JEANNE KALOGRIDIS IL LABIRINTO DELLE STREGHE (The Burning Times, 2001) Al mio amore Eretico è colui che accende il fuoco...
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JEANNE KALOGRIDIS IL LABIRINTO DELLE STREGHE (The Burning Times, 2001) Al mio amore Eretico è colui che accende il fuoco non colei che ci brucia dentro. WILLIAM SHAKESPEARE, Il racconto d'inverno Nell'amore non c'è timore, Al contrario l'amore perfetto scaccia il timore. 1 Giovanni, 4, 18 PROLOGO Sybille I È una pioggia forte, assordante. Nubi rapide e maligne oscurano la luna, le stelle e il morbido velluto nero del cielo notturno; l'oscurità profonda nasconde tutto, ad eccezione degli istanti in cui i fulmini illuminano le montagne lontane, ed io vedo... Vedo il mantello del mio cavallo al galoppo che brilla come onice, la criniera bagnata che ondeggia come la chioma di Medusa nella furia del vento; vedo davanti a noi la strada per Carcassonne, lastricata di pietre, infestata da rovi di rose selvatiche e cespugli di rosmarino che, sotto gli zoccoli del cavallo, spargono tutt'intorno la loro fragranza. Il rosmarino risveglia ricordi; le rose hanno le spine e le pietre sono dure. Dure come la pioggia; sulla pelle le gocce sembrano lunghe, frastagliate e cristalline, una grandine di ghiaccioli, di piccoli fulmini ghiacciati. Perforano e pungono e sebbene sia giusto che questo momento debba essere fisicamente doloroso, provo un impeto di pietà per lo stallone. È esausto e annaspa per la lunga corsa estenuante. E nonostante questo, quando alla fine lo riporto al passo, si ribella, impennandosi. Quando, a fatica, si calma, sollevando le forti e agili zampe per avanzare piano, poggio sulla sua schiena il palmo della mano sotto la quale per-
cepisco i muscoli tesi. Il mio destriero è sensibile, come lo sono molti animali, sebbene non possegga la Vista: non vede coloro che ci inseguono ma percepisce il Male che alberga soprattutto in uno di quei cuori. Rabbrividisce, ma non per il freddo autunnale, e rotea i grandi occhi scuri guardandomi meravigliato: vedo il terrore nel bianco dei suoi occhi. Finora, siamo sfuggiti ai nostri nemici: perché, ora, li aspettiamo? «Non ti faranno del male», gli dico piano strofinandogli il collo mentre nitrisce in segno di protesta. Il mantello è freddo e inzuppato di pioggia e sudore ma i muscoli emanano calore. «Sei un buon cavallo, ti porteranno dove è asciutto e fa caldo e ti nutriranno. Sarai trattato bene». Magari ricevessi anch'io lo stesso trattamento. E in quel momento vorrei piangere, disperatamente e forte, come la pioggia; forte, fortissimo. Lo stallone lo capisce e, angosciato, aumenta il passo. Io mi ricompongo e gli accarezzo il collo ancora una volta. I miei inseguitori potrebbero dire che sto facendo un sortilegio al povero animale ma si tratta solo di un cuore che si spalanca verso un'altra creatura, la tacita condivisione della calma, la pace vera che devo cercare profondamente in me stessa. Non si mente agli animali. Sono quasi alla fine del mio viaggio, ma la Dea ha parlato: non c'è bisogno di correre. Se anche continuassi a fuggire seguita dal mio Nemico, nessuno potrebbe salvare colui che amo. La resa è la mia unica possibilità, debole, piena di rischi; e la Vista non mi rivela l'esito. Sarà vita o sarà morte. Il cavallo e io ci fermiamo, restiamo immobili. La pioggia si è placata e nell'assenza di un rumore ne percepisco un altro. Un tuono, senza fulmini nel cielo. No, non è un tuono. Zoccoli di animali, non un paio ma molti. Aspettiamo, io e il mio destriero, ed essi si avvicinano sempre di più, sempre di più, sempre di più... E dall'oscurità ecco apparire quattro, sette, dieci uomini incappucciati a cavallo, gli stessi che ho Visto con gli occhi della mente nelle ore buie della mia fuga e che ora si materializzano in carne e ossa. Una nuvola nera scivola via e rivela uno spicchio di luna nuova e lo scintillio delle lame: nove di questi uomini sono gendarmi di Avignone e appartengono alla guardia personale del papa. Sono accerchiata. Si avvicinano, stringono il cappio e alzano le spade. Le lune nuove, di solito, annunciano un principio; questa, invece, pre-
annuncia una fine. Io e il mio stallone restiamo perfettamente composti, immobili. Sospettoso, uno dei gendarmi si sporge in avanti: dove sono i miei protettori? Di certo saranno appostati qui vicino, pronti per saltare addosso ai miei sequestratori; di certo, non avrebbero abbandonato una piccola donna indifesa, colei che considerano la strega-regina. No! Sono stata io a fuggire senza di loro che, leali fino alla fine, sono venuti a cercarmi per condividere il mio destino. E quando la Dea ha chiesto la mia resa, la mia e non la loro, poiché di loro aveva bisogno altrove, li ho mandati via. All'inizio si erano rifiutati di lasciarmi sola, anzi Edouard aveva giurato che sarebbe morto, piuttosto. Io avevo potuto soltanto chiudere gli occhi e aprire la mente, aprire il mio cuore ai loro cuori affinché potessero ascoltare la Dea così come facevo io. Edouard aveva pianto tanto che quasi gli era scoppiato il cuore; gli altri volti erano coperti dai cappucci ma ero consapevole delle lacrime silenziose che rigavano le loro guance. Non avevamo aggiunto altro; non c'era altro da dire poiché tutto si era ormai rivelato. E così i miei valorosi cavalieri si erano allontanati. E ora osservo tre degli uomini mandati dal Nemico saltare giù dai loro cavalli e affondare le spade nei rovi di more luccicanti di pioggia; nello spesso e alto fogliame; lame che fischiano mentre schegge di foglie e rami vengono scagliate in aria. Uno di loro si arrampica su un vicino ulivo e mozza i rami fin quando non si convince che nessuno vi è appostato per un'imboscata. Confusi, ritornano ai cavalli e mi guardano mentre continuo a restare seduta, calma e serena, sul mio stallone. A dispetto dell'oscurità, vedo la paura sui loro volti. Si domandano perché mai non faccia qualche incantesimo su di loro, trasformandoli in porci, ad esempio, per poi fuggire via. Tutti, tranne il decimo uomo, sicuro che questa cattura sia merito suo. Si tratta del cardinale Domenico Chrétien. A differenza degli altri, che indossano un mantello nero, porta sulle spalle e sulla testa il colore del sangue. Il suo volto è largo e ben nutrito, con le labbra di uno spessore crudele e gli occhi nascosti in pieghe profonde. Anche il suo corpo è grassoccio e maschera il cuore che ospita. Con tono imperioso urla: «La madre badessa Marie Françoise?». È lui il Nemico. Ci siamo incontrati solo una volta su questa terra, sebbene in altre sfere ci conosciamo da tempo. È difficile non guardarlo con un disprezzo familiare. È talmente pieno di odio verso se stesso che ucci-
derebbe chiunque gli ricordasse come è fatto. C'è solo un'altra persona capace di arrecare più dolore alla mia gente, colui che sono venuta a fermare affinché io e la mia Razza non veniamo cancellati dalla faccia della terra. «Sono io», rispondendo alla sua domanda. Lotto per riuscire a controllare il mio odio, perché altrimenti avvicinerei la mia anima alla sua. «Siete in arresto con l'accusa di eresia, stregoneria e maleficium contro il Santo Padre. Cosa avete da dire?» «Che voi sapete meglio di me di cosa sono colpevole». Potrebbe sembrare un'umile ammissione di colpa, ma il mio Nemico capisce la velata ammonizione e la sua espressione si rabbuia sebbene non osi dire nulla davanti ai suoi uomini che non hanno la minima idea di cosa stia succedendo qui e che non crederebbero se qualcuno gli dicesse la verità. «Seguiteci, badessa». Non oppongo resistenza, anzi, annuisco. Nonostante ciò, vengo tirata con forza giù dal cavallo che s'impenna calciando una delle guardie e causando un po' di trambusto fino a quando non viene calmato. Gli avevo detto che era un bel cavallo e che i gendarmi lo avrebbero apprezzato; uno di loro afferra le redini e gli parla sommessamente così l'animale si sente rassicurato. A me, invece, strappano il mantello che nasconde il mio abito scuro, il velo e il soggolo e mi legano le braccia dietro la schiena; poi vengo gettata a faccia in giù sul dorso di un altro cavallo e legata alla sella. Uno di loro mormora: «Questa è la posizione giusta per una donna d'alto rango». Gli altri sogghignano appena ma nessuno ride sebbene sia legata, in minoranza e, apparentemente, alla loro mercé. Nel silenzio che segue, percepisco la loro paura. È un difficile viaggio verso casa. La mia faccia sbatte contro il mantello umido del cavallo e quando la pioggia ricomincia a cadere incessante il mio abito sì bagna completamente e la schiena mi fa male per il freddo. L'acqua scorre lungo le braccia, le gambe e il collo. Il mio velo, capovolto, si appesantisce per la pioggia e cade subito giù; il soggolo scivola via, mettendo in mostra la mia testa rasata, e facendo colare la pioggia nelle orecchie, nel naso e negli occhi. Cerco di confortare me stessa dicendo che è la volontà della Dea. È la missione della mia vita, preannunciata alla mia nascita. Sulla strada verso il mio destino, il cavallo di tanto in tanto calpesta un'erba pungente; chiudo gli occhi per non piangere, a causa del suo pro-
fumo. Il rosmarino risveglia ricordi. PARTE PRIMA Michel CARCASSONNE, FRANCIA ottobre 1357 II Arrivato nell'ampio rettangolo d'ombra proiettato dall'antica basilica di Saint-Nazaire, ancora incompleta, fratello Michel rallentò il passo per osservare l'attività che si svolgeva attorno all'entrata e, veloce, si strinse la lingua tra i denti affinché il dolore potesse distoglierlo da un impeto di rabbia. In cima a una piattaforma, gli operai alzavano i martelli al di sopra delle loro teste per poi riportarli giù, sonori, su pali alti circa un metro. Il sole autunnale era stranamente caldo quel giorno; ondate di calore salivano dalla terra perforata e brillavano sinistre intorno alle caviglie e agli stinchi degli uomini come se il fuoco fosse già stato acceso. I pali erano stati disposti nel tradizionale cerchio che si apriva verso le grandi porte della basilica dell'undicesimo secolo, una scatola gotica protesa verso il paradiso con ampie finestre arcuate simili a mani strette in preghiera. I passanti che sgomitavano lungo le strette strade acciottolate, mercanti, contadine con i loro figli, mendicanti, nobili a cavallo, monaci con tuniche marroni e monache vestite di nero, osservavano la scena con sincera curiosità. Avanzavano lenti e lugubri, gli angoli della bocca in giù come se si sciogliessero nella calura improvvisa ma, alla vista degli operai, i volti, i discorsi e i gesti si rianimavano all'improvviso. Un mercante, esitando, disse ai suoi compagni, che portavano dei cerchi di panno giallo appuntati sul petto per avvertire gli altri che appartenevano a ciò che il famoso inquisitore Bernard Gui chiamava "il vomito del giudaismo": Un rogo, dunque... è già stato deciso? Una vedova della bassa nobiltà, con il soggolo nero, gli occhi stretti per l'indignazione, disse alla sua ancella che portava un cestino: Vogliono giustiziarla, ed è già una santa; ma solo perché è di Tolosa...
Due monaci su un asino: Che Dio ce ne liberi e che il diavolo se la pigli. Potremmo, quindi, fare una bella scampagnata e portare anche i bambini, disse una campagnola leggermente strabica, con in testa un turbante bianco, la quale, sorridendo al marito scontroso, rivelò tre denti frontali spezzati in una netta diagonale. Era impossibile non udire ogni parola e, anzi, sentire il respiro con cui venivano pronunciate, tanto stretta era la strada. Mentre i corpi sudati di donne, uomini e animali sfioravano il suo, fratello Michel portò istintivamente una mano al calamaio d'avorio allacciato al fianco, non per timore che venisse rubato da qualche ladruncolo ma che potesse essere strappato via dall'ondata feroce del traffico. Teneva legato alla vita un fagotto nero contenente delle tavolette, una penna d'oca e dei rotoli di pergamena; per questo manteneva una distanza di mezzo braccio tra lui e il suo maestro, il prete domenicano e inquisitore Charles Donjon che, sicuro di sé, lo guidava attraverso quella confusione. Michel si sforzò di distogliere lo sguardo dagli operai e dai pali anche perché era impegnato in un processo particolare che suscitava in lui una rabbia tutt'altro che normale. Pensavo che il punto fosse salvarli e non ucciderli!, aveva urlato una volta al suo padre adottivo - il capo dell'Inquisizione francese, il cardinale Chrétien -, quando quest'ultimo, in una situazione simile, si era infuriato perché le autorità civili avevano dichiarato che non ci sarebbe stata nessuna esecuzione. Sentiva molta rabbia dentro di sé e, adesso, ancora di più perché credeva, così come la vedova, che la badessa incriminata fosse una santa, ingiustamente accusata; e infatti, ad Avignone, la sua città natale, l'aveva vista curare un ferito con un semplice tocco della mano. E così Michel considerava ogni lontano colpo di martello come una sfida. Dio, fa' che un palo resti inutilizzato, pregava in silenzio; e lì ce n'è un altro... Da quello che poteva osservare, sembrava che il braccio secolare della legge avesse deciso che ci sarebbero state un gran numero di esecuzioni. A nessuno è stata offerta la possibilità di redimersi e non vedono l'ora di accendere quelle pire, pensò. Si irritò, al pensiero di quella missione, la sua seconda inquisizione, mentre la prima ancora gli provocava incubi. La lattaia dietro di lui gli diede uno spintone con il ginocchio, ben calibrato senza versare neppure una goccia di latte dai secchi che teneva sulle spalle; la via era troppo affollata per permettergli di voltarsi e guardarla in viso ma sentì il lieve sciabordio del liquido il cui odore rivelava un princi-
pio di acidità a causa di quel caldo inaspettato. La gente davanti a lui non si muoveva di un passo - incantata com'era dalle prossime esecuzioni - e si ritrovò stretto contro la schiena di padre Charles; lo scricchiolio della pergamena delicata, tra di loro, fece sussultare Michel. Nonostante gli spintoni della lattaia, Charles restava ben piantato sui piedi e oltretutto la sua andatura emanava calma e dignità. Era un uomo piccolo, più basso del suo protetto ma il suo portamento era dritto e sicuro, il busto ampio e solido sotto la tonaca, semplice e nera, in un periodo in cui, all'interno della Chiesa, il clero di nobile estrazione e levatura, al quale lui apparteneva, vestiva di sete sgargianti, rasi e pellicce. Insieme a Michel era stato invitato nel lussuoso palazzo del vescovo vicino alla basilica, costruito all'interno dell'antica fortificazione della città. Padre Charles aveva trovato un modo molto diplomatico sia per accettare che per declinare: lui e Michel sarebbero rimasti nelle vicinanze, presso il chiostro domenicano contiguo a Saint-Nazaire. I due si erano alzati molto prima dell'alba per le lodi, nonostante la notte precedente avessero oltrepassato le porte di Carcassonne al tramonto e a mezzanotte avessero partecipato ai riti mattutini con i confratelli. All'alba, avevano condiviso la refezione con i fratelli (zuppa di orzo e cavoli); e quando il sole alla fine si era alzato avevano portato i loro omaggi al vescovo che aveva insistito nell'offrir loro ancora da mangiare, ma stavolta si trattava di dolci farciti e salsicce. Il vescovo Bernard Rigaud era un vecchio eccentrico e scontroso, con una pelata rosa coperta di peluria, simile a quella di un neonato, che faceva capolino sotto il suo zucchetto; gli occhi azzurri erano paurosamente sporgenti tanto che Michel riuscì a fatica a distogliere lo sguardo da essi... e dal piatto del vescovo su cui i dolci e le salsicce erano stati triturati in una irriconoscibile poltiglia. «Per il bene della Chiesa e di Sua Altissima Santità, la badessa Marie Françoise deve diventare un esempio: a nessuno può essere permesso di commettere atrocità contro il papa, men che mai all'esterno del suo palazzo, e farla franca». Rigaud si sporse in avanti e abbassò il tono della voce, come se temesse di essere spiato. «Ma bisogna essere rapidi, più rapidi possibile, e discreti. Molti dei cittadini si sono già risentiti degli arresti compiuti». E la cosa non sorprendeva affatto; la popolazione del Sud, soprattutto qui, nella regione della Linguadoca, ricordava ancora il massacro compiuto a Carcassonne e nella grande città di Tolosa. Decine di migliaia di persone erano state uccise dai cavalieri del Nord in nome di Dio e del re parigino.
E non importava se tra le vittime c'erano degli eretici: gli Albigesi, che credevano in un doppio Dio, uno maligno e uno benigno, e una corrente dei francescani, i Fraticelli, che affermava che Cristo non aveva posseduto alcuna proprietà e che, quindi, neanche la Chiesa dovesse averne. Ma il solo pensiero di condannare a morte la badessa senza un interrogatorio e un giusto processo fece affiorare alle labbra di Michel una silenziosa protesta. Non osò pronunciare le prime parole che gli vennero in mente, È davvero una santa, mandata da Dio in missione di carità, poiché sarebbero state controproducenti. Prima del suo arresto, il comportamento ufficiale della Chiesa nei confronti di madre Marie Françoise era stato di deciso scetticismo e Michel aveva tenuto le sue opinioni per sé, per evitare a se stesso e al suo mentore non solo imbarazzo ma anche sospetti. Prima che potesse pronunciare il meno incriminante, Ma, Eminenza, come facciamo ad essere certi della sua colpevolezza senza averle fatto un giusto interrogatorio?, padre Charles prese la parola. «Vostra Eminenza», disse il minuto sacerdote, usando un tono di massimo rispetto, «comprendo senz'altro le vostre preoccupazioni. Ma posso fare solo ciò che Dio e le leggi della Chiesa...». «Farete ciò che il cardinale Chrétien ha ordinato», disse Rigaud con fermezza. «Diciamo che egli è... un po' preoccupato per lo scarso numero di condanne da voi pronunciate, padre, e per la vostra riluttanza a utilizzare la tortura. La badessa Marie Françoise rappresenta per voi un'occasione per... redimervi». «Redimersi?», chiese Michel dimenticando, nella fretta di difendere il suo mentore, di imitare il tono deferente di padre Charles. «Ma, Eminenza, veniamo direttamente dalla sede del cardinale Chrétien, da dove siamo partiti due giorni fa, senza aver ricevuto nessun ordine in proposito. E se avesse voluto questo, avrebbe potuto dirlo allora. Inoltre, non esiste inimicizia tra Sua Eminenza e padre Charles, anzi, tutt'altro». Mentre parlava, Charles posò una mano sulla spalla del suo giovane pupillo, cercando di trattenerlo, ma senza risultato. All'impudenza di Michel, il vescovo tirò indietro la testa e gonfiò il petto come un serpente pronto a colpire. «Stai dicendo che sono un bugiardo, ragazzo?». Poi, come se all'improvviso avesse realizzato la situazione, si sgonfiò e sorrise. «Ah, sì, tu sei il figlio adottivo, vero Michel? E allora di certo tuo padre ti avrà istruito sui meccanismi della politica. Mi ha fatto notare che la badessa era certamente una cristiana quando entrò in convento. E quindi,
avendo poi scelto la stregoneria, è da considerarsi relapsa». E con maliziosa rapidità si ficcò un cucchiaio di poltiglia dolce in bocca assaporandola tra la lingua e il palato un attimo prima di ingoiarla. Relapsa, parola fatale. Denotava una persona che aveva accettato Cristo per poi rifiutarlo, abominevole "peccato contro lo Spirito Santo", che né Dio né la Chiesa potevano perdonare. Una volta pronunciata la parola relapsa, seguiva subito un'esecuzione. Michel pensava che padre Charles si sarebbe scagliato immediatamente in difesa della badessa, ma il sacerdote restò in silenzio e ciò spinse il giovane monaco a controbattere: «Vi chiedo scusa, Eminenza, ma come facciamo a essere certi che sia relapsa prima di ascoltare la sua testimonianza?». Al vescovo bastò un leggero movimento della testa e delle spalle per produrre l'effetto di un balzo in avanti; quindi, con gli sporgenti occhi azzurri velati di rabbia, guardò Michel furioso. «Desideri mettere te e il tuo caro padre qui presente in una posizione ancora più sfavorevole? È questo che vuoi?» «No», intervenne veloce Charles. «È un bravo ragazzo e tutto ciò che desidera è condurre tutti a Cristo. Cosa che desidero anch'io, Eminenza». «Nobile scopo», concesse il vescovo, appoggiando la schiena e rilassandosi appena, «ma non sempre raggiungibile. Sei ancora giovane, fratello Michel; col tempo imparerai che esistono anime la cui follia è così grande e i cui cuori così pieni di cattiveria che nemmeno Dio può salvare». «Ma se», continuò umilmente lo scrivano, evitando lo sguardo del vescovo, «se si potesse dimostrare che madre Marie non è relapsa... e che le sue azioni erano ispirate da Dio e non dal demonio...». «Discorso retorico», rispose Rigaud, di nuovo seccato. «È colpevole: abbiamo i testimoni. E se non vado errato, voi eravate tra questi». A queste parole, Michel piegò umilmente il capo, sebbene il suo cuore fosse in tumulto. Come poteva il vescovo, un domenicano, accusare la badessa di essere malvagia? I domenicani avevano una particolare devozione intima per la madre di Cristo la quale aveva donato il rosario a san Domenico; e si diceva che madre Marie fosse in comunione spirituale con la Vergine e fosse la sua rappresentante in terra. I resoconti delle sue guarigioni miracolose crescevano giorno dopo giorno. Era chiaro che Sua Eminenza era ormai troppo vecchio e confuso; e di certo il cardinale Chrétien non aveva mai detto quelle cose a proposito della badessa. Avrebbe dovuto inviare un messaggero da Avignone che, di
gran carriera, portasse nella notte una lettera a Rigaud prima che Michel e Charles in persona arrivassero a Carcassonne. Accanto a Michel, padre Charles sedeva calmo, silenzioso e implacabile. Rigaud permise a un piccolo sorriso di affiorare sulle sue sottili labbra bluastre; sorprendentemente, aveva ancora la maggior parte dei denti davanti, macchiati del colore della corteccia di quercia. «So che posso fidarmi di voi, padre, e anche del vostro giovane confratello e che farete ciò che è giusto. Il crimine commesso contro il Santo Padre è sufficiente a pronunciare la sentenza più dura; ma c'è anche la questione dell'inopportuna influenza che la badessa esercita sulla gente. Se sopravvive, seppure in uno stato di scomunica, esiste la possibilità di un'insurrezione popolare contro la Chiesa, oltre al pericolo che possa ottenere un supporto politico da certi... superiori fuorviati». Superiori all'interno della Chiesa, Michel sapeva che Rigaud aveva ragione sul fatto che la badessa, grazie alla reputazione di santa, possedeva un grande potere politico e che, prima del suo arresto, aveva esercitato molta più influenza sull'arcivescovo di Tolosa dello stesso vescovo di Carcassonne. Ecco come stavano le cose: Rigaud, intimorito e geloso, era determinato a vedere la badessa morta. All'improvviso, Michel udì nella sua testa la familiare ammonizione di padre Charles: Sei troppo impulsivo, ragazzo mio; devi imparare a rispettare i tuoi superiori. Dio li ha posti sopra di te affinché tu impari l'umiltà. Umiltà. Era difficile ricordare l'umiltà inginocchiato accanto alla pira di una persona che strepita e si contorce tra le fiamme. Dopo aver assistito al rogo del primo uomo condannato durante il suo incarico come scrivano, Michel era tornato barcollando nella sua cella al monastero e aveva vomitato fino a espellere tutta la bile che aveva in corpo e poi aveva continuato ad avere conati di vomito per più di un'ora. Chrétien lo aveva seguito e gli aveva tenuto la testa; e poi, mentre Michel giaceva ansimante sull'ampio grembo dell'inquisitore, rivestito di broccato, gli aveva rinfrescato la fronte con un panno freddo, dicendo: È difficile, lo so, figlio mio; è molto difficile. Michel aveva insistito per lasciare l'incarico, poiché non si sentiva chiamato a una missione tanto raccapricciante ma Chrétien aveva saggiamente posto la questione in altri termini: Innanzitutto, il peso di quelle morti ricade solo sulle mie spalle. Non essere troppo superbo, Michel, e ricordati che sei solo uno scrivano. Inoltre, Dio ci ha dato il compito più difficile, un compito che ogni giorno mette
alla prova il nostro coraggio; e se io fossi uno degli accusati vorrei che a gestire la faccenda fosse una persona devota e premurosa come te. Poiché conosco il tuo cuore e so che preghi continuamente per i peccatori: e Dio ti ascolta. Ti ho visto accanto al condannato mentre moriva tra le fiamme e credo fermamente che, nell'ora della sua morte, le tue preghiere abbiano portato la sua anima a Cristo. Dio ti ha dato una croce speciale da portare in questa vita: preferiresti che un'altra persona, magari insensibile e indifferente, prenda il tuo posto? O preferisci accettare il tuo compito serenamente e, nel farlo, dare tutto il meglio di te a coloro che tanto ne hanno bisogno? Il giorno che, neonato, fosti lasciato all'esterno del palazzo papale, Michel, Dio mi mandò un sogno e in quel sogno tu diventavi il più grande inquisitore della storia, colui che avrebbe riunito la Chiesa in un'unica vera fede. Dio ti ha scelto per una grande missione: sii coraggioso e prega Dio affinché ti dia la forza. I ricordi si fondevano con quelli di Rigaud che si alzava dal trono ben imbottito, uno scheletro strisciante dalle spalle ingobbite, rivestito di seta e raso scarlatto. «Tre giorni», aveva detto. «Tre giorni per ottenere le confessioni delle donne e consegnarle al braccio secolare per l'esecuzione». «Tre giorni...», sospirò Charles, confuso, prima che Michel riuscisse a ripetere le stesse parole. Era chiaro che non si trattava di un ordine di Chrétien. «Saranno sufficienti», dichiarò il vescovo deciso. «Ma Vostra Eminenza», ribatté Charles, «sono coinvolte sei donne e spesso ci vogliono diversi giorni per estorcere una singola confessione; io, da solo, insieme a padre Thomas, non...». «Saranno sufficienti», ripeté Rigaud e stavolta il tono indicava che la discussione era finita. Senza altre parole sollevò le braccia, i palmi aperti e leggermente incavati, e benedisse i due uomini mandandoli per la loro strada, almeno era ciò che Michel aveva presunto. Seguendo l'esempio di padre Charles, scivolò via dallo sgabello e si inginocchiò. Dalle dita del vescovo sgusciò qualcosa di luminoso e splendente che scivolò giù di un centimetro, poi di due e infine di tre fino a penzolare in aria. Un crocefisso d'oro attaccato a una catena, anzi due; una in ciascuna mano. Il vescovo andò prima da Charles e poi da Michel, e con solennità infilò la catena attorno al collo di ognuno. La croce era due volte la larghezza del pollice di Michel, lunga quasi il doppio e massiccia; i contorni non erano netti ma riccamente filigranati e il Cristo d'oro raffigurato era stato reso in maniera così minuziosa che si riconoscevano distintamente
tutte le spine sulla croce e persino le pupille nei suoi occhi. Sopra, era inchiodata un'insegna: I.N.R.I., Gesù di Nazareth, Re dei Giudei, e ancora più su vi era incisa la Stella di David a sei punte, una strana aggiunta. Il valore di tutto quell'oro doveva essere enorme. Il vescovo, la cui mano tremava leggermente a causa dell'età, fece il segno della croce sui due uomini inginocchiati e disse: «Sono stati purificati e benedetti dal papa in persona; indossateli sempre durante la vostra missione, poiché ella è una donna pericolosa ed essi vi proteggeranno dal suo potere». Rigaud stava per voltarsi ma poi si fermò e aggiunse, accennando un sorriso: «Ne avrete bisogno, poiché le spie di Chrétien sono ovunque: sarete strettamente sorvegliati. Non deludetelo, padre: un vostro fallimento sarà severamente punito». Quando l'incontro con il vescovo finì era l'ora terza, quasi le nove, e fuori, per strada, il sole, la cui luminosità feriva gli occhi dopo l'oscurità del palazzo, iniziò a colpire il selciato. I due camminarono in silenzio per un po' e poi Michel disse: «Padre, ditemi che le mie orecchie hanno frainteso. Ditemi che Rigaud non ci sta costringendo con le minacce a dichiarare la badessa colpevole». Charles si fermò e si voltò a guardare il suo scrivano. «Prima di tutto, Michel, non saremo noi a dire se è innocente o colpevole. Sarò io a farlo e quindi la cosa non ti riguarda affatto». Umiliato, Michel abbassò la testa in segno di approvazione. Charles, stavolta con tono più dolce, domandò: «Tu credi che sia una santa, vero?». Michel esitò ma alla fine, con un filo di voce, rispose: «Sì». «Comprendo, quindi, il tuo sgomento», disse Charles, con un tono realistico. «Nonostante ciò, non spetta a te giudicare l'innocenza o la colpevolezza dei prigionieri: è un mio compito. Tu sai che Chrétien e io non concordiamo con la tua opinione e noi siamo i tuoi superiori. Per quanto riguarda il vescovo, be', può fare tutte le minacce che vuole, ma io manderò un dispaccio al cardinale stasera stessa, avvisandolo dei commenti inappropriati di Rigaud. E tu non devi temerlo». Nonostante le parole di padre Charles sulla badessa, Michel era certo che il sacerdote avrebbe fatto ciò che era giusto agli occhi di Dio, così come aveva fatto sempre in passato. Madre Marie Françoise era una santa (e Michel in segreto le rivolgeva perfino delle preghiere); Charles se ne sarebbe accorto incontrandola di persona e ascoltando la sua testimonianza e avrebbe dato il giusto verdetto.
E Michel avrebbe pregato Dio senza sosta affinché cambiasse il cuore del cardinale. Il traffico iniziò a scorrere di nuovo, con il leggero fruscio e il lieve odore acido di latte tiepido. A passo più veloce, i due uomini si ritrovarono a camminare rapidi su una stradina di mattoni, oltre le botteghe strette e allungate i cui ripiani di legno si aprivano direttamente sulla strada, talmente vicini che la manica di Michel sfiorava i fragranti filoni di pane messi a raffreddare, forme di formaggio dall'aroma pungente e scarpe appena rattoppate. In alto, i piani superiori degli edifici, dove vivevano i mercanti con le loro famiglie, sporgevano pericolosamente in fuori; in qualche caso, le case sui lati opposti della strada arrivavano a toccarsi, facendo ombra ai passanti. Michel alzò lo sguardo al suono di una risata e vide la moglie del fornaio affacciata a una finestra del terzo piano che, ridendo, sfiorava il braccio della vicina, la moglie del vinaio, che sorrideva nella sua casa sul lato opposto della strada. Dopo un po', le botteghe si fecero più rade e distanziate via via che la strada si ampliava; all'incrocio con un altro ampio viale c'era la prigione, una grande scatola quadrata in pietra, una minima frazione dell'ampiezza e dell'altezza della cattedrale e volutamente insulsa dal punto di vista architettonico. Michel era accanto al sacerdote mentre insieme salivano i gradini inclinati e consumati che portavano al pesante portone in legno a due ante, oltre gli avvocati e i loro polemici clienti. Una sentinella, con la fronte luccicante di sudore e raggrinzita per il costante cipiglio, si trovava all'esterno e indicò con un gesto l'unica anta aperta senza dire una parola, mentre i domenicani si avvicinavano. Michel, entrando, iniziò a sbattere le palpebre per adattare gli occhi all'improvvisa oscurità. Il lungo, stretto corridoio non aveva finestre; l'unica fonte di luce proveniva da una torcia di stracci accesa piazzata sul muro ammuffito. «Secondino!», chiamò il sacerdote, estraendo calmo dalla manica un fazzoletto che si portò al naso, coprendo i baffi neri e gran parte della striscia di barba sottile. L'aria era più fresca qui che all'esterno, naturalmente, ma di certo meno piacevole. La fragranza di rosa e lavanda si mescolò all'odore di fondo di escrementi umani, urina mista a sangue e sofferenza. Tutte le prigioni avevano lo stesso odore e ogni visita rievocava in Michel lo stesso terrificante ricordo infantile: l'uccisione maldestra di un maiale da parte del cuoco del monastero. Era riuscito a tagliargli la gola solo in parte e l'animale era sfrecciato via strepitando per tutto il cortile, e disseminando
sangue ed escrementi ovunque insieme ad un più terribile e pungente odore che il cuoco, più tardi, definì puzza di terrore. La tortura umana produceva un miasma ugualmente tetro, che continuava ad aleggiare anche quando le sofferenze cessavano. Dopo un momento di silenzio, seguirono dei passi irregolari e un tintinnio metallico. Dall'oscurità apparve il secondino, un omone basso e dagli arti muscolosi, con un piede leggermente deforme. A prima vista sembrava che avesse la testa rasata simile alla tonsura monacale, ma guardandolo più da vicino era chiaro che si trattava dell'opera del tempo e della natura. «Ah, padre!», gridò sorridendo, mostrando i denti anteriori ai quali mancava un canino. «Padre Charles, esatto? Benvenuto, benvenuto! Vi abbiamo aspettato con ansia! Non ci capita spesso di essere onorati dalla presenza di un esperto come voi». Le sibilanti fischiavano nettamente. Dietro il fazzoletto bianco, l'espressione del sacerdote si sciolse un po', ma non sorrise; il lavoro che lo aspettava era troppo lugubre. Tuttavia, annuì cortese e, con parole alquanto soffocate, rispose: «Potete dirmi se padre Thomas e il suo assistente sono già arrivati?». Il secondino scosse la testa. «I torturatori sono qui ma non sappiamo nulla di padre Thomas». Facendo parte del tribunale dell'Inquisizione, Thomas sarebbe dovuto partire da Avignone insieme a Charles e Michel, ma era stato trattenuto qualche ora in più per "affari personali". Se fosse stato un altro prete, Michel si sarebbe preoccupato dei briganti sulla strada; ma i pettegolezzi erano arrivati anche alle sue orecchie e dal silenzio imbarazzato di Charles sull'argomento, l'assenza prolungata di Thomas doveva avere a che fare con un'amante. Essendo, tuttavia, uno dei protetti preferiti di Chrétien (un grande favorito, molto più dello stesso figlio del cardinale, almeno così Michel sospettava), Thomas poteva permettersi certe licenze. «Possiamo vedere la prigioniera, allora», chiese educatamente Charles al loro ospite, «la badessa, madre Marie Françoise?» «Ah, sì...». Il secondino roteò gli occhi scuri, così profondamente infossati e vicini da non mostrare mai il bianco. «La Grande Puttana di Carcassonne, come la chiama qualcuno; comunque è bene che sappiate che in questa città molti la considerano una santa e non vogliono che sia processata. Non che io sia tra quelli». Fece una pausa e un tocco di lascivia s'insinuò nel suo tono. «Padre, è vero? Ha fatto veramente quello che dicono nel palazzo papale?». Michel sentì le labbra torcersi dal disgusto: anche lui aveva sentito dire
che la badessa aveva eseguito un atto sessuale osceno, un sortilegio, per offendere papa Innocenzo. Ma non era vero; anzi, aveva fatto il contrario. Aveva guarito un uomo con la semplice imposizione delle mani. Come Rigaud aveva sottolineato, Michel era stato un testimone dell'evento e all'inizio aveva anche pensato (sebbene non lo avesse mai confessato a nessuno) di trovarsi in presenza della Santa Madre in persona, che irradiava luce da dentro. Poi l'immagine era svanita e aveva capito che quella che stava guardando era semplicemente una donna in abiti francescani; era ancora convinto, però, che si trattasse di un'emissaria di Dio, perché quando aveva alzato lo sguardo dalla sua vittima stupefatta, il suo volto continuava a brillare di luce divina. Come potevano questi peccatori parlare in modo tanto ignobile di una santa? Ora, nell'anticamera del secondino, il volto di padre Charles diventò serio e il suo sguardo fisso; abbassò il fazzoletto così che il suo volto, magnificamente regale, con le guance scavate e le folte sopracciglia color carbone, potesse essere visibile. «Ora andiamo dalla badessa», disse calmo. «Certo». L'uomo sospirò e si voltò improvvisamente facendo tintinnare tutte le chiavi attaccate al grande anello che teneva sul fianco; poi fece strada lentamente, con una spalla che si abbassava quando faceva il passo con il piede deforme e che si sollevava quando si poggiava su quello buono. Charles e Michel lo seguirono lungo il corridoio fino ad una scala di pietra. Attorcigliata come il guscio di una lumaca, la scala era ancora più stretta delle strade cittadine e permetteva di procedere solo in fila indiana. Dal piano inferiore salirono le urla di una donna. Automaticamente Michel si sforzò di dominare il sentimento di pietà e iniziò a pregare: Ave, o Maria, piena di grazia; il signore è con te. Benedetta sei tu tra le donne e benedetto è il frutto del seno tuo, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte... Sentendo le urla, padre Charles afferrò la spalla del secondino con una presa da rapace. «Ci sono altre prigioniere oltre alle sorelle francescane?». Il secondino, riluttante, esitò il tempo necessario e Charles comprese la sua risposta silenziosa: «Cosa stanno facendo i torturatori con le mie prigioniere? Non hanno alcun diritto di agire in assenza di miei precisi ordini!». Michel restò a bocca aperta, sconvolto. Il secondino sprofondò la testa nelle spalle e studiò i sandali di Charles. «Sono arrivati da Parigi un'ora fa, monseigneur, e hanno chiesto che gli
venissero portate le monache. Ho pensato, ve lo giuro seigneur, che stessero agendo dietro vostri ordini». «E invece no». L'uomo alzò lo sguardo, improvvisamente desideroso di accusare. «Capisco, padre; e ora che me lo fate notare mi ricordo che erano piuttosto ubriachi quando mi fecero tale richiesta. Temo che provenissero dritti dritti da una taverna o un bordello, signore, e che non avessero dormito per tutta la notte...». «Portatemi subito da loro». Padre Charles oscillò la manica nera del braccio in un secco gesto feroce intimando al secondino di stare zitto e di avanzare, ciò che l'uomo fece, e in fretta. Alla fine arrivarono in fondo alla scala che si apriva su una grande cella comune; sulla sinistra, ce n'erano alcune più piccole, singole, oltre a un paio di grandi porte a doppia anta parzialmente aperte. L'aria qui era ancora più fredda e irrespirabile. Paonazzo e senza fiato, il secondino condusse i due uomini nel corridoio tra le celle singole e quella comune fatta soltanto di un pavimento di pietra cosparso di paglia e circondata da sbarre di ferro. All'interno c'erano sei monache, tutte senza tonaca, con indosso soltanto le camiciole, rannicchiate l'una contro l'altra, gli sguardi timorosi e disperati. Sembravano appartenere tutte alla nobiltà francese: avevano nasi affusolati e pelle chiara, e i capelli rasati accentuavano i lunghi colli bianchi. Erano nate nella ricchezza e donate giovani al convento, non conoscevano nulla della vita, ad eccezione del ricamo, della lettura e della contemplazione. Non erano legate ai ceppi, come avrebbero dovuto essere, e sedevano libere sulla paglia, segno, forse, della simpatia dissimulata del secondino. Quando passarono padre Charles e Michel, lo sguardo delle monache li seguì e le donne voltarono all'unisono le teste. Due consorelle, una bionda e una mora, piangevano accoratamente mentre mormoravano le preghiere e le palpebre gonfie erano di un rosa pallido. Le altre avevano l'espressione di muto stupore che Michel aveva visto tante volte. Il secondino si fermò davanti la porta della camera di tortura dalla quale provenivano risate gutturali. Michel non riuscì più a trattenersi; pur sapendo che sarebbe andato incontro al rimprovero del suo maestro, fece un balzo in avanti e spalancò una delle ante. Vide subito una forma chiara sospesa a circa venti centimetri da terra, appesa a una carrucola e con delle catene agganciate ad ogni polso che tiravano le braccia in alto e indietro. Si trattava del supplizio della corda che utilizzava il peso stesso della vittima
per strappare le spalle dalla loro cavità articolare; non solo questo mezzo risultava efficace, causando slogamenti e agonia in pochi minuti, ma anche quando la tortura cessava, il dolore continuava ad intensificarsi fino a che la vittima si arrendeva e confessava. La donna che pendeva dalla corda sembrava priva di conoscenza: la testa era piegata in avanti e il mento le poggiava sulla clavicola; sotto, i seni piccoli come conchiglie si protendevano su una pronunciata cassa toracica, una lunga pancia piatta e le ossa dei fianchi prominenti sopra un triangolo di lanugine chiara. Le gambe erano sottili, magre e leggermente piegate. Sul muro di pietra dietro di lei, la sua ombra, un Messia al femminile sospeso su una croce invisibile, oscillava alla luce della torcia. Davanti alla donna c'era uno dei torturatori che in punta di piedi le palpeggiava i seni; un altro, troppo ubriaco per mantenere l'equilibrio, trascinava una cassa mentre armeggiava per togliersi i gambali. «Tiratela giù!», urlò Michel, precipitandosi all'interno della stanza e, con una sicurezza e una forza che sorpresero perfino lui stesso, buttò a terra l'uomo che trascinava la cassa. L'altro torturatore, i cui occhi erano velati dall'alcool, lasciò la sua preda e si voltò bellicoso verso il presunto salvatore della donna. Michel era alto ma il torturatore era più alto e molto muscoloso. I due si fissarono per un attimo e Michel si preparò ad attaccare. «Tiratela giù», tuonò Charles sull'uscio, con la stessa veemenza di Cristo quando cacciò i mercanti dal tempio. Il primo torturatore voltò la grande mascella rossa in direzione del prete. «Ci hanno detto...». «Non m'importa cosa gli altri vi hanno detto. Da oggi in poi, eseguirete soltanto i miei ordini». «Ma voi...». Padre Charles sollevò la mano in una minacciosa richiesta di silenzio. Il buonsenso vinse su alcool e temperamento e il torturatore, giudicando Charles un nemico pericoloso su ben altri piani rispetto a quelli fisici, sospirò e afferrò la carrucola. La donna cadde al suolo come una marionetta senza fili; Michel la sollevò tra le braccia, un mucchio di pelle e lunghe ossa, mentre il secondo torturatore le liberò i polsi dalle catene. La situazione non permetteva false remore: Michel non provò alcun imbarazzo ma soltanto orrore di fronte alle ferite, alle ossa fuori posto e a tutta l'umiliazione procuratale. Usò la manica della sua tunica per coprire il corpo della donna come meglio poté e la trasportò nel corridoio, passando davanti a padre Charles.
Le leggi dell'Inquisizione impedivano a secondini, torturatori e inquisitori di picchiare e violentare i prigionieri sebbene tali crimini avvenivano sempre più spesso. Charles e Michel denunciavano sempre tali abusi così come l'ignoranza o il disprezzo deliberato per i diritti dei prigionieri. La pratica ufficiale impediva la tortura senza la presenza o il permesso dell'inquisitore; la Practica Officii Inquisitionis Heretice Pravitatis, pubblicata tre decenni prima da Bernard Gui, era estremamente dettagliata a questo proposito e garantiva all'accusato alcuni diritti. Uno riguardava la possibilità di confessare prima che la tortura iniziasse; un altro che la tortura non doveva essere utilizzata indiscriminatamente ma in modo assennato e sempre con lo scopo di ottenere una confessione. «Dovrei denunciarvi ora», disse il prete ai due uomini con rabbia dolente, «accusandovi non solo di aver infranto le regole ma anche per il crimine che stavate per compiere. Tuttavia, ho poco tempo e quindi vi offro un'altra possibilità di rispettare la legge. E sono certo che immaginate la creatività con cui un torturatore esercita il suo mestiere su un suo collega». Detto ciò, Charles si diresse nuovamente verso il corridoio e accompagnò Michel, con l'aiuto delle chiavi del secondino, nella cella comune. Michel, con gentilezza, depose sulla paglia la consorella ancora priva di conoscenza e all'improvviso, furono assaliti dalle pulci. Le monache, incuranti ora dell'inquisitore, si raccolsero subito intorno alla donna e, singhiozzando e sussurrando, coprirono la sua nudità con una coperta sudicia. Charles si rivolse alle donne con tono solenne dall'altro lato delle sbarre: «Sorelle, vi chiedo scusa per questo errore giudiziario e ricordo che a tutte voi sarà offerta l'opportunità di evitare tale destino». Due monache alzarono lo sguardo su di lui, con occhi velati come un tempo lo erano state le loro teste; ma era impossibile determinare se quelle espressioni solenni significavano pentimento o odio represso. Le altre restarono concentrate sulla donna ferita in mezzo a loro e nessuno fece caso ai due inquisitori che si allontanavano e al secondino che chiudeva le sbarre. Senza profferire parola, il secondino, mortificato, condusse i due chierici lungo il corridoio, oltre un'altra cella comune, stavolta vuota, seguita da una fila di celle singole, fino all'ultima della fila. Si fermò davanti alla porta di legno, incorniciata da ferro arrugginito, con una finestrella a sbarre all'altezza degli occhi e una feritoia vicina al pavimento attraverso cui veniva passata l'acqua e il cibo. Charles aprì la porta che si spalancò con un cigolio.
Michel seguì Charles all'interno. La cella era simile a molte altre: un umido pavimento ricoperto di paglia, un secchio che fungeva da latrina colmo di urina, una piccola torcia di stracci impregnata di grasso vicina all'entrata che emetteva una luce flebile e il fumo che ricopriva tutto con una fine fuliggine nera. Tuttavia, c'era qualcosa che la differenziava dalle altre: in un contenitore di ceramica poggiato sul pavimento bruciava una bella candela bianca emettendo archi di luce tremula che danzavano sui muri. Qui l'afrore era meno accentuato, tanto che Charles ripose il fazzoletto nella manica. Un luogo sacro, pensò Michel immediatamente e immaginò di percepire un lieve odore di rose. Il ricordo dell'ultima volta che l'aveva vista, ad Avignone, in mezzo a una folla vociante, gli ritornò con forza. Su una tavola di legno, ancorata alla parete con delle catene, giaceva una donna con il viso rivolto verso il muro. Nell'istante in cui i due inquisitori avanzarono tra la candela e la donna, proiettarono sul muro di fronte le loro ombre, delineate da un lugubre profilo di fumo nero che fluttuava attorno alle loro spalle. Anche nell'oscurità, Michel riusciva a percepire chiaramente, attraverso i lucidi capelli tagliati all'altezza della nuca, il profilo della guancia rigonfia, forse fratturata e il respiro breve, rapido e superficiale, di chi sta soffrendo a causa delle costole rotte. Era stata la prima ad essere torturata; istintivamente pensò alla sua farmacopea ad Avignone e prescrisse, nella sua mente, corteccia di salice per il dolore, pomata di foglia di consolida, petali di calendula e olio di oliva per le escoriazioni... Padre Charles si sistemò sopra uno dei due sgabelli posti lì espressamente per gli inquisitori. Michel lo imitò, sedendosi leggermente dietro il prete e slacciò il fagotto legato alla cintura mentre Charles chiese gentilmente: «Madre Marie Françoise?». Il corpo della donna si mosse in maniera impercettibile. «Sono padre Charles, un prete domenicano mandato dalla Chiesa per fare indagini sul vostro caso. E questo», indicando il suo assistente con orgoglio quasi paterno, «è il mio scrivano, il figlio adottivo del cardinale Chrétien, il confratello domenicano Michel». Si fermò un istante, come se aspettasse che la badessa si voltasse e li salutasse entrambi. Poiché non accennò a muoversi, il tono di Charles s'incupì. «Prima di tutto, madre, le chiedo perdono per i torti commessi nei vostri confronti. Quegli uomini non avevano il diritto di sfiorarvi senza che vi fosse concessa l'opportunità di confessare. Il loro comportamento sarà
denunciato». Lentamente, la donna girò il viso verso di loro. Michel trattenne un ansito di orrore. Si era aspettato di incontrare la piccola donna velata vista di recente nella piazza di Avignone, mentre imponeva una mano sull'occhio di un prigioniero inginocchiato; una donna bella, con la pelle olivastra, gli occhi grandi e un naso all'insù. Ora la badessa li guardava con un occhio del suo normale colore castano, mentre l'altro, in parte nascosto dallo zigomo rotto e gonfio, era completamente chiuso sotto l'edema ricoperto di sangue rappreso colato dal sopracciglio, che mostrava un taglio lungo quanto un pollice proprio all'attaccatura. La ferita era aperta, rossa e viva, e il sangue era zampillato lungo la tempia e la guancia, fino al lato del naso, anch'esso escoriato e sanguinante sopra il labbro superiore, tagliato e violaceo. Sotto le ferite, il fisico della donna era piuttosto comune. Minuta, di una ventina d'anni circa, aveva raggiunto, forse un po' troppo presto, la potente posizione di badessa insieme a una reputazione troppo chiacchierata. Tuttavia il suo portamento sprigionava bellezza e una calma dignità anche di fronte a tali disastrosi eventi. Degli innumerevoli prigionieri che Michel aveva visto nei suoi anni di servizio accanto a padre Charles, lei soltanto non dimostrava paura. Di nuovo i ricordi lo portarono ad Avignone, nel momento in cui la donna aveva alzato lo sguardo dall'uomo appena guarito, indirizzandolo su di lui, Michel. Si era convinto in quell'istante che la badessa conoscesse profondamente il suo animo, ogni pensiero e ogni intenzione del suo cuore; da lei sprigionava un amore particolare diretto proprio a lui, un amore così santo, così puro e intenso da non riuscire quasi a sostenerlo. Le aveva ricambiato quello sguardo e quell'amore con un'illuminazione: Dio è qui. All'improvviso, era stato colto da un desiderio così feroce che gli afferrava, non solo i reni, ma tutto il corpo fino alla punta delle dita che fremevano di passione. Addolorato, vergognandosi per aver provato una tale attrazione fisica per una santa, pregò ancora una volta in silenzio: Vade retro, Satana. Ave o Maria, piena di grazia... E le ultime parole le aveva indirizzate alla badessa. La voce di padre Charles, pervasa di indignazione, riportò Michel al presente. «Pagheranno per questo crimine, madre. Ma ora», e il tono del prete ridiventò di circostanza, «non perdiamo tempo. È stato stilato un elenco preliminare delle accuse contro di voi». Senza guardare il suo assistente, fece
un gesto con la mano aperta in direzione del monaco. Michel si riprese, aprì la borsa e srotolò uno spesso rotolo di pergamene; tirò fuori quella giusta e la porse a Charles. Sebbene l'uomo più anziano facesse affidamento ormai da tanto tempo sugli occhi di Michel, conosceva le parole a memoria: «Il massacro di bambini innocenti, la relazione con il Diavolo, il malocchio, maleficium, su molte persone di Carcassonne, per non parlare dell'accusa più grave: maleficium contro Sua Santità, papa Innocenzo...». Ad eccezione dell'ultima accusa e del nome dell'accusato, tutte le pergamene riposte nella borsa di Michel riportavano le stesse frasi. La voce di Charles si affievolì: «Madre, ora vi chiedo: confessate di aver commesso ciò di cui siete accusata?». Lacrime affiorarono nell'occhio sano della badessa e una goccia stillò dall'angolo scivolandole lungo il naso. Padre Charles, cupo, le mostrò la pergamena mentre Michel cercò la penna e il calamaio. «Il documento è pronto; dovete solo firmarlo», disse il prete. «È la lista delle accuse che vi ho appena letto». Mentre porgeva la penna a Charles, Michel vide che la badessa non stava guardando la pergamena, ma lui, per poi spostare lo sguardo su padre Charles, e in un momento di stupita e inspiegabile rivelazione, capì che non piangeva per le sofferenze inflittele dai suoi torturatori o per la vergogna di trovarsi in prigione né per il timore di una morte dolorosa. Piangeva perché li compativa, compativa i suoi inquisitori. Provava una compassione infinitamente profonda e la gola gli si serrò dolorosamente corrispondendo tale sentimento. La badessa guardò nuovamente Michel, con le guance che brillavano sotto le lacrime tinte di sangue, con un'espressione pienamente composta. Sembrava così innocente: piccola e ferita su quel lurido lenzuolo strappato, come un bimbo androgino con i capelli rasati e gli occhi grandi. Guardandola, era inevitabile vedere la santa che c'era in lei, e Dio alle sue spalle. Nonostante le ferite, il suo volto e il suo occhio aperto contenevano il divino; forse, pensò Michel, Gesù era apparso così ai suoi carcerieri la vigilia della sua crocifissione. Stava per voltarsi verso padre Charles, per valutare la reazione dell'anziano prete, ma improvvisamente fu colto da vertigini e sentì che stava per svenire... Non era più Michel, il monaco, ma un altro uomo, un estraneo, sdraiato per terra mentre osservava il cielo illuminato dal sole. Questo luogo di pie-
tra e di urla, ora sembrava così azzurro, così tranquillo, così indifferente, fresco, calmo e placido. Nell'azzurro del cielo sopra di lui tremolavano turbinii scuri, che correvano da una parte all'altra: avvoltoi?, si chiese, o è la Morte che si avvicina? Era troppo debole, troppo provato, troppo esausto perché gliene importasse. Poi il cielo e gli uccelli fatali furono sostituiti da un volto umano, femminile, a forma di cuore, gli occhi neri splendenti, un naso quasi impercettibile e le labbra a ricordare un bocciolo semi-dischiuso. Ciglia color indaco; pelle olivastra leggermente dorata. Sorridente, quel volto si avvicinava a lui ed egli si sforzava di rispondere al sorriso, ma invano, poiché c'era troppo sangue ovunque, sul metallo, sulla terra, sulla lingua, ma non gli importava, perché alla fine aveva visto Lei... E nonostante la debolezza, era colmo di una devozione travolgente e di un irrefrenabile desiderio fisico. Tuttavia, con la neutralità di chi sta per morire, non provava vergogna. Questa passione gli sembrava sacra, indivisibile dal Potere che fluiva da lei a lui. La voce della donna, bassa e suadente, una voce che conosceva da tanto, tanto tempo, una voce che aveva sempre conosciuto ma aveva dimenticato, disse: «Il Dio che cerchi è qui, non vedi? La tua vita è qui...». Le parole e il calore rievocavano una tale libertà, una tale gioia profonda e un sollievo che egli esalò un rantolo e morì in pace. Michel ritornò al presente di soprassalto. Gli sembrava di aver sognato ad occhi aperti, poiché passò la penna a padre Charles come se nulla fosse accaduto; anzi, pensò che non si fosse trattato di un sogno ma di un passaggio negli ultimi ricordi di un moribondo, una persona che non conosceva. Una visione, mandata da Dio, il cui significato tuttavia gli sfuggiva completamente; allo stesso tempo, la lascivia lo imbarazzava, riconoscendola come conseguenza della sua natura peccaminosa. Michel si portò istintivamente la mano sul crocifisso che portava nascosto sul cuore; allo stesso tempo, padre Charles gli lanciò uno sguardo penetrante prima di porgere la penna e la pergamena alla donna che ancora giaceva distesa. Le lacrime della badessa cessarono di colpo; poi fece cenno di no con la testa. «No». Stranamente, Charles non insistette. Abbassò il braccio e restituì gli oggetti rifiutati a Michel che li ripose di nuovo nel fagotto da cui estrasse una
tavoletta di cera e uno stilo usato per registrare nomi aggiuntivi, accuse o modifiche alle confessioni. Con lo stilo, lo scrivano incise nella cera: Nell'anno 1357, ventidue ottobre, detta madre Marie Françoise del convento francescano di Carcassonne fu formalmente posta a giudizio davanti al padre domenicano Charles Donjon di Avignone e rifiutò di confessare i crimini di cui era accusata. E aspettò, lo stilo sospeso, che Charles le chiedesse se preferiva confessare altri crimini o fare una dichiarazione. Con grande stupore di Michel, padre Charles disse alla monaca: «Mi pare ovvio che non avete alcun desiderio di cooperare a queste indagini». Ad un tratto si alzò e si voltò per andarsene; smarrito, Michel raccolse in fretta i suoi strumenti di scrittura e imitò il suo maestro. «Ma io voglio confessare», disse la monaca con improvviso vigore. «Ma non ciò che è scritto sul vostro documento». Charles ruotò su se stesso per guardarla, l'orlo della sua tonaca scura oscillò, e a Michel parve di percepire nella sua voce una lieve traccia di delusione. «Voi volete...? » «Confessare», disse la donna, ma né voce, occhi o volto rivelavano la minima traccia di pentimento o rimorso. «Con parole mie e solo davanti a lui». E indicò Michel. Le spesse sopracciglia scure del prete formarono un'inquietante e netta V; le labbra si assottigliarono fino a impallidire e, per alcuni secondi, Charles rivolse uno sguardo fulminante alla donna distesa. Alla fine disse: «Volete che vi dica quello che già sapete? Che il mio assistente non è ancora sacerdote e non può legalmente registrare la vostra confessione? Che non gli permetterei mai di restare da solo in vostra presenza?» «Volete che vi dica io ciò che voi già sapete?», replicò la badessa con assoluto coraggio e completa irriverenza. «Che avete ricevuto ordini di dichiararmi relapsa e condannarmi a morte nonostante quello che io dica?». Si fermò e indicò Michel con uno sguardo. «Egli non ha paura di ascoltare la verità e annotarla». Cinereo, Charles si voltò di colpo verso Michel. «Questa donna non può essere aiutata. Chiamate il secondino, fratello». «Ma, padre...». «Fate quello che ho detto». Ci volle tutta l'obbedienza monastica assimilata negli anni e la lealtà nei confronti di Charles per obbedire ai suoi ordini, e guardando fuori dalla fi-
nestrella a sbarre chiamò a gran voce il secondino, forse più forte di quanto fosse necessario, visto che l'uomo aveva aspettato fuori tutto il tempo e la sua agilità e alacrità nell'aprire la porta gli impedirono di mascherare l'imbarazzo per essere stato sorpreso a spiare. Nel corso della giornata di lavoro, altri tre interrogatori infruttuosi, padre Charles parve sempre più sconfortato e, a fine giornata, mentre gli inquisitori uscivano dalla prigione per ritrovare la luminosità e il calore dell'aria dolce, si mostrò accigliato e pensieroso. Piuttosto che discutere gli eventi della giornata, com'era sua abitudine, restò in silenzio. Anche Michel non disse una parola, poiché era profondamente deluso da padre Charles. La legge diceva che la badessa dovesse avere diverse occasioni per confessare. Charles, invece, aveva pronunciato parole minacciose, parole mai dette prima d'allora e che suonavano chiaramente come una campana a morte per l'accusata: Questa donna non può essere aiutata. Sto diventando pazzo, pensò Michel, poiché il mondo e tutto ciò in cui credeva gli si sgretolava intorno. Il suo maestro era un uomo onesto e scrupoloso; Charles non avrebbe mai negato a un prigioniero un'udienza giusta. Tuttavia, oggi aveva praticamente condannato a morte la badessa senza che potesse pronunciare una parola. E la Chiesa veniva gestita da sinceri uomini pii, mentre oggi Rigaud aveva ricattato un prete infrangendo le leggi dell'Inquisizione. Padre Charles sospirò e guardò indietro verso la strada e il traffico proveniente dalla direzione opposta che ormai si andava affievolendo visto che si avvicinava l'ora di cena. Nella tarda luce pomeridiana, appariva pallido e stanco. «Fratello Michel», disse, «credo che sia meglio che io chiami un altro scrivano domani mattina». L'aveva detto, alla fine: Charles sarebbe tornato dalla badessa la mattina dopo e avrebbe consigliato l'esecuzione. Non voleva, quindi, che suo nipote adottivo fosse testimone di questo scempio. Allo stesso tempo, una parte di Michel faticava a credere che fosse questa la verità. «Padre, non so per quale ragione ma la badessa si fida di me; e se la mia presenza può aiutare ad ottenere una confessione...». «Vuole che tu stia lì da solo, Michel, ma i suoi motivi non hanno nulla a che vedere con la fiducia. Ho visto la strana espressione del tuo viso quando ti ha guardato, stamattina. Non eri più tu. Posso chiederti quali pensieri ti hanno attraversato la mente, in quel momento?».
Michel esitò; una parte di lui pensava che quella strana visione dovesse restare segreta, inviolabile... tuttavia, l'altra parte sapeva che padre Charles voleva soltanto proteggerlo dal male. «Io... era come un sogno ad occhi aperti; osservavo tutto attraverso gli occhi di un moribondo, in un altro tempo, un altro luogo... E lei, la badessa, era lì». Il tono diventò più sicuro. «Una visione divina, padre. Ho percepito la presenza di Dio». «Tutte queste chiacchiere sul "percepire Dio" e "avere visioni"; il tuo approccio alla religione è troppo emotivo. Dio è nella liturgia, nel breviario e non in voli di fantasia». Padre Charles scosse la testa e sospirò di nuovo e stavolta ancora più addolorato. «Ti ha stregato». «Ma il vescovo ha detto che il Santo Padre in persona ha benedetto il crocefisso, e che ci avrebbe pro...». «Lo so, fratello. Ma il fatto rimane: ti ha stregato. Il tuo "sogno ad occhi aperti" non proveniva da Dio». Fece una pausa. «Figlio mio, perché pensi che ti abbia allontanato da lei all'istante?». Il suo tono si fece ironico: «O pensi che stessi soltanto eseguendo gli ordini di Rigaud?». Quest'ultimo commento fece riflettere Michel il quale disse umile: «Se ciò che dite è vero, allora pregherò per chiedere perdono. Farò tutte le penitenze che riterrete necessarie, padre, ma io voglio aiutarvi e restarvi accanto. So che Dio può salvarla e so anche che posso essere d'aiuto. Lo so». «Michel. Figlio mio. Non capisci? Vuole corromperti». «Come fate a saperlo, padre? Eravate lì, sul palco e la guardavate mentre io... Non è forse importante sapere la verità, salvare un'anima che potrebbe essere innocente? Un'anima che potrebbe realmente essere una santa? C'era Dio in quella cella oggi, e ad Avignone, tra la folla, il giorno in cui assistetti per la prima volta a un'esecuzione, o non sapete più riconoscerLo?». Charles si voltò verso di lui come se fosse stato schiaffeggiato. Michel si rammaricò del dolore causato dalla domanda ma insistette: «Se è davvero una strega, perché mai dovrebbe fare a me un incantesimo, padre? E non a voi? Io sono solo uno scrivano, le servirei a poco. Come avete sottolineato, non sono io a decidere del suo destino. Io per lei posso solo pregare». Gli occhi castani del sacerdote si riempirono di lacrime. Aprì la bocca per parlare, ma poi la richiuse, visibilmente sopraffatto dall'emozione. Infine parlò, con voce rauca: «Darei con gioia la mia vita pur di proteggerti da ogni male. Almeno questo me lo concedi? Riesci a fidarti di me? Farò in modo che non ti accada nulla di male e che la tua integrità non venga compromessa». «Nessun male...», lo interruppe Michel, comprendendo all'improvviso le
parole di Charles: e cioè che egli desiderava proteggere il suo nipote adottivo da molte cose; non soltanto da possibili incantesimi ma dal senso di colpa che avrebbe provato se la badessa fosse stata giudicata colpevole grazie al suo aiuto. Umiliato, Michel piegò la testa. «Mi dispiace dovervi contestare, padre». «Non hai scelta, fratello, se non obbedire agli ordini del tuo maestro. Ho iniziato il mio servizio come scrivano e stavolta io stesso assolverò a questo compito». Michel trascorse la serata in solitaria preghiera, ma la sua esclusione dalla cella della badessa continuava a tormentarlo. Voleva credere che Charles avrebbe concesso all'accusata una giusta udienza, anche se ciò avrebbe provocato l'ira del vescovo, ma la reazione del prete nei confronti di madre Marie nella cella gli era sembrata sorprendentemente sincera. E così Michel meditò la strada che avrebbe intrapreso nel caso di un'esecuzione della badessa, a dispetto del vescovo. Nel caso peggiore, avrebbe denunciato pubblicamente l'azione e forse avrebbe scritto una lettera al papa. Rigaud avrebbe fatto pressione per farlo espellere dall'ordine domenicano, un pensiero che lo turbava poco visto che Chrétien era molto più potente e l'avrebbe protetto dalla rabbia del vescovo. Riflettendoci meglio, però, Michel decise che una tale espulsione sarebbe stata un gran sollievo. Invece di servire Dio guardando i colpevoli condannati mentre morivano, si sarebbe potuto unire ai francescani, e andare per le campagne a predicare e a salvare le anime prima che incorressero nella rabbia dell'Inquisizione. Adesso, tuttavia, la lealtà gli richiedeva obbedienza; e la possibilità che la durezza di Charles fosse stata solo una finta, che riuscisse a trovare la badessa innocente e affrontare la censura stessa di Rigaud, iniziò a serpeggiare in lui. E se ciò fosse accaduto davvero, come avrebbe fatto a proteggere il suo mentore? Un problema, certo: qualunque fosse l'esito, una persona che lui riveriva avrebbe sofferto. Afflitto da queste inquietudini, evitò il pasto serale con i monaci e restò nella sua cella in meditazione e in preghiera. Salva madre Marie e le sue sorelle, Signore, e io farò tutto ciò che mi chiederai. Pregherò incessantemente, mi flagellerò ogni sera, mi prostrerò in pubblico, digiunerò nel deserto... Fa' che i cuori di padre Charles, del vescovo e del cardinale siano mossi a pietà, Signore. Aiutali a capire che lei è una tua serva.
Mentre pregava, la luce del sole che filtrava nella cella dalla piccola finestra senza persiane si affievolì fino a sbiadire nel crepuscolo e poi nell'oscurità. Durante tutto questo tempo egli restò in ginocchio fino a notte fonda e, infine, rotolò su un fianco e si addormentò sulla pietra fredda. Era di nuovo quell'estraneo, e guardava attraverso gli occhi di un altro, ascoltava con le orecchie di un altro, incapace di vedere il volto di costui poiché era come se la sua anima avesse preso posto all'interno del corpo, del cuore e della mente di un altro. E questo straniero cavalcava nel mattino gelido, con le cosce e i polpacci stretti ai muscoli guizzanti del suo destriero; con la mano destra brandiva una lancia, un'arma pesante, anche se il braccio vigoroso era in grado di maneggiarla con disinvoltura e sul fianco pendeva una spada lunga quanto la sua gamba. Sul fodero era ricamata una rosa rossa. In lontananza, lo stendardo cremisi del re oscillava al vento: l'Orifiamma, ricamata in oro sfolgorante. Il cavaliere alla sua sinistra, un paladino con l'armatura, dalla barba brizzolata e i lineamenti nascosti dall'elmetto, portava la bandiera di Nostra Signora circondata da stelle. Il cavaliere alla sua destra, un uomo più giovane con i capelli di un rosso dorato, gli lanciò uno sguardo di incoraggiamento. Conosceva questi uomini, li conosceva intimamente, come loro conoscevano lui. Avanzavano tutti insieme, lenti, lenti, ed egli vide che quei tre erano una singola goccia in un mare di animali e uomini. Regnava la calma ovunque ad eccezione delle grida di un falco, del fruscio degli zoccoli dei cavalli sulle foglie secche, degli occasionali colpi di tosse soffocati. Attraverso i rami degli alberi seminascosti, guardò in basso dalla cima della montagna e, nella nebbia diradante, vide l'ansa di un fiume che brillava argentina nel sole appena sorto. Improvvisi squilli di trombe in lontananza. La scena si dissolse immediatamente intorno a lei, la badessa, che tuttavia non era né monaca né strega, ma solo donna. Una donna bellissima vestita non di iuta, ma di bianco tulle, fulgido come la luna. Sopra le spalle perfette, lungo le braccia e la schiena, fluivano onde nero-azzurre. Sedeva sulla panca di legno della sua cella, le ginocchia premute sul petto e le braccia strette attorno agli stinchi. Con la penna e la pergamena in mano, Michel le stava di fronte, pronto a scrivere la sua confessione; con un leggero sentimento di panico vide che
era solo, senza padre Charles a distoglierlo dalla sua concupiscenza. Tuttavia, la paura svanì quando fissò i suoi intensi occhi neri e l'amore e il pio desiderio che vi albergavano. La donna si alzò, mantenendo lo sguardo, e quando fece un passo verso di lui, la sua tunica si disciolse nell'oscurità ed ella brillò nuda davanti a lui. Non riuscì a resistere quando gli tolse di mano penna e pergamena, gettandoli via, né protestò quando lo cinse con le braccia attirandolo a sé, e premendo le sue morbide labbra intatte contro le sue. La baciò e con un fremito mai provato prima portò la mano sul seno di lei. Era estasi pura, scevra da ogni malizia, la gioia innocente di Adamo ed Eva che si univano nel Giardino. Sebbene fosse vergine, la prese sull'umida terra fredda e lei, più esperta, lo guidò. L'istinto lo consumò come fosse un fuoco, con la gioia e il desiderio che raggiunsero un'intensità insostenibile fino a quando lei sfiorò il suo volto con le dita e sussurrò: «Dio è qui, non vedi? Dio è qui...». Michel si svegliò al culmine del godimento ed emise un profondo respiro roco e il piacere profondo si mescolò all'abituale senso di colpa, nel pulsare delle contrazioni, lo sgorgare dello sperma, il vibrare degli spasmi che gradualmente si placavano al ritmo del battito del suo cuore. In un attimo, fu di nuovo completamente cosciente. Era un monaco a Carcassonne, sul pavimento di una cella concessagli dai fratelli domenicani, imbarazzato ancora una volta per i suoi pensieri infami sulla badessa e confuso per quel sogno sul soldato. Con l'alacrità del disgusto, si sedette e si pulì con una mano, strofinando via lo sperma con una piega della sua camiciola sciolta, bruscamente, per evitare di trarre altro piacere dal contatto. Qualcuno bussò con forza alla porta della sua cella. Michel lasciò la stoffa umida della tunica e poi si sforzò di placare il suo respiro ancora irregolare. «Sì?». Non poteva trattarsi del mattutino; avrebbero suonato le campane. «Sono padre André», fu la risposta sussurrata, per non svegliare gli altri. «Posso entrare?» «Certo». La sottile porta di legno si aprì della larghezza del suo avambraccio e un vecchio monaco gobbo scivolò dentro senza fare il minimo rumore. La lampada ad olio che teneva in mano gli illuminava il volto con una luce violenta; le ombre acuivano le rughe attorno alla bocca e sotto gli occhi e il tutto produceva un effetto leggermente macabro.
«Fratello Michel», sussurrò il vecchio con un tono incalzante e misterioso. «Padre Charles è seriamente malato. Ha chiesto di voi...». Michel si alzò immediatamente, afferrò la tunica da un gancio sul muro e se la fece scivolare addosso mentre il ricordo del sogno veniva velocemente sostituito dalla preoccupazione. «Malato?». Fratello André si fece il segno della croce e poi emise un respirò sul quale fece scorrere un'unica, inquietante parola: «Peste...». III Avevano trasferito il sacerdote dalla cella alla camera per gli ospiti, più confortevole, arredata con un mobilio degno dell'alta nobiltà e un vero letto di piume con cuscini. Vicino al letto, su un tavolino intarsiato, due candele su un candelabro a sei bracci spandevano una luce tremolante. Padre Charles, tuttavia, non poteva apprezzare il cambiamento che lo circondava: si dibatteva, gemente, sul letto, con le braccia e le gambe che si dimenavano convulsamente e la testa che si torceva da una parte all'altra. A volte strizzava gli occhi fino a chiuderli completamente; altre, li spalancava, enormi e terrorizzati come davanti a una visione che solo lui riusciva a percepire. Accanto al letto c'era un altro monaco, anche questo più anziano, forse di una quarantina d'anni, seduto su uno sgabello. Quando Michel entrò (e la sua guida, fratello André, lasciò la stanza), il custode domenicano si alzò e sollevò la mano come in ammonimento. «Si tratta di peste. Voi...». «Non importa». Michel si avvicinò al capezzale. «Mi prenderò cura di lui». Padre Charles emise un colpo di tosse strozzato e farfugliato; immediatamente, il custode sollevò in avanti le spalle di Charles portandogli alle labbra un grande fazzoletto bianco. Mentre il monaco puliva amorevolmente il maleodorante muco misto a sangue colato sulla barba e sui baffi di padre Charles, sussurrò a Michel: «Allora, sono anche costretto a dirvi che si tratta del tipo peggiore, quello che intacca i polmoni. Chi la prende, muore. Se Dio lo vuole a sé, lo sapremo tra due giorni, più o meno. Ho già chiamato un sacerdote». Michel, all'inizio, non provò dolore, soltanto un sentimento di fredda e profonda sorpresa; poi si ricordò di esalare il respiro fin lì trattenuto e con il rilassamento arrivò anche un'ondata di insopportabile disperazione. Riu-
scì, chissà come, a controllarla e a non piangere, ma l'altro monaco se ne accorse e disse, quasi scusandosi: «Scoppia ancora, di tanto in tanto, soprattutto nelle campagne. È l'aria, sapete, è questo strano caldo improvviso...». «Michel?», ansimò Charles, gli occhi grandi e ciechi mentre le mani oscillavano a tentoni nell'oscurità. «Sei tu, Michel?». Michel avanzò subito verso il sacerdote e gli prese una mano, umida e febbricitante. La pelle e le labbra di Charles erano grigie; le gocce di sudore sulla fronte e sui baffi brizzolati riflettevano la luce delle candele, come migliaia di minuscoli gioielli scintillanti. «Sono qui, padre. Sono qui. Resterò a pregare per voi tutta la notte». Sentendo la voce di suo nipote, il prete si calmò. Michel, rivolgendosi all'altro monaco, disse, con voce ancora più tenue: «Andate a dormire, fratello». Il monaco annuì e se ne andò; Michel si sistemò sullo sgabello, tenendo la mano di Charles ancora nella sua. «Sono qui, padre», ripeté, «e non...». «È stata la mia arroganza, non capisci?», rantolò il sacerdote, sforzandosi di mettersi seduto; Michel si alzò e con dolcezza lo spinse di nuovo verso il letto. «La mia arroganza! Ti ho trascinato in giro per la città tutto il giorno come un puledro ammaestrato, ti ho esibito come a voler dire "È mio, è tutto mio!". Possa Dio avere misericordia della mia anima!». Tossì violentemente; Michel lo aiutò a sedersi e poi, con un braccio attorno al prete, prese il fazzoletto che l'altro monaco aveva lasciato sul tavolo e lo portò alle labbra di Charles. La tosse continuò per un po' e il respiro si fece rantolante e rumoroso; quando si normalizzò, Michel tolse il fazzoletto, impregnato di un pericoloso rosso vivo, e sistemò i cuscini in modo che il malato potesse respirare più facilmente. «Che Dio ti benedica, Michel», disse Charles, in un istante di lucidità. «Tu sei proprio come un figlio per me...». Michel si rimise dritto, sfilò il rosario dalla cintura e si inginocchiò. «Pregherò per voi, padre. Se ci riuscite, pregate con me... Vergine Benedetta, intercedi in nome del tuo servitore Charles, affinché le sue sofferenze possano svanire ed egli possa tornare in salute. Oh, Santa madre di Dio...». «Lei!». Padre Charles si sollevò dal letto, gli occhi furiosi. «È stata lei a farmi questo!». Inorridito, Michel si fece il segno della croce di fronte a tale sacrilegio.
«È tutta opera sua, non capisci?», continuò Charles con una tale veemenza che gocce di saliva arrivarono sul volto di Michel. «Fa parte della sua stregoneria!». Solo allora Michel comprese che parlava della badessa e non della Santa Vergine. Riuscì a mostrarsi calmo mentre si alzava per spingerlo con dolcezza sui cuscini. «Non vi preoccupate, padre. Dio è più forte del diavolo; Egli ci proteggerà e vi guarirà». «Dio e il diavolo non hanno nulla a che vedere con questo!», delirò il prete, con i muscoli delle braccia rigidi, gli occhi ampi e scintillanti. «Non puoi sapere quanto è forte, e quanto disperata... Sono stato uno stupido, ho pensato che potevo evitare di farle comprendere... E il vescovo, il vescovo; devi stare attento, non fidarti... Chrétien vuole vederti morto. Non ho potuto tenerti... Che sciocco arrogante sono stato! Potrai mai perdonarmi? Potrai?». E iniziò a piangere, in modo così struggente che Michel disse: «Certo che vi perdono, padre. Certo. Ma ora calmatevi. Non dovete dire queste cose su di voi, o sul buon cardinale». E di nuovo trattenne Charles sui cuscini, mormorando: «Calmo, padre, da bravo...», fino a quando gli occhi del prete rotolarono in su chiudendosi e il suo corpo si accasciò sul letto. All'improvviso, il corpo di Charles sobbalzò; un acre mistura di sangue nero e bile catarrosa gli zampillò dalla bocca colandogli sul petto. Michel afferrò un panno accanto al catino e con cura raccolse tutto il liquido. Durante tutta l'ora successiva, restò sullo sgabello a pulire la schiuma rossa che usciva dalle labbra del malato quando arrivò un altro domenicano ad amministrare l'estrema unzione. Quando uscì, vedendo che Charles non riprendeva conoscenza, Michel s'inginocchiò e iniziò a pregare. Quella mattina, fortunatamente più fresca, Michel si diresse di nuovo verso la prigione, armato di molte tavolette intonse e le restanti confessioni ancora da far firmare. Aveva trascorso la notte sul pavimento accanto al capezzale di padre Charles, incerto sul da farsi. Era un semplice scrivano, senza alcun potere di liberare o condannare i prigionieri; nonostante ciò, madre Marie Françoise avrebbe confessato solo in sua presenza e, nonostante fosse terribilmente affranto per la malattia di Charles, era possibile che Dio l'avesse, per così dire, mandata in risposta alle sue preghiere per la badessa. Poiché se a lui, Michel, fosse stato concesso il potere di condannarla o
liberarla, avrebbe sicuramente operato la seconda scelta, affrontando da solo la rabbia di Rigaud. E in quanto a padre Charles, se Dio avesse ritenuto giusto farlo guarire, sarebbe stato sollevato da ogni responsabilità e reprimenda. Così, quando arrivò la mattina, Michel lasciò il cinereo prete privo di conoscenza alle cure dei domenicani e mentre, esausto, saliva lentamente i gradini che portavano alla prigione, sentì una voce dietro di lui che lo chiamava: «Michel! fratello Michel!». Si voltò e vide un giovane, dai lineamenti belli, appena sbarbato, con i capelli, le sopracciglia e le ciglia color del lino e gli occhi di un azzurro chiaro. «Padre Thomas!». «E dov'è la vostra ombra?», chiese Thomas amabilmente, anche se Michel sapeva che quell'affabilità nascondeva un cuore duro. Quel giovane prete sorridente indossava un abito di seta blu contornato da guarnizioni di raso bordeaux (di un garbata sobrietà in confronto alle tonache ricamate di raso rosa che spesso indossava nell'atmosfera, più decadente, di Avignone). In una delle maniche aderenti, aveva infilato un ramoscello di rosmarino fiorito proveniente dalle innumerevoli siepi selvatiche che crescevano in Linguadoca. Per Michel, Thomas rappresentava l'esempio peggiore di sacerdote: un indisciplinato e sacrilego libertino devoto più alle donne e al vino che a Dio. L'anno prima, era spuntato da chi sa dove come uno dei protetti di Chrétien e il cardinale stravedeva per lui tanto che si fecero illazioni su una sua illegittima paternità. Non si sapeva nulla del passato di Thomas, tranne che era stato educato perfettamente e mostrava i tratti dell'aristocrazia francese. Non aveva fornito alcun dettaglio sulla sua persona e nessuno osava chiedergli nulla, poiché offendere Thomas significava rischiare l'ira di Chrétien. Ma un fatto era certo: nonostante il favore che il cardinale spesso mostrava nei confronti di Thomas, l'unico ad essere stato adottato come suo figlio era Michel che, così, diventava unico erede della sua considerevole fortuna. Proprio per questo sembrava che Thomas serbasse rancore nei confronti del giovane monaco. «A dire il vero», disse Michel, «padre Charles è malato». Bastò pronunciare quelle parole per rinnovare il suo dolore; poiché se Chrétien era suo padre adottivo, Charles, assistente del cardinale, era come uno zio e un confidente. Le enormi responsabilità di Chrétien lo avevano costretto ad affidare l'educazione di quel figlio adottivo prima alle monache e poi al
saggio e tollerante Charles, tanto che Michel lo considerava la persona a lui più vicina. Il sorriso di Thomas svanì all'istante. «Santo cielo, spero che non sia peste. C'è stata una piccola epidemia nel monastero domenicano dove il mio scrivano...». Avvicinò gli occhi a Michel. «Ma è lo stesso dove alloggiate tu e padre Charles, giusto?». Michel annuì e da quel piccolo gesto Thomas comprese la gravità delle condizioni di Charles. «Povero diavolo», mormorò il giovane prete, aggiungendo poi enfatico: «pregherò affinché almeno tu stia bene». «Io sto bene», rispose Michel deciso. «Bene». Thomas fece un cenno di approvazione e il suo tono diventò concreto. «Forse si tratta di uno schema divino: a me manca uno scrivano e a te un inquisitore». Fece un passo verso l'entrata; ma vedendo che Michel si tratteneva, il prete si voltò a guardarlo. «Che c'è, fratello?» «La badessa», disse Michel, stupito e preoccupato per la facilità con cui le parole gli affioravano alle labbra. «Ieri si è dimostrata disposta a confessare... ma non secondo il documento predisposto». «E, naturalmente, padre Charles le ha dato l'opportunità di farlo», disse Thomas incalzante, e non era una domanda. Addolorato, Michel fece di no con la testa. «Disse che avrebbe confessato soltanto davanti a me... da solo. È poco ortodosso, lo so; io non sono un prete. Ma alla donna non è stata data l'opportunità legale necessaria...». Padre Thomas inarcò una delle sue dorate sopracciglia. «Che dilemma!», esclamò piano. «Il vescovo e, posso parlare sinceramente?, tuo padre hanno una gran fretta di vederla condannare. Se diciamo che si è rifiutata di parlare... i rapporti con il popolo sono già così difficili! Penseranno che l'abbiamo condannata a morte senza un giusto processo». Dopo una breve considerazione, continuò: «Fratello... ho sentito dire che hai completato la preparazione per essere ordinato prete e inquisitore». «Sì, Chrétien ha insistito molto». Michel stava per aggiungere dell'altro ma Thomas lo zittì con un cenno della mano; e sebbene il suo sguardo fosse rivolto nel suo intimo, gli occhi restavano fissi sul monaco. «Perciò sei qualificato, in virtù degli studi e dell'esperienza, anche se non dalle leggi della Chiesa, ad ascoltare la sua confessione...». Dopo un po', riemerse dai suoi pensieri e disse a Michel: «Ecco il mio piano; andremo insieme dalla badessa. Se confessa in mia presenza, allora è tutto a posto. Se, invece, vorrà confessare solo davanti a te, io continuerò con gli altri prigionieri e userò tutta la mia influenza per
farti nominare oggi stesso. Io sono il sacerdote, dopo tutto; sono più adatto io, che un monaco, a fare questa richiesta a Rigaud». «Naturalmente», replicò Michel, ignorando la frecciata di Thomas e simulando un atteggiamento di cupa riluttanza. In realtà, il suo cuore era colmo di gratitudine. Mai Dio aveva risposto così clamorosamente alle sue preghiere. Allo stesso tempo, la sua mente era turbata. Era vero, allora, che suo padre adottivo, un uomo che aveva sempre considerato indiscutibilmente giusto, aveva dato l'ordine, prima di una equa inquisizione, di giustiziare la badessa? Il rosmarino di padre Thomas non riuscì a confondere l'afrore che s'intensificava via via che scendevano nei sotterranei; il cattivo odore, quella mattina, era particolarmente pungente, come lo era sempre appena le torture iniziavano sul serio. Era l'odore del sangue: sangue nelle feci, nell'urina, nel vomito; sangue che seccava sulla pelle, sui tessuti e nei capelli. I sotterranei erano più illuminati grazie a torce ulteriori che erano state accese... forse per ordine dei torturatori parigini che si sentiva ridere e parlare al di là delle alte porte a doppio battente della loro camera raccapricciante. Michel tenne lo sguardo basso ma non riuscì ad evitare di gettare un'occhiata veloce alla cella comune e ai cumuli di lenzuola rosse ammucchiate sulla paglia. Il secondino aprì ancora una volta la cella singola della badessa e stavolta non si scomodò a richiuderla dietro di sé quando uscì per andare a prendere degli sgabelli, come padre Thomas gli aveva ordinato. Madre Marie Françoise era seduta sulla panca di legno sospesa. Le ferite del giorno precedente, oggi, sembravano peggiorate: il taglio profondo che le aveva aperto il sopracciglio mostrava una crosta di sangue nerastro, la palpebra, sotto, era di un viola scuro e talmente gonfia che di profilo nascondeva il dorso del naso e al posto dell'occhio si vedeva solo una fessura scura e scintillante. Il labbro superiore era di un violaceo chiazzato e gonfio. Tuttavia, non le era stato procurato altro danno fisico rispetto al giorno prima e la sua voce era forte, sebbene tremante per la rabbia e il dolore. «Le mie sorelle», intimò la donna, mentre il secondino portava due sgabelli per gli uomini. Thomas, spavaldo, avvicinò il suo alla badessa e si sedette, con un'espressione immobile e indagatrice. Michel si sistemò sullo sgabello accanto e non dietro il prete. Nonostante le ferite della badessa, la passione provata in sogno si risvegliò, nel ricordo del suo corpo, nudo e
scintillante, dei suoi seni, luminosi come la luna mentre gli si avvicinava e lo avvolgeva... Le orecchie e le guance dello scrivano arrossirono per il calore improvviso ed egli lottò per controllare sia il suo desiderio che la vergogna. Che Satana lo attaccasse pure; lui, Michel, si sarebbe concentrato su Dio soltanto e sul sacro dovere che lo attendeva. «Le mie sorelle», ripeté madre Marie, stavolta con una passione diversa. «Le ho sentite urlare per due giorni. Perché devono subire una tale tortura, quando io sono l'unica incriminata?». Con una mano si teneva le costole e con l'altra indicava se stessa con un gesto feroce e determinato. «Eppure, da quando sono arrivati i vostri inquisitori nessuno mi ha sfiorata. Sono io quella che è stata trovata nel palazzo papale e non loro; io che...». «La smetta con questa sceneggiata, madre Marie», la interruppe Thomas con calma franchezza. «Ci sono soltanto due vie d'uscita a questa situazione critica, per voi e per le vostre sorelle: morte e dannazione, oppure la confessione, che porta alla vita eterna e ci evita di andare a caccia d'informazioni presso le vostre consorelle. Sfortunatamente, il buon cardinale non ci ha concesso molto tempo. Ora, fratello Michel», continuò il prete indicando il monaco con un cenno della testa, «mi ha già informato che non volete firmare la confessione che vi è stata presentata. È vero?». La donna guardò con rabbia in direzione di Michel e poi in quella di Thomas e annuì bruscamente con la testa. A Michel, il giorno prima, era parsa piccola e indifesa; ora, però, sembrava capacissima di guidare un convento... e anche di intimorire il vescovo o parlare al papa in maniera autoritaria. Gesù nel Tempio che scaccia i farisei, pensò ammirato Michel quando Thomas disse incalzante: «E che volete confessare solo a lui e a nessun altro». «Sì, sì, l'ho detto, ma non ha nulla a che vedere con la sofferenza delle mie monache!». Una rabbia senz'altro giusta, pensò Michel, poiché fondata solidamente sulla compassione per gli altri e senza la minima traccia di interesse personale. Thomas dischiuse le labbra per emettere un piccolo gemito di esasperazione. «Le vostre monache saranno trattate con giustizia, secondo le leggi della Chiesa... proprio come voi, sorella. E ora, ditemi sinceramente e senza altri preamboli: volete rendere una confessione?» «Ve lo ripeto: confesserò soltanto a fratello Michel». «Molto bene», disse il prete brusco. «Grazie alla vostra posizione nella Chiesa, permetterò a fratello Michel di ascoltare la vostra confessione. Ma
se doveste mentire o in altro modo abusare del privilegio che vi concediamo, allora sì che vi permetteremo di soffrire accanto alle vostre consorelle». Thomas si alzò con un fruscio di sete e lasciò la stanza; Michel lo seguì. Appena usciti, Thomas esitò; il suo sguardo era distante e distratto; uno scoppio di risa roche proveniente dalla camera dei torturatori riecheggiò per il corridoio ma egli sembrò non udirlo mentre attirava a sé Michel in maniera confidenziale, usando ora un tono serio come mai aveva fatto fino ad allora. «Raccogli la confessione della badessa, fratello, e io farò in modo che risulti legale agli occhi della Chiesa. Fai attenzione, però, tutto deve essere fatto entro tre giorni. Abbiamo prove sufficienti a suo carico. Ci sono già dei manifestanti all'esterno del palazzo di Rigaud; abbiamo dovuto chiamare i gendarmi per disperderli. La sua morte deve avvenire il più presto possibile». Thomas tese le mani e Michel gli passò il fagotto nero e la cintura che conteneva penna e calamaio, tenendo per sé le tavolette di cera e lo stilo; a quel punto il prete biondo si diresse verso la cella comune. Con un profondo respiro e un senso di trionfo, Michel ritornò dentro la cella e chiuse la porta, senza però serrarla. «Madre Marie Françoise?», chiese con rispetto. Ora che era solo con lei come lo era stato in sogno, Michel si sentì in grado di controllare i suoi impulsi peccaminosi, sebbene essi persistessero. Voleva solo aiutarla e trattarla con la devozione e la santità che meritava. La badessa voltò il viso gonfio verso di lui e lo fissò con uno sguardo carico di emozioni, profondo e difficile da interpretare. «Fratello». La sua voce si addolcì, come se ora si rivolgesse a un caro amico. «Abbiamo così poco tempo... So cosa hanno progettato per me. Volete ascoltare la mia confessione? La scriverete, come meglio potete, esattamente come ve la dirò?» «Sì», replicò con gentilezza. La sua presenza emanava una sensazione di straordinaria santità, calma e compassione che permeava lui e ogni singolo atomo di quella cella. Come aveva fatto, padre Thomas, a non percepirlo? E lo stesso Charles, o Chrétien? Michel si sedette rispettosamente, prese tavoletta e stilo e, grato in cuor suo a Dio, iniziò a scrivere: Il ventitré ottobre dell'anno 1357, detta madre Marie Françoise, badessa del convento francescano di Carcassonne, fu formalmente posta a giudizio davanti al domenicano...
E qui lasciò uno spazio largo abbastanza da inserirci il proprio nome o quello di un altro, e poi continuò. ... inquisitore di ogni depravazione eretica, incaricato dalla Sede Apostolica nel regno di Francia; avendo prestato giuramento sui Sacri Vangeli di Cristo di dire tutta la verità e nient'altro che la verità sui crimini di eresia e stregoneria, commessi da lei stessa o da altre persone, vive o morte, ha detto e confessato che... IV Mi chiamo Marie Sybille de Cavasculle e sono nata in un villaggio vicino alla città fortificata di Tolosa con la placenta sul volto. Secondo l'opinione di mia nonna, le cui forti mani meravigliose mi portarono alla luce, e di centinaia di altre persone di questo mondo, tale evento mi contraddistingueva come dotata della Vista. Secondo l'opinione di preti e inquisitori, invece, mi marchiava come una in combutta col diavolo. Non venero il loro diavolo. Né venero le loro divinità, Gesù, Geova, lo Spirito Santo, ma le rispetto, poiché tutte le divinità sono Uno. Venero la Grande Madre, quella che molti chiamano Diana, il cui vero nome gli inquisitori non conosceranno mai. Se questo fa di me una strega, secondo le loro definizioni, molto bene, allora, io sono una strega, proprio come loro sono cristiani e assassini. Nella mia vita sono successe cose terribili. Ho conosciuto la carestia, la peste e la guerra, ma la sofferenza peggiore l'ho provata per cose inutili... inutili perché inflitte non dal capriccio di qualche dio, ma dall'ignoranza umana, dalla paura umana. È abbastanza difficile essere costretti a indossare i fronzoli esteriori della religione e inchinarsi a dèi a cui non si crede. Ora, però, molti innocenti sono stati torturati e molti sono morti tra le fiamme. Servitori della Dea, o qualsiasi altro nome essi Le diano, ebrei, e persino cristiani devoti che fecero l'errore di infastidire chi stava al potere. Le donne che hanno avuto il coraggio di usare l'antica sapienza di erbe e incantesimi per guarire i malati, per dare alla luce un bambino, e che sono state troppo ingenue da confessarlo hanno incontrato un feroce destino. Tanta conoscenza, persa per sempre... I nostri torturatori hanno messo in piedi tali menzogne su coloro che servono la Dea che chi li ascolta viene fuorviato. Sono convinta che nemmeno gli inquisitori hanno idea della portata dei loro errori. Coloro che
conoscono la verità non la esprimono, per paura della ruota e del rogo; l'Inquisizione ci ha zittiti tutti. E allora è qui che racconterò la mia storia, parte della quale vissuta in prima persona e parte raccontatami da altri: alcuni di loro dotati della Vista. Vi dirò tutta la verità, senza timore di ritorsioni, poiché ho vissuto e sofferto tanto e so quale fine mi aspetta. Però, temo per i servitori della Dea che mi seguono. Anche adesso Vedo, con i Suoi occhi e non con i miei, le fiamme che lambiscono il cielo. Il peggio sta per arrivare. Si sono presi il mio Amore, il mio destino; ora sono sola e, con amarezza, so che la mia magia solitaria non è sufficiente ad evitare il Male che si avvicina. A differenza dei cristiani, non prego affinché la mia storia mi sopravviva in questi giorni tanto violenti e trovi la sua strada in mani giuste. Ho preso le mie precauzioni affinché questo avvenga; grazie al potere della Madre, so che succederà. V Appena pronunciò le prime due frasi, Michel restò a bocca aperta per lo stupore e smise di scrivere. Impossibile! Tuttavia eccola che si proclamava una strega, spontaneamente, una che pratica la magia! Ma in lei aveva percepito la presenza di Dio... Signore, aiutami! Sono stato un pazzo e un superbo; padre Charles e il vescovo hanno ragione. Il suo smarrimento era così grande che pensò di mettere via stilo e tavoletta, alzarsi e lasciare la cella per non farvi più ritorno. Aveva pregato questa donna, questa strega. La badessa non disse nulla; si limitò ad aspettare paziente che Michel si riprendesse e recuperasse il suo stilo; a quel punto ricominciò. Quando finì, lo studiò a fondo, provando per lui un sentimento che era soprattutto di compassione. «Povero fratello Michel», disse gentile. «Vi ho turbato e so come vi sforziate disperatamente di salvare i... peccatori. Infatti, già conosco la prossima domanda che mi farete». «Davvero?», chiese diffidente, incerto, ora, su come reagire alle sue parole. Doveva andarsene e lasciare che padre Thomas si occupasse dell'in-
terrogatorio per evitare di subire ulteriori sortilegi? O doveva portare a termine il suo dovere nei confronti della Chiesa e confidare nella protezione del crocefisso regalatogli dal vescovo? Era stato uno sciocco a pensare che Dio avesse risposto alla sua preghiera di salvare la badessa? Le cose però erano andate proprio nel verso giusto con padre Thomas... La badessa emise una secca e malinconica risata. «Non ha nulla a che vedere con la magia... So, però, che siete una persona pura. Volete chiedermi se sono mai stata una cristiana, per essere certo che non sia una relapsa così da poter salvare la mia anima». «Siete mai stata una cristiana?» «Mai. Ma la mia vera essenza non è così spaventosa come la Chiesa vorrebbe farvi credere». Fece una pausa, poi affermò con decisione: «Inizierò con la storia della mia nascita ora». «Madre, non abbiamo tempo. Anzi», e con un respiro profondo che evidenziò tutto il sincero dolore per l'impossibilità di eludere i suoi doveri, continuò: «ascoltare la vostra confessione dipende dalla vostra risposta alla seguente domanda. Avete praticato magia nera contro Sua Santità? Avete tentato in qualche modo di attentare alla sua incolumità?» «Io non posso... non potrei. Non è nella mia natura fare certe cose; sarebbe come chiedere a un pesce di volare. Voi eravate lì, ad Avignone e avete visto quello che posso fare. Ora, volete ascoltare la mia storia?» «Sì», disse, sollevato. «Ma non è necessario partire dalla vostra nascita». La badessa lo guardò incredula e accennò a un sorriso. «In quale altro modo potete dimostrare che non sono relapsa, fratello, se non ascoltate l'intera storia?». Michel aprì la bocca per controbattere ma non trovando argomenti adatti la richiuse. Gli venne in mente che, dopotutto, era probabile che Dio avesse risposto alle sue preghiere in favore della donna. Dopo la sua confessione, poteva tentare di riportarla a Cristo, poiché anche adesso percepiva il bene che emanava. E così si sistemò più comodamente sullo sgabello, deciso a restare. L'espressione della donna si rabbuiò all'improvviso; la luce delle candele e le ombre giocavano sulle sue ferite, producendo un effetto spettrale e la sua voce diventò un sibilo. «Sappiamo entrambi, amico mio, che i poteri che vi comandano sono decisi a vedermi bruciare, e anche in fretta. Volete accordarmi una piccola gentilezza, scrivere la mia storia prima che io muoia, affinché qualcosa di me rimanga alla fine di questo racconto? Inol-
tre, se. volete conoscermi veramente, dovrete ascoltare anche la storia del mio Amore, un cavaliere distrutto dalle stesse forze malefiche che mi hanno imprigionata qui. Senza di lui non c'è speranza, né per me né per la mia Razza; è nel suo ricordo che vi racconterò questa storia». «Madre Marie, io non posso...». Reagendo all'istante disse: «Siamo un'anima sola; non posso parlare di me senza parlare anche di lui». «È già molto difficile trovare il tempo di scrivere la vostra confessione», disse Michel onesto. «Soprattutto, madre, se dobbiamo iniziare con la storia della vostra nascita. Forse non avete sentito quanto tempo ci concedono le autorità: tre giorni, non di più. Inoltre, devo avvisarvi che non mi lascerò fuorviare dai vostri incantesimi e sermoni e pregherò senza sosta affinché il vostro cuore sia ricondotto a Cristo, affinché possiate essere salvata». La donna si fermò a studiarlo con attenzione e alla fine annuì. Una volta ancora, Michel prese lo stilo e iniziò a scrivere. PARTE SECONDA Sybille TOLOSA agosto 1335 VI Sono nata nel fuoco. E questa è la mia storia, così come mi è stata raccontata. Era fine estate e l'aria era carica di energia per l'imminente temporale; viva, a causa dei fulmini che stentavano a squarciare l'atmosfera. All'esterno, i contadini che lavoravano la terra ritornavano a casa accanto ai carri trainati dai cavalli, le ruote scricchiolanti sotto il peso dell'abbondante raccolto di grano di quell'anno. Sudata, mia nonna guardò attraverso la finestra aperta, sperando di cogliere la figura di suo figlio; ma l'oscurità e i nuvoloni carichi di pioggia si stavano raccogliendo così densi che non riusciva a distinguere un falciatore dall'altro. Nonostante ciò, la Vista le sussurrò che mio padre sarebbe presto comparso sull'uscio aperto. Era un contadino, nato a Firenze e battezzato con il nome di Pietro Di Cavascullo, che faticava nei campi del seigneur, fuori le mura della città di Tolosa. Per evitare il sospetto e l'infame pregiudizio tipico della mia regione natia, la Linguado-
ca, cambiò il nome in Pierre de Cavasculle. Noni, d'altro canto, rifiutò subito l'appellativo di grandmère e continuò a chiamare mio padre Pietro. Non eravamo i più poveri, ma di certo la maggior parte dei contadini era più ricca di noi; essendo incontaminata dal lusso del convento e ignorando gli splendori di Avignone, a quell'epoca pensavo che fossimo ricchi. Avevamo un letto, ma il materasso era di paglia, non di piume, e mio padre possedeva un aratro ma non un cavallo. Il nostro cottage aveva il tetto di paglia, come tutti nel nostro piccolo villaggio, e consisteva di una stanza con il pavimento di argilla cosparso di paglia, un focolare, un grande letto comune e un tavolo per mangiare. L'aerazione era assicurata soltanto da due finestre, tanto che eravamo sempre ricoperti di fuliggine nera; non sapevo dell'esistenza di camini e neanche del fatto che fossi sporca, fino a quando entrai in convento. E così accadde che mia madre ebbe le doglie accanto al focolare della nostra piccola casa e le sue urla disumane riportarono l'attenzione di Ana Magdalena al suo dovere. Si chiamava Catherine di Narbonne ed era una ragazzona di vent'anni. Dalla sedia per il parto, si era gettata sul pavimento, e lì, a quattro zampe, grugniva come un animale, tanto era il dolore. Poverina, pensò mia nonna; le doglie erano iniziate ventiquattro ore prima, molto tempo prima del tramonto, ed ora era completamente esausta e troppo fuori di sé per non urlare come una bestia selvaggia e maledire tutto e tutti, persino Dio e il bambino che stava per nascere. Suo marito e sua suocera erano stati i primi ad essere maledetti, pensò Ana Magdalena con una punta di amaro divertimento. Si inginocchiò accanto alla donna sofferente. Catherine era curva in avanti con gli avambracci poggiati sul pavimento di argilla e la fronte, pallida e sudata, nascosta tra di essi; con un debole pugno, batteva il terreno ricoperto di paglia. Con dolcezza, Ana Magdalena si abbassò e sollevò i capelli della ragazza, un velo ondulato rosso-dorato, bello e lucente nonostante fosse madido, e li sistemò sulla schiena di Catherine. La tradizione diceva che portava sfortuna legare i capelli di una donna in travaglio e, sebbene Ana Magdalena, la migliore levatrice di tutta Tolosa, non credesse affatto a quelle superstizioni, sua nuora sì e la fiducia della madre era di suprema importanza nel momento in cui dava alla luce un figlio. E soprattutto il primo figlio, come in questo caso. Catherine poteva ancora sembrare giovane, ma era vecchia per partorire. Era sposata con Pietro da quasi sei anni; era rimasta incinta sei volte e per sei volte Pietro era rimasto a confortare la sua affranta consorte mentre Ana Magdalena pren-
deva il piccolo feto morto e lo seppelliva nel boschetto di ulivi. Per sei volte Ana Magdalena aveva sperato che la visione mandatale dalla bona Dea si avverasse: una bambina destinata a diventare una grande sacerdotessa come non succedeva da secoli, una ragazza che, da adulta, avrebbe salvato la sua gente, la sua Razza, con i poteri che le erano stati dati. Una donna fortemente dotata della Vista... La figlia di un padre, le aveva detto la Dea, e il figlio di una madre... Insieme salveranno il loro popolo dall'imminente pericolo. E tu sarai la maestra della ragazza. Pericolo?, aveva osservato con umiltà, improvvisamente colta da timore. Ma non le fu risposto; non le fu dato di sapere e perciò decise di non indulgere nelle preoccupazioni ma soltanto nella gioia affinché potesse conoscere questa bambina, sua nipote, la figlia del suo amatissimo figlio. «Catherine», disse seria, afferrando un panno imbevuto d'acqua; quando i dolori della ragazza si placarono e alzò lo sguardo dalle sue sofferenze, Ana Magdalena, con un gesto veloce e sicuro, le tamponò il volto e la fronte. Nonostante il calore, la ragazza rabbrividì e sulle sue braccia nude affiorò la pelle d'oca. «Madre, aiutami!», gridò, così penosamente che Ana Magdalena, ormai assuefatta alle pene delle donne in travaglio, ne fu turbata. «Non so se sto bruciando per il caldo o se sto congelando!». L'anziana donna riportò la ragazza sulla sedia da parto e si precipitò all'unico tavolo del cottage, dove una brocca di terracotta colma di tisana alle erbe si stava raffreddando. Ritornò da Catherine e le portò la brocca alle labbra. «Bevi, bambina». Divenuta di colpo sospettosa, Catherine scostò il volto. «Come faccio a sapere che non hai fatto qualche stregoneria?». Ana Magdalena si lasciò sfuggire un profondo sospiro di esasperazione. Era abituata alle incomprensibili e mutevoli emozioni delle donne in travaglio, ma non alla diffidenza che Catherine le aveva dimostrato durante tutta la gravidanza. «Madre di Dio, Catherine! Hai già bevuto due brocche della stessa tisana! È soltanto corteccia d'acero con un'erba tranquillante. Calmerà la febbre e i dolori. Forza, bevi!». Pronunciò l'ultima parola con una tale forza che la ragazza diventò improvvisamente docile e ingoiò il liquido con tanta foga che Ana Magdalena la ammonì: «Piccoli sorsi, piccoli sorsi, altrimenti...». Prima che potesse pronunciare le parole Potresti vomitare, Catherine emise un rigurgito e poi vomitò una piccola quantità di bile gialla. Grazie
all'istinto e all'esperienza, Ana Magdalena riuscì a togliere la brocca appena in tempo. Il vomito spruzzò sulla camiciola tessuta a mano di Catherine, striando il tessuto grezzo con del liquido giallo-verdastro, dal petto alla pancia. Non c'era tempo di ripulirlo ora, pensò Ana Magdalena distratta; la sottoveste era già macchiata di acque uterine, sangue e terra del pavimento. Coscienziosamente, Ana Magdalena pulì ancora una volta il volto di Catherine, e poi disse alla ragazza dolorante: «Tieni duro, mia cara; adesso controllerò il bambino». Si accovacciò sulla paglia sporca di sangue. La sedia da parto era stata sistemata in modo che Catherine potesse sedere, con le gambe a cavalcioni, e appoggiare completamente schiena, testa e braccia. Era fatta di fasci di fieno intrecciati; uno a sostegno del coccige; altri due, per lungo, inframmezzati da uno spazio della larghezza della pancia, le sostenevano l'osso pelvico. Con abilità, Ana Magdalena infilò la mano sotto la sottoveste umida e ritorta e tastò il pube dilatato. Le doglie si erano regolarizzate; la nascita sarebbe avvenuta a breve e, se ci fosse stato ulteriore ritardo, la levatrice sarebbe intervenuta a liberare il bambino dal grembo, se necessario. Era sufficientemente abile nell'operare chirurgicamente senza il pericolo di danneggiare madre o bambino; poche levatrici, ormai, potevano ritenersi capaci di eseguire tale pratica, soprattutto da quando barbieri e medici si erano lamentati dicendo che si trattava del loro campo d'azione e non di quello di ignoranti campagnole. Sebbene poco istruita nelle lettere, era, però, tutt'altro che ignorante in quell'abilità; e così capì, con il tocco esperto delle lunghe dita sottili che, sì, il bambino era sceso. La testa non era fuoriuscita abbastanza da essere visibile, ma ci mancava poco; poteva sentirlo, duro proprio sotto il pube dilatato della ragazza. Ana Magdalena sorrise sfiorando con il polpastrello la morbida testolina del bambino. Ridendo, tolse le mani, le pulì su un panno umido che poi gettò in un angolo. Inginocchiandosi sulla paglia, urlò felice: «È qui, Catherine, mia cara! Qui! Ho toccato la testolina del bambino... Non ci vorrà molto ora...». Stava quasi per dire bambina, il che sarebbe stato un grave errore. Catherine era già troppo diffidente e turbata dalla sua presenza; la ragazza sapeva, con un istinto che di certo proveniva dalla Vista, seppure repressa, che all'anziana donna era stata insegnata la saggezza della Razza e che, segretamente, praticava l'antica religione. I cristiani rifiutavano le antiche credenze e la Vista, considerandole opera del diavolo.
Catherine era una cristiana. Ana Magdalena sapeva, già da molti anni, dal momento in cui suo figlio si era innamorato di quella bellezza dai capelli rossi, che la ragazza possedeva la Vista almeno quanto lei. La tragedia, però, consisteva nel fatto che Catherine era stata allevata come una cristiana osservante; e, quindi, non solo aveva imparato a rifiutare la sua abilità ma era arrivata a temerla. Tuttavia, Ana Magdalena aveva accordato ai due il permesso di sposarsi, pensando: Sarò come una madre per lei e la accudirò come la figlia che non ho mai avuto e la istruirò secondo le vie della Saggezza. E le era sembrato che anche la Dea avesse benedetto l'unione. Ma la paura di Catherine per l'antica Sapienza e per il suo talento non si attenuò con gli anni. Ana Magdalena scoprì presto che non solo non poteva affrontare il discorso con la ragazza, e che neppure nella sua stessa casa poteva fare il minimo riferimento alla Saggezza, se non in assenza di Catherine. Nonostante ciò, Ana Magdalena le voleva bene e Catherine sembrava contraccambiare quell'affetto; nei sei anni trascorsi insieme si era fidata di sua suocera... fino a quando non era rimasta incinta, e di questo bambino in particolare. Da quel momento, la sua diffidenza era aumentata fino a creare una barriera attorno al suo affetto che Ana Magdalena non riusciva a scalfire. Da parte sua, ammettere di aver saputo, fin dal concepimento, che il neonato sarebbe stata una femmina, avrebbe significato spedire Catherine dritta dal prete del villaggio a malignare su sua suocera, la strega. Che vada pure, Ana Magdalena pensò. Allora dovrà anche confessare che appena saputo della sua settima gravidanza, è venuta a chiedermi gli amuleti. E infatti ce n'era uno fatto di erbe sotto la sedia da parto e un incantesimo era stato pronunciato sopra l'infuso; inoltre, una protezione magica era stata sparsa su tutta la casa, una magia troppo sacra per essere rappresentata da erbe o amuleti. Tuoni cupi rimbombavano in lontananza; un fresco venticello umido fece sbattere piano le persiane di legno dischiuse contro il muro d'argilla. I colpi furono subito soffocati dalle urla della donna che stava per partorire. E nonostante il compito importante, la levatrice voltò lo sguardo verso la porta spalancata, sapendo, senza vederlo, e senza sentirlo, che suo figlio era lì con la sua tunica sporca di sudore, steli di grano e frumento. Pietro stava in piedi, esitante, la falce ancora in mano e i grandi occhi colmi di indicibile stanchezza. Gli occhi di suo padre, da cui aveva preso il nome, avevano mostrato la stessa prostrazione, ricordò Ana Magdalena
con nostalgia; il fardello di un contadino consisteva nel faticare costantemente nei campi presi in affitto dal grand seigneur, così come in quelli, smisurati, del seigneur stesso. Una vita siffatta succhiava via la forza di un uomo a al punto che restava poco per la sua famiglia. Pietro aveva gli occhi di suo padre e la Vista di sua madre. Ma quando crebbe e si unì al padre nel lavoro dei campi, il suo interesse nell'antica sapienza diminuì. Ana Magdalena non lo forzava; il suo destino non era quello di usare i talenti posseduti ma quello di tramandarli al suo unico erede. Ana Magdalena accolse suo figlio con un sorriso stanco quando Pietro varcò la soglia, posò la falce e sfilò i piedi dai sandali di legno inzaccherati. «Catherine sta bene e sta per partorire il tuo bambino». A queste parole, i lineamenti dell'uomo si distesero in un sorriso così luminoso che Ana Magdalena trattenne il respiro; era sempre stato così con suo figlio; mostrava un'espressione così solenne che non era mai certa di cosa stesse pensando. Poi, però, sorrideva come il sole che al mattino spunta sopra una montagna grigia e allora ne era estasiata. Fece un passo verso sua moglie, cercando di toccarla. «Catherine, è vero? Avremo un figlio, finalmente?» «Non lo so», gemette. «È orribile, orribile... preferirei morire...». Scoprì i denti e il volto si contrasse nel tentativo di trattenere un urlo. Pietro si accovacciò accanto a lei. «Oh, Cat, ti prego, urla. Mi fa più male vedere che ti sforzi di essere coraggiosa...». E Catherine lo accontentò, liberando quell'urlo crescente con una ferocia talmente incontrollata che l'uomo arretrò, sbigottito. Ana Magdalena andò verso il camino e gli preparò un piatto di stufato caldo, accompagnato da abbondanti cavoli e porri e, per celebrare l'evento, da un bel pollo intero: aveva bisogno di carne... così come ne aveva bisogno Catherine, una volta partorito. Pietro si sedette al tavolo e si fece servire da sua madre lo stufato con un pezzo di pane scuro. Il camino spento emanava ancora calore ma un vento freddo entrava dalla porta aperta e dalla finestra, soffiando via il fumo. Con il vento arrivò anche il buio e un tuono così forte che fece voltare la testa a Catherine, come un animale in allerta. Ana Magdalena accese la lampada a olio e la avvicinò alla sedia da parto, sistemandola con cura sul pavimento per poter vedere bene il bambino ed evitare, allo stesso tempo, che Catherine la rovesciasse. Come se fosse stata percossa, la giovane donna iniziò a piangere; Pietro, turbato e, a suo
modo, sofferente, si alzò e sollevò il piatto. «Mangerò fuori». E uscì per andare a sedersi nell'oscurità sempre più fredda. Ana Magdalena s'inginocchiò e sondò la situazione ancora una volta con le delicate mani sapienti. La posizione del bambino era regolare e il cordone, distante dal suo collo. «Figlia mia, vedo la testa del bambino e va tutto bene. Ora devi usare tutta la forza che ti resta per portare il bambino in questo mondo». A queste parole, una violenta folata di vento entrò nel cottage, sbattendo le imposte e facendo scorrere un brivido lungo le ossa di Ana Magdalena... non a causa del freddo ma del maligno che lo cavalcava. Diana, bona Dea, proteggi il bambino, pregò immediatamente e nella sua mente materializzò le barriere invisibili che circondavano la casetta, ma fu troppo tardi. Qualcosa, una volontà, una mente, una forza maligna, era entrata e si era appostata in casa sua; l'anziana donna ne percepiva la presenza così come aveva percepito il vento che le asciugava il sudore dal volto e dalle braccia. Ma dov'era e, soprattutto, cos'era? Prima che Ana Magdalena potesse formulare la domanda nella sua mente, Catherine alzò lo sguardo e i suoi occhi, riflettendo la luce della lampada a olio, scintillarono di un maligno giallo-verdastro, come quelli di un lupo quando si spinge vicino a un fuoco notturno. Ana Magdalena trattenne il respiro. Si trattava soltanto degli occhi di sua nuora, socchiusi a causa del dolore, disse a se stessa; eppure, allo stesso tempo, nascondevano un'altra presenza, nefasta e compiaciuta. Era impossibile che avesse superato tutte le precauzioni, tutte le preghiere e gli incantesimi e il cerchio di protezione posto attorno alla casa. Eppure era qui, audace e provocatorio. Vattene via, comandò l'anziana donna con un tono di legittima indignazione e con una tale foga che la sua voce divenne udibile. Immediatamente, il luccichio sinistro negli occhi di Catherine si trasformò in innocente stupore e sofferenza. «Che dici?», gemette la ragazza e Ana Magdalena, gentile, replicò: «Nulla, bambina. Spingi». E prese le piccole mani pallide di Catherine tra le sue, grandi e scure. Con gemiti profondi e gutturali e una stretta che stritolò le ossa delle dita di Ana Magdalena, la giovane madre iniziò a spingere; presto fu visibile un'ulteriore parte della testa del bambino. Tuttavia, proprio al culmine delle spinte, Catherine si fermò e piagnucolò: «Non ce la faccio! Non ce la faccio... Madre di Dio, aiutami!».
«Ti ascolta e ti aiuterà», rispose secca Ana Magdalena i cui pensieri erano solo per il bambino che aspettava di fare il suo primo respiro. «Devi dare solo un'altra spinta, figlia mia». Afferrò di nuovo le mani della ragazza. «Non sono tua figlia!», urlò Catherine selvaggiamente, il volto contorto come quella di una bestia intrappolata, gli occhi vicini, inferociti. «Sei tu che mi hai fatto questo, vecchia strega! Sapevi che ero troppo debole, che ne sarei morta, nonostante ciò mi hai dato pozioni e incantesimi per trattenere questo figlio dentro di me... Lo vuoi tutto per te, per i tuoi scopi malefici!». E con uno schiaffo, scacciò le mani di Ana Magdalena con una forza così sorprendente che la donna, ancora inginocchiata, perse l'equilibrio e cadde pesantemente su un fianco. La lampada, pensò subito Ana Magdalena, terrorizzata. Nella frazione di secondo che precedette la sua caduta a terra tentò disperatamente di spostarsi, di evitarla, ma era troppo tardi... Colpì la lampada con la spalla, rovesciandola a terra così che il fragrante olio d'oliva fuoriuscì come un rivolo di fuoco liquido. L'olio, che non si consumò tutto all'istante, impregnò la gonna nera di Ana Magdalena. Nello spazio di uno, due battiti del suo cuore, guardò, inorridita, le fiamme lambirle l'orlo dell'abito e attraversare a balzi il pavimento fino a raggiungere la sedia da parto e il nido di paglia approntato per la nascita del bambino. Pestando e sventolando il fuoco che avanzava, Catherine urlò senza sosta e Ana Magdalena non avrebbe saputo dire se per rabbia, timore o per i dolori del parto, poiché era troppo impegnata a rotolarsi sul pavimento per cercare di smorzare le fiamme che avevano bruciato metà del suo abito vedovile e ora minacciavano la sua sottoveste. «Pietro!», urlò. «Figlio mio, aiuto!», mentre Catherine, che si era miracolosamente scagliata lontano dalla sedia da parto, giaceva su un fianco, e piagnucolava: «Dio! Dio! Dio!». In mezzo al fumo nero e alle fiamme emerse Pietro, gli occhi increduli e, tuttavia, temperati da quell'insolito equilibrio che possedeva sin dall'infanzia. Ana Magdalena sbatté la gonna tanto che alcuni frammenti volteggiarono in aria come cenere luminosa e urlò mentre il calore le bruciacchiava i peli delle gambe e delle braccia. Il bordo del soggolo nero iniziò a scaldarsi e se lo strappò via, gettandolo in un angolo. Pietro si precipitò sulla madre, avvolgendola stretta nell'unica coperta di lana che la famiglia possedeva. Le fiamme furono spente in un istante ed egli allargò la coperta dirigendosi verso il fuoco che ora minacciava sua
moglie, che ancora si contorceva. Ignorando il dolore che le bruciature sugli stinchi le procuravano, Ana Magdalena si rimise in piedi a fatica e corse verso il camino, dove era stato riposto il secchio dell'acqua di quel giorno. Lo afferrò e scagliò il contenuto sulla luminosa conflagrazione che un tempo era stata la sedia da parto. Con un sibilo acuto, il fuoco si smorzò e un pennacchio di fumo nero fuoriuscì dal centro; Pietro smorzò le ultime fiamme con la coperta e gridò: «Madre, assistila! Il bambino è nato ma non emette alcun suono!». Catherine ora giaceva immobile, finalmente silenziosa, ad eccezione del respiro affannoso. Dalle sue gambe penzolava un lungo cordone rosso e all'estremità, scivolato a terra, c'era il neonato: una bambina dai capelli scuri perfettamente formata, con i pugnetti rossi ben stretti, il volto velato dalla placenta, il sacco macchiato di sangue dove aveva trascorso nove mesi. L'amnio, pensò Ana Magdalena, con un brivido che le fece venire la pelle d'oca, nonostante il caldo; un presagio molto particolare, il segno divino che la bambina possedeva doppiamente la Vista, ed era doppiamente predestinata. Ad alta voce gridò: «Non è viola, vedi? Non è ancora diventata viola!». Gettò via il secchio e si precipitò verso la bambina. Con un unico gesto estrasse un pugnale dalla cintura e tagliò il cordone, poi lo rimise a posto, agguantò la neonata e rimosse la placenta. Con i brandelli della gonna sciupata pulì il sangue nerastro e la sostanza lattiginosa color avorio dal piccolo volto placido, poi girò la bambina e le diede un colpetto deciso tra le scapole. L'effetto fu magico; la bambina tossì e fece il suo primo respiro iniziando a strillare sul serio. Catherine si mosse: «È un maschio? Un figlio maschio?» «Una bambina sanissima», annunciò Ana Magdalena e lacrime di gioia le spuntarono sul viso mentre Catherine singhiozzava, provando vergogna per il sesso della neonata, o forse per un più sinistro rammarico: che fosse sopravvissuta? Pietro sorrideva alla bambina ma era chiaro che la sua felicità era attenuata da una punta di delusione. «Sono l'unica ad essere felice per l'arrivo di questa bambina?», disse seccamente Ana Magdalena. «Sia ringraziato Dio», e nella sua mente aggiunse e la Dea, «per questa bella bambina!». Come era suo diritto, secondo le abitudini della casa in cui era stata allevata, proclamò: «Il suo nome è Sibilla». Ecco, l'aveva detto: Sibilla, un bel nome pagano, mandatole in sogno.
Sibilla: la donna saggia, sacerdotessa e profetessa, il nome della Grande Madre. Sforzandosi di mettersi seduta, Catherine si protese per prendere la bambina e, con un tono che era una sfida aperta, replicò: «Marie. Si chiamerà Marie, come la Vergine, e non voglio sentire altro. Non siamo in Italia, con quelle vecchie usanze ridicole, e questa non è una casa pagana». Ana Magdalena sollevò un nero sopracciglio e replicò fredda: «Chiamala come ti pare, nuora mia, ma il suo nome davanti a Dio e a Sua Madre sarà sempre Sibilla». «Pierre!». Catherine girò la testa, i capelli rosso-dorati le sventolarono su una spalla, gli occhi verdi supplichevoli. Anche fradicia com'era di sangue e sudore, con le gambe imbrattate di placenta scura era bellissima e suo marito non poteva negarle nulla. «Pierre, permetterai che il nostro unico figlio porti un nome pagano? E neppure di origini francesi?». Ana Magdalena si alzò in piedi e fissò severa suo figlio. Obbediva al volere della Madre e, talvolta, percepiva la Dea scendere su di lei con una forza inquietante. E sapeva che Pietro poteva vedere tutto ciò nei suoi occhi e che non aveva bisogno di dire altro, di fare altro per perorare la sua causa. In fondo, suo figlio praticava il cristianesimo solo per accontentare sua moglie, ma Ana Magdalena sapeva che, se in cuor suo adorava una divinità, questa non poteva essere che la Dea, e lo sguardo di Lei che era Madre di tutto sarebbe servito a ricordargli il suo dovere. Pietro guardò i suoi occhi, vi lesse il messaggio e comprese; tuttavia, Ana Magdalena sapeva che non poteva contraddire totalmente la volontà della sua amata moglie. E così sospirò, sempre più provato, decretando calmo: «Non voglio sentirvi litigare. Fuoco o no, questo è un giorno felice: poco prima che piovesse abbiamo fatto un buon raccolto e la nostra parte di frumento è già ammassata nel granaio di Jacques; poi, è avvenuta la nascita della mia prima figlia. Il suo nome sarà Marie Sybille e questo è quanto». A quel punto aiutò sua moglie a stendersi sul letto. Ana Magdalena continuò il suo lavoro come se il Maligno non fosse mai entrato in quella casa e non avesse mai dichiarato Catherine sua alleata. Aiutò sua nuora a sfilarsi la camiciola sporca di sangue e dei liquidi del parto e poi la lavò come meglio poté con un panno umido, poiché era ormai troppo tardi per attingere altra acqua dal pozzo. Era notte e la ragazza non si rivestì e quando iniziò a provare brividi di freddo, nonostante il calore, Ana Magdalena le avvolse attorno alle spalle ricurve ciò che restava
della coperta bruciacchiata. Poi annodò un panno attorno alla vita larga ma soffice di Catherine, e lo legò ad un altro per trattenere il sangue che sarebbe fuoriuscito dopo il parto; le diede una tisana calmante mescolata a corteccia di salice. Alla fine, lavò la bambina, l'avvolse in fasce e la presentò a sua madre. Nonostante la delusione iniziale, Catherine accolse amorevolmente la neonata e seguì con grande attenzione le istruzioni della levatrice su come allattarla mentre Ana Magdalena le pettinava i lunghi capelli rossi sistemandoli in una treccia. E quando la bambina ebbe avuto la sua poppata, la levatrice portò a Catherine una scodella di stufato ormai freddo e ciò che restava del pollo, che la ragazza divorò. Pietro aveva appeso i vestiti ad un bastone orizzontale in cima al letto e padre, madre e bambina si addormentarono. In silenzio, Ana Magdalena spazzò via i resti carbonizzati della sedia da parto e la paglia bruciata. Nel frattempo aveva iniziato a piovere; all'inizio erano gocce rade e grosse che poi si fecero fitte e costanti tanto che, guardando fuori dalla finestra, l'anziana donna riusciva a malapena a distinguere l'uliveto. Raccolse gli stracci sporchi e la camicia da notte macchiata di Catherine e li appese sui rami del piccolo ulivo affinché la pioggia li purificasse. La pioggia aveva lavato via anche il pericolo che aveva minacciato la neonata; il Maligno era sparito, fuggito in qualche luogo lontano (altrimenti non avrebbe permesso mai a Catherine di partorire) ma non era stato distrutto e, Ana Magdalena ne era certa, sarebbe tornato di nuovo. Aveva fatto il suo dovere nei confronti di suo figlio e di sua nuora e ora, finalmente, poteva prendersi cura delle bruciature che le pulsavano sugli stinchi. Grazie alla bona Dea non erano così profonde come aveva ipotizzato. Ana Magdalena sollevò la sottoveste bruciacchiata e vide che non c'erano neppure le vesciche, ma soltanto larghe chiazze di morbida e lucente carne rossastra dove la sottile peluria scura era stata bruciata. La pelle era intatta e quindi non doveva temere infezioni e sebbene fosse troppo buio per raccogliere la lavanda necessaria per un impacco calmante, la buona Signora le aveva fornito la migliore medicina per alleviare bruciore e dolore. Prese ciò che restava di stufato e ossa di pollo, attorno a cui c'era ancora un po' di carne. Poi si rimboccò le gonne fin sui fianchi e si sedette sulla soglia, le gambe nude allungate in avanti sotto la pioggia fresca. Restò lì a mangiare la sua cena fino a quando le venne la pelle d'oca e iniziò a battere i denti; dopo il caldo della giornata, quella frescura era una delizia.
Si fermò lì ancora un poco, pregando e riflettendo sul da farsi. Catherine, in qualche modo, si era aperta al Maligno che aveva tentato di fare del male alla neonata. Cosa le avrebbe impedito di aprirsi con lui ancora una volta? Ma ora che Pietro dormiva, Ana Magdalena poteva fuggire con la bambina, senza essere notata, in un altro villaggio, un altro paese, un'altra città e allevarla come fosse sua figlia. Sembrava la strada più sicura: tuttavia era turbata. Fuggendo, avrebbe forse eseguito, magari inconsapevolmente, gli ordini del Maligno? Alcune ore dopo il temporale si placò. Fuori, il silenzio era interrotto soltanto dai dolci versi striduli dei grilli e dal mesto urlo soffocato di un gufo. Catherine giaceva sulla schiena e russava appena accanto a suo marito; raggomitolata tra l'uomo e sua moglie c'era la bambina, nell'incavo del braccio di sua madre. Come sempre, Pietro dormiva senza fare il minimo rumore, steso su un lato con la guancia premuta forte contro il materasso. Ana Magdalena sapeva che se pure avesse urlato nelle sue orecchie non si sarebbe svegliato, almeno non fino all'alba; al contrario, il sonno di Catherine era leggero, ansioso. Certo, aveva bevuto un infuso tranquillante ed era esausta a causa del lungo travaglio, ma il forte legame tra madre e bambina era imprevedibile. Nonostante ciò, pensò Ana Magdalena, devo fare quello che la Dea mi ordina. Si alzò dal letto con cauti movimenti controllati e poi si voltò a guardare Catherine e la bambina. Immersa nel chiarore della luna, la neonata, avvolta in fasce, dormiva tranquilla; a dire il vero, da quando era nata non aveva più pianto. Come suo padre, pensò amorevolmente Ana Magdalena. Pietro era stato un bambino così calmo e pacato che talvolta, subito dopo la nascita, Ana Magadalena si dimenticava che fosse già nato. Il rossore della faccina di Sibilla si era attenuato in un rosa chiaro. Accanto a lei, nella penombra, Catherine sembrava pallida; era stato davvero un miracolo che una donna così fragile avesse fatto nascere una bambina così robusta. La levatrice si sporse in avanti, allungò le mani e le fece scivolare sotto il corpicino di sua nipote, attenta a non toccare le braccia della madre addormentata. La bambina si mosse all'interno di quella stretta, gli occhi completamente chiusi, ma non emise alcun suono; sorridente, Ana Magdalena la sollevò, lentamente e con grande cautela. Catherine all'improvviso si mosse e, nel sonno, gemette di dolore. L'an-
ziana donna s'immobilizzò, ancora sospesa sopra la nuora, con la bambina sollevata a venti centimetri dal materasso. Dopo alcuni attimi di trepidazione, Catherine si acquietò e tornò a russare. Ana Magdalena emise un sospiro impercettibile, raccolse la bambina tra le braccia e uscì a piedi nudi nella notte. Diana, proteggici stanotte, pregava, sentendo l'erba, fresca e umida sotto i piedi callosi. E mentre avanzava, la strada fu avvolta da un improvviso splendore tanto che riusciva a vedere ogni fiore selvatico, ogni stelo, ogni filo d'erba e persino la lepre marrone sulle zampe posteriori che fiutava l'aria; guardò in alto per vedere emergere dalle nuvole diradanti la luna perlacea, circondata da una debole foschia che brillava con un tocco di rosa e di celeste. All'improvviso fu colta da una sensazione di amore e fato così forte che quell'attimo le sembrò interminabile: era nata per questo, non aveva fatto nient'altro nella vita prima di adesso, né avrebbe fatto altro se non camminare sull'erba e sui fiori tenendo questa bimba tra le braccia. Portò la bambina addormentata alle labbra e le baciò la fronte, incredibilmente tenera. La neonata si accigliò nel sonno come una scimmietta curiosa e una ruga comparve tra le sopracciglia vellutate prima che i lineamenti si rilassassero di nuovo. Ana Magdalena rise piano... Poi si fermò all'improvviso ad ascoltare l'ululato dei lupi nelle vicinanze... nel boschetto di ulivi, proprio il punto in cui la Dea guidava i suoi passi. Si arrestò, soltanto per un istante, e vide nell'oscurità il balenio verde di occhi animaleschi, gli stessi che Catherine le aveva mostrato negli attimi in cui era stata posseduta, gli occhi del Nemico. In lei si risvegliò la paura; ma fu bandita molto in fretta. «Non so se siete di questo mondo», disse a quelle creature, «nel nome della Dea dovete andarvene subito e tenervi a rispettosa distanza». Ricominciò ad avanzare, veloce e sicura, e sia gli ululati che gli occhi scomparvero immediatamente. Donna e bambina non incontrarono anima viva prima di arrivare al confine del sacro uliveto piantato dagli invasori romani e dove gli antichi alberi, alcuni dell'altezza di sei uomini in piedi l'uno sull'altro, stendevano i loro arti argentei verso il cielo. Ana Magdalena fece un passo sotto il primo baluardo frondoso; subito, i rami ricoperti di foglie copiose offuscarono la luna che filtrava attraverso le fessure con un piccolo raggio qui, uno argenteo lì, illuminando minuscoli spiazzi di erba rada e odorosa terra umida. Per la levatrice non faceva alcuna differenza. Nel corso degli anni, era venuta qui molte volte di notte, attirata prima dall'istinto e dalle maree e poi
dall'affiliazione, e conosceva il luogo molto bene. I frutti degli alberi piantati sul bordo del boschetto erano stati raccolti di recente. Ma via via che si avvicinava al centro isolato, gli alberi si appesantivano di frutti non raccolti, lasciati lì per onorare la Regina del Paradiso. Ana Magdalena percepì le gonfie olive mature sotto i piedi e odorò la ricca fragranza che rilasciavano via via che le schiacciava. L'indomani i suoi piedi avrebbero mostrato incriminanti chiazze nero-violacee che sarebbe stato saggio nascondere a Catherine. Alla fine giunse nel piccolo spiazzo dove si ergeva una copia a grandezza naturale della Madre, camuffata da Maria. Intagliata nel legno, la statua era molto vecchia; il naso, parzialmente marcito, rifiutava di trattenere il colore che, ogni anno, in maggio, in occasione della sua festività, veniva amorevolmente restaurato; inoltre c'erano graffi e segni sui piedi della Madre, come se fossero stati rosicchiati da qualche bestia selvaggia. Una corona di rosmarino fresco, adornata di gocce di pioggia luminose, era stata posata sulla corona del velo color del cielo; la pioggia però, aveva rovinato la delicata ghirlanda di fiori selvatici attorno al collo. Con devozione, Ana Magdalena fece un passo in avanti e con la mano libera asportò le mollicce foglie di ulivo appiccicate sulle spalle della Dea e riparò la ghirlanda come meglio poté. Poi, attenta a mantenere l'equilibrio con quel fagottino tra le braccia, s'inginocchiò sulla terra umida e sussurrò: «Buona Dea. La bambina è Vostra e giuro sul mio spirito che lo sarà sempre. Guidatemi come sua maestra e proteggeteci dalle forze che vogliono portarla via da Voi». Ed ella posò la bambina sul letto di foglie d'ulivo e fiori umidi, ai piedi della statua. Sfilò il pugnale dalla cintola e, con un tocco leggero come una piuma, tracciò il simbolo di Diana sulla fronte della neonata. Poi piegò la testa, formulando nella sua mente la seguente richiesta. «Devo allontanarla dai suoi genitori o dobbiamo restare uniti?». Non ci fu alcuna risposta. Ana Magdalena ripeté la domanda, senza sortire effetto, e ciò significava che non c'era una risposta definita; non importava quale strada si scegliesse, il risultato sarebbe stato sempre lo stesso. E così restò in contemplazione per un po', gli occhi chiusi, fino a quando non le affiorò una domanda più concreta. «Mostrami la magia più efficace, affinché possa proteggerla». Prima che le labbra potessero formulare la domanda la Madre rispose: Ti mostrerò la tua scelta. E la Vista discese su Ana Magdalena, rapida e robusta, più forte di tutte
le altre volte, anche quando era stata sollecitata con erbe o lusinghe. All'improvviso non si trovava più nel bosco, ma era seduta in una bella casetta, con due camere, sgabelli sui quali sedersi e un caminetto in cui ardeva legna e scoppiettava un fuoco vivo. Accanto a lei sedeva una bella ragazza: Sibilla, pensò, al seno della quale c'era una neonata; ai piedi di Ana Magdalena, invece, un bambino giocava soddisfatto con una bambola di legno. Il cuore dell'anziana donna traboccò di felicità: erano i suoi pronipoti... Ad un tratto ci fu un'esplosione, acuta e cristallina, come un forte infrangersi di vetri, un rumore che Ana Magdalena aveva sentito soltanto un'altra volta in vita sua quando, promessa sposa sull'altare, qualcuno aveva scagliato una grande pietra contro la finestra della cattedrale, proiettando in aria frammenti di vetro colorati. Un segno di malaugurio, lo aveva definito, rannicchiandosi accanto al suo sposo e al prete: da allora, nel villaggio, iniziarono a chiamarla strega e fu costretta ad andare fino in città per trovare un sacerdote che non la conoscesse e accettasse di celebrare il suo matrimonio. Insieme a suo marito, subito dopo si era trasferita in un altro villaggio. Un segno di malaugurio, pensò anche in quel momento, prima di riaprire gli occhi e ritrovarsi nel bosco, con i grandi ulivi in fiamme. In realtà, le fiamme che si sprigionavano dalle piante sembravano brillare in modo innaturale, con sfumature color porpora, rosso e ocra; vive, ondulanti, che partivano serpeggianti dai rami fino a sfiorare Ana Magdalena... e la preziosa bambina. Strisciò sulle ginocchia fino alla neonata Sibilla, ma il fuoco rimontò, lungo i tronchi, sulle foglie e i fiori umidi, correndo su di essi con la stessa rapidità con cui il vento soffia in mezzo al grano, creando un muro tra la donna e la bambina. Senza pensarci un attimo, Ana Magdalena infilò le mani tra le fiamme, magiche senza dubbio, poiché sebbene bruciassero non consumavano né legno né foglia; poi ritirò la mano con un urlo acuto causato dal dolore, osservando stupefatta il palmo rosso e piagato. «Sibilla!», gridò, alzandosi in piedi, incurante adesso di svegliare qualcuno in paese; il fuoco diventò subito più alto e opaco, impedendo completamente la vista della neonata che non emetteva il minimo suono. Ana Magdalena non vedeva altro che i grandi alberi, in fiamme ma intatti, come il cespuglio di Mosè. A quel punto fu assalita dal terrore, per l'incolumità della bambina e per la sua; il calore diventò così intenso che sentì sul volto la carne viva; le
braccia e le gambe iniziarono a coprirsi di piaghe. Mentre il dolore e la paura la consumavano, riuscì a vedere qualcosa nell'oscurità, oltre la barriera di fiamme: occhi verdi e scintillanti che la osservavano. Occhi di lupo, eppure dotati di un'intelligenza superiore a quella dell'animale e incorniciati da una struttura ancora più sinistra, umana, alta e maligna. Appena li vide, riascoltò nella mente il rumore di vetri infranti. Il Maligno era stato presente il giorno stesso della sua nascita; era cresciuta consapevole della Sua presenza e cosciente che la sua vita sarebbe stata una lotta contro di Esso. «Dea, aiutami!», gridò. Improvvisamente, le fiamme si abbassarono quel tanto da rivelare i sereni lineamenti della statua di legno; Ana Magdalena si sentì sollevata. Non si trattava di un attacco del Maligno, si disse, ma di una visione chiesta alla Dea, per poter apprendere la magia più potente. E così si calmò. E una forte ventata spazzò via le fiamme dagli alberi, di nuovo integri e verdi, e s'insinuò tra le foglie scricchiolanti e il terreno per condensarsi in un cerchio che circondò i piedi e le gambe di Ana Magdalena. Provava ancora dolore e per un istante la paura si agitò in lei come un uccello in gabbia in cerca di una via di fuga; poi si fermò, poiché tra lei e il Nemico, nel punto esatto in cui aveva visto la statua, ora c'era una donna in carne e ossa. Una donna dai capelli corvini e gli occhi scuri come l'acqua in un pozzo; giovane e forte, con il naso di sua madre, le labbra di suo padre e la pelle olivastra... Sibilla!, sussurrò Ana Magdalena, con la voce tremula per la felicità. Nonostante l'incessante agonia causatale dalle fiamme, non provava altro che amore e felicità alla vista di quella nipote, adulta e bellissima; nonché stupore poiché, proprio davanti ai suoi occhi, il volto della donna diventò beato, diafano, trasformato da una radiosità interiore. La Dea viva, mormorò. Né volto umano, infatti, né statua di legno potevano esprimere quell'infinita pace, quell'infinita gioia, quell'infinita compassione. Sapeva che sua nipote era stata prescelta per un grande destino, ma solo ora sapeva quale fosse: Sybille era stata scelta per diventare un Calice vivente. E in quel preciso istante, il cuore di Ana Magdalena si aprì totalmente alla pietà, abbracciando tutto: le fiamme, il dolore, qualsiasi altro destino che la Dea avesse scelto per lei. Abbracciando persino il Maligno in ag-
guato, colui che più di ogni altro aveva bisogno di compassione. E i suoi occhi indirizzarono quella pietà verso i distanti occhi lucenti che ad un tratto iniziarono a rimpicciolirsi, sempre di più, così come la sagoma scura che li incorniciava, fino a quando la creatura non aveva più le dimensioni di un uomo, ma quelle di un piccolo lupo e poi di un cane. Gli occhi giallo-verdastri balenarono, si offuscarono e poi svanirono. Paura, Ana Magdalena pensò; la paura era come carne fresca per quel lupo: se ne nutriva, accresceva la sua forza. Capì in quel momento il muro attorno al cuore di sua nuora e la sostanza di cui era fatto. Nonostante tutte le magie di Ana Magdalena, tutte le sue preghiere, la paura di Catherine aveva esposto la neonata al pericolo. All'improvviso, l'anziana donna ritornò in sé e si vide inginocchiata, sola, nel buio uliveto, circondata dal silenzio totale, interrotto soltanto dal fruscio di minuscole creature. Sua nipote, ai suoi piedi, dormiva tranquilla. Alzò lo sguardo triste verso la familiare statua di legno, le labbra con gli angoli all'insù in un sorriso benigno. «Mi hai mostrato queste cose per un motivo preciso, bona Dea; ora fa' che io sia Saggia». Mentre pregava così, il verso del gufo le rispose. Davanti a te ci sono due strade, disse la Dea, con una voce inconfondibile ma percepibile solo nel cuore di Ana Magdalena. Una sicura; l'altra irta di pericoli. Sta a te decidere. Solo la magia più estrema potrà trasformare la bambina nel suo destino. Solo la più potente, che non potrà compiere da sola: ecco perché, tra le tante persone al mondo, l'ho affidata alle tue cure. È il tuo destino, la ragione per cui sei nata. Sceglierai di seguirlo, per lei? E per me? «Lo farò», sussurrò Ana Magdalena, gli occhi colmi di lacrime e pena. «Lo farò. Fa che insieme possiamo raggiungere sane e salve la protezione delle Tue braccia...». Restò per un po' con la testa piegata, sopraffatta, il cuore aperto alla Dea; alla fine si alzò e raccolse la bambina. Insieme a Sibilla, avrebbe continuato a vivere con i genitori della piccola; perché creare loro dolore se il Nemico l'avrebbe seguita ovunque? Inoltre, Ana Magdalena ora sapeva da dove il Nemico intendeva attaccare. Devo fare attenzione a non permettere che la paura entri nel mio cuore; Dea, aiutami a tenerla a bada. Ana Magdalena piegò il capo un'ultima volta in direzione della Dea e iniziò a camminare lentamente attraverso il boschetto.
Catherine si muoveva continuamente nel sonno, sotto l'influsso di un sogno agitato in cui la bambina piangeva, con un pianto simile al malinconico verso del gufo, e provò una fitta nei suoi seni gonfi che all'improvviso diventarono umidi; le era ritornato il latte ed era ora di dare la poppata alla bambina, la bambina... Dov'era la bambina? Stranamente non era più nel letto e tutto intorno a lei era buio, avvolto nella nebbia; e per quanto si sforzasse di vedere non riusciva a scorgere la bambina, sebbene l'avesse sistemata proprio accanto a lei. Provò a gridare: Marie, amore... Dove ti hanno portata, piccolina? Ma la voce le morì in gola. Non riusciva ad emettere suono; si agitava convulsamente, cieca, impotente, colma d'amore e terrore per quella figlia. Ma nelle nebbie turbinose si materializzò un'oscura presenza. Catherine aguzzò la vista, sbatté le palpebre fino a quando non riconobbe sua suocera, vestita in abiti neri, con i capelli nero-blu che le ondeggiavano sciolti fino alla vita. Teneva la bambina tra le braccia. Catherine distese le mani, grata, verso sua figlia ma l'anziana donna la allontanò, ridendo. E più Catherine si sforzava di afferrare la neonata, più Ana Magdalena la tirava via, schernendola: La bambina è mia, Catherine. Sono stata io a far sì che fosse concepita, io che l'ho mantenuta nel tuo grembo, io che l'ho fatta nascere. No, no!, urlava Catherine. È la mia bambina! Dammi Marie! Risate beffarde. Il suo nome è Sibilla. Con un sobbalzo, Catherine si svegliò e, portando una mano al seno, sentì che stava effettivamente versando latte. Da quando aveva concepito la bambina, era stata perseguitata da sogni selvaggi e immagini orribili e tutti riguardavano sua suocera che cercava di uccidere suo figlio. Per sei anni, aveva vissuto in pace con Ana Magdalena e le si era persino affezionata: ora, il solo pensiero della donna la terrorizzava, tanto che pensò di fuggire lontano, di lasciare il suo amato marito e scappare con la bambina; di certo l'avrebbe già fatto se il travaglio non l'avesse lasciata tanto debole. Sarebbe andato ad Avignone, lo aveva deciso tanto tempo fa, anche se non sapeva spiegare il motivo di quella scelta. Non conosceva nessuno in quella città e non ci era mai stata; ma era una città sacra, e questo la confortava. Voltò lo sguardo verso suo marito, nell'oscurità. Pierre dormiva accanto a lei, respirando con lenti e profondi sospiri. Tuttavia la bambina, che avevano steso accanto a loro, era scomparsa.
Il colpo fu profondo, puramente fisico; si mise dritta, il cuore batteva all'impazzata poiché il primo pensiero, immediato e terribile, fu che lei o Pierre l'avessero schiacciata, soffocandola, eppure no, non era successo questo. La piccola era semplicemente scomparsa. Voltò la testa sul lato in cui dormiva sua suocera e vide che anche Ana Magdalena era sparita. Si ricordò all'istante di quel sogno e sentì quel panico involontario afferrarla ancora una volta. Iniziò a tremare. Erano reali, allora, tutte quelle terribili paure: Ana Magdalena aveva rubato la bambina. Si alzò in piedi con un urlo e provò una fitta di dolore nel momento stesso in cui posò il piede a terra. Portò le mani sui panni annodati che aveva tra le gambe; il dolore in quel punto era insostenibile; Ana Magdalena l'aveva avvertita che se si fosse alzata il giorno successivo al parto, avrebbe ricominciato a sanguinare. Con una mano sulla pancia, che fu sorpresa di trovare ancora larga, ma morbida e vuota, e l'altra in mezzo alle gambe, dondolò, le spalle curve, fino a raggiungere la sottoveste sporca che s'infilò per poi avanzare, con passo malfermo, verso la porta socchiusa. Giunta sulla soglia si fermò e sbirciò fuori, in cerca della sagoma di una donna con un bimbo tra le braccia, e con un sussurro roco chiamò: «Ana! Ana Magdalena!». Non ebbe risposta. La luna era luminosa e riusciva a vedere le altre case con i tetti di paglia dei contadini, l'intonaco bianco tendente al grigio e i profili deboli del lontano uliveto. Nella direzione opposta, talmente lontana che sembrava non più grande del suo pollice, c'era la grande città fortificata di Tolosa. Piegata in due per lo sconforto, iniziò a barcollare nella notte. E ad ogni passo la sua ansia cresceva. Il fuoco era stato senz'altro un cattivo presagio. Sarebbe potuta morire bruciata, così come la piccola Marie, se Pierre non le avesse salvate. Catherine si era sforzata, dal primo giorno del loro matrimonio, di fidarsi di Ana Magdalena, e persino di volerle bene come alla madre che non aveva mai avuto, poiché la sua era morta dandola alla luce. Apparentemente, l'anziana donna sembrava prendersi cura della nuora ma a volte Catherine non poteva fare a meno di temerla. Ana Magdalena era troppo esperta delle antiche usanze pagane e per quanto sembrasse devota alla Vergine Maria, non la nominava mai. La bona Dea, la bona Dea, era l'espressione italiana per quella santa adorata; ma il termine faceva riferimento a una "Dea" e il prete del villaggio le aveva insegnato, tanto tempo prima, che Maria non era una dea, ma una santa. Chiamarla dea era
un sacrilegio e sebbene lo avesse raccontato a Pierre, quest'ultimo aveva ribadito che il Italia il termine era un altro appellativo per Maria, che sua madre era una brava donna e che non voleva più sentire altro sull'argomento, nonostante ciò che il prete potesse pensare o dire. E poi c'era il fatto che Ana Magdalena riusciva a sapere le cose prima ancora che venissero palesate. Oh, l'anziana donna cercava di nasconderlo, ma Catherine ricordava bene quel sorriso evasivo quando, appena rimasta incinta, le aveva confessato di desiderare un figlio maschio. Aveva notato quello strano sguardo negli occhi dell'anziana levatrice, tanto eloquente che le sembrò di udire i suoi pensieri: Puoi desiderare quello che vuoi, tanto sarà femmina. E così era stato... inoltre l'aveva chiamata Sibilla. Crede che sia stupida?, Catherine pensò con rabbia improvvisa. Crede che non sappia che significa veggente, strega? Pierre, poi... Sua madre insisteva nel chiamarlo Pietro, dopo tutti gli anni trascorsi in Francia. Pensava, forse, di vivere ancora in Italia? Catherine non era mai stata in quel paese, ma lo immaginava come un posto senza regole dove regnava il diavolo e tutte le donne praticavano la stregoneria. Grazie a Dio ora il papato è ad Avignone e il Santo Padre è un francese... Come sempre, Pierre era stato troppo accondiscendente nei confronti di sua madre e aveva accettato di chiamare la bambina Marie Sybille. Catherine si fermò. Si trovava ai bordi della campagna, di fronte ai campi di grano appena mietuti, senza sapere dove fosse diretta. Ancora una volta urlò il nome di sua suocera e ancora una volta le rispose il silenzio. Guidata da una forza invisibile, i piedi la diressero verso l'uliveto. Ricominciò, incerta, a camminare. Dopo qualche passo fu afferrata da un pensiero: Dio la stava punendo portandole via il bambino. Aveva peccato, vero? Aveva permesso alla levatrice di usare incantesimi, di fare ogni sorta di stregoneria affinché potesse dare alla luce un bambino sano. Singhiozzò forte, ricordando come, soltanto due giorni prima, aveva osservato Ana Magdalena mentre legava una piccola pallina di tessuto imbottita di erbe alla base della sedia da parto. E Dio aveva mandato un fuoco sacro per bruciarla, un fuoco che aveva consumato gli abiti della strega e che aveva minacciato Catherine e la bambina. Era stato un avvertimento. Dio, pregò, mentre lacrime silenziose le colavano sul volto. Restituiscimi la bambina sana e salva e la farò battezzare domani mattina! E farò in modo che quella strega non la tocchi
più. La educherò come una devota cristiana... Tutte le storie orribili che aveva sentito sulle streghe fluirono nella sua immaginazione facendola singhiozzare accorata. Storie di vecchie streghe che rubavano i bambini, squartandoli durante i raduni per sacrificarli sull'altare di Satana, e poi bollire i corpi smembrati per farne carne o sapone. Di streghe che carpivano i bambini nel sonno per succhiare il loro sangue, lasciando i corpicini bianchi come cadaveri. Di bambini stregati e poi restituiti alle loro famiglie così che, una volta adulti, potessero alzarsi dal letto e massacrare i loro genitori nel sonno, per amore del diavolo... Catherine ricordò che le era capitato di svegliarsi nel cuore della notte e di non trovare Ana Magdalena in casa. E quando una volta le aveva domandato spiegazioni, sua suocera aveva sorriso mestamente e le aveva semplicemente risposto: Ora che sono vecchia non dormo più tanto bene e qualche volta esco per affaticarmi un poco. E se tutte quelle storie fossero state vere? La paura s'impossessò di lei. Annaspando, curva su se stessa, riuscì faticosamente a dirigersi verso il lontano uliveto. Di giorno il posto veniva considerato sacro, benedetto dalla Vergine, ma di notte, pochi osavano entrarvi, poiché si diceva che fosse stregato. Qualcuno diceva che gli elfi vi facessero delle magie, dissacrando il santuario di Maria e compiendo ogni tipo di maleficio e se qualcuno vi si trovava per caso veniva adescato e condannato a vagabondare per sempre dentro quel labirinto. Il dolore nel grembo di Catherine si trasformò presto in una pulsazione e sentì tra le gambe un'umidità appiccicosa. Le vertigini la costrinsero a fermarsi e, senza fiato, si inginocchiò; l'erba davanti a lei iniziò lentamente a ruotare. Strizzò gli occhi e quando li riaprì vide una sagoma, metà buia e metà illuminata, che le correva incontro nel chiarore della luna. Ana Magdalena, con la bambina che piagnucolava tra le braccia. «Catherine!», la chiamò e la ragazza, vedendo che sua figlia era viva e stava bene, diede un sospiro di sollievo. «La mia bambina». Cercò di afferrarla ma fu un errore poiché a causa delle vertigini inciampò in avanti e solo perché allungò le braccia, evitò di cadere a faccia in giù. «Catherine». Alla fine Ana Magdalena s'inginocchiò accanto a lei, la bambina ancora in braccio. «Oh, Catherine, cara, cosa hai fatto! Oh, piccola mia, tu sanguini e sei congelata... Perché non sei rimasta a letto?». Portò una mano fresca sulla fronte della ragazza e la sua voce e i suoi gesti erano così teneri, così pieni di sincera preoccupazione, che la ragazza si vergo-
gnò di aver dubitato di lei. Tuttavia... Catherine guardò i piedi di sua suocera e le macchie rosso scuro che mostravano. La determinazione placò il suo torpore; si tirò su appoggiandosi alle anche e strappò la bambina dalle braccia dell'anziana donna. Ana Magdalena capì il significato di quello sguardo e di quel gesto e iniziò subito a dare spiegazioni. «Non riuscivo a dormire, cara, e la bambina era agitata; per non fare svegliare te e suo padre l'ho portata fuori, per calmarla un po'...». Catherine si tirò giù la sottoveste e, dopo qualche sforzo, convinse la bambina ad attaccarsi al seno. L'anziana donna smise di parlare e Catherine la ignorò, fredda; il dolore nel ventre fu alleviato da un'improvvisa contrazione di piacere. Inoltre, le stava affiorando un nuovo istinto. Quindi, voltò lo sguardo verso Ana Magdalena e disse con fredda determinazione: «Sarà battezzata domani». «Impossibile», replicò subito Ana Magdalena. «Non puoi alzarti dal letto così presto; neppure se l'emorragia si arresta. E adesso, a meno che non ti sia ferita seriamente, dovrai restare a letto almeno una settimana». «Sarà battezzata domani mattina», ripeté Catherine calma. Il suo sguardo penetrò negli occhi di Ana Magdalena e vide che l'anziana donna aveva capito il significato celato dietro a quelle parole, sebbene neppure Catherine riusciva a comprenderlo completamente. Tu non l'avrai mai, vecchia. È mia e farò in modo che lo rimanga, dovessimo fuggire in capo al mondo. Ma negli occhi di Ana Magdalena brillava una determinazione altrettanto feroce e luminosa, che reclamava la bambina per un potere molto più antico e primitivo. Per un attimo le due donne si guardarono in totale silenzio. Poi Ana Magdalena si alzò lentamente in piedi e sollevò Catherine e la neonata da terra. «Vieni bambina, metti il braccio sulla mia spalla, così... Piano, piano. E adesso, torniamo tutti a casa». Catherine provò una fitta, non fisica, ma di rimorso. Aveva provato ad amare questa donna, a fidarsi di lei, ad avere una madre; ma per il bene della bambina, non poteva. Poiché, sebbene Ana Magdalena le avesse rivolto parole gentili e avesse mostrato preoccupazione nei suoi confronti, Catherine percepiva il significato, duro e inflessibile, celato dietro le parole di Ana Magdalena: Il suo nome è Sibilla.
VII Questa è la storia della mia nascita, disse Sybille, così come la Dea la rivelò a me. Negli anni che seguirono, la mia infanzia fu priva di eventi significativi; nel 1340, però, l'inquisitore Pierre Gui, fratello del più famoso Bernard, arrivò nella nostra bella città... e con lui una visione e la mia prima esperienza della Vista. Ve la racconterò come mi fu riferita, poiché ne ricordo solo un particolare, di cui vi parlerò in seguito... TOLOSA giugno 1340 VIII La piazza di Tolosa, la città dalla grande cinta muraria, si trovava di fronte alla cattedrale incompiuta e brulicava di persone che facevano baldoria: molta più gente, pensò Ana Magdalena, di quante ne avesse mai vista raccolta contemporaneamente nello stesso posto. Dal suo punto di osservazione, riusciva a vedere un centinaio di carri che arrivavano dai villaggi circostanti, ognuno affollato di contadini con i loro figli; davanti alle file dei carri, centinaia di persone in piedi guardavano una piattaforma su cui erano stati elevati dei pali. Era circondata da decine di gendarmi e dietro di essa si ergeva un'impalcatura. E quelli erano solo i contadini; la cattedrale e la piazza erano contornate da nobili seduti in ombrosi palchetti da torneo. Con grande stupore dei paesani, Tolosa, dopo due settimane di caldo innaturale, si era svegliata in una giornata di metà giugno, con una temperatura di venti gradi più fredda del giorno precedente. Osservavano, soddisfatti, i nobili che rabbrividivano all'ombra ogni volta che soffiava il venticello freddo, mentre i contadini godevano del dolce tepore che il sole emanava. Alcuni sussurrarono che un tempo così strano era il risultato di una stregoneria; oppure, più semplicemente, indicavano i nobili e scoppiavano a ridere. Parte del divertimento era, infatti, fornito dai nobili e dal loro abbigliamento: gli uomini con le tuniche, le calze e i berretti piumati con tonalità che andavano dal giallo acceso, al giallo zafferano, al rosso; le signore, in gonne di seta color rubino, smeraldo, zaffiro, e cerchietti o corone d'oro che ancoravano veli sottili che svolazzavano al vento. Eccitata, Catherine,
seduta accanto a Ana Magdalena, si sporse in avanti e toccò il gomito della donna richiamando la sua attenzione prima su una e poi su un'altra dama, commentando una nuova sfumatura di colore, un nuovo modello di corpino o una cuffia particolarmente elaborata. Nel retro del carro ricoperto di paglia, due famiglie, quella di Pietro e del suo vicino Georges, con sua moglie Thérèse e i loro quattro figli maschi, di età compresa fra i tre mesi e i cinque anni, consumavano piacevolmente un picnic. Era un giorno di festa e i contadini erano esentati dal lavoro nei campi e tutti nel carro di Georges si stavano divertendo un mondo, tutti tranne una. Ana Magdalena si sforzava di sorridere e annuire, di bere birra dalla brocca comune, di mangiare pane, formaggio e senape fresca e di sembrare felice; il suo cuore, in realtà, provava una grande pena. Solo la vista di sua nipote Sybille riusciva ad alleggerire quell'oppressione; la piccola, che in quel momento correva a perdifiato intorno al carro con i bambini più grandi di Thérèse, era il ritratto della salute, con quelle gambette piene, le guance rosse e una treccia scura che le ondeggiava sulla schiena. «Sybille», la chiamò Catherine con calma. «È ora di mangiare qualcosa». Non ci fu bisogno di ripeterlo perché la bambina smise subito di correre e si avvicinò obbediente al lato del carro. Già a quattro, quasi cinque anni d'età, Sybille era padrona di sé, un'adulta in un corpo di bambina. Possedeva la calma fermezza di suo padre e neanche una traccia dell'ansia o dell'irascibilità di sua madre. Da un anno ormai, parlava senza nessuno di quei tipici impedimenti infantili e sembrava molto più grande del primo figlio di Thérèse, Marc, che aveva sei mesi più di lei; la sua voce, però, era ancora acuta e stridula. Quando la bambina ebbe compiuto sei mesi, Pietro arrivò finalmente a una decisione e disse alle due donne: Il suo nome non è Marie e non è Sibilla. Il suo nome è Sybille, Catherine, un bel nome francese, il nome di mia nonna; quanto a te, mamma, la chiamerai Sybille, poiché non è italiana ma francese. E se vi sento litigare ancora, vi getterò tutte e due nella Garonna e alleverò mia figlia da solo. Le due donne si etano sinceramente sforzate di usare lo stesso nome. E alla fine diventò ufficiale, sebbene a volte Catherine usava quello che per lei era il vero nome della bambina e la chiamava Marie, proprio come Ana Magdalena, talvolta, per il grande affetto, si lasciava sfuggire il nome Sibilla, ma solo quando erano sole. Dalla notte in cui la bambina era nata, Ana Magdalena aveva cercato di
fare quello che la Dea le aveva indicato nell'uliveto: tenere il suo cuore e, se possibile con qualche magia, quello di Catherine libero da ogni timore e proteggere la bambina. Tutte e tre avevano vissuto quegli anni in totale armonia tanto che Ana Magdalena aveva quasi dimenticato che il Maligno aveva minacciato sua nuora infondendole tanta selvaggia diffidenza. Pietro sollevò sua figlia nel carro; Sybille corse subito tra le braccia di sua nonna, con grande piacere di Ana Magdalena. Sembrava che avesse sempre preferito sua nonna e la cosa, anche se con un certo senso di colpa, la compiaceva molto. A sua volta amava la bambina ardentemente, più del suo stesso figlio, per il quale avrebbe volentieri dato la vita. Catherine le guardava, sorridendo appena, ma senza mostrare traccia di gelosia. Sybille si sedette sulle gambe di sua nonna, composta e senza quei movimenti bruschi tipici dei bambini di quell'età; cinse il collo di Ana Magdalena con le braccia e la baciò sussurrando: «Perché sei triste, Noni?». Ana Magdalena, sorpresa, scostò la testa per guardarla, ma non ci fu tempo di risponderle. La folla all'improvviso ammutolì; Ana Magdalena alzò lo sguardo, il cuore che le batteva all'impazzata, e vide un gruppo di soldati sulla piattaforma. Otto pali alti erano stati ben piantati nel terreno. La Bona Dea, aiutami ad affrontare tutto questo... Premette le labbra sui capelli di Sybille e respirò il dolce odore acre ma puro di un bambino sudato. La folla fu attraversata da una ventata di mormorii mentre, in lontananza, la processione emergeva dalla cattedrale: un gruppo di prigionieri scortati da un contingente di soldati, esageratamente numeroso. Sei donne e due uomini, tutti con i capelli rasati, vestiti con la tipica tunica di iuta del penitente e impastoiati in ceppi di ferro, che gli permettevano di muoversi soltanto a piccoli passi, anche se non erano stati percossi duramente. Sei donne e due uomini, volti anonimi per il fuoco, anche se Ana Magdalena vide ognuno di loro con la lucidità che la Vista le forniva: Una quindicenne dagli occhi arrossati ma dal portamento dignitoso; una vecchia, così curva e fragile a causa dell'età, che a stento riusciva a camminare, legata com'era in quelle catene; due donne, belle e forti, due amiche intime che, con gli sguardi, si facevano coraggio a vicenda; una donna di mezz'età dai capelli brizzolati, il volto e gli occhi tristi, rivolti nel suo intimo; una giovane madre, che aveva partorito forse da due giorni, con la pancia molle e i seni gonfi di latte. E poi c'erano gli uomini, uno vecchio e singhiozzante, la testa piegata, e l'altro, di una ventina d'anni che, con oc-
chi selvaggi, mormorava cose incomprensibili. Un povero pazzo che forse aveva detto qualcosa su Dio e sul diavolo e che pagava la sua follia con la vita. Mostravano tutti ferite sul volto e tumefazioni su zigomi, occhi e labbra. Le braccia delle due compagne e del giovane pazzo penzolavano grottescamente inerti dalle spalle lussate. La donna anziana, con i radi capelli bianchi che le spuntavano dritti sul cranio, mostrava un avambraccio esageratamente gonfio, probabilmente rotto. Ana Magdalena fu colta dal suo istinto di guaritrice: avrebbe voluto portare quell'anziana donna in casa sua, risistemarle il braccio con un rapido movimento, seppur doloroso, per poi alleviare il dolore con unguenti e pozioni. Ma poteva solo restare lì seduta, inerme, in silenzio, mentre quella vecchia inciampava in mezzo alla piazza accasciandosi sui ceppi che la tenevano legata. Una guardia le corse incontro e cercò di sollevarla in piedi, ma la vecchia non riuscì ad alzarsi. La trascinò via mentre gli altri continuavano a strisciare nelle catene fino a quando giunsero davanti all'impalcatura. Quando i prigionieri e le guardie si fermarono, alcune persone sfilarono in processione fino a raggiungere il palco: due corvi e due pavoni, pensò disgustata Ana Magdalena. Sapeva, in realtà, che si trattava di due inquisitori di Parigi e di due vicari della diocesi locale. L'inquisitore più anziano, un uomo dai lineamenti spigolosi con spesse sopracciglia nere e i capelli tagliati corti alla moda romana, salì sul palco per primo e aspettò un poco prima di rivolgersi alla folla mentre gli altri sfilavano davanti alle loro poltrone imbottite. Come il suo aiutante, era alto e vestito di un'austera tunica nera da clerico, in netto contrasto con i pasciuti vicari, belli gonfi come salsicce nelle loro tonache di seta color rosso acceso. Ci fu, poi, un improvviso squillo di trombe, seguito dall'arrivo del grand seigneur di Tolosa e di tutto il suo seguito, incluso il suo unico figlio, un bambino dai riccioli color carota, vestito con una tunica celeste e calze bianche; si aggrappava stretto alla mano di suo padre e fissava solenne la folla. All'improvviso, Sybille si divincolò dalle braccia di sua nonna e si alzò in piedi, per osservare il bambino con uno sguardo ammaliato. Ana Magdalena la scrutava; si trattava di qualcosa di più che una semplice attrazione di una bambina per un coetaneo. Lo aveva forse conosciuto in un'altra vita?
Mentre Ana Magdalena e Sybille continuarono ad osservarli, il seigneur e il suo entourage presero posto; seguirono i corvi e i pavoni, ad eccezione del grande inquisitore che restò in piedi, in attesa, come una vipera avvolta su se stessa. Il suo assistente fece un passo in avanti e, con consumata determinazione, iniziò a leggere una lista di nomi e le accuse corrispondenti a ciascuno. Anne-Marie de Georgel, per maleficium contro i suoi vicini, per aver adorato il diavolo, aver preso parte a raduni diabolici, per essersi intrattenuta sessualmente con lui. Catherine Delort, per maleficium contro i suoi vicini, per aver adorato il diavolo, aver preso parte a raduni diabolici, per essersi intrattenuta sessualmente con lui. Jehan de Guienne, per maleficium contro i suoi vicini... Altre sei volte, seguirono le stesse accuse; persino contro la povera vecchia, che giaceva in un angolo, immobile sui ceppi. L'uomo brizzolato, che piangeva, appena sentì pronunciare il suo nome ad alta voce, cadde in ginocchio e gridò: «Confesso! Confesso tutte le accuse e imploro il tribunale e Dio. Vi prego solo di risparmiarmi!». L'inquisitore sollevò la mano per chiedere silenzio. «Addolora questo tribunale», urlò calmo, «aver fallito in quella che è la sua missione principale, e cioè riportare tutti gli eretici a Dio. Tuttavia, la stessa parola eretico significa "scelta"; e questi infelici hanno scelto di rinnegare Dio. Quindi, li abbiamo consegnati alle nostre autorità locali che hanno deciso di condannarli a morte per i loro orribili crimini. Penseranno questi bravi gendarmi a giustiziarli e il grand seigneur fungerà da testimone governativo. Vi esorto, brava gente di Tolosa, ad astenervi dal mostrare ostilità verso i condannati. Non malediteli, ma abbiate pietà di loro, e pregate affinché la loro eresia ispiri in voi la fede. Poiché l'agonia che stanno per affrontare è solo la pallida ombra dell'eterno tormento che li aspetta da qui ad un'ora». Detto ciò, il corvo si mise seduto. Ad un tratto, Ana Magdalena provò la sensazione di non stare più seduta sul carro carico di paglia accanto alla nipotina di quattro anni, ma lassù, su quel palco, così vicina al seigneur da poterlo toccare, anzi, talmente vicina da stare faccia a faccia, naso a naso con lui, tanto che riusciva a sentire sulle guance il tepore del suo respiro; a vedere ogni ruga sulla fronte e tra le nere sopracciglia; a osservare il suo pomo d'Adamo che andava su e giù quando ingoiava e i piccoli muscoli sulla guancia che si contraevano quando serrava la mascella rasata. Era tanto vicina da sentire l'angoscia nel suo cuore e sapere che era u-
guale alla propria. Sapere, con lui, che erano innocenti, tutti, nessuno escluso, e che le confessioni erano bugie nate dai turpi sogni degli inquisitori. Sapere che alcuni di loro, in modo particolare la ragazza quindicenne e la matrona Delort, o l'uomo brizzolato in lacrime, possedevano la Vista ed erano stati semplicemente avventati nell'usarla o incauti nel rivelarla ad altri. Ana Magdalena portò lo sguardo sul magnifico volto possente del seigneur e poi sui suoi occhi, per spostarli infine su quella nipotina che restava immobile, come incantata, e quindi capì: Ecco perché continua a fissarlo. Il seigneur è uno di noi. La sua attenzione fu improvvisamente distolta dallo spettacolo di tre dei gendarmi che trascinavano il ragazzo al rogo. Durante quel tragitto lottò come meglio poté, nonostante i ceppi legati alle caviglie e alle braccia ormai inutili: con la sorprendente forza dei pazzi, diede uno strattone all'indietro e sferrò una testata prima ad uno e poi all'altro dei gendarmi. Ma non fu sufficiente: il terzo intervenne e assestò un pugno sulla guancia del giovane. Le sue ginocchia cedettero e, nel giubilo della folla, gli altri due lo acchiapparono sotto le spalle e lo trascinarono al palo. Lì, lo costrinsero ad inginocchiarsi e lo legarono. Anche in quei frangenti, mentre impilavano legnetti intorno al suo corpo, si riprese abbastanza per sputare in faccia ai suoi torturatori. Nel frattempo, altri due gendarmi avevano trascinato al secondo palo la vecchia ancora priva di conoscenza, l'avevano sistemata in ginocchio come meglio poterono e l'avevano legata lì; la testa le era caduta in avanti tanto che, il volto nascosto, l'unica cosa ad essere visibile era il bianco alone dei capelli rasati sul cranio rosa. Le altre donne, due alla volta, vennero legate ai pali e quando il lavoro dei gendarmi fu completato, le campane di mezzogiorno iniziarono a suonare. Tutti i prigionieri erano stati sistemati e uno dei gendarmi strofinò una sull'altra due schegge di pietra focaia; una scintilla sfiorò uno straccio imbevuto d'olio legato a un attizzatoio. Lo straccio prese subito fuoco e il gendarme lo avvicinò alla pila di ciocchi e legnetti che circondavano fino alle anche il giovane pazzo inginocchiato. Ana Magdalena voltò gli occhi e si coprì il viso con le mani. Ma anche se aveva la possibilità di distogliere lo sguardo, non poteva impedire di smorzare la voce del pazzo, che urlava con furia maligna: «All'inferno, tutti voi! All'inferno!». Quando la brezza iniziò a trasportare la puzza di fumo e di carne brucia-
ta, la decisione che Ana Magdalena aveva tenuto nascosta nel suo cuore per quasi cinque anni si riaffacciò con forza, e tremò ricordando il dolore provato nell'uliveto la notte della nascita della bambina. Sebbene le fiamme fossero state una visione, le avevano causato un'agonia reale e l'angoscia più grande era derivata dalla paura nella sua anima. Sin dall'adolescenza in Toscana, il suo più profondo e segreto terrore era stato che, un giorno, le abilità di cui l'aveva dotata la Dea venissero scoperte dalla Chiesa e che la sua vita finisse sul rogo. E ora quella paura, fomentata dai ricordi, l'assaliva di nuovo. Le dita le si allargarono lentamente mentre sentiva che il suo sguardo veniva attirato verso l'impalcatura e gli uomini che vi erano seduti: ma non si posò sul seigneur o suo figlio, né sui pavoni o il grande inquisitore... ma sul suo alto assistente dalla faccia larga. Con chiarezza sovrannaturale lo vide e osservò, tremando, la testa che ruotava lenta nella sua direzione fino a fissare il suo sguardo, le labbra leggermente curvate all'insù, come in trionfo. La luce del sole scintillò, gialla e aggressiva, negli occhi di quell'uomo; in quell'attimo Ana Magdalena provò, senza riuscirci, a inspirare. Era lui il Maligno: con un'improvvisa rivelazione comprese che l'uomo che lo incarnava era nato lo stesso giorno in cui era nata lei. Forse era stato destinato ad essere la sua anima gemella, il Signore e la sua Signora, una guida per la sua Razza, ma l'odio verso se stesso lo aveva trasformato nell'entità opposta a quella voluta dalla Dea. Ora usava i suoi innati poteri magici per perseguitare la sua gente, per nutrire la sua malvagità che si rafforzava ogni giorno di più, tanto che il pericolo continuava a crescere... Domenico, sussurrò, riconoscendo nell'uomo il giovane che aveva scagliato il sasso contro la vetrata della cattedrale in segno di disapprovazione al suo matrimonio. Lo aveva rifiutato, poiché egli aveva scelto di disconoscere la Dea e il proprio destino. E ora l'aveva seguita fino in Francia per provare a distruggere sua nipote. Chiuse gli occhi e ora, al posto del pazzo, era la bellissima, giovane deaSybille dell'antica visione che si contorceva sul rogo, i capelli neri completamente bruciati tanto che restava visibile solo uno scalpo carbonizzato e sanguinolento; le labbra rosa deformate in un urlo perpetuo. «Sybille!», urlò in silenzio Ana Magdalena e, nella sua mente, il Nemico le rispose: Vuoi sapere perché il fuoco ti spaventa tanto? Perché hai sempre saputo che è nel tuo destino; perché hai sempre saputo che è nel suo. Non puoi
sfuggirmi ancora... Con un furore convulso nelle orecchie, come se fosse stata sospinta da un vento impetuoso, Ana Magdalena si sentì sollevare dal carro: e quando riaprì gli occhi si ritrovò nel mezzo di una grande deflagrazione insieme a Sybille, adulta, e a tutti quegli sciagurati legati ai pali che urlavano la loro agonia contro quel solido muro di fiamme che li circondava. Mentre gridavano, dalle loro bocche fuoriusciva un vapore simile al fuoco che turbinava in un lungo vortice sinuoso diretto verso il palco... Lo stesso su cui il Nemico, al sicuro, sorrideva. E, sorridendo, inspirava i vapori emessi da quei martiri come se inspirasse fumo da una pipa; assaporandolo, per giunta, compiaciuto. E allora non urlerò, Ana Magdalena disse a se stessa. Non lo nutrirò... E con un agonizzante sforzo di volontà, l'anziana donna chiuse la bocca e gli occhi. In un attimo ritornò alla realtà, per scoprire con trepidazione che sua nipote non le sedeva più sulle ginocchia. La bambina si era alzata e aveva fatto un passo avanti, distratta, incantata, fino al bordo esterno del carro. «Sybille, cara», la chiamò rapida Ana Magdalena, cercando di trattenere una nuova ondata di panico, «torna qui e siediti vicino a me prima che tu cada». Stranamente, la bambina non si mosse per obbedire agli ordini di sua nonna; al contrario, restò immobile dando le spalle agli altri, apparentemente incantata dallo spettacolo del rogo. «Marie Sybille!», urlò secca Catherine, con un tono a metà tra la sorpresa e l'indignazione; mai nella sua breve vita di bambina, aveva ignorato i suoi familiari o era stata così lenta nell'obbedire. «Non hai sentito tua nonna? Vieni qui!». Ma la bambina non accennava a muoversi e se ne stava dritta e rigida nel suo vestitino tessuto a mano con la treccia di capelli neri che le scendeva in una perfetta linea retta lungo la schiena. «Le fiamme», disse, con una voce addolorata e adulta, a qualcuno lontano e invisibile. «Madre di Dio, le fiamme...». Immediatamente, Catherine si alzò e, barcollando sulla paglia sparpagliata in maniera diseguale, raggiunse la bambina. Ana Magdalena, nel momento in cui la giovane donna le passò davanti, vide lo strano scintillio verdastro negli occhi di sua nuora, la presenza del Nemico. L'anziana donna vacillò in avanti e afferrò Catherine per il gomito; la giovane si voltò e la guardò con un'espressione truce, ma era troppo tardi:
allungò l'altro braccio verso sua figlia, con un movimento che poteva sembrare sia un tentativo di afferrarla che di spingerla... Sybille perse subito l'equilibrio sulla paglia irregolare; urlò mentre cadeva all'indietro, oltre la sponda del carro. Seguirono altre urla: quelle di Catherine, quella spaventata del mulo, quelle di Pietro unite a quelle di Ana Magdalena... Questi sono i ricordi di mia nonna, così come lei stessa e la Dea me li hanno raccontati. Il mio ricordo di quell'evento è piuttosto diverso: mi ricordo che osservavo le fiamme quando il cielo intero iniziò a luccicare con lo stesso strano movimento torbido dell'aria calda sopra un fuoco. Poi, iniziò a sciogliersi, a dissolversi, rivelando gradatamente una scena diversa, una realtà diversa. Fui talmente affascinata dall'improvviso cambio di scenario che dimenticai che la mia vita era separata dalla visione; ne ero completamente assorbita. La Tolosa che conoscevo lasciò il posto a una città molto più grande, con una piazza molto più spettacolare, circondata da una gloriosa ed enorme cattedrale e un palazzo di marmo bianco grande come quello di un re e altri lussuosi edifici che parlavano di ricchezze, di Roma e di tutta la sua gloria. Per un istante mi stupii di questa grandiosità; poi, però, fui scagliata all'Inferno e gli scintillanti palazzi furono oscurati da un muro di fiamme. Sagome scure, corpi intrappolati si contorcevano all'interno di quelle fiamme e urlavano diretti a me: Sorella, aiutaci! Sei l'unica che può salvarci... Allungavano le braccia scure verso di me implorandomi e, pensando di liberarli, allungai le mie mani verso di loro, ma gridai di dolore quando il fuoco lambì la mia pelle: io non ero immune. Con mia grande vergogna, arretrai, disposta a tutto per placare quelle sofferenze ma allo stesso tempo ansiosa di proteggermi. In quell'istante compresi di essere in trappola, poiché le fiamme e le vittime urlanti che in esse erano imprigionate mi circondavano. A quel punto, al di là delle fiamme vidi due figure in piedi: una nera e una bianca. Fui colta da un disperato bisogno di raggiungere quella bianca; feci un passo in avanti tra le fiamme ma all'improvviso il dolore mi fece urlare terrorizzata e mi tirai indietro. Mentre le osservavo, tremante di paura, la figura nera si avvicinava sempre di più a quella bianca... Con terribile certezza, realizzai che se l'o-
scurità avesse consumato la luce, il Maligno avrebbe trionfato. Lanciai di nuovo il braccio verso il fuoco e urlai ancora, per il dolore e per la frustrazione che il mio stesso terrore non mi permettesse di avanzare ulteriormente. Tuttavia, sapevo che se non mi fossi esposta alle fiamme e non le avessi attraversate, tutto sarebbe stato distrutto. Ma guardando ancora, vidi la figura nera che, serpeggiante, accerchiava la figura bianca e iniziava a divorarla. Prima che potesse estinguerla, la luce si rivolse direttamente a Dio, anzi, ad un Potere molto più antico, più saggio e più potente di Dio stesso, e fu ascoltata. Mi tuffai nel fuoco e anch'io gridai a quel Potere. Fui sospinta all'istante in un'indescrivibile estasi eterna. Mi unii ad un Potere così meraviglioso nella Sua portata, talmente al di là dei limiti umani e della capacità della mia mente di concepire l'Onnipotente che mi sentii umiliata in Sua presenza. Tuttavia, non aveva nulla a che fare con il Dio austero descritto dal prete del villaggio, il Dio-Padre dell'inferno e della dannazione, dei comandamenti e del purgatorio. A questo Potere non importava nulla delle convenzioni o delle regole, né della meschina politica dei prelati o dei modi in cui veniva adorato, o che non fosse adorato affatto. Esisteva, semplicemente. Era la vita stessa, gioiosa, caotica e divorante. Era estasi pura. Quando, alla fine, la mia mente si riprese dal vuoto interminabile, mi ritrovai inginocchiata nell'uliveto, di fronte alla statua della Beata Vergine... viva, sì, perché era una donna in carne ed ossa, l'incarnazione vivente dell'inesprimibile gioia che avevo provato. All'inizio, il suo volto sorridente si confuse con quello della mia amatissima nonna; poi la Vergine si trasformò in me adulta e, sorridendo, si avvicinava a me bambina in ginocchio, accogliendomi tra le sue braccia. E sarebbe diventata mia figlia, dopo la mia morte, e la figlia di mia figlia, sbocciando nuovamente di generazione in generazione... Svenni di nuovo, e stavolta, quando l'oscurità diradò, vidi soltanto il tetto di paglia della nostra piccola casa e la finestra aperta... al di là della quale brillava nel cielo azzurro il sole di mezzogiorno. La luce mi ferì gli occhi e sollevai una mano per proteggerli. «Sei sveglia, Sibilla mia? Prova a metterti seduta, bambina», mia nonna disse. Stava in piedi davanti a me e teneva una tazza tra le mani. Allora, i suoi capelli erano ancora del colore di un lucido corvo ben nutrito. Come
me era piccola, ma forte e snella, e indossava, come sempre, la sua tunica e il soggolo da vedova. La consideravo la donna più saggia della terra, poiché sapeva risistemare le ossa e incidere gli ascessi, capire dalle urine di una settimana se una donna era incinta, preparare balsami per bruciature e tisane per la febbre o la tosse. Talvolta faceva incantesimi per tutta la famiglia, ma mi raccomandava di non parlarne a nessuno, poiché bastava menzionarli per diminuire il loro potere. Mi passai la mano sul viso e colsi l'odore del fumo. «Quelle persone», dissi, iniziando a piangere, «quelle persone sono morte. Sono state bruciate». «Calmati, piccola mia», disse, scostando un filo di paglia ancora posato sui miei capelli. «Ora non soffrono più. Siediti, Sibilla». Realizzai, allora, che mi trovavo a casa mia e che mio padre era già andato a lavorare nei campi, mia madre a prendere l'acqua e a lavare i panni al fiume. Mi ricordai, anche, degli eventi del giorno prima nella piazza della città e capii che mia nonna pensava che mi stessi riferendo a quelle povere vittime. Prima che potessi ricominciare a parlare, Noni mi portò la tazza alle labbra. Sapevo che si trattava di una delle sue amare tisane, ma aprii la bocca senza protestare (era una battaglia che avevo perso già troppe volte), e la mandai giù, facendo una smorfia al sapore acre della corteccia di salice, l'ingrediente preferito da mia nonna per curare ogni malanno. Nonostante ciò, ingoiai fino all'ultima goccia. Noni riportò la tazza vuota nella credenza, si sedette accanto a me sulla paglia e portò la sua mano sulla mia fronte. Chiusi gli occhi, provando a quel tocco una vera beatitudine. Uno dei più forti ricordi della mia infanzia è legato alle mani di mia nonna. Non erano morbide, come quelle di mia madre, ma grinzose, ossute e callose. Però erano sempre calde, e se stavo ferma e tranquilla, riuscivo a percepire il tiepido formicolio che soltanto le mani di Noni possedevano. Più di una volta, soprattutto di notte, ero rimasta ad osservarle; mentre le posava su mia madre, influenzata, o su di me, in preda a una delle mie febbri, e le vedevo irradiate di una dorata luce interiore, come se l'aria stessa intorno ad esse tremasse con una sottile, scintillante brillantezza, con una lucente polvere dorata. Non mi sorprendevo a questo spettacolo; pensavo che tutti avessero questa capacità e che tutte le nonne fossero dotate di un potere curativo, un tocco magico. Ma quella mattina, sentii Noni ritrarre la mano e sospirare; aprii gli oc-
chi e la vidi, ancora seduta, ma con una triste espressione sul volto. «Ieri sei svenuta», disse, «durante il rogo in piazza e sei caduta dal carro. Hai battuto la testa; hai alternato il sonno al delirio, hai parlato di molte cose. Ricordi qualcosa di ciò che hai sognato?» «Non le ho sognate, Noni. Le ho viste. Erano vere». Annuì e, guardandosi intorno per essere certa che fossimo sole, rispose con un filo di voce: «Si tratta di una maniera molto particolare di vedere. Alcuni la definiscono Vista. È un dono della bona Dea che poche persone possiedono. Mia madre era tra queste e sua madre, prima di lei. Anche tu ne sei dotata. Hai visto altre cose?» «Sì», mormorai. Il fatto che avesse menzionato la Santa Madre mi fece ricordare il gioioso Potere sorridente che, nella mia visione, aveva incarnato la statua della Madonna. «A volte vedo una luce dorata quando imponi le mani su qualche malato». Sorrise. «Il Tatto è il mio dono». «Stanotte ho Visto persone che bruciavano, non in piazza, ma... nel mio sogno». Il suo sorriso si spense. «Perché venivano bruciate, piccola?» «Non lo so. Venivano uccise da persone malvagie...». Senza sapere che avrei pronunciato quelle parole, dissi: «Sono molto cattive, Noni; provocheranno altro fuoco, fino a quando non saremo più sicuri da nessuna parte». Seguì un momento di silenzio; distolse lo sguardo da me e sospirò con grande tristezza. Alla fine disse: «Sibilla, la gente teme ciò che non capisce. Pochi sono benedetti con il dono della Vista o del Tatto e quindi gli altri hanno paura di noi perché siamo diversi». «Come gli ebrei», realizzai ad alta voce. Ne avevo visti alcuni, i mercanti e i prestasoldi, nei loro bizzarri berretti con le punte in su e gli stemmi di feltro giallo sul petto. Avevo sentito dagli altri bambini che gli ebrei rubavano i neonati dei cristiani, li inchiodavano ad una croce e bevevano il loro sangue; e che se non avessero bevuto quel sangue avrebbero riassunto il loro aspetto naturale: diavoli con zoccoli e corna. Ma queste storie non mi convincevano molto; anche gli ebrei avevano i bambini, proprio come noi, e sembravano amarli allo stesso modo e inoltre non ne avevo mai visto uno con zoccoli e corna. Inoltre, quando confidai questa storia a mia madre, mi zittì; mentre Noni rise ad alta voce per la sua ridicolaggine. «Sì», Noni rispose. «Come gli ebrei o i lebbrosi. Tu sei troppo giovane per ricordartene, ma quando nella provincia della Linguadoca scoppiarono
le epidemie, molti anni fa, i lebbrosi furono giudicati colpevoli di aver avvelenato i pozzi. E quindi in molti furono uccisi, ma la gente, non essendo soddisfatta, disse che i lebbrosi avevano cospirato con gli ebrei che, quindi, furono attaccati e massacrati a loro volta». Mi sedetti e strinsi le braccia attorno alle ginocchia. «Forse le persone che ho visto erano ebrei. Oppure possedevano la Vista». «È possibile», Noni annuì triste. «Non ti voglio spaventare, bambina mia, ma è pericoloso parlare delle doti della bona Dea con coloro che non le comprendono. Tua madre, poverina, non le capisce e perciò le teme; parlare di queste cose, persino con lei, ma soprattutto con un estraneo e in particolar modo con un prete, ci metterebbe in grave pericolo». Lacrime mi affiorarono in gola. «Allora io non la voglio questa Vista, Noni. Non voglio arrecarti pericolo». L'afferrai e nascosi il mio volto nel suo petto. Mi abbracciò e mi accarezzò i capelli. «Ah, Sibilla mia, mi dispiace doverti dire cose tanto dure. Ma non hai scelta: la bona Dea ha preferito te, ti ha onorata di un dono speciale che potrà aiutare molte persone. Devi usarlo. Se avrai fiducia nella dea, non ti accadrà alcun male; ma se rinneghi questo dono, non troverai mai la felicità». Le dissi, allora, usando come meglio potevo il mio vocabolario infantile, di aver visto la Dea durante quella visione e Noni ascoltò la mia storia con un'espressione di orgoglio crescente. Non le dissi il pericolo che avevo corso proprio come lei, tempo prima, non mi rivelò ciò che la Dea le aveva mostrato. Poi si avvicinò a me e sussurrò: «Ti dirò un segreto. Prima che tu nascessi, la bona Dea mi apparve in sogno per rivelarmi di averti scelta per uno scopo molto speciale in questo mondo. Apparteniamo a una razza, tu e io, la Razza di coloro che servono la bona Dea. Alcuni possiedono doni magici; altri la onorano proteggendo chi è dotato dei doni. Tu... tu possiedi uno dei doni più speciali e il destino più speciale di tutti». Poi si fece seria. «Non devi raccontare a nessuno della tua visione, se non vuoi farti chiamare pazza o, peggio ancora, eretica, e farti uccidere come quella povera gente di ieri. Ricordati, però: la Dea ti ha mostrato queste cose per una ragione precisa. Non dovrai mai dimenticarlo, ma tenerlo nel cuore e aspettare che Lei ti guidi...». ESTATE 1348
IX E così, ricordai e aspettai per tutta l'infanzia. Ma la Vista non si manifestò in me se non dopo molti anni e, in particolare, nell'anno peggiore che l'umanità visse dalla sua creazione. Della Morte Nera si disse che annunciava la fine del mondo, ma io sapevo cosa significasse veramente. Il mondo può affrontare la malattia del corpo, ma resta da vedere se riesce a sopravvivere alla malattia che divora le anime dei nostri persecutori. Quando arrivò, la peste non aveva nome. E in fondo, quale appellativo poteva mai esprimere gli orrori che portava con sé? La chiamavamo semplicemente "pestilenza": peste. Ci fu annunciata da sud e da est; prima da Marsiglia, dove arrivò a gennaio con una nave che aveva attraversato il Mediterraneo. Seguì la costa lungo il golfo di Lione dove, a febbraio, sbarcò nel porto di Narbonne. A marzo, quando fummo informati che si allontanava da noi spostandosi ad ovest verso Montpellier, gli abitanti di Tolosa tirarono un respiro di sollievo, pensando che fossero stati risparmiati. Quello stesso mese, la Morte Nera risalì il Reno fino a Avignone, la sede papale, e si mormorò che finalmente Dio avesse voluto punire papa Clemente per i suoi sontuosi eccessi. Ad aprile, fu colpita la vicina città di Carcassonne. Non penso che credessimo veramente alle storie terrificanti che ci venivano raccontate: di una malattia che faceva diventare la lingua nera e provocava gonfiori sotto la pelle grossi come una mela; di navi che veleggiavano silenziose con a bordo marinai morti; di conventi a Marsiglia e Carcassonne in cui non era rimasta anima viva; di interi villaggi distrutti dove non era sopravvissuto nessuno. Ci piaceva raccontare queste storie macabre, ma non le prendevamo mai sul serio: era un divertimento raccapricciante simile alle storie di fantasmi. Tali disastri, pensavamo, capitavano agli estranei. A noi no. Mai. Arroganti, non prendemmo precauzioni per proteggere la nostra salute, né tentammo di sfuggire al flagello imminente. Dio ci sorrideva: i campi erano stati seminati e tutti ci unimmo alla danza intorno al maio. Il mondo fioriva con la rigogliosa promessa dell'estate, e ci compiacevamo nella sicurezza che a noi non sarebbe mancato nulla, mentre la gente a Narbonne e Carcassonne moriva di fame, poiché non c'erano più uomini che potessero
seminare i campi. Ero quasi una donna, ormai, in quella mia tredicesima estate; negli anni passati, Noni mi aveva istruita nell'arte della magia e degli incantesimi. Le lezioni venivano condotte in gran segreto, quando eravamo sole, cosa rara, poiché mia madre sembrava sospettare ciò che cospiravamo. Per quel motivo mi portava spesso con sé a messa, nella chiesa del villaggio e proprio in quella estate fui promessa sposa al fattore Germain, un probo cristiano di trent'anni, rimasto vedovo con sei figlie, una delle quali più grande di me. L'accordo mi rendeva infelice; non a causa di Germain che, anzi, mi trattava con tutti i riguardi, ma perché non volevo lasciare Noni e i miei studi di magia. Inoltre, non desideravo certo abbandonare la mia vita spensierata per prendermi cura di sei figliastre. Tuttavia, visto che ero già, a mio modo, una levatrice esperta e rispettata, i miei guadagni e la mia posizione facevano di me un buon partito. Perciò quell'estate i miei pensieri furono focalizzati sullo spettro del matrimonio, e non su quello della peste fino a quando Noni si ammalò. Eravamo terrorizzati: la peste, infine, era arrivata anche a Tolosa? Per due giorni io e mia madre la curammo con tisane di corteccia di salice e impacchi rinfrescanti. Ero fuori di me dal dolore, certa che sarebbe morta; anche perché la mattina in cui Noni iniziò a mostrare i primi sintomi trovai un segnale di malaugurio: uno dei gatti del villaggio, morto stecchito accanto al nostro caminetto, con l'ultimo topo che aveva ucciso ancora intrappolato tra le zampe. Il nostro terrore si placò quando il delirio di Noni passò. Il terzo giorno fu in grado di sedersi e mangiare qualcosa e, ad un certo punto, mi afferrò le mani e mi disse con parole confortanti: «La bona Dea mi ha detto che ancora non è arrivata la mia ora». Fummo tutti sollevati. Non si trattava del flagello di Marsiglia e di Narbonne; e, se anche lo fosse stato, le storie che ci avevano raccontato erano grossolane esagerazioni. Fu il quarto giorno della malattia di Noni, quando si sentì abbastanza bene da alzarsi, che qualcuno bussò alla porta. Si trattava di una domestica, poco più grande di me, florida e in salute nel suo grembiule macchiato, con una gonna nera e le maniche sporche di farina; forse lavorava nel maniero del seigneur oppure aveva fatto tutta la strada dalla città. Aveva l'aspetto di chi aveva corso per tutto il tragitto; diversi ciuffi di capelli castano chiaro le fuoriuscivano dal fazzoletto bianco annodato intorno alla testa. «La levatrice», disse ansimando a mia madre che, a quel forte bussare, si era precipitata alla porta la cui metà superiore era stata lasciata aperta per
far entrare l'aria fresca del mattino. «Siete voi la levatrice? Dovete venire immediatamente! La mia padrona è in pericolo e non riesco a trovare il dottore!». Mia madre voltò lo sguardo verso Noni, seduta sul letto, e poi verso di me, seduta sullo sgabello accanto a lei; la giovane donna allungò il collo e ci guardò incerta. Vidi un lampo di terrore nei suoi occhi. «Si tratta solo di influenza», disse mia madre decisa, «e sta già molto meglio. È la levatrice; così come lo è mia figlia, che vi seguirà». La ragazza mi guardò con disapprovazione; e alla riluttanza visibile nella sua espressione, Noni rispose debolmente: «Mia nipote è brava quanto me: l'ho istruita per sei anni». «E io le farò da assistente», aggiunse mia madre. Talvolta le era capitato di aiutare me o Noni, dicendo poi che la sua presenza serviva a mitigare le paure della partoriente. A quelle parole, Noni si avvicinò e mi sussurrò in un orecchio: «Stai attenta a non fare nulla che possa farla insospettire». Poiché sapeva che spesso usavo la Vista nell'assistenza ai parti. Annuii, consapevole dell'improvviso sguardo che mia madre ci lanciò, come se sapesse esattamente ciò che Noni aveva detto. «Andiamo, presto!», urlò la domestica, torcendosi le morbide mani paffute. Raccolsi il fagotto di erbe e strumenti di Noni e mi precipitai in strada insieme a mia madre. Ad aspettarci, legato ad uno snello cavallo ben curato, c'era un carro robusto che ospitava cinque bambini singhiozzanti. Non chiedemmo di chi fossero perché era chiaro che non potevano essere figli della cameriera: le femmine portavano abiti di broccato contornati di pelliccia e i maschi tuniche di seta ricamata. «Bambini», chiesi dolcemente mentre io e mia madre allungavamo il braccio per confortarli, «perché piangete? Per vostra madre? Non preoccupatevi; ci prenderemo cura di lei e presto avrete un nuovo fratellino o una nuova sorellina». Ma essi si ritrassero immediatamente, stringendosi l'uno contro l'altro, rifiutandosi di parlare. In silenzio, oltrepassammo la piazza del villaggio e i campi, il maniero e le grandi mura della città. Di norma, impiegavamo un giorno intero per raggiungere la città, quelle rare volte che andavamo a piedi al mercato. Appena superammo i cancelli, il mondo si rianimò di gente di ogni tipo. In campagna, vedevamo soltanto gente simile a noi; qui, invece, c'erano poveri braccianti coperti di stracci e
nobili a cavallo vestiti di sete abbaglianti e cappelli piumati oltre a mercanti, più o meno ricchi. Avanzammo verso il centro della città, superando le botteghe artigiane: il fabbro, il mugnaio, il fornaio, il calzolaio, la taverna e la locanda. Alla fine svoltammo in Rue de l'Orfévrerie, la via degli orafi. Anche qui c'era una serie di edifici tutti uguali: case di quattro piani fatte con pali e travi, molto simili a quelle delle altre strade, appoggiate le une alle altre a causa della vetustà; alcune dipinte di azzurro, altre di un rosso vivo, altre ancora imbiancate. Al piano terra c'erano le botteghe, con le vetrine che sporgevano fin sulla strada affollata mentre i proprietari si assicuravano guardinghi che non ci fossero ladri. Sopra gli usci erano appese insegne dalle forme e dai colori sgargianti: una candela per l'argentiere, tre pasticche dorate per il farmacista, un braccio bianco a righe rosse per il barbiere, un unicorno impennato per l'orafo. Ci fermammo davanti al negozio dell'orafo. La domestica scese dal carro, legò il cavallo ad un palo e, lasciando i bambini a piagnucolare, ci aiutò a scendere e ad entrare in casa. Il negozio era chiuso e le persiane erano serrate; la cosa mi colpì ma ero troppo presa dall'urgenza della situazione per riflettere sulle probabili cause. La domestica ci condusse attraverso un portone e, salendo una scala angusta, arrivammo nella sala da pranzo, dove un caminetto annerito e delle finestre di pergamena unte e ingiallite creavano un'atmosfera tetra; nonostante ciò, la stanza mi sembrò pulitissima poiché il caminetto aveva una canna fumaria e lasciava le mura libere dalla fuliggine. Cosa positiva anche perché sulle pareti c'erano dei meravigliosi arazzi, uno dei quali raffigurava l'emblema dell'orafo, l'unicorno, con la criniera oscillante striata di fili dorati. La casa non era condivisa con altre famiglie e, dunque, era così silenziosa che sembrava non fosse abitata affatto. All'estremità opposta della sala da pranzo, in cui troneggiava un grande tavolo a cavalletti su cui poggiava una coppia di candelabri in argento inciso, un'altra scala portava al terzo piano. La ragazza si fermò in quel punto e indicò il piano superiore. «La signora è sopra, nella sua camera». Rivolgendomi a lei dissi: «Abbiamo bisogno di biancheria e acqua. Dove possiamo trovarle?» «Ve le porterò io», disse con improvvisa sollecitudine, scomparendo attraverso una porta che conduceva in una grande cucina. Sento ancora il rumore dei nostri zoccoli da contadine che sbattono sui
ripidi gradini di legno. Ricordo la meraviglia nella voce di mia madre mentre chiedeva: «Ma dov'è il resto della servitù?». Provai un certo disagio quando realizzai che era quasi mezzogiorno, ora in cui la servitù è indaffarata a preparare il pranzo; il fuoco, però, era spento e dalla cucina non provenivano né rumori né odori. Se quei cinque bambini in lacrime erano figli dell'orafo e di sua moglie, di certo, a quest'ora, si sarebbero dovuti trovare a tavola a mangiare. Perché, allora, restavano fuori? Nonostante questi dubbi, continuai ad avanzare, accanto a mia madre, spinta dal senso del dovere. In cima alle scale, la porta della stanza da letto padronale era aperta, mentre le persiane delle finestre erano chiuse, e la stanza era avvolta nell'oscurità; i miei occhi stentarono un momento ad adattarsi alla luce soffusa. Sul muro esterno c'erano due enormi armadi e un cassettone, sopra il quale era appeso un grande specchio dove adocchiai riflessa la mia solenne immagine olivastra, e la figura di mia madre, il suo bellissimo volto impaurito, pallido come il soggolo e il velo poggiato sulle sue trecce ramate arrotolate sulle orecchie. Il cassettone era aperto ed era evidente che fosse stato saccheggiato; era vuoto, ad eccezione di un filo di perle rotto che pendeva da un lato. Altre perle erano sparpagliate sul pavimento. In un angolo della stanza c'era una sedia da parto di legno, di solito un segnale di benvenuto, ma fui sbalordita nel vederla vuota. Un letto a baldacchino intarsiato con fregi elaborati poggiava contro un muro. Da esso provenivano suoni di sofferenza, non le candide urla nette di una donna in travaglio, ma i deboli gemiti, a malapena percepibili, di una persona che muore. È troppo tardi, pensai. Ha già partorito e sta per morire dissanguata. Guardai in direzione della donna, ma fui improvvisamente costretta a distogliere lo sguardo. C'era qualcosa di strano nell'aria, un netto odore putrido che non avevo mai sentito prima di quel terribile momento; e che non ho più sentito in vita mia. Qualsiasi cosa fosse, lo sentì anche mia madre perché nell'attimo stesso in cui mi fermai, mi afferrò la mano per impedirmi di andare oltre. Ricordo quell'istante con terribile chiarezza: per un lungo momento restammo sulla soglia alla mercé della morte, condannate a morire sia se avessimo fatto un passo avanti sia indietro. Quindi, ingoiando la paura, lasciai mia madre sulla porta e attraversai la stanza a grandi passi per spalancare le persiane. Un raggio di luce penetrò
l'oscurità illuminando la donna che giaceva sul letto. Già all'età di tredici anni avevo visto diverse forme di sofferenza: le urla del travaglio e la vista del sangue non mi turbavano affatto. Avevo sentito donne maledire i propri mariti con parole che avrebbero fatto arrossire il diavolo, e avevo visto madri e bambini passare dalla vita alla morte. Affrontavo tutto ciò con grande fermezza; la vista di quella donna sul letto, però, mi colpì al cuore. Giaceva immobile, troppo immobile, in realtà, tranne quando, spinta dagli spasmi del travaglio, sollevava la pancia alta e gonfia; una volta passati, ricadeva sul letto, floscia come un burattino. Un mucchio di lenzuola arrotolate era stato spinto ai piedi del letto e rivelava, al centro, una macchia umida. Le acque della donna si erano rotte nel letto, evento che la maggior parte delle donne incinte cercava di evitare a tutti i costi. Cosa ancora più strana, nessuna delle cameriere si era premurata di impedire che il liquido penetrasse nel materasso rivestito di lino. Ma il quadro diventò ancora più sinistro quando la scena si completò: la donna era ancora nuda, segno che le cameriere non l'avevano vestita quella mattina, e le gambe allargate erano ricoperte, dalla coscia al piede, di escoriazioni nerastre; persino le unghie dei piedi erano nere. Al principio provai un moto di rabbia: non c'era dubbio che suo marito l'avesse picchiata selvaggiamente, nonostante fosse prossima al parto. Quindi mi avvicinai al letto e quando vidi il suo volto caddi quasi in ginocchio dal terrore. Aveva gli occhi spalancati, ma ciechi, coperti da quel velo tetro che affiora in punto di morte. Forse era stata una donna bellissima, ma ora il suo aspetto era terrificante, chiazzato da quelle stesse screziature nero-violacee. Aveva la bocca spalancata, incapace ormai di trattenere la lingua nera e gonfia che fuoriusciva dai denti impastati di sangue. Alla fine mia madre mi raggiunse sul bordo del letto e si portò una mano sul naso e sulla bocca a causa del terribile odore. Per un attimo pensai che stesse per svenire e allungai il braccio per trattenerla, ma si ricompose e allungò la mano verso la donna chiamandola: «Signora...». «Mamma», la interruppi gentilmente. «Mamma, è troppo vicina alla morte per sentirti». Ci fu un altro gemito quando le forti contrazioni compressero l'aria nei polmoni della donna facendole arcuare la schiena. La testolina ricoperta di sangue del bambino si vedeva a malapena; sopra, sulla pelle dell'addome chiazzata di nero e di rosso, larghe bolle in suppurazione versavano un pus
giallo-verdastro. Ero abituata a mettere una mano sullo stomaco della partoriente e utilizzare la Vista per determinare la posizione e la vitalità del bambino; stavolta, però, fui talmente sopraffatta dalla paura che non riuscii a sentire nulla. Inoltre, al mio sgomento si aggiunse l'urlo di sorpresa di mia madre e, seguendo il suo sguardo fisso sul pavimento, vidi un corpo, di un uomo a giudicare dalle dimensioni, avvolto in un lenzuolo. Si trovava lì solo da qualche ora a giudicare dalla sua rigidità. «Marie Sybille», disse mia madre con quel tono perentorio che spesso le avevo sentito usare, «la peste è arrivata a Tolosa. Ordina alla cuoca di portarti a casa immediatamente e non fermarti a parlare con nessuno». «Non posso lasciarli qui». Indicai con il mento la madre e il bambino. «Resterò io», ribatté secca mia madre e con un coraggio provocatorio, mi raggiunse accanto al letto. Quando la rabbia verso mia madre minaccia di intossicarmi, mi sforzo di ricordare quell'attimo: nonostante le sue paure, mi amava talmente da essere disposta a morire pur di salvarmi. «Se vuoi restare, allora cerca la cuoca», dissi, «e chiedi cosa ne è stato dell'acqua e degli stracci». Di norma, mia madre mi avrebbe preso a schiaffi se avessi osato darle ordini ignorando i suoi; ora, però, ero io la levatrice esperta e non lei. Strinse le labbra in una riga sottile e poi uscì immediatamente dalla stanza. Suoi furono i passi che sentii in seguito, anche al piano inferiore; sapevo che non avremmo più visto la cameriera, i bambini e nemmeno il carro. Quando mia madre ritornò con l'acqua e i panni, la donna sul letto si contorceva furiosamente. All'inizio pensai, sollevata, che il bambino stesse per nascere ma, dopo un po', i suoi movimenti diventarono innaturali e allarmanti. S'irrigidì, poi si buttò bruscamente in avanti come se tentasse di gettarsi giù dal letto, simile ad un pesce catturato in una rete che cerca di scagliarsi di nuovo in acqua. Mia madre la tratteneva per le braccia, per impedire che cadesse o che si facesse male; la donna, però, grugnì, serrò i denti e si morse la lingua nera e gonfia talmente forte che ebbi paura che l'avesse recisa in due parti. Un sottile rivolo scuro schizzò fuori colandole sul mento. Poi i suoi movimenti cessarono all'improvviso e il suo corpo cadde inerte sul materasso; gli occhi annebbiati e spenti erano rivolti al di là del soffitto verso una qualche terrificante visione. Nel frattempo avevo preso il coltellino dal manico bianco dal mio fagot-
to. Di norma lo usavo per recidere il cordone ombelicale del bambino, stavolta, però, sapevo che nessuna spinta sarebbe bastata a liberarlo dal grembo; la parte più larga della testa non era ancora passata. La faccia di mia madre diventò tutta grigia e il sudore le imperlò il labbro anche se, quando iniziai ad incidere, restò calma. Dall'incisione sullo stomaco gonfio della donna iniziò a fuoriuscire il sangue. Conoscevo l'odore del sangue e della nascita e riconoscevo il tremendo puzzo fecale delle interiora umane. Ma mai avevo odorato qualcosa di tanto raccapricciante come quando aprii il cadavere della moglie dell'orafo. Incisi con attenzione, lentamente, usando le dita di una mano per sollevare la pelle annerita dalla peste e lo strato di grasso giallo impregnato di sangue del bambino. Vedemmo prima il sederino, che luccicava per il sangue scuro e il rivestimento giallastro, e poi la minuscola schiena. Storcendo la bocca a quella viscida sensazione scivolosa di sangue e utero, manovrai le mani sotto quel piccolo stomaco mentre mia madre teneva allargati i lembi della pelle. Dovevo spostarlo dal canale dell'utero per liberargli la testa e la cosa richiese uno sforzo insolito; a quel punto lo sollevai. Il bambino venne via facilmente con un risucchio e quasi mi scivolò dalle mani. Sorrisi felice nonostante l'atmosfera macabra (l'arrivo di un bambino riesce a dissipare anche il più forte dispiacere) e consegnai il bambino a mia madre che lo raccolse in uno dei panni e iniziò a pulirlo. La nostra gioia svanì presto, perché il bambino non si muoveva, non si sforzava in alcun modo di fare il primo respiro autonomo, nonostante i ripetuti colpetti che gli somministravamo. Al contrario, floscio com'era, sembrava un micetto affogato. Mia madre avvolse la creaturina negli strofinacci da cucina e lo sistemò tra i seni della madre defunta; poi, coprii il cadavere insanguinato della donna con alcune coperte e recuperai il fagotto con i miei ferri. Scendemmo le scale insieme. In casa non c'era anima viva. La cuoca, infatti, era fuggita con il carro; provavo una grande rabbia nei suoi confronti per aver abbandonato la sua padrona e il bambino che ancora doveva nascere, e per averci portato in una casa appestata. Tuttavia pensavo che si trattasse di una brava donna spinta ad agire così dalla paura. Almeno si era preoccupata dei bambini del suo padrone e aveva fatto in modo che delle levatrici assistessero il neonato; forse aveva sperato che le erbe delle indovine potessero salvare la sua padrona ammalata.
Camminai fino alla bottega del farmacista accanto a mia madre e lì comunicammo alla donna che stava sull'uscio che la peste aveva toccato la casa dei vicini chiedendole, inoltre, di chiamare un prete (poiché, per quanto ne sapevamo, la donna e il bambino erano morti senza aver ricevuto gli ultimi riti che permettono alle anime di ascendere in Paradiso). Per tutta risposta, ci chiuse la porta in faccia. Saremmo dovute tornare a casa a piedi, ma la Dea intervenne in nostro favore. Mia madre incontrò una delle serve del maniero del seigneur, che ci riconobbe come moglie e figlia di Pierre de Cavasculle e ci fece salire sul suo carro insieme a tutte le provviste acquistate per il castello. Poi, facemmo alcuni chilometri a piedi fino al villaggio. Quando arrivammo a casa il sole era già tramontato e mio padre stava finendo la cena frugale preparatagli da Noni che sembrava essersi ristabilita quasi completamente. Mia madre raccontò la terribile storia del parto e della peste: la pelle annerita, le bolle piene di pus. Mio padre ascoltò serio e disse che uno dei contadini che lavorava i terreni del seigneur gli aveva raccontato che quest'ultimo, appena tornato da una visita ai prelati di Avignone, si era ammalato. Tutti temevano che la peste fosse arrivata al castello, il che significava che presto avrebbe colpito anche il villaggio. Noni non disse nulla. Ma dopo aver finito la cena ed esserci coricati, accese la lampada a olio e restò alzata per cucire quattro sacchetti di tela che riempì con un misto di erbe e che poi chiuse con dei lunghi lacci affinché potessero essere indossate a mo' di collana. Sdraiata accanto a mia madre, mi finsi addormentata e osservai insonnolita da sotto le ciglia abbassate Noni che completava questi amuleti. Non appena fu certa, grazie al respiro regolare e sibilante di mia madre e il russare rimbombante di mio padre, che si erano addormentati, camminò fino alla finestra aperta e tenne i sacchetti di erbe tra le mani distese come se le volesse offrire alla luna. Restò in silenzio per un po' e ad un tratto vidi le mani illuminarsi della luce dorata della guarigione, diventando sempre più luminose, ogni minuto che passava. Poi iniziò a mormorare una benedizione nella sua lingua natia. Allora conoscevo soltanto poche parole d'italiano e quindi non potrei ripetere di preciso ciò che disse, ma c'era una frase che conoscevo bene: la bona Dea. Diana, la bona Dea... Pronunciava quel nome come un'amante che dà una carezza e sulle sue labbra diventò il suono più bello che avessi mai sentito. Mentre parlava, le
nuvole notturne si allontanarono, dando la possibilità alla luce della luna di diffondersi attraverso la finestra fino a lambire i sacchetti; al lento cantilenare Diana... Diana, la luce dorata sulle mani di Noni si estese sugli amuleti per fondersi con il bagliore argenteo della luna fino a che da ogni singolo sacchetto s'irradiò una folgorante aura dorata. Trattenni il respiro nel vedere la grazia smagliante di quella luce. Credo che Noni si fosse accorta che la osservavo, poiché indirizzò alla luna un sorriso d'intesa. Poi svegliò me, mio padre e mia madre per farci indossare i talismani attorno al collo. Medicine, disse, per tenere lontana la peste, ma sapevo che si trattava di qualcos'altro. Persino mia madre accettò diligente di indossare la collana; forse le cose terribili che avevamo visto quel giorno furono sufficienti a zittire tutti i suoi sospetti. Nell'oscurità vedevo i talismani scintillare dorati tra i miei giovani seni. Quella notte ritornai a dormire sentendomi protetta, sicura, nella calda luce dell'amore di Noni e di Diana. Dopo qualche giorno mio padre fu chiamato al maniero per lavorare agli appezzamenti del seigneur, poiché gli uomini che solitamente si occupavano dei campi personali del padrone si erano ammalati. Mio padre non ne fu contento, poiché i suoi raccolti necessitavano di cure, ma doveva al seigneur diversi giorni di lavoro e non poteva rifiutarsi. E così abbandonò i suoi campi e seguì l'intendente che era venuto a prenderlo. Nella stessa giornata venne a trovarci un uomo. Mia madre era andata a prendere l'acqua e io stavo spazzando il caminetto mentre Noni sistemava delle erbe appena raccolte per poi farle essiccare, affinché non si trovasse impreparata all'arrivo della peste. Poggiai a terra la ramazza e corsi alla porta, la cui metà superiore era aperta. Vidi un uomo robusto di mezza età, ben vestito con una corta tunica di seta rossa tutta ricamata con lunghe maniche a sbuffo, calze gialle, babbucce di velluto rosse e un cappello con una piuma gialla. Tuttavia il suo viso non rispecchiava affatto l'eleganza dell'abbigliamento; era largo, con naso e labbra grosse e volgari e occhi piccoli e profondi. Dietro di lui, legato all'albero di lillà in fiore, c'era un bellissimo cavallo nero, sfiancato. La fronte dell'uomo era accigliata, preoccupata e, per l'agitazione, spostava continuamente il suo peso da una scarpa vellutata all'altra. «L'indovina!», gridò, non per condiscendenza ma in onesta disperazione. «È qui che abita l'indovina?»
«Sì, monseigneur», risposi, riprendendomi abbastanza da accennare a un piccolo inchino e sollevando il chiavistello della porta, con l'intenzione di farlo entrare. All'improvviso sentii una mano afferrarmi e stringermi forte la spalla e vidi Noni accanto a me. «No», mormorò, affinché potessi sentirla io soltanto. «Andrò fuori a parlare con lui. Tu resta qui». Obbedii, mentre Noni uscì e rivolgendosi all'uomo con un tono che esprimeva gentilezza ma anche diffidenza disse: «Sono io quella che cercate. Come posso aiutarvi, monseigneur?». Il volto dell'uomo si contrasse e, portandosi le enormi mani bianche agli occhi, iniziò a piangere. Capii con un brivido improvviso il motivo per cui era venuto e perché Noni non aveva voluto riceverlo in casa. Mentre osservavo la scena, mi sembrò di vedere, persino alla luce del giorno, un tenue bagliore dorato provenire dal cuore di Noni, nel punto in cui era nascosto il talismano. L'uomo sembrava incapace di parlare e alla fine Noni chiese dolcemente: «Si tratta della peste di Marsiglia, vero? Mostrano pelle annerita e pustole?». Annuì e riuscì a dire qualche parola inframmezzata da singhiozzi e gemiti. Si trattava di un facoltoso avvocato; sua moglie e i tre figli si erano ammalati e alcuni dei suoi servitori erano stati contagiati dalla peste, mentre altri erano fuggiti. «Perché non avete chiamato un dottore?», chiese Noni. A Tolosa c'erano sei medici; uno aveva il compito esclusivo di prendersi cura del grand seigneur e della sua famiglia e gli altri cinque erano a disposizione delle famiglie benestanti. Che questo avvocato cercasse i servigi di una levatrice di campagna indicava un insolito grado di disperazione. «I medici che non sono fuggiti e che non si sono ammalati sono indaffarati a curare gli appestati. Vi prego, io sono ricco, vi darò qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa...». Mia nonna considerò per un attimo quelle parole, sebbene la sua determinazione non vacillò mai. «Vi darò delle medicine da portare con voi. Ma non vi seguirò in città». «Sì, va bene», l'uomo acconsentì. «Facciamo in fretta, però! Ho paura che muoiano prima che ritorni». «Aspettate qui», ordinò Noni. Rientrò in casa e prese alcune erbe, mentre io osservavo la scena, mesta e silenziosa, accanto alla porta. Preparò la tisana contro la febbre e una polvere gialla e solforosa per i cataplasmi.
Mise tutto in sacchetti di tela, ritornò dall'uomo e gli spiegò come doveva usarli. L'avvocato ascoltò con ansiosa impazienza e poi disse: «Madame, non avete anche degli incantesimi, qualche magia che io possa usare per salvare la mia famiglia?». Noni arretrò scandalizzata e portandosi una mano sul cuore, proprio dove era nascosto il talismano, disse: «Seigneur, io sono una brava cristiana. L'unica magia che conosco è il potere curativo delle erbe, che Dio nella Sua immensa bontà ci ha rivelato». L'uomo ricominciò a piangere. «Anch'io sono un buon cristiano, ma Dio nella Sua infinita bontà ha ritenuto di dover colpire la mia famiglia con la peste. Vi prego, madame, mia moglie e i miei figli stanno morendo! Abbiate pietà di noi!», e di nuovo seppellì il volto tra le larghe mani. Noni sospirò, alquanto sconcertata per il fatto che quest'uomo benestante le si rivolgesse chiamandola madame, e ritornò dentro. Dando le spalle all'uomo, fece un mucchietto di erbe varie, lo legò con una cordicella, vi appoggiò le mani e mormorò a bassissima voce alcune parole. Le erbe s'illuminarono un poco, non certo di quella luce che irradiava dai talismani preparati per la nostra famiglia. Ritornò dall'uomo e gliele porse. «Indossatele sempre», gli disse. «Toccatele spesso e pensate a vostra moglie e ai vostri figli come a una cosa sola». «Che Dio e la Santa Vergine vi benedicano!», disse l'uomo e in cambio le diede una moneta d'oro. Io e Noni la osservammo imbambolate. Nessuno ci aveva mai dato una moneta d'oro. Noni gliela restituì dicendo: «Non posso accettarla. Non mi dovete nulla per il talismano, ma solo per le erbe. Questa è tre volte l'onorario di un dottore...». L'uomo però si era già lanciato sul suo bel cavallo ed era sfrecciato via al galoppo. In quel momento mia madre comparve sulla soglia con i secchi dell'acqua in bilico sulle spalle. Indirizzò un'espressione interrogativa prima al cavaliere che si allontanava e poi a Noni, che stava ancora ammirando la moneta d'oro tra il pollice e l'indice. «La peste si propaga in città e anche i dottori stanno morendo», spiegò mia nonna mentre mia madre entrava in casa. Noni la seguì e io mi sporsi su di lei per esaminare la moneta con attenzione. Realizzammo che si trattava di una libbra d'oro autentica, un oggetto splendido. Noni se lo portò tra le labbra e addentò forte; quando vide che sulla moneta erano impresse
delle leggere impronte dei denti, sorrise. Eravamo ricchi. La nostra gioia, però, frutto del dolore altrui, non durò a lungo. Sentimmo alle nostre spalle un colpo leggero, lo sbattere del legno, lo sciabordio e il tonfo dell'acqua. Ci voltammo e vedemmo mia madre seduta a gambe divaricate sul pavimento ricoperto di terra e paglia, la gonna fradicia e il secchio d'acqua rovesciato sulle ginocchia. Si portò una mano al volto e guardandoci con un'espressione stralunata disse: «Ho versato l'acqua». «Ti sei fatta male, Catherine?», chiese Noni mentre aiutavamo mia madre a rialzarsi prendendola sotto le braccia. La pelle sotto la manica umida era stranamente calda. «Ho versato l'acqua», ripeteva, spostando lo sguardo da me a Noni con una leggera disperazione, come se volesse dirci qualcosa di importante ma non trovasse le parole adatte per farlo. «Non fa niente», dissi, mentre l'aiutavamo a stendersi sul letto. «Andrò a prenderne dell'altra». «Fa freddo oggi?», domandò, rabbrividendo all'improvviso. Mentre la svestivamo degli abiti bagnati, il debole luccichio proveniente dal talismano sul suo petto baluginò un istante, come una fiamma, e poi si spense. Mia madre restò a letto tutto il giorno con brividi di freddo e febbre alta. «Sto morendo?», chiese debolmente negli attimi fugaci in cui riprendeva conoscenza. «È la peste?». No, cercavamo di rassicurarla. La pelle non si era annerita e non c'era traccia delle pustole maleodoranti. Si trattava della febbre malarica di cui anche Noni aveva sofferto giorni addietro e si sarebbe rimessa presto. Raccontammo a mio padre la stessa cosa quando, stanco e scoraggiato, ritornò molte ore dopo il tramonto. Era molto preoccupato per lei e volle provare personalmente a farle mangiare un po' di minestra, anche se la febbre le aveva scombussolato lo stomaco e non riuscì a ingoiare nulla. Mio padre si rallegrò solo per un attimo quando gli mostrammo la bellissima libbra d'oro; dopo cena, infatti, ci raccontò mesto i problemi al castello. «La peste si sta propagando tra i contadini», disse serio, gli occhi grigi fissi sulla minestra d'orzo che Noni gli aveva preparato. «Al siniscalco, dicono, resta solo un giorno di vita. I suoi compiti, ora, sono passati all'intendente, uno sciocco incompetente che non sa nulla di come si gestiscono i campi o i contadini. Ho visto con i miei occhi un uomo, un contadino di un altro villaggio, svenire in mezzo al campo: aveva un grosso rigonfia-
mento rosso sul collo». Noni socchiuse gli occhi all'improvviso. Gli stava alle spalle; non mangiava mai se prima suo figlio non si era saziato e aspettava con il mestolo in mano di riempirgli il piatto. Io, invece, gli sedevo di fronte e lo ascoltavo con crescente timore. Avrei voluto dirgli di non ritornare al castello, di non lavorare più negli appezzamenti del seigneur e percepivo, guardandole gli occhi, che anche mia nonna avrebbe voluto esprimere lo stesso desiderio. Ma per un contadino, rifiutarsi di lavorare i campi del proprio signore, era un crimine punibile con l'impiccagione; e quindi trattenemmo la lingua. Tuttavia, Noni trovò abbastanza coraggio per dire: «Pietro, accanto al camino c'è della paglia pulita e profumata. Stanotte dormirai lì». E quando mio padre sollevò lo sguardo sul volto di mia nonna, gli occhi colti da un panico improvviso, ella aggiunse, con la giusta dose di irritazione, sufficiente per essere credibile: «No, non perché credo che Catherine abbia quella pestilenza che viene da Marsiglia. Se, però, ti corichi accanto a lei e ti svegli con la malaria, ti indebolirai e sarai più esposto alle infezioni che appestano il maniero». Mio padre si rifiutò, dicendo che non avrebbe lasciato Catherine dormire da sola e che forse il calore del suo corpo le avrebbe procurato un po' di sollievo. Io dormii vicino al camino, sulla paglia accanto a Noni, che di tanto in tanto si alzava per curare mia madre. Le restava seduta accanto per un'ora e poi ritornava ad assopirsi vicino a me mentre io prendevo il suo posto. Nelle ore che precedettero l'alba, fui richiamata dalle profondità del sonno da flebili gemiti striduli. Mi misi a sedere e vidi mia madre che si agitava convulsamente sul letto, schiaffeggiando involontariamente mio padre, il quale cercava di impedirle di cadere a terra. Noni, al capezzale, si sforzava di aiutarlo. Mentre osservavo la scena inorridita, mia madre, nel suo delirio, si strappò il talismano che le pendeva dal collo con una tale violenza da rompere la cordicella e scagliò a terra il sacchetto di erbe. Noni si precipitò a raccoglierlo ma l'espressione del suo volto, rivolto verso sua nuora, era dura, arrabbiata con mia madre per ciò che aveva appena commesso; però, pensai, sicuramente mi sbagliavo. Mio padre, il volto segnato dal dolore, si sfilò il suo talismano dal collo e lo fece scivolare attorno alla testa di mia madre. Poi venne a sedersi accanto a me sulla paglia e io affondai la mia faccia nella sua nera barba ispida e piangemmo
una tra le braccia dell'altro. Il secondo giorno della malattia di mia madre arrivò dalla città la moglie del fabbro. Noni la ricevette fuori, le consegnò un sacchetto di erbe e la rimandò a casa, proprio come aveva fatto con l'avvocato. Poi iniziarono ad arrivare, uno dopo l'altro, gli abitanti del villaggio. Noni distribuì tutte le erbe fino a quando iniziarono a scarseggiare anche per noi. Alla fine chiuse la porta, lasciando socchiusa soltanto la parte superiore per far uscire il fumo del camino e disse urlando ai disperati postulanti dove andarsi a cercare le erbe e come usarle. Tra un visitatore e l'altro, mentre Noni schiacciava un pisolino accanto al fuoco, feci un bagno a mia madre per farle scendere la temperatura. Aveva il collo leggermente rigonfio, ma non gli diedi importanza, poiché era un sintomo abbastanza normale della febbre. Ma quando le slacciai la camiciola e le passai lo straccio sotto il braccio vidi un rigonfiamento sotto l'ascella: duro, rosso, delle dimensioni di un uovo. La pelle circostante era coperta di macchie nere e rosse, il colore del sangue vecchio. Svegliai Noni e le dissi che mia madre aveva la peste. Facemmo un unguento e lo spalmammo sulla pustola sotto il braccio e quindi scoprimmo altri due rigonfiamenti all'inguine, circondati dalle stesse macchie sottocutanee. Riuscivo a pensare soltanto alla povera donna incinta che era morta. Nel tardo pomeriggio, mio padre tornò dal castello. Fui stupita di vederlo, per due motivi: primo, perché non ritornava mai a casa dai campi se non dopo il tramonto, e secondo, perché era tornato a piedi e la consuetudine voleva che l'intendente riportasse a casa con il carro i contadini che lavoravano agli appezzamenti del signore. Sollevai lo sguardo dal volto di mia madre quando sentii il tonfo della porta che si spalancava. Sulla soglia, mio padre indugiò un istante, il consunto cappello da contadino tra le mani. Non lo dimenticherò mai: un bell'uomo, con le spalle e il petto larghi, la barba mal rasata, tanto nera quanto erano chiari i capelli di mia madre. Accortasi del ritorno del figlio, Noni corse a preparare la cena, che ancora non era stata messa sul fuoco a causa dei molti visitatori e dell'ora insolita. «Papà!», esclamai. «Come mai sei tornato così presto?». Mi alzai e feci il giro del letto per andargli incontro. Non rispose ma esitò ancora sulla porta, girando il cappello tra le grandi
mani dalle nocche escoriate. Capii subito che c'era qualcosa che non andava: gli occhi erano quelli di un ragazzo stordito e spaventato. Anche Noni ebbe la stessa impressione e infatti gli lanciò uno sguardo dal camino dove era inginocchiata. Tuttavia, nonostante il suo turbamento, mio padre guardò prima mia madre, poi me e, addolorato, chiuse gli occhi un istante. «Catherine», sussurrò, e in quel momento capii che in qualche modo aveva compreso che la peste era arrivata in casa nostra. Sentii la necessità immediata di confortarlo, come se lui fosse il bambino e io il genitore. Alla fine si tolse gli zoccoli ed entrò in casa (talmente turbato che dimenticò di chiudersi la porta alle spalle) e la luce del fuoco rivelò delle macchie scure sul suo grembiule di stoppa. Dopo averle osservate urlai: «Papà!». Erano tra il rosso scuro e il marrone, il colore del sangue secco. Abbassò lo sguardo per osservarle, come se fosse un po' sorpreso di vederle, e poi spiegò a fatica: «Nessuno è venuto a lavorare in campagna, oggi, ad eccezione di un altro contadino, Jacques LaCampagne, che ha vomitato sangue ed è morto accanto a me mentre lavoravamo. Ho cercato aiuto, ma erano tutti scomparsi, tranne il prete venuto a dare l'estrema unzione alla madre del seigneur». «È morta?», chiesi sconvolta. Una strana espressione attraversò il volto di mio padre, come se si sforzasse di seguire le parole di qualche essere invisibile. «Sono molto stanco», disse all'improvviso. Andò a sdraiarsi sul letto accanto a sua moglie, e non si alzò più. Nonostante i molti anni trascorsi da quegli eventi, il ricordo della sofferenza dei miei genitori non si è mai affievolito con il tempo; il dolore è sempre vivo. Mio padre cadde immediatamente in un profondo delirio e sebbene gli avessi infilato attorno alla testa il mio talismano lucente, come lui aveva fatto con mia madre, non si riprese più. Aggravato dalla febbre, la sua malattia ebbe un decorso differente. Le pustole non comparvero mai sotto le sue braccia o all'inguine; tuttavia, il morbo lo colpì ai polmoni tanto che iniziò ad emettere un'orribile saliva intrisa di sangue. Morì dopo due giorni. Mia madre, nel frattempo, era diventata una creatura pietosa, la pelle bianca chiazzata di nero e punteggiata da orribili rigonfiamenti fetidi che versavano pus e sangue. Era una malattia che faceva puzzare il corpo anco-
ra vivo del malato, come se fosse già morto. Il momento stesso in cui mio padre morì, mia madre urlò il suo nome per poi crollare nel silenzio. Noni e io eravamo sicure che presto avrebbe seguito suo marito. Io ero totalmente sconvolta. Prima che mio padre morisse, ero andata al villaggio in cerca di un prete che potesse amministrargli l'estrema unzione. Sebbene fosse mezzogiorno, il villaggio sembrava inspiegabilmente deserto; non c'era neanche un contadino che lavorasse nei campi, né una donna che tornasse dal pozzo con l'acqua, anche se una moltitudine di animali vagava incustodita. Le mucche calpestavano i solchi dei teneri raccolti, mangiando a volontà, mentre un gregge di capre, con le femmine che belavano da far pietà affinché qualcuno le mungesse, si avvicinò a me girovagando privo di pastore. Il prete non era né in chiesa né in parrocchia. Attraversando il cimitero, m'imbattei nel becchino, che scavava un altro pezzo di terra. Domandai del prete. «O è morto o sta morendo», disse il becchino, «oppure sta dando l'estrema unzione da qualche parte. Prima o poi dovrò seppellire anche lui». Aveva il volto e l'abito neri per il sudore e la fatica di tanti giorni di lavoro. Insensibile alle lacrime che mi rigavano il volto parlò con un tono privo di inflessione, di chi era molto provato e obnubilato dall'esagerata vista della morte. Accanto a lui c'erano una dozzina di nuovi tumuli e tre fosse appena scavate mentre lui lavorava ad una quarta; indicò le tre buche: «Domani mattina saranno già piene. Se hai dei morti, devi portarli qui da sola, perché non c'è nessuno che ti può aiutare. Anzi, portali il più presto possibile, finché c'è spazio». Si fermò, inclinò la testa in modo strano e poi disse: «È la fine del mondo, questa. L'ha letto il prete nella Bibbia, nell'ultimo libro, l'Apocalisse». Recitò i versetti a memoria: Quando l'Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva «Vieni». Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colei che lo cavalcava si chiamava Morte e le veniva dietro l'Inferno. Angosciata, tornai a casa all'imbrunire e dissi a Noni che avremmo dovuto portare il cadavere di mio padre al cimitero senza alcun aiuto. E così, quando gli occhi di mio padre si spalancarono alla morte fummo noi ad
amministrargli l'estrema unzione, a lavarlo e ad avvolgerlo nel suo bianco sudario. Lo vegliammo tutta la notte, piangendo, pregando e controllando se mia madre ancora respirava. La mattina dopo, con nostra grande meraviglia, la febbre di mia madre era scesa, ma lei ancora dormiva profondamente senza muoversi. E quindi ci preoccupammo di seppellire subito mio padre, perché faceva caldo. I nostri vicini, Marie e Georges, i più facoltosi del villaggio, possedevano un asino e un carro. Mi recai da loro e trovai l'animale slegato e perciò diedi una voce. La parte superiore della porta era aperta ma in casa c'era un silenzio sinistro. Portai l'asino e il carro a casa senza trattenermi oltre poiché temevo che i proprietari non ne avrebbero più avuto bisogno. Quando arrivai, mi dedicai, insieme a Noni, al difficile compito di sollevare il corpo di mio padre. Il corpo, da morto, è molto più pesante di quanto lo sia da vivo, e mentre alzavo mio padre sotto le braccia, aiutata da Noni che gli teneva le gambe, capii che sarebbe stato impossibile per noi sollevarlo abbastanza in alto da sistemarlo nel carro. Proprio in quel terribile momento, qualcuno bussò alla porta. La testa penzolante di mio padre m'impedì di vedere il visitatore e Noni dava le spalle alla porta. «Andate via!», gridò agitata mia nonna tra le lacrime, arrestando il nostro mesto percorso verso la porta. «C'è la peste in questa casa, non vedete che mio figlio è morto? Non ho più erbe da dare!». Una meravigliosa voce profonda rispose: «Non sono venuto per prendere, ma per dare». Una strana luce illuminò gli occhi di Noni; lentamente abbassò le gambe di suo figlio al suolo e si voltò. Anch'io poggiai dolcemente mio padre a terra e seguii il suo sguardo oltre la soglia. Lì c'era un uomo, alto e attempato, con un ciuffo bianco che gli striava la lunga barba grigia. I grandi occhi dalle palpebre pesanti e il naso aquilino avrebbero detto che era un ebreo, anche se non avesse indossato lo stemma di feltro giallo e il cappello con le punte. Era insolito vedere un ebreo avventurarsi oltre le mura della città; per sicurezza erano soliti restare nei quartieri loro assegnati, dove partorivano i figli e curavano i loro ammalati. Pensai alle storie che avevo sentito raccontare a proposito degli ebrei; ma non vi era traccia di mostruosità in quest'uomo. Aveva gli occhi vecchi e lucidi, i bulbi oculari ingialliti, le iridi così scure che si vedevano a malapena le pupille; erano insieme i più potenti e i più dolci occhi che avessi
mai visto. Capii subito che era un membro della Razza. Anche Noni sembrava molto impressionata poiché rispose dolcemente: «Perché siete venuto, signore? Non è sicuro restare qui: siamo stati colpiti dalla peste». «Nessun posto è sicuro», il vecchio ebreo rispose, «e Dio mi ha concesso ancora un po' di tempo». E senza dire altro, entrò in casa nostra, mi fece cenno di scostarmi, e poi sollevò mio padre sotto le braccia. Come mi sembra strano, oggi, a distanza di tanti anni! Allora, però, mi sembrava la cosa più naturale del mondo correre ad aiutare Noni a sollevare le gambe di mio padre. Io la sinistra e lei la destra e con l'aiuto di quello straniero riuscimmo facilmente a issare il corpo nel carro di Georges. «Monseigneur», dissi, rivolgendomi a lui con questo titolo onorario che raramente veniva usato per gli ebrei, «vi ringrazio per il vostro aiuto». In risposta, estrasse dal mantello nero un piccolo quadrato di seta scura ripiegato in due e me lo porse; io esitai. «Non chiediamo soldi», disse subito Noni. «Il vostro aiuto è già stato incommensurabile; inoltre, ho già ricevuto abbastanza oro grazie agli ammalati». L'uomo la osservò e la sua espressione si illuminò con un debole sorriso di scuse. «Non è una moneta». Ce l'offrì di nuovo e stavolta, percependo il calore che emanava, lo presi e con devozione aprii la seta per guardare dentro. Infatti era oro: un disco delle dimensioni di una libbra, di metallo sottile, attaccato ad una pesante catena d'oro. Incisi sulla superficie c'erano cerchi, stelle e strane lettere. Sebbene all'epoca non sapessi leggere, sapevo che si trattava di una lingua molto più misteriosa del mio francese natio. Il disco brillava di una luce molto più calda e luminosa del normale, la luminosità di una stella e allora capii: questo ebreo conosceva la Dea; questo ebreo conosceva una magia molto più grande e molto più potente di quelle che Noni mi aveva insegnato. Si trattava di qualcosa che andava oltre gli incantesimi o i talismani per guarire o per proteggersi dai nemici o per far crescere i raccolti. «Tienilo sempre con te», disse. «Nei momenti di pericolo, come questi, indossalo. Siamo circondati da grande malvagità». Alzai lo sguardo per poterlo ringraziare ma prima che potessi pronunciare una parola, aggiunse: «Carcassonne è un luogo sicuro». Noni lo guardava come se fosse pazzo. «Ma, signore, a Carcassone sono
tutti morti o in fin di vita!». «Eppure è così», la interruppe e senza nemmeno dirci addio se ne andò, tanto rapido e silenzioso che io e Noni fummo stupite dalla sua improvvisa scomparsa. Facemmo un giro intorno alla casa ma di lui non vi era traccia. Noni sollevò la catena e me la infilò sulla testa, nascondendola sotto la tunica, nonostante le mie proteste affinché fosse lei ad indossare il talismano. «Lo ha mandato la Dea», disse a proposito di quell'uomo misterioso. «E questo talismano era indirizzato a te, a te sola; per il mio bene, portalo sempre con te». Cedetti, poiché sapevo che le sue parole erano vere. Quando il disco d'oro scivolò sulla mia pelle, sentii un calore intenso e un tintinnio che mi sorprese. Alla fine salimmo sul carro e ci dirigemmo verso il cimitero. Sulla strada che portava alla piazza del villaggio vedemmo il cadavere di una donna. «Non guardare», ordinò secca mia nonna, ma avevo già visto abbastanza da sentirmi male: due cani rosicchiavano la carne imputridita della donna e uno era quasi riuscito a staccarle un braccio. Teneva il gomito tra le zanne e strattonava l'arto tirando gli ultimi lembi di carne che ancora lo legavano alla spalla. «Santa Madre, salvaci», Noni sussurrò e in silenzio mi unii alla sua preghiera. Mentre ci avvicinavamo alla piazza di fronte al cimitero, notai i primi segni di vita nel villaggio deserto: annusai e vidi dei pennacchi di fumo. Pensai che stessero cremando i cadaveri ma poi sentii delle urla, seguite da grida agonizzanti che era impossibile definire umane o bestiali. Al centro della piazza bruciava un piccolo falò; all'interno si distingueva la sagoma in fiamme di un uomo. Non lo riconobbi subito, poiché non aveva il berretto né i suoi abiti, i capelli e la barba erano avvolti dalle fiamme e il volto era nero per la fuliggine. Cercando di fuggire, inciampò sul bordo del fuoco e cadde in avanti sulle ginocchia mentre un grosso contadino con un forcone in mano lo respinse dentro il rogo. C'erano altre tre persone con lui: due uomini, uno dei quali brandiva un pugnale, e una donna, e tutti schernivano la vittima data alle fiamme. Noni si lasciò sfuggire un urlo di sdegno e tirò le redini del mulo che percepì il nostro orrore e nitrì, rabbrividendo. La donna ci guardò. Aveva la gonna e il grembiule macchiati del sangue nero che qualcuno in fin di vita le aveva tossito addosso e da sotto il fazzoletto le spuntavano i capelli arruffati. Il suo sguardo era feroce e febbrile.
«L'ha mandato il diavolo ad avvelenare i pozzi!», ci urlò. Con gli occhi della Dea, vidi sul petto della donna un'ombra scura e capii che la peste l'aveva già colpita. «L'ebreo è arrivato dalla città per portare la peste! Ha ucciso mio marito e i miei figli! Sono tutti morti! Tutti morti!». Anche l'uomo con il pugnale si unì alle sue parole: «L'ebreo ha avvelenato il pozzo ed è tornato per finirci tutti! L'ebreo ha portato la peste da Tolosa!». All'improvviso, il mio sguardo incrociò quello della povera vittima che moriva tra le fiamme; fissai quei meravigliosi occhi neri colmi di agonia, e riconobbi l'uomo che era venuto in casa nostra. Mi alzai in piedi sul carro e urlai, spaventando il mulo. In quel momento, probabilmente non sopportando più lo strazio del fuoco, si lanciò in avanti sulle fiamme e s'infilzò deliberatamente sul forcone sporgente. Il contadino trattenne il cadavere come se stesse arrostendo un pezzo di carne e osservò la scena con soddisfazione fino a quando il peso fece cadere il corpo a terra. «Santo e unico Dio», disse Noni, con la voce tremante. «Vorrei maledirvi fino alla tredicesima generazione per la vostra cattiveria ma non servirebbe a nulla. Le vostre famiglie sono morte ed entro domani mattina farete la stessa fine». Caddi semisvenuta e in quelle condizioni superammo il falò fino al cimitero. Di ciò che successe in seguito ho pochi ricordi, ad eccezione delle fosse che il becchino aveva scavato il giorno prima: erano state già riempite con i cadaveri in decomposizione, uno sull'altro, senza nemmeno essere stati ricoperti. Lì vicino c'era una buca profonda molto più larga, in fondo alla quale il becchino, morto anche lui, stava seduto accanto alla sua pala, conficcata al suolo con il manico all'insù. Disteso sul suo grembo c'era un cadavere privo di sudario, gettato frettolosamente sopra di lui; sembrava una versione spettrale di Maria che piange sul cadavere del Cristo morto. Come ci sbarazzammo del corpo di mio padre, io, in tutta onestà, non lo rammento; la mostruosità del ricordo me lo ha fatto dimenticare. Probabilmente lo trascinammo giù dal carro sistemandolo sopra gli altri cadaveri. Una cosa terribile, certo, ma cosa potevamo fare, noi e tutti gli abitanti del villaggio? Eravamo troppo deboli per ricoprire di terra i corpi; inoltre, indugiare vicino a quelle fosse maleodoranti significava invitare a nozze la peste. È probabile che ritornammo a casa, ma non ricordo neanche quel particolare poiché tutto ciò che mi circondava svanì tremolando. Sprofondai in
un universo febbricitante che era in parte Vista, in parte sogno e in parte delirio, un mondo fatto di peste e di paura. E tra le fiamme rividi il volto del vecchio ebreo e quelle di ogni membro della mia famiglia, il mio povero padre, mia madre e persino Noni. Vidi, ancora una volta, le ombre delle persone intrappolate tra le fiamme e ascoltai le loro urla; ancora una volta, lottai per loro fino allo sfinimento. E quando fui troppo stanca per combattere mi accasciai, arrendendomi alle fiamme e urlando: «Che male è mai questo?». E la Dea mi rispose: «La paura». Ritornai in questo mondo all'improvviso, aprii gli occhi sull'interno della nostra umile casa e capii che ero sdraiata sul letto dei miei genitori. Stava iniziando il giorno e un debole raggio di sole filtrava dalle imposte. Il fuoco nel caminetto si era quasi spento e accanto ad esso, sulla paglia, c'era Noni. Aveva il grembiule sporco di sangue, si era tolta il soggolo da vedova e si era sciolta le trecce che normalmente portava arrotolate sulle orecchie così che le grosse ciocche le scendevano fino alla vita. Il volto era teso e grigio; giaceva immobile, tanto che per un terribile momento temetti che la peste l'avesse uccisa nel sonno. Mi sedetti e mi lasciai sfuggire un gemito poiché mi accorsi di essere nel letto da sola: anche mia madre doveva essere morta e ora, della mia famiglia, non restava più nessuno. All'improvviso Noni balzò in piedi e corse verso il letto; singhiozzai senza ritegno per il grande sollievo. «Noni! Ho pensato che fossi morta!». La mia amatissima nonna scoppiò a piangere, come fece mia madre che, seduta accanto al fuoco, mostrava un volto smorto e pallido, e teneva una scodella di minestra tra le mani. Quando Noni riuscì a parlare, mi spiegò che ero stata in preda al delirio per tre giorni, prossima alla morte a causa della peste. Non poteva parlare apertamente davanti a mia madre, ma sapevo ciò che stava pensando: e cioè che quando avevo ceduto il mio talismano a mio padre, mi ero resa vulnerabile. Capii, allora, che a salvarmi era stata la medaglia dell'ebreo. Quella stessa notte, quando mi svegliai, mi accorsi che il materasso di paglia sul quale dormivo era intriso di sangue e temetti che la peste fosse ritornata; Noni, però, sorrideva. «È arrivato il tuo ciclo mestruale», sussurrò. «Presto entrerai a far parte della comunità della Dea».
X La peste portò con sé uno strano miscuglio di abbondanza e povertà. Il mugnaio e sua moglie erano morti e nessuno era in grado di macinare il frumento immagazzinato nel granaio del vecchio Jacques. Erano morti tanti contadini, incluso il mio povero padre, e i sopravvissuti si servirono a piacimento dei frutti dei campi, degli orti e delle vigne del grand seigneur, poiché non c'era nessuno che li controllasse. Ciò che non raccoglievamo marciva nel punto stesso in cui cadeva, così come successe agli sfortunati che morirono senza che nessun superstite della famiglia potesse dar loro una degna sepoltura. Questo fu il destino dei nostri poveri vicini, Georges e Thérèse e di tutti i loro figli: nonostante l'afrore che si diffondeva dalla loro casa, soprattutto via via che il clima diventava più caldo, il timore della peste ci impediva di entrare. Tuttavia, ereditammo parte della loro ricchezza: il mulo e il carretto, sei maiali, alcuni polli e tutte le verdure che crescevano nel potager di Thérèse. Anche se non avevamo pane, ci nutrimmo di ogni specie di verdura, carne e latte, anche perché capre, pecore e mucche vagavano per le strade in cerca dei loro padroni, ormai morti, ed erano alla mercé di chi le volesse. Sperimentai, infine, il piacere di dormire con lo stomaco pieno. E persino mia madre iniziò ad ingrassare. Tuttavia, il nostro piccolo villaggio era pervaso dal dolore, oltre che dal tanfo della morte. Germain, il mio promesso sposo, era morto, non per la peste ma per le malattie che essa scatenava; nel suo caso, una che faceva sanguinare l'intestino. Provai una gran tristezza (perché era un brav'uomo) e anche un forte senso di colpa per il sentimento di sollievo che m'invase. Per un po', indossai la gonna e il velo nero da vedova, il che mi fece assomigliare talmente a mia nonna che persino mia madre ci confondeva in lontananza. Non fui la sola a vestirmi a lutto; i luoghi in cui andavamo, la piazza del mercato, le sponde del fiume, i campi, sembravano vuoti, infestati dai fantasmi. Mia madre mi portava tutti i giorni a messa e accendeva una candela per mio padre. Mi portava con sé, in parte perché sentiva la mancanza di mio padre e in parte perché percepiva che Noni mi stesse deviando dal giusto cammino cristiano; e aveva ragione. Infatti, sebbene andassi a messa tutti i giorni, le mie preghiere erano tutte dirette alla Santa Madre, con la supplica di poter conoscere presto tutto quanto fosse necessario per realizzare il mio destino. Noni aveva iniziato
ad insegnarmi seriamente come riconoscere i pagani, i contadini che definiva anche con l'appellativo di "la Razza". Presto capii che già molte volte avevo assistito alla magia di Noni; ad esempio, quando riempiva i sacchetti di erbe e li infondeva di un potere magico con una semplice preghiera. Appena mi fui ristabilita completamente, mi portò con sé nei campi in cerca di cibo; mia madre, ancora troppo debole, non ci accompagnava e quindi mia nonna mi parlò liberamente delle vecchie usanze. Conoscevo già gran parte delle erbe usate a scopi curativi; ora, però, Noni mi descrisse i loro poteri magici. La lavanda, ad esempio, era usata negli incantesimi delle guarigioni; il rosmarino, per proteggere e restituire la memoria; l'eufrasia era usata per aiutare la Vista. Mi mostrò, in particolare, due erbe, che possedevano esclusivamente poteri magici; erano pericolose e per questo venivano usate con parsimonia e solo da chi era veramente esperto; quando fosse arrivato il momento, mi avrebbe mostrato il loro uso: il giusquiamo, che regalava la capacità di volare; e... E qui, sussurrò con deferenza, mentre ci inginocchiavamo ai piedi di un'antica quercia, ammirando un fungo nodoso e dall'aspetto insignificante, c'è la chiave dell'Inizio. Inizio, lo definiva lei, anche se in seguito imparai che la definizione appropriata era iniziazione. Una mattina, mentre eravamo in ginocchio a scavare buche nel potager fuori casa e mia madre si riposava all'interno, Noni sollevò il volto verso il cielo, azzurro e senza nuvole. Seguii il suo sguardo e, all'orizzonte, la vidi: lo spettro della luna, un cerchio perfetto di avorio opalescente. «Una bella luna piena», disse Noni con ammirazione. «Stanotte ci riuniremo: preparati». E senza dire altro, ricominciò a scavare. Restai senza parole, tanto era la trepidazione, altrimenti l'avrei sommersa di domande. Al contrario, terminai il mio lavoro in silenzio mostrando una calma apparente, mentre il cuore e la mente alternavano gioia a paura. Nel tardo pomeriggio, Noni preparò un bel pollo e una minestra di verdure. Quando le portai il piatto di mia madre, affinché lo riempisse, osservai, stupita, che, imperturbabile, vi versò una grossa porzione di minestra, che poi cosparse con una polvere mescolando il tutto con il cucchiaio di mia madre. Poiché le davamo entrambe le spalle, lanciai verso mia nonna uno sguardo duro e inquisitore; Noni scrollò un po' le spalle e aggiunse al piatto una coscia di pollo.
Con un fremito di apprensione e di colpa, portai la cena a mia madre che mangiò con un appetito insolito mentre io e Noni ci sedemmo davanti alle nostre porzioni, più modeste e incontaminate. Non passò un'ora che, molto prima del tramonto, mia madre russava nel letto mentre io e mia nonna sedevamo in silenzio davanti al caminetto ancora acceso. Restammo così un'ora, ognuna immersa nei propri pensieri e, di certo, intente a pregare in vista degli eventi imminenti. Io, tra le altre cose, supplicai affinché il sacrificio dell'ebreo, la sua vita per la mia, non fosse vano; e affinché potessi sapere quale fosse il mio compito come serva di Diana. Alla fine arrivò la notte più fonda, anche se la luna penetrava così luminosa attraverso le persiane aperte che sembrava giorno. Mano nella mano, ci alzammo e uscimmo dal cottage. L'erba e i fiori selvatici erano morbidi e freschi sotto i piedi nudi e ci dirigemmo lontani dal villaggio, lontani da Tolosa, oscura e imponente nel cielo illuminato dalla luna. Non fui sorpresa di scoprire che la nostra destinazione era l'antico uliveto. Avevo visto la statua di Maria molte volte durante i riti della primavera, quando veniva decorata con ghirlande di fiori; io stessa ero rimasta su quel terreno consacrato davanti all'immagine della Vergine e avevo fatto offerte floreali insieme agli altri bambini. Anche allora sapevo di calpestare il terreno consacrato alla Grande Madre e Noni, in seguito, mi disse che la statua di legno aveva sostituito un'antica scultura romana in pietra che rappresentava Diana, incoronata dalla luna crescente. E così avanzammo verso l'uliveto, sotto argentei rami nodosi e foglie di un pallido verde polveroso; la mia attenzione fu subito attratta da uno spiazzo poco distante che emanava una lieve luce azzurra. Lo raggiungemmo e lì, sotto un luminoso soffitto di luna e stelle, all'interno di una sottile sfera azzurra tremolante, c'erano tre entità: la statua della santa Madre, incorniciata da ghirlande di rosmarino, e due persone in lacrime, un uomo e una donna, seduti all'interno di un cerchio appena impresso nella terra. Quando ci avvicinammo, alzarono lo sguardo su di noi, o meglio, su mia nonna, e i loro volti rigati dalle lacrime s'illuminarono di gioia. «Ana Magdalena!», la donna gridò; contemporaneamente il giovane esclamò: «Credevamo che fossi morta!». «Figli miei!», Noni urlò, facendomi segno di restare immobile; poi, avvicinandosi alla sfera, tagliò con l'indice un'apertura nella luce azzurra e
con il piede cancellò parte del cerchio inciso nella terra. Obbedii ai suoi segnali ed entrai immediatamente nella sfera; lei mi seguì e poi sigillò l'apertura così che la sfera azzurra ci contenesse tutti, e ridisegnò il cerchio a terra con l'indice. Fatto ciò, abbracciò la donna con vigore. «Ah, Mattheline! Mattheline, adorata! Siamo rimasti solo noi?» «Sì», rispose Mattheline, singhiozzando. Era una ragazza di una ventina d'anni ma forse poteva averne anche ventitré; aveva, infatti, quel tipico volto infantile che non sembra invecchiare mai ed era magra come un uccellino affamato. I capelli erano di un castano dorato con striature più scure e gli occhi di un colore simile. «Il mio Guillaume è morto e il piccolo Marc..., il mio ometto!». Mia nonna l'allontanò da sé e le chiese: «La bambina, però, la piccola Clotilde...». «È viva». Il dolore nella sua voce non diminuì. «Le coliche, però, non l'abbandonano, non mangia e io non ho latte...». «Ah, poverini!»; Noni portò la mano sulla nuca della donna e le baciò la fronte. «Ora siamo insieme e la Dea ci aiuterà...». Mattheline, però, si scostò dalle labbra di Noni, e aspra, disse: «Dov'era quando mio figlio e mio marito morivano?» «Parli come una cristiana, Mattheline», le rispose in tono di rimprovero il giovane, la voce profonda e calma nonostante le lacrime recenti. S'inchinò e abbracciò mia nonna dimostrando un grande affetto e un totale rispetto e in quel momento compresi che Noni era sempre stata la leader del gruppo. «Justin», mormorò. E mentre entrambi si ricomponevano, chiese calma: «E tu chi hai perso, figlio mio?». Justin, che di mestiere faceva il fabbro, era alto e robusto ed era conosciuto per i suoi modi calmi e pacifici; il suo volto, però, in quel momento, si contrasse a causa delle lacrime trattenute e rispose: «Mio padre. Mia madre. Mia sorella Amelie, anche se gli altri stanno bene. E mia...», e qui, sospirò, sforzandosi di mantenere il controllo, «la mia Bernice». E a quel punto abbassò il capo e iniziò a singhiozzare senza ritegno mentre mia nonna gli accarezzava il braccio e diceva con la voce tremante di pianto: «Anche il mio Pietro è morto. E dove sono Lorette, Claude, Mathilde, Georges e Marie, Gerard, Pascal, Jehan e Jehanne-Marie?» «Ahimè!», gridò Mattheline. «Eravamo tredici e ora siamo solo tre». Improvvisamente, spalancando gli occhi, riversò su mia nonna un fiume di
parole cariche di paura. «Il prete dice che è colpa delle streghe che, in segreto, venerano il diavolo. Si prostrano al suo cospetto e dormono con lui. Padre Jean dice che usano la magia, come facciamo noi, ma la loro è sempre maligna e non c'è cosa che gli faccia più piacere che mandare maledizioni su di noi, gente semplice. Vagano di notte per la foresta: ho il terrore di incontrarne qualcuna. Dice, inoltre, che rubano i bambini e sciolgono il loro grasso per fare unguenti magici; ho pianto quando, stanotte, ho dato la buonanotte alla mia piccola Clotilde». Fece una pausa, infine, e poi, dopo aver respirato profondamente, continuò: «Sembra che il diavolo sia una divinità molto potente e se è vero che la sua magia è tanto forte da portare la peste e distruggere il nostro piccolo circolo, allora, forse, è più potente della nostra stessa Dea...». «Hai detto abbastanza», la interruppe Ana Magdalena con tono perentorio, appena la ragazza ebbe pronunciato l'ultima sillaba. «Mattheline, ecco cosa succede ad ascoltare i preti: paura e diffidenza. Sono trent'anni che vengo nella foresta di notte e non ho mai incontrato malfattori. Né crederò mai che il diavolo, il più piccolo dei loro quattro dei, è più potente di Colei che È Madre di Tutti gli Dei. No, questa storia delle streghe cattive che hanno portato la peste è figlia della stessa follia che si è diffusa qui vent'anni fa, quando non crebbero i raccolti e la carestia colpì tutta la Linguadoca. Hanno ricominciato a bruciare gli ebrei: molti si dirigono a sud, al sicuro, in Spagna». Fece una pausa e la sua espressione si caricò di dispiacere. «Ora, noi, come gruppo, dobbiamo stare molto attenti a non farci mai vedere mentre pronunciamo un incantesimo o ci incontriamo nella foresta, altrimenti ci accuseranno di essere streghe e ci bruceranno. Infatti, anche se le streghe non esistono, i preti e i contadini faranno di tutto per trovarle». «Ma se le streghe non esistono», ribatté Mattheline, con una voce così addolorata che gli occhi mi fecero male per le lacrime trattenute, «e se la magia della Dea è la più potente di tutte, allora perché non ha salvato i nostri cari da quelle morti orribili?» «La Dea porta vita e gioia, quindi, deve portare anche morte e sofferenza. È il prezzo che bisogna pagare per entrare in questo mondo; come potremmo riconoscere una senza sperimentare anche l'altra?», chiese dolcemente Ana Magdalena e, stringendo la mano della giovane donna tra le sue, la riportò gentilmente verso il nostro piccolo gruppo. «Guarda: noi siamo vivi. Non è un motivo di gioia? E non siamo solo noi tre, c'è una quarta persona. Questa è mia nipote, Sybille».
La presentazione mi sembrò superflua: anche se solo di vista, conoscevo queste persone da tutta la vita. Sebbene la mia famiglia non avesse mai avuto bisogno di un fabbro, eravamo passati spesso davanti alla bottega di Justin e di suo padre, vicino alla piazza, e mi era capitato di fermarmi a guardare Justin che, innamorato, fissava negli occhi la sua amata Bernice; inoltre, avevo visto spesso Mattheline e suo marito passeggiare per il paese, e soprattutto al mercato. Eppure, in mezzo a loro, mi sentivo impacciata come un'estranea poiché ora li vedevo sotto una veste completamente diversa. Mattheline, riacquistata una certa compostezza, seppure con gli occhi ancora rossi di pianto, mi venne incontro e mi diede un bacio leggero come una piuma su entrambe le guance. «Benvenuta nella confraternita». Justin la imitò, sebbene i suoi baci fossero molto più timidi, anche se più forti, e il tocco della barba sul mio volto mi fece trattenere il respiro. A quel lieve fruscio, Justin voltò lo sguardo su di me e mi guardò profondamente negli occhi; in quell'attimo, notai due cose: primo, che aveva gli occhi verdi e, secondo, che fui sconcertata dall'improvvisa vampata di calore che affiorò dal mio stomaco e ovviamente finì, ne sono certa, sulle mie guance. E ora vi dirò una cosa che vi farà pensare che sono pazza, perché ciò che Vidi era al di là di qualsiasi ragionevolezza; ma la Vidi e, anzi, vi dirò, fratello, che anche voi riuscireste a vedere queste cose se solo poteste ricordarvi come si Guarda. Sciogliendomi dall'abbraccio di Justin, notai accanto a Mattheline un grosso gatto nero, molto più alto di qualsiasi uomo che abbia mai visto in vita mia, che servilmente le svolazzava sulla testa, a una certa distanza. Seduto sulle grassocce zampe posteriori, teneva quelle anteriori una sull'altra, come fossero due mani, e il muso (spaventoso, con zanne enormi che si protendevano all'insù dalla mandibola inferiore, sebbene l'espressione fosse gentile) sfiorava il volto della sua padrona, come se temesse di perdersi una parola detta a bassa voce o un piccolo cambiamento di espressione. A un certo punto iniziò a svanire, tanto che riuscivo a vedere attraverso la sua immagine, e poi scomparve del tutto. A dire il vero, pensai preoccupata di essere impazzita o che Noni avesse cosparso la mia cena con qualche strana erba; il resto del mondo, però, sembrava immutato. Almeno fino a quando non voltai lo sguardo verso Noni, sperando di poterle sussurrare ciò che avevo visto; e lì, serenamente in piedi accanto a lei, c'era lo spettro di un bel ragazzo, con la testa avvolta nel tipico turbante
bianco dei turchi. La creatura congiunse le mani e, sorridendo, inchinò la testa in segno di saluto; risposi con un piccolo cenno del capo, e sperai che gli altri non se ne fossero accorti. Justin, invece, era assistito con devozione da un dolcissimo spirito femminile che assomigliava alla sua amata Bernice da bambina. Avevo Visto altre cose nelle mie visioni fantastiche, lontane dal mondo reale, come i bambini nelle pance delle loro madri in travaglio. Ma non avevo mai visto, coscientemente, creature appartenenti a un altro mondo e la cosa mi sconvolse. Cercai la mano di Noni che, notando il mio sguardo turbato, mi lanciò un'occhiata ammonitrice che mi ordinava di non dire una parola. E così feci, dissimulando come meglio potei per tutto il resto dell'incontro, poiché né Mattheline né Justin sembravano aver notato i nostri ospiti ultraterreni; e credo che persino Noni li scorgesse appena. Alla fine, mi lasciò la mano e con un gesto indicò che dovevamo prendere posto dietro di lei, nel cerchio. Cosa che facemmo, io in particolare, cercando di imitare i movimenti degli altri. Ana Magdalena era rivolta verso nord dove, oltre la statua di legno e il velo grigio delle foglie di ulivi, dormiva la città di Tolosa, scura e impenetrabile. Con un profondo tono gutturale intonò un canto pronunciando parole nella sua lingua natia (o, almeno, così pensai visto che non ne riconobbi nessuna), all'inizio lentamente e poi un po' più veloce, alzando la voce di un tono... Sollevai lo sguardo al cielo e vidi la luna e le stelle effondere la loro luce fino ad un punto sovrastante il nostro piccolo circolo dove diventò più forte, sempre di più, fina a muoversi... Deosil, Noni mi aveva spiegato, e cioè in senso orario, la direzione dell'invito, dell'unione. Turbinò su se stessa, un vortice che si abbassò sempre di più fino a penetrare il leggero velo azzurro che ci circondava avvolgendo Ana Magdalena. Com'era bella! Sebbene non riuscissi a vederle il volto, osservai il suo corpo diventare sempre più eretto, più forte e più alto, come se la luce si diffondesse dalle sue ossa e la sollevasse verso il cielo. E quando spalancò le braccia per accompagnare la sua discesa, le maniche le scivolarono all'indietro mostrando una pelle non più scurita dal sole e macchiata dagli anni, ma opalescente, contornata da un chiarore forte come quello della luna. Talmente forte che strizzai gli occhi e in quel bagliore non riuscii più a riconoscere la sagoma sottilissima dello spirito del turco. Noni gettò la testa all'indietro e il soggolo le volò via, svelando i disciolti capelli di un nero-bluastro striati da ciocche argentee che arrivavano ol-
tre la vita. Si raddrizzò e abbassò le braccia e poi, indicando il nord, gridò un ordine con un tono acuto. Incapace di contenere la mia gioia, risi ad alta voce, poiché l'aria era diventata viva, vibrante come se fosse stata riempita con l'energia di migliaia di api ronzanti o con il turbinio di una tempesta impetuosa. Justin e Mattheline, che mi affiancavano, erano come rapiti e non facevano caso al mio giubilo. Poi Ana Magdalena, e qualcosa di molto più grande di lei, si voltò verso est e, in quel giro l'indice iscrisse, all'altezza della vita, una spessa linea di luce dorata. Ancora ricordo l'immagine del suo volto di profilo; com'era bello e senza età. Si voltò ancora una volta e poi un'altra e alla fine ci ritrovammo nuovamente a guardare il nord, completamente racchiusi dallo scintillante cerchio dorato; intorno a noi, quello che era stato un sottile velo azzurro, ora era soltanto un robusto cerchio color zaffiro, punteggiato di scintille d'oro. Un cerchio attraverso il quale riuscivo a vedere bene: con mia grande sorpresa vidi degli esseri che stavano proprio al suo esterno. In ognuna delle quattro direzioni verso le quali Noni si era diretta, c'erano dei giganti che sfioravano il cielo e ognuno emanava colori diversi: i verdi e i marroni muschiati della terra; il giallo scintillante del sole; i rossi e gli arancioni delle fiamme incandescenti, e l'azzurro profondo del mare. Giganti, ho detto, ma soltanto due di loro, quello giallo e quello verde, assunsero sembianze umane; gli altri, il rosso e l'azzurro, erano più che altro una forza pura, colonne di luce prismatica viva che assomigliava al sole, alle stelle e alla luna più che a qualsiasi altra persona o creatura. Sembravano totalmente privi di sensibilità e freddi come le pietre, o come la Morte stessa, ma io non li temevo, poiché era chiaro che fossero delle sentinelle, che ci proteggevano, pronte a servirci se mai gli avessimo dato degli ordini. Più distante, all'esterno del luminoso calore del cerchio, svolazzava una pletora di neri esseri informi impazienti di assumere qualsiasi forma gli si volesse imprimere; altri, sembravano bramosi di attaccarsi come sanguisughe su coloro che non avevano la forza di scacciarli via. La mia attenzione fu subito distolta quando Noni, voltandosi verso di noi, si trasformò nella rappresentante vivente della Dea la cui statua si ergeva alle nostre spalle. Il volto era radioso, le mani e le braccia erano leggermente distese in quello stesso gesto invitante che avevo visto tante volte sulle statue di Maria. La lucentezza che emanava da lei, mi ferì gli oc-
chi, tuttavia quella vista era troppo bella per distogliere lo sguardo. Persino Justin e Mattheline restarono sbalorditi da quella visione, sebbene avessero certamente assistito alla trasfigurazione di mia nonna, molte altre volte. E quando Ana Magdalena chiese: «Cosa vogliono i miei figli da me?», Mattheline s'inchinò e con pura devozione disse: «La mia bambina, la mia Clotilde è malata; vorrei che guarisse». In risposta, mia nonna distese le braccia come se invitasse Mattheline alla mia destra e Justin alla mia sinistra; e essi mi presero per mano. Sentii immediatamente una scintilla, come quella che a volte si avverte in inverno quando l'aria è secca, e una scarica provenire da loro e inondarmi come lo sfolgorio del lampo prima che tocchi terra. La sensazione aumentò quando, lentamente, iniziammo a camminare di fianco, disegnando in senso orario un cerchio più piccolo all'interno di quello già esistente. Ana Magdalena ci guidava, aumentando via via il passo e recitando a voce bassa parole che, di nuovo, non compresi, ad eccezione di una frase: Diana, Diana, la bona Dea... Gli altri si unirono al canto e io li seguii come meglio potei, fin quando Mattheline, scandendo le parole, accostò il suo volto al mio e mi spiegò: «Immaginiamo un grande cono bianco con la punta al centro del nostro cerchio; solo quando sarà diventato indistruttibile lo invieremo alla mia Clotilde». E infatti, fu proprio ciò che vidi materializzarsi in mezzo a noi: un vortice di luce bianca, che roteava velocissimo mentre noi vi danzavamo intorno sempre più frenetici. La notte era fresca ma ben presto fummo madidi di sudore, non a causa del ballo, ma per l'incredibile calore generato dal cono, e il tono del nostro cantilenare era salito talmente in alto che pensai avesse toccato il massimo; e, invece, continuò a salire. Il calore, l'energia che mi attraversava e il canto che vibrava in ogni parte del mio corpo mi causava un'estasi quasi insostenibile nella sua intensità; il cono, a quel punto, era diventato talmente largo e alto che perforò la parte superiore del globo azzurro e ci inghiottì; inoltre, ormai era così opaco che non riuscii più a vedere mia nonna davanti a me. A quel punto la sentii urlare: Ora! La danza terminò con un ansito collettivo mentre cadevamo l'uno sull'altro. Noni, Justin e Mattheline gettarono le braccia al cielo (e, chiaramente, io li imitai); poi, la forza viaggiò verso l'alto e lontano da noi. Con la punta aperta e all'insù, il cono navigò nel cielo notturno, in cerca della bambina
di Mattheline. E la trovò: lo Vidi roteare sul nostro villaggio, entrare dalla porta superiore leggermente aperta di una casetta dove, sopra un largo letto di paglia, una bambina di pochi mesi avvolta in fasce dormiva inquieta. Era pallida e malata, senza capelli come i bambini appena nati, con la pelle gialla, le guance scavate e occhiaie troppo scure per un visino così piccolo. Il cono di luce la ingoiò, avvolgendola tutta, come la balena fece con Giona. Lentamente, la luce fu assorbita dal suo corpo fino a quando sembrò irradiarla dall'interno e il giallo della pelle si attutì, sostituendosi con un dolce rosato, come quello di una pesca. Mentre la guardavo, sospirò dolcemente e precipitò in un profondo sonno ristoratore. Gli altri non Videro, ma avevano gli occhi luminosi, i volti infiammati e felici. Eravamo tutti esausti e sudati per l'esperienza appena vissuta; io, però, mi sentivo anche eccitata, poiché avevo sperimentato il potere della Dea in un altro modo. Quello non fu l'unico incantesimo che facemmo quella sera; Noni aveva portato con sé delle erbe che tutti infondemmo di poteri magici e che poi mangiammo, con l'intenzione che la Dea aiutasse il nostro villaggio ad affrontare l'autunno e l'inverno. Ci furono anche preghiere più palesi e richieste veicolate dalle litanie di Noni; infine Ana Magdalena andò in ognuno dei quattro quarti del circolo e congedò, uno alla volta, i nostri mastodontici guardiani. Provai una punta di delusione, poiché mai avevo sperimentato una tale libertà come durante l'esperienza della Vista, o alla presenza costante della Dea; avrei voluto che il circolo non si sciogliesse più. In quel preciso istante, quando lo scintillante gigante giallo si voltò per andarsene, vidi di sfuggita una sfera di luce bianca proprio alle sue spalle, immobile come un faro, che mi colmò di gioia indicibile poiché sapevo che aspettava me. Quando, però, il guardiano azzurro dell'ovest se ne andò, vidi una colonna nera... Anzi, parole come nera o scura rischierebbero di denigrare ciò che vidi; poiché, senza il dolce sollievo dell'oscurità e il nero prezioso della notte, odieremmo la lucentezza del giorno; si trattava, in realtà, di un vuoto, né buio né luminoso, che simboleggiava la triste assenza di tutto: vita e speranza. E anch'esso aspettava me. Iniziarono a tremarmi le ginocchia; non so come riuscii a stare in piedi
mentre Noni apriva il cerchio. E quando ebbe salutato i guardiani e cancellato con il piede l'ultimo segno inciso nella terra (facendo sparire sia la sfera azzurra che il cerchio dorato, insieme alle altre creature ultraterrene) le chiesi: «Il circolo dura sempre così poco?». Mattheline, più rapida, anticipò la risposta di Noni: «No. Spesso dura fino all'alba; ma ancora non hai iniziato il Sentiero e non conosci i suoi segreti. Con il tempo, forse tra un anno...». «La cerimonia d'iniziazione avverrà alla prossima luna», disse Noni con un'asprezza che impediva qualsiasi dissenso, e ora non più nelle vesti della Dea ma semplicemente come mia nonna. Mattheline sollevò le sottili sopracciglia chiare. «Un mese? Perché la nipote della sacerdotessa aspetta solo un mese mentre io ne ho aspettati otto e Justin addirittura nove?» «Matthe», la rimproverò Justin, posandole una mano sulla spalla. «Ana Magdalena è la sacerdotessa e ha il diritto...». Mattheline si calmò e non aggiunse altro, ma le apparve sulla fronte una piccola ruga di disapprovazione. «Sapevate già che la mia Sybille era doppiamente dotata della Vista», spiegò Noni. «Per tutta la vita è stata preparata al Sentiero: oggi è qui tra noi perché è pronta. Alla prossima luna, inizierà». Non furono scambiate altre parole quella sera e dopo esserci congedate dagli altri camminammo verso casa attraverso i campi. Dopo un lungo silenzio, mia nonna disse: «Justin è un bravo ragazzo. Non è forte nella Vista come lo era sua madre ma la sua famiglia appartiene alla Razza». «Mentre quella di Mattheline no», dissi io, azzardando tale ipotesi. Respirò profondamente e poi sospirò. «Le generazioni passate vi appartenevano; poi, a causa di matrimoni misti, la dote si affievolì. Tuttavia, è stata ammessa al Sentiero». Trascorse un altro momento di silenzio; percepivo nell'aria parole non dette ma mi frenai fino a quando fu Noni a dire: «Il tuo destino, bambina mia, va oltre il nostro piccolo circolo. La peste ha allentato la sua presa ma pericoli ben più grandi incombono. La tua Vista è molto più potente della mia; e tra un mese, anche i tuoi poteri magici lo saranno. Quando sarà il momento...». «Quale magia, nel villaggio, è più potente di quella che ho visto stanotte?» «La magia che è dentro di te, Sybille. Il tuo destino è altrove». Parlò con dolcezza e con tale deferenza che fui colta di sorpresa; tuttavia, sapevo che
parlava con la massima serietà, poiché raramente mi chiamava con il nome di battesimo francese quando eravamo sole. «Non capisco...». «Capirai, col tempo. Prendi». Dalla tasca della sua gonna nera estrasse un sacchetto di tessuto, legato ad una corda. «Ti proteggerà da tutti gli influssi negativi durante questo tragico periodo; poiché mai, finora, sei stata tanto vulnerabile». Lo presi e, grata, lo infilai attorno al collo; Noni, però, restò con la mano tesa, in attesa di qualcosa. «Il talismano d'oro, ce l'hai ancora, vero?». Certo; ma sentii improvvisamente un'incombente riluttanza a separarmene. Vedendo la mia esitazione, Noni agitò la mano, impaziente. «Bambina mia, non ci possono essere altre influenze su di te ad eccezione di quella della Dea. Il talismano dell'ebreo ti ha indubbiamente protetta e ti ha salvata dalla peste; il mio, però, ti proteggerà non solo dai pericoli di questo mondo ma anche da quello invisibile, quello che ora sa della tua esistenza. Ti chiedo di darmi il talismano, adesso. Non ti fidi di me?». Senza ulteriori proteste, mi sfilai la bella catena d'oro dalla testa e la feci scivolare sulla mano aperta di mia nonna. «La conserverò con grande cura», disse sorridendo, e fu solo dopo qualche tempo che capii veramente ciò che aveva voluto dire. Nei giorni che precedettero la mia Iniziazione, ebbi modo di pensare a ciò che aveva detto Noni; mai prima d'allora, però, la Dea era sembrata tanto distante, e i miei pensieri tanto confusi e incoerenti. Il tuo destino è altrove... Che sciocchezza; che motivo c'era di lasciare il mio villaggio? Mai e poi mai avrei abbandonato Noni e mia madre. Mai... Quando venivo assalita da questi terribili pensieri, cercavo di allontanarli immaginando la mia vita come moglie del fabbro. Qualche giorno dopo l'esperienza del circolo, infatti, Justin aveva fatto visita a mia madre e l'aveva convinta ad accettarlo come mio promesso sposo, vista anche la penuria di uomini che potevano essere definiti "un buon partito". L'accordo fu fatto; la data fu decisa e un giorno di settembre, mese successivo, Justin si presentò con il telaio di quercia di sua madre. Sposare Justin non sarebbe stato spiacevole, visto che era giovane e bello, di buon carattere e mostrava sul petto e sulle spalle muscoli tali da suscitare in me fantasie decisamente poco infantili. Mia madre ne era compiaciuta perché Justin e le
sorelle sopravvissute erano tra i più ricchi del villaggio e ciò la convinceva del fatto che in vecchiaia sarebbe stata accudita a dovere; e tutto il giorno non faceva che parlare dell'imminente matrimonio. Tuttavia, da quando mio padre era morto, era molto cambiata; aveva poco appetito, le guance scavate e gli occhi sempre più carichi di diffidenza. Ascoltavo rispettosa tutti i suoi consigli quando sedevamo accanto al fuoco a cucire la coperta nuziale, e mia madre spesso piangeva pensando a quella cucita per lei vent'anni prima, in occasione del suo fidanzamento con mio padre. Il mio cuore e la mia mente, però, erano concentrati su ciò che sarebbe successo durante l'Iniziazione e la strana distanza che cresceva tra me, la Dea e la Vista. Alla fine arrivò il gran giorno o, piuttosto, la gran notte, e fu una notte in cui nuvole nere oscuravano persino il cielo buio e stillavano una calda pioggia incessante. Quando io e Noni ci annodammo i mantelli, mentre mia madre dormiva profondamente, mi sentii afferrare dal nervosismo. Le dita mi tremavano e non provavo l'euforia e la trepidazione che mi ero aspettata, ma puro terrore. Non riuscii a guardare mia nonna negli occhi e Noni non provò a cercare i miei e quando uscimmo dal cottage sotto la pioggia, non scambiammo una parola. Mia nonna camminava con insolita fretta e determinazione e, nonostante l'aria umida, iniziai a sudare sotto il vestito, passo dopo passo. Eravamo dirette all'uliveto, o almeno così pensavo, fin quando Noni girò improvvisamente a sinistra verso le colline a est del villaggio. Avanzavamo verso la foresta di querce e di sempreverdi, scivolando di tanto in tanto sul tappeto sdrucciolevole di foglie morte, lungo il dolce pendio dove i rami degli antichi alberi ci proteggevano dalla pioggia. Da dietro un albero sbucò una figura nera. Un uomo, alto, mascherato e incappucciato, una semplice sagoma nella notte buia, anche se la lama della sua spada era inconfondibile. Pensai si trattasse di un gendarme e che saremmo state arrestate e bruciate come streghe. Urlai e caddi in ginocchio. «Non fate un altro passo!», ci ordinò. Con gran sollievo riconobbi la voce di Justin, anche se non era propriamente la stessa, così come quella di mia nonna si era trasformata quando aveva indossato le vesti di sacerdotessa. Dietro di lui si rese visibile una figura più piccola, anch'essa mascherata e capii che si trattava di Mattheline. Stavano recitando un antico rituale ma quando la ragazza mi bendò e sentii la punta affilata di una spada
scalfire il mio vestito e per poco infilzare la pelle tra i seni, fui presa dal panico. «Guai a te», disse Justin, «se rivelerai i nomi dei tuoi fratelli e delle tue sorelle a coloro che non appartengono alla Dea o se La disonorerai. Poiché, allora, sarai maledetta dalla Sua ira e dalla Sua furia nonché dalla nostra e ti daremo la caccia non solo in questo mondo, ma in tutti gli altri, e non solo in questa vita ma anche in quella che verrà. Hai capito?» «Ho capito», risposi con un tono di voce talmente debole che feci fatica a riconoscerla come mia. «Giura allora sulla tua vita e sulla magia che resterai fedele alla Dea e al circolo e mai, neppure minacciata di morte, rivelerai i nomi dei tuoi fratelli e delle tue sorelle a chi non appartiene alla Razza». «Sulla mia vita e sulla magia, lo giuro». «Allora iniziamo», disse, allontanando la punta dai miei seni. Fui costretta a proseguire carponi, tutt'altro che elegantemente, e m'inoltrai sulle colline, sussultando ad ogni pigna che calpestavo. Salimmo sempre di più e sentivo gli altri ansimare dietro di me; alla fine, la collina si spianò e fui condotta, sopra rocce umide, all'interno di ciò che credevo fosse una caverna, poiché la pioggia cessò e sentii che il terreno sotto i miei piedi era asciutto. Fui costretta a sedermi contro una fredda parete rocciosa; sopra di me, la voce di Noni ordinò: «Ingoia». Un bolo fu spinto tra le mie labbra; lo accettai e iniziai a masticare, poiché mi sembrava troppo grande per ingoiarlo intero. Era così amaro e cattivo che sentii affiorare dei conati di vomito e stavo quasi per sputarlo quando percepii sulle labbra il bordo di una tazza e ascoltai ancora l'ordine: «Ingoia». Bevvi un sorso dalla tazza e fui sollevata nel sentire che si trattava di una tisana alla menta. Anche così, il bolo scendeva a fatica, e per alcuni attimi mi strinsi contro la fredda pietra in una nauseata agonia mentre Noni mi faceva bere altri sorsi di tisana. Alla fine la nausea passò e feci per alzarmi e togliermi la benda quando i miei tre compagni mi costrinsero a sdraiarmi con la faccia all'insù, premendomi a terra le costole, gli arti e le spalle. Fui pervasa da un principio di stanchezza e senza lottare ulteriormente mi lasciai spingere giù. Giù, giù, giù fino al centro della terra, giù fino alla Dea... Fuori, il tamburellare della pioggia; dentro, il suono assordante del mio stesso respiro. Il mantello bagnato mi fu slacciato e tolto con dolcezza mentre due pic-
cole mani, mani femminili, mi sollevarono la gonna e iniziarono a strofinarmi le gambe, lentamente e ininterrottamente. In breve tempo capii che venivo spalmata con un unguento a base di erbe. L'effetto fu quasi immediato: il mio respiro si fece lento e pesante, il mio comportamento totalmente passivo e sereno; il tessuto usurato della gonna e della sottana che mi scivolavano via sulla pelle di braccia e busto mi procurava un immenso piacere e la mia nudità non mi suscitava alcuna ansia... Fuori c'erano i tuoni, meravigliosi tuoni roboanti e io mi trovavo dentro la caverna, estasiata, avvertendo un brusio in me mentre tre paia di mani si muovevano lente e sensuali lungo le mie braccia, il mio corpo, intonando a bocca chiusa una litania senza parole in un'assurda armonia. Il tono si alzò sempre di più fin quando si trasformò nel folle ronzio delle api e io risi ad alta voce. Il massaggio rallentò di colpo e io non riuscii più a distinguere le mani come arti separati; mi sentivo toccata da un'unica grande carezza e il mio corpo iniziò a contrarsi e a dilatarsi come durante il parto, senza dolore, ma con la stessa identica sensazione di lotta e disperazione che prelude alla nascita, alla liberazione... All'improvviso il mio corpo fu consumato da un terribile fuoco ghiacciato; mi misi seduta e poi carponi e quindi vomitai. Mi sentii subito meglio. Seduta, mi liberai della benda e scoprii che ero sola e che la caverna era illuminata a giorno, accecante, addirittura, per i miei occhi abbacinati, poiché era stato acceso un fuoco vicino all'entrata, ad un tiro di pietra da dove mi trovavo. Era una notevole distanza ma riuscivo a vedere con una chiarezza sovrannaturale, irreale quasi: un fuoco luminoso come il sole e prismatico come una gemma, incastonato da lingue color zaffiro, rubino, smeraldo e striato di rame, argento e oro. Se pure al di là ci fosse stata la notte, io non l'avrei vista, perché mi sembrava che il mondo intero fosse in fiamme. Di tutta quell'esperienza, ciò che ricordo più distintamente fu il chiarore della luce. Sollevai una mano per ripararmi gli occhi da quel fastidio, tuttavia era così bello che non riuscivo a distoglierli. Il fuoco s'intorbidì, diventando più alto e più largo ad ogni mio respiro; e mentre cresceva, i colori si scurivano: oro, argento e rame si fusero in un cremisi sinistro, lo zaffiro e lo smeraldo nel nero. Si trattava di fiamme scure, divoranti e impietose; mi rannicchiai, stringendomi invano contro la parete fredda, mentre guardavo tendini color
sangue che cercavano di afferrarmi; una scintilla luminosa balzò in aria e galleggiò verso il basso: uno zampillo di cenere che atterrò sulla mia gamba facendomi urlare di paura e di sorpresa. Non riuscivo, però, ad allontanare lo sguardo, poiché sapevo che dentro le fiamme c'era una visione e con essa il mio destino. Più la rifuggivo e più mi avvicinavo ad essa e scrutando attentamente nel cuore della fiamma, Vidi: migliaia e migliaia di uomini in miniatura, nati mille anni fa e che sarebbero nati tra mille anni e negli anni che sarebbero trascorsi; mori ed ebrei, cristiani, pagani e non credenti, lebbrosi e in salute, schiavi, servi e mercanti, dame e cavalieri; tutti, agonizzanti, intrappolati tra le fiamme. Molti urlavano alla Dea, chiamandola con i Suoi diversi appellativi; altri, non appartenenti alla Razza, gridavano ai loro dèi, o all'umanità stessa, supplicando di porre fine a tale crudeltà. Tutti bruciavano tra le fiamme eterne. Disperata, gridai il nome segreto della Dea. Ella rispose con un improvviso flusso di calore che mi pervase il cuore; per nulla doloroso, un puro conforto, la vita pura. Mi ritrovai di nuovo nella caverna, a una certa distanza dal fuoco, che non sembrava più così minaccioso né tanto luminoso. Tuttavia, non ero libera di alzarmi; infatti Justin era disteso sopra di me, la sua pelle premuta contro la mia, le sue labbra sulle mie labbra e sul mio collo, e la sua mano destra sul mio seno. La mano sinistra si muoveva gentile ma decisa tra le mie cosce, separandole; poi Justin sollevò il torso tenendosi in equilibrio su un braccio. Anche lui aveva lasciato i confini del mondo reale per unirsi a me; i suoi occhi erano del verde-grigio del mare in tempesta, le pupille dilatate e infinitamente profonde. Quella notte assomigliava a un selvaggio, i capelli arruffati e mossi, il corpo nudo luccicante di unguento e sporco di terra della caverna; i muscoli delle braccia e del petto sembravano molto più belli di qualsiasi scultura o incisione artistica. Meravigliata, sollevai una mano fino a sfiorarli e risi un poco quando li sentii fremere al mio tocco. Con la punta delle dita gli accarezzai le spalle fino al petto e all'addome. Quindi, mi fermai al soffice nido scuro dei peli pubici da cui emergeva il suo sesso, eretto ed eccitato. Cercai di toccarlo, presa da un'innocente curiosità e dall'improvviso brutale desiderio di essere compenetrata totalmente; ma sotto di noi parlò una voce silenziosa. Non è ancora il momento. Prima che potessi parlare, Justin tolse la mano dal mio seno e guidò il
suo sesso tra le mie gambe; poi inarcò la schiena e con un gemito si spinse dentro di me. La sensazione fu di dolore fugace e di intenso piacere; una seconda spinta e anch'io gemetti di intenso desiderio. Ma non per Justin. Non per lui... Non è ancora il momento. Fui afferrata da una grande forza; con la stessa facilità con cui avrei scacciato una mosca, lo respinsi, seppur riluttante, e mi misi a sedere. Cadde su un fianco, ansimante e in quell'istante vidi un'eternità di emozioni passargli sul volto: il desiderio, e poi il dolore sincero, seguito dal dispiacere dovuto alla consapevolezza che in me non avrebbe mai ritrovato la sua amata Bernice. Fu colto nuovamente dal desiderio e cercò di avvicinarsi a me; lo respinsi dicendo, nel modo più dolce possibile: «No, non sei Lui». «Ma tu devi», disse, lamentandosi come un bambino. «È così che bisogna iniziare». «Non io». Mi alzai e capii che mi erano tornate le forze e che il torpore e lo sconforto erano svaniti. Justin non protestò più e cadde a terra, gli occhi assenti fissati al soffitto. Corsi piano all'entrata della caverna, non più impaurita dal fuoco ma contenta per il calore che emanava. Poggiando una mano sul muro di pietra, guardai fuori. Aveva smesso di piovere e il velo di nuvole si era ritirato rivelando stelle così luminose che i raggi toccavano quasi la terra; la luna era enorme e iridescente, venata da un azzurro e un rosa scintillanti; così radiosa che vedevo ogni luminosa goccia tremolante pendere dalle foglie della foresta. La Dea era con me ancora una volta. Sorrisi e, in lontananza, vidi una piccola orbita di luce bianca muoversi tra gli alberi. Via via che si avvicinava si faceva sempre più grande e quando mi fu accanto vidi che era più alta e più vasta di me. Era la luce che avevo visto all'esterno del circolo durante la luna precedente e che mi aspettava; fiduciosa di vedere una visone della Dea, mi inginocchiai... ...ma tutto ciò che emerse dalla luce fu un vecchio, con la barba e i capelli ricci lunghi fino alla vita. L'ebreo che mi aveva salvata, curvo e vestito proprio come allora, la testa nascosta sotto il cappello a punta, la fascia di feltro gialla appuntata sulla scura tunica da mercante. I suoi occhi scuri, dalle orbite ingiallite per l'età, emanavano un amore infinito tanto che nei miei affiorarono le lacrime.
«Jacob», lo salutai, meravigliandomi del fatto che conoscessi il suo nome, e realizzando allo stesso tempo che lo conoscevo da sempre, proprio come da sempre lo amavo come profeta e maestro. «Mia signora», disse, con mia totale sorpresa e, prendendo una mano tra le sue, mi fece alzare in piedi per poi inginocchiarsi a sua volta e premere le labbra sulle nocche della mia mano, come un cavaliere che giura fedeltà alla sua regina. «No», dissi, inorridita. «Jacob, tu non devi inginocchiarti davanti a me». E, come eseguendo un comando, si alzò immediatamente per poi voltarsi e indicare la grande orbita bianca, che ancora era lì. Il mio sguardo seguì quella direzione e, davanti ai miei occhi, vidi un'altra figura che si fondeva in quel bagliore: si trattava di un altro uomo, con i capelli di un rosa dorato simile al rame lucidato, delicato e dalle fattezze regolari. Era vestito con i velluti e le sete tipiche della nobiltà e portava una grande spada sul fianco. Lo conoscevo, ma allo stesso tempo mi era estraneo e quindi mi voltai verso Jacob dicendo: «Chi è?» «Edouard. Uno dei tanti», rispose. «Tornerai a ricordarti di noi». La figura all'interno della sfera di luce si trasformò in quella di un prete; e poi ancora in quella di un terzo uomo, e poi di un quarto; quindi, iniziò a roteare così rapidamente che mi venne il capogiro, fin quando mi accorsi di un vecchio capotribù sulla cui testa poggiava una rozza corona d'oro. «E lui?», chiesi. «Uno leggendario», rispose Jacob. «Il suo nome significava Orso». E poi un uomo più anziano, con i baffi bianchi curati e la barba, vestito con l'armatura di ferro di un cavaliere del passato: sopra l'armatura indossava una larga tunica bianca, blasonata con una croce rosso sangue. Il volto era lungo e severo, le sopracciglia folte di un nero ancor più crudele; lo guardavo mentre le fiamme gli consumavano la barba, le ciglia e i capelli. «Jacques», sussurrai, mentre il volto del cavaliere baciato dalle fiamme si fondeva con quello del mio amato ebreo. «Jacob...», dissi, alzando lo sguardo verso il mio compagno trattenendo le lacrime. «Jacob, quante volte ancora dovrai subire questo martirio a causa mia?». In risposta, sorrise con semplicità indicando la sfera di luce bianca che ancora ci sovrastava. E allora guardai la luce e vidi lui, il mio amore, Colui che ho sempre amato e sempre amerò. Nel vederlo, fui colta da un desiderio insostenibile, un desiderio che non avevo mai creduto, fino a quel momento, di possede-
re da sempre. Era un dolore fisico, un desiderio sessuale che consumava il mio corpo come una fiamma, come mi succede adesso, quando ne parlo, ma, ancor di più, un desiderio sincero dell'anima. Sperando di soddisfarlo mi ero fidanzata prima con Guillaume e poi con Justin e per ben due volte ero rimasta delusa. Per lui avevo respinto Justin e avevo provato una sensazione di sollievo quando Guillaume era morto; per lui non smetterò di cercare fin quando non l'avrò trovato, in questa vita. Poiché senza di lui, io e il mio destino non saremo mai completi; senza di lui, io e la nostra Razza non sopravviveremo alle fiamme. «C'è un momento e un luogo per gli incantesimi e i canti», disse Jacob. «E i talismani». Dicendo questa parola mi lanciò uno sguardo stranamente incisivo e poi continuò: «Dovrete imparare, però, la forma più alta di magia se volete che la Razza continui. Poiché in questa generazione, mia signora, ci aspetta un male terribile; talmente grande che perfino un veggente come voi non può distinguerne il risultato: e cioè se riusciremo a sopravvivere, se qualcuno di noi riuscirà a sfuggire alle fiamme. Se moriremo, gli uomini e le donne del mondo, privati della nostra guida, si perderanno, condannati a uccidere il prossimo e se stessi fino a svuotare il mondo». «E allora insegnami questa magia», insistetti, ma egli scosse triste il capo. «Mi piacerebbe farlo ora e salvare la terra; ma spetta al signore e alla sua dama scoprirlo e rivelarlo, l'uno all'altra...». Mentre parlava, mi sentivo svenire di un piacere al di là di ogni immaginazione al solo pensiero di unirmi al mio signore; per un attimo mi persi completamente in queste fantasie quando sentii Jacob che diceva: «Solo allora la loro magia sarà la più grande e la più potente. È necessaria, per combattere i nemici della Razza e del genere umano». Jacob si voltò triste verso la sfera scintillante e con mio grande terrore vidi che non era più luminosa ma completamente buia. Anzi, ancora più nera del buio: era il vuoto assoluto, la negazione della negazione, la fine di tutte le speranze, l'orrore che avevo percepito all'esterno del mio primo circolo. Guardai all'interno e vidi i volti di tanti uomini; un altro nobile armato di spada, un prete e tanti altri, diversi da quelli che avevo visto nella luce: Nemici; tuttavia, stranamente familiari. «Anche questi uomini appartengono alla Razza», dissi turbata. «Sì», rispose Jacob, con la voce e i modi calmi e profondi, riflessivi per-
sino, mentre io mi sforzavo, con grande difficoltà, di impedire che le mie ginocchia tremanti cedessero del tutto. Si voltò verso di me e mi guardò con pura compassione. «Perché?», chiesi. Rispose veloce: «Temono se stessi. La tragedia, però, è che la maggior parte di loro cerca di fare il bene. Ma anche una forza potente come l'amore, quando è contaminata dalla paura, porta solo al male». Scrutò, ancora una volta, il terribile vuoto. La sua compassione mi infuse un po' di forza: guardai di nuovo verso il buio, su quella schiera di volti, pensando che non avevo mai visto nulla di tanto doloroso. E poi il vuoto... Perdonatemi, fratello Michel, la mia voce mi tradisce; non riesco più a parlare. Vi chiedo solo un attimo... Sto bene, sto bene. Non piangerò. Non piangerò. Poi quel nulla si svuotò ma restò a turbinare di fronte a me, sinistro, impaziente. E fui afferrata da un terrore ancora più profondo, quando Jacob, accanto a me, disse: «Questo è il nostro Nemico più grande». E all'interno di quel vuoto si materializzò il corpo di un uomo... gradatamente, indistintamente, come se fosse coperto da un velo di nebbia che lentamente si disperdeva. I suoi lineamenti furono gli ultimi a comparire e via via che li vedevo, una terribile sensazione di terrore discese su di me tanto che gridai: «No! No! Non posso guardare! Non posso!». Caddi in ginocchio e mi coprii gli occhi. Jacob si accovacciò accanto a me mi sussurrò in un orecchio: «Dovete farlo, mia signora. Dovete, altrimenti saremo perduti, tutti...». Tuttavia, non ci riuscii; avevo visto abbastanza orrori per quella notte. Tenni i palmi delle mani premuti sugli occhi e mi rannicchiai lì, sulla terra e le foglie umide. Non so quanto tempo restai così, in ginocchio e in preda ai brividi, ma quando infine scoprii gli occhi, Jacob e il vuoto erano scomparsi. Anche il cielo era cambiato, passando dalla notte più profonda alla meno intensa oscurità che precede l'alba, e le stelle iniziavano a sbiadire. Non emanavano più quella luce incredibile, sebbene fossero comunque più luminose di qualsiasi altra stella avessi mai visto, così come la foresta non era più illuminata a giorno. All'improvviso capii che la notte era trascorsa e che presto mia madre si
sarebbe svegliata: corsi verso la caverna e vidi che Justin non c'era più e il fuoco si era estinto. Per fortuna, c'erano la mia sottana, il mio vestito e il mantello, asciutto e piegato con cura; mi vestii in fretta e corsi giù verso casa. Mia madre era a letto, e russava, ma c'era anche Noni, come se quella notte non fosse mai stata nella foresta. Mi svestii e scivolai nel letto accanto a loro, cercando di rallentare la rapidità del mio respiro. Non riuscii a dormire nell'ora che precedette il risveglio di Noni; sebbene Jacob fosse scomparso, lo sentivo ancora presente nella mia mente, e tutte le domande che mi avevano turbata sin dalla mia prima visione, ora, una ad una, ricevevano una risposta. Lo ricordai fuori dalla porta della nostra casa, l'ultimo giorno della sua vita, mentre mi diceva: Carcassonne è un luogo sicuro. Signore, aveva gridato mia nonna, a Carcassonne sono tutti morti o stanno per morire! Ma improvvisamente capii, nella grigia penombra che precede l'alba, che non parlava della salvezza dalla peste, ma da un Male più grande che ora ci fronteggiava: le fiamme create dai nostri Nemici per distruggerci. Prima mi precipitavo a Carcassonne e prima il mio destino si sarebbe compiuto. Il mio destino: Noni aveva ragione. Non era lì, nel piccolo circolo del nostro villaggio, ma altrove, sostenuto dagli uomini che avevo visto nella sfolgorante sfera luminosa. E, soprattutto, non era con Justin, ma con Colui il cui volto non avrei potuto dimenticare. Ero costretta a cercarlo, poiché solo allora avremmo salvato la Razza e sconfitto il più Grande dei Nemici. Non vedevo l'ora di raccontare a Noni tutto ciò che mi era successo: al contempo mi sentivo triste. Come potevo dirle che l'avrei lasciata da sola con mia madre per il resto dei suoi giorni, negandole il diritto di far nascere i suoi nipoti? Quando Noni, finalmente, si alzò, non ci scambiammo una parola, ma mantenemmo un silenzio indifferente mentre sbrigavamo le faccende mattutine. Mia madre si sarebbe alzata presto, dopotutto, e sarebbe stato stupido correre il rischio di farci scoprire parlando della notte appena trascorsa, anche perché c'era veramente molto da dire. Avevamo annunciato già da tempo la nostra intenzione di raccogliere, quella mattina, le ultime bacche dell'estate, sulla proprietà del seigneur, che produceva troppa frutta per la
sua famiglia, ormai decimata, ed era aperta a tutti i contadini; soprattutto sapendo che mia madre, che ancora non stava bene, sarebbe rimasta a letto. In quel modo io e Noni eravamo sicure di avere il tempo di descrivere tutto quello che era successo la notte della la mia Iniziazione. Come previsto, mia madre si svegliò in uno stato di agitazione, dicendo che si sentiva indisposta. Mentre io e Noni le passavamo davanti, munite di cestini e pronte per andare nei campi, mia madre mi afferrò il braccio con una forza insolita, e mi disse, supplichevole: «Resta con me, Marie Sybille. Mi sto ammalando di qualcosa di serio, lo sento; avrò bisogno del tuo aiuto e, inoltre, la tua presenza mi rassicura». Esitai e guardai Noni con la coda dell'occhio. Essendo una figlia ubbidiente era fuori discussione per me non soddisfare la richiesta di mia madre; speravo, però, che mia nonna potesse dire qualcosa, rassicurandola del fatto che saremmo tornate a casa presto. Noni esitò solo un attimo; poi, con mia grande sorpresa, disse con voce calma ma decisa. «Resta con tua madre, Sybille. È chiaro che ha bisogno di te». Cosa potevo dire? Non potevo disobbedire sia a mia nonna che a mia madre. Riluttante, misi a posto il cestino, mentre mia nonna usciva di casa, da sola. Quanto a mia madre, la risistemai nel letto e iniziai a somministrarle una tisana calmante, per precauzione, visto che non aveva segni di febbre, ma solo una strana, sgradevole agitazione negli occhi. La sofferenza, pensai, aveva infine presentato il conto ai suoi nervi, nonostante la pozione calmante e soporifera che le era stata data la notte prima. Le diedi altre erbe tranquillanti, poi mi sedetti sul letto insieme a lei e iniziai a lavorare alla mia coperta nuziale, raccontandole gli aneddoti più divertenti del villaggio sperando così di calmare la sua ansia. Ma ogni ora che passava diventava più inquieta, guardando fuori dalla finestra aperta. Anch'io guardavo fuori, cercando di seguire il suo sguardo, ma tutto ciò che vedevo era la strada polverosa che portava a Tolosa, la grande città a settentrione; più ad est, invece, c'erano il castello e la vigna del seigneur. E ogni volta che mi alzavo per dedicarmi a qualche faccenda domestica, mi afferrava il braccio, pregandomi di restare accanto a lei. E così feci, anche se a metà mattina era talmente agitata che faceva fatica a restare ferma. «Che c'è mamma?», le chiesi ripetutamente, ma lei mormorava: «Vedremo, vedremo» e continuava a guardare fuori dalla finestra. Alla fine balzò fuori dal letto con una sorprendente sveltezza e mi fece
cenno di seguirla. Poggiando un gomito sul davanzale, indicava un punto in lontananza. «Marie Sybille. I tuoi occhi sono migliori dei miei; dimmi cosa vedi». Feci quanto richiesto. In lontananza, un carro trainato da due cavalli neri avanzava rumoroso verso il villaggio lasciando dietro di sé una nuvola di polvere. Si avvicinava sempre di più, fino a quando i due occupanti divennero chiaramente visibili. «Chi sono?», disse mia madre ansimando, senza fiato. Notai le spade che portavano sui fianchi, i mantelli e i berretti identici. «Gendarmi», risposi, domandandomi cosa fosse successo di tanto grave da farli arrivare fino al nostro villaggio. Mi accorsi, allora, che sul retro del carro c'era un terzo uomo, vestito di nero. «Gendarmi e un prete». Accanto a me mia madre iniziò a tremare visibilmente tanto che le cedettero le gambe e riuscii ad afferrarla appena in tempo prima che cadesse. Mentre la trascinavo verso il letto mi strinse le spalle con una tale forza da farmi male e con occhi spalancati dalla follia, gridò: «Tu sei mia figlia, Marie Sybille... la mia unica figlia! Tu sai che ti amo più della mia stessa vita!». «Lo so, mamma, lo so. Ora calmati», la rassicurai, aggiustandole la coperta sulle spalle gracili e riportandola sul letto; ma era restia ad ogni conforto. Guardai di nuovo fuori dalla finestra, sebbene mia madre mi trattenesse e notai che il carro e i cavalli avevano svoltato ad est. «Guarda, mamma», le dissi allegra. «Non devi temere più nulla, hanno preso la strada che va al castello. Non vengono qui». Ma le mie parole non riuscirono a calmarla. «Ti voglio bene, Marie Sybille; voglio che tu sappia quanto!». «Lo so, mamma, e anch'io te ne voglio», risposi, temendo che si trovasse al primo stadio di un'encefalite, poiché non smetteva di agitarsi e di tremare. La fronte e le guance, però, erano fresche; quindi salii sul letto accanto a lei e ricominciai a cucire, tentando vanamente di rassicurarla e distrarla da questa misteriosa indisposizione. Si calmò un poco e infine smise di parlare, seduta rigida contro il cuscino, gli occhi furibondi e fissi sul mondo al di là della finestra, con le mani che stringevano la coperta così saldamente che la pelle sopra ogni nocca era color avorio. Dopo un poco, emise un altro grido e, alzando lo sguardo dal mio lavoro, vidi che aveva ripreso a guardare fuori dalla finestra... verso i gendarmi e il carro che ritornavano dal castello del seigneur.
Mi alzai e mi avvicinai alla finestra. «È tutto a posto, mamma, vedi? Stanno tornando in città; non vengono qui...». Ma mentre pronunciavo quelle parole fui sopraffatta da un terrore improvviso. Poiché dietro il carro non sedeva più una sola persona, ma due. Non riuscii a distinguere chiaramente le caratteristiche o i dettagli, tanto erano distanti; ebbi però l'impressione che uno era un prete e l'altra una donna, anch'essa vestita di nero. Tutti noi, però, possediamo la capacità di riconoscere chi ci sta a cuore, anche a grandi distanze. Prima che potessi voltarmi, terrorizzata, verso mia madre, me la ritrovai accanto che, con insolita forza, mi afferrava il polso per costringermi a voltarmi verso di lei. «L'ho fatto solo perché ti voglio bene, Marie Sybille», disse. «Guarda cosa ho trovato. Guarda cosa mi ha fatto quella donna!». Ero talmente confusa che fu in grado di trascinarmi fino al letto. Con una mano sfilò da sotto il materasso un oggetto avvolto in un pezzo di seta nera sfilacciata. Lo gettò sul letto e lo aprì rivelandone il contenuto: era una bambola, cucita con pezzetti di stoffa grezza e riempita di foglie e di terra. Una bambola, i cui ricami creavano l'effetto dei capelli e dei lineamenti; ricami neri; io, in quel periodo, usavo i fili chiari e avrei sicuramente notato se qualche colore fosse mancato tra le matassine. Legata al petto della bambola con una cordicella nera c'era il talismano d'oro di Jacob e sopra gli occhi era stata legata, a mo' di benda, una striscia di stoffa nera. Nero: il colore della protezione, se indossato volontariamente. Nero: il colore della costrizione e dell'oppressione, nel caso contrario. «Una maledizione», mia madre sibilò. «Ha gettato una maledizione su di me, proprio come ha fatto con il tuo povero padre; lo ha ucciso, mi capisci? Ma non lo farà con me; io sono una cristiana, fedele a Dio, a colui che mi ha salvata affinché potessi salvare te. Me lo ha detto padre André. Ha sempre cercato di corromperti, mia dolce Marie, e portarti verso il demonio. Sempre; ma io non glielo permetterò. Mi sorprende che non mi abbia strangolata durante il sonno...». Ascoltavo le parole di mia madre ma non riuscivo a trovarne di mie: la mia Noni, la mia cara Noni, che usava questa magia per controllarmi... Impossibile. Tuttavia davanti agli occhi avevo una prova: slegai, alla presenza di mia madre, il talismano d'oro che mi univa a Jacob e a coloro che mi avevano servita per un'eternità. Quindi, tolsi la benda alla bambola: e Vidi, e urlai affranta e angosciata comprendendo ciò che mia nonna stava per fare per me. E per la Razza.
Strinsi il talismano nella mano e senza neanche dirle addio, mi separai da mia madre, per sempre. Corsi. Corsi più veloce che potei lungo la strada polverosa che portava alla grande città di Tolosa, fino a quando gambe e polmoni iniziarono a bruciare; ma anche allora, avanzai a gran velocità, con la mente piena di immagini terribili. Della mia amatissima nonna, torturata dai suoi carcerieri; della mia Noni, che urlava per il dolore senza nessuno che potesse aiutarla. La mia Noni, che si contorceva tra le fiamme, proprio come quelle povere vittime quel giorno di tanti anni prima nella pubblica piazza di Tolosa. La mia Noni, che si era sacrificata per me. Una voce, profonda e sinistra, mi sussurrò nella mente, come se un essere invisibile mi avesse appena parlato all'orecchio: È quello il suo destino, se non corri a salvarla. La bruceranno, proprio come, un giorno, bruceranno te se non corri immediatamente alla prigione, la prigione nel ventre di Saint-Sernin... Al solo pensiero fui attraversata da un lampo di terrore e affrettai il passo fino a farmi mancare il fiato; tuttavia, in quella agitazione, affiorò lentamente un ricordo, sempre più nitido, di Noni che diceva: Fidati della Dea... E così, mentre correvo, pregavo. Santa Madre di Dio, fai che la tua pace discenda su di me. Guidami e dammi il potere di aiutare mia nonna come posso. Mostrami la magia necessaria per proteggerla dal male... Mi calmai, e lentamente compresi da dove proveniva quella voce sinistra; era l'oscurità che, da bambina, avevo visto in una delle mie visioni, e poi nel circolo, e una terza volta ancora durante la mia iniziazione: l'oscurità che cercava di consumare la luce. Fermati, mi ordinò la voce di Jacob, e io obbedii, bloccandomi di colpo tanto che tossii per la polvere sollevata dalla strada. E quando aprii ancora di più il mio cuore alla Dea, l'istinto mi disse di tornare indietro; non completamente, però, verso sud e il villaggio; ma verso sudest, a Carcassonne... e alla salvezza. Abbandonai, così, il sentiero e mi inoltrai nel bosco, dirigendomi verso alberi e cespugli, per ore e ore, fino a quando calò la notte e il buio mi costrinse a fermarmi. Tuttavia, il dolore non mi permise di chiudere occhio neppure per un attimo. Quando, infine, mi appisolai, feci un sogno...
Ero in città, inginocchiata all'interno di una grande cattedrale, che riconobbi come quella che avevo visitato diverse volte da bambina; l'imponente basilica di Saint-Sernin, con le grandi porte occidentali spalancate ai raggi del sole pomeridiano. Accanto a me, nel santuario principale, c'erano molte più persone di quante ne avessi mai viste prima: monache e monaci, naturalmente, ma anche gente di ogni estrazione sociale, contadini, mercanti e rappresentanti della piccola nobiltà, tutti affranti e in preghiera. Sull'altare, candele a morto, a centinaia; lungo le navate, i penitenti erano sdraiati a faccia in giù, le braccia allargate e le gambe unite per formare una croce romana mentre mormoravano il Padre Nostro e l'Ave Maria, tutti sotto un bassorilievo concavo raffigurante Cristo in tutta la sua gloria. Alcuni si fustigavano con strisce di pelle chiodate, mostrando le schiene insanguinate mentre pregavano. Nonostante la mia disperazione, provai una certa soggezione alla vista del santuario, così grande che poteva contenere cinquemila anime e tanto alto da toccare il sole; e da qualche parte, sotto quella bellezza e quella serenità, mia nonna soffriva. Sopra il paradiso e sotto l'inferno. Mi spostai in un punto distante dall'altare e lì m'inginocchiai sulla pietra fredda e recitai ancora le mie preghiere: Santa Madre di Dio, fa' che la tua pace discenda su di me. Guidami e aiutami a salvare mia nonna... Ripetei la preghiera all'infinito, fino a quando riuscì a calmarmi un poco; e con una sensazione di amore e sollievo, mi feci guidare, passo dopo passo, verso il mio destino. C'erano cinque navate buie. Osservai i miei piedi che procedevano verso la terza e lì scorsi un piccolo transetto che conduceva alle scale. Si snodavano giù lungo un corridoio scuro che terminava con una porta di legno serrata, alta tre volte più di me e due volte più larga. Con il potere tipico di chi sogna, attraversai fiduciosa le assi di legno, come fossi un fantasma. All'interno c'era un giovane muscoloso, forse più grande di me di un paio d'anni, con baffi spelacchiati color cannella e i capelli dello stesso colore. Stringeva, minaccioso, una spada nella mano destra. Senza dire una parola, oltrepassai lui e la soglia e mi ritrovai in un buio corridoio di pietra. Alla sua estremità, dietro sbarre di ferro, sedeva la mia Noni. Sorrise vedendomi, con una gioia così sincera e dolce che piansi lacrime di felicità, anche se in qualche modo percepivo che le avevano già fatto del male e che soffriva; e questa, in fondo, è la caratteristica dei sogni: non vedere le cose con chiarezza.
«Sibilla», disse, porgendo le mani oltre le sbarre. Arrivai fino in fondo al corridoio, le strinsi le mani e mi sedetti; e fu come se le sbarre si sciogliessero all'istante, tanto che più nulla ci divideva, niente, né la distanza, né i muri, neppure l'età o i corpi che ci rivestivano in questa vita. Le mie lacrime si fecero amare per il sale e il dolore. «Perché, Noni, perché? Perché mi hai nascosto la Vista?». Sorridendo, rispose: «Bimba mia, perché mi fai domande delle quali già conosci la risposta?». Era vero: se avessi saputo del pericolo, avrei insistito per andare con Noni nell'orto del seigneur, nel tentativo di proteggerla; non l'avrei lasciata salire su quel carro lasciandola entrare da sola in prigione. E così insistetti: «Devi restare qui? Io posso venire con te, portare Justin e Mattheline, trovare un modo per farti uscire da qui, troveremo un modo...». «Guarda nel tuo cuore», disse e per un attimo mi sembrò infinitamente giovane; la vidi come doveva essere stata da giovane, con i capelli neri lucenti, le labbra piene e rosse, bella in ogni particolare. E piansi lacrime amare. «Ah», disse Noni, «vedi, non puoi smentire la Dea. Ti ha detto ciò che deve accadere». «Non sopporto che ti facciano del male. Sono certa», sussurrai, «sono certa che ci deve essere un'altra strada». «Certo che c'è, e tu sai perfettamente dove porta il sentiero della mia salvezza. Alla morte finale di noi tutti, piccola mia. All'estinzione della Razza, che, col tempo, porterà alla distruzione dell'umanità. Come potremmo continuare a vivere sapendo che la nostra felicità è stata ottenuta ad un prezzo così alto?». E portò una mano, calda e ferma, sulla mia guancia umida, e vi dico che quella sensazione non faceva parte del sogno, poiché la sentii realmente, proprio come ora sento il dolore provocatomi dalle torture. «Sono contenta della scelta fatta. Risale al giorno della tua nascita, quando la Dea mi mostrò il mio destino e il tuo, che è quello più difficile, Sibilla; poiché dovrai imparare a diventare sovrumana». Si fermò e ritirò la mano. «E infine dovrai trovare lui, poiché tu sola puoi salvarlo dal Male che ci minaccia; tu sola puoi mostrargli la via vera all'iniziazione, così come è sempre stato il vostro destino. Una volta uniti, il Dio e la Dea creeranno il potere più grande di tutti e nessun Male li sconfiggerà. E ora affrettati», continuò, «e non tornare a casa, poiché tua madre è nelle mani del Nemico, un pericolo per te; tutta la tua magia non riuscirebbe a salvarla. Ti benedico, bambina mia e spero che tu possa ricevere tutti i doni della Dea;
in te si moltiplicheranno». «Non posso lasciarti qui a soffrire!», insistetti, anche se ormai non aveva più importanza; mi aveva già abbandonata e io mi svegliai nell'oscurità, il grembo carico di foglie autunnali. Continuai a vagare nella foresta per tre giorni, seguendo il sole e il mio cuore come guide. Dicono che il patriarca Giacobbe lottò con Dio travestito da angelo; bene, anch'io in quei giorni lottai con la Dea a modo mio, pregando con fervore ad ogni passo che facevo, come un supplice che si aggrappa alla gamba del suo benefattore e non lo lascia andare fino a quando le sue richieste non vengono soddisfatte. Non percepii più nulla di Noni, probabilmente usò la sua magia per risparmiarmi altro dolore. Fino al pomeriggio del terzo giorno. Esausta, mi ero addormentata sotto un bosco di querce per svegliarmi in preda all'ansia via via che la Vista si faceva più nitida. Ero nella grande piazza all'ombra della basilica di Saint-Sernin. Su un'impalcatura, costruita per l'occasione, erano stati eretti dei pali verso i quali venivano trascinati dei prigionieri in catene. Restai a guardare a bocca aperta anche se fui sorpresa di non riuscire a produrre né suoni né lacrime. Erano molti i prigionieri che venivano portati fuori, ne sono certa; ed è alle loro anime che chiedo perdono per la mia mancanza di compassione e di attenzione nei loro confronti; in quel terribile momento, infatti, mi sembrava che una sola persona fosse trascinata su quei pesanti ceppi di ferro verso la sua destinazione finale: Noni. La mia amatissima Noni, privata con violenza della vita e della bellezza. La forte matrona che conoscevo non c'era più: al suo posto restava una debole vecchia. I lunghi capelli lucenti color ebano striati di ciocche argentee erano stati rasati, e al loro posto restava soltanto uno scalpo, ormai quasi completamente bianco. Le guance erano scavate, poiché le avevano rotto quasi tutti i denti e gli occhi erano chiusi per il gonfiore tanto che era cieca. Non so come feci a riconoscerla, visto che anche il suo corpo era orribilmente mutato: le gambe arcuate, le braccia penzoloni, prive di vita. I prigionieri erano incatenati l'uno all'altro ai polsi e alle caviglie e le guardie li incitavano ad avanzare; Noni, che era la più debole, inciampò e cadde. La guardia la risollevò in piedi e poi le diede una randellata sulla schiena che per poco non la fece cadere di nuovo.
Quando, infine, fu slegata dall'altro prigioniero e costretta a inginocchiarsi davanti al palo, s'accasciò con un profondo sospiro di rassegnazione, come se il peggio delle sue sofferenze fosse ormai passato e ciò che restava costituisse una pura formalità. I prigionieri furono raggiunti da due boia, uno dei quali si occupò di Noni. Aprì con una chiave i ceppi alle caviglie e fece in modo che il palo fosse sistemato tra gli stinchi di mia nonna prima di richiudere i ceppi. Fece lo stesso con le manette dei polsi, aprendole, portando le braccia all'indietro (provocandole una smorfia di agonia) e richiudendo nuovamente le manette. Ciò rendeva la fuga impossibile, anche per uno forte, ma queste precauzioni non erano comunque sufficienti, poiché c'era il pericolo che il prigioniero potesse svenire o cedere, afflosciandosi in avanti sulle fiamme e morire troppo rapidamente. Per prevenire questa evenienza, il boia legò Noni all'altezza del petto con una corda, raddrizzandole la colonna e assicurandosi, così, che la morte avvenisse dopo una lunga agonia tra le fiamme. Quando ebbe finito, fu raggiunto da un secondo boia che circondò mia nonna, in ginocchio, prima con dei legnetti secchi, poi con dei ciocchi per essere certo di produrre un fuoco rapido e robusto. Noni, a questo punto, iniziò a recitare: Diana e la bona Dea, Diana e la bona Dea. Le parole erano farfugliate, indistinte, ma mi sforzai di seguirle fino a comprenderle. Continuò a ripeterle orgogliosa: una litania magica, forse, e anche una dichiarazione, quella che fino ad allora non era mai stata libera di esprimere pubblicamente, neanche nella sua stessa casa. La folla, infine, capì, e iniziò a fischiare; qualcuno scagliò una pietra, che graffiò la guancia di Noni. Sorrise, rivelando gengive sanguinolente, e continuò a cantilenare piano: Diana è la buona Dea, la Santa Madre. Ave, Diana, la bona Dea! Ave a Colei che è sempre stata la Madre di Dio. Fu scagliata una seconda pietra e poi una terza, che mancarono il bersa-
glio. I gendarmi minacciavano con le spade i perpetratori; la gente si calmò anche se qualcuno continuò a fischiare l'intollerabile blasfemia di Noni. Ana Magdalena, tuttavia, sembrava non udirli. Continuando a recitare quella litania, sollevò lo sguardo verso il cielo; nonostante l'aspetto raccapricciante, emanava una forte luminosità. Poi voltò il capo verso uno dei preti seduto su un palco vicino. Cercai di distinguere quei lineamenti, ma aveva il volto incappucciato e nascosto nell'ombra. Ana Magdalena rivolse a lui il suo canto: Diana e la bona Dea, Diana e la bona Dea. Domenico, tu che tanto tempo fa rompesti il vetro della cattedrale, tu, vento traditore quando la bimba nacque, tu, corvo nella fredda mattina estiva, credi che il tuo odio abbia infine vinto. Non vedi, invece, che ha dato all'Amore un'altra vittoria, e una forza nuova? È la nostra vittoria, questa, e non la tua. Rivolgi il tuo cuore alla Santa Madre e troverai la pace... Cosa posso dire della morte? Ci è stato raccontato di santi ed eroi che, trafitti da frecce, crocifissi a testa in giù, depredati degli occhi, non urlarono ma accolsero il loro destino beati, con i volti radiosi per l'estasi. Posso assicurarvi che si tratta di fantasie, che in una morte dolorosa non c'è né dignità né grazia, né coraggio né esaltazione; noi, poveri mortali, urliamo come maiali. Come fece la mia Noni, all'inizio. Quando il fuoco fu appiccato ai legnetti, le fiamme lambirono i piedi dei prigionieri. La maggior parte iniziò subito a urlare, e fu solo quando le fiamme raggiunsero i ciocchi e crebbero alte che Noni smise di cantare e iniziò a gridare urla di tormento. Come Giacobbe, afferrai la Dea e la tenni stretta, pregandola con ogni muscolo, osso, parte del mio corpo: Toglile il dolore, toglile il dolore e dallo a me. Non c'era magia in quello che dicevo: nessun incantesimo, nessun sortilegio né litanie fantastiche, solo la pura volontà. La volontà unita all'amo-
re, e forse è questa la magia più forte di tutte, poiché immediatamente fui colta da un'agonia mai provata prima d'allora e mi gettai a terra, urlando, felice perché era arrivata la risposta alle mie preghiere e al contempo folle per il dolore. Tutti abbiamo, per caso o per inconsapevolezza, toccato una pentola bollente; il dolore del braccio, della mano o del dito ferito è tale che, incapaci di sopportarlo, viene immediatamente allontanato. Ma non per sempre; infatti la sofferenza che segue è talmente acuta che i bambini imparano subito a non ripetere l'errore. Come posso descrivere, dunque, la sensazione di essere immersi nel fuoco? Il corpo si contorce senza posa, incapace di sfuggire ad un dolore a cui è impossibile resistere, un dolore che cancella tutti i pensieri, le emozioni, la memoria fin quando resta solo la sofferenza e nient'altro, né se stessi, né il mondo all'esterno... La mia voce si unì alle altre in un incessante coro di tormento, via via che gli indumenti intimi si trasformavano in cenere e volavano in aria come tizzoni ardenti, svelando la pelle, che fino ad allora avevano nascosto, arrossata per il calore. Il fuoco consumava gli abiti fino alle spalle, poi passava sul collo e sul mento per lambire la testa, dove esplodeva in una fiamma pentecostale. Tutti i capelli svanivano in quell'istante spettacolare, lasciandosi dietro scalpi rosa che si arrossavano rapidamente, per poi coprirsi di vesciche più chiare, infine annerire per mutare di nuovo in un rosso vivo... Ma nel mezzo della mia insostenibile sofferenza, mi accorsi che la voce di mia nonna non era tra quelle che urlavano e mi sforzai di vederla attraverso gli occhi inondati di lacrime. Noni era ormai una torcia umana: ma non uno spettacolo carbonizzato e penoso simile agli altri prigionieri, bensì un'incarnazione vivente del Divino, una donna bellissima, giovane e forte, che bruciava luminosa, capelli e fiamme intrecciati attorno alle spalle creando un alone dorato. Capii che non stavo guardando una santa ma la Dea in persona: la Dea sorridente, trionfante e le lacrime di agonia che mi rigavano il volto si trasformarono in lacrime di gioia. Con una voce che era la più celestiale musica che avessi mai ascoltato, parlò al Nemico che, seduto, la guardava: Pensi di aver vinto, Domenico. Ma ecco qui la magia: la vittoria è nostra... Non so dire quanto continuò il mio tormento fisico, poiché arrivò il momento in cui, troppo debole persino per contorcermi, per urlare o anche
per sussurrare, diventai quasi cieca; l'agonia si era trasformata in un dolore acuto al centro del mio essere via via che gli organi interni cominciavano a bruciare. Ma arrivò infine il momento in cui mia nonna morì: all'inizio il dolore cessò improvvisamente, poi, sentii il suo spirito trapassare. Sperimentai, in quell'attimo, una strana ondata di calore elettrico come se mi compenetrasse. E con lei Qualcosa di più grande... Devo confessare che all'epoca non capivo, razionalmente, ciò che fosse successo; il mio cuore e il mio intuito, però, avevano compreso totalmente che il sacrificio che Noni aveva fatto per me, e, in qualche modo, il mio sacrificio per lei, era stato uno scambio necessario, altrimenti avrei lottato per salvarla con tutto il mio essere. Quel giorno Vidi chiaramente che il modo in cui era morta era stato un grande onore, un destino che era stata felice di compiere; e che era morta senza dolore e trionfante. La sensazione portò con sé rassegnazione e pace e via via che gli ultimi raggi del sole colorarono le nuvole di un rosa corallo, provai il conforto della presenza della Dea e dello spirito gioioso di Noni. Ma anch'io sono umana; e quando scese la notte, la percezione di Noni e di Diana si affievolì e al suo posto arrivò la pena. In preda all'ansia, iniziai a correre. E corsi fino a quando la foresta diventò montagna e poi di nuovo foresta, e quando non riuscii più a muovermi, crollai senza fiato sulle pietre, le foglie e la terra fragrante. Il destino a volte è crudele. Sopra di me, dei nuvoloni neri ululavano e tuonavano, riecheggianti dietro le montagne. E quando, infine, scoppiò il temporale estivo, crollai anch'io e piansi, insieme alla pioggia. PARTE TERZA Michel CARCASSONNE ottobre 1357 XI Dopo i vespri, Michel tornò nella camera di padre Charles e trovò Thomas che lo aspettava fuori dalla porta.
«Buone notizie», disse, sebbene il tono sussurrato e tetro esprimessero tutt'altro. La luce della torcia gli illuminò le sopracciglia, sulle quali si erano appiccicati dei ciuffi di capelli biondi, solo leggermente scuriti dal sudore. «Sono appena stato dal vescovo. Ha dato approvazione provvisoria per la tua ordinazione che faremo risultare come se fosse avvenuta oggi; la lettera di conferma verrà inviata all'arcivescovo di Tolosa. È tutto fatto; e chiaramente», e qui il suo tono diventò fiero, «Chrétien darà l'approvazione finale perché sarò io a chiederla». Michel sospirò, ma non era un sospiro di sollievo. Thomas non avrebbe mai accettato di aiutarlo se avesse conosciuto le sue intenzioni verso Sybille, madre Marie Françoise, si corresse immediatamente. Thomas indicò la porta con un cenno del capo, aggiungendo mesto: «Mi dispiace che non stia meglio del mio povero scrivano; anche se, grazie a Dio, nessun altro si è ammalato». Fece una pausa mentre entrambi rivolsero lo sguardo all'interno della camera dove Charles giaceva immobile e cereo sui cuscini. «È dura vederli soffrire tanto; dobbiamo pregare, fratello. Dobbiamo pregare intensamente». E, imbarazzato, poggiò brevemente una mano sulla spalla di Michel. «Almeno non è peggiorato rispetto a ieri», disse Michel, sebbene Charles non mostrasse un aspetto migliore. Era impossibile dire se stesse riacquistando le forze o se stesse morendo, poiché era immobile e grigio come un sasso; soltanto il debole movimento del petto lo distingueva da un cadavere. Dopo una breve pausa, Thomas si rivolse nuovamente a lui. «La badessa. È andata bene oggi?». Michel abbassò lo sguardo. A dire il vero, era andata tutt'altro che bene; era stato rapito e incuriosito dalla sua storia, in particolare dall'episodio dell'iniziazione. Era stato solo dopo aver lasciato la sua cella che capì, secondo i canoni della Chiesa, che si era trattato di un audace rito satanico e che ella aveva confessato chiaramente che il suo destino era quello di fare magie sessuali con il suo "signore". Tuttavia era stato, e ancora lo era, profondamente toccato dal racconto della morte di sua nonna; conosceva fin troppo bene le sofferenze che l'anziana donna, eretica o no, doveva aver sopportato ed era chiaro che Sybille, cioè, la badessa, l'aveva amata profondamente e provava ancora una grande pena. All'improvviso, il carceriere era arrivato a comunicargli che erano passati i vespri e che padre Thomas era andato via da tempo. Michel aveva rias-
sunto brevemente alla badessa l'essenza della sua eresia e l'aveva sollecitata a pentirsi e ad accettare Cristo; Sybille gli aveva risposto con il silenzio. Il silenzio e il suo sguardo magnetico. Poi aveva insistito che il giorno seguente la ascoltasse parlare del suo "Amore"; Michel aveva rifiutato ancora una volta, sottolineando che l'inquisizione riguardava lei e nessun altro e che avevano tempo solo per la sua storia. E di nuovo si era rinchiusa nel silenzio rifiutandosi di dire altro. Persino ora, provava quello strano miscuglio di fascino e irritazione, ricordando come, parlando della visione, si fosse riferita innocentemente all"'antico cavaliere". Anche se proveniva da una famiglia contadina era nata a Tolosa, dove di certo tutti sapevano dei Templari, gli antichi cavalieri. Jacques, lo aveva chiamato; sicuramente conosceva il capo dell'ordine Jacques de Moley, anch'egli morto da martire. Quello che aveva voluto suggerire, cioè che l'ordine esisteva ancora e che lei aveva avuto contatti con esso, era pura eresia, poiché i Templari avevano praticato le più abominevoli e dissolute forme di magia. O almeno era ciò che Filippo il Bello aveva proclamato un secolo prima. Su quei presupposti l'ordine era stato smantellato e de Moley (insieme ad altri che non erano riusciti a fuggire in tempo) erano stati mandati al rogo. In quanto alla badessa, che infarciva la sua storia con questo antico condottiero dalla corona d'oro... Orso... Artos. Artù... Anche in quella leggenda c'era una compagnia di cavalieri. Follia, nel caso migliore; blasfemia, in quello peggiore. Tuttavia non poteva fare a meno di trovare la storia intrigante... Con improvvisa costernazione, scacciò quel flusso di pensieri. La storia della badessa, almeno, mostrava una donna di nobile personalità e buon carattere, senza parlare di una determinazione che l'aveva portata dallo stato di serva a quello di potente badessa. Gli ricordava molto Saul, un'anima dalle nobili intenzioni che, fuorviato, aveva trascorso la prima parte della sua vita a perseguitare con grande zelo i cristiani. Chi poteva negare che non potesse essere convertita e diventare come san Paolo: una grande forza al servizio del bene e della Chiesa? «Non posso dire come sia andata», disse a Thomas, scegliendo le parole con attenzione. «Ciò che la badessa mi racconta non è tanto una confessione ma una storia di pura fantasia; comunque ha ammesso di non essere cristiana». Non disse che intendeva usare questa ammissione per dimostrare che non fosse relapsa.
Padre Thomas gli diede un buffetto sul braccio. «Continua il tuo ottimo lavoro, Michel; se pensa di potersi fidare di te, alla fine rivelerà abbastanza da assicurare la sua condanna. Sapevo di poter avere fiducia in te». Fece una pausa. «Rigaud mi ha anche detto che il cardinale Chrétien sta per arrivare qui». «Davvero?». Michel finse curiosità a questa inattesa rivelazione. Tecnicamente, come capo dell'Inquisizione, Chrétien poteva prendere il controllo di qualsiasi procedimento; inoltre, era stato lui a presiedere l'arresto di madre Marie; la consuetudine, però, voleva che la questione fosse trattata dal vescovo del posto, Rigaud. Thomas annuì serio. «Arriverà dopodomani. Si è mostrato molto preoccupato per il cattivo stato di salute di padre Charles ed è ansioso di assicurarsi che il caso di madre Marie Françoise sia trattato come merita. Tuttavia, a causa dei subbugli crescenti, Rigaud ha ordinato che le esecuzioni vengano eseguite immediatamente». «Esecuzioni...», gli fece eco Michel meravigliato. «Thomas, non vorrai dar man forte al desiderio di Rigaud di ignorare le corrette procedure dell'inquisizione e giustiziare un prigioniero prima che si sia appurata la sua colpevolezza». I lineamenti di Thomas si indurirono indignati. «Sei molto più stupido di quanto pensassi. Come hai fatto a crescere accanto a Chrétien e restare così ingenuo per quel che riguarda gli affari politici della Chiesa?». Fece una pausa. «Il fatto che il papa in persona sia stato minacciato resta, e ciò...». «Deve essere ancora dimostrato», replicò Michel, ma prima di poter completare la frase, Thomas, ad alta voce e soffocando le parole del monaco, disse: «Farai quanto ordinato e la giudicherai colpevole. Altrimenti la tua ordinazione sarà revocata. Cosa decidi?». Seguì un lungo e ostile silenzio, alla fine del quale Michel abbassò lo sguardo in falsa umiltà. «Cercherò di procedere il più rapidamente possibile». Nel cuore della notte, arrivò fratello André e, dietro sua insistenza, Michel fu costretto a restare nella stanza degli ospiti adiacente quella di padre Charles, anch'essa arredata con mobili molto più confortevoli di quelli delle celle dei monaci. La mancanza di sonno della notte precedente e la tensione della giornata avevano trasformato le opposizioni in conforto; e quando Michel si adagiò sul soffice materasso di piume e il fresco cuscino compatto, si addormentò profondamente.
E sognò... La sua guancia poggiava su una spalla robusta ricoperta di lana che emanava odore di muffa e il suo volto era rivolto verso un collo abbronzato e muscoloso che egli afferrava con le piccole mani, le mani di un bambino. Inspirò un odore di sudore stranamente familiare, di capelli esposti al sole e di cavalli. Braccia forti lo sollevavano conducendolo lungo un largo corridoio di pietra con le pareti decorate con arazzi dorati. Un servitore con una spada al fianco li precedeva; ad un tratto, l'uomo si fermò davanti un'alta porta di legno ad arco contornata di ferro nero e sollevò un pesante chiavistello di legno. La spalancò ed entrò per primo e poi indicò all'uomo che teneva il bambino di seguirlo. All'interno, una dama di compagnia si inginocchiò, e la sua testa coperta dal soggolo di seta si abbassò talmente da eclissarle il volto. La stanza era ammobiliata con grandi sedie e un tavolo massiccio, diversi candelabri d'argento, cuscini di velluto rosso e altri arazzi. Due corridoi aperti conducevano ad altre stanze, ma non erano quelle a cui erano diretti; l'uomo che teneva il bambino assicurò la stretta e restò indietro mentre il servitore sfoderava la spada per poi, con cautela, sollevare il chiavistello di una porticina che poteva condurre in uno stanzino. Solo allora azzardò un passo esitante all'interno e fece segno agli altri di seguirlo. La camera era sorprendentemente più larga di quella precedente, con le pareti intonacate, ricoperte di legno e dipinte con delicate rose rosa; una parete intera era ricoperta di matasse di grosso filo color scarlatto, ocra, indaco e verde muschio. In un angolo c'era un grande telaio, sul quale era visibile un arazzo in lavorazione: rappresentava donne intente a raccogliere arance lucenti da un albero. L'odore qui, a parte il lieve aroma delle tinte vegetali, era meraviglioso: il pavimento di pietra era cosparso di lavanda, menta, rosmarino e petali di rose bianche e rosa caduti da un vaso. In mezzo alla stanza c'era una donna seduta al telaio, con la schiena rivolta verso la porta. Sentendoli entrare non ebbe alcuna reazione, e si voltò solo quando l'uomo disse: «Lady Beatrice. Ho portato vostro figlio». La donna rivolse agli uomini un'espressione totalmente indifferente ma, alla vista del bambino, s'illuminò di gioia. Era una donna bellissima, dai lineamenti raffinati e perfetti come una statua romana e la pelle ugualmente liscia e bianca. I capelli color oro erano raccolti in trecce arrotolate sulle orecchie e gli occhi erano di un azzurro-verde sorprendentemente intenso.
Indossava una tunica di lana color crema sotto un abito di seta color lavanda. Senza dire una parola, si alzò dal telaio, s'inginocchiò e spalancò le braccia; il ragazzo respinse istintivamente il petto di suo padre, cercando di correre da lei, ma con sua grande frustrazione, l'uomo lo trattenne a sé e i servitori si posizionarono tra la donna e il bambino. «Conosci la regola, Luc», disse suo padre. «Devi sempre stare accanto a me, hai capito?» «Lo prometto, papà», rispose il ragazzo con una vocina stridula; suo padre lo fece scendere lentamente ma lasciò la grossa mano sulla sua spalla, pronto a trattenerlo ancora. La madre inclinò la testa sinuosamente e, con fare sinistro, guardò suo marito con occhi socchiusi illuminati da uno slancio predatorio, selvaggio; a Luc, bambino, sembravano quelli di un gatto, illuminati nella notte. Contemporaneamente il padre parlò con un tono forzatamente allegro. «Luc, perché non canti la canzone che zio Edouard ti ha insegnato questa settimana?». Lentamente, Lady Beatrice abbassò le braccia, con una tale infelicità sul volto che al bambino venne voglia di piangere. Cantò la canzone richiesta, un triste motivo sulle Crociate, la storia di un povero pellegrino che s'inoltra in una terra ostile, forse per non tornare mai più: Chanterai por mon coraige Que je vuil reconforter Ne quier morir n'afoler Quant de la terre sauvage Ne voi mais nul retorner. Canterò per il mio coraggio che voglio riconfortare. Non desidererò morire né impazzire quando dalla terra selvaggia non vedrò nessuno ritornare. Mentre cantava con la sua bella voce alta, osservava l'espressione della donna diventare sempre più malinconica e poi agitata; infine, con suo grande sgomento, sua madre iniziò a piangere e poi, con uno slancio, superò la guardia tentando di raggiungere suo figlio.
Immediatamente il padre allontanò il bambino dalla presa della donna. «Ora basta. Tua madre ha bisogno di riposare». E si proiettò verso la porta mentre il servitore teneva a bada la donna. Non appena la fuga fu assicurata, il servitore uscì e richiuse la porta dietro di sé, ma Luc riusciva a sentirla mentre con voce lacrimosa chiamava il suo nome: «Luc, mio piccolo Luc...». Non pronunciò altro, ma quando suo padre gli fece attraversare la camera della dama di compagnia per riguadagnare il corridoio, la voce di sua madre si trasformò in un ululato bestiale. Luc... E Luc piangeva perché non capiva per quale motivo la vita non poteva essere più dolce e più semplice, perché sua madre viveva lontano da loro, perché non poteva correre da lei quando gli sorrideva e spalancava le braccia. Piangeva, nascondendo il volto nel collo di suo padre mentre veniva trascinato sotto la veranda coperta (riscaldata da un caminetto acceso) che collegava la camera della signora a quella del suo consorte. La tristezza aumentò quando si rese conto che suo padre stava pensando a qualcosa di molto più grave della sua angosciata consorte. I guai aleggiavano come fumo e il bambino, essendo più sensibile di un adulto, leggeva occhi e volti, mani e corpi e sapeva ascoltare anche le parole non dette. Sebbene nessuno gliene avesse parlato, sapeva che gli adulti erano in attesa di un evento imminente: suo padre indossava il mantello migliore, allacciato con una spilla d'oro e rubini sopra una tunica di seta color zafferano. Anche Luc sfoggiava i suoi abiti più belli: una tunica, calze che si erano fatte già troppo corte e scarpe da uomo di velluto con le punte all'insù, un po' troppo larghe. Fu un lungo viaggio attraverso stanze lugubri che portavano alle scale esterne. Dopo un po', Luc si ritrovò in una grande sala dai soffitti alti, seduto ad un lungo tavolo posto sopra un palco di fronte ad altre due dozzine di tavoli occupati da commensali: dame e signori, un centinaio di cavalieri vestiti con bianche sopravvesti ricamate con un falco e delle rose. A capotavola sedeva suo padre, i capelli ramati, le sopracciglia feroci di un rosso tanto scuro da sfumare nel nero; Luc sedeva alla sua destra, a tre sedie di distanza. Era piccolo in quella sedia di legno, capace appena di raggiungere la spessa fetta di pane che fungeva da piatto e la coppa d'argento riempita di hippocras, il miglior vino speziato del castello; ne prese un sorso e sorrise. Una sensazione familiare di felicità si risvegliò in lui all'odore del cibo via via che veniva servito: anguille e pesci stufati, montone arrosto, lepri alla
griglia condite con aceto e cipolle, piselli con lo zafferano e un timballo di porri, prosciutto, panna e pane grattugiato. Al suo fianco, Nana tagliava la carne con il suo coltello e la sistemava sul pane di Luc. Con la voce camuffata dalla musica dei suonatori di arpa, sussurrò: «Ricordati, ora, di dare dei piccoli morsi e masticare con la bocca chiusa e stavolta, ti prego, non ti dimenticare di usare il cucchiaio per i piselli e il timballo». Al suono della sua voce, estranea e familiare al contempo, alzò lo sguardo: eccola qui la matrona, con la treccia grigio-ferro attorcigliata sotto il soggolo con un lungo velo di tulle bianco legato stretto sotto le mascelle per sollevare il doppio mento. Il mantello era di un bellissimo broccato rosso scuro su uno sfondo lilla: Al diavolo il nero, Nana amava dire. Per tutta la vita ho portato abiti da vedova e ora, che sono una donna anziana, voglio vestirmi come mi piace. I suoi modi a volte potevano sembrare rudi ma il suo cuore era morbido come il suo corpo pieno e soffice; e Luc, che divideva il letto con Nana e trascorreva più tempo con lei che con i suoi genitori, era felice di essere l'oggetto delle sue più affettuose attenzioni. «Nana», mormorò felice alla vista di sua nonna. Ma proprio quando iniziò a parlare un'altra voce dal tavolo soffocò la sua. «Dobbiamo dare l'esempio», disse l'arcivescovo. Aveva gli occhi azzurri iniettati di sangue, e il volto pieno e rotondo. «Dobbiamo ricordare alla gente della Linguadoca che la Chiesa non tollererà nessuna forma di eresia. E credo che desiderino che gli si ricordi questo. Stanno cercando una causa alle epidemie e agli ultimi scarsi raccolti, un capro espiatorio. Chi ce lo dice che non sia una punizione divina? L'eresia, vedete, è come l'erba cattiva; si spande velocemente, ma tiene le radici ben nascoste. Si pensava che de Monfort avesse ucciso tutti i Catari e che re Filippo il Bello avesse fatto lo stesso con i Templari. Ma la verità è che ancora serpeggiano tra di noi...». Alle spalle di Luc, una voce familiare chiese, con tono giocondo e quasi scherzoso: «I Templari? Credevo che fossero tutti morti o emigrati in Scozia». «Zio Edouard!», gridò Luc, e prima che Nana potesse afferrarlo per la tunica, ruotò sulla sedia, quasi rovesciandola, e si lasciò sollevare dalle braccia di suo zio. «Ehi! Edouard Luc! Credo proprio che questo sia l'ultimo anno che posso sollevarti», disse sir Edouard. Se la madre di Luc fosse stata un uomo si sarebbe potuta scambiare per il fratello gemello Edouard: gli stessi straordinari occhi color malachite, i lineamenti delicati su una mascella volitiva,
le spesse sopracciglia e i capelli biondi screziati di rosso, il colore del rame battuto e lucidato. Edouard risistemò suo nipote sulla sedia e poi si voltò verso suo cognato, che si era alzato. «Seigneur de la Rose», disse Edouard facendo un inchino formale per poi aggiungere, quando il padre di Luc si avvicinò a lui: «Paul. Come te la passi, fratello?» «Bene», rispose Paul mentre si scambiavano un abbraccio affettuoso; quindi tirò indietro la testa un istante in cerca degli occhi di suo cognato dai quali si attendeva una risposta, che fu chiaramente negativa, visto che il suo sguardo divenne evasivo, quasi di difesa. Un fosco lampo di delusione attraversò veloce il volto di Edouard. Si sedette immediatamente e poi disse: «Le mie scuse, Sua Eminenza. Vi prego, continuate...». E l'arcivescovo non si fece pregare: «Furono i Templari, capite, a portare la magia del diavolo dall'Arabia, quando, ufficialmente, vi erano stati mandati a proteggere i pellegrini e combattere i Saraceni in Terra Santa. È vero che alcuni di loro vantavano nobili origini e, all'inizio, si sacrificarono per riconquistare il Tempio di Gerusalemme per il bene di tutta la cristianità. Ma la verità è che...». E qui il vecchio si sporse in avanti, abbassando la voce in un sussurro. «Sotto il Tempio alcuni di loro scoprirono delle carte magiche, scritte da Salomone in persona; e con esse una fonte d'inestimabile potere. Condivisero la loro conoscenza con gli ebrei e le streghe. Fa tutto parte di una cospirazione mondiale del male». «Le streghe però», intervenne gentilmente Nana. «Non sapevo che avessero appreso la loro magia dai Templari. Pensavo che provenisse dagli antichi riti pagani antecedenti ai Romani». «È vero, in parte», concesse l'arcivescovo. «Tuttavia le streghe, essendo soprattutto donne, sono volubili e proprio per questo svolazzano da un dio pagano all'altro, da un incantesimo all'altro, per poter rubare a cuor leggero qualche stregoneria dalla fonte che in quel momento è più accessibile. Tutta la magia, però, deriva da una sola origine: Lucifero e quindi è lui il loro dio, a dispetto dei tanti nomi con cui lo invocano. E sebbene i Templari preferissero compiere le loro orge sataniche soltanto tra uomini, condividevano, e ancora condividono, con le streghe l'opportunità di... come posso spiegarlo elegantemente? Interagire». Durante l'intervento dell'arcivescovo il padre di Luc continuò a mangiare senza mai sollevare gli occhi dal piatto; solo alla fine, alzò lo sguardo, diretto e profondo, per commentare cortese, senza convinzione né disapprovazione: «Già».
Anche Nana sorrise all'arcivescovo senza aggiungere altro, ma Luc percepì la tensione alle sue spalle e capì che suo padre e sua nonna non amavano affatto quella persona. Perché, allora, tutti facevano finta di essere d'accordo con lui, quando in realtà lo disapprovavano completamente? All'improvviso, l'arcivescovo iniziò a sfilare lungo la grande sala davanti ai commensali genuflessi, con Paul de la Rose al suo fianco. Nana ed Edouard li seguivano a rispettosa distanza, con Luc che procedeva tra di loro, la mano destra stretta in quella della nonna, e la sinistra in quella dello zio. Luc percepiva, serrando la mano di Edouard, calore, forza e una punta di dispiacere, e ciò significava che era stato a far visita alla sua gemella Beatrice prima di raggiungerli a cena. L'amore di Edouard per sua sorella era intenso, come lo era per l'unico figlio di lei; e Luc, consapevole, ricambiava quell'amore con uguale fervore. Nonostante la tristezza, il tocco di Edouard era sempre lo stesso: pieno di gioia. Non un'euforia rozza e instabile, ma la felicità decisa e costante, persino di fronte alla tragedia, propria di un uomo consapevole che ciò in cui crede è bello e meraviglioso. Quel giorno, però, persino tale gioia era stata sminuita da un orrore inespresso, lo stesso timore inesprimibile emanato dalla morbida mano di Nana. Stavano recitando un'impeccabile pantomima per l'arcivescovo e i commensali riuniti attorno ai tavoli: tuttavia non potevano imbrogliare un bambino. All'improvviso si ritrovarono all'esterno: Luc, seduto su una sella dorata davanti a suo padre, a cavallo del magnifico stallone nero di Paul. Ad una certa distanza da loro, i servitori fecero salire l'arcivescovo in un meraviglioso cocchio in legno a quattro ruote, rivestito di pelle bianca e dorata su cui erano incisi i simboli della cristianità e il blasone della famiglia da cui proveniva l'arcivescovo. Una tappezzeria abbinata di broccato bianco ricamato con fili d'oro fungeva da baldacchino e l'anziano uomo sistemò le sue ossa fragili sui cuscini di velluto scarlatto. Immagini rapide: Una piazza rumorosa, il brusio di migliaia di voci. Suo padre che gli bisbiglia in un orecchio: «Ricordati sempre ciò che stai per vedere e per ascoltare; e non dimenticarti mai, in qualsiasi circostanza ti possa trovare, di tenere la bocca chiusa». Salirono su un palco di legno, dove c'erano quattro uomini ad aspettarli:
due vicari, un monaco e un prete chiamato Pierre Gui. Sotto di loro, al centro della piazza, dei pali di legno fuoriuscivano dal terreno. Il cielo era azzurro e luminoso, intenso come gli occhi di suo padre. Luc rabbrividì mentre stringeva la sua mano e osservava le fiamme, lingue di fuoco color sangue che trasformavano esseri umani viventi in monconi carbonizzati, anneriti. Luc aveva distolto lo sguardo, ma suo padre guidò con fermezza il mento del ragazzo nella posizione iniziale, senza dire una parola. E così aveva visto: e quando tutti, alla fine, erano morti e i gendarmi avevano fatto a pezzi i corpi carbonizzati con gli attizzatoi affinché bruciassero prima, era ritornato con suo padre e suo zio al castello, per consumare una cena frugale. Quel poco che riuscì a mangiare, lo vomitò. Debole e stordito, si accucciò nel suo cantuccio preferito: una panca posta sotto una finestra del solarium che offriva una vista strategica del giardino attorno al castello e delle terre al di là delle mura. Il sole aveva scaldato la stanzetta che divideva gli appartamenti del signore da quelli della sua consorte; e mentre Luc sonnecchiava, sentì discutere suo padre ed Edouard: Quindi non hai detto nulla al ragazzo. È mio figlio, Edouard, non appartiene né a te né ai tuoi preziosi Templari. Edouard abbassò la voce, ma era ancora comprensibile: Per l'amor di Dio, Paul, non farti sentire dai servi! Inoltre, i nomi sono irrilevanti: non sono un Templare più di quanto sia un cataro, un moro o un cristiano; è probabile che sia tutti e quattro e nessuno. La verità è una, a dispetto dell'etichetta che vuoi appiccicargli. E la verità è che tuo figlio... Mio figlio, ricordati. Un sospiro. Sì, tuo figlio, Paul. Tuo e di Beatrice. E non può sfuggire al suo... La voce di mio padre si gonfiò di rabbia: Vuoi che impazzisca, come è successo a sua madre? O vuoi che venga arrostito come un maiale, come quei poveri pazzi di oggi? Edouard si calmò. Senza il tuo aiuto, fratello, e il mio, potrebbe anche impazzire; e senza una guida, potrebbe usare male le sue doti, magari davanti alle persone sbagliate. Più veloce e più forte, per contrastare Paul che voleva interromperlo. Sì, possiede delle doti, almeno tante quante ne possiede sua madre, per quanto tu possa detestare la faccenda. Paul: Come puoi dire una cosa simile? Non ha mai mostrato il minimo...
Edouard: Non lo hai visto perché non lo vuoi vedere. Una lunga pausa e poi Edouard aggiunse: Paul, affidami il ragazzo. Lascia che sia io ad educarlo. Non è al sicuro qui, non nelle condizioni in cui si trova Beatrice. Ora funge da occhi e orecchie nemiche e più il ragazzo resta qui, più si aggrava il pericolo che il Male possa trovare un modo per farle... Suo padre emise un singhiozzo rauco. Come posso lasciarlo andare vedendo in che stato si è ridotta sua madre? Dimmi, cosa ha fatto per meritare un tale tormento? E io mi chiedo, è una punizione divina? O è pura follia? Oppure... Non ti so dire la ragione, replicò Edouard. Però posso dirti chi è il colpevole. Silenzio improvviso. Uno di noi, disse Edouard; e sebbene Luc non capisse il significato delle parole, rabbrividì. Uno della Razza? No. No, impossibile. Com'è possibile che uno così dotato diventi tanto corrotto? Eppure è successo, Paul. No, no; è tutta colpa mia, ne sono certo. L'abbiamo messa sotto pressione, io e te. È sempre stata troppo sensibile. Potrebbe non trattarsi affatto di un attacco esterno. È troppo sensibile e tu, il suo gemello, lo sai meglio di chiunque altro. Ho fatto ciò che mi avevi chiesto, quello che tu e lei dicevate fosse il mio destino e guarda quello che le ha causato! Tutte le visioni, la magia, non hanno fatto altro che condurla alla pazzia! Edouard, ora più calmo: Chi possiede le doti maggiori è più a rischio degli altri. Avrei dovuto capirlo, se solo mi fossi accorto che i suoi timori la stavano sopraffacendo. Avrei proibito che voi due operaste senza la mia presenza o, almeno, avrei coordinato il giorno e l'ora quando la distanza ci avesse separato. Abbiamo tutti fatto degli errori: tu, Bea e soprattutto io. Ma Bea esprime naturalmente i suoi talenti e solo oggi so come poter impedire che i più dotati cedano alla follia. Il ragazzo verrà addestrato a dovere e questo non gli capiterà mai. È il suo destino, Paul, proprio come il destino di Bea è stato quello di darlo alla luce per il bene della Razza. Sarebbe una tragedia se non comprendessimo... Un forte stridio metallico sulla pietra; forse una coppa di hippocras scaraventata al muro. Luc sobbalzò quando, all'altra estremità della stanza, suo padre gridò: Al diavolo il destino! Non ci può essere una tragedia più grande di questa! Silenzio; e poi di nuovo la voce di Paul, improvvisamente calma e di-
spiaciuta: Beatrice è un gioiello, Edouard, una gemma preziosa, l'amore della mia vita. Come puoi parlarmi di destino quando ti siede accanto, intrappolata da mura e chiavistelli per impedire che faccia del male a se stessa o a suo figlio, sopportando, Dio solo lo sa, quale tipo di tormento mentale? Cosa mi importa della Razza quando ho perso per sempre la mia Beatrice? Dammi il ragazzo, disse deciso Edouard. Se mia sorella non può essere più salvata, abbiamo almeno il bambino. Paul, con voce rauca: No. Non me lo chiedere più, Edouard. Ho perso mia moglie e Luc è tutto ciò che mi resta. Ignorare chi e cosa sia non cambierà le cose, fratello. Il destino lo troverà, che sia preparato ad affrontarlo oppure no. Edouard fece una pausa e poi riprese la parola, con un tono più calmo, ragionevole. Dammi il ragazzo. Niente. Dammi il ragazzo. Dammi il ragazzo... Luc sprofondò nel delirio; forse gridò, poiché si ricordò del volto preoccupato di suo padre su di lui, poi quello di Edouard e di Nana. Si agitava, agonizzante sul letto che d'abitudine divideva con sua nonna. E si tormentava, non tanto per i ricordi insopportabili di tutta la sofferenza a cui aveva assistito quel giorno, ma per il terrore di essere destinato a diventare come sua madre. Questo, insieme al ricordo di una bambina, vista di sfuggita mentre si trovava sul palco, rapita dalla vista delle fiamme: una contadinella dai capelli scuri raccolti un una grossa treccia, sudici piedi nudi in equilibrio sul bordo di un carretto, che non smetteva di urlare... e che poi cadde, immobile, come morta. Era seguita una certa agitazione quando la sua famiglia si precipitò in suo aiuto per sollevarla e sistemarla sul fondo del carro; avevano subito lasciato il rogo pubblico, e non senza difficoltà, vista la calca. Il motivo per cui Luc era rimasto colpito da quest'immagine restava un mistero, poiché quel carretto era uno dei tanti in quella folla di migliaia di persone, tra contadini e mercanti mentre i pali e le fiamme separavano lui e suo padre, il seigneur, dalla plebe. Tuttavia, tra una fitta di dolore e l'altra, Luc rivisse il momento più volte, come se fosse stato accanto alla bambina e non così distante: gli occhi neri, spalancati e colmi d'angoscia, le labbra socchiuse, le braccia abbronzate che si dimenavano nel tentativo di restare in equilibrio...
E poi l'urlo, il tuffo all'indietro e la caduta. E, via via che la folla si allontanava, la sua figura silenziosa... Luc continuava a dibattersi nel letto, perseguitato dalla contadinella. Tentava disperatamente di salvarla, di trovarla, di sapere se era ancora viva. Di tutti i curiosi spettatori impassibili presenti tra la folla, sapeva che lei sola aveva provato, come lui, la sofferenza di coloro che venivano bruciati tra le fiamme; aveva capito, come lui, l'orrore indicibile di ciò che stava accadendo. E aveva pensato: Tra tutti, qui, lei sola è come me. E se è morta, allora morirò anch'io... Chiese ai volti che lo sovrastavano sul suo letto, suo padre, Edouard, Nana, se qualcuno avesse visto la ragazzina che aveva urlato ed era caduta dal carro. Ma nessuno l'aveva vista e ognuno aveva sorriso con comprensione a questa preoccupazione, cercando, poi, di distrarlo da questo pensiero; era troppo giovane per poter etichettare la loro condiscendenza con ciò che era veramente, ma quell'atteggiamento lo faceva comunque infuriare. Poiché pensava che se avesse conosciuto il suo nome, avrebbe potuto trovarla e accontentarsi di sapere che si era ripresa e stava bene. E durante la notte, il monaco Michel si svegliò per un attimo, la mente ancora impigliata nel sogno, il cuore gonfio di una soddisfazione così grande che quasi gli venne da piangere: Sybille. Si chiama Sybille... E immediatamente fece un altro sogno: Un anno dopo, forse due, Luc, ragazzo, si svegliò in un grande letto, talmente alto che quando provò a mettere i piedi fuori, restarono a penzoloni ad una certa distanza dal pavimento. Lasciandosi, prima, un po' scivolare, balzò sulla pietra gelida e uscì dalla camera per ritrovarsi sotto il portico coperto, freddo per l'inverno incipiente, sebbene il fuoco fosse acceso. Calmo ma sicuro, si sentiva come se qualcuno gli avesse afferrato il cuore e l'avesse guidato, con tenerezza ma anche con decisione, dal suo letto al portico, per spingerlo lungo il corridoio, oltre le sentinelle addormentate, fino alla soglia della camera di suo padre. Sorprendentemente la porta era aperta a sufficienza per permettere il passaggio di un bambino, come se qualcuno avesse cospirato per lasciarlo entrare.
All'interno, suo padre era sdraiato sul grande letto di piume, da solo, avvolto in pelli d'orso e coperte di lana fine; un fuoco morente spargeva un lieve colore arancione su tutta la scena. In una sedia accanto al letto, Philippe, il leale servitore personale sedeva a guardia del suo padrone; in un altra c'era Nana, ed entrambi russavano con l'abbandono tipico della vecchiaia. Luc si avvicinò al letto di soppiatto e, in punta di piedi, allungò il collo per vedere suo padre. Il volto del grand seigneur era spaventosamente pallido e tirato; goccioline di sudore gli imperlavano la fronte e la rossa barba ispida sulle guance; era un volto duro, la fronte corrucciata persino in quello stato di incoscienza. Poi il padre di Luc si mosse e si lasciò sfuggire un lamento, profondo e debole, ma pieno d'angoscia. Soffriva, soffriva terribilmente; nonostante i tentativi del dottore, la ferita aperta sulla sua gamba si era infettata e ormai erano certi che l'avrebbe ucciso. Era stato trafitto da una lancia ad una coscia, durante un torneo in onore del re. Essendo il più esperto e abile di tutti gli altri cavalieri, Paul era stato scelto come favorito, ma quella volta aveva lottato senza metterci il cuore... Quasi come, avevano sussurrato i servi, se avesse cercato la morte. La pietà, la compassione e l'adorazione affiorarono tutti insieme nell'animo di Luc, e tutti così intensi che per un attimo gli fu difficile restare in piedi e prima di capire quello che stava per fare, salì sul letto e tirò giù le coperte scoprendo la gamba ferita di suo padre, avvolta in bende umide e talmente gonfia da sembrare due. La pelle non coperta dalle bende era di un viola teso e lucido. La vista era orripilante, per non parlare dell'odore, di senape acida, carne in decomposizione, sudore amaro; Luc, però, non provò timore, solo un istinto che lo spinse a posare le piccole mani su quell'umida poltiglia calda. All'improvviso provò una strana sensazione di calore e il ronzio di migliaia di api, salirgli dal corpo, attraversargli le mani e riversarsi sulla ferita di suo padre. I palmi delle mani diventarono sempre più caldi e le vibrazioni sempre più forti, portando con sé una sensazione di beatitudine tanto profonda che sprofondò in essa perdendo la percezione del tempo. E infatti, il ragazzo restò fermo così fin quando la gamba di suo padre iniziò a muoversi; sorpreso, Luc aprì gli occhi e vide che suo padre lo stava osservando con gli occhi spalancati per lo stupore. «Luc» sussurrò, tirandosi su piano sui gomiti. «Luc, mio Dio...». Il ragazzo seguì lo sguardo di suo padre fino alla gamba bendata che non
mostrava più alcun rigonfiamento e intorno alla quale la pelle era ora di un colorito sano. Il bambino batté le mani e si lasciò sfuggire una risata di gioia; tuttavia la timidezza gli impedì di gettare le braccia attorno al collo del grand seigneur. All'improvviso Philippe sbuffò rumorosamente e si mosse sulla sedia, quasi svegliandosi; il padre di Luc si portò un dito sulle labbra e poi fece segno al figlio di venire avanti e di abbracciarlo. Il ragazzo obbedì, stringendo il collo dell'uomo e poggiando la morbida guancia su quella ispida e rugosa di suo padre. Con sua grande gioia, l'uomo lo strinse forte tra le braccia. «Figlio mio, perdonami», disse Paul; la guancia dell'uomo s'inumidì di lacrime. «Ti ho fatto un torto cercando di nascondere la verità, preso dal dispiacere per quanto accaduto a tua madre. Avevo sperato che tenerti al riparo dalla verità ti avrebbe protetto dalla tua eredità, ma oggi capisco che ti sommergerà comunque, con o senza il mio aiuto. Ed è meglio così, ragazzo mio. È meglio così...». Nell'oscurità il monaco Michel si tirò su sul letto, affondando le mani nel soffice materasso. L'assalto furibondo di immagini, provenienti dalla mente di un altro, dai sogni di un altro, lo lasciarono stordito e frastornato. «Quindi», sussurrò, «è così che pensa di stregarmi...». La mattina dopo si diresse alla prigione prima del previsto. Mentre il carceriere lo scortava verso la cella della badessa, la porta si spalancò dall'interno rivelando padre Thomas, l'orlo del suo abito di seta color melanzana che frusciava contro il pavimento di argilla. «Fratello, o forse dovrei dire "padre"?, Michel», disse con voce melensa padre Thomas, e sorrise... ma c'era qualcosa di minaccioso dietro quel sorriso. «Cosa ti conduce qui tanto presto, padre?», chiese Michel, cercando di restare impassibile, sebbene la vista di Thomas gli provocasse un'ansia improvvisa. Era, forse, venuto per interrogare la badessa di persona, scoprire la sua eresia e le prove sufficienti a giudicarla colpevole, cosa che avrebbe dimostrato la volontà di Michel di proteggerla, rallentando il procedimento? Il sorriso svanì. Con un'espressione opaca, Thomas inclinò la testa e fissò intensamente Michel. «Ero curioso di sapere come stava la badessa. Non vuole parlare con me, naturalmente, e mi sembra che hai scelto di non servirti più dei torturatori». Il tono era morbido e inespressivo, ma Michel
vi percepì il solito pericolo latente. Prima che Thomas potesse fare l'ovvia domanda, Michel affermò deciso: «Non ce ne è stato bisogno, padre. Come ti ho detto ieri sera, ha parlato di sua spontanea volontà e presto avrò le prove di cui ho bisogno». «Sarà meglio per te», disse il giovane prete nello stesso tono calmo, ma nondimeno inquietante, «poiché a nostro modo di vedere tu ora occupi il posto di padre Charles. Non c'è dubbio che eri presente durante la sua udienza con il vescovo Rigaud; e siamo certi che comprendi che vogliamo essere messi al corrente di ogni crepa nell'interrogatorio della badessa. Non tollereremo ritardi, né fuorvianti idee di grazia». Senza mutare la sua espressione, Michel annuì appena. «Una nota di biasimo è una punizione ragionevole per un errore giudiziario». Non aveva finito di pronunciare l'ultima parola che Thomas si affrettò a replicare: «Non parliamo di cose da nulla come le note di biasimo o la sospensione dell'abito talare, fratello... e neppure di scomunica, punizione certo molto più severa. Forse il vescovo Rigaud non ha ben chiarito i sentimenti della Chiesa: coloro che simpatizzano per madre Marie Françoise sono, come lei, in combutta col diavolo; e come lei, subiranno la stessa punizione». Di nuovo Michel non mostrò alcuna reazione esteriore; ma con l'occhio della mente vide un maglio balenare in aria per abbattersi, sibilante, su un palo infilzato nel fertile suolo di Carcassonne. «Capisco». «Bene», disse Thomas. «E spero che considererai la faccenda seriamente... almeno quanto la tua vita». Si congedò con lo stesso superficiale e smagliante sorriso, per dirigersi lungo il corridoio verso la cella comune. Michel lo vide allontanarsi. All'interno della cella, la badessa era seduta sulla panca di legno. Il suo volto, sebbene ancora gonfio, era meno dilatato e le ferite si erano scurite; l'occhio che prima non era visibile, oggi era aperto, scuro e luminoso come l'altro. Appena il carceriere chiuse la porta dietro di lui, Michel disse amaramente: «Ditemi per quale motivo non dovrei giudicarvi colpevole, madre. Ho ascoltato la vostra testimonianza, nella quale avete liberamente confessato di praticare la stregoneria. Vi ho dato la possibilità di pentirvi e ricevere il perdono divino, che voi avete rifiutato. Perché dovrei continuare ad ascoltarvi?» «Non dovreste», rispose dolcemente.
«Inoltre, avete fatto di tutto per stregarmi. Mi avete mandato i sogni di un altro, un eretico influenzato dal diavolo». Si fermò, realizzando in quell'istante ciò che la donna aveva detto e, confuso, si sedette senza aggiungere altro. Si sentiva come se il suo corpo e la sua mente fossero stati lacerati. Come cristiano, la sua mente riconosceva l'eresia contenuta nelle sue storie e l'impudicizia dei suoi candidi racconti sessuali. Ma non poteva negare le forti emozioni, sia sacre che profane, che lo attiravano a lei. Nonostante i misfatti confessati, però, la considerava ancora una donna pia, una vera guaritrice mandata da Dio; al contempo, continuava ad essere pervaso da un pungente desiderio mai provato prima di allora, un desiderio mescolato all'amore puro e sacro. «Confesso di essere stata io a mandarvi quei sogni», disse la badessa. «Raccontano la storia del mio Amore, Luc de la Rose. Non era un eretico, ma un eroe. Curava invece di distruggere e, alla fine, si sacrificò in nome dell'amore. Qualsiasi sofferenza che io debba subire, non è nulla in confronto alla sua; e voglio che la sua storia venga raccontata. Se non volete sentirla di giorno, allora la sognerete di notte». Fece una pausa. «Non mi date altra scelta». Poi il suo tono si addolcì di nuovo. «Il mio udito è piuttosto buono. Ho sentito ciò che padre Thomas vi ha detto in corridoio. Mi sembra che vi abbia minacciato di morte, o sbaglio?». E quando Michel non rispose, continuò: «Mio povero fratello, il vostro destino è legato al mio. Non c'è modo di sfuggirvi. Ecco, lasciate che io rifiuti il pentimento: sempre e comunque. In fondo voi mi avete concesso diverse possibilità, proprio come dice la legge, e quindi non dovete sentirvi colpevole nel condannarmi. Il mio destino era stato deciso molto prima che fossi portata in questa prigione; il vostro, invece, è nelle vostre mani. Andate e dite a padre Thomas che siete arrivato a un verdetto di colpevolezza». Michel pensò alle sue parole; sembrava logico condannarla. Si era autodichiarata una strega e aveva rifiutato di pentirsi e, seguendo la legge, avrebbe potuto salvarsi la vita. Tuttavia... Tuttavia non poteva negare che, nonostante i suoi racconti, ogni sua azione dimostrava che era la santa che si era aspettato di incontrare. Anche ora si preoccupava della sua incolumità, incurante del suo stesso destino. Eretica o no, c'era molto di buono in lei; e se pure non ci fosse stato meritava, come tutti i figli di Dio, l'opportunità di conoscerLo prima di morire. Non riusciva a sbarazzarsi della speranza che, una volta convertita, Rigaud potesse essere convinto a concedere la grazia. Inspirò e disse, in tono realistico: «Madre, non abbiamo tempo per que-
sti dibattiti. Vi prego, continuate con la vostra storia, e in fretta». Le sue labbra erano troppo gonfie per sorridere; furono gli occhi, però, a esprimere il suo sentimento; e il racconto ricominciò... PARTE QUARTA Sybille CARCASSONNE autunno 1348 XII Mi addormentai nel punto in cui ero caduta, esposta alla pioggia e agli animali e mi svegliai in un'alba umida, fradicia e in preda ai brividi. Con la gonna bagnata appiccicata alle gambe ricominciai a camminare. Non dovevo arrivare lontano e, anzi, percepivo che sarei arrivata a destinazione quello stesso giorno. Vagai per foreste e prati, campi deserti e il fantasma di un villaggio disabitato. Lì, all'esterno di una piccola pensione, mi si parò davanti una macabra visione che pendeva da un albero: la tonaca bianca di una suora che frusciava dolce tra gli alberi. Non vi era dubbio che fosse stata lasciata lì qualche mese prima da coloro che avevano assistito la legittima proprietaria, sicuramente morta insieme agli altri, poiché l'abito era rigido come se avesse subito troppo sole, vento e pioggia. Era, tuttavia, sfuggito alla tempesta che avevo incontrato la notte precedente e così mi sfilai gli abiti bagnati e li sostituii con la tonaca, il velo e tutto il resto, felice non solo di sentirmi di nuovo asciutta ma anche di continuare il cammino sotto quel travestimento. La mia fiducia crescente mi portava a camminare nei punti in cui il terreno era livellato e pulito: alla fine, avanzai lungo un sentiero che mi condusse, prima ad alcuni villaggi abitati e, infine, nella città famosa per i suoi bastioni di legno, Carcassonne. Nonostante la tristezza e la stanchezza sorrisi a quella vista. Carcassonne, un luogo sicuro. Lì avrei placato la mia fame e avrei trovato un riparo. Lo sguardo si focalizzò sulla città e, accelerando il passo avanzai, scontrandomi quasi con una sagoma scura che trovai proprio lungo il mio sentiero. Alzai lo sguardo e vidi un monaco con una tunica nera e il cappuccio orlato di bianco: un domenicano.
Un inquisitore. C'era qualcosa di inquietante nel suo aspetto, qualcosa che non riuscii ad identificare subito; nonostante fossi consapevole della presenza della Dea accanto a me, non riuscii a soffocare un improvviso grido di paura. Era stato mandato dal Nemico a darmi la caccia? «Buon pomeriggio, sorella», disse sorridendo. «Ditemi, cosa vi conduce a viaggiare da sola in questa parte del bosco?». Pensai: Se corro, non farò altro che farlo insospettire. È soltanto un monaco; non viene da Tolosa e non mi conosce. E così risposi pacata: «Fratello, potrei farvi la stessa domanda». «Ah», disse, mentre le paffute guance rosa si sollevavano ancora di più, quasi nascondendo gli occhi: «io, però, non sono solo». E immediatamente ne ebbi la prova: mano forti mi strinsero i polsi, spingendomi all'indietro contro il corpo di un altro uomo celato al mio sguardo, ma altrettanto forte e imponente. Scalciai e gridai aiuto. Per un istante, riuscii quasi a voltarmi e vidi che anche il mio rapitore indossava una tonaca domenicana. Alla fine mi avevano catturata, pensai; il Male li ha mandati e io mi sentivo perduta ma non mi sarei mai arresa. Affondai i denti in un avambraccio duro e muscoloso fin quando l'uomo dietro di me gemette e mi lasciò andare la mano sinistra. Il primo domenicano l'afferrò al suo posto e la tenne stretta. «Niente borse», l'altro disse e il suo compagno grugnì. All'improvviso sentii il fragore degli zoccoli e lo scricchiolio di ruote e la voce di una donna che urlava: «Via! Via! Briganti! Cagnacci! E non certo canis Domini. Ho trovato i poveri monaci a cui avete rubato quegli abiti e sono pronti ad accusarvi! Via, ho detto!». Lo schiocco di una frusta e poi un altro e un altro ancora. Qualcosa di duro, forse un sasso, mi colpì in testa e improvvisamente iniziai a cadere all'indietro, sempre di più, senza che ci fossero braccia ad afferrarmi ma soltanto il suolo fresco, e le pietre dure che, con un colpo, spinsero via l'aria dai miei polmoni. I monaci scomparvero dalla mia vista. Al loro posto, circoscritto dai rami di un albero alto, c'era il cielo. Era luminoso e azzurro e la brezza insistente congedava le poche nuvole rimaste dopo la tempesta. All'improvviso, un altro volto eclissò quell'azzurro: quello di una donna, lungo, squadrato e pallido, contornato da un soggolo bianco e incorniciato da un velo dello stesso colore. Madre, mormorò qualcuno dietro di lei, e capii che si trattava della Dea. Era vestita proprio come me e quando i no-
stri occhi s'incrociarono, i suoi si riempirono di una compassione tale che, nonostante il mio stordimento e indolenzimento, iniziai a piangere. «È Dio che ci ha portato qui entrambe», disse e, asciugando le mie lacrime, sorrise. Si chiamava madre Geraldine. In seguito avrei saputo che l'intero nome era madre Geraldine Françoise, ma quel giorno la conobbi con il nome che le altre suore usavano per chiamarla. Mi aiutò a salire in un grande carro ricoperto da un tettuccio di tela che ci riparava dal sole. Ho ricordi molto vividi di quel breve viaggio; dei ragli sibilanti del mulo, dell'incessante sobbalzare del carro che mi causava dolori terribili alla testa e alla schiena, ancora sofferenti per la caduta. Ricordo la gentilezza delle donne, il modo in cui mi offrirono il pane e una tazza da cui bere e come mi lasciarono poggiare la testa sui loro grembi soffici. Pregavano, soprattutto: Ave o Maria, piena di grazia; benedetta sei tu tra le donne... Il viaggio continuò fino all'imbrunire, quando ci fermammo per accamparci. La notte seguì veloce. Dormii in maniera intermittente e ricordo che madre Geraldine trascorse gran parte del suo tempo a prendersi cura di me nel carro. Le suore avevano acceso un grande fuoco, la cui luce tremola dipingeva di una sinistra tinta arancione la pelle della mia benefattrice e la sua tunica bianca. Il giorno successivo le monache viaggiarono in silenzio; mi ricordo vagamente l'arrivo in un grande edificio di pietra che emanava odore di morte e che fui aiutata a mettermi a letto dove sprofondai in un sonno profondo. Alla fine ritornai in me stessa, completamente cosciente, e vidi il volto di una consorella incorniciato da un soggolo bianco e un velo nero, in piedi sopra di me, le labbra e il naso coperti da un fazzoletto legato attorno alla faccia. Appena mi vide, gli angoli degli occhi si socchiusero e iniziò a battere le mani, commentando con gioia soffocata: «Che Dio e san Francesco siano lodati! Come vi sentite, sorella?» «Meglio», gracchiai, domandandomi se quel fazzoletto era ciò che restava del mio delirio; poi, però, notai quello spiacevole odore inconfondibile; una debole esalazione di ciò che avevo sentito nella camera da letto della moglie dell'orafo, indiscutibilmente reale. Non ebbi tempo di fare domande, poiché la mia infermiera aveva lasciato la stanza per ritornarvi, entusiasta, con un piatto di minestra.
Era una giovane donna dall'aspetto piacevole e sorprendentemente loquace per una che vestiva l'abito monacale. Mentre mangiavo, mi raccontò delle circostanze che mi avevano portato in quel posto; mi disse che ci trovavamo nel convento di Carcassonne, che si chiamava sorella Marie Magdeleine e che, sì, qualcuno era morto nella stanza contigua ma era stato portato via e le suore stavano pulendo a fondo tutta la camera e il cattivo odore sarebbe presto scomparso. Avevano temuto per la mia vita, a causa del colpo infertomi dai ladri, anche perché avevo dormito a lungo e non riuscivano a svegliarmi. Madre Geraldine, la più buona e compassionevole di tutte le donne, aveva trascorso la notte a pregare al mio capezzale. Sebbene fossi debole, ero abbastanza lucida da rendermi improvvisamente conto del mio aspetto, portarmi le mani alla testa, pensando di tastare la lunga treccia arrotolata che avrebbe svelato il mio inganno. Con grande sollievo, sentii soltanto il tessuto sottile del soggolo che mi ricopriva il capo; il mio velo era stato ben ripiegato e riposto in un angolo. Se pure sorella Magdeleine avesse notato i capelli sotto la stoffa, non lo fece vedere e, anzi, chiese gentilmente: «Ma come mai eravate da sola in mezzo al bosco?». È piuttosto inusuale sentire di una donna, soprattutto di una suora, che viaggia da sola. La mia mente si sforzò di trovare una spiegazione, ma non ci riuscì; dopo alcuni secondi in cui restai a fissarla, dissi: «Non lo so». «Non lo ricordate?». Tra le sopracciglia di sorella Marie Magdeleine comparve una ruga. «Poverina! Chissà cosa vi hanno fatto quei briganti e magari anche ad altre nostre sorelle! È stato il colpo alla testa? O forse...». Quest'ultimo pensiero le sembrò orribile persino da pronunciare. «Non me lo ricordo», le feci subito eco, grata per avermi fornito una spiegazione che sopperiva a molte mie mancanze. Non avrebbe, tuttavia, spiegato i miei capelli. E così, quando ai vespri mi lasciò sola per andare a pregare, feci scivolare il soggolo, presi il coltellino che era accanto al piatto di porri vicino al mio letto e, alla luce fioca della candela, tagliai i capelli che erano rimasti intatti dal giorno della mia nascita. Li bruciai alla fiamma della candela, osservando come si contorcevano e si arricciavano all'insù per svanire nel nulla, rabbrividendo al terribile odore che rianimava in me il ricordo di Noni. Il giorno dopo, mi sentivo più forte e in grado di alzarmi e usare il vaso da notte riposto nell'angolo della stanza; sebbene non mentalmente ristabi-
lita per partecipare alla preghiera nella cappella con le altre monache, ciò che avrebbe rivelato la mia ignoranza e il mio terribile latino. La mia infermiera, Magdeleine, non trascorreva la giornata accanto a me, ma arrivava solo per portarmi i pasti e riprendersi i piatti vuoti. Fu durante una di queste assenze che la testa della badessa fece capolino dal corridoio. Sorridendo, mi domandò: «Posso entrare?» «Certo», dissi, cercando di alzarmi, poiché era chiaro che fosse di nobili origini e io ero solo una povera contadina. Ma con un gesto eloquente insistette affinché restassi seduta, e così feci, appoggiata contro i cuscini. Si sedette in modo informale ai piedi del mio giaciglio. Avevo intuito che sorella Magdeleine era una ragazza sincera che non avrebbe fatto del male ad una mosca; la Vista aveva confermato le mie supposizioni semplicemente standole accanto. La badessa, però... Del suo cuore non riuscivo a percepire nulla, a Vedere nulla, come se un muro invisibile fosse stato eretto intorno alla sua anima, e questo a dispetto del grande affetto e della fiducia che avevo provato per lei la notte in cui mi aveva salvata. Mi dissi che, forse, aveva capito chi fossi realmente e che magari una delle sorelle avesse visto il talismano d'oro che portavo attorno al collo quando mi curarono la spalla. E forse qualcuna di loro si era anche accorta dei miei capelli lunghi prima che riuscissi a tagliarli. Apparentemente inconsapevole della mia tristezza, la badessa mi chiese gentile: «Mi chiamo madre Geraldine Françoise. E voi?» «Marie», risposi automaticamente, per poi correggermi, «madre Marie... Françoise». Non osai rivelare il nome Sybille; Marie era abbastanza comune da non suscitare dubbi e, presa dal timore, ripetei il secondo nome della badessa, pentendomene. I suoi occhi, però, si spalancarono di gioia. «Sorella Marie Françoise! Ci siamo presentate alla fine!». E con un impeto d'affetto, afferrò le mie mani, ruvide e callose in confronto alle sue, che erano morbide e che mostravano unghie corte e pulite, e poi mi baciò su ogni guancia. «Perdonatemi, sorella cara», continuò, «per non essere venuta prima a presentarmi e spiegarvi chi siamo, ma eravate così debole che ho pensato di non farvi visita subito dopo aver rimosso il cadavere...». «Cadavere», la interruppi, ricordando il terribile odore di quella prima notte trascorsa in convento. «Sì, sorella Marie Magdeleine mi ha parlato di qualcuno morto nella stanza accanto». «In più di una stanza, oserei dire. Più di sessanta sorelle francescane, portate tutte in cielo dalla peste», disse, con tono realistico e, notando la
mia espressione, spiegò: «Non c'era nessuno che potesse seppellirle e così, con una speciale dispensa del vescovo, lo abbiamo fatto da sole, aiutate dai bravi monaci benedettini, i pochi che Dio ha lasciato in vita. Mi dispiace per il cattivo odore; ma presto, finito il nostro primo compito, ci dedicheremo al secondo, quello di ripopolare il convento. E questo è anche il motivo per cui sono qui oggi». Fece una pausa e inclinò un po' la testa tanto che a malapena riuscivo a vederle gli occhi sotto le palpebre. Il suo sorriso svanì. «Sorella Marie Magdeleine mi ha detto che ieri avevate qualche problema di memoria. Vi è ritornata oggi?» «No, mi dispiace...». «Però vi ricordate il vostro nome. C'è qualche altra cosa che ricordate? Il chiostro dal quale provenite, ad esempio? Le sorelle che viaggiavano con voi?» «No. Mi dispiace». «È chiaro che venite da lontano; indossate l'abito di una monaca francescana, è vero, ma ormai siamo rimaste veramente in poche a portarlo. Credo che il convento più vicino sia, oggi, quello di Narbonne, ma le notizie viaggiano così lentamente da quando c'è la peste; non so neanche se qualche sorella sia sopravvissuta lì». Sollevò la testa, mostrando il lungo volto e gli occhi calmi e penetranti; l'intensità del suo sguardo era sconcertante. «Narbonne?», esitai. Se volevo sopravvivere, dovevo essere abbastanza decisa nel mantenere la bugia che sorella Magdeleine mi aveva offerto. «Madre, non voglio fare la preziosa, ma davvero non ricordo nulla». «Ah», disse, con un tono troppo circospetto affinché potesse essere interpretato. «Bene, scriverò alle sorelle del convento chiedendo loro se sanno qualcosa di una sorella Marie Françoise... sebbene sia un nome fin troppo comune in questo ordine. È il minimo che possa fare per aiutarvi a trovare il posto da cui provenite». Si alzò per andarsene, ma dopo avermi voltato le spalle, si fermò e si voltò ancora una volta per guardarmi. Fui attenta a mantenere un'espressione neutrale. «Sorella...». Il suo tono e le sue maniere erano esitanti. «Non intendo essere presuntuosa, ma appena ho visto una monaca francescana, per giunta professa, non ho potuto fare a meno di credere che Dio avesse voluto che le nostre strade s'incrociassero. Qui ho soltanto novizie e postulanti, nessuna professa; ho bisogno di una sorella esperta che mi aiuti ad organizzare e ad insegnare alle altre. Mi aiuterete, nel periodo necessario a trovare la vostra casa? Una suora così giovane, a malapena dell'età di prendere i voti, e già una professa... è chiaro che Dio è stato molto presente nella vostra vita.
Resterete con noi?». Adesso toccava a me esitare. Ignorante com'ero, non sapevo quasi nulla di suore, tranne che sapevano leggere, poiché, quelle poche volte che mia madre ci aveva trascinati a Saint-Sernin dopo aver fatto altre commissioni a Tolosa, avevo visto nel santuario le sorelle velate che scorrevano i loro libricini mentre un'altra sorella leggeva ad alta voce. In quel momento non avrei saputo riconoscere una suora cistercense da una domenicana, o una povera Clarissa da una dell'abbazia di Fontevrist. Tuttavia non avevo altra scelta se non quella di affidarmi alle grazie di questa donna per tutto il tempo che potevo; la Dea mi aveva condotta qui per un motivo preciso e qui intendevo restare fin tanto che fosse stato sicuro. «Madre Geraldine», dissi, in tutta onestà, «ho paura. Non so chi sono; riesco a malapena a ricordare il latino; temo di non essere nemmeno in grado di leggere o ricordare le preghiere. Voi siete stata così buona con me... non posso rifiutarmi di ripagare tale carità. Ma in che modo potrò esservi di aiuto se non riesco neppure a ricordarmi dell'esperienza che voi desiderate che io insegni?» «Non abbiate timore», disse gentilmente, e con le dita sfiorò la mia guancia, per rassicurarmi. «Il tempo vi restituirà la memoria; e se anche non lo farà, vi sarò io di aiuto. Possiamo iniziare le vostre lezioni oggi stesso e in un mese sarete istruita. Sono convinta che siete stata mandata qui per aiutarmi, e non il contrario». Sorrisi, in qualche modo sollevata. Sapevo che se fossi rimasta lì un poco, imparando a leggere e a scrivere e ad usare le maniere di una donna di nobili origini, gli inquisitori non mi avrebbero mai riconosciuta come la contadina di un tempo. Se fossi riuscita a raggirare le monache circa la mia identità. La madre superiora sembrava una donna molto intelligente. Forse poteva esserci della sincera compassione nei suoi grandi occhi, ma non era tutto; c'era anche qualcosa di astuto, una furbizia che, ne ero convinta, un giorno avrebbe oltrepassato il mio travestimento per scoprire la mentitrice che nascondeva. Passò un altro giorno e mi ripresi a sufficienza per iniziare la nuova vita da monaca. Era molto diversa da quella che avevo immaginato: avevo sempre creduto che si trattasse di una vita fatta di terribili privazioni, di digiuni e flagellazioni, di crudeli penitenze e fatiche incessanti. E forse lo era, per una donna di nobili origini; ma per la figlia di un contadino, era una vita piena di agi. Avevo il mio materasso di paglia, la mia
cella privata e godevo dell'impensabile comodità di un garderobe posto sullo stesso piano in cui alloggiavamo. Voi provenite da una famiglia nobile, fratello, non potete immaginare come sia meraviglioso essere affrancati dall'obbligo di uscire all'esterno, in pieno inverno, per potersi liberare. Anche i riti quotidiani erano piacevoli. Ci incontravamo cinque volte al giorno nel santuario per cantare in latino, per pregare e per ascoltare una lettura del vangelo; una volta al giorno, un prete veniva dalla città per celebrare l'eucarestia. Le ore restanti erano dedicate alla preghiera individuale, ai pasti mattutini e serali, al lavoro e allo studio. Lavoro lo chiamavano, sebbene a me sembrasse più una ricreazione, confrontato al lavoro nei campi o ai compiti di una levatrice: curavamo i malati nel grande chiostro trasformato in ospedale, con l'aiuto di alcune sorelle laiche che, essendo rimaste vedove a causa della peste, dipendevano dal monastero per il cibo e il riparo. Poiché la popolazione dei poveri di Carcassonne era stata già decimata, le persone di cui prendersi cura erano rimaste poche, persino quando madre Geraldine aprì un'ala del convento a quei lebbrosi sopravvissuti alla rabbia della folla infuriata colpita dalla peste. Così, ogni monaca fu adibita alla cura dei malati; e ogni sorella lavorava lo stesso numero di ore. Tra tutte le novità a cui fui obbligata ad adeguarmi, l'uguaglianza tra le suore fu quella più difficile: spesso mi sorprendevo ad inchinarmi davanti alle sorelle d'alto lignaggio, e mi ci volle un bel po' prima di imparare a non deferirle. Era l'eredità del buon san Francesco che, nonostante fosse nato in una famiglia di ricchi mercanti, trattava tutti gli uomini come suoi superiori, a prescindere da quanto fossero umili. Ogni pomeriggio, inoltre, trascorrevo due o più ore con madre Geraldine per imparare, in gran segreto, a leggere e a scrivere: in francese e poi in latino. Una cosa miracolosa, la parola scritta: mi ero avvicinata con terrore alla prima lezione poiché, essendo una contadina e per giunta donna, pensavo di essere una creatura troppo stupida per poter imparare. Con mio grande stupore, imparai l'alfabeto e i suoi suoni molto facilmente e in una settimana ero in grado di sillabare parole brevi. La badessa attribuiva la rapidità del mio apprendimento al risveglio della memoria latente e io non feci nulla per disilluderla. Dopo il terrore e le sofferenze sperimentate, il convento mi garantiva un piacevole rifugio. I rituali regolari mi fornivano uno sfogo attraverso il quale mettermi in comunione con la Dea; e in qualche misura placavano le mie angosce, poiché erano bellissimi, ed è attraverso l'esperienza della bel-
lezza che ricordiamo ciò che di buono e di meraviglioso c'è stato nella vita dei cari che abbiamo perso. Se mi aveste vista pregare, l'espressione placida, persino serena, mi avreste giudicata un'ottima cristiana, almeno quanto le altre. Quando però, nelle ore prescritte, m'inginocchiavo da sola nella mia cella, lo facevo soltanto nel caso in cui fossi stata vista dalle altre. E quando, come una brava monaca, recitavo il rosario, la mia preghiera non era diretta solo alla Madre di Gesù, ma alla Madre di Tutto. Pregavo ogni giorno e ogni giorno ripetevo la stessa domanda: Qual è il mio destino qui? Quando troverò il mio Amore? È qui che, ne ero certa, avrei trovato la risposta. Mia nonna era morta. Ma aveva piantato un seme. Nel suolo sicuro e fertile del convento, iniziò a crescere. E così restai al convento, vivendo con le altre consorelle in spirito di obbedienza, povertà e castità come san Francesco aveva ordinato. Fin troppo tempo si può trascorrere in ginocchio senza riflettere; ma difficilmente si può guardare i volti delle consorelle, assorte in preghiera, senza provare lo stesso rapimento. Iniziai a sperimentare un sentimento di pace nel convento. È vero, non mi sono mai considerata una creatura vile e codarda a tal punto da volere che un altro uomo versasse il suo sangue per me; certo è che non avrei mai potuto adorare un dio che richiedesse una tale crudeltà per risparmiare al mondo un'eternità di tormento, o che giudicasse un tale martirio una punizione appropriata ai peccatucci sessuali o al non aver frequentato la chiesa con regolarità. Iniziai, tuttavia, a sospettare che Dio poteva essere un altro nome per definire l'esperienza che io sperimentavo sotto il nome di Dea; potevo vederla sul volto radioso di madre Geraldine, ascoltarla nella sua voce esuberante quando, ai vespri, parlava della bellezza dei raggi di fratello Sole che fluivano attraverso le finestre della cappella, o di come san Francesco avesse ragione nel dire che la gloria della Natura trascendeva di molto la bellezza di qualsiasi creazione umana. Tutta la terra è una magnifica cattedrale, diceva, e noi siamo le fortunate a professare su di essa la nostra fede. Non potevo che essere d'accordo con questa affermazione e, quella notte, mi ritirai nel mio cantuccio sapendo che la Dea mi circondava, mi proteggeva e riposava in me. Ma una volta addormentata, iniziai a sognare Jacob, la barba e i lunghi riccioli color ferro in fiamme, il braccio destro disteso in una supplica,
mentre diceva: Le fiamme si avvicinano ogni giorno di più, mia signora. Le fiamme si avvicinano ogni giorno di più. Una mattina, durante il secondo anno della mia permanenza nel convento, mi stavo recando come sempre al lazzaretto accompagnata da sorella Habondia. Era una donna fragile, con pochi denti, occhi lucenti e incisivi e un volto solcato da profonde rughe perpendicolari; non mi ricordo, onestamente, se l'abbia mai vista ridere. Era vedova e non appena si nominavano i suoi figli increspava le labbra; erano stati loro, infatti, ad averla costretta ad entrare in convento e, dato il suo carattere burbero, non era difficile capire il perché. Provavo per lei una grande pietà, soprattutto per le fatiche a cui si sottoponeva in un silenzio sdegnoso, privo di compassione e, nei giorni in cui il suo umore era particolarmente fosco, spesso sentivo i suoi pazienti lamentarsi per le maniere rozze che usava per lavarli o curare le loro ferite. Sì, capisco il vostro raccapriccio nel sentire solo nominare la parola lebbra; dopo così tanti anni trascorsi a curare i lebbrosi, non li temo più come una volta. Anch'io, la prima volta che madre Geraldine mi ordinò di prendermi cura di loro, ne fui terrorizzata. Il nostro ospedale di fortuna aveva un reparto per i lebbrosi che abitavano sulle colline, fuori dalla città e i villaggi, ma erano in condizioni troppo gravi per potersi curare da soli. Le suore con cui parlavo, però, non avevano paura di contrarre la lebbra; molte avevano curato i lebbrosi per anni e nessuna ne era stata mai contagiata. Sembrava che il segreto fosse una bacinella d'acqua cambiata con regolarità nella quale ognuna si lavava le mani prima di lasciare il lazzaretto e la preghiera speciale a san Francesco che recitavamo sull'acqua mentre veniva attinta dal pozzo. Francesco, dopotutto, era stato un amico speciale dei lebbrosi; ritornando a casa dalla guerra, prima che Dio lo chiamasse a una vita di povertà, incontrò un lebbroso per strada. La povera creatura nascondeva il volto nello scuro mantello che era costretto ad indossare e suonò il campanello per avvisare il santo di allontanarsi; Francesco, invece, sopraffatto dalla compassione, balzò giù da cavallo, abbracciò il poveretto e lo lasciò visibilmente meravigliato e con una borsa di denari. La prima volta che entrai nella grande stanza che conteneva il lazzaretto, provai un sentimento di orrore. Ero stata educata a tenere alla larga gli appestati: soltanto rare volte arrivarono fino alla periferia del nostro villaggio, quando la fame li spingeva fino a noi. Ricordo forme incurvate avvol-
te in mantelli grigi stracciati, piedi e mani deformati fasciati di stracci, volti scuri e piagati che guardavano foschi da sotto i cappucci, campanelle e sonagli che tintinnavano al loro passaggio e mia madre che mi tirava per un braccio verso la salvezza della nostra casa, mentre mio padre gli gettava da lontano della frutta guasta. Mi ricordo, poi, lo sguardo di mia madre quando, recatasi al fiume per lavare i panni, scoprì sopra una roccia la falange dissanguata, grigiastra, di un dito. La prima lebbrosa che lavai fu una giovane donna di nobili origini che mi raccontò di quanto era stata bella. Pianse per la vergogna quando si tolse il mantello grigio che la marchiava come impura e io versai lacrime di compassione: il suo volto difficilmente si sarebbe potuto dire umano, con il naso rientrato nella faccia e un ammasso di carne bianca e lucente a forma di uovo che fuoriusciva dall'angolo delle labbra e si estendeva all'insù coprendole parzialmente l'occhio. Era venuta da noi perché aveva perso la sensibilità di un piede e, con esso, tre dita, e non poteva più camminare; come gli altri, viveva nel terrore di essere scoperta dagli abitanti della città e bruciata come vittima sacrificale alla peste. Nonostante le nostre cure, morì subito dopo, poiché la ferita aperta lasciata dalla perdita delle dita si era incancrenita. Com'era silenziosa quella camera e muti i sofferenti: è vero che molti dei lebbrosi subivano deformità nella bocca che li lasciava incapaci di parlare, gli altri però, erano silenziosi per la vergogna. La maggior parte era stata ufficialmente "sepolta", cioè, dichiarata morta e molti avevano assistito alla propria funzione funebre in una chiesa vuota, alla sola presenza del prete che si preoccupava di restare ad una certa distanza. E fu ciò che capitò a uno degli uomini di cui mi occupai quella mattina: Jacques, un anziano contadino con un'arguzia vivace e uno spirito irresistibilmente gioviale, considerate le circostanze. La malattia gli aveva corroso entrambi i piedi fino alle caviglie, ma usava le grucce intagliate a mano per muoversi in modo incerto e trascinarsi fino al garderobe (poiché sarebbe morto piuttosto che farla a letto). Era una cosa notevole considerato il fatto che sulle mani gli restavano soltanto i pollici e aveva un viso così deformato che un'altra persona al suo posto non si sarebbe mai avventurata per paura di essere vista; il naso gli si era incavato nella faccia tanto che fu costretto a tagliare la carne e la cartilagine in decomposizione per poter respirare direttamente attraverso le cavità nasali del teschio. Aveva una palpebra consumata, che lasciava esposto all'aria il bulbo oculare tutto ricoperto di ulcere.
Nel complesso, l'aspetto di Jacques era indubbiamente grottesco ma, presente nel lazzaretto ormai da cinque anni, io mi ero abituata a lui, come agli altri pazienti dell'ospedale, e riuscivo a superare le sue deformità, immaginando l'uomo che era stato un tempo. Anzi, era nato un affetto tra noi; io lo immaginavo come un padre anziano che avevo avuto il permesso di curare; e Jacques pensava a me come alla figlia che non poteva più vedere a causa della malattia. In questo modo ci confortavamo a vicenda. Ogni mattina mi accoglieva con un «Buongiorno, mia cara sorella Marie! Come vi tratta oggi Dio?», e io rispondevo, naturalmente, «Bene», chiedendo poi delle sue condizioni di salute, e ricevendo la seguente risposta: «Non sono mai stato meglio! Vivere una vita di agi e piaceri, curato da così tante donne meravigliose, ah, è veramente più di quanto sognassi quando lavoravo nei campi! Non avrei mai pensato che, in vecchiaia, avrei potuto evacuare dentro casa, proprio come un grand seigneur». E sorrideva con le labbra deformate che rivelavano gengive sdentate e grigie e io gli restituivo il sorriso mentre gli ripulivo le piaghe che mi mostrava. Certamente le sue ferite erano terribili come quelle di qualsiasi altro; anzi, il suo corpo era stato completamente devastato dalla malattia. Per qualche strano motivo, però, riusciva a sopravvivere agli altri e riuscì sempre e sfuggire alla maledizione della cancrena e, di conseguenza, a una morte certa. Ritorniamo, dunque, a quella mattina con sorella Habondia. Il nostro primo compito nel varcare la soglia dell'ospedale era di svuotare e lavare i vasi da notte alla pompa del vicino garderobe. Una volta fatto, tornavamo nel lazzaretto per pulire i pochi sfortunati che, troppo storpi o troppo ricoperti di piaghe, non riuscivano ad arrivare ai vasi da notte. Tornando, mi aspettavo di sentire il solito saluto di Jacques; ma quella mattina fu stranamente silenzioso. E così andai dritta al capezzale del mio buon amico per scoprire, con nostro reciproco imbarazzo che, per la prima volta, non era riuscito ad arrivare al vaso da notte. Fosse stato un altro, non avrei provato il minimo impaccio; ma si trattava di Jacques, così orgoglioso di riuscire a portare i vasi da notte agli altri ammalati. Pensai con preoccupazione che la sua malattia si fosse aggravata; ma egli scostò gli occhi, effettivamente pieni di vergogna, e non disse una parola, anche quando gli portai un cambio di indumenti. Questo incidente gettò un velo di tristezza su tutta la mattina. Mi occupai degli altri doveri con uno spirito meno allegro del solito, mentre sorella Habondia faceva i suoi con il solito fastidioso borbottio.
Un'ora dopo, quando avevo iniziato a pulire una piaga particolarmente dolorosa sulla gamba di un'anziana lebbrosa, sentii un rumore, debole, come se qualcuno si stesse schiarendo la voce con discrezione, anche se in esso vi era una nota di acuta disperazione. Molti in corsia tossivano e si lamentavano di continuo; e di solito non avrei neppure notato un rumore tanto indistinto. Ma qualcosa mi costrinse a fermarmi, lo straccio umido in mano, la bacinella sul pavimento accanto alle ginocchia, e a voltare la testa. Habondia, alle mie spalle, era inginocchiata come me sul pavimento di pietra, e curava le ferite di una lebbrosa. Dietro di lei, vedevo Jacques disteso sul materasso di paglia che, con le mani, si stringeva la gola. All'improvviso Vidi; Vidi con una compassione concentrata soltanto su Jacques e non su di me, non sulle mie paure, sulla mia perdita potenziale. Soltanto Jacques, e la sua anima coraggiosa e appassionata, rimasta intatta anche nelle circostanze che avevano distrutto uomini meno forti di lui; soltanto Jacques, e la forza e la gentilezza che aveva mostrato non solo verso i suoi fratelli lebbrosi, ma anche nei confronti delle sue infermiere. E Vidi, con chiarezza, la sua lingua lebbrosa... che si era staccata e si era fermata in gola. «Sorella!», gridai ad Habondia. Sorpresa, lasciò cadere lo straccio nella bacinella, schizzando l'acqua tutt'intorno che le lasciò una macchia nera sulla tonaca scura. «Correte da Jacques! Guardate la sua lingua!». Restando in ginocchio, si voltò e aggrottò le sopracciglia alla vista di Jacques, la cui bocca, ora, era spalancata e silenziosa. «Correte!», urlai, gettando a terra il mio straccio e sollevandomi in piedi. «L'ha ingoiata! Soffoca!». Habondia si mosse così piano e io così veloce che arrivammo da Jacques nello stesso momento, nonostante fosse stata sempre vicina a lui e io all'altra estremità della camera. Ispezionando il paziente, Habondia alzò le braccia costernata, comprendendo alla fine quello che era successo; tuttavia, grazie alla Vista, capii che non potevamo aspettare un momento di più. Con una mano, aprii la bocca di Jacques fino a dove era possibile, poi, con rapida sicurezza, sapendo ciò che avrei scoperto, feci scivolare le dita dell'altra mano oltre le viscide gengive coperte di solchi. Esalava un alito terribile, ma in quel momento pensavo solo ad afferrare la lingua gonfia e carnosa. Ne restava soltanto la punta, poiché aveva ingoiato la base. Appena trovai un appiglio, iniziai a tirare, sempre di più, fin quando la
lingua venne via con uno schiocco. La gola era libera. Studiai la lingua un istante, grigia e lucida come una lumaca. Accanto a me, sorella Habondia si era coperta la bocca e mi osservava con uno sguardo di tale sconcerto e disgusto che fui sorpresa di non vederla vomitare o svenire. Allo stesso tempo, il povero Jacques fece un rauco sospiro attraverso la bocca aperta e le feritoie che fungevano da narici. E a quel punto accadde qualcosa di molto strano. Fui colta da un sentimento di giustizia, o meglio, un sentimento di pace dove c'era amore e nient'altro. Fui sommersa da un dolce calore, che mi discese dalla testa fino a pervadere tutto il mio corpo come se stessi sotto i raggi del sole. Per un attimo illimitato, mi sciolsi in quel calore, dimentica di me stessa. Era lo stesso sentimento provato in presenza della Dea dopo la morte di Noni. E quando udii, alle mie spalle, un debole sospiro di sorpresa, mi voltai per osservare lo sguardo di sorella Habondia che seguii mentre si fissava sul palmo della mia mano, su cui era poggiata la lingua, non più di un grigio pallido, gonfia e frantumata, ma perfettamente plasmata, rosa e sana. E intorno alle mie mani, visibile anche alla luce del giorno, si era formato un luminoso alone dorato. Le mani di Noni; mani benedette dal Tatto. Non avevo dubbi che la sua morte gloriosa avesse determinato questo momento, poiché la sentii accanto a me. Non ci furono pensieri, sorprese, timori, turbamenti; solo l'unica azione che in quel momento era giusto fare: far scivolare la lingua di Jacques nella bocca ancora aperta, sentire l'intenso ma piacevole calore tra le dita, poggiarle con dolcezza alla base della lingua e poi ritrarle altrettanto dolcemente... All'improvviso, il tempo ricominciò a correre di nuovo; diventai nuovamente cosciente di me stessa, di ciò che avevo appena fatto e rimasi a bocca aperta, incapace di dire una parola. In ginocchio, restai a guardare Jacques, sdraiato sul suo materasso. All'improvviso si sedette, guardandomi meravigliato con l'unico occhio buono, mentre il suo volto (sebbene fosse ancora straziato e terribile da osservare) era radioso di felicità. Distese le braccia, afferrò la mia mano (quella con cui avevo recuperato la lingua lebbrosa) e iniziò a baciarla. Infine mi ammirò con uno sguardo fastidiosamente adorante, e proclamò: «Mi avete guarito! Mi avete salvato la vita e mi avete restituito la pa-
rola!». E, voltandosi verso l'intera camerata affinché tutti gli altri lebbrosi potessero sentirlo, gridò più chiaramente di quanto non fosse mai stato capace dal suo arrivo: «Ascoltate, tutti! Questa buona suora è una santa, mandata da Dio per compiere miracoli! Mentre dormivo, la mia lingua si era staccata e io, pensando di non essere più in grado di poter esprimere i miei pensieri, e sentendo che la lingua era troppo gonfia da non riuscire neppure a sputarla fuori, decisi di lasciarla in bocca, sperando di ingoiarla, soffocare e morire in fretta. Questo angelo, però», indicandomi con un gesto teatrale, «non solo ha intuito da lontano il motivo per cui soffrivo, ma ha recuperato la mia lingua dopo che l'avevo ingoiata rendendola di nuovo perfetta e, grazie a un miracolo, l'ha riattaccata al suo posto tanto che posso di nuovo parlare. Che Dio sia lodato per averci mandato una vera santa, sorella Marie Françoise!». Sentii uno strano calore correre lungo la spina dorsale, non più piacevole, ma elettrico, la fredda bruciatura che si prova toccando un ghiacciolo. All'improvviso la mia comunione con la Dea si spezzò. Accanto a me udii un suono camuffato, un suono che non avrei dovuto ascoltare in tutto quel trambusto di esaltazione e domande che seguirono e, tuttavia, un suono che mi fece rizzare i capelli sulla nuca. «Magia», sospirò sorella Habondia. «Stregoneria...». Come potrei descrivere lo strano miscuglio di emozioni che seguì? Certamente, ero felice di vedere che al mio amico Jacques era stato restituito il dono della parola, e profondamente grata per il sacrificio di Noni, che aveva reso la cosa possibile; allo stesso tempo, non ero preparata ad ammettere il miracolo che avevo appena eseguito. Anzi, la reazione di sorella Habondia suscitò in me il desiderio di negare ciò che era appena accaduto. I lebbrosi, tuttavia, la pensavano diversamente; claudicanti a causa delle deformità, si avvicinavano lentamente a me, afferravano il mio grembiule con le mani disfatte, e mi pregavano compassionevoli di essere misericordiosa con loro e di salvarli con un semplice tocco della mano. A quel punto, però, ritornai ad essere pienamente cosciente, cancellando completamente la Presenza, per la prima volta dopo la morte di Noni. Insieme a sorella Habondia li pregai di tornare ai loro letti, affinché potessimo continuare il nostro lavoro. Cosa che fecero con molta riluttanza e non ci fu nessuno che, avvicinandomi per curarli, non mi implorò di toccargli le ferite e guarirlo; molti mi
strinsero la mano e la spinsero, il palmo all'ingiù, sulle ferite aperte. Erano tanto desiderosi di guarire e io altrettanto impotente che quando sorella Marie Magdeleine arrivò a darmi il cambio, ero sull'orlo delle lacrime. Sorella Habondia non mi aveva più rivolto la parola e aveva evitato il mio sguardo dopo quello che era successo con Jacques; anzi, quando uscimmo dal lazzaretto, fece attenzione a camminare diversi passi dietro di me. La sua diffidenza mi fece considerare la fuga, poiché sapevo che avrebbe raccontato tutto, inquinando la mente delle altre sorelle; in men che non si dica, la cosa sarebbe arrivata alle orecchie del vescovo e poi agli inquisitori. Con questi pensieri, corsi ad unirmi alle altre in cappella, per il canto dell'Agnus Dei. Se fossi fuggita in quel momento, tutti nel convento si sarebbero allarmati e sarei stata riacciuffata in poco tempo; ma se fossi andata via al tramonto, dopo i vespri, si sarebbero accorti della mia scomparsa soltanto ai mattutini, il giorno dopo, concedendomi diverse ore di oscurità. E così sfoderai il mio miglior sorriso e cantai per molto tempo con le mie consorelle, facendo, agitata com'ero, diversi errori; e per tutto il tempo fui cosciente dello sguardo di Habondia su di me, sebbene scostasse gli occhi ogni volta che mi voltavo a guardarla. Dopo la funzione, a ogni suora veniva richiesto di attendere ad un compito specifico; nel mio caso, apparecchiare la tavola per il pasto serale. Alla fine, arrivò il momento in cui ci sedemmo tutte al lungo tavolo sostenuto da cavalletti e a capo chino ascoltammo madre Geraldine che ringraziava per il cibo che stavamo per mangiare. La regola proibiva alle consorelle di parlare liberamente nella cappella o durante la refezione comune che seguiva; Habondia avrebbe avuto pochissimo tempo per fare le sue accuse prima che le suore si ritirassero nelle loro celle per la preghiera individuale. Sarebbe stato impossibile per qualsiasi autorità sospettare qualcosa fino al giorno successivo. Tuttavia, quando sollevai lo sguardo verso l'assemblea, notai uno strano fenomeno: le donne, che d'abitudine sedevano ogni giorno allo stesso posto, avevano cambiato sistemazione. Più della metà sedeva con il corpo e il volto sorridente inclinato, di poco ma chiaramente, verso di me, sulla sinistra del tavolo; le altre, vicine e con le labbra serrate, sedevano inclinate verso sorella Habondia, sulla destra. Soltanto madre Geraldine sedeva al solito posto, al centro. Dopo il ringraziamento, si alzò e iniziò a servirci il cibo, una dopo l'altra, attingendo dal calderone appeso al grande focolare. Mentre la badessa era intenta a
questo compito, sorella Habondia mi lanciò un'occhiata e mi puntò contro due dita col tipico gesto con cui si scaccia il malocchio. Madre Geraldine si accorse della manovra e, sebbene la regola c'impedisse di parlare durante i pasti, tranne che nei momenti di grande emergenza, guardò severa Habondia e disse: «Siete scusata, sorella. Ne parleremo dopo. Ora andate nella vostra cella e pregate Dio di perdonarvi per ciò che avete appena fatto». Quindi, con un'espressione altrettanto severa ma indecifrabile, si voltò verso di me e disse: «Anche voi siete scusata, sorella Marie Françoise. Venite con me». Senza dire altro, consegnò il mestolo alla stupefatta Marie Magdeleine. Seguii la badessa, con le ginocchia tremanti di paura. Tuttavia, dopo molti mesi trascorsi in convento, mi fidavo di madre Geraldine poiché mi aveva sempre trattata bene. Lasciammo il refettorio in silenzio, attraversando la cucina e sbucando nel corridoio. Con mia grande sorpresa, la badessa mi condusse direttamente nel grande santuario; e qui, tra le ombre del tardo pomeriggio e la luce delle candele che bruciavano incessantemente per la salvezza di chi era in purgatorio, si fermò a guardare l'altare, poi si fece il segno della croce e s'inginocchiò sulla pietra fredda. Io la imitai; come potevo non farlo? Ma mentre m'inginocchiavo, il mio cuore si fermò, perché la sua espressione divenne enigmatica, i gesti gravi, gli occhi scostati dai miei: mi aspettavo da un momento all'altro di sentire una mano sulla spalla, alzare lo sguardo e trovare un domenicano con la tunica nera e il cappuccio orlato di bianco, un avvoltoio. Ma non arrivò nessuno; dopo un po', la badessa si alzò, si fece di nuovo il segno della croce e poi, dopo che io ebbi fatto la stessa cosa, mi fece segno di seguirla. Obbedii. Arrivammo al lazzaretto dove madre Geraldine andò dritta verso il letto di Jacques, dicendogli: «Caro Jacques! Mio buon amico!». E, come se fosse la cosa più naturale al mondo, s'inginocchiò davanti a lui, strinse la mano priva di dita e la baciò. «Dolce madre», disse Jacques, ogni volta felice di sentire la chiarezza con cui riusciva ad articolare le parole. «E mia dolce sorella Marie che, a quest'ora, avrete senz'altro saputo, è una vera santa mandata da Dio! Ha fatto un vero miracolo e mi ha restituito la lingua. Stavo morendo, madre...». Con il volto stranamente composto lo interruppe: «Amico caro, dovrei dubitare dell'evidenza? Vedo il miglioramento, certo, ma perché sorella
Marie possa essere definita una santa, c'è bisogno di un altro testimone oculare». Si disse d'accordo. Attraverso le finestre che si affacciavano ad occidente entravano i raggi del sole al tramonto. Madre Geraldine porse a Jacques il suo bastone e lo fece zoppicare senza aiuto fino alla finestra aperta. Non posso dimenticare la scena: Jacques, poggiato sulle corte stampelle, e la suora, piegata su di lui a scrutargli la gola; entrambi sagome contornate di luce color cremisi. Poi ritornarono da me e alla fine potei vedere la badessa in volto; come posso descriverla? Le labbra strette; il busto che si sollevava e si abbassava visibilmente seguendo un respiro accelerato. Era profondamente scossa, e cercava di trattenere parole ed emozioni, ma nella mia ansia non riuscivo a capire se il suo contegno fosse per me di buono o di cattivo auspicio. «Grazie, mio buon amico», disse al lebbroso. Quando si fu risistemato sul suo lettuccio, ci congedammo, mentre Jacques ci salutava a gran voce: «Che Dio sia lodato! Che Dio sia lodato e che possa benedire in eterno sorella Marie Françoise!». La badessa mi condusse veloce e in silenzio nella sua cella, la più piccola e la più umile di tutte, priva persino del pagliericcio. Sebbene le monache fossero abituate a lasciare la porta aperta, stavolta fu chiusa e, guardandomi finalmente in volto, fissò i suoi occhi dritti nei miei. «Allora è vero», disse o, meglio, chiese, poiché era chiaro che volesse da me una conferma. «Proprio come ha raccontato sorella Habondia: in qualche modo avete capito che Jacques stava soffocando e quando gli avete rimosso la lingua, essa si è risanata sulla vostra mano; dopodiché l'avete riattaccata». Come potevo negarlo? Aveva visto la prova con i suoi occhi e due persone potevano testimoniare che io ne ero l'artefice. Mi voleva bene, certo, e se fosse stata soltanto la mia parola contro quella di Habondia, avrei pure potuto mentire, ma non potevo accusare Jacques di calunnia. E così abbassai lo sguardo e dissi: «È vero, ma è stato Dio a far sì che questo fosse possibile, non io». «Habondia dice che si tratta di stregoneria», rispose dolcemente, e io provai un brivido. Non dissi nulla, ma restai a capo chino fino a quando madre Geraldine aggiunse: «Ci sono molte persone come lei; in questi tempi così pericolosi, è meglio essere cauti». La speranza si riaffacciò in me e sollevai piano la testa per guardarla. Continuò: «Vi ricordate il giorno in cui ci siamo conosciute e di come ero
convinta che Dio avesse voluto che le nostre strade s'incontrassero? Pensavate davvero che fosse un caso, l'aver trovato la tonaca di una suora, e per giunta di una francescana, appesa nel bosco, in un momento tanto opportuno? Sono stata io a farvela trovare lì». Ammutolita, cercavo di capacitarmi all'idea, fin quando aggiunse: «Vedete, io Sogno: ho Sognato di voi, attaccata dai briganti, e protagonista dell'evento di oggi. Il mio destino è di servirvi, sorella, proprio come il vostro è di continuare a fare grandi cose». M'inginocchiai alle sue parole, la tonaca bianca frusciante intorno a me. «Non posso, non devo...». La mia voce diventò un sussurro mentre mi premevo le mani sugli occhi. «Sono una falsa, una bugiarda... madre, io non sono una suora. Non sono neppure una vera cristiana». Con infinita grazia, s'inginocchiò accanto a me e mi prese la mano; era molto più alta di me, cosa che, in quel momento, trovai stranamente confortante, come se fosse veramente una madre che consolava sua figlia. «Dio è più grande della Sua chiesa», disse. «Più grande delle dottrine dell'uomo, più grande di quanto possiamo immaginare. E ciò a prescindere dal nome con cui Lo chiamiamo, o La chiamiamo come Dea: Diana, Artemide, Ecate, Iside, santa Maria...». Fece una pausa e poi aggiunse: «La prima volta che vi ho vista, ho notato il Sigillo di Salomone attorno al vostro collo». Sgranai gli occhi, stupita. «Il talismano d'oro con la stella e le lettere ebraiche incise. Lo indossate ancora, vero?». Incapace di dire una parola, annuii. Come faceva questa donna cristiana a conoscere il nome del medaglione magico mentre io, che lo indossavo, non avevo idea di cosa fosse? «Bene, vi proteggerà. Quel talismano vi ha condotto qui». «Non so neppure cosa significhi», ammisi. «Inoltre, non ho mai fatto nulla di simile a ciò che è successo oggi con Jacques. Non so perché all'improvviso...». «Io sì», disse. «È l'eredità che vi ha lasciato vostra nonna; il risultato della vostra suprema iniziazione, avvenuta grazie alla sua morte sacrificale. Poiché voi, cara Sybille, siete destinata a diventare sovrumana; e vostra nonna ha eseguito magnificamente il suo ruolo per portare a termine quel compito. Sarete colmata di un grande potere; e il nostro dovere è di guidarvi affinché lo usiate nel modo giusto...».
XIII La mattina dopo, tutto il convento sapeva della guarigione di Jacques, se non con gioia e lode dalle sue grigie labbra marezzate, con timore e astio da quelle di Habondia. I confini della lealtà definiti al tavolo da pranzo divennero più evidenti durante il pasto successivo: sei delle sorelle diventarono accese sostenitrici di Habondia e dei suoi sospetti. Il gruppo si muoveva insieme, compatto come un branco di pesciolini, scambiandosi bisbigli da un velo all'altro, lanciandomi sguardi furtivi, pregando ad alta voce di ricevere protezione e maledicendo il diavolo ogni volta che passavo. Come sorella Habondia, anch'io fui circondata dalle mie discepole. Era troppo tardi per negare il mio coinvolgimento nella guarigione del lebbroso, ma fui molto attenta a sottolineare che era stato Dio, e non io, ad eseguire il miracolo. La maggior parte capiva il concetto, ma cercava comunque la mia presenza convinta che, se ero stata strumento di Dio una volta, possedevo ancora un po' della sua radiosità, nella quale desiderava bearsi. Alcune, tuttavia, mi canonizzarono, in cuor loro. Prima fra tutte sorella Marie Magdeleine, per la quale personificavo Cristo. Talmente divorata da fervore religioso, cercò di recitare il ruolo di san Giovanni Battista: mi camminava così vicina che le nostre tuniche strofinavano l'una contro l'altra; mi prendeva la mano baciandola e, con lo sguardo rapito, mi supplicava: «Dolce sorella, parlateci di Dio. Cosa vi dice oggi?» «Non sono una santa», insistevo. «Dio mi parla attraverso la liturgia e la scrittura, proprio come con voi». Quella notte non riuscii a chiudere occhio. Volevo prendermi cura di molte delle mie sorelle, specialmente della mia protettrice, madre Geraldine, che non mi aveva più rivolto al parola dal momento in cui mi aveva sorprendentemente rivelato che sarebbe diventata la mia guida. Vivevo nel terrore che presto sarebbe stata scoperta e io insieme a lei... Il giorno seguente, mentre svolgevo i miei compiti nel lazzaretto con sorella Habondia, apparve sulla porta sorella Marie Magdeleine, paonazza e senza fiato, come se avesse corso. Ignorando lo sguardo attento di Habondia, mi chiamò: «Madre Geraldine vi vuole nel suo ufficio. Dovete venire immediatamente!». Appena la raggiunsi nel corridoio, Magdeleine mi afferrò la mano. «Prenderò il vostro posto nel lazzaretto», sussurrò. «Vi devo dire, però, sorella», e qui fece un cenno con la testa per indicare Habondia, «che padre Roland ha informato il vescovo del miracolo». Mi strinse la mano eccitata.
La fissai, inorridita. «Mi state dicendo che sia padre Roland sia il vescovo sanno?» «Non solo». Sfoderò un sorriso compiaciuto. «Il vescovo è qui». Qui? Ripetei la parola soltanto con le labbra, incapace di modulare alcun suono. «Per vedere voi. Non è meraviglioso? Ora devo andare; dopo, però, mi racconterete tutto». Intrecciò le mani all'altezza della vita e lasciò che le ampie maniche le coprissero; con il debole fruscio della lana sopra la pietra, scivolò veloce verso il lazzaretto. Scioccata, feci lunghi passi nella direzione opposta, fino a quando mi cedettero le gambe e caddi in ginocchio, le mani appoggiate al muro. Il respiro si contrasse: era proprio questo ciò che avevo temuto; ma almeno nessuno stava implicando madre Geraldine. Se mi avessero torturata, sarei stata abbastanza forte da non rivelare il suo nome né quello delle altre sorelle? Dea, aiutami, pregavo tra me, mentre la testa si piegava sotto il peso della paura. Ed era tale l'intensità, la disperazione e la volontà dietro quelle due parole che capii che sarebbero state ascoltate. Restai lì lo spazio di molti respiri fino a quando raccolsi i miei pensieri disordinati. Qualsiasi tentativo di fuga avrebbe soltanto confermato la mia colpevolezza; inoltre, non c'era dubbio che la sedia vescovile, i cavalli e gli attendenti aspettavano all'esterno. Non avevo altra scelta se non quella di affrontare i miei inquisitori. A quel punto, mi sarei finta innocente e avrei dato la responsabilità dell'accaduto al Dio cristiano. Dopo aver preso questa decisione, esalai un sospiro lungo e profondo e, sollevando la testa, mi ritrovai faccia a faccia con madre Geraldine e il vescovo, fermi a poca distanza da me. Il vescovo era un uomo anziano, dal portamento regale, le guance scarne e occhiaie profonde sotto palpebre che sembravano sostenere tutta la pesantezza del mondo; era un po' ricurvo e penosamente esile, come se la sua stessa carne fosse consumata dalle responsabilità di cui era stato incaricato. Quel giorno, indossava l'informale tonaca nera da sacerdote con il copricapo vescovile. «Sorella Marie Françoise», disse madre Geraldine in un tono curiosamente formale, distante. «Conoscete il vescovo». Lo conoscevo, poiché era venuto diverse volte a farci visita negli anni passati in missione ufficiale, per ispezionare le finanze del convento e per
celebrare con noi l'anniversario del nostro arrivo a Carcassonne. «Sorella», disse, con una voce stridula a causa dell'età, e facendo un passo in avanti per offrire l'anello da baciare. M'inginocchiai ai suoi piedi e baciai la fascia di metallo freddo adornato di pietre preziose. Quando completai il rituale, mi prese la mano e mi aiutò ad alzarmi in piedi. «Venite», disse, e lo seguimmo verso il piccolo ufficio di madre Geraldine; con un gesto ci indicò di entrare per prime e poi, chiusa la porta, vi poggiò le spalle mentre con una mano tratteneva la sbarra di ferro. Restò in silenzio per qualche tempo, mentre mi scrutava con inquietante insistenza. Aveva gli occhi intelligenti, perforanti; il suo sguardo sembrava quello di un ammiratore, o quello di un avvoltoio che studia una carcassa prima di consumarla. «Raccontatemi la vostra versione su come è guarito il lebbroso». Il suo tono era calmo, persino incoraggiante. Mi feci forza e, tenendo gli occhi sempre rispettosamente abbassati, gli raccontai con parole semplici ciò che era successo: e cioè che Jacques stava soffocando, che avevo capito la gravità di quanto stava succedendo e che gli avevo estratto dalla gola la lingua che, a quel punto, fu miracolosamente risanata. Insistetti che Dio, e non io, era responsabile della guarigione, poiché non avevo idea di come fosse accaduta. Ero solo un'umile suora e neanche particolarmente brava; Dio, infatti, non mi aveva ritenuta più adatta ad essere strumento di un altro miracolo. L'anziano uomo ascoltò tutto in silenzio. Più parlavo e più mi convincevo che non stava ascoltando le mie parole ma, piuttosto, che mi stava studiando. La cosa mi faceva agitare molto più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi accusa. Nel bel mezzo della storia, interruppi il mio racconto, dimenticando le parole successive da dire. Per un attimo restai stordita, incapace di parlare; ma grazie alla misericordia della Dea mi ripresi subito e riuscii a fatica ad arrivare alla fine. Tuttavia, continuò a restare in silenzio, tanto che alla fine osai alzare lo sguardo. Aggrottò le sopracciglia in segno di disapprovazione. «Sorella Habondia dice che si tratta di stregoneria, che le vostre mani furono circondate da una strana luce, più luminosa del giorno. Come rispondete a questa accusa?». Abbassai subito lo sguardo. «Vostra Eminenza, non sono stata io a fare magie o altro. È stato Dio a guarire Jacques, non io».
«Avete il diritto di ascoltare il vostro accusatore», disse, e con una voce forte e severa, chiamò: «Sorella!». Contemporaneamente, aprì la porta per fare entrare una suora, la testa talmente piegata che il suo volto era completamente nascosto dal soggolo e dal velo; ma non avevo dubbi circa la sua identità. «Eminenza», disse, la voce fragile, tremolante, anzi, persino commovente; s'inginocchiò, baciò il suo anello e poi, quasi perdendo l'equilibrio, si fece aiutare a rimettersi in piedi. «Sorella Habondia, diteci ciò che avete visto la mattina in cui Jacques, il lebbroso, fu guarito». Ispirazione e rettitudine illuminarono talmente i lineamenti di Habondia, lisciando le rughe segnate dall'ira, che si poteva indovinare che in gioventù era stata una bella ragazza. Con una voce colma di passione e convinzione, disse: «Vostra Eminenza, stavo accudendo uno dei lebbrosi quando, in fondo alla stanza, udii un suono terribile, la voce di sorella Marie Françoise che urlava». Calmo, il vescovo le chiese incalzante: «E quali parole disse?» «Maledizioni terribili, Eminenza; maledizioni contro Dio, Gesù... e un'invocazione al diavolo». Aprii la bocca meravigliata, capace solo di emettere un suono strozzato che non destò l'attenzione di nessuno dei presenti. «So che è molto difficile per voi, sorella Habondia, ma... quali furono le parole precise? Dobbiamo sapere se sono sufficienti a determinare un processo». «Oh, Santità», disse, colpita da un'idea tanto crudele e premendo i palmi delle mani sul petto, disorientata. Tuttavia, obbedì, il volto paonazzo, mentre diceva: «Credo disse "Che Dio sia dannato" e "Che Gesù sia dannato"», e qui si fece il segno della croce, «e poi disse "Diavolo, dammi il potere..."; anzi no, disse "Lucifero, dammi il potere"». Quando ebbe finito, si segnò un'altra volta e abbassò di nuovo il capo fino a nascondere il volto. «E poi?», le chiese il vescovo. «Oh. Poi tirò fuori la lingua del lebbroso e gliela riattaccò. E le sue mani», aggiunse Habondia, accelerando le parole, «c'era una luce molto strana intorno alle mani. Continuò a brillare per diverso tempo». «Queste sono menzogne, soltanto menzogne!», gridai. «Frenate la vostra impudenza, donna; e rivolgetevi a me come si conviene!». Il vescovo ruotò il capo fino a fissarmi in volto, la fronte accigliata dall'ira. «Ora, quindi, volete dire che non avete guarito il lebbroso, mentre
lo avete appena ammesso?» «No, Santità. Voglio dire che non ho mai maledetto Dio, e di certo non ho mai pregato...». Con mia grande meraviglia e disperazione, madre Geraldine subito interruppe le mie parole: «Monseigneur, non è neppure una suora né tanto meno una cristiana; me lo ha confessato lei stessa. È una contadina fuggita da Tolosa dopo che sua nonna fu condannata per stregoneria e giustiziata». E, puntando il dito contro di me, formando con il braccio disteso una lunga linea di accusa che andava dalla sua spalla alle punta delle dita, disse: «Chiedetele, Vostra Santità, cosa indossa attorno al collo!». L'unica cosa che riuscii a fare fu di guardarla inorridita, mentre il vescovo insisteva: «Bene, allora, fateci vedere». A cosa avrebbe giovato opporre resistenza? A fatica sfilai la manica per far scivolare il braccio sotto la tonaca dove trovai il disco di metallo, riscaldato dal calore della pelle. Lo estrassi, facendolo passare attraverso il colletto e il soggolo che indossavo attorno alla testa e, per la prima volta da quando avevo lasciato Carcassonne, mostrai il talismano ad un'altra persona. Pendeva lì, lucido e accusatorio, sul mio petto. Seguì un silenzio prolungato. «Questa è magia», disse il vescovo, «magia nefasta. Sorella Habondia, voi verrete con me in città; madre Geraldine, scortate sorella Marie Françoise nella sua cella e fate in modo che resti lì per tutta la notte. Tornerò domani mattina per formalizzare l'accusa e mi premunirò di portare di persona l'accusata in prigione». Come ordinato, la badessa mi riaccompagnò in cella; la mia sorpresa e l'amarezza per questo tradimento erano tali che non riuscii a dire neanche una parola mentre camminavamo, incapace persino di guardarla in faccia. La ferita che mi aveva inferto era profonda; ma ancor più profonda era la mia confusione. Apparteneva alla Razza, non c'era dubbio: aveva parlato con compassione del sacrificio di mia nonna; aveva saputo del mio imminente arrivo e aveva lasciato nel bosco la tonaca da monaca affinché potessi trovarla nella foresta. Come aveva potuto, quindi, tradirmi in maniera tanto crudele? All'epoca tutto andava al di là della mia comprensione. E così camminammo in silenzio, e Geraldine non mi offrì alcuna spiegazione alla sua crudele disonestà, e quando infine arrivammo alla mia piccola cella, entrai senza protestare e m'inginocchiai immediatamente sedendomi sui talloni.
A quel punto la badessa disse, senza imbarazzo, né compiacimento ma con grande naturalezza, come se non fosse accaduto nulla di strano: «Restate qui. Andrò a chiamare una sorella affinché resti a guardia della vostra porta tutta la notte». La sua disponibilità a lasciarmi da sola non fece altro che aumentare la mia confusione. Si fidava a tal punto di me da pensare che non sarei fuggita? È chiaro che non l'avrei fatto, almeno fino a quando non fossi stata certa che il corteo del vescovo si fosse allontanato. Pensava davvero che una sola sorella fosse sufficiente a trattenermi? Ero piccola, è vero, ma molto più forte delle sorelle più robuste, e inoltre avevo poteri magici. O era un tentativo di provocare la mia fuga per sigillare la mia colpa e il mio destino? Madre Geraldine se ne andò; e nell'ora che trascorse prima che la grossa e dolcissima sorella Barbara arrivasse a vigilare alla mia porta, mi sentii lacerata. Mi ricordavo sin troppo bene l'angoscia delle fiamme che avevo visto e subito per amore di Noni e sapevo di non essere in grado di sopportarle ancora; tremavo con tutto il corpo, incapace di fermarmi. E mi ricordai di Noni che si rivolgeva al suo tormentatore, colui che l'aveva mandata a morte: Domenico... È il nemico, pensai, rabbrividendo. Sono caduta nelle mani del nemico, le mani di coloro che vogliono distruggere la Razza. Dovevo fuggire ad ogni costo... Tuttavia, il mio cuore mi sussurrava che non era il momento, non era ancora il momento di lasciare questo posto, un luogo a cui sentivo di appartenere. E così restai seduta ore e ore sulla fredda pietra, via via che la luce del giorno si affievoliva e la notte scendeva, quando Habondia apparve con due lampade ad olio. Ne porse una a sorella Barbara e si tenne l'altra. Stranamente, non gettò alcuno sguardo malvagio nella mia direzione; anzi, evitò il mio sguardo e, fatto il suo dovere, si voltò subito per andarsene. Restai immobile tutta la notte, tranne per le ondate di tremore che mi pervadevano quando venivo colta dalla paura. Ero, tuttavia, lacerata da due diverse decisioni: una, era quella di fuggire appena Barbara si fosse addormentata; e l'altra era di restare esattamente dov'ero, poiché sentivo che tale era la volontà della Dea. Arrivò, tuttavia, il momento in cui il mio corpo rifiutò di pensare al fuoco e alla morte, anche se sorella Barbara restò perfettamente sveglia persi-
no nelle ore più fonde della notte. Presto sarebbe arrivato il momento delle laudi, quando la comunità si svegliava nel cuore della notte per pregare, ritornando, poi, a dormire; disperata, decisi di esercitare sulla mia inconsapevole sorella un incantesimo. Fui pervasa da uno strano senso di onnipotenza e capii subito che, proprio come ero stata in grado di restituire a Jacques la parola, avrei potuto colpire sorella Barbara, se avessi voluto. Vidi chiaramente il modo in cui avrei potuto ridurla al silenzio, affinché non gridasse, e il modo in cui avrei potuto paralizzarle gli arti, affinché non mi corresse dietro. E per un istante considerai il da farsi; poi, però, provai un'inspiegabile repulsione alla cosa. Nonostante tutto, il mio terrore non mi permetteva di restare; e così evocai una sfera che circondasse il suo corpo. E, in quella sfera, gioielli scintillanti caddero dolcemente su di lei come fiocchi di neve, che destava torpore. Fu facile eseguire quell'incantesimo, e mi stupii di aver perso tanto tempo a fare talismani, preparare pozioni e incidere cerchi sul terreno. Un attimo dopo russava serena, la testa inclinata in avanti, il mento poggiato comodamente sul petto, le braccia conserte nascoste dalle lunghe maniche, mantenendo, al contempo, la posa dritta e aggraziata di una suora in preghiera. Ignorando la rigidità delle mie gambe, mi alzai in piedi. Con l'occhio della mente, ero già scivolata oltre sorella Barbara, lungo il corridoio, e fuori dalla porta, raramente usata, che stava tra il garderobe e il lazzaretto, per uscire nella notte, verso il bosco e le montagne... Nella realtà fisica, invece, non mi muovevo; non riuscivo a muovermi, poiché il mio cuore e la mia volontà non me lo permettevano, e sapevo che si trattava della volontà della Dea. Il mio destino era lì, in quella cella, in quel convento, nelle mani di madre Geraldine e del vescovo. Disgustata per aver usato la magia per motivi tanto biechi, mi accovacciai di nuovo e feci scomparire la sfera che avvolgeva sorella Barbara. Si svegliò con un piccolo sussulto, strizzò gli occhi e si guardò intorno; poi, soddisfatta di vedermi ancora all'interno della cella, prese il rosario che teneva allacciato alla cintura e iniziò a pregare a bassa voce. Fui pervasa da un senso di calma; non la rassegnazione stanca e disperata che opprime chi sa di non avere vie d'uscita, ma la pace vera che avevo provato dopo la morte di Noni, in presenza della Dea. In questa pace aspettai l'arrivo del giorno. E dopo il suono delle campane che annunciavano il mattino e la luce del
sole che iniziò a filtrare dalle finestre, sorella Barbara alzò lo sguardo come se fosse stata sfiorata da una mano invisibile. Si alzò e, con una voce composta e serena, disse: «Sorella, venite». Mi condusse nell'ufficio di madre Geraldine e, dopo aver bussato timidamente alla porta, la aprì. Davanti a me c'erano la badessa, Habondia e il vescovo, severo e regale. Fui percorsa da un brivido di paura mentre la porta mi si chiudeva alle spalle, ma cercai di domarla pensando a Noni e alla Dea. La prima a parlare fu madre Geraldine. «Vi siete comportata bene, bambina mia, e mi sembra sufficiente come prima lezione: la paura allontana la Dea; e la magia esercitata in preda alla paura attira grandi mali. Arriverà il momento, tuttavia, in cui saprete dominare la paura, poiché basterà che nel vostro cuore ne alberghi soltanto un poco per distruggervi. C'è ancora molto da fare prima che siate pronta a compiere ciò per cui siete stata destinata». Ero rimasta in piedi, sbalordita, il vescovo avanzò verso di me e, inginocchiatosi, mi baciò la mano. «Mia signora». Si ritirò e Habondia lo imitò. «Mia signora», disse in tono fervente, «perdonatemi per essere stata prescelta come causa del vostro dolore». Geraldine, chiaramente la leader del gruppo, s'inchinò a sua volta e, dopo aver aggiunto il suo bacio solenne a quello degli altri, disse: «Mia signora, sarete sempre al sicuro qui con noi; poiché abbiamo giurato di proteggervi». «Chi siete?», chiesi, meravigliata. «Siete streghe o cristiane?». A queste parole, Geraldine mi regalò il più ampio dei sorrisi. «Forse nessuna delle due cose, mia signora. O forse, entrambe. Siamo donne, ad eccezione del nostro coraggioso vescovo, ma siamo anche Cavalieri Templari». E con un movimento rapido, estrasse da sotto la tonaca e il soggolo una collana, dalla quale pendeva un luminoso disco d'oro abbagliante, su cui erano incise iscrizioni ebraiche e delle stelle: un Sigillo di Salomone. «La cosa più importante ora», disse Geraldine, dopo che il vescovo e Habondia erano usciti dalla stanza lasciandoci sole, «è che dovete sapere chi siete. È probabile che sappiate solo una parte della verità; forse vostra nonna vi ha raccontato la storia nel modo in cui l'ha imparata dalla sua maestra. O forse no. Tuttavia, da bambina, e poi da ragazza, sarete andata di certo a messa e avrete ascoltato dal sacerdote la storia di Dio fatto uomo.
Lasciate che vi racconti un'altra storia, altrettanto antica, o forse ancora di più, che narra di una bambina fattasi donna. Viveva presso un lago chiamato Galilea, in una terra abitata dai leoni. Il suo nome, Maddalena, significava "guardiana della torre"; e coloro che la conobbero da bambina pensarono che fosse stata chiamata così per il nome della città da cui proveniva. Coloro, invece, che l'amarono come donna sapevano che era dovuto al suo dono di Guardare lontano, molto più lontano di tutti gli altri. Maddalena conosceva il Dio che si era fatto uomo poiché ella, la Dea, era sua pari. Insieme, divennero Madre e Padre della Razza. Condividevano un unico destino: aiutare l'umanità, insegnare la compassione, guidare coloro che avevano lo stesso loro sangue e i loro talenti a fare la stessa cosa. Ma presto dovettero confrontarsi con il pericolo: poiché suscitarono l'ira di chi era geloso dei loro poteri e dell'influenza che esercitavano sulla gente. Il male alzò la testa e dichiarò profano ciò che essi consideravano sacro; e cercò di distruggerli entrambi. Il mio destino è quello di mettervi in guardia da questo Male, che ha rubato la più grande delle magie e persino ora la devia verso scopi malvagi per impedirvi di trovare il vostro unico destino; vi insegnerò, inoltre, a scoprire e perfezionare i poteri che possedete. Generazione dopo generazione, lo schema è sempre lo stesso: i due devono trovarsi e unirsi per un unico scopo, sconfiggere il male che opera contro di loro. Nel corso delle generazioni passate, il vostro Nemico è diventato più forte, poiché alcuni di coloro che possedevano sangue e poteri divini si sono lasciati deviare dal male; ora il pericolo che vi sfida è veramente grande. Poiché, ora, è molto più della vostra morte che voi e il vostro signore dovrete affrontare; si tratta dello sradicamento di tutta la nostra specie, così che chi è sulla terra sarà lasciato inerte, senza speranza, intrappolato in un presente e in un futuro pieno di guerra e di odio». «Quindi, qui siete tutti Templari», dissi, ancora incredula. Sorrise. «Sì, mia signora. Noi donne, chiaramente, non portiamo spade né lance; le nostre battaglie vengono combattute in ambiti diversi. E, essendo donne, non potevamo comunque appartenere all'Ordine dei Cavalieri del Tempio di Salomone; tuttavia, gli uomini che con noi servirono il Signore e la Signora formarono un ordine interno, e furono perseguitati per la loro fede: ecco perché iniziammo a chiamarci con questo nome, poiché lottammo con essi. Il loro compito era di proteggere e istruire il Signore; il nostro, fare lo stesso con la Signora. E quando l'ordine fu ufficialmente distrutto e gli uomini furono giustiziati o costretti a fuggire a nord - tranne quei pochi che non furono mai scoperti - noi donne restammo qui: chi mai
ci avrebbe sospettato come membri dell'ordine interno? Ma nei mille anni antecedenti a quel momento, ci facevamo chiamare semplicemente discepole. Alcune di noi, qui, hanno nel loro sangue talenti molto forti, la Vista, il Tatto, il Sogno, e molti altri, ma la maggior parte delle altre, meno dotate, credono e vogliono servire in qualsiasi altro modo sia loro concesso di fare. Sorella Habondia, ad esempio, è una di queste; mette a disposizione le sue doti fisiche e intellettive e, come avrete certamente notato, il suo particolare talento nel mentire». «Ma io non sono diversa da voi», protestai. «Voi conoscete la Dea meglio di me; siete più potente di me. Voi, ad esempio, sapevate che sarei arrivata, mentre io ho persino dubitato della vostra lealtà». Con aria triste, disse: «Non è vero, mia signora, io non possiedo neppure una briciola dei vostri poteri o, piuttosto, del potere della Dea. Ancora non avete capito ciò che è successo quando vostra nonna è morta? La vostra suprema iniziazione?». A quel ricordo, mi spuntarono le lacrime che cercai di trattenere. «So... di aver sentito la presenza della Dea più di ogni altra volta. So che ho ricevuto il dono del Tatto». «Avete ricevuto più di quello». Geraldine fece una pausa; inclinò leggermente la testa così che il suo nero velo invernale le coprì il lungo profilo sottile della guancia, poggiandosi sulla mascella forte e spigolosa. Gli occhi fissi su di me, osservavano rapiti ed estasiati qualcosa al di là della mia forma fisica. L'espressione si addolcì e mi ricordai immediatamente della statua lignea di Maria nell'uliveto. «È successo soltanto un'altra volta dalla genesi della Razza: voi, mia cara sorella Marie, sia che ci crediate veramente oppure no, sebbene ancora non lo abbiate scoperto dentro di voi, siete diventata l'incarnazione della Dea». XIV Negli anni che seguirono, madre Geraldine mi spiegò molte altre cose; una di queste riguardava i due modi attraverso cui si veniva iniziati, e cioè si acquisivano i poteri magici per esercitare il bene o il male; si trattava della morte e dell'amore e quest'ultimo veniva interpretato dai praticanti della magia comune come un atto di procreazione. È vero, ammise, che anche il puro atto fisico accordava una sorta di iniziazione; ma il raggiungimento del potere più grande si trovava nell'atto della compassione che trascendeva l'essere singolo e, nelle generazioni passate, questo tipo di u-
nione sessuale tra il signore e la signora aveva generato grandi livelli di potere. (Perdonatemi se vi parlo con tanta franchezza, fratello; non volevo farvi arrossire). Ciò che Noni aveva fatto per me era stato unire l'amore disinteressato alla volontaria resa alla morte; in questo modo la mia iniziazione era stata doppiamente potente. È così che, disse Geraldine, avrei potuto trovare e iniziare in maniera più potente il mio Amore. Per prima cosa, però, sia io che il mio signore dovevamo essere istruiti e preparati, poiché in quest'epoca il pericolo era particolarmente grande; fino ad allora, sarei stata particolarmente vulnerabile agli attacchi del Nemico. L'iniziazione avvenne in un circolo con le altre sorelle della Razza... molto simile a quello che avevo vissuto con Noni. Ci fu l'invocazione della Luce, e fu Geraldine a trasfigurarsi emettendo suoni simili alle parole che Noni aveva usato; ebraico, mi spiegò dopo, e non italiano come avevo creduto; poiché nei giorni in cui i Templari furono costretti a fuggire per mettere in salvo le loro vite, molte streghe li ospitarono e ognuna insegnò loro la magia che conosceva. C'erano gli enormi esseri multicolore, gli arcangeli Raffaele, Michele, Gabriele e Uriel, le stelle e il circolo. Tutto ciò venne messo in pratica in una delle celle più nascoste, un'eredità lasciata dalle troppe invasioni subite da Carcassonne: un piccolo nascondiglio con il pavimento d'argilla nascosto dietro le mura di fango. Circondate da pietra rozza e ammuffita, senza una finestra a mitigare l'oscurità fitta, prive di strumenti e oggetti magici di qualsivoglia specie, avevamo soltanto il conforto di una lampada a olio; fu Geraldine a tracciare un cerchio per terra. La presenza dell'invisibile, tuttavia, era inspiegabilmente vivida; nell'oscurità, credo, si Vede meglio. Lì, in quella piccola camera, protetta dalla badessa, dalle mie consorelle e da molte altre persone sparpagliate in altre città e terre lontane, presenti con lo spirito se non con il corpo, feci i primi passi per imparare a concentrarmi nel dono della Vista. «Pensa al nostro Nemico», mormorò Geraldine in quel primo circolo, quando fummo tutte al sicuro dentro la scintillante sfera azzurro-dorata. Mi venne vicino e mi prese la mano, mentre Marie Magdeleine mi stringeva l'altra, e la sua, a sua volta, fu stretta da quella di sorella Barbara, e quella di Barbara da sorella Drusilla, e la sua da quella di sorella Lucinde... Eravamo in sei quella notte, e le benedico tutte e sei poiché senza di loro, il Nemico mi avrebbe certamente scovata. Infatti, grazie all'aiuto della valenti suore, ero invisibile ai suoi occhi, sconosciuta. Completamente al si-
curo. «Pensa con tutto il cuore al tuo Nemico», continuò Geraldine, «e la sua immagine lentamente apparirà...». Presi un profondo respiro, sconvolta al solo pensiero. Di certo queste donne si sentivano deluse, come io del resto, nel pensare a me come alla Dea, o come prezioso veicolo del Suo potere. Ero fin troppo umana: debole, ansiosa, intimorita... Accanto a me, Magdeleine mi strinse la mano e io mi voltai per vedere il suo profilo alla luce della lampada, la dolce china concava della fronte, la curva rilassata della palpebra chiusa, il ventaglio delle ciglia sull'arco dorato della guancia. Il ritratto della serenità. Provai la stessa pace discendere in me, sentii il fruscio delle mie ciglia sulla pelle, e la paura che si dissolveva. E udii Noni gridare: Domenico... Eri tu quel vento crudele alla nascita della bambina... E immediatamente, ebbi una visione: La sagoma di un uomo alto e robusto. È in piedi davanti a un altare, un cubo di onice. Sulla superficie lucida ci sono due candele, una bianca e una nera; una colomba bianca in una gabbietta di legno; un cerchio di sale e un incensiere d'oro. Da quest'ultimo si levano spirali di fumo e, dietro lo spesso velo profumato di mirra, affreschi di divinità pagane saltellano nelle ombre tremolanti. Una Venere dalla pelle perlacea amoreggia con Marte, con le onde di capelli dorati sparpagliati su di loro; la mortale Leda è nascosta dalle ombre proiettate dalle grandi ali del cigno divino. Proprio sopra la testa dell'uomo, la cupola scintilla con stelle dorate e segni astrologici; davanti a lui, un cerchio magico, con i simboli di fuoco, acqua, terra e aria composti in un mosaico scintillante, fanno da ornamento al pavimento di marmo bianco. Un candelabro dorato, alto e grosso come un uomo adorna ogni quarto della scena: quello ad est, proprio dietro l'altare, ha l'elaborata forma di un'aquila, quello a sud, quella di un leone. Quello a nord e ovest rappresentano il volto di un uomo e di un toro. In cima a ogni candelabro decorato, guizza una candela, unendo la sua luce a quella delle candele sull'altare. Una donna ornata col sole, sussurra il mago, posata sulla luna, circondata da dodici stelle. Nell'agonia del parto, urla... Fa un passo verso l'altare e apre la gabbietta di legno. La colomba all'in-
terno arretra un poco quando vede la mano che s'infila nella gabbia e inclina la testa per guardarlo con l'occhio rosa totalmente inespressivo. Quando stringe la mano sulla sua schiena, la colomba cerca di svicolare e arruffa le piume, facendole svolazzare nell'atmosfera fumosa; ma nell'istante stesso in cui il mago la tira fuori e le accarezza le piume, si placa, ubbidiente, nel palmo della sua mano. È un esserino così inerme: null'altro che un una pallina di calore morbida e leggera con un cuore che batte all'impazzata. L'accarezza in modo meccanico, la mente concentrata solo su quello che la piccola esistenza del volatile gli farà guadagnare, fino a quando la colomba si rilassa a tal punto che inizia a pulirsi da sola, afferrando con il becco una piuma del petto e lisciandola. All'improvviso, il mago le afferra il piccolo collo tra il pollice e il dito medio, e lo torce fino a quando tasta e ascolta le delicate ossa tubolari spezzarsi con uno schiocco; simultaneamente la colomba defeca nella sua mano inarcata. Senza scomporsi, trasferisce il volatile esanime sull'altra mano e fa rotolare il liquido bianco e verde dal palmo sul pavimento di marmo, poi, veloce si pulisce la mano sulla tonaca prima di sistemare la colomba all'interno del piccolo cerchio di sale versato sullo scintillante altare nero. Quindi, estrae il pugnale cerimoniale dalla cintura; la lama scintilla una, due volte alla luce della candela mentre recide con decisione la testa del volatile dal collo. Sangue caldo schizza sul suo pugnale e sulle sue dita, macchiando di un rosso chiaro le piume candide per poi raccogliersi in una piccola pozza contro la barriera di sale. Immediatamente, il mago fa un passo indietro e con l'occhio della mente crea un cerchio protettivo attorno a sé, dal quale sono escluse la colomba e l'altare. Una volta sistemate le barriere, tuona il nome di un demonio, uno che in altri momenti lo ha servito bene, ma che in questo istante non sta svolgendo alcuna funzione, e gli ordina, chiamandolo con i nomi sacri, di mostrarsi all'interno del cerchio di sale. Chi è meno esperto, meno dotato, può non fare caso ai segni più minuziosi: quella strana sensazione fisica simile alla seta fredda che scivola lenta sulla pelle, l'improvviso scintillio delle candele sull'altare, la brutale morte della colomba. L'incensiere inizia a emettere fumo che si sparge sopra il volatile morto, poi volteggia in aria in una colonna, concentrandosi, fino a quando il mago vede un volto materializzarsi nel fumo. Ed è un volto mostruoso: quello di un lupo con lunghe zanne feroci, la lingua velenosa
come quella di un serpente e grandi denti affilati... Vuole a tutti i costi spaventarlo, farlo fuggire per la paura, corromperlo per costringerlo a lasciare quel cerchio protettivo. Poiché solo allora potrà dominarlo, e non il contrario, e la paura è il mezzo più veloce per ottenere ciò che vuole. Quindi, il mago non si concede il lusso della paura; anzi, sente che la minima reazione significherebbe deridere l'audace tentativo dello spirito, ricordargli che si trova completamente in suo potere. Così, quando il demone è completamente plasmato in quel fumo, il mago lo chiama, e gli ordina: «Distruggerai la persona che cerco, la persona che Vede più chiaramente di me. E la distruggerai così...». Estrae dalla sua tunica un lungo cero, la cui estremità viene appoggiata alla candela del quadrante occidentale; e, senza avanzare nel suo cerchio all'interno di quello più grande, porta la fiamma alla gabbia di legno sull'altare. S'incendia all'istante e si consuma nello spazio di due respiri; la fiammante struttura crolla sulla colomba poggiata nel cerchio di sale e si sente odore di piume bruciate mentre il piccolo cadavere s'infiamma. All'improvviso il mago non c'era più; vedevo soltanto la casetta in cui ero nata; all'interno, mia madre accovacciata su fastelli di grano appena tagliati, la pancia gravida. Era così giovane; molto più giovane di quanto io lo sia ora. Urlava, urlava per i dolori del parto, urlava, terrorizzata da Noni, inginocchiata accanto a lei. E mia madre, con una forza selvaggia, una forza mai mostrata fino a quel momento e che non mostrò più, colpì mia nonna facendola cadere a terra. Noni cadde su un fianco e con la spalla colpì la piccola lampada poggiata sul pavimento cosparso di paglia. Osservai il fuoco che, partito dall'olio rovesciato, continuava a serpeggiare sulla paglia, fino a raggiungere la gonna nera di mia nonna dirigendosi verso i giacigli di paglia dove mia madre si sforzava di farmi nascere; e pensai alla gabbietta ridotta in tizzoni ardenti sopra il cadavere fumante della colomba. La morte, compresi in quell'istante, la morte degli altri diventa la sua fonte di potere. Non c'è da meravigliarsi, dunque, che avesse pensato di aver vinto, assistendo alla morte di Noni; e come dovette essersi risentito sapendo che quel potere non sarebbe passato a lui, ma a me. Non mi meravigliavo che perseguitasse me e il mio Amore. Non per vendicarsi di Ana Magdalena, ma per pura sete di potere.
Basta così, ordinò Geraldine ed ecco che all'interno del circolo, ripresi conoscenza. «È stato questo il tuo nemico nel passato», disse la badessa. «Ed è così che continuerai a conoscerlo fino a quando non sarai abbastanza forte da affrontarlo nel presente». E così lo affrontai altre volte, in altri circoli e in altre notti. Lo vidi all'opera in decine di altre occasioni che non vi racconto per mancanza di tempo; incidenti in cui, se non fosse stato per l'intervento di Noni, sarei morta. Lo vidi nell'attimo in cui mia madre strappò dal collo di mio padre il suo talismano, prima che morisse di peste, e quando la mia povera mamma scoprì il Sigillo di Salomone legato al mio collo e consegnò Noni alle guardie. Nel circolo, e nella mia cella solitaria, sempre sotto la protezione delle mie dame-cavalieri, imparai a meditare, non sulla croce o su altri oggetti sacri tipici del convento, ma sulla Dea stessa, fino quando raggiunsi uno stato di profonda calma. In quello stato, mi esercitai a controllare il Suo potere curativo secondo le mie volontà; e sebbene possa sembrare facilmente raggiungibile, fu un processo lento e difficile. Nel lazzaretto avevamo molti malati pronti a ricevere il mio Tatto inesperto, tuttavia, con mia grande delusione Jacques (insieme a molti altri) rifiutò di essere curato ancora. «Alcuni lebbrosi devono restare, altrimenti la gente inizierà ad avere sospetti e a fare chiacchiere», disse. «E se ci devono essere dei lebbrosi, ebbene, io voglio essere uno di questi. Vi servirò lo stesso, mia signora, fin tanto che Dio e Dea mi concederanno di vivere». Imparai, tuttavia, a guarire altri mali; cose meno gravi, come una piaga infiammata, o una ferita che non voleva chiudersi, nulla di così plateale come quello che era successo con Jacques, nulla di più superbo. Tra i malati di peste, qualcuno guarì, spontaneamente, qualcun altro peggiorò e morì, anche con il mio intervento. E quando mi sfogai con Geraldine, mi rispose semplicemente: «Devi dimenticarti di te; dimenticati del corpo umano che ti riveste e ricordati soltanto della Dea». È pur vero che c'erano lunghissimi periodi in cui riuscivo a pensare solo alla Dea e raggiungere quello stato di calma meditativo, quella grazia, quella sensazione della presenza divina. In quei momenti, iniziavo lentamente a dimenticare le mie paure: poiché soltanto riuscendo a vincerle potevo essere abbastanza forte da proteggere me stessa e gli altri, dando così alle mie sorelle la possibilità di fare altrettanto.
Soltanto quando sarai abbastanza forte, mi aveva detto un giorno Geraldine, potrai incontrare il tuo Signore in carne ed ossa; solo allora potrai guidarlo all'iniziazione, quando il tuo cuore si sarà placato. E così, il Nemico Domenico fu il primo pensiero che imparai a dominare, fin quando, avendo imparato a focalizzare la mia Vista e a superare il mio terrore, riuscii a Vederlo e a sentire soltanto la compassione della Dea. Così rafforzata, riuscii a trattare tutti i tipi di paura, compresa la mia particolare avversione per il fuoco e per il dolore che esso provoca, che mi ricordavo in maniera così vivida. Ora ne parlo come se fosse stata una cosa facile e rapida; in realtà, ci volle molto tempo; passarono anni prima che imparai ad evitare quelle cose con la meditazione e restare calma, in Sua Presenza. Non volevo che nessuna ombra restasse nella mia anima, poiché poteva rivoltarsi contro di me. E quando imparai a guardare in faccia il mio attuale Nemico, persino trovando la forza di Vedere il suo volto con equità, Geraldine mi parlò da sola, una notte dopo il circolo, quando tutte le altre erano uscite dalla piccola caverna umida e noi restammo indietro, accovacciate, gli stinchi premuti sulla terra fredda e una candela che allontanava un poco il buio. «Non è ancora sufficiente», Geraldine disse, mentre la fiamma della candela gettava un tremolante cono di luce che le illuminava il seno, il mento, le labbra e le lasciava in ombra gli occhi e la fronte, «aver Visto il nostro Nemico nel passato e nel presente. Devi guardare il Nemico che arriverà in futuro. Questa è l'ultima e più grande paura che dovrai vincere». Esitai; aprii la bocca per controbattere, per dire (per quale motivo, ora, non saprei dire), non posso; ma prima che potessi parlare, replicò: «Cerca di comprendermi, è per lo stesso motivo per cui sei limitata come guaritrice. A volte ti dimentichi chi sei: ti ricordi soltanto della donna, Marie Sybille, dimenticandoti che sei anche la Dea. I tuoi limiti sono i Suoi». All'epoca, mi ero abituata a stare, la maggior parte del tempo, in Presenza della Dea; forse ero diventata anche un poco superba per questa capacità, poiché quando la badessa mi parlò, mi sentii umiliata dal terrore che aumentava in me. Sapevo che parlava del più grande Male che ci aspettava, quello che non riuscii a guardare quando Jacob, durante la mia primissima iniziazione, cercò di convincermi ad affrontare. Si trattava della più pura disperazione, il nulla più assoluto, che avevo visto all'esterno del primo e ultimo circolo in cui Noni funse da sacerdotessa, e pensai: Come potrò guardarlo con spirito quieto se non riesco neppure a sentirlo nomina-
re?. Sapevo, tuttavia, che tutto il mio addestramento era diretto a quell'unico obiettivo: e che, una volta raggiunto, sarei infine stata pronta ad incontrare il mio Amore. E così feci diversi tentativi, esitante, sia nel circolo che durante le meditazioni e, proprio a causa della mia insicurezza, ottenevo soltanto fallimenti. Comunque, la mia attenzione fu subito assorbita da una minaccia diversa. La guerra con l'Inghilterra durava da tempo immemorabile, sebbene non ne avessi fatto esperienza in prima persona: le schermaglie sporadiche si erano verificate sempre verso nord. Tramite il vescovo e padre Roland, che venivano ogni giorno a celebrare l'Eucarestia, comprendemmo che il Principe Nero, Edoardo, aveva invaso Bordeaux. Il suo esercito aveva fatto molto più che uccidere i suoi abitanti: aveva saccheggiato tutte le terre e i villaggi che portavano alla città, sgozzando maiali e pecore, distruggendo raccolti, alberi, vigneti e cantine, incendiando campi ed edifici. «La terra», ci aveva detto padre Roland un giorno, prima della messa, «è nera e cosparsa di fosse e i poveri sopravvissuti muoiono di fame; non hanno neppure il pane perché Edoardo ha bruciato i granai e i mulini. E questo perché sono rimasti fedeli al re di Francia». Quando le mie sorelle seppero che l'esercito di Edoardo stava marciando a sud e a est, verso Tolosa e quindi Carcassonne, si preoccuparono non poco. È vero, vivere in una comunità religiosa doveva farci sentire protette come, certamente, sarebbe stato un centinaio di anni prima. Ma in questi tempi moderni, il rispetto per le suore e i monaci è così ridotto che, in tempo di guerra, rischiavamo di essere uccise e violentate come chiunque altro. La nostra preoccupazione aumentava giorno per giorno con le visite di padre Roland. «Hanno l'Armagnac», disse; «Hanno la Guienna», e infine: «Sono diretti a Tolosa». Misteriosamente, Tolosa fu risparmiata; e padre Roland decise di celebrare una messa di ringraziamento particolare, commentando che se Edoardo non si scomodava a raccogliere la prugna succosa e matura rappresentata da Tolosa, di certo non si sarebbe disturbato a prendere l'uva che, nella metafora, era Carcassonne. Inoltre, la nostra città era un avamposto, una fortezza, con non una, ma ben due cinte murarie: una interna, di legno, costruita dai Visigoti quasi
mille anni prima, e una esterna, di pietra, esistente soltanto da cento anni. È vero, il nostro convento si trovava proprio all'esterno delle mura della città, ma la reputazione di quelle mura doveva essere sufficiente a scoraggiare gli inglesi. O almeno così pensava la maggioranza degli abitanti con il risultato che non fu approntata alcuna difesa, non fu presa alcuna precauzione. Marie Magdeleine me ne parlava spesso e lasciava intendere che le sarebbe piaciuto conoscere il futuro che riuscivo a prevedere circa l'invasione; ma io non lo sapevo, poiché ero troppo distratta per prestarle attenzione. Dopo cinque anni di addestramento con madre Geraldine, ero tormentata non solo dall'incapacità di guardare in faccia il mio futuro Nemico, ma anche dalla crescente convinzione che il mio Amore fosse in pericolo. Come avrei potuto aiutarlo se neppure riuscivo a Vederlo chiaramente? Tutto questo parlare degli inglesi e dell'attacco imminente aveva poca importanza per me e non ponevo il minimo pensiero o energia al loro possibile arrivo. Un giorno, verso la fine della messa, durante le bellissime note del Nunc Dimittis, il coro si fermò all'improvviso al forte botto del portone della cappella chiuso così violentemente da spaccare in due il legno massiccio. Dall'uscio, uno dei fratelli laici, il pastore Andrus, si lanciò al centro del santuario cadendo in ginocchio, non in segno di rispetto per noi, ma in preda al panico. Padre Roland, il coro e le altre monache lo guardarono stupefatte quando gridò: «Gli inglesi! Sono qui! Che Dio ci aiuti! Sono qui!». Un mormorio serpeggiò attraverso l'assemblea quando Geraldine, avanzando sullo scranno del coro, chiese silenzio e poi, voltandosi, fece un cenno col capo al maestro del coro. Le coriste ricominciarono con il Nunc Dimittis, le voci tese, più alte di prima: Signore, fa' che il tuo servo vada via in pace... Stavolta la liturgia fu completata; e quando padre Roland diede la sua rapida benedizione, corse a capo chino fuori dalla cappella con tutte le vesti cerimoniali mentre noi monache avanzammo secondo il nostro solito ordine dietro la badessa. Gli inglesi avanzavano regolari lungo le colline. Erano più di cinquemila: lancieri, soldati a piedi, arcieri, questi ultimi particolarmente temuti,
con i loro archi alti quanto un uomo. Locuste nere che sgusciavano in sciami irregolari, in marcia da mesi senza preoccuparsi più delle linee precise della battaglia formale; non che ne avessero bisogno. Non avevano trombettieri, né araldi, né bandiere sgargianti da sventolare, e non ce ne sarebbero dovute essere. Non si trattava di guerra, ma di furfanteria. Come tutte le altre città conquistate, Carcassonne non era pronta a questo attacco. Era stato radunato un piccolo esercito formato dagli uomini del grand seigneur e da cittadini comuni, ma non superava le duecento unità. Atterrite, li guardavamo dal campo a nord del convento mentre si raccoglievano per affrontare il nemico che si avvicinava. Quel giorno faceva particolarmente freddo; la sera precedente, avevamo coperto i raccolti con la paglia per proteggerli dal gelo, e quella mattina, nella cappella piena di spifferi, le punte delle mie dita erano diventate blu. E ora, all'esterno, senza la mantella che avevo dimenticato nella cappella, capii che il freddo che provavo non era fisico. I miei pensieri e le mie doti erano concentrate su altre cose; avevo dato a questa guerra poca importanza, ma in quel momento, Vidi di sfuggita ciò che ci avrebbe portato. Feci scivolare le mani sotto le lunghe maniche e mi strofinai le braccia cercando di riscaldarmi. Nonostante il suo addestramento, gli occhi di Marie Magdeleine si riempirono di lacrime; afferrò le braccia di madre Geraldine e disse, con un filo di voce, mentre insieme alle parole usciva una nebbiolina bianca: «Madre, dobbiamo fuggire altrimenti ci uccideranno, proprio come hanno fatto con quei poveretti a Bordeaux». La badessa rivolse lo sguardo a Magdeleine e, vedendo le sue lacrime, si addolcì. «Vai se credi di dover andare; resta, se vuoi restare. Per quanto mi riguarda, scelgo di restare». Con una voce più forte disse alle altre sorelle: «Chi vuole andare via, può prendere il carro, i cavalli e tutto il cibo e il vino che riesce a trasportare». Nessuno si mosse; un sorriso appena accennato le disegnò le labbra e poi scomparve. «Cosa vedi?», mi chiese. Pensavo alle pecore e alle mucche che pascolavano nei campi davanti a noi, ai porri e ai piselli ricoperti di paglia, agli alberi carichi di mele, pere e noci, e Vidi che tutto questo sarebbe stato distrutto in poche ore. Sentii il tonfo di piedi inglesi sulle scale del convento. «Stanno arrivando al convento».
«Cos'altro?», mi chiese Geraldine, decisa e brusca come un mercante che contratta il prezzo. Fui colta di sorpresa, poiché in quel momento non riuscii a Vedere nient'altro. Con un senso di umiltà, capii che una cosa è vincere le proprie paure in uno stato di meditazione, un'altra, sopraffarle in momenti inaspettati. Poiché non rispondevo, Geraldine disse: «Barbara, Magdeleine, andate nell'orto e raccogliete tutte le verdure e le mele che potete, poi correte in cantina. Le altre, mi seguano». E, tirandosi su le gonne, iniziò a correre. La seguimmo. Prima al lazzaretto, dove raccogliemmo i lebbrosi che stavano abbastanza bene per seguirci in cantina; poi ci recammo all'ospedale scortando al piano inferiore chi era in grado di camminare; tre suore, inoltre, corsero in cantina per prendere tutto il cibo e l'acqua che riuscirono a trasportare. Stordita, mi davo da fare accanto a Geraldine nel lazzaretto, dove il vecchio Jacques dava istruzioni agli altri storpi su come appoggiarsi alla sua schiena mentre li guidava giù per le scale. Noi monache cercavamo di trasportare chi era troppo debole per muoversi, intrecciando le dita per fare delle sedie da trasporto. La nostra destinazione era la camera magica segreta, nella quale stipammo cibo, lebbrosi, sopravvissuti alla peste e monache, prima di chiudere la parete di argilla. Mi fidavo completamente di Geraldine e non mettevo mai in dubbio i suoi ordini, poiché conosceva il volere della Dea come me, se non meglio. Ma quando l'oscurità si chiuse sopra di noi, con suoni roboanti e striduli di pietre che raschiano e cadono su altre pietre (non osammo portare con noi una fonte di luce, per evitare che filtrasse attraverso una fenditura o una screpolatura e ci tradisse) pensai: Siamo intrappolati. Eravamo ciechi, anche se non completamente sordi. Attraverso le fessure create appositamente per permettere l'aerazione, riuscimmo a sentire le urla degli inglesi che avanzavano, le grida dei francesi che fuggivano e i colpi degli zoccoli sul selciato. Infine, udimmo quelli che sembravano decine di passi sopra di noi e poco più tardi lo sferragliare del metallo sulle scale. Infine, un solo paio di pesanti stivali strisciare giù in cantina, accompagnato da un intenso ansimare. La voce di un uomo, rauca e crudele, rozzamente incapace di pronunciare una sola vocale francese, gridò: «Molto bene, signore! Se vi state nascondendo qui, da qualche parte, non ci sfuggirete. Se mi indicate dove siete, vi prometto che a nessuna di voi sarà fatto del male...».
Nessuno di noi. disse una parola; ci stringemmo nell'oscurità, talmente stretti che avevo le spalle e le ginocchia pigiate contro quelle di Magdeleine, alla mia destra, e di Geraldine, alla mia sinistra; davanti a me Jacques era seduto, e la base della sua spina dorsale obliqua premeva contro i miei piedi; sentivo sul volto il respiro caldo dei miei compagni. «Sorelle», l'inglese urlò nel suo francese storpiato. «Se siete qui, vi troveremo. Salvatevi ora e datemi una voce... vi ricompenseremo per esservi arrese pacificamente». Era di sicuro un uomo grosso, poiché sentivamo i suoi passi pesanti mentre si spostava nella cantina. Improvvisamente risuonarono lungo le scale decine di altri passi; strane voci profonde urlavano in tono interrogativo in una lingua straniera, e l'inglese rispose. Dopo un po', sentimmo che altri uomini entravano in cantina. Alcune sorelle, non appartenenti alla Razza, si lamentavano piano prese dal panico. Restammo in quelle condizioni anguste per ore, mentre i soldati andavano e venivano; sopra di noi sentivamo altri soldati, sulle scale, nelle celle, all'esterno. Infine la cantina si riempì dei suoni di un esercito che vi si accampava per trascorrere la notte: uomini che trascinavano materassi e cibo; mi sembrò di odorare pollo arrosto e vino sacramentale. Parlavano e ridevano a volontà; infine, quando non credevo più che sarebbe successo, si addormentarono e iniziarono a russare. La bona Dea, pregavo, con le parole che mia nonna amava tanto; Buona Dea, sono nelle tue mani; mostrami ciò che devo fare. Sentivo che la sopravvivenza della nostra comunità dipendeva da me e la semplicità di quella rivelazione, e cioè che dovevo evocare la Vista in quel momento o abbandonare per sempre ogni velleità, mi fece voltare verso Geraldine e dire, con una voce più lieve di un sussurro: Circolo. Capì immediatamente, mi prese la mano e la strinse; sull'altro lato, Magdeleine, sebbene non avesse potuto udire le mie parole, fece lo stesso. Un suono infinitamente più lieve di un sospiro attraversò la stanza e con determinazione e cautela, gli appartenenti alla Razza si mossero lungo il perimetro del circolo e unirono le mani, mentre coloro che non vi appartenevano si spostarono al centro, dove sarebbero stati al sicuro. Chi di noi era in grado di farlo evocò un circolo protettivo. Via via che lasciavo andare me stessa e le mie paure, una pace potente, anzi, un senso di gioia, discese infine su di me. E nello spazio di un sospiro, Vidi chiaramente: Gli inglesi che, trovando nel convento rifugio e sostentamento, lo usava-
no per riparare una parte della loro legione; e, una volta partiti, vi appiccavano il fuoco. Potevo sentire l'odore dell'incendio che sarebbe divampato da lì a tre giorni: sentivo le urla dei lebbrosi inermi, delle mie sorelle; sentivo il calore delle fiamme, le pareti di pietra che ci circondavano diventare infuocate. E Vidi la città di Carcassonne, le sue torri, i guardiani annidati dietro i bastioni di legno e alle loro spalle, le mura di pietra. E la gente che diceva: Non entreranno mai; siamo al sicuro. Queste pietre hanno tenuto per più di mille anni... Il fuoco saliva in aria, guidato dalla punta di una freccia inglese, uno strumento mortale, scagliato con l'incomparabile forza di un arco. I bastioni di legno s'incendiavano; i cancelli di legno si deformavano contro gli arieti. In città, morte, morte e ancora morte seguita dalle fiamme. Vidi la terribile immagine di una spada affilata sollevata in aria; e Magdeleine e Geraldine sotto quella spada, che urlavano, con le mani alzate per ripararsi dal colpo. Vidi tutto questo; eppure, riuscii a padroneggiare la mia paura. Poiché Vidi, inoltre, il mio compito, e in quell'istante, sentii di nuovo quel calore, non del fuoco, ma della forza, infuso nel Sigillo di Salomone che tenevo appeso al collo, e nel mio cuore. Razionalmente capivo che non era sicuro avventurarsi altrove, che sarebbe bastato il rumore della porta di pietra strisciata sul terreno per svegliare immediatamente i soldati. Sapevo, inoltre, che ci sarebbero state di certo delle guardie intorno al convento e che, noi, disarmati, non avremmo potuto affrontarli. Ma a quel punto superai la logica: la gioia che trascende la ragione, insieme ai dubbi e alla paura, si erano impadroniti di me ed ero colma di una compassione che vedeva sia il guerriero stanco che il civile terrorizzato, la vittima e il carnefice, ma li amavo entrambi, pienamente. Ad un tratto la Dea mi diede la soluzione per risparmiarli tutti, e io risi piano. «La senti?», sussurrai a Geraldine, e nell'oscurità percepii che annuiva felice. Un calore era disceso su di noi, un formicolio eccitante; intorno al nostro gruppo, formato da una trentina di persone, l'oscurità iniziò ad illuminarsi di piccole scintille dorate, simili a una notte cosparsa di stelle. Con la mente, le diressi in modo da avvolgere la nostra assemblea, come un fragile
guscio intorno a un uovo; e quando fu al sicuro, dissi, usando un tono di voce normale: «In questo modo, non ci possono sentire né vedere; ora apriremo la porta e fuggiremo. Cari lebbrosi, restate qui. Sorelle, venite con me. Preghiamo tutti la Dea e saremo salvi». Insieme a madre Geraldine trovai le crepe giuste nella pietra grezza e tirai con tutta la forza: tuonando, la porta (simile, immagino, al masso ruvido che bloccava l'entrata della tomba di Cristo) si aprì, scivolando. Non saprei dire se eravamo avvolti in una sfera o se l'intero mondo era cosparso di una polvere luccicante; l'effetto, dal mio punto di osservazione, era lo stesso. Geraldine e io fummo le prime ad uscire, e Magdeleine ci seguì; e immediatamente, restammo congelate tutte e tre. Poiché, sdraiato sul terreno a non più di un pollice dal masso spostato e dai nostri piedi, c'era la testa quasi pelata e lentigginosa di un soldato inglese ben nutrito, i cui sporchi riccioli chiari erano infestati di pidocchi. Accanto a lui c'era l'elmo; ma non il copricapo leggermente appuntito con la visiera indossato dai nostri cavalieri (che ricorda lo stelo centrale di un giglio), ma un casco simile a una scodella rovesciata, con un largo bordo piatto, ossidato di marrone scuro. Magdeleine mi lanciò un'occhiata veloce, gli occhi spalancati di terrore; per un istante, l'oro luccicante che ci circondava baluginò. «Non avere paura», la incitai, stringendole la mano. «Vedi? Abbiamo aperto la porta senza svegliarlo». Proprio in quell'istante, il soldato si lasciò sfuggire un ronfo simile a quello di un maiale, e poi esalò uno sbuffo che fece vibrare le labbra e i suoi ispidi baffi rossi. Tenendomi i fianchi con la mano libera, iniziai a ridere a bassa voce; anche Geraldine, Magdeleine e le altre sorelle, i volti paonazzi, si piegarono in due per le risate. Alla fine ci ricomponemmo e, sorridenti, avanzammo, senza farci scoraggiare da tutti gli uomini che dormivano ammassati tanto che dovevamo sollevarci le tonache e camminare in punta di piedi per evitarli. All'entrata della cantina c'erano due sentinelle sedute che giocavano a dadi e litigavano a bassa voce; per loro, eravamo solo dei fantasmi invisibili. All'interno c'erano forse una quarantina di uomini e, poiché qui faceva più freddo che al piano superiore, erano avvolti stretti stretti in coperte di lana che noi stesse avevamo tessuto per i malati e per i poveri. Una ventina
erano inglesi; poi, però, ci stupimmo osservando l'altro gruppo. Mi accorsi all'improvviso di una certa irrequietezza all'interno del nostro circolo protettivo, in particolar modo in Magdeleine, che aveva appena varcato il suo invisibile confine protettivo con un impeto di rabbia difficile da contenere. «Francesi!», gridò, indicando i loro elmetti, le spade e gli stendardi. «Guardateli: traditori, tutti!». «Silenzio», disse Geraldine, cercando di fermarla, ma invano: Magdeleine era ridiventata visibile. E in quell'istante, anche la badessa si impose di diventare visibile. (Io restai fermamente salda davanti alla Presenza, mantenendo il mio corpo e i miei protetti all'interno del velo scintillante). Il soldato vicino a noi si svegliò, seguito da un altro. «Bene», disse il primo, un uomo magro e dagli arti lunghi, con una barba bionda ugualmente fina, e un accento che lo identificava come nobile e normanno, «cosa abbiamo qui? Due dame hanno deciso di presentarsi». La voce era rauca, stanca, tipica di un uomo costretto a superare i suoi limiti fisici per troppo tempo, propria di chi ha visto e commesso troppe atrocità. «E quindi, dove ci sono due signore... ce ne sono indubbiamente tre, quattro, o forse di più. Ma, ditemi, dove si nascondono le altre? Non siate timide; sono io che comando qui, e sono io che decido della vostra sorte». Nel frattempo si era liberato di almeno tre coperte e aveva sollevato una spada finemente lavorata con un manico in oro lavorato. Gli uomini che lo circondavano avevano fatto altrettanto: avevano tutti spade ben forgiate e abiti di lana fine e sfoggiavano tutti lo stesso sorriso derisorio del loro comandante. Non erano semplici soldati, ma l'élite più addestrata, i cavalieri. E tutti della Francia settentrionale. Nel cuore di Magdeleine, la paura lasciò il posto alla rabbia; fece un audace passo in avanti verso il biondo normanno e lo rimproverò: «Con quale coraggio, francese, uccidi il tuo stesso popolo! Nessun vero cavaliere farebbe una cosa simile!». «Prendi la mia mano», le dissi, sapendo che i soldati non potevano vedermi né sentirmi. Tuttavia, sapevo che non l'avrebbe fatto; e comunque, non ebbi timore. Al contrario, osservai la scena provando un sentimento di pace e di distacco, mentre allo stesso tempo, partecipavo all'evento con tutta la mia compassione. Il normanno avanzò immediatamente verso di lei. Con la mano destra strinse forte la presa sulla spada che fino a quel momento aveva semplicemente sfiorato e indurì i muscoli del braccio. Con un rapido movimento
accecante, piegò il gomito, sollevò l'avambraccio all'altezza del petto rallentando solo un attimo con il pugno destro sulla spalla sinistra. «No», disse madre Geraldine; non con rabbia o terrore, ma con dolce, gentile insistenza. Mentre le sorelle e i malati osservavano terrorizzati la scena, Geraldine s'interpose tra Magdeleine e il suo avversario il quale brandì un colpo di spada come se stesse dando uno schiaffo con il dorso della mano. Il silenzio che seguì fu talmente profondo che udimmo la stoffa lacerarsi mentre la spada fendeva la tonaca di lana di Geraldine, con facilità, così come aprì la carne sulla sua spalla. Quando perse l'equilibrio e barcollò in avanti, il normanno conficcò la lama più in profondità. Indietreggiò e la lasciò cadere in avanti, infilzata sull'arma fino all'elsa, tanto che tutta la lunghezza della lama fuoriuscì dalla schiena, proprio sotto la scapola destra. «Qualcun altro?», chiese il normanno allegramente. Magdeleine s'inginocchiò singhiozzando, premendo le inerti palme sollevate di Geraldine sulle sue labbra. Accanto a me, all'interno del velo dell'invisibilità, gli altri piangevano sommessamente. Il comandante, però, non poteva vederli; rinfoderò la spada, afferrò il gomito di Magdeleine e la costrinse a sdraiarsi. Magdeleine si divincolò, ma l'uomo riuscì a toglierle il velo e il soggolo, rivelando i corti riccioli biondi. «Che fortuna essere belle!», disse. «È per questo che ti permetterò di vivere un altro giorno e di farmi un po' di compagnia... sempre se mi dirai dove si nascondono le altre donne. Rifiutami entrambe le cose e morirai, come questa tua scialba consorella». E con un cenno del capo indicò il corpo di Geraldine. Nella mia vita, ho sperimentato diverse volte il rallentare del tempo: questo fu uno di quei momenti. Provai un grande dolore e una profonda pietà nell'assistere alla morte di Geraldine; ma anche uno strano sentimento di equità. Questo era ciò che la Dea aveva voluto. E così, con una crescente sensazione di gioia, chiamai il normanno, con un'autorità che eccedeva in tutto la mia: Lasciala andare. Non c'era rabbia nelle mie parole; né dolore, né odio, soltanto giustizia. Accadde un fatto strano: il normanno, ovviamente, estrasse la spada, mentre con l'altra teneva stretta Magdeleine; si voltò verso di me... ma invece di scagliare l'arma verso il Circolo, si fermò, lo sguardo smarrito, l'e-
spressione interrogativa. Lasciala andare, ripetei; lo vidi inclinare la testa, ulteriormente confuso. Anche gli altri avevano rinfoderato i loro sorrisi ironici e guardavano nella mia direzione, ugualmente perplessi. Risi forte quando realizzai ciò che stava accadendo: ero ancora invisibile. Chiusi gli occhi e nella mia immaginazione disciolsi il velo protettivo e feci un passo in avanti come se emergessi da un ingresso bloccato. Non avevo più bisogno di nascondere gli altri; sapevo che sarebbero stati al sicuro. Il comandante spalancò gli occhi e divenne più pallido della sua barba incolta; senza pensarci, lasciò andare Magdeleine e restò a fissarmi a bocca aperta per poi cadere in ginocchio in maniera reverenziale. «Santa Madre di Dio», sospirò il normanno imitando Magdeleine. Uno dopo l'altro, soldati e suore si fecero il segno della croce e s'inginocchiarono. Non m'importava di ciò che credevano di aver visto: sapevo soltanto ciò che doveva essere fatto. Contenendo il mio dolore, m'inginocchiai accanto a Geraldine, la girai gentilmente su un fianco e, con un po' di sforzo, estrassi la spada dal suo corpo. Gemette quando la lama uscì, poiché era ancora viva; tuttavia, da quella ferita mortale il sangue iniziò a sgorgare, impregnando il terreno, il suo abito nero e le mie maniche. Presto sarebbe morta dissanguata. Mi sedetti sulla terra nuda e la presi tra le braccia. Era stata destinata ad essere mia insegnante; ma non era stata destinata a morire. Sapevo di trovarmi in bilico su un precipizio: avrei potuto reagire con rabbia. Avrei potuto rinunciare alla Dea e maledire il mio destino. Potevo fuggire da ciò che mi aspettava. Ma non lo feci. Chiusi gli occhi e premetti la mano sulla ferita; la mia gonna era tutta impregnata di sangue. Geraldine, quasi senza vita, ansimava tra le mie braccia, prossima alla morte. Sorrisi all'illogicità di tutto questo. Mi dissolsi. Unione. Radiosità. Beatitudine. Un mormorio serpeggiò tra la folla, come lo svolazzare di ali di uccello. Aprii gli occhi per ritrovarli sprofondati in quelli castani di Geraldine: non più fissi e inespressivi, ma vivi e luminosi e che mi guardavano, poiché si era seduta. La mia mano era ancora pigiata sulla sua ferita; lentamente e con delica-
tezza la scostò per mostrare soltanto la lana nera, intatta e pulita. Si alzò, felice e, vedendomi stupita, mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi in piedi. «Avete appena assistito ad un vero miracolo di Dio», disse all'assemblea inginocchiata e il comandante normanno iniziò a piangere. XV Solo in seguito scoprii il motivo per cui, sia i soldati che le suore, si erano inginocchiati: non solo perché ero apparsa dal nulla, ma perché mi avevano vista come la Vergine Maria, nelle vesti della Regina dei Cieli, con il velo azzurro e la corona d'oro. Soltanto quando Geraldine mi aiutò ad alzarmi in piedi ripresi il mio aspetto normale. Gli altri ci guardarono in silenzio per un po'; poi, lentamente, si alzarono tutti. La pelle di Geraldine era illuminata, come la pergamena davanti a una fiamma. «Ho visto il volto della Madre di Dio», mi sussurrò in un orecchio. «È qui, in mezzo a noi». Il normanno si avvicinò, gli occhi turbati, i modi timidi, contriti, le mani strette insieme come in preghiera. «Sorella», disse, «ditemi ciò che devo fare. Non sono un buon cristiano; sono mesi che non vado a messa, ed è ormai un anno che non mi confesso come si deve. Tuttavia, non posso rinnegare ciò che ho appena visto». «Pregate la Madre Santa», gli dissi, con un'autorità che mi sorprese. Se avessi parlato soltanto per me, avrei sicuramente aggiunto che doveva andarsene senza farci del male e diventare un sostenitore di Re Giovanni il "Buono". «Ascolta attentamente ciò che dice il tuo cuore e non seguire coloro che La rinnegano». «Quale penitenza devo fare?», insistette. «Chiedilo a Lei». Gli inglesi e i normanni furono, all'inizio, terrorizzati, e poi furiosi, di scoprire che avevamo nascosto i malati di peste e di lebbra. Intendevamo infettarli, vero? Sorella Geraldine, però, indicando i nostri volti, disse: «Guardate le nostre facce. Sono coperte di pustole? Mostriamo segni di lebbra? Eppure curiamo i lebbrosi da anni. Dio, san Francesco e la Madonna, ci proteggono e proteggeranno anche voi, se crederete in loro».
«Non tollererò che si parli male delle consorelle», disse il comandante rimproverando i suoi uomini e ordinò che ci fosse permesso di riportare i nostri pazienti nei loro alloggi abituali e di dare loro cibo, vino e coperte. Nonostante il miracolo, ci sembrava che non fossimo completamente credute, poiché i corridoi brulicavano di sentinelle munite di lanterne; una, in particolare, restò di guardia fuori dalla mia cella. Quando fui sazia di cibo e di vino e mi fui ben scaldata, mi addormentai, poiché gli eventi della giornata mi avevano lasciata esausta. Dopo un po', però, persino attraverso il velo del sonno, sentii accanto a me qualcuno che si muoveva, un lieve fruscio e una presenza. Aprii gli occhi e vidi delle sagome scure inginocchiarsi intorno a me, volti neri e invisibili, forme illuminate alle spalle dalla lampada delle sentinelle. Soldati inglesi; dietro coloro che mi stavano accanto, ce n'erano altri venti. Nel momento stesso in cui aprii gli occhi, si fecero il segno della croce come se avessi appena pronunciato una preghiera. Mi sedetti; ci vollero tutti gli anni di addestramento dedicati a padroneggiare mente ed emozioni per reprimere un ghigno, e con tono stizzoso, dissi loro: «Andate via. La Madonna dorme». I soldati non sembravano parlare francese, poiché a questo mio scherzetto si guardarono l'un l'altro, turbati. «Andate via», ripetei, facendo lo stesso gesto che si fa per scacciare una capra. «Ritornate in Inghilterra». E quando i miei perplessi adoratori si alzarono e iniziarono ad uscire, aggiunsi. «E dite ai vostri amici che avete visto la Madonna e che è francese». Il giorno dopo, gli inglesi ci ospitarono in tutta segretezza: non potevano rivelarlo, dissero, altrimenti sarebbero stati uccisi dai loro compagni. Il terzo giorno, però, il giorno terribile che avevo visto nella mia visione, ci ammucchiarono su alcuni carri e ci portarono nelle foreste ad ovest della città; i normanni dissero che avrebbero marciato verso sud-est. Risalimmo le colline, lasciando i lebbrosi nella foresta, poiché era molto probabile che nessuno avrebbe fatto loro del male e che, anzi, sarebbero stati evitati. Infine trovammo una caverna che funse da eccezionale punto di osservazione e da lì, fummo testimoni della distruzione. Dal giorno del miracolo, i nostri rapitori si erano mostrati cortesi, persino rispettosi: il comandante, tuttavia, ci aveva avvertito che avrebbero commesso delle cose spiacevoli per non essere additati come traditori.
Nelle ore che seguirono il tramonto, guardammo la città, una grande collezione ovale di edifici, sia di legno che di pietra, che veniva lentamente consumata dalle fiamme. Da lontano, sembrava come se una scintilla esplodesse in un punto, un cero si accendesse in un altro, una lampada s'illuminasse in un'altra parte ancora, fino a quando l'intera città non sembrava più una raccolta di singole candele accese sull'altare della terra, ma un'unica conflagrazione gialloarancio contro il cielo carico di fumo, le nuvole plumbee contro la profonda oscurità della notte. La cinta muraria interna, di pietra, non bruciò, ma ciò che restava dei bastioni in legno avvampò, un circolo di rubini intorno al gioiello scintillante rappresentato da Carcassonne. Il fuoco, a quel punto, debordò intorno alla città, divorando campi, alberi, fiori, ogni essere vivente, ogni essere naturale. Osservammo le case con i tetti di paglia dei contadini consumarsi in un brillante scoppiettio rossastro; e fissammo anche le lingue di fuoco che fuoriuscivano dalle finestre del nostro amato convento. La struttura era di pietra, e in gran parte sarebbe sopravvissuta per permettere una ricostruzione: ma tutte le imposte, i rivestimenti, i paramenti dell'altare, le statue di Maria, Gesù, san Francesco, le medicine, le bende e gli orti botanici così amorevolmente curati, tutto ciò sarebbe stato distrutto per sempre. Il vento da oriente soffiava fumo e cenere, irritandoci occhi e gola e facendoci lacrimare. Non piangevo tanto per la distruzione degli oggetti, e neppure per la morte di persone innocenti, poiché tutto è transitorio, persino la vita e la sofferenza; e tutto ciò che veniva distrutto si sarebbe trasformato nascendo una seconda volta. Piangevo perché, alla fine, in mezzo alle fiamme che intrappolavano Carcassonne, vidi il mio Amore. All'inizio sembrava un'ombra; ma poi lo Vidi più chiaramente: un giovane, sincero e tormentato come me dalla distanza che ci separava. Le mie lacrime erano di puro desiderio umano e di delusione verso me stessa, per non aver ancora superato la paura che ci teneva distanti. Vidi tutto questo nel fuoco atroce, fin quando mi sentii sfiorare, in maniera dolce e delicata, il braccio; una mano che voleva calmare il mio cuore, lenire le mie pene. Smisi di piangere, mi voltai e vidi Geraldine. Mi sorrise dolce, confortante. Ma dentro di me non trovai la forza di restituirle quel sorriso. Non
era il momento; i nostri cuori non erano pronti e non ci restava altro da fare che aspettare. I giorni che seguirono all'avanzata verso sud degli inglesi furono difficili. Coloro che erano sopravvissuti all'assedio vagavano per le strade della città o per i campi vicini alle mura; ma ovunque si posasse lo sguardo, la terra era carbonizzata; tutto ciò che restava di vigneti e orti secolari era rappresentato da monconi carbonizzati. Anche l'acqua era stata inquinata: gli inglesi avevano gettato i cadaveri nei fiumi, nei ruscelli e nei pozzi. Tuttavia, il pozzo del convento non era stato toccato. Avevamo acqua potabile e un minimo di cibo; i normanni avevano sepolto per noi grandi scorte di farina, frutta e verdura in un campo rimasto intatto dietro il convento affinché non morissimo di fame. Per la prima volta dopo l'incendio della città eravamo soli e ci credevamo gli unici sopravvissuti. Del villaggio che aveva ospitato i nostri contadini e i nostri pastori restavano solo macerie e terreni deturpati. L'abbazia era stata rovinata solo in parte: il dormitorio era stato incendiato, e ogni oggetto di legno o di stoffa all'interno distrutto; tuttavia, sebbene le stanze fossero piene di detriti e ceneri, l'edificio in pietra restava solidamente intatto. Durante quelle ore di calma apparente, ripulimmo i detriti anneriti della grande camera usata come ospedale che tra tutte le stanze era quella meno malandata. È lì che dormivamo e vivevamo tutti insieme, suore, lebbrosi e laici, e ogni persona che era in grado di lavorare per riparare la nostra casa. Coloro che gli inglesi avevano fatto fuggire tornarono a Carcassonne per trovare le loro case ridotte in cenere; chi era rimasto ed era miracolosamente scampato, sia agli invasori che agli incendi, vagava all'esterno delle mura della città in cerca di cibo. Non ci volle molto affinché entrambi i gruppi scovassero noi e il cibo lasciatoci dal comandante normanno. Presto il convento, che per tanti anni era stato occupato soltanto per un terzo, iniziò a traboccare di gente. Oltre agli affamati e agli assetati, arrivarono anche i feriti di spada o per il fuoco, e chi era stato avvelenato dall'acqua inquinata. C'erano più malati di quanti potevamo curarne, e non avevamo abbastanza cibo per sfamarli tutti. Avevo guarito molti di loro con i poteri della Dea, e li avevo mandati via. Ma anche così, noi monache fummo costrette a rinunciare alle nostre porzioni, con il risultato di essere noi le affamate; e il cibo non bastava comunque. Pregammo affinché ci fosse mandato aiuto.
Arrivò sotto forma di un vescovo. Senza essere annunciato e privo degli abituali attendenti, con indosso la tonaca di un povero prete di campagna, arrivò una fredda mattina a bordo di un carretto tirato da due asini. Con nostro grande piacere, il carro era stracolmo di ogni tesoro proveniente da Tolosa: formaggio, vino, mele, polli e un gallo, con le zampe legate, farina e olio d'oliva, un montone e due pecorelle incatenate al carretto. Ci rallegrammo tutti nel vedere questo regalo; poi, il vescovo chiamò me e madre Geraldine in privato. Ancora una volta, andammo nell'ufficio di Geraldine e, ancora una volta chiudemmo la porta alle nostre spalle. Il vescovo abbassò il cappuccio del suo logoro mantello nero per mostrare labbra e fronte accigliate, occhi feroci e crudeli. «La mia presenza qui non è ufficiale», esordì in tono grave, indirizzando le parole verso il cielo come il vapore nell'aria fredda. «Devo, però, comunicarvi che la Chiesa ha saputo del miracolo di Jacques il lebbroso e che in proposito l'opinione è equamente divisa tra chi crede che l'evento straordinario sia opera di Dio e chi crede, invece, sia opera del diavolo; la mia opinione ha fatto la differenza. E così la posizione ufficiale della Chiesa identifica come un miracolo di Dio la guarigione del lebbroso, anche se non vuole conferire particolare considerazione a sorella Marie Françoise. Essendo una donna e per di più non di sangue blu, è stata il semplice veicolo della grazia di Dio, almeno così dice l'arcivescovo». Calme, considerammo per un momento queste parole e poi la badessa disse: «Credo sappiate, Vostra Santità, che soldati normanni e inglesi hanno occupato il nostro convento e che il loro comandante mi ha ferita mortalmente. Sorella Marie mi ha guarita davanti agli occhi di tutti, e quindi non mi meraviglio. La voce si spargerà molto velocemente tra la gente. Ed è giusto che questo avvenga». L'ascoltò con grande rispetto e annuì; poi, Geraldine aggiunse: «Le ho insegnato tutto ciò che so, Bernard, ed è stata una brava allieva. Non ha più bisogno dei miei consigli, ora. Con la vostra benedizione, vorrei dimettermi dalla mia posizione di badessa; sorella Marie Françoise prenderà il mio posto. Così deve essere; l'ho Sognato». Dopo una settimana venivo proclamata ufficialmente badessa e il nostro piccolo gregge iniziò ad essere conosciuto come Sorelle di San Francesco della Regina dei Cieli. Via via che le condizioni di vita a Carcassonne miglioravano, anche il nostro convento crebbe così come la mia reputazione come operatrice di
miracoli. Sciami di malati e zoppi, ciechi e storpi venivano a chiedere di essere toccati; qualcuno di loro fu curato, quando la Dea lo voleva. I ricchi credenti elargirono doni in oro, cavalli, vigneti e proprietà. (Non so come avrei potuto gestire tutto questo senza l'aiuto della novizia sorella Ursula Marie, figlia di un mercante, particolarmente brava a tenere i conti). Talmente tanti laici si offrirono come volontari per assistere e curare i raccolti e gli animali che noi monache avemmo la possibilità di trascorrere più tempo nello studio e nella preghiera. Per quanto mi riguarda, l'impazienza del mio cuore schiacciava la mia ragione. Trascorsi meno tempo pensando a come superare le mie paure e iniziai a considerare il momento in cui avrei intrapreso la ricerca del mio Amore. Dopo un anno, sapendo che il tempo stava per finire, usai la magia che Geraldine mi aveva insegnato per Sognarlo. Com'era bello; i lineamenti classici e forti, come scolpiti da un artista dell'antica Roma; com'era coraggioso e buono. Vedendolo, dovetti farmi forza per non piangere di gioia. Stava presso un crocevia e guardava due uomini, entrambi conosciuti la notte della mia iniziazione. Uno era il mago velato di ombre, con la grossa mano alzata per bloccare, fermare. L'altro era un cavaliere, con la carnagione e i capelli del colore di quelli del mio Amore; la mano estesa per assistere, guidare. Edouard, lo chiamai, poiché sapevo che serviva il mio Amore come madre Geraldine aveva servito me. Aiutatelo, mia signora, disse Edouard, indicando il ragazzo. Io sono solo un insegnante; non ho il potere di aiutarlo. Vedete, barcolla sul Sentiero... Mi voltai verso colui che amavo; lo chiamai ed egli si voltò verso di me con uno sguardo di tale devozione, tale determinazione, che mi fece ammutolire. Tuttavia, per il suo bene, mi ricomposi, ritrovai la voce e dissi: Il destino è come una ragnatela. Alla nascita siamo nel centro, di fronte a centinaia di sentieri che si dipanano tutt'intorno. Il nostro vero destino si trova alla fine di uno di questi fili e solo ad uno. È probabile che all'inizio non scegliamo il destino corretto, e che altri possano intervenire per distrarci da esso; ma è sempre possibile fermarsi e percorrere uno dei crocevia per ricongiungerci con il Sentiero giusto. Anzi, è possibile percorrere centinaia di strade che non sono le nostre, e poi, alla fine, saltando di filo in filo, passando per alcuni molto luminosi, raggiungiamo il nostro destino. Mi ascoltò? Non saprei dirlo; ritornai cosciente con un presentimento.
C'era qualcosa di dolorosamente sbagliato: il Nemico aveva trascorso anni a mettere trappole che il mio Amore stava infine per far scattare. Diressi immediatamente la mia Vista verso la fonte dell'imminente pericolo: Il Nemico, nella sua meravigliosa camera velata d'incenso, sotto lo sguardo degli dèi. In una mano stringe un vivace topolino dal pelo bianco e dalla lunga e sottile coda rosa. Immobile, respira profondamente, bramoso, le pupille nere nei suoi occhi piccoli si allargano contro i sottili circoli dell'iride rosata, come se fosse stato incantato da un serpente. E infatti, con la rapidità di una vipera, Domenico colpisce. Afferra la coda del topo tra pollice e indice e lo solleva sopra l'altare di onice e il circolo di sale. Svanito il torpore, il topo cerca di lottare valorosamente, inarcando testa e petto all'insù, ondeggiando la parte inferiore del suo corpo, cercando di afferrarsi le zampe, la coda, la mano che lo stringe. Cercando una libertà che non potrà trovare, le piccole zampette si muovono furiosamente, i minuscoli artigli traslucidi oscillano in aria. Il mago estrae un rasoio affilato. Nell'istante in cui l'animale si distende e si slancia all'indietro, cercando una via di fuga, gli incide il petto, stringendo sempre di più le labbra quando incontra la resistenza delle ossa delicate. Il sangue gocciola sul circolo di sale. Il topo sospeso si muove febbrilmente, facendo aprire ulteriormente la ferita. Il taglio è profondo, molto profondo: le costole sono state trapassate e riesco a vedere il cuore che ancora batte. Vedo il cuore che batte. E mentre lo osservo, il piccolo organo rosso batte lento, sempre di più, sempre di più, fino a quando dà un ultimo fremito e si ferma... Mi misi a sedere, allarmata, il cuore che batteva all'impazzata e spalancai la bocca, portando la mano al petto: «Luc...». Questi erano i giorni in cui il Principe Nero comandava i suoi vandali e i suoi briganti lungo i territori a sud e a est (proprio come aveva detto il normanno), verso Narbonne e il mare, per poi ritornare a Bordeaux, con tutto l'oro, i gioielli, gli arazzi e le altre ricchezze sottratte a quella che un tempo era stata una ricca nazione, la Francia. Nei mesi successivi, si sus-
seguirono schermaglie e brevi battaglie a nord, fin quando il padre del Principe Nero, Edoardo III, sbarcò a Calais con una potente armata, per essere rispedito in Inghilterra dal leale esercito di re Giovanni. Ciò accadde prima che il re, in un impeto di follia, imprigionasse Carlo di Navarra, un membro della nobiltà normanna accusato di cospirare con Edoardo, confiscando le sue proprietà. I normanni, offesi, cercarono ancora una volta l'aiuto del re inglese. Sebbene l'azione di re Giovanni potesse sembrare avventata, fu abbastanza astuto da prevederne le conseguenze; nella primavera dell'anno successivo, 1356, pronunciò l'arrière-ban, la chiamata rivolta a tutti i francesi leali affinché prendessero le armi. La previsione del re si dimostrò corretta: a metà estate, un secondo esercito inglese, guidato dal duca di Lancaster, sbarcò a Cherbourg nell'estremo nord del paese e avanzò verso la Bretagna mentre il Principe Nero e ottomila soldati lasciavano Bordeaux diretti verso un'altra impresa, anch'essi, stavolta, mandati a nord. Giovanni "il Buono", nel frattempo, aveva organizzato un esercito due volte più grande di quello inglese e alla fine dell'estate, accompagnato dai suoi quattro figli, guidò i suoi uomini in cerca di Edoardo. Appresi queste notizie in diversi modi; da viaggiatori, cittadini e dalla Vista. Sconvolta dalla terribile visione del mago, capii che la Dea aveva voluto parlarmi con chiarezza: la guerra imminente non minacciava soltanto il destino della Francia ma la stessa continuazione della Razza. La vita del mio Amore, il suo futuro, erano in pericolo. Accanto a me, sul nudo pavimento dell'ospedale, Geraldine dormiva beata, le labbra socchiuse, la testa poggiata sopra una pietra. L'alba era ancora lontana, ma la luna era luminosa e io mi alzai subito per rannicchiarmi vicino alla ex badessa. Accanto a noi, le altre sorelle dormivano. Avrei dovuto svegliare la mia insegnante; il pericolo concreto che minacciava il mio Amore non mi era chiaro, la mia Vista era annebbiata. Il mio cuore, però, gridava come le campane di una cattedrale alla vigilia di una guerra. La catastrofe stava arrivando, la fine, la morte della Razza. Non potevo restare qui e lasciare che Luc affrontasse tutto questo da solo. Non ero pronta, lo sapevo bene; non avevo ancora affrontato la mia paura più grande. Andai in battaglia come fece Achille. Sgattaiolai via dalle donne addormentate. Presi un po' di cibo e di acqua,
una coperta; montai in sella a un cavallo forte. Per coloro che non sono dotati della Vista, che non possiedono poteri magici, questa mia azione poteva sembrare dettata dalla follia. Ero una donna disarmata che si avvicinava a due eserciti in piena oscurità alla vigilia della guerra. Come potevo evitare di essere scambiata per un nemico o una spia? Come avrei fatto a non essere uccisa? E nel migliore dei casi, come avrei impedito al mio cavallo di inciampare nell'oscurità e azzopparsi? In quel momento, mi sembravano sciocchezze che non potevo fermarmi a considerare. Era tardi. Era già troppo tardi. E non possedevo ancora la magia necessaria... XVI Cavalcai per due giorni il mio vigoroso e infaticabile destriero; diffidando dei soldati inglesi, evitai Aquitania e la Garonna e mi mantenni ad est, lungo le montagne. Da lì puntai verso nord, oltre la città di Limoges e il terzo giorno, poco prima dell'alba, raggiunsi Poitiers. Attraversai le porte della città dirigendomi verso i campi e l'esercito. La distanza non era molta e mi sembrava che ad ogni passo l'oscurità della notte si attenuasse in un grigio sfumato; allo stesso tempo iniziò a formarsi una pesante nebbia, che avvolgeva la campagna, condensandosi in fredde goccioline sul mio abito, sul mio volto. I momenti che precedono l'alba, quando la natura è immobile, mi sono sempre sembrati i più calmi; poi, però, via via che mi allontanavo dalle mura di Poitiers, l'aria stessa sembrava fremere. I due eserciti non avevano fatto un segreto della loro presenza: sebbene la nebbia ammutolisse molto del loro clamore, sentivo su ambo i lati i rumori dei cavalli da guerra che nitrivano e scalciavano in fiduciosa attesa, il fragore della armature e delle armi che venivano approntate e le voci degli uomini bramosi di gloria e troppo arroganti per credere di essere di fronte alla loro stessa morte. Anche l'odore degli uomini era molto presente, poiché erano accampati lì da tre giorni mentre i legati papali dibattevano inutilmente per cercare una tregua; via via che mi avvicinavo alle latrine, l'afrore divenne insostenibile anche perché si aggiungeva a quello forte, ma meno offensivo, del letame. Venticinquemila uomini erano ammassati qui con l'intento di uccidersi a
vicenda, su un campo più piccolo di quello in cui mio padre coltivava il grano. Quel giorno, però, la guerra era tra me e il mago; e soltanto uno di noi ne sarebbe uscito vittorioso. Non ero sola; egli mi stava guardando. Sentivo che mi guardava. E sapeva, proprio come me, che la mia protezione era incompleta. Il timore per il mio Amore mi aveva compromessa, mi aveva distratta, anzi, mi aveva sopraffatta talmente che, a volte, dimenticavo la Dea e riuscivo a pensare soltanto a lui. Seguii i rumori e gli odori e mi ritrovai in un campo di mele; nella nebbia che s'infittiva, gli alberi sembravano fantasmi distorti, rami neri che cercavano di afferrarmi mentre passavo. Oltre gli alberi c'era un campo aperto e al di là, nascosto dietro le nuvole che sembravano cadere sulla terra, s'intravedevano sagome spettrali: profili di uomini in sella. Decine di uomini in fila, pensai all'inizio, fino a quando fui abbastanza vicina da capire che si trattava di uno scherzo della nebbia. La fila di uomini si dipanava alla mia destra e alla mia sinistra molto più in là di quanto il mio occhio fisico potesse percepire e dietro ogni cavaliere c'era una fila di scudieri che si allungava all'infinità. Erano rivolti alla mia sinistra, dove li aspettava il nemico. Con l'immagine del mio Amore ben chiara in mente, presi un profondo respiro e avanzai verso il campo e i soldati. Sapevo ciò che dovevo fare, ma il Nemico era vicino, molto vicino. La mia Vista era annebbiata, sporadica; soltanto il mio cuore era sicuro. Il primo raggio di luce filtrò attraverso la nebbia, screziando il grigio con piccoli arcobaleni sfuggenti; mentre mi avvicinavo ai soldati a cavallo, i colori cominciarono a rianimarsi. Il nero diventò scarlatto, il grigio blu, il bianco un giallo pallido: si trattava delle bandiere sgargianti che oscillavano al vento. C'erano i nobili vestiti con costose armature, gli elmi piumati, le sopravvesti e gli stendardi con sopra i cimieri di famiglia. C'erano leoni dorati e falchi color bronzo, gigli bianchi su uno sfondo di dragoni azzurri, rossi e verdi, castelli gialli, croci d'oro, cervi e orsi bruni. I nobili erano in sella ai cavalli più belli che avessi mai visto, anch'essi equipaggiati di armature sulla testa e il petto e drappeggiati con sopravvesti abbinate a quelle dei loro cavalieri. Non vedevo tanti paramenti messi insieme da quando, ragazza, avevo assistito ai tornei di Tolosa; e, a dire il vero, anche allora non erano paragonabili a questi. Quello più vicino a me, in posizione esterna, si accorse della mia presenza con la coda dell'occhio e voltò la testa nella mia direzione, trattenen-
do con la mano guantata il suo irrequieto cavallo. Era anziano; il suo elmo privo di visiera non riusciva a contenere del tutto le cespugliose sopracciglia bianche. «Cosa? Una donna! Che fate qui, sorella? Non sapete che la battaglia sta per cominciare? Andate a nascondervi in città!». Era francese in tutto e per tutto, in ogni dettaglio dell'uniforme e dell'armatura; così come gli altri che, accorgendosi della cosa, iniziarono a guardarmi con fare severo. I cavalli scalpitavano, impazienti. «Una suora? Ma è matta? Ditele di andarsene». «Sbrigatevi, o sarà troppo tardi», insisteva l'anziano soldato. «Mi avete sentito? Formiamo l'avanguardia dei lancieri». Mentre parlava squillarono le trombe: era arrivata l'alba, insieme al tuonare degli zoccoli e alle grida di guerra degli uomini. I cavalli nitrivano in segno di protesta. «Che Dio sia con loro», pregava il vecchio cavaliere, chiudendo gli occhi per un istante; poi, quando l'assemblea iniziò a muoversi, lenta, un passo alla volta, rivolse di nuovo lo sguardo verso me. «E ora, andatevene!». E così feci. Ma non nella direzione che avrebbe voluto, e cioè verso la città, bensì verso il centro del fronte nemico, serpeggiando tra i cavalli che si muovevano lenti e facendo infuriare i cavalieri, alcuni dei quali mi indirizzarono colpi di lancia poco convinti. «Una donna», li sentivo gridare meravigliati e seccati. Cercavo uno stendardo con l'immagine di tre rose e un falco; cercavo uno zio, un padre e suo figlio. Sapevo che stavano cavalcando da qualche parte davanti a me e spronai il mio cavallo, anche se invano, poiché i cavalieri iniziavano appena a muoversi e anche se molte migliaia di uomini davanti a noi acceleravano la marcia, era impossibile avanzare più velocemente. Con crescente difficoltà, cercai di raggiungere il centro del battaglione e una volta lì, vidi una cosa curiosa: venti cavalieri vestiti in maniera identica, con un'armatura nera sotto una sopravveste ricamata con gigli neri e, in mezzo a loro, un uomo con lo stemma dell'orifiamma, lo stendardo biforcuto dei re di Francia, di re Giovanni, vestito come gli altri per confondere il nemico nel caso attentassero a un rapimento o a un omicidio. Incitai il mio destriero verso quella lenta corrente di cavalli da guerra; cercavo di captare ogni rumore ma non percepii nulla della battaglia. Guardai in lontananza; il battaglione che mi precedeva era a piedi, sebbene anche questi soldati indossassero le armature da cavalieri, ma non riuscivo a vedere il campo di battaglia alle loro spalle. Tuttavia, qualcosa catturò la mia attenzione: un grande stormo di uccelli neri, talmente grande da oscu-
rare il cielo. Formavano un arco all'insù e poi saettavano improvvisamente in basso: erano frecce, scoccate con una tale forza dai lunghi archi inglesi da perforare con facilità le armature francesi. All'improvviso sentii rumore di zoccoli, lo sbattere fragoroso di spade e di asce da guerra e, aggiunta a quella disarmonia di suoni, urla di morte di uomini e cavalli. La Vista mi indusse a lasciare andare il mio: smontai e lo liberai ed esso trottò felice verso i campi ormai lontani. Io, invece, oltrepassai cavalli ombrosi nella successiva divisione di soldati. Anche gli uomini a piedi erano nobili, ognuno vestito con una raffinata armatura, equipaggiato di stendardi e attendenti. Li ignorai, anche se urlarono frasi indecenti al mio passaggio: Puttana! Ritorna stanotte quando abbiamo vinto la guerra. Corsi fino a quando fui costretta a fermarmi, non a causa della fatica o della perdita di coraggio, ma perché la marea di soldati sulla quale ondeggiavo si scontrò con una fiumana di uomini che marciavano nella nebbia in senso contrario. Il campo di battaglia, pensai all'inizio. Gli inglesi. E invece no: erano francesi; duecento, trecento francesi. Correvano verso di noi, alcuni sanguinanti, altri solo imbrattati del sangue altrui, altri con frecce conficcate nell'armatura. Ritirarsi!, urlavano, le visiere alzate, e sui loro volti una smorfia di orrore. Siamo uomini morti, ci uccideranno tutti! Siamo rimasti soltanto noi! L'urlo si propagò alle nostre spalle, all'inizio debole e poi sempre più forte: Ritirata! Ritirata! I soldati che mi stavano vicino si fermarono e guardarono i compagni del primo battaglione che correvano in senso inverso. Esitarono, confusi, talmente erano carichi e pronti alla battaglia. Il terrore sui volti dei compagni, però, era irrefutabile. Alcuni attimi prima dell'ordine ufficiale, fecero marcia indietro e iniziarono a correre verso la città cintata, facendo loro quel grido. Io, però, non potevo ritirarmi; la mia battaglia non era ancora cominciata. Era quasi impossibile restare in piedi contro quella fiumana di carne. C'era, però, ancora un soldato, davanti a me, che continuava a tenere lo sguardo dritto verso la battaglia. Era robusto e forte, le gambe simili a tronchi, le braccia come rami possenti: mi schiacciai contro di lui e mi lasciai riparare dalla marea. E quando si voltò per vedere chi si fosse nascosto alle sue spalle, rivelando il suo grande volto rotondo, sorrise e disse: «Guardate, una donna più coraggiosa di tutti loro messi insieme. Pregate per me quando sarò morto, sorella».
Restammo allacciati fino a quando l'ondata dei soldati in ritirata passò e a quel punto iniziammo ad avanzare piano, io e il mio protettore, intralciato dalla pesante armatura e dall'ascia di guerra, ma con lo scudo sollevato in alto. Intercettò tre frecce, mentre io mi nascondevo dietro di lui; e ogni volta il rumore del dardo scagliato contro lo scudo, seguito dal riverbero del legno e del metallo, mi faceva saltare, sebbene non provassi timore. Il sole aveva iniziato a sciogliere la nebbia. Scrutai intorno ai larghi fianchi del cavaliere e vidi, all'orizzonte, ciò che restava dei nostri soldati: pochi gruppetti di francesi, tutti appartenenti alla nobiltà, e alcuni mercenari tedeschi ancora in piedi, ma il primo battaglione in ritirata aveva detto la verità. Ovunque gli inglesi, bruni e sporchi, sfilavano le armi dai cadaveri dei francesi. Anche il mio cavaliere vide la scena, sollevò l'ascia di guerra e iniziò a caricare... Tuttavia, prima di poter reagire, inciampò e cadde su un ostacolo disteso ai nostri piedi: un giovane nobile dai bei lineamenti giaceva di schiena con indosso tutta l'armatura, gli occhi spalancati, le labbra leggermente aperte come fosse stato sorpreso. Vicino a lui, il suo cavallo che, nitrendo, si sforzava di alzarsi con le zampe anteriori, ma invano: era stato trafitto in profondità sulle natiche, non protette dall'armatura, e non aveva più l'uso delle zampe posteriori; la bella sopravveste ricamata in oro e azzurro era impregnata di sangue. Inconsolabile, mostrava i denti e innalzava il muso e gli occhi furiosi verso il cielo. «Piano, piano», disse dolcemente il mio cavaliere al giovane fantino disarcionato; poi, cercando di sorreggersi per evitare di cadere a terra completamente, appoggiò un braccio sul cavallo e l'altro su di me, riuscendo a risollevarsi, ma soltanto con grandi gemiti e scricchiolii dell'armatura. «Lasciate che vi aiuti a rimettervi in piedi, seigneur», disse al nobile e con una forza straordinaria si abbassò e iniziò a tirarlo su. Tuttavia, l'espressione del nobile non mutò: gli occhi fissati in lontananza, il corpo inerte mentre il cavaliere cercava di rialzarlo. E infatti, la testa si accasciò all'indietro e fu soltanto allora che notammo che formava un angolo strano. «Inferno e dannazione», disse il cavaliere mentre poggiava a terra con dolcezza il giovane. «Inferno e dannazione». Poi, con un rapido movimento improvviso, oscillò l'ascia sulla gola del destriero agonizzante. Il sangue zampillò come una sorgente e il povero animale cadde a terra immediatamente, terminando così le sue sofferenze.
Fu allora che vidi con più chiarezza ciò che ci circondava: un campo ricoperto di cadaveri. Cavalli in agonia o già morti, alcuni che vagavano senza fantino; cavalieri a terra, schiacciati dai loro destrieri o buttati giù dalla spada e dall'ascia di guerra. E ovunque, aste di frecce inglesi che spuntavano dai corpi di uomini e animali, con o senza armature: tanto lunghe, che se una di queste mi avesse trafitto il cranio, sarebbe spuntata dalle ginocchia, lasciando visibile soltanto la punta piumata. La luce del sole mi sembrò improvvisamente troppo luminosa, la mia visione umana troppo nitida. La strada davanti a noi si era improvvisamente ricoperta di sangue e carne che a malapena riuscivamo a proseguire. Tra me e il cavaliere fischiò una freccia, talmente vicina e acuta che per un attimo divenni sorda; il cavaliere reagì alzando lo scudo. Immediatamente, dalla groppa di un cavallo morto, balzò su una figura nera: mi ritrassi, spaventata, e osservai il nemico che attaccava il mio protettore. Era un soldato inglese con un elmo brunito sulla testa e un pettorale tutto ammaccato; oscillò un'ascia da guerra insanguinata con ambo le braccia, estendendo i muscoli come corde. Armi inferiori e, qualcuno avrebbe anche potuto dire, in mano a un uomo inferiore. Ma gli occhi erano furiosi mentre gridava e il mio cavaliere francese fu abbattuto. Lo scudo sbalzato accusò il primo colpo sferrato dall'inglese che il cavaliere tentò di respingere con l'ascia ben lucidata; tuttavia, la forza del colpo lo costrinse a piegarsi su un ginocchio. Tentò di colpire ancora, ma non aveva spazio per sferrarne uno ben assestato e il secondo colpo nemico lo fece cadere a terra. L'armatura troppo pesante gli impediva di risollevarsi senza aiuto. C'era un tempo e un luogo per i miracoli e non ero io che potevo controllarli. Anche se avrei voluto intervenire disperatamente, per il francese, era arrivata l'ora della morte. Mentre riceveva il colpo mortale, mi inginocchiai accanto a lui, chiusi gli occhi e iniziai a pregare, ad alta voce, affinché potesse sentire mentre esalava il suo ultimo respiro. Sangue tiepido mi schizzò in faccia, simile alla fine rugiada mattutina. E quando riaprii gli occhi, li rivolsi al soldato inglese che aveva risollevato l'arma pronto a colpire. Unii le mani, il volto composto. Vidi la forza interiore, dentro, alle spalle e al di là del soldato ignorante. «Fai pure se lo desideri», dissi pacata. «Fai pure; non ho paura; ma prima devi sapere che la Santa Madre ti ama».
Una curiosa espressione smarrita attraversò il volto sporco dell'inglese, il quale abbassò lentamente l'ascia e poi, come se fosse stato improvvisamente colpito da una frusta, iniziò a correre. Mi alzai; con la scura tonaca invernale appesantita dalla terra umida e dal sangue e mi feci strada tra i cadaveri: migliaia e migliaia di corpi, per quello che riuscivo a vedere, in entrambe le direzioni. Nessun cuore avrebbe potuto sopportare tanta pena. E tutto ciò che potevo fare era indurire il mio: alla mia destra, un uomo con un braccio mozzato urlava e io fui costretta ad appoggiarmi a lui per tenermi in equilibrio ed evitare di scivolare sulle interiora lucide di un altro che, a terra, giaceva agonizzante. Ed erano soltanto due in uno scenario incredibilmente vasto che mostrava la più angosciante sofferenza che si possa immaginare: l'unica cosa che riuscii a pensare fu che soltanto chi non ne ha mai avuto esperienza può pronunciare la parola gloria in relazione alla guerra. Intorno a me erano riemersi dai loro nascondigli gli arcieri inglesi che, al riparo dietro i cespugli e le palizzate costruite in fretta per ritirare le frecce dai cadaveri, spingevano i piedi come leve sui corpi dei francesi; e i soldati di fanteria, gli stessi che avevano marciato a Carcassonne bruciando al suolo gran parte della città, correvano dietro i francesi in ritirata oppure combattevano contro i pochi nemici ancora in vita. Non mi notarono, come se fossi stata lì per caso, un cane inoffensivo che vagava accidentalmente in mezzo alla guerra. Alle mie spalle, le trombe squillarono nuovamente. I soldati erano a piedi e non a cavallo: li sentii marciare. In lontananza, vicino alla città, centinaia di cavalli da guerra brucavano sui pendii erbosi. Sentendo questi suoni gli arcieri alzarono lo sguardo per poi ripararsi di nuovo dietro le palizzate, mentre i fanti inglesi emettevano grida di guerra e correvano veloci verso altri francesi che si avvicinavano. Era l'ultimo battaglione guidato da re Giovanni e fui colta da un presentimento: non avevo visto un singolo contadino né un borghese. Tutti i soldati morti erano nobili, il fior fiore della Francia, più cavalieri di quanti pensavo esistessero nel regno. Il re, troppo coraggioso per unirsi alla ritirata, aveva assistito alla follia dei cavalli privi di armature mandati a contrastare gli arcieri inglesi e aveva ordinato ai suoi uomini di accorciare le lance e tagliare le lunghe punte affilate delle poulaines, disegnate non certo per marciare, ma per tenere i piedi nelle staffe. I loro destrieri, ora, brucavano tranquilli in lontananza, indifferenti alla sorte dei loro cavalieri. Fui circondata ancora una volta dal trambusto: un fiume di corpi che
fluiva in direzioni opposte, scontrandosi con fragore metallico. Inciampai in avanti nella calca poiché il sentimento di impellenza stava diventando opprimente: dovevo trovare il mio Amore, e presto. Ma riuscivo ad avanzare solo molto lentamente, abbassandomi veloce per evitare armi roteanti dirette ai nemici, talvolta carponi sul terreno divelto e sanguinolento. Ero completamente ricoperta di sangue: il soggolo, bianco in origine, il velo, la faccia erano tutti macchiati. Smisi di leccarmi le labbra perché sapevano troppo di ferro. Camminai strisciando sulle pietre e le armi cadute, su lance dorate immobili, fino a quando il mio stesso sangue iniziò a fluire nutrendo il suolo. I palmi, le ginocchia, i vestiti che mi ricoprivano erano ormai a brandelli. All'improvviso, sentii il rumore degli zoccoli e pensai che si trattasse dell'assalto finale del Principe Nero al nostro re. E invece no, era un solo cavallo e nell'istante stesso che lo capii, realizzai anche che il suono era cessato e che gli stessi zoccoli che avevo sentito si trovavano ora accanto a me. Mia signora. Sentii pronunciare la frase prima nella mia testa e alzai lo sguardo. Il cavallo indossava una piuma scarlatta e una sopravveste bianca sull'armatura che s'intonava a quella del suo cavaliere: la corazza nera, come quella del re e la sopravveste ricamata con un falco pellegrino appollaiato sopra un triangolo formato da tre rose color cremisi. Il cavaliere sollevò la visiera: «Mia signora». Mi alzai e studiai quel volto. Lo conoscevo bene: l'avevo visto per la prima volta la notte della mia Iniziazione. I lineamenti erano fini ed equilibrati, il naso aquilino e indiscutibilmente nobile. Gli occhi, sotto la visiera, erano del colore di un mare pallido, la barba rossa screziata d'oro. Anche l'uomo era sporco di sangue e malconcio e aveva spezzato l'asta dell'unica freccia che aveva trafitto la spalla dell'armatura senza, tuttavia, ferirlo. «Mia signora», ripeté. Stesi la mano ed egli la baciò. In mezzo a quell'oceano in battaglia eravamo soli e inviolabili. «Edouard», dissi. «Grazie a Dio. Dovete portarmi subito da Luc». Mi sollevò in sella al suo cavallo e, al riparo dietro il suo scudo, ci allontanammo dal fronte, insieme a coloro che si stavano ritirando. «Aspettate!», urlai. «Aspettate... riesco a sentirlo; è là dietro, alle nostre spalle. Dobbiamo tornare subito indietro». «Siete stata una pazza, signora, a venire fin qui!», urlò. «È una trappola,
non vedete? Anche Luc è stato attirato qui dal Nemico; e la mia Vista mi lasciò intendere la stessa cosa. Ora è scomparso in battaglia e non so cosa ne sia stato di lui. Non vogliamo perdere anche voi!». «No!», gridai infuriata, sollevandomi. «Siete voi che non capite! È vero, è una trappola, ma morirà. Edouard, morirà se non lo trovo! Possiamo entrare nella trappola... poi troveremo un modo per uscirne». Il destriero di Edouard, però, non rallentava e il cavaliere non si voltava. Disperata, riuscii a scivolare lungo la sopravveste intrisa di sangue e sudore del cavallo per gettarmi a terra, cadendo con mani e ginocchia sulla terra martoriata. Mi alzai e iniziai a correre. Correvo senza vedere il caos che mi circondava; correvo senza pensare al pericolo, alla guerra, o al Nemico. Pensavo solo al mio Amore, alla mia Vista, velata dall'emozione, incerta, ma ancora abbastanza forte per guidarmi da lui. Dopo un po', forse un'eternità, forse un battito del cuore, mi ritrovai sul terreno su cui era iniziata la battaglia, dove il fiore della nobiltà francese, i grand seigneurs, i cavalieri di sangue nobile erano stati colpiti. Il campo terminava a poca distanza da lì, e continuava con terreni paludosi e poi con un vigneto maturo, cespugli e pendii perfetti per gli arcieri in cerca di riparo. La fanteria inglese continuava a trascinarsi verso di noi attraverso le paludi in cui erano sprofondati fino alle caviglie; e non mi meravigliavo che fossero tanto sporchi. Accanto a me un cavaliere anonimo giaceva su un fianco, l'armatura per sempre legata a lui da più di una decina di frecce infilzate nel suo pettorale, nelle braccia scoperte, nelle gambe e persino nella visiera progettata per difendere il volto celato. Stringeva ancora le redini del suo cavallo abbattuto. La povera creatura giaceva morta su un lato, il fianco e la groppa perforate da un'intera faretra di frecce. Le sopravvesti erano scarlatte con chiazze bianche. Addolorata a causa della mia impossibilità ad aiutarlo, mi spostai per lasciarmi alle spalle quella terribile visione, poi, mi fermai e lasciai sfuggire un gemito, un singhiozzo roco. Le sopravvesti non erano scarlatte ma insanguinate; e le macchie rosse avevano reso invisibili le rose su cui poggiava il falco nero. La scena emanava uno spaventoso presagio di epilogo; si trattava di una morte che non potevo prevenire, un uomo che non potevo aiutare. Era il grand seigneur di Tolosa, Paul de la Rose. A poco distanza dal mio orecchio destro udii un sibilo metallico, talmen-
te forte che urlai, portandomi la mano alla testa e inciampando su un cadavere inglese. Mi alzai e mi voltai per affrontare quell'arma. Lascia di guerra inglese era scura: sangue congelato sul ferro nero e il soldato che la brandiva sulle spalle, stavolta, pronto a tagliare in due la mia testa, era biondo e impassibile, un mercenario, protetto da un elmo ammaccato e uno scudo di pelle sfregiato. Caddi in ginocchio. Stridio di metallo contro altro metallo: la spada che si scontra contro l'ascia spruzzando una costellazione di scintille blu-oro fiammanti e radiose contro il sole. Splendore eterno, calda luce opalescente. La persona che brandiva la spada mi dava le spalle: un cavaliere francese, la cui sopravveste macchiata portava l'immagine di un falco sul triangolo di rose. Edouard, pensai. Le gambe, però, erano più lunghe, le spalle più ampie. E in quel momento capii di essermi sbagliata: ora sapevo chi stavo guardando. Nel vederlo davanti a me in carne ed ossa, mi lasciai sfuggire un grido. Con una leggera esitazione nei movimenti delle braccia e della schiena, agitò la spada per fermare l'ascia e le due armi si scontrarono con una tale forza da scagliare in aria altre scintille dorate. Roteò la testa sulla spalla, cercando di rivolgermi una rapida occhiata, per vedere se un altro soldato mi stesse minacciando... ...ma quel movimento lo fece rallentare, e il nemico ne approfittò per sferrare un colpo che non fu contraccambiato. Il soldato inglese portò la pesante ascia sulla spalla destra e poi, bilanciando tutto il peso del suo corpo su di essa, iniziò a distendere le braccia. In quel momento, alle sue spalle, apparve Edouard a cavallo che si scagliò su di lui con la lancia. La punta dell'arma rispuntò dalla pancia dell'inglese, il ferro scurito dal sangue porpora-marrone. L'uomo cadde in avanti, ma il suo peso si unì allo slancio della pesante ascia implacabilmente curvata sul mio giovane paladino. Non riuscii a vedere l'azione precisa; ma sentii lo stridore della lama contro il metallo, e poi il tonfo sordo dell'arma che lacerava carne e ossa. Il mio Amore lasciò cadere la spada e barcollò all'indietro, le braccia aperte in cerca di un equilibrio impossibile da trovare; con un frastuono di armatura, cadde a faccia in su sulla terra umida. L'inglese cadde sopra di lui. Edouard smontò da cavallo e tirò via il cadavere nemico.
Conficcata in profondità, quasi fino al manico, nel petto del mio Amore, c'era l'ascia. Piegandosi, Edouard afferrò il manico di legno e tirò con forza. La lama uscì con un risucchio, seguita da un torrente di sangue. Piangendo in silenzio durante tutta l'operazione, si slacciò il pettorale spaccato dalle punte pericolosamente appuntite e se lo sfilò, poi si spostò da una parte e si inginocchiò guardandomi. Non era il momento dell'auto-indulgenza: era il momento per cui ero arrivata fin là. Ingoiai tutta la mia disperazione e rimossi l'elmetto per osservare il volto del mio Amore. Aveva gli occhi grandi, rivolti al cielo; misi la mia faccia tra loro e il cielo luminoso. Per un istante non si accorsero di me; il velo della morte stava lentamente calando su di essi, ma poi, esalando l'ultimo respiro, focalizzarono i miei e mi fissarono. I miei occhi si riempirono di lacrime; tuttavia, non erano lacrime di dolore, ma di riconoscimento e restituzione dell'amore per quel volto umano che mi guardava. Mi aveva vista e riconosciuta. Quello sguardo bastò a domare tutte le mie paure, tutti i miei dubbi. Ancora in ginocchio, premetti le mani contro la ferita. Non sarebbe stato facile, perché la lacerazione era ampia e profonda; ad un tratto si aprì e per un istante entrambe le mani scivolarono all'interno del suo petto, oltre lo sterno e le costole affilate. Gli stavo toccando il cuore. Il cuore che ancora batteva. L'immagine del mago e del topo si formò spontaneamente davanti ai miei occhi; sorreggevo il cuore del mio Amore nelle mani, ed esso si contrasse, una volta, due, tre, sempre più lentamente... fino a fermarsi. Era morto, il mio Amore. Luc de la Rose era morto. La grazia della Dea restò con me soltanto un istante, non di più, e poi il Nemico, scagliandosi su di me, colpì. Un fiume di soldati inglesi a cavallo, l'ultima carica, ci travolse: io fui sbalzata via, lontano, urlante mentre decine di zoccoli mi sfracellavano le gambe, ma non fu il dolore a farmi gridare. Ero stata separata dal mio Amore, dal suo corpo: sollevai le mani gocciolanti di sangue verso il cielo nascosto dalla battaglia ma non riuscii a Vedere ciò che era stato di lui. Urlai e fui nuovamente calpestata: poi, fui sollevata da mani di metallo, gettata su un cavallo e portata via.
PARTE QUINTA Michel XVII E Michel osservò come Sybille, gli occhi e i pensieri sempre fissi in un luogo e in un tempo distanti, riemergeva lentamente da quel terribile passato. I suoi occhi lo avevano oltrepassato mentre ora arretravano per guardare lui e il luogo che la circondava. Dopo avergli rivolto per un attimo uno sguardo angosciato, abbassò il volto sulle mani e si lasciò sfuggire un debole grido di amarezza. Smarrito, Michel si protese in avanti e mormorò: «Calmatevi, madre, non piangete. Non piangete...». Ma la sua disperazione era profonda; senza pensarci le posò la mano sull'avambraccio per confortarla ma la ritrasse immediatamente, sorpreso dall'elettricità suscitata da quel tocco. Avendo provato la stessa sensazione, la donna alzò lo sguardo, gli occhi scuri lucidi di pianto ma splendenti. Se solo fosse cristiana, pensò, sarebbe di certo la persona più santa che abbia mai conosciuto e la più adorabile. Quanta cura ha riservato ai lebbrosi, in che modo ha amato sua nonna e la sua badessa. Nella sua fede, purtroppo eretica, è stata devota e nei suoi atti, compassionevole e coraggiosa. Mescolarsi ai soldati in battaglia, sola e disarmata... Una donna straordinaria, pensò Michel e poi, in cuor suo, si ritrasse pensando alla situazione in cui la badessa si trovava. Non si trattava di una prigioniera che poteva consegnare, seppure con dolore, alle autorità affinché la giustiziassero; una prigioniera, la cui morte atroce avrebbe guardato con compassione e tristezza, la cui dannazione avrebbe rimpianto. Le sue parole, la sua forza, la sua stessa presenza l'avevano scosso, e in lei aveva perso il suo cuore. Per tutta la vita, breve o lunga che fosse, avrebbe diviso la sua esistenza mortale in due momenti: quello precedente e quello successivo all'incontro con questa donna. Che Dio mi perdoni. Dio, perdonami per la mia bramosia; fa' che non interferisca con un giusto interrogatorio. Fammi completare umilmente il compito che mi hai chiamato a fare. «Luc quindi morì, giusto? I vostri sforzi furono vani?», chiese Michel
gentile. «È per questo che piangete, madre?». Fece di no con la testa e con uno sforzo notevole si ricompose. «Non riesco a parlarne neppure ora. Sono stanca. Devo riposare». E si distese cauta sulla branda di legno. «Madre», disse Michel sinceramente preoccupato, «dovete trovare la forza di continuare. Il vescovo Rigaud reclama qualcosa di molto diverso da questa testimonianza per potervi dichiarare innocente. Volgete il cuore a Cristo; confessate i vostri crimini e forse potremo liberarvi da questa prigione». «Vogliono il mio sangue», disse, la voce cavernosa a causa della stanchezza, esausta e sorda a qualsiasi emozione, né pentita né timorosa. «E l'avranno, a prescindere da ciò che dirò». Michel si lasciò sfuggire un breve e strozzato sospiro d'indignazione. «Come fate a saperlo, madre?» «Lo so, povero fratello». Lo guardò con infinita pietà. «Proprio come voi sapete più di ciò che la vostra prigione mentale vi concede. I sogni di Luc sono vividi, vero?». La domanda inattesa lo colse impreparato. Credeva, con il cuore, nella storia di lei e che i sogni fossero i ricordi del defunto Luc; con la ragione, però, era devoto a Cristo e alla Chiesa e sapeva che ciò di cui la badessa parlava rappresentava la più vile delle eresie e che egli era in procinto di perdere la sua anima mortale. Abbassò la testa e scosse il capo, perplesso. «Io... Sognare di Luc mi turba. Penso a quei sogni anche da sveglio», disse infine, ma poi si fermò subito; non avrebbe voluto fare quell'ammissione. «Voi sapete perché siete tanto sensibile ad essi, fratello». Era un'affermazione ma Michel le lanciò uno sguardo interrogativo. «Voi siete uno di noi», disse. «Uno della Razza». Le labbra si separarono mentre la mascella ricadeva leggermente e egli la fissò per un po' prima di poter trovare la voce. «Non voglio sentire parlare di queste cose!». «Ecco perché fate questi sogni tanto facilmente; perché siete attratto da me, perché una parte di voi crede nella mia storia. Queste cose non sono frutto di un incantesimo o di una coincidenza, ma della vostra persona. È vero, siete stato stregato, ma non da me. Non è la mia anima ad essere coinvolta in questa battaglia... ma la vostra». Prima che potesse finire, Michel, impassibile, aveva riposto penna, ca-
lamaio e pergamene nella borsa. «Io... se non avete altro da aggiungere alle vostre affermazioni, devo lasciarvi per andare a pregare. Padre Charles e il vescovo Rigaud avevano ragione. Siete una donna oltremodo pericolosa». E mentre si voltava per chiamare il carceriere, lanciò un'occhiata velocissima al suo volto. Lì, negli occhi scuri e le labbra gonfie e socchiuse, vide una purissima mescolanza di amore e dispiacere e quell'immagine gli strinse il cuore; ma si fece forza e si allontanò. Padre Charles non sembrava riprendersi. Fratello André non aveva novità da comunicargli e quindi si alzò dal capezzale, annuì a Michel e si affrettò per la refezione. Michel, invece, non aveva appetito, né per il cibo né per la preghiera. Al contrario, si sedette nella sedia priva di schienale lasciata vacante da André e studiò il volto del suo mentore. Il pallore di padre Charles aveva preso una tinta giallastra; le guance e gli occhi chiusi sembravano essere sprofondati ancora di più; le labbra screpolate, tese sui denti, potevano sanguinare da un momento all'altro, nonostante il panno bagnato lasciato da fratello André per inumidirle. Charles poteva spirare in qualsiasi momento. «Beneditemi, padre, perché ho peccato», sussurrò Michel al prete privo di conoscenza. «Mi sono innamorato della strega Sybille. Ascolto le sue storie di magia ed eresia e in esse vi trovo soltanto del buono. L'ascolto parlare della Dea e mi sento ispirato. Mi sento trasportato come una stupida bestia al macello; ho fallito ed ella ha vinto». Nella luce tremula del caminetto, Michel si sporse all'indietro e, poggiando la testa la muro, seguì con lo sguardo le ombre che s'intrecciavano sul soffitto. Fantasmi e nient'altro; falsità scure proiettate da una semplice ma concreta realtà. Era, forse, solo questo ciò che la storia della badessa rappresentava, o stava dicendo la verità? I sentimenti che provava per lei erano solo l'effetto di un potente incantesimo? Strizzò gli occhi e si premette le mani sulle orecchie con una forza intesa a cancellare tutti i pensieri, i ricordi, le visioni e le voci interiori. Premette sempre più forte, le dita che tremavano e nello sforzo di annegare ogni suono, sussurrò: «Ave o Maria, piena di grazia; il Signore è con te. Benedetta sei tu...». Ripeté la preghiera all'infinito fino a quando fu pervaso da una profonda pace. Nonostante gli occhi chiusi, davanti a lui si concretizzò una visione: la Madonna, vestita di un bianco abbagliante, con il velo azzurro cielo. Di-
stendeva le mani e lo benediceva. Era l'Inconfutabile Santità. Prese il rosario e s'inginocchiò. TOLOSA settembre 1356 XVIII Discese su di lui un'ondata d'immagini raffiguranti la vita di un altro uomo. Un padre, guarito e riluttante a cedere il suo unico figlio, mentre ritratta la promessa di addestrarlo nell'uso dei poteri a lui connaturati. Luc, a sei anni, che vive ancora con suo padre, mentre corre verso un fondale fatto di arazzi e matasse multicolori, mentre calpesta le erbe e i fiori sparsi sul pavimento della stanza di sua madre: menta, rosmarino, lavanda e rosa, mescolati insieme per creare un effetto inebriante. Sfuggendo alla presa di suo padre, e superando le guardie, si dirige dritto tra le braccia aperte di sua madre; poi ansima quando, con un solo gesto, la donna gli cinge il collo tentando di strozzarlo, come se volesse spezzare il collo tenero di un uccellino. Le sue mani, così morbide, così fresche e così sorprendentemente forti. Aveva cercato di urlare ma non era riuscito neppure a respirare. La sorpresa lo aveva lasciato incapace di lottare: al contrario, aveva fissato il volto di sua madre, con quella bellezza sciupata, i lineamenti contorti, temibile come uno spettro. Luc, però, era andato oltre quella follia, scorgendo negli occhi di sua madre l'amore e il perdono afflitto. A quel punto, suo padre si era lanciato su di lei, garbato ma rapido, ma la forza della donna era soprannaturale e l'uomo e la guardia furono costretti a spingerla a terra e trattenerla giù mentre urlava e si dibatteva in un inutile sforzo di afferrare suo figlio. Dopo due giorni i bagagli di Luc furono pronti e il ragazzo fu trasferito nella proprietà di suo zio Edouard. Era imponente, anche se non grande come quella di suo padre; l'atmosfera, però, era più gioiosa e più sicura; lì, Luc si sentì libero di crescere. Fu il periodo più bello della sua vita, perché Edouard era sempre allegro come pure i cavalieri che formavano la sua piccola mesnie. E fu lì che Luc ricevette la sua educazione di gentiluomo di campagna. Eccelleva in tutto: il ballo, che era costretto ad esercitare con i figli dei cavalieri (cosa che faceva divertire un po' tutti alle spalle di chi si ritrovava a
recitare, con trasporto, il ruolo della dama); la falconeria, che gli procurava sempre una certa eccitazione ogni volta che il meraviglioso rapace poggiava i forti e tarchiati talloni sul suo guanto, sbatteva le grosse ali e, piegando la testa su un lato, lo guardava con occhi taglienti e singolari; la spada, per cui aveva un talento straordinario; l'equitazione. Imparò presto l'arte della guerra e della cavalleria, sebbene non così facilmente come padroneggiò un'altra arte: quell'addestramento segreto che aveva giurato sulla sua vita di non rivelare mai. Tutto iniziò a tredici anni, una sera, dopo il tramonto, quando la notte aveva reso il mondo di un solo colore. Edouard era entrato nella sua camera e aveva sussurrato al ragazzo, ancora sveglio nell'oscurità priva di luna: «Vieni. È ora». Senza dire una parola il ragazzo si era alzato. Edouard gli aveva fatto indossare abiti da cittadino e un mantello nero e lo aveva condotto lungo un corridoio segreto che dalla camera di suo zio conduceva all'esterno, fino alle stalle. Lì erano montati a cavallo e avevano cavalcato per mezz'ora sotto un cielo stellato fino alla città più vicina. Edouard condusse suo nipote non in un edificio appropriato a due cavalieri di nobili origini, ma in una fila di casette addossate le une alle altre, o meglio, baracche, perché non erano di pietra ma di legno e paglia, ammucchiate in una stradina strettissima e buia, essendo ormai passata l'ora del focolare. Popolani, Luc pensò, e della specie più povera. Tuttavia il luogo non mostrava la disperazione e la sporcizia di altri ghetti che aveva visto; gli edifici erano puliti e curati, il circondario privo dell'afrore che permeava le altre strade della città. Le case sembravano identiche; Edouard, però, cavalcò fino al centro del ghetto angusto fermandosi davanti ad una di quelle casupole; smontò da cavallo e bussò alla porta. Poiché dalle finestre non filtrava luce, Luc pensò che tutti gli occupanti dormissero; la porta, però, si aprì immediatamente. All'interno, il tugurio era avvolto nell'oscurità e chi vi abitava era illuminato da un'unica fiamma morente su un mozzicone di candela. Nel buio, appariva un'ombra rude, una bestia ispida che faceva sembrava Edouard un nano. Non disse una parola ma fece un gesto impaziente, come per dire entrate, entrate. Edouard a sua volta fece cenno a Luc, che smontò da cavallo con una sensazione di curiosità mista a timore. Il loro ospite li guidò in una stanza esterna, dove aleggiava un lieve aroma di cibo: uno stufato fatto con spezie
piacevoli anche se poco familiari, e della birra schiumosa al posto dell'hippocras. Su tutte dominavano leggeri effluvi di una fragranza che Luc non aveva mai odorato se non all'interno della grande cattedrale: incenso. Sentì il respiro di bambini addormentati; catturò, alla flebile luce della candela, un guizzo dello sguardo sospettoso di una donna; e quando attraversarono una stanza interna, l'ospite chiuse la porta alle loro spalle. La stanza era buia come la prima, non illuminata e con gli scuri accostati, ma nel momento stesso in cui venne chiusa la porta, Edouard infilò una mano tra le pieghe del suo mantello e tirò fuori un dono: alcune lunghe candele e una bottiglia di olio. Con una profonda voce melodiosa, la nostra guida disse: «Vi ringrazio, Edouard. Queste faciliteranno il nostro compito». Mise le candele da una parte prendendone soltanto una che avvicinò alla fiamma morente. Le ombre che nascondevano i suoi lineamenti iniziarono a dissolversi e quando piegò la bottiglia per riempire la grande lampada ad olio, accendendola subito dopo, Luc poté vederlo con chiarezza: un uomo enorme, con le spalle larghe e dei capelli singolari che gli fluivano lungo la schiena in strisce color avorio, ferro ed ebano, talmente ricci e folti da assomigliare al mantello di un agnello. La barba che pendeva dal volto, così lunga da doverla annodare attorno alla cintura, per non inciamparvi, ondeggiava in pieghe regolari, simili ai capelli di una ragazza che ha appena sciolto le trecce. I capelli, dalla fronte si protendevano di un dito verso l'esterno facendo assurdamente ombra ai suoi occhi tra i quali spuntava un prominente naso aquilino. E quando Luc notò il piccolo copricapo nero in cima alla testa e vide appuntato sulla tunica scura il cerchio di panno giallo che lo contrassegnava come ebreo, restò di stucco. Gli ebrei erano i peggiori tra gli eretici, secondo la Chiesa (non che accordasse all'istituzione grande fiducia) e venire scoperti in loro compagnia suscitava l'interesse degli inquisitori. Perché suo zio lo aveva portato in un posto tanto pericoloso? Edouard, tuttavia, prese la mano avvizzita del vecchio ebreo, la portò alle labbra e la baciò con grande deferenza. «Rabbi. Rabbi, vi ho portato mio nipote, Luc». Il vecchio gesticolò con la mano per allontanare quel gesto di rispetto e poi s'inchinò per scrutare Luc. «Finalmente; finalmente. Salve, Luc. Sono Jacob». Studiò per un anno sotto l'egida di Jacob e durante tutto il periodo
Edouard gli proibì qualsiasi incontro con i familiari, persino a Eastertide. «Non puoi vederli», gli aveva detto spiacente Edouard, «soprattutto tua madre». «Perché?», gli domandava Luc ma la risposta che seguiva era sempre insoddisfacente: «Perché tua madre è legata al Maligno che minaccia te, il tuo futuro Amore e la Razza. Per te, stare con lei, esporti a lei, significa esporti direttamente al Nemico». «Ma Jacob può proteggermi», aveva ribadito Luc. «Con te e Jacob non mi accadrà nulla...». Ed Edouard aveva sospirato. «Luc, devi capire... Il tuo Nemico è estremamente pericoloso; io e Jacob temiamo talmente per la tua incolumità da non confidare nelle nostre capacità di proteggerti. Guarda la tua povera madre... cosa sono riuscito a fare per lei?». Abbassò la testa in segno di vergogna, talmente colpito e addolorato che Luc gli cinse le spalle per consolarlo. Edouard, alla fine, si ricompose e aggiunse: «Col tempo, Luc, quando avrai ricevuto l'iniziazione, diventerai un potente mago. Più potente di tutti i tuoi nemici. E poi, forse, arriverà il momento in cui la nostra Beatrice, tua madre, potrà esserci restituita. Fino ad allora, però, stai in guardia, poiché il tuo Nemico non desidera altro che ritardare quel momento». Per evitare di addolorare oltre suo zio, Luc non aggiunse altro; tuttavia, giurò a se stesso che, quando sarebbe diventato un mago abbastanza potente avrebbe strappato sua madre dalla presa del Nemico restituendole la propria volontà. E così Luc iniziò i suoi studi. Le prime lezioni furono semplici: imparare a sedersi dritto come una colonna, respirare lentamente con ritmo costante, svuotare la mente da tutti i pensieri. I suoi progressi erano rapidi e imparò anche a creare un circolo di protezione, iscrivendo una linea immaginaria composta da una fiamma azzurra e stelle d'oro che nella sua mente diventarono reali come la lampada tremolante che illuminava la stanza di Jacob. «Il circolo è un luogo di protezione», gli disse un giorno Jacob dopo che Luc ebbe iniziato la lezione nel solito modo, e cioè iscrivendo un cerchio con l'indice, disegnando con attenzione le stelle e ogni punto cardinale e sussurrando (in maniera talmente profonda che qualcosa vibrò nel suo cuore) i nomi ebraici di Dio e degli arcangeli. «Ma è soprattutto un luogo sicuro nel cuore, dentro il quale risvegliare il potere di Dio». Dalle pieghe della sua tunica estrasse un piccolo vetro lucido e lo strinse con attenzione tra il pollice e l'indice; poi spostò la mano fino a quando il
vetro catturò, in un'angolazione precisa, la luce della lampada. Luc trattenne il respiro. Le pareti nude si colorarono all'improvviso con un arcobaleno di colori, dal rosso al giallo, dall'azzurro al violetto più intenso. «Dio è luce», disse Jacob dolcemente. «Brilla con eterno splendore; tuttavia, la Sua gloria è così grande che è impossibile contenerla in un unico luogo. Deborda, separandosi in una manifestazione dopo l'altra, proprio come la luce della candela si separa in diversi colori. E così, dentro ad ogni uomo, ci sono diverse virtù legate alla forza divina, ognuna evocata con suoni e colori diversi. È un'antica conoscenza che per molto tempo si è creduta dispersa. La terrai segreta, naturalmente, e la tramanderai soltanto al tuo erede; poiché quando la nostra gente avrà di nuovo bisogno della conoscenza, un angelo la rivelerà». E così Luc imparò a meditare all'interno del circolo su ciò che Jacob chiamava le sfere del potere: Kether, e cioè la Corona, l'ineffabile luce bianca che aleggiava sulla sua testa. Da essa estraeva il suo potere per infonderlo al rosso Geburah (Severità) e all'azzurro Gedulah (Misericordia) che stavano alle sue spalle, e poi alla sfera dorata nel suo cuore, Tifareth, il posto dell'equilibrio perfetto. Per poi arrivare al violetto dell'astrale Yesod, nel suo sesso, il punto in cui si realizzavano tutte le magie. E per ultimo veniva Malkuth, il mondo reale ai suoi piedi, diviso nei quattro quarti in terra scura, citrino, argilla e grano. Da Edouard, Luc imparò l'arte dei sigilli e dei talismani, con il severo ammonimento di usarli soltanto per il bene voluto dal Dio che era in lui. Fece un talismano che guarì il vecchio Philippe dalla pleurite e uno che lo rendeva invisibile agli occhi dei cavalieri della mesnie. Poi, con profondo rispetto e gioia, fece un Sigillo di Salomone d'oro puro che regalò al suo amato mentore affinché lo proteggesse. «Quando avverrà la mia iniziazione?», domandò a Jacob sette mesi dopo. Il rabbi, metà del volto in ombra e metà illuminato dalle candele di Edouard, osservò Luc con dolcezza. «La vera unione non può avvenire in presenza della paura». Vedendo l'espressione meravigliata di Luc, aggiunse: «Non sarò io ad iniziarti per una ragione molto pratica: è una donna quella che cerchi». Luc trattenne il respiro. «La ragazza», sussurrò a se stesso, «quella cadu-
ta dal carro, con la treccia nera e gli occhi scuri...». Capì con un sentimento nient'affatto sorpreso ma totalmente sereno che l'amava e che l'aveva sempre amata. «Sì», mormorò Jacob accanto a lui. «La ragazza. Sei un mago competente. Ma ci sono altre doti che ancora ti mancano, inclusa quella della Vista, indispensabile per sconfiggere i tuoi nemici. E soltanto la ragazza può infonderti queste doti. Di tutti quelli che appartengono alla razza, soltanto voi due avrete tutti i poteri diventando i più potenti». Si fermò, mentre il suo sguardo si concentrò in un punto alle spalle di Luc. «Fu predetto più di mille anni or sono da un gruppo di mistici in Terra Santa. Due messia sarebbero comparsi: uno reale e uno sacerdotale e insieme avrebbero salvato il loro popolo. Per tale blasfemia i mistici furono cacciati nel deserto dove si nascosero per secoli. Tu, Luc, sei il re e sei destinato a cercare la tua sacerdotessa. E così dovrà avvenire in ogni generazione». Luc ascoltò con frettolosa attenzione poiché si era esaltato al pensiero di rivedere la ragazza. «Rabbi, quando potrò... quando... ci incontreremo?». Jacob scosse il capo malinconicamente. «Non te lo so dire. Però posso dirti che...». E si voltò per indicare il quadro, appeso vicino a loro, che Luc aveva fatto con le sfere di potere variamente colorate, organizzate in file. «Qui, in cima, c'è Kether, la luce bianca, il lucente Divino, la Corona. E qui, in fondo c'è Malkuth, la Regina che governa il Regno della Terra. Vedi? Questo è il sentiero che lo sposo percorre per raggiungere la sua sposa; deve superare molti ostacoli prima di arrivare alla beatitudine, al potere dell'Unione Divina». All'improvviso il cuore di Luc si strinse dolorosamente e per la prima volta comprese la causa dell'inquietudine che lo aveva animato, la sensazione di vuoto che provava persino in presenza di coloro che amava. «Non posso aspettare», sussurrò, quasi alle lacrime. «Per quanto tempo ancora dovremo restare separati?». E Jacob, con un tenero sguardo compassionevole sul volto segnato, disse: «Devi guardare nel tuo cuore e liberarti dalla paura più grande che esso nasconde, l'unica paura che il Nemico può usare contro di te, quella che ti prosciugherà nella forza e nella volontà rendendo inutili i tuoi poteri. Solo allora tu e il tuo Amore potrete riunirvi senza pericoli». «Dimmi ciò che devo fare e lo farò», Luc rispose risoluto. «Non spetta a me rivelarti le tue paure; le devi scoprire da solo. Io posso soltanto aiutarti in ciò che devo; non posso avvicinarla a te. Fa sì che la conoscenza di ciò che ti aspetta ti sia da balsamo per l'anima». Posando le
grandi mani, dai cui guanti laceri spuntavano i polpastrelli gelidi, sulle spalle del ragazzo, recitò una cantilena emettendo una voce talmente forte e sonora da far vibrare gli atomi stessi dell'aria. Le fredde mani ossute di Jacob si scaldarono all'improvviso e attraverso esse fluì una forza simile a un fulmine il cui bagliore gli fece perdere conoscenza. A Luc sembrò di aver vissuto un'esistenza cieca e offuscata e che soltanto ora riuscisse a vedere chiaramente... la Luce, anzi, diventare luce, in tutta la sua gloria e bellezza. Non vi erano limiti all'interno di essa: non c'era morte, né vita, né tempo; non c'erano Luc, Edouard, Jacob, suo padre e sua madre; non c'era la Chiesa, la magia, la Torah. Soltanto un'unica, grande Gioia che abbracciava tutto e non conosceva Dolore. A quel punto una voce parlò: Jacob; porterai il nostro talismano in campagna, dove vive il nostro Amore. Lì vi abita anche la Morte, seguita, però, da una vita più grande e da una ricompensa ancora più potente. Fu Luc stesso a pronunciare queste parole, ma era in uno stato di tale beatitudine che non si accorse di averlo fatto. Se fosse restato in quello stato indescrivibile per un'ora, un giorno, un anno, una vita intera, un singolo battito del cuore, non avrebbe saputo dirlo. Quando, però, riprese conoscenza, vide che Jacob si era sdraiato sul pavimento a faccia ingiù. E quando il rabbi sollevò lo sguardo per osservare il suo pupillo, Luc vide la radiosità divina riflessa sul suo volto. Luc scese subito dallo sgabello per aiutare il suo anziano maestro dolorante. «Non lo fare mai più, rabbi! Non devi inginocchiarti davanti a me». «M'inchino di fronte a ciò che è in te», rispose sorridente Jacob. «Hai imparato bene le arti della magia, mio signore. La tua signora sta imparando a dimorare in essa, nella Presenza. Ella è il tuo cuore, Luc; e quando arriverà il momento in cui potrà realizzare la tua iniziazione dimorerete insieme nella Presenza». Deciso a superare ogni paura, per diventare forte e poter incontrare il suo Amore, Luc si esercitò quotidianamente nei rituali. E, in segreto, iniziò a praticare la capacità di trattenere il dito su una fiamma. All'inizio soltanto per un istante; poi, un po' più a lungo, fino a quando riuscì ad osservare senza battere ciglio la fiamma premuta sul palmo della sua mano, guardando impassibile per diversi momenti il fuoco che gli circondava la pelle. Ogni volta, però, ritirava la mano sana e priva di ustioni. Allo stesso modo, dopo aver rubato un fuso ad una delle domestiche, padroneggiò la sua concentrazione fino a quando la punta affilata, nel bu-
cargli la pelle, non faceva scaturire né sangue né dolore. Col tempo, neppure il suo pugnale da caccia riuscì a farlo sanguinare o a lasciargli delle ferite. L'estate successiva scoppiò la peste; arrivò voce che sua nonna era morta e che suo padre sì era gravemente ammalato ma che poi era guarito. Sorprendentemente, la malattia non colpì le proprietà di Edouard, lasciando incolumi tutti i servitori e tutti i cavalieri. La città, però, era assediata e, nonostante le suppliche di Luc, Edouard impedì al nipote di continuare a frequentare la casa di Jacob. Il mese successivo al picco dell'epidemia, Edouard si recò in camera di Luc e gli disse con dolcezza. «Caro nipote, devo darti delle notizie terribili: il ghetto è stato completamente bruciato». Il ragazzo non voleva credergli ed era accorso sul punto esatto dove un tempo si ergeva la casa di Jacob: lì s'inginocchiò, piangendo tra le ceneri. Ma anche allora si disse: È fuggito. È vivo da qualche parte e tornerà... In cuor suo, però, sapeva che il suo rabbi era morto. Negli anni che seguirono, Luc diventò un gentiluomo modello e poi un cavaliere; prese parte ad alcune battaglie contro il Principe Nero e si guadagnò fama di guerriero. Sognò spesso la ragazza sebbene non riuscisse a formare nella sua mente un'immagine chiara del suo volto, se non quella che apparteneva alla bambina di cinque anni con la treccia nera. Sapeva, tuttavia, che Edouard praticava con regolarità la Vista nel circolo e una sera, dopo aver cenato negli appartamenti privati di suo zio, lo pregò: «Cosa hai visto della ragazza? Dov'è e cosa sta facendo?» «Non sei ancora abbastanza forte, Luc». «E invece lo sono», insistette. «Anche senza la Vista, la mia magia è potente quanto la tua». Edouard lo osservò severo. «Giurami che non tenterai più di rivedere tua madre e te lo dirò». Luc fece un respiro profondo. «Vorresti che abbandonassi mia madre, che ha rinunciato alla sua sanità mentale per la mia?» «Sì», rispose in tono grave Edouard. «Sei legato a lei su un piano astrale. Quando è in tua presenza, sa leggere il tuo cuore e la tua mente, e poiché è legata, allo stesso modo, al tuo Nemico, anch'egli è al corrente dei tuoi pensieri. Se andrai dalla tua dama, ora, senza prima aver tagliato i legami fisici, mentali ed emotivi che ti legano a tua madre, metterai in pericolo
anche lei». «Non posso abbandonare mia madre», sussurrò Luc, imbarazzato dall'improvvisa stretta alla gola che lo portò sull'orlo delle lacrime. «C'è ancora una cosa, molto più importante», continuò Edouard. «Devi scoprire qual è la tua paura più grande e sconfiggerla. Quando avrai raggiunto questi due traguardi, il Nemico non potrà più nuocerti». Luc si alzò di scatto dallo sgabello. «Ho già superato la mia paura, zio. Non temo più il dolore; non ho neppure paura di morire. Guarda!». E avanzando versò il caminetto infilò il braccio tra le fiamme. Dopo un istante Luc ritirò il braccio e, sebbene la manica fosse annerita e parzialmente bruciata fino al gomito, la pelle sottostante era intatta. «Hai visto, zio?». Sollevò il braccio indenne come un trofeo e poi, dopo aver sfilato il pugnale dalla cintura, lo conficcò nel palmo destro. La lama scintillante perforò la mano, tuttavia, quando Luc la risollevò, non c'era traccia di sangue e neppure di ferite. «Vedi? Ho pregato Dio di fare tutto ciò che elevo. E se il Nemico mi getterà tra le fiamme, non brucerò; se mi trafiggerà con la spada, non mi tagliere. In che altro modo potrà mai sconfiggermi?» «Usando la tua mente», disse calmo Edouard. «La paura ti può rendere di nuovo vulnerabile». E quando Luc iniziò a protestare, Edouard continuò. «È vero, nipote, possiedi poteri magici molto più potenti dei miei. Ma il pericolo non è soltanto fisico; la paura che devi ancora vincere non è quella della tua morte». Posò una mano sulla spalla di Luc. «Siediti. Credo sia arrivato il momento». E scomparve nella sua camera privata senza aggiungere altro. Quando tornò, stringeva tra le mani una bottiglietta contenente del liquido scuro. Luc osservò suo zio mentre, con devozione e solennità, versò due gocce, non di più, nel vino del ragazzo. «Bevi», disse Edouard. Luc bevve. Il sapore era disgustosamente amaro; ma dopo qualche momento, dimenticò la sgradevolezza e si sentì sempre più attratto dalle pietre del caminetto, che sembravano appassire come fiori avvizziti nel calore estivo. Aprì la bocca per descrivere questa sensazione ma gli mancarono le parole; all'improvviso iniziò a ridere e poi ad urlare e stava quasi per cadere dalla sedia. Edouard lo afferrò e lo aiutò a rimettersi in piedi; Luc, traballante, si appoggiò a suo zio che lo trascinò nella camera interna dove cadde a piombo sul grande letto di Edouard. «Mi... mi... dispiace...», balbettò, ridacchiando.
«Ridi fino alle lacrime, Luc. Ho mandato via i servi. Se hai bisogno di aiuto, chiamami». Ed Edouard chiuse la porta della camera alle sue spalle. Luc scoppiò in un nuovo accesso di risa, e sebbene avesse ascoltato le parole di Edouard, esse non avevano alcun senso per lui. Niente aveva senso: lui stesso non aveva senso, un ragazzo normale così lontano dall'essere stato scelto per guidare la Razza, per essere un predicatore, anzi, la Voce stessa di Dio. Non era un messia; di certo Edouard, con tutta la sua probità e saggezza, era molto più adatto a questo compito, così come lo era stato il beato Jacob, ormai morto. La sua allegria si trasformò ben presto in dispiacere. Edouard aveva ragione: il suo orgoglio lo aveva spinto a credere di essere pronto a cercare il suo Amore e sconfiggere il Nemico. Era stato talmente preso dai suoi studi di magia che non aveva Parlato con la Voce per anni dimenticando come ci si sentisse in sua Presenza. «Te lo ricorderai presto», disse una voce. «Arriverà presto il momento in cui la Voce Parlerà di nuovo». Luc si mise subito a sedere, sentendo che tutta la stanchezza era sparita e che i suoi arti erano di nuovo ricettivi, e trovandosi tra le mani non il ricco broccato del letto di Edouard, ma secche foglie scricchiolanti e la nuda terra. Davanti a lui c'era il fuoco di un accampamento e, chino su di esso, Jacob che si sfregava le mani per scaldarle. Intorno a loro c'era una grande foresta buia. «Jacob», sussurrò Luc mentre le lacrime iniziavano a colargli sulle guance. «Sei ancora vivo». «Sono più che vivo», rispose il rabbi, mostrando i denti ingialliti. «Io... voglio compiacere il mio Dio», disse Luc, «e voglio trovare lei ma c'è qualcosa che me lo impedisce, che mi trattiene dalla mia iniziazione. Ho studiato la magia affinché potessi essere utile; mi sono esercitato per essere immune al dolore. Non so cos'altro fare...». Jacob annuì. «Hai imparato molti trucchi, come qualsiasi altro stregone avrebbe potuto fare. I talismani e i rituali sono gli altri supporti che ci condurranno alla più difficile ma più potente magia: quella del cuore. Devi lasciarti alle spalle le tue più recondite paure per imparare ad avere fiducia». All'improvviso Luc non si trovava più nella foresta; era un neonato in fasce attaccato al seno di sua madre. Rapito, alzò lo sguardo su di lei: la bellissima Beatrice, con gli occhi color malachite venati d'oro, colmi d'amore, con la pelle calda come il sole e chiara come la luna. Cantava per lui con una voce profonda e suadente. Poi, lanciando un grido, lo gettò a terra,
mostrando un volto improvvisamente mostruoso tanto che Luc urlò terrorizzato. Le mani di sua madre attorno al piccolo collo; il bimbo che stava per perdere conoscenza quando suo padre e le guardie lo liberarono. Il volto di sua madre si era deformato in un terribile grido e, mentre Luc la osservava, diventava sempre più giovane, una bambina, con i capelli neri, gli occhi scuri, i piedi nudi in precario equilibrio sul bordo di un carro. L'hai guardata appena ed è caduta. «No!», gridò Luc, colpendo con i pugni serrati le foglie morte, il broccato lucente del letto di suo zio. «No! Jacob, aiutami!». Edouard accorse subito al suo fianco, aiutandolo a tirarsi su e a bere piccoli sorsi di una tisana gradevole. «È tutto finito», disse suo zio calmandolo. «Bevi, questa ti aiuterà a riposare». Luc si calmò e infine si addormentò. Quando si svegliò, iniziò a lavorare a un talismano d'argento, incidendolo con il segno astrologico di sua madre. Fece tutto questo in gran segreto e, senza dirlo a nessuno, ordinò al suo scudiero di arrivare fino a Tolosa e consegnare di persona il talismano alla signora de la Rose. Prima che lo scudiero fosse di ritorno, le forze del principe Edoardo furono raggiunte da un altro gruppo di invasori in Bretagna e il re francese ordinò la chiamata alle armi. Lo zio Edouard e i suoi cavalieri iniziarono a prepararsi per il viaggio che li avrebbe portati sul campo di battaglia. Avevano deciso di incontrare Paul de la Rose nelle sue proprietà e procedere insieme verso nord per unirsi alle forze di re Giovanni e intercettare il nemico. La mattina della partenza, poco prima dell'alba, Luc, troppo agitato per poter dormire, si preparò: affilò il pugnale e la spada, riparò lo scudo e l'armatura. In realtà, temeva la guerra; poiché, sebbene non temesse di essere ferito o ucciso (in fondo sapeva come proteggersi usando i suoi poteri magici), non riusciva a sopportare la crudeltà inflitta agli altri. Una parte di lui, però, era entusiasta poiché ormai erano passati diversi anni da quando aveva visto i suoi genitori l'ultima volta ed egli tentò di raffigurarseli nel loro aspetto attuale. Di certo suo padre aveva qualche capello bianco. E mentre era intento in queste immaginazioni, sentì qualcuno bussare alla porta. «Entra», disse Luc, e lo zio Edouard entrò. «Luc», disse con voce profonda, «ho Visto che un grande pericolo ti a-
spetta sul campo di battaglia; ti supplico, non seguirci». Negli ultimi tempi, i capelli color rame di Edouard si erano inargentati sulle sopracciglia e le tempie e le rughe di preoccupazione avevano marcato il contorno dei suoi occhi chiari. La fronte era increspata di apprensione. Luc abbassò il pugnale che teneva in mano così come la pietra usata per affilarlo. «Sto parlando della tua vita», continuò Edouard. «Forse di qualcosa di più grave...». «Sono già stato sui campi di battaglia, prima d'ora, zio, ma non sono mai stato ferito», ribatté Luc rispettoso. «Lo so, Luc. E so anche che se hai deciso di venire non c'è nulla che io possa fare per trattenerti». Dopo una pausa, Edouard aggiunse. «È per il suo bene che ti supplico di restare. Se parteciperai alla battaglia, infatti, non solo rischierai la tua vita ma procurerai grande sofferenza alla ragazza». Respirò profondamente e poi lasciò fluire la sua frustrazione in un torrente. «Sangue e inferno, Luc; vorrei tanto che tu lo Vedessi. Perché la Voce che alberga in te non ti mette in guardia? Il Nemico cercherà di usare la tua paura contro di te». Sentite quelle parole, Luc inchinò la testa, vergognandosi; Edouard ovviamente capì che il nipote aveva tentato di affrontare il suo terrore privato e che da esso era rifuggito, come un codardo. «Mi dispiace», disse immediatamente suo zio. «Ti dico queste cose non per farti addolorare, ma perché mi preoccupo per te. Resta, Luc. Medita sulla Presenza e resta incolume, per il bene di tutta la Razza». «Farò come vuoi», rispose Luc, ma continuò a tenere gli occhi bassi. «Che Dio ti benedica», disse Edouard. «Benedica anche te». Il ragazzo però, continuò a guardare il pavimento mentre suo zio si voltava e usciva dalla stanza, aprendo e richiudendo la porta alle sue spalle. Luc, turbato, si sedette sulla sponda del letto. Amava suo zio e sapeva che Edouard non lo avrebbe mai messo in guardia se non di fronte a un motivo valido. Seduto sul letto, meditando e ascoltando i suoni del palazzo che si svegliava e dei cavalieri che entravano nella grande sala da pranzo per la colazione, cadde in uno stato curioso, a metà tra il sonno e la veglia: E fu allora che vide il suo Amore che lo chiamava dal campo di battaglia, coperta di fango e circondata dai vigneti. Luc, Luc de la Rose, aiutami! Era inginocchiata sulla terra impregnata di sangue mentre migliaia di
soldati brandivano asce, spade e scudi. Un fiume impietoso di frecce le cadevano intorno. Luc, Luc! Salvami! Nell'oscurità fosca, soltanto la sua pelle pallida risplendeva, luminosa come un faro; e anche quando lo chiamò, il suo volto era composto, trascendente. Mentre la osservava, un'imponente figura oscura le si scagliò contro, agitando una grossa ascia sulla testa, per poi colpirla, spezzando in due quel volto splendente. L'espressione del suo viso non mutò; alzò semplicemente la mano bianca in un elegante gesto di perdono. In mezzo alla visione, Luc si alzò, il pugnale stretto in pugno. Il volto e la sagoma di Sybille si trasformarono in quelle di Beatrice, i lineamento belli e delicati assunsero fattezze diverse, il portamento dritto e raffinato e i suoi occhi, così lucenti, così sicuri. Era ancora snella, con i capelli color castano chiaro, le mani affusolate che fuoriuscivano I dalle lunghe maniche finemente drappeggiate e intrecciate sul cuore. Luc, disse con tono appassionato, devi immediatamente unirti agli altri soldati. Il tuo Amore ha bisogno di te... Proteggila prima che sia troppo tardi... Quando Luc si riprese era mattina inoltrata, e l'alba era passata da un pezzo e si allarmò sentendo che dal palazzo non proveniva alcun rumore. Spalancò le imposte della sua camera e scoprì che il grande cortile, dove erano stati assemblati tutti i carri e le bighe, ora era vuoto. Era impossibile che avesse dormito così tanto, che non avesse sentito il frastuono delle ruote e degli zoccoli dei cavalli che partivano per la guerra. Si alzò. Si recò alle stalle e montò il suo stallone bianco, Lune, guidandolo verso oriente, dove c'era la sua casa. Ci vollero soltanto poche ore e dopo mezzogiorno vide all'orizzonte il profilo del grande castello con i grossi merli delle torrette di guardia scuri contro il cielo, e restò deluso quando trovò il cortile privo di carri e di soldati. Suo padre ed Edouard erano già partiti. Luc si avvicinò alla porta principale del castello e legò il suo cavallo; salì silenzioso una scala laterale che portava alle stanze di sua madre. Non era uno sciocco; anche se confidava nel suo talismano e nella visione, si tolse la spada e il pugnale e li lasciò in una stanza contigua. In questo modo non ci sarebbero state armi nella stanza e Luc era abbastanza forte da proteggersi contro di lei. Erano passati tanti anni dall'ultima volta che l'aveva vista ma ricordava
ancora dove veniva nascosta la chiave della sua camera e da lì suo padre non l'aveva mai spostata. Con timore misto a desiderio, la infilò nella serratura arrugginita e aprì la pesante porta di legno. Una figura solitaria stava in piedi alla finestra sbarrata ma aperta e osservava i vigneti sottostanti; una donna snella, vestita con un abito di lana color smeraldo e un grembiule di seta leggerissima del colore della schiuma marina, con un soggolo della stessa tonalità in cima al quale era poggiato un cerchietto d'oro. Portava le trecce arrotolate e quando si voltò, le braccia conserte, verso Luc, lo osservò con i grandi occhi espressivi di un intenso azzurro-verde. Il ragazzo restò a bocca aperta, avendo dimenticato la sua incredibile bellezza. «Luc», ella disse, con lo stesso tono che aveva usato nel sogno. «Luc, grazie a Dio, mio caro, figlio mio...». Distese le braccia, aprendo come fossero le ali di un angelo le maniche di seta che sfioravano il pavimento. In quell'attimo prese la sua decisione: avanzare verso di lei, rischiare la vita per quell'attimo di beatitudine che aveva sognato. E così si mosse; e in un momento scoprì la beatitudine determinata dall'abbraccio di sua madre, dalla sua voce, colma di un amore straziante, che gli sussurrava in un orecchio: «Oh, figlio mio, figlio mio, quanto vi ho fatto soffrire, te e tuo padre, in tutti questi anni...». Un istante dopo fece un passo indietro per ammirarlo. «Guarda quanto sei cresciuto!». Tu invece sei diventata piccola, pensò Luc, mentre la donna continuava: «Assomigli proprio a tuo padre. Ma è proprio vero? È un miracolo», disse ridendo, con un suono così bello che Luc rise con lei, inframmezzando la sua risata con i singhiozzi. «Luc, amore mio, sei proprio tu?». Lo afferrò di nuovo, così impetuosa che all'inizio Luc restò confuso ma poi rise di nuovo. Lo strinse a sé con una forza considerevole e poi lo lasciò andare di nuovo, cingendogli la vita; la sua voce e l'espressione si rattristarono all'improvviso. «Hai sentito il mio avvertimento. Sei venuto, anche se Edouard temeva per la tua vita». Annuì. «Sono venuto». «Sono stata io a mandarti quella visione. Il tuo Amore è in pericolo. Edouard lo ha percepito ma la sua Vista non è potente come la mia e forse teme che tu, in qualche modo, possa esporti al pericolo nel tentativo di proteggerla». Si fermò e allungò la mano per sfiorare un ciuffo di capelli sulla fronte di Luc; il suo tocco era caldo e delicato, talmente materno che
Luc si sforzò di trattenere le lacrime. «È stata una cosa incredibile... Il dolore così terribile, indescrivibile», disse la donna senza autocommiserazione o rimpianto; «mi ricordo che Paul è venuto da me prima di partire con Edouard. Mi ha detto dove stava andando, cosa stava facendo... e mi ha detto, anche, che saresti rimasto al sicuro, al palazzo di Edouard. So che voleva rassicurarmi. Ero ancora nella morsa del Nemico. Avevo Visto il pericolo che incombeva su Sybille ma non riuscivo a comunicarglielo, non riuscivo a dire neanche una parola; e con l'ultima forza che mi restava ho lottato per evitare di farle io stessa del male. Ho pure cercato di piangere, ma il Nemico mi ha trattenuto tutte le lacrime. E così tuo padre è partito, senza che potessi avvisare lui o Edouard del pericolo che li attendeva». La sua espressione divenne all'istante radiosa, beata. «Poi, però, figlio mio, dall'Inferno sono volata in Paradiso in un istante; nel momento stesso in cui ho seguito da quella finestra la partenza di tuo padre, di tuo zio e di centinaia di altri cavalieri e scudieri, la follia mi ha abbandonata e sono ritornata ad essere me stessa ancora una volta, e capace di avvisarti. La Dea è intervenuta». Gli angoli della bocca si sollevarono all'insù verso le fossette delle guance e i suoi occhi si fecero comprensivi. «Il tuo destino è quello di partire, figlio mio. E di partire adesso, subito, prima che sia troppo tardi». E gli disse quale direzione avevano preso gli uomini; poi, altrettanto forte come aveva fatto prima, lo abbracciò e lo spinse risoluta verso la porta. Luc cavalcò incessantemente. E quando il sole discese verso l'orizzonte, smontò e guidò Lune verso un ruscello impetuoso per bere e lì bevette la sua stessa immagine, seduto sui talloni, mettendo le mani a coppa per attingere l'acqua cristallina. «Grazie», sussurrò umilmente, poi portò le mani alle labbra e bevve. Alle sue spalle, in lontananza, sentì voci, il lento tamburellare degli zoccoli sulla terra, il fragore di grandi ruote: un esercito formato da centinaia di uomini. Si alzò immediatamente e montò a cavallo, poi sfoderò la spada: era rimasto ad est delle terre ora dominate dagli uomini di Edoardo il Nero e dalla loro cadenza ipotizzò che fossero francesi. Ma esisteva il pericolo di imbattersi in cavalieri inglesi e alcuni dei soldati di Edoardo non erano altro che traditori francesi. E così si avvicinò con cautela, cercando il riparo degli alberi fino a quando poté vedere chiaramente l'esercito che aveva appena iniziato ad accamparsi. E quando vide lo stendardo, il falcone con le rose, sorrise e a-
vanzò, lanciando un grido di saluto. Chiedendo a tutti quelli che incontrava, Luc si fece strada fino al centro di un esercito di un migliaio di uomini, più di trecento dei quali provenienti dalla proprietà dei de la Rose e duecento da quella di Trencavel, muniti della relativa bandiera; superò cavalieri accompagnati da scudieri, attendenti e portatori di bandiere forniti di semplici bighe di legno per trasportare le armature, le tenute militari, le brande, il cibo (incluse pecore belanti attaccate ai carri), cuochi e servitori. Sembrava di attraversare una piccola città, che emanava odore di montone arrostito, facendogli venire l'acquolina in bocca. Quando raggiunse la tenda a strisce bianche e rosse dell'accampamento del grand seigneur, il sole era completamente tramontato. Lì, nella luce gialla di un fuoco circondato da pietre, il vecchio de la Rose sedeva all'esterno della sua tenda su un tappeto di pelle di pecora; la parte inferiore del suo corpo era ricoperta di pellicce. Preso com'era da una conversazione con il secondo comandante a proposito di una mappa, non vide suo figlio che legava il proprio cavallo insieme agli altri e che si avvicinava nell'ombra. Luc si fermò un attimo; non vedeva suo padre da sette anni e in quel lasso di tempo Paul era incredibilmente invecchiato. I suoi capelli rosso scuro erano ormai quasi tutti grigi, sebbene le sopracciglia fossero ancora folte e scure, anzi, selvagge; la sedentarietà gli aveva ingrossato la vita, il petto e la faccia, lasciando pieghe di carne; inoltre, il dispiacere e l'insonnia gli avevano inciso occhiaie scure intorno agli occhi. Persino i suoi movimenti erano più lenti, tipici di chi è intontito dal dolore. Luc pensò che il suo cuore fosse stato spezzato ancora una volta, come era stato per la pazzia di sua moglie, da un nuovo evento altrettanto tragico; e con un dolore straziante Luc comprese che Paul non aveva perduto soltanto sua moglie ma anche suo figlio. Quel pensiero, unito al pietoso aspetto di suo padre, gli provocò un nodo alla gola, spezzandogli il respiro. A quel lieve rumore, il grand seigneur sollevò dalla mappa il viso segnato e guardò nell'oscurità; le labbra socchiuse, gii occhi spalancati che via via espressero un crescente riconoscimento, una speranza che non osava auspicarsi, per timore che venisse disillusa. «Luc», sospirò, alzandosi in piedi, incurante delle pellicce che caddero nel fuoco e del suo secondo che si affannava a recuperarle. I due uomini avanzarono l'uno verso l'altro, le braccia spalancate. Ac-
canto al fuoco scoppiettante, entrambi si stringevano talmente forte da non riuscire quasi a respirare, e le lacrime sgorgarono senza controllo. E mentre Luc stringeva suo padre, una sagoma emerse dalle ombre alle sue spalle: Edouard, i cui lineamenti, metà in ombra e metà visibili, esprimevano uno sguardo di sconfitta così grande che Luc non aveva mai visto prima. Il secondo comandante e tutti i servi furono congedati. Edouard, lì vicino, le braccia conserte, fissava il fuoco mentre Luc, seduto accanto a suo padre, con un piatto di montone davanti, gli raccontava di aver sognato sua madre, di aver cavalcato fino al castello trovandola finalmente guarita. «Guarita», sussurrò Paul. «Luc, non scherzare. Vuoi dire...». «Proprio quello che ho detto, padre. Sta bene; è di nuovo se stessa ed è preoccupata per te». Luc abbassò subito lo sguardo, sforzandosi di non dimostrare sul volto la forte emozione provata. «È stata contenta di vedermi di nuovo». Alzò lo sguardo in tempo per vedere negli occhi di Paul la scintilla; si sparse su tutto il volto, addolcendo i suoi tratti, e infondendoli di luce. Se c'era un momento che Luc aveva atteso con un desiderio equivalente a quello dell'incontro con il suo Amore, era questo: sapere che sua madre era guarita e vedere tutta la sofferenza bandita per sempre dagli occhi di suo padre. «Beatrice», disse Paul all'oscurità davanti a lui; le labbra gli tremarono con un sorriso imminente. «È mai possibile? La mia Beatrice è tornata da me...». «Paul», lo avvertì Edouard, inginocchiandosi davanti a suo cognato con un solo, rapido movimento e afferrando le braccia del seigneur sopra il gomito affinché a Paul non restasse altra scelta se non quella di guardarlo dritto in faccia. «Non ho alcuna intenzione di distruggere la tua gioia. Sono convinto, però, che questo è un trucco del Nemico». Paul espresse ad alta voce il suo disgusto a tale ipotesi. «Un trucco... E a quale scopo? Spezzare il cuore di un vecchio?» «Ferire tuo figlio». «Zio, lascia che ti spieghi», ribatté Luc rapido. «Non sono venuto fin qui per ribellarmi al tuo volere. Ho creato un talismano per liberare mia madre... e ha funzionato! Se solo potessi vederla, mi crederesti. Era preoccupata che qualcosa di male accadesse al mio Amore. Zio, Sybille è diretta qui. E sarà in pericolo; senza il mio intervento, morirà. Perché il Nemico
avrebbe voluto avvisarmi di questo?». Edouard roteò su se stesso trattenendo la rabbia. «Per metterti sulla sua strada». Luc si alzò. «Se voleva farmi del male, perché non mi ha attaccato mentre ero solo con mia madre?» «Te l'ho detto: ti ho visto in pericolo sul campo di battaglia. Allora, dì che sei venuto soltanto per portare queste notizie a tuo padre e che non sei venuto per combattere». «Non lo lascerò da solo, zio. Non fino a quando avrò visto lui e il mio Amore sani e salvi a casa». «Edouard». La voce, gli occhi e l'espressione di Paul si erano improvvisamente rattristati ascoltando le parole di suo cognato, come se qualcuno avesse spento una fiamma interiore. «È la verità?». Edouard annuì, lo sguardo severo sempre fisso sul nipote. Paul si voltò per guardare Luc. «Allora non devi venire con noi. La Vista di tuo zio è sicura, figlio mio; so che non sbaglia mai. Che bene mi può fare sentire queste notizie gioiose, avere l'onore di combattere al tuo fianco, sapendo che sei in pericolo? Forse», e qui diede dei colpetti confortanti sulle spalle di Luc, «forse è vero che tua madre è di nuovo con noi. Chi può dirlo? Ma dobbiamo ascoltare anche Edouard». «Farò quello che mi dirà il cuore», insistette Luc. A questa insolenza, Paul aggrottò le sopracciglia e sul suo volto discese una durezza che Luc conosceva e che tante volte l'aveva fatto tremare da bambino; questa però si tramutò velocemente in un'espressione di incertezza, guardando di sbieco Edouard. Quest'ultimo sospirò. «Non c'è niente che possiamo fare, se non ucciderlo, e questa è una cosa molto difficile. Ha imparato la lezione di Jacob fin troppo bene». Sospirò visibilmente e si avvicinò a Luc e con un'umiltà sincera che suo nipote non gli aveva mai visto, disse: «Forse io sono stato un cattivo maestro. Forse non ti ho sottolineato abbastanza, Luc, l'importanza di restare al sicuro fino a quando non si sono superate le proprie paure». «È proprio questo il punto», disse Luc sorridendo. «La mia paura più grande era che mia madre non ci sarebbe stata mai più restituita... e invece ora è guarita». «Oh, Luc», disse Edouard, e con un gemito si accasciò appoggiandosi sui talloni, le braccia intorno alle ginocchia. «Devi affrontare molto di più... credimi. Ti sei esposto al pericolo». «Tuo zio è un uomo molto saggio. Ascoltalo e, per il mio bene, resta», lo
pregò Paul. Luc gli rispose: «Per il bene del mio Amore, devo andare». Il giorno dopo, le carovane degli eserciti dei de la Rose e dei Trencavel si fusero con quelle di re Giovanni; la grande bestia cresceva sempre di più (nutrita dall'arrivo di altri nobili di altre casate) e continuò il suo viaggio verso nord, poiché alcuni soldati in perlustrazione dissero che il Principe Nero aveva attraversato la Loira ed era arrivato alle porte della città di Poitiers per unirsi in Bretagna all'esercito inglese guidato dal duca di Lancaster. Luc cavalcò tutto il tempo accanto a suo padre che aveva ottenuto dal castello un'armatura per suo figlio, mentre Edouard, stranamente, restava con i suoi cavalieri, rifiutandosi di unirsi al cognato e al nipote pure durante i pasti. Il gesto colpì Luc, non tanto per sé, poiché si diceva che una volta ritornati dalla guerra, Edouard avrebbe visto Beatrice sana e salva con i suoi stessi occhi, pentendosi di aver evitato i suoi stessi familiari; ma per suo padre, visibilmente ferito, anche se Paul non ne aveva mai parlato e fingeva allegria durante le lunghe conversazioni con suo figlio mentre cavalcavano insieme. Il terzo giorno, proprio quando l'esercito si fermò per il rancio di metà mattina, arrivò la notizia: il principe inglese aveva riattraversato la Loira ed era diretto alla città di Poitiers. Il contingente di Edoardo il Nero sembrava essere la metà di quello di re Giovanni, e i suoi uomini erano sfiancati dopo mesi di viaggio per le campagne francesi. La vittoria francese era assicurata. Avanti verso Poitiers!; il grido si propagò per tutto l'accampamento fin quando la terra stessa sotto i piedi di Luc iniziò a tremare, e i denti e il cranio vibrarono con un suono potente e lui stesso fece suo quel grido: «Avanti verso Poitiers!». Poiché il suo cuore gli diceva che era lì che avrebbe incontrato il suo Amore. Nei due giorni successivi all'arrivo dell'esercito a Poitiers, il re inglese e quello francese, incitati dai legati papali, fecero incerti tentativi per negoziare un accordo: alla fine, però, nessuno volle cedere. Era in gioco il destino di tutta la Francia. Il terzo giorno era domenica, e nessuna parte volle violare la santità di quella giornata versando sangue.
Poco prima dell'alba del quarto giorno, Luc, vestito dell'armatura, montò a cavallo di Lune che, con un elmetto equino adornato di rossi pennacchi arricciati, tremava sotto il suo cavaliere. Accanto a lui c'era Paul de la Rose, con la sopravveste del colore della neve immacolata. Non c'era nessun altro al loro fianco; davanti, si stendevano campi e bruma, e gli inglesi nascosti. Sarebbero stati alla testa dei lancieri e i primi ad attaccare, seguiti dai quattro portabandiera, accompagnati a loro volta da otto cavalieri provenienti dalla scuderia dei de la Rose. Paul si era offerto volontario per l'inizio dell'attacco e Luc insisteva nel restare al fianco di suo padre. Non parlarono, in parte per la tensione, e in parte perché gli elmi ottundevano i rumori rendendo impossibile ascoltare una conversazione. Alle spalle di Luc squillarono le trombe: il segnale della carica. Accanto a lui, il valoroso guerriero Paul de la Rose sollevò e roteò nella mano destra la lunga spada; con la sinistra, afferrò scudo e redini, incitando il suo lucido stallone nero. In risposta, i duecento cavalieri dell'avanguardia tuonarono un urlo assordante; il cuore di Luc iniziò a battere impetuoso, come gli zoccoli dei cavalli, quando iniziò la carica nella nebbia fluttuante che gli bagnava il volto. La disarmonia dei suoni si fuse in un'unica frase finalmente decifrabile: Per Dio e per la Francia! E a poca distanza, Paul de la Rose, con la spada sempre sollevata, urlò: «Per donna Beatrice!». «Per donna Beatrice!», lo imitò Luc, sollevando anch'egli la spada proprio mentre delle figure sbucavano dalla nebbia dritte verso di lui: un'onda scura che fluì tra lui e suo padre, separandoli. Gli altri cavalieri dell'avanguardia si slanciarono intorno a loro, circondando i pochi soldati di fanteria inglesi. Luc fece una smorfia quando affondò la luminosa lama affilata della spada nel collo e nelle spalle di un soldato semplice vestito con abiti sudici e con la faccia altrettanto lurida; era tutto così ingiusto! Il nemico aveva chiaramente presunto che i francesi avrebbero affrontato la guerra nel solito modo e cioè mandando avanti i loro civili e sacrificandoli prima dei nobili guerrieri a cavallo... Disse una preghiera per l'inglese, mentre il soldato urlava e precipitava con un grido di dolore sulle ginocchia e, intorno a lui, i cavalieri francesi urlavano di gioia: Vittoria! La Vittoria è già nostra! E nel bel mezzo di quell'esuberanza, discese la follia come un branco di
locuste. Dal cielo arrivarono le frecce, così rapidamente mortali, così scure e divoranti che il francese, urlando Vittoria!, aveva sorriso nel pronunciare la prima sillaba ma era morto articolando l'ultima. Tutto intorno a sé Luc vedeva sangue, udiva urla e rantoli di morte dei cavalieri e delle loro bestie e il rumore delle frecce che si conficcavano nei loro bersagli: tuttavia non poteva permettersi di provare paura. Sebbene non riuscisse a vedere suo padre, tenne bene in mente l'immagine di Paul sano e salvo e provò una sensazione piacevole sapendo che il suo anziano genitore era al sicuro. Anche Luc era protetto: le frecce fischiavano pericolosamente oltre il suo elmo, il suo corpo, la groppa non riparata del suo stallone, per conficcarsi nel terreno o nel corpo di qualche altro sfortunato alle sue spalle. Durante quell'ora di battaglia, mentre Luc continuava a lottare, incapace di superare le linee dei soldati inglesi che avanzavano, si rese conto della morte che lo circondava, a causa degli archi da guerra: troppi cadaveri francesi, compresi quelli degli animali, ricoprivano il suolo martoriato tanto che gli inglesi vi inciampavano cercando di avanzare. Intorno a lui, si sollevò un unico, frenetico, grido: «Ritirata! Ritirata! Ci uccideranno tutti!». E percepì, più che vedere, il movimento di un centinaio di uomini, forse un migliaio, che fuggivano alle sue spalle, diretti verso la città cintata: egli, tuttavia, restò, deciso a non arrendersi fino all'ordine del re o di suo padre. Di certo non avrebbero subito una sconfitta: il Principe Nero aveva a malapena la metà dei loro uomini. Luc lottò per ore, fino a dopo mezzogiorno, quando ormai il sole aveva scacciato ogni traccia di foschia e scaldato la sua armatura tanto che gli abiti grondavano di sudore. Lune barcollava a causa della sete e perché il terreno era disseminato di tanti cadaveri che, per avanzare, il cavallo era costretto a calpestarli. Per il bene dell'animale Luc smontò, liberandolo; il cavallo trottò all'istante verso la città e i campi dove brucavano altri destrieri privi di cavaliere. Continuò l'avanzata a piedi: era difficile mantenere l'equilibrio, ma non era più semplice per gli inglesi che, con armi da corpo a corpo inferiori a quelle francesi, contavano chiaramente sugli archi da guerra per mantenere il loro vantaggio. Quasi immediatamente, Luc dovette affrontare un altro combattimento, poiché un soldato di fanteria alto e pallido, vestito di stracci, vacillò verso di lui, sollevando un'ascia arrugginita sul suo elmo ammaccato. Istintivamente, poiché in battaglia non c'è tempo per pensare, Luc sollevò la spada
e bloccò il colpo, sussultando allo zampillio di scintille... ...E dietro di sé udì un grido: troppo sordo e lieve per essere percepito in mezzo allo strepito di metalli, alle urla di vittoria e alle grida dei moribondi; tuttavia lo avvertì. Un suono chiaramente femminile, stranamente familiare e per vederne la fonte, si voltò. Se muore, morirò con lei... Nessun sogno né incanto poteva essere altrettanto nitido come l'esperienza di rivederla in carne ed ossa ancora una volta: non più la bambina dalle lunghe trecce ma una donna, inginocchiata, con il velo, e un volto a forma di cuore che per lui rappresentava l'essenza stessa della bellezza, il volto della Dea, l'espressione che per anni aveva aspettato di vedere. In un gioioso attimo di sacrificio, così breve che non ebbe nemmeno il tempo di parlare, la riconobbe. E riconoscendola, vide il pericolo che lo circondava ma, ben volentieri, indebolì il suo cerchio di protezione dorato per porlo intorno a lei, affinché potesse continuare a vivere. A quel punto arrivò il colpo d'ascia, una sensazione assolutamente intollerabile, che straziava sia il corpo che la mente tanto che nulla più esisteva se non il dolore; poi, un gelo improvviso che smorzava tutta la sofferenza, anzi, tutte le sensazioni fisiche. Galleggiava libero e beato, osservando il luminoso cielo azzurro. Uno stormo di uccelli neri volteggiava sopra di lui, o si trattava della vista che si affievoliva? O, peggio, di uno sciame di frecce inglesi? All'improvviso, il cielo fu offuscato dal volto sereno di questa madonna che sorrideva beata e con gioia selvaggia pensò: Adesso che l'ho vista, posso anche morire. Buio. Poi, provò un calore crescente nel profondo del suo cuore; il tocco di lei sulla sua carne, vivo ed elettrizzante, che si "muoveva" all'interno del suo petto fino alle ossa, per poi fuoriuscire dal suo corpo... Si svegliò scoprendosi vivo e privo di dolore, senza neppure l'indolenzimento delle braccia e delle spalle causati dall'oscillare per ore la pesante spada. I suoi pensieri, la sua visione erano eccezionalmente nitidi: Sybille non era stata solo un sogno. Infatti, sedendosi e trovando il suo l'elmo e il pettorale spaccato per terra accanto all'ascia insanguinata, colse un breve sguardo della donna, una piccola figura scura in lontananza, coperta da un velo nero, separata da lui da una nuova ondata di soldati inglesi. Si stava allontanando, protetta dal corpo di Edouard che spronava il suo cavallo; e sebbene Luc fosse solleva-
to nel vederla fuggire sana e salva dalla battaglia, gridò: «Sybille! Sybille!». Le sue parole vennero ingoiate dalle grida di guerra e dal frastuono delle armi, mentre altri francesi arrivavano per respingere il nemico; tuttavia, non era arrivato sin lì per vedersela portare via ancora una volta. Si guardò intorno, cercando disperatamente un cavallo, ricordandosi in quel momento di aver liberato Lune. Si rotolò su un fianco e con grande sforzo riuscì a mettersi in ginocchio. Accanto a lui giaceva, su un lato, un cavallo morto trafitto da decine di frecce; si aggrappò a quella carcassa e lentamente, goffamente, a causa di ciò che restava della sua armatura, riuscì a mettersi in piedi. Il destriero di Edouard era già scomparso nella fluttuante massa di metalli e carne umana e animale e Luc, con i sensi naturali, non avrebbe potuto seguirli né vedere quale direzione avessero preso. Finora, quando i suoi sensi non erano sufficienti ad aiutarlo, si era sempre affidato alla Vista di Edouard prima di prendere una decisione. Tuttavia, nella sua mente, sentì la voce del suo amore, debole ma inconfondibile, sussurrargli queste parole: Ci rivedremo a Carcassonne... E mentre queste parole silenziose si formavano nella sua mente, fu afferrato da una sensazione sinistra. Era svenuto, anzi, morto; Edouard aveva avuto ragione. La sua magia non era stata sufficientemente forte a proteggere se stesso e ciò significava che non avrebbe neppure potuto proteggere suo padre... Luc cercò di correre, inciampando spesso a causa di ciò che restava dell'armatura, su un terreno accidentato nascosto da strati di cadaveri, ciò che restava della fiumana di guerrieri scagliati gli uni contro gli altri. Luc non possedeva la Vista, ma soltanto l'istinto di un soldato e il cuore di un figlio; furono, tuttavia, sufficienti a guidarlo verso le terre paludose che separavano le trincee inglesi dal campo di battaglia. Al di là, dietro gli antichi vigneti e i boschetti sul lato riparato della collina, erano visibili le palizzate d'argilla e legno costruite in fretta e furia per proteggere gli arcieri. Nei pressi, per metà affondato nella palude devastata, Paul de la Rose, grand seigneur di Tolosa, giaceva di profilo, lo scudo sollevato per proteggersi, la spada pronta a colpire, forse disarcionato dal suo grande stallone nero o forse deciso ad affrontare il nemico in un corpo a corpo. Non c'erano altri cadaveri, poiché lui soltanto era penetrato nei territori inglesi che avevano rappresentato la sua rovina.
Si era avvicinato troppo alla palizzata degli arcieri, tanto che, dal suo pettorale, spuntava un'intera faretra di frecce, che avevano trafitto in maniera così profonda metallo e carne che le punte affilate fuoriuscirono dal retro della sua sopravveste sbrindellata. Urlando, Luc cadde in ginocchio e con dolcezza sollevò l'elmo del padre. I capelli dell'anziano de la Rose erano umidi, il volto lucido di sudore; e negli occhi aperti, incorniciati dalle nere sopracciglia cupe, non c'era timore o odio, ma soltanto una strana determinazione. Per donna Beatrice... Con una forza sovrumana, Luc strappò, una ad una, le frecce dal corpo di suo padre, ferendosi i palmi delle mani per le schegge di legno che si conficcavano in profondità, fino a quando fu in grado di sollevare il pesante pettorale. Il petto di suo padre, in un grande ovale che andava dallo sterno all'ombelico, era ormai una profonda pozza di sangue coagulato. Singhiozzando, respirò piano e cercò di richiamare quel luminoso calore che lo aveva sommerso tanti anni prima, quando, bambino, si era arrampicato sul letto di suo padre apponendo le mani sulla ferita gonfia di Paul de la Rose. Affondò le mani nel sangue denso e appiccicoso sgorgato dal petto di suo padre e inchinò il capo, in attesa. Aspettando quel calore, quella pace e quella stessa tremolante vibrazione. Che non arrivò. Lo aveva guarito una volta e negli anni era diventato sempre più consapevole dei suoi talenti; perché ora, Dio, la Dea, il potere divino di Kether lo abbandonavano? Voltando la faccia al cielo, Luc urlò la sua rabbia: non contro gli inglesi né contro se stesso, per non aver saputo proteggere suo padre, ma per la crudeltà del destino, che aveva decretato che gli innamorati Paul e Beatrice, separati per così tanti anni, non dovessero mai più incontrarsi in carne ed ossa. Strappò la grande spada di Paul dal pugno serrato. Brandendola come un pazzo, privo di scudo, elmo o pettorale, si lanciò urlando in mezzo alla battaglia. Quanto sangue versò, quanto lottò, non avrebbe saputo dirlo, poiché il dolore ruba il presente e lascia soltanto il passato. Ma prima del tramonto, il grosso dell'ultimo battaglione, compresa l'alta nobiltà, era stato massacrato o fatto prigioniero; e re Giovanni, sconfitto, cedeva con un gesto commovente il suo guanto al nemico in segno di resa. Luc, sorprendentemente incolume, sebbene il suo cuore dolesse con un duplice male, abbassò la spada di Paul de la Rose, raggiungendo il cadave-
re di suo padre, accanto al quale si distese. Trascorse la notte accanto al corpo di suo padre, fingendosi lui stesso morto quando gli inglesi si avvicinarono in cerca di qualche sopravvissuto; all'alba, il campo era stato abbandonato da tutti, ad eccezione dei morti e dei rapaci avvoltoi. Gli inglesi avevano catturato i carri dorati e i bei cavalli dei de la Rose, ma Luc riuscì a trovare una robusta giumenta e un traballante carro scoperto. Spinse il pesante cadavere di suo padre sul carro con grande sforzo e un buon numero di muscoli strappati; soltanto la disperazione che nasceva dal dolore gliene diede la possibilità. Mentre cercava disperatamente di lasciare il campo di battaglia per seguire Sybille, anche se non sapeva dove fosse diretta, il dolore che provava offuscava tutto eccetto il sentimento di amore e devozione che provava per i suoi genitori. Come poteva negare a Paul de la Rose di venire seppellito nel suolo natio? La cavalcata verso casa fu accompagnata da momenti di dolore indescrivibili, insopportabili nella sua agonia, pensando al compito che lo attendeva; momenti di totale apatia emotiva; di fredda pesantezza fisica che impossessandosi di lui gli rendeva faticoso persino il più piccolo movimento. Ma nulla fu più difficile del momento in cui, arrivato a casa e consegnato il cadavere di Paul ai domestici, Luc superò la soglia della stanza di sua madre per guardarla in volto. I grandi occhi azzurro-verdi di Beatrice erano velati dalle lacrime che colavano giù sulle pallide guance splendenti, e prima che Luc potesse dire una parola, gli regalò un sorriso tremulo e disse, con voce rauca: «So che è morto con onore e con il mio nome sulle labbra. So anche che l'hai protetto rischiando la tua stessa vita. Libera il tuo cuore da ogni vergogna, figlio mio, poiché hai agito con coraggio e amore. È mio dovere, nonché privilegio, prendermi cura del corpo di tuo padre. Resta con me, Luc, affinché le nostre pene possano consolarsi a vicenda». «Madre», mormorò e, piangendo, l'abbracciò stretta, piegandosi un poco così che restarono con le guance umide premute l'una a quella dell'altro. «Madre. Sono venuto per restituirti il corpo di mio padre. Ma non posso restare. Devo...». «Trovare lei». Lo tenne stretto a sé, con una forza sorprendente, sebbene tenera, e sfiorando l'altra guancia con la mano disse: «Capisco. Ma dove è andata, figlio mio? Sai dov'è?» «A Carcassonne», rispose immediatamente, ricordando il messaggio si-
lenzioso che Sybille gli aveva mandato. «Carcassonne», sussurrò Beatrice, come se la notizia fosse una rivelazione. «Ah, tuttavia non è tornata qui; il suo cammino è stato ostacolato. Si è persa; è in pericolo e ha bisogno del tuo aiuto...». Prima che potesse formulare qualsiasi risposta, la stanza di sua madre si era dissolta attorno a loro, senza riuscire più a vedere né il suo corpo né quello di lei, e al suo posto c'era una foresta fitta di alberi secolari i cui rami carichi offuscavano il sole. Lì faceva più fresco ed era più buio. Si sentiva un profumo di alberi sempreverdi e si era circondati dal rosso luminoso tipico dell'autunno; di tanto in tanto, il grido distante di un rapace perforava il silenzio. Pensò all'improvviso ai racconti che sua nonna gli aveva narrato molti anni prima, delle foreste incantate abitate da maghi che vivevano nei tronchi degli alberi; dei bambini perduti che vagavano per secoli senza invecchiare mai; delle fate che si nascondevano sotto le cappelle dei funghi velenosi per cercare riparo; e anche questo gli sembrava un luogo mistico. Attraverso i rami e le viti intrecciate, una lontana figura solitaria, coperta da un mantello, il volto in ombra a causa di un cappuccio nero, cercava di trovare la strada su un tappeto screziato di foglie e aghi secchi, che rilasciavano ad ogni passo la fragranza di pino. Il corpo era piccolo e snello, i movimenti femminili, aggraziati e forti. «Sybille», sussurrò, sia a lei che a se stesso. «Madre, dov'è?». Cercò di slacciarsi dall'abbraccio di Beatrice e si scoprì indissolubilmente agganciato a lei. Per la prima volta, un filo di paura, sottile come quello di una ragnatela, iniziò ad attorcigliarsi attorno al suo cuore. Con tutta la forza la spinse via, il volto rosso, la fronte che s'imperlava di sudore, fino a quando i muscoli delle braccia cedettero e infine si arresero. Sua madre continuava a stringerlo, talmente stretto che non poteva muoversi. «Si è persa», rispose sua madre, con la voce addolorata. Ma continuando a parlare, la voce divenne distorta, bassa come quella di un uomo. «Si è persa proprio come tua madre in un mondo di follia». «No», mormorò roco Luc, ma anche nel pronunciarle, le parole si unirono al panico che lo travolgeva. Era vero, aveva paura e, in cuor suo, l'aveva sempre avuta: il terrore che, quando infine si fosse ritrovato con il suo Amore, l'avrebbe fatta impazzire... proprio come aveva fatto impazzire la madre adorata. Comprese in quell'istante la saggezza di zio Edouard: e cioè che impa-
rando a distaccarsi emotivamente da Beatrice, avrebbe raggiunto la stabilità necessaria a distaccarsi dal suo intimo timore riguardante Sybille. L'amore non è attaccamento, gli aveva detto una volta Edouard. Il vero amore è compassione, che non conduce mai al dolore; l'attaccamento, invece, che nasce dalla nostra bramosia di sicurezza, è una trappola. E ora Luc si trovava in una di queste trappole, si dimenava tra le maglie del terrore, in una rete che il Nemico stesso aveva gettato. «Sì, caro», sussurrò Beatrice, con una voce bassa ma che scimmiottava quella femminile. «Questa è la maledizione che tu porti alle donne che ami. Vuoi vederla, com'è ora; vuoi vedere cosa le hai fatto?». La sagoma incappucciata si voltò a guardarli e con una voce diversa e profonda, che Luc riconosceva anche se non sapeva a chi attribuire, disse, deridendolo: «Non mi riconosci, Luc? Io invece ti conosco, come conosco tua madre, tuo zio e la donna che infesta i tuoi sogni... io sono il tuo vero Amore, poiché io soltanto voglio vederti raggiungere il tuo più splendido, più sacro destino». «Lascia andare mia madre e Sybille», ordinò Luc. «Lasciale andare... solo un codardo sceglie di attaccare in un modo tanto perfido. Sono io quello che hai sempre voluto; bene, allora esci allo scoperto e affrontami». Mentre pronunciava queste parole, si rese conto del terribile pericolo che correva: allo stesso tempo, però, sapeva che non sarebbe fuggito, per il bene delle due donne che amava. Se non posso salvare loro, almeno salverò me stesso. Avrebbe persino affrontato la morte, se questo significava salvare Sybille. «Sì, salvala, Luc», lo schernì il Nemico, usando ancora le labbra di Beatrice, «e io ti mostrerò il volto di un nemico ancora più potente, il volto che la tua bella Sybille non ha avuto il coraggio di guardare». Lentamente, con una drammaticità voluta, la figura mascherata abbassò il cappuccio, rivelando il volto largo di un uomo che indossava uno zucchetto cardinalizio; mentre Luc lo osservava, i lineamenti del cardinale iniziarono a mutare, tremolanti e scintillanti come l'acqua colpita da una pietra. Prima che la trasformazione fosse completa, Luc gridò il suo orrore mentre intelletto e volontà venivano sradicati dal suo cuore, persino quando le mani di sua madre si chiusero come una tenaglia attorno alla sua gola...
XIX In piena notte, Michel riprese conoscenza: non avrebbe detto, in tutta sincerità, di essersi svegliato, poiché non si era addormentato mai; tuttavia, era ragionevolmente consapevole di essere stato spettatore della vita di Luc de la Rose. E sebbene la sua fede in Dio non fosse diminuita negli ultimi due giorni, come non lo era stata la sua onestà, volendo essere del tutto sincero con se stesso, si sentiva più come un uomo stregato che uno capace di Sognare. E così quando la visione terminò, provò un disperato desiderio di salvare Sybille. Nonostante ciò, per prima cosa si rivolse alla Vergine: Santa Maria, se le storie di Luc e Sybille sono una blasfemia, bloccami; altrimenti, mandami un segno che m'induca a tornare da lei. Una volta ancora fu pervaso da una grande pace e da un caldo formicolio proprio sulla tonsura, come se la Vergine avesse apposto le mani su di lui in segno di benedizione. Nell'oscurità, riempì la lampada ad olio, ormai quasi vuota e, accompagnato da quella luce, con il cuore in tumulto si affrettò ad uscire dal monastero silenzioso per ritrovarsi nelle fredde strade che portavano alla prigione. Per entrare, dovette corrompere la sentinella, la quale pensò che lo scrivano fosse arrivato a quell'ora della notte per abusare delle prigioniere. Michel promise, senza il minimo rimpianto, che il giorno successivo gli avrebbe portato una livrea d'oro, in cambio del suo silenzio con il carceriere. Appena entrato nella cella della badessa, scoprì che la donna non dormiva; al contrario, era seduta come se lo stesse aspettando. Vedendola, così fragile, abbattuta e sfinita, provò un forte impeto di amore e ammirazione tanto che lo slancio ad inginocchiarsi ai suoi piedi e a baciarle le mani per poco non lo sopraffece. Sybille valeva qualsiasi punizione: scomunica, rogo, dannazione. Michel, tuttavia, non voleva sorprenderla dichiarandole i suoi sentimenti. E così si sedette e disse: «Lo avete curato sul campo di battaglia. Eravate così consapevole dei vostri poteri? Lo avete guarito a Poitiers; è ritornato a casa da sua madre, che il Nemico aveva usato per ucciderlo. Ora so, da ciò che voi mi avete detto e da ciò che ho sognato, come è morto. Tuttavia, non capisco perché fosse così importante per me conoscere il suo triste destino, tanto da doverlo sognare».
«Ancora non conoscete l'intera storia», rispose. «Una storia che dovete ascoltare, proprio come ha fatto lui». «Non capisco cos'altro ci sia da sapere. So, però, ciò che devo fare per salvarvi», replicò Michel. «Sapete il motivo per cui sono qui, Madre; ci resta soltanto stanotte. Rigaud è il Nemico; non si fermerà davanti a nulla per vedervi morta. Ho corrotto una sentinella e vi aiuterò a fuggire. Riuscite a camminare? Venite, prendete il mio mantello, alzate il cappuccio...». Con un gesto rifiutò l'indumento che le veniva offerto e con una voce profondamente addolorata, disse: «Non devo». «Sì che dovete», ribatté Michel. «Stiamo parlando della vostra vita, della continuazione della Razza!». Scosse il capo, triste. «Il mio destino è quello di restare qui, raccontare il resto della mia storia prima che vada al rogo». «Madre, no...». Sull'orlo delle lacrime, s'inginocchiò ai suoi piedi. «Vi prego, lasciate che vi aiuti...». Sybille appoggiò una mano gonfia sulla testa di Michel e accennò a un debole sorriso. «Potete aiutarmi. Ascoltate la fine della mia storia, poiché il mio destino è quello di raccontarla, e il vostro di ascoltarla, prima che si decida la nostra sorte. Questa è la mia speranza più grande per la sopravvivenza: che uno della Razza ascolti tutta la verità e la ricordi. Lo farete per me?» «Se non c'è altra via», disse. PARTE SESTA Sybille AVIGNONE ottobre 1357 XX Fu Edouard a recuperare miracolosamente il suo cavallo e a issarmi in sella; avevo la gamba frantumata tanto che in mezzo al sangue era visibile anche l'osso. Cosa che seppi in seguito perché fu lui a raccontarmelo: il dolore era così opprimente e io ero così lontana dalla Presenza della Dea, sprofondata in un'agitata mortalità che non riuscivo a far altro che urlare il nome di Luc. Avevo la guancia premuta contro la sopravveste intrisa di sudore del cavallo, e mi ricordo di essermi divincolata, nel tentativo di ri-
tornare dal mio Amore; Edouard, però, mi teneva stretta. Il fragore del metallo: continuo, ininterrotto, persistente nelle mie orecchie, da farmi tremare i denti. Sembrava continuare per ore mentre io, in un'agonia onirica, lottavo per Vedere Luc o almeno percepire la sua presenza, sapere se la resurrezione che avevo tentato era andata a buon fine. Nulla. Nulla. Non sapevo se fosse vivo o morto. Alla fine svenni per il dolore (strano, vero, che non riesca a curare me stessa?). Quando mi svegliai, mi trovavo in una pensione lontana da Poitiers, con Edouard e Geraldine ai lati del mio letto. Sorrisi a Geraldine, felice di rivederla. Ma la sua espressione, solitamente dolce, era tesa e nei suoi occhi vedevo una tale rabbia, un così grande dispiacere, una profonda delusione che il mio sorriso si spense ed emisi un lieve gemito di dolore. Dirigendo la Vista verso il mio Amore, sforzandomi di avvertire dove fosse e in quali condizioni, percepii... Nulla. Quasi nulla. In altre circostanze l'avevo visto chiaramente come una luminosa fiamma tremolante ma in quel momento percepii soltanto gli ultimi fili di fumo dello stoppino spento. È il fantasma del suo spirito, pensai, e iniziai a piangere lacrime amare. «Sì, piangi», disse Geraldine e nella sua voce non c'era la minima traccia di pietà. «Piangi e giura sulla Dea che non sfiderai mai più il Nemico apertamente senza aver prima affrontato la tua più grande paura. Solo allora potrai liberare il tuo Amore da un'eternità di sofferenza». Pensai a quel mangiatore di anime spaventate: pensai a tutti quelli morti tra le fiamme che aveva consumato e che tanto avevano accresciuto il suo potere. Smisi di piangere e giurai. Non avrei mai più permesso al Nemico di possedere lo spirito del mio Amore né la sua magia. E così ritornai al convento e fui curata da Geraldine e Marie Magdeleine per diversi mesi. Il dolore e la sconfitta minacciarono spesso di abbattermi, così come la colpa di aver ascoltato il mio cuore e non la Dea. La mia stupidità, la mia superbia erano costate molto al mio Amore; ma alla fine misi da parte questa autocommiserazione. Restava solo una cosa da fare: trovare il suo spirito e liberarlo dalle manette del Nemico. Durante quel periodo, lavorai molto sotto la tutela di Geraldine per recuperare la mia Vista; ma per quanto ci provassi, non riuscivo a vedere nulla di Luc; percepivo soltanto l'alito spettrale della sua presenza come il fumo
di una fiamma spenta; così come non percepivo la presenza del Nemico. Per mesi non riuscii a camminare senza aiuto. Tuttavia viaggiai molto, mandando la mia Vista in tutto il mondo: Luc de la Rose... Dove sei andato? Amici, Templari... qualcuno di voi ha visto Luc de la Rose, in questa o nell'altra vita? Ma nessuno sapeva dirmi nulla. Neppure Edouard, che si era rifugiato nel nostro convento mimetizzandosi da monaco, riusciva a percepire qualche traccia del nipote al quale era così intimamente legato. «È morto», piangeva. «Sarei dovuto restare con lui, forse...». Poi, però, quando ridiventava lucido si ricordava che se non fosse corso in mio aiuto sarei certamente morta. Il tempo passò. Tentai diversi metodi magici nelle viscere del convento, nel Circolo formato dalle mie consorelle e da Edouard: nulla valse al mio scopo. Sembrava che l'anima del mio Amore fosse stata completamente annullata. In quelle circostanze, lavoravo anche per confrontarmi con il Nemico futuro, quel vuoto di tutti i vuoti visto durante il mio primo Circolo con Noni e, una seconda volta, durante la mia iniziazione con Jacob: e ogni volta, via via che l'immagine iniziava a formarsi, urlai di terrore rifiutandomi di proseguire oltre. Tuttavia, sapevo che mi stava aspettando all'esterno della salvezza del Circolo. Non avevo scuse per tanta codardia. Un giorno, dopo più di un anno di ricerche, speranze, fallimenti, mi sedetti a riposare al sole pomeridiano dopo aver lavorato nell'orto del convento. L'aria quel giorno era dolce, con una freschezza autunnale che pervadeva l'aria, ma che al sole diventava tiepida e chiusi gli occhi sollevando il volto al cielo. Dopo lo sforzo fisico (mi ero ripresa a sufficienza per poter camminare e lavorare come le altre), nel rilassante calore del sole, fui sopraffatta da una sensazione di calma profonda; una calma che, durante i mesi della mia disperata ricerca di Luc, mi era sfuggita. Lì, nell'orto che profumava di fresca terra fertile, adornata con i filari di piselli e le verdi foglie ad ombrello dei porri, mi fu dato di sapere che l'anima del mio Amore barcollava tra il bene e il male. Era questo il momento della sua crisi; questo era il momento in cui aveva più bisogno della sua compagna, altrimenti la sua stessa essenza sarebbe stata consumata dal Nemico.
Tuttavia la mia Vista era impacciata: mi sentivo impotente e incapace di trovarlo e di aiutarlo. Colma di umiltà, ricordando il mio errore, pregai la Dea: Mi arrendo. Depongo il mio dolore, la mia paura e la mia speranza; depongo il mio cuore e la mia mente ai tuoi piedi. Rinuncio persino alla ricerca del mio Amore, e aspetto il momento in cui Tu vorrai rivelarmelo; depongo anche il terrore per il mio futuro Nemico. Qualsiasi destino mi aspetti, lo rimetto nelle Tue mani. E inchinai la testa in segno di sottomissione, lontana dal sole; il suo calore, però, restò sulle mie guance. Anzi, il calore mi pervase tutta come se la Dea mi stesse consolando tra le sue braccia tanto che fui colma di una profonda compassione e nel mio cuore non ci fu posto per nessun'altra emozione. E in un tale stato di beatitudine, di totale resa e accettazione, ritornai al momento della mia prima iniziazione, quando con Jacob al mio fianco, guardai la nera sfera roteante stracolma dei volti degli appartenenti alla Razza che avevano rifiutato la loro eredità. All'interno serpeggiava quell'orrore che mi aspettava all'esterno del primo Circolo insieme a Noni: il vuoto di tutti i vuoti, la negazione della negazione, la somma di tutta la disperazione. E riascoltai la meravigliosa voce profonda di Jacob: Temono se stessi. La tragedia, mia signora, è che si sforzano di fare del bene. Ma anche una forza potente come l'amore, quando è infangata dalla paura, può solo portare al male. Ah, adesso sì che quelle parole mi erano chiare, poiché il mio amore ansioso aveva portato a Luc soltanto dolore. Jacob, in quei momenti di riposo nell'orto, era con me, proprio come lo era stato tanto tempo prima, nella notte della mia iniziazione; e io sentii il suo amore e il suo sostegno mentre insieme fissavamo gli occhi in quel turbinoso vuoto sinistro... Che ad un tratto si svuotò. Il terrore minacciava di abbattersi su di me, proprio come era successo nelle occasioni passate. Stavolta, però, fissai saldamente il cuore nella compassione della Dea; stavolta confidai nella Sua forza, in quella di Jacob e nella mia, e guardai fissa nel vuoto mentre un'immagine iniziò a delinearsi. Non era altro che il profilo di un uomo, con il volto oscurato dal cappuccio della larga tonaca. Mentre lo guardavo, sollevò le mani, e le maniche
caddero all'indietro rivelando pallide braccia muscolose che lentamente abbassarono il cappuccio. L'oscurità copriva i suoi lineamenti; tuttavia, tirando indietro il cappuccio, l'ombra si sollevò piano, come un velo, rivelando prima un mento squadrato, labbra salde, mascelle forti e occhi chiari. Questo futuro Nemico era un uomo affascinante, la cui espressione diretta appariva ingenua; il suo portamento, i suoi occhi parlavano di un potere sublimato. Presto, troppo presto, sarebbe diventato il più forte di tutta la Razza, me compresa; presto avrebbe rimpiazzato il mio vecchio Nemico e messo fine al nostro legame. Poiché era uno della Razza, in possesso dei suoi meravigliosi poteri; e alla morte del vecchio Nemico, avrebbe consumato tutto il potere accumulato dalle anime rubate, aggiungendole alle sue abilità naturali. E così sarebbe diventato il più temibile Nemico mai conosciuto in tutte le generazioni in cui la Razza era esistita. Questo era il pericolo che avevo visto tanti anni prima, da ragazza: egli avrebbe mandato il fuoco che consuma ogni cosa per estinguerci tutti. Il mio destino era sempre stato quello di fermarlo, a tutti costi; di confrontarmi con lui apertamente. Non rappresentava una minaccia. Almeno non ancora; presto, però, lo sarebbe stato... Di fronte ad esso non mi lasciai andare alla paura, alla colpa, alla trepidazione. Soltanto alla compassione, alla calma e a un rinnovato sentimento del mio destino. All'improvviso, il velo di foschia si sollevò dalla mia visione e io Vidi chiaramente, per la prima volta dopo un anno, colui che avevo cercato tanto disperatamente: un giovane su un precipizio, la sua anima sublimata da questo nuovo Nemico e che presto, molto presto, sarebbe stata consumata, a meno che non fossi corsa in suo aiuto. Provai un orrore indescrivibile; ma allo stesso tempo, sollievo, esaltazione e amore radioso. È vivo, sussurrai, ma soltanto la Dea mi udì. È vivo, vivo, e si trova a Avignone: il Signore della Razza, il mio Amore, il mio Luc de la Rose. Era vivo e si trovava a Avignone, la tana del vecchio e del nuovo Nemico, dove ci aspettava il nostro comune destino. Era prigioniero dei loro artigli, privo dei suoi poteri e la sua mente era stretta in una morsa. Ero andata a Poitiers spinta da un sentimento di paura per il mio Amore; mi recai ad Avignone ubbidendo agli ordini della Dea.
Il mio cuore era, dunque, meno angustiato? Meno tormentato, forse, al pensiero che il mio Amore sarebbe stato presto contaminato dal Nemico? No, no. Ma ero costretta ad agire soltanto in nome della compassione, e non per egoismo o timoroso amore. Il Nemico attuale si trovava in una posizione predominante, poiché aveva tra le mani il Signore della Razza; tuttavia, poiché avevo affrontato la mia ultima paura, i nostri poteri erano ora alla pari. A volte riuscivo a percepire distintamente la sua presenza; altre no. Ma sapevo che dovevo stare attenta a restare sempre in presenza della Dea, altrimenti, sarebbe stato lui a percepire me. Cavalcai da sola giorno e notte, conferendo al mio cavallo una forza e una visione soprannaturale. Non rivelai nulla ai miei Templari: chi era sensibile ai sussurri della Dea e ai richiami del destino mi seguì, nell'eventualità che potesse essermi di aiuto. Non vidi nulla del risultato. Come ho già detto, la competizione tra me e il mio Nemico si giocava alla pari e quindi l'esito era imprevedibile, così come le scelte del mio Amore. Il pericolo per me e per Luc era enorme, ma lo affidai alla Dea e sfrecciai veloce verso la città più santa di tutta la Francia. Come posso descrivere la città? Paradiso e Inferno, ecco cos'è. Non ho mai cavalcato lungo strade più strette e più sporche; non ho mai visto tante prostitute, briganti, mendicanti e ciarlatani raggruppati nello stesso posto. (Dicono che ad Avignone ci siano tanti reliquiari contenenti i riccioli della Maddalena, sufficienti ad attorniare tutta la terra; e talmente tante dita appartenenti a san Giovanni che doveva essere stato un mostro dotato da Dio di una dozzina di braccia). Allo stesso tempo, mai ho visto tanta bellezza, grandiosità e ricchezza. Si dice che ad Avignone ci siano più ermellini che in tutto il resto del mondo; e io lo posso garantire. Arrivata in città, mi lasciai guidare dalla Dea nella grande piazza di fronte al palazzo papale e restai ammirata dal grandioso sfoggio di abbigliamento sfarzoso: i nobili, vestiti di sete e broccati color canarino, pavone e porpora; le guardie papali, nelle uniformi azzurre come il grande Rodano; i cardinali, con gli ampi cappelli color carminio e le pellicce immacolate. Di fronte a me c'era il Palazzo dei Papi, quella magnifica disarmonia di pietre, costruito su una scogliera che si estendeva a precipizio sulle rive del
Rodano. Alto come una cattedrale, ma molto più largo: aveva le dimensioni di una proprietà reale, ampia a sufficienza da ospitare diverse centinaia di persone, in mura massicce che racchiudevano dozzine di volute e torrette. E quelle mura fronteggiavano la grande piazza della città. Mentre mi avvicinavo al palazzo papale, con il destriero che tremava come se percepisse il Male che qui vi risiedeva, vidi un palco. Il palco degli inquisitori e, davanti ad esso, un palo delle esecuzioni. Ricordai all'istante la forca che avevo visto tanto tempo prima a Tolosa, quando ero solo una bambina di cinque anni, dalle lunghe trecce nere, in piedi su un carro con Noni, mio padre, mia madre e i nostri vicini Georges e Thérèse. La piazza della città era stata molto più pulita con meno gente e meno sfarzo. Ad Avignone, infatti, file di guardie papali con cappelli abbinati alle divise, e le spade di ferro formavano un anello continuo intorno al palco e alla forca. Il palco stesso era una struttura permanente; non una piattaforma in legno eretta in fretta e furia, ma una struttura di legno dipinto e indorato, intagliato con gargolle, volute e i profili dei santi. Un tendone a strisce giallo e rosso era stato dispiegato per proteggere gli spettatori, seduti su sgabelli imbottiti ricoperti di broccato rosso, dalle nuvole minacciose che annunciavano l'imminente temporale. Questo era il lato di Avignone che veniva mostrato al pubblico: di decadente bellezza. Tuttavia, con essa arrivò l'opprimente miasma delle acque nere, più fetido di qualsiasi altra cosa avessi mai odorato, come se sotto lo scintillante strato di tessuti preziosi la città stesse imputridendo come un cadavere vestito di abiti luccicanti sotto il sole estivo. E su quella piattaforma dorata, seduti comodamente sugli sgabelli imbottiti, c'erano tre uomini. Due corvi, come avrebbe detto mia nonna, frati domenicani in tonache nere, con i cappucci tirati indietro a rivelare il rivestimento bianco, e un pavone, un cardinale possente con una tonaca di seta rossa sfolgorante, orlata di ermellino bianco al collo, ai polsi e alle cuciture. Data la gravità della missione, aveva abbandonato il copricapo dalla larga tesa in favore di un semplice zucchetto. Due corvi e un pavone. Tra loro, il Nemico attuale era il pavone e il bel corvo giovane il Nemico futuro. E io, come un tempo aveva fatto la piccola Sybille in punta di piedi sul carro, guardai infine il mio Amore. Un solo prigioniero, sospinto da una guardia, avanzava verso il palco
delle esecuzioni. Era un giovane scheletrico, a causa dei mesi di prigionia e di privazioni, incatenato alle caviglie da ceppi e pastoie che gli legavano anche i polsi, costringendolo a camminare curvo. Sebbene il suo corpo fosse dolorosamente debole, lo spirito era forte, e sebbene ogni passo, non più lungo di una mano, gli causasse pura agonia, il suo portamento rivelava orgoglio. Era mai stato affascinante? Era impossibile dirlo, tanta la furia di Dio che si era scagliata sui suoi lineamenti. Aveva il naso quasi interamente sbriciolato e storto verso sinistra in un'angolazione inquietante; la pelle era di un porpora caldo e brillante. Le narici e il labbro superiore impastati di sangue nero. La sua vista mi suscitò una pietà indescrivibile; ma dimoravo nella Dea. Mantenni la compassione sia per l'inquisitore che per la vittima e aspettai; aspettai le prossime indicazioni. Stavolta, non avrei messo in pericolo il mio Amore. Il prigioniero fu portato al palo che lo attendeva e a cui fu legato; i fasci di legna furono ammucchiati attorno alle sue ginocchia, a livello dei suoi fianchi. Quindi, il cardinale pavone gli gridò un'ultima domanda: «Volete fare un'ultima dichiarazione?» «Sì», urlò il prigioniero. «Colui che adorate come Dio è, in realtà, un diavolo, un demone che controlla il vostro mondo attraverso la paura e chiude gli occhi al vero Dio...». «Guardie!», il futuro Nemico gridò e, in risposta, il gendarme che scortava il prigioniero gli sferrò un colpo violento con il rozzo manico della spada. Colpì il prigioniero all'angolo della tempia sinistra e il manico, scivolando sull'orbita oculare, gli fece saltare via l'occhio. Quando il prigioniero urlò per il tremendo, spietato dolore, impossibilitato a portarsi la mano all'occhio che restava appeso a filamenti bluastri poco sopra la guancia, la folla dei nobili cortesi, dei ricchi mercanti e del clero devoto rumoreggiò in segno di approvazione. Il dolore e l'indignazione che provai minacciarono la mia calma; tuttavia restai salda nella compassione della Dea, e nella sua gioia, e Vidi il mio Sentiero. Smontai da cavallo, sussurrai un comando magico al mio destriero e corsi attraverso la folla, più velocemente e più facilmente di quanto fosse umanamente possibile: sovrumana attraverso un muro di carne impassibile e di cocchi di legno. E infatti, non mi fermai alla fila di guardie
che circondavano il palo, ma la attraversai, sebbene non ci fossero aperture. Non mi notarono se non dopo che ebbi raggiunto il fianco del prigioniero, quando, inginocchiata, presi nella mano il suo occhio insanguinato e schiacciato, tiepido come un budino, e lo rimisi nell'orbita, condividendo con la sua anima la gioiosa comunione con il Divino. Sorridendo, ritrassi la mano; ed egli rise, allontanando rabbia e paura, pieno ora soltanto di singolare piacere. «Sono stato salvato da un angelo», disse felice, con i lineamenti torturati, lucenti di gioia mentre ci guardavamo in un momento che ci sembrò infinito. «Un vero angelo mandato dal vero Dio». La folla che fino a quel momento aveva conversato, anzi, rumoreggiato, restò in silenzio per un po'; il gendarme che aveva sferrato il colpo era lì vicino e restò a. guardarci, troppo sorpreso per reagire. Alla fine qualcuno si fece il segno della croce e iniziò a sussurrare preghiere; altri urlarono: «È un miracolo! È innocente!» e «Quella è un angelo!». Altri restarono in silenzio, i volti tirati per l'incertezza, persino timore. Volsero gli sguardi agli uomini seduti sul palco in cerca di indicazioni. Il più grosso, e anche il più anziano, il pavone, il nemico purpureo, fissava me e il suo prigioniero con una furia che lo costrinse a digrignare i denti. «Ascoltatemi», urlò alla folla con voce tonante. «Quell'uomo è un eretico della peggiore specie; avete sentito con le vostre orecchie che ha definito il nostro amato Signore, un diavolo. E colei che lo ha guarito non è altro che la sua degna consorte, una strega, venuta per ingannarvi e farvi credere alla sua innocenza». «Ma, Eminenza...», disse uno dei domenicani sul palco. «Silenzio!», ribatté Sua Eminenza. E poi ordinò: «Gendarmi! Arrestatela e portatela qui! Gli altri, procedano immediatamente con il rogo». Mentre un boia avanzava con una torcia per accendere le fiamme sui carboni ai piedi del prigioniero, fui trascinata via dalle guardie; per il momento, la Dea non mi concedeva possibilità di fuga. Il cuore protestava selvaggiamente, tuttavia sapevo che era la sua volontà a cui dovevo ubbidire, per evitare altro male. Prima di arrendermi, però, urlai al mio Amore: «Luc! Luc de la Rose, ti giuro che troverò un modo per liberarti!». Fui, quindi, scortata sul retro del palco, dove il mio Nemico, il cardinale, era già sceso per incontrarmi. Aveva ossatura e muscoli possenti: una testa squadrata su un corpo alto e robusto; dovetti rivolgere gli occhi al cielo, per vedere i suoi. Sotto lo zucchetto rosso, i capelli grigi erano folti e ondulati; un pallido neo rotondo fuoriusciva da un lato del naso corto, e le
borse sotto gli occhi facevano abbassare le palpebre, mostrando l'interno rosso sangue. Emanava un'aurea tetra; la sua presenza sembrava consumare tutta la gioia, tutta l'aria e tutta la luce. Forse, un tempo, al suo cospetto sarei stata colta da timore; ora, invece, sentivo solo pietà e compassione. Il suo potere, infatti, nasceva da un odio così grande verso se stesso che si estendeva fino al resto del mondo; odio per sé e infelicità delle anime che aveva terrorizzato. Era stata quell'infelicità, indirizzata alla madre di Luc, Beatrice de la Rose, a farla impazzire. Era rimasto sorpreso dalla mia improvvisa apparizione? Non saprei dirlo. Sulla sua faccia, però, c'era un'espressione di orgoglio maligno, compiaciuto, che sembrava voler dire: Hai visto, dunque, come ho ridotto il tuo Amore. Lo hai perso per sempre; e ora, anche tu sei in mio potere... Chi tra noi, adesso, è il più forte? Forse si aspettava che piangessi disperata per ciò che aveva fatto a Luc o che tremassi di paura pensando a ciò che avrebbe fatto a me. Ma non c'erano lacrime nei miei occhi. Al contrario, mi costrinsi a restare salda al cospetto di una parte, seppur minima, della Presenza, per potergli sorridere. Riuscii persino ad amarlo; egli se ne accorse e s'infuriò. «Alla fine, Vostra Eminenza», dissi. «Ci incontriamo di persona». «La pagherete, madre», minacciò. Quando aprì la bocca per parlarmi, la immaginai consumare il mio Amore, arto dopo arto, fagocitare la sua vera essenza, mentre io restavo impotente e sorridente al suo fianco. «Avete appena fatto un atto di stregoneria in presenza di centinaia di testimoni». Mi voltò la schiena; e poi ordinò ai due gendarmi che mi scortavano di seguirlo. Anch'io lo seguii ricordandomi dei due corvi che restavano ancora sul palco e del prigioniero inginocchiato al rogo, circondato dalla legna che ora veniva sfiorata dalla fiamma. Il mio cuore andò in pezzi. Restava così poco tempo prima che il cuore di Luc fosse definitivamente consumato, e io non sopportavo di separarmi da lui ancora una volta. La Dea, a quel punto, mi parlò: Per poterlo salvare, devi allontanarti da lui adesso. Era l'unico modo. Non mi veniva permesso di vedere la sua fine: dovevo attraversare questo tortuoso cammino passo dopo passo, affrontando saldamente il dolore, cedendo solo alla gioia. Non avevo mai capito quanto difficile sarebbe stato il mio destino.
Sua Eminenza il cardinale ci guidò attraverso una porta laterale che portava al Palazzo dei Papi. Dicono che il palazzo sia la dimora più poderosa e più bella al mondo, ed è vero. Camminai lungo corridoi infiniti, una camera dopo l'altra, e ovunque guardassi, pavimenti, mura, soffitti, vedevo capolavori, sia sotto forma di mattonelle su cui scivolavano i miei sandali, sia come dipinti e rivestimenti dorati sulla mia testa. Il precedente papa, Clemente, era stato molto biasimato per le spese folli sostenute finché era in vita e quelle, molto più generose, lasciate da morto; di certo aveva sperperato una fortuna solo per il pittore Giovannetti che aveva lavorato per lui. Mentre camminavo, le scene della Bibbia si dispiegavano una dopo l'altra, mentre i santi e gli angeli brillavano dall'alto e tutt'intorno scintillavano i mosaici di cavalieri che seguivano animali fantastici in giardini di fiori stilizzati. Tutto ciò era ospitato da stanze così spaziose che, sebbene incontrassimo molte persone, impiegati della curia, preti, nobili, cardinali, attendenti e servitori, mai una volta ci sfiorammo gli uni con gli altri. Camminavo attraverso bellezza e splendore: ma tutto ciò che vedevo era il male e la sporcizia che essi nascondevano; tutto ciò che provavo era la sofferenza patita dalle anime torturate. I miei ospiti mi scortarono in silenzio in ciò che sembrava una camera privata, poiché la porta era chiusa. Il pavone bussò una volta, in maniera brusca, e poi, con un'aria di grande fiducia in se stesso, l'aprì. Entrò veloce; io e le guardie lo seguimmo con uguale alacrità e la porta fu richiusa alle nostre spalle. La stanza era più piccola delle altre appena attraversate ma non meno sfarzosa; alle pareti c'erano affreschi di temi pastorali, arcieri che miravano ai cervi e bagnanti nude. Lì, su cuscini di velluto sistemati su un grande trono dorato posto accanto a una scrivania, sedeva papa Innocenzo VI. Avevo visto una sua immagine tempo prima ma non gli somigliava affatto. Fu la Dea in persona a dirmi davanti a chi mi trovavo. Non riuscivo a capire perché il mio Nemico mi avesse portato fin qui, invece di scortarmi direttamente nei sotterranei. Di certo aveva, insieme alla Dea, un motivo preciso per farlo. Era da cinque anni sul trono papale e, all'età di settantacinque anni, la barba di Innocenzo mostrava pochi fili grigi. Al posto della gloriosa corona pontificia, indossava uno zucchetto di velluto cremisi conficcato tal-
mente sul capo da arrivargli alle orecchie; la sua tunica, però, era di un ricco broccato scarlatto ricamato da così tanti fili d'oro che luccicava ad ogni movimento, appesantendolo. Doveva essere stato un uomo robusto, con spalle larghe e torace grande; ora, però, la schiena era ricurva, il petto e lo stomaco talmente incavati che le costole toccavano le anche. La pelle era di un giallo insalubre, le labbra pallide, ma ancora possedeva quasi tutti i denti. Il naso partiva dalle sopracciglia ancora nere in una linea dritta e affilata che finiva in una V, come la punta di una freccia puntata all'ingiù. «Santità», disse il mio Nemico, avanzando verso di lui, genuflettendosi e baciando l'anello di Innocenzo così velocemente che non solo non piegò il ginocchio ma anche le labbra toccarono solo l'aria. «Domenico», disse il vecchio infastidito. «Come vedete sono nel pieno dei...». Invece di terminare la frase, sollevò, dal bracciolo della poltrona la mano venata di blu, abituata ad essere baciata, e palmo in su, piegò leggermente tre dita puntando l'indice su un giovane scrivano che leggeva da un rotolo di pergamena. «Le mie scuse, santità», disse il Nemico. «Ma ho qui una prigioniera che dovete necessariamente incontrare...». «Oh!», replicò Innocenzo. «E così avete portato a me il pericolo, nei miei appartamenti privati? Che pensiero premuroso». Con gli occhi velati dall'età, strizzò lo sguardo nella mia direzione, piegando un angolo della bocca al pensiero che una donna così piccola potesse rappresentare una minaccia immediata. «Chi è?» «La badessa del convento francescano di Carcassonne, madre Marie Françoise», disse il Nemico. I gendarmi che mi scortavano non reagirono affatto a questa informazione, come se fosse una cosa naturale per un cardinale di così alto rango conoscere un'umile monaca proveniente da luoghi così distanti. «Ah». L'espressione del papa si concentrò; il suo intelletto era rimasto acuto anche dopo tanti anni. Quand'era semplicemente Etienne Aubert, aveva insegnato diritto a Tolosa. «Questa è la badessa di Carcassonne che ha guarito il lebbroso, vero? Molti pensano sia una santa, Domenico. L'opinione della diocesi di Tolosa è che si tratti di miracoli di Dio. Avete motivo per pensarla diversamente?» «Sì», replicò il Nemico. «L'ha fatto ancora ma, stavolta, ha guarito un prigioniero pronto per essere giustiziato, per un altro di quei culti nati dall'antica eresia gnostica. Gli avrebbe evitato una morte giusta se non l'a-
vessimo fermata». «Anche Cristo guariva i peccatori...», iniziò dolcemente Innocenzo, ma poi la bocca si richiuse all'improvviso, con un battere di denti, e la testa si piegò in modo innaturale verso il cardinale come se fosse tirata da un rozzo burattinaio. Anche stavolta le guardie non mostrarono di aver assistito a un evento insolito. E il cardinale, gli occhi fissi su di me, smagliante per la vittoria ottenuta, con le labbra in su in una smorfia maligna, disse al Santo Padre: «Ora detterete a questo scrivano una dispensa che mi esonera dal presentare il consueto numero di testimoni per sporgere un'accusa e far arrestare una persona; e, inoltre, mi dispenserete dai procedimenti normali per arrivare alla condanna a morte di un eretico. Madre Marie Françoise: questo è il nome della criminale». Il povero Innocenzo fece quanto gli era stato ordinato e il suo scrivano scrisse, mentre i gendarmi aspettavano, comportandosi come se tutto fosse normale, come se nulla di eccezionale stesse accadendo in quella stanza. Il mio Nemico, gli occhi sempre fissi su di me, scoprì i denti e alla fine compresi il motivo per cui aveva esposto il papa alla mia presenza, potenzialmente pericolosa. Crudele arroganza. Era orgoglioso del controllo che esercitava su Innocenzo e i suoi lacchè; godeva della paura che potevo provare di fronte a tale esibizione di sicurezza. L'unica cosa che gli interessava era vedermi soffrire, vedermi riconoscerlo come unico responsabile delle mie sofferenze. Forse sentiva che la mia temporanea docilità fosse dovuta alla sua forza e non alla mia devozione al volere della Dea. Forse gongolava al pensiero di aver vinto, di avermi resa storpia, privandomi della forza del mio Amore. Di avermi condannata ad essere Dea senza consorte, dama senza cavaliere; proprio come il mio Nemico che, per sua scelta, si era separato dalla sua dama, Ana Magdalena. Infatti, era nato in Italia da madre italiana e padre francese e battezzato come Domenico Chrétien. Ah, ma non capì mai il sacrificio che Noni aveva fatto per me; tutto ciò che riusciva a comprendere era "paura" e non "amore" e quindi ignorava la mia suprema iniziazione. Tronfio nella sua arroganza, si voltò per guardare Innocenzo che eseguiva il suo ordine e, all'improvviso, mi ritrovai nella Dea, libera di muovermi e di fare il suo volere. Il mio cuore doleva al pensiero che non mi avrebbe guidata subito dal
mio Amore; ma io mi sottomisi alla sua volontà, fiduciosa. Mentre Innocenzo dettava, io svanii dal mondo visibile e scivolai via, inosservata, dalle guardie, dal mio Nemico e dalle stanze papali. Invisibile, guidata dalla Dea, corsi veloce verso un'altra parte del palazzo, dove vivevano i membri della curia con i loro segretari e servitori in magnifici appartamenti. Mi spostai da una stanza all'altra fino a scivolare lungo un corridoio buio che conduceva ad una magnifica camera privata, con un'ampia anticamera riscaldata da un caminetto acceso. C'erano sedie ricoperte d'oro imbottite di cuscini di broccato dorato, pavimenti di mattoni protetti da pelli di ermellino, arazzi alle pareti raffiguranti scene bibliche, inclusa un'ammirevole rappresentazione del giardino dell'Eden prima della Cacciata. Un paio di grandi candelabri dorati poggiavano su un tavolo scuro, intarsiato con una stella a sei punte di quercia chiara. Le dieci candele presenti erano state accese da poco, a giudicare dalla loro altezza, in attesa del ritorno del loro proprietario. Afferrai un candelabro, poi mi spostai verso l'arazzo raffigurante l'Eden e sollevandone un angolo mi accorsi che nascondeva un affresco: raffigurava Adamo e Eva, affranti, che venivano cacciati dall'Eden; Eva aveva sottili capelli biondi che le ricadevano in onde sui seni bianchi e le foglie di fico ricoprivano la nudità di entrambi. Fissai lo sguardo sull'immagine di un arcangelo, spada in mano, pronto ad impedire a coloro che erano stati scacciati dal paradiso di ritornarvi; poi sentii il rumore della pietra che graffia un'altra pietra mentre il muro scivolava all'interno, aprendosi verso l'oscurità. Entrai. Ero già stata in questo posto grazie alla Vista e sapevo cosa mi aspettava; tuttavia, varcando la soglia, emisi un gemito. Gli inverni a Carcassonne e nella mia nativa Tolosa sono raramente rigidi; ma, a volte, il mistral, il vento invernale, soffia così impetuoso, così gelido, da rubarmi il respiro. Questa fu la sensazione che provai entrando nella piccola stanza priva di finestre, nascosta all'interno delle spesse pareti del palazzo: un gelo talmente intenso da togliermi il respiro. Tuttavia, non era affatto fisico. Era un freddo che bruciava, i mormorii di migliaia di anime morte nel terrore e nell'agonia, la voce di Noni che urlava: Domenico... Qui, nella tana del mio Nemico c'era puzza di fumo, sia astrale che fisico. Tenni il candelabro alto, illuminando la stanza circolare. In ogni direzio-
ne, est, sud, ovest e nord, c'era un cero alto come un uomo e spesso almeno la metà, ognuno decorato con un'immagine diversa: aquila, leone, uomo, toro; ad est c'era un altare di onice lucente. Su quell'altare vidi una scena raccapricciante: la carcassa bruciata di un uccello, circondata da cenere e schegge annerite, ciò che restava di una gabbietta. Sul freddo pavimento di marmo c'erano tre piume, due di esse punteggiate di goccioline di sangue brillante; chiusi gli occhi per un attimo cercando di visualizzare la colomba che si scagliava contro le sbarre di legno in fiamme che la tenevano prigioniera. Tu sei il vento traditore che soffiò alla nascita della bambina... Avvolta attorno alle ali annerite della colomba e al suo collo, c'era una catena che finiva con un talismano d'oro. La leggenda che vi era incisa era illeggibile, poiché il metallo si era sciolto quasi completamente plasmandosi sullo sterno dell'uccello, fino ad avvolgere il suo minuscolo cuore. Sapevo chi rappresentava la colomba: il Nemico sapeva che avevo Visto Luc prima di arrivare lì. Mi aspettava, e per questo mi aveva teso una trappola. All'inizio esitai, domandando alla Dea: Perché mi hai condotto fin qui? Per abbandonarmi? Per cedermi alla fiamma? Ma subito chiesi perdono per tali pensieri. Al contrario, mi concentrai nella ricerca del singolare talismano. Iniziando da est e procedendo in senso orario, accesi le candele, toccando con la fiamma del candelabro ogni stoppino. L'oscurità si disciolse un po', mostrando che mi trovavo sopra un mosaico raffigurante un cerchio magico; sulle pareti ricurve e sul soffitto a cupola, immagini di divinità gioconde tremolavano tra le ombre. Terminato il giro, posai il candelabro e richiusi gli occhi, non a causa del dolore, stavolta, ma in segno di totale rassegnazione alla Dea, poiché avevo disperatamente bisogno della sua protezione e aiuto in questo luogo malefico. Aiutami, pregavo in silenzio. Aiutami a trovare ciò che si nasconde qui... E attraverso gli occhi della Dea, Vidi, nascosto sotto i resti bruciacchiati della povera colomba, un pezzo di argento sul quale era inciso un sigillo. Era avvolto in seta nera e annodato ad una corda. Era il talismano che tanto cercavo: poiché controllava il cuore e la mente di papa Innocenzo. Avanzai verso l'altare e, in uno stato di calma perfetta, spostai senza alcuna emozione il volatile ormai senza vita. Slegai il sigillo e con la magia della Dea, rovesciai la carica e liberai il papa dalla stretta del Nemico.
Alle altre anime lì presenti sussurrai una promessa: Un giorno tornerò a liberare anche voi. Poi mi fermai, mi concentrai sulla Dea aprendole il mio cuore, la mia Vista e finalmente chiesi: Dove posso trovare il talismano di Luc? La risposta arrivò subito: Il talismano non è qui. Non era lì. Ero minacciata dal panico ma riuscii a calmarmi e a ripetere la preghiera: Cosa posso fare affinché il mio Amore si salvi? Nessuna risposta. Ripetei la domanda: Cosa devo fare qui per salvare il mio Amore? Nulla. Non c'era niente che potessi fare per salvare il mio Amore. Niente; e lasciandomi sfuggire un gemito a quel pensiero, persi il mio centro divino realizzando all'improvviso che il Nemico mi aveva localizzata, che sapeva dov'ero e che m'inseguiva. Così, invisibile, iniziai a correre: attraversando il grande palazzo, con l'anima in fiamme. Con l'immaginazione ero una colomba, e battevo le ali fino a farle sanguinare contro la scintillante gabbia dorata che mi circondava: era come se i quadri dei santi mi guardassero attraverso un muro di fiamme. Quanti di loro, mi chiedevo, erano stati martirizzati in questo modo? Santi e martiri; morte e roghi; mi sentivo soffocare dal fumo ma, in silenzio, chiamai i miei Templari, i miei cavalieri che, sapevo, mi avevano seguito in questa sacra, celestiale città ormai dissacrata e infernale. Venite! Venite tutti! Alla forca! Il Nemico ci insegue, e io non so cosa ne è stato del nostro Signore... Fuori, il cielo si era aperto. Era pomeriggio inoltrato ma buio come fosse notte. La pioggia non cadeva a gocce ma come un unico grande velo, e il vento soffiava, pungente come il morso di un aspide, sulla mia faccia. Non sprecai il mio potere per proteggermi dalla pioggia; non avevo il coraggio di farlo. Il palco degli inquisitori, infatti, era vuoto, le sedie erano state rimosse, il tendone a righe avvolto e legato, sebbene il vento forte lo avesse già strappato come se volesse prenderlo a pugni contro il muro di pietra del palazzo papale. La piazza era vuota. E sulla piattaforma, il palo al quale il prigioniero era stato legato, era a terra carbonizzato. Ogni osso, ogni traccia del corpo era stato rimosso; m'inginocchiai in quel punto e iniziai a piangere, posando una mano sulle
poche ceneri rimaste a terra mentre il vento e la pioggia si univano per spazzarle via. Il mio Amore era morto. E di nuovo chiesi alla Dea: Perché? Perché mi hai condotta fin qui; solo per vedermi sconfitta? Egli appartiene al Nemico più che mai... Boato sordo di zoccoli sul fango. I miei cavalieri erano arrivati; e mi avevano portato un cavallo. Mi asciugai le lacrime con la mano sporca, imbrattandomi il volto di lacrime, morte e cenere un attimo prima che la pioggia lavasse via tutto. All'inizio, però, non riuscii ad alzarmi; non potevo lasciare il luogo in cui avevo visto il mio Amore per l'ultima volta. Volevo cercare gli inquisitori, scoprire cosa restava di lui. Avrei voluto non essere umana e non avere un cuore. Lo zio di Luc, Edouard, smontò da cavallo per tirarmi su e guidarmi verso il mio destriero. Cavalcammo verso casa, verso Carcassonne. Sapevo che era la cosa più sciocca da fare, il primo posto dove il Nemico mi avrebbe cercata. Ma questo era il Cammino che la Dea mi aveva mostrato; simile a una lanterna. Riuscivo a vedere attraverso l'oscuro futuro solo fino a un certo punto e non oltre. Assaporando il mio destino, acre e metallico come il sangue, sputai. Cavalcammo per ore; attraverso la notte e la pioggia che sembrava non terminare mai, sopra pietre ruvide e scivolose, sulle colline, attraverso vallate e campi fino a quando odorai la fragranza della lavanda calpestata, del rosmarino sotto di me. Eravamo quasi a casa. Alla fine, la stanchezza e la preghiera continua mi calmarono a sufficienza per permettermi di Vedere un po' più lontano. Nella fuga, non ci poteva essere vittoria; e il futuro aveva in serbo altri incontri tra me e il mio Nemico, ma nessuno di loro volto a liberare il mio Amore dalla sua terribile prigionia. Arrenditi, sussurrò la Dea. È l'unica possibilità che ha la razza di sopravvivere. Arrenditi. Restava una sottilissima speranza di successo; un filo così esile che il minimo colpo l'avrebbe spezzato. Ma poiché si trattava dell'unica speranza, mi arresi. Nonostante le loro proteste, mandai via i cavalieri. E infine mi arresi alla Dea. E al mio Nemico.
Mi arrendo. Questa è la mia storia. Non c'è altro da aggiungere. PARTE SETTIMA Luc XXI «Se quello che dite è vero, allora il vostro futuro Nemico sono io», disse Michel con pacato dispiacere. «E sono io il colpevole della sofferenza e della morte di Luc». Poiché c'era anche lui, quel giorno, sul palco degli inquisitori di Avignone, seduto tra il cardinale Chrétien e padre Charles. Era quello che Sybille aveva definito "il giovane corvo", il Nemico futuro. Era lui che, irato, aveva urlato alla guardia di punire l'affermazione eretica del prigioniero, per poi restare pietrificato per l'orribile risultato. Era stato il suo primo rogo, quello che lo aveva spinto a tornare nella sua cella barcollando e, infine, a vomitare; e Chrétien gli aveva sorretto la testa, confortandolo. Aveva visto Sybille, o meglio, madre Marie Françoise, senza sapere chi fosse; come il resto della folla, era rimasto sorpreso nel vederla comparire all'improvviso accanto al prigioniero, e ancora di più quando gli aveva rimesso a posto l'occhio sradicato. Subito aveva capito di essere di fronte a un vero miracolo di Dio; e immediatamente l'aveva riconosciuta come santa, poiché in quell'attimo si era sentito pervaso da ciò che ella chiamava "la Presenza": la dolce, libera, innegabile Presenza del Divino. Quando capì che si trattava della badessa di Carcassonne, famosa per aver guarito i lebbrosi, si convinse ancor di più che avesse evocato in lui una vera esperienza mistica, e che il cardinale Chrétien e padre Charles si sbagliassero nel definirla stregoneria. Ecco perché si era risentito non poco quando era venuto a sapere che Chrétien l'aveva arrestata facendola portare via. Inoltre, essere rimasto a osservare la morte dell'uomo che ella aveva appena guarito, preoccupandosi al contempo di ciò che le era capitato, gli sembrò mostruoso. Dio aveva parlato: Dio aveva voluto risparmiare quell'uomo, ma i due uomini che Michel amava di più avevano fatto in modo che il miracolo andasse sprecato e che l'uomo morisse nella più atroce agonia. Capire, ora, che quel prigioniero era Luc...
Abbassò il volto, stringendo fronte e tempie con la punta delle dita, e iniziò a singhiozzare. «Voi siete il Nemico futuro», confermò Sybille calma, persino gentile. «Ma non siete stato voi ad uccidere Luc de la Rose». Sollevò il volto dalle dita ancora ricurve, irato verso se stesso, verso la sua debolezza morale. «Forse non direttamente; quell'onore spetta esclusivamente a Chrétien e a Charles. Ma sono stato loro complice, obbligato a denunciare misfatti: e non ho mosso un dito, per fermarli...». «Padre Charles è soltanto un innocente messo sulla cattiva strada. Ma ancora non capite», lo interruppe Sybille. Le labbra si separarono mentre lo guardava, lo sguardo colmo di pena, pietà, amore e speranza. «Luc de la Rose non è morto». «Non è morto?». Si raddrizzò sullo sgabello, fulminato da quella rivelazione. «Ma l'ho visto morire. Sventolarono addirittura le fiamme per far sì che la morte avvenisse in fretta, prima che scoppiasse il temporale». «Il prigioniero che curai non era Luc de la Rose». Fece un pausa concentrando lo sguardo su di lui prima di pronunciare con cura le parole. «Luc de la Rose è vivo. E, in questo momento, mi siede di fronte». Michel non riuscì a dare un senso alle parole appena ascoltate; Sybille aggiunse: «Ecco perché mi arresi al Nemico; perché Vidi che la sua arroganza avrebbe scelto voi per trascrivere la mia testimonianza, affinché mi tormentassi ancora di più. Tuttavia, mi ha anche dato l'opportunità di raccontarvi la vostra storia e cercare di liberarvi. Poiché se voi, Signore della Razza, diventerete il Nemico della vostra gente, saremo tutti perduti». Per un attimo Michel vide, con l'immaginazione, Sybille che urlava sul palco dell'esecuzione: Luc de la Rose! Giuro che troverò un modo per liberarti! Aveva pensato che si stesse rivolgendo al prigioniero; ma non si era forse voltata verso il palco... verso Michel? E in quel momento, e non capiva come mai non l'avesse ricordato prima, il suo cuore aveva risposto con un amore così intenso e reciproco da non poterlo rinnegare. Lo inondò, inarrestabile e incontrollabile, e le credette. I sogni di Luc; erano sembrati così reali perché erano i suoi stessi ricordi che Sybille gli aveva restituito. Lacrime mai versate iniziarono a pungergli gli occhi; si era lasciata catturare, aveva affrontato il tormento fisico e ora rischiava la morte affinché lui si potesse salvare. All'improvviso fu afferrato da un'angoscia mentale che eguagliava quasi il dolore fisico; fu come se un falco gli afferrasse e stringesse la testa, ed
gli si portò le mani al capo, sussurrando: «Impossibile. Impossibile. Ero un trovatello e Chrétien e Charles mi hanno allevato. Ho vissuto una vita completamente diversa da quella di Luc...». «Falsi ricordi, magicamente impiantati non appena Chrétien ha preso il controllo della vostra mente». Commossa per la sua sofferenza, si sporse in avanti, non senza difficoltà, e posò una mano gonfia sulla sua, come a voler portare via il dolore. «Avete memoria del cardinale che teneramente vi sostiene la testa in quel momento di debolezza, dopo l'esecuzione, vero?». Michel annuì, troppo angustiato per parlare. «Ditemi, amore mio, com'è stato possibile? In quel frangente, Chrétien mi stava cercando in tutto il palazzo papale. Subito dopo, iniziò a darmi la caccia a cavallo. Quando mai, Chrétien, ha potuto dimostrarvi una tale gentilezza. Prima della caccia nel palazzo? O ancora prima, quando era con me davanti al papa? Prima di partire a cavallo per seguirmi fino a Carcassonne?». All'improvviso, si ricordò dell'impazienza di padre Charles per impedirgli di interrogarla: Ti ha stregato. Sentì la voce di Sybille che replicava: È vero, siete stato stregato, fratello, ma non da me. Michel gemette piano e le lasciò spostare con tenerezza la mano dalla sua mente turbata. Non aveva risposte da dare alla sua logica; inoltre, non voleva fare altro che alzarsi e tirarla fuori da quella cella, affrontando la sentinella, se necessario, per aiutarla a fuggire... ...ma c'era ancora una barriera nella sua mente, forse religiosa, pensò, derivata dalla pratica sacerdotale, che lo faceva restare immobile, incapace di fare ciò che il suo cuore gli comandava. «Ha preso i vostri ricordi... e il vostro potere», continuò calma Sybille, stringendo le mani attorno a quelle di lui; a quel tocco, Michel sentì nuovamente un desiderio vibrante. «Beatrice non vi ha ucciso, sebbene il Nemico abbia infierito sulla vostra mente. Nonostante questo, mi avete riconosciuta ad Avignone, individuando la guarigione come un atto sacro. Ecco perché non avete urlato indignato quando ho accusato il vostro stesso "padre" di essere il Nemico. La verità è che non è vostro padre. La verità è che siete rimasto in suo potere per oltre un anno. Se foste stato allevato nel Palazzo dei papi, come figlio del potente Chrétien, avreste quantomeno una vostra curia vescovile. E invece siete solo uno scrivano alla seconda esperienza inquisitoria. Come è possibile?»
«Non lo so», sussurrò Michel, rabbrividendo, mentre si sforzava di formulare le parole. «Ma se mi avete detto la verità, perché non mi è tornata la memoria?» «Chrétien continua a tenerla nelle sue mani». Sybille fece una pausa, e la sua espressione, finora calma, iniziò a tremare di dolore, con la passione e il desiderio di una donna qualsiasi. Alla fine disse con una voce tremante di emozione: «Luc... Amore. Vi ho cercato così tanto, ho aspettato tanto tempo per dirvi... Se solo poteste fidarvi di me per un po'...». Si mosse per poterlo abbracciare, anche se la cosa le provocava sofferenza; Michel avrebbe voluto restituirle quell'abbraccio più di ogni altra cosa ma una barriera invisibile lo tratteneva, facendolo arretrare. Ti ha stregato, figlio mio. Sono tutte menzogne, si tratta di seduzione diabolica. Replicò alla voce silenziosa di Chrétien con un pensiero disperato: No, lasciami andare. L'ho aspettata tanto, la conosco da sempre, da tutta la vita, da centinaia di vite... Nonostante ciò, non riusciva ad alzarsi; non riusciva ad avvicinarsi. Sybille ritirò le mani e abbassò velocemente lo sguardo, reticente a mostrare le lacrime. Colpito, Michel disse, con un improvviso impeto di determinazione: «Farei qualunque cosa per salvarvi dall'esecuzione». Fece di no con il capo ancora nascosto e quando si riprese a sufficienza, disse: «Lo fareste, è vero... ma non potete, poiché siete ancora sotto il controllo di Chrétien. Prima dovete riprendervi i ricordi e i poteri e solo allora potrete aiutarmi». «In che modo?». Alzò lo sguardo, le guance e gli occhi scintillanti per le lacrime. «Proprio come io ho dovuto affrontare la mia paura direttamente, voi, ora dovete affrontare la vostra». «La mia unica paura è che vi sia negato un giusto interrogatorio». Scosse il capo. «Questa è la paura di Michel. Sto parlando a Luc, ora. Dovete arrendervi alla Dea e rifiutare di soccombere alla vostra paura più grande. Il Nemico si nutre di terrore; aumenta il suo potere e ci rende vulnerabili. Ecco perché ho dovuto affrontare la paura di incontrare il mio Amore sotto le spoglie di Nemico», e qui si sfiorò le guance con le dita deformate, in cerca di conforto, «prima di venire ad Avignone a cercarvi. Chrétien vi ha catturato proprio così, attraverso la paura». Fece una pausa appoggiandosi al muro di pietra. «Meditate su ciò che vi è stato rivelato in
quanto Luc. Confrontate i vostri reali timori e avrete la libertà». E così Michel si congedò, consapevole che restava una manciata di ore per prendere la giusta decisione; e cioè se aiutarla ad evadere, fuggire con lei o consegnare la sua confessione al cardinale. Il cuore e il corpo erano in agonia e i pensieri correvano veloci come in preda ad un delirio febbrile. La amo... accada quel che accada, devo aiutarla a fuggire. Non la lascerò morire. È sacra, una vera santa. È una strega e deve essere condannata. Sei diventato una pedina del Diavolo, Michel; lasciarsi manipolare così da una donna! Perché pensi di bruciare dal desiderio in questo modo quando sei in sua presenza? È un incantesimo, un semplice incantesimo e tu sei uno sciocco... Dio aiutami. Aiutami. Sono stato stregato e non so da chi. Nella notte, camminando rapidamente verso il monastero, vide alla fine della strada il palazzo vescovile, costruito sui bastioni della città; e proprio mentre lo osservava, i cancelli si spalancarono, per far entrare la grande portantina dorata che mostrava il cimiero del cardinale Chrétien. Camminava senza sapere dove fosse diretto o perché; ma alla fine riuscì a ritornare al capezzale del suo mentore. Tra la vita e la morte, padre Charles giaceva immobile sul letto imbottito, quasi incapace ormai di esalare i deboli e agonizzante respiri, gli unici rumori nella stanza a parte il crepitio del fuoco; nella sedia accanto, fratello André dormiva profondamente, muto come una tomba. Senza dire una parola, Michel scosse con garbo la spalla dell'anziano monaco. André si svegliò pacificamente, le palpebre pesanti si sollevarono lentamente sugli occhi vecchi e acquosi. Con un gesto, Michel gli ordinò di lasciare la stanza, cosa che fratello André fece più silenziosamente che poté, come se ci fosse ancora la possibilità di disturbare il paziente. Ma mentre il monaco attraversava l'uscio, si fermò, si voltò e disse con un filo di voce: «Ho assistito molti malati di peste; ma non ho mai visto nessuno contrastare la morte per così tanto tempo, amico mio. Continua a pregare per lui; Dio, di certo, ti ascolterà». Quando André ebbe lasciato la stanza, Michel si sporse sul suo amato maestro, posando il palmo di una mano sul tessuto caldo di febbre poggiato sul suo petto. I polmoni di Charles erano pieni di liquido; le labbra secche si erano come ritirate sui denti ingialliti, le guance incavate e grigie, le palpebre ri-
cordavano il viola di un tramonto inoltrato. Michel fu sopraffatto dalla pietà e dal dispiacere. Cadde in ginocchio accanto al letto, poggiando l'altra mano accanto a quella abbandonata sul petto di Charles, e iniziò a piangere. All'improvviso nella sua mente si materializzò un'immagine: quella di Luc bambino che s'intrufolava nel castello buio fino alla stanza da letto dove suo padre giaceva malato. La gamba di suo padre gonfia quasi il doppio delle dimensioni normali, sotto una poltiglia gialla. Il puzzo di carne imputridita. La tristezza che viene improvvisamente sostituita da una sensazione di giustizia, di calore, di urgenza sotto la sua pelle, nelle sue viscere, una sensazione di gioia mai provata... Consapevolezza di gesti, di obiettivi. Le sue manine sulla gamba di suo padre e il calore frusciante, l'amore che dalle sue mani fluisce su suo padre, in costante rinnovamento, tanto che Luc si sente sempre colmo... «Dea», sussurrò Michel, premendo il volto umido di lacrime sul lato del materasso di Charles. «Diana, Artemide, Ecate, comunque ti chiami, ascoltami: a te, mi arrendo. Mi arrendo. Mi arrendo ma ti chiedo di restituirmi i poteri concessimi alla nascita. Scorri dentro di me proprio come hai fatto quando curai mio padre e guarisci quest'uomo, padre Charles. È buono e sebbene abbia ucciso molte persone della Razza, quando comprenderà il suo errore, si pentirà. Ora aiutami, Dea!». Pregando in questo modo, riuscì a calmarsi; quindi, si alzò, tenendo ancora le mani sul petto di Charles. Una sensazione di calore vibrante, di beatitudine, iniziò a discendere in lui. Per un attimo sorrise, immaginando il prete che, con i neri occhi spalancati di sorpresa e di gioia diceva: Michel Michel, caro nipote, mi hai salvato... E Michel infatti vide che gli occhi di Charles si aprirono lentamente e che le labbra si dischiusero. Un leggero rossore comparve sulle gote. «Padre?», chiese Michel, la voce tremante di aspettativa. «Michel», sospirò Charles lentamente, gli occhi fissi sul soffitto o su qualcosa al di là. La voce di Charles era così debole che il giovane prete abbassò il volto fino quasi a toccare l'orecchio dell'anziano monaco con le labbra. «Ti ha riconquistato?» «Sì, padre. Ma ora siete guarito, grazie a Dio o alla badessa... starete meglio. Mi capite?» Sì. Le labbra del prete formularono la parola senza emettere alcun suono.
Poi, con un'energia improvvisa, come se una forza esterna lo obbligasse ad espellere le parole, disse: «Ora attraverserò le fauci dell'Inferno». Un fulmineo flusso di aria fuoriuscì dai polmoni. Il volto di Charles si distese e i suoi occhi aperti, privi di qualsiasi espressione, non guardavano più nulla; un rivolo di densa bile nera gli colò dall'angolo della bocca cadendo sul lenzuolo sottostante. «Padre?», chiamò ancora Michel e, stavolta, nella voce c'era una punta di terrore. Sybille lo aveva avvertito di non soccombere alla paura, ma non aveva detto nulla riguardo al dolore. All'improvviso alzò le mani, ora tremanti, dal petto del prete su cui appoggiò il suo orecchio, sforzandosi di ascoltare. Restò così diverso tempo; ma la gabbia toracica di padre Charles non si risollevò più e il suo cuore non batté neppure una volta. Con profonda agonia, Michel alzò il volto al soffitto e gridò. «L'ho ucciso io», gemeva, inginocchiato ai piedi di Chrétien afferrando le gonne del cardinale come un bambino inconsolabile tira quelle di sua madre. In preda al panico, era corso dal monastero al palazzo di Rigaud e aveva urlato fuori dal cancello fin quando qualcuno lo fece entrare. Nell'anticamera di una delle stanze magnificamente arredate, Michel si dimenò sul pavimento ai piedi del cardinale stupefatto. «Padre, caro, dovete aiutarmi! Ho peccato; mi sono lasciato stregare; sono stato allettato e sedotto dalla sua magia...». Chrétien, scalzo e con il capo scoperto, vestito solo di una camicia da notte inframmezzata di merletto e coperta da una mantella di seta rossa, porse in fuori la mano e aiutò l'agitato monaco a rialzarsi. «Michel, figlio mio, qualunque sia il problema, lo risolveremo. Ora, però, vieni qui a sederti e calmati». E condusse il monaco nella sua stanza, talmente grande che avrebbe potuto ospitare comodamente una trentina di monaci e che era arredata con ogni tipo di comodità: candele di cera d'api su candelabri d'oro poggiati su un comodino (apparentemente per incoraggiare l'impensabile lusso di leggere a letto), un vaso da notte con il coperchio dipinto, un bacile di porcellana e un vaso d'argento pieno d'acqua, morbide pellicce per proteggere i piedi nudi dal freddo pavimento di marmo, pesanti tende di broccato intorno al letto per fermare occhi indiscreti e impedire all'indesiderata luce lunare di filtrare dal balcone riparato da una tenda. Sul soffitto era dipinto
l'affresco di una Eva grassoccia, il pube biondo quasi interamente coperto dalle piume dischiuse di un pavone, i bianchi seni rotondi non del tutto avvolti dai capelli dorati mentre, seducente, offriva una mela rossa ad un Adamo titubante. Chrétien guidò Michel verso un paio di sedie ben imbottite e lo fece sedere su una di queste mentre gli versava un bicchiere di vino. «Bevi», lo incitò porgendogli la coppa e sedendosi sulla sedia di fronte a Michel, vicina ad tavolo intarsiato. «E ora raccontami tutto». Michel, obbligato, bevve tutto il vino. E una volta ingoiato e ripreso fiato, disse: «Vostra Eminenza, vi chiedo perdono. Mi sono lasciato ingannare dalla strega Marie Françoise; mi ha quasi convinto a credere di essere, da sempre, il suo consorte e di essere vittima di un vostro incantesimo che mi induce a credere di essere Michel, vostro figlio. Mi ha convinta ad aiutarla a fuggire e, inoltre, mi ha fatto credere di avere poteri magici». Cercò di reprimere un singhiozzo rauco, ma non ci riuscì. «Che Dio mi aiuti: ho cercato di usarli per guarire padre Charles, e invece ho causato la sua morte». «Povero Charles», disse Chrétien con tono solenne; non sembrò affatto sorpreso né emotivamente sconvolto. «Ma dobbiamo essere felici per lui, figliolo, e non addolorati. È con Dio, ora. E in vita ha servito una grande causa». «Ma è colpa mia», disse Michel, premendosi una mano sugli occhi come a voler nascondere vergogna e lacrime. «Dovete ascoltare la mia confessione, Eminenza, e subito». Si sporse in avanti e poggiò la coppa sul tavolo; poi s'inginocchiò e si fece il segno della croce. «Beneditemi, padre, perché ho peccato. Mi sono innamorato della badessa e mi sono fatto sedurre a tal punto dalla sua storia di magia e dal culto di una dea che ho finito per crederci, perdendo la mia fede. Peggio, sono stato usato come veicolo per la sua magia questa notte stessa; ho apposto le mani su padre Charles credendo di poterlo guarire; e invece, mi ha usato per ucciderlo». Chrétien unì le mani premendo le punte degli indici sulle labbra; tra le rade sopracciglia grigie si creò una ruga profonda mentre ascoltava Michel con piena e deliberata attenzione, come faceva sempre quando considerava questioni di grande importanza. Appena ebbe finito di parlare, disse: «Non sei stato tu a uccidere padre Charles». Michel alzò la testa in segno di protesta, come per dire So che c'è lei dietro questa morte; ma sono stato io a mettere le mani su di lui, e ciò ha fatto sì che quella morte si avverasse...
Ma prima di poter dare voce a questo rapido pensiero, il cardinale Chrétien disse, con lo stesso tono deciso e privo di emozioni: «Sono stato io». Michel non riusciva ad emettere suono. Le parole del cardinale suonavano come uno scherzo, per quanto crudele, considerando che il povero Charles era appena morto. Tuttavia, con il passare dei secondi, l'atteggiamento di Chrétien non cambiava; anzi, le sopracciglia s'inarcarono ancora di più e Michel si disse: Forse vuole dire che si sente responsabile della morte di padre Charles, perché non era presente per evitarla. Forse pensa che sarebbe dovuto venire a Carcassonne dall'inizio, e controllare tutte le fasi del processo. Ma il giovane monaco ripensò subito all'immagine di un padre Charles furibondo, all'inizio della sua malattia: È colpa della mia arroganza... ti ho trascinato fin qui come un pony ammaestrato, ti ho esibito come a voler dire: È mio, è tutto mio... Chrétien ti vuole morto. «Tutto ciò che la malefica Sybille ti ha raccontato è vero», disse calmo il cardinale. «Il tuo vero nome è Luc de la Rose; sei nato a Tolosa e non a Avignone; e non stai con me dalla nascita ma solo da un anno. È una pagana, un'eretica e le storie che racconta lo evidenziano. La sua magia non deriva da Dio ma dal diavolo, così come la sua Razza. Tuttavia, si crede santa, la rappresentante della sua Dea». Con un profondo respiro che gli liberò i polmoni, Michel cadde a sedere sui talloni: si sentiva come un folle barcollante che cercava invano una qualche certezza. Tutto ciò che aveva considerato veri ricordi della sua vita - gli anni al monastero, l'amicizia con padre Charles e con l'uomo che ora gli sedeva di fronte, riccioli grigi che spuntavano dal merletto della sua camicia da notte - èra soltanto sogno; e ciò che aveva considerato solo sogno era la sua vita reale. E la verità più grande in tutto questo era il suo amore per Sybille e quello di Sybille per lui; ma aveva respinto il suo abbraccio, schivandola. Con grande repulsione, Michel alzò lo sguardo su colui che aveva creduto suo padre, e capì che Chrétien aveva considerato lui e padre Charles pedine del suo gioco di potere; fissò gli occhi del cardinale e non vide né affetto né dispiacere, soltanto calcolo e bigottismo. In quell'istante i dubbi e la confusione si allontanarono da Michel e capì che tutto ciò che aveva detto Sybille era vero. Tuttavia, sebbene i pensieri di Michel divennero liberi e decisi, sentiva
la stretta schiacciante di Chrétien sulla sua volontà, tangibile come se la forza feroce del cardinale lo afferrasse al collo con una grossa zampa. Nonostante ciò, replicò con un odio contenuto a fatica: «Allora voi siete il diavolo, cardinale. Così come lo sono io, visto che Sybille ha detto che apparteniamo entrambi alla Razza». Chrétien fu colto da un'emozione a metà tra la rabbia e il furore; si sollevò dalla sedia. «Pazzo! Non vedi cosa siamo? Siamo una razza di mostri scellerati, frutto di Lilith, colei che non ubbidì né a Dio né ad Adamo. I nostri poteri innaturali derivano da un diavolo femmina. Non ti sei chiesto come mai una donna possa essere tanto santa quanto il nostro Signore? Dio ci proibisce di abbracciare tali infami magie, se non per usarle per la Sua causa, per distruggere altri mostri simili a noi. Evoco i demoni? Faccio magie? Certo, ma in nome del Signore. Né le fiamme né l'inferno che le seguono sono punizioni sufficienti alla malvagità dei crimini eretici». «Quali crimini?», lo interruppe Michel. «Vedere il futuro? Guarire i malati? Resuscitare i morti?» «Se fatti senza la benedizione di Dio, sono crimini». Il cardinale raccolse i pensieri per un momento e poi aggiunse: «Rifiutare di obbedire alle regole. Ribellarsi agli ordini. Questo è il peccato originale: solo attenendosi alle leggi, alle regole della Chiesa, possiamo essere redenti. Ho letto tutte le tue tavolette di cera, Michel; e ho Ascoltato la maggior parte delle tue conversazioni con la badessa. Pensa solo alle esperienze che descrive della Dea! Piacere selvaggio, proibito; estasi sfrenata, priva di regole. Noi uomini siamo creature vili, quando siamo al meglio; e noi della Razza, siamo anche peggio. Dobbiamo aggrapparci alla Madre Chiesa, seguire i suoi precetti, recitare la sua liturgia, confessare i nostri peccati, ricevere l'assoluzione... Questi discorsi sul libero arbitrio sono tutte sciocchezze. Gli uomini non possono fare affidamento sui loro cuori per trovare la retta via. La loro volontà deve essere controllata, plasmata da Dio, se necessario anche attraverso la costrizione». Senza replicare alle parole del cardinale, Michel lo interruppe disgustato: «Non giustificate i vostri crimini dicendo in che modo servono alla Chiesa. Sybille dice che mangiate le anime dei prigionieri giustiziati, per rafforzare il vostro potere magico». «E perché non dovrei, se può servire a Dio», tuonò Chrétien. «Prego che per loro equivalga al purgatorio e che li guidi ad una lenta redenzione». Michel chiuse gli occhi per l'orrore di coloro che erano morti per mano
di Chrétien, incluso il povero Charles. «E ora suppongo che ucciderete me». La veemenza del cardinale si placò; una traccia di affetto s'insinuò nel suo tono. «Nient'affatto, Michel. Ti aiuterò a esaudire la tua santa missione e a diventare mio successore: sarai il più grande inquisitore mai esistito. A te l'onore di trovare e distruggere la Razza, poiché i tuoi naturali poteri magici sono molto più potenti dei miei». «Mi chiamo Luc», replicò con veemenza, «e non risponderò a nessun altro nome, e a nessun altro destino». E si voltò per andarsene, determinato a correre dal suo Amore per liberarla. «Guardie», urlò Chrétien e immediatamente due sentinelle con le spade sguainate entrarono veloci nella stanza, bloccando Luc. «Ora sei arrabbiato e in pena per Sybille», Chrétien gli disse alle spalle, «ma domani tutto cambierà. Sarà bruciata all'alba e ogni influenza che ha potuto esercitare su di te morirà con lei. E ti sentirai colmato di uno zelo che ti porterà in tutti i più remoti angoli della terra in cerca della Razza». Luc fissò le lame di acciaio che lo minacciavano. «Non puoi farmi nulla», disse a Chrétien. «Ora so chi sono; conosco i miei poteri. Attaccami pure con i pugnali, Nemico: non mi ferirai. Gettami tra le fiamme: non mi brucerai». Un segnale muto doveva essere passato alle sue spalle poiché vide annuire una delle guardie e il luccichio argenteo della lama che gli andava incontro. Il metallo, freddo e rovente insieme, incise la carne sulla spalla; urlò colto dal dolore e dalla sorpresa mentre il peso della lama lo costrinse ad inginocchiarsi. «Basta», tuonò Chrétien. «Portate subito delle pezze». Luc si portò una mano alla spalla e ritirandola guardò meravigliato la mano insanguinata. Credere nella storia di Sybille non gli aveva restituito i poteri; e qui aveva voluto affrontare Chrétien senza paura. Con totale disperazione, pensò: E ora come potrò salvarla? «Figlio mio, perdonami», disse il cardinale avvicinandosi. «Ma dovevo dimostrare con la forza che sei ancora un semplice monaco e non il mago di un tempo. Puoi essere ferito; correre da lei con l'intenzione di liberarla sarebbe una totale follia. Non tutti coloro che aspettano la sua esecuzione potrebbero essere comprensivi come lo sono io. Saresti ucciso e non le eviteresti il suo destino. La sua morte avverrà e non c'è nulla che tu possa fare, fisicamente o magicamente, per impedirla». Mentre Chrétien parlava, una sentinella tornò con un fascio di pezze che
usò per bendare la spalla di Luc. L'altra restò di guardia fino a quando il lavoro non fu ultimato; poi il cardinale prese una delle coppe vuote e scomparve in un'altra camera, per ricomparire subito dopo con la coppa mezza piena. La prima sentinella aiutò Luc ad alzarsi in piedi. «Bevi», disse Chrétien. Luc scansò la faccia. Il tono del cardinale si fece sprezzante. «Bevi. È solo una medicina che ti allevierà il dolore e ti aiuterà a dormire. Ti ha forse convinto che sono capace solo di cattiverie? Tu sei mio figlio». «Non dormirò mentre muore». «Come vuoi», gli concesse subito Chrétien. «Fino all'esecuzione, però, resterai con me, per evitare che qualcun altro ti possa fare del male; mi accompagnerai sul palco degli inquisitori». E sollevò la coppa alle labbra di Luc mentre le guardie lo tenevano fermo. Luc, però, si rifiutava di aprire la bocca. Alla fine le sentinelle l'aprirono a forza e il cardinale vi versò il liquido che scorse fino alla gola del giovane, il quale cercò di sputarlo via e in qualche modo ci riuscì, ma le guardie gli colpirono la schiena così che ingerì un po' della droga nonostante gli sforzi per resistervi. «Portatelo via», ordinò Chrétien. Prima di essere trascinato via, Luc chiese: «Perché. Perché mi avete fatto interrogare Sybille?» «Perché meritava di vedervi redento», rispose il cardinale infervorato. «Perché, prima di morire, doveva sapere di essere stata sconfitta. Non esistono punizioni sufficienti da far scontare a chi è colpevole, Michel... non sono mai sufficienti. Dio è stato giusto quando ha creato l'Inferno eterno». All'interno della grande camera del cardinale, c'era uno stanzino, sufficientemente largo a sistemarvi un materasso; Luc vi fu rinchiuso. Sebbene lottasse contro gli effetti calmanti del sonnifero cercando di restare in piedi, riuscì a malapena a stare seduto. Presto, però, si ritrovò sdraiato, con il dolore della spalla attenuato e il respiro che rallentava. Nella totale oscurità, il dispiacere per padre Charles e il terrore per l'imminente esecuzione di Sybille diventarono torpore; e quando alla fine chiuse gli occhi, la sua ultima immagine mentale fu il volto del cardinale che sollevava la coppa, i suoi lineamenti tondi che lentamente e indiscutibilmente si trasformavano in quelli spigolosi di Edouard: Bevi..
PARTE OTTAVA XXII «Michel, figlio mio», disse Chrétien con tono profondo e ufficiale. «È ora che il suo e il tuo destino si compiano». Stranamente vestito con una semplice tunica coperta da un mantello, il cardinale si piegò nello stanzino dove Luc aveva dormito. Dietro di lui le stesse sentinelle che gli avevano impedito la fuga e, alle loro spalle, Thomas, che sollevava una lampada per illuminare il prigioniero. Luc si mise a sedere e immediatamente emise un gemito per il dolore causatogli dalla benda intrisa di sangue che gli veniva strappata dalla ferita sulla spalla. La pozione di Chrétien lo aveva lasciato temporaneamente disorientato; portandosi una mano alla fronte, raccolse a fatica i suoi pensieri. Sebbene la pozione l'avesse costretto a dimenticare gran parte dei suoi sogni, sapeva di aver lottato contro di essi per tutta la notte; sogni terribili di Chrétien, Sybille al rogo, Edouard... Bevi. ...e di Jacob. L'unione perfetta non può avvenire in presenza della paura. Chrétien si rivolse alle guardie: «Prendetelo». Luc gettò le gambe oltre il bordo del giaciglio e si alzò, forse troppo in fretta perché le vertigini lo costrinsero a risedersi immediatamente. Una delle guardie sfoderò la spada e mise una spalla robusta sotto il braccio sano di Luc; aiutato in questo modo, il monaco ferito fu in grado di zoppicare affiancato dalla seconda guardia, con l'arma sempre pronta a colpire. Come se potessi fuggire, pensò Luc stordito a causa della droga. A quel punto, guardando attraverso la grande finestra aperta, vide che la luce della luna era stata ingoiata da nuvoloni neri, lasciando la notte totalmente buia. L'alba era ancora lontana e quell'immagine, apparentemente insignificante, portò con sé un'improvvisa chiarezza e un impeto di emozione. Mi portano ad assistere alla sua morte, si disse. Chrétien si avvantaggiava di quell'ora mattiniera per evitare l'ira dei cittadini. Il giorno dopo, infatti, quando il pubblico si sarebbe affollato attorno al palo del rogo ormai carbonizzato e deserto, il cardinale senza dubbio sarebbe stato già sulla strada di ritorno per Avignone sul suo cocchio.
Gli uomini lasciarono tutti insieme il palazzo del vescovo. All'esterno, l'aria era umida, profumata di pioggia imminente e fredda abbastanza da far venire la pelle d'oca. Disperato, Luc decise di testare la portata dei suoi poteri. Con uno scatto, si allontanò dalla guardia, sperando l'impossibile: e cioè che, grazie alla sola forza di volontà, potesse iniziare a correre per raggiungere Sybille, procurarsi un'arma e liberarla in un modo o nell'altro. Cadde immediatamente a terra, annaspando in ginocchio sulla pietra fredda, riuscendo a malapena, allungando le braccia, ad evitare di capitombolare lungo le scale. Chrétien accennò a un sorriso; Thomas, gli occhi spalancati e tetri alla luce della lanterna, non mostrava alcuna reazione mentre Luc, furioso, troppo disperato per provare un'emozione così insignificante come l'imbarazzo, si lasciò tirare su dalla guardia divertita. «Non stancarti, figliolo», gli consigliò il cardinale, «poiché molto lavoro ti aspetta». Fai attenzione, si disse Luc, cercando di ignorare il sangue fresco che impregnava la sua benda. Sarebbe arrivata un'altra opportunità di fuga; doveva arrivare, altrimenti questa sarebbe stata l'ultima ora di libertà per la sua mente e per il suo cuore, l'ultima ora di speranza per la Razza. Fuori, in strada, il cielo era nero, senza il minimo accenno dell'alba vicina. Si vedeva molto poco, solo forme indistinte in marcia nell'oscurità provenienti dalla prigione e l'occasionale immagine del disco lunare, che subito andava a nascondersi dietro i nuvoloni veloci. Gli sembrava giusto che questo mondo, così come appariva ora, non procedesse senza di lei. Il suo amore era così penetrante che il suo destino sembrava insignificante in confronto alla grande tragedia che stava vivendo il suo Amore. Il vento sibilava, scagliando sabbia ovunque. Soffiò nei suoi occhi ed egli inciampò, accecato e riportato sulla strada dalle braccia forti della guardia, Per un attimo interminabile barcollò in agonia, strofinandosi gli occhi. E quando, alla fine, le lacrime gli schiarirono la vista, vide che non stavano andando verso la piazza della città e il palo preparato per l'esecuzione; si trovavano, almeno da ciò che poteva vedere in quell'oscurità, in un vicolo dietro la prigione. A pochi passi di distanza, Sybille era inginocchiata ad un palo, di fronte a tre inquisitori. Una guardia papale era indaffarata a richiudere i ceppi che tenevano saldo il palo tra i suoi stinchi; altri due avevano già iniziato ad
ammassare rametti e fasci di legna attorno ai suoi piedi e alle gambe. Nella cupa luce tremolante creata dalla sola lanterna di Thomas, Luc non riusciva a distinguere i suoi lineamenti, ma poteva soltanto riconoscere il nero profilo della testa e delle spalle e il tessuto bianco della sua camiciola. Le guardie ammucchiarono i fasci fino ai suoi fianchi e uno di loro prese un lungo rametto porgendolo a Thomas il quale aprì il coperchio di vetro della lanterna. Ci fu una nuova folata di vento, così forte che Luc fu costretto a chiudere gli occhi contro la sabbia fastidiosa; quando li riaprì, la fiamma della lampada si era rimpicciolita in un minuscolo crepitio di azzurro dorato, in procinto di spegnersi. Poi il vento si fermò all'improvviso e la guardia toccò il fuoco con la punta del ramo; la lampada e il rametto s'illuminarono splendenti quando quest'ultimo prese fuoco. Il volto di Thomas si rischiarò per il bagliore; con la sorprendente chiarezza dell'uomo condannato, Luc colse un rapido sguardo di profondo dolore sul volto del giovane prete. Nessun altro ci fece caso: né Chrétien né le guardie, ma nonostante l'oscurità, Thomas indirizzò uno sguardo di intesa in direzione di Luc. È uno di noi; lo è sempre stato, pensò Luc con entusiasmo improvviso. L'espressione di Thomas, però, s'indurì di nuovo quando abbassò la lampada per osservare la guardia che si inchinava ad incendiare i fasci di legno attorno ai piedi e alle gambe di Sybille. Chrétien era indietreggiato di due passi. «Domenico!», urlò Sybille con una voce forte e impavida. Pensi che infine il tuo odio abbia vinto... Non vedi? Ha permesso all'Amore di vincere ancora, Di diventare più forte di prima. Luc capì immediatamente. Erano le stesse parole che sua nonna aveva pronunciato nell'ora della sua morte. Sybille stava facendo per lui ciò che Ana Magdalena aveva fatto per lei: offrirsi alla morte affinché egli potesse ricevere l'iniziazione suprema, e cioè tutti i poteri della donna e una rinnovata forza nei suoi, tutti volti a sconfiggere il Nemico. Amore, sussurrò Luc, ma non riuscì a dire altro; comprendendo la profondità della compassione di Sybille, il suo coraggio, sentì che l'amore gli spalancava il cuore e fuoriusciva, oltre i limiti del suo corpo, oltre la distanza che li separava per arrivare a toccarla.
La fiamma della guardia colse il vento e con un leggero sibilo, a malapena udibile, simile a una folata di vento come quello, Luc immaginò, che era penetrato nella capanna di Sybille la notte della sua nascita, il rogo della badessa avvampò. Fino a quel momento, l'oscurità era stata allontanata soltanto dal tenue scintillio della lampada di Thomas. Ora, quando il fuoco si accese, illuminò la sua forma inginocchiata in maniera così violenta che non sembrava esserci altro al mondo se non lei e la notte: Sybille, volto, carne e abiti incandescenti contro l'oscurità. E in quella violenta ondata di emozione, nella mente in subbuglio di Luc, una Voce, flebile e a malapena udibile, sussurrò... Va da lei. Di certo si trattava semplicemente del suo cuore che parlava; poiché era l'unica cosa che voleva fare, anche se si trattava di pura follia. Sarebbe stato abbattuto all'istante e il futuro della Razza sarebbe morto per sempre. Vai da lei, disse ancora la Voce e ad un tratto fu afferrato da una forte convinzione: non era la sua voce che parlava e neanche quella del Nemico ma una che non udiva da tanto tempo. Con la forza che nasce dalla volontà, Luc si divincolò dalla stretta della sentinella e corse come poté verso il fuoco. Non importava se fosse o meno insensibile al fuoco o al ferro o all'attacco del Nemico; ciò che gli importava adesso era salvarla; cercare di alleviare le sue sofferenze; tentare di starle accanto. Stava quasi per raggiungerla, la mano che sfiorava le ondate di calore avvampanti, che la sua schiena fu trapassata dal freddo metallo, sfiorando costole e spina dorsale, per fuoriuscire dal petto, frantumando il pettorale. Dietro di lui, Chrétien urlò. Pazzi! Lo avete ucciso! Poi ci fu una scossa straziante quando la spada fu sfilata dalla schiena e quindi il suono di un'altra spada sfoderata e il tonfo di qualcosa simile a un melone che cadeva a terra. Luc sprofondò al suolo, molto più caldo del sangue che sgorgava dalla ferita mortale, e tuttavia non provò timore. Al contrario, alzò lo sguardo verso lo sfavillante spettacolo di Sybille. Nel monastero domenicano di Avignone, aveva spesso pregato un'immagine della Vergine in terracotta che raffigurava Maria, sola, senza il suo sposo e senza suo figlio. Era incassata in una teca angusta, con le braccia distese sui fianchi, le palme all'insù come per accogliere il mondo, un'offerta votiva ai suoi minuscoli piedi delicati. E quando di notte lo stoppino
veniva acceso, la luce dall'alto avvolgeva i suoi beatifici lineamenti opalescenti di un bagliore ultraterreno. Anzi, la luce sembrava irradiarsi dal suo interno, colmando l'alcova incuneata che assomigliava al portone o alla finestra di una cattedrale. Un miracolo, avevano decretato i confratelli, e così l'immagine sacra veniva sempre abbellita di fiori, offerte e preghiere. A Luc sembrava che i lineamenti di Sybille possedessero la stessa serenità, la stessa compassione onnicomprensiva, la stessa radiosità dorata che la circondava sotto quell'arco di luce; e se le sue braccia non fossero state incatenate spietatamente all'indietro, si sarebbero distese in un benvenuto, persino rivolto al suo Nemico, Chrétien. E sebbene Luc fosse nascosto dall'oscurità e Sybille fosse temporaneamente accecata dall'improvvisa luce abbacinante, lo guardò, dritto negli occhi, e sorrise in modo abbagliante. «Ave, o Maria», gridò Luc, non con l'umiltà del peccatore ma con la felicità del credente, «piena di grazia! Il Signore è con te! Benedetta sei tu...». Il vento ululò come se soffrisse e volteggiò nel vicolo con la furia di un tornado. Il fuoco si propagò in alto, consumando legni e tronchi con violento appetito. Con il vento era arrivata anche una sottile pioggia; una goccia fredda colpì la guancia di Luc. Le gocce, però, erano rade e sporadiche e il vento, che penetrava nel corpo di Luc con un gelo che lo costringeva a sbattere i denti, soffiò il fuoco dai tronchi agli abiti di Sybille che avvamparono e s'incenerirono in fretta, con le fiamme arancioni alimentate dall'orlo del tessuto che, al suo posto, lasciava ceneri svolazzanti. Luc si sforzò di tenere la testa sollevata, di restare vivo affinché il tremendo sacrificio fatto per la Razza non fosse vano; ma non ci riuscì. Sospirando, chiuse gli occhi e abbassò la guancia al suolo. «Ascolta, Nemico!», ordinò Sybille con una voce più potente della sua tanto che Luc cercò di rivolgerle lo sguardo. I lineamenti di Sybille, luminosi e spigolosi e i suoi occhi, ultraterreni, erano fissi su qualcosa che superava il vicolo e la prigione di pietra. Chrétien si era avvicinato alle fiamme e osservava, talmente rapito da non riuscire a profferire parola; sul suo volto era visibile gioia morbosa, avidità e voracità. Aspettava, pensò Luc, di nutrirsi dell'anima più potente di tutte affinché potesse diventare potente lui stesso. Sybille voltò il viso verso il cardinale e urlò a squarciagola: «Pensi di aver vinto, Domenico! Ma ecco la magia: la vittoria è nostra!».
E poi abbassò lo sguardo su Luc, e stavolta la voce si fece sommessa, prima di tutto a causa del dolore e poi a causa di un amore pressante, un amore che sgorgando dal suo cuore raggiunse quello del suo Amore. «Luc de la Rose, ricordati!». Ed egli ricordò. Edouard che diceva: Bevi. Allattato al seno di sua madre: beatitudine, gioia... Ma tutto sparì quando Beatrice lo gettò a terra, la bocca orribilmente deformata mentre urlava; l'affetto materno negli occhi sostituito da uno sguardo bestiale, predatorio... La ragazza sul bordo del carro, terrorizzata alla sola vista di lui. La voce del Nemico, un sussurro sottile: Come tu hai distrutto tua madre, così distruggerai lei... Aveva mentito a se stesso per tutti questi anni; si era convinto che la paura più grande fosse quella di vedere sua madre morire come una pazza. Ma era stata Sybille, sempre Sybille, la causa del suo terrore. Aveva sempre saputo, non poteva negarlo ora, che avrebbe affrettato la sua morte. E infatti era successo: ora moriva per colpa sua, a causa della sua incapacità di affrontare la verità. Si era rifiutato di affrontare la sua paura quando Edouard gli aveva dato la pozione; si era rifiutato di ricordare quell'attimo terribile quando il Nemico aveva preso il controllo della sua mente, mostrandogli lo spettacolo più intollerabile, la stessa terribile immagine per la cui sconfitta Sybille aveva lottato tanto. Se stesso: Michel, nelle vesti di inquisitore, la cui testimonianza avrebbe causato la morte del suo Amore. Perdonami, pregava, in silenzio, poiché era ormai troppo debole per poter pronunciare le parole. Perdonami poiché non sono più Michel: ora sono Luc. E con la chiarezza della morte imminente, vide la duplice scelta che gli veniva offerta: trattenere la paura e morire prima del suo Amore, abbandonando la Razza al suo destino e condannando Sybille ad un inutile sacrificio; oppure abbandonarsi totalmente. Si abbandonò totalmente. Ed ecco che la Presenza lo colmò completamente, con una dolcezza ignorata per anni, da quando il suo mentore Jacob aveva apposto le mani sulle sue spalle. Luc si tirò su sui gomiti, dimentico della ferita mortale e rise a squarciagola. Unione. Radiosità. Beatitudine.
Ricordò tutto: suo padre, sua madre, sua nonna e tutti diventarono figure reali nel cuore e nella mente; e per ognuno provò amore vero e nostalgia. Singhiozzava, ora, non di dispiacere ma di gioia pura; poiché, insieme alla memoria era arrivata la consapevolezza che Sybille aveva sempre saputo di dover affrontare la morte per completare l'iniziazione di Luc; e che si era spontaneamente arresa a Chrétien affinché ciò potesse avvenire. Non c'era paura nel suo cuore, né dolore, né ombre ma solo amore e conoscenza illimitati. E la Voce parlò con tutta la sua potenza e non attraverso di lui ma con lui come se fossero una cosa sola, con tutta la passione e la convinzione. Ascoltami! Osserva il volto di chi stai uccidendo. Non è fuoco quello, ma la luce stessa di Dio: è la Vergine Madre in persona. Getta le armi e inchinati ad essa, poiché sei di fronte ad una vera santa. E all'improvviso Luc si ritrovò in piedi, con le spalle al fuoco e la faccia rivolta verso i suoi carcerieri; le quattro guardie, in effetti, avevano gettato le armi e si erano inginocchiati in segno di riverenza. Soltanto Chrétien e Thomas stavano ancora in piedi e quest'ultimo, con un'espressione di trionfo sul volto. Chrétien, invece, i lineamenti contorti in una smorfia di odio vendicativo, afferrò un pugnale nascosto sotto la cappa e si lanciò verso Luc. Luc non si mosse e non cercò di schivarlo: tutto ciò che fece fu aprire le braccia in un gesto di benvenuto; Chrétien si scagliò contro il figlio di un tempo, strepitando di rabbia mentre pugnalava il petto di Luc, una, due, tre volte... Stavolta la lama non lasciò segni e Chrétien cadde in ginocchio, singhiozzando. Con calma, Luc si voltò e varcò senza paura le fiamme alte ormai fino ai fianchi. Con un sorriso, che immaginò dolce come quello che aveva abbellito le labbra di Sybille quando gli aveva toccato il cuore spaccato in due, si piegò e aprì i ceppi arroventati con facilità, consapevole del calore ma rifiutando di accettarlo. Sybille cadde in avanti, gli occhi ormai ciechi, ed egli la sollevò tra le braccia. La pelle sulle gambe e sulle braccia era carbonizzata e in alcuni punti veniva via, mostrando la carne insanguinata; il povero viso era ricoperto di vesciche ed era irriconoscibile e il Sigillo di Salomone d'oro, ormai mezzo liquefatto, giaceva sul suo cuore. Una goccia di pioggia solitaria lo colpì trasformandosi in vapore; Luc, però, non pianse. L'allontanò dalle fiamme, senza dolore, ma con una beatitudine così profonda che gli diceva che non c'era Male, Nemico, né tem-
po, separazione o attesa, ma solo se stesso e il suo Amore, lì, in quell'attimo eterno... E lentamente, dolcemente, l'oro tra le sue mani si raffreddò riplasmandosi nella forma originaria; le vesciche sparirono; la pelle carbonizzata diventò rosa ancora una volta, si riunì e si ricoprì, magicamente, con il tessuto. E mentre osservava tutto questo, ridendo, la pioggia iniziò a cadere, delicata e rada all'inizio, e poi sempre più forte, insistente... e il suo Amore gli prese le mani sedendosi e ridendo, il volto, i capelli, intatti, bellissimi e scintillanti in quel vapore che si sollevava dai resti sibilanti del fuoco. Si alzarono insieme, gli abiti inzuppati e, labbra sulle labbra, si abbracciarono in quell'oscurità, per un attimo, un'ora, per sempre... EPILOGO Sybille XXIII Cavalchiamo verso est, io e il mio Amore; cavalchiamo affiancati da coloro che ci hanno servito fedelmente, che per anni hanno lavorato usando mezzi fisici e celesti, persino accanto al Nemico, come il nostro fedele Thomas, per farci riunire, infine, e portarci in salvo. Geraldine è con noi, vestita e intabarrata come un uomo, così come la madre di Luc, Lady Beatrice e lo straordinariamente forte vescovo Rigaud, apparentemente senza età. Anche l'amato zio di Luc è con noi, il volto reso più bello dalla gioia. Ha sofferto per troppi anni; ma ora ha riconquistato nipote e sorella. È vero; a volte il destino è crudele e difficile; talvolta, però, può diventare infinitamente dolce. Tuttavia, c'è tanto da fare ancora. Chrétien non è stato ancora sconfitto e ci sono altri come lui, in altre città e in altre terre, che vorrebbero vedere noi e la nostra gente morta per sempre. Le anime restano intrappolate nelle oscure camere stregate nascoste nel Palazzo dei Papi ad Avignone. Consapevole di ciò, mi volto a guardare il mio Amore, che tiene le redini del destriero. Il volto è luminoso e i suoi occhi, verde-chiaro, screziati d'oro, infusi del Divino, brillano verso i miei di amore totale, felicità... e consapevolezza. Ridiamo insieme di una gioia inesprimibile: mi conosce, il mio Amore; mi conosce e, in quell'istante, gli zoccoli del cavallo calpestano il rosmarino e io m'inebrio di quell'essenza penetrante.
Il rosmarino risveglia i ricordi. La prima sfida è stata vinta. Tuttavia, molto resta ancora da fare... RINGRAZIAMENTI Per chi, come me, lavora con le parole è strano trovarsi nella situazione di non riuscire a trovare quelle giuste. Questo libro mi ha ossessionata per oltre dodici anni, prima come un'idea e poi come un manoscritto incompiuto. Come posso esprimere la mia più profonda gratitudine a coloro che hanno sofferto con me durante tutto il processo creativo e/o hanno offerto i loro saggi consigli durante le innumerevoli revisioni? È giusto innanzitutto ringraziare l'uomo che ha ascoltato la mia idea ancora in embrione e ha suggerito di trasferirla sulla pagina, il mio agente Russell Galen. Senza il suo incoraggiamento e la fiducia nelle mie capacità questo libro non sarebbe nato. Gli stessi ringraziamenti vanno al mio agente internazionale, Danny Baror. Mi sento ugualmente in debito verso il mio editor alla HarperCollins di Londra, la bravissima Jane Johnson che ha mostrato grande entusiasmo per il libro acquistandolo non una, ma due volte; verso il mio editor americano alla Simon & Schuster, Denise Roy, che ha apportato al progetto la sua grande conoscenza storica; e, infine, ringrazio il mio editore tedesco, Doris Janhsen della List Verlag e l'editor, Caroline Draeger, le quali hanno dimostrato grande pazienza e fiducia. Un ringraziamento speciale va ai miei particolari lettori, che hanno scelto di dedicare il loro tempo a questo libro su cui i loro commenti hanno avuto un grande impatto: mia cugina Laeta, sorprendente scrittrice e curatore, che ha visto il manoscritto nelle sue numerose incarnazioni; la mia cara amica Lauren Hoey, una delle più attente lettrici che abbia mai incontrato; George, Beverly e Sharon. E infine devo ringraziare due persone che hanno indirettamente contribuito al progetto: Jan e David, le cui premure mi hanno dato serenità. FINE