Carlo Lucarelli Massimo Picozzi
IL GENIO CRIMINALE Storie di spie, ladri e truffatori
MONDADORI
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Carlo Lucarelli Massimo Picozzi
IL GENIO CRIMINALE Storie di spie, ladri e truffatori
MONDADORI
Degli stessi autori nella collezione Strade blu Serial killer Scena del crimine Prova d'accusa La Nera
Il genio criminale
di Carlo Lucarelli e Massimo Picozzi Collezione Strade blu
ISBN 978-88-04-58875-7 © 2009 by Carlo Lucarelli and Massimo Picozzi Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara © 2009 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione marzo 2009
Indice
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Introduzione
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Graziano Mesina II sequestratore
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Felice Maniero Il bandito
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Wanna Marchi La predatrice televisiva
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Charles Ponzi Il truffatore
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Frank Morris e i fratelli Anglin Per la libertà
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Theodore John Kaczynski Il dinamitardo
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Vincenzo Peruggia Il ladro
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La banda di Anthony Pino I rapinatori
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Kevin Mitnick L'hacker
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Han van Meegeren Il falsario
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Amleto Vespa La spia
Il genio criminale
A Tecla, di nuovo (per tutto quanto). CL
«Coraggio, coraggio, i figli non sono chiodi» diceva Padre Pio. Mah! Al grande Alessando "Pico" Picozzi. Mio figlio... Mp
Introduzione
Thomas De Quincey, scrittore e giornalista inglese vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento, era un tipo particolare. Lo dimostrano i suoi trattatelli più celebri, come Confessioni di un mangiatore d'oppio del 1821, e poi L'assassinio come una delle belle arti, composto nel 1827. In quest'ultima fatica, De Quincey si lancia in un'ironica perorazione del lato estetico di un omicidio. Dopo aver dedicato quattro volumi a serial killer, delitti efferati e scene del crimine, ce ne siamo convinti anche noi: ci può essere un'estetica anche nel peggiore degli assassini, un'estetica perversa e non certo ironica. Basta ripensare al famoso caso della Dalia Nera, quello da cui James Ellroy ha saputo trarre uno splendido romanzo. È un caso irrisolto, lo sappiamo, ma una delle ipotesi più intriganti è quella che coinvolge un tal George Hodel, chirurgo, e legato ai surrealisti di André Breton. Il nostro Hodel avrebbe ricreato una specie d'opera d'arte usando il corpo di una povera ragazza, tagliandolo in due e piazzandolo in una posa grottesca. Un'estetica criminale, appunto, che non toglie nulla, naturalmente, al giudizio di condanna morale che investe quegli episodi e chi li commette, e anche al senso di orrore che comunque essi suscitano. Poi, curiosando nelle storie del crimine, abbiamo scoperto altri casi e altri avvenimenti, altri personaggi che con il
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Il
genio criminale
sangue versato e lo strazio dei corpi non avevano nulla a che fare. Vicende in cui la violenza, quella del thriller, del noir e del romanzo giallo, non c'era, o comunque restava sullo sfondo. Certo, sempre di crimini e delitti si tratta, la condanna morale naturalmente resta, e in qualche caso si fa addirittura più decisa, ma la prima impressione, la prima cosa che salta agli occhi qui, non è lo shock emotivo dell'orrore. È qualcosa di molto diverso. Il lampo del genio. Il genio criminale. Truffatori e falsari, rapinatori e dinamitardi. A volte simpatici, a volte meno, a volte veramente disgustosi, ma tutti accomunati da un istinto, una predisposizione, un'intuizione decisamente geniale. Quando si parla di stupri e aggressioni, omicidi e serial killer, nei cromosomi dei criminali che li commettono c'è spesso qualcosa che non va. Per gli imbroglioni, i truffatori, i rapinatori, non si può dire altrettanto. La spinta arriva dalla cultura, dall'ambiente dove sono cresciuti, dalla società. Qui c'è spazio per il libero arbitrio. E per tante altre cose. L'idealismo, per esempio. Quello di Vincenzo Peruggia, che non ha mai pensato di essere un ladro e si considerava piuttosto un patriota. Anche Amleto Vespa non si riteneva una spia, eppure lo era. Charles Ponzi desiderava che il suo sogno di ricchezza diventasse anche il sogno degli altri emigrati. Unabomber voleva un mondo migliore, ma la sua aspirazione aveva assunto i connotati del delirio. E qui, naturalmente, il giudizio morale pesa particolarmente, dal momento che stiamo parlando anche di morti ammazzati. Un discorso che vale anche per Felice Maniero, la cui storia criminale, di morti ammazzati, ne vede parecchi. Kevin Mitnick, invece, era un hacker, e quindi un crimina-
Introduzione
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le, ma pensava che la sua battaglia contro le multinazionali delle comunicazioni fosse legittima e altamente «etica». Graziano Mesina, poi, merita un posto a parte, tutto suo, da personaggio veramente singolare quale è sempre stato. Ci sono anche geni criminali mossi da un desiderio di potere e vendetta verso un mondo che non li ha apprezzati a sufficienza, come Han van Meegeren, la cui genialità non può essere messa in discussione. Oppure rapinatori come quelli del colpo alla Brink's Bank. E qui il genio sta nell'organizzazione, la stessa organizzazione messa in opera da Morris e dai fratelli Anglin nella loro fuga da Alcatraz. Non tutti questi personaggi, pur geniali, sono simpatici, lo abbiamo detto. Forse il confine sta nella dose di psicopatia che si sono portati dentro per tutta la vita. La psicopatia è una specie di malattia morale: non ti solleva da alcuna responsabilità, ma ti porta a pensare che tutti sono al mondo solo per soddisfare i tuoi bisogni. Li puoi manipolare, te ne puoi fregare dei loro sentimenti e delle loro disgrazie, perché per te non contano nulla. Sono poveri stupidi, esseri inferiori, da sfruttare. Ecco perché, pur essendoci del genio in Wanna Marchi, è difficile provare per lei simpatia, o compassione. La sua storia non ci strapperà mai il sorriso che invece ci potrebbero strappare quelle di Charles Ponzi, Han van Meegeren o Vincenzo Peruggia.
Graziano Mesina II sequestratore
Non sono scritte ma sono leggi. Non sono legali, ma sono vincolanti più di un articolo del codice penale. Avranno anche avuto un inizio, ma si perde nella notte dei tempi, per cui sembra che esistano da sempre. Sono le norme del codice barbaricino, una serie di precetti tradizionali nati in Barbagia, nel cuore della Sardegna, tramandati oralmente di generazione in generazione e rimasti immutabili nei secoli, affermati e rinnovati dagli atti e dai comportamenti di chi li segue. Regolano, soprattutto, in ogni punto e in ogni suo aspetto, la cultura della vendetta. Articolo 1. L'offesa deve essere vendicata. Non è un uomo d'onore chi si sottrae al dovere della vendetta. Articolo 2. La legge della vendetta obbliga tutti coloro che a un qualsivoglia titolo vivono e operano nell'ambito della comunità. Articolo 3. Titolare della vendetta è il soggetto offeso, come singolo o come gruppo. A raccogliere, classificare secondo criteri giuridici e studiare le norme non scritte della tradizione barbaricina è stato soprattutto un grande studioso sardo, Antonio Pigliaru, che le ha ridotte a ventitré, dopo averle analizzate con cura, dalla definizione di vendetta alla classificazione delle offese possibili.
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II genio criminale
Il furto di bestiame, per esempio, se a compierlo è stato un nemico, un compagno d'ovile o un confinante, o se è stata rubata la capra che dava il latte a tutta la famiglia, o se è stata sgarrettata la vacca che era stata promessa in dono alla sposa. Sono offese le diffamazioni, le calunnie, la rottura dei patti, e le delazioni a scopo di lucro. È un'offesa, naturalmente, l'omicidio. Articolo 22. La vendetta deve essere esercitata entro ragionevoli limiti di tempo, a eccezione dell'offesa del sangue che mai cade in prescrizione. E poi, articolo 23: l'azione offensiva posta in essere a titolo di vendetta costituisce a sua volta nuovo motivo di vendetta da parte di chi ne è stato colpito, specie se condotta in misura non proporzionata, ovvero non adeguata, ovvero sleale. È così che iniziano le faide che per secoli hanno insanguinato certe zone della Barbagia, alimentate soprattutto dalle donne, che nelle vecchie famiglie erano le depositarie e quasi le guardiane dello spirito del «codice della vendetta». Sono tradizioni antiche, naturalmente, che appartengono soprattutto a un passato col quale non va identificata né la Sardegna né la Barbagia. La Sardegna - e non fa eccezione la Barbagia -, lo sappiamo, è un'altra cosa, una terra bellissima, con una civiltà millenaria. Però, per chi è vissuto in certi anni e in certi contesti, il codice era importante. Molto importante. Graziano Mesina nasce a Orgosolo, nel cuore della Barbagia. La sua è una famiglia grande, di quelle di una volta: dieci figli, dei quali lui, Grazianeddu, è il nono. Anche Orgosolo, negli anni Quaranta, è quella di una volta: una cittadina in una bella terra di pastori, contadini e poeti; ma anche terra violenta di banditi e di ballentes. Ballente è una parola sarda che non trova una corrispondenza esatta in italiano. Chi pratica la ballentìa, esprime insie-
Graziano Mesina
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me ardimento fisico, temerarietà, vigore e baldanza nell'affrontare gli ostacoli. Ma il termine, nella sua accezione più alta, indica una specie di condizione spirituale che viene percepita dalla tradizione come una sorta di magia. La ballentìa, in Barbagia e soprattutto a Orgosolo, crea miti. I ballentes sono eroi, come certi uomini d'onore, o come i cavalieri che galoppano nelle corse sfrenate della Sartiglia di Oristano o dell'Ardìa di Sedilo. Oppure banditi. II bollente spesso gira armato e così fa anche Grazianeddu Mesina, che già nel 1956, a 14 anni, fermato dai carabinieri e trovato in possesso di una pistola, finisce in camera di sicurezza. Ci resta poco, anche perché se si dovessero condannare seriamente tutti quelli che vanno in giro armati nella zona, le carceri non basterebbero; tuttavia qualche anno dopo succede di nuovo, e questa volta in un modo diverso. È il 1960, Graziano Mesina ha da poco compiuto 18 anni ed è in età da leva. Il suo scaglione parte in maggio, bisogna festeggiare i ragazzi e a Orgosolo c'è un modo tradizionale per farlo. Si tirano fuori le armi e si spara sui lampioni. L'ultimo lampione a cui Graziano spara, però, è un po' troppo vicino alla caserma dei carabinieri, che arrivano e lo arrestano con ancora in mano la pistola, una piccola automatica 7,65. Graziano finisce dentro, ma non ci vuole restare. Quella notte stessa stacca una gamba della brandina di ferro in dotazione alla camera di sicurezza, ne fa un piede di porco e con quello forza la porta. E' il primo passo verso un'esistenza da bandito, perché da quel momento Graziano Mesina diventa latitante, nascosto da qualche parte nel Supramonte della Barbagia. È il primo passo ma potrebbe essere anche l'ultimo, perché la sua non è una famiglia di banditi, e infatti i parenti, dopo essersi consultati con l'avvocato, fanno arrivare un
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II genio criminale
messaggio a Grazianeddu: torna, costituisciti. Evidentemente neanche lui è ancora un bandito, visto che obbedisce all'appello dei suoi. Si prende sei mesi per l'evasione e un mese per la pistola, lo mandano nel carcere di Nuoro, e tutto potrebbe finire lì. Ma il suo destino è un altro. Perché succede qualcosa. Gli anni Settanta e i primi anni Ottanta rappresentano senza dubbio gli anni d'oro dei sequestri di persona in Sardegna e in Italia. Poi «l'industria» del sequestro si ferma, perché diventa poco redditizia. Per portare via la vittima e gestirne il rapimento per mesi, in alcuni casi addirittura per anni, ci vuole un'organizzazione troppo grande, troppa gente da pagare. Inoltre il blocco dei beni delle famiglie dei sequestrati ha reso più difficile il pagamento del riscatto, e poi ci sono le leggi che si sono inasprite, c'è l'ergastolo se la vittima muore. Il sequestro di persona, inoltre, dopo i casi di Carlo Celadon, trattenuto dalla 'ndrangheta calabrese per più di ottocento giorni, o quello di Cesare Casella, nascosto in Aspromonte per più di due anni, è diventato uno di quei reati che suscitano un enorme allarme sociale. Meglio lasciar perdere, meglio cambiare attività, ce ne sono tante, tra quelle illegali, molto più redditizie e meno pericolose. In Sardegna, il sequestro di persona era praticato già dalla fine dell'Ottocento, ma è soltanto con gli anni Sessanta che diventa un'attività criminale consolidata, destinata a sopravvivere fino alla fine degli anni Novanta con almeno centosettantasette casi accertati. Tra questi, nel luglio del 1960, c'è quello di Pietrino Crasta, un ricco agricoltore di Berchidda. Ma qualcosa, in questa vicenda, va storto: il signor Pietrino viene ammazzato a sassate e sepolto in un podere, a Monte Lenareddu, sotto un cumulo di pietre e frasche.
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In quel podere hanno un ovile i Mesina, che col sequestro non c'entrano niente, come dimostrerà l'istruttoria che li proscioglierà tutti due anni dopo. Ma intanto i sospettati sono loro e così i carabinieri arrestano tre fratelli di Grazianeddu, mentre un quarto, Antonio, riesce a scappare. Una volta uscito dal carcere, Graziano si unisce al fratello Antonio. I due, dopo aver fatto alcune indagini, arrivano a una conclusione. A nascondere il corpo del signor Pietrino nel loro podere sarebbero stati i loro confinanti, le famiglie Muscau e Mereu, per dare la colpa ai Mesina. Un'offesa che ricade in pieno in quelle sanzionate dal codice barbaricino. La vigilia di Natale del 1961, nel bar di Canavedda, in centro a Orgosolo, Luigi Mereu sta giocando a carte con gli amici quando qualcuno lo chiama per nome e appena si volta gli spara addosso con una pistola. Non lo uccide, ma lo ferisce gravemente, e anche se aveva il volto parzialmente coperto da una benda, tutti sanno chi è stato a sparare. Grazianeddu Mesina. Lo sanno anche i carabinieri, che tre giorni dopo lo arrestano. E lo sa anche il giudice che lo condanna a sedici anni per tentato omicidio. È così che Graziano Mesina diventa un bandito. Ma per creare un mito, per fare un genio del crimine non basta una condanna per tentato omicidio, e Grazianeddu sarebbe rimasto soltanto una delle vittime collaterali della tradizione sanguinaria del codice barbaricino se non fosse per alcuni elementi. Uno di questi ha a che fare proprio con la ballentìa, con la sfrontata ostinazione con cui il ballente si getta contro gli ostacoli. E la galera, per uno come Grazianeddu, è sicuramente un ostacolo che nessun ballente può sopportare. Nel settembre del 1962 Graziano Mesina si fa ricovera-
12 Il genio criminale re all'ospedale del carcere di Nuoro. Gli sanguina sempre il naso e non si capisce perché, così lo mettono in un letto in corsia, in attesa che arrivino le analisi. Graziano aspetta che tutti siano andati a dormire, poi si cala da una finestra, scivola lungo tredici metri di grondaia, e si infila in un tubo per riparare le fognature, dove resta nascosto per due giorni. Quando smettono di cercarlo si allontana e torna in Supramonte, latitante. E la seconda volta che Graziano evade e non sarà l'ultima. Tenterà di farlo in altre venti occasioni durante la sua carriera di bandito, e per nove riuscirà nel suo scopo. Lo ricattureranno sempre, tutte le volte, perché non è facile per uno come Mesina restare fuori senza dare nell'occhio, ma non importa. Lui è quello che scappa, con la semplicità e la facilità del colpo di genio istintivo che sa sfruttare le circostanze. In galera Graziano Mesina ci torna pochi mesi dopo. Nel frattempo, infatti, sono successe due cose. La prima accade il 1° novembre 1962. Qualcuno ha ammazzato Giovanni, uno dei fratelli di Mesina, a colpi di pistola in un prato ai margini del Supramonte. La seconda, quindici giorni dopo. C'è un altro Muscau che sta giocando a carte con gli amici, sempre nel bar di Canavedda, a Orgosolo. Anche lui si sente chiamare: Graziano Mesina è in piedi sulla soglia del locale, con un mitra in mano, grida «fratello per fratello» e spara, uccidendolo. Ma nello stesso bar è presente anche uno dei Mereu, il quale colpisce Graziano con una bottiglia. Nasce una colluttazione, arrivano i carabinieri e lui finisce di nuovo dentro. Venticinque anni, questa volta, per omicidio. Il carcere di Nuoro non è abbastanza sicuro per uno come Graziano. Le autorità lo capiscono, dato che questi viene sorpreso sul punto di evadere di nuovo, allora lo mandano ad Alghero, ma non sono convinti, meglio Porto Azzurro.
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Da lì lo devono trasferire a Sassari per un processo e in treno, approfittando di una salita che fa rallentare il convoglio, Graziano apre una porta e salta giù. Lo riprendono subito e lo mandano a Volterra. Lì fa il pazzo per farsi trasferire al manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, perché ha un piano per fuggire. Lo scoprono e lo spostano a Viterbo. Cerca di scappare anche da qui, allora lo inviano a Spoleto. Spoleto ha un carcere speciale, da cui non è mai fuggito nessuno. Lui quasi ci riesce: tramortisce una guardia, scappa, poi però ha il dubbio di averla colpita troppo forte, e allora torna indietro. Lo rimandano a Sassari, al carcere di San Sebastiano, massima sicurezza. Sarà abbastanza per tenere dentro uno come Graziano Mesina? L'11 settembre 1966, durante l'ora d'aria che segue la messa della domenica, Graziano ha un'altra delle sue idee semplici e geniali: geniali proprio perché semplici. C'è un agente di custodia nel cortile, lui gli dice che lo vogliono al corpo di guardia, l'agente si allontana e allora Graziano prende la rincorsa e scala di slancio il muro del carcere. Non è solo, lo segue un altro bandito chiuso in carcere per furto d'auto, un disertore spagnolo della Legione Straniera che si chiama Miguel Asencio Prados, detto Atienza. Grazianeddu e Atienza fanno un volo di sette metri e atterrano sulla strada, in via Cavour, perché il carcere di San Sebastiano è dentro la città. Si allontanano con calma, senza dare nell'occhio, vanno in piazza a prendere un taxi e ripassano davanti alla prigione, per uscire da Sassari, osservando dal finestrino tutti quei poliziotti che corrono avanti e indietro: ce n'è anche qualcuno che sta ancora sparando per aria. Graziano Mesina e Miguel Atienza mettono su una banda che si nasconde nel Supramonte e che agirà in Barbagia per alcuni anni, ricercata dai «baschi blu» del Corpo per la
14 Il genio criminale repressione del banditismo che il governo ha inviato in Sardegna allo scopo di dare la caccia ai latitanti. I baschi blu e la banda Mesina si incontrano un pomeriggio di giugno 1967.I carabinieri sorprendono i banditi a una fonte a cui di solito vanno a rifornirsi d'acqua i latitanti, si apre un conflitto a fuoco, i banditi si sganciano, vengono ripresi, sparano tutti, volano bombe a mano e la battaglia provoca tre morti: due baschi blu di vent'anni, Pietro Ciavola e Antonio Grassia, e Miguel Atienza. Graziano Mesina riesce a scappare e a rimanere latitante, cacciato da polizia, carabinieri e baschi blu, con una taglia di dieci milioni di lire - milioni di allora - sulla testa come un bandito del far west. È bravo ad alimentare il suo mito, Grazianeddu. II mito dell'imprendibilità del ballente - lo abbiamo visto - con tutte le sue evasioni e le imprudenze da latitante, come quando dà appuntamento al suo avvocato al secondo piano della Rinascente di Cagliari, e questo lo trova a scherzare con le commesse. Ma anche il mito del bandito sardo, quello che nell'immaginario comune si dedica soprattutto ai sequestri. Lui non ne attuerà molti, ci sono personaggi più significativi in questo senso, come Matteo Boe o i tanti oscuri professionisti dell'Anonima sarda; ma quando si pensa ai rapimenti, ai nascondigli tra gli anfratti del Supramonte, il primo nome che viene in mente è quello di Graziano Mesina. Da questo punto di vista Grazianeddu ci tiene ad apparire come un bandito gentiluomo. Come quando sequestra Nino Pedretto, concessionario di un terreno nella zona di Ozieri, che in quel momento si trova assieme al figlio e, poiché per il codice d'onore del banditismo sardo non si dovrebbero rapire né le donne né i bambini, Graziano rilascia subito il ragazzo regalandogli anche mille lire. Continua ad alimentare il suo mito, Grazianeddu Mesina: si lascia intervistare dai giornalisti, come faceva an-
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che il bandito Giuliano a Montelepre, nella Sicilia dei primi anni Cinquanta. Si guadagna anche un soprannome dalla stampa. Lo chiamano «il Robin Hood del Supramonte». Nel marzo del 1968 verrà di nuovo arrestato. C ' è un posto di blocco della polizia sulla strada che da Orgosolo va a Fonni e una Giulia 850 si avvicina a tutta velocità. I poliziotti la bloccano, fanno scendere tre uomini, tra cui uno che il brigadiere Fusto, comandante del pattuglione, sembra riconoscere. Sui documenti c'è scritto Carta, ma non è vero, quello è Graziano Mesina. Quello che gli trovano addosso racconta molto del personaggio. Intanto tre pistole, sei bombe a mano e un coltello. Poi due orologi e una lettera appartenenti alle vittime di due sequestri che sta gestendo nel Supramonte. Infine diciotto fotografie, tutte di donne: Ida sull'altalena, Carmen a mezzo busto, nuda; e persino una ciocca di capelli. Badu e Carros, provincia di Nuoro, poi Volterra, Regina Coeli, Lecce: Graziano Mesina viene spostato da un carcere all'altro. Dovrebbe rimanere dentro per tutta la vita, perché il tribunale, accumulando tutte le pene, lo ha condannato all'ergastolo. Per otto anni, infatti, non si sente più parlare di lui e delle sue geniali, semplicissime evasioni. Finché non succede un altro fatto. Nel luglio del 1976 viene ucciso un altro dei fratelli Mesina, Nicola. Graziano vorrebbe andare al funerale, ma non gli danno il permesso, non si fidano, pensano che potrebbe scappare di nuovo. Il 20 agosto le sirene del carcere di Lecce cominciano a suonare impazzite. C'è stata una fuga, un gruppo di detenuti è riuscito a evadere dalla prigione. Tra questi c'è di nuovo lui, Graziano Mesina.
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II genio criminale
Resta latitante per quasi un anno, nascondendosi a Roma, a Milano, a Torino e a Bologna. Lo prendono in un appartamento vicino a Trento, dove gli trovano tre mitra, otto pistole, dieci bombe a mano, un fucile automatico, duemila cartucce e cariche di esplosivo al plastico. Ricomincia il pellegrinaggio per le carceri italiane: Favignano, Trani, Fossombrone, Cuneo, Novara e Porto Azzurro. Diventa un detenuto modello e finalmente gli danno qualche permesso. Per tre giorni, nell'aprile 1984, potrà lasciare il carcere per qualche ora per andare a trovare sua madre, e una volta lo lasceranno anche viaggiare fino a Vercelli per fare visita a suo fratello. Questa volta, però, non torna. Lo riprendono poco dopo, in un appartamento a Vigevano dove è scappato con una ragazza che gli scriveva in carcere e che si era innamorata di lui dopo averlo visto a un processo. Voleva solo festeggiare il compleanno, dice Grazianeddu. A cambiare la vita di Graziano Mesina, ad aiutarlo a chiudere i suoi conti con la giustizia e allo stesso tempo - secondo quanto affermerà lui - a rischiare paradossalmente di farlo ritornare in carcere per sempre, sarà un sequestro di persona, uno dei più noti nella storia del reato che ha reso famoso e famigerato il banditismo sardo e quindi anche Graziano Mesina. Solo che non l'ha compiuto lui. Il 15 gennaio del 1992 un gruppo di banditi mascherati fa irruzione in una villa di Pantogia, vicino a Porto Rotondo, e rapisce il figlio di un albergatore francese di origine egiziana. Il piccolo Farouk ha sette anni e resta nelle mani dei sequestratori per centosettantasette giorni. Lo prelevano in pigiama e così lo terranno fino alla fine, senza cambiarlo e senza lavarlo mai, nascosto in una grotta sul mare. A un certo punto gli taglieranno anche un pezzo d'orecchio, per accelerare le trattative.
Graziano Mesina
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È una vicenda che colpisce tutta l'Italia, questa del sequestro del piccolo Farouk. Sua madre a Orgosolo, durante la messa di Pasqua, rivolge un appello a tutte le mamme della Barbagia, «da mamma a mamma», perché suo figlio venga liberato. Ma cosa c'entra Graziano Mesina? La storia è controversa e non è mai stata ricostruita del tutto con chiarezza. Graziano Mesina è in carcere ad Asti quando riceve da qualcuno la richiesta di interessarsi al sequestro del piccolo Farouk, di fare da intermediario tra i sequestratori e la famiglia. Il bandito accetta e ottiene di poter tornare in Sardegna in licenza per partecipare al matrimonio di una nipote, così è scritto sul permesso del giudice di sorveglianza. A Orgosolo, Graziano Mesina dice di aver incontrato un uomo incappucciato e di aver trattato il riscatto, che sarebbe stato di due miliardi. Una parte l'avrebbe raccolta lui, e l'altra l'avrebbe messa lo Stato. La versione ufficiale, quella ricostruita dal processo, è diversa e afferma che per la liberazione del piccolo Farouk non sarebbe stata pagata una lira. In ogni caso, alle 22.15 del 10 luglio 1992, la polizia trova il piccolo Farouk vicino a un muretto a secco a Iriai, una località tra Orgosolo e Dorgali. A parte quella cicatrice bianca che gli segna un orecchio, il bambino sta bene. Si aggira tra i poliziotti che lo stanno riportando al padre e a tutti dice: «Lo sai che mi hanno rubato?». Graziano Mesina racconta la sua versione, rilascia un'intervista al Tg1 quasi in contemporanea con la liberazione di Farouk e rivendica i propri meriti nella soluzione del sequestro. Nel luglio 1993 polizia e carabinieri fanno irruzione nel suo appartamento ad Asti, dove Grazianeddu sta ai domiciliari in soggiorno obbligato, e gli trovano due pistole e un fucile mitragliatore kalashnikov.
18 Il genio criminale Per Graziano Mesina si tratta di una vendetta, qualcuno gli ha messo in casa quelle armi per incastrarlo, perché stava parlando troppo, ma il giudice di sorveglianza non ci crede e gli revoca la libertà condizionale. Graziano Mesina ritorna in carcere. Voghera, massima sicurezza. Ha cinquant'anni, più della metà dei quali trascorsi in galera, e quasi tutti gli altri da bandito. Non è facile scappare di nuovo. Eppure Grazianeddu riuscirà lo stesso a lasciare le mura del penitenziario, e questa volta per sempre. Il 24 novembre del 2004 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi riceve la sua richiesta di grazia, l'accetta e la firma. Il ministro della Giustizia Roberto Castelli la controfirma, Graziano Mesina esce dal carcere come un uomo libero e se ne torna in Sardegna, in Barbagia. La storia del Robin Hood del Supramonte, del re dei Sequestri, della Primula Rossa della Barbagia, di Grazianeddu Mesina il Bandito, finisce qui.
Felice Maniero
A quelli della Magliana non era riuscito. Almeno, non completamente. Fare come i siciliani, inventarsi una mafia che potesse prendersi Roma e tenersela come quelli avevano fatto con la Sicilia e stavano cominciando a fare con tutto il resto d'Italia. Non c'erano riusciti Giuseppucci, Abbruciati, Abatino, De Pediis e gli altri, travolti dall'anarchia interna, cronica a Roma fino dai tempi di Giulio Cesare, e dai loro rapporti con la metà più oscura del potere. In Veneto, invece, c'è qualcuno che ci riesce. E completamente. Si inventa una mafia con tutti i crismi del 416 bis: «Associazione a delinquere di tipo mafioso», che si verifica quando «coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici, o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire e ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali».
20 Il genio criminale Ecco, c'è un uomo, in Veneto, che un giorno crea una cosa che ha tutti questi requisiti. La cosa si chiama «Mafia del Brenta». Lui è Felice Maniero. In un certo senso Felice Maniero è un figlio d'arte. Suo padre Ottorino ha un bar a Bosco di Sacco, una piccola frazione persa tra le nebbie di Campolongo Maggiore, in provincia di Venezia, frequentato da parecchi esponenti della mala locale. E suo zio Renato è uno della banda di Adriano Toninato, detto «Giuliano della Valpadana», che con i suoi quaranta uomini ruba auto e bestiame e rapina le banche del basso Veneto a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Felice Maniero impara dallo zio come si spara con una pistola e poi si mette con un gruppo di ragazzi che scorrazzano tra Padova e Venezia. Cominciano con i furti, passano alle rapine e risultano parecchio aggressivi: agli inizi del 1974 sono già in grado di muoversi liberamente sul territorio e di terrorizzarlo più delle vecchie bande, come quella di Toninato. Tra il 9 e il 12 gennaio, per esempio, attraversano di corsa i paesi della bassa veneziana sparando contro bar, ristoranti e pizzerie, bersagliando macchine in sosta e cartelli stradali; e non solo polizia e carabinieri non riescono a prenderli, ma gli esercenti dei locali non li denunciano neppure. Il capo della banda è indubbiamente lui, Felice Maniero, che ha poco meno di vent'anni ma è sicuramente in gamba: intelligente, carismatico, brillante, così esuberante da imporsi sugli altri e farsi notare. Soprattutto ha un'incredibile sangue freddo e una grande capacità organizzativa. Lo chiamano «Felicetto» o «Faccia d'Angelo», perché ha un volto pulito, da bambino, che gli fa dimostrare molto meno della sua età. Ma in azione, o quando qualcuno lo contrasta, Felicetto fa paura.
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Dal punto di vista criminale è sicuramente un giovane piccolo genio. Felice Maniero ha un'idea. Nel bar di suo padre, e poi nelle altre trattorie della zona dove si fermava a bere e giocare a carte con i suoi, Maniero era solito incontrare gli esponenti della mala locale, Antonio Toninato e i suoi uomini, suo zio Renato, criminali, rapinatori, anche assassini: sempre la vecchia mala, insomma, quella che rubava ciò che trovava, senza un progetto, senza un orizzonte più vasto. Quel genere di malavita nacque quando il Veneto era ancora una zona sottosviluppata, terra di emigrazione, malattie e fame; e tale era rimasta dal dopoguerra agli anni Cinquanta e Sessanta, quando più della metà delle abitazioni venete non aveva l'acqua corrente né il gabinetto in casa. Adesso, però, le cose sono cambiate. Siamo negli anni Ottanta, il boom economico è arrivato anche lì e il Veneto sta diventando una terra di imprenditori e di imprese che faranno di questa regione la locomotiva dell'economia del Nordest. Tutto questo Felice Maniero lo vede e lo capisce, perché anche lui è così. È un ambizioso ventenne, nei ruggenti anni Ottanta. Nei bar e nelle trattorie dei dintorni di Campolongo, intanto, non ci sono soltanto i vecchi malavitosi che parlano venexian, mestrin e padoan stretto, compaiono anche alcuni strani, silenziosi personaggi con un accento tutto diverso. Parlano il palermitano con le cadenze di Santa Maria del Gesù, San Giuseppe Jato e Cinisi, o il napoletano del quartiere Sanità, perché sono gli uomini di Totuccio Contorno, Gaetano Fidanzati e Tano Badalamenti, spediti in Veneto in soggiorno obbligatorio assieme ai loro boss, come i camorristi del clan Guida. Oppure parlano il milanese imbastardito alla Abatantuono, di quando faceva il terrunciello, e allora sono gli uomini di Francis Turatello, uno dei boss di Milano.
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Insomma, c'è la mafia da quelle parti, Cosa Nostra e la Camorra, centoquarantatré mafiosi spediti al confino in Veneto dalla legge Rognoni-La Torre, il miglior modo per esportare la criminalità organizzata in tutta Italia, e a spese dello Stato. Ma il Veneto non è la Lombardia, non sembra ancora una terra così ricca da essere appetibile e le mafie non si sono ancora organizzate per sfruttarla a fondo. Ci pensa Felicetto. Con il suo fascino spavaldo, il suo sorriso, la sua «faccia d'angelo». Il salto di qualità la Mala del Brenta di Felice Maniero lo fa nel luogo in cui di solito avvengono queste cose: la Camorra, la 'Ndrangheta, la Sacra Corona Unita, a parte Cosa Nostra - la madre di tutte le associazioni a delinquere di stampo mafioso - le mafie sono nate sempre là. In galera. Felice Maniero finisce in carcere la prima volta nel 1980. La guerra tra bande rivali che si contendono il controllo della bassa veneziana ha attirato l'attenzione delle forze dell'ordine e Felicetto viene arrestato. Dietro le sbarre conosce gente importante, come Gaetano Fidanzati, che è uno degli esponenti più attivi di Cosa Nostra, e così stringe amicizie e alleanze. L'idea di Felicetto è semplice. La sua banda gestirà il traffico della droga che Cosa Nostra importa dalla Turchia. Faccia d'Angelo e i suoi la acquistano dai referenti milanesi della mafia e poi la rivendono nelle piazze di Venezia, Mestre, Chioggia, Padova, fino a Pordenone. Organizzano tutto loro, i trasporti, la distribuzione, le formiche, i piccoli spacciatori al minuto, i cavalli che spacciano quantità più grosse, le vedette che devono sorvegliare i quartieri e avvertire se entra qualche forestiero sospetto o la polizia. Felice Maniero ha le qualità per farlo e anche i suoi uomini si dimostrano all'altezza dell'impresa. È così che da banda della malavita locale, la Mala del Brenta si trasforma in un'associazione a delinquere di tipo mafioso, 416 bis.
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Insomma, in una mafia. Non diventi un boss della mafia soltanto perché quelli di Cosa Nostra ti hanno detto che puoi farlo. È successo così ai romani della Banda della Magliana: i siciliani di Michele Greco e i napoletani di Raffaele Cutolo li avevano promossi procurandogli commesse e contatti, ma poi, per affermarsi come tali anche sugli altri malavitosi di Roma, sul Pescetto, su Er Cane, su Palle D'Oro o su Franchino Er Criminale, avevano dovuto ammazzarli tutti. E vale anche per la Mala del Brenta. Il primo omicidio attribuito dagli investigatori alla banda di Felice Maniero è quello di Roberto Menin, un giovane di ventitré anni di Dolo ritrovato sulla A4 nella sua macchina, ucciso a coltellate e sfigurato per aver rubato una partita di droga che Totuccio Contorno aveva venduto alla Mala del Brenta. Gianni Barizza, invece, fa parte della banda, ricetta l'oro ricavato dai furti e dalle rapine ai laboratori di oreficeria per cui la zona è tanto celebre. Il sospetto è che se ne tenga un po', e quindi nel gennaio del 1982 viene trovato incaprettato col filo di ferro nel baule della sua auto, incastrata sul fondo del Brenta. Stefano Carraro, detto «Sauna», è in affari con la banda di Maniero. È il responsabile dell'ufficio Fidi del casinò di Portorose e ha una parte importante nel riciclaggio dei soldi della Mala del Brenta. Poi, però, un giorno sgarra. Così, la notte del 14 agosto 1986, un gruppo di fuoco della banda va a suonare alla porta blindata della villa di Sauna, si fa riconoscere dalla sua donna che si è affacciata alla finestra e appena l'uomo apre il portone gli spara addosso due colpi, uccidendolo. Poi i killer salgono di sopra e sparano anche alla donna, che si è nascosta sotto il letto. I fratelli Rizzi, invece, sono concorrenti. Ci sono altri tre gruppi organizzati che operano nella zona e lavorano per la Mala del Brenta, come affiliati di secondo livello. Si tratta dei «mestrini», che gestiscono lo spac-
24 Il genio criminale cio, le rapine e le estorsioni sulle attività turistiche della zona di Mestre; della banda «Maritan», che spaccia tra San Donà del Piave e Jesolo; e dei «Veneziani», che controllano Lo spaccio nella laguna, le estorsioni ai locali notturni, alle attività turistiche e alle vetrerie di Murano. Massimo e Maurizio Rizzi gestiscono lo spaccio di droga a Venezia e si sono stancati di stare sotto l'ala di Felice Maniero. Gli ammazzano anche un uomo, Giancarlo Millo, detto «il Marziano», e decidono di andare a rifornirsi da un'altra famiglia di Cosa Nostra che sta in provincia di Como. Allora Felice Maniero, fingendo di voler trattare, li convoca per farli partecipare a un colpo. Loro ci cascano e nel marzo 1990 Felice Maniero e i suoi li prendono a mitragliate sull'argine del Brenta, vicino a Vigonovo, li sfigurano a colpi di badile e li fanno sparire assieme al loro braccio destro, Gianfranco Padovan. L'ultimo a essere ammazzato è un pizzaiolo di Camposampietro che faceva parte della Mala del Brenta. Gli uomini della banda sospettavano che Giancarlo Ortes facesse Il doppio gioco e fosse diventato un confidente della Dia, pronto a diventare un collaboratore di giustizia. Così una notte di novembre 1994 gli danno appuntamento a Padova, davanti al cinema Arcobaleno; lui ci va assieme a Naza, la sua fidanzata, gli altri li caricano in macchina, li portano in campagna, li ammazzano tutti e due e li seppelliscono nudi nel solito argine del fiume. La Mala del Brenta spara e uccide senza problemi e senza pietà, come Cosa Nostra, la Camorra e la 'Ndrangheta. Per il periodo che va dai primi anni Ottanta agli ultimi delitti del 1994, alla banda di Felice Maniero sono stati attribuiti più di venti omicidi - una cifra che comprende solo i morti che si possono provare in tribunale. A lui personalmente, gli investigatori ne hanno attribuiti almeno sette. Felice Maniero è figlio dell'Italia rampante degli anni Ot-
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tanta, del Nordest che diventa la locomotiva dello sviluppo. È un criminale, ovviamente, è un bandito e un assassino, ma lui si sente qualcosa di più, un imprenditore. Una volta ottenuta la ragione sociale come mafia, la sua ditta, la Mala del Brenta, inizia subito a operare sul mercato. I rami in cui si muove sono tanti. II primo è naturalmente quello della droga. La banda di Maniero inonda il basso Veneto con un fiume di eroina turca e cocaina colombiana la cui diffusione fa crescere il rapporto tra tossicodipendenti e abitanti a uno su quattrocentodiciotto. Poi ci sono le rapine, che Felice Maniero e i suoi facevano ancora prima di diventare grandi. Non solo le ville dei ricchi imprenditori della zona, i laboratori degli orafi, le banche e i furgoni portavalori, a Felicetto Faccia d'Angelo piace organizzare i colpi grossi, quelli da film. Nel 1982, il 1° luglio, la banda Maniero fa irruzione, armi alla mano, nell'hotel Des Bains, uno dei più prestigiosi del Lido di Venezia, e lo rapina. Cinque miliardi tra contanti e gioielli prelevati dalle cassette di sicurezza dell'albergo. Sempre nel 1982 è la volta della stazione ferroviaria di Mestre, che viene assaltata come nel far west; mentre nel dicembre del 1983, la banda, armata e col volto coperto dai passamontagna, entra nell'ufficio merci della dogana dell'aeroporto di Venezia, il Marco Polo che sta a Tessera, e si fa aprire il caveau. Punta a qualcosa di preciso, sa che c'è, lo cerca e lo trova, chiuso in una serie di scatoloni in fondo alla stanza blindata. Centosettanta chili d'oro in anelli, braccialetti e collane, il lavoro degli orafi vicentini da esportare in Germania, a Francoforte, che Maniero farà fondere in una cascina di Campagnalupia e poi seppellirà nel campo dello zio Renato, che sta lì vicino. Due miliardi e trecentoquaranta milioni. Sono rapine da film, lo abbiamo detto, che accrescono la fama e il carisma di Felice Maniero nell'ambiente criminale e non solo in quello. Però non bisogna dimenticare che sono
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rapine, e per quanto avventurose possano sembrare sempre di crimini si tratta, con tutto il loro potenziale nefasto. Perché quando le cose non vanno proprio come erano state organizzate dalla fantasia di Faccia d'Angelo, allora ci scappa il morto. Il 14 dicembre 1990, il treno Venezia-Milano sta per arrivare alla stazione di Padova quando qualcuno aziona il freno d'emergenza, bloccandolo in campagna, davanti a cinque banditi armati e mascherati dai passamontagna che aspettano nascosti nei cespugli. L'obiettivo è il vagone che porta i sacchi della corrispondenza e i pacchi spediti via posta, un vagone chiuso, difeso da un gruppo di agenti della polizia postale. Per la Mala del Brenta non è un problema, loro sono armati, sono pronti a sparare su chiunque, ma soprattutto hanno un bazooka, col quale tirano sul fianco del vagone postale, aprendo un buco. Gli uomini di Maniero si impadroniscono del treno, lo fanno ripartire e intanto mettono un'altra bomba nel vagone postale, per allargare il buco e poterci entrare. È un ordigno potente, esplosivo C4, roba militare: quando scoppia, un pezzo della fiancata con la saracinesca si stacca e sarebbe finita lontano, nella campagna, se non fosse che proprio in quel momento, dall'altra parte, sta arrivando il diretto Bologna-Venezia. I detriti dell'esplosione lo investono in pieno e Cristina Pavesi, una studentessa di ventidue anni che sta tornando a casa dopo essere stata a Padova a parlare con un professore, muore sul colpo. Tra i rami in cui opera l'impresa criminale di Felice Maniero ci sono anche quelli tradizionalmente attribuiti alle mafie, come le estorsioni. Più che di pizzo, come nelle zone del Sud, qui si deve piuttosto parlare di tangenti. Il controllo del territorio è quasi totale e ci sono anche negozianti ed esercenti che pagano; ma c'è bisogno di una mentalità omertosa più diffusa per
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un taglieggiamento capillare come quello praticato a Napoli o a Palermo. Tuttavia la tangente sugli affari la pagano in tanti, soprattutto chi ha a che fare con attività illegali. Le bische, per esempio, quelle in città, o nelle case in campagna dove si organizza il gioco d'azzardo: da Venezia fino in Emilia Romagna, a Modena, il controllo del businnes del gioco è di Felice Maniero, che versa una quota a Cosa Nostra ma si tiene tutto il resto. Oppure i cambisti abusivi che si muovono attorno al casinò di Venezia. C'è un sottobosco molto attivo di persone che cambiano valuta sottobanco e prestano soldi ai giocatori, e quel mondo irregolare e nascosto deve pagare la sua quota. Un milione e mezzo di lire al giorno per ogni cambista. La notte tra il 10 e l'11 ottobre 1980, la banda di Felice Maniero fa un blitz nella sede invernale del casinò, sequestra i cambisti abusivi, spara contro le loro macchine, li picchia e li minaccia. Si piegano tutti, tranne due, Eugenio Pagan e Cosimo Maldarella. C h e finiscono ammazzati entrambi con un colpo in testa. Il gruppo imprenditoriale di Felice Maniero cercherà anche di estendere le proprie attività ad altri rami criminali, che però non decollano o non si rivelano sufficientemente remunerativi. Per esempio, il settore dei sequestri di persona, che a metà degli anni Ottanta, dopo aver fornito a Cosa Nostra e alla 'Ndrangheta il denaro contante con cui iniziare i primi acquisti di droga, sta già subendo una fase di recessione. Per fortuna. Ci vuole organizzazione per compiere un sequestro di persona, la capacità militare di prendere l'ostaggio e poi il controllo totale del territorio in cui tenerlo, e anche la possibilità di riciclare i soldi del riscatto.
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Felice Maniero queste capacità le ha. Tanto che riesce a gestire contemporaneamente tre rapimenti: quello di Marina Rosso Monti, quello di Renato Andretta e il sequestro Bonzado, anche se le vittime dei primi due verranno liberati grazie all'azione delle forze dell'ordine e prima che sia stato pagato il riscatto. Ma quello dei sequestri è un settore che costa troppo, e rende poco, perché la cifra del riscatto va divisa tra molte persone, e poi le nuove leggi sul blocco dei patrimoni e sull'inasprimento delle pene rendono i rischi troppo alti. Felice Maniero è un imprenditore del crimine e questo settore lo abbandona presto. Ce n'è un altro, invece, che ha ottime possibilità di sviluppo, visti i contatti e la posizione geografica del territorio controllato dalla banda: il traffico d'armi. A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta l'instabilità della Jugoslavia e poi la sua disgregazione in una serie di Stati in guerra provoca la messa sul mercato e la richiesta di enormi quantitativi di armi, la cui circolazione è favorita dal crollo dei paesi del blocco sovietico. Armi di tutti i generi, dalle pistole ai kalashnikov, ai lanciarazzi, fino agli elicotteri e ai carri armati, attraversano le frontiere clandestinamente per rifornire eserciti regolari, formazioni ribelli e la malavita di tutto il mondo. Felice Maniero è al centro di questo traffico, esporta armi pesanti oltre il confine e riceve armi leggere per la propria organizzazione e per chi gliele chiede in affitto. Ha un amico molto importante, che sta al posto giusto nel momento giusto: si chiama Miroslav Tudjmann ed è il figlio di Franjo Tudjmann, il presidente della nuova Repubblica Croata. Felicetto ha molti interessi in comune con la Croazia, interessi che non riguardano soltanto le armi ma direttamente il core businnes della sua impresa: i soldi. Maniero ha partecipazioni nei casinò della Croazia e impiega ogni possibile canale per riciclare i proventi delle sue imprese.
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È stato bravo Felice Maniero, si è inventato una vera e propria mafia dove prima non esisteva niente: primo e ultimo esempio nella storia criminale italiana. Associazione a delinquere di tipo mafioso, per la sua capacità di controllare, spremere e terrorizzare il territorio, ma anche per la sua abilità nello stabilire legami con le autorità attraverso l'intimidazione e la corruzione, come già avevano fatto quelli della banda della Magliana. Ufficialmente gli uomini dello Stato messi regolarmente a libro paga da Felice Maniero sono due: un maresciallo del ROS dei carabinieri e un ispettore di polizia. Ma Felicetto parla anche di magistrati, medici, direttori di banca, avvocati e agenti dei servizi segreti, comprati con soldi, cocaina, auto e bella vita, oppure legati a lui da uno scambio di favori. A tenere tutto insieme, a unire i quattrocento uomini che compongono la banda nei suoi tempi d'oro - i ragazzi, come li chiama Felice Maniero - non è però una legge non scritta, un codice d'onore, una cultura criminale sedimentata da anni come nelle regioni di tradizione mafiosa. A tenere in piedi tutto è lui, Felicetto «Faccia d'Angelo», con il suo carisma. Un mito criminale accresciuto anche dalle latitanze dorate e dalle spettacolari evasioni che compie tutte le volte che lo arrestano. Dal carcere di massima sicurezza di Fossombrone, per esempio, scappa nel dicembre del 1987 lungo un tunnel scavato dai suoi uomini attraverso le fogne della prigione. Lo arrestano di nuovo nel 1988 e lo chiudono a Portogruaro, ma l'anno dopo evade anche da lì. Da quello di Padova, altro carcere di massima sicurezza, moderno e ben organizzato, riesce a fuggire nel 1994. La squadra mobile di Padova lo trova a Capri, a bordo di uno yacht di sedici metri su cui se ne sta a prendere il sole nonostante i mandati di cattura che dovrebbero disturbare la sua latitanza. È l'agosto del 1993, e in carcere - non quello
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normale, ma in regime di isolamento speciale del 41 bis ci resta meno di un anno. Semplicemente, all'alba del 14 giugno 1994 due auto cariche di poliziotti e carabinieri lo vanno a prendere al carcere Due Palazzi e se lo portano via. Sono finti, naturalmente, si tratta di uomini di Maniero, aiutati dall'interno da una guardia penitenziaria che autorizza il falso trasferimento. Insomma, lui è Felice Maniero, imprenditore del crimine, fondatore di una nuova mafia, inarrestabile, nel vero senso della parola, ricco e potente, al centro di un piccolo impero che va dal basso Veneto, al Friuli e all'alta Emilia. Quelli della Magliana non c'erano riusciti a costruire una macchina criminale così compatta ed efficiente. Così perfetta. Giovanni Falcone, però, diceva che le storie di mafia sono storie umane e quindi hanno un inizio, uno sviluppo e una fine. Per Cosa Nostra, la Camorra o la 'Ndrangheta ancora non è accaduto, ma alla Mala del Brenta sì. Arriva un giorno in cui finisce. E a terminarla, a scrivere la parola fine a tutta questa avventura - che è geniale e sorprendente, ma, dobbiamo ricordarcelo sempre, è un'avventura criminale, e quindi di morte, di dolore e di sangue - è soprattutto un uomo. Sempre lui. Felice Maniero. Non è che in tutti quegli anni le forze dell'ordine siano rimaste con le mani in mano. Uno dei primi rapporti a segnalare Maniero Felice come soggetto pericoloso, e a parlare anche di una sua banda, risale al 1974, e a quello seguono indagini, operazioni e anche molti arresti. Felice Maniero verrà catturato per l'ultima volta il 12 novembre del 1994. Lo ferma una pattuglia mentre sta passeggiando per Torino con la sua fidanzata, senza curarsi di non dare nell'occhio, come è solito fare quando è latitante: sempre lo stesso
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Felicetto «Faccia d'Angelo», capelli lunghi, vestiti firmati, ascott al collo, bella vita sempre e comunque. In tasca ha una carta d'identità intestata all'architetto Luca Basso, ma è falsa, gli agenti se ne accorgono subito. In carcere Felice Maniero si fa un paio di conti. L'avventura della Mala del Brenta, i rischi e i benefici dell'impresa criminale sono arrivati a un punto difficile. Per un imprenditore normale superare le difficoltà di un'azienda in crisi significa cambiare settore, riconvertirsi, rinnovarsi. Per un imprenditore criminale tutto questo significa un'altra cosa. Pentirsi. O meglio, collaborare con la giustizia. Felice Maniero comincia a parlare, racconta tutto, fa i nomi dei membri della banda, risolve i casi di omicidio e fa trovare i corpi delle persone sepolte lungo gli argini del Brenta. Degli eventuali rapporti con gli uomini dello Stato e la società civile veneta, invece, non parla molto. Ma non importa. Scatta l'operazione «Rialto» e trecento dei ragazzi della banda Maniero finiscono dietro le sbarre, e di questi almeno centoquarantadue vanno sotto processo con oltre trecento capi di imputazione. Alcuni di questi si pentono a loro volta e così i magistrati possono ricostruire più di vent'anni di criminalità organizzata in una zona che dal Friuli attraversa il Veneto e arriva fino all'Emilia. La Mala del Brenta, stritolata dal maxiprocesso, praticamente cessa di esistere. Alla fine dei vari procedimenti che lo vedono coinvolto, Felice Maniero si prende undici anni, che non sconta in carcere perché collaboratore di giustizia. Vive da qualche parte, in Toscana, protetto da una nuova identità e, dicono, anche da un nuovo volto. Fa l'imprenditore, ha una ditta di import-export di prodotti di pulizia e, dicono, fa molti soldi.
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Qualcuno fa notare, con malizia, che il tesoro della banda Maniero, i soldi ottenuti con le attività criminali, non è mai stato recuperato. Ma lui nega. «Se Felice Maniero va a mangiare in pizzeria» dice in una delle ultime interviste «subito i giornali scrivono che era un ristorante di lusso.» Qualcuno della vecchia banda lo vuole morto, e un progetto di attentato ai suoi danni è stato scoperto solo qualche anno fa. In fondo se la Mala del Brenta non esiste più è per colpa sua, ed è grazie alle sue rivelazioni se molti dei suoi sono finiti dentro. Eppure, tanti dei suoi ragazzi, anche quelli che stanno dietro le sbarre, ancora non riescono a rendersi conto che quello scherzo sia opera proprio di Felice Maniero. No, non lui, il capo. Non Felicetto «Faccia d'Angelo».
Wanna Marchi La predatrice televisiva
Lo abbiamo già detto, non sempre i geni sono simpatici, anzi. Quella scintilla che si accende all'improvviso e li fa agire con naturalezza istintiva, prendere decisioni che sembrano contrarie a ogni ragionamento, e alla fine vincere battaglie apparentemente perse in partenza ci fa scattare un irresistibile senso di ammirazione, sempre, tranne che in un caso. Quando quella genialità fa male a tante persone che non se lo meritano. Non c'è dubbio che Wanna Marchi sia stata un genio. Un genio della comunicazione - risorta dopo almeno un paio di cadute che sembravano definitive come la morte - e in un modo talmente forte da diventare un'icona, di più, addirittura un mito. Ma allo stesso tempo non c'è dubbio che un sacco di povera gente abbia sofferto indicibilmente, più di quanto si possa immaginare. Per questo Wanna Marchi è diventata un fenomeno da studiare con interesse ma senza simpatia, come si fa con i virus. Dal punto di vista giudiziario Wanna Marchi è una persona condannata per truffa. Per noi, adesso, chiudendo un occhio, anzi, tutti e due, è uno dei più geniali esperti di telemarketing. Il telemarketing in sé non è certo un crimine. Vuol dire che un'azienda, attraverso i suoi operatori com-
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merciali, si mette in contatto telefonico con un potenziale cliente, e poi cerca di vendergli prodotti o servizi. Oppure pubblicizza attività e prodotti, fissando un appuntamento con il venditore negli uffici dell'azienda o a casa del tizio interessato. Succede però spesso che la proposta telematica diventi una frode telematica, con un giro d'affari da far paura. Solo negli Stati Uniti, i truffatori al telefono si mettono in tasca quaranta miliardi di dollari all'anno. E per descrivere i più attivi, aggressivi e insaziabili c'è un'espressione precisa, che ricorda gli squali e le bestie feroci in generale: telemarketing predators. Ci sono organizzazioni fatte di due o tre persone che si mettono insieme solo per poche settimane, approfittando del fatto che le forze di polizia, anche dopo averle identificate, ci mettono un po' prima di piombargli addosso, in genere qualche mese. Altre, invece, appaiono più strutturate, possiedono un archivio importante di numeri telefonici e parecchi venditori, sono organizzate secondo una scala gerarchica e prevedono una divisione del lavoro. Le prime sono soprannominate tip and tear, strappa e piangi, le seconde boiler room, che sta per locale caldaie. Le liste delle potenziali vittime non sono un problema, si possono per esempio recuperare dalle indagini effettuate su caratteristiche e preferenze dei consumatori. L'importante è che il contatto telefonico lo prenda chi è più capace ed esperto nell'arte di imbrogliare. La maggior parte dei telemarketing predators, una volta catturata e interrogata, ha raccontato più o meno la stessa storia. Arrivano da famiglie normali con genitori dediti al lavoro, e una situazione economica tranquilla anche se non agiata. Come succede per la maggior parte dei criminali dal colletto bianco, anche nel loro passato non ci sono le avvisaglie dei futuri guai in cui si verranno a trovare. Ma magari i futuri predatori sono sempre stati attratti dal denaro, fin
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da quando erano piccoli, e in ciò erano diversi da parenti e amici. O avevano le idee chiare sul fatto che un buon guadagno non dovesse essere per forza il frutto di un duro lavoro e per di più sotto padrone. Tutti hanno in comune la convinzione di essere eccezionalmente abili a piazzare ogni cosa al telefono, di saper vincere la resistenza di chiunque si trovi dall'altra parte dell'apparecchio. È una specie di sfida, che rende ancora più appetibile il lavoro, tanto che non è raro si dedichino anche al gioco d'azzardo e ostentino il successo con un elevato stile di vita. In ogni caso i predators rifiutano l'etichetta di criminale e quella di crimine per ciò che sono e ciò che fanno. Riconoscono malvolentieri la colpa, e trovano un sacco di spiegazioni per attenuare la gravità delle loro imprese. Al primo posto mettono l'ignoranza, il fatto di non sapere che quello che stavano facendo fosse contrario alla legge. Dicono che il loro avvocato non li aveva avvisati. C'è chi si sente vittima dell'ingiustizia, dell'invidia di chi non sopportava di assistere al suo rapido successo. Qualcuno tira in ballo droga e alcol, che gli avrebbero offuscato il cervello, altri sostengono di aver perso la testa per i soldi. I collaboratori di seconda linea danno la colpa agli organizzatori, dicendo di non sapere nulla dell'intento criminale che ispirava la compagnia. I vertici accusano gli agenti di avere preso libere iniziative, di essere andati ben oltre il compito loro assegnato. Ci sono quelli che spostano l'attenzione su alcuni aspetti delle loro vittime per giustificare o scusare i propri comportamenti: loro propongono una vendita, non costringono nessuno e non sono certo responsabili se il cliente ne è attratto, se decide di volere quell'oggetto o quel servizio. L'arresto e il processo secondo costoro è sempre colpa di un magistrato in carriera alla ricerca di fama, la sentenza è sempre ingiustificata ed eccessiva. Al massimo il loro caso avrebbe dovuto essere discusso in sede civile, non certo penale.
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Ecco, a grandi linee la figura di Wanna Marchi può rientrare in questa tipologia. Con una caratteristica in più. Un'arma in più. Perché nella storia dell'ascesa e della caduta di Wanna Marchi da una parte c'è il telefono, ma dall'altra, importantissima, essenziale, definitiva, c'è la televisione. Il primo ingresso nella scatola quadrata, e dunque nelle case degli italiani, Wanna Marchi lo fa nel 1977, dagli studi di una televisione privata piemontese, Tele Torino. Della sua vita precedente, descritta con dovizia di particolari eroici e romantici nella sua autobiografia, Signori miei - in seguito ricondotta alla realtà dal bel libro di Stefano Zurlo, La Strega della tv: Wanna Marchi - qui non ci interessa molto. Tutto parte da quella sera in cui cominciano ad arrivare le prime telefonate, ai centralini di Tele Torino, per acquistare le alghe dimagranti della Bretagna che questa signora così aggressiva e convincente sta invitando a comprare. Anzi, sta convincendo tutti a comprare. No, di più, sta praticamente ordinando di comprare. Funziona talmente bene - Wanna Marchi «buca il video», come si dice in gergo televisivo - che da subito la cornice di quella piccola emittente locale alla signora appare troppo stretta. Sono gli anni dell'ascesa delle televisioni commerciali, le cosiddette tivù private, che proprio sulla pubblicità e sulle telepromozioni fanno la loro fortuna. Chi sa vendere bene ha lo stesso prestigio, e si ritiene possegga la stessa forza e lo stesso carisma, di chi sa cantare, ballare o recitare. In pratica possiede la stessa caratura di quello che una volta si chiamava presentatore, perché in effetti reggere uno spazio come quello che Wanna Marchi si trova a gestire quando passa a Rete A è come condurre uno show. Fatta così, la televendita è uno spettacolo e chi sa tene-
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re il microfono e la telecamera, arringare la gente oltre lo schermo, tenercela incollata e poi addirittura farla correre al telefono per spendere subito - non a distanza dunque, nel canone o nei prodotti pubblicizzati, ma ora - vale quanto un Pippo Baudo o un Mike Bongiorno. Così Wanna Marchi diventa ricca e famosa. La prima metà degli anni Ottanta la vede già al centro di un piccolo impero economico che parte dalla provincia di Bologna e arriva fino in Sardegna. Un salone di bellezza ad Ozzano, una villa sull'Appennino imolese, un'altra in Costa Smeralda, appartamenti a Bologna e Milano Marittima, un sacco di soldi su conti correnti nelle banche di San Marino. Ma il vero patrimonio di Wanna Marchi è Wanna Marchi. È il modello che rappresenta e che attraverso lo schermo si riverbera sul volto e nella testa di migliaia di italiani e soprattutto di italiane. Una donna aggressiva, decisa e decisionista, schietta e sincera. Popolare. Sana. Che dice quello che pensa senza guardare in faccia a nessuno. Non importa il possibile rovescio di ciascuno di questi aggettivi: arrogante, arrivista, impulsiva. Appariscente. Cattiva. Wanna Marchi è una star. E come le star fa cammei, comparsate e apparizioni in talk show, programmi e fiction, dove recita sempre lo stesso personaggio: se stessa. Come nella parodia dei Promessi Sposi del trio Solenghi-Marchesini-Lopez, in onda su Rai1 nel 1990, dove strilla per le strade della Milano del Seicento come in uno studio televisivo per vendere un unguento miracoloso contro la peste. Wanna Marchi buca il video. Fa anche un disco, un 45 giri del genere «demenziale da discoteca» che andava molto in quegli anni: una base dance e lei che strilla «d'accordo?» come quando vende i suoi prodotti. Finisce anche in classifica e la si può vedere in te-
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levisione, a «Superclassifica Show», assieme ai Pommodores, tre giovanotti in camicia hawaiana che fingono di suonare, mentre lei finge di cantare in un microfono rosa a forma di cuore. Wanna Marchi buca il video, esce dallo schermo e attraversa i media. Arriva persino a toccare l'arte, diventando il simbolo del cosiddetto trash, che significa spazzatura, ma non importa. La sua immagine è un'icona, riprodotta all'infinito come quella di Marilyn Monroe. Ci sono tante signore, in quegli anni, che si scolpiscono i capelli come lei, tingendoli di rosso o biondo platino a seconda del momento; che si fasciano in vestiti di marca dal taglio marziale e con un sorriso sprezzante dicono: «Ecco vede, signora mia, io sono un tipo così, a me non mi mette i piedi in testa nessuno». Wanna Marchi diventa ufficiosamente il simbolo del pragmatico e concreto modello emiliano di quegli anni. «Bologna è una ricca signora che fu contadina / benessere, ville, gioielli e salame in vetrina» canta Francesco Guerini in una delle sue canzoni più significative. Ecco, Wanna Marchi, con le sue alghe dimagranti al posto dei salami, è anche il simbolo di una Bologna che cerca di sembrare Milano, e tante volte ci riesce anche meglio. Poi, un giorno, Wanna Marchi perde tutto. Quasi tutto. A gestire il piccolo impero con base a Ozzano, provincia di Bologna, sono lei e sua figlia Stefania. Si impegnano in una grossa impresa, la creazione e il lancio di un profumo, una di quelle cose che fanno Calvin Klein, Armani o Christian Dior, mettendo in campo attrici da Oscar e top model. Loro provano a imporre sul mercato un profumo che si chiama «Flag». Viene pubblicizzato dal fidanzato di Stefania che arriva a cavallo su una spiaggia: una fragranza che sa «di maschio».
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Non funziona. Nelle casse della società di Wanna Marchi si apre un buco di cinque miliardi di lire - stiamo parlando della fine degli anni Ottanta - accresciuto dal tenore di vita folle che lei e sua figlia hanno mantenuto fino a quel momento. Bancarotta. Irregolarità fiscali. Un anno, undici mesi e venti giorni, con la condizionale. In galera non ci va, non sono in molti a finire dentro per questioni di soldi, però dopo una caduta di quel genere il mito di un modello esistenziale e imprenditoriale come Wanna Marchi dovrebbe essersi irrimediabilmente appannato. E invece no. Wanna Marchi ritorna, a dispetto di tutto e di tutti. È questa la sua forza, il suo genio. C'è un signore che si chiama Attilio Capra De Carré. È un marchese di Milano, con un bellissimo appartamento in centro e una società che produce televendite. Gli manca un venditore e non gli importa se Wanna Marchi è caduta così in basso da sembrare finita, lui sente il suo carisma, vede la sua aura da conduttrice di show, sa che lei è il David Lettermann delle telepromozioni, il Frank Sinatra degli studi con i centralini telefonici in batteria, il Marion Brando dei programmi col numero che lampeggia in sovraimpressione. Così la chiama e le fa un contratto per una serie di trasmissioni da diffondere attraverso Rete Mia. Wanna Marchi torna alla grande, e il suo successo sembra destinato a essere di nuovo quello di una volta. Ma adesso c'è qualcosa in più. Il marchese De Carré ha un cameriere tutto fare che si chiama Mario Pacheco Do Nascimento. Mario ha 29 anni, è brasiliano e viene dalle zone popolari di Bahia. È un bel ragazzo, molto alla moda e col mar-
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chese ha un rapporto piuttosto stretto, anche perché il nobiluomo è molto superstizioso e Mario Pacheco, a modo suo, è un mago. In Brasile si pratica il Candomblè, che è una di quelle religioni nate dall'incontro delle tradizioni animiste degli schiavi africani con il cristianesimo dei nuovi padroni, come anche la Santeria a Cuba o il Voodoo ad Haiti. Santi cristiani, figure come quelle di Gesù Cristo e della Madonna che si fondono con gli dei del pantheon africano e influenzano la vita degli uomini che li invocano attraverso riti, offerte e devozione. A iniziare Mario ai riti del Candomblè era stata sua nonna Esmeralda. Mario Pacheco conosce qualche rito, ha i suoi amuleti, ha il suo spirito guida, il suo Orixas, che nel suo caso si chiama Oxossi, dio della caccia, ma niente di più. Al marchese De Carré e a Wanna Marchi, però, viene in mente di coinvolgerlo nei loro affari. Perché adesso stanno vendendo qualcosa di diverso da un barattolo di miracolose alghe dimagranti. Quello che vendono ora è il miracolo stesso. Numeri da giocare al Lotto. Esorcismi contro il malocchio. Talismani a base di sale. Influenze positive in grado di risolvere tutti i mali. Insomma, vendono la fortuna. Ci vuole il genio di Wanna Marchi, la sua incredibile e ipnotica capacità di comunicare, per riuscire ad andare in televisione cotonata e corazzata come al solito, accanto a una figlia talmente abbronzata da sembrare cotta e a un giovane brasiliano con una polo arancione - più vicini alla pubblicità di un club mediterranée che alla classica iconografia esoterica - a gridare alla gente di comprare la Fortuna. Ci vuole il genio di Wanna Marchi per vendere il nulla. E per venderne così tanto. L'Asciè, la società che Wanna Marchi fonda nel 1996, dopo aver lasciato quella del marchese De Carré, incassa miliardi di lire, intasando gli uffici postali della zona con i pacchi spediti ai clienti al ritmo di ottocento al giorno.
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Ma non è tutto qui. Il problema, la cosa che rende antipatica tutta questa storia e i loro protagonisti, non è tanto quello che vendono, quanto il modo in cui lo fanno. E a chi. Alcuni chiamano per avere i numeri magici da giocare al Lotto venduti nel programma, l'oroscopo personalizzato, il talismano, la candela magica. Altri soltanto per raccontare i propri problemi al mago Do Nascimento, proposto come «maestro di vita». C'è talmente tanta solitudine in giro, tanta disperazione, tanta voglia di chiedere aiuto che anche una bolognese abbronzatissima e un playboy di Bahia vanno bene, soprattutto se davanti a loro c'è lei, il ciclone Wanna Marchi, che fa leva su tutto, l'amor proprio, la voglia di rivincita, l'autocommiserazione, tutto pur di convincere la gente a telefonare. Le sue non sono considerazioni, sono accuse. Ma come, sembra dire, la fortuna è qui e non ne approfittate? Allora se siete disgraziati è solo colpa vostra. È come per le alghe dimagranti, non si può essere grassi quando ci sono quelle. Garantisce Wanna Marchi. Non si può essere sfortunati quando c'è a disposizione il mago Do Nascimento. Garantisce Wanna Marchi. Una volta agganciati con la prima telefonata, tutto procede secondo le regole classiche dei telemarketing predators. I clienti vengono richiamati con nuove offerte, oppure sono loro che richiamano perché qualcosa non ha funzionato. La fortuna non è arrivata. Allora ecco il trucco, il lampo di genio. Genio del male. Perché i numeri o i riti del mago non hanno funzionato, dal momento che Wanna Marchi li garantiva? Perché Wanna Marchi si è sbagliata? No. Impossibile. Wanna Marchi non sbaglia. Non è sua la colpa.
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La colpa è di chi ha telefonato. L'operatore del centralino dice al cliente di aver parlato con il mago Do Nascimento, anche se, naturalmente, non è vero, è solo una finzione. È allarmato, l'operatore, perché il mago gli ha detto una brutta cosa che riguarda il cliente. Il mancato funzionamento del rito, infatti, la fortuna che non è arrivata, è il sintomo che rivela l'esistenza di una malattia. Il cliente è malato. È sfortunato. Ha il malocchio. C'è una prova, una prova scientifica che lo dimostra senza ombra di dubbio. Il rito consisteva nel mettere una grossa quantità di sale magico dentro un contenitore con dell'acqua, da tenere al buio. Una volta sciolto il sale, i desideri del cliente si sarebbero realizzati. Ma quando il cliente insoddisfatto, su richiesta dell'operatore, va a controllare, si accorge che il sale non si è sciolto. Ecco la prova. Se non si è sciolto allora c'è il malocchio. In realtà non avrebbe mai potuto sciogliersi. Ci sono le leggi della fisica. Una quantità di sale come quella prescritta satura l'acqua e resta sul fondo, soprattutto se l'acqua è fredda, come richiesto. Ma non importa, di fronte a molti che lo sanno ci sono tanti che non lo sanno, o non ci pensano. E anche questa è una delle armi dei telemarketing predators: la statistica dei grandi numeri. Tante telefonate, tanti rifiuti, tanti assensi. E ci pensa Wanna Marchi a fare in modo che le telefonate siano tante. Bene, quindi, il cliente ha il malocchio. Per curarlo bisogna fare qualcosa, un altro rito. E se non basta allora bisogna farne un altro. E poi un altro ancora e così via, fino all'esaurimento. Del cliente. Sono soprattutto donne, chiamano dal Sud, sono anzia-
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ne e hanno un basso grado di cultura. Ma non ci sono soltanto loro. Ci sono anche donne giovani, donne laureate e donne del Nord. E ci sono anche molti uomini. C'è una signora di Treviso che svuota di nascosto i conti della famiglia. Ci mette i suoi risparmi, il conto di casa, quello del marito idraulico, i soldi del figlio che si deve sposare, quelli della figlia, la pensione di sua madre, tutto in quell'avventura assurda che la sta mangiando viva. È come con il vizio del gioco: bisogna puntare ancora, rilanciare, se no si perde tutto. Così se ne vanno duecentocinquanta milioni, prima che i familiari se ne accorgano e riescano a fermarla. C'è una donna di Bergamo che versa all'Asciè più di trecentoventi milioni. Lei e suo marito hanno un'azienda agricola, non nuotano nell'oro, ma lei i soldi li trova lo stesso a botte di trenta-quaranta milioni, perché le hanno detto che se non paga, e quindi non passa al rito successivo, suo marito si ammala e muore, e come fai a non voler salvare la vita di tuo marito? C'è una signora toscana che vuole salvare la figlia che si droga. Deve pagare, se no la sfortuna si accanisce e la figlia muore di overdose. Deve pagare. La signora però non è ricca, è una pensionata dello Stato, dove li trova tutti quei soldi? Non importa: deve pagare. Così la signora si prostituisce e i soldi li trova. Duecentottanta milioni. Anche Maria Assunta paga per salvare i figli. Abita in provincia di Varese, sul lago Maggiore, comincia a chiedere l'aiuto del mago per riuscire a sposare un uomo che ha conosciuto, e si ritrova a cercare soldi per evitare che la negatività procuri un incidente mortale a suo figlio e a sua figlia. E poi anche al suo uomo, a sua cognata e a sua sorella. Seicento milioni. Sono brutte storie, bruttissime, e non importa quanto siano incredibili le minacce e le lusinghe della Asciè, o quanto siano stati ingenui quelli che ci sono cascati. Sono tutte
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vite rovinate, famiglie andate in fallimento, marito e moglie che si sono lasciati, donne che si sono prostituite, gente che è scappata di casa, ha tentato il suicidio, è caduta in una depressione da cui non si è riavuta mai più. A convincere tutte queste persone a sognare l'impossibile è Wanna Marchi. Ma Wanna Marchi non fa solo questo. Lei e sua figlia Stefania infieriscono sui clienti quando questi non vogliono continuare i riti e cercano di smettere di pagare. È allora che con la stessa forza e la stessa aggressività che dimostra durante le trasmissioni, con lo stesso genio comunicativo, Wanna aggredisce chi sta dall'altra parte del telefono e lo minaccia, lo insulta, lo massacra verbalmente. Gli prospetta le peggiori disgrazie facendole apparire come una colpa del malcapitato, una conseguenza del fatto che non vuole pagare. Molti dei suoi operatori non sono da meno. E neanche sua figlia Stefania. Sembra paradossale, ma a distruggere Wanna Marchi, che è un prodotto e un prodigio del video, è proprio la televisione. Le attività di Wanna Marchi e della Asciè erano già state denunciate in un libro da due ex collaboratori, Meglio soli che mago accompagnati, firmato con gli pseudonimi di Chiara Veggenza e Al Telefono. Erano state anche segnalate alla magistratura da un'associazione di consumatori, il Telefono Antiplagio, di Giovanni Panunzio; ed esaminate dal garante per la concorrenza. Ma non era successo praticamente niente, a parte un'indagine della guardia di finanza, ma per motivi fiscali. Fino al 2001. Tanto tempo prima, ancora negli anni Ottanta, una signora di Milano, un giorno, compra le alghe dimagranti di Wanna Marchi.
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Naturalmente il suo nome resta nel computer, e lì lo recuperano i telemarketing predators della Asciè. Chiamano la signora. Wanna Marchi, le dicono, l'ha sognata e vuole darle i numeri per vincere al Lotto. Però deve pagare. Trecentomila lire. La signora ringrazia e dice che non le interessa, figurarsi, tre fogli da centomila per ricevere una busta con i numeri di Wanna Marchi. Passino le alghe, ma a quello proprio non ci crede. Ne ride con suo figlio, che ha un'idea: scrive l'accaduto in una mail e la manda a «Striscia la Notizia». Il programma d'informazione e satira di Antonio Ricci ha una fissazione per i maghi e i truffatori. Manda uno dei suoi conduttori, Gimmy Ghione, a casa della signora, con una troupe. Richiamano la Asciè e registrano tutto: le offerte della ditta, le profezie di sventura, le ulteriori richieste, l'arrivo di un corriere, anche le minacce quando la signora si rifiuta di pagare, fatte al telefono da Stefania, la figlia di Wanna. «Se lei non ha dormito stanotte non dormirà più per tutta la sua vita, io le auguro tutto il male del mondo. Arrivederci.» «Striscia la Notizia» registra e filma tutto e il 27 novembre 2001 Wanna Marchi, sua figlia Stefania, il mago Do Nascimento e le imprese della Asciè vanno in onda su Canale 5, commentate da Enzo Iachetti ed Ezio Greggio. È a questo punto che un capitano della guardia di finanza di Milano, vedendo la replica notturna del servizio su Wanna Marchi ravvisa una serie di reati perseguibili per legge e apre un'indagine. Il capitano Cananzi prima sequestra la cassetta, poi trova un testimone - un ex collaboratore dell'Asciè che ha contattato un giornalista per raccontare quello che sa - e porta tutto al sostituto procuratore di turno, che apre un fascicolo sull'ipotesi di associazione a delinquere finalizzata alla truffa e all'estorsione. Nome dell'inchiesta: «Tapiro salato». Il passo successivo sono le perquisizioni alla sede dell'Asciè
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di via Zuretti, a Milano, alla villa di Wanna Marchi a Castel del Rio, sull'Appennino imolese, all'appartamento di Milano e a quello sul lago di Como. In via Zuretti non c'è nessuno, soltanto sacchi di sale, qualche appunto dimenticato, e tanti telefoni. Ma poi salta fuori la memoria del sistema informatico della Asciè, con tutto il database dell'azienda e un giro d'affari che arriva fino a sessanta miliardi di lire. Naturalmente la guardia di finanza mette sotto controllo tutti i telefoni degli inquisiti e così sente che Wanna Marchi e sua figlia Stefania stanno facendo i bagagli per trasferirsi in Spagna. Corrono a Castel del Rio, in piena notte, e le arrestano tutte e due, assieme al convivente della Marchi, Francesco Campana. Il capitano Cananzi ricorda che, mentre veniva ammanettata, Wanna Marchi aveva lanciato un urlo che gli era sembrato liberatorio e poi aveva cominciato a sbattere la testa contro il tavolo. Il maestro Mario Pacheco Do Nascimento, intanto, non c'è più. Ha fatto i bagagli più in fretta ed è volato in Brasile. Il genio, di solito, ha un limite, anche se i geni sono appunto quelle persone che i limiti proprio non li riconoscono. Ha un limite temporale, di quantità fisica, con un numero di cartucce che possono essere sparate e poi, quando sono finite, basta. Wanna Marchi, come tutti i geni, anche quelli del male, il proprio limite non lo riconosce e prova a fare per la seconda volta il miracolo della resurrezione, come quando era finita in bancarotta con i prodotti cosmetici ed era tornata con quelli della fortuna. Così anche dopo che l'hanno arrestata e poi scarcerata in attesa di giudizio, lei pensa di poter tornare di nuovo, di bucare il video un'altra volta. Di avere quel lampo di genio istintivo che la riporterà attraverso la televisione nel cuore e nel portafoglio degli italiani.
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Ma questa volta non le riesce. Si fa intervistare da Maurizio Belpietro alla trasmissione «L'Antipatico», su Italia 1, e tiene assieme a sua figlia Stefania un videoblog su internet che si chiama «Tutta la verità», dove Wanna, seduta sul divano di casa, parla a ruota libera su tutto con la solita aggressività, urlando e attaccando come faceva quando era in televisione. Riprende anche a televendere, su Lombardia 7, sempre assieme a sua figlia, in un programma dal titolo «Tremate, tremate, le streghe son tornate». Ma non funziona. Il maestro di vita Mario Pacheco Do Nascimento è già stato condannato nel maggio del 2003. Dal Brasile ha chiesto il rito abbreviato e ha patteggiato una condanna a quattro anni, poi ridotti a uno con l'indulto. Altri imputati minori hanno patteggiato come lui e sono stati condannati. Non è un buon viatico per i processi che attendono Wanna Marchi. La prima condanna per truffa, infatti, arriva il 3 aprile 2006. Due anni e sei mesi per Wanna Marchi e sua figlia Stefania. Il 9 maggio 2006 arriva la sentenza più importante, quella per l'associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata, indagata dall'operazione «Tapiro salato». Dieci anni a Wanna Marchi e a Stefania, quattro al convivente Francesco Campana. Contemporaneamente parte l'azione legale per il risarcimento delle vittime. Senza aspettare gli esiti di un nuovo processo civile i giudici del tribunale calcolano i danni e si rivalgono su quello che resta del patrimonio dell'Asciè e delle persone condannate. Mettono le mani su due milioni di euro circa, che secondo molti sono soltanto una parte dei beni accumulati; mancherebbero molti soldi, che si dice siano stati ritirati dai conti correnti delle banche di San Marino. Ma non importa, quello c'è, e quello viene diviso tra le
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vittime accertate della truffa, che in alcuni casi si vedono restituire, calcolati i danni morali, più soldi di quelli che avevano perduto. Il 27 marzo 2008 arriva la sentenza della Corte d'assise d'appello di Milano, che riduce le pene a nove anni e sei mesi per Wanna Marchi, a nove anni, quattro mesi e nove giorni per la figlia Stefania, e a tre anni, un mese e venti giorni per Francesco Campana. Il 4 giugno 2008 Wanna Marchi e sua figlia finiscono di nuovo in manette, arrestate dagli agenti della Squadra mobile di Milano per il sospetto che abbiano ricominciato a vendere sogni impossibili e soprattutto che si preparino a scappare di nuovo. Vengono rilasciate dopo alcuni giorni. Adesso Wanna Marchi, genio del male della televendita, numero uno dei telemarketing predators italiani, in televisione non ci va più. Il 4 marzo 2009 la Cassazione le ha confermato la sentenza condannandola a nove anni e sei mesi di reclusione. Anche togliendo l'anno di carcere che ha già scontato, sarà difficile rivederla in giro prima dell'estate del 2014.
Charles Ponzi Il truffatore
Truffare è un modo per prendersi qualcosa di valore ricorrendo all'inganno. Un termine abbastanza generico, perché nella categoria rientrano i finti incidenti, quelli messi in scena per intascare il premio di un'assicurazione, come pure le frodi più complesse ai danni di una multinazionale, pianificate nei minimi dettagli. In ogni tipo d'attività fraudolenta c'è alla base una pretesa economica eccessiva, ma il movente può nascere anche dalla paura di perdere, o dalla perdita di qualcosa che si possiede, come capita all'imprenditore di successo che incontra un momento difficile, un imprevisto che lo rende di colpo vulnerabile, minacciando di far saltare tutto quello che ha costruito. E in questi casi, la truffa può rappresentare una soluzione del problema, anche se illecita e a breve termine. Altri fattori che spingono verso una scelta criminale derivano dalle cattive abitudini, prima fra tutte il gioco d'azzardo, o la dipendenza da droghe. Anche una separazione, un divorzio, al di là del costo economico della faccenda, portano spesso a una improvvisa e drammatica caduta nello standard di vita, insieme a una sensazione di impotenza e risentimento. È quella che gli americani chiamano la «tesi delle tre B», Babes, Booze and Bets, donne, alcol e scommesse.
50 Il genio criminale Quanto agli elementi psicologici, abbastanza costante in tutti i tipi di truffa è il bisogno di esercitare un potere e un controllo, tanto sulla gente che sulla situazione. C'è chi arriva a frodare solo per questo, chi dice: «Mi piace portare la gente a fare quello che voglio, adoro condurre il gioco, dominare, mi sento una specie di artista». Se all'inizio il movente è il denaro, in seguito arriva la scoperta di quanto sia piacevole prendere in giro il mondo, sentirsi superiori a tutti. Il senso della padronanza sulla situazione, del controllo totale è più forte in certi tipi di frode: di solito in quelle complesse e a lungo termine, dove c'è il confronto, il brivido, tanto che qualcuno le ha definite una «sfida dell'Io». Truffatori di questo genere sanno bene che stanno commettendo un reato, ma alcuni riescono a giustificarsi, a dare una base razionale alle proprie azioni, a cancellare le regole morali interne servendosi della cosiddetta «tecnica di neutralizzazione». Per esempio, se il bersaglio è una grande azienda, «in fondo può permetterselo». E se invece tocca a un comune cittadino, il delinquente si convince che come tutti è una persona gretta e avida, che «in fondo se l'è cercata». E provare avversione o mancanza di rispetto per una vittima rende più facile imbrogliarla. Necessità, frustrazione, giustificazioni psicologiche, tutte cose interessanti, che bastano a spiegare quasi tutte le storie di truffe, ma non la straordinaria vicenda di un piccolo emigrante italiano. Carlo Ponzi nasce il 3 marzo 1882 a Lugo di Romagna, e da bambino si trasferisce con la famiglia a Parma. Frequenta le scuole pubbliche, il collegio, poi tre anni all'università di Roma, facoltà di giurisprudenza. Ma non è che nella capitale combini molto, se non girare per bar e osterie, e alla fine, a corto di denari, decide di cercare fortuna negli Stati Uniti.
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La madre e lo zio mettono insieme un centinaio di dollari in valuta americana e gli comprano un biglietto per il viaggio. Da un lato ai parenti spiace veder partire quel ragazzo sempre allegro, ma sono anche stanchi di metter mano al portafoglio per saldare i suoi debiti, per sistemare i guai che combina, i piccoli furti o gli assegni falsificati. A Boston, Carlo arriva insieme a una schiera di emigranti, con il piroscafo Vancouver. È la mattina del 15 novembre 1903, e in tasca ha solo due dollari e mezzo, perché il resto se l'è giocato durante la traversata. Bastano appena per il treno fino a Pittsburgh, dove lo aspetta un cugino, Joe Di Carlo. Con la famiglia Di Carlo, Ponzi resta per un anno, imparando l'inglese e dando una mano a Joe nell'attività di commercio di alimentari. Ma Pittsburg gli va stretta, gli sembra ancor più piccola e provinciale della Parma in cui è cresciuto, e allora decide di andarsene a New York. Per tre anni la sua unica preoccupazione è la sopravvivenza. Fa l'operaio in fabbrica, il commesso, il cameriere, ripara macchine per cucire e stira abiti per una sartoria. Si sposta da New York a Paterson, a New Haven e in un'altra dozzina di città, fino a toccare il fondo una sera di luglio del 1907, a Providence, nel Rhode Island, quando in poche ore un napoletano dalle mani svelte lo sfida a poker, ripulendolo dei pochi soldi che ha messo da parte. Per Carlo Ponzi, che adesso si fa chiamare Charles, è ora di cambiar aria, di seguire il consiglio di un amico che fa il lavapiatti. Qualche sera prima gli ha raccontato di un connazionale che sta facendo fortuna, si chiama Louis Zarossi, e ha appena aperto una banca a Montreal, nel Canada. Il Ponzi che lascia gli Stati Uniti è un uomo di venticinque anni dal fisico asciutto, non più alto di un metro e sessanta, ma quello che stupisce in lui, anche se la vita gli ha riservato ben poche soddisfazioni, sono gli occhi vivaci, il sorriso pronto, la sicurezza che mostra in qualunque circostanza.
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Si presenta così a Zarossi, sorridente, vestito dell'unico abito che possiede, ma lavato e stirato di fresco perché deve fare una buona impressione, e l'aspetto è una cosa importante. Naturalmente conquista il padrone della banca, convincendolo ad assumerlo. Zarossi gestisce i risparmi di molti emigranti italiani, ma non è certo un genio della finanza. Ponzi impiega poco a capire che la situazione è complicata, perché il suo principale ha reinvestito i soldi incassati in proprietà immobiliari a rischio. Una specie di speculazione che gli ha ridotto le disponibilità di liquidi, tanto che se un certo numero di risparmiatori avesse voluto indietro il proprio denaro, o lo avesse fatto qualche grosso creditore, la banca si sarebbe trovata davanti allo spettro del fallimento. È a questo punto che Charles Ponzi incontra per caso Angelo Salvati, un suo ex compagno di scuola e di bevute; e i due fanno in fretta a concertare un piano per appropriarsi dell'istituto di credito. Salvati, presentato come l'erede di una ricca famiglia italiana, penserà a recuperare il denaro sufficiente per dare tranquillità a Zarossi, e i primi cinquantamila dollari arriveranno dall'Italia nel giro di qualche settimana. Ovviamente non esiste alcuna somma in viaggio, ma la rassicurazione spinge Zarossi a esporsi ancor di più, e quando i due complici gli dicono che ci sono contrattempi, che è meglio che il banchiere si allontani per evitare l'arresto, lui ci crede e scappa in Messico, lasciando a loro il controllo della situazione. A Ponzi e Salvati basta solo aspettare qualche settimana, il tempo che le acque si calmino, per entrare in possesso della banca. Quello che Ponzi non immagina è che Salvati sia ancora più furbo di lui. Il suo suggerimento che anche Charles, essendo dipendente della banca, prenda il largo per un po', sembra del tutto innocente. Per andarsene, Charles non ha però in ta-
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sca altro che un assegno in bianco, rubato a uno dei clienti di Zarossi. Nessun problema, gli dice Salvati, ci penserà lui a scriverci sopra un importo ragionevole, metterci una firma fasulla, incassarlo e girare i soldi a Charles prima che qualcuno si accorga che è falso. La mattina dopo, mentre Charles sta facendo la valigia, alla porta della sua camera bussano gli agenti della polizia canadese, venuti per arrestarlo, con l'accusa di avere falsificato un assegno. Salvati lo ha venduto, ha fatto fuori in un sol colpo sia il banchiere Zarossi che l'amico di Parma. Con una condanna a tre anni di carcere, Ponzi finisce in una cella sudicia a Montreal, infestata dai pidocchi e dai ratti. Ci resta pochi giorni, perché finge di avere le convulsioni, e allora lo mandano nel penitenziario di St Vincent de Paul, dove almeno i pasti sono accettabili e ci sono pure i materassi sopra le brande. Ma non si scoraggia, e nemmeno smette di scrivere all'adorata mamma, un'abitudine che non ha mai trascurato fin da quando era sbarcato a Boston. Certo che alla donna non può raccontare la verità, le spezzerebbe il cuore, piuttosto la tranquillizza dicendole di aver trovato un ottimo posto di lavoro. È il primo assistente dei servizi sociali che lavorano con i detenuti canadesi! Intanto in carcere fa amicizia con un connazionale, Louis Cassullo, e quando arriva il condono, il 13 luglio del 1910, Cassullo gli raccomanda un nome. Se si troverà a corto di denaro, potrà andare a chiedere una mano a un suo amico, un certo Yacovelli, che ha una specie di agenzia di collocamento con cui piazza manodopera per le linee ferroviarie in costruzione. Ponzi si presenta qualche giorno dopo, ma Yacovelli non sa che farsene di un ex carcerato di un metro e sessanta, intelligente ma senza muscoli. Sta per cacciarlo, quando il nome di Cassullo gli fa cambiare idea. Forse un lavoro ce l'ha, si tratta di andare a Norwood, sul confine canadese,
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e accompagnare negli Stati Uniti cinque immigrati italiani che non capiscono una parola d'inglese. Una faccenda tranquilla, pochi soldi ma anche poca fatica. Alla frontiera un ispettore canadese dell'immigrazione sale sul treno, passa qualche minuto a chiacchierare con Ponzi poi gli chiede di fare da interprete con gli uomini che viaggiano con lui. Ma dopo qualche decina di miglia percorse nello Stato di New York, il convoglio si arresta bruscamente, e un paio di robusti poliziotti fanno scendere tutti. Per Ponzi l'accusa è di avere introdotto cinque clandestini violando le leggi sull'immigrazione. A nulla valgono le proteste di Charles: il fatto che al confine canadese l'abbiano lasciato passare senza problemi, e che stia viaggiando con i documenti in regola. Un giudice che va di fretta, in pochi minuti lo condanna a due anni di carcere e cinquecento dollari di multa. L'unico vantaggio, nel periodo trascorso nel penitenziario di Atlanta, in Georgia, è la compagnia delle migliori menti criminali del paese, come Ignazio Lupo, boss della «mano nera», e Charles Morse, banchiere condannato a quindici anni per appropriazione indebita. Ignazio Saietta, detto Ignazio Lupo, era nato il 19 marzo 1877 a Corleone, in Sicilia. Aveva dodici anni quando uccise un uomo per la prima volta, e perciò lo spedirono in America, dove in breve tempo diventò uno dei leader della mafia di New York. La sua base d'operazioni stava a Little Italy, a Manhattan, e lui aveva presto capito che l'alleanza con la famiglia Morello, che controllava l'East Harlem e il South Bronx, avrebbe giovato ai suoi affari. Al volgere del secolo aveva sposato così una Morello, diventando sempre più potente e spietato, tanto che a sentire il suo nome gli immigrati italiani erano soliti farsi subito un segno della croce. Nonostante avesse ucciso personalmente almeno sessanta persone, erano riusciti a incastrarlo solo nel 1910, con l'accusa di
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fabbricare banconote false, e lo avevano condannato a passare nel carcere di Atlanta la bellezza di trent'anni. Il killer prende a benvolere quel piccolo connazionale, e cerca di istruirlo, di spiegargli come cavarsela tra i criminali della peggior specie. Ma Ponzi non è fatto per le cose crudeli e feroci, a lui piace di più la compagnia del signor Morse. Il banchiere non manca mai di ripetergli che l'importante è mirare in alto. «Devi sempre avere una meta, Charles,» gli dice «una meta d'importanza sempre crescente. Se pensi che un migliaio di dollari possano bastare la prima volta che te ne occupi, un'ora più tardi ti renderai conto che potresti darti da fare per diecimila dollari. Di lì a un'altra ora penserai di potercela fare per dieci milioni. Il rischio è sempre lo stesso, no? Se hai il coraggio di darti da fare per il primo malloppo, allora avrai il coraggio di farcela per qualsiasi altra cosa.» Charles Morse il coraggio lo aveva avuto. Si era preso una condanna senza tirar in ballo gente che non avrebbe gradito, giudici, banchieri, uomini politici. E loro, riconoscenti, lo aspettavano all'uscita con un bell'assegno, un premio per la discrezione. Intanto il signor Morse ha scoperto come rubare ogni sera un pezzo di sapone dalla lavanderia del carcere, per poi mangiarselo e cominciare ad avere dei problemi di salute. Tre medici, dopo aver visitato Morse, riferiranno che l'uomo rischia la vita e che va immediatamente portato in ospedale. Lì, sul letto di morte, gli arriverà una lettera di perdono, firmata da William Howad Taft, ventisettesimo presidente degli Stati Uniti. Naturalmente il signor Morse miracolosamente guarirà, sopravvivendo per molti anni ancora alla letale malattia. Un grande insegnamento per Charles, che appena uscito dal carcere, se ne torna a Boston. Lì finisce per incontrare una giovane ragazza di origini italiane, Rose Gnecco, e i due diventano marito e moglie nel 1918.
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Charles nasconde a Rose il suo passato in galera, e non è che i primi tempi del matrimonio siano così tranquilli, perché Ponzi è un vulcano di idee, ma ben poche sono praticabili, né trovano un finanziatore disposto a sborsare il denaro. Come quando s'inventa la Guida del Commerciante. Ha scoperto che una ditta che vuole farsi pubblicità su riviste importanti deve sborsare almeno cinquecento dollari a pagina per vedere il proprio nome stampato in cinquantamila copie. Lui capisce che può ottenere il nome di duecentomila uomini d'affari stranieri dalla Camera di commercio e, attraverso i consolati, spedire loro, gratis, un raccoglitore e, ogni sei mesi, un fascicolo nelle diverse lingue, con articoli e inserzioni. Non chiederà denaro per la faccenda, tranne che per gli annunci pubblicitari, e chi pagherà per questi avrà modo di diffondere la propria immagine allo stesso prezzo pagato per la pubblicità su una rivista, ma per un numero ben maggiore di clienti potenziali. Anche se Charles Ponzi non riesce a convincere nessuno, e il disegno finisce abbandonato, non si può non ammirare la sua creatività. In fondo il suo progetto non era molto diverso dalle attuali Pagine Gialle. Ma se il mondo non è pronto, Charles Ponzi non sta ad aspettare, si prende un ufficio a Boston, al numero 27 di School Street, e per il momento ci mette una scrivania e un paio di sedie. Ha già dimenticato la Guida del Commerciante, quando gli arriva una lettera dalla Spagna, scritta dal responsabile di una piccola azienda, che ha saputo dell'iniziativa e gli chiede notizie del catalogo. Nella busta, insieme al foglio battuto a macchina, ci sono dei quadratini colorati, con su scritto «tagliando internazionale di risposta». Ponzi non ne aveva mai visti prima, non sa n e m m e n o cosa siano, ma capirlo non è difficile. Sono dei buoni, che possono essere scambiati con un fran-
Charles Ponzi 57 cobollo di un certo valore, o un suo equivalente, in un ufficio di qualunque Paese che appartenga all'Unione postale universale. Alla fine dell'Ottocento e agli inizi del Novecento, dall'Europa in crisi erano partiti milioni di emigranti, allettati da una prospettiva migliore, diretti verso gli Stati Uniti, il Canada o l'Argentina. Quasi tutti avevano trovato lavoro e stipendio, ma il cuore, quello era rimasto in patria, e nessuno voleva scordarsi del paese, dei parenti. Per mantenere un contatto non c'erano che le lettere, ma se chi scriveva poteva permettersi la spesa di spedizione, spesso chi era rimasto a casa non aveva nemmeno i soldi del francobollo per rispondere. Per questo a Roma, nel 1907, si era riunito un congresso postale internazionale, che aveva inventato il tagliando di risposta. E in una busta che partiva da New York, diretta in Sicilia, insieme alle novità c'era spazio per un buono. Chi riceveva la missiva, lo scambiava con un francobollo all'ufficio postale della sua città, e così poteva rispondere. Nessuno aveva mai fissato un limite per l'acquisto dei tagliandi, e Ponzi è certo di aver avuto un'idea geniale. Ma vuole avere un riscontro, e allora scrive a tre conoscenti, in Francia, Spagna e Italia, pregandoli di inviargli una lettera, ciascuna con dentro dei tagliandi acquistati nel loro paese. E nell'attesa che il piroscafo gli porti la risposta, se ne va alla Camera di commercio a registrare l'apertura della sua società, un'impresa individuale per la quale sceglie un nome altisonante, uno di quelli che non vuole dire niente ma che fa impressione: Security Exchange Company. Le lettere degli amici impiegano settimane per arrivare a Boston, ma vale la pena di aspettare. Per il gioco di prezzi dovuto all'inflazione, Ponzi scopre che acquistando un tagliando in un paese straniero, e convertendolo poi negli Stati Uniti, il margine di guadagno è sorprendente, il dieci
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per cento se il commercio si fa con la Spagna, fino al duecentotrenta per cento con l'Italia! E il bello è che è tutto perfettamente legale, una forma legittima d'arbitraggio, che significa comprare una merce a meno per rivenderla a un prezzo maggiore. Non è che il primo passo. Ponzi convince alcuni amici e conoscenti che, forte del sistema che ha scoperto, e che naturalmente non rivela nei dettagli, può garantire un utile del cinquanta per cento a quarantacinque giorni a tutti quelli che vorranno investire nella sua compagnia. È abilissimo Charles a invogliare i più ingenui, fingendo di avere per le mani un affare già adocchiato da molti. Dice di non avere bisogno delle poche centinaia di dollari che l'operaio, il commerciante, il compagno di bevute gli mettono in mano. Se accetta il loro denaro è solo per amicizia. Tutti ci cascano, gli consegnano i loro risparmi. Lui puntualmente paga loro quanto promesso: la cifra investita, maggiorata della metà. Lo «schema di Ponzi», come ancora oggi viene chiamato, non è una cosa complicata. I soldi consegnati dai «clienti» non sono reinvestiti in nessuna impresa, e gli utili vengono pagati usando i versamenti dei nuovi investitori. Il fatto è che quando Charles mostra che è in grado di mantenere l'impegno, nessuno ritira il proprio denaro, rimettendolo subito nelle mani dell'italiano. Tanto, pensano, dopo quarantacinque giorni ci sarà un altro cinquanta per cento in più. La voce si sparge in fretta, e la gente comincia a investire nella società di Ponzi. Nel febbraio del 1920 ha già intascato cinquemila dollari. Decide allora di assumere un buon numero di agenti, cui concede la generosa commissione del dieci per cento sulle entrate, poi si prende una segretaria, degli impiegati, arreda gli uffici. A marzo le entrate parlano di trentamila dollari, e lui apre nuove filiali nel New England e nel New Jersey. A maggio gli incassi sfiorano il mezzo milione, e Ponzi
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li deposita all'Hanover Trust Bank, un istituto sul quale ha messo gli occhi. Perché non smette mai di pensare in grande, adesso che la gente lo ferma per strada, che lo implora di accettare i suoi soldi. Può perfino considerare l'idea di diventare il primo azionista di una banca. In fondo ha un conto in sospeso con il passato, con la faccenda Zarossi a Montreal che ancora gli rode. A luglio i suoi conti ammontano a molti milioni di dollari, e, naturalmente, lui non ha mai più comprato un tagliando internazionale di risposta. Vive nel lusso, si è comprato una villa con piscina riscaldata a Lexington, una ventina di miglia dal centro di Boston, gira con l'ultimo modello di Locomobile guidata da un autista. Ma la cosa più importante per lui è essere riuscito a convincere sua madre a spostarsi dall'Italia, viaggiando in prima classe e con un guardaroba nuovo, degno di una regina. Intanto, discretamente, entra in possesso di qualche pacchetto azionario dei soci di minoranza dell'Hanover Trust Bank, che sa in difficoltà. È il preludio all'attacco, che conduce magistralmente. Fissa un appuntamento con il presidente della banca, il polacco Henry Chmielinski, e gli comunica che vuole acquisire il controllo dell'istituto. Ovvio che susciti prima lo sconcerto, poi l'ilarità e alla fine la rabbia dell'uomo. Ma chi crede di essere quel piccolo immigrato italiano per arrivare a minacciare un banchiere? Charles Ponzi non si scompone, ma minaccia di chiudere il conto corrente e riprendersi i denari che ha depositato se Chmielinski e i principali soci della Hanover decideranno di non assecondarlo. Tutti i suoi soldi subito e, naturalmente, in contanti. La banca non possiede una tale liquidità, così alla fine Chmielinski accetta di cedergli metà delle azioni, ma non di più, per evitare che si trasformi nel padrone incontrastato dell'istituto.
60 Il genio criminale Peccato non sappia di quelle altre quote che Charles ha messo in tasca qualche tempo prima, piccole ma sufficienti a garantirgli più del cinquantuno per cento. Il fenomeno Ponzi è ormai sulla bocca di tutti, lo chiamano «il Mago», e nemmeno gli esperti di Wall Street riescono a capire se si tratti di un genio, oppure di un formidabile mascalzone. Inevitabile che si faccia molti nemici, primi fra tutti i presidenti di altre banche, perché molti dei correntisti ritirano i loro risparmi con rendite garantite del quattro, massimo cinque per cento per portarli negli uffici della Security Exchange Company. E neppure l'ufficio del procuratore distrettuale è tranquillo, perché se è vero che l'America è piena di self made men, è altresì vero che Charles Ponzi sta andando troppo di fretta. Non mancano i momenti di crisi, quando qualcuno, adeguatamente prezzolato, sparge la voce che Ponzi non è in grado di restituire i soldi che ha incassato. Davanti agli uffici si scatenano risse, con centinaia di persone che rivogliono il loro denaro, tanto che occorre l'intervento della polizia per impedire che la situazione finisca male. Ma Ponzi non batte ciglio, arriva con la sua auto blu guidata dall'autista, e dà ordine che tutti quelli che lo desiderano siano immediatamente liquidati. Basta la sicurezza che mostra, il sorriso e la gentilezza con cui tratta tutti quelli che lo avvicinano, per far sì che in capo a un paio di giorni la tendenza si inverta, e di nuovo i suoi impiegati non riescano nemmeno a contare il denaro che arriva. Succede però una cosa che Ponzi non può prevedere. Si fa vivo un certo Joseph Daniels con un atto di citazione, nel quale sostiene che all'inizio della carriera l'italiano avrebbe comprato da lui i mobili degli uffici, e aggiunge di avergli prestato del denaro per avviare l'attività. Per questo Daniels è convinto di meritarsi una fetta dei guadagni della Security Exchange Company, almeno un milione di dollari.
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Ovviamente la richiesta è assurda, e dalle pagine del «Boston Post» la risposta di Ponzi è chiara: Non ho la minima idea delle ragioni che hanno motivato la denuncia del signor Daniels. Quando iniziai la mia attività, acquistai da lui i mobili degli uffici, ma quell'uomo non mi ha mai affidato i suoi denari perché li investissi. L'unica motivazione del suo gesto che riesca a immaginare potrebbe essere il desiderio di spillarmi dei soldi. Se la sua richiesta è fondata, non ci saranno difficoltà, dato che possiedo più di due milioni di dollari oltre al denaro sufficiente per far fronte a tutte le richieste di coloro che hanno investito capitali con me nell'intera nazione. Il fatto è che l'azione di Daniels provoca grossi problemi a Ponzi perché, nell'attesa di capirci qualcosa, il tribunale gli blocca i depositi bancari. Ormai sono in molti a interessarsi a Charles, e lui fa di tutto per tener lontano dalle preoccupazioni la madre e la moglie, la famiglia insomma, che per un emigrato come lui è qualcosa di sacro. Il «Post» gli sguinzaglia dietro i migliori cronisti, ma non sempre è critico, almeno nei primi tempi. Sulle pagine dell'edizione del 24 luglio, per esempio, compaiono ancora giudizi più che positivi: il sistema Ponzi funziona così bene che arrivano depositi per duecentocinquantamila dollari al giorno. Ma Grozier, il direttore del giornale, insiste, è convinto che ci sia qualcosa di illecito dietro alle attività di Ponzi, e si rivolge a uno dei maggiori esperti di economia del paese, Clarence Barron, titolare dell'agenzia di notizie finanziarie «Dow Jones & Company». Il 26 luglio 1920 la prima pagina del «Boston Post» titola a g r a n d i l e t t e r e : DUBBI SUGLI SCOPI NASCOSTI DIETRO
IL PIANO PONZI. Di seguito Barron scrive: Nessuno che possieda una vasta esperienza in materia finanziaria prenderebbe in considerazione la proposta di versare il proprio denaro dietro la semplice promessa di rice-
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vere un interesse del duecento per cento annuo. Se il signor Rockfeller, l'uomo più ricco del mondo, offrisse un interesse del cinquanta per cento, e si venisse a sapere che investe il suo denaro in azioni il cui rendimento non supera il cinque per cento, non riuscirebbe a trovare molti finanzieri disposti ad affidargli i loro capitali. E poi, in conclusione, Barron sferra il colpo del ko affermando che se veramente la Security Exchange Company fondasse le sue operazioni commerciali sull'acquisto dei tagliandi internazionali di risposta allora dovrebbe averne reperiti almeno centosessanta milioni. Una cosa impossibile, perché nel mondo non ne sono mai stati messi in circolazione più di ventisettemila. Nonostante Ponzi contesti le affermazioni di Barron, e annunci di volerlo querelare chiedendogli cinque milioni di dollari di danni, le dichiarazioni dell'esperto provocano un cataclisma. Nel giro di tre giorni Charles è costretto a rifondere due milioni di dollari in contanti agli investitori impazziti. Un tracollo che sconvolgerebbe chiunque, ma non l'italiano, che non perde il sorriso, e la convinzione che riuscirà a trarsi d'impiccio. Qualcuno gli suggerisce di filarsela, portandosi via quello che ha in cassa, che è ancora moltissimo. Ma l'idea non lo sfiora nemmeno, perché non può abbandonare tutta quella gente che ancora crede in lui, che lo ammira perché spera di cambiar vita, di avviare un'attività in proprio, di riabbracciare la famiglia rimasta nel paese di origine. È sicuro di poter utilizzare la fortuna accumulata in un'impresa che gli permetterà di restituire tutti gli interessi che ha promesso. Non sa ancora quale sarà questa impresa, ma è certo che riuscirà a trovarla. Arriva perfino a discutere con alcuni presidenti di banche, tra cui la «sua» Hanover Trust, della possibilità di mettersi nel giro delle flotte navali, acquistando tutte le imbarcazioni americane reduci dalla Prima guerra mondiale per poi riconvertirle ai traffici commerciali.
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Sarebbe un'azione patriottica, un'iniziativa che farebbe presa sui suoi investitori, basterebbe mettere insieme trecento milioni di dollari, una cosa non impossibile per la Security Exchange Company. Ormai siamo alla fine. James McMasters, il suo responsabile del marketing, lo convince a partecipare a un incontro negli uffici della procura generale di Boston, e poi ad accogliere la richiesta che un revisore contabile metta mano ai registri della Security Exchange Company Ponzi accetta, convinto che nessuno riuscirà a venire a capo di tutte le schede e i libri mastri e le migliaia di ricevute. Ci vorranno mesi, e intanto lui avrà trovato una soluzione, ma i pubblici ministeri vanno oltre, gli chiedono un'azione di buona volontà. Se davvero non ha nulla da nascondere, allora può sospendere sia il deposito di nuovo denaro, sia la restituzione di quello versato. Si tratta di un provvedimento temporaneo, per permettere un controllo più veloce agli incaricati della procura. Un'altra tegola, ma non è nulla a confronto di quello che leggerà sul «Boston Post», il 2 agosto 1920. PONZI I R R I M E D I A B I L M E N T E INSOLVENTE.
Si tratta di un articolo scritto dal suo ex dipendente James McMasters, che sostiene: È uno squilibrato, almeno per quanto riguarda le sue operazioni finanziarie. Ritiene di valere milioni, invece è irrimediabilmente fallito. Nessuno potrà negarlo dopo aver letto questo articolo. Si scoprirà poi che McMasters ha accettato cinquecento dollari per raccontare la verità, anche se lui dirà che lo ha fatto solo per amore della giustizia. In casa Ponzi la situazione è strana. Rose e la mamma di Charles non riescono a capirci nulla, assediate da giornalisti che invadono il giardino, bussano alla porta e cercano perfino di entrare dalle finestre. È un
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brutto momento, le tranquillizza Charles, ci sono stati degli equivoci, ma presto si risolverà ogni cosa. Solo che i cronisti del «Post» non mollano, e alla fine si buttano sul suo passato. Basta una gita a Montreal con una foto e qualche dollaro per lubrificare la memoria, ed ecco pronti i secondini che non si sono scordati di Charles, quel giovane italiano finito in carcere per una truffa ai danni di una banca, la banca Zarossi, se ricordano bene. Negli uffici del tribunale di Boston c'è il revisore contabile che ha finito il suo lavoro, e il procuratore generale con i suoi vice. Gli contestano debiti per sette milioni di dollari, più di settanta al cambio dei nostri giorni. Lui, tranquillamente, risponde che non è in grado di recuperarne più di tre, offrendo i polsi alle manette. Mentre il «Boston Post» riceve il premio Pulitzer per il miglior servizio giornalistico dell'anno, Charles Ponzi arriva nel carcere di East Cambridge. Lo trattano come una specie di celebrità, e lui, seppur colpito, non smette di combattere. Nei mesi che seguono incontra i suoi avvocati, aiuta i revisori dei conti nominati dal tribunale per capire cosa si possa restituire agli investitori della Security Exchange Company. Ci vorranno dieci anni di lavoro per arrivare a stendere il rapporto definitivo sul fallimento, dove sta scritto che i debiti accumulati da Ponzi ammontano a poco meno di quattro milioni di dollari, compresi i sedicimila investiti da moglie, zii e parenti vari. Alla fine di un'aspra battaglia legale, fatta di competenze e giurisdizioni, Charles Ponzi sconta una prima condanna a tre anni e mezzo nel penitenziario di Plymouth, e poi a sette anni e mezzo nella prigione di Stato di Charleston. Mentre è in carcere, la madre muore, assistita da Rose, che non abbandona mai il marito. Ha trovato un lavoro da contabile e segretaria al Coconut Grove, il famoso locale
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di Boston, e non manca mai il giorno di visita ai detenuti. Quando Charles esce di prigione, il 14 febbraio 1934, lei è lì ad aspettarlo. Ma non è sola, con lei ci sono un paio di funzionari del dipartimento Immigrazione che consegnano a «Carlo» Ponzi un decreto di espulsione, come persona indesiderata per gli Stati Uniti. Perché lui, in tutti quegli anni, non si è mai preoccupato di prendere la cittadinanza americana. Ingrassato, ormai quasi calvo, Ponzi cerca di ottenere una proroga all'estradizione, senza alcun risultato. Vogliono che s'imbarchi il 7 ottobre sulla motonave Vulcanici, diretta in Italia, e anzi per paura che scappi, qualche giorno prima lo arrestano e lo tengono dietro le sbarre fino alla partenza. La scena del commiato sembra riportarlo ai vecchi tempi. Giornalisti, fotografi, e poi una conferenza stampa in cui Carlo annuncia di avere ancora un sacco di amici, amici che hanno fatto per lui una colletta perché viaggi in prima classe, e non nella terza come da biglietto gentilmente offerto dal governo u s a . Manca solo Rose. Sono d'accordo che lui comincerà a sistemarsi e, una volta trovati una casa e un lavoro in Italia, la moglie lo raggiungerà. Le sue ultime parole sul suolo americano s o n o per Franklin Delano Roosevelt. Con il sorriso che gli allarga il volto, augura al presidente il successo per il suo programma di ripresa economica. Ma a Roma non c'è nessuno ad aspettarlo. Trova lavoro come contabile, poi come piazzista di materiali da costruzioni, si mette anche a scrivere la sua biografia, che intitola L'ascesa del signor Ponzi, ma non trova nessuno che voglia finanziarne la pubblicazione. Scrive a Rose, chiedendole di darsi da fare con gli amici, che certo il libro si venderà come il pane.
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Passati due anni senza che Charles riesca a combinare nulla, Rose gli risponde con i documenti per il divorzio. Ponzi incassa, all'apparenza senza soffrirne più di tanto, ma trascorse un paio di settimane convoca una conferenza stampa. Ce l'ha con la moglie, con la comunità di Boston, e anzi annuncia che ha pronto un memoriale esplosivo, che rivelerà i segreti più nascosti dell'establishment bostoniano, facendo saltare parecchie teste. Ma, passati pochi mesi, è costretto a rivelare che è tutto un bluff, un modo per attirare l'attenzione e magari qualche soldo. Nel 1939, però, la fortuna gira di nuovo per il verso giusto. Ponzi ha un cugino che lo ha preso in simpatia, si chiama Attilio Biseo e fa il colonnello dell'aviazione. Biseo non è un uomo qualunque, è il comandante della squadriglia dei «Sorci Verdi» e il pilota personale di Benito Mussolini. A lui il governo affida l'incarico di avviare un servizio di linea tra l'Italia e il Brasile. La nuova compagnia che gestisce la tratta viene denominata LATI, che sta per Linee aeree transatlantiche italiane, e Biseo offre al cugino il posto di direttore commerciale. È l'occasione del grande rientro, e Charles Ponzi non se la fa sfuggire. Viaggia in prima classe sul piroscafo diretto a Rio de Janeiro, dove prende alloggio nell'albergo più lussuoso, l'hotel Gloria, prima di trasferirsi in una splendida casa con vista sull'oceano. Peccato che la guerra porti il governo brasiliano a controllare con attenzione i voli della compagnia, e così a scoprire che sugli aerei non si trasportano solo passeggeri e merce regolarmente denunciata, ma più spesso diamanti e materiale per l'industria bellica dei paesi dell'Asse, e anche spie, microfilm, dossier segreti. Quando poi gli Stati Uniti entrano in guerra, nel dicembre del '41, la LATI viene sciolta. Con i soldi della liquidazione, Ponzi si lancia in una serie d'iniziative che falliscono una dopo l'altra.
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Apre una piccola pensione, poi un negozio di rosticceria, e alla fine è costretto a vendersi anche l'appartamento dove vive e a trasferirsi in un modesto alloggio in affitto, in un quartiere popolare di Rio de Janeiro. Trova ancora lavoro a trecento dollari al mese come interprete in una ditta di importazione, ma la vista comincia a fargli difetto e, nel gennaio del 1948, un'ischemia cerebrale gli paralizza metà del corpo. Deve ringraziare i pochi amici che ancora gli stanno accanto se riesce a trovare un posto all'ospedale pubblico Sào Francisco de Assis. Un'operazione agli occhi gli restituisce la vista, e allora lui torna a scrivere a Rose, a chiederle notizie della sua vita, di come se la passi negli Stati Uniti dopo la fine della guerra. Lei non gli risponde mai. Ma Charles Ponzi è sempre allegro, sempre pronto alla battuta, a raccontare a tutti come ha già pronto un nuovo progetto per quando lascerà la clinica, appena avrà recuperato un po' di forze. Lo stanno ad ascoltare i medici e le infermiere, e anche gli altri malati, perché è simpatico, e poi non costa nulla dar corda ai sogni di un vecchio. È il 14 gennaio 1949, una mattina di sole che inonda la stanza, quando il suo vicino di letto gli chiede c o m e va. Ponzi sorride, risponde che va tutto bene. Come sempre. Sono le sue ultime parole.
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Il successo di ogni fuga dipende dalla pianificazione. Bisogna conoscere tutto del posto dove ti hanno rinchiuso, e non si tratta solo dei materiali con cui sono costruite le pareti, delle planimetrie, dei sistemi di sorveglianza, del numero delle guardie e delle loro abitudini. Un carcere, una prigione, è in fondo un piccolo mondo artificiale che non può sopravvivere senza un sistema di regole. Ma non basta, perché c'è anche da pensare al dopo, servono cibo e vestiti, denaro con cui comprare un posto dove nascondersi e magari una nuova identità. È dovere di ogni soldato catturato in guerra tentare di evadere dal carcere dove il nemico lo ha confinato. I criminali non sentono alcun dovere, se non verso se stessi, ma non per questo la libertà per loro vale meno. E poi alcuni, quelli condannati per gravi delitti, non hanno niente da perdere. È quello che succede a County Antrim, nel Nord dell'Irlanda, il 25 settembre 1983. Quel giorno, dal blocco H7 del carcere, scappano trentanove appartenenti all'IRA, l'Irish Republican Army, detenuti per reati gravi, dall'attentato dinamitardo all'omicidio. Nella fuga restano ferite almeno venti persone, di cui due colpite da armi da fuoco che qualcuno ha fatto entrare di nascosto nel penitenziario, e un agente, accoltellato, ci rimette la pelle.
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E pensare che la prigione era considerata una delle più sicure di tutta la Gran Bretagna, circondata com'era da mura alte quattro metri e mezzo. In più, ciascun blocco a sua volta era delimitato da una cinta più alta, sormontata da filo spinato, e tutte le porte e i cancelli, in solido acciaio, potevano essere comandati solo elettronicamente a distanza. Sono appena passate le 14.30 quando i detenuti, armati di pistole, fucili e coltelli, prendono il controllo della sezione H7, costringendo le guardie a spogliarsi e a consegnare le chiavi delle loro auto. Alle 15.25 sequestrano il camion che ogni giorno consegna le provviste per la cucina, e ci saltano sopra, dopo avere legato il conducente bloccandogli i piedi al pedale della frizione. Sotto la minaccia di un'arma gli dicono che strada fare, e pochi minuti dopo sono fuori dal carcere. Diciannove li riprendono subito, quattro in un ruscello vicino, nascosti sott'acqua a respirare con una cannuccia, ma gli altri riescono a scomparire, per diversi anni. Nel 1992 ne vengono catturati cinque, e tre muoiono in un'imboscata. Il resto degli evasi, qualche tempo dopo, beneficia di un'amnistia, frutto dei nuovi accordi di collaborazione tra separatisti irlandesi e governo britannico. Questo è successo a County Antrim, nel Nord dell'Irlanda, una storia finita nella top ten delle fughe impossibili. Ma se c'è un carcere al mondo il cui nome riporta subito a detenuti speciali ed evasioni incredibili, quello è il penitenziario di Alcatraz. Alcatraz è una piccola isola dalla storia antica, a un paio di chilometri dalla costa dove sorge San Francisco. Il nome, che deriva dallo spagnolo alcatraces e vuol dire pellicano, glielo dà nel 1775 l'esploratore spagnolo Juan Manuel de Ayala, che per primo arriva nella baia. Il fatto poi di essere costituita da un unico, enorme blocco di rocce le merita il soprannome di «The Rock». Nel 1850 una disposizione del presidente Millard Fillmo-
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re, stabilisce che l'isola può essere impiegata come riserva militare degli Stati Uniti. Pochi anni dopo, la grande corsa all'oro in California innesca la vertiginosa crescita di San Francisco e la necessità di proteggere la baia. Per questo motivo la US Army fabbrica sull'isola rocciosa una cittadella, una specie di fortezza dotata di un centinaio di cannoni. Alcatraz diventa la roccaforte più difesa dell'intera costa ovest, e insieme a Fort Point e a Lime Point forma un triangolo a protezione dell'entrata della baia, oltre a essere la sede del primo faro in attività sulla West Coast. La US Army occupa l'isola per più di ottanta anni, dal 1850 fino al 1933, quando il dipartimento di Giustizia ne diventa il nuovo proprietario, e vi apre un penitenziario di massima sicurezza, riservato ai peggiori criminali. È un momento particolare nella storia degli Stati Uniti, con l'escalation criminale degli anni '20 e '30, e il governo americano vuole mostrare i muscoli, far capire che non c'è tolleranza per chi commette gravi delitti. Anche se bisogna dire, a onor del vero, che Alcatraz non somiglierà mai all'Isola del Diavolo, quella di Papillon, nella Guyana francese, da dove era un'impresa uscire vivi. A parte qualche celebre criminale, la maggior parte dei millecinquecentosettantasei prigionieri che passano da «The Rock» sono delinquenti che si rifiutano di sottostare alle regole e alla disciplina del carcere, gente violenta e pericolosa, oppure a rischio di evasione. Chiunque di loro arrivi ad Alcatraz sa di avere diritto a quattro cose: alloggio, cibo, vestiti e assistenza medica. Tutto il resto, la possibilità di avere un lavoro, di ricevere visite, di recarsi in biblioteca, far musica o dipingere, è un privilegio che va guadagnato. E poi, per educare al rispetto, niente è più efficace della routine, della monotonia delle giornate scandite da un regolamento che non prevede sbavature. Il sistema comunque non ha fretta e, in media, impiega cinque anni ad ammorbidire un detenuto, disinnescarne l'aggressività e uniformarlo
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alle regole. A questo punto è pronto per passare a un altro penitenziario, un carcere meno duro dove finire la pena. Ma qualcosa di positivo ad Alcatraz c'è, per esempio il fatto che tutte le celle siano singole, una caratteristica apprezzata dai tanti psicopatici asociali che riempiono le prigioni. Misurano un metro e mezzo per due e settanta, e dentro c'è appena spazio per un lavandino, un water e una branda. Nelle celle di isolamento si sta un poco più larghi, ma chiusi ventiquattr'ore al giorno, con l'eccezione di un'uscita alla settimana nel cortile, e sempre da soli. Ai detenuti è concessa una sola visita al mese, parlando attraverso un telefono dietro una lastra di vetro, con un agente sempre ad ascoltare, a controllare che non si discuta mai di cose che hanno a che fare col carcere. Ad Alcatraz il numero dei carcerati non raggiunge mai la capienza massima di trecentotrentasei unità, variando in media tra i duecentossessanta e i duecentosettantacinque carcerati, vale a dire meno dell'un per cento degli ospiti rinchiusi nelle prigioni federali degli States. Anche le famiglie dei secondini, compresi mogli e figli, abitano sull'isola, e i civili sono più o meno trecento. Per tutti, il contatto con la terraferma è assicurato da un battello che va avanti e indietro una dozzina di volte al giorno. Quanto a personaggi celebri, Al Capone ad Alcatraz ci arriva nel 1934. È ancora famoso e potente, ma a «The Rock» non impressiona nessuno. Gli dicono subito e chiaramente di non aspettarsi favori, di scordarsi l'andazzo del carcere di Atlanta, dove ha continuato a gestire i suoi traffici dietro le sbarre, corrompendo le guardie. Sull'isola dei pellicani «Scarface» passa solo quattro anni e mezzo, prima di manifestare i segni della demenza dovuta a una sifilide cerebrale ed essere perciò trasferito nel carcere federale di Terminal Island, a Los Angeles. Qualche mese dopo di lui sbarca ad Alcatraz George «Machine Gun» Kelly, con la fama d'essere uno dei peggiori gangster della storia.
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George Kelly Barnes nasce il 18 luglio 1895 da una ricca famiglia di Memphis. Trascorsa un'infanzia tranquilla, frequenta la Idlewild Elementary e poi la Central High School, ma i suoi problemi cominciano con l'università, alla facoltà di Agraria del Mississipi. Studente indisciplinato e mediocre, viene cacciato dopo pochi mesi, e lui, anziché preoccuparsi della cosa, decide di sposare la ragazza con cui esce da un po', Geneva Ramsey. Non è che l'abbandono della scuola e il matrimonio, accompagnato dalla nascita di due bimbi, siano ben accolti dalla famiglia Kelly, ma George, anziché affrontare la questione, preferisce troncare ogni rapporto con i genitori. Senza soldi, però, la storia con Geneva si conclude con un rapido divorzio. Il proibizionismo gli fornisce l'opportunità di ritagliarsi un suo spazio, ovviamente criminale. Così si dà allo spaccio clandestino di alcolici, cosa che gli procura guai con la polizia di Memphis, e allora cambia aria, con la sua nuova ragazza. Continua però a commettere piccoli crimini, a trafficare con l'alcol, tanto che lo arrestano a Tulsa, in Oklahoma, mentre cerca di contrabbandare liquori nella riserva indiana. Nel febbraio del 1928 lo spediscono per tre anni al penitenziario di Leavenworth, ma sconta solo una parte della pena, perché la buona condotta gli permette presto di uscire. Appena libero sposa Kathryn Thorne, che da qui in avanti gli farà da moglie e da agente pubblicitaria. È Kathryn che gli regala il primo mitragliatore, il primo machine gun, e s'inventa il soprannome che lega il marito all'arma, raccontando a tutti come il suo uomo sia una spietata macchina da guerra. In realtà Machine Gun Kelly non va oltre la rapina a piccole banche, e piuttosto la sua carriera criminale prende la svolta definitiva con il rapimento di un facoltoso cittadino di Oklahoma City, Charles Urschel. Una vicenda all'insegna dell'improvvisazione, che si conclude frettolosamente
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il 31 luglio 1933 con la liberazione dell'ostaggio, nel tentativo di fermare la caccia all'uomo scatenata dall'FBI. Tentativo vano, perché gli agenti federali certo non si accontentano, e il 26 settembre fanno irruzione in un appartamento di Memphis dove si nascondono Kelly e la moglie. Le cronache dicono che Kelly, disarmato e impaurito, si sia messo a gridare «Don't shoot, G-Men! Don't shoot, GMen!», non sparate G-Men, dove la G sta per Governo. Ecco da dove arriva il soprannome «G-Man», che da qui in avanti diventa il sinonimo di «agente dell'FBI». Portati davanti a un giudice, il 12 ottobre 1933 Kathryn Thorne e George Machine Gun Kelly vengono condannati al carcere a vita. Lei uscirà nel 1958, mentre suo marito muore d'infarto quattro anni prima, nel penitenziario di Leavenworth, il giorno del suo cinquantanovesimo compleanno. La vicenda del rapimento di Charles Urschel è comunque importante nella storia del crimine per una serie di ragioni. Si tratta del primo grosso caso risolto dal Federai Bureau di J. Edgar Hoover, ed è anche il primo processo per rapimento dopo l'entrata in vigore della legge Lindbergh. Per questo la condanna inflitta ai due è durissima, ed è la prima e unica volta in cui le telecamere sono ammesse in aula durante un processo per un crimine federale. Ad Alcatraz, Kelly va in giro vantandosi di un mucchio di rapine e omicidi che in realtà non ha mai commesso. Se per le guardie è un detenuto modello, per i detenuti si tratta di un seccante millantatore, e invece di chiamarlo Machine Gun, lo pigliano in giro dandogli del «pop gun». Di tutt'altro spessore rispetto a George, è un altro detenuto, forse il più famoso nella storia di Alcatraz, che arriva nel 1942 e ci trascorre diciassette anni. Si chiama Robert Franklin Stroud, più noto come «the birdman of Alcatraz», l'uomo degli uccelli. Famoso, «Birdman» lo diventa anche perché nel 1962 John Frankenheimer si ispira a lui per un film con Burt Lancaster nel ruolo del detenuto.
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Nato a Seattle da genitori di origini tedesche, Robert scappa di casa che ha appena tredici anni, e a diciassette si mette con Kitty O'Brien, una spogliarellista molto più vecchia di lui. Il 18 gennaio 1909 un amico della donna, Charlie Von Dahmer, aggredisce Kitty, scatenando la reazione di Stroud. Questi, dopo averlo stordito a pugni, mentre è a terra privo di sensi, estrae una pistola e lo ammazza. La madre gli procura un buon avvocato, talmente bravo che strappa alla corte un verdetto ragionevole: dodici anni da passare nel penitenziario federale della McNeil Island. Ma Stroud non sopporta regole e disciplina, aggredisce una guardia nel tentativo di rubare un po' di morfina dall'infermeria, poi accoltella un altro detenuto. Gli rifilano altri sei mesi, e lo trasferiscono a Leavenworth. Lì le cose vanno ancora peggio, quando un secondino gli fa rapporto per una sciocchezza. Niente di grave, se non fosse che la cosa rischia di fargli saltare un permesso di colloquio con il fratello più giovane, un incontro che aspetta da otto anni. Stroud è incontenibile e, accecato dalla rabbia, ferisce a morte il sorvegliante. È il 26 marzo 1916 e questa volta lo condannano a morte per impiccagione. Deve ringraziare ancora la mamma, e anche il presidente Woodrow Wilson che accoglie l'appello della donna, trasformando la sentenza capitale nel carcere a vita. A questo punto comincia la storia di «Birdman». Un giorno, mentre passeggia nel cortile di Leavenworth, trova tre passeri feriti a terra. Li raccoglie e se li porta in cella per curarli. Il tempo non gli manca certo, e lui lo passa a studiare, accudire e allevare piccoli uccelli. Quando nel penitenziario arriva un nuovo direttore, capisce subito che può sfruttare la passione di quel detenuto per farsi pubblicità, per presentare Leavenworth come una struttura all'avanguardia, dove si fa riabilitazione sperimentando nuove strade.
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Così rifornisce Stroud di gabbie, mangime, farmaci, e nel giro di qualche anno l'ergastolano arriva a tenere almeno trecento canarini nella sua cella, oltre a scrivere due importanti volumi scientifici sulle patologie aviarie. Ormai è un mito nella comunità degli ornitologi, e un'enorme seccatura per gli agenti del penitenziario. Gli danno una cella in più, ma non basta a contenere la sporcizia e la confusione di tutti quegli animali in cattività. Nel 1931 provano a requisirgli tutto, ma lui riesce ad arrivare sulle prime pagine dei giornali. Appare come una povera vittima del sistema, un criminale redento, al quale vogliono crudelmente ostacolare un'innocente passatempo. Sono in cinquantamila a sottoscrivere la petizione, a dire che Birdman non può vivere senza i suoi passeri e i suoi canarini. Stroud vince la battaglia. Anche se, qualche anno dopo, si scoprirà che l'attrezzatura del laboratorio veterinario non si limitava a dare sollievo ai suoi piccoli amici, ma serviva piuttosto a lui per distillare artigianalmente un po' di alcolici. Quando Birdman varca i cancelli di Alcatraz, ormai la passione degli uccelli gli è passata, lavora piuttosto a un paio di libri. Il primo è un racconto autobiografico, mentre il secondo è la storia del sistema carcerario degli Stati Uniti dai tempi delle colonie. A «The Rock» trascorre sei anni in isolamento e undici nel reparto infermeria. Lo psichiatra che lo visita, il dottor Romney M. Ritchey, scopre che ha un elevato quoziente di intelligenza, 134, abbinato purtroppo a una personalità psicopatica irrecuperabile. Quando la sua salute peggiora, nel 1959, lo trasferiscono al Medicai Center for Federal Prisoners di Springfield, nel Missouri, e lì muore il 21 novembre 1963. Dei settantatré anni che ha vissuto, cinquantaquattro li ha passati in carcere, e di questi quarantadue in isolamento. Ma anche se vecchio e stanco, fino all'ultimo non ha smesso di chiedere notizie della clamorosa fuga da Alcatraz, quella dell'11 giugno 1962.
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Alcatraz, «The Rock»: nei 29 anni in cui il penitenziario rimane aperto, otto detenuti vengono uccisi da altri compagni, cinque si suicidano e quindici muoiono per cause naturali. In media ogni detenuto ci passa otto anni della sua vita. Troppi per non pensare a scappare, ogni momento. Ci provano in trentasei. Ventitré li catturano. Sette li uccidono durante il tentativo di evasione. Due affogano nella baia di San Francisco. Due riescono a farcela, ma perché li trovino e li riportino indietro è solo questione di ore. Sul fascicolo di cinque c'è ancora stampato in copertina missing and presumed drowned, dispersi e probabilmente annegati. Il primo a provarci, il 27 aprile 1936, si chiama Joe Bowers. Sta scaricando immondizia nell'inceneritore quando, all'improvviso, comincia ad arrampicarsi tentando di scavalcare la rete di recinzione. Gli gridano di fermarsi, di tornare indietro, poi sparano. Bowers fa un volo di una ventina di metri, e muore per le ferite provocate dall'impatto. Passa più di un anno e, il 16 dicembre 1937, tocca a Theodore Cole e Ralph Roe. C'è una tempesta formidabile, i due forzano le sbarre di una finestra del locale dove stanno lavorando, raggiungono la costa e si gettano nelle acque della baia. Non li troveranno più, anche se un reporter del «San Francisco Chronicle», qualche anno dopo, dirà di aver riconosciuto Cole in un taxista incontrato in Sud America. Il 23 maggio 1938 James Limerick, Jimmy Lucas e Rufus Franklin sono al lavoro, fuori dal blocco delle celle. Approfittando di un momento di distrazione, attaccano la guardia, Royal Cline, colpendolo a morte con un martello, poi saltano sul tetto nel tentativo di raggiungere e disarmare
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l'agente alla torretta. Ma lui, Harold Stites, li vede arrivare e spara, uccidendo Limerick e costringendo alla resa Lucas e Franklin. Arthur «Doc» Barker, Dale Stamphill, William Martin, Henry Young e Rufus McCain sono i cinque che tentano l'evasione il 13 gennaio 1939, fuggendo dal reparto isolamento dopo aver segato le sbarre della finestra. Corrono fino a raggiungere la spiaggia, e lì vengono raggiunti dai sorveglianti. Martin, Young, McCain e Stamphill si arrendono, una pallottola ferma per sempre Arthur Barker. Due anni dopo c'è il tentativo non troppo convinto di Joe Cretzer, Sam Shockley, Arnold Kyle e Lloyd Barkdoll. Il 21 maggio 1941 prendono in ostaggio un buon numero di guardie, ma si fanno convincere che le probabilità di fuga non sono granché, e allora lasciano perdere. Il 15 settembre 1941 ci prova John Bayless che arriva alla costa e si tuffa nelle gelide acque della San Francisco Bay. E qui si ferma per il freddo. Più tardi, chiamato a rispondere di evasione davanti alla Corte federale di San Francisco, riprova a scappare di nuovo dal tribunale. Ma anche questa volta non ha successo. James Boarman, Harold Brest, Floyd Hamilton e Fred Hunter prendono in ostaggio due guardie il 14 aprile 1943. Raggiunta la costa, uno dei secondini riesce a lanciare l'allarme e così inizia un conflitto a fuoco. Hunter si ferma subito, mentre Boarman, Brest, e Hamilton nuotano allontanandosi sotto i colpi delle guardie. Poi anche Brest si arrende, mentre Boarman, colpito da un proiettile, scompare per sempre tra le acque. Hamilton, dato per scomparso, salta fuori due giorni dopo. Si era nascosto in una piccola grotta lungo la costa. Ad agosto le acque della baia sono più calde, ed è quello che pensa qualche mese dopo Huron «Ted» Walters. Ma lo pigliano prima ancora che tenti di tuffarsi. Il nono tentativo di fuga è semplice e geniale. John Giles lavora nella zona del porticciolo dove arrivano le unifor-
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mi sporche dell'esercito, che poi vengono portate alla lavanderia del carcere. Ne ruba un pezzo alla volta, fino a che ottiene una divisa intera. Il 31 luglio 1945, vestito da militare, sale tranquillamente sulla lancia che si allontana dall'isola. Brillante e sfortunato, perché l'imbarcazione non va dritta a San Francisco, ma prima si ferma ad Angel Island, e quando ci arriva, Giles trova le guardie del penitenziario che si complimentano ironicamente con lui e lo riportano in cella. Dal 2 al 4 maggio 1946 succede qualcosa di ben più drammatico, quella che passa alla storia come «la battaglia di Alcatraz». Sei detenuti aggrediscono le guardie, poi raggiungono il locale dove sono conservate le armi e le chiavi delle celle, prendendo così il controllo del blocco. Ma il piano fallisce quando scoprono di non avere le chiavi della porta che dà accesso all'esterno. A questo punto, Bernard Coy, Joe Cretzer, Marvin Hubbard, Sam Shockley, Miran Thompson e Clarence Carnes, invece di arrendersi, decidono di combattere. Nell'assedio muoiono gli agenti William Miller e Harold States, e altre diciotto guardie sono ferite, fino a quando il direttore del penitenziario chiede l'intervento dei marines. Al termine della rivolta si scoprono i cadaveri di Coy, Cretzer, e Hubbard, mentre Shockley, Thompson, e Carnes devono affrontare un processo per gli omicidi. Shockley e Thompson vengono giustiziati nel dicembre 1948 a San Quentin, e Carnes, che ha solo 19 anni, si prende una seconda condanna all'ergastolo oltre a quella che già stava scontando. La battaglia di Alcatraz lascia il segno. Le misure di sorveglianza si fanno più severe, i permessi per il lavoro all'esterno sono difficili da ottenere. Per questo passano più di dieci anni prima che qualcuno provi di nuovo a fuggire. Lo fa Floyd Wilson, il 23 luglio 1956, ma lo trovano dopo qualche ora, nascosto tra gli scogli davanti alla costa.
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Il 29 settembre 1958 Aaron Burgett e Clyde Johnson cercano di allontanarsi a nuoto. Johnson viene ripreso, ma Burgett scompare. Almeno per due settimane, quando il suo cadavere riaffiora tra le acque della baia. Dodici tentativi di fuga. Ma l'evasione più celebre, quella raccontata nel film Fuga da Alcatraz con Clint Eastwood, diretto da Don Siegel nel 1979, è la tredicesima, quella dell'11 giugno 1962. I protagonisti si chiamano Frank Morris, John e Clarence Anglin, Alien West. Frank Lee Morris nasce a Washington, il 1° settembre 1926. Abbandonato dai genitori, sballottato da una famiglia all'altra, già a tredici anni comincia a rubare nei negozi, per passare presto allo spaccio e alla rapina a mano armata. Dal riformatorio al carcere, Morris è famoso per la sua intelligenza e l'abilità nelle evasioni. Ha tentato di scappare da ogni prigione dove era detenuto, e quando arriva ad Alcatraz, il 20 gennaio 1960, l'hanno appena ripreso dopo una fuga dal penitenziario di Atlanta. Gli danno la matricola n. AZ1441 e Morris, dal primo giorno, comincia a pensare come prendere il volo. I fratelli Anglin sono tre, John, Clarence e Alfred. Originari di Donalsonville, in Georgia, presto lasciano il lavoro nei campi per quello, più redditizio, di rapinatori. Li arrestano tutti nel 1956, e mentre John arriva ad Alcatraz il 21 ottobre 1960, matricola AZ1476, Clarence ci impiega qualche mese in più, prendendosi il numero AZ1485 il 10 gennaio 1961. Alfred viaggia per un'altra strada, non certo fortunata, tanto che nel 1964, mentre tenta di fuggire dalla Kilby Prison di Montgomery, in Alabama, resta fulminato al contatto con la recinzione elettrificata del carcere. Alien Clayton West, il quarto del gruppo, arriva da New York, dove è nato il 10 settembre 1926. La sua specialità sono i furti d'auto, ma non disdegna faccende più complicate, come per esempio il dirottamento di un aereo. Finisce ad Atlanta, poi alla Florida State Prison, e poi ancora
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ad Atlanta, dove conosce gli Anglin e Frank Morris. È lui che arriva per primo ad Alcatraz, prigioniero n. AZ1335, e se conosciamo i piani della fuga e il modo in cui è andata, è proprio perché West non ce l'ha fatta a scappare e ha raccontato tutto all'FBI. Lascia «The Rock» quando chiudono il penitenziario nel '63, per passare di nuovo ad Atlanta, poi in altre prigioni in Georgia e in Florida. Esce dal carcere nel 1967, ma non sta fuori per molto, perché lo accusano di furto e rapina, e questa volta gli danno l'ergastolo. Il 30 ottobre 1972 riceve una coltellata all'addome durante una rissa con un altro detenuto, ma sopravvive. Però l'ultima battaglia la perde, quella con una peritonite acuta che se lo prende il 21 dicembre 1978, quando ha appena compiuto cinquantadue anni. Morris, gli Anglin, West. Il loro piano di fuga comincia a prender forma già nel dicembre del 1961, quando West, addetto alle pulizie dei corridoi, trova alcune vecchie lame e le nasconde. Giorno dopo giorno i quattro, che stanno in celle vicine, mettono a punto i dettagli della fuga, a cominciare dagli strumenti per scavare e allargare i fori di aerazione. Per costruire un trapano West ruba un rasoio elettrico mentre sta imbiancando la stanza del barbiere e prova a utilizzarlo assieme a delle parti di un trapano sottratte a un altro carcerato. Ma il motore è troppo piccolo, e poi ha bisogno di altri pezzi. Per un colpo di fortuna, scopre che l'aspirapolvere della prigione si è rotto, e si offre di aggiustarlo. Mentre ispeziona la macchina, vede che ha due motori, riesce a toglierne uno e a far andare l'altro, senza che nessuno si accorga della manomissione. Ha recuperato il motore adatto al trapano, ma quando cerca di usarlo per fare un foro sul soffitto si accorge che è troppo rumoroso. E poi non c'è solo il problema di uscire dalla cella, bisogna pensare a non farsi scoprire subito, e ad attraversare le acque della baia. Ogni notte c'è un turno di guardia che controlla se i dete-
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nuti sono tranquilli, a riposare sotto le coperte. Per ingannare i secondini John e Clarence si mettono a fabbricare delle teste finte, da appoggiare sui cuscini. Le fanno con polvere di cemento, sapone e carta igienica, poi le dipingono con i colori presi dai laboratori di pittura del carcere. L'ultimo tocco lo ottengono incollandoci una specie di parrucca, fatta con i capelli raccolti dalla bottega del barbiere. Alle prime due teste danno perfino un nome: «Oink» e «Oscar». Attraversare la baia è l'altro problema. Sanno che è impegnativo, per il freddo e le correnti, e ci vuole qualcosa che li aiuti. Recuperano così un buon numero di impermeabili, pesanti cerate messe a disposizione dal carcere per quando piove e occorre lavorare all'aperto. Le tagliano e le montano usando la colla rubata nella bottega dei guanti, a formare un canotto e dei giubbotti di salvataggio. John Anglin si dedica soprattutto al gommone, che alla fine diventa un affare da un metro e ottanta per quattro. West pensa ai giubbotti di salvataggio e ai remi. Morris poi, obiettando che non solo la cerata deve reggere, ma che tutto deve essere gonfiato in fretta al momento di entrare in acqua, smonta una fisarmonica e stacca il mantice a soffietto. I quattro complici lavorano a turno, dalle 17.30 sin verso le 21.30, poco prima dell'ultima ispezione dei sorveglianti, e mentre gli altri si danno da fare uno monta la guardia. Alla fine della giornata poi, nascondono tutto nelle celle, per evitare di essere scoperti. Prima che maggio finisca, i fori di aerazione sono già stati ingranditi quanto basta per passarci comodamente, e l'unico problema riguarda la griglia di ventilazione nella cella di Alien West, che il detenuto non riesce a rimuovere. La notte dell'11 giugno 1962 Morris decide che è arrivato il momento. Alle 21.30, appena le luci si spengono, tira fuori le finte teste e le sistema sotto le coperte. Clarence Anglin, dopo essersi infilato nel corridoio di servizio, prende
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a calci la griglia della cella di West, cercando senza successo di abbatterla. Alien Clayton West, forse la mente del gruppo, è bloccato, non può seguire i compagni, che sono costretti a lasciarlo indietro. Loro invece si arrampicano per una decina di metri lungo le condutture dell'aria, fino a raggiungere il tetto, su cui camminano per più di trenta metri. Quindi si lasciano scivolare lungo i canali di scolo fino a terra, vicino all'entrata dell'area delle docce. Alla fine West riesce a togliere la grata e a salire sul tetto, ma ormai è troppo tardi. Gli amici sono lontani e senza il canotto e il giubbotto di salvataggio è meglio rinunciare e rientrare in cella. West racconterà in seguito che il piano era quello di usare l'artigianale gommone per arrivare ad Angel Island, riposarsi e poi nuotare per il tratto di baia noto come Raccoon Strait fino a Marin County. Lì giunti, i quattro avrebbero rubato un'auto e rapinato un negozio di vestiti, per poi separarsi e andare ognuno per la sua strada. Il 17 luglio 1962 la SS Norefjell, una nave da carico norvegese diretta in Canada, avvista un cadavere che galleggia trenta chilometri a nordovest del Golden Gate Bridge. Sono alcuni uomini dell'equipaggio, armati di binocolo, ad accorgersi del corpo, che sembra indossare indumenti di color blu, simili alla divisa in jeans dei detenuti di Alcatraz. Ma la faccenda viene denunciata solo a ottobre, quando l'imbarcazione attracca nuovamente nel porto di San Francisco. C'è ancora tempo per il quattordicesimo e ultimo tentativo di evasione da «The Rock». Capita il 16 dicembre 1962, quando John Paul Scott e Darl Parker piegano le sbarre di un finestra della cucina e si gettano in mare. Parker lo riprendono a poca distanza dalla costa. Scott tenta di nuotare verso San Francisco, ma le correnti lo spingono al largo, tanto che alla fine un gruppo di ragazzi lo vede aggrappato a uno scoglio sotto il Golden Gate.
84 Il genio criminale Prima lo accompagnano in ospedale, per curargli lo shock da ipotermia, ma appena si riprende lo riportano in cella. Il 21 marzo 1963 il penitenziario federale di Alcatraz chiude. Non certo per la fuga di Morris e degli Anglin, perché la decisione era già stata presa e aveva a che fare con i costi, dai tre ai cinque milioni di dollari l'anno solo per il vitto e i lavori di mantenimento. Un rapporto commissionato dal governo già nel 1959 diceva che se un detenuto di qualunque penitenziario costava allo Stato tre dollari al giorno, ad Alcatraz non ne bastavano nemmeno dieci. Da quel giorno los alcatraces, i pellicani tornano a essere gli unici padroni dell'isola. Negli anni c'è chi pensa di costruirci un monumento dedicato alle Nazioni Unite, come la statua della libertà sull'isolotto davanti a Manhattan, con tanto di shopping center. Poi, nel 1969, i giornali tornano a parlare di Alcatraz, quando un gruppo di nativi americani ne reclama il possesso per costruirci un centro culturale. È il periodo degli hippy, della contestazione contro la guerra in Vietnam, e l'iniziativa raccoglie un grande seguito, tanto che a manifestare solidarietà ci vanno in migliaia. Purtroppo i leader della protesta sono tanto bravi a suscitare simpatie quanto incapaci di controllare la situazione, che presto precipita nel caos. Nell'isola le strutture della cittadella vengono danneggiate, i muri imbrattati, un incendio distrugge i locali del faro come pure la casa del direttore del carcere, e nel 1971 gli uomini dello US Marshals Service procedono allo sgombero e, l'anno successivo, «The Rock» entra a far parte della Golden Gate National Recreation Area. L'accesso viene ripristinato per il pubblico nell'inverno del 1973, e il penitenziario di Alcatraz da allora è la meta di almeno un milione di visitatori ogni anno.
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Ci v a n n o per v e d e r e la cella di Al C a p o n e , di M a c h i n e G u n Kelly e di B i r d m a n Stroud. M a , soprattutto, per la storia di quei tre detenuti c h e un giorno di tanti anni fa sono scappati da « T h e R o c k » , e n e s s u n o ha m a i s a p u t o se ce l ' h a n n o fatta. L'FBI non crede che Morris e gli A n g l i n siano s o p r a v vissuti, e lo sostiene r a g i o n a n d o per punti. Al primo posto c ' è il fatto di d o v e r attraversare la baia. U n o dei molti miti c h e circondano il penitenziario è che sia impossibile nuotare dall'isola alla terraferma per colpa degli squali che infestano la baia. In realtà di squali ce ne s o n o pochi, di piccole d i m e n s i o n i e di una specie c h e non attacca l ' u o m o . C i ò non elimina i problemi principali, che stanno nelle basse temperature dell'acqua, in m e dia 10-13 gradi, nelle forti correnti e nella distanza da coprire, più di d u e chilometri. Q u a l c u n o ci ha provato, ben allenato e in b u o n e condizioni di salute, e ce l'ha fatta. Ma un detenuto ad Alcatraz difficilmente si poteva dire ben allenato. Nel caso poi c h e i tre a b b i a n o raggiunto la terraferma, il piano, s e c o n d o West, era quello di rubare abiti e u n ' a u to per allontanarsi. Ma n e s s u n o ha d e n u n c i a t o niente del genere. C o s a dire poi del fatto che n e s s u n o degli evasi abbia m a i contattato i propri familiari? L'FBI, sul suo sito w e b che pubblicizza le possibilità di carriera nel Bureau, accanto alla storia dei cent'anni appena trascorsi, ha m e s s o quella della fuga da Alcatraz. Il mistero continua ... Abbiamo ufficialmente chiuso il caso il 31 dicembre del 1979 e passato il fascicolo allo US Marshals Service che continua a investigare nell'improbabile ipotesi che il trio sia ancora in vita. Se siete in possesso di QUALUNQUE notizia o informazione, siete pregati di chiamare il vicesceriffo Michael Dyke del distretto Nord della California al numero (415) 436-7677. Si tratta di uno dei misteri che noi tutti avremmo piacere di risolvere!
86 Il genio criminale San Francisco, lunedì 22 maggio 2006. Le agenzie battono una notizia curiosa: alle 8.28 del mattino Braxton Bilbrey ha coperto la distanza tra l'isola di Alcatraz e San Francisco nuotando per quarantasette minuti. Braxton Bilbrey ha appena compiuto sette anni.
Theodore John Kaczynski Il dinamitardo
È la mattina del 26 maggio 1978. Davanti al campus della Northwestern University, Illinois, nell'area di parcheggio, Terry Marker, uno degli addetti alla sicurezza, si accorge che a terra, sull'asfalto, c'è una scatola confezionata con carta da pacco marrone e spago. Sembra proprio che qualcuno l'abbia perduta, perché sull'etichetta c'è scritto che è destinata al professore di ingegneria Edward Smith, Politecnico di Troy, New York, e che a spedirgliela è il suo collega della Northwestern, Buckley Christ. Marker è un tipo diligente, raccoglie il pacco, e telefona a Christ per avvisarlo. Il professore ringrazia, ma è perplesso, perché non ha preparato niente da inviare a Troy, e oltretutto non ha mai sentito nominare Edward Smith. Comunque, conclude il docente, visto che Marker è stato così gentile, perché non prova ad aprirlo e a capirci qualcosa di più? L'uomo si risveglia qualche ora dopo, in ospedale. Il pacco che gli è esploso in mano, per fortuna, gli ha lasciato solo qualche bruciatura, un grande spavento, ma nessun danno permanente. Gli investigatori sentono lui, poi Buckley Christ, e alla fine liquidano la cosa come uno scherzo di pessimo gusto, buttando i resti dell'ordigno artigianale. 9 maggio 1979, un anno dopo. La vittima si chiama John
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Harris, studente universitario, e anche lui sembra capitare nel posto sbagliato al momento sbagliato, quando decide di raccogliere una scatola che da un po' di giorni vede abbandonata, al secondo piano dell'istituto di Tecnologia. Lo incuriosisce, perché ha proprio un aspetto strambo, come una confezione di sigari con incollati sopra dei pezzetti di legno. Come è già successo a Terry Marker, anche John se la cava con graffi, bruciature e una buona dose di paura. Gli investigatori questa volta raccolgono tutto, scoprono che chi ha voluto l'esplosione ha impiegato materiali comuni, come pile da torcia, fiammiferi, trucioli e colla vinilica. Ma commettono un grave errore. Non collegano i due casi. È il 15 novembre 1979 quando il volo 444 dell'American Airlines, in servizio tra Chicago e Washington, è costretto a un atterraggio di emergenza per un principio d'incendio. Dodici tra i passeggeri dovranno essere ricoverati a causa di un'intossicazione da fumo, ma per fortuna non ci sono vittime. Gli esperti d'incendi della compagnia scoprono presto l'origine delle fiamme, una pipe bomb nascosta in un sacco della posta, con un detonatore del tutto originale: un barometro modificato. Appena l'apparecchio avesse registrato una determinata pressione dovuta all'altitudine, l'ago avrebbe chiuso un circuito elettrico innescando l'esplosione, e questa avrebbe aperto uno squarcio nella fusoliera, condannando alla morte certa passeggeri ed equipaggio. Si deve alla fortuna, e magari all'inesperienza dell'attentatore, se l'ordigno si è incendiato prima del tempo, causando solo poche fiamme e tanto fumo. Ma una bomba su un aereo è un reato federale, e allora I ' f b i comincia a lavorarci, trovando subito un collegamento con l'episodio precedente, quello in cui è rimasto ferito John Harris. Perché i materiali impiegati sono gli stessi: colla vinilica, batterie e legno.
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E se la mano è la stessa, gli agenti cercano allora di capire il movente, il secondo passo necessario a tracciare un profilo criminale. Indagano sulle vittime, cercando un elemento comune tra le loro conoscenze, le abitudini, il lavoro, gli hobby, i luoghi frequentati. Non salta fuori nulla, e la conclusione è che il bomber non è alla ricerca di un bersaglio specifico da colpire. Peccato che il 10 giugno 1980 succeda qualcosa che fa saltare l'ipotesi delle vittime casuali. Percy Woods, il presidente delle Unite Airlines, che vive a Lake Forest, nell'Illinois, trova nella buca delle lettere un pacchetto indirizzato a lui da un certo Enoch Fischer. Il nome non gli è nuovo, perché giusto qualche giorno prima ha ricevuto una lettera in cui il signor Fischer gli annunciava che a breve gli avrebbe spedito un libro, Ice Brothers, di Sloan Wilson. Fisher diceva di volerne recapitare una copia a un certo numero di personaggi influenti della comunità, perché credeva che dentro ci fossero scritte cose importanti, che avrebbero fatto riflettere. Quando Wood apre l'involucro, scopre che contiene effettivamente una copia del racconto di Wilson. O meglio, la copertina è normale, ma il contenuto si rivela esplosivo, e non in senso metaforico. Fiamme e schegge di legno e metallo lo colpiscono al volto e alle braccia, e fa giusto in tempo a dire alla moglie che un libro gli è scoppiato in mano, prima di svenire. Wood non è un bersaglio fortuito, è stato scelto con uno scopo. Il fatto che sia legato all'industria aeronautica lo collega alla bomba piazzata sul jet delle American Airlines. Ma ancora una volta non si riesce ad andare oltre. Da questo momento l'attentatore non si ferma più, e si merita un nome in codice: Unabomber, sintesi di un, che sta per università, a, vale a dire airlines, e bomber. Nell'ottobre 1981 la sicurezza dell'università dello Utah riesce a disinnescare un ordigno piazzato nell'aula dei com-
90 Il genio criminale puter; ma nel maggio 1982 nessuno può evitare che Janet Smith apra un pacco destinato al suo capo, Patrick Fisher, direttore del dipartimento di Scienze informatiche della Vanderbilt. Ferite e mutilazioni toccheranno poi al professore di ingegneria di Berkeley, Diogenes Angelakos. Il 15 maggio 1985 il giovane dottor John Hauser, dopo aver attraversato i viali del campus dell'Università della California, entra nell'edificio che ospita la facoltà di Ingegneria e si dirige ai laboratori di informatica. Si è laureato da poco, e vuole approfondire le sue conoscenze di elettronica, in attesa di essere chiamato per il programma di addestramento per astronauti della NASA. Appena si siede gli capita di notare che sul tavolo accanto al suo c'è un raccoglitore ad anelli, appoggiato sopra una piccola scatola di plastica. Pensa che appartenga a uno studente distratto, e allora apre la cartella per vedere se dentro vi sia scritto il nome del proprietario, ma i fogli sono tutti bianchi. Basta questo gesto perché un elastico, che unisce il raccoglitore alla scatola, si tenda e inneschi l'esplosione. John ci rimette un occhio, l'uso della mano destra, e tutte le speranze di lavorare un giorno per l'ente spaziale governativo. Universitari, scienziati, esperti di informatica. Forse c'è un disegno, un movente. Sempre nello stesso anno, il 13 giugno, Unabomber spedisce un pacco bomba alla Boeing Company di Auburg, nello Stato di Washington. Fortunatamente viene intercettata e disinnescata senza danni, e si scopre che non era diretta a un indirizzo particolare, e che era partita da Oakland, in California, a pochi chilometri da Berkeley, dove John Hauser era finito in ospedale un mese prima. Va peggio a James McConnell e Nicklaus Suino il 15 novembre ad Ann Arbour: il primo perde l'udito, mentre il secondo ancora porta le cicatrici delle schegge.
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Il mese dopo, però, Unabomber fa qualcosa di diverso. Usa abbastanza esplosivo da uccidere. Hugh Scrutton è il proprietario di un negozio di computer a Sacramento, e la mattina dell'11 dicembre 1985 parcheggia come sempre l'auto sul retro. Appena scende si accorge che qualcuno ha lasciato per terra un blocco di legno da cui sporgono dei chiodi. Non capisce cosa sia, ma deve toglierlo di lì, perché qualcuno potrebbe finirci sopra con le ruote e bucare le gomme. Muore prima che arrivi l'ambulanza. Anche il bersaglio successivo, due anni dopo, ha a che fare con i pc. Si tratta di Gary Wright, proprietario di un computer store a Salt Lake City, nello Utah. Anche a lui capita d'imbattersi in un pezzo di legno pieno di chiodi lasciato nell'area di parcheggio del negozio. E anche lui lo raccoglie per gettarlo tra i rifiuti. L'unica differenza rispetto a Hugh Scratton è che Gary riesce a salvarsi, anche se gli restano nella carne i morsi del fuoco e i segni delle schegge. Ma questa volta sembra proprio che il dinamitardo abbia commesso un errore, qualcosa che manda in fibrillazione gli investigatori. Si tratta di una testimone, una ragazza, Tammy Fluehe, che lavora nel negozio di Wright e ha notato un tizio chinarsi tra due macchine, poco prima dell'esplosione. È in grado di descriverlo come un bianco, con la mascella prominente e un sottile paio di baffi, intorno ai trent'anni, un metro e ottanta per settantacinque chili. Peccato che indossasse una felpa con il cappuccio tirato sulla testa e un gran paio d'occhiali da sole. L'identikit viene mandato in onda comunque su tutte le televisioni, e stampato sui giornali, sperando che qualcuno riconosca quella faccia. Ma non succede. La quantità di dati che si accumula sul caso Unabomber è impressionante. Non si tratta solo di reperti, ma anche di tabulati telefonici, interrogatori delle vittime e di tutti coloro
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che le conoscevano, informazioni raccolte da commercianti, da negozianti che vendono il materiale usato per fabbricare le bombe. E ogni cosa, fino al 1993, è registrata su carta, perché i computer non sono ancora entrati nell'uso comune. Tra le cartelle, ce n'è comunque una particolarmente interessante, quella dedicata al profilo elaborato dall'Unità di Scienze del Comportamento. Per gli esperti di Quantico si tratta di un bianco, tra i 25 e i 30 anni, un uomo che deve aver subito qualche trauma che si è portato dentro per lungo tempo, la perdita di un lavoro, un lutto, l'essere lasciato dalla compagna. Non bisogna pensare che assomigli a un maniaco con gli occhi spiritati, ma piuttosto a un tizio ordinario, rispettoso delle leggi, senza precedenti. Il vicino della porta accanto. Magari ha una personalità introversa, pochi amici o forse nessuno, perché stare in mezzo agli altri non gli piace. Allora potrebbe aver scelto un lavoro notturno per l'isolamento che offre. Non c'è da aspettarsi che appartenga a movimenti politici, a organizzazioni di protesta. È un solitario, e i suoi moventi li ha tutti dentro la sua testa. Il fatto che prenda di mira le università fa pensare che abbia frequentato un campus, almeno per qualche tempo. Forse si tratta di un professore, oppure di un ricercatore, certo di qualcuno che credeva di essere un tipo speciale, un innovatore, arrabbiato perché non aveva ricevuto i riconoscimenti che si aspettava. Un altro indizio che lega Unabomber all'ambiente universitario sta nel fatto che sui pacchi indirizzati ai professori c'è sempre, come mittente, il nome di un altro docente. Chi ci ha pensato deve sapere che lo scambio di corrispondenza è cosa comune tra universitari. Ma non tutti gli esperti di profili sono d'accordo. Perché tra i bersagli c'è gente che lavora nel campo dell'aeronautica, e allora potrebbe valere l'ipotesi che si tratti di un meccanico, di uno che ci sappia fare con i tubi, tanto da costruire anche una pipe bomb.
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In ogni caso si tratta di una personalità che dimostra di avere costantemente il controllo della situazione: ha lasciato alcuni ordigni in piena vista, il che significa che conosceva bene il luogo, così come possedeva l'abilità di non farsi notare; ha confezionato le bombe con materiale comune, senza utilizzare nulla né lasciare alcuna traccia che permettesse agli investigatori di risalire a lui; ha comprato francobolli usati per spedire i pacchi in quantità e qualche anno prima del loro impiego, un modo per evitare di andare più volte in un ufficio postale con il rischio di essere riconosciuto. Fin qui nulla di particolare. L'identikit psicologico di Unabomber lo si costruisce un pezzo alla volta, come è successo per Ted Bundy e gli altri assassini seriali. Si passa dal modus operandi, strumentale e generico, alla firma, più personale e che esprime un bisogno psicologico profondo. Al problema della firma gli agenti speciali lavorano molto, fino a scoprire una specie di ossessione che l'attentatore ha per la parola wood, che vuol dire «legno» oppure «bosco», e per tutto quello che a esso è legato. Le sue bombe sono contenute in scatole di legno, spesso rivestite di frammenti incollati di legno. Il legno si trova anche nei coperchi che chiudono il tubo delle pipe bomb, dove di solito si usa qualcosa in metallo. Anche nella scelta delle vittime torna lo stesso tema: una si chiama Percy Wood, un'altra LeRoy Wood Bearnson. Percy vive a Lake Forest, e c'è anche un altro bersaglio, Thomas Mosser, che abita ad Aspen, una città il cui nome significa anche «pioppo». Il libro esplosivo Ice Brothers è pubblicato dalla casa editrice Arbor House, dove arbor sta anche per «albero». Molte bombe sono state poi spedite da Oakland, in California. E oak più land significa «la terra delle querce». Trovata la pista, gli indizi sembrano non finire più. L'inchiostro con cui sono scritti gli indirizzi sui pacchi è verde,
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e uno degli ordigni ha dentro il nitrato di bario, che serve per fare i fuochi d'artificio, quelli che in cielo proiettano disegni color verde. La conclusione è che Unabomber ama la natura e ha un conto in sospeso con la tecnologia, ma saperlo non aiuta a scoprire la sua identità. A fianco di chi sviluppa il profilo dell'aggressore, ci sono gli agenti che non smettono di occuparsi delle vittime, analizzandone la vita alla ricerca di un collegamento con esso. Magari hanno in comune una polizza assicurativa stipulata presso la stessa compagnia, oppure hanno comprato qualcosa dallo stesso magazzino. Anche se non sono state scelte per le loro caratteristiche, ma solo come meri simboli, il loro nome, da qualche parte, deve essere saltato fuori, magari da una rivista scientifica, un libro comprato in qualche negozio. Emerge un dettaglio, una cosa che sembra piccola ma che è importante: ovunque Unabomber abbia preso nomi e indirizzi, la sua fonte non è molto aggiornata. Per esempio, spedisce la sesta bomba spacciandosi per Patrick Fisher della Pennsylvania State University, ma il professore ha lasciato quell'università da almeno due anni. E indirizzando l'ordigno a William Dennison, presidente della California Forestry Association, dimostra di ignorare che l'uomo ha ceduto la presidenza a un collega l'anno prima. Sembra un puzzle complicatissimo, fatto di migliaia di pezzi, e c'è pure il dubbio che nella scatola non ci siano nemmeno tutti, o siano stati mescolati con altri tasselli che non c'entrano. Ma non bisogna mai perdere la speranza: improvvisamente si scopre una serie di tessere che si incastrano alla perfezione: molti dei nomi e degli indirizzi arrivano da una copia dell'«Earth First! Journal», una rivista dell'ambientalismo radicale. La conferma del movente antitecnologico. C'è un altro tipo di profilo che gli esperti utilizzano, ol-
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tre a quello dell 'offender. Si chiama profilo geografico, e si basa sul fatto che tutti noi abbiamo in testa una specie di mappa mentale, vale a dire che ci spostiamo seguendo i percorsi che ci sono più familiari, o che hanno per noi un valore particolare. Anche se i pacchi bomba arrivano da luoghi diversi, emergono concentrazioni significative intorno all'area di Chicago, di Sacramento e San Francisco. Si esclude tuttavia che Unabomber viva in una di queste grandi città, dove potrebbe essere notato; più plausibile appare agli esperti che la sua base si trovi nella parte rurale del Nord della California, una zona comoda per raggiungere tutte le città da cui sono partiti i suoi ordigni. Dall'insieme di tutte le informazioni, salta fuori una rosa di individui particolarmente sospetti. Alcuni di loro verranno presto esclusi, altri resteranno sotto osservazione per anni. I primi a essere indagati sono alcuni studenti della Northwestern University dell'Illinois, appartenenti a un club dedicato a un gioco di ruolo, Dungeons & Dragons. Poi tocca a James Kilgore e Leo Burt, in qualche misura legati al Symbionese Liberation Army. Gli investigatori fermano anche Stephen Dunifer, il fondatore della Free Radio di Berkeley, un'emittente non autorizzata che trasmette nella zona di San Francisco. Ma il fatto destinato a cambiare le carte in tavola accade il 24 giugno 1993, quando Unabomber decide di uscire allo scoperto dopo quindici anni di attentati. Lo fa con una lettera, la prima di una lunga serie. È indirizzata a Warren Hodge del «New York Times», e contiene l'annuncio dell'imminenza di un evento che farà scalpore. L'autore della lettera si firma FC, una sigla che era stata ritrovata tra i frammenti di alcune bombe, e che nessuno era riuscito a decifrare. Vuol dire Freedom Club, spiega Unabomber, che è poi un gruppo anarchico. C'è anche un numero, un codice che servirà da quel momento ad accertare l'autenticità delle sue lettere: 553-25-4394.
96 Il genio criminale Ma il fatto che abbia deciso di comunicare col mondo non sigifica che smetterà con gli attentati. Il 22 giugno, dopo aver imbucato la lettera per Hodge, Unabomber se la prende con David Gelernter, scienziato informatico di Yale, che resta ferito seriamente da un pacco bomba. Due giorni dopo tocca a Charles Epstein, genetista della University of California. Altre vittime, queste, che non è stato possibile proteggere, ma a questo punto gli investigatori sono convinti di avere indizi precisi. E per l'ennesima volta resteranno delusi. La sequenza di cifre, innanzitutto, disposte in una forma che ricorda il codice della Sicurezza Sociale corrisponde a un tizio in libertà vigilata che non può essere Unabomber perché stava in carcere nel periodo in cui erano stati spediti la maggior parte degli esplosivi. I federali però lo interrogano lo stesso. Scopriranno che l'uomo ha sul braccio un tatuaggio con la scritta Pure Wood, «puro legno». Emergerà anche che sulla carta della lettera è rimasto impresso un messaggio nascosto. Qualcuno ha scritto: «Call Nathan R Wed 7 p.m.», chiamare Nathan R alle sette del pomeriggio. Lo ha fatto su un altro foglio, appoggiato sopra quello inviato al «New York Times», lasciando così dei solchi all'apparenza invisibili. Nella zona vengono interrogati più di diecimila individui di nome Nathan e con un cognome che cominci per R. Per scoprire che, ancora una volta, il dinamitardo ha preso in giro tutti, ha seminato indizi per depistare. Uno scherzo, insomma. Ma il 10 dicembre 1994 Unabomber non scherza più. Thomas Mosser, pubblicitario di New York, sta preparandosi a festeggiare il Natale in famiglia. Manca solo l'albero, e mentre si prepara a uscire di casa per andare ad acquistarne uno, Thomas apre un pacchetto che gli è arrivato per posta la mattina. L'esplosione gli distrugge il volto e gli squarcia l'addome, uccidendolo all'istante. Non si tratta di sfortuna, per-
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ché chi ha confezionato quella bomba ci ha messo chiodi e lamette da barba. I detective passano mesi a cercare di capire perché Unabomber abbia voluto colpire un pubblicitario. La scelta non sembra infatti avere senso, né è possibile stabilire un qualche collegamento con i casi precedenti. Stanno ancora facendo ipotesi quando gli tocca correre a Sacramento, negli uffici della California Forestry Association, un gruppo noto per aver tentato di bloccare un progetto di legge sulla tutela delle specie animali a rischio, nel Nordest del Pacifico. È arrivato un plico destinato a William Dennison, past president dell'associazione. Lo ha intercettato un segretario, con l'intenzione di recapitarlo all'interessato. Ma per qualche strano motivo Gilbert Murray, il presidente in carica, ha deciso di darci lui un'occhiata, pagando con la vita la sua curiosità. La quantità di esplosivo questa volta è tale da scuotere l'intero edificio, e far temere a tutti un attacco terroristico. Anche perché sono passati appena cinque giorni dall'attentato al Murrah Federai Building di Oklahoma City, raso al suolo da Tymothy McVeigh, con un bilancio di centosessantotto vittime e ottocento feriti. In un primo momento I'FBI pensa che forse McVeigh non era solo, che poteva avere dei complici nel nuovo colpo, o che magari ci sia in giro un copycat, un criminale che riproduce i delitti come già è successo con altri serial killer. Ma la squadra di artificieri non ha dubbi, perché ci sono tutti gli ingredienti di Unabomber. II 24 aprile Phillip Sharp, genetista del MIT, e Richard Roberts, dei New England Biolabs del Massachussetts, ricevono una lettera di minacce. Non sono ricercatori qualsiasi, sono due premi Nobel, e a loro Unabomber scrive: «Sarà di beneficio alla vostra salute se smetterete le vostre ricerche sulla genetica». Lo stesso giorno una seconda comunicazione arriva al «New York Times». Come promesso, c'è il numero in co-
98 Il genio criminale dice che ne garantisce la provenienza e, soprattutto, l'attentatore comincia a dare qualche spiegazione delle sue motivazioni. Vuole che tutti sappiano quanto la tecnologia rappresenti il «male», e come lui, attaccando i suoi sostenitori, si proponga di distruggere la società moderna. Dice di non avere nulla contro le università o gli studenti, e che tutti quelli che ha colpito erano specialisti di settori tecnici. Aggiunge poi che è stufo di piazzare bombe, che vuole trovare un modo diverso per far conoscere il suo pensiero. Scrivendo di sé al plurale - chiaro segno di narcisismo Unabomber dice: «Vi offriamo un patto. Abbiamo un lungo articolo, tra le ventinovemila e le trentasettemila parole, e vogliamo che venga pubblicato». Aggiunge che se sarà accontentato, metterà fine alla sua attività terroristica, il che significa che non farà più vittime umane. Magari non si fermerà con i sabotaggi, ma, promette, basta con morti e feriti. E prima ancora di ricevere una risposta, spedisce sia al «New York Times» che al «Washington Post» il suo manifesto, La società industriale e il suo futuro. Si tratta di un lungo, a tratti prolisso elenco di considerazioni sui disastri che la tecnologia sta procurando al mondo, rendendo tutti schiavi inconsapevoli, individui impotenti, passivi e depressi, destinati a essere, nel futuro, controllati dalle macchine. Per evitare la catastrofe c'è solo un modo: ritornare alla natura, gettando via telefoni, computer e televisioni. Agli investigatori interessano poco i ragionamenti di Unabomber, molto invece le informazioni nascoste dietro le parole. Il manifesto è costruito come una tesi accademica, con tanto di introduzione, sintesi, conclusioni e note a piè di pagina. Chi lo ha scritto possiede un'ottima intelligenza, anche se accompagnata da tratti ossessivi che si rivelano in un numero di parole attentamente definito, come pure nella scomposizione in rigidi paragrafi.
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Quando affronta temi come la depressione, l'impotenza e l'alienazione, si capisce che si tratta di sentimenti sperimentati personalmente, così come è possibile cogliere i segni di un'infanzia infelice. Ma soprattutto, nel manifesto, c'è una grande rabbia. Giornalisti, editori, politici ed esperti di sicurezza sono divisi sull'opportunità di pubblicare lo scritto. Alcuni temono che cedere al ricatto possa aprire la strada ad altri criminali desiderosi di fama. Ma c'è chi sostiene che si tratti di un'occasione unica per le indagini: si potrà chiedere ai cittadini americani se in quelle pagine riconoscano qualcosa di familiare, un indizio che aiuti a dare un volto al fantasma che da diciassette anni terrorizza gli Stati Uniti. Il 19 settembre 1995 v e n g o n o m e s s e in circolazione più di ottocentocinquantamila copie del Manifesto di Unabomber. Per Jane Kirtley, direttrice del Comitato per la libertà di stampa, si tratta di un errore. Per il presidente Bill Clinton è una mossa da approvare. Avrà ragione lui. David Kaczynski ha un diploma preso alla Columbia, e passa il suo tempo dividendosi tra l'attività di consulente per giovani in difficoltà e l'accudimento dell'anziana madre. Lui e sua moglie Linda sono conosciuti come una bella coppia, due membri importanti della comunità, generosi e benvoluti. Tocca a Linda scoprire che c'è qualcosa di familiare nelle frasi del Manifesto pubblicato dai quotidiani. Le sembra tanto di leggere le parole del cognato Theodore, che tutti chiamano Ted. Passa il giornale a David, che salta sulla sedia quando arriva a un passaggio, un particolare che gli accende un ricordo. Erano piccoli lui e Ted, e la loro mamma era solita infarcire i discorsi di vecchi proverbi. Ce n'era uno in particolare che diceva: You can't have your cake and eat it, too, non puoi conservare il dolce e insieme mangiarlo. Il fatto
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è che la mamma sbagliava sempre, e invertiva la frase in: You can't eat your cake and have it, too». Quanto basta per cominciare a preoccuparsi. Ma poi saltano fuori altre coincidenze. Ted non ha mai fatto mistero di essere arrabbiato con scienziati e lobby, inoltre ha la passione di intagliare il legno. Senza contare che ha studiato nel Michigan, e insegnato a Berkeley, due dei posti dove erano stati spediti pacchi bomba. Quando finisce di leggere, David non sa cosa pensare. Ted è il suo fratello maggiore, verso il quale ha sempre avuto un reverenziale rispetto. Anche perché, sin da bambino, Ted si era rivelato un vero e proprio genio, tanto che l'avevano accettato al college di Harvard a soli sedici anni, poi si era laureato all'università del Michigan, e quindi specializzato in teoria geometrica delle funzioni. Nel 1967, all'età di 25 anni, lo avevano assunto come professore di matematica alla University of California, a Berkeley Era certo destinato a una carriera brillante, ma due anni più tardi, improvvisamente e senza un apparente motivo, aveva presentato le sue dimissioni. Irrevocabili. Ci si erano messi in tanti, tra i colleghi, a cercare di fargli cambiare idea, ma Theodore Kaczynski era tanto abile nella professione quanto un disastro nei rapporti umani. Desiderava avere amici, una ragazza, ma non era capace di avvicinarsi a nessuno in modo equilibrato, e alla fine si era convinto che era meglio mollare tutto, comprarsi un pezzo di terra in Canada e dimenticare l'umanità che non lo capiva. Con l'aiuto del fratello aveva trovato un posto nel Montana, in una comunità che si chiamava Lincoln e contava meno di un migliaio di abitanti. Si era sistemato lontano dal centro abitato, in mezzo ai boschi, e lì aveva costruito una capanna, un po' sbilenca, senza luce e acqua. Quando d'inverno il termometro scendeva a circa ven-
Theodore John Kaczynski 101 ti gradi sotto zero, si rifugiava nella cantina che aveva scavato sotto la casa. Campava dei prodotti dell'orto, e degli animali selvatici che cacciava. Ogni tanto prendeva una bicicletta e scendeva in paese, nella piccola biblioteca dove si tratteneva a leggere. Per quelli di Lincoln era «l'eremita», strano e nemmeno troppo innocuo, perché era capace di mettersi a sparare agli elicotteri che ogni tanto sorvolavano i boschi. E poi si divertiva a tendere dei cavi d'acciaio tra gli alberi, per far cadere gli appassionati di mountain bike e i rari amanti del motocross che passavano dalle sue parti. Pian piano aveva interrotto anche i rapporti con la sua famiglia. Nonostante una lettera di David che lo informava del suicidio del padre, malato terminale di cancro ai polmoni, non si era nemmeno presentato al funerale. E quando il fratello si era sposato, nel 1990, invece delle congratulazioni gli aveva scritto una lettera in cui lo diffidava dal disturbarlo mai più. Evidentemente non gli era andato giù che il fratello minore avesse trovato una compagna, cosa che a lui non era mai riuscita. Ma, nonostante tutto, David non vuole convincersi che Ted e Unabomber siano la stessa persona. Si rivolge allora a un detective privato, Susan Swanson, che a sua volta chiama in causa il suo amico Clint Van Zandt, che in passato ha lavorato all'Unità di Scienze del comportamento nell'FBI. I due si mettono da capo a valutare tutti gli indizi, e alla fine consegnano a David una relazione in cui affermano che ci sono almeno il sessanta per cento di probabilità che suo fratello Ted sia il più famoso attentatore dinamitardo nella storia degli Stati Uniti. Quando David Kaczynski si presenta negli uffici del Federai Bureau, gli agenti sono molto scettici, fino a quando inseriscono il nome di Ted nell'archivio computerizzato sul caso Unabomber, e scoprono che c'è già il suo file. Non è nella top ten dei sospetti, ma comunque c'è.
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Così fanno accomodare David e gli dedicano tutta la loro attenzione. Il 3 aprile 1996 Max Noel della squadra unabomb, Tom McDaniel dell'FBI e Jerry Burns dell'US Forestry Service, si presentano alla porta di Theodore Kaczynski. Devono lottare per disarmarlo e impedirgli la fuga, ma alla fine lo ammanettano e lo portano al distretto di polizia. Le foto del suo arresto fanno il giro del mondo, e non c'è traccia in quell'uomo sporco, trasandato, con barba e capelli incolti, dell'ex professore di matematica di Berkeley. Ci vuol poco a perquisire la casa dove ha vissuto per più di vent'anni, un buco di tre metri per tre, dove accanto a un mucchio di libri ci sono contenitori pieni del materiale utile per fabbricare una bomba. Sotto il letto c'è anche un ordigno già confezionato e pronto per essere spedito. Difficile dire chi sarebbe stato il bersaglio, anche perché in mezzo a tubi e detonatori c'è un foglio con un lungo elenco di psichiatri, genetisti, professori di informatica, ma anche giornalisti, oltre alle bozze del Manifesto. La caccia è finita. Dopo diciassette anni, ventitré feriti e tre morti uccisi dalle esplosioni. Comincia adesso la preparazione al processo, un lavoro complicato per la procura, pressoché impossibile per la difesa. A sostenere la causa di Theodore Kaczynski ci sono inizialmente due avvocati, Tony Gallagher e Michael Donahoe, poi ci pensa il dipartimento di Giustizia che nomina l'avvocato federale Quin Devit. Ottimo legale, ma soprattutto uomo integerrimo. A Devit spetta il compito di analizzare undici milioni di pagine di documenti e foto, contenuti nei circa seimila file accumulati in diciassette anni di indagini. E di trovarci dentro le argomentazioni per difendere Unabomber. Ma alla fine, per evitare la pena di morte, non resterà che una sola carta, quella dell'infermità mentale. Tocca allo psichiatra David Vernon Foster il compito difficile e affascinante di sottoporre Ted a una perizia psichia-
Theodore John Kaczynski 103 trica. Il medico incontra lui, e anche i suoi familiari, per ricostruirne la vita, i traumi, le emozioni e le scelte. Tutto ha inizio nel novembre del 1977, e a dire la verità, in modo poco incoraggiante. Ted si rende disponibile solo tre ore, perché perde il controllo appena sente parlare di malattia mentale e incapacità d'intendere e volere. Ma il materiale che lo psichiatra raccoglie è sufficiente a convincerlo che Unabomber è in realtà un malato grave, affetto da una forma severa di schizofrenia paranoide. A conclusione della sua relazione, il dottor Foster scrive: «I deliri che affliggono il signor Kaczynski hanno invaso ogni sfera della sua vita e dettano le sue azioni. Egli è convinto che la società tecnologica abbia intenzione di distruggere lui e quelli come lui. In accordo con ciò che ha scritto, il signor Kaczynski considera ogni accidentale o intenzionale contatto con gli altri, gli articoli di giornale, i progressi della scienza, gli sviluppi commerciali e residenziali, il traffico aereo, le compagnie radiofoniche e televisive, come una minaccia diretta alla sua sopravvivenza». Ted però si oppone con tutte le forze all'idea di passare per folle, non può accettare che la sua battaglia sia solo il frutto di una mente malata. Il 5 gennaio 1998 la giuria è formata, e il processo può avere inizio. L'imputato chiede subito la parola, si alza e chiede di poter cambiare il proprio avvocato. Il giudice Garland Burrel respinge la richiesta e più tardi, rientrato in cella, Theodore Kaczynski tenta di suicidarsi impiccandosi con un lenzuolo. Non si tratta di un gesto dimostrativo, ma di un tentativo reale. L'episodio tuttavia non influenza Burrel, che alla ripresa del processo propone a Ted una semplice alternativa: o accetta di sottoporsi a una perizia, questa volta condotta dagli esperti della corte, oppure la valutazione verrà fatta dopo il ricovero immediato in una clinica psichiatrica. Gli specialisti confermano la prima diagnosi di schizo-
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frenia, ed è solo per questo che Unabomber, riconoscendo d'essere l'autore degli attentati dinamitardi, evita la pena di morte. La sentenza al carcere a vita, con la condanna a risarcire le vittime per un importo pari a quindici milioni di dollari, arriva il 4 maggio 1998. Ted ascolta il verdetto impassibile. Poi fa un'ultima dichiarazione, che conferma, se ce ne fosse bisogno, tutta la sua folle incapacità di capire. «Conto di rispondere esaustivamente in un momento successivo al contenuto della sentenza e alle falsità che sono state dette sul mio conto. Chiedo solamente che vi riserviate il giudizio su di me e sul caso Unabomber fino a quando tutti i fatti verranno resi pubblici.» Nessuna dichiarazione di pentimento, nessuna richiesta di scuse alle vittime e ai loro familiari. Il mondo non può capire, ecco l'ultimo messaggio di Ted Kaczynski. Lo portano in un carcere di massima sicurezza a Florence, nel Colorado, che tutti chiamano «Supermax». Gli danno un numero di matricola, 04475-046, e una cella tutta per lui, due metri di larghezza, quattro di lunghezza, riscaldata e pulita. Meglio della baracca dove è vissuto nel Montana. È in compagnia di gente famosa. Come Robert Hansen, la spia, Sammy Gravano, il boss di Cosa Nostra, e Ramzi Youssef, la mente del primo attacco terroristico al World Trade Center, quello del 1993. Ma probabilmente Ted non è impressionato dalla cosa. Piuttosto, a infastidirlo è l'accostamento. Che c'entra lui con tutta quella gente? Un mafioso, un terrorista, una spia. Che c'entra lui? Lui non è un criminale.
Vincenzo Peruggia Il ladro
Sono passate poche stagioni dalla fine della guerra, con il suo carico di paura e di miseria, ma con gli anni Cinquanta l'economia sembra aver ripreso vigore, e la Gran Bretagna è uno dei paesi dove la spinta pare più forte. La sera del 15 ottobre 1958 ci sono millequattrocento invitati nella sede di Sotheby's in Bond Street, a Londra. Vanno all'asta alcuni dipinti della collezione privata di Jakob Goldschmidt, banchiere di Berlino, fuggito dalla Germania prima che i nazisti riuscissero a mettere le mani su di lui, e sul suo patrimonio. Le tele all'incanto sono solo sette, un Van Gogh, un Renoir, due Cézanne e tre Manet, ma basteranno a rivoluzionare l'intero mercato dell'arte. La casa d'aste londinese ha appena assunto un nuovo banditore: si chiama Peter Cecil Wilson ed è un ex agente del M15, il servizio segreto britannico. Wilson ha intuito come la vendita dei dipinti di Goldschmidt possa trasformarsi in un grande evento mondano, e per questo ha preteso che il catalogo della serata fosse pubblicato, per la prima volta, con foto delle opere a piena pagina, e pure a colori. Poi ha fatto installare un impianto televisivo a circuito chiuso, perché tutti gli invitati riescano ad ammirare i quadri, anche se stanno seduti lontano dalle prime file.
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Un colpo di genio, una trovata promozionale rivoluzionaria, perché fino ad allora il collezionismo era una faccenda privata, con i venditori che piazzavano i pezzi più pregiati incontrando personalmente i ricchi compratori nei loro palazzi e nei loro castelli. E dall'altra parte dell'oceano, le cose andavano anche peggio, perché negli Stati Uniti la vendita all'asta ancora ricordava il mercato degli schiavi, dove le offerte e i rilanci servivano solo a comprarsi muscoli resistenti alla fatica. Quella sera tutto cambia. C'è Kirk Douglas in prima fila, accanto alla moglie di Winston Churchill, e l'étoile della danza Margot Fontaine siede vicino a Somerset Maugham. Lo stesso Peter Cecil Wilson, perfetto padrone di casa, s'incarica di accogliere gli ospiti e accompagnarli al loro posto. Gli scambi per i primi cinque pezzi sono consistenti, anche se non eccezionali, ma quando arriva il sesto dipinto, il Ragazzo con il gilet rosso di Paul Cézanne, succede qualcosa d'imprevedibile. Due intermediari, ciascuno dei quali opera in n o m e di uno sconosciuto compratore, si gettano in una competizione dura, un vortice di offerte al rilancio, tra il silenzio elettrico del pubblico. Quando l'opera viene aggiudicata, esplode in sala un applauso fragoroso, figlio della tensione, non della consapevolezza dell'incredibile cifra sborsata, duecentoventimila sterline, cinque volte più di quanto sia mai stato pagato per un oggetto in un'asta pubblica. Lo shock colpisce al cuore il mercato dell'arte. Il giro d'affari di Sotheby's, e della rivale Christie's, aumenta di anno in anno in una spirale che non si ferma più. Nel 1958 il volume degli scambi delle due case d'asta raggiunge i venticinque milioni di sterline, e alla fine degli anni Ottanta tocca i cinque miliardi. Nel 1979 il critico d'arte Robert Hughes, sulle pagine del
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«Time», attacca il nuovo boom delle opere d'arte, definendolo incomprensibile quanto l'irrazionale mania per i tulipani d'Olanda nel XVII secolo. E una ricerca della RAND Corporation, del 2005, stabilisce che i collezionisti, spinti dal miraggio di buoni affari, hanno, di fatto, estromesso dal mercato fondazioni, musei e ogni altro appassionato. I quadri sono sempre meno stimati per il loro valore artistico, ma piuttosto per il prezzo battuto all'asta. Come succede con II ragazzo con la pipa, dipinto da Pablo Picasso nel suo «periodo rosa». Non sono moltissimi a conoscerlo prima che nel 2004 un anonimo acquirente se lo aggiudichi per la «modica» cifra di centoquattro milioni di sterline, quasi centoventicinque milioni di euro. A riempire le pagine dei giornali e i servizi televisivi sono ormai solo gli exploit da guinness dei primati, il quadro, oppure la scultura più pagati della storia. Inevitabile che la cosa susciti il più vivo interesse nel mondo del crimine, sempre attento al miglior bilancio tra rischio e guadagno. Ecco allora spiegato il moltiplicarsi dei furti negli ultimi tempi, e che siano quadri, sculture o antichi manoscritti, si tratta sempre di delitti su commissione. Q u a l c u n o sostiene che dietro ci sia il collezionismo clandestino, quello di ricchi fanatici, ossessionati dall'arte, che finirebbero per godersi le opere trafugate, magari per pochi minuti al giorno, nel caveau sotto casa, dove le tengono nascoste. Non è escluso che possa capitare, ma in realtà la maggior parte dei colpi viene organizzata per chiedere un riscatto, come capita con i sequestri di persona. Per l'Interpol i furti d'arte costituiscono poi uno dei più grandi bacini di riciclaggio di valuta nel mondo, superati, quanto a profitti, solo dal traffico di sostanze stupefacenti. Il valore delle opere trafugate ogni anno è vicino ai cinque miliardi di euro, e la quantità di oggetti recuperati non supera il cinque per cento del totale. Nessuno sa
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dove sia finita la Saliera di Benvenuto Cellini, assicurata per cinquanta milioni di euro e rubata nel maggio 2003 al Museo di Belle Arti di Vienna. Sembrano spariti nel nulla anche i dipinti di Rembrandt e di Renoir trafugati a Stoccolma nel 2000, e due capolavori di Van Gogh custoditi nel museo di Amsterdam e rubati nel 2002. Dopo il furto, gli oggetti scompaiono in genere per alcuni anni, prima di essere rimessi sul mercato. Gli investigatori ogni tanto riescono a seguire le tracce dei ladri, recuperare la refurtiva e catturarne qualcuno, come è successo con i due quadri di Edward Munch, l'Urlo e la Madonna, rubati il 22 agosto del 2004 dal museo di Oslo. Le tele sono state ritrovate due anni dopo, in circostanze ancora misteriose, e i tre autori del furto condannati a pene dai cinque ai nove anni e mezzo di reclusione. Ci sono poi furti meno convenzionali, come quello di A Reclining Figure, una scultura imponente firmata da Henry Moore nel 1970. Nonostante il suo valore commerciale sia notevole, più di quattro milioni di euro, resta il fatto che non è facile piazzare sul mercato un oggetto da due tonnellate senza essere notati. Ma il mandante, in questo caso, potrebbe non essersi mai interessato al valore artistico dell'opera, piuttosto a recuperare il bronzo con cui era stata fusa. In Italia, il furto più doloroso e grave resta quello della Natività con i santi Francesco e Lorenzo, dipinta da Caravaggio nel 1609, e sottratta all'oratorio di San Lorenzo a Palermo nell'ottobre del 1969: una tela imponente di tre metri per due, mai più recuperata. C ' è molto di misterioso nella sparizione del dipinto, rubato da due giovani in una notte di pioggia. Si racconta che sulle tracce dei ladri non si siano messi solo carabinieri e polizia, ma anche la mafia che, scontato dirlo, è arrivata per prima e si è impossessata dell'opera. Da qui in avanti solo illazioni.
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C'è chi parla di un contatto tra i boss e il parroco di San Lorenzo, con un'offerta di riscatto mai andata a buon fine. Un corriere della droga, pentito, nel 1996 rivela di avere aiutato i ladri ad allontanarsi con la tela, e di averli poi accompagnati dal collezionista che aveva commissionato il furto. Ma l'opera, ritagliata dalla cornice con un rasoio, era talmente danneggiata che il mandante aveva rifiutato di acquistarla. L'ultima incredibile ipotesi è che la tela sia ancora in possesso di Cosa Nostra, e che sia esposta durante gli incontri al vertice, ostentata testimonianza del potere dell'organizzazione. Che a gestire il mercato dei furti d'arte ci siano esaltati, ricattatori o esperti in riciclaggio del crimine organizzato, l'unica soluzione di contrasto sta nella creazione di un database dei capolavori rubati, un archivio computerizzato a cui ogni mercante d'arte, istituzione o museo dovrebbe attingere prima di acquistare qualunque pezzo. Questo permetterebbe non solo di riconoscere e recuperare le opere trafugate, ma aiuterebbe il lavoro di intelligence, ricostruendo la rete di compratori e venditori che sta dietro ai furti. Ci sono però storie in cui non c'entrano niente i collezionisti, i ricattatori e il crimine organizzato, dove il movente non è la passione maniacale oppure il profitto. Storie, insomma, come quella che comincia con due giovanotti, Louis Beroud e Frederic Languillerme, i quali si vantano d'essere artisti, e sanno che per diventare famosi bisogna imparare dai maestri. Così, la mattina del 22 agosto 1911, un martedì, i due si dirigono con passo spedito verso il salone Carré del Louvre. È lì che sta appesa la Gioconda di Leonardo da Vinci, e gli amici intendono scoprire qualche dettaglio utile sulla luce, il colore, la tecnica. Commentano anche la novità degli ultimi giorni, l'idea di piazzare un vetro speciale a protezio-
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ne dei quadri, il segno di un mondo che va sempre peggio, dove non c'è più rispetto per nulla. Quando si ritrovano a fissare lo spazio vuoto sulla parete, restano un po' sorpresi, ma non pensano al peggio. Perché capita ogni tanto che le opere siano trasferite nel laboratorio fotografico del museo, per qualche scatto che poi finisce su cartoline, cataloghi e libri d'arte. È solo quando comincia ad arrivare gente, visitatori incuriositi e un po' seccati di non poter ammirare il capolavoro, che Beroud e il socio si decidono a chiamare monsieur Poupardin, il responsabile della sorveglianza. Nemmeno lui ne sa niente, e dopo qualche ricerca comincia ad agitarsi, avverte il direttore, monsieur Homolle, che chiama subito il sottosegretario di Stato alle Belle Arti. Tutti si precipitano nel salone Carré, compreso il capo della polizia e il prefetto di Parigi, Louis Lepiche. Ormai è chiaro che qualcuno ha rubato la Gioconda. E lo ha fatto approfittando del lunedì, giorno di chiusura del museo. Non ci sono dubbi perché la domenica il dipinto di Leonardo stava al suo posto, con la gente che lo ammirava, tra un Correggio e un Tiziano. Le uscite vengono bloccate, i visitatori fatti uscire uno alla volta e attentamente perquisiti. Non si tratta di una tela facile da arrotolare, ma di una tavola in legno di settantasette centimetri per novantatré, che non si può infilare sotto un braccio senza il rischio di essere notati. E poi, com'è entrato l'autore del furto? E da che parte è uscito? Una squadra di gendarmi setaccia ogni angolo, ogni passaggio, e alla fine arriva a una scala a chiocciola che porta in un cortile poco frequentato. Qualche gradino più in basso, abbandonati a terra, ci sono il vetro e la cornice che racchiudevano il quadro, e alla fine della rampa c'è una porta a vetri, senza il pomello, che mostra i segni di una forzatura. Si tratta di un'uscita frequentata dagli operai, ed è facile
Vincenzo Peruggia 111 che il ladro si sia mescolato a loro, oppure sia proprio uno di loro. Magari si è fatto chiudere dentro il museo la notte della domenica, e poi il lunedì ha approfittato dei lavori di manutenzione per andarsene indisturbato. Alla Sureté interrogano tutti, e poi lanciano un appello ai cittadini di Parigi, a chiunque abbia visto un sospetto aggirarsi nei pressi del Louvre. Un appello che funziona, perché un impiegato si presenta e dice di aver notato un tizio, un uomo con un involto sotto il braccio che si allontanava dal museo la mattina del lunedì. Non l'ha visto in faccia, andava di fretta, ma ricorda però che si era fermato un momento a gettar via qualcosa che aveva in mano, in un fossato lungo la strada. E lì accompagna gli agenti, che recuperano il pomello mancante della porta. Adesso si sa quando il furto è avvenuto, e anche la via di fuga del ladro. Resta solo da scoprire chi sia, e d o v e sia finita la Gioconda. La polizia si butta a capofitto nelle indagini, mentre gli Amici del Louvre annunciano una ricompensa di venticinquemila franchi per chi darà informazioni utili, e altri quarantamila ne offre il settimanale «L'Illustration». La pressione degli investigatori produce subito il fermo di due giovani, due possibili complici. Il primo si chiama Guillaume Apollinaire, scrittore, candidato in quei giorni al premio Goncourt, mentre il suo amico è un pittore ancora poco conosciuto, tale Pablo Picasso. Come si scoprirà presto, i due sono responsabili di aver pagato per un paio di antiche teste in pietra provenienti dal Louvre, che Picasso voleva utilizzare come modelli per il suo dipinto Les demoiselle d'Avignon. Ricettatori sì, ma con il furto della Gioconda non c'entrano nulla. Nel frattempo le ricerche battono la pista interna al museo, perché sul vetro che proteggeva il quadro sono rimaste impresse alcune impronte digitali che potrebbero ap-
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partenere al ladro. E allora dirigenti, impiegati, custodi e operai sfilano per ore davanti a gendarmi armati di tamponi e inchiostro. Duecentocinquantasette impronte. Nessun riscontro. Una grossa delusione, ma occorre considerare il fatto che a sottoporsi all'esame è solo il personale stabile del museo: mentre rimangono fuori i muratori, i decoratori, insomma gli avventizi assunti per brevi periodi e per un incarico specifico. Su di loro si concentra l'attenzione nelle settimane successive. La gendarmeria si fa consegnare dal direttore del Louvre il registro delle commesse, e recupera generalità e indirizzi di tutti quelli che hanno avuto accesso alle sale delle esposizioni. Poi gli agenti passano di laboratorio in laboratorio, di casa in casa, interrogando tutti, con metodo e pazienza. Fino al giorno in cui arrivano in rue de l'Hòpital Saint Louis, in uno dei quartieri popolari parigini. Nella lista delle persone da interrogare c'è un artigiano, immigrato dall'Italia. Vincenzo Peruggia accoglie gli investigatori nella sua modesta stanza ammobiliata con un letto, una piccola cucina, un armadio e un tavolino. Risponde alle loro domande senza problemi, magari con un po' d'impaccio, ma è normale, chiunque si sentirebbe un po' teso con la polizia in casa. Non mostra disagio nemmeno quando gli chiedono di poter dare un'occhiata in giro. Alla fine buttano giù un verbale appoggiandosi al tavolino, lo fanno firmare a Vincenzo, e se ne vanno. Tutto a posto, tutto normale, niente di strano. A parte una cosa, che sta nascosta in uno spazio ricavato proprio sotto quel tavolino su cui gli agenti hanno steso il verbale, prima di tornare a battere tutta Parigi, palmo a palmo, in cerca del quadro rubato. Una tavola di legno che ritrae il volto di una donna dal sorriso enigmatico, forse beffardo.
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La Gioconda. Le indagini segnano il passo, pian piano il vigore si affievolisce. Arriva l'inverno del 1911, poi passa il 1912, e anche il 1913, e ormai tutti si sono convinti che la Gioconda sia nelle mani di qualche collezionista, probabilmente al di là dell'oceano, e che nessuno la potrà più ammirare nel salone Carré del Louvre. Nell'autunno del 1913 Alfredo Geri, collezionista d'arte in Firenze, decide di organizzare una mostra nella sua galleria, e per sollecitare i privati a concedergli in prestito qualche tela dalla loro collezione, sceglie di reclamizzare l'iniziativa sulle pagine dei quotidiani. Un espediente che gli procura una certa notorietà. D'altra parte G e r i è nato artista, non commerciante, ha conosciuto e lavorato con Eleonora Duse. Anzi, il denaro con cui ha aperto l'attività è arrivato proprio dall'attrice, che sciolta la compagnia, ha voluto riconoscere il buon lavoro svolto dal suo collaboratore. Alfredo Geri si aspetta perciò qualche buon riscontro, qualche dipinto in più a dar lustro a lui e alla sua galleria. Ma non certo questa lettera affrancata a Parigi. Egregio Signor Geri, Abbiamo l'onore di portare a vostra conoscenza che si sta facendo delle pratiche, in questa città, e per mezzo corrispondenza, alla vendita del capolavoro vinciano la Gioconda. Ne saremmo molto grati se, per opera vostra, o di qualche vostro collega, questo tesoro d'arte tornasse in Patria, e specialmente a Firenze, dove Mona Lisa ebbe i suoi natali, e che ne saressimo in special modo lieti, se, un giorno futuro e non lontano fosse esposta alla Galleria degli Uffizi al posto d'onore e per sempre. Sarebbe una bella rivincita al I Impero Francese, che, scalando in Italia fece man bassa su grande quantità d'opere d'arte, per crearsi al Louvre un grande Museo che, ancora oggi giorno la direzione si guarda bene dal far conoscere sulle guide, ai visitatori e al popolo francese della loro provenienza.
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Signor Geri, ne facciamo appello a voi e ai vostri colleghi, per noi la preferenza è Firenze o Roma, e perché abbiate tutte le chance beneficerete di uno sconto del 25 per cento sui concorrenti stranieri. Se intendete concorrere voi, o qualche vostro amico, rispondete a volta di corriere le vostre offerte, e sino a quale cifra potete disporre. Con stima vi salutiamo Indirizzare Monsieur Léonard V. Poste Restante Bureau N° 5 (Place de la Repubblique) Paris France Geri è sensibile alle lusinghe di un buon colpo, ma è pure un uomo accorto, e allora prende la lettera e va a trovare Giovanni Poggi, il direttore della Regia Galleria di Firenze. Questi gli consiglia di rispondere, mostrandosi interessato, e di fissare intanto un incontro, in cui magari poter esaminare quella straordinaria offerta. Si accordano per trovarsi in un albergo di Milano, l'11 dicembre 1913. All'appuntamento Geri va con il direttore della Galleria, e il fantomatico monsieur Léonard mostra loro il dipinto. Giovanni Poggi fatica a frenare l'emozione, perché capisce subito di avere in mano l'originale di Leonardo. Con tutta la freddezza di cui è capace si dice interessato, ma aggiunge che per un'attribuzione certa ha bisogno di esaminare l'opera con più agio, magari nei laboratori del suo museo. Per Vincenzo Peruggia, alias Léonard V., non è un problema, si fida dell'esperto d'arte e gli affida il ritratto. È difficile capire cosa passi per la testa del ladro. Cosa vuole? Vuole dei soldi ? Oppure è davvero mosso da spirito patriottico, come ha scritto nella sua prima lettera?
Vincenzo Peruggia 115 E poi, dopo aver gelosamente custodito il ritratto per più di due anni, perché affidarlo a un estraneo, senza alcuna garanzia? Sono alcune delle domande a cui Vincenzo Peruggia dovrà dare risposta a carabinieri e magistrati perché, il giorno seguente l'incontro con G e r i e Poggi, lo vanno ad arrestare nella camera d'albergo a Milano, dove si è fermato ad aspettare notizie da Firenze. A questo punto, la prima cosa che tutti si chiedono è chi sia veramente l'uomo che ha rubato la Gioconda. Vincenzo Peruggia arriva da Dumenza, vicino a Varese, dove è nato l'8 ottobre 1881. Il papà, Giacomo, faceva il muratore mentre mamma Celeste si occupava della casa e dei figli, quattro maschi e una femmina. Imparato presto il mestiere di verniciatore e imbianchino, a sedici anni segue il padre per una prima volta a Lione. A vent'anni lo riformano dal servizio di leva perché di costituzione gracile e nel 1907 se ne va da solo a cercare lavoro e fortuna a Parigi, come molti suoi compaesani partiti dalle valli lombarde. Dalla capitale francese non fa più ritorno, tiene i contatti con i suoi per lettera, scrivendo regolarmente e, ogni tanto, mandando a casa qualche soldo risparmiato. Esaminando le sue cose, interrogando i genitori, l'unica stranezza che salta fuori sta in uno scritto, spedito nell'ottobre del 1912, dove annuncia d'essersi imbattuto in una grande fortuna, qualcosa che avrebbe permesso a mamma e papà di campare tranquilli per il resto dei loro giorni. Poi il silenzio, fino alla primavera del 1913, quando s'informa delle condizioni dei genitori, manda i suoi saluti, ma non fa più cenno all'incredibile «fortuna». Il giorno dell'arresto, anzi, il giorno dopo, Vincenzo Peruggia fa le sue prime dichiarazioni in cui si attribuisce per intero la colpa del trafugamento, negando d'avere mai avuto dei complici. Cinque giorni dopo, davanti al giudice istruttore di Firenze, Oscar Murj, racconta nel dettaglio tutta la vicenda.
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Che, nella sua semplicità, è semplicemente geniale. Erano le 7.05, al massimo le 7.10 del lunedì mattina, quando è entrato nel Louvre passando dalla porta Jean Goujon, quella più usata dagli operai. Poi ha attraversato la sala del maneggio, a pianterreno, e si è diretto al Salon Carré. Non ha incontrato nessun operaio sulla strada, nessun custode. Staccato il quadro dalla parete, è andato dritto verso la scaletta della sala dei Sept Maitres e in pochi istanti ha liberato la tavola dalla cornice e dal vetro che la racchiudevano. Ma non poteva uscire così all'aperto, e allora, semplicemente, si è sfilato la giacca che indossava, e l'ha avvolta attorno al quadro. Una volta fuori dal museo, è saltato sul primo autobus, ma nell'agitazione del momento, si è accorto che stava andando dalla parte sbagliata, e così è sceso e ha fermato una vettura che l'ha riportato a casa. Lì ha nascosto alla meglio la Gioconda, e poi, di corsa, è tornato al lavoro. Per giustificare il ritardo, visto che tra una cosa e l'altra s'erano fatte le 9, ha raccontato di soffrire dei postumi di una sbornia presa il giorno prima, che poi era domenica. Per qualche tempo, dato che la stanza dove viveva era un luogo umido, e temeva che il ritratto si potesse danneggiare, lo affida a un compatriota che abitava nello stesso stabile, tale Vincenzo Lancellotti. Forse c'era qualcun altro che era a conoscenza del furto, ma di questo il Peruggia non è sicuro. Passato un mese, dopo aver confezionato una cassa in legno nella quale custodire l'opera di Leonardo, se la riprende e la tiene con sé fino al momento in cui scenderà in Italia per proporla all'antiquario Geri. Il cui nome aveva letto per caso sul «Corriere della Sera», dove si pubblicizzava una sua prossima mostra d'arte. Insomma, alla fine, il ladro della Gioconda, il criminale a cui è riuscita un'impresa degna di Fantòmas e Arsenio Lupin, non ha fatto altro che entrare nel museo, staccare il
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quadro dalla parete e portarselo via. Facile come bere un bicchier d'acqua. La genialità, semplicemente, stava nel pensarci. Nel ritenerlo possibile. Il racconto però convince fino a un certo punto il magistrato, che lo considera troppo facile, perfino banale, e allora chiede ai carabinieri di non trascurare nulla, di sentire di nuovo i parenti e gli amici, chi ancora manteneva residenza e occupazione in Francia, e quanti invece erano ritornati a Dumenza, o nei paesi accanto. Dalle informazioni raccolte non esce nulla però che contraddica le parole di Peruggia, e mentre le indagini vanno avanti la storia del furto e del ritrovamento fa il giro del mondo. Tutti vogliono ammirare quel capolavoro di cui si parla sulle prime pagine dei giornali. Il governo italiano s'affretta a riconoscere che l'opera appartiene alla Francia e che al più presto verrà restituita al legittimo proprietario. In cambio, prima che sia organizzato un treno speciale, la Galleria degli Uffizi ottiene il permesso di esporla per qualche giorno, con il risultato di un assalto di almeno trentamila persone. Il 20 dicembre la Gioconda arriva a Roma, e dalla stazione ferroviaria passa al ministero dell'Istruzione, dove re Vittorio Emanuele II corre a godersi l'opera. Alle 10.30 del giorno dopo, in pompa magna e tra le attestazioni dei più vivi ringraziamenti, il quadro viene consegnato nelle mani dell'ambasciatore francese in Italia. Questi ringrazia, e anzi, a titolo di riconoscimento, concede che venga lasciato in mostra fino alla fine della settimana, nella sala del Fauno danzante di Villa Borghese. Il 28 dicembre, finalmente, la Gioconda è pronta per un viaggio in prima classe. Ma giunta per una sosta a Milano, è tanta la folla che la reclama che, almeno per un giorno, la si espone anche alla Galleria di Brera, dove novemila appassionati pagano il biglietto per ammirarla.
118 Il genio criminale Sembra una specie di circo itinerante, e se in quel momento si fosse organizzato un tour per le città d'Europa, e forse del mondo, questo avrebbe raccolto una quantità strabiliante di visitatori. E, naturalmente, di denaro. A proposito di denaro, all'antiquario Alfredo Geri il governo francese concede alte onorificenze, e un premio di venticinque franchi. Troppo poco, dirà scontento il fiorentino, che sperava in una ricompensa proporzionale al valore dell'opera ritrovata. Tornando a Vincenzo Peruggia, stabilito che a rubare il quadro è stato proprio lui, ai giudici resta da chiarire un altro aspetto importante, quello del movente. E mentre si cerca di scoprirlo, per evitare qualsiasi dubbio sulla futura sentenza, viene disposta anche una perizia psichiatrica. Tocca a Paolo Amaldi visitare il ladro, studiarne la mente e le intenzioni. Il professore, poco meno che cinquantenne, è un luminare che appartiene a una famiglia di veri scienziati. Italo e Ugo, i fratelli, si sono dati alla matematica e alla geometria, lui invece si è messo a studiare medicina, e poi psichiatria. Nel 1899 vince un concorso internazionale per la fondazione del primo ospedale psichiatrico nella Svizzera italiana, a Mendrisio, che dirige fino al 1907. Poi torna in Italia, a Firenze, dove gli affidano la direzione dell'ospedale psichiatrico provinciale. Amaldi assume l'incarico del caso Peruggia il 27 marzo 1914. Esamina gli atti, i verbali, le testimonianze, poi incontra l'imputato, che sta in carcere e gli si presenta come un uomo di 33 anni, poco più alto di un metro e sessanta, esile nella struttura corporea e povero nella muscolatura. Da lui raccoglie informazioni sulla sua famiglia, sulle malattie di cui ha sofferto, su qualche vizio o abitudine sconveniente. Ne esce poco. Certo Peruggia parla di uno zio disgraziato, che beveva troppo e aveva ucciso un uomo, fatto per cui era stato con-
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d a n n a t o al carcere a vita. Ma è un episodio isolato, e il resto della famiglia è c o m p o s t o da gente perbene. Q u a n t o a cattive inclinazioni, qualche volta si era ubriacato, ma non si poteva certo definire un alcolista. Gracile di costituzione, gli era poi capitato di ammalarsi q u a n d o era già in Francia, colpito da saturnismo, un disturbo legato all'intossicazione da piombo, metallo contenuto nelle vernici che a quei tempi ogni imbianchino usava. Decisamente interessante è invece il racconto di c o m e il Peruggia fosse diventato un criminale. Assunto, ai tempi, dalla ditta del signor Gobier, lo avevano mandato al Louvre in compagnia di altri operai, con l'incarico di pulire quadri e ricoprirli con cristalli. Mentre lavorava nelle sale del m u seo, gli era capitato di sentire molti visitatori commentare di quante delle opere esposte arrivassero dall'Italia. Aveva certo notato anche la Gioconda, ma tra le incombenze a lui impartite non c'era quella di occuparsene. Non sapevo capire come mai si trovassero là tante opere italiane. Ricordo che una volta ne avevo domandato il perché a certo monsieur Bavard, un impiegato del museo che faceva i cartellini da attaccare ai quadri col nome dell'autore e del soggetto. Ma monsieur Bavard non m'aveva voluto rispondere, e soltanto aveva fatto un certo risolino. Un giorno, sarà stato un mese prima che io finissi di lavorare al Louvre, mi trovai solo nell'atelier prima di cominciare il lavoro. Aspettando presi un libro che si trovava in uno scaffalino dietro il posto di monsieur Bavard, e mi misi a sfogliarlo. Nelle prime pagine c'era una figura dove si vedeva la facciata del Louvre con sopra una stella, e, sotto, una fila di carri trainati da buoi e carichi di quadri, di statue, di capitelli, che venivano dall'Italia, come era detto nella spiegazione che c'era sotto e che diceva che era tutta roba presa in Italia da Napoleone I. Non ho potuto continuare a guardare quel libro, perché mi sono sentito proprio male. Allora ho capito perché monsieur Bavard non m'aveva risposto e aveva riso. In quel momento mi son sentito talmente disgustato da gridar vendetta, da pensare: se potessi riportarne almeno uno di quei quadri in Italia!
120 Il genio criminale Avevo pensato subito, lì per lì, alla Bella Giardiniera, che era fotografata in quel libro, dove era anche fotografato un gran quadro del Mantegna. Ma la Bella Giardiniera era troppo grande, sarà stata un metro e mezzo d'altezza e di larghezza. Non so se in quel momento io abbia pensato alla Gioconda; per me era indifferente o l'uno o l'altro di quei quadri. Da allora, quell'idea di restituire all'Italia uno dei quadri rubati e anche di vendicarmi di tanti sciorini mi è rimasta sempre in mente e ci pensavo di continuo anche dopo che avevo finito di lavorare al Louvre. Ecco allora il movente di Vincenzo Peruggia, la spinta che l'ha trasformato da onesto operaio in criminale ricercato. A nulla valgono le contestazioni che Amaldi gli muove, sul fatto che nessuno aveva portato via la Gioconda dal nostro Paese, che era stato lo stesso Leonardo da Vinci a venderla direttamente a Francesco I, suo grande estimatore. Vincenzo su questo non si schioda, è certo di avere le idee chiare. Ladro, sì, mi sono sentito, ma dopo tutto avevo rubato roba nostra, di cui l'Italia è la vera legittima proprietaria. E ladri erano stati anche loro, i francesi; quindi pensavo che eravamo pari, perché io credo e sono ancora convinto che quel quadro non è mai stato pagato, come ho saputo anche dalla storia della Gioconda che ho vista dopo il furto in un cinematografo a Parigi. Si vedeva che Francesco I re di Francia, a Firenze stava a guardare Monna Lisa, mentre Leonardo le faceva il ritratto, e il re se ne era innamorato e poi faceva rubare il quadro dai suoi soldati. Come si fa in ogni perizia psichiatrica, raccolta l'anamnesi, cioè la storia passata, sentito il racconto dei fatti dalla voce del detenuto, a Paolo Amaldi tocca ora l'esame psichico, la valutazione attenta di tutte le funzioni della mente. Il professore è colpito in particolare dalla calma imperturbabile di Vincenzo Peruggia, dal tono sommesso con cui
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parla, dalla mimica di un volto che si muove assai poco. Anche nei momenti più intensi del suo racconto, non mostra mai una grande emotività ad accompagnare le parole. Allora decide di somministrargli qualche semplice test mentale, di quelli che oggi fanno sorridere per la loro facilità, e nella relazione che consegna al giudice, a questo proposito scrive: Ho cimentato il suo spirito critico con qualche pseudoquesito ingannevole, ma l'insuccesso era costante. Per esempio: se ventiquattro passeri stanno posati su di un albero, e con una schioppettata se ne buttano giù diciotto, quanti ne rimangono posati? Risponde (dopo aver ingenuamente calcolato): "Sei". Se un uovo deve bollire quattro minuti, quanto devono bollire tre uova? Risponde: "Dodici minuti" senza accorgersi, come senza deridersi. Allo psichiatra basta per dire che: Il Peruggia che, dotato di un buon potere mnemonico, disporrebbe di un sufficiente complesso di nozioni, rivela invece un limitato potere formativo, una povera dinamica intellettuale associativa, soprattutto una scarsissima attitudine critica. La conclusione è che l'imputato: Era, ed è, affetto da un vizio parziale di mente, che tuttavia non lo rende pericoloso per sé e per la società. Il 5 giugno del 1914, davanti al tribunale penale di Firenze, II sezione, composta dal presidente Giovanni Barili e dai giudici Riccardo Floriani e Carlo Savini, l'imputato Vincenzo Peruggia è condannato «ad anni uno e giorni quindici di reclusione per furto aggravato». Una sentenza accolta tra i fischi, perché la pena sembra a tutti esagerata. Il pubblico che ha riempito l'aula del processo, ma anche parecchi tra gli addetti ai lavori hanno ere-
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duto alle parole dell'imbianchino di Dumenza, alle ragioni patriottiche che hanno motivato il suo gesto. Vincenzo Peruggia ha rubato la Gioconda per restituirla all'Italia e non si condanna un patriota. E allora si va in appello, il 29 luglio, e in quella sede non solo la pena diminuisce a «mesi sette e giorni otto», ma la corte stabilisce che il Peruggia sia immediatamente scarcerato. Fuori di prigione, ad aspettarlo, non ci sono solo i familiari e gli amici, ma un gruppo di comuni cittadini, che ha organizzato una colletta e raccolto una somma per l'emigrante, simbolica ma comunque significativa. Poi, con la tragedia della Grande Guerra la vicenda del furto della Gioconda pian piano sbiadisce, ma la storia di Peruggia riserva ancora qualche sorpresa. Vincenzo parte soldato, fa il suo dovere, e poi, tornato, si sposa con Annunciata, una ragazza più giovane di quindici anni. Non è che a Dumenza stia male, perché tutti lo guardano con rispetto e simpatia, ricordando la sua incredibile avventura, ma la Francia, nel bene o nel male, gli è rimasta nel cuore. Se si fosse presentato alla frontiera, però, non l'avrebbero certo arrestato, ma nemmeno fatto entrare, e allora decide di utilizzare un piccolo stratagemma. Sui documenti per l'espatrio fa mettere Pietro, il suo secondo nome, al posto di Vincenzo. Pietro Peruggia va ad abitare alla periferia di Parigi, a Saint Maur des Fossés, dove, nel 1924, nasce Celestina. Lì vive serenamente, e anche se nessuno importuna Vincenzo chiedendogli se per caso è lui il famoso ladro - perché tutti lo sanno -, spesso la gente gli chiede di mettere il suo autografo sulle cartoline che riproducono la Gioconda. L'8 ottobre 1925 è una data speciale, il compleanno insieme di Vincenzo e di sua moglie, da festeggiare con una bottiglia di champagne e un vassoio di paste comprati per l'occasione. Sorride Vincenzo, intenerito dalla piccola Celestina che
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gli corre incontro ancora incerta sulle gambe, dalla vista di Annunciata che lo aspetta sulla soglia di casa. Sorride, prima che un dolore gli squarci il petto, lo costringa a piegarsi in due, e poi a crollare a terra. La bimba si ferma, Annunciata crede per un attimo a uno scherzo, ma poi corre urlando, solo per capire che non c'è più nulla da fare, che un infarto gli ha portato via il marito a soli quarantaquattro anni. Un'ultima stranezza nella storia di Vincenzo Peruggia capita nel 1947, quando un clochard muore di stenti in un paesino dell'Alta Savoia, e nel cercargli addosso qualche documento che possa identificarlo, scoprono una carta d'identità intestata a Pietro Peruggia. Qualcuno sostiene che il morto assomigli al celebre ladro della Gioconda, e si lancia in fantastiche ipotesi di fughe e sparizioni. La realtà, più semplice, è che a Vincenzo qualcuno aveva rubato i documenti, e lui non aveva mai denunciato il furto. Il barbone li aveva poi ritrovati in un portafoglio gettato via dal ladro che si era preso solo i contanti. Facendo così rivivere, anche solo per un attimo, con il suo secondo nome, Vincenzo Peruggia, il geniale, inarrestabile, semplicissimo ladro della Gioconda.
La banda di Anthony Pino I rapinatori
È difficile capire la psicologia di un rapinatore di banche. Ci sono quelli che non hanno guadagnato onestamente un soldo in tutta la vita. E poi, accanto a veri e propri geni del crimine, magari spinti dal brivido della sfida, ecco spuntare personaggi di incredibile stupidità. Prendiamo l'esempio del colpo alla Bank of America del World Trade Center, nel 1998, un agguato alle guardie della sicurezza rapido e determinato, scattato proprio nel momento della consegna agli sportelli dei sacchi con il contante. Non c'è nemmeno il tempo di capire cos'è successo che i quattro criminali si sono già allontanati. Ma sono così carichi di adrenalina e di presunzione che finiscono per togliersi troppo presto la maschera indossata nella rapina, quando ancora si trovano nel raggio d'azione delle telecamere a circuito chiuso della banca. Questione di ore e li arrestano tutti. Di tutt'altro spessore la banda di ladri che a Beirut, una ventina d'anni prima, si porta via cinquanta milioni di dollari dalla British Bank of the Middle East. Entrati in una chiesa che confina con la banca, fanno saltare con una carica di esplosivo il muro che separa i due edifici, certi che nessuno si sarebbe stupito del botto con il Libano nel bel mezzo di una guerra civile. Il bottino non è mai stato recuperato, né si è scoperta l'identità dei rapina-
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tori. Forse è stata I'OLP, l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, oppure la SAS, i servizi segreti britannici, o ancora la banda dei corsi. Nel 2005, per svuotare il Banco Central di Fortaleza, in Brasile, i rapinatori si dimostrano ancora più ingegnosi. Si prendono tre mesi di tempo per scavare un tunnel di settanta metri, lo rivestono con pannelli di legno e, come se non bastasse, ci mettono pure l'impianto elettrico e i condizionatori. Alla fine si portano via settanta milioni di dollari, e la maggior parte del bottino non è ancora stata recuperata. Colpi strabilianti, pianificati fino all'eccesso, ma niente a paragone di quella che ancora oggi è chiamata «la rapina del secolo», la Brink's Robbery. Oggi, la sede centrale della Brink's Incorporated è a Richmond, in Virginia. Con almeno seicentocinquanta filiali sparse nel mondo, un parco di quasi ottomila vetture blindate e cinquantaquattromila impiegati, la Brink's Inc. ha un giro d'affari di circa due miliardi e ottocento milioni di dollari l'anno. Fondata nel 1859 per diventare la compagnia più affidabile al mondo nel campo della sicurezza, nel tempo si è conquistata la fama d'essere inattaccabile. Qualunque banca, società o istituzione può affidare tranquillamente il proprio denaro agli uomini della Brink's: ci pensano loro a raccoglierlo, conservarlo e farlo arrivare a destinazione. È sempre stato così, almeno fino alla sera del 17 gennaio 1950. Thomas Lloyd fa il capo cassiere negli uffici di Boston, e sono almeno trent'anni che lavora per la compagnia. Ogni mattina prende la sua auto, saluta la famiglia e la cittadina di Braintree dove vive e si fa tredici miglia per arrivare all'edificio che sta all'angolo tra la Commercial e la Prince Street. A pianterreno c'è il garage con i furgoni blindati e sopra gli uffici, le stanze dove gli impiegati contano e dividono il denaro in arrivo dalle banche di Boston, in parte
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destinato alle paghe dei dipendenti di grandi aziende come la General Electric. Con Lloyd, quella sera d'inverno, ci sono James Alien, spedizioniere, Sherman Smith, autista, e poi le guardie, Charles Grelle e Herman Pfaff. Ancora un piccolo sforzo, esorta Lloyd, perché manca poco alle sette, e poi si va tutti a casa. C ' è chi sta già pensando alla cena, chi al ghiaccio che troverà per strada, quando si sente un rumore simile a un fruscio di passi cauti e voci bisbigliate. A Lloyd sembra vicino, dall'altra parte della stanza addirittura, e allora solleva lo sguardo. Sono in cinque, forse in sei, uomini saltati fuori dal nulla con berretti e giubbe della marina, guanti di cotone e soprascarpe. Ma a spaventare lui e i suoi compagni sono soprattutto le maschere di gomma che hanno sulla faccia, tutte uguali, tanto che sembrano fotocopie dello stesso incubo. E poi le pistole. Gridano di mettersi pancia a terra, disarmano le guardie e cominciano a muoversi per la stanza, riempiendo sacchi di denaro, raccogliendo titoli e obbligazioni. Nei loro gesti con c'è niente di casuale e improvvisato, si spostano come se conoscessero bene l'ambiente, con metodo, senza fretta. Passano i minuti - cinque, dieci, quindici -, che agli ostaggi sembrano un'eternità, in un silenzio rotto solo dal rumore dei sacchi trascinati. È per questo che tutti fanno un salto al suono improvviso e stridente del campanello. Chiedono a Lloyd chi diavolo possa essere e il cassiere risponde che si tratta certamente di William Manter, un tipo non troppo sveglio che fa il custode nel garage. William insiste a suonare, due, tre, dieci volte, e gli uomini della banda decidono che è meglio farlo entrare, per poi immobilizzarlo e metterlo insieme agli altri. Ma com'è cominciato, di colpo il suono s'interrompe e i rapinatori si rimettono al lavoro.
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Thomas Lloyd inizia a sperare che forse ne usciranno tutti vivi: alla banda infatti non resta molto tempo, c'è un sistema d'allarme automatico che scatta alle otto in punto, a meno che non ci pensi lui a disattivarlo. Come se gli avessero letto nel pensiero, i rapinatori sembrano muoversi più in fretta. Poi il silenzio. Il cassiere prova allora a muovere le mani legate dietro alla schiena, con la paura di essere colpito da un calcio, o magari anche peggio. Ma non succede niente, perché se ne sono andati tutti. Allora Lloyd si gira sulla schiena e prende a divincolarsi fino a liberare una mano, poi l'altra. Sono le 19.27 quando la polizia riceve la sua telefonata. Per scoprire cos'hanno rubato non basta tutta la notte, e alla fine il risultato è impressionante. Dalle casse della Brink's mancano 1.218.211 dollari e 29 centesimi in contanti, e 1.557.183 dollari e 83 centesimi in assegni, obbligazioni e certificati di deposito vari. Non c'è dubbio che si tratti della rapina del secolo. A compierla sono state dieci persone. Dieci uomini che l'hanno ideata, organizzata e poi messa in pratica, dieci uomini con una storia da raccontare. A cominciare da quella del mastermind, il «cervello» della banda. Anthony Pino è un commediante nato, un istrione capace di strappare un sorriso a tutti, siano sbirri o delinquenti come lui. Forse il segreto sta nelle parole che sceglie, nel modo in cui le mette insieme, nel tono della voce, fatto sta che riesce a incantare, a far creder d'essere poco più di un buffone e non un serio professionista del crimine, quale è nella realtà. Ottimo cuoco, uomo legato alla famiglia, Anthony Pino nasce in Sicilia il 10 maggio 1907 e si trasferisce con i genitori in America quando ha solo otto mesi, stabilendosi nei quartieri popolari a sud di Boston. L'inglese lo impara per strada, giocando, o piuttosto facendo a botte con gli altri ragazzi, e per strada si trova an-
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che quando la città viene colpita da uno dei più drammatici e bizzarri incidenti della sua storia. Succede nell'estate del 1919, quando un enorme serbatoio di melassa esplode uccidendo ventun persone e proiettando ovunque schizzi nerastri di liquido appiccicoso. Il fatto resterà per sempre impresso nella memoria di Anthony, che ben presto dà inizio alla sua attività criminale e già a quindici anni si prende una pallottola alle spalle, mentre scappa da un poliziotto. Ne ha solo diciannove quando gli capita una storia ancora più brutta: una ragazzina di quindici anni lo accusa di violenza sessuale. Anthony viene arrestato e finisce in carcere, ma chi lo conosce è sicuro che lo abbiano incastrato e poi obbligato a tacere il nome del vero responsabile. Di fatto la galera gli permette di incontrare un buon numero di giovani delinquenti e di imparare al meglio l'arte dello scassinatore. Esce nel novembre del 1930, e nei sette anni che seguono si fa arrestare almeno quindici volte. Il Giorno del Ringraziamento del 1937, Pino, con quattro complici, forza l'entrata dei magazzini Rhodes Brothers. L'obiettivo è la cassaforte, ma la polizia li intercetta e ne viene fuori una battaglia a pugni e calci. La cosa non sembra poi così grave, dato che nessun colpo di pistola è stato sparato e nessuno si è fatto male seriamente. Il problema è che Pino, Pino il commediante, durante gli interrogatori se ne esce con una spiritosaggine fuori luogo. Quando gli chiedono cosa ci faceva dentro i magazzini nel Thanksgiving Day, risponde che c'era andato a cercare un buon tacchino. Battuta fiacca che il procuratore non gradisce, tanto da mandarlo dritto alla prigione di Stato a Charlestown per scontare una doppia condanna da un minimo di tre a un massimo di quattro anni. Torna in libertà nel settembre del '44, e subito comincia a reclutare nuovi compagni d'avventura. Di uno in parti-
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colare si fida. Si chiama Vincent James Costa, nato l'8 febbraio 1914 e cresciuto nei sobborghi di South Boston, dove ha imparato i trucchi del delinquente. E poi Pino gli vuol bene perché ha sposato la più piccola delle sue sorelle, con la quale ha messo al mondo cinque figli. Non è che sia un tipo molto brillante, ma al volante di un'auto se la cava bene. E la famiglia è sempre la famiglia. Thomas Richardson invece è più sveglio. Nato a Boston nel 1907 da genitori irlandesi, ha un sacco di nomi, che usa a seconda della necessità, ma gli amici lo chiamano tutti «Sandy». Per gran parte della sua vita si è tenuto stretto il lavoro di scaricatore al porto, ma, per arrotondare, non si è mai tirato indietro davanti a un buon colpo. Coetaneo di Anthony Pino, i due si sono conosciuti prima dei vent'anni, e si sono trovati talmente bene da combinare insieme un mucchio d'affari, tutti rigorosamente illegali. C o m p a g n o inseparabile di Sandy Richardson è James Ignatius Faherty, «Jimma» per gli amici, uno che si è messo in mezzo ai guai che ancora era un bambino, collezionando sette condanne da minorenne e dodici da adulto. Jimma e Sandy. Due gangster che amano l'alcol e non hanno paura di imbracciare un mitra, anche se Faherty è pure una persona intelligente, che legge molto, spaziando dagli articoli scientifici alle poesie. A questo punto ci sono Anthony Pino, Vinnie Costa, Sandy Richardson e Jimma Faherty. Sono già in quattro, ma non basta. Nel 1930 Richardson presenta a Pino un nuovo socio. Si tratta di Michael Vincent Geagan, detto «Vinnie», ventidue anni e un bel curriculum. È riuscito perfino a passare la prima notte di nozze in galera perché, appena finita la cerimonia, si era allontanato in auto con la sposa novella guidando in modo così imprudente che la polizia lo aveva fermato. E lui, anziché spiegarsi, aveva aggredito gli agenti. Per qualche tempo era stato anche il «pericolo pubblico
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numero uno» dello Stato del M a s s a c h u s e t t s , quando si era portato via, armi alla mano, la cassa del comune di Brockton con dentro tredicimila dollari. Preso e processato, gli avevano inflitto una condanna pesante, da un minimo di ventotto a un massimo di trentotto anni, da trascorrere in una prigione federale. Ma era riuscito a uscire sulla parola nel 1943, non tanto per la buona condotta, ma piuttosto perché si era offerto volontario per una sperimentazione medica. Adolph «Jazz» Maffie, invece, non sembra avere niente in comune con la banda che si sta formando. Nato nel 1911 da genitori italiani emigrati in America, ha un passato da ottimo giocatore di football e baseball, un congedo con onore dall'esercito, una moglie adorabile e due bei bambini. Nel mondo della malavita è conosciuto come un allibratore corretto ma pigro, uno che non si sveglia mai prima di mezzogiorno, attento all'immagine, sempre ricercato nel vestire. Richardson lo presenta ad Anthony Pino, che riconosce in Jazz una certa intelligenza, anche se non gli piace il suo atteggiamento di superiorità. Ma c'è bisogno di uomini, e allora non resta che metterlo alla prova. Pino, Richardson e Maffie forzano l'ingresso di una fabbrica, poi vanno dritti nell'ufficio del direttore, aprono la cassaforte e a r r a f f a n o tutto quello che ci trovano dentro. Qualche ora più tardi, si ritrovano tutti e tre a bere qualcosa in un bar, ciascuno con milleottocento dollari nelle tasche, guadagnati con poca fatica. E Jazz, che non ha nemmeno un capello fuori posto, ha superato a pieni voti l'esame dei compagni. Non tutti però hanno la classe di Maffie e la simpatia di Pino. Joseph McGinnis, per esempio, è un sadico arrogante, un ex pugile professionista proprietario di uno scalcinato negozio di liquori a Boston, il J. A. Café, all'angolo tra la Columbus Avenue e la Washington Street. È un tipo grezzo e intrattabile, ma d'altra parte era dif-
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ficile che potesse crescere diversamente. Il padre lo prendeva a cinghiate, mentre la madre era una donna di buon carattere ma del tutto squilibrata: amava vestirlo con pizzi e merletti e acconciargli i capelli in boccoli, perché aveva sempre desiderato una bambina. Appena aveva potuto, Joseph aveva smesso gli abiti della ragazzina e cominciato a menar pugni per le strade. Aveva preso a rubare e poi a rapinare banche, e per questo lo avevano condannano a otto anni di carcere. Verso la fine degli anni Quaranta, McGinnis ha una reputazione incerta: ha fama di essere un grande lavoratore, uno che non bada alla fatica, ma si dice anche sia una persona inaffidabile. In ogni caso McGinnis conquista Anthony Pino, che di lui apprezza soprattutto le capacità d'organizzazione. Mancano ancora tre elementi per completare il gruppo, e il primo è un giovane che bazzica il J.A. Café di McGinnis. Si chiama Stanley Albert Gusciora, detto «Gus», figlio d'immigrati polacchi. Pino lo prende in simpatia, lo chiama «ragazzo», anche perché ha dodici anni meno di lui, ma non per questo lo sottovaluta. Sa che a quattordici anni è finito nel primo riformatorio aperto negli Stati Uniti, arrestato dopo un furto d'auto. E sa anche che in meno di un anno è riuscito a fuggire dalla struttura modello, in un'evasione che è costata la vita a una guardia. Quando lo hanno ripreso, ci sono andati pesanti con la condanna, da un minimo di quattordici a un massimo di diciotto anni. Non se li è fatti tutti perché anche lui, come Vinnie Geagan, ha accettato di partecipare a una sperimentazione medica in cambio di uno sconto di pena. E poi si è arruolato ed è partito per la Seconda guerra mondiale, grazie all'aiuto del fratello che ha fatto sparire i precedenti dalla sua fedina penale. Una volta finite le battaglie, Gus è tornato a casa, e tutti hanno pensato che era proprio un tipo in gamba, tutti volevano bene al «ragazzo».
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Lui li ha ricambiati diventando uno dei migliori ladri in circolazione. Joseph James O'Keefe detto «Specky» arriva tra gli ultimi, ma si rivelerà l'uomo chiave dell'intera vicenda. «Speck» vuol dire macchiolina, ma il soprannome non c'entra col fatto che lui da piccolo avesse la faccia piena di lentiggini, come gli piace raccontare. Joseph piuttosto frequentava i mercati all'aperto e riusciva sempre a farsi regalare qualche banana, di quelle un po' vecchie, con la buccia picchiettata da macchie scure. Ecco da dove arrivava il soprannome. Specky è nato il 30 marzo 1908, settimo figlio di una coppia che ne mette al mondo sedici e vive in una vecchia casa senza nemmeno l'acqua corrente. A otto anni lo sorprendono a rubare in un negozio di dolci, e a nove scappa con un cavallo. Poi se ne va in giro con una banda di ragazzini, la C Street Gang, e insieme rapinano una gioielleria. Episodi che si ripetono, finché non lo mandano al riformatorio, alla Lyman School for Boys. Gli insegnanti lo osservano per un po' e concludono che la sua è la storia tipica di un ragazzo che nessuno ha mai seguito, a cui nessuno ha dato delle regole, e allora le ha imparate per strada. Quando esce, a tredici anni, a casa le cose non sono cambiate. Sarà piuttosto la sua carriera criminale a progredire, con delitti sempre più gravi, fino a quando, nel dicembre del 1927, lo accompagnano con le manette ai polsi nella sua nuova casa, il riformatorio Concord. Qui conosce Pino, Faherty, e anche un tizio che si chiama Henry Baker, l'ultimo a entrare nella banda. Non fanno in tempo a rilasciarlo, che di nuovo O'Keefe viene arrestato, e questa volta finisce alla casa di correzione dell'isola di Deer. Nel 1932 Specky ha ventiquattro anni, metà dei quali trascorsi dietro le sbarre. In carcere gli affidano un lavoro in magazzino, ogni giorno dall'alba fino alle nove di sera, quando rientra in cella. Con un paio di amici, inizia subito a trovar scuse per piccoli
134 Il genio criminale ritardi. Questione di minuti, poi di quarti d'ora, le guardie si lamentano, ma alla lunga ci fanno l'abitudine. Pochi giorni dopo il Natale, O'Keefe e i compagni sfondano un vetro del magazzino e si gettano nelle gelide acque che circondano l'isola di Deer, nuotando con tutta l'energia che hanno in corpo. Gli va bene, e una volta raggiunta la costa davanti a Boston si dividono e fanno perdere le proprie tracce. Specky fugge a New York, dove s'innamora di una ragazza dell'Ohio che accetta di diventare sua moglie. Certo non le racconta del suo passato, almeno fino a quando non lo arrestano e lo rispediscono a scontare la pena rimanente. Mary, questo il nome della ragazza, non lo abbandona, e anzi quando esce di prigione è lì che lo aspetta. C'è anche una storia che riguarda Specky, Mary e David, il loro figlio adottivo, una storia che non si sa se sia successa davvero oppure sia inventata. Un giorno capita che O'Keefe si trovi in un bar, quando nota una ragazza con un bimbo molto piccolo che piange disperatamente, sporco e denutrito. Chiede allora alla madre perché non si occupi di suo figlio, ma la giovane gli risponde che non c'è motivo perché si intrometta nelle sue cose, e comunque il bambino non ha nessun problema. Per tutta risposta Specky si prende il bimbo, liquida la ragazza con il denaro che ha in tasca e, arrivato a casa, mette il fagotto tra le braccia di sua moglie Mary. Sono tutti felici, anche se adesso O'Keefe ha un problema in più, una famiglia da mantenere, e lui provvede nell'unico modo che conosce: rubando. Quando incontra un ragazzo che si chiama Gus Gusciora, i due diventano grandi amici e Specky scopre che hanno un sacco di cose in comune. Tra le altre, la conoscenza di Pino, Costa, Geagan, Maffie, Richardson e Faherty. Ecco la banda che il 17 gennaio 1950 fa il colpo del secolo, la rapina alla Brink's Inc., questi i criminali sulle cui tracce si mette I'FBI dopo che il capo cassiere Thomas Lloyd si è liberato lanciando l'allarme.
La banda di Anthony Pino 135 Gli investigatori hanno in mano solo una descrizione sommaria dei rapinatori mascherati e qualche traccia lasciata sulla scena del crimine. Come le corde e il nastro adesivo usati per immobilizzare gli uomini della Brink's e un cappello da autista dimenticato. Ci sono poi i quattro revolver sottratti alle guardie della sicurezza, regolarmente registrati con tanto di numero di matricola. Ma su una cosa I ' f b i non ha dubbi: si tratta di professionisti, occorre perciò passare al setaccio il mondo della malavita, interrogando chi ha precedenti, abilità e competenze per un colpo eccezionale. Nemmeno sulle vittime dell'assalto si possono avere certezze, perché tra loro potrebbe esserci un complice, un basista, che ugualmente potrebbe nascondersi tra dirigenti, impiegati, fornitori o fattorini: chiunque insomma lavori, o abbia lavorato, per la compagnia. Senza dimenticare i potenziali testimoni: troppi in realtà, perché la Brink's, purtroppo per i detective, si trova in una zona densamente popolata di Boston. Gli investigatori si trovano a fare i conti con una pressione tremenda e con il consueto corteo di migliaia di benintenzionati di tutto il Paese, che li tempestano di consigli e suggerimenti. Il problema è che in mezzo a un sacco di spunti bizzarri ci può sempre essere un'informazione utile, perciò non si può scartare niente senza prima aver controllato. Non si può trascurare, per esempio, una dritta secondo cui il bottino sarebbe nascosto nella baia di Boston, o un'altra che raccomanda di prestare attenzione a un uomo di Bayonne, New Jersey, un tizio con pochi mezzi che improvvisamente si è messo a spendere, a comprare automobili e a gettare dollari a manciate, trascorrendo serate nei night club. E che poi si scopre aver vinto alla lotteria. Chi ha precedenti non parla, vuole un avvocato; chi è in attesa di una condanna severa, al contrario, dice di conoscere tutto della rapina, di essere disposto a collaborare in
136 Il genio criminale cambio di qualche sconto sulla pena. Ma è solo una perdita di tempo, perché in realtà nessuno sa nulla. Mentre la Brink's si affretta a mettere a disposizione una taglia di centomila dollari per chiunque darà informazioni utili all'arresto dei colpevoli, nelle indagini qualcosa sembra muoversi. Il 4 febbraio, a Somerville, poche miglia dal centro di Boston, un gruppo di ragazzi che stanno giocando sulla riva sabbiosa del Mystic River scopre uno dei revolver sottratti dai rapinatori. Intanto, dagli interrogatori dei testimoni, salta fuori che qualcuno poche ore prima dell'assalto ha notato un furgone verde, un Ford del 1949, parcheggiato vicino agli uffici della Brink's. Lo ritrovano in una discarica a Stoughton, fatto a pezzi con una lancia ad acetilene e un pesante martello. È stato rubato da un concessionario di Fenway Park due mesi prima della rapina, ed è sicuramente il furgone usato dai ladri perché ci sono ancora dentro sacche di tela uguali a quelle usate per trasportare il denaro. Ma non c'è un'impronta digitale, non una traccia che riveli l'identità dei criminali. In ogni caso il luogo dove è stato abbandonato suggerisce che almeno qualcuno dei rapinatori sia pratico della zona, che viva, sia vissuto o abbia parenti da quelle parti. È un'informazione importante, che merita di essere incrociata con i dati dei principali sospettati. E tra i primi c'è Anthony Pino, conosciuto dalla polizia come uno dei più bravi organizzatori d'imprese criminali. Quando gli chiedono dov'era la sera del 17 gennaio, lui presenta un alibi fin troppo solido per non destare sospetti. È stato a casa sua fin verso le 19, poi ha raggiunto a piedi il negozio di liquori dell'amico Joseph McGinnis, dove si è messo a parlare con un poliziotto. L'agente conferma il racconto, ma aggiunge che lui stava già chiacchierando con McGinnis quando Pino è arrivato e si è unito a loro. La strada dal negozio agli uffici della Brink's non porta
La banda di Anthony Pino 137 via più di un quarto d'ora a passo spedito, e Pino avrebbe potuto tranquillamente partecipare alla rapina e arrivare al bar poco dopo le 19.30. Anche McGinnis tira fuori un alibi. Ha lasciato casa sua poco prima delle 19 per andare nel suo locale e incontrarvi il poliziotto. Ma con tutti i suoi precedenti, agli investigatori sembra difficile che non sappia proprio niente della rapina. In ogni caso, se nella storia sono coinvolti Pino e McGinnis, bisogna cercare altri complici. Quei due non si sarebbero mai imbarcati in un'impresa simile senza poter contare sul sostegno di uomini pronti a usare le armi. E due tizi che hanno sangue freddo e dimestichezza con le pistole si chiamano Joseph James O'Keefe e Stanley Albert Gusciora. L'FBI sa che Specky e Gus hanno già lavorato insieme in passato, e che conoscono Pino. Nessuno di loro ha un alibi a prova di bomba, e poi le famiglie di entrambi vivono vicino a Stoughton, il posto dove è stato ritrovato il furgone della rapina fatto a pezzi. Nell'aprile del 1950, ad accelerare il corso delle indagini, arriva una soffiata. Una fonte anonima rivela che parte del bottino è nascosta nella casa di uno dei parenti di O'Keefe, a Boston. Ottenuto un mandato di perquisizione, gli agenti setacciano l'abitazione, e ci trovano centinaia di dollari. Ma non c'è modo d'essere certi che arrivino dalla rapina alla Brink's. Il 2 giugno O'Keefe e Gusciora lasciano Boston. Ufficialmente per una visita al cimitero dove è sepolto il fratello di Gus, ma in realtà per mettere a segno qualche colpo sulla strada tra Kane e Coudersport, in Pennsylvania. Impiegano dieci giorni a catturarli a Towanda, con la refurtiva ancora nell'auto, e l'8 settembre li processano. O'Keefe se la cava con tre anni di carcere, mentre a Gusciora va molto peggio, perché gli accollano altri reati rimasti in sospeso e la pena per lui va da cinque a vent'anni, da trascorrere al Western Pennsylvania Penitentiary di Pittsburgh.
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Se O'Keefe e Gusciora se ne stanno in carcere, anche Anthony Pino deve fronteggiare un sacco di problemi. È arrivato negli Stati Uniti nel 1908 che era un neonato, ma non ha mai ottenuto la cittadinanza americana e, visto il suo curriculum criminale, nel 1941 l'ufficio immigrazione ha avviato una pratica per rimandarlo in Italia. Nel 1949 Pino è riuscito a convincere i giudici a cancellare alcuni dei reati che ha commesso in passato, facendosi ripulire la fedina penale e bloccando così il provvedimento di estradizione. Ma nel 1953 viene di nuovo preso in custodia in vista dell'espulsione dagli States, e gli tocca combattere ancora due anni contro il provvedimento. Nel gennaio del 1954 O'Keefe, appena scarcerato, si trova subito ad affrontare un altro processo. Ha in sospeso una violazione della libertà sulla parola e, in attesa del dibattimento, ottiene un rilascio su cauzione e si sposta a Boston. Gli uomini dell'FBi lo seguono, e scoprono che prende contatti con altri sospettati. Un comportamento poco prudente, ma Speeky ha bisogno di denaro per pagare gli avvocati, e poi si capisce che è arrabbiato con i suoi amici. In particolare ce l'ha con Maffie ed Henry Baker, e non lo nasconde: vuol fargliela pagare, perché va dicendo che gli hanno fregato un sacco di soldi. Nelle prime ore del mattino del 5 giugno 1954, a Dorchester, Massachusetts, un'auto si accosta a quella di O'Keefe, che fa appena in tempo a gettarsi tra i sedili prima che la carrozzeria venga crivellata dai proiettili. Nove giorni dopo O'Keefe e un paio di amici scoprono dove si è rifugiato Baker, che nel frattempo ha deciso di prendersi un periodo di vacanza, e decidono di passare a salutarlo. Ma appena Henry li vede arrivare, gli scarica addosso il caricatore del suo machine gun. Non colpisce nessuno, però riesce a scappare. Il 16 giugno 1954 Elmer «Trigger» Burke, un assassino su commissione, spara a O'Keefe centrandolo al petto e a
La banda dì Anthony Pino 139 un polso. L'FBI lo arresta il giorno dopo, e gli trova in casa il fucile mitragliatore usato nell'agguato. Elmer si limita a dire che è stato assoldato da alcuni «amici» di Specky, poi si cuce la bocca. Nemmeno questa volta sono riusciti a eliminare O'Keefe, che nonostante le ferite riesce ad allontanarsi. Lo arrestano qualche settimana dopo a Leicester, Massachusetts, e lo condannano a ventisette mesi per porto abusivo d'arma da fuoco e violazione della libertà vigilata. Ma ormai è chiaro che è lui l'anello debole, che su di lui bisogna insistere. Gli agenti del Federai Bureau vanno in carcere a incontrarlo. Sanno che ci vuole molta pazienza e ci ritornano un sacco di volte. Pian piano gli fanno entrare in testa il dubbio che morirà dietro alle sbarre, mentre i suoi amici si godranno la bella vita, anche con la sua fetta di bottino. È ostile O'Keefe, poi arrabbiato, ma pian piano sembra abbassare la guardia, simpatizzare con i detective, come se cominciasse a fidarsi di loro. Alle quattro e venti del pomeriggio del 6 gennaio 1956, li fissa negli occhi e dice loro: «Ok. Cosa volete sapere?» «Tutto» gli rispondono i federali aprendo i taccuini per gli appunti. Preparare ogni cosa è costato più di due anni di fatica e il primo progetto di rapina risale al 1947, quando gli uffici della Brink's ancora stavano nella sede di Federai Street. Un lavoro attento, meticoloso, ispirato al modo di procedere di Eddie Bentz, un famoso rapinatore degli anni '30. Era stato Eddie a usare per primo piante e mappe, a studiare le abitudini di impiegati e cassieri di una banca prima di fare un colpo. Il piano originario prevedeva di entrare e rubare un camion blindato contenente le paghe, ma c'erano troppi problemi e l'idea era stata scartata. Non appena la compagnia si
140 Il genio criminale era spostata nell'edificio al 165 di Prince Street, Specky e soci avevano cominciato a pensare a qualcosa di alternativo. I tetti dei palazzi intorno erano un ottimo punto d'osservazione per la banda. Armati di binocoli, potevano osservare la routine quotidiana degli impiegati attraverso le finestre. Poi avevano familiarizzato con gli spazi interni alla Brink's, entrandoci di nascosto quando gli uffici erano chiusi. Durante le incursioni si erano portati via, uno dopo l'altro, i cilindri delle serrature di cinque porte, compresa quella d'ingresso. Mentre alcuni membri della banda restavano nell'edificio per assicurarsi che nessuno notasse la manovra, gli altri si facevano fare una copia delle chiavi modellata sul calco del cilindro, prima di rimontarlo. C'erano riusciti perché Pino si era messo d'accordo con il proprietario di un negozio di ferramenta, che per un buon compenso aveva accettato di tener aperta la bottega oltre il normale orario di chiusura. Ormai, solo osservando dall'esterno quali luci erano accese, erano in grado di capire le attività che si svolgevano negli uffici e il numero degli impiegati al lavoro. Quanto al mezzo da impiegare nella rapina, doveva per forza essere nuovo di zecca. Un furgone usato poteva avere caratteristiche o particolari riconoscibili, oppure piantarli in asso per strada a causa di qualche problema. Erano andati a prendersi un modello Ford direttamente dal parco vetture di un rivenditore di Boston. Novembre e dicembre erano serviti per mettere a punto gli ultimi dettagli, e almeno una mezza dozzina di volte erano stati sul punto di fare il colpo. L'ultima prova l'avevano fatta proprio la notte prima, ma le condizioni non erano ancora quelle giuste. 17 gennaio 1950. Mancano pochi minuti alle 19. I membri della gang, tranne McGinnis che ha deciso di aspettarli nel suo locale, si sono dati appuntamento a Roxbury, un quartiere in periferia.
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Salgono rapidi nel retro del furgone rubato. Banfield, l'autista, è l'unico in cabina, dietro stanno Pino, O'Keefe, Baker, Faherty, Maffie, Gusciora, Geagan e Richardson. Durante il viaggio Pino distribuisce a tutti giubbe della marina e berretti da autista, una pistola e una maschera come quelle che si usano ad Halloween. Ognuno poi indossa un paio di guanti, O'Keefe calza scarpe in stoffa per attutire il rumore dei passi, gli altri hanno suole in gomma. Appena raggiungono gli uffici della Brink's, notano che le luci delle finestre che danno su Prince Street sono spente, il che è una buona cosa. Nel frattempo Vinnie Costa è arrivato per conto suo a bordo di una Sedan rubata due giorni prima, ed è salito sul tetto con una torcia per segnalazioni. Al «via libera» sette uomini armati entrano nella sede della Brink's aprendo la porta principale con la loro copia della chiave. Nell'atrio indossano le maschere, poi usano le altre chiavi per aprire una porta dopo l'altra, fino al secondo piano, dove li attende il denaro. E, dopo aver immobilizzato guardie e impiegati, cominciano il loro lavoro. Il campanello suonato dal custode del garage li blocca solo per un momento, ma li costringe a muoversi più in fretta. Cercano anche di forzare la cassa in acciaio che contiene le paghe mensili della General Electric, ma non si sono portati gli attrezzi e devono rinunciare. Appena usciti saltano sul furgone, mentre Costa si allontana sulla Ford Sedan. Bisogna fare in fretta, per costruirsi un alibi che regga. Geagan, che è in libertà sulla parola e non vuole rischiare, salta giù dal camion dopo qualche isolato. Banfield prosegue fino alla casa dei genitori di Maffie, dove contano il denaro. Pino, Richardson e Costa si prendono ventimila dollari ciascuno e lo annotano su un foglio. Il giorno dopo tocca a O'Keefe e Gusciora avere centomila dollari ciascuno della refurtiva. Li caricano tutti sull'auto
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di O'Keefe, che parcheggiano poi in un garage di Blue Hill Avenue a Boston. Ma pochi giorni dopo i due vengono fermati dalla polizia e finiscono in carcere, non prima però di aver mandato un messaggio a McGinnis: che recuperi l'auto e, soprattutto, i duecentomila dollari che contiene. I «soci» eseguono, ma trattengono duemila dollari per il disturbo, e O'Keefe non gradisce. Ma il peggio per lui deve ancora venire. Specky non ha un luogo sicuro dove tenere i suoi novantottomila dollari, e di tutta la banda si fida soltanto di Jazz Maffie. Allora si mette in tasca una mazzetta da cinquemila dollari e consegna all'amico il resto. Non rivedrà mai più la sua parte di bottino. Jazz si difenderà dicendo che lo ha speso in parte per pagare gli avvocati di O ' K e e f e , e il resto glielo hanno rubato. Ma non è solo per questo che si è deciso a confessare, dice Specky agli agenti dell'FBI che continuano ad ascoltarlo con pazienza. Ce l'ha pure con quelli che durante la rapina non hanno rischiato niente: McGinnis al bar, Banfield al volante, Costa sul tetto, e anche Anthony Pino, che ha aspettato fuori dagli uffici della Brink's. E poi chi è stato quel deficiente che ha fatto a pezzi il furgone rubato, mollandolo in una discarica vicino a casa sua, così da metterlo in cima alla lista dei sospettati? Prima del colpo, tutti avevano giurato che se uno di loro avesse sbagliato ci avrebbero pensato gli altri a fargliela pagare. O'Keefe è certo che la maggior parte dei complici abbia sbagliato. Parlare con I'FBI è il suo modo di occuparsi di loro. L'11 gennaio 1956 il procuratore generale di Boston firma il mandato d'arresto per gli uomini della Brink's Robbery. Baker, Costa, Geagan, Maffie, McGinnis e Pino vengono fermati il 12 gennaio e portati in carcere, O'Keefe e Gusciora sono già dentro per altri reati.
La banda di Anthony Pino 143 A Banfield la cosa non interessa più, è morto il 28 gennaio dell'anno prima. Faherty e Richardson riescono invece a fuggire e finiscono sulla lista dei «Ten Most Wanted Fugitives» dell'FBI, almeno fino al 16 maggio, quando li scovano in un appartamento di Dorchester. Cercano di raggiungere il bagno, dove hanno lasciato le pistole cariche, ma vengono subito immobilizzati. L'FBI e l'ufficio del procuratore possono dirsi soddisfatti: hanno risolto il caso della «rapina del secolo». Se non fosse per il dettaglio dei 2.775.000 dollari rubati -1.218.211 e 29 centesimi in contanti -, di cui non si sa nulla. N o n possono contare sulle rivelazioni del «pentito» O'Keefe, perché nemmeno lui sa dove i suoi complici abbiano nascosto la refurtiva, e gli altri non aprono bocca. Una situazione di stallo, un punto morto, fino a quando, la sera del 3 giugno, il proprietario di una sala giochi avvicina un agente della polizia di Baltimora. Vuole denunciare un reato: qualcuno gli ha appena rifilato una «Federai Reserve Note» - una banconota da dieci dollari emessa dalla Federai Reserve - che sembra falsa. È quasi ammuffita, ed è per questo che non se n'è accorto subito. L'ha avuta da un tizio in un bar ed è in grado di riconoscerlo e indicarlo all'agente, se vorrà seguirlo. L'uomo, Jordan Perry, fa parte della malavita locale e ha nelle tasche almeno mille dollari degli stessi biglietti. Perry si difende, dice che li ha trovati per caso, che lavora come muratore e nella costruzione delle fondamenta di una nuova casa si è imbattuto in una busta di plastica piena di quel denaro. Nella sua stanza d'albergo ci sono altri quattromila dollari e, anche se sono in pessime condizioni di conservazione, non c'è dubbio che arrivino dagli uffici della Brink's Inc. Trentun anni e alle spalle una carriera criminale cominciata da ragazzo, Perry ha appena trascorso due anni in carcere e non ha nessuna voglia di tornarci.
144 Il genio criminale Così si decide a cambiare versione. In una notte di giugno del 1956, lui e il suo amico Edward «Wimpy» Bennett avevano ricevuto una telefonata. A chiamarli era un tizio che non conoscevano, John «Fat» Buccelli. Si trattava di rimuovere un pannello dal muro del suo ufficio, e quando lo avevano fatto era saltata fuori una nicchia con una scatola. Fat John l'aveva aperta e dentro c'erano dei certificati di credito avvolti in plastica e vecchi giornali. Roba buona, secondo Fat, cinquemila dollari al pacchetto, ma era meglio non smerciarli a Boston, perché erano il frutto di una rapina. Se Jordan Perry e Wimpy Bennett lo avessero aiutato a piazzarne per un valore di trentamila dollari, potevano tenersene cinquemila per sé. Grazie al proprietario della sala giochi di Baltimora prendono Jordan il 3, mentre il 4 giugno arrestano Wimpy e Fat Buccelli. Con un mandato di perquisizione entrano nei suoi uffici, per scoprire che il pannello rimosso dal muro esiste davvero, e c'è pure un cestino modello pic-nic con dentro quasi sessantamila dollari provenienti dalla rapina alla Brink's. Ma nemmeno Fat John e gli altri due vogliono collaborare, piuttosto si prendono due anni di galera. Nonostante il loro silenzio, qualche indizio per I'FBI c'è. Per esempio tre dei giornali in cui sono stati avvolti i pacchetti di certificati sono di Boston, edizioni che vanno dal 4 dicembre 1955 al 21 febbraio 1956. E Fat John ha fatto sistemare i suoi uffici da un'impresa nell'aprile del '56, perciò la refurtiva non poteva essere finita lì prima di quella data. I laboratori della Scientifica si danno da fare con i certificati, ma non è facile nemmeno capire il loro valore perché alcuni titoli sono a pezzi, altri si sbriciolano appena presi in mano. Sono stati in acqua prima di essere avvolti nei giornali, poi li hanno sepolti in sacchi di tela sotto uno strato di sabbia e cenere. E, a parte la terra, tra i pezzi di carta c'è anche un buon numero di insetti. Ma non si riesce ad andare oltre, e poi mancano i contanti, quasi 1.150.000 dollari.
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Il 9 luglio 1956, mentre aspetta il processo, Stanley Gusciora si sente male. Ha la nausea, le vertigini, lo portano nell'infermeria del carcere. Nel pomeriggio riceve la visita del cappellano e, mentre sta conversando, Gus si alza di colpo dal letto, scivola sul pavimento e batte la testa a terra. Due ore dopo è morto. L'autopsia dice che è stata colpa di un tumore al cervello grosso come un'arancia. A questo punto sono solo in otto ad affrontare il processo che si apre il 7 agosto del '56 davanti al giudice Feliz Forte, della Suffolk County Courthouse di Boston. Perché nel frattempo O'Keefe ha patteggiato la sua condanna a una pena di quattro anni. Ci vogliono tre settimane per scegliere i giurati, dai primi milleduecento candidati ai quattordici finali. I testimoni dell'accusa sono circa un centinaio, ma il più importante è Specky O'Keefe, che racconta nei dettagli i ruoli e i compiti di ciascun membro della banda. Bastano tre ore alla giuria per emettere il verdetto di colpevolezza, e il 5 ottobre 1956 tutti gli imputati vengono condannati al carcere a vita. La storia finisce qui. Trigger Burke, il killer che aveva ferito O'Keefe, lo giustiziano il 9 gennaio 1958, mentre John Fat Buccelli si prende una pallottola in testa il 19 giugno dello stesso anno. O'Keefe esce dal carcere nel 1969, con una nuova identità. Il 13 gennaio 1961, Henry Baker muore in carcere di polmonite e il 5 ottobre 1966 tocca a Joe McGinnis. Tra buona condotta e sconti di pena, tutti gli altri lasciano la prigione tra il dicembre 1969 e il luglio 1971. L'ultimo a uscire è Anthony Pino, che muore il 5 ottobre 1973. Il 24 marzo 1976 tocca a Paul Williams, alias Joseph James O'Keefe. Nel 1978 il regista William Friedkin si innamora della storia della rapina del secolo, e ci fa un film con Peter Falk. Lo chiama The Brink's Job, che in Italia verrà malamente tradotto con Pollice da scasso.
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Il 28 settembre 1988 muore Adolph Jazz Maffie, l'ultimo rimasto del colpo alla Brink's. E il bottino? Erano più di due milioni e mezzo di dollari e alla fine, a conti fatti, ne sono saltati fuori solo cinquattottomila. Dov'è finito il resto? C'è chi racconta che sia ancora sepolto tra le colline a nord di Grand Rapids, Minnesota. La città dove è nata Judy Garland, quella che nel Mago di Oz cantava: «Da qualche parte sopra l'arcobaleno, proprio lassù, ci sono i sogni che hai fatto una volta...».
Kevin Mitnick L'hacker
Washington, giovedì 2 m a r z o 2000. Lui ha davanti l'intera Commissione affari interni del Senato degli Stati Uniti, ma non sembra preoccupato, piuttosto attacca con voce sicura: Il mio nome è Kevin Mitnick, ho 37 anni, e sono qui oggi per discutere dei vostri sforzi per scrivere nuove leggi, leggi che assicurino l'affidabilità e la protezione dei sistemi d'informazione gestiti dal governo federale. Io sono essenzialmente un autodidatta. La mia passione, fin da ragazzo, è sempre stata quella di studiare metodi, tattiche e strategie per aggirare i sistemi di sicurezza, e quella di comprendere quanto più possibile il funzionamento delle strutture informatiche e delle reti di telecomunicazioni. Va avanti, Mitnick, racconta degli anni passati a diventare s e m p r e più bravo con m o u s e e tastiera, fino ai guai che ha passato con I ' f b i . Poi, di colpo, si ferma, e solleva lo sguardo verso i senatori che lo ascoltano con attenzione. Bisogna che lo dica subito, prima di entrare nel vivo del discorso: Ho ottenuto un accesso non autorizzato ai sistemi informatici delle più grandi società del pianeta, sono penetrato in alcuni dei sistemi più sicuri mai progettati. Ho impiega-
148 Il genio criminale to strumenti, sia tecnici che non, per ottenere i codici di diversi sistemi operativi, per studiare il loro funzionamento e la loro vulnerabilità. Dopo il mio arresto, nel 1995, ho passato quattro anni e sei mesi in carcere, in attesa di giudizio, senza il beneficio della libertà su cauzione e senza la possibilità di esaminare le prove raccolte contro di me. Fatti questi che, secondo i miei avvocati, non hanno precedenti nella storia degli Stati Uniti. Nel marzo del 1999 mi sono dichiarato colpevole di truffa informatica, e sono stato condannato a sessantotto mesi di carcere e a tre anni di libertà vigilata. Mi hanno rilasciato il 21 gennaio, giusto sei settimane fa. Adesso che Mitnick ha veramente g u a d a g n a t o l'attenzione della commissione, p u ò cominciare a illustrare tutti i buchi nelle procedure. E q u a n d o il senatore Fred T h o m pson prende la parola e gli chiede se sta forse dicendo che i sistemi informatici utilizzati dal paese siano vulnerabili, Kevin Mitnick, con un sorriso, gli risponde: «Assolutamente sì». Possono fidarsi di lui. Lo c h i a m a n o «il Condor». È il più famoso hacker che abbia mai cavalcato il cyberspazio. Quello degli hacker è un m o n d o che pochi conoscono davvero. Si pensa a loro c o m e a criminali, pirati informatici che navigano nella rete, per rubare e poi distruggere. Certo p u ò succedere anche questo, ma chi fa Hacking di solito non vuole commettere delitti, piuttosto avverte il bisogno di affrontare sfide intellettuali s e m p r e più difficili, di risolvere problemi e superare limiti. Anarchico del virtuale, per l'hacker il nemico si identifica con tutti quelli che vogliono controllare la conoscenza, che siano i media, le multinazionali o i governi.
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È così da sempre, da quando gli hacker erano studenti di Harvard o del Massachusetts Institute of Technology. Il sistema prima li ha tollerati, poi guardati con diffidenza, e alla fine ha cercato di identificarli e schedarli. Per farlo, come fossero serial killer, ha incaricato gli agenti speciali dell'FBI di tracciare un loro profilo. Ne è emerso che tra gli hacker non c'è differenza quanto a ceto sociale ed etnia. Si tratta in genere di ragazzi, di adolescenti solitari con un quoziente di intelligenza sopra la media, grandi abilità tecniche e una particolare predisposizione per il problem solving, ossia la capacità di trovare la soluzione più efficace a qualunque problema in mezzo a molteplici alternative. Di solito hanno alle spalle famiglie con problemi e a scuola si sono trovati ad affrontare insegnanti rigidi e poco capaci. Ecco spiegato, secondo gli esperti, l'origine del loro atteggiamento di ribellione contro ogni forma di autorità. Con il passare del tempo e l'evoluzione nel mondo delle comunicazioni, il fenomeno è cambiato, si è sfaccettato, tanto che oggi, volendo fare una mappa della situazione, si devono distinguere almeno nove categorie di hacker, in una specie di classifica che va dal più goliardico al più cinico. Tra i burloni, i meno capaci e più velleitari sono i cosiddetti lamer, che tradotto starebbe per «sfigato». Si possono trovare dappertutto sulla rete, presi a fare domande, a chiedono aiuto per aggirare le protezioni della CIA O dell'FBI. Al secondo posto troviamo gli script kiddies, i ragazzi degli script. Tecnicamente sono messi un po' meglio dei lamer, ma se proprio si avventurano in qualche incursione, lo fanno usando software messi a disposizioni da altri. La comunità hacker non li stima granché, li chiama anche pointand-clicker, per sottolineare la loro scarsa abilità creativa. E poi sono degli sbruffoni, appena combinano qualcosa, se ne vantano subito spifferandolo a tutti. Quindi tocca a una categoria dalla definizione intraducibile, quella di 37337 K-rA iRC #hack 0-day exploitz guy. Si tratta di gente che farebbe di tutto per diventare famo-
150 Il genio criminale sa, e che sfrutta le proprie conoscenze informatiche per riuscirci. Quelli che invece hanno regalato al mondo degli hacker una fama criminale sono invece i «cracker». In origine si trattava di soggetti che si limitavano a rimuovere le protezioni dei programmi software, ma oggi i cracker sono veramente individui pericolosi. Entrano nei sistemi e, se per caso qualcuno se ne accorge, distruggono ogni traccia del loro passaggio, che siano file o programmi a loro poco importa. Di tutt'altra pasta sono gli ethical hacker, al punto che se uno di loro decide di far visita al vostro computer, potete anche lasciarli agire indisturbati. Si tratta di gente curiosa, appassionata, ma non interessata a rubare nulla, che non vuole causare danni. Piuttosto è facile che, se scoprono qualche bug nei vostri sistemi, decidano di segnalarvelo, facendovi risparmiare il costo di un tecnico informatico. La definizione quiet, paranoic, skilled hacker spiega già la loro natura. Capaci, competenti e, soprattutto, diffidenti. Aggirano le protezioni ed esplorano i sistemi, file dopo file, per tutto il tempo che ritengono necessario. Se hanno il dubbio che qualcuno si sia accorto della loro presenza, spariscono immediatamente. In silenzio. Le ultime tre categorie hanno a che fare con i soldi, con il guadagno. I cyber warrior sono intelligenti, abili, e soprattutto mercenari. Le industriai spies, in crescita esponenziale, vanno alla ricerca di informazioni, dati sensibili, sono capaci di affossare un'azienda e fare la fortuna di un'altra. Non c'è da stupirsi se, in casi come questo, la minaccia arrivi spesso da un insider, un dipendente della stessa organizzazione. Infine ci sono i government agent, una specie di connubio tra un agente segreto e un hacker, tra politica e soldi. Detto questo, abbiamo ora qualche strumento in più per affrontare la storia di Kevin Mitnick e del suo genio.
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Kevin nasce il 6 agosto 1963 a Van Nuys, distretto della San Fernando Valley in California. Suo padre se ne va che lui non ha ancora tre anni, e alla madre non resta che rimboccarsi le maniche e trovare un posto da cameriera. Il piccolo cresce da solo, ma la cosa non gli procura grandi problemi. È vero che è timido e introverso, grassottello e impacciato, ma ha una fervida immaginazione a tenergli compagnia. Poi, a otto anni, Kevin scopre le radio CB, gli apparecchi a banda di frequenza, e per un bimbo che fatica a stare in mezzo agli altri vuol dire un mondo infinito di parole e discorsi, di contatti con gente diversa e lontana. Quando non è a scuola o all'ascolto della radio, gironzola per negozi di elettronica, e appena ha un dollaro in tasca compra pezzi usati, che poi aggiusta e assembla. Riesce persino a costruire una radio, con tanto d'antenna centrale, e con quella trasmette musica in tutto il quartiere. A dodici anni trova il modo per viaggiare gratis sui mezzi pubblici di tutta la contea di Los Angeles, quando scopre che la validità del biglietto dipende dal fatto che ogni autista lo oblitera in modo diverso a seconda del percorso, dell'ora e dal giorno della settimana. Sa di avere una dote - la gente si fida di lui - e allora adocchia l'autista più chiacchierone, e si fa dire dove si comprano le punzonatrici. Il passo successivo è quello di rovistare nei cestini delle stazioni, dove i conducenti degli autobus, a fine giornata, buttano via i biglietti non ancora timbrati. Kevin ora ha tutto quello che gli serve, biglietti in bianco e punzonatori, e la soddisfazione di andare a spasso dove gli pare. È un ragazzino di tredici anni quando gli capita di vedere un film diretto da Sidney Pollack, con Robert Redford protagonista. Si tratta di una spy-story, I tre giorni del Condor, un intreccio di omicidi e servizi segreti. Nella pellicola «Condor» è il nome in codice del personaggio principale,
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un agente che riesce a cavarsela sfruttando le sue conoscenze di esperto in comunicazioni. La CIA non è capace di risalire all'apparecchio da cui telefona, mentre lui scopre i segreti dei suoi avversari, e ne anticipa le mosse. Redford è forte, proprio quello che lui sogna di diventare, un tipo tosto che sfida i nemici e li batte usando il cervello. Da questo momento in poi, Kevin Mitnick decide che tutti lo dovranno chiamare «Condor». Alle superiori, insieme a un gruppo di amici, comincia a mettere in pratica quello che ha visto al cinema. Si chiama phreaking, una parola inventata mettendo insieme phone, telefono, e freak, ovvero bizzarro e insolito. Kevin sfrutta i buchi nelle reti telefoniche per riuscire a fare chiamate a lunga distanza senza pagare gli scatti. Ma il phreaking, per lui e i compagni, è anche divertimento: per esempio, cambiano le specifiche dell'abbonamento di un tizio preso a caso da utenza domestica a cabina pubblica. E così, appena il malcapitato compone un numero di telefono dal suo apparecchio di casa, si sente chiedere venti centesimi per continuare la telefonata. O come quando entrano nei sistemi di comunicazione a circuito chiuso dei fast-food, e ogni volta che un ragazzo in un drive-thru chiede un hamburger dalla sua auto, anziché una conferma dell'ordine si prende una scarica di insulti. Il 24 maggio 1981 è la data che segna il vero e proprio passaggio all'illegalità. Entra con due complici nei laboratori della COSMOS, la Computer System for Mainframe Operations della Bell, ruba le password dei funzionari della compagnia, e poi arraffa un buon numero di manuali di documentazione del sistema. Non si tratta di un delitto perfetto e i responsabili della Bell si accorgono subito dell'intrusione. Ma a mandare a monte tutto ci pensa la ragazza di uno degli amici di Kevin che, piantata in asso dal fidanzato, ci resta così male da andare alla polizia a raccontare la loro impresa.
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La condanna a tre mesi, da scontare al Los Angeles Juvenile Detention Center, non ferma il diciassettenne Mitnick che, ossessionato dalla sete di informazioni è convinto che nessuno debba negargliele. Lo arrestano ancora, questa volta nel 1983. Studia alla University of Southern California, e usa i terminali del campus per entrare nei computer del Pentagono, attraverso ARPAnet, la rete che sta per sta per trasformarsi in internet e nel World Wide Web. Finisce sei mesi dietro le sbarre a Stockton, ma non è così pentito se è vero che, appena uscito di galera, sulla sua prima auto mette una targa personalizzata c o n scritto X-HACHER.
Nel 1987 si prende tre anni con la condizionale quando, in compagnia di quella che diventerà sua moglie, si introduce nei sistemi della Santa Cruz Operation, un'azienda specializzata in software per le telecomunicazioni. Nel frattempo non ha mai smesso di clonare carte di credito telefoniche. Tra l'87 e l'88 Kevin Mitnick e il suo amico Leonard Di Cicco identificano il nemico numero uno. Si tratta dei laboratori di ricerca della potentissima Digital Equipment Corporation, la DEC di Palo Alto. Kevin e Leonard ingaggiano una specie di battaglia informatica, con lo scopo di appropriarsi di copie del sistema operativo sviluppato dall'azienda, il VMS, O Virtual Memory System. Purtroppo per Kevin, il suo rapporto con l'amico si guasta, e Leonard decide di confessare tutto alla polizia, ricevendo i ringraziamenti dei tecnici della DEC, che ancora non erano riusciti a capire da dove arrivassero gli attacchi online. Questa volta il giudice di turno, Mariana Pfaelzer, non ha intenzione di concedergli alcuna attenuante. Per lei Mitnick è solo un pericoloso criminale recidivo, uno che ha già avuto le sue possibilità di rimettersi in riga e ha scelto invece di continuare a delinquere. Ma i legali della difesa adottano una strategia vincente, riuscendo a convincere la giuria che quella di Kevin è una sorta di dipendenza pato-
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logica, non diversa dal gioco d'azzardo o da qualunque altra forma ossessiva. Un anno di reclusione. Scontata la pena, si sposta a Las Vegas, dove è andata a vivere la madre; poi, agli inizi del 1992, torna nella San Fernando Valley. Lavora per un po' nell'impresa di costruzioni del padre, quindi in un'agenzia di investigazioni private, la Tel Tec. L'FBI torna a occuparsi di lui, è convinta che sia di nuovo coinvolto in un illecito, ma il Condor non vuole più tornare in carcere. Collegandosi con le reti della Packard Bell scopre d'essere intercettato, così, quando i federali arrivano a casa sua con un mandato di cattura, lui è già sparito. Per due anni diventa un fantasma, un'entità virtuale. Gira per gli Stati Uniti con un portatile e un cellulare modificato, con cui si connette alla rete. Cambia schede, numeri telefonici, camere d'albergo, e intanto aumenta la sua rabbia contro chi controlla il mondo delle comunicazioni. Ce l'ha in particolare con le Big Companies, vale a dire Sun Microsystems e IBM, Digital e Fujitsu, Motorola e Nokia. Cerca nei loro sistemi i bug, gli errori nella programmazione che permettono di aggirare le protezioni e accedere ai dati. L'FBI non molla la presa, ma lui anticipa tutte le mosse del Bureau. Intercetta le comunicazioni tra la sede centrale di Quantico e gli agenti che gli stanno dando la caccia, e non appena gli arrivano vicino, sparisce nel nulla. Il Condor nel frattempo è entrato in tutti i sistemi apparentemente inaccessibili. Ha violato gli accessi delle multinazionali, delle società d'informatica, delle agenzie governative. E, una volta aggirate le protezioni, ha copiato tutte le informazioni sui progetti, sui piani di sviluppo, sui budget. È certamente un ladro, ma delle informazioni che acquisisce non fa commercio o scambio, non vende nulla, né si arricchisce. Per lui rimane fondamentale la conoscenza,
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una cosa senza prezzo, per cui battersi al punto da rinunciare a una vita normale. Ma anche se non va in giro a divulgare segreti, le grandi compagnie, compresi gli enti governativi, non possono accettare che Mitnick acceda a informazioni confidenziali. Così, a fianco delle multinazionali e dell'fbi, scendono in campo i media. S u c c e d e il 4 luglio 1994, q u a n d o J o h n Markoff del «New York Times» dedica al Condor il primo di numerosi articoli. Sulla prima pagina del giornale lo dipinge come un pericoloso criminale, uno che sta producendo danni incalcolabili, un solitario malato di onnipotenza. Le cose non stanno assolutamente così, ma adesso tutto il mondo sa dell'esistenza di Kevin Mitnick, che diventa in breve il più famoso hacker della storia. L'ultimo atto della storia del Condor rimane avvolto dal mistero. Nella prima versione dei fatti tutto precipita il giorno di Natale del 1994. Sono le due del pomeriggio quando Mitnick riesce a connettersi con un computer del San Diego Supercomputer Center. Conosce il sistema operativo del PC come le sue tasche, e gli ci vogliono pochi minuti per individuarne i punti deboli. Entra, registra un paio di password, copia qualche file sui quali sta lavorando il proprietario del computer, ed esce. Peccato che il PC appartenga a un certo Tsutomu Shimomura, che ha solo un anno meno di lui ed è un vero genio dell'informatica. Figlio di Osamu, premio Nobel per la chimica nel 2008, ha studiato a Princeton, poi alla prestigiosa CalTec, prima di diventare consulente del governo. Tra i due inizia una sfida che sembra una partita a scacchi. Mitnick sfida Shimomura, lo chiama «jap-boy» e gli lascia un messaggio sul suo pc: «Found me: I am on the net», trovami, sono nella rete. L'altro, in un convegno sulla sicurezza informatica, illustra la tecnica che ha usato Mitnick per connettersi al suo sistema.
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Accanto a jap-boy non c'è solo il governo USA, ma le più grandi compagnie di telecomunicazione americane, come la Sprint Corporation, che mette a disposizione mezzi e uomini nella caccia all'hacker. Alla fine Shimomura riesce a rintracciare l'origine delle comunicazioni di Mitnick, l'apparecchio telefonico da cui iniziano i suoi contatti. Sta nell'appartamento al numero 202 di un complesso residenziale di Raleigh, la capitale del North Carolina. Il 14 febbraio 1995 lo vanno a prendere. Da un furgone con la scritta «Sprint Telecomunications» sulle fiancate scendono un paio di tecnici, un giovane uomo dai tratti orientali, e agenti speciali dell'FBI in tenuta d'assalto. Ma non servono, perché Mitnick non è un killer con un arsenale a disposizione, le sue armi sono piuttosto tastiera e mouse. Da questo momento la figura di Kevin Mitnick entra nella leggenda. E come per tutte le leggende del crimine la sua storia ha anche un'altra spiegazione, una versione alternativa, da cui il suo genio risulta addirittura accresciuto. E se Kevin Mitnick non avesse mai perso la sfida con Shimomura? Succede che il Condor, sensibile come tutti gli hacker alla pubblicità, non gradisca i pezzi scritti su di lui da John Markoff. Per questo si mette in contatto con un altro cronista, Jonathan Littman, lo chiama anche tre volte al giorno, perché vuole che sui giornali non escano più menzogne, ma piuttosto le sue idee sulla libertà di comunicare. Littman incontra il Condor, e affascinato dalla sua creatività inarrestabile, accetta di dargli una mano. Ma, allo stesso tempo, commette un errore incredibile, si confida con un collega, proprio con John Markoff, il quale informa subito Shimomura. Ecco come I'FBI è arrivata a Mitnick. Ci si potrebbe chiedere il perché di queste versioni così
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diverse. E i maligni potrebbero rispondere che a Shimomura ha fatto comodo presentarsi come il cervello che ha sconfitto il Condor, piuttosto che come la spia capace di sfruttare l'informazione svelata da un incauto giornalista. Di fatto, al detenuto Kevin Mitnick viene chiesto un risarcimento per i danni inferii alle multinazionali pari a ottanta milioni di dollari, mentre Markoff e Shimomura raggiungono un accordo per scrivere insieme un libro sulla vicenda, e intascano settecentocinquantamila dollari di anticipo. Mitnick è comunque diventato una celebrità, e come tale si trasforma in simbolo, nel paladino degli hacker, dei dissidenti, degli anarchici, delle minoranze, di tutto quello che è contro il sistema, le lobbies, il governo, I'FBI, la CIA. Meglio allora lasciarlo marcire in carcere, almeno fino a quando le acque non si saranno calmate, e la gente non si sarà scordata di lui e delle sue imprese. In una nazione dove l'omicidio colposo è punito con una condanna non superiore ai tre anni, Kevin Mitnick si fa cinque anni di carcere, dei quali quattro e mezzo trascorsi in attesa di giudizio e sei mesi in isolamento. Lo rilasciano il 21 gennaio 2000, in regime di libertà vigilata fino agli inizi del 2003. E lui, pagato il suo debito con la giustizia, può finalmente raccontare a tutti chi è, cosa ha fatto e in cosa crede. Lo fa nelle tante interviste che rilascia, nei due libri che scrive, partecipando ai talk show televisivi più visti. Comincia subito demolendo gli stereotipi che i media hanno costruito attorno alla figura dell'hacker: lui è lontano anni luce dall'immagine di un ragazzo in blu jeans e maglietta, capelli lunghi e spettinati, occhi spiritati che fissano lo schermo di un computer in una stanza piena di cibo in scatola, lattine di Coca e manuali fotocopiati. Magari un lamer si ritroverebbe con piacere in una descrizione così, ma non il Condor. Lui piuttosto è il più grande specialista di una nuova disciplina: l'ingegneria sociale.
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Una strana cosa l'ingegneria sociale, perché a voler prendere la definizione alla lettera, significa «scienza delle soluzioni per la comunità», e invece è un sistema per carpire informazioni, mentendo sulla propria identità. Un sistema, spiega Mitnick, che si basa su due regole fondamentali: la prima è che gli esseri umani sono sostanzialmente fiduciosi verso il prossimo e disponibili a credere a quanto viene loro detto. La seconda fa leva sul fatto che i sistemi informatici saranno pure il miglior modo per archiviare informazioni, e un computer potrà sempre essere messo al sicuro da un attacco, ma per fortuna dietro la macchina c'è l'uomo. È l'uomo l'anello debole, quello che può rivelare come aggirare protezioni e ostacoli, fino ad arrivare alla preziosa informazione riservata. Basta saperlo prendere. Detto questo, per essere un buon ingegnere sociale, bisogna avere una particolare predisposizione alla recitazione e all'inganno, anche se, una volta deciso il bersaglio e stabilito il contatto, ci sono regole precise da seguire. Innanzitutto ci vuole gentilezza, inoltre, se si comunica al telefono, è importante evitare di falsificare il proprio tono di voce, o fingere accenti e inflessioni dialettali, se non quando è strettamente necessario. Anziché depistare, la cosa potrebbe apparire forzata e indurre al sospetto. Il tono migliore da usare è quello di una competenza professionale fredda e sicura, senza che diventi sprezzante. Va bene infilare nel discorso qualche termine tecnico, anche se c'entra poco e fa solo confusione, ma solo se dall'altra parte c'è un tizio con scarse conoscenze in materia. Lo scopo dell'ingegnere sociale è quello di stabilire una «base comune» con il proprio bersaglio, di creare uno spazio virtuale di sorrisi e cortesie, fingendo interessi comuni e piccole passioni condivise. La «base comune» è la premessa perché l'altro abbassi le sue difese e senta di potersi fidare. Se l'obiettivo è il dipendente di un'azienda, l'ingegnere sociale può mettersi nei panni di un collega appena as-
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sunto, timido e disorientato. Oppure, di volta in volta può spacciarsi per un impiegato di un'altra filiale, un fornitore che vuole mandare a buon fine una consegna, un cliente che ha ricevuto un'offerta migliore dalla concorrenza. Basta andare sul sito web di quella ditta, e ci si troverà un mare d'informazioni utili a reggere il gioco, come l'organigramma, i ruoli chiave, i rapporti tra le diverse divisioni e tra i vari reparti, l'elenco delle consociate, le società che hanno scelto di acquistare i prodotti dell'azienda, attestandone la qualità. A questo punto, se il Condor capisce che ancora non è chiaro a chi lo ascolta cosa sia l'ingegneria sociale, tira fuori un esempio concreto, la storia di Stanley Mark Rifkin. Premette che non è un fatto recente, risale al 1978, ma è certo uno dei primi esempi conosciuti della tecnica di cui Mitnick diventerà l'indiscusso maestro. Stanley è un esperto di computer, ha trentadue anni e due mogli alle spalle. Lavora per chi è in grado di pagare il suo talento, e c'è un'azienda di consulenza che ha assolutamente bisogno di lui. C'è da progettare un sistema di back-up dei dati per la Security Pacific National Bank di Los Angeles, nel malaugurato caso che un guasto faccia saltare il computer centrale. Rifkin si trova così a studiare nel dettaglio le informazioni che vanno messe al sicuro: oltre ai codici - modificati ogni mattina - che autorizzano i movimenti, da comunicare alla sala telex, ci sono le procedure di trasferimento monetario e le modalità con le quali i funzionari, gli impiegati e i cassieri abilitati alle operazioni le eseguono. Un sistema abbastanza sicuro, se non fosse che i dipendenti della Security Pacific, stanchi di memorizzare tutti i giorni un nuovo numero, lo scrivono su un foglio e lo lasciano in bella vista sulle scrivanie. Rifkin si accorge della leggerezza, e una mattina di novembre si mette a gironzolare per la sala telex. Ufficialmen-
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te è lì per vedere se il sistema di back-up funziona, ma in realtà vuole soltanto memorizzare una sequela di numeri che può cambiargli la vita. Sono le tre del pomeriggio quando scende nell'atrio del palazzo che ospita gli uffici della banca e si dirige alla prima cabina telefonica. Ha in testa il codice e un piano ben preciso, basato sulle sue capacità d'essere una persona socievole e cordiale, un ottimo comunicatore e altrettanto bravo persuasore. Insomma, un vero e proprio ingegnere sociale. Si finge Mike Hansen, dell'ufficio estero, e si mette in comunicazione con la sala telex; all'impiegata che risponde fornisce il codice segreto: «4789». Rifkin/Hansen mantiene il sangue freddo, anzi, nell'attesa della verifica, scambia qualche battuta con la ragazza all'altro capo del filo. Continua chiedendo il trasferimento di dieci milioni e duecentomila dollari tramite la Inving Trust Company di New York su un conto della Wozchod Handels Bank di Zurigo, conto che ha provveduto ad aprire qualche giorno prima. Nessun problema per l'impiegata, che ha solo bisogno di un ultimo dettaglio, il numero di transazione tra un ufficio e l'altro. Una cosa che Rifkin/Hansen non ha previsto, e che gli procura immediatamente una crisi di tachicardia. Ma è tanta la sua capacità d'improvvisazione che riesce a mantenersi lucido e tranquillo. All'impiegata risponde di aspettare un attimo, il tempo di un controllo e l'avrebbe richiamata. E subito assume una nuova identità, telefona a un altro ufficio, spacciandosi per un impiegato della sala telex. Ottiene il n u m e r o , richiama l'impiegata e, al c o l m o dell'ironia, si sente persino ringraziare per la cortesia e la professionalità. Agli inizi di ottobre, Stanley Mark Rifkin si presenta agli sportelli della banca di Zurigo, e preleva otto milioni di dollari in contanti.
Kevin Mitnick
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Sostenendo di essere un rappresentante di un'autorevole azienda, la Coast Diamond Distributors, Rifkin prende contatti con Lon Stein, rispettato commerciante di diamanti di Los Angeles. Si dice interessato a piazzare un ordine di pietre preziose per parecchi milioni di dollari. Sembra tutto regolare, e Stein inoltra la commessa a una società governativa sovietica, la Russalmaz. Il 14 ottobre, negli uffici di Ginevra della Russalmaz, giunge una telefonata da un uomo che dichiara di essere un impiegato della Security Pacific National Bank. Si chiama Nelson, e li informa che Lon Stein opera per conto della Coast Diamond Distributors. Aggiunge poi c h e la Security Pacific garantisce la disponibilità della somma a copertura dell'operazione di acquisto dei diamanti. In un successivo contatto, Nelson informa i funzionari della Russalmaz che il 26 ottobre il signor Stein si sarebbe recato nei loro uffici per esaminare le pietre. C o s a che accade regolarmente. Lon Stein si trattiene per ore, tornando il giorno successivo per chiudere l'affare. O t t o milioni e centoquarantacinquemila dollari in cambio di 43,200 carati di diamanti. Rifkin riesce a rientrare negli Stati Uniti, portandosi addosso le pietre, e cinque giorni dopo inizia a venderle. Prima dodici pezzi a una gioielleria di Beverly Hills, poi si sposta a Rochester, New York, per piazzarne altri. Ma a questo punto, nel piano di Rifkin, si apre una smagliatura. Il 1° novembre prende contatto con Paul O'Brien, un suo ex collega. Gli dice di aver ricevuto dei diamanti in cambio della vendita di una proprietà immobiliare nella Germania dell'Est, e di volerli scambiare con denaro contante. Peccato che O'Brien veda in televisione un servizio su una rapina a una banca di Los Angeles, con il cronista che fa il nome di Rifkin tra i principali sospettati. L'uomo non ci pensa un momento ad avvertire I'FBI. Un paio d'intercettazioni, un mandato di perquisizione,
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e il 5 novembre gli agenti Robin Brown e Norman Wight arrestano Stanley Mark Rifkin. Il 26 marzo 1979, Rifkin si dichiara colpevole e si prende una condanna a otto anni di carcere da trascorrere in una prigione federale. Non sarebbe successo, commenta alla fine Mitnick, se Stanley avesse seguito una delle regole più importanti degli hacker: attento alle persone di cui ti fidi. Oggi il Condor è un'altra persona, dirige la Mitnick Security Consulting, un'azienda che si occupa di sicurezza informatica. Ha smesso d'essere ricercato, è passato dall'altra parte della barricata, e nei suoi libri ha spiegato cosa fanno gli ingegneri sociali, le tattiche che usano e come difendersi. Ma ancora circolano storie sul suo genio, sul periodo in cui era un simbolo ai confini della legalità. Come quella volta che un tizio molto più grande di lui lo aveva preso di mira, insultandolo e prendendolo a botte. Il giovane Kevin non era portato per la violenza, non avrebbe mai risposto con le mani. Ma col computer sì. Dopo aver scoperto il numero di conto corrente del suo molestatore, era entrato nel sito dell'ospedale della zona. Prendere la bolletta da trentamila dollari per la fornitura dell'energia elettrica della clinica e metterla a carico del suo «nemico» era stato un gioco da ragazzi.
Han van Meegeren Il falsario
«Falso» viene dal latino fallere, far porre l'altrui piede in fallo, indurre in errore. E vendere con l'inganno, facendo credere che quello che viene proposto sia un pezzo unico, originale, insomma vero, è la missione dei falsari d'arte. Ma non sempre dietro a un'imitazione si nasconde un crimine, la determinazione a truffare. Ai tempi di Aristotele, con il suo concetto dell'arte come mimesi, commerciare in copie era un'attività normale, e lo diventò anche per i pragmatici Romani. Affascinati dalle creazioni elleniche, i cittadini dell'Urbe trafficavano con un gran numero di riproduzioni, tanto che a noi tocca persino ringraziarli, perché altrimenti non avremmo mai saputo di perduti capolavori dell'antichità. Come l'Amazzone di Fidia, il Discobolo di Mirone o l'Afrodite di Prassitele. Certo può capitare che le intenzioni siano meno nobili, e qualche sospetto d'imbroglio finisce pure sulla testa di un grande maestro come Michelangelo. È il 1496 quando l'artista scolpisce un San Giovannino per Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici e poi dipinge la Pietà nella chiesa di Santa Maria a Marcialla. Nel mezzo succede una cosa strana, raccontata dal Vasari, un episodio che ancora oggi non si è capito fino in fondo. Michelangelo tira fuori da un blocco di marmo, un pic-
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colo Cupido dormiente e lo affida a Baldassarri del Milanese, che a sua volta lo mostra a Lorenzo di Pierfrancesco. Quest'ultimo, appena vista la scultura, butta lì un'idea: «Se tu lo mettessi sotto terra sono certo che passerebbe per antico: mandandolo a Roma acconcio in maniera che paia vecchio ne caveresti molto più che vendendolo qui». All'operazione provvede lo stesso Michelangelo, e l'opera viene poi venduta al cardinale San Giorgio per duecento ducati. Peccato che l'alto ecclesiastico si accorga dell'inganno e rispedisca il cupido al mittente. Alla fine, la statua arriva nelle mani del duca Valentino che ne fa dono alla marchesa di Mantova, città in cui ancora oggi si trova. Il fatto comunque, anziché recare danno a Michelangelo, gli porta una buona pubblicità, e il cardinale gabbato lo prende sotto la sua ala protettrice a Roma, dove il Buonarroti trascorre un anno della sua vita. Ottima fonte per la storia del falso d'arte si può trovare nelle Vite de' pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a tempi di Papa Urbano VIII nel 1642, scritto da Giovanni Baglione. Un esempio? Il racconto della truffa al cardinal Montalto, che acquista come opera di Raffaello una Madonna dipinta in realtà da un tal Terenzio d'Urbino, buon falsario che sceglieva tavole già tarlate su cui lavorare di pennello, annerendo poi i colori con il fumo, in modo che ne uscissero figure che sembravano, come dice il Baglione, «per tratto di centinaia d'anni al tempo avanzate». È proprio nel Seicento che decolla il fenomeno della falsificazione, in parallelo con il nuovo gusto del collezionismo, anche se bisognerà aspettare il 1735 perché in Inghilterra, per la prima volta, si stabilisca una norma a tutela legale delle opere. Nella seconda metà del Settecento, il mondo dell'arte è attraversato dall'entusiasmo per gli scavi di Ercolano, e poi dall'opera instancabile di Johann Winckelmann, grande critico tedesco, capace, tra le tante riflessioni dotte, di
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prendere uno straordinario abbaglio. Succede nella prima edizione della sua Storia delle arti del disegno pubblicata nel 1764, quando descrive un Giove e Ganimede come un reperto dell'antichità classica, mentre in realtà è opera del contemporaneo Anton Raphael Mengs. Lo stesso clamore suscita un fatto accaduto nel 1896, quando il Louvre annuncia di avere acquistato, per duecentomila franchi, la tiara in oro appartenuta al re sciita Saitaferne, vissuto a cavallo tra il III e il II secolo a.C. Ovviamente un falso di buona fattura, fabbricato al tempo degli scavi sul Bosforo alla fine del XIX secolo. In tempi recenti poche vicende hanno raggiunto la fama del caso delle tre teste, ritrovate nel luglio del 1984 a Livorno, nel fosso Reale, e riconosciute come autentici lavori di Amedeo Modigliani. Secondo una tradizione, il maestro le avrebbe gettate lì nel 1909, irritato e scontento per i giudizi negativi degli amici del caffè Bardi. Una scoperta eccezionale, accompagnata da accesi dibattiti tra critici ed esperti sull'importanza del ritrovamento, sulla bellezza del manufatto. E nessun dubbio sull'autenticità di quelle teste. Almeno fino a quando tre ragazzi non escono allo scoperto, e raccontano d'averle realizzate loro da un blocco di pietra, lavorando in cantina con trapani e martelli. Non solo lo dimostrano, fabbricandone di nuove, ma non ci mettono che poche ore. Goliardici burloni, o più spesso avidi truffatori, sono tutti poca cosa, pallide e tristi figure, se paragonate a un personaggio che si mise in luce in Olanda, nella prima metà del XX secolo. Henricus van Meegeren si è laureato in inglese e matematica all'università di Delft, in Olanda, e per lui ogni cosa è giusta se iscritta in un ordine rigoroso. Per questo ha sposato una brava donna, Augusta Louise, che gli ha regalato cinque figli. Per questo ha scelto una bella casa dove crescerli e previsto anche il loro destino:
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Hermann, il maggiore, dovrà diventare un sacerdote, mentre Han, venuto al mondo il 10 ottobre 1889, dovrà seguire le orme del padre insegnante. Quanto a Johanna, Louise e Gustje, per loro bisognerà cercare un buon partito, con una professione rispettabile e una dote adeguata. Il fatto è che Han, fin da piccolo, non mette grande impegno nello studio: ha maggior talento nel disegno, e passa il tempo con carta e matita a ritrarre leoni, il suo soggetto preferito. Quei felini, li ha visti al circo con la mamma, e sono scolpiti nel palazzo medioevale della città di Deventer, dov'è nato e vive. Quando il padre scopre che Han si dedica più agli schizzi che ai compiti di scuola, va su tutte le furie, fa a pezzi album e matite. Per fortuna la madre è di tutt'altra pasta e in segreto gli ricompra l'occorrente. Ma a segnare il suo destino non sarà solo l'appoggio della madre: a dodici anni, Han farà amicizia con un ragazzo, Willem Korteling. Un bravo giovane, Wim, e poi ha un padre speciale, che si chiama Bartus e fa il professore d'arte a scuola. A Bartus Korteling piace il timido amico del figlio, gli riconosce un buon talento, così decide di insegnargli quello che sa sui grandi pittori, cominciando dalle basi. A lui non piacciono le novità e, anche se sono passati cinquantanni dall'invenzione dei colori nei tubetti richiudibili, preferisce tirar fuori il bianco dal piombo e il blu oltremare dai lapislazzuli, pestando grani in un mortaio, con pazienza e fatica. Ma non tutto ciò che Han disegna piace al suo maestro, che anzi lo critica. Troppa tecnica e poco cuore, gli ripete: un grande controllo del pennello non basta se non riesci a trasferire sulla carta emozioni e sentimenti. Ciò non toglie che Han van Meegeren raccolga qualche successo, soprattutto tra i compagni di scuola che gli commissionano disegni in cambio di qualche fiorino. Nulla di eccezionale, ma sufficiente perché il ragazzo, diventato nel frattempo adolescente, decida di affrontare il padre.
Han van Meegeren 167 Nella primavera del 1907, in uno scontro vivace, comunica a Henricus che non ha alcuna intenzione di seguire le sue orme e diventare un insegnante di matematica. Vuole studiare arte, nessuno può fargli cambiare idea, e ancora una volta deve ringraziare sua madre, che strappa al marito una specie di compromesso. Se Han vuole contare sull'appoggio della famiglia, deve ripiegare sulla facoltà di Architettura, e prendersi la laurea in cinque anni, anche se di solito ce ne vogliono almeno sei. Altrimenti non vedrà più un soldo. L'accordo è fatto, Han accetta l'impegno, quindi lascia Deventer per iscriversi alla prestigiosa Technische Hogeschool di Delft. Ricca e placida cittadina nel Sud dell'Olanda, Delft è famosa per le sue ceramiche e per aver dato i natali a due grandi personaggi: Antoni van Leeuwenhoek, l'inventore del microscopio, e il pittore Johannes Vermeer. Una storia particolare quella di Vermeer, anche se non proprio unica. Artista di successo nella seconda metà del XVII secolo, dopo la morte avvenuta nel 1675 vede la sua opera scivolare pian piano nell'oblio. Almeno fino a quando un critico francese, Théophile Thoré, capita al Mauritshuis dell'Aia e resta folgorato davanti alla sua Veduta di Delft. È il 1848, e da quel momento Thoré si mette a viaggiare per il mondo alla ricerca di tutti i dipinti di Vermeer in circolazione, un'impresa tutt'altro che semplice, dato che il maestro aveva firmato non più della metà delle sue tele, e molte opere erano state per errore attribuite ad altri pittori del Seicento fiammingo. Nel 1866 Thoré è pronto e, dopo vent'anni di ricerche, pubblica sulla «Gazette des Beaux-Arts» uno studio sull'importanza di Johannes Vermeer da Delft, il primo atto nella riscoperta di un grande, al livello dell'osannato Rembrandt. La stessa attrazione magnetica, esercitata sul critico francese, conquista Han, che invece di studiare, come nei patti, preferisce visitare i musei che espongono i suoi lavori.
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Difficile dire cosa lo affascina di Vermeer: non si tratta solo dell'ammirazione per i soggetti, i colori, la composizione, piuttosto è facile che van Meegeren si sia identificato nella storia del pittore, la vicenda di un uomo scivolato nell'oblio e poi risorto agli altari della fama. Anche Han pensa di navigare ai margini del successo, e che è solo questione di tempo perché tutti si accorgano del suo inimitabile talento. Facile alla disperazione se criticato, e all'esaltazione davanti a un progetto, Han decide di affrontare di nuovo il padre. Ma non è preparato a quanto trova a casa. Hermann, il fratello più grande, dopo due anni di seminario a Culemburg, è scappato e non vuole tornare sui suoi passi. Forse lo ha sconvolto un'esperienza omosessuale, ma di certo si è accorto di non avere alcuna vocazione. Henricus è però irremovibile, liquida la disperazione del figlio come i capricci di un bambino e scrive all'abate che mandi subito qualcuno a riprenderlo. Hermann china il capo, ubbidisce e, non appena giunto in seminario, si ammala. Quando lo portano in ospedale, ormai non c'è più nulla da fare. È a questo punto, nella tristezza per il fratello perduto, nella rabbia per l'ottusità del padre, che un raggio di sole entra nella vita di Han van Meegeren. Si chiama Anna, arriva dalle Indie Orientali, studia arte, ed è bellissima, ma soprattutto crede in quel ragazzo, e non gli fa mai mancare il suo appoggio. Quando scopre di essere incinta, Anna non esita a incontrare il vecchio Henricus, gli tiene testa senza farsi intimorire e accetta di convertirsi alla religione cattolica in cambio della sua benedizione alle nozze. Avere una famiglia da mantenere, però, non cambia il carattere di Han, non lo induce a un maggior senso di responsabilità. È certo di essere un artista, che la laurea sia solo una perdita di tempo e che la sua occasione sia piuttosto vincere la Medaglia d'oro della Technische Hogeschool,
Han van Meegeren 169 assegnata ogni cinque anni alla creazione artistica di maggior pregio a opera di uno studente. Decide per un acquarello e si butta nell'impresa, mollando lezioni ed esami universitari. Ma dopo qualche mese si blocca, non riesce più ad andare avanti, e in casa non ci sono abbastanza soldi per l'affitto, per mantenere Anna e il bimbo che ha partorito. Non gli resta che tornare dal padre, che però rifiuta di estinguere i suoi debiti; piuttosto, se ad Han sta bene, può concedergli un prestito, caricandolo del tasso d'interesse corrente. È merito della moglie se l'umiliazione e la rabbia che ha in corpo si trasformano in determinazione. Han riprende l'opera che ha interrotto, l'interno della St Laurenskerk, la chiesa di San Lorenzo a Rotterdam, e all'improvviso capisce che nel suo acquarello manca il calore della luce. Con rapidi tocchi e qualche nota di colore, termina il lavoro in pochi istanti. Nel gennaio del 1913 vince all'unanimità il primo premio: una medaglia placcata, nessuna gratificazione in denaro. Eppure questo basta per attirare subito un acquirente disposto a sborsare mille fiorini, più di quattromila euro di oggi. È il primo successo di Han, che finalmente può sottrarsi al ricatto del padre lasciando subito la facoltà d'Architettura per iscriversi a quella d'Arte, dove si laurea il 4 agosto 1914. Come avverrà per tutta la vita, però, Han si dimostra incapace di equilibrio. Con il diploma in tasca e la medaglia al collo rinuncia alla rendita sicura di una cattedra all'Accademia dell'Aia e, fatto ben più grave, non comprende che il mondo dell'arte sta attraversando una rivoluzione senza precedenti. Dopo gli impressionisti è arrivato il momento dei surrealisti, del movimento dada, dei cubisti, gente che van Meegeren non fa mistero di disprezzare, lui che guarda fisso al Secolo d'oro, al Seicento dei classici pittori olandesi.
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In pratica, per due anni non vende un quadro. È ancora Anna a salvarlo, riuscendo nell'aprile del 1917 a organizzargli una mostra di quattro settimane. Alla cerimonia d'inaugurazione, nelle stanze della Kunstzaal Pictura dell'Aia, Han incontra Karel de Boer, uno tra i più influenti critici olandesi. De Boer lo prende in simpatia, condivide con lui l'ammirazione per i classici e il disprezzo per i moderni, e pochi giorni dopo scrive un'entusiastica recensione della sua mostra. Il riscontro è immediato, tutti i quadri esposti vengono venduti e le commissioni arrivano una dopo l'altra a prospettare un momento finalmente sereno nella vita della famiglia van Meegeren. Han, però, non è soltanto preda di sbalzi d'umore e vittima di un fragile e potente narcisismo. Per dare sollievo alle proprie inquietudini, per medicare la profonda insicurezza che lo accompagna, da tempo trova sollievo nell'alcol, nell'assenzio e nella morfina. E poi, tra tutti i rimedi, ha scoperto che il più efficace è la compagnia femminile. Succede allora che de Boer, oltre a essere un critico famoso, sia il marito di un'attrice celebre e bellissima, Johanna van Walraven. Han chiede il permesso di poterla ritrarre, di farne la modella dei suoi quadri, ma la cosa sfugge presto di mano e produce due inevitabili risultati: sua moglie Anna divorzia e se ne va a Parigi, e de Boer, tradito e ridicolizzato, approfitta della prima occasione, una nuova mostra, per stroncare la carriera di van Meegeren. Lo definisce un mediocre, un buon mestierante e niente più, capace solo di masticare i classici e poi dipingere quadri senza anima. Che gli olandesi vadano a farsi una passeggiata, piuttosto che visitare la nuova mostra di Han van Meegeren. È una catastrofe per Han, colpito nell'amor proprio e nel portafoglio, con tante commesse che vengono ritirate. Smette di lavorare, passa il tempo a bere fino a stordirsi, e a nulla vale l'amore di Johanna.
Han van Meegeren 171 Le cose cambiano di nuovo quando conosce Theo van Wijngaarden, di professione restauratore di quadri antichi. Tra i due nasce una grande amicizia e un connubio straordinario, perché con il restauro si possono fare grandi guadagni. Theo ha le qualità del perfetto imbonitore, Han la tecnica, la conoscenza compiuta dei classici e le preziose istruzioni sulla composizione dei colori apprese da Bartus Korteling. Così si mettono in viaggio, per la Germania e l'Italia, e nel 1923 si imbattono in due opere di pregio, ma in pessimo stato di conservazione. Sono dipinte alla maniera di Franz Hals; anzi Theo è convinto siano proprio del maestro di Anversa. Il Cavaliere sorridente, in particolare, è una tavola in legno dove gran parte della pittura è rovinata o addirittura scomparsa; per poterla rivendere occorre un grosso lavoro di restauro. Han non dubita della propria capacità tecnica, ma piuttosto dell'invecchiamento dei colori. Impossibile sperare che l'olio in cui sono sciolti i pigmenti possa evaporare in fretta, anche scegliendo quello di lavanda anziché di lino. Basterà a chiunque prendere un batuffolo di cotone immerso nell'alcol, per rivelare la pittura fresca e contestare l'acquisto. Theo gli dice di non preoccuparsi e il dipinto, una volta finito, pare proprio una meraviglia del Secolo d'oro, un capolavoro che supera l'esame di Cornelis Hofstede de Groot, celebre critico ed ex direttore del Mauritshuis. Per de Groot, che lo scrive nel certificato di autenticazione, si tratta di un «Franz Hals eccezionalmente bello», tanto da raccomandarlo alla casa d'aste Muller & Co., che lo acquista per cinquantamila fiorini. Peccato che la tavola sia poi sottoposta all'esame di un secondo esperto, Abraham Bredius, che ribalta il primo giudizio e lo etichetta come un evidente falso. A questo punto sono chiamati in causa altri specialisti, che scoprono subito il recente e massiccio intervento di Han.
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La commissione salta, ma van Meegeren, che nel frattempo ha sposato la sua Johanna, ora sa che il mondo dei critici è fatto di gente che si può abbindolare, gente presuntuosa che, presa per il verso giusto, può garantirgli una fortuna. Per architettare la sua vendetta ha deciso che si cimenterà con un Vermeer, e comincia dalla scelta di materiali e pennelli. Tutti usano ormai setole di zibellino, ma il maestro di Delft impiegava solo il pelo di tasso. Il problema si può superare acquistando e modificando un set di pennelli da barba, fatti appunto con quel materiale. Pigmenti e terre li recupera senza gran fatica, a eccezione dei lapislazzuli, pietra rara che finisce per trovare a Londra, pagandola più dell'oro. Ma non si può fare altrimenti, perché Vermeer ricavava da lì il suo blu oltremare, ben prima che arrivasse il cobalto, figlio della chimica. Un'attenta esplorazione delle librerie dell'Aia, poi, gli permette di scovare alcuni testi preziosi sul maestro del Seicento e qualche manuale recente sulle tecniche con cui la scienza può svelare il falso d'autore. L'unica cosa che ancora non ha sono le tele, alcune piccole per esercitarsi, e una più grande per realizzare quello che ha in mente. Bisogna trovare dipinti dell'epoca, e non di grande pregio, perché il portafoglio non lo permette. Poi scrostarli pian piano, con alcol e sapone e pietra pomice, rimuovendo la vernice originale, ma salvaguardando la tela con la sua prima mano di fondo. Ci vogliono mesi, ma girando per rigattieri e bancarelle, alla fine riesce a procurarsi il necessario. Trasferisce ogni cosa nella villa in Costa Azzurra dove è andato a vivere con Johanna, ma prima di iniziare a dipingere deve risolvere un problema tecnico che pare insormontabile: trovare il modo di indurire i colori, come se stessero lì, asciutti sulla tela, da almeno un paio di secoli. Prova di tutto, ma alla fine quel che gli risolve il problema non è un vecchio artificio, ma un prodotto dei tempi moderni: la bachelite. L'ha inventata nel 1907 Leo Baeke-
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land, mescolando fenolo e formaldeide, ed è tanto orgoglioso di quell'invenzione che quando deve darle un nome si ispira al proprio. La bachelite è l'ingrediente che mancava ad Han: la mescola ai pigmenti grezzi e all'olio di lillà, poi infila tutto ad asciugare in una stufa, con tanto di termostato, che ha costruito lui stesso. Il risultato è perfetto. O quasi. Manca ancora un dettaglio, piccolo ma determinante, una caratteristica che accompagna tutti i lavori antichi. È la craquelure, una rete di piccole crepe sottili prodotta dal caldo e dal freddo, dall'umidità e dalle stagioni che dilatano e contraggono tavole e telai. Cerca di ottenerla arrotolando una tela dipinta, per poi dispiegarla, ma il risultato non è soddisfacente. Alla fine la soluzione si rivela semplice. La craquelure è presente nella mano di fondo sulla tela originale, quella che Han mantiene dopo aver rimosso il colore. È sufficiente dipingere uno strato per volta, con mano leggera, e poi mettere subito il quadro a seccare nel forno, perché la ragnatela di solchi sottili si mantenga, emergendo ogni volta in superficie. Adesso è veramente pronto, ed è proprio questo il momento della trovata geniale di van Meegeren, dell'invenzione capace ancora oggi di sbalordire. Il suo lavoro non sarà una copia, bensì un «falso originale», un «nuovo Vermeer» spuntato dal nulla a sconvolgere il mondo dell'arte. Ecco la vendetta! Convincere i critici a riconoscere la mano del maestro di Delft nell'opera di Han van Meegeren, per poi svelare l'inganno e metterli in ridicolo. Primo fra tutti quell'Abraham Bredius che tanti danni gli ha procurato solo pochi anni prima. Quel Bredius grande conoscitore di Vermeer, che ha scoperto una delle sue prime tele giovanili ed è convinto che tra questa e le successive opere ci siano tanti lavori ancora sconosciuti.
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Han ha deciso, darà a Bredius proprio quello che desidera, la conferma delle sue teorie: una Cena in Emmaus totalmente inventata, mai dipinta da Vermeer, ma con tutte le caratteristiche che il pittore olandese avrebbe messo in un suo quadro. Afferra la grande tela che si è procurato, ne riduce le dimensioni e poi si mette all'opera. Il pezzo ritagliato gli servirà per dimostrare, alla fine del gioco, di essere lui l'artefice dell'opera, di avere truffato tutti quanti. Ci mette sei mesi, e alla fine aggiunge anche la firma, un tocco in più, una specie di riconoscimento per sé, l'attestazione di essersi guadagnato il diritto a un sigillo. E il 1937. A questo punto è necessario che la Cena in Emmaus arrivi a Bredius, e a quello scopo Han contatta una sua vecchia conoscenza, perché faccia da intermediario. Si tratta di Gerald Boon, avvocato ed ex membro del Parlamento olandese, persona fidata e ammodo che ha incontrato all'Aia e poi rivisto durante una vacanza in Francia. Al dottor Boon, Han racconta una storia un po' complicata. Vuole che l'avvocato sottoponga un quadro al giudizio di un esperto, ma senza rivelarne la fonte. È di proprietà di un'anziana signora appartenente a un'antica casa olandese, che anni prima si è trasferita in Italia, dalle parti di Como, portando con sé gli oggetti di famiglia. Ora ha deciso di vendere la tela e di lasciare l'Italia, senza però far sapere nulla della trattativa. Altrimenti il governo di Mussolini applicherebbe subito al suo caso quella legge che impedisce di esportare le opere d'arte fuori dai confini nazionali. Boon si dimostra scettico, almeno fino a quando van Meegeren non gli rivela i suoi sospetti. Potrebbe trattarsi di un autentico Vermeer, un quadro fino ad allora sconosciuto: se così fosse si riporterebbe in patria, l'Olanda, un capolavoro del maestro. Da ultimo Han cala il suo asso, il compenso per il disturbo, la commissione sull'eventuale vendita: è giusto che l'avvocato sappia che il valore dell'opera
Han van Meegeren 175 non è certo inferiore al mezzo milione di fiorini, probabilmente assai di più. Il 30 agosto 1937 Gerald Boon incontra per la prima volta Abraham Bredius. Il critico vacilla davanti alla tavola, è subito convinto della scoperta eccezionale, ma vuole lo stesso andarci cauto. Con una lente d'ingrandimento osserva la craquelure, poi prende un batuffolo di cotone e lo sfrega in un angolo della tela. Alla fine chiede la cortesia di poter trattenere il dipinto un paio di giorni, per esaminarlo meglio. Ma il gioco ormai è fatto, e Boon torna da van Meegeren con un foglio su cui risalta stampato il monogramma di Bredius. Sopra c'è scritto: «Questo magnifico pezzo di Vermeer, il grande Vermeer di Delft, è venuto alla luce - che sia ringraziato il Signore - dall'oscurità in cui è rimasto nascosto per molti anni, immacolato, esattamente com'è uscito dallo studio dell'artista». E alla fine conclude: «Composizione, espressione, colore: tutto cospira a formare un'armonia d'arte suprema, di suprema bellezza. Bredius, 1937». Ancora prima che il parere di Bredius diventi di dominio pubblico la notizia del ritrovamento del capolavoro fa il giro del mondo. Altri critici chiedono di visionare l'opera, nel frattempo custodita nel caveau del Crédit Lyonnais, e non tutti si mostrano certi dell'attribuzione. Qualcuno è anzi sicuro si tratti di un falso, ma se ne guarda bene dal mettere per iscritto il suo parere. Forse per non entrare in conflitto con uno dei critici più autorevoli al mondo o, più prosaicamente, perché la scoperta ha mosso a tal punto il mercato dell'arte, che c'è da guadagnare per tutti. Alla fine, la Cena in Emmaus viene acquistata con il concorso di mecenati e associazioni per un valore di cinquecentoventimila fiorini, e donata al museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam. Han van Meegeren è un uomo ricco e felice, la prima parte della sua vendetta si è già consumata.
176 Il genio criminale Ma i demoni che gli divorano la mente non l'hanno abbandonato. Si lascia andare all'alcol, trascorre le notti nei casinò a giocare d'azzardo e sperpera buona parte dei soldi che ha guadagnato. E quando torna dalla sua Johanna decide di trasferirsi in una villa imponente vicino a Cannes. L'idea di rivelare a tutti l'inganno, e completare così il suo piano, si scontra con l'impossibilità di restituire la cifra incassata. Così riprende a dipingere, e questa volta si inventa un Interno con bevitori, spacciandolo per un Pieter de Hooch, apprezzato artista, contemporaneo di Vermeer. Dice a Gerald Boon che arriva dalla stessa signora olandese emigrata in Italia e ci ricava la bellezza di duecentoventimila fiorini. Il lusso, la bella casa, Johanna. Sembra che il proposito di raccontare la verità non sia più così urgente, piuttosto Han sogna di realizzare un nuovo Vermeer. I venti di guerra, con la posizione sempre più delicata della Francia, lo obbligano a lasciare in gran fretta la villa in Costa Azzurra, per trasferirsi a Laren, un sobborgo alla periferia di Amsterdam. La prima opera di Han nell'atelier della nuova casa è uno studio, una Testa di Cristo, che realizza alla maniera del maestro di Delft. Ha pure un nuovo intermediario, perché Boon con l'invasione nazista è fuggito dalla Parigi in cui viveva, e di lui non si è più saputo nulla. Si chiama Rens Strijbis, amico d'infanzia, e tocca a lui piazzare la nuova opera, cosa che gli riesce senza fatica e per la cifra astronomica di quattrocentosettantacinquemila fiorini. Passano un paio di mesi e Strijbis torna dallo stesso gallerista, Kunsthandel Hoogendijk, portandosi un de Hooch, Interno con giocatori di carte. Non deve nemmeno recitare la storia della provenienza, e neppure il mercante avanza sospetti sulla frequenza con cui stanno comparendo nuovi grandi capolavori. L'unico problema che ha ora Han van Meegeren è il troppo denaro. Non può depositarlo in banca, altrimenti do-
Han van Meegeren 177 vrebbe dichiararne la provenienza. E allora acquista quadri, oggetti preziosi, appartamenti, ville. E poi riempie scatole di banconote, che nasconde nelle tubature, sotterra, sotto i pavimenti o nei giardini. Salvo farsi prendere dalla paura di non ritrovare più nulla, e allora si rimette a scavare per recuperare tutto e spostarlo altrove. Succede anche che l'inflazione gli mangia in un amen quasi un milione di fiorini, ma non per questo Han si preoccupa: in fondo si tratta solo di una piccola parte di quello che possiede. E poi, se le cose si mettessero male, ha sempre pronto un nuovo Vermeer da scoprire. Nella villa di Laren gli echi della guerra giungono ovattati, distanti. Han van Meegeren non può sapere che la sua vita sta per incrociare quella di uno dei più importanti gerarchi nazisti, il potente Reichmarschall Hermann Gòring. Tutto in realtà comincia con il Fuhrer. Sarà per il passato da imbianchino, ma Adolph Hitler mostra per l'arte una passione smisurata, nutrita a forza di confische e sequestri. Nel giugno del 1939, l'incaricato delle acquisizioni, il dottor Hans Posse, segnala al Fuhrer l'importanza di avere un Vermeer, che ancora manca per completare la sua collezione. Ci pensa Martin Bormann, segretario personale di Hitler, che riferisce al suo capo di avere subito provveduto, recuperando l'Astronomo insieme a tutto il resto della collezione del barone Rothschild. Ma se nella Germania nazista c'è qualcuno che può rivaleggiare con il Fuhrer, che ne ha i mezzi e gli strumenti, quello è Hermann Gòring. Anche lui ha il suo consulente, Walter Hofer, che viaggia per l'Europa con il compito di comprare, o comunque ottenere, le più importanti opere d'arte, per poi sistemarle alle pareti di Carinhall, la sontuosa residenza del Reichmarschall. Mentre i vertici nazisti saccheggiano l'Europa, van Mee-
178 Il genio criminale geren continua a dipingere «nuovi» Vermeer. Isacco che benedice Giacobbe, Adultera, Lavanda dei piedi di Cristo, opere che Strijbis, fidato e ignaro procuratore, ha piazzato sul mercato ricavandoci in un anno l'equivalente di più di 15 milioni di euro! Poco importa che i quadri dipinti siano sempre più brutti, la qualità nelle pennellate di van Meegeren decisamente scaduta, per colpa dell'alcol, della morfina e degli sbalzi d'umore ormai cronici. Non c'è opera che non trovi subito acquirente. Nel Cristo con la donna sorpresa in adulterio smette persino di preoccuparsi della tecnica. Dalla tela nemmeno toglie del tutto il vecchio dipinto, la craquelure appare solo a tratti, e quando scarseggiano i lapislazzuli, allunga il blu oltremare con del dozzinale cobalto. Ma ciò non toglie che il quadro arrivi all'attenzione di Alois Miedl, uno degli scout di Walter Hofer, il quale incredibilmente lo crede autentico, e ne consiglia l'acquisto a Hermann Gòring, per la solita cifra spropositata. È il 1943, e Han van Meegeren ha in pratica rifilato un falso grossolano a uno dei più potenti e feroci gerarchi nazisti. Ma sembra che la cosa non lo preoccupi. Nei due anni successivi vive la fine della sua storia d'amore con Johanna, che però continua a restargli accanto, e inizia una nuova relazione con Jacoba Lanning, Cootje per gli amici. Cootje ha vent'anni meno di lui ed è una specie di trofeo da esibire, tanta è la sua bellezza. È fragile, diversa dalle due mogli con cui ha diviso la vita, donne forti e capaci, ma con loro ha in comune l'ammirazione per il talento di Han. È forse il periodo più sereno nella vita dell'olandese. Il 5 maggio 1945 Radio Orange annuncia la fine della Seconda guerra mondiale. Se la storia di Han van Meegeren fosse quella di un abile e capace falsario, originale nell'idea di non riprodurre copie ma inventarsi «originali», tutto finirebbe qui. Ci lascerebbe qualche riflessione sul mondo dei critici d'arte e dei colle-
Han van Meegeren 179 zionisti, sulla rabbia di un artista che si è sentito ingiustamente ignorato, e che ha trovato un modo per vendicarsi. Ma alla storia manca ancora il capitolo finale, quello con la sorpresa. Han van Meegeren ha cinquantasei anni, e come i suoi concittadini ancora fatica a convincersi che fucili e cannoni abbiano smesso di sparare. Vive in una splendida casa vicino ad Amsterdam, circondato da opere d'arte e mobili d'epoca, quando una fredda mattina di maggio due ufficiali dei servizi militari bussano alla sua porta. È arrivato il momento che ha sempre temuto, è successo che hanno scoperto tutti i suoi segreti, e allora sono pronti ad arrestarlo. La fine, l'umiliazione, il carcere. Ma si rende conto che non è così, gli ufficiali sono arrivati da lui per un altro motivo. Dicono di essere distaccati presso la Commissione alleata delle Belle Arti e che c'è un problema da risolvere. I loro colleghi austriaci si sono appena imbattuti in un deposito sotterraneo, dove Gòring ha ammassato tutta la sua collezione, e in mezzo ai dipinti ce n'è uno su cui vogliono sentire Han. Si tratta di un quadro di Vermeer, Cristo con la donna sorpresa in adulterio. Il fatto è che insieme al quadro si trova tutta la documentazione sul percorso del dipinto prima che il Reichmarschall ne entrasse in possesso, da Walter Hofer, ad Alois Miedl fino a lui, Han van Meegeren. È una brutta storia, perché se fosse vera vorrebbe dire che un olandese ha venduto un capolavoro di un maestro olandese a un gerarca nazista. Si chiama «collaborazionismo» e prevede conseguenze molto spiacevoli. Come la pena di morte. Ma poi i poliziotti rassicurano van Meegeren: sono convinti che lui non sapesse nulla della destinazione finale, che si sia limitato a vendere il dipinto a un intermediario. Basta solo che consegni la documentazione sul modo in cui è venuto in possesso dell'opera e tutto sarà sistemato.
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Un bel problema. Han risponde con la storia che si era inventato anni prima, quella della signora olandese andata a vivere in Italia portandosi dietro i beni di famiglia. Lui - la polizia deve capire - non può rivelarne l'identità, è una questione di riservatezza, di segreto professionale. I funzionari del governo comprendono e si congedano scusandosi del disturbo. Per ripresentarsi con la stessa faccia dispiaciuta il giorno dopo. Joop Piller, l'ufficiale superiore, alla fine non ha alternative davanti al silenzio ostinato di van Meegeren. Lo arresta per aver collaborato con il nemico, venduto un tesoro nazionale a Hermann Góring. E mentre Han passa le sue giornate dietro le sbarre, oltretutto soffrendo per l'astinenza dall'alcool e dalla morfina, dei quali ormai è diventato dipendente, cominciano a girar voci sulla sua ricchezza, sulle feste che si tenevano nella sua casa, con tavole imbandite e tanto di quel cibo comprato al mercato nero da doverne gettar via. Gli olandesi questa non possono perdonargliela, perché negli ultimi mesi di guerra hanno patito la fame al punto da morirne a centinaia. Per i giornali, per l'opinione pubblica, Han van Meegeren è un uomo morto, già processato e condannato per complicità con i nazisti. Lui non sa che fare. Da un lato c'è la paura di morire, di essere giustiziato, dall'altro la certezza che i quadri che ha dipinto, come la Cena in Emmaus in mostra al museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam, verranno staccati dalle pareti e distrutti, come succede alle volgari copie. Non può sopportarlo, per tutta la vita ha sognato di esporre il suo lavoro all'ammirazione del mondo, e poco importa se attribuiscono quelle tele a Vermeer. Lui sa che sono sue. E così passano le prime settimane di prigionia. Fino al 12 luglio 1945.
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Joop Piller ha preso in simpatia Han van Meegeren, tanto da concedergli qualche strappo al regolamento penitenziario. Lo va a prendere con l'auto di servizio, e i due trascorrono qualche ora insieme. Succede più volte, ma quella mattina Han non ce la fa più e comincia a parlare. Prima di impiccarlo, che prendessero bene in esame il famoso quadro venduto a Gòring. Passandolo ai raggi X, scopriranno che sotto si vede ancora il dipinto originale, un Cavalli e cavalieri comprato da un mercante di Amsterdam. Piller non gli crede, anche lui che è un poliziotto, e non un critico d'arte, riesce a capire che quell'opera è tanto simile all'altro celebre quadro di Vermeer, la Cena in Emmaus. Van Meegeren è un fiume in piena. Racconta di tutti i falsi che ha dipinto, delle tecniche che ha impiegato, dei guadagni che ne ha ricavato. Ma nessuno gli dà credito, perché è ovvio che sta solo cercando di salvarsi il collo dal cappio. Non gli resta che un modo per dimostrare a tutti la verità. Dipingerà un nuovo quadro alla maniera di Vermeer, e lo farà davanti a tutti i testimoni che vorranno. Gli procurino pure l'occorrente, e poi un pizzico di morfina per restare calmo, e lui creerà un capolavoro. Mentre i quotidiani strillano in prima pagina DIPINGE PER SALVARSI LA VITA, le autorità olandesi gli mettono a disposizione un piano intero degli uffici della Commissione delle Belle Arti. Han decide che il suo ultimo Vermeer sarà un Gesù nel tempio con i dottori, e a mano a mano che il lavoro procede, i critici che assistono all'esibizione si rendono conto che quell'uomo è in grado di dipingere qualunque opera sconosciuta del maestro di Delft. Tanto che si comincia a temere che anche la Ragazza con l'orecchino di perla o la Merlettaia siano opere del falsario. Al pubblico ministero non resta che lasciar cadere l'accusa di collaborazionismo, per quella decisamente meno
182 Il genio criminale grave di truffa e, in attesa del processo, mandarlo agli arresti domiciliari. Ci vogliono ancora due anni, prima di chiudere l'istruttoria, due anni in cui van Meegeren diventa una specie di eroe nazionale, intervistato dai giornali di mezzo mondo, che non mancano di dare risalto a un particolare: la faccia stranita di Gòring durante il processo di Norimberga, quando gli comunicano che chi gli aveva venduto il suo adorato Vermeer, in realtà, lo aveva fregato spudoratamente. La sentenza arriva il 12 novembre 1947. L'imputato è dichiarato colpevole di aver ottenuto denaro con l'inganno, messo nomi e firme false su vari quadri, con lo scopo di ricavarne illecito profitto. La sentenza è mite, solo un anno di carcere, oltretutto con la condizionale, ma, fatto ancor più importante, la Corte dispone che le tele dipinte da Han van Meegeren non vengano distrutte, bensì restituite ai proprietari. È il regalo più grande che gli potessero fare, un gesto di rispetto assoluto per quello che ormai gli olandesi chiamano «maestro». Non ha più bisogno d'altro. Il 26 novembre lo ricoverano per un collasso, da cui si riprende in breve. Un mese dopo, il 29 dicembre 1947 il suo cuore si ferma per sempre.
Amleto Vespa La spia
Lo spionaggio è una specie di tradimento - in fondo lo sono tutti i crimini, in un modo o nell'altro - e l'arte di rubare segreti, raccogliere informazioni nascoste e usarle a proprio vantaggio è cosa vecchia come il mondo. Ci si impegnarono con successo Babilonesi, Egizi, Assiri, e anche la Bibbia non manca di esempi, basta leggere la storia raccontata nel libro dei Numeri. Quando il popolo d'Israele raggiunge la città di Kadesh e lì si accampa, Mosè ha bisogno di conoscere qualcosa di più sulla terra di Canaan. Sceglie allora dodici spie tra i capi delle tribù e li manda a raccogliere notizie. Un compito non facile, tanto che gli uomini ci mettono parecchie settimane. Ma quando tornano il loro rapporto non è incoraggiante, anzi, la gente è così spaventata dalle novità che vorrebbe eleggere un nuovo leader, invertire il cammino e rientrare in Egitto. In realtà due delle spie, Caleb e Giosuè, sono di diverso avviso, e cercano con foga di spiegare le loro ragioni. Mosè riprende le redini del comando e annuncia che l'ira di Dio cadrà su tutti quelli che non hanno avuto fiducia nei Suoi disegni e hanno osato ribellarsi alla Sua volontà: se la missione degli esploratori in incognito è durata quaranta giorni, alla loro gente toccherà vagare nel deserto per quarant'anni prima di raggiungere la Terra Promessa.
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Così impareranno a obbedire alla volontà del Signore. Le vicende di Giosuè continuano nel libro dell'Esodo, e poi in quello che porta il suo nome. È lui che raccoglie l'eredità di Mosè, morto sulla riva occidentale del Giordano, ed è sempre lui che, arrivato sotto le mura di Gerico, si ricorda di quanto sono utili le spie, tanto da infiltrarne alcune nella casa di una prostituta di nome Rahab. Quando la città viene rasa al suolo, e gli abitanti massacrati, solo Rahab e la sua famiglia hanno la vita risparmiata, in cambio della preziosa e discreta collaborazione. Nove secoli dopo, Erodoto racconta di come la seconda guerra persiana fallisca per merito di Demarcato, un informatore greco alla corte del re persiano Serse. Un accenno all'importanza delle spie è presente pure nel De Bello Gallico di Giulio Cesare, insieme alla descrizione di una semplice tecnica di crittografia impiegata per occultare i messaggi, e poi negli scritti di Polineo di Macedonia dedicati a Lucio Vero e Marco Aurelio. Quando Federico II di Prussia, detto il Grande, decide di scrivere un trattato sulla guerra, non può fare a meno di inserirvi un capitolo sullo spionaggio; e Napoleone, prima di invadere la Russia, mette in piedi una vera organizzazione di agenti segreti, assumendone il comando. Una lezione efficace per gli avversari prussiani, che anni dopo, nel 1870, grazie a un eccellente lavoro di spionaggio costruiscono la vittoria di Sedan e obbligano il terzo dei Napoleone a lasciare il trono. L'abbiamo detto, fare la spia è un'arte - o un crimine, dipende dai punti di vista - vecchia come il mondo, e per natura presenta due aspetti contrapposti: quello offensivo, in cui le informazioni sono attivamente cercate in paesi stranieri, e quello difensivo, in cui si bada piuttosto a custodire i propri segreti. Ma la vera rivoluzione nello spionaggio arriva nel Ventesimo secolo, non a caso chiamato il «secolo delle spie». Che un infiltrato in incognito sia utile lo si sapeva, ma con
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l'inizio del Novecento la sua attività diventa meno deplorevole: forse non del tutto rispettabile, ma in ogni caso affascinante. C'è pure una data, che secondo molti segna l'avvento dell'era moderna nel «settore»: un giorno di settembre del 1914. Appena il grido «uomo in mare» raggiunge la cabina di comando, il capitano del vascello russo ordina di fermare le macchine. C'è un corpo che galleggia nelle acque ghiacciate del Baltico e bisogna fare in fretta: se qualcuno è caduto tra le onde, bastano pochi minuti perché muoia assiderato. Ma non è un membro dell'equipaggio, è un marinaio ormai cadavere del Magdeburg, una nave tedesca affondata qualche giorno prima. Sono tragedie che in mare possono accadere, ma quello che il capitano russo non capisce è perché mai l'annegato tenga saldamente tra le mani due pesanti volumi, una cosa che non lo ha certo aiutato nel disperato tentativo di sopravvivere. Ci vuole tempo prima che lui e i suoi superiori a Mosca comprendano di avere in mano i codici navali tedeschi, ma, convinti che la guerra sia solo una questione di soldati e armi, non danno importanza al ritrovamento. Al punto che l'ambasciatore russo a Londra chiama personalmente Winston Churchill e lo avvisa del recupero, aggiungendo che se gli inglesi hanno piacere ad avere i libri basta che mandino una nave a prenderli. Churchill ringrazia, e non si fa sfuggire l'occasione. Appena entra in possesso dei codici, li gira all'ammiraglio Oliver, responsabile dei servizi d'intelligence, e questi manda subito a chiamare il suo più valido esperto, un ex professore di nome Alfred Ewing. Sono mesi che Ewing cerca di trovare la chiave dei cifrari tedeschi, e la sua prima idea è che si tratti di uno scherzo, convinto che se pure i codici fossero autentici, certo la Germania avrà già pensato a sostituirli. È perciò più che scettico quando afferra l'ultimo fascio di veline, la trascrizione delle comunicazioni inviate in codice
186 Il genio criminale dalla base navale di Wilhelmshaven. Ma capisce, in pochi minuti, l'immensa fortuna che gli è capitata tra le mani: la possibilità di decifrare in un attimo gli ordini segreti diramati dal grand'ammiraglio Tirpitz. Ma non è finita. Passano due mesi, e Alfred Ewing ha un nuovo comandante, il capitano William Reginald Hall, detto «blinker», l'ammiccante, per via di un tic alla palpebra che gli fa strizzare di continuo un occhio. Piccolo, tondo e gioviale, sembra tutto meno che l'uomo adatto a dirigere i servizi segreti navali. Il capitano è però una mente brillante e soprattutto pragmatica, e al suo esperto Ewing chiede subito come si possano sfruttare i codici perduti dal Magdeburg. L'occasione arriva il 14 dicembre, quando un messaggio, decifrato, rivela che la flotta tedesca è pronta a muoversi nel mare del Nord. Hall sistema le sue navi e intercetta il convoglio tedesco. I cannoni britannici, però, fanno in tempo a sparare solo pochi colpi prima che la nebbia inghiotta le imbarcazioni rivali. Ci sarebbe da disperarsi per l'occasione fallita, ma il capitano Hall è soddisfatto. Anzi, qualcosa di più, perché ha capito quanto il possesso di informazioni possa essere decisivo. La guerra dei tempi moderni si vince con la sorpresa, non bastano i due libri di codici, bisogna arrivare alle altre fonti segrete, sapere tutte le mosse del nemico. E attaccare quando non se lo aspetta. Hall ha già in mente un obiettivo, una serie di trasmissioni in codice che arrivano da Bruxelles e che Ewing non riesce a tradurre, nonostante ci provi da mesi. Ci sono già uomini fidati in Belgio, gente discreta che lavora per i servizi e che scopre presto il responsabile delle comunicazioni. Si tratta di un giovane che si chiama Alexander Szek, un nome che non suona tedesco. Infatti Szek ha cittadinanza austro-ungarica, è nato a Croydon, un sobborgo di Londra, e i suoi familiari vivono ancora in Inghilterra.
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Un agente di Hall comunica al suo capitano che l'uomo non sembra nutrire particolari simpatie per la Germania. Ha accettato il posto solo perché le sue competenze di ingegnere radio sono gradite, e, soprattutto, ben retribuite. Non ha niente della spia, ma è molto riluttante a collaborare con i servizi britannici perché è sicuro che se i tedeschi lo scoprissero a passare informazioni al nemico lo fucilerebbero all'istante. Per convincerlo non resta che il ricatto, la minaccia di mettere in carcere i suoi parenti se non si deciderà a dare una mano. Szek finisce per accettare, ma non è in possesso dei codici. Lo addestrano allora a memorizzare singole parti, pezzo per pezzo, un messaggio alla volta, e poi a trasmettere le informazioni al suo contatto. Il materiale che arriva è eccellente, si tratta di informazioni importanti, ma c'è una complicazione. Alexander Szek non regge alla pressione, chiede di poter fuggire da Bruxelles appena finito il suo compito. Gli dicono che la cosa è impossibile, almeno in tempi brevi, perché se lasciasse il Belgio improvvisamente e senza motivo i tedeschi potrebbero sospettare qualcosa, cambiare i codici, e mandare in fumo il lavoro di mesi. Qualche giorno più tardi il cadavere di Alexander Szek viene ritrovato nella sua abitazione. L'uomo è stato ucciso nel corso di una rapina finita male, ma la scena del crimine convince poco, e si sospetta che i tedeschi abbiano scoperto il traditore. La verità la si conoscerà solo qualche anno dopo: il killer era al servizio di Sua Maestà Britannica. Comincia così una nuova era dello spionaggio, fatta di personaggi famosi, come Mata Hari, e di altri meno celebri ma altrettanto affascinanti, come un italiano venuto dall'Abruzzo. Il suo nome è Amleto Vespa.
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La prima volta che il giornalista Harold John Timperley incontra Vespa è nell'autunno del 1936, a Shangai. È un uomo d'altezza media, di aspetto gradevole, con gli occhi scuri e la fonte spaziosa, ma soprattutto è un uomo che ha bisogno d'aiuto, che vuole lanciare un appello affinché i giapponesi liberino la moglie e i figli, che gli hanno sequestrato. Mister Timperley, inviato del «Manchester Guardian», è colpito dal racconto dell'italiano, dalla sua disperazione. In fondo sono entrambi europei in un mondo difficile da capire, e allora decide di appoggiarlo, consegnandogli una lettera di raccomandazione per un collega che lavora in un quotidiano locale. Vespa ringrazia, e sparisce. Ricompare solo alla fine del 1937, e questa volta con una richiesta del tutto diversa. Ha scritto un libro che racconta la sua storia di agente segreto in Manciuria, però vuole l'opinione del reporter, per capire se il suo progetto è valido, se è il caso di cercare un editore. Timperley è perplesso, perché non sa niente di quell'uomo, ma, come tutti i giornalisti, è curioso, prende il manoscritto e lo gira a un collega di cui si fida. In pochi giorni gli torna un parere entusiasta, ma lui ancora non è convinto, e interpella un funzionario del governo che ben conosce per sapere se quanto è descritto in quelle pagine corrisponde a verità. Perché al di là dello stile e dell'ortografia, ciò che lo preoccupa è che il contenuto del libro la violenza, gli abusi, la corruzione dei militari giapponesi - non sia frutto della fantasia, ma corrisponda alla realtà. Ancora una volta la risposta è positiva. Non solo i fatti riportati nel libro sono ben documentati, ma si tratta di un atto di denuncia che merita d'essere conosciuto dal mondo intero. Il giornalista adesso è convinto, cerca un editore e accetta di firmare la prefazione del libro. Lo pubblica a Londra la Little, Brown & Co. il 1° gennaio 1938, col titolo Secret Agent of japan, di Amleto Vespa.
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È grazie a quest'opera ormai quasi introvabile che conosciamo la storia di Amleto, una storia che comincia a l'Aquila nel 1888. È lì che nasce, da una famiglia della piccola borghesia con buoni mezzi e discreta cultura, merito soprattutto della mamma, maestra elementare. Da ragazzo mostra presto un carattere insofferente, sogna viaggi e avventure, e a stento si trattiene dal lasciare la casa e i genitori per cercare fortuna lontano. Ma è solo questione di tempo, perché qualche anno più tardi interrompe gli studi universitari a Roma e sceglie il servizio militare, il modo più veloce di ottenere un passaporto. All'età di ventidue anni salpa dal porto di Napoli, e si imbarca per un viaggio tremendo, che dura tre settimane e si conclude sulle coste di Veracruz, nel golfo del Messico. È il 1910 quando si presenta al cospetto di Francisco Indalecio Madera, il generale Madera, paladino della democrazia messicana. Capita nel mezzo della rivoluzione, quella in cui combatte anche Pancho Villa, e che si conclude, un anno più tardi, con la caduta del presidente in carica Porfirio Diaz. Vespa combatte a fianco dei rivoluzionari per due anni, viene più volte ferito e alla fine si ritrova con i gradi di capitano. Peccato che Madera, eletto presidente, non faccia in tempo a sistemare la questione dei campesinos, i contadini, e delle loro terre. Colpa di Victoriano Huerta, un suo ufficiale, che si mette a fare il doppio gioco e attacca gli uomini di Emiliano Zapata, alleato di Madera, facendo credere che l'ordine è partito dallo stesso Madera. Una volta creata la frattura tra Zapata e Madera, per Huerta non è difficile prendere il potere, imprigionare Madera e poi, in carcere, assassinarlo, il 22 febbraio 1913. Ma a questo punto Amleto è già lontano, ha lasciato il Messico per gli Stati Uniti, dove racconta a tutti d'essere un inviato speciale del «Giornale d'Italia». Passa dalla California al Sud America, poi si ferma a
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Buenos Aires, dove s'innamora perdutamente della figlia di ricchi emigrati italiani. Questione di settimane e riparte per l'Australia, quindi alla volta dell'Indocina, fino a Honk Hong. Proprio lì qualcuno lo avvicina, e con gran discrezione gli propone di diventare un agente del Regio Servizio Segreto Italiano. L'incarico prevede che lui si stabilisca in Cina, all'indomani del crollo della dinastia Ching, finito col brevissimo regno dell'imperatore bambino Pu Yi. Come addetto ai servizi d'informazione, dal 1916 in poi, passa dal Tibet alla Manciuria, segue le mosse dell'esercito giapponese nelle province russe, lungo il corso dell'Amur fino alla sua foce, davanti all'isola di Sakhalin. Tutte le notizie che raccoglie sono importanti per i servizi italiani e alleati, e lui, pur lontano dalla patria, segue con grande ammirazione l'ascesa al potere di Mussolini, di cui apprezza idee e impegno. Nel frattempo sposa una contessa polacca, mette su casa e famiglia ad Harbin, la capitale della Manciuria del Nord, ma non smette mai di viaggiare, anche se con la fine della prima guerra mondiale l'interesse italiano e degli alleati per il suo lavoro scema un poco. È nel 1920, mentre torna da una missione nelle zone impervie a est del lago Baikal, che Amleto Vespa incontra l'uomo che cambierà la sua vita, il maresciallo Chang Tso-lin, signore della guerra. Figlio di pastori, Chang ha approfittato dell'instabilità politica della Cina e si è dato con successo al saccheggio nelle terre al confine con la Russia, mettendo insieme un esercito privato e diventando, di fatto, il padrone della Manciuria. Una posizione che gli ha permesso di vendere concessioni economiche al Giappone e, nello stesso tempo, di essere legittimato al potere dai Sovietici. Amleto Vespa si trova bene con questo cinese ambizioso, e quest'ultimo, a sua volta, gli commissiona subito un lavoro. Vuole sapere qualcosa sui cinesi in Russia, sulla si-
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tuazione alla frontiera, sulle intenzioni dei sovietici nei confronti della Manciuria. La relazione dell'italiano è accurata, ben documentata, estremamente utile. Passano solo pochi giorni e ad Amleto arriva un messaggio, la proposta di un rapporto di collaborazione stabile con il governo della Manciuria. Vespa, Feng in cinese, accetta e diventa così un agente «doppio», legato al Regio Servizio Segreto e nello stesso tempo a un signore della guerra, la cui autorità non è riconosciuta né dalla repubblica cinese né dal governo italiano, col quale peraltro è in ottimi rapporti. Chang affida alla spia italiana il compito di organizzare un servizio d'informazioni che gli permetta di mantenere un minimo d'ordine sul territorio. Poi gli chiede di combattere il traffico della prostituzione, alimentato dal flusso di fuggiaschi che ha seguito la caduta dello Zar e che si muove, passando per Harbin, Shangai e Bangkok, fino alla tappa finale, Singapore. Vespa scopre che, appena arrivate in Manciuria, le famiglie di profughi trovano connazionali, all'apparenza rispettabili, pronti ad aiutarli. Si rendono disponibili per accompagnare le ragazze più giovani verso le province del Sud, dove il clima è più mite ed è più facile trovare un lavoro, magari come segretaria o infermiera. Ovviamente la realtà si rivela poi ben diversa per le poverette intrappolate nella rete. Il re del bestiale commercio si chiama Xiao Mikhail. La polizia lo conosce, e ogni tanto lo ferma, ma lui, elargendo una generosa mazzetta al commissario, in carcere non passa mai più di qualche ora. Ira Rosenberg, la sua compagna, raccatta ragazze alla frontiera e le carica su vagoni merci fino ad Harbin, dove le rivende a un altro intermediario. Peccato per lei che venga scoperta, una sera in cui il treno su cui viaggia finisce su un binario morto. La polizia ferroviaria, richiamata dalle grida delle ragazze, sfonda la porta del vagone, e trova una dozzina di poverette congelate.
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Due sono già morte e tutte sono minorenni. Questa volta il denaro non riesce a impedire che le guardie del carcere anticipino il verdetto del giudice, strangolando la Rosenberg la notte stessa in cui questa viene portata in carcere. Mentre Vespa infiltra i suoi agenti e si prepara a intervenire, Chang Tso-lin gli presenta un altro problema che lo preoccupa, ben più grave della tratta delle bianche. Si tratta del contrabbando d'armi, soprattutto nella zona tra Pechino e il Mar Giallo. Per affrontare la questione, Vespa si trasferisce nella cittadina di Shanhaiguan, e lì mette a segno un colpo dopo l'altro, intercettando carichi d'armi e munizioni destinate ai signori della guerra nemici di Chang Tso-lin, e ingenti quantitativi di droga. In pochi mesi il comandante Feng recupera quindici quintali d'oppio, due quintali di morfina, cinque tonnellate di munizioni e diecimila armi automatiche e da guerra. Peccato che la maggior parte dei fucili e delle pistole sia di fabbricazione italiana, e che la cosa arrivi all'orecchio del console italiano a Tientsin, Luigi Gabrielli, quindi a Palazzo Chigi. Il fatto sembra sorprendere i servizi segreti italiani, convinti fino ad allora di essere gli unici referenti di Vespa. Preso atto della situazione, non resta loro che recapitargli, attraverso il consolato in Cina, un decreto di espulsione. Il funzionario che lo preleva all'albergo risparmia a Vespa l'umiliazione delle manette, ma sul treno diretto a Shangai lo accompagna una scorta di quattro carabinieri e un poliziotto. Destinazione: la Regia Nave Calabria, alla fonda nel porto in attesa di salpare per l'Italia. Ma c'è un problema: una serie di complicazioni legate a questioni di giurisdizione, procedure e competenze provoca una specie d'incidente diplomatico, che costringe il Governo italiano a rilasciarlo, con grave imbarazzo dell'ambasciata e una crisi nei rapporti con il governo cinese. Ma Vespa ha poco da gioire.
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Si ritrova radiato dai servizi italiani, smascherato come agente segreto e ormai legato a doppio filo con il maresciallo Chang Tso-lin, non fosse altro che per motivi di sopravvivenza. Decide comunque di restare, nemmeno cerca di nascondersi. Forse sottovaluta la gravità della sua posizione, oppure non ha alternative. Un giorno viene accoltellato da Burr Singh, un sicario indiano assunto da un italiano di cui si conoscerà solo il nome: Giorgio Condoveros. Proveranno a ucciderlo altre due volte. Vespa se la cava sempre, è impaurito ma ne esce pressoché illeso. Capisce allora che se vuole sopravvivere ha un'unica possibilità, quella di prendere la cittadinanza cinese, di chiedere al paese in cui ha vissuto più a lungo di adottarlo. In fondo ama quella terra, come pure il suo lavoro, e se vuole continuare a opporsi a trafficanti e criminali allora è meglio che diventi cinese anche lui. D'accordo con Chang Tso-lin, s'inventa una copertura, quella di direttore generale del cinema-teatro Atlantic di Harbin, e assume l'incarico di responsabile del servizio di buoncostume. Torna a combattere la prostituzione con una rete di informatori pronti a segnalargli puntualmente ogni novità. Per esempio l'arrivo di un francese sospetto, che appena sceso all'hotel Moderne, chiede al direttore informazioni sui quotidiani locali, soprattutto quelli in lingua russa. Dice di essere interessato, in particolare, alla possibilità di mettere annunci per la ricerca di personale femminile, perché un'azienda francese con sede a Shangai lo ha incaricato di cercare giovani dattilografe. Nei primi due giorni dalla pubblicazione dell'annuncio riceve almeno una ventina di ragazze, alle quali consegna venti dollari chiedendo loro di tenersi a disposizione. Allora Amleto Vespa si presenta all'albergo e racconta al francese di avere due figlie alla ricerca di un impiego. Ci vuole poco perché l'uomo abbocchi: a questo punto Vespa
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lo scorta gentilmente alla frontiera, intimandogli di non farsi più vedere in Manciuria. Ma non sempre i suoi interventi sono così educati. Come quella volta che, intercettati due temutissimi ruffiani svedesi, consapevole dell'inutilità di un'azione legale, dà ordine ai suoi uomini di portare i due alla ferrovia e di impiccarli al più vicino palo del telegrafo. Il suo rapporto con Chang Tso-lin si mantiene solido e sicuro, almeno fino al 4 giugno 1928, quando i giapponesi piazzano una bomba e fanno saltare il treno su cui il maresciallo sta viaggiando, uccidendolo all'istante e privando Amleto Vespa di un amico e di un protettore. La spia italiana è in pericolo, e questa volta non deve guardarsi le spalle dai connazionali, ma piuttosto dal Giappone, che già dalla fine della prima guerra russo-giapponese del 1904 ha rimpiazzato la Russia come potenza straniera dominante nella Manciuria meridionale. Il 18 settembre 1931 un ordigno fa saltare un tratto della ferrovia nei pressi di Mukden. I giapponesi si affrettano ad attribuire l'attentato ai terroristi cinesi, e tanto basta, come pretesto, per annettere la Manciuria. Vespa fa appena in tempo a fuggire alla Kempeitai, la Gestapo giapponese, ma la sua famiglia non è altrettanto veloce e viene catturata. Non può appellarsi al governo italiano, avendo scelto di prendere la cittadinanza cinese, e non gli resta che giurare fedeltà ai nuovi padroni, in cambio della libertà per i suoi. Ma è pur sempre una spia, e mentre lavora per l'impero del Sol Levante non smette di passare informazioni riservate sia ai nazionalisti cinesi che agli inglesi e agli americani, in un doppio, triplo gioco, sempre condotto sul filo del rasoio. I giapponesi non hanno intenzione di impegnare un solo yen per mantenere l'occupazione della Manciuria. Le risorse economiche devono piuttosto saltar fuori dal territorio, anche vendendo alle bande criminali del luogo il mono-
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polio del gioco d'azzardo, della prostituzione e del traffico di droga. Una città come Harbin diventa lo specchio della corruzione dilagante, con 172 bordelli, 56 fumerie d'oppio e 192 negozi che vendono droghe, a fronte di una popolazione di trecentomila abitanti. La polizia è divisa in gruppi diversi, che non comunicano tra loro, rivali nei sequestri e nelle rapine piuttosto che uniti nel garantire legge e ordine. Nel suo ruolo obbligato di agente dei servizi giapponesi, Amleto Vespa ha un diretto superiore, il responsabile della polizia segreta che conosce come «il Capitano». Tra i compiti che il Capitano gli affida c'è proprio questo, la verifica che il denaro incassato dalle attività criminali della polizia corrisponda a quanto atteso. Quando poi capita che l'ufficiale voglia interrogare personalmente gli ostaggi - in genere quelli che sostengono di non avere soldi o di non averne abbastanza per pagare i riscatti - a Vespa tocca di assisterlo come interprete. Nella rete dell'estorsione finiscono praticamente tutti. Il milionario Wan You-chin, che paga 250 mila dollari cinesi per la liberazione di suo figlio, poi 400 mila, e ancora 100 mila per la propria. Il commerciante Chan Chin-ho, catturato tre volte, e costretto a versare 200 mila dollari ogni volta per il suo rilascio. L'ex capo della polizia di Harbin, Mr. Wang, che un tempo possedeva vaste proprietà, finisce senza un soldo ed è costretto a chiedere ospitalità a un monastero buddista vicino al nuovo cimitero russo di Harbin. Il dottor Kasem-Bek, il dottor Hellieson, il signor Tarasenko, il signor Tisminitsky, il signor Sherel de Florence: l'elenco è lunghissimo, e i giapponesi non si fermano nemmeno quando commettono grossolani errori. Succede a un certo punto che il Capitano ordini di catturare un giovane e ricco studente di una scuola polacca e i tre mercenari incaricati del sequestro, due russi e un cine-
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se, sbaglino persona. Al posto del giovane, rapiscono Valentin Tanaief, un ragazzino orfano, cresciuto tra le mura di una chiesa e amato da tutti i parrocchiani e dal vescovo Kirin. Pur consapevole dell'errore, il Capitano si rifiuta di rilasciare il ragazzo, recapitando al vescovo un messaggio chiaro: «La Chiesa cattolica ha i soldi, se il ragazzo è povero, che sia la chiesa a pagare!». Ci vorranno due mesi e bisognerà organizzare una colletta per mettere insieme i duemila dollari sufficienti al rilascio. Ben peggio va al signor Kofman, proprietario di un grande supermercato di Harbin. La sera dell'11 marzo 1932, attorno alle dieci, viene prelevato da un gruppo di banditi russi al servizio della polizia giapponese, portato in uno scantinato a New Town e successivamente trasferito in una piccola abitazione del distretto periferico di Madiagou. Il giorno dopo, il quotidiano in lingua russa «Rupor», annuncia di avere ricevuto una lettera dai banditi in cui si chiede ai familiari di Kofman di pagare 30 mila dollari di riscatto. Amleto Vespa, consultato dal Capitano, non crede che il signor Kofman possieda una tale somma di denaro. Il suo capo, il giorno dopo, dimezza il prezzo del riscatto. Ma prima che notizia sia ripresa dal «Rupor», uno dei sequestratori russi, un bandito di nome Radzoyevsky, si oppone alla manovra. È sicuro che i soldi ci sono, e chiede l'autorizzazione a interrogare di persona il prigioniero. La mattina seguente il Capitano chiama di nuovo Vespa, e gli dice di andare nella casa di Madiagou, perché c'è stato un incidente, e sembra che il signor Kofman abbia avuto un malore. Quando arriva, Radzoyevsky è tranquillo, gli offre da bere, ma Vespa rifiuta, non è venuto per festeggiare, bensì per scoprire cosa sia successo. Il russo lo fissa con sguardo ironico, e risponde: «Non pensavo fosse necessario preparare alcun rapporto di polizia per la morte di un maiale. Questo dannato porco ebreo amava i suoi soldi più della
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sua pelle. Questo è quello che si merita per non aver voluto parlare o scrivere alla moglie. L'ho spaventato un po' e il vecchio sciocco è morto. Non possiamo farci niente. Harbin è piena di maiali come lui». Vespa insiste per vedere il corpo della vittima, che sta disteso in un angolo, sotto una vecchia coperta, e scopre che lo sfortunato Kofman è stato ferocemente torturato. Dopo avergli bruciato le mani e i piedi, sono passati a ustionargli il volto, e siccome lui urlava per il dolore lo hanno imbavagliato così stretto che è morto soffocato. Quando torna in centrale e fa rapporto, il Capitano non batte ciglio. Dà anzi l'ordine di fare a pezzi il cadavere dell'uomo e di gettarlo in una fossa comune, e di continuare la trattativa con la famiglia per il pagamento del riscatto. Tre settimane dopo il brutale omicidio del marito, la signora Kofman consegna 18 mila dollari ai giapponesi per la sua liberazione. Questi sono i nuovi padroni della vita di Amleto Vespa. Ma tra le storie orribili di cui la spia italiana è testimone, nessuna è peggiore del caso Kaspe, una vicenda destinata a diventare uno scandalo internazionale. Joseph Kaspe è arrivato ad Harbin come rifugiato russo dopo la prima guerra russo-giapponese e lì ha aperto una piccola orologeria, che in pochi anni diventa la miglior gioielleria dell'estremo oriente. Nel 1932 il signor Kaspe è l'unico proprietario, oltre che del negozio, anche dell'hotel Moderne, ed è inoltre presidente di una compagnia teatrale. Un uomo intraprendente, ma che ha però un grosso difetto, quello di vantarsi troppo del proprio successo, e di quanto siano in gamba i suoi due figli, studenti universitari e cittadini francesi. Appena si rende conto che i giapponesi cominciano a nutrire un interesse particolare per il suo patrimonio, Joseph Kaspe non perde tempo e intesta le proprietà ai figli. Sul tetto dell'hotel Moderne e nelle vetrine della sua gioielleria fa mostra di sé la bandiera francese.
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La cosa non piace ai giapponesi, che vedono una proprietà su cui già pensavano di mettere le mani finire in mano a cittadini francesi. Non resta loro che cambiare strategia, organizzare un rapimento e ottenere un riscatto, pur sapendo che non si tratta di cosa semplice. La residenza di Kaspe è infatti una specie di fortezza, e quando l'uomo si sposta è circondato un mucchio di guardie del corpo armate fino ai denti. Nel frattempo il giovane Simeon Kaspe finisce i suoi corsi al conservatorio di Parigi, e decide di trascorrere un periodo di vacanza ad Harbin. Ragazzo ben educato e buon pianista, Simeon è l'orgoglio del padre, che affitta i migliori teatri per farlo esibire, selezionando un pubblico scelto di appassionati. Un obiettivo ideale. La polizia segreta scopre che il ragazzo ha l'abitudine di uscire la sera in compagnia femminile, e di rientrare assai tardi al Moderne. Kaspe viene rapito verso la mezzanotte del 24 agosto 1933, dopo che ha appena riaccompagnato a casa una ragazza, e viene portato in un luogo segreto nei pressi di Harbin. Per evitare che la colpa ricada sui giapponesi, il Capitano decide di utilizzare una banda di cinesi. Il giorno seguente arriva al padre una richiesta di riscatto di 300 mila dollari cinesi, che Kaspe rispedisce al mittente senza nemmeno tentare una negoziazione. Si rifiuta di pagare un soldo, tutt'al più qualche migliaio di dollari, ma solo dopo che il figlio sarà tornato a casa. È irremovibile, la minaccia di uccidere il figlio non intacca la sua posizione, e nemmeno lo smuove il macabro pacco che riceve il 28 settembre, contenente le orecchie mozzate di Simeon. Ma c'è pur sempre di mezzo un cittadino francese, così il console invia una lettera di protesta alle autorità giapponesi, le quali rispondono assicurando tutta la loro disponibilità a risolvere il caso. Se il console si limita a un passo formale, il suo vice, Chambon, sa bene che le autorità non muoveranno un dito,
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e decide allora di dare inizio alle ricerche per conto suo, con l'aiuto degli abili e fidati agenti di cui dispone. Chambon scopre presto cosa è accaduto, riesce a catturare il più giovane dei criminali coinvolti nel rapimento di Kaspe, tal Kommissarenko, e lo porta al consolato. Il bandito non solo vuota il sacco, ma firma di suo pugno la confessione, e viene liberato. Con in mano lo scritto il viceconsole si reca dal direttore generale della polizia, al quale presenta un'accusa formale. La risposta non si fa attendere. Kommissarenko è innocente, affermano, e trasferiscono il criminale, più o meno consenziente, a Pogranichnaya, a seicento chilometri da Harbin. Piuttosto, secondo la polizia, i delinquenti sono gli agenti del signor Chambon, che vengono subito arrestati. Il giorno dopo due giornali, l'«Harbinskoe Vremia» e il «Nash Put», lanciano un pesante attacco al viceconsole Chambon, definendolo uno sporco ebreo e un comunista. Ma la notizia del rapimento ha ormai varcato i confini della Cina, e i giornali americani, inglesi e francesi cominciano a interessarsi allo scandalo. Tokio, preoccupata per la cattiva pubblicità, dà disposizioni affinché la vicenda si chiuda al più presto, senza ulteriori problemi. Seppure a malincuore, il Capitano comanda ad Amleto Vespa di arrestare gli uomini indicati nella denuncia di Chambon. Ma non tutti cadono nella rete, e chi finisce in carcere non sa dove Simeon Kaspe sia rinchiuso. Una situazione comunque destinata a risolversi in breve tempo, ma Joseph Kaspe, con la sua imprudenza, combina un disastro. Alle lettere scritte da Simeon e consegnategli dai rapitori, il vecchio Kaspe risponde con arroganza, dicendo che riavrà suo figlio, e senza sborsare un soldo. Non solo: aggiunge che gli artefici del rapimento alla fine dovranno andare da lui a implorare il suo perdono. Troppo per il Capitano, che appena lo viene a sapere dice
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a Vespa: «Kaspe non vedrà mai il figlio vivo, neppure pagando un milione». È il 3 dicembre quando la polizia annuncia che Simeon Kaspe è stato ucciso. Il suo corpo viene trovato in una fossa poco profonda, coperto da pochi centimetri di terra. Amleto Vespa non ha mai visto nulla di così orribile. È irriconoscibile, novantacinque giorni di prigionia lo hanno ridotto a uno scheletro. Il freddo spaventoso della Manciuria, che a novembre raggiunge i 2 5 , 3 0 gradi sotto lo zero, gli ha gelato le guance, il naso e le mani a tal punto che brandelli di carne si sono staccati e tutto il corpo è ormai in cancrena. Nello sparare il proiettile che ha concluso la vita del ragazzo, l'assassino ha forse compiuto l'unico atto di misericordia della sua miserabile vita. Quando i resti di Simeon vengono riportati a casa, il padre, andando contro i consigli degli amici, insiste per poterlo vedere un'ultima volta. Lo shock è così grande che si dice abbia perso immediatamente e per sempre la ragione. Il disprezzo di Amleto Vespa per il governo giapponese in Manciuria è ormai totale: d e c i d e a questo punto, di raccontare tutto ciò che ha visto. A convincerlo sono i suoi principi, l'amore per la Cina, ma anche l'invocazione di un vecchio amico, un intellettuale, che lo convince dell'importanza del suo ruolo di testimone. Vespa è stato l'unico bianco che per cinque anni ha potuto vedere tutte le atrocità commesse dai giapponesi contro il popolo cinese. Civili massacrati o gettati in campi di concentramento, uomini e donne innocenti costretti ai lavori forzati, a fare da cavie a folli esperimenti medici. Tocca a lui, Amleto Vespa, fare in modo che tutti sappiano la verità, ma per raggiungere il suo scopo non può certo rivolgersi alle agenzie di stampa, controllate dal denaro giapponese. Allora la spia italiana si mette a scrivere, incurante dei pericoli, della situazione sempre più caotica. Perché il 7 luglio 1937 accade un altro fatto, un incidente che innesca la seconda guerra sino-giapponese.
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Il ponte di Lugou, o ponte di Marco Polo, si trova a 15 chilometri dalla capitale cinese e unisce le due sponde del fiume Yongding. Costruito in granito, il ponte ha destato l'ammirazione di Marco Polo già seicento anni prima. Quella mattina d'estate il silenzio è rotto da una furioso conflitto a fuoco tra un manipolo di soldati giapponesi, che si trova nei pressi del ponte in missione d'addestramento, e la guarnigione della Cina repubblicana che lo presidia. Almeno questa è l'apparenza, perché si tratta di un finto incidente: in realtà un gruppo di militari giapponesi, travestiti da cinesi, ha finto di sparare ai colleghi in divisa. Questo basta al Giappone per accusare la Cina di avere iniziato le ostilità e fornisce un pretesto per l'invasione dell'armata nipponica. Un conflitto che vedrà eccidi di massa, crudeltà inconcepibili sulla popolazione, e culminerà con la strage di Nanchino, dove vengono uccisi 340 mila civili, 190 mila in esecuzioni di massa, 150 mila con fucilazioni individuali. Tutto finisce nelle pagine del manoscritto che Amleto Vespa consegna a Timperley. L'autore coltiva la speranza, o l'illusione, che pubblicandolo possa arrivare anche a Hitler e Mussolini, statisti che si dichiarano difensori della civiltà occidentale e che, attraverso il libro, potrebbero prendere coscienza di chi sia, in realtà, il loro alleato. Amleto Vespa non fa i conti però con l'imbarazzo recato per anni al governo fascista dalla sua attività al servizio di Chang Tso-lin. Il libro, pubblicato con discreto successo in Inghilterra, trova in Italia il divieto assoluto alla stampa. La situazione della spia venuta dall'Abruzzo è disperata. I giapponesi non hanno certo gradito la sua testimonianza, mentre Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri del governo di Mussolini, dopo aver letto una copia di Secret Agent of Japan, ordina alla rappresentanza italiana in Cina l'assoluto divieto di contatti con il «traditore». Amleto prova a fuggire da Harbin, e trova anche qualcuno disposto a dargli una mano. Ma per fatalità e a causa
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di alcuni contrattempi i suoi piani falliscono, e lui si ritrova inchiodato in Cina con la famiglia, la moglie che adora e i figli, Ginevra e Italo. Il 7 dicembre del 1941 i giapponesi attaccano a Pearl Harbor, e il giorno dopo gli Stati Uniti dichiarano guerra al governo di Tokio. Uno dei risultati immediati, in Cina, è la creazione di un campo di prigionia per tutti i cittadini di nazioni nemiche, e anche per gli italiani, opportunamente segnalati dal consolato, che hanno manifestato idee antifasciste. All'appartamento occupato dalla famiglia Vespa si presentano tre agenti, con l'ordine di accompagnare tutti alla stazione di polizia. Amleto viene separato dai familiari, spediti in un campo di concentramento. Di Italo non sappiamo più nulla. Della moglie e di Ginevra sappiamo poco: restano tracce della loro richiesta di un passaporto nel 1946, segno che sono sopravvissute e che sono emigrate in America, a lavorare per la diocesi di New York. Amleto Vespa, invece, il comandante Feng, di passaporto cinese, colpevole di azioni sovversive contro il governo giapponese, quella mattina d'inverno del 1941 sale su un'auto della kempeitai. Nessuno ha mai scoperto dove abbiano gettato il suo corpo.