festività – una roba da fermare il traffico, di un abbagliante raso bianco, ornata di ricami in argento e bordata con uno scintillante filo dorato – me la aggiustai sulla testa, tirai fuori gli tzitzis dai pantaloni, mi infilai in tasca un cacciavite per togliere le etichette di sicurezza, e andai da Macy’s. «Non provare» dissi a Dio passando sotto i sensori della sicurezza del negozio, con lo zaino pieno di vestiti rubati, «a fare lo stronzo.» Il mio rapporto con Dio stava cominciando a cambiare. Ero stufo della infinita manipolazione spirituale registrata sull’apposito cartellino segnapunti, e immaginavo che fosse stufo anche Dio, stufo di quell’algebra ipocrita e tediosa di penitenze e peccati, così cominciai a parlare con Lui come se Lui fosse, be’, reale. Forse erano stati tutti quegli anni di vergogna e paura. Forse era stato perché il rabbino Goldfinger mi aveva detto tanto tempo prima che io ero come un capostipite in partenza per un viaggio pericoloso – Abramo non aveva mercanteggiato con Dio? Giacobbe non aveva lottato con Lui, prendendoLo a tutti gli effetti a calci nel sedere? Mosè, chiamato da Dio a condurre l’esodo, non Gli aveva detto di trovarsi qualcun altro? Loro avevano litigato, dibattuto, contestato. Io avevo tenuto il muso, Lo avevo insultato, Gli avevo mostrato il dito medio. I miei sentimenti forse erano un po’ più stizzosi e un po’ meno riverenti di quelli dei miei padri, eppure mi sembravano più rispettosi delle servili suppliche dei credenti intorno a me. Per lo meno io Gli riconoscevo di essere capace di gestire qualche
piccola critica ogni tanto. Dopotutto, il fatto di essere Onni-Potente non comprende anche l’essere Onni-Auto-Cosciente? Onni-Aperto-alle-Critiche? Onni-Onestamente-Auto-Valutante? Circondato come era da un universo di yes-men adulatori, forse Dio avrebbe apprezzato un tantino di interazione sincera. «Che stronzo» gli dicevo quando l’autobus a cui stavo correndo dietro mi lasciava a terra. «Scusa, ma perché devi essere così stronzo?» «Ma perdio!» gli dicevo davanti al bancone di Pizza Hut. «È solo una pidocchiosa pizza col salame. E Tu mi devi ’aborrire in questo mondo e torturare in quello a venire’ per una pizza col salame, cazzo? Ecco perché non piaci a nessuno!» Lo guardavo storto se mi guastava la festa. Lo insultavo se scoppiava un casino. Avevamo ampliato le disquisizioni filosofiche, spesso connesse al peccato che stavo commettendo proprio in quel momento. «Lo so che è un furto, ma andiamo, non se ne accorgeranno neanche. No, non credo che sia una razionalizzazione superficiale, credo che sia la realtà della vendita al dettaglio. Cazzo, è Macy’s – il più enorme Grande Magazzino del mondo: c’è scritto sulla porta. Che cosa vuoi che faccia, che chieda soldi a mia madre? La conosci, mia madre, lo sai come si riduce quando le chiedo dei soldi. Ti sembra superficialità? Qui stiamo parlando di vero dolore umano. Vuoi che le chieda dei soldi? Bene. Allora esco subito da questo negozio con tutti questi vestiti ficcati nel mio zaino. Se Tu vuoi che io chieda i soldi a lei, allora fa’ scattare l’allarme, e la prossima volta glieli chiedo. Su, forza. Vediamo. Io vado, okay?» L’allarme non scattò mai. «Appunto» dicevo a Dio. «Che razza di stronzo.» A sedici anni, stavo per toccare il fondo: emotivamente, criminosamente e gastronomicamente. Il senso di colpa era schiacciante. A scuola stavo simpatico a tutti, ma la mia simpatia era una torre costruita sulle sabbie mobili di mille bugie, ad alto contenuto calorico ma prive di valore nutritivo. Con la mia nuova patente e la vecchia macchina di mia sorella, facevo il giro dei fast food aperti tutta la notte, cercando conforto in orge insignificanti di vuote calorie prive di amore. McDonald’s, Burger King, White Castle: arrivavo allo sportello drive-trough e poi parcheggiavo in un angolo buio, lontano dalla luce delle insegne al neon e dei lampioni stradali, e me ne stavo seduto lì da solo, sera dopo sera, contaminandomi con due hamburger di manzo, salsa speciale, lattuga, formaggio, sottaceti, cipolle, più un panino ai semi di sesamo. (Non sapevo che cosa ci fosse nella salsa speciale, ma ero praticamente sicuro che non contenesse unghie divise. Lattuga, sottaceti e cipolle sono kosher, ma bisogna prima metterli a mollo per essere sicuri che non contengano insetti. Gli insetti sono proibiti.) Lo dissi a Deena. A qualcuno dovevo dirlo. «Ma solo qualche volta» dissi. «Non è che non mangio mai niente di kosher.» Amavo Deena fin dalla quinta. Pensavo che la confessione avrebbe mitigato il mio senso di colpa facendomi nel contempo apparire tenebroso, inquieto e sexy come in tv. Non ottenni né un risultato né l’altro. Io e Deena non eravamo mai stati niente più che amici, ma dopo la mia rivelazione smettemmo di essere perfino quello. Forse era solo la vita che andava avanti. Avevamo sedici anni ormai, e frequentavamo la yeshiva: le telefonate si erano diradate, lei si era fatta dei nuovi amici, e quando per caso ci incontravamo sembrava a disagio. Aveva già sentito parlare del maiale. «Secondo me sei diventato matto» disse con la voce ridotta a un sussurro. «Ne parlano tutti. Insomma, ma perché devi mangiare proprio il bacon?» Io non mangiavo il bacon, e non ero matto, ma le sue parole trasudavano disgusto, e anziché vergogna provai finalmente rabbia. «Perché?» chiesi. «Perché mangio il bacon?» «Perché non mangi kosher?»
«E tu perché mangi kosher?» «Perché Dio ha detto che devo.» «Ecco perché io non lo faccio.» Deena restò a bocca aperta. Non era proprio così. O forse invece era proprio così. Perché dovevo aver bisogno di un motivo? Perché dovevo essere diverso? Era possibile che mangiassi non kosher solo per far incazzare Dio? Secondo mia sorella, no. «Lo fai solo per far soffrire la mamma» disse. Un’amica di un’amica di una vicina di casa di una sua amica mi aveva visto uscire da un Pizza Hut. «Non è proprio esatto» dissi io. «Lo faccio anche per far soffrire papà.» Mia sorella restò a bocca aperta. Non era proprio così. O forse invece era proprio così. Perché non mi potevano accettare com’ero? Perché il fatto che mi piacesse qualcosa doveva significare che odiavo qualcuno? Non era possibile che mi piacesse il maiale e basta? Perché il mio godimento doveva causare tanta sofferenza?
Quando cominciai la terza superiore, mi fu dolorosamente chiaro che nessuno dei tizi della mia yeshiva sapeva un cazzo di un beneamato cazzo. Era il 1987, e io avevo appena scoperto il rap. «Ti sei fatto male a una gamba?» chiese mia madre, ficcandomi a forza in testa una yarmulke. «Perché zoppichi?» «Ma com’è-com’è-com’è che fai così-così-così?» chiesi. «E tu perché parli in questo modo?» disse lei. «Dai, sbrigati, che fai tardi per la yeshiva. E smettila di andare in giro camminando come una specie di shvartzer.» Io mi diressi verso la porta, mi misi gli auricolari, mi tolsi i lacci delle scarpe, e a passo di rap andai a prendere l’autobus. Il rap mi calzava a pennello. Ero arrabbiato almeno quanto i rapper, e avevo già un armadio pieno di jeans Girbaud. Non sempre capivo che cosa stessero dicendo, ma mi piaceva un sacco il modo in cui lo dicevano.
Io e te chissenefrega frega frega Cerco solo una cosa una cosa una cosa Prima o poi la trovo la trovo la trovo E così ti sparo in bocca, yeah Proprio a te! Proprio a te! Proprio a te! Così impari che sono qualcuno. Così impari chi è il nemico pubblico numero uno!
Giusto, porca miseria. Qualcosa non andava. Mi sentivo, per l’ennesima volta, straniero in terra straniera, solo che la terra straniera in cui mi trovavo era la mia, e la terra che non era la mia sembrava meno straniera della terra in cui mi trovavo. I Girbaud non aiutavano. Le scarpe Keds non aiutavano. Mi sentivo come il cavallo sullo stemma della Ralph Lauren: non sapevo bene se l’uomo con la mazza minacciosa che portavo in groppa fosse Dio, la famiglia, la comunità o tutti e tre insieme, ma sapevo che se fossi riuscito a disarcionare quel figlio di puttana sarei potuto scappare via per sempre. Il mio atteggiamento verso il
mondo da cui provenivo e il mio atteggiamento verso il Dio da cui provenivo erano identici: ormai ero stufo di cercare di guadagnare punti agli occhi di qualcuno o di Qualcosa, soprattutto quando quel qualcuno o Qualcosa sembravano essere teste di cazzo e/o la Testa di Cazzo. Il nostro professore di filosofia ci raccontò di un uomo che dichiarava che Dio era morto: magari, Friedrich! Era vivo ed era uno stronzo. Forse non potevo fuggire da Lui – forse il viaggio per lasciare la Terra Promessa era perfino più insidioso di quello per entrarci – ma forse, pensai, potevo rovinarGli il gioco con la semplice acquiescenza, accettando allegramente qualunque fato Egli avesse scelto per me: niente preoccupazioni, niente preghiere, niente suppliche, niente ossessioni. Niente più bustarelle, niente più tangenti, niente più accordi sottobanco in luoghi di culto. Silenzio stampa. Non ateismo: rinuncia. Menefreghismo. Qualunquismo. Fanculismo. Forse l’errore degli avi era stato quello di risponderGli? Forse avrebbero dovuto semplicemente ignorarLo? In quanto al mondo da cui provenivo... be’, adesso ero a Manhattan, e qui c’era un mondo nuovo, un mondo migliore, distante una corsa da un dollaro in metropolitana. La stazione della linea A era a sei isolati da Fort Washington Avenue, e Times Square era a centotrentanove isolati di distanza. Avevo sentito le storie dell’orrore di Washington Heights: ebrei picchiati, ebrei impallinati, ebrei accoltellati, ebrei rapinati. Ma quando salivo sulla metro ero libero, ero a bordo di una capsula coperta di graffiti, in fuga verso un mondo su cui avevo sentito talmente tante orrende cazzate che non vedevo l’ora di abitarci.
Qualunque posizione, in qualunque condizione Fuori dai piedi, sono uno che esplode Statemi alla larga, perché non perdono Nero è bello, nero è bello, nero è da sballo!
Giusto, porca miseria. Prendevo buoni voti con facilità, così non mi dovevo preoccupare se perdevo qualche lezione. Ti davano un libro di testo, ti chiedevano di leggere una certa parte del libro di testo, ti esaminavano su quella certa parte del libro di testo. Matematica era un trucco; se conoscevi il trucco (cancella l’uno, riporta il due, togli il punto decimale eccetera), era una bazzecola. I compiti in classe di legge ebraica erano i più facili. Dovevi semplicemente scegliere la risposta più severa:
a) perdonare b) pagare una multa c) pregare d) lapidare
Qualunque fosse la domanda, la risposta era d). Prendevo la linea A fino alla Quarantaduesima Strada, entravo in qualche porno shop, prendevo la linea C fino alla Ottantunesima Strada, attraversavo il parco e andavo al Metropolitan Museum. Passeggiavo nel giardino delle sculture, guardavo disegni e stampe, mi fermavo nell’Ala Americana, mi mettevo la yarmulke, tiravo fuori gli tzitzis, scendevo giù nel negozio di souvenir e rubavo qualche libro. L’ingresso principale del negozio di souvenir, proprio accanto alla Great Hall, si apre sul primo piano (libri, poster e cartoline), ma c’è un secondo ingresso più piccolo al piano di sopra, in fondo al secondo piano (gioielli, regali, accessori). La prima volta che rubai
lì, presi un libro su Rodin e un altro su Magritte, una rivista chiamata «ArtNews» e una scatola di carte da gioco con i capolavori del ventesimo secolo. Andai al piano di sopra, sorrisi all’impiegato del negozio di souvenir che teneva attentamente d’occhio una donna nera accanto al banco dei gioielli, e feci un giro nel settore Pittura europea. Yarmulke. Non uscite mai senza. Mi piaceva l’arte anche se, come con il rap, non sapevo bene che cosa significasse. Mi sembrava così meravigliosamente indulgente verso se stessa, così deliziosamente inutile, così proiettata verso il Mondo a venire. Fu durante una di queste gite in centro che incontrai per la prima volta José, dopo aver saltato una lezione e preso la metro fino a Times Square per fare un giro nei porno shop. «Sorridi» mi gridò mentre mi trascinavo tetramente da Andrew Blake verso Il violinista sul tetto. «Non può essere così terribile.» Mi trovavo a pochi isolati dal campus della yeshiva. Mi ero appena rimesso la yarmulke, e José, un ispanico di mezza età, gioviale e robusto, era seduto con alcuni amici sui gradini di una vecchia casa fatiscente. «È peggio» dissi. Risero tutti. «Ho visto qualcuno di quei rabbini» disse il suo amico. «Sembrano sbroccati di brutto.» «E non la sai tutta» dissi io. «Vieni qui» disse José. Mi diede una bustina da dieci dollari, dicendomi che era un omaggio della casa. «Mi chiamo José.» Annuii, mi voltai, e me ne andai. «Ehi, ragazzino» mi chiamò lui. Mi fermai e mi voltai di nuovo. José sorrise, si mise una mano nella tasca dei pantaloni e mi lanciò un pacchetto regalo di cartine per sigarette. «Uau!» dissi. «Grazie, Mean Joe!» Risero tutti. Ci mettemmo a farlo tutte le volte. L’intera transazione – arrivo, scambio, cartine per sigarette, grazie Mean Joe – durava meno di cinque minuti. Potevo uscire dopo il Talmud e tornare in tempo per i Profeti. Passai la maggior parte del terzo anno a midtown. Andai al Metropolitan, mi innamorai di de Chirico, e rubai libri sul chiaroscuro e sull’uso del colore. Andai al MoMA, mi innamorai di Brancusi, e fregai libri su forma e significato. Andai al Guggenheim, mi innamorai di Giacometti, e mi appropriai di libri su raffigurazione e figura umana. Andai al Whitney. Tornai al Met. Andai nelle librerie. Andai da Strand, Rizzoli, Shakespeare & Co. Rubai Kafka, Beckett, Pinter e Mamet. Non capivo sempre che cosa dicessero, ma mi piaceva decisamente il modo in cui lo dicevano. In un pomeriggio potevo passare dalla pittura europea del Metropolitan tra la Ottantunesima e la Quinta, agli assurdisti del MoMA tra la Cinquantatreesima e la Quinta, alla sezione ultimi arrivi del peep show «Triplo Godimento» tra la Quarantaduesima e l’Ottava, e comunque tornare in tempo per la lezione pomeridiana sulla Torah e per l’autobus che mi riportava a casa. Gli unici posti in cui non rubavo erano i porno shop. La yarmulke non faceva fessi i proprietari di porno shop, che seduti su scale pieghevoli posizionate in giro per il negozio – alla fine dei corridoi, accanto alla cassa, accanto alla porta d’ingresso – controllavano tutti, indipendentemente da quello che portavano in testa. Capivano che sotto i vestiti e i cappelli, sotto la mitra del papa, lo shtrayml del rabbino e l’imamah del mullah, eravamo tutti uguali. E poi, una sera, Dio ne ebbe abbastanza. Tornai a casa dalla yeshiva e trovai mia madre in camera mia, seduta sul bordo del letto. Era pallida, più pallida del solito, con la faccia appesa, più appesa del
solito. Aveva in mano l’involucro di un hamburger di McDonald’s. «Lo sai dove ho trovato questo?» chiese con la voce ridotta a poco più di un sussurro. Mi venne l’acquolina in bocca. «Da McDonald’s?» «Nella tua macchina» disse. «Sei...» Quasi non riusciva a pronunciare le parole. Un comunista? Un nazista? Un gay? «Sei... non kosher?» Avevo una gran voglia di dirglielo. Forse, se le fossi andato bene così com’ero, sarei andato bene anche a me stesso. Ma capii dal modo in cui mi fece la domanda, da come era disgustata pronunciando ogni parola, che non mi avrebbe mai accettato. Avrebbe urlato, avrebbe pianto. Avrebbe attaccato con l’Olocausto. Lo sai quanti ebrei sono morti per mano dei nazisti affinché tu potessi continuare a essere kosher? Sarebbe saltato fuori il nome di Hitler. Io sarei diventato peggio di lui. Lei lo avrebbe detto a mio padre, e lui mi avrebbe cacciato di casa. Ci sarebbe stata una scenata, con mia madre che urlava a mio padre: «Tu non lo hai mai incoraggiato, Nosson!» e mio padre che urlava a me: «Non sotto il mio tetto! Mangia il tuo schifoso maiale da qualche altra parte!» Mi vidi vivere da solo in un sottoscala infestato di scarafaggi a Brooklyn, le mie giornate occupate da lavoretti umili senza prospettive, le mie serate occupate da Filet-O-Fish e confezioni di Chicken McNuggets da sei. Mi sarei procurato un futon, magari qualche lampada da Ikea, una felce. Non c’è niente che qualche barattolo di vernice bianca non possa aggiustare. «È di Jeff» dissi. «Lui non è kosher.» «Come fa a non essere kosher?» Alzai le spalle. Lei si alzò e mi guardò con occhi pieni di tristezza. Alla fine mi venne vicino, e per un momento ebbi paura che mi abbracciasse e riuscisse a sentire l’odore del cheeseburger che avevo ingurgitato insieme a un milkshake al cioccolato e patate fritte. Sapevo che non mi aveva creduto, ma mia madre ha sempre preferito una comoda bugia a una scomoda verità. Scosse tristemente la testa. «Quella povera gente» disse. Qualche giorno dopo, presi la macchina e andai da Macy’s, mi feci uno spinello nel parcheggio ed entrai. «Non lo fare» disse Dio. Andai nel reparto abbigliamento da uomo, arraffai un mucchio di vestiti, li portai in un camerino di prova e li infilai nel mio zaino. «Basta» disse Dio. «Non lo fare.» «Vaffanculo» dissi a Dio e mi incamminai verso l’uscita. «Signore? Signore. Mi scusi, signore.» La guardia giurata mi correva dietro, una mano sulla fondina della pistola, mentre con l’altra si reggeva i pantaloni. «Signore, devo chiederle di vuotare il suo zaino.» Avevo oltre cinquecento dollari di vestiti nello zaino, e una busta di marijuana in tasca. In lontananza si udì la sirena della polizia. Avevo un esame di Talmud la mattina dopo, e un compito di storia ebraica qualche ora dopo, quel pomeriggio. «No» disse Dio. «Vaffanculo tu.»
12 Kelly era cristiana e bionda, frequentava il liceo pubblico di Spring Valley e aveva delle tette enormi, come tutte le sue amiche, anche loro bionde e cristiane, e tutte indossavano jeans aderenti e giocavano a lacrosse. E Kelly guidava una Pontiac Trans Am. Il lunedì mattina, tra la lezione di Talmud e quella sui Profeti, me ne stavo con Yoni, Yossi e David nella pizzeria kosher di fronte alla nostra yeshiva, e raccontavo bugie. «Una Trans Am!» disse Yossi. «Non ci posso credere!» «Credici» dissi io. Nera, gli raccontai, con la grande aquila dorata dipinta sul cofano. Yoni guidava la Mercedes di suo padre. Yossi guidava la Mercedes di suo padre. David qualche volta guidava la Mercedes di sua madre, ma qualche volta guidava la Mercedes di suo padre. Al nostro amico Gideon avevano appena regalato una Acura Integra GT nuova di zecca. Daniel sperava in una Porsche; dopotutto, suo fratello ne aveva avuta una. Io guidavo la macchina di mia sorella, una Nissan Pulsar argento metallizzato che aveva otto anni. I fanali a scomparsa l’avrebbero fatta apparire parecchio sportiva. Peccato che il meccanismo del fanale sinistro si era bloccato mentre il fanale era in fuori e io non ero riuscito a farlo rientrare. La mia macchina sembrava Moshe Dayan, il ministro della Difesa israeliano con la benda sull’occhio. Era solo un dettaglio tecnico insignificante che la Pontiac Trans Am in realtà non avesse la grande aquila dorata sul cofano: quella era la Pontiac Firebird, ma Yoni, Yossi e David questo non lo sapevano. Non sapevano neanche che il liceo di Spring Valley non aveva una squadra di lacrosse. E non avrebbero mai, mai saputo – Dio me ne scampi – che la vera Kelly non era bionda. La vera Kelly era mora. Le tette grosse ce le aveva, ma in quanto sintomo di un problema di peso piuttosto serio, in realtà non contavano. Chiaramente non giocava a lacrosse, e neppure faceva una camminata veloce, da parecchio tempo. Yoni si tolse gli occhiali, si asciugò la fronte, pulì le lenti con la yarmulke, si risistemò le stanghette dietro le orecchie e si appoggiò al tavolo. «Vogliamo tutti i dettagli» disse. Facevamo l’ultimo anno del liceo maschile alla Metropolitan Talmudical Academy, la quale aveva anche una scuola per ragazze. Era a distanza di sicurezza, a ben centoquarantacinque isolati. Quell’anno, dopo infinite richieste da parte di Yoni e di un gruppo di altri studenti dell’ultimo anno sessualmente frustrati, i rabbini avevano autorizzato a malincuore gli studenti dell’ultimo anno della yeshiva maschile a organizzare un unico incontro sorvegliato con le studentesse della yeshiva femminile. Era una piccola consolazione, per me. Le ragazze che conoscevo meglio erano pornostar, avevano nomi come Amber, Nikki e Whopper. Le ragazze della yeshiva si chiamavano Miriam, Lea, Pesha e Shainey. Per me erano un mistero. Un buon primo passo con loro era tenersi per mano, il secondo una passeggiata di Shabbat, il terzo era lasciare che guidassero la Mercedes di tua madre, e il traguardo finale era il fidanzamento. Per me, il primo passo era il sesso anale. Molte delle ragazze erano shomrot negiah, «guardiane del palpeggiamento», cioè non avrebbero permesso a un uomo il minimo contatto: né una pacca né un colpetto, né uno sfioramento occasionale, nemmeno una stretta di mano, nemmeno dai loro fratelli, fino al giorno in cui non si fossero sposate. Loro passavano le serate a fare spese, io passavo le serate chiuso a chiave in camera mia con un piccolo televisore in bianco e nero, un videoregistratore rubato e una busta di erba. Soltanto io, Seka, Traci, e il barattolo di Oil of Olaz che avevo preso dalla toeletta di mia madre. Ero depresso e mi sentivo solo, ma i miei genitali non erano mai sembrati più giovani.
Le schede che cominciavano con la lettera A venivano messe in una cartella contrassegnata con la lettera A. Le cartelle che cominciavano con la lettera A venivano poi messe in un raccoglitore contrassegnato con la lettera A. Il raccoglitore veniva poi messo in uno schedario. Lo schedario veniva contrassegnato con la lettera A. «Sei bravo in questo lavoro» disse il supervisore. Era domenica mattina, e mi trovavo all’Ospedale del Buon Samaritano, a ripagare il mio debito alla società dopo essere stato arrestato e condannato per il furto da Macy’s, nel centro commerciale Nanuet. Oltre a pagare una ragguardevole multa, mi fu ordinato di compiere lavori socialmente utili. «Ciao» disse Kelly. «Io sono Kelly.» Non avevo mai conosciuto una Kelly, prima. «Io sono Steven» mentii. «Mi avevano detto che ti chiami Shellum.» «Tutti e due. Chiamami Steven.» All’inizio dell’ultimo anno, io e i miei amici ci eravamo scelti dei nomi non ebrei. Il diploma incombeva, e subito dopo ci attendeva un mondo di occasioni, un mondo in cui, se si dava credito alla rivista «Bachelor Party», c’erano delle ragazze che ci avrebbero toccato. Yoni diventò John. Yaakov diventò Jake. Shimon diventò Simon. Per un Jake farsi una scopata doveva essere più facile che per uno Yaakov. «Furto in negozio» dissi a Kelly. «Furto in negozio.» Kelly annuì. «Pure io. Ehi, ti piace McDonald’s? Ce n’è uno in fondo alla strada.» Io mangiavo cibo non kosher da anni – Domino’s, Friendly’s, International House of Pancakes – un segreto confessato soltanto a pochi amici fidati. Ma non avevo mai apertamente oltrepassato il confine della carne, e non ero mai andato a farmi un cheeseburger con qualcun altro. Se anche fosse successo, non sarebbe stato da McDonald’s. McDonald’s era il posto meno kosher al mondo. L’unico posto ancora meno kosher di McDonald’s era Red Lobster, ma io non avevo bisogno che fosse Dio a dirmi di non mangiare aragoste rosse e altre cose con le antenne. Red Lobster sembrava il posto dove Dio ti faceva mangiare per punirti di aver mangiato non kosher. «Ti piace treyf? Ecco! Mangia! MANGIA TREYF!» Era domenica pomeriggio, e il parcheggio era quasi vuoto. A parte un paio di ambulanze davanti al pronto soccorso, che attendevano impazienti col motore al minimo eventuali moribondi e morti, le uniche macchine erano una station wagon parcheggiata in una zona dove era vietato parcheggiare, la Nissan di mia madre, che quella mattina avevo guidato fino all’ospedale, e una Pontiac Trans Am nera. «Per favore, fa’ che sia la Trans Am» pregai Dio. «Per favore, fa’ che sia la Trans Am.» Era la Trans Am. «Vedo che Ti stai rabbonendo» Gli dissi. La Trans Am era il McDonald’s delle automobili. Aprii con uno strattone la portiera cigolante dal lato passeggero e salii. Kelly si gettò sul sedile del guidatore, le sospensioni ansimarono e Kelly mise in moto mentre mi porgeva una sigaretta. Io mi lasciai andare sullo schienale, accesi la sigaretta, e appoggiai il gomito fuori dal finestrino. Non importava che la ruggine avesse aperto un buco sul pavimento. Non importava che dal tubo di scappamento della Trans Am uscisse fumo nero. Non importava che solo abbassare il finestrino fosse sufficiente a lasciare Kelly senza fiato. Lei si chiamava Kelly. Io stavo fumando una sigaretta. Stavamo andando da McDonald’s. Cazzo, era una Trans Am. Kelly ordinò un Quarter Pounder con formaggio, un Filet-O-Fish, una confezione di Chicken McNuggets da dieci, un’altra confezione di Chicken McNuggets da otto, doppia razione di patate fritte, una Apple Pie, un gelato, e una Diet Coke grande. Io la seguii, ma fino a un certo punto. Ordinai un
cheeseburger.
La finta Kelly, sia detto a mia difesa, era stata un incidente. Insieme coi servizi socialmente utili, il giudice mi aveva appioppato una multa pesante, che mia madre si era rifiutata di pagare. «Però non devi dire a nessuno per che cos’è» dissi a David. «Okay, nessun problema. Per che cos’è?» La lezione di legge ebraica era appena finita, e stavamo uscendo dalla yeshiva, diretti alla pizzeria kosher lì di fronte. «Furto in negozio» dissi. «Che cosa?» «Sono stato arrestato» gli dissi. «Per furto.» David smise di camminare. Provai vergogna. Non era la cosa peggiore che avessi mai fatto, ma era la cosa peggiore che avessi mai fatto e poi raccontato a qualcuno. «Arrestato? Dici sul serio?» Alzai le spalle. David alzò le braccia sulla testa in uno slancio di entusiasmo. «Ma è FICHISSIMO!» urlò. Mi mise un braccio intorno alle spalle e continuammo a camminare. «Uau! Arrestato! Sei un MITO! Com’è la galera?» Non potevo saperlo. I poliziotti erano stati piuttosto amichevoli. Mi avevano preso le impronte digitali, mi avevano fatto le foto segnaletiche, e poi mi avevano fatto sedere su una sedia di metallo pieghevole in una cella vuota, mentre aspettavano che tornassero alcuni moduli. «Scusa se è di metallo» disse un agente. «È l’unica sedia che abbiamo.» Tornò dopo qualche minuto con una sedia imbottita. Un altro agente mi offrì una Coca e mi indicò il distributore di snack in fondo al corridoio. «Non ci capitano molti ebrei» disse. Mi riaccompagnarono alla mia macchina, al centro commerciale, e un’ora dopo ero a casa. Ma stavo chiedendo a David un sacco di soldi – settecentocinquanta dollari – e ritenevo che meritasse qualcosa in cambio. «Dura, bello» dissi. «Sul serio, è... dura.» Attraversammo la strada e ci sedemmo dietro un séparé in fondo alla pizzeria. «Loro hanno tirato fuori le pistole?» sussurrò David. Non c’era nessun «loro». «Loro» era una guardia giurata anziana e col fiatone che mi aveva fermato nel parcheggio, chiedendomi educatamente se poteva guardare nel mio zaino. «Uno di loro sì» confermai. «Un nero gigantesco.» «Non ci posso credere» disse David. «Credici» dissi io. Ultimamente mi ero dedicato a leggere tutti i libri che avevo rubato, e uno spiegava come prepararsi a scrivere un libro. Era il libro che avevo letto per primo. Non che mi interessasse molto fare lo scrittore, ma nella mia vita c’erano un sacco di fantasie, fantasie che nascondevano alcune umilianti realtà: un’ossessione per la pornografia, una compulsione a rubare, a violare lo Shabbat, a mangiare insieme carne e latte, ad andare in giro senza yarmulke. Tutto il mio mondo dipendeva dalla capacità di rendere credibili le mie storie, incoraggiando ciò che gli scrittori, come avevo appena imparato, chiamavano «volontaria sospensione dell’incredulità». Pensai che tanto valeva ottenere qualche dritta dai professionisti. I venti minuti sulla sedia imbottita in una cella vuota diventarono otto ore di detenzione, con un gruppo di neri tossici e un neonazista con una svastica tatuata che mi lanciava occhiatacce feroci. Questo era ciò che gli scrittori chiamavano «creare l’atmosfera».
David scosse la testa incredulo. Gli raccontai brevemente dell’udienza e della multa, nonché dei servizi socialmente utili. Gli piacque moltissimo quando gli raccontai che avevo un agente di controllo, il che mi fece piacere, visto che si trattava di una delle poche cose vere. E poi, senza stare troppo a pensarci, nominai Kelly. «Kelly» disse lui con un sorriso. «Parlami di Kelly.» «Guida una Trans Am» dissi io. «E gioca a lacrosse.» Forse, ragionai tra me mentre guardavo David spalancare gli occhi, tutte le creazioni sono incidenti. Forse Dio intendeva soltanto creare qualche lago e un paio di uccelli, ma poi gli uccelli hanno bisogno di alberi per fare davvero colpo, e gli alberi hanno bisogno del sole, e al terzo giorno la situazione era già totalmente fuori controllo. Un gufo qui, una montagna lì; e una settimana dopo Lui aveva un intero stramaledetto pianeta tra le mani. Certe persone proprio non sanno quando fermarsi, e io capivo come si fosse sentito Lui. Nei venti minuti seguenti, descrissi a David la Finta Kelly con tutti i dettagli, piccoli e grandi: grandi le tette, piccolo il naso. Lei diventò un collage dei pezzi di tutte le mie star preferite dei film a luci rosse, una specie di Lady Frankenstein: le tette di Christy Canyon, i capelli di Ginger Lynn, il culo di Traci Lords. Più la Trans Am, più il lacrosse. Questo è ciò che gli scrittori chiamano «caratterizzazione». Sì, forse avrei davvero scritto un libro, un giorno. Avevo sempre avuto una certa facilità con le parole. Quando ero molto piccolo, mio fratello mi prendeva talmente in giro che un giorno gli tirai un coltello. «No» disse mia madre. «Usa le parole.» Lo feci. Gli dissi quanto era egoista, che stava facendo a pezzi la nostra famiglia con la sua ostinata belligeranza, che stava trasformandosi in tutto ciò che odiava in nostro padre e anche peggio. «Okay» disse mia madre. «Non usare le parole.» David si fece più avanti sulla sedia e si chinò sul tavolo. I suoi occhi si piantarono nei miei, in attesa del prossimo capitolo. Mi sentii come un televisore. Questa era la mia vita: uscivo per andare alla yeshiva alle sette di mattina, tornavo a casa la sera alle otto, mi chiudevo a chiave in camera mia verso le nove, alle nove e un quarto ero nudo, alle nove e mezzo ero strafatto e soffiavo il fumo della marijuana dalla finestra della mia camera, nel seminterrato, con un esame di Talmud fissato per la mattina dopo. Fumare, masturbarmi, lavarmi, ripetere, finché non restavo a corto di materiale porno, o di erba, oppure non riuscivo più a tenere gli occhi aperti. Forse la vita di David non era peggiore, ma forse non era neanche granché migliore. Avevamo tutti e due bisogno di Kelly. «Te la fai?» mi sussurrò. Io mi guardai alle spalle. Il rabbino Osborn, vicepreside della yeshiva, era seduto due séparé più in là, seppellito tra falafel e una copia unta della «Jewish Press». «Noo» risposi. «Ma c’è sempre il prossimo weekend.» Questo è ciò che gli scrittori chiamano un’«esca».
Quel sabato sera, dopo che lo Shabbat fu finito, andai in macchina a Washington Heights, comprai un po’ d’erba da José e mi fermai a un chiosco lì vicino dove comprai patatine fritte, un accendino e una compilation video di quattro ore contenente Mille più una scene di sesso orale. La domenica rividi la Vera Kelly. Le schede che cominciavano con la lettera B venivano messe in una cartella contrassegnata con la lettera B. Le cartelle contrassegnate con la lettera B venivano poi messe in un raccoglitore contrassegnato con la lettera B. Il raccoglitore veniva poi messo in uno schedario. Lo schedario veniva contrassegnato con la lettera B.
«McDonald’s?» chiese Kelly facendo dondolare le chiavi della sua macchina. «Certo.» La Vera Kelly stava diventando un tantino appiccicosa. Io non ero dell’umore di andare da McDonald’s. L’hamburger della settimana prima mi aveva procurato quattro giorni di incontrollabile diarrea – la vendetta di Jahveh –, ma dopotutto lei era stata l’ispiratrice della Finta Kelly, e io mi sentivo in debito con lei per questo. «Certo» dissi. Kelly si arrampicò sulla Trans Am. Io gettai i sacchetti, i bicchieri e le carte degli hamburger sul sedile posteriore insieme ai sacchetti, ai bicchieri e alle carte degli hamburger che già c’erano, e mi arrampicai sul sedile accanto a lei. «Mi devo fermare alla lavanderia. E al negozio di computer, sulla Route 59.» «Nessun problema.» «Lì c’è anche un White Castle, magari ci prendiamo un dolce.» Mi appoggiai allo schienale, accesi una sigaretta, e mi domandai che cosa stesse facendo in quel momento la Finta Kelly. Venne fuori che mi stava masturbando sul sedile posteriore della sua Trans Am. «Non ci posso credere» disse David la mattina dopo. «Credici» dissi io. David aveva raccontato a Yossi di Kelly, e Yossi l’aveva detto a Yoni, e tutti e quattro ce ne stavamo seduti nel séparé buio in fondo alla pizzeria kosher. Yoni si tolse gli occhiali, si asciugò la fronte, pulì le lenti con la yarmulke, si risistemò le stanghette dietro le orecchie e si appoggiò al tavolo. «Vogliamo tutti i dettagli» disse.
Dopo due settimane ero ancora alla B, e la Vera Kelly cominciava a darmi sui nervi. Ero arrabbiato perché non aiutava un po’ di più con gli schedari, ma soprattutto ero furioso che non fosse un po’ più come la Finta Kelly, che non ci provasse nemmeno. La Finta Kelly si portava dietro giocattoli erotici e creme lubrificanti ovunque andasse. La Vera Kelly si portava dietro snack al cioccolato e caramelle. Seduto di fronte a lei da Arby’s, schiumavo letteralmente. La stramaledetta Trans Am non era nemmeno sua, era del fidanzato della madre. E siccome Mamma Kelly preferiva non muoversi di casa se non era necessario, la lasciava guidare a Kelly in cambio di varie commissioni, commissioni in cui io ero invischiato sempre di più. «Ti dispiace se ci fermiamo dal droghiere?» «Devo passare ai grandi magazzini Grand Union.» «Devo fare un salto in lavanderia.» E sempre, inevitabilmente, a prescindere da quanto fossimo in ritardo, ci fermavamo da McDonald’s o da Burger King o da White Castle. «Veramente dovremmo tornare in ospedale» dicevo io. «Hai ragione» rispondeva lei, entrando nel parcheggio di Wendy’s. «Magari passiamo dal drive-trough.» Per via dello Shabbat, potevo fare il servizio socialmente utile soltanto di domenica, e per via del regolamento dell’ospedale mi era permesso di lavorare soltanto sei ore al giorno. Già così, mi ci sarebbero voluti quattro mesi per finire tutte le duecento ore. Con Kelly che divorava letteralmente metà delle ore della mia giornata, mi sarebbe toccato aspettare quasi un anno prima di avere un weekend libero. «Quelle cartelle non si mettono in ordine da sole» dissi a Kelly. «Doppio cheeseburger» disse Kelly alla bambina con le treccine dell’insegna, «E due apple pie. Tu ne vuoi una?»
«Certo» dissi io. «Allora tre» urlò all’inserviente. Abbassai il finestrino, mi accesi una sigaretta, e mi domandai che cosa stesse facendo in quel momento la Finta Kelly. Passò una macchina strombazzando e Kelly salutò. «Che fai di bello, Kelly?» chiese la ragazza che guidava l’altra macchina. «Niente, mangio qualcosa» disse Kelly. «Questo è Steven, il mio ragazzo.» Io guardai Kelly e lei sorrise. «Spiritoso» dissi a Dio. «Sei proprio un tipo spiritoso.»
«Lei che cosa?» chiese David. Più mi imbestialivo con la Vera Kelly, più progredivo sessualmente con la Finta Kelly. La sera prima, per esempio, mi aveva fatto un pompino. «Non ci posso credere» disse Yoni. «Credici» dissi io. Era un bel salto in avanti, ma comunque erano già passate un paio di settimane dalla prima puntata della storia, e il mio pubblico cominciava a essere impaziente. Dovevo far marciare le cose. Questo è ciò che gli scrittori chiamano «il temuto secondo atto». Per alcuni secondi, nessuno parlò. «Come?» chiese Yossi. Era un «come» di incredulità, un «come» esistenziale, un «come» urlato, un «come può Dio permettere che una cosa del genere non capiti a me?» Dopotutto era stata una serata turbolenta. Avevo fatto bisboccia con Kelly e la sua amica Jill. Era tutto tranquillo, diciamo, finché non era arrivata la loro amica Sabrina. Solo più tardi mi venne in mente che avevo dato a tutti i miei personaggi i nomi delle Charlie’s Angels. Sviluppai le mie storie con Kelly in base alle scene dei film porno che avevo guardato la notte prima – questo è ciò che gli scrittori chiamano un «tributo» – dando particolare enfasi a oggetti, tipo la Trans Am, che nelle puntate precedenti avevano avuto una buona accoglienza da parte del pubblico. Sabrina arrivò e salimmo sulla Trans Am, con la Trans Am andammo a un drive-in, dove parcheggiammo la Trans Am; e Jill e Sabrina erano sul sedile posteriore della Trans Am, e Kelly indossava una minigonna veramente mini, e una cosa tira l’altra... «Un drive-in?» chiese Yoni. «Sì» dissi io. «Esistono ancora i drive-in?» «Certo.» «Uau!» disse David. «Lì davanti a Jill e Sabrina?!» Annuii con aria saggia. «Dov’è che ci sono ancora i drive-in?» chiese Yoni. «Proprio in fondo alla mia via» dissi. «Non vedo un drive-in da anni» disse Yoni. «Volete parlare di drive-in o di pompini?» scattai io. «Di pompini» disse David. «Certo» disse Yoni. «Di pompini.» «Perché possiamo parlare di drive-in, se volete parlare di drive-in.» «No, no» disse Yoni. «Parliamo di pompini.» Il rabbino Osborn entrò nella pizzeria e indicò il suo orologio da polso. Tra cinque minuti, i Profeti. Io mi alzai per uscire, e David diede un pugno sul braccio a Yoni. «Sei contento?» disse.
Le schede che cominciavano con la lettera C venivano messe in una cartella contrassegnata con la lettera C. «Come si chiama?» dissi. «Si chiama Sabrina.» Era una storia che Kelly aveva già sentito. «Da quanto ci esci?» chiese. «Siamo amici già da un po’» dissi. Kelly alzò le spalle. «È sempre il modo migliore» disse lei. «Già» dissi io. «Mi dispiace.» Lei scosse la testa. «Ma va’.» «Per noi ci sarà sempre McDonald’s» dissi io. Lei sorrise e giocherellò con le chiavi della macchina. «Che scema» disse frugando nella sua borsa. «Ti dispiace se ci fermiamo a casa mia a prendere un po’ di contanti?» «No, per niente.» Salimmo sulla Trans Am e arrivammo in una zona che, malgrado abitassi a venti minuti di distanza da oltre diciotto anni, non avevo mai visto. Spariti i giardini ben curati del mio quartiere, i box doppi, le piscine. Qui non c’erano prati, solo larghe chiazze di terra ed erbacce, piene zeppe di biciclette arrugginite, frigoriferi arrugginiti e automobili arrugginite, come se tutta la forza trainante del capitalismo fosse impegnata in una lotta contro la ruggine. Qui vinceva la ruggine. Kelly parcheggiò davanti a una piccola roulotte, con la veranda piena di sacchi di immondizia accatastati e mobili da giardino sbilenchi. «Torno subito» disse. Appoggiata su un lato della roulotte c’era la rete di un letto, il materasso lì accanto per terra, a inzupparsi d’acqua. Una stufa vuota era stata messa vicino a un vecchio furgone, e io pensai a mia madre, a quaranta chilometri di distanza, nella nostra casa a due piani con quattro camere da letto e mezzo ettaro di giardino, a lamentarsi per i soldi. Andammo da McDonald’s. Pagai io. Ridemmo un sacco e io le misi un braccio intorno alle spalle e mi sentii un eroe. Mia madre mi aspettava sulla porta di casa. Mi vide, e lentamente mi mostrò un mozzicone di sigaretta che aveva trovato in camera mia. «Che cosa c’è?» chiesi io. «Fumi canapa indiana?» «Canapa indiana?» «Lo sai cosa voglio dire.» «Vuoi dire uno spinello?» «È quello?» «No.» «Cos’è, allora?» «È un mozzicone di sigaretta.» «Ah! E perché mai, scusa, ti dovrei credere?» «Perché su un lato c’è scritto Marlboro. E poi c’è il filtro.» Furiosa, gettò il mozzicone per terra. «Ti mandiamo in Israele» disse.
«Io non ci vado in Israele.» «Altroché se ci vai.» La spinsi da parte ed entrai in casa. «Col cavolo che ci vado.» È una specie di abitudine, per gli adolescenti ebrei ortodossi, passare l’anno dopo il liceo a studiare la Torah in Israele, cosa per cui riceveranno eterna ricompensa nel Mondo a venire nonché, se vengono compilati tutti i documenti giusti, un certo numero di crediti utilizzabili in un selezionato numero di università. «Io non so più nemmeno chi sei, ormai» sputò fuori lei. Andai in camera mia, chiusi la porta a chiave, mi feci una canna e tirai fuori la mia compilation di quattro ore di sesso orale. Le foto non rappresentano il reale contenuto, c’era scritto sulla copertina. La stessa cosa si poteva dire di tutta la mia stupida vita.
Così persi la mia verginità. «Non ci posso credere!» disse David. «Credici.» Eravamo tutti sul marciapiedi, ad aspettare l’inizio della prossima lezione. David mi abbracciò. Qualcuno mi diede una pacca sulla schiena. «Peccato» disse Yoni. «Avevo la ragazza perfetta per te.» Yoni si occupava di fissare appuntamenti tra senior e junior. Il suo lavoro consisteva nel mettere insieme i senior della scuola maschile con le junior della scuola femminile. «Sul serio?» chiesi. «Chi?» «Becky Jacobowitz» disse Yoni. Becky Jacobowitz era la ragazza più troia di tutta la yeshiva. Era l’unica troia della yeshiva. Una volta aveva un fidanzato che andava all’università. Era considerata una specialista in pompini. Dio cominciò a sghignazzare. «Si può sempre fare» dissi. «Non è che io e Kelly siamo sposati!» Yoni scosse la testa. «Becky lo sa che tu esci con Kelly.» Dio adesso stava ridendo con le lacrime agli occhi, dandosi grandi botte sul ginocchio. «Per Kelly non c’è problema» dissi. David batté le mani. «La devo conoscere, questa pollastra» disse. Yoni scosse la testa. «Non credo.» Suonò la prima campana, Storia Ebraica, e Yoni e Yossi entrarono in classe. David restò indietro e si girò verso di me. «Dicevo sul serio» disse David. «Sul serio a che proposito?» «Presentamela.» «Ma chi?» «Kelly.» «Kelly?» «Ho bisogno di fare sesso» disse David. «Con la mia ragazza?» «Tu hai detto che non c’era problema.» «Ma non che potevi fare sesso con lei.» «E allora con Jill?»
«David, Jill esce già con uno.» «E Sabrina?» Sospirai. «Sabrina è un disastro, David. Ecco, vedi, si fa un sacco di cocaina. E scopa in giro, credimi, ma di brutto. E non nel modo giusto. E il suo ex ragazzo è un pazzo. Charlie. Ti ucciderebbe. Dico sul serio.» Suonò la seconda campana. Il rabbino Osborn uscì, indicò il suo orologio da polso, e ci fece cenno di entrare. «Ti ho prestato un sacco di soldi» disse David. «Me lo devi.» Sospirai. E dopo qualche momento, annuii. David mi assestò una pacca sulla spalla, mi diede il cinque, e si diresse dentro. Negli ultimi due giorni mi ero lasciato con una ragazza vera, avevo fatto sesso con una ragazza finta, rovinato l’occasione di uscire con un’altra ragazza vera, e accettato di presentare il mio amico a una ragazza che nemmeno esisteva. Questo è ciò che gli scrittori chiamano «la complicazione». Dio si rotolava sul pavimento tenendosi la pancia.
Le schede che cominciavano con la lettera D venivano messe in una cartella contrassegnata con la lettera D. «Dov’è Kelly?» chiesi all’amministratore. Ecco qual era il mio piano: rimettevo a posto le cose con Kelly, le facevo perdere qualche chilo, le chiedevo di tingersi i capelli di biondo, la portavo un po’ di volte da McDonald’s, conoscevo le sue amiche e cercavo di capire se qualcuna fosse interessata a fare sesso occasionale con un mio amico ortodosso che studiava alla yeshiva. Un tentativo un po’ azzardato. Erano due settimane che Kelly non si faceva vedere all’ospedale e non potevo continuare a tenere David sulle spine. «Kelly non verrà più qui da noi» disse l’amministratore. Per alcune condanne, mi spiegò, si possono barattare i servizi socialmente utili con l’ingresso in un istituto religioso. La condanna di Kelly era fra queste. Due settimane prima, lei era entrata in un seminario cristiano della zona. «Non ti preoccupare» disse l’amministratore. «Non sarai troppo solo. Ci manderanno un’altra piccola criminale, il prossimo weekend.» «Fa’ che sia sexy» pregai Iddio. «Farò tutto quello che vuoi.»
«Adesso no» dissi bruscamente a David. Eravamo all’angolo con la Centottantunesima Strada, e lui mi stava dando il tormento per conoscere Sabrina. «Ho bisogno di sesso» mi disse. «Io pure.» «Tu? Ma tu fai tutto il sesso del mondo!» Le foto non rappresentano il reale contenuto. «Non più» dissi. Non volevo far sparire la Finta Kelly, mi ci ero affezionato. Era carino averla intorno. Carino crederci. Una Terra Promessa di cui tutti potevamo parlare e sognare, qualcosa che ci facesse superare la tirannia della quotidianità. Non era soltanto sesso. Era speranza.
«Ci siamo lasciati.» «Non ci posso credere.» «Credici.» Sospirai. Le cose avevano smesso di funzionare. Da qualche tempo ci annoiavamo. Sabrina ci aveva provato con me. Jill voleva fare una cosa a tre. Kelly non voleva più vedermi. «L’amore muore» dissi. «Incredibile.» «Sto bene.» «Una cosa a tre!» Me ne stetti per conto mio tutto il giorno, e lasciai che la storia girasse. Incontrai Yoni dopo la campanella finale. «Mi dispiace» disse. «Becky Jacobowitz?» chiesi io. Mi mise un braccio intorno alle spalle e annuì.
Due settimane dopo, mi ritrovai parcheggiato con Becky Jacobowitz nel vialetto di casa dei suoi genitori all’una di notte. Fissai la Stella di David tra le sue tette, l’abbracciai e l’attirai a me. Ci abbracciammo. Sentivo i suoi capelli sulla faccia. Respiravo il profumo del suo collo. La sentii piangere. «Cosa c’è?» chiesi. Si scostò da me e si coprì la faccia con le mani. «Ho paura.» «Cosa?» «Di te» disse lei. «Tu sei così... esperto.» «Cosa?» «L’ho sentito dire.» Dio cominciò a sghignazzare. «Farò piano.» «No» disse lei. «Non posso.» Guardai fuori dal finestrino e scossi la testa. «Ma... io ho sentito dire la stessa cosa di te» dissi. Becky scoppiò in lacrime. «Mi sono inventata tutto!» singhiozzò. C’era stato, sì, un fidanzato, ma non era mai successo niente. Il niente era stato la causa della rottura. Quando le ragazze a scuola si erano messe a raccontare che era arrivata fino in fondo, le aveva fatto un bell’effetto, le era piaciuto il modo in cui la guardavano tutti. E così aveva evitato di dire che lei e il suo ragazzo si erano lasciati, o che in realtà non avevano mai fatto niente. E tantomeno aveva detto che lui studiava in una yeshiva. «Non ci posso credere» dissi. «Credici» singhiozzò Becky. Io mi ero immaginato un quarterback della Duke University. Questo è ciò che gli scrittori chiamano «ironia». Per un momento ce ne restammo lì in silenzio. Gli unici rumori intorno a noi erano l’impaziente ronzio del motore e la risata isterica di Dio. «Non ci posso credere che tu mi stia dicendo la verità» dissi. «Lo so» piagnucolò lei. Il mio voleva essere un complimento.
Riprovai a convincere Becky che potevamo farlo pian piano, che l’esperienza in questo campo era una cosa positiva, non uno svantaggio. «Senti, se vuoi che mi metta a trafficare con il gancio del tuo reggiseno come un imbranato, io lo faccio. Dico solo che non è necessario.» Ma non servì a niente. «Non sono una di quelle» disse Becky. Neanche Kelly era una di quelle. Nessuna era una di quelle. Cominciai a sospettare che la pornografia mi stesse mentendo. Dissi a Becky che era tutto okay. Le dissi che anche io avevo mentito su alcune cose. Restammo insieme ancora un po’ a parlare dei compagni di scuola, poi l’accompagnai fino alla porta di casa e le diedi il bacio della buonanotte. Ci abbracciammo, due mentitori solitari sotto l’implacabile raggio accusatorio della luna.
Le schede che cominciavano con la lettera E venivano messe in una cartella contrassegnata con la lettera E. Le cartelle contrassegnate con la lettera E venivano poi messe in un raccoglitore contrassegnato con la lettera E. Il raccoglitore contrassegnato con la lettera E veniva poi messo in uno schedario. Lo schedario veniva contrassegnato con la lettera E. Quel pomeriggio telefonai al mio agente di controllo e gli chiesi se aveva mai sentito dire che entrare in un istituto religioso valeva quanto l’impegno nei servizi socialmente utili. Tornai a casa e trovai mia madre in cucina. «Mamma?» Non parlavamo molto, in quei giorni, e neanche ci guardavamo molto. «Mmmm» disse lei. «Credo che passare un po’ di tempo in Israele mi farebbe bene.» Mi guardò, sorrise e mi prese la faccia tra le mani. «Benedetto sia il Signore» disse.
13 Quando Orli era all’inizio del terzo trimestre, tornando a casa dall’ufficio trovai ad attendermi un messaggio sulla segreteria telefonica. Era di mia madre. «Ciao, ragazzi, volevo solo sapere come sta Orli. Se vi serve il nome di un mohel, fatemelo sapere. Qui da noi ce n’è uno, che forse però conosce una persona vicino a voi. Ci deve essere anche dalle vostre parti qualcuno che lo fa. Certi miei conoscenti avevano un amico a Tannersville, e lì avevano trovato qualcuno per il figlio. Posso recuperarvi il nome, se volete. A meno che non lo facciate qui, dalle parti della città, che sarebbe più facile. Io conosco almeno un migliaio di persone qui che possono occuparsene, basta che me lo facciate sapere.» Ecco quello che avevo temuto fin dall’inizio. La mia famiglia aveva fatto irruzione un’altra volta, c’erano stati degli spari e i proiettili rimbalzavano sulle pareti fino a quel momento sicure della mia esistenza. Finché, all’incirca una settimana dopo, uno di quei proiettili mi colpì alla nuca e io caddi sanguinante, mi trascinai carponi al cospetto del mio psichiatra e dissi: «Mi hanno preso». «Perché non scrivi tutto?» chiese lui. Trecentocinquanta dollari l’ora. «Sono preoccupato» dissi io. «In casa nostra non abbiamo fotografie. Abbiamo fotografie di noi due da adulti, ma non ce n’è nessuna dei nostri genitori, nessuna della nostra infanzia. È come la casa di Adamo ed Eva, siamo venuti dal nulla.» «Non ti seguo.» «Loro sono nati già adulti.» «Esatto.» «Adamo ed Eva alle Cascate del Niagara, Adamo ed Eva al Grand Canyon. Ma nessuna foto dell’asilo alle pareti, nessuna foto da neonati.» «Probabilmente all’epoca era difficile trovare delle cornici.» «E se lui chiede?» «Chi?» «Nostro figlio.» «Perché non scrivi tutto?» «’Caro figlio, ecco perché le pareti sono spoglie...’?» «Certo.» Trecentocinquanta dollari l’ora. Tornai in agenzia e cominciai a sfogliare i cataloghi di foto d’archivio.
Caro figlio, forse non dovrei fare quello che sto facendo. Forse così rischio di farti uccidere. Se Dio sente queste cose, siamo fregati tutti e due. Ecco com’è mia madre:
Non è una foto autentica. È una foto d’archivio. La gente fa fotografie e le vende alle agenzie che le usano nelle pubblicità. Io lavoro in un’agenzia di pubblicità. Sì, lo so. Ma vedi quella piscina nel nostro giardino? Comunque, eccone un’altra che potrebbe essere lei:
Non so per quale motivo stia piangendo, ma sono abbastanza sicuro che c’entra qualcosa con me. Forse mi sono fatto un cheeseburger. È una battuta complicata da capire adesso, diciamo solo che mia madre aveva un odio viscerale per i cheeseburger. Li odiava al punto che non voleva che io li mangiassi. Ma invece io li mangiavo. E adesso non ci parliamo. Ed ecco una foto che potrebbe essere di mio padre:
Eccone un’altra:
Qualcuno deve avergli appena raccontato una barzelletta... Sono molto combattuto su queste
cose, figliolo. Temo che Dio in qualche modo mi punirà. Perché parlo, perché vuoto il sacco, perché manco di rispetto ai miei genitori, perché dimostro superbia, arroganza. La cosa più ovvia da fare per Lui sarebbe uccidere te. Oppure la tua mamma. Ecco il tipo di scuola che ho frequentato da ragazzo:
Questa era la ricreazione. Io e questo Dio ci conosciamo da un pezzo, e io mi aspetto di scoprire che Lui ha escogitato un piano tanto tremendo da far tremare la terra, e che ogni giorno che passa senza una morte fa parte della preparazione lunga e accurata di chissà quale scherzo di una malvagità colossale, uno scherzo che non metterà in atto finché io non sarò vecchio. E allora sarà troppo tardi per cambiare le cose, e dovrò vivere col mio dolore e la mia vergogna fino alla morte. Ecco come mi hanno detto che è Dio:
Lo so che non c’è nessuna logica. Lo so che non dovrei crederci. Lo so, lo so, lo so, ma a quanto pare non riesco a togliermi questo Personaggio dalla mente. Ho tentato di dimenticare, ho tentato di rielaborarLo, di riscriverLo, per andare avanti. Ho letto Sam Harris. Ho letto Richard Dawkins. È tutto molto logico, ma non serve a nulla. Forse sono senza speranza. Mi preoccupo ancora: mi preoccupo che contro ogni logica ci sia un Dio, che quando morirò gli angeli mi prenderanno per le braccia e salirò al Cielo e si apriranno le porte del Cielo, gli angeli canteranno, e i corni d’ariete suoneranno, ed ecco apparire Lui:
Non sono andato oltre. «Adesso mi fermo, okay, Grandissimo Rompicoglioni.» dissi a Dio. «Mi fermo. Rilassati.» Poi cancellai il file. «Sei sicuro» mi chiese il computer, «di voler spostare gli elementi nel cestino definitivamente? Non sarà possibile recuperarli.» Ero sicuro. Quel giorno arrivai a casa guidando nella nebbia. Avevo passato dodici anni a cercare di conquistarmi un piccolo spazio tutto per me, a cercare di costruire una famiglia in cui fossi amato per quello che ero anziché odiato per quello che non ero, e avevo appena cominciato a percorrere questa strada, una strada che conduceva alla gioia, una gioia che conduceva a un bambino, un bambino che adesso minacciava di far sbattere di nuovo quella famiglia contro la mia vita. E con me c’era sempre, come una malattia venerea, il Signore. A un semaforo, mi ritrovai accanto a un autotreno di una società di trasporti. La società si chiamava «Distribuzione Internazionale Ortofrutta». E sulla fiancata dell’autotreno, a lettere rosse alte due metri, c’era il loro acronimo: D.I.O. «Bel colpo, Dio.» Che stronzo.
14 Fu così che quell’anno, diciottenni e soli, da New York, da Los Angeles, da Chicago e dalla Florida, dalle città e dai sobborghi, arrivammo in Medio Oriente, in Israele, nella Terra Promessa, la terra dei nostri padri, la «terra che io ti mostrerò» in cerca di quello che pensavamo fosse Dio. Arrivammo con i bastoni da hockey. Con le Nike Air Jordan, i giubbotti di pelle Avirex e i rollerblade. Con riviste come «Hustler» e «Penthouse» e «Playboy». Arrivammo con occhiali da sole Oakley, con i walkman della Sony e con stecche di sigarette americane. Prima che partissi, mia madre mi raccontò che ancora si ricordava la sua famiglia riunita intorno alla radio – lei all’epoca non aveva più di dieci anni – ad ascoltare col fiato sospeso lo spoglio dei voti all’assemblea delle Nazioni Unite, chiamate a pronunciarsi in merito alla creazione dello stato di Israele. Mi disse che suo padre aveva pianto, e che anni dopo suo fratello, che era già diventato un rabbino di successo, aveva accompagnato il padre in Israele per la prima volta. Ormai piuttosto anziano, mio nonno era sceso con cautela dall’aereo, era scoppiato a piangere ed era caduto in ginocchio, aveva baciato la terra e recitato lo Shemà: Ascolta o Israele, il Signor nostro Dio, il Signore è Uno. Il portello del mio jet El Al si aprì. L’aria era troppo calda per riuscire a respirare. «Porca puttana» dissi. Feci dei respiri leggeri, lasciandoli freddare in bocca un momento, prima di farli penetrare nei polmoni. Il sole bruciava la terra, sembrava la vendetta di un Dio furibondo. Anzi, non «sembrava». Era. Sol mi diede di gomito e indicò una chayelet, una soldatessa israeliana ferma ai piedi della scaletta dell’aereo. La sua pelle color bronzo brillava al sole e i bicipiti si gonfiarono mentre spostava l’Uzi sull’altra adorabile spalla. E Dio mise Abramo alla prova. «Porca puttana» dissi. «Lo so» disse Sol. «Niente male.» Quattro parole, due imprecazioni. E ancora non ero sceso dall’aereo.
Gerusalemme è la città più santa di tutta Israele, con la tomba di Re David, il Monte del Tempio, il Muro del Pianto e la Mir Yeshiva, piena di migliaia di studenti che studiano la Torah, il Talmud e la letteratura rabbinica. Tel Aviv è la città meno santa di tutta Israele, con nightclub, spogliarelliste, prostitute e l’Università Bar-Ilan, dove migliaia di studenti studiano materie umanistiche, scienze naturali, scienze sociali e letteratura non rabbinica. La nostra yeshiva, Neveh Zion (Villaggio di Zion), si trovava in una piccola città chiamata Telz Stone, che era a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme. A sinistra il paradiso, a destra l’inferno. Telz Stone non era altro che una collina, con un unico supermercato, un bagno rituale, e in cima una yeshiva per adolescenti ebrei riottosi. La pianta della città sembrava basata grosso modo sull’episodio di Mosè che riceve le Tavole della Legge sul Monte Sinai: la yeshiva in alto, e la città, o quello che passava per tale, rannicchiata in basso. Ogni mattina, i rabbini caracollavano su per via Baal Shem Tov (dal nome di un famoso rabbino) per studiare la parola di Dio. Ai piedi della collina, via Baal Shem Tov incrociava via Marcus (dal nome di un famoso soldato) e lì, all’incrocio tra Rabbino e Soldato, è dove i taxi e i rari autobus per Gerusalemme caricavano e scaricavano i passeggeri. «Qui» disse il nostro tassista il primo giorno, fermandosi di fronte ai cancelli della sicurezza. «Qui?» chiesi io. «Qui.»
«Qui dove?» chiese Sol. «La yeshiva è qui?» «Su» disse il tassista. «È su.» «Non ci può portare su?» gli chiesi io. Catturò il mio occhio nello specchietto retrovisore e sorrise imbarazzato scuotendo la testa. «Aravì» disse in ebraico. Arabo. Sol mi diede una gomitata e tese la mano aperta. «Paga» disse. Avevamo avuto una discussione fuori dell’aeroporto. Per mesi ci avevano avvertito di non salire mai su un taxi arabo, ma non riuscivamo a ricordarci quali fossero i taxi israeliani e quali quelli arabi. Sol diceva che i taxi israeliani hanno le targhe gialle e i taxi arabi hanno le targhe blu. Io ero convinto che fosse il contrario. «Il blu è il colore nazionale, idiota» sostenevo. «Perché mai dovrebbero dare le targhe blu agli arabi?» «Il blu è deprimente» diceva Sol. «Il giallo è allegro. I taxi arabi sono deprimenti, i taxi ebrei sono allegri.» Pagai il tassista, diedi venti shekel a Sol, e ci avviammo su per la collina. Io ero depresso, Sol era allegro.
In Israele ci sono decine di scuole religiose americane, e ognuna occupa una posizione leggermente differente sulla scala della devozione. La Casa dello Studio della Torah si trovava a metà della scala. La yeshiva del «Muro del Pianto» e quella dei «Cancelli di Gerusalemme» erano più pie, e quella della «Candela di Israele» era la più santa. Tutte queste scuole avevano regole rigide, programmi dettagliati, e grandi prospettive. Neveh Zion era in fondo alla scala, con zero regole, zero programmi definiti, e zero prospettive. La yeshiva si vantava di riportare all’ovile adolescenti ebrei irrequieti. Metà degli studenti non era affatto religiosa, e veniva da famiglie smembrate o problematiche. L’altra metà era già religiosa ed era attirata dalle regole rilassate e dalla filosofia «ognuno al proprio passo». La yeshiva era un edificio non finito, costruito in origine per altri proprietari che lo avevano abbandonato a metà costruzione, perché rimasti senza soldi. L’aula magna non era terminata, alle pareti aveva finestre senza vetri e buchi giganteschi nel soffitto. D’estate gli uccelli entravano e uscivano, e d’inverno facevano il nido sul cornicione. Quando arrivammo in cima alla collina, ci dirigemmo verso il dormitorio, dove uno studente di nome Winreb era in piedi sul cornicione e minacciava di uccidersi. Questo non sarebbe mai successo alla «Candela di Israele». Sul marciapiedi sotto Winreb, un giulivo rabbino inglese tutto pelle e ossa – più tardi avrei scoperto che si chiamava rabbino Wint – stava tentando di convincere Winreb a scendere. «Piantala di fare casino» urlò il rabbino Wint. «Adesso mi butto!» strillò Winreb. «Guarda che ti perdi il pranzo!» Winreb sbirciò oltre il cornicione. «Che cosa si mangia?» chiese. «Cotolette» urlò il rabbino Wint. Io e Sol avevamo trascinato i nostri bagagli fino ai gradini d’ingresso e ci fermammo esausti a osservare. «Buttati» urlò Sol. Il rabbino Wint si girò, ci vide, e cominciò a battere le mani e a saltellare. «Altri studenti!» cantilenò. «Altri studenti per studiare la parola di Hashem! Benedetto sia il Signore!» Winreb si sporse oltre il cornicione e ci guardò accigliato.
«Ma chi sono?» urlò Winreb al rabbino Wint. «Non ti sporgere!» urlò il rabbino Wint. «Sol» urlò Sol. Il rabbino Wint ricominciò a battere le mani e si mise a cantare: «Benedetti coloro che vengono nel nome del Signore». «Tu chi sei?» mi urlò Winreb. «Shalom» strillai, caricandomi una borsa in spalla e facendo per entrare. «Il prossimo su quel tetto sono io.» Il rabbino Wint smise di cantare e mi afferrò per un braccio. «Auslander?» domandò. Annuii. «Devi andare nell’ufficio del rabbino Grunther» disse. Il rabbino Grunther era il preside. «Perché?» «Vieni, vieni» disse lui tirandomi per un braccio. «Ma prima devo...» Quattro F-16 dell’aviazione israeliana passarono in formazione compatta. Gli studenti americani applaudirono. Nell’ufficio del rabbino Grunther, un uomo dell’Interpol era in attesa di parlare con me. Mi chiese se avessi informato il mio agente di controllo che avrei lasciato il Paese. «Naturalmente» dissi. «Agente di controllo?» chiese il rabbino Grunther. «Dal tuo passaporto risulta che sei in libertà sulla parola» disse l’agente dell’Interpol. «Gliel’ho detto mesi fa» dissi io. «Lo chiami.» «Libertà sulla parola?» chiese il rabbino Grunther. «Lo dobbiamo chiamare dal mio ufficio» disse l’agente dell’Interpol. Si rivolse al rabbino Grunther. «Lo riportiamo qui quando avremo chiarito questa faccenda.» «Libertà sulla parola?» chiese il rabbino Grunther. Dopo qualche ora tornai alla yeshiva, e Winreb era ancora sul tetto. «Non l’hanno ancora fatto scendere?» chiesi a uno studente canadese di nome Moshe. «Sì, altroché» disse Moshe. «Ci è risalito. Ti sta cercando Grunther.» Trovai il rabbino Grunther nel suo ufficio. Chiuse la porta e si accese una sigaretta. Dopo avermene offerta una, si sedette pesantemente sulla sua poltrona e si protese in avanti sulla scrivania. «Non c’è bisogno che tu vada alle lezioni» disse. «Lo so.» «Non c’è bisogno che tu vada alle funzioni religiose.» «Lo so.» «Ma se ti becco con la droga – se sento anche solo parlare di droga – sei fuori.» «Lo so.» Fece una lunga boccata dalla sua sigaretta e mi squadrò attraverso il fumo. «Per che cosa sei stato arrestato?» chiese. «Furto in un negozio.» «Che cosa avevi rubato?» «Vestiti.» Annuì. «Perché?» chiese. Alzai le spalle. Mi aveva già fatto più domande sull’argomento di quante me ne avesse mai fatte mia madre.
Mi invitò a casa sua per la cena del venerdì sera, e io accettai. Tutti i rabbini vivevano in città, e ogni venerdì sera e sabato pomeriggio invitavano generosamente gli studenti a casa loro – cinque o sei alla volta – per condividere i pasti cucinati dalle loro mogli. Spesso si trattava di famiglie di sette o otto persone, con denaro appena sufficiente a sfamarsi, che offrivano il loro cibo a studenti americani i cui genitori guadagnavano in un giorno più di quanto loro guadagnassero in un anno. Non lo facevano per gentilezza di cuore; lo facevano per farci diventare più religiosi. Regole e regolamenti severi non erano riusciti a renderci osservanti, ecco perché ci trovavamo qui. Così i rabbini di Neveh tentavano la strada delle emozioni, riempiendo il vuoto lasciato dalle nostre famiglie disastrate per tentare di «riportarci all’ovile». In tutto ciò, naturalmente, trascuravano le loro, di famiglie, ma tutta questa sofferenza sarebbe stata ripagata con fantomatici premi nel Mondo a venire. Io sapevo che era una manipolazione e sapevo che era da egoisti, ma venendo da New York, mi affascinava scoprire gente interessata a qualcosa che non fosse il denaro. Tornai nel dormitorio. Winreb era sceso dal tetto. Dentro, gli studenti appena arrivati erano occupati a disfare i loro bagagli e ad appendere fotografie alle pareti. Gli studenti del primo anno attaccavano poster di macchine sportive, di body builder e di modelle. Gli studenti del secondo anno – i salvati, e quindi futuri salvatori – attaccavano fotografie del Monte del Tempio e fotografie di rabbini famosi: Rav Shach, il rabbino Feinstein, l’altro rabbino Feinstein. Il rabbino Wint si trascinava da una camera all’altra, dando il benvenuto agli studenti e spedendoli subito a pregare. «Ach!» gridò appena entrato nella mia stanza, coprendosi gli occhi e voltando la testa. «Che c’è?» chiesi io. «Lo devi togliere» disse indicando un poster di Cindy Crawford che avevo appeso sopra al mio letto. «Perché?» «Perché? Perché è nuda.» «Ha il bikini.» «Le piace, vero?» gli chiese il mio compagno di stanza. «Non la conosco nemmeno» disse il rabbino Wint. Ridemmo tutti. Il rabbino Wint non si era ancora scoperto gli occhi. «Se non lo togli» disse, «io non posso più entrare qui.» «E perché dovrebbe essere un problema per me?» chiesi io. Wint rise. «Un talmid chuchum!» disse. Uno studente saggio. Tornò nel corridoio, correndo dietro ad altri studenti. «Dovid! È ora di Minchà! Andiamo! Dio ci sta aspettando!» Andai sulla porta e mi appoggiai allo stipite guardando il rabbino Wint che acchiappava più studenti che poteva e li faceva marciare per tutto il cortile fino alla sala della preghiera. Eccoli in marcia verso il paradiso, con le felpe blu dei New York Rangers, le felpe gialle dei Pittsburgh Penguins, i berretti da baseball a righe degli Yankees e le Nike rosse. Winreb sbirciò da dietro un cespuglio e mi sfrecciò davanti correndo, corse su per le scale e ritornò sul tetto. Uno studente del primo anno di nome Doni era fuori sotto il sole, con l’elmetto e i guanti di pelle da hockey, che si esercitava a tirare di polso contro la parete del dormitorio. Sui gradini, uno studente di nome Dovid stava fabbricando un narghilè usando una lattina di birra Maccabi. «Ti fai?» gli chiesi. Scosse la testa e alzò le spalle. «Non si sa mai» disse. Io annuii. «Secondo anno?» gli chiesi. «Già.» «Perché sei tornato?»
Sorrise e allargò le braccia, indicando tutto quello che lo circondava. «Dovevo stare a casa? Coi miei genitori?» Annuii di nuovo. Il rabbino Wint gesticolò verso di noi dal marciapiedi opposto. «Hashem sta aspettando!» urlò. Tornai nella mia stanza, chiusi a chiave la porta, chiusi gli occhi, pensai alla chayelet dell’aeroporto e profanai sia lei che me. Primo Giorno.
Il rabbino Freidman si era fatto a lungo di acido. «Ero capace di arrotolarmi uno spinello con una mano sola mentre andavo in bicicletta» ci disse. Era stato durante un trip di acido che aveva trovato Dio. Ebbe una visione dell’Eterno e vide che era sulla cattiva strada. Chissà come riuscì ad arrivare a una yeshiva, e non se ne andò più. Questo era successo quindici anni prima. Il rabbino Marcus era stato in una gang di strada, poi ufficiale dell’Esercito israeliano. Quasi tutti i rabbini di Neveh avevano storie del genere, e le raccontavano con fierezza alle riunioni di studenti. Queste storie avrebbero dovuto essere d’esempio; per me funzionavano come un ammonimento. Passai i primi mesi nella Terra Promessa dei miei padri ubriacandomi e cercando un contatto per le canne. Mi fu detto che gli israeliani vendevano erba e gli arabi hashish. Io non vedevo quali speranze potessero mai esserci per il Medio Oriente, se questi non riuscivano nemmeno a mettersi d’accordo su come sballarsi. Gli studenti dell’Università Ebraica erano quelli a cui rivolgersi per i funghi e, se uno si sentiva portato, c’era sempre Haifa, un crocevia fondamentale per il traffico internazionale di eroina. E io che avevo sempre sentito parlare di «terra di latte e miele». Passarono due mesi prima che mettessi piede nella sala della preghiera, e tre prima che prendessi parte a un servizio religioso. E anche allora feci in modo di essere strafatto, e restai in fondo, vicino alla porta, e me ne andai appena il rabbino cominciò il suo sermone. Avevo ragione a essere preoccupato: i miei amici mi avevano indicato come quello che avrebbe «sbroccato». Tutti conoscevamo persone che avevano cominciato il loro anno in Israele con magliette FRANKIE SAYS RELAX e il gel nei capelli, e dieci mesi dopo erano tornate a casa con in valigia tutti i volumi del Talmud, e in testa ampi cappelli di feltro nero. Alcuni ritornavano per il secondo anno, alcuni per il terzo, altri non se ne andavano più, una spirale terrificante che sembrava non aver mai fine, e io non volevo correre rischi. In parte per proteggermi, in parte per la birra gratis, accettai un lavoro serale come barista in un piccolo pub di Gerusalemme. Mescevo birra Maccabi per soldati israeliani e studenti americani. Fu lì che incontrai Naomi. Naomi era una ragazza religiosa di una famiglia religiosa di Long Island, amica di un’amica di un mio amico che si chiamava Tzvi. Io ero in Israele per finire di scontare una condanna per furto, lei era lì per sperimentare un rapporto più ravvicinato col suo popolo e il suo Dio. Furono scintille. Naomi ordinò una Diet Coke, la sua amica Rachel prese un bicchiere d’acqua, e timidamente mi invitarono a unirmi a loro il giorno dopo per una visita al Muro del Pianto. Il Muro del Pianto è il posto più sacro di tutto il giudaismo, se si esclude il Monte del Tempio. Si tratta delle ultime vestigia del Secondo Tempio, distrutto dai romani nell’anno 70 dell’era volgare. Da allora, gli ebrei si recano al Muro per pregare, per piangere e per infilare biglietti scritti a mano e indirizzati a Dio negli interstizi tra gli enormi massi dell’epoca di Erode con cui il Muro è costruito. Si dice che le preghiere lasciate qui siano le prime a essere esaudite da Dio, e così le fessure della parete sono piene zeppe di richieste riguardanti salute, felicità, perdono, una guarigione, un colpo di fortuna, una risposta, un segno. Una raccapricciante malta grigia di impotenza e disperazione. Da quando ero arrivato avevo evitato quel posto maledetto. Avevo saputo di persone che
collassavano, singhiozzavano, piangevano; di non credenti che credevano, di un tizio che aveva deciso di essere il profeta Geremia e quindi riusciva a parlare con Dio, di un altro che pretendeva di essere Ezechiele, di un terzo che aveva scoperto di essere Re David e da allora stava seduto presso il Muro con uno scintillante mantello bianco a strimpellare un’arpa di plastica color oro. Rifiutai il loro invito. I profeti buoni ormai erano tutti presi.
Gennaio. Ari era in contatto degli arabi che volevano le Air Jordan. Lui chiedeva 300 shekel al paio, circa 150 dollari, il doppio di quello che le aveva pagate a New York, ma qui non si trovavano, nemmeno a Tel Aviv. Ari ne aveva una valigia piena. Un’altra valigia era piena di rollerblade, e un armadio era pieno di riviste pornografiche che prestava agli altri studenti per uno shekel a notte. Se la rivista veniva sporcata, manipolata o in qualunque altro modo resa inutilizzabile da futuri clienti, il beneficiario del prestito era responsabile e doveva rimborsare l’intero prezzo di copertina della rivista, più una somma aggiuntiva per coprire il disturbo che si era preso Ari per importare la pornografia dall’America. Gli arabi erano venuti alla yeshiva, ma per uno scambio di merce. «Io non voglio niente di quello che avete» disse Ari ridendo. Io invece sì. Gli diedi quaranta shekel e un’ora dopo li incontrai ai piedi della collina. Non avevo mai fumato hashish prima. Tornai fuori con Moshe, Dovid e il narghilè fatto con la lattina di birra Maccabi di Dovid, e ci sedemmo sul bordo della piscina mai finita. Preghiere islamiche fluttuavano attraverso la vallata dall’altoparlante di una vicina moschea. Dovid fece un tiro, accennò una smorfia e scosse la testa. «Merda di cammello» disse Dovid. «Sei sicuro?» chiesi io. Ecco in che cosa la guida degli studenti del secondo anno serviva davvero. Dovid annuì. «Ugh» disse Moshe. «Merda di cammello» disse Dovid, pulendosi la bocca con il dorso della mano. Non so perché, pensai a Naomi. La immaginai in una camerata bianca immacolata, a fare una challah o a lucidarsi le scarpe dello Shabbat. Qualcosa di puro, qualcosa di semplice. Presi la mia merda di cammello e rientrai.
Geograficamente parlando, Israele ha soltanto due stagioni: Porca Puttana che Caldo e Porca Puttana che Freddo. Porca Puttana che Freddo va da dicembre a marzo, e non smette mai di piovere. «Shalom!» urlò qualcuno una sera di febbraio, sul tardi. Ero in camera mia nel dormitorio, e cercavo un modo per stare rannicchiato sotto le coperte continuando a fumare la mia sigaretta. «Telefono!» La madre di Doni mandava caramelle, interi scatoloni. Una settimana dopo le caramelle arrivavano torte, biscotti, brownie, Rice Krispies. La madre di David mandava assegni. La madre di Seth mandava vestiti: una camicia Izod, calzini, indumenti termici. Mia madre mi telefonava ogni due settimane, bombardandomi di domande malamente camuffate sullo stato presente della mia attesissima conversione religiosa. Ogni domanda era spedita a riva come una colomba dall’Arca di Noè, carica della speranza che tornasse portando qualche notizia gioiosa: come erano i rabbini, che cosa stavo studiando, ero stato al Muro del Pianto o al Memoriale dell’Olocausto o alle antiche tombe di Abramo e Sara.
«Oggi no» volevo rispondere. «Ci stavo andando, ma ho speso gli ultimi soldi della mia paghetta settimanale per una busta di merda di cammello. Un tizio arabo mi ha venduto merda di cammello, mamma, ma ti rendi conto? Non riusciamo nemmeno a scambiarci droga. Ma Camp David non è servito proprio a niente?» «Si tratta di Baba» disse mia madre. Mia nonna. Quando ero più piccolo, Baba mi dava gomme da masticare non kosher. «Mamma!» protestava mia madre. «Sono solo bambini» diceva Baba. Prima di partire per Israele, ero andato a trovare Baba per l’ultima volta, sapendo che probabilmente si sarebbe arresa all’Alzheimer prima del mio ritorno. Ero rimasto seduto accanto al suo letto, tenendole la mano e cercando di consolarmi col pensiero che la sua mente era già morta da tempo. Non aveva funzionato, e allora avevo raccontato a me stesso che in fondo era meglio così. Non aveva funzionato, allora piangendo avevo detto: «Addio, Baba», ed ero corso fuori dalla stanza. «Magari potresti andare al Muro del Pianto» disse mia madre. «A dire una piccola preghiera per lei.» Aveva aspettato parecchio a sganciarla. La bomba atomica della colpa: la mamma morta. «L’uomo fa progetti» sospirò in yiddish, «e Dio ride.» Io Lo sentivo ridere, adesso. Rimasi a letto per un po’, a fissare Cindy Crawford e a chidermi che cosa fare. L’uomo fa progetti e Dio ride. Che cazzo di stupido aforisma è? Vuol dire che Lui è uno stronzo? Che fine ha fatto L’uomo fa progetti e Dio fa del Suo meglio perché questi progetti si realizzino? In quale religione c’è un’espressione del genere? Dimmi una cosa, Cindy: «L’uomo fa progetti, Dio ride... e adesso va’ a un muro e rivolgi a Lui le tue preghiere?» E perché? Se Quello era stronzo anche solo la metà di quanto tutti mi dicevano, davvero pensavano che la preghiera avrebbe funzionato? Non volevo andare al Muro. Arrivarci dalla mia yeshiva significava scarpinare giù per la collina, prendere un taxi per Gerusalemme, prendere un autobus per il centro, prendere un secondo autobus fino al capolinea alla porta di Giaffa e poi camminare per quindici minuti buoni nelle strade buie e deserte della Città Vecchia. E poi bisognava considerare gli arabi: con il taxi si attraversava Abu Gosh, l’enorme città araba sull’altro versante della montagna, di solito tranquilla, ma ora, con l’intifada in corso, che ne sapevo? Lì era come il casino dopo le finali dell’NBA, però in ogni città, tutte le sere, e questi non stavano festeggiando. Anche se fossi arrivato a Gerusalemme scampando la lapidazione, camminare per le strade della Città Vecchia non era uno scherzo. Storie di arabi che accoltellavano turisti erano piuttosto comuni, e anche se uno riusciva a raggiungere vivo il Muro, c’era sempre una forte possibilità di essere accolto da una pioggia di sassi e rocce scagliati dall’alto, dal Monte del Tempio. Seduto sul letto, mi accesi una sigaretta. Però, e se andare al Muro fosse servito? Se Lui avesse letto davvero i biglietti che la gente metteva nelle fessure del muro? Se ci fossi andato e Baba si fosse ripresa? Se non ci fossi andato e lei fosse morta? Mi vestii di corsa. «Ehi, dai, sul serio Lui la ucciderebbe solo perché tu non sei andato al Muro?» «Be’, sul serio Lui la salverebbe solo perché ci sono andato?» «Adesso sei ridicolo.» «Io sarei ridicolo?» Afferrai una penna e un pezzetto di carta e mi avviai verso il Sancta Sanctorum. Scarpinai giù per la collina, presi al volo un taxi, presi l’autobus per la città, presi il secondo autobus per la porta di Giaffa, e con una camminata di quindici minuti attraversai la Città Vecchia. Percorsi un vicolo buio dopo l’altro, cercando di decidere come cominciare il mio biglietto. «Dio»?
Troppo informale. «Caro Dio»? Troppo letterina di Natale. «Ehi, D!»? Troppo rap. E il biglietto quanto doveva restare lì, prima che Dio si decidesse a rispondere? E se di notte pioveva e il mio biglietto veniva trascinato via dall’acqua? Lui li leggeva appena venivano infilati nelle fessure oppure ci metteva un giorno o due? Se qualcuno prendeva il biglietto, la preghiera veniva cancellata? Se io avessi implorato misericordia, e misericordia avesse significato che Dio la faceva morire domani? E se in quel caso io avessi pregato Dio di non avere misericordia – «Ascoltami, o Privo di Misericordia» – lei avrebbe vissuto ancora per qualche anno? E poi all’improvviso, eccolo. Nel buio cielo notturno, oltre una piazza di pietra bianca liscia, eccolo. Fari potenti illuminavano il Muro da ogni direzione. Sembrava che fluttuasse, che brillasse. Era come Times Square, però con Dio. Mi avvicinai al posto di controllo fuori della piazza, pieno di paura e terrore. Non lo volevo guardare. Non volevo avvicinarmi. Non lo volevo toccare. I miei pensieri erano pieni di Dio, creazione ex nihilo, Codici biblici, di Olocausto e Inquisizione, di romani, ittiti, amorei e tedeschi, del rabbino Akiva scuoiato vivo, di leggerezza e di vuoto, di peccato e di redenzione, di misericordia e di vendetta. «Tu non sei Re David» ripetevo a me stesso. «Tu non sei Re David, cazzo!» «Apri» disse la chayelet, indicando il mio giubbotto. La sua pelle bronzea brillava. Il suo Uzi nero luccicava. Mentre mi palpeggiava, le sue tette cominciarono ad agitarsi violentemente per proprio conto, trattenute come erano dai bottoni tirati della sua casacca d’ordinanza. Bel colpo, Dio. Il Muro del Pianto è largo una cinquantina metri, e alto poco più di diciotto, e sebbene una volta io sia stato ai piedi dell’Empire State Building a guardare dritto in su, e sebbene una volta io sia stato in cima al World Trade Center a guardare dritto in giù, prima non mi ero mai sentito insignificante come mi sentii ai piedi di questo antico muro. Alla mia sinistra, un vecchio rabbino con una lunga barba argentea vi si appoggiava stancamente, con la faccia sepolta nell’incavo del braccio. Lo sentii gemere, e in quei gemiti c’era rassegnazione; qualcuno, da qualche parte, stava morendo. Vicino, un uomo si inginocchiò accanto al suo figlioletto e insieme tesero lentamente le mani per toccare il Muro. Guardai alla mia destra. Accanto a me, un soldato appoggiò le mani al Muro, si protese in avanti e lo baciò. Restò lì, con la fronte appoggiata al Muro, gli occhi chiusi, la punta metallica del suo Uzi che grattava leggermente contro la pietra. Mi infilai una mano in tasca e tirai fuori il mio pezzo di carta. «Per favore» scrissi. Trovai una piccola fessura tra due grosse pietre alla base del Muro, e vi infilai dentro il mio biglietto. Dietro di me, una coppia chiese a un’altra coppia di scattargli una fotografia. «Si vede il Muro? Mi raccomando, lo inquadri.» Poi la prima coppia scattò una foto alla seconda coppia. Arrivò una terza coppia e scattò una foto delle prime due coppie insieme. «È venuta bene» disse la terza coppia. «Si vede il Muro?» Presi l’autobus, presi l’altro autobus, saltai su un taxi, scarpinai su per la collina, feci qualche tiro di merda di cammello e andai a dormire.
La mattina dopo telefonai a New York. La febbre di Baba era calata. I medici erano cautamente ottimisti circa le sue condizioni. Feci un sospiro di sollievo, e mi permisi di diventare cautamente ottimista circa il mio Dio. Qualche ora più tardi, tornai a Gerusalemme e mi comprai una yarmulke nuova. Poi comprai i cinque volumi dei Cinque Libri di Mosè e un libro intitolato Le Porte della
Contrizione. Dopodiché andai a piedi fino al grande mercato all’aperto di via Ben Yehuda, dove Dio fece sì che incontrassi Naomi che stava comprando le paste per lo Shabbat. Ci sedemmo in un caffè lì accanto, e io le raccontai di mia nonna e del Muro del Pianto. Lei sorrise vedendo la mia yarmulke nuova. Rischiammo di non accorgerci che si era fatto tardi, poi io l’accompagnai al suo autobus e le chiesi se sabato sera era libera. Disse che credeva di sì, ma mi chiese di telefonarle più tardi. Dissi che l’avrei fatto, guardai il suo autobus allontanarsi e pensai: «Forse». Ero cautamente ottimista. Comprai una penna all’edicola lì vicino, presi un autobus per il centro, un secondo autobus per la porta di Giaffa, e mi affrettai per gli stretti e oscuri vicoli della Città Vecchia fino al Muro del Pianto. «Per favore» scrissi, e sotto, tanto per evitare confusioni: (Naomi). Appallottolai per bene il biglietto. Ci pensai per un momento, riaprii il pezzo di carta e in cima ci aggiunsi un Dio. Poi firmai e in fondo aggiunsi New York, perché senza mi sembrava un po’ troppo imperioso, come dare un ordine a un sottoposto. Poi aggiunsi un Caro davanti a Dio, perché per un attimo temetti che il mio tono informale potesse essere frainteso. Infilai il biglietto nel muro, presi l’autobus, presi l’altro autobus, saltai su un taxi, scarpinai su per la collina, diedi a Dio un’ora per fare quello che doveva fare, e telefonai alla yeshiva di Naomi. «È sotto la doccia» disse la ragazza che rispose al telefono. «Si sta preparando per Shabbos.» Feci del mio meglio per non pensare a Naomi sotto la doccia, un atto di debolezza morale che avrebbe di sicuro vanificato il mio biglietto. Lasciai un messaggio per lei augurandole buon Shabbat, e chiesi alla sua compagna se poi poteva riferirle che avevo telefonato, e che non vedevo l’ora che arrivasse sabato sera. «Mm-mm» disse la ragazza. Tornai nella mia stanza pieno delle dolci emozioni che suscita il primo amore. Stirai la mia camicia da Shabbos, lisciai per bene la mia nuova yarmulke, staccai dalla parete il poster di Cindy Crawford, lo rimpiazzai con un ritratto di Maimonide, saltai sotto la doccia e vanificai il mio biglietto.
«Non succederà mai» disse Tzvi a pranzo il giorno dopo. «È troppo devota.» Tzvi conosceva Naomi da New York. Anche Tzvi era religioso, e anche lui veniva da una famiglia religiosa di Long Island. Naomi era una FDN, o «frum dalla nascita» – una persona osservante nata in una famiglia osservante e osservante da sempre. Io ero vicino a essere un BT, o ba’al teshuva, «chi fa atto di pentimento», nel senso che ero diventato osservante di recente mentre prima non lo ero. FDN e BT non escono mai insieme, perché quasi mai FDN e BT si sposano. La famiglia di una FDN non lo permetterebbe mai, eccetto nei rari casi in cui il padre della ragazza FDN sia stato anche lui un BT, ma anche in quel caso, nessuno più di un BT dubita profondamente delle buone intenzioni di un altro BT. «Suo padre ti ucciderà» disse Tzvi scuotendo la testa, mentre si accaparrava un altro pezzo di cotoletta. «E poi ucciderà lei.» Comprai degli tzitzis. Cominciai a mangiare kosher. Il cibo kosher mi ha sempre fatto mettere su qualche chilo, ma ero convinto che Naomi fosse al di sopra di preoccupazioni mondane quali gli addominali. Io e Naomi ci incontravamo nel pomeriggio, e passeggiavamo insieme per le strade di Gerusalemme; non essendo sposati, ci era proibito stare da soli. Lei mi mostrava le case dove avevano abitato famosi rabbini, e io le mostravo dove erano i miei negozi di libri usati preferiti. Lei appariva preoccupata. «Ma non ne leggo più molti» dicevo io. «Sono troppo occupato con la Torah.» Lasciai il mio lavoro al bar. Cominciai a prendere parte alle preghiere del mattino. Poi cominciai a prendere parte alle preghiere della sera. Le preghiere del pomeriggio le consideravo ancora un po’ una rottura di palle.
Ormai era primavera, e le piogge opprimenti dell’inverno israeliano stavano finalmente lasciando il passo all’opprimente caldo dell’estate. Una domenica mattina, invitai Naomi a venire in gita con me a Netanya, ma lei disse che non si sentiva bene e sarebbe rimasta a letto tutto il giorno. Io tentai di non pensare a lei a letto, e andai a Netanya da solo. Passai quasi tutta la mattina seduto sulla spiaggia, finché non mi venne fame e andai in giro in cerca di cibo. Mi sedetti in un caffè, ordinai un hamburger, e guardai nel caffè di fronte, dove intravidi Naomi seduta a un tavolo all’aperto insieme a Tzvi. Stavano ridendo e bevendo un milkshake, con gli asciugamani da spiaggia buttati con noncuranza sulle spalle. Non mi notarono. Io li osservai per un po’, pagai il conto, mi lavai le mani, recitai il Ringraziamento dopo il Pasto, e me ne andai a fare in culo fuori di lì. Tornato alla yeshiva, trovai un lungo pezzo di carta igienica verde attaccato alla porta della mia stanza. «Ha chiamato tua madre» c’era scritto. «Oggetto: Nonna.» Abbastanza specifico per causare preoccupazione adesso, abbastanza vago perché lei potesse negare di aver voluto preoccuparmi dopo. Un classico. Buttai lo zaino sul letto e andai al telefono. «Che cosa succede?» chiesi a mia madre. «Come stanno i tuoi rabbini?» chiese lei. «Sei stato alla tomba di Re David?» «Come sta Baba?» Pausa. Sospiro. Infelicità. Morte. «È di nuovo in ospedale. È debole. È fragile. Tira avanti giorno per giorno.» «Forse dovrei andare al Muro» dissi io. «A fare quattro chiacchiere con Dio.» «Sarebbe una cosa carina» disse mia madre. Scarpinai giù per la montagna, saltai su un taxi, presi un autobus, presi un altro autobus, e camminai per quindici minuti negli stretti vicoli della Città Vecchia. A un certo punto mi parve che qualcuno mi avesse tirato un sasso, ma invece ero stato io a prenderne a calci uno, camminando in fretta negli stretti vicoli. Quando arrivai al Muro era sceso il buio, e oltre a qualche soldato e a pochi vecchi rabbini che chiedevano la carità, non c’era nessuno. Tirai fuori la mia penna e il mio pezzo di carta stropicciato. Pensai a mia nonna. Pensai a mio nonno accanto a lei. Pensai a mia madre, a Naomi, a Tzvi, pensai alla yarmulke nuova che avevo in testa, che col cazzo mi era servita a qualcosa. Stetti di fronte al muro e lisciai la carta sulla mia gamba. «’Fanculo» scrissi. Appallottolai per bene il biglietto e lo infilai nella fessura davanti a me, più in fondo che potevo. Mi rimisi in tasca la penna, mi girai, e me ne andai. Feci sì e no sette metri prima che mi venisse la strizza. Ma ero matto? Che diavolo stavo facendo? Dio si sarebbe incazzato di brutto, leggendo il biglietto. Ero fuori di testa? Tornai di corsa al Muro e mi misi a cercare il mio biglietto, sperando che Dio non lo avesse ancora letto. Lo trovai, e tentai disperatamente di tirare fuori quel maledetto con le dita. Era finito parecchio in fondo, quindi provai a estrarlo con la penna. Stavo armeggiando solo da pochi secondi quando fui afferrato con violenza per un spalla, fatto voltare e sbattuto contro il muro da un soldato israeliano furibondo. «Asur!» urlò, prendendomi per la collottola. «Proibito!» «No, no» dissi io. «Non hai capito.» Ero in Israele già da otto mesi e ancora non riuscivo a tirar fuori altro che un miscuglio balbettante e scombinato di ebraico e inglese. Lo stress di essere aggredito da un soldato israeliano non rendeva certo più articolato il mio stile. «Anì messo, ehm, biglietto betoch, dentro, betoch il Muro... ve’achshav, anì..., ehm, anì lo rivoglio.» «ASUR!» urlò di nuovo lui facendomi segno di allontanarmi dal muro. «ASUR!» Tentai di ribattere, ma il Signore aveva trasformato in pietra il cuore del soldato. «Bene» dissi. «Bene. Testa di cazzo. Testa di cazzo!»
Lui fece un passo verso di me e io alzai le braccia e indietreggiai. «Ne posso scrivere un altro?» chiesi. «Ne posso solo scrivere un altro?» Lui mi spinse verso l’uscita. «Io non... metti giù quelle stramaledette mani... senti... SENTI... un nuovo... chadash... biglietto... biglietto chadash...» Lui indicò la fermata dell’autobus, mi diede un ultimo spintone e io mi allontanai lentamente, sistemandomi il colletto e infilandomi la camicia nei pantaloni. «Bravo, hai ucciso mia nonna, brutto testa di cazzo» gli urlai, aggiustandomi la yarmulke sulla testa. «Grazie tante.» Mi salutò con la mano. Non mi restava altro da fare che tornarmene in camera mia alla yeshiva ad aspettare che squillasse il telefono. «Baba» avrebbe detto mia madre. «È morta.» «Ma che mi dici, mamma? Che cazzo mi dici.»
Baba non morì quella notte. Non morì quel mese. Forse Dio si era dimenticato di controllare la posta. Forse non era poi così cattivo. Quando mancavano solo due mesi al mio ritorno a New York, le previsioni dei miei amici si avverarono. Sbroccai. Mi comprai un cappello nero e mi feci crescere le basette. Passavo tutta la giornata nell’aula di studio. Venni spostato nella classe avanzata di Talmud, dove fui accolto come un figlio dall’insegnante più rispettato della scuola. Mi ero stufato di combatterLo. Non serviva a niente, e non volevo tornare a casa. Mi avvolsi nella coperta calda e protettiva di una fede assoluta, e mi sentii bene. Mi sentii al sicuro. Lui controllava sia il centrocampo che le retrovie. Se avessi giocato a pallone, sarebbe andato tutto bene. «Sono così emozionata di sentire dei tuoi strepitosi progressi» scrisse mia madre. «Siamo così fieri di te.» «Credo che mi fermerò per il secondo anno» risposi. Nei mesi che seguirono, e nell’anno che seguì, divenni l’ebreo più straordinariamente devoto per il più straordinariamente ordinario dei motivi: mi volevano bene. I miei rabbini mi accoglievano nelle loro famiglie. C’erano delle regole, naturalmente, ma io quelle regole le capivo, e quando non le capivo c’era un libro delle regole che potevo consultare. Mangiavo alla loro tavola, cominciai a conoscere le loro mogli e i loro figli, e scoprii per la prima volta che cosa significa essere accettati. Mi fu perfino prospettata la possibilità di chiedere in sposa Malkie, la casta e attraente figlia del rabbino capo. In cambio, tutto quello che dovevo fare era portare una yarmulke, un cappello nero, i filatteri, e gli tzitzis; farmi crescere la barba e lunghi peyis; tagliarmi i capelli corti; studiare il Talmud, la Torah, i Profeti e il Libro dei Salmi; osservare lo Shabbat, mangiare kosher ed evitare di imprecare; smettere di leggere letteratura inglese e smettere di parlare coi miei vecchi amici, smettere di parlare con le ragazze e promettere di trasferirmi a Gerusalemme. Sembrava un ottimo affare, in quel momento.
15 Il Talmud racconta la storia di un uomo di nome Elisha, uno degli studiosi più rispettati del suo tempo. Ci sono opinioni differenti sul come diventò un eretico; dopo che lo fu diventato, comunque, i Saggi si riferirono a lui solo come ad Acher, «l’Altro». Qualcuno dice che egli vide un uomo violare le regole dello Shabbat senza essere punito; un momento dopo vide un uomo obbedire alle regole dello Shabbat (cosa per cui avrebbe dovuto ricevere in premio un prolungamento della vita), che invece subito dopo venne morso da un serpente e morì. «Dov’è il benessere di quest’uomo?» chiese l’Altro a Dio. «Dov’è il prolungamento della sua vita?» Qualcuno dice che l’Altro vide la lingua di uno studioso giacere nella polvere dopo essere stata tagliata dai romani. «La lingua da cui una volta discesero perle di purissimo splendore» chiese l’Altro, «deve leccare la polvere?» Decise immediatamente di commettere peccato. Violò lo Shabbat. Andò da una puttana. Andò da una puttana di Shabbat e la pagò. Fu escluso dal Talmud. Due mesi dopo l’inizio del mio secondo anno, un autocarro guidato da arabi andò a sbattere contro un furgone pieno di studenti che andavano dalla yeshiva a Gerusalemme. Il furgone aveva appena imboccato l’autostrada quando l’autocarro gli si affiancò e l’autista diede un violento strattone al volante, mandando il furgone a sbattere contro il guardrail, e poi giù per la ripida scarpata sull’altro lato della strada. Quando la notizia dell’incidente arrivò alla yeshiva, tutti corsero giù per la collina a guardare da un masso che sovrastava l’autostrada. Uno studente del primo anno, che era qui nella Terra Promessa per ricongiungersi col suo Dio, fu quello ferito in modo più grave; in seguito venimmo a sapere che era rimasto paralizzato dal collo in giù. Dov’è il benessere di quest’uomo?, mi domandai. L’autocarro pieno di arabi si era dileguato sull’autostrada e due jeep dell’Esercito israeliano lo avevano inseguito. Pochi minuti dopo, si sentì un forte rombo sotto la città di Telshe Stone, e tre F-16 apparvero come dal nulla. Venimmo poi a sapere che la città in cui vivevamo da oltre un anno era costruita sopra una base aerea sotterranea. Niente era come sembrava. Le foto non rappresentano il reale contenuto. I jet volavano sopra di noi in formazione. Gli americani applaudirono. Io ero confuso. Ero sconvolto. «Sono confuso» dissi al rabbino Wint. «Sono sconvolto.» «È Satan a parlare» disse lui. «L’inclinazione malvagia.» Qualche settimana più tardi, mia nonna ebbe un nuovo peggioramento. Dopo qualche altra settimana, si ammalò mio nonno. Andai al Muro. Mi lamentai. Ficcai decine di biglietti dentro decine di fessure, ma a New York decine di medici scossero il capo dicendo: «Non possiamo fare altro». Un mese dopo, mentre camminavo lungo una strada di Geulah, il quartiere ultraortodosso di Gerusalemme, vidi la mia immagine riflessa nella vetrina del negozio di cappelli da uomo da cui mi servivo. Non mi riconoscevo più, ormai. «Non mi riconosco più, ormai» dissi al rabbino Wint. «È Satan a parlare» disse lui. Quella sera, Satan mi fece le valigie e mi prenotò un posto sul volo da Tel Aviv al JFK di New York. Una settimana più tardi, abitavo in uno scantinato nel Queens e frequentavo una yeshiva locale su Jewel Avenue. Portavo ancora il mio largo cappello di feltro nero e gli tzitzis quando, qualche settimana
dopo, Satan mi comprò un cheeseburger al McDonald’s di Jewel Avenue. La stessa sera mi portò in macchina fino a Manhattan e, sulla Trentanovesima Strada, tra la Nona e la Decima Avenue, pagò una prostituta per soddisfarmi. «Sono Brandi» disse lei, prendendo posto sul sedile accanto a me. Il brandy si fa col vino. Il vino non è kosher senza una certificazione del rabbino. La benedizione del vino è hagofen. Il vino ha bisogno di una benedizione anche quando è parte di un pasto completo. Se il pasto viene consumato da tre o più uomini, è necessario recitare per esteso il Ringraziamento dopo il Pasto. Brandi si tolse il cappotto. «Io sono del Minnesota» disse Brandi. «E tu di dove sei?» «Gerusalemme.» «Fichissimo.» Quando finimmo, lei scese dalla macchina e chiuse la portiera. Si era seduta sul mio largo cappello di feltro nero. Io ero confuso. Ero sconvolto. Mi serviva una forma per cappelli. Misi in moto e mi diressi verso casa, ma avevo fatto solo pochi isolati quando accostai al marciapiedi sulla Quarta Strada, aprii la portiera e vomitai. E venni immediatamente escluso dal Talmud.
16 La nostra vicina di casa si chiama Sharon. Sharon ha un cancro all’ultimo stadio. Ha anche altre cose. Ha un giardino, un cane e una Jeep Grand Cherokee del 1996. Ha un marito che si chiama Roy: lo avete conosciuto nel primo capitolo, investito da un furgone della FedEx che stava andando a consegnargli le sue riviste porno. Sharon è un mistero per i medici: sarebbe dovuta morire anni fa. I medici sono sconcertati. I medici sono disorientati. I medici non se lo sanno spiegare. I medici sono pazzi. E anche Sharon. Sharon è convinta di essersi trasferita a Woodstock perché ama la natura. Si sbaglia. Lei non si è trasferita affatto; è Dio che l’ha trasferita quassù. Lei è una minaccia. È un avvertimento. È Dio che effettua movimenti di truppe ai miei confini. Lei non si chiama Sharon. Si chiama «Non ci provare con me». Si chiama «Potresti essere tu». Io e Orli pensiamo spesso di andare a vivere da un’altra parte – lontano, in Europa, in Australia, no, magari in Nuova Zelanda, via, via, via, la ricerca della Terra Promessa continua – ma io so che non possiamo. Se ci trasferiamo, Sharon muore. Andate più lontano, dice Dio, e la signora è fregata. Ci troviamo sulla scacchiera morbosa e criminale del Signore, sotto scacco. Sharon sorride spesso, e passa il tempo nel suo giardino. Io mi incupisco, vado alla mia scrivania e tiro le tende. Uno di noi ha il cancro, l’altro ha Dio. Quattro settimane prima della data in cui nostro figlio doveva nascere, trovai un rigonfiamento sulla zampa posteriore destra di Duke. Era delle dimensioni di un piccolo uovo. Orli ne trovò un altro sulla zampa posteriore sinistra. «Linfonodi gonfi» disse il nostro veterinario. «Potrebbe non essere niente. O potrebbe essere cancro.» Prelevò un campione, ci avrebbe fatto sapere. Duke era il nostro Mosè. Era stato lui a condurci fuori da Manhattan, fino ai boschi della Hudson Valley. Duke si rifiutava di fare la cacca. All’epoca passavamo i nostri weekend in campagna, dove Duke e Harley davano la caccia agli scoiattoli tra i cespugli, si facevano strada sniffando nell’erba alta, e stavano sdraiati al sole, cercando di acchiappare mosche e zanzare. Il lunedì tornavamo nel nostro minuscolo appartamento di Manhattan. Duke, che era ancora un cucciolo, non faceva la cacca finché non tornavamo in campagna. Per cinque giorni. Neanche una piccola popò. «Io non la faccio sul cemento» diceva Duke. «Spiacente, ma la mia politica è questa.» Noi non eravamo nella posizione di poter discutere. Il veterinario sembrava preoccupato mentre ci accompagnava alla porta del suo studio. «Non preoccupatevi» disse. In macchina non fiatammo. Cercammo di non farci prendere dal panico. Arrivammo a casa, e portammo Duke e Harley a fare una passeggiata sulle montagne. Era una limpida giornata autunnale, e le foglie stavano già cambiando colore. «Guarda quello» disse Orli indicando un acero dorato in alto. «Stanno morendo.» «Shal!» «No, è vero. Sono belle, ma stanno morendo.» «Shal.» «Ti dico che è così. I turisti scattano fotografie mentre le foglie muoiono e cadono. Letteralmente. Muoiono e cadono giù dall’albero.» «Hanno avuto una bella vita.» «Una vita breve.» «Ma felice.»
«E con questo?» Ultimamente avevo fatto progressi decenti nello scrivere, e pensai che fosse questo il motivo per cui la vita di Duke era in pericolo. Camminammo ancora un po’, attraversammo un torrente prosciugato e salimmo su per una collinetta, dove ci sedemmo sul tronco di un albero caduto, e guardammo Duke e Harley dare la caccia tra le felci argentate a piccoli scoiattoli ciarlieri. Quei figli di puttana erano felici che lui stesse morendo. Il bambino si mise a tirare calci. «Andiamo, ragazzi» disse Orli. «Si torna a casa. Li acchiapperete domani.» Era la metà di ottobre, e io controllai che i cani non avessero zecche prima di farli rientrare in casa. Dopo, mentre pulivamo dal fango le zampe di Duke, Orli scoprì un taglio profondo tra i cuscinetti carnosi della sua zampa sinistra. Chiamammo il veterinario. «Probabilmente è quello» disse lui, e ci spiegò che un taglio infetto poteva causare il gonfiore dei linfonodi. «Venite domani, cominciamo a fargli una cura di antibiotici.» Decidemmo di uscire a cena per festeggiare la scampata morte di Duke, e io mi chiesi se non fosse una cosa che tutti i credenti vorrebbero fare ogni tanto, sapendo in fin dei conti Chi è che comanda: insomma, invitare un po’ di amici, tagliare una torta, scambiarsi regali e biglietti d’auguri. Sulla copertina: «Ho saputo che Lui non ti ha ancora ucciso...» All’interno: «... ma la giornata non è ancora finita! Buona morte scampata!» Andai di sopra, feci la doccia, mi sbarbai, grattai Duke dietro le orecchie, gli diedi un dolcetto, accesi il mio portatile e trascinai nel cestino la cartella denominata «Avventure con l’Onni-Impotente/TUTTO». In terza elementare, il rabbino Kahn mi disse che il mio nome era uno dei settantadue nomi di Dio, e mi proibì perfino di scriverlo per intero. Scrivevamo soprattutto in ebraico e in yiddish, quindi tutte le cose su cui io scrivevo il mio nome – il nome di Dio – diventavano istantaneamente sacre: libri, temi, La Bibbia del bambino – e di conseguenza non potevano essere maltrattate. Era proibito permettere che toccassero terra, era proibito buttarle via, era proibito appoggiarci sopra altre carte. «Il Nome del Creatore!» urlava il rabbino Kahn con orrore, indicando la Storia americana della McGraw-Hill appoggiata antisemiticamente sopra al mio esame di Talmud. «Il Nome del Creatore!» Allora io dovevo uscire dalla classe, andare al piano di sopra e camminare fino al bais midrash, o aula di studio, dove c’era uno scatolone marrone riservato alle pagine sacre senza una casa: libri di preghiera strappati, vecchie haggadot, Talmud sbriciolati, e il tema «Cosa ho fatto quest’estate» di Dio Auslander, diventato a un tratto sacro. Le parole hanno un peso. Le parole hanno potere. Le parole sono sacre. «Sei sicuro di voler spostare gli elementi nel cestino definitivamente?» mi chiese il mio portatile. «Non sarà possibile recuperarli.» Cliccai su OK. Andammo fuori a cena. Volevo la bistecca. Ordinai il pesce. Un pochino-ino più kosher.
17 In una settimana buona ti puoi beccare due o tre cadaveri. Poi ci sono settimane nelle quali sembra che non muoia nemmeno una singola stramaledetta persona. Impaziente, telefonavo a un uomo che si chiamava Motty. Motty era l’organizzatore. «Niente?» chiedevo. «Niente» diceva Motty. «Ti ho convocato?» «No» dicevo io. «Era tanto per controllare.» Quando moriva qualcuno, la famiglia chiamava Motty, e Motty chiamava me. «Puoi lavorare nel weekend?» mi chiedeva. «Sì, certo che posso lavorare nel weekend.» Facevo il guardiano. Lo shomer, in ebraico. Secondo le credenze ebraiche, l’anima abbandona il corpo al momento della morte, ma, diciamo così, si trattiene nei paraggi finché il corpo non viene seppellito. Questo può essere un periodo terribilmente stressante per l’anima, col fatto che non ha più un corpo, che è invisibile e che fluttua in giro. Così i rabbini hanno decretato che, dal momento della morte al momento della sepoltura, il corpo del defunto non debba mai essere lasciato solo. Per tradizione toccherebbe a un membro della famiglia del defunto vegliare il corpo. Ma se nessuno della famiglia voleva stare con un cadavere nello scantinato freddo e buio di un’agenzia di pompe funebri fredda e buia, allora la famiglia chiamava Motty, e Motty chiamava me. «Impresa di pompe funebri Flushing Meadows. Jewel Avenue. Schwartz.» «Impresa di pompe funebri Oceanside. 21-11 Atlantic Avenue. Finkel.» «Impresa di pompe funebri Riverdale. Tra Riverside e la Duecentosessantottesima Strada. Dweck.» Gli antichi rabbini ci dicono che fare il guardiano è una meravigliosa mitzvah, un atto meritorio per cui l’Onnipotente, Sia Egli Benedetto, ci ricompenserà abbondantemente nel Mondo a venire. Tutto questo era ottimo, ma Motty pagava ottantacinque dollari a notte – in contanti – e questa era la ricompensa a cui io miravo. Avevo diciannove anni, ero tornato da Israele, abitavo in un appartamentino in un sottoscala a Kew Gardens, nel Queens. Avevo passato tutta la mia vita nelle yeshivot, una scimmia nella Trappola ortodossa di Dio, e anche se apparivo perfetto per la parte con i miei pantaloni neri, la camicia bianca button-down, e l’ampio cappello di feltro nero, ultimamente cominciavo a sentirmi sempre meno Gerusalemme e sempre più Gomorra.
«Impresa di pompe funebri Westside. Settima Avenue. Katzenstein.» «Impresa di pompe funebri Flushing, tra Union e la Sessantasettesima. Blumenfeld.» All’inizio, potevo contare su un paio di lavoretti a settimana, tre se mi diceva bene. Il venerdì sera pagavano doppio, quasi duecento dollari, però ti dovevi presentare la sera del venerdì e restare fino alla fine dello Shabbat, sabato sera tardi. Era un sacco di tempo da passare con un cadavere, perfino per me. Ma duecento dollari erano duecento dollari, e io non ero un idiota. Stavo mettendo i soldi da parte per comprarmi una Ford Mustang decappottabile del 1982. Era un lavoro sorprendentemente piacevole. I morti erano proprio il mio genere di persone. «Portati un cuscino» mi disse Motty la prima volta che chiamò. «E i Tehillim.» Tehillim sono i Salmi in ebraico. «E qualcosa da mangiare» aggiunse. «Che genere di cosa?» chiesi io.
«Quello che ti pare» disse Motty. «Per esempio? Patatine fritte?» «Le patatine fritte vanno benissimo.» «Mi posso portare un sandwich?» «Che genere di sandwich?» chiese Motty. «Al tonno?» Ci fu una pausa mentre Motty valutava le implicazioni teologiche. «Ti puoi portare un sandwich» decretò Motty.
«Impresa di pompe funebri Kew Gardens. Jewel Avenue. Bernstein.» Il mio primo lavoro. Motty mi disse di essere lì non più tardi delle sette di sera, altrimenti non sarei riuscito a entrare. L’addetto alla sicurezza avrebbe avuto una busta per me, con dentro ottantacinque dollari, e mi avrebbe accompagnato dal cadavere. Io non ero mai stato prima in un’agenzia di pompe funebri. Il salone principale era riccamente decorato con mobili in stile vittoriano, pesanti tendaggi color oro e marmi italiani. La guardia mi fece attraversare l’ingresso conducendomi fino a una porta d’acciaio. Scendendo una scala di legno disadorna ci ritrovammo nello scantinato dove tenevano i cadaveri, e io mi ricordai quel vecchio adagio che dice di non guardare mai nelle cucine del tuo ristorante preferito. Lì non c’erano né tendaggi né marmi. C’erano un sacco di tubature arrugginite, una caldaia rumorosa e un portafusibili pericolosamente sovraccarico. L’unico mobile, a parte qualche barella da ospedale vuota, era una sedia pieghevole di metallo vecchia e malridotta. «Eccoti sistemato» disse la guardia. «C’è un gabinetto in fondo al corridoio.» «Io sono qui per un certo Bernstein. C’è un Bernstein qui?» Lui indicò l’enorme sportello d’acciaio di un frigorifero industriale. «Bernstein» disse. «Io sono qui per un altro quarto d’ora, se ti serve qualcosa.» Aprii il mio zaino e tirai fuori una bottiglia di Gatorade e il mio libro dei Salmi. «Benedetto colui che segue il sentiero della giustizia...» Oh, mamma! Mi sembrava un po’ tardi per dare quel genere di consigli a Bernstein. «Io non so come la vedi tu, Bernstein» dissi, «ma io sono distrutto.» Mi sdraiai sulla barella, mi misi le cuffie del walkman, fumai un mezzo spinello e tentai di dormire. Stavo cominciando a domandarmi se esistesse una cosa chiamata anima, ma anche se fosse esistita, ero più che sicuro che un adolescente strafatto con l’occhio vitreo che passava il tempo sgranocchiando patatine fritte Doritos Cool Ranch non fosse in grado di offrirle una gran consolazione.
Gli affari andavano bene. Mi godevo la mia indipendenza. Decidevo io gli orari. Niente riunioni, niente chiacchiere. Ero il padrone di me stesso. Eravamo solo io, il mio sandwich, una piccola busta di marijuana, un pacchetto di sigarette, Appetite for Destruction dei Guns N’ Roses, e un tizio morto dentro un grosso frigorifero d’acciaio. Purtroppo la legge ebraica stabiliva che un guardiano può guardare un solo cadavere per volta. Se nell’agenzia di pompe funebri c’era un solo cadavere, era chiaro quale cadavere dovevo guardare, e non c’era nessun bisogno che lo vedessi. Certe volte, però, il frigorifero era pieno zeppo, dal pavimento al soffitto, il che significava che avevo l’obbligo di aprire lo sportello, e di buttare veramente l’occhio sul cadavere che avevo l’incarico di guardare. Come la maggior parte delle cose bibliche, questo era un
metodo tutt’altro che infallibile, e il risultato era spesso una gran confusione. Una sera, mi fu detto di guardare un certo Epstein. Dentro il frigorifero, di Epstein ne trovai tre: un David Epstein, un Gerald Epstein e un Moshe Epstein. Beccai il direttore dell’impresa di pompe funebri proprio mentre se ne stava andando. «Già» disse, «abbiamo una vera imbarcata di Epstein.» Entrammo nel frigorifero. «Quale è il mio Epstein?» chiesi. «Quale è il mio Epstein?» ripeté lui mentre controllava i cartellini, come se fosse chissà quale profonda domanda esistenziale su cui l’umanità ponderava dall’inizio dei secoli. Quale è il mio Epstein? Come faccio a trovare il mio Epstein? «Ti hanno detto il nome?» chiese. Non me l’avevano detto. Lui suggerì, per pararmi le chiappe, di dare un’occhiata a tutti quanti gli Epstein. «In questo modo non ti puoi sbagliare» mi disse. «Sul serio?» chiesi io. «Lei è sicuro che sia kosher?» «Per quanto mi riguarda, è kosher» disse lui. Guardai i cadaveri uno per uno. Epstein. Epstein. Epstein. «Va bene se mi tengo questa?» chiesi mostrandogli la mia bottiglia di Gatorade. «Per quanto mi riguarda, è kosher» disse lui.
Si sviluppò un’economia macabra. Tutte quelle morti mi facevano fare una vita piacevole. Un morto pagava la mia American Express. Tre morti coprivano la mia parte dell’affitto. Lavorando nel weekend mi pagavo cibo ed erba, ed ero a posto per tutto il mese. Dopodiché, ogni morto era una pacchia. Due morti erano un paio di Air Jordan nuove. Tre morti un televisore nuovo. Se Motty avesse potuto garantirmi un extra morto fisso tutte le settimane, mi sarei ordinato la tv via cavo. Ma non ero mica scemo. Stavo mettendo da parte i soldi per una Ford Mustang decappottabile del 1982.
La morte non mi dava fastidio. Personalmente non avevo mai conosciuto nessuno che fosse morto, ma dopo diciannove anni nelle yeshivot ortodosse ero in grande confidenza con la morte. Sembra che tutte le feste ebraiche coinvolgano qualcuno che ci uccide, qualcuno che ha tentato di ucciderci, o le nostre preghiere a Dio affinché non ci uccida Lui personalmente. La storia ebraica era la stessa cosa: se non tentavano di ucciderci i babilonesi, ci provavano i romani. Se non erano i romani, erano gli spagnoli. E se non erano gli spagnoli, erano i tedeschi. Ogni Giornata della Memoria, venivamo condotti nell’auditorium della scuola a guardare ore e ore di documentari dalle immagini così esplicite che avevamo bisogno di uno speciale permesso firmato dai nostri genitori. Questo per me non fu mai un problema. Mia madre viveva per la morte. Niente la rendeva più felice della tristezza. Niente la rendeva più allegra della malinconia. Lavorava come infermiera da un pediatra del quartiere, e le tragedie a cui assisteva lì le considerava un fringe benefit almeno quanto la copertura assicurativa per i denti. «Oggi è venuto in studio un ragazzo» diceva a cena. «Epatite.» Faceva una pausa per sorbire lentamente una lunga cucchiaiata di zuppa. «C» aggiungeva. Mio padre dava un pugno sul tavolo facendolo traballare. «Dobbiamo proprio stare a sentire queste stronzate a ogni pasto?» ululava, portandosi il piatto in cucina per finire di mangiare. Ebbene sì, dovevamo proprio. «È una condanna a morte» diceva quando lui era uscito. «Quel ragazzo non ha speranze.» Infezioni polmonari. Malattie genetiche. Meningite spinale. Io mangiavo più in fretta che potevo,
sperando di finire il dolce prima dei problemi gastrointestinali. Forse anche questo era colpa di Jeffie. Forse mia madre non era così fissata con la morte, prima che lui arrivasse... e se ne andasse. Ma era una tragedia che lei rifiutava di superare. Tra Jeffie e i parenti morti nell’Olocausto, mia madre aveva attaccato sulle pareti di casa nostra più fotografie di morti che di vivi, e i morti sembrava sempre che se la cavassero meglio. Mio fratello odiava mia madre e ce l’aveva con me. Mia madre detestava mio fratello e adorava me e mia sorella. Mia sorella odiava mio fratello e difendeva mia madre. Io invidiavo mio fratello e avevo pietà di mia madre. Mio padre ci odiava tutti quanti. E mia madre sospirava lavando i piatti, e cantava lugubri canti yiddish che parlavano della miserabile futilità della vita. Tutto questo, così si raccontava in famiglia, perché Jeffie era morto. Tra mia madre e i miei rabbini, la morte non era certo la cosa peggiore che potessi immaginare. Per la verità, arrivato a diciannove anni, non me ne poteva fregare di meno.
Lavoravo per lui da qualche mese, quando Motty assunse un secondo guardiano. Gli affari andavano bene. Motty si stava espandendo. Si stava espandendo per soddisfare le richieste dei clienti. E la cosa non mi piaceva. Il nuovo guardiano si chiamava David. David era il cugino di Motty, e io ero convinto che ricevesse un trattamento di favore: gli venivano assegnati praticamente tutti i lavori del weekend – quelli da duecento dollari, per capirci – ed ero sicurissimo che lo lasciassero scegliere i migliori ingaggi della settimana. Impaziente, telefonavo a Motty. «Niente?» chiedevo. «Niente» rispondeva Motty. «Ti ho convocato?» «No, era tanto per controllare.» «Ti chiamo io.»
Il terzo guardiano che Motty assunse si chiamava Shmuel. Shmuel era studente in una yeshiva ultraortodossa, conosceva Motty dalla sinagoga, e cinicamente faceva finta che dei soldi non gli importasse niente. «Ho bisogno di compiere mitzvot!» diceva a Motty battendo le mani con gaiezza autentica. Ben presto mi ridussi a un pidocchioso morto ogni due o tre settimane. Impaziente, telefonai a Motty. «Niente?» chiesi. «Niente» disse Motty. «Ti ho convocato?» «Niente?» chiesi io. «Non è morto nessuno nelle ultime tre settimane a Brooklyn e nel Queens?» «Benedetto Colui che guarisce gli infermi» disse Motty. «Oh, stronzate» dissi io, sbattendo giù la cornetta. Perfino la morte era questione di conoscenze. Motty non mi convocò mai più.
Era quasi un mese che non avevo più a che fare con la morte – niente imprese di pompe funebri, niente frigoriferi, niente sofferenze di alcun genere – quando mi chiamò mia madre per dirmi che era morta mia nonna. «È all’impresa di pompe funebri Zion Gate» disse. «Lo sai dov’è?» Mia madre aveva seguito con orgoglio la mia carriera di guardiano, e aveva accolto con tristezza la notizia della sua brusca interruzione. Era come una tifosa degli Yankee, che conosceva qualcuno che
lavorava per la squadra: lei conosceva qualcuno all’interno del dolore, il suo sport preferito. «Lo so dov’è» dissi. Si soffiò il naso al telefono e sospirò profondamente. «Così inaspettata» disse. «È questa la parte più dura.» Mia nonna era morta di Alzheimer, una malattia che aveva da oltre sette anni.
Andai allo Zion Gate, scesi le scale con passo pesante, gettai la mia borsa sulla barella vicina, e mi misi al mio vecchio posto, sulla sedia pieghevole di metallo accanto al frigorifero. Non avevo conosciuto bene mia nonna – la malattia si era presa la sua mente anni prima di venire infine a prendersi il suo corpo – ma avevo alcuni bei ricordi di lei dalla mia infanzia, ricordi che tentai disperatamente di evocare, cercando per una volta di provare qualcosa, qualunque cosa, per il cadavere all’interno del frigorifero. Mi ricordai che quando ero piccolo ci portava i biscotti di Rice Krispies, che faceva lei usando veri marshmallow, che come tutti sanno non sono kosher. «Non lo dire a tua madre» sussurrava. Ma non servì a niente. Stavo lì seduto smaniando, immaginando mia madre al piano di sopra, la reginetta del Ballo dell’Infelicità. Avrebbe sospirato, abbracciato e recitato aforismi in yiddish sulla ineluttabile brutalità delle nostre sciagurate vite. Mi sentivo come Al Pacino in quel film di mafia. «Adesso che credevo di esserne uscito, mi trascinano di nuovo dentro!» Stappai il mio Gatorade, feci qualche tiro da uno spinello, mi misi le cuffie del walkman, e tentai di dormire un po’. Erano già le undici, e io dovevo essere al mio nuovo lavoro al negozio di ferramenta piuttosto presto la mattina dopo. Che si addolorassero gli altri. Io stavo mettendo da parte i soldi per una Ford Mustang decappottabile del 1982.
18 Avevo vent’anni, e incontravo qualche difficoltà a uscire con le donne. Secondo me, anche il mio progenitore Isacco doveva aver incontrato qualche difficoltà a uscire con le donne. Dopo l’infelice fanciullezza sofferta per mano di un padre invasato, drogato di Dio, chi poteva trovarsi in sintonia con lui? Chi poteva capire quello che aveva passato? E chi poteva accettare il dispotico Signore che lo accompagnava ovunque lui andasse? Lo immaginai subire, come subivo io, una serie di rapporti goffi e superficiali con persone che non avrebbero mai capito chi era, e che se lo avessero capito non avrebbero mai voluto stargli accanto. Ci fu la ragazza religiosa di Long Island che cercava di convincermi a diventare più religioso. Quando diventai più religioso, lei decise che mi preferiva quando ero meno religioso. Ci fu la biondina – una figlia adottiva con la fobia del pene – che si divertiva a cercare di convincermi, con promesse sessuali mai mantenute, a diventare meno religioso. Essendo io diventato meno religioso, lei decise che voleva qualcuno più religioso. I miei unici amici erano quelli religiosi che mi ero fatto mentre vivevo in Israele, amici che non mi avrebbero più rivolto la parola se avessero saputo quello che realmente pensavo. O che ogni tanto mangiavo. Ero solo e sconvolto come non ero mai stato in vita mia. E poi squillò il telefono. «Che cosa fai domani sera?» chiese Leah. Il padre di Leah era un rabbino. I suoi zii da parte di padre erano rabbini, e anche i fratelli di sua madre erano rabbini. Leah faceva mitzvot in continuazione. Andava a trovare gli ammalati. Organizzava la beneficenza per i poveri. Faceva volontariato alla sinagoga di quartiere. Stava cercando di farmi rimanere religioso. Il sabato sera, Leah mi telefonava, e tutta eccitata mi ripeteva le lezioni sulla Torah che aveva ascoltato da suo padre durante quello Shabbos. «Lo sai che cosa scrisse Reb Zalman a proposito dell’importanza della carità?» chiedeva; «Hai mai sentito che cosa dice Rambam sulla penitenza?»; «Hai mai letto la risposta di Rav Moshe sul perché in base ai Dieci Comandamenti è proibito fumare?» «No» dicevo io accendendomi una sigaretta lontano dal ricevitore. «Hai mai letto Samuel Beckett?» «No» diceva lei. «Che cosa ha scritto?» «Che la vita è un insensato, tragicomico ciclo di dolore e isolamento, intervallato da disperati momenti di assurda speranza in un salvatore che non arriva mai.» «Stai fumando?» chiedeva Leah. «No» mentivo io. E giù con Reb Zalman. «Allora?» chiese lei. «Che cosa fai domani sera?» Le dissi che ero libero, e lei chiese se potevo aiutare una sua amica che stava traslocando in un appartamento nuovo. La sua amica si chiamava Orli, ed era appena arrivata da Londra. Orli era un altro dei progetti salva-ebrei di Leah, e voleva che ci conoscessimo. Sperava che due persone come noi, in procinto di affogare, insieme avrebbero imparato a nuotare. Imparammo, infatti, ma non nella direzione che lei aveva sperato. La sera dopo, ero in macchina davanti all’indirizzo che Leah mi aveva dato, in attesa che lei e Orli arrivassero. Qualcuno mi bussò al finestrino. «Shalom?» chiese Orli. «Sì?» «Porca miseria» disse lei ridendo. «Mi hai fatto quasi prendere un colpo.» Era bella: occhi verdi e lunghi capelli neri, con l’accento della regina d’Inghilterra e la bocca di
Sid Vicious. Fece subito di me il Benny Hill della situazione. «Che stai leggendo?» chiese indicando il libro sul sedile del passeggero. «Delitto e castigo» dissi io. «È bello?» «È divertente» dissi io. «Di che parla?» «Di un tizio che ammazza una vecchia.» «E poi?» «E poi continua a preoccuparsi della cosa per trecento pagine.» «Sembra divertente sul serio.» Era la serata fortunata di Isacco. Dopo che tutti gli scatoloni di Orli furono sistemati al piano di sopra, Leah se ne andò a casa, e io e Orli parlammo. Parlammo, parlammo e parlammo e non smettemmo di parlare finché non sorse il sole, la mattina dopo. Parlammo a colazione, parlammo a pranzo, parlammo mentre passeggiavamo in Central Park, parlammo a cena, e parlammo per tutta la notte fino alla mattina dopo. Orli aveva avuto i suoi traumi personali, che pur diversi dai miei nella forma, erano abbastanza simili negli effetti. Le similitudini erano sbalorditive. «Be’» disse Isacco, «mio padre... ehm... come dire... be’, tentò di offrirmi in sacrificio al suo Dio.» «Ma dai!» disse la donna accanto a lui al bar, dandogli una gomitata scherzosa. «Anche il mio!» Non mi ero mai sentito così vicino a trovare qualcuno che potesse amarmi e accettarmi per quello che ero, e non intendevo certo correre dei rischi facendo qualcosa di stupido, tipo svelarmi completamente. C’erano cose che non avrebbe mai capito: Dio, l’ossessione sessuale, il senso di colpa, la vergogna. Facendo colazione con tè Earl Grey e biscotti Walker’s (treyf!), fissai i suoi occhi screziati di verde, e capii che l’avrei amata, e che le avrei mentito, per tutto il resto della mia vita. Telefonò mia madre. «È ebrea?» chiese. «Sì» dissi io. «Ebrea di Londra?» Riattaccai. Gli ebrei di Monsey non riescono proprio a immaginare che esistano ebrei in qualunque altra parte del mondo. E se esistono sono senz’altro meno devoti. Mia madre telefonò a un rabbino di Monsey, il quale telefonò a un rabbino di Manhattan, il quale telefonò a un rabbino del centro di Londra, il quale telefonò a un rabbino di North Finchley. «Ho saputo che viene da una buona famiglia» riferì mia madre. Riattaccai. «Sei stata dichiarata kosher» dissi a Orli. «Mazel tov» disse lei. Poi fece una battuta sul fatto che allora era permesso mangiarla, e io quasi svenni. Stavo cercando di non farmi prendere dall’ottimismo. Non sapevo che cosa stesse tramando Dio, ma ero più che sicuro che si stava organizzando per spezzarmi il cuore. Lei probabilmente aveva un marito. Probabilmente aveva un tumore al cervello, inoperabile. Probabilmente aveva un pene. Qualche settimana dopo, andammo a una partita dei New York Rangers, dove per tre lunghi tempi lei urlò Segaiolo! all’arbitro, mentre io, essendomi innamorato, mi aspettavo che il dischetto rimbalzasse sul palo della porta, veleggiasse sulle tribune e la colpisse con violenza, sull’invisibile X che l’Onnipotente aveva tracciato in mezzo agli occhi della mia amata. Sarebbe stato proprio da Lui. Ma Orli riuscì a lasciare il Garden viva («Partita combattuta» disse lei dopo. «Sì» dissi io. «Molto combattuta...»), e io lo presi come un via libera da parte di Dio. Sei mesi più tardi, eravamo sposati e abitavamo all’East Village.
Una volta che si comincia a bruciare materiale pornografico, è quasi impossibile smettere. Io avevo bruciato, con grande pentimento, riviste porno fin dalla quinta elementare, ma da quattordicenne studente di una yeshiva situata a centotrentanove isolati da Times Square, la mia quota di incendi era aumentata drammaticamente. L’appetito di Dio nel mettermi alla prova era insaziabile almeno quanto la mia brama di fallire, e i suoi piani erano spesso di una complessità sbalorditiva. Per esempio, il 25 maggio 1961 Egli causò la nascita di Steven Hirsch a Cleveland, in Ohio. Un anno dopo, nel 1962, nacque a Rockford, nell’Illinois, una ragazza di nome Ginger Allen, e quattro anni più tardi, nel 1966, a Pasadena in California nacque Melissa Bardizbanian. Un decennio dopo, nel 1977, i genitori di Steven si trasferirono nella San Fernando Valley, nei pressi di Los Angeles, dove il padre fondò una società di video per adulti. Quattro anni più tardi, Dio fece sì che il nonno di Ginger Allen si ammalasse, lei andasse a trovarlo in California, e decidesse di stabilirsi lì. Ginger rispose a un annuncio per modelle pubblicitarie, e ben presto ricevette la proposta di posare per la rivista «Penthouse». Era il 1983. Intanto, a Pasadena, Melissa Bardizbanian fugge di casa e va nella San Fernando Valley; Steven Hirsch vende video per adulti per conto di una società chiamata CalVista, dove Dio fa sì che incontri un uomo di nome David James. Un anno dopo, nel 1984, Steven e David fondano una società chiamata Vivid Video, e ingaggiano Ginger Allen – diventata ora Ginger Lynn – con un contratto in esclusiva. Melissa cambia nome in Christy Canyon, io comincio il liceo in una yeshiva di Manhattan uptown, e Christy e Ginger girano un film per la Vivid intitolato La notte dell’amore pericoloso. Io prendo la linea A della metro per Times Square, aspetto che il traffico pedonale si diradi un tantino, mi infilo nel Peepland sulla Quarantaduesima tra Broadway e la Sesta Avenue, e scopro il video sullo scaffale con la scritta ULTIMI ARRIVI, dove il prodotto è sempre scontato del trenta per cento. Lo prendo, lo rimetto giù. Me ne vado, ritorno. Lassù, Dio si sporge oltre l’orlo della sedia per guardare giù, gomiti sulle ginocchia, telecomando in mano, il pollice appoggiato leggermente su UCCIDERE. Presto ebbi ben altro da bruciare che semplici riviste. Bruciai libri, videocassette, giocattoli erotici, e le magliette macchiate della cui rovina quelli erano stati la causa. Bruciai vagine, bocche e culi. Non tutto bruciava con facilità: il silicone bisognava seppellirlo. Per la «Bocca Sexy vibrante di Vanessa Del Rio» del dottor Johnson, ci volle mezzo contenitore di liquido infiammabile, ma finalmente prese fuoco e diventò nero come la mia anima, il fumo che saliva al cielo mentre le labbra rosse di Vanessa si ammosciavano e si piegavano in un’infernale smorfia di dolore, che alla fine si squagliò formando una pozzanghera di plastica marrone scuro non esattamente arrapante. Tutto quello che rimase del mio peccato fu il piccolo vibratore metallico, abbandonato vergognosamente per terra, ormai incapace di portare qualcuno alle alte vette dell’orgasmo. E poi un giorno, quando avevo sedici anni, andai al piano di sopra. Il cartello diceva RAGAZZE NUDE DAL VERO, e anche se lo avevo già visto prima e le avevo anche sentite lassù – ridere, urlare, e chiamarsi – mi sembrò di trovarmi nelle viscere dell’inferno, o forse dell’utero. Immaginai il porno shop come una specie di disegno di Escher, in cui le scale che sembrano salire in realtà scendono. Solo che le scale di Escher non avevano sui gradini luci al neon rosa né silhouette di donne nude, e in cima – o in fondo? – non c’era una donna alta che si sollevava il reggiseno per farmi vedere le tette. Salii (o scesi?) lentamente e mi chiusi a chiave nel primo stanzino vuoto che trovai, benedicendo il buio che mi circondava. Girandomi, mi trovai faccia a faccia con una finestrella alta sessanta centimetri e larga trenta, chiusa da una veneziana di legno. Depositai qualche moneta nella fessura illuminata alla base della finestra, e la veneziana si sollevò. (Immaginai brevemente un progetto artistico all’aperto in cui queste fessure venissero piazzate a caso sui muri di tutta la città. La mia tesi? Gli uomini avrebbero messo una moneta in ogni fessura, ovunque, senza fare domande, per vedere cosa ci fosse dall’altra parte.
Io ce l’avrei messa senz’altro.) La finestrella dava su un palco circolare rialzato; accanto a me potevo vedere altre finestrelle, con altri uomini che guardavano. Il palco era a un’altezza tale che le nostre facce, piene di tristezza e di disperazione, si trovavano solo pochi centimetri più in alto. Un gruppetto di donne nere e sudamericane, nude tranne per le scarpe e le sigarette, fumavano e chiacchieravano finché non si aprì una finestrella. Allora si precipitarono come pazze per essere le prime a piazzarvisi davanti – e non sempre prima spegnevano le loro sigarette –, accovacciandosi senza grazia davanti alle finestre: le prime donne nude in carne e ossa che avessi mai visto. «Ma che stava aspettando Dio?» mi domandai. Una donna nuda si accovacciò davanti alla mia finestra e urlò. «Come, scusi?» chiesi io. «Due per le tette» urlò lei, «tre per la fica.» Non avevo idea di che cosa volesse dire. Lei protese il braccio oltre la finestra, e stese la mano aperta. «Due per le tette, amore. Tre per la fica.» Mi infilai una mano in tasca. Non avevo altro che la mia yarmulke e un biglietto da cinque. Cinque dollari e tre secondi dopo, un confine era stato oltrepassato. Ero debole. Ero pieno di vergogna. Ero un fallimento. Non ero diverso dall’ultimo animale sulla terra. Non avevo alcun controllo delle mie voglie. Avevo messo il corpo davanti all’anima. Avevo scelto questo mondo a scapito di quello a venire. Avevo mangiato dall’albero della conoscenza. Avevo rinnegato il mio fondamento di bontà. Avevo estinto la fiammella dell’ebraicità della mia anima. Avevo voltato le spalle a Dio. Avevo assassinato un milione di anime ebree. Mi ero comportato come le nazioni del mondo. Avevo contaminato il corpo che Dio mi aveva concesso in prestito, e senz’altro la Sua furia sarebbe stata terribile quanto la Sua vendetta. La finestra si richiuse sbattendo, e l’oscurità che mi circondava mi riempì completamente. Pensai che Lui forse mi avrebbe ucciso lì, nello stanzino di quel teatro in cui non sarei mai dovuto entrare. Immaginai la scena, con il mio cadavere (Accoltellato da una spogliarellista? Freddato con la pistola da un pervertito? Un infarto mentre guardavo?) veniva portato fuori dal porno shop, e mia madre – in prima fila – gemeva: «Ma perché?», mentre la gente si radunava sul marciapiedi per guardare, triste, certo, ma comprendendo, insieme a mia madre, che, be’, me l’ero proprio cercata. Bruciare ormai non era più sufficiente. Bruciare era troppo facile. Il mio peccato era stato troppo grande. Non fregavo Nessuno, con questa stronzata della piro-penitenza. Quella sera, dopo aver fatto la doccia e augurato la buonanotte a mia madre, andai in camera mia, mi misi nudo davanti alla mia scrivania, e gettai il dizionario più pesante che riuscii a trovare sullo strumento della mia inclinazione malvagia. Il Merriam-Webster. Rilegato. Edizione integrale. Era cominciata una nuova era. «Maledizione» urlava mio padre dal garage. «Dove diavolo sono finite le mie tenaglie?» Il fuoco era stato rimpiazzato dall’angoscia, il falò dalla punizione, il liquido infiammabile dagli arnesi da lavoro. Gli ebrei non hanno la tradizione di autoflagellarsi, però ci battiamo sempre il petto nel Giorno dell’Espiazione, e io avevo studiato le complicate discussioni del Talmud circa le varie forme di pena capitale: lapidazione, fuoco, decapitazione e strangolamento.
Questo è l’adempimento del comandamento del fuoco: Noi lo infiliamo nel concime fino alle ginocchia, mettiamo un indumento rigido dentro un indumento morbido e glieli avvolgiamo intorno al collo. I testimoni tirano da tutte e due le parti, costringendolo ad aprire la bocca. Uno dà fuoco a uno
stoppino e glielo getta nella bocca, bruciandogli i visceri. Il rabbino Yehuda chiede: Se lo strangolano, la mitzvah del fuoco non verrà rispettata? Il Talmud lo rassicura: Usiamo le tenaglie per costringerlo a tenere la bocca spalancata. Che cos’è uno stoppino? chiede il Talmud. Piombo bollente, risponde qualcuno.
Continua così per parecchio tempo. Mia madre non riusciva a capire perché tutti i suoi utensili da cucina sparissero. «Qualcuno ha preso il mio martelletto per la carne? Come diavolo faccio a fare l’arrosto senza il mio martelletto?» Il vantaggio era che non restavamo sempre senza fiammiferi come succedeva prima.
Nel primo capitolo delle Massime dei Padri, i Saggi ordinano a ogni ebreo di costruire un recinto intorno alla Torah: di creare leggi e proibizioni e protezioni che lo salveranno da tentazioni e peccato. A ventun anni, io speravo che il matrimonio sarebbe stato il mio recinto contro la tentazione del sesso e della pornografia, ma presto fu evidente che avrei avuto bisogno di ben più di un recinto: meglio un bastione, qualcosa con un fossato e un branco di coccodrilli. Dopo appena sei mesi di matrimonio, c’era già una copia di «Black Tail» sotto il mio materasso e una di «Barely Legal» nascosta dietro uno scaffale della libreria. Una notte, mentre Orli mi dormiva rumorosamente accanto, le tolsi con delicatezza di mano il telecomando, abbassai il volume del televisore e cambiai canale, da Cheers a The Robin Byrd Show. Subito dopo, mi punii. Perché ero debole. Perché ero un peccatore. Perché avevo ingannato mia moglie, e avevo ingannato me stesso, perché stavo diventando come mio padre. Perché ero incorso nell’ira di Dio, ira che non mi toccava più, ma che toccava Orli, toccava il nostro matrimonio. Fu una notte di rimorso particolarmente duro. La mattina dopo mi svegliai in agonia. «C’è qualcosa che non va» dissi a Orli. «Che cosa?» «Qualcosa.» Un’ora dopo, entrai dondolando nel Pronto Soccorso del New York Hospital sulla Sessantottesima Strada Est. «Torsione testicolare» disse il medico. «Mai sentita nominare» dissi con una smorfia. «Non è una band musicale» disse lui. «Si tratta di una patologia grave. Bisogna operare immediatamente.» Spiegò che io avevo «rimosso» uno dei miei testicoli, comprimendo il funicolo spermatico e interrompendo il flusso sanguigno, e quindi era necessario un intervento chirurgico d’urgenza. Sperai che Dio si stesse divertendo almeno quanto io mi aspettavo. «Dà il suo consenso all’intervento?» chiese il medico. Mi pigiai le dita sugli occhi e scossi la testa incredulo. «Mi ha convinto fin dalla parola ’rimosso’» risposi. L’infermiera si offrì di telefonare a Orli, e mi porse un modulo legale che autorizzava l’ospedale a rimuovere i miei testicoli. «Okay, okay» dissi a Dio mentre mi portavano in sala operatoria in barella. «Credo che con questo siamo pari.» Più tardi mi svegliai in un letto d’ospedale, scoprendo che per fortuna i miei testicoli erano esattamente dove li avevo lasciati. Ma per sfortuna ero al New York Hospital, che è un ospedale
universitario. Tutte le mattine e tutte le sere, il chirurgo arrivava con un gruppo di giovani studenti di medicina, mi tirava via le coperte, indicava i miei testicoli gonfi e chiedeva: «Allora, chi mi sa dire di che cosa si tratta?» Gli studenti maschi si coprivano lo scroto e guardavano da un’altra parte. Le studentesse femmine – bionde e belle, dalla prima all’ultima – si coprivano la bocca, gonfiavano le guance e si avvicinavano per vedere meglio. Ah, sì... Lui si stava divertendo tanto, ma proprio tanto.
19 E Abramo si alzò e andò. Ed ecco, fu deluso. Il nostro primo anno di matrimonio fu difficile. Odiavo i miei, ma li trattavo con gentilezza; amavo mia moglie, ma la trattavo con asprezza. L’East Village non andava bene. Avrebbe dovuto essere la mia Terra Non-Promessa, l’ultimo capitolo nell’Esodo al contrario che era diventata la mia vita. Ero fuggito dalla terra dei miei padri, la terra di Abramo, Isacco, Giacobbe, del rabbino Kahn e del rabbino Blowfeld, la terra delle yeshivot e di Jahveh, dei rabbini violenti e dell’amore condizionato dalla religione della mia famiglia, ed ero finalmente approdato a Manhattan, la terra della libertà e dell’anonimato, dei film stranieri, delle commedie incomprensibili e delle ragazze completamente nude, il posto che mi aveva indicato Woody Allen. E invece mi ero beccato Martin Scorsese. Bel colpo, Dio. Avevamo affittato un adorabile miniappartamento a piano terra sulla Tredicesima Strada Est, proprio di fronte alla più deliziosa delle mense per i poveri, e a pochi passi da un ambulatorio per la distribuzione di metadone, un posticino proprio fantastico. La sera ci addormentavamo cullati dalle voci poco educate dei senzatetto che frugavano nei bidoni della spazzatura proprio davanti alla nostra finestra, dalle urla del padrone di casa e dal rumore di bottiglie rotte, quelle che lui tirava dalla finestra per cacciarli via. Poi ci abbandonavamo al sonno, mentre al di là della nostra finestra eroinomani e malati di mente raccoglievano tranquillamente i pezzi di vetro più grossi e più taglienti dagli scalini dell’ingresso. «Buonanotte, tesoro» diceva Orli. «Buonanotte, amore» dicevo io. «Domattina gli faccio un bello sfregio, a quel frocio figlio di puttana» diceva l’eroinomane. Mostravo il dito medio a Dio. Orli mi guardava e mi accarezzava la guancia con la mano. Mi aspettavo che il mio rapporto con Dio la impensierisse, ma in realtà la rattristava soltanto. Tentai di vedere il lato positivo della situazione. Sì, c’era un uomo che stava cacando sugli scalini dell’ingresso. Però ero vicino all’ufficio. I pusher consegnavano a domicilio. E non ero a Monsey. «Non è così male» dissi passando lo spinello a Orli. «Possiamo impegnarci perché funzioni.» Ci provammo. Manhattan era fredda, morta, e piena di psicotici: psicotici vestiti con i sacchi della spazzatura, la cui casa era praticamente un carrello del supermercato; psicotici in doppiopetto e cravatta, che per venti ore al giorno facevano un lavoro che disprezzavano; psicotici che andavano in giro come in un film, agghindati e in posa come se fossero circondati da paparazzi e troupe televisive. Preferivo il senzatetto che insultava una madre immaginaria; per lo meno potevo capire l’impulso. Anziché ateismo, trovai politeismo. Qui c’erano più dei di quanti non ce ne fossero mai stati a Monsey – forse non erano così vendicativi, ma comunque non ispiravano minore devozione tra i loro fedeli: gli dei maggiori – moda, soldi, successo, potere – e gli dei minori – macchina, tessera di una palestra, indirizzo (c’era in atto una guerra santa, ne ero convinto, tra «Quelli sotto la Quattordicesima Strada» e «Quelli sopra la Quattordicesima Strada»). C’era una bibbia chiamata «New York Times», una chiamata «Village Voice», un dio chiamato Frank Rich. Ecco, qui c’era «Donald Trump, Signore del Denaro» e nell’East Village, dove abitavamo noi, c’era un tempio chiamato Kim’s Video, il cui personale era formato da sgarbati, allampanati, foruncolosi accoliti di un dio chiamato Sergej Ejzenštejn, creatore del montaggio, resuscitatore della regia, che aveva presentato al mondo La corazzata Potëmkin e consegnato al Suo popolo il simbolismo filmico protodidattico. Solo i nomi erano cambiati. Che Dio ti maledica, Woody Allen. Qualche settimana dopo, il palazzo accanto al nostro apparve sulla prima pagina del «New York
Post». Il titolo era:
LA CENTRALE DELLA DROGA
E Abramo raccolse la sua merda e traslocò nell’Upper East Side. Affittammo un decrepito appartamento lungo e stretto, in un palazzo cadente sulla Seconda Avenue all’incrocio con la Settantunesima Strada. Il pavimento si inclinava di quindici gradi per tutta la lunghezza, a mo’ di triste metafora dello stato emotivo dei suoi abitanti. «Bel colpo» dissi a Dio. «Ho capito... Sto colando a picco. Uno scribacchino.» Più o meno verso il nostro primo anniversario di matrimonio, io lasciai il lavoro di copywriter, con l’intento di scrivere qualcos’altro. Ma dopo sei mesi non ero ancora riuscito a capire che cosa potesse essere questo «qualcos’altro». Avevo solo un paio di idee che mi andava di portare avanti. Una era masturbarmi. L’altra era fumare erba. Negli ultimi tempi stavo lavorando a una terza idea, una specie di pastiche delle prime due. Avevo previsto di poter guadagnare un po’di soldi lavorando come freelance nel campo pubblicitario, ma Dio pensò che fosse divertente provocare una crisi del settore la settimana dopo che mi ero licenziato. Dormivo tutto il giorno e passavo le nottate a fissare la pagina bianca. Riguardavo il mio episodio preferito del Robin Byrd Show. Leggevo Kafka, Gogol’, Dostoevskij. Mi sentivo dentro come Beckett appariva fuori. Decisi di andare da uno psichiatra. Dissi al dottor Hirsch che ultimamente pensavo spesso al suicidio. «Non a commetterlo» dissi. «Solo alle implicazioni teologiche.» Spiegai che mi sembrava fosse l’unica vera libera scelta che avevamo. Rappresentava senza dubbio il tallone d’Achille di tutto il progetto della creazione di Dio, un progetto concepito nel narcisismo e nella dominazione, un progetto la cui regola principale veniva palesemente violata da chi si toglieva la vita: Tu resterai nella tua stanza finché io non ti dirò che puoi uscire. Il fatto che Lui lo giudicasse un peccato non faceva che rendere ancora più convincente la mia teoria: e cioè che Lui avesse il pallino di controllare tutto e tutti, e che probabilmente lo mandava ai pazzi che un uomo si potesse togliere la vita – che tutto il genere umano, in massa, potesse porre fine all’intera Sua miserabile creazione – e che magari proprio questa fosse una motivazione sufficiente per farlo, come dire: ’fanculo! perché questo deve essere il Suo parco giochi e Lui deve avere il potere di punirmi quando vuole? sai che ti dico, o Signore? sai che ti dico, «Non avrai altro Dio all’infuori di Me»? sai che ti dico, «Amami e Temimi»? sai che ti dico? che io mi posso riprendere i miei giocattoli e tornarmene a casa mia quando voglio. «Credi davvero che Dio ti stia punendo?» chiese il dottor Hirsch. La sua ingenuità mi lasciò secco. «Non è che lo credo. È che lo so!» Mi disse di chiamarlo Ike. Spiegai a Ike che mi sentivo come gli egiziani della Bibbia, tormentato da Dio con la piaga di una tenebra che non finiva mai. Lui mi disse che il suo onorario era trecentocinquanta dollari. «A settimana?» «A seduta. Però ci dobbiamo vedere due volte la settimana.» Non potermi permettere la salute mi faceva impazzire, ma le mie scelte erano molto semplici: restare pazzo, lasciare Manhattan, oppure tornare al lavoro. Per fortuna, il capo dell’agenzia da cui mi ero licenziato di recente mi aveva assicurato che sarei potuto tornare in qualunque momento. Si chiamava
Nick. «Qui siamo tutti una famiglia» aveva detto Nick. Andai a trovarlo, dopo la mia prima seduta con Ike. «Posso tornare?» chiesi. «No» disse Nick.
Io e Orli traslocammo quattro settimane più tardi. Dopo le massacranti spese di Manhattan, decidemmo che valeva la pena di tentare un’altra volta la vita nei sobborghi. Eravamo sposati soltanto da un anno e mezzo e, senza contare Monsey e Londra, eravamo già 0 a 3 con la Terra Promessa. Teaneck, nel New Jersey, è una tranquilla comunità upper-middle-class, con grandi case in stile Tudor, prati ben tenuti e strade ombreggiate, ovviamente se non sei un nero. Se sei un nero, Teaneck è una fatiscente comunità lower-class, con un paio di centri commerciali, un videonoleggio e un Popeyes Chicken. Cinquant’anni fa, Teaneck venne scelta tra oltre diecimila città come la comunità-modello d’America, un posto di viali alberati in cui la gente viveva insieme, in un’armonia razziale screziata di sole. Ma oggi gli ebrei non si avventurano spesso nella zona nera, che comincia da State Street, e i neri non si avventurano spesso nella zona ebrea, che comincia da Queen Anne Road. I due isolati tra State Street e Queen Anne Road sono quindi una specie di zona franca dei sobborghi americani. Ci sono un Walgreens, una lavanderia cinese, una pesante presenza della polizia ventiquattr’ore su ventiquattro, e un complesso residenziale chiamato Terrace Circle. Il complesso residenziale Terrace Circle, una dozzina di tozzi edifici identici di mattoni disposti a forma di cerchio irregolare intorno a un piccolo cortile erboso, è abitato quasi esclusivamente da giovani coppie di sposini ebrei, che sognano il giorno in cui traslocheranno al di là di Queen Anne Road, in uno dei quadrilocali con due bagni e mezzo che rappresentano la loro personale Terra Promessa. Si considerano non molto diversi dai coloni della West Bank di Israele, così coraggiosi da vivere vicinissimi ai nemici per poter adempiere al proprio destino. Solo che qui gli arabi erano gli afroamericani, Gaza era Teaneck, gli insediamenti erano appartamenti di due stanze con ingresso indipendente e la lavanderia condominiale, e la Terra Promessa era un mutuo trentennale per due bagni e mezzo, cucina superattrezzata e box doppio sul lato giusto di Queen Anne Road. Il giorno in cui io e Orli traslocammo nell’appartamento 3B, al 1492 di West Terrace Circle, mia cognata ci fece fare un rapido giro del quartiere in macchina. Lei e mio fratello avevano vissuto a Terrace Circle per molti anni, e si erano trasferiti solo di recente. La loro casa, sul lato giusto di Queen Anne, era a multilivelli, multicamere e multibagni, con un’altalena nel giardino sul retro e due macchine in quello davanti. Stile Tudor. «C’è il macellaio kosher» ci disse. «E c’è Dunkin’ Donuts. Dunkin’ Donuts è kosher, a parte il tonno o le uova. Per le ciambelle non sono sicura. Quella è la sinagoga del rabbino Hecht. Molto ortodosso. Lo conoscete il rabbino Mandelbaum? Quella è la sua sinagoga. La nostra sinagoga è in fondo a questa strada...» Io guardavo sconsolato dal finestrino del minivan mentre passavamo davanti a case, sinagoghe e yeshivot, e case e sinagoghe e yeshivot. La notte prima mi ero addormentato in una fotografia di Lee Friedlander; la mattina mi ero svegliato in una di Roman Vishniac. «Vi ho fatto vedere la pizzeria kosher?» chiese mia cognata. «Uau!» dissi io indicando il mio orologio da polso. «Arriva il tizio della tv via cavo.» Era venerdì 6 maggio 1994: la quarta partita delle semifinali della Stanley Cup Conference tra i Rangers e i Washington Capitals era fissata per il giorno dopo, il pomeriggio di Shabbat. Il tizio della tv via cavo se ne andò, e io chiusi la porta dietro di lui. Dicono che non si torna mai a casa, ma a me sembrava di avere il problema opposto; mi sentivo come se, protetto dalla notte, fossi
coraggiosamente fuggito da Auschwitz, oltrepassando le guardie, eludendo i cani, correndo nei boschi, e mi fossi poi arrampicato su un treno in transito per ritrovarmi due ore dopo direttamente dentro Treblinka. Mi appoggiai alla porta, guardai il soffitto, aggrottai le ciglia e mostrai a Dio il dito medio. «Vaffanculo» dissi. Squillò il telefono. Rispose la segreteria. Era mia madre. Si congratulò con noi per la nuova casa con una sfilza di espressioni in yiddish, e disse quanto era meraviglioso che fossimo a soli trenta minuti da loro. Poi ancora yiddish. «No» disse il Signore. «Vaffanculo tu!» Ci sono trentanove categorie di lavoro che sono proibite di Shabbat. La categoria 37, accendere un fuoco, esclude anche l’accensione di qualunque elettrodomestico, compreso il televisore. Io avevo deciso di accendere il televisore il venerdì pomeriggio, prima che cominciasse lo Shabbat, e di lasciarlo acceso fino alla fine dello Shabbat, venticinque ore dopo, il sabato sera. Tecnicamente, questo non era «entrare nello spirito dello Shabbat», ma non entrare nello spirito dello Shabbat non era tecnicamente un peccato, e ai Rangers mancavano forse solo nove vittorie per vincere la finale della Stanley Cup dopo cinquantaquattro anni dall’ultima volta. Accesi il televisore, abbassai il volume, e drappeggiai un vecchio asciugamano sullo schermo per nascondere ai vicini la tremolante luce azzurra della nostra debolezza morale. «Credi davvero che se accendi la tv di Shabbat, Dio farà perdere i Rangers?» chiese Orli. La sua ingenuità mi lasciò secco. Orli mi abbracciò. «Ti hanno proprio fatto il lavaggio del cervello» disse. Facemmo la doccia, ci vestimmo, accendemmo le candele dello Shabbat e andammo a piedi a casa di mio fratello per la cena di Shabbat del venerdì. Lui ci mostrò la sua casa. Ci mostrò il suo giardino. Ci mostrò la sua berlina nuova. Ci mostrò le sue canne da pesca nuove. «Avete visto il mio nuovo televisore?» chiese. «Sarà meglio che andiamo» disse Orli. Io chiesi scusa per lei, finsi una certa resistenza, e fuggimmo a casa insieme, sottobraccio nella notte oscura.
La mattina dopo, mi trascinai in salotto e guardai con orrore fuori dalla finestra: decine di coppie di sposini, gli uomini in completi costosi, le donne in vestiti ancora più costosi, almeno la metà delle donne con un bambino in braccio, erano riuniti sul prato irregolare al centro del complesso di Terrace Circle, giocando a esibire le loro cravatte, i cappelli e i neonati (sedersi sul prato era proibito perché l’erba poteva macchiare i vestiti: tingere, categoria 15. Qualcuno sosteneva che era anche una violazione della categoria 2, arare, e se per caso una zolla di terra veniva rimossa dal tacco di una scarpa, anche della categoria 3, falciare). La finestra era aperta, e io potevo sentire le coppie con bambini dire alle coppie senza bambini come fosse fantastico avere dei bambini. Le coppie senza bambini dicevano: «Non vediamo l’ora». «Im yirtzeh Hashem per voi» rispondevano le coppie con bambini. «Dio lo voglia anche per voi.» Io e Orli decidemmo di andare a fare una passeggiata. «Devo mettermi i vestiti dello Shabbat?» chiesi. «E io che ne so?» chiese Orli. «Tu che cosa ti metti?» «Mi metto dei vestiti.» «Quelli sono vestiti da Shabbat.» «Una gonna è un vestito da Shabbat?» «Sì» dissi io.
«È solo che a te le gonne non piacciono.» «Perché la gente se le mette di Shabbat.» «Perché pensi che mi fanno sembrare ebrea.» «Sì, ti fanno sembrare ebrea. Ti fanno sembrare ebrea durante lo Shabbat.» «Dimmelo tu, Shal» disse lei. «Io questa gente non la conosco. Me la posso mettere questa o no?» «Non lo so.» «E queste scarpe da ginnastica?» «Cioè?» «Me le posso mettere? I Rangers perdono, se mi metto le scarpe da ginnastica di Shabbat?» Ci riflettei. «Probabilmente.» «Bene.» Alzò le spalle. «Allora mi metto le scarpe normali. Non fa niente.» Lo sapevo. Lo sapevo che ci dovevamo mettere i vestiti dello Shabbat. Attraversammo il prato, scendemmo per il vialetto di Terrace Circle e ci allontanammo. «Gut Shabbos» ci gridò qualcuno. «Gut Shabbos» rispondemmo noi. «Gut Shabbos» gridò qualcun altro. «Gut Shabbos» rispondemmo. «Gut Shabbos» gridò qualcun altro ancora. «Quanto rompi» borbottai io. Finalmente attraversammo State Street e trovammo un giardinetto dove sederci su un’altalena a fumare uno spinello (categoria 37, accendere il fuoco). I Saggi dicono che uno può violare lo Shabbat soltanto se si tratta di salvare la vita a un ebreo, ma dato che i miei nuovi antidepressivi ancora non facevano effetto, immaginai che Dio potesse dare il via libera a un paio di canne mattutine di Shabbat. «Non è così male» dissi, passando lo spinello a Orli. «Possiamo farlo funzionare.» Lei fece un tiro, si fissò le scarpe da Shabbat, e annuì. Erano passate le due del pomeriggio quando finalmente tornammo a Terrace Circle, ed eravamo fatti per benino (categoria 11, cuocere al forno). La gente aveva appena finito il pranzo di Shabbat e caracollava fuori: gli uomini si carezzavano con orgoglio il ventre gonfio, le donne facevano la stessa cosa coi loro bambini. «Quale sinagoga frequentate, voi?» chiese Daniel Qualcosa. «Quella... cioè...» dissi io «... del rabbino...» «Hecht?» offrì lui. «Esatto» dissi io. «Hecht» disse Orli. «Io quella sinagoga la odio» disse la moglie di Daniel. «Dovreste andare alla sinagoga del rabbino Levine. C’è gente molto più interessante.» «La sinagoga del rabbino Levine?» Suo marito si offese. «E che cos’ha di tanto speciale, la sinagoga del rabbino Levine?» «Niente» disse la moglie di Daniel. Il neonato che aveva in braccio cominciò a piangere. «Solo che a me piace di più.» «Cioè, a loro non piacerebbe la sinagoga del rabbino Hecht?» chiese Daniel. «Come fai a sapere quale sinagoga piacerebbe a loro? Lo sai con chi ha studiato il rabbino Hecht? Col rabbino Soloveitchik!» «E allora?» urlò la moglie. Il neonato ululava. «E allora?» urlò a sua volta Daniel. «E allora?» «Im yirtzeh Hashem per voi» dissi io, il che fece collassare Orli sul prato in un accesso di riso. «Yirtzeh» urlò, ridendo istericamente e rotolandosi sul prato, tingendo (categoria 15), arando
(categoria 2) e falciando (categoria 3), con lo sconsiderato abbandono di chi ha fumato erba. Quando rientrammo in casa, la partita dei Rangers era già a metà. Chiudemmo le imposte, chiudemmo a chiave la porta, restammo pietrificati per un attimo quando dei vicini che stavano uscendo si fermarono davanti alla nostra porta a origliare, poi togliemmo l’asciugamano dallo schermo del televisore, ci infilammo le nostre felpe dei Rangers (la mia da casa, la sua da trasferta), e ci sedemmo uno accanto all’altra sul divano, mangiandoci le unghie e sforzandoci di non urlare a ogni tiro e di non protestare a ogni penalità. Il punteggio era fermo sul due a due. «Allora adesso li dobbiamo invitare?» chiesi. «Chi?» «I Come-si-chiamano. Daniel e la moglie.» «Non lo so» disse Orli. «Io credo che dovremmo» dissi io «Non dobbiamo fare proprio niente.» I Rangers sprecarono una superiorità numerica, e per due volte persero il controllo del dischetto nella loro zona. «Secondo me li dobbiamo invitare» dissi. Trenta minuti dopo, suonò il fischio finale, i Rangers avevano perso 4 a 2. Io maledissi gli arbitri, maledissi i Capitals, e maledissi prima di tutto me stesso per aver lasciato acceso il televisore. Guardai in su e feci gli occhiacci al cielo.
I Rangers vinsero la quinta partita, eliminando i Capitals e preparandosi ad affrontare i New Jersey Devils la settimana dopo al meglio delle sette partite. Verificai sul calendario se si prospettavano conflitti teologici: la quarta partita era fissata per un sabato pomeriggio, e la settima, amesso che ci si arrivasse, per il venerdì sera successivo. Feci un patto con Dio: se i Rangers avessero vinto le prime tre partite, io avrei lasciato il televisore spento per la quarta. Se le prime tre partite le avessero vinte i Devils, avrei comunque lasciato il televisore spento: nel peggiore dei casi, non avrei assistito all’eliminazione dei Rangers dai playoff. Non ci furono negoziati in merito alla settima partita. Alla fine della settimana, i Rangers conducevano la serie per 2 a 1. Guardai la partita del sabato, vinta dai Devils per 3 a 1. La partita del lunedì sera fu anche peggio: i Devils vinsero 4 a 1. Ero sul mio divano a fissare incredulo la televisione, mentre i Rangers pattinavano sul ghiaccio a testa bassa. Erano a una sola partita dall’eliminazione. Ecco che tipo è il Dio con cui me la devo vedere, il tipo che fa attraversare a Mosè tutto il deserto, fino al limitare della Terra Promessa, e non lo lascia entrare – lo uccide, per l’esattezza – perché il poveretto, anni prima, ha colpito una roccia con il bastone. Una roccia. E adesso questo. Aspetta cinquantaquattro anni. Porta qui Messier dal Canada. Fa salire Gorbaciov al potere affinché cominci la Glasnost, e Kovalev possa venire a New York a giocare come ala destra per dare ai Rangers la potenza d’attacco di cui avevano tanto bisogno. E adesso – adesso! – li sbatte fuori dai playoff. «Non avremmo dovuto guardare quelle partite» dissi. «Quali partite?» chiese Orli. «Quelle di Shabbat.» Orli si sedette accanto a me e mi diede dei colpetti sul fianco. «Ehi» disse con voce dolce. «Su, andiamo.» Mercoledì sera, Dio lasciò che i Rangers vincessero la sesta partita, così da fissare la resa dei conti per la settima partita di venerdì sera. Che razza di primadonna.
Il venerdì pomeriggio vidi Ike. Io volevo parlare di Dio, lui voleva parlare della mia famiglia. Un’agenzia pubblicitaria che aveva sede a midtown mi aveva offerto un lavoro freelance a lungo termine, e sebbene mi disprezzassi per averlo accettato, mi piaceva molto l’idea di uscire da Teaneck tutti i giorni, mi piaceva molto l’idea di essere in grado di pagare Ike, e a Orli piaceva molto la nostra nuova Chrysler LeBaron decappottabile verde bosco. Ike suggerì con tatto di prendere in considerazione di cambiare casa. «Devi andartene da quel posto» disse. «Hai bisogno di fuggire lontano dal tuo passato.» «Mi serve un lavoro a tempo pieno.» Ike sospirò. «Non ti sto dicendo niente che tu non sappia già.» «E allora come spieghi la tua tariffa?» Quando tornai a casa, c’erano ad aspettarmi tre messaggi in segreteria: mia cognata ci invitava quella sera per la cena di Shabbat; David Nonsocosa-stein ci invitava da loro per il pranzo di Shabbat, non sapendo che così avevano fatto anche i Gold-qualcosa, che avevano già invitato anche i Chissà-quali-blatt; e mia madre aveva telefonato augurandomi un gutten Shabbos, sapendo benissimo che non lo osservavo, e chiedendomi di augurare la stessa cosa a mio fratello quando lo avessi visto in sinagoga, sapendo benissimo che non la frequentavo. Accesi la tv, abbassai il volume, misi l’asciugamano sopra allo schermo e chiusi le imposte. «Settima partita, Dio» pensai. «Vedi di non fare cazzate.» Da mio fratello cenammo alla velocità della luce, e riuscimmo a tornare a casa appena in tempo per l’inizio del secondo tempo. Sette secondi prima del fischio finale, la squadra del New Jersey segnò mandando la partita ai tempi supplementari. Mi protesi in avanti e guardai con occhio torvo il cielo. A quattro minuti e ventiquattro secondi dei tempi supplementari, l’ala sinistra newyorkese Stéphane Matteau sbatté il dischetto fuori della portata della mazza del portiere dei Devils. «I Rangers» disse Marv Albert, «vanno alle finali della Stanley Cup.» Io e Orli urlammo dentro i cuscini del divano, ci rotolammo sul pavimento, e soffocammo l’entusiasmo dentro asciugamani appallottolati. Io applaudii l’aggressività in attacco dei Rangers, applaudii la loro campagna acquisti al termine della stagione regolare. Più di tutto, applaudii un Dio che forse – dico forse – non era poi stronzo come mi avevano detto.
Il patto che feci con Lui per la finale contro i Vancouver Canucks fu questo: indipendentemente dal risultato delle prime due partite, non avrei guardato la terza (di sabato). Non è che stessi offrendo molto – in una serie di sette partite, nessuna è davvero decisiva – ma avevo cominciato a pensare che anche Dio fosse stato toccato dalla febbre dei Rangers. E alla quarta partita (di martedì), i Rangers erano in testa per 2 a 1. Dopo la seduta con Ike quel pomeriggio, avevo un po’ di tempo prima di riprendere l’autobus per Teaneck, e decisi di andare a piedi fino a Port Authority. Passando davanti al Madison Square Garden, notai una gran folla riunita sui gradini di fronte all’ingresso. «Che succede?» chiesi a un venditore di hot dog. «Grande partita, stasera» disse lui. «Hockey.» «La partita è in Canada» dissi sbirciando la folla dall’altro lato della strada. Un uomo tutto eccitato con una felpa dei Rangers si avvicinò a me; aveva in mano un cartello con su scritto DESTINO. «Dammene uno con tutto» disse al venditore. «La partita è in Canada» dissi al tifoso dei Rangers. «Le partite in trasferta» disse lui «si possono guardare per cinque dollari sul Jumbotron.» Il Madison Square Garden era la casa dei Rangers, e i biglietti per una partita dei playoff, se uno riusciva a trovarli, costavano una fortuna. Sapevo di un tizio che aveva pagato duemila dollari per un paio
di posti dietro la rete dei Rangers. «Cinquantaquattro anni!» aveva urlato sventolando i biglietti davanti alle telecamere. «Cinquantaquattro anni!» «Forza, Rangers!» urlò l’uomo, precipitandosi verso il Madison Square Garden. «Forza, Rangers!» gli urlai dietro io. Era troppo tardi per trovare i biglietti per la partita di quella sera, ma anche la sesta partita (di sabato) era in trasferta. Il venerdì mattina andai al Madison Square Garden, dove pagai dieci dollari per due biglietti. Che gliene fregava a Dio se io guardavo la partita sullo schermo a diciassette pollici del mio salotto o sul Jumbotron appeso al centro della pista di ghiaccio del Madison Square Garden? Dovevo semplicemente fare in modo di non commettere più peccati andando alla partita che restando a casa. «I Rangers!» applaudì Orli quando le mostrai i biglietti. Teaneck rappresentava la sconfitta. Questi biglietti rappresentavano la ribellione, la vita, e Orli applaudì di nuovo. Tentai di calmarla. «Senti» le dissi, «ci dobbiamo andare a piedi.» Anche se c’erano i soldi del mio lavoro di freelance, i nostri fondi erano limitati, e non potevamo proprio permetterci una notte in albergo a Manhattan. Per un momento pensai di chiedere ospitalità a degli amici, poi mi ricordai che non ne avevamo. Le uniche persone che conoscevo a Manhattan erano i miei ex colleghi, a cui una volta Nick mi aveva chiesto di spiegare il motivo per cui non partecipavo mai alle uscite che organizzavano il venerdì sera. «Sono sposato» avevo detto loro. «E noi osserviamo lo Shabbat.» Loro non sapevano cosa dire. «Non potete andare in un bar di Shabbat?» «No.» «Potete andare a un concerto?» «No.» «Che cosa potete fare?» «Niente.» «Perché osservate lo Shabbat?» Io non sapevo che cosa dire. «I Rangers!» urlò di nuovo Orli, saltando su e giù per la stanza. «Sono più di venti chilometri.» «I RANGERS!»
Il giorno dopo, per evitare di suscitare i sospetti dei nostri vicini, io e Orli ci avviammo verso New York nei nostri migliori abiti da Shabbat: io coi pantaloni del completo e una camicia bianca button-down, Orli in abito blu e scarpe eleganti. Nella borsa che tentavo di nascondere sotto il braccio, c’erano i nostri biglietti, due berretti dei Rangers, due felpe dei Rangers (la mia da casa, la sua da trasferta), e qualcosa da mangiare lungo la strada. E i figli di Israele si avviarono, bardati, fuori dalla terra d’Egitto. Era un’infuocata mattina di giugno. Io sudavo già abbondantemente prima di raggiungere il confine di Teaneck. Zanzare mandate da Dio mi ronzavano intorno alla testa; moscerini inviati poco dopo tentarono di infiltrarsi nel mio naso, come Lui gli aveva ordinato di fare. Camminavamo in fila indiana lungo la Route 4, un’autostrada a sei corsie che unisce il New Jersey a New York City. Macchine, autotreni e autobus ci sfioravano a centoventi chilometri l’ora. Dopo un’ora, raggiungemmo il ponte George Washington. Qui la Route 4 si univa alla Route 80, e le sei corsie di traffico diventarono otto, poi dieci, poi dodici, un intrico di cemento fatto di rampe
d’accesso, rampe d’uscita, e raccordi a quadrifoglio. Scavalcammo un guardrail, sfrecciammo per superare le due corsie riservate agli autotreni, scavalcammo un altro guardrail, attraversammo una corsia per gli autobus, e raggiungemmo una piccola isola di cemento, dove aspettammo che il traffico si diradasse per attraversare sani e salvi le ultime tre corsie. «Sarà meglio che vincano» urlai a Orli. «Come?» «HO DETTO CHE SARÀ MEGLIO CHE VINCANO!» Passarono due camper, poi un furgone e un paio di macchine. «Corri!» urlai, e scattammo. Mentre finalmente imboccavamo il ponte George Washington per poi percorrere la rampa per l’autostrada del West Side, erano passate le tre e il sole diventava sempre più forte. Sulla mia testa ci si poteva friggere un uovo. (Cuocere: categoria 11. Alcuni rabbini sostengono che se la mia testa fosse stata bollente prima dell’inizio dello Shabbat e l’uovo fosse stato cotto in precedenza, sarebbe stato permesso mettermi un uovo sulla testa allo scopo di riscaldarlo. Altri dissentono.) Avevamo programmato di seguire l’autostrada fino alla Trentaquattresima Strada, ma la banchina era davvero troppo insidiosa. Risalimmo la rampa, attraversammo Riverside Drive, camminammo fino alla Centosessantottesima Strada, girammo a destra sulla Broadway e ci dirigemmo verso sud. Washington Heights diventò Spanish Harlem, Spanish Harlem diventò la Harlem vera e propria, e la Harlem vera e propria diventò l’Upper West Side. Passammo di fronte ad Autoriparazioni San Juan, Autoriparazioni Puerto Rico e Autotrasporti Satolino. Alimentari Los Muchachos e Ristorante Lechonera La Isla lasciarono il posto a Ben Pasticceria Kosher, Benny Pizza Kosher e Benjy Falafel Kosher, mentre noi scacciavamo il desiderio di fermare ogni taxi che ci passava accanto. Vecchie vesciche scoppiarono. Nuove vesciche si formarono. Dio sbirciava dall’alto, e aspettava... «Sarà meglio che vincano, cazzo» borbottai. «Sarà meglio che vincano, cazzo» approvò Orli. All’altezza della Cinquantanovesima Strada eravamo distrutti. Parlavamo appena. Ogni isolato ci sembrava lungo un chilometro. Ma quando raggiungemmo la Quarantaduesima Strada, vedemmo immensi gruppi di tifosi urlanti che inondavano la Broadway con le loro insegne dei Rangers, battendo le mani e soffiando forte nei loro corni. I taxi suonavano i clacson al ritmo dell’inno «Forza, Rangers!». Ci mettemmo berretti e felpe e cominciammo a correre. Ci fermammo soltanto una volta dentro al Madison Square Garden, sistemati ai nostri posti, che erano più o meno a metà dello stadio, subito a sinistra del centro della pista del ghiaccio. Il Jumbotron si accese quasi immediatamente. A settemila chilometri di distanza, i Rangers entrarono in pista e noi ci alzammo e urlammo e applaudimmo con tutte le nostre forze. Essere in questa enorme arena, circondato da migliaia di persone che si entusiasmavano per persone che non erano lì, mi riempì di un senso di appartenenza che non provavo da molto tempo. Era come in sinagoga – un altro posto dove la gente acclamava qualcuno che non c’era – però con l’hockey. «Cinquantaquattro anni» dissi mentalmente a Dio mentre applaudivo, urlavo e agitavo il pugno in aria. «Vedi di non fare cazzate.»
Non ci andammo nemmeno vicino. Il portiere dei Vancouver Canucks fu quasi perfetto, lasciando passare ai Rangers un solo gol in tutta la partita. I Canucks ne avevano segnati quattro. «C’è sempre la settima partita» disse Orli. Ma non era questo il punto, giusto? Io non avevo guardato la terza partita. Non avevo preso l’autobus né chiamato un taxi. Il punto era che AVEVAMO FATTO UN PATTO. Il punto era che io vivevo in uno shtetl del New Jersey. Stavo facendo del mio meglio, stavo facendo del mio meglio per far funzionare la cosa, maledizione, e Lui quand’è che cominciava a fare del suo meglio con me? «Dimmi un
po’, Dio» pensai seduto al Madison Square Garden, «quale confine ho oltrepassato, quale assurda, imperscrutabile legge ho violato che possa giustificare questo?» Okay, avevo portato uno zaino (portare, categoria 39). Ma diceva sul serio, Quello? Non era possibile che mi fregasse su questa cazzata del portare! Avevo camminato per chilometri, questo era vero – è proibito camminare più di un chilometro oltre i confini della città, di Shabbat – ma, Santo Iddio!, mica ero stato io a mettere il Madison Square Garden sulla Trentaquattresima Strada, giusto? «Io non la guardo, la settima partita» dissi. Orli sospirò. «Non essere ridicolo» disse. Fissavo il pavimento, senza riuscire a guardarla in faccia, e mi domandai per quanto tempo ancora mi avrebbe rivolto la parola. Era per questo che Dio l’aveva fatta sopravvivere a quella prima partita dei Rangers che avevamo guardato insieme tanti mesi prima? Affinché potessi darle il colpo di grazia io personalmente? Se quella sera i Rangers avessero vinto, perlomeno la mia pazzia sarebbe stata avvalorata. Invece ora, mentre il Madison Square Garden si svuotava, sentivo di aver perso tutto. Scendemmo la scala mobile in silenzio. Ma come mi era venuto in mente, di mettermi a giocare d’azzardo con questo Tizio? Nel casinò di Dio, il banco vince sempre – chiedete a Mosè, chiedete a Giobbe, chiedete a Sara – e io mi ero seduto al tavolo da poker del Signore, cercando di contare le carte. Tutto intorno a noi, gente senza i vestiti dello Shabbat saltava su e giù sui piedi senza vesciche, commentando con urla eccitate la partita – «Che serie, ragazzi!» – e facendo pronostici per la settima partita. Sull’altro lato della strada, all’angolo con la Trentatreesima, individuai il venditore di hot dog con cui avevo parlato il giorno prima. Afferrai Orli per la mano e mi misi a correre. «Dove stiamo andando?» gridò lei. Corremmo lungo il marciapiedi, schivando i tifosi di hockey, e ci facemmo strada fra i taxi che oziavano sulla Broadway. «Dammene uno con tutto» dissi al venditore. «Extra treyf.» Orli sussultò. Il venditore mi porse un hot dog, e io me lo infilai direttamente in bocca, tentando di farcene entrare il più possibile. Orli urlò di felicità. «Un ragazzo affamato» disse il venditore a Orli. Avevo le guance gonfie. Mi faceva male la mascella. La senape mi colava sul mento. Alzai gli occhi al cielo, sorrisi a Dio come meglio potevo, e Gli mostrai il dito medio. «Sa di maiale» riuscii a dire. Allungai il resto dell’hot dog a Orli, che alzò le braccia sopra la testa in segno di vittoria, si tuffò in avanti e con ferocia lo azzannò dall’altro lato. «Hmmm...» disse. «Non è kosher...» Ridemmo, ci abbracciammo e tentammo di inghiottire senza strozzarci. «Uno e cinquanta» disse il venditore. Mi infilai la mano in tasca e gli porsi un biglietto da cinque. Orli indicò il denaro urlando. «Avevi portato dei soldi?» disse. «Ecco perché hanno perso!» Oltre alle trentanove categorie di lavoro che sono proibite di Shabbat, i Saggi hanno anche proibito il toccare o spostare qualunque cosa – tipo i soldi – che possa condurre alle trentanove categorie di lavoro. «Era in caso d’emergenza!» mi difesi, e ci avviammo verso la Sesta Avenue, alla ricerca di un taxi che ci portasse verso casa. Diedi un altro morso al mio hot dog, feci una smorfia e lo gettai nel cestino dei rifiuti. «Non era buono come pensavo» dissi. «Sprechi il cibo?» disse Orli. «Ci siamo giocati la settima partita.»
La sua ingenuità mi lasciò secco. «Lui li farà vincere» dissi. «Tanto per sbattermelo in faccia.»
Tre giorni dopo, martedì 14 giugno, i Rangers vinsero la settima partita della Stanley Cup Championship del 1994 con un punteggio finale di 3 a 2. Io non guardai la partita. Okay, va bene, guardai l’ultima parte. «Figuriamoci» pensai mentre Messier alzava la coppa sulla testa e faceva il giro della pista. «Troppo prevedibile.» Il sabato dopo, io e Orli prendemmo la macchina per la prima volta di Shabbat. Aspettammo fino a dopo pranzo, e quando il prato di Terrace Circle fu finalmente vuoto, scendemmo le scale in punta di piedi, ci infilammo di soppiatto nella nostra nuova scintillante Chrysler LeBaron verde bosco e uscimmo tranquillamente dal parcheggio di Terrace Circle. Arrivati a Queen Anne Road, accelerammo e arrivammo al centro commerciale Riverside di Paramus, dove per un po’ curiosammo tra gli scaffali parlando di Dio, senza però convincerci a usare i soldi per fare qualche spesa. Lo Shabbat dopo ce la svignammo di nuovo, questa volta diretti al centro commerciale di Bergen, dove per un po’ curiosammo tra gli scaffali parlando di Dio, comprammo qualche libro e dei cd, ma lasciammo i pacchi in macchina, in modo che nessuno potesse vederci mentre li trasportavamo. L’agenzia pubblicitaria con la quale collaboravo mi aveva promesso di assumermi, e ben presto mantennero la promessa. Io e Orli trovammo un appartamento sulla Cinquantaseiesima Strada Ovest, con una camera da letto, non in stile Tudor, senza vista panoramica, senza prato davanti. Era perfetto. Lo Shabbat dopo, andammo a piedi fino al parcheggio di Terrace Circle, salimmo sulla LeBaron, tirammo giù la capote e mettemmo la musica a tutto volume. Prendemmo la macchina per andare da Staples, dove comprammo del materiale da imballaggio, e poi all’Electronics della Sesta Avenue, dove comprammo un televisore a colori diciannove pollici per l’appartamento nuovo. Quando rientrammo era da poco passata l’una, ed erano tutti fuori sul prato, a smaltire il pranzo dello Shabbat. Attraversammo il prato al rallentatore – Orli con le braccia cariche di buste di Staples, io che trasportavo a fatica il televisore a colori diciannove pollici – passammo davanti alle coppie con bambini e alle coppie senza bambini che tenevano in braccio i bambini delle coppie con bambini, e tutti ci fissarono, sussultarono e scossero la testa. La signora Nonsoche-berg sedeva accigliata sulla panchina accanto alla porta del nostro palazzo. Passando le feci l’occhiolino. «Diciannove pollici» sussurrai. «Predisposta per la tv via cavo. Im yirtzeh Hashem per voi.»
20 Benvenuti nella Gerusalemme virtuale!
MANDATE UNA PREGHIERA Con l’approssimarsi del Capodanno Ebraico, siamo sollecitati ad aprire i nostri cuori alla preghiera. Alla luce delle pene e delle perdite del popolo di Israele, quest’anno possano le nostre preghiere essere efficaci come mai prima d’ora. Pregate per l’anima delle vittime del terrore e per le loro famiglie, le cui vite sono cambiate per sempre.
CHE COS’È IL MURO OCCIDENTALE? Il Muro Occidentale o Kotel è l’unica parte sopravvissuta del Tempio che dominava Gerusalemme, costituendo il punto di collegamento più stretto tra il popolo ebraico e Dio. Durante l’esilio che seguì la distruzione del Tempio, la preghiera rimase l’unico mezzo a disposizione per mantenere un legame con la divinità.
BIGLIETTI NEL MURO È nata la tradizione di scrivere poche righe di preghiera su un biglietto per poi inserirlo in una delle fessure tra le vecchie pietre del Muro Occidentale. Molti mandano dei biglietti, o kvitelach, quando vengono a sapere che qualcuno si recherà al Kotel.
LA MODERNA TECNOLOGIA PERMETTE A GERUSALEMMEVIRTUALE DI VELOCIZZARE IL PROCESSO! Qualunque sia il vostro messaggio, noi collocheremo la vostra preghiera in mezzo a innumerevoli altre: una testimonianza del legame tra Dio, Israele e il popolo ebraico che rifiuta di farsi annientare. Le vostre preghiere saranno raccolte ogni settimana, e portate al Muro dagli incaricati di VirtualJerusalem.com. Per mandare un biglietto al Muro Occidentale, iscrivetevi inserendo i dati richiesti e inviate: nome indirizzo e-mail la vostra preghiera (max 250 caratteri)
A sei settimane dalla data prevista per la nascita, non eravamo ancora riusciti a decidere se circoncidere o no nostro figlio. Non ne avevamo discusso molto – diamoci un taglio, a questo prepuzio! – ma io avevo continuato in silenzo la mia ricerca su Internet. Scoprii che durante la cerimonia viene messa accanto al bambino una sedia vuota, riservata al profeta Elia, perché si dice che questo antico rituale è così importante agli occhi di Dio che, quando un uomo circoncide suo figlio, chiama a sé i suoi angeli e con orgoglio dice: «Venite a vedere che cosa stanno facendo i miei figli nel mondo» ed Elia discende sulla Terra per essere testimone dell’avvenimento in rappresentanza di Dio (Zohar, 1,93). Scoprii che perfino il protagonista della serie Frasier, il dottor Frasier Crane, aveva fatto circoncidere suo figlio (ottava stagione, episodio 167), e lui era sposato a una donna non ebrea. E scoprii l’esistenza dello SmartKlamp, un aggeggio di plastica trasparente per la circoncisione casalinga, che sembrava un apribottiglie disegnato da Philippe Starck. Secondo il suo sito Internet, lo strumento serve a evitare i problemi spesso connessi alla circoncisione, tipo «infezione della ferita circoncisa... emorragia postoperatoria... taglio del glande... amputazione parziale del pene...» e il rischio di tagliare troppo o non abbastanza del prepuzio. Vieni a vedere che cosa stanno facendo i tuoi figli nel mondo. Andammo a fare una camminata. «Tu lo vuoi fare?» chiesi a Orli. «Non lo so. E tu?» «Non lo so.» «E così la sedia è per Elia?» chiese lei. «A quanto pare.» «Questo non lo sapevo.» «Nemmeno io.» «Dio non può guardare di persona?» «Non credo sia questo il punto.» «Credevo che Lui potesse vedere tutto.» «Infatti.» «Allora Elia che ci sta a fare?» «Niente. Le fotografie. La torta. Che cazzo ne so io? Gli riporterà un pezzo di torta.» «C’è anche questo nello Zohar? Che a Dio piacciono i dolci?» «Sì, certo. I Twinkies.» «È per questo che li ha dichiarati non kosher?» «Probabilmente. È molto egoista.» «Tu lo vuoi fare?» «Non lo so. E tu?» «Non lo so.» Scoprii anche il sito VirtualJerusalem.com, dove composi un biglietto con una preghiera virtuale affinché qualcuno lo infilasse in un muro non virtuale per un Dio virtuale, che poteva uccidere il mio non virtuale figlio perché io avevo mangiato pancetta virtualmente con ogni uovo da quando avevo diciannove anni, oppure perché avevo guidato di Shabbat, oppure perché avevo scritto cose su Dio che Lui non aveva molto apprezzato. Valeva la pena di provarci.
Caro Dio, per favore non uccidere mio figlio durante il parto. E neanche mia moglie. E non uccidere il
bambino dopo la nascita. E per favore, fallo sano, e non fare lo stronzo facendolo sembrare malato solo per spaventarmi. Lo so che probabilmente sei incazzato con me, ma pure io sono incazzato con Te, quindi cerchiamo di vedercela tra di noi. Grazie. S.
Erano 294 caratteri, senza contare gli spazi. Levai il pezzetto che parlava di Dio che faceva lo stronzo, e con questo arrivai a 277 caratteri. Mi dispiacque rinunciare alla parte in cui facevo capire a Dio che conoscevo le Sue misere tattiche per spaventare la gente, ma almeno così questa versione si riduceva a 235 caratteri senza spazi, 285 con. Il limite di 250 caratteri includeva gli spazi? Non era chiaro, e io non volevo correre rischi. Questo era proprio il genere di tiro mancino che Dio mi avrebbe giocato – mio figlio sarebbe morto, io mi sarei ucciso e sarei andato in Cielo e gli avrei detto: «Ma che cazzo hai combinato?» E Lui avrebbe detto, tipo: «E-mail? Io non ho ricevuto nessuna e-mail. Forse avevi superato il limite dei 250 caratteri». E tutti quegli stronzi di angeli si sarebbero messi a ridere.
Caro Dio, per favore non uccidere mio figlio durante il parto. E neanche mia moglie. Forse sei incazzato con me, ma pure io sono incazzato con Te, quindi vediamocela tra di noi. Grazie. S.
Così perdeva parecchio della versione originale, ma ero arrivato a 187 caratteri spazi inclusi. All’ultimo minuto, mi prese una gran strizza e levai tutta la parte dell’«incazzato».
Caro Dio, per favore non uccidere mio figlio. Né mia moglie. Grazie. S.
La paura è l’anima della concisione.
C’era un problema. «Spalla» disse l’ostetrica, scuotendo la testa. «Bloccato.» Ecco, pensai. Ecco, porca puttana troia. La sua testa era fuori, insieme al braccio destro, allungato oltre la testa come se volesse immergere la mano nelle acque del mondo, provarle prima di tuffarsi. «È fredda, papà.» «Diventa anche più fredda, ragazzino.» Io e Orli avevamo passato gli ultimi nove martedì sera al corso preparto. Nelle prime tre settimane, ci spiegarono tutte le possibili complicazioni durante il travaglio, e come ognuna di esse avrebbe potuto uccidere il nostro bambino. Le tre settimane successive furono dedicate a spiegarci tutti i possibili trattamenti medici per le complicazioni discusse durante le prime tre settimane, e nelle tre settimane finali ci spiegarono in che modo ognuno dei possibili trattamenti medici illustrati nelle tre
settimane di mezzo avrebbe potuto uccidere il nostro bambino. Poi ci diedero un album per le fotografie e un pannolino. Stringevo la mano di Orli. La faccia di nostro figlio era blu. Diventava sempre più blu. «Che cosa vedi?» riuscì a chiedere lei tra un respiro e l’altro. «Niente» dissi io. Mosè, pensai. La presa in giro. La sbirciatina. Un’occhiata di sfuggita. Ecco come funziona questo scherzetto che fa Lui. Una testa blu, un braccio nero-blu, la sbirciatina che Mosè dà alla Terra Promessa prima di morire – Ha le labbra di Orli –, vecchio, ma ancora in gamba, o Signore – È tutto blu –, vecchio, ma ancora in gamba. Orli chiese: «Ma che succede?» Non lo sapevo. Non sapevo quanto tempo avevamo per tirarlo fuori. Non sapevo – È blu, è blu! – che cosa si gridassero le infermiere, non sapevo che cosa significasse la luce rossa – È così blu! –, quella che si era appena accesa sulla parete accanto al suo letto, non sapevo a che cosa servisse il tavolo di ferro, quello che avevano appena portato dentro, quello con sopra la scatola di plastica trasparente – fate qualcosa! – e i tubi grigi e i fili gialli tutti legati intorno e fissati insieme, come se tutto l’attrezzo fosse stato appena tirato fuori dal fondo di qualche armadio che la maggior parte delle infermiere non aveva mai visto prima, perché la gravità di una situazione raramente – fate qualcosa! – raggiungeva il livello in cui c’era bisogno di una macchina del genere, qualunque macchina fosse, e non sapevo perché – per l’amor di Dio, fate qualcosa! – un’infermiera si stava arrampicando sul letto di ferro, e non sapevo perché stava spingendo col ginocchio sul ventre di Orli, e poi Orli mugolava e l’ostetrica scuoteva la testa e l’infermiera scuoteva la testa e metteva il secondo ginocchio sul ventre di Orli, e non sapevo che cosa stesse facendo, ma, Cristo Santo, ormai aveva finito le ginocchia, e ammesso che le ginocchia siano una risposta, abbiamo bisogno di più ginocchia, perché le mie tremavano troppo forte per poter servire a qualcosa. «L’ho preso» urlò l’ostetrica. «L’ho preso, l’ho preso, l’ho preso, continua a spingere, continua a spingere, l’ho preso, l’ho preso.» Asciugai il sudore dalla fronte di Orli e risi, e chiusi gli occhi e appoggiai la testa accanto a quella di Orli, e pensai a quella frase, quella di Dio che concede un figlio a chiunque, e a quanto poco io la vedessi così. A quanto invece avessi la sensazione che Gli avessimo rubato un figlio, strappandoGlielo dalle mani – ecco cos’era quella risata, la stessa risata di quando uscivo da Macy’s con un sacchetto pieno di vestiti – e a come Lui ce lo aveva fatto dondolare sulla testa per un po’ per costringerci a saltare come fanno i bambini per afferrare una caramella, mentre Lui rideva della nostra pena e della nostra fatica. Concederlo? Non mi sembrava che Lui ci avesse concesso proprio niente. Mi sembrava che Lui avesse mollato la presa. Che si fosse arreso. Che avesse lasciato che i bambini avessero il loro bambino. «Non respira» disse l’ostetrica. «Scusa» dissi a Dio. «Mi dispiace, ti chiedo scusa, grandissimo stronzo. Ti chiedo scusa, porca troia.»
Non è per questo che lo abbiamo fatto circoncidere. O forse sì. Non lo so. «Succede» disse dopo l’ostetrica. Le vie respiratorie erano bloccate. Lei gli aveva aspirato il muco da naso e bocca, lo aveva ventilato, e dopo un attimo lui aveva cominciato a respirare per conto suo. Il giorno dopo arrivò il medico e, dopo qualche controllo di routine sul nostro bambino, ci chiese se avevamo intenzione di farlo circoncidere. «Supponiamo di sì» disse Orli. Grazie lo stesso, Google. Per ogni argomento medico contro la circoncisione, sembrava ce ne fosse uno a favore. Per ogni argomento psicologico a favore della circoncisione, sembrava essercene uno
contro. Lo facemmo fare al medico. Se non altro, Dio non era coinvolto. «Seguitemi» disse il medico. Seguire, partire, viaggiare. Non era ancora finita. Allora Abramo partì, come l’Eterno gli aveva detto. Secondo molti, quello fu il momento determinante, per Abramo: il momento in cui si guardò intorno, vide come era diventato il mondo intorno a lui, lo contemplò e se ne andò dicendo: «’Fanculo». Per questo è considerato un padre dai seguaci delle maggiori religioni del mondo, seguaci che con un respiro lodano il suo coraggio e la sua forza di spirito, e con il respiro seguente minacciano chi nel gregge dovesse essere tanto folle da considerare anche lui di mettersi in viaggio. Mentre spingevo la carrozzina di vimini di mio figlio per il corridoio, mi chiesi se questo partire, questa ricerca di qualcosa di nuovo, questa disillusione rispetto alle scelte disponibili non sia, per alcuni di noi, la condizione incomprensibile ed essenziale delle nostre vite. Mi chiesi se non siamo tutti prepuzi adesso. E mi chiesi: se Abramo fosse qui oggi – a Monsey, alla Mecca o a Città del Vaticano – forse si alzerebbe una mattina, caricherebbe il suo cammello e direbbe ancora una volta: «’Fanculo!» «È tutto okay» disse il medico spingendo la carrozzina di nostro figlio nell’ambulatorio. «Me ne sono occupato personalmente con tutti i miei figli.» «Noi ci occupiamo personalmente delle nostre tasse.» «Lei è molto spiritoso» rise il medico. Me lo immaginai legato a un palo. Immaginai di tirargli la pelle su in cima a quella testa lustra e pelata per poi tagliuzzarla tutta. Immaginai di srotolargli la pelle giù per tutto il corpo fino ai piedi mentre lui urlava come un ossesso implorando pietà. E mentre la pelle stava ammucchiata intorno ai suoi piedi insanguinati, io recitavo il Kiddush con un calice di vino e una fetta di torta. «Molto, molto divertente» disse. Mi premetti le mani sulle orecchie e mi voltai. Mio figlio urlò. Chiusi gli occhi. Le sinagoghe bruciavano. Le Torah venivano strappate a pezzettini. Gli idoli venivano banditi. Il momento in cui mio figlio diventò un ebreo fu il momento in cui sentii, più che mai nella vita, che io non lo ero.
Il pomeriggio seguente andai a casa per dar da mangiare ai cani, recuperare qualcosa di decente da mangiare per Orli e controllare le mie e-mail. Dal giorno della nascita, avevo cominciato a chiedermi se Dio in realtà aveva salvato la vita a nostro figlio. Se magari fosse destinato a nascere morto, ma Dio era intervenuto. Se Lui aveva risposto alle mie preghiere. Se per caso il biglietto aveva davvero funzionato. Mi collegai a VirtualJerusalem.com, e trovai la pagina «Mandate una preghiera». Questo sarebbe stato più un ringraziamento che una preghiera, ma non avevano una pagina apposita. Scrissi il mio nome, il mio indirizzo e-mail, e nello spazio sottostante per i messaggi, scrissi semplicemente:
Grazie. S.
Stavo per premere il tasto d’invio quando la mia attenzione fu attratta da una scritta in giallo che lampeggiava in fondo alla pagina. «A causa di un guasto del sistema» c’era scritto «tutti i biglietti mandati al Muro Occidentale nelle settimane passate sono andati perduti. Ora il sistema ha ripreso a funzionare, ci scusiamo per
l’inconveniente.» Squillò il telefono. Era mia madre. Credevo di darle delle buone notizie. «Come si chiama?» chiese mia madre. «Paix» dissi io. «Max?» «Paix.» «Che razza di nome è Paix?» «Grazie» dissi io. «Piace anche a noi.» «Max con la emme?» «Paix con la pi e una i. Significa ’pace’. Come il mio nome, ma senza che ci sia Dio di mezzo.» «Ma perché avresti chiamato tuo figlio ’pace’?» «Come?» «Ma chi chiama il figlio ’pace’?» «Tu hai chiamato tuo figlio ’pace’.» «Io ho chiamato mio figlio ’pace’? Chi ho chiamato ’pace’?» «Me. Tu mi hai chiamato ’pace’.» Poco dopo la morte di mio fratello Jeffie, a mia sorella fu diagnosticata la sordità da un orecchio. Io nacqui due anni dopo e così mia madre – come mi spiegò lei stessa quando ero piccolo – mi aveva chiamato Shalom. Io sarei stato la loro pace. «Io non ti ho chiamato ’pace’» disse. «Il mio nome significa ’pace’, mamma.» «Sì, ma non te lo abbiamo dato per questo.» Pausa. «Ce l’ha un nome ebraico?» «No.» «Ah.» Pausa. «Posso chiedere se ci sarà un bris?» Pensavo di darle una buona notizia. «Sì, sì. L’abbiamo fatto fare al dottore.» «Al dottore?» «All’ospedale.» «Quando?» «Ieri.» «Ieri?» «Sì.» «Quando è nato?» «Due giorni fa.» «Ah.» Fu quella la goccia che fece traboccare il meconio dal vaso. Secondo qualcuno, la circoncisione deve avvenire all’ottavo giorno, e deve essere eseguita da un ebreo timoroso di Dio e osservante della Torah. L’ebreo timoroso di Dio e osservante della Torah deve mettere le labbra sulla ferita e succhiare il sangue, e io devo dire: «Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio, Re del Mondo, che ci hai santificato con i Tuoi precetti e ci hai ordinato di far entrare questo bambino nel Patto di Abramo nostro padre». Mi sentii come se avessi indovinato la risposta all’ultimo giro del quiz Jeopardy!, ma avessi dimenticato di formulare la risposta sotto forma di domanda. Fu il prepuzio a dare il colpo di grazia.
21 Shalom, pensavo di venire a vedere il bambino domenica. Posso essere lì per le due, e mi piacerebbe molto vederlo. Mamma
Samuel Beckett fu spesso accusato di essere un pessimista, accusa che lui respingeva. In realtà, ragionava, quelli che vengono definiti pessimisti sono i veri ottimisti – se non fosse per la loro certezza che il mondo, per quanto orribile, può essere migliorato, non si sprecherebbero nemmeno a sollevare la questione. Gli ottimisti, continuava il suo ragionamento, sono i veri pessimisti, in quanto sono talmente convinti dell’irreparabilità della situazione da ridursi a fingere che non ci sia niente che non va. «Credo che andrà tutto bene» urlai a Orli. Era al piano di sotto con Paix. Nessuna risposta. «Sul serio» dissi. «Non è che faccio l’ottimista.» Niente. Ascoltai attentamente. Nessun vagito. Erano morti? Dio li aveva uccisi? Le aveva fatto uccidere il bambino per poi suicidarsi? Era a causa di questa visita? Io me ne stavo lì a urlare quanto sarebbe andata bene la visita secondo me, mentre i loro cadaveri al piano di sotto diventavano blu e... «Hai detto qualcosa?» chiese Orli entrando in camera da letto. «Stai bene?» «Sì. Perché?» «Niente. Odio questa casa del cazzo. Non si sente niente.» «C’è gente che paga un extra, per questo» disse Orli. «Che cosa avevi detto?» «Ho detto che credo che questa visita andrà bene.» Lei rise. Quindici minuti più tardi, guardavo dalla finestra mio padre lottare con un’enorme scatola, avvolta in una carta regalo dai colori vivaci, che aveva tirato fuori dal portabagagli della sua station wagon. Non li vedevo da parecchio tempo. Sembravano tutti e due vecchi. Stava finendo il tempo. Per che cosa, non lo sapevo. Vedevo mio padre stringere i denti, la solita vecchia faccia diventare del solito vecchio rosso vermiglio. Aprì la porta di casa e, imprecando tra i denti, fece entrare la scatola e la lasciò sul pavimento. La spinse a calci nell’ingresso, alzò una mano contro uno dei miei cani, saggiamente ci ripensò (sono cani da caccia ai leoni), ignorò Orli che tentava un abbraccio di benvenuto, ed entrò in salotto dove si piazzò in un angolo con le braccia conserte, guardando fuori dalla finestra dietro gli occhiali da sole. Né lui né mia madre si tolsero il cappotto. Bei momenti. Mia madre non pronunciò mai il nome di Paix. Chiese come stava «il bambino», disse quanto era carino «il bambino» e chiese se «il bambino» era in buona salute. Se lo avessimo chiamato Yankel Berel Schmerel, se lo sarebbe ricamato in paillette sulla camicetta. «È carino, vero?» chiese a mio padre. Niente. «Oh, sì, è carino» continuò. «Ma hai visto quanti capelli ha?» Niente.
Mi ricordava una donna in zona di guerra, che pulisce il pavimento della cucina e spolvera i soprammobili, mentre intorno a lei esplodono le bombe. «Devo mettere tutto in ordine, gli ospiti arriveranno a minuti!» «Secondo te, a chi somiglia?» chiese a mio padre. «Somiglia a un bambino» borbottò mio padre. Se ne andarono. Li guardai andare via. Ebbi la netta sensazione di trovarmi su un pontile a cui a un tratto erano stati tagliati gli ormeggi e stava andando lentamente al largo, verso il mare aperto. Era una sensazione piacevole. Fu l’ultima volta che li vidi.
Una settimana dopo, mia sorella mi disse via e-mail che ero il più piccolo pezzo di m&rda del mondo, e che anche se a nessuno della famiglia gliene frega un caxxo di quello che faccio, che cosa c’era di tanto difficile nel far circoncidere mio figlio l’ottavo giorno? Scrivere in modo strano le parolacce è un trucco comune dei devoti. Quando non predicano che razza di Maniaco del Cazzo è il Signore, si comportano come se fosse un Idiota del Cazzo. «Vaffanculo» risposi. «Tu e la Tor@h che ami tanto!» Poi mi mandò un’e-mail mia madre. Avevo spezzato il Patto con Abramo, dichiarò. Fece l’elenco di tutto ciò che avevo fatto per ferirla: violare lo Shabbat, farmi tatuare, le cose che avevo scritto, le cose che avevo pubblicato o volevo pubblicare. Alla fine della lettera, la buttava sull’Olocausto: tenendo mio figlio lontano dalla sua famiglia e dalle sue radici, gli negavo un rifugio sicuro in Israele quando fosse arrivato il prossimo Olocausto. Terminava con una speranzosa citazione del profeta Geremia, in cui egli promette che un giorno i peccatori saranno puniti e coloro che si sono smarriti si pentiranno e torneranno dalle loro madri. Secondo me, era un’assurdità. Geremia non si era mai sposato. Non aveva mai dovuto far circoncidere suo figlio. Secondo la leggenda, nemmeno i suoi genitori, visto che Geremia era nato già circonciso. Allora perché non chiudi quella boccaccia del cazzo, Gerry? Migliaia di anni fa, un vecchio terrorizzato e mezzo matto mutilò i genitali di suo figlio, sperando così di guadagnare qualche punto al cospetto dell’Essere che credeva mandasse avanti la baracca. Nel corso degli anni, uomini altrettanto terrorizzati scrissero benedizioni e composero preghiere e inventarono rituali e decretarono che fosse lasciata una sedia libera per Elia. Seimila anni dopo, un padre non guarderà in faccia il nipote, e una madre e una sorella difenderanno un comportamento del genere, perché il bambino non è stato mutilato esattamente nel modo giusto. Vieni a vedere cosa fanno i Tuoi figli nel mondo. Telefonai a Ike. Gli chiesi un appuntamento. Presi la metropolitana e andai in città. «Perché non provi a rispondere alla sua lettera?» suggerì lui. Trecentocinquanta dollari l’ora. Oy vey, cominciava la lettera. Lei nominava Abramo, io nominai Isacco, il figlio che non si era mai ripreso: il pensoso progenitore, che un popolo di fedeli preferì dimenticare, da grande diventò un uomo che parlava di rado, reso passivo dal trauma subito, facile al vittimismo, un uomo inerte che sembrava non aver mai superato l’ammirevole gesto di sacrificio-a-spese-d’altri del suo stimato padre. E ora eccomi qua, sacrificato sullo stesso altare, allo stesso Dio, solo che questa volta non c’era nessun montone tra i cespugli. «Ti auguro un gutten shmutten butten vattelappesca» scrissi. «Io me ne sto nei boschi con la mia famiglia.»
Non inviai la lettera. Non la stampai. Mi preparai uno spinello. Non lo fumai. Vieni a vedere, Brutto Stronzo. Vieni a vedere che cosa fanno i Tuoi figli nel mondo. Andai al piano di sotto a vedere se mio figlio era morto. Non era morto.
22 Mancano pochi giorni al primo compleanno di mio figlio, e io sono seduto in un caffè di Woodstock in attesa di parlare col proprietario a proposito di una torta che vorrei mi preparasse per la festa che stiamo organizzando. Entra un giovanotto, si siede a un tavolo vicino alla finestra e comincia a leggere il giornale. Quando il cameriere si avvicina, il giovane gli chiede se per favore può spegnere la musica. «Ho bisogno... ho bisogno di pensare» dice. «Ecco, e per poter pensare, ho bisogno di connettermi, capisci, spiritualmente, interiormente, ho bisogno di trovare la mia strada verso la sorgente interiore, ed è molto inquietante, perché il pensiero è una bolla, il tuo spirito e lo spazio interiore, capisci?» «Come no» dice il cameriere. Dopo un momento, l’uomo vede una donna a un tavolo poco distante. Ha lunghe trecce alla Pippi Calzelunghe e indossa un vestito a fiori e un paio di sandali Birkenstock. Vi ho appena descritto tutta Woodstock al completo. «Che cosa stai disegnando?» chiede lui. «È un sogno che ho fatto» dice lei in un sussurro spirituale. «Nel sogno ho visto Cristo che era risorto, solo che il suo corpo non era fatto di pelle e ossa e dolore e agonia. Era fatto di arcobaleni.» «Arcobaleni?» «Mm-mm. E gli arcobaleni erano amore. E riempivano il mondo.» «È bellissimo» disse lui. Si trasferì al tavolo di lei, le porse il suo biglietto da visita e cercò di convincerla ad andare a vedere il suo film, che veniva proiettato quella sera in un pub della zona. Lei gli porse il suo biglietto da visita, in caso lui volesse farsi leggere il cranio e disegnare la mappa dei chakra. Oppure farsi leggere i chakra e disegnare il cranio. Non mi ricordo. Woodstock è una fiorente città turistica, nota in tutto il mondo per qualcosa che in realtà non avvenne lì. Il famoso festival di musica si svolse a Bethel, una città non fiorente e per niente famosa per qualcosa che in realtà avvenne lì. Le fotografie non rappresentano il reale contenuto. Io e Orli ci siamo trasferiti qui dieci anni fa. Abitiamo subito fuori Woodstock, su una montagna che si affaccia su una vallata. Abbiamo amato questo posto. Abbiamo camminato per centinaia di chilometri attraverso le foreste, prima noi due soli, poi con Harley, poi con Harley e Duke, adesso con i cani che corrono avanti e nostro figlio sulle mie spalle. Detesto i cortei, ma questo mi piace. Negli ultimi anni, la città è cambiata, o siamo cambiati noi, o forse tutte e due le cose. È diventata la versione artistica di Las Vegas. Gli artisti si fanno chiamare Love e Peace e Free, e vendono a prezzi esorbitanti enormi quadri raffiguranti fiori dai colori sgargianti e colombe dai colori sgargianti e persone dai colori sgargianti che si tengono per mano. Quadri che entrano a malapena nei costosissimi, enormi Hummer dei loro clienti di Manhattan. La gente indossa camicie di batik e jeans Diesel, le BMW decappottabili hanno adesivi che ricordano alle Lexus decappottabili dietro di loro la tragedia del Darfur. Da qualche parte dentro di noi sapevamo che la ricerca della nostra Terra Promessa non era ancora finita, e forse non sarebbe finita mai. Arriva il proprietario del caffè e parliamo della torta. «Che genere di torta vuole?» squittisce. L’omosessualità è venerata, in questa città, non tanto per il provocatorio rifiuto dell’omosessuale di farsi imporre il lui o la lei da amare, quanto per il suo buon gusto in materia di vini e di arredamento. Per questo motivo, molti uomini qui ostentano un certo grado di omosessualità stereotipata, il che a sua
volta spinge gli omosessuali di qui a ostentare un grado ancora maggiore di detta omosessualità. In fondo alla strada, al centro commerciale Kingston, i ragazzi bianchi fingono di essere neri, e i ragazzi neri fingono di essere gangster della West Coast. Siamo tutti persi, ciascuno nel suo deserto terrificante e ridicolo che sembra protrarsi per l’eternità. «Non mi importa» dico io. «Purché sia grande abbastanza da farci entrare questo.» Gli porgo un foglio di carta. «Vuole tutto questo su una torta?» chiede lui. Annuisco. Lui legge il foglio e mi lancia un’occhiata di traverso. «Allegria» squittisce.
Il pomeriggio del compleanno di Paix pioveva, ma niente poteva guastarmi l’umore. Ero andato fino a Manhattan per incontrare Ike, e avevo deciso di passare prima in agenzia. «Allora» disse Craig, «un anno, eh?» «Incredibile» dissi io, sistemandomi sul suo divano. «E Paix?» «Alla grande.» «E stai scrivendo?» «Sì, e va bene. Sono settimane che non cancello niente.» «Mi fa piacere per te» disse Craig. «Grazie. Sono fregato, ovviamente.» «Ovviamente» disse Craig. «Dio ti sta preparando qualcosa di veramente grosso.» «Secondo me, qualcosa con il botto.» «Qualcosa di deturpante.» «Probabile.» «Ma non letale.» «No.» «Non te la farebbe passare così liscia.» «No, no. Mi brucerà la faccia, e poi mi maledirà augurandomi una lunga vita.» «Bene» disse Craig. «Se ti può interessare, spero che ti uccida rapidamente.» «Sei un vero amico» dissi io. La mia seduta con Ike mi fece pensare al rientro negli spogliatoi di una squadra vittoriosa dopo una partita lunga e difficile. Quanto ero diverso da quando, dieci anni prima, ero entrato per la prima volta nel suo studio. In questi anni mi ero allontanato da una famiglia distruttiva, e al tempo stesso ero in qualche modo riuscito a crearne una affettuosa. Io e Orli all’inizio temevamo che nostro figlio potesse trascinare di nuovo il passato nel presente, e invece adesso, nel pomeriggio del suo primo compleanno, era evidente che lui era stato proprio ciò di cui avevamo bisogno per entrare nel futuro una volta per tutte. Ike sorrise e mi disse quanto fosse orgoglioso dei progressi che avevo fatto durante il nostro cammino insieme. Lo invitai a unirsi a noi per la festa di compleanno, anche se sapevo che non sarebbe mai riuscito ad arrivare a Woodstock in tempo. «Grazie comunque» disse Ike. «Mi sarebbe piaciuto. Lasciami una fetta di torta.» Gli mostrai il messaggio che avevo fatto scrivere sulla torta dal pasticcere. Ike inarcò le sopracciglia e guardò socchiudendo gli occhi. «Ma ci sta su una torta-gelato?» chiese. Quando arrivai a casa, Paix era nel vialetto, saltellava nelle pozzanghere e si accovacciava
accanto alle salamandre capovolte. «Ta-ta» disse. «Uh-oh.» Entrai in casa e tentai di scrivere un po’ prima dell’arrivo degli ospiti. «Pa-pà!» chiamò lui. Lo ignorai. «Pa-pà!» chiamò ancora. «Cosa?» «Pa-pà!» «COSAAA?» «PA-PÀ!» gridò lui. Era arrivato fino in camera da letto e stava accanto alla mia sedia, con la testa dritta per attirare la mia attenzione. Questo è un gioco che facciamo: lui mi chiama e io mi chino sulla sua faccia e faccio finta di urlare «COSAAA?» più forte che posso. Allora lui scappa e io lo rincorro. Lui pretende che sia un’idea sua, ma ho inventato tutto io. «Pa-pà!» dice. «Cosa?» «Pa-pà!» «COSAAA?» Lui ride – Ahhh! – e scappa via. Io chiudo il mio portatile, lo faccio scivolare sotto il letto e gli corro dietro, la sua testa di riccioli ribelli sparisce in cucina. «Adesso... ti... PRENDO!» È il trucco più sporco di Dio, finora.
Orli andò in cucina e chiamò tutti a tavola. Io tenevo in braccio Paix. Mi ricordava il sacrificio di Isacco, quel coltello affilato così vicino a un bambino. Mi domandai se Abramo e Sara avessero mai fatto una festa di compleanno per Isacco. Mi immaginai che fossero molto simili alle feste di compleanno di quando ero piccolo – Sara che accendeva una candela e infornava del pane, Abramo chissà dove sotto la tenda ad aggiustare brocche o ad accudire i dromedari. «Testa di cazzo» borbottava Abramo. Orli portò la torta, la mise sul tavolo e andò a prendere dei piatti. «Cristo Santo!» disse il mio amico Jack. Buon compleanno, Paix – c’era scritto sulla torta – da mamma, papà, Harley e Duke, e da nessun altro delle nostre famiglie perché loro sono dei poveracci depressi e amareggiati che ci trascinerebbero nella palude delle loro desolate e tragiche vite anziché condividere per un momento la nostra gioia. Tanti auguri! «Chi vuole ’desolate’?» chiese Orli. «Dammi una fetta di ’tragiche’» disse Jack. Sto pensando alle persone che adesso fanno parte della mia vita, ed ecco che cosa penso: penso che siano tutti prepuzi. Jack è un prepuzio: sua madre lo ha maltrattato, cacciato via, ferito ripetutamente. Alisha è un prepuzio, e così pure suo marito Will. Come me. E come Orli. Una piccola nazione di prepuzi che cercano di fare del loro meglio per ricominciare da capo, per costruire, per andare avanti. Ben presto, per Paix fu l’ora di andare a dormire, e io lo guardai nella sua culla e pensai a Mosè e alla culla di vimini in cui venne trovato, tra le canne del Nilo, e al viaggio lungo una vita che fece verso una Terra Promessa, una terra di Dio, una terra che non raggiunse mai. La mia Terra Promessa, quella che nei passati trent’anni avevo cercato incespicando, sarebbe stata una terra senza Dio, almeno senza il Dio che io conoscevo, e mi resi conto che, proprio come Mosè, neanche io probabilmente l’avrei mai
raggiunta. Ma mio figlio... lui forse poteva provarci.
E il popolo gioì nel vedere la Terra Promessa, e ci furono canti e balli e acclamazioni, e Mosè, con la faccia nella sabbia e portandosi le mani al petto, guardò in su e sorrise vedendo i suoi figli felici e liberi. E il Signore disse a Mosè: Questa è la terra che ho promesso. Ho lasciato che tu la vedessi coi tuoi occhi, ma tu non potrai entrarci. E Mosè disse: Impiccati, e morì lì nel deserto, con un sorriso sulle labbra.
Diedi a Paix il bacio della buonanotte e andai al piano di sopra. Eravamo seduti in salotto, soltanto io, Orli, qualche bottiglia di vino e alcuni dei nostri prepuzi più intimi, a parlare delle nostre famiglie, tutte frammentate, incattivite e belligeranti. Era passata la mezzanotte quando gli ultimi lasciarono barcollando casa nostra, e noi spegnemmo le luci e andammo a letto. Ero sdraiato al buio ad ascoltare il respiro di Orli e pensavo – a mio figlio, a mia moglie, all’ipotesi che qualcuno aveva fatto poco prima, e cioè che forse la Terra Promessa non era affatto un luogo fisico. Ma soprattutto pensavo a quanto fosse stato silenzioso negli ultimi minuti il baby monitor. Troppo silenzioso. Gettai via le coperte, mi precipitai di sotto e aprii la porta della camera di mio figlio più piano che potei. Paix sollevò la testa e sorrise. «Pa-pà» disse Paix. «Ciao, bello» sussurrai. «Ssst, dormi adesso.» Chiusi la porta e sospirai. Poi corsi di sopra, facendo due gradini alla volta, immaginando che tutta la storia del bambino morto fosse stata una trappola, e che in realtà fosse morta Orli. Io ci credo, in Dio. È sempre stato il mio vero problema. Quando entrai in camera Orli si stiracchiò, e io mi rimisi piano a letto. «Non è morto, vero?» mormorò lei. «No» sussurrai io. «E nemmeno tu.» «Bene. Domani anch’io ho appuntamento con Ike» disse, e affondando la faccia nel cuscino mi prese una mano tra le sue. «Ti hanno proprio fatto il lavaggio del cervello» aggiunse. Le strinsi la mano, alzai il volume del monitor di Paix e tentai di dormire.
Chi uccidere Ho scoperto che c’è una cosa su cui la maggior parte delle persone religiose si trova d’accordo, che si tratti di ebrei, cristiani o musulmani, ed è che se dopo le presentazioni inizi con loro una breve conversazione e dici per esempio: «Dio è uno stronzo» tendono a reagire male. Cosa che io trovo sorprendente. Perché sono loro che me l’hanno detto. Mi hanno raccontato tutto di Lui: le inondazioni, le statue di sale, le uccisioni, i massacri; che Lui è facile all’ira eppure pieno di misericordia, che è superbo ma indulgente, che perde le eterne staffe con regolarità preoccupante... insomma che, in soldoni, è uno stronzo. E io ci ho creduto. Ci credo ancora. Quindi, Dio, ti prego, non uccidere mia moglie a causa di questo libro. Non uccidere mio figlio, e non uccidere i miei cani. Se devi per forza uccidere qualcuno, uccidi Geoff Kloske, l’editore di Riverhead Books. Uccidi Ira Glass del programma radiofonico This American Life, e già che ci sei, uccidi pure le sue colleghe Julie Snyder e Sarah Koenig. Uccidi David Remnick del «New Yorker», e uccidi Carin Besser, che è qui in fondo al corridoio. Uccidi Sara Ivry di Nextbook.org, e potresti anche uccidere Jessa Crispin di Bookslut.com. Uccidi Craig Markus, e se proprio devi, uccidi Ike Herschkopf, ma non uccidere me. E non uccidere Orli. E non uccidere nostro figlio. Dopotutto è solo un libro, cazzo. Scusa.